I personaggi lettori nell'opera di Italo Calvino [1 ed.]

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I personaggi lettori nell'opera di Italo Calvino [1 ed.]

Table of contents :
p. 7 Introduzione
13 I. I PRIMI LETTORI
53 II. LA LETTURA NELLA TRILOGIA FIABESCA
123 III. LA LETTURA NELLA “TRILOGIA DELLA MODERNITÀ”
157 IV. INDAGINE A MARGINE DI UNA SPARIZIONE
195 V. SE UNA NOTTE D’INVERNO UN VIAGGIATORE

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MODERNISTICA Saggi di cultura letteraria Comitato editoriale: Alberto Cadioli, Giovanna Rosa, Vittorio Spinazzola

Volumi pubblicati: U. Schulz-Buschhaus Il sistema letterario nella civiltà borghese F. Brioschi Un mondo di individui Saggio sulla filosofia del linguaggio V. Spinazzola Letteratura e popolo borghese M. Barenghi L’autorità dell’autore G. Petronio Le baracche del Rione Americano Un uomo e il suo secolo F. Gambaro Dalla parte degli editori Interviste sul lavoro editoriale

Isotta Piazza

I PERSONAGGI LETTORI NELL’OPERA DI ITALO CALVINO

EDIZIONI UNICOPLI

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filologia moderna dell’Università degli Studi di Milano. Prima edizione: maggio 2009 Proprietà letteraria originaria dell’Università degli Studi di Milano. Copyright © 2009 by Edizioni Unicopli, via Festa del Perdono 12 - 20122 Milano - tel. 02/42299666 http://www.edizioniunicopli.it Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla Siae del compenso previsto dall’art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941, n. 633, ovvero dall’accordo stipulato fra Siae, Aie, Sns e Cna, Confartigianato, Casa, Claai, Confcommercio, Confesercenti il 18 dicembre 2000.

INDICE

p.

7

Introduzione

13

I. I PRIMI LETTORI

13 25 31 38 46

1. La lettura nel Sentiero dei nidi di ragno: Zena il lungo e Dritto 2. Kim lettore 3. Le scelte di lettura nel Sentiero 4. I lettori borghesi nei racconti del 1948 5. L’influenza di Sartre

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II. LA LETTURA NELLA TRILOGIA FIABESCA

53 59

Premessa 1. La lettura nel Visconte dimezzato: Pamela o la poetica dell’azione 2. Il Buono e il problema pedagogico 3. La funzione prolettica di Pamela: la Gerusalemme liberata e la “scoperta” dell’Ariosto 4. La lettura nel Barone rampante: la rivolta di Cosimo e la poetica del divertimento 5. La proposta di Cosimo (e l’editoria scolastica) 6. Gian dei Brughi e le responsabilità del lettore 7. Gian dei Brughi e le responsabilità della letteratura 8. Cosimo lettore ideale 9. Cosimo editore

63 71 76 81 85 90 100 106

6

p. 110 116

10. Il lettore reale e il lettore implicito: influenze del lavoro editoriale 11. Cosimo e il pubblico dei lettori

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III. LA LETTURA NELLA “TRILOGIA DELLA MODERNITÀ”

123 131 137 144 152

1. La speculazione edilizia: la lettura come metafora epistemologica 2. La nuvola di smog, l’amore e la lettura 3. La nuvola di smog, Gli amori difficili, i giornali 4. La giornata di uno scrutatore 5. Conclusioni provvisorie

157

IV. INDAGINE A MARGINE DI UNA SPARIZIONE

157

1. La produzione cosmicomica e combinatoria: riflessioni preliminari 2. Le Cosmicomiche e il problema dei destinatari 3. Kublai Kan 4. Un lettore narratore 5. La lettura combinatoria come metafora epistemologica

164 175 182 188

195

V. SE UNA NOTTE D’INVERNO UN VIAGGIATORE

195 199

1. La soddisfazione del lettore 2. Il “tu” lettore come rifrazione del pubblico dei lettori 3. Il lettore medio 4. La costruzione del Lettore 5. La trappola, l’allegoria, il gioco 6. Ludmilla e Palomar: la leggibilità del mondo

208 214 221 229

INTRODUZIONE

Se le reazioni dei primi lettori non sono completamente favorevoli non pubblico: perché dovrei pubblicare? 1 Finivo un racconto e correvo da lui [Pavese] a farglielo leggere. Quando morì mi pareva che non sarei più stato buono a scrivere, senza il punto di riferimento di quel lettore ideale. 2

In nessun altro autore l’immagine del lettore entra così prepotentemente a dirigere riflessione critica e progettualità letteraria come in Italo Calvino. Il lettore è presente (come proiezione) al momento della scrittura, quale arbitro dell’ispirazione narrativa, ed è decisivo per le sorti dell’opera, quando prende le sembianze degli amici e colleghi chiamati a esprimere un parere di pubblicabilità. E ancora ritorna come protagonista di innumerevoli riflessioni critiche, come termine di confronto per valutazioni editoriali e giudizi estetici, e come principale punto di riferimento nella definizione (e ridefinizione) delle istanze letterarie, culturali e politiche in senso lato.

1 Italo Calvino, Lettera a Mario Ortolani, 7 agosto 1954, in Lettere 19401985, a cura di Luca Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, pp. 414-415, la citazione a p. 414. 2 Italo Calvino, Pavese fu il mio lettore ideale, (intervista a cura di Roberto de Monticelli), in «Il Giorno», 18 agosto 1959, poi con il titolo Pavese, Carlo Levi, Robbe-Grillet, Butor, Vittorini…, in Italo Calvino. Saggi 19451985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. II, pp. 27172723, la citazione a p. 2718 (l’edizione dei Saggi da ora in avanti verrà citata con la sigla S-I per il primo tomo, e S-II per il secondo).

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I. PIAZZA

Ma lettore è anche, prima di tutto, un ruolo in cui Calvino costringe innumerevoli personaggi, 3 secondo modalità che cambiano nel tempo, in un ripensamento continuo e mai sazio delle tesi appena sostenute. «L’amor di libro» 4 non è scoperta tardiva, sbocciata ai tempi del Viaggiatore, ma filo conduttore dell’intera opera calviniana. Se i primi lettori rispecchiano, soprattutto, le esperienze di lettura giovanili dello stesso scrittore, già dagli anni ’50 Calvino compone attraverso questi personaggi un discorso «figurato, indiretto, non riducibile a termini generici, a facilonerie concettuali, cosciente delle proprie implicazioni, ambiguità, esclusioni», e proprio per questo si tratta di un discorso che «dice veramente qualcosa, non mente». 5 In alcuni momenti i personaggi lettori sembrano addirittura anticipare, con l’evidenza icastica propria delle immagini narrative, le prospettive ancora non compiutamente espresse dall’autore, ma che di lì a poco sarebbero diventate prioritarie. I personaggi lettori disseminati lungo l’opera calviniana rappresentano, quindi, un luogo privilegiato di osservazione non soltanto del rapporto tra autore e lettura (e lettori e pubblico), ma anche, più in generale, della poetica calviniana, che risulta 3 Tra i critici che hanno segnalato la ricorrenza di personaggi lettori nell’opera di Calvino, si ricordano: Andrea Battistini, L'amor di libro in Italo Calvino, in «L'informazione bibliografica», XXI, 1995, n. 1, pp. 11-18; Giulio Ferroni, Da Francesca a Ludmilla: eros e lettura, in Giorgio Bertone (a cura di), Italo Calvino. A writer for the next millennium. Atti del Convegno internazionale di studi di Sanremo (28 novembre 1996 - 1° dicembre 1996), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998, pp. 35-46; Gian Carlo Ferretti, Le avventure del lettore, in ivi, pp. 79-91, poi riproposto (ampliato e rifuso) in Id., Le avventure del lettore. Calvino, Ludmilla e gli altri, Lecce, Pietro Manni, 1997. Altre spunti di riflessione anche in Claudio Milanini, L’utopia discontinua. Saggio su Italo Calvino, Milano, Garzanti, 1990; Marco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 1996, nuova edizione ampliata Torino, Einaudi, 2006 (in particolare Leggere e scrivere, pp. 85-91); Silvio Perella, Calvino, Roma-Bari, Laterza, 2001. 4 L’espressione è presa a prestito da Battistini, L'amor di libro in Italo Calvino, cit. 5 «Solo se il discorso è figurato, indiretto, non riducibile a termini generici, a facilonerie concettuali, cosciente delle proprie implicazioni, ambiguità, esclusioni, solo allora dice veramente qualcosa, non mente» (Italo Calvino, Intervista a cura di Ferdinando Camon, in Il mestiere di scrittore. Conversazioni con G. Bassani, I. Calvino, C. Cassola, A. Moravia, O. Ottieri, P. P. Pasolini, V. Pratolini, R. Roversi, P. Volponi, Milano, Garzanti, 1973, poi con il titolo Colloquio con Ferdinando Camon, in S-II, pp. 27742796, la citazione a p. 2776.

Introduzione

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da questa ricerca meglio definita in alcuni suoi aspetti, e precisata sotto il profilo cronologico. L’analisi dei personaggi lettori dei primi anni ’50, ad esempio, rivela come anche nel momento in cui Calvino aderisce all’ideale di engagement allora imperante, egli si senta estraneo a qualsiasi vocazione pedagogica, e incline, viceversa, a rivendicare l’indipendenza della lettura da progetti formativi prestabiliti. A proposito, invece, dell’incremento di difficoltà che caratterizza le opere degli anni ’60 e ’70 (dalle Cosmicomiche a Il Castello dei destini incrociati), lo studio dei personaggi lettori (o, più precisamente, della loro metamorfosi in altre figure) dimostra che l’esigenza di un destinatario più colto non implica l’esclusione preventiva dei lettori inesperti, ma comporta, prima di tutto, lo sforzo da parte dell’autore in direzione di una crescita culturale e cognitiva del lettore qual è. Così, viceversa, nell’apertura al lettore (e al pubblico) medio che caratterizza l’affabulazione romanzesca del Viaggiatore (apertura già variamente interpretata come «strizzata d’occhio», o come risposta a un bisogno di comunicazione, ecc.), si è individuato la volontà di un recupero delle possibilità anche politiche della letteratura, laddove nel ripristino di una comunicazione per tanti Calvino intravede, ormai, l’unica possibilità di istituire un dialogo efficace almeno con alcuni. Ma se, come rilevato, «la lettura non è un’invariabile antropologica priva di storicità», 6 i personaggi lettori possono rappresentare anche una cartina di tornasole dei dibattiti critici che si sono avvicendati nella seconda metà del secolo scorso. Attraverso l’analisi dell’opera calviniana è possibile, in effetti, tracciare anche una storia (per sommi capi) delle teorie sulla lettura avvicendatesi nel nostro paese a partire, nell’immediato dopoguerra, dalla consacrazione di Gramsci a intellettuale di riferimento, seguita dal dibattito sull’opportunità di costruire una letteratura popolare, poi soppiantato, poco dopo, dalla polemica della neoavanguardia contro la letteratura di massa, secondo la teorizzazione di Adorno e del circolo di Francoforte. La relazione tra Calvino e la lettura e tra Calvino e il pubblico dei lettori si definisce sullo sfondo di un’epoca che sancisce la nascita della 6 Guglielmo Cavallo, Roger Chartier, Introduzione a Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. V-XLIV, la citazione a p. XLIV.

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I. PIAZZA

sociologia della letteratura e poi, a seguire, che vede lo sviluppo dell’estetica della ricezione e di altri indirizzi critici ancora. Calvino, sotto questo punto di vista, è testimone attento e ricettivo delle riflessioni che si sviluppano in Italia e all’estero, ma, al contempo, ne è un interprete originale, capace di emanciparsi dalle teorizzazioni in auge, per rimanere fedele a un se stesso “bastian contrario” per natura e per scelta intellettuale. Nel rapporto con il pubblico, infine, fondamentale risulta anche e soprattutto l’impegno editoriale che, non dimentichiamo, corrispose in Calvino a una vocazione parallela e complementare a quella di scrittura. Dal lavoro in Einaudi Calvino trae, infatti, una consapevolezza piena delle implicazioni economiche connesse al problema pubblico: a differenza di tanti scrittori ripiegati su loro stessi o su un’immagine astratta dei propri destinatari ideali, Calvino misura le opere (proprie e altrui) in base ai parametri della noia e del divertimento, da cui ricava un indice del possibile gradimento, inteso come rapporto tra il tempo e il denaro spesi nella lettura e il piacere che se ne è ricavato. «Il divertire chi mi legge», scrive «o almeno il non annoiare, è il primo dovere sociale cui mi considero impegnato». 7 Il tutto senza dimenticare mai che ogni libro è parte di un progetto editoriale che, soprattutto in casa Einaudi, vuole la crescita culturale del pubblico e del dibattito nazionale. Ma dalle immagini dei personaggi lettori inscritte nelle opere emerge, al contempo, l’interesse di Calvino per il singolo lettore. Se dall’analisi dell’epistolario Milanini ha ricavato l’idea di un Calvino particolarmente sollecito e generoso nei confronti dei propri lettori (dal critico di mestiere sino alle scolaresche e ai lettori occasionali), 8 l’approfondimento dell’opera narrativa re7 Italo Calvino, Io ho detto che…, in «la Repubblica», 31 marzo 1985, poi con il titolo Perché scrivere, in S-II, pp. 1861-1864, la citazione a p. 1863. 8 «Rispetto a tutte le altre, le epistole ai lettori hanno una peculiarità: Calvino avrebbe potuto risparmiare a se stesso la fatica di scriverle. Voglio dire: avrebbe potuto limitarsi a seguire le regole della buona creanza, e stilare biglietti di ringraziamento più o meno generici. Rispondeva invece con estremo impegno non solo ai critici accreditati, ma anche a recensori sconosciuti, a interlocutori occasionali, a scolaretti. Non di rado imbucava nella cassetta della posta pagine e pagine. Non trascurava neppure chi lo aveva irritato con osservazioni strampalate, ponendosi anche in questo caso su un piano di parità con il destinatario; quando poi era costretto a mandare qualcuno all’inferno, gliene spiegava pazientemente i motivi» (Claudio Milanini, Introduzione a Lettere, cit., pp. XII-XLI, la citazione alle pp. XL-XLI).

Introduzione

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stituisce l’immagine complementare di un Calvino attento osservatore delle contingenze specifiche in cui si realizza la lettura, e delle aspirazioni (spesso inaspettate) che spingono un lettore a prediligere un determinato libro o autore. E sembra allora che quanto più Calvino si avvicini al pubblico, consolidando la sua pragmatica editoriale, tanto più lo scopra mutevole e non governabile, spesso più intelligente di quanto non si sarebbe ipotizzato, a volte, invece, più pigro e ottuso, ma sempre e comunque affascinante nella sua irriducibile alterità all’autore.

I I PRIMI LETTORI

1. La lettura nel Sentiero dei nidi di ragno: Zena il lungo e Dritto Già nel suo primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, 1 Calvino gioca con la figura del lettore accordando al tema della lettura uno spazio limitato ma non accessorio. 2 Il primo lettore, in ordine di comparizione, è Zena il Lungo detto Berretta-di-Legno, uno dei partigiani peggiori del già «scalcinato» distaccamento 3 in cui è accolto anche il piccolo Pin. Nutrendo una viscerale passione per la lettura, oltre che 1 Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, viene pubblicato nella neonata collana «I coralli», Torino, Einaudi, 1947. Seguono un’edizione (con correzioni e varianti) nella «Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria», Torino, Einaudi, 1954, corredata da una Nota anonima ma attribuita allo stesso autore, ed una Nuova (e definitiva) edizione nei «Coralli», Torino, Einaudi, 1964, introdotta da una Prefazione scritta da Calvino (di cui si tornerà a parlare); tra le edizioni successive ricordiamo: Milano, Garzanti, 1987, e Milano, Oscar Mondadori, 1993. Per tutte le citazioni riportate nel testo, si rimanda all’edizione dell’opera calviniana diretta da Claudio Milanini, in particolare, per il Sentiero si rimanda a Italo Calvino, Romanzi e racconti volume primo, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1991 (pp. 3-147) cui si assegna la sigla R-I. 2 La presenza del tema della lettura nel Sentiero è già stata rilevata, tra gli altri, da Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 28; Battistini, L’amor di libro in Italo Calvino, cit., p. 12; Ferretti, Le avventure del lettore, cit., pp. 39-40; Ferroni, Da Francesca a Ludmilla: eros e lettura, cit., p. 36; Perella, Calvino, cit., p. 18. 3 La definizione di “scalcinato”, qui attribuita al distaccamento del Dritto, è recuperata dalle parole di Lupo Rosso a Pin (cfr. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 66).

Capitolo I

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un’insuperabile avversione per i lavori di fatica, il personaggio di Zena è descritto come un soldato che «passa giornate intere senz’uscire dal casone, sdraiato sul fieno pesto, leggendo un grosso libro intitolato Supergiallo, al chiarore d’un lumicino a olio». 4 Proprio la pigrizia e la voracità di lettura sono i caratteri su cui si appunta la maligna attenzione di Pin, il quale non perde occasione per deridere il lettore davanti al resto del gruppo con battute del tipo: – Berretta-di-Legno, cosa dirà tua moglie quella notte? – Quale notte? – […] – Quella notte che andrete insieme a letto per la prima volta e tu continuerai a leggere libri per tutto il tempo! 5

Oppure: – Ma non lo sapete che ci fanno un distaccamento apposta per ciascuno? – dice Pin. – Tutti comandanti, ci fanno. A Berretta-di-Legno lo fanno comandante dei partigiani in poltrona. Sicuro, un reparto di partigiani che fanno le azioni stando seduti. 6

La voce narrante sottolinea come Zena rappresenti per Pin un bersaglio particolarmente allettante, perché troppo indolente per reagire («Pin s’azzarda perché sa che il genovese mai farà lo sforzo di corrergli dietro e dopo un po’ decide sempre di lasciarlo dire e si rimette a leggere tenendo il segno con il grosso dito» 7 ), e troppo coinvolto nell’intreccio narrativo per rispondere a tono: – Aspetta che finisca di leggere, – dice Zena il Lungo detto Berretta-di-Legno, tenendo il segno col dito sul Supergiallo, – poi ti rispondo. Sto per capire chi è l’assassino. 8

Ivi, p. 75. Ivi, p. 76. 6 Ivi, p. 133. 7 Ivi, p. 76. 8 Ivi, p. 133. La scena prosegue con ulteriori canzonature da parte di Pin fino a che «Berretta-di-Legno si punta su una delle grandi mani per alzarsi, sempre tenendo il segno e muove l’altra nell’aria per acchiappare Pin; poi s’accorge che fa troppo fatica e riprincipia a leggere» (ibidem). 4 5

I primi lettori

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Alla luce di queste e altre analoghe azioni rappresentate nel romanzo, sembra che Calvino non sia stato molto generoso con il suo primo personaggio lettore: Zena non solo è «l’uomo più pigro che sia mai capitato nelle bande», ma è il peggiore dei soldati, quello che «nelle marce ha sempre qualche scusa per andare scarico» ed è capace persino «di portarsi» il Supergiallo «nelle azioni e di continuare a leggere il libro posato sul serbatoio del mitragliatore, mentre s’aspetta che arrivino i tedeschi». 9 E tuttavia, nonostante gli evidenti difetti di Zena soldato, nella caratterizzazione di Zena come lettore, l’autore lascia trasparire una certa bonaria, indulgente simpatia per questo personaggio, soggiogato dalla passione per la lettura, e così avvinto dalla trama del suo romanzo poliziesco da continuare a leggere anche a notte fonda, «mentre tutti ormai dormono», fino a che, piegato «l’angolo della pagina incominciata, chiude il libro, soffia sul lumino a olio e s’addormenta con la guancia sulla copertina». 10 L’unico servizio collettivo cui Zena si presta di buon grado è la lettura ad alta voce per i propri compagni: «ora legge forte con la sua monotona cadenza genovese: storie d’uomini che spariscono in misteriosi quartieri cinesi». 11 Grazie all’intermediazione di Zena, la lettura s’impone, quindi, come uno dei passatempi del distaccamento, gradito soprattutto al capo Dritto. Questi che pure «in vita sua non ha mai avuto la pazienza di leggere un libro», già in passato, «stando in prigione», si era appassionato ad ascoltare per «ore e ore […] un vecchio detenuto che leggeva ad alta voce Il conte di Montecristo e questo gli piaceva molto». 12 Il secondo lettore che incontriamo nel Sentiero è quindi, più precisamente, un lettore ascoltatore, anche lui molto appassionato ma, in questo caso, dotato, probabilmente, di un grado di alfabetizzazione così approssimativo da preferire l’ascolto alla lettura diretta del testo. Analizzando il romanzo come espressione «fisiologica, esistenziale» 13 dell’esperienza della lotta parIvi, p. 76. Ivi, p. 77. 11 Ivi, p. 76. 12 Ibidem. 13 Id., Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, nella edizione del 1964, cit., pp. 7-24, poi in Prefazioni e note d’autore, in R-I, pp. 1185-1204, da cui la citazione a p. 1185. 9

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Capitolo I

tigiana, le pratiche di lettura adottate da questi primi lettori offrono una testimonianza affascinante di quell’osmosi tra oralità e scrittura di cui parla lo stesso autore, nella Prefazione al romanzo per l’edizione del 1964, e su cui si sono soffermati vari critici, come Falaschi e Corti. Se nelle riflessioni di Calvino e nelle ricostruzioni degli studiosi si sottolinea soprattutto come gli scrittori della Resistenza abbiano potuto attingere storie da una vasta materia condivisa dall’«anonimo narratore orale», 14 nelle immagini di questi lettori è tratteggiata, viceversa, la possibilità di una ricezione orale e corale dei testi letterari. In mancanza di studi su questo specifico argomento, 15 non potendo 14 «Durante la guerra partigiana le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco […]. Alcuni miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all’origine questa tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio» (ivi, p. 1186). Analogamente, già nel 1949, Calvino scriveva: «il racconto partigiano nasce da una tradizione orale (l’episodio vissuto e raccontato che fa a poco a poco il giro d’ogni vallata e d’ogni formazione) e ha avuto come trascrittori un numero stragrande di giovani sparsi in tutta Italia» (La letteratura italiana sulla Resistenza, apparso su «Il movimento di liberazione in Italia», I (luglio 1949), n. 1, poi in S-I, pp. 1492-1500, la citazione a p. 1495). Su questo argomento si rimanda alle riflessioni di Falaschi, il quale, oltre ad avere rilevato, analogamente a Calvino, come i “pezzi narrativi” pubblicati sui giornali e, ancora prima, sui periodici irregolari della Resistenza, abbiano molto spesso trasposto sulla pagina scritta materiali che circolavano soprattutto oralmente (cfr. Giovanni Falaschi, La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976, pp. 54-80), ha anche sottolineato come alcuni dei racconti e romanzi del periodo ’44-’48 sembrino «la trascrizione di un racconto orale» (Giovanni Falaschi, Realtà e retorica. La letteratura del neorealismo italiano, Messina-Firenze, D’Anna, 1977, p. 77. Le riflessioni di Falaschi si concentrano sul racconto di Marcello Venturi L’estate che mai dimenticheremo, del 1945). Su questo ultimo tema torna anche Maria Corti, la quale, ad esempio, rintraccia nel romanzo di Vasco Pratolini Cronache di poveri amanti (1947) «una struttura da tradizione narrativa orale o popolare, dove cioè si presuppone una sorta di contatto, di intesa fra l’emittente (cantastorie, narratore orale per una collettività o narratore di racconti scritti di tradizione popolare) e i destinatari» (Maria Corti, Neorealismo, in Id., Viaggio testuale. Le ideologie e le strutture semiotiche, Torino, Einaudi, 1978, pp. 25-110, la citazione alle pp. 58-59). 15 La mancanza qui rilevata rispetto allo specifico contesto storico e sociale della Resistenza, riflette la più generale carenza di studi sulla diffusione della lettura comunitaria nella realtà italiana. Per una panoramica sugli studi condotti negli altri stati europei e un primo tentativo di approccio al problema, relativamente al secolo XIX, si rimanda all’articolo Isotta Piazza, Michele Colombo, La lettura comunitaria nell’Italia dell’Ottocento, in «Studi linguisti italiani», vol. XXXIV, f. I, pp. 62-96.

I primi lettori

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stabilire se questi personaggi siano frutto della fantasia dell’autore, oppure rispecchino situazioni e pratiche di lettura cui Calvino assistette durante la Resistenza, 16 si può in entrambi i casi rilevare come essi manifestino quella particolare attenzione verso un nuovo lettore, caratterizzato dal punto di vista socioculturale come “popolare”, verso cui anche altri scrittori e intellettuali mostravano, in quegli stessi anni, un crescente interesse: Leggere è così facile, dicono quelli a cui la lunga consuetudine coi libri ha tolto ogni rispetto per la parola scritta; ma chi invece più che libri tratta uomini o cose e gli tocca uscir fuori al mattino e rientrare la sera indurito, quando per caso si raccolga su una pagina s’accorge d’aver sott’occhio qualcosa d’ostico e bizzarro, di svanito e insieme di forte, che l’aggredisce e lo scoraggia. Inutile dire che quest’ultimo è più vicino alla vera lettura che non l’altro. 17

Queste, ad esempio, le riflessioni di Pavese, espresse in un articolo del 1945, dove ben visibile è l’estatica e forse invidiosa ammirazione nei confronti di una forma di ricezione dei testi più rozza rispetto a quella dei lettori colti, ma anche più genuina e feconda. Nel medesimo anno, in un editoriale anonimo della rivista «Società» (ma attribuito a Romano Bilenchi 18 ), si affermava: Oggi moltissime persone leggono libri di scrittori conosciuti, fino a ieri, da un ristretto numero di intellettuali. Noi non abbiamo il coraggio di dire che li leggono senza capirli, anche se leggono solo d’istinto, con superficialità, alla ricerca di un greve contenuto, di una “sostanza” del libro che noi siamo abituati a trovare in ben altro. Ne siamo contenti perché anche da queste letture può nascere qualcosa, anche per gli scrittori stessi, e perché questo potrà servir loro molto; più saranno

16 Significativa, a questo proposito, è la testimonianza di Natalia Ginzburg relativa al periodo immediatamente successivo: «Pavese, Calvino e io scrivevamo sermoni ironici, brevi dialoghi, filastrocche e stornelli per un giornale parlato, le cui copie venivano lette per le strade di Torino» (Natalia Ginzburg, “Fiore gentile”, Pavese e Calvino, in «l’Unità», 17 aprile 1988). 17 Cesare Pavese, Leggere, pubblicato su l’«Unità» di Torino, 20 giugno 1945, poi in Id., La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1951, pp. 221-224, la citazione a p. 221. 18 Per l’attribuzione dell’editoriale a Bilenchi, cfr. Alberto Cadioli, Cosa è chiesto allo scrittore. Annotazioni sulla letteratura “impegnata”, in Id., Il silenzio della parola. Scritti di poetica del Novecento, Milano, Unicopli, 2002, pp. 71-82, in particolare p. 76, nota 23.

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Capitolo I

ascoltati e più dovranno ascoltare, e forse, le loro parole potranno acquistare maggiore validità. 19

Come si può vedere, già nelle riflessioni di quegli anni, il problema dei nuovi lettori si intrecciava al problema delle nuove responsabilità: da una parte, come espresso nel brano riportato, gli scrittori sono chiamati a una più attenta verifica del loro lavoro («se si cerca, con la letteratura, di contribuire alla rinascita delle coscienze, bisogna, insieme, esserne capaci ed esserne degni» 20 ); dall’altra, come esposto, ad esempio, nelle pagine del «Politecnico», il popolo che «chiede i mezzi per conquistare una cultura più elevata» è chiamato a fare propri gli ideali della cultura democratica. 21 Obiettivi ardui, senza dubbio, cui gli intellettuali nell’immediato dopoguerra guardavano, tuttavia, con speranza e ottimismo, come tappe indispensabili di un cammino che tende al superamento della visione classista della vita sociale: Nel seno stesso della cultura borghese che va in pezzi è nascosta, lo sappiamo, quella cultura d’oggi che prepara anche la cultura dell’avvenire, la cultura d’una società non più divisa, d’una società senza classi. […] Siamo certi soltanto di una cosa: che una società senza classi non può avere che una cultura unita. 22

Da queste brevi riflessioni estratte dalle pagine dei periodici e dei quotidiani militanti tra gli anni ‘45 e ‘46, 23 si possono ricavare due distinte considerazioni. In primo luogo, se proprio 19 [Romano Bilenchi], Letteratura d’occasione, in «Società», a. I, n. 4, 1945, pp. 5-8; la citazione dell’articolo riportata nel testo è stata tratta da Aa. Vv., Neorealismo poetiche e polemiche, a cura di Claudio Milanini, Milano, il Saggiatore, 1980, pp. 49-53, la citazione a p. 51. 20 Ibidem. 21 Cfr. Elio Vittorini, Il programma de «Il Politecnico», in «Quaderni piacentini», III (luglio-settembre 1964), n. 17-18. Su questo specifico argomento si rimanda a Romano Luperini, Gli intellettuali di sinistra e l’ideologia della ricostruzione nel dopoguerra, Roma, Edizioni di Ideologie, 1971, pp. 35 e sgg. 22 Maurizio Korach, tratto da un articolo apparso sull’«Unità», il 14 marzo 1946, qui citato da Bruno Pischedda, Due modernità. Le pagine culturali dell’«Unità», Milano, FrancoAngeli, 1995, p. 34. 23 Per un ulteriore approfondimento cfr. Patrizia Audenino, Fra arte e pedagogia: modelli e temi nelle pagine letterarie della stampa socialista, in «Movimento operaio e socialista», n. 3, settembre-dicembre 1985, pp. 393-416.

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«l’essere usciti da un’esperienza – guerra, guerra civile – che non aveva risparmiato nessuno» 24 (e l’essere «ancora sorretti dalla speranza che la Resistenza costituisse la premessa di una rottura netta con il passato» 25 ) aveva reso possibile credere nel progetto di un’estensione della letteratura alle classi subalterne, questa stessa tensione artistica e morale aveva contribuito a fondare, in quegli anni, una nuova consapevolezza (a livello più empirico che teorico) circa i problemi del leggere. In secondo luogo, per quanto riguarda, più specificatamente, la questione del nuovo pubblico popolare, si può affermare che «gli intellettuali di sinistra fra il 1944 e il 1947 furono dei gramsciani ante litteram», che «già confusamente sapevano o andavano cercando» 26 quello che poi avrebbero trovato compiutamente teorizzato nelle pagine delle opere di Gramsci, pubblicate a partire del 1947. 27 Considerata la varietà e autorevolezza delle voci che si espressero su questo argomento, è plausibile ipotizzare che le riflessioni sopra riportate (così come numerose altre che apparvero sulle riviste e sui quotidiani dell’epoca) fossero note anche al giovane Calvino, il quale, lo ricordiamo, proprio nel biennio ‘45’46, cominciava a frequentare le persone e gli ambienti culturali più significativi di quel periodo: nel 1945 scrisse due articoli per «Il Politecnico», 28 entrando così in diretto contatto con Vittori-

Calvino, Prefazione 1964, cit., p. 1185. Claudio Milanini, Natura e storia nel “Sentiero” di Italo Calvino, in «Belfagor», XL (1985), pp. 529-546, la citazione a p. 529. 26 Luperini, Gli intellettuali di sinistra, cit., p. 19. 27 Nel 1947 viene pubblicato Lettere dal carcere (Torino, Einaudi) cui segue, l’anno dopo, il primo volume dei Quaderni del carcere col titolo Il materialismo storico e la filosofia (Torino, Einaudi). Va ricordato, tuttavia, che parte delle riflessioni di Gramsci già circolava in Italia grazie ai discorsi di Togliatti, il quale ebbe la possibilità di studiare le fotocopie dei Quaderni (inviategli da Vincenzo Bianco) a partire dal 1938 (cfr. Valentino Gerratana, Prefazione ad Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, in particolare p. XXXI). Ricordiamo, inoltre, che anche alcune riviste (tra cui «La Rinascita», «Società» e «Il Politecnico») pubblicarono stralci delle opere gramsciane prima della loro edizione in volume. 28 Si tratta degli articoli: Liguria magra e ossuta, in «Il Politecnico», n. 10, 1 dicembre 1945, poi in S-II, pp. 2363-2370; Riviera di Ponente, in «Il Politecnico», n. 21, 16 febbraio 1946, p. 2. Nel 1946 pubblicò anche il racconto Andato al comando, in «Il Politecnico», n. 17, 19 gennaio 1946, poi 24 25

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ni; nel 1946 cominciò a lavorare nella redazione piemontese dell’«Unità», 29 e al medesimo periodo risale anche l’inizio della collaborazione con la casa editrice Einaudi. 30 L’immagine dell’autore restituitaci dalle sempre più approfondite biografie, 31 così come dalle raccolte epistolari, 32 è quella di un giovane ma per nulla sprovveduto intellettuale, che ambiconfluito, con lievi varianti, nel volume Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1949. 29 In una lettera, lo stesso Calvino si definisce «narratore» nato sul «Politecnico» e «cresciuto […] sulle terze pagine delle varie “Unità”» (cfr. Italo Calvino, Lettera a Marcello Venturi, 5 gennaio 1947, in Lettere, cit., pp. 174177, la citazione a p. 174). Per un approfondimento sull’attività giornalistica e saggistica svolta da Calvino in questi primi anni di apprendistato, si rimanda a Giovanni Falaschi, Calvino tra “realismo” e razionalismo, in «Belfagor», XXVI (1971), pp. 373-391; Id., Ritratti critici di contemporanei. Italo Calvino, in «Belfagor», XXVII (1972), pp. 530-558; Paulette Dulac, Italo Calvino: primi discorsi di letteratura e società. (1945-1957), in «Chroniques Italiennes», II (1985), n. 3, pp. 5-13; Gian Carlo Ferretti, La collaborazione ai periodici, in Giovanni Falaschi (a cura di), Italo Calvino, Atti del Convegno internazionale (Firenze, Palazzo Medici-Riccardi 26-28 febbraio 1987), Milano, Garzanti, 1988, pp. 41-52; Giovanni Falaschi, Negli anni del neorealismo, in ivi, pp. 113-140; Gian Carlo Ferretti, Le capre di Bikini. Calvino giornalista e saggista, 1945-1985, Roma, Editori Riuniti, 1989; Giorgio Bertone, Le radici del midollo. Critica, letteratura e lingua nel primo Calvino, in Id., Italo Calvino. Il castello della scrittura, Torino, Einaudi, 1994, pp. 3-86. 30 Sul lavoro editoriale svolto da Calvino si dedicherà ampio spazio nel capitolo successivo. 31 Tra le numerose biografie (e apparati bio-bibliografici) pubblicati negli ultimi decenni, si ricordano, almeno, Elisabetta Mondello, Italo Calvino, Pordenone, Edizioni Studio Tesi, 1990; la sezione Cronologia, curata da Mario Barenghi e Bruno Falcetto, per l’edizione R-I, pp. LXI-LXXXVIII; Album Calvino, a cura di Luca Baranelli e Ernesto Ferrero, Milano, Mondadori, 1995; Patrizio Barbaro, Fabio Pierangeli, Italo Calvino. Biografia per immagini, Cavallermaggiore, Gribaudo, 1995; Perella, Cronologia della vita e delle opere, in Id., Calvino, cit., pp. 177-197; a carattere biobibliografico e geografico anche la presentazione di Mario Barenghi: Un po’ di storia (e di geografia), in Id., Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 15-31. Per un approfondimento di carattere biografico sugli anni della giovinezza e sull’esperienza della Resistenza si rimanda a Piero Ferrua, Italo Calvino a Sanremo, Sanremo, Famija Sanremasca, 1991; Claudio Milanini, Appunti sulla vita di Italo Calvino, 19431945, in «Belfagor», LXI (2006), n. 1, pp. 43-63. 32 Cfr. Calvino, Lettere, cit.; un’altra importante raccolta epistolare, ma più specificatamente attinente al lavoro editoriale dell’autore, è rappresentata dal volume Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-1981, a cura di Giovanni Tesio, con una nota di Carlo Fruttero, Torino, Einaudi, 1991.

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sce ad avere un ruolo attivo all’interno della società letteraria, che partecipa e prende posizione rispetto ai dibattiti coevi. 33 Alla luce del contesto generale e delle aspirazioni del giovane scrittore, la raffigurazione nel Sentiero di personaggi lettori appartenenti al proletariato (o «sottoproletariato», come scrive Bonura 34 ), potrebbe essere interpretata come un segno della volontà dell’autore di inserirsi in quella battaglia che già altri intellettuali avevano intrapreso per l’allargamento verso il basso dell’area di fruizione della letteratura. E tuttavia, nel caso di Calvino, si ritiene che la condivisione di questa prospettiva si radichi più nell’anticonformismo della sua identità intellettuale che nell’adesione a un astratto progetto culturale. Prova ne è la presenza di lettori proletari anche in opere e racconti 35 precedenti il Sentiero. Nel dramma teatrale I fratelli di capo Nero (scritto tra l’agosto e l’ottobre del 1943), 36 ad esempio, la passione per la lettura contraddistingue non Siro, il fratello studente e l’unico ad avere frequentato le scuole, ma Tito, giovane contadino, che ama a tal punto i libri da sottrarli di nascosto al fratello, pur rischiando di essere preso a pugni: Scuole, veramente, non ne ho mai fatte, ma tutti i libri di Siro che giravano per la casa li ho studiati e anche tanti altri e ogni tanto ne compro ma i miei fratelli non vogliono e quando mi vedono con un libro in mano mi danno dei pugni sulla testa. Non capiscono niente. 37

L’esempio di Tito dimostra che, ancora prima che fosse avviato in Italia il dibattito sulla letteratura popolare, Calvino già nutriva una viva curiosità verso quella particolare forma di seduzione che la lettura riesce a esercitare anche sui lettori meno colti. Analogamente, si può inoltre rilevare come, fin dalle sue prime recensioni, l’autore si riveli attento osservatore delle dinamiche culturali legate alla circolazione dei libri usati, e alla 33 Sotto questo punto di vista significative sono le lettere spedite all’amico Eugenio Scalfari, pubblicate in Calvino, Lettere, cit. 34 Cfr. Giuseppe Bonura, Invito alla lettura di Calvino, Milano, Mursia, 1972, p. 50. 35 Su questo aspetto si tornerà nel paragrafo 1.4. 36 Italo Calvino, I fratelli di Capo Nero, opera teatrale scritta nel 1943 e rimasta inedita sino alla pubblicazione in Italo Calvino, Romanzi e racconti, volume terzo, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1993, pp. 443-496, da qui in avanti citato con la sigla R-III. 37 Ivi, p. 452.

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diffusione delle collane di lettura vendute a prezzi ridotti e rivolte specificatamente a un pubblico di estrazione popolare. 38 Ma sono soprattutto i personaggi lettori del Sentiero a dimostrare l’indipendenza del suo discorso, approfondendo il quale risulta evidente come esso coincida solo parzialmente con quello sviluppato dagli intellettuali coevi. Come si è accennato, nei programmi di quel periodo, il libero accesso alla cultura da parte di larghi strati della popolazione veniva correlato all’emancipazione ideale dei nuovi lettori. L’intreccio indissolubile tra «ammodernamento» della letteratura e «democratizzazione» della comunità letteraria, 39 è perfettamente rappresentato, ad esempio, nelle figure dei protagonisti di alcuni dei più celebri romanzi neorealisti come Le terre del Sacramento di Francesco Jovine (1950) e Metello di Vasco Pratolini (1955), in entrambi i quali la scoperta della lettura coincide con un momento altamente formativo per la crescita politica e civile dei rispettivi protagonisti. 40 Queste figure, che pure sarebbe arbitrario e improprio confrontare direttamente 38 Cfr., ad esempio, Id., Joseph Conrad scrittore poeta e uomo di mare, in «l’Unità», 6 agosto 1949, poi in S-I, alle pp. 811-813. 39 Su questo connubio cfr. Vittorio Spinazzola, Prefazione a Pischedda, Due modernità, cit., pp. 9-14. 40 In Le terre del sacramento, ad esempio, Luca Marano attraverso i libri cerca di capire, di «rendere più evidente il rapporto tra la sua condizione e quella di mille altri compagni che, come lui, vivevano in cento villaggi carichi delle sue stesse inquietudini» (cfr. Francesco Jovine, Le terre del Sacramento, Torino, Einaudi, 1950, qui citato dall’edizione Torino, Einaudi, 1990, p. 109). In modo ancora più esplicito, nel romanzo di Pratolini, è grazie alla lettura di Marx se Metello acquista piena consapevolezza dei problemi economici e politici: « “Ora ho capito.” “Cosa hai capito?” “La teoria della forza-lavoro […]. Metti che un operaio, lavorando dieci ore, guadagni quattro lire. Quello che lui ha prodotto, il padrone lo rivende a cento. Togli cinquanta lire del costo del materiale e delle altre spese. Praticamente, il lavoro fatto unicamente da quell’operaio ha fruttato al padrone dieci volte di più che all’operaio.” Ella rimase col soffietto in aria: “È una cosa che ti torna nuova?” gli chiese. “No, ma qui c’è la spiegazione. […] È che certe cose, quando le trovi scritte e dimostrate, anche se le conosci per esperienza, assumono un altro aspetto. Le parole stampate non sono mai come i discorsi che facciamo noi, chi le scrive ci mette sempre un po’ di magia. T’insegnano a ragionare su un argomento, e quello che magari pensavi digià, ti sembra anche più vero.”» (cfr. Vasco Pratolini, Una storia italiana. Metello, Firenze, Vallecchi, 1955. Per la citazione qui riportata si rimanda all’edizione del romanzo inclusa in Vasco Pratolini, Romanzi, a cura di Francesco Paolo Memmo, Milano, Mondadori, 1995, vol. II, pp. 3-328, la citazione alle pp. 224-225).

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con i lettori del Sentiero, mostrano, tuttavia, l’atipicità della caratterizzazione di Zena e del Dritto, i quali non solo non traggono dalla lettura alcun insegnamento per la loro formazione, ma sembrano, viceversa, ricevere uno stimolo alla diseducazione politica e alla rovina personale. Per quanto riguarda Zena il Lungo, ad esempio, la lettura del Supergiallo corrobora un’ottusa e bizzarra fiducia nel mito americano: – È una crudeltà – dice Zena il Lungo detto Berretta-di-Legno, – che gli uomini siano costretti a lavorare tutta la vita. Ma ci sono paesi, in America, dove la gente diventa ricca senza tanta fatica: Zena il Lungo ci andrà appena ripartiranno i vapori. – La libera iniziativa, il segreto di tutto è la libera iniziativa, – dice stirando le lunghe braccia, disteso nel fieno del casone, e riprende a compitare col dito, muovendo le labbra, sul libro che spiega la vita di quei paesi liberi e felici. 41

Altrettanto discutibile è l’ascendente esercitato dalla lettura sul capo del distaccamento: come nota acutamente Milanini «proprio il Dritto che ha trascorso con piacere ore e ore ad ascoltare un vecchio detenuto leggere ad alta voce Il conte di Montecristo, fabbrica allora intorno a sé una trappola senza scampo», ricordandoci «così come l’assurdo possa generarsi dentro di noi». 42 Zena il lungo e Dritto dimostrano, quindi, come il rapporto tra lettura e popolo interessi l’autore non in relazione ai possibili sviluppi politici, ma per il valore aggiunto che la letteratura acquista quanto più grandi sono i limiti (culturali ed economici) che i lettori sono disposti a superare. Non bisogna inoltre dimenticare che, come rilevò lo stesso Calvino nell’imminenza della pubblicazione del Sentiero all’amico Marcello Venturi, «il […] romanzo» intende essere «un boccone un po’ amaro da ingoiare per palati conservatori e benpensanti», 43 riflessione che poi, nella Prefazione del 1964, è così rielaborata: Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., pp. 76-77. Milanini, L’utopia discontinua, cit. p. 28. 43 Calvino, Lettera a Marcello Venturi, 19 gennaio 1947, in Lettere, cit., pp. 177-180, la citazione a p. 177. Analogamente, nella lettera precedente inviata all’amico il 5 gennaio 1947, Calvino definisce il romanzo «molto scabroso e difficile» (ivi, p. 176). 41

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Si chiedeva allo scrittore di creare l’“eroe positivo”, di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria. […] Il pericolo che alla nuova letteratura fosse assegnata una funzione celebrativa e didascalica, era nell’aria […]. La mia reazione d’allora potrebbe essere enunciata così: “Ah, sì, volete l’“eroe socialista”? Volete il “romanticismo rivoluzionario”? E io vi scrivo una storia di partigiani in cui nessuno è eroe, nessuno ha coscienza di classe. 44

Proprio l’intento polemico e antiretorico inscritto nel romanzo rappresenta una delle chiavi interpretative per comprendere la caratterizzazione dei due lettori: se contro quanti chiedevano allo scrittore di «creare “l’eroe positivo”, di dare immagini normative, pedagogiche di condotta sociale», 45 Calvino decide di porre al centro della vicenda narrata «un’umanità […] animalesca» e «anarchica», 46 così anche nelle immagini dei personaggi lettori introdotte nel Sentiero, egli rifiuta di offrire modelli idealizzati ed edulcorati. E tuttavia, proprio come nella «gente che s’accomoda nelle piaghe della società e s’arrangia in mezzo alle storture» Calvino rintraccia «un furore», un «coraggio» e «una spinta di riscatto umano» che rende la loro storia «più positiva, più rivoluzionaria di tutte», 47 così sembra avvenire anche per i personaggi lettori, laddove nella loro caratterizzazione imperfetta e antiretorica è celebrata un’immagine della lettura come passione inesau44 Id., Prefazione 1964, cit., p. 1193. Sulle ragioni relative alla scelta di questa strategia polemica e antiretorica adottata dall’autore, si rimanda alle sue stesse riflessioni espresse in una lettera a Elémire Zolla, del 28 giugno 1958, in I libri degli altri, cit., pp. 256-258, in particolare cfr. p. 257. 45 Id., Prefazione 1964, cit., p. 1193. 46 Bonura, Invito alla lettura, cit., p. 50. Come rilevato da Falcetto, la caratterizzazione polemica dei personaggi era ancora più marcata nella prima edizione del romanzo (1947) su cui poi Calvino operò in direzione di un «progressivo alleggerimento nel trattamento» di alcuni temi come quelli della «violenza e del sesso» (Cfr. Bruno Falcetto, in Note e notizie sui testi, Il sentiero dei nidi di ragno, in R-I, pp. 1243-1260, la citazione riportata a p. 1248, mentre alle pp. 1250-1260 viene proposta un’attenta comparazione delle varianti presenti nelle tre differenti edizioni: 1947, 1954 e 1964). Recentemente Andrea Dini ha curato un’analisi delle varianti del romanzo, con particolare riferimento a quelle incluse nel dattiloscritto inviato dall’autore per concorrere al premio “Riccione” (poi vinto ex equo con Fabrizio Onofri), cfr. Andrea Dini, Il Premio Nazionale “Riccione” 1947 e Italo Calvino, Cesena, Società Editrice “Il Ponte Vecchio”, 2007, in particolare pp. 263-320. 47 Calvino, Prefazione 1964, cit., p. 1193.

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ribile che, una volta conosciuta, non può più essere abbandonata. Attraverso le immagini di Zena e del Dritto, ma anche del contadino Tito, Calvino non intenderebbe, quindi, negare il valore democratico della lettura, ma (questo sì) attribuire a esso un altro significato: perché al di là delle coordinate letterarie formative infrante, della finalità politica non perseguita, questi lettori sono anche loro, a modo proprio, rivoluzionari, nella misura in cui, scoperto il piacere della lettura, se ne impossessano con voracità ed entusiasmo, riscattando i secoli trascorsi durante i quali questo piacere era stato loro precluso. 2. Kim lettore L’ultimo lettore che compare nel Sentiero è Kim, il giovane e saggio commissario, protagonista del capitolo IX. Al contrario di Zena il Lungo e del Dritto che sono lettori di modesta cultura e soldati di scarso valore, Kim si presenta con caratteri di tutt’altro tipo: anzitutto egli è uno studente di medicina, dotato di spessore culturale e capacità dialettica, poi è commissario di brigata e, come tale, è chiamato a svolgere mansioni di grande responsabilità all’interno dell’organizzazione partigiana: a lui spetta decidere le sorti del Dritto, dopo il grave incidente al fienile, ed è lui che deve passare in rassegna i vari distaccamenti informandoli e motivandoli in previsione della imminente battaglia. Benché Kim sia «l’unico personaggio intellettuale» del romanzo, 48 dotato, per di più, di una chiarezza raziocinante tale da indurre Pavese a parlare, a proposito del capitolo IX, di una «grande stonatura», 49 nel momento in cui ripensa all’attività (la Ivi, p. 1197. «Grande stonatura il capitolo del commissario Kim che ragiona sul distaccamento di carogne dov’è il ragazzo. Si rompe l’angolo di visuale del ragazzo, e quello di Kim commissario non è ingranato nell’avventura, è un’esigenza intellettualistica». Questo giudizio di Pavese è tratto da una lettura editoriale per la casa editrice Einaudi, datata 23 gennaio 1947 (qui citata da Falcetto, Note e notizie sui testi, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 1243), ma similmente anche Claudio Varese, in una recensione (Il sentiero dei nidi di ragno (Scrittori d’oggi)) apparsa su «Nuova Antologia» (maggio, 1948, pp. 102-104) parla di una «stonatura stilistica del capitolo IX». In un secondo momento la critica ha cercato soprattutto di «capire le 48 49

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lettura) che più dovrebbe contraddistinguerlo nel suo essere “intellettuale”, egli lascia che riaffiorino «paure bambine»: 50 Kim è logico, quando analizza con i commissari la situazione dei distaccamenti, ma quando ragiona andando da solo per i sentieri, le cose ritornano misteriose e magiche, la vita degli uomini piena di miracoli. Abbiamo ancora la testa piena di miracoli e di magie, pensa Kim. Ogni tanto gli sembra di camminare in un mondo di simboli, come il piccolo Kim in mezzo all’India, nel libro di Kipling tante volte riletto da ragazzo. “Kim… Kim… Chi è Kim?…” 51

Anche in quest’ultimo caso, come si può vedere, il personaggio lettore tratteggiato da Calvino presenta caratteri ambigui, dalla decifrazione non immediata. Da una parte egli è intellettuale e «bolscevico», «uomo che analizza», «uomo che domina le situazioni»; 52 da un punto di vista narrativo, inoltre, Kim rappresenta un «alter ego meditativo del narratore», un coacervo di «riflessioni totalizzanti» 53 che forse mal si amalgamano con il resto delle vicende, ma che di quelle vicende ci forniscono una indispensabile chiave interpretativa. Ma quando nella imminenza della battaglia Kim ripensa al libro tanto amato nella giovinezza, il mondo intorno a lui si lascia riavvolgere nel mistero delle nebbie, nell’incanto magico dei luoghi simbolici tipici delle fiabe: La valle è piena di nebbie e Kim cammina su per una costiera sassosa come sulle rive di un lago. I larici escono dalle nuvole come pali per attraccare barche. Kim… Kim… chi è Kim? Il commissario di brigata si sente come l’eroe del romanzo letto nella fanciullezza: Kim, il ragazzo mezzo inglese mezzo indiano che viaggia attraverso l’India con vecchio Lama Rosso, per ritrovare il fiume della purificazione. 54

Per comprendere quale funzione la lettura eserciti nella caratterizzazione di questo personaggio, si rende necessario chiarire, anzitutto, come l’autore abbia sempre nutrito una particoragioni che hanno determinato la scelta di una struttura tanto consapevolmente sbilanciata» (Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 21). 50 Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 107. 51 Ivi, p. 108. 52 Ivi, p. 111. 53 Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 22. 54 Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 111.

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lare attenzione per la letteratura infantile, 55 nonché una viva curiosità e ammirazione per la modalità di ricezione dei testi che contraddistingue quell’età: «la gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza», scrive Calvino in un articolo dei primi anni Ottanta, noto col titolo Perché leggere i classici? «Le letture di gioventù», prosegue l’autore, «possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l’uso» e, tuttavia, «possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza». 56 Secondo Calvino, l’età infantile accorda al mondo della fiction una possibilità che egli ritiene straordinaria e che vorrebbe sempre verificata: quella di travalicare i propri confini e di assurgere al grado di esperienze realmente vissute, come se vita e letteratura fossero un corpus unitario, un bagaglio unico di esperienze ‘trascorse’, equiparabili e ugualmente utili per affrontare quelle future: Le letture e l’esperienze di vita non sono due universi ma uno. Ogni esperienza di vita per essere interpretata chiama certe letture e si fonde con esse. 57

Proprio questo, a ben guardare, è quanto accade anche al nostro lettore che ritrova nella memoria di un libro «costanti che ormai fanno parte dei [suoi] meccanismi interiori e di cui aveva dimenticato l’origine». 58 Solo i libri che si «nascondono nelle pieghe della memoria», mimetizzandosi tra le esperienze di vita “realmente” vissute, riescono nell’impresa più ardua e più importante di tutte: quella di «definire te stesso in rapporto e ma55 Si veda, ad esempio, la cura posta dall’autore per l’edizione delle Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti da Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1956. 56 Id., Italiani, vi esorto ai classici. (Come leggerli e perché), in «L’Espresso», XXVII (28 giugno 1981), n. 25, poi in Id., Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, infine in S-II, alle pp. 1816-1824, la citazione a p. 1817. 57 Id., Prefazione 1964, cit., pp. 1194-1195. 58 Id., Perché leggere i classici?, cit., p. 1817.

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gari in contrasto» con il libro stesso. 59 In questa dialettica virtuosa tra lettore e memoria letteraria appare evidente che il concetto umanistico di lettura come «conversazione con gli autori del passato», 60 è declinato da Calvino nella più moderna variante proustiana. Dall’autore della Recherche Calvino deriva, infatti, l’idea della lettura come atto compiuto in «solitudine», 61 e come spunto per una ricerca che il lettore deve proseguire in maniera sostanzialmente autonoma e indipendente dall’autore: «ogni lettore, quando legge, legge sé stesso. L'opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che è offerto al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in sé stesso». 62 Ma forse più che di un’influenza di Proust, si tratta, in questo caso, della libera e intuitiva percezione da parte di Calvino della natura asimmetrica della lettura, intesa da entrambi gli autori come spazio a uso e beneficio prioritario del lettore. Kim Kim… chi è Kim? Si chiede il giovane commissario che, non a caso, ha scelto come nome di battaglia lo stesso del protagonista nei panni del quale si è tante volte immedesimato da ragazzo, e grazie al confronto col quale continua a interrogarsi, abbandonando «il desiderio enorme di logica, di sicurezza sulle Ivi, p. 1821. La citazione: «La lettura dei buoni libri è una sorta di conversazione con gli spiriti migliori dei secoli passati» è presa da Cartesio, Il discorso del metodo, ma considerazioni analoghe sono espresse tra gli altri da Machiavelli o (più recentemente) da Ruskin. 61 Marcel Proust, Sur la lecture, «La Renaissance Latine», 15 giugno 1905, il saggio viene parzialmente ripreso per la Prefazione a John Ruskin, Sésame et les Lys, poi col titolo Journées de Lecture in Marcel Proust, Contre Sainte-Beuve, Paris, Gallimard, 1954. Il saggio è ora disponibile nella edizione Marcel Proust, Sulla lettura, Milano, Mondadori, 1995, da cui è tratta la successiva citazione: «ho cercato di dimostrare che la lettura non può essere paragonata a una conversazione, quando pure con il più saggio degli uomini; che la differenza essenziale tra un libro e un amico non è la maggiore o minore saggezza reciproca, ma il modo in cui comunichiamo con loro, la lettura, al contrario della conversazione, rappresentando per ognuno di noi la ricezione del pensiero di un altro, ma in solitudine, continuando dunque a godere della forza intellettuale che si possiede nella solitudine e che la conversazione disperde immediatamente, continuando a poter venire ispirati, a proseguire il fecondo lavoro dello spirito che opera su sé stesso» (ivi, pp. 17-18). 62 La citazione è tratta da Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, edizione a cura di Luciano De Maria, traduzione di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1983-1993, IV, p. 596. 59

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cause e sugli effetti», per lasciare spazio «agli interrogativi irrisolti» che gli si affollano nella mente. Alla luce di queste considerazioni risulta evidente che la caratterizzazione di Kim lettore, pur allontanando il personaggio dal programma di engagement che era imposto come «modello comportamentistico assoluto dell’intellettuale», 63 rappresenta, nelle intenzioni dell’autore, un modello altamente formativo; e la stessa attività della lettura, attraverso questa breve ma emblematica mise en abyme, assurge al valore di «controcanto esistenziale necessario alla cognizione del vivere». 64 Nell’immagine di questo giovane intellettuale che intrattiene con la fiction un rapporto di tipo empatico, non è difficile riconoscere un riflesso dell’esperienza dello stesso autore, il quale, in più di un’occasione, ha raccontato di avere privilegiato nella giovinezza un tipo di ricezione ab sensu, fondata sul trasporto emotivo e sull’immedesimazione. Significative, a questo riguardo, sono le successive riflessioni di Calvino, relative al suo rapporto con il cinema: Il cinema come evasione, si è detto tante volte, con una formula che vuole essere di condanna, e certo a me il cinema allora serviva a quello, a soddisfare un bisogno di spaesamento, di proiezione della mia attenzione in uno spazio diverso, un bisogno che credo corrisponda a una funzione primaria dell’inserimento nel mondo, una tappa indispensabile d’ogni formazione. 65

Sotto certo punto di vista, a ben guardare, il legame che Kim intrattiene con il romanzo della fanciullezza non è poi molto Corti, Neorealismo, cit., p. 35. Cfr. Geno Pampaloni, Il lavoro dello scrittore, in Italo Calvino. Atti del convegno internazionale (Firenze), cit., pp. 17-30, la citazione a p. 17. 65 Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in Id., La strada di San Giovanni, a cura di Ester Calvino, Milano, Mondadori, 1990, poi in RIII, alle pp. 27-49, la citazione a p. 27. Interamente dedicato al rapporto tra Calvino e il cinema è stato il convegno organizzato a San Giovanni Valdarno nel 1987, L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, gli atti pubblicati a cura di Lorenzo Pellizzari, con una Prefazione di Stefano Beccastrini, Bergamo, Lubrina editore, 1990; cfr. anche Lucia Re, Calvino e il cinema: la voce, lo sguardo, la distanza, in Italo Calvino newyorkese, a cura di Anna Botta e Domenico Scarpa, Atti del colloquio internazionale Future perfect: Italo Calvino and the Reinvention of Literature (New York University, New York City, 12-13 aprile 1999), Roma, Avagliano, 2002, pp. 77-92. 63

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dissimile da quello dei lettori precedentemente descritti. Gli esiti, questo va precisato, sono differenti: per Zena e per il Dritto la lettura è, prima di tutto, evasione dalla guerra, dalle fatiche, dalle tribolazioni, mentre per Kim è occasione per un’indagine interiore. Ma guardando specificatamente alla modalità di ricezione, è evidente come tutti e tre i personaggi celebrino un’immagine della lettura come rapimento emotivo, come trasporto, come immedesimazione in un luogo altrove. Dall’analisi delle pagine saggistiche, così come dall’evoluzione dei personaggi lettori presenti nelle opere successive al Sentiero, si desume che questa idea di lettura non sarà mai più riproposta dall’autore, il quale, viceversa, diventerà estremamente diffidente nei confronti della lettura come evasione, ed esigerà dai propri lettori attenzione critica e responsabilità, quali contributi indispensabili alla realizzazione del proprio lavoro di scrittura. Ma l’aspetto più interessante è che Calvino, in realtà, come scrittore, già all’altezza del Sentiero cominciava a porsi il problema della ricezione del testo, così come dimostra il successivo brano, estratto da una lettera a Marcello Venturi: Ho letto i tuoi pezzi su «Rinascita». Sono piaciuti molto alla base, ma guarda che sono troppo melodrammatici. Non si può scrivere tutto quello che si sente. […] Ti dico, io ho letto il racconto col cuore in gola, come ho visto col cuore in gola Roma città aperta; e non ti saprei dire se è brutto o bello, né il film né il racconto, sono cose che ti prendono per forza, ma tutti sono buoni a prendere per forza, capisci? Basta far sgozzare madri e padri e fare rivivere determinati stati d’animo, ma non è questo che vogliamo, capisci? 66

Nello stesso periodo in cui si dedica al Sentiero, Calvino riflette, dunque, come scrittore, sui possibili modelli di fruizione del testo, invitando l’amico a porre questo problema al centro della progettazione letteraria. Egli, in particolare, sembra già rendersi conto che l’eccitazione di complicità emotive nel lettore è operazione di sicuro impatto nell’immediato, ma di minor valore in senso assoluto («non è questo che vogliamo»). Si deve quindi dedurre che, durante i primi anni di attività creativa, Calvino tendesse a separare l’idea della lettura come costruzione 66 Calvino, Lettera a Marcello Venturi, 5 gennaio 1947, in Lettere, cit., pp. 174-177, la citazione a p. 176.

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retorica della scrittura, dall’immagine del lettore reale e dai ricordi di se stesso bambino lettore. Se in sede progettuale Calvino propende per l’instaurazione di un rapporto di tipo critico con il proprio interprete, egli, viceversa, nella trasposizione creativa, tratteggia lettori spinti da stimoli emotivi. Da un lato, quindi, c’è il lettore inteso come ruolo astratto, che si ipotizza coincidente con le istruzioni di lettura iscritte nel testo dall’autore, dall’altro ci sono, invece, i lettori personaggi (e reali), rappresentati da Calvino come figure non coercibili, che instaurano con il testo un rapporto arbitrario e soggettivo. Per alcuni anni, questi due aspetti complementari, ma teoricamente indipendenti, rimarranno ben distinti, e allo sforzo progettuale di Calvino giovane scrittore faranno da contrappunto personaggi lettori sempre più refrattari all’autorità della pagina scritta, fino a che Calvino non comprenderà che la responsabilità che egli intende assumersi come scrittore non può prescindere da una responsabilizzazione del lettore, anche e soprattutto di quello reale. 3. Le scelte di lettura nel Sentiero Dopo esserci soffermati a descrivere come leggono questi primi lettori, è opportuno aggiungere alcune osservazioni concernenti il che cosa essi leggano e il perché di queste preferenze rappresentate. Nel caso di Kim, la predilezione accordata all’omonimo romanzo di Kipling rafforza l’autobiografismo già individuato nella figura di questo lettore. Non solo, infatti, Calvino ha espressamente dichiarato che «il primo vero piacere della lettura […] fu con Kipling», 67 ma è altresì noto come, soprattutto nell’infanzia e nella giovinezza, egli sia stato «affascinato da tutto ciò

67 «Il primo vero piacere della lettura d’un vero libro lo provai abbastanza tardi: avevo già dodici o tredici anni, e fu con Kipling, il primo e (soprattutto) il secondo libro della Giungla. […] Da allora in poi avevo qualcosa da cercare nei libri: vedere se si ripeteva quel piacere della lettura provato con Kipling» (tratto da un manoscritto inedito di Italo Calvino, qui citato da Cronologia, in R-I, cit., p. LXV).

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che lo faceva assistere a una storia: libri illustrati, film, racconti». 68 Proprio l’avventura e la ricorrenza di trame solide e ben congeniate rappresentano, a ben guardare, elementi di affinità tra i romanzi di Kipling e i libri (e generi) prediletti dagli altri personaggi lettori. A questo si aggiunga la capacità, comune a tutti i libri prescelti, di attirare l’attenzione di lettori poco esperti, quali sono, per l’appunto, Zena e il Dritto, ma qual è stato, senza dubbio, anche Kim bambino. Questi stessi elementi (avventura, storia, seduzione) caratterizzano anche le opere e gli autori scelti da Calvino per le sue prime recensioni. A proposito di Joseph Conrad (oggetto di vari interventi tra gli anni ’47 e ’50, 69 e della tesi di laurea 70 ), ad 68 Jean Starobinski, Prefazione, a R-I, pp. IX-XXXIII, la citazione a p. XI. Si rimanda, in particolare, alla intervista curata da Maria Corti nel 1985; interrogato su quali libri dell’adolescenza abbiano maggiormente influito nella sua formazione di scrittore, Calvino indica: Le confessioni d’un ottuagenario di Ippolito Nievo (perché «dotato d’un fascino romanzesco paragonabile a quello che si ritrova con tanta abbondanza nelle letterature straniere») e Pinocchio («che ho sempre considerato un modello di narrazione»). Cfr. Italo Calvino, Intervista a cura di Maria Corti, in «Autografo», II (ottobre 1985), n. 6, pp. 47-53, poi con il titolo Intervista di Maria Corti, in S-II, pp. 2920-2929, da cui la citazione a p. 2920. 69 Cfr. Italo Calvino, “La linea d’ombra” di Joseph Conrad, in «l’Unità», 15 giugno 1947, poi in S-I, alle pp. 808-810; Id., Joseph Conrad scrittore poeta e uomo di mare, cit. 70 Sull’influenza esercitata da Conrad sulla scrittura e sulle idee di letteratura di Calvino si rimanda agli articoli: Maria Jose Calvo Montoro, Joseph Conrad/Italo Calvino, o della stesura di una tesi come riflessione sulla scrittura, in «Forum Italicum», XXXI (1997), n. 1, pp. 74-115; Martin L. McLaughlin e Arianna Scicutella, Calvino e Conrad: dalla tesi di laurea alle Lezioni americane, in «Italian Studies», LVII (2002), pp. 113-132; María Josefa Calvo Montoro, La tesi su Conrad: fra leggerezza e molteplicità, in «Rivista di studi italiani», XXI (2003), n. 2, pp. 34-41 (numero monografico dedicato a Calvino, in cui si raccolgono gli atti del congresso Calvino: Lightness and Multiplicity/Leggerezza e Molteplicità organizzato da Rocco Capozzi, presso l'Università di Toronto il 28-29 marzo 2002); Martin L. McLaughlin, Lightness and Multiplicity: The Origin and Development of Calvino’s Poetics, in «Rivista di studi italiani», XXI (2003), n. 2, pp. 42-58. Sull’influenza esercitata da Conrad sulle scelte editoriali di Calvino cfr. Alberto Cadioli, Le “materie prime” dell’esperienza narrativa. Italo Calvino direttore di «Centopagine», in Luca Clerici e Bruno Falcetto (a cura di), Calvino e l’editoria, Milano, Marcos y Marcos, 1993, pp. 114-165, poi con il titolo Calvino editore “narratologo”, in Alberto Cadioli, Letterati editori. Papini, Prezzolini, Debenenedetti, Calvino. L’editoria come progetto culturale e letterario, Milano, il Saggiatore, 1995, pp. 165-204.

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esempio, in un articolo dell’agosto 1949, Calvino scrive che si tratta di un autore apprezzato in Italia soprattutto dai «clienti delle bancarelle che ricomprano i suoi romanzi nei rossi volumi Sonzogno, in mezzo ai libri d’avventure»; in un altro articolo ancora, Calvino lo definisce «un felicissimo inventore di storie e figure e atmosfere». 71 Nelle preferenze di lettura rappresentate nel Sentiero si riflette, dunque, prima di tutto, l’antintellettualismo di un autore segnato, nella giovinezza, dall’incontro con i romanzi d’avventura, ma si esprime anche la scelta poetica di un giovane intellettuale che rifiutò, scientemente, ogni sorta di aristocraticismo letterario. Consigliando all’amico Marcello Venturi la lettura di Storia di me e dei miei racconti di Sherwood Anderson, Calvino scrive, ad esempio, di riconoscersi in «quel nascere d’una letteratura da un terreno non già letterario, ma di cattiva novellistica giornalistica, di produzione letteraria commerciale»: «e anche questo è un po’ come noi, che abbiamo tanto ancora il gusto del racconto avventuroso, della “realtà romanzesca”». 72 Così, analogamente, nelle lettere inviate a Eugenio Scalfari tra gli anni ’42 e ’43, di fronte a certi atteggiamenti schizzinosi dell’amico, Calvino controbatte invitandolo a leggere Zavattini, 73 autore che definisce «assai migliore» di Vittorini e dal quale dichiara di avere tratto maggior ispirazione. 74 Lo stesso autore, quindi, è, insieme ai suoi personaggi, lettore formatosi su un «canone ampio e mutevole» di modelli, 75 che non disdegna testi di intrattenimento, giornali umoristici e autori secondari. 76 Cfr. Calvino, Joseph Conrad scrittore poeta e uomo di mare, cit., p. 811. Cfr. Id., Lettera a Marcello Venturi, 23 aprile 1947, in Lettere, cit., pp. 188-191, la citazione alle pp. 189-190. Alcuni mesi dopo Calvino dedicherà ad Anderson una recensione su «l’Unità» (cfr. Id., Sherwood Anderson, in «l’Unità» di Milano, 4 novembre 1947, poi col titolo Sherwood Anderson scrittore artigiano, in S-I, pp. 1283-1285). 73 Cfr. Id., Lettera a Eugenio Scalfari, 21 dicembre 1942, in Lettere, cit., pp. 101-104, in particolare p. 104. 74 Cfr. Id., Lettera a Eugenio Scalfari, aprile 1943, in ivi, pp. 127-129, in particolare p. 127. Sull’influenza esercitata da Zavattini sulla scrittura di Calvino cfr. Giovanni Falaschi, Prime letture: aggiornamenti, in Italo Calvino. A writer for the next millennium, cit., pp. 169-187, in particolare pp. 170-171. 75 Milanini, Introduzione a Lettere, cit., p. XVII. 76 Significativa, a questo proposito, è la testimonianza di Pietro Ferrua che restituisce il ritratto di un giovane Calvino intellettualmente eclettico e versatile, interessato ai disegni umoristici (arte in cui egli stesso si è diletta71

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Complessivamente, quindi, nelle predilezioni letterarie di questi primi personaggi lettori, è possibile rintracciare alcuni dei principi che sono all’origine della riflessione artistica di Calvino e che lo stesso autore difese strenuamente sia nel suo lavoro creativo (si pensi, solo per citare un esempio, alla “poetica del divertimento” teorizzata dagli anni ’56-‘57), sia, come vedremo, in quello editoriale. Osservando ora singolarmente, e più nello specifico, le scelte dei personaggi lettori rappresentati, è possibile ricavare una serie di altre preziose informazioni. La predilezione di Zena per il Supergiallo allude, ad esempio, alla collana mondadoriana, intrapresa nel 1933, sull’onda del successo della correlata iniziativa dei «Libri gialli», già avviata nel ’29. 77 I Supergialli, proponendo il genere poliziesco per lo più di importazione americana già diffuso dalla precedente collana, si distinguevano da quest’ultima per il grande formato (così come grande è anche il libro di Zena il Lungo), e per la proposta di più romanzi (dello stesso autore o, più spesso, di autori differenti) in un unico volume. Come è noto, queste iniziative mondadoriane, destinate a diventare sinonimo in Italia dello stesso genere poliziesco, ottennero uno straordinario successo di vendite, incontrando i gusti di un vasto ed eterogeneo pubblico di lettori, compresi (e non marginalmente) quelli popolari. Nella scelta del libro per il personaggio di Zena, Calvino si rivela, quindi, attento osservatore dei fenomeni editoriali in atto nella società italiana; e tuttavia, anche sotto questo aspetto, la preoccupazione prioritaria dell’autore sembra essere quella di amplificare la caratterizzazione polemica e antiretorica del suo soldato partigiano. La predilezione di Zena per il Supergiallo suona, in effetti, come l’ennesima provocazione agli intellettuali engagé del dopoguerra e, più in particolare, al loro tentativo di to), e appassionato di cinema, teatro e letteratura (cfr. Pietro Ferrua, Opere giovanili di Italo Calvino, in Giorgio Bertone (a cura di), Italo Calvino, la letteratura, la scienza, la città. Atti del Convegno nazionale di Sanremo (28-29 novembre 1986), Genova, Marietti, 1988, pp. 50-59. 77 Sulla storia della collana «I gialli Mondadori» cfr. Enrico Decleva, «Ogni pagina un’emozione», in Id., Arnoldo Mondadori, Torino, UTET, 1993, pp. 150-153. Per quanto riguarda la collana dei Supergialli, cfr. Catalogo storico Arnoldo Mondadori editore, 1912-1983, volume secondo, le collane N-Z, a cura di Patrizia Moggi Rebulla e Mauro Zerbini, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1985, pp. 2157-2159.

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arginare la diffusione di una letteratura di massa di mero intrattenimento e «di pretta cucina americana», 78 e di opporsi a un prodotto che, nel caso dei gialli mondadoriani, era avvertito come «propagandistico e neocoloniale». 79 In sintonia con le indicazioni di lettura fornite da Gramsci è, invece, la predilezione del Dritto per Il conte di Montecristo, opera che lo stesso intellettuale (in una delle sue riflessioni contenute nei Quaderni del Carcere 80 ) indica come modello di lettura adatto a «diffondere [la cultura] tra le classi popolari». 81 Ma l’intento polemico riaffiora nuovamente nella predilezione di Kim: l’intellettuale «bolscevico» del romanzo, la notte prima della battaglia, si ispira, infatti, a un autore come Kipling che era noto, soprattutto a quell’epoca, come celebratore dell’imperialismo. È vero che Calvino avrebbe spiegato di lì a poco (forse anche per giustificarsi) che «Kipling», nonostante tutto, «è ricco d’insegnamenti democratici», 82 ma ciò non poteva essere sufficiente a farlo rientrare in quell’«indirizzo culturale vasto e sano» (come diceva Togliatti) «di cui il partito si proponeva come il solo giusto interprete». 83

Cfr. Pischedda, Due modernità, cit., p. 22. Bruno Pischedda, Delitti in terza pagina, in Id., Mettere giudizio. 25 occasioni di critica militante, Reggio Emilia, Diabasis, 2006, pp. 174-188, in particolare p. 179. 80 Cfr. Antonio Gramsci, Concetto di «nazionale popolare», in Quaderni del Carcere, n. 21, pp. 2113-2120, pubblicato in Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, pp. 125-131. Sull’influenza esercitata dal pensiero gramsciano sulla vita intellettuale del periodo cfr. Nello Ajello, La rivelazione: le “Lettere dal carcere”, in Id., Intellettuali e PCI 1944-1958, Roma-Bari, Laterza, 1979, poi seconda edizione 1997, cui si rimanda alle pp. 105-112. 81 Come rilevato da Luperini, Gramsci e (il successivo fenomeno del gramscismo) «scambiava la cultura popolare […] con quella dei romanzi d’appendice ottocenteschi, ignorando che cultura popolare in una società capitalistica avanzata è in realtà sottocultura di massa indotta dai massmedia» (Luperini, Gli intellettuali di sinistra, cit., p. 16). Ricordiamo, infine, come proprio questo romanzo di Dumas verrà riprodotto nel 1949 dalle edizioni dell’«Unità». Cfr. Pischedda, Due modernità, cit., pp. 72-75; Luigi Guicciardi, L’Unità e il romanzo d’appendice. Aspetti della politica culturale del PCI (1949-1955), in «Il Mulino», 5 (settembre-ottobre 1978), pp. 768-786. 82 Cfr. Italo Calvino, “Il muro” di Paul Sartre. “Bianco cavallo, bianco cavaliere” di Anna Porter, in «l’Unità», 12 gennaio 1947, p. 3. 83 Cfr. Spinazzola, Prefazione a Pischedda, Due modernità, cit., pp. 13-14. 78 79

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In questa insistita infrazione dell’autore alle indicazioni letterarie che andavano imponendosi e che di lì a poco, «a partire dal 1948», avrebbero dato luogo a una vera e propria «autarchia culturale», 84 si trova una significativa conferma dell’autonomia e dell’originalità della sua posizione intellettuale. Ma queste stesse infrazioni sono anche il segno di una personale avversione all’«intenzione», manifestatasi, ad esempio, in alcuni progetti del «Politecnico», «di innescare un meccanismo di educazione alla pratica e al gusto della lettura» nei nuovi lettori. 85 Da un lato c’è, in Calvino, la condivisione del principio umanistico secondo cui la letteratura, per essere veramente d’aiuto al lettore, deve, prima di tutto, spingerlo a una riflessione personale, a un colloquio intimo e approfondito con la pagina, senza che vincoli aprioristici di natura ideologica ne limitino la curiosità, oppure ne forzino l’interpretazione. L’esibita disobbedienza dell’autore alle coordinate politico-culturali che andavano imponendosi all’epoca della scrittura del Sentiero, si reggerebbe, quindi, sulla volontà di contestare l’opportunità stessa di quelle coordinate: Quanto a Capasso, tu mi dici che ha letto Marx, ma non di più. Bene, per essere marxista credo che importi fino a un certo punto avere letto poco o tanto. Quel che importa è l’atteggiamento, la mentalità, il saper impostare i problemi marxisticamente. E questo è frutto d’una sensibilità che si può acquistare in tanti modi: […] anche leggendo tutt’altri libri e interpretandoli da sé. 86

84 Se fino almeno a tutto il ’47 il discorso inclina verso una «significativa responsabilizzazione del pubblico», a partire dal 1848, invece, gli intellettuali sono «costretti ad una scelta» tra la proposta di una «cultura sovietica democratica e popolare» e una «mercificata di timbro americano» (Pischedda, Due modernità, cit., p. 87). 85 Ci si riferisce, in particolare, alla elaborazione nel «Politecnico», di una apposita rubrica intitolata La vostra biblioteca che, «oltre a fornire indicazioni bibliografiche», «dà contemporaneamente delle indicazioni su che cosa è la lettura, e sul senso ed il valore» di questa esperienza (cfr. Marina Zancan, Il progetto «Politecnico». Cronaca e strutture di una rivista, Venezia, Marsilio, 1984, pp. 180-181). Sulla storia e gli scopi prefissati da questa rivista cfr. anche Gian Carlo Ferretti, “Il Politecnico”, in Id., L’editore Vittorini, Torino, Einaudi, 1992, pp. 69-114. 86 Calvino, Lettera a Silvio Micheli, 29 luglio 1946, in Lettere, cit., pp. 162-164, la citazione a p. 163.

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Proprio questo, a ben guardare, è quanto dimostra l’esempio di Kim, intellettuale bolscevico cha va ragionando sul libro letto nella propria infanzia, e che attraverso il confronto con Kipling indaga sulle ragioni più intime delle proprie azioni. Ma analogamente si potrebbe dire lo stesso per Calvino che, scrivendo di Conrad, sottolinea come anche uno scrittore d’idee per nulla democratiche («tutt’altro. Fu fiero e dichiarato reazionario» 87 ) possa essersi guadagnato il suo spazio all’interno di un ipotetico «scaffale ideale», «accanto all’aereo Stevenson», ai «romanzieri analitici, psicologici, [come] James, e Proust», e ad altri molto dissimili ancora. 88 Tutto questo discorso ci riporta, quindi, nuovamente all’antintellettualismo dell’autore, al suo essere (come si è già accennato) letterato dalle preferenze variegate e mutevoli, aperto ai generi più eterogenei. E tuttavia, in questi stessi ragionamenti, così come, soprattutto, nelle immagini dei suoi primi personaggi lettori, potrebbe essere rintracciata la volontà di declinare, in ambito letterario, quell’opposizione «contro ogni forma di determinismo mortificante dell’individualità» che Milanini riconosce già pienamente espressa nei pensieri di Kim, riportati nel capitolo IX. 89 Come attraverso le parole di questo personaggio l’autore ci invita a riflettere sul fatto che tra la storia e «la testa degli uomini» c’è «un salto, una zona buia dove le ragioni collettive si fanno ragioni individuali», 90 così, attraverso l’immagine di Kim e degli altri personaggi, Calvino sembra avanzare l’ipotesi che tra gli indirizzi letterari di partito e le preferenze di lettura dei singoli lettori esista uno spettro di motivi individuali, in ragione dei quali spesso un lettore è soggetto imprevedibile e non governabile, che sceglie autonomamente a cosa appassionarsi, e poi decide, altrettanto indipendentemente, se trarne o no gli insegnamenti dovuti.

Id., Joseph Conrad scrittore poeta e uomo di mare, cit., p. 811. Id., I capitani di Conrad, in «l’Unità», 3 agosto 1954, poi in S-I, pp. 814-819, la citazione a p. 815. Pischedda avanza l’ipotesi che sia stato proprio Calvino a suggerire Conrad per una delle pubblicazioni dell’«Unità», scelta che risalta tra le altre per la mancanza di una «connotazione ideologica» (cfr. Pischedda, Le due modernità, cit., p. 75). 89 Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 21. 90 Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 100. 87

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4. I lettori borghesi nei racconti del ‘48 Estendendo l’indagine alla produzione narrativa (edita e inedita) immediatamente precedente e successiva al Sentiero, la comunità calviniana dei lettori risulta accresciuta di altri personaggi: nel dramma teatrale I fratelli di capo Nero, come già descritto, incontriamo la figura di Tito, giovane «contadino» 91 e accanito lettore. Nel racconto Un pomeriggio Adamo, scritto nel 1947, e poi confluito nella raccolta Ultimo viene il corvo, 92 il protagonista Libereso racconta: «alla domenica […], alla sera, mio padre legge forte dei libri di Eliseo Reclus», 93 episodio che confermerebbe l’ipotesi (già avanzata a proposito del Dritto) di una possibile diffusione della lettura orale tra i lettori di estrazione popolare. 94 Altri accenni sono presenti ancora nel racconId., I fratelli di Capo Nero, cit., p. 452. Id., Ultimo viene il corvo viene pubblicato (come il precedente Sentiero) nella collana «I coralli», Torino, Einaudi, 1949. Una ventina di racconti (19 per l’esattezza) confluiscono nella pubblicazione di I racconti, Torino, Einaudi, 1958. Segue una Nuova edizione di Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1969, in cui l’autore, oltre ad incrementare il volume con un ampio commento paratestuale, interviene sul corpus originario con l’espunzione di tre racconti scritti nel 1945 (Angoscia in caserma, La stessa cosa del sangue, Attesa della morte in un albergo) e con la separazione della “materia” in tre parti. Segue, infine, una 3° (e definitiva) edizione, Torino, Einaudi, 1976, in cui si ritorna al corpus e all’ordine della 1° edizione, ma con le varianti stilistiche e linguistiche adottate nelle successive (Cfr. Ultimo viene il corvo, Note e notizie sui testi, a cura di Bruno Falcetto, in R-I, pp. 1261-1305); seguono poi le edizioni Milano, Garzanti, 1988 e Milano, Mondadori, 1994 (in cui si riporta anche la Nota alla nuova edizione (1969) alle pp. VI-VIII). Per tutte le citazioni riportate nel testo si fa riferimento alla edizione di Ultimo viene il corvo inclusa in R-I, alle pp. 149-364. 93 Il padre, quindi, cerca di educare il figlio ai principi anarchicokropotkiani. Italo Calvino, Un pomeriggio, Adamo, scritto nel 1947, il racconto viene pubblicato per la prima volta in Ultimo viene il corvo, cit., pp. 151-161, la citazione a p. 158. Il personaggio di Libereso si ispira all’omonimo giardiniere di casa Calvino, le cui memorie sono state raccolte in una lunga intervista, importante anche per le informazioni sul periodo giovanile di Calvino, cfr. Libereso Guglielmi e Ippolito Pizzetti, Libereso, il giardiniere di Calvino, Padova, Franco Muzzio editore, 1993. 94 Un altro accenno ancora a questa forma di ricezione del testo è presente in un racconto del 1953 intitolato Il generale in biblioteca: «il soldato Tommasone leggeva a alta voce a un suo camerata analfabeta, e questi diceva il suo parere» (Italo Calvino, Il generale in biblioteca, pubblicato il 30 ottobre 1953 su «l’Unità» di Torino e, due giorni dopo, con piccole differen91

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to La stessa cosa del sangue, scritto nel 1945, 95 in cui compare «un operaio che aveva letto dei libri, un comunista», 96 e in cui si narra che uno dei due fratelli protagonisti, quando andava «per i campi» per nascondersi «nei torrenti se mai salisse la brigata nera», teneva sempre «in mano qualche libro». 97 In un gruppo di apologhi giovanili, scritti tra il ’43 e il ’45, inoltre, l’essere lettori è attributo esclusivo dei personaggi che si distinguono per profondità spirituale e morale: in La pecora nera si racconta che in «un paese dove erano tutti ladri» arriva un bel giorno «un uomo onesto» il quale «la notte, invece di uscirsene col sacco e la lanterna [per rubare nelle case dei suoi vicini] stava in casa a fumare e a leggere romanzi». 98 Ma anche in Come non fui Noè, del carismatico personaggio che gira «alla ricerca di un Noè», all’inizio è detto che «teneva in una mano un libro, chiuso con un dito dentro, come per tenere il segno». 99 In tutti i casi citati, si tratta di brevi accenni, da cui non è possibile ricavare riflessioni sul tema della lettura paragonabili a quelle desunte dal Sentiero. E tuttavia, nel loro insieme, i personaggi lettori inclusi nelle opere scritte tra il 1943 e il 1947, dimostrano la continuità di due elementi già rilevati: in primis l’idea che la lettura sia un’attività capace di sedurre democraticamente le più differenti categorie di lettori (contadini, studenti, operai), e poi che rappresenti un’occupazione sempre vantaggiosa o per il piacere che procura o (come accade più spesso nei racconti giovanili), per la ricchezza morale e gnoseologica che ze testuali, nelle edizioni milanese e genovese. Il racconto viene poi riproposto in Prima che tu dica “Pronto”, Milano, Mondadori, 1993, infine in RIII, alle pp. 935-946, da cui la citazione a p. 938). 95 Id., La stessa cosa del sangue, in Ultimo viene il corvo, cit., pp. 221-227. 96 Ivi, p. 223. 97 Ivi, p. 224. 98 Id., La pecora nera, scritto nel ’44, edito per la prima volta in Prima che tu dica “Pronto”, cit., poi riproposto nella sezione «Racconti giovanili» in R-III, alle pp. 767-830 (la sezione), e pp. 821-822 (il racconto), da cui la citazione a p. 821. 99 Id., Come non fui Noè (buono a nulla), in R-III, pp. 826-830, la citazione a p. 826. Sui «Racconti giovanili» cfr. Fabio Pierangeli, Italo Calvino. La metamorfosi e l’idea del nulla, Soveria Mannelli, Rubettino, 1997, in particolare pp. 127-132; Angela M. Jeannet, Under the Radiant Sun and the Crescent Moon. Italo Calvino's Storytelling, Toronto, University of Toronto Press, 2000; Martin L. McLaughlin, The apprentice artisan: the early short stories, in Id., Italo Calvino, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1998, pp. 1-18.

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da essa deriva: «per me, ogni libro che leggo è come un occhio nuovo che s’apre in testa e modifica la vista anche degli altri», spiega il giovane Tito. 100 L’analisi sulla lettura confermerebbe quindi, quella circolarità di temi e d’ispirazione narrativa tra il Sentiero e i racconti del Corvo scritti entro il 1947, già rilevata da vari critici come Falaschi, Milanini e Falcetto, attraverso analisi rivolte ad altri aspetti dell’opera dell’autore. 101 Ma dal 1948 (o, più precisamente, dalla fine del 1947) le caratteristiche dei personaggi-lettori presenti nei racconti e nei romanzi di Calvino, subiscono un cambiamento: proprio la lettura che era stata, fino a quel momento, un’attività interclassista e democratica, ora, invece, diventa appannaggio quasi esclusivo della classe borghese. Così è, ad esempio, nei racconti I figli poltroni, 102 Pranzo con un pastore 103 e Il giardino incantato, 104 confluiti nella raccolta Ultimo viene il corvo, e così di nuovo in

Calvino, I fratelli di Capo Nero, cit., p. 452. Cfr. Falaschi, Italo Calvino, in Id., La resistenza armata nella narrativa italiana, cit., p. 96-151; Claudio Milanini, Calvino e la Resistenza: l’identità in gioco, in Andrea Bianchini e Francesca Lolli (a cura di), Letteratura e Resistenza, Atti del convegno di studi svoltosi a Fano il 26-27 maggio 1995, Bologna, CLUEB, 1997, pp. 173-191, in particolare p. 180; Bruno Falcetto, «Io ai racconti tengo più che a qualsiasi romanzo possa scrivere». Sull’elaborazione di “Ultimo viene il corvo”, in «Chroniques Italiennes», XXI (2005), n. 75-76, pp. 97-133, in particolare p. 107 (numero monografico dedicato a Calvino e intitolato Italo Calvino. Le mots, les idées, les rêves, a cura di Denis Ferraris e Mario Fusco). Per un approfondimento ulteriore sul rapporto tra il Sentiero e i racconti del Corvo cfr., inoltre, Roberto Bertoni, Tra Pin e Libereso, in Id., Int'abrigu int'ubagu. Discorso su alcuni aspetti dell'opera di Italo Calvino, Torino, Tirrenia Stampatori, 1993, pp. 9-56; Andrea Dini, Il Premio Nazionale “Riccione”, cit., in particolare si rimanda alle pp. 217-262. 102 Secondo una indicazione contenuta in una lettera di Calvino a Giansiro Ferrata la stesura di questo racconto dovrebbe risalire al dicembre del 1947 (cfr. Calvino, Lettere, cit., p. 207). Il racconto viene pubblicato su «l’Unità» di Torino, l’8 gennaio 1948, con il titolo I figli poltroni, poi, il 22 gennaio 1948, su «l’Unità» di Milano, con il titolo I fratelli poltroni. Il racconto confluisce, con il titolo definitivo I figli poltroni, nella racconta Ultimo viene il corvo, cit., pp. 198-203. 103 Id., Pranzo con un pastore, in «l’Unità» di Torino, 15 settembre 1948, poi confluito nella raccolta Ultimo viene il corvo, cit., pp. 204-211. 104 Id., Il giardino incantato, in «l’Unità» di Torino, 1° febbraio 1948, poi confluito in Ultimo viene il corvo, cit., pp. 168-172. 100 101

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Voglia di mare, 105 (scritto nello stesso 1948, ma poi rimasto inedito) e nel romanzo I giovani del Po. 106 L’unica eccezione è rappresentata dalla lettrice del racconto Il gatto e il poliziotto, 107 di cui si tornerà a parlare. Nel racconto Pranzo con un pastore, ad esempio, Pietro, figlio di una famiglia benestante di proprietari terrieri, racconta un pranzo cui è invitato anche un giovane pastore, appena assunto dal padre. Vergognandosi per le inopportune osservazioni dei genitori, il protagonista si rifugia, più volte, nella lettura di un giornale ora per difendere se stesso («Nascosto dietro il giornale, io aspettavo servissero in tavola» 108 ), ora per tentare di alleviare l’imbarazzo del giovane pastore («Io volevo stornare il discorso da lui, proteggerlo. Perciò lessi una notizia sul giornale» 109 ). L’abitudine alla lettura compare, inoltre, in diversi luoghi del testo a contraddistinguere i membri della famiglia di Pietro, e a rimarcare la distanza tra questi e l’incolto, rozzo e soprattutto povero pastore: Soffrivo di questo paragonare me e lui, lui che doveva guardare le capre altrui per vivere, e puzzare di ariete, ed era forte da abbattere le querce, e io che vivevo sulle sedie a sdraio, accanto alla radio leggendo libretti d’opera, che presto sarei andato all’università, e non volevo mettermi la flanella sulla pelle perché mi faceva prudere la schiena. Le cose ch’erano mancate a me per esser lui, e quelle che eran mancate a lui per essere me, io le sentivo allora come un’ingiustizia, che faceva me e lui due esseri incompleti che si nascondevano, diffidenti e vergognosi, dietro quella zuppiera di minestra. 110

Altrettanto incisiva è la caratterizzazione della nonna di Pietro, la quale, esprimendosi «in italiano come stesse leggendo un 105 Id., Voglia di mare, in «l’Unità» di Torino, 16 ottobre 1948, poi ripubblicato con il titolo La piazza degli acrobati, nell’edizione romana del mese successivo, infine in R-III, pp. 858-860. 106 Id., I giovani del Po, scritto tra il gennaio 1950 e il luglio 1951, pubblicato a puntate in Appendice sulla rivista «Officina», tra il 1957 e il 1958: n. 8, pp. 331-338; n. 9-10, pp. 398-414; n. 11, pp. 463-474; n. 12, pp. 538552, infine in R-III, pp. 1011-1126. 107 Id., Armi nascoste, in «l’Unità» di Torino, 28 agosto 1948, poi con il titolo Il gatto e il poliziotto in Ultimo viene il corvo, cit., pp. 352-358. 108 Id., Pranzo con un pastore, cit., p. 205. 109 Ibidem. 110 Ivi, p. 208-209.

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libro», si presenta agli occhi del pastore «tutta diversa dalle immagini di vecchiezza da lui incontrate», 111 o, come puntualizzato nella variante del testo inclusa nella prima edizione del ’49, «così diversa dalle altre immagini di vecchiezza da lui incontrate, che forse pensava di trovarsi di fronte ad una nuova specie umana». 112 Così, nel racconto Il giardino incantato, l’attività della lettura cui si dedica il ragazzo «pallido» e ricco (che «doveva essere il padrone della villa e del giardino, lui fortunato» 113 ), tende ad allontanarlo dagli altri due personaggi, Giovannino e Serenella, che scorrazzano liberi e felici, sempre in cerca di nuove avventure: era seduto su una sedia e sfogliava un grosso libro con figure. Aveva mani sottili e bianche e un pigiama accollato benché fosse estate. Ora, ai due bambini, spiandolo tra le stecche, si spegneva a poco a poco il batticuore. Infatti quel ragazzo ricco sembrava sedesse e sfogliasse quelle pagine e si guardasse intorno con più ansia e disagio di loro. E s’alzasse in punta di piedi come se temesse che qualcuno, di momento in momento, potesse venire a scacciarlo, come se sentisse che quel libro, quella sedia a sdraio, quelle farfalle incorniciate ai muri e il giardino coi giochi e le merende e le piscine e i viali, erano concessi a lui solo per un enorme sbaglio, e lui fosse impossibilitato a goderne, ma solo provasse su di sé l’amarezza di quello sbaglio, come una sua colpa. 114

Da questo brano risulta evidente come la lettura e il possesso dei libri diventino ora simboli dello squilibrio tra le parti sociali. Analoga funzione è svolta della lettura anche in un brano del romanzo I giovani del Po. Il personaggio lettore, in quest’ultimo caso, è rappresentato dalla bella, ricca e imprevedibile Giovanna, di cui si innamora l’operaio sindacalista Nino. Questi, recatosi un pomeriggio a casa della ragazza, la trova intenta nella lettura: Giovanna era seduta in pigiama azzurro su una sedia sdraio con un libro sulle ginocchia. E alzò una mano e Nino avanzò la sua, e come un baratro profondissimo li dividesse si strinsero la mano, e quel gesto,

Ivi, p. 206-207. Cfr. Falcetto, Ultimo viene il corvo. Note e notizie sui testi, cit., p. 1282. 113 Id., Il giardino incantato, cit., p. 171. 114 Ivi. 111

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così inadeguato a esprimere ciò che Nino sentiva, bastò a tenergliela lontana, smentendo quell’apparente vicinanza fisica. 115

Dagli esempi riportati risulta evidente come non soltanto l’autore, a partire dal 1948, associ l’atto della lettura ai personaggi di estrazione sociale borghese, ma come egli sfrutti intenzionalmente questo binomio (lettura-borghesia) a dimostrazione della distanza e delle ingiustizie che permangono tra le classi sociali. 116 Questo cambiamento nella caratterizzazione dei personaggi lettori e nella funzione accordata dall’autore alla lettura all’interno delle narrazioni, va evidentemente messo in relazione ai profondi mutamenti storici e politici che caratterizzarono quel momento: se il biennio ’45-’47 aveva rappresentato una «straordinaria contingenza storica, in cui, per un attimo, esigenze di riscatto nazionale e di ammodernamento sociale, spinta popolare di base, attivazione intellettuale e stimolo offerto dai partiti marxisti, sembrarono coincidere», 117 il periodo immediatamente successivo risulta, viceversa, contraddistinto da una generale involuzione nelle condizioni politiche e culturali del paese. Limitiamoci a rievocare, ad esempio, la disgregazione delle forze antifasciste dopo il varo della Costituzione nel dicembre del 1947, e la sconfitta delle sinistre nelle elezioni dell’anno successivo (aprile 1948). In realtà non era che l’inizio di quei dieci inverni di cui parla Fortini: 118 anni bui segnati dalla guerra fredda, dallo stalinismo e dal maccartismo, e, più in generale, dal progressivo allontanamento della società dalle aspirazioni civili e culturali che avevano contraddistinto l’immediato dopoguerra. A proposito di questi anni Calvino scrive: Era la musica delle cose che era cambiata: la vita sbandata del periodo partigiano e del dopoguerra s’allontanava nel tempo, non s’inId., I giovani del Po, cit., p. 1097. Per un approfondimento circa il tema dei conflitti di classe nella narrativa calviniana di questo periodo si rimanda a Bertoni, Int'abigu int'ubagu, cit., pp. 81 e sgg.; Bruno Ferraro, “La collana della regina” e la cittàfabbrica in alcune opere di Italo Calvino negli anni Cinquanta e Sessanta, in «Critica letteraria», XXII (1994), n. 85, pp. 703-713, in particolare pp. 704-705. 117 Cfr. Pischedda, Le due modernità, cit., p. 56. 118 Cfr. Franco Fortini, Dieci inverni 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957, poi Bari, De Donato, 1973. 115

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contravano più tutti quei tipi strani che ti raccontavano storie eccezionali, o magari s’incontravano ancora, ma non veniva più da identificarsi in loro e nelle loro storie. La realtà entrava in binari diversi, esteriormente più normali, diventava istituzionale; le classi popolari era difficile vederle se non attraverso le loro istituzioni; e anch’io ero entrato a far parte d’una categoria regolare: quella del personale intellettuale delle grandi città, in abito grigio e camicia bianca. 119

Nella riflessione di Calvino è possibile distinguere due generi di problemi. A preoccupare l’autore c’è, prima di tutto, il progressivo allontanamento (anche fisico) tra intellettuali e popolo: se «il contesto storico-culturale (la guerra, la Resistenza e i loro effetti sulla mentalità collettiva, sugli intellettuali e sulla gente comune) […] rende visibile e più vicino un nuovo pubblico», 120 ora, invece, studenti e letterati si ritrovano isolati nelle loro torri eburne, fatte di abiti grigi e camice bianche. Da questo sembra derivare poi un’ulteriore problematica, più direttamente connessa all’istanza estetica: denunciando la sopraggiunta impossibilità di «identificarsi» nelle classi popolari, lo scrittore allude evidentemente anche alla difficoltà di proiettare le «loro storie» entro la finzione narrativa, da cui il diradamento dei personaggi lettori di estrazione proletaria qui rilevato. È bene precisare che l’involuzione del contesto storico e politico della società italiana, non sembra influenzare l’idea in sé della lettura: a riprova di ciò basta guardare come Calvino saggista e editore continui, anche dopo il ’48, ad entusiasmarsi e a cooperare per quei progetti che promettono di porre il libro a portata di un più vasto pubblico: «finalmente risorgono in Italia le edizioni popolari!», 121 scrive quando Einaudi crea nel ’49 la «Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria», iniziativa che lo vedrà direttamente impegnato per la sezione letteraria. Analogamente a proposito di una mostra ungherese a Torino, nel ’48, egli dichiara: «a me personalmente, la cosa che ha più entusiasmato è che a Budapest sono state istituite delle biblioteche cir119 Id., Nota all’edizione del 1960 dei Nostri antenati, Torino, Einaudi, 1960, poi in Prefazioni e note d’autore, col titolo Postfazione ai Nostri antenati, in R-I, pp. 1208-1219, p. 1209. 120 Bruno Falcetto, Neorealismo e scrittura documentaria, in Letteratura e Resistenza, cit., pp. 43-58, la citazione a p. 45. 121 Cfr. Calvino, articolo su «l’Unità», 22 giugno, 1949, citato da Dulac, Italo Calvino: primi discorsi, cit., p. 10.

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colanti sulle vetture tranviarie per i passeggeri che han da fare tragitti lunghi». 122 Se quindi anche dopo il ’48, Calvino certo apprezza lettori come il Dritto e come Zena il Lungo, egli, però, trova ora difficile trasporli sulla pagina scritta: finché la società letteraria fu pervasa dalla speranza che fosse soprattutto «il domani, non il passato a contare veramente», 123 anche «il vecchio scrittore individualista» (come si descrive Calvino) aveva potuto riconoscersi parte del «popolo che lottava» (esteriorizzandosi «in simboli di interesse attuale e collettivo»), 124 e proiettare nel suo primo romanzo e nei racconti coevi l’immagine di numerosi personaggi lettori capaci di superare ogni ostacolo (sia economico sia culturale), e rischiare (come Tito) in prima persona, per godere il piacere della lettura. Ma nel momento in cui finisce l’«illusione d’una continuità della spinta pratica e ideale della resistenza per il rinnovamento sociale dell’Italia», 125 Calvino avverte sempre di più il disagio irriducibile della sua nascita borghese e della sua «solitaria e chiusa fanciullezza di ragazzo» benestante, 126 che certo si riflette in molti dei giovani protagonisti dei racconti citati.

122 Cfr. Id., Dopo un secolo l’Ungheria è tornata la terra di Petöfi, in «l’Unità», 6 giugno 1948, p. 3. 123 Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 22. 124 Italo Calvino, Abbiamo vinto in molti, in «l’Unità» di Genova, 5 gennaio 1947, poi in S-I, pp. 1476-1479, la citazione a p. 1478. Si ricorda che su questo stesso problema ritorna varie volte anche Pavese, cfr. La letteratura americana, cit., p. 226 e p. 237. Sul rapporto scrittori e popolo, nella letteratura della Resistenza e in quella immediatamente successiva, si rimanda al saggio di Alberto Asor Rosa, La Resistenza e il gramscianesimo: apogeo e crisi del populismo, in Id., Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura contemporanea, Roma, Samonà e Savelli, 1965, poi Torino, Einaudi, 1988, cui si rimanda alle pp. 128-130. Per quanto concerne, più specificatamente, il rapporto di identificazione col popolo da parte di Calvino, cfr. Dini, Il Premio Nazionale “Riccione”, cit., pp. 229 e sgg. 125 Falaschi, La resistenza armata nella narrativa italiana, cit., pp. 3-4. 126 Confrontando la propria infanzia con quella dello scrittore Venturi, Calvino scrive: «Venturi (a quanto credo) ha conosciuto fin da ragazzo lo stimolo dell’indigenza e l’aspirazione di riscatto delle classi sfruttate; mentre io ho avuto una solitaria e chiusa fanciullezza di ragazzo borghese e solo più adulto, spinto da un indeterminato anticonformismo che ha sempre accompagnato la mia formazione culturale individualistica, mi sono riconosciuto nel popolo che lottava e ho deciso di lottare in mezzo ad esso» (Calvino, Abbiamo vinto in molti, cit., p. 1478).

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L’autobiografismo, evidente in racconti come I figli poltroni e Pranzo con un pastore e già rilevato da numerosi critici, 127 serpeggia, in realtà, in molti dei personaggi lettori borghesi di questo periodo, la maggior parte dei quali, non a caso, sono pervasi da un senso di colpa per la loro situazione privilegiata e, al contempo, sono frustrati dalla mancanza di vitalismo, libertà e forza (non solo fisica ma anche morale), che invece appartengono ai coetanei proletari. 5. L’influenza di Sartre Se il complesso delle trasformazioni sopra descritte giustifica il diradamento dei personaggi lettori di estrazione popolare, esso non spiega perché la lettura abbia perso le sue proprietà, sia in termini di piacere, di divertissement, sia in termini formativi. Ai brani prima illustrati, si aggiunga, ad esempio, quelli tratti dal racconto I figli poltroni, all’interno del quale l’attività della lettura è tratteggiata come l’inutile passatempo di uno svogliato ragazzo borghese: 127 Sull’autobiografismo di questi racconti si rimanda alle riflessioni di Cristina Benussi: «Non voglio azzardare nessuna ipotesi interpretativa psicoanalitica, ma certo è difficile restare indifferenti davanti alle dichiarazioni palesi di insofferenza verso questo vincolo biologico-affettivo» con la famiglia borghese (Cristina Benussi, Introduzione a Calvino, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 63); sulla radice autobiografica di questi racconti cfr., Milanini, Calvino e la Resistenza: l’identità in gioco, cit. Lo stesso critico rileva, inoltre, come l’autobiografismo di questi racconti risalti soprattutto nella edizione di I racconti: «chi legge I figli poltroni sfogliando I racconti, è indotto a cogliervi uno spessore autobiografico che rimane nascosto all’acquirente di Ultimo viene il corvo» (Claudio Milanini, Introduzione, in R-I, pp. XXXV-LIX, in particolare p. XL). Nella edizione dei Racconti del 1958, infatti, l’autore inserisce entrambi i racconti (I figli poltroni e Pranzo con un pastore) nella sezione intitolata Le memorie difficili, e poi, nella successiva edizione di Ultimo viene il corvo del 1969, nella Parte terza, a proposito della quale lo stesso Calvino parla di un «personale sviluppo d’una “letteratura della memoria”» (Calvino, Nota alla nuova edizione, cit., p. 1263). Un’altra prova dell’autobiografismo di questi personaggi può essere individuata, infine, nelle numerose e precise corrispondenze testuali tra questi e i testi dichiaratamente autobiografici dell’autore e, in particolare, tra I figli poltroni e La strada di San Giovanni (pubblicato nell’omonimo volume a cura di Ester Calvino, Milano, Mondadori, 1990, poi in R-III, pp. 7-27).

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Al mattino di solito non esco, resto a girare per i corridoi con le mani in tasca, o riordino la biblioteca. Da tempo non compro più libri: ci vorrebbero troppi soldi e poi ho lasciato perdere troppe cose che m’interessavano e se mi ci rimettessi vorrei leggere tutto e non ne ho voglia. Ma continuo a riordinare quei pochi libri che ho nello scaffale: italiani, francesi, inglesi, o per argomento: storia, filosofia, romanzi, oppure tutti quelli rilegati insieme, e le belle edizioni, e quelli malandati da una parte. 128

«Dopo cena», infine, sdraiato sul divano, leggo certi lunghi romanzi tradotti che mi imprestano: spesso nel leggere perdo il filo e non riesco mai a venire a capo. 129

In modo non dissimile, nel racconto Voglia di mare, la predilezione per la lettura del protagonista, da un lato, accentua il suo isolamento di ragazzo borghese che, anziché scendere a giocare sulla piazza insieme agli altri bambini del quartiere, passa «alla finestra i pomeriggi […] a studiare lezioni o a legger libri», 130 dall’altro, però, rappresenta un’attività che non riesce a soddisfare appieno la fervida fantasia del piccolo lettore: Di rado Nino scendeva a giocare sulla piazza: sia perché i genitori glielo proibivano, sia per quella sua natura gracile e ritrosa che gli faceva preferire ai rissosi giochi della piazza una vita annoiata di gatto casalingo, in quel mezzanino dal basso soffitto, la lettura a gomiti puntati sul basso davanzale, di libri cui non bastavano le illustrazioni ogni quinterno a suggerire l’impensabile novità degli oggetti narrati. 131

Se è vero che i personaggi di questo periodo sono immersi in uno stato di apatia e di torpore, è altrettanto evidente, però, come questi aspetti non derivino dall’essere lettori, ma da una loro attitudine intrinseca, aggravata, semmai, dalla noia e dall’isolamento, indotti della loro condizione sociale privilegiaCalvino, I figli poltroni, cit., p. 201. Ivi, p. 202. 130 Id., Voglia di mare, cit., p. 858. 131 Ibidem. Sulla funzione della lettura in questo racconto, Ferretti ha opportunamente rilevato: «qui Calvino sembra impostare con grande anticipo quel discorso sul ruolo fondamentale del lettore, sulla potenza del suo “bisogno-piacere”, sulla sua insoddisfazione verso il libro che c’è e la conseguente capacità di leggere una certa realtà come un libro che ancora non c’è» (Ferretti, Le avventure del lettore, cit., p. 49). 128 129

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ta. Con ciò si vorrebbe sottolineare che nella correlazione lettura – borghesia, è il secondo termine a prevalere sul primo, inficiandone all’origine ogni possibilità costruttiva e riversandovi il «peso di tutte le sue impotenze e di tutti i suoi isterismi». 132 A prova di ciò si può verificare come in tutti gli esempi di questo periodo, i libri su cui si appunta l’attenzione dei personaggi rimangono rigorosamente anonimi, come se l’autore intendesse scagionare l’oggetto libro e, più in generale, la letteratura da ogni responsabilità relativa. Il discorso ci riporta alla riflessioni di Sartre, espresse sulle pagine di «Temps Modernes» (rivista che, ricordiamo, ebbe frequenti rapporti con il «Politecnico» di Vittorini 133 ), e, in particolare, al rapporto, analizzato dal critico, tra lavoro letterario e identità sociale del pubblico di riferimento. Ora, uno degli obiettivi capitali della comunità letteraria dovrebbe essere, secondo Sartre, quello di allargare «il pubblico reale fino ai confini del pubblico potenziale», 134 ovvero oltrepassare i limiti sociali ed economici del pubblico abituale della letteratura per includervi anche «le classi oppresse» che «non hanno né amore né tempo libero per la lettura». 135 Solo in questo caso, infatti, è possibile che gli scrittori operino fattivamente per il cambiamento della società; solo tendendo a un pubblico «universale» ed eteroge132 Italo Calvino, Adesso viene Micheli l’uomo di massa, in «l’Unità», 12 maggio 1946, poi con il titolo Silvio Micheli, Pane duro, in S-I, pp. 11701175, la citazione a p. 1171. 133 Circa la diffusione delle idee di Sartre nel dibattito italiano valga la testimonianza dello stesso Calvino: «nei primi anni del dopoguerra “Il Politecnico” e “Les Temps Modernes” hanno corso parallelo» (Id., Progettazione e letteratura, in «Il menabò di letteratura» n. 10, Torino, Einaudi, 1967, poi con il titolo Vittorini: progettazione e letteratura, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino, Einaudi, 1980, infine in S-I, pp. 160-187, la citazione a p. 181). Cfr., inoltre, Anna Maria Cittadini Cipri, Italia e Francia nel secondo dopoguerra. Il caso Vittorini-Sartre, Milano, Giuffrè, 1984; Laura Piccioni, Engagement – nuova cultura – zivilisation: Les temps modernes, Il politecnico, Die umschau (1945-1948), in «Allegoria», V (1993), n. 13, pp. 163-175; Anna Boschetti, La genesi delle poetiche e dei canoni. Esempi italiani (1945-1970), in «Allegoria», XIX (2007), n. 55, pp. 42-85, in particolare pp. 44-67. 134 Jean-Paul Sartre, Qu’est-ce que la littérature?, in «Temps Modernes», XVII-XXII febbraio-luglio 1947, poi con il titolo Situations I, II, III, IV, Paris, Gallimard, 1947, tradotto in italiano Che cos’è la letteratura?, in Id., Che cos’è la letteratura?, Milano, il Saggiatore, [1960] nuova edizione aumentata 1966, pp. 11-121, da cui è tratta la cit. a p. 62. 135 Ibidem.

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neo è possibile che la parola dell’autore raggiunga trasversalmente le varie coscienze, che sveli «il mondo e, in particolare, l’uomo agli altri uomini, perché questi assumano di fronte all’oggetto così messo a nudo tutta la loro responsabilità». 136 Quando invece, come nelle circostanze rappresentate da Calvino, la circolazione del libro si inscrive in un perimetro obbligato, in cui ad accedere alla scrittura sono esclusivamente gli intellettuali e a fruirne sono esclusivamente i borghesi, non solo cessa ogni possibilità di contributo attivo per lo scrittore nella realtà, ma la stessa letteratura diventa un’occupazione improduttiva. «Finché uno stabile legame tra masse e “produttori di cultura” non s’organizza», scrive Calvino, «finché i libri non saranno discussi nelle fabbriche e nelle fattorie», 137 la letteratura continuerà ad essere, come è in questi racconti, un passatempo privo di significato. Questa particolare attenzione che Calvino rivolge all’indagine della fisionomia sociale e culturale del pubblico dei lettori, posta in diretto rapporto alle possibilità di “azione” della letteratura, certo risente anche delle riflessioni gramsciane. 138 L’esempio di Calvino, quindi, sotto questo punto di vista, dimostrerebbe come la sociologia della letteratura, prima che come scienza, nasce in Italia come attenzione pratica e pragmatica alle dinamiche culturali in atto nella società, da cui i letterati sentono dipendere la possibilità stessa di un loro contributo attivo. 139 Ivi, p. 23. Italo Calvino, Saremo come Omero!, in «Rinascita», V (dicembre 1948), n. 12, poi in S-I, pp. 1483-1487, la citazione a p. 1487. 138 Sulla centralità del pubblico nelle riflessioni gramsciane si rimanda alle riflessioni di Andrea Menetti, La critica letteraria di Antonio Gramsci come “situazione spirituale del tempo”, in Antonio Gramsci, Il lettore in catene. La critica letteraria nei “Quaderni”, Roma, Carocci, 2004, pp. 953. 139 Più in generale Battistini rileva: «la sensibilità alla cosiddetta estetica della ricezione si è acuita dagli anni Settanta in poi grazie ai contributi di Jauss e della scuola di Costanza, ma se queste acquisizioni segnano un indubbio progresso in fatto di consapevolezza teorica intorno al ruolo del lettore e della sua “cooperazione interpretativa”, non sono certo una novità sul piano più empirico di una sociologia della letteratura che proprio la Resistenza, con la sua estensione alle classi subalterne, aveva contribuito a fondare. Non a caso erano i problemi agitati da Gramsci nei Quaderni del carcere, la cui pubblicazione all’indomani della guerra creò un caso letterario vissuto in primo luogo dal loro editore, Einaudi» (Andrea Battistini, Introduzione a Letteratura e Resistenza, cit., pp. 7-24, la citazione a p. 11). 136 137

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Come si sarà notato, quindi, i personaggi lettori degli anni ’48-50, risentendo più da vicino dei dibattiti critici coevi, mitigano, in parte, l’anticonformismo dell’autore, molto più accentuato invece nel Sentiero. Interessante rivelare, a questo proposito, come la polemica contro la letteratura d’evasione, irrisa nel Sentiero attraverso la figura di Zena il Lungo lettore dei Supergialli mondadoriani, in seguito parrebbe essere stata condivisa dallo stesso Calvino. Indicativo, a questo proposito, è il racconto Il gatto e il poliziotto, in cui si narra di un rastrellamento effettuato dalla polizia in un quartiere operaio alla ricerca di armi che si ritiene siano state ivi nascoste. La scena finale, dove compare la lettrice, è abilmente orchestrata dal narratore attraverso un ironico gioco di malintesi: «– non un passo in più, – disse una voce, – sei sotto il tiro della mia pistola-, legge ad alta voce la ragazza su di «un giornale tutto fatto di figure e di poche frasi in stampatello». 140 Ma a queste parole, il poliziotto incaricato della perquisizione immediatamente si preoccupa: «– pistola? – disse Baravino e le prese un polso come per aprirle il pugno». La ragazza indifferente a ciò che le accade intorno, continua imperterrita nella sua lettura: – Volete le mie perle, Sir Enrico? – compitava ostinata quella intasata voce. – No voglio te, Mary. A un alzarsi di vento Baravino vide contro di sé quella intricata distesa di cemento e ferro; da mille nascondigli l’istrice rialzava i suoi aculei. Era solo in terra nemica, ormai. – Ho la ricchezza e l’eleganza, abito in un lussuoso palazzo, ho la servitù e gioielli, cosa posso chiedere di più dalla vita? – Proseguiva la ragazza con i neri capelli che le piovevano sul foglio istoriato di donne serpigne e uomini dal lucido sorriso. 141

Come si può ben vedere, nel tratteggiare questa scena, il narratore interviene con severità ora a rimarcare l’«ostinata» compitazione della ragazza ora a puntualizzare come «il foglio» che è oggetto della sua lettura, la proietti in una realtà affettata, «istoriata di donne serpigne e uomini dal lucido sorriso», vale a dire abitata da personaggi ingannevoli. Nella medesima scena, inoltre, sono messe in risalto alcune contraddizioni: da una par140 141

Calvino, Il gatto e il poliziotto, cit., p. 357. Ivi, p. 358.

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te c’è il mondo (eccessivamente) dorato della finzione, dall’altra c’è la povertà, l’abbruttimento estetico del quartiere in cui la ragazza vive. E ancora: nel rimarcare la imperturbabilità ed estraneità della ragazza alla realtà extra-letteraria, l’autore intende certo colpire anche quel genere di letteratura di evasione (come, appunto, i vituperati romanzi a fumetti) contro cui si stava scagliando, in quello stesso periodo, la maggior parte degli intellettuali di ispirazione democratica. 142 Se, insomma, la lettrice dai «lunghi capelli» parrebbe rievocare, sotto certi aspetti, personaggi come Zena il Lungo, il Dritto e altri analoghi ancora, tuttavia, in questo caso, questa stessa figura denuncia, per la prima volta, anche i rischi insiti in una dimensione ricettiva che si accontenti della pura evasione. L’originaria ammirazione dell’autore per la lettura totalizzante dei personaggi popolari, negli anni ’48-’50, ha già lasciato spazio, quindi, all’emergere di preoccupazioni di ordine pedagogico e, più in particolare, a un’interrogazione circa il rapporto tra i modelli letterari, i modelli di fruizione e l’identità socioculturale del pubblico dei lettori. A conclusione delle riflessioni fin qui condotte circa i primi personaggi lettori dell’opera calviniana, desumiamo allora che Calvino, pur partecipando al dibattito coevo (in modo più o meno eterodosso, secondo i momenti), si sottrae al didattismo e alla esemplificazione normativa. Anche quando i suoi personaggi risentono più da vicino delle istanze culturali coeve, essi egualmente rifiutano la possibilità di porsi come modelli pedagogici, laddove, esaurito lo slancio d’immedesimazione nel popolo, l’autore, estraneo ai facili ottimismi e a un’arte falsata da meccaniche didascaliche, raccoglie dal dibattito del suo tempo le riflessioni più severe e rigorose, declinandole in personaggi lettori in cui si esercita la sua «abitudine» critica e «autocritica». 143 Da ciò anche la conferma dell’ipotesi secondo la quale i «momenti» di maggiori «sollecitazioni esterne, storiche» avrebbero imposto all’autore «un ri-

142 Su questo aspetto si rimanda, ancora una volta, al saggio di Pischedda, Le due modernità, cit., in particolare pp. 22 e 48. 143 Calvino, Abbiamo vinto in molti, cit., p. 1477.

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cominciamento anche personale, che esige di partire da un’autoanalisi». 144 È proprio il caso di dire che tempi duri attendono il “lettore” calviniano alle soglie del 1950, addentrandoci nei quali sarebbe ben difficile immaginare che il futuro abbia in serbo per lui un matrimonio e il lieto fine.

144 Massimo Schilirò, Le memorie difficili. Saggio su Italo Calvino, Catania, C.U.E.C.M, 2002, p. 29. Sui caratteri del’autobiografismo calviniano cfr., inoltre, Mario Barenghi, Per non contrabbandare elegie: aspetti dell’autobiografismo calviniano, in Paolo Grossi e Silvia Fabrizio-Costa (a cura di), Italo Calvino, le défi au labyrinthe (Actes de la Journée d’études de Caen, le 8 mars 1997), Caen, Presses Universitaires de Caen, 1998, pp. 15-43, ora in Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., pp. 84-98; Laura Di Nicola, Autobiografismi e autobiografie di Italo Calvino. Percorsi critici, in «Bollettino di Italianistica», I (2004), n. 1, pp. 162-178.

II LA LETTURA NELLA TRILOGIA FIABESCA

Premessa Nel periodo compreso tra la scrittura di Il visconte dimezzato e La giornata d’uno scrutatore (1951-1963), si individua la più alta densità di personaggi-lettori dell’intera produzione di Calvino. Dall’appassionato lettore Gian dei Brughi, brigante assassino nell’era dei “lumi”, sino a Quinto e Amerigo, intellettuali in crisi del secolo XX, si ricava l’idea che la lettura sia, in questi anni, un tema e un problema nevralgici per l’autore. Trattandosi di un percorso articolato e per niente lineare, si è preferito organizzare l’esposizione dei materiali raccolti non secondo l’ordine cronologico, privilegiato nel capitolo precedente, ma seguendone uno tematico e concettuale: in primis saranno quindi introdotti i personaggi lettori presenti nella trilogia araldico-fiabesca (o, più precisamente, nel Visconte e nel Barone rampante), 1 e poi, a seguire, quelli inclusi nei romanzi realistici e nei racconti coevi. 1 Il romanzo Il cavaliere inesistente, privo di personaggi lettori, presenta invece la figura di suor Teodora, personaggio scrittore. Sull’attenzione nel Cavaliere alla problematica della scrittura, già Calvino si era espresso nella lettera ad Antonella Santacroce, del 7 ottobre 1963 (in Lettere, cit., pp. 753-755, in particolare cfr. pp. 754); sulla presenza del tema della scrittura e dei personaggi scrittori nell’opera di Calvino in generale e nel Cavaliere inesistente in particolare, si rimanda a Hanna Flieger, Il rapporto scrittura/vita, in Il rapporto varianti/costanti nella poetica di Italo Calvino: modalità attanziali e implicazioni culturali, Poznan-Torun, Edytor, 1994, p. 41-46; Marco Belpoliti, Il foglio e il mondo. Calvino, lo spazio e la scrittura, I parte in «Nuova Corrente», XL (1993), n. 112, pp. 355-378; II parte in «Nuova Corrente», XLI (1994), n. 114, pp. 215-242, entrambi confluiti in

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Occorre premettere che con questa suddivisione non si intende riesumare la ormai superata antinomia tra un Calvino realista, razionalista (e pessimista), e uno fantasioso, fiabesco (e ottimista), 2 dalla quale ci si potrebbe aspettare una soluzione dicotomica anche del tema qui indagato. Come, in generale, «l’espressione più ilare o più melata o più radiosa», privilegiata dall’autore nei romanzi della trilogia, non attenua «la coscienza acuta del negativo», 3 così anche la caratterizzazione giocosa e ironica dei lettori cela, in realtà, un’approfondita e problematica investigazione del tema lettura. Nei romanzi Il visconte dimezzato e Il barone rampante, inoltre, non solo le opere lette sono sempre espressamente indicate con il titolo dell’opera e/o con il nome dell’autore, ma esse rappresentano, spesse volte, coordinate fondamentali per rendere storicamente plausibili i personaggi culturalmente più rappresentativi, quali, ad esempio, l’abate giansenista e l’illuminato barone. 4 La suddivisione argomentativa qui proposta deriva dalla diversa funzione che l’atto della lettura assolve all’interno dei due universi narrativi: se i personaggi lettori presenti nei testi realistici costituiscono immagini metonimiche del sempre più delicato rapporto tra letteratura e società e dei connessi problemi, quelli della trilogia rappresentano, invece, come vedremo, delle

Id., L’occhio di Calvino, cit., in particolare pp. 85-91; Denis Ferraris, Éléments pour une éthique de l’écriture. L’expérience de “Nos ancêtres”, in «Chroniques Italiennes», XXI (2005), n. 75-76, pp. 135-156; Fabrizio Scrivano, Raccontare la scrittura. Italo Calvino e “Il cavaliere inesistente”, in «Esperienze letterarie», XXXII (2007), n. 2, pp. 80-97. 2 L’antinomia viene già superata da Contardo Calligaris, Italo Calvino, Milano, Mursia, 1973, in particolare, pp. 88-89. 3 Italo Calvino, Il midollo del leone, in «Paragone», VI (giugno 1955), n. 66, poi in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 9-27, la citazione a p. 22. Su questo punto rileva opportunamente Milanini: «la narrazione si guarda bene dall’indulgere a chiose illustrative, conserva piuttosto per il lettore tutta la suggestione implicita in una dialettica irrisolta. Simmetrie e contrapposizioni non prospettano nessuna sintesi rassicurante; rendono conto, al contrario, di quanto sia illusoria la pretesa di professare convinzioni valide in assoluto» (Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 48). 4 A proposito del Barone, non a caso, De Federicis, ha sottolineato che «la materia storica» deriva soprattutto «dalla lettura e dalla letteratura, e per questo restituisce un’immagine del Settecento soprattutto letteraria e culturale» (Lidia De Federicis, Letteratura e storia, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 43-48, in particolare p. 43).

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cartine di tornasole dell’avvicendarsi di nuove prospettive narrative, spesso influenzate dall’esperienza editoriale. La presenza nella trilogia di questo particolare intreccio tra lettura e scrittura, è avallata, ad esempio, dalla successiva testimonianza, concernente la gestazione del Visconte: E allora, nel 1951 (avevo 28 anni e non ero affatto sicuro che avrei continuato a scrivere) mi sono messo a scrivere come mi veniva più naturale, cioè seguendo i ricordi delle letture che m’avevano più affascinato fin da ragazzo. Anziché sforzarmi di costruire il libro che io dovevo scrivere, il romanzo che ci si aspettava da me, preferii immaginarmi il libro che mi sarebbe piaciuto leggere, un libro trovato in soffitta, d’un autore sconosciuto, d’un’altra epoca e d’un altro paese. 5

Il fatto che Calvino, come scrittore, tragga ispirazione dalla lettura non rappresenta di per sé una novità assoluta, così come testimoniano le numerose indicazioni date in tal senso agli aspiranti scrittori di casa Einaudi: «non farti prendere dalla fretta di pubblicare», scrive, ad esempio, a Marcello Venturi, il 3 maggio 1950: «aspetta […] ma intanto fai delle letture ordinate». 6 Concetto analogo era già presente negli scambi epistolari con l’amico Scalfari, al quale, a proposito di Zavattini, Calvino consiglia: «leggi [lo], se lo avessi letto prima, forse avrei scritto meglio tutto quello che ho scritto in gioventù». 7 La novità delle riflessioni pertinenti al Visconte, consiste nel fatto che il rapporto tra scrittura e lettura si trova ora evidentemente sbilanciato a favore della seconda, non più intesa come strumento di un perfezionamento letterario, ma come scopo 5 Italo Calvino, Introduction by the author, in Id., Our Ancestors, London, Secker & Warburg, 1980, qui citato da Mario Barenghi, Il visconte dimezzato. Note e notizie sui testi, in R-I, pp. 1306-1311, la citazione a p. 1307 (il corsivo nel testo). 6 Italo Calvino, Lettera a Marcello Venturi, 3 maggio 1950, in I libri degli altri, cit., pp. 19-20, la citazione da p. 19. Analogamente, a proposito dello scrittore-operaio Luigi Davì, Calvino avrebbe ricordato: «e questo delle letture fu un problema: per lui, poveretto, che per leggere, dopo la giornata al tornio o alla fresa, doveva rubare le ore al sonno; e per noi che ci eravamo posti il compito d’indirizzare le sue letture, e dovevamo indicargli via via gli autori che s’inquadrassero nel suo orizzonte stilistico e glie l’approfondissero senza confondergli le idee» (Id., Il piemontese avventuroso, in «Notiziario Einaudi», VI (aprile, 1957), n. 1, poi con il titolo Luigi Davì, l’operaio che scrive racconti, in S-I, pp. 1053-1056, la citazione alle pp. 1054-1055). 7 Id., Lettera a Eugenio Scalfari, 21 dicembre 1942, in Lettere, cit., pp. 100-104, la citazione a p. 104.

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della scrittura stessa. Effettivamente, come vedremo, in questo romanzo le preferenze di lettura personali dell’autore non solo genericamente influenzano (come spesso accade) la fase creativa di scrittura, ma, più precisamente, la forgiano, plasmandone la poetica narrativa. Non a caso, in una lettera a Michele Rago, Calvino descrive il Barone come il libro in cui riesce finalmente a conseguire una scrittura che corrisponde esattamente al suo modello letterario elettivo: Il nome di Conrad che tu mi fai s’inquadra perfettamente come figura centrale in un’idea della letteratura come me la vado chiarendo ora, e per la prima volta con la coscienza d’essere in grado di scrivere quel che voglio, il massimo di quel [che] voglio fare, non come finora m’è successo che potevo teorizzare sulla letteratura questo o quello, ma poi davanti alla carta dovevo limitarmi a scrivere quello che riuscivo a scrivere. 8

Questa convergenza tra scrittura e idee di letteratura si riflette nelle immagini dei personaggi lettori che, proprio per questo, trasmettono preziose indicazioni metanarrative. Non dimentichiamo, infine, che dagli anni ’50 Calvino dedicherà sempre più tempo e attenzione al lavoro editoriale in Einaudi, ricoprendo ruoli sempre più rilevanti. L’autore, già entrato in casa editrice nel 1946 con mansioni prevalentemente di propaganda, e poi abbandonato questo impiego, per un breve periodo (per lavorare nella redazione torinese dell’«Unità»), vi fece ritorno nel gennaio 1950 come redattore stabile, occupandosi dell’ufficio stampa e della direzione della sezione letteraria della nuova collana «Piccola biblioteca Scientifico-letteraria». Inoltre, come è noto, egli collaborò alla collana «I gettoni», diretta da Vittorini, e fu impegnato, dal maggio 1952, a redigere il «Notiziario Einaudi». 9 8 Id., Lettera a Michele Rago, 22 luglio, 1957, in ivi, pp. 498-500, pp. 498-499. 9 Per un approfondimento sul lavoro editoriale di Calvino si rimanda alla raccolta di lettere Id., I libri degli altri, cit., e Id., Il libro dei risvolti, a cura di Chiara Ferrero, Torino, Einaudi, 2003. Un primo esame critico del lavoro editoriale svolto da Calvino all’interno della casa Einaudi è stato proposto da Gian Carlo Roscioni, Calvino editore, in Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale (Firenze), cit., pp. 31-39. Specificatamente rivolto a Calvino e l’editoria è stato il convegno svolto a San Giovanni Valdarno e a Firenze 1-2 marzo 1990, i cui atti sono stati pubblicati a cura di Luca Clerici e Bruno Falcetto, Milano, Marcos y Marcos, 1993, ricordiamo, in particola-

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Se è già stato rilevato in generale «ce temps de lecture dédié aux autres œuvres […] a profondément réagi sur son écriture», 10 si dimostrerà come, in modo ancor più significativo rire: Giulio Bollati, Calvino editore, pp. 1-19 (già apparso in «Micromega: le ragioni della sinistra», I (1986), n. 1, pp. 203-213, con il titolo Calvino (anche) editore); Cesare Segre, Italo Calvino e il “Notiziario Einaudi”, pp. 2134; Isa Bezzera Violante, “La lettura”: Calvino e un’antologia per la scuola media inferiore, pp. 83-94; Cadioli, Le “materie prime” dell’esperienza narrativa, cit.; Maria Corti, Il lettore misantropo, pp. 167-175; Ernesto Ferrero, Edizioni Calvino, pp. 177-190. A questi si aggiungano: Remo Ceserani, Quando Calvino leggeva “Centopagine”, in «Belfagor», 1991, n. 6, pp. 694-705; Alessia Francescutti, Italo Calvino. L’avventura di un editore, in «Studi novecenteschi», 1996, n. 51, pp. 75-106. Sempre su questo aspetto si possono ricordare inoltre alcuni contributi raccolti in Italo Calvino. A writer for the next millennium, cit., in particolare: Ernesto Ferrero, Calvino editore: letture, proposte, consigli, pp. 57-66; Giulio Einaudi, Italo Calvino e il “Notiziario Einaudi”, pp. 93-97; Ernesto Franco, Poetica in Centopagine, pp. 99-106. Specificatamente rivolti a Calvino editore di se stesso sono gli interventi: Claudio Milanini, L’editore di se medesimo, in Italo Calvino. A writer for the next millennium, cit., pp. 67-77; Giorgio Patrizi, Dal testo opaco: Calvino prefatore, in Id., Prose contro il romanzo, Napoli, Liguori, 1996, pp. 197-180; Gian Carlo Ferretti, L’editore di se stesso, in Le avventure del lettore, cit., pp. 19-26; Laura Di Nicola, Italo Calvino. Il titolo e i testi possibili, Roma, Università degli studi di Roma La Sapienza, 2001; Amelia Nigro, Dalla parte dell’effimero ovvero Calvino e il paratesto, PisaRoma, Serra, 2007 (interamente dedicato a Calvino prefatore di se stesso). Altre notizie infine in Alberto Arbasino, Io, Italo e la Einaudi (Una testimonianza dal vivo su Calvino editore), in «La Repubblica Mercurio», 9 febbraio 1991, p. 10; Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino, Bollati Boringhieri, 1999 (in particolare sull’attività svolta da Calvino per la “Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria”, cfr. pp. 443 e sgg.); Ernesto Ferrero, L’ho riconosciuto dal silenzio, in I migliori anni della nostra vita, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 49-59; Severino Cesari, “I nostri antenati”: Vittorini e Calvino, in Colloquio con Giulio Einaudi, Roma-Napoli, Theoria, 1991, poi Torino, Einaudi, 2007, pp. 68-84. Sulla collaborazione di Calvino alla collana vittoriniana dei “Gettoni” varie informazioni possono essere desunte da: Cesare De Michelis, Prefazione a Elio Vittorini, I risvolti dei «Gettoni», Milano, Scheiwiller, 1988, pp. 11-30; Gian Carlo Ferretti, I gettoni: processo decisionale; I gettoni: “laboratorio”e discorso di collana, in L’editore Vittorini, cit., pp. 209-234 e pp. 235-272, su Calvino in particolare pp. 219-233; La storia dei Gettoni di Elio Vittorini, a cura di Vito Camerano, Raffaele Crovi, Giuseppe Grasso, con la collaborazione di Augusta Tosone, introduzione e note di Giuseppe Lupo, Torino, Aragno, 2007, in 3 voll; Giovanna Lombardo, Il critico collaterale. Leonardo Sciascia e i suoi editori, Milano, La Vita Felice, 2008. 10 Philippe Daros, «I libri degli altri» ou soi-même comme un autre, in «Strumenti critici», VIII (1993), n. 2, pp. 171-188, la citazione dalle pp. 171-172.

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spetto al tema della lettura, il lavoro editoriale abbia reso Calvino particolarmente sollecito a cogliere una serie innumerevole di ulteriori sfaccettature. Da una parte cresce, ad esempio, l’attenzione per il lettore reale e per le circostanze in cui si realizza la ricezione del testo. Nelle pagine di questi anni ci sono libri appesi sugli alberi, su «biblioteche pensili», altri che rimangono «spelacchiati nelle rilegature, con macchie di muffa, striature di lumaca», altri ancora che sono tagliati in due da una lama affilata. Dal moltiplicarsi delle circostanze di lettura si ricava l’idea che si acuisca nell’autore la consapevolezza dell’imprevedibilità della ricezione, il cui processo risulta condizionato da un’infinità di variabili di carattere sia soggettivo (dipendenti cioè dal vissuto del soggetto lettore), sia oggettivo o esterno, quali, ad esempio, il sopraggiungere inaspettato di un mezzo visconte che recide di netto una copia della Gerusalemme liberata. Contemporaneamente, però, matura in Calvino l’idea della opportunità di progettare un modello ideale di lettore (quanto più concreto possibile) cui indirizzare il proprio lavoro. Se l’autore-narratore in precedenza era stato tutto sommato benevolo verso qualsiasi personaggio lettore dimostrasse un sincero attaccamento alla lettura, vedremo come, viceversa, soprattutto nel Barone rampante, egli diventi molto più esigente, costruendo un’immagine precisa e ambiziosa del suo nuovo modello ideale, coincidente, sotto molti aspetti, con quello che egli stesso, come editore (specie come editore dell’Einaudi), 11 stava contribuendo a formare. Già da queste sintetiche osservazioni preliminari si evince quindi come l’esperienza editoriale non solo accompagni quella letteraria, ma si sovrapponga a essa, venendo a stringere un nodo intricatissimo che proprio l’analisi dei personaggi lettori può aiutare a dipanare. Occorre precisare, infine, che (a ulteriore complicazione) Calvino non elegge, di volta in volta, un unico “portavoce”, ma scompone il discorso relativo alla lettura in una pluralità di 11 Sull’attenzione rivolta in casa Einaudi a questo problema, si rimanda al capitolo VII (Costruire un pubblico) in Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, cit., pp. 85-97. Sulla particolare declinazione di questo presupposto di casa Einaudi in Calvino cfr. Ferretti, Casa Einaudi: la formazione di un pubblico, in Le avventure del lettore, cit., pp. 27-30.

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punti di vista, ciascuno dei quali è indispensabile alla ricomposizione dell’insieme. 12 1. La lettura nel Visconte dimezzato: Pamela o la poetica dell’azione Poco oltre la metà del romanzo Il visconte dimezzato, 13 quando già Medardo cattivo e Medardo buono si alternano sulla scena narrativa e si fronteggiano nel corteggiamento della giovane Pamela, tutti i personaggi principali vengono più o meno direttamente coinvolti nella lettura della Gerusalemme Liberata: il Buono, in veste di declamatore, Pamela come ascoltatrice designata, il Cattivo come antagonista della lettura e attentatore del lettore, il dottor Trelawney e il nipote del visconte in veste di spettatori occasionali: …lei stendeva tutto a asciugare sulle corde delle altalene, e il Buono seduto su una pietra le leggeva la Gerusalemme Liberata. […] Ma lei, che non seguiva il filo e s’annoiava, zitta zitta incitò la capra a leccare sulla mezza faccia il Buono e l’anatra a posarglisi sul libro. Il Buono fece un balzo indietro e alzò il libro che si chiuse; ma proprio in 12 Milanini ritiene che nella trilogia fiabesca prenda «corpo […] una vera e propria fenomenologia dell’arte del raccontare e della lettura» (Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 46). 13 Italo Calvino, Il visconte dimezzato, Torino, Einaudi, 1952. La composizione risale all’estate dell’anno precedente, e l’idea iniziale dell’autore è di pubblicare il romanzo su «Botteghe Oscure», ma Vittorini insiste per pubblicarlo sulla collana «I gettoni», dove poi esce. Il visconte viene successivamente incluso nella raccolta dei Nostri antenati (Torino, Einaudi, 1960), insieme al Barone rampante e a Il cavaliere inesistente, prima in posizione mediana (pp. 111-184) poi e definitivamente, a partire dalla ottava edizione (Torino, Einaudi, 1967), in posizione iniziale (pp. 7-71), secondo l’ordine cronologico di scrittura e di pubblicazione. Ad accompagnare l’uscita degli Antenati nel ’60 è un’importante Prefazione dell’autore, rimasta anche nell’edizione definitiva del ’67 con il titolo Nota e con una collocazione mutata: non più all’inizio del libro bensì in fondo (cfr. Postfazione ai “Nostri antenati”, in R-I, pp. 1208-1219). Proseguono, nel frattempo, anche le edizioni del volume in forma autonoma, tra le quali si ricorda quella del 1975 nella collana «I libri per ragazzi», Torino, Einaudi. Seguono, a partire dal 1985, le edizioni del Visconte per Garzanti (Milano) sia in volume autonomo, nella collana degli «Elefanti», sia all’interno della trilogia, nella collana dei «Narratori moderni». Poi, dal 1990, seguono anche le edizioni Mondadori. Per tutte le citazioni riportate si fa riferimento alla edizione del Visconte in R-I, pp. 365-444.

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quel momento il Gramo sbucò di tra gli alberi al galoppo, brandendo una gran falce tesa contro il Buono. La lama della falce incontrò il libro e lo tagliò di netto in due metà per il lungo. La parte della costola restò in mano al Buono, e la parte del taglio si sparse in mille mezze pagine per l’aria. Il Gramo sparì galoppando; certo aveva tentato di falciar via la mezza testa del Buono, ma le due bestie erano capitate lì al momento giusto. Le pagine del Tasso con i margini bianchi e i versi dimezzati volarono sul vento e si posarono sui rami dei pini, sulle erbe e sull’acqua dei torrenti. Dal ciglio d’un poggio Pamela guardava quel bianco svolare e diceva: “Che bello!” Qualche mezzo foglio arrivò fin sul terreno per il quale passavamo il dottor Trelawney e io. Il dottore ne prese uno al volo, e lo girò e rigirò, provò a decifrare quei versi senza capo e senza coda e scosse la testa: “Ma non si capisce niente…Zzt…Zzt…”. 14

Dopo un triennio di lettori a monopolio borghese, durante il quale il discorso sulla lettura è funzionale alla critica (e autocritica) di questa classe sociale, nel Visconte la lettura torna a essere usufruita da un’utenza quanto mai variegata, prova del fatto che «la borghesia» (così come, dopo pochi anni, dichiarerà espressamente l’autore) non lo interessa più, «nemmeno polemicamente». 15 Ad attirare l’attenzione del narratore sono ora soprattutto le molteplici variabili di lettura, capaci di condizionare la ricezione di un testo all’interno di una comunità di lettori. Da una parte c’è, ad esempio, il tentativo fallimentare di interpretazione del dottor Trelawney, che, giunto per ultimo sulla scena, si trova a decifrare «versi senza capo né coda». In questo caso la separazione di pochi versi dal corpus del testo, allude simbolicamente alla natura stessa del personaggio che, nato «come una figuretta di gusto stevensoniano», ha finito per rappresentare «il tema dello scienziato “puro”, privo (o non libero) d’un’integrazione con l’umanità vivente», 16 in altre parole dell’individuo scisso dal corpus della società. Ivi, pp. 425-426. Id., Intervista autobiografica, in «Il Caffè», IV (gennaio 1956), n. 1, poi in Ritratti su misura, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del libro, 1969, poi con il titolo Questionario 1956, in S-II, pp. 2709-2716, la citazione a p. 2712. 16 Id., Postfazione ai “Nostri antenati”, cit., p. 1211-1212. In una Lettera a Carlo Salinari (7 agosto 1952) Calvino parla della figura del dottor Trelawney come di una esemplificazione della «scienza […] staccata dall’umanità (cfr. I libri degli altri, cit., pp. 67-68, la citazione a p. 67). Sullo stesso tema Calvino si era del resto già espresso in un articolo del 1946: «è notevole che un genio dell’alta fisica come Luis de Broglie dichiari l’attuale inadeguatez14 15

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Più interessante è l’intervento del personaggio di Pamela che, incitando le due bestiole a spezzare la monotonia della declamazione del Buono, rappresenta, in certo qual modo, l’avventura, l’azione, il gioco. Già questo rappresenta, allora, un primo esempio di quell’intreccio tra lettura e poetica narrativa cui si accennava prima: l’azione e l’avventura sono, infatti, gli elementi che più attraggono l’ascoltatrice Pamela, ma sono anche gli aspetti che più hanno allettato Calvino lettore e che, ora, sempre più alacremente ricerca anche Calvino scrittore e intellettuale. Rifacendoci alle pagine saggistiche dell’autore, si può facilmente verificare come, proprio in quegli anni, Calvino lamentasse la mancanza di “azione” nella letteratura italiana: una cosa è sempre mancata al romanzo italiano, che mi è la più cara nelle letterature straniere: l’avventura. 17

L’autore, inoltre, intreccia intuitivamente questo problema a quello, fondamentale nella prospettiva gramsciana, della ricerca di una “letteratura popolare”, finalità che egli andava prefiggendosi anche come direttore della sezione letteraria della “Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria”. 18 Traendo spunto dall’esempio za della formula “la scienza per la scienza” e ribadisca la responsabilità sociale dello scienziato. […] Sta a loro lavorare insieme a tutti gli altri uomini alla costruzione d’una società in cui la scienza possa veramente non avere altro scopo che il sapere, in cui ogni scoperta vada subito a buon frutto, in cui non ci sia da avere paura o di scoprire di più (cfr. Id., Fleming e borsa nera. De Broglie e Bikini. Picasso e l’ortolano, in «l’Unità», 20 ottobre 1946, poi in S-II, pp. 2123-2127, la citazione alle pp. 2125-2126). 17 Id., Mancata fortuna del romanzo italiano. Risposta a un’inchiesta radiofonica della Rai del 1953, pubblicato per la prima volta in S-I, pp. 1507-1511, la citazione a p. 1511. 18 Come rilevato da Mangoni l’«ambizione della serie grigia [quella letteraria, diretta da Calvino] era stata di contribuire al nascere di un letteratura popolare» (Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 658). La collana che consta di libri «di formato tascabile», «mira a soddisfare le esigenze di un pubblico popolare con testi di qualità, ma – come dice Einaudi in una lettera a Sraffa del 1949 – “accessibili sia per il contenuto (cultura generale) sia per il prezzo”: classici, ma anche autori contemporanei, storia, divulgazione scientifica (da Shakespeare a Brecht e De Filippo, da Puškin a Zola)» (Chiara Ferrero, Postfazione a Italo Calvino, Il libro dei risvolti, cit., pp. 253-261, la citazione a p. 255). Sulla storia di questa collana si rimanda alla ricostruzione di Mangoni, sopra citata (in particolare pp. 434-444), e al catalogo:

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di Conrad, Calvino sottolinea, ad esempio, come anche un pubblico non colto possa dedicarsi a letture impegnative, qualora sia opportunamente attratto da «bucce» avvincenti e avventurose: Joseph Conrad in Italia è più nominato che letto. O meglio, i suoi lettori più che nel “pubblico colto” sono tra i clienti delle bancarelle che ricomprano i suoi romanzi nei rossi volumi Sonzogno, in mezzo ai libri d’avventure di Zane Grey o di Curwood. Ma l’avventura, in Conrad, è solo la buccia: […] egli fu uno scrutatore d’anime da stare a petto di Dostoevskij (pur odiato da lui), un felicissimo inventore di storie e figure e atmosfere, e uno dei principali artefici, con James e Proust, della rivoluzione (e crisi) nella tecnica narrativa alla fine del secolo scorso. 19

In un altro brano del 1953, ancor più esplicitamente, l’autore invita le arti letterarie e cinematografiche a realizzare opere in cui la presenza viva dell’avventura sia d’ispirazione alle masse: Vorrei propugnare la creazione di una buona narrativa d’avventure e di un buon cinema d’avventure. L’Italia, non ha mai avuto né l’una né l’altra. E la narrativa d’avventure è l’unica narrativa popolare possibile. 20

In perfetta sintonia con le riflessioni espresse in sede teorica, nel Visconte è proprio l’incremento dell’azione ad attrarre il lettore incolto, qui rappresentato da Pamela, o, più precisamente, ad attrarre una lettrice-ascoltatrice, aspetto non secondario considerando che lo stesso Calvino avrebbe spiegato, diversi anni dopo, che per «romanzo popolare» egli intende un «romanzo che abbia come primi lettori proprio i non lettori, quelli» cioè, che, come Pamela sono «gli esclusi dalla lettura». 21

“Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria”, in Le edizioni Einaudi negli anni 1933-2003, Torino, Einaudi, 2003, pp. 984-986. 19 Calvino, Joseph Conrad scrittore poeta e uomo di mare, cit., p. 811. 20 Id., Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa, in «Cinema Nuovo», II (1° maggio 1953), n. 10, poi in S-II, pp. 1888-1890, la citazione a p. 1890. 21 Id., Un progetto di pubblico, in «L’Espresso», settembre 1974, n. 35, poi in Una pietra sopra, cit., poi in S-I, pp. 342-345, p. 344.

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2. Il Buono e il problema pedagogico La simpatia accordata dal narratore alla figura della imprevedibile e dinamica Pamela parrebbe, inoltre, riconfermare il «rifiuto» da parte di Calvino di «una tradizione aristocratica, aulica, libresca» 22 e la sua predilezione per i lettori incolti, già evidenziata in tante precedenti figure. 23 A Pamela della lettura non importava niente e se ne stava sdraiata in panciolle sull’erba, spidocchiandosi (perché vivendo nel bosco s’era presa un bel po’ di bestioline), grattandosi con una pianta detta pungiculo, sbadigliando, sollevando sassi per aria con i piedi scalzi, e guardandosi le gambe che erano rosa e cicciose quanto basta. Il Buono, senz’alzar l’occhio dal libro, continuava a declamare un’ottava dopo l’altra, nell’intento d’ingentilire i costumi della rustica ragazza. 24

In opposizione alla vivacità di Pamela, la figura del Buono si caratterizza per l’ostinazione con cui persevera nell’intento educativo, senza curarsi di verificare quale riscontro stia ottenendo sulla sua alunna-ascoltatrice. A questo proposito è interessante rilevare come proprio questa scena della lettura rappresenti, nell’economia del romanzo, la prima occasione in cui la bontà del mezzo personaggio si dimostra eccessiva e, per questo, anche improduttiva. A questa prima, seguono poi numerose altre: si veda, ad esempio, come il Buono, rifiutandosi di collaborare con gli sbirri decisi a uccidere il Gramo, finisca per condannare a morte questi stessi. 25 Così pure, si può notare come a causa del suo zelo eccessivo e dell’abitudine di «far prediche», il Buono sia cacciato prima dai lebbrosi 26 poi dagli ugonotti, questi ultimi infastiditi dal rimprovero di far «prezzi troppo alti», col risultato di rovinare «i loro commerci». 27 A spiegazione della funzione narrativa svolta da questo personaggio, l’autore ha commentato: «che queste due metà fossero egualmente insopportabili, la buona e la cattiva, era un effetto comico e nello stesso tempo anche significativo, perché alle volte i buoni, le Ferretti, Le capre di Bikini, cit., p. 24. Cfr. supra. 24 Calvino, Il visconte dimezzato, cit., p. 425. 25 Ivi, p. 433. 26 Ivi, p. 435. 27 Ivi, p. 436. 22 23

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persone troppo programmaticamente buone e piene di buone intenzioni sono dei terribili scocciatori». 28 Anche per quanto concerne l’attività della lettura, il Buono, quindi, non rappresenta un modello propositivo, bensì un esempio di eccessivo rigore letterario, finalizzato, per di più, a un «ingentilimento» di maniera che mal si accorda all’idea di utilità (morale, sociale, civile) cui aspira, invece, l’autore. 29 Alla personalità del Buono si contrappone l’altrettanto estremizzata personalità del visconte Gramo, cui bisogna riconoscere, almeno, la capacità di suscitare l’attenzione della lettrice: è, infatti, grazie al taglio netto del volume che la pagina scritta desta, infine, anche la sua attenzione. 30 Nell’immagine della giovane e rustica Pamela che, annoiata per lungo tempo dalla declamazione della Gerusalemme liberata, si entusiasma infine per «quel bianco svolare» di pagine recise, si potrebbe intravedere non solo il fallimento del progetto educativo del Buono, ma anche, per traslato, la dissacrazione di quella «vocazione pedagogica» della letteratura, 31 imperante tra gli intellettuali di ispirazione democratica ai tempi della scrittura del Visconte. L’osservazione necessità, però, di una certa cautela: di contro la perfetta sintonia tra la ricerca di avventura da parte di Pamela e l’ideale narrativo dell’azione prefissatosi in quel momento da Calvino, il problema pedagogico non è risolto in modo altrettanto chiaro, né in modo altrettanto univoco.

28 Id., Intervista con gli studenti di Pesaro (dell’11 maggio 1983), pubblicata in Il gusto dei contemporanei. Quaderno numero tre, Pesaro, Banca Popolare Pesarese, 1987, p. 9, poi riproposto come Presentazione all’edizione del Visconte, Milano, Mondadori, 1993, pp. V-VII, la citazione a p. VI. 29 È interessante sottolineare che lo stesso Calvino, in un articolo di molti anni successivo, soffermandosi «sull’uso sbagliato del libro» descritto da Manzoni nei Promessi Sposi, ricordi, in particolare, «l’uso che si fa dei libri nel palazzotto di Don Rodrigo, dove [proprio] la Gerusalemme liberata è tirata in ballo nelle dispute conviviali come codice di regole cavalleresche a uso degli spadaccini arroganti» (Id., Il romanzo dei rapporti di forza, in Carlo Ballerini (a cura di), Atti del Convegno manzoniano di Nimega (16-17-18 ottobre 1973), Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1974, poi con il titolo “I Promessi Sposi”: il romanzo dei rapporti di forza, in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 328-341, la citazione a p. 332). 30 Cfr. Id., Il visconte dimezzato, cit., pp. 425-426. 31 Cfr. Ajello, Intellettuali e PCI, cit., p. 225.

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Dall’analisi delle pagine a carattere saggistico risulta evidente, ad esempio, come, proprio in quel periodo, l’ideale di una “letteratura impegnata”, già fatto proprio da Calvino nella accezione più ricca e piena di questa definizione, sembra ora convergere, a tratti, nella direzione di engagement codificata dal partito. 32 In questi anni vengono, infatti, alla luce i racconti più politicizzati dell’autore, molti dei quali resteranno esclusi dalla raccolta I racconti proprio in ragione di una troppo esibita e schierata presa di posizione nei confronti dell’attualità. 33 Interessante a questo riguardo è rilevare come ancora all’altezza del 1953, in un racconto intitolato La storia di Kim-Ghi-U, 34 in osservanza quasi rigorosa alla pubblicistica ufficiale sulla guerra di Corea, Calvino trasponga l’utopia di un accesso del proletariato alla lettura in una Corea preindustrializzata. Se, come scrive Falcetto, «anche Calvino» paga il prezzo «alle rigidità della propaganda» con il risultato artistico di un racconto assai poco ispirato, 35 per ciò che riguarda la lettura, il prezzo è un’immagine stereotipata e forzata di lettore-contadino che «con lo sguardo tranquillo attraverso la fessura degli occhi andava dai libri alla zappa», mentre la madre mandava «una specie di gemito stupito a bocca aperta, perché era il primo libro che toccava». 36 32 Circa la consonanza dell’autore con le posizioni politiche e culturali del Partito Comunista, cfr. Paolo Spriano, Un Calvino rivoluzionario, in Id., Le passioni di un decennio 1946-1956, Milano, Garzanti, 1986, pp. 1132. Analogamente anche Mondello rileva come Calvino avesse, in quel periodo, accentuato «il carattere ideologico» dei suoi interventi, e intrecciato più strettamente le riflessioni giornalistiche «ai fatti politici» (Mondello, Italo Calvino, cit., p. 62). 33 Cfr. Bruno Falcetto, Racconti esclusi da “I racconti”. Note e notizie sui testi, in R-III, pp. 1317-1339, in particolare pp. 1318-1319. 34 Italo Calvino, La storia di Kim-Ghi-U, pubblicato su «l’Unità», 2 aprile 1953, poi in R-III, pp. 926-931. 35 Falcetto, Racconti esclusi da “I racconti”, Note e notizie sui testi, cit., p. 1319. 36 «Nella nuova casa cominciarono a entrare dei libri, perché Kim-GhiU aveva imparato a leggere e a scrivere e frequentava la scuola serale, e la madre sollevò un libro con due mani e lo guardò per tutti i versi mandando una specie di gemito stupito a bocca aperta, perché era il primo libro che toccava. Ma Kim-Ghi-U con lo sguardo tranquillo attraverso la fessura degli occhi andava dai libri alla zappa alla catena del camino ai fiori selvatici che le sorelline radunavano in mazzi, perché non c’era niente di diverso per lui tra i libri e tutte le altre cose conosciute e antiche» (Calvino, La storia di Kim-Ghi-U, cit., p. 927). Si veda, del resto come, in un altro articolo del 1953 Calvino scriva: «Oggettivamente, la cultura ha nel movimento delle

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Non dimentichiamo, inoltre, che anche il lavoro in casa Einaudi, in quel frangente, non era scevro da sviluppi politici 37 (né intendeva esserlo quello di Calvino 38 ), e che proprio la «Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria» era finalizzata (specie la serie rossa) alla istruzione storico-scientifica di larghi strati sociali della popolazione. 39 Se da una parte, in questo periodo, Calvino accoglie le istanze letterarie e politiche allora egemoni, egli procede, però, al contempo, a una interrogazione autonoma. Significativa, in questo senso, è la lettera dell’1 agosto 1951, indirizzata a Luigi Anderlini: Tu dici che pensi molto a un romanzo popolare. Ma debbo dirti che di romanzo popolare il tuo libro non ha nulla. Ha delle buone pagine di letteratura psicologica e sobriamente lirica; invece le pagine di narrazione oggettiva, di fatti d’interesse sociale, mi paiono, come scrivevo, fredde e cronachistiche. Interessano e servono all’operaio più che le altre? Mah, io penso che l’operaio – che conosce già queste cose della vita –, abbia bisogno di cibo ben sostanzioso sull’argomento: pagine di commento tecnico-politico, di buona informazione giornalistica, e guai a quella letteratura che voglia sostituirsi leggermente a questi compiti così seri. E di poesia? Certo ha bisogno anche di quella, ma che gli serva: cioè che gli dia qualcosa che né la descrizione politica o economica dell’avvenimento, né quella fotografico-giornalistica, gli danno: una conoscenza delle cose che solo attraverso quel mezzo d’espressione sia possibile, il senso di un nuovo rapporto con la realtà, nuove scoperte umane. 40

classi lavoratrici il suo alleato naturale; nessuna frattura individuale o particolare può smentire il fatto che le loro vie sono una sola, che si ritroveranno nei momenti cruciali fianco a fianco, che la loro integrazione caratterizzerà la società futura» (Id., Elezioni e cultura, in «l’Unità», 31 maggio 1953, poi in S-II, alle pp. 2160-2164, la citazione a p. 2162). 37 Ajello parla, più precisamente, di «una posizione di “fiancheggiamento”» di casa Einaudi al Pci. Cfr. Ajello, Intellettuali e PCI, cit., p. 85; su questo stesso argomento cfr. anche Cesari, A sinistra, e oltre…, in Colloquio con Giulio Einaudi, cit., pp. 51-67. 38 In particolare si rimanda alla polemica sorta su questo problema tra Calvino e Vittorini, ampiamente illustrata da Mangoni, Pensare i libri, cit., pp. 673-674. 39 La «Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria» si prefiggeva, infatti, lo scopo di arrivare all’«operaio specializzato torinese come allo studente serale napoletano» («Corriere degli Statali», 7 marzo 1950, citato da Perella, Cronologia della vita e delle opere, in Calvino, cit., p. 182). 40 Italo Calvino, Lettera a Luigi Anderlini, 1° agosto 1951, in I libri degli altri, cit., pp. 55-57, la citazione alle pp. 55-56.

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Anche nel momento in cui l’autore sposa il principio della «utilità della letteratura», egli avverte, tuttavia, la necessità di esercitare questo fine «in un modo indiretto», 41 senza snaturare la specificità del linguaggio letterario, ma anzi sfruttandone appieno le potenzialità, e percorrendo vie diverse da quelle del linguaggio tecnico e giornalistico. Analizzata con attenzione, questa rinuncia a un’azione diretta della letteratura sulla società e suoi lettori, rivela la presenza di progetti pedagogici ancora più ambiziosi: … il problema è un altro: il libro che resti, quello che aprirà l’epica nuova della classe operaia, è ancora da scrivere: e sarà insieme informativo e didascalico, ma in senso ben più vasto e stabile. 42

Già compiutamente teorizzata nell’agosto del 1951, l’idea del libro che sia «informativo e didascalico, ma in senso ben più ampio e stabile» si rivela, però, di difficilissima realizzazione. Proprio gli anni a cavallo del 1950 vedono Calvino concentrato nella scrittura di una serie di testi “impegnati” poi rimasti inediti. 43 Trattasi, in primis, di Il bianco veliero (rimasto nel cassetto in seguito alla stroncatura di Vittorini 44 ), e poi di I giovani del Po che avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni di Calvino, il «vero-romanzo-realistico-rispecchiante-i-problemi-dellasocietà-italiana» di «uno “scrittore politicamente impegnato”», 45

Ivi, p. 56. Ibidem. 43 Su questo periodo si sofferma Francesca Serra, Tre prove di romanzo, in Id., Calvino, Roma, Salerno Editrice, 2006, pp. 71-81 (i tre romanzi cui si riferisce Serra sono: Il bianco veliero, I giovani del Po, e La collana della regina). 44 Cfr. Elio Vittorini, Lettera a Natalia Ginzburg, 26 settembre 1949, in Id., Gli anni del «Politecnico». Lettere 1945-1951, a cura di Carlo Minoia, Torino, Einaudi, 1977, p. 271-272. In una lettera ad Elsa Morante Calvino spiega che la «costruzione “a freddo”» del romanzo «gli deriva dal fatto che il calore di “ispirazione” – troppo tenue – con cui mi ero accinto a scriverlo, mi s’è raffreddato per via, e ho voluto finire il libro più per la cocciutaggine di non lasciare niente d’incompiuto, che perché mi stesse a cuore» (Italo Calvino, Lettera a Elsa Morante, 9 agosto 1950, in Lettere, cit., pp. 290-291, in particolare p. 290). 45 Id., Introduction by the author, cit., qui tratto da R-I, p. 1307. 41

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non che, come scrisse a Elsa Morante, il suo «primo libro». 46 Il risultato fu invece, un «libro insolitamente grigio». 47 Questa difficoltà espressiva si riflette, inevitabilmente, anche in un rallentamento e poi in un esaurimento dell’ispirazione: «è passato il tempo in cui scrivevo di getto, “come il melo produce le mele” […]. Ho il fiato più corto, oppure più problemi per il capo, che restano problemi e non diventano immagini e ritmo narrativo, e bisogna digerirli pian piano». 48 È proprio per rifarsi «del castigo imposto alla fantasia» 49 che Calvino scrive di getto e senza alcuna difficoltà Il visconte dimezzato, riabbracciando, subito dopo, l’ideale realista, sebbene un po’ rivisitato: già dall’estate del 1952 l’autore si dedica, infatti, a La collana della regina «un romanzo realistico-social46 Id., Lettera a Elsa Morante, 9 agosto 1950, in Lettere, cit., p. 290, il corsivo nel testo. «Con esso» scrive Calvino nella nota introduttiva al romanzo, apparsa su «Officina», «volevo finalmente esprimere in forma narrativa anche quella parte di interessi e d’esperienza che sono finora riuscito solo a far vivere in qualche pagina di carattere saggistico: cioè la città, la civiltà industriale, gli operai» (cfr. Id., Nota introduttiva a I giovani del Po, cit., riportata in R-III da Bruno Falcetto, Prove di romanzo, pp. 1340-1344, in particolare p. 1342). Sull’attenzione accordata da Calvino alla classe operaia cfr. Spriano, Le passioni di un decennio, cit., in particolare p. 19: «forse non c’è stato nell’Italia degli anni Cinquanta un altro intellettuale, diciamo un altro scrittore di quel livello, che si sia occupato come lui dell’operaio quale figura sociale concreta, e del movimento all’interno della classe». 47 Calvino, Nota a I giovani del Po, cit., p. 1342. Varese riconosce in questo romanzo «quasi un desiderio e nostalgia di un’adesione continua di tipo neorealistico» (cfr. Claudio Varese, Italo Calvino, in Id., Occasioni e valori della letteratura contemporanea, Bologna, Cappelli, 1967, pp. 209232, in particolare p. 219). Si coglie l’occasione per sottolineare come Vittorini avesse già rilevato, in una lettera del 1947: «la mia riserva non riguardava affatto la possibilità in generale di scrivere cose che siano ad un tempo racconto e saggio. Riguardava la possibilità tua di scriverle. Cioè mi sembra che per te, in questo momento, non esista la possibilità di realizzare contemporaneamente in senso di racconto e in senso di saggio. Ogni volta che passi dalla chiave di saggio alla chiave di racconto non sei più padrone della materia» (Cfr. Vittorini, Lettera a Italo Calvino, 15 gennaio 1947, in Gli anni del «Politecnico», cit., pp. 101. Il corsivo è già presente nel testo). Analogamente anche Geno Pampaloni, in una recensione a Ultimo viene il corvo, distinguendo varie direzioni della scrittura di Calvino, individua nella «polemica sociale» quella a lui «meno congeniale» (cfr. Geno Pampaloni, in «Comunità», III (maggio 1949), n. 5, p. 57). 48 Calvino, Lettera a Elsa Morante, 9 agosto 1950, in Lettere, cit., p. 290. La citazione è tratta, come spiega lo stesso Calvino, da Maupassant. 49 Id., Nota a I giovani del Po, cit., p. 1342.

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grottesco-gogoliano», 50 «di vasto impianto al quale» l’autore lavora specialmente i primi mesi del ’54, per poi capire «che non c’eravamo ancora»: «è un tema che non faccio che prenderci delle testate, da dieci anni», commenterà Calvino alcuni anni dopo. 51 Il progetto di «rappresentare con gli strumenti del realismo il mondo della grande città industriale e il posto in esso dei ceti operai», 52 coinvolge in quegli anni non solo Calvino scrittore, ma anche Calvino editore, laddove i verbali dell’Archivio Einaudi documentano, ad esempio, come Calvino avesse favorito per la «Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria» la pubblicazione di autori contemporanei che sperimentavano la via del «romanzo sociale», 53 anche nel caso in cui si trattasse di «tentativi non completamente riusciti» (come, ad esempio, Tutta la verità di Micheli, romanzo poi effettivamente pubblicato nella collana 54 ).

50 «Una cosa a intreccio complicato, che ogni episodio devo rifarlo tre o quattro volte prima di trovare la “chiave” giusta. Vado avanti lentissimo, e se va bene lo finirò nel 1856. Se va bene, perché più vado avanti […] più è difficile» (Id., Lettera a Domenico Rea, 15 marzo 1954, in I libri degli altri, cit., pp. 126-127, la citazione a p. 126). Il romanzo, pubblicato nel 1960 con il titolo Frammento di romanzo in I giorni di tutti, Roma, Edindustria editoriale, verrà poi riproposto con il titolo La collana della regina nella raccolta Prima che tu dica “Pronto”, cit., infine in R-III, alle pagine 1127-1152. Su questo romanzo cfr. Ferraro, “La collana della regina” e la cittàfabbrica, cit. 51«Ho cominciato col romanzo che ho scritto dal ’47 al ’49 in cui alla fine doveva saltar fuori la città e gli operai; ma tutto l’insieme risultò un grottesco neorealista piuttosto pasticciato e misi anche quello nel cassetto. Ci riuscirò, una volta o l’altra» (Id., Nota a I giovani del Po, cit., p. 1342). A questi tentativi, molte volte ricordati dalla critica, bisogna aggiungere anche altri «racconti di fabbrica pubblicati per esempio sull’“l’Unità” e mai più raccolti», sui quali si sofferma Bertone (Italo Calvino, cit., p. 59, in particolare cfr. nota 92). 52 Calvino, Nota a I giovani del Po, cit., p. 1342. 53 Cfr. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 657, nota 150. 54 Il giudizio sul romanzo di Micheli è dello stesso Calvino: «secondo me il fatto per cui bisogna dedicare a questo libro una certa attenzione è questo: è uno dei primi tentativi italiani di mettere il lavoro al centro di un’opera narrativa, di fare un “romanzo di fabbrica” alla sovietica. Credo che il tentativo non sia riuscito, ma d’altra parte non conosco nulla di questo genere che sia completamente riuscito e non so davvero se si possa farlo» (Italo Calvino, Lettera a Silvio Micheli, 14 luglio 1950, in I libri degli altri, cit., pp. 26-28, p. 27). Il romanzo di Micheli [Tutta la verità] uscirà nella «Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria» nel corso dello stesso anno.

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Se ci siamo dilungati nel resoconto di queste alterne vicende, è per dimostrare come, al tempo della scrittura del Visconte, Calvino fosse tanto meravigliato della «estemporaneità della composizione del racconto» quanto convinto di dovervi attribuire uno «scarso peso». 55 I libri di cui s’ha bisogno sono quelli espliciti e senza sottintesi. Ciò non toglie che io creda che di libri così se ne possa scrivere ancora; solo, bisogna scrivere anche gli altri, quelli “veri”. […] So che il successo che ha avuto è sproporzionato e in parte equivoco, e non me ne fido; anzi non vedo l’ora di far rimangiare a certuni le loro lodi sperticate. Ma credo che sia anche sproporzionata la faccia arcigna di alcuni compagni. È un racconto come potrei scriverne altri dieci o venti, e senza molta fatica, e se non fossi tutto preso dal desiderio di scrivere cose che credo più importanti. 56

A riprova «dei dubbi» che l’autore originariamente nutre «sulla effettiva incidenza di uno strumento espressivo e di una tematica in un certo senso elusivi, sul tessuto della realtà italiana», 57 si aggiunga, infine, anche l’intenzione di pubblicare il romanzo su «Botteghe Oscure». 58 Come è noto, fu poi Vittorini a insistere per includere il Visconte nei «Gettoni», perorando la causa della riuscita artistica del romanzo ad un Calvino ancora dubbioso e refrattario. 59 «Mi sono divertito moltissimo a leg55 Si rimanda, a questo proposito, alle puntuali osservazioni di Berenghi in Il visconte dimezzato. Note e notizie sui testi, cit., p. 1307. 56 Calvino, Lettera a Carlo Salinari, 7 agosto 1952, in I libri degli altri, cit., pp. 67-68, la citazione a p. 68. Sul successo di critica e di pubblico ottenuto dal Visconte, Calvino tornerà a parlare, diversi anni dopo, nella Nota introduttiva a Gli amori difficili (scritta in terza persona ma attribuita all’autore): «tra i critici ci fu un’unanimità di consensi inaspettata; uscì pure un bell’articolo di Emilio Cecchi, il che allora voleva dire la consacrazione (o cooptazione) dello scrittore nella letteratura italiana “ufficiale”. Da parte comunista scoppiò una piccola polemica sul “realismo”, ma non mancarono gli autorevoli consensi bilanciatori» (Id., Nota introduttiva, a Gli amori difficili, Torino, Einaudi, 1970, pp. V-XVI, poi riportata in R-II, alle pp. 1282-1303, da cui la citazione a p. 1285). 57 Bonura, Invito alla lettura di Calvino, cit., p. 30. 58 Cfr. Calvino, Lettera a Carlo Salinari, 7 agosto 1952, in I libri degli altri, cit., p. 68. Cfr., inoltre, Barenghi, Il visconte dimezzato. Note e notizie sui testi, cit., p. 1307. 59 «Mi sembra che il tuo Visconte faccia libro completo e che non si debba lasciarlo ad aspettare chissà quanto come se fosse un mezzo libro. […] Io, se me lo dai per i «Gettoni», sarei proprio contento» (Elio Vittorini,

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gerlo» scrive Vittorini «e credo che potrebbe divertire un mucchio di gente oggi soltanto infastidita da libri uggiosi», ribadisce con convinzione in una lettera del dicembre 1951, subito dopo la lettura del testo inviatogli da Calvino. 60 Non così soddisfatto risulta, invece, lo stesso autore: Io ho qualche esitazione a pubblicarlo in libro: non è dargli troppa importanza? Non è circoscrivermi in una zona minore, di “divertimento”? Ne parleremo. 61

Se dunque il piacere e il divertimento sono sempre stati aspetti importantissimi per Calvino lettore, questi stessi, al momento della scrittura del Visconte, non rientrano, invece, nei doveri che Calvino intendeva prefiggersi come scrittore. 3. La funzione prolettica di Pamela: la Gerusalemme liberata e la “scoperta” dell’Ariosto Lontana anni luce da tutte queste preoccupazioni, Pamela risolve il problema pedagogico nella opposta direzione di una rivendicazione dell’indipendenza della lettura da progetti formativi prestabiliti. Se ancora nelle lettere degli anni ’51-’52, l’autore si dichiara attratto dall’ideale di una letteratura «informativa e didascalica», 62 (o, al più, fatta di cose «“utili” e “divertenti” insieme» 63 ), e si inserisce nel dibattito di casa Einaudi, sostenendo la ricerca di un «modello di romanzo capace di esercitare una funzione educativa, in coerenza con l’impostazione politica della casa», 64 il personaggio di Pamela mostra come, in realtà, «lo scrittore si sentisse molto lontano da qualsiasi vocazione

Lettera a Italo Calvino, 11 dicembre 1951, in Gli anni del “Politecnico”, cit., p. 393). 60 Ibidem. 61 Italo Calvino, Lettera a Elio Vittorini, 20 dicembre 1951, in Lettere, cit., p. 332, il corsivo è nostro. 62 Id., Lettera a Luigi Anderlini, 1 agosto 1951, in I libri degli altri, cit., p. 56. 63 Id., Lettera a Carlo Salinari, 7 agosto 1952, in Ivi, p. 68. 64 Alberto Cadioli, Modelli di romanzo nei progetti editoriali del secondo Novecento, in «Esperienze letterarie», XXIX (2004), n. 1, pp. 39-61, la citazione a p. 46.

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pedagogica». 65 L’immagine en abyme della lettrice svolge, quindi, in questa prospettiva, una funzione prolettica, anticipando quella “poetica del divertimento” che sarà poi compiutamente espressa dall’autore a partire dal ’56. A questo proposito è bene precisare che la “poetica del divertimento” non implicò mai per l’autore la rinuncia al principio dell’utilità: emblematica, anche in questo senso, è la scena stessa della Gerusalemme, all’interno della quale l’incremento dell’azione non solo diverte Pamela ma salva, al contempo, la vita del lettore dotto (qui rappresentato dal Buono): quasi una prima, suggestiva, proposta del divertimento in un’accezione non soltanto ludica, ma già “costruttiva”. Se è vero, come è stato rilevato, che Calvino trova «nella letteratura il modo per sottrarsi alle leggi, irresistibili sul piano teorico, dell’ideologia», 66 la «libertà infinita di codice» 67 garantita dal linguaggio fiabesco, sembra rivelare ancora più apertamente all’autore le istanze letterarie a lui più intimamente congeniali, liberandolo dalle sovrastrutture ideologiche. Non a caso, guardando al medesimo aspetto da una prospettiva rovesciata, Ferretti rileva: «molti scritti giornalistici e saggistici del 1954-55 e del 1956-1964, sono la teorizzazione o esplicitazione o argomentazione a posteriori di motivi anticipati dalla produzione narrativa che partendo dal 1951 arriva fino al ’59 (dal Visconte dimezzato al Cavaliere inesistente)». 68 Quale causa di questo ritardo indichiamo, con Ferretti, «una certa reticenza e resistenza e autocontrollo ideologico-politico, che continua a caratterizzare il pubblico atteggiamento di Calvino», 69 cui corrisponde, viceversa, la massima spontaneità espressiva garantita dal linguaggio fantastico. Questa funzione prolettica della lettrice Pamela non si esaurisce nella risoluzione di un problema (quello pedagogico) rela65 «Non per nulla i personaggi dei suoi racconti imparano dalla natura, dall’esperienza, insomma dalla vita e non da un sapere regolamentato e libresco» (Violante, “La lettura”: Calvino e un’antologia per la scuola media inferiore, cit., pp. 89-90). 66 Falaschi, Ritratti critici di contemporanei. Italo Calvino, cit., p. 537. 67 Elio Gioanola, Modalità del fantastico nell’opera di Italo Calvino, in Italo Calvino, la letteratura, la scienza, la città, cit., pp. 20-35, la citazione a p. 21. 68 Ferretti, Le capre di Bikini, cit., p. 69. 69 Ibidem.

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tivo alla lettura, ma, a guardare con un po’ di immaginazione, essa concerne anche, più in generale, la proposta di un modello letterario che si rivelerà fondamentale per Calvino. Per ridestare l’ammirazione di Pamela è sufficiente, infatti, aggiungere alla “materia” della Gerusalemme una buona dose di azione, un’altra di imprevisti e una ancora di divertimento, cioè trasformare la Gerusalemme in un modello letterario prossimo a quello ariostesco, autore molto amato da Calvino. 70 Essendo già stato ampiamente rilevato dalla critica come la scrittura di Calvino sia percorsa da echi ariosteschi, 71 più inte70 Numerose, invero, sono le occasioni in cui Calvino manifesta apertamente il suo amore letterario per l’Ariosto, tra queste si ricorda, ad esempio: «tra tutti i poeti della nostra tradizione, quello che sento più vicino e nello stesso tempo più oscuramente affascinante è Ludovico Ariosto, e non mi stanco di rileggerlo» (Italo Calvino, Correnti del romanzo italiano d’oggi, conferenza letta in inglese il 16 dicembre 1959 alla Columbia University di New York, e pubblicata in inglese in «Italian Quarterly» IV (primavera-estate 1960), n. 13-14, poi in italiano in «Annuario commemorativo del Liceo-Ginnasio “G.D. Cassini” nel primo centenario di Fondazione», XI (1960), n. 30, poi in Una pietra sopra, cit., infine con il titolo Tre correnti del romanzo di oggi, in S-I, pp. 61-75, la citazione a p. 74). Anche in un’introduzione inedita ai Nostri antenati Calvino parla a lungo dell’Ariosto e del rapporto tra questo autore e la letteratura cavalleresca, cfr. Id. Introduzione inedita 1960 ai Nostri antenati, in R-I, pp. 1220-1224, in particolare pp. 1223-1224. E ancora: Id., Ariosto geometrico, in «Italianistica», III, settembre-ottobre 1974; Id., Ariosto: la struttura dell’«Orlando furioso», in «Terzoprogramma, 2-3, 1974, poi in Perché leggere i classici, cit., infine in S-I, pp. 759-768. Richiami espliciti all’opera dell’Ariosto sono presenti anche nei testi narrativi: cfr. Storia dell’Orlando pazzo per amore, e Storia di Astolfo sulla luna, in Il castello dei destini incrociati, cfr. infra. Ricordiamo, infine, che Calvino cura l’edizione: Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, Torino, Einaudi, 1970. 71 Sulle analogie tra Calvino e Ariosto cfr. Lene Waage Peterson, Calvino lettore dell’Ariosto, in «Revue Roman», XXVI (1971), n. 2, pp. 230-245; Stefano Verdino, Ariosto in Calvino, in «Nuova Corrente», XXXIV (1987), n. 100, pp. 251-258; Wiley Feinstein, Humility's deceit. Calvino reading Ariosto reading Calvino, West Lafayette, Bordighera, 1995; Paolo Grossi, Calvino et l’Arioste: notes en marge, in Italo Calvino le défi au labyrinthe, cit., pp. 129-143; Andrea Battistini, Geometrie del fantastico: l’Ariosto di Italo Calvino, in «Rivista di Letterature moderne e comparate», LIV (2001), n. 2, pp. 147-170, poi in Id., Sondaggi sul Novecento, a cura di Lorenza Gattamorta, Cesena, Il Ponte Vecchio, 2003, pp. 261-282; Paolo Grossi, Italo Calvino lecteur du “Roland Furieux”, in Id. (a cura di ), Italo Calvino narratore, Atti della giornata di studi (19 novembre 2004), Parigi, Istituto italiano di cultura, 2005, pp. 109-122. Sulle analogie tra Calvino e Ariosto rintracciabili, più in particolare, nei romanzi della trilogia cfr. Margareth Hagen, La seduzione del cavaliere inesistente, «Romansk Forum»,

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ressante, in questa sede, è soffermarci sulla lettera che Calvino invia a Roberto Battaglia, pochi mesi prima della stesura del Visconte: a Venezia non ho avuto occasione di parlarti del tuo Ariosto, che mi ha molto interessato. Specialmente quanto riguarda i motivi della scelta dei miti cavallereschi da parte dell’Autore, la «razionalità» e la «popolarità» della sua invenzione, m’ha chiarito molte cose e suscitato molte idee sul rapporto «realtà-fantasia», che come puoi capire m’interessa molto. 72

Recuperata l’opera cui si riferisce Calvino (Ludovico Ariosto, Novelle del “Furioso”, a cura di Roberto Battaglia, Milano, «Universale economica», 1950), si riporta, a seguire, un brano tratto dalla Prefazione: l’Ariosto, nei punti più alti, non si vale solo della propria esperienza individuale, ma tien conto d’un’elaborazione più vasta, affonda nuovamente le sue radici nel movimento e nella fantasia popolare da cui era scaturita la civiltà del Rinascimento, s’espande verso una comune e più larga umanità. Così nello specchio della favola viene accolta continuamente la realtà quotidiana e la “moralità” del Furioso sta innanzi tutto nel “metodo” d’osservazione, che spoglia la vita d’ogni involucro medioevale o trascendente, che esprime della vita stessa tutt’intero lo sviluppo e il rigoglio. 73

Se, come è stato rilevato, le varie tappe dell’itinerario creativo di Calvino sono contrassegnate da altrettante riletture dell’Orlando Furioso, la “scoperta” dell’Ariosto, tramite le riflessioni di Battaglia, «se présente tout d’abord comme l’auteur qui lui permet d’échapper à l’impasse du néo-réalisme et de retrouver XV Skandinaviske romanistkongress, XVI (2002), n. 2, pp. 875-884; Anne Boule-Basuyau, Calvino et la littérature chevaleresque: Pulci, Boiardo, l’Arioste dans "Il cavaliere inesistente", in «Collection de l’écrit», (2005), n. 10, pp. 269-293. Si ricorda, infine, l’approfondimento di Concetta D’Angeli, Italo Calvino narratore e teorico della letteratura, in «Paragone», LI-LII (1995), n. 544-546, pp. 58-75, dove il tema ariostesco esemplifica l’intrecciarsi, in Calvino, della riflessione critica con l’attività creativa. 72 Italo Calvino, Lettera a Roberto Battaglia, Roma, 28 aprile 1950, in I libri degli altri, cit., pp. 17-18. Sull’importanza di questa lettera già Philippe Daros, Italo Calvino, Paris, Hachette, 1994, in particolare cfr. p. 26. 73 Roberto Battaglia, Prefazione a Ludovico Ariosto, Novelle del “Furioso”, Milano, «Universale economica», Colip, 1950, pp. 9-18, p. 18, il corsivo è nostro.

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le contact avec “the memory of the things [he] had loved best since boyhood”». 74 Non solo, ma il connubio tra fantasia e popolarità fornisce una possibile risposta al dibattito, aperto in casa Einaudi (in occasione delle discussioni preliminari all’avvio della collana «Piccola Biblioteca Scientifico-letteraria»), circa la possibilità di coniugare il “nuovo” e il “popolare”. Nonostante «il vivace richiamo di Vittorini alla necessità che “l’elemento “fantasia” debba essere sempre presente nei libri”» della «Piccola Biblioteca» (richiamo poi «decodificato da Pavese soprattutto in senso stilistico per l’attenzione “ai caratteri di leggibilità dei testi» 75 ), la collana non riuscirà a realizzare questo intento, ripiegando poi su modelli tradizionali di romanzo popolare ottocentesco. La possibilità di una sintesi tra questi due elementi, perfettamente relizzata nel modello ariostesco, doveva attrarre non solo Calvino editore ma anche Calvino scrittore, che era, proprio in quel periodo, alla ricerca di una letteratura che si fondasse su un «nuovo rapporto con la realtà». Più in particolare, la puntualizzazione di Battaglia riguardante la «“moralità” del Furioso» come «metodo” d’osservazione», potrebbe avere rappresentato per Calvino quella forma di «utilità» indiretta della letteratura che egli stava allora cercando con ostinazione. Proprio nel modello ariostesco (implicitamente apprezzato da Pamela), Calvino avrebbe individuato la possibilità di declinare l’impegno dal piano dei contenuti a quello della forma e della prospettiva narrativa. È evasione il mio amore per l’Ariosto? No, egli ci insegna come l’intelligenza viva anche, e soprattutto, di fantasia, d’accuratezza formale, come nessuna di queste doti sia fine a se stessa ma come esse possano entrare a far parte d’una concezione del mondo, possano servire a meglio valutare virtù e vizi umani. 76

Grossi, Calvino et l’Arioste, cit., p. 132. Cfr. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 441. 76 Calvino, Tre correnti del romanzo di oggi, cit., p. 75. 74 75

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4. La lettura nel Barone rampante: la rivolta di Cosimo e la poetica del divertimento Per quanto diversi critici abbiano segnalato la ricorrenza nel Barone di sequenze narrative dedicate alla lettura ed evidenziato la centralità di questo tema sul piano della storia, 77 tuttavia numerosi sono gli spunti di indagine che ancora attendono di essere approfonditi. Il Barone rappresenta, infatti, sotto il profilo della lettura, il romanzo forse più ricco e complesso, all’interno del quale i personaggi lettori scompongono questo tema in diverse sfaccettature: prosegue, ad esempio, la polemica sulla lettura con finalità pedagogica, e così pure ritorna il modello del lettore incolto e appassionato, qui impersonato da Gian dei Brughi; a questi si aggiunge, però, anche un nuovo modello di lettore, rappresentato dallo stesso barone, approfondendo il quale si scoprirà il manifestarsi, per la prima volta in Calvino, di nuove preoccupazioni circa il problema del leggere e non solo. L’esempio della lettura con finalità educativa è riproposto all’inizio del romanzo Il barone rampante, 78 nelle scene in cui l’abate Fauchelafleur cerca di impartire le lezioni al giovane Cosimo. Da principio le letture hanno luogo con lo scolaro «seduto a cavalcioni d’un ramo d’olmo» e «l’Abate sotto, sull’erba, seduto su uno sgabelletto», 79 ma poi Cosimo riesce a persuadere il maestro a proseguire la lezione stando su un ramo. Poi non so come fu, come l’allievo scappasse via, forse perché l’Abate lassù s’era distratto ed era restato allocchito a guardare nel vuo77 Cfr. Ferretti, Le avventure del lettore, cit., p. 44, Giovanni Palumbo, “Le Prince Andréj” e il volo di Cosimo: chiose sul finale del “Barone rampante”, in «Critica letteraria», XXXII (2004), n. 124, pp. 453-482, in particolare pp. 463-466. 78 Italo Calvino, Il Barone rampante, Torino, Einaudi, 1957. Nel 1960 il romanzo viene incluso nella raccolta I nostri antenati, cit., prima in posizione finale (pp. 187-406), poi e definitivamente, a partire dalla edizione Torino, Einaudi, 1967, in quella mediana (pp. 73-261). Seguono numerose ristampe sia in versione autonoma sia in quella collettiva. Seguono le edizioni Milano, Garzanti, 1985; poi Milano, Mondadori, 1990. Le edizioni scolastiche del romanzo saranno ricordate a seguire. Per le citazioni riportate nel testo si fa riferimento all’edizione del Barone inclusa in R-I (pp. 547-777). 79 Ivi, p. 613.

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to come al solito, fatto sta che rannicchiato tra i rami c’era solo il vecchio prete nero, col libro sulle ginocchia, e guardava una farfalla bianca volare e la seguiva a bocca aperta. Quando la farfalla sparì, l’Abate s’accorse d’essere là in cima, e gli prese paura. S’abbracciò al tronco, cominciò a gridare: – Au secours! Au secours! – finché non venne gente con una scala e pian piano egli si calmò e discese. 80

La dinamica narrativa messa in atto in questa scena presenta alcune analogie con quella già analizzata della Gerusalemme liberata: da una parte, ad esempio, il modello della lettura finalizzata all’istruzione (già illustrato nel Visconte attraverso il modello del Buono), si concretizza nel Barone nella proposta ancor più noiosa dell’Abate, fatta di ripetizioni in coro di esametri virgiliani e di «compitazioni» (questo il termine nel testo), di passi difficili. 81 A rimarcare ironicamente questo aspetto, concorre il fatto che ogni qual volta l’Abate compare con un libro in mano, egli finisce per lasciarsi distrarre da futili accadimenti quali, ad esempio, il «volare» di una «farfalla bianca», 82 oppure per perdersi nella contemplazione del vuoto: «l’Abate Fauchelafleur […] se n’andava a zonzo col breviario aperto davanti, ma con lo sguardo fisso nel vuoto come una gallina». 83 Contrapposta a questa versione parodica di magister (riecheggiante, per di più, il don Abbondio manzoniano che se ne va in giro con il breviario aperto e la mente distratta da tutt’altri pensieri), vi è quella dello scolaro Cosimo, che si contraddistingue, fin da subito, per i ripetuti tentativi di movimentare la lezione, realizzati prima facendo salire l’abate su un ramo, e poi sottraendosene per scappare altrove. Anche nel Barone, quindi, l’autore giustappone un’immagine noiosa e statica di lettura con finalità educatrice, all’aspirazione di un discepolo-ascoltatore a una più entusiasmante e dinamica; e ancora una volta egli propende per l’ideale del lettore più giovane, avallando così, attraverso ulteriori esempi narrativi, la sua predilezione per l’azione e per l’avventura. 84 Ibidem. Ibidem. 82 Cfr. ibidem. 83 Ivi, p. 554. 84 Ribadisce a questo proposito l’autore nel 1959: «da tutto il mio discorso avrete capito che l’azione mi è sempre piaciuta più della immobilità, la volontà più della rassegnazione, l’eccezionalità più della consuetudine» (Calvino, Tre correnti del romanzo di oggi, cit., p. 73). 80 81

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Se già si è rilevato come nel Visconte si ironizzi sulla proposta del Buono di una lettura come «ammaestramento e dovere», 85 occorre precisare che all’altezza della scrittura del Barone, non solo Calvino romanziere, ma anche Calvino saggista e giornalista si è ormai del tutto votato alla causa del delectare. Fondamentale, in questa evoluzione, è la scoperta della poetica di Bertold Brecht, cui Calvino dedica in questo periodo un’attenzione e un’ammirazione crescenti: Io sono per Brecht […] e quel primo, sbrigativo assioma della sua estetica; che il teatro ha per fine il divertimento, che tutti gli assunti religiosi o didascalici o preziosi o filosofici sono subordinati a quello di divertire la gente, suona come la professione di fede non certo di un evasivo edonismo, ma della sua moralità concreta, del suo “umanesimo”. 86

E ancora: In questi ultimi tempi mi sono affezionato a Brecht, oltre che ai drammi alle pagine teoriche, che avevo, prima, ingiustamente trascurato. Un Brecht della narrativa non c’è, purtroppo, e questo suo modo di intendere il teatro si è continuamente tentati di trasporlo, di tradurlo in altri termini per la narrativa. A cominciare da quel suo primo, meraviglioso assioma: che lo scopo del teatro è di divertire. Che sì, ci sono nella storia del teatro tutte le ragioni religiose, estetiche, sociali, ma a condizione di divertire la gente. Anche per la narrativa è lo stesso. E ce lo si dimentica troppo. 87

Dal confronto tra i personaggi lettori della trilogia e le riflessioni saggistiche, si evince allora che il diritto al divertimento del lettore, già manifestato nella figura di Pamela, ma rifiutato all’epoca in sede teorica, si è ormai radicato nella prospettiva dell’autore, trovando supporto nello sviluppo di nuove inclinazioni critiche. A differenza del progetto relativo al “romanzo popolare”, in cui le ragioni letterarie (la poetica dell’avventura) sono tutt’uno con quelle pedagogiche e politiche in senso lato, la successiva “poetica del divertimento” si presta, invece, esattamente all’opFerretti, Le avventure del lettore, cit., p. 42. Italo Calvino, Brecht, in «Notiziario Einaudi», V (settembre 1956), n. 9, poi in S-I, pp. 1301-1302, la citazione a p. 1302. 87 Id., Le sorti del romanzo, in «Ulisse», X (autunno-inverno 1956-57), n. 24-25, poi in S-I, pp. 1512-1514, la citazione a p. 1514. 85

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posto, ad affermare l’indipendenza della scrittura narrativa, e l’autonomia dell’azione letteraria, la quale, individuata nel divertimento la propria «funzione sociale», riacquista così la libertà di impegnarsi «sul piano poetico e gnoseologico e morale e storico insieme». 88 Negli anni in cui scrive il Barone, Calvino, attraverso le pagine saggistiche, afferma ormai con fermezza di non riconoscersi per niente «negli esperimenti di una letteratura che con troppo ostentata modestia identifichi la sua funzione storica con quella esemplificativa e pedagogica», 89 e che, più in generale, «letteratura e politica non devono confondersi». 90 Così, a commento dello stesso Barone, Calvino, senza imbarazzo né reticenza, afferma: «non devi credere che pretenda col Barone rampante d’aver scritto un libro di grande importanza filosofica o storica. No, ho voluto scrivere un libro divertente, ficcandoci dentro una certa mia personale carica di umori e di ghiribizzi». 91 Anche dal punto di vista editoriale Mangoni rileva come il biennio ’55-’56 funga da spartiacque, laddove se fino allora «il discorso letterario si intrecciava al discorso politico esplicitamente, in qualche caso» o più spesso «implicitamente», da quel momento anche Calvino sposa il principio della indipendenza della letteratura, da sempre promulgato dall’amico Vittorini. 92 Del resto è noto e ampiamente documentato come i sommovimenti dell’anno 1956 e soprattutto le reazioni italiane e sovietiche che seguirono, 93 abbiano dato luogo a ripensamenti e rivalutazioni politiche, sfociati, l’anno successivo, nella scelta di da-

Id., Pavese, Carlo Levi, Robbe-Grillet, Butor, Vittorini…, cit., p. 2721. Id., Il midollo del leone, cit., p. 20. 90 Id., Tre correnti del romanzo, cit., p. 64. 91 Id., Lettera a Armando Bozzoli, 8 gennaio 1958, in Lettere, cit., pp. 536-538, la citazione a p. 537. 92 Cfr. Mangoni, Pensare i libri, cit., p. 673 e p. 686. 93 Spriano ha sottolineato come quello che destabilizza Calvino nel 1956 non è tanto il rapporto Krusciov quanto le reazioni (italiane e sovietiche) seguite alla sua divulgazione. Se inizialmente gli sembrò che gli «fosse stato tolto un grosso peso dal petto» (Italo Calvino, intervista a Eugenio Scalfari, apparsa su «la Repubblica», 13 dicembre, 1980) poi, invece, «nel corso dell’anno, le cose […] dovevano volgere in modo molto diverso dalle aspettative dei rinnovatori impegnati nel partito» (Spriano, Le passioni di un decennio, cit., p. 22), basti pensare all’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest. 88 89

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re le dimissioni dal Partito Comunista. 94 Occupandoci, in questa sede, delle istanze più strettamente letterarie, ci limiteremo a porre l’accento su come questi stessi ripensamenti abbiano decretato un mutamento anche nel modo di concepire la letteratura. 95 Un primo significativo effetto è conseguito, appunto, dal fatto che il divertimento, ormai lungi dall’essere considerato una «zona marginale», assurge, da questo momento, a valore artistico e addirittura morale, venendo a rappresentare un presupposto cui l’autore da lì in avanti rimarrà sempre fedele. In modo ancor più esplicito, a commento della trilogia, ribadirà inoltre: anche i significati sono molto importanti, però in un racconto come questo l’aspetto di funzionalità narrativa e, diciamolo, di divertimento, è molto importante. Io credo che il divertire sia una funzione sociale, corrisponde alla mia morale; penso sempre al lettore che si deve sorbire tutte queste pagine, bisogna che si diverta, bisogna che abbia anche una gratificazione; questa è la mia morale: uno ha comprato un libro, ha pagato dei soldi, ci investe del suo tempo, si deve divertire. Non sono solo io a pensarla così, ad esempio anche uno scrittore molto attento ai contenuti come Bertold Brecht diceva che la prima funzione sociale di un’opera teatrale era il divertimento. Io penso che il divertimento sia una cosa seria. 96

Dalle precedenti riflessioni si evince un’ulteriore, fondamentale, suggestione: l’idea della moralità del divertimento si radica in una prospettiva fortemente connotata sul lato pratico. L’immagine del «lettore che si deve sorbire tutte queste pagine» e che in ragione del fatto che «ha comprato un libro, ha pagato dei soldi» allora «bisogna che si diverta», è evidentemente condizionata dalla consuetudine con la prassi editoriale, la quale deve fare quotidianamente i conti con il «linguaggio economi94 Per le reazioni di Calvino sul piano prettamente politico si rimanda a Domenico Scarpa, Da Poznan alle Antille: Italo Calvino e il 1956, in «Paragone», XLIV (1993), n. 524-526, pp. 60-73. 95 Per un inquadramento generale dei problemi letterari posti dall’autore in questi anni si rimanda a Guido Bonsaver, Calvino tra Budapest e Parigi (1956-1966): dalla crisi dell’ideologia alle ideologie della crisi, in Italo Calvino le défi au labyrinthe, cit., pp. 45-60, dello stesso autore anche la monografia: Il mondo scritto: forme e ideologia nella narrativa di Italo Calvino, Torino, Tirrenia Stampatori, 1995. 96 Calvino, Intervista con gli studenti di Pesaro, poi come Presentazione, cit., pp. VI-VII.

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co» e con un «dato fondamentale: la lettura richiede un dispendio di tempo e di energie, che costituiscono il prezzo da pagare per fruire del prodotto scritto». 97 La disponibilità a «mettersi nei panni del suo interlocutore» non appartiene, quindi, soltanto a Calvino editore (come più volte è stato sottolineato), ma anche a Calvino scrittore nel momento in cui progetta e «analizza» la sua produzione «in base al discrimine tra piacere e fatica, tra divertimento e noia» del lettore. 98 Da questa convergenza, rispetto al problema del divertimento, delle due diverse prospettive (autoriale ed editoriale), si vorrebbe trarre lo spunto per una prima riflessione: il passaggio da un’«ottica tradizionale del rapporto letteratura-società» a una «più feconda, del rapporto fra produzione e fruizione dei testi, fra scrittura e lettura», 99 riconosciuto dalla critica nell’ultima fase artistica di Calvino, andrebbe forse anticipato o, per lo meno, problematicizzato. Proprio il Barone, infatti, come vedremo, ci consentirà di mettere in luce come, almeno per quanto concerne il problema della lettura, già a quest’altezza l’«ottica tradizionale» sia fortemente condizionata da un nuovo e più moderno modo di concepire la letteratura. 5. La proposta di Cosimo (e l’editoria scolastica) Se nel Visconte il discorso sulla lettura si esaurisce nel rifiuto della proposta del Buono (da cui si è cercato di dedurre, per contrapposizione, alcune ipotesi propositive), nel Barone, inve97 Vittorio Spinazzola, La lettura letteraria, in Tirature ’91, poi in La modernità letteraria, Milano, il Saggiatore, 2001, pp. 13-30, la cit. a p. 14. 98 Cfr. Ferrero, Postfazione a Il libro dei risvolti, cit., p. 257. Ferretti sottolinea, ad esempio, come anche nel momento in cui Calvino collabora ai «Gettoni», collana che non si lasciò condizionare, almeno per i primi anni, dai «problemi di leggibilità, destinazione e accoglienza da parte del pubblico», questi stessi problemi sono, invece, puntualmente avanzati da Calvino (Ferretti, L’editore Vittorini, cit., p. 224). Ulteriori testimonianze in questo senso possono essere riscontrate nell’epistolario editoriale di quegli anni, in particolare si rimanda alle pp. 104, 137, 170, 180 della raccolta I libri degli altri, cit. 99 Spinazzola, L’io diviso di Italo Calvino, in Italo Calvino. Atti del Convegno internazionale (Firenze), cit., pp. 87-112, da cui la citazione a p. 107 (il saggio è riproposto in Vittorio Spinazzola, L’offerta letteraria. Narratori italiani del secondo Novecento, Napoli, Morano, 1990).

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ce, al tentativo fallimentare dell’abate segue poi la descrizione di un nuovo modello pedagogico, orchestrato dallo stesso alunno. Cosimo, infatti, trascorso un po’ di tempo e grazie soprattutto all’incontro con Gian dei Brughi, è preso da «una smisurata passione per la lettura e per lo studio», 100 al punto che «adesso era lui che andava a cercare l’Abate Fauchelafleur perché gli facesse lezione». 101 Di fronte alla manifesta inettitudine culturale e pedagogica dell’abate, accade ben presto che «il rapporto di discepolanza tra i due si capovolse: Cosimo faceva da maestro e Flauchelafleur da allievo». 102 Il nuovo modello di lettura-apprendimento realizzato da Cosimo si distingue, anzitutto, per l’eterogeneità delle materie considerate: se «il vecchio prete fuor che un po’ di grammatica e un po’ di teologia annegava in un mare di dubbi e di lacune», 103 Cosimo, invece, si appassiona ai classici (Tacito, Plutarco, Ovidio), ma anche alle «leggi della chimica» e agli esperimenti scientifici, e, soprattutto, ai grandi pensatori dell’Illuminismo. Radicalmente diversa è anche la modalità di rapportarsi al testo: alle «compitazioni» dell’Abate, Cosimo contrappone il «bisogno di commentare le scoperte che andava facendo sui libri», di sviluppare «domande» e di esigere «spiegazioni». 104 L’aspetto più ironico e divertente di tutta questa faccenda è che il metodo di Cosimo risulta così convincente che anche l’Abate giansenista si converte al pensiero illuminista, fino a che, sparsasi la voce che a Ombrosa c’è un prete che si tiene al corrente «di tutte le pubblicazioni più scomunicate d’Europa», l’abate Flauchelafleur viene incriminato e poi condannato dal Tribunale ecclesiastico a passare «il resto dei suoi giorni tra il carcere e il convento». 105 In generale possiamo notare come il momento in cui l’attenzione dell’autore si appunta con maggiore generosità sulla figura di un personaggio lettore in età scolare, precede e in parte coincide con il periodo in cui Calvino scrittore ed editore ricerca, con maggior impegno, il contatto con i lettori più giovani e con il pubblico scolastico: al 1956 risale, ad esempio, la pubbliCalvino, Il barone rampante, cit., p. 650. Ibidem. 102 Ivi, p. 651. 103 Ivi, p. 650. 104 Cfr. ivi, p. 651. 105 Cfr. ivi, p. 653. 100 101

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cazione delle Fiabe italiane, 106 al 1959, la cura della prima riduzione del Barone per la collana «Libri per ragazzi», 107 e poi, al 1965, la seconda, per la collana scolastica «Lettura per la scuola media»; 108 nel ’63 esce, inoltre, la raccolta Marcovaldo, 109 destinata a incontrare un enorme successo tra il pubblico scolastico, cui segue, nel ’69, un’antologia per la scuola media intitolata La lettura. 110 In questa occasione, secondo la testimonianza di Bezzera Violante, Calvino, in perfetta consonanza con il modello pedagogico proposto attraverso l’esempio di Cosimo, avrebbe dimostrato la volontà di operare uno «svecchiamento dei contenuti e del linguaggio», privilegiando materiali di «gusto illuministico», meglio se divertenti. 111 Significativo, inoltre, il ricordo di Bezzera Violante secondo cui Calvino era infastidito dal mon-

106 Cfr. Id., Fiabe italiane, cit. È bene precisare a riguardo che l’operazione editoriale delle Fiabe è portata avanti su due versanti: da una parte c’è l’edizione di lusso per la collana «I millenni» (quella, appunto del ’56), dall’altra seguono varie riduzioni e adattamenti specificatamente rivolti al pubblico infantile o scolastico, cfr., ad esempio, l’edizione ridotta Milano, Oscar Mondadori, 1968, e le sillogi: L’uccel belvedere e altre fiabe e Il principe granchio e altre fiabe, apparse nel ’72 e nel ’74 nella collana «Libri per ragazzi», Torino, Einaudi. Per un ulteriore approfondimento cfr. Luca Clerici, Il progetto editoriale delle “Fiabe italiane”, in Delia Frigessi (a cura di), Inchiesta sulle fate. Italo Calvino e la fiaba, convegno di San Giovanni Valdarno (1986), Bergamo, Lubrina Editore, 1988, pp. 73-94. 107 Il barone rampante, edizione ridotta dall’autore, Torino, Einaudi, 1959. 108 Il barone rampante, edizione ridotta dall’autore, con Prefazione e note di Tonio Cavilla, Torino, Einaudi, 1965. Per un approfondimento sui criteri di riduzione delle due edizioni si rimanda all’intervento di Paolo Giovannetti, Calvino, la scuola, l’editoria scolastica: l’idillio dimezzato, in Calvino e l’editoria, cit., pp. 35-82; le osservazioni di Giovannetti sono riprese da Mario Barenghi, in Il barone rampante. Note e notizie sui testi, in R-I, pp. 1327-1337, in particolate pp. 1331-32. 109 Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, Torino, Einaudi, 1963. 110 Cfr. La lettura. Antologia per la scuola media, a cura di Italo Calvino e Giambattista Salinari, Bologna, Zanichelli, 1969, in 3 voll. Sul rapporto tra Calvino e la scuola cfr. Antonio Faeti, Con Cosimo e Gurdulù. Note su Italo Calvino e la scuola, in Italo Calvino, Atti del Convegno internazionale (Firenze), cit., pp. 53-81; Aa. Vv., Italo Calvino scrittore anche per la scuola. Atti del seminario di studi (Chiavari, 2 marzo 1991), Lavagna, Serigraf, 1994. 111 Bezzera Violante, “La lettura”: Calvino e un’antologia per la scuola media inferiore, cit., p. 86.

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do e dal «sapere scolastico», e tuttavia interessato e attento alle esigenze degli scolari. 112 Ma tornando alla scena narrativa descritta, va rilevato come essa contribuisca anche alla rievocazione del clima culturale in cui sono ambientate le vicende. 113 La schermaglia tra l’abate e Cosimo riproduce, infatti, il confronto-scontro tra due antitetiche prospettive culturali: da una parte, nella figura dell’abate, si concretizza il modello dell’insegnante ecclesiastico tradizionale, legato ai modelli letterari e pedagogici dell’ancien régime, dall’altra, invece, attraverso Cosimo, è rappresentata la cultura dei “lumi”. Così, analogamente, il triste epilogo dell’abate simboleggia il tramonto del monopolio ecclesiastico sull’insegnamento, 114 la vittoria della nuova sulla vecchia cultura, cioè dell’Illuminismo sull’oscurantismo. Nell’atteggiamento antiaccademico e antiretorico che Cosimo intrattiene con il mondo dei libri, così come nell’attrazione esercitata su di lui dalla nascente cultura filosofica e scientifica dei “lumi”, si può non solo genericamente intravedere un’eco della figura dell’autore, il cui più intimo e segreto nucleo «della […] esperienza intellettuale e letteraria» è sempre stato «la tradizione laica, scientifica, atea di famiglia», 115 ma anche, più precisamente, una trasposizione narrativa di quanto Calvino stava in quel momento teorizzando attraverso numerosi interventi Ivi, p. 90. Non dimentichiamo che lo stesso autore sottolinea come il Barone tenda «a tratti […] a diventare un libro sul Settecento, un romanzo storico in cui attorno al protagonista si muove la cultura dell’epoca, la Rivoluzione francese, Napoleone…» (Prefazione all’edizione scolastica del 1965, riportata in R-I, pp. 1225-1232, cit. da p. 1226); così, analogamente, in un'altra circostanza Calvino parla di questo romanzo come di un «pastiche storico» (cfr. Id., Postfazione ai Nostri antenati (nota 1960), cit., p. 1215), e afferma di avere lavorato con scrupolo documentario attingendo dalle risorse dell’archivio Einaudi, ricorrendo alle «ricerche» dei suoi «amici storici, sugli illuministi e giacobini italiani» (ivi, pp. 1214-1215). Su questo stesso aspetto si rimanda a Jean-Michel Gardair, Luci e ombre del Settecento, in Italo Calvino, Atti del Convegno internazionale (Firenze), cit., pp. 289-295. 114 Proprio il problema dell’ingerenza ecclesiastica nella cultura è avvertito e denunciato da Calvino in anni prossimi alla stesura del Barone: «non starò qui a rifare la cronaca dei soprusi, delle intimidazioni, dei ricatti anticulturali che il predominio clericale di sua natura produce; tutti conoscono le zone più insidiate, dalla scuola […] al cinema […], al teatro» (Calvino, Elezioni e cultura, cit., p. 2161). 115 Ferretti, Le capre di Bikini, cit., p. 47. 112 113

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(quale, ad esempio, Il midollo del leone, in cui l’autore dichiara apertamente di prediligere la scelta di una «lucidità razionalista settecentesca»). Nella Nota introduttiva a Gli amori difficili, scritta diversi anni dopo la stesura del Barone, Calvino (parlando di sé in terza persona) avrebbe inoltre spiegato: «la cultura illuministica e giacobina era il cavallo di battaglia degli storici in mezzo ai quali egli viveva nel lavoro editoriale quotidiano: da Franco Venturi ai più giovani e al loro maestro Cantimori; inoltre, il suo retroterra personale, di discendente di frammassoni, gli faceva trovare nel mondo ideologico settecentesco un’aria di famiglia». 116 Nella rivolta di Cosimo si può, infine, cogliere un’ulteriore conferma del carattere prettamente antistituzionale che deve connotare, secondo Calvino, la “vera” lettura, e dell’avversione, più volte manifestata, a quei progetti che troppo rigidamente impongono un gusto e una pratica di lettura. 6. Gian dei Brughi e le responsabilità del lettore La scoperta da parte di Cosimo di un diverso e più appassionante modo di concepire la lettura si verifica, all’interno dell’intreccio narrativo, in coincidenza con l’incontro con il brigante Gian dei Brughi: – Cosa legge di bello? – Il Gil Blas di Lesage. 117 – È bello? – Eh sì. – Le manca tanto a finirlo? – Perché? Be’, una ventina di pagine. – Perché quando l’aveva finito volevo chiederle se me lo prestava, – sorrise, un po’ confuso. – Sa, passo le giornate nascosto, non si sa mai cosa fare. Avessi un libro ogni tanto, dico. Una volta ho fermato una carrozza, poca roba, ma c’era un libro e l’ho preso. Me lo sono portato 116 «È naturale quindi» conclude l’autore «che il più vasto romanzo (o parodia di romanzo) che Calvino ha scritto sia una trasfigurazione di miti personali e contemporanei in allegorie settecentesche» (Calvino, Nota introduttiva a Gli amori difficili, riportato in R-II, pp. 1282-1299, la citazione a p. 1286). 117 Trattasi de Historie de Gil Blas di Santillana (4 voll., 1715-35), considerato il capolavoro dello scrittore e commediografo francese A.R. Lesage.

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su, nascosto sotto la giubba; tutto il resto del bottino avrei dato, pur di tenermi quel libro. La sera, accendo la lanterna, vado per leggere… era in latino! Non ci capivo una parola… 118

L’attrazione per i libri, già manifestata in Gian dei Brughi in occasione di una precedente rapina, da questo momento si tramuta in una passione viscerale e disarmante, che trasformerà il più famoso e crudele brigante di Ombrosa in un lettore casalingo, instancabile e perfino ossessionato dalla lettura. Nella caratterizzazione di questo personaggio si rintraccia forse la descrizione più intensa che Calvino offre della passione per la lettura: Gian dei Brughi, intanto, sdraiato sul suo giaciglio, gli ispidi capelli rossi pieni di foglie secche sulla fronte corrugata, gli occhi verdi che gli s’arrossavano nello sforzo della vista, leggeva leggeva muovendo la mandibola in un compitare furioso, tenendo alto un dito umido di saliva per essere pronto a voltare la pagina. 119 Gian dei Brughi afferrò il libro con ambe le mani, s’alzò in ginocchio, fece per stringerselo al petto tenendolo aperto al segno, poi la voglia di continuare a leggere era troppa e, sempre tenendolo stretto, l’alzò fino a poterci tuffare il naso dentro. 120

Al contempo, questo personaggio rappresenta anche la più paradossale, divertente e divertita descrizione dei poteri insiti in questa attività: Alla lettura di Richardson, una disposizione già da tempo latente nel suo animo lo andava come struggendo: un desiderio di giornate familiari, di virtù, d’avversione per i malvagi e i viziosi. 121

Anche nel momento della prigionia, quando Gian dei Brughi è incarcerato e torturato per essere indotto a confessare i suoi innumerevoli reati, il suo unico “cruccio” «erano quelle giornate vuote lì in prigione, senza potere leggere, e quel romanzo [la Clarissa] lasciato a mezzo». 122 Ed è sempre e solo la finzione narrativa a interessarlo nel momento dell’esecuzione della conCalvino, Il barone rampante, cit., pp. 641-642. Ivi, p. 644. 120 Ivi, p. 646. 121 Ivi, p. 644. 122 Ivi, p. 648. 118 119

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danna, trovando egli conforto nella coincidenza tra la sua impiccagione e quella del protagonista del romanzo intrapreso: Erano i giorni del processo, e Gian dei Brughi aveva mente solo ai casi di Jonathan Wild. Prima che il romanzo fosse finito, venne il giorno dell’esecuzione. Sul carretto, in compagnia d’un frate, Gian dei Brughi fece l’ultimo suo viaggio da vivente. Le impiccagioni a Ombrosa si facevano a un’alta quercia in mezzo alla piazza. Intorno tutto il popolo faceva cerchio. Quand’ebbe il cappio al collo, Gian dei Brughi sentì un fischio di tra i rami. Alzò il viso. C’era Cosimo col libro chiuso. – Dimmi come finisce, – fece il condannato. – Mi dispiace di dirtelo, Gian, – rispose Cosimo, – Gionata finisce appeso per la gola. – Grazie. Così sia di me pure! Addio! – e lui stesso calciò via la scala, restando strozzato. 123

Di là dell’ironia e del divertimento che contraddistinguono l’episodio di Gian dei Brughi, proprio la fine toccata in sorte al brigante suggerisce una riflessione fondamentale nell’economica del nostro discorso, e cioè che la celebrazione dell’idea di lettura come passione vorace e disarmante disegna, in questo romanzo, il suo culmine e l’inizio di una parabola discente. A dimostrazione di ciò si veda, anzitutto, come nella dinamica del racconto la scoperta del piacere di lettura determini, nella vita del brigante, una rapida involuzione: questi che era famoso in tutta Ombrosa per essere «il bandito dei banditi», 124 quello più intraprendente e più temuto, nel giro di pochissimo tempo, passando tutte le sue giornate a leggere, «s’era rimminchionito». 125 Accade allora che «due giovani che erano stati tirati su da lui e non sapevano rassegnarsi a perdere quel bel capobanda» 126 lo costringono a compiere un’ultima rapina. Dapprima cercano di convincerlo allettandolo con la consistenza del bottino poi, visto che Gian dei Brughi non distoglie gli occhi dalla Clarissa di Richardson, i due briganti gli rubano il libro e lo ricattano, strappando le pagine finali del romanzo e gettandole nel fuoco. 127

Ivi, p. 649. Ivi, p. 638. 125 Ivi, p. 645. Il concetto viene ribadito subito dopo (cfr. ivi, p. 646). 126 Ibidem. 127 Questa divertentissima scena alle pp. 646-647. 123

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Gian dei Brughi, avendo accettato di collaborare solo per amore di Clarissa, si rivela, all’atto pratico, troppo frettoloso e impacciato; così, a causa di una serie di disattenzioni, l’ultimo colpo del brigante si conclude con la sua cattura e la condanna alla pena capitale. Se ci si è dilungati nel resoconto della vicenda, è per dimostrare come nella dinamica di questo episodio la lettura risulti la prima responsabile della trasformazione del brigante e quindi, in certo qual modo, anche colpevole della sua cattura e della sua uccisione. A questo proposito occorre precisare che la «conversione morale del brigante» generata dalla lettura, di cui hanno parlato alcuni critici, 128 è più ironica che reale: anche l’esito fallimentare dell’ultima rapina, ad esempio, non deriva dal manifestarsi di scrupoli morali nel brigante, quanto invece dall’abitudine a trascorrere le giornate «nascosto coi lucciconi agli occhi a leggere romanzi». 129 E non è certo un’evoluzione positiva quella che il narratore intende sottolineare, descrivendo il brigante come un «rammollito» 130 e «imminchionito», 131 «cosa questa» ultima (come spiegato in un’altra circostanza) «più grave e dolorosa, perché la pazzia è una forza della natura, nel male o nel bene, mentre la minchioneria è una debolezza della natura, senza contropartita». 132 Il fatto, indubbiamente, non è di poco rilievo: se è vero, infatti, che pigrizia e inettitudine avevano contraddistinto altri personaggi-lettori (in particolare quelli degli anni ‘48-‘50), è vero però che in quei casi la responsabilità non era attribuita alla lettura in sé ma, soprattutto, all’appartenenza borghese di quei lettori. Diverso ancora è il caso di Zena il lungo, la cui pigrizia, a ben guardare, non si connota neppure in un senso deteriore, ma è descritta con bonaria indulgenza dal narratore. Proprio il confronto con quest’ultimo personaggio-lettore, ci consente allora 128 Cfr. Palumbo, “Le Prince Andréj” e il volo di Cosimo, cit., p. 465; ma anche Benussi, ad esempio, sostiene che Cosimo avrebbe educato il brigante Gian dei Brughi «con letture adatte a lui (i best sellers del momento)» (Benussi, Introduzione a Calvino, cit., p. 45). 129 Calvino, Il barone rampante, cit., p. 645. Cogliendo l’ironia della scena narrativa, Battistini rileva, più precisamente, una parodia intertestuale con la conversione dell’Innominato manzoniano (cfr. Battistini, L’amor di libro in Italo Calvino, cit., p. 12). 130 Calvino, Il barone rampante, cit., p. 646. 131 Ivi, p. 645. 132 Ivi, p. 737.

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di comprendere come sia evoluto nel tempo l’ideale di lettura di Calvino. Vero è che alcuni caratteri di Gian dei Brughi rievocano quelli di Zena: la passione, la capacità d’immedesimazione, ma anche l’inesperienza e la spontaneità regalano a entrambi i personaggi uno slancio e un gusto per la lettura molto particolari, che ancora (a metà degli anni ’50) l’autore ritrova soprattutto in quei lettori che sono estranei a pregiudizi intellettualizzanti: È sempre con curiosità e speranza e meraviglia che il giovane, l’operaio, il contadino che ha preso gusto a leggere, aprono un libro nuovo. Sempre così vorrei che venissero aperti anche i nostri. 133

Ma se dal Sentiero, così come dai racconti coevi, si evince chiaramente che l’autore all’epoca non nutriva preoccupazione alcuna circa la modalità di ricezione dei lettori, neppure di quelli che, come Zena, antepongono il mondo della fiction alla realtà, ora, invece, il suo atteggiamento è cambiato. Se, cioè, ai tempi del Sentiero, bastava un lettore appassionato come Zena il Lungo per credere nella lettura e nel potere della letteratura, ora invece il modello cui aspira Calvino sembra essere diventato molto più ambizioso. Accanto alla celebrazione della «curiosità», della «speranza» e della «meraviglia» che contraddistinguono la lettura di Gian dei Brughi, l’autore evidenzia anche i rischi connessi a questa particolare forma di seduzione: Tutto quel che lo circondava non lo interessava più, o lo riempiva di disgusto. Non usciva più dalla sua tana tranne che per correre da Cosimo a farsi dare il cambio del volume, specie se era un romanzo in più tomi ed era rimasto a mezzo della storia. Viveva così, isolato, senza rendersi conto della tempesta di risentimenti che covava contro di lui anche tra gli abitanti del bosco un tempo suoi complici fidati, ma che ora s’erano stancati di tenersi tra i piedi un brigante inattivo, che si tirava dietro tutta la sbirraglia. 134

La proiezione immedesimativa nel mondo narrato finisce non solo per isolare il lettore ma anche per disamorarlo dalla realtà: la vera vita del brigante diventa, infatti, quella che lui vive attraverso le vicende lette, mentre quando si trova nuova133 134

Id., Il midollo del leone, cit., p. 27. Id., Il barone rampante, cit., p. 644.

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mente costretto ad agire in prima persona lo fa «così tanto per fare», ma in verità «non ci credeva più nemmeno lui». 135 Culmine della vicenda e dell’intonazione parodica della rappresentazione è la scena in cui il brigante, ormai prossimo alla impiccagione, si dichiara rinfrancato dalla notizia che Jonathan Wild è destinato alla sua stessa fine. Questa immagine parrebbe, in certo senso, rievocare la riflessione gramsciana secondo cui i lettori ingenui delle classi popolari sono i più inclini alla immedesimazione e alla ricerca di una consolazione dei propri guai. E tuttavia, nel Barone, la caratterizzazione di Gian dei Brughi come brigante, cioè come persona al di fuori delle classi sociali, tende a eludere la prospettiva sociologica su cui si fondava il discorso gramsciano, in favore (come vedremo nel prossimo paragrafo) di una più specificatamente letteraria. Per ora limitiamoci a sottolineare che mentre si afferma il diritto al divertimento del lettore, si evidenziano anche i rischi connaturati in una ricezione autoreferenziale e votata al mero edonismo. Rivendicare l’indipendenza della letteratura dai vincoli pedagogici e politici non significa, quindi, per Calvino, rinunciare alla prospettiva umanistica, ma cercare, altresì, una via alternativa, in cui lo «scarto salvifico» della fantasia non sia disgiunto dal senso della lettura come «controcanto esistenziale necessario alla cognizione del vivere». 136 7. Gian dei Brughi e le responsabilità della letteratura Nella triste capitolazione del brigante Gian dei Brughi è facile rilevare come le responsabilità non ricadono solo sul lettore ma anche sulla tipologia dei libri prescelta. Il narratore, infatti, rimarca come il novello lettore divorasse «romanzi su romanzi», e precisa altresì, in numerose occasioni, come gli autori prediletti dal brigante fossero Richardson e Fielding, vale a dire i padri fondatori del romanzo moderno. Particolarmente interessante è la correlazione, istituita dal narratore, tra la scoperta di Richardson e l’isolamento fisico e mentale del lettore, circostanza assimilabile alla solitudine delle lettrici inglesi descritte da 135 136

Ivi, p. 647. Pampaloni, Il lavoro di scrittore, cit., pp. 17-18.

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Watt, 137 le quali, per meglio assaporare Richardson, si rifugiavano nei piccoli gabinetti di lettura degli appartamenti borghesi di epoca vittoriana. Che si tratti della clandestinità di un brigante o del rifugio domestico delle lettrici inglesi, l’intimità del lettore con i romanzi di Richardson comporta, in entrambi i casi, la “penetrazione” della pagina scritta nella vita “affettiva” del lettore. Il rapporto tra lettura romanzesca e sollecitazione emotiva del lettore è al centro anche di un altro racconto, scritto in quegli stessi anni, intitolato L’avventura di un lettore. 138 Calvino torna a rappresentare, in questo caso, un lettore attratto dai grandi classici del genere: La certosa di Parma, Delitto e Castigo, Le illusioni perdute, sono citati nel racconto attraverso i nomi dei rispettivi protagonisti (Fabrizio del Dongo, Raskolnikov, Lucien de Rubempré). Non a caso, infatti, Amedeo (questo il nome del protagonista) è appassionato soprattutto delle «narrazioni di fatti»: «le storie, l’intreccio delle vicende umane. Romanzi dell’Ottocento, prima di tutto, ma anche memorie e biografie; e via via fino ad arrivare ai gialli e alla fantascienza, che non disdegnava ma che gli davano minore soddisfazione». 139 La particolareggiata descrizione del lettore rivela come, anche in questo caso, la modalità di ricezione del testo si fondi sulla totale immedesimazione nella finzione, da cui il disinteresse del lettore per la vita reale. Anche quando capita che Amedeo incontri al mare «una signora abbronzata» che gli lancia inequivocabili messaggi di disponibilità, egli si mostra ugualmente reticente ad abbandonare l’avventura certa della pagina scritta per un’incerta e faticosa avventura sentimentale. Il punto è che la letteratura risulta agli occhi di Amedeo molto più piena, appagante e (paradossalmente) vera della vita reale: «oltre la superficie della pagina s’entrava in un mondo in cui la vita era più 137 Ian Watt, The Rise of the Novel. Studies in Defoe, Richardson and Fielding, London, Chatto & Windus, 1957, tradotto in italiano con il titolo Le origini del romanzo borghese. Studi su Defoe, Richardson e Fielding, Milano, Bompiani, 1976. Secondo l’approfondimento di Watt, il successo di Richardson sarebbe legato all’evoluzione del pubblico inglese e, più in particolare, all’affermazione nel Settecento di un modello di lettura privato, intimo e domestico. 138 Italo Calvino, Avventura di un lettore, in «Tempo presente», III (agosto 1958), n. 8, poi con il titolo L’avventura di un lettore in I racconti, cit., infine in R-II, pp. 1126-1141. 139 Ivi, p. 1128.

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vita che di qua, da questa parte». 140 Se è evidente come i caratteri di Amedeo appena descritti lo accomunino alla figura di Gian dei Brughi, altri, invece, sono nuovi e originali. In particolare si vorrebbe sottolineare come la passione totalizzante per il romanzesco non contraddistingue, in questo caso, un «lettore affrettato, famelico», ma, viceversa, un personaggio «arrivato all’età in cui le seconde o le terze o le quarte letture danno più piacere che le prime»: «Amedeo sceglieva ogni anno certi libri famosi da rileggere e certi autori da affrontare la prima volta. E lì allo scoglio li smaltiva, soffermandosi sulle frasi, alzando spesso gli occhi dalla pagina per riflettere, raccogliere le idee». 141 Questa precisazione circa il comportamento intellettualmente accorto di Amedeo lettore, credo vada intesa come una prova a carico della pericolosità del genere romanzo, capace di istigare all’isolamento non solo il lettore impreparato e attratto dalla formula della lettura come evasione, ma anche quello più istruito e concentrato. La responsabilità della “deriva” della lettura di Gian dei Brughi e di Amedeo ricade quindi, principalmente, sull’oggetto letterario (il romanzo) da essi privilegiato, oggetto che non a caso, in questo periodo, è al centro di innumerevoli riflessioni. Già, ad esempio, nella definizione attribuita da Calvino al genere romanzo come «narrazione avvincente, come tecnica per imprigionare l’attenzione del lettore facendolo vivere in un mondo fittizio, partecipare a vicende di forte carica emotiva, costringendolo a non abbandonare la lettura per curiosità di “quel che succederà dopo”», 142 è implicito il rischio di indurre il lettore a estraniarsi dalla realtà. È proprio da questo aspetto che Calvino sembra prendere le distanze quando asserisce: bisogna dire che questo pericolo di “cattura” del lettore era già nel romanzo tradizionale (sempre nel romanzo deteriore, ma spesso anche nei capolavori) e ne costituiva una ragione di fascino ineguagliabile come anche d’impalpabile fastidio per chi non vuol essere «catturato» da niente e da nessuno. Nel romanzo del Novecento l’elemento “avvincente” s’è andato perdendo (restando caratteristico di quel tipo di letteraIbidem. Ivi, p. 1130. 142 Id., Risposte a 9 domande sul romanzo, in «Nuovi Argomenti», 3839, maggio-agosto 1959, poi in Perché leggere i classici?, cit., infine in S-I, pp. 1521-1529, la citazione a p. 1522. 140 141

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tura commerciale noto appunto col nome di suspense) e la partecipazione richiesta al lettore è sempre più una partecipazione critica, una collaborazione. Crisi o non crisi, questa? Crisi senz’altro, ma positiva. 143

Da questo discorso si evince chiaramente come, secondo Calvino, esistano dei limiti “oggettivi”, intrinseci al romanzo di impianto realista, per ovviare ai quali è necessario un cambiamento degli strumenti narrativi. Dalle medesime preoccupazioni deriva anche la critica al modello di romanzo socialista in generale, e alla poetica del rispecchiamento in particolare; quando Calvino, in polemica con Lukács, asserisce: «io credo che oggi un romanzo impiantato “come nell’Ottocento”, che abbracci una vicenda di molti anni, con una vasta descrizione di società, approdi necessariamente a una visione nostalgica, conservatrice», 144 è chiaro che egli giudica quel modello inadatto a raggiungere lo scopo per cui è nato: il rinnovamento dell’uomo e della cultura. Rivoluzionario è chi non accetta il dato naturale e storico e vuole cambiarlo. La resa all’oggettività, fenomeno storico di questo dopoguerra, nasce in un periodo in cui all’uomo viene meno la fiducia nell’indirizzare il corso delle cose. 145

Nella proposta di un orizzonte mimetico della realtà, Calvino riconosce, da un lato, una trappola per irretire il lettore entro le coordinate fittizie della narrazione, dall’altro, una riduzione delle potenzialità di rinnovamento della letteratura. Calvino, allora, nel 1957, pur continuando a pensare al romanzo come alla «sola via di espressione possibile, l’unico modo di giudicare e discutere la società», 146 tuttavia, come scrittore, promulga la realizzazione di un progetto narrativo nuovo, che sappia attuare una «istanza […] rivoluzionaria, conoscitiva e trasformatrice, di attiva razionalità e di rapporto con la realtà». 147 Ivi, p. 1523. Id., Pasternak e la rivoluzione, in «Passato e Presente», n. 3, maggio-giugno 1958, poi in Perché leggere i classici?, cit., infine in S-I, pp. 1361-1382, la citazione a p. 1364. 145 Id., Il mare dell’oggettività, in «Il menabò di letteratura», n. 2, Torino, Einaudi, 1960, poi in Una pietra sopra, cit., infine poi in S-I, pp. 5260, la citazione a p. 55. 146 Id., Pavese, Carlo Levi, Robbe-Grillet, Butor, Vittorini…, cit., p. 2721. 147 Cfr. Ferretti, Le capre di Bikini, cit., p. 58. 143

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Abbiamo detto che un rapporto affettivo con la realtà non ci interessa; non ci interessa la commozione, la nostalgia, l’idillio, schermi pietosi, soluzioni ingannevoli per la difficoltà dell’oggi: meglio la bocca amara e un po’ storta di chi non vuole nascondersi nulla. 148

In perfetta coincidenza con i presupposti critici e letterari, anche sul piano editoriale Calvino porta avanti, in quegli stessi anni, una battaglia «contro la banalizzazione delle strutture romanzesche». 149 In una lettera del 1956 Calvino afferma: Guarda che io, in discussioni letterarie generali, difendo il romanzo, sostengo che il romanzo non è ancora morto […]. Ma penso anche che oggi nella letteratura progressista, negli scrittori che tendono a una presa di coscienza di fatti ancora vergini da rappresentazioni letterarie, la pretesa di fare il romanzo è la grossa catena al piede che ci portiamo dietro. 150

Queste riflessioni che Calvino medita in veste di critico della letteratura, influenzano inevitabilmente anche Calvino scrittore. Un primo risultato è che si invertono le priorità della sua produzione: se prima (ai tempi del Visconte) lo scrittore parlava della scrittura fantastica come di una vacanza dal suo vero impegno di scrittore realista, ora invece riabilita questo linguaggio, giudicandolo, sotto certi aspetti, ancora più efficace: Ancora oggi credo che non si dia vera letteratura rivoluzionaria se non fantastica satirica o utopistica, e che il realismo porti con sé un elemento di sfiducia nella storia, una propensione verso il passato. 151 Calvino, Il midollo del leone, cit., p. 22. Cadioli, Modelli di romanzo nei progetti editoriali del secondo Novecento, cit., p. 347. 150 Italo Calvino, Lettera a Valerio Bertini, 7 marzo 1956, in I libri degli altri, cit., pp. 178-179, la citazione a p. 178. 151 Id., I racconti che non ho scritto, in «Marsia», III (gennaio-aprile 1959), n. 1-2, pp. 11-13, la citazione a p. 12. Fondamentale, a questo riguardo, la considerazione di Gioanola, secondo il quale l’elemento fantastico, pur rappresentando per l’autore una «vocazione originaria», «è anche una lunga conquista perché lo scrittore ha dovuto fare i conti con il neorealismo e con le ideologie che lo avevano ispirato» (Gioanola, Modalità del fantastico nell’opera di Italo Calvino, cit., p. 21). Si coglie l’occasione per puntualizzare che in altre riflessioni l’autore supera la distinzioni di genere (realismo vs favola) ponendo al centro della letteratura altri presupposti fondamentali: «non è attraverso le caratteristiche metodologiche formali (realismo o favola, ecc.) che si definisce una poetica, ma attraverso la forza che la anima, il respiro che ha in petto, il sangue che le scorre nelle vene» (Italo 148 149

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Proprio la fantasia, l’avventura, il divertimento, rappresentano ora agli occhi dell’autore un coefficiente capace di rivitalizzare la partecipazione del lettore. 152 Significative, a questo riguardo, le successive dichiarazioni: Il senso vero della letteratura più fedele alla resa obiettiva della realtà è un senso di vanità del tutto. Il grande scrittore realista è uno che dopo aver accumulato minuziosi particolari e costruito un quadro di perfetta verità, ci batte sopra le nocche e mostra che sotto c’è il vuoto. […] Invece chi scrive perché crede nelle cose del mondo e tiene ad esse, chi si ostina a spiegare la vita, chi ha una sua guerra da combattere […] – come Gogol o Kafka o Picasso – ecco che costoro sono sempre ricorsi a mezzi d’invenzione fantastica, a semplificazioni e organizzazioni violente e paradossali dei dati della realtà. Non per niente la poesia popolare è sempre stata fantastica. 153

Anche quando Calvino abbandona la vena fiabesca per il recupero di una «letteratura “realistica”», 154 egli continuerà a dichiarare la sua «massiccia stanchezza per la letteratura, e per i

Calvino, Sciolti dal “giuramento”, in «Cinema Nuovo», VI (15 dicembre 1957), n. 120-121, poi in S-II, pp. 1912-1914, la citazione a p. 1914). 152 A proposito della letteratura fantastica l’autore avrebbe sottolineato alcuni anni dopo: «l’importante è che il lettore trovi nel racconto dei materiali fantastici che entrino in risonanza col suo particolare linguaggio, muovano in lui relazioni e contrasti» (Id., Intervista a cura di Mladen Machiedo per la rivista «Kolo» di Zagabria, n. 10, ottobre 1968, poi con il titolo Due interviste su scienza e letteratura, in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 229-237, la citazione a p. 236). L’autore, in un’altra circostanza, sottolinea, inoltre, di non intendere il fantastico alla maniera francese, la quale implica «un rapporto col lettore alla maniera ottocentesca» bensì alla maniera italiana: «in italiano […] i termini fantasia e fantastico non implicano affatto questo tuffo del lettore nella corrente emozionale del testo; implicano al contrario una presa di distanza, una levitazione, l’accettazione d’un’altra logica che porta su altri oggetti e altri nessi da quelli dell’esperienza quotidiana» (Id., A la recherche du fantastique, in «Le Monde», 15 agosto 1970, poi col titolo Definizioni di territori: il fantastico, in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 266-268, la citazione a p. 266). 153 Id., Incontro con Calvino, intervista di Giuseppe Mazzaglia, in «Il Punto della settimana», II (16 novembre 1957), n. 46, poi ripreso da Mario Barenghi, in Il barone rampante. Note e notizie sui testi, in R-I, pp. 13291337, in particolare pp. 1330-1331. 154 «Ora sono entrato, finalmente, in un periodo di letteratura “realistica”» (Italo Calvino, Lettera a Paolo Spriano, 1 agosto 1957, in Lettere, cit., pp. 507-508).

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romanzi in particolare», 155 collaborando al rinnovamento del modello romanzesco tradizionale, attraverso la frantumazione «delle coordinate spazio-temporali», 156 e il «sacrificio della suspense». 157 Dall’altra è lo stesso autore a enfatizzare la natura ibrida di questi testi, e la volontà programmatica di trascendere il genere romanzesco, aprendo l’intreccio narrativo a suggestioni di altro tipo. Se, ad esempio, per La nuvola di smog Calvino parla di «un racconto continuamente tentato di diventare qualcos’altro: saggio sociologico o diario intimo», 158 per il romanzo La giornata d’uno scrutatore più diffusamente chiarisce: È un racconto ma nello stesso tempo una specie di reportage sulle elezioni al Cottolengo, e di pamphlet contro uno degli aspetti più assurdi della nostra democrazia, e anche di meditazione filosofica su che cosa significa il far votare i deficienti e i paralitici, su quanto in ciò si rifletta la sfida alla storia d’ogni concezione del mondo che tiene la storia per cosa vana; ed anche un’immagine inconsueta dell’Italia, e un incubo del futuro atomico del genere umano; ma, soprattutto, è una meditazione su se stesso del protagonista (un intellettuale comunista), una specie di “Pilgrim’s Progress” d’uno storicista che vede a un tratto il mondo trasformato in un immenso “Cottolengo” e che vuole salvare le ragioni dell’operare storico insieme ad altre ragioni, appena intuite in quella sua giornata, del fondo segreto della persona umana… 159

Da questa, seppur breve, analisi circa i particolari sviluppi che contraddistinguono la riflessione letteraria e le prospettive artistiche di Calvino sul finire degli anni Cinquanta, risulta evi155 Cfr. Id., Lettera a Domenico Rea, 13 maggio 1964, in ivi, p. 812. Questa posizione viene ribadita dall’autore anche in diversi interventi degli anni ’60: cfr., ad esempio, Italo Calvino, Dialogo di due scrittori in crisi, da una conferenza letta nel marzo e aprile 1961, in varie città della Svizzera, Svezia, Norvegia, Danimarca, pubblicato per la prima volta in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, alle pp. 83-89; Id., Il romanzo è un fiore pallido, in «Paese Sera» Libri, 9 aprile 1965, poi con il titolo Non darò più fiato alle trombe, in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, alle pp. 143-145. 156 Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 70. 157 Ivi, p. 77. 158 L’osservazione attribuita a Calvino è inclusa nel risvolto all’edizione del romanzo del 1965, poi riportata da Bruno Falcetto in La nuvola di smog. Note e notizie sui testi, in R-I, pp. 1352-1360, da cui la nostra citazione a p. 1352. 159 Italo Calvino, Intervista a cura di Andrea Barbato, Il 7 giugno al Cottolengo, in «l’Espresso», 10 marzo 1963, parzialmente riportata da Bruno Falcetto, in La giornata d’uno scrutatore. Note e notizie sui testi, in R-II, pp. 1311-1317, la citazione a p. 1312.

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dente come il problema della ricezione non solo sia ormai parte integrante della visione calviniana della letteratura, ma rappresenti il punto di intersezione verso cui convergono i numerosi discorsi sviluppati dall’autore sul genere romanzo. È proprio nella «cattura del lettore» che Calvino individua, infatti, il limite del romanzo ottocentesco, 160 così come è nell’effetto «nostalgico e conservatore» generato sul lettore dal romanzo socialista che si appunta la critica di Calvino alla teoria del rispecchiamento di Lukács, ed è, infine, e ancora una volta, nell’effetto di straniamento conseguito dal linguaggio fantastico (novecentesco) che Calvino riconosce una delle qualità di questo tipo di letteratura. E chiaro allora che proprio i personaggi lettori possono offrici una chiave di interpretazione per sciogliere i tanti nodi intrecciati nelle riflessioni critiche dell’autore. Le figure di Gian dei Brughi e di Amedeo svelano, infatti, come «il fascino del narrare», e dell’«assistere a una storia» (che hanno probabilmente rappresentato il nucleo originario della passione di Calvino per la letteratura 161 ), hanno ormai mostrato all’autore anche un rovescio della medaglia estremamente pericoloso: la “seduzione” dell’immaginazione rappresenta non solo la libertà di vivere in un mondo altrove, ma anche, e nello stesso momento, il pericolo di essere distolti dal mondo reale. Essendoci interrogati sui motivi che potrebbero avere generato questa, per nulla secondaria, trasformazione, ci si è convinti dell’importanza, sotto questo punto di vista, del lavoro compiuto da Calvino tra il ’54 e il ’56 e conclusosi con l’edizione delle Fiabe italiane. La «sinergia stilistica» tra Calvino e l’universo fiabesco, 162 rivelata fin dagli esordi narrativi del Sentiero e poi riconfermata nel Visconte, 163 grazie al lavoro sulle fiabe ha modo di essere approfondita dall’autore anche sul piano strutturaCfr. Calvino, Nove risposte sul romanzo, cit. Su questo aspetto si rimanda alle fondamentali e suggestive pagine di Starobiski, Prefazione a R-I, cit., in particolare p. XI (da cui sono tratte le citazioni riportate nel testo). 162 Cfr. Mario Lavagetto, Prefazione a Italo Calvino, Sulla fiaba, Torino, Einaudi, 1988, poi con il titolo Sulla fiaba in Mario Lavagetto, Dovuto a Calvino, Torino, Bollati Boringhieri, 2001, pp. 35-51, la citazione a p. 36. 163 Su questo aspetto cfr. Mario Barenghi, Il fiabesco nella narrativa di Calvino, in Inchiesta sulle fate, cit., pp. 27-38; Bruno Falcetto, Fiaba e tradizione letteraria, in Ivi, pp. 39-60; Francesca Salvemini, Il realismo fantastico di Italo Calvino, Roma, Edizioni Associate, 2001. 160 161

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le. 164 Entrando più nello specifico, si ritiene che attraverso lo studio del «catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna», 165 di cui sono composte le fiabe italiane, Calvino abbia colto la possibilità di interrogarsi sul senso ultimo che intende attribuire alla letteratura. Dalla ricerca del valore primitivo che l’uomo ha accordato all’arte del raccontare, sarebbe derivata la scoperta elementare e tuttavia non banale (specie in un’epoca dominata da sovrastrutture ideologiche qual è quella in cui vive Calvino), della narrazione come funzione del conoscere. 166 Asserendo che «le fiabe sono vere», 167 Calvino supporta l’idea che anche la letteratura sia vera, cioè sia il vero ed «eterno rispecchiamento della condizione umana», 168 «una spiegazione generale della vita». 169 Se allora negli stessi personaggi di Gian dei Brughi e di Amedeo sopravvive, nonostante tutto, l’amore di Calvino per la seduzione romanzesca, si esprime però al contempo l’esigenza di ristabilire le giuste proporzioni tra uomo e letteratura: e cioè che è la letteratura ad esistere per l’uomo e non l’uomo a dovere annullare la propria vita per godere del piacere di lettura. È quindi anche grazie alla riscoperta del significato intrinseco del narrare, del suo valore e del suo primo scopo che Calvino affina, in questo periodo, la sua percezione del problema lettura. In questo senso anche la critica che l’autore rivolge ai lettori che si lasciano ingenuamente “catturare” dalla finzione, non va intesa, a ben guardare, come uno stravolgimento delle posizioni degli anni Quaranta, bensì come un approfondimento di quelle stesse premesse. Proprio le figure di Gian dei Brughi e di Amedeo di164

5-53.

Italo Calvino, Introduzione a Id. (a cura di), Fiabe italiane, cit., pp.

Ivi, p. 13. Per l’interpretazione qui proposta dell’universo fiabesco calviniano, si rimanda a Lavagetto, Sulla fiaba, cit.; Id. Introduzione a Italo Calvino, Fiabe italiane, Milano, Mondadori, 1993, poi in Id., Dovuto a Calvino, cit., pp. 52-86; Roberto Deider, Le forme del tempo. Miti, fiabe, immagini di Italo Calvino, Palermo, Sellerio, 2004, in particolare cfr. pp. 41-76; Sarah Cruso, Guida alla lettura di Italo Calvino Fiabe italiane, Roma, Carocci, 2007. Per un ulteriore approfondimento su questo aspetto dell’opera calvinana si rimanda agli atti del convegno interamente dedicato a questo tema: Inchiesta sulle fate, cit. 167 Calvino, Introduzione a Fiabe italiane, cit., p. 13. 168 Falaschi, Ritratti critici di contemporanei. Italo Calvino, cit., p. 545. 169 Calvino, Introduzione a Fiabe italiane, cit., p. 13. 165

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mostrano, infatti, come la battaglia contro il romanzesco tradizionale e contro la lettura come trasporto, sia finalizzata a esorcizzare un pericolo già individuato da Proust: [Il ruolo della lettura nella nostra vita] diventa tuttavia pericoloso quando, invece di ridestarci alla vita personale dello spirito, la lettura tende a sostituirvisi, quando la verità non ci appare più un ideale che possiamo raggiungere soltanto con l’intimo progredire del nostro pensiero e lo sforzo del nostro cuore, ma come qualcosa di materiale, depositato tra i fogli dei libri come un miele preparato dagli altri e che noi dobbiamo soltanto fare lo sforzo di raggiungere negli scaffali della biblioteca per gustarlo poi passivamente in un perfetto riposo del corpo e dello spirito. 170

Anche quando l’autore comincia a porsi il problema del leggere da una prospettiva “retorica”, la sua preoccupazione prioritaria non si appunta sulla possibilità di incrementare la comprensione del testo letterario, quanto sulla necessità di approfondire, attraverso l’esperienza della finzione narrativa, il significato della vita reale. L’idea, già avanzata con l’analisi del personaggio di Kim, circa una visione lettore-centrica della lettura da parte di Calvino, è quindi riconfermata anche dagli esempi di Gian dei Brughi e di Amedeo, “la colpa” dei quali non risiede in un rapporto sbagliato con l’autore o con il testo, bensì nella occasione mancata di un perfezionamento morale, o, più precisamente, di uno stimolo a ricercare la completezza di vita. Proprio questo è, infatti, il risultato perseguito dai personaggi di un racconto scritto nei medesimi anni, intitolato Il generale in biblioteca: Da un lato stavano scoprendo ogni momento nuove curiosità da soddisfare, stavano prendendo gusto a quelle letture e a quegli studi come mai prima avrebbero immaginato; d’altro canto non vedevano l’ora di tornare tra la gente, di riprendere contatto con la vita che appariva adesso tanto più complessa, quasi rinnovata ai loro sguardi. 171

Se è vero che ai tempi del Sentiero Calvino accordava questa possibilità “costruttiva” anche alla lettura di tipo empatico (si rimanda, tra tutti, all’esempio di Kim), ora, invece, perché queProust, Sulla lettura, cit., p. 24. Italo Calvino, Il generale in biblioteca, in «l’Unità», 30 ottobre 1953, poi in Prima che tu dica “Pronto”, cit., infine in R-III, alle pp. 935-940, la citazione a p. 939. 170 171

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sta stessa possibilità si realizzi, è necessario un lettore critico, distaccato, e posto ad una «giusta distanza» dal testo, qual è, ad esempio, Cosimo. 8. Cosimo lettore ideale La passione di Cosimo per la lettura, benché scoperta in coincidenza della frequentazione con il brigante, risulta per molti aspetti antitetica a quella di Gian dei Brughi. Per quanto anche il giovane barone nutra «una smisurata passione per la lettura», 172 al punto che in alcuni periodi della sua vita passerà «metà del suo tempo […] a leggere e metà a cacciare per pagare i conti del libraio Orbecche», 173 la natura del rapporto che intrattiene con il mondo della fiction, le scelte di lettura e la modalità di ricezione fanno di questo personaggio una figura nuova nel panorama narrativo dell’autore, e destinata a rappresentare un punto di svolta sotto molte prospettive. Una prima significativa differenza con il brigante (ma anche con numerosi altri precedenti lettori), è data dal fatto che mentre la vita di Gian dei Brughi si annulla in funzione di un’osmosi pressoché totale tra lettore e finzione narrativa, nell’esperienza di Cosimo l’atto della lettura mantiene un rapporto dialettico e costruttivo con la realtà. A questo proposito accorre rilevare come Calvino, che pur ha sempre avuto «un acuto senso dell’emergenza dei problemi da affrontare», 174 negli anni in cui scrive il Barone, in modo ancora più risoluto, scrive: Con questo spirito, il discorso sui libri dovrebbe tendere non a restringere ma ad allargarsi […]. Discorso sui libri e discorso sulla vita devono il più possibile diventare un unico discorso; e ogni articolo essere la battuta di un dialogo che ne chiami altre. 175

Nell’esempio di Cosimo lettore, per quanto sia avvalorata l’idea della possibilità di un miglioramento morale e civile attraverso la lettura, le vie di azione della letteratura sull’uomo risultano, tuttavia, nel loro complesso ridimensionate. Nella restriId., Il barone rampante, cit., p. 650. Ibidem. 174 Ferretti, Le capre di Bikini, cit., p. 14, il corsivo nel testo. 175 Calvino, «Notiziario Einaudi», cit., p. 1756. 172 173

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zione delle zone di ingerenza della letteratura, la prima facoltà che viene a perdersi è quella consolatoria: al contrario del brigante che trova nella lettura una compensazione allo stato di prigionia e un conforto nel momento dell’esecuzione, la lettura di Cosimo, invece, riflette e, se possibile, amplifica gli stati d’animo che mutano con l’avvicendarsi delle esperienze di vita. Ciò risulta evidente, ad esempio, nell’episodio di Viola. Dacché già prima del ritorno della ragazza a Ombrosa, «nulla gli dava più la contentezza piena, né la caccia, né i fugaci amori, né i libri», 176 a maggior ragione, dopo la sua partenza, Cosimo perde interesse per qualsiasi cosa, lettura inclusa: Se ne stava nel sacco a leggiucchiare […] o a borbottare tra sé, o a canticchiare. Ma il resto del tempo lo passava dormendo. 177

Se in questo caso a interrompere l’abitudine di lettura è la mancanza di quel quid (Viola e per traslato l’amore), divenuto armai essenziale nella vita del lettore, nel racconto L’avventura di un impiegato, 178 il protagonista Enrico Gnei è distratto, viceversa, da un esubero di emozioni: Sul banco c’era un giornale aperto, Gnei lo scorse. Non aveva comprato il giornale, quel mattino, e dire che uscendo di casa quella era sempre la prima cosa che faceva. Era un lettore abitudinario, minuzioso; seguiva fino i minimi fatti e non c’era pagina che passasse senza leggere. Ma quel giorno il suo sguardo correva sui titoli senza muovere alcuna relazione di pensieri. Gnei non riusciva a leggere: chissà se risvegliata dal cibo, dal caffè caldo o dallo smorzarsi dell’effetto dell’aria mattutina, lo riassalì un’ondata di sensazioni della notte. Chiuse gli occhi, alzò il mento e sorrise. 179

Si tratta, come si può ben vedere, di una caratterizzazione del personaggio lettore antitetica a quella di Gian dei Brughi e di Amedeo: se in questi era la letteratura a prevalere sulla vita, gli esempi di Cosimo e di Enrico ribaltano le proporzioni, dimostrando come l’esperienza amorosa, se vissuta intensamente, distragga il soggetto da qualsiasi altra attività, lettura inclusa. Id., Il barone rampante, cit., 701. Ivi, p. 737. 178 Id., L’avventura di un impiegato, in «Paragone» letteratura, IV (agosto 1953), n. 44, poi in I racconti, cit., infine poi in R-II, pp. 1986-1095. 179 Ivi, p. 1088. 176 177

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Ma in questa rivincita vorace della vita sulla letteratura è possibile intravvedere forse l’affiorare nell’autore di una nuova consapevolezza che risulterà fondamentale anche nella evoluzione della sua poetica narrativa: la parzialità della letteratura, il suo essere principio indipendente e tuttavia, al contempo, subordinato alla vita, come ha dimostrato lo studio delle Fiabe. La letteratura può insegnare la durezza, la pietà, la tristezza, l’ironia, l’umorismo, e tante altre di queste cose necessarie e difficili. Il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo. 180

Benché le immagini dei personaggi lettori descritte dall’autore, a partire da questo periodo, riflettano la crisi del sogno vittoriano (condiviso da Calvino negli anni del «Politecnico») di una cultura che «protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini», esse testimoniano però la resistenza di un midollo combattivo e per nulla rinunciatario. Sotto questo punto di vista esemplare è l’immagine di Cosimo editore, analizzando la quale vedremo come Calvino dimostri di credere ancora nella possibilità di incidere sulla società attraverso la letteratura, benché in un modo indiretto e talvolta fortuito, e comprenda che questo potere della letteratura riesca a esercitarsi solo a condizione di accettarne la precarietà. Ma tornando all’analisi di Cosimo lettore, occorre sottolineare che nel lungo e proficuo rapporto che Cosimo intrattiene con la lettura, c’è però un momento in cui anche questo personaggio corre il rischio di un distacco eccessivo con la vita reale: se negli ultimi tempi a forza di stare in mezzo ai libri era rimasto un po’ con la testa nelle nuvole, sempre meno interessato del mondo intorno a lui, ora invece la lettura dell’Enciclopedia, certe bellissime voci come Abeille, Arbre, Bois, Jardin gli facevano riscoprire tutte le cose intorno come nuove. 181

Ancora una volta quindi, gli esempi presenti nel Barone evidenziano come il rapporto tra lettore e pagina scritta sia fortemente condizionato dalle scelte di lettura. Se la predilezione di Gian dei Brughi per il romanzo sentimentale aggrava la sua atti180 181

Id., Il midollo del leone, cit., p. 22. Id., Il barone rampante, cit., p. 654.

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tudine all’isolamento, nel caso di Cosimo è, viceversa, proprio la scelta della Enciclopedia e l’attenzione per la manualistica a preservarlo da questa fine: tra i libri che si faceva arrivare, cominciarono a figurare anche manuali d’arti e mestieri, per esempio d’arboricoltura, e non vedeva l’ora di sperimentare le nuove cognizioni. 182

È chiaro allora che nel Barone il modello di lettore incolto ma appassionato, personificato da Gian dei Brughi, è scalzato dal colto, critico e versatile Cosimo, la cui elezione a lettore ideale testimonia il manifestarsi per la prima volta Calvinoscrittore dell’«esigenza che il suo lettore debba diventare prima o poi depositario di quel sapere enciclopedico in questo momento colto nella sua fase aurorale». 183 Come già rilevato a proposito del personaggio di Pamela, anche il personaggio di Cosimo, sotto questo punto di vista, assolve, inconsapevolmente, una funzione prolettica, anticipando istanze, prospettive e predilezioni ancora non compiutamente espresse dall’autore. 184 Se, infatti, al momento della scrittura del Barone, Calvino saggista riflette sulle possibilità del linguaggio fiabesco o sulla poetica dello straniamento di Brecht, la predilezione di Cosimo per la scienza e l’enciclopedia anticipa invece le scelte che lo stesso Calvino avrebbe compiuto, laddove, come è noto, di lì a poco, «esaurita la risorsa del fiabesco, Calvino cercherà sussidi alla sua vena fantastica nei suggerimenti della scienza, della filosofia, della teoria letteraria». 185 Ma anche Calvino editore avrebbe, poco dopo (nel 1960), progettato una collana poliedrica, aperta alla commistione dei diversi generi letterari: dalle memorie degli esploratori ai trattati storici sino, per l’appunto, alla proposta di «libri di scienziati», in cui «la scienza, modo esemplare del confronto con la natura, […] diventa via di conoscenza totale, reintegrazione d’un

Ibidem. Benussi, Introduzione a Calvino, cit., p. 51. 184 La funzione prolettica circa i problemi del leggere da noi individuata viene riconfermata da Joann Cannon anche relativamente ad altri temi, cfr. Joann Cannon ,“Il barone rampante”and the Imaginary Universe of Italo Calvino, in «Rivista di studi italiani», XXI (2003), n. 2, pp. 59-67. 185 Lavagetto, Sulla fiaba, cit., pp. 49-50. 182 183

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umanesimo completo». 186 Del resto è probabile che, più in generale, la stessa idea del lettore enciclopedico «debba anche qualcosa all’esperienza editoriale», 187 il che avvalora ulteriormente l’idea di una reciproca compenetrazione tra le due sfere lavorative: Tra lo scrittore e la Casa editrice si è sempre dato uno scambio continuo e fruttuoso per entrambi. La Casa ha offerto allo scrittore un osservatorio privilegiato sulla cultura contemporanea, oltre alla possibilità di un dialogo diretto con molti protagonisti di essa, contribuendo alla vastità e alla profondità dei suoi interessi, non ultimi quelli scientifici. 188

Il personaggio, inoltre, appassionandosi alle storie «di Rousseau che passeggiava erborizzando per le foreste della Svizzera, di Beniamino Franklin che acchiappava i fulmini cogli aquiloni, del Barone de la Hontan che viveva felice tra gli Indiani dell’America», 189 senza tuttavia dimenticare l’insegnamento dei classici, «Tacito e Ovidio» 190 e altri ancora, anticipa quell’ideale della giusta alternanza tra classici e attualità, che poi Calvino compiutamente suggerirà: Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d’attualità. […] Forse l’ideale sarebbe sentire l’attualità come il brusio fuori della finestra, che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza. 191

Ma l’atteggiamento di Cosimo è irreprensibile anche sotto l’aspetto della ricezione: egli, infatti, sa dosare opportunamente distacco critico, passione e curiosità, inoltre, come già spiegato, sente «il bisogno di commentare le scoperte che andava facendo 186 Il piano di questa collana (mai realizzata), è riportato in un dattiloscritto datato 18 gennaio 1960, intitolato Appunti e idee generali per una piccola collana di testi di ricerca morale per l’uomo moderno, poi con il titolo Appunti per una collana di ricerca morale, in S-II, pp. 1705-1709, in particolare p. 1706. 187 Roscioni, Calvino editore, cit., p. 37. 188 Ferrero, Postfazione, a Il libro dei risvolti, cit., p. 258. 189 Calvino, Il barone rampante, cit., 650. 190 Ibidem. 191 Id., Perché leggere i classici, cit., p. 1822.

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sui libri» e «seppelliva di domande e spiegazioni il vecchio precettore». 192 Questo atteggiamento dinamico del barone-lettore si riflette anche nella custodia dei suoi libri: Per tenere i libri, Cosimo costruì a più riprese delle specie di biblioteche pensili, riparate alla meglio dalla pioggia e dai roditori, ma cambiava loro continuamente di posto, secondo gli studi e i gusti del momento, perché egli considerava i libri un po’ come degli uccelli e non voleva vederli fermi o ingabbiati, se no diceva che intristivano. 193

Se dunque, in precedenza, Calvino sembra essere stato particolarmente attratto dall’idea di una lettura come trasporto totale, come abbandono alla fiction, ora invece, dal magistero di Brecht, Calvino assimila anche l’idea della necessità di tenere sempre vivo nel pubblico la partecipazione critica. Da ciò deriva, in sede di composizione, un ulteriore stimolo al controllo razionale della scrittura, al rifiuto dell’enfasi e del coinvolgimento empatico, spinte che si incarnano, nel Barone, nella vena ironica di cui è intriso il dettato narrativo. 194 Non a caso nella Prefazione all’edizione del ’65, l’autore sottolinea la distanza che separa il Barone dai libri di avventura tradizionali: 192 Id., Il barone rampante, cit., p. 651. Analoga disposizione è preferita anche dal protagonista del racconto-articolo Le vacanze del buon lettore: «Se egli per le ferie ha una casa a disposizione, magari una vecchia casa piena di ricordi d’infanzia, cosa c’è di più bello che predisporre un libro per ogni stanza, uno per la veranda, uno per il capezzale, uno per la sedia a sdraio?» (Id., I buoni propositi, in «l’Unità», 12 agosto 1952, poi con il titolo Le vacanze del Buon Lettore in S-II, pp. 1743-1745, la citazione a p. 1744). 193 Id., Il barone rampante, cit., pp. 653-654. 194 Su questo aspetto si rimanda alle riflessioni di Hanna Flieger: «l’ironia, che nei testi di Calvino si trasforma qualche volta nel comico o, addirittura, nel grottesco, diventa una specie di meta-riflessione dello scrittore sull’universo rappresentato e ci costringe a leggere i suoi racconti con la distanza suggerita dallo scrittore. Per mezzo dell’ironia Calvino avverte il lettore del pericolo di facili identificazioni e, distaccandosi dall’universo rappresentato, invita ad una riflessione sullo statuto della letteratura e sulla relazione tra il mondo empirico e la scrittura. L’ironia nei testi di Calvino è mezzo efficace contro interpretazioni schematiche, banali, unilaterali» (Hanna Flieger, Il rapporto varianti/costanti nella poetica di Italo Calvino, cit., p. 109). Su questo stesso aspetto cfr. anche Sarah Amrani, La désacralisation comique du pathétique, de l'épique et du sublime dans les textes narratifs (1952-1965) d'Italo Calvino, in «Chroniques Italiennes», IV (2003), nn. 2-3, pp. 149-162.

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Ci si può trovare anche il gusto di quei classici della narrativa avventurosa […]. Solo che qui la prova, la scommessa è qualcosa d’assurdo e d’incredibile; non c’è più quella immedesimazione nella vicenda che è la prima regola dei libri d’avventure. 195

Come già si è avuto modo di considerare a proposito del Visconte, anche nel Barone, i modelli di lettura dei personaggi portavoce dell’autore propongono tipologie di ricezione che l’autore vorrebbe vedere realizzate nella lettura del romanzo stesso, da ciò l’intreccio, anche in questo romanzo, tra le prospettive della creazione letteraria e quelle della ricezione, tra le istanze di Calvino critico della letteratura e la proiezione ideale del proprio lettore. 9. Cosimo editore L’aspetto più curioso (e forse più trascurato) del personaggio di Cosimo è rappresentato dall’esercizio di una funzione di “mediazione” assimilabile, sotto certi aspetti, al lavoro editoriale, secondo modalità e atteggiamenti che appartengono allo stesso Calvino editore. Tutto ha inizio, nella storia, dall’incontro con Gian dei Brughi, quando il brigante dopo il primo libro a prestito (il Gil Blas) ne pretende numerosi altri ancora, costringendo Cosimo a sottrarre libri dalla biblioteca paterna, in collaborazione con il fratello Biagio, e poi ad attingere dalle riserve del libraio Orbecche. L’esercizio di questa funzione di “intermediazione” da parte di Cosimo ben presto, però, si complica, articolandosi in una serie di mansioni correlate: Gian dei Brughi aveva i suoi gusti, non gli si poteva dare un libro a caso, se no l’indomani tornava da Cosimo a farselo cambiare. Mio fratello era nell’età in cui si comincia a prendere piacere alle letture più sostanziose, ma era costretto ad andarci piano, da quando Gian dei Brughi gli portò indietro Le avventure di Telemaco avvertendolo che se un’altra volta gli dava un libro così noioso, lui gli segava l’albero di sotto. Cosimo a questo punto avrebbe voluto separare i libri che voleva leggersi per conto suo con tutta calma da quelli che si procurava solo per prestarli al brigante. Macché: almeno una scorsa doveva darla an195 Calvino, Prefazione all’edizione scolastica del 1965, cit., in R-I, cfr. p. 1226.

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che a questi, perché Gian dei Brughi si faceva sempre più esigente e diffidente, e prima di prendere un libro voleva che lui gli raccontasse un po’ la trama, e guai se lo coglieva in fallo. 196

La prima regola che Cosimo è tenuto ad apprendere nell’esercizio di questa nuova mansione è la necessità di tenere distinte le due attività: da una parte c’è la lettura privata, e dall’altra la lettura in funzione del lettore Gian dei Brughi, che coltiva gusti completamente differenti dai propri. Ma l’esercizio di questo secondo tipo di lettura, a ben guardare, non è poi molto dissimile dalla “lettura di mestiere” che contraddistingue il lavoro editoriale in generale e quello finalizzato alla formulazione dei “pareri di lettura” in particolare, circostanza in cui i consulenti (o chi per loro) sono chiamati a leggere e a giudicare un testo in relazione non alle proprie personali aspirazioni di lettura, ma a quelle del pubblico dei lettori cui si rivolge la casa editrice (o la collana). 197 Così, analogamente, anche la pratica del riassunto della trama è operazione necessaria nella compilazione del “parere di lettura”, ma anche, talvolta, nella stesura delle “quarte di copertina” o dei “risvolti,” 198 genere, quest’ultimo in cui Calvino è «maestro indiscusso», riuscendo ogni volta ad «inquadrare il libro che presenta» «raccontando quel tanto che serve a incuriosire» 199 il lettore con discrezione. Id., Il barone rampante, cit., p. 643. Su questo aspetto del lavoro editoriale si rimanda a Alberto Cadioli, Lettura editoriale, in Id. e Giovanni Peresson, Le forme del libro. Schede di cultura editoriale, Napoli, Liguori, 2007, pp. 135-142. Tra le raccolte di “pareri di lettura” fino ad aggi pubblicate ricordiamo quella a cura di Annalisa Gimmi, Il mestiere di leggere. La narrativa italiana nei pareri di lettura della Mondadori (1950-1971), Milano, il Saggiatore, 2002, cui si rimanda con particolare riferimento alla Introduzione, pp. 11-66. 198 Per una definizione di “quarta di copertina” e di “risvolto di copertina” si rimanda a Cadioli, Quarta di copertina, in Le forme del libro, cit., pp. 173-179. Per un approfondimento dei “risvolti” scritti da Calvino si rimanda a Il libro dei risvolti, cit. 199 Ferrero, I migliori anni della nostra vita, cit., p. 53. Importante, a questo proposito, anche la testimonianza di Roscioni: «non sono infrequenti i casi in cui, parlando di un libro di racconti, Calvino riassumeva la trama di tutti». Descrivere e analizzare «è una tautologia, o una ridondanza nell’ottica del Calvino editore, per il quale i due termini tendono a coincidere» (Roscioni, Calvino editore, cit., p. 34). Significativo, infine, il rimprovero mosso da Calvino a Gerardo Guerrieri, il quale, segnalando l’opportunità di pubblicare un’opera di Brecht, dimentica però di chiarire «com’è, di cosa 196 197

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Così ancora: la discrepanza tra le scelte di lettura personali di Cosimo e le aspirazioni del lettore Gian dei Brughi non è, probabilmente, molto dissimile da quella sperimentata dallo stesso Calvino, il quale da buon «lettore onnivoro […] assetato di nuove idee, sensibile ai nuovi fermenti», 200 comincia a lavorare per Einaudi nel «periodo storico in cui fare editoria di cultura [era] diventata una scommessa non facile da sostenere». 201 Infine come per Calvino il lavoro editoriale ha sempre rappresentato un’occupazione amata, che ha incrementato e diversificato i suoi già eclettici interessi culturali, 202 così analogamente anche l’impegno di Cosimo con Gian dei Brughi alimenta e forse è origine della sete di lettura del giovane barone: Insomma, con Gian dei Brughi sempre alle costole, la lettura per Cosimo, dallo svago di qualche mezz’oretta, diventò l’occupazione principale, lo scopo di tutta la giornata. E a furia di maneggiar volumi, di giudicarli e compararli, di doverne conoscere sempre di più e di nuovi, tra le letture per Gian dei Brughi e il crescente bisogno di letture sue, a Cosimo venne una tale passione per le lettere e per tutto lo scibile umano che non gli bastavano le ore dall’alba al tramonto per quel che avrebbe voluto leggere, e continuava anche al buio a lume di lanterna. 203

Se ci siamo dilungati a rimarcare queste più o meno esplicite corrispondenze tra il mestiere esercitato da Cosimo e il lavoro editoriale di Calvino, è stato, anzitutto, per metter in luce come anche questa dimensione contribuisca, in modo rilevante, alla caratterizzazione del nuovo modello di intellettuale rappresentato dal barone. Da questo punto di vista, la “mediazione letteparla, ecc… come fanno di solito tutti i nostri consulenti» (cfr. Italo Calvino, Lettera a Gerardo Guerrieri, 21 luglio 1953, in I libri degli altri, cit., p. 98). 200 Roscioni, Calvino editore, cit., pp. 35-36. 201 Bollati, Calvino editore, cit., p. 5. 202 «Lavorare in casa editrice gli piaceva. Non è un secondo mestiere come per tanti altri. […] Diceva che il massimo tempo della sua vita l’aveva dedicato ai libri degli altri, non ai suoi. Non ne era pentito» (cfr. Ferrero, I migliori anni della nostra vita, cit., p. 53). Ferrero riporta, in questo caso, una frase dello stesso Calvino: «il massimo del tempo della mia vita l’ho dedicato ai libri degli altri, non ai miei. E ne sono contento, perché l’editoria è una cosa importante nell’Italia in cui viviamo e l’aver lavorato in un ambiente editoriale che è stato di modello per il resto della editoria italiana, non è cosa da poco» (cfr. Italo Calvino, Intervista a cura di Marco d’Eramo, in «Mondoperaio», XXXII (giugno 1979), n. 6, pp. 133-138). 203 Calvino, Il barone rampante, cit., pp. 643-644.

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raria” portata avanti nell’episodio di Gian dei Brughi, regala a Cosimo una vivacità tutta particolare, dimostrando come l’impegno intellettuale possa (e debba) esercitarsi anche in mansioni pratiche quali il «maneggiar volumi», il «giudicarli e compararli», il «conoscerne sempre di più e di nuovi», ecc. Si vorrebbe rilevare, allora, come nella figura di Cosimo oltre alla analogia, più volte sottolineata dalla critica, con Calvino intellettuale che dopo le dimissioni dal Pci comincia a pensare a un modo nuovo di “partecipazione” alla vita politica e sociale, 204 è possibile riconoscere anche un riflesso di Calvino editore. L’attività di “mediazione” di Cosimo-Calvino, in questo senso, non è in antitesi con l’ideale della “giusta distanza” (metaforicamente rappresentato dalla scelta di vita arborea), ma anzi ne rappresenta uno strumento di perfezionamento, in ragione del fatto che proprio l’impegno “editoriale” preserva il barone (e forse lo stesso Calvino) dal rischio di un eccessivo distacco, costringendo il “nuovo intellettuale” ad alternare l’«isolamento monastico» in cui coltiva la lettura privata, all’«efficienza», 205 disponibilità e socialità con cui assolve il servizio per Gian dei Brughi. Lo stesso Calvino, a proposito della figura di Cosimo, nella Nota all’edizione degli antenati del 1960, spiega di avere inteso fare di questo personaggio «non un misantropo ma un uomo continuamente dedito al bene del prossimo, inserito nel movimento dei suoi tempi, che vuole partecipare a ogni aspetto della vita attiva: dall’avanzamento delle tecniche all’amministrazione locale, alla vita galante». 206 In diverse lettere scritte in prossimità della pubblicazione del romanzo, Calvino parla del barone come di «un militante, un uomo continuamente impegnato. Più di quelli che stanno a terra», 207 e spiega di avere «voluto proporre una figura di uomo (di “intellettuale” se vogliamo) impegnato, che partecipa profondamente alla storia e al progresso 204 Cfr. Benussi, Introduzione a Calvino, cit., p. 40 e sgg. Lo stesso Calvino a questo proposito in una lettera a Paolo Spriano spiega: «è difficile fare il comunista stando da solo. Ma io sono e resto un comunista. Se riuscirò a dimostrarti questo, t’avrò anche dimostrato che il Barone rampante non è un libro troppo lontano dalle cose che ci stanno a cuore» (Italo Calvino, Lettera Paolo Spriano, 1 agosto 1957, in Lettere, cit., pp. 507-508, la citazione a p. 507). 205 Cfr. Ferrero, Postfazione a Il libro dei risvolti, cit., p. 256. 206 Calvino, Postfazione ai “Nostri antenati, cit., p. 1214. 207 Id., Lettera a Silvio Guarnieri, 31 luglio 1957, in Lettere, cit., p. 501.

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della società». 208 Anche a questo proposito si è mancato, forse, di rilevare come l’iniziazione alla «vita attiva» di Cosimo sia fatto esplicitamente risalire dal narratore proprio all’incontro con Gian dei Brughi: A Cosimo era sempre piaciuto stare a guardare la gente che lavora, ma finora la sua vita sugli alberi, i suoi spostamenti e le sue cacce avevano sempre risposto a estri isolati e ingiustificati, come fosse un uccelletto. Ora invece lo prese il bisogno di fare qualcosa di utile al suo prossimo. E anche questa, a ben vedere, era una cosa che aveva imparato nella sua frequentazione del brigante; il piacere di rendersi utile, di svolgere un servizio indispensabile per gli altri. 209

«Il piacere di sentirsi utile», sperimentato da Cosimo con Gian dei Brughi, altro non è che l’appagamento di vedere soddisfatto il proprio lettore, da cui un senso dell’impegno intellettuale come volontà di mettersi a umile servizio degli altri, volontà che ha contraddistinto lo stesso Calvino editore: La sua è sempre un’ottica “di servizio”, che corrisponde perfettamente al sentimento morale, all’essere per gli altri e con gli altri in modo dialetticamente attivo, tipico del suo procedere, in cui etica ed estetica si saldano profondamente (non a caso nei risvolti si parla molto di moralità, di educazione morale, di clima morale). 210

10. Il lettore reale e il lettore implicito: influenze del lavoro editoriale La correlazione appena evidenziata tra Cosimo e Calvino editore, offre l’occasione per comprendere quali aspetti del lavoro 208 Id., Lettera a Armando Bozzoli, 8 gennaio 1958, in ivi, pp. 536-538, la citazione a p. 537, il corsivo nel testo. 209 Id., Il barone rampante, cit., p. 654. 210 Ferrero, Postfazione a Il libro dei risvolti, cit., p. 257. Su questo senso del lavoro editoriale inteso da Calvino come quel «qualcosa che ci mette in comunicazione con gli altri» si rimanda anche alla testimonianza di Ferrero, I migliori anni della nostra vita, cit., p. 52. Messo debitamente in luce, questo aspetto specifico della figura di Cosimo rivela quanto siano infondate le riserve di quei critici che indicarono nel barone un modello di intellettuale velatamente snob (cfr. Cesare Cases, Calvino e il “pathos della distanza”, in «Città aperta», II, 7-8 aprile 1958, poi in Id., Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1987, pp. 160-166, in particolare si rimanda al giudizio espresso a p. 160) o addirittura conservatore.

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editoriale abbiano più direttamente influenzato le idee di lettura di Calvino, e contribuito a una loro evoluzione. Tornando all’episodio di Gian dei Brughi, si ricorda come la predilezione letteraria del brigante cada sui romanzi sentimentali di Richardson, storie, cioè, che nulla hanno a che fare con le sue esperienze di vita. Ancor più della scelta, a incuriosire è il motivo di tale predilezione, individuato dal narratore nel bisogno del brigante, mai compiutamente espresso prima di allora, di «giornate abitudinarie e casalinghe, di parentele, di sentimenti famigliari»: Finalmente, scoperse i romanzi di Richardson. A Gian dei Brughi piacquero. Finito uno, ne voleva subito un altro. Orbecche gli procurò una pila di volumi. Il brigante aveva da leggere per un mese. Cosimo, ritrovata la pace, si buttò a leggere le vite di Plutarco. 211

Nell’esperienza di Cosimo con Gian dei Brughi, il piacere di lettura si connota, quindi, come una scoperta difficilmente prevedibile, determinata com’è da una oscura e impenetrabile corrispondenza tra la storia narrata e la vita e i bisogni del lettore. Sotto questo punto di vista, l’immagine narrativa di Gian dei Brughi offre un esempio di divertimento diverso da quello che Calvino ha teorizzato, come autore, nella sua poetica, prefigurandosi il proprio lettore (implicito). Il divertissement di Gian dei Brughi è il diritto del lettore reale ad appassionarsi al libro più in sintonia con le sue inclinazioni nascoste, secondo una dinamica imprevedibile e grottesca; un diritto, cioè, in certo senso, anarchico, che prescinde sia dalle intenzioni dell’autore sia dagli sforzi dell’editore. Ma l’esempio di Cosimo con Gian dei Brughi ci dimostra che le preferenze variano anche, e più semplicemente, al variare delle circostanze di lettura, così che se prima, nel periodo della latitanza, l’autore più amato è Richardson poi invece, dovendo affrontare la prigionia, la predilezione del brigante ricade sul più avventuroso Fielding. Tornando, infine, al rapporto tra Cosimo e l’abate, si potrebbe rilevare come in questo caso la mediazione culturale del giovane barone, che pure in apparenza sembra convertire il vecchio giansenista alla filosofia dei “lumi”, non riesce, in realtà, a penetrare nella sua forma mentis: 211

Calvino, Il barone rampante, cit., p. 644.

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sulle sue labbra i doveri dei cittadini liberi ed eguali o le virtù dell’uomo che segue la religione naturale diventano regole d’una disciplina spietata, articoli d’una fede fanatica, e al di fuori di ciò non vedeva che un nero quadro di corruzione, e tutti i nuovi filosofi erano troppo blandi e superficiali nella denuncia del male, e la via della perfezione, se pur ardua, non consentiva compromessi o mezzi termini. 212

L’esempio dell’abate che attraversato dalla nuova cultura finisce per morire «senza avere capito […] in che cosa mai credesse, ma cercando di credervi fermamente fino all’ultimo», 213 punta l’attenzione su un altro problema: l’appropriazione di un testo o, come in questo caso, di una cultura dipende anche e soprattutto dalla disponibilità di ricezione del soggetto lettore. Da tutto l’insieme di queste suggestioni narrative si evince l’idea che forse proprio il lavoro editoriale abbia contribuito a rendere Calvino particolarmente attento nella valutazione degli innumerevoli problemi connessi alla lettura: alla soggettività delle predilezioni letterarie dei lettori bisogna aggiungere il relativismo delle circostanze di lettura e, ancora più grave, l’arbitrarietà della ricezione. Se è vero che già a proposito dei lettori presenti nel Sentiero si era parlato della lettura come di un atto incoercibile, si era tuttavia sottolineato come, in quella sede, la libertà del lettore rappresentasse il presupposto fondamentale per la “democratizzazione letteraria”, almeno secondo il concetto fatto proprio dall’autore. Ma dalle immagini di personaggi lettori come Gian dei Brughi e l’abate, a emergere non è più (o non è solo) la volontà dell’autore di opporsi a ogni forma di prescrizione culturale, ma è anche e soprattutto la scoperta, per certi aspetti traumatica, della ingovernabilità e della imprevedibilità della lettura. Ricordiamo, ad esempio, solo per citare l’esperienza più nota, come lo stesso Calvino fosse rimasto molto sorpreso dal successo di pubblico e in parte anche di critica ottenuto dal Visconte, romanzo che egli, come autore, avrebbe relegato in una zona marginale della sua poetica e della sua produzione. 214 Ivi, p. 652. Ivi, p. 653. 214 Nella lettera a Carlo Salinari del 7 agosto 1952, Calvino, a proposito del suo romanzo parla di un «successo […] sproporzionato e in parte equivoco» (cfr. Id., Lettera a Carlo Salinari, 7 agosto 1952, in I libri degli altri, cit., pp. 67-68, la citazione a p. 68). 212 213

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Approfondendo il confronto con i personaggi lettori del Sentiero, si evince che ad essere cambiato da allora è anche il nesso che intercorre tra l’idea prefiguratasi dall’autore del lettore implicito e quella maturata circa il lettore reale. Si è detto, infatti, come nell’immediato dopoguerra Calvino già si interrogasse, come autore, sui possibili modelli di fruizione dei propri testi, e invitasse anche i suoi amici scrittori a evitare di indulgere nel sentimentalismo e nel melodramma, per non eccitare la complicità emotiva del lettore. 215 E tuttavia si è mostrato come negli scritti di quegli anni le immagini narrative di personaggi come Zena, Dritto e Kim proponessero, viceversa (e quasi esaltassero), il trasporto empatico del lettore nella finzione, arrivando persino ad accordare a questo tipo di lettura la possibilità di suscitare domande e, nel caso di Kim, di generare una costruttiva interrogazione esistenziale. Per questo motivo, a proposito di quegli anni, si è parlato di uno scollamento tra la figura di quello che sarebbe stato definito “lettore implicito” e il lettore reale, trasposto nella finzione narrativa nelle immagini dei personaggi sopra ricordati. Tra l’esigenza di un distacco critico promulgata dallo scrittore, e il piacere di tuffarsi in un mondo altrove, tante provato dallo stesso Calvino giovane lettore, per alcuni anni, non ci sarebbero stati punti di incontro, e anzi le due istanze sarebbero corse parallele e quasi indipendenti l’una dall’altra. Ma al tempo della scrittura del Barone qualcosa, evidentemente, è cambiato. In questo senso si ritiene che proprio l’abitudine, acquisita con l’impegno editoriale, di pensare l’opera letteraria come il frutto della mediazione tra le istanze dello scrittore e le esigenze (di leggibilità e divertimento) del lettore, abbia comportato un’osmosi tra le due figure del lettore implicito e di quello reale, nella misura in cui l’immagine di lettore che Calvino proietta nel processo di scrittura, a partire da questo momento, risente e sempre risentirà dell’idea che Calvino viene contemporaneamente maturando del suo interlocutore reale. A dimostrazione di ciò si veda, anzitutto, come di lì a pochi anni, nelle esegesi delle proprie opere e della trilogia in particolare, Calvino avrebbe non a caso teorizzato la libertà di interpretazione del lettore: 215

Cfr. supra, paragrafo 1.2.

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è un colpo di scena che mi è venuto in mente all’ultimo momento e mi pare che non significhi nulla di più di quel che vi ho detto. Ma se voi volete credere che significhi, che so io, l’intelligenza interiorizzatrice e la vitalità estroversa che devono essere tutt’uno, siete anche padroni di crederlo. Così come siete padroni d’interpretare come volete queste tre storie, e non dovete sentirvi vincolati affatto dalla deposizione che ora ho reso sulla loro genesi. 216

In modo ancora più esplicito e proprio in relazione al Barone: L’Autore ci dice molte cose come fossero tutte essenziali, ma alla fine di essenziale resta solo l’immagine che egli ci ha proposto: l’uomo che vive sugli alberi. È un’allegoria del poeta […]? E, più in particolare è un’allegoria del “disimpegno”? Oppure, al contrario dell’“impegno”? […] Di fatto, per chi vuol trarre una morale dal libro, le vie che restano aperte sono molte, anche se nessuna si può esser certi che sia la giusta. 217

In questo caso, come si può vedere, il Calvino esegeta di se stesso che assolve preventivamente qualsiasi interpretazione il lettore deciderà di attribuire al Barone, non è molto dissimile dal Calvino narratore che accoglie generosamente nel novero dei suoi personaggi lettori, anche l’anarchico e imprevedibile Gian dei Brughi. Dal complesso delle esperienze letterarie e editoriali maturate in questo periodo, Calvino sembra ricavare anche un’altra, ancora più rilevante acquisizione: il lettore, se non ancora propriamente inteso da Calvino come parte essenziale della realizzazione (fenomenica) dell’opera (come già aveva descritto Sartre), è già, però, concepito come elemento fondamentale del circuito della comunicazione letteraria, senza lo sforzo interpretativo del quale anche l’impegno dello scrittore risulta inevitabilmente vanificato. Esemplari, a questo proposito, le successive affermazioni che risalgono agli anni ‘57-’59: La letteratura costruisce delle figure autonome che possono servire come termine di confronto con l’esperienza o con altre costruzioni della mente. È solo attraverso questa riflessione del lettore che la letteratura può collegarsi a un’attività morale, cioè solo attraverso un confronto dei valori che il lettore cerca con quelli che l’opera letteraria sembra suggerire o implicare. 218 Id., Postfazione ai “Nostri antenati”, cit., p. 1219. Id., Prefazione all’edizione scolastica del 1965, cit., p. 1230. 218 Id., Due interviste su scienza e letteratura, cit., p. 236. 216 217

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Anche se la narrazione non si propone altro fine che di creare un’atmosfera lirica, è solo con la collaborazione del lettore che questa nasce, perché l’autore può solo limitarsi a suggerirla; anche se non si propone altro che un gioco, lo stare al gioco presuppone sempre un atto critico. 219

A incidere nelle evoluzioni poetiche e nel modo di intendere la letteratura al tempo della scrittura del Barone, non sono soltanto i cambiamenti storici (indubbiamente importantissimi), ma anche l’interiorizzazione da parte dell’autore dei tanti problemi più strettamente connessi alla produzione e alla fruizione letteraria. La rinuncia all’ambizioso progetto giovanile «di costruzione d’una nuova letteratura che servisse alla costruzione d’una nuova società», 220 è, ad esempio, generalmente messo in relazione alla scoperta delle limitate possibilità di azione lasciate all’intellettuale italiano nella società degli anni Cinquanta: Ma come voteranno gli intellettuali nessuno se lo chiede: non è un problema di rilievo. Dobbiamo dire che, a otto anni dalla liberazione, la cultura italiana è ridiventata una forza trascurabile, senza alcun peso sulle sorti del paese? […] Per valutare quanto da questa situazione siamo lontani, basti considerare che mentre allora il problema degli studiosi e degli artisti era stabilire quale posto dovessero avere alla testa della vita democratica italiana, oggi il problema su cui più si ragiona è come difendere la libertà della cultura. […] Così l’uomo di cultura italiano ritorna alla parte assegnatagli da una tradizione secolare: depositario d’un incerto, limitato recinto d’influenza, che può sperare di allargare soltanto secondando questo o quell’interesse momentaneo delle classi dominanti. 221

Senza nulla togliere alla rilevanza di queste osservazioni, bisogna aggiungere, però, che nello stesso decennio Calvino scopre anche quanto numerosi e importanti siano, nella comunicazione letteraria, gli spazi di pertinenza esclusiva del lettore. Guardando alla propria ipotetica comunità di lettori come a un universo strano e imprevedibile, e cominciando a meditare sul fatto che la lettura non è un riflesso meccanico, ma una variabile determinante della letteratura, Calvino, anche come scrittore, non può che vedere limitati e resi precari i suoi spazi di azione. Id., Risposte a 9 domande sul romanzo, cit., p. 1523. Id., Introduzione a Una pietra sopra, cit., poi in S-I, pp. 7-8, la citazione a p. 7. 221 Id., Elezioni e cultura, cit., pp. 2160-61. 219

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Se questo «senso del complicato e del molteplice e del relativo e dello sfaccettato» determina effettivamente «un’attitudine di perplessità sistematica» 222 nei confronti dei lettori e della lettura, è vero però che Calvino non intende, affatto, arrendersi al caos esegetico: proprio mentre l’autore incrementa la varietas nella comunità dei personaggi-lettori, e teorizza la libertà di lettura, egli viene, però, al contempo perfezionando la sua immagine di lettore ideale. Nella generosità con cui l’occhio narrativo tratteggia la figura di Cosimo lettore, si può certo riconoscere anche la volontà dell’autore di offrire un modello ideale di riferimento per il lettore reale. 11. Cosimo e il pubblico dei lettori A dimostrazione della soddisfazione ricavata da Cosimo nell’esercizio della funzione di mediazione letteraria, si rimanda, infine, al capitolo XVIII, incentrato sul racconto di un periodo che il barone trascorre insieme con una comunità di aristocratici spagnoli esiliata dalla patria e rifugiatasi sugli alberi di Olivabassa. Dopo avere contribuito a dotare gli idalghi di strumentazioni utili alla vita arborea, e avendo, infine, accondisceso a scavare dentro un tronco un confessionale per padre Sulpicio, Cosimo è colto da un senso di frustrazione, quando capisce di avere incrementato una praxis, di cui non condivide la finalità. La pura passione delle innovazioni tecniche, insomma, non bastava a salvarlo dall’ossequio alle norme vigenti; ci volevano le idee. Cosimo scrisse al libraio Orbecche che da Ombrosa gli rimandasse per la posta a Olivabassa i volumi arrivati nel frattempo. Così poté far leggere a Ursula Paolo e Virginia e La Nuova Eloisa. 223

Come si può vedere, Cosimo si propone, anche in questa circostanza, quale mediatore della lettura della giovane Ursula, con la quale egli ha da poco intrecciato una relazione amorosa. La scelta di Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre e Giulia o la nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau da un lato ribadisce la predilezione di Cosimo per la cultura o, come in questo 222 223

Id., Introduzione a Una pietra sopra, cit., p. 8. Id., Il barone rampante, cit., p. 685.

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caso, per la letteratura di stampo illuminista, dall’altra rivela una maturazione nell’esercizio del “mestiere” di mediatore. L’intervento di Cosimo, infatti, non si limita a indovinare (come avviene con Gian dei Brughi) i gusti del proprio cliente lettore, soddisfacendo il suo diritto al divertimento e all’evasione, ma agisce, in questo caso, nella prospettiva di un cambiamento culturale della ragazza e non solo. La proposta di Paolo e Virginia e della Nuova Eloisa sembrerebbe finalizzata ad arginare l’influenza dell’oscurantismo della vecchia cultura (che Cosimo ha, per altro, contribuito a rafforzare con la costruzione del confessionale per padre Sulpicio), contrapponendovi un’interpretazione più libera e naturale dell’amore. Ma oltre al tema amoroso, questi romanzi rilevano anche la necessità per l’uomo di spogliarsi dalle convenzioni sociali e dai pregiudizi per fare ritorno allo stato di natura, principi che il barone vorrebbe introdurre anche nella comunità degli spagnoli, la quale, benché sia costretta a una vita arborea, ha mantenuto inalterati gli usi, i vezzi e i difetti della società aristocratica. 224 Insomma, a differenza delle tante incertezze dimostrate durante l’apprendistato con Gian dei Brughi, Cosimo ora è pienamente padrone del “mestiere” e anche consapevole della possibilità di orientare culturalmente e ideologicamente la comunità degli spagnoli. Cosimo ormai faceva parte della comunità e prendeva parte ai parlamenti. E là, con ingenuo fervore giovanile, spiegava le idee dei filosofi, e i torti dei Sovrani, e come gli Stati potevano esser retti secondo ragione e giustizia. Ma tra tutti, i soli che potevano dargli ascolto erano El Conde che per quanto vecchio s’arrovellava sempre alla ricerca d’un modo di capire e reagire, Ursula che aveva letto qualche libro, e un paio di ragazze un po’ più sveglie delle altre. Il resto della colonia erano teste di suola da piantarci dentro i chiodi. Insomma, questo Conde, dài e dài, invece di star sempre a contemplare il paesaggio cominciò a volersi leggere dei libri. Rousseau gli riuscì un po’ ostico; Montesquieu invece gli piaceva: era già un passo. Gli altri idalghi, niente, sebbene qualcuno di nascosto da Padre Sulpicio chiedesse a Cosimo in prestito la Pulzella per andarsi a leggere le pagine spinte. Così, col Conde che macinava nuove idee, le adunanze sulla quercia presero un’altra piega: ormai si parlava d’andare in Spagna a fare la rivoluzione. 225 224 225

Ivi, pp. 681-682. Ivi, p. 686.

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Dietro l’impegno promulgato da Cosimo nel tentativo di allargare gli orizzonti culturali degli spagnoli si cela un’immagine dello stesso Calvino che ha sempre «cercato di fornire», come editore, «libri tali da toccare punti fondamentali del dibattito o della documentazione sui problemi attuali», 226 ed ha anzi affinato col tempo la consapevolezza di «partecipare a un lavoro [...] che non è […] soltanto industriale, ma che dà la sua impronta al volto generale della cultura italiana»: un lavoro che resta, che certo è stato decisivo nel cambiare il panorama editoriale italiano». 227 Io, come molti della mia generazione, ho una possibilità in più d’aver rapporti col prossimo – oltre a quella dell’autore (che si può realizzare solo attraverso le opere) e quella dell’individuo (che si realizza nel tran-tran della vita quotidiana): cioè sono uno che lavora (oltre che ai propri libri) a far sì che la cultura del suo tempo abbia un volto piuttosto che un altro. Credo molto in questo aspetto della mia vita». 228

È quasi in coincidenza della scrittura del Barone che Calvino affida al Notiziario Einaudi (del ’56) le successive, emblematiche, riflessioni: Difficile lavoro hanno i libri, in questo tempo di trapasso: servire la più larga intelligenza delle questioni nuove; insieme informare, proporre, discutere. Questa presenza nel tempo, quest’impegno di dare strumenti per intenderlo, sono le ragioni prime della nostra insegna editoriale. 229

Ma tornando alla scena narrativa, si rileva ancora come a differenza delle circostanze verificatesi con Gian dei Brughi, dove il mestiere di Cosimo viene a esercitarsi su un bisogno di lettura compiutamente espresso dal cliente lettore, nel caso di UrSegre, Italo Calvino e il “Notiziario Einaudi”, cit., p. 26. Italo Calvino, Intervista a cura di Alberto Arbasino, pubblicata con il titolo Meglio il silenzio che le chiacchiere dei notabili, su «Il Giorno», 6 maggio 1963, poi in Alberto Arbasino, Sessanta posizioni, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 92-97, infine in S-II, con il titolo Intervista di Alberto Arbasino, pp. 2760-2768, la citazione a p. 2762. Cfr., inoltre, Ferrero, I migliori anni della nostra vita, cit., p. 53. 228 Calvino, Lettera a Antonella Santacroce, 22 aprile 1964, in I libri degli altri, cit., pp. 465-466, la citazione a p. 465. 229 Id., Libri per la discussione, in «Notiziario Einaudi», V (giugnoagosto 1956), n. 6-8, poi in S-II, pp. 1753-1756, la citazione a p. 1753. 226 227

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sula e della comunità degli spagnoli, invece, è lo stesso barone a suggerire tale bisogno, proponendo romanzi che egli evidentemente giudica adatti a Ursula e utili al suo scopo. Questo aspetto ci riporta allora all’idea propria di Calvino (così come di casa Einaudi) che «il lettore non è un semplice acquirente, ma il membro di un club ideale». 230 E forse che ogni circostanza può essere buona per trasformare un lettore potenziale in uno reale: [Calvino] editore lo era naturalmente, […] se si bada ad altre qualità necessarie alla qualifica: l’essere attenti alla cultura in movimento, al disvelarsi e al trasmutarsi dei valori; e il saper cogliere il senso delle situazioni, l’essere esattamene nel proprio tempo. 231

Dal momento che Cosimo rappresenta il lettore ideale dell’autore ma che, al contempo, nel suo sforzo divulgativo egli rievoca anche l’esperienza di Calvino editore alle prese con il pubblico dei lettori, questo personaggio ci consente di confrontare i due diversi “destinatari” prefiguratisi da Calvino in rapporto, rispettivamente, alla sua attività di scrittore e di editore. Se dalla elezione di Cosimo a lettore ideale emerge, come si è visto, l’idea che lo scrittore nel «pubblico vasto e indifferenziato» (proprio del romanzo popolare) non riconosca più uno stimolo sufficiente alla creazione letteraria, e che egli necessiti, invece, di proiettare la propria scrittura verso un destinatario più colto, attento, e avvezzo a ogni genere di lettura, viceversa, l’immagine di Cosimo alle prese con gli idalghi dimostrerebbe come l’ambizione di Calvino editore fosse, ancora in quel frangente, 230 Ferrero, Postfazione, a Il libro dei risvolti, cit., p. 257. «Che il pubblico andasse “costruito”, ovvero informato e trattato da pubblico adulto, era già un’ovvietà per noi» (Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, cit., p. 92). Cfr., inoltre, le parole dello stesso Calvino: «il patrimonio più prezioso di una casa editrice è il carattere, la fisionomia (il che sul piano commerciale si traduce nella capacità di crearsi, mantenere e accrescere un pubblico proprio)» (Italo Calvino, Lettera a Giulio e Renata Einaudi, 22 novembre 1959, in Lettere, cit., pp. 614-622, la citazione a p. 617). Uno degli strumenti adottati da casa Einaudi per “formare” il pubblico dei lettori è proprio il Notiziario Einaudi curato da Calvino e preposto ad un fine «non direttamente pubblicitario ma informativo-culturale» (Id., Lettera a Franco Venturi, 31 maggio 1952, in ivi, p. 342). 231 Bollati, Calvino editore, cit., p. 1. «In quei meravigliosi anni Cinquanta, in Einaudi, inventarono cento e uno modi per catturare il lettore, anche quello che non andava in libraria» (Cesari, Colloquio con Giulio Einaudi, cit., p. 85).

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quella di esercitare un’influenza ad ampio raggio. Sotto questo punto di vista, il Notiziario Einaudi del ’56 conferma il progetto calviano (ed einaudiano) di portare «il libro problematico, di discussione, che racchiude in sé elementi di politica attuale, di sociologia» a «un pubblico più vasto». 232 Non solo, ma in quella sede, Calvino (con scarsa lungimiranza) attribuisce per intero la colpa del fatto che questi libri spesso cadano «in una specie di terra di nessuno» alla scarsa collaborazione dei giornalisti, che sottovaluterebbero le potenzialità del pubblico dei lettori. 233 Apparentemente, allora, in questo momento, le identità dei referenti cui si rivolge Calvino sono diverse: da una parte c’è lo scrittore che comincia ad avvertire la necessità di prefigurarsi un lettore più colto e attento, e dall’altra ci sarebbe l’editore che lavora per un pubblico vasto e indifferenziato. Tuttavia, è ancora una volta l’immagine narrativa a restituirci, con la consueta chiarezza e ironia, un riflesso per certi aspetti più autentico del rapporto tra Calvino editore e il pubblico. Nell’immagine di Cosimo che prodigandosi per risollevare le sorti dell’intera colonia spagnola, è ascoltato dal solo El Conde e da pochi altri interlocutori, si può forse percepire anche l’amarezza di un Calvino editore orami consapevole del fatto che, per quanto vasto possa essere il pubblico cui ci si rivolge, pochissimi sono e saranno quelli davvero interessati a cogliere gli spunti di discussione proposti. Ma è ancora Cosimo a suggerirci che, per quanto pochi possano essere i “veri” lettori, anche così, lo sforzo non sarà vano, ma basterà essere riusciti a motivare anche un solo lettore (El Conde, nel nostro caso) per convincere un’interra comunità di esuli a «andare in Spagna a fare la rivoluzione». 234 Calvino editore, allora (come Cosimo), benché non rinunci all’ambizione di una cultura che incida sulla società, sembra tutCalvino, Libri per la discussione, cit., p. 1755. «Grandi quotidiani già molto apprezzati in questo senso, hanno intrapreso un vero e proprio autosabotaggio dei loro servizi d’informazione culturale e cercano di parlare di libri il meno che possono, “perché al pubblico non interessano le recensioni”. Oltre a non essere vero, questo ragionamento è improntato a una passività rinunciataria che è proprio il contrario dello spirito giornalistico: un giornalismo intelligente è quello che trova le formule per fare di ogni fatto esistente “notizia”, per creare attenzione e passione nel pubblico» (Ivi, pp. 1755-1756). Su questo argomento Calvino torna anche in una lettera a Fortini, cfr. Id., Lettera a Franco Fortini, 28 maggio 1957, in I libri degli altri, cit., pp. 226-227. 234 Id., Il barone rampante, cit., p. 686. 232 233

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tavia avere ormai acquisito la consapevolezza che questa “azione” si eserciterà «nell’apparente insignificanza di una piccola pratica artigianale, sapendo che il mondo può cambiare solo attraverso la concomitanza di tanti piccoli gesti amorevoli ed esatti, e insieme sapendo che basta un soffio di vento a scompaginare ogni progetto». 235 Anche questo allora può essere interpretato come un segno precorritore di successivi sviluppi, poiché, come vedremo, Calvino privilegerà, in un secondo momento, un pubblico più colto e attento a cogliere i suggerimenti critici che gli sono proposti, riconoscendo che la possibilità di “azione” dello scrittore non dipende più, in modo diretto e meccanico, dall’ampliamento numerico e diastratico della comunità dei lettori, quanto piuttosto, dalla qualità di ricezione dei singoli lettori, aspetto che, pertanto, diventerà di primario interesse per l’autore.

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Ferrero, Edizioni Calvino, cit., p. 178.

III LA LETTURA NELLA “TRILOGIA DELLA MODERNITÀ” 1

1. La speculazione edilizia: la lettura come metafora epistemologica Dopo l’ampia carrellata di personaggi lettori incontrati nel Barone, il romanzo La speculazione edilizia, 2 uscito su rivista lo 1 La definizione di «trilogia della modernità», qui attribuita al trittico La speculazione edilizia, La nuvola di smog e La giornata d’uno scrutatore, riprende quella proposta da Milanini (cfr. L’utopia discontinua, cit., p. 68) che a sua volta rinvia a Bruno Falcetto (cfr. ivi la nota n. 2 a p. 96). In realtà Calvino aveva inizialmente pensato di unire La speculazione edilizia e La giornata d’uno scrutatore ad un racconto, poi non portato a termine (Che spavento l’estate), e di attribuirvi il titolo Cronache degli anni Cinquanta (cfr. Intervista di Maria Corti, cit., p. 2922). La nuvola di smog, inizialmente considerato «molto diverso perché scritto secondo un’altra chiave di trasformazione dell’esperienza» (ibidem), in seguito sarebbe stato accostato agli altri due romanzi dallo stesso autore (cfr. Intervista con gli studenti di Pesaro, cit., p. 12), il quale avrebbe così avallato a posteriori l’ipotesi interpretativa di una contiguità espressiva dei tre romanzi. 2 Id., La speculazione edilizia, pubblicato su «Botteghe Oscure», quaderno XX (1957), pp. 438-517; l’anno successivo l’autore include il romanzo nel Libro quarto (La vita difficile) dei Racconti, cit. (alle pp. 441-520), previa espunzione di numerosi brani del testo (sulle ragioni di questa operazione si rimanda alle spiegazioni esposte dallo stesso autore nella Lettera a François Wahl, 6 febbraio 1963, in Lettere, cit., pp. 730-731). Calvino decide, in seguito, di pubblicare il romanzo in un volume autonomo, per la collana «I coralli» (Torino, Einaudi, 1963), recuperando la maggior parte dei brani espunti e tornando così alla forma originale. Seguono varie riedizioni presso Einaudi (1973, 1985), e a partire dal 1991 anche Milano, Mondadori. Per tutte le citazioni riportate si rimanda alla edizione del romanzo in R-I, pp. 779-890. Milanini sottolinea che le due differenti forme della Speculazione «s’apparentano l’una (quella dei Racconti) alla Nuvola di smog, l’altra (quella originaria, ricuperata non a caso nel ’63) alla Giornata d’uno

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stesso anno (1957) e scritto nei medesimi mesi, 3 colpisce per la parsimonia iconografica accordata al tema della lettura. Se poche (solo due) sono le occasioni in cui Quinto, il protagonista, è rappresentato intento nella lettura, la loro posizione all’interno dell’intreccio narrativo assicura a esse notevole visibilità, suggerendone la rilevanza. Questo, infatti, l’incipit del romanzo: Alzare gli occhi dal libro (leggeva sempre, in treno) e ritrovare pezzo per pezzo il paesaggio – il muro, il fico, la noria, le canne, la scogliera – le cose viste da sempre di cui soltanto ora, per esserne stato lontano, s’accorgeva: questo era il modo in cui tutte le volte che vi tornava, Quinto riprendeva contatto col suo paese, la Riviera. Ma siccome da anni durava questa storia, della sua lontananza e dei suoi ritorni sporadici, che gusto c’era? sapeva già tutto a memoria: eppure, continuava a far nuove scoperte, così di scappata, un occhio sul libro l’altro fuori dal finestrino, ed era ormai soltanto una verifica di osservazioni, sempre le stesse. Però ogni volta c’era qualcosa che gli interrompeva il piacere di quest’esercizio e lo faceva tornare alle righe del libro, un fastidio che non sapeva bene neanche lui. 4

Ignorato il nome dell’autore, il titolo dell’opera, o anche solo il genere di libro letto da Quinto, l’atto della lettura è privato, in questa circostanza, di ogni valenza culturale e letteraria, e prescrutatore. Più che una trilogia, abbiamo dinanzi una tetralogia: due racconti lunghi, due romanzi brevi» (Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 79). Per un approfondimento sulle varie redazioni del romanzo cfr. Martin L. McLaughlin, The genesis of Calvino’s “La speculazione edilizia”, in «Italian Studies», XLVIII, 1993, pp. 71-85; per un più dettagliato recupero della storia editoriale si rimanda a Claudio Milanini, La speculazione edilizia. Note e notizie sui testi, in R-I, pp. 1338-11351; lo studio del manoscritto originale del romanzo (donato da Calvino al Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia) è stato approfondito da Martin L. McLaughlin, Il “fondo Italo Calvino”, in «Autografo», VI (giugno 1989), n. 17, pp. 93-103. 3 Più precisamente il Barone sarebbe stato scritto tra il 10 dicembre 1956 e il 26 febbraio 1957, La speculazione edilizia, invece, tra il 5 aprile del ’56 e il 12 luglio del ’57. L’8 luglio ’57, in una Lettera a Aldo Camerino, Calvino rivela: «adesso scrivo – per sgranchirmi le gambe dopo il soggiorno arboricolo – un racconto psicologico-saggistico contemporaneo, La speculazione edilizia, per “Botteghe oscure”. Ma fa caldo, si stava meglio sui rami» (in Lettere, cit., p. 496). Sull’intreccio delle composizioni di questi due romanzi cfr. Martin L. McLaughlin, “La speculazione edilizia”: natura e storia in un racconto “difficile”, in Italo Calvino. A writer for the next millennium, cit., pp. 205-220. 4 Calvino, La speculazione edilizia, cit., p. 781.

La lettura nella “trilogia della modernità”

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sentato come un esercizio meramente percettivo. La funzione della lettura in questo brano iniziale è quella di accompagnare il riconoscimento dei luoghi dell’infanzia, come se la pagina scritta fosse lo sfondo su cui il lettore proietta ogni singolo particolare del paesaggio (il muro, il fico, ecc.), per darvi maggior risalto. Rispetto all’abitudine di leggere «sempre, in treno», il viaggio verso il paese d’origine rappresenta per Quinto una piacevole distrazione: i luoghi dell’infanzia esercitano, infatti, su di lui un’attrazione che ha il potere di distoglierlo dall’attività iniziale. Ma il gioco del riconoscimento visivo nel paesaggio delle immagini della memoria anziché scivolare in un lirismo nostalgico ed evocativo, si interrompe bruscamente per il sopraggiungere di un non meglio definito «fastidio», da cui il lettore tenta di sottrarsi, rifugiandosi nelle «righe del libro». Il problema di Quinto, così è chiarito subito dopo, «erano le case: tutti questi nuovi fabbricati che tiravano su, casamenti cittadini di sei otto piani, a biancheggiare massicci come barriere di rincalzo al franante digradare della costa […]. La febbre del cemento s’era impadronita della Riviera». 5 Ciò che colpisce in questo incipit di romanzo è il contrasto tra lo stato di incertezza emotiva del protagonista e l’evidenza, la banalità brutale e dirompente della situazione. Questa singolare dialettica è replicata più volte, soprattutto nei capitoli iniziali (I e II), dove l’«ombroso disagio» del protagonista, le sue preoccupazioni e i dubbi contrastano con la celerità con cui prende le decisioni: «Certo che ci costruiranno!» esclama Quinto alla fine del capitolo II, repentinamente adattatosi a quella «febbre del cemento» che sembrava averlo disturbato durante il viaggio in treno. Ma proprio la rapidità con cui si susseguono le decisioni di Quinto (le dichiarazioni alla madre, la messa in vendita del terreno, la ricerca di un investitore), dimostra che quel senso di incerto fastidio iniziale non rappresenta una fase intermedia di un percorso conoscitivo in fieri, ma una forma di regressione, un volontario e ostinato rifugio. Non a caso, infatti, all’inizio del capitolo II, la voce narrante, che spesso oscilla tra il racconto in terza persona e l’indiretto libero, dopo un’attenta 5 Ibidem. Sul rapporto con la riviera (in particolare con Sanremo) nella Speculazione (e altre opere successive), cfr. Massimo Quaini, La Sanremo di Italo Calvino, in Italo Calvino, la letteratura, la scienza, la città, cit., pp. 60-66.

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analisi della situazione («Quinto riconosceva la spietatezza degli ottimisti a ogni costo […]. Sentiva quanto sbagliata è questa spietatezza giovanile, quanto dilapidatrice e foriera di precoce sapore di vecchiezza, e d’altronde anche quanto crudelmente necessaria» 6 ), si lascia sfuggire: «tutto insomma sapeva, maledetto lui!», 7 esclamazione che gioca volutamente sull’ambiguità di un’espressione che potrebbe appartenere contemporaneamente al narratore e al personaggio. 8 Quel «maledetto lui» significa, infatti, che Quinto sa, ma preferirebbe non sapere: sa che la cementificazione si sta portando via le bellezze della sua terra, sa che questa «smania» di costruire è l’espressione di un ottimismo spietato e ipocrita che non ferirà soltanto le persone anziane, ma anche i giovani e lui con loro, e tuttavia sa che le tasse di successione dell’eredità paterna gli impongono la vendita di un pezzo di terreno edificabile. Quando compie quel viaggio in treno con il libro in mano, Quinto ha già deciso di intraprendere la speculazione edilizia, ma alla certezza gnoseologica preferisce «un fastidio che non sapeva bene neanche lui», per procrastinare il quale egli ricorre alla pagina scritta, non più come sfondo per dare risalto agli oggetti dell’infanzia, ma come muro per difendere sguardo e coscienza dalla vista di quel paesaggio che anche lui, tra poco, contribuirà a imbarbarire. Alla luce di questa prima riflessione già risulta evidente come la lettura assolva, per la prima volta, una funzione diversa da quelle fin qui rilevate. Se nel Sentiero essa è un elemento fondamentale della caratterizzazione di alcuni personaggi (si pensi a Kim, ad esempio), e nella trilogia fiabesca essa è, prevalentemente, espressione della poetica narrativa dell’autore, nella Speculazione la scena iniziale di Quinto lettore assurge a metafora epistemologica, a immagine rivelatrice della forma di conoscenza che contraddistingue il protagonista. La lettura, in questa dimensione, non rimanda alle idee di lettura dell’autore né ai suoi progetti letterari, ma diventa una funzione metaesegetica del romanzo stesso, poiché finalizzata a iniziarci al sistema interpretativo del mondo proprio del protagonista. Al Calvino, La speculazione edilizia, cit., p. 785. Ibidem. 8 «L’“io” da cui apprendiamo la storia si configura insomma come un “doppio” poco più adulto di colui che la vive, come un alter ego ancor privo di criteri d’orientamento alternativi» (Cfr. Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 86). 6 7

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segmento narrativo della lettura è rimessa quindi, una parte fondamentale del discorso di questo romanzo e, più in generale, una delle funzioni più importanti (se non la più importante in assoluto) che Calvino attribuisce specificatamente alla letteratura: Insomma, se gran parte dei temi che parevano precipui del romanzo ora sono fatti propri da altri strumenti di conoscenza, nessuno di questi strumenti dà quello che la letteratura dava […]. Il romanzo non può più pretendere d’informarci su come è fatto il mondo; deve e può scoprire però il modo, i mille, i centomila nuovi modi in cui si configura il nostro inserimento nel mondo, esprimere via via le nuove situazioni esistenziali. 9

La riflessione sulle competenze della letteratura, già avviata nel Midollo del leone, a partire dalla fine degli anni ’50 diventa uno dei leitmotiv delle pagine saggistiche e dell’epistolario privato. In una lettera a François Wahl, ad esempio, Calvino scrive: quello cui io tendo, l’unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro. 10

Questo compito precipuo diviene prioritario non solo per Calvino scrittore, ma anche per Calvino lettore che, in questo periodo, dichiara di prediligere gli autori «che si limitano a stabilire un atteggiamento umano, un rapporto col mondo, senza fare una metafisica né del mondo, né della divinità, né dell’uomo. Come Conrad, come Hemingway, come Pavese». 11 Così, analogamente, anche nelle lettere che Calvino scrive in veste di editore, il suo apprezzamento ricade principalmente su quei libri che pongono in primo piano non tanto una storia o un documento, quanto il problema dell’«atteggiamento» da tenere nei confronti di una data realtà, e la prospettiva con cui si sceglie di raccontarla. 12 Calvino, Dialogo di due scrittori in crisi, cit., p. 89. Id., Lettera a François Wahl, 1° dicembre 1960, in Lettere, cit., pp. 668-670, la citazione a p. 669, il corsivo nel testo. 11 Ferrero, I migliori anni della nostra vita, cit., p. 57. 12 In una lettera a Giovanni Arpino, ad esempio, Calvino scrive: «Una nuvola d’ira è un libro importante perché parla di qualcosa che non sappiamo bene come definire, cioè l’atteggiamento da tenere nella civiltà della 9

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Se già dalla metà degli anni ’50 l’insegnamento più importante che è riconosciuto alla letteratura è «il modo di guardare il prossimo e se stessi», 13 dal romanzo La speculazione edilizia, è proprio alle immagini della lettura che Calvino assegna il compito precipuo di svelarci l’atteggiamento conoscitivo del personaggio nei confronti del mondo che lo circonda. L’immagine iniziale di Quinto lettore assurge, infatti, a emblema di quell’offuscamento della coscienza che pervade il soggetto; più in particolare, nell’utilizzo della pagina letteraria come scudo contro la vista del paesaggio cementificato, è svelata l’attitudine mistificatrice del personaggio e la contraddittorietà del suo carattere 14 che lo spinge a moti alterni di adesione alla realtà dei tempi e di rifiuto, e a un atteggiamento al contempo cinico e ingenuo, disincantato e sprovveduto. Come illustrato dallo stesso autore, infatti, il limite gnoseologico del personaggio è di non capire (o di tardare a capire) che «quel che gli sembrava uno scandalo non lo è affatto, che non c’era nessun moralismo da violentare, che lo scandalo è stato solo fare male i propri affari, cioè farli seguendo un’idea letteraria e romantica e individualistica della spregiudicatezza economica». 15 Quinto, per quanto si sforzi di essere diverso dai suoi amici intellettuali (Bensi, il «filosofo […] strabico all’infuori» 16 e Cerveteri «il poeta […] strabico all’indentro» 17 ), e rivendichi per sé una certa affinità con l’impresario Caisotti, risulta invece, nell’esercizio conoscitivo, inetto e “strabico” esattamente quanto loro. Emblematico, in questo senso, è il conproduzione industriale e del consumo di massa, e più particolarmente l’atteggiamento da tenere essendo operai» (Cfr. Italo Calvino, Lettera a Giovanni Arpino, 1962, in Lettere, cit., pp. 700-704, la citazione a p. 701); analogamente in una missiva a Sciascia ribadisce: «la cosa tua più forte resta le Cronache scolastiche. È una cosa che esce dalla letteratura “documentaria” di questi anni, perché non c’è solo il documentario, ma ci sei tu dentro che guardi» (Cfr. Id., Lettera a Leonardo Sciascia, 25 settembre 1957, in ivi, pp. 516-518, la citazione a p. 517). 13 Id., Il midollo del leone, cit., p. 21. 14 Questo aspetto del personaggio è stato descritto con precisione da Alberto Asor Rosa in Calvino dal sogno alla realtà, in «Supplemento scientifico-letterario» di «Mondo Operaio», XI (marzo-aprile 1958), n. 3-4, poi in Id., Stile Calvino. Cinque studi, Torino, Einaudi, 2001, pp. 3-30, in particolare cfr. pp. 18-25. 15 Italo Calvino, Lettera a Marco Forti, giugno-luglio 1961, in Lettere, cit., pp. 685-689, la citazione a p. 687. 16 Id., La speculazione edilizia, cit., p. 808. 17 Ivi, p. 809.

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fronto tra l’atteggiamento di Quinto e quello della madre al momento dell’incontro con l’impresario: mentre la madre di Quinto legge con chiarezza sulla faccia di Caisotti i segnali di pericolo («ma non hai visto che faccia falsa, che occhi piccoli?» 18 ), Quinto, invece, pur guardando le medesime espressioni, si ostina ad attribuirvi un significato opposto a quello letterale: «falsissima […] e con ciò? Perché dovrebbe avere una faccia sincera? Per darcela meglio a intendere? Quella sì, sarebbe una falsità…». 19 Da questo punto di vista il percorso di Quinto non conosce evoluzione: tanto quanto il protagonista si nasconde, all’inizio, dietro la pagina del libro durante il viaggio in treno, così alla fine del romanzo circoscrive la propria prospettiva visiva entro quei limiti (ormai ristretti) che gli consentono di credere (o di fingere di credere) che «il giardino era sempre il giardino»: La madre era in giardino. I caprifogli odoravano. I nasturzi erano una macchia di colore fin troppo vivo. Se non alzava gli occhi in su, dove da tutte le parti s’affacciavano le finestre dei casamenti, il giardino era sempre il giardino. 20

Il secondo segmento narrativo dedicato alla lettura si colloca, invece, verso la fine del romanzo, quando ormai Quinto ha già avviato la speculazione con Caisotti e ha già compreso (per quanto gli è dato comprendere nel suo modo refrattario e ottenebrato) di essere stato raggirato dall’impresario. Avvicinandosi lo spirare della settimana, la madre cominciava a dire: – La signora Hofer non è ancora venuta… – E Quinto, sprofondato in una sedia a sdraio a leggere il Felix Krull: – La signora Hofer… La signora Hofer… La faremo pagare. 21

In questo caso è necessario rilevare che nella prima redazione del romanzo non si fa riferimento esplicito al Felix Krull, Ivi, p. 790. Ibidem. 20 Ivi, pp. 889-890. 21 Ivi, p. 882. Il Felix Krull è l’abbreviazione di Le confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull, titolo originale Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull, romanzo incompleto di Thomas Mann, uscito per la prima volta nel 1922 poi parzialmente rifatto nel ’37 e rimaneggiato ancora per l’edizione del ’54. 18 19

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quanto, più genericamente, all’autore: «Quinto è sprofondato in una sedia a sdraio a leggere Thomas Mann». 22 La scelta iniziale di Calvino di introdurre nel romanzo il nome di Thomas Mann ci riporta alla polemica lukácsiana secondo la quale Mann, essendosi macchiato di compromissione con l’avanguardia, andrebbe estromesso dal novero degli scrittori realisti. In un famoso intervento, scritto poco prima di dedicarsi alla Speculazione, Calvino interviene in questo dibattito, ponendosi a difesa di Mann: Usciti dall’Ottocento, il suo [di Lukács] ideale estetico s’appanna d’una soffice patina di noia: non vi ritroviamo il nervosismo, la fretta del nostro vivere, cui hanno risposto non più il romanzo costruito, ma il taglio lirico del romanzo breve […]. C’è Thomas Mann, si obietta; e sì, lui capì tutto o quasi del nostro mondo, ma sporgendosi da un’estrema ringhiera dell’Ottocento. Noi guardiamo il mondo precipitando nella tromba delle scale. 23

Così altrettanto fondamentale è l’intervento sul «Contemporaneo» (Manniano all’incontrario) dove Calvino rielabora una rivalutazione del decadentismo. 24

22 Per questa osservazione si rimanda a McLaughlin (Il “fondo Italo Calvino”, cit., p. 99), le cui osservazioni vengono riproposte anche da Milanini, in La speculazione edilizia. Note e notizie sui testi, cit., p. 1349. 23 Calvino, Le sorti del romanzo, cit., pp. 1512-1513. La lettura dell’opera di Mann risulta essere stata intrapresa da Calvino già nel 1950 (cfr. Id., Lettera a Natalia Ginzburg, 14 agosto 1950, in Lettere, cit., pp. 291-293, in particolare p. 292). 24 «Noialtri giovani che cominciammo a dichiararci per la narrativa tutta fatti, oggettiva, rapida, “parlata”, se avevamo bisogno di trovare progenitori ponderosi e onesti di dottrina per la nostra rozza incondita schiatta, saremmo andati a tirare già fin la barba di Tolstoj, o magari anche la papalina di Flaubert […] ma non mai il colletto inamidato di quest’ultimo campione della narrativa classica e dell’intellettualismo europeo, che appariva estraneo alle nostre preoccupazioni contenutistiche e linguistiche come l’abitante d’un altro pianeta. Più tardi, guardandoci intorno inquieti, insoddisfatti, con il desiderio d’una letteratura che dicesse di più, che “sapesse” di più sull’uomo d’oggi e la sua condizione […] cominciammo a capire che Mann era un punto di riferimento necessario, da cui non potevamo prescindere» (cfr. Id., Manniano all’incontrario, in «Il Contemporaneo», II (4 giugno 1955), n. 23, poi in S-I, pp. 1339-1342, la citazione alle pp. 13391340). Sull’importanza di questo intervento si sofferma specificatamente Bertone (Italo Calvino, cit.,) cui si rimanda per approfondimenti ulteriori (p. 34 e pp. 62 e sgg).

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Oltre a richiamare l’attenzione su questo dibattito letterario, la scelta di Calvino di menzionare Thomas Mann poteva forse valere anche da suggerimento esegetico per il lettore, il quale, pur trovandosi di fronte ad un romanzo (La speculazione) apparentemente realista, è avvertito (tramite la lettura en abyme) che la narrazione intende trascendere dalla tensione mimetica (voluta da Lukács), per ricollegarsi a un’istanza letteraria più problematica: 25 come l’opera di Mann così anche la Speculazione si sporge sì dalla ringhiera del realismo ma per guardare il mondo da una prospettiva che vuole essere già moderna, ibrida e scorciata. 26 Ma l’incremento della puntualità intertestuale che caratterizza la redazione ultima del romanzo, tende a mettere in secondo piano gli elementi ora rilevati, per enfatizzarne altri, più direttamente connessi alla figura del protagonista. Il fatto che Quinto si appassioni proprio alla storia di Felix Krull cavaliere d’industria pone in risalto, soprattutto, il suo desiderio di immedesimazione nella classe borghese. E tuttavia la brevità della sequenza narrativa non dà la possibilità di capire se Quinto, nel romanzo di Mann, si sia limitato a leggere l’epopea borghese o abbia saputo cogliere l’intento parodico sotteso alla narrazione. 2. La nuvola di smog, l’amore e la lettura Tema gnoseologico e personaggio intellettuale tornano a essere protagonisti nel romanzo La nuvola di smog. 27 Come spie25 Nel Midollo del leone, Calvino chiarisce di volere continuare a «frequentare Thomas Mann, Picasso, Pavese» perché interessato al «loro cercare di lavorare sulla base di tutta la problematica del loro tempo» e al «loro situarsi nel punto nodale di una cultura e di un’epoca» (Calvino, Il midollo del leone, cit., p. 26). 26 Interessante sottolineare come anche i critici che non si sono soffermati su questo specifico passo del romanzo, hanno ugualmente rilevato un’analogia tra La speculazione e il modello romanzesco di Mann (cfr., ad esempio, Perella, Calvino, cit., p. 65). 27 Italo Calvino, La nuvola di smog, pubblicato per la prima volta sulla rivista «Nuovi Argomenti», XXXIV (settembre-ottobre 1958), pp. 180-220, poi ripreso nella chiusura della sezione La vita difficile del volume I racconti, cit. (alle pp. 521-561). Nel 1965 segue una edizione in volume insieme al racconto La formica argentina (Torino, Einaudi), cui rimane unito per lungo tempo della sua storia editoriale. Dal 1990 anche edizioni Milano,

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gato da Calvino in una lettera a Mario Boselli, il fulcro di questa narrazione non è il “grigiore” della realtà industriale (e lo squallore della vita borghese al suo interno), ma «il rapporto» che il soggetto intrattiene «con [questo] “grigiore”». 28 Anche nella Nuvola di smog, quindi, l’istanza letteraria prioritaria è la rappresentazione di uno dei modi (emotivo e gnoseologico) in cui l’uomo moderno si inserisce nello spazio che lo circonda; e come nella Speculazione così anche in questo romanzo, la lettura è una delle immagini cui l’autore affida il compito di rappresentare la tipologia di approccio ermeneutico proprio del protagonista: Il problema più grave erano i libri: li avevo messi in ordine su quell’étagère ed erano essi soltanto a darmi l’impressione che quella fosse la mia casa; l’ufficio mi lasciava del tempo libero e volentieri avrei passato qualche ora in camera a leggere. Però i libri si sa quanta polvere assorbano: ne sceglievo uno dallo scaffale, ma prima d’aprirlo dovevo strofinarlo con un cencio tutt’intorno, sul taglio, e poi sbatterlo per bene: ne usciva un polverone. Allora mi rilavavo le mani e poi mi buttavo sul letto a leggere. Ma sfogliando il libro, è inutile, mi sentivo sui polpastrelli quel velo che diventava sempre più soffice e spesso e mi guastava il piacere della lettura. M’alzavo, tornavo al lavabo, mi davo ancora una sciacquata alle mani, ma adesso mi sentivo impolverato anche sulla camicia, sui vestiti. Avrei voluto rimettermi a leggere ma ora avevo le mani pulite e mi dispiaceva sporcarmele di nuovo. Così decidevo d’uscire. 29

La frustrazione del personaggio che è ostacolato nella lettura dall’invasione della polvere nello spazio abitativo, risalta maggiormente in considerazione della cura che egli aveva posto, fin dal suo arrivo nella stanza affittata, per predisporre una scaffalatura che accogliesse «quel po’ di biblioteca che era riuscito a tenere insieme nella [sua] vita squinternata». 30 Il «velo» di polvere che riveste come una patina resistente i libri della biblioteca del protagonista, altro non è che una parte Mondadori. Per le citazioni riportate nel testo si fa riferimento alla edizione del romanzo inclusa in R-I, alle pp. 445-482. 28 Cfr. Id., Lettera a Mario Boselli, marzo 1964, in Lettere, cit., pp. 792803, la citazione a p. 799. Attraverso questa lettera Calvino interviene a commentare l’ampio saggio di Mario Boselli dedicato al linguaggio della Nuvola di smog, apparso nel numero 28-29 (1963) di «Nuova Corrente». 29 Calvino, La nuvola di smog, cit., p. 901. 30 Ivi, p. 894.

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dello smog che ostruisce lo spazio della città industriale e dunque una metafora dell’offuscamento della coscienza dell’uomo moderno e dell’intellettuale in particolare. Nella fattispecie la dissociazione (generata dalla polvere) tra soggetto intellettuale e lettura stigmatizza la perdita del senso umanistico dell’uomo di lettere e anticipa l’atteggiamento acritico e sliricizzato con cui il protagonista affronta il suo impiego come redattore nel periodico «La purificazione». Sotto questo punto di vista, La nuvola di smog introduce alcuni dei problemi che di lì a poco sarebbero diventati centrali nella riflessione del «Menabò», quali, ad esempio, la riflessione sulle cause della deficienza critica della letteratura italiana, dibattuta da Vittorini già nel primo numero della rivista. 31 L’immagine dei libri pieni di polvere ritorna anche nella scena d’amore con Claudia: Ora Claudia era sdraiata con la sua bianca persona sul letto, quel letto che a batterlo avrebbe alzato una nube di polvere, e allungò una mano verso lo scaffale lì di fianco, prese un libro. – Attenta, è polveroso! – Ma lei l’aveva aperto, lo stava sfogliando, poi lo lasciava cadere. Io guardavo il suo seno ancora da giovinetta, i rosei culmini appuntiti, e mi prese lo struggimento che vi fosse calata della polvere dalle pagine del libro, e avanzai le mani a sfiorarli in un gesto che somigliava a una carezza ma era invece un voler toglierle quel po’ di polvere che mi pareva ci fosse caduta. 32

Nel gesto del protagonista nei confronti di Claudia si esprime il desiderio di preservare almeno il corpo della donna amata dalla nube di polvere che ha invaso prepotentemente ogni altro spazio fisico e ha, metaforicamente, offuscato l’intera vita del personaggio. Sotto questo punto di vista, Claudia rappresenta non solo l’unica immagine colorata e vivace all’interno di un paesaggio dominato dal grigio, ma anche l’unico personaggio dotato di capacità gnoseologica istintiva. La chiarezza con cui decifra 31 Sulla storia della rivista e del ruolo svolto da Calvino all’interno di essa, si rimanda a Pierre Laroche, Il Menabò tra teoria della letteratura e sociologia della cultura, in «Chroniques Italiennes», 3, 1985, pp. 15-23; Ferretti, «Il Menabò», in L’editore Vittorini, cit., pp. 285-296, in particolare pp. 285-287; Guido Bonsaver, «Il menabò», Calvino and the “Avanguardie”: Some Observations on the Literary Debate of the Sixties, in «Italian Studies», L, 1995, pp. 46-67. 32 Calvino, La nuvola di smog, cit., p. 928.

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i segni della realtà risalta soprattutto nell’episodio dell’incontro con il protagonista, quando i due, guardando la città da un punto panoramico, riconoscono, rispettivamente, lui un indistinto groviglio di «nuvole o nebbie che a seconda di come l’umidità s’addensa negli strati freddi dell’aria sono grigie o azzurrastre o bianchicce oppure nere», 33 lei, più semplicemente e correttamente, «lo smog»: «vedi quella? È una nuvola di smog!». 34 Come già altri personaggi femminili dell’universo calviniano, anche Claudia è contraddistinta dai caratteri dell’irrazionalità, dell’istinto e della vitalità, e come già in precedenza si era verificato con i personaggi di Pamela (nel Visconte) e Viola (nel Barone), anche in questo caso l’universo femminile è preservato dal contatto con il mondo della lettura. A ben guardare, a parte la ragazza che compita il romanzo illustrato, protagonista del racconto Il gatto e il poliziotto (nel Corvo), i personaggi femminili risultano generalmente refrattari e poco interessati ai libri, e anche quando sono sollecitati in tal senso oppongono una ferma resistenza. Si pensi a Pamela, ma soprattutto a Viola che è forse l’unica persona che Cosimo non sia riuscito a fare appassionare alla lettura. Il significato di questa esclusione non va, si ritiene, indagato tanto nell’attitudine misogina dell’autore quanto nella proiezione, in questi personaggi femminili, del desiderio erotico e amoroso dei protagonisti, da cui l’idea di un antagonismo tra eros e letteratura e, per traslato, tra la vita stessa e la lettura. 35 L’immagine più significativa di questa dialettica è rappresentata dalla contrapposizione tra l’aspirazione a un’avventura amorosa della signora abbronzata del racconto L’avventura di un lettore, e l’antitetico progetto orchestrato da Amedeo di trascorrere l’intera giornata al mare sprofondato nell’avventura romanzesca. L’intero racconto si intreccia sul conflitto tra i due universi della pagina scritta e della realtà, perennemente in antitesi: quanto più attenta e appassionata diventa l’avventura letteraria tanto più insignificante e trascurabile appare agli occhi di Quinto quella sentimentale, cui infine cede per stanchezza e non per un interesse reale («era inutile, nulla eguagliava il sapoIvi, p. 926. Ibidem. 35 Su questo aspetto si rimanda al saggio di Ferroni, Da Francesca a Ludmilla: eros e lettura, cit. 33

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re di vita che è nei libri» 36 ). Anche nell’articolo I buoni propositi (scritto nel 1952), 37 da cui l’autore trae evidentemente spunto per la scrittura del racconto L’avventura di un lettore, 38 la lettura è rappresentata come un’attività totalizzante che, per essere apprezzata fino in fondo, necessita di solitudine, dell’«abbandono al fascino d’altri mondi» e dell’ascolto del «fruscio delle pagine». 39 Nel caso del Buon lettore protagonista di questo articolo, tutti i progetti di lettura metodicamente organizzati in vista delle vacanze vengono però rapidamente vanificati: prima c’è lo sport, poi le serate in compagnia e proprio quando il lettore vorrebbe riuscire a ritagliarsi uno spazio di solitudine per la lettura, c’è l’incontro con la ragazza bionda con cui comincia a trascorrere ogni parte della giornata: «la mattina a giocare a tennis, il pomeriggio a canasta e la sera a ballare. Nei momenti di riposo, lei non sta mai zitta». 40 Anche se l’esito della vacanza del Buon Lettore è antitetico a quello della giornata al mare di Amedeo (la cui avventura sentimentale, per quanto consumata, risulta marginale nell’economia di un’intera giornata dedicata alla lettura), il senso della sua storia non è poi molto dissimile. In entrambi i casi, infatti, vita e lettura sembra non riescano a conciliarsi, se non a discapito di uno dei due termini, e, più precisamente, della vita per Amedeo, e della lettura per il Buon Lettore, il quale, una volta a casa, potrà sì leggere, ma solo in «concentrati quarti d’ora […] prima di correre all’ufficio, in tram, nella sala d’aspetto del dentista…». 41 L’insistenza con cui Calvino ripropone, nelle opere degli anni Cinquanta, questa antitesi tra vita e letteratura, metonimicamente trasposte nell’irrisolvibile dialettica tra amore e lettura, ci porta, ancora una volta, all’idea della parzialità dell’esperienza letteraria e alla sua incompletezza rispetto all’extraletterario: «le cose che la letteratura può ricercare e insegnare sono poche ma insostituibili», scrive Calvino nel Midollo del leone, «il resto lo si vada a imparare altrove, dalla scienza, dalla storia, dalla Calvino, L’avventura di un lettore, cit., p. 1136. Id., I buoni propositi, in «l’Unità», 12 agosto 1952, poi con il titolo Le vacanze del Buon Lettore, in S-II, pp. 1743-1745. 38 Sul legame tra articolo e racconto si rimanda a Ferroni, Da Francesca a Ludmilla: eros e lettura, cit., p. 45 (nota 7). 39 Calvino, Le vacanze del Buon Lettore, cit., p. 1743. 40 Ivi, p. 1745. 41 Ibidem. 36 37

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vita, come noi tutti dobbiamo continuamente andare ad impararlo». 42 Gli interventi a carattere saggistico, così come i personaggi lettori inscritti nelle opere di questo periodo, ci invitano a riflettere sull’inganno della esperienza letteraria, sul suo proporsi al lettore come autonoma; chi, come Amedeo, cade nella trappola e considera la lettura bastevole a se stessa, paga questo errore con il prezzo della solitudine, della incomunicabilità, e anche della incapacità di leggere nell’opera mundus: “Dato che deve avvenire, avvenga subito!” pensò Amedeo buttandosi avanti col libro in mano, un dito tra le pagine, ma ciò che lesse in quello sguardo – rimprovero, commiserazione, scoramento, come gli volesse dire: “Stupido, facciamo così se non c’è che far così, ma non capisci niente neanche tu come gli altri” -, cioè quello che non lesse perché negli sguardi non sapeva leggere ma solo indistintamente avvertì. 43

Come si può notare, il verbo leggere, che spesse volte ricorre nel racconto in rapporto alla pagina scritta, in quest’ultimo brano è utilizzato, invece, come sinonimo di conoscere o riconoscere. È chiaro che l’ambivalenza del lessema pone in risalto le alterne abilità di Amedeo che da lettore attento, curioso e motivato si trasforma in un lettore (della realtà esterna) pigro, incapace e disinteressato. Anche questo personaggio, quindi, seppure inserito in una dimensione narrativa più distesa e ironica, condivide l’incapacità gnoseologica dei protagonisti della Speculazione e della Nuvola di smog, e anche in questa narrazione la lettura mette in evidenza l’incapacità di leggere il mondo da parte dei personaggi. Se dunque la lettura assolve, sempre più frequentemente, il ruolo di metafora epistemologica, anche il lessema “leggere” comincia a essere utilizzato in maniera ambivalente: ora in senso proprio, in rapporto all’atto di comprensione dell’opera letteraria, ora in senso figurato, in relazione all’indagine dell’opera mundus, e questo non solo nelle opere narrative ma anche (e quasi contemporaneamente) nei saggi e nelle lettere private. Il primo esempio, in questo senso, può essere individuato nell’articolo Il midollo del leone: «… è il confinato Stefano, è il professor Corrado di Prima che il gallo canti, l’uomo che sa di dover 42 43

Id., Il midollo del leone, cit., pp. 21-22. Id., L’avventura di un lettore, cit., p. 1140. Il corsivo è dell’autore.

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stare in margine a leggere la storia che gli altri vivono, con gli occhi metastorici del poeta intellettuale». 44 Anche in questo caso, come si può vedere, il ricorso al verbo “leggere” in senso figurato si connota in un’accezione che se non è propriamente negativa, è di certo riduttiva: l’uomo che legge la storia viene, infatti, ancora una volta, contrapposto agli uomini che sanno vivere la storia e che ne sono protagonisti. L’utilizzo del lessema leggere ritorna, infine, anche a conclusione dell’articolo: Non sono la decadenza, l’irrazionalità, la crudeltà, la corsa alla morte dell’arte e della letteratura che devono farci paura; sono la decadenza, l’irrazionalità, la crudeltà, la corsa alla morte che leggiamo continuamente nella vita degli uomini e dei popoli, e di cui l’arte e la letteratura ci possono far coscienti e forse immuni… 45

Non è certo un caso se nell’articolo in cui Calvino restringe, per la prima volta, le possibilità di azione della letteratura e rileva l’indipendenza della fiction dalla realtà, egli indica nella lettura l’azione comune a entrambe: quel processo cognitivo che, sviluppato attraverso l’arte e la letteratura, può servire (se non direttamente a cambiare la realtà) almeno a indicare «la breccia attraverso cui passare al contrattacco». 46 3. La nuvola di smog, Gli amori difficili, i giornali Se già il VII capitolo della Speculazione, incentrato sulla progettazione di una rivista letteraria da parte di Quinto, Bensi e Cerveteri, lascia intravedere la stanchezza dell’autore per un dibattito culturale che egli giudicava arretrato, il problema del lavoro intellettuale occupa, nella Nuvola di smog, uno spazio ancora più rilevante. Attraverso la vicenda dell’anonimo protagonista, impiegato come redattore in una rivista intitolata «La Purificazione» (che si occupa di economia e di ambiente), la critica dell’autore si appunta sulla depauperazione del ruolo e del lavoro intellettuale, svilito del suo contenuto morale e civile, ridotto a mestiere da tavolino, «chiuso a ogni via di esperienze nel Id., Il midollo del leone, cit., p. 11. Il corsivo è nostro. Ivi, pp. 26-27, corsivo nostro. 46 Ivi, p. 27. 44 45

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tran-tran» di un ufficio. 47 Si tratta, a ben vedere, di un’involuzione che doveva apparire molto grave per chi, come Calvino, si era prodigato nel dopoguerra per rinnovare l’immagine anche politica dell’intellettuale, investendo nella prospettiva di una solerte collaborazione con le masse e una partecipazione ai loro problemi. È importante sottolineare come nell’economia di questo impoverimento generalizzato della prassi intellettuale, anche i fruitori della rivista per cui lavora il protagonista, risultano incapaci di rielaborare i messaggi di pericolo o anche solo di riconoscerli, distinguendoli tra una miriade di notizie: Feci un numero de «La Purificazione» in cui non c’era articolo che non parlasse della radioattività. Neanche questa volta ebbi seccature. Che non fosse letto però non era vero; leggere, leggevano, ma ormai per queste cose era nata una specie d’assuefazione, e anche se c’era scritto che la fine del genere umano era vicina, nessuno ci badava. Anche i settimanali d’attualità portavano notizie da far rabbrividire, ma la gente sembrava prestar fede solo alle fotografie a colori di belle ragazze sorridenti in copertina. 48

Quest’ultimo brano ci consente di introdurre un aspetto non ancora debitamente evidenziato, e cioè che nelle opere di Calvino i personaggi non leggono soltanto romanzi, ma (soprattutto nelle narrazioni degli anni ’50) anche quotidiani, settimanali e riviste. In questo senso occorre ricordare che una prima apparizione della carta stampata avviene già nel racconto A pranzo con un pastore (1948), dove il protagonista ricorre più volte alla lettura di un giornale ora per difendere se stesso («Nascosto dietro il giornale, io aspettavo servissero in tavola» 49 ), ora per distogliere l’attenzione dei genitori dal giovane pastore: «Io volevo stornare il discorso da lui, proteggerlo. Perciò lessi una notizia sul giornale». 50 Ripercorrendo in ordine cronologico l’opera calviniana, l’esempio successivo è quello di Enrico Gnei, protagonista di L’avventura di un impiegato (1953), 51 la cui abituale e minuzioId., Silvio Micheli, Pane duro, cit., pp. 1170-1171. Id., La nuvola di smog, cit., p. 948. 49 Id., Pranzo con un pastore, cit., p. 205. 50 Ibidem. 51 Id., L’avventura di un impiegato, cit. 47

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sa lettura mattutina del quotidiano è impedita da un esubero di emozioni che disorientano il protagonista, dopo l’imprevista avventura amorosa. 52 Di giornali si parla ancora nel racconto L’avventura di un viaggiatore, 53 scritto nel ’57, e confluito insieme all’Avventura di un impiegato e all’Avventura di un lettore nella sezione Gli amori difficili del volume I racconti. 54 In questo racconto (L’avventura di un viaggiatore) la lettura del giornale accompagna l’intero viaggio in treno di Federico V., il quale usufruisce del quotidiano come barriera per isolarsi dagli altri viaggiatori: «cancellò l’uomo seduto nell’angolo opposto al suo fino a ridurlo un’ombra, una macchia grigia. I giornali che entrambi tenevano aperti davanti a sé aiutavano l’impermeabilità reciproca». 55 Ma all’occorrenza il giornale è utilizzato da Federico anche come antidoto alle emozioni: Ricompose subito il volto, si concentrò nella lettura dei giornali, negando a se stesso d’essersi trovato un secondo prima in uno stato d’animo così puerile. 56

Raggiunto, in questo modo, una «perfetta pace di coscienza» il viaggiatore ormai «tranquillo»… sfogliava i settimanali a rotocalco, immagini frantumate d’una vita veloce, esaltata, in cui cercava qualcosa di quel che muoveva lui pure. Presto scoperse che i settimanali non lo interessavano affatto, mere

Il brano è già stato riportato al paragrafo 2.8. Id., Una notte d’amore, in «Il Verri», II (ottobre 1958), n. 3, poi con il titolo L’avventura di un viaggiatore, in I racconti, cit., infine in R-II, pp. 1110-1125. 54 La sezione Gli amori difficili costituisce il Libro terzo della prima edizione del volume I racconti (cit., la sezione alle pp. 321-403). Lo stesso gruppo di racconti (accresciuto di due pezzi: L’avventura d’uno sciatore e L’avventura d’un fotografo) viene ripubblicato nella Parte prima del volume (omonimo) Gli amori difficili (cit., alle pp. 3-108), cui segue una Parte seconda composta da La vita difficile, La formica argentina e La nuvola di smog. Per un approfondimento su questo gruppo di racconti cfr. Franco Ricci, “Difficult Loves”: The Elusive Self, in Id., Difficult games. A reading of “I racconti” by Italo Calvino, Waterloo, Wilfrid Laurier University Press, 1990, pp. 63-88. 55 Calvino, L’avventura di un viaggiatore, cit., p. 1115. 56 Ivi, p. 1116. 52 53

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tracce dell’immediatezza, della vita che scorre alla superficie. Ben più alti cieli navigava la sua impazienza. 57

Fin da questi primi esempi, quindi, i giornali e i rotocalchi assolvono all’interno delle narrazioni due funzioni prioritarie: in primo luogo sembrano fornire ai rispettivi lettori un agile strumento di difesa contro le persone o i pensieri che essi reputano troppo invadenti. In questo senso la cospicua presenza dei giornali nella sezione degli Amori difficili collabora, insieme alla lettura romanzesca nel racconto L’avventura di un lettore, ad affermare l’inconciliabilità dei termini lettura e amore, nella misura in cui al prevalere dell’interesse per il primo segue il disinteresse (o l’assopimento) dei sensi, mentre se domina il secondo (come nel caso dell’impiegato Gnei) il lettore finisce per scorrere i «titoli senza muovere alcuna relazione di pensieri». Nel complesso, quindi, all’interno della sezione Gli amori difficili, incentrata proprio sulla «incomunicabilità amorosa», 58 la lettura (dei giornali e dei romanzi) rappresenta uno degli strumenti con cui i protagonisti cercano di perpetrare il loro isolamento sentimentale. Analoga funzione della lettura giornalistica è sviluppata anche nella Nuvola di smog, romanzo che non a caso Calvino dichiara molto affine «stilisticamente e concettualmente» alla serie Gli amori difficili. 59 L’arte di erigere una barriera dal mondo esterno attraverso il giornale è coltivata e perfezionata dal protagonista di questo romanzo, soprattutto in occasione dei pranzi e delle cene: Cercavo di sedermi a un tavolino senza nessuno, aprivo il giornale del mattino o della sera (lo compravo andando in ufficio e davo una scorsa ai titoli, ma per leggerlo aspettavo d’essere al ristorante), e mi mettevo a ripassarlo da principio alla fine. Il giornale mi serviva molto anche quando non trovavo un altro posto ed ero obbligato a sedermi a un tavolo dove c’era già qualcuno, mi sprofondavo a leggere e nessuno mi diceva nulla. […]

Ibidem. Id., Lettera a Elio Vittorini, 5 settembre 1958, in Lettere, cit., pp. 555559, la citazione a p. 556. Il concetto viene ribadito dall’autore anche nella Nota introduttiva a Gli amori difficili (cit.): «ciò che sta alla base di queste storie è una difficoltà di comunicazione, una zona di silenzio al fondo dei rapporti umani» (p. 1288). 59 Cfr. Id., Lettera a Mario Boselli, cit., p. 798. 57

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Io mi sedevo a uno di quei bei tavolini puliti, un cuoco tornava in cucina, io leggevo il giornale, mangiavo con calma, ascoltavo quelli della tavola ridere e scherzare e raccontare storie di Altopascio. […] Finivo di mangiare, di leggere il giornale, uscivo col giornale arrotolato in mano, tornavo a casa, salivo alla mia stanza, buttavo il giornale sul letto, mi lavavo le mani… 60 Al ristorante continuavo a consumare i miei pasti solo, dietro il riparo del giornale. E mi accorsi che c’era anche un altro avventore che si comportava nello stesso modo. Qualche volta non essendoci altri posti liberi finivamo allo stesso tavolo e ci fronteggiavamo coi giornali spiegati. Leggevamo quotidiani diversi. Il mio era quello che leggevano tutti, il più importante giornale della città; certo non avevo nessuna ragione per farmi notare come uno diverso dagli altri leggendo un altro giornale, o addirittura (se avessi letto il giornale del mio commensale) come uno che ha delle opinioni politiche spinte. Da opinioni politiche e partiti mi sono sempre tenuto lontano, ma lì al tavolo del ristorante, certe sere, quando posavo il giornale, il commensale diceva: – Permette? – facendo cenno di prenderlo, e m’offriva il suo: – se vuole leggere questo… 61

Da questi brani, così come da quelli sopra riportati, si può evincere una seconda rilevante riflessione: la presenza dei giornali e delle riviste all’interno della finzione sembra finalizzata alla riproduzione degli elementi deteriori della vita moderna, quali la incomunicabilità, il caos, la superficialità. Se già nei rotocalchi letti da Federico V., ci sono soltanto «immagini frantumate d’una vita veloce, esaltata», 62 e se, in generale, i lettori delle riviste sembrano «prestar fede solo alle fotografie a colori di belle ragazze sorridenti in copertina», 63 così il protagonista della Nuvola di smog, confrontando il proprio giornale con quello dell’altro commensale, intuisce quanto ipocrita e lontana dalla realtà sia certa prassi giornalistica: Così davo un’occhiata al suo giornale, che era un po’ come dire il rovescio del mio, non solo perché sosteneva idee opposte, ma perché s’occupava delle cose che per quell’altro non esistevano nemmeno: dipendenti licenziati, macchinisti che restavano con una mano in un ingranaggio […]. Ma soprattutto, quanto l’altro giornale cercava d’esser sempre brillante nella stesura degli articoli e d’attirare il lettore con fatId., La nuvola di smog, cit., pp. 920-921. Ivi, p. 935. 62 Ibidem. 63 Ivi, p. 948. 60 61

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terelli divertenti, per esempio i divorzi delle belle ragazze, tanto questo era scritto con espressioni sempre uguali, ripetute, grigie, con titoli che mettevano in rilievo il lato negativo delle cose. Anche il modo con cui il giornale era stampato era grigio, fitto fitto, monotono. E a me venne da pensare: «To’, mi piace». 64

Dall’insieme di queste descrizioni si evince chiaramente quanto l’autore fosse critico nei confronti di una moltiplicazione dei canali di informazione, cui non corrisponde (secondo Calvino) né un incremento della cultura dei lettori né un maggior impegno politico e morale da parte dei giornali. Su questa evidente insofferenza nei confronti della carta stampata potrebbe avere influito l’esperienza dello stesso Calvino che, dopo avere lavorato alcuni anni come redattore nell’«Unità» di Torino, avverte «l’esigenza di “disgiornalizzarsi”», 65 per dedicarsi più distesamente al lavoro editoriale da cui egli trae una soddisfazione maggiore. 66 Sotto questo punto di vista è bene ricordare che già nelle lettere dei primissimi anni ’50, Calvino contrappone il lavoro dello studioso che si dedica con pazienza e amore a «letture sistematiche» e anela a dire «qualcosa di “definitivo”», alla pratica del giornalista, dominato dalla fretta di «recensire», «di commentare» un fatto «prima ancora di averlo giudicato». 67 Le accuse (più o meno velate) rivolte da Calvino al giornalismo italiano riguardano, inoltre, la scarsa attenzione per l’approfondimento politico e per le sollecitazioni che pervengono, in questo senso, dal mondo editoriale: I libri che in qualche modo toccano la politica non vengono recensiti e discussi dalla stampa italiana. La politica nei giornali entra come «notizia» o come servizi giornalistici veri e propri. Là dove il libro vuole approfondire gli argomenti del giornale, il giornale gli volta le spalle. 68

Ivi, p. 935. Id., Lettera a Mario Motta, 16 gennaio 1950, in Lettere, cit., pp. 264269, la citazione a p. 264. 66 «Il lavoro editoriale mi soddisfa di più di quello giornalistico» (Id., Lettera a Elsa Morante, 2 marzo 1950, in ivi, pp. 271-273, la citazione a p. 273). 67 Id., Lettera a Mario Motta, 16 gennaio 1950, in ivi, p. 264. 68 Id., Lettera a Franco Fortini, 28 maggio 1957, in ivi, pp. 488-489, la citazione a p. 488. 64 65

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Torna, inoltre, anche in ambito saggistico, il problema (già evidenziato attraverso i personaggi lettori) della vacuità della informazione giornalistica che, catturando attimo per attimo, rischia di perdere di vista l’essenziale: La stampa quotidiana ed ebdomadaria segue e registra giorno per giorno i fenomeni di costume, sgrava la letteratura da quel compito di rappresentazione minuta del proprio tempo che fu suo onere e sua gioia nell’Ottocento. Ma a cosa ci porta il nostro continuo nervoso sfogliare giornali freschi d’inchiostro? Solo ad essere informati di tutto ciò che non conta. 69

La diffidenza di Calvino persiste a lungo, e per tutto il decennio degli anni ’50 egli resiste alla seduzione del circuito mediatico, rifiutando la maggior parte delle richieste di collaborazione avanzate da riviste, giornali (tra cui anche il «Corriere della sera») e televisione, come testimonia una lettera a Cecchi del 1961: da un po’ di tempo, le richieste di collaborazioni da tutte le parti – quotidiani, settimanali, cinema, teatro, radio, televisione –, richieste una più allettante dell’altra come compenso e risonanza, sono tante e così pressanti, che io – combattuto fra il timore di disperdermi in cose effimere, l’esempio di altri scrittori più versatili e fecondi che a momenti mi dà il desiderio d’imitarli ma poi invece finisce per ridarmi il piacere di star zitto pur di non assomigliare a loro, il desiderio di raccogliermi per pensare al “libro” e nello stesso tempo il sospetto che solo mettendosi a scrivere qualunque cosa anche “alla giornata” si finisce per scrivere ciò che rimane – insomma, succede che non scrivo né per i giornali, né per le occasioni esterne né per me stesso. 70

Personaggi lettori e riflessioni autoriali convergono quindi nella critica del giornalismo italiano, cui sembra mancare la volontà di contrastare il flusso ininterrotto della vita moderna: più che un’azione di opposizione al superfluo, allo «scenario di finta gioia di vivere, di finta eccitazione, di finta ricchezza», 71 la carta Id., Dialogo di due scrittori in crisi, cit., p. 87. Id., Lettera a Emilio Cecchi, 3 novembre 1961, in Lettere, cit., pp. 692-693, la citazione a p. 692. 71 Id., Dialogo di due scrittori in crisi, cit., p. 85. All’Italia del boom economico Calvino dedica numerose riflessioni critiche, in particolare cfr. Id., La “bella époque” inattesa, in «Tempi moderni», VI (luglio-settembre 1961), n. 6, poi con il titolo La “bella époque” inaspettata, in Una pietra 69 70

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stampata si limita a replicare il flusso di immagini della città industriale, finendo per rappresentare niente altro che «mere tracce dell’immediatezza, della vita che scorre alla superficie». Le fotografie, gli articoli, le pagine e pagine lette, spesso con precisione maniacale, si moltiplicano nell’Italia, prossima al boom economico, senza riuscire tuttavia ad apportare miglioramento alcuno nella cultura e negli interessi dei lettori. Viceversa, proprio l’ingresso della carta stampata nella vita di tutti i giorni, anziché avvicinare l’uomo ai problemi degli altri uomini, lo allontana da essi, isolandolo dietro una cortina di inchiostro che è segno e strumento della sua impossibilità di comunicare. E già allora, attraverso le immagini narrative di questi lettori ormai asfittici, disorientati dalle troppe pagine scritte, e incapaci di un’intima e problematica rielaborazione delle informazioni, Calvino denuncia la difficoltà di coinvolgere i lettori della nuova società italiana in una comunicazione autentica e persuasiva. Le esigenze che di lì a poco sarebbero diventate prioritarie, di selezionare i propri destinatari e stabilire nuovi patti d’espressione, già in parte si manifestano in questa feroce critica che l’autore dedica ai mezzi d’informazione, critica che se ancora non sa risolversi in una proposta alternativa, riesce, tuttavia, a esprimere l’urgenza di un cambiamento radicale. 4. La giornata d’uno scrutatore Il discorso qui condotto sulla lettura nella «trilogia della modernità» si chiude con il personaggio di Amerigo, protagonista di La giornata d’uno scrutatore. 72 sopra, cit., infine in S-I, pp. 90-95. Sullo scetticismo di Calvino nei confronti dello sviluppo italiano degli anni ’60 cfr. Dana Renga, Looking Out: Calvino's Vision of the "Economic Miracle" , in «Italica», 2003, n. 3, pp. 371-388. 72 Italo Calvino, La giornata d’uno scrutatore, Torino, Einaudi, 1963. La pubblicazione di questo romanzo è avvenuta dopo quattro anni di silenzio narrativo, parte dei quali trascorsi accanto all’opera stessa, completata dopo un lungo lavoro e un lunghissimo tempo di “incubazione” (dieci anni secondo le rivelazioni dello stesso autore, cfr. Il 7 giugno al Cottolengo, intervista a cura di Andrea Barbato, in «L’Espresso», IX, (10 marzo 1963), n. 10 p. 11). Segue una seconda edizione Torino, Einaudi, 1970, e altre successive (1974 e 1982). Poi Milano, Mondadori, 1990, e Milano, Oscar Mon-

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A metà della sua giornata di lavoro al seggio elettorale, l’intellettuale Amerigo Ormea, tornato a casa per pranzare, desidera invece soltanto: «fare una doccia e stare un momento seduto con un libro aperto davanti agli occhi». 73 Il primo aspetto che colpisce nella caratterizzazione di questo personaggio lettore è l’analogia tra le preferenze che egli esprime in ordine di libri e di lettura e le idee che viene in quel periodo maturando l’autore. Se, in generale, la «trilogia della modernità» è improntata ad una narrazione «autobiograficaintellettuale», 74 l’autobiografismo (almeno per quello che concerne la lettura) è massimo proprio nella figura di Amerigo. Indicativo, ad esempio, come il personaggio avverta la necessità di una riduzione della propria biblioteca, passando da una condizione di «disordine» ad una di «essenzialità»: La sua biblioteca era ristretta. Col passare degli anni, s’accorgeva che era meglio concentrarsi su pochi libri. In gioventù era stato di letture disordinate, mai sazio. Ora la maturità lo portava a riflettere ed a evitare il superfluo. 75

Si tratta, come si può ben vedere, di un atteggiamento non dissimile da quello prima descritto circa il rapporto tra Calvino e il giornalismo, criticato perché troppo caotico ed effimero. Il bisogno di una razionalizzazione della biblioteca si correla, nella vita del personaggio, alla esclusione della letteratura di fiction verso cui anche Calvino, come più volte ricordato, manifestava in quel frangente un crescente «fastidio». 76 Si confronti, a questo proposito, la contiguità tra i due successivi brani tratti, rispettivamente, il primo dalla Giornata e il secondo da una lettera di Calvino a Domenico Rea del 1964: …non sapeva trovare un libro che facesse al caso suo, tra quelli che aveva lì: classici, un po’ a caso, e di moderni soprattutto filosofi, qualche

dadori, 1993. Per tutte le citazioni riportate si fa riferimento alla pubblicazione del romanzo in R-II, alle pp. 3-78. 73 Id., La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 48. 74 Id., Intervista con gli studenti di Pesaro, cit., p. 12. 75 Id., La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 48. 76 «È che, sentendo che si tratta di cose serie, aumenta il mio fastidio a vederle riferite a un oggetto di così incerta esistenza e marginale e transeunte come il romanzo» (Id., Non darò più fiato alle trombe, cit., p. 143).

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poeta, e libri di cultura. Da tempo cercava d’allontanare da sé la letteratura. 77 …da un po’ di tempo in qua leggo solo libri di astronomia. Ho fatto un’eccezione per Pomilio, ma non è valsa a scuotermi di dosso la massiccia stanchezza per la letteratura, e per i romanzi in particolare. 78

Ma l’esclusione del genere romanzo dalle biblioteche di Amerigo e Calvino non può non essere correlata al ripensamento del modello romanzesco proprio di Calvino scrittore, il quale non a caso per La giornata costruisce una struttura narrativa a metà tra il racconto e il reportage. 79 Se è evidente che Amerigo si pone come portavoce delle nuove esigenze che Calvino avverte circa la lettura e la scelta dei generi da privilegiare (come lettore e come scrittore), altrettanto importante è sottolineare come questo personaggio rappresenti, nello stesso tempo, anche una proiezione della nuova immagine di lettore ideale che l’autore viene formulando. Ricordiamo, infatti, come di lì a poco Calvino avrebbe espressamente dichiarato: una situazione letteraria comincia ad essere interessante quando si scrivono romanzi per persone che non sono solo lettori di romanzi, quando si scrive letteratura pensando a uno scaffale di libri non solo di letteratura. 80

O, come l’autore chiarisce nello stesso articolo: Id., La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 49. Id., Lettera a Domenico Rea, 13 maggio 1964, in Lettere, cit., p. 812. 79 Cfr., Id., Il 7 giugno al Cottolengo, cit., Su questo aspetto cfr. Domenico Scarpa: «Lo Scrutatore è un testo singolarissimo, difficile da collocare tra i generi letterari: racconto, saggio, pamphlet, manuale di diritto pubblico con esercizi svolti, summa teologica, diario, utopia negativa, autoritratto morale? Tutto questo e altro ancora» (Domenico Scarpa, Il fotografo, il cavaliere e il disegnatore. Italo Calvino nel 1964, in «Belfagor», XLVIII (1993), pp. 519-532, la citazione a p. 519). Lo stesso autore a questo proposito chiarisce: «Mi è gradita prima di tutto l’assegnazione all’illustre filone “trattatistico” della nostra letteratura, (cercando i miei classici, io guardo ai “libri”, non ai “romanzi”; dei “generi letterari” continuo a curarmi poco, nonostante che oggi il bando crociano contro di loro sia caduto in prescrizione) perché davvero io volevo fare anche un “manuale dello scrutatore”, come tu dici» (Italo Calvino, Lettera a Augusto Monti, 30 marzo 1963, in Lettere, cit., pp. 741-742, la citazione a p. 741, il corsivo nel testo). 80 Id., Lo scaffale ipotetico, in «Rinascita», XXIV (24 novembre 1967), n. 46, poi con il titolo Per chi scrive? (Lo scaffale ipotetico) in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 199-204, la citazione a p. 200. 77

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si scriveranno romanzi per un lettore che avrà finalmente capito che non deve più leggere romanzi. 81

Sotto questo punto di vista, quindi, Amerigo, ci riporta ad una funzione del personaggio lettore analoga a quella già evidenziata nella trilogia fiabesca, laddove, in entrambi i casi, il sintagma narrativo dedicato alla lettura apre una sorta di parentesi nell’intreccio narrativo, suggerendo spunti di riflessione che guardano più all’extradiegetico che non alla finzione stessa, e più precisamente illustrano ora le poetiche di lettura dell’autore, ora quelle di scrittura, ora proiettano un’immagine del suo lettore ideale ora, infine, intrecciano tutti questi termini insieme. Ma nella Giornata lo spazio dedicato alla lettura non si esaurisce in questa, pur rilevante, funzione. Per quanto le preferenze di Amerigo siano chiare e ben definite, la relazione che egli intrattiene con la lettura risulta, tuttavia, nel suo complesso, assai ambigua. Si veda, infatti, come la prima ragione che spinge Amerigo a leggere sia quella di cercare, se non propriamente uno schermo tra sé e il reale (come accadeva, invece, a Quinto protagonista della Speculazione), almeno un filtro capace di arginare, «incanalando» e dunque razionalizzando, l’ingerenza della sfera emotiva: Avrebbe dovuto telefonarle, ma parlare con lei in quel momento gli avrebbe mandato all’aria la rete di pensieri che stava lentamente tessendo. Comunque, Lia non avrebbe tardato a richiamare, e Amerigo voleva, prima di sentire la sua voce, essere entrato in una lettura che accompagnasse e incanalasse le sue riflessioni, in modo da poterne riprendere il filo dopo la telefonata. 82

Amerigo, quindi, aspira a una lettura che possa fungere al contempo da scudo per difendersi dal sopraggiungere, ormai imminente, della telefonata di Lia, e da approfondimento per quella «rete di pensieri che stava lentamente tessendo» e che vorrebbe portare a conclusione. La situazione narrativa, oltre a riproporre la consueta contrapposizione tra lettura e universo femminile, sviluppa in particolare la dialettica tra l’irrazionalità di Lia e l’enorme bisogno di ordine e logos da parte del protagonista. Il desiderio di Amerigo viene, però, prontamente vani81 82

Ivi, p. 201. Id., La giornata d’uno scrutatore, cit., pp. 48-49.

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ficato dall’irruzione telefonica di Lia che disorienta il protagonista con la sua «naturale e crudele propensione» a una «aggressione della logica più elementare». 83 In tutto questo la lettura fallisce miseramente entrambi i suoi scopi: sia quello di arginare la «prelogica» Lia sia quello di fornire una griglia interpretativa capace di dipanare la matassa di pensieri che impegnano lo scrutatore. Amerigo, infatti (è bene ricordare), è ancora disorientato dalla mattinata trascorsa presso uno dei seggi elettorali allestiti all’interno dell’Istituto Cottolengo di Torino, dove alloggiano persone con gravissime disabilità mentali e fisiche. L’incontro con questa realtà mostruosa, deforme, al limite dell’umano spinge Amerigo a una serie di interrogazioni sul senso dell’esistenza, ma anche sul ruolo svolto dalle istituzioni cattoliche verso i bisognosi e sul progetto di un assistenzialismo diverso, fondato non sulla carità ma sui principi laici di un umanesimo marxista. Questi sono dunque i pensieri che gravano su Amerigo al suo ritorno a casa, per dipanare i quali egli, non a caso, è indeciso se consultare la Bibbia o i Manoscritti di Marx. La scelta ricade su questi ultimi e, in particolare, su di un brano (riportato nel testo 84 ) da cui trae origine la riflessione di Amerigo: velocemente, si convinse che poteva significare anche questo: una volta fuori dalla società che fa diventare gli uomini cose, la totalità delle cose – natura e industria – diventa umana, e anche l’uomo menomato, l’uomo-Cottolengo […] è reintegrato nei diritti del genere umano. 85

La lettura di Marx dovrebbe rispondere (stando alle intenzioni del lettore) all’esigenza di trovare una forma compiuta di interpretazione che spieghi il significato dell’esperienza appena vissuta nel Cottolengo. E tuttavia, la frettolosa risoluzione trovata dall’impaziente lettore sembra, un attimo dopo, già disgregarsi, a mano a mano che la struttura affermativa propria del discorso indiretto del narratore scivola nel discorso indiretto libero del personaggio e nella moltiplicazione esponenziale nelle sue interrogazioni:

Ivi, p. 53. Ivi, pp. 49-50. 85 Ivi, p. 50. 83

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…vorrà dire che il comunismo ridarà le gambe agli zoppi, la vista ai ciechi? Cioè lo zoppo avrà a disposizione tante e tante gambe per correre che non s’accorgerà se gliene manca una delle sue? Cioè il cieco avrà tante e tante antenne per conoscere il mondo che si dimenticherà di non avere gli occhi? 86

È evidente come il continuum di domande sviluppi, in questo brano, la funzione che altrove è assolta dalle parentesi, sul cui ruolo già Varese aveva insistito in una recensione al romanzo molto apprezzata dallo stesso Calvino: 87 Le parentesi [o le interrogazioni, come nel nostro caso] sono appunto il segno e l’espressione delle inquietudini di questa giornata, delle contraddizioni soggettive e oggettive, dei dubbi e delle incertezze oscillanti nel protagonista… 88

È a questo punto della vicenda (cioè nel bel mezzo delle riflessioni di Amerigo) che sopraggiungono una prima e poi una seconda telefonata di Lia, a causa delle quali lo scrutatore è costretto ad abbandonare il suo proposito di lettura e di meditazione: Dopo la telefonata, Amerigo si sedette a tavola, cominciò a mangiare, col libro aperto davanti, e intanto cercava di riprendere il pensiero interrotto. Era arrivato a un punto, a uno spiraglio sottile come il forellino d’uno spillo, da cui poteva vedere … […]. Niente, non lo ritrovava più, era inutile, aveva perso il filo, sempre così con quella ragazza! 89

Ma è soprattutto con la seconda telefonata e con la notizia della gravidanza di Lia che il protagonista, ormai sconvolto, è costretto ad ammettere: Come poteva tornare alle letture ormai, alle riflessioni universali? Anche i libri aperti davanti a lui gli erano nemici: la Bibbia con tutto quel problema del perpetuare tra carestie e deserti le generazioni di Ibidem. Cfr. Id., Lettera a Claudio Varese, autunno 1963, in Lettere, cit., pp. 770-771. 88 Claudio Varese, recensione a La giornata d’uno scrutatore, apparsa nella «Nuova Antologia» (maggio 1963), poi ripubblicata in Id., Occasioni e valori della letteratura contemporanea, cit., pp. 227-232, in particolare p. 227. 89 Calvino, La giornata d’uno scrutatore, cit., p. 52. 86 87

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una specie umana che vuole salvare ogni goccia del suo seme […]; e Marx, anche lui che non vuol freni alla seminagione umana… 90

Come si può vedere, quindi, nella seconda parte del capitolo XI, il rapporto tra Amerigo e la lettura trascende dal piano letterario a quello epistemologico. Lo scrutatore che tanto investe nella possibilità di una delucidazione intellettuale dei significati della realtà, è profondamente deluso. Lo scacco del sistema interpretativo improntato sui libri è totale, e ancora più cocente in considerazione del fatto che, paradossalmente, proprio la figura della illogica Lia rappresenta, in un momento successivo, un mezzo per comprendere la realtà del Cottolengo: adesso questo sogno ad occhi aperti di Lia, questo genere d’amore come una reciproca e continua sfida o corrida o safari, non gli pareva più in contrasto con la presenza di quelle ombre ospedaliere: erano lacci dello stesso nodo o garbuglio in cui sono legate tra loro – dolorosamente, spesso (o sempre) – le persone. Anzi, per lo spazio d’un secondo (cioè per sempre) gli sembrò d’aver capito come nello stesso significato della parola amore potessero stare insieme una cosa del genere di quella sua con Lia e la muta visita domenicale al “Cottolengo” del contadino al figlio. 91

Per rapportarsi a una realtà irragionevole, sembra suggerirci l’autore, i libri e i percorsi logici sono strumenti inadatti, cui è meglio anteporre l’intuizione, il guizzo prelogico e il «sogno ad occhi aperti» di un’immagine: questi e non altri generi di pensieri, seppure non basteranno a risolvere i significati della disperazione umana, potranno almeno stabilire delle somiglianze. Ed è con Lia, è attraverso Lia (e non grazie a Marx) se la sofferenza degli altri può essere commisurata alla propria, e la pietà compresa, attraverso il principio dell’amore di per sé irragionevole e sempre uguale a se stesso, pur nella verietà di ogni sua possibile applicazione. Da una parte, nello Scrutatore, l’autore esibisce la scoperta dell’inadeguatezza del contenuto del pensiero marxista, e più in generale l’insoddisfazione verso una cultura di cui lo stesso Calvino si era nutrito fino allora: Insomma, la biblioteca dell’intellettuale medio italiano, pur con i suoi successivi ampliamenti, non serviva più a capire quasi niente di 90 91

Ivi, p. 58. Ivi, pp. 71-72.

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quel che stava succedendo nel mondo e anche tra noi. Era inevitabile che saltasse in aria. 92

Ma su questa crisi politica e intellettuale si inscrive anche la crisi filosofica e gnoseologica che investe, nel suo complesso, la dialettica di impronta hegeliana, 93 da cui il problema anche esistenziale dell’uomo Amerigo, di trovare altri strumenti di comprensione e di interpretazione, non che un diverso atteggiamento per rapportarsi al reale: Beati quelli il cui atteggiamento verso la realtà è dettato da immutabili ragioni interiori! Ad essi va l’invidia di quanti, come noi, abituati a reagire agli stimoli mutevoli del mondo, viviamo esposti a contraccolpi continui, e non finendo mai di decifrare il corso della multiforme realtà, portiamo nei nostri atteggiamenti stabiliti volta per volta la coscienza del rischio di sbagliare. 94

Ancor più in generale, potremmo rilevare come lo sgretolamento dell’ideologia comunista, cioè dell’«ideologia per antonomasia», 95 screditi la possibilità stessa di spiegare, attraverso strutture logiche che tendono alla semplificazione, una realtà che è, invece, all’opposto, potenzialmente sempre informe e irrazionale. Sotto questo punto di vista, anche la crisi del modello di lettura proposto da Amerigo, è una crisi irreversibile: da lì in poi non solo l’autore proporrà un nuovo rapporto tra teorie filosofiche e letteratura, 96 ma anche un nuovo atteggiamento intellettuale… Id., Per chi si scrive?, cit., p. 201. Su questo aspetto si rimanda a Alberto Asor Rosa, Il carciofo della dialettica, in «Mondo Nuovo» (1963), poi ripubblicato in Id., Intellettuali e classe operaia. Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, Firenze, La Nuova Italia, 1973, e ancora in Id., Stile Calvino, cit., pp. 31-40. 94 Italo Calvino, I giusti, in «Il menabò di letteratura», n. 7 (1964), poi con il titolo Un’amara serenità, in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 124-126, la citazione a p. 124. 95 Carlo Ferrucci, Italo Calvino: utopia della crisi o crisi dell’utopia?, in Id., La letteratura dell’utopia. Sociologia del romanzo contemporaneo, Milano, Mursia, 1984, pp. 13-144, per la citazione e un approfondimento su questo aspetto cfr. p. 51 e sg. 96 «Questa è stata la mala sorte letteraria delle filosofie pratiche, soprattutto del marxismo: portarsi dietro una letteratura illustrativa ed esortativa, che tende a rendere naturale e conforme ai sentimenti spontanei la vi92 93

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Usciamo da un’epoca in cui la sola garanzia di rigore in qualsiasi atteggiamento intellettuale era l’eroica riduzione della complessità del reale a quei pochi concetti, a quelle poche linee che il metodo adottato proponeva come le sole rilevanti. Se no era l’empiria, l’eclettismo, la meditazione compromissoria ecc. ma a questo punto è giunto il momento di ribellarci a un’idea del “più rigoroso” che finisce per equivalere a “più povero”. Troppe volte la semplificazione eroica ha ceduto il campo alla semplificazione di comodo. 97

Ed un diverso modello di lettura: Dalle abitudini d’una lettura “storicista” che mi garantiva l’inserimento della letteratura nel contesto dell’attività umana – ma per garantirmelo mistificava tanto la letteratura quanto la storia – sono passato a cercare modi di leggere la letteratura più interni al loro soggetto, e che perciò sento come non-mistificatori. 98

5. Conclusioni provvisorie In quest’ultima serie di approfondimenti si è costatato come nei romanzi e nei racconti cosiddetti realistici, le immagini pertinenti alla lettura in genere non contengano indicazioni circa i titoli o i nomi degli autori preferiti dai personaggi, e anche quando lo fanno, come nel caso della Giornata, il discorso letterario tende ugualmente anche verso un’altra direzione. Per comprendere questo aspetto, si rimanda ad alcune riflessioni espresse da Calvino nella Introduzione al volume Gli amori difficili:

sione filosofica del mondo. Si perde così il vero valore rivoluzionario d’una filosofia, che consiste nell’essere tutta punte e attriti, nello sconvolgere il senso comune e i sentimenti, nel far violenza a ogni modo di pensare “naturale”» (Italo Calvino, Philosophy and Literature, in «Times Literary Supplement», n. 66 (28 settembre 1967), poi con il titolo Filosofia e letteratura, in Una pietra sopra, cit., infine, in S-I, pp. 188-196, la citazione a p. 191). 97 Id., Lettera a Gianni Celati, 16 gennaio 1969, pubblicata in Mario Barenghi, Marco Belpoliti, «Alì Babà» progetto di una rivista 1968-1972, «Riga» n. 14, Milano, Marcos y Marcos, 1998, pp. 73-76, la citazione a p. 73. 98 Italo Calvino, La letteratura come proiezione del desiderio, in «Libri Nuovi», II (agosto 1969), n. 5, poi con il sottotitolo Per l’«Anatomia della critica» di Northrop Frye, in Una pietra sopra, cit., poi in S-I, pp. 242-251, la citazione a p. 243.

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Dobbiamo concludere che se la novella era per lo scrittore ottocentesco una “fetta di vita”, per lo scrittore d’oggi è innanzitutto pagina scritta, un mondo in cui agiscono forze d’un ordine autonomo? (Un mondo che l’eroe dell’Avventura d’un lettore può considerare più vero di quello che gli si offre nell’esperienza empirica d’un incontro amoroso in riva al mare?) Diciamo piuttosto che costruendo una novella (cioè stabilendo un modello di relazioni tra funzioni narrative), lo scrittore mette in evidenza il procedimento logico che serve agli uomini per stabilire relazioni anche tra i fatti dell’esperienza. 99

Fedeli a questo presupposto, anche i personaggi lettori dei racconti e dei romanzi analizzati non rappresentano una “fetta di vita” letteraria o culturale della realtà storica in cui sono calati (come accadeva, invece, ai personaggi lettori del Barone), ma un particolare approccio epistemologico che l’autore intende descrivere e criticare: già, perché se è vero che la letteratura deve insegnarci «l’atteggiamento» da tenere nei confronti del mondo, questi personaggi lettori non lo imparano per niente né, tanto meno, potrebbero porsi da modello epistemologico per noi lettori reali. Ai personaggi lettori di questi anni Calvino sembra, infatti, delegare il compito di manifestare la sua personale frustrazione per un approccio al testo (e al reale) di tipo «storicista», sia di “specie” «illuminista-positivista» sia dello «storicismo dialettico». 100 Il risultato è una gamma variegata di atteggiamenti intellettuali e conoscitivi ora schivi ora irresponsabili, ora troppo fiduciosi ora troppo problematici e mai comunque sufficienti a sostenere la sfida gnoseologica ed esistenziale del mondo reale. Confrontando questi personaggi con le figure dei lettori intellettuali sin qui descritte, emergono sostanziali differenze: se nel caso di Kim e in quello di Cosimo l’incontro con i libri aveva rappresentato un’importante occasione di crescita per i personaggi, nella caratterizzazione degli intellettuali nella “trilogia 99 Id., Nota introduttiva a Gli amori difficili, cit., p. 1291 (i corsivi nel testo sono dell’autore). 100 «Ciò che è messo in discussione è l’idea d’una storia che attraverso tutte le sue contraddizioni riesca a tracciare un disegno chiaro di progresso (non solo quello lineare di tipo illuminista o positivista, ma pur quello più accidentato e spinoso che lo storicismo dialettico ha preteso di sapere sempre rintracciare» (Id., L’antitesi operaia, in «Il menabò di letteratura» n. 7 (1964), poi in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 127-142, la citazione a p. 135).

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della modernità” il rapporto con la pagina scritta li connota, viceversa, fin da principio, come figure gnoseologicamente pigre, ipocrite o incapaci. È chiaro che la responsabilità di questa involuzione va attribuita non tanto alla lettura in sé, quanto, invece, al «dramma dell’intellettuale borghese», 101 dramma che, non a caso, è filo conduttore della “trilogia della modernità”. Più in particolare, nella Speculazione è rappresentata la crisi dell’intellettuale di sinistra che al crollo delle ideologie (cioè allo sgretolarsi del quadro rassicurante di teorie precostituite) risponde, da una parte, cercando di aderire alla nuova logica economica e affaristica di certa borghesia spregiudicata, dall’altra (quando l’immedesimazione risulta troppo brutale), nascondendosi dietro le pagine di un libro di lettura. Nella Nuvola, invece, il problema è soprattutto l’esaurimento della funzione umanistica e civile dell’esercizio intellettuale, mentre nella Giornata, infine, la crisi si acuisce fino al punto da infrangere non solo la fede nella ideologia marxista, ma anche nella possibilità di servirsi di quegli strumenti ideologici (filosofici e politici) per comprendere la realtà. Se è vero che la crisi della figura del personaggio lettore deriva quindi dalla crisi, protagonista in questi romanzi, dell’intellettuale come soggetto storico e sociale, è vero, altresì, che il rapporto con la lettura aggrava questa “patologia”. A ben guardare, infatti, l’incapacità di leggere il testo non è una semplice manifestazione della inettitudine dei personaggi a interpretare il mondo, ma anche una sua concausa. Sotto questo punto di vista l’analisi, ad esempio, dei personaggi lettori di quotidiani conferma l’intervento di una doppia responsabilità: da una parte c’è quella dei produttori della carta stampata che rinunciano al ruolo di denuncia e di informazione, ma dall’altra c’è quella dei lettori, ormai succubi d’una società imbarbarita e chiassosa. Ma ancora più significativa è la sconfitta intellettuale di Amerigo, il quale, a ben guardare, ha applicato alla lettera “le istruzioni” che Calvino fornisce, nello stesso 1963, al pubblico dei lettori: come lettori ideali per la letteratura io penso alle uniche persone che per me contano, cioè a quelle impegnate a progetti per il mondo futuro (cioè quelle per cui conta la reciproca influenza tra progettazione poeti101 Id., Lettera a Alberto Asor Rosa, 21 maggio 1958, in Lettere, cit., pp. 547-549, la citazione a p. 548.

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ca e progettazione politica o tecnica o scientifica ecc.) e più precisamente impegnate a una razionalizzazione del reale (a cui vale la pena dedicarsi proprio perché il reale non è di per sé razionale) e voglio che queste persone si valgano di quella particolare intelligenza del mondo che la letteratura e solo la letteratura può dare. 102

Da un lato questa riflessione conferma la fedeltà a quella impostazione umanistica della letteratura (rielaborata da Calvino grazie al lavoro sulle fiabe), intesa nel senso più nobile ma anche più pragmatico del concetto, nella misura in cui il fine ultimo dell’impegno dello scrittore è ancora e sempre quello di potere migliorare la vita del lettore. Dall’altro però, confrontando l’atteggiamento di Amerigo con quello sopra descritto, si evidenzia una rilevante somiglianza: entrambi i soggetti (sia il lettore personaggio sia il lettore ideale), tendono a una «razionalizzazione del reale», valendosi di quella «particolare intelligenza del mondo» che si ricava dalla letteratura. Amerigo quindi, anche in questo senso, incarna il modello ideale di lettura cui si ispirava in quel momento l’autore, e tuttavia, fallendo miseramente il suo scopo, finisce per fare naufragare quello stesso atteggiamento razionalizzante da lui rappresentato. Il fatto, indubbiamente, non è di poco rilievo: proprio nel momento in cui il problema conoscitivo diventa cruciale nella riflessione letteraria di Calvino, proprio quando egli teorizza che «quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita», 103 nel momento esatto in cui gli stessi personaggi lettori scoprono il nesso epistemologico che congiunge lettura del testo e lettura del reale, gli esempi trasposti nei romanzi calviniani hanno tutti un esito fallimentare. Se Calvino saggista spiega, con piglio ottimista, che «la letteratura può insegnarci» «gli atteggiamenti» 104 gnoseologici più adatti a sostenere la sfida al labirinto, Calvino scrittore si mostra, invece, pienamente consapevole del fatto che, se anche questa possibilità teoricamente esiste, è certo molto difficile da realizzare.

102 Id., Corrispondenza con poscritto a proposito della “Sfida al labirinto”, in «Il menabò», n. 6, 1963, pp. 268-269, la citazione alle pp. 270-271. 103 Id., La sfida al labirinto, in «Il menabò di letteratura», n. 5 (1962), poi in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 105-123, la citazione a p. 122. 104 Id., Pavese: essere e fare, in «L’Europa letteraria», n. 5-6 (1960), poi in Una pietra sopra, infine in S-I, pp. 76-82, la citazione a p. 78.

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Prima che l’autore si apra alla scienza, e prima che intrecci il suo discorso creativo con le riflessioni della semiologia e dello strutturalismo, i suoi personaggi lettori già manifestano la necessità di un radicale cambiamento nel linguaggio letterario: perché se davvero esiste la possibilità che la lettura apra una «breccia attraverso cui passare al contrattacco», 105 bisogna prima di tutto infrangere le abitudini percettive dei lettori, rinnovando il canone estetico della letteratura, e promovendo dei modelli ermeneutici che procedano verso la complessità e la polisemia (piuttosto che in direzione di una semplificazione e un impoverimento dei significati). Solo proponendo un sistema ermeneutico radicalmente nuovo, capace di rovesciare una prassi consolidata nel tempo e nell’uso, sarà possibile ristabilire un canale autentico di comunicazione. Non sarà certo un caso, allora, se il libro successivo alla Giornata d’uno scrutatore (Le Cosmicomiche) è «un libro postumo a certa idea della letteratura – a certa pretesa della letteratura – sulla quale non c’era più modo d’andare avanti». 106

Id., Il midollo del leone, cit., p. 27. Id., Lettera a Sebastiano Addamo, 23 giugno 1966, in Lettere, cit., pp. 929-930, cfr. p. 929, il corsivo nel testo. La frase riportata si riferisce per l’appunto alle Cosmicomiche. 105

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IV INDAGINE A MARGINE DI UNA SPARIZIONE

1. La produzione cosmicomica e combinatoria: riflessioni preliminari Proseguendo, secondo l’ordine cronologico, il filo del discorso critico prima sviluppato, interessa rilevare che il personaggio lettore scompare del tutto dalla fiction calviniana per ben diciassette anni: dal 1963 (anno di pubblicazione della Giornata) sino al 1979 (anno di pubblicazione del Viaggiatore). Questa sparizione contrasta, invero, con la particolare attenzione che Calvino riserva, in questo stesso periodo, al problema “lettura”: se, infatti, come rilevato da Barenghi (e come comprovato da questa ricerca) «la riflessione sul ruolo del lettore è una delle linee di forza» dell’intero corpus saggistico di Calvino, essa viene a rappresentare, tra gli anni ’60 e ’70, «l’oggetto principale del discorso» di alcuni articoli (cfr., ad esempio, Per chi si scrive? 1 e Un progetto di pubblico 2 ) e «in altri prende forma poco a poco, ma con maggiore pregnanza, e più robusto impe-

1 Calvino, Per chi si scrive?, cit. L’articolo, sollecitato da un’inchiesta di Gian Carlo Ferretti su «Rinascita», impegna per lungo tempo l’autore, il quale dapprima, trovando la domanda «maledettamente difficile», è tentato di rifiutare (cfr. Id., Lettera a Gian Carlo Ferretti, 15 marzo 1967, in Lettere, cit., p. 947), poi, invece, una volta trovata l’ispirazione, si dichiara pronto a «difendere quel che ho scritto parola per parola» (cfr. Id., Lettera a Gian Carlo Ferretti, 22 ottobre 1967, in ivi, p. 960). Tutto ciò testimonia l’attenzione dedicata da Calvino a questo problema. 2 Id., Allora Hugo disse alla Morante…, in «l’Espresso», XX (settembre 1974), n. 35, poi con il titolo Un progetto di pubblico, in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 342-345.

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gno dimostrativo». 3 Inoltre, mai come in questo periodo, Calvino critico-lettore sembra essere attratto dai personaggi lettori inclusi nelle opere altrui (I Promessi Sposi: il romanzo dei rapporti di forza, 4 Un progetto di pubblico), affascinato dagli autori (Dickens) che leggono le proprie opere (Il romanzo come spettacolo 5 ), incuriosito dalle opere contenute en abyme («Qual è il libro che Amleto sta leggendo, quando entra in scena al second’atto?» 6 ). Interessante risulta, altresì, la ricostruzione della progettazione, da parte di Calvino e Celati, della rivista «Alì Babà» (poi mai realizzata), il cui primo numero sarebbe dovuto essere interamente dedicato alla lettura, e poi a seguire ci sarebbe stata un’apposita rubrica intitolata «come leggere». 7 Nello sviluppo di questo capitolo avremo modo di verificare, infine, quanto numerose siano le riflessioni che Calvino dedica alla lettura anche nelle lettere private. Benché tutte queste testimonianze comprovino la centralità del problema lettura lungo il periodo qui considerato, rimane il fatto (evidente e singolare) che il personaggio lettore è assente da Le Cosmicomiche, 8 da Ti 3 Mario Barenghi, Introduzione a S-I, cit., pp. IX-LXXIII, la citazione a p. XXII. 4 Calvino, I Promessi Sposi: il romanzo dei rapporti di forza, cit. 5 Id., Creare un rapporto leale tra l’autore e il lettore. Il romanzo, mettendo in gioco tutto, finirà per coinvolgere tutti, in «Il Giorno», 14 ottobre 1970, poi con il titolo Il romanzo come spettacolo, in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 269-273. 6 Id., Cardano, uno scienziato nel mondo di Amleto, in «Corriere della sera», 21 settembre 1976, poi con il titolo Gerolamo Cardano, in Perché leggere i classici?, cit., infine in S-I, pp. 790-795, la citazione a p. 790. 7 Cfr. Barenghi, Belpoliti, «Alì Babà» progetto di una rivista 19681972, cit., in particolare si rimanda alla lettera di Italo Calvino ai collaboratori (Guido Neri e Gianni Celati), del 29 dicembre 1968: «la mia idea è che il nostro primo numero dovrebbe essere quello che avevamo segnato come 3°, cioè quello sulla lettura, con tutte le cose che Guido ha da scrivere sull’argomento e con il saggio di Gianni già pronto sulla “cattiva letteratura”» (ivi, p. 55, poi anche in Lettere, cit., p. 201, il corsivo nel testo). 8 Italo Calvino, Le Cosmicomiche, «Supercoralli», Torino, Einaudi, 1965. Il volume raccoglie 12 racconti di cui i primi quattro (La distanza della Luna, Sul fare del giorno, Un segno nello spazio, Tutto in un punto) avevano già visto la luce nel novembre del 1964 su «Il Caffè», mentre Senza colori, Giochi senza fine e Lo zio acquatico, erano usciti fra l’aprile e l’ottobre 1965 su «Il Giorno» (sulle correzioni apportate ai racconti per la pubblicazione in volume cfr. Francesca Napoletano, I segni nuovi di Italo Calvino. Da “Le Cosmicomiche” a “Le città invisibili”, Roma, Bulzoni, 1977, p. 67 e Claudio Milanini, Le Cosmicomiche. Notizie e note sui testi, in R-II, pp. 1318-1344, in particolare pp. 1323-1344). Seguono due edizioni Einaudi (1976, 1978) e una Garzanti

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con zero, 9 da Le città invisibili 10 e da Il castello dei destini incrociati. 11 Una prima spiegazione di questo fenomeno può essere forse rintracciata nella «difficoltà», avvertita dall’autore già dalla fine degli anni ’50, di distinguere i propri destinatari elettivi. Quella «immediatezza di comunicazione tra lo scrittore ed il suo pub(Milano, 1988); l’opera viene inclusa in R-II, alle pp. 79-221, da cui saranno tratte le citazioni nel testo. Occorre, inoltre, sottolineare che alcuni dei racconti inclusi in questa prima silloge cosmicomica verranno riprodotti anche nella raccolta La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, Milano, Club degli Editori, 1968, poi riedita nella «Biblioteca Giovani», Torino, Einaudi, 1975. Nel 1984 l’autore provvede, infine, ad allestire una raccolta complessiva di tutti i racconti cosmicomici cui dà il titolo Cosmicomiche vecchie e nuove, Torino, Einaudi, 1984, nella quale confluirono tutti i racconti del volume del ’65 ma secondo un ordinamento radicalmente mutato (cfr. Claudio Milanini, La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche. Note e notizie sui testi, in R-II, pp. 1455-1468 e Id., Cosmicomiche vecchie e nuove. Note e notizie sui testi, in R-II, pp. 1469-1475). 9 Italo Calvino, Ti con Zero, Torino, Einaudi, 1967. Sei degli undici racconti che compongono il volume erano già usciti precedentemente su periodico: I Cristalli su «Il Giorno», 11 giugno 1967; Il sangue, il mare su «Rendiconti», III (1967), n. 15-16; La cariocinesi, su «Nuova Corrente», XIV (1967), n. 41, (poi in Ti con zero con il titolo Mitosi); Ti con zero su «Almanacco Letterario 1967», Milano, Bompiani, 1966; L’inseguimento sul supplemento del «Giorno», «Il Giorno Domenica», n. 19, 28 maggio 1967; Il guidatore notturno sul supplemento «Il Giorno Domenica», n. 27, 30 luglio 1967. Sulle variazioni introdotte dall’autore per l’uscita in volume dei racconti già pubblicati cfr. Claudio Milanini, Ti con zero. Note e notizie sui testi, in R-II, pp. 1345-1358, in particolare pp. 1348-1358. Ti con zero viene parzialmente riproposto in La memoria del mondo, cit.; segue una riedizione autonoma Torino, Einaudi, 1977; nel 1984 parte del volume viene riproposto in Cosmicomiche vecchie e nuove, cit. Segue, infine, l’edizione postuma di Ti con zero, Milano, Garzanti, 1988, con l’inserimento di tutte le variazioni ai testi apportate nel frattempo dall’autore. Per tutte le citazioni riportate nel testo si fa riferimento a R-II, pp. 223-356. 10 Id., Le città invisibili, «Supercoralli», Torino, Einaudi, 1972, cui segue l’edizione tascabile Torino, Einaudi, 1977. Poi in R-II, pp. 357-498, da cui sono tratte le citazioni successivamente riportate. Segue, infine, l’edizione negli Oscar Mondadori, Milano, 1993. 11Id., Il Castello dei destini incrociati, viene pubblicato per la prima volta in Tarocchi. Il mazzo visconteo di Bergamo e New York, Parma, Franco Maria Ricci, 1969, poi, con notevoli varianti, nel volume omonimo, Torino, Einaudi, 1973 (alle pp. 3-48), che comprende anche La taverna dei destini incrociati, quest’ultimo inedito ad eccezione della parte intitolata Il regno dei vampiri, apparsa su «Il Caffè», XIX, 1, aprile, 1972 (con alcune differenze rispetto al testo poi pubblicato in volume). Segue l’edizione in R-II, cui si rimanda (alle pp. 499-610) per tutte le citazioni riportate. Infine Milano, Oscar Mondadori, 1994.

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blico», 12 realizzatasi nell’immediato dopoguerra, appare, infatti, ormai irrecuperabile, mentre Calvino vede erigersi «una zona d’ombra sempre più fitta, sempre più vasta», tale da «impedirgli di riconoscere il volto di coloro che non occupavano le prime file di poltrone». 13 Del resto, come sottolineato da Starobinski, la chiusura a quell’«insieme indeterminato di coloro che possono essere designati col termine collettivo di pubblico» non è che un aspetto specifico di un più generale isolamento dell’autore nei confronti del «mondo». 14 Sotto questo punto di vista il diradamento di interventi sui fatti sociali, culturali e politici di attualità, 15 già verificatosi dal ’63, si radicalizza soprattutto dopo la morte di Vittorini (1966): gli anni dopo la sua morte coincidono con una presa di distanza da parte mia, con un cambiamento di ritmo. Una vocazione di topo da biblioteca che prima non avevo mai potuto seguire […] adesso ha preso il sopravvento, con mia piena soddisfazione, devo dire. Non che sia diminuito il mio interesse per quello che succede, ma non sento più la spinta a esserci in mezzo in prima persona. 16

L’insofferenza che l’autore manifesta già negli anni ’50 nei confronti dei giornali e dei mass media, investe, in questo periodo, anche l’attività editoriale, non tanto in rapporto al lavoro in casa Einaudi, quanto alla pubblicazione stessa delle sue opere creative. «Il rumoroso momento che stiamo attraversando» scrive Calvino in un articolo del 1965 «apre un’epoca ideale per parlare e pubblicare il meno possibile e cercare di capire meglio come sono fatte le cose». 17 Il problema, come chiarito dallo stesso autore in una lettera a Parise, sembra essere la spettacolarizzazione della cultura, il fatto, cioè, che anche la letteratura si è

Cfr. Id., Prefazione 1964, cit., p. 1185. Id., Intervista a cura di d’Eramo, cit., p. 134. 14 Starobinski, Prefazione a R-I, cit., p. XVII. 15 Su questo aspetto cfr. Ferretti Le capre di Bikini, cit., p. 95 e sgg., e Barenghi (Italo Calvino, le linee e i margini, cit.) che parla di una «fase transitoria, in cui non c’è più l’intellettuale militante che dice “noi” […] e non c’è ancora, o si profila appena, la grande firma che presta ai massimi organi di stampa una collaborazione prettamente individuale» (ivi, p. 176). 16 Calvino, Colloquio con Ferdinando Camon, cit., p. 2784. 17 Id., Non darò più fiato alle trombe, cit., p. 145. 12 13

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lasciata irretire dalla frivolezza dilagante di un’Italia da bella époque: L’importante è considerare di avere smesso di scrivere, cioè decidere di non essere più nella mischia, aver capito quanto tutta l’atmosfera pubblicitaria in cui è intrappolata la letteratura sia nefasta. Una volta che hai smesso in questo senso, ma davvero, che hai deciso di startene a casa, mentre sei a casa ti capiterà di nuovo di scrivere, se no cosa fai? Ma – questo dovrebb’essere! – scrivere per te, o per farlo circolare manoscritto agli amici, per un lettore solitario di due o tre secoli dopo, insomma non per la recensione, la tiratura, l’intervista, il premio. L’importante è scrivere (no: vivere, e se in questo vivere c’entra lo scrivere bene, se no niente) con questo spirito. 18

Oltre a questo problema del rapporto tra autore e pubblico (e autore e società), le ragioni della scomparsa dei personaggi lettori vanno certamente cercate anche nella radicale trasformazione del progetto speculativo sottesa a questa nuova fase creativa dell’autore. Non è certo un caso se nel momento in cui Calvino attribuisce priorità assoluta a una ricerca letteraria di tipo sovrastrutturale e metaletterario, la figura del personaggio lettore è sostituita dalla figura del “narratario”, presente ora come segno verbale (in particolare in Le Cosmicomiche e nelle prime due parti di Ti con zero) ora come personaggio, ovvero come «narratario intradiegetico» 19 (in Le città invisibili). Se (come abbiamo verificato prima) l’inclusione nell’opera di un personaggio lettore genera spontaneamente una rifrazione en abyme del lettore reale e agevola l’intromissione nel testo di spunti extraletterari (come ad esempio, il problema del pubblico o le 18 Id., Lettera a Goffredo Parise, 14 gennaio 1964, in Lettere, cit., pp. 777-779, la citazione a p. 778. In un’altra lettera Calvino spiega che anche i suoi colleghi, quelli della «cosiddetta “letteratura militante” pare facciano a gara per esibizionismi e trombonaggine» (Id., Lettera a Mario Untersteiner, 17 luglio 1964, in ivi, pp. 826-827, la citazione a p. 826). 19 Per la definizione di “narratario” (coniata da Gerald Prince, in Notes towards a preliminary categorization of fictional «Narratees», in «Genre», 1971, 4, pp. 100-106), si rimanda alle spiegazioni di Gérard Genette (Figures III, Paris, Édition du Seuil, 1972, in traduzione Figure III. Discorso del racconto, Torino, Einaudi, 1976, in particolare cfr. pp. 279-282), e Gerald Prince (Introduction à l’étude du narrataire, in «Poétique», 14, 1973, pp. 178-196, in particolare cfr. pp. 183-186, e Id., Narratology. The form and functioning of narrative, Paris, Mounton, 1982, tradotto in italiano con il titolo Narratologia, Parma, Pratiche, 1984). Per la definizione di “narratario intradiegetico” cfr. Genette, Figure III, cit., p. 275 e sg.

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idee di lettura e di letteratura dell’autore, ecc. ), la presenza del narratario, invece, potrebbe, in certo senso, limitare questa possibilità, rimarcando, viceversa, l’autonomia della comunicazione letteraria. Personaggio lettore e narratario (inteso sia come segno verbale sia come personaggio), infatti, pur essendo figure integralmente inscritte nel corpus intradiegetico della finzione, risultano, tuttavia, il primo potenzialmente in grado di stabilire un rapporto di analogia col lettore reale (cioè con un’entità extraletteraria), mentre il secondo, rapportandosi più direttamente alla figura del narratore intradiegetico (cioè a un’altra figura inscritta, anch’essa, entro l’universo della invenzione narrativa), tende ad agevolare una riflessione sui ruoli e sulle funzioni interne della comunicazione letteraria e quindi a evidenziare come «scrivere non consiste più nel raccontare ma nel dire che si racconta». 20 In questo senso verrebbe spontaneo correlare la comparsa della figura del narratario al radicalizzarsi, nella prospettiva dell’autore, del convincimento circa l’autonomia del «mondo scritto» da quello «non scritto» o mondo reale. Ma posta in questi termini la questione ci porta, inevitabilmente, ad affrontare problemi più ampi, e che sono alacremente dibattuti dalla critica, all’interno della quale ancora si contrappongono due posizioni: da una parte c’è chi pensa alla produzione cosmicomica e combinatoria come alla abdicazione, da parte dell’autore, della ricerca di una forma di rappresentazione del mondo reale. 21 20 Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi, conferenza tenuta in diverse città italiane tra il 24 e il 30 novembre 1967, pubblicata in «Le conferenze dell’Associazione Culturale Italiana», 1967-68, fasc. XXI, poi, in versione ridotta con il titolo Appunti sulla narrativa come processo combinatorio, in «Nuova Corrente», XV (1968), n. 46-47, poi con il titolo Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio), in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 205-225, da cui la citazione a p. 208. La riflessione di Calvino si riferisce, per la precisione, al lavoro creativo degli scrittori del «Tel Quel». 21 Sostiene, ad esempio, Ferretti: «con Le Cosmicomiche e con le opere successive in sostanza, le contraddizioni e le crisi e gli stessi riferimenti problematici non rimanderanno più (in modo diretto o indiretto) all’esperienza autobiografica pubblica o alle contingenze sociali e politiche, ma seguiranno logiche tutte interne a un universo di invenzione compiuto e concluso in se stesso» (Ferretti, Le capre di Bikini, cit., p. 95). Concordando nel contenuto, ma rivolgendosi, soprattutto, alla fase “combinatoria”, Bárberi Squarotti scrive: «se la letteratura è arrivata a tal punto, significa che non c’è più nessun rapporto fra vita e letteratura, fra linguaggio (delle im-

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Dall’altra ci sono, invece, numerosi critici che ravvisano nell’interesse metaletterario una forma oltranzistica e tuttavia tenace di rapportarsi al mondo. 22 In questo dibattito, che si presenta ovviamente molto più articolato di quanto la mia sintesi non lasci immaginare, 23 si inseriscono anche giudizi estetici e morali magini, sostituite dalla parola) e realtà. Non c’è più nulla di nuovo da inventare: tutto ciò che lo scrittore può fare è combinare all’infinito, fino alla stanchezza suprema, le carte che riportano sempre le stesse figure» (Giorgio Bárberi Squarotti, Dal «Castello» a «Palomar»: il destino della letteratura, in Atti del Convegno internazionale (Firenze), cit., pp. 329-346, p. 335). Più recentemente Donnarumma ha affermato che quella di Calvino «più che la sfida di chi aggredisce il caos, [sarebbe] la mossa difensiva di chi tenta di esorcizzarlo»: soprattutto i libri scritti a partire dalla fine degli anni Sessanta «saranno tutti segnati da queste ambiguità, e, prima fra tutte, da quella che [Calvino] non sa se concedere alla letteratura uno spazio di interpretazione attiva sulle cose, o la loro interminabile, inconcludente descrizione» (Raffaele Donnarumma, Calvino verso il postmoderno: dalla “Sfida al labirinto” alla “Memoria del mondo”, in «Allegoria», XIV (2002), n. 40-41, pp. 80-109, le citazioni riportate rispettivamente a p. 86 e p. 98). 22 Tra questi ricordiamo, ad esempio, Maria Corti, la quale sostiene che il gioco calviniano dei tarocchi significhi «soulever le problème de la signification de l’univers» (cfr. Maria Corti, Le jeu comme génération du texte: des tarots au récit, in «Semiotica», VII (1973), n. 1, pp. 33-48, la citazione a p. 37. Cfr. anche Id., Il gioco dei tarocchi come creazione d’intrecci, in «La Battana», VIII, 1971, poi in Id., Il viaggio testuale, cit., pp. 169-184). Recentemente anche Massimo Bucciantini, nella monografia intitolata Italo Calvino e la scienza. Gli alfabeti del mondo (Roma, Donzelli, 2007), spiega come l’apparente «inautenticità» delle opere di questo periodo derivi dalla «sempre maggior consapevolezza dei limiti insiti nel proprio lavoro di scrittore», da cui l’incessante ricerca di «rapporti sempre più indiretti, ma non per questo meno “veri” e meno “reali”, col mondo» (ivi, p. 55). 23 Non mancano, ovviamente, anche posizioni intermedie tra cui si ricorda, ad esempio, il giudizio di Carlo Salinari che, benché ritenga le Cosmicomiche «divertenti» e «artisticamente riuscite», considera l’evoluzione letteraria di Calvino un rifugio nella «favola» dettato da «pigrizia» e perdita di quella tensione morale che lo caratterizzava agli inizi (Carlo Salinari, Preludio e fine del realismo in Italia, Napoli, Morano, 1967, pp. 339-345); si rimanda, inoltre, all’intervento di Gianni Celati, il quale sottolinea come nelle Città Invisibili, si concilino due diverse «tendenze della scrittura contemporanea: a) quella del testualismo: la spaziatura della superficie come analisi del discorso e riduzione del racconto alle regole che lo determinano; b) la tendenza ad usare la superficie testuale come induttore, illustrazione o scrittura figurale che attiva effetti che vanno fuori dalla pagina e arrivano nel corpo» (Gianni Celati, Il racconto di superficie, in «Il Verri», serie V (marzo 1973), n. 1, poi in Barenghi, Belpoliti, «Alì Babà» progetto di una rivista 1968-1972, cit., pp. 176-193, da cui la citazione a p. 191). Secondo Asor Rosa il fatto che «la letteratura si costituisca ormai […] come un mondo di segni autonomo, parallelo più corrispondente e allusivo di quello rea-

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laddove, generalmente, se prevale l’idea della letteratura fine a se stessa, del “gioco per il gioco”, scema la stima per queste opere e viceversa. 24 Si ritiene che la specifica prospettiva di indagine qui adottata possa apportare un piccolo ma significativo contributo a questo dibattito. Accogliendo, infatti, nella presente ricerca anche la figura del narratario (la quale, anche se diversa, intrattiene tuttavia una relazione di «analogia» 25 con il personaggio lettore), si rende forse possibile decifrare meglio le intenzioni dell’autore in merito al rapporto che egli intendeva intrattenere con i lettori e con il reale. 2. Le Cosmicomiche e il problema dei destinatari Spostando la nostra attenzione dalla figura del personaggio lettore a quella del narratario, è bene ricordare come già nel Cavaliere inesistente fossero presenti (sebbene ancora in nuce) enle» non significa che Calvino sia uno «scrittore “tranquillo”, fuori dalla crisi, che, anzi, galleggia serenamente e agnosticamente sulla crisi: il suo lavorio stilistico, faticoso, incessante, sostenuto da un senso di responsabilità altissimo, è precisamente un “modo” di risposta alla crisi, non meno drammatico» di quello di altri scrittori (Alberto Asor Rosa, Calvino e la narrativa strutturale, in Id. (a cura di), Letteratura italiana del Novecento. Bilancio di un secolo, Torino, Einaudi, 2000, poi con il titolo Natura e struttura in Stile Calvino, cit., pp. 135-149, le citazioni a p. 138 e p. 141). Si veda, infine, l’opinione espressa recentemente da Amelia Nigro, la quale da una parte sottolinea come la opere di questo periodo nascano da una rinuncia al progetto di rappresentare il reale («se la letteratura non può rappresentare il mondo, tanto vale che si occupi di se stessa»), dall’altra però rileva come lo scrittore non per questo rinunci alla «tensione morale e all’ansia di rinnovamento» (Amelia Nigro, Calvino o della rassegnazione difficile, in «Esperienze letterarie», XXXII (2007), n. 2, pp. 35-59, le citazioni a pp. 51 e 52). 24 Estremamente severi sono, sotto questo punto di vista, i giudizi di Alfonso Berardinelli (cfr. Calvino moralista ovvero, restare sani dopo la fine del mondo, in «Diario», VII (febbraio 1991), n. 9, pp. 37-58) e quello di Carla Benedetti (cfr. Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Torino, Bollati Boringhieri, 1998), secondo la quale Calvino avrebbe rinunciato «al Mondo, quello “vero” e terribile, a vantaggio di un mondo di convenzione; la rinuncia a fare i conti con l’alterità, a vantaggio di un’alterità finta; l’accettazione di un’idea depotenziata di letteratura, tutta ripiegata nei suoi confini istituzionali» (ivi, p. 135). 25 Su questo aspetto si rimanda a Federico Bertoni, Il testo a quattro mani. Per una teoria della lettura, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 201.

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trambe le identità: da una parte quella del narratario personaggio, in questo caso «tirannico», rappresentato dalla «madre badessa», 26 e dall’altra una prima esibizione linguistica del narratario come segno verbale. 27 L’analogia tra questo romanzo e la produzione letteraria degli anni ’60 e ’70 non si esaurisce, del resto, in questo aspetto, ma riguarda l’intera riflessione metaletteraria sottesa anche al Cavaliere, e realizzata grazie all’invenzione della monaca che scrive, dapprima, inseguendo «sul foglio il mondo sensibile, trasformandolo in segno grafico», 28 e poi, «nel momento culminante», facendo in modo che «la penna» scriva «se stessa che scrive». 29 Il narratario, inteso come segno verbale, riaffiora con più insistenza nelle Cosmicomiche, e in alcuni racconti di Ti con zero, dove le storie di Ofwfq possiedono una struttura affine a quella dei monologhi drammatici. Spesso, infatti, il narratore (o «voce» o «occhio […] umano proiettato sulla realtà» 30 ) si rivolge espressamente a un pubblico di astanti, che si pongono ora come interlocutori («voi mi chiederete cosa diavolo andavamo a fare sulla Luna, e io ve lo spiego» 31 ), ora come destinatari lontani nel tempo e nelle abitudini percettive dal narratore («Un segno come? È difficile da dire perché se vi si dice segno voi pensate subito a un qualcosa che si distingua da un qualcosa, e lì non c’era niente che si distinguesse da niente» 32 ), ora infine, 26 «Sicuramente, la madre badessa per la quale suor Teodora stende il suo racconto (nel Cavaliere inesistente) svolge con minor forza la parte del destinatario tirannico. Non entra in scena; non dialoga; ma è pur sempre lei ad aver messo all’opera la redattrice. Ha commissionato il racconto. Ne attende la copia» (Starobinski, Prefazione a R-I, cit., p. XVI). 27 Cfr. Calvino, Il cavaliere inesistente, cit., p. 1010. 28 Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 66. 29 Ivi, p. 66. L’accostamento tra il Cavaliere e Le Cosmicomiche viene confermato dallo stesso autore in una lettera a Grazia Marchianò del 21 dicembre 1965 (in Lettere, cit., pp. 907-910): «Per le Cosmicomiche benissimo il legarle al Cavaliere inesistente (Lei è la prima a farlo)» (ivi, p. 907). 30 Dal risvolto non firmato, ma attribuito a Calvino, della prima edizione delle Cosmicomiche, riportato da Milanini in Le Cosmicomiche. Note e notizie sui testi, cit., (cfr. p. 1318). 31 Italo Calvino, La distanza della Luna, in «Il Caffè», XII (novembre 1964), n. 4, poi in Le Cosmicomiche, cit., infine in R-II, pp. 81-96, la citazione a p. 84. 32 Id., Un segno nello spazio, in «Il Caffè», XII (novembre 1964), n. 4, poi in Le Cosmicomiche, cit., infine in R-II, pp. 108-117, la citazione a p. 108. Notevoli, in questo caso, le differenze tra il testo del racconto edito su

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come collaboratori, chiamati a partecipare alla costruzione della storia, o meglio, alla costruzione della sua rappresentazione («è meglio che cerchiate voi stessi d’immaginare la serie di vignette con tutte le figurine dei personaggi al loro posto, su uno sfondo efficacemente tratteggiato, ma cercando nello stesso tempo di non immaginarvi le figurine, e neppure lo sfondo» 33 ). Dal punto di vista narrativo, Calvino utilizza molti di quegli espedienti che Prince avrebbe poi codificati sotto la definizione dei «segni del tu», 34 quali, ad esempio, l’uso del «noi» inclusivo da parte del narratore (cui bisogna aggiungere, per Le Cosmicomiche, quello insistito del «voi» con intento disgiuntivo), la presenza di domande o pseudo domande, e di apostrofi più o meno dirette. Le preoccupazioni illustrative di Qfwfq (disseminate capillarmente in tutte le storie cosmicomiche che compongono il volume del ’65, e in buona parte di quelle di Ti con zero) rivelano, nel loro complesso, una tensione interlocutoria che da un lato ci riporta all’idea bachtiniana della «dialogizzazione interna» 35 delle opere narrative, dall’altra ci proietta verso i nuovi orizzonti retorici aperti dalla semiologia. 36 In entrambi i casi,

«Il Caffè» e quello pubblicato in volume (cfr. Milanini, Le Cosmicomiche. Notizie e note sui testi, cit., pp. 1328-1333). 33 Calvino, L’origine degli uccelli, in Ti con zero, cit., poi in R-II, pp. 236-247, la citazione a p. 237. 34 Cfr. Prince, Narratology, cit., pp. 17 e sgg. 35 L’idea della “dialogizzazione interna” o “natura dialogica della narrativa” teorizzata da Michail Bachtin (Cfr. Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 1968, in particolare p. 256), sarebbe stata citata e commentata, di lì a poco, da Calvino nell’articolo intitolato La letteratura come proiezione, cit., p. 250. 36 Per un approfondimento circa l’influenza della riflessione semiologica e strutturalista su Calvino si rimanda a Giovanna Gronda, Comunicazione/espressione: su un racconto “semiologico” di Italo Calvino, in «The Italianist», 3, 1983, pp. 53-63; Aldo Rossi, La semiologia, in Italo Calvino, Atti del Convegno internazionale (Firenze), cit., pp. 239-259; Guido Bonsaver, Il Calvino 'semiotico': dalla crisi del romanzo naturalistico all'opera come macrotesto, in «The Italianist», 1994, n. 14, pp. 160-194; Manuela Dini, La svolta semiologico-strutturalista: la letteratura come congegno, in Id., Calvino critico. I percorsi letterari, gli scritti critici, le scelte di poetica, Ancona, Transeuropa, 1999, pp. 63-106; Paolo Chirumbolo, La spirale e la proliferazione dei segni: la semiotica di C.S. Peirce in “Cosmicomiche” e “Ti con zero”, in «Rivista di studi italiani», XXI (2003), n. 2, pp. 104-120; Cesare Segre, “Le città invisibili” di Calvino e la vertigine epistemica, in «Strumenti critici», 2004, n. 1, pp. 43-53; Maria de Toni, Cornice narrati-

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comunque, le apostrofi di Qfwfq, mettendo in evidenza i rapporti (o relazioni formali) che intercorrono tra le varie figure (o parti) della comunicazione letteraria, esauriscono la propria carica allusiva entro i termini scritti della finzione stessa, e dunque tendono a porre in risalto l’autonomia della letteratura. A guardare con maggiore attenzione si scopre che l’intero discorso tra Qfwfq e il pubblico degli astanti è riportato da un anonimo testimone, 37 da cui deriva un’altra complicazione delle rifrazioni diegetiche: interamente inscritta nel discorso riportato da un non meglio definito narratore (o curatore, come lo chiama Milanini 38 ), la comunicazione tra Qfwfq, narratore di secondo grado, e i narratari tende a presentarsi astratta, precaria e lontana dalla dimensione (o livello diegetico) di noi lettori reali. Descritta in questi termini, la figura del narratario delle storie cosmicomiche è quindi ben più distante da noi lettori reali di quanto non lo fossero i precedenti personaggi lettori. Da ciò parrebbe prendere corpo l’interpretazione di Genette, secondo la quale «come il narratore, il narratario è uno degli elementi della situazione narrativa, e s’inserisce al medesimo livello diegetico; cioè, non si confonde a priori col lettore (anche virtuale) più di quanto il narratore non si confonda necessariamente con l’autore». 39 Ora, il fatto di volere limitare il processo di immedesimazione non implica, però, nella prospettiva di Calvino, un disegno di “esclusione”: è bene rammentare, infatti, come Calvino, già negli anni ’50, avesse individuato proprio nella distanza dalla fiction la condizioni più proficua per realizzare la ricezione del testo letterario. Stesso concetto è ribadito anche alcuni anni dopo: «quel che è scritto nei libri può essere vero fino a un certo punto e sbagliato fino a un certo punto», spiega Calvino in una lettera del 1967, indirizzata a una classe media di Treviso:

va e dissoluzione del “récit” in Italo Calvino, in «Studi novecenteschi», 2007, n. 1, pp. 169-194. 37 La presenza di un testimone viene dedotta dai verbi in terza persona («raccontò», «commentò») utilizzati nel testo per introdurre le riflessioni di Qfwfq. 38 Cfr. Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 111. 39 Genette, Figure III, cit., p. 307. La riflessioni di Genette qui riportata si riferisce, in particolare, ai narratari.

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non bisogna fidarsi mai completamente dei libri ma cercare di verificare quello che hanno di ragione e quello che hanno di torto, come giustamente avete fatto voi. 40

La sostituzione del personaggio lettore con quello del narratario (e le trasformazioni a essa connesse), non costituirebbe, quindi, un’involuzione nel modo di concepire la lettura e il dialogo con i lettori, ma rappresenterebbe, invece, un espediente attraverso il quale l’autore raggiunge contemporaneamente due scopi molto preziosi: in primo luogo, sollecitare il lettore reale a prendere le distanze dalla finzione, e poi coinvolgerlo in una riflessione sui procedimenti espressivi. Anche senza essersi soffermati specificatamente su un confronto tra personaggio lettore e narratario verbale, numerosi critici hanno ugualmente riflettuto sul ruolo esercitato dalle apostrofi al pubblico degli ascoltatori, mettendo in luce, da una parte, la funzione retorica di «provocare nell’uditorio la necessaria “sospensione dell’incredulità”», 41 dall’altra, quella di «polarizzare enfaticamente l’attenzione sull’impossibilità umana di comprendere ed esprimere». 42 Va detto, infatti, che in veste di interlocutore «Qfwfq si mostra incline a millanterie e a beffe», alternando «preoccupazioni illustrative degne di un pedagogo pignolo e atteggiamenti tipici di un testimone fanfarone». 43 In entrambi i casi a entrare in crisi è quella concezione “autoritaria” del naturalismo contro cui si era scagliato anche Vittorini, auspicando la promozione di un discorso letterario «democratico, dialettico, congetturale». 44 Sotto questo punto di vista, la forma dialogica delle Cosmicomiche non risponde soltanto al progetto vittoriano, ma anche all’esigenza calviniana, manifestatasi fin dai tempi della trilogia fiabesca, di metter in moto meccanismi di partecipazione critica nel lettore, attraverso gli strumenti dell’ironia e dello straniamento. Già nel Cavaliere, infatti, l’atteggiamento della monaca-scrivana di fronte al suo 40 Italo Calvino, Lettera alle alunne della scuola media Coletti, 21 novembre 1967, in Lettere, cit., pp. 963-964, la citazione a p. 964. 41 Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 113. 42 Bernardini Napoletano, I segni nuovi, cit., p. 31. 43 Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 113 e p. 111. 44 Elio Vittorini, Le due tensioni. Appunti per una ideologia della letteratura, a cura di Dante Isella, Prefazione di Italo Calvino, Milano, il Saggiatore, 1967, p. 28, il corsivo nel testo.

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pubblico degli ascoltatori lettori è ora reticente ora menzognero, e anche quando si rivolge direttamente a esso («allora, volete che vada dalla madre badessa a supplicarla che mi cambi d’opera, che mi mandi a tirare l’acqua dal pozzo?»), è solo per disorientarlo e disattendere le attese che lei stessa ha generato («non serve. Continuerò secondo il mio dovere di monaca scrivana» 45 ). Il fatto di porre in primo piano il colloquio tra narratore e narratario ottiene, in entrambi i casi, il risultato di svelare la natura ambigua (se non propriamente menzognera) della comunicazione letteraria. Se con l’approfondimento sulla figura del narratario si è chiarito qual è il rapporto che l’autore vorrebbe vedere istituito tra finzione e lettore, rimane, però, da risolvere il problema dei “destinatari”. Sotto questo punto di vista la critica ha molto insistito sulla necessità, manifestata da Calvino, di rivolgersi ad un lettore più colto e aperto alle nuove teorie linguistiche e scientifiche, da cui egli stesso tre ispirazione come scrittore. 46 Certo non mancano dichiarazioni autoriali che confermano questi presupposti: Il lettore che dobbiamo prevedere per i nostri libri avrà esigenze epistemologiche, semantiche, metodologico-pratiche che vorrà contiCalvino, Il cavaliere inesistente, cit., pp. 1009-1010. Per un approfondimento sul rapporto tra Calvino e la scienza si rimanda a Gregory L. Lucente, Signs and Science in Italo Calvino’s Cosmicomiche: Fantascienza as Satire, in «Forum Italicum», XVII, 1983, n. 1, pp. 29-40; Giorgio Celli, La scienza vista dalla fiaba, in Italo Calvino, la letteratura, la scienza e la città, cit., pp. 79-81; Carlo Bernardini, Letteratura, scienza e filosofia della scienza, in Italo Calvino, Atti del Convegno internazionale (Firenze), cit., pp. 229-237; Mimma Califano Bresciani, Uno spazio senza miti: scienza e letteratura. Quattro saggi su Italo Calvino, Firenze, Le Lettere, 1993; Id., Calvino e la scienza, in I luoghi di Calvino. Guida alla lettura di Italo Calvino, a cura di Nicola Bottiglieri, Cassino, Edizioni dell’Università degli Studi di Cassino, 2001, pp. 93-109; Franco Gallippi, Calvino and the 'Nature' of Style: An Interaction Between Literature and Science, in «Rivista di studi italiani», XXI (2003), n. 2, pp. 134150; Sergio Blazina, Italo Calvino: un linguaggio fra scienza e mito, in «Chroniques Italiennes», XXI (2005), n. 75-76; Kerstin Pilz, Mapping Complexity: Literature and Science in the Work of Italo Calvino, Leicester, RU, Troubadour, 2005; Bucciantini, Italo Calvino e la scienza, cit. Sul rapporto tra testo e scienza in Calvino, si rimanda, infine, alle riflessioni espresse dall’autore nella Lettera a Daniela Colamasi, 19 settembre 1977, in Lettere, cit., pp. 1343-1344. 45

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nuamente confrontare anche sul piano letterario, come esempi di procedimenti simbolici, come costruzione di modelli logici. 47

E ancora: La letteratura non è la scuola; la letteratura deve presupporre un pubblico più colto, più colto di quanto non sia lo scrittore; che questo pubblico esista o no non importa. Lo scrittore parla a un lettore che ne sa più di lui, si finge un se stesso che ne sa di più di quel che lui sa, per parlare a qualcuno che ne sa di più ancora. La letteratura non può che giocare al rialzo, puntare sul rincaro, rilanciare la posta. 48

Questo «consapevole restringimento dell’area dei destinatari», 49 è stato forse non a torto messo in relazione al retroterra culturale e letterario in cui lavora Calvino. Convincente appare la tesi di Milanini, secondo la quale Calvino, benché avesse rigettato apertamente le pratiche apocalittiche della neovanguardia e avesse criticato la scelta di una trasgressione grammaticale assoluta, «si assunse tuttavia, a suo modo, l’ufficio di chi vuole sondare le attitudini reattive del pubblico, saggiandone le riaggregazioni potenziali intorno a proposte narrative più o meno ardue ma sempre linguisticamente terse, tali insomma da salvaguardare il codice primario della comunicazione». 50 Pur tenendo in debita considerazione gli elementi sopra esposti, si ritiene che l’argomento richieda un approfondimento ulteriore. In primo luogo, va chiarito, infatti, che il restringimento dei destinatari non è un bisogno avvertito dall’autore in modo improvviso, ma un’esigenza già manifestata ai tempi del Barone rampante. Anche in quella sede, l’elezione di Cosimo a lettore ideale lasciava intravedere la necessità di un lettore più attento, che fosse in grado di scegliere i libri più adatti in rapporto alle proprie esigenze intellettuali ed emotive. In particolare si è rilevato come il tramonto del modello del lettore incolto e appassionato (sullo stile di Gian dei Brughi) vada messo in relazione alla critica che Calvino rivolge al modello del romanzo ottocentesco, e, più in generale, alla riflessione che egli viene maturando sulle (limitate) possibilità di influenza della letteratura Calvino, Per chi si scrive? cit., p. 202. Ibidem, il corsivo nel testo. 49 Claudio Milanini, Introduzione, in R-II, pp. IX-XXXVIII, la citazione a p. XXXIII. 50 Id., L’utopia discontinua, cit., p. 102. 47

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sul reale. Ma altrettanto decisiva è risultata l’esperienza di Calvino nel settore editoriale, grazie alla quale l’autore, sperimentando in prima persona le reazioni a volte imprevedibili del mercato e della critica, sembra intuire che la possibilità di “azione” di un testo non dipende tanto dalla vastità del pubblico degli acquirenti, quanto, piuttosto, dalla qualità della ricezione dei singoli lettori. Ricordiamo, infine, come anche le immagini (incluse nelle opere degli anni ’50) dei personaggi lettori di libri, ma anche di quotidiani, ci restituiscano l’urgenza di un rinnovamento radicale nelle forme della comunicazione scritta, altrimenti destinata a replicarsi inascoltata. Come si può ben vedere, quindi, il restringimento dei destinatari che caratterizza la produzione degli anni ’60, altro non è che l’evoluzione di una riflessione già avviata nel decennio precedente. A decretare l’ulteriore contrazione è, in questo periodo, l’incremento di responsabilità che Calvino attribuisce al lettore. Mai come in questo momento, infatti, nelle riflessioni critiche dell’autore, il lettore si presenta come una parte fondamentale della comunicazione letteraria, e come l’unica figura realmente in grado di rendere attivo il messaggio dell’opera: la letteratura può lavorare tanto nel senso critico quanto nella conferma delle cose come stanno e come si sanno. Il confine non sempre è chiaramente segnato; dirò che a questo punto è l’atteggiamento della lettura che diventa decisivo; è al lettore che spetta di far sì che la letteratura esplichi la sua forza critica, e ciò può avvenire indipendentemente dalla intenzione dell’autore. 51 Capovolgendo quello che comunemente si è portati a credere, penso che la tensione ideologica deve operare prima nel lettore che nell’opera: non conta tanto quello che la letteratura “insegna” o vuole insegnare, quanto la “domanda” che il lettore rivolge alla letteratura, il suo modo d’interrogarla. 52

51 Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., p. 224. Nella prima redazione dell’articolo (apparsa su «Le conferenze dell’Associazione culturale italiana», 1967-68, fasc. XXI, pp. 9-23, cit.), il concetto è ulteriormente sviluppato: «Il gioco può funzionare come sfida a comprendere il mondo o come dissuasione dal comprenderlo» (ivi, p. 22). 52 Id., Intervista a cura di Raffaele Crovi (dal titolo Calvino scrittore appartato ha fiducia nella letteratura) in «Avvenire», 20 luglio 1969, qui citata da Barenghi, Italo Calvino, cit., a p. 186.

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Come sottolineato da Barenghi, affermazioni come queste che potrebbero apparire ai nostri giorni come un cliché, sono invece molto significative se rapportate all’epoca in cui sono state scritte, quando ancora si era agli albori degli studi sulla ricezione. 53 Si potrebbe affermare, infatti, che Calvino, anticipando Iser, matura la consapevolezza della fine dell’azione sul lettore e sulla società come oggetto del discorso dell’autore e l’inizio dell’azione come effetto della iterazione tra i segnali testuali più gli atti di comprensione del lettore: 54 La letteratura costruisce delle figure autonome che possono servire come termine di confronto con l’esperienza o con altre costruzioni della mente. È solo attraverso questa riflessione del lettore che la letteratura può collegarsi a un’attività morale, cioè solo attraverso un confronto dei valori che il lettore cerca con quelli che l’opera letteraria sembra suggerire o implicare. 55

Così, indipendentemente dalla teorizzazione di Jauss, 56 Calvino in quegli stessi anni riflette sull’esigenza che la letteratura contraddica «l’orizzonte d’attesa del lettore» e susciti in lui un mutamento nelle abitudini culturali e percettive. Proprio questo problema verrà, infatti, discusso, in termini strutturalisti, pochi anni dopo, nel Protocollo per la realizzazione della rivista «Alì Babà»: Dato che sappiamo che le risposte, nel campo delle scienze umane, sono sempre predeterminate dall’orientamento, e che le procedure assolvono ad un ruolo di mediazione tra un modello concettuale e la sua fondazione sperimentale, è necessario innanzitutto proporre modelli la cui comprensività o complessità sia attualmente incolmabile, per non giungere al cul de sac d’una descrizione strutturale che riduca la complessità dell’oggetto alla povertà concettuale delle premesse. […] Il problema fondamentale che si pone (trascurato dalle poetiche attuali) è quello di definire i rapporti tra struttura letteraria e contesto, e

Cfr. Ivi, p. 119. Cfr. Wolfgang Iser, Der Akt des Lesens, München, Fink, 1976, tradotto in italiano L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Bologna, Il Mulino, 1987. 55 Calvino, Due interviste su scienza e letteratura, cit., p. 236. 56 Cfr. Hans Robert Jauss, Literaturgeschichte als Provokation der Literaturwissenschaft, Konstanz, Universitäts-Druckerei GmbH, 1967, traduzione italiana Perché la storia della letteratura?, Napoli, Guida, 1969. 53

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in base a ciò sviluppare una progettazione le cui capacità d’adattamento non sian in alcun modo saturabili. 57

Ma già Vittorini, a ben guardare, aveva posto in rilievo, nelle sue riflessioni, la ricerca di una letteratura «antiautoritaria», intesa «come una messa-in-questione di tutto l’acquisito della letteratura». 58 Queste ultime suggestioni ci spingono allora a formulare una seconda importante osservazione circa il problema dei destinatari degli anni ’60. Se è vero, infatti, che l’evoluzione nei personaggi lettori e nella caratterizzazione del narratario e le affermazioni critiche dell’autore convergono a delineare un lettore sempre più colto e più abile, va precisato, però, che questa esigenza si esprime non sempre (e non solo) nella designazione preventiva di destinatari elettivi, ma anche, e soprattutto, nella direzione di una crescita nelle capacità cognitive, culturali e morali del lettore qual è. Quando si parla, quindi, della necessità di un destinatario più colto da parte di Calvino, non si dovrebbe esclusivamente presuppone un lettore già dotato di una competenza specifica, ma anche quello disponibile ad acquisirla. Anche quando Calvino sostiene, come riportato sopra, che «lo scrittore parla a un lettore che ne sa più di lui, si finge un se stesso che ne sa di più di quel che lui sa», è chiaro che egli viene 57 Cfr. Protocollo d’una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968 da Italo Calvino, Gianni Celati e Guido Neri, (e trascritta da Gianni Celati), pubblicata in Barenghi, Belpoliti, «Alì Babà» progetto di una rivista 19681972, cit., pp. 57-71, la citazione a p. 60 e p. 61. 58 Italo Calvino, Per una letteratura che chieda di più, in «Il Ponte», XXIV (agosto 1968), n. 8, poi con il sottotitolo (Vittorini e il Sessantotto) in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 238-241, la citazione a p. 241. Il corsivo nel testo. Vittorini nelle pagine del «Menabò», affronta il problema della lettura teorizzando due modelli opposti di ricezione: da una parte ci sarebbero i “lettori-collaboratori” che impossessandosi criticamente del testo, collaborano alla creazione dello stesso, dall’altra, invece, c’è chi riceve la voce del testo in modo passivo. Da ciò la correlata distinzione tra due forme di letteratura: «la letteratura ha funzione in quanto apre o in quanto chiude? È qualcosa di liberatore che sveglia senso critico e immaginazione; o qualcosa di autoritario che inibisce l’uno e l’altra catturandoli entro un “piacere”? e il lettore è chiamato, con essa, a una parte difficile, aspra, faticosa, ma attiva? O ad una di supino consumatore che deve solo fumarsi il suo oppio?» (cfr. Elio Vittorini, La lettura attiva, «Il menabò di letteratura», n. 7, 1964, pp. 146-149, la citazione a p. 148).

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proponendo un modello di progettualità creativa, un’ipotesi di impostazione letteraria, all’interno della quale non interessa tanto il livello culturale di partenza del lettore quanto la possibilità che questo livello sia innalzato attraverso la lettura. Da ciò, infine, la proposta di «una letteratura che deve servire ad alzare continuamente la posta, a porre la domanda su un livello sempre più irraggiungibile dall’offerta, senza affrettare risposte che se arrivano troppo presto somiglieranno troppo a quelle che stiamo rifiutando». 59 È chiaro, allora, che anche il lettore molto più colto dell’autore non è un’immagine del lettore ideale di Calvino né, tanto meno, quella di un destinatario reale, ma solo una costruzione, un ruolo inscritto nel testo, che potremmo assimilare al “lettore implicito” teorizzato da Booth. 60 Ebbene, l’inscrizione nel testo di un lettore implicito molto colto e ricettivo, non ha come scopo l’esclusione di tutti i possibili destinatari che non collimano perfettamente con questa figura, ma, viceversa, quello di spingere il lettore reale a fare un avanzamento percettivo e intellettuale. Del resto, in una lettera del 1968, Calvino lo dice chiaramente: «io resto uno scrittore di impianto artigiano, mi piace fare delle costruzioni che chiudono bene, ho un rapporto col lettore basato sulla reciproca soddisfazione», 61 e al contempo stabilisce: «i libri più sono antipatici (cioè difficili da mandare giù per le nostre abitudini di pensiero e i nostri gusti) più contano». 62 Se già in questa lettera è evidente come l’autore non avverta contraddizione tra le due affermazioni, in un’altra egli, più diffusamente, spiega i termini di questa possibile conciliazione:

Calvino, Per una letteratura che chieda di più, cit., p. 241. Cfr. Wayne Booth, The rhetoric of fiction, Chicago, The University of Chicago Press, 1961. Ad essere precisi, Booth parla propriamente di “lettore postulato”, descrivendo però la figura che poi avrebbe preso più comunemente il nome di “lettore implicito” («“il lettore postulato” di Booth è quello che io chiamo lettore implicito», cfr. Seymour Chatman, Story and discourse. Narrative structure in fiction and film, London, Cornell University Press, 1978, poi tradotto in Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film, Parma, Pratiche, 1981, e Milano, il Saggiatore, 2003, da cui la citazione a p. 37). Ma sullo stesso concetto riflette a lungo anche Iser (cfr. Der implizite Leser, München, Fink, 1972), e altri ancora. 61 Calvino, Lettera a Guido Fink, 24 giugno 1968, in Lettere, cit., pp. 1002-1005, la citazione a p. 1003. 62 Ibidem. Il corsivo nel testo. 59

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[occorre porre] il problema del rapporto col pubblico, d’una letteratura che (come le 45 mila copie delle Cosmicomiche provano) pur muovendosi lontano dalle abitudini più pigre del pubblico, non per questo finisce per essere letteratura «per pochi», e quindi può tenere una linea che non è né quella della pubblicità di serie, né quella dell’isolamento aristocratico. 63

Calvino, insomma, intende porsi a metà tra la linea dei romanzieri sempre a caccia di premi letterari e quella dei neoavanguardisti che rifiutano a priori il confronto con il pubblico. A differenza di questi ultimi, Calvino ancora si propone di «scrivere proprio quello che gli uomini hanno bisogno di leggere», 64 e dunque non abdica a quella idea di scrittura come “servizio”, radicata nell’indirizzo pragmatico della sua vocazione umanistica. E tuttavia egli non può esimersi dal rinnovare le strategie di questo “servizio”: fallita l’idea di letteratura cui si era ispirato fino alla Giornata, ora Calvino è quanto mai consapevole del fatto che «la sola situazione che dia frutto, che permetta di toccare qualcosa di vero» 65 sarà quella che riuscirà ad esaudire un bisogno non ancora compiutamente espresso dai lettori, e che precorrerà i tempi e indirizzerà verso strade non ancora percorse. Una letteratura che riuscirà a sconvolgere le abitudini del lettore, spingendolo a rimettere in discussione le sue posizioni, e non tanto «le opinioni politiche o culturali quanto piuttosto i suoi modi di percezione». 66 3. Kublai Kan Alla figura del narratario come segno verbale segue, infine, quella del narratario personaggio, interpretato nelle Città invisibili, dal grande imperatore Kublai Kan, destinatario (o “narratario intradiegetico”) delle descrizioni di Marco Polo narratore. Non sarà superfluo indicare quale momento di passaggio tra i due, il racconto La memoria del mondo, scritto nel 1967 e con63 Id., Lettera a Ottavio Cecchi, 15 luglio 1966, in ivi, pp. 932-933, la citazione a p. 932. 64 Id., Dialogo di due scrittori in crisi, cit., p. 84. 65 Ibidem. 66 Cfr. Giuseppe Nava, La teoria della letteratura in Italo Calvino, in «Allegoria», IX (1997), n. 25, pp. 169-185, la citazione a p. 175.

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fluito nel volume La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche. 67 A differenza dalle storie di Qfwfq, in questo episodio il narratore si rivolge non a un pubblico indeterminato ma a una singola persona, la cui presenza nel testo è, al contempo, segno verbale e personaggio. In alcuni casi, infatti, le apostrofi al signor Müller somigliano a quelle contenute nelle Cosmicomiche («Ma è inutile che ripeta queste cose proprio a lei…» 68 ), in altri, invece, sembra prendere corpo un vero e proprio personaggio, cui il protagonista narratore si rivolge ora per offrire un sigaro, 69 ora, a fine racconto, con l’intenzione di ucciderlo: «è per questo che ora estraggo la pistola, la punto contro di lei, Müller, schiaccio il grilletto, l’uccido». 70 Già da questi accenni si può intuire come quest’ultimo narratario occupi uno spazio anche fisico (e non solo verbale) nella scena narrativa, ed anticipi (come vedremo meglio a seguire) alcuni caratteri che saranno propri dell’imperatore. Occupandoci, più specificatamente di Kublai Kan, occorre premettere che rispetto al personaggio lettore che vincola la prospettiva della comunicazione letteraria ad una ed una sola modalità di “ascolto” (quella della lettura), la figura del personaggio narratario, alludendo, viceversa, alla più vasta ed eterogenea categoria dei destinatari di una qualsiasi specie di discorso-messaggio, e ponendo in risalto, soprattutto, la natura dialogica inscritta nella narrazione, tende a dilatare il confine di quest’ultima entro gli orizzonti più vasti della comunicazione tout court. In questo senso l’esibizione del narratario verbale e, soprattutto, l’inscrizione, nelle Città, del narratario Kublai Kan, parrebbero corrispondere al bisogno dell’autore di far tornare «la narrativa» «alle sue origini di comunicazione orale»: all’«antico gioco tra chi narra e chi ascolta, che esige la presenza fisica d’un pubblico che intervenga a far da coro, quasi provocato dalla voce del narratore». 71 Proprio questo aspetto affascina particolarmente Calvino che, non a caso, in un articolo del 1970, 67 Italo Calvino, La memoria del mondo, in «Il Giorno», 2 luglio 1967, poi nel volume La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche, cit. Il racconto rimane escluso invece dal volume Cosmicomiche vecchie e nuove, cit.; per le successive citazioni si fa riferimento a R-II, pp. 1248-1255. 68 Ivi, p. 1249. 69 «Posso offrirle un sigaro?», ibidem. 70 Ivi, p. 1255. 71 Id., Il romanzo come spettacolo, cit., p. 270.

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dedica ampio spazio alla descrizione della «forte passione istrionica» di Dickens che «al culmine della fama, leggeva episodi dei suoi romanzi in teatri di Londra e della provincia». 72 Parallelamente a questo interesse, l’autore presta molta attenzione anche alle forme di narrazione non verbali: già nelle Città invisibili, infatti, i primi colloqui tra Marco Polo e l’imperatore avvengono attraverso la gestualità («Marco Polo non poteva esprimersi altrimenti che con gesti, salti, grida di meraviglia e d’orrore, latrati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce: piume di struzzo, cerbottane…» 73 ), linguaggio che diviene esclusivo nel Castello dei destini incrociati. 74 Complessivamente, quindi, la fiction calviniana di questo periodo, nutrendosi di suggestioni non strettamente connesse al linguaggio letterario, ma relazionandosi con una più sfaccettata gamma di segni e di modelli comunicativi, riflette sul «fondamento unitario delle funzioni del linguaggio umano», 75 giacché tutto l’universo è comunicazione, è segno. Oltre ad evidenti suggestioni semiotiche, a guidare la prospettiva critica e artistica di Calvino è il progetto di sollecitare una letteratura «basata sull’antropologia», o, come precisato nel Protocollo del 1968 (per la rivista «Alì Babà»), «una antropologia basata sulla semiotica», o meglio ancora, «un’unica ipotesi», antropologica e semiotica insieme, che individui «la matrice comune del nostro uso dei segni culturali e dell’immaginario». 76 72 «Questo carattere di spettacolo s’estendeva anche alla pagina stampata. Per Dickens essere autore d’un romanzo non voleva dire solo scriverlo, ma anche essere regista della sua interpretazione», ivi, pp. 269-270. 73 Id., Le città invisibili, cit., p. 373. 74 Un altro spunto interessante, in questo senso, può essere rintracciato nel racconto L’origine degli uccelli, pubblicato in Ti con zero (cfr. R-II, pp. 236-247), interamente sviluppato sulla descrizione dei fumetti che il narratore compone per raccontare la storia. In un articolo del 1975, infine, l’autore asserisce che «anche il silenzio può essere considerato un discorso, in quanto rifiuto dell’uso che altri fanno della parola…» (Id., La corsa delle giraffe, in «Corriere della sera», 1 agosto 1975). 75 Cfr. Protocollo d’una riunione…, cit. (in Barenghi, Belpoliti, «Alì Babà» progetto di una rivista 1968-1972, cit., cfr. p. 58). 76 Ivi, pp. 60-61, su questo punto in particolare Calvino dichiara di concordare «al cento per cento» (cfr. ivi, p. 73). Già l’anno prima, nel numero monografico del «menabò» dedicato a Vittorini, Calvino appunta l’attenzione sulla nascita del «progetto d’una scienza generale dei segni che copra

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Il fatto di soppesare, opportunamente, la specificità della figura del personaggio narratario, non esclude, tuttavia, la possibilità di individuare in esso caratteri che ci riportano alle idee di lettura dell’autore. Se, anche dal punto di vista teorico, il personaggio narratario può «incarnare i pretesti e la motivazione stessa del racconto, drammatizzandoli con le sue domande», 77 questa possibilità si realizza, senza ombra di dubbio, nel personaggio dell’imperatore Kublai Kan. Un primo aspetto significativo è dato dal fatto che Calvino ribadisce, attraverso questa figura, la necessità che il lettore si ponga nei confronti del testo in un atteggiamento sospettoso e guardingo: se già, infatti, la diffidenza contraddistingue il patto tra narratore e narratario nel Cavaliere e nelle Cosmicomiche (ed anche nel racconto La memoria del mondo 78 ), essa diviene, nelle Città invisibili, il primo tratto caratterizzante del narratario personaggio: Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quello che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore. 79

In questa prima, suggestiva, immagine di Kublai Kan, ascoltatore accorto e al contempo ammaliato dal fascino della narrazione, è riconciliata la duplice aspirazione di Calvino a una lettura intesa come rielaborazione critica, e una come resa alla seduzione della parola. Così anche l’aspirazione calviniana a una letteratura che sia «non di affermazione», ma di «messa in discussione» e «d’interrogazione», 80 è riformulata nelle Città invisibili in termini gadameriani: 81

tutte le produzioni umane» (cfr. Calvino, Vittorini: progettazione e letteratura, cit., p. 183). 77 Bertoni, Il testo a quattro mani, cit., pp. 201-202. 78 «Lei crede che le dica queste cose per chiedere la sua complicità, Müller. No, non è questo il punto» (Calvino, La memoria del mondo, cit., p. 1254). 79 Id., Le città invisibili, cit., p. 561. 80 Id., Viaggio, dialogo, utopia, in «Il Ponte», XXIX (luglio-agosto 1973), n. 7-8, poi in S-I, pp. 1268-1272, la citazione a p. 1270. 81 Cfr. Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode, Tübingen, Mohr, 1960, tradotto in italiano Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1983.

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– D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. – O la domanda che ti pone obbligandoti a rispondere. 82

Nella caratterizzazione del rapporto tra Marco Polo e l’imperatore, l’autore, inoltre, insiste molto sulla intraprendenza immaginativa di Kublai Kan: ciò che rendeva prezioso a Kublai ogni fatto e notizia riferito dal suo inarticolato informatore era lo spazio che restava loro intorno, un vuoto non riempito di parole. Le descrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa. 83

Il narratore lascia al narratario la libertà di partecipare alla storia, di riempire gli spazi vuoti lasciati dal racconto, di rivivere e personalizzare le sue storie nell’intimità del proprio pensiero. Se già la tipologia di racconto di Marco Polo predispone l’ascoltatore ad assumere un ruolo attivo di partecipazione e di rielaborazione dei dati acquisiti, Kublai Kan, ad un tratto, avanza una richiesta ulteriore: Marco intanto continuava a riferire del suo viaggio, ma l’imperatore non lo stava più a sentire, lo interrompeva: – D’ora in avanti sarò io a descrivere le città e tu verificherai se esistono e se sono come io le ho pensate. 84

Anche nel racconto La memoria del mondo, a ben guardare, tra narratore e narratario si parla di un possibile scambio di ruoli: il signor Müller, infatti, dovrebbe occupare il posto di direttore del metaforico ufficio (preposto a salvare la memoria del mondo dalla sua prossima fine), ricoperto dal personaggio narratore. Se in questo caso l’apparente disponibilità del narratore si arrovescia, infine, nell’azione delittuosa contro Müller, da cui la fine di ogni ipotesi di scambio di ruoli, diverso, invece, è l’atteggiamento di Marco Polo: quest’ultimo, che pure rifiuta la proposta di Kublai Kan e si riappropria abilmente della narrazione, 85 Calvino, Le città invisibili, cit., p. 392. Ivi, p. 386. 84 Ivi, p. 391. 85 «- Sire, eri distratto. Di queste città appunto ti stavo raccontando quando m’hai interrotto» (ibidem). 82 83

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sa tuttavia di dovere delegare all’ascoltatore la parte più importante della sua comunicazione: – Io parlo parlo, – dice Marco, – ma chi m’ascolta ritiene solo le parole che aspetta. Altra è la descrizione del mondo cui tu presti benigno orecchio, altra quella che farà il giro dei capannelli di scaricatori e gondolieri sulle fondamenta di casa mia il giorno del mio ritorno, altra ancora quella che potrei dettare in tarda età, se venissi fatto prigioniero da pirati genovesi e messo in ceppi nella stessa cella con uno scrivano di romanzi d’avventura. Chi comanda al racconto non è la voce: è l’orecchio. 86

Analogamente anche Calvino lettore nel ’69, a margine del suo commento al libro di Frye (Anatomy of criticism), postula: «premetto che il mio sarà un discorso tutto soggettivo: ognuno scava da ogni libro il libro che gli serve, soprattutto quando è un libro ricco e complesso come questo». 87 Non pochi, dunque, nelle Città invisibili, sono gli spunti narrativi da cui ricavare le idee di lettura dell’autore, e, ciononostante, la possibilità, per noi lettori reali, di rifletterci in Kublai Kan non è né immediata né istintiva: troppo lontano e indefinito è il mondo della comunicazione tra narratore e narratario, troppo difficile da eguagliare è l’atteggiamento dell’ascoltatore. Del resto, come già rilevato, l’immedesimazione del lettore non interessa all’autore, il quale viceversa, col passare del tempo, si convince sempre più della opportunità di sollecitare un atteggiamento di diffidenza nel lettore. Inoltre, per quanto reinterpreti numerose istanze comunicative sostenute dall’autore, Kublai Kan ben difficilmente potrebbe rappresentare un nuovo modello di lettore ideale, così come si era verificato, invece, per la figura di Cosimo (molto distante dall’imperatore delle Città, per concretezza figurativa). Avendo escluso queste proposte di interpretazione, rimane allora da spiegare perché l’autore abbia introdotto nelle Città invisibili tante riflessioni sulla lettura, e a quale scopo. A ben guardare le indicazioni sulla lettura comprese nel testo, così come la figura di Kublai Kan, convergono a disegnare una modalità di lettura indubbiamente molto adatta per la comprensione delle stesse Città invisibili. Ricorrendo a defini86 87

Ivi, p. 473. Id., La letteratura come proiezione del desiderio, cit., p. 242.

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zioni strutturaliste, potremmo dire che il personaggio di Kublai Kan funge da controfigura del “lettore implicito” postulato dall’autore, cioè di quel ruolo che il lettore reale deve assumere per comprendere pienamente il testo. Riformulando questo stesso discorso in altri termini, già Lavagetto ha osservato: Descrivendo in questo modo il rapporto tra il Gran Kan e Marco Polo, Calvino ha prefigurato le relazioni che intercorrono tra il lettore e Le città invisibili: le parti sono esattamente determinate e il ruolo attivo dell’imperatore-interprete è lo stesso che impone questo libro imprendibile e misterioso. 88

Chiarito, quindi, lo scopo delle riflessioni sulla lettura contenute nel testo, rimane da capire qual è allora il ruolo, o l’atteggiamento verso cui dobbiamo tendere come lettori delle Città invisibili, per ottimizzare la comunicazione con l’autore. E ancora, in un contesto più ampio, qual è il modello di lettura proposto ai destinatari per realizzare il progetto autoriale di «alzare la posta in gioco». Il primo dovere cui siamo chiamati è quello di non arrenderci mai davanti alle difficoltà. In questo senso, infatti, Kublai Kan dà prova di un’irriducibile tenacia: egli interroga Marco Polo, propone discussioni, congetture, arriva a verità parziali e alternative che poi, un attimo dopo, rielabora secondo chiavi interpretative divergenti e complementari. Per rinnovare il confronto con il narratore ed evitare l’entropia della comunicazione, l’imperatore lancia la sfida degli scacchi, in cui le regole sono chiare e prestabilite, ma poi accetta di rapportarsi col mondo impari e tutto soggettivo della memoria del veneziano. Kublai Kan è uno che non si arrende e, soprattutto, è uno che rinnova il proprio atteggiamento ad ogni sconfitta. Il punto è che qualsiasi prospettiva sia scelta dall’imperatore per l’ascolto (e quindi per la lettura), essa andrà bene finché non sarà avvertita l’esigenza 88 Mario Lavagetto, Le carte visibili di Italo Calvino, in «Nuovi Argomenti», 31, gennaio-febbraio 1973, poi in Id., Dovuto a Calvino, cit., p. 1522, la citazione a p. 15. L’interpretazione di Lavagetto raccoglie il plauso di Calvino che gli invia una lettera entusiasta: «solo ora leggo il Suo saggio su “N. A.” e mi piace moltissimo. Lei è il primo che prende come filo conduttore Kublai Kan e le successive proposte e controproposte di lettura e così tocca molti punti nodali che ad altri sono sfuggiti» (Italo Calvino, Lettera a Mario Lavagetto, 18 maggio 1973, in Lettere, cit., pp. 1204-1205, la citazione a p. 1204).

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di sostituirla con una prospettiva nuova, che lì per lì funzionerà meglio della precedente, finché non emergerà un dubbio che renderà indispensabile la sua sostituzione, e così via a seguire. Lo stesso Calvino, in alcune lettere, suggerisce ai critici e ai lettori delle Città invisibili di non lasciarsi confondere dalla «costruzione elaborata e conclusa» dell’opera, né di accontentarsi dalla sentenza finale, la quale non va intesa come l’unica conclusione possibile, ma solo come una delle tante altrimenti indicate. Così viceversa, Calvino apprezza chi mette «in rilievo il carattere problematico del libro che procede registrando e contrapponendo e rimettendo in discussione gli atteggiamenti conoscitivi più contrastanti»: 89 «il senso che il libro deve trasmettere è quello di folto e di affollato» 90 e, aggiungiamo noi, di asistematico, dove l’unico metodo indicato consiste nella tenacia con cui si rinnova il metodo appena applicato. Se allora Kublai Kan si propone come controfigura del “lettore implicito” inscritto nel testo, anche noi lettori reali siamo invitati a «rinunciare per sempre a un ordine tassativo e rassicurante: dobbiamo [invece] comporre e ricomporre senza sosta le infinite direzioni del possibile che il testo promuove». 91 Il buon lettore che entrerà nei panni del lettore postulato da Calvino nei primi anni ’70, vedrà rovesciate le sue abitudini letterarie e percettive: dovrà disabituarsi alle definizioni assolute, e procedere, come Kublai Kan, per successive approssimazioni; e ancora dovrà rifiutare le soluzioni di comodo per porsi le domande che il testo necessita siano poste, rinunciando, infine, ad accontentarsi di un’unica risposta. 4. Un lettore narratore L’aspirazione negata a Kublai Kan di sostituirsi al narratore, si realizza infine nell’opera Il castello dei destini incrocia89 Id., Lettera a Caterina De Caprio, 29 marzo 1974, in ivi, pp. 12341236, la citazione a p. 1235. L’apprezzamento di Calvino si riferisce al saggio di De Caprio Le tante città di Calvino, in «Nord e Sud», 163, luglio 1973, poi in Id., La sfida di Aracne. Studi su Italo Calvino, Napoli, Libreria Dante e Descartes, 1996, pp. 80-94. 90 Italo Calvino, Lettera a Claudio Varese, 20 gennaio 1973, in Lettere, cit., pp. 1192-1194, le citazioni a p. 1193. 91 Lavagetto, Le carte visibili di Italo Calvino, cit., p. 17.

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ti, 92 dove l’azione di leggere e quella di narrare tendono a coincidere. Il narratore delle storie del Castello e quello della Taverna dei destini incrociati sono, infatti, anche lettori delle carte che altri personaggi scelgono per rappresentare la loro storia: «narrare è leggere», 93 spiega Bertoni, riconducendo l’opera alla «metafora della scrittura che derridianamente ossessiona il discorso occidentale». 94 Ma potrebbe essere vero anche il contrario, e cioè che leggere è narrare, visto che è proprio in virtù dell’esercizio di interpretazione che il lettore diviene anche narratore. Già da queste poche considerazioni, evidenti sono gli echi borgesiani, 95 così come l’influenza esercitata dalle riflessioni di Barthes, critico cui Calvino accorda, non a caso, una crescente ammirazione. 96 Suggestioni a parte, ciò che interessa rilevare in questa sede, è soprattutto il significato e la funzione che l’atto della lettura assolve all’interno della finzione narrativa. Un primo dato significativo è che la caratterizzazione del narratore come lettore (o viceversa del lettore come narratore) dà la possibilità all’autore 92 In realtà va precisato che la prima opera che compone il volume del 1973 (Il Castello dei destini incrociati) era già stata pubblicata nel 1969 e dunque andrebbe considerata precedente alle Le città invisibili. 93 Giorgio Bertoni, Il castello della scrittura, in «Indizi», nuova serie, n. 1, 1992, poi in Id., Italo Calvino, cit., pp. 119-176. 94 Ivi, p. 119. 95 Per un approfondimento sul rapporto tra Borges e Calvino si rimanda a Antonella Catalano, Il viaggio, la parola, la morte. Sulle favole cosmicomiche di Italo Calvino, in «Il lettore di provincia», XV, 1984, n. 56, pp. 8597; Roberto Paoli, La presencia de Borges en la literatura italiana contemporánea: Calvino, Eco, Sciascia, Tabucchi, Mendoza (Argentina), Universidad Nacional de Cuyo, Facultad de Filosofia y Letras, 1994; Giuseppe Nava, Calvino interprete di Borges, in «Paragone», 1994, n. 532-534, pp. 24-32; Pier Luigi Crovetto, Il castello dei destini che si biforcano (differenze e contiguità tra Jorge Luis Borges e Italo Calvino), in A writer for the next Millenium, cit., pp. 195-203; Martin L. McLaughlin, Borges e Calvino: la letteratura e l’intelletto, in Actas del Coloquio Internacional Borges, Calvino, la literatura, Université de Poitiers, Centre de Recherches LatinoAméricaines, 1996, pp. 85-103; Cesare Segre, “Le città invisibili” di Calvino e la vertigine epistemica, cit., in particolare p. 49 e sgg. La predilezione di Calvino per Borges è espressamente dichiarata dall’autore nelle Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, cui seguono varie edizioni, sino all’inclusione in S-I, pp. 627-733, cfr., in particolare, 5. Molteplicità, alle pp. 715-733. 96 Già in una lettera del ’65 Calvino scrive: «Roland Barthes […] è forse il critico contemporaneo che più ammiro» (cfr. Lettera a Grazia Marchianò, 21 dicembre 1965, in Lettere, pp. 907-920, la citazione a p. 909).

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di centrare l’attenzione del discorso sui procedimenti espressivi e interpretativi che coinvolgono la lettura. Nel Castello, così, l’atto della lettura è insieme tema del racconto e nucleo generativo dello stesso, e l’azione viene sviluppandosi sotto gli occhi di noi lettori esterni (o lettori di secondo grado), come una serie di processi ermeneutici dettagliatamente illustrati. Prendiamo, ad esempio, la Storia dell’ingrato impunito con cui si apre Il castello. Il primo atto interpretativo del lettore narratore concerne la spiegazione delle singole carte («il Re di Denari rappresentava un personaggio leggermente più anziano degli altri e dall’aspetto posato e prospero»), 97 e dei singoli gesti («l’espressione luttuosa con cui aveva deposto la prima di queste carte, e quella gioiosa con cui mostrò la carta seguente, parevano volerci far comprendere…»). 98 Disposte diverse carte, la lettura dei singoli segni necessita poi di una ricomposizione del senso d’insieme, o, se ancora non è possibile, almeno di una sua ipotesi: «dunque, l’inizio della storia poteva essere questo: il cavaliere, appena seppe d’avere i mezzi per…». 99 A questa prima spiegazione segue poi una verifica a posteriori: «le più tristi previsioni furono confermate dalla carta che venne poi, cioè l’arcano dodicesimo». 100 Questi procedimenti sono replicati, in modo analogo, in tutte le storie, con un incremento della complessità dopo la Storia di Astolfo sulla luna. Quando ormai tutte le carte dei tarocchi sono poste sul tavolo, la lettura narrazione necessita, infatti, di un coordinamento tra le varie direzioni: 101 ogni racconto corre incontro a un altro racconto e mentre un commensale avanza la sua striscia un altro dall’altro estremo avanza in senso opposto, perché le storie raccontate da sinistra a destra o dal basso in

Calvino, Storia dell’ingrato punito, pp. 507-513, la citazione a p. 507. Ibidem. 99 Ivi, p. 508. 100 Ibidem. 101 Questo aspetto (cioè il fatto che le storie prendano corpo tutte insieme) risulta maggiormente evidenziato nella edizione del Castello curata da Calvino per la prima edizione con Franco Maria Ricci. Successivamente, per la edizione del ’73, l’autore provvede ad una seconda stesura del testo in cui l’effetto di simultaneità delle storie è sottolineato solo verso la fine. Per un approfondimento di questi problemi cfr. Mario Barenghi, Il castello dei destini incrociati. Note e notizie sui testi, in R-II, pp. 1366-1380. 97

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alto possono pure essere lette da destra a sinistra o dall’alto in basso, e viceversa… 102

Riscontrando, in questo caso, una spiccata analogia con la teorizzazione di Greimas, 103 Maria Corti spiega: «benché alla ricezione il messaggio si presenti come successione articolata di significazioni, cioè nella sua condizione diacronica, la ricezione può realizzarsi solo trasformando la successione in simultaneità e la pseudo diacronia in sincronia». 104 Ma è evidente come, più in generale, l’idea di lettura rappresentata nel Castello si ispiri al modello semiotico che intende la lettura come un processo di iterazione comunicativa, composto di atti induttivi, deduttivi, più verifiche a posteriori. 105 È chiaro, allora, che scomposto e ricomposto in questi termini, l’atto della lettura-racconto-interpretazione dei tarocchi rappresenta un modello epistemologico ricco, dinamico che certo intende proporsi come esempio valido anche per l’interpretazione del mondo reale. Sotto questo punto di vista occorre precisare, però, che ci sono notevoli differenze tra il modello delineato nella prima edizione del Castello, del 1969, e quella definitiva del ’73 («mai un mio testo ha subito [tante] oscillazioni e ormai ne ho perso il conto», scrive Calvino a Sanguineti). 106 Il progetto sotteso al volume del ’73 è di «fare del Castello il luogo della regolarità e concentrare nella Taverna l’incasinamento», 107 lasciando spazio, così, ad entrambe le aspirazioni che albergano in seno all’autore, il quale si dichiara da una parte «fanatico dell’“opera chiusa” e degli schemi lineari», dall’altra «degustaCalvino, Tutte le altre storie, pp. 539-546, la citazione a p. 539. Ricordo che Calvino partecipa nel ’68 ad una settimana di studi semiotici all’Università di Urbino, durante la quale interviene anche Greimas. 104 Corti, Il gioco dei tarocchi, cit., p. 178. L’affermazione della Corti riprende testualmente la teorizzazione di Algirdas Julien Greimas, Sémantique Structurale, Paris, Larousse, 1966, tradotto in italiano Semantica strutturale, Milano, Rizzoli, 1969, in particolare cfr. p. 152. Ma c’è chi, come Arbasino, richiama le carte-mitemi di Lévi Strauss leggibili in più sensi (cfr. Alberto Arbasino, Viaggio nel mondo dei tarocchi. La Papessa e il Bagatto, in «Corriere della sera», 26 febbraio 1970). 105 Cfr. Umberto Eco, Il testo estetico come atto comunicativo, in Trattato di semiotica generale, Milano, Bompiani, 1975, consultato nella edizione del 2002, cui si rimanda alle pp. 342-343. 106 Cfr. Italo Calvino, Lettera a Edoardo Sanguineti, 5 febbraio 1974, in Lettere, p. 1227. 107 Ibidem. 102 103

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tore di gratuite fabulazioni visionarie». 108 In realtà, nella revisione del Castello per la pubblicazione del ’73, le varianti introdotte tendono a scompaginare l’impianto organico del ’69, forzando l’ordine in direzione del disordine, la chiusura in direzione di una riapertura e di una moltiplicazione. Emblematica, in questo senso, è la variazione introdotta per la fine: ecco ora ella apparecchiava una tavola per due (Due di Coppe) attendendo il ritorno dello sposo, e spiava ogni muovere di fronda in questo (Sette di Bastoni) bosco, ogni tirar di carte in questo mazzo di tarocchi, ogni volger di pagina in questo incastro di racconti tutti diversi e tutti uguali [dall’edizione Parma, Franco Maria Ricci, 1969, p. 142]. Eccola ora apparecchiare una tavola per due, attendere il ritorno dello sposo, e spiare ogni muovere di fronda in questo bosco, ogni tirar di carte in questo mazzo di tarocchi, ogni colpo di scena in questo incastro di racconti, finché non si arriva alla fine del gioco. Allora le sue mani sparpagliano le carte, mescolano il mazzo, ricominciano da capo [dall’edizione Torino, Einaudi, 1973, poi in R-II, p. 546].

Come si può vedere, nella revisione dell’opera l’autore tende ad avvicinare il Castello a quel modello epistemologico aperto, complesso e contradditorio, già messo in scena nelle Città invisibili e poi replicato nella Taverna. Del resto, Calvino, dopo avere aderito con entusiasmo alla proposta strutturalista di una «lettura completa d’un testo», 109 già nel marzo del ’69 manifesta la sua insofferenza: È cresciuta la mia speranza d’aver finalmente trovato il metodo di lettura fondamentale ed esaustivo? No, non posso dirlo. Comincio a sentire una pungente insoddisfazione, cioè lo stesso sentimento che mi prende dopo un po’ – o meglio: che mi prende abbastanza presto – di fronte a ogni metodo di lettura. Inevitabilmente, dopo avere apprezzato

108 Id., Lettera a Giorgio Manganelli, 7 marzo 1969, in ivi, pp. 10361040, le citazioni a p. 1036 e p. 1037. Ma già nella Sfida al labirinto Calvino giustappone due necessità: «quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come vera condizione dell’uomo» (Id., La sfida al labirinto, cit., p. 122). Questo stesso discorso viene sviluppato narrativamente nel racconto Il conte di Montecristo, in Ti con zero. 109 Id., Lettera a Francesco Leonetti, 22 aprile 1965, in Lettere, pp. 867868, la citazione a p. 867.

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quel che mi dà di nuovo, comincio a trovarlo parziale, a temere che sia più quello che resta fuori di quello che mi trovo nella rete. 110

Quello che rimane identico in tutte le redazioni è l’idea che l’operazione del leggere sia decisiva nell’economia del raccontare: le carte e i segni gestuali non bastano, ma possono parlare solo in virtù di un soggetto che li interpreti. Così, fondamentale risulta l’azione del singolo lettore, la sua capacità intellettiva e la sua disponibilità a calarsi nel racconto altrui. Si tratta di aspetti che ribadiscono, nel loro insieme, l’idea di lettura come processo aperto e decisivo per le sorti del testo singolo, e, più in generale, per le sorti della letteratura. Con le sole carte, infatti, a essere generata è solo una «presunzione di senso», 111 che il lettore deve attivare: «l’opera continuerà a nascere, a essere giudicata, a essere distrutta o continuamente rinnovata al contatto dell’occhio che legge». 112 E, tuttavia, nel Castello a essere puntualizzata è anche un’altra caratteristica della lettura: essa è sì atto soggettivo, ma non è per niente espressione dell’arbitrarietà. Significativo, sotto questo punto di vista, è l’uso insistito del noi («Riconoscemmo», «Respirammo di sollievo», «l’improvviso cambio di scena ci lasciò sconcertati»), 113 preferito dal lettore narratore alla prima persona singolare, con l’effetto di comprendere, nella sua interpretazione, anche quella di tutti gli altri commensali. Ma ancora più indicativo è che si tratti di una scelta grammaticale non esclusiva, ma usata in alternanza alla prima persona singolare, da cui si ricava che il lettore sa bene distinguere quello che può dire in nome di tutti e quello che riguarda soltanto lui (“ora ci racconterà il duello”, pensai»). 114 Questa situazione linguistica presuppone due spiegazioni: o il narratore ha ricevuto dagli altri l’incarico di leggere in nome di tutti, cosa di cui nel testo non si parla, oppure egli sa che la sua personale spiegazione coincide con quella altrui. A farci propendere per questa seconda ipotesi è l’uniformità delle rea110 Id., Lettera a Gianni Celati, marzo 1969, in ivi, pp. 1029-1035, la citazione a p. 1030. 111 Roland Barthes, Essais Critiques, Paris, Édition du Seuil, 1964, tradotto in italiano Saggi critici, Torino, Einaudi, 1966, p. XXIII. 112 Calvino, Cibernetica e fantasmi, cit., pp. 215-216. 113 Id., Storia dell’ingrato punito, cit., p. 508 e p. 510. 114 Ivi, p. 512. Corsivo nostro.

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zioni di tutti gli astanti: essi si spaventano tutti nello stesso momento, oppure si commuovono o si entusiasmano, ma sempre all’unisono, segno che «l’effetto è funzione della costruzione del testo», 115 ma anche che il senso attribuito dai diversi interpreti alle carte non è poi molto dissimile l’uno da quello degli altri. Da ciò l’idea che la soggettività si può esprimere nel senso della partecipazione (il soggetto può scegliere se collaborare alla interpretazione oppure no, e se sì a che grado), ma non in quella della significazione, che è implicita nella sequenza dei tarocchi e che aspetta soltanto di essere estrapolata. La lettura non è, quindi, operazione arbitraria: il lettore non crea la storia, crea il racconto della storia che altri narratori illustrano con i segni che hanno a disposizione. Per quanto rilevante, l’operazione del lettore narratore non è necessaria ai fini dell’esistenza delle storie in sé, né, come abbiamo visto, della loro significazione. Così come insegna la teoria strutturalista anche il lettore figurato da Calvino «può credere di interpretare correttamente quello che l’autore voleva dire o può decidere di introdurre scientemente nuove possibilità interpretative. Ma, anche così facendo, non tradisce mai completamente le intenzioni dell’autore, e stabilisce una dialettica tra fedeltà e libertà». 116 5. La lettura combinatoria come metafora epistemologica Col discorso qui condotto sulla produzione degli anni ’65-’73, si è verificato come a margine della sparizione del personaggio lettore, le opere calviniane compongano, in questo periodo, una serie di altre figure, variamente caratterizzate, cui l’autore delega, di volta in volta, una funzione particolare. Seppure la sostituzione del personaggio lettore col narratario (verbale, personaggio, e lettore narratore), rifletta (e incentivi) la vocazione strutturalista e metaletteraria dell’autore, queste stesse figure, se debitamente analizzate, ci restituiscono l’immagine di uno scrittore alacremente motivato ad intrattenere una comunicazione autentica ed efficace col lettore. Proprio a questo scopo, infatti, sembrano essere orientate le varie “metamorfosi”: se, ad esempio, l’esibizione del narratario verbale (nelle Cosmicomi115 116

Celati, Protocollo, cit., p. 64. Il concetto si rifa alle tesi strutturaliste. Eco, Trattato di semiotica generale, cit., p. 343. I corsivi nel testo.

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che e in Ti con Zero) è volta a garantire quel distacco critico nel lettore che è ormai prerogativa indispensabile per l’autore, la presenza nelle Città invisibili di Kublai Kan consente di descrivere qual è il ruolo che il lettore deve ricoprire per ottimizzare la ricezione del testo, e, una volta esaurita la finzione, per migliorare il suo atteggiamento gnoseologico nei confronti del reale. A emergere, soprattutto nelle Città invisibili e nel Castello dei destini incrociati, è l’idea che l’esibizione dei processi intellettivi, mnemonici e teoretici di cui è composta la lettura, tenda, prima di tutto, alla costruzione di una metafora epistemologica che il lettore è chiamato a interpretare per applicare il metodo appreso attraverso la finzione, anche alla sua vita. La fiction calviniana è quindi sì, in questo periodo, costruzione autonoma, che riflette sui meccanismi interni della letteratura, ma non è costruzione autarchica né autoreferenziale: «Nessuno sa meglio di te, saggio Kublai, che non si deve mai confondere la città col discorso che la descrive. Eppure tra l’una e l’altro c’è un rapporto». 117 A rivelarlo (oltre alle parole di Marco Polo) sono le stesse metafore epistemologiche inscritte nei testi, le quali, a ben guardare, rifiutano tutte il principio d’autorità nominalistico promosso da certe frange oltranzistiche della linguistica, e riconducono la libertà d’azione del lettore entro i confini (vasti, ma non illimitati) della interpretazione. Il lettore, per quanto tenti, non può inventare la storia: non può farlo Kublai Kan, che pure vorrebbe, non può farlo il lettore del Castello, il quale, per quanto sembri a tutti gli effetti occupare il posto del narratore, non è mai arbitro dei destini della storia, ma solo un interprete (tra i tanti possibili) che dà voce alle carte, proprio nel modo in cui esse pretendono di essere raccontate. Ora, descritte in questi termini, le azioni del narratario e del lettore narratore risultano certo più limitate di quello che non appaiono nei testi: «chi comanda al racconto non è la voce, ma è l’orecchio», spiega Marco Polo, «l’opera resta sempre leggibile nelle direzioni più diverse», 118 gli fa eco Calvino, il che significata che il lettore riveste un ruolo di estrema responsabilità nella decifrazione e nella riattivazione dei significati del racconto. Ma il punto è che il racconto, quindi, per traslato, il mondo, esisteCalvino, Le città invisibili, cit., p. 407. Id., Lettera a Ornella Sobrero, 27 gennaio 1965, in Lettere, cit., pp. 849-851, p. 851. 117

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rebbe anche senza la sua interpretazione. Insomma anche Calvino (così come l’amico Vittorini)… è uno che crede che il mondo esiste, che il discorso sul mondo conta perché al di là del discorso c’è il mondo (e se negli ultimi tempi il suo studio più assiduo è la linguistica, questo gli è necessario perché solo sapendo fino in fondo cos’è il discorso, il discorso potrà cominciare a dire non soltanto se stesso). 119

Se lo studio della linguistica è per Vittorini un passaggio obbligato per arrivare a parlare non solo di linguistica, la realizzazione di una letteratura come combinazione di strutture archetipe non è per Calvino momento funzionale, ma già occasione proficua per contestare e rivoluzionare la logica consolidata dei procedimenti euristici, e quindi, per traslato, dei procedimenti percettivi applicabili alla realtà: «è la letteratura [uno] spazio di significati e di forme che valgono non solo per la letteratura. Noi crediamo che le poetiche letterarie possano rimandare a una poetica del fare, anzi: del farsi». 120 Proprio la scrittura che rinuncia alla messa a fuoco del mondo riacquista una responsabilità formativa: perché solo nel regno di un nuovo immaginario essa può recuperare l’impegno di «fondare una coscienza». 121 È necessario ricordare come questo parallelismo tra lettura e conoscenza fosse già presente nelle opere degli anni ’50, allo scopo precipuo di rivelare i problemi di ordine gnoseologico connessi ai vari personaggi. Nel periodo successivo questo spunto è approfondito e ribaltato nella sua impostazione: se nel119 Id., Vittorini: progettazione e letteratura, cit., p. 165. Parlando direttamente di sé l’autore chiarisce: «io non sono tra coloro che credono che esista solo il linguaggio, o solo il pensiero umano […]. Io credo che esista una realtà e che ci sia un rapporto (seppure sempre parziale) tra la realtà e i segni con cui la rappresentiamo. […] Quindi la letteratura è per me una serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e relativo ma in qualche modo non inutile» (Id., Je ne suis pas satisfait de la littérature actuelle en Italie, «Gazette de Lausanne», 127, 3-4 juin 1967, p. 30, riportato in R-II, a p. 1347, da cui la citazione). Ma anche in Cibernetica e fantasmi l’autore ribadisce: «La battaglia della letteratura è appunto uno sforzo per uscire fuori dai confini del linguaggio; è dall’orlo estremo del dicibile che essa si protende; è il richiamo di ciò che è fuori dal vocabolario che muove la letteratura» (Id., Cibernetica e fantasmi, cit., p. 217). 120 Id., Lo sguardo dell’archeologo, cit., p. 327. Il corsivo nel testo. 121 Su questo aspetto cfr. Scrivano, Raccontare la scrittura, cit., p. 83.

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la “trilogia della modernità” l’autore introduce la metafora libro-mondo per evidenziare l’inadeguatezza dei presupposti teoretici di tipo storicista, nella successiva fase semiotica e combinatoria, egli parte dal presupposto opposto: avendo scoperto che la rigorosa metodologia organizzata dallo strutturalismo «consente una lettura completa d’un testo», 122 egli la propone come modello epistemologico anche per la realtà. Sotto questo punto di vista è giusto precisare che Calvino è «uno scrittore naturalmente strutturalistico-semiologico: se per atteggiamento strutturalistico-semiologico s’intende una strumentazione conoscitiva, che, appunto, combina l’osservazione empirica e la rigorosa raccolta dei materiali, da una parte, con, dall’altra, l’attività ordinatrice di alcuni grandi quadri concettuali, anche molto astratti». 123 «Il metodo detto strutturale o semiotico», per Calvino, vale proprio perché «algebrico e impassibile», 124 e perché si risolve all’interno del testo stesso: forse l’analisi critica che cerco è quella che non punta sul “fuori” direttamente, ma esplorando il “dentro” del testo riesce, proprio approfondendosi nella sua marcia centripeta, ad aprire sul “fuori” dei colpi d’occhio inattesi. 125

Un modello quindi alternativo alla mistificazione ideologica propria di certa letteratura ispirata al marxismo e all’idealismo hegeliano, un modello che certo avrebbe saputo frangere la perpetuazione delle insufficienti abitudini percettive dei personaggi lettori della “trilogia della modernità”, e, allo stesso tempo, rispondere alla tensione razionalizzante connaturata nell’autore. 126 122 Calvino, Lettera a Francesco Leonetti, 22 aprile 1965, in Lettere, cit., pp. 867-868, la citazione a p. 867. 123 Alberto Asor Rosa, Il “punto di vista” di Calvino, in Italo Calvino, Atti del Convengo Internazionale (Firenze), cit., poi con il titolo L’insopprimibile duplicità dell’essere, in Stile Calvino, cit., pp. 41-62, la citazione a p. 46. 124 Calvino, Lo sguardo dell’archeologo, cit., p. 326. 125 Id., La letteratura come proiezione del desiderio, cit., p. 249. 126 Secondo Lévi Strauss il «metodo dell’analisi strutturale» ha il merito di «introdurre un principio di ordine laddove non c’era che caos» (Claude Lévi Strauss, Anthropologie structurale, Paris, Plon, 1958, tradotto in italiano Antropologia Strutturale, Milano, il Saggiatore, 1968, da cui la citazione a p. 251), o, come spiega Boudon, «di mostrare la coerenza di fatti incoerenti sul piano fenomenico» (Raymond Boudon, À quoi sert la notion de structure? Essai sur la signification de la notion de structure dans les

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Che poi anche questo modello, ben presto, risulti troppo schematico e riduttivo, e che sia superato (già nella rielaborazione del Castello dalla prima alla seconda edizione) da un modello che propone la collaborazione tra tanti sistemi ermeneutici opposti e complementari (cfr. le Città invisibili e La Taverna dei destini incrociati), poco importa: quello che conta è che sia stata ripristinata la possibilità di suggerire un atteggiamento umano ed epistemologico attraverso la letteratura: «l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro». 127 Se è indubbio che Taverna e Città invisibili rifuggono da soluzioni ottimistiche («non vedo altra conoscenza che quella attraverso successive opposizioni e correzioni dell’errore», 128 scrive Calvino nel ’74), è importane sottolineare come in questo periodo l’autore riacquisti fiducia nelle possibilità della lettura e della letteratura. «Caro Leonetti», scrive Calvino nel ’67, «non credi più nella letteratura? Mah, io è quella la cosa in cui ancora credo di più. (Ma credere è un brutto verbo). Cioè tengo a quel di più che la letteratura può dare». 129 Questa prospettiva trova conferma nell’accezione positiva attribuita al verbo “leggere”. Se negli anni ’50, come descritto, questo lessema viene di solito usato in senso antifrastico, per designare ironicamente l’incapacità gnoseologica del soggetto, dalle Cosmicomiche, esso invece torna a definire una proprietà intellettiva ed ermeneutica pienamente realizzata. Si veda, ad esempio, il passo successivo: Così cominciò la storia del mio innamoramento per la moglie del capitano, e delle mie sofferenze. Perché non tardai ad accorgermi a chi andavano gli sguardi più ostinati della signora: quando le mani di mio cugino si posavano sicure sul satellite, io fissavo lei, e nel suo sguardo leggevo i pensieri che quella confidenza tra il sordo e la Luna le andava suscitando. 130

sciences humaines, Paris, Gallimard, 1968, tradotto in italiano Strutturalismo e scienze umane, Torino, Einaudi, 1970, la citazione a p. 173). 127 Calvino, La sfida al labirinto, cit., p. 122. 128 Id., Lettera a Giovanni Falaschi, 17 novembre 1974, in Lettere, cit., pp. 1257-1258, la citazione a p. 1257. 129 Id., Lettera a Francesco Leonetti, 15 giugno 1967, in ivi, p. 957. 130 Id., La distanza della Luna, cit., p. 88. Corsivo nostro.

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La situazione richiama la contingenza verificatesi nell’Avventura di un lettore, ma ne ribalta la soluzione: mentre il protagonista del racconto, accanito lettore di romanzi, è completamente inetto nella lettura dei segni della realtà, l’esercizio percettivo di Qwfwq si rivela, invece, efficace anche nella interpretazione di quel segmento di universo complesso e magmatico che è lo sguardo innamorato. Situazioni analoghe sono riscontrabili anche nel Castello, 131 ma è forse nelle Città invisibili che il lessema acquista un valore e una densità semantica mai eguagliati prima. Ci si riferisce, in particolare, al brano in cui di fronte alla scacchiera formata da un intarsio di legno d’ebano e di acero, «la quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno liscio e vuoto sommergeva Kublai; già Polo era venuto a parlare dei boschi d’ebano, delle zattere di tronchi che discendevano i fiumi, degli approdi, delle donne alle finestre…». 132 In questa dimensione, leggere significa riconoscere in un oggetto (o in un segno) l’insieme del mondo immaginato e ricordato. Se è difficile, forse impossibile, definire la natura dei materiali evocati dalla lettura del pezzetto di legno (i boschi d’ebano, le zattere, le donne alle finestre esistono davvero, o li ha inventati Marco Polo? Oppure li ha immaginati Kublai Kan, mentre ascoltava i resoconti del veneziano? Oppure, ancora, li ha estratti dalla sua personale memoria?), è certo invece, che la lettura assolve una funzione ricchissima: essa è insieme la fascinazione della suggestione, e la riattivazione del ricordo, l’espressione dei nessi logici (dal legno ai boschi d’ebano alle zattere), e la vittoria della fantasia e, non da ultimo, la celebrazione del desiderio lontano di «donne alle finestre»…

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Cfr. Id., Il castello dei destini incrociati, cit., p. 551. Id., Le città invisibili, cit., p. 469.

V SE UNA NOTTE D’INVERNO UN VIAGGIATORE

Termine ultimo e punto di arrivo obbligato del nostro discorso, Se una notte d’inverno un viaggiatore 1 è l’opera all’interno della quale Calvino accorda maggiore spazio al tema della lettura, proponendo, quale protagonista del romanzo, il personaggio del Lettore. È chiaro, allora, che la maggior parte delle analisi critiche del romanzo si è occupata del problema della lettura, così come hanno fatto, del resto, la maggior parte delle recensioni. Da ciò consegue che la prospettiva d’indagine qui adottata, che ci ha fino ad ora consentito di rimanere ai margini delle problematiche più discusse, entro un territorio di relativa originalità, ci proietta invece, in quest’ultimo caso, in medias res del dibattito critico. 1. La soddisfazione del lettore Una delle prime riserve che è stata avanzata sul romanzo, subito dopo la pubblicazione, riguarda il presunto utilizzo del personaggio Lettore ai fini di «dare una strizzata d’occhio al lettore medio». 2 Questo primo giudizio espresso da Guglielmi, e

1 Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Torino, Einaudi, 1979, poi in R-II, alle pp. 611-870, da cui saranno tratte le citazioni nel testo. Segue l’edizione negli Oscar Mondadori, 1994 e, recentemente, l’inclusione del volume nella «Biblioteca di Repubblica», Roma, Gruppo editoriale L’Espresso SpA, 2002. 2 Più specificatamente Guglielmi individua in Ludmilla il personaggio attraverso il quale Calvino avrebbe «se pure inconsapevolmente» condotto «un’opera di seduzione e di adulazione verso il lettore medio, che poi è il

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poi ripreso da altri (neoavanguardisti e non) 3 , per quanto sintetico intreccia diversi problemi, tutti variamente connessi al rapporto che Calvino avrebbe inteso istituire con il pubblico dei lettori. Anzitutto, il fatto di «strizzare l’occhio» al lettore sarebbe segno, secondo l’interpretazione di Guglielmi, di un piano di adescamento: una sorta di costruzione a tavolino del successo del romanzo, da cui la riduzione di quest’opera a prodotto meramente commerciale. A confutare questa tesi convergono, però, due riflessioni: la prima concerne la vocazione dell’autore a rifuggire dagli estremi sia di un’idea di letteratura aristocratica e destinata alle élites, sia, viceversa, di una mercificata e votata al mero soddisfacimento del lettore. Indicativo, in questo senso, è la risposta data da Calvino a un’inchiesta relativa al successo (Dietro il successo. Ricordi e testimonianze di alcuni protagonisti del nostro tempo: quale segreto dietro il loro successo?): «i miei libri non appartengono alla categoria dei best-sellers che vendono decine di migliaia di copie appena escono e l’anno dopo sono già dimenticati. La mia soddisfazione è vedere i miei libri ristampati tutti gli anni, alcuni con una tiratura di dieci, quindicimila copie ogni volta». 4 Dichiarando apertamente la propria soddisfazione di scrittore continuamente ripubblicato, Calvino si compiace altrettanto di non essere uno scrittore da best-seller, capace di raccogliere sì un plauso molto vasto, ma non duraturo: l’autore sa bene che l’ammiccamento al lettore è operazione di probabile successo nell’immediato, ma portata ad esaurirsi velocemente, scadendo nel dimenticatoio. Di là dal favore di pubblico, più o meno generoso, effettivamente raccolto dalle diverse opere, il progetto letterario di Calvero lettore (e acquirente) del suo libro» (Angelo Guglielmi, Domande per Italo Calvino, in «Alfabeta», I, ottobre 1979, n. 6, pp. 12-13, la citazione a p. 12). 3 Oltre ai critici di filiazione neoavanguardista, giudizi molto severi sul romanzo sono stati espressi anche da Leonardo Lattarulo, in La ricerca narrativa tra logica e misticismo, Roma, Edizioni Carte Segrete, 1982 (in particolare cfr. pp. 17-42), e da Gian Carlo Ferretti, in Il best seller all’italiana. Fortune e formule del romanzo “di qualità”, Roma-Bari, Laterza, 1983 (in particolare cfr. pp. 71-85). 4 Italo Calvino, Intervista a cura di Felice Froio, in Dietro il successo. Ricordi e testimonianze di alcuni protagonisti del nostro tempo: quale segreto dietro il loro successo?, Milano, Sugarco, 1984, poi in Italo Calvino, Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Milano, Mondadori, 1994, pp. 249-263, la citazione alle pp. 261-262.

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vino rimane sempre fedele a questa zona mediana: così è nella fase cosmicomica e combinatoria che, seppure preveda un destinatario più colto, non esclude, ma anzi incoraggia (come si è illustrato) un incremento delle facoltà nel pubblico quale esso è. Anche negli anni Sessanta, del resto, Calvino non rifugge dal successo letterario, ma, viceversa, ora si compiace delle 45.000 copie vendute dalle Cosmicomiche, 5 ora si rammarica del fatto che, a suo giudizio, il numero dei lettori di Ti con zero si restringa sempre di più. 6 Traendo spunto da questo stesso ordine di problemi, Calvino, attraverso l’espediente narrativo del diario di Silas Flannery (cfr. capitolo VIII, Dal diario di Silas Flannery), introduce nel Viaggiatore un racconto molto significativo. Nella stessa valle, su opposti versanti, abitano due scrittori: il primo è «uno scrittore produttivo», «abile artigiano, capace di sfornare romanzi fatti in serie per secondare il gusto del pubblico», 7 l’altro, invece, è «uno scrittore tormentato» che, come tale, si «siede alla scrivania, si mangia le unghie, si gratta, strappa un foglio», insomma trova l’ispirazione a costo di un enorme dispiego di forze e di volontà. 8 Ebbene, se quest’ultimo guarda con «ammirazione sincera» il modo in cui lo scrittore produttivo «mette tutte le sue energie nello scrivere», sorretto da una «fiducia nella comunicazione, nel dare agli altri quel che gli altri s’aspettano da lui, senza porsi problemi introversi», 9 lo scrittore produttivo guarda a sua volta con «invidia» lo scrittore tormentato, «perché sente quanto il proprio lavoro è limitato e superficiale in confronto con ciò che lo scrittore tormentato va cercando». 10 Tra questi due estremi, apparentemente inconciliabili, si colloca (anche fisicamente) una lettrice che, sdraiata su una terrazza a fondovalle, legge un libro con un trasporto tale che entrambi gli scrittori si mettono a scrivere spinti dal solo desiderio di essere letti in quello stesso identico modo. Mettendosi ambedue al lavoro di buona lena, gli scrittori cercano di scrivere, rispettivamente, quello tormentato «un romanzo di grande effetto come 5 Cfr. Id., Lettera a Ottavio Cecchi, 15 luglio 1966, in Lettere, cit., pp. 932-933. 6 Cfr. Id., Lettera a Michel David, 17 marzo 1970, in ivi, pp. 1074-1075. 7 Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 781. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ivi, p. 782.

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quelli dello scrittore produttivo», e quello produttivo «un libro denso di significati nascosti, come quelli dello scrittore tormentato». 11 La prima e più suggestiva conclusione trascritta da Flannery nel suo diario, prevede che gli scrittori finiscano per proporre due romanzi identici, cioè raggiungano il compromesso perfetto tra la ricerca dell’effetto e del significato, il tutto in funzione di un solo ed unico scopo: il soddisfacimento della lettrice vorace e appassionata. Questa stessa si ritiene fosse l’idea di scrittura che Calvino si era prefissato di raggiungere nel Viaggiatore, con volitiva determinazione: «se mi dai del seduttore, passi», scrive Calvino rispondendo a Guglielmi, «dell’adulatore, passi; del mercante in fiera, passi anche quello; ma se mi dai dell’inconsapevole, allora mi offendo!». 12 Il fatto che a questo finale seguano poi, nel diario di Flannery, una serie di possibili varianti, meno suggestive ma più verosimili (la donna confonde i due manoscritti, oppure è il vento che li scompagina, o ancora: la donna preferisce l’opera dello scrittore produttivo e detesta quella proposta dal tormentato, o viceversa, ecc. 13 ), ci riporta con pragmaticità alle difficoltà dell’arte letteraria, e all’impossibilità (o alla problematicità) di percorrere una via mediana tra il tormento e la produttività. E ancora ci rammenta che Calvino è scrittore ed editore troppo esperto per non sapere che il successo di un libro è fenomeno, in realtà, spesso imprevedibile, così come lo sono i gusti e le predilezioni dei singoli lettori: «dovrebbe essere un libro che la gente legge» scrive Calvino in una lettera del 1964 «ma in questo non si può mai essere profeti». 14 Atteggiamento analogo è riservato dall’autore alle sue stesse opere e, non da ultimo, anche al Se una notte d’inverno un viaggiatore. In una lettera di ringraziamento a Raboni (autore di un’entusiastica recensione al romanzo 15 ), Calvino sostiene: Ibidem. Id., Se una notte d’inverno un narratore, in «Alfabeta», I, dicembre 1979, n. 8, pp. 4-5, poi riproposto da Bruno Falcetto in Note e notizie sui testi. Se una notte d’inverno un viaggiatore, in R-II, pp. 1281-1401, in particolare cfr. pp. 1388-1397, da cui la citazione a p. 1391. 13 Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 782. 14 Id., Lettera a Renzo Tomatis, 9 giugno 1964, in Lettere, cit., pp. 818820, la citazione a p. 819. 15 Cfr. Giovanni Raboni, Calvino racconta al lettore un romanzo di tutti i romanzi, in «Tuttolibri», 30 giugno 1979. 11

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Tu scrivi anche che sarà un libro importante nei prossimi decenni, ma questo proprio non lo possiamo sapere. Di solito i libri che diventano importanti in seguito sono irriconoscibili lì per lì. Ma anche se il mio fosse un libro “finale” di qualcosa anziché “iniziale”, già sarei abbastanza contento. 16

A conferma della sincerità con cui Calvino scrisse queste parole, non che della autenticità del suo discorso, si potrebbe verificare, infine, come la prima tiratura del Viaggiatore fosse di 10.000 copie inferiore a quella del Castello (40.000 copie contro 50.000), segno che il successo di pubblico poi guadagnato dal romanzo sopravanzò le previsioni autoriali ed editoriali. 17 2. Il “tu” lettore come rifrazione del pubblico dei lettori Un altro problema su cui si sono soffermati numerosi critici, riguarda la scelta, compiuta da Calvino nel Viaggiatore, di porre al centro del romanzo il Lettore e il rapporto tra questi e l’autore. Convincente risulta, a questo proposito, la spiegazione proposta da Barenghi, secondo il quale «il rapporto autore-lettore» costituirebbe «anche un modello di relazione interpersonale», capace di rispondere ad un bisogno di «socialità» che torna a farsi sentire in Calvino, dopo un lungo periodo di isolamento. 18 Interpretazione analoga era già stata proposta da Milanini, e avallata dello stesso Calvino, il quale, in una lettera, si sofferma soprattutto sull’«affermazione decisiva» del critico: «l’ispirazione non ha luogo, fuori dalla comunicazione», affermazione che Calvino trova perfettamente coincidente alle sue intenzioni. 19 Ma anche altre lettere scritte in questo periodo testimoniano il 16 Italo Calvino, Lettera a Giovanni Raboni, 2 luglio 1979, in Lettere, cit., p. 1399. 17 Per un confronto sulle tirature dei vari romanzi cfr. il capitolo XI, intitolato Tirature in Serra, Calvino, cit., pp. 358-366. 18 Barenghi, Italo Calvino, le linee e i margini, cit., p. 30. 19 Italo Calvino, Lettera a Claudio Milanini, in Lettere, cit., pp. 1447– 1448, la citazione a p. 1447. Il saggio cui fa riferimento Calvino è Claudio Milanini, Calvino, un’utopia discontinua, in «Pubblico», a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Milano Libri, 1981, poi confluito e rifuso in Milanini, L’utopia discontinua, cit.

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crescente desiderio dell’autore di essere parte attiva nei problemi della società, 20 il suo rinnovato interesse per i fatti che accadono in Italia, 21 e il bisogno di «scrivere pubblicare comunicare»: negli ultimi anni per un po’ sono stato molto soddisfatto di “fare il morto”: come sono bravo io che non pubblico! Come sono bravo io che sto zitto! Invece adesso ricomincio a capire che l’unica cosa che mi piacerebbe è scrivere pubblicare comunicare, ma a furia di rifiutare questo rifiutare quello sono arrivato a perdere ogni amore per le immagini della vita contemporanea. 22

Certo non è un caso se in questi stessi anni Calvino ricomincia a scrivere assiduamente per dei quotidiani («la Repubblica» e il «Corriere della sera»), e decide di trasferirsi da Parigi a Roma, spinto, come dichiara, da motivi economici, ma non solo. Porre al centro del romanzo il Lettore e la Lettrice avrebbe rappresentato, quindi, per l’autore un modo per uscire dall’isolamento, per ripristinare un colloquio diretto con il pubblico, ma anche, forse, un escamotage per superare un periodo di crisi d’ispirazione. Come Flannery nel Viaggiatore riacquista entusiasmo grazie all’immagine della appassionata lettrice, così Calvino ricomincia a scrivere (dopo un periodo di silenzio), ponendo la stessa lettrice (è sempre di Ludmilla, infatti, che si tratta) al centro della sua creazione. L’espediente, del resto, non è nuovo, poiché già in precedenza Calvino (con il Visconte) aveva superato un periodo di stasi narrativa, dimenticandosi dei suoi doveri di scrittore (allora impegnato), per immedesimarsi nel piacere di lettura. Il principio, come si può vedere, è analogo a quello che poi sarebbe stato applicato anche da Flannery e 20 In una lettera a Michele Rago del 30 novembre 1977, Calvino, ad esempio, scrive: «Io faccio su e giù tra la vita familiare di Parigi e tutti i problemi pratici che sono in Italia. Continuamente sento dirmi, qui: beato te che stai in Francia. Il che mi dà rabbia, perché più vanno male le cose in Italia più è per me impossibile stare in Francia, e ogni anno penso che sarà l’ultimo. E Parigi resta per me un non-luogo dove cerco di passare qualche settimana di seguito isolato ma con l’attenzione sempre tesa alle notizie dall’Italia che una distanza anche minima ingigantisce. Del resto la disgregazione della società […] è veramente preoccupante» (in Lettere, cit., p. 1356). 21 «Ho seguito le cose di Bologna settimana per settimana dalla testimonianza di spettatori e attori d’ogni tipo» (Cfr. Id., Lettera a Guido Neri, 31 gennaio 1978, in ivi, pp. 1359-1364, in particolare p. 1362). 22 Id., Lettera a Giuseppe Bonura, 6 maggio 1972, in ivi, pp. 1165-1167, la citazione a p. 1166.

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dallo stesso Calvino nel Viaggiatore, ma diversa è la soluzione: se al giovane intellettuale del dopoguerra era bastato immedesimarsi nei ricordi dell’infanzia per recuperare il gusto della lettura, l’autore maturo della fine degli anni Settanta si chiede invece: «da quanti anni non posso concedermi una lettura disinteressata? Da quanti anni non riesco ad abbandonarmi a un libro scritti da altri, senza nessun rapporto con ciò che devo scrivere io? […] Da quando sono diventato un forzato dello scrivere, il piacere della lettura è finito per me». 23 Per assaporare il vero piacere, l’autore deve ora proiettarsi nell’immagine di una vera lettrice, meglio ancora se, come Ludmilla, fermamente intenzionata a rimanere esterna al circuito della produzione letteraria, e per questo ancora capace di riceverne una fascinazione: «C’è una linea di confine», spiega Ludmilla: «da una parte ci sono quelli che fanno i libri, dall’altra quelli che li leggono. Io voglio restare una di quelli che li leggono, perciò sto attenta a tenermi sempre al di qua di quella linea. Se no, il piacere disinteressato di leggere finisce, o comunque si trasforma in un’altra cosa, che non è quello che voglio io». 24 Questo marcare la differenza tra i due ruoli di lettore e scrittore, rappresenta, infine, un ingranaggio della struttura abilmente orchestrata dall’autore, all’interno della quale anche noi lettori esterni siamo chiamati a fare le veci di Ludmilla (o almeno, quelle del Lettore), cioè ad appassionarci, a godere con trasporto del piacere che la lettura può procurare. Precisato ciò, è bene recuperare, però, anche un altro ordine di ragioni certamente confluite nel progetto narrativo del Viaggiatore. Non bisogna, ad esempio, dimenticare che poco prima (e durante) la stesura del romanzo, Calvino già rivela il proprio interesse per la possibilità di inscrivere, all’interno di un’opera, un’immagine del pubblico cui intende rivolgersi l’autore. In un articolo del 1974 egli, ad esempio, scrive: Nell’ultimo canto dell’Orlando Furioso, l’Ariosto rappresenta nel poema i lettori del poema. L’autore è riuscito a portare la sua nave in porto, e trova i moli affollati di gente che l’attende: nella folla egli riconosce ed enumera molte persone: belle dame, cavalieri, poeti, dotti. È quella la prima volta, credo, che non il lettore singolo e solitario ma il 23 Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 777 (Dal diario di Silas Flannery). 24 Ivi, p. 700.

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“pubblico” appare riflesso nel libro come in uno specchio; o meglio, il libro vede se stesso come riflesso negli occhi di una folla di lettori. Non è una folla qualsiasi: il poeta ha ritagliato una sua società di lettori ideali all’interno del mondo dei lettori potenziali, cioè della società delle corti italiane del tempo. È un modello di società che può riconoscere se stessa nel suo modo di leggere quel libro; e che anche se non lo leggesse costituirebbe un modello di società di per sé, contrapposto alla società quale essa è. Così nell’intenzione che ogni scrittore mette nel suo progetto d’opera, è implicito un progetto di pubblico. 25

Da questa riflessione possono essere tratte due considerazioni, di cui una prima di ordine pratico: il pubblico è parte della creazione letteraria, perché ogni scrittore (a un grado di consapevolezza maggiore o minore), per creare un’opera, deve sempre prefigurarsi una comunità di lettori cui rivolgersi. 26 Esattamente questo è il senso che si ricava da una lettera che Calvino scrive a una scuola media, nel 1972: l’autore è qualcuno che si mette a tavolino e scrive, ma scrivendo ha presente – magari senza pensarci – il suo pubblico, i suoi lettori passati e futuri. Quindi siete autori anche voi, soprattutto adesso che ho avuto questa corrispondenza diretta con voi. Vi considero miei collaboratori. 27

Ma in questa operazione di prefigurazione, connessa alla pratica artigianale della scrittura, si cela un’importante opportunità: quella di progettare un pubblico diverso dalla società reale e in attrito con essa. Anche lo scrittore più innovatore, più arduo, più controcorrente, forse proprio lui più degli altri, ha in mente un suo pubblico o contro pubblico. […] Il progetto di successo dello scrittore che conta implica l’enunciazione di una società di lettori che si distingue in qualche modo

25 Id., Un progetto di pubblico, cit., p. 342. Il discorso viene proseguito anche nell’articolo Id., Ariosto: la struttura dell’“Orlando Furioso”, cit., in particolare cfr. p. 768. 26 «Si scrive per il lettore universale […] ma questo è un sogno astratto; lo voglia o no, lo scrittore, anche se aspira dentro di sé agli allori eterni, parla ai suoi contemporanei… » (Sartre, Che cos’è la letteratura, cit., p. 51). 27 Italo Calvino, Lettera agli alunni della scuola media di Santa Maria a Monte (Pisa), 12 gennaio 1972, in Lettere, cit., p. 1206 (all’interno della nota n. 1).

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dalla società quale essa è; mentre lo scrittore dozzinale ha in mente solo la società quale essa è e la sua risposta immediata. 28

Si tratta, come si può ben vedere, di un’operazione evidentemente molto ambiziosa che non a caso riecheggia la teorizzazione sartriana: «tutte le opere dello spirito contengono dunque in sé l’immagine del lettore cui sono destinate», 29 scrive Sartre nel 1947, invitando gli scrittori del suo tempo a emanciparsi da un tipo di rifrazione che tenda alla «riconferma» delle élites culturali e politiche, e cominci a includere nel pubblico di riferimento anche i ceti sociali rimasti fino allora esterni alla letteratura, e tuttavia non esclusi dai confini del pubblico potenziale. Affine a Sartre è anche il punto di arrivo del discorso di Calvino, e lo scopo che egli si prefigge in questo periodo: porre al centro dalla propria riflessione la questione del «rapporto tra il messaggio letterario e la società, o più precisamente tra il messaggio e la possibile creazione d’una società che lo riceva». 30 A ben guardare, però, la scelta dell’Ariosto (di inscrivere nell’opera un’immagine del pubblico), tanto apprezzata da Calvino, è operazione antitetica a quella orchestrata dall’autore nelle Cosmicomiche e nelle opere immediatamente successive, laddove in queste, come descritto, il gioco delle rifrangenze si esaurisce a livello intradiegetico nel colloquio tra narratore e narratario, allontanando la possibilità di una rifrazione del lettore reale. Ora, l’uso insistito del “tu” nel I capitolo del Viaggiatore, potrebbe trarre in inganno e lasciare ipotizzare che l’autore intenda proseguire con la prospettiva avviata nelle Cosmicomiche, ma è proprio grazie ad un confronto con questa opera che si può cogliere la novità del Viaggiatore. Se nelle Cosmicomiche gli appelli al pubblico degli ascoltatori, rimarcando la lontananza tra narratore e narratario, e sottolineando la precarietà, la difficoltà insita nella comunicazione, finiscono per conferire al discorso interno al testo un’aura lontana, astratta, indefinita e quindi teorica, in Se una notte d’inverno un viaggiatore l’uso insistito del “tu” sviluppa (e si inscrive in) una dimensione radiId., Un progetto di pubblico, cit., pp. 342-343. Sartre, Che cos’è la letteratura, cit., p. 53. 30 Italo Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura (tit. or. Right and wrong political uses of Literature), conferenza letta ad Amherst (Massachusetts) il 25 febbraio 1976, poi in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 351-360, la citazione a p. 357. 28 29

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calmente mutata. In primo luogo il libro letto dal “tu” verbale è lo stesso libro che sta leggendo anche il lettore reale («Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore» 31 ), così come precisa e verosimile è la sua collocazione spaziale: «la porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa». 32 Di là dal fatto che il lettore reale possa o no immedesimarsi nel “tu” lettore (problema su cui torneremo tra poco), di certo c’è che il “tu” inscritto nel testo riacquista tutti i connotati di concretezza e di quotidianità di una persona reale. Così la lettura stessa smette di essere operazione astratta (cfr. Le città invisibili e Il castello dei destini incrociati) per divenire attività che si realizza in situazioni molto concrete («in poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo»… 33 ), ciascuna delle quali implica, a sua volta, una serie di avvertenze pratiche indispensabili alla ottimizzazione della lettura stessa: «tenere i piedi sollevati è la prima condizione per godere della lettura», spiega il narratore, 34 ma anche la luce è molto importante: «regola la luce in modo che non ti stanchi la vista. Fallo adesso, perché appena sarai sprofondato nella lettura non ci sarà più verso di smuoverti», 35 così come la quiete: «Dillo subito agli altri […]. “Sto leggendo non voglio essere disturbato”». 36 In questo senso, l’immagine della lettura proiettata nel Viaggiatore, più che ricollegarsi alle teorie semiotiche e strutturaliste, sembrerebbe anticipare l’attenzione che numerosi critici avrebbero manifestato da lì a poco per lo studio delle pratiche della lettura. In questo senso, infatti, il Viaggiatore propone un’ampia e quanto mai variegata casistica dei modelli e dei problemi pratici connessi alla lettura: si parla delle posizioni da adottare per leggere (sdraiati sul divano o seduti su una sedia, ecc.) e della connessione tra posizione e modalità di lettura: «una volta si leggeva in piedi, di fronte a un leggio. Si era abituati a stare fermi in piedi». 37 Estremamente variegata è la scelta dei luoghi: dalla casa all’autobus, passando (perché no) da una letId., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 613. Ibidem. 33 Ibidem. 34 Cfr. Ibidem. 35 Ivi, p. 614. 36 Ivi, p. 613. 37 Ibidem. 31

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tura a cavallo, con il «libro posato sulla criniera», 38 senza rinunciare all’esperienza della lettura collettiva all’università, cioè all’ascolto di «qualcun altro che legge ad alta voce», cosa «molto diversa da leggere in silenzio»: Quando leggi, puoi fermarti o sorvolare sulle frasi: il tempo sei tu che lo decidi. Quando è un altro che legge è difficile far coincidere la tua attenzione col tempo della sua lettura: la voce va o troppo svelta o troppo piano. 39

Altri problemi ancora si pongono, invero, quando si ascolta la lettura ad alta voce di «uno che sta traducendo da un’altra lingua», da cui un fluttuare d’esitazioni intorno alle parole, un margine d’indeterminatezza e di provvisorietà. Il testo, che quando sei tu che lo leggi è qualcosa che è lì, contro cui sei obbligato a scontrarti, quando te lo traducono a voce è qualcosa che c’è e non c’è, che non riesci a toccare. 40

La lettura nel Viaggiatore, cioè, non è mai attività teorica o (come accadeva nelle opere combinatorie) proponente modelli teorici, ma sempre attività concreta, che si realizza secondo condizioni dettate dal luogo, dalle circostanze e dalla relazione (diretta o mediata) con il testo. Quest’ultimo esercita, del resto, una parte fondamentale nell’attivazione della lettura: Calvino nel Viaggiatore spiega, infatti (come insegna la Textual Bibliography), che la lettura è sempre lettura di un libro, cioè di un oggetto fisico, le cui caratteristiche interferiscono con la ricezione del testo, influenzandone l’interpretazione fino al caso limite, sperimentato dal Lettore, di rendere impossibile la prosecuzione della lettura stessa. Calvino da editore esperto qual è, sa che l’oggetto libro è composto di un insieme di fogli che possono essere scompaginati, oppure persi oppure strappati, sa che c’è il problema della rilegatura, della stampa, ecc. 41 A corroborare l’idea dell’importanza della materialità dei volumi non è soltanto l’esperienza editoriale ma anche il ricordo affascinante delle letture realizzate Ibidem. Ivi, p. 676. 40 Ibidem. 41 Sull’attenzione che Calvino editore riserva alla materialità dei volumi cfr. Nigro, Dalla parte dell’effimero, cit. 38 39

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quando era ragazzo, come quella del Gordon Pym, che ha significato anche l’incontro con la biblioteca «Romantica»: un mio zio era abbonato ai volumi verdi, aveva anzi sottoscritto uno dei primi abbonamenti che davano diritto a ricevere ogni volume con un ex-libris personale; tra i titoli dorati dei dorsi allineati nello scaffale scelsi il Gordon Pym e fu un’esperienza tra le più emozionanti della mia vita: emozione fisica. 42

Ma torniamo al I capitolo per verificare come, inscritta nella finzione, ci sia anche una mappa dettagliata del percorso che il Lettore deve condurre per trasformarsi da pubblico potenziale ad acquirente, sino a divenire lettore reale. Riordinando l’intreccio narrativo del I capitolo secondo lo sviluppo cronologico dei fatti, si risale, infatti, ad un “tu” lettore che legge «su un giornale che è uscito Se una notte d’inverno un viaggiatore, nuovo libro di Italo Calvino, che non ne pubblicava da vari anni». 43 La pubblicità, o forse una recensione, sortisce il suo effetto e il potenziale lettore decide di passare in libreria ad acquistare una copia del romanzo. Lì, però, è travolto da una miriade di libri che egli riorganizza secondo criteri del tutto personali («Libri Che Puoi Fare A Meno Di Leggere», «Libri Troppo Cari Che Potresti Aspettare A Comprarli Quando Saranno Rivenduti A Metà Prezzo», ecc. 44 ). Il lettore potenziale per trasformarsi in lettore reale (e nel personaggio del Lettore), dovrà necessariamente oltrepassare la miriade di libri che lo guardano «con l’aria smarrita dei cani che dalle gabbie del canile municipale vedono un loro ex compagno allontanarsi al guinzaglio del padrone venuto a riscattarlo», 45 dovrà raggiungere la pila di Se una notte d’inverno un viaggiatore, e impossessarsi di una copia del volume. Prima ancora di averlo pagato e (poi subito dopo), il lettore, ormai entrato (o che sta entrando) di diritto tra il novero degli acquirenti del Viaggiatore, pregusta la visione del testo, attraverso il contatto con il libro ancora avvolto dal cello42 Italo Calvino, La «Romantica», in «Nuova Antologia», 1981, aprilegiugno, pp. 545-553, poi in Editoria e cultura a Milano tra le due guerre (1920-1940), Atti del convegno, Milano, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 1983, pp. 172-178, poi con il titolo La «Biblioteca romantica» Mondadori, in S-II, pp. 1724-1734, da cui la citazione alle pp. 1733-1734. 43 Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 614. 44 Ivi, p. 615. 45 Ivi, p. 616.

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phane, ammirandolo nella sua bellezza di oggetto ben fatto, «uscito ora dalla fabbrica». 46 Segue poi un intervallo di tempo in cui i doveri quotidiani (il trasporto, il lavoro, ecc.) ritardano l’inizio della lettura vera e propria e l’intera giornata è misura di quella attesa. Una volta giunto a casa, il lettore (ancora in potenza), prima di visitare il testo, si attarda nella lettura del paratesto, andando a caccia di qualche preziosa e curiosa informazione: «rigiri il libro tra le mani, scorri le frasi della retrocopertina, del risvolto, frasi generiche, che non dicono molto. Meglio così, non c’è discorso che pretenda di sovrapporsi indiscretamente al discorso che il libro dovrà comunicare lui direttamente, a ciò che dovrai tu spremere dal libro, poco o tanto che sia». 47 Se ci si è dilungati in questa descrizione, è per dimostrare come il “tu” personaggio protagonista del I capitolo, lontano anni luce dal “tu” (voi) narratario delle Cosmicomiche, intende essere una proiezione o meglio ancora un rappresentante di quel pubblico di lettori che da lettori potenziali sono poi diventati (tramite la lettura del messaggio pubblicitario, la ricerca della distribuzione in libreria, l’acquisto dell’oggetto libro e l’osservazione del paratesto) lettori reali del Viaggiatore. A rimarcare questa identificazione collabora l’atteggiamento iniziale del “tu” nei confronti della letteratura, che sembra replicare en abyme una descrizione che Calvino propone del pubblico italiano: come il “tu” è allettato dal piacere letterario perché lo ritiene «settore ben circoscritto […] dove può andarti male o andarti bene, ma il rischio della delusione non è grave», 48 così Calvino, con non poca amarezza, scrive: «tutti sanno che le parole sono solo parole e non producono alcun attrito col mondo intorno, non implicano alcun pericolo né per lo scrittore né per il lettore». 49 Ivi, p. 617. Ivi, p. 619. Sull’attenzione accordata da Calvino alle copertine, cfr. Nicoletta Leone, Le copertine di Calvino: altri mondi possibili, in «Autografo», XIV (gennaio-giugno 1998), n. 36, pp. 49-66; Mario Barenghi, Tra picasso e Dürer. Le copertine di Calvino, in Italo Calvino: dipingere con parole, scrivere con immagini, Atti del convegno internazionale di Copenhagen, 26-28 maggio 2004, in «Nuova prosa», Quadrimestrale di narrativa, Nuova serie, 42, a cura di Lene Waage Petersen e Birgitte Grundtvig, Milano, Greco editori, 2005, pp. 43-52, poi in Barenghi, Italo Calvino, cit., pp. 201-210. 48 Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 614. 49 Id., Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, cit., pp. 356-357. 46 47

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Se quindi si ammette che il “tu” lettore sia un rappresentante del pubblico dei lettori del Viaggiatore, è bene chiarire, però, che il suo atteggiamento di partenza non soddisfa per niente le attese dell’autore, ragione in più per credere che la sua proiezione nel testo difficilmente tenderà al compiacimento del lettore reale, ma sarà un espediente per attrarlo in un gioco ben più complesso e costruttivo. 3. Il lettore medio Se quindi già da queste prime riflessioni circa il rapporto che Calvino avrebbe voluto vedere istituito tra autore, pubblico e società, è difficile credere che l’operazione del Viaggiatore tenda alla soddisfazione (quindi alla riconferma) dell’atteggiamento del pubblico dei lettori, quale esso si presenta nel contesto italiano degli anni ’70, è tuttavia lo stesso autore a dichiarare espressamente, e in più di un’occasione, che il naturale destinatario e fruitore del Viaggiatore è il lettore medio. 50 Questa considerazione, oltre che commento a posteriori sulla ricezione dell’opera, descrive anche il progetto messo in atto al momento della scrittura, e realizzato attraverso uno sforzo di semplificazione degli argomenti e del registro narrativo. «Qui sarà tutto più sul piano del lettore medio», 51 scrive a Guido Neri, e ancora: «per me è stato difficile scrivere perché volevo che non fosse difficile da leggere». 52 È poi lo stesso autore a dimostrare, in realtà, come il fatto di rendere accessibile il testo a molti, non escluda a priori la possibilità di destinatari competenti e iperspecialistici, cui è indirizzata, ad esempio, il Comment j’ai écrit un de mes livres: 53 lettura semantico-strutturale del Viaggiatore proposta dallo stesso Calvino (sul quadro semiotico di Greimas). È bene premettere, inoltre, che l’attenzione (non esclusiva) per il pubblico medio non è scelta repentina e occasionale del Viaggiatore, ma esigenza che viene manifestandosi già dai priCfr. Id., Se una notte d’inverno un narratore, cit., pp. 1388-1397. Id., Lettera a Guido Neri, 31 gennaio 1978, in Lettere, cit., pp. 13591364, la citazione a p. 1360. 52 Id., Lettera a Raboni, 2 luglio 1979, in ivi, p. 1399. 53 Id., Comment j’ai écrit un de mes livres, in «Actes sémiotiques – Documents», VI, 1984, 51, poi riproposto in «Nuova Corrente», XXXIV, 1987, n. 99, pp. 10-28 (numero monografico interamente dedicato all’autore). 50 51

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mi anni ’70: quando ancora Calvino scrittore rielabora opere complesse, dalla lettura non immediata, come Le città invisibili e Il castello dei destini incrociati, Calvino intellettuale medita, invece, sull’opportunità di realizzare «una rivista agile, indirizzata al pubblico non specialistico dei lettori di media cultura», capace di «conciliare riflessione teorica e leggibilità». 54 Questa è l’aspirazione cui l’autore ambisce per la rivista «Alì Babà», opponendosi alla diversa idea di Celati. Mentre quest’ultimo sostiene che «non bisogna fare la lezione a nessuno», 55 e prosegue in una riflessione teorica molto complessa e articolata, 56 Calvino invece si convince sempre più che «occorra in primo luogo conquistare l’attenzione di un uditorio esteso, composito, anche un po’ distratto». 57 Il rischio che si corre con una rivista fatta solo «di studi, di teorica» è, infatti, che la «leggano quattro gatti», mentre Calvino vorrebbe tendere, viceversa, ad aprire il colloquio con nuovi interlocutori: Io […] sogno una rivista tutta diversa, diversa come pubblico innanzitutto: una rivista di romanzi a puntate come quelle che facevano Dickens, Balzac. […] Dovrebbe essere una rivista a larga tiratura, che si vende nelle edicole, una specie di «Linus» ma non a fumetti, romanzi a puntate con molte illustrazioni, un’impaginazione attraente. E molte rubriche che esemplifichino strategie narrative, tipi di personaggi, modi di lettura […] ma tutto attraverso cose divertenti da leggere. Insomma un tipo di ricerca fatto con gli strumenti della divulgazione. 58

Il sogno di rivista ipotizzato da Calvino, presenta, a ben vedere, più di un’analogia con il progetto letterario poi realizzato nel Viaggiatore: in entrambi i casi, ad esempio, Calvino intende istituire un nuovo rapporto con il pubblico, proponendo romanzi a puntate (cioè romanzi interrotti), e offrendo esempi narrativi come occasioni di approfondimento sui diversi modelli di lettura. Questa riflessione è ripresa nell’articolo Un progetto di pubblico, dove Calvino si sofferma soprattutto nella caratteriz54 Mario Barenghi, Congetture su un dissenso, in Id, Belpoliti, «Alì Babà» progetto di una rivista 1968-1972, cit., pp. 13-23, la citazione a p. 22. 55 Calvino, Colloquio con Ferdinando Camon, cit., p. 2786. 56 Questa almeno è l’impressione che si ricava dai materiali per la rivista curati direttamente da Celati, cfr. Barenghi, Belpoliti, «Alì Babà» progetto di una rivista 1968-1972, cit. 57 Barenghi, Congetture su un dissenso, cit., p. 22. 58 Calvino, Colloquio con Ferdinando Camon, cit., pp. 2785-2786.

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zazione del pubblico stesso. L’idea del «pubblico vasto e indifferenziato» trova qui due possibili esemplificazioni: una storica, nei lettori ottocenteschi, ai quali si rivolge il romanzo popolare, l’altra contemporanea, nel pubblico di riferimento di Elsa Morante, la quale, dal canto suo, ha «voluto scrivere un romanzo che abbia come primi lettori proprio i non lettori, quelli che non leggono nemmeno i romanzi di successo, gli esclusi dalla lettura». 59 Nella rielaborazione proposta da Calvino, il progetto di pubblico della Morante, e quello degli scrittori ottocenteschi di romanzi popolari, si contrappongono al modello di pubblico inscritto nei romanzi di successo «nell’accezione che ha assunto oggi il best-seller»: 60 mentre il romanzo popolare è basato sul funzionamento oggettivo della macchina narrativa […] il best seller come lo si intende oggi sia in America che in Europa è tutto il contrario: anziché sull’oggettività e impersonalità si basa sulla pretenziosa e vaga soggettività dell’autore che trabocca nella pretenziosa e vaga soggettività dei lettori, in una melassa di “umanità”. Esso si basa su un errore di metodo che confina con la ruffianeria morale: credere che entità non ben definite come l’umanità, la vita, le passioni, i sentimenti possano passare direttamente nella carta scritta. 61

Come si può ben vedere, in queste riflessioni si intrecciano diverse sollecitazioni: da una parte Calvino sembra colpito dall’operazione della Morante che ha reso possibile ripristinare il vecchio sogno sartriano e gramsciano di un allargamento degli orizzonti socioculturali della lettura, 62 dall’altro è affascinato dall’ipotesi di realizzare ciò senza ricorrere allo stratagemma moderno della compiacenza sentimentale, bensì ripristinando un tipo di rapporto con il pubblico onesto e oggettivo, sul modello di quello istituito dai romanzieri popolari. 63 Da queste 59 Id., Un progetto di pubblico, cit., cfr. pp. 343-344, la citazione riportata nel testo è a p. 344. 60 Ivi, p. 343. 61 Ivi, pp. 343-344, il corsivo nel testo. 62 In modo esplicito Calvino dichiara: «insomma a me piacerebbe un rapporto così con un pubblico nuovo che non ha ancora pensato al posto che può avere la letteratura nei bisogni quotidiani» (Id., Colloquio con Ferdinando Camon, cit., p. 2786). 63 Si tratta, come si può ben vedere, di suggestioni che certo riaffiorano in Calvino al momento della scrittura del Se una notte d’inverno un viaggiatore, la scelta del qual titolo viene, ad esempio, suggerita proprio da un

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stesse riflessioni (specie da quelle sul romanzo popolare), Calvino potrebbe avere ricavato anche una sollecitazione a una rivalutazione della letteratura intesa come prodotto, il che significa, da una parte, «sublimazione» del lettore medio, che legge per passione disinteressata e intende mantenersi al di fuori dell’ingranaggio produttivo, fiero del suo ruolo di acquirente e destinatario; dall’altra, implica, per lo scrittore, l’ammissione onesta, e per nulla contrita, del fatto che scrivere rappresenti per lui un lavoro: [non] mi dimentico neanche per un minuto (dato che vivo di diritti d’autore) che il lettore è acquirente, che il libro è un oggetto che si vende sul mercato. Chi crede di poter prescindere dall’economicità dell’esistenza e da tutto ciò che essa comporta, non ha mai avuto il mio rispetto. 64

È curioso, inoltre, come in una lettera a Manganelli, congratulandosi per Centuria, Calvino raccontando all’amico di stare allestendo un libro che, similmente a Centuria, è composto di tanti libri, si dichiara altresì «anche molto preoccupato», giacché il Viaggiatore conterrà «solo 10 romanzi e costerà pressappoco la stessa cifra», da cui la domanda: «Come potrà reggere la concorrenza?». 65 Pur se dettata da un intento ironico, la battuta ci riporta all’idea di concretezza cui si è sempre ispirato Calvino nel suo lavoro di scrittura, idea che forse col tempo si è ulteriormente precisata. Sotto questo punto di vista l’allusione a un rapporto tra materiali narrativi, soddisfazione del lettore e prezzo di vendita ci riporta anche al progetto editoriale della collana «Centopagine», ideata e diretta dallo stesso Calvino dal ’71, allo scopo di «rispondere a un fondamentale bisogno di “materie prime”». 66 poster di «Linus»: «questo tipo di titolo si collega all’occasione della prima idea che ho avuto di questo libro: tenevo appeso accanto alla mia scrivania un poster di quelli di “Linus” col cane Snoopy che scrive a macchina e la frase: Era una notte buia e tempestosa…» (Id., Lettera a Daniele Ponchiroli, 3 luglio 1978, in Lettere, cit., pp. 1374-1375). 64 Id., Se una notte d’inverno un narratore, cit., p. 1391, il corsivo nel testo. 65 Id., Lettera a Giorgio Manganelli, 31 marzo 1979, in Lettere, cit., pp. 1392-1393, la citazione a p. 1392. 66 Id., Una nuova collana: i «Centopagine» Einaudi, quartino di presentazione della collana, allegato ai primi quattro titoli (1971), poi in S-II, pp. 1718-1720, la citazione a p. 1719.

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Se è indubbio che nella chiarezza con cui Calvino descrive il rapporto, anche pecuniario, tra lettore e scrittore riaffiora la sua decennale esperienza di editore, in realtà questo atteggiamento schietto e pragmatico è connaturato nel suo carattere. «Scrittore artigiano» è stato definito da Ferretti, in relazione soprattutto ai primi anni di attività creativa e giornalistica, 67 ma la definizione è oltremodo valida per quest’ultimo periodo, in cui alla dimensione dell’artigianalità si aggiunge quella del “servizio”: degli anni post bellici «m’è rimasto il senso d’un bisogno collettivo a cui rispondere», dichiara a Camon l’autore, 68 e ancora: «io ho la coscienza in pace solo se riesco a divertire la gente», 69 confida all’amico Guido Neri. Sempre negli stessi anni, Calvino dichiara, inoltre, la propria ammirazione per gli «scrittori veri», che scrivono «su commissione»: «io credo molto allo scrivere su commissione», 70 asserisce, riconoscendo in questa pratica una modalità di realizzazione letteraria capace di riappropriarsi di un rapporto diretto (quasi servizievole) col proprio pubblico, e quindi di una sua legittimazione. Ma tutto questo discorso (rivalutazione del romanzo popolare, del pubblico medio, del valore materiale della scrittura) è certo da mettere in relazione anche all’esperienza neoavanguardista appena trascorsa, la quale avrebbe sì potuto «aprire la via a una nuova strutturazione» della letteratura, ma che, in sostanza, secondo il giudizio di Calvino, non ha ricavato «niente, o proprio il contrario di ciò che ci si poteva aspettare». 71 La scelta di Calvino d’orientare l’affabulazione narrativa in direzione del pubblico medio rappresenta, indubbiamente, anche una reazione allo sterile elitarismo della stagione appena conclusa. Questo stesso è il senso dell’operazione editoriale di «Centopagine», e anche della lettura che Calvino propone della «Biblioteca romantica» di Borgese, 72 collane entrambe destinate a «valorizzare la narrazione, dopo le ampie svalutazioni ope67 Ferretti, La collaborazione ai periodici, cit., in particolare cfr. p. 45. Il concetto viene ulteriormente sviluppato da Ferretti in Le capre di Bikini, cit., pp. 31-32. 68 Calvino, Colloquio con Ferdinando Camon, cit., p. 2786. 69 Id., Lettera a Guido Neri, 27 agosto 1980, in Lettere, cit., pp. 14311435, la citazione a p. 1434. 70 Id., Colloquio con Ferdinando Camon, cit., p. 2785. 71 Id., Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, cit., p. 354. 72 Cfr. Id., La «Biblioteca romantica» Mondadori, cit.

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rate» dai movimenti d’avanguardia rispettivamente di metà e di inizio Novecento. 73 Dell’attività di Borgese Calvino sembra apprezzare soprattutto il fatto di avere dato «una piattaforma», costruito «delle fondamenta alla cultura letteraria, al fascino del grande romanzo, per gli italiani che s’affacciavano allora all’orizzonte della lettura», 74 risultato che è invece mancato del tutto (volutamente) alla neoavanguardia italiana. Riflettendo sulla possibilità di azione (anche politica) della letteratura nella società, Calvino rileva come la stagione appena trascorsa della neoavanguardia letteraria abbia fallito la possibilità di uno scambio con l’avanguardia politica, anche per colpa dell’incapacità di coinvolgere nella comunicazione una porzione significativa del pubblico italiano: Comunque sia, l’appuntamento tra le due nuove avanguardie, letteraria e politica, non avvenne. L’avanguardia letteraria risentì della perdita delle potenziali riserve di lettori che s’attendeva. E i già sconfitti scrittori degli anni Cinquanta rioccuparono le loro posizioni. La letteratura non può lasciare posti vuoti senza che vengano occupati: nel peggiore dei casi dai cattivi scrittori, e nel migliore da scrittori di tipo tradizionale. 75

La riflessione è foriera di due rilevanti conclusioni: la prima è che la letteratura, per avere un ruolo anche politico, non può prescindere dal mantenere un dialogo con un pubblico – il più vasto possibile – di lettori. La seconda è che lasciare inappagato un bisogno di lettura del pubblico significa, di fatto, assecondare la diffusione di cattiva letteratura. Alla luce di ciò, la scelta di Calvino di favorire il pubblico medio sembra essere sempre meno determinata da ambizioni di successo personale, e sempre più inscritta in un recupero della dimensione anche “politica” della letteratura, laddove è solo nella vastità e nell’eterogeneità del pubblico che si realizza la “forza” della parola scritta, ed è solo proponendosi il soddisfacimento di un bisogno già presente nella società che si può pensare di sollecitare anche altri bisogni, e di arrivare anche a nuovi lettori.

73 Su questo aspetto si rimanda a Cadioli, Italo Calvino editore “narratologico”, cit., in particolare p. 177 (da cui la citazione) e sgg. 74 Calvino, La «Biblioteca romantica» Mondadori, cit., p. 1734. 75 Id., Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, cit., p. 355.

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Al naufragio di ideali (artistici, politici, ecc.) Calvino, ancora una volta, risponde affilando le armi della concretezza e della precisione, non per esorcizzare un fallimento, ma per evitarne l’iterazione. In questo caso, trattandosi del fallimento della comunicazione tra autore e lettore, Calvino sceglie di porre questo stesso problema al centro della finzione, nella consapevolezza che quanto più precisa sarà la sua risposta al bisogno di piacere di lettura del lettore, tanto più incisiva potrà essere la sua “azione”. 4. La costruzione del Lettore Avendo cercato di fornire, nei precedenti paragrafi, una trattazione dei vari problemi connessi al rapporto tra autore e pubblico in relazione al Viaggiatore, è giunto il momento di dedicarci, più specificatamente, a un’analisi testuale che sviluppi il tema della lettura in relazione alle figure narrative inscritte nella finzione. Il primo aspetto che va sottolineato a questo riguardo, è che la lettura è presenza fondamentale non solo nei racconti cornice, in cui essa si incarna nelle figure del Lettore, della Lettrice e di tutta una serie di personaggi complementari (i lettori settoriali delle università, i lettori di professione in casa editrice, i tanti e multiformi lettori del capitolo XI, e altri ancora), ma anche, a ben guardare, negli incipit romanzeschi. I romanzi stessi, del resto, come spiega l’autore, avrebbero dovuto rappresentare tanti racconti di lettura, o meglio, racconti dei diversi modi in cui un modello romanzesco costruisce la lettura: dovrebbe essere data, più che una citazione testuale, il racconto della lettura – questo avviene nei primi due [inizi di romanzo], poi, – anche perché il procedimento stancherebbe – prevale la narrazione diretta – ma in ogni brano c’è almeno un passaggio in cui la pagina scritta viene in primo piano. 76 76 Id., Lettera a Guido Neri, 20 agosto 1979, in Lettere, cit., pp. 14021403, il corsivo nel testo. Il concetto viene ripreso anche in altre lettere cfr. Id., Lettera a Guido Neri, 31 gennaio 1978, in ivi, p. 1360; Id., Lettera a Cesare Segre, 6 novembre, 1980, in ivi, pp. 1439-1440; e anche in un articolo: «Più che d’identificarmi con l’autore di ognuno dei dieci romanzi ho cercato d’identificarmi col lettore: rappresentare il piacere della lettura d’un dato genere, più che il testo vero e proprio» (Id., Il libro, i libri, cit., p. 1857).

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A ben guardare, in effetti, i primi due incipit ricordano la modalità di narrazione autoriflessiva già adottata nel Castello, dove l’intero racconto si costruisce come lettura-interpretazione dei segni-tarocchi. Analogamente, anche nel Se una notte d’inverno un viaggiatore (incipit), lo spazio fittizio si presenta come costruzione di uno spazio: «il romanzo comincia in una stazione ferroviaria, sbuffa una locomotiva… […] tutto è nebbioso, anche dentro, come visto da occhi di miope, oppure occhi irritati da granelli di carbone. Sono le pagine del libro a essere appannate come i vetri d’un vecchio treno…». 77 Così, con lo stesso procedimento, sono progettate le sensazioni che il romanzo intende generare nel lettore («le frasi che stai leggendo sembra abbiano il compito di dissolvere più che indicare le cose affioranti» 78 ), ed è predeterminata l’interpretazione («Tutti questi segni convergono nell’informare che si tratta d’una piccola stazione di provincia» 79 ). Lo spazio letterario rifiuta l’atto brutale e arbitrario di un’introduzione in medias res, come fa il romanzo naturalista: esso, quindi, non finge di essere reale ma si presenta come oggetto del discorso tra autore e lettore. Un po’ come i tarocchi, così la stazione, il personaggio che aspetta il treno, la nebbia, ecc. non sono altro che “materiali narrativi”, attraverso i quali l’autore traccia una sequenza di eventi, secondo un preciso piano di comunicazione. Certo, a differenza del Castello, qui, a costruire il significato non è il lettore, ma l’autore (dietro le spoglie, neanche troppo mentite, del personaggio-narratore), da cui l’impressione generale di una lettura non come processo ermeneutico, ma come “trappola” congeniata al fine di ottimizzare l’effetto della scrittura. Di «trappola» parla, del resto, lo stesso narratore del primo racconto, in uno dei suoi numerosi avvisi al lettore: È già da un paio di pagine che stai andando avanti a leggere e sarebbe ora che ti si dicesse chiaramente se questa a cui io sono sceso da un treno in ritardo è una stazione d’una volta o una stazione d’adesso; invece le frasi continuano a muoversi nell’indeterminato, nel grigio, in una specie di terra di nessuno dell’esperienza ridotta al minimo comune denominatore. Sta’ attento: è certo un sistema per coinvolgerti a po-

Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 620. Ivi, p. 621. 79 Ivi, p. 620. 77

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co a poco, per catturarti nella vicenda senza che te ne renda conto: una trappola. 80

Ma se è lo stesso narratore personaggio a rivelare le intenzioni del testo al lettore, allora forse più che di una trappola si tratta, in questo caso, di un gioco, cui entrambe le parti possono partecipare (onestamente), seguendo le norme (romanzesche) già codificate e palesate. Proprio questo è lo scopo di ciascuna storia inclusa nel Viaggiatore: fornire dei modelli di “romanzesco” come «procedura letteraria determinata – propria della narrativa popolare e di consumo ma variamente adottata dalla letteratura colta – che si basa in primo luogo sulla capacità di costringere l’attenzione su un intreccio nella continua attesa di quel che sta per avvenire». 81 In questo senso si spiega anche la scelta di presentare solo l’incipit, che è il luogo in cui l’attenzione del lettore è massima, così come massimo è lo sforzo dell’autore nell’istituire le regole della comunicazione. Se ogni storia, presa singolarmente, offre un romanzesco di tipo tradizionale, la sequenza delle varie storie, così come l’istituzionalizzazione dell’interrotto, tradisce però la tradizione, collaborando, nel suo insieme, alla definizione di un romanzesco che «attinge ormai alle teorie della letteratura del Novecento», 82 e si ricollega al principio (ormai irrinunciabile) della letterarietà della letteratura. 83 Poiché ogni racconto contiene almeno un’indicazione sul progetto di lettura che l’autore inscrive nel testo, 84 nel suo insieme questa enciclopedia romanzesca smaschera la costruzione retorica della narrativa, dichiarando apertamente che ogni opera tende alla costrizione del lettore (tramite il lettore implicito), forzandolo verso una determinata pratica di ricezione. Anche «l’avere fatto dell’interruzione [dell’intreccio] un motivo strutIvi, pp. 621-622. Id., Se una notte d’inverno un narratore, cit., p. 1390. 82 Cadioli, Italo Calvino editore “narratologico”, cit., p. 188. 83 «Il romanzo […] ha come prima regola il non rimandare più a nessuna storia (a un mondo) fuori delle proprie pagine, e il lettore è chiamato a seguire solo il procedimento della scrittura, il testo nell’atto dello scriversi» (Calvino, Il romanzo come spettacolo, cit., p. 272). 84 «Racconto quest’incidente in tutti i particolare perché […] queste immagini dell’epoca devono traversare la pagina così come…» (Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 687. Altri esempi alle pp. 716, 740, ecc.). 80 81

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turale», 85 collabora in questa direzione, aumentando il senso di frustrazione e di impotenza del lettore, che non è più soggetto che governa se stesso e realizza l’azione del leggere, ma oggetto di un ingranaggio predeterminato e inespugnabile, proprio come la prigione di Edmond Dantès. Per fortuna, verrebbe da dire, che c’è anche l’altro Lettore, protagonista dei racconti cornice, la cui storia finisce, invece, nel migliore dei modi o, per lo meno, nel meno grave dei due modi indicati (sposarsi o morire). Ma com’è, allora, quest’altra figura, e cosa ci dice delle idee di lettura dell’autore? Uno dei nodi su cui la critica si è più soffermata, riguarda proprio la relazione che dovrebbe intercorrere tra il Lettore e noi lettori reali: c’è chi sostiene che dal II capitolo cornice il Lettore tenda a costruirsi come figura autonoma, cioè come un vero e proprio personaggio, non dissimile da altri designati con nome e cognome. 86 C’è chi rileva, invece, come «il testo formuli una prescrizione» ben precisa: 87 «questo libro è stato attento finora a lasciare aperta al Lettore che legge la possibilità d’identificarsi col Lettore che è letto: per questo non gli è stato dato un nome che l’avrebbe automaticamente equiparato a una Terza persona». 88 A me pare, in verità, che questo problema sia sopravvalutato, laddove l’autore gioca intenzionalmente con l’ambiguità di questa figura, da un lato attribuendole un’identità indefinita («chi tu sia, Lettore, quale sia la tua età, lo stato civile, la professione, il reddito, sarebbe indiscreto chiederti. Fatti tuoi, veditela un po’ tu» 89 ), dall’altro costruendo per essa una trama oltremodo avventurosa, che vanifica la possibilità di identificazione, visto che «è piuttosto improbabile che un individuo reale possa riconoscere come propria una serie così dettagliata di attributi», 90 e una sequenza così rocambolesca di azioni. Id., Se una notte d’inverno un narratore, cit., p. 1390. Ad esemplificazione di questa impostazione critica si rimanda alle riflessioni di Cesare Segre, in Se una notte d’inverno uno scrittore sognasse un aleph di dieci colori, in «Strumenti critici», 39-40 (XIII, 2-3), ottobre 1979, poi in Id., Teatro e romanzo. Due tipi di comunicazione letteraria, Einaudi, Torino, 1984, pp. 135-173, in particolare p. 158. 87 Cfr. Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 31. 88 Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit. p. 749. 89 Ivi, p. 641. 90 Bertoni, Il testo a quattro mani, cit., p. 167. L’ambiguità della situazione è colta anche da Lavagetto: «Man mano che procedevo, ho finito per 85

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Più interessante sottolineare come l’autore tenda a farci percepire il rapporto tra l’avventura cornice del Lettore e quella dei singoli inizi di romanzo come un’immagine speculare del rapporto tra vita reale e letteratura. Questa interpretazione è suggerita così tante volte da divenire uno dei leitmotiv della cornice, e uno dei principi strutturali della stessa narrazione che, in questo modo, replica, nella affabulazione romanzesca, lo schema binario che sorregge la struttura. Si vedano, infatti, a dimostrazione di questo discorso, le numerose similitudini («Passi una notte agitata, il sonno è un flusso intermittente e ingorgato come la lettura del romanzo», «lotti coi sogni […] come quando si comincia a leggere» 91 ), e il procedere per parallelismi: «Porti con te due aspettative diverse e che entrambe promettono giornate di gradevoli speranze: l’aspettativa contenuta nel libro […] e l’aspettativa contenuta in quel numero di telefono». 92 Altrettanto palese e insistito è lo scopo di questa organizzazione retorica: lettore, hai trovato il libro che cercavi; ora potrai riprendere il filo interrotto; il sorriso torna sulle tue labbra. Ma ti pare che possa continuare così, questa storia? No, non quella del romanzo: la tua! Fino a quando continuerai a lasciarti trascinare passivamente dalla vicenda? […] Allora il tuo ruolo di protagonista a cosa ti serve? 93

La storia cornice del Lettore testimonia come il rapporto con la lettura consenta di migliorare la vita, e, soprattutto, l’approccio alla vita anche di una persona scettica e diffidente, com’è, in principio, il protagonista («tu sai che il meglio che ci si può aspettare è di evitare il peggio» 94 ). Certo la crescita del Lettore non è conquista facile né immediata, ma un lungo percorso contraddire quel divieto fino a trasformare – ne sono e ne ero consapevole – il lettore in un personaggio. Non mi resterebbe a questo punto che fare ammenda, se l’infrazione non fosse stata costruita deliberatamente. Era una conseguenza – o almeno mi sembra – del modo in cui avevo assunto la parte che mi era stato richiesto di assumere» (Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 31). 91 Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 636. Altri esempi di similitudini alle pp. 650, 651 (solo per limitarci ai primi capitoli). 92 Ivi, pp. 640-641. Altri esempi alle pp. 653, 659, 699, 739 e tantissimi altri ancora. 93 Ivi, p. 828. 94 Ivi, p. 614.

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scandito da una serie progressiva di perfezionamenti sia del gusto letterario sia del rapporto con la vita. Sotto questo punto di vista, il romanzo, nel suo complesso, sembra riproporre in modo fedele alcune delle riflessioni sulla lettura formulate diversi anni prima, in previsione della rivista «Alì babà» (materiali che lo stesso Calvino dichiarò di avere recuperato per scrivere il Viaggiatore). 95 Tra le lettere dell’epoca, in una scritta a quattro mani da Calvino e Celati, si trova: Io (Italo) credo che per leggere un testo qualsiasi bisogna: a) applicare un codice che è quello proprio del testo in questione; b) applicare tutti gli altri codici di cui disponi, il che ti dà tutti gli altri piani di lettura, che ci sono presenti nell’atto del leggere coscientemente o incoscientemente […]. c) Però ad un certo momento la lettura diventa veramente utile se da essa nasce la configurazione di un nuovo modello; cioè se il testo diventa un codice, o dal testo è estrapolabile un codice che ti servirà per leggere negli altri testi o nell’esperienza. 96

A ben vedere questa tripartizione delle fasi di lettura è ripresa nello stesso Viaggiatore: il punto a) trova applicazione nei singoli romanzi, dove la lettura si configura come lettura dei codici inscritti nel testo dall’autore. Il punto b) è esemplificato, invece, nel rapporto tra episodio cornice e incipit romanzesco, sintetizzato nella enunciazione dell’aspirazione di lettura ogni volta riformulata da Ludmilla. A questo proposito è bene chiarire come, oltre che da principi estetici, 97 le preferenze di lettura di Ludmilla risentano anche dell’esperienza “reale”: dopo l’esperimento della lettura ideologico-intellettualistica in Università, la Lettrice aspira, ad esempio, ad «una letteratura popolare», 95 «Ci sarà di mezzo anche le riflessioni sulla lettura che facevamo dieci anni fa con te e Gianni»: «recentemente mi sono tornati sott’occhio i materiali delle nostre discussioni del 68-69 con te e Gianni e pensavo che è stato proprio un delitto non fare allora quella rivista» (Id., Lettera a Guido Neri, 31 gennaio 1978, in Lettere, cit., pp. 1359-1364, le citazioni alle pp. 1360 e 1361). 96 Id. e Gianni Celati, Lettera a Guido Neri, 14 agosto 1969, in Barenghi, Belpoliti, «Alì Babà» progetto di una rivista 1968-1972, cit., pp. 118-122, la citazione a p. 121. 97 «In ogni capitolo la lettrice enuncia un tipo di romanzo che vorrebbe leggere, cioè esclude, – nella sua scelta precedente – il tipo di romanzo (di fascinazione romanzesca) che le si è presentato con l’ultimo romanzo interrotto e precisa ulteriormente il suo desiderio di lettura» (Calvino, Lettera a Guido Neri, 20 agosto 1979, in Lettere, cit., pp. 1402-1404, la citazione alla p. 1402).

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dopo gli imbrogli di Ermes Marana, Ludmilla rivendica allora «la presenza dell’angoscia» come condizione di verità, e così a seguire. 98 Vita e letteratura sono entrambe fonti che arricchiscono l’esperienza, e al contempo rappresentano terreni fertili su cui sperimentare una nuova strategia, così come dimostra il Lettore quando, giunto a casa della Lettrice, decide di conoscerla attraverso la lettura della sua cucina e della biblioteca, per poi passare alla lettura (più soddisfacente) del suo corpo nella stanza da letto. 99 Così come preventivato dalla tripartizione sopra riportata, l’applicazione dei codici inscritti nel testo (vedi punto a) più la sperimentazione di un’iterazione tra tutti codici di cui si dispone (vedi punto b) riesce, infine (e siamo al punto c), a costruire un nuovo modello, che nel Viaggiatore tende a configurarsi non tanto come uno schema di lettura, bensì come un modello di «ricerca» della “vera lettura” cioè «del giusto atteggiamento verso il mondo, dove ogni [lettura] cominciata e interrotta corrisponde a una via scartata». 100 Come osserva Belpoliti, cioè, Calvino non offre un esempio di come si deve leggere «la realtà attraverso un’“ideologia”», ma quello di come leggere «la possibilità di leggere la realtà». 101 Non a caso, nell’esperienza del Lettore, continuamente sollecitato «a reagire agli stimoli mutevoli del mondo», esposto «a contraccolpi continui» e sempre impegnato «a decifrare il corso della multiforme realtà», 102 diversi critici hanno rilevato l’influenza del pensiero di Wittgenstein, cui l’autore si era avvicinato già da diversi anni. 103 Mi sento sempre meno capace di comprendere cosa veramente succede in un mondo che non fa che smentire tutti i modelli. Forse questo 98 Il rapporto è spiegato dallo stesso Calvino in un manoscritto inedito, ora pubblicato in R-II, alle pp. 1398-1399, da cui le citazioni nel testo. 99 Cfr. Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 750 e sgg. 100 Id., Se una notte d’inverno un narratore, cit., p. 1396. 101 Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 34, il corsivo nel testo. 102 Italo Calvino, Un’amara serenità, in «Il Menabò 7», Einaudi, Torino 1964, poi in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 124-126, la citazione a p. 124. 103 L’influenza di Wittgenstein su Calvino è stata descritta, tra gli altri, da Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., pp. 127-133; Gianmaria Nerli, La letteratura sotto scacchiera. Calvino, l’incontro con Wittgenstein e la svolta del linguaggio, in «Allegoria», XVI, 2004, n. 48, pp. 47-78.

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mio libro può essere letto come una rassegna non solo di tipi di romanzo ma d’atteggiamenti verso il mondo che uno dopo l’altro finisco per escludere, sempre sullo sfondo d’una impossibilità ad accettare il mondo com’è. Nonostante il mio scetticismo di fondo, non rinuncio caso per caso a chiedermi e a decidere cos’è bene e cos’è male. 104

5. La trappola, l’allegoria, il gioco Così abilmente congeniata, la struttura romanzesca del Viaggiatore si presenta come un universo metaforicamente denso di significati e di sollecitazioni, ma anche opera chiusa e calcolata, che termina, ottimisticamente, con una vittoria del Lettore sancita dal matrimonio con la Lettrice, e dal miglioramento nel suo rapporto sia con la letteratura sia con la vita. Se i conti tornano perfettamente all’interno del congegno narrativo, non poche sono, invece, le divergenze che affiorano confrontando la “morale” ottimistica ricavata dalla storia, con lo sguardo sempre più cupo, disincantato e preoccupato che Calvino rivolge alla società italiana e alla realtà, più in generale. Ma limitandoci, in questa sede, ad approfondire la materia (la lettura) che si è privilegiato fino ad ora, si osserva, invero, come, anche sotto questo punto di vista, numerose e significative siano le discordanze tra il punto di vista sulla lettura proposto dal Viaggiatore e le idee che in quel frangente veniva formulando l’autore. Ritorniamo, ad esempio, al primo capitolo, dove un’autorevole voce narrante invita il tu lettore ad intraprendere la lettura del romanzo con le seguenti, ammiccanti, parole: «Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero», e ancora: «speriamo che ti lascino in pace!» è l’augurio del complice autore. 105 Sin qui, tutto sommato, nulla di strano: si tratta di inviti a godere del piacere di lettura, in sintonia con le idee di Calvino. Ma quando la voce narrante specifica: «lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto», 106 e ancora: «appena sarai sprofondato nella lettura non ci sarà più verso di smuoverti», 107 sembra, a dire il vero, di essere tornati ai tempi di Gian dei Bru104 Italo Calvino, Lettera a Lucio Lombardo Radice, 13 novembre 1979, in Lettere, cit., pp. 1405-1407, la citazione a p. 1407. 105 Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 613. 106 Ibidem. 107 Ivi, p. 614.

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ghi e del protagonista dell’Avventura di un lettore, e della loro delirante passione che li portava a estraniarsi completamente dal contesto in cui si trovavano (loro malgrado) inseriti, e a disinteressarsi dei problemi del mondo reale. Nel complesso, l’identità del “tu” lettore, così come viene a definirsi attraverso la sommatoria dei vari inviti-costrizioni del narratore, si avvicina più al modello di lettore ottocentesco che accetta di «essere colto da un’emozione quasi fisiologica» e che aspira ad essere risucchiato «nella corrente emozionale del testo», che non a quello più moderno e caldamente raccomandato da Calvino che fonda il proprio rapporto con la finzione su di «una presa di distanza, una lievitazione». 108 Così, nello sforzo del narratore del Se una notte d’inverno un viaggiatore (incipit) di esorcizzare ogni possibile rumore di fondo, per garantire uno scorrimento ottimale della comunicazione, secondo le direttive che egli stesso ha organizzate all’interno della finzione, parrebbe a tratti riconoscersi una parodia 109 della concezione testocentrica di certo strutturalismo (si veda, ad esempio, Booth), 110 da cui Calvino aveva già preso le distanze da diverso tempo, 111 così come rilevato analizzando le trasformazioni del Castello dalla prima alla seconda edizione. Ulteriormente allontanatosi da questi presupposti, negli ultimi anni di attività l’autore parrebbe invero propendere per un’idea di lettura come semiosi potenzialmente illimitata:

Id., Definizione di territori: il fantastico, cit., p. 266. Secondo Milanini, già nelle Città invisibili e nel Castello non «mancano […] brani in cui le allusioni alle teorie strutturalistiche e semiologiche assumono connotati parodistici, semi-caricaturali» (Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 137). Sull’uso ludico della semiologia nel Viaggiatore, cfr. Marie-Anne Rubat Du Merac, Voyages et métaphores du voyage dans "Se una notte d'inverno un viaggiatore" d'Italo Calvino, in «Chroniques Italiennes», XXI (2005), n. 75-76, pp. 195-211. 110 «Incurante delle mie opinioni e delle mie abitudini reali, devo subordinare la mente e il cuore al libro se devo goderne al massimo grado» (Booth, The rhetoric of fiction, cit., pp. 73-74). Alla teoria di Booth, in particolare a quella dell’“autore implicito”, rimanda anche Ermes Marana: «…l’autore di ciascun libro è un personaggio fittizio che l’autore esistente inventa per farne l’autore delle sue finzioni» (Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 788). 111 Si rimanda, in particolare, alla lettera a Gianni Celati, marzo 1969, in Lettere, cit., pp. 1029-1035, già parzialmente riportata nel precedente capitolo. 108 109

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Penso che la lettura ha un suo ritmo che è governata dalla volontà del lettore; la lettura apre spazi di interrogazione e di meditazione e di esame critico, insomma di libertà; la lettura è un rapporto con noi stessi e non solo con il libro, col nostro mondo interiore attraverso il mondo che il libro ci apre. 112

Certo Calvino, come autore, non ama le interpretazioni forzate di chi, come Lotaria, legge i testi «solo per trovarci quello di cui era già convinta prima di leggerli»: 113 Dai lettori m’aspetto che leggano nei miei libri qualcosa che io non sapevo, ma posso aspettarmelo solo da quelli che s’aspettano di leggere qualcosa che non sapevano loro. 114

Qui la lettura è blanchottianamente intesa come incontro, scoperta, e invenzione. E tuttavia, nell’ideale dell’autore (descritto dall’alter ego Flannery), l’interpretazione del lettore dovrebbe scaturire da un preciso atteggiamento di disponibilità e di ascolto al testo che, a ben guardare, rappresenta anch’esso una forma di circoscrizione della semiosi. Il problema è che, se di un limite si tratta, esso è in tutto e per tutto subordinato alla volontà del lettore, cui l’autore non rimane che appellarsi, senza la certezza di essere esaudito: 115 quando scrivo, c’è qualcosa di cui non posso essere mai sicuro: come sarò letto, quali elementi piaceranno di più quali di meno, quali lasceranno i lettori indifferenti o passeranno inosservati. 116

Lontanissima da questi presupposti è la figura del Lettore protagonista della cornice: se già nel primo capitolo, la struttura Id., Il libro, i libri, cit., pp. 1859-1860. Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 793. 114 Ibidem. «Non possiamo mai dimenticarci che ciò che i libri comunicano resta talvolta inconscio allo stesso autore, che i libri dicono talvolta qualcosa di diverso da ciò che si proponevano di dire, che in ogni libro c’è una parte che è dell’autore e una parte che è opera anonima e collettiva» (Id., Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, cit., p. 360). 115 L’idea dell’opera letteraria come «appello» alla coscienza del lettore è già pienamente espressa da Sartre, in Che cos’è la letteratura?, cit., in particolare cfr. p. 37. Più recentemente Spinazzola ha ripreso il concetto, descrivendo la lettura come una dialettica tra accoglienza e diffidenza (cfr. Spinazzola, Critica della lettura, cit., p. 63 e sgg.). 116 Italo Calvino, Lettera a Simona Cremante, 4 dicembre 1982, in Lettere, cit., p. 1496. 112 113

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monologica del discorso narrativo tende a definire la comunicazione letteraria come un processo unidirezionale, il potere dell’autore-narratore è ulteriormente incrementato quando il “tu” indefinito si trasforma in personaggio, cioè in attore agito «dalla trama escogitata dall’autore». 117 Anche nel momento di massima tensione, quando il Lettore è chiamato a scegliere tra procrastinare una situazione di subordinazione oppure prendere in mano la propria vita, egli rimane sempre e comunque una pedina dell’autore: è lui (l’autore) a indicargli l’alterità delle strade, lui a spronarlo, lui a scegliere il matrimonio e il lieto fine. 118 Insomma, niente di più lontano dall’idea che Calvino coltiva, in questi ultimi anni, circa il ruolo del lettore, da lui inteso come arbitro delle sorti del testo e della letteratura. Ma perché incentrare l’intero romanzo sul tema della lettura, se poi l’idea complessiva che ne risulta tradisce il pensiero dell’autore? Di certo lo scopo del romanzo non si esaurisce nella funzione parodica prima individuata, e neppure si ritiene che Calvino «abbia considerato il repertorio dei procedimenti messi in luce come una scatola natalizia di giocattoli» e che, una volta messosi a giocare, abbia preso «sempre più gusto». 119 Il tema del gioco letterario, posto in questi termini, ci traghetterebbe dritti ad affrontare la questione del postmodernismo calviniano (per altro

Milanini, L’utopia discontinua, cit., p. 153. Non a caso Segre sottolinea come «il rilievo dato al lettore [è] apparente, non reale»: «il protagonismo della seconda persona nella cornice […] la messa a nudo della macchina romanzesca sono elementi che accentuano ed enfatizzano la funzione demiurgica dell’autore. […] Questo non è il romanzo del Lettore, come affrettatamente si è detto, bensì il romanzo dello Scrittore» (Segre, Se una notte d’inverno uno scrittore sognasse un aleph di dieci colori, cit., p. 135 e p. 151). Anche Belpoliti rileva che benché nel romanzo «si celebri il trionfo del Lettore e della Lettrice» si tratta, in verità, di «un trionfo effimero perché alla fine del libro anch’essi sono ridotti a pure larve, a fantasmi creati da un altro fantasma: “Ora siete marito e moglie…”» (Belpoliti, L’occhio di Calvino, cit., p. 16). 119 Segre, Se una notte d’inverno uno scrittore sognasse un aleph di dieci colori, cit. p. 135. Analogamente Gioanola: «Calvino viene dallo storicismo e dall’ottimismo ideologico del tempo resistenziale […]. Poi l’ottimismo diventa soltanto più epistemologico e narratologico: quando il fantastico ha liberato tutte le sue valenze diventando puro racconto del raccontare, in Se una notte d’inverno un viaggiatore, allora davvero la scrittura è ormai soltanto un ricamo sul nulla, mondo senza mondo e senza dove» (Gioanola, Modalità del fantastico nell’opera di Italo Calvino, cit., p. 24). 117

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ampiamente dibattuta), 120 che, a propria volta, richiederebbe un’esplicazione del concetto stesso di postmodernismo, e della definizione che si è scelta per designarlo (posmodernismo, oppure postavanguardia?). 121 Proponendoci di rimanere ai margini di questo complesso dibattito, e tuttavia intenzionati ad affrontare il problema di fondo, si rimanda alle parole dello stesso autore, il quale, a proposito del Viaggiatore, scrive di avere voluto «rappresentare (e allegorizzare) il coinvolgimento del lettore». 122 Si ritiene che il suggerimento di lettura fornitoci distrattamente (tra parentesi) 120 Cfr. John Barth, La letteratura della pienezza: fiction postmodernista, in Peter Carravetta e Paolo Spedicato (a cura di), Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Milano, Bompiani, 1984, pp. 86-98; Joann Cannon, Postmodern Italian Fiction: The Crisis of Reason in Calvino, Eco, Sciascia, Malerba, Associated University Presses, London-Toronto, 1989; Berardinelli, Calvino moralista, cit.; Pierre V. Zima, Moderno, post-moderno e ideologia. Da Alberto Moravia a Italo Calvino e Umberto Eco, in Serge Vanvolsem, Franco Musarra, Bart Van Den Bossche (a cura di), I tempi del rinnovamento. Atti del convegno internazionale. Rinnovamento del codice narrativo in Italia dal 1945 al 1992, Roma, Bulzoni, 1995, pp. 587-596; Ulla Musarra-Schroeder, Il labirinto e la rete. Percorsi moderni e postmoderni nell'opera di Italo Calvino, Roma, Bulzoni, 1996; Assumpta Camps, Principio senza fine: l’iper romanzo di Italo Calvino, in «Annali d’Italianistica», XVIII (2000), pp. 309-326; Donnarumma, Calvino verso il postmoderno, cit.; Bart Van de Bossche, Italo Calvino e la fiaba tra moderno e postmoderno, in Da Calvino agli ipertesti. Prospettive della postmodernità nella letteratura italiana, a cura di Laura Rorato e Simona Storchi, Firenze, Franco Cesati Editore, 2002, pp. 53-64 (nel volume anche altri saggi sul postmoderno in Italia); Nicola Turi, L’identità negata. Il secondo Calvino e l'utopia del tempo fermo, Firenze, Società editrice fiorentina, 2003, in particolare pp. 32-33; Romano Luperini, La fine del postmoderno, Napoli, Guida, 2004, cfr. pp. 73-74. 121 Per un approfondimento generale del problema si rimanda a Jean François Lyotard, La condition postmoderne: rapport sur le savoir, Paris, Les éditions de minuit, 1979, tradotto in italiano La condizione postmoderna: rapporto sul sapere, Milano, Feltrinelli, 1985; Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, cit.; Brian McHale, Postmodernist fiction, New York and London, Methuen, 1987; Remo Ceserani, Raccontare il postmoderno, Torino, Bollati Boringhieri, 1997; Margherita Ganeri, Postmodernismo, Milano, Editrice Bibliografica, 1998, Romano Luperini, Postmodernità e postmodernismo. Breve bilancio del secondo Novecento, in Id., Controtempo, Napoli, Liguori, 1999, pp. 169-178; Monica Jansen, Il dibattito sul postmoderno in Italia in bilico tra dialettica e ambiguità, Firenze, Franco Cesati Editore, 2002. 122 Calvino, Se una notte d’inverno un narratore, cit., p. 1391, corsivo nostro.

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da Calvino, rappresenti, in realtà, la chiave di volta per giocare una partita ben più interessante e costruttiva con l’autore, nell’ipotesi di vincere la quale ci sarebbe per noi una scoperta molto più dolorosa (ma anche più utile) del lieto fine. Scrutata come immagine allegorica, la figura del Lettore cornice, così come la sommatoria dei lettori inscritti negli incipit romanzeschi, ci riporta, infatti, alla seguente, amara, constatazione: «l’idea di uomo come soggetto della storia è finita». 123 Il lettore, quindi, che si è immedesimato nel protagonista del Viaggiatore, ma anche quello che si è proiettato nella dialettica vita reale – letteratura, 124 e che poi ha gioito del «“lieto fine” più tradizionale» come il dovuto risarcimento all’esperienza (letteraria e non solo) dello «sconquasso generale», 125 si sarà forse divertito, ma di certo ha perso la partita con l’autore, che è infine riuscito a ridurlo nella stessa identica situazione di subordinazione in cui ha ridotto anche l’altro Lettore. La cosa più beffarda è che ciascuno di noi è stato avvertito almeno dieci volte, tramite i dieci incipit, del fatto che il romanzesco è anche costruzione della lettura e che ogni autore cerca, fin dalle primissime pagine, fin dalla prima riga dell’opera, di costringerci alla modalità d’interpretazione da lui prescelta. Il racconto cornice, in fondo, non è altro che l’undicesima storia, o meglio l’undicesima variante dello stesso schema (solo tradotto da un narratore molto più scaltro): Io ho scelto, come situazione romanzesca tipica, uno schema che potrei indicare così: un personaggio maschile che narra in prima persona si trova a assumere un ruolo che non è il suo, in una situazione in cui l’attrazione esercitata da un personaggio femminile e l’incombere dell’oscura minaccia di una collettività di nemici lo coinvolgono senza scampo. Questo nucleo narrativo di base l’ho dichiarato in fondo al mio libro, sotto forma di storia apocrifa delle Mille e una notte, ma mi pare che nessun critico (per quanto molti abbiano sottolineato Id., Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, cit., p. 352. «E forse nell’accettare la parte ero caduto nell’ultimo tranello e avevo perso il libro in maniera definitiva: al lettore mi ero aggrappato, avevo visto nei suoi zig-zag, nelle sue cadute e incertezze, nelle sue rincorse, nel suo tentativo di metter insieme una storia la cifra più verosimile dei miei approcci. Avevo finito col trovare una storia: la sua storia e la mia storia. Forse proprio quello che avrei dovuto evitare o che il libro voleva evitare» (Lavagetto, Dovuto a Calvino, cit., p. 34). 125 Calvino, Se una notte d’inverno un narratore, cit., p. 1390. 123

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l’unità tematica del libro) l’abbia rilevata. Se vogliamo, la stessa situazione si può riconoscere nella cornice (in questo caso potremmo dire che la crisi d’identità del protagonista viene dal fatto di non avere identità, d’essere un “tu” cui ognuno può identificare il proprio “io”). 126

Letto come allegoria della condizione umana, il Viaggiatore ci dice che l’uomo non è più soggetto della storia, ma oggetto di forze oscure e imperscrutabili che lo rendono incerto, e sottomesso all’alterna fortuna delle circostanze. Ci sono nemici più o meno visibili che gli tendono delle trappole, ma più pericoloso ancora è il deus ex machina che gli dice come uscirne, cosa scegliere e che, infine, lo risarcisce della fedeltà della sua inerzia con un bel lieto fine. Chi sia questo deus ex machina non è dato sapere, ma certo, per come si presenta tirannico senza averne le parvenze, per il suo modo aggressivo ma ipocritamente sollecito, e per lo scopo che si prefigge che è la resa incondizionata della ragione critica, non è difficile riscontravi una somiglianza con quella società dei consumi che tanto l’autore aborrisce. Tutto questo per chi è caduto nella trappola e si è dimenticato «che ciò che stava leggendo è qualcosa che in un momento precedente qualcun altro ha scritto»: quello che leggi avviene in un particolare universo che è quello della parola scritta. Può darsi che tra l’universo della parola scritta e altri universi dell’esperienza si stabiliscano delle corrispondenze di vario genere e che tu sia chiamato a intervenire col tuo giudizio su queste corrispondenze, ma il tuo giudizio sarebbe in ogni caso sbagliato se leggendo tu credessi d’entrare in rapporto diretto con l’esperienza d’altri universi che non siano quello della parola scritta. 127

Ma per chi, invece, ha capito per tempo che anche il Lettore è personaggio, 128 e per questo pedina della trama dell’autore,

Ivi, p. 1392. Id., I livelli della realtà in letteratura, cit., pp. 383-384 («Il punto fondamentale della mia relazione forse è proprio questo. La letteratura non conosce la realtà ma solo livelli. Se esista la realtà di cui i vari livelli non sono che aspetti parziali, o se esistano solo i livelli, questo la letteratura non può deciderlo. La letteratura conosce la realtà dei livelli e questa è una realtà che conosce forse meglio di quanto non s’arrivi a conoscerla attraverso altri procedimenti conoscitivi. È già molto» (ivi, p. 398, i corsivi nel testo). 128 «Credo proprio che i suoi sospetti siano fondati: cioè che quello che ho scritto sia un romanzo e che il Lettore sia un personaggio. Insomma il 126 127

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forse una via di scampo ancora c’è. Se infatti, nel gioco orchestrato dall’autore, «chiusura e calcolo sono scommesse paradossali che non fanno che indicare la verità opposta a quella rassicurante (di completezza e di tenuta) che la propria forma sembra significare, cioè comunicano il senso d’un mondo precario, in bilico, in frantumi», 129 è bene però rilevare come Calvino tenga aperta la strada per una possibile sconfitta sua e del suo abile congegno, il che metaforicamente significa credere nell’ipotesi di una fuga dal determinismo come condizione ontologica e sociale. A ben guardare, infatti, quanto più vistosamente strutturata è la trappola, quante più possibilità sono concesse al lettore di giocare inter pares la partita, e di capire che l’unica possibilità di tornare ad essere «finalmente il padrone del mondo» risiede nel prendere coscienza della sua «condizione di prigioniero». 130 Con Diderot, anche Calvino sembra avere «intuito che è proprio dalle concezioni del mondo più rigidamente deterministe che si può trarre una carica propulsiva per la libertà individuale, come se volontà e libera scelta possano essere efficaci solo se aprono i loro varchi nella dura pietra della necessità». 131 L’apertura al pubblico medio è anche, quindi, l’ultimo estremo tentativo che Calvino opera per una democratizzazione della letteratura e per un miglioramento anche politico (in senso lato) della società, nella misura in cui la vittoria è accessibile a tutti, e quanti più lettori vinceranno tanto più si potrà sperare in un cambiamento della situazione. Se è vero che per vincere non è indispensabile la cultura e neppure (o solo in parte) l’intelligenza, è vero però che si tratta ugualmente di un’ipotesi difficile da realizzare, che richiede molta determinazione, in conformità all’idea che l’«educazione […] può dare i suoi effetti solo se è difficile e indiretta, se implica l’arduo raggiungimento d’un rigore letterario» (per l’autore) e morale (per il lettore). 132 romanzo ha vinto sulla sua dissoluzione» (Id., Lettera a Mario Lavagetto, 11 gennaio 1980, in Lettere, cit., p. 1416, i corsivi nel testo). 129 Id., Se una notte d’inverno un narratore, cit., p. 1389. 130 Id., La plume à la première personne, in Steinberg, «Derrière le miroir», n. 224, maggio 1977, poi con il titolo La penna in prima persona, in Una pietra sopra, cit., infine in S-I, pp. 361-268, la citazione a p. 363. 131 Id., Il gatto e il topo, in «la Repubblica», 24-25 giugno 1984, poi con il titolo Denis Diderot, «Jacques le fataliste», in Perchè leggere i classici, cit., infine in S-I, pp. 844-849, la citazione a p. 848. 132 Id., Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, cit., p. 359.

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6. Ludmilla e Palomar: la leggibilità del mondo Dall’analisi svolta è rimasta esclusa (o quasi) la figura di Ludmilla, cui è delegata, invece, una parte importante della significazione complessiva del romanzo. Il dato che emerge con maggior evidenza da un approfondimento sulla Lettrice, è che l’intreccio tra eros e letteratura, già incontrato nei precedenti racconti e romanzi dell’autore, si risolve, in questo caso, non con una contrapposizione dei due termini, ma con una loro conciliazione. 133 Proprio questo, infatti, è il ruolo della Lettrice Ludmilla nella storia con il Lettore: avvicinarlo alla lettura e al contempo riconciliarlo alla vita e all’amore. Ma l’eros incarnato da Ludmilla ha anche un valore più generale: è il desiderio del lettore per la pagina scritta, così intenso da fecondare anche la vena inaridita dello scrittore Flannery (ispirato dalla vista di Ludmilla sul terrazzo). L’eros di Ludmilla implica, inoltre, il ricongiungimento degli opposti: della lettura e della scrittura, dell’aspirazione al divertimento e della necessità della riflessione critica, 134 del trasporto fisico e di quello intellettuale. La Lettrice, cioè in qualche modo la coscienza critica – il desiderio e il continuo confronto col desiderio – del lettore e dell’autore, dell’autore-lettore e del lettore – autore. 135

Nel Viaggiatore, potremmo dire, tutto è lettura e tutto è eros: non c’è lettura che non sia introdotta e accompagna dal piacere del testo, così come non c’è contatto fisico tra i due protagonisti che non sia preceduto da un’attenta lettura dei gesti, e delle situazioni da parte del Lettore: Lettrice, ora sei letta. Il tuo corpo viene sottoposto a una lettura sistematica, attraverso canali d’informazione tattili, visivi, dell’olfatto, e non senza interventi delle papille gustative. […] Non solo il corpo è in te oggetto di lettura: il corpo conta in quanto parte d’un insieme 133 Questa evoluzione è già stata rilevata e commentata da Ferroni, in Da Francesca a Ludmilla: eros e letteratura, cit., in particolare pp. 40-44. 134 Su questo aspetto si sofferma Ferretti, Le avventure del lettore, cit., pp. 53-58. 135 Calvino, Lettera a Mario Lavagetto, 12 marzo 1981, in Lettere, cit., p. 1445.

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d’elementi complicati, non tutti visibili e non tutti presenti ma che si manifestano in avvenimenti visibili e immediati: l’annuvolarsi dei tuoi occhi, il ridere, le parole che dici…

E della Lettrice: E anche tu intanto sei oggetto di lettura, o Lettore: la Lettrice ora passa in rassegna il tuo corpo come scorrendo l’indice dei capitoli, ora lo consulta come presa da curiosità rapide e precise, ora indugia interrogandolo e lasciandolo che le arrivi una muta risposta… 136

L’iterazione dell’esercizio di lettura nella sua duplice forma di lettura del mondo scritto e lettura del mondo non scritto, ci riporta al centro della riflessione calviniana sulla conoscenza. Se per lungo tempo i personaggi lettori hanno comprovato l’alterità e inconciliabilità delle due abilità gnoseologiche (quella per la realtà e quella per la letteratura), ora invece Lettore e Lettrice dimostrano, all’opposto, la reciprocità delle due operazioni, per cui all’incremento dell’una (la lettura letteraria) risponde l’affinamento della propensione per l’altra (quella per la realtà). La lettura torna, quindi, a essere concepita come un’esperienza utile e proficua per la vita stessa, così come lo era stata per i primissimi lettori calviniani e per Kim in particolare. E, tuttavia, da allora tanti presupposti sono cambiati: se nell’esempio di Kim e nelle prime riflessioni di Calvino sulla lettura, questa è concepita come esperienza equiparabile alle prove affrontate nella vita reale, nel Viaggiatore, invece, l’utilità non risiede nella possibilità di sperimentare vite altre, ma nell’occasione di esercitare una funzione intellettuale. Questo almeno è il senso ultimo che si ricava dalla costruzione allegorica del romanzo, per cogliere la quale non bisogna immedesimarsi nei panni dei lettori raccontati nei vari incipit romanzeschi e neppure nelle vicende del Lettore e della Lettrice. La lettura, in sostanza, è sì esperienza, ma, soprattutto, è esercizio dell’esperienza, applicazione, forma della conoscenza, così come ha insegnato la fase cosmicomica e combinatoria. Ma se ancora, a quell’altezza, la lettura era solo interpretazione dei segni, o delle carte (cioè lettura del mondo scritto), e solo metaforicamente essa poteva alludere alla conoscenza della realtà, ora invece, l’autore tende a un recupero dell’esperienza e, so136

Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., pp. 762-763.

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prattutto nella sua ultima opera Palomar, 137 a un recupero dell’autobiografia. 138 Non a caso il romanzo si apre con il capitolo Lettura di un’onda, in cui Palomar sembra adottare per la realtà alcuni degli spunti metodologici già teorizzati nel Castello e nella Città invisibili: la lettura di un’onda richiede, infatti, prima di tutto, attenzione per l’oggetto singolo «limitato e preciso». 139 Ma «vedere un’onda» significa anche «cogliere tutte le sue componenti simultanee senza trascurarne nessuna» il suo sguardo si soffermerà sul movimento dell’acqua che batte sulla riva finché potrà registrare aspetti che non aveva colto prima; appena s’accorgerà che le immagini si ripetono saprà d’aver visto tutto quel che voleva vedere e potrà smettere. 140

Anche in questo caso, la lettura si configura, prima di tutto, come esercizio delle capacità percettive e gnoseologiche: Se solo egli riesce a tenere presenti tutti gli aspetti insieme, può iniziare la seconda fase dell’operazione: estendere questa conoscenza all’intero universo. 141

E tuttavia, lo stesso Palomar vuole che l’esercizio percettivognoseologico non sia disgiunto dalla realtà: Non gli manca che esporre questi bei pensieri in forma sistematica, ma uno scrupolo lo trattiene: e se ne venisse fuori un modello? Così preferisce tenere le sue convinzioni allo stato fluido, verificarle caso per caso e farne la regola implicita del proprio comportamento quotidiano, nel fare o nel non fare, nello scegliere o escludere, nel parlare o nel tacere. 142

137 Id., Palomar, Torino, Einaudi, 1983, poi Milano, Euroclub, 1984, cui segue un’edizione Milano, Mondadori, 1990. Per le citazioni riportate si fa riferimento alla edizione del testo in R-II, alle pp. 871-979. Si ricorda che numerosi brani di Palomar erano già apparsi sul «Corriere della sera» tra il 1975 e il 1977. 138 «Questo è il libro più autobiografico che abbia mai scritto, un’autobiografia in terza persona: ogni esperienza di Palomar è una mia esperienza» (Id., Intervista a cura di Lietta Tornabuoni, qui cit. da R-II, p. 1412). 139 Id., Palomar, cit., p. 875. 140 Ivi, p. 876. 141 Ivi, p. 879. 142 Ivi, p. 967.

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Come la regola deve rimanere implicita per non sopravanzare la realtà, così la lettura e la letteratura devono rimanere strumento di perfezionamento della vita. Nella riconciliazione tra eros e letteratura, realizzata nel Viaggiatore, la Lettrice è emblema, prima di tutto, di una riconciliazione con la vita. A questo proposito va rilevato che, seppure a una lettura allegorica il messaggio complessivo del Viaggiatore emerge in tutta la sua tragicità, l’immagine narrativa che ha generato questo messaggio è pervasa invece di brio e di gioia. Il Viaggiatore è, infatti, come spiegato dall’autore, «un inno d’amore al romanzo», 143 ma anche un inno d’amore alla vita, agli imprevisti, alle università che non funzionano, alle case editrici sommerse di manoscritti, al Lettore che non crede più nella vita e alla Lettrice che invece ha scelto di accoglierla sempre, incondizionatamente, con quella stessa arrogante (o ingenua?) fiducia con cui lascia entrare gli sconosciuti nella propria casa. È per questo che Ludmilla legge così bene: «leggere è andare incontro a qualcosa che sta per essere e ancora nessuno sa cosa sarà». 144 Come Ludmilla, così anche Calvino sembra avvertire, infine, il «bisogno di attaccarsi alle cose che ci sono», e «tenere insieme quel che rimane della “leggibilità” del mondo». 145 Calvino pensava, ricorda la moglie, che «ciò che conta è quel che siamo, approfondire il proprio rapporto col mondo e col prossimo, un rapporto che può essere insieme d’amore per ciò che esiste e di volontà di trasformazione». 146 Ma nell’amore delle cose per come sono c’è anche l’amore di Calvino per il “gioco letterario” così com’è, il che implica per l’autore l’impegno a tessere una partita a scacchi divertente e al contempo costruttiva, e per noi lettori essere all’altezza della situazione, senza rinunciare però a godere del piacere di lettura, stando comodamente seduti nella poltrona di casa, oppure, «sdraiati, raggomitolati, coricati…». 147 Id., Lettera a Mario Lavagetto, 11 gennaio 1980, in Lettere, cit., p. 1416. Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 680. 145 Id., Lettera a Lucio Lombardo Radice, 13 novembre 1979, in Lettere, cit., pp. 1405-1407, la citazione a p. 1407. 146 Dalla pagina introduttiva (firmata Ester Calvino) a Calvino, Eremita a Parigi, cit., p. 9. 147 Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore, cit., p. 613. 143

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