I problemi dell'empirismo

« Il fatto che la nostra conoscenza - o almeno gran parte di essa inizi e dipenda in modo considerevole dall'esperi

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I problemi dell'empirismo

LAMPUGNANI NIGRI EDITORE MILANO 1971

Titolo originale:

Problnns of Empirici sm I Problems of Empiricism II Traduzione di Anna Maria Sioli © Paul K. Feyerabend

C Lampugnani Nigri Prima edizione: ottobre 1971 I

Sommario

I problemi dell'empirismo: I

pag.

3

1. L'empirismo contemporaneo come possibile via verso la instaurazione di una metafisica dogmatica, 3; 2. Due condizioni dell'empirismo contemporaneo, 10; 3. Le due condizioni non sono invariabilmente accettate dalla pratica scientifica, 13; 4. Irrazionalità insila nella condizione di coerenza, 17; 5. Relativa autonomia dei falli, 19; 6. L'illusione implicita in ogni uniformità, 22; 7. Irrazionalità insila nell'invarianza di significato, 25; 8. Alcune conseguenze, 27; 9. Il problema mente-corpo. Confutazione di una obiezione al materialismo, 31; 10. Il problema mente-corpo. Falli osservabili, 34; 11. Il problema mente-corpo: la conoscenza diretta, il « dato », 36; 12. Comiderazioni metodologiche, 41; 13. Sinonimia, 44; 14. L'esperienza, 51; 15. Conclusione, 66.

Note

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Appendice: Breve analisi del pensiero « mitico »

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I problemi dell'empirismo: II

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I. Introduzione, 105; 2. Il punto di vista di Galileo sulla rivoluzione copernicana, 108; 3. I telescopio: invenzione e prove terrestri, 112; 4. I telescopio: estrapolazione verso il cielo, 113; 5. II problema dei dati celesti, 114; 6. La teoria di Keplero, 120; 7. Le « due incognite», 121; 8. Considerazioni metodologiche, 123; 9. La sopravvivenza delle idee classiche. A: la teoria quantistica, 128; 10. La sopravvivenza delle idee classiche. B: la relatività, 132; 11. Considerazioni metodologiche, 133; 12. Interpretazioni naturali, 136; 13. La relatività galileiana, 140; 14. L'invenzione dell'esperienza, 149; 15. Dinamica, 153; 16. Conclusione, 156.

Note

I problemi dell'empirismo

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I

I problemi dell'empirismo I Molte questioni si decidono in base a spirito di parte, non secondo approfonditi esami dei problemi connessi. In particolare, si può esser certi che tutto quello che si presenta come empirismo trovi unanime accoglienza non per i suoi meriti, ma perché l'empirismo è di moda. BERTRAND

RUSSELL,

La flosofa di Bertrand

Russell

1.

L'empirismo contemporaneo come possibile via verso l'instaurazione di una metafisica dogmatica.

Il fatto che la nostra conoscenza - o almeno gran parte di essa inizi e dipenda in modo considerevole dall'esperienza è una delle credenze più comuni e diffuse nella storia dell'umanità. Essa è stata sostenuta non solo da professionisti, come astronomi, filosofi, alchimisti 1, inquisitori 2, i quali hanno esplicitamente sottolineato l'importanza dell'osservazione per lo sviluppo dei rispettivi campi d'azione, ma è stata considerata valida anche dall' uomo comune, il quale agisce in base a questa credenza, pur senza parlarne continuamente. Perfino il mito più assurdo fornisce descrizioni e spiegazioni particolareggiate di una grande varietà di fenomeni, dando così coerenza a un mondo che, prima facie, appare caotico e incomprensibile. Non potrebbe essere diversamente. I miti sono creduti da uomini impegnati in una disperata lotta per la sopravvivenza, uomini che non possono concedersi il lusso di speculare sulle varie ipotesi possibili; ciò di cui hanno bisogno è di una direttiva nella vita, che si esplichi attraverso tutta una serie di eventi concreti, come la mietitura, la cura del bestiame, malattie, tempeste, avvicendamenti stagionali, ecc. Tenendo presente questa funzione del mito, è del tutto irrealistico presumere che esso sia simile a una fantasiosa sovrastruttura, solo debolmente legata alle difficoltà della vita. Al contrario. Dovremmo aspettarci una relazione molto più stretta con i fatti dell'esperienza di quanto non si trovi in una teoria scientifica, il cui inventore può essere un « gentiluomo, libero e indipendente», per usare la caratterizzazione dei primi membri della Royal Society fatta dall'Arcivescovo Sprat. 3 Perfino i più

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risoluti metafisici determinati a discutere l'Essere in sé, gente sconvolta dal minimo elemento sensuale, incontrano notevoli difficoltà, ed è probabile che non riusciranno mai a eliminare completamente l'esperienza dalle loro speculazioni. Quindi non è affatto difficile prendere in considerazione l'esperienza, incorporarla in un sistema di pensiero ed effettuare un « miglior legame tra... le facoltà sperimentali e quelle razionali Ma è quasi impossibile omettere da un discorso qualsiasi riferimento all'osservazione specifica; la varietà di pratiche e di dottrine che potrebbero essere chiamate « emnpiriche » è quindi molto più vasta di quanto generalmente si sia portati a pensare. Il primo tentativo organico di una trattazione di questa materia è dovuto ad Aristotele, il quale ci ha anche lasciato l'unica analisi soddisfacente, finora, dei costituenti empirici della nostra conoscenza. Quando affermo che la sua analisi era soddisfacente, non voglio dire che fosse corretta o che avrebbe potuto portare alle scienze così come oggi le conosciamo:? voglio semplicemente dire che era chiara (si capisce cosa si intenda per « esperienza ») e rdzionale (ci sono ragioni, e ragioni critiche, che spiegano perché si debba accordare particolare attenzione a questo argomento). Secondo Aristotele ' l'esperienza è la somma di tutto ciò che si osserva in circostanze normali (luce viva; sensi in buono stato; osservatore pronto e non distratto) e viene poi descritto in un idioma comprensibile a tutti. Tale esperienza, dice Aristotele, è stabile, così come lo è la natura umana (in circostanze normali): perfino uno schiavo percepisce il mondo come il suo padrone 7• È anche attendibile perché l'uomo normale (cioè senza strumenti che annebbino i suoi sensi e senza dottrine particolari che oscurino la sua mente) e l'universo sono adatti l'uno all'altro: sono in armonia. Queste ultime due assunzioni sono abbastanza plausibili, specialmente se si pensa che le capacità attuali dei nostri sensi sono in effetti il risultato di un lungo processo di adattamento che ha eliminato quei mutamenti che non erano in armonia con gli elementi circostanti. Il merito principale delle assunzioni di Aristotele è comunque la loro chiarezza e la conseguente possibilità di discuterle in modo razionale. Questa razionalità viene eliminata dall'« illuminismo » del XVI e XVII secolo. Due sono i fattori caratteristici del nuovo atteggiamento 8 verso la conoscenza (scientifica). Da una parte la scienza non ha pia una fondazione: persino le osservazioni più sicure sono occasionalmente messe da parte o contraddette, persino i principi della ragione più evidenti sono violati e sostituiti da altri. Questo

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I problemi dell'empirismo: I

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nuovo atteggiamento rivoluzionario è molto evidente in Galileo, il quale ne ha anche dato una precisa esposizione. Così risponde (nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo ?) a un interlocutore che esprime il suo stupore per il piccolo numero dei copernicani: «... voi vi meravigliate che cosl pochi siano seguaci dell'opinione de' Pitagorici; ed io stupisco come si sia mai sin qui trovato alcuno che l'abbia abbracciata e seguita, né posso abbastanza ammirare l'eminenza dell'ingegno di quelli che l'hanno ricevuta e stimata vera, cd hanno con la vivacità dell'intelletto loro fatto forza tale ai propri sensi, che abbiano possuto antepor quello che il discorso gli dettava, a quello che le sensate esperienze gli mostravano apertissimamente il contrario». In un saggio precedente si esprime ancor più risolutamente. Rispondendo a un avversario che aveva sollevato l'argomento del copernicane simo, afferma che « ... quanto a quello di Tolomeo, né Tic one, né altri astronomi, né il Copernico stesso potevano apertamente convincerlo, avvenga che la principal ragione, presa da i movimenti di Marte e di Venere, aveva sempre il senso in contrario »." E conclude dicendo che « i due sistemi [il copernicano e il tolemaico] sono sicuramente falsi »' Tuttavia , nonostante tutte queste difficoltà, apprezzo Copernico per « far la ragion tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità »" Lo stesso vale per Keplero, Cartesio e perfino Newton. In effetti il divario tra il procedimento di Newton (nei suoi studi giovanili sulla luce e i colori) e la filosofia empirica della Royal Society era così grande, che Goethe considera l'accettazione della sua teoria della luce da parte dell'Accademia come un interessante problema storico: « La società era appena nata che Newton vi fu ricevuto, a trent'anni. Come tuttavia egli fosse capace di introdurre la sua teoria in un circolo d'uomini che erano decisamente avversi a qualsiasi tipo di teoria, si tratta di un'indagine degna di uno storico Questa la pratica dei moderni successori di Aristotele. Tale pratica è accompagnata da una incrollabile fede nell'empirismo, cioè in una dottrina che usa una fondazione della conoscenza definita e stabile. Pertanto Galileo, nonostante il suo ben noto disprezzo per i fatti bruti, può anche scrivere: « Tra le sicure maniere per conseguire la verità è l'anteporre l'esperienza a qualsivoglia discorso, essendo noi sicuri che in esso, almeno copertamente, sarà contenuta la fallacia, non sendo possibile che una sensata esperienza sia contraria al vero; e questo è puro precetto stimatissimo da Aristotele... dunque io sono Peripatetico E Newton può svilup-

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».

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pare una ben articolata metodologia che consiglia allo scienziato prima di accettare i fenomeni, poi di derivarne le leggi, senza mai permettere che le ipotesi interferiscano o con la formulazione dei primi o con la scelta delle seconde." Pertanto da una parte abbiamo una pratica liberale che non lascia intentata nessuna strada, inventa nuove prospettive, nuove forme di esperienza comprese, e dell'altra abbiamo un'ideologia che è chiaro dogmatismo, in quanto asserisce l'esistenza di un'immutabile fondazione empirica di tutta la conoscenza, dogma questo che non si può toccare. La combinazione che caratterizza l'inizio della « fisica classica » prima della sintesi newtoniana di Laplace, Kant e altri, viene attuata lasciando indeterminata la natura della fondazione, cosicché è possibile mutarla pur continuando ad affermare, dopo qualche mistificazione verbale, di essere sempre partiti della vecchia, incrollabile base.'6 La situazione più sopra delineata spiega la grande elasticità della dottrina empiristica, e le difficoltà che si incontrano nel confutarla facendo riferimento_ alla pratica scientifica: infatti gli scienziati stessi vengono in suo aiuto nascondendo il modo in cui sono giunti ai loro risultati. Situazione che è resa ancor più difficile dal notevole talento istrionico di cui sono dotati gli empiristi, che fingono di fare una cosa, mentre in realtà ne fanno un'altra. Il successo della filosofia empirica e la sua grande capacità di sopravvivenza sono dovuti in primo luogo a questa possibilità di darne varie interpretazioni e di usarla come sostegno di qualsiasi idea che, per varie ragioni, sembri degna di essere accettata. Nel caso di Newton, ad esempio, viene data una nuova spiegazione, pia astratta, dell'esperienza. Paradossalmente, ma non a torto, potremmo dire che Newton ha inventato un nuovo tipo di esperienza. La resistenza iniziale incontrata da questo procedimento sparisce quando i fisici si abituano alle idee teoriche contenute nei nuovi fenomeni: essendo ora in grado di produrre queste idee senza alcuno sforzo, giungono ben presto a considerarle diretta espressione di ciò che è « dato » nell'osservazione. nel nostro senso. Molto più importante

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è l'intuizione che il realismo della rappresentazione è una dottrina impossibile; la dottrina realistica assume infatti che esista un solo modo esatto per tradurre gli accadimenti del mondo reale nel mezzo dell'artista, che è completamente diverso. Il mondo è quello che è, come l'immagine non è il mondo. Ora, che cosa richiede il « realista »? Egli chiede che siano adottate quelle convenzioni di riproduzione a cui è abituato ( e che sono soltanto una misera selezione tratta da un campo molto più vasto). Egli fa cioè di se stesso il metro della realtà delle cose, violando cosl l'essenza della dottrina realistica stessa. « Queste persone scrive Brecht (Realistische Kritik in Ober Lyrik, Berlin 1964, p. 58) fanno sorgere il timore che non si siano mai interessate di descrizioni realistiche, di descrizioni cioè che fanno giustizia alla realtà ma portano con sè alcune forme di descrizione e di narrazione cui vogliono sottoporre la realtà stessa. Esse non si domandano se trovano la realtà in una data descrizione, ma se trovano una data forma di descrizione nella realtà...» (Questa critica vale naturalmente per gli scienziati come per i poeti e i pittori). Cfr. anche ERNST GOMRICH, Art and Illusion, New York 1960, cap. 8 [trad. it., Torino 1965]. 7. II ruolo delle tradizioni (e delle convenzioni di rappresentazione che esse contengono) forma una parte molto interessante della teoria dell'arte e della teoria generale della percezione. Troviamo che convenzioni artistiche sull'apparizione di creature mitiche, espresse sia per iscritto che in tentativi di rappresentazione pitttorica, esercitano la loro influenza perfino sulla presenza chiara e inequivocabile degli oggetti visibili. Gombrich (op. cit., p. 98 e sgg.) racconta questa storia: «... il destino degli animali esotici nei libri illustrati degli ultimi secoli prima dell'avvento della fotografia è istruttivo non meno che divertente. Quando Albrecht Durer pubblicò la sua famosa xilografia del rinoceronte dové basarsi su materiale di seconda mano, ch'egli completò con la fantasia, sotto la suggestione, senza dubbio, di ciò che sapeva del più famoso animale esotico, il drago dal corpo protetto da squame. Tuttavia è stato dimostrato che il suo animale mezzo fantastico è servito di modello a tutte le figurazioni del rinoceronte, anche quelle dei libri di storia naturale, fino a tutto il Settecento. Quando nel 1790 James Bruce pubblicò uno schizzo dell'animale nei suoi Travels to Discover the Source o/ the Ni/e, affermò con fierezza di essere consapevole di questo fatto: ... L'animale rappresentato in questo disegno vive nel Tcherkin, vicino a Das el Feel... e

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questo è il primo disegno del rinoceronte con doppio corno che stato finora presentato al pubblico. La prima immagine del rir ceronte asiatico, la specie che ha un solo corno, è stata esegui da Albrecht Diirer dal vero... Era incredibilmente male eseguita tutte le sue parti ed è stata l'origine di tutte le forme mostruose cui l'animale è stato rappresentato da allora in poi. Molti file moderni hanno fatto ammenda di questo nel nostro tempo; il gnor Parsons, il signor Edwvards e il conte di Buffon ne hanno date buone illustrazioni dal vero; esse hanno però qualche difetto dovuto probabilmente ai preconcetti e alla negligenza ... Questa... è la prima che sia stata pubblicata con due corni, è stata disegnata dal vero e riproduce un esemplare africano. Se ci fosse bisogno di una prova che la differenza tra il disegnatore medioevale e il suo discendente settecentesco è solo di grado si potrebbe trovare qui. Infatti l'illustrazione presentata con tanta pompa non è certamente esente da « pregiudizi », né libera dall'onnipresente ricordo della xilografia di Diirer. Non sappiamo esattamente quale specie di rinoceronte l'artista avesse visto a Das el Feel... Ma mi è stato assicurato che nessuna specie nota agli zoologi corrisponde a quella raffigurata nell'incisione e che si vorrebbe disegnata dal vero! ». Qui il vedere un oggetto vivente richiama alla mente (e nel dipinto) non ciò che vediamo oggi (o ciò che vede oggi uno zoologo, il che può essere molto diverso), ma proprio la forma mitica che è denunciata nel testo {si veda per esempio la copia della figura di Bruce che apparve dapprima nel suo libro e poi nell'edizione del 1807 di A Description of Three Hundred Animals, London). Questa materia richiede senz'altro un'esame più accurato, che ora abbozzeremo per sommi capi. La xilografia di Dùrer rappresenta un rinoceronte indiano. Rappresenta in modo perfetto il suo « formidabile mantello di piastre di ferro » che gli guadagnò in tedesco il nome di Panzernashorn - rinoceronte corazzato - (per questi e altri particolari, cfr. l'af. fascinante libro di C.A.W. GUGGIsBERG, S.O.S. Rhino, A Sulvival Book on Rhinoceroses, London 1966, p. 131) «La corazza e le pieghe sembrano così spesse e indistruttibili - scrive Guggisberg - che tra i popoli dell'ovest si è diffusa la credenza che l'animale fosse a prova di proiettile. Come dice uno scrittore, perfino un proiettile più duro del ferro fuso non riuscirà a penetrarla. Questa credenza era ampiamente diffusa perfino nel secolo scorso. Durante l'ammutinamento degli indiani, un soldato fu portato di fronte alla corte marziale per aver sparato a un rinoceronte addomesticato che era stato catturato dal suo reggimento; l'aveva fatto,

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come poi spiegò, perché voleva vedere se era veramente invulnerabile come aveva letto! In realtà - continua Guggisberg - la pelle, marrone o grigio-nerastra, non è cosl dura come sembra; il sangue uscirà facilmente dalle graffiature e un coltello da caccia può facilmente penetrare nel corpo di un esemplare appena ucciso. Una volta asciutta, la pelle diventa molto dura e se ne sono spesso ricavati degli scudi». Questo per quanto riguarda una moderna descrizione. Consideriamo un attimo il saggio di J. S. PARsONS, The Natural History of the Rhinoceros in « Philosophical Transactions of the Royal Society in London », vol. XLII (1743). Citerò dal voi VIII dell'edizione ridotta, p. 692 e sgg. Parson critica la figura di Diircr perché « ha condotto in errore parecchi naturalisti che hanno scritto da allora in poi Egli rileva tutte le inaccuratezze presenti in osservatori recenti, quali Bontius, il quale « si vanta di aver mostrato una figura senza le decorazioni messe da Albert Durer e, invece degli zoccoli tipici dell'animale, ha disegnato una zampa non molto diversa da quella di un cane e solo un po' più massiccia. » Prosegue poi dando una descrizione di un esemplare vivente « dal temperamento molto pacifico » e affermando che « nel suo studio non considereva gli altri autori ». Se non usa le descrizioni degli altri autori, impiega però delle parole comuni per farsi capire: « ... il labbro inferiore è simile a quello di un bue, ma quello superiore assomiglia al labbro di un cavallo... gli occhi sono assenti e spenti, simili per forma a quelli di un maiale... le orecchie sono larghe e sottili verso la sommità, uguali a quelle di un maiale... » e così via di questo passo. Sono evitati in tal modo l'ambiguità e gli errori? Certamente no, a meno di non poter essere certi che il dr. Parsons abbia visto maiali, cavalli e buoi con gli occhi degli zoologi moderni (zoologi, e non esploratori infatuati o romantici invasori della campagna) e a meno di non poter provare che il rinoceronte gli appariva esattamente come a un cacciatore-naturalista moderno. Non si può dare certo per scontata questa assunzione, anzi non è neppure molto probabile (le forme visive dipendono dalla struttura e dalla conoscenza di base). La consapevolezza che « per quanto assenti e flemmatici essi appaiano, si spaventano faci]mente » (GUGGISBERG, op. cit., p. 40) non ci farà guardare i rinoceronti con occhi diversi e tracciare paragoni diversi da quelli fatti mentre leggevamo, nelle antiche cronache indiane che i rinoceronti, « con tridenti di ferro fissati alle corna [erano] usati come 'carri armati' viventi nelle prime file in battaglia » (GUcGIsBERG, p. 130). L'assunzione precedente può anche essere confutata

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dallo stesso racconto di Parsons, dove In pelle dell'anim ale viene cosl descritta: « la pelle è spessn e impenetrabile; se si passano le dita sotto una piega e se ne tien fermn la sommità col pollice, si ha l'impressione di un pezzo di legno dallo spessare di mezzo pollice... pertanto se si estendesse per tutta la lunghezza dell'animale senza formare delle pieghe, come quella degli altri animali, il rinoceronte non potrebbe muoversi affatto o compiere alcuna delle azioni che gli sono necessarie; ...ora, dato che una pelle cosl dura era necessaria alla sua difesa, è un bene che, quando l'animale si piega, una parte di questa pelle dura come un'asse si pieghi e scivoli sull'altra e che queste varie pieghe (o lastre corazzate, come vengono ora chiamate) siano disposte in punti tali del suo corpo da facilitare qualsiasi movimento volontario egli voglia compiere » [Transactions, vol. VIII, p. 697]. Dal che si può concludere che lo schema del Panzernashorn era ancora presente al Parsons ed era in grado di imporsi perfino al suo senso del tallo. La riproduzione del disegno che accompagna la descrizione (inserto XVIII del voi. VIII dell'edizione ridotta delle Philosophical Transactions) mostra l'animale in tutto lo splendore della sua corazza, ma senza le scaglie. Per quanto riguarda il Parsons, ecco il suo commento a proposito della pelle: essa sarebbe « più o meno coperta da incrostazioni dure come croste, piccole alle estremità del collo e del dorso, ma gradatamente più larghe a mano a mano che ci si avvicina al ventre; le più larghe si trovano invece sulle natiche e le spalle... Chiamare queste spesse rugosità scaglie, come è stato fatto, significa dare l'impressione di qualcosa cli regolare, cosa che costituisce una grave inaccuratezza in molti scrittori e induce molti lettori in errore, dato che in realtà non vi è niente cli uniforme ». Ma ci si chiede se una descrizione meno « formale » non avrebbe aumentato l'errore, facendo dipendere maggiormente dal background del lettore sia la descrizione che la immagine visiva. Le rappresentazioni formalizzate hanno una stabilità che non è eguagliata dalle spiegazioni più naturalistiche, e questo può essere stato uno dei motivi che hanno spinto a fare della geometria l'essenza della scienza. La figura di Bruce fu preceduta dalla Natural History of the Cape, London 1731, di Kolbe (edizione tedesca, Nuremberg 1719) che diede delle accurate descrizioni: « I pittori lo rappresentano corazzato ovunque da specie di scaglie, ma in realtà non ne ha; al contrario, le innumerevoli piaghe e graffiature che si intrecciano sui suoi fianchi danno l'impressione, quando lo si guarda da una certa distanza, che sia ricoperto di squame; sopra la bocca cresce

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un corno grigio scuro, un po' ricurvo, simile al vomere dell'aratro... Sulla fronte, in linea retta al di sopra del corno sul muso, si alza un altro corno ». Però i suoi disegni consegnati all'editore si rifanno alla xilografia di Durer. Sia Kolbe che Bruce parlano del rinoceronte nero o africano, il cui corpo « dà una sensazione di morbidezza » (BELL, Description of the Double Horned Rhinoceros of Sumatra, in « Phil. Trans. », vol. LXXXIII (1793) citato dalla p. 283 del voi. XVII dell'edizione ridotta. La figura si trova al foglio II) e non presenta scaglie. Tuttavia entrambe imitano la xilografia di Diirer, come è stato detto da Gombrich. A questo proposito un ritratto tardo romano, mostrato per la prima volta da Sloane nel foglio XII del voi. XLVI (1749) delle « Transactions » (descrizione citata dal voi. IX della edizione ridotta, p. 665 e sgg.) è molto più vicina al «naturale» cioè al nostro modo attuale di vedere le cose. Il ritratto viene presentato per « chiarire quel famoso passo di Marziale, Liber de Spectaculis, 22, Namque gravem gemino cornu sic extulit ursum iactat ut impositas taurus in astra pilas che per molti anni ha reso perplessi i critici, dato che tutti pensavano che il rinoceronte fosse un vero unicorno, cioè un animale che non aveva mai avuto più di un corno» (p. 657). Ciò nonostante, non si dovrebbe attribuire il realismo della descrizione a occhi più acuti o a una immaginazione meno invadente: molto più probabilmente non si tratta che del risultato di schemi diversi da quelli del XV o XVI secolo e orientati verso l'orso o il cavallo. Sarebbe interessante confrontare anche alcuni grafiti delle caverne. Le fotografie non costituiscono la soluzione del problema, dal momento che dobbiamo imparare a osservarle e in questo processo sono molto influenzate dalle nostre capacità o attività, come quella di leggere (si afferma che gli indigeni capaci di riconoscere i dipinti sotto qualsiasi angolazione, perdono questa capacità non appena imparano a leggere; lo stesso per i bambini). Chiaramente abbiamo qui ampio spazio per la ricerca e per la rimozione dei pregiudizi, cioè di tutti quegli schemi che son mantenuti perché son presi come parte della cosa in sé. Cfr. anche F. J. COLE, Durer's Rhinoceros in Zoological Literature, in Science, Medecine and History, Essays in Honor o} Ch. Singer, a cura di E. A. Underwood, voi. I, Oxford 1953, p. 337 e sgg., e le illustrazioni là incluse. Fenomeni simili si possono osservare ogni volta che si tratta di disegnare una figura poco familiare. « Anche gli elefanti che affollano i quadri del Cinque e Seicento è stato di-

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mostrato che discendono da pochissimi archetipi e che ne conservano tutte le curiose caratteristiche, benché aver notizie dirette sugli elefanti non fosse particolarmente difficile » [GoMBRICH, p. 101; secondo A. E. PoPHAM, Elephantographia, in « Life and Letters », (1930)].

8. In conclusione: i miti, le antiche credenze, le ideologie « primitive » parlano di un mondo più chiaro del nostro, sono credute da popolazioni più a contatto col loro ambiente (spesso piuttosto complesso) e presentono questo ambiente in modo perfettamente empirico, basando le loro visioni su un campo percettivo che può essere diverso dal nostro e che è certamente molto più ricco degli squallidi deserti della osservazione, postulati dai successori contemporanei del Circolo di Vienna. Tutti questi punti sono brillantemente discussi da Claude Lévi-Strauss in La pensée sauvage [trad. it. Il pensiero selvaggio, Milano 1964].

I problemi dell'empirismo II Mi sembra che [Galileo] risenta molto delle continue disgressioni e che non si astenga mili dallo spiegare tutto ciò che è rilevante in ogni punto; il che dimostra che non li ha esaminati in ordine, ma ha cercato delle ragioni per ottenere determinati effetti, senza considerare... le cause prime...; cosi ha costruito senza una fondazione. CARTESIO

... ad alcuno, dico, di quelli che troppo laconicamente vorrebbero vedere, nei più angusti spazii che possibil fusse, ristretti i filosofici insegna• menti, si che sempre usasse quella rigida e concisa maniera, spogliata di qualsivoglia vaghezza ed ornamento, che è propria dei puri geometri, li quali né pure una parola proferiscono che dalla assoluta necessità non sia loro suggerita. Ma io, all'incontro, non solamente non ascrivo a difetto in un trattato, ancorché indirizzato ad un solo scopo, interserire altre varie notizie... che anzi stimo, la nobiltà, la grandezza e la magnificenza che fa le azzioni ed imprese nostre meravigliose ed eccellenti, non consistere nelle cose necessarie (ancorché il mancarvi questa sia il maggior difetto che commetter si possa), ma nelle non necessarie... GALILEO '

1.

Introduzione.

Nella prima parte di questo lavoro ho dimostrato che è non solo possibile, ma anche auspicabile introdurre e elaborare ipotesi che siano incoerenti con le teorie altamente convalidate e con l'evidenza. Le ragioni che ho addotte sono state in parte astratte, in parte storiche. Con le prime ho cercato di dimostrare che l'evidenza capace di confutare una teoria si può spesso trovare solo tramite un'alternativa: ne consegue che il suggerimento di rimandare le alternative finché non si è avuta la prima confutazione non fa altro che mettere il carro davanti ai buoi. Laparte storica ha introdotto esempi che spiegano come tutto ciò funzioni in pratica. In questa parte sviluppo lo stesso tema, ma con uno stile un po' diverso e con un risultato molto più caotico; è a carattere prevalentemente storico, mentre le considerazioni astratte vengono usate solo limitatamente, e sotto forma di commento al materiale storico. Quest'ultimo, spero, dovrebbe riuscire a dimostrare che

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esistono serie manchevolezze nella filosofia della scienza professionale contemporanea (non so per quanto riguarda i dilettanti); tale filosofia non solo non riesce a descrivere adeguatamente alcuni dei più entusiasmanti episodi della storia del pensiero, ma ha anche probabilmente dato consigli estremamente dannosi ai suoi seguaci. Il cambiamento di stile e la prevalenza accordata alla storia riflettono l'influenza dell'analisi politica e della filosofia del materialismo storico e dialettico; l'analisi politica è molto più ampia e molto più realistica della filosofia della scienza, nel senso che considera le condizioni storiche, comprese le caratteristiche individuali del pensiero umano e si rende conto anche del fatto che le condizioni storiche comprendono sempre strati di età e di complessità diverse, cosicché un'idea progressiva può essere ostacolata non da uno svantaggio intrinseco, ma dal fatto che nasce in condizioni ambientali arretrate.' Viceversa, possiamo essere costretti a difendere opinioni assurde e non realistiche perché é soltanto in questo modo che si possono superare le condizioni impedienti (che forniscono i criteri di assurdità). D'altra parte il materialismo storico e dialettico ha sviluppato uno schema - la dialettica per trattare in modo ragionevole condizioni di questo tipo; la sua applicazione al nostro argomento consiste nel far notare che anche la scienza contiene strati di età e di complessità diverse e che una nuova teoria può trovarsi in difficoltà non per ragioni intrinseche, ma per la rozzezza delle opinioni che appaiono a livello osservazionale.' Possiamo dunque essere costretti a difendere opinioni assurde, non realistiche, confutate, perché soltanto cosl potremo superare le condizioni impedienti (gli errori dell'ideologia osservazionale).' Più specificatamente, sono debitore verso il libro di T. S. Kuhn, Structure of Scientifc Revolutions, di Lakatos, Proofs and Refutations, di Hanson, Discovery of the Positrone, in modo particolare, verso l'opera di Vasco Ronchi. Kuhn mi chiarl il fatto che la storia non poteva essere liquidata come qualcosa di irrilevante per il metodologo, il quale tratta un materiale sgradevole l e teorie e vuol cambiarlo. La conoscenza della forma sotto cui la materia è disponibile e delle circostanze in cui il cambiamento è avvenuto sono invece essenziali al suo compito. Lakatos mi ha convinto che l'approccio di Kuhn è ancora troppo astratto e che esiste soltanto un mezzo per ottenere l'informazione necessaria: lo studio dei singoli casi, il quale però, e questo sembra essere il punto più importante del suo saggio, non deve necessariamente degenerare

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in pettegolezzo (come fa molta storia specialistica), e può essere veramente filosofico, dal momento che è guidato da principi astratti e a sua volta ne crea. Lo splendido studio di Hansen su un importante episodio nella storia della fisica moderna che una volta ho criticato piuttosto severamente,°? dimostra il carattere caotico della scienza e rivela perciò il tremendo abisso esistente tra un quadro filosofico della scienza stessa e la sua realtà. Il mio debito maggiore, tuttavia, va a Vasco Ronchi; in realtà la prima parte di questo capitolo, fino al paragrafo 7 incluso, non è che una fedele ripetizione del suo punto di vista, con l'aggiunta qua e là di qualche mio commento. Tenendo presente i contributi di questi autori (e quelli di Hegel e Lenin che ho letto molto tempo prima, ma le cui inconfondibili tracce ho ritrovato negli scritti di Lakatos), mi propongo ora di ampliare questo abisso, affin ché emergano e siano più facilmente riconoscibili i meccanismi che stanno alla base dell'attuale sviluppo della conoscenza. In questo ho seguito semplicemente Bohr, il quale in un suo lavoro giovanil e ha cercato di mettere in evidenza « la misura in cui [la nuova teoria quantistica] è in conflitto con l'insieme di conc ezioni mirabilmente coerente che è stato giustamente chiamato 'la teoria classica dell'elettrodinamica'. D'altra parte continua Bohr ho cercato di comunicare ... l'impressione che proprio mettendo in evidenza questo conflitto si può scoprire, con l'andar del tempo, una certa coerenza nelle nuove idee ».6 Lo scopo del presente scritto è esattamente lo stesso: progredire, mettendo in risalto il contrasto tra le comuni mitologie e certi importanti episodi nella storia del pensiero. Una metodologia che emerga da un'analisi di questo tipo si differenzia dai sistemi esistenti per la sua mancanza di dogmatismo e la sua apertura; ogni regola, ogni richiesta che essa contiene è affermata relativamente, come una regola empirica approssimativa e può essere superata o sostituita dal suo opposto come risultato di un esame dei casi concreti (questo vale anche per i requisiti « fondamentali » come quello di coerenz a, falsificazione, accordo coi risultati osservativi, massimo contenuto in date condizioni, e cosl via). Ci non significa che regole e prescrizioni vengano ora derivate dai fatti - quantunque non ci sarebbe nulla da obiettare anche a un procedimento del genere - ma che l'osservazione dei fatti educa una persona ragionevole e la rende consapevole di alcune richieste della cui esistenza, urgenza o rilevanza non si era mai resa conto in precedenza. Non è possibile dire in anticipo in quali circostanze sarà soppressa una regola e come ci si compor-



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terà in quel caso: non si può prevedere il futuro e non si può dire quali saranno le nostre azioni in circostanze nuove e mai sperimentate (dopo tutto impariamo veramente e abbiamo idee nuove). Guardando indietro alla storia troviamo anche che per ogni regola che si intendesse difendere esistevano delle circostanze in cui il progresso era possibile solo violando quella regola; e questo significa che una metodologia può tutt'al più offrire un elenco di regole empiriche approssimative e che il solo principio di cui possiamo fidarci in ogni circostanza è: qualsiasi cosa va bene.' Si può ricordare subito un risultato particolarmente confortante di questo distacco dalla metodologia, risultato che non sarà ripreso in questo libro.' Le invenzioni e gli espedienti che aiutano un uomo intelligente a districarsi nella giungla dei fatti, principi a priori, teorie, formule matematiche, regole metodologiche, oppressione del grosso pubblico e dei suoi « colleghi professionisti», che lo mettono in grado di ricavare un quadro coerente dal caos apparente, sono molto più strettamente affini allo spirito della poesia di quanto non si pensi generalmente. In effetti si ha il sospetto che l'unica differenza tra i poeti e gli scienziati è che questi ultimi, avendo perso il senso dello stile, cercano di confortarsi da soli con la piacevole finzione di seguire regole di un genere del tutto diverso e che portano a un risultato molto più grande e importante, cioè la Verità.

2.

Il punto di vista di Galileo sulla rivoluzione copernicana.

Replicando a un interlocutore (nel Dialogo sui due massimi sistemi del mondo) che aveva espresso il suo stupore per il piccolo numero dei copernicani, Salviati « che fa la parte di Copernico » spiega la situazione in tal modo: « voi vi maravigliate che così pochi siano seguaci della opinione de' Pitagorici; ed io stupisco come si sia mai sin qui trovato alcuno che l'abbia abbracciata e seguita, né posso a bastanza ammirare l'eminenza dell'ingegno di quelli che l'hanno ricevuta e stimata vera ed hanno con la vivacità dell'intelletto loro fatto forza tale a i propri sensi, che abbiano possuto antepor quello che il discorso gli dettava, a quello che le sensate esperienze gli mostravano apertissimamente il contrario. Che le ragioni contro alla vertigine diurna della Terra, già esaminate da noi, abbiano grandissima apparenza, già l'abbiamo veduto, e l'averle ricevute per concludentissime i Tolemaici, gli Aristotelici e tutti i loro seguaci, è ben grandissimo argomento delle loro efficacie: ma quelle esperienze che apertamente contrariano al movimento

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annuo, son ben di tanto più apparente repugnanza, che (lo torno a dire) non posso trovar termine all'ammirazione mia, come abbia possuto in Aristarco e nel Copernico far la ragion tanta violenza al senso, che contro a questo ella si sia fatta padrona della loro credulità ».9 Un poco oltre Galileo nota come i copernicani « abbiano... confidato tanto in quello che la ragione gli dettava »"° e conclude la sua breve esposizione sulle origini del copernicanesimo dicendo: « mentre si vede, come pur dissi dianzi, aver egli costantemente continuato nell'affermare, scorto dalle ragioni, quello di cui le sensate esperienze mostravano il contrario: che io non posso finir di stupire che egli abbia pur costantemente voluto persistere in dir che Venere giri intorno al Sole, ed a noi sia meglio di 6 volte più lontana una volta che un'altra, e pur sempre si mostri eguale a se stessa, quando ella dovrebbe mostrarsi 40 volte maggiore Le « ragioni contro la vertigine della terra » cui Galileo si riferisce sono da lui presentate come segue:" « Prima, se la Terra si movesse o in se stessa, stando nel centro, o in cerchio, essendo fuor del centro, è necessario che violentemente ella si movesse di tal modo, imperò che e' non è suo naturale; che s'e' fusse suo, l'avrebbe ancora ogni sua particella; ma ognuna di loro si muove per linea retta al centro: essendo dunque violento e preternaturale, non potrebbe essere sempiterno: ma l'ordine del mondo è sempiterno: adunque etc. Secondariamente, tutti gli altri mobili di moto circolare par che restino indietro e si muovano di più di un moto, trattone però il primo mobile: per lo che sarebbe necessario che la Terra ancora si movesse di 2 moti: e quando ciò fosse, bisognerebbe di necessità che si facessero mutazioni nelle stelle fisse: il che non si vede, anzi senza variazione alcuna le medesime stelle nascono sempre da i medesimi luoghi, e ne i medesimi tramontano. Terzo, il moto delle parti e del tutto è naturalmente al centro dell'universo, e per questo ancora in esso si sta... Per la più gagliarda ragione si produce da tutti quella de i corpi gravi, che cadendo da alto a basso vengono per una linea retta e perpendicolare alla superficie della Terra; argomento stimato irrefragabile, che la Terra stia immobile: perché, quando ella avesse la conversion diurna, una torre dalla sommità della quale si lasciasse cadere un sasso, venendo portata dalla vertigine della Terra, nel tempo che'l sasso consuma nel suo cadere, scorrerebbe molte centinaia di braccia verso oriente, e per tanto spazio dovrebbe il sasso percuotere la Terra lontano dalla radice della torre... Fortificasi tale argomento con l'esperienza d'un proietto tirato in alto per grandissima distanza, qual sarebbe una palla lan-

».''

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ciata da una artiglieria drizzata a perpendicolo sopra l'orizzonte, la quale nella salita e nel ritorno consuma tanto tempo, che nel nostro parallelo l'artiglieria e noi saremmo per molte miglia portati dalla Terra verso levante, talché la palla, cadendo non potrebbe mai tornare appresso al pezzo... Aggiungono di più la terza e molto efficace esperienza che è:" tirandosi con una colubrina una palla di volato verso levante, e poi un'altra con egual cari ca e alla medesima elevazione verso ponente, il tiro verso ponente riuscirebbe estremamente maggiore dell'altro verso levante, imperocché mentre In palla va verso occidente, e l'artiglieria, portata dalla Terra, verso oriente, la palla verrebbe a percuotere la Terra lontana dall'artiglieria tanto spazio quanto è l'aggregato de' due viaggi, uno fatto dal pezzo, portato dalla Terra, verso levante; e per l'opposito, del viaggio fatto dalla palla tirata verso levante bisognerebbe detrarne quello che avesse fatto l'artiglieria seguendola ... ma l'esperienza mostra i tiri essere eguali; adunque l'artiglieria sta immobile, e per conseguenza la Terra ancora. Ma non meno di questi, i tiri altresì verzo mezzo giorno o verso tramontana confermano la stabilità della Terra; imperocché mai non si correbbe nel segno che altri avesse tolto di mira, ma sempre sarebbero i tiri costieri verso ponente, per lo scorrere che farebbe il bersaglio, portato dalla Terra, verso levante, mentre la palla è in aria. E non solo i tiri per le linee meridiane, ma né anc o i fatti verso oriente o verso occidente riuscirebbero giusti, ma gli orientali bassi, tuttavolta che si tirasse di punto in bianco... Talché mai non si potrebbe verso nessuna parte tirar giusto: e perché l'espe rienza è in contrario, è forza che la Terra stia immobile. « Quelle esperienze che apertamente contrariano al movimento annuo » e che « son ben di tanto più apparente ripugnanza » delle argomentazioni dinamiche più sopra esposte, consistono nel fatto che « Marte... sarebbe necessario che quando è a noi vicinissimo si mostrasse il suo disco più di 60 volte maggiore di quello che si mostra quando è lontanissimo: tuttavia tal diversità di apparente grandezza non ci si accorge, anzi nella opposizione al Sole, quando è vicino alla Terra, non si mostra né anco 4 o5 volte più grande che quando, verso la congiunzione, viene occultato sotto i raggi del sole. Altra e maggiore difficoltà ci fa Venere, che se girando intorno al Sole, come afferma il Copernico, gli fosse ora sopra ed ora sotto, allontanandosi ed appressandosi a noi quanto verrebbe ad essere il diametro del cerchio da lei descritto, quando fusse sotto il Sole e a noi vicinissima, dovrebbe il suo disco mostrarcisi poco meno di 40 volte maggiore che quando è superiore al Sole,

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vicina all'altra sua congiunzione; tutta via la differenza è quasi impercettibile »." In un saggio precedente, il Saggiatore, Galileo si era espresso ancor più risolutamente. Replicando a un avversario che aveva sollevato la questione del copernicanesirno, egli osserva che « quanto a quello di Tolomeo, né Ticone né altri astronomi né il Copernico stesso potevano apertamente convincerlo, avvenga che la principal ragione, presa dai movimenti di Marte e di Venere, aveva sempre il senso in contrario »." (Questa argomentazione è ripresa nel Dialogo ed è stata appena citata). Conclude dicendo che i due sistemi (quello di Copernico e quello di Tolomeo) sono « sicuramente falsi ». Vediamo dunque che il giudizi o di Galileo sull'origine del copernicanesimo è notevolmente diverso dai comuni resoconti storici. Egli non indica neppure dei nuovi fatti che offrano un sostegno induttivo alla teoria del movimento della terra; non accenna ad alcuna osservazione che confuti il punto di vista geocentrico e appoggi il copernicanesimo; al contrario, mette in evidenza il fatto che non solo Tolomeo, ma anche Copernico, sono confutati dai fatti " e loda Aristarco e Copernico per non aver ceduto di fronte a tali tremende difficoltà, cioè per aver proceduto controinduttivamente. Ma non è tutto qui. Infatti, mentre si può ammettere che Copernico agisse solo per fede, non si può fare a meno di notare che Galileo si trovava in una posizione del tutto diversa: dopo tutto, è stato lui a inventare una nuova dinamica e il cannocchiale. La nuova dinamica, si potrebbe far notare, elimina le incoerenze tra il movimento della terra e le « condizioni che interessano noi e quanti stanno nell'aria al di sopra di noi»," il cannocchiale elimina il conflitto « ancor più clamoroso» tra i mutamenti nell'apparente luminosità di Marte e di Venere, come predetti dallo schema copernicano, e ciò che si vede a occhio nudo il che, incidentalmente, è anche il punto di vista di Galileo stesso. Egli ammette « che se senso superiore e più eccellente de i comuni e naturali non si accompagnava con la ragione, dubito grandemente che io ancor sarei stato assai più ritroso contro al sistema copernicano ». 21 Il « senso superiore e più eccellente» è naturalm ente il telescopio e si sarebbe tentati di dire che il procedimento apparentemente controinduttivo non era che una semplice induzione (o una congettura, più la confutazione, più un'altra congettuta), basata però su un tipo di esperienza migliore di quella disponibile ai precursori aristotelici di Galileo." Esaminiamo più attentamente questa questione.

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112

3.

Il telescopio: invenzione e prove terrestri.

Il telescopio è un « senso superiore e più eccellente » che fornisce nuove e più attendibili evidenze per giudicare le questioni astronomiche. Come viene analizzata questa ipotesi e quali argomenti sono presentati a suo favore? Nel Sidereus Nuncius, lo scritto che contiene le sue prime osservazioni fatte col telescopio e che costitul il primo importante contributo alla sua fama, Galileo scrisse: « riuscii [a costruire il telescopio] grazie a un attento studio della teoria della rifrazione il che fa supporre che egli avesse delle ragioni teoriche che gli facevano preferire i risultati ottenuti dall'osservazione per mezzo del telescopio a quella a occhio nudo. Ma la ragione che egli fornisce - il suo studio della teorie della rifrazione - non è né corretta né sufficiente. Non è corretta perché esistono seri dubbi circa la conoscenza di Galileo dell'ottica fisica contemporanea: in una lettera a Giuliano de Medici del 1 ottobre 1610, più di sei mesi dopo la pubblicazione del Nuncius," Galileo richiede una copia dell'Otica del 1604 e nota di non essere mai stato capace di trovarla in Italia." Jean Tarde, che nel 1614 interrogò Galileo sulla costruzione di telescopi a ingrandimento prefissato, riporta nel suo diario che Galileo la considerava una questione di grande difficoltà e che aveva trovato l'O tica di Keplero del 1611" cosl oscura « che forse nemmeno l'autore l'aveva capita In una lettera a Liceti del 23 giugno 1640, due anni prima di morire,29 Galileo nota che, per ciò che lo riguardava, la natura della luce era ancora oscura. Anche se prendiamo queste enunciazioni con la cautela necessaria in un autore stravagante come Galileo, dobbiamo tuttavia ammettere che la sua conoscenza dell'ottica era molto inferiore a quella di Keplero. È questa anche la conclusione del prof. E. Hoppe, il quale così riassume la situazione :« Si deve naturalmente prendere cum grano salis l'affermazione di Galileo secondo cui, dopo aver sentito parlare del telescopio olandese, egli avrebbe costruito l'apparecchio per mezzo di calcoli matematici; infatti nei sui scritti non troviamo nessun calcolo del genere e il resoconto del suo primo tentativo fatto in una lettera, dice che non si potevano trovare delle lenti migliori di quelle olandesi; sei giorni più tardi lo troviamo in viaggio per Venezia con un telescopio migliore da regalare al Doge Leonardo Donati. Tutto questo non ha tanto l'aspetto del calcolo scientifico, ma piuttosto

»,

»."

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di una serie di tentativi e di errori. I calcoli possono essere stati di un altro tipo, e qui vi riusd, poiché il 25 agosto 1609 il suo stipendio fu triplicato Tentativi ed errori ciò significa che «... nel caso del cannocchiale, fu l'esperienza, e non la matematica a condurre Galileo alla sua grande conquista: la conquista della fiducia nella veridicità dell'apparecchio ».31 Questa seconda ipotesi sull'origine del cannocchiale è avallata anche dalla testimonianza di Galileo, il quale scrisse in altre occasioni di aver provato lo strumento « centomila volte in centomila stelle et altri oggetti Queste prove diedero grandi e sorprendenti successi e la letteratura del tempo lettere, libri, pettegolezzi testimonia la straordinaria impressione suscitata dal cannocchiale come strumento per migliorare la visione terrestre. Giulio Cesare Lagalla, professore di filosofia a Roma, descrive un incontro avvenuto il 16 aprile 1611 in cui Galileo diede dimostrazioni del suo apparecchio:" « Eravamo in cima al Gianicolo, vicino alla porta che prese il nome dello Spirito Santo, dove si dice che si trovasse la villa del poeta Marziale ed ora di proprietà del revendissimo Malvasia. Per mezzo di questo strumento vedemmo il palazzo dell'illustrissimo duca Altemps sulle colline toscane così distintamente che ne contammo immediatamente tutte le finestre, anche le più piccole; e la distanza era di 16 miglia italiane. Dallo stesso posto leggemmo le lettere sulla galleria che Sesto ha fatto costruire in Laterano per le benedizioni e così chiaramente che potevamo distinguere persino i punti scolpiti tra le lettere, ad una distanza di almeno 2 miglia. » Altri resoconti confermano questo avvenimento e altri simili;" Galileo stesso fa notare « il numero e l'importanza dei benefici che lo strumento dovrebbe apportare una volta usato per terra e per mare. » 35 Il successo terrestre del cannocchiale era pertanto assicurato, ma la sua applicazione alle stelle era una questione del tutto differente.

».

»"

4.

Il telescopio: estrapolazione verso il cielo.

Tanto per cominciare, c'è il problema della visione telescopica che è diversa quando riguarda gli oggetti celesti da quando riguarda quelli terrestri e si sapeva (o si pensava) che Io fosse, anche ai tempi di Galileo. Si riteneva che la differenza fosse dovuta all'idea del tempo (corroborata da una impressionante quantità di prove raccolte nell'arco di oltre 2000 anni)" secondo cui gli oggetti celesti e quelli

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terrestri erano formati di materiali diversi e ubbidivano a leggi diverse. Questa idea comporta che i risultati dell'interazione della luce (la quale collega i due regni e ha proprietà speciali) con gli oggetti terrestri non si possono far valere per il cielo senza esami ulteriori; a questa concezione fisica si aggiungeva la credenza, in completo accordo con la teoria aristotelica della conoscenza (e con le correnti teorie sulla materia), che i sensi conoscano gli oggetti terrestri e siano pertanto in grado di percepirli distintamente, anche se l'immagine telescopica dovesse risultare gravemente distorta o sfigurata dalle frange di colore. Al contrario i sensi non conoscono le stelle da vicino; dunque in questo caso non possiamo usare la nostra memoria per separare i contributi del telescopio da quelli dell'oggetto stesso. 39 Inoltre, tutte le indicazioni familiari (come sfondo, sovrapposizione, conoscenza della grandezza approssimativa, ecc.) che costituiscono e aiutano la nostra visione sulla superficie della terra vengono meno quando osserviamo il cielo, cosicché devono necessariamente verificarsi nuovi e sorprendenti fenomeni. Soltanto una nuova teoria della visione, contenente delle ipotesi sul comportamento della luce nel cannocchiale e sulla reazione dell'occhio umano in circostanze eccezionali avrebbe potuto colmare la distanza tra cielo e terra, distanza che costituisce ancora un fatto ovvio nella fisica e nell'osservazione astronomica." Avremo presto occasione di commentare le teorie disponibili a quei tempi e vedremo come esse non fossero in grado di svolgere questo compito, oltre al fatto che erano confutate da fatti semplici e del tutto ovvii. Per il momento voglio limitarmi alle sole osservazioni e commentare le contraddizioni e le difficoltà che sorgono quando si cerca di prendere i risultati delle osservazioni telescopiche sugli oggetti celesti così come sono e si pensa che indichino proprietà stabili e oggettive delle cose viste.

5.

Il problema dei dati celesti.

Alcune di queste difficoltà si sono già annunciate nella descrizione precedente degli Avvisi che si conclude con l'osservazione che « sebbene essi [i partecipanti alla riunione] si fossero là recati espressamente per compiere questa osservazione [di altre quattro stelle o pianeti, che sono satelliti di Giove... come pure dei due compagni di Saturno "] e sebbene stessero là fino all'una del mattino, non riuscirono tuttavia a raggiungere un accordo tra i

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loro punti di vista ». Un altro incontro che divenne tristemente famoso in tutta Europa chiarisce ancor di più la situazione. Circa un anno prima, il 24 e il 25 aprile 1610, Galileo portò il cannocchiale in casa del suo avversario Magini di Bologna per mostrarlo a ventiquattro professori di tutte le facoltà là convenuti. Horky, l'esaltato allievo di Keplero, scrisse in questa occasione:" « Non dormii per tutto il 24 e il 25 aprile, né di giorno né di notte, ma provai lo strumento di Galileo in cento modi diversi," sia su oggetti qua sulla terra che là nel cielo; qui funziona a meraviglia; nel cielo inganna, dato che alcune stelle fisse [sono qui menz ionate, ad esempio, Spica Verginis e una fiamma terrestre] si vedono doppie. Ho come testimoni persone eccellentissime e nobili dottori ... e tutti hanno ammesso che lo strumento inganna ... Il che mise a tacere Galileo e il 26, il mattino presto, se ne andò tristemente ... senza neppure ringraziare Magini per l'eccellente pranzo... ». Magini scrisse a Keplero il 26 maggio: « Non ha combinato nulla, poiché erano presenti più di venti sapienti; tuttavia nessuno vide chiaramente i nuovi pianeti [nemo perfecte vidit]; riuscirà a fatica a conservarli ». Qualche mese più tardi (in una lettera firmata da Ruffini)" egli ripete: « Soltanto alcuni dotati di vista molto acuta rimasero abbastanza convinti ». Dopo che questi e altri resoconti negativi avevano sommerso Keplero da ogni parte, come una valanga di carta, egli chiese infine a Galileo delle testimonianze: 48 « Non voglio nascondervi che parecchi italiani mi hanno scritto a Praga asserendo di non essere riusciti a vedere quelle stelle [i satelliti di Giove] col vostro telescopio. Mi chiedo come può essere che tante persone neghino il fenomeno, compresi quanti hanno fatto uso del telescopio. Ma se considero quanto a volte mi succede, non ritengo affatto impossibile che una sola persona possa vedere quanto migliaia di persone non riescono a scorgere .. .4 9 Ciò nonostante mi spiace che una conferma da altri tardi tanto a venire ... Pertanto vi prego, Galileo, datemi delle testimonianze il più presto possibile ... ». Galileo nella sua risposta del 19 agosto 50 fa riferimento a se stesso, al duca di Toscana e a Giuliano « ... oltre a molti altri di Pisa, Frenze, Bologna, Venezia e Padova che tuttavia restano in silenzio ed esitano. La maggior parte di costoro è del tutto incapace di distinguere Giove o Marte o perfino la luna come pianeti... » uno stato di cose poco rassicurante, è il meno che si possa dire. Oggi comprendiamo un po' meglio perché il diretto richiamo alla visione telescopica dovesse portare tante delusioni, soprattutto nelle fasi iniziali. La ragione principale, già intravista da Aristo-

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tele, ero naturalmente il fatto che i sensi, quando sono usati in condizioni anormali, tendono a dare una risposta anormale. Alcuni degli antichi storici ebbero un sentore di questo, ma partirono da un punto di vista negativo; cercarono cioè di spiegare l'assenza di resoconti osservazionali soddisfacenti, la povertà di quanto si vede col cannocchiale,S1 ma non si resero conto della possibilità che gli osservatori fossero stati disturbati anche da forti illusioni positive. Solo recentemente ci si è resi conto della portata di tali illusioni, soprattutto in seguito all'opera di Ron. chi e della sua scuola? Costoro attribuiscono le variazioni maggiori alla posizione dell'immagine telescopica e, conseguentemente, all'ingrandimento visivo: alcuni osservatori pongono l'immagine all'interno del cannocchiale," scambiando la sua posizione laterale con quella dell'occhio, esattamente come nel caso di un'immagine postuma o di un riflesso entro il cannocchiale eccellente prova per dimostrare che ci si trova davanti ad una « illusione»/' altri pongono l'immagine in modo tale da non giungere ad alcun ingrandimento, sebbene fosse stato promesso un ingrandimento lineare di oltre 30 volte."" Perfino un raddoppiamento dell'immagine si può spiegare come effetto di una mancata messa a fuoco corretta. Se si aggiungono le molte imperfezioni dei cannocchiali del tempo 57 a queste difficoltà psicologiche, si può ben comprendere la scarsezza dei resoconti soddisfacenti e anzi ci si stupirà della velocità con cui fu accettata e, come al solito, pubblicamente riconosciuta, la realtà dei nuovi fenomeni. Questo sviluppo diventa ancor più sorprendente se pensiamo che molti resoconti, perfino da parte degli osservatori migliori, erano o del tutto falsi, come già allora si poteva provare, o contraddittori. Cosl Galileo riporta irregolarità, « vaste protuberanze, profondi abissi e sinuosità sul limite interno della parte illuminata della luna, mentre l'altro limite « non appare disuguale, scabro e irregolare, ma perfettamente circolare e tondo, chiaramente definito come se fosse stato tracciato con un compasso e senza alcuna scabrosità, protuberanza o cavità. »° La luna, allora, appariva piena di montagne nella parte interna ma perfettamente liscia alla periferia; e questo malgrado il fatto che quest'ultima mutasse come risultato delle leggere vibrazioni del corpo lunare. La luna e alcuni pianeti, come per esempio Giove, risultavano ingranditi, mentre il diametro apparente delle stelle fisse diminuiva: i primi venivano ravvicinati, mentre le seconde venivano allontanate. « Le stelle fisse - scrive Gallico - cosl come quelle erranti, quando sono viste col telescopio non appaiono affatto in-

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grandite nella proporzione in cui gli altri oggetti e la luna stessa aumentano di grandezza; al contrario nel caso delle stelle questo ingrandimento è molto meno evidente, cosicché potete pensare che un telescopio il quale ( tanto per farne un esempio) è tanto potente da ingrandire 100 volte gli altri oggetti, sarà a malapena in grado di ingrandire le stelle 4 o5 volte ».61 Tuttavia gli aspetti più strani della storia dei primi telescopi appaiono quando guardiamo più attentamente le rappresentazioni della luna fatte da Galileo. Basta solo una breve occhiata ai disegni di Galileo da una parte e a fotografie delle fasi corrispondenti dall'altra, per convincere il lettore che « nessuna delle caratteristiche segnalate... può essere identificata con sicurezza con qualcuno dei punti conosciuti del paesaggio lunare. »° Guardando questa evidenza è molto facile pensare che « Galileo non fosse un grande osservatore di astronomia, o che l'eccitazione di tante scoperte fatte in quel periodo avesse temporaneamente offuscato la sua abilità o il suo senso critico. Questa affermazione può benissimo essere vera (sebbene personalmente ne dubiti, in vista della straordinaria capacità d'osservazione che Galileo dimostra in altre circostanze)," ma ha un contenuto molto povero e neppure molto interessante: non ne emerge nessun nuovo suggerimento per ulteriori ricerche e anche la possibilità di prova è molto remota." Esistono tuttavia altre ipotesi che portano a nuovi suggerimenti e che ci dimostrano quale fosse la complessità della situazione al tempo di Galileo; consideriamo le due seguenti ipotesi. Ipotesi I: Galileo riportò fedelmente quanto vide, lasciando così una testimonianza delle manchevolezze dei primi canocchiali come pure delle peculiarità della visione telescopica del tempo. Interpretati in questo modo, i disegni di Galileo sono resoconti dello stesso tipo di quelli che si ricavano dagli esperimenti di Stratton, Ehrisman e Kohler a parte il fatto che bisogna prendere in considerazione anche le caratteristiche dell'apparecchio fisico e la poca familiarità degli oggetti visti.67 Dobbiamo anche ricordare i vari punti di vista in conflitto a proposito della superficie della luna che esistevano anche al tempo di Galileo 64 e che possono aver influenzato quanto gli osservatori videro in realtà. Ciò di cui avremmo bisogno per poter portare maggior luce sulla questione è una raccolta empirica di tutti i primi risultati telescopici, preferibilmente disposti su colonne parallele e comprendenti anche tutte le rappresentazioni pittoriche che ci re-

»'

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stano."" Se si detraggono le peculia rità degli strumenti, questa raccolta aggiunge un materiale affascinante a una storia delle percezioni (e della scienza) non ancora scritta." Tale è il contenuto dell'ipotesi I. L'ipotesi II è molto più specifica di quella precedente e si sviluppa in modo particolare. Personalmente l'ho studiata, con gradi variabili di entusiasmo, negli ultimi due o tre anni e il mio interesse è stato ravvivato da una recente lettera del prof. Steven Toulmin, a cui sono grato della chiara e semplice esposizione del punto di vista in questione. Mi sembra tuttavia che l'ipotesi incontri molte difficoltà e che forse debba essere lasciata perdere. L'ipotesi II, proprio come la I, affronta i rapporti telescopici dal punto di vista della teoria della percezione, ma aggiunge il fatto che la pratica dell'osservazione al telescopio e la conoscenza dei nuovi risultati mutò non solo quanto si vedeva attraverso il cann occhiale stesso, ma quanto si vedeva a occhio nudo, il che è evidentemente della massima importanza per la nostra valutazione dell'atteggiamento dei contemporanei di Galileo nei confronti dei suoi resoconti. Che l'aspetto delle stelle e della luna possa essere stato a volte molto più indefinito di quanto non lo sia oggi mi è stato suggerito inizialmente dall'esistenza di varie teorie circa la luna che sono incompatibili con quello che ognuno può osservare con i propri occhi. La teoria di Anassimandro della sosta parziale (per spiegare le fasi della luna), la credenza di Senofane nell'esistenza di soli e lune diverse a secondo delle varie zone della terra, l'assunzione di Eraclito che le eclissi e le fasi fossero causate dal capovolgimento di quei catini che per lui rappresentavano il sole a la luna n - tutte queste posizioni contraddicono l'esistenza di una superficie stabile e chiaramente visibile, di una « faccia » come quella che la luna possiede. Lo stesso vale per la teoria di Berossos, la quale appare ancora in Lucrezio " e perfino più tardi, in Alhazen. Ora, questa noncuranza per fenomeni per noi ovvii può essere dovuta o a una certa indifferenza nei confronti dell'evidenza esistente, la quale era tuttavia chiara e particolareggiata come lo è oggi, o a una certa diffidenza nell'evidenza stessa. Non è facil e scegliere fra queste due alternative: a causa dell'influenza di Wittgenstein, Hanson e altri optai per qualche tempo per la seconda versione, ma ora mi sembra che essa venga confutata sia dalla fisiologia (psicologia ") sia dall'informazione storica. Così dobbiamo solo ricordare come Copernico non tenesse in nessuna

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considerazione le difficoltà che nascevano dalle variazioni della luminosità di Marte e di Venere, allora ben conosciute, e che si incontravano ogni volta che si tentava di giungere a una valutazione più realistica, ad esempio, dell'osservazione di Polemarco, secondo il quale tali variazioni sono « impercettibili »7' Per quanto riguarda la faccia della luna, vediamo che Aristotele vi si riferisce molto chiaramente quando osserva che « le stelle non ruotano; infatti il ruotare implica una rotazione, ma la 'faccia' della luna (come viene chiamala) si vede sempre ».76 Possiamo allora dedurne che l'occasionale indifferenza per la stabilità della faccia della luna non fosse dovuta a una mancanza di impressioni chiare, ma a qualche teoria ampiamente sostenuta circa l'inattendibilità dei sensi. Tale deduzione è confortata dalla discussione di Plutarco 77 a proposito di questa questione e che tratta non di ciò che si vede (tranne l'evidenza a favore o contro certe posizioni), ma alcune spiegazioni di fenomeni altrimenti assunti come ben noti: « Tanto per cominciare egli dice è assurdo chiamare la figura che si vede nella luna [pawvòvov el8o v ai o)iv] un disturbo della visione... una condizione che chiamiamo abbaglio. Chiunque asserisca questo non osserva che questo fenomeno dovrebbe verificarsi in relazione al sole, dal momento che questi ci illumina violentemente, e inoltre non spiega perché occhi deboli e miopi non scorgono alcuna distinzione di forma nella luna, ma la sua orbita sembra ad essi una luce piena e regolare, mentre coloro che sono dotati di una vista acuta e robusta distinguono precisamente e distintamente le caratteristiche di un viso e percepiscono più chiaramente le variazioni. L'irregolarità confuta completamente continua Plutarco" l'ipotesi poiché quanto si vede non è continuo e confuso, ed è descritto abbastanza bene dalle parole di Agesianasse: Essa splende circondata di fuoco, ma all'interno / più blu del lapislazzolo appare l'occhio di una fanciulla / e la bella fronte, un viso chiaro. In verità, le zone scure spariscono al di sotto di quelle luminose che esse circondano... e sono così strettamente legate l'una all'altra da far somigliare il contorno della figura a un dipinto. » Più avanti 79 la stabilità della faccia della luna viene usata come argomento contro le teorie secondo le quali la luna è fatta di fuoco o di aria, dato che « l'aria è sottile e senza forma, e così per natura scivola via e non sta ferma. » L'aspetto della luna, pertanto, sembrava essere un fenomeno ben noto e distinto; ciò che si metteva in dubbio era la rilevanza dei fenomeni in vista di una teoria astronomica.

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Possiamo tranquillamente assumere che lo stesso valeva per i tempi di Galileo." Dobbiamo allora ammettere che le osserva. zioni di Galì/eo potevano essere controllate a occhio 11t1do ed essere così smascherate come illusorie. Così quel mostro circolare che appare sotto il centro del disco della lunn 82 è alln portata dell'osservazione a occhio nudo (il suo diametro è più ampio di 3 e '/ minuti d'arco), mentre una sola occhiata basta a convincerci che la faccia della luna non è sfigurata in alcun punto da un difetto del genere. Sarebbe interessante vedere ciò che gli osservatori del tempo avevano da dire a questo proposito o, se si trattava di artisti, come rappresentavano questo fatto. Riassumiamo quanto è stato detto finora. Galileo possedeva SO· lo una conoscenza approssimativa della teoria ottica del tempo; il suo cannocchiale diede dei risultati sorprendenti sulla terra che furono giustamente apprezzati... I guai dovevano venire dal cielo, come ora sappiamo, e infatti apparvero ben presto: il cannocchiale diede dei fenomeno spuri e contraddittori e alcuni dei suoi risultati potevano essere confutati da una semplice occhiata. Solo una nuova teoria della visione telescopica avrebbe potuto portar ordine in questo caos (che poteva essere anche peggiore, considerando le divergenze esistenti anche tra i fenomeni visibili a occhio nudo) e distinguere l'apparenza della realtà. Tale teoria fu sviluppata da Keplero, prima nel 1604, poi nel 1611.14

6.

La teoria di Keplero.

Secondo Keplero, la posizione dell'immagine di un oggetto puntiforme si trova tracciando dapprima il percorso dei raggi che ne provengono secondo le leggi della riflessione e della rifrazione, finché raggiungono l'occhio e poi usando il principio (alla base di tutta 1 ottica odierna) secondo cui « l'immagine si vedrà nel punto determinato dall'intersezione capovolta dei raggi della visione provenienti dai due occhi o nel caso di un solo occhio due lati della pupilla. Questa regola che deriva dall'assunzione per cui « l'immagine è opera dell'atto della visione »»" [cum 1mago sit visus opus...] è parte empirica," in parte geometrica. Essa basa la posizione dell'immagine su di un « triangolo metrico » [triangulum distantiae mensorium "] o « triangolo distanziometrico », come lo chiama Ronchi,?° che è costruito coi raggi che giungono fino all'occhio e che viene usato dall'occhio e dalla

dai

in

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mente per porre l'immagine alla distanza adeguata. Qualsiasi sia il sistema ottico e qualsiasi sia la distanza totale che i raggi di luce devono percorrere per andare dall'oggetto all'osservatore, la mente dell'osservatore utilizza solo la sua estremità e basa su di essa il giudizio visivo, cioè la percezione. È chiaro che questa regola costitul un notevole progresso rispetto alle teorie precedenti, anche se si può immediatamente dimostrare come sia del tutto falsa. Si prenda una lente d'ingrandimento, si determini il suo fuoco e si guardi un oggetto vicino: il triangolo distanziometrico va al di là dell'oggetto, verso l'infinito. Un leggero cambiamento della distanza porta l'immagine kepleriana dall'infinito a un punto molto vicino e di nuovo all'infinito: ma un fenomeno del genere non si osserva mai; vediamo l'immagine, leggermente ingrandita, a una distanza che è in genere identica alla distanza effettiva tra oggetto e lente; la distanza visiva dell'immagine resta costante, indipendentemente dalla variazione della distanza tra lente e oggetto perfino quando l'immagine diventa distorta e infine diffusa. 91 Questa era dunque la situazione esistente nel 1610 quando Galileo pubblicò le sue scoperte. Come vi reagl? La risposta è presto data: innalzò il telescopio a «senso superiore ed eccellente ».92 Quali furono i motivi che lo spinsero a farlo? La sposta ci riporta ai problemi sollevati dall'evidenza (contro Copernico) che è stata riportata nel paragrafo 2.

ri-

7.

Le « due incognite ».

Secondo la teoria copernicana Marte e Venere si avvicinano e si allontanano dalla terra, rispettivamente, di 1: 6 o 1: 8 (approssimativamente); la loro variazione di luminosità dovrebbe essere, rispettivamente, di 1: 40 e di 1: 60 (cifre di Galileo). Tuttavia Marte subisce pochi mutamenti e la variazione della luminosità di Venere è « quasi impercettibile »93 • Queste esperienze « contrariano apertamente il movimento annuo »;° d'altra parte il cannocchiale fornisce fenomeni nuovi e strani, alcuni dei quali si possono rivelare illusori dopo un'osservazione a occhio nudo, altri contraddittori, altri ancora avranno l'aspetto di illusioni, mentre l'unica teoria che avrebbe potuto portar ordine in questo caos, cioè la teoria della visione di Keplero, è confutata dall'esperienza di tipo più comune. Ma, e con questo giungiamo a quello che ritengo il punto centrale del procedimento di Galileo, esistono dei feno-

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meni telescopici, e in primo luogo la variazione della luminosità dei pianeti, che concordano più con Copernico che non coi risultati dell'osservazione a occhio nudo. Visto attraverso il cannocchiale, Marte cambia veramente, così come è previsto dalla teoria di Copernico. Se viene però confrontato col funzionamento complessivo del telescopio, questo mutamento è ancor più sorprendente, così come Io è la teoria copernicana nei confronti dell'evidenza pre-cannocchiale; ma il mutamento è in armonia con le predizioni di Copernico. È questa armonia, e non tanto una profonda comprensione della cosmologia e dell'ottica, che prova secondo Galileo la veridicità di Copernico e del cannocchiale sia nelle questioni terrestri che in quelle celesti, ed è su questa armonia che egli costruisce una visione dell'universo completamente nuova. « Galileo scrive Geymonat -95 non fu il primo a rivolgere il cannocchiale verso il cielo; fu il primo però ad accorgersi dell'enorme interesse delle cose viste. Comprese infatti, immediatamente, che esse si inserivano in modo perfetto nella concezione copernicana, mentre risultavano in netto contrasto con la vecchia astronomia. Doveva forse venire cercata proprio qui la prova diretta [o un semplice accordo coi fatti] di quella verità del copernicanesimo, in cui il Nostro credeva da anni, ma che non era ancora riuscito a dimostrare, malgrado le dichiarazioni troppo leggermente compiute da amici e colleghi? [Non era mai stato in grado di eliminare le prove confutanti; come abbiamo visto e come egli stesso ammette]. Più si radicava in lui questa convinzione, più diveniva chiara l'importanza del nuova strumento. La fiducia nella veridicità del cannocchiale e il riconoscimento della sua importanza non furono, nell'animo di Galileo, due atti distinti... furono due aspetti

del medesimo processo... ». Si può esprimere con più chiarezza la mancanza di prove indipendenti? « Il Nuncius - scrive Franz Hammer nella esposizione più concisa su questo argomento che abbia mai trovato 96 - contiene due incognite, in cui una è risolta con l'aiuto dell'altra. » Il che è del tutto esato, eccetto il fatto che le « incognite » non erano esattamente tali, ma erano piuttosto conosciute come false, come anche Galileo stesso afferma. È questa situazione particolare, questa armonia tra due idee interessanti, ma già confutate, che Galileo sfrutta per impedire che l'una o l'altra venga eliminata. Esattamente lo stesso procedimento è usato per conservare la sua dinamica; la quale, come vedremo, era stata messa a repentaglio dagli eventi osservabili. Per eliminare questo pericolo Galileo introduce l'attrito e altre perturbazioni con l'aiuto di ipotesi ad hoc

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e le tratta come tendenze definite dall'ovvia discrepanza tra fatti e teoria invece che come eventi fisici spiegati da una teoria dell'attrito teoria per la quale sarebbero state trovate un giorno prove nuove e indipendenti (come avvenne nel XVIII secolo). Tuttavia l'accordo tra la nuova dinamica e l'idea del movimento della terra, felicemente consolidato da Galileo col suo metodo dell'anamnesis (si veda più avanti, par. 14), ottenne di nuovo il risultato di fare accettare entrambi. Il lettore si renderà conto che uno studio più attento di fenomeni storici come questi crea notevoli difficoltà per il punto di vista secondo il quale il passaggio dalla cosmologia pre-copernicana alla filosofia del XVII secolo consistette nella sostituzione di una teoria confutata con una congettura più generale che spiegava le prove confutanti, faceva nuove predizioni ed era corroborata dalle osservazioni fatte allo scopo di verificare queste nuove predizioni. Si riusciranno forse a vedere anche i meriti di un punto di vista differente il quale afferma che, mentre l'astronomia precopernicana si trovava in difficoltà (si trovava di fronte a una serie di prove che la confutavano), la teoria copernicana si trovava in difficoltà maggiori (le prove che la circondavano la confutavano ancor più drasticamente);" essendo però in accordo con una teoria ancor più inadeguata, acquistò forza e le confutazioni vennero eliminate tramite ipotesi ad hoc e intelligenti tecniche di persuasione." Questa sembrerebbe essere una descrizione molto più esatta degli sviluppi avvenuti al tempo di Galileo. Interromperò ora questa narrazione storica per mostrare come la spiegazione sopra esposta non solo sia fattualmente adeguata, ma sia anche perfettamente ragionevole, e che il tentativo di introdurre a forza alcune delle metodologie più comuni del XX secolo (come, ad es., il metodo delle congetture e delle confutazioni) avrebbe potuto avere conseguenze disastrose.??

B.

Considerazioni metodologiche.

Una tendenza molto diffusa nelle discussioni metodologiche contemporanee è quella di affrontare il problema della conoscenza, per così dire, sub specie aeternitatis." Ci si chiede: date le condizioni iniziali e le osservazioni accettate, quali conclusioni possiamo trarre in vista delle nostre teorie? Le risposte variano considerevolmente: alcuni direbbero che è possibile determinare i livelli di conferma con cui si potrebbero giudicare le teorie; altri rifiu-

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terebbero la logica della conferma e giudicherebbero le teorie in base al loro contenuto, oltre che alle effettive falsificazioni occorse. Tutti comunque assumono che le osservazioni raccolte allo scopo di provare una teoria e che soddisfano i vigenti canoni di predizione e di rilevanza sono già decisive e possono, e forse devono, essere usate immediatamente per eliminare In teoria o per consacrarla valida, ad esclusione di tutte le altre alternative. Questa assunzione trascura il fotto che la nostra conoscenza ha degli strati di età e di complessità diverse, per cui una cosmologia accettabile può trovarsi in difficoltà perché è messa al confronto con osservazioni che derivano da una teoria della conoscenza ormai superata. I criteri di buona osservazione e di buona misurazione che sono stati dati per scontati in un certo stadio possono essere superati rispetto alla teoria che dovrebbero giudicare, sia per maturità che per complessità (di solito saranno superati rispetto a una nuova cosmologia, dato che la fisiologia è una materia molto più difficile e complessa dell'astronomia). Ma se esiste effettivamente questo divario di maturità tra le teorie e le osservazioni, allora il giudicare le teorie per mezzo di queste ultime è un tentativo sensato tanto quanto lo sarebbe il voler giudicare l'ottica moderna in base a un esperimento aristotelico (il che, incidentalmente, era il fondamento della teoria dei colori di Goethe). Bisogna allora attendere finché le idee sulla teoria della conoscenza abbiano avuto il tempo di aggiornarsi o, per usare termini più generali, bisogna comprendere che la conoscenza non é una raccolta di idee al di fuori del tempo, ma il risultato di un complesso processo storico in cui il giudice giusto può comparire cento anni dopo la comparsa delle cose da giudicare. Ma spieghiamo meglio la situazione. Cominciamo col rilevare che ciò che conta e ciò che non conta come evidenza rilevante (in questioni cosmologiche) non dipendono soltanto dalla teoria accertata, ma anche dalle idee correnti concernenti il processo della conoscenza, dal mezzo in cui queste prove hanno luogo (l'atmosfera terrestre, ad esempio), dal movimento e dalle altre proprietà del punto d'osservazione (come la terra), oltre che da molte altre assunzioni supplementari, alcune delle quali non sono neppure esplicite ma fanno parte del significato dei nostri termini osservazionali. (L'idea secondo cui non può esistere un moto « non operativo » "" che non abbia alcun effetto sui processi dell'oggetto in movimento é proprio un'assunzione di questo tipo, come vedremo nel paragrafo 13. Lo stesso vale per la « comune »» distinzione tra percezioni veritiere e illusorie, di-

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stinzione che fu usata con ottimi risultati e, come un empirista direbbe, con buone ragioni, contro il cannocchiale). A questo punto é chiaro che una cosmologia può essere largamente corroborata non perché sia corretta, ma perché è collegata a scienze ausiliarie inadeguate (come chiameremo le discipline del genere appena descritto). L'armonia tra la cosmologia e queste scienze inadeguate può essere cosl grande che i fatti contrari non hanno alcuna possibilità di essere presi in considerazione; al contrario un cambiamento di cosmologia da Tolomeo a Copernico, ad esempio distruggerà l'armonia, e le prove confutanti compariranno in gran numero, anche se il cambiamento si rivelerà un miglioramento (chi infatti si aspetterebbe che l'idea della rotazione della terra fosse compatibile con le osservazioni interpretate secondo la dinamica aristotelica o la più familiare idea del « carattere operativo » di ogni moto?). In circostanze del genere l'esistenza di prove confutanti dimostra soltanto che la nuova cosmologia ha scopi opposti a quelli degli oggetti ausiliari tradizionali, ma non dimostra che la cosmologia sia sbagliata di per sé. Cosl la teoria gnoseologica aristotelica (che si adattava perfettamente alla dinamica e alla cosmologia aristotelica) conteneva l'assunzione che un osservatore normale in possesso di tutte le sue facoltà è fatto a misura dell'universo ed è in grado di dare resoconti adeguati di tutti i suoi aspetti. « Le concezioni tradizionali della natura scrive Hans Blumenberg, commentando questo aspetto "" erano connesse a un tipo di postulato della visibilità che corrisponde sia all'estensione finita dell'universo sia all'idea che esso sia in relazione con l'uomo come suo centro. Che al mondo ci fossero delle cose inaccessibili all'uomo non solo in quel tempo, o in un dato periodo, ma in via di principio, e che per le loro caratteristiche naturali non avrebbero mai potuto essere scorte, tutto ciò era inconcepibile per la tarda antichità come per il Medio Evo». Proprio questa idea è implicita nella nuova cosmologia copernicana, specialmente nella forma radicale che le ha dato Bruno: l'osservatore non è più situato al centro, ma è tenuto lontano dalle vere leggi sia dalle condizioni fisiche specifiche del suo punto d'osservazione, la terra in movimento, sia dalle idiosincrasie del suo strumento d'osservazione più importante, l'occhio umano. Quindi una verifica della cosmologia copernicana non richiede solo un banale e semplice confronto tra le sue predizioni e ciò che si vede, ma l'interpolazione, tra le leggi della nuova cosmologia e i dati dell'osservazione, di una meteorologia ben sviluppata (nel senso antico della parola, cioè di scien-

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za che tratta tutti i fenomeni al di sotto della luna), una scienza dell'ottica fisiologica ugualmente ben sviluppata e concernente sia gli aspetti soggettivi (cervello) che quelli oggettivi (luce, struttura dell'occhio, lenti) della visione, come pure una nuova dinamica che stabilisca il modo in cui il moto della terra può influenzare i processi fisici che avvengono sulla sua superficie. Si può subito affermare che le prove ottenute secondo le vecchie teorie aristoteliche debbono essere in conflitto con la nuova astronomia e che si è perfettamente giustificati nel ritenere, per le ragioni date, che il conflitto sia irrilevante. L'elemento più importante in questa particolare e complessa situazione è, tuttavia, il fattore tempo. La teoria copernicana si scontra con l'evidenza che è stata raccolta secondo la vecchia gnoseologia e viene ora confrontata con essa direttamente. Non si tratta di una prova rilevante: le prove rilevanti devono inserire le perturbazioni meteorologiche, dinamiche e fisiologiche tra le leggi basilari e le percezioni dell'osservatore. Ora, non esiste alcuna garanzia che le scienze supplementari che producono queste perturbazioni e le loro leggi siano reperibili subito dopo la scoperta della Nuova Astronomia; al contrario: tale sequenza di eventi è estremamente improbabile, data la grande complessità dei fenomeni da considerare. Non si può pretendere che un uomo solo, o perfino un'unica generazione, fornisca d'un colpo non soltanto una nuova teoria, ma una nuova dinamica e forse anche una nuova teologia (i critici impazienti sembrano sempre dimenticare che un uomo può fare solo un certo numero di cose alla volta e che neppure le loro teorie preferite sono sorte in pochi anni). Ma cosa deve fare un filosofo naturale in tali circostanze? Cosa deve fare quando si rende conto che ci vogliono centinaia di anni prima che appaiano le prime ipotesi ausiliarie ragionevoli? È chiaro che deve conservare la nuova astronomia e le nuove leggi in essa contenute, oltre che cercare di svilupparle per mantenere vive e articolare ulteriormente le motivazioni che spingono a inventare e migliorare le scienze supplementari. In senso stretto ciò significa che deve sviluppare dei metodi che gli permettano di conservare le sue teorie di fronte ai semplici e non ambigui fatti confutanti, anche se non sono immediatamente reperibili delle spiegazioni accettabili del conflitto. Questa è la prima cosa da fare. Nello sviluppare tali metodi egli deve rendersi conto del fatto che la nostra conoscenza totale contiene parti di età differenti che sono adatte a tipi di evidenza differenti (a loro volta interpretati da vari strati di scienze ausiliarie), e che non possono essere usate indiscrimi-

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natamente per giudicare nuove e rivoluzionarie teorie. Bisogna fare un'attenta selezione dei dati, e questo anche prima che si presentino delle ipotesi capaci di fornire criteri di selezione. Ciò significa evidentemente che la nuova teoria viene intenzionalmente allontanata da alcuni dati che corroboravano la teoria precedente; viene resa più metafisica e l'unica comprova che le viene fornita è ottenuta tramite ipotesi ad hoc. Inizia così un nuovo periodo nella storia della scienza, caratterizzato da una regressione che ci riporta a uno stadio già superato, in cui le teorie sono più vaghe e hanno un contenuto empirico inferiore; questa regressione non è però un fatto incidentale, ma ha una funzione specifica ed essenziale se vogliamo superare lo status quo, quella cioè di fornirci il tempo e lo spazio necessari per sviluppare le nuove scienze ausiliarie. Un filosofo naturale che propone una teoria nuova e rivoluzionaria deve anche rendersi conto che tali scienze ausiliarie possono anche non realizzarsi, che la loro invenzione è spesso il frutto del caso e che è suo compito non solo andare avanti e costruire, ma anc he saper aspettare finché non si verifichi l'occasione giusta. A ciò non provvedono affatto le nostre metodologie, dove i giudizi di aumento di contenuto, falsificazione, corroborazione e conferma sono forniti qui e ora, dando per scontato che il tentativo giusto (esperimento, analisi logica) debba portare al risultato giusto (scoperta dell'evidenza confutante e delle ipotesi ad hoc), il quale potrà essere pertanto usato per condannare ed eliminare un punto di vista appena proposto. Tale impaziente procedimento, lo ripeto, tralascia il fatto che gli elementi che svolgono un importantissimo ruolo nel confronto tra la teoria e l'esperimento e cioè: In teoria da giudicare; i dati; le scienze ausiliarie usate nell'interpretazione e nella sistemazione dei dati; le epistemologie usate per raccogliere, interpretare e a volte perfino costituire i nostri dati giungono spesso in un ordine temporale sbagliato,"" per cui a volte un'ottima e « moderna » cosmologia è accoppiata a una teoria della conoscenza pessima e primitiva che non fa che danneggiarla. Naturalmente nessuno può sapere in anticipo dove siano le atrocità, ma si può tentare di indovinare e procedere così nel modo sopra indicato: rimuovere i dati dalla teoria; collegare a essa altri dati in un modo ad hoc e sperare che sorgano infine delle scienze ausiliarie capaci di fornire delle ragioni delle decisioni arbitrarie assunte (si può perfino creare l'impressione che esistano già). È questo, come ho già affermato, il primo passo che devono fare gli inventori di una nuova cosmologia, come già fece Galileo." Se questo è noto, non lo è invece il fatto che il passag-

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gio dalla fisica classica alla relatività ha esattamente la stessa strutturo, tranne che i dati mancanti sono presi dalla scienza precedente, la fisica classica, e che l'esistenza di connessioni ad hoc non è più considerata un difetto. Dal punto di vista di questo libro (e anche della filosofia di Bohr "), la teoria quantistica e la relatività sono stadi intermedi, paragonabili alla scienza copernicana al tempo di Galileo, tra una cosmologia sbagliata (la fisica classica) e la giusto cosmologia del futuro, empiricamente adeguata e concettualmente corretta. Il carattere provvisorio di queste due discipline è chiarito dal modo in cui esse usano le nozioni classiche.

9.

La sopravvivenza delle idee classiche. A: La teoria quantistica.

Innanzi tutto, esistono ottime ragioni per supporre che la teoria quantistica non « riduca la meccanica classica a un caso speciale a meno che non sia integrata sia dai concetti che dalle assunzioni classiche. Per renderci conto di questo, prendiamo le due domande seguenti: (i) è vero che tutti i problemi trattati con successo dalla (non relativistica) fisica classica (meccanica classica) possono essere trattati anche dalla teoria quantistica senza l'aiuto di ulteriori aggiunte che (a) implicano, (b) non implicano idee classiche? (ii) è vero che la teoria quantistica non fa alcuna affermazione in contrasto con quelle fatte dalla fisica classica (meccanica classica) nel campo che le è proprio, e che non sono contraddette dall'esperienza (qualità quest'ultima che viene aggiunta per escludere casi di superfluidità, superconduttività, esistenza di oggetti materiali stabili, fluttuazione visiva in condizioni di scarsa illuminazione, ecc.)? Una risposta negativa alla (i) ci costringerebbe a corroborare la teoria quantistica con dei principi ricavati da una incursione nel campo macroscopico e che siano espressi, nel caso (i)/a, in termini classici. Una risposta negativa alla (ii) ci obbligherebbe a eliminare alcune conseguenze della teoria quantistica, ancora sulla base di fatti macroscopici noti. Pare quindi che né la (i) né la (ii) ammettano una risposta positiva. Per quanto riguarda la (i) possiamo cominciare rilevando che sussumere completamente il macrolivello nelle leggi e nei concetti della teoria quantistica significa assumere l'esistenza di de-

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scrizioni teoriche quantistiche per ogni situazione macroscopica o per ogni situazione esprimibile in termini classici. Ad esempio, devono esistere degli operatori hermitiani corrispondenti agli angoli euleriani e ai mutamenti temporali degli angoli euleriani in un corpo rigido, affinché si possano esprimere i teoremi essenziali della meccanica di un corpo rigido nei termini della meccanica quantistica. Inoltre e questo è un punto spesso dimenticato nella discussione di problemi come quello appena esposto la teoria quantistica della misurazione deve essere estesa alle situazioni macroscopiche e si deve spiegare come mai degli aspetti complementari dei micro-oggetti spariscano a livello macroscopico. Questo programm a incontra delle difficoltà fn dall'inizio. I problemi che sorgono sono connessi in parte alla corretta teoria quantistica della misurazione, in cui « per alcune osservabili, in realtà per la maggior parte di esse, (come eypz) nessuno crede seriamente all'esistenza di un apparecchio misuratore» (ci si riferisce qui alle grandezze microscopiche)"" Per quanto riguarda quelle macroscopiche, troviamo difficoltà di definizione già nei casi più semplici, come in quello, accennato più sopra, degli angoli euleriani di un corpo rigido.""" I tentativo di una caratterizzazione generale delle variabili macroscopiche è stato ripreso recentemente da alcuni autori, come Ludwvi"e i membri della scuola italiana "" ma questo tentativo ha rivelato la necessità di nuovi principi, principi che si è cercato di scoprire con l'aiuto di un « principio inverso di corrispondenza il quale, partendo dalla teoria quantistica, ci permetta di indovinare i limiti di sistemi molto ampi, tenendo come guida alla nostra ricerca le caratteristiche principali della microfisica ».MI Mentre questi principi aggiuntivi (che sono stati paragonati al principio di esclusione "") potrebbero essere accettati come aggiunte legittime che non trascendono lo schema della teoria quantistica, ciò non si può dire per quanto riguarda le aggiunte e le modifiche connesse alla seconda domanda. Per quanto riguarda quest'ultima basta solo rilevare che la teoria quantistica è una teoria lineare, mentre la meccanica classica ( con eccezioni idealizzate quali la teoria delle piccole vibrazioni) non lo è; e dato che tutte quelle approssimazioni che si basano sulle ipotesi teoriche quantistiche circa il macrolivello preservano la linearità, abbiamo buone ragioni per aspettarci delle deviazioni." Schroedinger "" e Einstein " ci offrono ottimi esempi di tali deviazioni, le quali si verificano in ogni misurazione meccanica quantistica: la misurazione di una grandezza in un sistema che non si trova in uno dei suoi stati (eigenstates) li separa (ad es.,

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diffondendoli nello spazio, come avviene nell'esperimento SternGerl eh) ma non distrugge i termini di interferenza (il che vale anc,hne se' lo stato originario sin del sistema che dell'apparecchio ) 116 misuratore fosse una combinazione e non uno stato puro . In tal modo la funzione di stato di un sigolo elettrone che passando attraverso uno strumento mostri qualche tipo di periodicità ed ora inizi a interagire con le molecole su di una lastra fotografica, è suddivisa in tanti minuscoli fasci che hanno complessi rapporti di fase tra loro. Nella misura in cui sussistono questi rapporti di fase non si può dire se l'elettrone si trovi in qualche fascio particolare . quanti-. o «in tutti contemporaneamente ».111 M a a11ora l a teoria stica così come l'abbiamo descritta finora (e che non è ancora la teoria quantistica di Bohr e della scuola di Copenhagen) non ci consente di dire che l'elettrone ha interagito con una molecola particolare e ha lascialo la sua impronta. Questa indefinitezza aumenterà in proporzione al numero degli oggetti che partecipano alla interazione e può perfino raggiungere la mente di un osservatore consapevole, impedendogli di dire se ha veramente ricevuto una informazione ben definita, nonostante la sua certezza che la cosa è avvenuta."" A questo punto si potrebbe avere la tentazione di dire che la difficoltà è puramente immaginaria, e sottolineare che mentre tutti

questi rapporti di fase tra i vari fasci di onde esistono anche a livello macroscopico e che, mentre può essere difficile trattarli matematicamente, ciò nonostante la logica della situazione è molto semplice: a causa della loro complessità e della rozzezza delle nostre osservazioni al macrolivello (vista, ecc.), esse sfuggiranno a qualsiasi ricerca.119 Tuttavia, come è stato sottolineato da Putnam in alcune conferenze tenute al Minnesota Center for the Philosophy of Science (estate 1957), e come Bohm e Bub hanno spiegato più recentemente,121 l'allontanamento dei termini di interferenza non ci fa ritornare al livello classico, ma trasforma una catena di fasci d'onda interferenti che sono occupati simultaneamente dall'elettrone in una catena di fasci isolati, anch'essi però sempre occupati simultaneamente dall'elettrone. Dato che è possibile raggiungere il livello classico solo quando possiamo assegnare l'elettrone a un unico fascio d'onde, abbiamo bisogno di una ulterore trans1z1one, che non potrà essere considerata in nessun modo un ·.:. : 12 p approssimazione. 'u una scoperta notevolissima l'aver trovato che Interpretare la catena terminale cioè quella catena che ne! nostro ambiente naturale e che si può descrivere nei ti term1n1 macroscop1c1 - come un collettivo nel senso della

F"?

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statistica classica è un procedimento coerente che porta anche a predizioni corrette." Questa scoperta permise di combinare la meccanica ondulatoria con l'interpretazione di Born e fu adottata dai fondatori della teoria quantistica. Ripetiamo le assunzioni che essa comporta: ( 1) i termini di interferenza non vengono considerati, ma l'approssimazione è ottima e le differenze non sono rilevabili al macrolivello; (2) si assume che i macro-oggetti posseggano proprietà inerenti ben definite, indipendenti dalla misurazione e che non si disperdono; (3) queste proprietà vengono identificate con quelle attribuite agli oggetti dalla fisica classica (come la posizione di una lancetta, o un segno della lastra fotografica). Prima di proseguire è della massima importanza rilevare che la (2) e la (3) non sono necessarie per trasformare il formalismo della teoria quantistica in una teoria fisica:"? infatti colleghiamo il formalismo coi « fatti » senza usare nessuna di queste assunzioni. In realtà però lo colleghiamo proprio in questo modo, all'iniz io cli ogni misurazione, quando rappresentiamo sia l'oggetto che l'apparecchio tramite funzioni ondulatorie e senza prestare alcuna attenzione ai requisiti del livello classico (uso di onde piane nella teoria della dispersione e nell'esperimento degli elettroni di cui sopra). Ma se la teoria che risulta da questo uso del formalismo deve soddisfare le richieste del corrispondente principio, allora le sue predizioni devono essere cambiate drasticamente. È in questo contesto che le assunzioni (1) (2) e (3) diventano rilevanti: la (1) è naturalmente del tutto innocua, dato che si tratta di un'approssimazione esattamente dello stesso tipo di quelle usate dalla fisica classica; la (2) e la (3) sono però molto differenti. Esse non eliminano qualche conseguenze quantitativa trascurabile del principio cli sovrapposizione, ma eliminano importanti effetti qualitativi. È soltanto dopo aver applicato la (2) e la (3) che troviamo un accordo col principio di corrispondenza e che possiamo garantire la validità universale (macroscopica) dell'interpretazione di Born. Allo

stesso tempo dobbiamo negare la validità universale del principio di sovrapposizione e ammettere che è soltanto un (utilissimo) strumento di predizione. « In effetti dice Bohr " commentando questo aspetto della situazione la meccanica ondulatoria, proprio come la teoria delle matrici, rappresenta una trascrizione simbolica del problema del moto della meccanica classica adattato ai requisiti della teoria quantistica, e dobbiamo interpretarla facendo

I problemi

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dell'empirismo

un uso esplicito del postulato quantistico », cioè « trami te il concetto delle particelle libere Vediamo che il rapporto tra la teoria quantistica e la fisica classica è in realtà molto diverso, a seconda che sia guardato da un punto di vista comprensivo o attraverso un suo caso speciale, dal momento che usa parti essenziali dello schema classico nella predizione dei fenomeni." Bohr ha descritto tale situazione, molto tempo fa, chiamando sia la fisica classica che lo teoria quantistica « caricature ... che ci permettono, per così dire, di rappresentare asintoticamente degli eventi che si verificano agli estremi opposti dei fenomeni. Vediamo tuttavia che la differenza è soltanto un'espressione del fatto che la meccanica quantistica si trova ancora in uno stadio intermedio, dove il rapporto coi dati non è stabilito tramite le scienze ausiliarie adatte, ma in via diretta, ad hoc. Tale stadio è certamente necessario, come abbiamo tentato di dimostrare nell'ultimo paragrafo, ma è anche chiaro che non può essere considerato definiivo."?

»."

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10.

La sopravvivenza delle idee classiche. B: la relatività.

È sorprendente notare come la teoria della relatività mostri una incompletezza molto simile dovuta, almeno parzialmente, alle stesse ragioni. Prima di tutto, l'adeguatezza della teoria generale della relatività è ora seriamente messa in dubbio dai risultati di Dicke, i quali usano essenzialmente le risorse della fisica classica." Per quanto riguarda la sua generalità, dobbiamo ricordare che qualsiasi calcolo effettivo impiega sia la teoria sia la meccanica classica nelle sue premesse. Le idee classiche si manifestano, prima di tutto, nel calcolo delle orbite dei pianeti, calcolo che si basa sulla teoria classica della perturbazione, con l'aggiunta di una piccola correzione relativistica."?' Non abbiamo alcun indizio che ci permetta di stabilire dove ci porterebbe un calcolo puramente relativistico (il problema della stabilità, ad es., è del tutto aperto). Si tratta solo di una difficoltà pratica, ma è legittimo chiedersi, in vista di alcuni aspetti della relatività, se essa non rifletta anche questioni di principio. In secondo luogo abbiamo bisogno delle idee classiche quando trattiamo oggetti solidi estesi. Il motivo è che non possediamo una descrizione relativistica concisa di quei fenomeni che sono stati (approssimativamente) descritti dalla fisica classica grazie alla nozione di corpo rigido."" Le idee classiche, allora, si presentano in tutte quelle predizioni che sono oggi considerate

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prove decisive della teoria della relatività. È quindi sbagliato assegnare queste predizioni esclusivamente al contenuto della relatività, come sembra voler fare la maggior parte dei filosofi, e dichiarare che si è registrato un aumento del contenuto e del potere esplicativo." Questa la situazione reale. Sospetto comunque che la teoria generale della relatività sia incapace in via di principio di fornire molte predizioni empiriche. Le mie ragioni, grosso modo, sono le seguenti: la teoria è molto semplice, oltre ad essere anche molto coerente; ciò significa che dei punti che si trovano a una certa distanza su cli una curva che esprime una legge della teoria dipendono strettamente l'uno dall'altro; allora, se delle vaste porzioni della curva si muovono in un campo scelto arbitrariamente e con alcune semplici proprietà topologiche (come il campo delle entità teoretiche), è molto improbabile che le parti intermedie lascino il campo (e si muovano, diciamo, verso il campo delle entità osservabili). Quest'ultima considerazione è naturalmente una congettura, ma se viene presa insieme alla precedente descrizione della situazione attuale, mostra che può esserci un grosso errore nell'abituale valutazione filosofica della teoria generale della relatività."" (Le idee di Einstein non sono toccate da queste considerazioni, poiché egli era interessato ali'« unificazione » e non alla « verifica per mezzo cli effetti minimi ».m « Il che tuttavia - continua nella lettera da cui è tratta questa citazione - è debitamente apprezzato solo da pochi. »)

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Considerazioni metodologiche.

Il primo passo verso una nuova cosmologia è, come abbiamo detto, un passo all'indietro: evidenze apparentemente rilevanti sono messe da parte, nuovi dati sono introdotti da connessioni ad hoc e il contenuto empirico della scienza diminuisce drasticamente. La cosmologia che è al centro della nostra attenzione e la cui adozione causa i mutamenti sopra descritti differisce dalle altre prospettive solo per un aspetto: essa presenta delle caratteristiche che, nel periodo in questione, sembrano molto attraenti ad alcuni, anche se esistono ben poche idee che siano completamente sprovviste di questa qualità e che non potrebbero diventare anche il punto di partenza di uno sforzo concentrato (questo, se ben lo intendo, è un importante corollario della filosofia possibilista cosl come è stata sviluppata da Anne Naess) Nessuna invenzione è mai fatta isolatamente e nessuna idea è mai sprovvista pertanto

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di un sostegno (astratto o empirico). Se un sostegno e una plausibilità parziali bastano n dnr inizio a una nuovo tendenza (e abbiamo accennato al fatto che ciò è possibile); se iniziare una nuova tendenza significa fare un passo indietro di fronte all'evidenza; se ogni ideo può diventare plausibile e ottenere un parziale sostegno, allora il passo indietro è in effetti un passo avanti, lontano dalla tirannia dei sistemi teorici saldamente strutturati, largamente corroborati e presentati rudemente (per quest'ultimo fatto, si veda la citazione iniziale di Galileo). « Un altro errore scrive Bacone o questo proposito 137 - è lo riduzione perentoria della conoscenza a arti e metodi, dal che le scienze traggono raramente un vantaggio, poiché come i giovani raramente crescono di statura quando le loro membra e i loro arti si sono formati completamente, così la conoscenza, mentre giace in aforismi e osservazioni rimane in uno stato di crescita; ma quando è formulata in metodi, sebbene possa essere ulteriormente rifinita, lustrata e adattata all'uso, non cresce più in consistenza e contenuto». t a questo punto che appare la somiglianza con l'arte: una volta resici conto che una stretta aderenza all'empiria non è una virtù e che deve essere allentata nei periodi di progresso, lo stile, l'eleganza dell'espressione, la semplicità dell'esposizione, la tensione dell'intreccio e della narrazione diventano nuovamente fattori importanti dello scrivere, e anzi ci si chiede come abbiamo mai potuto considerarli irrilevanti. Infatti, e con questo arriviamo al secondo passo nella difesa di una nuova teoria, dobbiamo ora creare e mantenere interesse per una teoria che è stata parzialmente rimossa dal piano osservazionale ed è quindi inferiore ai suoi avversari; inoltre, dato che mancano le scienze ausiliarie appropriate, dobbiamo farlo con mezzi diversi dall'osservazione e dall'argomentazione (i quali aumentano il contenuto). È in questo contesto che si dovrebbe inquadrare molta parte dell'opera di Galileo, la quale è stata spesso associata, e a ragione, alla propaganda"" Tuttavia la propaganda di questo tipo non è una questione marginale che si può aggiungere o meno ai mezzi di difesa ritenuti più sostanziali e che dovrebbe essere trascurata da uno « scienziato professionalmente onesto » (qualunque sia questa specie di animale); " nelle circostanze ora in questione la propaganda fa parte dell'essenza, dal momento che bisogna creare dell'interesse in un periodo in cui le solite ragioni metodologiche non hanno alcuna forza e che questo interesse deve essere mantenuto, forse per secoli, finché non appaiono le ragioni desiderate. In terzo luogo, bisogna ammettere che queste ragioni, cioè le scienze ausiliarie appropriate, non devono necessariamente

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apparire all'improvviso in completo assetto formale, ma possono essere inizialmente prive di articolazione e in conflitto con l'evidenza esistente. All'inizio ciò che è necessario è un accordo, anche se parziale, con la cosmologia, il che dimostra che esse sono perlomeno rilevanti e possono un giorno fornire evidenze positive in assetto completo. Cosl l'idea che il cannocchiale mostri il mondo come esso realmente è, porta a molte difficoltà, ma l'appoggio che essa dà a Copernico e ne riceve è un segno che stiamo muovendoci nella direzione giusta. Abbiamo qui un interessante rapporto tra visione generale e ipotesi particolari che costituiscono la sua evidenza. Viene quasi universalmente assunto che le visioni generali non abbiano molto significato, a meno che l'evidenza rilevante non possa essere pienamente specificata; cosl Carnap, ad esempio, afferma che « non esiste un'interpretazione indipendente di Lr [ il linguaggio nei cui termini è stata formulata una certa teoria o una visione del mondo]. Il sistema T [ gli assiomi della teoria e le regole di derivazione] è esso stesso un sistema postulato privo di interpretazione. [I suoi] termini ottengono solo una interpretazione indiretta e incompleta dal fatto che alcuni di essi sono posti in relazione, tramite regole di corrispondenza, coi termini osservazionali. » « Non esiste un'interpretazione indipendente » dice Carnap," tuttavia un'idea come quella della rotazione terrestre che è incoerente (o perfino incommensurabile) con l'evidenza del tempo, che è sostenuta dichiarando irrilevante questa evidenza e che è pertanto staccata dai fatti più importanti dell'astronomia di allora, riesce a diventare un nucleo, un punto di cristallizzazione per l'aggregazione di altre prospettive inadeguate che gradualmente aumentano la loro articolazione e si fondono infine in una nuova cosmologia che include nuovi tipi di evidenza. Non c'è resoconto migliore di questo processo della descrizione che John Stuart Mili ci ha lasciato delle vicissitudini della sua educazione. Riferendosi alle spiegazioni che suo padre gli dava a proposito delle questione logiche, egli scrive: "" « Esse [le spiegazioni] non mi riuscirono ben chiare allora, ma non per questo erano inutili, perché rimanevano nella mia mente come un nucleo, base per le mie osservazioni e riflessioni: il significato delle sue osservazioni era da me interpretato secondo gli esempi particolari, che attrassero la mia attenzione in seguito. » Esattamente allo stesso modo la prospettiva di Copernico, sebbene non compresa dal punto di vista di uno stretto empirismo e perfino confutata, era necessaria alla costruzione delle scienze supplementari perfino prima che fosse accettabile grazie ad esse e prima di for-

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nire alle stesse delle evidenze rigorose. Non è dunque chiaro che le nostre belle e smaglianti teorie che ci chiedono di concentrarci su teorie ad alto contenuto empirico e che ci implorano di correre dei rischi e di prendere sul serio le confutazioni ci avrebbero dato dei consigli del tutto sbagliati in queste circostanze? ( Il consiglio di accertare le sue teorie sarebbe stato del tutto inutile a Galileo, il quale si trovava comunque di fronte a una imbarazzante quantità di prove confutanti prima facie e non era in grado di spiegarle, dato che non possedeva fa conoscenza necessaria (ma aveva le intuizioni necessarie e doveva quindi darne ragione affinché un'ipotesi possibilmente valida si salvasse da morte prematura). Non è ugualmente chiaro il fatto che dobbiamo diventare più realistici, che dobbiamo smetterla di scrutare le immaginarie forme di un ideale cielo filosofico (di un « terzo mondo», come si è espresso Popper) e cominciare a prendere in considerazione ciò che può aiutarci in questo mondo materiale, dati i nostri intelletti limitati, i nostri imperfetti strumenti di misura e le nostre teorie incomplete? È sorprendente notare come filosofi e scienziati siano riluttanti ad adattare le loro visioni generali a un'attività che i secondi svolgono di già (e che, se venisse loro richiesto, non vorrebbero lasciare). È questa riluttanza, questa resistenza psicologica che rende necessario combinare le argomentazioni astratte con il peso della storia; entrambe sono necessarie, la prima perché dà una direzione ai nostri pensieri, la seconda perché dà loro forza. Torniamo ora alla storia; più specificatamente, tratteremo ora « le ragioni contro la vertigine della Terra» dinamiche a cui Galileo si rifà nel suo breve resoconto delle origini del copernicanesimo e che costituiscono un'altra grave difficoltà per la cosmologia copernicana.

12. Interpretazioni naturali. Mentre il cannocchiale sostituisce alcune impressioni sensoriali con altre che sono più in armonia con l'idea copernicana, le argomentazioni e le contro-argomentazioni dinamiche lasciano intatte le impressioni sensoriali e trattano invece di nozioni teoriche. Più specificatamente, esse considerano quelle idee teoriche che sono così strettamente collegate alle nostre percezioni, che è difficile isolarle e criticarle. Non trattano invece nessuna di quelle « operazioni della mente che seguono da vicino i sensi »"° che Bacone voleva esaminare con particolare attenzione. Chiameremo tali ape-

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razioni e nozioni interpretazioni naturali. È attraverso un'analisi di queste interpretazioni che Galileo cerca di elimin are le « ragioni contro la vertigine della Terra» che abbiamo citato nel secondo paragrafo di questo capitolo. Consideriamo più da vicino questa analisi. « .. .i corpi gravi ... cadendo da alto a basso vengono per una linea retta e perpedicolare alla superficie della Terra; argomento stimato irrefragabile, che la Terra stia immobile: perché, quando ella avesse la conversione diurna, una torre dalla sommità della quale si lasciasse cadere un sasso, venendo portata dalla vertigine della Terra, nel tempo ch'l sasso consuma nel suo cadere, scorrerebbe molte centinaia di braccia verso oriente, e per tanto spazio dovrebbe il sasso percuotere la Terra lontano dalla radice della torre... »»,1 Considerando questo argomento, Galileo ammette subito la correttezza del contenuto sensoriale dell'osservazione fatta, cioè che « i corpi gravi ... cadendo da alto a basso vengono per una linea retta e perpendicolare alla superficie della terra », ma quando esamina un autore (Chiaramonti) che tenta di convincere i copernicani menzionando ripetutamente questo fatto, egli dice: « ...e non vorrei che questo autore si affannasse tanto in volerci far comprendere co'l senso, questo moto de i gravi discendenti essere semplice retto e non di altra sorte, né si risentisse ed esclamasse perché una cosa chiara manifesta e patente venga messa in difficoltà; perché in questo modo dà indizio di credere che a qudli che dicon, tal moto non essere altrimenti retto, anzi ché tosto circolare, paia di veder sensatamente quel sasso andar in arco, già che egli invita più il loro senso che il lor discorso a chiarirsi di tal effetto: il che non è vero, sig. Simplicio, perché, sì come io... non ho mai veduto, né m'è parso di veder, cader quel sasso altrimenti che a perpendicolo, così credo che a gli occhi di tutti gli altri si rappresenti l'istesso. Meglio è dunque che, deposta l'apparenza, nella quale tutti convenghiamo, facciamo forza co'l discorso, o per confermar la realtà di quella, o per iscoprir la sua fallacia. » [280281] Non si mette in dubbio la correttezza dell'osservazione, ma la sua « realtà » o « fallacia ». Cosa si intende con queste espressioni Si può rispondere con un esempio del capoverso successivo, « dal quale, con molta conformità di questo che trattiamo, si può comprendere quanto facilmente possa altri restar ingannato dalla semplice apparenza o vogliamo dire rappresentazione del senso. E l'accidente è il parere, a quelli che di notte camminano per una

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strada, d'esser seguit ato dalla Luna con passo eguale al loro, mentre la veggono venir radendo le gronde de i tetti sopra le quali ella gli apparisce, in quella guisa appunto che farebbe una gatta che, realmente camminando sopra i tegoli, tenesse loro dietro: apparenza che, quando il discorso non s'interponesse, pur troppo manifestamente ingannerebbe la vista. » [281]. In questo esempio cominciamo con una impressione sensoriale e consideriamo poi un'asserzione da essa suggerita (questo suggerimento è così forte da aver portato a interi sistemi di credenze e di rituali, come risulta chiaro da un attento studio degli aspetti delle arti magiche e delle altre religioni influenzati dalla luna). A questo punto « interviene la ragione»: viene esaminata l'asserzione suggerita dall'impressione e si considerano al suo posto altre asserzioni; la natura dell'impressione non è affatto trasformata da questa attività (il che è vero solo approssimativamente, ma possiamo tralasciare, per lo scopo attuale, le complicazioni derivanti dall'interazione tra impressione e proposizione), ma essa interviene in altre asserzioni osservazionali e svolge un ruolo nuOVO migliore o peggiore nella nostra conoscenza. Quali sono le ragioni e i metodi che regolano tale scambio? Prima di tutto dobbiamo chiarirci le idee circa la natura del fenomeno complessivo: apparenza più asserzione. Non ci sono due atti, il primo dei quali è notare un fenomeno e il secondo esprimerlo tramite un'asserzione appropriata; esiste un solo atto, cioè il dire, in una certa situazione osservazionale, « la luna mi sta seguendo» o « il sasso sta cadendo». Una separazione si nota soltanto quando il linguaggio usato per esprimere le nostre osservazioni non ci è molto noto, cioè non lo parliamo correntemente, o quando è un linguaggio teorico che viene confrontato per la prima volta coi risultati dell'osservazione. In tali circostanze possiamo cercare « la parola giusta » e allora l'asserzione e il fenomeno vengono sperimentati come due cose separate che attendono di essere poste in relazione; ma nella vita quotidiana tale divisione non si verifica e descrivere una situazione familiare costituisce per chi parla un evento in cui asserzione e fenomeno sono strettamenti connessi. Questa unità è il risultato di un processo di apprendimento iniziato nella prima infanzia: fin dai primi anni impariamo a reagire a determinate situazioni con movimenti linguistici o altro) adeguati. Le tecniche di insegnamento forgiano I'« apparenza» o il « fenomeno » e stabiliscono una salda connessione con le parole, cosicché alla fine i fenomeni sembrano parlare da soli, senza

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l'intervento di conoscenze estranee. Essi sono ciò che affermano le asserzioni ad essi associate, anche se il linguaggio che parlano è naturalmente influenzato dalle credenze delle generazioni precedenti, credenze che sono state sostenute per così lungo tempo che non appaiono più dei principi separati, ma si insinuano nei termini del discorso quotidiano e, dopo la rimozione più sopra descritta, sembrano emergere dalle cose stesse. A questo punto potremmo voler paragonare, astrattamente e con la nostra immaginazione, i risultati dell'insegnamento di varie lingue, incorporanti ideologie differenti, e scambiare consapevolmente alcune di queste ideologie, adattandole a punti di vista più «moderni». È molto difficile dire come ciò possa cambiare la nostra situazione, a meno di non assumere anche che la qualità e la struttura di tutte le sensazioni (percezioni) o almeno di quelle che rientrano nella scienza, siano indipendenti dalla loro espressione linguistica. Ho molti dubbi circa la validità, anche approssimativa, di questa assunzione (può essere confutata con argomentazioni molto semplici) e sono sicuro che ci priviamo di nuove e sorprendenti scoperte nella misura in cui ci confiniamo entro gli stretti limiti da essa tracciati; tuttavia in questo lavoro resterò, del tutto coscientemente, entro tali limiti. Dopo aver fatto la nostra ulteriore assunzione semplificatrice, possiamo distinguere tra (A) sensazioni e (B) quelle « operazioni della mente che seguono [cosl] da vicino i sensi» e che sono così strettamente legate alle loro reazioni al punto da rendere difficile compiere una distinzione. Abbiamo già ricordato queste operazioni e le abbiamo anche chiamate interpretazioni naturali: vediamo ora che l'idea di una interpretazione naturale è un'approssimazione che trascura l'interazione tra pensare e percepire. Nella storia del pensiero che si muove interamente entro i limiti di questa approssimazione, le interpretazioni naturali sono state considerate presupposti aprioristici della scienza, o pregiudizi da rimuovere prima di iniziare un serio esame. La prima assunzione è formulata da Kant e, in modo molto diverso e secondo le varie possibilità, da alcuni filosofi linguistici contemporanei. La secondo assunzione è dovuta a Bacone, anche se ci sono dei precedenti, come gli scettici greci. Galileo è uno di quei rari studiosi che non vogliono né mantenere le interpretazioni naturali, né eliminarle del tutto: egli insiste perché si apra una discussione critica atta a giudicare quali interpretazioni debbano essere conservate e quali sostituite. Però questo atteggiamento non traspare sempre dai suoi scritti; al contrario, i metodi di reminiscenza cui fa fre-

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quente appello creano l'impressione che nulla è cambiato e che continuiamo a descrivere le nostre sensazioni coi vecchi termini ormai familiari. Tuttavia è abbastanza facile renderci conto di tale atteggiamento: le interpretazioni naturali sono necessarie, dal momento che i sensi da soli non ci possono dare una spiegazione della natura. Ciò che occorre per giungere a una spiegazione di questo tipo è «un altro senso, ma accompagnato co'l discorso » [280, corsivo mio]. Inoltre, nelle argomentazioni che trattano il movimento della Terra è questo ragionamento, e non il messaggio dei sensi, l'apparenza, a causare guai. « Meglio è dunque che, deposta l'apparenza, nella quale tutti convenghiamo, facciamo forza co'l discorso, o per confermar la realtà di quella, o per iscoprir la sua fallaci ». [280-281]. « Confermar la realtà di quella, o.. iscoprir la sua fallacia » significa tuttavia esaminare la verità di quelle interpretazioni naturali che nel nostro pensiero naturale sono così intimamente connesse alle apparenze che non riusciamo più a considerarle separatamente. Galileo porta avanti l'esame rendendo prima esplicite le interpretazioni. Se consideriamo l'unità, all'interno del senso comune (e della pratica scientifica codificata) tra apparenza e interpretazione, non si tratta affatto di una cosa semplice. Galileo allora le sostituisce con assunzioni differenti che possono non essere altrettanto evidenti e che devono pertanto essere introdotte di soppiatto, affinché non venga mobilitato contro di loro il « linguaggio naturale » delle apparenze cioè il linguaggio delle interpretazioni naturali. Infine egli ci dimostra che la sostituzione ci permette di dare un resoconto migliore dei fenomeni. Questa sostituzione è inoltre facilitata dall'insinuazione che non è avvenuto nessun cambiamento e che sono state usate soltanto idee note, plausibili e temporaneamente dimenticate. Diamo ora un'occhiata alla prima interpretazione naturale implicita nell'argomentazione della caduta del sasso.

13. La relatività galileiana. Secondo Copernico il movimento di un sasso che cade dovrebbe essere « misto di retto e circolare » [273 J: dove per « movimento del sasso » non si intende soltanto il suo moto relativo a qualche punto visibile nel campo visivo dell'osservatore, o il moto che

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viene osservato, ma il suo moto nel sistema solare, nello spazio (assoluto), ovvero il suo movimenti reale"" I fatti familiari cui si fa riferimento nell'argomentazione sembrano asserire un moto di tipo diverso, cioè un moto semplice verticale. Questa affermazione confuta l'ipotesi copernicana solo se il concetto di moto che occorre nell'asserzione osservazionale è Io stesso che occorre nella predizione copernicana. L'asserzione che il sasso cade « per una linea retta » deve pertanto riferirsi anche al movimento nello spazio assoluto. I sensi devono « parlare il linguaggio » del moto assoluto. Questa condizioni viene soddisfatta? Lo è nel contesto del pensiero comune del XVII secolo, o almeno questo è quanto afferma Galileo, cioè che il pensiero comune del tempo contiene l'idea del carattere «operativo» di ogni movimento o, per usare noti termini filosofici, esso comporta un ingenuo realismo nei confronti del moto: tranne che per illusioni occasionali e facilmente evitabili, il movimento visto è identifcato con quello reale (assoluto). Secondo quanto è stato detto nell'ultimo paragrafo, la distinzione tra il primo e il secondo non viene fatta esplicitamente: infatti non facciamo una distinzione tra movimento reale e movimento visto per poi collegarli con una regola di corrispondenza, ma al contrario descriviamo, percepiamo e agiamo nei confronti del movimento visto come se fosse già reale. Dobbiamo allora concludere che o l'ipotesi copernicana non è in accordo coi fatti e questa è la conclusione tratta dai contemporanei di Galileo - o i sensi ci fanno fuorviare anche nelle questioni più semplici. In quest'ultimo caso « criterium naturalis philosophiae, [cioè l'esperienza] nisi prorsus tollatur, vehementer saltem labefactari videtur » [273].° Considerata dal punto di vista del pensiero del XVII secolo l'argomentazione è impeccabile; come superarla? L'argomentazione basata sulla caduta del sasso sembra confutare l'opinione copernicana, il che può essere dovuto a uno svantaggio inerente al copernicanesimo, ma può anche essere dovuto all'esistenza di interpretazioni naturali che devono essere migliorate. Il nostro primo compito, allora, è quello di scoprire e isolare questi ostacoli del progresso, non ancora esaminati. Bacone credeva che le interpretazioni naturali si potessero scoprire con un metodo di analisi che le penetrasse, una dopo l'altra, finché non fosse messo a nudo il nucleo sensorio di ogni osservazione; tuttavia questo metodo presenta seri svantaggi. In primo luogo, le interpretazioni naturali del tipo considerato da Bacone non sono semplicemente aggiunte a un campo di sensazioni preesi-

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stente, ma sono parti costituenti del campo stesso; eliminare tutte le interpretazioni naturali significa eliminare la capacità di pensare e di percepire. In secondo luogo se si trascura questa funzione fondamentale delle interpretazioni naturali, dovrebbe risultare chiaro che una persona sprovvista di qualsiasi interpretazione naturale, posta di fronte a un campo percettivo, sarebbe completamente disorientata e non potrebbe neppure iniziare a fare della scienza. In terzo luogo, il fatto che iniziamo questo processo, anche dopo qualche analisi baconiana, dimostra che l'analisi si è arrestata prematuramente, di fronte a quelle interpretazioni naturali di cui non siamo consapevoli e senza le quali non possiamo procedere. Ne consegue che l'intenzione di cominciare da zero, dopo una completa eliminazione di tutte le interpretazioni naturali, non fa che andare contro se stessa. Non è neppure possibile districare parzialmente il nodo delle interpretazioni naturali, anche se a prima vista il compito sembra abbastanza facile: si prendono le asserzioni osservazionali, una dopo l'altra, e si analizza il loro contenuto. Non è tuttavia probabile che i concetti nascosti nelle asserzioni si rivelino nelle parti più astratte del linguaggio e, se lo fanno, sarà molto difficile tenerle ferme (i concetti, come i percetti, sono molto ambigui e dipendono dal background). Inoltre il contenuto di un concetto è determin ato anche dal modo in cui è collegato alla percezione. Come si può dunque scoprire una via d'uscita senza cadere in un circolo vizi oso? Bisogna identificare la percezione ma il meccanismo di identificazione contiene alcuni di quegli stessi elementi che presiedono all'uso del concetto da indagare. Non penetriamo mai completamente in questo concetto, dal momento che usiamo sempre alcuni dei suoi elementi per trovare i suoi costituenti." C'è soltanto un modo per uscire da questo circolo vizioso, e consiste nell'usare un metro esterno di confronto che include nuovi modi per collegare concetti e percetti. Lontano dal campo del discorso naturale e da tutti quei principi, abitudini, atteggiamenti che costituiscono la sua « forma di vita», questo metro esterno apparirà ben strano il che, tuttavia, non costituisce un argomento a sfavore. Al contrario, questa sensazione di diversità rivela che le interpretazioni naturali sono all'opera e questo è già un primo passo verso la loro scoperta. Ma spieghiamo questa situazione con l'aiuto di un esempio. L'argomentazione intende dimostrare che la visione copernicana non è in accordo coi« fatti ». Dal punto di vista di questi « fatti », l'idea del movimento della terra sembra essere bizzarra, assurda,

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ovviamente falsa solo per citare alcune delle espressioni in uso a quel tempo, e che si sentono ancora ogni qual volta i tradizionalisti di professione si trovano davanti una nuova teoria in contrasto coi fatti. Il che ci fa pensare che la visione copernicana sia un punto di paragone eterno del tipo appena descritto. Possiamo ora rigirare l'argomento e usarlo come strumento di ricerca che ci aiuti a scoprire cosa escluda esattamente il movimento della terra. Se facciamo questo capovolgimento, asseriamo dapprima il movimento della terra e poi ricerchiamo quali mutamenti siano in grado di evitare la contraddizione. Tale indagine può richiedere parecchio tempo ed è ragionevole affermare che non è ancora finita, neppure oggi. La contraddizione, pertanto, può restare fra di noi per decenni e perfino per secoli; tuttavia deve essere appoggiata finché il nostro esame non sia stato completato, altrimenti questo ultimo il tentativo di scoprire i componenti antidiluviani della nostra conoscenza non può neppure iniziare. (È questa, incidentalmente, una delle ragioni che si possono fornire per mantenere o inventare teorie contrarie ai fatti). Concludiamo allora che gli ingredienti ideologici della nostra conoscenza e, più specificatamente, delle nostre osservazioni, sono scoperti tramite teorie che essi confutano, cioè sono scoperti controinduttivamente. Vorrei ripetere quanto è stato detto finora. Le teorie sono comprovate o confutate dai fatti; i fatti contengono delle componenti ideologiche, visioni e interpretazioni naturali più antiche che sono celate allo sguardo o che forse non furono mai formulate esplicitamente; queste componenti sono molto sospette, in primo luogo a causa della loro età, della loro origine antidiluviana, e in secondo luogo perché la loro natura stessa le protegge, come le ha sempre protette, da un esame critico. Se consideriamo quindi una contraddizione tra una nuova e intelligente teoria da una parte, e una serie di « fatti saldamente stabiliti» dall'altra, il procedimento migliore non è quello di abbandonare la teoria, ma di usarla per scoprire i principi nascosti che sono responsabili della contraddizione. La controinduzione è una parte essenziale di questo processo di scoperta, come dimostra ottimamente l'esempio storico degli argomenti contro il movimento e l'atomismo di Parmenide e Zenone. Diogene di Sinope, il cinico, assunse l'atteggiamento che avrebbero preso molti scienziati e tutti i filosofi contemporanei: confutò l'argomento alzandosi e camminando su e giù. L'atteggiamento opposto, qui consigliato, portò invece a risultati molto più interessanti, come è testimoniato dalla storia dell'argomentazione stessa. Non si dovrebbe essere troppo severi con

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Diogene, tuttavia, dal momento che si racconta come abbia picchiato un allievo che si dimostrò soddisfatto della sua confutazione: egli esclamò di aver dato delle ragioni che l'allievo non avrebbe dovuto accettare senza averle prima esaminate con la sua ragione . Dopo aver scoperto un'interpretazione naturale, la domanda seguente è: come esaminarla e accertarla? Ovviamente non possiamo procedere nel solito modo, cioè derivare delle predizioni e confrontarle coi « risultati dell'osservazione», dal momento che questi ultimi non sono più disponibili. L'idea che i sensi, usati in circostanze normali, offrano resoconti corretti degli eventi reali, compresi i moti reali assoluti, è stata accertata come una parte essenziale dell'argomento anticopernicano ed è stata rimossa da quest'ultimo così come da tutte le asserzioni osservazionali. Senza di essa però le nostre reazioni sensoriali cessano di essere rilevanti ai fini di una comprova. Questa conclusione è stata generalizza ta da alcuni razionalisti, i quali decisero di costruire tutta la scienza soltanto sulla base della ragione e attribuirono all'osservazione soltanto un'insignificante funzione ausiliaria. Galileo non adotta questo metodo. Se una interpretazione naturale crea dei problemi per un punto di vista attraente; se la sua eliminazione allontana il punto di vista dal campo dell'osservazione, allora l'unico modo per uscirne è usare altre interpretazioni e vedere cosa accade. L'interpretazione usata da Galileo rimette i sensi al loro posto di strumenti di ricerca, ma soltanto per quanto riguarda la realtà del moto relativo. Il movimento « rispetto... a noi che tutti di conserva ci muoviamo» è «non-operativo», cioè « resta insensibile, resta impercettibile, è senza azione alcuna » [197]. II primo passo compiuto da Galileo nell'affrontare contemporaneamente la dottrina copernicana e un'assunzione familiare ma nascosta del punto di vista precedente, consiste quindi nel sostituire questa ultima assunzione con un'altra o, per usare la terminologia mo-

demna, introdurre un nuovo linguaggio osservazionale. Si tratta naturalmente di un passo del tutto legittimo: il 1inguaggio osservazionale introdotto nell'argomentazione è stato in uso per molto tempo ed è abbastanza familiare. Considerando però la struttura degli idiomi comuni da una parte e la filosofia aristotelica dall 'altra, né questo uso né la sua familiarità possono costituire una comprova dei principi sottostanti. Questi principi, queste interpretazioni naturali, occorrono in ogni descrizione e quei casi fuori dal comune che potrebbero costituire una difficoltà vengono liquidati con espressioni quali ""7 « simile » o « analogo »,

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espressioni che li deviano in modo tale che l'ontologia di base non viene neppure affrontata. Vi è tuttavia l'urgente necessità di una comprova, specialmente in quei casi in cui i principi sembrano minacciare una nuova teoria. È quindi ragionevole introdurre linguaggi osservazionali alternativi e confrontarli con l'idioma originario e la teoria in esame. Procedendo in questo modo dobbiamo assicurarci che il confronto sia leale, cioè non dobbiamo criticare un idioma che dovrebbe fungere da linguaggio osservazionale solo perché non è ancora molto noto ed è pertanto collegato meno strettamente con le nostre reazioni sensoriali, risultando così meno plausibile di un altro, più « comune » idioma. Critiche superficiali di questo tipo, sollevate da tutta una nuova « filosofia », bondano nella discussione del problema mente-corpo. I filosofi che intendano introdurre e provare i nuovi punti di vista si trovano quindi di fronte non ad argomenti a cui saprebbero probabilmente rispondere, ma a una impenetrabile barriera di reazioni (il che non differisce molto dall'atteggiamento cli quelle persone che non conoscono le lingue straniere e che sentono che un certo colore è descritto molto meglio da « rosso » che non da « red »). Di contro a questi tentativi di vincere facendo appello alla familia rità (« So che cosa sono i miei dolori, e so anche, grazie all'introspezione, che essi non hanno niente in comune coi processi materiali »), dobbiamo sottolineare il fotto che un confronto tra i vari linguaggi osservazionali (materialistico, fenomenali stico, oggettivoidealistico, teologico, ecc.) può iniziare solo quando tutti sono parlati correntemente. Assumendo che questa condizi one sia soddisfatta, come si può giungere a un giudizi o? Giunti a questo punto vorrei osservare che, mentre è possibile prendere in esame e applicare varie regole empiriche approssimative e giungere cosl a un giudizio soddisfacente, non è del tutto saggio spingersi oltre e trasformare tali regole in condizi oni necessarie della scienza. Ad esempio, si potrebbe avere la tentazione di dir e, al seguito di Neurath, che un linguaggio osservazionale A è preferibile a B se è alm eno altrettanto utile nella vita quotidiana (pare sempre che i linguaggi osservazionali si debbano usare non solo in laboratorio, ma anche a casa, nell'« ambiente naturale » dello scienziato) e se ad esso è compatibile un maggior numero cli teorie più comprensive. Tale criterio prende in esame il fatto che sia le nostre percezioni (comprese le interpretazioni naturali), sia le nostre teorie sono fallibili e presta inoltre attenzione al nostro desiderio di un punto cli vista armonioso e comprensivo; non dobbiamo tuttavia dimenticare che troviamo e mi-

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glioriamo le assunzioni nascoste nei nostri resoconti osservazionali con un metodo che fa uso di incompatibilità e quindi potremmo preferire B a A come punto di partenza dell'analisi, giungendo così a un linguaggio C, il quale soddisfa ancor meglio il criterio ma non è raggiungibile partendo da A (il processo concettuale, come qualsiasi altro, dipende dalle circostanze psicologiche le quali possono impedire in un caso quello che invece incoraggiano in un altro). Neppure la richiesta di praticabilità e di contenuto sensoriale può essere considerata una conditio sine qua non. Infatti possediamo dei meccanismi di ricerca che sono molto superiori ai nostri sensi; combinando i loro risultati con un computer possiamo accertare una teoria direttamente, senza l'intervento di alcun essere umano - eliminando così sensazioni e percezioni dal processo di accertamento. Se si usa l'ipnosi, queste sensazioni potrebbero essere eliminate anche dal trasferimento dei risultati nel cervello umano, e giungere cosl a una scienza, a una fisica, completamente prive di esperienze. Considerazioni di questo genere, che stanno a indicare possibili vie di sviluppo, ci dovrebbero guarire una volta per tutte dalla credenza che i giudizi di progresso, miglioramento, ecc. si basino su regole che si possono rivelare in questo momento erimanere in vigore per tutti gli anni a venire. La mia discussione di Galileo non ha pertanto lo scopo di giungere a un « metodo corretto », ma di dimostrare che tale metodo non esiste e non può esistere. Più specificamente, ha lo scopo limitato di dimostrare che la controinduzione è molto spesso un sistema ragionevole. Ma procediamo oltre nella nostra analisi del pensiero di Galileo. Galileo sostituisce un'interpretazione naturale con un'altra che era già (1630!) almeno parzialmente innaturale. Come procede? Come riesce a superare la stretta connessione tra l'osservazione e idea del carattere operativo di ogni moto? Come riesce a introdurre affermazioni assurde e contro-induttive come quella che la terra si muove e a ottenere un ascolto leale e attento? Vorrei anticipare che le argomentazioni non bastano interessante e importante limitazione del razionalismo - e che le enunciazioni di Galileo sono soltanto apparentemente tali: in realtà egli usa la propaganda e dei trucchi psicologici oltre alle ragioni intellettuali. Questi trucchi hanno successo, Io portano alla vittoria, ma nascondono il nuovo atteggiamento nei confronti dell'esperienza e rimandano di secoli la possibilità di una filosofia ragionevole. Essi infatti mettono in ombra il fatto che l'esperienza su cui Galileo vuol basare la visione copernicana non è altro che il risultato della sua fertile immaginazione, una sua invenzione; ciò è reso

I problemi dell'empirismo: II

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possibile dall'insinuazione che i nuovi risultati erano già noti e concessi da tutti; basta solo richiamare la nostra attenzione su di essi e subito appaiono come la più ovvia espressione della verità. Galileo ci « ric orda » che esistono casi in cui il carattere nonoperativo del moto relativo è evidente " e fermame nte creduto, tanto guanto l'idea del carattere operativo di ogni moto lo è in altre circostanze (idea questa che non costituisce l'unica interpretazione naturale del moto). Queste situazioni sono: eventi che si verificano su di una barca, su un veicolo che procede senza scosse e in qualsiasi sistema che possa contenere un osservatore e permettergli di svolgere alcune semplici operazioni. « Sagredo: Ora mi sovviene di certo mio fantasticamento, che mi passò un giorno per l'immaginativa mentre navigava nel viaggio di Aleppo, dove andava consolo della nostra nazione ... Se la punta di una penna da scrivere, che fusse stata in nave per tutta la mia navigazione da Venezia in Alessandretta, avesse avuto facultà di lasciar visibil segno di tutto il suo viaggio, che vestigio, che nota, che linea avrebb'ella lasciata? Simplicio: Avrebbe lasciato una linea distesa da Venezia sin là, non perfettamente diritta o, per dir meglio, distesa in perfetto arco di cerchio, ma dove più e dove meno flessuosa, secondo che il vassello fusse andato or più or meno fluttuando; ma questo inflettersi in alcuni luoghi in braccio o due, a destra o a sinistra, in alto o a basso, in una lunghezza di molte centinaia di miglia piccola alterazione avrebbe arrecato all'intero tratto della linea, sì che a pena sarebbe stato sensibile, e senza error di momento si sarebbe potuta chiamare una parte d'arco perfetto. Sagredo: Sl che il vero, vero, verissimo moto di quella punta di penna sarebbe stato un arco di cerchio perfetto, quando il moto del vascello, tolta la fluttuazione dell'onde, fusse stato placido e tranquillo. E se io avessi tenuta continuamente quella medesima penna in mano, e solamente l'avessi talvolta mossa un dito o due in qua e in là, qual alterazion avrei io recata a quel suo principale e lunghissimo tratto? Simplicio: Minore di quella che arrecherebbe a una linea retta lunga mille braccia il declinar in vari luoghi dell'assoluta rettitudine quanto è un occhio di pulce. Sagredo: Quando dunque un pittore nel partirsi dal posto avesse cominciato a disegnar sopra una carta con quella penna, e continuato il disegno sino in Alessandretta, avrebbe potuto cavar dal moto di quella un'intera storia di molte figure perfettamente dintornate e tratteggiate per mille e mille versi, con paesi, fabbriche,