Ierone il Dinomenide. Storia e rappresentazione 9788862272193

Il primo storico a menzionare Ierone è Erodoto, che ricorda il momento in cui egli ricevette dal fratello Gelone il gove

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Ierone il Dinomenide. Storia e rappresentazione
 9788862272193

Table of contents :
SOMMARIO
INTRODUZIONE
DALLA TIRANNIDE DI GELA AL TRONO DI SIRACUSA
IERONE A GELA: UN TIRANNO SENZA SUDDITI
DA GELA A SIRACUSA
IERONE CONTRO POLIZELO
GLI INTERVENTI DI IERONE AL DI LÀ DELLO STRETTO E L’OSTILITÀ CON AGRIGENTO
PREMESSA
LA CONTESA REGGIO-LOCRI: LA DIPLOMAZIA DI IERONE
IERONE E “L’EREDITÀ DI SIBARI”
LA SCOMPARSA DI POLIZELO E IL FRONTE AGRIGENTINO
PHRONESIS E DYNAMIS
ETNA: POLIS DORICA IN TERRITORIO CALCIDESE
LA BATTAGLIA DI CUMA E LA PARTECIPAZIONE SIRACUSANA ALLA LOTTA CONTRO IL “BARBARO”
LA CORTE DI IERONE: STORIA E RAPPRESENTAZIONE
IL CIRCOLO DI IERONE
IL TIRANNO E I SUOI POETI
FORTUNA E SFORTUNA DEL TIRANNO
LA FORTUNA DI IERONE NEL V SEC. A.C.
IERONE NEL IV SECOLO: DA PRINCIPE IDEALE A TIRANNO INVIDIOSO
CONCLUSIONI
BIBLIOGRAFIA
INDICE DELLE TAVOLE E DELLE ILLUSTRAZIONI
INDICE DELLE FONTI
INDICE GENERALE

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S U P P LE M E N T I A « KøKA§O™ » co llana di studi p ubblicati dall ’ ist i t uto d i stor i a a n t i ca dell ’ u n iver s ità di pa l e r mo, f ondata da eug en io man n i, dir etta da p i et r i na a n e l lo

21.

I ERONE I L DINOMENIDE Storia e rappresentazione DANIELA BONANNO

PIS A · ROMA FABRIZ IO SERRA E D ITO RE MMX

Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. * Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2010 by Fabrizio Serra editore®, Pisa · Roma www.libraweb.net * Stampato in Italia · Printed in Italy

isbn 978-88-6227-219-3 issn 0392-0887

a mamma, a papà e a giorgia

SOMMARIO Introduzione Ierone il Dinomenide Le testimonianze Strumenti e metodo La fortuna di Ierone nella storia degli studi

13 13 14 16 19

DA L L A TIR A NNIDE D I G E L A A L TRONO D I S IR ACU S A Ierone a Gela: un tiranno senza sudditi Fonti e cronologia Gela dopo Gelone L’asse Gela-Siracusa

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Da Gela a Siracusa L’eredità difficile di Gelone Reggenza e successione Le fonti sull’ascesa al trono

39 39 40 43

Ierone contro Polizelo Il testamento ambiguo di Gelone La dedica dell’Auriga di Delfi Lo scolio Pind. Ol. ii 29c e la missione di Polizelo contro i “barbari”

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GL I IN TERV EN TI DI I E RO N E A L D I L À DEL LO S T R E T TO E L’ OS TIL ITÀ C ON AG R I G E N TO Premessa La contesa Reggio-Locri: la diplomazia di Ierone Le fonti Reggio e Locri nel vi sec. a. C.: una convivenza difficile Diplomazia e strategia

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s o mma r i o

Ierone e “ l ’ eredità di Sibari ” La diaspora dei Sibariti Il lento declino di Crotone e la conflittualità con Siracusa La spedizione contro i Crotoniati Ierone, Temistocle e l’eredità di Sibari La scomparsa di Polizelo e il fronte agrigentino Le fonti La crisi del 476 a. C. e il crollo della dinastia emmenide: una fine annunciata I risultati della politica di Ierone negli anni 478-476 a. C.

85 85 89 93 95 103 103 116 122

PH RONES IS E DY NA M I S Etna: polis dorica in territorio calcidese La fondazione di Etna: fonti e cronologia Proteggere il regno e diventare ecista: le ragioni di Ierone Costruire una città Eschilo e Pindaro: progetto e propaganda Le Etnee di Eschilo: Siculi e Calcidesi nella politica di Ierone Sparta ed Etna: città gemelle? La politica etnea: i risultati

127 127 132 134 139 142 147 154

La battaglia di Cuma e la partecipazione siracusana alla lotta contro il “ barbaro ” Da Etna a Cuma I precedenti: i Dinomenidi e il Tirreno Dopo Imera L’intervento siracusano a Cuma: strategia e propaganda Memorie dinomenidi nei santuari panellenici

159 159 162 166 168 172

L A C ORTE D I I E RO N E : S TOR IA E R A PPRE S E N TA Z I O N E Il circolo di Ierone Strategia e Selbstdarstellung

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s o mmar i o Agonismo e tirannide Intellettuali e potere: i precedenti La corte siracusana Il tiranno e i suoi poeti Echi del programma ieroniano nella poesia di v secolo Tra propaganda e opposizione: Filottete l’eroe ribaltato Il misthos del tiranno

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FO RTU NA E S FORTU NA D E L T I R A N N O La fortuna di Ierone nel v sec. a. C. Appunti per una conclusione Rappresentazioni del principe nella propaganda ieroniana L’influenza di Ierone sul logos erodoteo (Hdt. vii 153-167)

213 213 214 220

Ierone nel iv secolo: da principe ideale a tiranno invidioso Lo Ierone di Senofonte e la riflessione politica di iv secolo Eforo Timeo

231 231 239 241

Conclusioni

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Bibliografia Indice delle tavole e delle illustrazioni Indice delle fonti Indice generale

257 279 281 287

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INTRODUZIONE Ie rone i l D i no m e n i de

I

l primo storico a menzionare Ierone nella sua opera è Erodoto che ricorda il momento in cui egli ricevette dal fratello Gelone il governo di Gela, la città in cui la famiglia dei Dinomenidi, a cui essi appartenevano, aveva incominciato a costruire il suo potere e la sua autorità. Gelone, forse il maggiore dei quattro figli di Dinomene (gli altri furono con Ierone, Polizelo e Trasibulo), era un ex luogotenente del tiranno geloo Ippocrate e, alla morte di quest’ultimo, era riuscito, dopo averne estromesso i giovani figli, a conquistare il potere a Gela e a portare a termine una delle imprese più importanti della sua carriera politica, riducendo sotto il suo controllo Siracusa, dove aveva deciso di trasferirsi all’inizio del v secolo.1 Il contesto narrativo in cui Erodoto inserisce la vicenda storica dei Dinomenidi è quello del lungo logos sulla storia siceliota dove egli, raccontando della visita degli ambasciatori greci a Siracusa in occasione dell’imminente invasione persiana, si dilunga su questioni occidentali, fornendo agli studiosi moderni tutta una serie di dettagli sulle vicende politiche dell’isola, la cui validità e attendibilità sono state variamente vagliate e analizzate. Ma il dato che emerge prepotentemente dall’excursus erodoteo è l’importanza rivestita dai Dinomenidi nella storia dell’isola. Il loro ruolo politico viene retrodatato addirittura all’epoca della colonizzazione. La gloriosa carriera di Gelone non fu però, secondo quanto racconta lo storico di Alicarnasso, del tutto esente da ombre. L’episodio attorno a cui si è sviluppata gran parte della storiografia dinomenide infatti, e che costituisce il punto di partenza e di arrivo di questa ricerca e di gran parte dei lavori incentrati sulla tirannide siceliota arcaica, è la controversa partecipazione e adesione di questa famiglia alla causa ellenica contro i “barbari”. Erodoto da un lato registra il secco rifiuto incassato dalla delegazione greca venuta a chiedere sostegno militare contro i Persiani al nuovo sovrano siracusano, dall’altro però non può esimersi dal ricordare il fatto che proprio Gelone fu il campione di una memorabile vittoria dei Greci di Sicilia contro i “barba1 Hdt. vii 155-156.

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ri” cartaginesi, avvenuta a Imera nel 480 a. C., e secondo la tradizione proprio lo stesso giorno della battaglia di Salamina. Delle motivazioni e delle giustificazioni addotte dalla propaganda successiva a questo diniego e di tutte le conseguenze che ne derivarono, così come dell’impegno dinomenide contro i “barbari”, si parlerà più avanti; quello che invece in questa fase introduttiva preme sottolineare è il fatto che tanto la responsabilità di avere rifiutato di soccorrere i Greci quanto la gloria per avere sbaragliato i Cartaginesi a Imera siano attribuite unicamente a Gelone. Entrambi gli episodi finirono per influenzare e condizionare anche la politica del suo successore. Nel racconto erodoteo la figura di Ierone agisce semplicemente sullo sfondo come successore del fratello al governo di Gela. Tale informazione sarà tuttavia il punto di partenza della nostra indagine su un personaggio la cui esperienza politica ha lasciato tracce confuse e pochissime testimonianze storiche dirette e il cui operato stranamente ha suscitato un interesse blando ed episodico negli studi moderni. Le ragioni dello scarso successo di Ierone presso la critica sembrano doversi attribuire a diversi fattori, primo fra tutti proprio al dato innegabile che la storiografia antica, almeno in una certa fase, si concentra essenzialmente sulla figura di Gelone che domina la scena siceliota e internazionale, lasciando al fratello tutt’al più il ruolo del deuteragonista. Ierone però non era soltanto il parente scomodo e meno brillante di Gelone. Non era nemmeno semplicemente il principe edonista dedito ai piaceri e alla cultura che i poeti amavano ricordare per i suoi trionfi ai giochi panellenici e per la sua prodigalità, né tantomeno era il tiranno incline alla violenza tout court che riappare nelle pagine della Biblioteca storica di Diodoro nel i sec. a. C. Un riesame delle testimonianze potrà invece restituire un’immagine ben più complessa del Dinomenide e aiutare a comprendere la natura del suo potere a prescindere dal fatto che lo si voglia definire tiranno o basileus, ma soprattutto servirà a offrire nuovi elementi di riflessione su un periodo altrimenti poco studiato della storia della Sicilia tra la battaglia di Imera del 480 a. C.e la “rivoluzione democratica” degli anni sessanta del v secolo. L e te st i mon i a n z e Una ricerca incentrata sulla figura di Ierone, per i motivi appena illustrati, non può non prendere le mosse proprio dalle notizie relative a Gelone, benché esse siano state, più volte e quasi ossessivamente, analizzate dagli studiosi. La difficoltà principale in questo lavoro consiste

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dunque proprio nell’esigenza metodologica di dovere ricostruire un quadro, quanto più possibile coerente, degli undici anni di governo siracusano attribuiti a Ierone (478 a. C. ca-467 a. C.), sulla base di testimonianze che, spesso, non lo riguardano direttamente, ma che hanno a che fare con qualche personaggio del suo entourage, con le città su cui si dispiegò la sua attività di tiranno oppure infine con i poeti che egli, nel corso degli anni, invitò a Siracusa. Il dossier di testimonianze su Ierone può essere così classificato: - Fonti letterarie coeve e testimonianze a carattere celebrativo: in questa prima classe rientrano le odi di Pindaro e di Bacchilide dedicate a Ierone e, più in generale, le opere dei poeti della corte siracusana. All’interno di questo gruppo possono inserirsi anche le dediche offerte dai Dinomenidi ai santuari di Olimpia e di Delfi. È chiaro che tali testimonianze non potevano che essere influenzate dalle esigenze della propaganda e della Selbstdarstellung del sovrano. - Testimonianze di carattere storico che riflettono memorie locali come anche tradizioni esterne all’isola: in questo gruppo possono essere inseriti il logos erodoteo, di cui si è appena parlato, e le notizie frammentarie contenute negli scolii a Pindaro che, proprio per loro natura, si presentano come estremamente problematiche, quando non scarsamente intellegibili. Integra questa seconda classse di documenti la ricostruzione fornita da Diodoro sugli avvenimenti dell’inizio del v secolo, che costituisce il corpus di notizie relative al Dinomenide più organicamente articolato, benché non meno problematico. Intorno al personaggio di Ierone si è poi sviluppata anche tutta una letteratura aneddotica tarda che dà conto soprattutto del rapporto che egli intratteneva con i poeti della sua corte. - Testimonianze di carattere “filosofico”: Ierone ebbe, per così dire, una “vita parallela” ed è quella che gli cucì addosso Senofonte facendolo protagonista del suo dialogo Sulla tirannide, in cui il Dinomenide si ritrova ad essere interrogato e incalzato dal lirico Simonide, poeta con cui ebbe storicamente rapporti di collaborazione. È proprio da quest’opera che si comincia a disegnare l’immagine di Ierone tiranno che assomiglia a quella presentata da Aristotele nella Politica. Che si tratti di un quadro documentario piuttosto complesso è abbastanza evidente, soprattutto perché bisogna lavorare su gradi diversi di rappresentazione, reperire filoni e orientamenti storiografici e recuperare sotto il filtro fluido e vischioso di tali rappresentazioni tracce di episodi che hanno determinato il nascere di certe tradizioni. L’in-

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dagine, inoltre, è ostacolata dal fatto che proprio le testimonianze coeve al tiranno sono essenzialmente di carattere letterario e celebrativo, mentre le prime ricostruzioni storiche risalgono alla seconda metà del v secolo e quindi sono cronologicamente – e spesso anche spazialmente – lontane dal periodo in questione. A queste difficoltà si aggiunge infine anche il fatto che il dossier di fonti si è andato progressivamente riducendo, perché spesso le notizie che riportavano il nome di Ierone sono state dagli studiosi riferite a Gelone e giudicate dunque poco attendibili. Strume nt i e m etodo Le caratteristiche del quadro documentario appena illustrato, così come l’interesse prevalente della storiografia antica e moderna per la figura di Gelone, hanno orientato verso l’uso di una bibliografia non sempre e direttamente interessata a Ierone, proprio in ragione del fatto che la politica di questo sovrano è stata spesso analizzata in appendice a studi dedicati al fratello o alla tirannide in generale, oppure ancora in saggi di carattere filologico-letterario prevalentemente incentrati sulla produzione di poeti e letterati di corte e sulla relazione che essi intrattenevano con il tiranno.2 Di recente, tuttavia, qualche studioso ha avvertito la necessità di separare le esperienze di governo dei due sovrani liberando Ierone da quella sorta di incantesimo a cui anche parte della storiografia antica sembra averlo condannato.3 Per tirar fuori dunque la vicenda politica del Dinomenide dalla coltre di oscurità in cui è stata finora avvolta, è opportuno ripercorrere il cammino per l’ennesima volta, tornando magari su dati ed eventi già più volte esaminati, restituendo però pari dignità a tutte le testimonianze. Occorrerà rileggere studi e contributi su argomenti che trattano di Ierone solo incidentalmente, dando magari maggiore rilievo ai dettagli, procedendo talora per ipotesi, talora per deduzioni trasversali, ma operando un necessario capolvolgimento di prospettiva e tenendo ben presente che il punto di vista privilegiato stavolta non è una città, o un altro sovrano, o ancora un poeta, ma è un signore che, 2 Si segnalano qui soltanto alcuni degli studi più importanti: WilamowitzMoellendorff 1901, 1273-1318; Id. 1922; Fraenkel 1954; Cataudella 1964-1965; Herington 1967, 74-85; Young 1968; Duchemin 1970; Köhnken 1970, 1-13; Lefkowitz 1976; Podlecki 1979; Burnett 1985; Vallet 1985, 285-320; Svarlien 19901991; Ead. 1994 e 1995. 3 Su questo aspetto, cfr. Bonanno 2009a 96-99.

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fin dal suo primo giorno di governo, dovette avere a che fare con il ricordo ingombrante del fratello, con la difficile amministrazione della sua città d’origine prima e di quella d’adozione poi. Il volume è articolato in cinque parti a loro volta suddivise in capitoli e in paragrafi. La materia è organizzata in modo prevalentemente cronologico. In generale, è stata la natura stessa delle testimonianze a suggerire tale articolazione. Le fonti storiche, epigrafiche e archeologiche sono integrate da quelle letterarie, sebbene non sempre possano, per ovvi motivi, essere poste sullo stesso piano. Il punto di partenza è fornito proprio dalla notizia erodotea in merito alla successione di Ierone a Gela, che costituisce anche un’occasione per riflettere sul ruolo e sulla situazione politica della colonia rodio-cretese agli inizi del v sec. La prima parte (Dalla tirannide di Gela al trono di Siracusa) studia anche nel dettaglio i problemi legati alla successione al trono di Siracusa dopo la morte del fratello e i primi anni di governo a capo della colonia corinzia che poi sono anche quelli meglio documentati, ma anche i più difficili da ricostruire. Si tratta infatti di un periodo della storia occidentale piuttosto confuso e caotico come lo è ogni momento di passaggio. Vecchi e nuovi protagonisti si mescolano nelle pagine della storia in maniera così indistinta da rendere spesso oltremodo difficoltoso attribuire con certezza all’uno o all’altro la responsabilità di un gesto o di un’azione. Le fonti per questo periodo sono principalmente le notizie contenute nell’opera di Diodoro, rilette e confrontate con i passi frammentari conservati negli scolii a Pindaro. La seconda parte (Gli interventi di Ierone al di là dello Stretto e l ’ ostilità con Agrigento) e la terza (Phronesis e dynamis) sono dedicate all’indagine sulle scelte strategiche di Ierone, nei primi due anni di governo siracusano, tanto in politica interna, quanto in politica estera. Sono questi anni che risultano densi di avvenimenti e di conseguenze non solo per la storia siceliota ma anche per quella della Grecità occidentale e peninsulare. Il periodo successivo al 476-475 a. C., quando Ierone ha ormai risolto le questioni legate al burrascoso avvicendamento al trono siracusano, è quello in cui il prestigio e la credibilità raggiunta davanti a tutta la Grecità trovano un’eco nelle fonti che indicano il sovrano come protagonista di eventi di straordinaria importanza come la fondazione della città di Etna e un’altra vittoria contro i “barbari” tirreni a Cuma. L’analisi e la rilettura – sistematica e sistemica, verrebbe da dire – dei dati evenemenziali e delle fonti relative a questo periodo ci consegnano l’immagine di uno statista il cui procedere strategico e militare,

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capace di alternare diplomazia e guerra secondo le aree di intervento e di modulare presenza e assenza sulla scena internazionale, rappresenta la vera novità di quegli anni e il tratto che più lo distingueva dal fratello Gelone. Per giungere a tali conclusioni la ricerca è andata avanti per piccoli passi, dando valore alle testimonianze indirette, ora allargando ora restringendo il campo d’indagine a seconda dell’occasione, senza perdere di vista però, per quanto è stato possibile, la prospettiva principale, il fulcro cioè della ricerca che è rappresentato da questa figura di sovrano finora un po’ sottovalutata. Ma non deve stupire neanche che, in questo lavoro, ci si trovi a percorrere itinerari apparentemente eccentrici e lontani dall’oggetto principale, come ad esempio la situazione magnogreca o la politica agrigentina negli anni settanta del v secolo o infine la relazione tra Ierone e gli artisti che egli ospitò alla sua corte. La quarta parte (La corte di Ierone: storia e rappresentazione) è infatti dedicata proprio alla composizione del circolo siracusano all’inizio del v secolo e alla ricostruzione dei rapporti di forza al suo interno. L’analisi, condotta anche sulla base di confronti con situazioni analoghe nel mondo greco, è rivolta principalmente a restituire i processi e le diverse modalità di autorappresentazione del potere e di costruzione del prestigio rileggendo, anche alla luce delle conclusioni tratte nei capitoli precedenti, alcune allusioni contenute nelle opere dedicate a Ierone. Il tentativo dunque che si è compiuto, considerato il contributo dato dal Dinomenide alla storia della cultura, è anche quello di recuperare nelle fonti letterarie nuclei propagandistici che possano servire a spiegare il significato di ben precise azioni politiche. Considerata infine l’assoluta eterogeneità del dossier di fonti relative a Ierone, il volume non potrà che concludersi con un excursus ragionato sull’evoluzione che l’immagine di questo personaggio ha subito nella rielaborazione storiografica del v e del iv secolo (Fortuna e sfortuna del tiranno). E siccome il Dinomenide, non appena arrivato a Siracusa, come vedremo, si era trovato costretto da un fronte d’opposizione interna, cui non erano estranei altri componenti della sua famiglia, a creare attorno a sé un movimento d’opinione, non sarà sbagliato tentare di capire il peso e l’influenza che i versi e le opere degli artisti che gravitarono intorno a lui finirono per esercitare sulla ricostruzione di tutta la parentesi dinomenide, ma soprattutto il percorso attraverso il quale il tre volte felice Basileus di Siracusa del terzo Epinicio bacchilideo possa essersi trasformato nel tiranno avido e violento delle pagine di Diodoro.

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La fo rt una d i Ie rone ne l la stor i a de g l i st u di La fortuna di Ierone negli studi non è stata eccezionale. La sua immagine nella storiografia moderna è stata peraltro modellata da un lato su quella del principe mecenate, amico e ospite degli intellettuali e dall’altro proprio su quella del tiranno violento che avidità e mancanza assoluta di semplicità di costumi e nobiltà d’animo rendevano totalmente incompatibile con la figura del fratello Gelone, ricordato per la sua generosità e benevolenza.4 Una contrapposizione che viene sottolineata anche nei primissimi studi sulla storia della Sicilia. Già Adolf Holm nella sua Geschichte Siciliens im Alterthum (1870) marcava le differenze tra i due Dinomenidi: Gelone era il prode guerriero e il politico operoso; Ierone invece, principe avido di splendore, incapace di lavorare instancabilmente in pace e in guerra, preferiva dedicarsi all’arte e alla letteratura come un tempo fecero Policrate e i Pisistratidi.5 Ma questa sua passione per la cultura ebbe come conseguenza quella di rendere pubbliche tanto le sue virtù quanto soprattutto i suoi difetti. Alle riflessioni di A. Holm facevano eco qualche anno più tardi quelle di Edward Freeman che, nella sua History of Sicily pubblicata nel 1891, sottolineava come la regola, in base alla quale la tirannide mostra il suo aspetto più odioso sotto colui che eredita il potere, risulta confermata anche nel caso di Ierone il cui governo fu quello di un tiranno sospettoso, avido e crudele. La regola cui faceva riferimento E. Freeman è probabilmente quella enunciata da Aristotele nella Politica,6 secondo cui coloro che ricevono il potere assoluto in eredità sono fatalmente destinati a perderlo presto. Tuttavia, nonostante queste considerazioni evidentemente influenzate dal modello aristotelico della degenerazione progressiva della tirannide, tanto Holm quanto Freeman dedicarono al periodo di Ierone delle pagine appassionate che sono soprattutto una sorta di bilancio della storia letteraria dell’isola felicemente segnata dal passaggio presso la corte siracusana di personaggi come Pindaro, Eschilo, Simonide o Bacchilide. L’approccio interpretativo costruito sulla contrapposizione quasi manichea tra i due fratelli ha continuato a caratterizzare, nel corso del xx secolo, gran parte dei bilanci sulla tirannide dei Dinomenidi.7 Clau4 Diod. xi 67. 5 Holm 1870, 213-216. 6 Arist. Pol. v 10, 1312b 20. 7 Cfr. Pais 1933, 108-109; Hackforth 1935, 150; Schenk Graf von Stauffen-

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de Mossé, però, nel suo studio su La Tyrannie dans la Grèce antique, del 1969, ha cominciato a sollevare qualche dubbio sulle differenze reali tra i due personaggi. La studiosa ritiene che l’allure della corte di Ierone e il suo modo di amministrare il potere rendevano la sua tirannide molto simile alle monarchie orientali. Inoltre la proverbiale avidità attribuitagli altro non sarebbe che una proiezione delle tasse imposte ai cittadini per mantenere lo splendore della sua corte e sostenere la politica estera. Per quanto siano suggestive le conclusioni di C. Mossé, per la verità, non possediamo sicure evidenze sulla politica fiscale dei Dinomenidi. Al contrario invece, Diodoro parla dell’emanazione di leggi suntuarie da parte dei Siracusani che tanto Gelone, quanto Ierone, a quanto pare, s’impegnarono a rispettare.8 L’analogia evidenziata da C. Mossé tra la tirannide di Ierone e le monarchie orientali è stata, più recentemente, ripresa da Nino Luraghi nel suo volume interamente dedicato alle Tirannidi arcaiche di Sicilia e Magna Grecia (1994). Lo studioso si distacca programmaticamente dalla visione storiografica tedesca che, a partire da Helmut Berve, tendeva a presentare la tirannide arcaica di Sicilia come una sorta di monarchia militare9 e propone una ricostruzione dinamica del periodo di governo di Ierone – a cui tra l’altro anche la presente indagine deve moltissimo – assolutamente priva di schematismi. Altri lavori si sono occupati di ricostruire piuttosto singoli aspetti connessi con il periodo in cui il secondo Dinomenide fu al governo. Tra questi è fondamentale il contributo di Luigi Piccirilli in un volume degli Annali della Scuola Normale di Pisa (1971) che analizza il rapporto tra i passi di Diodoro e gli scolii a Pindaro in cui si raccontano i primissimi momenti della tirannide di Ierone a Siracusa e lo studio, iniziato ma purtroppo non concluso, di Vitaliano Merante in Kokalos (1971) dal titolo Per la storia di Ierone Siracusano che si limita a un’analisi preliminare delle fonti concentrandosi, però, essenzialmente su Gelone. La politica di Ierone è stata infine complessivamente presentata e nuovamente analizzata in opere generali che hanno trattato della tirannide in Sicilia come gli studi di Sebastiana Nerina Consolo Langher su Siracusa (1996 e 1997) e il volume di Lorenzo Braccesi sui Tiranni di berg 1963, 206-209; Berve 1967, 148; Maddoli 1979, 49-50 o più recentemente Mei 1998, 543-544. Una ricostruzione del periodo di governo di Ierone indipendente dal confronto con la politica del fratello è stata proposta invece da Lenschau 1913, col. 1496-1503 e da Asheri 1992, 147-170. 9 Luraghi 1994, 5. 8 Mossé 20042, 85-86. Diod. xi 38.

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Sicilia (1998), che si sono occupati della ricostruzione degli avvenimenti politici e militari sotto i tiranni.10 Negli ultimi anni un nuovo percorso è stato intrapreso negli studi sulla tirannide e si tratta di un orientamento che, al di là degli aspetti evenemenziali dell’indagine sulle modalità di acquisizione del potere, ha preferito rivolgersi all’analisi antropologica dei comportamenti. In questa prospettiva un’attenzione particolare è stata rivolta da un lato alla percezione del fenomeno della tirannide nell’Antichità, e in particolare ad Atene, dall’altro all’analisi condotta sulle differenti forme di rappresentazione del potere, i cui strumenti spesso si riconducono a pratiche arcaiche di costruzione del prestigio.11 Nell’ambito di questi lavori più recenti la posizione di Ierone rispetto a quella del fratello sembra essersi paradossalmente ribaltata ed egli è divenuto oggetto di un rinnovato interesse, soprattutto all’interno di quegli studi che analizzano i risvolti politici e sociali dei giochi panellenici e le ricadute sull’immagine del vincitore dei trionfi atletici, ma anche in ragione della presenza, all’interno del dossier documentario che lo riguarda, delle odi di Pindaro e di Bacchilide, un repertorio inesauribile di studio sugli strumenti di rappresentazione dell’autorità tirannica.12 Il riesame di queste testimonianze, sotto questa chiave di lettura, ha però consegnato un ritratto inedito del Dinomenide, quello cioè di un principe d’altri tempi dai tratti eroici, quasi divini, e dai poteri carismatici. È interessante infatti sottolineare che proprio la categoria weberiana di carisma è stata applicata all’analisi della tirannide siceliota arcaica.13 Lo schema sociologico di Max Weber,14 che distingueva tre tipologie pure di dominazione legittima (legale o razionale, tradizionale e carismatica), ha infatti fornito una griglia interpretativa attraverso la quale rivedere l’esperienza dei tiranni di Sicilia. Le loro vittorie straordinarie erano prova di un favore divino che conferiva al loro potere un’aura di legittimità e perfino di sacralità ed era capace di dare al loro governo la stabilità necessaria. In un volume – l’ultimo in ordine di tempo – dedicato alla storia costituzionale dell’isola, Marc Hofer ha ravvisato, distinguendoli, nella 10 Di L. Braccesi si segnala inoltre la trattazione sulla tirannide dei Dinomenidi nel volume La Sicilia greca pubblicato insieme a G. Millino (cfr. Braccesi – Millino 2000, 67-91). 11 Sulle nuove prospettive nell’ambito degli studi sulle tirannidi, cfr. Bonanno 2009a, 96-99 di cui riprendo qui alcune delle conclusioni. 12 Cfr. Mann 2001, 260-273; Currie 2005, 172-173. 13 Hofer 2000, 131-142; Mann 2001, 284-288. 14 Weber 19805, 284.

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tirannide siceliota sia elementi riconducibili a una gestione tradizionale del potere soprattutto nelle relazioni che il signore stabilisce all’interno del suo lignaggio, sia elementi carismatici. Secondo le conclusioni dello studioso, tanto più il tiranno si distaccava dall’entourage familiare, quanto più egli aveva bisogno di accentuare il carattere carismatico del suo potere. E questo è esattamente quanto potremo osservare nel caso di Ierone che a una rottura con i membri della sua famiglia reagisce, per l’appunto, con la fondazione di Etna, presentandosi così alla Grecità di Sicilia quale ecista e futuro eroe e amplificando la sua autorità in senso carismatico. Innovazione e tradizione, propaganda e modalità di gestione del potere sono possibili piste da percorrere e che costituiscono un punto di partenza per analizzare la vicenda storica di Ierone che, con il fragore e la risonanza data ad ogni suo trionfo politico, militare o atletico, costituisce un ideale soggetto di ricerca e una lente d’ingrandimento utile a rivisitare un capitolo importante della tirannide siceliota sul filo del rarefatto discrimine tra storia e rappresentazione. * All’interno di questo lavoro la bibliografia è citata in forma abbreviata con l’indicazione dell’autore e della data di pubblicazione del contributo. I riferimenti per intero saranno dati nella bibliografia generale alla fine del volume insieme alle edizioni dei testi antichi utilizzate. Le traduzioni, quando non diversamente indicato, sono mie.

Ringraziamenti Questo volume è la rielaborazione di una tesi di Dottorato in Storia della Sicilia Antica discussa nel febbraio del 2003 presso l’Università degli Studi di Palermo. Ringrazio i docenti che hanno seguito questo lavoro: Margherita Giuffrida che è stata per me una guida affettuosa e competente, sin dagli anni universitari; Piera Anello per la rilettura attenta e per avere accolto la mia ricerca nei Supplementi a “Kokalos”; Nicola Cusumano e Rosalia Marino per lo sguardo vigile e perspicace con cui hanno letto queste pagine e per il loro costante incoraggiamento. Grazie anche a Corinne Bonnet per la direzione che ha dato alle mie ricerche negli ultimi anni. Suggerimenti e spunti di riflessione sono venuti da Giovanna Bruno Sunseri, Roberto Sammartano e dai membri della commissione dell’esame finale Salvatore Alessandrì e Serena Bianchetti. Un pensiero affettuoso va in questa occasione a Dino Ambaglio che avrebbe voluto leggere queste pagine.

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Diverse strutture hanno ospitato le mie ricerche: il Seminar für alte Geschichte della Ruprecht-Karls Universität di Heidelberg, dove ho trascorso un semestre grazie alla cortese ospitalità di Angelos Chaniotis; la Biblioteca dell’École Française di Roma; il Dipartimento di Sciences de l’Antiquité dell’Université de Liège grazie alla gentile accoglienza di Vinciane Pirenne Delforge; il Centre Louis Gernet di Parigi; la Joint Library of the Hellenic and Roman Societies di Londra dove ho reperito gran parte del materiale e infine il Seminar für alte Geschichte della Westfälische Wilhlems-Universität Münster dove la disponibilità di Peter Funke e una borsa di studio concessami dal Deutscher Akademischer Austauschdienst nell’ambito di un altro progetto, mi hanno consentito di svolgere gli ultimi controlli. E poiché un lavoro di ricerca non è mai un risultato individuale, vorrei che qui trovasse posto anche la mia riconoscenza nei confronti di coloro che, in questi anni, hanno accompagnato le mie indagini: a Simona e Lucia Corso, a Paola Savona, a Florian Mussgnug e a Stefania Sola per avere con le loro ricerche dato un colore diverso alle mie. Grazie anche a Maripina e a Guido Corso per avermi accolta spesso, col calore di una famiglia, mostrando sempre un vivo interesse per il mio lavoro. Il grazie più grande va infine ai miei genitori che hanno sempre protetto con cura e attenzione i miei spazi di ricerca, sollevandomi da ogni responsabilità e preservandomi da ogni preoccupazione.

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DALLA TIRANNIDE DI GELA AL TRONO DI SIRACUSA

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IERONE A GELA: UN TIRANNO SENZA SUDDITI Fonti e c ronolo g i a

I

primi anni della tirannide di Ierone furono piuttosto oscuri e, se poco si sa della fase geloa, quasi inesistenti sono le tracce sugli anni precedenti la presa del potere. Si può solo procedere per ipotesi, rileggendo i pochi indizi rimasti. Senofonte nel suo dialogo sulla tirannide che ha per protagonista proprio Ierone lascia intendere che il Dinomenide, prima di diventare tiranno, era un privato cittadino.1 La promozione a signore di Gela avvenne dopo il trasferimento di Gelone a Siracusa. La prima e l’unica testimonianza in merito al controllo di Ierone su Gela è, come già sottolineato, contenuta nelle pagine delle Storie di Erodoto, dove si legge che Gelone preferì lasciare al fratello il controllo di Gela per dedicarsi completamente a Siracusa. ^O ‰b â›Ù ·Ú¤Ï·‚ Ùa˜ ™˘ÚËÎÔ‡Û·˜, °¤Ï˘ ÌbÓ âÈÎÚ·Ù¤ˆÓ ÏfiÁÔÓ âÏ¿ÛÛˆ âÔȤÂÙÔ, âÈÙÚ¤„·˜ ·éÙcÓ ^I¤ÚˆÓÈ à‰ÂÏʆ ëˆ˘ÙÔÜ, ï ‰b Ùa˜ ™˘ÚËÎÔ‡Û·˜ âÎÚ¿Ù˘ÓÂ, ηd qÛ¿Ó Ôî ¿ÓÙ· ·î ™˘Ú‹ÎÔ˘Û·È. Quando ebbe preso Siracusa tenne in minor conto il dominio di Gela e affidatala a suo fratello Ierone, fortificò Siracusa. Siracusa, infatti, era tutto per lui. Hdt. vii 156,1

Le domande che possiamo porre al testo sono poche ma molto precise; la necessità principale è quella di individuare innanzitutto il momento in cui avvenne il passaggio di testimone da Gelone a Ierone al soglio di Gela. Soprattutto, per dirla con Erodoto, sarebbe importante stabilire quanto poco valore il nuovo tiranno di Siracusa attribuisse al controllo della colonia rodio-cretese; in altri termini, quale fosse il ruolo politico che egli assegnò al suo successore.2 Fissare il limite ultimo della signoria di Gelone su Gela è ovviamente indispensabile per ricostruire l’inizio di quella del fratello minore sulla stessa città. A fornire ragguagli sulla durata delle tirannidi siceliote è Diodoro3 che, raccontando della morte del primo dei Dinomenidi – registrata nell’anno 478 1 Xen. Hier. i. Sul valore storico di questa testimonianza si ritornerà. 2 Bruno Sunseri 1987, 52 ha letto in questa scelta un tentativo di Gelone di separare il destino di Siracusa da quello di Gela, bloccando così ogni eventuale aspirazione del fratello Ierone ad espandersi nel territorio. 3 Diod. xi 38, 7.

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a. C. – precisa che egli regnò per sette anni e suo fratello, che gli succedette, governò sui Siracusani per undici anni e otto mesi.4 Entrambi i dati si riferiscono chiaramente alla tirannide siracusana;5 ma se Gelone tenne il dominio della colonia corinzia per sette anni, allora il 485 a. C. fu il momento in cui Ierone diventò arbitro dei destini di Gela e lo fu per altrettanti sette anni. Certo, la durata settennale del governo, spesso attribuita ai tiranni ed ex tiranni geloi è sospetta e andrebbe presa con un po’ di scetticismo. Secondo le fonti, infatti, anche Cleandro, Ippocrate e Ierone a Gela e poi Gelone a Siracusa regnarono tutti per lo stesso lasso di tempo. E, a meno che non si voglia ipotizzare un adattamento successivo della tradizione storiografica, bisogna dedurre che il sette non era decisamente il numero fortunato per i tiranni di origine geloa. Non lo era per tutti, eccetto che per Ierone il quale, tra Gela e Siracusa, regnò per un periodo di quasi diciannove anni. La riflessione storiografica antica tuttavia è restia a cumulare esperienze di governo compiute in città diverse. Aristotele nella Politica ci propone un resoconto delle tirannidi greche più durature e colloca quella dei Dinomenidi a Siracusa in coda al suo catalogo.6 Nel testo non vi è alcuna menzione del dominio geloo dei due fratelli, forse perché troppo breve per essere ricordato o perché poco importante era diventata, nel iv secolo, la città che li aveva consacrati tiranni. Ad ogni modo, Ierone governò su Gela per ben sette anni tra il 485 a. C. e i primissimi mesi del 478 a. C. Su questo periodo il silenzio delle fonti è quasi imbarazzante e ci si può limitare esclusivamente a qualche congettura, almeno sulla natura del lascito di Gelone. Di certo c’è che ormai il controllo di Gela, dopo la conquista di Siracusa da parte di Gelone, era semplicemente un surrogato. Il fatto che il Dinomenide l’avesse affidata al fratello minore prima di trasferirsi, testimonia che egli pensava già in termini dinastici e di trasmissione “orizzontale” del potere. E proprio sul tipo di potere che Gelone delegò al fratello è opportuno riflettere. 4 La notizia di Diod. xi 38 è confermata anche in Aristot. Pol. v 12, 1315 b 35 dove si attribuisce però alla tirannide di Ierone a Siracusa la durata di soli dieci anni. Una messa a punto della cronologia del dominio dei Dinomenidi su Gela e su Siracusa e degli studi relativi viene proposta da Van Compernolle 1959, 261-317. Lo studioso confuta punto per punto la cronologia di Pareti 1914, che pone nel 485/4 a. C. l’inizio della tirannide di Gelone a Gela, direttamente a ridosso del trasferimento a Siracusa. Cfr. anche Musti 1970, e Luraghi 1994, 273-274. 5 Contra Pareti 1914, 32 contestato da Van Compernolle 1959, 266-269. 6 Aristot. Pol. v 12, 1315 b 35.

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Gela dopo Gelone Gela, tra vi e il v sec. a. C., aveva svolto un ruolo di primo piano nelle vicende siceliote, ma, alla morte del suo tiranno Ippocrate, era stata attraversata da lotte civili legate a problemi di successione al trono dalle quali poi Gelone era uscito vincente.7 Dopo avere occupato Siracusa e quindi affidato al fratello Gela, egli si dedicò alla fortificazione della sua nuova sede e a tutta una serie di interventi di aggiustamento e di integrazione del corpo civico siracusano. ÙÔÜÙÔ ÌbÓ ÁaÚ K·Ì·ÚÈÓ·›Ô˘˜ ±·ÓÙ·˜ ☠Ùa˜ ™˘ÚËÎÔ‡Û·˜ àÁ·ÁgÓ ÔÏÈ‹Ù·˜ âÔ›ËÛÂ, K·Ì·Ú›Ó˘ ‰b Ùe ôÛÙ˘ η٤Ûη„Â, ÙÔÜÙÔ ‰b °ÂÏÑˆÓ ñÂÚË̛۷˜ ÙáÓ àÛÙáÓ Ùè˘Ùe ÙÔÖÛÈ K·Ì·ÚÈÓ·›ÔÈÛÈ âÔ›ËÛÂ.

Tutti i Camarinesi li condusse a Siracusa e li fece cittadini, distrusse la rocca di Camarina, e fece la stessa cosa che aveva fatto con gli abitanti di Camarina con più della metà dei suoi concittadini di Gela. Hdt. vii 156, 8

Erodoto è qui abbastanza chiaro: uno dei provvedimenti volti alla riorganizzazione della comunità civica siracusana ebbe come conseguenza diretta e immediata un’emorragia di cittadini geloi. Quali sudditi rimanevano dunque da governare a Ierone, una volta portato a termine questo devastante intervento sul corpo civico, e soprattutto, a cosa si riduceva il controllo del tiranno su una città, la cui popolazione era stata traumaticamente dimezzata e che, per di più, non godeva di una posizione strategicamente favorevole? La risposta a queste domande va cercata nell’identità di questi astoi che lasciarono Gela per diventare – come i Camarinesi – polietai di Siracusa. Ed è proprio da questa equazione tra i destini di Gela e Camarina che conviene prendere le mosse per avere una visione più chiara dello scenario siceliota al momento del trasferimento di Gelone a Siracusa e dell’insediamento di suo fratello a Gela. Camarina era stata nell’occhio del ciclone al tempo della battaglia sul fiume Eloro,8 quando i Siracusani per la prima volta si scontrarono con un tiranno geloo, Ippocrate. Gli abitanti della colonia corinzia furono salvati, in extremis, dalla mediazione9 corinzio-corcirese che stabiliva la conse7 Hdt. vii 155, 1. 8 Hdt. vii 154, 3. 9 Secondo Piccirilli 1973, 58-60 l’intervento dei Corinzi e dei Corciresi deve definirsi più una mediazione che un arbitrato in senso stretto.

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gna dei prigionieri da parte del tiranno in cambio della città di Camarina che anticamente apparteneva ai Siracusani. A integrare la notizia di Erodoto interviene il dossier tucidideo sulla storia della Sicilia in cui Ippocrate figura come ecista di Camarina nuovamente rifondata.10 Tucidide aggiunge che la città fu poi distrutta da Gelone per essere colonizzata una terza volta dai Geloi.11 La rifondazione ippocratea di Camarina deve essere stata accompagnata dal ripopolamento della città con componenti almeno in parte geloe, anche se a queste poterono aggiungersi anche gruppi di mercenari che avevano combattuto al fianco del tiranno, come sembra suggerire una dedica nel tempio di Zeus ad Olimpia di un Prassitele Siracusano, Camarineo, nato a Mantinea.12 La fondazione di Camarina II ebbe dunque presumibilmente come conseguenza immediata per Gela una prima perdita di abitanti che portò il suo corpo civico a ridursi già all’inizio del v sec. a. C. Che un copioso numero di Geloi fosse andato, in seguito, a insediarsi a Siracusa sembra potersi dedurre anche dallo scolio 120 alla i Pitica di Pindaro, derivato da fonte sconosciuta. La testimonianza si riferisce alla presenza di Geloi, Megaresi e Siracusani tra i coloni di Etna, la città fondata da Ierone.13 Diodoro poi offre una conferma indiretta a questa notizia, dichiarando che il tiranno popolò Etna con cinquemila coloni provenienti dal Peloponneso e altrettanti da Siracusa.14 A questo punto trarre delle conclusioni non è difficile. La menzione di Geloi e Megaresi nel corpo coloniale di Etna non può essere accidentale ed è abbastanza verosimile che riguardi anche quei Geloi che, mandati una prima volta a colonizzare Camarina, poi – nel difficile momento del trasferimento di Gelone a Siracusa – furono “invitati”, insieme ai loro ex-concittadini di un tempo, a seguire il tiranno nella sua nuova sede. 10 Thuc. vi 5, 3. 11 Altre conferme sulla distruzione di Camarina da parte di Gelone vengono anche da Philist. FGrHist 556 F 15 ap. Schol. Pind. Ol., v 19c e da Tim. FG rHist 566 F 19 a-b ap. Schol. Pind. Ol. v 19 a-b. 12 CEG 380, i. A questo proposito cfr. Luraghi 1994, 160-163 che non esclude che al ripopolamento di Camarina possano avere preso parte anche gli abitanti precedenti della città. Sulla presenza di mercenari in Sicilia in età classica Péré-Noguès 2004. 13 È interessante notare come le denominazioni poleiche originarie permangano anche in caso di trasferimento presso nuove sedi. È un fenomeno questo che si riscontra spesso nel mondo ellenico. Cfr. infra p. 87-88 il caso dei Sibariti e quello degli Zanclei di Ibla che, secondo Strabone (vi 2, 3), fondarono Tauromenio. A questo riguardo cfr. anche Manni 1990, 334 e ss. e Giuffrida 2002, 420. 14 Diod. xi 49.

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Il quadro che ne viene fuori è abbastanza singolare: all’insediamento dei due tiranni nelle due città sembra corrispondere un movimento centripeto rispetto a Siracusa15 e centrifugo rispetto a Gela. Ed è così che Gela e Camarina si spopolano e, in maniera proporzionale, cresce il numero degli abitanti di Siracusa, dopo il trasferimento del centro del potere. Quale città dunque era rimasta a Ierone se già, qualche anno prima, parte dei Geloi, lanciati nell’avventura camarinese con Ippocrate, avevano lasciato Gela e ora, appena salito al potere, più della metà degli astoi lo abbandonava per spostarsi col fratello? È evidente che abbastanza scarso doveva essere il numero dei sudditi da governare e forse non si trattava nemmeno di cittadini originari. Sull’identità di questi astoi gli studiosi si sono interrogati a lungo e si sono chiesti se si trattasse semplicemente di residenti16 o di cittadini per diritto di nascita,17 e soprattutto se essi fossero rappresentanti del demos o dell’aristocrazia.18 Certo, considerata l’avversione di Gelone nei confronti dell’elemento popolare – con cui, secondo la testimonianza di Erodoto,19 egli reputava particolarmente spiacevole convivere – risulta piuttosto inverosimile che scegliesse proprio tra il demos coloro che lo avrebbero accompagnato a Siracusa. Basti pensare al trattamento riservato agli aristocratici di Megara20 che furono invitati a seguire il tiranno nella nuova sede, benché avessero intrapreso una guerra contro di lui e si aspettassero per questo motivo di dovere essere messi a morte. Il demos di Megara invece, che non era responsabile della rivolta e non pensava di dover subire alcun male, fu anch’esso deportato a Siracusa ma tristemente ridotto in condi15 Moggi 1976, 100-114 definisce a ragione l’operazione un vero e proprio sinecismo, il risultato di una politica di potenza perseguita dal tiranno. 16 Dwellers li reputava Dunbabin 1948, 416. 17 Sulla base dello studio di determinati contesti in cui ricorrono i termini astos e polites Lévy 1985, ha concluso che il primo, molto più frequente in età arcaica del secondo, è legato ad un contesto più specificamente aristocratico e sta ad indicare l’appartenenza ad una comunità per diritto di nascita. Il termine polites invece con cui si decreta il passaggio dal mondo aristocratico a quello democratico del nomos, comporta tutta una serie di diritti e doveri da svolgere nell’ambito di una comunità cittadina indipendentemente dal fatto che si tratti di quella di nascita o di quella acquisita. 18 Per questa seconda ipotesi propende Asheri 1980, 147, basandosi sull’analogia con i casi di Megara ed Eubea e su quanto afferma Erodoto relativamente alla politica sociale di Gelone. Secondo Berve 1953, 540, invece questi astoi, appartenuti originariamente al demos geloo, difficilmente parteciparono poi alla suddivisione del territorio di Siracusa. 19 Hdt. vii 156, 3. 20 Cfr. anche Thuc. vi 4, 1; Thuc. vi 94, 1; Polyaen. i 27, 3.

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zioni di schiavitù. Le stesse misure Gelone adottò per la cittadinanza della calcidese Eubea21 che fu suddivisa in due categorie e trasferita a Siracusa. È chiaro dunque che il conferimento della cittadinanza siracusana non poteva che essere letto come un privilegio e una gratificazione riservati alle categorie sociali più utili alla politica del tiranno in quel momento.22 È possibile dunque che l’obiettivo principale dei Dinomenidi fosse quello di fare della colonia corinzia una sorta di enclave, la cui classe dirigente fosse l’élite aristocratica selezionata dal tiranno. E a partecipare a questo progetto vennero chiamati proprio cittadini di origine geloa – gli astoi per l’appunto – allettati dalla prospettiva di diventare polietai di Siracusa. Dopo questi provvedimenti, ben pochi dovevano essere i sudditi rimasti a Gela e presumibilmente la città, depauperata anche della linfa aristocratica, da protagonista dello scenario politico siceliota si era ridotta a poco più di una provincia, sotto il controllo dei Dinomenidi.23 C’è da chiedersi se tutto questo facesse parte di un piano armonico e globale in cui Ierone era nei fatti il braccio destro della politica del fratello e in cui gli interventi sulla popolazione di Gela rappresentavano il naturale complemento della conquista di Siracusa e del trasferimento del centro di potere, oppure se invece la scelta di Gelone nascondesse semplicemente l’intento di relegare il fratello a guardiano di una provincia fantasma. L’ as s e Ge la - S i r ac u s a I segnali che possono aiutarci a risolvere questo dilemma sono pochi ma significativi. Innanzitutto i due successi equestri a Delfi, del 482 e del 478 a. C., confermano il prestigio della tirannide ippotrofica di Ierone. E si sa che nella cultura greca l’hippotrophia era una prerogativa 21 Cfr. anche Strab. x 1, 15. 22 Con questo non si vuole liquidare tutta l’esperienza tirannica del Dinomenide come antipopolare tout court. Bruno Sunseri 1980, 295-308 ha dimostrato come al contrario sia stata ampia, diversificata e composita la politica di Gelone in relazione alle sfere di intervento e che fu soprattutto condizionata da esigenze di espansione militare. Inoltre, come sottolinea la studiosa sulla base di Diod. xi 26, 5, di Polyaen. i 27, 1 ed Ael. VH xiii 37, il demos siracusano non perse mai la sua importanza e il suo peso politico. 23 Anche la documentazione numismatica sembra portare in questa direzione. Il tetradrammo di Gela attribuito al 480 a. C. (cfr. Jenkins 19762, 26 nº 21-22) ripete sul dritto siracusano il tipo della quadriga, come di solito avveniva per indicare un legame con la città dominante. A questo proposito cfr. Luraghi 1994, 344.

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dell’aristocrazia economicamente più facoltosa, uno status symbol.24 Con le vittorie nei giochi panellenici Ierone si inserisce nella schiera dei tiranni che contano, di cui aveva fatto parte, prima di lui, il fratello Gelone con il trionfo olimpico del 488 a. C.25 Il secondo Dinomenide conseguirà una vittoria alle Olimpiadi solo più tardi come tiranno di Siracusa, nel 476 a. C.,26 ma già durante il suo governo geloo egli dimostra di avere le risorse economiche e le possibilità di mettere su una scuderia vincente. La coppia Gelone-Ierone, dietro cui si può indovinare il legame Siracusa-Gela, si ripropone più unita che mai al tempo del conflitto di Imera. Una testimonianza un po’ problematica di Eforo,27 su cui si tornerà ancora, ricorda addirittura l’entusiasmo di Ierone e il suo desiderio di correre in aiuto dei Greci e sembra suggerire l’idea di una comunione di intenti con il fratello e di una collaborazione tra Gela e Siracusa. D’altra parte, questa partecipazione alla battaglia di Imera costituirà uno dei punti di forza della propaganda ieroniana, qualche anno più tardi, quando il Dinomenide tenterà di affiancarsi, e talora di sostituirsi, al fratello nel rivendicare la vittoria contro il “barbaro”. Ma il vessillo antibarbarico sventolato da Ierone sarebbe rimasto privo di qualsiasi credibilità se Gela e il suo tiranno di allora non avessero partecipato alla battaglia.28 Al contrario, la sensazione che si ha è che la colonia rodio-cretese, benché prosciugata di abitanti, continuasse a esercitare una funzione di rilievo di concerto con Siracusa, se non proprio dal punto di vista strategico, quanto meno da quello diplomatico e sacrale.29 Dimostrazione ne è la costruzione del tempio dorico C, voluta forse proprio dai tiranni durante il grande boom edilizio che seguì la vittoria contro i Cartaginesi.30 Un prezioso e concreto supporto logistico, al tempo della battaglia di Imera, sarà venuto da Gela sotto forma di approvvigionamenti di grano da destinare alle truppe, come sembra di potere dedurre dalla promessa di Gelone agli ambasciatori greci, venuti a chiedergli sostegno nel conflitto contro i Persiani, di fornire le riserve di grano per tutta la durata della guerra.31 E considerato il fatto che, 24 Nicosia 1990 e Mann 2001, 243-244. 25 Cfr. Paus. vi 9, 4 e Moretti 1957, 84 n. 185. 26 Moretti 1957, 90 n. 221. 27 Eph. FGrHist 70 F 186. 28 Sull’impegno antipunico di Gela al tempo di Gelone e sulla partecipazione di Ierone alla battaglia di Imera cfr. Sartori, 1988, 77-93. 29 Cfr. Van Compernolle 1957. 30 Cfr. Panvini, 1996, 87-88. 31 Hdt. vii 158, 4. Stando ad una delle epistulae (vii 746 Hercher) pseudotemi-

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fino a qualche anno prima, proprio il maggiore dei Dinomenidi, allora signore di Gela, aveva rifornito di grano la repubblica romana in serie difficoltà,32 è ipotizzabile che la sua città di origine avesse proprio la funzione di approvvigionare le truppe in caso di guerra.33 Anche il progressivo esodo della popolazione sarà stato pianificato nella politica dei Dinomenidi che a loro volta proseguirono sulla scia tracciata da Ippocrate. Per i primi anni Ierone esercitò la sua tirannide su un territorio ormai indubbiamente periferico ma che traeva la sua importanza dal fatto di essere pur sempre un satellite di Siracusa. E non è escluso che questa dipendenza rientrasse in un disegno politico-strategico particolarmente raffinato in cui il regista, Gelone, aveva attribuito alla tirannide geloa il carattere di una sorta di “vassallaggio” necessario per la successione al trono di Siracusa.34 Probabilmente, infatti, a questo periodo risale anche il matrimonio di Ierone con la figlia del siracusano Nicocle, personaggio assolutamente ignoto, ma di cui si può presupporre l’appartenenza al ceto aristocratico. Questa unione avvenne verosimilmente col plauso di Gelone;35 proprio da questa donna siracusana nascerà Dinomene erede designato della dinastia.36 Le nozze dunque potevano rappresentare una sorta di manovra strategica in vista del suo avvicendamento al trono di Siracusa. Alla situazione politica, venuta fuori dopo la battaglia di Imera, dovrebbe attribuirsi invece il matrimonio tra Ierone e la figlia di Anassistoclee, un carico di grano arrivò ai Greci da parte di Gelone. Gela è ricordata inoltre come pyrophoros in Aesch. Fr. Eleg. 4 Bergk, PLG ii 457. 32 Dion. Hal. Ant. Rom. vii 1, 4-5; Liv. ii 34, 3-7. Contra Gallo 1992, 383 e ss. che non ritiene sia Gela la località di approvvigionamento di Roma. 33 Che tanto Gelone quanto Ierone fossero in grado di disporre di quantitativi di grano piuttosto elevati emerge anche da una testimonianza di Teopompo FGrHist 115 F 193, riportata da Ateneo vi 232 b, secondo la quale il secondo Dinomenide, già tiranno di Siracusa, come sembra di potere evincere dall’appellativo ï ™˘Ú·ÎfiÛÈÔ˜, avrebbe offerto al corinzio Architele del grano in cambio dell’oro necessario alla costruzione dei donari da dedicare a Delfi. A proposito della disponibilità cerealicola dei Dinomenidi cfr. Nenci 1993; Fantasia 1993 e Mafodda 2004. Sull’episodio si tornerà in seguito, cfr. infra p. 164. 34 Del resto Gelone non doveva essere nuovo a queste operazioni se aveva affidato già in precedenza il governo di Camarina a Glauco di Caristo (cfr. Schol. Aeschin. In Ctes. 429a Dilts). 35 Secondo Mafodda 1996, 82 nel matrimonio tra la figlia di Nicocle e Ierone è da leggersi l’adesione politica dell’aristocrazia siracusana al governo di Gelone. 36 Cfr. Schol. Pind. Pyth. i 112 e, sulla cronologia dei matrimoni di Ierone, ancora Van Compernolle 1959, 385.

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lao.37 Ed è questo un segnale che confermerebbe la partecipazione incondizionata del tiranno di Gela alle attività militari del fratello con cui, a buon diritto, sente di potere condividere il trionfo. Dai dati finora analizzati non emerge alcun intento relegativo; anzi, forse, il controllo su Gela, patria della famiglia, veniva ad assumere nella visione e nei progetti di Gelone quasi la funzione di un periodo di iniziazione, una sorta di palestra atta a preparare ad una tirannide ben più onerosa dal punto di vista politico-militare e molto più prestigiosa. Sarà per questo che siffatte modalità di passaggio e trasmissione del potere da un Dinomenide all’altro sembrano avere un carattere, per così dire, “rituale”. Lo stesso schema seguirà la successione di Ierone nel momento in cui, secondo le disposizioni del fratello, egli si trasferirà a Siracusa lasciando a Polizelo il controllo su Gela. Significativo è poi il timore di Ierone di fronte al successo riscosso dal fratello, nella versione tramandata da Diodoro, presso i Siracusani.38 È possibile ritenere che l’ansia di Ierone fosse da collegare col fatto che, mentre egli era sul trono di Gela, Polizelo aveva intanto intrecciato legami con l’aristocrazia siracusana, mettendo in forse l’“automatismo” della successione. È possibile inoltre ipotizzare che il modello di Gelone non sia stato seguito solo in relazione alla trasmissione dei poteri, ma che Ierone abbia proseguito anche la sua politica demografica, continuando a spopolare Gela a vantaggio di Siracusa, portando quindi a termine, nel corso del suo “mandato” siracusano, quel processo avviato e patrocinato prima da Ippocrate e poi da Gelone. Diodoro, infatti, raccontando gli eventi dell’anno 461-460 a. C., inserisce i Geloi nel novero delle popolazioni cacciate dalle proprie città sotto la dynasteia di Ierone39 che, insieme agli Agrigentini, agli Imeresi, agli Zanclei, ai Reggini e soprattutto agli abitanti di Catania, sono indicati come protagonisti di un movimento di ritorno volto ad azzerare i risultati delle operazioni di “ingegneria demografica” e di chirurgia etnica volute dai Dinomenidi. Su questo passo torneremo più avanti, ma è opportuno sottolineare quanto lo storico dichiara a proposito di Camarina: In seguito, i Geloi, che avevano âÍ àگɘ colonizzato Camarina, ne divisero in lotti il territorio. Lecito sarebbe dedurre da ciò che, dopo la caduta dei Dinomenidi, i 37 Cfr. Schol. Pind. Pyth. i 112; Bruno Sunseri 1987, 52. 38 Diod. xi 48. In Sicilia secondo la versione timaica Fg rHist. 566 F 93 b. 39 Diod. xi 76. Secondo Asheri 1980, 147-148 l’affermazione di Diodoro sarebbe invece tendenziosa, inesatta e da attribuire ad una fonte progeloniana ma, vista in questo quadro, la notizia dello storico assume tutt’altro valore.

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Geloi non solo tornarono nella loro patria, ma vollero comunque esercitare il loro atavico ius soli su Camarina, risultato dell’azione politica di Ippocrate e della sua pressione su Siracusa. Se al tempo di Gelone la distruzione della colonia siracusana appena rifondata fu presumibilmente accettata in nome della ragion di stato,40 del tutto ingiustificato doveva apparire negli anni sessanta del v secolo il mancato sfruttamento di un territorio appartenente a Gela di diritto. Dire poi che a tornare furono proprio quei Geloi che erano stati parte del corpo coloniale organizzato da Ippocrate, significherebbe forzare eccessivamente il testo diodoreo, anche se non è del tutto da escludere. La ricostruzione che abbiamo proposto dei primi anni della carriera di Ierone come tiranno di Gela induce a concludere che la città, sebbene svuotata a causa di tagli consistenti alla popolazione, avrebbe tuttavia continuato a svolgere un’importante funzione di supporto alla tirannide siracusana. Ierone tuttavia, pur garantendo al fratello un appoggio logistico e militare e muovendosi nel solco della tradizione, riuscì a ritagliarsi una propria sfera di intervento, proiettandosi subito sull’orizzonte ellenico con la partecipazione ai giochi panellenici. Del resto, la situazione determinatasi a Gela, dopo il trasferimento di Gelone a Siracusa, e poi tutto il fermento precedente alla battaglia di Imera, le ambascerie greche, il pericolo cartaginese, la nascita del fronte Agrigento-Siracusa, lasciavano ben poco tempo per pensare alla politica interna di una città svuotata o ad un espansionismo infruttuoso. Ma Ierone era comunque un tiranno, forse con una popolazione esigua41 su cui governare, ma pur sempre un tiranno. La sua carica na40 È probabile che Camarina si fosse ribellata al dominio di Gelone. Sappiamo dagli scoli a Eschine (Schol. Aeschin. In Ctes. 429a Dilts) che Glauco di Caristo, tiranno vicario della colonia siracusana, fu condannato a morte dai Camarinesi e forse fu in seguito a quella crisi che il Dinomenide decise di spopolare la città. A questo proposito cfr. Luraghi 1994, 150-160. 41 Una conferma all’ipotesi che vede Gela in posizione subalterna rispetto a Siracusa in età dinomenide può essere cercata anche in ambito archeologico. La città che, nei primi venticinque anni del v secolo, aveva svolto un ruolo politico ed economico di grande importanza, nel periodo che va dalla tirannide di Ierone alle guerre puniche, sembra vivere una stasi sul piano urbanistico, segno che il grande fermento edilizio, seguito alla battaglia di Imera, era ormai cessato. Tuttavia, a parziale conferma della funzione di Gela quale centro di rilievo cultuale per tutto il v secolo, si prendano gli ex-voto e le offerte di oggetti dedicati a Demetra e Kore e ad altre divinità. Sul culto di Demetra e Kore a Gela cfr. Hinz 1998, 55-69. Una rilettura dei dati archeologici e storici su Gela, dalla fondazione all’età romana, è stata proposta da Panvini 1996, passim; Ead. 2000; Ead. 2005, 104-105. Sulla storia di Gela cfr. inoltre Anello 1999a, 385-409 e Raccuia 2000.

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sceva per emanazione dall’autorità di Gelone. Una politica di più ampio respiro e con un imponente apparato propagandistico si addiceva di più alla tirannide siracusana e per sette anni Ierone aspettò questo momento all’ombra del fratello.

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DA GELA A SIRACUSA L’ e r e d i tà d i f f i c i l e di G e lon e

I

l momento del riscatto di Ierone e del suo avvicendamento al trono siracusano, secondo Diodoro, giunse nell’anno 478.42 Era un periodo particolarmente florido per l’isola: il pericolo cartaginese si era trasformato solo in un brutto ricordo e Gelone esercitava la sua prostasia sui Sicelioti garantendo alle città eunomia ed euporia. La vittoria di Imera aveva conferito dunque al principe dei Siracusani la stima e il rispetto di gran parte degli abitanti della Sicilia agli occhi dei quali egli appariva come un protettore valido e coraggioso. Questo riconoscimento, tuttavia, deve essere stato tutt’altro che automatico se, come precisa Diodoro,43 il Dinomenide aveva sentito la necessità di rendere conto del proprio operato di fronte all’assemblea dei Siracusani. Servendosi in maniera piuttosto singolare dell’istituto democratico delle euthynai, Gelone, presentatosi inerme davanti alla cittadinanza, rese conto di tutta la sua vita e di quanto ai Siracusani era stato fatto da parte sua.44 Dalla folla riunita il sovrano raccolse acclamazioni e, lungi dall’essere punito come un tiranno, fu salutato come ÂéÂÚÁ¤Ù˘, ÛˆÙ‹Ú, ‚·ÛÈχ˜.45 Così termina la cronaca sul rendiconto di Gelone all’assemblea, con una climax che sembra funzionale a mettere in risalto l’inattesa reazione della popolazione siracusana. L’esigenza di rimettersi al giudizio della cittadinanza lascia trasparire la volontà da parte del vincitore di Imera di verificare il bacino di consensi su cui la dinastia dinomenide poteva ancora contare. Del resto, mantenere il controllo di una città come Siracusa, su cui Gelone era intervenuto in maniera decisamente traumatica, doveva essere abbastanza impegnativo. La popolazione siracusana era stata costruita quasi a tavolino: Camarinesi, Megaresi, Eubei e Geloi46 erano confluiti nella città, trasformando la più prestigiosa delle icone corinzie in poco 42 Diod. xi 38. 43 Diod. xi 26. 44 Diod. xi 26, 6. L’episodio di Gelone che, davanti all’assemblea, presenta un dettagliato rendiconto delle spese, delle armi e delle triremi utilizzati a Imera viene annoverato tra gli stratagemata da Polieno ( i 27, 1). Cfr. su questo aneddoto anche Ael. V. H. vi 11; xiii 37. 45 L’uso di questa terminologia riconducibile all’età ellenistica è sembrata anacronistica. A questo riguardo cfr. le riflessioni di Hofer 2000, 13 e di Currie 2005, 170. 46 Cfr. supra p. 29 e ss.

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più che un simulacro, in cui la presenza di coloni della madrepatria era ormai soffocata dall’inserimento di questi nuovi cittadini. Una miscela esplosiva di identità etniche diverse che, per essere controllata, aveva bisogno di tutta l’autorità del campione di Imera. Ma, una volta venuto meno Gelone, composito e preoccupante era lo scenario che si presentava al suo successore. Il Dinomenide con la sua morte lasciava aperti e irrisolti diversi problemi. Se è vero, infatti, che, nel periodo successivo al trionfo sui Cartaginesi, la Sicilia visse un periodo di grande pace e splendore, altrettanto innegabile è che, sull’altare della causa siracusana e di Imera, Gelone aveva dovuto immolare il consenso internazionale e i rapporti con le poleis d’oltremare. Il controllo di Siracusa, con relativo sinecismo, dovette ridimensionare innanzitutto le relazioni con Corinto. Dopo l’intervento diplomatico dei Corinzi e dei Corciresi, in favore della colonia, dopo la battaglia contro Ippocrate sul fiume Eloro,47 il legame si fece sempre più formale. L’unica notizia sui contatti tra colonia e madrepatria, durante il governo di Gelone, ci viene da Diodoro che ricorda che fu una nave corinzia ad avvisare i Siracusani della vittoria dei Greci a Salamina.48 Senza contare poi che il rifiuto opposto agli ambasciatori greci venuti a chiedere aiuto in occasione dell’assalto di Serse alla Grecia doveva avere messo in cattiva luce l’immagine dei Dinomenidi all’estero. Queste erano dunque le problematiche che il governo di Gelone lasciava aperte: irrigidimento delle relazioni col mondo ellenico, principalmente con Sparta e Atene che avevano dovuto raccogliere un rifiuto e registrare la sua arroganza; raffreddamento dei rapporti con la madrepatria, logica conseguenza del sinecismo. Sul fronte interno le cose andavano certo meglio ma, se il tiranno aveva ormai guadagnato la lealtà della popolazione siracusana e il favore dei Sicelioti, non era detto che così fosse anche per il suo successore. R e g g e nza e s ucc e s s i on e Sulla trasmissione dinomenide del potere piuttosto vivo è stato il dibattito tra gli studiosi. Già a proposito della parentesi geloa è stato mostrato come, fino a quel momento, si fosse mantenuto un criterio di successione di tipo orizzontale che prevedeva il passaggio del potere da fratello a fratello.49 Questo schema, probabilmente suggerito dallo 47 Hdt. vii 154, 3. 48 Diod. xi 26, 5. 49 Anche prima a Gela – come testimonia Erodoto (cfr. supra p. 27) – la tirannide

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sdoppiamento delle sedi su cui esercitare il potere, è stato messo in discussione da altre testimonianze relative proprio al momento dell’insediamento di Ierone.50 Le notizie sul principe e soprattutto sull’inizio della sua tirannide a Siracusa sono infatti piuttosto eterogenee. La tradizione sui suoi primi anni di governo siracusani appare piuttosto confusa e costruita in base a successive sovrapposizioni di dati. Per ricostruire quindi le prime fasi della sua tirannide, prima di arrivare ai grossi eventi quali la la fondazione di Etna e la vittoria di Cuma, è necessario scomporre le informazioni tramandate dagli storici e procedere analizzando brevi intervalli di tempo. È Diodoro a raccontare il momento dell’ascesa al trono siracusano. Una rilettura della sua testimonianza può offrire una prospettiva diversa alla successione dinomenide e soprattutto può aiutare a ricostruire gli ultimi momenti della vita di Gelone e il modo in cui il suo potere fu trasferito al fratello. Lo storico, in merito, dice molto di più di quanto finora sia stato letto. Dopo il ricordo della pace generale diffusasi sull’isola sotto l’autorità di Gelone, Diodoro continua raccontando delle disposizioni testamentarie stabilite dal sovrano in merito al suo seppellimento. Una legge in vigore a Siracusa aveva abolito i funerali sontuosi e le spese che si sostenevano per i defunti. Gelone, volendo rispettare in tutto la volontà del popolo, mantenne la legge anche riguardo ai suoi funerali.51 A questo punto Diodoro passa a raccontare gli ultimi momenti della vita del tiranno: ñe ÁaÚ àÚÚˆÛÙ›·˜ Û˘Ó¯fiÌÂÓÔ˜ ηd Ùe ˙ÉÓ àÂÏ›Û·˜, ÙcÓ ÌbÓ ‚·ÛÈÏ›·Ó ·Ú¤‰ˆÎÂÓ ^I¤ÚˆÓÈ Ù† ÚÂÛ‚˘Ù¿ÙÅ ÙáÓ à‰ÂÏÊáÓ, ÂÚd ‰b Ùɘ ë·˘ÙÔÜ Ù·Êɘ âÓÂÙ›ϷÙÔ ‰È·ÛÙÂÏÏfiÌÂÓÔ˜ àÎÚȂᘠÙËÚÉÛ·È Ùe ÓfiÌÈÌÔÓ. ‰Èe ηd ÙÂÏÂ˘Ù‹Û·ÓÙÔ˜ ·éÙÔÜ ÙcÓ âÎÊÔÚaÓ Î·Ùa ÙcÓ â·ÁÁÂÏ›·Ó ·éÙÔÜ Û˘ÓÂÙ¤ÏÂÛÂÓ ï ‰È·‰ÂÍ¿ÌÂÓÔ˜ ÙcÓ ‚·ÛÈÏ›·Ó.

Afflitto da una malattia e disperando di vivere aveva affidato la basileia a Ierone, il più vecchio dei fratelli, raccomandandogli di rispettare scrupolosamente la regola relativa al suo seppellimento. Perciò quando egli morì, il suo successore celebrò i funerali secondo le sue indicazioni. Diod. xi 38, 3 aveva seguito un criterio di successione orizzontale passando da Cleandro al fratello Ippocrate e – se Gelone non avesse impresso alla storia una direzione diversa – il potere sarebbe stato trasmesso ai figli di Ippocrate, Euclide e Cleandro (Hdt. vii 155). Sulle modalità di trasmissione del potere tra i Dinomenidi cfr. Luraghi 1994, 321-334. 50 Cfr. infra p. 44. 51 A questo riguardo cfr. Brugnone 1992.

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Il testo è piuttosto ambiguo, ma se si dà al verbo ·Ú·‰›‰ˆÌÈ il senso generico di “consegnare” ne risulta che il sovrano, oppresso dalla malattia e disperando delle sue aspettative di vita, consegnò la basileia al più vecchio52 dei fratelli. Diodoro dunque potrebbe aver voluto dire che Gelone lasciò tutto nelle mani del fratello – come reggente verosimilmente – quando era ancora in vita e le sue ultime disposizioni da sovrano riguardarono proprio la sepoltura.53 Il verbo ·Ú·‰›‰ˆÌÈ, tra l’altro, usato di frequente in contesti di trasmissione e cessione del potere, sembra talora marcare una relazione di reciprocità asimmetrica in cui colui che compie il gesto della paradosis si trova in una posizione di scacco o di difficoltà anche transitoria rispetto a chi riceve.54 È difficile comunque dedurre dal testo quanto tempo ancora visse il Dinomenide, dopo avere delegato il regno al fratello, ma è evidente che, se Ierone non fosse stato il successore designato, non avrebbe potuto mai aspirare al trono mentre il legittimo sovrano era ancora in vita. La malattia di Gelone del resto, dovette avere un decorso relativamente lungo. Secondo i commentatori di Pindaro55 il campione di Imera era affetto da idropisia, malattia mortale stando al corpus hippocraticum, ma, certo, non fulminante.56 Diodoro57 racconta, nel quadro degli avvenimenti successivi alla battaglia di Imera, dell’inizio della costruzione di un tempio in onore di Demetra nella regione dell’Etna.58 Secondo lo storico, Gelone non riuscì a portare a termine l’opera perché sorpreso dal fato. È possibile 52 L’espressione usata da Diodoro potrebbe anche lasciare intendere che Ierone non fosse necessariamente più giovane di Gelone, come generalmente si ammette, ma in ogni caso approfondire questo particolare non aiuterebbe comunque la ricostruzione. Ad ogni modo tale possibilità è stata presa in considerazione da Pugliese-Carratelli 1932 e, 16 n. 2. Cfr. anche Luraghi 1994, 327. 53 Le traduzioni moderne sono piuttosto vaghe ma conservano il senso della trasmissione del potere: Oldfather nell’edizione Loeb (1956, 225) rende: for when he fell ill and he had given up hope of life, he handed over the kingship to Hieron, his eldest brother… Allo stesso modo Haillet nell’edizione CUF (2001, 53) traduce: Atteint d’une maladie et n’ayant plus l’espoir de vivre, il transmit la royauté à Hiéron, le plus âgé de ses frères…. 54 A questo proposito cfr. Bonanno 2009b, 67-70. 55 Schol. Pind. Pyth. i 89 a; Plut. De Pyth. Or. 19 =Mor. 403 c. 56 La malattia portava ad un forte deperimento fisico che debilitava l’organismo, fino a provocare la morte; cfr. Hippocr. Prog., 8; Aff., 22. 57 Diod. xi 26, 8. 58 Secondo Galvagno 2001, quello di costruire un tempio in onore di Demetra sarebbe stato solo un progetto che Gelone non riuscì nemmeno a cominciare e spettò poi a Ierone farsi esecutore delle volontà del fratello defunto.

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dunque ipotizzare che, già qualche mese dopo il trionfo di Imera, negli ultimissimi mesi del 479 a. C., la salute del sovrano avesse cominciato a vacillare e che, nella prima parte del 478 a. C., fosse avvenuto il passaggio delle consegne al fratello, ma la successione vera e propria si ebbe solo alla morte del legittimo sovrano qualche mese più tardi.59 Una conferma in questo senso la si potrebbe cercare nel passo di Aristotele di cui si è già discusso,60 secondo cui Gelone governò per sette anni e morì nell’ottavo; il che potrebbe significare, per l’appunto, che il primo tiranno di Siracusa non fu al governo fino alla morte.61 Alla scomparsa del fratello, Ierone ne rispettò le volontà, proponendosi, sin dal principio, come continuatore di quella politica di conciliazione con la popolazione siracusana che Gelone aveva inaugurato dopo Imera. Nessun dubbio dunque: Ierone era il successore legittimo e la tirannide di Siracusa gli spettava per volontà del suo predecessore. Un predecessore la cui autorità era stata riconosciuta dal plauso popolare proprio in assemblea. Così era, almeno a livello formale, ma i problemi non tardarono ad arrivare. Il nome di Ierone tornerà tra le pagine diodoree due anni dopo, in un momento in cui la tirannide navigava in pessime acque e il tiranno si trovava a dover difendere la sua autorità legittima da mille insidie. L e f ont i s ul l ’ as c e sa a l t ron o Le notizie su questi avvenimenti, raccolte oltre che in Diodoro anche negli scolii a Pindaro, ci sono pervenute in diverse versioni, talora contrastanti, il cui contenuto è stato finora analizzato più dal punto di vista della tradizione storiografica che da quello propriamente storico. Per agevolarne la lettura e la comprensione è opportuno riproporne la lettura sinottica già presentata da Luigi Piccirilli che si è occupato, in un articolo fondamentale, dell’analisi di questi passi.62 59 E questo concorda col computo degli anni di governo di Ierone, secondo Diodoro, che ne colloca la morte nel corso del 466 a. C. Cfr. Diod. xi 67. 60 Aristot. Pol. v 12, 1315 b 35. 61 Aristotele però, come si è visto (cfr. supra p. 25 n. 4), attribuisce alla tirannide di Ierone la durata di soli 10 anni. La confusione però potrebbe essere stata generata proprio dalle contese dinastiche che seguirono la morte di Gelone e di cui si tratterà nelle prossime pagine. Se si accetta infatti il 466 a. C., ovvero la data diodorea per la morte di Ierone, si risalirebbe allora al 476 a. C.; anno in cui, come vedremo, si verificarono alcuni degli avvenimenti più significativi della tirannide ieroniana, di cui costituiranno, per così dire, la chiave di volta. La confusione nelle fonti potrebbe essere nata dall’anomalo procedimento con cui si realizzò la successione Gelone-Ierone. 62 Piccirilli 1971.

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dal la t i r anni d e d i g e la a l t ron o di s i r ac u s a VE TE R A Diod. XI 48

^I¤ÚˆÓ ‰b ï ‚·ÛÈÏÂf˜ ÙáÓ ™˘Ú·ÎÔÛ›ˆÓ ÌÂÙa ÙcÓ ÙÔÜ °¤ÏˆÓÔ˜ ÙÂÏ¢ÙcÓ ÙeÓ ÌbÓ à‰ÂÏÊeÓ ¶Ôχ˙ËÏÔÓ ïÚáÓ Âé‰ÔÎÈÌÔÜÓÙ· ·Úa ÙÔÖ˜ ™˘Ú·ÎÔÛ›ÔȘ, ηd ÓÔÌ›˙ˆÓ ·éÙeÓ öʉÚÔÓ ñ¿Ú¯ÂÈÓ Ùɘ ‚·ÛÈÏ›·˜, öÛ¢‰ÂÓ âÎÔ‰gÓ ÔÈ‹Û·Ûı·È, ·éÙe˜ ‰b ÍÂÓÔÏÔÁáÓ Î·d ÂÚd ·ñÙeÓ Û‡ÛÙËÌ· Í¤ÓˆÓ ·Ú·Û΢¿˙ˆÓ ñÂÏ¿Ì‚·ÓÂÓ àÛÊ·Ïᘠηı¤ÍÂÈÓ ÙcÓ ‚·ÛÈÏ›·Ó.

Schol. Pind. Ol. II 29 b

Schol. Pind. Ol. II 29 c

¶ÔÏ˘˙‹ÏÅ ÙÔ›Ó˘Ó Ù† ÙÔÜ ^I¤ÚˆÓÔ˜ à‰ÂÏʆ [^I¤ÚˆÓÈ Î·d £Ú·Û˘‚Ô‡ÏÅ £‹ÚˆÓ ÎˉÂÛÙ‹˜] °¤ÏˆÓÔ˜ [ÌÂÙa] ÙcÓ ÛÙÚ·ÙËÁ›·Ó ηd ÙcÓ Á˘Ó·Öη ¢ËÌ·Ú¤ÙËÓ Î·Ùa ÙcÓ ÙÂÏ¢ÙcÓ âÁÁ˘‹Û·ÓÙÔ˜, œÛÙ ≥ÓÂÚ Âr¯Â °¤ÏˆÓ Úe˜ £‹ÚˆÓÔ˜, Ù·‡ÙËÓ Âr¯Â ï ¶Ôχ˙ËÏÔ˜ Úe˜ °¤ÏˆÓÔ˜,…. Á·Ì‚ÚáÓ ÔsÓ ÁÂÁÔÓfiÙˆÓ ·éÙáÓ ^I¤ÚˆÓ Ï·ÌÚÔÜ ÙÈÓÔ˜ ÙÔÜ ¶ÔÏ˘˙‹ÏÔ˘ ñ¿Ú¯ÔÓÙÔ˜ ηd ÛÊfi‰Ú· ·Úa ÙÔÖ˜ ™ÈÎÂÏÈÎÔÖ˜ Âé‰ÔÎÈÌÔÜÓÙÔ˜ ñe ÊıfiÓÔ˘

ï £‹ÚˆÓ ı˘Á·Ù¤Ú· ë·˘ÙÔÜ âͤ‰ˆÎ Úe˜ Á¿ÌÔÓ ¶ÔÏ˘˙‹ÏÅ Ù† à‰ÂÏʆ ^I¤ÚˆÓÔ˜,

Schol. Pind. Ol. II 29 d = Tim. FGrHist 566 F 93b £‹ÚˆÓ ï ÙáÓ \AÎÚ·Á·Ó Ù›ÓˆÓ ‚·ÛÈÏÂf˜ °¤ÏˆÓÈ Ù† ^I¤ÚˆÓÔ˜ à‰ÂÏʆ âÈÎˉ‡۷˜ Á¿ÌÅ Û˘Ó¿ÙÂÈ ÙcÓ ë·˘ÙÔÜ ı˘Á·Ù¤Ú· ¢ËÌ·Ú¤ÙËÓ, àÊã w˜ ηd Ùe ¢ËÌ·Ú¤ÙÂÈÔÓ ÓfiÌÈÛÌ· âÓ ™ÈÎÂÏ›0. ÙÔÜ ‰b °¤ÏˆÓÔ˜ ÙÂÏ¢ÙÄÓ ÙeÓ ‚›ÔÓ Ì¤ÏÏÔÓÙÔ˜, ¶Ôχ˙ËÏÔ˜ ï à‰ÂÏÊe˜ ÙcÓ ÛÙÚ·ÙËÁ›·Ó ηd ÙcÓ Á·ÌÂÙcÓ ÙÔÜ à‰ÂÏÊÔÜ ‰È·‰¤¯ÂÙ·È Î·Ùa Ùa˜ °¤ÏˆÓÔ˜ ÚÔÛÙ¿ÍÂȘ, œÛÙ Ùe £‹ÚˆÓÔ˜ Âå˜ °¤ÏˆÓ· ÎɉԘ Âå˜ ÙeÓ ¶Ôχ˙ËÏÔÓ ÌÂÙ·ÙÂıÂÖÛı·È. Ï·ÌÚ† ‰b ·éÙ† ηd ÂÚȂϤÙÅ Ù˘Á¯¿ÓÔÓÙÈ Î·Ùa ÙcÓ ™ÈÎÂÏ›·Ó ^I¤ÚˆÓ ÊıÔÓ‹Û·˜ ï à‰ÂÏÊe˜

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Diod. XI 48 Ierone basileus dei Siracusani dopo la morte di Gelone vedendo che il fratello Polizelo godeva di buona fama presso i Siracusani e ritenendo che fosse pronto a sostituirlo al governo, cercava un modo per allontanarlo. Intanto arruolando e disponendo una guardia personale di soldati stranieri, pensava che in tal modo avrebbe reso sicuro il suo regno.

Schol. Pind. Ol. II 29 b

Schol. Pind. Ol. II 29 c

Avendo Gelone consegnato a Polizelo fratello di Ierone [Terone era imparentato con Ierone e Trasibulo] insieme alla strategia anche la moglie Damarete al momento del sua morte, come Gelone l’aveva avuta in moglie da Terone, così Polizelo da Gelone,... divenuti dunque parenti Ierone poiché Polizelo godeva di una certa popolarità ed era molto ben voluto presso gli abitanti della Sicilia per invidia...

Terone diede sua figlia in sposa a Polizelo fratello di Ierone

45 Schol. Pind. Ol. II 29 d63 = Tim. FGrHist 566 F 93b

...Terone basileus degli Agrigentini imparentatosi con Gelone, fratello di Ierone gli diede in moglie sua figlia Damarete, dalla quale viene il Damarateion,64 moneta di Sicilia. Quando Gelone stava per morire il fratello Polizelo gli succedette alla strategia secondo le disposizioni di Gelone, così la parentela che legava Terone a Gelone passò a Polizelo. Poiché egli era diventato famoso e celebre in Siclia il fratello Ierone prese ad invidiarlo

63 È opportuno ricordare anche lo schol. rec. Ol. ii 29 Th che costituisce semplicemente una parafrasi della testimonianza timaica riportata nello scolio ii 29 d, ma che contiene la notizia del matrimonio tra Ierone e la nipote di Terone presente in ii 29 c, riconducibile a Filisto, per il tramite dello stesso Timeo. A questo proposito cfr. Piccirilli 1971, 77-79. 64 Sul Damarateion cfr. la discussione in Rutter 1993, 172-188 e in Privitera 2004, 465-483.

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Diod. XI 48 ‰Èe ηd ™˘‚·ÚÈÙáÓ ÔÏÈÔÚÎÔ˘Ì¤ÓˆÓ ñe KÚÔÙˆÓÈ·ÙáÓ Î·d ‰ÂÔÌ¤ÓˆÓ ‚ÔËıÉÛ·È, ÛÙÚ·ÙÈÒÙ·˜ ÔÏÏÔf˜ η٤ÁÚ·„ÂÓ Âå˜ ÙcÓ ÛÙÚ·ÙÈ¿Ó, mÓ ·Ú‰›‰Ô˘ ¶ÔÏ˘˙‹ÏÅ Ùà‰ÂÏʆ ÓÔÌ›˙ˆÓ ·éÙeÓ ñe ÙáÓ KÚÔÙˆÓÈ·ÙáÓ àÓ·ÈÚÂı‹ÛÂÛı·È. ÙÔÜ ‰b ¶ÔÏ˘˙‹ÏÔ˘ Úe˜ ÙcÓ ÛÙÚ·Ù›·Ó Ôé¯ ñ·ÎÔ‡Û·ÓÙÔ˜ ‰Èa ÙcÓ ®ËıÂÖÛ·Ó ñÔ„›·Ó, ‰Èã çÚÁɘ Âr¯Â ÙeÓ à‰ÂÏÊfiÓ, ηd Ê˘ÁfiÓÙÔ˜ Úe˜ £‹ÚˆÓ· ÙeÓ \AÎÚ·Á·ÓÙ›ÓˆÓ Ù‡Ú·ÓÓÔÓ, ηٷÔÏÂÌÉÛ·È ÙÔÜÙÔÓ ·ÚÂÛ΢¿˙ÂÙÔ.

Schol. Pind. Ol. II 29 b

Schol. Pind. Ol. II 29 c

Ùe ÌbÓ ÚáÙÔÓ Âå˜ àÓÔÈÎÈÛÌeÓ ·éÙeÓ ™˘‚¿Úˆ˜ âͤÂÌ„Â, Ù† ÌbÓ ÏfiÁÅ ¯ÚËÛÙcÓ ·éÙ† ηd Ï·ÌÚaÓ âÏ›‰· ÙÈıÂd˜, ÙÔÖ˜ ‰b öÚÁÔȘ ÌÂÙ·ÛÙa˜ ·éÙeÓ âÎ Ùɘ ™ÈÎÂÏ›·˜

n˜ ÂÌÊıÂd˜ ñe ^I¤ÚˆÓÔ˜ ÔÏÂÌÉÛ·È ÙÔÖ˜ ÂÚÈÔ›ÎÔȘ ™ÈÎÂÏÈÒٷȘ ‚·Ú‚¿ÚÔȘ, ö·˘Û ÙeÓ fiÏÂÌÔÓ ¯ˆÚd˜ Ùɘ ÙÔÜ ^I¤ÚˆÓÔ˜ ÁÓÒÌ˘, ηd ‰Èa ÙÔÜÙÔ âÓ ñÊÔÚ¿ÛÂÈ qÓ.

Schol. Pind. Ol. II 29 d = Tim. FGrHist 566 F 93b ηd ÚfiÊ·ÛÈÓ ÛÎË„¿ÌÂÓÔ˜ ÙeÓ Úe˜ ™˘‚·Ú›Ù·˜ fiÏÂÌÔÓ, àÂÏ·‡ÓÂÈ Ùɘ ·ÙÚ›‰Ô˜. àÏÏa ηd ÙÔÜÙÔÓ Î·ÙÒÚıˆÛ ÙeÓ fiÏÂÌÔÓ ï ¶Ôχ˙ËÏÔ˜. ï ‰b Ìc Ê¤ÚˆÓ Á˘ÌÓfiÙÂÚÔÓ ·éÙÔÜ Î·ÙËÁÔÚÂÖÓ âÂÈÚÄÙÔ ÓˆÙÂÚÈÛÌÔÜ.

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Diod. XI 48 Perciò quando i Sibariti assediati dai Crotoniati chiesero aiuto, arruolò molti soldati in un esercito che consegnò al fratello Polizelo, pensando che avrebbe trovato la morte per mano dei Crotoniati. Ma poiché Polizelo non gli obbedì riguardo alla spedizione a causa del sospetto di cui si è detto, Ierone si adirò con il fratello ed essendo quest’ultimo fuggito presso Terone, tiranno di Agrigento, si preparava a fargli la guerra.

Schol. Pind. Ol. II 29 b

Schol. Pind. Ol. II 29 c

Prima lo inviò alla ricostruzione di Sibari, a parole riponendo in lui chiare e belle speranze, nei fatti perché voleva allontanarlo dalla Sicilia...

questi, mandato da Ierone a combattere contro i perieci barbari dei Sicelioti, mise fine alla guerra contro il parere di Ierone e per questo era visto con sospetto.

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Schol. Pind. Ol. II 29 d = Tim. FGrHist 566 F 93b e trovando come pretesto la guerra contro i Sibariti lo allontanò dalla patria. Ma Polizelo portò a termine anche questa guerra. E quello non sopportandolo provava ad accusarlo apertamente di tramare qualche rivolta.

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Diod. XI 48 MÂÙa ‰b Ù·ÜÙ· £Ú·Û˘‰·›Ô˘ ÙÔÜ £‹ÚˆÓÔ˜ âÈÛÙ·ÙÔÜÓÙÔ˜ Ùɘ ÙáÓ ^IÌÂÚ·›ˆÓ fiψ˜ ‚·Ú‡ÙÂÚÔÓ ÙÔÜ Î·ı‹ÎÔÓÙÔ˜, Û˘Ó¤‚Ë ÙÔf˜ ^IÌÂÚ·›Ô˘˜ à·ÏÏÔÙÚȈıÉÓ·È ·ÓÙÂÏᘠàã ·éÙÔÜ. Úe˜ ÌbÓ ÔsÓ ÙeÓ ·Ù¤Ú· ÔÚ‡ÂÛı·› Ù ηd ηÙËÁÔÚÂÖÓ à‰ÔΛ̷˙ÔÓ, ÓÔÌ›˙ÔÓÙ˜ Ôé¯ ≤ÍÂÈÓ úÛÔÓ àÎÔ˘ÛÙ‹ÓØ Úe˜ ‰b ÙeÓ ^I¤ÚˆÓ· Ú¤Û‚ÂȘ à¤ÛÙÂÈÏ·Ó Î·ÙËÁÔÚÔÜÓÙ˜ ÙÔÜ £Ú·Û˘‰·›Ô˘ ηd â·ÁÁÂÏÏfiÌÂÓÔÈ Ù‹Ó Ù fiÏÈÓ âΛÓÅ ·Ú·‰ÒÛÂÈÓ Î·d Û˘ÓÂÈı‹ÛÂÛı·È ÙÔÖ˜ ÂÚd ÙeÓ £‹ÚˆÓ·. ï ‰b ^I¤ÚˆÓ ÎÚ›Ó·˜ ÂåÚËÓÈÎᘠ‰È·Ï‡Û·Ûı·È Úe˜

Schol. Pind. Ol. II 29 b

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Schol. Pind. Ol. II 29 d = Tim. FGrHist 566 F 93b ηd Ô≈Ùˆ ÙeÓ £‹ÚˆÓ·, ñÂÚ·Á·Ó·ÎÙ‹Û· ÓÙ· ı˘Á·ÙÚe˜ ±Ì· ηd Á·Ì‚ÚÔÜ, Û˘ÚÚÉÍ·È Úe˜ ^I¤ÚˆÓ· fiÏÂÌÔÓ ·Úa °¤Ï0 Ù† ™ÈÎÂÏȈÙÈΆ Ôٷ̆, Ôy K·Ïϛ̷¯Ô˜ ̤ÌÓËÙ·È (fr. 361)Ø Ôî ‰b °¤Ï0 Ôٷ̆ âÈΛÌÂÓÔÓ ôÛÙ˘. Ì‹ Á ÌcÓ Âå˜ ‚Ï¿‚ËÓ, Ìˉb Âå˜ Ù¤ÏÔ˜ ÚÔ¯ˆÚÉÛ·È ÙeÓ fiÏÂÌÔÓØ Ê·Ûd ÁaÚ ÙfiÙ ™È̈ӛ‰ËÓ ÙeÓ Ï˘ÚÈÎeÓ ÂÚÈÙ˘¯fiÓÙ· ‰È·ÏÜÛ·È ÙÔÖ˜ ‚·ÛÈÏÂÜÛÈ ÙcÓ ö¯ıÚ·Ó.

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Diod. XI 48 ÙeÓ £‹ÚˆÓ·, ÚÔ‡‰ˆÎ ÙÔf˜ ^IÌÂÚ·›Ô˘˜ ηd Ùa ‚‚ԢÏÂ˘Ì¤Ó· Ï·ıÚ·›ˆ˜ âÌ‹Ó˘ÛÂÓ. ‰ÈfiÂÚ £‹ÚˆÓ âÍÂÙ¿Û·˜ Ùa ηÙa ÙcÓ ‚Ô˘Ï‹Ó, ηd ÙcÓ Ì‹Ó˘ÛÈÓ àÏËıÈÓcÓ ÂñÚ›ÛΈÓ, Úe˜ ÌbÓ ÙeÓ ^I¤ÚˆÓ· ‰ÈÂχ۷ÙÔ Î·d ÙeÓ ¶Ôχ˙ËÏÔÓ Âå˜ ÙcÓ ÚÔ¸¿Ú¯Ô˘Û·Ó ÂûÓÔÈ·Ó àÔη٤ÛÙËÛÂ…

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Schol. Pind. Ol. II 29 d = Tim. FGrHist 566 F 93b

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Diod. XI 48 Poi, poiché Trasideo, figlio di Terone governava la città di Imera con eccessiva durezza, accadde che gli Imeresi si alienarono completamente da lui. Rifiutarono però di recarsi dal padre ad accusarlo, poiché ritenevano che non avrebbero avuto un ascoltatore imparziale e mandarono ambasciatori a Ierone ad accusare Trasideo, promettendo che gli avrebbero consegnato la città e si sarebbero uniti a lui nella guerra contro Terone. Ma Ierone giudicò di risolvere pacificamente la questione con Terone, tradì gli Imeresi e svelò i loro progetti segreti. Allora Terone esaminato il progetto e scoprendo che le rivelazioni di Ierone erano veritiere si riconciliò con lui e restituì Polizelo alla benevolenza di cui godeva prima …

Schol. Pind. Ol. II 29 b

Schol. Pind. Ol. II 29 c Avendo Trasideo figlio di Terone, persuaso Polizelo ad attaccare Ierone, promettendogli che lo avrebbe aiutato a impossessarsi del potere, avendolo saputo Ierone decise di attaccare Agrigento. Essendo gli amici sul punto di fare… il lirico Simonide mandò presso di lui (Terone) per dare consiglio, in realtà volendo piuttosto turbarlo, palesando il loro futuro tradimento e i traditori. (Terone) messo in guardia lasciò il potere a Ierone, poi riottenne da questi la tirannide e composero l’amicizia, tanto da stringere persino un vincolo di parentela fra loro, avendo preso Ierone in moglie la nipote di Terone. (Trad. Piccirilli 1973, 74)

Schol. Pind. Ol. II 29 d = Tim. FGrHist 566 F 93b E così Terone sdegnatosi per le traversie della figlia e del genero, si portò in armi contro Ierone presso Gela, fiume della Sicilia di cui Callimaco ricorda: “so che la città è sita presso il fiume Gela” Ma la guerra non ebbe né esito disastroso né fu condotta a termine. Si narra, infatti, che il poeta Simonide, intervenuto, compose l’amicizia fra i due re. (Trad. Piccirilli 1973, 75)

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A fornici le coordinate spazio-temporali in cui si collocano questi avvenimenti è ancora una volta Diodoro all’inizio del capitolo 48 dell’xi libro: Sotto l’arcontato di Fedone ad Atene, nell’anno della settantaseiesima Olimpiade, quella in cui vinse la gara dello stadio il Mitilenese Scamandrio; a Roma erano consoli Ceso Fabio e Spurio Furio Menelleo. In quell’anno morì Leotichida, re degli Spartani che aveva governato per ventidue anni e gli succedette al trono Archidamo che regnò per quarantadue anni. Morì anche Anassilao, tiranno di Reggio e di Zancle, che aveva governato per diciotto anni, gli succedette al regno Micito a cui fu affidata la tirannide perché la restituisse ai figli del tiranno, che erano ancora in giovane età.

Lo storico tralascia di ricordare che il 476 a. C. fu anche l’anno della consacrazione olimpica dello stesso Ierone, giunta probabilmente nel corso di un periodo piuttosto difficile per la tirannide siracusana.65 Era inoltre tempo di cambio della guardia ai vertici delle più prestigiose dinastie greche: prima Gelone e poi, a distanza di qualche tempo, lo spartano Leotichida e il reggino Anassilao erano venuti meno, mettendo in forse, seppure per brevissimo tempo, la solidità delle dinastie. Tutta l’introduzione diodorea ai fatti siciliani del 476 a. C. sembra piuttosto contratta, costruita su un gioco di omissioni e su una confusione cronologica che rende necessaria una ricostruzione puntuale degli eventi tramite il confronto con altre fonti e il recupero di rimandi interni alla stessa opera dello storico. Le diverse imprecisioni cronologiche e le sviste presenti nel testo, come per esempio l’incertezza in merito alla durata del governo di Archidamo,66 inducono a pensare che i fatti raccontati si siano in realtà svolti in un periodo più ampio ed è possibile che lo storico abbia selezionato a suo piacere le notizie sulla Grecia metropolitana e su quella occidentale, tralasciando eventi piuttosto significativi.67 65 Moretti 1957, 221. 66 Diodoro afferma che il regno di Archidamo durò quarantadue anni e ne registra la morte nel 434 a. C. (Diod. xii 35), ma nel 429 a. C., lo fa riapparire in occasione dell’assedio di Platea (Diod. xii 47) e nel 428 a. C. (Diod. xii 52) al tempo dell’invasione dell’Attica. A questo riguardo cfr. anche Paus. iii 7, 9-10 e Sordi 1976, 28. 67 Così la pensa anche De Sensi Sestito 1981, 628, n. 43 che osserva come l’espressione ÌÂÙa ÙcÓ ÙÔÜ °¤ÏˆÓÔ˜ ÙÂÏ¢ÙcÓ di Diod. xi 48, 3, si ricolleghi al discorso lasciato in sospeso in xi 38. Secondo la studiosa quanto Diodoro riporta sotto l’anno 476/475 a. C. non si riferisce solo a questo anno attico ma anche al precedente in cui, verosimilmente, si posero le premesse per lo scontro Ierone-Terone.

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La menzione della morte di Anassilao e l’investitura di Micito quale tutore dei figli minorenni del tiranno costituiscono un’ulteriore conferma in tal senso. Anche sul trono reggino la procedura di trasmissione del potere deve essere stata meno automatica e immediata di quanto Diodoro lascia intendere. E Ierone avrà modo di intervenire anche sul governo della polis dello Stretto. Al di là delle incogruenze e delle contraddizioni tra la testimonianza di Diodoro e quelle degli scolii, i passi presi in esame danno informazioni preziose sull’avvio della tirannide di Ierone a Siracusa e sembrano fornire – seppur a partire da prospettive ideologiche diverse – ragguagli precisi sulle direttrici politiche e sugli scenari militari, su cui il sovrano avrebbe dovuto impegnarsi. È dunque opportuno indagare sulle informazioni comuni e sui punti di convergenza senza trascurare le macroscospiche differenze tra queste tradizioni derivanti da orientamenti storiografici opposti. a) Timeo e Diodoro È dal brano di Diodoro, il più ricco d’informazioni sull’ascesa di Ierone al potere, che conviene partire. Secondo lo storico di Agirio, Ierone, il maggiore dei fratelli, aveva ereditato la basileia. Lo storico non sembra seguire una tradizione dichiaratamente sfavorevole a Ierone. Il tiranno, nel racconto diodoreo, rappresenta piuttosto un validissimo esempio di Realpolitik: allontana Polizelo perché troppo stimato in città, e quindi perché costituiva una reale minaccia per la stabilità politica di Siracusa, e risolve in modo molto cauto la crisi con Terone, denunciando la congiura degli Imeresi e prendendo la decisione di riappacificarsi con l’alleato di un tempo.68 Tutte le risoluzioni prese dal sovrano in questo periodo hanno il sapore di scelte ben ponderate, politicamente e strategicamente convenienti. L’assoluta arbitrarietà del comportamento di Ierone emerge invece dal racconto di Timeo in cui egli è sostanzialmente definito un “tiranno invidioso”.69 Nella testimonianza timaica si ricorda, tra l’altro, un intervento di Simonide nella vertenza che lo vide contrapposto a Terone, di cui Diodoro non fa alcuna menzione. Il ruolo effettivamente svolto dal lirico in questo frangente non è chiaro, anche perché 68 Diod. xi 48, 8: ï ‰b ^I¤ÚˆÓ ÎÚ›Ó·˜ ÂåÚËÓÈÎᘠ‰È·Ï‡Û·Ûı·È Úe˜ ÙeÓ £‹ÚˆÓ·. A questo proposito cfr. Bonanno in c.d.s. 69 Il tema dello phthonos del tiranno è presente anche nello scolio Ol. ii 29b, attribuito a Didimo, anch’esso di tradizione timaica. Cfr. Piccirilli 1973, 77.

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il testo è lacunoso, ma sembra di potere intravedere nella figura di Simonide quasi una sorta di deus ex machina,70 che si assume il compito di mediare tra le due parti. Tutto il passo di Timeo è percorso da una chiara ostilità nei confronti di Ierone che sembra addirittura mettere in forse la legittimità del suo diritto di successione. Fin dalle prime battute sembra di potere capire che la sua autorità poggiava sull’assoluta illegalità proprio perché contravveniva alle decisioni dell’ormai defunto archon Sikelias.71 Le divergenze tra la versione di Diodoro e quella di Timeo sono così evidenti da consentire l’ipotesi dell’utilizzo di fonti diverse e di differente orientamento: l’una, se non favorevole almeno non ostile al tiranno, l’altra di indubbia tendenza antiieroniana.72 Individuare, però, le fonti che stanno alla base delle ricostruzione di Diodoro e di Timeo, è un’operazione assolutamente necessaria. Che la fonte di Diodoro, nonostante l’opinione di qualche studioso,73 non possa essere lo stesso Timeo sembra un dato incontrovertibile. I due racconti non presentano differenze sostanziali. La cifra fondamentale è infatti la pericolosità della figura di Polizelo per la stabilità della tirannide di Ierone, ma le divergenze messe in rilievo appaiono essere chiaro indice di due diverse linee di lettura e di orientamenti riconducibili a filoni contrapposti. Un’analisi acuta e approfondita della questione degli scolii alla Olimpica ii di Pindaro è stata proposta da Luigi Piccirilli74 che ha individuato in Filisto filtrato da Eforo la fonte di Diodoro. Ed effettivamen70 Secondo Piccirilli 1971, 77 e n. 1 la mediazione di Simonide così come è raccontata da Timeo sembra avere qualcosa di prodigioso e risulta in piena armonia con l’accusa di ‰ÂÈÛȉ·ÌÔÓ›· che Polibio rivolgeva allo storico tauromenita (Pol. xii 24, 5). 71 Gelone è definito tale in Hdt. vii 157. 72 Sulla vicenda della crisi tra i due rampolli dei Dinomenidi vivace è stato il dibattito tra gli studiosi che si sono concentrati soprattutto sulle incongruenze tra le fonti. Zambelli 1952-1954, 155-165 ha insistito su una dipendenza di Diodoro da Timeo e – sulla scia di Volquardsen 1868, 90-91, di Lübbert 1880, 8, di Lenschau 1913 e di Ciaceri 1927, 314 n. 2 – considera del tutto marginali e apparenti le divergenze tra il frammento Timeo e Diodoro. A mettere in rilievo le palmari differenze tra le due testimonianze è stato invece Piccirilli 1973, 65-79 che ha escluso categoricamente una possibile dipendenza del primo dal secondo. Anche Bruno Sunseri 1987, 59-61 ha evidenziato il carattere non assolutamente antiieroniano del passo di Diodoro, individuando però nel racconto dello storico due nuclei di matrice differente. Compromissorio ma anche più articolato è il giudizio di Bugno 1999, 75 e ss. che ritiene che il passo di Diodoro segua la tradizione timaica che sembra al tempo stesso antiieroniana e filoteroniana, pur conservando il retaggio di dettagli favorevoli al secondo Dinomenide. Lo studioso ritiene inoltre che in Diodoro sia confluita una tradizione eforea, costruita sulla base della contaminazione dell’opera di Ippi e di Filisto. 73 Cfr. supra p. 72. 74 Piccirilli 1971, 73-74.

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te questa soluzione chiarisce il tono equilibrato del resoconto riportato da Diodoro intorno allo scontro con Polizelo e alla crisi agrigentina. Filisto era notoriamente amico dei Dionisii e Timeo lo criticava proprio per la sua fedeltà alla tirannide.75 Ed è verosimile – secondo Piccirilli – che, proprio intorno ai fatti successivi alla morte di Gelone, Timeo riportò – per opporla alla propria considerata più veritiera – anche la versione derivata da Filisto, di cui una traccia è conservata nello scolio Ol. ii 29c, che presenta un resoconto degli avvenimenti palesemente a favore di Ierone. b) Filisto e Diodoro Nello scolio Ol. ii 29c, Polizelo è inviato stavolta a combattere contro i perieci barbari dei Sicelioti. Egli però mise fine alla guerra contro il parere di Ierone e, per questo motivo, era guardato con sospetto. Per di più, convinto da Trasideo, figlio di Terone, si preparava ad attaccare il fratello, forte dell’aiuto del congiunto agrigentino. Da qui la decisione di Ierone di attaccare Agrigento. Il mediatore tra i due sovrani è anche in questa versione Simonide, ma il suo intervento – benché il testo sia piuttosto lacunoso – sembra avere qui contorni più precisi e meno miracolosi. Il lirico dovette esercitare proprio la funzione di consigliere e, probabilmente, fu lui a svelare l’esistenza di una congiura. Al di là delle differenze tra le varie tradizioni confluite negli scolii a Pindaro e in Diod. xi 48, è possibile individuare alcuni nuclei narrativi di base che serviranno quanto meno a tracciare una griglia interpretativa per indagare i primi anni della tirannide di Ierone a Siracusa. Ebbene, dai testi emergono innanzitutto problematiche legate alla successione e all’ingombrante figura di Polizelo; l’esigenza di allontanare lo scomodo fratello e l’inizio di una campagna militare rivolta nell’uno contro i perieci barbari dei Sicelioti o nell’altro verso la Magna Grecia; infine, e sempre a causa del pernicioso Polizelo, lo scontro con Agrigento e con l’alleato di un tempo, Terone. A voler sintetizzare questo quadro ne deriva il seguente schema: - Politica interna: problemi di successione e scontro con Polizelo; - Campagne militari: a) Intervento contro i perieci barbari dei Sicelioti; b) Intervento in Magna Grecia; - Ostilità con Agrigento. 75 Plut. Dion. xxxvi 1.

IERONE CONTRO POLIZELO Il te stame nto amb i g uo di G e lon e

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proprio dalle contese dinastiche che conviene partire per comprendere l’atmosfera che regnava a Siracusa e sull’isola alla morte di Gelone. Sul fatto che i Dinomenidi, o comunque i tiranni geloi, avessero la tendenza a designare in vita i loro eredi e a delegare un tutore dei figli minorenni, sembra esserci un certo accordo tra le fonti. Gelone si assunse la responsabilità dei figli di Ippocrate destinati al regno76 e, a sua volta, affidò ai cognati Aristonoo e Cromio la tutela del suo.77 Sempre alle cure del fedelissimo Cromio venne poi affidato Dinomene, delfino di Ierone sul trono di Etna.78 Il fatto che la successione fosse avvenuta in punto di morte, e cioè quando Gelone era ancora vivo, sembra potersi dedurre anche dalle testimonianze più malevole nei confronti di Ierone, quelle cioè che tendono a sostituire il nome di Polizelo a quello del fratello nell’asse ereditario. Anche in queste notizie, infatti, è possibile percepire il trascorrere di un certo lasso di tempo tra le prostaxeis di Gelone e la morte. Secondo lo scolio Ol. ii 29d il passaggio delle consegne a Polizelo sarebbe avvenuta quando era in punto di morte (ÙÔÜ ‰b °¤ÏˆÓÔ˜ ÙÂÏ¢ÙÄÓ ÙeÓ ‚›ÔÓ Ì¤ÏÏÔÓÙÔ˜), e con esso concorda sostanzialmente anche il 29b. In nessuna fonte poi, eccetto che nello scolio recens, parafrasi del 29d, si parla di una trasmissione della basileia a Polizelo,79 semmai soltanto di strategia e della concessione della mano di Damarete, vedova 76 Hdt. vii 155. 77 Schol. Pind. Nem. ix 95 a= Tim. FGrHist 566 F 121. Luraghi 1994, 333-334, sulla base di motivazioni di natura sintattica, ritiene invece che questo frammento di Timeo sia da riferirsi alla tutela, assegnata da Ierone, di un pais di difficile identificazione, dopo che tale funzione era stata esercitata da qualcun altro. Secondo lo studioso poteva trattarsi del figlio di Gelone, prima affidato a Polizelo dal tiranno stesso, e poi da Ierone consegnato alle cure dei cognati del fratello. Ma dalle fonti si può soltanto dedurre una qualche forma di tutela esercitata da Polizelo, mentre il passo timaico citato dallo scoliasta di Pindaro sembra essere costruito tutto sulla base del rapporto Gelone-Cromio. Le incongruenze sintattiche, rivelate da Luraghi, possono pertanto attribuirsi a un taglio maldestro del frammento timaico, citato dal commentatore. 78 Cfr. Pind. Nem. i; Nem. ix cum scholiis. 79 Secondo Luraghi 1994, 322 si tratta di un semplice fraintendimento di Tommaso Magistro, autore dello scolio.

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di Gelone.80 Difficile è pertanto ritenere che, insieme alla moglie, il maggiore dei Dinomenidi avesse affidato a Polizelo il regno e che, in buona sostanza, Ierone fosse poco più che un usurpatore. Anzi al contrario, la scelta del fratello più giovane, come futuro sposo della figlia del tiranno agrigentino, potrebbe suggerire un disegno ben preciso di Gelone che, seppure espresso con una certa ambiguità, celava l’obiettivo di legare strategicamente due potenze confinanti come Gela ed Agrigento. E non deve essere stato un caso che, in tempi non sospetti, fosse proprio la figlia di Polizelo ad andare in sposa a Terone.81 L a d e d i c a d e l l ’ Au r i ga di D e l fi Continuando a ragionare sulle evidenze che possediamo – fonti alla mano – è tuttavia innegabile che la figura di Polizelo rappresentasse, a torto o a ragione, un pericolo serio per la tirannide di Ierone. Il rischio derivante dalla politica dell’irrequieto fratello doveva in qualche modo risiedere proprio in quest’ambiguità sostanziale del testamento di Gelone. Ambiguità che poteva essersi generata a seguito dello sdoppiamento della sede del potere, efficace fino a quando il maggiore dei Dinomenidi era ancora in vita. I problemi vennero in seguito e toccò a Ierone affrontarli: è abbastanza verosimile che, una volta morto Gelone, il successore ne avesse rispettato le volontà e seguito l’esempio anche nell’assegnazione delle cariche. E che a Polizelo toccò la sede geloa è confermato da 80 Alcuni studiosi sono propensi a ritenere che la notizia di Diodoro in merito alla basileia ereditata da Ierone e quella di Timeo, in cui si afferma invece che Polizelo ricevette da Gelone la strategia, non siano affatto in contrapposizione l’una con l’altra ma possano essere combinate. Ipotizzando infatti che al maggiore dei suoi fratelli Gelone avesse lasciato il regno, mentre all’altro il comando militare, si potrebbero mettere d’accordo i due storici. Difficile è pensare però che Gelone avesse pianificato una divisione del potere così netta, soprattutto se si riflette sul fatto che egli stesso aveva gestito sia la regalità sia l’egemonia militare ed è naturale dedurre che lo stesso tipo di organizzazione del potere volesse lasciare al suo successore. Senza contare poi che il testo di Timeo sembra perseguire la chiara finalità di sconfessare Ierone proprio in quanto erede di Gelone. A questo proposito cfr. Arist. Pol. iii 14, 1285 a 7-8 e b 17-19 da cui emerge uno stretto legame tra basileia e strategia. Si può anche ipotizzare che la menzione della strategia in Timeo rifletta una semplice interpretazione dello storico tauromenita delle funzioni militari rivestite da Polizelo. Convinta della validità dell’ipotesi che tende a combinare le due fonti è Bruno Sunseri 1987, 53. Secondo Luraghi 1994, 322-323 la menzione della strategia di Polizelo riflette una rilettura di Timeo. 81 Tim. FGrHist 566 93b ap. Schol. Pind. Ol. ii inscr. e Schol. Pind. Ol. ii 29 b, c, d, loc. cit.; cfr. a questo proposito anche Maddoli 1979, 39.

i e rone cont ro pol i z e lo

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un’epigrafe. Si tratta della dedica del celebre Auriga di Delfi. Il testo (Fig. 1) è costituito dai due secondi emistichi appartenenti a due esametri incisi ciascuno su un rigo. La redazione originaria diceva: …°]¤Ï·˜ àÓ¤[ı]ÂÎÂ[Ó] ·[Ó]¿ÛÛ[ÔÓ] ...Ù]eÓ ôÂÍã ÂéfiÓ˘Ìã òAÔÏÏ[ÔÓ].

In seguito il primo rigo fu abraso e reinciso, con lettere ioniche82 e un impreciso ordine stoichedon con quel che segue:…¶]Ôχ˙·ÏÔ˜ Ì\·Ó¤ıËÎ[Â] (Fig . 2).83 L’iscrizione è di chiara provenienza geloa84 e può essere messa in relazione con la vittoria pitica conseguita da Polizelo con la quadriga nei

Fig. 1. Iscrizione sulla base dell’Auriga di Delfi. Faccia anteriore del blocco 3517 (tratto da Chamoux 1955, Pl. ii).

Fig. 2. Iscrizione sulla base dell’Auriga di Delfi. Blocco 3517: fac-simile della prima riga (in rasura) (tratto da Chamoux 1955, p. 27, Figure 3).

82 Sulla precoce presenza di segni ionici in Sicilia cfr. Brugnone 1995, 1324-1327 che li mette in relazione proprio con l’attività svolta da Simonide e da Epicarmo alla corte di Ierone. 83 Per una prima analisi dell’iscrizione cfr. Chamoux 1955, 26-31. Per lo status quaestionis cfr. SEG xl 1990, 427; xlii 2002, 533 e da ultimo Maehler 2002, 19-21. Il testo qui riportato è quello accolto da Chamoux 1955, 27. 84 Zambelli 1952-1954, 155.

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giochi del 47885 o in quelli del 474 a. C.86 Le integrazioni proposte alla redazione originaria restituiscono, al primo rigo, il nome di un Dinomenide, da identificare con Polizelo e il patronimico al secondo verso.87 Più complicata la questione per quanto riguarda le integrazioni del rigo reinciso che è strettamente legata a quella dell’alterazione dell’epigrafe: il testo è stato restituito così come segue: [ÓÈο۷˜ ¥ÔÈÛÈ ¶]Ôχ˙·Ïfi˜ Ìã àÓ¤ıËÎ[ÂÓ].88 Al momento è più opportuno tornare a riflettere su quel °¤Ï·˜ ·Ó¿ÛÛÔÓ e sui motivi per cui, in seguito, quel rigo fu cancellato. Il dato da cui conviene prendere le mosse è che in un momento imprecisato della storia dei Dinomenidi, Polizelo poteva presentarsi in ambito panellenico quale signore di Gela. Il terminus post quem è curiosamente proprio il 478 a. C., quando – secondo Diodoro – Ierone salì al trono di Siracusa. La data della partecipazione ai giochi pitici di Polizelo è controversa ma è probabile che sia da collocare proprio nel 478 a. C., quando il Dinomenide, appena salito sul trono di Gela, o prossimo alla successione, cercava di ritagliarsi, come avevano fatto i suoi predecessori, uno spazio in ambito panellenico. Difficile è capire 85 Zambelli 1952-1954, 165 e Stucchi 1990, 59. 86 Luraghi 1994, 331 e ss. e Millino 2000, sulla scorta delle considerazioni di Barrett 1973, 28 e ss., secondo cui Ierone sarebbe salito al potere nei primi quattro mesi del 478-77 a. C., dopo i giochi pitici che si svolgevano da metà agosto a metà settembre, concordano sul fatto che il successo pitico di Polizelo non possa che risalire al 474 a. C., giacché, durante le edizioni precedenti egli non poteva ancora essere tiranno di Gela. Così anche Cuscunà 2004-2005, 63-64. A questo proposito cfr. Cingano 1991a che, sulla base dell’analisi della Pitica iii e dei versi dell’Epinicio iv di Bacchilide in cui si allude ad una mancata vittoria di Ierone, arriva alla conclusione che i versi di Pindaro siano da mettere in relazione con uno scacco subito dal tiranno nel 474 a. C. Maehler 2002 mette in relazione la mancata vittoria pitica cui si riferisce Bacchilide con questa iscrizione, suggerendo che Ierone fosse l’originario dedicante del monumento e che egli avesse in seguito ceduto la vittoria al fratello in analogia con quanto fece Cimone Coalemos con Pisistrato (Hdt. vi 103,2) e propone dunque una diversa restituzione del testo originario dell’epigrafe. Compromissoria è invece la soluzione di Smith 2007, 126-128 che ritiene che Ierone cedette al fratello solo il monumento, per consentirgli di celebrare una vittoria conseguita nel 478 o nel 474 a. C. Le conclusioni dei due studiosi presuppongono però l’esistenza di rapporti idilliaci tra i due fratelli. Dato quest’ultimo smentito dalle fonti. 87 L’integrazione proposta da Chamoux 1955, 31 per la redazione originaria del primo rigo è la seguente: [ÌÓÄÌ· ¶Ôχ˙·ÏÔ˜ Ì °]¤Ï·˜ àÓ¤[ı]ÂÎÂ[Ó] à[Ó]¿ÛÛ[ÔÓ] Cfr. anche Zambelli 1952-1954 e Stucchi 1990. Contra Maeheler 2002, 21 che sulla scia di Rolley 1990, 295 integra così: NIKA™A™ HIEPON M HO °]E§A™ ANE£EKEN ANA™™[ON]. 88 Cfr. Chamoux 1955, 31; Stucchi 1990, 59. Contra Zambelli 1952-1954, 157 e Rolley 1990, 295.

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se Polizelo riportò la vittoria ai giochi già come tiranno o meno, perché la successione dovette avvenire nello spazio di pochi mesi. Il fatto però che nella dedica egli si presentasse come tale, lascia pensare che, se pure all’epoca non poteva ancora definirsi signore, la “nomina” era ormai prossima e sicura. Certamente Polizelo lo era già ai tempi in cui il monumento fu portato a termine e cioè, secondo il parere degli archeologi, qualche tempo dopo. Il problema può essere valutato secondo due prospettive: o si interpreta l’attribuzione della tirannide di Gela come legata, nelle intenzioni di Gelone, alla mano di Damarete e quindi è chiaro che la successione deve essere avvenuta solo alla morte del sovrano; o se si accetta una precoce ascesa al trono di Siracusa da parte di Ierone, in qualità di reggente, si può anche pensare ad un altrettanto precoce cambio della guardia a Gela. Comunque sia, la datazione alta ovvero quella del 478 a. C., meglio aiuta comprendere il timore di Ierone per l’accresciuto potere del fratello. Quelle edizioni dei giochi pitici avevano regalato anche a lui una vittoria, ma quella meno prestigiosa col celete, mentre Polizelo aveva conquistato il podio con la quadriga.89 La notorietà raggiunta dal terzo Dinomenide dovette impensierire subito il signore di Siracusa. E forse le ragioni della sua popolarità non devono essere ricercate solo nel trionfo atletico ma anche nella situazione interna di Siracusa. Il disaccordo tra Diodoro e le versioni riportate dai commentatori di Pindaro,90 di cui si è detto, potrebbe riflettere momenti differenti anche se non troppo distanti della storia dell’isola e della tirannide siracusana. Come è già stato sottolineato, Ierone per allontanare Polizelo si serve del pretesto di una spedizione militare. L’esigenza di sbarazzarsi del fratello sarà nata probabilmente a seguito del prestigio che egli aveva raggiunto, in occasione della stessa vittoria a Delfi, conseguita magari nello stesso momento in cui Ierone tentava di ritagliarsi uno spazio a 89 A questo proposito Catenacci 1992, 31 ha osservato come la vittoria di Polizelo a Delfi costituisca una «prova indiretta» dell’esistenza di una gerarchia di rapporti tra tiranni e agonisti di successo vicini al loro entourage. Generalmente la vittoria più prestigiosa, quella con la quadriga, è rispettosamente riservata ai tiranni. «Il tiranno accetta di buon grado – sostiene Catenacci – le vittorie di chi gli sta accanto se minori, se conseguite all’ombra della corte e nel nome della polis, ad esaltazione del suo passato e soprattutto del suo presente, ovvero del tiranno stesso». Un termine di confronto in questo senso potrebbe essere proprio l’episodio raccontato in Hdt. vi 103, 2 in cui Cimone Coalemos cede a Pisistrato la vittoria per potere tornare dall’esilio. A tal proposito cfr. Bonanno 2009b, 74-75. 90 Cfr. supra p. 43 e ss.

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Siracusa. Il suo timore era poi giustificato dalle disposizioni ambigue di Gelone i cui calcoli, benché si trovasse in punto di morte, erano stati comunque abbastanza lucidi. Se è vero, infatti, che Polizelo sarebbe salito al trono di Gela, come stabilito, un’alleanza matrimoniale con una potenza confinante come Agrigento sarebbe stata molto più proficua e vantaggiosa. Allo stesso modo Gelone deve essersi regolato quando prese in moglie Damarete, probabilmente in un momento in cui la conquista di Siracusa era di là da venire e il costituirsi del fronte calcidese Imera-Reggio con i tiranni Terillo-Anassilao, aveva reso necessario la creazione di un blocco agrigentino-geloo.91 In fin dei conti, il campione di Imera, offrendo la mano di Damarete al fratello, altro non aveva fatto che rinvigorire il legame tra Dinomenidi ed Emmenidi, ricreando però un’alleanza AgrigentoGela che, se un tempo aveva portato dei vantaggi, alla lunga invece poteva rappresentare un concreto pericolo per la tirannide siracusana. A questi fattori si aggiungeva, presumibilmente, una discreta opposizione interna che doveva costituire un’altra causa di preoccupazione per Ierone. La città, del resto, attraversata da mille divisioni, poteva non avere accettato all’unanimità l’insediamento di un nuovo tiranno. A Siracusa c’era chi poteva avere buoni motivi per non accettare i Dinomenidi: c’erano il demos e i Cilliri, traditi da Gelone e costretti a far rientrare in città i Gamoroi cacciati, c’era ancora la componente geloa di Camarina II, rifondata da Ippocrate e i cui abitanti, trasferiti da Gelone a Siracusa, dovevano essere rimasti legati al precedente tiranno di Gela.92 Ci poteva essere infine un partito dinomenide magari rappresentato dagli aristocratici un tempo graziati da Gelone, che avrebbe preferito essere governato da Polizelo piuttosto che da Ierone, ma di ciò non abbiamo nessun riscontro nelle fonti. Da qui dunque la necessità per quest’ultimo di giustificare e propagandare sul fronte interno ed estero la legittimità del suo trono, non solo in quanto tiranno, ma soprattutto in quanto successore, in tutto e per tutto, di Gelone. Da qui ancora il bisogno impellente di neutralizzare Polizelo, impegnandolo in imprese militari che facessero piazza pulita delle pressioni ai confini del regno, o che dessero lustro alla città, garantendole un inserimento nell’orizzonte magnogreco. 91 Sono di questo avviso Maddoli 1979, 39; Vallet 1985, 298; Sartori 1988, 87 e Mafodda 1996, 54-55; contra Bruno Sunseri 1987, 51-52; Luraghi 1994, 257-258 92 Hdt. vii 155-156. Cfr. Luraghi 1994, 281-288 e Consolo Langher 1997, 3-12.

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Ma uno dei risultati più significativi che Ierone raggiunse nei primi due anni di regno, a seguito della contesa con Terone, fu quello di sostituirsi a Polizelo nel rapporto con Agrigento. Quando le acque si calmarono il principe siracusano si unì in matrimonio con la nipote del signore di Agrigento, in piena armonia con la politica di collaborazione con la colonia geloa inaugurata qualche anno prima dal fratello.93 Dal quel momento in poi di Polizelo non si saprà più nulla e sul suo destino si possono fare soltanto congetture. È certo che il controllo del terzo Dinomenide su Gela fu abbastanza effimero, se, poco dopo essere salito al potere, Ierone pensò di allontanarlo assegnandogli operazioni militari, più o meno efficaci. A queste imprese seguì la fuga ad Agrigento che lasciò ancora una volta Gela orfana e stavolta non solo di sudditi, ma anche del suo sovrano. È dunque verosimile che l’abrasione del titolo °¤Ï·˜ ·Ó¿ÛÛÔÓ sia da addurre molto semplicemente al fatto che, dopo qualche tempo, il Dinomenide cessò di esserlo.94 A chi sia da ascrivere la responsabilità di questo gesto è dubbio. Lo si potrebbe interpretare come una forma di damnatio memoriae e, in questo caso Ierone, assiduo frequentatore del santuario di Delfi, avrebbe avuto tutti i motivi per non apprezzare una chiara professione di potere in un ambito di così grande visibilità come quello pitico. Tanto più che, nel corso degli anni, vedremo il principe di Siracusa sempre più impegnato in un’operazione di recupero e di propaganda dell’immagine dei Dinomenidi all’estero. A questo progetto poco poteva giovare un’iscrizione in cui un Dinomenide si proclamava signore di Gela, proprio sull’orizzonte panellenico e in un periodo in cui le città d’oltremare avevano archiviato la tirannide e, già da qualche tempo – stando almeno a quanto racconta Erodoto – l’avevano etichettata come la cosa più ingiusta e sanguinaria che esista.95 I dati a nostra disposizione sono comunque davvero esigui e poco probanti. Ci si può muovere soltanto nell’ambito delle congetture e tuttavia è difficile non vedere il nesso tra l’alterazione dell’epigrafe e il dissidio che contrappose i due Dinomenidi.

93 Cfr. infra p. 115-116. 94 Zambelli 1952-1954, 163 il quale invece attribuisce la responsabilità dell’abrasione del titolo allo stesso Polizelo. Il Dinomenide infatti, secondo lo studioso, avrebbe tentato di accentuare il suo atteggiamento «popolareggiante» in un momento critico della controversia con Ierone. 95 Cfr. il discorso di Socle agli Spartani (Hdt. v 92, 1).

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È giunto il momento di analizzare nel dettaglio la natura delle campagne militari affidate a Polizelo e soprattutto gli effetti. Gli studiosi sono propensi a ritenere valida l’ipotesi di due missioni: quella contro i perieci barbari dei Sicelioti e quella contro i Crotoniati.96 Procediamo con ordine, occupandoci innanzitutto di questa offensiva antibarbarica. L’espressione dello scolio Ol. ii 29c in sé è piuttosto ambigua e quantomeno insolita. È dunque problematico capire contro quale ethnos (o contro quali ethne) si sia concentrata l’azione militare concepita da Ierone. Per di più, trattandosi di uno scolio che abbiamo ammesso riconducibile a Filisto, si può immaginare che egli avesse proiettato agli inizi del v sec. un lessico e una situazione riferibili a una realtà di iv secolo. I “barbari” della Sicilia erano secondo Tucidide,97 oltre ai Siculi, i Sicani spinti dopo l’arrivo dei primi verso la parte sud-occidentale dell’isola e i Fenici che abitarono tutto intorno l’isola ma che poi, dopo l’arrivo dei Greci, furono relegati in più ristretti confini. È da escludere che fossero proprio i Fenici l’obiettivo dei due Dinomenidi, anche se l’ipotesi è allettante e troverebbe anche conferma in un verso sospetto della Pitica i98 in cui Pindaro si augura che il Phoinix rimanga inerte nella sua casa.99 Di una lotta senza frontiere contro la compagine fenicio-punica ci sarebbero infatti – oltre al decisivo scontro di Imera – anche alcuni precedenti significativi, conseguenza dell’offensiva coordinata di Fenici e Segestani,100 contro il principe spartano Dorieo di cui Gelone – una volta registrata l’indifferenza degli Spartani al suo appello – si era assunto la responsabilità di vendicare l’uccisione. E ancora al nome di Gelone si lega la famosissima guerra contro i Cartaginesi per la liberazione degli empori dai quali grandi vantaggi e utilità 096 Così Zambelli 1952-1954, 162; Luraghi 1994, 329 antepone invece la missione sibarita a quella contro i “barbari”. 097 +ÎÔ˘Ó ‰b ηd ºÔ›ÓÈΘ ÂÚd ÄÛ·Ó ÌbÓ ÙcÓ ™ÈÎÂÏ›·Ó (Thuc. vi 2). Su questo passo di Tucidide cfr. recentemente Bonnet 2009. 098 Pind. Pyth. i 72. I Phoinikes erano però antagonisti dei Greci anche sull’Egeo. Erodoto riferisce, per esempio, del loro ruolo nella repressione della rivolta ionica dopo Lade (cfr. Hdt. vi 14). 099 Trad. B. Gentili. Un’altra allusione al pericolo punico incombente la troviamo anche nella ix Nemea (vv. 28 e ss.) dedicata a Cromio di Etna. 100 Hdt. v 46.

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erano venuti ai Greci.101 Anche agli empori dunque, stando all’aggressiva arringa del Dinomenide ai Greci venuti a chiedergli aiuto contro i Persiani, è da ricondurre una pericolosa presenza barbara, e precisamente cartaginese in questo caso, che da qualche tempo ostacolava non solo i traffici dell’isola, ma anche quelli dei naviganti greci, che in Sicilia facevano scalo per le loro attività di commercio. I “barbari” erano dunque un problema di grande attualità e toccò al maggiore dei Dinomenidi risolverlo con attacchi e risposte mirate nei luoghi chiave dell’isola. Nel momento in cui tradizionalmente si data la cosiddetta guerra per gli empori, ovvero intorno al 491-490 a. C.,102 Gelone è ancora tiranno di Gela e l’esigenza della difesa degli scali dell’isola era tanto più pressante quanto meno spiccata era la vocazione emporica della colonia rodio-cretese. Gela, come si è visto,103 negli anni precedenti aveva dimostrato di essere una potenza militare, ma la sua forza consisteva principalmente nella penetrazione via terra.104 La città difettava però di un controllo sui traffici marittimi. Da qui la necessità, per i tiranni che la governarono, di assumere il controllo di Siracusa al più presto, o di intervenire, come fece Gelone, sottraendo al controllo dei “barbari” i porti dell’isola. Era una politica condotta in piena armonia con quella del suo predecessore che aveva concentrato la sua attenzione su un punto vitale di snodo dei traffici dello stretto, come Zancle, e che aveva dimostrato che il controllo sui mari si poteva ottenere solo dopo la conquista di Siracusa, vivacissima testa di ponte tra Oriente e Occidente. Dopo la morte di Ippocrate, anche Zancle andò perduta e di conseguenza più cogente si fece la necessità di un’azione di pulizia degli scali, senza la quale la corsa di Gela verso uno sbocco economicamente più produttivo e militarmente più efficace di quello attuale si sarebbe arrestata, in maniera drammatica, alla soglia di città portuali soffocate dal 101 Hdt. vii 158, 7. 102 Cfr. Maddoli 1982, 245-252. Lo studioso suggerisce questa data mettendo in rapporto il passo di Erodoto (vii 158) in cui Gelone rimprovera agli Spartani la mancata partecipazione alla guerra per la liberazione degli empori e alla vendetta di Dorieo, con l’appello contenuto in Giustino (xix 1, 9) dei popoli della Sicilia a Leonida, fratello del re di Sparta, affinché li sostenesse contro le continue ingiurie dei Cartaginesi. Cfr. anche Sordi 1972, 55-56, n. 23 e Luraghi 1994, 279 e ss. (cui si rimanda per la bibliografia precedente). Lo studioso però esclude ogni possibilità di connessione tra Erodoto e Giustino e ritiene poco affidabile la testimonianza dell’epitomatore, ai fini di una ricostruzione dei precedenti della battaglia di Imera. Sull’episodio cfr. ancora Consolo Langher 1999. 103 Cfr. supra p. 29 e ss. 104 Hdt. vii 154.

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controllo fenicio-punico.105Alla morte di Gelone questi problemi erano stati parzialmente risolti: Siracusa era nelle mani dei Dinomenidi e i Cartaginesi insieme ai loro alleati sconfitti definitivamente a Imera. È dunque improbabile che la missione affidata a Polizelo da Ierone fosse ancora una volta destinata a neutralizzare eventuali rigurgiti di recrudescenza antisiceliota da parte dell’elemento fenicio-punico e il riferimento pindarico può mettersi genericamente in relazione con la vittoria di Imera celebrata insieme a quella di Cuma contro gli Etruschi nella stessa ode a fini puramente propagandistici.106 Tuttavia è opportuno rimanere a Gela per comprendere il senso della misteriosa missione di Polizelo e ricostruire quanto la politica militare di Ippocrate e Gelone aveva lasciato irrisolto. In effetti lo sforzo per il controllo, o meglio, per la custodia dei porti e per la conquista di Siracusa significò l’abbandono, almeno temporaneo, della politica di penetrazione territoriale avviata da Ippocrate in territorio indigeno. Il sinecismo107 di Gela, Camarina, Megara ed Eubea in Siracusa rappresentò uno sconvolgimento dei poli di potere, una sorta di rivoluzione, ma i problemi e soprattutto i nemici rimanevano sempre gli stessi, malgrado la dilatazione dei confini e lo sdoppiamento delle cariche. È necessario cercare nell’entroterra dell’isola il nome di questi perieci barbari dei Sicelioti, per riuscire a dare un volto ai nemici di Polizelo. Il termine ÂÚ›ÔÈÎÔ˜ si riferisce a popolazioni stanziali insediate intorno a un polo principale con i cui abitanti può esservi un’affinità etnica. Può trattarsi però anche di indigeni, costretti a ritirarsi dall’avanzata di popoli invasori.108 Nulla a che fare perciò con la presenza occasionale e saltuaria che i Fenici (e i Cartaginesi) possono avere garantito agli empori sicelioti. Gli antagonisti di Polizelo vanno dunque cercati più che altro nelle vie di penetrazione geloa. Fin dalla sua fondazione Gela aveva dovuto scontrarsi con indigeni che ostacolavano la sua espansione. Una notizia trádita negli scolii a Pindaro e attribuita ad Artemone di Pergamo109 testimonia come la 105 Le città che Gelone poteva avere interesse a liberare erano le filopuniche Imera e Selinunte e tutti quei port of trade a Occidente di queste due città, controllati dai Cartaginesi. Anche Zancle, sotto il dominio di un sempre più filopunico Anassilao, doveva impensierire non poco Gelone. A questo proposito Maddoli 1979, 24 e ss. 106 Cfr. infra p. 159 e ss. 107 Cfr. Moggi 1976, 100-114. 108 Le principali attestazioni del termine sono raccolte in Casevitz 1985, 188-191. 109 Schol. Pind. Ol. ii 16 b. Diverge dalla testimonianza di Artemone quella di Menecrate in cui si sottolinea al contrario la facilità con cui avvenne la fondazione del-

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città fosse stata fondata con grandi difficoltà. I due ecisti, Antifemo ed Entimo, penarono fin dalla costituzione del contingente coloniale e, una volta giunti a destinazione, dovettero scontrarsi con i Sicani. Sono i Sicani dunque i primi nemici di Gela. A confermarlo è anche Pausania110 che tramanda la notizia del saccheggio di Antifemo ai danni della sicana Omphake e della relativa acquisizione di alcuni preziosi agalmata lavorati da Dedalo.111 Ma l’espansione geloa dovette toccare anche altri centri indigeni, come risulta dalle fonti letterarie e dai dati archeologici e seguire, tra il vii e il vi sec., molteplici itinerari.112 Se la direttrice orientale venne bloccata quasi sul nascere da Siracusa con la fondazione di Camarina nel 598 a. C., più agevole fu l’occupazione di siti indigeni verso l’interno fino a Sabucina e a Gibil Gabib, vicino a Caltanissetta. A ovest la penetrazione nel territorio seguì la via costiera e la valle dell’Imera per culminare poi con la fondazione di Agrigento volta ad arginare l’espansione selinuntina verso la fascia costiera.113 Questo era, più o meno, l’orizzonte territoriale della colonia rodio-cretese all’inizio del vi secolo, caratterizzato da tutta una serie di cittadelle fortificate, di ÊÚÔ‡ÚÈ·, atti a garantire un controllo militare esteso e capillare su tutta la regione di influenza geloa.114 All’epoca di Polizelo la situazione di Gela era decisamente più favorevole, anche se era mutato il ruolo politico e amministrativo della città rispetto a Siracusa: Camarina non era più un problema e i centri indigeni dei dintorni erano stati ellenizzati. Rimaneva una struttura territoriale, profondamente militarizzata, che poteva tornare utile a livello strategico ed economico, anche ora che lo scenario politico dell’isola era mutato in maniera radicale. Il sistema dei la città. L’attendibilità della notizia di quest’ultimo viene contestata da Raccuia 1992, 290 n. 53; Ead.1994, 82. 110 Paus. viii 46, 2; ix 40, 4. Cfr. Sammartano 1989, 211-213. 111 Il sito di Omphake è stato individuato sulla collina di Butera (Orlandini 1961, 145-151) dove gli scavi hanno portato alla luce materiali riconducibili alla facies culturale di S. Angelo Muxaro-Polizzello e Pantalica sud e riferibili ad un abitato sicano (Panvini 1996, 33). 112 Per esempio, Maktorion identificato con Monte Bubbonia a Nord-est della città dove, stando ad Erodoto (Hdt. vii 153, 2), fuggirono quei cittadini di Gela sconfitti in rivolta, poi ricondotti in città da Teline, l’antenato dei Dinomenidi, con la protezione delle insegne sacre delle dee ctonie. Cfr. Raccuia 1999, 457-469; Adamesteanu 1959; Pancucci-Naro 1992. Le Cronache Lindie, inoltre, menzionano la dedica di un cratere ad Athena Lindia dal centro indigeno di Ariáton, a seguito della sua conquista. Cfr. Cordano 1999 e Raccuia 2004. 113 Panvini 1996, 36-37. 114 Panvini 1996, 37-38; Fischer-Hansen 2002.

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ÊÚÔ‡ÚÈ· aveva infatti il duplice vantaggio di garantire la difesa dei confini e di preservare il raccolto dei campi.115 E si sa che i “campi geloi”116 meritavano di essere protetti. Restavano da sistemare le questioni che la politica di Ippocrate aveva lasciato aperte e che Gelone non aveva avuto il tempo o l’occasione di risolvere. Ippocrate aveva rivolto la sua potenza militare, oltre che contro l’area calcidese, anche contro i Siculi. Con l’inganno aveva conquistato Ergezio,117 ma, secondo Erodoto era uscito tragicamente dalla scena politica, durante uno scontro con i Siculi ad Ibla, dove aveva trovato la morte.118 È dubbio se il riferimento contenuto nelle Storie sia da collegare ad Ibla Geleatide/Gereatide sita in area etnea, tra Centuripe e Katane, o ad Ibla Erea, collocata nelle vicinanze di Ragusa. E anche per Ergezio la localizzazione è piuttosto incerta, ma l’accenno di Polieno alla piana dei Lestrigoni, lascia presupporre che la città si trovasse proprio nella piana di Catania.119 L’ipotesi di un attacco contro l’area etnea, anche indipendentemente dalla collocazione del sito di Ergezio, può essere confermata semplicemente dal fatto che questa costituiva un polo d’attrazione d’importanza fondamentale sulle direttrici espansionistiche geloe. L’Ibla Geleatide potrebbe aver rappresentato per Ippocrate una tappa della penetrazione in area calcidese.120 È interessante notare che, nel corso della storia dell’isola, l’area si115 A questo proposito cfr. Giuffrida 1999, 419, che analizza l’inserimento dell’area calcidese nell’arché dionigiana. I dati storico-geografici consentono di ipotizzare, anche nella piana di Leontini, una rete di ÊÚÔ‡ÚÈ· assimilabile al modello spartano. L’obiettivo di questa militarizzazione del territorio era quello di proteggere le risorse economiche dell’area e di controllarne i confini. Quando la zona calcidese entrò a far parte della sfera di Dionisio, il tiranno valorizzò proprio il sistema delle guarnigioni, servendosene a scopi difensivi ma anche economici. È proprio sulla base dell’analogia con l’operato di Dionisio e con la funzione strategica rappresentata dalla piana di Leontini a partire dalla fine del v secolo, che si può, mutatis mutandis, ricostruire il ruolo di Gela e del suo territorio in epoca dinomenide. Cfr. anche le considerazioni di Muggia 1997, 172 e ss. 116 Cfr. supra p. 33-34. 117 Polyaen. v 6. 118 Hdt. vii 155. 119 Polyaen. v 6; cfr. Dunbabin 1948, 403. Sulle Ible cfr. Manni 1990, 325-339. 120 A Ibla Geleatide, come obiettivo della campagna di Ippocrate, pensano Dunbabin 1948 403-404; Bravo 1991-1994 e Mafodda 1998 29. Contra Luraghi 1994, 154156, sulla scorta della lettura proposta da Manganaro 1964, 414-439 di un documento epigrafico del ii sec a. C. Si tratta di una lista di theorodokoi, in cui Ergezio appare nell’itinerario dopo Ibla ed è seguita da Noai e Assoro. Anche Giangiulio 1989 esclude, pur con qualche dubbio, che il sito di Ergezio vada collocato in area etnea e segue sostanzialmente l’ipotesi di Manganaro. Per le testimonianze storiche sulle Ible cfr. anche Hansen-Nielsen-Ampolo 2004, 177.

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cula e quella calcidese formino una sorta di continuum e spesso i loro destini si incrocino in modo piuttosto singolare. L’archaiologia tucididea registra la cacciata dei Siculi da parte dei Calcidesi di Naxos come preludio alla fondazione di Leontini e Katane.121 A stabilire il nesso profondo che univa le due zone erano stati per primi proprio Ippocrate e Gelone, come abbiamo sottolineato, e poi lo stesso Ierone che, con la fondazione di Etna, sperimenterà, qualche anno dopo, un’alternativa allo scontro frontale, tentando di assimilare l’elemento indigeno.122 Anche i Siculi, da parte loro, compresero che il loro “quieto vivere” era subordinato alla presenza di un filtro calcidese. Lo stesso Ducezio, il campione dell’“irredentismo siculo”, accetterà di collaborare con i Siracusani per cacciare i coloni insediati da Ierone a Katane, e far sì che nella polis, un tempo spopolata dal sovrano di Siracusa, tornassero proprio quei Calcidesi, costretti durante il periodo della tirannide a trasferirsi a Leontini insieme agli abitanti di Naxos.123 La contiguità siculo-calcidese venne considerata tale anche nella prospettiva di altre forze esterne: nel trattato greco-cartaginese del 405 a. C. per Leontini e per i Siculi venne stabilito lo stesso trattamento;124 e, qualche anno più tardi, Dionisio addirittura diresse strategicamente, contro gli indigeni, un’azione militare diversiva che aveva, in realtà, come bersaglio principale, le città calcidesi di Naxos, Katane e Leontini.125 Ha un senso allora, considerata l’attenzione che i sovrani geloi manifestarono nei confronti dell’elemento indigeno e l’interesse successivo che Ierone mostrerà verso l’area etnea, sostenere che l’operazione di Polizelo avviata col patrocinio del fratello, avesse come bersaglio proprio i Siculi. È opportuno quindi interrogarsi sul successo di questa spedizione interrotta, secondo lo scolio, contro il parere di Ierone (¯ˆÚd˜ Ùɘ ÙÔÜ ^I¤ÚˆÓÔ˜ ÁÓÒÌ˘) e conclusasi con la fuga di Polizelo ad Agrigento. 121 Thuc. vi 3, 3. Una certa continuità territoriale siculo-calcidese si percepisce anche al momento dell’arrivo in Sicilia nel 415 a. C. di Nicia e Lamaco. In quell’occasione la fanteria ateniese si ritirò attraverso l’area sicula per arrivare a Katane (Thuc. vi 68). E poi sarà sempre dalla calcidese Naxos che partirà l’operazione diplomatica degli Ateniesi nei confronti dei Siculi (Thuc. vi 62,3). Una missione che, con successo, porterà la gran parte degli indigenia combattere dalla parte di Atene insieme ai Calcidesi di Sicilia (Thuc. vi 88,3). 122 Sulla volontà ieroniana di «scardinare» la compagine calcidese e, nello stesso tempo di attirare nella propria orbita le popolazioni indigene, cfr. Anello 1984, 22 e ss. 123 Diod. xi 76. 124 Leontini, Messene e i Siculi restavano autonomi (Diod. xiii 114, 10). Su questo trattato Anello 1986. 125 Diod. xiv 14.

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dal la t i r anni d e d i g e la a l t ron o di s i r ac u s a

La testimonianza è piuttosto sintetica e sbrigativa, ma non si percepisce un orientamento necessariamente antiieroniano. Tutt’altro, fu proprio a causa di questo gesto di insubordinazione che, stando allo scolio, il giovane Dinomenide cadde nel sospetto, finendo per cedere alle lusinghe di Trasideo che gli chiedeva di attaccare Ierone.126 Visto in quest’ottica anche l’atto di Polizelo può essere analizzato da una diversa prospettiva. La scelta autonoma di interrompere la guerra e il clima di sospetto da cui poi egli venne circondato subito dopo possono semplicemente voler dire che la missione di Polizelo non centrò tutti gli obiettivi indicati e soprattutto quelli che stavano a cuore al neotiranno di Siracusa, il quale, dal canto suo, propendeva per un’azione militare più prolungata nel tempo e più risolutiva. È possibile, ma si tratta solo di un’ipotesi tutta da verificare, che Polizelo si fosse concentrato solo su bersagli indigeni che, in fin dei conti, si adattavano più ad una prospettiva geloa del conflitto e si fosse fermato davanti a quelli che interessavano direttamente l’espansione siracusana. La sensazione che si ha è che il Dinomenide avesse cominciato una politica del tutto indipendente da quella del fratello a Siracusa e che costituisse un pericolo sia per gli equilibri politici interni alla colonia corinzia, sia per le dinamiche di controllo su aree importanti dell’isola. Assume significato in questo senso l’espressione portò a termine anche questa guerra (àÏÏa ηd ÙÔÜÙÔÓ Î·ÙÒÚıˆÛ ÙeÓ fiÏÂÌÔÓ)127 che si trova nella testimonianza di Timeo in riferimento al successo della spedizione sibarita. L’orientamento è qui dichiaratamente antiieroniano e tende ad esaltare i risultati militari di Polizelo: il testo, con la precisazione anche questa guerra, sembra peraltro alludere al buon esito di una precedente spedizione, probabilmente meno impegnativa o meno interessante dal punto di vista della politica internazionale, che Timeo non ritiene di dover menzionare, ma il cui ricordo viene lasciato alla memoria di uno storico come Filisto, molto più attento alle realtà indigene o barbare in generale. Del resto, Filisto era pur sempre uno stratega al servizio di un sovrano come Dionisio che nei confronti del controllo sui Siculi aveva mostrato un certo interesse; mentre Timeo, a sua volta, scriveva da lontano e la sua ottica era profondamente influenzata dal dibattito po126 Piccirilli 1971, 76 considera la tradizione riconducibile a Filisto come la più attendibile. 127 Cfr. Bugno 1999, 62.

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litico sulla tirannide.128 Nelle parole del tauromenita sembra di potere percepire non solo la vivida polemica nei confronti di Ierone, ma anche una certa simpatia verso Polizelo che in fondo, con le sue traversie per la successione, rappresentava la figura del tiranno mancato che riscuoteva pur sempre un certo consenso. Comunque sia, la spedizione contro i “barbari” può essere collocata nel primo anno della tirannide di Ierone su Siracusa, se non addirittura nei primi mesi di governo. In ogni caso sembra piuttosto verosimile che l’attacco ai Siculi abbia preceduto l’intervento in Magna Grecia che determinò la rottura definitiva tra i due Dinomenidi. A confermarlo il fatto che lo scolio, la cui tradizione abbiamo ricondotto a Filisto, non contiene alcun accenno alle problematiche relative all’eredità. Anzi, pare riferirsi proprio alla precoce interruzione del conflitto il sorgere di un sentimento di sospetto in Ierone nei confronti del fratello minore. Da questa occasione dunque può essere nata la necessità di allontanarlo dalla Sicilia. Si può addirittura ipotizzare che il testo registri le vicende di un periodo di poco antecedente all’avventura sibaritica di cui però costituì il motore primo. Un riflesso di eventi bellici precedenti alla spedizione in Magna Grecia lo si può percepire, tra l’altro, nello stesso testo diodoreo: 129 la precoce “corsa agli armamenti” da parte di Ierone potrebbe far pensare anche all’esistenza di focolai di guerra più vicini. 128 Su Filisto cfr. Bearzot 2002 e su Timeo, Vattuone 2002a. 129 Cfr. supra Diod. xi 48.

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GLI INTERVENTI DI IERONE AL DI LÀ DELLO STRETTO E L’OSTILITÀ CON AGRIGENTO

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PREMESSA

C

omincia in sordina l’avventura magnogreca dei Dinomenidi. La vittoria di Imera aveva aperto uno squarcio nel Tirreno e la sconfitta di Reggio, città legata alla compagine cartaginese, aveva reso i territori dell’Italia meridionale molto più permeabili e raggiungibili. L’evento più rilevante che le fonti testimoniano, e che poi inaugura il nuovo corso della tirannide siracusana, è proprio l’invio di Polizelo a difesa dei Sibariti, ma quello non dovette essere il primo episodio in assoluto. Il blocco anassilaide sullo stretto fu aggirato per la prima volta proprio da Gelone, seppure in maniera ambigua e difficilmente leggibile. Secondo una notizia di Duride di Samo, riportata da Ateneo,1 Gelone aveva allestito nei pressi della città di Ipponio un topos, chiamato corno di Amaltea. È difficile capire quali fossero le reali intenzioni del tiranno, anche perché tale gesto non sembra avere avuto né un seguito né conseguenze di rilievo immediate. La particolare denominazione assegnata all’area rimanda a particolari caratteristiche di ricchezza e prosperità riconosciute al territorio.2 Che anche la zona nei pressi di Ipponio fosse piuttosto florida lo testimonia Strabone che definisce la regione ricca di praterie tanto che i Romani credevano che qui venisse dalla Sicilia Kore a raccogliere fiori. Le conclusioni che possiamo trarre da queste testimonianze sono poche: si può solo ipotizzare che il dato contenuto in Strabone in merito a una presenza in questi luoghi della divinità ctonia di Sicilia, di cui i Dinomenidi erano ierofanti da generazioni, rifletta l’intenzione (o il progetto mai realizzato) dei tiranni di Siracusa di stabilire una forma di blando controllo anche sull’Italia meridionale.3 Il trionfo dei Siracusani a Imera doveva avere aperto delle falle e indebolito il potere di Reggio rendendo inevitabilmente più vulnerabile la via del versante tirrenico e poi anche di quello ionico. Come vedremo più avanti, Gelone aveva già fatto, prima della battaglia di Imera, alcuni timidi passi verso il Tirreno, forse agevolato dalla solidarietà, o dalla collaborazione, dei Liparesi nell’area intorno allo Stretto. Non è escluso che anche la costruzione ipponiate rientrasse in un progetto politico e militare di più ampio respiro che però il maggiore 1 Durid. ap. Athen. xii 59, 10 (=FGrHist 76 F 19). 2 Cfr. Diod. iii 68 e IV 35. 3 Strab. vi 1, 5 e Hdt. vii 153.

74 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto dei Dinomenidi non fece in tempo a sviluppare e che dovette lasciare in eredità al suo successore.4 Ad ogni modo la presenza siracusana a Ipponio – seppure non significativa dal punto di vista militare – costituisce dunque una delle premesse fondamentali da cui partirà la politica magnogreca di Ierone. Il tiranno, comunque, appena salito al potere, dovrà reinserire i lasciti della politica del fratello al di là dello Stretto nel complicato gioco di alleanze che legava fra loro le città dell’Italia meridionale. Il sistema di relazioni che garantiva la coesione tra le poleis, così come la mappa delle ostilità che le opponeva l’una all’altra e che oggi appare allo studioso un groviglio inestricabile, dovevano essere invece abbastanza chiari e leggibili agli occhi di Ierone. Il suo intuito politico, come vedremo, sembra avergli suggerito un codice comportamentale tale da potere intervenire con estrema disinvoltura in ambito magnogreco. Diverse erano le variabili di cui bisognava tener conto, visto e considerato lo scenario composito ed effervescente che Ierone si preparava ad affrontare. Delicatissimi e quasi precari, inoltre, erano gli equilibri che regolavano i rapporti tra le città, perché, al di là delle contese territoriali, complicavano il quadro anche problematiche di tipo culturale, quale la diffusione tentacolare e destabilizzante della dottrina pitagorica, nonché le relazioni internazionali che ogni città intratteneva con le poleis d’oltremare. Per analizzare le modalità e gli effetti degli interventi del tiranno siceliota al di là dello Stretto è necessario scomporre e procedere per piccoli episodi, seguendo un itinerario che potrà sembrare talora tortuoso, ma che alla fine aiuterà a ricostruire il quadro politico in cui si inserì la spedizione di Polizelo a Crotone, di cui la politica reggina del Dinomenide costituisce una premessa fondamentale. 4 L’edificio voluto da Gelone potrebbe essere rientrato nel piano di opere pubbliche seguito alla vittoria sui Cartaginesi. Cfr. De Sensi Sestito 1991, 620-621; Van Compernolle 1996, 32.

LA CONTESA REGGIO-LOCRI: LA DIPLOMAZIA DI IERONE L e f ont i

A

Locri, madrepatria di Ipponio, è collegata la prima ingerenza di Ierone al di là dello Stretto che fornì al sovrano la possibilità di riconfermare, dopo il periodo d’incertezza e confusione seguito alla scomparsa di Gelone, i vecchi equilibri venuti fuori da Imera e tutta l’autorità della tirannide siracusana. Locri, sempre più vicina alla sfera d’influenza siceliota,5 era minacciata dal rilancio dell’espansionismo reggino promosso dal tiranno Anassilao. Anche stavolta dobbiamo il ricordo di questo episodio alle parole spesso poco precise dei commentatori di Pindaro. Sono tre gli scolii in cui è conservata la memoria degli avvenimenti che richiesero la partecipazione di Ierone. Lo scolio 99a alla I Pitica attribuisce ad Epicarmo la notizia della politica antilocrese di Anassilao ostacolata dal Dinomenide:

… \Aӷ͛ϷÔÓ ÙeÓ ÙáÓ \PËÁ›ÓˆÓ ‚·ÛÈϤ· ‚Ô˘ÏËı¤ÓÙ· §ÔÎÚÔf˜ ηٷÔÏÂÌÉÛ·È ÙÔf˜ âÓ \IÙ·Ï›0 ηd âÌÔ‰ÈÛı¤ÓÙ· Ù” ÙÔÜ ^I¤ÚˆÓÔ˜ àÂÈÏ”. ¬ÙÈ ‰b \Aӷ͛ϷԘ §ÔÎÚÔf˜ äı¤ÏËÛÂÓ ôÚ‰ËÓ àÔÏ¤Û·È Î·d âΈχıË Úe˜ ^I¤ÚˆÓÔ˜, îÛÙÔÚÂÖ Î·d \E›¯·ÚÌÔ˜ âÓ N¿ÛÔȘ (fr. 98). … Anassilao re dei Reggini che voleva portare guerra ai Locresi in Italia e che fu fermato dalle minacce di Ierone. Che Anassilao voleva distruggere Locri e che fu fermato da Ierone lo racconta Epicarmo nelle “Isole”. Schol. Pind. Pyth. i 99 a

Più circostanziate sono le informazioni contenute negli scolii a Pind. Pyth. ii 36c e 38: \Aӷ͛Ϸ ÙÔÜ MÂÛÛ‹Ó˘ ηd \PËÁ›Ô˘ Ù˘Ú¿ÓÓÔ˘ ÔÏÂÌÔÜÓÙÔ˜ §ÔÎÚÔÖ˜ ^I¤ÚˆÓ ¤Ì„·˜ XÚfiÌÈÔÓ ÙeÓ ÎˉÂÛÙcÓ ‰ÈË›ÏËÛÂÓ ·éÙ†, Âå Ìc ηٷχ۷ÈÙÔ ÙeÓ Úe˜ ·éÙÔf˜ fiÏÂÌÔÓ, ·éÙeÓ Úe˜ Ùe \P‹ÁÈÔÓ ÛÙÚ·Ù‡ÂÈÓØ ÔyÂÚ ‰c Úe˜ ÙcÓ àÂÈÏcÓ âÓ‰fiÓÙÔ˜ âÓ ÂåÚ‹Ó– ‰È‹Á·ÁÔÓ Ôî §ÔÎÚÔ›. âÊ\ Ôx˜ ÔsÓ ö·ıÔÓ, ·î §ÔÎÚ›‰Â˜ ‘‰ÔÓ Î·d ηı‡ÌÓÔ˘Ó ÙeÓ ^I¤ÚˆÓ·. Quando Anassilao tiranno di Messene e di Reggio stava per portare guerra ai Locresi, Ierone, inviato presso di lui il cognato Cromio, lo minacciò che se non avesse cessato la

5 Sul progressivo avvicinamento tra Locri e la Sicilia soprattutto nel iv sec. cfr. Ganci 1998a, 67.

76 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto guerra contro questi ultimi, egli stesso avrebbe marciato contro Reggio e così i Locresi vissero in pace avendo Anassilao ceduto di fronte a tale minaccia. Per queste ragioni certamente, le Locresi cantano e rivolgono inni a Ierone. Schol. Pind. Pyth. ii 36c \Aӷ͛Ϸ˜ ÁaÚ Î·d KÏÂfiÊÚˆÓ ï ÙÔ‡ÙÔ˘ ·Ö˜ \IÙ·Ï›·˜ ùÓÙ˜ Ù‡Ú·ÓÓÔÈ, ï ÌbÓ âÓ MÂÛÛ‹Ó– Ù” ™ÈÎÂÏȈÙÈΔ, ï ‰b âÓ \PËÁ›Å Ù† âd \IÙ·Ï›·˜, fiÏÂÌÔÓ ä›ÏÔ˘Ó §ÔÎÚÔÖ˜Ø ‰È·ÚÂÛ‚Â˘Û¿ÌÂÓÔ˜ ‰b Úe˜ ·éÙÔf˜ ï ^I¤ÚˆÓ ö·˘Û ÙÔÜ ÔϤÌÔ˘ ÙÔf˜ §ÔÎÚÔ‡˜.

Anassilao e il figlio Cleofrone, tiranni dãItalia, lãuno a Messene in Sicilia, lãaltro a Reggio in Italia minacciavano di portare guerra ai Locresi. Ierone, inviando loro ambasciate, allontanò il pericolo della guerra dai Locresi. Schol. Pind. Pyth. ii 38

In entrambi i passi, infatti, si precisa che la natura dell’intervento di Ierone fu essenzialmente diplomatica anzi, nel primo, si dà anche un nome all’ambasciatore in carica: il fidato Cromio.6 Notizie interessanti emergono anche sulla situazione politico-amministrativa del regno dello Stretto: Anassilao è definito ora tiranno di Messene e di Reggio, ora della sola Messene ed è affiancato nella lotta antilocrese al figlio Cleofrone,7 lasciato invece al governo della polis reggina. Lo schema della reggenza e dello sdoppiamento delle sedi di governo, come si vede, sembra funzionare anche nel caso della dinastia anassilaide. Stando allo scoliasta di Pindaro, il tiranno spostò la sua sede nella città di nuova acquisizione, lasciando al figlio il governo di Reggio. Nonostante l’imprecisione delle fonti, è possibile ipotizzare che, a dispetto della separazione dei poli di potere, l’autonomia decisionale del rampollo di Anassilao fosse subordinata a quella del padre di cui era tenuto a seguire le direttive. Che Cleofrone/Leofrone partecipò all’offensiva locrese è testimoniato anche da Giustino8 ma, questa deve essere stata l’ultima, se non l’unica, missione militare del giovane a fianco del patriarca reggino. Diodoro9 colloca nell’anno 476 a. C. la morte di Anassilao e, da quel momento in poi, si perdono anche le tracce dell’erede,10 anzi il tiran06 Cfr. supra p. 53. 07 Il rampollo di Anassilao è ricordato con il nome di Leofrone in Athen. I 3, 15; Dion. Hal. Ant. Rom. xx 7, 1; Iust. xxi 3, 2. 8 Iust. xxi 3, 2. 09 Diod. xi 48. 10 Nel 484 a. C., o nel 480, o meno verosimilmente nel 476 a. C., i signori di Reggio parteciparono alle Olimpiadi e vinsero la gara del carro trainato dalle mule. Il tiranno e il figlio celebrarono questa vittoria con la commissione di un componi-

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no affida la reggenza del regno a Micito11 e lo nomina tutore dei figli non ancora maggiorenni. Gli studiosi sono propensi a credere che la scomparsa di Anassilao fosse stata accompagnata da quella del figlio delegato a Reggio.12 È possibile addirittura che l’abbia preceduta di qualche mese, se il tiranno pensò di investire Micito della carica di epitropos del regno. Diodoro non fa alcuna menzione della lotta contro Locri, tuttavia fornisce un preziosissimo terminus ante quem per la cronologia di tali avvenimenti. Il contrasto Reggio-Locri può collocarsi, infatti, tra la morte di Gelone e l’inizio della missione sibarita: proprio nei primi mesi di governo di Ierone quando il clima di incertezza e di sospetto seguito alla scomparsa del tiranno e alimentato dalla contesa dinastica tra i due Dinomenidi può avere dato il via libera all’attacco reggino.13 Fu, con ogni probabilità, l’apparente debolezza e vulnerabilità di Siracusa a suggerire a Reggio la ripresa di una politica espansionistica finora soffocata e bloccata dai risultati di Imera.14 Venuto meno il suo artefice, anche la potenza della colonia corinzia avrebbe dovuto risentirne e la sua presenza ingombrante nel basso Tirreno esaurirsi in poco tempo. Queste erano le previsioni di Anassilao che evidentemente però aveva fatto male i suoi conti, scegliendo come obiettivo Locri. R e g g i o e L o c r i ne l v i s e c. a . C . : una convi ve nza di ffi c i l e I rapporti tra le due poleis della penisola erano stati, per gran parte del vi secolo, piuttosto altalenanti e condotti sul filo dell’ambiguità: basati, da un lato su un’ostilità, per così dire, strutturale, dovuta alla conmento poetico affidato a Simonide (a questo proposito cfr. anche Arist. Rhet. iii 1405 b20). Sulla vittoria olimpica degli anassilaidi, cfr. Molyneux 1992, 211-213; CaccamoCaltabiano 1993, 31 e ss e, più recentemente, Mann 2001, 238-239. 11 Secondo Diodoro (xi 48) Anassilao, tiranno di Reggio e di Zancle, affidò il governo a Micito perché lo restituisse ai figli, una volta divenuti maggiorenni; Erodoto (vii 169, 4) lo definisce oiketes di Anassilao, lasciato alla reggenza di Reggio; per Strabone, Micito è archon di Messene in Sicilia (cfr. vi 1, 1). Sull’epitropos di Reggio cfr. anche Diod. xi 59, 4; 66, 1; Paus. v 26, 2; Iust. iv 2, 4 (che lo chiama col nome di Micalo). 12 Così Vallet 1958, 370; Luraghi 1994, 224, n. 153. 13 Diversa e difficilmente condivisibile l’opinione di Cordiano 1995, 100-101, secondo il quale la missione contro i Crotoniati sarebbe avvenuta poco prima rispetto a quella di Anassilao a Locri e fu proprio la riappacificazione tra Ierone e Terone a dissuadere il tiranno reggino dall’attacco. 14 Questa ipotesi è stata avanzata da Ciaceri 1927, 315; cfr. Maddoli 1979, 50-51; De Sensi Sestito 1987, 259; Cordiano 1995, 98 e Luraghi 1994, 224.

78 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto tiguità degli ambiti espansionistici;15 dall’altro su occasionali collaborazioni contro nemici più pericolosi. Locri, in quel periodo, era una città in crescita16 e aveva consolidato la propria influenza sul Tirreno con la fondazione di Medma17 e di Ipponio,18 guarda caso, il luogo verso cui il Dinomenide Gelone avrebbe rivolto la sua attenzione.19 Tuttavia, anche nel corso del vi secolo, in un periodo in cui sia Reggio sia Locri tendevano a dilatare i propri confini, ci fu una fase che vide le loro forze unirsi per l’interesse comune. La battaglia presso il fiume Sagra, avvenuta nella prima metà del vi secolo, vide infatti un coinvolgimento dei poli militarmente più potenti della Magna Grecia: i Metapontini, i Sibariti e i Crotoniati, decisi ad avere controllo esclusivo sull’Italia, prendono Siri. L’epilogo di questa vicenda è un attacco a Locri colpevole di avere offerto il suo sostegno all’enclave ionica.20 La memoria di questo conflitto è affidata alle parole di Giustino che sembra attribuirne la responsabilità ai Crotoniati, mentre Locri appare ampiamente sostenuta dal favore divino. A questo particolare momento storico si ascrive l’apertura del mondo magnogreco alla Grecità d’oltremare, e le città coinvolte rivolgono un accorato appello ai santuari panellenici e all’orizzonte metropolitano.21 Locri, soffocata dalla pressione crotoniate e, per di più, priva di forze militari consistenti chiede il soccorso di Sparta che invia in aiuto i Dioscuri.22 Il conflitto si risolse, grazie all’intervento divino, nel trionfo dei Locresi sul fiume Sagra, ma l’evento è talmente straordinario che la notizia si diffuse in Grecia e fu consegnata alla storia come un fatto eccezionale.23 Il ricorso a Sparta e ai Dioscuri segna il maturare sullo scenario magnogreco di un fronte dorico, contrapposto a quello acheo, che individua nella città lacedemone un modello privilegiato con cui stabilire vincoli significativi. Locri Epizefiri in fin dei conti era una sorta di polis 15 Sull’ostilità tra Reggio e Locri cfr. Cordiano 1995, 81 e Berlinzani 2002, 23-32. 16 L’invio di colonie sul Tirreno, da collocare al più tardi nel vi sec. a. C., sarebbe da mettere in relazione con situazioni di tensione risultanti magari da una crescita demografica dovuta probabilmente sia all’apporto di componenti indigene sia di elementi esterni. Questa l’opinione di Musti 1977, 82. 17 Strab. vi 1, 5. 18 Strab. vi 1, 5. 19 Cfr. supra p. 73. 20 Cfr. in proposito Moscati Castelnuovo 1989, 100-116. 21 Sul significato delle memorie storiche relative al conflitto della Sagra cfr. Van Compernolle 1969, 733-766; Sordi, 1972, 47-70; Giangiulio 1983a e Id., 1989, 238. 22 Un sostegno a Locri tuttavia dovette venire dalle sue sub-colonie Ipponio e Medma. A tal proposito cfr. Settis 1965, 119 e Giangiulio 1989b, 256-257. 23 Da qui l’espressione: più vero dei fatti della Sagra. Il proverbio si ritrova nei frammenti di Cratino (F 442 Koch vol. i) e Sofrone di Siracusa (F 169 Kaibel vol. i).

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“ibrida”: la sua metropoli greca, non era certamente achea, ma non poteva nemmeno essere definita dorica tout court.24 Tuttavia il mondo locrese in sé era sempre stato vicino a quello dorico e laconizzante sia dal punto di vista istituzionale e linguistico, sia da quello politico-culturale.25 È comprensibile che la colonia magnogreca, in uno dei momenti più drammatici della sua storia, cercasse in Sparta un supporto ideologico, più che militare, che servisse a contrastare in Italia l’irruenza della compagine achea. E non è escluso che proprio all’epoca del conflitto della Sagra abbiano proliferato tutte quelle tradizioni che legano Locri Epizefiri all’universo spartano, prime fra tutte quelle che collegano la fondazione della polis magnogreca ai Lacedemoni.26 Strabone invece attribuisce la difesa dei Locresi a Reggio, inquinando così l’omogeneità dello schieramento dorico.27 Il carattere insolito della partecipazione reggina a fianco di Locri al tempo della Sagra la dice lunga sulla natura assolutamente accidentale di tale sostegno militare. L’intervento di Reggio potrebbe essere attribuito, più che ad una solidarietà sincera, ad un’alleanza dell’ultima ora dettata dalla necessità di garantire le relazioni con le colonie locresi affacciate sul Tirreno, importante ambito di riferimento per la politica e l’economia della città.28 L’intesa Reggio-Locri viene però meno una volta esauritasi anche la minaccia di Crotone, rivoltasi poi contro il pericolo endemico rappresentato da Sibari. Agli inizi del v secolo i rapporti tra le due città dovettero comunque farsi più distesi, se Anassilao poteva permettersi di intercettare, a Locri, i Samii giunti in Occidente per partecipare alla 24 Così Sourvinou Inwood 1974, 191. 25 Sull’affinità tra Locri e l’ambito dorico peloponnesiaco insiste Musti 1977, passim. Lo studioso sottolinea il fatto che, benché i Locresi di Grecia non siano mai ricordati dalla tradizione come Dori, a questi ultimi, e in particolare al mondo lacedemone, siano innegabilmente legati da aspetti istituzionali, economici e religiosi. L’alleanza Locresi-Spartani al tempo della prima guerra messenica (Plut. De mus. 9=Mor. 1134 b-c) e la presenza del poeta di Locri Senocrito nella città lacedemone (Paus. iii 3, 1) sono testimonianze significative di un’intesa forte e duratura. A tal proposito va ricordato anche il ruolo giocato da Stesicoro, poeta vicinissimo all’orizzonte locrese, la cui opera presentava elementi genealogici e mitici, non ultimo la riabilitazione di Elena, che potrebbero lasciare pensare a rapporti culturali dell’intellettuale con la città lacedemone. Cfr. Paus. iii 19, 11-13; Giangiulio 1983a, 501 e ss.; Redfield 2003, 251-253. 26 Nelle tradizioni relative alla ktisis di Locri gli Spartani sono presenti o direttamente, come apoikoi (Paus. iii 1) o sono parte integrante delle vicende di fondazione (cfr. Pol. xii 5 e ss.). 27 Strab. vi 1, 10, 1. 28 Vallet 1958, 169.

80 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto fondazione di Kalé Akté per convincerli a conquistare Zancle.29 Ma solo qualche anno più tardi la situazione sarebbe cambiata riproponendo in maniera ancora più drammatica l’ostilità tra Reggio e Locri. Il santuario di Olimpia conserva la memoria di un ulteriore scontro a cui parteciparono anche i Messeni e che si concluse con la sconfitta locrese.30 L’episodio, difficilmente databile,31 va comunque collocato prima dell’ambasceria di Ierone ad Anassilao, ma è possibile pensare che le dediche testimonino una situazione di tensione costante tra le due città mai esauritasi realmente. Del resto era prevedibile che una città come Reggio, alla prima occasione favorevole, cominciasse a cercare spazi e punti d’appoggio in ambito italiota, destando notevole preoccupazione nel neotiranno siracusano e obbligandolo ad una definitiva scelta di campo.32 Di plo maz i a e st r at e g i a Capire quali furono i parametri che guidarono Ierone nella scelta di campo tra Reggio e Locri non è semplice: nelle fonti le tracce di precedenti relazioni tra Siracusa e Locri sono piuttosto labili, così come assoluto è il silenzio su una vera e propria richiesta d’aiuto rivolta al Dinomenide. Anzi l’iniziativa dell’intervento diplomatico sembra – e silentio – doversi attribuire al tiranno, dal momento che le testimonianze su questi avvenimenti non registrano alcun appello rivolto formalmente dai Locresi a Ierone, semmai solo una gratitudine a posteriori.33 29 Hdt. vi 23, 2. Cfr. anche Millino 1999, 291-304. 30 Si tratta di alcuni doni votivi: per l’esattezza di due coppie costituite da un elmo corinzio e da uno schiniere che riportano una dedica a Zeus da parte dei Reggini l’una, da parte dei Messeni l’altra. Dal contesto di ritrovamento dell’elmo è possibile dedurre una datazione non posteriore al 475 a. C. E il fatto che, su tre dei quattro oggetti, ricorra il nome dei Locresi sconfitti, oltre all’analogia dei doni e alla palese contemporaneità delle epigrafi, consente di attribuire tutte le iscrizioni alla stessa occasione. Cfr. SEG xxiv 1969, 304-305-311-312 e Luraghi 1994, 216-217. 31 Così Luraghi 1994, 216 che constata la difficoltà di datare l’episodio, ma pone un terminus ante quem nella campagna di Anassilao contro i Locresi. Cordiano 1995, 106 n. 72 propone un ventaglio di ipotesi possibili, pur ancorando l’episodio al primo quarto del V secolo. Le dediche degli oggetti potrebbero risalire a una prima fase degli scontri tra Anassilao e i Locresi, in cui Ierone non era ancora intervenuto e i Reggini risultarono vittoriosi. La datazione ad annum dell’episodio a cui si riferiscono le dediche di Olimpia si rivela relativamente poco importante se si riconducono i rapporti tra le due città al comune denominatore di un’ostilità quasi fisiologica, in cui scaramucce o scontri più drammatici dovevano essere piuttosto frequenti. 32 Cfr. a questo proposito D’Angelo 2002, 9-15. 33 Pind. Pyth. ii 18-20. Cfr. Woodbury 1978, 285-299; Currie 2005, 262-265 e 274.

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In questo contesto assumono significato anche i piccoli segnali che è possibile trarre dalla tradizione. Innanzitutto la notizia di Strabone34 relativa alla collaborazione offerta dai Siracusani al momento della fondazione di Locri. A questa notizia si aggiunge quanto riferito da Duride sulla costruzione voluta da Gelone nei pressi di Ipponio e che abbiamo indicato quale momento iniziale della politica magnogreca dei Dinomenidi. Il gesto di Gelone, il cui carattere, come ipotizzato, potrebbe essere più religioso e cultuale che dichiaratamente politico, verrebbe così a rappresentare un precoce avvicinamento all’orizzonte locrese su cui anche Ierone si sentì di tornare. L’atto di forza nei confronti di Reggio a questo punto risulta appena più comprensibile, ma dovrebbe essere letto e interpretato alla luce di tutta la politica ieroniana. Lo strumento privilegiato dalla politica di Ierone fu quello della diplomazia, della delega, che costituirà una sorta di Leitmotiv di tutta la sua esperienza. E forse si trattava anche del mezzo strategicamente più idoneo per intervenire in ambiti politici poco conosciuti e difficilmente controllabili; in un momento in cui Siracusa era indebolita dalle lotte dinastiche seguite alla morte di Gelone, una vigorosa minaccia da lontano poteva risultare più efficace di un’azione militare poco produttiva.35 Non bisogna dimenticare, infatti, che – se è corretta la ricostruzione cronologica che dei primi atti di governo di Ierone abbiamo proposto – solo poco dopo, e cioè in occasione della spedizione anticrotoniate, Ierone si adoperò per una riorganizzazione dell’esercito con l’allestimento di consistenti truppe.36 La scelta della strada diplomatica poi doveva avere il duplice vantaggio di non inasprire eccessivamente i rapporti con Reggio e, nello stesso tempo, di gettare le basi per un’intesa con Locri che si sarebbe rivelata così salda da rappresentare una costante nella politica estera siracusana per tutto il v secolo e parte del iv a. C.37 Abbiamo già visto tra l’altro come Locri tendesse a presentarsi in Magna Grecia quale controfigura occidentale di Sparta, alimentando quelle tradizioni, nate al tempo della Sagra, che sottolineavano la vi34 Strab. vi 1, 7. 35 Cfr. sulle scelte strategiche di Ierone, Bonanno in c.d.s. 36 Diod. xiv 48. 37 I tiranni di Siracusa ebbero poi sempre un rapporto privilegiato con la città, se pensiamo che l’ultimo dei Dinomenidi cercò rifugio a Locri (Diod. xi 68), mentre Dionisio I prese in moglie proprio una donna locrese (Diod. xi 44-45). A tal proposito cfr. le riflessioni di Redfield 2003, 205-207 sulle conseguenze dell’intervento di Ierone sulla politica estera della città.

82 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto cinanza delle due città dal punto di vista istituzionale e religioso. E se si tenta di interpretare il significato del sostegno ieroniano alla causa locrese in una prospettiva un po’ più ampia, è possibile intuire come le scelte politiche del Dinomenide, sin dai primissimi anni del suo governo, guardino più all’orizzonte internazionale e panellenico che insulare e, per così dire, “provinciale”. La contrapposizione Reggio-Locri infatti si prestava ad un’ulteriore sovrascrittura che poteva rivelarsi molto utile per il tiranno di Siracusa: la città dello Stretto si era assunta con gli Anassilaidi la tutela della componente messenica costretta ad una dolorosa diaspora dall’espansione lacedemone nel Peloponneso. Pausania38 attribuisce ad un Anassilao, tiranno di Reggio e terzo discendente di Alcidamida,39 l’appello ai Messeni sconfitti nella seconda guerra messenica a trasferirsi in Occidente e a cooperare con lui nella conquista di Zancle.40 L’insistenza sul motivo della componente messenia nella storia coloniale e politica di Reggio e poi la solidarietà dimostrata nei riguardi del tormentatissimo ethnos peloponnesiaco tradiscono un chiaro intento propagandistico, promosso dalla dinastia anassilaide, che veniva così a replicare, in Occidente, i tratti peculiari di uno scontro etnico nato in ambito continentale.41 I Locresi, dal canto loro, non solo avevano partecipato, secondo la tradizione, alla prima guerra messenica al fianco di Sparta, ma individuavano nella città laconica, un partner politico di eccezione. Quella di sostituirsi a Sparta, nella difesa di una polis “dorica”, riproducendo a distanza di secoli una coalizione dorica in Occidente, doveva essere per Ierone un’occasione da non lasciarsi sfuggire, soprattutto in un momento in cui i rapporti con il mondo metropolitano si erano irrigiditi, a causa del gran rifiuto opposto da Gelone ad una coalizione pa38 Paus. iv 23, 6. Cfr. sulla politica messenica di Anassilao Cataldi 1990, 38-39 39 Fatto salvo soltanto l’inquadramento generazionale di Anassilao, Luraghi 1994, 193, ipotizza l’arrivo di un contingente messenio a Reggio alla fine della seconda guerra messenica, tra la fine del vii e i primi anni del vi. Secondo Ganci 1998a, 24 l’errore di Pausania, potrebbe dipendere da una cronologia che collegava gli Anassilaidi al momento della fondazione di Reggio. Tale cronologia poteva essere stata plasmata sulla base di una effettiva realtà storica magari leggermente distorta a tutto vantaggio di una politica di legittimazione della dinastia reggina. 40 Strabone, rifacendosi ad Antioco di Siracusa (vi 1, 6), ricorda il carattere misto, messenio-calcidese, della città di Reggio e sostiene che tutti gli hegemones della città fino ad Anassilao furono messeni L’origine messenia di Anassilao è confermata anche da Thuc. vi 4, 6 e da Herakl. Pont. FHG ii F 25, 5. 41 Sull’importanza del fattore etnico nella tirannide di Anassilao cfr. Mossé 20042, 82-83.

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nellenica contro il “barbaro”. Cominciò da Locri, anzi proprio dalla Magna Grecia, il progetto di Ierone di una politica internazionale che sfruttasse, più che la forza militare, le strade della diplomazia, della propaganda e che uscisse fuori dal Tirreno per dialogare con le poleis della Grecità peninsulare con lo stesso codice basato sull’affinità di stirpe e sui legami della syngeneia.42 Questa inclinazione a riferirsi ideologicamente al mondo dorico da parte della tirannide siracusana sarà confermata poi al momento della fondazione di Etna, le cui istituzioni create sulla norma d’Illo, saranno conosciute, grazie a Pindaro, in tutto il mondo ellenico. E sono in fondo proprio i versi della prima Pitica sulla colonia di Ierone, di cui si parlerà più avanti, a suggerire la chiave di lettura anche per la scelta del partito filolocrese. Una chiave di lettura che si dimostra tanto più efficace se si pensa che, durante la guerra del Peloponneso, Siracusa, Locri e Sparta costituirono un fronte di opposizione politico-diplomatica contro la minaccia ateniese.43 Ma c’è di più: questa nuova amicizia avrebbe trovato anche un’ulteriore ragion d’essere nella successiva offensiva siracusana proprio contro Crotone, nemica giurata dei Locresi e roccaforte del filosofo Pitagora, a cui essi si erano rifiutati di offrire ospitalità.44 Quella pitagorica era una componente profondamente destabilizzante di cui tenere conto e alcune tracce, come vedremo anche più avanti, consentono di ipotizzare che Ierone ne ebbe la percezione e cercò con vari sistemi di arginarne la diffusione. L’intervento promosso da Ierone contro i Crotoniati fu dunque incoraggiato da una serie di fattori fra loro concatenati e favorito da circostanze che il sovrano seppe volgere a suo vantaggio, cominciando a tessere la trama di una politica internazionale articolata e plasmata a dovere in relazione alle sfere di intervento. Le conseguenze dell’intervento diplomatico su Reggio, per quanto blando, furono però abbastanza durature. Georges Vallet45 ha sostenuto addirittura che la fortificazione di Scilleo, attribuita ad Anassilao nell’opera di Strabone,46 e da alcuni storici collocata nei primi anni della sua tirannide,47 vada invece spostata più tardi e precisamente do42 Cfr. per uno studio sul termine e sul valore della syngheneia Sammartano 2007. 43 Taranto e Locri rifiutarono addirittura l’ormeggio alle navi dell’armata ateniese durante la spedizione in Sicilia (cfr. Thuc. vi 44). A questo riguardo cfr. anche le conclusioni di Giangiulio 1983a, 503 e Van Compernolle 1969, 752-753. 44 Porph. V. Pyth. 56. 45 Vallet 1958, 368. 46 Strab. vi 1, 5. 47 Luraghi, 1994, 214 e n. 110 colloca invece il provvedimento di Anassilao nel

84 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto po l’incidente con Ierone. Secondo questa ipotesi il principe di Reggio avrebbe assecondato una precoce politica antietrusca promossa dal tiranno di Siracusa e culminata con la vittoria di Cuma. Per quanto allettante l’idea dello studioso sembra tuttavia poco verosimile e non perché l’intervento di Ierone fosse stato poco determinante, ma semplicemente perché i tempi, tra la conclusione della questione locrese e la morte del tiranno reggino, sarebbero troppo stretti per consentire di ipotizzare una politica coordinata ed efficace tra le due città più potenti della Grecità d’Occidente. Tuttavia è innegabile che, dopo la scomparsa del sovrano, o meglio, già dopo la sconfitta subita a Imera, la tirannide reggina sia entrata in pieno nell’orbita di influenza siracusana. Il regno passò sotto la sovrintendenza di Micito, ma fu proprio Ierone che qualche anno più tardi si preoccupò di riconsegnare lo scettro ai legittimi figli del dinasta. La parentesi tirannica del Dinomenide si conclude così come era iniziata con un intervento su Reggio. Diodoro data al 467 a. C., poco prima della morte di Ierone dunque, in uno scenario politico-internazionale profondamente mutato, la fine del governo di Micito sul regno dello Stretto.48 L’estromissione dello scomodo epitropos – come si vedrà anche più avanti – era diventata necessaria, soprattutto da quando quest’ultimo aveva cominciato a comportarsi da vero tiranno occidentale,49 promuovendo la fondazione della colonia di Pissunte sul versante tirrenico dell’Italia meridionale.50 Dopo il soccorso offerto a Locri, la mossa successiva di Ierone sarebbe stata la missione militare contro Crotone in favore di Sibari. Anche questa operazione, diversa negli obiettivi e nelle modalità di attuazione, sembra nascondere in realtà un altro interlocutore prestigioso che con Siracusa condivideva un certo interesse per l’area sibarita. Si trattava di Atene, che, come si vedrà, già ai tempi di Salamina, manifestava una vaga attrazione nei confronti del versante ionico dell’Italia meridionale. quadro dell’acquisizione del controllo, da parte della città calcidese, della sponda siciliana dello Stretto. A questo proposito cfr. le considerazioni di Giuffrida 1978, 175200 e di De Sensi Sestito 1981, 619 n. 9; Maddoli 1979, 51 colloca subito dopo la morte di Gelone la fortificazione di Scilleo. 48 Hdt. vii 169, 4; Diod. xi 66. 49 Luraghi 1994, 227. Inoltre a Micito si attribuiscono diverse offerte a Olimpia, indizio di una volontà precisa di lasciare un segno, inscrivendosi nello spazio olimpico (cfr. Paus. v 24, 6 e 26, 2-4). Cfr. a questo proposito anche Mann 2001, 239-240. 50 Strab. vi 1, 1; Diod. xi 59. Sulla funzione politica della fondazione di Pissunte cfr. Millino 2008.

IERONE E “L’EREDITÀ DI SIBARI”* L a d i as po r a d e i S i ba r i t i

L

a missione nell’area sibarita è la prima spedizione militare ricordata da Diodoro51 sotto la tirannide di Ierone. I fatti vengono raccontati in modo cursorio nell’ambito degli avvenimenti relativi all’anno 476 a. C. e altre notizie piuttosto imprecise e contraddittorie le troviamo, come abbiamo visto, negli scolii a Pindaro. Rileggiamo in traduzione quanto scrive lo storico agirinense: Ierone basileus dei Siracusani dopo la morte di Gelone, vedendo che Polizelo godeva di buona fama presso i Siracusani e ritenendo che fosse pronto a sostituirlo al governo, cercava un modo per allontanarlo. Intanto, arruolando e disponendo una guardia personale di soldati stranieri, pensava che in tal modo avrebbe reso sicuro il suo regno. Perciò, quando i Sibariti assediati dai Crotoniati chiesero aiuto, arruolò molti soldati in un esercito che consegnò al fratello Polizelo, pensando che avrebbe trovato la morte per mano dei Crotoniati. Ma quando Polizelo non gli obbedì riguardo alla spedizione a causa del sospetto di cui è parlato, Ierone si adirò con il fratello ed essendo quest’ultimo fuggito presso Terone, tiranno di Agrigento, si preparava a fargli la guerra. Diod. xi 48

Nel resoconto diodoreo la missione di soccorso ai Sibariti viene menzionata quasi en passant, come se la notizia fosse semplicemente funzionale a garantire la fluidità della narrazione e quindi a spiegare i motivi per cui Polizelo, legato all’aristocrazia siracusana, fosse stato costretto a rifugiarsi presso il suocero Terone, incrinando pericolosamente i rapporti tra Siracusa e Agrigento. E per la verità quel che emerge dalla cronaca di Diodoro è che la richiesta di aiuto dei Sibariti a Ierone altro non fosse che l’occasione che il tiranno aspettava per disfarsi del fratello, la cui presenza a Siracusa rendeva il suo governo sempre più instabile. Non erano bastate evidentemente le misure adottate per la militarizzazione del regno: Polizelo andava allontanato e in modo non * Di questo aspetto della politica di Ierone mi sono occupata in un intervento di prossima pubblicazione all’interno degli Atti del Convegno Internazionale Periferie ed esplorazione antica. Dal Mediterraneo all’Europa. Diodoro e la tradizione diodorea in Suppl. a Kokalos 18. Le pagine che seguono ne costituiscono una sintesi. 51 Diod. xi 48.

86 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto troppo sospetto.52 Affidargli il comando di una spedizione militare giustificata da una regolare richiesta di aiuto poteva essere la strada politicamente e strategicamente più efficace. Secondo i calcoli di Ierone, Polizelo avrebbe trovato la morte per mano dei Crotoniati e la tirannide siracusana sarebbe stata finalmente al sicuro, senza che il prestigio del Dinomenide ne fosse intaccato. Sono questi gli elementi certi che è possibile isolare ad una lettura superficiale del brano. I problemi però si presentano quando si cerca in Diodoro la risposta ad altre questioni utili a ricostruire il contesto in cui si realizzò l’intervento siracusano. Innanzitutto, infatti, è opportuno interrogarsi sull’identità dei Sibariti che chiesero aiuto a Ierone e sui motivi per i quali erano assediati dai Crotoniati; in secondo luogo, sarà necessario indagare sull’esito della spedizione; e infine determinare l’obiettivo reale del tiranno: se cioè esso fosse, veramente, soltanto quello di allontanare lo scomodo fratello o se la spedizione celasse interessi in area magnogreca non apertamente dichiarati. Le testimonianze contenute negli scolii a Pindaro aiutano ben poco e spesso servono semplicemente a complicare il quadro. Una tradizione diversa rispetto a quella diodorea è conservata in Timeo53 che conferma il carattere assolutamente pretestuoso della missione di Polizelo, ma parla in maniera sospetta di una guerra Úe˜ ™˘‚·Ú›Ù·˜. Tutto il passo è percorso da una chiara ostilità nei confronti di Ierone e l’espressione Úe˜ ™˘‚·Ú›Ù·˜ sembra volutamente ambigua e sbrigativa, quasi volta a trasformare quella che per Diodoro era una missione di soccorso in un attacco in piena regola. Inoltre Timeo tace della richiesta di aiuto presentata dai Sibariti a Siracusa e dell’assedio cui erano costretti dai Crotoniati. Quello che allo storico di Tauromenio importa sottolineare è invece che Polizelo portò a conclusione la guerra con successo. Resta comunque l’aporia in cui ci costringe il Tauromenita sulla natura dell’impresa e sugli obiettivi da colpire. Che si trattasse di un attacco ai Sibariti, come sembra di potere evincere dal frammento timaico, è poco credibile. Una conferma in questo senso viene da Didimo a cui si deve lo scolio a Pindaro Ol. ii 29b. Che anche questo passo sia di tradizione timaica emerge dalla menzione nel testo dell’invidia che spinge Ierone a sbarazzarsi di Polizelo, inviandolo in una missione precisamente volta alla rifondazione di Sibari (Âå˜ àÓÔÈÎÈÛÌeÓ ™˘‚¿Úˆ˜). La contraddizione può risolversi se si 52 Sul rapporto tra mercenari e tiranni sicelioti e sulle conseguenze di tale rapporto cfr. le considerazioni di Bettalli 1995, 92-99. Alla presenza di mercenari siculi al soldo di Jerone sembra alludere un proverbio di Zenobio (Zen. v 89). 53 Cfr. supra p. 48.

i e rone e “ l ’ e r e d i t à di s i ba r i ” 87 ipotizza che lo scolio Ol. ii 29d, così come lo scolio recens, che riporta la stessa formula ÙeÓ Úe˜ ™˘‚·Ú›Ù·˜ fiÏÂÌÔÓ, tramandino in realtà, nella maniera solitamente concisa e contratta dei riassunti scoliastici, un originario ÙeÓ KÚÔÙˆÓÈ·ÙáÓ Úe˜ ™˘‚·Ú›Ù·˜ fiÏÂÌÔÓ presente nella versione timaica poi filtrata da Didimo.54 Ed è proprio la precisazione sull’anoikismos di Sibari che fornisce degli indizi sull’identità dei Sibariti che invocarono il soccorso di Ierone, consentendoci non solo di rispondere al primo degli interrogativi che ci siamo posti, ma anche di ipotizzare uno scenario possibile. Nel 510 a. C. i Crotoniati avevano distrutto la città e massacrato gran parte degli abitanti.55 Sibari però, secondo la tradizione, era una polis polyanthropos,56 e dunque numerosi dovevano essere ancora, all’inizio del v secolo, i Sibariti dispersi e nostalgici dello splendore della colonia achea.57 La crisi di un’entità statale apparentemente così stabile e potente si consumò proprio all’interno della città. Alla fine del vi sec. salì al potere un demagogo, Teli, che convinse i concittadini a mandare in esilio i cinquecento Sibariti più ricchi e a confiscare le loro sostanze. Gli esuli si rifugiarono come supplici a Crotone e quando Teli ne richiese la consegna minacciando la guerra, la città, su consiglio del filosofo Pitagora, preferì salvarli e accettare di battersi. Ne seguì un conflitto epocale che rimase nella memoria dei Greci per lungo tempo. I Sibariti, di gran lunga più numerosi, furono sconfitti nella battaglia del Traente da un’esigua schiera di Crotoniati. Comincia qui l’odissea degli sconfitti, il cui destino sarà uno dei temi più discussi dall’opinione pubblica greca.58 È così che i Sibariti 54 Così Raviola 1986, 86-87; cfr. a questo riguardo anche Piccirilli 1971, 77. 55 Diod. xii 10. 56 Le fonti antiche attribuiscono a Sibari una popolazione, ora di 300000 abitanti (Diod. xii 9; Strab. vi 1, 13) ora di 100000 (Ps. Scym. v. 341). In entrambi i casi si tratta di cifre incredibili ed esagerate e tuttavia spesso considerate attendibili. Camassa 1989, 1-9 ha mostrato come sia l’una sia l’altra cifra corrispondano a numeri che l’immaginario greco assumeva per esprimere la capacità massima di estensione del corpo civico di una polis. Il destino tragico di Sibari poi, con la sua disponibilità eccessiva alla concessione della cittadinanza, avrà rappresentato nella storiografia l’exemplum della polis suicida che, alterando sull’onda della hybris e della tryphe il delicato equilibrio numerico della cittadinanza, ha causato la sua rovina. Sul motivo della prosperità di Sibari cfr. anche le conclusioni di Lombardo 1993, 322 e ss.. 57 Strabone insiste sulla potenza della città che raggiunse una fortuna tale da controllare ben 4 ethne e 25 poleis (Strab. vi 1, 13). Quella sibarita era, sostanzialmente, una struttura statale costituita da comunità satelliti di tipo periecico organizzate intorno a un unico centro. Cfr. Giangiulio 1987, 26. 58 Erodoto (vi 21) ricorda la grande manifestazione di solidarietà che i Milesii, radendosi il capo, diedero ai vinti, i quali privati della loro città, abitavano Lao e Scidro.

88 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto mantennero la loro identità civica fino agli anni cinquanta del v sec.59 e cioè fino a quando, insieme ai Tessali (o a un tale Tessalo), rifondarono (Û˘ÓÑÎÈÛ·Ó) la città, ma dopo qualche tempo furono scacciati per la seconda volta – puntualizza Diodoro – dai Crotoniati.60 Furono ancora Sibariti poi a mandare ambasciatori in Grecia a chiedere a Spartani e Ateniesi un aiuto per tornare in patria e a proporre loro di condividere la fondazione della colonia. Gli Spartani non prestarono attenzione, mentre gli Ateniesi si lanciarono entusiasti nell’avventura sibarita che avrebbe portato, nel 444 a. C., alla nascita della colonia pomellenica di Turi. Dietro consiglio dell’oracolo di Delfi, la polis fu costruita poco lontano rispetto al sito dell’antica Sibari, e fu abitata da quelli che prima erano Sibariti e da tutti coloro che gli Ateniesi riuscirono a coinvolgere. È in questo momento che i politai della colonia achea cessarono di essere tali per acquisire la cittadinanza di Turi, anche se la loro origine sibarita rimase comunque nella memoria storica della città neofondata e fu addirittura la causa delle discordie civili che la attraversarono.61 L’identità sibarita dunque rimase viva e forte fino a quando non perì l’ultimo dei cittadini della colonia distrutta.62 Non c’è da stupirsi allora che, all’inizio degli anni settanta del v secolo, quando la distruzione della città da parte dei Crotoniati era un ricordo ancora fresco, un gruppo di superstiti, tentassero un ritorno in patria.63 A costoro, del 59 Questa è in fin dei conti una caratteristica peculiare delle comunità civiche greche, la cui concezione personale dello Stato faceva sì che la politeia non fosse un’entità astratta e indipendente dai cittadini ma coincidesse con le persone stesse a prescindere dal loro ubi consistam. A questo proposito cfr. Canfora 1991, 134. Raviola 1986, 34 n. 68 ha sottolineato l’ostinazione dei Sibariti nel loro attaccamento alla terra avita, la loro capacità di trasmettere di padre in figlio l’impegno del ritorno in patria e la promessa della rinascita della città e soprattutto la «tendenza, per così dire, biologica a ricostituirsi in quadro politico istituzionale», mantenendo anche all’interno delle comunità civiche ospitanti una ben distinta individualità civica. Sulla propensione dei Sibariti a mantenere a lungo anche dopo la distruzione della città la loro identità poleica, Lombardo 2008, 209-210. 60 Diod. xii 10. Alla fine dell’xi libro Diodoro attribuisce a un Tessalo la rifondazione di Sibari (Diod. xi 90). L’oscillazione della tradizione Tessalo/Tessali è stata generalmente attribuita alle presenze tessaliche legate all’area achea e in particolare alla città di Posidonia. Contra Lombardo 1993, 295 e Bugno 1999, 90-93. 61 Diod. xii 11. 62 Cfr. ibidem. 63 Forse si trattava, come ritiene Braccesi 1999, 48, di quegli stessi che, secondo Erodoto, si erano rifugiati a Lao e a Scidro (cfr. supra p. 87 n. 58). De Sensi Sestito 1981, 628-629 (cfr. anche per la bibliografia relativa) ritiene che a promuovere la ricostruzione di Sibari II fossero stati i Sibariti rimasti a vivere nei dintorni della città distrutta nel 510 a. C.

i e rone e “ l ’ e r e d i t à di s i ba r i ” 89 resto, è verosimile che si aggiungessero quelli che, durante la tirannide di Teli, si erano rifugiati, come supplici a Crotone e, con la loro richiesta, di soccorso avevano suscitato la reazione di Pitagora e creato il casus belli. Il l e nto d e c l i no di Croton e e la conf l i ttual i t à con S i r ac u s a Dopo la conquista di Sibari, cominciò in un certo senso il declino di Crotone. La città, pur avendo stabilito il suo controllo su una delle aree più feconde dell’Italia meridionale, dovette fare i conti con aspri conflitti interni, che avrebbero poi portato alla cacciata di Pitagora. Il pomo della discordia era rappresentato soprattutto dalla eventuale gestione della doriktetos ge, e la contesa finì per coinvolgere i Pitagorici, principali artefici della vittoria sui Sibariti.64 All’inizio del v secolo poi, la colonia achea conobbe, a quanto pare, anche una tirannide. Dionigi di Alicarnasso65 ricorda il nome di un tiranno crotoniate, un certo Clinia66 e sembra collocarlo cronologicamente prima di Anassilao – se di cronologia si può parlare per episodi che direttamente o indirettamente hanno a che fare con la storiografia pitagorica.67 Quello del governo di Clinia non fu un periodo trop64 Iambl. V. P. xxxv 248 e ss. e 255 e ss. La vittoria su Sibari era stata essenzialmente un successo dei Pitagorici, ma aveva anche segnato l’inizio della fine del loro controllo su Crotone. Musti, 1988a, 47 la definisce «una vittoria amara, la classica arma a doppio taglio. Infatti proprio la conquista del territorio sibaritico si rovesciò come un boomerang sui Pitagorici di Crotone». Da quel momento in poi non è errato sostenere che ogni tentativo dei Sibariti di ricostituirsi in polis, possa essere interpretato come un segnale di debolezza della colonia achea. Musti 1990, 35-65, individua due grandi crisi del Pitagorismo: la prima intorno agli anni 500 o 490/80 a. C. e la seconda dopo la spedizione ateniese in Sicilia. Il decennio 80-70, che poi è quello che ci interessa, potrebbe aver visto quindi l’inizio di una lenta ripresa del Pitagorismo crotoniate, che avrebbe portato poi alla nascita di una seconda Megále Hellás pitagorica, quella italo-siceliota rappresentata da personalità di eccezione quali Parmenide, Empedocle ed Epicarmo. A questo proposito Mele 1982, 46. 65 Dion. Hal. Ant. Rom. xx 7, 1. 66 La memoria dei Pitagorici non ha lasciato nessun ricordo della tirannide di Clinia e manca anche di uno spazio in cui inserirla, ma questo silenzio potrebbe essere spiegato con il carattere essenzialmente “celebrativo” della storiografia del Pitagorismo ostile, almeno formalmente, ad ogni forma di tirannide. Il governo di Clinia è concordemente collocato agli inizi del v secolo. Così Sartori 1993, 60-61. Contra Bicknell 1976, che abbassa la cronologia della tirannide alla decade 450/440 a. C. Sulle conclusioni di Bicknell cfr. le obiezioni Mele 1982, 57 n. 332 e le considerazioni di Luraghi, 1994, 72-76. 67 Musti 1990, 35-65 osserva che le tradizioni sul Pitagorismo difficilmente possono essere sottoposte a verifica, né tantomeno è possibile stabilire una cronologia.

90 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto po felice per Crotone; Dionigi racconta che per consolidare la sua tirannide alcuni dei cittadini più in vista vennero uccisi e altri mandati in esilio. All’esterno Crotone riusciva a dare comunque un’immagine immutata di potenza: la città continuava a collezionare vittorie olimpiche,68 sebbene, negli anni ottanta del v sec. a. C., l’episodio dell’atleta Astilo che decise, dopo il suo trionfo, di dichiararsi Siracusano per compiacere Ierone,69 possa essere interpretato come un primo segnale di debolezza. Più verosimilmente il destinatario dell’omaggio dell’atleta era Gelone, giacché, a quel tempo, Ierone era ancora tiranno di Gela: l’equivoco però potrebbe essere nato proprio dalla politica anticrotoniate da lui condotta. La presa di posizione dell’atleta che, come patria elettiva, sceglie proprio la colonia corinzia, oltre a evidenziare una frattura tra cittadino e polis, è indice del profilarsi in Occidente di una polarità CrotoneSiracusa, che avrebbe fatto sentire i suoi effetti fino al secolo successivo. In fin dei conti Astilo, con il suo gesto, non fa che sottrarre alla città il titolo più prestigioso, per consegnarlo ad una potenza antagonista.70 I concittadini dell’atleta reagirono trasformando la sua casa in carcere e abbattendo la statua eretta in suo onore nel santuario di Era Lacinia. Che fossero poi i Dinomenidi il bersaglio privilegiato della politica internazionale della colonia achea, emerge anche dalla scelta decisamente sospetta dei Crotoniati di partecipare alla battaglia di Salamina. Una mossa strategica che può essere letta dialetticamente con il rifiuto di Gelone di partecipare alla lotta contro il “barbaro”. Il supporto crotoniate allo sforzo bellico degli Elleni fu affidato al coraggio del naLa ragione è – secondo lo studioso – insita nel fenomeno stesso del Pitagorismo che si esprime in una società chiusa, frantumatasi poi in tante cellule isolate le cui memorie, meramente orali, rimangono prive di una vera circolazione. Sulla storiografia e la tradizione pitagorica cfr. Burkert 1962, 85-97; Cordiano 1999 e Muccioli 2002. 68 Sulle vittorie di Crotone e sulle ragioni dei successi atletici della città cfr. Giangiulio 1989, 102-121 e Mann 2001, 164-191. 69 Paus. vi 13, 1. 70 Su Astilo sembra pesare un’accusa di corruzione che dovrebbe essere attribuita piuttosto alla pressione del tiranno, cfr. Luraghi 1994, 293-294. È bene precisare però che, in quel periodo, Ierone era tiranno di Gela e non si capisce in che modo avrebbe potuto compiacersi per il gesto dell’atleta. È più verosimile che questo omaggio fosse rivolto a Gelone. Luraghi 1994, 293 sottolinea qui un’influenza delle tradizioni sui Dinomenidi, e su Ierone in particolare, su cui spesso si concentrano tutte le azioni negative, lasciando intatta l’aura di correttezza e di generosità del fratello. Sulle ragioni che indussero Astilo a lasciare la città diverse sono le interpretazioni, cfr. Pleket 1988, 69 n. 60 e Mann 2001, 188-189 e 248 che ipotizzano all’origi-

i e rone e “ l ’ e r e d i t à di s i ba r i ” 91 varco Faillo, atleta e vincitore ai giochi pitici,71 e dunque esponente di rilievo dell’élite crotoniate. Ma Crotone non poteva agitare, in maniera troppo convinta, il vessillo della lotta contro il “barbaro”. La città aveva condotto infatti, in ambito tirrenico, una politica internazionale del tutto diversa, stringendo intese con Imera e con la compagine punico-calcidese72 e per di più sembrava aver intrattenuto qualche relazione anche con la corte del re Dario.73 L’intervento di Crotone sembra posticcio e tardivo: una nave soltanto corre in aiuto dei Greci e per di più – secondo altre fonti74 – allestita privatamente dal navarca a capo della spedizione. La tradizione storiografica, comunque, tace di una richiesta di aiuto rivolta ai Greci dell’Italia meridionale:75 la notizia di Erodoto pertanto può essere stata rielaborata in ambiente crotoniate nel contesto storico successivo al 480 a. C. quando tante poleis della Grecia metropolitana e coloniale (Siracusa in testa), si diedero da fare per sottolineare la bontà e la determinazione del proprio impegno nella lotta contro il “barbaro”. È possibile dunque che, negli stessi anni in cui Ierone tentava di riabilitare l’immagine dei Dinomenidi agli occhi dei Greci e il comportamento dei Siracusani di fronte all’appello disperato delle poleis elleniche, i Crotoniati fossero impegnati in un analogo sforzo revisionistico volto a far passare quella che era stata l’iniziativa individuale di un cittadino – probabilmente, anche egli in contrasto con la propria città76 – quale reazione achea alla minaccia rappresentata dai “barbari”. Si vede così come, dalla fine del vi secolo ai primi anni del v, Crotone e Sine di questo gesto una strategia ben precisa dei Dinomenidi ad attrarre nella propria sfera di influenza atleti famosi. 71 Hdt. viii 47. L’intervento di Crotone non fu tuttavia esente da ambiguità. Sia Paus. x 9, 2, sia Plut. Alex. xxxiv 1-3, conservano il ricordo della missione dell’atleta, ma le conferiscono un carattere del tutto privato. Tra l’altro se si accetta di identificare Faillo con il siracusano che 453 a. C. guidò la flotta contro gli Etruschi (Diod. xi 88, 4), ci troveremmo qui di fronte a un altro Crotoniate che abbandona la sua città per Siracusa (cfr. Mann 2001, 189). Sulla partecipazione di Faillo a Salamina cfr. Cagnazzi 1996, 11-19. 72 A questo proposito cfr. Sordi 1972, 47 e ss.; Mele 1982, 71 e Moscati Castelnuovo 1995, 59. 73 Tracce di questi legami possono leggersi nelle vicende del medico crotoniate Democede ospitato alla corte del Dario (Hdt. iii 129-138) e nel trattamento riservato da Crotone al principe spartano Dorieo, il cui intervento in favore della città, ai tempi della guerra con Sibari fu in seguito rinnegato dai Crotoniati stessi (Hdt. v 4547). Cfr. Braccesi 1999, 32. 74 Cfr. supra n. 71. 75 Cfr. Cagnazzi 1996, 12. 76 Sul rapporto tra Faillo e la sua città Cagnazzi 1996, 11-19.

92 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto racusa procedano su binari paralleli, combattendo una guerra strana, condotta con le armi della propaganda e del mito.77 Le scelte diametralmente opposte in politica estera, rivelano poi una situazione di conflittualità reciproca, sotterranea ma crescente e ad ogni azione siracusana corrisponde una reazione crotoniate, uguale e contraria. L’episodio di Astilo è solo una spia della polarità Crotone-Siracusa che si rivelerà in maniera più netta negli anni successivi al 480 a. C.78 La situazione precipitò proprio all’inizio della tirannide di Ierone e con la richiesta di aiuto dei Sibariti, all’indomani della sua ascesa al potere. Con la menzione della spedizione di Polizelo, Diodoro annuncia il “nuovo corso” della tirannide siracusana e l’avvio di una politica magnogreca giocata anche sui campi di battaglia e a colpi di lancia. Nasce proprio in questo momento, dal punto di vista militare, la storia di un’ostilità che avrebbe sconvolto l’Occidente, per più di un secolo. Il pretestuoso soccorso ai dispersi Sibariti rappresentò probabilmente una sorta di regolamento di conti, troppo a lungo rimandato, con una città rivale. Non deve essere stata casuale pertanto la scelta di colpire Crotone nel suo punto più debole. L’acquisizione della Sibaritide era stato infatti uno dei successi militari più importanti per la città achea e la propaganda politica tendeva a presentarla come il riscatto della Sagra.79 Il controllo sull’area però fu sempre minacciato dalle tensioni interne e dalla pressione dei Sibariti che periodicamente tentavano il ritorno in patria. A tutto questo, nel corso del v secolo, si aggiunse l’attenzione sempre più crescente che le potenze straniere dedicavano alla questione sibarita, che poi culminò con una presa di posizione chiara di Atene, decisa a raccogliere l’eredità della città scomparsa. 77 Tracce della conflittualità Siracusa-Crotone si ritrovano anche in alcune tradizioni di fondazione in cui le due città vengono prima affiancate ma poi i loro destini finiscono per divergere per scelta dei rispettivi ecisti. Cfr. Strab. vi 2, 4; Steph. Byz. s. v. Syrakusai; Souda s.v. \AÚ¯›·˜ (Adler i 375, 4104); Souda s.v. M‡ÛÎÂÏÏÔ˜ (Adler iii, 429, 1473); Dunbabin 1948, 63 e 444; Mele 1983, 17 e ss; Giangiulio 1989b, 134. 78 Anche l’aiuto offerto da Siracusa a Locri può essere interpretato nell’ottica della conflittualità con Crotone. È infatti proprio agli anni della tirannide dinomenide che si ascrive l’unica notizia (Strab. VI 1, 5) relativa a un’espansione locrese sulla Temesiade fino ad allora probabilmente sotto l’influenza crotoniate. L’episodio non può non avere avuto dei contraccolpi sul controllo dell’unica colonia tirrenica di Crotone, probabilmente localizzata tra Medma e Ipponio. Su questi aspetti e in particolare sul legame tra Siracusa e Locri e sulla crisi crotoniate negli anni della tirannide dei Dinomenidi cfr. De Sensi Sestito 1981, 617-642. 79 Cfr. Mele 1983, 30 e ss.

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L a s pe d i z i one cont ro i Croton i at i Il tentativo dei Sibariti degli anni settanta del v sec. a. C. fu solo una delle tappe iniziali di questo processo di ritorno a cui anche Ierone può aver voluto offrire il suo contributo.80 Un tentativo andato a vuoto di cui non rimane memoria nemmeno in Diodoro, nelle pagine in cui lo storico ritorna sulle vicende.81 In che termini, allora, Timeo poteva dire che Polizelo aveva portato a conclusione la guerra con successo? Che ci sia stata una certa distonia tra le disposizioni di Ierone riguardo alla natura dell’intervento e gli obbiettivi effettivamente raggiunti da Polizelo, sembra potersi dedurre dal testo di Diodoro, che riferisce chiaramente di un atto d’insubordinazione rispetto agli ordini ricevuti.82 Ma tale notizia potrebbe essere semplicemente un retaggio della tradizione di Filisto, confluita in Eforo e poi nel passo dell’Agirinense, e dunque relativo alla missione contro i perieci barbari dei Sicelioti, che è l’unica ricordata nello scolio Ol. ii 29c.83 È difficile dunque capire se lo scomodo fratello di Ierone sia arrivato mai sul luogo del conflitto o se si sia ritirato prima, intuendo il pericolo.84 A volere integrare le due tradizioni, quella conservata in Diodoro e riconducibile con ogni probabilità a Eforo, e quella tràdita nello scolio Ol. ii 29b, è possibile ipotizzare che l’obiettivo di Ierone, oltre a quello di disfarsi del fratello, fosse di allentare la pressione dei Crotoniati sui Sibariti, liberando magari questi ultimi da un assedio che li ostacolava nella rifondazione della città. Ma è pensabile che il tiranno di Siracusa armasse tanto di esercito semplicemente per eliminare il fratello e soccorrere uno sparuto numero di Sibariti senza terra? Nel qual caso la missione promossa da Ierone con tutte le conseguenze che ne derivarono (nulla di fatto dal punto di vista militare e Polizelo vivo e attivo alla corte emmenide) nient’altro sarebbe stata che una débâcle su tutti i fronti. Un passo di Polieno offre qualche ragguaglio in più sull’esito delle azioni militari di Ierone in Italia meridionale: 80 A questo proposito cfr. ancora Mele 1983, 60. 81 Un responso oracolare conservato in Plutarco (De ser. num. vind.12=Mor. 557c) annunciava ai Sibariti la liberazione dalle loro disgrazie e una rinascita della loro città come tale, dopo tre olethroi che non possono che essere quella del 510 a. C., del 476 a. C. e del 448 a. C. 82 Cfr. loc. cit. p. 85. 83 Cfr. supra p. 44.M 84 Secondo De Sensi Sestito 1981, 628-633 una spedizione siracusana ebbe luogo e servì anche a respingere l’attacco crotoniate, ma non fu Polizelo a portarla a termine, bensì lo stesso Ierone dopo la pacificazione col fratello.

94 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto ^I¤ÚˆÓ \IÙ·ÏÈÒٷȘ ÔÏÂÌáÓ, ïfiÙ Ͽ‚ÔÈ ÙÈÓa˜ ·å¯Ì·ÏÒÙÔ˘˜ ÙáÓ ÂéÁÂÓáÓ j ÏÔ˘Û›ˆÓ, ÔéÎ Âéıf˜ à‰›‰Ô˘ ÙÔÖ˜ Ï˘ÙÚÔ˘Ì¤ÓÔȘ, àÏÏa ÔÏÏa˜ ì̤ڷ˜ ηٷۯgÓ ÎÔÈÓˆÓ‹Û·˜ ·éÙÔÖ˜ ëÛÙ›·˜ ηd ÙÈÌ‹Û·˜ ÚÔ‰ڛ0 ÙËÓÈηÜÙ· ÚÔÛȤÌÂÓÔ˜ Ùa χÙÚ· ÙÔf˜ ôÓ‰Ú·˜ âÍÂ¤ÌÂÙÔ. Ôî ‰b â·ÓÂÏıfiÓÙ˜ ≈ÔÙÔÈ ·Úa ÙÔÖ˜ ÔϛٷȘ qÛ·Ó ó˜ ÊÈÏ›·˜ ^I¤ÚˆÓÈ ÎÂÎÔÈÓˆÓËÎfiÙ˜.

Quando faceva la guerra contro gli Italioti, Ierone tutte le volte che prendeva alcuni prigionieri tra i nobili o tra i ricchi, non consentiva che fossero subito riscattati, ma li tratteneva per molti giorni facendoli partecipare ai banchetti e onorandoli con la proedria; poi accettava il riscatto e li rimandava indietro. Questi una volta tornati risultavano sospetti ai concittadini poiché avevano condiviso rapporti di amicizia con Ierone. Polyaen. i 29, 2

Polieno parla di un polemos contro gli Italioti, ma non precisa di quali Italioti effettivamente si trattasse. Tuttavia che si tratti degli stessi Crotoniati (magari insieme ai loro alleati), ricordati come antagonisti di Ierone da Diodoro, sembra abbastanza verosimile.85 Dal testo emerge l’immagine di una polis afflitta da contrasti interni, che può adattarsi alla situazione di una città come Crotone, culla del Pitagorismo, in cui le élites aristocratiche potevano essere fortemente danneggiate dal sospetto di una collusione con un tiranno.86 Una lettura più approfondita del racconto di Polieno sembra suggerire come sfondo allo stratagemma architettato da Ierone la città di Siracusa.87 Il tattico parla chiaramente di prigionieri trattati con tutti i riguardi dal tiranno e poi rispediti in patria dietro riscatto. Non si decanta qui il valore militare di Ierone, bensì la sua astuta strategia politica nell’avere approfittato delle discordie civili dei suoi nemici per rivolgerle poi a suo vantaggio. A questo punto è possibile trarre qualche conclusione sull’esito della crisi crotoniate-sibarita cui il Dinomenide partecipò: il conflitto pro85 Così De Sensi Sestito 1981, 634 n. 52. La studiosa arriva a queste conclusioni partendo dalle testimonianze erodotee (cfr. Hdt. i 24; iii 36; 138; iv 15; v 43; vi 127; viii 62) in cui l’accezione di Italia è palesemente ristretta alle città del versante ionico comprese tra Taranto e Crotone, tuttavia non esclude (cfr. Ead. 1987, 260) che la notizia di Polieno possa essere riferita ad un intervento militare in favore dei Locresi per la conquista di Temesa, ma sempre diretto contro Crotone. Lepore 1980, 1311-1344 ha sottolineato come il concetto di Italía sia legato alla tradizione storiografica ionica, e corrisponda geograficamente all’Italia achea. 86 Cfr. supra p. 89. 87 Un’interessante lettura filologica del brano di Polieno è stata proposta da Bugno 1999, 64-68 il quale conclude che il conflitto dovette avere lunga durata e che si sviluppò nel corso di più campagne.

i e rone e “ l ’ e r e d i t à di s i ba r i ” 95 babilmente andò a buon fine, come dimostra la vicenda dei prigionieri, e servì anche a minare la coesione interna della cittadinanza crotoniate, ma certo non dovette trattarsi di una vittoria militare particolarmente significativa. Quanto a Polizelo non è facile stabilire se sia rimasto sul luogo dello scontro ma, dalle fonti, sembra di potere ritenere che comunque non fu lui a firmare il trionfo dei Siracusani, perché la gloria della vittoria sarebbe stata, in ogni caso, attribuita a chi aveva patrocinato la spedizione, e cioè a Ierone. A lui si doveva, infatti, l’iniziativa e la disponibilità a fornire mezzi e forze militari. Ie rone, Te mi sto c l e e l ’ er e di t à di S i ba r i Andiamo adesso all’ultimo dei nostri interrogativi, ovvero al fine non dichiarato della missione. Che cosa poteva spingere Ierone a rivolgere la sua attenzione verso un’area così off-limits, lontana dalla tradizionale sfera di influenza siracusana e per di più sotto il controllo di una città nemica, quale Crotone? Sulla questione il silenzio degli storici è quasi imbarazzante. Lo slancio di “generosità” del tiranno siracusano nei confronti dei Sibariti ha lasciato, come si è visto, soltanto labili e confuse tracce nei testi antichi, e anche la semplice formulazione di ipotesi diventa un’operazione piuttosto complessa e delicata. La sensazione che si ha, tuttavia, è che la spedizione, sponsorizzata da Ierone, rappresentasse anche l’occasione per il tiranno siracusano di sperimentare ed esplorare nuovi itinerari politici e di trattare, insieme alle più grandi potenze del tempo, la spinosissima questione dell’eredità sibarita. Allargare il campo d’indagine alla penisola greca e procedere, ragionando sulla base degli effetti, per tentare di ricostruire le circostanze che incoraggiarono il gesto del Dinomenide, sembra essere una strada percorribile. Si tratta tuttavia di un percorso accidentato e pieno di trappole, perché i pochi segnali che è possibile raccogliere o sono inquinati dalle esigenze propagandistiche del momento, o sono talmente imprecisi da risultare inaffidabili. Della crisi (o della presunta crisi) crotoniate si è già detto, ma è forse utile tornare a rifletterci alla luce di un’altra testimonianza interessante riportata da Erodoto.88 Il contesto è quello della battaglia di Salamina: davanti all’assemblea degli strateghi l’ateniese Temistocle suggerisce di combattere i “barbari” in un luogo angusto e aggiunge 88 Hdt. viii 62.

96 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto che se non si fosse seguita la sua linea strategica avrebbe fatto vela verso l’Italia: ce ne andremo a Siri in Italia che da tempo ci appartiene e secondo gli oracoli deve essere colonizzata da noi. L’ultimatum di Temistocle che in sostanza minaccia di abbandonare il campo di battaglia, consente di dedurre che sulla Siritide, area tradizionalmente sotto il controllo crotoniate,89 si doveva essere creato un vuoto di potere, dovuto magari alla crisi della colonia achea90 e che in tale vuoto di potere Temistocle pensasse di inserire la sua città. L’attenzione dello stratega ateniese nei confronti dell’Occidente risulta confermata anche dalla tradizione che ricorda i nomi parlanti delle figlie dell’eroe di Salamina: Italia e Sybaris.91 Temistocle, in un momento imprecisato della sua carriera, deve essersi dimostrato propenso a una politica della mano tesa nei confronti di alcune città dell’Italia meridionale. Dedurre dalle fonti un indizio cronologico non è possibile, poiché la data di nascita delle due figlie dello stratega non è determinabile. Tuttavia è un fatto che, nel decennio 480-70, il tema di una Sibari rediviva assediata da Crotone, e quello di un’Italia, minacciata nella sua integrità dalla pressione di popolazioni quali gli Etruschi e gli Iapigi,92 potevano suscitare una certa simpatia, oltre che sollecitare l’attenzione di personaggi attivi sulla scena internazionale, quali appunto Ierone e Temistocle. È proprio dunque sul tema dell’“eredità di Sibari” che il tiranno di Siracusa e lo stratega ateniese si incontrarono. Non è escluso che, nell’attenzione temistoclea nei confronti di Sibari, Siri e dell’Italia, si celasse in realtà un sentimento anticrotoniate e persino antipitagorico, analogo a quello che probabilmente spingeva Ierone a correre in aiuto ai Sibariti.93 89 Si è già detto sopra della guerra che la compagine achea ingaggiò contro l’enclave ionica di Siri (cfr. supra p. 78). Dopo la battaglia del Traente, una volta messa fuori gioco Sibari, Crotone deve avere rafforzato il suo controllo sulla Siritide. 90 Così la pensa anche Raviola 1986, che ha studiato le notizie di Erodoto e Plutarco e ha individuato negli anni successivi a Salamina, prima dell’ostracismo che colpì Temistocle (terminus post quem la coregia per le Fenicie di Frinico nella primavera del 476 a. C.: cfr. Plut. Them. v 5) le coordinate spazio-temporali del miraggio occidentale attribuito allo stratega ateniese. Lo studioso ha giustamente stabilito una diretta connessione tra il progetto coloniale dello stratega e la situazione dell’area sibarita. Cfr. anche De Sensi Sestito 1981, 631 n. 49. 91 Plut. Them. xi 5. L’attribuzione ai figli di nomi geopoliticamente significativi rientrava nei consueti strumenti della lotta politica: si trattava di veri e propri manifesti propagandistici indicativi degli orientamenti politici rappresentati dai genitori. A lo stesso escamotage ricorse anche Cimone. A questo proposito cfr. Plut. Cim. xiv 4; xvi 1 e Cerrato 1985,171-174. 92 Raviola 1986, 48 e ss. 93 In effetti è indubbio che ogni interesse, rivolto verso la Sibaritide e la Siritide,

i e rone e “ l ’ e r e d i t à di s i ba r i ” 97 Dell’intolleranza di Ierone nei confronti dei Pitagorici sappiamo da un passo di Giamblico relativo ad Epicarmo.94 Il poeta, annoverato tra gli uditori esterni di Pitagora, una volta giunto a Siracusa si sarebbe astenuto dal filosofare a causa della tirannide di Ierone (‰Èa ÙcÓ ^I¤ÚˆÓÔ˜ Ù˘Ú·ÓÓ›‰·), nascondendo i precetti pitagorici dietro una patina comica. Plutarco poi aggiunge anche che il tiranno aveva condannato alcuni amici del poeta e, dopo pochi giorni, lo aveva invitato a pranzo. La risposta fu secca e piuttosto pungente: mentre sacrificavi i miei amici, disse, non mi invitavi (àÏÏa ÚÑËÓ,ãã öÊË, ããı‡ˆÓ ÙÔf˜ Ê›ÏÔ˘˜ ÔéÎ âοÏÂÛ·˜).95 Epicarmo doveva essere parte di una cerchia di filosofi, magari di orientamento pitagorico, non molto ben visti a Siracusa. Non è escluso dunque che uno dei bersagli della spedizione contro i Crotoniati fosse una rinvigorita componente pitagorica, che il Dinomenide tentò di contrastare in tutti i modi, sia militarmente, sia, al momento delle trattative, minacciandone la coesione, se è valida l’interpretazione che del passo di Polieno abbiamo fornito. Tracce di contatti tra Temistocle e Ierone, inoltre, sono rimaste nelle nostre fonti, ma il rapporto tra i due sembra avere conosciuto un’evoluzione significativa: da un antagonismo di fondo alla ricerca di un’intesa da parte dell’Ateniese. Una testimonianza di Stesimbroto di Taso, riportata da Plutarco nella biografia di Temistocle, racconta che l’Ateniese, sospettato di medismo e braccato dai suoi concittadini e dagli Spartani, fuggì, prima a Corcira e poi in Epiro presso Admeto re dei Molossi: ÂrÙã ÔéÎ Ôr‰ã ¬ˆ˜ âÈÏ·ıfiÌÂÓÔ˜ ÙÔ‡ÙˆÓ, j ÙeÓ £ÂÌÈÛÙÔÎϤ· ÔÈáÓ âÈÏ·ıfiÌÂÓÔÓ, ÏÂÜÛ·› ÊËÛÈÓ Âå˜ ™ÈÎÂÏ›·Ó ηd ·Úã ^I¤ÚˆÓÔ˜ ·åÙÂÖÓ ÙÔÜ Ù˘Ú¿ÓÓÔ˘ ÙcÓ ı˘Á·Ù¤Ú· Úe˜ Á¿ÌÔÓ, ñÈÛ¯ÓÔ‡ÌÂÓÔÓ ·éÙ† ÙÔf˜ ≠EÏÏËÓ·˜ ñËÎfiÔ˘˜ ÔÈ‹ÛÂÈÓØ àÔÙÚÈ„·Ì¤ÓÔ˘ ‰b ÙÔÜ ^I¤ÚˆÓÔ˜, Ô≈Ùˆ˜ Âå˜ ÙcÓ \AÛ›·Ó àÄÚ·È.

andava a colpire al cuore l’arché crotoniate e, per di più, l’uso del termine Italia da parte della propaganda temistoclea è apparso concorrenziale con quello di Megále Hellás strettamente connesso, a sua volta, ai circoli pitagorici. Sulla concorrenzialità reciproca dei termini Italía e Megale Hellas cfr. Raviola 1986, 46 e ss.; sul contributo pitagorico alla caduta di Sibari: Sartori 1993, 43. 94 Iambl. VP xxxvi 266. Sull’opera e la vita di Epicarmo Kerkhof 2001, 51 e ss. 95 Plut. Quomodo adulator… 27= Mor. 68a. Ed è ancora Plutarco a testimoniare una certa conflittualità tra Ierone ed Epicarmo narrando della multa inflitta dal tiranno al poeta perché quest’ultimo si era espresso in maniera poco educata davanti a sua moglie (cfr. Reg. et imp. apophth.=Mor. 175c). L’episodio tra l’altro potrebbe indurre a pensare che una certa censura fosse esercitata dal principe.

98 g l i i nt e rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto …ma poi, dimenticandosi di questi fatti, o fingendo che se ne dimenticasse Temistocle, dice che questi fece rotta verso la Sicilia e chiese al tiranno Ierone sua figlia in sposa promettendogli che avrebbe resi i Greci soggetti a lui. Ma poiché Ierone rifiutò, egli salpò per l’Asia. Plut . Them. xxiv 796

Plutarco si affretta a smentire la notizia di Stesimbroto, tacciandola di scarsa verisimiglianza, e le oppone la testimonianza di Teofrasto che narra della partecipazione di Ierone alle Olimpiadi nel suo Perì Basileías. Il tiranno aveva inviato alle gare dei cavalli e aveva fatto costruire un padiglione piuttosto sfarzoso. Indispettito, forse, dal lusso della squadra dinomenide, Temistocle si rivolse ai Greci dicendo che ó˜ ¯Úc ÙcÓ ÛÎËÓcÓ ‰È·Ú¿Û·È ÙÔÜ Ù˘Ú¿ÓÓÔ˘ ηd ΈÏÜÛ·È ÙÔf˜ ¥Ô˘˜ àÁˆÓ›Û·Ûı·È. bisognava distruggere la tenda del tiranno e impedire che i cavalli partecipassero alle gare. Plut. Them. xxv 1

I giochi Olimpici in questione potrebbero essere proprio quelli del 476 a. C., che consacrarono il primo trionfo di Ierone in Elide. La vittoria del tiranno fu celebrata dai versi di Pindaro che diffusero, per ogni terra abitata dai Greci (ηıã ≠EÏÏ·Ó·˜ âfiÓÙ· ·ÓÙ3),97 l’immagine di un principe giusto e vigoroso. Che la presenza di Ierone potesse causare un certo fastidio al campione di Salamina è pure comprensibile: le Olimpiadi del 476 a. C., le prime dopo il trionfo sui Persiani, rappresentavano una cassa di risonanza internazionale, ma erano anche l’occasione privilegiata in cui verificare il proprio prestigio e un bacino di raccolta del consenso riscosso in ambito panellenico. Basti pensare all’espressione compiaciuta di Temistocle che, accortosi di avere catalizzato l’attenzione del pubblico dello stadio olimpico, dichiarò – stando a Plutarco – di avere colto a pieno il frutto delle fatiche da lui sostenute per i Greci.98 E se fu durante quelle stesse Olimpiadi che l’Ateniese si mise a gareggiare con Cimone nell’offrire banchetti sontuosi,99 altrettanto verosimile è che in lui suscitasse invidia anche la scuderia di un tiranno, venuto da lontano a mietere successi.100 Anche la dinastia dinomeni096 Stesimbr. FGrHist 107 F 3. 97 Pind. Ol. i 116. 098 Plut. Them. xvii 4. 99 Plut. Them. v 4. 100 Ierone partecipò e vinse tre Olimpiadi (nel 476 a. C.; nel 472; 468, cfr. Moret-

i e rone e “ l ’ e r e d i t à di s i ba r i ” 99 de giungeva in fin dei conti a Olimpia per raccogliere il frutto delle fatiche condotte in nome e per conto dei Greci di Sicilia. Ierone era il fulgido astro nascente della tirannide siracusana: l’erede del campione di Imera, il protettore di Locri e soprattutto il promotore della prima spedizione militare a favore dei Sibariti. Si trattava di una personalità di eccezione che rischiava di oscurare il prestigio di un altro personaggio, come Temistocle, altrettanto impegnato nella lotta contro il “barbaro” e altrettanto solidale con la distrutta Sibari. Qualche anno dopo la situazione doveva essere cambiata se il figlio di Neocle, tradito dai suoi concittadini e accusato di filomedismo, la più infamante delle colpe per un Greco di quel tempo, decise di cercare rifugio in Occidente, alla corte di quei Dinomenidi prima tanto osteggiati. Le lettere pseudotemistoclee, nel loro stile romanzesco, conservano una tradizione che non è opportuno trascurare, ma alla quale non ci si può affidare completamente. Nell’Epistula xx indirizzata a Polignoto, l’anonimo epistolografo fa dichiarare a Temistocle la sua intenzione di partire da Corcira dove non si sentiva sicuro, per recarsi in Sicilia da Gelone: °¤ÏˆÓ ÁaÚ ‰c ÙfiÙ ™˘Ú·ÎÔÛ›ˆÓ âÌÔÓ¿Ú¯ÂÈ Î·d õÚÙËÙÔ Ôé ·Ú¤ÚÁˆ˜ ìÌáÓ Î·d ÔéÎ öÌÂÏÏÂÓ \AıËÓ·›ÔȘ ÂÈÛı‹ÛÂÛı·È. A quel tempo Gelone regnava sui Siracusani e conosceva la mia situazione non superficialmente e non avrebbe dato ascolto agli Ateniesi. Ps.Them. Ep. xx 25, 758 Hercher

Poco più avanti, lo Pseudotemistocle afferma che dal suo progetto lo dissuase la notizia della morte di Gelone e aggiunge: grandi disordini circondavano il fratello Ierone appena salito al potere (ÔÏÏc ÂÚÈÂÈÛÙ‹ÎÂÈ Ù·Ú·¯c ^I¤ÚˆÓ· ÙeÓ à‰ÂÏÊeÓ àéÙÔÜ ôÚÙÈ Âå˜ ÙcÓ ÌÔÓ·Ú¯›·Ó ηÙÈÛÙ¿ÌÂti 1957, 90 n. 221): le prime due col corsiero, l’ultima con la quadriga. Che fosse proprio quella del 476 a. C. l’Olimpiade cui allude Teofrasto, lo si può solo ipotizzare, senza alcun margine di certezza. Tuttavia, in un passo di Eliano (Ael. VH ix 5) in cui si ricorda l’aggressione a Ierone, durante le Olimpiadi, si fa polemicamente riferimento alla mancata partecipazione dei Dinomenidi alla guerra contro i Persiani. È possibile dunque che, nella stessa circostanza in cui Temistocle si sforzava di amplificare la portata del proprio impegno antibarbarico, egli si sforzasse anche di evidenziare la mancata partecipazione dei sovrani di Siracusa. Gauthier 1966, 31; Culasso-Gastaldi 1986, 148 e ss. hanno negato attendibilità storica all’attacco olimpico di Temistocle a Ierone, ritenendo più probabile l’ipotesi di una confusione (Gauthier) o di una duplicazione (Culasso-Gastaldi), con l’episodio di Dionisio I (cfr. Diod. xiv 109), attaccato dalla veemenza verbale di Lisia, durante i giochi del 388 a. C. (o 384 a. C.).

100 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto ÓÔÓ).101 Data la situazione lo stratega andò a riparare presso il re dei Molossi in Epiro.102 Diverse sono le incongruenze contenute nel brano: intanto è chiaro che il tiranno siceliota da raggiungere non era Gelone ma Ierone e la tarache di cui si parla fu quella che circondò Trasibulo al momento della sua ascesa al trono e che portò alla fine della dinastia dinomenide.103 Le epistole pseudotemistoclee registrano quindi una tradizione diversa da quella di Stesimbroto di Taso, in base alla quale Temistocle da Corcira si recò in Epiro e di lì in Sicilia, ma potrebbero inaspettatamente offrire anche una versione più verosimile dell’accaduto, suggerendo l’esistenza di semplici contatti tra lo stratega ateniese e il tiranno siracusano.104 Contatti che dovevano essere garantiti da quella rete di intellettuali che da Atene si spostarono a Siracusa alla corte di Ierone. Il rifiuto del tiranno siracusano, registrato da Stesimbroto, potrebbe riflettere l’eco della propaganda dinomenide diffusasi ad Atene. La presa di posizione di Ierone, reale o fittizia, nei confronti della proposta, forse solo ventilata da Temistocle, può nascondere interessanti risvolti storiografici. Il principe si oppone infatti ad un’intesa con un cittadino ateniese, bandito dalla propria città, e rifiuta la possibilità di assoggettare tutti i Greci. Ci sono tutti gli elementi per ritenere che, nel v secolo, circolasse nella polis attica l’immagine di un tiranno siceliota non solo amico degli Ateniesi, ma anche filelleno.105 Un interlocutore politico del tutto valido con cui avviare rapporti di natura diplomatica, un’immagine corroborata poi dal successo di Cuma, ma costruita già a partire dalla prima spedizione in Magna Grecia in aiuto dei Sibariti. Seppure, dunque, l’intervento in favore dei Sibariti raggiunse effetti militari poco significativi e circoscritti106 – che forse non erano nemmeno l’obiettivo principale di Ierone – altri e, ben più importanti, furono i risultati. Innanzitutto la spedizione sibarita diede una scossa all’egemonia di Crotone, roccaforte del Pitagorismo contro cui Iero101 Ps.Them. Ep. xx 30, 758 Hercher. In generale sull’epistolario temistocleo Rosenmeyer 2006, 48-53. 102 A questo episodio potrebbe alludere il riferimento tucidideo (Thuc. i 136, 2) a una difficoltà che costrinse Temistocle a riparare presso il re dei Molossi. Così Culasso-Gastaldi 1986, 151. 103 Diod. xi 67. Cfr. Culasso Gastaldi 1986, 147. Sui rapporti tra Temistocle e i Dinomenidi cfr. anche Anello 2007, 217. 104 Così anche Culasso Gastaldi 1986, 150. 105 Cfr. anche infra p. 213. 106 L’esperienza di Sibari ii naufragò miseramente e nessun altra traccia rimase nelle fonti.

i e rone e “ l ’ e r e d i t à di s i ba r i ” 101 ne cominciò ad esercitare il suo potere di censura, e fece conoscere alla polis antagonista l’entità e la forza delle armate siracusane. In secondo luogo, determinò l’iscrizione di Siracusa alla “gara” per l’eredità di Sibari. Si trattava certo di una mossa propagandistica, ma più impegnativa dell’escamotage temistocleo di dare alla propria figlia il nome di una città distrutta. Tale gesto, oltre a ribadire la forza militare di Siracusa in ambito magnogreco, decretò l’entrata a pieno titolo di Ierone tra i dinasti più importanti del mondo greco. Tutto questo significava dunque, per il Dinomenide, “l’eredità di Sibari”: una posizione di forza in area magnogreca e grande credibilità in ambito internazionale che servisse a recuperare il terreno perso dopo il rifiuto di Gelone agli ambasciatori greci. Restava da sistemare però ancora una questione, quella di Polizelo: la scheggia impazzita che, fuggita alla corte dei tiranni agrigentini, rischiava di mettere in forse l’equilibrio politico dell’isola venuto fuori dalla vittoria di Imera.

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LA SCOMPARSA DI POLIZELO E IL FRONTE AGRIGENTINO L e f onti

L

a fuga di Polizelo e l’ospitalità accordatagli dal sovrano di Agrigento suggerirono a Ierone tutta l’urgenza di riequilibrare a suo vantaggio i rapporti con la dinastia emmenide. Dopo la vittoria di Imera, l’influenza agrigentina in Sicilia era stata saggiamente arginata da Gelone, la cui clemenza, nel trattare gli sconfitti Cartaginesi, è stata spesso interpretata dagli studiosi107 come un’abile mossa politica determinata dall’esigenza di non indebolire troppo gli ex-nemici, per non lasciare spazio libero ad eventuali ambizioni espansionistiche ed egemoniche di Terone. Nonostante la tendenza delle fonti antiche a far passare sotto silenzio la natura della partecipazione dell’Emmenide allo sforzo bellico contro il “barbaro”,108 il trionfo di Imera deve essere stato un gran bel successo anche per Agrigento che, di colpo, si ritrovò grandi risorse finanziarie da investire in opere pubbliche e un considerevole numero di prigionieri da impiegare come manodopera schiavile. Se vogliamo, Terone fu l’unico a godere completamente dei vantaggi economici e territoriali derivanti dalla sconfitta dei Cartaginesi, consolidando il suo controllo su Imera e su tutto l’entroterra della città calcidese.109 L’intesa agrigentino-siracusana doveva avere avuto inizio nei primi anni del v secolo.110 A quell’epoca Gelone, intuendo i grandi vantag-

107 Cfr. Diod. xi 26 e Maddoli 1979, 47; Sartori 1988, 91. 108 Pindaro non ricorda nemmeno negli epinici dedicati agli Emmenidi il loro ruolo nella battaglia di Imera. Diodoro ricorda invece soltanto il phobos di Terone di fronte all’attacco cartaginese e l’intervento decisivo di Gelone (Diod. xi 20,5). L’unico ad affiancare il dinasta agrigentino e quello siracusano nel trionfo di Imera è Erodoto, ma il riferimento è fuorviante perché il protagonista della vicenda resta comunque Gelone. Cfr. Caserta 1995, 136-137. 109 Sui vantaggi economici venuti ad Agrigento dalla vittoria di Imera insiste Caserta 1995, 130-131 110 Forse nel clima teso e confuso della cosiddetta “guerra per gli empori”. Braccesi 1988, 3-22, 13. Lo studioso mette in dubbio la notizia diodorea, riportata sotto l’anno 472 (xi 53), della durata di sedici anni attribuita alla tirannide di Terone che sarebbe dunque salito al trono solo dopo il conflitto. Il lasso di tempo indicato coincide con quello del governo di Falaride ed è quindi sospetto.

104 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto gi che potevano venirgli da un’alleanza con la tirannide agrigentina, sposò la figlia di Terone, Damarete.111 Gli Emmenidi dovevano essere una famiglia piuttosto potente dell’oligarchia agrigentina: ad essi era legato il sovvertimento della tirannide di Falaride112 e inoltre, già nel 490 a. C., Senocrate, il fratello di Terone, si era reso noto sul fronte panellenico per aver trionfato ai giochi pitici con la quadriga, successo celebrato da Pindaro nella Pitica vi. È comprensibile dunque come, per Gelone, gli Emmenidi rappresentassero alleati ideali, la cui lealtà e amicizia doveva risultare più che vantaggiosa. Ma alla morte del Dinomenide, non era stato Ierone a ereditare quel canale preferenziale tramite il quale comunicare col dinasta agrigentino e non era lui il suo interlocutore privilegiato, bensì Polizelo, proprio in virtù di quel doppio legame matrimoniale, di cui si è detto più volte. I legami di parentela stabiliti con il fratello di Ierone trascinarono a forza l’Emmenide nella contesa dinastica tra i due Dinomenidi e i fatti che seguirono sembrano avere ridisegnato la mappa degli equilibri tra Agrigento e Siracusa. La durata e le conseguenze della permanenza di Polizelo alla corte agrigentina sono difficili da ricostruire. I dettagli su questi avvenimenti sono anch’essi sparpagliati tra le pagine di Diodoro e quelle degli scolii a Pindaro. È naturale dunque che si ripropongano gli stessi problemi esegetici, che si sono riscontrati nella ricostruzione dei fatti immediatamente successivi alla morte di Gelone e delle prime attività politiche e militari promosse da Ierone: identiche questioni storiografiche dunque, identiche difficoltà cronologiche, identica confusione e contraddizione tra le fonti. Analogo sarà perciò l’approccio interpretativo nel tentativo di giungere ad una reductio ad unum della successione degli eventi narrati. Per agevolare la formulazione di ipotesi è opportuno ricorrere ancora una volta alla lettura sinottica delle nostre testimonianze che riproponiamo qui di seguito:

111 Tim. FGrHist 566 F 93a ap. Schol. Pind. Ol. ii inscr. 112 Il sovvertimento della tirannide di Falaride è legato al nome degli antenati di Terone: secondo lo Schol. Pind. Ol. iii 68 a ad Emmene e secondo lo Schol. Pind. Ol. iii 68 d e recens a Telemaco nonno di Terone e padre di Enesidemo. Per l’interpretazione di queste testimonianze cfr. Luraghi 1994, 235-236 e 262-263.

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 105

Diod. XI 48-49 …ÔÜ ‰b ¶ÔÏ˘˙‹ÏÔ˘ Úe˜ ÙcÓ ÛÙÚ·Ù›·Ó Ôé¯ ñ·ÎÔ‡Û·ÓÙÔ˜ ‰Èa ÙcÓ ®ËıÂÖÛ·Ó ñÔ„›·Ó, ‰Èã çÚÁɘ Âr¯Â ÙeÓ à‰ÂÏÊfiÓ, ηd Ê˘ÁfiÓÙÔ˜ Úe˜ £‹ÚˆÓ· ÙeÓ \AÎÚ·Á·ÓÙ›ÓˆÓ Ù‡Ú·ÓÓÔÓ, ηٷÔÏÂÌÉÛ·È ÙÔÜÙÔÓ ·ÚÂÛ΢¿˙ÂÙÔ. ÌÂÙa ‰b Ù·ÜÙ· £Ú·Û˘‰·›Ô˘ ÙÔÜ £‹ÚˆÓÔ˜ âÈÛÙ·ÙÔÜÓÙÔ˜ Ùɘ ÙáÓ ^IÌÂÚ·›ˆÓ fiψ˜ ‚·Ú‡ÙÂÚÔÓ ÙÔÜ Î·ı‹ÎÔÓÙÔ˜, Û˘Ó¤‚Ë ÙÔf˜ ^IÌÂÚ·›Ô˘˜ à·ÏÏÔÙÚȈıÉÓ·È ·ÓÙÂÏᘠàã ·éÙÔÜ. Úe˜ ÌbÓ ÔsÓ ÙeÓ ·Ù¤Ú· ÔÚ‡ÂÛı·› Ù ηd ηÙËÁÔÚÂÖÓ à‰ÔΛ̷˙ÔÓ, ÓÔÌ›˙ÔÓÙ˜ Ôé¯ ≤ÍÂÈÓ úÛÔÓ àÎÔ˘ÛÙ‹ÓØ Úe˜ ‰b ÙeÓ ^I¤ÚˆÓ· Ú¤Û‚ÂȘ à¤ÛÙÂÈÏ·Ó Î·ÙËÁÔÚÔÜÓÙ˜ ÙÔÜ £Ú·Û˘‰·›Ô˘ ηd â·ÁÁÂÏÏfiÌÂÓÔ˘˜ Ù‹Ó Ù fiÏÈÓ âΛÓÅ ·Ú·‰ÒÛÂÈÓ Î·d Û˘ÓÂÈı‹ÛÂÛı·È ÙÔÖ˜ ÂÚd ÙeÓ £‹ÚˆÓ·. ï ‰b ^I¤ÚˆÓ ÎÚ›Ó·˜ ÂåÚË-

Schol. Pind. Ol. II 29 c

Schol. Pind. Ol. II 29 d = Tim. FGrHist. 566 F 93b

…£Ú·Û˘‰·›Ô˘ ‰b ÙÔÜ £‹ÚˆÓÔ˜ ˘îÔÜ ›۷ÓÙÔ˜ ÙeÓ ¶Ôχ˙ËÏÔÓ âÈı¤Ûı·È Ù† ^I¤ÚˆÓÈ, ñÈÛ¯ÓÔ˘Ì¤ÓÔ˘ ·éÙÔÜ ÙÔÖ˜ Ú¿ÁÌ·ÛÈ Û˘Ó·ÓÙÈÏ‹„ÂÛı·È, ÁÓÔf˜ ï ^I¤ÚˆÓ öÎÚÈÓÂÓ ·îÚ‹ÛÂÈÓ ÙcÓ \AÎÚ¿Á·ÓÙ· ηd £‹ÚˆÓ· ηd £Ú·Û˘‰·ÖÔÓ. ÌÂÏÏfiÓÙˆÓ ‰b ÙáÓ Ê›ÏˆÓ… öÂÌ„Â ™È̈ӛ‰Ë˜ ï Ï˘ÚÈÎe˜ Úe˜ ·éÙeÓ Û˘Ì‚Ô˘Ï‡ˆÓ, âÎÙ·Ú¿Í·È ÌÄÏÏÔÓ ‚Ô˘ÏfiÌÂÓÔ˜ Ù† ÌËÓ‡ÂÈÓ ÙcÓ Ì¤ÏÏÔ˘Û·Ó ·éÙáÓ ÚÔ‰ÔÛ›·Ó öÛÂÛı·È ηd ÙÔf˜ ÚԉȉfiÓÙ·˜. ï ‰b ÂéÏ·‚ËıÂd˜ âͯÒÚËÛ ÙáÓ Ú·ÁÌ¿ÙˆÓ Ù† ^I¤ÚˆÓÈ, ≈ÛÙÂÚÔÓ ‰b à¤Ï·‚ÂÓ àã ·éÙÔÜ ÙcÓ Ù˘Ú·ÓÓ›‰·, ηd ‰ÈÂχıËÛ·Ó Ùɘ ö¯ıÚ·˜, ó˜ ηd Îˉ›·Ó ÙÈÓa Úe˜ àÏÏ‹ÏÔ˘˜ ÔÈ‹Û·Ûı·È, à‰ÂÏÊȉÉÓ £‹ÚˆÓÔ˜ ^I¤ÚˆÓÔ˜ Ï·‚fiÓÙÔ˜ Á˘Ó·Öη.

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106 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto

Diod. XI 48-49 ÓÈÎᘠ‰È·Ï‡Û·Ûı·È Úe˜ ÙeÓ £‹ÚˆÓ·, ÚÔ‡‰ˆÎ ÙÔf˜ ^IÌÂÚ·›Ô˘˜ ηd Ùa ‚‚ԢÏÂ˘Ì¤Ó· Ï·ıÚ·›ˆ˜ âÌ‹Ó˘ÛÂÓ. ‰ÈfiÂÚ £‹ÚˆÓ âÍÂÙ¿Û·˜ Ùa ηÙa ÙcÓ ‚Ô˘Ï‹Ó, ηd ÙcÓ Ì‹Ó˘ÛÈÓ àÏËıÈÓcÓ ÂñÚ›ÛΈÓ, Úe˜ ÌbÓ ÙeÓ ^I¤ÚˆÓ· ‰ÈÂχ۷ÙÔ Î·d ÙeÓ ¶Ôχ˙ËÏÔÓ Âå˜ ÙcÓ ÚÔ¸¿Ú¯Ô˘Û·Ó ÂûÓÔÈ·Ó àÔη٤ÛÙËÛÂ, ÙáÓ ‰b ^IÌÂÚ·›ˆÓ ÙÔf˜ âÓ·ÓÙ›Ô˘˜ ÔÏÏÔf˜ ùÓÙ·˜ Û˘ÏÏ·‚gÓ à¤ÛÊ·ÍÂÓ… XI 49 , 4… £‹ÚˆÓ ‰b ÌÂÙa ÙcÓ ^IÌÂÚ·›ˆÓ ÛÊ·ÁcÓ ïÚáÓ ÙcÓ fiÏÈÓ ÔåÎËÙfiÚˆÓ ‰ÂÔ̤ÓËÓ, Û˘ÓÑÎÈÛÂÓ Âå˜ Ù·‡ÙËÓ ÙÔ‡˜ Ù ¢ˆÚÈÂÖ˜ ηd ÙáÓ ôÏÏˆÓ ÙÔf˜ ‚Ô˘ÏÔ̤ÓÔ˘˜ âÔÏÈÙÔÁÚ¿ÊËÛÂÓ. ÔyÙÔÈ ÌbÓ ÔsÓ ÌÂÙãàÏÏ‹ÏˆÓ Î·ÏᘠÔÏÈÙ¢fiÌÂÓÔÈ ‰ÈÂÙ¤ÏÂÛ·Ó öÙË ÂÓÙ‹ÎÔÓÙ· ηd çÎÙÒØ ÙfiÙ ‰b Ùɘ fiψ˜ ñe K·Ú¯Ë‰ÔÓ›ˆÓ ¯ÂÈÚˆı›Û˘ ηd ηٷÛηÊ›Û˘, ‰È¤ÌÂÈÓÂÓ àÔ›ÎËÙÔ˜ ̤¯ÚÈ ÙáÓ Î·ıã ìÌĘ ηÈÚáÓ.

Schol. Pind. Ol. II 29 c

Schol. Pind. Ol. II 29 d = Tim. FGrHist. 566 F 93b

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 107

Diod. XI 48-49 … poiché Polizelo non gli obbedì riguardo alla spedizione (scil. quella in aiuto dei Sibariti) a causa del sospetto di cui si è detto, Ierone si adirò con il fratello ed essendo quest’ultimo fuggito presso Terone, tiranno di Agrigento, si preparava (scil. Ierone) a fargli la guerra. Poi, poiché Trasideo, figlio di Terone governava la città di Imera con eccessiva durezza, accadde che gli Imeresi si alienarono completamente da lui. Rifiutarono però di recarsi dal padre ad accusarlo, poiché ritenevano che non avrebbero avuto un ascoltatore imparziale e mandarono ambasciatori a Ierone ad accusare Trasideo, promettendo che gli avrebbero consegnato la città e si sarebbero uniti a lui nella guerra contro Terone. Ma Ierone giudicò di risolvere pacificamente la questione con Terone, tradì gli Imeresi e svelò i loro progetti segreti. Allora Terone esaminato il progetto e scoprendo che le rivelazioni di Ierone erano veritiere si riconciliò con lui

Schol. Pind. Ol. II 29 c

Schol. Pind. Ol. II 29 d = Tim. FGrHist. 566 F 93b

Avendo Trasideo figlio di Terone convinto Polizelo ad attaccare Ierone promettendogli che lo avrebbe aiutato nei suoi affari saputolo Ierone decise di prendere sia Agrigento sia Terone, sia Trasideo. Essendo gli amici sul punto di fare…il poeta Simonide inviò presso di lui (=Terone) per dare consigli in realtà volendo piuttosto turbarlo palesando il loro futuro tradimento e i traditori. (Terone) messo in guardia lasciò il potere a Ierone, poi riottenne da questi la tirannide e composero l’amicizia tanto da stringere persino un vincolo di parentela fra loro avendo Ierone preso in moglie la nipote di Terone.

E così Terone, sdegnatosi per le traversie della figlia e del genero, si portò in armi contro Ierone presso il Gela, fiume della Sicilia di cui Callimaco ricorda. “So che la città è sita presso la corrente del fiume Gela” Ma la guerra non ebbe esito né disastroso né fu condotta a termine. Si narra infatti, che il poeta Simonide intervenuto compose l’amicizia tra i re.

Trad. Piccirilli 1973, 74-79.

Trad. Piccirilli 1973, 74-79.

108 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto

Diod. XI 48-49

Schol. Pind. Ol. II 29 c

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e restituì Polizelo alla benevolenza di cui godeva prima, degli Imeresi arrestò molti che erano oppositori e li fece trucidare.… XI 49…. Terone vedendo che dopo la strage di Imeresi la città aveva bisogno di abitanti, mise a convivere in questa i Dori e quanto agli altri iscrisse fra i cittadini coloro che lo volevano. Essi vissero insieme come concittadini, in buoni rapporti per 58 anni: allora la città fu conquistata dai Cartaginesi e distrutta e rimase disabitata fino ai nostri giorni.

Inserire armonicamente in un quadro organico le notizie contenute nelle testimonianze appena proposte, è quasi impossibile. Tuttavia la rete di rimandi testuali, soprattutto tra Diodoro e lo schol. Pind. Ol. ii 29c, e le informazioni aggiuntive contenute nel frammento timaico suggeriscono l’esistenza di due soli nuclei narrativi, dal confronto dei quali sarà forse possibile abbozzare una ricostruzione della contesa siracusano-agrigentina. La cronaca diodorea è quella che offre qualche dettaglio in più sugli avvenimenti. I molti punti di contatto con lo scolio pindarico Ol. ii 29c, tradiscono l’uso di una medesima tradizione riconducibile, come si è visto,113 a Filisto, e verosimilmente plasmata e contaminata da Eforo. La narrazione sembra dotata di una certa coerenza e suffragata da ri113 Cfr. supra p. 54.

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 109 mandi e riferimenti alla storia imerese interni all’opera diodorea. All’origine del contrasto tra Ierone e Terone c’è un sospetto. Secondo Diodoro l’hypopsia è quella di Polizelo che, temendo per la sua stessa vita, fugge, abbandona la spedizione organizzata in favore dei Sibariti e si rifugia ad Agrigento. Per lo scolio Ol. ii 29c è invece proprio Polizelo ad essere oggetto di hyphorasis da parte del fratello per la sua insubordinazione nel corso della guerra contro i perieci barbari dei Sicelioti. Diodoro ricorda la prima reazione di Ierone alla fuga del fratello e i preparativi di guerra contro il tiranno agrigentino che però non ebbero subito seguito a causa dello scoppio della crisi imerese, da cui sarebbe poi scaturita l’occasione per la riappacificazione dei due sovrani. L’uso dell’imperfetto ·ÚÂÛ΢¿˙ÂÙÔ e dell’espressione ÌÂÙa ‰b Ù·ÜÙ· sembrano indicare il trascorrere di un certo lasso di tempo tra la spedizione sibarita e la conclusione del conflitto con Agrigento. È possibile che, ancora al tempo dei giochi olimpici del 476 a. C., Ierone e Terone non avessero ancora risolto i loro contrasti e Polizelo si trovasse nascosto alla corte del genero-suocero in attesa dei prossimi eventi. La vittoria dell’Emmenide proprio con la quadriga115 suggerisce una posizione di forza degli Agrigentini e l’Olimpica ii di Pindaro composta proprio in questa occasione sembra contenere qualche blando riferimento alla situazione politica. Fin dai primi versi Terone viene definito: ù∫ ‰›Î·ÈÔÓ Í¤ÓˆÓ, öÚÂÈÛÌã \AÎÚ¿Á·ÓÙÔ˜, ÂéˆÓ‡ÌˆÓ Ù ·Ù¤ÚˆÓ ôˆÙÔÓ çÚıfiÔÏÈÓ principe giusto con gli ospiti baluardo di Agrigento, gemma di una stirpe illustre che governi la città. Pind. Ol. ii 6-8

Il riferimento alla giustizia del sovrano nei confronti degli ospiti potrebbe alludere alla presenza di Polizelo alla corte agrigentina. All’intenzione di Ierone di attaccare la compagine agrigentina allude anche lo schol. Ol. ii 29c, ma la reazione del tiranno siracusano è questa volta determinata dai maneggi di Trasideo con Polizelo. Benché diverse siano le divergenze tra le due testimonianze, tuttavia risultano confermati tutti gli elementi che possono presumibilmente aver caratterizzato la “guerra fredda” tra Siracusa e Agrigento. 114 Moretti 1957, 90 n. 220.

110 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto Li elenchiamo schematicamente nel tentativo di individuare alcune coordinate che possano aiutare a ridisegnare i contorni della crisi del 476/475 a. C.: - Triplice alleanza: Terone-Trasideo-Polizelo vs Ierone; - Preparativi per una spedizione militare: Ierone vs Agrigento; - In entrambe le testimonianze si percepisce la dimensione del complotto, del tradimento (con rivelazione e mediazione) e dell’accordo finale con cui si ricompone la crisi. Sulla mediazione con accordo finale e sul dato sostanziale che tra Agrigento e Siracusa non si arrivò mai, almeno in questa fase, allo scontro diretto, sembra concordare anche Timeo. Ma il frammento introduce alcuni elementi di novità: innanzitutto la crisi assume, nella cronaca del Tauromenita, una dimensione assolutamente familiare e la prima reazione circoscritta e limitata, ma certo più concreta, sembra, ad una prima lettura, essere attribuita a Terone. Si tratta solo di un’impressione perché il frammento timaico potrebbe prestarsi ad una diversa interpretazione, non troppo in contrasto con le testimonianze appena analizzate: Terone, estremamente dispiaciuto per il dramma di Polizelo e della figlia, inizialmente titubante, si sarebbe deciso a combattere contro il più forte Ierone che, nel frattempo, era già giunto con le sue milizie a Gela. La possibilità di affrontare il nemico, senza aspettare l’assedio e senza mettere in pericolo la propria città, deve essere sembrata al tiranno agrigentino la scelta politicamente e strategicamente più indovinata. Tutto il territorio di Gela, dal confine con Agrigento sul fiume Imera fino alla città, ormai blandamente sorvegliata – se si presuppone l’assenza di Polizelo – poteva essere facilmente percorribile e, se le cose fossero andate male, all’esercito agrigentino rimaneva una via di fuga relativamente sicura e la possibilità di rifugiarsi nella propria città. Lo scontro comunque non ebbe alcun esito, precisa Timeo, e la crisi si chiuse grazie all’intervento di Simonide.115 Andiamo ora agli elementi discordanti del nostro dossier agrigentino: - Diodoro xi 48-49: la questione imerese; - Schol. Pind. Ol. ii 29 c: un accordo suggellato da un matrimonio; - Schol. Pind. Ol. ii 29 d: uno scontro sfiorato sul fiume Gela. Si tratta di tre informazioni assolutamente verosimili che possono rivelare altrettanti aspetti del contrasto agrigentino-siracusano. D’altra 115 Sul ruolo di Simonide alla corte di Ierone cfr. infra p. 193.

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 111 parte è comprensibile che ogni questione diplomatica relativa agli Emmenidi finisse per coinvolgere anche la vita politica di una città come Imera ormai pienamente entrata nella sfera d’influenza agrigentina. E inoltre il resoconto di Diodoro sui fatti imeresi e sulla loro incidenza sui rapporti tra Dinomenidi ed Emmenidi, è abbastanza preciso e documentato e risulta variamente ripreso in altri punti dell’opera dello storico. Dal lessico usato dall’Agirinense sembra di potere dedurre che la richiesta di aiuto a Ierone fu ratificata dall’assemblea degli Imeresi, stanchi del governo dell’epistates Trasideo. Il voltafaccia del Dinomenide di fronte alla proposta degli ambasciatori imeresi, venuti a offrirgli su un piatto d’argento la soluzione alla contesa con Terone e un comodissimo sbocco sul Tirreno, per quanto stupefacente, ha il sapore di una scelta accuratamente ponderata. Ierone dunque reputò, in quel momento, la scelta più efficace, sul piano strategico, l’opzione del ritorno allo status quo, piuttosto che trovarsi a gestire una situazione del tutto nuova e sconosciuta.116 Per la seconda volta nella sua carriera politica, Ierone si trova a preferire la via della diplomazia e della mediazione a quella militare. E per la seconda volta nel giro di pochi anni un Dinomenide tende la mano ad un Emmenide, evitando con cura il tracollo della dinastia agrigentina. Sui termini dell’accordo Diodoro non si sofferma nel dettaglio; dice soltanto, e in maniera piuttosto sbrigativa, che Terone restituì Polizelo alla benevolenza di un tempo. Quello che all’Agirinense interessa – o meglio alla sua fonte – è discutere le ritorsioni che gli Imeresi dovettero subire per il loro tentato tradimento. Il fatto che il tutto si fosse risolto con un bel matrimonio, come vorrebbe lo schol. Pind. Ol. ii 29c, rientrerebbe nella migliore tradizione della tirannide siceliota e spiegherebbe la scomparsa di Polizelo dalle pagine della storia. L’alleanza matrimoniale con la dinastia agrigentina doveva essere una condicio sine qua non per la conclusione di un accordo. In fin dei conti il pericolo evitato da Terone grazie alla “lealtà” di Ierone non era da poco. E se riflettiamo sul fatto che obiettivo principale del Dinomenide era quello di fare fuori il fratello, troppo ben visto, non solo, tra i Siracusani, ma in generale tra i Sicelioti, neutralizzare, con una nuova unione, proprio la sua alleanza matrimoniale con il dinasta agrigentino ereditata dal vincitore di Imera, sarebbe stato il modo migliore per escluderlo dai giochi politici. La soluzione diplomatica ebbe dunque il vantaggio per Ierone di 116 Per un’analisi delle scelte strategiche di Ierone cfr. Bonanno in c.d.s.

112 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto eliminare una delle clausole più ambigue del testamento di Gelone, ovvero quella che rendeva Polizelo erede del vincolo matrimoniale con la tirannide agrigentina e che, secondo i calcoli del primo Dinomenide, sarebbe dovuta risultare opportuna e vantaggiosa. La funzione di Gela, dopo Imera, doveva essere dunque quella di cuscinetto tra Agrigento e Siracusa; il ruolo della città s’inseriva alla perfezione nel quadro dei provvedimenti adottati da Gelone dopo la vittoria. L’obiettivo principale, come si è visto, era quello di contenere eventuali ambizioni espansionistiche di Agrigento. Alla morte del sovrano siracusano, Terone si ritrovava stretto, ad Ovest, da una consistente enclave punica o filopunica117 e ad Est, dal controllo dinomenide su Gela, al quale l’Emmenide era ormai legato da obblighi e vincoli di alleanza. Restava libero il corridoio Agrigento-Imera che sia Gelone sia Ierone si erano comunque impegnati, a quanto pare, a rispettare. Con la fuga di Polizelo alla corte Emmenide e i complotti che ne seguirono, lo schema architettato da Gelone cominciò a vacillare richiedendo un intervento aggiuntivo da parte del suo successore.118 Vantaggioso, dal punto di vista strategico, però dovette essere il ruolo attribuito a Gela e al territorio geloo; il che ci porta all’ultimo elemento d’incongruenza individuato nel dossier documentario, ovvero allo scontro sul fiume su cui sorge la città. Di una battaglia nei pressi di un fiume tra Ierone e alcuni ignoti nemici ci dà notizia Polieno,119 il quale racconta dell’avventurosa diabasis dell’esercito siracusano conclusasi con successo grazie all’astuzia del Dinomenide. Il tattico non parla di Agrigentini e non precisa nemmeno il nome della località in cui avvenne lo scontro, ma, per quanto ne sappiamo, quello ricordato da Timeo è l’unico conflitto avvenuto presso la corrente di un fiume che si ricordi nel corso della tirannide ieroniana. La descrizione della guerra che, né fu disastrosa, né fu condotta a termine (Ì‹ Á ÌcÓ Âå˜ ‚Ï¿‚ËÓ, Ìˉb Âå˜ Ù¤ÏÔ˜ ÚÔ¯ˆÚÉÛ·È ÙeÓ fiÏÂÌÔÓ), potrebbe corrispondere alle manovre belliche ricordate da Polieno, 117 Cartagine conservò le sue basi commerciali in Sicilia e riuscì ad instaurare proficui rapporti pacifici con i Sicelioti, senza temere l’influenza dei Dinomenidi. Così Sartori 1988, 91-92 sulla scorta di Will 1972, 235-236. 118 Cfr. infra p. 116. 119 Polyaen. I 29. A una connessione tra il racconto di Polieno e il conflitto tra Ierone e Terone pensa Bicknell 1986, 30 n. 2; contra De Waele 1971, 114-115 che collega le manovre descritte da Polieno con il conflitto tra Ierone e Trasideo, ricordato da Diodoro (Diod. xi 53) sotto l’anno 472 a. C. (cfr. infra p. 120), e colloca, nonostante il silenzio delle fonti in proposito, il teatro di questi scontri sul fiume Imera al confine tra Gela e Agrigento.

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 113 che in sostanza non fa altro che riferire di un fiume guadato con successo dall’esercito di Ierone e di un manipolo di nemici in fuga. Tuttavia il fatto che il campo di battaglia sia stato nei pressi delle acque del Gela, la dice lunga sulla situazione della colonia rodio-cretese, il cui territorio ormai permeabile sul lato orientale, dopo l’abbandono di Polizelo, doveva essere tempestivamente difeso dalle truppe di Ierone. Se poi la controversia tra Dinomenidi ed Emmenidi non si risolse in un sanguinoso conflitto tra Siracusa e Agrigento, con grande dispiegamento di forze militari, ma conobbe soltanto piccole scaramucce locali, non lo si deve certamente al semplice intervento di un lirico come Simonide o alle doti pacifiste e alla sindrome conciliatoria di Ierone. Le clausole dell’accordo devono essere state particolarmente vantaggiose per Siracusa e certo l’incidente tra Ierone e Terone non si concluse con il solo ritorno allo status quo. I termini usati nello scolio Ol. ii 29c sembrano alludere tendenziosamente ad un patto stipulato a tutto vantaggio di Ierone e ad una posizione subalterna di Terone. Più ricche sono le informazioni sulla mediazione di Simonide, sulla quale però sembra comunque cadere un velo di ambiguità. Il testo, benché lacunoso, offre alcuni indizi che vale la pena di raccogliere: l’intenzione del lirico era quella di turbare il sovrano agrigentino con le sue informazioni sul tradimento e sui traditori. E per un poeta come Simonide, così intimamente legato, come vedremo, a Ierone, era un obiettivo prevedibile quello di indebolire la tirannide di Terone, rendendola il bersaglio vulnerabile di una rete di cospiratori. Il sovrano siracusano, tra l’altro, non doveva essere estraneo a questi complotti: gli scolii a Pindaro confermano variamente il suo legame con i cugini ribelli di Terone, Capi e Ippocrate, che si rivolsero a Ierone per tentare di togliere il potere allo scomodo parente. L’Emmenide li affrontò nei pressi di Imera e li vinse.120 I due si rifugiarono a Camico un tempo sede del mitico re dei Sicani, Cocalo.121 Il complotto di cui si parla nello schol. Ol. ii 29c potrebbe essere lo stesso ordito dagli Imeresi narrato da Diodoro: il trait d’union è costituito proprio dalla menzione di Imera, luogo dello scontro finale in cui Terone mette fuori gioco i cugini. E inoltre l’allusione, in questo passo, 120 Cfr. Schol. Pind. Ol. ii 173 f, g. In uno scolio recens (Ol. ii 173, p. 143 Abel) si afferma tra l’altro che i due, invidiosi del potere di Terone, si sarebbero presentati a Ierone per convincerlo a fare guerra al sovrano agrigentino. 121 I due erano figli di Senodico fratello di Emmenide, cfr. Schol. Pind. Pyth. vi 5a. Sulla rivolta cfr. Caserta 1995, 42 e ss. e sulla genealogia degli Emmenidi Lapini - Luraghi 1996, 213-220.

114 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto ad alcuni philoi sul punto di… potrebbe anche riferirsi a cospirazioni tutte interne all’entourage degli Emmenidi. Capi e Ippocrate potevano essere a capo di alcune fazioni di Imeresi ribelli, quegli stessi cioè che, secondo Diodoro, chiesero l’intervento del tiranno siracusano.122 Si potrebbe obiettare a queste conclusioni che il bersaglio della congiura dei cugini è Terone e non Trasideo, come emerge dalla cronaca dell’Agirinense, ma è anche vero che, come la storia aveva già mostrato, nulla che riguardasse Imera poteva non riguardare anche il tiranno agrigentino in prima persona. Il testo di Diodoro è chiaro nel definire Trasideo nulla più che un epistates e, per di più, l’interlocutore principale, tanto degli Imeresi, quanto di Ierone, risulta essere sempre e comunque Terone. Con lui infatti sarebbe stato necessario fare i conti, qualora il Dinomenide avesse deciso di accordare il suo sostegno ai congiurati di Imera, e ancora a Terone bisognava comunicare i venti di rivolta che soffiavano attorno al governo del figlio. I punti di contatto che abbiamo evidenziato tra Diodoro e lo schol. Ol. ii 29c, giustificano un tentativo di integrazione tra le due fonti. L’ipotesi di uno scontro senza vincitori né vinti sul fiume Gela, è già stata abbondantemente vagliata e considerata verosimile. Quello che ora però è opportuno valutare è se i termini dell’accordo furono così blandi e se davvero tutto finì, “semplicemente” con il matrimonio di Ierone con la nipote di Terone. Grande dunque doveva essere il debito del tiranno agrigentino nei confronti del suo avversario, se è vero che l’intervento di Ierone, o di chi per lui, evitò che la dinastia emmenide perdesse il controllo su Imera, anche se probabilmente i complotti – e ciò al principe siracusano non doveva dispiacere affatto – ne dovettero indebolire l’autorità. Questi erano calcoli che Ierone poteva aver fatto: l’uso del verbo krino, sia in Diodoro, sia nello schol. Ol. ii 29c, sebbene riferito a provvedimenti diversi,123 suggerisce un accurato esame di costi e benefici e una risoluzione politicamente e strategicamente valutata. Nel testo dello scolio si allude ad una sorta di resa da parte di Terone, dopo le notizie sulla congiura, e di una delega a Ierone delle decisioni da prendere in merito alla questione. L’allusione sospetta a una consegna del potere a Ierone (âͯÒÚËÛ ÙáÓ Ú·ÁÌ¿ÙˆÓ Ù† ^I¤ÚˆÓÈ), così come la soluzione finale in base alla quale ÀTeroneÃ124 – con ogni verosimi122 Piccirilli 1973,72-73. Contra Luraghi 1994, 251-252. 123 Cfr. supra pp. 48-49. 124 Nel testo c’è una lacuna ma è probabile che il soggetto della frase sia proprio

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 115 glianza – riottenne dal suo antagonista la tirannide (à¤Ï·‚ÂÓ àã ·éÙÔÜ ÙcÓ Ù˘Ú·ÓÓ›‰·),125 potrebbero lasciare intendere che l’incidente, con tutte le conseguenze che ne derivarono, mise in serie difficoltà la tirannide agrigentina e decretò l’ingresso di Agrigento nell’orbita siracusana, per di più in posizione subalterna. Il matrimonio servì solo a consolidare questo stato di fatto e a relegare in secondo piano Polizelo nelle relazioni con la dinastia emmenide. Tutto ciò significava peraltro per il giovane dinomenide una sorta di morte politica confermata anche dal fatto che, dopo il biennio 478-476 a. C., Polizelo si volatilizza e, dopo la morte del fratello, quando ci si aspetterebbe di trovarlo in lizza per la successione al trono siracusano, al suo posto troviamo Trasibulo. Il vincolo stabilito tra Ierone e gli Emmenidi, al termine della contesa che li vide contrapposti, può essere esaminato alla luce della casistica che regola le alleanze matrimoniali tra (Tav. 1) tiranni. Uno sguardo sinottico alla mappa delle alleanze matrimoniali che attraversarono la Sicilia tra vi e v sec. può essere utile a comprendere i rapporti di forze tra le dinastie e a chiarire in modo schematico e sintetico la natura delle relazioni che si stabilirono tra le poleis siceliote e i loro governanti. A Ierone toccarono sempre nozze con donne straniere. Tale può essere definito anche il legame con la figlia del siracusano Nicocle da cui verosimilmente nacque l’erede designato Dinomene, perché Ierone contrasse questo matrimonio quando ancora governava su Gela. Sia l’unione con la figlia del tiranno reggino sia quella che sanciva il legame con la casa emmenide possono leggersi alla luce degli avvenimenti che segnarono i primi anni di governo di Ierone. In entrambi i casi si tratta di nozze esogamiche che legavano il principe a partner provenienti da lignaggi ormai in crisi dal punto di vista del potere che erano in grado di esercitare sull’isola. Il gesto di Anassilao e della famiglia degli Emmenidi può essere interpretato, sulla base delle riflessioni di J.-P. Vernant, come un estremo tentativo di acquisire prestigio, ristabilendo un’alleanza con i Dinomenidi.126 Terone. Cfr. supra la traduzione di L. Piccirilli. Secondo Zambelli 1952-1954, 163 il participio ÂéÏ·‚Ëı›˜ dello Schol. Pind. Ol. ii 29 c si riferisce al tiranno agrigentino, ma non così tutta la parte seguente che potrebbe costituire un accenno a un accordo con Polizelo, il quale riconciliatosi col fratello sarebbe ritornato sul trono di Gela. 125 Il passo è stato spesso interpretato e tradotto in maniera diversa come se fosse stato Polizelo a riottenere la tirannide da Ierone, una volta ricomposta la controversia con Terone. Ma la traduzione di Piccirilli che abbiamo utilizzato sembra consegnare una realtà piuttosto diversa. 126 «… dare la propria figlia a una famiglia straniera significa acquistare influenza

116 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto Nicocle-aristocratico siracusano

Figlia

Anassilao tiranno di Reggio

Figlia

Damarete Ierone Dinomenide

Figlia

Senocrate Emmenide

Terone Emmenide

Damarete

Gelone

Polizelo

Figlia

Tav. 1. Le alleanze matrimoniali dei Dinomenidi.

Tuttavia il legame che Ierone stabilì con la dinastia emmenide sembra consapevolmente più blando di quello stabilito tra il fratello Polizelo e la tirannide agrigentina. Per volere di Gelone, tra Terone e Polizelo intercorreva una duplice e reciproca alleanza che non poteva che impensierire Ierone, il quale si affrettò a neutralizzarla. Sposando in seconde nozze Damarete, Polizelo non ereditava solo il legame matrimoniale con Terone e quindi l’alleanza con Agrigento, ma in qualche modo anche il prestigio e il valore che il primo matrimonio con Gelone aveva conferito alla donna.127 Da qui la necessità da parte di Ierone di correre ai ripari indebolendo l’asse Polizelo-Terone con una nuova alleanza matrimoniale volta a ristabilire gli equilibri a suo vantaggio. La c r i s i d e l 4 76 a. C . e i l c rol lo de l la di na st i a e mme ni d e : una fi n e a n nu n c i ata Da certi piccoli segnali emerge come, dopo il 476 a. C., la dinastia emmenide abbia iniziato la fase discendente della sua gloriosa parabola all’ombra dell’ormai potentissima tirannide siracusana.128 I provvedimenti presi nei confronti dei congiurati di Imera, verso i quali Terone non mostrò alcuna clemenza, ridussero la città all’oligandria, e il tiranno si preoccupò di ripopolarla con un’iniezione cone fama, farsi debitori e alleati (…), ma anche perderla e rinunciare ai figli che ella genererà», Vernant 20072, 70. Sui matrimoni dei tiranni di cfr. Gernet 1968; in particolare sulla tirannide siceliota Bruno Sunseri 1987, 50-51. Secondo Luraghi 1994, 330 e ss. la concessione da parte di Terone della mano della nipote si configura quale atto di sottomissione (cfr. anche ibidem 255 e ss.). Per un’analisi più generale sul valore delle alleanze matrimoniali cfr. Duplouy 2006, 79-117. 127 A questo proposito cfr. le riflessioni di Vernant 20072, 71 e, sulla sua scorta, Duplouy 2006, 87. 128 Secondo Millino 2000, 242, soltanto dopo la morte di Terone e la sconfitta di Trasideo, Ierone potè esercitare su Agrigento e quindi su Imera una forma di controllo forse anche di natura militare.

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 117 sistente di elementi dorici. Tra gli altri (ÙáÓ ôÏψÓ) – aggiunge Diodoro – iscrisse come cittadini coloro che lo volevano (ÙÔf˜ ‚Ô˘ÏÔ̤ÓÔ˘˜ âÔÏÈÙÔÁÚ¿ÊËÛÂÓ). Difficile è capire chi fossero questi altri; probabilmente non doveva trattarsi di Dori, altrimenti superfluo sarebbe stato distinguerli o sottolinearne la convivenza pacifica per cinquantotto anni.129 Il provvedimento di Terone consistente nell’introduzione di coloni di rincalzo, sembra rientrare nelle misure tipiche della deduzione di un’epoikia.130 Quella degli epoikoi è una delle categorie coloniali più peculiari: la definizione di colono supplementare risulta piuttosto semplicistica e poco esaustiva. L’epoikia infatti poteva essere inviata o da una città alleata per rinvigorire il corpo civico di una polis in difficoltà, o ancora da parte di una città egemone per manifestare il proprio controllo su un territorio ostile. Entrambe le prospettive sembrano adattarsi alla situazione di Imera, la cui popolazione, pur essendo stata letteralmente decimata da Terone, aveva sempre bisogno di essere controllata e presidiata. Il corpo civico imerese era sempre stato etnicamente composito: Tucidide131 ricorda la fondazione ad opera dei Calcidesi di Zancle e di un gruppo di esuli da Siracusa, i cosiddetti Miletidi. Tuttavia, dopo l’intervento di Terone, l’elemento dorico doveva aver preso il sopravvento se, al tempo della spedizione in Sicilia degli Ateniesi, gli Imeresi si schierarono dalla parte dei Siracusani, in quanto Dori.132 Al massacro voluto dal tiranno agrigentino doveva essere sopravvissuta un’esigua minoranza calcidese, tale da non essere più ricordata dalle fonti. Comunque sia, è difficile non intravedere l’analogia tra il gesto di Terone e gli interventi di Ierone sulla popolazione di Katane e sull’elemento calcidese all’epoca della fondazione di Etna. Un’analogia che doveva essere percepita come tale anche dalle fonti antiche, se il testo diodoreo affianca le due notizie nello stesso contesto.133 La sensazione che se ne ricava è che Terone, in obbligo con il tiranno siracusano, si trovasse a partecipare ad un più ampio progetto di dorizzazione delle poleis controllate e ad un progressivo isolamento 129 Cfr. supra p. 108. L’unico tra coloro che risposero all’appello di Terone, di cui abbiamo notizia, è il campione olimpico Ergotele, cretese di nascita e imerese di adozione. Di lui sappiamo (cfr. Pind. Ol. xii e Schol. Pind. Ol. xii inscr. b; Paus. vi 4, 11) che, rifugiatosi a Imera, incappò in Sicilia in nuove staseis. L’attribuzione della vicenda di Ergotele al contesto successivo agli interventi di Terone sul corpo civico imerese può considerarsi valida. Cfr. Hornblower 2004, 157-159; 195-196. 130 Cfr. Millino 2000, 249 e sull’epoikia Asheri 1967, 5-30. 131 Thuc. vi 5, 1. 132 Cfr. Thuc. vii 58, 2. 133 Diod. xi 49.

118 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto dell’elemento calcidese.134 Era questo un provvedimento che doveva mettere al riparo i due dinasti da eventuali ribellioni o moti di riscossa. Una preoccupazione comprensibile o almeno giustificabile agli occhi dei Sicelioti, se consideriamo che l’aiuto dei Cartaginesi e il loro arrivo in Sicilia fu caldeggiato proprio dai Calcidesi. Il riferimento ideologico al mondo dorico rappresentava il terreno su cui Ierone e Terone potevano incontrarsi. Domenico Musti135 ha individuato nelle Olimpiche ii e iii, composte da Pindaro, per la vittoria del 476 a. C., una tendenza da parte dell’Emmenide a enfatizzare i legami col mondo dorico, con Rodi e con Sparta, e a esaltarli molto di più rispetto ad una possibile componente cretese, la cui presenza ad Agrigento si collegava alla madrepatria Gela. Lo studioso si spinge addirittura anche più avanti leggendo anche nel gesto della demolizione della tomba del re Minosse e della restituzione delle ossa del re ai Cretesi, avvenuto proprio sotto la tirannide di Terone e di cui ci dà testimonianza Diodoro,136 una precisa volontà di rimozione dell’elemento cretese. Tale scelta poneva fine ad un culto arcaico e, se pure poteva suonare lusinghiero per un Cretese,137 di fatto bandiva dalla Sicilia una reliquia e un possibile legame con l’isola di Creta. Benché possa apparire eccessivo parlare di rimozione di eventuali legami con i Cretesi, è tuttavia innegabile che la restituzione della reliquia di Minosse – sia stato o meno Terone in persona a compierlo – 134 Secondo Bonacasa 1992, 141 può parlarsi di un impegno comune da parte di Dinomenidi ed Emmenidi per annientare il genos chalkidikòn. 135 Cfr. Musti 1988b, 41 e ss. Sulla questione della restituzione delle ossa di Minosse e sui tempi e i modi di realizzazione di tale gesto piuttosto vivace è stato il dibattito tra gli studiosi. Fontana 1978, 213 ha invece interpretato l’atto di Terone in chiave di rivalutazione dell’immagine di Minosse. Luraghi 1994, 254 ritiene che la restituzione delle ossa ai Cretesi «indichi un mutato atteggiamento rispetto alla memoria mitica ad esse connessa» e forse un interesse meno vivo rispetto alla loro funzione di «historical charter» nata probabilmente al tempo della conquista agrigentina di Minoa. Caserta 1995, 19-20 riconosce nel gesto di Terone il tentativo di decretare l’«estraneità» di Minosse e di annullarne il ruolo legittimante di eroe predecessore. Per una messa a punto dello status quaestionis cfr. Coppola 2008, 79. Sammartano in c.d.s. ritiene invece che il gesto della restituzione delle ossa di Minosse vada interpretato nel quadro più ampio dei rapporti tra i Greci e i Sicani. 136 Diod. iv 79. Manganaro 1988, 216-217 colloca nel 475 a. C. la restituzione delle ossa di Minosse ai Cretesi ed effettivamente l’episodio di Capi e Ippocrate, rifugiatisi a Camico, un tempo sede del re sicano Cocalo, potrebbe confermarlo. Verosimilmente proprio nei pressi di Camico doveva trovarsi il santuario di Minosse. Cfr. Caserta 1995, 15. 137 Di Cnosso secondo Musti 1988b, 40, di Sicilia secondo Fontana 1978, 214.

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 119 porti con sè una forte carica di ambiguità. La questione in merito alla natura del gesto è destinata, al momento, a restare aperta. Resta il fatto però che, nel 476 a. C., ricollegarsi ideologicamente all’universo dorico significava stare dalla parte della “nuova Grecia”, di quella che era uscita vincente dal conflitto contro i “barbari”. Sulla base di queste considerazioni si può intravedere, nella politica propagandistica promossa da Terone, la mano di Ierone e l’ingresso della tirannide agrigentina nell’orbita siracusana negli anni successivi all’incidente diplomatico con Polizelo.138 Se riflettiamo sui pochi dati a disposizione è possibile individuare una linea evolutiva nei rapporti tra Dinomenidi ed Emmenidi nei difficili mesi tra il 476 e il 475 a. C. La seconda Olimpica di Pindaro, ad esempio, sembra registrare un momento in cui la situazione politica agrigentina appariva più instabile. Il fatto che, a commento dei versi relativi agli eventi giusti e ingiusti che colpirono gli Emmenidi,139 gli scoliasti abbiano riportato le notizie della crisi con Siracusa ne è già un segnale. Nell’ode, che dagli studiosi è stata definita più un threnos che un epinicio, ricorrono ancora comunque richiami al mondo cretese con la menzione di Radamanto, fratello di Minosse; il che potrebbe fare pensare che la tirannide emmenide ci tenesse ancora a ricordare il vincolo con la madrepatria geloa, città del fuggiasco Polizelo. Controverso è inoltre il significato dell’allusione al tema della vita oltre la morte, riconducibile alla religiosità orfico-pitagorica.140 Diffici138 Caserta 1995, 28 e 32 ritiene che proprio alla corte dinomenide si sia formata la tradizione sull’uccisione di Minosse per giustificare, attraverso il motivo della vendetta, la pretesa siracusana sulla Sikania e che la figura del talassocrate abbia giocato un ruolo di primo piano nella contrapposizione tra Dinomenidi ed Emmenidi, come dimostra proprio l’episodio di Ippocrate e Capi. I ribelli agrigentini rappresentano, secondo questa ricostruzione, interessi siracusani e verrebbero a presentarsi quali vendicatori di Minosse. 139 Pind. Ol. ii 15. 140 Il problema delle influenze orfico-pitagoriche sulla seconda Olimpica è stato sollevato subito dalla stessa scoliastica pindarica (cfr. Schol. Pind. Ol. ii 123 a, b, c, d, e) che ha riconosciuto l’influenza del dogma pitagorico sulla produzione poetica del tebano. Gianotti 1971, 26-52 ha individuato nella critica moderna due tendenze: quella di chi crede che Pindaro avesse stretti contatti con il mondo dei misteri orfico-pitagorici ed eleusini; e quella, facente capo a Von Wilamowitz-Moellendorff 1922, 250 e a Bowra 1964, 121, secondo cui la prospettiva di immortalità che traspare da quest’opera sarebbe inconciliabile con il resto dell’elaborazione poetica di Pindaro e pertanto l’eco della religiosità orfico-pitagorica dovrebbe essere più correttamente attribuita ad elementi propri della fede di Terone di cui il poeta cantava in quest’ode le gesta. Gianotti tuttavia tende ad escludere l’influenza del Pitagorismo sulla poesia pindarica, sostenendo che le rapidissime allusioni al tema della “rinascita” rientrano piuttosto in una concezione del mondo che il poeta attinge dal suo con-

120 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto le è stabilire se in questi versi Pindaro si riferisse ad una propensione di Terone per il Pitagorismo, ma questa soluzione chiarirebbe ulteriormente l’avversione di Ierone per il sovrano emmenide. Una virata nell’atteggiamento della tirannide agrigentina si può percepire nell’Olimpica III, eseguita in occasione dei Theoxenia, forse ad Agrigento e forse, qualche tempo dopo, quando già si era concluso l’incidente con Siracusa. Dall’ode, decisamente più vicina allo spirito agonale, scompare ogni riferimento al mondo minoico e i versi composti da Pindaro, finiscono per essere una celebrazione dell’universo mitologico dei Dori. Il riferimento ai Tindaridi141 ricorda quello contenuto nella prima Pitica dedicata a Ierone.142 L’epinicio pindarico, inoltre, si conclude con il motivo dell’acqua e dell’oro analogo all’incipit della Olimpica i dedicata a Ierone per la stessa vittoria, come in una virtuale stretta di mano tra Emmenidi e Dinomenidi. Dopo gli episodi del 476 a. C. sembra distendersi il rapporto tra Siracusa e Agrigento e anche il clima politico interno: la Istmica ii, fatta dedicare, probabilmente nel 474 a. C., da Trasibulo, nipote di Terone, al padre Senocrate celebra il vincitore quale splendore degli Agrigentini; il che presuppone l’esistenza di rapporti felici della città con la dinastia.143 Una brusca inversione di tendenza si registra, nel 472 a. C., dopo la morte di Terone, quando, salito al trono il figlio Trasideo, la città di Agrigento si trovò a fare i conti con un sovrano violento che già in passato si era dimostrato eccessivamente tirannico e guerrafondaio. Uno dei primi provvedimenti del giovane emmenide, da buon tiranno siceliota, fu quello di riorganizzare l’esercito e di assoldare alcuni mercenari. A costoro si aggiunsero anche altri cittadini del polo emmenide, rappresentato da Agrigento e Imera. Anche nel caso della dinastia emmenide, come si è visto, funzionava il modulo dello sdoppiamento delle sedi di governo e della separazione delle cariche. Ed è così che Trasideo, dopo avere esercitato, non senza difficoltà, la sovraintentesto sociale. Secondo Demand 1975, 347-357 l’Olimpica ii riflette la visione di Terone e dei circoli culturali agrigentini di cui faceva parte anche Empedocle. Questi erano i rappresentanti di una branca, forse parallela al Pitagorismo, ma non identica. A proposito di questo epinicio cfr. anche Defradas 1971, 131-143. 141 Pind. Ol. iii 1; 35. Sul rapporto tra Terone e i Tindaridi cfr. anche Mann 2001, 277. 142 Pind. Pyth. i 66-67. Un rapporto tra i Dinomenidi e i Dioscuri è stato suggerito recentemente da Braccesi-Rossignoli 2008. 143 La datazione dell’ode è controversa, tuttavia gli studiosi sono propensi a ritenere che sia stata composta dopo il 476 a. C. Cfr. Privitera 1982, 27 e ss.

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 121 denza su Imera, eredita il governo di Agrigento e subito comincia a pensare di regolare qualche conto rimasto in sospeso. L’obiettivo designato della missione di Trasideo è infatti proprio la Siracusa di Ierone, ma il Dinomenide gioca d’anticipo e sbaraglia con un’armata considerevole l’esercito di ventimila uomini composto da mercenari, Agrigentini e Imeresi.144 Al termine della battaglia,145 l’Emmenide, umiliato, viene cacciato e fugge a Megara Nisea ma lì trova una fine degna di un tiranno e viene condannato a morte.146 Dopo la scomparsa della dinastia emmenide, stando a Diodoro, la boulé degli Agrigentini, una volta introdotta la democrazia, inviò una delegazione alla corte di Ierone a chiedere la pace.147 Il gesto ha il sapore di una richiesta di riconoscimento, rivolta al signore più potente dell’Occidente, della nuova situazione istituzionale di Agrigento. Dopo il 476 a. C. gli equibri geopolitici erano cambiati. Venuto meno il tiranno reggino Anassilao, sostituito da un sempre più fastidioso epitropos, ed esauritasi anche l’autorità del polo agrigentino-imerese, l’ago della bilancia delle questioni occidentali era diventato proprio Ierone. La sconfitta e la successiva fuga di Trasideo significarono la fine della tirannide emmenide e lo sgretolarsi dell’epicrazia agrigentina. Il termine demokratia, con cui Diodoro suggella la nuova situazione istituzionale profilatasi ad Agrigento, non va preso alla lettera, ossia 144 Diod. xi 53. 145 Bicknell 1986, 35 colloca, sulla base di argomentazioni discutibili, nella primavera del 467 a. C. la battaglia finale tra Ierone e Trasideo e la conseguente scomparsa della dinastia emmenide. 146 Difficile è capire il motivo per cui i Megaresi si accanirono tanto contro il sovrano agrigentino, giunto nella loro città sicuro di trovare una via di fuga, e le ragioni rimangono avvolte nel mistero. È suggestivo però che Trasideo trovi la morte proprio in una città, in qualche modo legata al mito di Minosse. Qui il re cretese aveva ucciso con l’inganno il re Nisos (Paus. i 19, 4). Forse esisteva una connessione tra la restituzione delle ossa di Minosse ai Cretesi e il trattamento riservato dai Megaresi al figlio di Terone. Sulla fine di Trasideo come tiranno cfr. Luraghi 2000, 104. 147 Questa assemblea era composta verosimilmente dalla classe aristocratica di cui facevano parte gli stessi Emmenidi rimasti in città dopo la cacciata di Trasideo. A questa classe appartenevano altri personaggi di prestigio quali lo stesso Empedocle che prese in mano le redini del potere e il suo rivale politico Acrone. A proposito dell’Agrigento post-emmenide cfr. le riflessioni di Asheri 1988, 95-111. Lo studioso individua, oltre a quella aristocratica e ippotrofica, altre due categorie di cittadini: quella degli xenoi rappresentata da ex-mercenari, veterani e coloni naturalizzati dai tiranni in città e nel territorio e quella degli esuli politici ricordati dalle fonti come archaioi politai. Per Robinson 1997, 78-80 nel 472 a. C. ebbe luogo la restaurazione di un regime democratico già esistente ad Agrigento prima della salita al potere degli Emmenidi.

122 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto come un regime basato sulla sovranità popolare e sull’attribuzione tramite sorteggio di gran parte delle cariche amministrative, così come succedeva nell’Atene periclea. Al contrario tale definizione indicava, in maniera più generica, un “regime libero” in antitesi con quello tirannico.148 Un’allusione alla richiesta di riconoscimento avanzata dagli Agrigentini è stata individuata dagli studiosi149 in alcuni versi della prima Pitica di Pindaro150 che accennano ad un megalanor che ora (ÓÜÓ) è costretto dagli eventi a lusingare Ierone in quanto amico. Secondo gli scolii il tracotante in questione sarebbe Anassilao o lo stesso Terone,151 ma il ÓÜÓ lascerebbe propendere per eventi storici più prossimi all’occasione cantata dal poeta. E dal momento che la vittoria pitica di cui si parla è quella del 470 a. C., è verosimile che l’allusione pindarica si riferisca alla polis agrigentina, rivoltasi in armi contro Ierone, ma poi, sconfitta, costretta a pagarne le conseguenze. Il crollo definitivo della dinastia emmenide, la cui solidità cominciò a scricchiolare sotto i colpi del 476 a. C., causò un grave vuoto di potere in Sicilia che Ierone doveva essere pronto a fronteggiare, ma soprattutto gettava un’ombra inquietante sul destino delle tirannidi dell’isola. I r i s ultati d e l la p ol i t i c a di I e ron e ne g l i anni 4 78 - 4 76 a . C . Il Dinomenide, dopo gli sforzi del primo faticosissimo biennio di governo, riuscì comunque a incrementare il suo prestigio e la sua influenza sia in Occidente, sia in ambito panellenico. La sua autorità, inizialmente vacillante, si era costruita, passo dopo passo, sulle ceneri del fratello, vincitore a Imera. Una volta superate le difficoltà dinastiche dei primi anni con grande intuito, e fatti fuori dalla scena politica personaggi scomodi come Polizelo, Ierone potè cominciare a costruire la sua basileia e a portare avanti i suoi progetti le cui tracce sono visibili già a partire dai primi mesi di governo. Le operazioni militari e diplomatiche di questi anni – eccetto ovviamente la fondazione di Etna di cui si tratterà più avanti – non portarono a Siracusa dei vantaggi territoriali, ma servirono alla tirannide 148 In questi termini Asheri 1988, 101-102 commenta il regime agrigentino postemmenide. 149 Cfr. Barrett 1973, 29; Bicknell 1976, 31-32; Millino 2000, 238. 150 Vv. 51-52. 151 Cfr. Schol. Pind. Pyth. i 99 a-b.

la scom par s a d i po l i z e lo e i l fron t e ag r i g e n t i n o 123 dinomenide a gettare le basi per un controllo – forse militare, e certo politico – su alcuni punti chiave dell’Occidente greco. La sintesi degli interventi di Ierone sulle poleis italiote e siceliote è contenuta proprio in quel passo di Diodoro che abbiamo analizzato nelle pagine dedicate al periodo della tirannide su Gela: ÙÔ‡ÙˆÓ ‰b Ú·¯ı¤ÓÙˆÓ Ôî ηÙa ÙcÓ ^I¤ÚˆÓÔ˜ ‰˘Ó·ÛÙ›·Ó âÎÂÙˆÎfiÙ˜ âÎ ÙáÓ å‰›ˆÓ fiÏÂˆÓ ö¯ÔÓÙ˜ ÙÔf˜ Û˘Ó·ÁˆÓÈ˙Ô̤ÓÔ˘˜ ηÙÉÏıÔÓ Âå˜ Ùa˜ ·ÙÚ›‰·˜, ηd ÙÔf˜ à‰›Îˆ˜ Ùa˜ àÏÏÔÙÚ›·˜ fiÏÂȘ àÊ–ÚË̤ÓÔ˘˜ âͤ‚·ÏÔÓ âÎ ÙáÓ fiψÓØ ÙÔ‡ÙˆÓ ‰ã qÛ·Ó °ÂφÔÈ Î·d \AÎÚ·Á·ÓÙÖÓÔÈ Î·d ^IÌÂÚ·ÖÔÈ. ·Ú·ÏËÛ›ˆ˜ ‰b ÙÔ‡ÙÔȘ ηd \PËÁÖÓÔÈ ÌÂÙa Z·ÁÎÏ·›ˆÓ ÙÔf˜ \AÓ·Í›ÏÔ˘ ·Ö‰·˜ ‰˘Ó·ÛÙ‡ÔÓÙ·˜ â΂·ÏfiÓÙ˜ äÏ¢ı¤ÚˆÛ·Ó Ùa˜ ·ÙÚ›‰·˜. Dopo questi fatti (dopo cioè che gli abitanti di Katane tornarono nella loro città cacciando i coloni di Ierone) coloro che durante la dynasteia di Ierone erano stati cacciati dalle proprie città, ora che avevano degli alleati che combattevano dalla loro parte, fecero ritorno nelle loro patrie ed espulsero dalle città quelli che avevano ingiustamente sottratto le città altrui: fra questi vi erano gli abitanti di Gela, di Agrigento e di Imera. Come loro anche gli abitanti di Reggio con quelli di Zancle cacciarono i figli di Anassilao che ne erano signori e liberarono le loro patrie. Diod. xi 76, 4

Diodoro allude chiaramente a epurazioni avvenute sotto la dynasteia di Ierone, ma non dice nulla a proposito dell’identità di coloro che privarono ingiustamente delle loro città gli antichi abitanti di Gela, di Imera, di Zancle e di Reggio. Tuttavia è importante sottolineare che tutte le città menzionate ebbero a che fare, direttamente o indirettamente, con Ierone fin dai primissimi anni di governo. E se per Agrigento e Reggio sappiamo che il Dinomenide aveva voce in capitolo nelle questioni di carattere politico che riguardavano le due poleis, non andremo troppo lontano dal vero se simili intromissioni ipotizzeremo anche per Gela, per Imera e per Zancle. È facile immaginare infatti che, una volta neutralizzati Terone e Polizelo, sia il polo agrigentino-imerese sia Gela avessero dovuto accettare di essere controllati a vista da Siracusa. Analogo ragionamento può essere fatto per Zancle, l’altra sede dell’autorità anassilaide, trascinata probabilmente in una posizione di scacco dalla resa incondizionata di Reggio alle disposizioni di Cromio. Il controllo su questi territori doveva realizzarsi però anche tramite la consueta introduzione di corpi di mercenari che finì per stravolgere il loro assetto civico, scatenando le velleità rivendicative degli antichi abitanti in epoca immediatamente post-dinomenide. Al termine di questa analisi sugli eventi di questo primo biennio e

124 g l i i nte rve nt i d i i e rone a l di l à de l lo st r etto sulle scelte politiche di Ierone è facile comprendere quanto complicati siano stati gli esordi della sua tirannide, costretta a barcamenarsi tra l’ostilità delle potenze occidentali pronte a cogliere in fallo la dinastia dei Dinomenidi, dopo la scomparsa del campione di Imera e una discreta opposizione interna originata probabilmente dall’operato dello stesso Gelone. Il tutto avveniva in Sicilia sotto l’occhio dei Greci d’oltremare, sospettosi nei confronti di Ierone così come lo erano stati nei confronti di Gelone, almeno secondo il racconto che ne avrebbe fatto Erodoto. Si comprende allora il desiderio del Dinomenide non solo di presentarsi ai Sicelioti quale degno erede di Gelone ma soprattutto di essere riconosciuto quale suo legittimo successore a dispetto dell’opposizione interna ed esterna. Dopo l’esordio siracusano, si apre una nuova fase della tirannide di Ierone, caratterizzata da una politica più consapevole e segnata dalla volontà del sovrano di superare i limiti del fratello, ostentando una vocazione panellenica che Gelone aveva dimostrato di non possedere. Per ottenere questi risultati Ierone non si servì solo dei sistemi coercitivi della forza militare e delle armi della politica, ma mise in piedi un articolato programma propagandistico che, se da un lato oggi appanna l’immagine storica di questo tiranno, dall’altro rivela tutta la potenza della dinastia dinomenide.

PHRONESIS E DYNAMIS

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ETNA: POLIS DORICA IN TERRITORIO CALCIDESE Egli aveva eretto un muro intorno alla città, e costruito case, elevato templi agli dei e diviso terre. Hom. Od. vi 7-11

La f ondaz i one d i Et na: f on t i e c ron olo g i a

È

proprio a partire dalla fondazione di Etna che le notizie sulla tirannide di Ierone si intrecciano con quelle relative alle modalità di rappresentazione della sua autorità. Ogni tentativo di ricostruzione storica della vita estremamente breve della colonia e delle sue istituzioni non può dunque prescindere dall’analisi delle testimonianze letterarie e necessita anche di un’analisi delle esigenze della committenza. Si inizierà ad esaminare le testimonianze degli storici per passare poi a quelle degli artisti che gravitarono alla corte siracusana al fine di valorizzare tutte le tracce significative della fugace storia di Etna; una storia che deve essere riletta nel quadro più ampio della politica internazionale di Ierone e in quello, decisamente più impreciso e confuso, dei rapporti di forza tra le poleis della Sicilia orientale. Un excursus breve ma puntuale su Etna, meteora nel firmamento delle colonie greche di Sicilia, viene proposto da Strabone. Il geografo ne ripercorre la storia ma il punto di vista privilegiato non è la città neofondata, bensì Katane, la polis spopolata da Ierone per fare posto a quello che non è esagerato definire un vero e proprio feudo personale del sovrano:

à¤‚·Ï ‰b ÙÔf˜ Ôå΋ÙÔÚ·˜ ÙÔf˜ âÍ àگɘ ì K·Ù¿ÓË, ηÙÔÈΛ۷ÓÙÔ˜ ëÙ¤ÚÔ˘˜ ^I¤ÚˆÓÔ˜ ÙÔÜ ™˘Ú·ÎÔ˘ÛÛ›ˆÓ Ù˘Ú¿ÓÓÔ˘ ηd ÚÔÛ·ÁÔÚ‡۷ÓÙÔ˜ ·éÙcÓ AúÙÓËÓ àÓÙd K·Ù¿Ó˘. Ù·‡Ù˘ ‰b ηd ¶›Ó‰·ÚÔ˜ ÎÙ›ÛÙÔÚ· ϤÁÂÈ ·éÙeÓ ¬Ù·Ó Ê” ãã͇Ó˜ [¬] ÙÔÈ Ï¤Áˆ, ˙·ı¤ˆÓ îÂÚáÓ ïÌÒÓ˘Ì ãã¿ÙÂÚ, ÎÙ›ÛÙÔÚ AúÙÓ·˜.ãã ÌÂÙa ‰b ÙcÓ ÙÂÏ¢ÙcÓ ÙÔÜ ^I¤ÚˆÓÔ˜ ηÙÂÏıfiÓÙ˜ Ôî K·Ù·Ó·ÖÔÈ ÙÔ‡˜ Ù âÓÔ›ÎÔ˘˜ âͤ‚·ÏÔÓ Î·d ÙeÓ Ù¿ÊÔÓ àÓ¤Ûη„·Ó ÙÔÜ Ù˘Ú¿ÓÓÔ˘. Katane perse i suoi primi abitanti quando Ierone, tiranno di Siracusa, vi insediò altri coloni chiamandola Etna anziché Katane. Pindaro lo definisce fondatore di essa quando dice: “Ascolta quel che dico O tu che porti il nome dei santi sacrifici, padre fondatore di Etna”

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phrone s i s e dy na m i s

Dopo la morte di Ierone, però gli abitanti di Katane tornarono, cacciarono i nuovi abitanti e distrussero la tomba del tiranno. Strab. vi 2, 3, 32-38

Il testo prosegue con le notizie sul destino degli abitanti di Etna che, cacciati, si stabilirono, più a monte, a Inessa – ribattezzata a sua volta Etna – e perseverarono nell’attribuire a Ierone il ruolo di ecista della nuova località di residenza. A dimostrazione di quanto si è detto sopra a proposito del binomio storia-propaganda che caratterizza il caso della fondazione del Dinomenide, basta osservare il fatto che lo stesso Strabone non resiste alla tentazione di inserire nella sua cronaca i versi celebrativi di Pindaro in cui Ierone è celebrato quale ¿ÙËÚ, ÎÙ›ÛÙÔÚ AúÙÓ·˜ e la santità del suo nome esaltata nell’abile gioco di parole ˙·Ù¤ˆÓ îÂÚáÓ ïÌÒÓ˘ÌÂ. Nonostante l’inserimento del frammento pindarico1 in cui è evidente l’intento elogiativo, dal racconto di Strabone emerge chiaramente il carattere violento e arbitrario dell’insediamento dei coloni di Ierone nel sito della calcidese Katane, i cui abitanti, cacciati, poterono ritornare in patria solo dopo la morte del sovrano. Qualche notizia in più sul trattamento riservato ai Calcidesi e ulteriori precisazioni sulle tappe che portarono alla fondazione della colonia le fornisce Diodoro le cui parole riguardo a questi eventi è opportuno leggere direttamente: ^I¤ÚˆÓ ‰b ÙÔ‡˜ Ù N·Í›Ô˘˜ ηd ÙÔf˜ K·Ù·Ó·›Ô˘˜ âÎ ÙáÓ fiÏÂˆÓ àÓ·ÛÙ‹Û·˜, å‰›Ô˘˜ Ôå΋ÙÔÚ·˜ à¤ÛÙÂÈÏÂÓ, âÎ ÌbÓ ¶ÂÏÔÔÓÓ‹ÛÔ˘ ÂÓÙ·ÎÈÛ¯ÈÏ›Ô˘˜ àıÚÔ›Û·˜, âÎ ‰b ™˘Ú·ÎÔ˘ÛáÓ ôÏÏÔ˘˜ ÙÔÛÔ‡ÙÔ˘˜ ÚÔÛı›˜Ø ηd ÙcÓ ÌbÓ K·Ù¿ÓËÓ ÌÂÙˆÓfiÌ·ÛÂÓ AúÙÓËÓ, ÙcÓ ‰b ¯ÒÚ·Ó Ôé ÌfiÓÔÓ ÙcÓ K·Ù·Ó·›·Ó, àÏÏa ηd ÔÏÏcÓ Ùɘ ïÌfiÚÔ˘ ÚÔÛıÂd˜ ηÙÂÎÏËÚÔ‡¯ËÛÂ, Ì˘Ú›Ô˘˜ ÏËÚÒÛ·˜ Ôå΋ÙÔÚ·˜. ÙÔÜÙÔ ‰ã öÚ·Í Û‡‰ˆÓ ±Ì· ÌbÓ ö¯ÂÈÓ ‚Ô‹ıÂÈ·Ó ëÙÔ›ÌËÓ àÍÈfiÏÔÁÔÓ Úe˜ Ùa˜ âÈÔ‡Û·˜ ¯Ú›·˜, ±Ì· ‰b ηd âÎ Ùɘ ÁÂÓÔ̤Ó˘ Ì˘ÚÈ¿Ó‰ÚÔ˘ fiψ˜ ÙÈÌa˜ ö¯ÂÈÓ ìÚˆÈο˜. ÙÔf˜ ‰b N·Í›Ô˘˜ ηd ÙÔf˜ K·Ù·Ó·›Ô˘˜ âÎ ÙáÓ ·ÙÚ›‰ˆÓ àÓ·ÛÙ·ı¤ÓÙ·˜ ÌÂÙÑÎÈÛÂÓ Âå˜ ÙÔf˜ §ÂÔÓÙ›ÓÔ˘˜, ηd ÌÂÙa ÙáÓ âÁ¯ˆÚ›ˆÓ ÚÔÛ¤Ù·Í ηÙÔÈÎÂÖÓ ÙcÓ fiÏÈÓ. Ierone, cacciati gli abitanti di Naxos e di Katane dalle loro città, inviò lì propri coloni, avendone raccolti cinquemila dal Peloponneso e altrettanti ne aveva aggiunti da Siracusa e cambiò il nome della città da Katane in Etna, distribuì in lotti non solo il territorio di Katane ma anche gran parte di quello confinante e lo riempì di diecimila abitanti. Fece questo perché si adoperava ad avere un esercito sempre pronto per le necessità che potevano presentarsi e anche per ricevere onori da eroe dalla città di die1 Pind. F 105a Maehler.

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cimila abitanti appena costituita. Cacciati gli abitanti di Naxos e Katane dalla loro patria li trasferì a Leontini e ordinò loro di coabitare con gli abitanti del luogo. Diod. xi 49

La testimonianza dell’Agirinense sembra suggerire proprio l’approccio interpretativo e scientifico con cui può essere affrontato il caso di Etna. Diodoro infatti getta subito sul tappeto le differenti variabili coinvolte nella politica etnea, quasi segnalando le molteplici prospettive attraverso cui la deduzione della colonia da parte di Ierone deve essere studiata. Ragioneremo dunque soprattutto sulle diverse conseguenze dovute all’insediamento di nuovi coloni e allo spostamento coatto in altro sito dei cittadini di poleis già libere e autonome. Prima di entrare in medias res è opportuno analizzare un aspetto, esterno al testo di Diodoro, ma ad esso connesso, quello della collocazione cronologica dei fatti che portarono alla deduzione della colonia. Lo storico inserisce anche questo episodio nel contesto degli avvenimenti dell’anno 476 a. C., in un momento particolarmente difficile per la tirannide siracusana, quasi fosse l’esito naturale della crisi che attraversava la casa dei Dinomenidi e minacciava l’equilibrio della Sicilia. La fondazione di Etna veniva rappresentata dunque, nella migliore tradizione coloniale,2 come la risposta a una crisi politica che rischiava di mettere in forse l’egemonia siracusana. Assolutamente straordinario però fu il trattamento che il tiranno decise di riservare ai Calcidesi, così come altrettanto singolare fu la procedura che portò alla nascita della nuova polis. Per la prima volta nella sua carriera tirannica la politica di Ierone non si configura come la risposta ad un’aggressione, o comunque come atto difensivo volto a garantire sicurezza e stabilità al suo regno, ma, per quanto ne sappiamo, risulta essere un’azione assolutamente spontanea e arbitraria che la pubblicistica tirannica rese, a dispetto di tutto ciò, uno degli eventi più significativi della storia dell’isola. Si giustifica in tal modo la scelta di dedicare alla fondazione di Etna un capitolo a parte, benché tale avvenimento costituisca in realtà una significativa e gloriosa appendice delle azioni politiche intraprese nel corso dei primi due anni di tirannide siracusana. Si tratta comunque di una scelta metodologica che non pare discostarsi troppo dalla realtà dei fatti, perché è vero che Diodoro colloca gli avvenimenti che por2 La narrativa coloniale descrive spesso la colonizzazione come la risposta a un momento di crisi civica. A questo proposito cfr. Dougherty 1993, 16-18.

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tarono alla nascita della città nel 476 a. C., ma è altrettanto vero che lo spopolamento di Katane e poi il bando coloniale avranno richiesto il loro tempo per giungere a termine. Pertanto lo storico può avere datato a quell’anno l’avvio di un processo durato in realtà un po’ più a lungo. Se poi riflettiamo sul fatto che le prime opere che celebrano la nascita di Etna o Ierone con l’epiteto di Etneo risalgono alla fine degli anni settanta, si può dedurre che la fondazione della città non avvenne in tempi brevissimi. Ierone, tra l’altro, deve essere stato libero di impegnarsi in questa nuova avventura solo al termine della sua contesa con Polizelo e delle questioni con Terone. È possibile dunque datare al tardo 475 a. C. l’avvio di un progetto che avrebbe regalato grande fama al tiranno siracusano.3 Un progetto che tuttavia deve avere conosciuto diversi rallentamenti, connessi in primo luogo a fattori interni, non ultimo il fatto che il territorio in cui Ierone aveva deciso di farsi onorare quale ecista, doveva prima quanto meno configurarsi quale doriktetos ge, condicio sine qua non per procedere ad una spartizione in lotti. Altri fattori esterni inoltre, quali per esempio la partecipazione alla battaglia di Cuma nel 474 a. C.,4 avranno ulteriormente ritardato le pratiche d’insediamento e quindi anche i festeggiamenti per la nascita della nuova polis. Un indizio cronologico a cui agganciare la fondazione ieroniana di Etna è stato individuato5 nei primi versi della Pitica I di Pindaro,6 l’ode in cui più frequenti e pregnanti sono i riferimenti alla colonia. Il poeta sembra descrivere un evento recente dell’attività eruttiva del vulcano e lo stesso episodio, con termini pressoché simili viene raccontato anche da Eschilo nel Prometeo ai vv. 351-372. Un controllo incrociato con 3 Alla realtà etnea non si fa cenno nella Olimpica I di Pindaro o nell’Epinicio v di Bacchilide. I commentatori antichi sembrano avere rilevato il problema del mancato riferimento alla ktisis proprio in occasione della celebrazione del trionfo olimpico di Ierone. Secondo lo Schol. Pind. Ol. i 35 c, il sovrano aveva vinto a Olimpia come Etneo; Didimo (cfr. Apollod. FGrHist 244 F 69), basandosi sul cronografo Apollodoro, sostiene invece che Ierone a quell’epoca era Siracusano. Per quanto il dibattito tra gli scoliasti non suggerisca nulla di preciso sulla data di fondazione di Etna, in ogni caso consente di fissare un terminus post quem alla fine dell’estate del 476 a. C., dopo i giochi olimpici. Luraghi 1994, 337, sulla base di questi dati, conclude che Etna può essere stata fondata nei mesi che vanno dall’autunno del 476 a. C. alla primavera del 475 a. C., ma sottolinea anche che il dibattito antico trova una sua giustificazione proprio ammettendo che ambedue gli eventi, vittoria olimpica e fondazione della città, cadessero nello stesso anno. 4 Diod. xi 52. 5 Cfr. a questo proposito Boehringer 1968, 70; Forsyth 1982, 53-56; Debiasi 2000, 229. 6 Cfr. Pind. Pyth. i 15-28.

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un passo di Tucidide conferma che negli anni settanta del v secolo l’attività del vulcano doveva essere piuttosto vivace. Secondo lo storico ateniese7 infatti nella primavera del 425 a. C. una violenta eruzione aveva distrutto parte della terra degli abitanti di Katane e questo episodio – stando ad alcune dicerie – sarebbe avvenuto cinquant’anni dopo il precedente. Il che ci riporterebbe esattamente al 475 a. C., data in cui abbiamo ipotizzato che Ierone avesse concepito il progetto etneo. Ma altre testimonianze invitano a non prendere troppo alla lettera il dato tucidideo. Secondo il Marmor Parium,8 al tempo della battaglia di Platea, sotto l’arcontato di Santippo, nel 479 a. C., si verificò un’eruzione dell’Etna e gli scolii al Prometeo incatenato di Eschilo9 precisano che il fenomeno si verificò al tempo di Ierone (ηÙa ÙÔf˜ ^I¤ÚˆÓÔ˜ ¯ÚfiÓÔ˘˜). Le contraddizioni tra le nostre notizie sono più apparenti che reali e gli studiosi hanno preferito non interpretare in maniera troppo rigida il dato tucidideo, evitando anche una datazione ad annum dell’eruzione dell’Etna. Per risolvere il problema delle incongruenze cronologiche è stata proposta una soluzione compromissoria che sembra però anche la più soddisfacente. Secondo gli studiosi moderni infatti i primi anni settanta del v secolo avranno conosciuto un’intensa attività vulcanica dell’Etna10 con diversi episodi drammatici, gli ultimi dei quali possono aver lasciato il segno nelle opere di Pindaro ed Eschilo. I cinquant’anni del testo tucidideo vanno pertanto accettati, non come un riferimento cronologico preciso, ma come cifra tonda e approssimativa. Se questa soluzione però non aiuta a individuare il momento preciso in cui Ierone diede avvio al progetto etneo, tuttavia serve a chiarire le circostanze che indebolirono il polo calcidese rendendo possibile l’intervento del tiranno su Katane. Le continue eruzioni del vulcano avranno infatti reso la città piuttosto vulnerabile e inerme di fronte agli attacchi, forse nemmeno troppo violenti di Siracusa.11 07 Thuc. iii 116. Secondo Tucidide, tre sarebbero state le eruzioni dell’Etna da quando i Greci giunsero in Sicilia fino ai suoi tempi. 9 Schol. Aesch. Prom. 367. 08 Marmor Parium FGrHist 239 A 52. 10 Cfr. Gentili 1995, 15; Debiasi 2000, 229. 11 Questa è l’ipotesi di Forsyth 1982, 53-56 che insiste sulla connessione tra catastrofi naturali ed eventi storici nell’antichità e porta come esempio il terremoto che sconvolse il Peloponneso negli anni sessanta del V secolo e da cui nacque la rivolta degli Iloti contro Sparta (cfr. Diod. xi 63). Secondo Luraghi 1994, 336 il territorio calcidese da Naxos a Leontini sarebbe già stato sottomesso a Siracusa dai tempi di Gelone, anzi Ierone avrebbe addirittura «ereditato senza soluzione di continuità il

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phrone s i s e dy na m i s Prot e g g e r e i l r e g no e di v e n ta r e e c i sta : l e r ag i oni di I e ron e

Torniamo ora al testo di Diodoro che sull’accaduto offre, come già detto, non solo informazioni precise e dettagliate ma anche una griglia interpretativa attraverso la quale rileggere la storia di Etna. Lo storico agirinense – o meglio, la sua fonte – ha ben chiaro che la fondazione della colonia sul territorio di Katane coinvolgeva diverse componenti e potere essere analizzata a partire da diversi punti di vista. La prospettiva privilegiata alla quale nel testo si dà maggiore risalto è quella del tiranno che, con il suo gesto, persegue due finalità ben precise: quella politico-militare di avere sempre a disposizione un contigente di soldati pronto e fedele per ogni evenienza; e quella propagandistica di ottenere gli onori eroici dopo la morte. A queste due motivazioni si aggiungeva quella non dichiarata apertamente, ma piuttosto ovvia, di concentrare e avvicinare l’elemento calcidese per renderlo più controllabile. Con la deduzione di questa colonia Ierone dunque inscrive il suo nome nel novero di quei tiranni di vi e v secolo che della politica coloniale fecero un’arte.12 La fondazione di Etna, per le sue caratteristiche e per le esigenze di natura politica e propagandistica cui rispondeva, sembra collocarsi a metà strada tra le colonizzazioni promosse da sovrani come i Cipselidi e i Pisistratidi13 e le deduzioni, o meglio le rifondazioni volute dai principi di Occidente. Etna manteneva quel carattere di possesso personale del tiranno come lo erano territori quali il Sigeo per i Pisistratidi o anche il Chersoneso per i Filaidi.14 In tal modo la neofondata polis veniva a costituire anche una nicchia protetta all’interno della quale dar seguito alla discendenza verticale di Ierone. Il tiranno siracusano aveva destinato il trodominio di Ippocrate su quest’area». Forse parlare di sottomissione e di dominio è eccessivo, ma certo è verosimile che le popolazioni calcidesi siano state, in qualche modo, indebolite dai continui interventi dei tiranni nel loro territorio. 12 Cfr. Leschhorn 1984, 117 e ss.. 13 Kirsten 1941, 59 ha sottolineato l’analogia tra le colonie dei Cipselidi e dei Pisistratidi con la ktisis ieroniana di Etna. I primi infatti, con la deduzione di apoikiai, perseguivano lo stesso obiettivo attribuito da Diodoro al principe siracusano di creare una forza domestica, ovvero avamposti del potere che rimanessero sempre legati alla madrepatria. 14 Sullo status giuridico dei territori controllati dai Filaidi rinvio a Bonanno 1999, 7-37 e Ead. 2009b.

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no della città al figlio Dinomene, affiancandogli come tutore il fedele Cromio.15 Era questa una misura probabilmente legata alla natura della discendenza dinomenide, di cui si è già detto. Ben poco senso infatti avrebbe avuto creare appositamente un regno per il figlio, se Ierone non avesse potuto prevedere, sulla base della sua stessa esperienza, che il governo di Siracusa sarebbe passato alla sua morte al fratello. È per questo motivo che la funzione che Ierone aveva stabilito per Etna risulta completamente diversa da quella attribuita dai suoi predecessori alle loro fondazioni. La politica coloniale del tiranno di Siracusa sembra assolutamente inedita e comunque diversa da quella condotta da Ippocrate nei confronti di Camarina, o da Gelone a Siracusa e Anassilao a Zancle-Messene. Per tutti questi casi si tratta di rifondazioni con relativo spostamento e cambiamento parziale o totale della popolazione, e l’unica polis che cambiò nome, alla stessa maniera di Etna, fu la sola Zancle.16 Ma nessuno dei tre tiranni ricevette, per quanto ne sappiamo, gli onori destinati solitamente agli ecisti né venne mai celebrato come tale,17 come invece risulta che fosse per Ierone, invocato da Pindaro quale ÎÏÂÈÓfi˜ ÔåÎÈÛÙ‹Ú.18 Inoltre un’ultima differenza, certamente significativa, consiste nel fatto che i tiranni – almeno così fecero Gelone e Anassilao – tendevano a trasferirsi nella città di nuova acquisizione, lasciando ad un delegato la vecchia sede. Nel caso di Etna però, Ierone doveva sapere bene che la città tutt’al più gli sarebbe servita come monumento, dopo la morte, e avrebbe contribuito ad amplificare il suo prestigio e a glorificare la sua immagine all’estero. Al tempo stesso, ben sapendo che il polo principale del potere dinomenide doveva restare Siracusa, anche per opportunità di natura strategica che non serve spiegare, il tiranno garantiva al suo giovane delfino un’area protetta nell’ambito della quale esercitare, in futuro, la sua fetta di autorità dinomenide. Un gesto che vagamente ricorda quello dei tre figli illegittimi di Cipselo

15 Cfr. Schol. Pind., Nem. ix inscr. 10. 16 Thuc. vi 4. 17 Tucidide (Thuc. vi 5, 3) definisce Ippocrate oikistes per la rifondazione di Camarina, ma per quanto ne sappiamo nessun culto ecistico è testimoniato per lui. Anche a Gelone (Diod. xi 38, 5) e a Terone (Diod. xi 53) furono attribuiti ÙÈÌ·d ìÚÔÈη›, onori eroici parzialmente, ma non del tutto, assimilabili, a quelli destinati agli ecisti. Per esempio, sempre da Diodoro (Diod. xi 38, 5), sappiamo che Gelone venne sepolto all’esterno della città e non all’interno, nell’agora, come si conveniva agli eroi fondatori. Cfr. Malkin 1987, 96-97 e sull’attribuzione di onori eroici ai tiranni di Sicilia nel V sec. Currie 2005, 170-172. 18 Pind. Pyth. i 33.

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e del figlio di Periandro, Evagora, mandati a fondare rispettivamente Leucade, Anattorio, Ambracia e Potidea.19 C o strui r e u na c i tt à Sulla base proprio di esperienze pregresse, la cui eco può essere giunta a Siracusa proprio grazie a quella corte di intellettuali che Ierone ospitava presso di sè, il principe aveva potuto decidere di presentarsi in ambito internazionale quale ecista di una colonia, preferendo però delegare a Cromio e al figlio il governo della città. Pindaro parla chiaro quando nei suoi versi scrive che proprio per Dinomene Ierone fondò quella polis.20 E non si può certo dire che Ierone non prese alla lettera il suo compito di fondatore. Diodoro gli attribuisce tutte le funzioni tipiche di un ecista: dall’individuazione del sito il cui territorio fu reso, dopo la cacciata degli abitanti originari, indiviso, alla spartizione primaria della terra, alla scelta del nome e alla composizione del contigente coloniale. Si trattò di certo di un’operazione in grande che coinvolse non solo gli abitanti di Katane e di Naxos, i cui territori furono verosimilmente unificati, ma anche quelli di Leontini che si trovarono a dovere convivere con i deportati di Ierone. Se ci si sofferma a riflettere, è facile notare che due furono in realtà le poleis ricomposte dal tiranno: Etna e Leontini per la quale forse fu anche necessario ricorrere ad un ges anadasmos, ma di quest’ultima ipotesi non possediamo le prove.21 È evidente dunque che non solo la storia di Etna debba essere oggetto di analisi, ma anche quella dei Calcidesi cacciati per fare posto alla nuova colonia. Insieme a questi ultimi, secondo Diodoro, si ritrovarono pressoché nella stessa situazione di spodestati anche coloro che occupavano il territorio confinante (ÔÏÏcÓ Ùɘ ïÌfiÚÔ˘ ÚÔÛıÂd˜) con quello di Katane, la cui chora Ierone si preoccupò si inserire nella spartizione in lotti, aggiungendola a quella della colonia calcidese. L’area in questione era, senza dubbio, quella appartenente ai Siculi, come conferma lo stesso Diodoro ricordando l’ostilità di Ducezio nei confronti dei coloni di Ierone perché ave19 Cfr. Nic. Dam. FGrHist 90 F 57, 7; 59; cfr. anche Will 1954, 416-460; Graham 1964, 30 e ss.; Leschhorn 1984, 118 e ss. 20 Pind. Pyth. i 61. 21 I dati archeologici sembrano tuttavia confermare per Leontini l’intervento ieroniano proprio nell’ampliamento delle necropoli, datato all’inizio del V secolo, come possibile conseguenza dell’improvviso incremento della popolazione. Inoltre anche la documentazione numismatica di Leontini, nel complesso, testimonia una posizione subordinata della città calcidese rispetto alla colonia corinzia. A questo proposito cfr. Luraghi 1994, 344-345.

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vano sottratto il territorio dei Siculi (ÔåÎÔÜÛÈ ‰Èa ÙcÓ àÊ·›ÚÂÛÈÓ Ùɘ ÙáÓ ™ÈÎÂÏáÓ ¯ÒÚ·˜).22 Nulla il sovrano siracusano lasciò al caso: del contingente coloniale stabilì il numero di unità, la provenienza e anche la composizione etnica e alla polis egli attribuì, come ogni ecista che si rispetti, un patrono d’eccezione: Zeus detto Etneo.23 Diverse furono le componenti coinvolte nei trasferimenti connessi al progetto coloniale di Etna e sarà utile passarle in rassegna: innanzitutto il tiranno e i suoi diecimila coloni (i cinquemila raccolti dal Peloponneso e altrettanti da Siracusa); in secondo luogo i Calcidesi (quelli di Katane, di Naxos e di Leontini); e infine le popolazioni indigene, costrette a offrire alla causa etnea, anche la loro chora. Le prospettive, come si vede, si dilatano e si moltiplicano: Siracusa contribuisce, procurando metà della popolazione alla nascitura polis, proprio come si addice ad una metropoli, il resto viene raccolto nel Peloponneso. L’uso dell’espressione generica âÎ ÌbÓ ¶ÂÏÔÔÓÓ‹ÛÔ˘ ÂÓÙ·ÎÈÛ¯ÈÏ›Ô˘˜ àıÚÔ›Û·˜ lascia intendere che i rimanenti cinquemila non provenissero dalla stessa città. Si può dunque ipotizzare che alcuni Peloponnesiaci, da diversi luoghi d’origine, abbiano risposto al bando di Ierone, secondo una prassi attestata nelle operazioni di deduzione coloniale che dava la possibilità di aderire al contingente a chiunque lo volesse.24 Etna era dunque una colonia mista a tutti gli effetti e anche il contigente siracusano, come si è già sottolineato,25 comprendeva apoikoi di diversa origine. Significativa sembra inoltre la scelta del numero fisso e limitato: la colonia doveva avere diecimila abitanti, non uno in più né uno in meno; una cifra questa che, sebbene sia ricorrente nell’immaginario coloniale e intesa a indicare colonie numericamente consistenti, sembra essere in linea con le esigenze di natura strategico-militare menzionate dallo stesso Diodoro, e confermate, qualche tempo dopo, dai fatti che portarono alla caduta dei Dinomenidi, quando Trasibulo, divenuto tiranno di Siracusa, chiamò in soccorso i coloni del 22 Diod. xi 76, 3. Cfr. Miccichè 2005 e Brusca 2006. 23 Cfr. Schol. Pind. Ol. vi 162 a, b, c in cui tra l’altro troviamo la menzione di feste, dette AåÙÓ·Ö· celebrate proprio ad Etna. Sul culto di Zeus Etneo cfr. Vonderstein 2006, 156-161. 24 Basti pensare, un caso per tutti, alla fondazione di Turi da parte di Atene: in quell’occasione gli Ateniesi inviarono ambasciatori nel Peloponneso per condividere la fondazione della colonia con chiunque lo volesse (cfr. Diod. xii 10, 4). 25 Cfr. supra p. 30.

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fratello.26 Non si contano i casi in cui il termine polis myriandros si ritrova in contesti di fondazioni poleiche27 e spesso si tratta semplicemente di un topos letterario. Per Etna tuttavia la cifra di diecimila abitanti – frequente nel caso di insediamenti in siti particolarmente importanti dal punto di vista strategico – potrebbe avvicinarsi alla realtà storica. Basti pensare al fatto che anche gli Ateniesi, qualche tempo dopo, inviarono un contingente di diecimila28 coloni nella località di Ennea Hodoi, poi denominata Anfipoli, in un’area che si sarebbe rivelata talmente vitale per l’impero ateniese da essere inserita nelle clausole della pace di Nicia.29 Lo stesso Gelone, stando a quanto sostiene Diodoro,30 avrebbe concesso la cittadinanza a più di diecimila mercenari. E che, anche nella sua città, Ierone avesse insediato alcuni mercenari, sembra abbastanza verosimile, vista la devozione che gli Etnei tributarono al loro ecista e alla dinastia dinomenide. Magari proprio quei cinquemila provenienti dal Peloponneso, avrebbero dovuto costituire nella mente di Ierone un corpo di guardia fedele e leale.31 Un bacino di raccolta di forze mercenarie cui Siracusa attingeva, nel Peloponneso, doveva essere l’Arcadia,32 come conferma la presenza di diversi personaggi arcadi alla corte dinomenide. E forse una discreta percentuale di Arcadi si era insediata anche ad Etna. Informazioni più precise possediamo invece circa il contingente siracusano: Diodoro afferma semplicemente che Ierone raccolse cinquemila coloni âÎ ‰b ™˘Ú·ÎÔ˘ÛáÓ ma lo scolio 120 alla I Pitica pindarica di cui abbiamo già parlato,33 in modo più dettagliato ricorda la presenza di Geloi, Megaresi e Siracusani tra i coloni di Etna. Se riflettiamo sul fatto che, come è già stato sottolineato, i primi potevano essere quelli che, da Gela e da Camarina, si erano trasferiti a Siracusa,34 mentre i secondi erano certamente gli aristocratici megaresi, coinvolti anch’essi nel sinecismo geloniano, è possibile forse avanzare qualche congettura sulla natura del corpo civico della colonia. 26 Diod. xi 67, 7. 27 A questo proposito cfr. Schaefer 1961, 292-317. La polis myriandros è la città ideale il cui numero di cittadini costituisce la base per creare una comunità sana e ben organizzata. Tutto il contrario di quanto invece abbiamo già sottolineato per Sibari (cfr. supra p. 87). 28 Thuc. i 100; iv 102. 29 Thuc. v 18, 5. 30 Diod. xi 72, 3. 31 Cfr. a questo proposito Stark 1956, 86. 32 Cfr. la documentazione analizzata da Luraghi 1994, 291 e ss. a proposito del piccolo gruppo di arcadi presenti in Sicilia nei primi decenni del v secolo e Cusumano 1999, 89-112. 33 Cfr. supra p. 30. 34 Cfr. supra p. 30.

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La presenza di componenti “spurie”, o meglio non originariamente siracusane, nel contigente coloniario etneo, potrebbe essere indizio della volontà di relegare e di allontanare elementi indesiderati, e potenzialmente pericolosi, da Siracusa. Esigenza quest’ultima che caratterizza spesso le fondazioni tiranniche. In fin dei conti attirare Megaresi e Geloi con la prospettiva di un kleros nella nascitura polis, significava alleggerire e depurare il corpo civico di Siracusa da quegli elementi introdotti da Gelone che forse erano risultati particolamente perniciosi per la tirannide di Ierone. Del resto, come si è già messo in rilievo, il Dinomenide aveva adottato diverse misure per la sicurezza del regno che andavano dalla sorveglianza stretta dei cittadini35 alla relegazione o all’allontanamento coatto di personaggi indesiderati, così come era successo, qualche tempo prima, con il fratello Polizelo.36 Coinvolgere elementi, se non refrattari, quanto meno ostili alla tirannide in un progetto come quello etneo poteva avere diversi vantaggi. Innanzitutto il sovrano siracusano, proponendosi quale ecista e gettando le basi per il suo culto personale, legava a filo doppio il destino dei diecimila coloni etnei al suo, aggiudicandonsene la lealtà e la devozione. Al tempo stesso inoltre azzerava gli effetti dell’intervento demografico di Gelone su Siracusa, riportando il corpo civico della colonia corinzia quasi alle stesse condizioni in cui si trovava prima che il fratello salisse al potere. Non è un caso infatti che gli Etnei non fecero ritorno a Siracusa dopo la caduta dell’ultimo rampollo dei Dinomenidi, ma, continuando a riconoscere Ierone come ecista, preferirono trasferirsi a Inessa. Altrettanto comprensibile è il fatto che la vita della colonia, o meglio la permanenza dei suoi abitanti nel territorio di Katane, sia durata esattamente fino alla morte del tiranno. L’insediamento voluto da Ierone determinò uno sconvolgimento dei rapporti tra Siracusani, Calcidesi e Siculi. Il tiranno si sforzò in ogni modo di tenere sotto controllo gli effetti del suo intervento, riproponendo un equilibrio delle forze in gioco che restava drammaticamente e ineluttabilmente legato alla sua persona e alla sua autorità. Così infatti i politai di Etna, anche dopo la scomparsa del sovrano siracusano, cacciati dal territorio di Katane, decisero di ricostituirsi in polis altrove, quando tutti coloro che della politica coloniale di Ierone avevano dovuto fare le spese approfittarono dell’onda dell’effetto domino innescato dai Siculi di Ducezio, dopo la cacciata di Trasibulo, per ritornare allo status quo. La velocità vorticosa con cui i provvedimenti di 35 Cfr. Arist. v ii, 1313b 14.

36 Cfr. supra p. 59 e ss.

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Ierone vennero annullati tradisce il carattere assolutamente artificiale del progetto etneo. Il sovrano siracusano, infatti, aveva fatto molto di più che fondare una colonia. Per fare spazio a Etna aveva operato una vera e propria rivoluzione della geografia territoriale della piana di Katane, intervenendo in maniera assolutamente arbitraria sulla distribuzione originaria dei terreni. Diodoro dice chiaramente che il Dinomenide coinvolse nella spartizione primaria anche i territori circostanti appartenenti a popolazioni sicule indigene, quelle stesse magari che, come abbiamo ipotizzato, avevano già destato l’attenzione del tiranno di Siracusa, al tempo delle campagne di Polizelo promosse dallo stesso Ierone. Anche in questa occasione, come è facile rilevare, Siculi e Calcidesi si trovano tristemente accomunati dallo stesso destino o comunque riuniti e confusi nella stessa discutibile politica territoriale. Era una miscela pericolosa quella composta da Ierone, pronta ad esplodere non appena si fosse innescato il detonatore della crisi della tirannide. Ma il tiranno non aveva fatto altro che seguire le orme dei suoi predecessori: di Ippocrate prima e di suo fratello Gelone poi. E se Ippocrate si era limitato ad attaccare le città calcidesi, Ierone aveva optato per un intervento più radicale, concentrando tre politeiai, della stessa origine ed etnia, ma con storie coloniali differenti, e costringendole a convivere l’una con l’altra in un territorio limitato. Nulla di più preciso sappiamo della vita dei Calcidesi a Leontini, durante gli anni della fase etnea di Katane, ma è un fatto che essi, benché accomunati dalla stessa sorte e confortati dall’appartenenza alla stessa stirpe, non costituirono mai un’unica polis, tutt’al più solo una congerie più o meno eterogenea di persone unite da un unico progetto comune: quello di riavere prima o poi la propria patria. L’abilità di Ierone fu quella di promuovere sin da subito la sua attività colonizzatrice in ambito panellenico e di fare della nascita della città un’occasione per glorificare la sua immagine come sovrano-ecista, dando al suo operato una parvenza di legittimità e avvolgendo nell’oblio delle celebrazioni i soprusi subiti da Calcidesi e Siculi. E se già nelle notizie degli storici è possibile rilevare in filigrana le esigenze propagandistiche che guidarono le scelte di Ierone e individuare anche alcune tracce consistenti della copertura ideologica che il sovrano diede al progetto etneo, ancora più stimolanti e ricche di spunti risultano le testimonianze dei contemporanei, ovvero degli artisti di corte. I riferimenti contenuti nelle opere letterarie degli intellettuali del circolo di Ierone costituiscono infatti un dossier a parte nel corpus

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delle notizie relative ad Etna, ma soprattutto consentono di aprire degli spiragli interessanti sulla politica del Dinomenide. L’immagine del sovrano che viene fuori dalle testimonianze dei poeti della sua corte sembra quella di un dinasta intuitivo, sempre attento ai problemi di acquisizione e controllo del territorio, pronto a promuovere, in ogni modo e ad ogni prezzo, il prestigio della sua dinastia. E soprattutto quel che emerge prepotentemente è lo sguardo profondo e lungimirante di uno statista aggiornato sui temi di attualità più scottante, il cui acume politico in molte occasioni sembra aver precorso i tempi. E sc h i lo e Pi ndaro : pro g etto e p ropaga n da Prima di analizzare le testimonianze su Etna derivanti proprio dalla tradizione connessa alla propaganda di Ierone e rintracciabili nell’elaborazione poetica di grandi artisti quali Pindaro ed Eschilo, è opportuno tornare, una volta per tutte, sulla vexata quaestio dell’effettiva ingerenza dell’autorità tirannica sulla loro produzione letteraria. Che Ierone, come altri prima di lui, compensasse profumatamente gli artisti invitati a corte è, come vedremo più avanti, largamente testimoniato dalle nostre fonti, anche se non è raro trovare nella produzione dei poeti del circolo siracusano tracce di larvata opposizione al sovrano, leggibili anche a dispetto del condizionamento che il vincolo del misthos e del contratto stabiliva tra l’artista e il suo committente. Tuttavia, comunque si voglia interpretare il rapporto tra intellettuali e potere nella Siracusa dei primi anni del v secolo, è un dato di fatto che qualunque cenno all’attività politica o propagandistica del tiranno siceliota, sia esso da attribuire alle direttive della committenza o frutto della riflessione personale di coloro che alla corte siracusana trovarono ospitalità, ha in ogni caso a che fare con Ierone e con il suo modo d’intendere la politica. Detto questo si può ora ritornare ad Etna e alle notizie che sulla fondazione della colonia è possibile trarre dalle opere poetiche. A un dramma, le Etnee di Eschilo, e ad un epinicio, la prima Pitica pindarica, è affidato il ricordo della nascita di Etna. In linea di massima, però, malgrado l’intento celebrativo delle due opere, una lettura attenta e abituata a cogliere i motivi ricorrenti nel pur vasto campionario della narrativa coloniale consente di rivelare i tratti dell’intervento politico e militare di Ierone nella piana di Katane. Il carattere arbitrario e violento di tale operazione è infatti camuffato con il tradizionale e frequente ricorso a “miti di precedenza” e con il tentativo di assimilare e

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di coinvolgere nella propaganda tirannica quelle componenti etniche che della fondazione di Etna fecero solo ed eslusivamente le spese. Ma c’è di più: il Dinomenide sembra anche aver tentato il tutto per tutto affidando la celebrazione della colonia ai versi di artisti di fama internazionale, con l’obiettivo di far circolare tradizioni coloniali sulla nascita della città volte, da un lato, a giustificare – perfino a far passare sotto silenzio – la discutibile acquisizione del territorio di Katane e gli artificiali interventi di ingegneria demografica sulle politeiai di ben tre città; dall’altro a proiettare l’immagine di Etna sull’orizzonte panellenico quale oasi di tranquillità e concordia retta dalle istituzioni doriche. Un escamotage quest’ultimo che conferma la simpatia del tiranno siracusano verso l’universo dorico che abbiamo già messo in rilievo e che costituisce un tentativo ancora più concreto di ristabilire almeno un rapporto di contiguità ideologica con le città doriche della penisola ellenica. Paradossalmente l’avvio di tale progetto passò però attraverso l’invito rivolto da Ierone al tragediografo ateniese Eschilo. Stando ad una notizia contenuta nella Vita Aeschyli37 il poeta giunse in Sicilia mentre Ierone stava fondando Etna, e compose le Etnee come augurio per coloro che abitavano la città (^I¤ÚˆÓÔ˜ ÙfiÙ ÙcÓ AúÙÓËÓ ÎÙ›˙ÔÓÙÔ˜ âÂȉ›ͷÙÔ Ùa˜ AåÙÓ·›·˜ ÔåˆÓÈ˙fiÌÂÓÔ˜ ‚›ÔÓ àÁ·ıeÓ ÙÔÖ˜ Û˘ÓÔÈΛ˙Ô˘ÛÈ ÙcÓ fiÏÈÓ). L’intenzione del poeta era dunque quella di manifestare con la sua opera l’auspicio di una vita serena per i coloni di Ierone. Ed è anche per questo motivo che Eduard Fraenkel38 ha definito le Etnee un Festspiel ovvero una rappresentazione di gala a carattere celebrativo. L’attività teatrale a Siracusa, in quel periodo, doveva essere piuttosto vivace e aveva certamente anche una funzione di supporto alla propaganda tirannica. Il Dinomenide probabilmente si pose sulla scia di Pisistrato che, nel 534 a. C. ad Atene, aveva riorganizzato le Grandi Dionisie, festività nell’ambito delle quali venivano rappresentati spettacoli tragici e si dava spazio ad agoni teatrali. La polis attica aveva chiaramente fatto scuola in questo campo, ma anche a Siracusa poteva essersi sviluppata una discreta attività agonistica che prevedeva gare alla maniera ateniese.39 37 Aesch. Vita ix. 38 Cfr. Fraenkel 1954, 61-75 e infra 144 n. 58. 39 È probabile che tali gare avvenissero in occasione delle festività apollinee dal momento che il teatro di Siracusa era collocato nel temenos di Apollo. Cfr. Guardì 1980, 27 e più recentemente Kowalzig 2008 che suggerisce invece un legame tra l’attività teatrale durante l’età dei Dinomenidi e il culto di Demetra e Kore di cui i tiranni erano ierofanti.

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Gli ultimi anni settanta del v secolo – in cui Eschilo rappresentò a Siracusa anche i Persiani40 – furono i più fecondi per la tirannide ieroniana. La presenza del tragediografo ateniese fu certo abbastanza ingombrante e tale da oscurare l’attività dei poeti locali. Nessuna notizia infatti ci è giunta di tragedie scritte da poeti siracusani.41 È anche possibile però che si debba attribuire ancora una volta a Ierone la responsabilità di avere scoraggiato la produzione tragica. La propensione del principe a rivolgersi ad artisti stranieri come Eschilo e forse anche Frinico42 per la rappresentazione di tragedie può voler dire che questo genere teatrale non attecchì a Siracusa perché – se non incompatibile – quanto meno non sempre in linea con le esigenze della tirannide. I poeti stranieri poi avevano, tra le altre prerogative, quella di non essere integrati nella comunità civica e di avere come unico referente soltanto il principe di cui si limitavano a seguire le direttive. Lo dimostra anche la scelta dei soggetti drammatici in piena sintonia con la propaganda tirannica. Non è possibile del resto immaginare opere più aderenti alla volontà della committenza dinomenide dei Persiani e delle Etnee,43 entrambe funzionali alla celebrazione e alla glorificazione dei due momenti politicamente più significativi della carriera di Ierone: l’una – come torneremo a sottolineare – promuoveva il progressivo avvicinamento della vittoria dei Sicelioti a Imera a quella dei Greci a Salamina, nel tentativo di affiancare Grecità d’Occidente e Grecità d’Oriente, unite nello sforzo comune contro il “barbaro”; l’altra celebrava la fondazione di Etna, possesso personale del tiranno, che gli valse gli onori eroici. Intenti palesemente politici erano sottesi alla rappresentazione di queste due opere ed è difficile non vedere in Eschilo uno dei prestigiosi portavoce dei progetti politici del tiranno. Il tragediografo giunse in Sicilia in un momento particolarmente felice per la tirannide siracusana,44 quando, ormai portata a termine la fondazione della città e allontanato il pericolo etrusco dalle acque di Cuma, Ierone poteva dedicarsi a raccogliere i frutti della sua attività politica e militare. Gli studiosi sono concordi nell’individuare nell’arco di tempo tra il 40 Aesch. Vita xviii. 41 Sulle rappresentazioni teatrali a Siracusa durante la tirannide di Ierone, cfr. Guardì 1980. 42 Cfr. infra p. 192. 43 Sul titolo dell’opera eschilea cfr. infra p. 142. 44 Sono tre i supposti viaggi di Eschilo in Sicilia: il primo tra il 472 a. C. e il 468 a. C.; il secondo tra il 458 a. C. e il 456 a. C.; il terzo, non documentato con certezza è da ritenere possibile e forse anteriore ai primi due. Così Herington 1967, 74-85.

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472 a. C. e il 470 a. C. la data della rappresentazione dei Persiani a Siracusa che probabilmente precedette di poco quella delle Etnee, a sua volta antecedente alla prima Pitica pindarica in cui si celebrano sia la vittoria di Cuma, sia la fondazione di Etna e che risale al 470 a. C.45 L e Etnee d i E s c h i lo: S i c ul i e Calc i d e s i ne l la p ol i t i c a di I e ron e Dell’opera eschilea, oltre alla data che abbiamo tentato di ricostruire, è incerto anche il titolo e l’argomento. Le forme in cui il titolo è tramandato sono tre: AåÙÓÄÈ·È, AúÙÓË e AúÙÓ·È. Il primo è da ritenere senz’altro il più verosimile.46 Quanto all’argomento del dramma acceso è stato il dibattito tra gli studiosi. Sullo status quaestionis ha influito il fatto che, fino a qualche tempo fa, le uniche notizie che possedevamo sull’opera e i pochi frammenti rimasti erano quelli tramandati nei Saturnali di Macrobio.47 Quest’ultimo riferisce delle vicende dei Palici, nati dall’unione tra Zeus e la ninfa Talia la quale, temendo la reazione di Giunone, espresse il desiderio che la terra le si aprisse, ricoprendola. Quando giunse il momento di partorire i gemelli, la terra si schiuse e lasciò uscire dal suo grembo i bambini che furono chiamati Palici perché dalle tenebre ritornano di nuovo a questa luce (¿ÏÈÓ ÁaÚ ¥ÎÔ˘Û\âÎ ÛÎfiÙÔ˘˜ Ùfi‰\ Âå˜ Ê¿Ô˜). Macrobio precisa che Eschilo per primo raccontò le vicende dei gemelli e aggiunge anche la citazione di una sticomitia tratta dalla tragedia Etnee.48 I Palici erano divinità autoctone49 la cui genealogia veniva nelle fonti ricondotta ora a Zeus e Talia, come nella tradizione eschilea, ora a Efesto ed Etna figlia di Oceano.50 Lo zelo dimostrato dal tragediogra45 Cfr. Cataudella 1964-1965, 375. 46 Il titolo contiene probabilmente un riferimento alle Donne di Etna che facevano parte del coro. Sulla questione cfr. Corbato 1996, 61-72, 62; Basta Donzelli 1996, 85. 47 Macr. v 19, 17. 48 F 26 Mette. 49 Kallias ap. Macr. Sat. v 19, 25= FGrHist. 564 F 1; Polem. ap. Macr. Sat. v 19, 26= FHG iii F 83, p. 140; Xenag. ap. Macr. Sat. v 19, 30= FG rHist 240 F 21. 50 Silen. FGrHist 175 F 3; Serv. Aen. ix 581. Secondo gli scoli a Teocrito (Idyll. 1, 65) Etna è figlia di Urano e di Gea e avrebbe partecipato, in qualità di giudice, stando ad una notizia attribuita a Simonide dal commentatore, alla contesa tra Efesto e Demetra per il possesso della regione. La testimonianza che può a buon diritto rientrare nel dossier di tradizioni coloniali su Etna, riproduce il tema piuttosto abusato della disputa tra divinità per un territorio, che viene qui adattato al contesto siciliano, cfr. Dougherty 1993, 90 che ha individuato nelle tradizioni genealogiche sui Palici una comunanza di elementi fondamentali. I gemelli vengono infatti collocati tra due poli: quello paterno rappresentato da Zeus ed Efesto, sempre riconducibile alla

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fo ateniese nel dare un’etimologia greca proprio al nome dei Palici, legati com’erano al mondo siculo, è piuttosto sospetto e dagli studiosi è stato interpretato come un chiaro tentativo di grecizzazione del mito indigeno51 e di assimilazione di un culto evidentemente non-greco. Si trattava di un espediente necessario a destituire di legittimità eventuali pretese all’autoctonia degli indigeni, ponendo l’accento sul motivo del ritorno e rileggendo la presenza greca sul territorio più in termini di continuità e di diritto di precedenza che come violenta acquisizione.52 Inoltre il racconto di un Á¿ÌÔ˜ tra un dio greco (nel caso dei Palici si tratta addirittura del padre degli dei) e una divinità locale rientra pienamente nella favolistica coloniale volta a giustificare una politica aggressiva nei confronti di un ben preciso ambito territoriale.53 La conquista erotica di Zeus costituisce la metafora della violenta acquisizione del territorio della piana di Katane da parte di Ierone. Oltre a quello tra Zeus e Talia, un altro Á¿ÌÔ˜ probabilmente celebrò la nascita della realtà etnea, quello tra Polifemo e Galatea cantato da Bacchilide, l’altro poeta reclutato da Ierone. Nulla possediamo del componimento bacchilideo eccetto la testimonianza di un mitografo di età rinascimentale, Natalis Comes, secondo cui il poeta di Ceo avrebbe scritto dell’amore del Ciclope per Galatea e della nascita dalla loro unione di Galata.54 In questo caso però è Polifemo la divinità encoria mentre il nome di Galatea rimanda più specificamente al mondo greco. Si tratta dunque di un Á¿ÌÔ˜ di segno opposto rispetto a quello tra Zeus e Talia in cui la ninfa si trova ad essere oggetto del sfera olimpica, e quello materno in cui Talia ed Etna proiettano le divinità in un rapporto di alterità, di non-completa integrazione, nella grecità olimpica. 51 Osserva Cataudella 1964-1965, 396 che l’obiettivo principale di Ierone era di attrarre i Siculi nella propria orbita o quanto meno di guadagnare la loro non-ostilità nei confronti della tirannide siracusana. Convinti del valore di questa interpretazione sono anche Culasso-Gastaldi 1979, 66 e Anello 1984, 28; Cusumano 1990, 126 ha sottolineato invece il tentativo di «aggressione culturale» insito tanto nella interpretazione eschilea, quanto nel mito genealogico. Dougherty 1993, 89 definisce lo sforzo eschileo di dare un’etimologia greca ai Palici come parte di un sistema di appropriazione culturale volto a celebrare e legittimare la presenza greca in un contesto straniero. 52 Dougherty 1993, 89-90. 53 Così Dougherty 1993, 75 e ss. 54 Natalis Comes Myth. ix 8, p. 987. Cfr. Anello 1984, 21. Coppola 2002, 95 ipotizza che Polifemo fosse il protagonista del Ciclope di Epicarmo in cui forse ricorreva «un’allusione parodica all’opera civilizzatrice di Ierone, il vincitore del barbaro etrusco presso Cuma, come voleva la propaganda ufficiale; il vincitore del barbaro – come Odisseo, appunto – e rifondatore di Katane col nome di Etna».

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desiderio del padre degli dei, così come il territorio dei Siculi era stato oggetto dell’attenzione del principe siracusano, e la loro unione finisce per consegnare al tiranno le divinità più rappresentative del mondo indigeno. Non è un caso infatti che proprio il nume tutelare di Etna fosse Zeus Etneo e che i suoi figli godessero, nell’entroterra siculo, di grande considerazione per le loro prerogative: santità del giuramento in loro nome e potere oracolare.55 Senza contare poi che quello dei Palici era uno dei santuari più frequentati. Se così forte era il potere aggregante di queste divinità indigene il cui culto, come si verificò in seguito, poteva avere risvolti pericolosamente destabilizzanti,56 è facile comprendere perché Ierone tentasse di conglobarli e inserirli nel progetto etneo che, senza un solido supporto religioso, sarebbe stato destinato al fallimento. Se però anche il Á¿ÌÔ˜ tra Polifemo e Galatea – così come quello tra Zeus e Talia – era inserito nell’immaginario coloniale di Etna, forse esso era destinato alla celebrazione di un altro aspetto della politica ieroniana, quello cioè che tendeva a presentare l’azione siracusana contro le popolazioni indigene come una pacifica – per così dire – operazione di assimilazione dell’elemento siculo in seno al mondo greco, sotto il patrocinio dell’ecista Ierone. La scelta del mito dei Palici, che si supponeva fosse l’argumentum del dramma eschileo,57 offre una delle testimonianze più significative sui miti di precedenza quali cartine di tornasole per tentativi di legittimazione di pretese territoriali. La scoperta di alcuni frammenti tratti dai papiri di Ossirinco, se da un lato ha fatto vacillare l’ipotesi che Le Etnee fosse incentrata sul mito dei due gemelli,58 dall’altro ha regalato agli studiosi moderni ulteriori elementi e spunti da analizzare per meglio 55 Cfr. Macr. Sat. v 19, 19. 56 Diod. xi 78, 6-79. 57 Cfr. infra p. 145. 58 Fraenkel 1954, 63 e ss., a cui si deve l’attribuzione alle Etnee del fr. 2256, 9 a-b, ha negato che il mito dei Palici potesse essere il tema centrale del dramma, ma lo ha definito solo «ein glänzendes Schmuckstück» del iv atto, quello cioè ambientato a Leontini. Secondo lo studioso (cfr. p. 71) la rappresentazione eschilea ben poco aveva a che fare con un passato mitico, anzi i continui cambiamenti di scena potrebbero suggerire una serie di profezie sul futuro. Cataudella 1964-1965, 392, pur ammettendo le difficoltà di ordine tecnico connesse agli spostamenti scenici, immagina, per l’opera eschilea, uno sviluppo dell’azione da un tempo mitico, in cui si colloca la nascita dei Palici, all’istituzione del loro culto, con una serie di peregrinazioni nei luoghi che sarebbero stati in seguito legati ad essi, per concludersi con l’esaltazione finale dei gemelli a Siracusa, sul colle Temenite, dove Zeus aveva inviato presumibilmente Dike. Anche Culasso-Gastaldi 1979, 63 condivide le obiezioni alla tesi di Fraenkel.

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comprendere le strategie politiche e propagandistiche sottese al progetto etneo. Sono tre i frammenti di cui ci occuperemo, concordemente attribuiti dagli studiosi all’opera eschilea: il primo (P.Oxy. 2257 fr. 1) che contiene la hypothesis del dramma; il secondo, detto frammento di Dike (P.Oxy. 2256 fr. 9 a-b) e il terzo, detto frammento di Eirene e che pare essere il seguito del precedente59 (P.Oxy. 2256 fr. 8). L’hypothesis (P.Oxy. 2257 fr. 1) del dramma, dopo alcune righe gravemente danneggiate, parla di una serie di cambiamenti di scena. I luoghi ricordati nel frammento furono tutti in vario modo coinvolti nelle operazioni che portarono alla nascita di Etna e sembrano descrivere una sorta di geografia del potere ieroniano.60 La prima scena e la terza scena del dramma sono collocate a Etna, la seconda a Xouthia, seguono poi Leontini e il colle Temenite a Siracusa. Gli studiosi sono propensi a ritenere che il primo riferimento a Etna sia per il vulcano, mentre nella terza scena il poeta avrebbe potuto alludere più verosimilmente alla città fondata da Ierone.61 La successione di scene ambientate in contesti geografici differenti è stata considerata la cornice ideale per far da sfondo alle vicende dei Palici e per offrire un supporto mitico al progetto di Ierone, quale emerge chiaramente dal dramma eschileo, di sposare «agli ideali tipicamente greci anche un culto indigeno».62 Inoltre questo spostarsi da un luogo all’altro, menzionando tutte le componenti etniche coinvolte, potrebbe essere letto in parallelo con il gioco di parole sotteso all’etimologia dei Palici in cui si prefigura un ritorno, poi concretamente rappresentato sulla scena, da questo percorso che partendo dal vulcano, passava dall’area indigena a quella calcidese, per approdare infine alla capitale siceliota del mondo dorico, cioè Siracusa.63 59 Corbato 1996, 69. 60 In questa mappa del potere spicca l’assenza di Naxos e di Gela. Quest’ultima, come si è tentato di dimostrare, certamente gravitava nella sfera d’influenza siracusana. Il mancato riferimento alla ex patria dei Dinomenidi può spiegarsi con la scarsa pertinenza con la regione etnea. Quanto a Naxos il silenzio di Eschilo può essere giustificato dal fatto che essa non costituiva più una polis, dopo l’intervento di Ierone, analogamente alla vecchia Katane – anch’essa assente – che non esisteva più come tale. 61 Così Cataudella 1964-1965, 392. Contra Culasso-Gastaldi 1979, 63. 62 Così Corbato 1996, 67. 63 Lo stesso artificio servirà ad Eschilo nella rappresentazione dell’Orestea. Sia nelle Etnee sia nelle Eumenidi, il ritorno finale dell’azione drammatica nelle città in cui le tragedie vengono rappresentate (Siracusa e Atene), ha la funzione di giustificare e legittimare il presente. Cfr. Dougherty 1993, 90 e Corbato 1996, 67.

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Il riferimento a Xouthia, in particolare, ha suscitato la curiosità degli studiosi. Il toponimo infatti, ad un ateniese come Eschilo doveva risultare estremamente familiare: Xoutho era, non solo figlio di Elleno, ma anche il padre di Ione,64 eponimo della stirpe ionica. In Sicilia Xouthia era invece più legata all’orizzonte eolico-eraclide.65 Quale fosse esattamente il valore attribuito nelle Etnee al toponimo non è facile dire.66 Alcuni studiosi hanno tenuto conto sia del rapporto della leggenda con l’universo eolico-eraclide, sia dell’indubbia connessione del mito di Xoutho con la colonizzazione calcidese, interpretando dunque la menzione nel dramma eschileo come un tentativo di appropriazione di tali miti in funzione “dorica” diretta ad una vera e propria «destrutturazione ideologica del mondo coloniale calcidese».67 Ierone si presentava in tal modo quale erede del re Xoutho che, come i suoi fratelli, esercitando la dikaiosyne e l’eusebeia paterna avevano indotto i popoli della Sicilia in lotta fra loro ad obbedirgli.68 Altri studiosi invece hanno sottolineato la valenza positiva del ricordo di Xouthia nei confronti del mondo ionico-calcidese, in un momento in cui, dopo la vittoria di Cuma, Calcidesi e Siracusani si erano ritrovati a combattere sotto le stesse insegne.69 Davanti a questo ventaglio di ipotesi non si può che sottolineare 64 Cfr. Hdt. vii 95. 65 Infatti, stando a Diodoro (v 8), questo era il nome della regione intorno a Leontini su cui aveva regnato Xoutho figlio di Eolo, figlio a sua volta di Ippotes. Gli Eolidi rivendicavano un legame privilegiato con gli Eraclidi, nodo che era garantito da quell’Ippote da cui sosteneva di discendere Pentatlo cnidio, proveniente dal capo Triopio – regione a cui i Dinomenidi stessi facevano risalire le loro origini – e che, a sua volta era identificato con l’Ippote eraclide, padre del fondatore di Corinto (Diod. v 9). Cfr. Giangiulio 1983a, 803 n. 54. Non è escluso che il riferimento al mondo eolico fosse implicitamente rivolto anche alle Eolie che forse agevolarono Siracusa nella lotta ai Tirreni. A questo proposito cfr. il contributo di Sammartano in c.d.s. all’interno del volume che raccoglie gli Atti del Convegno Territorialità e insularità tra concordia e conflittualità. 66 Xouthia è stata ritenuta la prefigurazione mitica di Leontini: cfr. Luraghi 1994, 344. 67 Così Giangiulio 1983a, 828, sulla scorta di Maddoli 1979, 52-53. 68 Così Anello 1984, 30-31 e n. 148 che sottolinea inoltre la funzione esemplificativa che può avere esercitato il personaggio di Eolo e il ruolo-guida che egli assunse nei confronti dell’elemento greco nel momento in cui, quando divenne sovrano di Lipari, fece in modo che i suoi uomini e gli indigeni partecipassero insieme al governo dell’isola (Diod. v 7, 6). Si tratta di un ruolo cui poteva aspirare anche Ierone, fondatore di Etna, sorta sul sito dell’antica Catania, governata da un regime basato sulla Dike. 69 Coppola 1995, 63-64. Secondo Mazzarino 19902, 555, n. 110, Eschilo deve avere intuito il significato storico recondito della fondazione di Etna: cioè “il nuovo equilibrio tra dorismo e ionismo instaurato da Hiáron”.

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l’ambiguità e l’estrema versatilità del toponimo Xouthia, il cui ricordo in un’opera destinata ad un pubblico eterogeneo e cosmopolita come quello siracusano, poteva essere ricco di suggestioni ed essere quindi interpretato dai differenti destinatari nel modo ad essi più congeniale. La zona di Xouthia peraltro doveva essere piuttosto importante dal punto di vista strategico. Se è giusta l’identificazione del luogo con la parte più interna della piana di Lentini, allo sbocco della vallata del Caltagirone, e contigua alla zona etnea, è facile capire quanto il controllo di quest’area potesse risultare fondamentale in un’ottica di continuità di dominio territoriale. In queste zone si trovavano insediamenti indigeni caratterizzati da uno spiccato senso d’identità collettiva accentuato anche dalla vicinanza ai luoghi sacri, come il santuario dei Palici.70 Guadagnare, come si è visto, il culto dei Palici all’orizzonte greco e, al tempo stesso, rivendicare alla tradizione doricosiracusana il regno dell’eolico Xoutho era un’operazione politica estremamente raffinata. Tale operazione mentre, da un lato, si rivelava utile ad alleggerire la tensione con la compagine calcidese siceliota, che era stata concentrata e avvicinata a Siracusa allo scopo di renderla meno offensiva e più controllabile, dall’altro restituiva alla tirannide la possibilità di tornare a sottolineare il legame della colonia con la stirpe eraclide e con la madrepatria Corinto. Si capisce allora quanto grande dovesse essere il debito di Ierone nei confronti del suo ospite ateniese. Tuttavia la menzione di Leontini nel dramma eschileo tradisce una maggiore attenzione alla prospettiva ionico-calcidese. Un risultato prevedibile quest’ultimo e forse incentivato dall’acume e dall’intuito politico del tiranno stesso che invitò l’ateniese Eschilo a celebrare l’accoglienza dorica riservata agli esuli calcidesi deportati a Leontini, e il dorico Pindaro, a cantare la dorica Etna sorta al posto della calcidese Katane.71 S parta e d Etna: c i ttà g e m e l l e ? Gli ultimi due frammenti del Papiro di Ossirinco cui si è accennato costituiscono un significativo trait d’union tra la celebrazione che della 70 Così Giangiulio 1983b, 831. Sulla localizzazione del santuario dei Palici nei pressi di Mineo (sito denominato Rocchicella) cfr. le riflessioni di Cusumano 1990, 118-123. Il potenziale aggregante e dunque destabilizzante del santuario può dedursi da un passo di Diodoro (Diod. xi 89), in cui viene descritto come un luogo di culto frequentatissimo nell’antichità. Lì si prestavano giuramenti che la santità dell’area rendeva inviolabili e si offriva esilio agli schiavi fuggiti o ribellatisi ai loro padroni. 71 Cfr. Basta-Donzelli 1996, 95.

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fondazione di Etna propose Eschilo e la rappresentazione che della città viene fuori dai versi della prima Pitica di Pindaro. Il P.Oxy. 2256 fr. 9a-b contiene la prosopea di Dike, e un dialogo tra il personaggio e il coro. La divinità, che viene presentata quale figlia e paredros di Zeus, sostiene di essere proprio da lui inviata agli uomini verso cui egli mostra benevolenza.72 Dike spiega al coro come suo padre Zeus sia incline a punire i malvagi e a premiare i giusti; sostiene di essere in grado di cancellare i pensieri crudeli dagli scellerati, ma anche di poter incidere i delitti sulle tavole di Zeus (âÓ ‰¤ÏıˆÈ ¢›Ô˜).73 A testimonianza del suo effetto benefico Dike porta come prova (Ù¤ÎÌ·Ú) quella del fanciullo insano figlio di Zeus ed Era e privo di ·å‰Ò˜ cui è riuscita a modificare il carattere. Gli studiosi74 hanno identificato questo ignoto fanciullo con Ares, servendosi dell’ausilio dei primi versi dell’epinicio pindarico75 quelli cioè in cui il dio guerriero si placa di fronte alla forza pacificatrice della poesia, così come in Eschilo alla mancanza di ·å‰Ò˜ metteva un freno la virtù moderatrice di Dike. Il frammento 8 del Papiro di Ossirinco chiude il cerchio: si tratta dell’elogio di Eirene, pronunciato verosimilmente dalla stessa Dike. Nel testo sono state rintracciate allusioni alla spartizione della terra avvenuta legalmente, pare, una volta messa da parte la tromba nemica (‰·˝·˜ Â·˘Ì¤Ó[ÔÈ Û¿Ï]ÈÁÁÔ˜).76 I riferimenti, per quanto imprecisi, possono essere adattati agli avvenimenti che accompagnarono la nascita di Etna. Ed è dunque probabile che l’elogio di Eirene, che si trova nel frammento eschileo, sia da mettere in relazione con l’augurio di prosperità, rivolto al sovrano, che risuona anche nei versi pindarici: così il tempo a venire gli governi prosperità e dovizia di beni (Âå ÁaÚ ï Ę ¯ÚfiÓÔ˜ ùÏ‚ÔÓ ÌbÓ Ô≈Ùˆ ηd ÎÙ¤·ÓˆÓ ‰fiÛÈÓ Âı‡ÓÔÈ).77 È un auspi72 P. Oxy. 2256 F 8, 8. Stark 1956, 88-89 ha sottolineato come l’identificazione di Dike quale paredro di Zeus, inviata agli uomini verso i quali egli è ÂéÌÂÓɘ costituisce un autentico ribaltamento della prima scena del Prometeo incatenato. Qui il padre degli dei non è affatto benevolo, bensì crudele e perverso. In Eschilo, così come in tutta la Grecità arcaica, la fiducia in Dike aveva portato ad un approfondimento del concetto di diritto e aveva promosso Zeus a «custode implacabile di una giustizia conciliante». 73 P. Oxy. 2256 F 9 a, 21. 74 Cfr. Stark 1956, 86-87; Cataudella 1964-1965, 387 e ss.; Corbato 1996, 70. 75 Pind. Pyth. i 10-13 (Trad. B. Gentili). 76 Stark 1956, 85 e ss. ha attribuito al termine ϤÏËÓÙ·È del fr. 8 (v. 8) il senso di “presa di possesso”, di “appropriazione”, che si adatta anche ad una öÁÎÙËÛȘ Ùɘ Áɘ, e che sembra accentuare il carattere legittimo e legale del procedimento. 77 Cfr. Pind. Pyth. i 46 (Trad. B. Gentili).

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cio quest’ultimo che ricalca i temi tradizionali della pace dalla guerra esterna e dalla stasis.78 Dike inoltre nel repertorio mitologico greco viene presentata quale figlia di Themis e sorella di Eirene ed Eunomia.79 Insieme vengono ricordate come le tre horai e verosimilmente si tratta delle divinità che Ierone tendeva a presentare quali numi tutelari della sua città. Il ricordo di Eunomia può ancora rimandare alla capitale ellenica del buon governo: Sparta.80 Questa riflessione conduce nuovamente ai versi pindarici in cui Etna appare quale corrispondente siceliota della città peloponnesiaca: Ù† fiÏÈÓ ÎÂ›Ó·Ó ıÂÔ‰ | Ì¿ÙÅ ÛfÓ âÏ¢ıÂÚ›0 ^YÏÏ›‰Ô˜ ÛÙ¿ıÌ·˜ ^I¤ÚˆÓ âÓ ÓfiÌÔȘ öÎÙÈÛÛÂØ ı¤ÏÔÓÙÈ ‰b ¶·ÌʇÏÔ˘ ηd ÌaÓ ^HÚ·ÎÏÂȉÄÓ öÎÁÔÓÔÈ ù¯ı·È˜ ≈Ô T·¸Á¤ÙÔ˘ Ó·›ÔÓÙ˜ ·åÂd ̤ÓÂÈÓ ÙÂıÌÔÖÛÈÓ âÓ AåÁÈÌÈÔÜ ¢ˆÚÈÂÖ˜. öÛ¯ÔÓ ‰ã \ȦΠ| Ï·˜ ùÏ‚ÈÔÈ ¶ÈÓ‰fiıÂÓ çÚÓ‡ÌÂÓÔÈ, Ï¢ÎÔÒÏˆÓ T˘Ó‰·ÚȉÄÓ ‚·ı‡‰ÔÍÔÈ Á›ÙÔÓ˜, zÓ ÎϤԘ ôÓıËÛÂÓ ·å¯ÌĘ. ZÂÜ Ù¤ÏÂÈã, ·åÂd ‰b ÙÔÈ·‡Ù·Ó \A̤ӷ ·Úã ≈‰ˆÚ ·rÛ·Ó àÛÙÔÖ˜ ηd ‚·ÛÈÏÂÜÛÈÓ ‰È·ÎÚ›ÓÂÈÓ öÙ˘ÌÔÓ ÏfiÁÔÓ àÓıÚÒˆÓ. Û‡Ó ÙÔÈ Ù›Ó ÎÂÓ êÁËÙcÚ àÓ‹Ú, ˘î† Ùã âÈÙÂÏÏfiÌÂÓÔ˜, ‰ÄÌÔÓ ÁÂÚ·›ÚˆÓ ÙÚ¿ÔÈ Û‡ÌʈÓÔÓ â˜ ìÛ˘¯›·Ó. Per lui fondò quella città Ierone su basi divine di libertà secondo le leggi della norma d’Illo. Vogliono i discendenti di Panfilo anzi degli Eraclidi, che dimorano sotto le balze del Taigeto, perseverare sempre, come Dori, nelle regole d’Egimio; mossero dal Pindo e felici tennero Amìcle, 78 Corbato 1996, 71 sottolinea il ricorrere di tali temi sia nella I Pitica, come nell’Hyporchema ai Tebani e ancora nelle Eumenidi eschilee (vv. 937-947). 79 Hes. Theog. 901-903. Cfr. Culasso-Gastaldi 1979, 68; Murray 1993, 65-66; Cusumano, 1990, 140. Sulle Horai anche Rudhardt 1999, 96-154. 80 Cfr. Thuc. i 18. Sul rapporto tra tirannide ed Eunomia Stein-Hölkeskamp 1996, 679.

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phrone s i s e dy na m i s vicini d’alta fama dei Tindàridi dai bianchi puledri, e di essi fiorì la gloria della lancia. Tu, che ogni cosa adempi, o Zeus, fa’ che il discorso verace degli uomini perenne tale sorte aggiudichi ai cittadini presso l’acque dell’Amena. Col tuo favore questo condottiero, e dando istruzioni al figlio, onorando il popolo lo guidi alla calma concorde Pind. Pyth. i 63-71 (Trad. B. Gentili)

A Ierone Pindaro sembra attribuire, in questo passo, il ruolo di nomoteta, una figura appartenente al repertorio coloniale e però assolutamente incompatibile con la tirannide. Addirittura il chiaro riferimento ai nomoi, quelli della norma di Illo, discendente di Eracle ed eroe eponimo della stirpe dorica, potrebbe sottointendere il riferimento a una regalità di tipo lacedemone. Ma Pindaro si spinge oltre, ricamando i propri versi con chiare allusioni alla geografia mitico-storica degli Eraclidi e al loro intreccio con la stirpe dorica. Non basta al sovrano il ruolo di legislatore: il suo obiettivo è quello di sottolineare il carattere dorico delle istituzioni stabilite per Etna. L’appello però non è generalizzato al mondo dorico, ma a quello lacedemone in particolare con riferimenti precisi alla stirpe degli Eraclidi originariamente distinta da quella dorica81 e con rimandi alla geografia e alla storia della Laconia con la menzione del sobborgo spartano di Amicle e il ricordo dei Tindaridi.82 In questi versi ricorrono gli spunti prediletti della propaganda dinomenide: l’esaltazione degli Eraclidi può essere letta in connessione con il tema della mancata vendetta di Dorieo, il principe lacedemone assassinato in Sicilia da una coalizione di Fenici e Segestani, che Gelone rinfacciava agli Spartani;83 mentre la celebrazione dei Dioscuri consente un rinvio intertestuale ai versi della Olimpica iii in onore di Terone.84 Esplode anche la passione per Sparta, di cui abbiamo tentato di ricostruire la genesi e di mettere in evidenza i precedenti. 81 Il poeta sa bene che originariamente la stirpe di Egimio, padre di Panfilo e re dei Dori, era distinta da quella degli Eraclidi, ma i discendenti di entrambi i rami possono essere definiti Dori a pieno titolo (cfr. Diod. iv 57-58; Hdt. ix 26; Strab. ix 4, 10). 82 Amicle era un centro di tradizioni legato al passato acheo della Laconia (cfr. Strab. viii 5, 4) mentre la vicenda dei Tindaridi riconduce al passato pre-acheo della regione (Paus. iii 1, 4-5; Diod. iv 33, 5). 83 Cfr. Hdt. v 46 e vii 158, 5. 84 Cfr. supra p. 120.

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E Pindaro, dopo avere lasciato i Dori felici nel Peloponneso, ritorna con i suoi versi in Sicilia augurandosi che ai cittadini e ai basileis della città, sorta sul fiume Amenano, Zeus accordi una sorte uguale a quella spartana. Uno splendido augurio che deve essere intepretato alla luce della propaganda ieroniana e che ben poco può dirci sulla storia costituzionale di Etna. C’è tuttavia chi in passato ha creduto di potere ravvisare nella parola pindarica tracce di un programma politico concreto e articolato e indizi ben precisi sulle istituzioni della colonia.85 Ma purtroppo l’unico dato che emerge con certezza da questi versi, a parte ovviamente la menzione del giovane Dinomene86 destinato al governo della città, è il palese riferimento ideologico al mondo dorico-eraclide in generale e a quello spartano in particolare. Sparta veniva utilizzata come simbolo rappresentativo delle istituzioni doriche, e culla della tradizione eraclide. Si trattava di una scelta più apparente che reale, ma certo significativa di una precisa volontà del tiranno di rappresentare il governo del figlio su Etna e il suo su Siracusa in un quadro di apparente legittimità. Era un’operazione ardita e di incerto successo, perché Sparta era la polis per eccellenza antitirannica, ma a Ierone non mancavano né il coraggio né l’ardore. Ad un’opera destinata ad una diffusione più ampia e certamente meno provinciale rispetto a quella del dramma eschileo, Ierone affida un messaggio paradossale ma di sicuro impatto internazionale: Etna sarà la città gemella di Sparta e si costituirà su basi divine di libertà. Se non si vuole dunque riconoscere in questi versi un programma politico preciso e delineato, è difficile tuttavia negare loro il carattere di manifesto, di vero e proprio proclama della tirannide di Ierone. Non serve dunque cercare nel nesso ıÂԉ̿ÙÅ ÛfÓ âÏ¢ıÂÚ›0,87 nel riferimento ai nomoi, ai gera concessi al damos e infine nella Û‡ÌʈÓÔÓ 85 Era questa l’opinione di Kirsten 1941, 58-71 che ha sottolineato come la struttura della città di Etna, quale emerge dai versi pindarici, sia assolutamente inconciliabile con l’istituto della tirannide ed è giunto alla conclusione che l’ode pindarica avesse in realtà l’obiettivo di giustificare l’instaurazione di un potere sovrano, mostrando che esso non si configura come assoluto e non limita la libertà dei cittadini. Si trattava, in breve, di una promessa sincera di moderazione. Mostrarsi moderato era un’esigenza – sostiene lo studioso – comprensibile per una regalità che nasceva da una tirannide, che, in quanto potere illeggittimo, portava con sé il rischio di rivolte e di staseis. Contra Luraghi 1996, 359, n. 375, secondo cui la tesi di Kirsten risente eccessivamente del clima politico in cui fu concepita, e Basta-Donzelli 1996, 79-80. 86 Cfr. sull’argomento Köhnker 1970, 1-13. 87 Così Kirsten 1941, passim. Basta-Donzelli 1996, 81, n. 31 ha sottolineato l’appartenenza alla tradizione dorica dell’espressione ıÂԉ̿ÙÅ ÛfÓ âÏ¢ıÂÚ›0.

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ìÛ˘¯›·Ó, tracce della costituzione etnea o addirittura ulteriori notizie sulla storia spartana. Etna, solo per il fatto di essere stata fondata da un tiranno e di essere governata dal figlio di tale tiranno, non poteva ritenersi uguale a Sparta. Tuttavia nulla impediva di assumerla a paradigma, soprattutto in un momento in cui nasceva e si autoalimentava il mito della polis laconica. Ed è così che per la prima volta il modello costituzionale lacedemone sembra ispirare letteralmente l’ordinamento costituzionale di un’altra città greca. Poco tempo dopo, ad Atene, Cimone cominciò a manifestare la stessa attrazione per il mondo lacedemone, ma il filolaconismo sembra essersi manifestato, seppure al livello embrionale, già alla corte siracusana. Anzi c’è di più: la corte dei Dinomenidi può avere anticipato i termini di un dibattito che grande fortuna avrebbe avuto durante tutto il v secolo, proponendo in nuce quella dicotomia Ioni-Dori che, spesso e volentieri, sarebbe stata tirata in ballo tanto nei discorsi politici, quanto nelle ricostruzioni storiografiche, al fine di giustificare precise scelte in ambito internazionale.88 Significativa è anche la scelta da parte di Ierone di ingaggiare Pindaro. Il poeta del resto non era nuovo a simili operazioni: già nella Pitica x si era fatto interprete della volontà di una prestigiosa committenza come quella dell’Alevade Torace di Larissa. I primi versi di questo epinicio contengono un riferimento preciso alla regalità spartana; Pindaro celebra la fortuna di Sparta e della Tessaglia, sostenendo che su entrambe regnava una stirpe eraclide. Quest’affermazione, assolutamente incontrovertibile, se attribuita alle dinastie regali lacedemoni (gli Agiadi e gli Euripontidi, discendenti universalmente riconosciuti degli Eraclidi), si rivela quantomeno temeraria se riferita agli Alevadi il cui legame genealogico con i figli di Illo è garantito casomai da un ramo cadetto. L’accostamento forzato tra la regalità spartana e quella tessala ha il preciso obiettivo di conferire a quest’ultima lo stesso grado di legittimità che nel mondo greco veniva riconosciuto alla prima. Tale associazione inoltre trova le sue radici in quella particolare congiuntura storica che, negli anni immediatamente precedenti il 500 a. C., vide il profilarsi di un’intesa tra Aleva e Cleomene 88 Contra Will 1956, 58-61. Lo studioso nega che la menzione nel testo pindarico di Illo, Panfilo e degli Eraclidi possano testimoniare positivamente dell’esistenza di una consapevolezza etnica dorica. Senza volere esagerare con l’attribuire al motivo della syngeneia o dell’appartenenza a un determinato ceppo etnico una funzione determinante in faccende internazionali, non si può tuttavia negare che la ricorrenza di tali topoi parli a favore del loro peso nel dibattito politico.

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re di Sparta, e soprattutto la nascita di un nuovo asse Tessaglia-DelfiSparta.89 Che dietro entrambi gli epinici ci sia una precisa volontà della committenza è innegabile: la Pitica i però, già ad una lettura superficiale, sembra contenere un riferimento al mondo dorico-eraclide ben più consapevolmente articolato di quello della Pitica x. Facile sarebbe ipotizzare che analogo fosse l’intento che Ierone voleva raggiungere grazie ai versi del poeta tebano: inserire la regalità etnea in un quadro di legittimità, agganciandola al modello spartano, nella speranza che, almeno in ambito panellenico, brillasse di luce riflessa. Niente più che una raffinata opera di maquillage diretta a camuffare un’azione militare che a conti fatti aveva avuto come risultato quello di privare ben tre poleis in un colpo solo della propria identità poleica. Ma il preciso accenno agli Eraclidi e proprio in un epinicio dedicato ad una delle vittorie più prestigiose ottenute dal tiranno ai giochi panellenici,90 conteneva anche un messaggio inequivocabile: Ierone guardava a Sparta e la riconosceva davanti a tutti i Greci come modello di riferimento. Era questa una scelta politica significativa e all’avanguardia, con la quale Siracusa inaugurava un periodo di intesa feconda con Sparta dopo che, con la spedizione in Magna Grecia e la battaglia di Cuma, aveva iniziato ad esplorare, con grande anticipo, le aree che un giorno avrebbero suscitato l’interesse di Atene, in quel momento impegnata a consolidare la sua potenza sull’Egeo. Tutto questo avveniva proprio quando alla corte siracusana si era raccolto un cenacolo di intellettuali che faceva la spola tra la Sicilia e la Grecia. E forse non è neanche un caso che al fianco di Ierone si trovasse lo iamide Agesia e che venisse accolto dai Dinomenidi proprio in un momento in cui questa stirpe di indovini conduceva una politica non avversa a Sparta.91 89 Sordi 1958, 56 e ss. e Luraghi 1994, 357. 90 Interessanti sono a questo proposito le riflessioni di Catenacci 1992, 29: «Non a caso Ierone si proclama in quella circostanza Etneo. Se la fondazione della nuova città è fatto determinante nella carriera di Ierone, per lo stesso Ierone e per la città appena costituita sono fatto determinante la vittoria agonistica di cittadini-simbolo e le conseguenti cerimonie pubbliche. Tutto ciò, accanto a un dramma come le Etnee e forse ancora più che questo, dà una tradizione e una storia a Etna, le conferisce gloria panellenica e identità nazionale, rappresenta un momento di coesione e autocelebrazione del nuovo gruppo civico attorno al principe della città Dinomene, alla sua guida Cromio e al suo nume tutelare Ierone». 91 Sugli Iamidi cfr. Mora 1984; Luraghi 1997, 69-86 e, più in generale, Taita 2001.

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Il quesito che infine è opportuno porsi, dopo avere analizzato il corredo di tradizioni collegate alla fondazione di Etna, è quello relativo ai risultati concreti cui giunse la capillare opera propagandistica promossa da Ierone. In altre parole, fu vera gloria? Del destino di Etna sappiamo che essa, dopo la caduta dei Dinomenidi (466-465 a. C.), dovette subire la furia vendicativa dei Siracusani e dei Siculi comandati da Ducezio e una nuova spartizione territoriale. Diodoro,92 tra l’altro, ci tiene a precisare che i coloni insediati da Ierone si spostarono a Inessa e che gli originari abitanti di Katane riebbero la loro patria solo molto tempo dopo. Nulla si sa dei Leontini e dei Nassi,93 ma si può ipotizzare che la situazione fosse tornata alla normalità anche per loro, una volta abbattute le tirannidi. La colonia di Ierone cominciò probabilmente a battere moneta a partire dalla sua fondazione (476-475 a. C.) anche se probabilmente più per commemorare e celebrare l’identità civica della città che per veri e propri scopi commerciali.94 La moneta, un tetradrammo in argento, recava sul dritto una quadriga, guidata da Atena, simile a quella che si trova nei tipi siracusani, con una Vittoria alata che la incorona e una pianta nell’esergo e sul roFig. 3. Tetradrammo d’argento, vescio l’etnico AITNAION e Aitna post 476-475 a. C. (tratto da Boehringer 1968, Taf. 9). Zeus in trono (Fig. 3).95 92 Diod. xi 76. 93 Sono piuttosto scarsi i dati archeologici relativi a Naxos, di cui abbiamo già rilevato l’assenza nell’hypothesis delle Etnee. Su Naxos cfr. Luraghi 1994, 345-346) a cui si rimanda per la bibliografia relativa. 94 Dougherty 1993, 86-87. 95 Cfr. Boehringer 1968, 78-85 e Knoepfler 1992, 34-35 che abbassa leggermente la datazione al 472 a. C.

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Parallelamente, Etna batteva anche dramme che presentavano sul rovescio lo stesso Zeus in trono, ma sul dritto un cavaliere che rimanda ancora una volta ai modelli siracusani.96 Sappiamo ancora che il governo della polis fu affidato, o quanto meno destinato, al giovane Dinomene sostenuto dall’abilità e dall’intuito politico di Cromio,97 di cui il solito Pindaro canterà i successi atletici nelle Nemee i e ix. Le uniche operazioni militari cui i coloni di Ierone parteciparono furono a fianco del giovane Trasibulo alla morte del fratello.98 Cosa dunque restò di Etna, quali furono i risultati raggiunti da Ierone? Ebbene, se veramente due erano gli scopi che il tiranno si prefiggeva e cioè quello di ritrovarsi a disposizione un contingente militare fidato e pronto ad accorrere in sua difesa e, infine, quello di ottenere onori eroici dopo la morte, allora si può felicemente concludere che il Dinomenide aveva centrato il bersaglio in pieno. Con la morte del suo fondatore, come nella migliore tradizione, Etna uscì dalla fase coloniale per entrare finalmente in quella poleica.99 Le scelte compiute dagli Etnei sono tuttavia quelle di un corpo civico creato artificialmente che mostra il suo legame con l’entourage tirannico a cui in fin dei conti deve la sua ragion d’essere. Gli Etnei infatti, una volta morto Ierone, accordarono la loro collaborazione e protezione al fratello Trasibulo e continuarono, anche dopo essere stati cacciati dalla colonia, a considerare il Dinomenide quale fondatore della loro polis. Ma altri e ben più importanti erano i riconoscimenti che Ierone avrebbe raccolto: la sua fama aveva attraversato i mari se anche Aristofane, nel suo modo scanzonato e provocatorio, poteva permettersi di riproporre i versi dell’Hyporchema pindarico per celebrare la fondazione di Nefelococcigia, e ricordare alla platea ateniese il gloriosissimo ÎÙ›ÛÙÔÚ AúÙÓ·˜.100 Del resto, come si legge in uno scolio, che sembra quasi la sintesi del programma di Ierone, egli voleva divenire ecista anziché tiranno (ÔåÎÈÛÙc˜ àÓÙd Ù˘Ú¿ÓÓÔ˘ ‚Ô˘ÏfiÌÂÓÔ˜ 96 A questo proposito cfr. Luraghi 1994, 344-345 che ravvisa un’analogia con la monetazione imerese di età emmenide in cui un tipo è ispirato alla città dominante, mentre l’altro appartiene alla città subordinata a cui la legenda si riferisce. 97 Diverse sono le informazioni che possediamo su questo personaggio. Cromio, figlio di un tale Agesidamo, era probabilmente geloo di nascita, aveva combattuto con Ippocrate all’Eloro (cfr. Pind. Nem. ix 95 cum scholiis), aveva infine seguito Gelone a Siracusa e ne aveva sposato la sorella. Lo abbiamo visto rivestire, insieme ad Aristonoo, la funzione di tutore del figlio di Gelone e infine guidare la missione di0 98 Diod. xi 67, 6. plomatica a Reggio. 99 Cfr. Malkin 1987, 189. 100 Aristoph. Av., 926-927.

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ÂrÓ·È).101 Ed effettivamente egli da ecista trovò la morte e fu sepolto a Katane, nella città che egli aveva trasformato e di cui aveva trasfigurato il corpo civico. La storia però non gli risparmiò un destino degno di un tiranno perché, malgrado la devozione dei suoi coloni, la sua tomba venne profanata dagli abitanti di Katane, una volta che ripresero possesso della loro città.102 Duplice fu davvero in un certo senso però il risultato raggiunto da Ierone con la fondazione di Etna. In un primo momento infatti personaggi come Eschilo e Pindaro, a cui il Dinomenide aveva affidato la celebrazione del suo status di ecista, furono i vettori d’eccezione che consegnarono alla Grecità metropolitana l’immagine di un basileus versatile, mecenate e filelleno, un interlocutore politico valido, ideologicamente proiettato verso il mondo dorico ma, almeno apparentemente, aperto al dialogo con quello ionico, a cui anche personaggi del calibro di un Temistocle avrebbero potuto fare appello. La scelta di affidare alla poesia corale la costruzione e la diffusione della tradizione coloniale di Etna non fu certo casuale: se da un lato infatti il genere drammatico era l’occasione per la città di rappresentare ritualmente le proprie origini e di rivivere il momento della fondazione, dall’altro invece l’epinicio consentiva di stabilire un legame privilegiato tra la città e il suo fondatore: l’atleta la cui gloria, in un gioco di specchi, finiva per riflettersi sulla colonia, accrescendone il prestigio e coinvolgendo nel meccanismo di costruzione identitaria della città anche le stesse istituzioni panelleniche che presiedevano i Giochi.103 Il secondo risultato venuto fuori dagli interventi del tiranno sulla piana di Katane fu più radicale e certo inaspettato. L’arbitrarietà della politica dei Dinomenidi e il loro modo di agire sul corpo civico delle poleis siceliote misero in moto, alla caduta della tirannide, una spirale di rivalse alimentata dal desiderio delle cittadinanze deportate di ritornare nei territori di provenienza. E furono forse proprio gli interventi di Ierone e dei suoi predecessori sulle compagini poleiche, insieme alle reazioni non previste, che contribuirono a diffondere nella Grecia metropolitana l’immagine di una Sicilia, quale emerge dal discorso di Alcibiade agli Ateniesi prima della spedizione del 415 a. C.: un’isola le cui città sono popolose di uomini di razze diverse ed è facile per 101 Schol. Pind. Nem. i inscr. a. 102 Strab. vi 2, 3. Cfr. Catenacci 1996, 241-255. 103 Dougherty 1993, 95-96.

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loro il mutare e l’accogliere nuove costituzioni (ù¯ÏÔȘ Ù ÁaÚ Í˘ÌÌ›ÎÙÔȘ ÔÏ˘·Ó‰ÚÔÜÛÈÓ ·î fiÏÂȘ ηd ®0‰›·˜ ö¯Ô˘ÛÈ ÙáÓ ÔÏÈÙáÓ Ùa˜ ÌÂÙ·‚ÔÏa˜ ηd âȉԯ¿˜).104 104 Thuc. vi 17, 2. Per uno studio sulle connessioni tra tirannide e mobilità demografica in Sicilia e sugli effetti che tali sconvolgimenti nel corpo civico ebbero sull’identità delle poleis, Lomas 2006, 95-118. Cfr. anche Harrison 2000, 83-96, secondo cui invece tutta la ricostruzione tucididea della spedizione in Sicilia ricalcherebbe nei dettagli e nella struttura il racconto di Erodoto sulla spedizione dei Persiani contro Atene.

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LA BATTAGLIA DI CUMA E LA PARTECIPAZIONE SIRACUSANA ALLA LOTTA CONTRO IL “BARBARO” Da Etna a Cu m a

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no spunto da cui prendere le mosse per indagare sulla natura dell’intervento siracusano a Cuma nel 474 a. C. può essere offerto dai versi della I Pitica di Pindaro che ruotano attorno al personaggio mitico di Tifone, gigante terribile dalle cento teste di serpente: ¬ÛÛ· ‰b Ìc ÂÊ›ÏËΠZ‡˜, àÙ‡˙ÔÓÙ·È ‚Ô¿Ó ¶ÈÂÚ›‰ˆÓ àUfiÓÙ·, ÁÄÓ Ù ηd fiÓÙÔÓ Î·Ùã àÌ·ÈÌ¿ÎÂÙÔÓ, ¬˜ Ùã âÓ ·åÓ3 T·ÚÙ¿ÚÅ ÎÂÖÙ·È, ıÂáÓ ÔϤÌÈÔ˜, T˘Êg˜ ëηÙÔÓٷοڷÓÔ˜Ø ÙfiÓ ÔÙ KÈÏ›ÎÈÔÓ ıÚ¤„ÂÓ ÔÏ˘ÒÓ˘ÌÔÓ ôÓÙÚÔÓØ ÓÜÓ ÁÂ Ì¿Ó Ù·› ıã ñbÚ K‡Ì·˜ êÏÈÂÚԘ ù¯ı·È ™ÈÎÂÏ›· Ùã ·éÙÔÜ Ȥ˙ÂÈ ÛÙ¤ÚÓ· Ï·¯ãÓ¿ÂÓÙ·Ø Î›ˆÓ ‰ã ÔéÚ·Ó›· Û˘Ó¤¯ÂÈ, ÓÈÊfiÂÛÛã AúÙÓ·, ¿ÓÂÙ˜ ¯ÈfiÓÔ˜ çÍ›·˜ ÙÈı‹Ó·Ø Ma tutti gli esseri che Zeus non ama paventano udendo la voce delle Pieridi sopra la terra e l’indomito mare, ed anche colui che giace nell’orrido Tartaro, il nemico degli dei, Tifone dalle cento teste che l’antro famoso di Cilicia un tempo nutriva; ora le coste, che al di là di Cuma il mare cinge e la Sicilia schiacciano il suo petto villoso; e la colonna di cielo lo comprime, l’Etna nevosa d’acuto gelo perenne nutrice… Pind. Pyth. i 13-20a (trad. di B. Gentili)

Pindaro è il primo a collocare in Occidente il sepolcro del mostro collegando le due aree: quella etnea e quella delle coste, cinte dal mare, al di là di Cuma (ñbÚ K‡Ì·˜) identificabile probabilmente con l’isola

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di Pithecoussa105 dove, dopo la battaglia, andrà ad installarsi un presidio siracusano. Secondo Strabone era stata proprio la natura sismica di quei luoghi a suggerire al poeta tale associazione.106 Più tardi la tradizione si sdoppia assegnando a Tifone ora la sede di Pithecoussa107 ora quella sotto il monte Etna.108 Altre testimonianze, che Pindaro mostra di conoscere, ponevano la sede del gigante nel vicino Oriente: il suo giaciglio è individuato nell’Iliade109 tra gli Arimi, nome di un vulcano o di una popolazione collegata talora alla Cilicia o alla Lidia, alla Frigia e alla Misia.110 Ma il dato interessante da sottolineare è che al gigante, nemico acerrimo di Zeus, è assegnata una prigione di straordinaria estensione, i cui limiti, guarda caso, coincidono con quelli delle ultime imprese di Ierone.111 È anche possibile però che Pindaro abbia riunito, in un unico giro di versi, varie tradizioni sulla sede occidentale del mostro, nate indipendentemente l’una dall’altra, per adeguarsi ad una precisa volontà della committenza. Non sbaglia infatti Nino Luraghi quando definisce la Pitica I «vero e proprio incunabolo dell’ideologia del potere tirannico di Ierone».112 In quest’ode i ricordi di Etna e Cuma – per non parlare di quelli di Salamina, Imera e Platea – vengono intrecciati abilmente l’uno con l’altro in un unico manifesto celebrativo composto per dare lustro alle imprese del tiranno. L’immagine di Tifone, paradigma del disordine e della barbarie, disteso nella regione vulcanica tra Sicilia e Campania, e minaccia al retto ordine divino tutelato da Zeus, sembra suggerire l’idea di una geografia mitica del potere ieroniano.113 Anzi i versi, in maniera tendenziosa e ammiccante, potrebbero quasi alludere ad una sorta di continuità territoriale del controllo dinomenide tra Siracusa e Cuma. Si tratta naturalmente solo di un espediente letterario legato probabilmente alle esigenze della committenza, ma che suggerisce allo studioso moderno di cercare proprio nelle acque del Tirreno la genesi e le cause di un conflitto che confermò il ruolo di Siracusa come potenza navale e la sua capacità di controllo e protezione delle rotte tirreniche. 105 Così Gentili 1995, 336. 106 Cfr. Strab. v 4, 9. 107 Pherecyd. FG rHist. 3 F 53; Lycophr. 688 e ss. e scolio ad loc.; Strab. xiii 4, 6. 108 Aesch. Prom. 363-365. 109 Cfr. Hom. Il. ii 783. 110 Cfr. Gentili-Angeli Bernardini-Cingano-Giannini 1995, 336. A proposito delle connessioni tra Tifone e la Lidia cfr. Braccesi 1997, 57 e ss. 111 È questo l’unico caso nelle odi di Pindaro in cui il racconto mitico ha un preciso riferimento locale, cfr. Mann 2001, 264. 112 Luraghi 1994, 352. 113 Sulla corrispondenza tra la figura di Zeus garante dell’ordine divino e Ierone difensore del territorio compreso tra Etna e Cuma nella Pitica i cfr. Mann 2001, 264.

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Prima di entrare nel vivo della questione è opportuno prendere le mosse dalle testimonianze degli storici antichi riguardo all’intervento di Ierone a Cuma. Secondo Diodoro,114 sotto l’arcontato di Achestoride e il consolato di Ceso Fabio e Tito Virginio: ^I¤ÚˆÓ ÌbÓ ï ‚·ÛÈÏÂf˜ ÙáÓ ™˘Ú·ÎÔÛ›ˆÓ, ·Ú·ÁÂÓÔÌ¤ÓˆÓ Úe˜ ·éÙeÓ Ú¤Û‚ÂˆÓ âÎ K‡Ì˘ Ùɘ \IÙ·Ï›·˜ ηd ‰ÂÔÌ¤ÓˆÓ ‚ÔËıÉÛ·È ÔÏÂÌÔ˘Ì¤ÓÔȘ ñe T˘ÚÚËÓáÓ ı·Ï·ÙÙÔÎÚ·ÙÔ‡ÓÙˆÓ, âͤÂÌ„ÂÓ ·éÙÔÖ˜ Û˘ÌÌ·¯›·Ó ÙÚÈ‹ÚÂȘ îηӿ˜. Ôî ‰b ÙáÓ ÓÂáÓ ÙÔ‡ÙˆÓ ìÁÂÌfiÓ˜ âÂȉc η٤ÏÂ˘Û·Ó Âå˜ ÙcÓ K‡ÌËÓ, ÌÂÙa ÙáÓ âÁ¯ˆÚ›ˆÓ ÌbÓ âÓ·˘Ì¿¯ËÛ·Ó Úe˜ ÙÔf˜ T˘ÚÚËÓÔ‡˜, ÔÏÏa˜ ‰b ӷܘ ·éÙáÓ ‰È·Êı›ڷÓÙ˜ ηd ÌÂÁ¿Ï– Ó·˘Ì·¯›0 ÓÈ΋۷ÓÙ˜, ÙÔf˜ ÌbÓ T˘ÚÚËÓÔf˜ âÙ·›ӈ۷Ó, ÙÔf˜ ‰b K˘Ì·›Ô˘˜ äÏ¢ı¤ÚˆÛ·Ó ÙáÓ Êfi‚ˆÓ, ηd à¤ÏÂ˘Û·Ó âd ™˘Ú·ÎÔ‡Û·˜. Ierone basileus dei Siracusani, quando giunsero da Cuma in Italia ambasciatori a chiedere soccorso, poiché erano attaccati dai Tirreni signori del mare, a loro inviò in aiuto triremi in numero sufficiente. I navarchi dunque navigarono verso Cuma e combatterono insieme agli abitanti del luogo contro i Tirreni, distruggendo molte navi e vincendo in una grande battaglia navale umiliarono i Tirreni. Liberarono così i Cumani dai loro timori e fecero vela verso Siracusa. Diod. xi 51

Dalla breve sintesi diodorea emergono dati abbastanza precisi sugli avvenimenti del 474 a. C. che conviene isolare e usare come punti di riferimento. Innanzitutto la partecipazione siracusana al fianco di Cuma è giustificata da una regolare richiesta d’aiuto. La città calcidese era stata, a quel tempo, attaccata dai Tirreni che erano signori del mare (ı·Ï·ÙÙÔÎÚ·ÙÔ‡ÓÙˆÓ). Il testo sembra dare rilievo alla superiorità militare dei nemici e alla situazione di pericolo dei Cumani che li spinge a cercare aiuto presso una potenza straniera. Diodoro parla di una symmachia stipulata tra le due città a fronte della quale il tiranno di Siracusa è disponibile a intervenire. L’entità del sostegno accordato agli alleati viene definito dallo storico sufficiente. Ierone sembra avere delegato ai suoi navarchi il compito di guidare le navi sul luogo della battaglia e di “collaborare” con gli abitanti del luogo contro i Tirreni. Egli comunque ancora una volta non partecipa personalmente allo scontro, preferendo adottare nei confronti dei nemici la strategia di una guerra controllata a distanza, per delega, e giudicando più efficace un intervento limitato e una minaccia a distanza.115 114 Sui fatti in questione cfr. anche Schol. Pind. Pyth. i 137 a-c. 115 Sulle strategie militari di Ierone cfr. Bonanno in c.d.s..

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Il risultato in ogni caso fu un grande scontro navale dal quale i talassocrati uscirono addirittura umiliati e i Siracusani, dopo avere liberato i Cumani dai loro timori, poterono tornare a casa.116 Per quanto poco dettagliato il racconto diodoreo consente anche di ricostruire lo scenario del conflitto di Cuma e di indovinare la strategia di Ierone sul Tirreno. L’intervento navale doveva essere una sorta di toccata e fuga: le triremi siracusane avevano semplicemente il compito di coadiuvare le forze locali e tornare alla base. La vittoria così schiacciante, poi tendenziosamente attribuita ai soli Siracusani, fu probabilmente una sorpresa tanto per questi ultimi, quanto per gli stessi Tirreni che avevano dominato il mare fino ad allora. Ierone invece doveva avere deciso di impiegare un numero non eccessivo di navi da guerra perché attratto proprio dalla prospettiva della symmachia con Cuma che gli offriva un nuovo, concreto appoggio sul Tirreno. Il trionfo dei suoi navarchi può avere colto di sorpresa il tiranno stesso che, di colpo, si trovò a raccogliere i frutti di una politica tirrenica inaugurata dai suoi predecessori decenni prima e di cui egli si era occupato in maniera cauta ma costante. Per verificare questa ipotesi è necessario fare qualche passo indietro: individuare gli agenti che si mossero sul mar Tirreno tra la fine del vi e gli inizi del v secolo; ragionare sulla posizione di Cuma e sulle motivazioni che spinsero una città calcidese a chiedere aiuto ad una polis dorica; e soprattutto ripercorrere brevemente – cartina alla mano – le attività militari dei Dinomenidi, tentando di rileggerle e reinterpretarle in un’ottica – per l’appunto – tirrenica. I pr e c e d e nt i : I Di no m e n i di e i l T i r r e n o Dalla metà del vi secolo si assiste ad un progressivo incrinamento nei rapporti greco-etruschi in seguito al quale si pongono le premesse per un’intesa tra Cartaginesi ed Etruschi contro i Greci. Il primo episodio 116 La paura nei confronti dei Tirreni, secondo Eforo, non era un fatto nuovo per l’Occidente. Lo storico, in un passo riportato da Strabone (cfr. FGrHist. 70 F 137=Strab. vi 2, 2) faceva risalire addirittura al periodo precedente la fondazione di Naxos, da parte dell’ecista Teocle, il timore dei Greci per la pirateria tirrenica; un timore che li teneva lontani dalle coste della Sicilia. La validità della testimonianza eforea che mira a dilatare nel tempo l’azione dei pirati tirreni è stata messa in dubbio dall’ipotesi, senz’altro più verosimile, che la notizia fosse in realtà condizionata e influenzata dalla propaganda siracusana antietrusca di V e IV. A questo proposito cfr. le riflessioni di Giuffrida 1978, 191; Ead., 1983, 51 e ss. Su questo passo di Eforo cfr. le considerazioni di Cusumano 1994, 70-73.

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bellico di rilievo fu quello di Alalia (540 a. C. ca), città sulla costa orientale della Corsica, che vide Tirreni e Punici coalizzati insieme contro i Focei. Questi ultimi, che si erano trasferiti a Cirno (Corsica), saccheggiavano e depredavano i vicini.117 Dallo scontro i Greci uscirono vincitori, ma le perdite furono talmente gravi che essi dovettero abbandonare l’isola e fare vela verso Reggio. Tutto il vi secolo trascorse senza che nulla turbasse eccessivamente i rapporti tra i Greci e la compagine etrusco-cartaginese, ma le poche testimonianze che possediamo confermano nella sostanza l’esistenza di accordi bilaterali di mutuo sostegno tra le due potenze antagoniste della Grecità occidentale.118 E che soprattutto i Greci vedessero in questa coalizione una potenziale minaccia emerge anche dalle operazioni di Dionisio di Focea, coraggioso navarco della flotta ionica, che dopo la battaglia di Lade, fece vela verso l’Occidente per pirateggiare esclusivamente contro Cartaginesi e Tirreni.119 La scelta del comandante foceo la dice lunga sull’antagonismo tra Greci e “barbari” e sul delicato equilibrio di forze che regolavano i rapporti nell’area del medio e del basso Tirreno. E se durante tutto il vi secolo non si può dire che tali relazioni fossero eccessivamente tese, i primi anni del v secolo furono invece caratterizzati da una serie di atti di disturbo culminati nello scontro di Imera prima, che vide l’allinearsi delle poleis calcidesi alla compagine punica, e in quello di Cuma poi, che sembra costituire, per certi versi, una smentita delle alleanze del 480 a. C. La creazione del polo punico-calcidese, a cui anche i Tirreni diedero un significativo contributo, risulta direttamente connessa alla questione del controllo dello Stretto, conteso anche dalla coalizione dorico-liparese analogamente interessata al breve tratto di mare tra la Sicilia e l’Italia. Alla politica filopunica dei Calcidesi infatti corrisponde l’atteggiamento tradizionalmente antitirrenico dei Liparesi. Se-

117 Cfr. Hdt. I 166-167. In questa occasione ai Tirreni di Agilla andò un numero piuttosto consistente di prigionieri focei destinati poi alla lapidazione. La tortura inflitta ai Greci fu così straordinaria che tutti coloro che passavano dal luogo in cui erano seppelliti i prigionieri diventavano storpi o monchi. Gli Agillei così, turbati dal prodigio, si rivolsero allora all’oracolo di Delfi che ordinò loro di compiere alcune cerimonie per riparare all’offesa compiuta contro gli Elleni. Sulla lapidazione dei Focei Gras 1985, 424-453; sul logos foceo in Erodoto Anello 1999b. Sulla battaglia di Alalia cfr. anche Krings 1998, 93-160. 118 Aristotele (Arist. Pol. iii 9 1280a) testimonia di alcune Û˘ÓıÉÎ·È tra Tirreni e Cartaginesi che è possibile collocare cronologicamente alla fine del vi sec. Cfr. Cataldi 1974 e Giuffrida 1978, 57. 119 Hdt. vi 17.

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condo Diodoro,120 gli isolani combatterono in diverse occasioni contro la pirateria tirrenica e vinsero in molte battaglie navali le cui decime del bottino furono dedicate al santuario di Delfi. Nel primo decennio del v secolo inoltre gli Zanclei mandarono messaggeri in Asia Minore invitando gli Ioni a fondare la città di Kalé Akté proprio nella parte della Sicilia volta verso la Tirrenia.121 Era un gesto quest’ultimo diretto proprio a rafforzare – probabilmente d’intesa con gli stessi Etruschi – la presenza ionica sul versante tirrenico e che, sebbene non avesse prodotto nessun risultato di rilievo, è indice di una precisa volontà ionica di partecipare al controllo delle vie del Tirreno. Ma i primissimi anni del v secolo furono anche quelli dell’interesse del blocco dorico per le faccende tirreniche. Prima Ippocrate e poi i Dinomenidi dimostrarono una viva attenzione per il Tirreno meridionale. Gelone inoltre fu il primo a cogliere le contraddizioni interne al mondo etrusco e a minare l’autorità delle due potenze talassocrati dell’Occidente. Un primo segnale è costituito dall’episodio, già ricordato, delle risorse di grano inviate ai Romani. Livio122 ricorda il momento drammatico vissuto da Roma, sotto il consolato di Tito Geganio e Publio Municio (492-491 a. C.). In quell’occasione, quando una grave carestia colpì la città, i consoli si affrettarono a cercare una soluzione. Gli ambasciatori si recarono in Etruria, nel territorio dei Volsci, a Cuma e perfino in Sicilia a chiedere del grano. A Cuma, quando ormai il frumento era stato acquistato, il tiranno Aristodemo trattenne le navi dei Romani. In qualità di erede dei Tarquini, egli intendeva compensare le perdite a cui essi erano andati incontro dopo la cacciata da Roma, quando i loro beni furono dati da saccheggiare alla plebe.123 Il suo atteggiamento nei confronti della repubblica romana era dunque di aperta ostilità. Quello che però è importante sottolineare nel racconto liviano è l’assoluta eccezionalità della richiesta di grano alla Sicilia dovuta all’ostilità dei popoli confinanti che si erano rifiutati di dare aiuto ai Romani. Secondo Livio, infatti, una grande quantità di frumento siciliano raggiunse Roma solo l’anno successivo.124 La notizia inoltre con120 Diod. v 9; cfr. anche Strab. vi 2, 10; Paus. x 11, 3; 16, 7. Su questi avvenimenti e per una loro collocazione agli inizi del v secolo cfr. Giuffrida 1978, 191 e ss. Sui donari dei Liparesi Flaceliére 1954 e Rota 1973, 150 e ss. e Gras 1985, 683-696. Sul ruolo di Lipari Consolo Langher 1978, 315-322; Anello 1980, 108. 121 Hdt. vi 23. 122 Liv. ii 34, 3-5. Cfr. anche Plut. Cor. xvi e Dion. Hal. Ant. Rom.vii 1; viii 70. 123 Liv. ii 5. 124 Liv. ii 34, 7.

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sente di aprire uno spiraglio significativo sui rapporti tra i Tirreni e Cuma. Il fatto che la decisione di Gelone di aiutare i Romani sia stata tutt’altro che tempestiva sembra suggerire l’ipotesi che egli prima di prendere posizione avesse preferito stare a guardare e intervenire dopo avere registrato la solidarietà della calcidese Cuma nei confronti degli Etruschi Tarquini.125 La testimonianza liviana annota un momento di solidarietà tra il tiranno di Cuma Aristodemo e l’élite politica etrusca. Doveva trattarsi di un sentimento analogo a quello che legava Terillo, tiranno della calcidese Imera, al “barbaro” Amilcare. Le relazioni di Cuma con i Tirreni però difficilmente si lasciano ricondurre ad un denominatore comune. E attribuire alla città libera un atteggiamento rigorosamente antitirrenico e, viceversa, al periodo della tirannide un orientamento filoetrusco, vorrebbe dire schematizzare in maniera infruttuosa trame politiche ben più complesse. La colonia euboica e le popolazioni etrusco-italiche attraversarono diversi momenti di tensione e, nel corso del vi secolo, si ritrovarono a fronteggiarsi più volte, ma non sembra di potere riconoscere nelle fonti relative a questi avvenimenti gli stessi antagonisti che minacciarono i Cumani nel 474 a. C.126 Le difficoltà di Roma e il rifiuto cumano di concederle aiuto comunque costituiscono un momento di svolta perché di fatto l’episodio rappresentò per Gelone un invito a procedere sulla via del Tirreno.127 E il fatto che il Dinomenide con questo gesto fosse entrato in acque piuttosto calde è testimoniato dall’aggressione dei Volsci Anziati alle navi degli ambasciatori di Gelone di ritorno da Roma.128 Un gesto quest’ultimo che ha tutto il sapore di una rappresaglia, un av125 Sui rapporti tra Cuma, l’Etruria e Roma cfr. Combet Farnoux 1957, 7-44. 126 Nel 524 a. C. (Dion. Hal. Ant. Rom. vii 3, 1 e ss.) una schiera di Tirreni, di Umbri e Dauni invase la fertile piana campana muovendo contro Cuma che ne uscì vittoriosa. Circa vent’anni dopo, la minaccia tirrenica tornò a farsi sentire: gli abitanti di Aricia, assediata da Arunte, chiesero aiuto a Cuma. Ne seguì un’altra vittoria assolutamente inaspettata dei Cumani (cfr. Dion. Hal. Ant. Rom.vii 5-6; Plut. Mul. Virt. 26=Mor. 261 e-262d; Liv. ii 15, 5-9). Sia nel 524 a. C. sia nel 504 a. C., gli antagonisti dei Cumani sembrano del tutto diversi dai T˘ÚÚËÓÔd ı·Ï·ÛÛÔηÙÚÔÜÓÙ˜ che attaccarono la colonia calcidese nel 474 a. C. L’analisi del dato dionigiano porta a ritenere che la minaccia tirrenica provenisse piuttosto dalle popolazioni dell’interno. Cfr. Giuffrida 1978, 193-195 e Luraghi 1994, 87-93. 127 Colonna 1980-81, 157-163 attribuisce all’avvenimento un significato «storico», poiché da quel momento inizia quella «politica italiana» che sarà incoraggiata da Siracusa. 128 Dion. Hal. Ant. Rom. vii 37, 3. Sull’episodio cfr. Scevola, 1969; Giuffrida 1983, 65.

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vertimento nei confronti di chi, nello stesso giro di anni, si sarebbe impegnato in una radicale opera di bonifica degli scali dell’isola129 da cui certamente tanto i Cartaginesi, quanto gli Etruschi uscirono fortemente penalizzati. La vittoria della coalizione siracusano-agrigentina nel 480 a. C. poi, non solo significò la sconfitta di Anassilao di Reggio e Terillo di Imera, ma inaugurò lo sfaldarsi di un’intesa tra Calcidesi e Punici di cui probabilmente fecero le spese anche gli Etruschi. Non possediamo notizie su una partecipazione etrusca alla battaglia di Imera, ma sappiamo per certo che il trionfo del Dinomenide rese l’area del Tirreno meridionale molto più permeabile e da lì in poi prima Gelone, ma in maniera decisamente più consistente Ierone, cominciarono a ricamare una serie di azioni politico-diplomatiche o di interventi militari che avrebbero rappresentato l’irrinunciabile premessa all’appello cumano del 474 a. C. Dopo Imera Degli interventi dei Dinomenidi nell’area del basso Tirreno si è già parlato, ma forse è opportuno ripercorrere cursoriamente le attività dei due fratelli nel dopo-Imera per cercare di comprendere meglio le ragioni, e soprattutto gli strumenti che consentirono una partecipazione allo scontro di Cuma. Già con la presenza geloniana a Ipponio, nella maniera ambigua di cui si è detto,130 il Dinomenide superava lo Stretto una volta messa fuori gioco la potenza anassilaide. Un ulteriore colpo alla tirannide reggina verrà poco dopo proprio dall’ultimatum di Ierone diretto a sventare l’assedio di Locri. Nei primi anni settanta del v secolo si assiste dunque al profilarsi di un fronte siracusano-locrese e allo sfaldarsi inesorabile delle coalizioni presenti a Imera. Perde vigore infatti non solo l’intesa punico-calcidese i cui contraccolpi furono avvertiti anche dalla talassocrazia etrusca, ma anche quella agrigentino-geloo-siracusana. L’episodio della fortificazione di capo Scilleo da parte di Anassilao costituisce un segno tangibile della fine di un’epoca e va collocato nel momento immediatamente successivo allo scontro di Imera,131 quando Reggio entra a pieno titolo nella sfera di influenza siracusana. Secondo Strabone Anassilao creò sul promontorio una stazione navale per impedire ai pirati tirreni di attraversare lo Stretto.132 È questo un provvedimento 129 Hdt. vii 158, 5. 131 Cfr. supra p. 84.

130 Cfr. supra p. 73. 132 Strab. vi 1, 5.

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estremamente significativo che va inserito nel quadro di insieme delle dinamiche politiche ed economiche nel basso e medio Tirreno e nell’area magnogreca. Ierone, che col suo matrimonio con la figlia di Anassilao sembra avere ereditato anche la vocazione tirrenica del fratello, con la sua politica della mano tesa nei confronti di Locresi e Sibariti doveva avere immaginato che le sue operazioni in Magna Grecia avrebbero avuto risvolti significativi anche sulle colonie dell’altro versante della penisola italica. Locri all’inizio del v secolo aveva iniziato la sua espansione su Temesa.133 I contraccolpi della conquista si fecero sentire anche a Terina, l’unica colonia tirrenica di Crotone, che intorno al 480 a. C. comincia a battere autonome serie monetali.134 Di lì a poco anche contro Crotone Ierone avrebbe sferrato il suo attacco. E non è escluso che nella politica di Ierone dei primi anni settanta fossero coinvolte anche le isole Eolie. L’allusione di Epicarmo alla contesa ReggioLocri proprio in un’opera intitolata Isole può far pensare che gli abitanti dell’arcipelago esercitassero una discreta attività di controllo sullo Stretto mirata non solo contro i Tirreni, ma anche contro la stessa polis calcidese.135 A questo quadro può aggiungersi il venir meno dell’intesa Siracusa-Agrigento a causa della crisi tra Dinomenidi ed Emmenidi il cui risultato fu forse, come abbiamo ipotizzato, l’ingresso della stessa Imera nella sfera di influenza siracusana. La città costituiva un osservatorio privilegiato sul Tirreno ed esercitare una qualsivoglia forma di controllo politico su di essa equivaleva ad ottenere un nuovo e significativo progresso sulle rotte tirreniche. Ricapitolando: tra il 480 e il 470 la tirannide siracusana aveva stabilito una rete se non di controllo quanto meno di relazioni più o meno vincolanti con alcune poleis del versante tirrenico:136 Imera, Zancle, Reggio, Ipponio e poi ancora Terina, Temesa, Lao, Scidro e Posidonia erano tutte città che in maniera diretta o indiretta erano state sfiorate o addirittura coinvolte nella politica siracusana, soprattutto dopo l’intervento a Sibari, la cui caduta nel 510 a. C. aveva contribuito a sconvolgere anche gli equilibri tirrenici.137 L’impegno di Ierone nei confronti di Sibari rispose a svariate istanze e servì a guadagnare alla causa siracusana anche forze non direttamente implicate nella questione 133 Cfr. Strab. vi 1, 5 135 Cfr. supra p. 75. 137 Rota 1973, 152-153.

134 Cfr. De Sensi Sestito 1981, 627. 136 Cfr. supra p. 73 e ss.

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achea, la cui collaborazione in seguito si sarebbe rivelata preziosa. Giovanna De Sensi Sestito138 ipotizza, tra l’altro, che fu proprio l’amica Posidonia a mediare l’accesso delle navi siracusane al golfo di Cuma, agevolando l’instaurarsi di quei legami con la città calcidese che avrebbero fatto da premessa all’intervento del 474 a. C. contro gli Etruschi e avrebbero consentito la permanenza poi degli uomini di Ierone sull’isola di Pithecoussa.139 La presenza siracusana nel medio Tirreno, sembra aver comportato, secondo la studiosa, un accrescimento della potenza di Posidonia a scapito di Elea, tradizionale alleata di Crotone di cui, sappiamo, tra l’altro, che condivideva la stessa ideologia pitagorica verso cui Ierone aveva mostrato una certa ostilità. Viste queste premesse, risulta più facile comprendere le ragioni dell’intervento siracusano in una zona frontaliera come quella del golfo di Cuma. E non deve stupire più di tanto il fatto che sia proprio Siracusa ad appoggiare una polis calcidese attaccata da Tirreni, sulla cui identità dalle fonti non emerge nessun dettaglio ma che alcuni studiosi hanno ritenuto di individuare nei Ceretani e negli abitanti dell’Etruria meridionale.140 L’ i nte rve nto s i r ac u s a n o a Cu m a : st r at e g i a e propaga n da Gli scontri del 480 a. C. e le conseguenze che ne seguirono determinano – in Occidente come del resto anche nella Grecia peninsulare – uno scompaginarsi delle intese, soprattutto di quelle con i “barbari”, sotto la pressione della politica militare e diplomatica di potenze come Siracusa, o anche le stesse Atene e Sparta. Sin dal primo biennio del suo governo Ierone appoggia palesemente la compagine dorica, pur non rinunciando a volgere la sua attenzione su aree di interesse ateniese.141 Il consenso accordato agli ambasciatori di Cuma aveva tutta l’aria di essere, almeno in un primo momento, un intervento occasionale utile però ad acquisire ulteriori punti nella partita tirrenica. Ottenere anche la riconoscenza dei Cumani sarebbe stato un risultato più che decoroso, paragonabile a quello, presumibilmente non troppo esaltante dal punto di vista militare, conseguito a Sibari. La vittoria navale contro gli Etruschi e il lavorio 138 De Sensi Sestito 1981, 635 e 637. 139 Sui legami tra Siracusa, Cuma e l’area del golfo di Napoli, cfr. Raviola 1995, 93-195. 140 Rota 1973, 156; Colonna 1980-1981, 168. 141 Cataldi 1990, 85 e ss.

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della propaganda dinomenide trasformarono poi la missione delegata alle triremi di cui parla Diodoro nella pronta risposta di un tiranno potente all’ennesima offesa dei “barbari”. A sorvegliare il golfo di Cuma, dopo la battaglia, Ierone inviò sull’isola di Pithecoussa una guarnigione di Siracusani sul cui destino ci informa Strabone: Ôî ÂÌÊı¤ÓÙ˜ ·Úa ^I¤ÚˆÓÔ˜ ÙÔÜ Ù˘Ú¿ÓÓÔ˘ ÙáÓ ™˘Ú·ÎÔÛ›ˆÓ âͤÏÈÔÓ Ùe ηٷÛ΢·ÛıbÓ ñÊ\ ë·˘ÙáÓ ÙÂÖ¯Ô˜ ηd ÙcÓ ÓÉÛÔÓ. Coloro che erano stati mandati da Ierone tiranno dei Siracusani abbandonarono l’isola e la fortezza da loro costruita. Strab. v 4, 9

È difficile ipotizzare dallo scarno dato straboniano la deduzione di una colonia vera e propria sull’isola. Al contrario, sembra più saggio ritenere che Ierone avesse preferito ricorrere in questa occasione ad una misura consueta e frequente nella lotta contro i Tirreni. Il ÙÂÖ¯Ô˜, allestito proprio in un punto strategico come una piccola isola, potrebbe ricordare una stazione navale analoga a quella voluta da Anassilao a capo Scilleo. Se è accettabile un’ipotesi di tal genere è facile allora immaginare quale grave colpo fosse stato assestato alla talassocrazia tirrenica nel 474 a. C., il cui controllo dei mari e l’accesso allo Stretto era ostacolato non solo dalla duplice barriera Pithecoussa-Scilleo, ma addirittura era reso meno agevole dalla presenza sulle coste tirreniche di una serie di città in qualche modo colluse con la politica siracusana. Il presidio siracusano di Pithecoussa, secondo quanto emerge dal testo di Strabone, ebbe vita brevissima; l’occupazione fu probabilmente limitata al solo periodo della tirannide di Ierone.142 Le parole del geografo consentono di intravedere l’intimo legame tra il Dinomenide e il gruppo di stanza nell’isola. L’abbandono della fortezza, attribuita da Strabone a pericolose esalazioni, ha il sapore di una fuga in piena regola che non può non essere messa in relazione con la fine della parentesi tirannica. È abbastanza verosimile che la guarnigione, una volta mutato l’assetto costituzionale della madrepatria, non si sentisse più al sicuro sull’isola o ritenesse esaurito il suo compito. Le considerazioni fin qui espresse portano inevitabilmente a riflettere sulla funzione attribuita alla stazione militare. Il controllo dell’isola poteva avere un carattere plurivalente: da un lato infatti serviva ad arginare le azioni di disturbo degli Etruschi e a limitare la loro capacità di accesso e di offensiva nel basso Tirreno; dall’altro poteva pre142 Cfr. Raviola 1995, 112.

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sentare anche un interessante risvolto strategico ed economico perché la posizione dell’isola consentiva di presidiare i traffici in transito nel golfo di Napoli. I messi di Ierone, inoltre, dovevano esercitare anche una certa pressione su Cuma, l’altra grande sconfitta del 474 a. C. La città, infatti, costretta a ricorrere all’aiuto di Siracusa, aveva dovuto accogliere – probabilmente obtorto collo – anche una presenza militare straniera nei propri territori, accettando tacitamente la nuova posizione di forza assunta dalla polis siceliota e quasi delegando agli uomini del tiranno il compito di sorvegliare i mari e di proteggere il loro territorio. Pithecoussa diventava così l’occhio di Ierone sulle vie del Tirreno: un’eredità che il principe lasciò a Siracusa che negli anni successivi si trovò in diverse occasioni a contrastare le scorrerie etrusche nei mari. Diodoro142 racconta infatti che nel 453 a. C. i Siracusani dovettero ancora una volta fronteggiare i corsari tirreni. In quell’occasione un tale Faillo – forse lo stesso atleta di origini crotoniate di cui si è già parlato – fu il navarco incaricato della missione, che si configurò come la prima vera aggressione greca in territorio tirrenico. Lo stratega però non portò avanti il suo compito con l’integrità e l’onestà necessaria e, una volta tornato a Siracusa, fu accusato di appropriazione indebita e giudicato colpevole di tradimento. Lo storico non nasconde una certa delusione da parte dei Siracusani per il mancato successo delle operazioni dello stratega. Il successore di Faillo, Apelle, al comando di sessanta triremi, continuò la missione e, dopo avere saccheggiato l’isola di Cirno e avere sottomesso l’Etalia, tornò in patria con una gran massa di prigionieri e un ingente bottino. L’invasione del territorio tirrenico da parte della Siracusa repubblicana sembra più consapevolemente articolato di quello del 474 a. C. Quando la città, negli anni cinquanta, viene nuovamente chiamata in causa contro i nemici di sempre ha alle spalle un prezioso background costituito proprio dalla politica dinomenide nell’area. Lo scarso successo della prima missione viene camuffato dalla fonte di Diodoro e attribuito alla disonestà di un comandante troppo avido. Quello che è interessante notare è che, dopo Cuma, i Siracusani sanno spingersi oltre: il presidio di Pithecoussa aveva dovuto svolgere anche la funzione di sonda militare e quando nel 453 a. C. Faillo e Apelle si avventurano nelle acque dell’alto Tirreno, dovevano avere una certa consapevolezza delle rotte e della capacità di reazione degli Etruschi se attaccati nel 142 Diod. xi 88.

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loro territorio. Per quanto di breve durata, il presidio degli uomini di Ierone sull’isola avrà costituito una vera e propria spina nel fianco per la marineria etrusca, senza contare che rappresentava quasi l’ultima frontiera della penetrazione dinomenide in ambito tirrenico. Per dirla dunque con Pindaro, Etna e Cuma furono i due avamposti estremi del potere ieroniano: frontiere ricche di promesse per il futuro della colonia corinzia. Ma il prestigio raggiunto dal Dinomenide con la vittoria sugli Etruschi dovette impensierire presto tante poleis occidentali: dopo il 474 a. C., come si è già visto, si registrano le reazioni da parte di Agrigento e Reggio – le altre due grandi protagoniste dei campi di Imera – all’accresciuto potere e alla politica estera del tiranno siracusano. Dei progetti bellici di Trasideo contro Siracusa si è già parlato; ma, nel 473 a. C., era stata la volta di Reggio che con la sua partecipazione al conflitto tarantino contro gli Iapigi aveva tentato di ritagliarsi uno spazio politico autonomo. Erodoto143 afferma chiaramente che i Reggini furono costretti da Micito, epitropos della città, a correre in aiuto dei Tarantini, ma lo scontro si risolse nella più grande strage dei Greci ricordata dallo storico. La versione diodorea144 non menziona Micito, però coincide nella sostanza con quella di Erodoto e sembra attribuire a Taranto l’iniziativa del coinvolgimento della polis calcidese nel conflitto. Se si riflette sui fatti del 474 a. C. e 473 a. C., che ebbero come protagoniste Siracusa e Reggio, non si può fare a meno di notare la specularità degli avvenimenti: nel primo caso è il tiranno di una città dorica a raccogliere l’appello di una polis calcidese minacciata dai “barbari”; nel secondo caso viceversa una polis di solidissima tradizione dorica, anch’essa sotto la pressione di popolazioni barbare, si lascia aiutare dalle truppe del reggente della calcidese Reggio. Il primo episodio si risolve in un trionfo; il secondo in una disfatta. L’adesione di Reggio alla causa tarantina sembra un goffo tentativo di affiancarsi a Siracusa nella lotta contro i “barbari”, cercando forse di oscurarne la gloria o di condividerla. E quando Micito, qualche anno dopo, provò a emulare Ierone con la fondazione di Pissunte,145 il principe siracusano si affrettò a sollevarlo dal suo incarico. Non è un caso che, nel 467 a. C., alla corte di Siracusa venissero convocati proprio i figli di Anassilao, cognati di Ierone, affinché assumessero la posizione che spettava loro per “diritto di eredità”. 143 Hdt. vii 170. 144 Cfr. Diod. xi 52. 145 Diod. xi 59. Cfr. Nenci 1976, 719-738.

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La vittoria siracusana a Imera aveva offerto al Dinomenide la possibilità di esercitare sui giovani figli del tiranno reggino una pressione piuttosto forte. Diodoro parla chiaro quando dice che, durante il colloquio a Siracusa, egli ricordò loro i benefici resi da Gelone al padre (àÓÂÌ›ÌÓËÛΠÙɘ °¤ÏˆÓÔ˜ ÁÂÓÔ̤Ó˘ Úe˜ ÙeÓ ·Ù¤Ú· ·éÙáÓ ÂéÂÚÁÂÛ›·˜).146 Quello che Ierone poteva aspettarsi dai cognati è che, in virtù del loro legame e soprattutto del loro debito di riconoscenza con la dinastia siracusana, si ponessero sulla stessa scia tracciata dal padre dopo il 480 a. C., e accettassero di proseguire la politica di non-opposizione e di “sostegno” a Siracusa. Ma il destino della tirannide siracusana era scritto nella malattia di Ierone ed egli fece appena in tempo a imporre il suo diktat ai delfini di Anassilao e a festeggiare, nel 470 a. C., la vittoria sui “barbari” prima di lasciare, dopo la sua morte (467 a. C.) Siracusa all’arbitrio e alle rivolte che segnarono il drammatico epilogo della tirannide dinomenide. Il trionfo cumano, come si è detto più volte, venne affiancato alle celebrazioni per la fondazione di Etna e fu proprio la vittoria ai giochi pitici del 470 a. C. a consentire al tiranno di presentare in ambito panellenico una Siracusa al pieno della sua potenza. M e mo r i e d i no me ni d i ne i s a n t ua r i pa n e l l e n i c i Gli anni che seguono il trionfo di Cuma rappresentano il momento d’oro della tirannide di Ierone, giunto dopo un periodo di intensa attività militare e diplomatica volta a proseguire la politica del fratello, di cui aveva colto ogni intuizione e ogni suggerimento. La vittoria contro i Tirreni offrì al Dinomenide finalmente la possibilità di affiancarsi al fratello nella lotta al “barbaro”, e magari anche di superarlo. La richiesta di aiuto dei Cumani a Siracusa ebbe il valore di un vero e proprio riconoscimento alla politica dei Dinomenidi in ambito occidentale, ma la vittoria contro i Tirreni consentiva al principe di presentare se stesso e la sua città, a tutto il mondo greco, come colonna della Grecità d’Occidente. Se ancora c’è da interrogarsi sull’efficacia dell’intervento militare del 474 a. C. che certo non paralizzò i Tirreni per troppo tempo, pochi dubbi invece sussistono sull’eco che Ierone assicurò alla vittoria. A Olimpia, luogo di esposizione permanente delle memorie greche, il Siracusano lascia un ricordo tangibile della disfatta tirrenica: un 146 Diod. xi 66.

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elmetto etrusco la cui iscrizione147 riporta la dedica del Dinomenide e dei Siracusani hÈ¿ÚÔÓ ï ¢ÂÈÓÔ̤ÓÂÔ˜ ηd ÙÔd ™˘Ú·ÎfiÛÈÔÈ ÙÔd ¢d T˘Ú¿Ó àe K‡[Ì·˜]. Ierone il Dinomenide e i Siracusani a Zeus le spoglie dei Tirreni da Cuma SEG xxiii 1968, 253

La vittoria sui Tirreni viene dunque presentata in ambito panellenico anche come un successo di un’intera cittadinanza impegnata nello sforzo comune contro il “barbaro”. A Delfi poi Ierone dedica, in ossequio alla migliore tradizione ellenica, i donari di cui resta ancora traccia. Elio Lo Cascio, nel suo studio sui tripodi dei Dinomenidi,148 avanza l’ipotesi che, dopo la battaglia di Cuma, Ierone si impegnò in una risistemazione del complesso monumentale dedicato dal fratello al santuario di Apollo, dopo Imera. Le fonti infatti attribuiscono a Gelone la dedica di un tripode d’oro e di una Nike d’oro. Diodoro149 sostiene che il tripode era del valore di 16 talenti, ma non menziona la Nike. La notizia della dedica di entrambi gli oggetti è contenuta in Ateneo che, a sua volta, riporta le affermazioni contenute nel quarantesimo libro delle Filippiche di Teopompo e confermate da Fania di Ereso, senza tuttavia fare alcun accenno al valore.150 Ateneo inoltre aggiunge – continuando a citare Teopompo – che Gelone offrì il tripode e la Nike ad Apollo nel tempo in cui Serse marciava contro la Grecia (ηıã ÔR˜ ¯ÚfiÓÔ˘˜ •¤Ú͢ âÂÛÙÚ¿ÙÂ˘Â Ù” ^EÏÏ¿‰È), 147 Meiggs-Lewis 29 e Hansen 1990, 498. Un secondo elmetto etrusco è stato rinvenuto sulle rive dell’Alfeo, la cui iscrizione si differenzia da quella citata solo nell’ultima linea: ÙÔÈ ¢d T˘ÚÚ·ÓÔÓ àe K‡[Ì·˜] e un terzo ritrovato, sempre a Olimpia, nel letto del fiume Cladeo che riporta una dedica del tutto simile alla precedenti (cfr. SEG xxxiii 1968, 328). Anche Gelone aveva lasciato a Olimpia un ricordo della sua vittoria sui “barbari” in un tesoro, curiosamente definito da Pausania dei Cartaginesi, in cui si trovavano uno Zeus e tre corazze di lino (Paus. vi 19). Sui problemi che pone questo passo del Periegeta Maddoli-Nafissi-Saladino 20032, 320 e Pettinato 2004. 148 Cfr. Lo Cascio 1973-1974, 246-255. Parzialmente coincidenti con le conclusioni di Lo Cascio sono quelle di Zahrnt 1993, 353-390 a cui si rimanda per lo status quaestionis. Sui tripodi dei Dinomenidi cfr. anche Gras 1985, 690-692 e più recentemente Harrell 2002 e Ead. 2006, 125-133. 149 Diod. xi 26, 7. 150 Athen. vi 19 (231f- 232b); Theopomp. FGrHist. 115 F 114.

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e che Ierone fece lo stesso (Ùa ¬ÌÔÈ·).151 Il Ùa ¬ÌÔÈ· con cui viene sintetizzato il gesto del Dinomenide non può che alludere alla stessa tipologia di doni dedicati a Delfi e non all’occasione. Infatti, come precisa più avanti l’erudito scrittore, Ierone ï ™˘Ú·ÎfiÛÈÔ˜ si rivolse ad un uomo facoltoso di Corinto, un tale Architele, per reperire l’oro con cui costruire gli oggetti, barattando grossi quantitativi di grano. Evidentemente Ateneo si riferisce ad una dedica posteriore del tiranno, giacché, al tempo della spedizione di Serse, egli era al governo di Gela e non avrebbe potuto essere definito Siracusano. Secondo gli scholia recentia a Pindaro,152 Gelone dedicò tre tripodi ad Apollo, uno per se stesso e due per i fratelli (àÓ·ıÂd˜ Ù† \AfiÏψÓÈ ≤Ó· ÌbÓ ‰È\ë·˘ÙeÓ, ‰‡Ô ‰b ‰Èa ÙÔf˜ à‰ÂÏÊÔ‡˜). Quanto a Ierone il riferimento letterario è un po’ meno preciso ma certo non trascurabile. Bacchilide in uno degli epinici dedicati a Ierone, ricorda il luccicare dei tripodi davanti al tempio a Delfi.153 Il dato archeologico sembra confermare, almeno parzialmente, quello letterario: sulla sommità della via Sacra a Delfi e non lontano dall’ex voto di Platea sono stati ritrovati due piedistalli campaniformi di calcare nero che poggiano su due basi quadrangolari accostate, poco differenti l’una dall’altra. Tutto il complesso insiste su un basamento comune costituito da un doppio strato di blocchi quadrangolari non squadrati anch’essi in pietra calcarea. I due piedistalli recanti ciascuno sui plinti due iscrizioni sono stati concordemente identificati con quelli che sostenevano i tripodi dei due Dinomenidi. Nell’iscrizione di sinistra è chiaramente leggibile il nome di Gelone come il testo della dedica ad Apollo e il nome dell’artista. Nessuna menzione però è fatta della vittoria appena conseguita a Imera.154 In quella incisa sulla base di de151 La sincronia tuttavia tra le dediche di Gelone e la spedizione del re persiano contro la Grecia è piuttosto sospetta e potrebbe lasciare intendere che il Dinomenide in realtà rese omaggio a Delfi prima che la lotta greca contro i Persiani andasse a buon fine, cioè quando il santuario manteneva un atteggiamento filopersiano. La notizia, inserita nei libri siciliani delle Filippiche di Teopompo (cfr. a questo proposito Diod. xvi 71 e i chiarimenti di Westlake 1954, 289), può essere stata in qualche modo tratta dall’opera di Erodoto (di cui sappiamo che lo storico di Filippo redasse un’epitome) in cui si allude ai rapporti di Gelone con una Delfi filopersiana (cfr. Souda s.v. £ÂfiÔÌÔ˜ Adler ii, 698, 172; Hdt. vii 163-164 e Flower 1994, 160-165). L’interesse di questi intellettuali vicini alla corte macedone per le dinastie siracusane era rivolto in primo luogo alla casata dei Dionisii. Cfr. Sordi 1986. 152 Schol. rec. in Pind. Pyth. i 151-154, p. 450, 16-18 Abel. 153 Bacch. Ep. iii 18-21. Cfr. Gentili 1953, 199-208. 154 °¤ÏÔÓ ï ¢ÂÈÓÔ̤Ó[ÂÔ˜] àÓ¤ıÂΠÙçfiÏÏÔÓÈ ™˘Ú·fiÛÈÔ˜ ÙeÓ ÙÚ›Ô‰· ηd ÙbÓ

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Fig. 4. Trepiedi dei Dinomenidi. Piano di elevazione (disegno di A. Martinaud, tratto da Courby 1927, p. 297, Fig. 197).

stra è possibile intuire solo il nome del dedicante ovvero quello di Ierone (Fig. 4). Nell’area a sinistra delle due basi inoltre è stato rinvenuto un piedistallo di dimensioni inferiori ma dello stesso materiale e della stessa forma – poco consueta a Delfi – degli altri due. Un altro piedistallo – stavolta più grande del precedente – sempre della stessa forma è stato ritrovato a Sud del tempio. Questi due piedistalli anepigrafi sono staN›ÎÂÓ âÚÁ¿Û·ÙÔ B›ÔÓ ¢ÈÔ‰fiÚÔ ˘îe˜ MÈϤÛÈÔ˜. Gelone figlio di Dinomene il Siracusano dedicò ad Apollo, fece il tripode e la vittoria Bione, figlio di Diodoro di Mileto. Meiggs-Lewis 28. Cfr. Lo Cascio 1973-1974, 247; Gras 1985, 692.

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ti riconosciuti come quelli che sostenevano gli altri due tripodi ascrivibili agli ultimi Dinomenidi. Un epigramma conservato nell’Antologia Palatina attribuito a Simonide ma tradito, negli scolii a Pindaro, come anonimo e in una forma riveduta e corretta, conferma la dedica di un tripode da parte di tutti i Dinomenidi: Gelone, Ierone, Polizelo e Trasibulo. La prima versione parla però di un unico tripode e ne ricorda il peso e il costo.155 La seconda versione è identica alla precedente nei primi due distici – pur ricordando la dedica di più tripodi e non di uno soltanto – e praticamente riecheggia i versi di Pindaro, non solo nel ricordo della vittoria contro i popoli “barbari” che significò la libertà per i Greci, ma soprattutto nell’attribuzione della vittoria a tutti i figli di Dinomene.156 Segno questo che l’epigramma – attribuibile o meno a Simonide – conserva già una traccia di quel processo, voluto senza dubbio da Ierone, di togliere a Gelone l’esclusiva del trionfo di Imera distribuendone la gloria tra tutti i figli di Dinomene. Ed è questo un processo che può essere stato avviato solamente dopo il trionfo di Cuma, quando anche Ierone può dire, per bocca di Pindaro, di avere strappato la Grecia da un grave servaggio (^EÏÏ¿‰ã âͤÏÎˆÓ ‚·Ú›·˜ ‰Ô˘Ï›·˜).157 E se è vero che il principe intervenne a Delfi solo dopo Cuma, allora altrettanto valida sarebbe la supposizione che l’impegno militare a fianco dei Calcidesi non fruttò ai Siracusani grandi entrate, dal momento che il tiranno fu costretto, come si è già visto più volte, a ricorrere all’aiuto finanziario del corinzio Architele. Delle dediche dei Dinomenidi nei santuari panellenici si tornerà a parlare, per ora quello che è opportuno sottolineare è che la vittoria del 474 a. C. diede una forte spinta a quel processo di affiancamento di Cuma a Imera, di Ie155 ºËÌd °¤ÏˆÓ\, ^I¤ÚˆÓ·, ¶Ôχ˙ËÏÔÓ, £Ú·Û‡‚Ô˘ÏÔÓ, ·Ö‰·˜ ¢ÂÈÓÔ̤Ó¢˜, ÙeÓ ÙÚ›Ô‰\ àÓı¤ÌÂÓ·È âÍ ëηÙeÓ ÏÈÙÚáÓ Î·d ÂÓÙ‹ÎÔÓÙ· Ù·Ï¿ÓÙˆÓ ¢·ÚÂÙ›Ô˘ ¯Ú˘ÛÔÜ, ÙĘ ‰Âοٷ˜ ‰ÂοٷÓ. Proclamo che Gelone Ierone Polizelo Trasibulo, figli di Dinomene hanno consacrato questo tripode di cento libbre e cinquanta talenti d’oro, decima della decima Anth. Pal. vi 214. I codici portano la lezione ¢ÈÔ̤Ó¢˜, corruzione di ¢ÂÈÓÔ̤Ó¢˜. 156 ºËÌd °¤ÏˆÓ\, ^I¤ÚˆÓ·, ¶Ôχ˙ËÏÔÓ £Ú·Û‡‚Ô˘ÏÔÓ, ·Ö‰·˜ ¢ÂÈÓÔ̤Ó¢˜ ÙÔf˜ ÙÚ›Ô‰·˜ ı¤ÌÂÓ·È, ‚¿Ú‚·Ú· ÓÈ΋۷ÓÙ·˜ öıÓË, ÔÏÏcÓ ‰b ·Ú·Û¯ÂÖÓ Û‡ÌÌ·¯ÔÓ ≠EÏÏÂÛÈÓ ¯ÂÖÚ\ ☠âÏ¢ıÂÚ›ËÓ. Proclamo che Gelone Ierone Polizelo Trasibulo, figli di Dinomene, dedicarono questi tripodi avendo vinto i popoli barbari, e fornirono ai Greci in guerra un grande contributo per la libertà. Schol. Pind. Pyth. i 152. Sulla funzione dei donari dei Dinomenidi cfr. Gauthier 1966, 12-13; Lo Cascio 1973-1974, 246255; Galvagno 2000, 49-59; Harrell 2002, 439-464. 157 Pind. Pyth. i 75 (Trad. B. Gentili).

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rone a Gelone e soprattutto di Siracusa alle grandi poleis che in Grecia fronteggiarono i Persiani. Quel che è ancora più curioso è il fatto che Pindaro nei versi che analizzeremo nelle prossime pagine sembra addirittura voler promuovere un quanto mai spericolato parallelismo tra Cuma e Salamina.158 La battaglia navale combattuta al largo di Pithecoussa però non era, e non sarebbe mai potuta essere una nuova Salamina, semplicemente perché Cuma non era Atene e la minaccia etrusca non era nemmeno lontanamente paragonabile a quella rappresentata dalla pericolosissima invasione persiana del 480 a. C. Questo non impedì a Ierone di utilizzare la sua lotta contro gli Etruschi come un lasciapassare per salire in extremis sul carro dei vincitori prima che la storiografia si cristallizzasse e desse soltanto ad un paio di città la patente di filellene e condannasse le altre come filopersiane. E sappiamo che Gelone, con il suo rifiuto agli ambasciatori spartani, aveva messo a serio rischio la credibilità di Siracusa e della sua lealtà alla causa ellenica.159 Il progetto era arduo e piuttosto impegnativo ma forse non è impossibile ricostruirne la genesi. Il principe, come è già stato messo in rilievo, invitò alla sua corte – e non a caso – proprio i cantori ufficiali del trionfo ellenico e incitò Eschilo a rappresentare i Persiani a Siracusa. L’interesse nei confronti del dramma eschileo, opera-simbolo della resistenza ellenica contro il “barbaro” è abbastanza comprensibile. L’obiettivo da raggiungere era forse quello di fornire ai Siracusani gli strumenti per un’adeguata percezione dell’entità del pericolo a cui i Dinomenidi li avevano sottratti. In fin dei conti, i Sicelioti non avevano dovuto subire, come i Greci della madrepatria, il terrore di essere per ben dieci anni il bersaglio principale di una potenza qual era l’impero achemenide. I Cartaginesi inoltre non li avevano sottoposti a quella stessa guerra di nervi, anzi l’intervento punico a Imera fu più il risultato di un impasse nei rapporti tra le poleis greche d’Occidente che un’aggressione in piena regola. Pertanto per rendere più efficace e credibile la propaganda panellenica e antibarbarica dei Dinomenidi occorreva infondere un analogo senso di pericolo e di sgomento nella comunità siracusana. Ma i Persiani, oltre a essere la tragedia dello sventato pericolo “barbaro”, è soprattutto il dramma della disfatta dei Medi e, di conseguenza, l’inno alla gloria ateniese. Eschilo narra, con il tono mesto dei nemici sconfitti, la “favola bella” del coraggio e dell’ardore ateniese 158 Cfr. infra p. 225.

159 Cfr. infra p. 228.

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capace di contrastare e umiliare la potenza achemenide. Prevedibili erano i sentimenti che Ierone si aspettava di suscitare nei suoi sudditi: solidarietà con i confratelli elleni esposti a un pericolo troppo grande, ma soprattutto spirito di emulazione e desiderio di condividere in qualche modo la gloria raggiunta da Atene. E non è difficile leggere in questa operazione un certo antagonismo e forse anche il tentativo di contendere alla polis attica, non solo orizzonti espansionistici, ma anche motivi propagandistici di sicuro impatto. Predisposti dunque in tal modo gli animi dei Siracusani, fu la volta di Pindaro a cui Ierone affidò un compito ancora più oneroso, quello cioè di assimilare tutte le recenti vittorie contro il “barbaro” in un componimento che è anche un epinicio in onore di tutta la Grecità impegnata a difendere la propria autonomia. A poeti come Bacchilide160 poi il principe richiese il ricordo della sua eusebeia e della sua generosità nei confronti dei luoghi di culto panellenici.161 E dalle odi commissionate dopo il 474 a. C. venne fuori l’immagine di un basileus che, non solo era diventato un punto di riferimento per la Grecità occidentale, ma che ai suoi confratelli aveva offerto un prezioso contributo e soprattutto un sostegno finalmente incondizionato alla causa ellenica. Sull’elaborazione e diffusione di questa immagine Ierone aveva lavorato con impegno insieme ai poeti del suo circolo per tutta la durata del suo governo. Nei versi della Pitica i purtroppo però aleggiava già lo spettro sinistro della malattia del tiranno,162 ma Ierone fece appena in tempo a realizzare i suoi obiettivi. Nasceva in quel momento infatti, e proprio alla corte siracusana, uno dei topoi letterari più riusciti e abusati della storiografia ellenica: quello delle simmetriche corrispondenze tra trionfi orientali e occidentali.163 Da qui in poi orientarsi nella selva dei parallelismi diventa un’impresa, e altrettanto difficile è scoprire il meccanismo sotteso all’accostamento tra le varie battaglie. Resta dunque da scoprire come lo scontro di Salamina o quello delle Termopili164 possano essere state affiancate a Imera e soprattutto in che modo Cuma sia potuta diventare una nuova Salamina. 160 Bacch. Ep. iii. 162 Pind. Pyth. i 51-55. 164 Diod. xi 24.

161 Cfr. infra 216 e ss. 163 Cfr. infra 225 e ss.

LA CORTE DI IERONE: STORIA E RAPPRESENTAZIONE

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IL CIRCOLO DI IERONE Str at e g i a e Selbstdarstellung

N

on si sbagliava Erodoto quando affermava che, quanto a magnificenza (megaloprepeia), nessuno dei tiranni greci era degno di essere paragonato a Policrate all’infuori dei signori di Siracusa.1 La percezione dell’affinità di grandezza tra le due tirannidi doveva essersi determinata nel pensiero degli antichi proprio dall’immagine che di sé i signori di Samo e di Siracusa tendevano a diffondere all’estero. Diversi, e, in qualche modo, determinati dalle circostanze, furono i canali a cui i Dinomenidi affidarono la costruzione e l’affermazione del proprio prestigio. Come si è visto nelle pagine precedenti gli esordi di Ierone sul trono siracusano non furono certo facili, ma le sue reazioni alle difficoltà dei primi anni di governo furono militarmente mirate e soprattutto propagandisticamente articolate. In quegli anni il Dinomenide si ritrovò a dovere raccogliere la pesante eredità del suo predecessore e a fare i conti con lo scenario storico-politico determinato dalla vittoria sui Cartaginesi. Le realtà di cui il nuovo principe di Siracusa dovette tenere conto furono da un lato – in Occidente – il perdurare, incerto e vacillante, dei regimi tirannici di Agrigento e di Reggio, l’instabilità dell’area achea e del Tirreno meridionale e dall’altro – al di là dello Ionio – il tramonto delle tirannidi e l’affermarsi delle poleis che avevano appena trionfato sui Persiani. A tutto ciò si aggiungevano le questioni di carattere dinastico che minavano la solidità della tirannide siracusana. Per adeguarsi alle nuove dimensioni dell’orizzonte politico internazionale ed affermare la legittimità della propria autorità, egli si servì di strumenti quanto mai differenziati in relazione alle circostanze e alle aree di intervento. Al di là delle considerazioni di carattere strategico e militare, alla luce delle quali può leggersi la parentesi di governo di Ierone, una particolare attenzione deve essere rivolta alla rappresentazione che il tiranno diede di sé e del proprio potere negli anni in cui restò al governo e le ricadute che tale rappresentazione ebbe poi sull’immagine storiografica che di Ierone ci restituiscono le fonti. Un’immagine tutt’altro che 1 Hdt. iii 125, 2.

182 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e monolitica e nitida, anzi complessa e cangiante nel tempo, di cui si tenterà di ricostruire l’evoluzione a partire proprio dai meccanismi che lo stesso Ierone attivò per accrescere il suo prestigio e la sua visibilità. Due furono essenzialmente i contesti privilegiati in cui aveva luogo la celebrazione della grandezza del signore: da un lato quello più ampio e internazionale rappresentato dall’orizzonte panellenico dei giochi, in cui il ricordo degli straordinari successi atletici del sovrano veniva affidato o alle parole di esperti professionisti della parola, quali Pindaro o Bacchilide, o alle abili mani di artigiani di fama incaricati di celebrare con un monumento le vittorie del sovrano; dall’altro quello più ristretto ma certo non limitato della corte siracusana, fucina di intellettuali in cui venivano elaborati i temi più cari alla pubblicistica tirannica. Non era raro che questi due sistemi entrassero in qualche modo in conflitto con ripercussioni, per quanto ci riguarda, sia sull’intellegibilità delle reali intenzioni della committenza, sia sulla valutazione che della tirannide di Ierone diede la storiografia successiva. Ag oni s mo e t i r a n n i de Il legame tra agonismo e tirannide è la cifra caratterizzante le poleis occidentali. Ierone poi, con le sue frequenti partecipazioni ai giochi e le odi commissionate per celebrarle detiene, un autentico record.2 Ma cosa significava esattamente per un Greco gareggiare in occasione degli agoni panellenici e cosa in particolare per un tiranno? I giochi erano essenzialmente un’occasione imperdibile per esibire la propria identità ellenica e questo è ancora più vero per i Greci delle colonie occidentali il cui legame con Olimpia e anche con Delfi è attestato abbastanza precocemente.3 Le poleis di Sicilia e Magna Grecia non svilupparono mai centri di culto paragonabili a quelli della madrepatria, né occasioni di festa così periodicamente strutturate. Il motivo è probabilmente da ascrivere alla modalità stessa di acquisizione territoriale tipica della colonizzazione occidentale, in cui ogni contingente, suddiviso il territorio in lotti, pianificava direttamente la ripartizione in aree civiche e aree urbane, provvedendo ciascuno per sé all’edificazione di santuari urbani e rurali così come di agorai o di necropoli.4 Per questo motivo le cele2 Cfr. Tav. 2 infra p. 185. Per una sintesi delle odi dedicate ai tiranni d’Occidente Antonaccio 2007, 265-268. 3 Lévêque 1996, 1123-1124; Hansen 2004, 107. 4 Antonaccio 2007, 270-273.

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brazioni panelleniche, soprattutto quelle olimpiche, rappresentavano l’ambito privilegiato per le poleis della Grecità d’Occidente per dichiarare il legame con la terra d’origine, senza con ciò compromettere la propria indipendenza. Inoltre lo scenario dei santuari panellenici offriva volta per volta uno spazio neutro di confronto con le altre poleis occidentali, estraneo e lontano dai territori coloniali spesso oggetto di contese e di scontri.5 Per i tiranni però Olimpia e Delfi rappresentavano qualcosa di più che uno spazio adeguato all’esibizione della propria identità. Tanto più che se di esibizione di identità si vuole parlare, nel caso dei Dinomenidi in particolare abbiamo a che fare con identità multiple. Come dimostrano le iscrizioni sui donari e gli epinici, i Dinomenidi si presentarono nei santuari panellenici dichiarando ora l’appartenenza alla polis (nel caso di Ierone a Siracusa ma anche ad Etna), ora il patronimico o il legame familiare, se per esempio facciamo riferimento alle iscrizioni e agli epigrammi che accompagnarono la dedica dei tripodi a Delfi.6 Tuttavia anche per i tiranni occidentali la partecipazione ai giochi rappresentava un’occasione unica per acquisire autorità e prestigio ed elevare se stessi al di sopra dei concittadini.7 Competere per loro comportava spese, lunghi viaggi e grandi investimenti per celebrare eventualmente la vittoria. Un dispendio di risorse che, se andava a buon fine, si traduceva in una gloria per la città d’origine e doveva alimentare, in un meccanismo di reciprocità, la fiducia dei cittadini nel charisma e nell’eccezionalità del loro sovrano. Naturale corollario dell’impegno atletico del tiranno era la commissione di epinici in cui i poeti celebravano la gloria del vincitore e l’edificazione di monumenti lasciati a futura memoria nei santuari. Entrambe le forme di commemorazione erano particolarmente funzionali alla Selbstdarstellung del vincitore. L’epinicio era il naturale complemento della vittoria e aveva come funzione precipua quella di reintegrare, mediando l’acquisizione del trionfo, il vincitore in una comunità d’origine spesso costituita da componenti eterogenee e attraversata da interessi e spinte confliggenti.8 L’elogio tendeva a costruire 5 Morgan 1993, 20. 6 A questo proposito cfr. Antonaccio 2007, 285. 7 Per una definizione dei giochi come “sistemi di prestigio” cfr. Douglas 2007, 391-408. Sul legame tra aristocrazia e atletismo e per un’indagine su chi concretamente conseguisse la vittoria per i sovrani Nicholson 2005. Sull’agonismo sportivo in Grecia Pleket 1996. 8 Sulla funzione dell’epinicio cfr. le riflessioni di Kurke 1991, 6 che sottolinea co-

184 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e il prestigio dell’atleta, sottolineando gli elementi di straordinarietà e di eroismo che ne avevano reso possibile la vittoria. Nel caso dei tiranni poi l’ode era uno strumento privilegiato – seppure di efficacia temporanea – per ristabilire un’aura di consenso attorno a sé all’interno della comunità su cui egli governava.9 Ierone vinse tre volte a Delfi e tre a Olimpia. Il ricordo dei suoi exploit equestri nel santuario dell’Elide è conservato da Pausania che, nel vi libro della sua Periegesi,10 descrive il monumento voluto dal tiranno siracusano e concretamente realizzato dal figlio in memoria del padre, probabilmente proprio per perpetuarne il successo sportivo.11 Si trattava di un carro di bronzo con un uomo sopra, opera di Onata di Egina, affiancato da cavalli da corsa con dei fanciulli, creati dall’artista Calamide. L’epigramma di accompagnamento con la dedica a Zeus Olimpio che Pausania menziona altrove,12 stabilisce chiaramente il legame tra i trionfi sportivi del sovrano, elencati per ordine di importanza, e il favore di cui esso godeva presso la divinità che Ierone intendeva con questo monumento contraccambiare. ÛfiÓ ÔÙ ÓÈ΋۷˜, ZÂÜ \OχÌÈÂ, ÛÂÌÓeÓ àÁáÓ· ÙÂıÚ›Å ÌbÓ ±·Í, ÌÔ˘ÓÔΤÏËÙÈ ‰b ‰›˜, ‰áÚ· ^I¤ÚˆÓ Ù¿‰Â ÛÔÈ â¯·Ú›ÛÛ·ÙÔØ ·Ö˜ ‰ã àÓ¤ıËΠ¢ÂÈÓÔ̤Ó˘ ·ÙÚe˜ ÌÓÉÌ· ™˘Ú·ÎÔÛ›Ô˘ Per le vittorie un tempo conseguite, O Zeus Olimpio, nel tuo sacro agone Una volta con la quadriga, due volte con il cavallo da corsa Ierone ti concesse questi doni: li dedicò il figlio Dinomene a ricordo del padre siracusano.13 Paus. viii 42, 9 (Trad. M. Moggi)

Il primo di questi successi olimpici fu celebrato sia da Pindaro sia da Bacchilide, mentre il compito di cantare la vittoria più prestigiosa, quella conseguita per ultima, nel 468 a. C. con la quadriga, fu affidato al solo poeta di Ceo che compose per quella occasione l’Epinicio III. Entrambi i lirici furono chiamati a celebrare anche i trionfi pitici del siracusano, come risulta dal quadro sinottico della Tav. 2 che può aiume esso rappresenti lo spazio di negoziazione di quello che Pierre Bourdieu chiama il capitale simbolico ovvero quel grado di prestigio e di fama che sono riconosciuti a una famiglia o a un nome (p. 36). Cfr. Bourdieu 2009 (trad. it), 144. 09 McGlew 1993, 49. 10 Paus. vi 12, 1. 11 Visa-Ondarçuhu 1999, 102 12 Paus. viii 42, 8-9. Su questa iscrizione cfr. Zizza 2006, 328-332. 13 Mann 2001, 242.

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tare a visualizzare le occasioni in cui Ierone e i personaggi del suo entourage parteciparono ai giochi, la disciplina e le odi che ne conservano il ricordo. Partec i pa n t e

O cca s i on e

D i s ci pl i na

Data

E p in icio

Gelone

Olimpia

Quadriga

488 a. C.14

_

Ierone

Delfi

Corsiero

482 a. C.15

_

Polizelo

Delfi

Quadriga

478 a. C. o 474 a. C.?16

_

Ierone

Delfi

Corsiero

478 a. C.17

_

Ierone

Olimpia

Corsiero

476 a. C.18

PindaroOlimpica i BacchilideEpinicio v 19

Cromio Etneo (Siracusano)

Nemea

Quadriga

476/5 a. C.?20

PindaroNemea i

Ierone

Delfi

Corsiero

474/3 a. C.?

PindaroPitica iii?21

14 Paus. vi 9, 4. Cfr. Moretti 1957, 84 n. 185. 15 Schol. Pyth. i metr. 5. 16 Cfr. supra pp. 58-59. 17 Schol. Pyth. i metr. 5. Cfr. Mann 2004, 249 n. 826. 18 Moretti 1957, 90 n. 221. 19 Sull’attribuzione della Olimpica i e dell’Epinicio v ai giochi del 476 a. C. cfr. rispettivamente Mann 2001, 249 n. 825 e Catenacci 2006, 197. Krummen 1990, 161 e n. 161 fa slittare la dedica dell’ode pindarica al 472 a. C. individuando nella figura di Pelope cantato nell’epinicio come heros ktistes una sorta di alter ego di Ierone già fondatore di Etna. 20 Nell’ode Cromio viene indicato come Etneo il che implica come terminus post quem per la composizione dell’ode l’avvenuta fondazione di Etna. L’esecuzione dell’epinicio sembra però avere avuto luogo di fronte al palazzo di Cromio a Siracusa anzi a Ortigia (vv. 1-5), segno che il cambio di residenza non era ancora avvenuto. Sulla datazione della Nemea i Carey, 1981, 104 e per un’interpretazione dell’ode Catenacci 2006, 193-195. Sulla modalità della perfomance e per un’analisi della tipologia di audience della Nemea i cfr. Morrison 2007, 23-39. 21 L’ode non sembra essere stata composta per una vittoria pitica in particolare. Anzi è stata definita piuttosto un’epistola consolatoria scritta al sovrano secondo alcuni (Duchemin 1970, 81; Gentili 1995, 75) per confortarlo per la sua malattia. Wilamowitz-Moellendorff 1922, 283 riteneva invece che il componimento volesse invece consolare il sovrano per una mancata vittoria ai giochi pitici. Recentemente questa ipotesi è stata ripresa da Cuscunà 2004-2005, 28-29. Per lo status quaestionis sulla cronologia e sull’occasione cfr. ancora Young 1968, 27; Robbins 1990, 307-318; Cingano 1991b, 97-104; Currie 2005, 344-345.

186 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e Partec i pa nt e

O cc a s i one

D i s c i plina

Data

Cromio di Etna

Nemea

Quadriga

474 a. C.

Ierone

Olimpia

Corsiero

472 a. C.23

E p in icio PindaroNemea ix 22 _

Ierone

Delfi

Quadriga

470 a. C.24

Pindaro-Pitica i e hyporchema (F 105a Maehler) BacchilideEpinicio ivEncomio (F 20c Maehler)25

Ierone

Delfi?

Quadriga

468 a. C.?26

Pindaro-Pitica ii

Ierone

Olimpia

Quadriga

468 a. C.27

BacchilideEpinicio iii

Agesia di Siracusa

Olimpia

Carro trainato da muli

468 a. C.

PindaroOlimpica vi

Tav. 2. Ierone e il suo entourage ai giochi panellenici.

Int e l l ettual i e pote r e : i p r e c e de n t i Pindaro e Bacchilide però non furono i soli a cantare la grandezza del principe di Sicilia. La corte di Ierone era un contesto ancor più vivace e dinamico in cui anche altre personalità furono chiamate a incontrarsi e scontrarsi fra loro. Durante gli undici anni del dominio di Ierone,28 Siracusa divenne una delle capitali della cultura del mondo greco e addirittura una valida antagonista di Atene.29 22 Sulla Nemea ix, cfr. Copani 2005, 651-676. 23 Moretti 1957, 234. 24 La datazione della i Pitica al 470 a. C. è concordemente accettata (cfr. Gentili 1995, 9-10). Una proposta di datazione al 474 a. C. è stata avanzata da Brodersen 1990, 25-31. 25 Cingano 1991a, 31-34. 26 La datazione di quest’ode è piuttosto controversa, ma gli studiosi sono propensi a ritenere che debba essere riferita alla vittoria conseguita ai giochi pitici da Ierone nel 470 a. C., o più verosimilmente nel 468 a. C. Cfr. Gentili 1995, 43 e ss. 27 Moretti 1957, 246. 28 Diod. xi 38, 7. 29 Anche Tucidide (Thuc. vii 28, 3) riconosceva nel v secolo che Siracusa non era affatto inferiore ad Atene.

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Ma già in precedenza la tirannide aveva esercitato una funzione fortemente stimolante per la produzione artistica e letteraria. Diversi furono, infatti, i precursori di Ierone, i tiranni mecenati del vi secolo, la cui esperienza storica può aiutarci ad individuare le norme che regolavano la relazione principe-poeta per riuscire, magari procedendo per confronti e analogie, a portare luce sulla figura di un signore, le cui gesta sono confuse e a tratti oscurate dal ricordo ingombrante di suo fratello.30 Quella del pagamento era una delle variabili più significative della relazione tra intellettuale e potere e bisogna tenerne conto per scoprire quanto il compenso fosse condizionante e quanto effettivamente la musa di questi letterati fosse mercenaria.31 La commercializzazione del proprio lavoro intellettuale, soprattutto da parte di lirici itineranti era una pratica abbastanza diffusa tra il vi e il v sec.,32 ed era frutto di una vera e propria rivoluzione che insieme alla crisi delle aristocrazie, al fiorire delle ultime tirannidi da un lato e all’affermarsi della polis democratica dall’altro, aveva visto anche il passaggio da una fase di economia pre-monetaria a quella monetaria.33 In questo contesto il lavoro del poeta, a cui era riconosciuta un’importantissima funzione di mediazione tra il committente e l’audience, si andava sempre più professionalizzando. È naturale dunque che tiranni e aristocratici si rivolgessero a “tecnici specializzati” che rappresentassero i loro interessi di fronte alla comunità di riferimento, fosse essa civica o panellenica. A rivoluzionare in maniera decisiva la relazione tra poeta e signore sembra essere stato, secondo la tradizione, Simonide.34 Il poeta di Ceo venne per così dire “ingaggiato” da Ipparco per svolgere una ben precisa funzione: 30 Per un’analisi delle relazioni tra i lirici greci e i tiranni arcaici Podlecki 1980, 371-395 e Weber 1992, 25-77. 31 Il concetto di musa amante del denaro e mercenaria viene fuori dal proemio della Istmica ii di Pindaro, in cui il poeta allude proprio alla produzione poetica dietro compenso. 32 Hdt. iii 121. 33 Kurke 1991, 260. 34 Così sostengono i commentatori antichi della Istmica ii (Schol. Pind. Isthm. ii 9a) che vedevano nell’espressione musa mercenaria (MÔÖÛ· ÊÈÏÔÎÂÚ‰‹˜) un’implicita allusione a Simonide che aveva inaugurato questa prassi del pagamento. La stessa espressione, stavolta con chiaro riferimento al poeta di Ceo, si ritrova in uno dei Giambi di Callimaco (F 222 Pfeiffer) che al contrario rivendicava il carattere assolutamente puro e incorruttibile della sua poesia. Per una rilettura critica dell’Istmica ii e per un’analisi sociale del concetto di musa mercenaria Kurke 1991, 240-241.

188 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e ηd âã \AÓ·ÎÚ¤ÔÓÙ· ÙeÓ T‹ÈÔÓ ÂÓÙËÎfiÓÙÔÚÔÓ ÛÙ›Ϸ˜ âÎfiÌÈÛÂÓ Âå˜ ÙcÓ fiÏÈÓ, ™È̈ӛ‰ËÓ ‰b ÙeÓ KÂÖÔÓ àÂd ÂÚd ·ñÙeÓ Âr¯ÂÓ, ÌÂÁ¿ÏÔȘ ÌÈÛıÔÖ˜ ηd ‰ÒÚÔȘ ›ıˆÓØ Ù·ÜÙ· ‰ã âÔ›ÂÈ ‚Ô˘ÏfiÌÂÓÔ˜ ·È‰Â‡ÂÈÓ ÙÔf˜ Ôϛٷ˜, ¥Óã ó˜ ‚ÂÏÙ›ÛÙˆÓ ùÓÙˆÓ ·éÙáÓ ôÚ¯ÔÈ… inviata una nave ad Anacreonte di Teo lo condusse in città, convincendo anche Simonide di Ceo con grandi ricompense e doni a restare sempre presso di sé: faceva tutto questo perché voleva educare i cittadini, affinché potesse così governare sui migliori. Plato, Hipparc. 228 c

L’obiettivo era dunque l’educazione dei cittadini, utile affinché il tiranno potesse governare gente eccellente; si trattava quindi di una forma di propaganda con evidenti risvolti sociali e funzionale proprio alla solidità della tirannide. La fama di Simonide raggiunse, qualche tempo dopo, anche l’Occidente e le sue prestazioni erano talmente richieste che egli poteva permettersi di selezionare le più convenienti.35 Nel v secolo poi, quando in Grecia la prassi dei componimenti su commissione era diventata ormai una realtà, gradualmente, i rappresentanti delle élites poleiche si sostituirono a principi e monarchi nel ruolo di committenti, rivolgendosi ai professionisti della parola, perché celebrassero le gesta di questo o di quell’oikos sempre a prezzo di lauti compensi. Gli scolii alla Nemea v di Pindaro dedicata all’aristocratico egineta Pitea,36 intorno al 485 a. C., raccontano che i familiari del vincitore affidarono al poeta di Cinoscefale la composizione di un epinicio e che quest’ultimo chiese loro tremila dracme: … öÊ·Û·Ó âÎÂÖÓÔÈ Î¿ÏÏÈÔÓ ÂrÓ·È ¯¿ÏÎÂÔÓ àÓ‰ÚÈ¿ÓÙ· ÔÈÉÛ·È Ùɘ ·éÙɘ ÙÈÌɘ j Ùe Ô›ËÌ·. ¯ÚfiÓÅ ‰b ≈ÛÙÂÚÔÓ ÁÓˆÛÈÌ·¯‹Û·ÓÙ˜ â·ÓÉÏıÔÓ Ùe ·éÙe ‰È‰fiÓÙ˜…

35 Le fonti sono prodighe di particolari sull’avidità di Simonide (cfr. Aristoph. Pax 698 e Athen. xiv 73, 14). Secondo i commentatori di Pindaro (Schol. Isthm. ii 6) egli fu il primo a comporre canti dietro compenso. La tradizione ricorda molti episodi accaduti proprio alla corte di Ierone, testimonianza del rapporto esclusivo tra il tiranno e il poeta di Ceo (Aristot. Rhet. ii 1391 a). Sull’avidità di Simonide Bell 1978, 41. 36 Hdt. ix 78. I familiari di Pitea dovevano avere un certo debole per i canti celebrativi se richiesero anche a Bacchilide un epinicio per la stessa vittoria (cfr. Bacch. Ep. xiii). Pindaro inoltre compose le Istmiche v e vi in onore di Filacida, fratello di Pitea, vincitore nel pancrazio. Sul rapporto tra Pindaro e l’aristocrazia eginetica cfr. Burnett 2005.

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…quelli risposero che era meglio fare una statua di bronzo dello stesso valore del poema, ma poi avendo cambiato opinione ritornarono indietro e pagarono il prezzo… Schol. Pind. Nem. v 1a 37

Qui il prezzo viene imposto dallo stesso Pindaro. A tirarsi indietro sono gli stessi proponenti che ripiegano sull’alternativa di commissionare una statua di bronzo prima di risolversi a concludere il contratto con Pindaro. Un contratto in piena regola dunque, che non ammetteva deroghe e in cui poco gradite erano le dilazioni, come era avvenuto nel caso dell’Olimpica x dedicata al figlio di Archestrato al quale Pindaro doveva un carme composto poi in ritardo.38 Inoltre il ritardo, cui Pindaro cerca di rimediare, potrebbe dare il senso della mole di lavoro che aveva un lirico di quei tempi. Tale insistenza sull’aspetto economico della questione può lasciar presupporre anche un pagamento anticipato al momento della stipula del contratto e prima della composizione del carme. Il contratto però doveva prevedere anche alcune clausole limitative nel rispetto della dignità professionale dell’ingaggiato.39 Il passo pindarico appena citato mostra inoltre come, anche dopo la fine delle tirannidi, gli strumenti di controllo e manipolazione della cultura rimanessero sostanzialmente gli stessi. Il sistema era quello sperimentato dalle tirannidi arcaiche e allo stesso modo aristocratici facoltosi o intere comunità cittadine cominciarono a esercitare una funzione di stimolo, ma anche di controllo della cultura o dell’arte, servendosi di alti compensi per fare in modo che la produzione letteraria fosse orientata verso i sentieri della propaganda ritenuti più fecondi. Ma se i tiranni crearono attorno a sé una corte in cui gli artisti potessero raccogliersi come in un cenacolo culturale e in cui le direttive della propaganda venivano stabilite dal sovrano, nell’ambito della polis gli intellettuali potevano aderire al programma di un determinato gruppo sociale o celebrare un tema gradito a tutta la comunità civica. 37 Lo scolio potrebbe essere costruito però con procedimento autoschediastico. 38 Pind. Ol. x 1-3. Tracce di un lessico economico sono state individuate in quest’ode: cfr. Campagner 1988, 77-93. 39 Pindaro ce ne dà conferma nel frammento 205 Maehler, in cui il poeta invoca la Verità sovrana, principio di grande virtù, affinché il suo accordo non si scontri contro l’aspra menzogna (\AÚ¯a ÌÂÁ¿Ï·˜ àÚÂÙĘ, / üÓ·ÛÛ\ \AÏ¿ıÂÈ·, Ìc Ù·›Û–˜ âÌ¿Ó / Û‡ÓıÂÛÈÓ ÙÚ·¯ÂÖ ÔÙd „‡‰ÂÈ. ). Un inno alla verità il cui compito era quello di regolare il già difficile rapporto tra le parti. Cfr. a questo proposito Gentili 1995, 185 e 225.

190 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e L a co rte s ir ac u s a na Quello appena descritto era, per sommi capi, il panorama culturale greco all’inizio del v secolo: un network vivace di artisti pronti a viaggiare da Oriente a Occidente e capaci di celebrare – purché profumatamente compensati – con grande disinvoltura, il tiranno, come l’aristocratico o l’istituzione cittadina. In Sicilia invece, la relazione potere-cultura seguì un’evoluzione diversa, per certi versi più lenta, per altri più complessa. Per i primi anni del v secolo l’arte a pagamento fu esclusivo appannaggio dei tiranni e dei personaggi del loro entourage. Ma, se i sovrani di Agrigento furono “fanatici consumatori” di epinici,40 Ierone, dal canto suo, rappresentò un singolare punto di intersezione tra le diverse esperienze che abbiamo analizzato, non limitandosi alla commissione di odi, ma portando avanti un progetto più ambizioso. Dai tiranni arcaici, infatti, il Dinomenide ereditò il modello della corte ma cercò di avvicinarsi nei contenuti e nelle forme di comunicazione all’universo delle poleis, diventate ormai temibili antagoniste delle tirannidi occidentali. Salito al potere nel momento di massimo splendore delle città greche, Ierone aveva davanti a sé modelli immediatamente più vicini, come Gelone o Terone, ma anche personaggi come Policrate o Ipparco che furono i pionieri e gli audaci sperimentatori del ruolo della cultura nella politica. I tempi però erano cambiati e le poleis greche, uscite dal confronto col “barbaro”, parlavano un linguaggio del tutto nuovo, diverso da quello dei sovrani sicelioti. Due erano le strade che Ierone doveva percorrere: quella già battuta dai tiranni occidentali di perseguire una politica orientata verso il controllo del territorio e la tutela degli equilibri di potere con le altre forze in gioco; e quella di promuovere un progetto di più ampio respiro ispirandosi ad un paradigma dinastico immediatamente riconoscibile anche dall’orizzonte poleico della penisola, che era quello del sovrano mecenate i cui successi atletici e il cui prestigio erano celebrati dai più grandi poeti del tempo. Tirannidi e strutture poleiche peninsulari viaggiavano certo su binari paralleli e l’unico modo per avvicinare realtà così profondamente diverse era per Ierone quello di proporsi quale “gemello” di una figura di sovra40 Pindaro dedicò a Terone le Olimpiche ii e iii e un Encomio (F 118-119 Maehler), a Senocrate la Pitica vi e l’Istmica ii.

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no già presente nella memoria dei Greci, non rinnegando il suo status di tiranno, ma certo non sottolineandolo e rendendolo così più tollerabile. Soprattutto era necessario adeguarsi al nuovo codice di comunicazione, sfruttando gli stessi canali e le stesse frequenze utilizzate dalle poleis greche. Furono proprio le circostanze storiche, seguite al tracollo dei “barbari” in Oriente e in Occidente, e le difficoltà dei primi anni di governo a fornire al principe siracusano la chiave per regnare con un discreto equilibrio tra il sistema incerto e zoppicante delle tirannidi occidentali e l’effervescente universo delle città greche e per far fronte all’opposizione interna che aveva tentato di far vacillare il suo trono. Del resto, se i suoi predecessori favorirono l’azione degli intellettuali per creare una cultura alternativa a quella aristocratica, l’esigenza di Ierone era soprattutto quella di ottenere un consenso a livello insulare e internazionale. In questa direzione andrà il suo cammino politico e sulle tappe di questo percorso indagheremo nelle prossime pagine. Prenderemo quindi le mosse dalla composizione della corte del tiranno,41 che è forse il dato storico più significativo che possediamo, per cercare di capire sia le ragioni precise che lo spinsero a fare di Siracusa un cenacolo di artisti e lirici di fama internazionale, sia il tipo di relazione che legava il tiranno ai suoi poeti. Il modello della corte di artisti che si riunivano attorno ad un signore, certi di ricevere in cambio cospicue ricompense, era nato in Egeo. In ambito siceliota, la relazione arte-potere venne riproposta con un certo ritardo rispetto alle tirannidi d’oltremare, anzi sembra proprio che il mecenatismo fosse più una peculiarità dei tiranni della madrepatria. Ierone ne intuì i vantaggi e le molteplici possibilità e ne fece una realtà dai caratteri macroscopici. La tradizione in proposito 41 L’attitudine a riunire attorno a sé una corte di artisti e di intellettuali provvedendo al loro sostentamento o compensando adeguatamente le loro prestazioni si manifesterà poi nei sovrani di iv secolo. Sappiamo che Dionisio il giovane offrì delle somme di denaro a Platone che lui rifiutò (Plut. Dion. xix 3). Il tiranno si adoperò allora nei confronti dell’incorruttibile filosofo coprendolo di premure e onori. Non così corretti si mostrarono gli amici intimi di Platone tra cui Elicone di Cizico che ricevette un talento d’argento per l’esatta previsione di un’eclisse (Plut. Dion. xix 6). Più o meno analoga la prassi utilizzata a Cipro da Nicocle che avrebbe compensato l’oratore Isocrate con venti talenti in cambio di un’orazione (Plut. Vita decem orat. =Mor. 838a). E la storia successiva porta altri esempi di intellettuali legati al potere da vincoli economici, basti pensare ad Agatocle e Callia (cfr. Diod. xxi 17, 4). Cfr. Gentili 1983 70-72.

192 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e è prodiga di notizie e ci ha trasmesso i nomi di coloro che gravitarono attorno al tiranno di Siracusa: Pindaro, Simonide42 e Bacchilide43 non furono i soli. A loro si aggiunsero personaggi come Eschilo,44 Epicarmo45 e poi ancora Senofane46 e forse anche Frinico47 di cui si può ipotizzare una presenza in Sicilia. Una concreta adesione al potere pare venisse anche dall’oratore siracusano Corace, il cui intervento può collocarsi sia nell’ultima fase della tirannide dinomenide, sia nella parentesi democratica seguita alla cacciata dei tiranni.48 Particolare attenzione poi Ierone doveva aver riservato anche alle arti figurative se allo scultore reggino Pitagora furono commissionate opere per personalità di spicco del suo entourage,49 e probabilmente anche la realizzazione di statue per conto del ti42 Athen. xiv 73, 14. I tentativi di Podlecki 1979, 5-16 di negare fiducia alla tradizione che vede spesso Simonide al fianco di Ierone sembrano poco convincenti. Sul rapporto tra il principe e i poeti cfr. Von Wilamowitz-Moellendorff 1901, 1273-1318; Lefkowitz 1981, 49-74; Svarlien 1994. 43 Schol. Pind. Pyth. ii 97 e 131 b. 44 Aesch. Vita viii; xviii; Plut. Cim. viii 9. Sui viaggi di Eschilo in Sicilia cfr. supra p. 141, n. 44. 45 Plut. Reg. et imp. apophth.= Mor. 175c. Aristotele (cfr. Arist. Poet. 1449 b) ricorda accanto ad Epicarmo anche un certo Phormis, ma definisce sia l’uno sia l’altro autori di favole (su un Phormis alla corte dei Dinomenidi cfr. anche Paus. vi 27, 1). Secondo la Suda esisteva a Siracusa un tale Phormos (Souda s.v. ºfiÚÌÔ˜ Adler iv 652, 608) poeta comico, contemporaneo di Epicarmo, parente di Gelone e precettore dei suoi figli. Da queste notizie è possibile dedurre che una scuola di poeti comici si fosse formata a Siracusa e verosimilmente intorno ad Epicarmo e alla corte di Ierone. Cfr. Guardì 1980, 34. 46 Plut. Reg. et imp. apophth. =Mor. 175c; Clem. alex. Strom. I 14, 64. 47 Non è possibile sottoporre a verifica la notizia della presenza di Frinico in Sicilia al tempo di Ierone. Essa si basa sulla testimonianza contenuta in un anonimo trattato sulla commedia greca (cfr. De comoed. Graeca p. 8 lin. 36 Kaibel), dove si dice per l’appunto che il poeta morì in Sicilia. Sebbene non sia supportata da altro tipo di documentazione, la notizia assume un rilievo del tutto particolare, soprattutto se si riflette proprio sulla produzione del tragediografo di v secolo, tutta incentrata – come quella di Eschilo – su temi contemporanei e di bruciante attualità. Cfr. Culasso Castaldi 1986, 155 e Guardì 1980, 36-37. 48 Le testimonianze relative a Corace sono state raccolte da Radermacher 1951, B ii, p. 28. Il retore è ricordato non solo per avere tentato di orientare il popolo durante il periodo della tirannide, ma la sua opera insieme a quella di un altro siciliano, Tisia, è messa in connessione da Aristotele (citato da Cicerone in Brutus 46) anche con la ripresa dell’attività giudiziaria dopo la caduta dei tiranni, quando fioccavano i processi voluti dai cittadini per rivendicare le confische del tempo dei tiranni. A questo proposito cfr. l’introduzione alla Retorica di Aristotele di Montanari 1996, i-xix e Gagarin 2007, 30-31. 49 Da Paus. vi 13, 1 sappiamo che Pitagora di Reggio eseguì una statua proprio per quell’Astilo di Crotone di cui si è già parlato, cfr. supra p. 90.

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ranno stesso.50 Per quasi tutti è testimoniata l’esistenza di un rapporto diretto con il principe o con persone molto vicine a lui. Per la verità la sensazione che si ha, analizzando la composizione del circolo di Ierone, è che il tiranno abbia provveduto ad un’intensa e consapevole attività di reclutamento, riuscendo ad attirare nella propria orbita quanto di meglio ai tempi offriva il panorama artistico greco. La documentazione inoltre, anche in questo caso, non lascia spazio a dubbi sull’esistenza di un rapporto di tipo economico tra il principe e i poeti che godettero della sua ospitalità. Per esempio, il rapporto di Simonide con il Dinomenide sembra essere stato meramente retributivo.51 Solo Senofonte, nel dialogo di cui parleremo più avanti, propone un’immagine del poeta ben lontana da quella del poeta avido e senza scrupoli che emerge dalle altre fonti.52 Secondo la tradizione aneddotica però, la vita del poeta a corte doveva essere abbastanza confortevole se, come possiamo dedurre da un passo di Ateneo, che cita il filosofo peripatetico Cameleonte, il tiranno ospitava Simonide alla sua tavola e provvedeva quotidianamente (ηı\ìμ¤Ú·Ó)53 al fabbisogno dell’ospite, tanto che egli poteva permettersi di tenere una piccola parte per sé e di vendere il resto. Ma la residenza a corte doveva essere d’altro canto discretamente vincolante per un artista abituato a viaggiare e a celebrare più committenti. Sarà proprio per questo motivo che Pindaro, alla domanda sul perché Simonide si fosse trasferito presso i tiranni di Sicilia e lui invece non volesse, rispondeva: perché voglio vivere per me stesso e per nessun altro.54 La risposta secca del poeta è inequivocabile e permette di comprendere più o meno l’idea che in Grecia gli artisti dovevano essersi fatta delle corti siceliote e di coloro che le frequentavano, dando tra l’altro il senso di quanto potesse condizionare il rapporto con i principi di Sicilia. Perché poi Pindaro avesse cambiato idea e fosse partito per la Sicilia è difficile dirlo, ma non è da escludere che la musa mercenaria abbia avuto un suo peso determinante. Restando lontano da Siracusa, infatti, il poeta poteva dedicarsi alla celebrazione di più committenti, che 50 L’ipotesi è di Nenci 1991, 134 che sulla base di un passo di Plinio (Plin. N.H. xxxiv 59) in cui si ricorda la presenza a Siracusa di una statua di un personaggio claudicante riconducibile a Filottete, opera di Pitagora di Reggio, suppone la presenza di un culto dell’eroe a Siracusa e mette la notizia in relazione con il passo pindarico (Pind. Pyth. i 51-55) in cui Ierone è paragonato al mitico zoppo. Cfr. infra p. 203 e ss. 51 Cfr. supra p. 187. 52 Cfr. infra p. 233 e ss. 53 Athen. xiv 73. 54 Vita Ambr. p. 3, 20.

194 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e il più delle volte avevano idee politiche differenti, ed evitare di dare l’esclusiva della sua arte al solo tiranno di Siracusa.55 È proprio Pindaro del resto a dichiarare nella Pitica II, dedicata al tiranno di Siracusa, di inviargli il componimento come merce fenicia (ÊÔ›ÓÈÛÛ·Ó âÌÔÏaÓ),56 offrendoci peraltro una testimonianza preziosa di quanto lontano potesse arrivare la committenza e di quanto facile fosse la diffusione di encomi per i sovrani. A questo punto è opportuno però tirare le fila di questo discorso e trarre qualche conclusione. La presenza di intellettuali alla corte dei tiranni aveva una tradizione abbastanza solida, come abbiamo visto. Ierone pare essere stato sistematico nel suo rivolgersi agli intellettuali d’oltremare, ricompensando le prestazioni richieste. D’altra parte, è un fatto che l’epinicio in particolare fosse ormai nel v secolo una merce con un prezzo di mercato e un valore intrinseco. Leslie Kurke ha individuato, inoltre nell’impeto che sostiene la performance dell’epinicio, l’effetto di una sorta di “controrivoluzione” da parte dell’aristocrazia che, soffocata dalle leggi suntuarie, cercava nuovi spazi di esibizione del proprio prestigio.57 Un’ipotesi quest’ultima che si adatta particolarmente al caso di Ierone, il quale si trovava a fare i conti con una legislazione, ratificata dallo stesso Gelone, che vietava i funerali sfarzosi.58 Ma se la corte di Ierone costituiva un polo d’attrazione per poeti come Simonide o Pindaro, per i quali rappresentava anche una potenziale fonte di guadagno, nello stesso tempo vi era chi, come l’ateniese Eschilo, aveva visto nella Sicilia soprattutto una via di fuga.59 La collaborazione del tragediografo fu particolarmente caldeggiata dal tiranno che lo ingaggiò affinché rimettesse in scena a Siracusa i Persiani,60 rappresentati qualche tempo prima ad Atene. Il gesto di Ierone si presta ad una duplice chiave di lettura; da un lato offriva al poeta ateniese una possibilità di riscatto che gli era stata negata nella madrepatria; e dall’altro riusciva ad attirarlo nella sua sfera di influenza ottenendone la composizione delle Etnee,61 e quindi il supporto e la partecipazione 55 Cfr. Svenbro 1980, 209-211. 56 Pind. Pyth. ii 68. 57 Kurke 1991, 258-259. 58 Diod. xi 38. Cfr. anche Brugnone 1992, 19. 59 Una notizia contenuta nella Vita di Eschilo viii riferisce che Eschilo abbandonò Atene perché si sentiva maltrattato dai suoi concittadini che avevano preferito l’opera di Simonide per i caduti di Maratona alla sua. 60 Schol. Aristoph. Ran. 1028; cfr. anche Cataudella 1964-65, 371-398. 61 Cfr. supra p. 140-141.

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ad una delle operazioni di propaganda politica e militare più efficaci che il principe avesse concepito. Certo, però, è quanto meno curioso che a corte venisse invitato proprio un personaggio che la tradizione ricorda anche come pitagorico,62 vista e considerata l’avversione che probabilmente Ierone nutriva nei confronti del pitagorismo di Epicarmo.63 La contraddizione può essere superata se si riflette sul fatto che tutte le fonti sembrano portare nella direzione dell’esistenza di rapporti prevalentemente bilaterali tra il principe e i suoi artisti. Fatta eccezione per Simonide e Bacchilide – legati fra loro da una stretta parentela64 – non sembra che i poeti si sentissero parte dello stesso organismo, anzi al contrario erano spesso antagonisti fra loro.65 Non godevano poi dello stesso prestigio presso il principe né avevano le stesse responsabilità e vi era inoltre chi era più inserito nell’entourage del tiranno e chi lo era meno. Ierone infatti probabilmente affidò compiti e responsabilità diverse ai poeti che gravitavano a corte. La massiccia richiesta di epinici doveva essere indirizzata ad un circuito politico internazionale e quindi ad una propaganda rivolta all’estero. Non deve dunque stupire che la commissione di tali componimenti avvenisse talora per corrispondenza come deve essersi verificato nel caso della Pitica II di Pindaro.66 L’attività di altri poeti presenti alla corte del Dinomenide era invece verosimilmente finalizzata piuttosto ad una forma di propaganda destinata all’ambito siceliota, come nel caso di Eschilo ospitato a Siracusa proprio nell’occasione della rappresentazione dei Persiani, dramma il cui argomento politico risultava particolarmente congeniale alle esigenze della tirannide siracusana. Per Eschilo però non sembra di potere ricavare dalle fonti che la forza della musa mercenaria avesse avuto un peso preponderante nel suo trasferimento in Sicilia.67 Certo è un dato di fatto che tutti coloro che accettarono l’ospitalità del sovrano siceliota ricevettero dei vantaggi, ma con questo non si vuole necessariamente ridurre questi intellettuali a semplici portavoce del principe. Una discreta opposizione, al contrario, serpeggiava anche alla corte di Ierone, ma sembra venisse dal sovrano più o meno tollerata. Le propensioni filopitagoriche di Eschilo pare non costituissero una diffi62 64 65 66

Cic. Tusc. ii 10, 23. 63 Cfr. supra p. 97. Strab. x 5, 6; Souda s.v. B·Î¯˘Ï›‰Ë˜ (Adler i 449, 59). Sull’antagonismo fra i poeti della corte di Ierone cfr. Catenacci 2006, 190-192. Cfr. supra p. 194. 67 Cfr. supra p. 194 n. 59.

196 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e coltà per l’ingaggio. E questo dato stimola ad indagare l’altra faccia della medaglia, per tentare di ricostruire la natura dell’opposizione al tiranno che poi, come vedremo, influenzerà anche l’elaborazione storiografica sul Dinomenide. Alcune fonti ci trasmettono un’immagine abbastanza vivace della corte di Ierone, dove era consentito un discreto margine di libertà e dove certo non si pretendeva il diritto all’esclusiva. Ricordiamo, infatti, il rifiuto di Pindaro – di cui si è già detto68 – di recarsi in Sicilia, oppure lo scambio di battute tra Ierone e il poeta Senofane registrato da Plutarco. In questa occasione al poeta che si lamentava di riuscire a stento a nutrire i suoi due schiavi, Ierone rispose: Quell’Omero che tu tanto ridicolizzi, ne nutre più di diecimila, pur essendo morto (àÏÏã ≠OÌËÚÔ˜ã ÂrÂÓ, ^nÓ Ûf ‰È·Û‡ÚÂȘ, Ï›ÔÓ·˜ j Ì˘Ú›Ô˘˜ ÙÚ¤ÊÂÈ ÙÂıÓËÎÒ˜).69 L’allusione è evidentemente rivolta all’aspetto retributivo dell’attività rapsodica, probabilmente una delle mansioni richieste alla corte del tiranno siceliota, ma che Senofane invece si ostinava a biasimare indispettendo l’illustre uditorio e quindi precludendosi da solo la possibilità del compenso.70 L’episodio, che rappresenta un’ulteriore conferma del pagamento, si presta ad una duplice interpretazione. Senofane, infatti, nella sua produzione poetica portava avanti una critica serrata al mito, partendo dal presupposto che la narrazione mitologica non ha alcuno statuto di veridicità ma è una pura invenzione elaborata dagli antichi. La proposta del poeta era dunque quella di selezionare unicamente quei contenuti che fossero socialmente e moralmente edificanti, escludendo dalla materia poetica quelli invece relativi alle lotte tra gli dei e gli eroi che potevano rappresentare un modello negativo. Ma la polemica di Senofane coinvolgeva soprattutto l’antropomorfismo degli dei e condannava senza appello la visione di divinità soggette ai vizi e alle debolezze umane. Era una concezione profondamente destabilizzante in cui si può riconoscere, seppure a livello ancora embrionale, parte della dottrina platonica relativa alla funzione educativa del mito. Ma il ricorso a storie e personaggi tratti dalla mitologia era strumento essenziale per la celebrazione del sovrano e irrinunciabile se si voleva fare del grande mecenate di Siracusa un eroe coraggioso, un 68 Cfr. supra p. 193. 69 Plut. Reg. et imp. apophth. = Mor. 175c. Cfr. sulla polemica di Senofane Gostoli 1999. 70 Cfr. Gentili 1995, 215.

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basileus giusto ed eusebes e un ospite attento e generoso. Ed è anche dietro gli exempla mitici riletti alla luce della ricostruzione storica che sarà possibile individuare le tracce del programma politico di Ierone, come pure gli echi di un’opposizione interna che finì, alla lunga, per contaminare l’immagine del sovrano. La molla che spinse Ierone, a cercare il supporto nella lirica corale fu probabilmente proprio il desiderio di guadagnarsi il favore di chi non lo sosteneva. La situazione a Siracusa, infatti, non doveva essere facile se, secondo la rappresentazione che di quel periodo conserva Aristotele, egli fu costretto a mandare in giro per la città le cosiddette “donne investigatrici” (·î ÔÙ·ÁˆÁ›‰Â˜ ηÏÔ‡ÌÂÓ·È).71 La testimonianza del filosofo la dice lunga sul clima di complotto che regnava nella colonia corinzia e da cui Ierone era costretto a difendersi e anche Pindaro sembra averne lasciato una testimonianza nella Pitica ii. Una debole eco del regime spionistico a Siracusa, conseguenza forse della contesa con il fratello, è stata individuata anche nella commedia di Epicarmo E§¶I™ H ¶§OYTO™ ,72 quando il poeta fa riferimento a guardie notturne (peripoloi) che si aggiravano per la città punendo i vagabondi.73 Addirittura, secondo i Prolegomena di Ermogene retore,74 il tiranno aveva assolutamente proibito ai Siracusani di parlare, cosicché essi erano costretti ad esprimersi a gesti o con le mani oppure con i piedi, e i loro movimenti assomigliavano sempre di più a danze o a sciarade. A parte il sapore aneddotico della notizia, il motivo per cui il sospettosissimo Ierone sentisse l’esigenza di promuovere la sua immagine a dispetto della diffidenza generale, si comprende bene alla luce delle difficoltà interne sotto il cui segno si aprì il suo governo. 71 Arist. Pol. v 11, 1313b 14. 72 Epich. F 35 Kaibel. Cfr. Asheri 1992, 153. 73 Pind. Pyth. ii 76: il poeta accenna alla presenza a corte di persone che sussurrano (ñÔÊ¿ÙȘ) e invita il sovrano a guardarsi da costoro. Cfr. Gentili 1995, 53-54. 74 Walz 1968 iv, p. 11.

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IL TIRANNO E I SUOI POETI Ec hi d e l pro g r amma i e ron i a n o ne l la po e s i a d i v s e colo

U

n ’ evoluzione nel rapporto tra il Dinomenide e la cultura la si percepisce in un passo di Eliano, secondo cui il tiranno, inizialmente molto più rozzo (amousotatos) del fratello Gelone,75 divenne, a causa della sua malattia, colto e raffinato e in seguito chiamò alla sua corte poeti come Pindaro, Bacchilide e Simonide. Il retore attribuisce alla malattia che colpì il sovrano la metamorfosi, ma è facile immaginare che furono proprio gli eventi dei primi anni di governo a convincere Ierone dell’opportunità di “promuovere” le sue azioni politiche e militari. Abbiamo già sottolineato nei capitoli precedenti, volta per volta, i momenti in cui il Dinomenide si avvalse di un supporto propagandistico, ma forse ripassarli in rassegna aiuterà a comprendere meglio la complessità e la raffinatezza – per dirla con Eliano – del pensiero politico di Ierone. Non è un caso infatti che di ogni azione diplomatica e militare sia possibile rintracciare – prima o poi – qualche cenno nelle fonti letterarie o in opere celebrative che lo riguardano. Pensiamo ad Epicarmo, che Alfonso Mele ha definito, non a torto, l’«oppositore mascherato di Ierone»;76 egli, per quanto sospettoso nei confronti del suo sovrano, raccontò l’intervento diplomatico del tiranno a favore di Locri, nella sua opera Isole.77 E sempre a questo episodio che, in fin dei conti, rappresentò il battesimo della politica di Ierone al di là dello Stretto, fa riferimento la Pitica ii di Pindaro. I versi pindarici adombrano il ricordo della contesa tra Reggio e Locri e il felice intervento del Siracusano. L’epinicio però sembra riflettere una realtà storica in cui la tirannide siracusana è all’apice della sua potenza, pertanto il ricordo della “gratitudine delle vergini locresi”, che porta con sé quello della minaccia reggina, potrebbe adattarsi al rinnovato “espansionismo” promosso da Micito, tutore dei figli di Anassilao, con la fondazione di Pissunte nel 471 a. C.78 Richiamare alla mente, anche soltanto con poche parole chiave, la reazione siracusana all’attacco di Anassilao su Locri degli anni precedenti, poteva rappresentare una sorta di monito per i Reggini e un invito a non 75 Ael. VH iv 15. 77 Cfr. supra p. 75.

76 Mele 1982, 45. 78 Cfr. supra p. 84.

200 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e spingersi troppo oltre. Qualche tempo dopo però, Ierone passò letteralmente dalle parole ai fatti, chiamando a corte i figli di Anassilao e suggerendo loro di congedare l’ingombrante tutore.79 Ma l’episodio con cui Ierone inaugurò la sua attività di committente fu ovviamente la vittoria olimpica del 476 a. C. avvenuta in un momento di particolare difficoltà e crisi per Siracusa, impegnata, come si è visto, sul fronte agrigentino. Dell’importanza storica dei primi giochi olimpici successivi alla battaglia di Imera e di Salamina80 e del loro livello di risonanza internazionale, si è già discusso. In quell’occasione Ierone commissionò due epinici: uno a Pindaro e uno a Bacchilide.81 L’Olimpica i è una celebrazione dai toni apertamente trionfalistici della signoria di Ierone e del legame tra i Dinomenidi e Olimpia. Del principe siracusano Pindaro canta il suo essere giusto ed ospitale82 e già nei versi dell’epinicio è possibile cogliere quello che sarà un po’ il filo rosso della propaganda ieroniana e cioè il motivo della giustizia e quello un po’ più velato, almeno per noi, della legittimità della sua successione. Tutta l’ode è un inno al valore del principe e alla gloria che egli ha ottenuto nella prestigiosa sede di Olimpia. La sua vicenda è idealmente affiancata a quella dell’eroe Pelope che, in qualità di istitutore dei giochi e di atleta vincitore, rappresenta in qualche modo la controfigura ideale del sovrano. Il mito di Pelope però risulta depurato dagli aspetti negativi e ritoccato rispetto alla versione tradizionale.83 Secondo questa versione, infatti, Tantalo aveva imbandito agli dei le carni del figlio Pelope per metterne alla prova l’onniscienza. Tutti gli dei dell’Olimpo si rifiutarono di nutrirsi delle carni del fanciullo eccetto Demetra, che, distratta dal dolore per la perdita della figlia, si cibò della spalla. L’eroe smembrato fu poi ricostituito e riportato in vita, mentre la spalla mancante venne poi sostituita con una d’avorio, la cui lucentezza risplende fulgida nei versi pindarici.84 In questa occasione Pindaro dichiara programmaticamente di non 79 Cfr. supra p. 171. 80 Cfr. supra p. 98. 81 Cfr. Tav. 2. 82 Cfr. vv. 11 e 103. 83 Pind. Ol. I 53-58. Pindaro mantiene un decoroso riserbo sull’intervento di Mirtilo, il traditore di Enomao che sabotò il carro di quest’ultimo consegnando la vittoria a Pelope e con essa la mano di Ippodamia, Mann 2004, 263. Inoltre un diplomatico silenzio circonda la vittoria dell’eroe col carro a Olimpia, un gesto di delicatezza nei confronti di Ierone che in quella occasione aveva conseguito quella meno prestigiosa con il corsiero, cfr. Hurst 1984, 186-188. Per un’analisi puntuale del mito di Pelope nell’Olimpica I, Krummen 1990, 156-216. Sul rapporto tra Pelope e la Sicilia Griffith 1989. 84 Pind. Ol. i 40a.

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volere accettare il mito tradizionale.85 Al pasto cannibalico degli dei sostituisce così repentinamente il ratto dell’eroe da parte di Poseidone e la versione che voleva l’eroe squartato viene attribuita alla malevolenza di vicini invidosi e liquidata come una bestemmia. Il motivo della scelta del lirico di non aderire al racconto corrente del mito di Pelope è facile da intuire, se riflettiamo sul fatto che proprio Ierone era discendente di Teline di Gela che aveva a sua volta ottenuto il titolo di ierofante delle divinità ctonie,86 e inoltre proprio ai Dinomenidi si devono molti santuari, dedicati alle dee, in particolare a Gela, loro città di origine.87 Ierone inoltre portava nel suo nome un chiaro riferimento al sacerdozio delle dee.88 Pindaro, proponendo una versione alternativa del mito di Pelope, non fa che ristabilire una corretta relazione tra il Dinomenide sacerdote di Demetra e il santuario di Olimpia mausoleo dell’eroe.89 Il silenzio, infatti, sul ruolo della dea nella vicenda mitica di Pelope – ruolo che tra l’altro l’uditorio doveva conoscere e ricordare bene – è strumentale proprio all’esigenza di colmare il gap che poteva crearsi, forse solo al livello subliminale, tra i Dinomenidi e Olimpia, alla menzione della sua spalla d’avorio.90 Demetra non è nominata nei versi pindarici ma è evidentemente presente dietro la correzione del mito e nell’appello alla fecondità dell’isola su cui regna Ierone.91 Il poeta tebano dunque non fa che garantire un felice incontro tra Siracusa e il santuario panellenico. Il nesso tra queste due realtà sembra inoltre realizzarsi grazie a un moto biunivoco: al viaggio di Ierone, che dalla sua città si reca in Elide riportando con il favore degli dei la vittoria, corrisponde la corsa del fiume Alfeo, la cui menzione al v. 20, non poteva non riportare alla mente di chi ascoltava il ricordo delle sue 85 Pind. Ol. i 52-53. Sulla presa di posizione del poeta cfr. Vernant 20072, 201-202. 86 È stato ipotizzato che il ruolo di Teline nell’ambito del culto demetriaco sia stato disegnato ad hoc dalla propaganda dinomenide e plasmato sulla figura del tasio Tellis, raffigurato in una scena della leske degli Cnidi a Delfi, da Polignoto (cfr. Paus. x 25-31). L’operazione si rivelò un’arma a doppio taglio e produsse un effetto ridicolizzante la cui eco è rintracciabile proprio nel passo erodoteo sull’ambiguità di Teline. Giuffrida 2004, 157-174. 87 Hdt. vii 153. Secondo i commentarori di Pindaro Ierone era ierofante delle dee ctonie e di Zeus Etneo (schol. Pind. Ol. vi 158) e la sua famiglia aveva portato le insegne delle dee dal Triopio (schol. Pind. Pyth. ii 27b). 88 Luraghi 1994, 327. 89 Pind. Ol. i 92. 90 Pind. Ol. i 27. 91 L’interesse di Ierone a stabilizzare la sua autorità e il suo controllo sul territorio ponendo il suo regno sotto la protezione di Demetra è stato recentemente messo in rilievo da Vassilaki 2007, 205-223.

202 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e acque che si narrava passassero sotto il mare Ionio, senza mescolarsi ad esso, per poi riemergere per l’appunto a Siracusa.92 Si comprende così la grande forza celebrativa dell’epinicio in un contesto, come quello dei giochi panellenici, in cui le più grandi poleis dell’epoca si mettevano, per così dire, in vetrina e si scontravano su un terreno diverso rispetto a quello consueto delle lotte politiche o dei campi di battaglia. Il prestigio delle città o del tiranno era leggibile nel numero e nella tipologia delle vittorie conseguite. Non è un caso che Pindaro, al termine sempre della prima Olimpica, congedandosi da Ierone, si auguri di potere cantare un altro trionfo del principe, questa volta col carro da corsa. Era quest’ultima una vittoria più prestigiosa che il tiranno in quell’occasione dovette lasciare a Terone, la cui gara con la quadriga, agli stessi giochi del 476 a. C., fu cantata proprio dal poeta tebano in altri due epinici: l’Olimpica ii e l’Olimpica iii. Qui forse è possibile intravedere un’allusione velata ad una posizione di scacco di Ierone rispetto a Terone e alla conflittualità che a quei tempi opponeva, a causa del comportamento ambiguo di Polizelo, Dinomenidi ed Emmenidi. Un’eco questa che forse è possibile individuare anche nella saga di Meleagro attorno a cui ruota l’Epinicio v di Bacchilide, richiesto al poeta dal tiranno per celebrare sempre la vittoria olimpica del 476 a. C. I versi bacchilidei ruotano attorno al dialogo struggente tra l’ombra di Meleagro, figlio di Eneo re degli Etoli, ed Eracle in visita nell’oltretomba. A far da sfondo al suo dramma è una lotta fra clan: la disputa tra Etoli e Cureti che, un tempo uniti contro il cinghiale calidonio inviato per punizione da Artemide a devastarne il loro territorio, una volta ucciso l’animale, se ne contendevano le spoglie. È un mito nero quello raccontato da Bacchilide che si conclude tristemente con la morte di Meleagro per opera della madre Altea e un oscuro presagio per Eracle che, mosso a compassione dalla vicenda del suo interlocutore, si dichiara disponibile a sposarne la sorella Deianira, per mano della quale troverà in seguito la morte. L’episodio potrebbe essere risultato funzionale a richiamare alla memoria proprio l’alleanza tra Siracusani e Agrigentini contro il “barbaro”, venuta poi meno, alla morte di Gelone, a causa dei maneggi di Polizelo.93 92 Pindaro conosceva il legame tra il fiume Alfeo e Arethusa come dimostrano i vv. 1-2 della Nemea i. 93 Cfr. Visa-Ondaçuhu 1999, 167. Per un’analisi dell’Epinicio v di Bacchilde e della saga di Meleagro. Stenger 2004, 121-172

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Tr a pro paganda e op p os i z i on e : Fi lottet e l ’ e ro e r i ba ltato I silenzi diplomatici di Pindaro e i suoi accurati interventi sul materiale mitico degli epinici, così come anche le rivendicazioni di Senofane, potrebbero lasciare ipotizzare che la corte di Ierone fosse un ambiente piuttosto aperto in cui non di rado agli intellettuali era consentito di intervenire agevolmente sul repertorio mitologico con omissioni e talora vere e proprie manipolazioni. Si può anche ammettere che il tiranno stesso avesse nei confronti dei suoi ospiti un atteggiamento di discreta elasticità. Tuttavia, prima di commettere l’errore opposto, trasformando troppo presto il circolo di Ierone in una fucina di intellettuali spregiudicati sotto la protezione di un tiranno compiacente, è opportuno riflettere sull’effettivo controllo che il sovrano aveva sui contenuti delle odi che ne celebravano i trionfi e sulla scelta delle sue controfigure mitiche. Una circostanza curiosa da analizzare, e che certamente consente di interpretare l’elaborazione dei letterati del circolo di Ierone in termini ora di propaganda ora di opposizione al potere, è costituita dall’attenzione riservata dai poeti del circolo siracusano al personaggio omerico di Filottete. Anzi è opportuno sottolineare che, benché tante siano le figure che popolano le odi in onore di Ierone, soltanto due volte il principe è da Pindaro chiaramente e concretamente messo in rapporto con un altro personaggio. Questo accade nella Pitica ii in cui il siracusano è affiancato al mitico re di Pafo Cinira e nella Pitica i, per l’appunto, in cui Ierone appare come un novello Filottete che scende nel campo di battaglia, sfidando il dolore e la malattia.94 Sul confronto Ierone-Cinira si tornerà più avanti. Per ora quello che interessa indagare sono le ragioni del successo della vicenda dell’eroe tessalo alla corte di Siracusa.95 Giuseppe Nenci ha messo in evidenza i dati che connettono Filottete all’ambiente siracusano, riconducendo l’interesse per questo personaggio all’entourage ieroniano. Infatti, non solo Pindaro ed Epicarmo avevano ricordato l’eroe, ma anche Bacchilide.96 Inoltre, nell’ambito delle arti figurative, oltre all’opera già ricordata di Pitagora di Reggio,97 il mito risulta abbastanza attestato. Lo studioso ricorda un 94 Pind. Pyth. i 51-56. Ierone sarà poi affiancato a Creso da Bacchilide: cfr. infra p. 216 e ss. 95 Cfr. Nenci 1991. 96 Schol. Pind. Pyth. i 100.M 97 Cfr. supra p. 193, n. 50.

204 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e cratere attico destinato ad Agrigento e attribuito al pittore dei Niobidi, in cui viene rappresentato l’eroe vittima del morso fatale. A questo si aggiunge un cratere a calice a figure rosse attribuito al pittore di Altamura, anch’esso raffigurante Filottete. Nenci conclude ammettendo il fatto che la frequenza a Siracusa di tale soggetto altro non potrebbe essere che il riflesso della fortuna del mito dell’eroe tessalo in Grecia, nel v secolo, ma ipotizza che la saga di Filottete abbia avuto, in area siracusana, una sua tradizione, forse addirittura cultuale, rivitalizzata dai Dinomenidi. È facile immaginare il motivo della fortuna di Filottete a Siracusa che probabilmente spinse Pindaro a farne una sorta di alter ego del sovrano. Benché la coppia Ierone-Filottete ricorra nella Pitica i, datata al 470 a. C., appare chiaro il nesso con l’impegno dinomenide nella zona sibarita. Infatti, le vicende che coinvolsero l’eroe nel suo nostos da Troia appaiono legate nelle fonti all’area della Sibaritide e della Crotoniatide, anzi il fedele compagno di Eracle sembra addirittura essere conteso nella tradizione tra le due poleis eterne rivali.98 Pseudo-Aristotele nel De mirabilibus auscultationibus99 racconta che Filottete era venerato dai Sibariti e che morì nella zona del fiume Sibari. Inoltre, stando al paradossografo che riporta il racconto degli storici, il guerriero avrebbe dedicato i dardi che aveva ereditato da Eracle nel tempio di Apollo Alaios e da lì poi i Crotoniati le avrebbero trasportate nell’Apollonion, nel periodo della loro epikrateia. Il brano riflette la solita situazione di conflittualità tra Sibari e Crotone. Se a tutto questo si aggiunge che un frustulo della saga dell’eroe riguardava anche l’elima Segesta, il quadro che ne viene fuori, per quanto incompleto e sbiadito, comincia ad avere una sua coerenza. Secondo Strabone,100 infatti, Segesta fu fondata da coloro che prima erano 98 Senza entrare qui nel merito della questione è opportuno comunque ricordare le conclusioni di Maddoli 1989, secondo cui l’area interessata dal mito di Filottete aveva come polo originario di riferimento la Sibaritide. Secondo Mele 1983, 36 e ss. Filottete era l’eroe proprio di Sibari, morto in combattimento contro i “barbari”. Contra Musti 1991, 21-35 secondo cui l’eroe passa dalla Crotoniatide alla Sibaritide, in un processo di appropriazione, da parte di Sibari, di un mito che originariamente andava collocato nell’area di Crotone. Per Giangiulio 1991, 37-53 è Crotone, al momento dell’acquisizione di un dominio sull’area delle “città” di Filottete, a recuperare le reliquie dell’eroe, nel tentativo di farne un tramite simbolico con un orizzonte indigeno e frontaliero da ellenizzare. Sulla presenza di Filottete in Italia meridionale vedi anche Maudit 1997, 9-31 e Malkin 1998. 99 Ps.-Arist. De mirab. auscult. 107. Per un’analisi delle questioni relative al DMA cfr. il commento di Vanotti 2007, i-xx. 100 Strab. vi 2, 5.

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passati nel territorio di Crotone e che poi da lì furono inviati, proprio da Filottete, insieme al troiano Egesto in Sicilia. La leggenda di fondazione che lega l’eroe a Segesta e quest’ultima, a sua volta, alla Crotoniatide, può essere letta alla luce della conflittualità che oppose Crotone a Siracusa e che poi culminò nella missione sibarita. Anzi si può ipotizzare che Ierone, coadiuvando e sostenendo i Sibariti, nei primi anni del suo governo, avesse cercato di guadagnare alla propria causa proprio il personaggio di Filottete, ricordato da Giustino, e certo non casualmente, come ecista di Turi.101 La figura dell’eroe era decisamente in sintonia con l’immagine che la tirannide di Ierone si proponeva di diffondere all’estero. Filottete, infatti, veniva ricordato come ecista in un’area in cui il principe siracusano era intervenuto probabilmente proprio a supportare i Sibariti nella rifondazione della loro città. E sappiamo con quale zelo il tiranno siracusano si era impegnato nel conseguire lo status di ecista. Inoltre, quel che colpisce, ancora di più, è il fatto che la tradizione attribuiva all’eroe un ruolo decisivo nella caduta di Troia e in tal senso si esprime anche Pindaro, che narra, nella sua versione, come l’incedere incerto del coraggioso Filottete, sul campo di battaglia, abbia di fatto deciso il destino della città e consegnato ai Greci una vittoria definitiva.102 Egli è dunque l’eroe filelleno che con il suo intervento decreta la fine di un’epoca, mettendo fine alla guerra contro i “barbari” troiani. La sua vicenda ha curiosamente molto in comune con quella dei Dinomenidi: non solo però il binomio guerra-malattia, anzi vittoria-malattia, avvicina il sovrano all’eroe. Il suo percorso personale di eroe marginalizzato su un’isola, la storia del fiero rifiuto opposto ai Greci che lo imploravano di combattere al loro fianco contro i Troiani, evocano per certi versi quello di Gelone e l’episodio del mancato aiuto accordato agli ambasciatori greci contro i Persiani. Una presa di posizione che certo alterava il buon nome dei Dinomenidi e ne oscurava la fama. Il riscatto di Filottete a Troia è anche quello di Ierone che, come l’eroe, incurante del dolore, avanza sul campo di battaglia in una nuova guerra a difesa dei Greci. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio e quella che per il Dinomenide era un’abile mossa propagandistica volta probabilmente a recuperare 101 Cfr. Iust. xx 1, 16. 102 Del contributo dell’eroe nella caduta di Troia sappiamo da un passo della Piccola Iliade di Lesche di Mitilene. Sulla leggenda di Filottete antecedente alla rielaborazione sofoclea cfr. Pucci 2003, xi-xvi e Avezzù 1988.

206 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e il danno d’immagine che Gelone, negando il suo aiuto ai Greci, aveva arrecato alla dinastia, si trasformò in un’arma a doppio taglio. Il Filottete tanto celebrato nella lirica pindarica non è il solo,103 perché alle vicende dell’eroe è dedicata anche una commedia di Epicarmo. Fin qui non ci sarebbe nulla di strano, eccetto il fatto che le disavventure del tessalo non sembrano essere un argomento da commedia. Tutt’altro. Egli, eroe dell’esclusione sociale, è il simbolo dell’emarginazione, della solitudine operosa che supera l’handicap con il coraggio e la spinta alla sopravvivenza. La sua storia è appunto quella di un reietto abbandonato sull’isola di Lemno dai suoi compagni perché la sua ferita infetta, causata dal morso di un serpente, emanava un cattivo odore, insopportabile per i Greci in viaggio per Troia,104 ma seppure storpio e puzzolente (¯ˆÏfi˜, ‰˘Û҉˘), come si definisce lo stesso Filottete nei versi di Sofocle, tuttavia sono fatalmente le sue armi a decidere del futuro dei Greci.105 Un’indagine sulle fonti mostra come la claudicatio e la dysodia fossero anch’esse elementi della vicenda personale di Filottete che il principe condivideva tristemente con l’eroe. Secondo un passo di Plutarco,106 Ierone veniva ingiuriato dai nemici per i suoi problemi di ‰˘Ûˆ‰›· ÙÔÜ ÛÙfiÌ·ÙÔ˜.107 Inoltre secondo le notizie dei commentatori di Pindaro la patologia che affliggeva Ierone era una calcolosi vescicale, che probabilmente gli creava difficoltà nella deambulazione, tanto che egli fu costretto a gestire alcune campagne di guerra da una lettiga.108 Alcuni storici inoltre gli attribuivano forti attacchi di febbre e la gotta.109 Forte e coraggioso dunque, ma anche storpio e puzzolente, il personaggio di Filottete si rivela più somigliante al sovrano siracusano del 103 Cfr. supra p. 203. 104 La versione ufficiale dichiarata da Odisseo all’inizio della tragedia sofoclea è che le urla di dolore dell’eroe ferito disturbavano i Greci durante l’offerta di sacrifici (Soph. Phil. 5-10), ma più avanti Filottete stesso rinfaccia allo stesso Odisseo le vere ragioni dell’abbandono (Soph. Phil.1032). 105 Soph. Phil.1032. 106 Plut. Reg. et imp. apophth.=Mor. 175 b-c; De cap. ex inim. util.7, 10=Mor. 90. Luciano (Herm. 34, 9) attribuisce il problema a Gelone. 107 Il motivo del cattivo odore del tiranno potrebbe forse essere ulteriormente indagato e riletto in rapporto con il profumo che invece emanava un personaggio come Alessandro, a cui si attribuiva una discendenza divina (cfr. Plut. Alex. iv). Ringrazio Roberto Sammartano per avere attirato la mia attenzione su questo punto. Sulla relazione tra euodmia e presenza divina cfr. Barra 2004-2005, 53-63. 108 Cfr. Schol. Pind. Pyth. I 89 a-b. 109 Schol. Pind. Pyth. i 89 e Pyth. iii 117.

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previsto, e la sua figura entra a tutto tondo nella rappresentazione del sovrano. Con l’eroe così abilmente evocato da Pindaro, Ierone finisce per condividere non solo gli aspetti più esaltanti della sua vicenda ma anche quelli più imbarazzanti legati alle sue affezioni fisiche. La malattia di Ierone, zoppia primaria o indotta non importa, è un’affezione tipica dei tiranni. Zoppi erano, secondo la tradizione, diversi sovrani e chi non lo era, spesso presentava una certa debolezza agli arti inferiori.110 Secondo Jean-Pierre Vernant tale deformità era il tratto caratteristico di personalità d’eccezione alle quali il difetto, congenito o sopraggiunto, da un lato impediva il procedere in linea retta, dall’altro consentiva loro un’incedere circolare in tutte le direzioni che si traduceva in un maggiore controllo dello spazio e quindi nella disponibilità a sperimentare itinerari insoliti. La claudicatio fisica finiva per investire anche la sfera privata della filiazione e della successione. Dati questi elementi è possibile ipotizzare che a Siracusa, e forse proprio all’interno del circolo di Ierone, si fosse sviluppata una satira sul personaggio di Filottete, uno dei perni della propaganda tirannica, che poi aveva finito per coinvolgere il tiranno stesso.111 Del resto se il principe per il suo coraggio veniva assimilato dalla pubblicistica dinomenide all’eroe sceso in battaglia per aiutare i suoi compagni, non è tanto lontano dal verosimile che filoni di opposizione al tiranno avessero colto la palla al balzo, rileggendo in chiave satirica un altro degli aspetti fondamentali della vicenda mitica di Filottete, quali ad esempio il suo status di emarginato dovuto alla piaga maleodorante. E se la malattia era la causa dell’emarginazione cui egli era condannato, lo stesso poteva essere per Ierone. Il misthos d e l ti r a n n o Le fonti che abbiamo analizzato, relative al mantenimento dei letterati alla corte di Ierone, lasciano presupporre comunque, se non proprio un condizionamento decisivo da parte del tiranno sui suoi ospiti, quanto meno una condiscendenza e un sostanziale rispecchiarsi del progetto propagandistico del signore di Siracusa nei versi dei poeti chiamati a celebrare le sue glorie. Il misthos del tiranno, in qualunque 110 Per un’analisi del dossier sulla zoppia dei tiranni cfr. Vernant 1991, 31-64 e Catenacci 1996, 246-248. Sulla zoppia di Ierone Bonanno 2004-2005. 111 Che Epicarmo avesse la tendenza a parodiare anche alcuni versi degli altri artisti del circolo di Ierone, è stato mostrato da Svarlien 1990-1991, 103-110.

208 la co rte d i i e rone : sto ri a e r a p p r e s e n ta z i on e modo si realizzasse, doveva essere abbastanza ricco e la commissione di opere poetiche doveva pesare discretamente sul bilancio di corte. La magnificenza, la prodigalità del principe, il suo essere un ospite generoso e liberale erano, tra l’altro, doti che i poeti del circolo siracusano non cessavano di sottolineare accrescendo il prestigio e il potere del sovrano. Per avere una vaga idea di quanto potesse costare al sovrano mantenere la sua corte, basterà semplicemente fare il conto delle opere celebrative dedicate a Ierone o a persone del suo entourage e ricordare qual era la tariffa per un privato e quale invece per un’istituzione cittadina per inni di diversa natura.112 Una tariffa che per i tiranni era decisamente maggiorata, come risulta dal dialogo senofonteo avente come protagonisti proprio Ierone e Simonide.113 Pindaro compose per esempio per il solo Ierone 5 epinici, 2 per Cromio di Etna e uno per Agesia di Siracusa: il tutto per un totale di circa 650 versi. La questione è tutt’altro che oziosa perché se si torna a riflettere sul fatto che Pitea di Egina114 pagò tremila dracme per un epinicio di 55 versi e sul fatto che il potere d’acquisto di un tiranno doveva essere di gran lunga maggiore rispetto a quello di una famiglia dell’aristocrazia eginetica, ci si potrà rendere conto di quanto vantaggioso fosse per un artista trasferirsi o avere contatti nell’unica parte del mondo greco in cui le tirannidi erano sopravvissute e, di contro, si potrà avere il senso di quanto un tiranno fosse disposto a pagare versi in suo onore. Il ricorso frequente alla pratica dei componimenti su commissione o comunque l’abitudine a instaurare rapporti personali con i più prestigiosi professionisti della comunicazione del tempo ebbe, come avremo modo di notare nella parte dedicata alla storiografia su Ierone, un peso decisivo sulla tradizione – soprattutto quella pre-timaica – che per tutto il v e parte del iv secolo sembra tendenzialmente favorevole al tiranno. A dispetto di sporadici episodi di dissenso, che si è tentato di isolare per restituire un’immagine quanto più esauriente della composizione del circolo di Ierone, non si può certo negare che il programma propagandistico del tiranno abbia avuto successo. Nel iv secolo egli verrà presentato come un sovrano animato da aspirazioni panelleniche e soprattutto come il prototipo del “principe ideale”.115 Saranno Aristotele e Timeo a ribaltare l’immagine positiva del Dinomenide e a decretare il suo ingresso in quella schiera di sovrani bi112 Cfr. supra p. 185-186 114 Cfr. supra p. 188.

113 Xen. Hier. i 13. 115 Cfr. infra p. 231 e ss.

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fronti, da Creso a Periandro, da Policrate a Gelone,116 su cui l’opinione greca tornò ad esprimersi a più riprese. 116 L’opinione pubblica greca non fu mai univoca e costante nel tempo in materia di tiranni: Creso, per quanto dinasta illuminato, fu trattato comunque da “barbaro” (Hdt. i 6). Periandro, pur catalogato come tiranno crudele (Hdt. v 92), fu annoverato tra i sette saggi (Diog. Laert. i 13). Dell’ambiguità di Gelone si è già discusso. Quanto a Policrate, basti pensare alla visione eroica che del sovrano fornisce Erodoto, il quale lascia intendere che egli rimase vittima dell’invidia degli dei e della sua stessa fortuna (Hdt. iii 40, 2 e 120). Le sciagure del signore di Samo vengono interpretate invece nella visione diodorea (Diod. i 95, 3) come la giusta punizione per il suo comportamento tirannico e violento nei confronti di cittadini e stranieri. Sul bifrontismo tiranno-eroe cfr. Catenacci 1996.

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FORTUNA E SFORTUNA DEL TIRANNO

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LA FORTUNA DI IERONE NEL V SEC. A.C. A ppunti pe r una con c lu s i on e

L

a ricostruzione dell’attività politica del secondo Dinomenide è stata finora costretta ad un vorticoso slalom storiografico tra tradizioni ostili a Ierone e tradizioni favorevoli. È chiaro dunque che in una ricerca su un personaggio così poliedrico non possa mancare uno studio dedicato alla rielaborazione storiografica della sua esperienza politica. Se la fonte antiieroniana per eccellenza può essere indicata in Timeo che ci consegna l’immagine di un tiranno invidioso e sospettoso,1 una sintesi delle più alte qualità del principe è invece contenuta in un passo di Eliano che rappresenta – per così dire – un punto di confluenza delle tradizioni più dichiaratamente filoieroniane alla cui elaborazione non doveva essere estranea l’intensa attività di propaganda affidata al circolo di poeti riunitosi alla corte di Siracusa proprio nei primi anni settanta del v secolo. Ecco il passo che ci interessa: ^I¤ÚˆÓ¿ Ê·ÛÈ ÙeÓ ™˘Ú·ÎfiÛÈÔÓ ÊÈϤÏÏËÓ· ÁÂÓ¤Ûı·È ηd ÙÈÌÉÛ·È ·È‰Â›·Ó àÓ‰ÚÂÈfiٷٷ. ηd ó˜ qÓ ÚÔ¯ÂÈÚfiÙ·ÙÔ˜ ☠Ùa˜ ÂéÂÚÁÂÛ›·˜ ϤÁÔ˘ÛÈØ ÚÔı˘ÌfiÙÂÚÔÓ ÁaÚ ·éÙfiÓ Ê·ÛÈ ¯·Ú›˙ÂÛı·È j ÙÔf˜ ·åÙÔÜÓÙ·˜ Ï·Ì‚¿ÓÂÈÓ. qÓ ‰b ηd ÙcÓ „˘¯cÓ àÓ‰ÚÂÈfiÙ·ÙÔ˜. à‚·Û·Ó›ÛÙˆ˜ ‰b ηd ÙÔÖ˜ à‰ÂÏÊÔÖ˜ Û˘Ó‚›ˆÛ ÙÚÈÛdÓ ÔsÛÈ, ¿Ó˘ ÛÊfi‰Ú· àÁ·‹Û·˜ ·éÙÔf˜ ηd ñã ·éÙáÓ ÊÈÏËıÂd˜ âÓ Ù† ̤ÚÂÈ. ÙÔ‡ÙÅ Ê·Ûd ηd ™È̈ӛ‰Ë˜ Û˘Ó‚›ˆÛ ηd ¶›Ó‰·ÚÔ˜, ηd ÔéÎ üÎÓËÛ¤ Á ™È̈ӛ‰Ë˜. ‚·Úf˜ JÓ ñe Á‹Úˆ˜ Úe˜ ·éÙeÓ àÊÈΤÛı·ÈØ qÓ ÌbÓ ÁaÚ Î·d ʇÛÂÈ ÊÈÏ¿ÚÁ˘ÚÔ˜ ï KÂÖÔ˜, ÚÔ‡ÙÚÂ ‰b ·éÙeÓ Î·d ϤÔÓ ì ÙÔÜ ^I¤ÚˆÓÔ˜ ÊÈÏÔ‰ˆÚ›· Ê·Û›Ó. Dicono che Ierone il Siracusano fosse filelleno e che apprezzasse un’educazione molto rigorosa. Dicono anche quanto fosse facile all’euerghesia e che fosse più desideroso di rendere favori di quanto non lo fossero coloro che li richiedevano di riceverli. Era di indole molto coraggiosa. Visse senza alcun problema insieme ai suoi tre fratelli, amandoli moltissimo e essendo da loro riamato. Dicono che anche Simonide e Pindaro vissero con lui e Simonide non indugiò a recarsi da lui spinto dalla ricompensa: il poeta di Ceo era infatti avido per natura, e dicono che lo incoraggiò molto la liberalità di Ierone. Ael. V H ix 1

Non è difficile leggere nel filellenismo di cui parla Eliano l’allusione a tutte le operazioni diplomatiche e militari promosse da Ierone a tu1 Cfr. supra p. 44-45.

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tela e protezione dei Greci: dalla missione contro i perieci barbari dei Sicelioti all’intervento in difesa dei Locresi, al sostegno offerto ai Sibariti contro i Crotoniati o ai Cumani contro i Tirreni. Senza contare il desiderio, di cui si conserva traccia in Eforo,2 che il tiranno aveva mostrato di partecipare alla lotta greco-persiana. Grande rilievo viene dato nel testo anche alla generosità del tiranno, la cui magnificenza si rivelava nelle grandi vittorie conseguite ai giochi, motivo di onore per la sua patria, nelle cerimonie organizzate per celebrarle, nei grandi monumenti commissionati per lasciarne un ricordo tangibile all’interno dei santuari e nella cordiale ospitalità accordata ai poeti che con i loro versi conservavano la memoria dei successi di questo dinasta prodigo e munifico. Infine, Eliano non manca di menzionare l’amore che egli dimostrò nei confronti dei fratelli dai quali fu a sua volta riamato. Sono tutti questi elementi che riguardano la parentesi di governo ieroniana che il circolo siracusano avrà contribuito ad amplificare e che valsero al sovrano l’attribuzione degli epiteti più onorevoli che la comunità ellenica potesse dispensare. Come abbiamo visto, spesso però all’interno dello stesso circolo potevano nascere e trovare spazio limitato anche focolai di opposizione al tiranno. In queste ultime pagine si tenterà dunque di ricostruire l’immagine che di Ierone gli artisti da lui ingaggiati presentarono al mondo ellenico e consegnarono alla posterità. Vedremo anche come la fama di questo grande mecenate, diffusa dai versi dei lirici, finì per influenzare anche la storiografia. Cominceremo pertanto dalle rappresentazioni che del principe offrirono i poeti del circolo siracusano, per passare poi ad analizzare il logos erodoteo in cui – forse non a caso – è possibile leggere le prime informazioni sulla parentesi dinomenide in Sicilia. Il passo successivo sarà infine quello di rileggere l’esperienza politica di Ierone alla luce della riflessione storiografica di iv secolo che sul tema della regalità e della tirannide aveva, in diverse occasioni, concentrato la sua attenzione. R appr e s e ntaz i oni de l p r i n c i pe ne l la pro pagan da i e ron i a na Eudaimonia e legittimità L’immagine di Ierone nel v secolo è affidata sostanzialmente ai poeti che ne cantarono i trionfi ai giochi panellenici. È dunque naturale che 2 Cfr. infra p. 239-241.

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il ritratto del sovrano veicolato dalla lirica risponda in qualche modo alle logiche del genere e alle esigenze della committenza. Tuttavia la ricostruzione dell’immagine del sovrano che viene fuori dagli epinici in suo onore non è priva d’interesse e lascia emergere i tratti di una personalità complessa e sfaccettata, consentendo d’indagare e portare luce sui modi e gli strumenti di gestione e rappresentazione del potere. Nelle odi di Pindaro Ierone è l’àÚ¯e˜ ™˘Ú·ÎÔÛ›ˆÓ,3 colui che tiene lo scettro di giustizia nella Sicilia feconda (ıÂÌÈÛÙÂÖÔÓ n˜ àÌʤÂÈ ÛÎÄÙÔÓ âÓ ÔÏ˘Ì‹ÏÅ ™ÈÎÂÏ›·),4 è il basileus di Siracusa, amico dell’arte equestre (™˘Ú·ÎfiÛÈÔ˜ îÈÔ¯¿ÚÌ˘ ‚·ÛÈχ˜).5 Egli è sempre disposto al dialogo con le diverse parti sociali, mite coi suoi cittadini, non invido con gli uomini valenti, dagli stranieri ammirato come un padre (Ú·V˜ àÛÙÔÖ˜, Ôé ÊıÔÓ¤ˆÓ àÁ·ıÔÖ˜, Í›ÓÔȘ ‰b ı·˘Ì·ÛÙe˜ ·Ù‹Ú)6 ed è ricordato quale tiranno conduttore di popoli (Ï·Á¤Ù·˜ Ù‡Ú·ÓÓÔ˜)7 che ha avuto in sorte un destino felice (ÌÔÖÚ\ Â鉷ÈÌÔÓ›·˜).8 Sempre da Pindaro egli è celebrato come il principe sovrano di genti e di molte contrade coronate di mura (Ú‡Ù·ÓȘ, ·ÚÈÔ˜ ÔÏÏÄÓ ÌbÓ ÂéÛÙÂÊ¿ÓˆÓ àÁ˘ÈÄÓ Î·d ÛÙÚ·ÙÔÜ).9 Nelle odi di Bacchilide, il Dinomenide è invece il fortunato stratega di Siracusa (ÂûÌÔÈÚÔ˜ ™˘Ú·ÎÔÛ›ˆÓ ÛÙÚ·Ù·Áe˜)10 e il sovrano di giustizia (àÛÙ‡ıÂÌȘ).11 Questa rapida carrellata sulle odi che cantano i successi atletici di Ierone consente di rilevare l’estrema varietà dei titoli che gli erano solitamente assegnati.12 Gli epiteti tyrannos, basileus, strategos, pur essendo utilizzati dai lirici senza una precisa connotazione politica e militare, tradiscono tuttavia una certa sensibilità al tema della giustizia, 03 Pind. Pyth. i 73. 4 Pind. Ol. i 12-13. 05 Pind. Ol. i 23-24. In effetti, il termine îÈÔ¯¿ÚÌ˘ rinvia al lessico omerico in cui rappresenta l’eroe che combatte sul suo carro (Hom. Il. xxiv 257; Od. xi 259). L’epiteto sembra suggerire un’associazione tra le virtù guerriere e quelle atletiche del tiranno. A questo proposito, cfr. Visa-Ondarçuhu 1999, 116-117; Mann 2001, 254-255. 6 Pind. Pyth. iii 70-73. Trad. B. Gentili./ 07 Pind. Pyth. iii 86. L’epiteto Ï·Á¤Ù·˜ viene riservato da Pindaro a diversi personaggi tra il mito e la storia resi celebri dalla loro attività di fondatori di città o di dinastie, quali i figli di Pelope (Ol. i 89), Eolo (Pyth. iv 107) e Perseo (Pyth. x 31). Il termine è attestato nel miceneo (rawaketa) e deriva dalla composizione di Ï¿Ô˜ e ôÁˆ (Chantraine, DELG , s.v. Ï·Á¤Ù·˜). È verosimile che Pindaro rivolgendosi in tal modo al tiranno siracusano intendesse rendergli omaggio proprio per la fondazione di Etna. 08 Pind. Pyth. iii 84. 10 Bacch. Ep. v 1-2. 09 Pind. Pyth. ii 58-59. Trad. B. Gentili. 11 Bacch. Ep. iv 3. 12 Sulle altre varianti della rosa di epiteti rivolti a Ierone cfr. Privitera 1980, 393411; Luraghi 1994, 355; Catenacci 2006, 187-190.

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della generosità e dell’eudamonia del principe come anche al motivo dell’invidia che ricorre più volte nelle fonti relative alla tirannide in generale.13 Nella Pitica i, l’attività del Dinomenide, lo abbiamo già sottolineato, è paragonata a quella di Zeus, padre degli dei, il cui potere ordinatore s’impone sulle forze disgreganti del male, rappresentate dal gigante Tifone. Allo stesso modo Ierone, associato a Zeus nelle sue funzioni di pacificatore, è il garante della concordia interna come della pace esterna.14 Secondo Bacchilide addirittura il suo potere sui Greci è di diretta emanazione divina: un privilegio (Á¤Ú·˜) concesso da Zeus al tre volte felice signore di Siracusa. Sono questi sostanzialmente i temi che confluiscono nella rappresentazione del sovrano: celebrazione delle sue vittorie atletiche e militari interpretate, da un lato, quale espressione del favore divino di cui godeva il tiranno e, dall’altro, come manifestazione della generosità del principe nei confronti della città. Due facce della stessa medaglia che variamente combinate offrono un’immagine del Siracusano che fa leva sull’esaltazione delle sue attitudini eroiche e militari, felice anticipazione di quello che sarà il suo destino post mortem, e circondano il suo potere di un’aura di sacralità e quindi di legittimità. L’eusebeia del tiranno: Cinira, Creso e Ierone Tra le forme di rappresentazione del potere, quella che mostra il tiranno quale titolare di un rapporto privilegiato con le divinità è una delle più frequenti. L’aspetto più interessante di tale relazione tra la regalità e il divino è forse il carattere di reciprocità attraverso cui essa si definisce: una reciprocità che abbiamo già individuato nell’epigramma dedicatorio del memoriale di Ierone a Olimpia, ma che in modo ancora più complesso e articolato emerge proprio dall’analisi dei versi di Pindaro e di Bacchilide. Gli epinici, raramente, paragonano in modo esplicito la figura del principe ad altri personaggi. Benché numerosi siano gli eroi, la cui vicenda mitica è evocata nei versi dei lirici perché funzionale all’esaltazione del sovrano,15 soltanto in tre occasioni Ierone è chiaramente affiancato ad altri personaggi. Ciò avviene nel caso già analizzato in cui l’alter ego del sovrano è Filottete, personaggio-veicolo delle sue pro13 Cfr. infra p. 234. 14 Mann 2001, 264. 15 Cfr. Mann 2001, 262-266.

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pensioni filellene e poi, ancora, nella Pitica ii, dove è invece il mitico re di Pafo, Cinira,16 a fungere da controfigura per il Dinomenide. Un terzo termine di paragone per il tiranno è infine rappresentato dalla figura di Creso, il cui nome ricorre nell’Epinicio iii di Bacchilide.17 I binomi positivi Ierone-Cinira e Ierone-Creso sembrano rivestire un’efficace carica ideologica, funzionale alle esigenze della tirannide. Il re cipriota era ricordato dalle fonti per la sua ricchezza proverbiale e per la generosità dei suoi doni di ospitalità.18 Omero ricorda infatti la corazza inviata quale dono ospitale ad Agamennone in occasione della spedizione achea.19 Gli scolii a Pindaro, inoltre, offrono una chiara testimonianza del suo rapporto con le divinità:20 egli era anche sacerdote del culto di Afrodite a Pafo ed era stato sepolto nel santuario vicino al tempio della dea, ricevendo, a quanto pare, anche un culto eroico. Cinira fu inoltre capostipite di una stirpe sacerdotale che da lui prese il nome: i Kinyradai.21 Con le sue prerogative sacerdotali dunque rappresentava una regalità di marca orientale dalle forti connotazioni religiose che somigliava molto a quella dei Dinomenidi ierofanti delle divinità ctonie.22 Ciò che accomuna, nell’ode, entrambi i personaggi è il tema della charis; l’uno richiama l’altro per la riconoscenza di cui sono fatti oggetto: Cinira è celebrato nei canti dei Ciprioti quale compenso dei suoi Ê›ÏˆÓ öÚÁˆÓ e Ierone è ricordato negli inni delle vergini locresi per la protezione loro accordata nel corso di circostanze belliche. Il nesso con la politica aggressiva di Anassilao contro Locri cui Ierone pose fine è evidente e d’altra parte è messo in evidenza anche negli scolii.23 Pindaro accentua il parallelismo tra i due sovrani affiancando loro ben sei divinità: accanto a Cinira si trovano Apollo e Afrodite, mentre a fianco di Ierone sono evocate, nei versi che aprono la seconda Pitica, altre quattro divinità e ciascuna di esse costituisce un aspetto dell’arete del sovrano: Ares, ricordato attraverso la menzione di Siracusa, al16 Pind. Pyth. ii 15-20. 17 Bacch. Ep. iii 24 e ss.; Pind. Pyth. I 94-97. Per un’analisi letteraria e stilistica cfr. anche Burnett 1985, 61-76. 18 Tirt. F 12 West e Pind. Nem. viii 28-35. 19 Hom. Il. xi 19-28. 20 Schol. Pind. Pyth. ii 27 a-e. 21 Per una presentazione e l’analisi del dossier di testimonianze su Cinira cfr. Baurain 1975-76 e Id. 1980; Ribichini 1982, 479-500; Giuffrida 1989, 15-39; Loucas-Durie 1989; Bonnet 1996, 75-81; Roscalla 1998. Sul confronto Cinira-Ierone Parry 1982; Gentili 1995, xlvi e più recentemente Mann 2001, p. 265 e con conclusioni non sempre condivisibili Currie 2005, 258-295. 22 Hdt. vii 153, 2. 23 Schol. Pind. Pyth. ii 36c-38.

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lude alle sue virtù guerriere, mentre Artemide, Ermes custode degli agoni (âÓ·ÁÒÓÈÔ˜) e Poseidone, il dio delle corse con i carri, sono messi da Pindaro in diretta relazione con i successi atletici.24 Un pantheon, in piena regola, chiamato a sostenere le azioni del tiranno. Ma tale relazione privilegiata con la divinità era una peculiarità che i Greci riconoscevano anche a Creso, il cui ricordo nella Pitica i è contrapposto a quello di Falaride, archetipo del tiranno crudele e violento.25 L’immagine di Creso, associata anch’essa nelle fonti al rispetto delle regole di ospitalità,26 è soprattutto segnata dalla prodigalità nei confronti dei santuari panellenici che, stando ai versi dell’Epinicio iii di Bacchilide, gli valsero la protezione divina e l’assunzione tra gli Iperborei.27 L’eusebeia che accomuna, di fatto, i due personaggi Cinira e Creso rappresenta il vero trait d’union con Ierone, anch’egli incline a onorare i santuari delle divinità con doni che sono espressione di una ricchezza e di un potere di derivazione divina.28 Un’intuizione a posteriori di Aristotele sembra completare di altri significati i rimandi a Cinira e Creso. A più di un secolo di distanza, rivisitando nella Politica il fenomeno della monarchia, il filosofo stagirita afferma che le basileiai orientali e le tirannidi greche sono molto simili tra loro; l’unica differenza è che le prime sono ereditarie e legittime (‰Èa Ùe ¿ÙÚÈ·È Î·d ηÙa ÓfiÌÔÓ).29 Ierone dunque avrà accolto di buon grado che la sua fama fosse affiancata a quella di fortunati sovrani che, oltre a essere ricordati nell’immaginario greco per il favore di cui godevano presso i sudditi e presso gli dei, erano anche espressione di una regalità legittima e ereditaria. Due attributi necessari a rendere saldo un potere che, sin dall’inizio, aveva dovuto rispondere a diversi attacchi da parte dei circoli aristocratici siracusani. D’altra parte è lo stesso Aristotele, accogliendo probabilmente una tradizione avversa al Dinomenide, a informarci del fatto che Ierone era solito mandare delle spie in giro per la città. L’obiettivo era probabilmente di evitare che si creassero nuovi gruppi di opposizione in grado di minare le basi del suo potere.30 24 Cfr. Parry 1982, 34. 25 Pind. Pyth. i 96. 26 Hdt. i 30; 41. 27 Bacch. Ep. iii 10 e 65. Ateneo conserva una tradizione in base alla quale gli unici a inviare donativi d’oro al santuario di Apollo a Delfi furono i Mermnadi e i Dinomenidi, cfr. Athen. vi 19-26. 28 Bacch. Ep. iii 10-15. A questo proposito e sulla relazione tra Ierone e Creso cfr. Péron 1978, 307-339; Belloni 1999; Mann 2001, 273-275; Van Compernolle 2000, 119-123; Stenger 2004, 278-288; Currie 2005, 366-368. 29 Arist. Pol. iii 14, 1285a 24. 30 Cfr. Arist. Pol. v 11, 1313a 34-1313b 18 e Hofer 2000, 140.

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Il cerchio può chiudersi ora con una riflessione sulla figura di Falaride, il tiranno spietato che troviamo contrapposto a Creso nella Pitica i. Quella pindarica è la prima attestazione che possediamo sul signore acragantino che viene ricordato, in un contesto di esaltazione per la vittoria di Ierone, affiancato però al toro di bronzo, strumento di morte in cui era solito bruciare le sue vittime.31 Stando ad una notizia di Plutarco,32 destinatari di questo trattamento erano proprio gli ͤÓÔÈ33 tanto onorati da Creso, da Cinira e soprattutto dallo stesso Ierone.34 Falaride dunque, personaggio asebes35 e paranomos,36 è equidistante sia da Creso sia da Cinira, anzi di entrambi rappresenta il rovesciamento. Col primo ha in comune un destino ingrato: sia il sovrano di Lidia sia il tiranno agrigentino avranno a che fare con un rogo. Mentre Creso, però, appena salito sulla pira insieme ai suoi, verrà salvato dall’intervento divino di Apollo deus ex machina37 e – secondo la suggestiva versione di Bacchilide – trasportato tra gli Iperborei,38 per Falaride, tiranno empio, non è previsto nessun aiuto divino, anzi egli, secondo una tradizione posteriore, dovrà assistere alla morte della madre e degli amici, rimasti vittime della sua stessa diabolica invenzione.39 Il nesso tra Cinira e il signore di Agrigento invece è stabilito dal rap31 Pind. Pyth. i 94-97. 32 Plut. Parall. gr. et rom. 315 C. 33 Secondo Diodoro (cfr. ix 18) invece la furia di Falaride si sarebbe scatenata solo contro gli çÌÔʇÏÔÈ. L’immagine di Falaride, tiranno capace anche di comportamenti sacrileghi, quale scaturisce dalla notizia diodorea, risente dell’influenza di Timeo, la cui opera storica è particolarmente attenta all’aspetto religioso delle azioni politiche. A questo proposito Caserta 1995, 86-122. 34 La propensione all’ospitalità era una delle doti più apprezzate di Ierone: il tema della ÍÂÓ›· ricorre nelle odi di Pindaro e di Bacchilide e talora proprio in riferimento al Dinomenide. Cfr. Pind. Ol. i 103; Pyth. iii 70-73; Nem. i 19; 22; Bacch. Ep. iii 16. 35 Diod. xix 108,1. Sull’asebeia di Falaride nella tradizione cfr, Bianchetti 1987, 55-69 e Caserta 1995, 117-122. 36 Heracl. Lemb. 69 Dilts. Su questo frammento cfr. Bianchetti 1987, 109 e bibliografia relativa. 37 Bacch. Ep. iii 61-67. Diversa la versione di Erodoto secondo cui fu Ciro a salvare Creso e quelli che erano con lui dalle fiamme, non senza l’intervento risolutore di Apollo però, invocato a gran voce dal re lidio, cfr. Hdt. i 86-87. Sul confronto tra la versione di Erodoto e quella di Bacchilide intorno alla morte di Creso si concentrano Lamedica 1987 e Tarditi 1989. 38 È interessante il fatto che la scelta di morire tra le fiamme era considerata, soprattutto dai popoli dell’Asia minore, una marca di eroismo. Diversi furono i sovrani che decisero di immolarsi sul rogo. A questo riguardo cfr. Tarditi 1989, 280 e Currie 2005, 344-405. 39 Heracl. Lemb. 69 Dilts.

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porto con la metallurgia e con la lavorazione dei metalli,40 ma se l’uno ne fa uso per sottolineare e onorare i vincoli di xenia, l’altro ne fa uno strumento di tortura rivolto proprio contro gli stranieri. Ierone dunque, rappresentato nella lirica corale quale contraltare storico dei mitici Cinira e Creso, s’impone anche come immagine positiva sullo spietato Falaride. Una scelta poetica che può trovare un felice pendant nella politica antiagrigentina di cui il Dinomenide si era fatto portavoce sul finire degli anni settanta del v sec. a. C.41 L’immagine che Pindaro e Bacchilide intendono presentare all’osservatorio ellenico è soprattutto quella di un sovrano illuminato, eusebes, philoxenos e che agisce ηÙa ÓfiÌÔÓ. Quest’ansia di legittimità che è forse una delle molle più potenti della pubblicistica ieroniana, riemergerà prepotentemente e a distanza di tempo anche nella storiografia. L’ i nf lue nza d i Ie rone s u l logos e rodot e o (H d t. vi i 153-167) È Erodoto il primo storico a parlare di Ierone ed è quindi dalla sua opera che conviene prendere le mosse per studiare l’influenza e la pressione che la produzione letteraria degli intellettuali di corte può avere esercitato sull’elaborazione storiografica dell’esperienza di governo del secondo Dinomenide. Il lungo logos erodoteo sull’ambasceria dei Greci a Gelone è un patchwork di tradizioni dal quale l’immagine di Gelone viene fuori in maniera deformata e scomposta. Lo storico racconta della richiesta di aiuto rivolta dagli ambasciatori greci al tiranno di Siracusa, alla vigilia dell’attacco persiano contro la Grecia e costituisce l’occasione per un excursus sulla storia siceliota tra vi e v secolo. Le pagine del resoconto erodoteo sembrano infatti costruite in base a successive sovrapposizioni di racconti relativi alla famosa richiesta d’aiuto presentata dai Greci al tiranno di Sicilia, raccolti tra la Grecia continentale e Occidente. Ed è così che a fornire i dettagli sugli avvenimenti del 481-480 a. C. si alternano fonti di matrice sia ellenica sia siceliota, di orientamento anti- e filodinomenide.42 Da queste ulti40 Sul rapporto tra Cinira e la metallurgia cfr. Giuffrida 1989, 23-28. 41 Cfr. supra p. 120 e ss. e sulla connotazione in senso antiagrigentino della Pitica i, Caserta 1995, 108-112. 42 Secondo Freeman 1891, 418 e 515-516, nel logos erodoteo e soprattutto nell’andamento drammatico del dialogo tra Gelone e i confederati greci erano riconoscibili le tracce di una commedia di Epicarmo; Merante 1971, 146-169 individuava in Ippi di Reggio la fonte del racconto erodoteo su Gelone, isolando una matrice di ten-

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me emerge il chiaro tentativo di scagionare il tiranno siracusano dall’infamante accusa di medismo a cui rischiava di andare incontro e di giustificare il suo mancato intervento a fianco dei Greci del continente che lo pregavano di inviare aiuti nella lotta comune contro il “barbaro” invasore.43 Due sono infatti i momenti della narrazione in cui Erodoto dichiara apertamente di attingere a tradizioni siceliote e si trovano all’inizio e alla fine del logos. A proposito di Teline44 per esempio, si registra lo stupore dello storico nell’apprendere, proprio dagli abitanti della Sicilia,45 del carattere molle ed effeminato dell’antenato di Gelone. Il racconto prosegue poi con il cursus honorum del tiranno, seguendo presumibilmente la stessa fonte siceliota e di orientamento antidinomenide. E sempre con una fonte siceliota46 – questa volta però di segno opposto rispetto alla precedente – si conclude la parentesi geloniana.47 Qui si trova la testimonianza dell’attacco dei Cartaginesi che impedisce al tiranno dinomenide di fare arrivare gli aiuti ai Greci e soprattutto la notizia che stabilisce il sincronismo tra la battaglia di Imera e quella di Salamina. Non marcati sono invece gli interventi degli ambasciatori spartani48 e ateniesi di cui Erodoto non rivela la proveniendenza antidinomenide. Lo Cascio 1973, 212-213 ravvisa nel ritratto del tiranno siracusano fornito dallo storico l’eco di una fonte siciliana, ma non legata all’ambiente dinomenide. Bravo 1993, 362 ritiene invece probabile, per lo più, l’uso di informatori non sicelioti. Secondo Zahrnt 1993, 374, la ricostruzione erodotea delle trattative tra Greci e Sicelioti, di matrice fortemente antisiracusana, risentirebbe della propaganda ateniese e della politica occidentale condotta dalla polis attica nel v secolo. Anche secondo Cataldi 2005, 123-171, nel dialogo tra i messaggeri greci e Gelone sono individuabili tendenze attualizzanti e una forte rielaborazione dei dati e delle tradizioni reperiti sia in Occidente sia in Grecia. 43 Erodoto non manca di segnalare anche l’uso di fonti cartaginesi, giudicandole peraltro verosimili, sulla fine di Amilcare, cfr. vii 167. Su questo aspetto cfr. Sammartano 1999, 426. 44 Cfr. Hdt. vii 152. 45 Cfr. Hdt. vii 153…a quanto dicono gli abitanti della Sicilia (ï ‰Â Ï¤ÁÂÙ·È Úe˜ Ùɘ ™ÈÎÂϛ˘ ÙáÓ ÔåÎËÙfiÚˆÓ). Su Teline cfr. supra p. 201. 46 La formula è più o meno la stessa in Hdt.vii 165 e vii 166:…dicono anche questo coloro che abitano in Sicilia… (ϤÁÂÙ·È ‰b ηd Ù¿‰Â ñe ÙáÓ âÓ ™ÈÎÂÏ›– ÔåÎË̤ӈÓ) a proposito del mancato intervento di Gelone e…inoltre anche questo raccontano… (Úe˜ ‰b ηd Ù¿‰Â ϤÁÔ˘ÛÈ) a proposito della simultaneità Imera-Salamina. 47 Cfr. Hdt. vii 165-167. 48 Gauthier 1966, 5-32 ha analizzato il racconto sull’ambasceria a Gelone mettendolo in relazione con quello relativo alle altre richieste d’aiuto avanzate dai Greci a Corcira (Hdt. vii 168) e ad Argo (Hdt. vii 148-152), e ha individuato a Sparta il bacino collettore di tradizioni anti-corciresi e anti-argive. La conclusione dello studioso è che anche la versione anti-siracusana possa essere stata alimentata nella città peloponnesiaca. Contra Lo Cascio 1973, 217-219.

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za, ma è evidente che siano di matrice ellenica e chiaramente antitirannica. Pochi sono i punti saldi che è possibile enucleare dal dialogo tra i Greci e Gelone. Ma, il motivo per cui è necessario soffermarsi sulle pagine erodotee è che forse da queste è possibile individuare il primo livello di sedimentazione della propaganda ieroniana nella storiografia. Non si affronteranno dunque le vexatae quaestiones su cui spesso si sono concentrati gli studiosi, quali per esempio l’allusione di Gelone alla cosiddetta guerra degli empori.49 Ci limiteremo a ricercare i segnali di una possibile ingerenza di Ierone sulla tradizione relativa alle ambascerie greche in Sicilia prima dello scontro decisivo di Salamina. E se è vero che l’analisi dell’excursus erodoteo sui fatti di Sicilia porta con sé più problemi che soluzioni, altrettanto vero è che, per trovare tracce consistenti su cui lavorare, è necessario mettere dei paletti e individuare – seppure schematicamente – punti saldi su cui riflettere. Innanzitutto è evidente che il racconto erodoteo è costruito e confezionato ex eventu.50 Non lo dimostra soltanto il fatto che venga presentata un’immagine di Gelone più vicina a quella di un governante superbo, pieno e sicuro di sé e certamente più coerente con lo scenario politico internazionale seguito al grande trionfo di Imera sui Cartaginesi.51 In effetti, diversi sono i segnali che ci testimoniano una ricostruzione a posteriori di quello che accadde in Sicilia nel 481 a. C. Al cap. 157 gli ambasciatori dei Greci che pregano Gelone di intervenire in loro aiuto fanno un’affermazione che sfiorerebbe la chiaroveggenza, se non si desse per assodata l’ipotesi di rielaborazione successiva degli eventi: se alcuni di noi tradiscono, altri invece non vogliono venire in aiuto e la parte sana della Grecia è piccola, c’è ormai il pericolo che cada tutta la Grecia. Questa dichiarazione dei Greci sembra riprodurre lo schema esatto di quello che poi si verificò nei fatti: i Corciresi promisero un aiuto che non arrivò mai,52 i Cretesi rifiutarono di intervenire dopo avere consultato l’oracolo di Delfi,53 e i Sicelioti negarono l’invio di truppe salvo poi pentirsene.54 A tradire furono infine i Tessali55 e poi i Beoti.56 49 Su questi aspetti cfr. Merante 1970, 272-293; Maddoli 1979, 26 e ss.; Kufofka 1993-1994; Luraghi 1994, 279-280; Galvagno 2000, 17-35. 50 Così anche Mafodda 1992, 247- 271. 51 In questo senso anche Luraghi 1994, 279-280. 52 Hdt. vii 168. 53 Hdt. vii 169. 54 Hdt. vii 165. 55 Hdt. vii 172-174. 56 Hdt. viii 50. Sull’adesione beotica alla causa persiana cfr. Bruno-Sunseri 1983.

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Altro elemento sospetto che conferma il rimaneggiamento della redazione erodotea è rappresentato dalla reazione degli Ateniesi alla pretesa di Gelone di ottenere almeno il comando della flotta, dopo aver rinunciato alla guida di tutta l’armata greca destinata agli Spartani.57 Assolutamente anacronistiche sono poi le argomentazioni degli Ateniesi che rivendicano il loro diritto quasi storico all’egemonia navale in caso di rinuncia da parte degli Spartani.58 La reazione eccessiva degli ambasciatori di Atene sembra sottintendere la realtà ormai pienamente affermata, all’epoca della redazione del dialogo, della Lega delio-attica. È opportuno inoltre aggiungere che il topos erodoteo della divisione delle egemonie può fornire un ottimo terminus post quem a quo. Esso sembra infatti ricalcare il tema dell’egemonia zoppa, la cui genesi Diodoro59 colloca nell’anno 475 a. C.,60 quando gli Spartani, che mal tolleravano la perdita del controllo sul mare, preparavano una guerra contro gli Ateniesi alla quale poi rinunciarono convinti dalle argomentazioni dell’eraclide Eteomerida. L’esigenza di supportare l’ipotesi della costruzione ex eventu del logos erodoteo è condizione necessaria per rintracciare i segni della propaganda ieroniana anche nella storiografia di v secolo. Erodoto del resto deve avere terminato la redazione del racconto sull’ambasceria dei Greci a Gelone – mettendo insieme notizie e tradizioni che circolavano, già da circa un trentennio, in Grecia come in Occidente – solo nel periodo tra il 445 a. C. e il 435 a. C.,61 ovvero in anni in cui in Grecia l’impero ateniese era un dato di fatto e in Sicilia la tirannide era una parentesi da tempo conclusa.62 Il contesto dell’Atene periclea avrà contribuito, se nel dialogo sono ravvisabili tracce evidenti del vivace clima culturale impregnato della sofistica.63 57 Hdt. vii 159-160. 58 Hdt. vii 161. Molti studiosi mettono in rilievo il carattere anacronistico della dichiarazione degli Ateniesi: cfr. Gauthier 1966, 19-20; Galvagno 2000, 37-38 e Cataldi 2005, 152-160. 59 Diod. xi 50. 60 Sordi 1976 sposta gli avvenimenti narrati da Diodoro al 471 a. C. 61 Cfr. Gauthier 1966, 6. sulla scia di Jacoby 1913, col. 409. Secondo questo studioso è verosimile una datazione intorno al 450-445 a. C. in un periodo in cui Atene e Argo sono alleate, cfr. anche Hdt. vii 148-152. 62 Agli anni intorno al 414 a. C. attribuisce Cataldi 2005, 170 la pubblicazione finale dell’opera. 63 Il dibattito tra gli ambasciatori Greci e Gelone sembra costruito sull’antilogein cioè sulla capacità di rendere un discorso superiore ad un altro secondo l’insegnamento di Protagora, cfr. Galvagno 2000, 45-47.

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Tuttavia è verosimile che proprio questo fosse il momento in cui, per la prima volta nel v secolo, venisse elaborata e codificata, anche in ambiente ellenico, parte della storiografia dinomenide e che quindi Erodoto, storico dei due mondi, vissuto tra Oriente e Occidente, avesse recepito qualcuno dei punti di forza. Pertanto il tentativo che si farà è quello di individuare, se è possibile, il primo strato della tradizione filoieroniana nell’opera di uno storico di origine microasiatica. Altro dato su cui riflettere è la presentazione dell’immagine di Gelone. È evidente che il tiranno sia volutamente rappresentato come un personaggio arrogante e soprattutto ambiguo, ma quel che è più sospetto è che la doppiezza e l’imprevedibilità del suo modo di agire non emergono soltanto da fonti di provenienza ellenica – come sarebbe comprensibile – ma anche da quelle di derivazione siceliota. È significativo soprattutto il fatto che l’ambiguità di Gelone non venga meno neppure nel cap. 165 del vii libro delle Storie, quando, da parte siceliota, si tenta la riabilitazione del sovrano siracusano. Egli sarebbe stato disponibile a portare soccorso ai Greci, pur sapendo che sarebbe stato comandato dai Lacedemoni, ma lo scoppio della crisi imerese lo avrebbe tenuto lontano dalle acque di Salamina dove i Greci combattevano per la propria libertà. L’esordio tendenzioso di Erodoto sottintende che in ambito siceliota era comunque risaputo il rifiuto di Gelone di fornire soccorsi alla Grecia all’epoca dell’ambasciata, come del resto noto era il successivo pentimento del tiranno. Anche la vicenda stessa di Cadmo di Cos, il messo inviato da Gelone a Delfi per monitorare gli esiti della guerra, e il sospetto di medismo che aveva sfiorato il tiranno potrebbero essere originariamente nati in Sicilia in ambiente antigeloniano per poi essere recepiti anche nella Grecia continentale.64 Erodoto non lo dice chiaramente ma la formula di passaggio tra i capp. 164 e 165 anche questo dicono coloro che abitano in Sicilia (ϤÁÂÙ·È ‰b ηd Ù¿‰Â ñe ÙáÓ âÓ Ù” ™ÈÎÂÏ›– ÔåÎË̤ӈÓ) può essere riferita all’episodio dell’attesa di Cadmo a Delfi, inviato ad attendere le sorti del conflitto greco-persiano e per offrire a Serse denaro, acqua e terra nel caso che avesse vinto. È interessante inoltre notare come accanto alla figura di Gelone, il cui comportamento, sia nei confronti dei Greci sia in relazione ai Sicelioti, è percepito come ambiguo e doppiogiochista, Erodoto ricordi 64 Secondo Merante 1971, 148 risale a fonte greca la notizia su Cadmo di Cos; Gauthier 1966, 18 e Galvagno 2000, 48 suppongono una derivazione più precisamente spartana.

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quella del secondo Dinomenide. Il riferimento – che tra l’altro è anche la prima notizia storica su Ierone – sembra essere piuttosto neutrale e asettico, ma, se lo si mette in relazione con le altre notizie relative al tiranno, potrebbe essere letto come una testimonianza a favore della legittimità del suo diritto di successione. Erodoto infatti racconta che il fratello maggiore aveva affidato proprio a Ierone il governo di Gela quando si era trasferito a Siracusa.65 La menzione di Ierone da parte dello storico assume importanza proprio perché ci informa delle modalità di trasmissione del potere da Gelone al fratello ed è tanto più credibile quanto più proviene da una fonte che, una volta tanto, ha come bersaglio privilegiato il maggiore dei Dinomenidi. La notizia che più chiaramente tradisce un’influenza della propaganda ieroniana sulla tradizione erodotea relativa all’ambasceria è quella sulla perfetta sincronia tra la battaglia di Salamina e quella di Imera. Si potrebbe infatti ipotizzare che questa simultaneità altro non sia che la trasposizione storiografica di un topos letterario elaborato alla corte di Ierone.66 È proprio in ambito siceliota che questo parallelismo Imera-Salamina viene amplificato ed è naturale che la nascita di questa tradizione sia da ricercare in Occidente. Che interesse potevano avere del resto i Greci della penisola a dimidiare il valore del loro trionfo e a condividerlo con i Sicelioti? Questo ragionamento ci porta dritti al cuore della corte di Ierone e nella fattispecie a Pindaro che nella Pitica I mette in relazione i trionfi di Cuma e di Salamina e quelli di Platea e di Imera. Ï›ÛÛÔÌ·È ÓÂÜÛÔÓ, KÚÔÓ›ˆÓ, ≥ÌÂÚÔÓ ùÊãÚ· ηÙã ÔrÎÔÓ ï ºÔ›ÓÈÍ ï T˘ÚÛ·ÓáÓ Ùã àÏ·Ï·Ùe˜ ö¯–, Ó·˘Û›ÛÙÔÓÔÓ ≈‚ãÚÈÓ å‰gÓ ÙaÓ Úe K‡Ì·˜, Ôx· ™˘Ú·ÎÔÛ›ˆÓ àÚ¯† ‰·Ì·Ûı¤ÓÙ˜ ¿ıÔÓ, è΢fiÚˆÓ àe Ó·áÓ ¬ ÛÊÈÓ âÓ fiÓÙÅ ‚¿ÏÂıã êÏÈΛ·Ó, ^EÏÏ¿‰ã âͤÏÎˆÓ ‚·Ú›·˜ ‰Ô˘Ï›·˜. àÚ¤ÔÌ·È aÚ ÌbÓ ™·Ï·ÌÖÓÔ˜ \Aı·Ó·›ˆÓ ¯¿ÚÈÓ ÌÈÛıfiÓ, âÓ ™¿ÚÙ0 ‰ã Ààeà ÙÄÓ Úe KÈı·ÈÚáÓÔ˜ Ì·¯ÄÓ, Ù·ÖÛÈ M‹‰ÂÈÔÈ Î¿ÌÔÓ àÁ΢ÏfiÙÔÍÔÈ, 65 Hdt. vii 156, 1.

66 Cfr. a tal proposito anche Cataldi 2005, 170.

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f o rt una e s f o rtu na de l t i r a n n o ·ÚÀaà ‰b ÙaÓ Âû˘‰ãÚÔÓ àÎÙaÓ ^I̤ڷ ·›‰ÂÛÛÈÓ ≈ÌÓÔÓ ¢ÂÈÓÔ̤ÓÀÂÔØ ÙÂϤ۷Ș, ÙeÓ â‰¤Í·ÓÙã àÌÊã àÚÂÙ3, ÔÏÂÌ›ˆÓ àÓ‰ÚáÓ Î·ÌfiÓÙˆÓ. Consenti, ti supplico, Crònide, che nelle case tranquille dimori il Fenicio, e dei Tirreni desista il grido di guerra, che vide la sua tracotanza gemere per le navi innanzi a Cuma, e quale danno patirono domati dal principe siracusano che dalle rapide navi la loro gioventù gettò nel mare, strappando al grave servaggio la Grecia. Avrò come compenso da Salamina la riconoscenza degli Ateniesi e a Sparta dirò la battaglia innanzi al Citerone, là dove penarono i Medi dagli archi ricurvi, e presso la riva dell’Ìmera dalle limpide acque dirò l’inno compiuto per i figli di Dinòmene, tributo alla loro virtù per cui penarono i nemici. Pind. Pyth. i 72-80 (trad. B. Gentili)

Qui Pindaro tenta di affiancare l’una all’altra le più grandi vittorie greche sul “barbaro”. La battaglia navale di Cuma costituisce il punto di partenza e rimanda a Salamina; quella terrestre di Platea ricorda il trionfo dei figli di Dinomene a Imera. Ma Cuma e Imera in Occidente, Salamina e Platea in Grecia sono legate da uno strategico chiasmo.67 Pindaro non inneggia nei suoi versi alla contemporaneità delle vittorie di Imera e di Salamina, semmai l’immediato complemento della vittoria greca del 480 a. C. è, nei versi, il trionfo di Ierone contro gli Etruschi con cui nessuna sincronia potrebbe essere immaginabile, giacché Cuma segue Salamina ad almeno sei anni di distanza. Per di più sembra di assistere a un tentativo di affiancamento della figura di Ierone a quella di Gelone e così la vittoria di Cuma diventa il glorioso completamento del conflitto dei Greci contro i “barbari”. È chiaro che nessun abitante della Grecia metropolitana avrebbe potuto dare credito alla versione pindarica. Tuttavia l’impressione che ha anche il let67 Gauthier 1966, 6-14; Caserta 1995, 131-134.

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tore moderno è quella di una simultaneità tra i vari scontri bellici del mondo ellenico contro i “barbari”.68 I versi dell’epinicio sembrano fare leva sul subliminale, perché è vero che Pindaro non afferma in poesia quanto poi Erodoto avrebbe affermato nella sua opera storica, ma altrettanto innegabile è che essi presentano, a dispetto della distanza spaziale e temporale, ma in piena sintonia con il programma ieroniano – un’integrazione tra storia siceliota e storia greca. Estremamente efficace è il meccanismo architettato da Pindaro: dalla vittoria navale di Ierone a Cuma in Occidente scaturisce l’occasione per un volo nel tempo e nello spazio. Il ricordo del trionfo delle triremi siracusane conduce idealmente, al di là dello Ionio, ai tempi di un’altra vittoria greca: quella contro i “barbari” nelle acque di Salamina. Scontro importante questo, ma non l’unico del conflitto grecopersiano, ed è così che dalla battaglia navale si passa all’esaltazione di quella campale di Platea. Da Atene a Sparta, da Salamina alle pendici del Citerone e di lì di nuovo in Occidente al contemporaneo trionfo dei figli di Dinomene. D’altra parte l’ode celebra uno dei momenti più felici della carriera del tiranno e costituisce quasi una sintesi dei suoi più grandi successi. Nel 470 a. C., anno della vittoria pitica, Ierone aveva già sconfitto gli Etruschi a Cuma e fondato la città di Etna. È naturale che questa fosse la circostanza ottimale per cercare visibilità in ambito peninsulare e per conferire ulteriori elementi di solidità al proprio potere, dotandolo di più stabili fondamenti di legittimità.69 Tornando ad Erodoto, si può comprendere meglio ora l’origine della notizia sulla contemporaneità tra Imera e Salamina. Lo storico stesso la riferisce senza commentarla ma anche senza metterne in dubbio la verosimiglianza. È possibile dunque che la testimonianza erodotea registri proprio un primo strato della tradizione storiografica già, in qualche modo, contaminato dalla propaganda ieroniana che promuoveva un allineamento delle vittorie occidentali a quelle della madrepatria. Un’esigenza tutta siceliota questa di conferire al trionfo sui Cartaginesi e a quello sugli Etruschi pari dignità e analoga amplificazione in ambito panellenico. I Greci della penisola difficilmente però potevano vedere nelle vicende belliche delle colonie occidentali 68 Così Gauthier 1966, 10. 69 L’ansia di legittimità viene sottolineata anche da Gauthier 1966, 10. Caserta 1995, 133 riconosce nel simbolo dello scettro l’affermazione del suo potere lungo l’asse ereditario che da Gelone passa per Ierone fino ad arrivare a Dinomene.

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un glorioso complemento della loro tenace resistenza al “barbaro”. Senza contare poi che anche il mancato intervento degli Spartani chiamati da Gelone per vendicare Dorieo, caduto contro la coalizione fenicio-segestana, era già un segno palese di disinteresse e indifferenza riguardo alle sorti delle colonie – per dirla con Gauthier – del Far West.70 Proprio la tendenziosa insistenza sul rifiuto, sul tradimento e sul supposto medismo di molti popoli greci di fronte alle richieste d’aiuto degli ambasciatori spartani e ateniesi lascia trasparire dall’opera erodotea una scarsa propensione delle due poleis a riconoscere la compartecipazione di altri allo sforzo bellico. E Gelone viene inserito nella schiera di coloro che certamente non manifestarono, sin da subito, una piena e coerente adesione alla causa greca. L’influenza della propaganda dinomenide è inoltre tangibile anche in un altro punto dell’opera erodotea,71 quello in cui Micito, il nemico giurato di Ierone, definito ÔåΤÙ˘ di Anassilao, viene indicato quale principale responsabile del coinvolgimento dei Reggini, nel conflitto tra Iapigi e Tarantini, che li portò al massacro. Il condizionamento di tradizioni nate alla corte siracusana risulta ancora più evidente dal confronto con la versione diodorea,72 in cui invece Micito viene rappresentato come uomo buono, giusto e leale.73 Dopo Erodoto, nella storiografia di v secolo, si registra un discreto silenzio sugli scontri dei Sicelioti contro i “barbari” d’Occidente e quello che Tucidide si limita a dire sui tiranni sicelioti costituisce solo un pallido ricordo della loro potenza.74 Solo alla fine del secolo, e poi con la propaganda dionisiana, quando le città siceliote furono sottoposte ad una dura e sistematica distruzione75 e il pericolo cartaginese divenne sempre più reale, allora anche la lotta dei Greci di Sicilia as70 Gauthier 1966, 25. 71 Hdt. vii 170, 4. 72 Diod. xi 66. 73 A proposito di Micito cfr. supra p. 199 e ss. 74 Thuc. i 17. Inoltre il resoconto tucidideo sul dibattito in assemblea che precedette l’intervento ateniese in Sicilia nel 415 a. C. e soprattutto la rigida opposizione tra la visione di Alcibiade (Thuc. vi 17, 2-3) e quella Nicia (Thuc. vi 20, 2) in merito alle realtà politiche siceliote tradisce ancora, quasi alla fine del v secolo, un’ignoranza generalizzata sulla situazione dell’isola. I due strateghi avevano entrambi buon gioco nel commentare gli equilibri delle poleis dell’isola ed entrambi potevano permettersi di fare affidamento sulla scarsa conoscenza che gli Ateniesi avevano delle forze politiche e militari in gioco in Sicilia. 75 Basta pensare alle distruzioni di Selinunte e Imera nel 409 a. C. (Diod. xiii 54 e ss.), a quella di Agrigento nel 405 a. C. (Diod. xiii 108) e infine alla presa di Gela e di Camarina (Diod. xiii 114).

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sumerà per i Greci d’oltremare lo stesso valore e la stessa gloria di quella condotta nelle acque dell’Egeo. Tuttavia già nell’opera dello storico di Alicarnasso possono intravedersi i primissimi risultati della propaganda ieroniana che tendeva a promuovere l’avvio di un processo d’integrazione tra la storia dei Sicelioti e quella dei Greci, tra scontri navali e scontri di terra contro il comune nemico “barbaro”. Frutto di tale tentativo d’integrazione tra storia orientale e storia occidentale è anche il successivo parallelismo diodoreo76 tra Imera e Platea, nonché il sincronismo registrato, sempre dallo storico agirinense, tra la gloriosa sconfitta delle Termopili e la vittoria più bella di Gelone contro i Cartaginesi.77 Era questa infatti un’operazione che non poteva prescindere dal ricordo del trionfo di Gelone a Imera – punto di partenza dell’avventura panellenica dei Sicelioti – ma che, al tempo stesso, segnava l’inizio del progressivo oscuramento della figura del sovrano. Erodoto infatti scrive nel momento in cui Atene guardava oltre lo Ionio, condividendo proprio con Siracusa l’interesse per aree in cui Ierone aveva dimostrato la sua abilità politica e militare. È quindi ipotizzabile che lo storico avesse reperito certe notizie nei luoghi di frequentazione attica. E si trattava anche di tradizioni di derivazione siceliota, in cui Gelone non perdeva il suo carattere ambiguo e in cui passava per un tiranno ambizioso e per di più con spiccate tendenze filopersiane. La sua successiva conversione, frustrata poi dall’incombere della minaccia cartaginese, sarà stata creata a bella posta dal circolo ieroniano per sottrarlo all’infamante accusa di medismo – alimentata probabilmente anche dallo stesso ambiente siracusano – che rischiava di infangare l’onore di tutti i Dinomenidi. Un’altra fonte di rilievo per Erodoto sarà stata inoltre la tradizione raccolta nel santuario delfico con cui i Dinomenidi avevano ottimi rapporti e che lo storico non manca di ricordare. Dopo i fatti del 480 a. C., i Dinomenidi, e Ierone in particolare, sfruttano tutti i canali di diffusione e di propaganda quali appunto i giochi panellenici le cui vittorie venivano celebrate dai più grandi poeti dell’epoca, ma soprattutto i donari inviati al santuario di Delfi dopo Imera e dopo Cuma. In questa sede, così come nei versi di Pindaro, inizia il processo di attribuzione della gloria di Imera a tutti i Dinomenidi. 76 Cfr. Diod. xi 23. 77 Cfr. Diod. xi 24. Braccesi 1997, 54 sottolinea come il sincronismo Imera-Termopili sarà caro alla tradizione spartana. Sul rapporto tra vittorie locali e vittorie panelleniche Harrell 2006.

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La tradizione orale inoltre avrà costituito un ottimo fertilizzante per l’azione propagandistica voluta da Ierone che, pur non avendo storici alla sua corte – almeno per quanto ne sappiamo – ha fatto in modo che i suoi poeti serbassero nei loro versi qualche traccia dei suoi successi politici e militari perché venissero registrati, non senza un certo ritardo, dalla storiografia successiva. È naturale dunque che, all’inizio del iv secolo, la parentesi dinomenide apparisse come un fenomeno del tutto omogeneo e armonico, in completa sintonia con la pubblicistica di celebrazione delle vittorie contro i “barbari”, che aveva avuto frattanto massima diffusione anche in Grecia. L’esaltazione parallela di Cuma, Salamina, Platea e Imera voluta da Ierone tuttavia preparò, seppure a livello embrionale e in diretta dipendenza con le esigenze della propaganda tirannica, la culla feconda di un cliché storiografico che grande fortuna avrebbe avuto in Grecia e in Sicilia nel corso del v e del iv secolo.

IERONE NEL IV SECOLO: DA PRINCIPE IDEALE A TIRANNO INVIDIOSO

I

l iv secolo è decisamente il “secolo di Ierone” e, in questo periodo, il suo nome viene più volte evocato. Egli è il protagonista di una delle opere più importanti e anche più problematiche di Senofonte: un dialogo che porta nel titolo il suo stesso nome. Grazie alla rielaborazione senofontea, l’immagine di Ierone si ritrova, suo malgrado, al centro di una riflessione sistematica sul potere che, pur essendo estremamente legata agli anni in cui fu concepita, è finita per diventare un “classico” della letteratura politica europea. Il dialogo di Senofonte fu infatti rivisitato e tenuto presente da Machiavelli nei Discorsi e nel Principe e, nel corso del secolo scorso, agli inizi degli anni cinquanta, fu oggetto di un acceso dibattito che vide i filosofi Leo Strauss e Alexander Kojève scontrarsi sul terreno della conciliabilità tra tirannide e filosofia:78 un binomio che nella Grecia del iv secolo, in anni dunque parimenti difficili, era ancora in via di teorizzazione e di ancora incerta sperimentazione. Quello che in questa sede interessa però, al di là dell’importanza che, senza dubbio, riveste la presenza di Ierone in un testo così importante, è indagare il contesto in cui questa opera è nata, quali siano gli elementi che rendono riconoscibile il tiranno siceliota e soprattutto quali le conseguenze che la rappresentazione senofontea ebbe sulla tradizione relativa al Dinomenide. In altre parole, quello che ci interessa è illustrare il criterio che guidò proprio alla scelta di Ierone come protagonista e tracciare il ritratto del tiranno che viene fuori dall’opera. Questo percorso aiuterà in qualche modo anche a rileggere le testimonianze di Eforo e di Timeo e a comprendere come l’immagine del Dinomenide da principe giusto, valoroso e mite di v secolo, possa essersi trasformato nel tiranno invidioso di fine iv. L o Ie rone d i S e nofon t e e la r i f l e s s i one po l i t ic a di i v s e colo Dopo la fine della guerra del Peloponneso quando, in Grecia, più profonda si era fatta la riflessione sulla parentesi di v secolo che aveva portato alla disfatta della democrazia ateniese, la ricerca sulla migliore for78 Cfr. Vegetti 2007a, 55-57 e Id. 2007b.

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ma di politeia apparve agli intellettuali del periodo uno degli strumenti d’indagine più adeguati per comprendere e analizzare il presente. Era quello il periodo in cui la polis, l’entità statale originariamente più armonica e vitale, si avviava verso una drammatica dissoluzione, il pericolo “barbaro” si riaffacciava in tutta la sua rinnovata potenza e all’orizzonte si delineava lo spettro delle tirannidi di iv secolo. Non è dunque strano che proprio la figura di un tiranno come Ierone, che i Greci avevano imparato a conoscere anche grazie alla diffusione degli epinici in suo onore e ai memoriali lasciati nei santuari panellenici in occasione delle vittorie contro i “barbari”, ritorni nelle pagine della storia. Ed è proprio al suo impegno bellico antibarbarico che fa riferimento Platone nella Lettera vii.79 Il suo nome, come quello di altri governanti, viene tirato in ballo proprio da quegli intellettuali che, verificato il fallimento della democrazia, si orientano verso una riabilitazione della figura del monarca, dando praticamente vita a un genere letterario di grande fortuna, in seguito noto come speculum principis, che aveva l’obiettivo di tracciare l’immagine del capo politico ideale. Tirannide e legittima signoria, in questo periodo, non cessano di essere distinte l’una dall’altra, ma se la figura del tiranno continua a essere considerata la massima espressione di un potere arbitrario e illegale esercitato a danno della polis, viceversa quella del buon monarca diventa modello per i cittadini grazie alla virtù forgiata con la paideia.80 La tirannide tuttavia, come le altre forme di governo, comincia anch’essa a essere oggetto di analisi politica da parte di intellettuali che ne esaminano i possibili esiti, giungendo a soluzioni spesso fra loro in conflitto, ma sempre in linea con i tempi. Se nella riflessione platonica, il potere dispotico rende infelice chi lo esercita e soprattutto porta alla rovina i cittadini,81 nell’elaborazione di Isocrate il tiranno invece può trasformarsi in basileus. I principi per i quali egli scrive diventano depositari di virtù assolute ed eccezionali che giustificano la legittimità del loro dominio.82 Isocrate e Platone faranno poi concretamente riferimento a figure di governanti attivi nel iv secolo: Nicocle di Cipro e i Dionisii di Sira79 Plat. Ep. vii 336 a. 80 Giorgini 1993, 270-271. 81 Cfr. Plat. Rep. viii 565 d e ss. 82 Nel tracciare il profilo del signore di Salamina, l’oratore sembra avere avuto presenti le stesse tecniche che i lirici usavano per celebrare la grandezza dei tiranni arcaici. Sul contenuto e l’analisi della figura del signore di Salamina quale emerge dalle opere di Isocrate e sulle aretai del sovrano, cfr. Spyridakis 1935, 5-15.

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cusa.83 Il loro progetto di massima è quello utopistico di una tirannide riformata e illuminata dal continuo confronto con la filosofia. È il binomio phronesis-dynamis dunque a suscitare l’interesse dei filosofi. Lo stesso motivo è facile ritrovarlo all’opera nel dialogo di Senofonte il cui interesse nei confronti della tirannide sembra però – almeno apparentemente – mantenersi a un livello più letterario. Egli, pur avendo avuto un rapporto diretto con il potere, preferisce collocare la sua riflessione in una cornice lontana nel tempo e nello spazio e isolata dal contesto, ormai evanescente, della polis. La sua scelta va, anche in questo caso a un’isola, e ancora alla Sicilia, ma sono un tiranno e un poeta d’altri tempi a essere scelti come paradigmi esemplificativi. Il dialogo si svolge alla corte siracusana e ci presenta Ierone che conversa piacevolmente con il poeta Simonide. Nella prima parte, Senofonte ci presenta un sovrano malinconico e languido, “intervistato” da Simonide sulle differenze tra la condizione del tiranno e quella del privato cittadino. Di fronte alle domande del poeta, portavoce nel dialogo quasi dell’opinione comune che considerava come assolutamente desiderabile la condizione del signore assoluto, Ierone smantella una dopo l’altra le convinzioni di Simonide e snocciola quasi a sorpresa tutte le miserie del vivere da tiranno. Egli manifesta dunque la sua infelicità, l’incapacità di gioire di piaceri semplici, la solitudine, la diffidenza,84 l’invidia, la paura nei confronti degli individui valenti e giusti che è costretto a sopprimere, e ancora la paura per la sua sicurezza e il costante bisogno di denaro che lo spinge a saccheggiare e a profanare i templi, il suo essere violento, l’irrinunciabile ricorso alle forze mercenarie utile a rendere stabile il potere e infine la considerazione triste che la tirannide è un male senza via d’uscita. È dunque alle parole di Ierone che Senofonte affida – consapevolmente o meno – la sistematizzazione coerente del ritratto del tiranno 83 Cfr. Giuffrida 2006, 99-116. 84 Ierone, parlando della sorte del tiranno costretto a diffidare anche delle persone che gli stanno più vicine, porta Simonide a riflettere sul fatto che spesso i principi hanno trovato la morte proprio per mano dei parenti più prossimi o dei compagni apparentemente più devoti (Xen. Hier. iii 8). Hatzfeld 1946-47, 57 ha intravisto in queste affermazioni un chiaro riferimento ai recenti fatti di Tessaglia che avevano insanguinato la famiglia degli Alevadi: la morte nel 370 a. C. di Polidoro, figlio di Giasone di Fere per mano del fratello Polifrane, a sua volta ucciso dal nipote Alessandro poi trucidato, su istigazione della moglie, dai fratelli di quest’ultima (Xen. Hell. vi 4, 33-37). Ma non furono questi gli unici fatti di sangue che colpirono le grandi dinastie di IV secolo: lo stesso Evagora di Cipro nel 374 a. C. cadde vittima di una congiura di palazzo (Diod. xv 47).

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violento, hybristes e asebes, tal quale era stato elaborato nel corso di tutto il v secolo ad Atene. Infatti, benché dalla fine del vi sec. gli Ateniesi non avessero avuto più nulla a che fare con la tirannide, lo spettro del tiranno continuerà a essere rievocato nel dibattito politico come una sorta di nemico metafisico, la vera minaccia della democrazia.85 All’ambito ateniese va così ascritto quel processo di elaborazione ideologica che aveva definito, già dalle opere di Eschilo e di Erodoto, il ritratto psicologico del tiranno come quello di un personaggio violento, invidioso, avido, lussurioso, sospettoso, la cui vita è tristemente segnata dall’infelicità.86 Ed è proprio sul tema dell’infelicità del tiranno che ruota tutto il dialogo senofonteo, nella cui seconda parte vediamo invece Simonide prendere la parola e rivolgere a Ierone dei consigli per meglio governare.87 I suggerimenti del poeta sembrano riecheggiare però, a un secolo di distanza, i versi di Pindaro.88 Simonide incoraggia Ierone a non esitare, anche facendo ricorso alle proprie risorse personali, a spendere le sue ricchezze per il bene comune (XÚc ‰¤, t ^I¤ÚˆÓ, Ôé‰\àe ÙáÓ å‰›ˆÓ ÎÙËÌ¿ÙˆÓ çÎÓÂÖÓ ‰··ÓÄÓ Âå˜ Ùe ÎÔÈÓeÓ àÁ·ıfiÓ).89 Un consiglio simile rivolgeva Pindaro a Ierone, nella Pitica I, invitandolo alla liberalità.90 Senofonte inoltre sembra indugiare a lungo proprio sul tema pindarico91 dell’invidia del tiranno che, tra l’altro, era anche uno dei tratti che Timeo avrebbe attribuito a Ierone.92 L’invito di Simonide al tiranno, con cui termina il dialogo, è proprio quello di non esitare ad arricchire i suoi amici, a rendere potente la sua città, a considerare la patria come la sua famiglia, compagni i suoi cittadini e figli gli amici. Egli lo incoraggia a fare tutto questo, per ottenere il bene più bello e più prezioso al mondo: la felicità senza invidia (¿ÓÙˆÓ ÙáÓ âÓ àÓıÚÒÔȘ οÏÏÈÛÙÔÓ Î·d ̷ηÚÈÒÙ·ÙÔÓ ÎÙÉÌ· ÎÂÎÙ‹ÛÂÈØ Â鉷ÈÌÔÓáÓ ÁaÚ Ôé ÊıÔÓËı‹Û–).93 L’opera presenta caratteri di grande problematicità; è stata, infatti, al centro di una querelle tra studiosi che hanno discusso sulla scelta dei due interlocutori, l’identità del destinatario e soprattutto la datazione.94 85 Rosivach 1988, 43-57. 86 Su questi aspetti cfr. Lanza 1977; Giorgini 1993, 107-265; Raaflaub 2003, 5994 e Bonanno 2009a. 87 Cfr. Squilloni 1990. 88 Sulle corrispondenze tra i versi pindarici e il dialogo senofonteo, cfr. Cuscunà 2004-2005, 62-63. 89 Xen. Hier. xi 1. 90 Pind. Pyth. i 91. 91 Pind. Pyth. i 85; ii 90; iii 71. 92 Xen. Hier. v 4; xi 7 e 15 e Tim. FGrHist 566 F 93b. 93 Xen. Hier. xi 15. 94 Testo, commento e traduzione del dialogo senofonteo in Luccioni 1947; Te-

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Marta Sordi ha riletto il dialogo senofonteo alla luce dei passi di Diodoro su Dionisio I95 e ha individuato significative coincidenze tra la politica del tiranno siceliota e i consigli dispensati al principe dal poeta Simonide. La studiosa ha collocato la redazione dell’operetta nel 388/7, proprio nel periodo immediatamente successivo al fiasco olimpico di Dionisio.96 Del clima di sospetto che accompagnò lo smacco olimpico del tiranno fecero le spese il fratello Leptine e lo storico Filisto.97 Secondo la Sordi, Senofonte scrisse il dialogo proprio in quel particolare momento storico, nel tentativo di invitare il tiranno a conservare la fiducia nei suoi philoi, come si legge nell’ultimo capitolo del dialogo senofonteo.98 La ricostruzione è convincente, sebbene i riferimenti storici nell’opera di Senofonte siano davvero troppo sfumati, perché si possano trarre delle conclusioni. La sensazione che si ha invece è che la figura storica del Dinomenide fosse comunque presente nella mente dello storico, ma che la selezione degli avvenimenti sia stata fatta proprio sulla base delle affinità generiche tra i diversi tiranni che segnarono la storia greca, e non soltanto quelli sicelioti. I pochi riferimenti che è possibile individuare nell’operetta senofontea sembrano volutamente poco precisi e comunque difficili da verificare. Senofonte fa chiara allusione alla passione del tiranno per gli spettacoli e per i giochi panellenici, così pure alla condizione del principe che, se non contrae matrimonio con una donna straniera, è costretto a sposare donne della sua città, necessariamente di ceto inferiore al suo.99 Ma l’autore si spinge oltre e ricorda la necessità dei tiranni di far ricorso a truppe di mercenari. Sono tutti questi elementi che possono individuarsi nell’agire storico sia di Ierone sia di Dionisio I – se proprio vogliamo limitare il campo d’indagine al solo orizzonte siceliota. Entrambi, infatti, manifestarono una spiccata attenzione per i fenomeni culturali e condussero una spregiudicata politica matrideschi 1991; Gray 2007; Azoulay-Casevitz 2008. Sull’immagine di Ierone quale emerge dall’opera cfr. Sevieri 2004, 277-288. 95 Diod. xiv 18-45. 96 Diod. xiv 109. Cfr. Sordi 1980, 2015-2022; Ead. 1980, 3-13 e sul rapporto tra Senofonte e la Sicilia, Ead. 2004, 71-78. La redazione dell’opera è stata variamente collocata ora nel 388/7 a. C., ora nel 358/7 a. C. e tra i destinatari possibili figurano anche il nome di Dione, nipote e genero del vecchio Dionisio (Hatzfeld 1946-47, 54-70). 97 Diod. xv 7. Secondo Vegetti 2007b, 175 il dialogo fu composto dieci o quindici anni dopo la Repubblica di Platone, ma prima delle Leggi. 98 Xen. Hier. xi 14, 5. 99 Xen. Hier. i 11-14; i 28; viii 10; xi 5-6.

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moniale.100 Quanto all’appello frequente a truppe mercenarie, anche in questo caso i due tiranni non sono certo dissimili. D’altra parte, come Ierone si servì dell’ausilio di soldati stranieri, proprio in occasione del dissidio con Polizelo,101 allo stesso modo anche Dionisio I si circondò di guardie del corpo perché non si fidava dei cittadini in armi.102 Che il destinatario delle parole di Simonide potesse essere in realtà Dionisio il Vecchio, sembra verosimile. Benché tali vaghi riferimenti all’attualità storica consentano anche di ipotizzare una datazione più bassa – agli anni cinquanta del iv sec. per esempio – più vicina dunque al periodo in cui Eforo ricordava Ierone nella sua opera e quando ormai noto doveva essere il drammatico epilogo della vicenda di Platone in Sicilia, tuttavia il lieve barlume di speranza con cui si conclude il dialogo, con Simonide che offre consigli al principe disposto ad ascoltarlo, sembra indicare ancora un’embrionale fiducia nel modello del tiranno illuminato dal filosofo e anche nel fatto che la Sicilia potesse essere pensata ancora come uno spazio di sperimentazione per possibili progetti politici. Al di là dei problemi intriseci che il testo pone, resta però il fatto che è opportuno ragionare sulla scelta di Ierone, quale exemplum, e soprattutto fare i conti con la rielaborazione che della figura del Dinomenide aveva fatto la tradizione successiva. Senofonte era consapevole che l’abolizione definitiva della tirannide sarebbe stata assolutamente inattuabile. La soluzione che sembra proporre nel dialogo è una vera e propria conversione della tirannide in sovranità legittima attraverso l’attuazione di un sistema di riforme a vantaggio della polis e dei cittadini.103 La sua proposta politica passa proprio attraverso l’immagine di un tiranno la cui preoccupazione principale era stata proprio quella di ricercare tutti gli espedienti per rappresentare il suo regime come basileia legittima, e che dunque poteva rivelarsi particolarmente funzionale all’esposizione delle sue teorie filomonarchiche e antitiranniche; un personaggio il cui prestigio pubblico usciva, a tutto tondo, dalle odi di Pindaro e di Bacchilide che ne avevano cantato i successi atletici e la vocazione panellenica. L’opera dello storico ateniese rappresenta dunque una delle espressioni più efficaci dell’uso che di Ierone fu fatto nel corso del iv secolo. Egli, in buona sostanza, non fa che mettere in scena le incertezze di un tiran100 Cfr. supra p. 116 per Ierone e Diod. xiv 44; Diod. xiv 44-45; Plut. Dion. iii 4 per Dionisio. 101 Diod. xi 48. 102 Diod. xiv 10, 4. 103 Così Tedeschi 1991, 30-31.

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no, per sua stessa ammissione violento, sospettoso, hybristes, asebes e soprattutto invidioso, recependo tra l’altro e concentrando sistematicamente sulla figura di Ierone tutti i tratti negativi che la tradizione politica ateniese, nel corso del v secolo, aveva attribuito al tirannno in generale. Un’operazione che, pur confermando da un lato il prestigio politico di cui godeva il Siracusano ancora nel iv secolo, potrebbe avere dall’altro contribuito a deformarne l’immagine, consegnando ai posteri il ritratto di un sovrano che, inizialmente noto ai Greci come il felice stratega di Siracusa, sovrano di giustizia, si autodenuncia poi come il peggiore degli oppressori. Non stupisce, allora, che le fonti successive, da Aristotele a Timeo, ci tramandino l’immagine del Dinomenide come un despota sospettoso e invidioso. La tradizione sulla figura di Ierone sembra dunque avere seguito un itinerario piuttosto complesso e tortuoso e a condizionare il giudizio dei posteri devono avere contribuito diversi fattori: primo fra tutti l’opera propagandistica del tiranno stesso, dai primissimi anni del suo dominio su Siracusa, condotta attraverso il mecenatismo e l’ingaggio di poeti chiamati a cantare le sue gesta. In seguito, l’appiattimento cui era stata sottoposta nel v e nel iv secolo tutta l’esperienza dinomenide che tendeva a comprimersi e concentrarsi sui successi politici e militari del solo Gelone.104 La riflessione ateniese di età classica sulla tirannide avrà infine concorso a catturare nel novero dei cattivi tiranni anche Ierone, benché la tradizione sulla sua parentesi di governo si mantenga per tutto il v e parte del iv secolo assolutamente priva di ombre. Poi il filtro della propaganda di iv secolo – di quella dionigiana105 in particolare, che significativamente poteva individuare in Gelone106 o in Ierone dei prestigiosi antecedenti – nonché la rielaborazione di filosofi come Platone che auspi104 Cfr. Vattuone 1991, 147 e 178 e ss. 105 Interessante è a questo proposito la riflessione di Vattuone 1991, 143: «Il topos dinomenide fu uno dei principali strumenti di propaganda all’interno di Siracusa […], sia verso il mondo greco da cui Dionigi attendeva una legittimazione del proprio potere. […]La topica dinomenide strumentalizzata in Dionigi metteva l’accento sulla strenua difesa dai barbari, su una necessità storica, su un compito assolto in nome della libertà greca e del pericolo punico». 106 Le parole di Dione, riportate da Plutarco, sono abbastanza significative, quando egli rivolto non senza un certo astio a Dionisio, dice: «…tu sei tiranno, perché hai ricevuto fiducia grazie a Gelone: a causa tua nessun altro riceverà fiducia». Altrettanto significativo è il commento di Plutarco a questa affermazione: «E infatti sembra che Gelone abbia mostrato lo splendido spettacolo di una città governate da un solo uomo, mentre Dionisio ne mostra uno turpissimo» (Plut. Dion. v 9).

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cavano il connubio saggezza-potere, avranno aggiunto complessità a questo quadro. Ierone è accolto nell’opera senofontea quale archetipo, se non proprio del principe-filosofo, almeno del sovrano amante della cultura disposto a farsi consigliare dai poeti della sua corte; un sovrano grazie al quale il progetto politico di una signoria illuminata e guidata dalla saggezza poteva essere, proprio in virtù del suo rapporto privilegiato con la cultura, ancora pensabile e credibile. Il binomio phronesis-dynamis ha assunto, d’altra parte, nella riflessione politica di iv secolo un valore paradigmatico per gli uomini che tendono a cercare precedenti illustri nel passato. Non è forse un caso allora che proprio Simonide sia ricordato nella Epistula ii del corpus platonico,107 per il rapporto di familiarità che lo legava a Ierone e allo spartano Pausania. La tradizione sul personaggio di Simonide costituisce un ulteriore elemento di riflessione. Essa ha peraltro un singolare e curioso pendant proprio in quella del suo patrono e protettore siceliota. La figura del lirico di Ceo è una delle più ambigue della storia letteraria: egli è alternativamente poeta avido o il saggio confidente della famiglia del sovrano e poi ancora cantore della libertà ellenica. Gli aneddoti sulla sua fama di artista venduto sono nati ben presto già nel v secolo,108 ma è interessante notare l’evoluzione che nell’immaginario di iv secolo ha subito la sua figura. Sembra, infatti, che parallelamente alla funzionale promozione dell’immagine di Ierone, quale principe da ammaestrare, si provveda ad una parallela riabilitazione dell’avido poeta a saggio e “filosofo”. La flessibilità della tradizione su Ierone finisce quindi per influenzare anche quella relativa a un poeta della sua corte, trasformando questo binomio tiranno-poeta in un exemplum e facendone addirittura una sorta di paradigma storiografico ricorrente, come emerge dal dialogo senofonteo e dalla lettera pseudoplatonica. Un connubio quello tra Ierone e Simonide che finirà per affiancarsi nella letteratura a quello vagheggiato da Platone con i tiranni di Siracusa, confermando però anche l’inapplicabilità e la fallacia alla prova dei fatti dell’interazione tra saggezza e potere.

107 Plat. Ep. ii 311 a. Sui problemi di autenticità di questa seconda epistola platonica cfr. Pasquali 1938, 172-195. 108 Cfr. supra p. 187 e 193.

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Ef o ro È Eforo a realizzare finalmente il “miraggio” di Ierone di vedere pubblicamente riconosciuti in un’opera storica l’impegno e il contributo dei Dinomenidi nella lotta contro il “barbaro”.109 L’opera dello storico cumano fornisce una cronaca degli eventi che precedettero lo scontro con i Cartaginesi, introducendo nella tradizione alcuni elementi di novità, benché non precisamente inediti. La testimonianza frammentaria di Eforo ci è pervenuta grazie allo scolio 146b della Pitica I, a commento del verso in cui il poeta tebano canta la vittoria di Ierone contro i Tirreni, che strappò la Grecia al grave servaggio (^EÏÏ¿‰\âͤÏÎˆÓ ‚·Ú›·˜ ‰Ô˘Ï›·˜). Il commentatore distratto e poco accorto giunge persino ad affermare, sulla base di questi versi, che Pindaro avesse letto la versione eforea. Ecco le parole dello storico: îÛÙÔÚÂÖ ÁaÚ òEÊÔÚÔ˜ ÙÔÈÔÜÙÔÓ, ¬ÙÈ ·Ú·Û΢·˙Ô̤ÓÔ˘ •¤ÚÍÔ˘ ÙeÓ âd Ù” ^EÏÏ¿‰È ÛÙfiÏÔÓ, Ú¤Û‚ÂȘ ·Ú·ÁÂÓ¤Ûı·È Úe˜ °¤ÏˆÓ· ÙeÓ Ù‡Ú·ÓÓÔÓ îÎÂÙ‡ÔÓÙ·˜ Âå˜ ÙeÓ ÙáÓ ^EÏÏ‹ÓˆÓ Û‡ÏÏÔÁÔÓ âÏıÂÖÓØ âÎ ‰b ¶ÂÚÛáÓ Î·d ºÔÈÓ›ÎˆÓ Ú¤Û‚ÂȘ Úe˜ K·Ú¯Ë‰ÔÓ›Ô˘˜, ÚÔÛÙ¿ÛÛÔÓÙ·˜ ó˜ ÏÂÖÛÙÔÓ ‰¤ÔÈ ÛÙfiÏÔÓ Âå˜ ™ÈÎÂÏ›·Ó ‚·‰›˙ÂÈÓ Àηdà ηٷÛÙÚ„Ô̤ÓÔ˘˜ ÙÔf˜ Ùa ÙáÓ ^EÏÏ‹ÓˆÓ ÊÚÔÓÔÜÓÙ·˜ ÏÂÖÓ âd ¶ÂÏÔfiÓÓËÛÔÓ. àÌÊÔÙ¤ÚˆÓ ‰b ÙeÓ ÏfiÁÔÓ ‰Âͷ̤ӈÓ, ηd ÙÔÜ ÌbÓ ^I¤ÚˆÓÔ˜ Û˘ÌÌ·¯ÉÛ·È ÙÔÖ˜ ≠EÏÏËÛÈ ÚÔı˘ÌÔ˘Ì¤ÓÔ˘, ÙáÓ ‰b K·Ú¯Ë‰ÔÓ›ˆÓ ëÙÔ›ÌˆÓ ùÓÙˆÓ Û˘ÌÚÄÍ·È Ù† •¤ÚÍ–, °¤ÏˆÓ· ‰È·ÎÔÛ›·˜ ÂéÙÚÂ›Û·ÓÙ· ӷܘ ηd ‰ÈÛ¯ÈÏ›Ô˘˜ îÂÖ˜ ηd Â˙Ôf˜ Ì˘Ú›Ô˘˜ ηٷÎÔÜÛ·È ÛÙfiÏÔÓ K·Ú¯Ë‰ÔÓ›ˆÓ ηٷÏÂÖÓ âd ™ÈÎÂÏ›·Ó ηd ‰È·Ì·¯ËÛ¿ÌÂÓÔÓ Ìc ÌfiÓÔÓ ÙÔf˜ ™ÈÎÂÏÈÒÙ·˜ âÏ¢ıÂÚáÛ·È, àÏÏa ηd Û‡Ì·Û·Ó ÙcÓ ^EÏÏ¿‰·. Eforo infatti racconta che, mentre Serse preparava una spedizione contro la Grecia, ambasciatori giunsero presso il tiranno Gelone per supplicarlo di andare all’assemblea dei Greci; dalla parte dei Persiani e dei Fenici ambasciatori si recarono presso i Cartaginesi ordinando che bisognava fare una grandissima spedizione contro la Sicilia e, dopo aver sottomesso coloro che stavano con i Greci, navigare verso il Peloponneso. (Eforo racconta che), giacché entrambi accettarono la proposta, e da un lato Ierone era desideroso di combattere con i Greci e i Cartaginesi, dall’altro, erano pronti a combattere con Serse, mentre Gelone preparava duecento navi, duemila cavalieri e diecimila fanti, venne a sapere che una spedizione di Cartaginesi stava navigando verso la Sicilia e, attaccata battaglia, non liberò solo i Sicelioti, ma tutta la Grecia. Eph. FGrHist. 70 F 186= Schol. Pind. Pyth. i 146 b

109 Cfr. Gauthier 1966, 25-31.

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Nel testo Ierone è ricordato per il suo desiderio di combattere al fianco dei Greci contro i Persiani, quasi il suo atteggiamento avesse costituito la spinta propulsiva per la reazione del fratello Gelone, di fronte alla richiesta di soccorso.110 Al di là dei problemi e dei dubbi che il passo pone,111 nel resoconto di Eforo, in effetti, è possibile rilevare un’ulteriore stratificazione della tradizione sugli avvenimenti del 481-480 a. C. e, finalmente, a più di un secolo di distanza, sembra assistere all’allineamento della vittoria di Imera a quella di Salamina. Persiani e Cartaginesi diventano protagonisti di un’azione concertata di accerchiamento della Grecità continentale e occidentale. L’episodio delle ambascerie si duplica e, parallelamente alla richiesta di aiuti dei Greci a Gelone, si sviluppa una simmetrica azione diplomatica di Persiani e Fenici verso Cartagine. È questo il momento in cui, per la prima volta, la storiografia interpreta la lotta dei Sicelioti contro i Cartaginesi come una delle gloriose battaglie del conflitto contro i “barbari”. Anzi, Eforo sembra, addirittura, assegnare alla tempestiva risposta siceliota un carattere di precedenza rispetto a quella dei Greci della madrepatria. Il quadro che viene fuori è quello di una resistenza corale, compatta, diplomaticamente costruita e strategicamente organizzata. Anche questo è certo un segno dei tempi: lo storico cumano scrive in un momento piuttosto delicato della storia greca, quando si era ormai affermata in pieno la pari dignità della lotta dei Greci d’Occidente contro il “barbaro”. Del resto, proprio alla fine del v secolo, il pericolo cartaginese si era riproposto in modo più drammatico in Sicilia. L’opinione pubblica dei Greci della madrepatria si andava sensibilizzando sempre di più riguardo al tema della difesa dell’isola e, inoltre, l’affermarsi di una tirannide potente come quella di Dionisio che, ben presto, venne a rappresentare una variabile indicativa anche nei rapporti tra le poleis, deve averli indotti a rivedere, sotto un’altra prospettiva, la lotta dei Sicelioti contro i Cartaginesi. La narrazione di Eforo risente 110 Cfr. Barber 1935; Vattuone, 1991, 181 n. 52 e Id. 2002, 14. 111 Per un’analisi del passo di Eforo cfr. Bravo 1993, 441-452 che lo ha messo a confronto con lo scolio 146a dove addirittura si fa riferimento a Ierone quale destinatario delle ambascerie dei Greci. Lo studioso ritiene però che il solo interlocutore siceliota dei Greci sia sempre Gelone e attribuisce alla rielaborazione di un copista ignorante la menzione di Ierone nei due testi. Per quanto molte delle perplessità avanzate da Bravo siano condivisibili, è possibile pensare tuttavia che il ricordo di Ierone nel passo eforeo possa avere avuto un senso nel contesto più ampio della sua ricostruzione dei fatti, un senso perdutosi poi a causa dello stato frammentario in cui ci è giunta la notizia. Le conclusioni di Bravo sono state recentemente riprese in Palazzo 2008, 219-221.

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soprattutto però dell’influenza di Isocrate la cui produzione letteraria sembra permeata da un dichiarato panellenismo.112 È naturale dunque che gli avvenimenti del 480 a. C., ricordati come il momento di più forte coesione tra i popoli greci uniti in uno sforzo comune, siano celebrati nell’ambito di una storia universale. Qui nessuno spazio poteva esserci per le accuse di medismo rivolte a Gelone, nel secolo precedente, e la tradizione sui tentennamenti del maggiore dei Dinomenidi viene completamente azzerata. Tale spirito panellenico però non sembrava condiviso da un intellettuale come Aristotele che, in un passo della Poetica, illustrando il principio dell’unità di azione nella tragedia e nel poema epico, per definire la differenza tra la narrazione epica e quella storica, sostiene che la seconda deve limitarsi all’esposizione di avvenimenti accaduti nello stesso periodo, senza che si ammetta fra essi una connessione causale. L’esempio usato dal filosofo per illustrare questa considerazione è proprio quello del sincronismo tra la battaglia di Imera e di Salamina. I due fatti, pur essendo avvenuti nello stesso periodo non tendevano allo stesso fine. È chiaro che il filosofo, pur accettando la versione erodotea, dichiara così polemicamente di non credere alla rilettura in chiave panellenica dei conflitti del 480 a. C., che circolava ai suoi tempi. Una reinterpretazione che Ierone e la sua corte avevano contribuito a costruire. E non è forse un caso che, proprio dalla riflessione aristotelica sulle forme di governo, all’interno della Politica, l’immagine del Siracusano esca completamente trasformata. Al suo nome è accostata l’immagine più becera della tirannide, quella coercitiva e sospettosa del despota che manda in giro le sue spie per evitare o sventare eventuali congiure.113 Ti me o Benché già Aristotele metta in risalto il carattere oppressivo e totalitario della politica di Ierone, è paradossalmente proprio nell’opera di Diodoro che il ricordo del sovrano assume contorni sempre più oscuri e inquietanti. Mentre in tutta la prima parte dell’xi libro, il giudizio dello storico, seppure non entusiasta, aveva mantenuto un tono piuttosto equilibrato, offrendo semmai del tiranno siracusano l’immagine di un politico pronto a battere la via della diplomazia, di uno stratega 112 Arist. Poet. 1459a 25. A questo proposito cfr. Gauthier 1966, 28-31 e Lo cascio 1973-1974, 232-234. 113 Arist. Pol. v 11, 1313 b14.

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accorto, propenso a soluzioni di Realpolitik, ma anche, in caso di necessità, di un condottiero tempestivo e valoroso, tuttavia, al momento di rendicontare sulla triste parabola che portò alla caduta dei Dinomenidi, l’atteggiamento si modifica e il ritratto del sovrano cambia volto, trasformandosi in un personaggio avido e incline alla violenza. Il passo è inserito nell’ambito di una sintesi sulla parabola storica dei Dinomenidi e offre una lettura in chiave di progressiva degenerazione della dinastia siracusana: °¤ÏˆÓ ï ¢ÂÈÓÔ̤ÓÔ˘˜ àÚÂÙ” ηd ÛÙÚ·ÙËÁ›0 ÔÏf ÙÔf˜ ôÏÏÔ˘˜ ‰ÈÂÓ¤Áη˜ ηd K·Ú¯Ë‰ÔÓ›Ô˘˜ ηٷÛÙÚ·ÙËÁ‹Û·˜ âÓ›ÎËÛ ·Ú·Ù¿ÍÂÈ ÌÂÁ¿Ï– ÙÔf˜ B·Ú‚¿ÚÔ˘˜, ηıfiÙÈ ÚÔ›ÚËÙ·ÈØ ¯ÚËÛ¿ÌÂÓÔ˜ ‰b âÈÂÈÎᘠÙÔÖ˜ ηٷÔÏÂÌËıÂÖÛÈ Î·d ηıfiÏÔ˘ ÙÔÖ˜ ÏËÛÈÔ¯ÒÚÔȘ ÄÛÈ ÚÔÛÂÓ¯ıÂd˜ ÊÈÏ·ÓıÚÒˆ˜, ÌÂÁ¿Ï˘ öÙ˘¯ÂÓ àԉԯɘ ·Úa ÙÔÖ˜ ™ÈÎÂÏÈÒٷȘ. ÔyÙÔ˜ ÌbÓ ÔsÓ ñe ¿ÓÙˆÓ àÁ·ÒÌÂÓÔ˜ ‰Èa ÙcÓ Ú0fiÙËÙ·, ‰ÈÂÙ¤ÏÂÛ ÙeÓ ‚›ÔÓ ÂåÚËÓÈÎᘠ̤¯ÚÈ Ùɘ ÙÂÏ¢Ùɘ. ÙcÓ ‰b ‚·ÛÈÏ›·Ó ‰È·‰ÂÍ¿ÌÂÓÔ˜ ^I¤ÚˆÓ ï ÚÂÛ‚‡Ù·ÙÔ˜ ÙáÓ à‰ÂÏÊáÓ Ôé¯ ïÌÔ›ˆ˜ qگ ÙáÓ ñÔÙÂÙ·Á̤ӈÓØ qÓ ÁaÚ Î·d ÊÈÏ¿ÚÁ˘ÚÔ˜ ηd ‚›·ÈÔ˜ ηd ηıfiÏÔ˘ Ùɘ êÏfiÙËÙÔ˜ ηd ηÏÔÎàÁ·ı›·˜ [Ùà‰ÂÏÊÔÜ] àÏÏÔÙÚÈÒÙ·ÙÔ˜. ‰Èe ηd Ï›ÔÓ¤˜ ÙÈÓ˜ àÊ›ÛÙ·Ûı·È ‚Ô˘ÏfiÌÂÓÔÈ ·Ú·Î·Ù¤Û¯ÔÓ Ùa˜ 剛·˜ ïÚÌa˜ ‰Èa ÙcÓ °¤ÏˆÓÔ˜ ‰fiÍ·Ó Î·d ÙcÓ Âå˜ ÙÔf˜ ±·ÓÙ·˜ ™ÈÎÂÏÈÒÙ·˜ ÂûÓÔÈ·Ó. ÌÂÙa ‰b ÙcÓ ^I¤ÚˆÓÔ˜ ÙÂÏ¢ÙcÓ ·Ú·Ï·‚gÓ ÙcÓ àÚ¯cÓ £Ú·Û‡‚Ô˘ÏÔ˜ ï à‰ÂÏÊe˜ ñÂÚ¤‚·Ï ٔ ηΛ0 ÙeÓ Úe ·éÙÔÜ ‚·ÛÈχ۷ÓÙ·. ‚›·ÈÔ˜ ÁaÚ JÓ Î·d ÊÔÓÈÎe˜ ÔÏÏÔf˜ ÌbÓ ÙáÓ ÔÏÈÙáÓ àÓ“ÚÂÈ ·Úa Ùe ‰›Î·ÈÔÓ, ÔéÎ çÏ›ÁÔ˘˜ ‰b Ê˘Á·‰Â‡ˆÓ âd „¢‰¤ÛÈ ‰È·‚ÔÏ·Ö˜ Ùa˜ ÔéÛ›·˜ Âå˜ Ùe ‚·ÛÈÏÈÎeÓ àÓÂÏ¿Ì‚·ÓÂ… Gelone, figlio di Dinomene, per valore e abilità strategica era di gran lunga superiore agli altri, vinse i Cartaginesi con un’astuzia, e sconfisse i barbari in un grande combattimento, com’è stato raccontato prima. Trattò con mitezza gli sconfitti, e in generale si comportò umanamente con tutti i confinanti, conquistandosi grande consenso fra i Sicelioti. Egli, dunque, amato com’era da tutti per la sua affabilità, trascorse la vita serenamente fino alla fine. Ma Ierone il più vecchio dei fratelli, che era suo successore al trono, non regnò alla stessa maniera sui suoi sudditi. Era infatti amante del denaro, violento e in generale del tutto alieno da sincerità e nobiltà. Perciò erano in parecchi a volersi ribellare, ma frenarono i loro impulsi a causa della buona fama di Gelone e della sua benevolenza verso tutti i Sicelioti. Dopo la morte di Ierone prese il potere il fratello Trasibulo; egli superò in malvagità chi aveva regnato prima di lui: violento e sanguinario uccise molti cittadini ingiustamente e non pochi ne mandò in esilio con false accuse e incamerandone le sostanze nel tesoro reale. Diod. xi 67

Diodoro prosegue poi con la narrazione delle gesta malvage del giovane Dinomenide che portarono i Siracusani alla rivolta.114 Nella te114 Diod. xi 67-68.

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stimonianza appena riportata il giudizio negativo sulla dinastia dinomenide non coinvolge Gelone il cui periodo di governo è archiviato come una parentesi particolamente felice della storia dell’isola. E forse non è un caso che solo a lui sia attribuita la vittoria contro i Cartaginesi. Ancora una volta Diodoro si astiene dal menzionare gli alleati di Imera ma non tace sulla philanthropia mostrata dal sovrano nei confronti di tutti i popoli confinanti. E non è difficile leggere in queste parole il riferimento velato agli Agrigentini, ma anche ai Reggini. Con la successione al trono di Ierone si registra una brusca inversione di tendenza. Il nuovo sovrano rappresenta una sintesi di tutte le qualità negative che tradizionalmente facevano parte del profilo psicologico del tiranno, come era stato elaborato in ambito ateniese nel corso del v e del iv secolo. Egli non è più il principe giusto e il felicissimo basileus di Siracusa che cantavano Pindaro e Bacchilide, ma diviene la controparte negativa del fratello. Si tratta di un giudizio articolato e composito che sembra avere il preciso intento revisionistico di proporre una diversa valutazione della tirannide dinomenide, considerata, almeno per gran parte del iv secolo, una parentesi omogenea e piuttosto positiva per la storia dell’isola. Per costruire questo bilancio della tirannide dinomenide, Diodoro può essersi servito di una fonte diversa rispetto a quella usata in precedenza per narrare gli episodi più importanti della carriera di Ierone. A segnalarlo sembra lo storico stesso che, prima di introdurre la sua valutazione sul periodo di governo dei Dinomenidi, avverte il lettore che ha intenzione di fare un passo indietro per rivedere alla moviola quanto ha appena terminato di narrare: ÂÚd Ôy ηÙa ̤ÚÔ˜ àÓ·ÁÚ¿ÊÔÓÙ·˜ ìÌĘ àÓ·ÁηÖfiÓ âÛÙÈ ‚Ú·¯f ÙÔÖ˜ ¯ÚfiÓÔȘ àÓ·‰Ú·ÌfiÓÙ·˜ àãàگɘ ±·ÓÙ· ηı·ÚᘠâÎıÂÖÓ·È.115 … per raccontare nel dettaglio gli avvenimenti è necessario risalire un poco indietro nel tempo ed esporre ogni cosa chiaramente sin dall’inizio. Diod. xi 67, 1

Le parole di Diodoro sembrano proprio indicare un ripensamento, un volgersi indietro per rileggere criticamente quanto ha detto in precedenza.116 Un’operazione questa che potrebbe essere stata accompagnata da un cambiamento di fonte e dall’uso di riferimenti diversi da 115 A questo proposito cfr. quanto ha affermato Ambaglio 1995, 28 a proposito dei rinvii interni all’opera di Diodoro. 116 …come è stato raccontato prima (ηıfiÙÈ ÚÔ›ÚËÙ·È) preciserà infatti lo storico.

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quelli utilizzati per la cronaca spicciola della storia siceliota all’inizio del v secolo e più adeguati a uno sforzo maggiore di concettualizzazione, quale un bilancio d’insieme sulla tirannide siceliota poteva richiedere. Individuare in Timeo la fonte usata da Diodoro è, come vedremo, non troppo difficile. Dello storico siceliota, formatosi ad Atene, patria della pubblicistica antitirannica, gli antichi ricordavano l’irriducibile atteggiamento ÌÈÛÔÙ‡Ú·ÓÓÔ˜.117 La scarsa simpatia nei confronti di Ierone emerge del resto proprio dal frammento 93b di Jacoby, già analizzato, in cui il tiranno compare come un personaggio invidioso della fama del fratello Polizelo e, in modo tendenzioso, sembra mettersi in dubbio la legittimità della sua successione. Inoltre, come nel passo di Diodoro l’immagine positiva di Gelone era contrapposta a quella cupa degli altri due Dinomenidi, allo stesso modo la polemica antitirannica del Tauromenita risparmiava il maggiore dei Dinomenidi, rappresentato come un «popular hero».118 La visione filogeloniana dello storico viene fuori, infatti, da diversi frammenti: in F 95, il racconto dell’infanzia prodigiosa del sovrano ha il chiaro obiettivo di conferire uno statuto di legittimità a un potere, come quello esercitato da Gelone, che per definizione ne era assolutamente privo. In ben due occasioni il piccolo Gelone aveva goduto del favore e della protezione divina: sia quando era stato svegliato dal cane da un sogno terribile sia, qualche anno dopo, quando l’intervento di un lupo lo aveva salvato dal crollo della sua scuola. In F 18 Timeo sembra addirittura volere mettere in evidenza che il consenso riscosso dal maggiore dei Dinomenidi era indipendente dalla sua posizione di autorità legata piuttosto al carisma del personaggio. Qui lo storico narra che, alla morte di Cleandro, Ippocrate, volendo al tempo stesso compiacere i Geloi (±Ì· ‰b ÙÔÖ˜ °ÂÏÒÈÔȘ ¯·Ú›Û·Ûı·È 117 Il termine risulta, secondo Vattuone 1991, 126 e n. 10 riduttivo rispetto al disegno generale dell’opera e nato «dalla relazione assai stretta, quale in Marcell. Vita Thuc. 27, fra il suo bios, le sue esperienze politiche e il successivo atteggiamento di storico. Un nesso, che tramite Polibio, è stato probabilmente già sopravvalutato dalla prima reazione ai suoi scritti». Che l’opera di Timeo fosse fortemente politicizzata e orientata in senso antitirannico lo si può dedurre anche dalla sua avversione nei confronti degli storici dei tiranni. Plutarco riporta il racconto della morte di Filisto mettendo in evidenza il disprezzo che, nei confronti degli amici della tirannide, traspariva dall’opera timaica (Plut. Dion. xxxv-xxxvi). A proposito invece del giudizio di Polibio, nel xii libro, su Timeo cfr. anche Merante 1971, 161 e ss. 118 Brown 1958, 64. A proposito della posizione filogeloniana di Timeo cfr. anche Vattuone 1991, 160 e ss. e Bearzot 1991, 79-87; Marino 2001, 424.

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‚Ô˘ÏfiÌÂÓÔ˜), chiese al futuro tiranno la sua collaborazione e gli affidò il comando della cavalleria. Si lascia quindi intuire che il prestigio di cui il giovane Dinomenide godeva presso la cittadinanza era tale da convincere Ippocrate dell’opportunità di accoglierlo nel suo entourage. Tuttavia l’attribuzione della carica di ipparco tradisce anche una piena consapevolezza da parte di Ippocrate delle capacità militari del giovane. Ma il terreno di confronto tra Gelone, «popular hero», e Ierone, tiranno invidioso, nell’opera timaica, non può che essere costituito dalla ricostruzione storica della lotta contro i “barbari”. Timeo tenta di rivitalizzare la tradizione sul contributo di Gelone alla battaglia ellenica, neutralizzando innanzitutto gli effetti della propaganda ieroniana, nell’ambito della quale il trionfo del 480 a. C. veniva attribuito a tutti i Dinomenidi, e Ierone stesso veniva presentato quale successore legittimo del campione di Imera ed erede della sua politica. La valutazione timaica della natura del contributo siceliota alla lotta dei Greci contro i “barbari” emerge, per contrasto, dalla testimonianza di Polibio.119 Lo storico racconta che gli ambasciatori di Gelone, al congresso di Corinto, avevano promesso l’invio in Grecia di ventimila fanti e duecento navi per contrastare l’imminente invasione persiana, ma che in cambio il loro tiranno avrebbe preteso il comando sia dell’esercito, sia della flotta. A questa proposta i Greci risposero che l’egemonia sarebbe stata assegnata al migliore. Fin qui il resoconto di Polibio che non manca però di concludere la sua riflessione con un attacco a Timeo. Egli infatti si era dato talmente tanto da fare per dimostrare la grandezza della Sicilia rispetto a tutta la Grecia – sostiene Polibio, non senza un certo sarcasmo – che aveva presentato la storia interna dell’isola come la più gloriosa, e i suoi abitanti come gli uomini più saggi tra tutti coloro che si distinguono per saggezza, e infine aveva definito i Siracusani come i più abili nel guidare le imprese militari. Il fastidio manifestato dallo storico nei confronti di tale ricostruzione è legato probabilmente all’eccessiva parzialità mostrata da Timeo impegnato in uno spregiudicato elogio della potenza di Siracusa e del valore dei suoi strateghi, in polemica evidentemente con la grettezza e la scarsa lungimiranza dei Greci che, al tempo del congresso di Corinto, si erano rifiutati di concedere il comando al dinasta. Tuttavia l’esagerazione che lo storico di Megalopoli rimprovera al collega tauromenita ci consente di identificare proprio in quest’ultimo 119 Pol. xii 26 b.

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la fonte di Diodoro dei paragrafi 20-24 dell’xi libro, quelli cioè relativi ai fatti del 481-480 a. C. L’orgoglio occidentale di Timeo è ravvisabile nella rassegna delle forze militari attribuite a Siracusa, la cui entità risulta davvero straordinaria.120 Diodoro riporta qui cifre decisamente esagerate che ci consentono però di vedere, dietro la ricostruzione delle trattative con i Greci che precedettero la battaglia di Imera e quella di Salamina, la mano di Timeo. Anche nei capitoli 20-24 dell’xi libro della Biblioteca storica si ritrova l’ormai consueta integrazione tra storia occidentale e orientale, ma stavolta gli elementi in causa sono diversi. Stando a Diodoro,121 alcuni storici avrebbero paragonato la battaglia di Imera a quella che i Greci combatterono a Platea. Il sistema è dunque analogo a quello utilizzato dalla propaganda ieroniana e incoraggiata dal tiranno stesso. Ma Diodoro – o meglio Timeo – esagera anche stavolta e arriva a stabilire un altro suggestivo sincronismo, quello tra Imera e le Termopili. Paragonando la più bella vittoria alla più gloriosa sconfitta si poneva l’accento – e non senza una certa malizia – sul trionfo di Gelone, lasciando passare in secondo piano il successo dei Greci contro i Persiani. Il parallelismo Imera-Termopili aveva inoltre il non trascurabile vantaggio di sollevare Gelone dall’accusa infamante di filomedismo e di confermare la versione dei circoli sicelioti. Inoltre, a conferma del desiderio del principe di partecipare alla lotta combattuta dai Greci in Egeo, Diodoro122 riporta la notizia della partenza dei Siracusani dopo Imera, alla volta della Grecia, bloccata dal tempestivo messaggio della nave corinzia che annunciava la vittoria di Salamina. L’anticipazione dello scontro di Imera al tempo della battaglia delle Termopili dunque serviva a convalidare una tradizione in base alla quale Gelone sarebbe pure intervenuto in Grecia se non avesse dovuto combattere contro i Cartaginesi. Diodoro123 racconta anche della congiunta minaccia persiano-cartaginese che aveva stretto in una morsa la Grecità di Oriente e d’Occidente pronta a coalizzarsi contro un pericolo comune. Era questa una visione della lotta contro il “barbaro” che l’Agirinense poteva avere mutuato da Eforo per il filtro pe120 Si parla di cinquantamila soldati e di più di cinquemila fanti (Diod. xi 21) contro le duecento triremi e ventimila opliti, duemila cavalieri e altrettanti arcieri, frombolieri e cavalleggeri che invece secondo Erodoto (Hdt. vii 158) Gelone avrebbe dichiarato di potere mettere a disposizione dei Greci qualora avessero accettato le sue condizioni. 121 Diod. xi 23. 122 Diod. xi 26. 123 Diod. xi 1.

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rò dello stesso Timeo che sappiamo si servì dell’opera dello storico cumano senza però astenersi dal criticarlo.124 A questo punto il cerchio si chiude e si possono trarre alcune conclusioni interessanti. Il nesso Platea-Imera e l’integrazione tra storia occidentale e orientale sono temi chiaramente riconducibili alla propaganda ieroniana che però Timeo ribalta in senso filogeloniano. Platea e Imera erano già state affiancate da Pindaro proprio nella Pitica i. L’allusione diodorea agli storici che hanno suggerito questa connessione può essere attribuita allo stesso Timeo che, a sua volta, può avere utilizzato filoni nati e elaborati alla corte del secondo Dinomenide. Era, infatti, riconducibile a Ierone il progetto di dare alla lotta siceliota contro il “barbaro” pari dignità rispetto a quella combattuta dai Greci della madrepatria, così come era sua intenzione affrancare – nei limiti del possibile e della convenienza politica – Gelone dai sospetti di filomedismo. Ma Timeo si spinge oltre e arriva addirittura ad attribuire un carattere di precedenza alla battaglia di Imera, stabilendone la contemporaneità, non con una vittoria, bensì con una delle sconfitte più gravi che i Greci dovettero subire. Il sincronismo ImeraTermopili è piuttosto sospetto e sembra proprio la risposta timaica al dato erodoteo che affiancava invece il conflitto greco-cartaginese del 480 a Salamina. È ipotizzabile che, per la sua ricostruzione dei fatti, il Tauromenita si sia servito proprio dei dati plasmati e rielaborati dalla propaganda ieroniana e li abbia poi deliberatamente rovesciati in senso antiieroniano. E non è escluso che anche per il suo ritratto di Ierone, tiranno invidioso e usurpatore, egli sia sia servito di quei filoni di opposizione di cui abbiamo parlato, sviluppatisi alla corte del secondo Dinomenide. I segnali che abbiamo per confermare questa ipotesi sono veramente pochi e piuttosto deboli, ma forse, se riletti alla luce di quanto è stato detto, possono assumere un rilievo del tutto imprevisto. È già stato sottolineato come il bersaglio privilegiato di Timeo fosse proprio quella ricerca di legittimità che costituiva il Leitmotiv della propaganda ieroniana. Ma c’è di più: seguendo il filo rosso del topos timaico del tiranno invidioso, per esempio, si può arrivare proprio al nucleo del circolo di Ierone e rintracciarlo anche nella sconfinata produzione pindarica. Nella Pitica iii,125 il poeta tebano si rivolge al principe definendolo Ú·V˜ 124 Cfr. Pol. xii 3, 4a = FGrHist 566 F 110; Pol. xii 23, 1; Pol. xii 28, 8 = FGrHist 566 F 7. 125 Pind. Pyth. iii 71.

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àÛÙÔÖ˜, Ôé ÊıÔÓ¤ˆÓ àÁ·ıÔÖ˜, Í›ÓÔȘ ‰b ı·˘Ì·ÛÙe˜ ·Ù‹Ú. Per Pindaro, egli è dunque il sovrano mite con i cittadini, padre ammirato dagli ospiti, ma soprattutto non invidioso. L’espressione Ôé ÊıÔÓ¤ˆÓ àÁ·ıÔÖ˜ – se si dà ad àÁ·ıÔÖ˜ il significato connotato in senso sociale di aristocrazia – potrebbe essere letta come un’allusione all’episodio dello scontro con Polizelo che inaugurò con ogni probabilità l’attività politica e militare di Ierone. Si può ipotizzare che proprio la dichiarazione di Pindaro sia stata particolarmente incoraggiata dal tiranno per contrastare magari i malumori o le voci seguite all’incidente con il fratello. Che Timeo poi fosse un appassionato lettore di Pindaro emerge anche da alcune altre allusioni rintracciabili all’interno dei frammenti.126 In conclusione, i dati finora analizzati possono lasciare pensare che nel iv secolo fosse vitale un filone rappresentato da Filisto e da Eforo127 da cui viene fuori un’immagine di Ierone non antitetica rispetto a quella del suo predecessore di cui sembrava seguire la stessa linea politica. E la legittimità del suo diritto di successione costituiva uno dei punti di forza di questo tipo di tradizione storica, nata senz’altro già in età ieroniana. Si tratta per l’appunto di una concezione in virtù della quale la figura di Ierone va avvicinandosi progressivamente a quella di Gelone, quasi sovrapponendosi a essa, e talora, in questa operazione di graduale oscuramento del trionfatore di Imera, non è escluso che si tentasse anche di amplificare le aspirazioni panelleniche e filelleniche del suo successore. Timeo cerca di rompere con questa tradizione e propone nella sua opera storiografica una netta separazione tra i due tiranni. Lo storico s’impegna, infatti, in un metodico e sistematico rovesciamento in negativo dei punti di forza della propaganda ieroniana. È così che Ierone diventa il tiranno invidioso della fama del fratello e quasi un usurpatore senza scrupoli, ma ciò che con più forza gli è negato, in 126 Strabone registra l’accordo tra Pindaro e Timeo a proposito delle acque della fonte Arethusa a Siracusa che sarebbero le stesse del fiume Alfeo che scorre vicino ad Olimpia (Strab. vi 2, 4). Sia lo storico (Tim. FGrHist. 566 F 41c) sia il poeta (Pind. Nem. i 1-2) credono al fenomeno che una coppa caduta nel fiume Alfeo possa riemergere nella fonte Arethusa, le cui acque sarebbero, per di più, rese torbide dai sacrifici di buoi che si compiono nel santuario peloponnesiaco. Inoltre in F 141 e 142, Timeo dimostra ancora di avere letto Pindaro: nel primo frammento interviene a proposito dell’enigma della vittoria di Ierone, celebrata nella Pitica ii; nel secondo frammento, erroneamente, definisce olimpico l’epinicio per Cromio di Etna, composto chiaramente da Pindaro per le Nemee. 127 Sul contributo di Eforo alla tradizione storiografica sui Dinomenidi cfr. Lo cascio 1973-74, 210-255 e supra p. 239.

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maniera sottile e tendenziosa, è la legittimità del suo diritto di successione. Il risultato di questo processo di separazione tra Gelone e Ierone è evidente nel passo di Diodoro,128 riportato all’inizio di questo paragrafo, in cui praticamente si azzera la frenetica attività del circolo riunitosi a Siracusa negli anni settanta del v secolo. Da lì in poi la tradizione sull’esperienza tirannica di Ierone che, fino a Timeo, si era mantenuta tendenzialmente favorevole al sovrano, si trasforma e il successore di Gelone da principe filelleno e mecenate generoso, da degno erede del fratello e campione della difesa della libertà delle poleis d’Occidente diventa un tiranno intollerante, violento, amante del denaro e del tutto alieno da sincerità e nobiltà. 128 Diod. xi 67; cfr. supra p. 242.

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CONCLUSIONI … Mi sembra che voi abbiate i comandanti ma non avrete coloro su cui comandare. E poiché, dunque, volete tutto senza cedere in nulla, sbrigatevi ad andare via al più presto e annunziate alla Grecia che le è stata tolta dall’anno la primavera. Hdt. vii 162

C

on questa secca battuta che poco adito lasciava a repliche Gelone, principe dei Siracusani, liquidò, secondo Erodoto, gli ambasciatori greci, venuti a chiedere l’ausilio siceliota contro la minaccia terribile dei Persiani che gravava sull’eleutheria ellenica. Il rifiuto e l’innegabile assenza siracusana allo scontro con i “barbari” furono ora esasperati, ora dissimulati dalla propaganda successiva. I Dinomenidi furono costretti a correre subito ai ripari per evitare la rottura definitiva con i Greci della madrepatria che rischiava di tagliare fuori i dinasti di Sicilia dalle relazioni internazionali e diplomatiche. Si disse quindi che Gelone non era potuto salpare alla volta della Grecia perché impegnato a Imera in un’analoga battaglia contro i “barbari”. A Delfi poi i Dinomenidi dedicarono donari che ricordassero ai Greci l’impegno e la partecipazione siceliota alla lotta comune. I principi siracusani attraversarono la storia, collezionando ora accuse di filomedismo ora medaglie al valore guadagnate nello sforzo bellico contro i Punici. Le fonti difficilmente consentono di attribuire al primo o al secondo dei figli di Dinomene la responsabilità di programmi propagandistici che di fatto resero il giudizio storico mutevole e incostante nel corso del tempo: Gelone da arrogante e poco disponibile, come sembrerebbe di potere dedurre dal testo erodoteo, diventò nella rilettura storiografica successiva un attivo collaboratore dei Greci nella lotta contro un nemico comune. Sebbene la tradizione erodotea sia stata, come si è visto nel corso di questa indagine, manipolata e corretta, resta come dato di fatto l’assenza delle navi siracusane a Salamina che indirettamente conferma il rifiuto geloniano all’appello dei Greci. E quando il fratello Ierone prese il suo posto sul trono della colonia corinzia si trovò questa pesante eredità da gestire. Dopo il 480 a. C. il mondo delle poleis elleniche si era radicalmente trasformato: la vittoria contro i Persiani aveva conferito ai Greci consapevolezza e coraggio, ma soprattutto aveva offerto loro nuove chia-

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vi di lettura attraverso le quali interpretare la politica e i conflitti che sarebbero venuti in seguito. Ma la grande novità emersa dalle acque di Salamina consisteva nel fatto che quello specchio di mare, innanzitutto, era stato lo scenario del trionfo di un’intera comunità, e non di una sola polis o di un solo sovrano, contro una potenza militare che da tempo ormai era espressione di compattezza e forza. A Salamina non si scontrarono solo due eserciti, ma due visioni del mondo, diverse e irriducibili l’una all’altra esattamente come le due donne del sogno di Atossa, per dirla con Eschilo. Non essere a Salamina avrebbe significato restare fuori dalla squadra vincente ed essere emarginati da quella comunità di eroi che in quelle acque aveva potuto sollevare il vessillo della vittoria. In un periodo come l’inizio del v sec., di grande mobilità d’uomini e di circolazione d’idee, la notizia del rifiuto di Gelone all’invito dei Greci a partecipare a quella che poi si sarebbe rivelata la grande festa dell’hellenikon, poteva essere un boomerang per la tirannide siceliota. Il tempo era poco ma una rilettura della vittoria di Imera poteva costituire per i tiranni di Sicilia l’occasione d’oro per correre ai ripari. Ma perché l’operazione riuscisse era opportuno innanzitutto che anche lo scontro contro i Punici venisse presentato e metabolizzato come il conflitto di una comunità ellenica contro un altrettanto temibile pericolo “barbaro”. L’obiettivo era difficile da realizzare perché di fatto nei campi di Imera a combattere furono – anche e forse soprattutto – le dinastie occidentali coalizzate tra di loro. Una differenza strutturale che conferiva alla vittoria del 480 a. C. un carattere irrimediabilmente personalistico e certo non comunitario. Per creare e alimentare quel senso di comunità e di appartenenza che la lotta contro i Persiani aveva garantito ai Greci della penisola ci voleva tempo e la morte di Gelone certo non agevolò il suo successore in questo compito. Le circostanze che accompagnarono il passaggio dal trono di Gela a quello di Siracusa poi resero ancora più complessa la realizzazione di tale obiettivo, sia a causa della situazione internazionale determinatasi dopo Imera, sia per le contese dinastiche seguite alla morte di Gelone che rischiavano di far vacillare il trono. E non è escluso che gran parte delle decisioni politiche del nuovo tiranno siano state condizionate dalla particolare situazione interna di cui abbiamo tracciato i contorni. Una volta preso il controllo di Siracusa, il secondo Dinomenide cominciò ad impegnarsi in tutta una serie di attività diplomatiche e militari tese non solo a rafforzare e confermare l’autorità di Siracusa in ambito occidentale, ma addirittura a conferire al tiranno della città un ruolo che pochi dinasti rivestirono nel

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mondo greco. A poco a poco Ierone riuscì a creare i presupposti perché anche in Sicilia serpeggiasse quello spirito di corpo e quel senso di appartenenza all’hellenikon che avrebbe garantito alle città dell’isola ma soprattutto alla dinastia siracusana l’ingresso nella squadra degli eroi del 480 a. C. Il suo fu un lavoro attento e capillare e forse, se si rivedono alla moviola, momento per momento, alcuni eventi cruciali della tirannide ieroniana, è possibile interpretarli in questa chiave. Per diffondere la notizia dell’avvenuto allineamento delle città occidentali alla politica di quelle d’oltremare, il Dinomenide utilizzò a proprio vantaggio quel movimento di idee e persone che consentiva la produzione e la circolazione di una cultura “universalmente” condivisa, che finì per rendere assimilabili le une alle altre, e quindi compatibili tra loro le politiche di tutte le poleis greche. Il risultato di questo processo fu ovviamente una migliore capacità di comunicazione, una comunicazione che la temerarietà e l’arroganza di Gelone avevano viceversa impedito. Il nuovo sovrano invece usò un registro diverso rispetto a quello del fratello e non si sottrasse al suo ruolo davanti a una richiesta di aiuto di una città greca, affinché più chiaro e inequivocabile potesse circolare il messaggio che Ierone e i Siracusani stavano dalla parte dei Greci, di tutti i Greci e soprattutto di quelli che a Salamina avevano combattuto, gli uni al fianco degli altri, a dispetto della diversità di stirpe o delle contese locali. È così che Siracusa e il suo principe, pur non facendo segreto della simpatia e dell’affezione per il mondo dorico, non si tirano indietro davanti all’appello dei Locresi, dei Sibariti, degli Agrigentini e dei Calcidesi. Esattamente come Atene si era fatta carico della difesa dei Greci anche dopo il ritiro degli Spartani. Da lì in poi Siracusa e Atene cominciarono a parlare lo stesso linguaggio e quando le due città, qualche tempo dopo, si ritroveranno a fronteggiarsi, lo faranno ad armi pari e soprattutto con la consapevolezza che il loro codice di comunicazione era condiviso e compreso da tutta la comunità ellenica. Ma quello che ancora di più stupisce dell’attività di questo sovrano è il fatto che tutte le sue azioni politiche si prestano sempre a molteplici letture, presentando soluzioni imprevedibili ad una prima analisi. Se non sempre risolutivi dal punto di vista militare, gli interventi bellici di Ierone sembrano sempre volutamente accompagnati da un fragore propagandistico e da un impegno diplomatico tale da consegnare a Siracusa il migliore dei risultati con il minimo sforzo, rivelandosi quindi sempre strategicamente efficaci.

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C’è di più: la sensazione che si ha è che Ierone in ogni momento della sua carriera politica avesse sempre ben presente lo spettro completo delle possibili conseguenze, degli eventuali vantaggi e dei più improbabili risvolti e sapesse come sfruttarli al meglio. Da ogni sua operazione emerge un’approfondita conoscenza e consapevolezza non solo delle politiche internazionali, ma anche dei temi e dei topoi propagandistici a diffusione locale. Dopo la morte di Ierone, e quando ormai anche in Occidente la tirannide era un ricordo, Siracusa era una capitale culturale che poteva vantare una potenza e un prestigio analogo a quello di Atene, un potere e una riconoscibilità internazionale che avrebbero consentito diversi anni dopo a Tucidide di costruire sul modello dell’homoiotropia la contrapposizione tra le due poleis.129 Ma non era stato il solo Gelone a rendere Siracusa tale e grande come Atene. La sua opera era stata continuata, se non del tutto avviata, dal suo successore: un dinasta attento, intuitivo, capace di fare tesoro delle esperienze di governo dei suoi predecessori, ma soprattutto pronto a raccogliere qualsiasi richiesta di aiuto provenisse da una polis greca. I suoi obiettivi principali erano stati: la promozione dei Dinomenidi all’estero, la difesa a oltranza dello status quo, soprattutto delle posizioni conquistate dal fratello e del ruolo che gli era stato assegnato; i suoi strumenti erano la diplomazia, la propaganda e la promozione della cultura; infine i risultati a cui pervenne furono il prestigio e la considerazione internazionale. E se poche furono le conquiste, dal punto di vista territoriale e militare, viceversa enorme fu il peso della semplice parola di Ierone e l’influenza politica di Siracusa sul Tirreno. Da Gelone che non a caso consegnò proprio a lui la mano della figlia del tiranno reggino, Ierone ereditò la futura gestione della politica tirrenica che trattò al tempo stesso con cautela e grande coraggio. La bandiera della lotta contro il “barbaro” poi fu proprio lui probabilmente a consegnarla alla dinastia dei Dinomenidi e, in fondo, a tutte le dinastie che in futuro avrebbero governato su Siracusa. Con la vittoria a Cuma dei Siracusani contro gli Etruschi si chiudeva un cerchio lasciato aperto qualche anno prima da Gelone, e grazie all’incoraggiamento di Ierone, personaggi come Pindaro, Eschilo e Bacchilide misero a tacere quelle dicerie sul filomedismo del tiranno di Sicilia che cominciarono a circolare in Grecia dopo il 480 a. C. La storiografia an129 Thuc. viii 96.

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tica definì Ierone filelleno, ma non fu sempre così generosa con il tiranno, perché lo ricordò anche come avido e violento. Le ragioni che stanno alla base di questa evoluzione in negativo del giudizio degli antichi sulla parentesi ieroniana le abbiamo già spiegate e anche, parzialmente, attribuite all’estrema versatilità e originalità di questo personaggio, che seppe mostrare al mondo greco le sue propensioni filelleniche e filodoriche soprattutto; fu custode implacabile dell’organizzazione politica stabilita dal fratello dopo Imera e acerrimo nemico dei traditori; seppe contrastare e arginare correnti filosofiche tradizionalmente avverse alla tirannide come il Pitagorismo, lasciando che la sua corte di intellettuali proponesse un modello culturale alternativo più congeniale alle esigenze politiche della Siracusa di V secolo. Innovatore e scrupoloso custode della tradizione al tempo stesso, Ierone si servì di tutti gli strumenti utili alla costruzione del suo prestigio personale e che si riconducono a pratiche arcaiche di gestione e rappresentazione del potere quali le alleanze matrimoniali con le più grandi dinastie dell’epoca, l’enunciazione di discendenze eroiche, la partecipazione e le vittorie ai giochi con conseguente dedica di donari, testimonianza di una volontà inequivocabile di iscrivere il proprio nome nello spazio panellenico. E Ierone, in effetti, fu anche lui, come il fratello, il terminale fondamentale all’interno della rete relazionale che legava fra loro le élites occidentali, vantando anche una discendenza da una delle famiglie più potenti dell’isola cui si attribuivano prerogative sacerdotali. Principe fortunato delle odi di Pindaro e Bacchilide, vincitore tanto ai giochi panellenici quanto sul campo di battaglia, ecista ed eroe favorito dalle divinità, egli amava che lo si rappresentasse sulla scena insulare e internazionale come una sorta di theios aner, dai tratti sovraumani e carismatici. Egli costruì su di sé l’imagine di un Basileus dai modi arcaici – una sorta di big man per usare il lessico antropologico – ma restando capace, tuttavia, di parlare il linguaggio nuovo delle poleis di v sec., quello della diplomazia, della lotta contro i “barbari” e dell’afflato panellenico.

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BIBLIOGRAFIA Questa bibliografia raccoglie le edizioni dei testi, le traduzioni, i commenti e le voci dei lessici e delle opere di consultazione utilizzate. Sono riportate qui tutte le opere citate in note e alcune non citate. Le abbreviazioni delle riviste sono quelle dell’Année philologique.

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INDICE DELLE TAVOLE E DELLE ILLUSTRAZIONI Tav. 1. Le alleanze matrimoniali dei Dinomenidi Tav. 2. Ierone e il suo entourage ai giochi panellenici

116 185

Fig. 1. Iscrizione sulla base dell’Auriga di Delfi. Faccia anteriore del 57 blocco 3517 (tratto da Chamoux 1955, Pl. ii) Fig. 2. Iscrizione sulla base dell’Auriga di Delfi. Blocco 3517: fac-simile della prima riga (in rasura) (tratto da Chamoux 1955, p. 27, Figure 3) 57 Fig. 3. Tetradrammo d’argento, Aitna post 476-475 a. C. (tratto da 154 Boehringer 1968, Taf. 9) Fig. 4. Trepiedi dei Dinomenidi. Piano di elevazione (disegno di A. 175 Martinaud, tratto da Courby 1927, p. 297, Fig. 197)

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INDICE DELLE FONTI I numeri tra parentesi si riferiscono alle note in cui è indicato il riferimento. Fonti letterarie Anthologia Palatina vi 214: 176 (155). Anonimo De comoedia graeca p. 8, 36 Kaibel: 192 (47). Apollodoro (cronografo) FGrHist 244 F 69: 130 (3). Aristofane Av.: 926-927: 155 (100); Pax: 698: 188 (35). Schol. Aristoph. Ran. 1028: 194 (60). Aristotele Poet.: 1449b: 192 (45); 1459a 25: 241 (112); Pol.: iii 9, 1280a: 163 (118); iii 14, 1285a-b: 56 (80); 218 (29); v 10, 1312b 20: 19 (6); v 11, 1313a-b: 197 (71); 218 (30); 241 (113); v 12, 1315b 35: 28 (4); (6); 43 (60); Rhet.: ii 1391a: 188 (35); iii 1405 b20: 77 (10). Ps.-Arist. De mirab. auscult.107: 204 (99). Ateneo I 3, 15: 76 (7); vi 19 (231f-232b): 173 (150); 174; 218 (27); xii 59, 10: 73 (1); xiv 73: 193 (53); xiv 73, 14: 188 (35); 192 (42). Bacchilide Ep. iii: 18; 174 (153); 178 (160); 184; 186; iii 10: 218 (28); 16: 219 (34); iii 18-21: 174 (153); 186; iii 24: 217; iii 61-67: 218; 219 (37); iv: 58 (86); 186; iv 3: 215 (11); v: 185; 202; v: 130 (3); 185; 185 (19); 202; 202 (93); v 1-2: 215(10); xiii: 188 (36).

Frammenti F 20c Maehler: 186. Callia FGrHist 564 F 1: 142 (49). Callimaco F 222 Pfeiffer: 187 (34) Clemente Alessandrino Strom. i 14, 64: 192 (46). Cicerone Brutus 46: 192 (48); Tusc. ii 10, 23: 195 (62). Cratino F 442 Koch: 78 (23). Diogene Laerzio i 13: 209 (116). Dionigi di Alicarnasso Ant.Rom. vii 1: 34 (32); 164 (122); vii 3: 165 (126); vii 5-6: 165 (126); vii 37, 3: 165 (128); viii 70: 164 (122); xx 7, 1: 76 (7); 89 (65). Diodoro i 95, 3: 209 (116); iii 68: 73 (2); iv 33,5: 150 (82); iv 35: 73 (2); iv 57-58: 150 (81); iv 79: 118 (196); v 7, 6: 146 (68); v 8: 146 (65); v 9: 146 (65); 164 (120); ix 18: 219 (33); xi 1: 246 (123); xi 20: 103 (108); 246; xi 21: 246 (120); xi 23: 229 (76); 246 (121); xi 24: 178 (164); 229 (77); 246; xi 26: 32 (22); 39 (43); 39 (44); 40 (48); 42 (57); 103 (107); 173 (149); 246 (122); xi 38: 20 (8); 27 (3); 28 (4); 39 (42); 41; 51 (67); 133 (17); 186 (28); 194 (58); xi 44-45: 81 (37); xi 48: 35 (38); 44-52; 54; 69 (129); 76 (9); 77 (11); 85; 85 (51); 105110; 236 (101); xi 49: 30 (14); 105-110;

282

i nd i c e d e ll e fon t i

117; 129; xi 50: 223 (59); xi 51: 161; xi 52: 130 (4); 171 (144); xi 53: 103 (110); 112 (119); 121 (144); 133 (17); xi 59: 77 (11); 84 (50); 171 (145); xi 63: 131 (11); xi 66: 77 (11); 84 (48); 172 (146); 228 (72); xi 67: 19 (4); 43 (59); 100 (103); 136 (26); 155 (98); 242; 242 (114); 243; 249 (128); xi 68: 81 (37); xi 72,3: 136 (30); xi 76: 35 (39); 67 (123); 123; 135 (22); 154 (92); xi 78-79: 144 (56); xi 88: 91 (71); 170 (142); xi 89: 147 (70); xi 90: 88 (60); xii 9: 87 (56); xii 10: 87 (55); 88 (60); 135 (24); xii 11: 88 (61); xii 35: 51 (66); xii 47: 51 (66); xii 52: 51 (66); xiii 54: 228 (75); xiii 108: 228 (75); xiii 114: 67 (124); 228 (75); xiv 10, 4: 236 (102); xiv 14: 67 (125); xiv 18-45: 235 (96); xiv 44-45: 236 (100); xiv 48: 81 (36); xiv 109: 99 (100); xv 7 235 (97); xv 47: 233 (84); xvi 71: 174 (151); xix 108, 1: 219 (35); xxi 17, 4: 191 (41). Duride FGrHist 76 F 19: 73 (1). Eforo FGrHist 70 F 137: 162 (116); F 186: 33 (27); 239. Eliano VH: iv 15: 199 (75); vi 11: 39 (44); ix 1: 213; ix 5: 99 (100); xiii 37: 32 (22); 39 (44). Epicarmo F 35 Kaibel: 197. Eraclide Lembo 69 Dilts: 219 (36); (39). Eraclide Pontico FHG ii F 25, 5: 82 (40). Ermogene (retore) Proleg. Walz iv 11: 197. Erodoto i 6: 209 (116); i 24: 94 (85); i 30: 218 (26); i 41: 218 (26); i 86-87: 219 (37); i 166-167: 163 (117); iii 36: 94 (85); iii

40, 2: 209 (116); iii 120: 209 (116); iii 121: 187 (32); iii 125,2 181 (1); iii 129138: 91 (73); iv 15: 94 (85); v 43: 94 (85); v 45: 91 (73); v 46: 62 (100); 91 (73); 150 (83); v 92: 61 (95); 209 (116); vi 14: 62 (98); vi 17: 163 (119); vi 21: 87 (58); vi 23: 80 (29);164 (121); vi 103, 2: 58 (86); 59 (89); vi 127: 94 (85); vii 95: 146 (64); vii 148-152: 221 (48); 223 (61); vii 152: 221 (44); vii 153: 11; 65 (112); 73 (3); 201 (87); 217 (22); 220; 221 (45); vii 154: 29 (8); 40 (47); 63 (104); vii 155: 13 (1); 29 (7); 41 (49); 55 (76); 60 (92); 66 (118); vii 156: 13 (1); 27; 29; 31 (19); 60 (92); 225 (65); vii 157: 53 (71); vii 158: 33 (31); 63 (101); 63 (102); 150 (83); 166 (129); 246 (120); vii 159-160: 223 (57); vii 161: 223 (58); vii 162: 251; vii 164: 224; vii 165: 221 (46); 221 (47); 222 (54); 224; vii 166: 163 (117); 221 (46); vii 167: 11; 220; 221 (43); (47); vii 168: 221 (48); 222 (52); vii 169: 222 (53); vii 169,4: 77 (11); 84 (48); vii 170: 171 (143); 228 (71); vii 172-174: 222 (55); viii 47: 91 (71); viii 50: 222 (56); viii 62: 94 (85); 95 (88); ix 26: 150 (81); ix 78: 188 (36). Eschilo Eum.: 145 (63); 937-947: 149 (78); Prom. 363-365: 131 (9); 160 (108). Frammenti Eleg. F 4 PLG ii 240: 34 (31); F 26 Mette: 142 (48); Schol. Prom. 367: 131 (9); Aesch. Vita: viii: 192 (44); 194 (59); ix: 140 (37); xviii: 192 (44). Eschine Schol. In Ctes. 429a Dilts: 34 (34); 36 (40). Esiodo Theog. 901-903: 149 (79). Ferecide FGrHist 3 F 53: 160 (107).

i nd i c e d e l l e fon t i Filisto FGrHist 556 F 15: 30 (11). Giamblico V.P. xxxv 248: 89 (64); xxxv 255: 89 (64); xxxvi 266: 97 (94). Giustino iv 2, 4: 77 (11); xix 1, 9: 63 (102); xx 1, 16: 205 (101); xxi 3, 2: 76 (7); (8). Ippocrate: Prog. 8: 42 (56); Aff. 22: 42 (56). Licofrone 688 et schol.: 160 (107). Livio ii 5: 164 (123); ii 15, 5-9: 165 (126); ii 34, 3-7: 34 (32); 164 (122); (124). Luciano Herm. 34, 9: 206 (106). Macrobio Sat. v 19, 17: 142 (47); v 19, 19: 144 (55); v 19, 25: 142 (49); v 19, 26: 142 (49); v 19, 30: 142 (49). Marcellino Vita Thuc. 27: 244 (117). Natalis Comes Myth. ix 8, p. 987: 143 (54). Nicola Damasceno FGrHist 90 F 57, 7: 134 (19); F 59: 134 (19). Omero Il. ii 783: 160 (109); ix 19-28: 217 (19); xxiv 257: 215 (5); Od. vi 7-11: 127; xi 259: 215 (5). Pausania i 19, 4: 121 (146); iii 1: 79 (26); iii 1, 45: 150 (82); iii 3,1: 79 (25); iii 7, 9-10: 51 (66); iii 19, 11-13: 79 (25); iv 23, 6: 82 (38); v 24, 6: 84 (49); v 26, 2-4 77

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(11); 84 (49); vi 4, 11: 117 (129); vi 9, 4: 33 (25); 185 (14); vi 12, 1: 184 (10); vi 13, 1: 90 (69); 192 (49); vi 19, 7: 173 (147); vi 27, 1: 192 (45); viii 42, 9: 184; viii 46, 2: 65 (110); ix 40, 4: 65 (110); x 9, 2: 91 (71); x 11, 3: 164 (120); x 16, 7: 164 (120); x 25-31: 201 (86). Pindaro Isthm. ii: 120; 190 (40); Nem. i: 55 (78); 155; 185; 185 (20); i 1-2: 202 (92); 248 (126); i 19: 219 (34); i 22: 219 (34); v: 188; viii 28-35: 217 (18); ix: 55 (78); 155; 186; ix 28: 62 (99); 185; ix 95: 155 (97); Ol. i: 120; 130 (3); 185; 185 (19); 200; 200 (83); i 11: 200 (82); i 12-13: 215 (4); i 23-24: 215 (5); i 27: 201 (90); i 40a: 200 (84); i 52-53: 201 (85); i 53-58: 200 (83); i 89: 215 (7); i 92: 201 (89); i 103: 200; 219 (34); i 116: 98 (97);ii: 109; 119; 119 (140); 202; ii 6-8: 109; ii 15: 119 (139); iii: 120; 150; 202;iii 1: 120 (141); iii 35: 120 (141); vi: 186; x: 189; x 1-3: 189 (38); Pyth. i: 62; 75; 83; 120; 122; 130; 136; 139; 142; 148; 149-150; 153; 159; 160; 160 (113); 178; 186; 186 (24); 203; 204; 216; 218; 219; 220 (41); 225; 234; 239; 247; i 10-13: 148; i 13-20a: 159; i 15-28: 130 (6); 33: 133 (18); i 46: 148 (77); i 51-56: 122 (150); 178 (162); 203 (94); i 61: 134 (20); i 63-71: 149-150; i 66-67: 120 (142); i 72: 62 (98); i 73: 215 (3); i 72-80: 225-226; i 75: 176 (157); i 85: 234 (91); i 91: 234 (90); i 94-97: 217 (17); 219 (31); i 96: 218 (25); ii: 186; 195; 197; 199; 203; 217; 248 (126); ii 1520: 217 (16); ii 18-20: 80 (33); ii 58-59: 215 (9); ii 69: 194 (56); ii 76: 197 (73); ii 90: 234 (91); iii: 58 (86); 185; 247; iii 70-73: 215 (6); 219 (34); iii 71: 234 (91); 247 (125); iii 84: 215 (8); iii 86: 215 (7); iv 107: 215 (7); vi: 104; 190 (40); x: 152-153; x 31: 215 (7). Frammenti F 105a Maehler: 127-128; 186; Enco-

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mio F 118-119 Maehler: 190 (40); F 205 Maehler: 189 (39). Schol. Pind. Isthm. ii 6: 188 (35); ii 9a: 187 (34); Nem. i inscr. a: 156 (101); v 1a: 188-189; ix 95a: 55 (77); Ol. i 35c: 130 (3); ii inscr.: 56 (81); 104 (111); ii 16b: 64 (109); ii 29b: 44-50; 52 (69); 55; 56; 56 (81); 86; 93; ii 29c: 9; 4450; 53; 54; 56 (81); 62-69; 93; 105-108; 110-111; 113-115; ii 29d: 44-50; 55; 56 (81); 87; 105-111; ii rec. 29 Th.: 45 (63); ii 123 a-d: 119 (140); i i 173 f, g: 113 (120); ii rec. 173 Abel: 113 (120); iii 68a: 104 (112); iii 68d: 104 (112); iii 68 rec.: 104 (112); v 19a-b: 30 (11); v 19c: 30 (11); vi 158: 201 (87); vi 162 a-c: 135 (23); xii inscr. b: 117 (129); Pyth.: i metr. 5: 185 (15) (17); i 89 ab: 42 (55); 206 (108); (109); i 99a-b: 75; 122 (151); i 100: 203 (96); i 112: 34 (36); 35 (37); i 137a-c: 161 (114); i 146a: 240 (111); i 146b: 239; i rec. 151154 Abel: 174 (152); i 152: 176 (156); ii 27 a-e: 217 (20); ii 27b: 201 (87); ii 36c-38: 76; 217 (23); ii 97: 192 (43); ii 131b: 192 (43); iii 117: 206 (109); vi 5a: 113 (121). Vita ambr. p. 3, 20: 193 (54). Platone Ep. ii 311a: 238 (107); vii 336a: 232 (79); Rep. viii 565: 232 (81). Plinio N.H. xxxiv 59: 193 (50). Plutarco Vitae Alex.: iv: 206 (107); xxxiv 1-3: 91 (71); Cim.: xiv 4: 96 (91); viii 9: 192 (44); xvi 1: 96 (91); Cor.: xvi: 164 (122); Dion.: iii 4: 236 (100); v 9 : 237 (106); xix: 191 (41); xxxvi 1: 54 (75); xxxv-xxxvi: 244 (117); Them.: v 4: 98 (99); v 5: 96 (90); xi 5: 96 (91); xxiv 7: 98; xxv 1: 98; xvii 4: 98 (98);

Moralia De mus.9=Mor. 1134 b-c: 79 (25); De cap. ex inim. util. 7, 10= Mor. 90 : 206 (106) ; De Pyth. Or.19=Mor. 403c: 42 (55); De ser. num. vind. 12=Mor. 557c: 93 (81); Mul. Virt. 26=Mor. 261e262d:165 (126); Parall. gr. et rom. 315c: 219 (32); Quomodo adulator…27=Mor. 68a: 97 (95); Reg. et imp. apophth.=Mor. 175b-c: 97 (95); 192 (45); (46); 196 (69); 206 (106); Vita decem orat.=Mor. 838a: 191 (41). Polemone FHG iii f 83 p. 140: 142 (49). Polibio xii 3, 4a: 247 (124); xii 5: 79 (26); xii 23, 1: 247 (124); xii 24, 5: 53 (70); xii 28, 8: 247 (124); xii 26b: 245 (119). Polieno i 27, 1: 32 (22); i 27, 3: 31 (20); i 29: 112 (119); i 29, 2: 94; v 6: 66 (117); (119). Porfirio V.Pyth. 56: 83 (44). Ps. Temistocle Ep. vii 746 Hercher: 33 (31); xx 30, 758 Hercher: 100 (101). Ps. Scimno 341: 87 (56). Senofonte Hell. vi 4, 33-37: 233 (84); Hier. i: 27 (1); i 11-14: 235 (99); i 13: 208 (113); i 28: 235 (99); iii 8: 233 (84); v 4: 234 (92); viii 10: 235 (99); xi 1: 234 (89); xi 5-6: 235 (99); xi 7: 234 (92); xi 14: 235 (98); xi 15: 234 (92). Servio Aen. ix 581: 142 (50). Sileno FGrHist 175 F 3: 142 (50). Sofocle Phil. 5-10: 206 (104); 1032: 206 (105). Sofrone F 169 Kaibel: 78 (23).

i nd i c e d e l l e fon t i

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Souda s.v. \AÚ¯›·˜:92 (77); s.v. B·Î¯˘Ï›‰Ë˜: 195 (64); s.v. ı¤ÔÔÌÔ˜: 174 (151); s.v. M‡ÛÎÂÏÏÔ˜: 92 (77); s.v. ºfiÚÌÔ˜: 192 (45). Stefano Bizantino Syrakousai: 92 (77). Stesimbroto FGrHist 107 F 3: 98 (96). Strabone v 4, 9: 160 (106); 169; vi 1, 1: 77 (11); 84 (50); vi 1, 5: 73 (3); 78 (17); (18); 83 (46); 92 (78); 166 (132); 167 (133); vi 1, 6: 82 (40); vi 1,7: 81 (34); vi 1, 10, 1: 79 (27); vi 1, 13: 87 (56); (57); vi 2, 2: 162 (116); vi 2, 3: 30 (13); 127-128; 156 (102); vi 2, 4: 92 (77); 248 (126); vi 2, 5: 204 (100); vi 2, 10: 164 (120); viii 5, 4: 150 (82); ix 4, 10: 150 (81); x 1, 15: 32 (21); x 5, 6: 195 (64); xiii 4, 6: 160 (107).

Tucidide i 17: 228 (74); i 18: 149 (80); i 100: 136 (28); iii 116: 131 (7); iv 102: 136 (28); v 18, 5: 136 (29); vi 2: 62 (97); vi 3, 3: 67 (121); vi 4: 31 (20); 82 (40); 133 (16); vi 5: 30 (10); 117 (131); 133 (17); vi 17: 157 (104); 228 (74); vi 20, 2: 228 (74); vi 44: 83 (43); vi 62, 3: 67 (121); vi 68: 67 (121); vi 88, 3: 65 (121); vi 94, 1: 31 (20); vi 136, 2: 100 (102); vii 28, 3: 186 (29); vii 58,2: 117 (132); viii 96: 254 (129).

Teocrito Schol. Idyll. 1, 65: 142 (50). Teopompo FGrHist 115 F 114:173 (150); F 193: 34 (33); Timeo FGrHist 566 F 7: 247 (124); F 18: 244; F 19 a-b: 30 (11); F 41c: 248 (126); F 93 a: 104 (111); F 93 b: 35 (38); 44-50; 56 (81); 68; 86-87; 93; 105-108; 110; 112; 213; 234 (92); 244; F 95: 244; F 110: 247 (124); F 121: 55 (77); F 141: 248 (126); F 142: 248 (126). Tirteo F 12 West: 217 (18).

Pap. Oxy. 2256 fr. 8: 145; 148 (76); fr. 9 ab: 144 (58); 148; 2257 fr. 1: 145.

Senagora FGrHist 175 F 3: 142 (49). Iscrizioni e papiri CEG 380, 1: 30 (12).

Marmor Parium FGrHist 239 A 52: 131 (8). Meiggs - Lewis 28: 175 (154); 29: 173 (147). SEG xxiii 1968, 253: 173; xxiii 1968, 328: 173 (147); xxiv 1969, 304-305: 80 (30); xxiv 1969, 311-312: 80 (30); xl 1990, 427: 57 (83); xlii 2002, 533: 57 (83).

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INDICE GENERALE L’indice è selettivo e non comprende i nomi più frequenti come Ierone, Gelone o Dinomenidi, Emmenidi, Siracusa, Siracusani etc. Nomi Acrone: 121 (147). Admeto (re dei Molossi): 97. Agatocle: 191 (41). Agesia di Siracusa: 153; 186; 208. Alcidamida: 82. Amilcare: 165; 221 (43). Anassilao: 51; 52; 60; 64 (105); 75-83; 89; 115-116; 121-123; 133; 166-167; 169; 171172; 199-200; 217; 228. Apelle (siracusano): 170. Archidamo: 51; 51 (66). Architele: 34 (33); 174; 176. Aristodemo: 164-165. Aristonoo: 55; 155 (97). Astilo di Crotone: 90; 90 (70); 92; 192 (49). Bacchilide: 15; 18-21; 58 (86); 130 (3); 143; 174; 178; 182; 184-186; 188 (36); 192; 195; 199; 200; 202-203; 203 (94); 215220; 236; 243; 254; 255. Cadmo di Cos: 224; 224 (64). Calamide: 184. Callimaco: 50; 107; 187 (34). Cameleonte: 193. Capi: 113-114; 118 (136); 119 (138). Cimone: 96 (91); 98; 152; (Coalemos) 58 (86); 57 (89). Cinira di Pafo: 203; 216-220. Cleandro: 28; 41 (49); 244. Cleofrone/Leofrone: 76; 76 (7). Clinia: 89; 89 (66). Cocalo: 121; 118 (136). Corace: 192; 192 (48). Creso: 203 (94); 209; 209 (116); 216-220.

Cromio di Etna: 55; 55 (77); 62 (99); 7576; 123; 133-134; 153 (90); 155; 155 (97); 185; 185 (20); 186 208; 248 (126). Damarete: 45; 55; 59-60; 104; 116. Dario: 91; 91 (73). Democede: 91 (73). Dinomene (capostipite): 13; 175-176; 226-227; 242; 251. Dinomene (figlio di Ierone): 34; 55; 115; 133-134; 151; 153 (90); 155; 184; 227 (69). Dione: 235 (96); 237 (106); Dionisio di Focea: 163. Dionisio I: 54; 66-68; 81 (37); 99 (100); 235; 235- 236; 237 (106); 240. Dionisio II: 54; 191 (41). Dorieo: 62; 63 (102); 91 (73); 150; 228 Ducezio: 67; 134; 137; 154. Elicone di Cizico: 191 (41). Empedocle: 89 (64); 120 (140); 121 (147); Enesidemo: 104 (112). Epicarmo: 57 (82); 75; 89 (64); 97; 97 (94); (95); 143 (54); 167; 192; 192 (45); 195; 197; 199; 203; 206; 207 (111); 220 (42). Ergotele di Imera: 117 (129). Eschilo: 10; 19; 130-131; 139-142; 145-148; 156; 177; 192; 192 (44); (47); 194; 194 (59); 195; 234; 252; 254; Euclide e Cleandro (figli di Ippocrate): 41 (49). Evagora (corinzio): 134. Evagora di Cipro: 233 (84). Faillo: 91; 91 (71); (76); 170. Falaride: 103 (110); 104 (112); 218-220.

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i nd i c e g en e r a l e

Fania di Ereso: 173. Filisto: 45 (63); 53-54; 62; 68-69; 93; 108; 235; 244 (117); 248. Frinico: 96 (90); 141; 192; 192 (47).

67-69; 73-74; 85-86; 92-93; 95; 101; 103-123; 130; 137-138; 176; 176 (155); (156); 185; 202; 236; 244; 248. Prassitele di Camarina: 30.

Glauco di Caristo: 34 (34); 36 (40).

Senocrate: 104; 116; 120; 190 (40). Senofane: 192; 196; 196 (69); 203. Serse: 40; 173-174; 224; 239. Simonide: 15; 19; 50; 52; 53 (70); 54; 57; 77; 107; 110; 110 (115); 113; 142 (50); 176; 187-188; 192-195; 199; 208; 213; 233-236; 238. Stesicoro: 79 (25).

Ipparco: 187; 190. Ippocrate agrigentino: 113-114; 118 (136); 119 (138). Ippocrate tiranno di Gela: 13; 28-31; 34-36; 40-41; 55; 60; 63-64; 66-67; 132133; 138; 155 (97); 164; 244-245. Lamaco: 67 (121). Lisia: 99 (100). Micito: 51-52; 77; 77 (11); 84; 84 (49); 171; 199; 228; 228 (73); Nicia: 67 (121); 136; 228 (74). Nicocle (aristocratico siracusano): 34; 34 (35); 115-116; Nicocle di Cipro: 191 (41); 232. Onata di Egina: 184. Periandro: 209; 209 (116). Pindaro: 10; 15; 17; 19-21; 30; 42-43; 5355; 58-59; 62; 64; 75-76; 83; 85-86; 98; 103 (108); 104; 109; 113; 118-120; 122; 127-128; 130-131; 133-134; 139; 147148; 150-152; 155-156; 159-160; 171; 174; 176-178; 182; 184-190; 192-208; 213; 215-220; 225-227; 229; 234; 236; 239; 243; 247-248; 254-255. Pisistrato: 58 (86); 59 (89); 140. Pitagora (filosofo): 83; 87; 89; 97. Pitagora di Reggio (scultore): 192; 192 (49); 193 (50); 203. Pitea di Egina: 188; 188 (36); 208. Policrate di Samo: 19; 181; 190; 209; 209 (116). Polizelo: 9-10; 13; 35; 45; 47; 50; 52-65;

Telemaco (Emmenide): 104 (112). Teli: 87; 89. Teline: 65 (112); 201; 201 (86); 221; 221 (45). Temistocle: 10; 95-101; 156. Teocle: 162 (116). Terillo di Imera: 60; 165-166. Terone: 45; 45 (63); 47; 50-52; 54; 56; 61; 77 (13); 85; 103-104; 107-123; 130; 133 (17); 150; 190; 190 (4); 202. Tisia: 192 (48). Trasibulo: 13; 45; 100; 115; 120; 135; 137; 155; 176; 176 (155); (156); 242. Trasideo: 50; 54; 68; 107; 109-112; 114; 116 (128); 120-121; 171. Luoghi/Etnici Agilla/Agillei: 163 (117). Agrigento/Agrigentini: 9; 17; 35-36; 45; 47; 50; 54; 56; 60-61; 65; 67; 71; 85; 103-123; 167; 171; 181; 190; 202; 204; 219; 228 (75); 243; 253. Alalia (battaglia di): 163; 163 (117). Alfeo (fiume): 173 (147); 201; 202 (92); 248 (126). Amenano (fiume): 151. Amicle: 149-150. Arcadi: 136. Arethusa (fonte): 202 (92); 248 (126).

i nd i c e g e ne r a l e Assoro: 66 (120). Atene/Ateniesi: 21; 40; 51; 67 (121); 84; 88; 92; 97- 100; 117; 122; 135 (24); 136; 140; 145 (63); 152-153; 156; 157 (104); 168; 177-178; 186; 186 (29); 194; 194 (59); 223; 223 (58); (61); 226-229; 234; 244; 253-254. Calcidesi: 10; 67; 67 (121); 117-118; 128129; 134-135; 137-138; 142; 146; 163; 166; 176; 253. Caltagirone: 147. Caltanissetta: 65. Camarina/Camarinesi: 29-31; 34-36; 39; 60; 64-65; 133; 133 (17); 136; 228 (75); Camico: 113; 118 (136). Cartaginesi/Punici: 14; 33; 40; 62-64; 74 (4); 103; 108; 112 (117); 118; 162-163; 166; 173 (147); 177; 181; 221-222; 227; 229; 239-240; 242-243; 246; 251-252. Centuripe: 66. Cirno (Corsica): 163; 170. Corcira/Corciresi: 29 (9); 40; 97; 99100; 221(48); 222. Corinto/Corinzi: 29 (9); 40; 146 (65); 147; 174; 245. Corno di Amaltea: 73. Creta/Cretesi: 118; 118 (135); (136); 121; 222. Crotone/Crotoniati: 10; 47; 62; 74; 77 (13); 78-79; 83-100; 167-168; 192 (49); 204-205; 214. Cuma/Cumani: 10; 17; 41; 64; 84; 100; 130; 141-143; 146; 153; 159-178; 214; 225-227; 229-230; 254. Delfi: 9; 15; 32; 34 (33); 56-59; 61; 88; 153; 163 (117); 164; 173-176; 182-186; 201 (86); 218 (27); 222; 224; 229; 251. Elea: 168. Eloro (battaglia dell’): 29; 40; 155 (97). Ergezio: 66; 66 (120).

289

Etna (colonia): 10; 17; 22; 30; 41; 55; 62 (99); 67; 83; 117; 122; 127-157; 159-160; 171-172; 183; 185 (19); (20); 186; 208; 215 (7); 227; 248 (126). Etna (vulcano): 42; 131; 131 (7); 159-160. Eubea/Eubei: 31 (18); 32; 39; 64. Fenici: 62-64; 150; 163; 226; 239-240. Focei: 163; 163 (117). Gela (fiume): 107; 110. Gela/Geloi: 9; 13-14; 17; 25; 27-37; 3969; 90; 90 (70); 110; 112-115; 118; 123; 136-137; 145 (60); 174; 201; 225; 228 (75); 244; 252. Gibil Gabib: 65. Iapigi: 96; 171; 228. Ibla Geleatide/Gereatide/Erea: 30 (13); 66; 66 (119); (120). Imera/Imeresi: 10; 14; 33-36; 39-40; 4243; 50; 52; 60; 62-65; 73; 75; 77; 84; 91; 99; 101; 103; 103 (108); (109); 107-108; 111-114; 116 -117; 120-124; 141; 160; 163; 165-167; 171-174; 176-178; 200; 221222; 225-230; 240-241; 243; 245-248; 251-252; 255. Inessa: 128; 137; 154. Ipponio: 73-75; 78; 78 (22); 81; 92 (78); 166-167. Italia: 75-76; 78; 94 (85); 96; 97 (93); 161. Kalé Akté: 80; 164. Katane/Katanesi: 66-67; 117; 123;127132; 134-135; 137-140; 143; 143 (54); 145 (60); 147; 154; 156. Lade (battaglia di): 62 (98); 163. Lao: 87 (58); 88 (63); 167. Leontini: 66-67; 129; 131 (11); 134-135; 138; 144-147; 154. Lipari/Liparesi: 73; 146 (68); 163; 164 (120). Locri/Locresi: 9; 75-84; 92 (78); 94 (85); 99; 166-167; 199; 214; 217; 253.

290

i nd i c e g en e r a l e

Mantinea: 30. Medma: 78; 78 (22); 92 (78). Megara Iblea/Megaresi: 30-31; 39; 64; 136-137 Megara Nisea: 121; 121 (146). Messene/Messeni: 67 (124); 75-77; 80; 80 (30); 82; 133. Metapontini: 78. Mileto/Milesii: 87 (58); 175. Napoli (golfo di): 168 (139); 170. Naxos/Nassi: 67; 67 (121); 128-129; 131 (11); 134-135; 145 (60); 154; 154 (93); 162 (116). Nemea: 185. Noai: 66 (120). Olimpia: 15; 30; 80; 80 (31); 84 (49); 99; 130 (3); 172; 173 (147); 182-186; 200201; 216; 248 (126). Omphake: 65; 65 (111). Persiani/Persiani: 13; 33; 63; 98; 99 (100); 141-142; 157 (104); 174 (151); 177; 181; 194-195; 205; 239-240; 246; 251-252. Pissunte: 84; 84 (50); 171; 199. Pithecoussa: 160; 168-170; 177. Platea: 51 (66); 131; 160; 174; 225-227; 229-230; 246-247. Posidonia: 88 (60); 167-168. Reggio/Reggini: 9; 35; 51; 60; 73; 7584; 116; 123; 155 (97); 163; 166-167; 171; 181; 192(49); 193 (50); 199; 203; 220 (42); 228; 243. Roma/Romani: 34 (32); 51; 73; 164165.

Sabucina: 65. Sagra: 78-79; 81; 92. Salamina: 14; 40; 84; 90; 91(71); 95-96; 98; 141; 160; 177-178; 200; 221-222; 224-227; 230; 232 (82); 240-241; 246247; 251-253. Scidro: 87 (58); 88 (63); 167. Scilleo (capo): 83; 84 (47); 166; 169. Segesta/Segestani: 62; 150; 204-205. Sibari/Sibariti: 10; 30 (13); 47; 73; 7879; 84-101; 107; 109; 136 (27); 167168; 204-205; 214; 253. Sicani: 62; 65; 113; 118 (135). Siculi: 10; 62; 66-69; 134-135; 137-138; 142-144; 154. Siri: 78; 96; 96 (89). Sparta/Spartani: 10; 40; 51; 61-63; 7879; 81-83; 88; 97; 118; 131 (111); 147; 149153; 168; 221 (48); 223; 226-228; 253. Taranto/Tarantini: 83 (43); 94 (85); 171; 228. Temenite (colle): 144 (58); 145. Temesa: 94 (85); 167. Terina: 167. Termopili: 178; 229; 229 (77); 246-247. Tirreni/Etruschi: 64; 91 (71); 96; 146 (65); 161-173; 177; 214; 226-227; 239; 254. Traente (battaglia del): 87; 96 (89). Turi: 88; 135 (24); 205. Volsci: 164-165. Xouthia: 145-147. Zancle/Zanclei: 30 (13); 35; 51; 63; 64 (105); 77 (11); 80; 82; 117; 123; 133; 164; 167.

composto in car attere dante monotype dalla fab r i z i o s e r r a e d i to r e, p i s a · rom a . stampato e r i l e gato n e l la tipo g r af i a d i ag nano, ag na n o p i s a n o ( p i s a ) . * Aprile 2010 (cz 3 · fg 22)

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