I Padri del Taoismo
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Table of contents :
Indice......Page 292
Frontespizio......Page 2
Introduzione......Page 5
Avvertimenti di lettura......Page 10
Parte Prima. Tao Te Ching. L'opera di Lao-tzu......Page 12
I......Page 14
III......Page 15
IV......Page 16
V......Page 17
VI......Page 18
VIII......Page 19
IX......Page 20
XI......Page 21
XIII......Page 22
XIV......Page 23
XVI......Page 24
XVIII......Page 25
XX......Page 26
XXI......Page 27
XXIII......Page 28
XXVI......Page 29
XXVIII......Page 30
XXX......Page 31
XXXII......Page 32
XXXIV......Page 33
XXXVII......Page 34
XXXIX......Page 35
XLI......Page 36
XLIV......Page 37
XLVIII......Page 38
LI......Page 39
LIII......Page 40
LVI......Page 41
LIX......Page 42
LXII......Page 43
LXIV......Page 44
LXVII......Page 45
LXIX......Page 46
LXXII......Page 47
LXXV......Page 48
LXXVII......Page 49
LXXX......Page 50
LXXXI......Page 51
Parte seconda. Lieh-tzu......Page 52
I. Genesi e trasformazioni......Page 54
II. Semplicità naturale......Page 61
III. Stati sottili......Page 73
IV. Estinzione e Unione......Page 79
V. La continuità cosmica......Page 87
VI. Fatalità......Page 97
VII. Yang-ciù......Page 103
VIII. Aneddoti......Page 111
Parte terza. Chuang-tzu......Page 122
I. Verso l'ideale......Page 124
II. Armonia universale......Page 127
III. Sostentamento del principio vitale......Page 133
IV. Il mondo degli uomini......Page 135
IV. Azione perfetta......Page 141
VI. Il Principio, primo Maestro......Page 145
VII. Governo ideale......Page 152
VIII. Piedi palmati......Page 155
IX. Cavalli addomesticati......Page 158
X. Piccoli e grandi ladri......Page 160
XI. Politica vera e politica falsa......Page 163
XII. Cielo e Terra......Page 169
XIII. L'influsso del cielo......Page 177
XIV. Sviluppo naturale......Page 182
XV. Saggezza e incrostazioni......Page 188
XVI. Natura e convenzione......Page 190
XVII. Acque d'autunno......Page 192
XVIII. Gioia perfetta......Page 199
XIX. Senso della vita......Page 203
XX. Oscurità voluta......Page 210
XXI. Azione trascendente......Page 216
XXII. Conoscenza del Principio......Page 222
XXIII. Ritorno alla natura......Page 230
XXIV. Semplicità......Page 236
XXV. Verità......Page 244
XXVI. Fatalità......Page 251
XXVII. Verbo e parole......Page 256
XXVIII. Indipendenza......Page 259
XXIX. Politici......Page 266
XXX. Spadaccini......Page 273
XXXI. Il vecchio pescatore......Page 276
XXXII. Saggezza......Page 280
XXXIII. Scuole diverse......Page 285

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Lao-tzu Lieh-tzu Chuang-tzu

I PADRI DEL TAOISMO traduzione dal cinese di Leon Wieger

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Titolo originale: Les Pères du Système Taoiste Edizione tradotta e curata da Pietro Nutrizio 1994 Luni Editrice — Milano

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Introduzione

Nella sua opera Il pensiero cinese, l'orientalista Marcel Granet, trattando del Tao Te Ching dice a un certo punto: «Bisogna confessare che questo libro, tradotto e ritradotto [nelle lingue europee], è propriamente intraducibile». Tale affermazione (che a giudicare dalla poca intelligibilità di quasi tutte le traduzioni disponibili, è ugualmente applicabile anche ai due libri di Lieh-tzu e di Chuang-tzu, del resto commentari del Tao Te Ching) egli la fa poi seguire da questa spiegazione: «Le brevi sentenze che lo compongono erano apparentemente destinate a servire come temi di meditazione. Sarebbe inutile cercare di attribuire loro un senso unico o anche un senso in qualche modo definito». Questa esplicita dichiarazione di impotenza, che fa certamente onore all'onestà e alla sincerità dello studioso francese, riassume bene il senso di disorientamento che gli specialisti in questioni estremo-orientali provano di fronte ai tre capisaldi dell'intellettualità cinese. Incomprensibile, dunque, il Tao Te Ching per degli Occidentali (perché questo vogliono dire in fondo le brevi frasi che abbiamo citato)? Se questo fosse vero, ciò non farebbe in un certo senso che dar ragione a queste parole di René Guénon, autore di origine, ma non di mentalità, europea, e, per quanto profondo conoscitore del pensiero orientale, non certo un «orientalista»: «Tutti i tentativi che finora sono stati fatti per riavvicinare l'Oriente e l'Occidente sono stati intrapresi a profitto della mentalità occidentale, e proprio perciò sono falliti. Questo sia detto non soltanto per tutto quanto è propaganda apertamente occidentale [...], ma anche per i tentativi che pretendono fondarsi sopra uno studio dell'Oriente: si cerca molto meno di comprendere le dottrine orientali di quanto non si tenti di ridurle alla misura delle concezioni occidentali; ciò che significa snaturarle completamente. Anche nei casi in cui non esiste l'intenzione cosciente e dichiarata di deprezzare l'Oriente, è nondimeno implicitamente sottinteso che tutto ciò che l'Oriente possiede deve possederlo anche l'Occidente; ora, ciò è completamente falso, soprattutto per quanto riguarda l'Occidente attuale. Così, grazie ad una incapacità di comprensione dovuta in buona parte ai loro pregiudizi [...], gli Occidentali non riescono ad afferrare nulla dell'intellettualità orientale, e anche quando immaginano di possederla e di tradurne l'espressione, riescono soltanto a farne la caricatura, e nei testi e nei simboli che credono di spiegare non ritrovano se non quello che vi hanno messo essi stessi: delle idee, cioè, puramente occidentali; il fatto è che la lettera di per se stessa non è nulla, e lo spirito gli sfugge completamente». E non è ciò che si ritrova, generalmente, nelle traduzioni dai testi antichi cinesi in lingue occidentali, a partire dalla qualificazione di «filosofia» data al pensiero dei Taoisti, fino a quel senso di frammentarietà e di incoerenza che non può che respingere il lettore, anche il meglio intenzionato a cercare di capire qualcosa dell'Oriente? Ma perché questo stato di cose? Andando un po' più a fondo nell'esame del problema, in primo luogo perché «[...] non basta conoscere grammaticalmente una lingua, né essere capaci di5 tradurre parola per parola, anche correttamente, per penetrare lo spirito di una lingua e assimilare il pensiero di coloro che la parlano e la scrivono. Si potrebbe anzi andare oltre, e dire che quanto più una traduzione è scrupolosamente letterale, tanto più rischia di essere in realtà inesatta e

di deformare il pensiero, giacché non esiste, fra i termini di due lingue diverse, vera equivalenza, soprattutto se le due lingue sono molto lontane l'una dall'altra non soltanto filologicamente, ma anche per la diversità delle concezioni dei popoli che se ne servono; ed è proprio questo elemento che nessuna erudizione permetterà mai di penetrare. Occorre a questo fine, ben altro che una vana "acritica testuale" che si dilunghi a perdita d'occhio su questioni di dettaglio, o metodi da grammatici e "letterati", o quel sedicente "metodo storico" che viene applicato a tutto indistintamente». In secondo luogo, perché l'abuso provocato più frequentemente proprio da questo «metodo storico» a cui gli orientalisti sembrano attribuire le virtù più taumaturgiche «è l'errore che consiste nello studiare le civiltà orientali come fossero civiltà scomparse da molto tempo [...]. Si dimentica che le civiltà orientali, almeno quelle che ci interessano attualmente [R. Guénon intende: quella indù, quella araba e, qui più rilevantemente, quella cinese], si sono perpetuate fino a noi senza interruzione e hanno ancora dei rappresentanti autorizzati, il cui parere vale, per comprenderle, ben più di tutta l'erudizione del mondo; sennonché, perché si pensi di consultarli, non bisognerebbe partire dal singolare principio che si sa meglio di loro qual è il vero senso delle loro proprie concezioni». Tutto ciò, che di fatto è totalmente vero, non è però tutto, e si applica soltanto al tipo di comprensione (o meglio, alla mancanza di comprensione) e ai metodi di indagine degli orientalisti «ufficiali»; è evidente infatti che, proprio seguendo la logica stringente di Guénon, non tutti gli Occidentali sarebbero condannati a non avere accesso alle forme di pensiero, in questo caso, della Cina antica (e della Cina tout court, visto che la tradizione cinese, anche quella profonda, «si è perpetuata fino a noi senza interruzione»). Sfuggirebbero a questa interdizione quelli fra gli Occidentali che si fossero messi nelle condizioni per la comprensione indicate più o meno direttamente da Guénon stesso nei passi citati; ma, la domanda è: per quel che riguarda la Cina, se ne conoscono che si siano messi in queste condizioni e, soprattutto, ce n'è qualcuno che abbia lasciato una traccia reperibile in lavori accessibili al pubblico occidentale? A quel che ci è dato di vedere, a parte il caso di R. Guénon stesso, ce ne sono stati almeno due: Albert Pouyou, conte di Pouvourville, autore di due libri di ispirazione taoista di fondamentale importanza (La Voie métaphysique e La Voie rationnelle) e Léon Wieger, autore della traduzione dei testi di Laotzu, Lieh-tzu e di Chuang-tzu che è qui presentata per la prima volta in italiano. Del primo, la stessa storia esteriore testimonia della prossimità ad ambienti taoisti, e del resto i suoi lavori furono pubblicati sotto il nome cinese di Matgioi («Occhio del giorno»); del secondo si sa che era un missionario gesuita, e che, giunto in Cina nel 1887 all'età di trentun anni, vi visse fino alla morte, che avvenne nel 1933. Della sua comprensione delle dottrine profonde della razza cinese nessun dato «storico» dà ragione, né ce n'è bisogno; l'unica prova che abbiamo di tale com6 prensione, ma che è anche la più importante, è costituita dai suoi lavori, di cui fa parte la traduzione che il lettore troverà qui, e della quale lasciamo a lui giudicare. Un omaggio, per quanto involontario, alla comprensione dei testi taoisti secondo il loro spirito da parte del Wieger, proviene ancora da M. Granet, il quale, alla nota 10 del cap. 3, libro IV dell'opera già citata, dice: «[...] Il Padre Wieger ha pubblicato una specie di parafrasi del Lao-tzu, del Lieh-tzu e del Chuang-tzu; poco fedele nei particolari, essa dà di queste opere un'idea piuttosto viva [...]». Ora, si confronti questo complimento a denti stretti con quanto afferma R. Guénon nel cap. «Difficoltà linguistiche» della sua Introduzione generale allo studio delle dottrine indù (pag. 48 dell'ed. citata), e si vedrà quel che vogliamo intendere: «Per considerare sotto un altro angolo visuale, e quasi nel

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loro stesso principio, le difficoltà che volevamo segnalare particolarmente in questo capitolo, possiamo dire che ogni espressione di un qualsiasi pensiero è di per sé necessariamente imperfetta, dal momento che circoscrive e restringe i concetti per chiuderli in una forma definita che non può mai essere del tutto adeguata, il concetto contenendo sempre qualcosa di più della sua espressione, e addirittura immensamente di più quando si tratti di concezioni metafisiche, che devono sempre tener conto dell'inesprimibile, in quanto fa parte della loro stessa essenza aprirsi su possibilità illimitate. Il passaggio da una lingua a un'altra, per forza di cose meno adatta della prima, non può insomma che aggravare questa imperfezione originaria e inevitabile; ma quando si è giunti a cogliere in qualche modo il concetto stesso attraverso la sua espressione primitiva, identificandosi per quanto possibile alla mentalità di colui o coloro che lo hanno pensato, è chiaro che si può sempre rimediare in larga misura a questo inconveniente, fornendo una interpretazione che, per risultare intelligibile, dovrà essere un commento assai più che una pura e semplice traduzione letterale. Tutta la difficoltà reale quindi risiede, in fondo, nell'identificazione mentale necessaria per giungere a questo risultato; è certo che al riguardo esistono persone del tutto inadatte, ed è facile capire quanto ciò trascenda i limiti dei lavori di semplice erudizione. È questa l'unica maniera davvero proficua di studiare le dottrine; per capirle bisogna, per così dire, studiarle "dal di dentro", mentre gli orientalisti si sono sempre limitati a considerarle "dal di fuori"». Il giudizio pur favorevole di Granet sulla traduzione del Wieger termina però con le parole (da noi sostituite provvisoriamente da puntini di sospensione) «ma tendenziosa». Questo sta a significare che al padre Wieger viene attribuita a debito la sua qualità di gesuita, che avrebbe pesato, secondo molti orientalisti (in testa a tutti quello di cui diremo subito dopo, che esprime per lui un vero e proprio odio viscerale), sulle sue traduzioni. Ora, noi non rileviamo nella traduzione del Wieger nulla di simile. Se alcune volte (ma sono veramente pochissime, e noi le abbiamo sottolineate tutte nella nostra versione italiana) egli fa in nota qualche osservazione che può corroborare la fondatezza di questa accusa, non sarà forse perché un libro come il suo, ed al suo tempo, non avrebbe potuto vedere la luce se egli non avesse detto almeno qualcosa che mettesse in evidenza la sua appartenenza alla «Compagnia di Gesù»? La realtà secondo noi è ben altra: il bigottismo che gli orientalisti gli attribuiscono non esiste che nelle loro menti, e il fatto che essi lo accusino di una simile distorsione traduce soltanto in parole la repulsione che la loro mentalità, eminentemente antitradizionale, non può non fargli provare di fronte all'aderenza del Wieger allo spirito della tradizione taoista. Del resto, il pensiero del Wieger in proposito è ben espresso dalle parole con cui si chiudeva la sua presentazione del libro, da noi non tradotta in questa sede: «Je me suis efforcé de rendre ma traduction d'aussi facile lecture qu'il m'a été possible, sans nuire à la 7 les penseurs, ces fidélité de l'interprétation. Car mon but est de mettre à la porté de tous vieilles pensées, qui ont été depuis tant de fois repensées par d'autres, et prises par eux pour nouvelles». [«Mi sono sforzato di rendere il più facile possibile la lettura della mia traduzione, senza con ciò nuocere alla fedeltà dell'interpretazione. Giacché il mio scopo è quello di mettere alla portata di tutti i pensatori questi vecchi pensieri, che sono stati da allora tante volte ripensati da altri e da loro presi per nuovi»]. Che è, a ben considerare, assai sottile, e ben degno del nobile umorismo che pervade questi testi, pur nella loro quasi insondabile profondità. Per concludere questo breve studio introduttivo, e benché questa sede si presti male a trattare dei casi di singole persone non ci pare del tutto inopportuno dare almeno un

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esempio specifico delle distorsioni che la mentalità occidentale può far subire alle idee contenute nei testi che si leggeranno in questi antichi libri; e anche se le cose che si dovrebbero dire per rettificarle convenientemente, secondo i criteri dell'intellettualità tradizionale, sarebbero troppe per affrontarle tutte qui, non possiamo esimerci dall'accennare brevemente ad alcune di esse, che Ci sembrano le più importanti. Uno «specialista» occidentale di questioni estremo-orientali, introducendo nel 1967 una traduzione del Tao Te Ching, concludeva il suo commento con queste considerazioni: «[...] in fatto di politica interna, Lao-tzu non è maggiormente diretto. Proprio perché desidera porsi "al di sopra del popolo", il suo Principe deve «abbassarsi a parole»; allora il popolo non si accorgerà che è menato, e menato di brutto, che lo trattano come un "cane di paglia». Contrariamente a quel che ripetono su Lao-tzu coloro che lo conoscono male, la sua teoria del potere non è estranea a quella che elaborarono i rappresentati del fachià, quei legisti, legalisti, o realisti che, portando alle loro estreme conseguenze i principi del Tao Te Ching, tratteranno in effetti il popolo come "cani di paglia", e prepareranno il potere assoluto di Z'in scie-huang-ti; ma se l'alternanza dei contrari governa il cosmo e le società degli umani, se guerra e pace sono l'una nei confronti dell'altra come lo yang nei confronti dello yin, come potrebbe lo stato di pace, tempo di riposo tra due massacri cosmici, prevalere un giorno sull'alternanza irreprimibile del tao? Qualunque filosofia naturalistica giustifica lo stato di guerra, che è quello della natura, vegetale e animale. Se mai la pace avrà la meglio sulla guerra, non sarà certamente per merito degli aforismi di questo Tao Te Ching, ma perché degli uomini ragionevoli, che non si mettono cioè l'intelligenza sotto i piedi, avranno sostituito all'ordine dello spreco — quello della natura —, all'ordine degli ossari — quello di Dio —, un ordine contro natura, giuridico e morale; un ordine intelligente; quello, precisamente, che ripudia Lao-tzu». Difficilmente si potrebbero trovare da qualche altra parte, espresse in modo così definito e tutte insieme, manifestazioni tanto chiare dell'incomprensione occidentale per la dottrina tradizionale nella sua forma estremo-orientale; tanto più che il brano in questione termina con questa frase finale: «E ora leggete il Tao Te Ching. Ma non dimenticate che per gustarne le bellezze folgoranti, quelle della scrittura (lingua, rime, parallelismi), bisogna assolutamente che impariate un po' di cinese. Capirete allora che queste bellezze (in quanto tecniche, supremamente intelligenti) cancellano e negano i valori sostenuti dallo scrittore, chiunque egli sia, a cui dobbiamo questa aspra antologia». Come se l'intelligenza che i Taoisti «si mettono sotto i piedi» fosse qualcosa di diverso dalle limitazioni dell'intendimento umano individuale abbandonato a se stesso, dal quale possono nascere soltanto mostri (come dimostra disgraziatamente lo stato attuale del nostro mondo), limitazioni dalle quali Lao-tzu invita l'«uomo dotato» a liberarsi perché possa effettuarsi per lui l'unione con l'intelligenza vera, quella cosmica, sovraindivi8duale e disinteressata, che fa tutt'uno con la sua «natura» originaria; ciò che unicamente gli può permettere di «aiutare il Cielo e la Terra nel mantenimento e nella trasformazione degli esseri» costituendo per ciò stesso «un terzo potere con il Cielo e la Terra». Anche se è vero che l'esempio da noi portato è in qualche modo estremo, è altrettanto vero però che, per una triste ironia, esso è costituito da uno scritto che si inserisce in una collana il cui titolo generale è «Connaissance de l'Orient», e che il suo autore (molto fiero, a quel che sembra, delle conclusioni a cui l'hanno condotto i suoi lunghi studi in questo campo) è un «professore alla Sorbona»: tutte queste circostanze, insieme al tono stesso e agli assunti dello scritto, non forniscono forse una prova quanto mai evidente della fondatezza delle osservazioni di René Guénon sugli orientalisti «ufficiali» da noi

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riportate all'inizio? Più tardi (1980), questo sinologo che rifiuta di riconoscersi tale, ma si compiace in un ruolo di «capo-scuola» che si è attribuito da solo, curando una raccolta degli stessi testi estremo-orientali che si troveranno qui, ha voluto mettere in evidenza che escludeva da essa le opere di quei Taoisti posteriori che, ricercando le «droghe d'immortalità», «al pensiero sostituiscono l'alchimia» (forse perché ha trovato più arduo dare un senso per lui accettabile agli elementi di una «scienza tradizionale», del resto difficilmente penetrabile, che non a un pensiero che scambia a torto per una «filosofia» al modo occidentale). Ma c'è da chiedersi, conduce veramente così lontano, nella ricerca del vero significato dei testi tradizionali estremo-orientali, sostituire al pericolo di un pregiudizio «materialistico» (pregiudizio dal quale l'orientalista di cui parliamo è del resto lontano dall'essersi egli stesso liberato), il pregiudizio, forse più alla moda, della «socialità» e della morale? È nostro parere, come lo era degli antichi Taoisti, a giudicare dai testi che si leggeranno, che sia l'uno sia l'altro (così come qualsiasi pregiudizio) siano totalmente impotenti ad aiutare l'uomo a penetrare nel dominio dell'intellettualità pura, che è il campo in cui tali testi si situano. P. N.

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Avvertimenti di lettura

Il lettore troverà in questi testi alcune forme grafiche di cui è opportuno chiarire cosa rappresentino. Il traduttore dal cinese ha adottato, per l'edizione iniziale della sua opera (1913), due soluzioni per attirare l'attenzione sui passi dove il suo intervento si presenta più evidentemente con le caratteristiche del commento o della parafrasi; esse sono le parentesi tonde e il corsivo. Quale differenza di valore intendesse attribuire a questi due tipi di artificio grafico, nella sua premessa al libro egli non lo dice, ed è problematico in queste condizioni avanzare ipotesi. Nel 1991 l'Editore Jean-Paul Bertrand di Monaco ha pubblicato una riedizione del solo Tao Te Ching nella traduzione del Wieger, e nella sua Prefazione, Jean Varenne, direttore della collana in cui il libro compare, fa questa affermazione: «Nella nostra edizione [che è identica a quella iniziale], le parole in corsivo sono quelle che il traduttore ha aggiunto al testo cinese per completare le frasi francesi. E le varianti da lui inserite nella sua propria versione sono messe tra parentesi». Non è detto da dove sia stata dedotta questa indicazione. Per parte nostra deduciamo che talvolta le parole tra parentesi rappresentano semplici chiarimenti utili per una miglior comprensione dei brani, mentre abbiamo avuto spesso l'impressione che le frasi in corsivo riflettano sviluppi, anch'essi chiarificatori, tratti da commentari. Le parole e le espressioni tra parentesi quadre sono le nostre; hanno lo scopo di quelle del P. Wieger tra parentesi tonda, e il lettore potrà tenerne conto o no, a suo piacimento. Per quel che riguarda la trascrizione dei suoni cinesi, impossibile se non in modo molto lontanamente indicativo (e in fondo assolutamente ininfluente ai fini che si propone questa traduzione), abbiamo seguito l'esempio di Mario Novaro, che nel suo Acque d'autunno, del 1949 (Laterza ed., Bari), diceva, sensatamente: «Io giudico il meglio sia trascrivere i nomi propri o geografici cinesi con consonanti e vocali soltanto italiane (anche se qualche volta possono parere insufficienti; ma lo spirito della lingua nostra non ha di questi scrupoli) dal momento che in cinese non esiste alfabeto e noi dobbiamo rendere suoni e non lettere; poiché anche l'italiano (come fecero il portoghese, il francese e l'inglese, sebbene gli inglesi usino, allo scopo, anche vocali da pronunziare all'italiana), l'italiano, diciamo, ha da seguire in ciò la propria fonetica e scrittura, e non quelle d'altro popolo, e tanto meno quelle di accordi internazionali di ordine postale ed economico. Perché per dire Ciuàng un Italiano ha da scrivere Chuang? Mentre il lettore è poi lasciato senza 11 spiegazione del come va pronunziato?» Noi abbiamo quindi semplicemente trascritto all'italiana i suoni della trascrizione francese del Wieger, per cui il lettore non avrà che da pronunciare i suoni tali e quali li troverà scritti; per i suoni francesi che in italiano non ci sono, siamo ricorsi ad artifici come la dieresi posta sulle lettere e (e) e u (u) (suono francese). Per i nomi degli autori delle tre opere tradotte, Lao-tzu, Lieh-tzu e Chuang-tzu, si è invece mantenuta nel corso della traduzione italiana la trascrizione abituale, per facilitare la lettura di chi sia ormai assuefatto a questa loro grafia: Lao-tzu, Lieh-tzu, Chuang-tzu.

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Diamo una lista di alcuni dei nomi che compaiono nel libro a modo di esempio: Trascrizione francese Trascrizione italiana Sang-hou Sang-hu Mong-tzeu-fan Mong-zé-fan K'inn-tchang Ch'inn-ciang Tzeu-coung Zé-cung Tzeu-seu Zé-se Tzeu-u Zé-u Tzeu-lai Zé-lai Chao-coang Sciao-coang U-k'iang U-ch'iang Hoang-ti Hoang-ti Fou-ue Fu-ué Niu-u Niu-u Nan-pai Nan-pai Pouo-leang Può-leang K'oei C'oei K'ounn-lunn C'unn-lunn Come si vede, per il solo suono francese tzeu che ricorre più frequentemente, abbiamo ripiegato sulla semplificazione zé.

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Parte Prima

TAO TE CHING L'opera di Lao-tzu

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I A Il principio che può essere enunciato non è quello che fu da sempre. L'essere che può essere nominato non è quello che fu da ogni tempo. Innanzi che i tempi fossero, fu un essere ineffabile, non esprimibile. B Ancora non nominabile, esso concepì il cielo e la terra. Divenuto con ciò nominabile, [esso] fece nascere tutti gli esseri. C I due atti sono uno solo, sotto due denominazioni differenti. L'atto generatore unico è il mistero dell'origine. Mistero dei misteri. Porta attraverso la quale sono emerse sulla scena dell'universo [manifestato] tutte le meraviglie che lo popolano. D La conoscenza che l'uomo ha del Principio universale dipende dallo stato del suo spirito. Lo spirito costantemente libero dalle passioni conosce l'essenza misteriosa del Principio. Lo spirito costantemente preda delle passioni non conoscerà se non i suoi effetti. Sintesi dei commentari Innanzi i tempi, e a partire da ogni tempo, [vi] fu un essere esistente di per se stesso, eterno, infinito, completo e onnipresente. Impossibile è il nominarlo, il parlarne; perché i termini umani si applicano soltanto agli esseri sensibili. Ora, l'essere primordiale fu in principio, e ancora è essenzialmente, non sensibile [nel senso di «non percepibile dai sensi», non afferrabile da facoltà individuali]. Fuori di quest'essere, avanti l'origine, non ci fu nulla. Esso è chiamato u, «nulla di forma», huan, «mistero», ovvero tao, «principio». È detto sien-t'ien, «avanti il cielo», lo stato in cui non c'era ancora nessun essere sensibile; in cui, sola, esisteva l'essenza del principio. Tale essenza aveva due proprietà immanenti, lo yin, concentrazione, e lo yang, espansione, le quali furono un giorno [espressione da intendersi simbolicamente], rese esteriori nelle forme sensibili di cielo (yang) e terra (yin). Questo «giorno» fu l'inizio dei tempi. Da questo giorno il Principio poté essere nominato con il termine duplice di «cielo-terra». Il binomio cielo-terra emise tutti gli esseri sensibili esistenti. Sono detti yu, «essere sensibile», tale binomio (il quale è produttivo per mezzo di te, la «virtù» del Principio) e tutti i suoi prodotti, che popolano il mondo. Si chiamano heù-t'ien, [ciò che viene] «dopo il cielo», i tempi posteriori all'esteriorizzazione del [binomio] cielo-terra. Lo stato yin, di concentrazione e riposo, di non percettibilità, il quale fu quello del Principio avanti il tempo, è il suo stato proprio. Lo stato yang, di espansione e di attività, di manifestazione negli esseri sensibili, è il suo stato nel tempo, in qualche modo improprio [caratterizzato, cioè, da un aspetto di illusorietà]. A questi due stati del Principio corrispondono, nella facoltà di conoscere dell'uomo, il riposo e l'attività, in altre parole il vuoto e il pieno. Quando lo spirito umano produce idee, è affollato di immagini, è agitato da passioni, esso non è allora predisposto che a conoscere gli effetti del Principio, [ossia] gli esseri sensibili distinti [individualizzati]. Quando lo spirito umano, totalmente stabile [concentrato in se stesso], è completamente vuoto e calmo, esso è uno specchio puro e nitido, in grado di riflettere l'essenza ineffabile e inesprimibile dello stesso Principio. — Si veda: cap. XXXII, pag. 84.

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II A Tutti gli uomini hanno la nozione del bello, e, a cagione di essa (per opposizione), quella del non bello (del brutto). Tutti gli uomini hanno la nozione del buono, e, a cagione di essa (per contrasto), quella del non buono (del cattivo). Allo stesso modo, essere e non essere [assenza di determinazioni], facile e difficile, lungo e corto, alto e basso, suono e tono, prima e dopo, sono nozioni correlate, la conoscenza di una delle quali mette in evidenza l'altra. B A cagione di ciò, il Saggio è utile senza che agisca, insegna senza che parli. C Egli lascia che tutti gli esseri diventino, senza ostacolarli; vivano, senza impadronirsene; agiscano, senza sfruttarli. D Egli non attribuisce a se stesso gli effetti che produce, e in conseguenza di ciò gli effetti che sono così prodotti, permangono. Sintesi dei commentari I correlativi, gli opposti, i contrari, come il sì e il no, sono tutti entrati in questo mondo dalla porta comune; essi tutti sono stati originati dal Principio uno (vedi cap. I, C). Essi non sono illusioni «soggettive» dell'animo umano, ma stati «oggettivi», che corrispondono ai due stati alternanti del Principio, yin e yang, concentrazione ed espansione. La realtà profonda, il Principio, permane sempre immutato, nella sua essenza; ma l'alternanza del suo riposo e del suo movimento dà origine al gioco delle cause e degli effetti, un va-e-vieni senza pause. A questo gioco, il Saggio lascia il suo libero corso. Egli si astiene dall'intervenire, vuoi mediante la propria azione fisica, vuoi attraverso una sua pressione di tipo psichico [o «morale»]. Egli si guarda dal mettere il proprio dito nell'«ingranaggio» delle cause, nel movimento perpetuo dello sviluppo(1) naturale, per tema di falsare tale «meccanismo» complesso e delicato. Tutto ciò che egli fa, quando pur «fa» qualche cosa, è di lasciar vedere il suo esempio. Lascia a ciascuno, [per così dire], il suo «posto al sole», la sua libertà, le sue opere. Egli non attribuisce a se stesso l'effetto generale prodotto (il «buongoverno»), il quale appartiene all'insieme delle cause. Di conseguenza, tale effetto (l'ordine), non entrando in conflitto con la gelosia o l'ambizione altrui, ha la probabilità di durare.

III A Non tener conto dell'abilità, darebbe come risultato che nessuno [cercherebbe] più di mettersi in vista. Non apprezzare gli oggetti rari, darebbe come risultato che nessuno ruberebbe più. Non mettere in mostra cose che attirino [la concupiscenza degli uomini], avrebbe come effetto il riposo dei cuori. B Perciò, la politica dei Saggi consiste nel vuotare gli animi degli uomini e nel riempire i loro ventri; nell'indebolire le loro iniziative [individuali] e nel fortificare le loro (1) Il P. Wieger si serve qui del termine «evoluzione», il quale va però inteso in un senso molto discosto dall'accezione in cui esso è ormai quasi esclusivamente inteso dagli Occidentali moderni. (N.d.T.)

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ossa. È loro cura costante il mantenere il popolo nell'ignoranza delle cose che non sono di sua competenza e nel disinteresse. C Essi fanno in modo che la gente in possesso delle abilità particolari non osi agire [di sua propria iniziativa individuale]. Giacché non c'è cosa che non si aggiusti in conseguenza della pratica del non agire. Sintesi dei commentari Qualsiasi emozione, qualsiasi disordine, ogni perversione dell'animo, proviene dal fatto che esso si è posto in comunicazione, attraverso i sensi, con oggetti esteriori esercitanti attrazione e allettamento. La vista del fasto degli arricchiti, genera gli ambiziosi. La vista degli oggetti preziosi ammassati, genera i ladri. Si sopprimano tutti gli oggetti propri a generare tentazione, o almeno la loro conoscenza, e il mondo godrà di una perfetta pace. Si facciano, degli uomini, degli esseri capaci di lavoro, produttivi e docili; si badi a che, ben pasciuti, essi non pensino; si ostacolino le iniziative [puramente individuali], si sopprimano le intraprese [originate solo da tendenze separative]. Non sapendo nulla [se non ciò che è di utilità alla comunità] gli uomini non avranno voglie [fuori dai limiti], non necessiteranno sorveglianza, e saranno di frutto allo stato.

IV A Il Principio produce e dà frutti abbondanti, ma senza riempirsi. B Abisso vuoto, sembra essere (ed è) l'antenato (origine) di tutti gli esseri. C Esso è calmo, semplice, modesto, conciliante. D Pur diffondendosi a fiotti, sembra che resti (e resta) sempre lo stesso. E Non so di chi sia figlio (da dove proceda). Sembra essere stato (fu) avanti il Sovrano. Sintesi dei commentari Questo importante capitolo è dedicato alla descrizione [termine eminentemente improprio, da intendere non in senso stretto] del Principio. A causa della sottigliezza immateriale dell'argomento, e forse anche per prudenza — giacché le sue conclusioni erano tali da sembrare in contrasto con le antiche tradizioni cinesi —, Lao-tzu si serve per ben tre volte del termine attenuato sembrare, invece che del termine categorico essere. Egli non si pronuncia sull'origine del Principio, ma ne fa [qualcosa] di anteriore al Sovrano degli Annali e delle Odi. Tale Sovrano non può perciò essere, per Lao-tzu, un Dio creatore dell'universo. E neppure esso è un Dio governatore dell'universo, poiché Lao-tzu non gli concederà mai, a tale titolo, un posto nelle sue concezioni. La dichiarazione che è qui fatta, della sua posteriorità rispetto al Principio, equivale in pratica alla negazione [della sua assolutezza]. Il Principio, in se stesso, è come un abisso immenso, come una scaturigine senza limiti. Tutti gli esseri sensibili sono prodotti dalla sua esteriorizzazione, dalla sua «virtù», te, operante attraverso il binomio cielo-terra. Sennonché gli esseri sensibili, terminazioni del Principio, non «si aggiungono» al Principio, non lo rendono «più grande», non lo au17

17 mentano, non lo «riempiono», — come dice il testo —. Siccome non escono da Lui, neppure lo diminuiscono né lo «svuotano»; e il Principio resta sempre [uguale a] Se Stesso. Gli vengono [qui] attribuite quattro qualità, le quali saranno più avanti proposte spesso all'imitazione del Saggio (ad es.: cap. XXXVI). Queste [quattro]qualità sono piuttosto mal indicate dai termini positivi «calmo», «semplice», «modesto», «conciliante». I termini [usati] da Lao-tzu sono più complessi: 1. Essere «smussato», senza punta e senza tagliente. — 2. Non essere confuso [imbrogliato], complicato. — 3. Non essere accecante, ma brillare di luce attutita, quasi opaca. — 4. Condividere volentieri la «polverosità», lo stato di bassezza, della gente comune [del «volgo»].

V A Il cielo e la terra, nei confronti degli esseri che producono, non sono [propriamente] buoni, ma li trattano come cani di paglia. B A somiglianza del cielo e della terra, il Saggio non è buono nei confronti del popolo che governa, ma lo tratta alla stregua di un cane di paglia. C Ciò che è compreso tra il cielo e la terra, «sede» del Principio, «luogo» dove si esercita la sua «virtù», e come un mantice, come il soffietto di un mantice di cui il cielo e la terra sono come le due tavole [rigide], che si svuota senza esaurirsi, che si muove espellendo senza posa. D Questo è tutto quel che noi possiamo comprendere del Principio e della sua azione produttrice. Tentare di esprimere ciò in dettaglio, con parole e con numeri, sarebbe fatica sprecata. Atteniamoci a questa nozione globale. Sintesi dei commentari Ci sono due sorta di bontà: 1. La bontà di tipo superiore, che è diretta verso l'insieme, e non, [individualmente], verso le parti integranti di tale insieme, se non in quanto esse sono, [appunto], parti integranti; non [quindi] per se stesse [distintamente], né per il loro proprio bene particolare; 2. La bontà d'ordine inferiore, che è diretta verso gli individui, in quanto individui e per il loro bene [singolo e] particolare. Il cielo e la terra, i quali producono tutti gli esseri in virtù del Principio, li producono in modo [non particolaristico, com'è quello degli individui], «inconsapevolmente»(1), e non sono buoni nei loro confronti, dice il testo; sono buoni verso di essi, di bontà superiore, non di bontà inferiore, dicono i commentatori. Ciò equivale a dire che li trattano con «opportunismo» distaccato, tenendo presente soltanto il bene universale, non il loro bene particolare; facendoli prosperare se utili, sopprimendoli quando inutili(2). Questo opportunismo distaccato viene espresso con il termine cane di paglia. Nell'antichità, alla testa dei cortei funebri, si portavano raffigurazioni di cani costruite con paglia; esse avevano la funzione di captare al passaggio tutti gli influssi nefasti. Prima dei funerali queste figure erano preparate con (1) È il termine di cui si serve il P. Wieger, termine che va inteso come «non al modo degli esseri individuali». (N.d.T.) (2) Questa concezione, nelle iniziazioni occidentali, è riecheggiata nell'affermazione dell'esistenza di un «Piano del Grande Architetto dell'Universo». Né la concezione di un «bene» superiore è contrastante, a ben guardare, con quella di un bene inferiore, non essendo concepibile che i due siano incompatibili.

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cura e trattate con premura, in quanto sarebbero state ben presto utili. Dopo i funerali, erano distrutte, in quanto diventate nocive, imbevute com'erano delle influenze nefaste captate [nel corso del funerale], così come Chuang-tzu ci informa al Cap. XIV, D Nell'espletamento della sua funzione di governo, il Saggio deve comportarsi ad imitazione del cielo e della terra. Deve amare lo stato, non i singoli sudditi. Deve favorire i sudditi utili e sopprimere quelli inutili, molesti o pericolosi; secondo le opportunità e senza nessun'altra considerazione. La storia della Cina rigurgita delle applicazioni di questo principio. Tal ministro per lungo tempo coccolato, è subitamente mandato a morte, in quanto, cambiato l'orientamento politico, diventerebbe ora importuno, qualunque siano stati i suoi meriti precedenti; la sua ora è giunta, nella rivoluzione universale; cane di paglia, egli viene soppresso. Inutile mostrare come queste idee siano diametralmente opposte alle nozioni cristiane della Provvidenza, dell'amore di Dio per ognuna delle sue creature, della grazia, della benedizione, ecc.(3). Bontà d'ordine inferiore; a tutto ciò, — dicono con un sorriso sdegnoso, i Saggi taoisti. — fa seguito il celebre paragone del mantice universale, paragone al quale gli autori taoisti rimandano molto spesso. Esso sarà ulteriormente sviluppato nel capitolo seguente. Conclusione: questo è tutto quel che si sa del Principio e della sua azione. Esso produce l'universo fatto di esseri; ma è il solo universo, che gli importa, e non ciascun essere [in particolare]. Anche se è dubbio che si possa qui usare il termine importa, riferendolo a un produttore che esala la propria opera senza averne [una] consapevolezza [di tipo individuale]. Il Brahma del Vedanta risente almeno qualche compiacimento emettendo le bolle di sapone che soffia; il Principio dei Taoisti, no.

VI A La potenza espansiva trascendente che risiede nello spazio intermedio, la virtù del Principio, non muore. Essa è sempre la stessa, e del pari opera, senza decrescere né cessare. B Essa è la madre misteriosa di tutti gli esseri. C La porta di questa madre misteriosa è la radice del cielo e della terra, il Principio. D Pur pullulando, essa non cede di se stessa. Pur operando, essa non si affatica. Sintesi dei commentari Occorre non dimenticare che l'opera di Lao-tzu non fu suddivisa in capitoli originariamente, e che la suddivisione, operata più tardi, ha spesso l'apparenza dell'arbitrarietà, talvolta della malaccortezza. Il presente capitolo continua e completa i paragrafi C e D del capitolo V. Esso tratta della genesi degli esseri, per virtù del Principio, il quale risiede (3) Sarebbe stato più opportuno dire, invece che «delle nozioni cristiane della Provvidenza, ecc.», «dell'interpretazione cristiana attuale di tali nozioni». Del resto, la posizione taoista espressa in questo capitolo è anche «diametralmente opposta» alle nozioni confuciane di «bontà ed equità» individuali, come non mancherà di mettere in evidenza Chuang-tzu lungo tutta la sua opera. Si tratta dei due punti di vista «esoterico» ed «exoterico», entrambi tradizionali in questo caso, ma non per questo meno profondamente diversi. Quanto al probabile motivo di questa osservazione del P. Wieger, si veda la nostra nota a Chuang-tzu, cap. V, B. (N.d.T.)

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19 nello spazio intermedio, nel soffietto del mantice universale, dal quale tutto proviene. I paragrafi A e B si riferiscono alla «virtù» del Principio; i paragrafi C e D, al Principio in sé. Il termine porta, idea di due battenti, significa il movimento alternativo, il gioco del ying e dello yang, prima polarizzazione nel Principio. Tale gioco fu la radice, vale a dire che produsse il cielo e la terra... In altri termini, è a causa del Principio che furono originati il cielo e la terra, le due «tavole» del mantice. È dal Principio che proviene te, la «virtù» produttrice universale, la quale opera, per l'intermediazione del cielo e della terra, tra il cielo e la terra, nello «spazio» intermedio, producendo tutti gli esseri individuati senza esaurirsi e senza affaticarsi.

VII A Se il cielo e la terra durano sempre, è perché essi non vivono per se stessi. B Imitando questo esempio, il Saggio, indietreggiando, avanza; trascurandosi, si conserva. Poiché egli non cerca il suo tornaconto, tutto si risolve a suo proprio vantaggio. Sintesi dei commentari Se il cielo e la terra durano sempre, non sono distrutti dai gelosi, dagli invidiosi, dai nemici, è perché vivono per tutti gli esseri, facendo del bene a tutti. Se ricercassero il loro proprio interesse, dice Uang-pi, si metterebbero in conflitto con tutti gli esseri, giacché un interesse particolare è sempre nemico dell'interesse generale. Ma siccome essi sono perfettamente disinteressati, tutti gli esseri affluiscono verso di loro. Analogamente, se il Saggio ricercasse il suo interesse proprio, non avrebbe che ostilità, e non otterrebbe alcun risultato. Se [invece] è disinteressato al modo del cielo e della terra, avrà solo amici, e riuscirà in tutto [quel che fa]. Per riuscire a durare, bisogna dimenticare se stessi, dice Ciang-hung-yang. Il cielo e la terra non pensano a sé; di conseguenza, nulla è più durevole [di essi]. Se il Saggio non avrà amor proprio, la sua persona durerà e le sue intraprese riusciranno. Se no, accadrà il contrario. U-teng ricorda — a ragione — che con i termini cielo e terra occorre intendere il Principio che opera per l'intermediazione di cielo e terra. In questo capitolo, quello che viene proposto come esempio al Saggio è perciò il disinteresse del Principio.

VIII A La bontà trascendente è come l'acqua. B L'acqua ha per scopo di fare il bene a tutti gli esseri, essa non lotta per nessuna forma o posizione definita, ma si dispone nei luoghi più bassi, che nessuno ambisce. Essendo questa la sua forma d'essere, essa è l'immagine del Principio. C Seguendo il suo esempio, coloro che imitano il Principio si abbassano, si fanno cavi; sono benefici, sinceri, regolati, efficaci, e si adattano ai tempi. Essi non competono 20

per il loro proprio interesse, ma cedono. In questo modo non risentono di nessuna opposizione. Sintesi dei commentari Questo capitolo continua il precedente. Dopo il disinteresse del cielo e della terra è proposto ad esempio quello dell'acqua. Co-ciang-cheng riassume in questo modo: «Schivando le altitudini, l'acqua cerca le profondità. Essa non è mai inoperosa, né di giorno né di notte. In alto essa forma la pioggia e la rugiada, in basso forma i fiumi e i torrenti. Dappertutto essa innaffia e purifica; fa del bene ed è utile, a tutti. Obbedisce sempre e mai resiste. Se le si oppone una diga, si ferma; se le si apre una chiusa, scorre. Si adatta a qualsiasi recipiente, sia esso rotondo, quadrato, o d'altra forma. «La propensione degli uomini è tutta diversa. Essi sono naturalmente attirati dal loro profitto. Dovrebbero imitare l'acqua. Chiunque, abbassandosi, sarà di servizio agli altri, sarà amato da tutti e nessuno gli si opporrà».

IX A Impossibile è mantenere un vaso pieno, senza che se ne versi nulla; meglio sarebbe stato non riempirlo. Impossibile conservare una lama affilata all'estremo, senza che il tagliente si smussi; meglio sarebbe stato non affilarla a quel punto. Impossibile è conservare una stanza piena d'oro e di pietre preziose, senza che nulla ne venga detratto; meglio sarebbe stato non ammassare un simile tesoro. Nessun estremo può essere conservato a lungo. Ogni acme è necessariamente seguito da una decadenza. Così è per l'uomo... B Chiunque sia divenuto ricco e potente, e se ne inorgoglisca, prepara la sua rovina con le proprie mani. C Ritirarsi al culmine del proprio merito e della propria celebrità, questa è la via del cielo. Sintesi dei commentari Un vaso pieno fino al bordo versa il suo contenuto al minimo movimento, o ne perde per evaporazione. Una lama affilata all'eccesso perde il filo per effetto degli agenti atmosferici. Un tesoro sarà rubato o confiscato, inevitabilmente. Giunto allo zenit, il sole si abbassa; arrivata ad esser piena, la luna incomincia a decrescere. Su una ruota in movimento, il punto che è salito fino al culmine del suo moto, subito dopo discende. Chiunque abbia compreso la legge universale, ineluttabile, della diminuzione che segue necessariamente l'aumento, dimissiona, si ritira, appena si renda conto che la propria fortuna è all'apogeo. E questo non per timore dell'umiliazione, ma, beninteso, per la preoccupazione della sua propria conservazione, e soprattutto, per associarsi perfettamente all'intenzione del destino... Quando si rende conto che il momento è arrivato, dice un commentatore, il Saggio rescinde i propri attaccamenti, sfugge dalla gabbia, esce dal mondo delle cose di tutti i giorni. Come dicono le Mutazioni, non serve più un principe, perché il suo cuore è più in alto. Così fecero molti Taoisti, i quali si ritirarono a vita privata nel pieno della loro fortuna, e finirono in un'oscurità volontaria. 21

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X A Fare in modo che il corpo e l'anima spermatica, strettamente uniti, non si separino. B Aver cura che l'aria inspirata, trasformata in anima aeriforme, dia vita a tale composto, e lo conservi intatto come il fanciullo che è appena nato. C Astenersi dalle considerazioni troppo complesse, per non esaurirsi. D In materia di amore per il popolo e di sollecitudine per lo stato, contenersi a non agire. E Lasciare che le porte del cielo si aprano e si chiudano, senza voler produrre individualmente, senza ingerirsi. F Sapere tutto, essere al corrente di tutto, e restare nello stesso tempo imperturbabili, come se non si sapesse nulla. G Produrre, far crescere, senza far proprio ciò che si è prodotto, senza pretendere ritorni per la propria azione, senza imporsi a coloro che si governa. Questa è la formula dell'azione trascendente. Sintesi dei commentari L'uomo ha due anime, un duplice principio vitale. Prima di tutto p'ai, l'anima uscita dallo sperma paterno, principio della genesi e dello sviluppo del feto nell'utero materno. Più quest'anima aderisce strettamente al corpo, più il nuovo essere è sano e forte. Dopo la nascita, l'assorbimento e la condensazione dell'aria producono la seconda anima, l'anima «aerea» [«aeriforme»], principio dello sviluppo ulteriore e, soprattutto, della sopravvivenza. L'ideogramma [cinese, che si trova nel testo], «campo» [militare], è un termine analogo a «conchiglia», il corpo. I due termini [che seguono] sono differenti [l'uno dall'altro], per parallelismo, [e significano] «fare in modo che». L'ideogramma [successivo] «flessibilità», qui significa «vita», per opposizione alla rigidità cadaverica. Il fanciullo appena nato è, per i Taoisti, l'ideale perfezione della natura ancora totalmente intatta e senza mescolanza alcuna. Più tardi, questo fanciullo sarà interpretato come un essere trascendente interiore, principio di sopravvivenza. La malattia, gli eccessi, indeboliscono l'unione dell'anima spermatica con il corpo, provocando gli stati morbosi. Lo studio [eccessivo], le preoccupazioni, danneggiano l'anima aeriforme, affrettando in tal modo la morte. Mantenimento del composto corporeo e dell'anima aeriforme, attraverso una igiene appropriata, riposo, aeroterapia; questo è il programma di vita del Taoista. — Con riferimento a G, si confronti: cap. II, C, D.

XI A Una ruota è fatta di trenta raggi sensibili [percepibili dai sensi], ma gira in virtù del vuoto centrale non sensibile del mozzo. B I vasi sono fatti d'argilla sensibile, ma serve il loro cavo non sensibile. C L'essenziale di una casa sono i fori non sensibili che costituiscono la porta e le finestre. 22

D Come si vede da questi esempi, l'efficacia, il risultato, provengono dal non sensibile. Sintesi dei commentari Il contenuto di questo capitolo si ricollega ai paragrafi A e B del precedente. L'uomo non vive in virtù del suo corpo sensibile [grossolano], ma grazie alle sue due anime non sensibili, la spermatica e l'aeriforme. Di conseguenza, il Taoista bada soprattutto a queste due entità invisibili; mentre la gente comune non ci crede, o non ci fa caso, perché sono invisibili. Quel che interessa costoro è ciò che è materiale, sensibile. Ora, in molti esseri sensibili, dice il testo, l'utile, l'efficace, è ciò che hanno di non sensibile, la loro parte cava, il loro vuoto, un foro. I commentatori generalizzano e dicono: ogni efficacia origina dal vuoto; un essere è efficace solo in quanto è vuoto. Sembra che le antiche ruote avessero trenta raggi perché il mese ha trenta giorni.

XII A La percezione dei colori offusca gli occhi dell'uomo. La percezione dei suoni gli fa perdere l'udito. La percezione dei sapori deteriora il suo senso del gusto. La corsa e la caccia, eccitando in lui istinti selvatici, gli agitano il cuore. L'attrazione per gli oggetti rari e difficili da ottenere, lo spinge a sforzi nocivi. B Per cui il Saggio bada al proprio ventre, e non ai suoi sensi [esteriori]. C A questi rinuncia, per adottare quello. (Rinuncia a ciò che lo esaurisce, per abbracciare ciò che lo conserva). Sintesi dei commentari Il presente capitolo si ricollega al precedente. Il ventre è ciò che è cavo, il vuoto, perciò la parte essenziale ed efficace, nell'uomo. Da esso sono conservati il composto umano e tutte le sue parti mediante la digestione e l'assimilazione. È perciò il ventre a costituire l'oggetto delle cure sensate del Saggio taoista. Questo spiega perché i ventri ben sviluppati riscuotano tanto consenso in Cina, e perché i grandi personaggi del Taoismo sono quasi sempre rappresentati forniti di grosso ventre. Al contrario, dall'applicazione dei sensi esteriori, dall'esercizio delle facoltà psichiche, dalla curiosità, da ogni attività e passione che deteriorano le due anime e il composto, il Saggio si astiene con cura.

XIII A «Il favore, che può esser perduto, è fonte di affanni». «La grandezza, che può decadere, è fonte di preoccupazioni». Qual è il senso di queste due proposizioni? B La prima significa che sia la sollecitudine per conservare il favore, sia il timore di perderlo, colmano l'animo di affanni. C La seconda mette in guardia sul fatto che la rovina proviene generalmente dall'aver 23

23 troppo a cuore il proprio accrescimento personale. Colui che non ha ambizioni personali non ha da temere rovine. D A colui le cui premure sono unicamente dirette verso la grandezza dell'impero (e non verso la propria); a colui che desidera solo il bene dell'impero (e non il suo proprio), a questi si affidi l'impero, (ed esso sarà in buone mani). Sintesi dei commentari Continuazione del precedente capitolo. Altre cagioni di deterioramento, altre precauzioni da assumere per evitarlo. Di coloro che godono [momentaneamente] del favore, che occupano posizioni [elevate], la preoccupazione di conservarli deteriora l'anima e il corpo. [E questo] perché sono attaccati con il cuore al loro favore, alla loro posizione. Più di un Saggio taoista fu onorato dal favore dei grandi [politici], occupò posizioni elevate, senza che gliene venissero inconvenienti, perché era distaccato da qualsiasi affezione per la propria situazione; perché non desiderava mantenerla, ma, [piuttosto], che fossero accolte le sue dimissioni. Gli uomini di questa specie possono essere imperatori, prìncipi o ministri, senza che ne provenga per loro alcun detrimento, e senza detrimento per l'impero, che governano nel più elevato e completo disinteresse. — Il testo di questo capitolo è deteriorato in molte edizioni moderne —.

XIV A Guardando, non si può vederlo, perché è non visibile. Ascoltando, non si può udirlo, perché è non sonoro. Toccando, non si può sentirlo, perché è non palpabile. Questi tre attributi non devono essere distinti, poiché si applicano a uno stesso essere. B Questo essere, il Principio, non è luminoso al di sopra e oscuro al di sotto, come i corpi materiali opachi, tanto è tenue. Esso si dipana (con un'esistenza e un'azione continue). Non ha nome proprio. Risale fino ai tempi in cui non ci fu altro essere oltre a lui. Superlativamente privo di forma e di figura, è non determinato. Non ha parti; davanti non gli si vede testa, dietro [non gli si vede] posteriore. C È questo Principio primordiale che regge e governa tutti gli esseri, fino a quelli attuali. Tutto ciò che è, a partire dall'antica origine, è dipanamento del Principio. Sintesi dei commentari I tredici capitoli iniziali costituiscono una serie. A questo punto l'autore riprende dall'inizio. Nuova descrizione del Principio, non sensibile tanto è tenue; è [un] nulla di forma; essere infinito, indefinito, che fu prima d'ogni cosa, che fu causa di tutto. Descrizione metaforicamente espressiva di te, la sua azione produttiva continua e variata, mediante il simbolismo di chi, «il dipanamento di una matassa». Il senso è chiaro: i prodotti diversi del Principio, sono le manifestazioni della sua «virtù»; il concatenamento indefinito di tali manifestazioni del Principio, può esser detto il dipanamento del Principio. Questo importante capitolo non sembra presentare alcuna difficoltà.

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XV A I Saggi dell'antichità erano sottili, astratti, profondi, a un tal grado, che le parole non possono esprimerlo. Mi servirò perciò di paragoni metaforici per farmi comprendere, per quanto è possibile. B Essi erano circospetti, come chi attraversa un corso d'acqua sul ghiaccio; prudenti, come chi sa di avere su di sé gli occhi dei vicini; riservati, come un invitato davanti al padrone di casa. Essi erano indifferenti come il ghiaccio fondente (il quale è ghiaccio o acqua; non è né ghiaccio né acqua). Erano rustici, come il tronco [di un albero] (la cui scorza ruvida nasconde il cuore eccellente). Erano vuoti come la valle (nei confronti delle montagne che la formano). Erano concilianti come acqua limacciosa (essi, acqua limpida, non evitavano il fango, non rifiutavano di vivere a contatto del volgo, non si tenevano lontano dagli altri). C (Ricercare la purezza e la pace nella separazione dal mondo è esagerazione. Esse possono ottenersi [vivendo] nel mondo). La purezza ce la si può procurare nel tumulto (del mondo) mediante la calma (interiore), purché non ci si angusti per l'impurità del mondo. La pace si può ottenere nel movimento (del mondo), purché si accetti ragionevolmente tale movimento, e non ci si spazientisca a desiderare che esso si fermi. D Colui che osservi la regola di non travagliarsi con sterili desideri di uno stato d'utopia, vivrà con piacere nell'oscurità, e non avrà la pretesa di rinnovare il mondo. Sintesi dei commentari Ciang-hung-yang spiega nel modo seguente l'ultimo paragrafo, D, piuttosto oscuro a causa dell'estrema concisione: Costui rimarrà fedele agli insegnamenti degli Antichi, e non si lascerà sedurre dalle nuove dottrine. Spiegazione difficilmente sostenibile.

XVI A Colui che è arrivato al massimo del vuoto (del distacco), quegli si sarà solidamente stabilito nel riposo. B Gli esseri innumerevoli hanno origine (dal non essere) e io li vedo ritornarci. Essi si moltiplicano, poi ritornano tutti alla loro radice. C Ritornare alla propria radice significa entrare nello stato di riposo. Da questo riposo essi escono, per un nuovo destino. E così di seguito, continuamente, senza fine. D Riconoscere la legge di questa continuità ininterrotta (dei due stati di vita e di morte), è quella la saggezza. Ignorarla, è provocare sconsideratamente disgrazie (con le proprie ingerenze intempestive). E Colui che sa che questa legge pesa sugli esseri, è giusto (tratta tutti gli esseri in accordo con la loro natura, con equità), come deve fare un re, come fa il cielo, come fa il Principio. E di conseguenza egli dura, e vive fino al termine dei suoi giorni, non essendosi fatto nemici. Sintesi dei commentari 25

25 L'immutabilità è un attributo del Principio. Gli esseri partecipano di esso nella misura della rassomiglianza con il Principio che hanno acquisita. Il Saggio taoista assolutamente distaccato, poiché è di tutti gli esseri quello che più assomiglia al Principio, è di conseguenza il più immutabile. Ad eccezione del Principio, tutti gli esseri sono soggetti alla continua alternanza dei due stati di vita e di morte. I commentatori chiamano tale alternanza il va-e-vieni della navetta sul telaio [per tessitura] del cosmo. Ciang-hung-yang la paragona alla respirazione: l'inspirazione attiva corrisponde alla vita, l'espirazione passiva corrisponde alla morte, e la fine dell'una è l'inizio dell'altra. Lo stesso autore si serve, come termine di paragone, anche della rivoluzione lunare, e in questo caso la luna piena rappresenta la vita, mentre la luna nuova rappresenta la morte, con due periodi intermedi di crescita e di decremento. Tutto ciò è classico, e viene ripreso e ripetuto da tutti gli autori taoisti.

XVII A Nei primi tempi (quando, nelle cose umane, tutto era ancora conforme all'azione del Principio), i sudditi sapevano a malapena che avevano un principe (tanto era discreta l'azione di quest'ultimo). B Più tardi il popolo amò e adulò il principe (a causa dei benefici [che gliene venivano]). Più tardi lo temette (a causa delle sue leggi), e lo disprezzò (a causa delle sue ingiustizie). Diventò sleale, perché era stato trattato slealmente; e perdette fiducia, perché riceveva solo buone parole, non seguite da alcun effetto. C Quanto fu delicato il tocco dei sovrani antichi. Tutto prosperava grazie alla loro amministrazione, e il loro popolo immaginava di aver fatto tutto secondo la propria volontà. Sintesi dei commentari Il senso è ovvio, e i commentatori sono tutti d'accordo. Il sogno di un governo impercettibile, senza castighi e senza ricompense, perseguitava ancora recentemente i letterati cinesi.

XVIII A Quando l'azione conforme al Principio andò perdendosi (quando gli uomini cessarono di agire con bontà ed equità spontanee), furono inventati i principi della bontà e dell'equità artificiali; e quelli della prudenza e della saggezza, che tosto degenerarono in politica. B Quando i genitori non vissero più nell'armonia naturale antica, si cercò di supplire a questa manchevolezza con l'invenzione dei principi artificiali della pietà filiale e dell'affetto paterno. C Quando gli stati furono caduti nel disordine, si inventò la figura del ministro fedele. 26

Sintesi dei commentari I principi e i precetti [morali] — in una parola la morale convenzionale —, inutili all'epoca del bene spontaneo, furono inventati, quando il mondo incominciò a decadere, come rimedio per questa stessa decadenza. L'invenzione fu alquanto infelice. n solo vero rimedio sarebbe stato il ritorno al Principio originario. È la dichiarazione di guerra di Lao-tzu a Confucio. Tutti gli autori taoisti, in particolare Chuang-tzu, si sono levati contro la bontà e l'equità artificiali, parola d'ordine del Confucianesimo.

XIX A Rinunciate alla saggezza e alla prudenza (artificiali, convenzionali, alla «politica», per tornare alla rettitudine naturale primigenia), e il popolo sarà cento volte più felice. B Rinunciate alla bontà e all'equità (artificiali, alla pietà filiale e paterna convenzionali), e il popolo ritornerà (per il suo bene, alla bontà e all'equità naturali), alla pietà filiale e paterna spontanee. C Rinunciate all'arte e al lucro, e i malfattori scompariranno. (Ritornati alla semplicità primordiale, si tornerà anche all'onestà primordiale). D Rinunciate a queste tre categorie artificiali, perché ciò che è artificiale non è buono a nulla. E Ciò a cui dovete mirare? Eccolo: ad esser semplici, restar naturali, avere pochi interessi particolari, e pochi desideri. Sintesi dei commentari Il capitolo è il seguito di quello che precede; esso è perfettamente chiaro. I commentatori sono concordi. Sono argomenti sviluppati estensivamente da Chuang-tzu.

XX A Rinunciate a qualsiasi scienza [particolare], e vi libererete da ogni cura. Qual è la differenza tra le particelle uei e a ([affermazione e negazione] sulla quale tanto hanno [bisogno di] dire i retori)? Qual è la differenza tra il bene e il male (sulla quale i critici non riescono a mettersi d'accordo)? (Si tratta di questioni futili, che impediscono all'animo di essere libero. Ora, la libertà d'animo è necessaria, se si vuol entrare in rapporto con il Principio). B Non c'è dubbio che, fra le cose che temono gli uomini comuni, ce ne sono di cui [di fatto] bisogna aver paura; ma non al loro modo, turbandosi nell'animo, al punto di perdere il proprio equilibrio mentale. C Né bisogna permettere che a farci perdere l'equilibrio sia il piacere, come accade [sempre agli uomini comuni], quando han fatto un buon pasto, quando han guardato il paesaggio dall'alto di una torre in primavera (con assunzione di vino, e così via). 27

27 D Io (il Saggio), sono in certo qual modo incolore e indefinito; neutro, come il neonato che ancora non ha provato la sua prima emozione; quasi senza intenzione e senza scopo. E Il volgo è ricco (di conoscenze svariate), mentre io sono povero (essendomi liberato di ogni inutilità), e quasi ignaro, tanto mi sono purificato. Essi appaiono pieni di luci, io sembro oscuro. Essi cercano e scrutano, io rimango concentrato in me stesso. Indeterminato, come l'immensità delle acque, senza tregua fluttuo. Essi sono pieni (di capacità specifiche), mentre io sono come ottuso e incolto. F Così differisco dal volgo, perché venero e imito la materna nutrice universale, il Principio. Sintesi dei commentari Il testo di questo capitolo è variabile secondo le differenti edizioni; sembrerebbe che sia stato mutilato o ritoccato. I commenti sono anch'essi molto diversi gli uni dagli altri. Questa oscurità deriva, credo io, dal fatto che Lao-tzu, parlando di se stesso e proponendosi come modello dei discepoli del Principio, probabilmente non vuol parlare in modo più chiaro. Mi sembra che Ciang-hung-yang sia, dei commentatori, quello che ha interpretato meglio il suo pensiero.

XXI A Tutti gli esseri che ricoprono un ruolo nella grande manifestazione del teatro cosmico, hanno origine dal Principio, per sua «virtù» (il suo «dipanamento»). B Ecco qual essere è il Principio: è indistinto e indeterminato. Oh quanto indistinto e indeterminato! In questa indistinzione e indeterminazione ci sono tipi [modelli]. Oh com'è indistinto e indeterminato! In questa indistinzione e indeterminazione ci sono esseri in potenza. Oh com'è misterioso e oscuro! In questo mistero, in questa oscurità, c'è un'essenza, che è realtà. Ecco qual essere è il Principio. C Dall'antichità fino al presente, poiché il suo nome (il suo essere) permane uguale a se stesso, da esso sono usciti tutti gli esseri. D Come faccio a sapere che questa fu l'origine di tutti gli esseri?... Da questo. (Dall'osservazione obiettiva dell'universo, la quale rivela che gli [esseri] contingenti devono aver avuto origine dall'assoluto). Sintesi dei commentari Il capitolo, elevato, non è oscuro, e i commentatori sono concordi su di esso. Sono tutte nozioni che ci sono già note. È il terzo capitolo consacrato alla descrizione [simbolica] del Principio e della sua «virtù» ed è più chiaro dei precedenti, quasi che Lao-tzu, riprendendola, abbia precisato le sue idee.

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XXII A Dicevano gli Antichi: l'incompleto sarà completato, il curvo sarà raddrizzato, il cavo sarà colmato, il logoro sarà rinnovato, la semplicità porta alla riuscita, la molteplicità disperde. B Per cui il Saggio, che si attiene all'Unità, è il modello dell'impero (del mondo, l'uomo esemplare). Egli risplende, perché non si mette in mostra. Si impone, perché non pretende di aver ragione. Il suo merito è riconosciuto, perché egli non si vanta. Cresce costantemente, perché non vuol emergere. Non opponendosi a nessuno, nessuno Si oppone a lui. C Gli assiomi degli Antichi ricordati sopra, non sono forse colmi di significato? Certo, in direzione del perfetto (che non fa nulla per attirare), tutto affluisce spontaneamente. Sintesi dei commentari Il senso è chiaro. Attenersi all'unità equivale a, dice Ciang-hung-yang dimenticare se stessi e dimenticare ogni cosa, per concentrarsi nella contemplazione dell'unità originaria.

XXIII A Parlar poco, e agire soltanto senza sforzo, questa è la formula. B Un vento impetuoso non resiste per tutta una mattinata; una pioggia torrenziale non dura una giornata intera. E tuttavia questi effetti sono il prodotto del cielo e della terra, (le più possenti di tutte le cause seconde. Sennonché, si tratta di effetti forzati, portati al loro massimo; e questa è la ragione per cui non possono mantenersi a tal livello). Se il cielo e la terra non possono sostenere un'azione forzata, quanto meno lo potrà l'uomo. C Quegli che si conforma al Principio, conforma i suoi principi a tal Principio; conforma il suo agire all'azione di tal Principio; il suo non agire, al non agire di tal Principio. Di conseguenza, i Suoi principi, le sue azioni, le sue inazioni (speculazioni, interventi, astensioni), gli daranno sempre la soddisfazione di un successo (giacché, qualsiasi cosa accada, o non accada, [in conseguenza di un simile atteggiamento] è il Principio che l'avrà sostenuto; di qui, accontentamento [ovvero soddisfazione]). D (Una tal dottrina di sacrificio volontario delle proprie opinioni e della propria azione, incontra il gusto di pochi). Molti [di questi ultimi] ci credono, ma poco; gli altri, non ci credono affatto. Sintesi dei commentari Il senso è chiaro, e i commentatori sono tutti d'accordo. Nelle edizioni moderne il testo del capitolo è molto scorretto, a causa di ritocchi poco intelligenti.

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XXIV A A forza di sollevarsi sulla punta dei piedi, si perde l'equilibrio. Volendo fare i passi troppo lunghi, non si va avanti. A mettersi in mostra, si perde la reputazione. Volendo imporsi, si perde l'autorevolezza. Vantandosi, si perde la stima degli altri. A voler far strada a gomitate, Si cessa di crescere. B Alla luce del Principio, tutti questi modi di agire sono odiosi, repellenti. Perché sono eccesso, inutile [e nociva] addizione; quel che un'indigestione è per lo stomaco, un tumore per il corpo. Chiunque abbia dei principi (conformi al Principio), non fa Così. Sintesi dei commentari Questo capitolo costituisce la continuazione dei due che lo precedono. Il significato è chiaro. I commentatori concordano. Eccessi confrontati con la semplicità di natura.

XXV A Vi è un essere dall'origine sconosciuta, che fu avanti il cielo e la terra, non percepibile dai sensi e indeterminato, unico e immutabile, onnipresente e inalterabile; esso è la madre di tutto ciò che è. B Non gli conosco nome. Lo indico con la parola Principio. Se si dovesse nominarlo, si potrebbe chiamarlo il Grande: grande andare, gran lontananza, gran ritorno (il principio dell'immenso sviluppo ciclico del cosmo, del divenire e della destinazione di tutti gli esseri). C Il nome «Grande» si attaglia (in modo proporzionale) a quattro esseri (sovrapposti [a partire dal basso]): all'imperatore, alla terra, al cielo (triade tradizionale cinese), al Principio. L'imperatore deve la sua grandezza alla terra (il teatro in cui opera); la terra deve la sua grandezza al cielo (che la feconda); il cielo deve la sua grandezza al Principio (del quale è l'agente principale). (Grandezza riflessa, com'è facile vedere. Mentre) il Principio la sua grandezza essenziale la deve alla sua aseità. Sintesi dei commentari Capitolo celebre; si raffronti con il cap. I. I commentatori seri concordano, i verbosi esitano. Il Principio è chiamato «la madre di tutto ciò che è, in quanto scaturigine dell'essere di tutto ciò che è». Non può essere nominato, essendo il nulla di forma, che è privo di qualsiasi accidente a cui si possa applicare una qualificazione. Essere indeterminato, o Principio universale, sono gli unici termini che gli siano propriamente applicabili.

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Il pesante è la base (radice) del leggero; il riposo è il sostegno (principe) del movi-

mento. (Tali categorie devono essere sempre unite in giusto equilibrio). B Quindi un principe saggio, quando è in viaggio (sul suo carro leggero), non si separa mai dai pesanti furgoni che portano i bagagli. Qualunque sia la bellezza dei paesaggi che attraversa, egli non sceglierà come dimora se non località tranquille. C Ohimé, come ha potuto un imperatore offrire all'impero lo spettacolo di una condotta folle, perdendo per leggerezza ogni autorità, e per dissolutezza ogni riposo?! Sintesi dei commentari Allusione storica all'imperatore Yu-uang, o forse a un altro, non si sa con certezza. I commentatori pensano che questo capitolo sia in realtà un'esortazione ad una condotta regolata.

XXVII A Un abile marciatore non lascia tracce; un abile parlatore non ferisce nessuno; un abile calcolatore non usa pallottoliere; un fabbro esperto costruisce serrature che nessuno riesce ad aprire; un abile annodatore fa nodi che nessuno è capace di sciogliere. (Ogni specialista ha perciò la sua specialità, che costituisce il suo vanto, e da cui trae profitto). B Alla stessa maniera, il Saggio (politico, confuciano), il salvatore professionista di uomini e cose, ha le sue tecniche proprie. Si ritiene il padrone nato degli altri uomini, che considera essere, per sua natura, materia nata del suo mestiere. C Questo è esser ciechi (oscurare la luce, i principi taoistici). Non voler dirigere; non appropriarsi di altrui; pur se saggi, apparire insensati (perseverare nella vita ritirata), questa è la verità essenziale. Sintesi dei commentari Tradotto secondo Ciang-hung-yang in altro modo egli osserva, a ragione, che quasi tutti i commentatori si sono sbagliati nell'interpretazione di questo capitolo. Opposizione palese tra punto di vista confucianista e punto di vista taoista. Il primo fa sognare i suoi aderenti di una funzione che conferisca loro autorità sugli uomini. Il secondo induce i suoi a far tutto il possibile per non averne.

XXVIII A Aver coscienza della propria potenza virile (sapere che si è galli), e mantenersi ciò nonostante volontariamente nello stato inferiore della femmina (della gallina); mantenersi volontariamente al livello più basso dell'impero... Comportarsi così, è mostrare che ancora si conserva la virtù primordiale (il disinteresse assoluto, partecipazione al Principio). B Saper di essere illuminati e farsi volontariamente passare per ignari; essere volentieri lo sgabello di tutti... Comportarsi così, è provare che in sé la virtù primordiale non è ancora stata scossa, che ancora si è uniti al Principio primo. 31

31 C Saper che si è degni di gloria, e restare volontariamente nell'oscurità; essere di buon grado la valle (il punto più basso) dell'impero... Comportarsi così, vuol dir provare che ancora si possiede intatta l'abnegazione originaria; che si è ancora nello stato di semplicità naturale. D (Il Saggio rifiuterà perciò l'incarico di governare. Se sarà costretto ad accettarlo, si ricordi allora che) dall'unità primordiale gli esseri molteplici sono usciti per dispersione. (Non si occupi mai di questi esseri diversi), ma governi come capo dei funzionari (motore primo), applicandosi unicamente all'azione di governo generale, senza occuparsi, in nulla, dei particolari. Sintesi dei commentari Questo capitolo si ricollega a C, la fine del capitolo precedente. Esso dipinge bene il tipo di governo olimpico, com'è inteso dai Taoisti. Il cap. XXIX prosegue la trattazione dell'argomento.

XXIX A Per colui che ha il carico dell'impero, il volerlo manipolare (agire positivamente, governare in modo attivo [con iniziativa solo individuale]), secondo me è volere l'insuccesso. l'impero è un congegno di delicatezza estrema. Quel che occorre fare, è lasciarlo procedere per virtù propria; non bisogna metterci le mani. Chi ce le mette, lo sregola. Colui che vuole impadronirsene, lo perde. B Governando, il Saggio lascia che tutti gli esseri seguano il proprio cammino (insieme all'impero, che è il complesso da loro costituito), secondo le loro nature diverse; i pronti e i lenti; i molli e i vivaci; i forti e i deboli; gli stabili e gli effimeri. C Egli si limita a reprimere le forme di eccesso che risulterebbero nocive per l'insieme degli esseri, come la potenza, la ricchezza, l'ambizione. Sintesi dei commentari Ciang-hung-yang dice, di questa repressione degli eccessi, che è il solo intervento permesso al Taoista; l'agire, all'interno del non agire. (Di tutti gli eccessi, il più riprovevole, il più dannoso, è quello che ha come supporto le armi, la guerra).

XXX A Che coloro che hanno come compito di aiutare un principe con i loro consigli, si guardino dal voler far sperimentare a un paese la forza delle armi (giacché una simile azione attira la vendetta, e si paga sempre molto cara). Dove si fermano le truppe, le terre, abbandonate dai contadini, producono solo più spini. I territori dove sono passati i grandi eserciti, saranno in seguito funestati per anni dalla disgrazia (carestia e brigantaggio). 32

B Per cui un buon generale si limita a fare quel che occorre (cioè, il meno che si può; repressione più morale che materiale), e subito si ferma, evitando di usare la forza fino in fondo. Fa appena quel che è necessario (per ristabilire la pace), non certo per procurarsi gloria e benefici, ma per necessità e a malincuore, senza voler accrescere la sua potenza. C E questo perché il culmine della potenza sempre è seguito dalla decadenza. Farsi potenti è perciò contrario al Principio (fonte della durata). Colui che viene meno al Principio su questo punto, non tarderà a soccombere. I commenti sono tutti letterali; nessuna controversia.

XXXI A Le armi meglio concepite sono strumenti funesti, in orrore a tutti gli esseri. Per cui, coloro che si conformano al Principio, di esse non si servono. B In tempo di pace, il principe pone alla sua sinistra (posto d'onore) il ministro civile, da lui onorato; ma anche in tempo di guerra, il comandate militare egli lo pone alla destra (non al posto d'onore dunque, quand'anche sia nell'esercizio delle sue funzioni). Le armi sono strumenti nefasti, di cui un principe saggio si serve solo controvoglia, e per necessità, perché preferisce una pace modesta a una gloriosa vittoria. Non bisogna giudicare che una vittoria sia un bene. Chi lo facesse, mostrerebbe d'aver cuore d'assassino. Che un simile uomo regni sull'impero, non sarebbe opportuno. C Secondo il rituale, a sinistra si pongono gli esseri fasti, a destra gli esseri nefasti. (Ora, quando l'imperatore riceve insieme i due generali), il generale in seconda (il quale entra in azione solo quando manca il titolare, ed è di conseguenza meno nefasto) e posto a sinistra, mentre il generale in comando è posto a destra, cioè al primo posto nei riti funebri (il posto del direttore del lutto, il capo dei lamentatori). Questo, perché tocca a quegli che ha ucciso molti uomini il piangerli, con lagrime e lamenti. Il solo posto che veramente si addica a un generale che ha vinto, è quello di lamentatore in capo. (che dirige il lutto per coloro di cui ha provocato la morte). Commentatori concordi e commenti letterali.

XXXII A Il Principio non ha un nome proprio. Egli è la natura. La natura, così inafferrabile, è più possente di qualunque cosa. Se i prìncipi e l'imperatore si conformano ad essa, tutti gli esseri, spontaneamente, collaboreranno con loro; il cielo e la terra, agendo in armonia perfetta, emetteranno rugiada zuccherosa (il più favorevole dei segni); il popolo sarà regolato, senza bisogno di costrizioni. B Quando all'inizio, in questo mondo visibile, per comunicazione il Principio produsse gli esseri che hanno un nome (gli esseri sensibili), non si comunicò all'infinito, né in modo da esaurirsi (ma come per prolungamenti tenui, restando intatta la sua «massa»). Così è del Principio, in rapporto agli esseri diversi che riempiono il mondo, come della 33

33 massa dei gran fiumi e del mare, in rapporto ai ruscelli e ai rivoli d'acqua. Sintesi dei commentari Ogni essere esiste per un prolungamento del Principio in lui. Tali prolungamenti non sono separati dal Principio, il quale, perciò, non diminuisce comunicandosi. Il prolungamento del Principio nell'essere singolo, è la natura di quest'essere. Il Principio è la natura universale, poiché è la sintesi di tutte le nature individuali, suoi prolungamenti.

XXXIII A Conoscere gli altri, è saggezza; ma conoscere se stessi e saggezza superiore, (la natura propria, essendo ciò che è più profondo e nascosto). Imporre la propria volontà agli altri, è forza; ma imporla a se stessi, è forza superiore, (le proprie tendenze essendo ciò che di più difficile c'è, da dominare). Esser sufficienti per se stessi (esser contenti di quel che ha dato il destino), è la vera ricchezza; governare se stessi (piegandosi a ciò che il destino ha disposto) è il vero carattere. B Rimanere al proprio posto (naturale, quello dato dal destino), fa durare a lungo. Dopo la morte, non-cessar d'essere, è la vera longevità (la quale è appannaggio di coloro che han vissuto in conformità con la natura e il destino). Sintesi dei commentari La morte e la vita, due forme dell'essere. Al punto B, si tratta della sopravvivenza cosciente.

XXXIV A Il gran Principio si diffonde, in tutti i sensi. Egli si presta accondiscendente alla genesi di tutti gli esseri (sue partecipazioni). Quando un'opera è diventata, egli non se la attribuisce. Benevolmente, nutre tutti gli esseri, senza imporsi ad essi come un padrone (per averli nutriti; lasciandoli liberi; non richiedendo loro alcuna ricompensa avvilente). A causa del suo costante disinteresse, dovrebbe, — sembra -, essere come diminuito. Così non è: perché tutti gli esseri verso i quali è così liberale, affluiscono verso di lui, ed egli si ritrova come ingrandito (da questa fiducia universale). B Il Saggio imita questa condotta. Anch'egli si fa piccolo (per il suo disinteresse e per la sua scrupolosa riservatezza), e acquisisce con ciò la grandezza vera. I commentari non aggiungono nulla.

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XXXV A Poiché rassomiglia al gran prototipo (il Principio, per la sua dedizione disinteressata), tutti vanno al Saggio. Egli tutti li accoglie, gli fa del bene, gli dà riposo, pace e felicità. B La musica e la buona carne trattengono per una notte sola l'ospite di passaggio (i piaceri dei sensi sono fuggevoli, e non ne rimane nulla). Mentre l'esposizione del gran principio, della dedizione disinteressata, semplice e senza fronzoli, che non incanta né gli occhi né gli orecchi, piace, si incide, ed è di una fecondità inesauribile in applicazioni pratiche. I commentari non aggiungono nulla.

XXXVI A L'inizio della contrazione segue di necessità il culmine dell'espansione. L'indebolimento segue la forza, la decadenza segue la prosperità, la spoliazione l'opulenza. Questa è la luce sottile (che molti non vogliono vedere). Ogni potenza, ogni superiorità precedente, si bilancia con la debilitazione e l'inferiorità seguente. Il più richiama il meno, l'eccesso richiama la deficienza. B Il pesce non esca dalle acque profonde (in cui vive ignorato, ma in sicurezza, per mostrarsi in superficie, dove sarà arpionato). Uno stato non metta in mostra le sue risorse (se non vuole che subito tutti gli si rivoltino contro per schiacciarlo). Sintesi dei commentari Rimanere piccoli, modesti, nascosti; non attirare l'attenzione; è questo il segreto per vivere bene e a lungo.

XXXVII A Il Principio è sempre non agente (non agisce attivamente [al modo degli esseri manifestati] e tuttavia tutto è fatto da lui (per partecipazione non apparente). B Se il principe e i signori fossero capaci di governare così (senza metterci mano), tutti gli esseri diverrebbero spontaneamente perfetti (per ritorno alla natura). C Resterebbero soltanto, poi, da reprimere le loro velleità eventuali di uscire da questo stato (agendo [in modo individuale]), richiamandoli ogni volta alla natura che non sopporta nomi (alla semplicità primordiale del Principio). In questo stato di natura innominata, non desideri. Non desideri, e tutto è in pace; e lo stato si governa di per se stesso. I commentari non aggiungono nulla. Si confronti il cap. III.

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XXXVIII A Quel che è superiore alla virtù del Principio (il Principio in se stesso, inteso nella sua essenza), non agisce, ma conserva in sé la virtù del suo stato immanente. Tutto ciò che è inferiore alla virtù del Principio (le regole di condotta artificiali), è solo un palliativo per la perdita della virtù [rettitudine]; palliativo che con essa non ha niente in comune. B Quel che è superiore alla virtù (il Principio), non opera in dettaglio. Quel che è inferiore alla virtù (le regole artificiali), esiste soltanto per l'azione di dettaglio. C Quel che è al di sopra della bontà (artificiale, confuciana; il Principio) non agisce in dettaglio. Quel che è al di sopra dell'equità (artificiale; la bontà) agisce in dettaglio. Quel che è al di sopra dei riti (l'equità) lotta con le tendenze degli esseri diversi, da cui i riti stessi e le leggi. In altre parole, dopo l'oblio della natura con i suoi istinti naturali, buoni, vennero i principi artificiali, palliativi di questa perdita; i quali sono, nell'ordine discendente: la bontà, l'equità, i riti e le leggi. Certo; i riti non sono che un povero espediente per coprire la perdita della rettitudine e della franchezza originali. Essi sono [possono essere] fonte di perturbazione (etichetta, classificazioni). E infine, il termine ultimo di questa evoluzione discendente, la saggezza politica, fu l'inizio di tutti gli abusi. D L'uomo vero si attiene alla rettitudine e all'intuizione naturali, sdegnando i principi artificiali. Usando discernimento, egli scarta ciò (il falso, [la forma per se stessa]), per abbracciare quell'altro (il vero). Sintesi dei commentari Il capitolo è indirizzato contro i Confucianisti. L'intuizione naturale, globale, è il senso dell'unità. I precetti morali, artificiali, sono la molteplicità. Il capitolo che segue farà vedere che la molteplicità guasta, e che l'unità guarisce.

XXXIX A Questi sono gli esseri che partecipano della semplicità originaria. Il cielo, che deve a questa semplicità la sua luminosità. La terra, che le deve la sua stabilità. L'azione generatrice universale, che le deve la sua attività. Lo spazio intermedio [tra cielo e terra], che le deve la sua fecondità. La vita, comune a tutti gli esseri. Il potere dell'imperatore e dei prìncipi (perché vita e potere sono partecipazione del Principio). B Quel che li fa ciò che sono, è la semplicità (originaria, della quale essi partecipano). Se il cielo la perdesse, cadrebbe. Se la terra la perdesse, vacillerebbe. Se l'azione generatrice la perdesse, cesserebbe. Se lo spazio intermedio la perdesse, si esaurirebbe. Se la vita la perdesse, sparirebbero tutti gli esseri. Se l'imperatore e i prìncipi la perdessero, sarebbe la fine per la loro dignità. C Qualsiasi elevatezza, ogni nobiltà, sono fondate sulla modestia e sulla semplicità (caratteri propri del Principio). E quindi con ragione che l'imperatore e i principi, i più elevati fra gli uomini, sono indicati con i nomi: solo, unico, incapace, e ciò senza disonore. 36

D (Applicando lo stesso principio di semplicità al governo) che essi riducano la molteplicità dei loro sudditi all'unità, vedendoli come un complesso non diviso mediante un'imparzialità serena, non giudicando gli uni preziosi come giada e gli altri vili come sassi. Sintesi dei commentari La visione globale, quasi da distanza indefinita; dalla quale individui particolari non sono percepibili [in modo distinto]. Concetto che ci è già noto. Questo capitolo completa il precedente.

XL A Il ritorno (verso il Principio) è la forma di movimento di coloro che si conformano al Principio. L'attenuazione è l'effetto che in loro produce il loro conformarsi al Principio. B Considerando che tutto ciò che è, è nato dall'essere semplice, e che l'essere è nato dal non essere di forma, essi, riducendo costantemente [la loro individualità], tendono a ritornare alla semplicità primordiale. I commentari non aggiungono nulla al significato del testo, che è chiaro.

XLI A Quando un letterato di classe superiore sente parlare del ritorno al Principio, vi si applica con ardore. Se è un letterato di classe media, vi si applica con indecisione. Se è un letterato di classe inferiore, ne ride. Ed è un segno della verità di tale dottrina, che questa specie di gente ne rida. Il fatto che non la comprendano, prova la sua trascendenza. B Si dice, a modo di proverbio: coloro che hanno compreso il Principio, sono come abbagliati; coloro che tendono ad esso, sono come sconcertati; coloro che l'hanno raggiunto, hanno un'apparenza comune. Questo è perché la gran virtù si fa cava come una valle; la gran luce si vela volontariamente di tenebre; la vasta virtù fa credere di esser difettosa; la salda virtù assume l'aspetto dell'incapacità; il Saggio nasconde le sue qualità sotto apparenze piuttosto impulsive. C Si farebbe ben ingannare, quegli che credesse a simili apparenze. Quadrato tanto grande che ha spigoli invisibili (infinito)! Gran vaso senza fondo! Gran significato in debole suono! Gran modello, ma inafferrabile! Il Saggio assomiglia al Principio. Ora, il Principio è latente e non ha nome, ma per la sua sottile comunicazione, tutto è prodotto. Così è, salvando ogni proporzione, del Saggio. Niente di più nei commentari.

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XLII A Il Principio, data origine alla sua virtù una, questa si mise a svilupparsi secondo due modalità alterne. Tale sviluppo produsse (condensò) l'atmosfera intermedia (la materia tenue). Dalla materia tenue, sotto l'influsso delle due modalità yin e yang, furono prodotti tutti gli esseri sensibili. Uscendo dallo yin (dalla potenza), essi passano allo yang (all'atto), per influenza delle due modalità sulla materia. B Quel che agli uomini ripugna, e di esser soli, unici, incapaci (l'oscurità e la diminuzione), e invece gli imperatori e i prìncipi sono indicati con questi termini (modestia che non li svilisce). Gli esseri si sminuiscono quando vogliono accrescersi, e si accrescono sminuendosi. C Così parlando, ripeto l'insegnamento tradizionale. I forti arroganti non muoiono di bella morte. Io faccio di questo assioma il fondamento del mio insegnamento. Sintesi dei commentari Nei commentari non si ritrova niente di più. In A, non è della trinità che si parla. Quanto ad A e B, si confronti il cap. XXXIX, C.

XLIII A Sempre e dappertutto, il tenero ha la meglio sul duro (l'acqua consuma la pietra). Il non essere penetra anche dove non ci sono fessure (i corpi più omogenei, come il metallo e la pietra). Da ciò deduco l'efficacia suprema del non agire. B Il silenzio e il non agire! Pochi uomini sono in grado di comprenderne l'efficacia. Nient'altro nei commentari.

XLIV A Non è più importante il corpo, della celebrità? Non è da tenere in maggior conto la vita che la ricchezza? Val la pena esporsi a una gran perdita, per un vantaggio esiguo? B Colui che ama intensamente, molto consuma (il proprio cuore). Colui che molto ammassa, si espone a gran rovina (saccheggio o confisca). Mentre il modesto non va incontro a disgrazie, il moderato non soccombe, ma dura. I commentatori non aggiungono nulla.

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XLV A Compiuto, sotto apparenze imperfette, e generoso senza consumarsi. Repleto, senza che sembri, e traboccante senza esaurirsi. Rettissimo, con un aspetto curvo; sagacissimo, ma all'apparenza inabile; acutissimo, ma esteriormente goffo; questi è il Saggio. B Sul freddo, il movimento trionfa (riscalda), il calore è vinto dalla quiete (che raffredda). La vita appartata del Saggio, rettifica l'impero (ha la meglio sul suo disordine). Commentari: intensa influenza, sotto le apparenze dell'inazione.

XLVI A Quando regna il Principio (e la pace è perfetta), i cavalli da guerra lavorano nei campi. Quando è dimenticato il Principio (si diffonde la guerra), si allevano cavalli da battaglia anche nei sobborghi di città. B Soggiacere ai propri appetiti (la mania di guerreggiare è uno di essi), è il peggiore dei crimini. Non saper contenersi, è, delle cose nefaste, la peggiore. Degli sbagli, il peggiore è voler sempre più acquisire; Quelli che san dire «basta», sono sempre contenti. I commentari non aggiungono nulla.

XLVII A Senza uscire dalla porta, si può conoscere tutto il mondo; senza guardare dalla finestra, si possono conoscere le vie del cielo (i principi che governano ogni cosa). Più si va lontano, meno si apprende. B Il Saggio giunge alla meta, senza aver fatto un passo per arrivarci. Conosce, prima d'aver visto, attraverso i principi superiori. Conclude, senza aver fatto, mediante il suo influsso trascendente. I commentari: la conoscenza superiore, globale, è quella propria del Saggio. La conoscenza dei particolari non è degna di lui.

XLVIII A Con lo studio, si moltiplicano ogni giorno (nella memoria, le nozioni particolari inutili e dannose); con la concentrazione sul Principio, ogni giorno le si fan diminuire. Condotta al suo termine, tale diminuzione si conclude nel non agire (conseguenza dell'assenza di nozioni particolari). B Ora, non c'è nulla di cui il non agire non venga a capo. È non agendo che si sotto39

39 mette l'impero. Agire per farlo proprio, fa sì che non lo si ottenga. Niente di più nei commentari.

XLIX A Il Saggio non ha volontà definita; egli si adatta alla volontà del popolo. Egli tratta bene sia i buoni sia i cattivi, che è la vera bontà pratica. Egli ha fiducia sia nei sinceri sia negli insinceri; che è la vera fiducia pratica. B In questo mondo variegato, il Saggio è privo di emozioni, e verso tutti ha lo stesso animo. Tutti gli uomini fissano su di lui gli occhi, e tendono verso lui gli orecchi. Tutti li tratta come figli suoi. (benevolenza taoista, tinta di un certo disdegno). Nient'altro nei commentari.

L A Gli uomini escono nella vita, e rientrano nella morte. B Tre, su dieci uomini, prolungano la propria vita (con cure appropriate), tre affrettano la propria morte (a causa dei loro eccessi). La loro vita, tre la compromettono, coi loro attaccamenti, (solo uno su dieci la conserva fino al termine dei suoi giorni, perché ne è distaccato). C Colui che è distaccato dalla vita, non schiva l'incontro con un rinoceronte o una tigre; si getta nella mischia senza corazza e senz'armi; ma non subisce alcun danno, perché è a prova di corno di rinoceronte, di artiglio di tigre, delle armi dei combattenti. Perché?... Perché, protetto dalla sua imperturbabilità, non offre presa alla morte. Sintesi dei commentari Essendo l'anima in qualche modo enucleata dal corpo nello stato di concentrazione profonda, il corpo non può essere colpito a morte. L'idea sembra essere che, per essere mortale, un colpo deve raggiungere [il «nodo vitale», ovvero] la giunzione del corpo e dell'anima. Tale giunzione è temporaneamente interrotta per chi è in stato di concentrazione profonda.

LI A Il Principio dà la vita agli esseri; poi la sua «virtù» li nutre, fino a completamento della loro natura, fino a che siano perfette le loro facoltà. Conseguentemente tutti gli esseri venerano il Principio e la sua Virtù; B [L'idea dell'] eminenza del Principio e della sua Virtù, nessuno gliel'ha trasmessa; 40

essi ce l'hanno da sempre, in modo naturale. C Il Principio dà la vita; la sua virtù fa crescere, protegge, perfeziona, fa maturare, mantiene, copre, (tutti gli esseri). Nati che siano, non se ne appropria; li lascia agire liberamente, senza sfruttarli; li lascia crescere, senza tiranneggiarli. Questa è la virtù trascendente.

LII A Quel che fu avanti il mondo, divenne la madre del mondo. Chi ha raggiunto la madre (la sostanza, il corpo), conosce attraverso lei il figlio (lo spirito vitale che vi è racchiuso). Chi conosce il figlio (il suo spirito vitale) e conserva la madre (il proprio corpo), giungerà alla fine dei suoi giorni senza accidenti. B Se tiene chiuse la bocca e le narici (impedendo così l'evaporazione del principio vitale), arriverà alla fine dei suoi giorni senza conoscere decadenza. Parlando molto e procurandosi copiosi affanni, si logorerà e accorcerà la vita. C Contenersi a occuparsi di piccole cose, [limitare] la sollecitudine alle questioni di importanza minore, fa lo spirito chiaro e il corpo forte. Concentrare nella propria intelligenza i raggi intellettuali, e non permettere che l'applicazione mentale nuoccia al proprio corpo, questo è velare (l'animo) per far durare (la vita). Sintesi dei commentari Testo oscuro, ma i commentari sono concordi. Fondamento dell'aeroterapia taoista.

LIII A Chiunque sia un po' saggio, deve conformarsi al gran Principio, sfuggendo soprattutto la tracotanza fastosa. Ma a questa via larga, si preferiscono gli stretti sentieri. (Pochi sono gli uomini che camminano nella via del disinteresse poco appariscente. Si preferiscono i sentieri: la propria vanità, il proprio tornaconto. Così si comportano i prìncipi di questo tempo). Quando sono troppo curati i palazzi, sono incolte le terre e sono vuoti i granai (perché gli uomini sono distolti dal lavoro per i servizi di corte). B Vestire abiti sontuosi, portare spade affilate alla cintura, ingozzarsi di cibo e di bevande, ammassare ricchezze da non saper più come usarle (come fanno i prìncipi di questo tempo) è assomigliare a un brigante (che ostentatamente gode del bottino). Un contegno siffatto è contrario al Principio. I commentari non aggiungono nulla.

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LIV A Chi costruisce sul disinteresse, non vedrà distrutta la sua opera. Chi conserva con disinteresse, non perderà quel che ha. I suoi figli e nipoti faranno offerte per lui, ininterrottamente (cioè: gli succederanno, e fruiranno del prodotto del suo operare). B Prima di tutto bisogna che ci si conformi perfettamente al Principio; poi tale conformità si estenderà, da se stessi, alla famiglia, al distretto, al principato, all'impero; (nucleo centrale, poi raggio man mano più vasto). C Conoscendo la propria natura si conosce quella degli altri individui, e di tutti gli insiemi d'individui, delle famiglie, dei distretti, dei principati, dell'impero. D Come conoscere l'indole di tutto un impero?... Così (conoscendo la propria, come detto più sopra). Nulla di diverso dai commentari.

LV A Colui che contiene in sé la virtù perfetta (senza collera e lussuria), è simile al bimbo, che lo scorpione non punge, che la tigre non divora, che l'avvoltoio non assale, che è rispettato da tutto. B Le ossa del bimbo sono cedevoli, i suoi tendini sono fragili, ma gli oggetti li afferra con forza (così come con forza si tengono la sua anima e il suo corpo). Ignora l'atto della generazione, e conserva per ciò la sua virtù seminale completa. Vagisce dolcemente per tutta la giornata, senza che s'arrochisca la sua voce, tanto la sua pace è perfetta. C La pace fa durare; chi capisce questo, è avveduto. Mentre ogni turbamento, soprattutto la lussuria e la collera, logora. Da qui avviene che, alla virilità (di cui l'uomo abusa), succede la decrepitezza. La vita intensa [e agitata] è contraria al Principio, di conseguenza prematuramente mortale. Sintesi dei commentari Questo capitolo condanna la lussuria e la collera, come ciò che più consuma la vita.

LVI A Chi parla (molto, mostra con ciò che) non conosce (il Principio). B Chi conosce (il Principio) non parla. Tiene la bocca chiusa, controlla il respiro, smussa l'attività, si libera dalle complicazioni, attenua la sua luce, si confonde con l'uomo comune. Questa è l'unione misteriosa (con il Principio). C Un uomo così, nessuno può unirlo a sé (con favori), né respingerlo (con tratti sconvenienti). È insensibile al profitto e alla perdita, alla lode a all'umiliazione. Essendo così, è ciò che c'è di più nobile al mondo. 42

Sintesi dei commentari Superiore a tutto ciò che è apparente, conversa con l'autore degli esseri, il Principio. Ciang-hung-yang.

LVII A Con rettitudine si può governare, con abilità si può portar guerra, ma è il non agire che conquista e conserva l'impero. B Da cosa deduco che le cose stanno così? Da ciò che dirò: Più ci sono ordinanze, più s'impoverisce il popolo. Più ci sono fonti di reddito, meno c'è ordine. Più ci sono invenzioni ingegnose, meno ci sono prodotti utili e seri. Più si dettagliano le leggi, più si moltiplicano i ladri. La molteplicità tutto guasta. C Per cui il progetto del Saggio è tutto l'opposto. Non agire, e il popolo migliora. Tenersi tranquilli, e il popolo si corregge. Non far nulla, e il popolo si arricchisce. Non voler nulla, e il popolo ritorna alla spontaneità naturale. I commentari non aggiungono nulla.

LVIII A Quando il governo è semplice, il popolo è ricco di virtù. Quando il governo è politico, il popolo è privo di virtù. B Il male e il bene, succedendosi, si alternano. Chi sarà in grado di discernere i culmini (di tale movimento ciclico, del male e del bene? È una cosa assai delicata, poiché un eccesso o un difetto mutano questa realtà sottile). A molti fa difetto la giusta misura. In alcuni la dirittura esagerata degenera in mania; in altri l'esagerata bontà diventa stranezza e le vedute corrispondenti variano di conseguenza). Da molto tempo gli uomini sono preda di questo tipo di follia. C (Il Saggio li prende come sono). Frugale, non è assiomatico. Retto, non è aspro. Perspicace, si guarda dall'umiliare. I commentari non aggiungono nulla.

LIX A Per cooperare con il cielo nel governo degli uomini, ciò che è essenziale è render misurata la propria azione. B La moderazione dev'essere la prima cura. Essa produce la perfetta efficacia, la quale è capace di tutto, anche del governo dell'impero. C Quegli che possiede questa madre dell'impero (la moderazione saggia), durerà a 43

43 lungo. Essa è stata chiamata «la radice maestra, o il tronco saldo». Essa è il principio di perpetuità. Nulla di più dai commentari.

LX A Per governare un grande stato, bisogna procedere al modo di chi fa friggere pesciolini piccolissimi, (con molta delicatezza, per tema di disfarli). B Quando lo stato è governato secondo il Principio, i morti non compaiono per far del male al popolo, perché il Saggio che governa non fa male al popolo. C Il merito di tale doppia sicurezza (da parte dei morti e dei viventi), è quindi da attribuire al Saggio. Sintesi dei commentari I fantasmi non sono le anime dei morti. Sono, nell'insieme delle forze sottili, ciò che è un vortice nell'atmosfera fisica in riposo. Si tratta di un disordine prodotto dal movimento delle passioni, dagli odi, e così via. Tale vortice, quando gli animi sono calmi, non si produce.

LXI A Se un grande stato si pone [volutamente] in condizioni di inferiorità, a guisa delle cavità in cui confluiscono le acque, tutti accorreranno ad esso. Esso diventerà in certo qual modo la femmina universale (capp. VIII e XXVIII). B Nella sua passività e inferiorità apparenti, la femmina è superiore al maschio (giacché ad essa compete la generazione). Se saprà porsi in una tal condizione, il grande stato attirerà a sé i piccoli stati, i quali, a loro volta abbassandosi, solleciteranno il suo protettorato. L'uno, abbassandosi, riceverà, gli altri, abbassatisi, saranno ricevuti. In fondo, il grande stato ambisce proteggere gli altri [stati], i piccoli stati non chiedono altro che di riconoscere il suo protettorato. C Perché si realizzi tale comune desiderio, una cosa sola occorre, ma necessariamente. Che i grandi accondiscendano a chinarsi verso i piccoli. (Se sono orgogliosi e inflessibili, nessuna speranza). I commentari non portano altro.

LXII A 44

Il Principio è protezione per tutti gli esseri. Esso è il tesoro del buono (ciò per cui

egli è buono), e la salvezza del perverso (ciò che lo salva dal perire). B A lui si deve esser grati per le parole affettuose e per la condotta nobile dei buoni. È per rispetto a lui, che i perversi non devono essere respinti. C È per questa ragione (per la conservazione e lo sviluppo dell'aspetto del Principio che è negli esseri), che l'imperatore e i grandi ministri sono istituiti. Non perché si compiacciano del loro scettro e della loro quadriga. Ma perché meditino sul Principio (procedano nella sua conoscenza e lo sviluppino negli altri). D Perché gli Antichi tenevano (in tanto onore il Principio)? Se non perché è la sorgente d'ogni bene e rimedio a ogni male? È ciò che c'è di più nobile al mondo! I commentari non aggiungono nulla.

LXIII A Agire senza azione; occuparsi senza occuparsi; gustare senza gustare; vedere d'un occhio uguale, il grande, il piccolo, il molto, il poco; far caso allo stesso modo di rimproveri e omaggi; questo è ciò che fa il Saggio. B Non affronta ardue complicazioni, che partendo da dettagli facili, e non si impegna in grandi problemi se non incominciando dai loro aspetti accessibili. C Il Saggio mai pone mano al grande, e per questo realizza grandi cose. Chi molto promette, non può mantener parola; chi s'impegola in troppe cose, siano pur facili, non riesce in nulla. D Il Saggio vede da lontano la difficoltà, e la evita, così non ha mai difficoltà. I commentari non aggiungono nulla.

LXIV A Ciò che è calmo, è facile contenerlo; ciò che non è ancora apparso, è facile prevenirlo; ciò che è debole, è facile spezzarlo; ciò che è minuto, è facile disperderlo. Le precauzioni vanno prese prima che la cosa sia, e proteggere l'ordine prima che sia scoppiato il disordine. B Un albero che le due braccia fan fatica ad allacciare, è nato da una radicella sottile come un capello; una torre di nove piani, si innalza [a partire] da un monticello di terra; un viaggio di mille stadi, è incominciato da un passo. C Quelli che si dan troppo da fare, rovinano l'impresa. Quelli che troppo stringono, finiscono col mollare. Il Saggio, che non agisce [di sua propria iniziativa] non rovina la propria opera. Non essendo attaccato a nulla, nulla gli sfugge. D Quando la gente comune si dedica a un affare, in genere lo manca nel momento in cui era prossima la sua riuscita. (perché l'infatuazione del suo inizio di successo gli fa perdere il controllo e gli fa commettere avventatezze). Per riuscire occorre che la circospezione dell'inizio, duri fino alla conclusione. E Il Saggio non si entusiasma per nulla. Non attribuisce valore ad alcun oggetto, 45

45 [solo] perché è raro. Non si lega a un sistema, ma trae insegnamento dagli errori altrui. Per cooperare allo sviluppo universale, non agisce, ma lascia evolvere. I commentari non aggiungono nulla.

LXV A Nell'antichità, coloro che si conformavano al Principio, non cercavano di rendere intelligente il popolo, ma miravano a farlo restar semplice. B Quando è difficile governare un popolo, è perché questo la sa troppo lunga. Chi crede di fare il bene di un paese diffondendo l'istruzione [esteriore], quegli s'inganna e il paese lo rovina. Mantenere il popolo nell'ignoranza è ciò che costituisce la salvezza di un paese. C Questa è la formula dell'azione misteriosa, di gran profondità, di lunga durata. Essa non incontra il gusto degli esseri (curiosi); ma grazie ad essa tutto va a buon fine, nella calma. Si confronti il capitolo III, B. Niente di più dai commentari.

LXVI A Perché i fiumi e gli oceani sono i re di tutte le valli? (Bacini generali che accolgono il tributo di tutti i corsi d'acqua). Perché s'inchinano benevoli a tutte le valli (in quanto a livello). Questo è perché tutte le acque confluiscono in loro. B Seguendo tale esempio, che il Saggio che desidera diventar superiore al volgo, si ponga a parole al di sotto di esso (parli con molta modestia di se stesso); se vuol diventare il primo, si ponga all'ultimo posto (e così continui a fare anche quando sarà magnificato). Potrà allora essere innalzato alla sommità, senza che il popolo si senta oppresso; potrà essere il primo senza che il popolo brontoli. Tutto l'impero lo servirà con gioia, senza stancarsene. Poiché egli non si oppone a nessuno, nessuno si opporrà a lui. Si confronti il cap. VIII. I commentari non aggiungono nulla.

LXVII A L'impero tutto dice che il Saggio è nobile, nonostante il suo aspetto comune; aspetto che assume precisamente perché è nobile (per velare la sua nobiltà e non attirare [l'invidia degli] invidiosi). Tutti sanno, invece, quanto sia esiguo il valore di coloro che da nobili posano [soltanto]. B Il Saggio da peso a tre cose, e ad esse tiene: la benevolenza disinteressata, la semplicità, la modestia. Come benevolente, sarà valoroso (nei giusti termini, senza crudeltà). 46

Come semplice, sarà generoso (nei giusti termini, senza sprechi). Come modesto, governerà gli uomini senza tiranneggiarli. C Gli uomini d'oggi han dimenticato la benevolenza, la semplicità, la modestia. Danno peso alla guerra, al fasto, all'ambizione. Questo significa volere la propria rovina. È voler non riuscire. D Giacché è l'aggressore clemente, che vince la battaglia (non quello barbaro); è il difensore benigno, che è inespugnabile (non il combattente spietato). Quelli a cui vuol bene il cielo, li fa caritatevoli. Sintesi dei commentari La semplicità e la modestia sono trattati in altra sede, si vedano i capp. LXXV, LXXVII e LXXVIII.

LXVIII A Occorre che colui che comanda non pensi che sono la tattica, il valore, lo sforzo, che danno la vittoria. B È mettendosi al servizio degli uomini, che si domano gli uomini. È il procedimento vero, che è talvolta formulato così: «arte di non lottare (di venire a patti, di vincere adattando se stessi a tutti); potere di maneggiare gli uomini; azione conforme a quella del cielo». Tutte queste formule indicano la stessa cosa, la quale rese grandi gli Antichi I commentari non aggiungono nulla.

LXIX A «Meglio difendersi che offendere, meglio indietreggiare di un piede, che avanzare di un pollice», sono principi correnti nell'arte militare. Cedere è meglio che trionfare. Prevenire attraverso la diplomazia è meglio ancora. B È questo il senso di alcune formule oscure dell'arte militare, quali: «avanzare senza marciare; difendersi a braccia ferme; statu quo, ma senza lotta; conservare senz'armi», e altre. C Non c'è peggior flagello di una guerra sconsideratamente scatenata (cercata con deliberatezza, spinta di là dal necessario). Chi fa una cosa simile espone a perdita i suoi beni, ed è causa di molti lutti. È la continuazione del capitolo precedente. Nulla di aggiunto dai commentari.

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LXX A Quel che insegno (parla Lao-tzu) è facile capirlo e praticarlo, però il mondo non lo vuol praticare né capire. B I miei ammaestramenti e i miei modi di condursi provengono da un principio e da un procedimento superiori: il Principio e la sua rettitudine. C Il mondo non riconosce il Principio che mi guida; per questo non conosce [neanche] me. Pochissimi uomini mi comprendono. E questa è la mia gloria. Mi accade come al Saggio, ignorato dalla gente qualunque, a causa del suo fare comune benché abbia il petto ripieno di pietre preziose. Nulla di più dai commentari.

LXXI A Sapere tutto, e pensare di non saper nulla, questo è il sapere vero (la scienza superiore). Non saper nulla, e credere di saper tutto, questo è il male comune degli umani. B Esser coscienti che è un male, protegge da esso. Il Saggio è privo di vanità, perché la vanità la teme. E questo timore lo difende da essa. Sintesi dei commentari Il non sapere fa parte del non agire, giacché — dicono i Taoisti — il sapere è un atto, ed essi scartano le teorie, le generalizzazioni, le classificazioni [le sistematizzazioni], accettando soltanto l'apprendimento oggettivo dei casi particolari.

LXXII A Si perdono coloro che non provano timore, quando temere dovrebbero (coloro che si espongono al pericolo per curiosità, desiderio di acquisto, ambizione). B Non ritenete troppo esigua la vostra dimora natale, non vi ripugni la condizione in cui siete nati. (Restate quel che siete e dove siete. Forse lo sforzo per ottenere di meglio potrebbe esservi nocivo). Se non si vuol provar ripugnanza, la ripugnanza non si sente. (La ripugnanza è sempre volontaria, e proviene dal fatto che si è confrontata la propria situazione con un'altra; e si è preferita quest'altra). C Il Saggio sa che vale, ma non si fa vedere (non sente il bisogno di mettere in mostra il suo valore). Sa apprezzarsi, ma non cerca l'apprezzamento degli altri. Discrimina; e questo lo adotta e quello lo respinge (alla luce della sua conoscenza).

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LXXIII A Il coraggio attivo (prodezza guerresca) procura la morte. Il coraggio passivo (pazienza, longanimità) conserva la vita. Perciò due sono i coraggi, uno è nocivo, l'altro salutare. B (La pazienza e la longanimità conducono a miglior risultato che l'azione incisiva, quand'anche sia nel governo e nella politica). Giacché, chi è sicuro che il cielo voglia male a quest'uomo, o a questo paese; e perché? Perciò il Saggio è sempre come se fosse esitante (imbarazzato, difficilmente portato all'intervento violento). C E questo perché la via del cielo (la sua condotta costante) è di non intervenire in modo positivo. Vince, senza lottare. Senza comandare, si fa obbedire. Senza chiamare, fa venire. Fa giungere tutto al suo fine, e sembra che si disinteressi di tutto. D La rete del cielo tutto avvolge. Ha le maglie larghe, e nulla, tuttavia, le sfugge. Sintesi dei commentari D. — Anche supponendo che, per benevolenza, il Saggio abbia lasciato sfuggire un colpevole dalla legge umana, lo prenderà la rete celeste. Il Saggio confida perciò nel cielo, e piuttosto agisce meno che non più, per tema di agire contro le intenzioni del cielo, o di usurpare i suoi diritti.

LXXIV A Se il popolo non ha paura della morte, a che serve cercare di contenerlo col timore della morte? Solo se temesse la morte, catturare e uccidere quelli che provocano il disordine, distoglierebbe gli altri dall'agire così. B (Perciò hanno torto, i legisti, i quali abbondano in pene a morte, credendo che questo possa risolvere tutti i problemi). Quegli che è preposto alla morte (il cielo), uccide. (A lui di fare. Non usurpiamogli il mestiere. Egli ne è il solo capace). C Potrebbe accadere, a chi vuole uccidere al suo posto, come succede a chi gioca con l'ascia del carpentiere. Rari sono quelli che, a questo gioco, non si tranciano le dita. Sintesi dei commentari Se si vuol trarre qualcosa dagli uomini, meglio trattarli con benevolenza. Il capitolo è contro la scuola dei legisti, fa-chia, che conosce solo i supplizi. Ad esempio, è provato dall'esperienza — dicono i commentatori — che il popolo teme meno la morte dei lavori forzati, e che, una volta scatenato, perde qualsiasi timore.

LXXV A

Se il popolo ha fame, è perché il principe divora somme eccessive (che gli estorce). 49

49 B Se il popolo è indocile, è perché il principe è troppo attivo, (lo indispettisce con le sue innovazioni). C Se il popolo si espone con leggerezza alla morte (in imprese pericolose), è perché ama troppo la vita (amore del benessere, del godimento, della gloria). D Colui che non fa nulla per vivere, è più saggio di chi si rovina la vita per vivere. Sintesi dei commentari Se il principe e il popolo coltivano la semplicità, tutto procederà bene. Questo capitolo prosegue il cap. LXVII. Il senso di D è, colui che non si preoccupa della ricchezza e della gloria, è più saggio di quegli che si espone a fatiche e a rischi, per la ricchezza e la gloria.

LXXVI A Quando l'uomo è appena nato, è molle e debole (ma pieno di vita); quando è diventato forte e potente, gli tocca morire. B Lo stesso accade ai vegetali, delicati (erbacei) alla nascita, legnosi alla morte. C Chi è forte e potente, è votato alla morte; chi è flessibile e debole, è votato alla vita. D L'esercito numeroso sarà sconfitto. L'albero grande sarà abbattuto. E Tutto ciò che è forte e grande, è in posizione meno favorevole. In vantaggio è sempre chi è elastico e debole.

LXXVII A (Nei confronti degli uomini) il cielo agisce come l'arciere, che quando tende l'arco(1) appiattisce le convessità e compensa le concavità (che l'arco presenta nello stato di riposo), perché diminuisce ciò che è più, e aumenta ciò che è meno, (abbassando quel che è elevato, ed elevando quel che è basso). Toglie a chi abbonda, e aggiunge a chi manca. B Mentre gli uomini (cattivi prìncipi che spogliano il popolo), fanno tutto il contrario, e tolgono a chi manca (il popolo) per aggiungere a chi abbonda (i loro favoriti)... Quando tutto il superfluo dovrebbe andare all'impero (al popolo)... Ma di questo, solo chi possiede il Principio, e capace. C Il Saggio si conforma al Principio. Ha influsso, senza che se ne attribuisca il risultato. Compie, senza appropriarsi della sua opera. Non rivendica il titolo di Saggio, (ma si mantiene volontariamente nell'oscurità). Nulla da aggiungere ai commentari

(1) L'arco cinese si tende rigirandolo, il che produce esattamente l'effetto descritto in A.

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LXXVIII A In questo mondo, non c'è nulla di più arrendevole e debole dell'acqua; pero nessun essere, per forte e potente che sia, resiste alla sua azione (corrosione, usura, urto di onde); e nessun essere può fare a meno di essa (per bere, svilupparsi, e così via). B Non prova, questo, che la debolezza è meglio della forza, che l'elasticità domina la rigidità? Tutti con ciò concordano; nessuno si comporta cosi. C È un detto dei Saggi: «Capace d'essere capo del territorio e sovrano dell'impero, è colui che non ha in disgusto né la bassezza morale, né la disgrazia politica». (Quegli cioè, che è abbastanza elastico da adattarsi a queste cose; non l'uomo rigido e sistematico). D È una parola ben vera, anche se offende le orecchie di molta gente. Questo capitolo, come il precedente, si ricollega al cap. LXVII.

LXXIX A Dopo che sia stato composto il nòcciolo di una controversia, rimangono [in discussione] lagnanze minori, e l'intesa non ritorna nello stato in cui era (freddezze). B (Per cui il Saggio non discute mai quale sia il suo diritto). Conserva la sua pezza d'appoggio, [ricevuta, matrice] ma non esige l'esecuzione (di quel che [vi] è scritto). C Quegli che sa condursi secondo la Virtù del Principio, non fa ricorso ai suoi titoli [diritti]. Colui che così condursi non sa, estorce anche il suo dovuto. D Il cielo è imparziale. (Se di parzialità fosse capace), favorirebbe la gente del bene (coloro che si comportano come in C. li colmerebbe di benefici, perché non chiedono). Nessuna aggiunta nei commentari.

LXXX A Se io fossi il re di un piccolo stato, di una popolazione ristretta, eviterei di servirmi (mettendoli in carica) dei pochi individui capaci che contenesse lo stato. B Proibirei ai miei sudditi di intraprendere viaggi, facendo loro temere la morte accidentale possibile, al punto che non si sentirebbero il coraggio di salire su un battello o su un carro. C Proibirei ogni impiego di armi. D Quanto a lettere e scienza, li obbligherei a tornare alle cordicelle coi nodi. E Troverebbero allora il cibo saporito, gli abiti belli, le case accoglienti, i costumi gradevoli. F (Soffocherei la curiosità e impedirei le comunicazioni, al punto che) pur udendo dalle loro case cantare i galli e abbaiare i cani dello stato vicino, i miei sudditi morirebbero di vecchiaia prima di aver attraversato la frontiera e avuto rapporti con quelli dello stato vicino. 51

51 Sintesi dei commentari Occuparsi solo di ciò che è di propria competenza, è una delle tecniche di relazione, come già si è visto, dei Taoisti.

LXXXI A (Ho finito. Forse troverete il mio dire un po' rude, poco sagace, non dotto). Ma la franchezza spontanea non si riveste di paramenti; la dirittura naturale non sopporta cavilli, l'intelligenza [intus-legere] [vera] non sa che farsi dell'erudizione artificiale. B Il Saggio non accumula, ma dà. Più agisce a favore degli uomini, più può; più dà loro, più ha in ritorno. Il cielo fa il bene di tutti, a nessuno fa il male. Lo imita il Saggio, che agisce per il bene di tutti e a nessuno si oppone. Nulla di più dai commentari.

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Parte seconda

Lieh-tzu

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I Genesi e trasformazioni

A Da quarant'anni Lieh-tzu abitava una casetta nel principato di Ceng senza che nessuno avesse mai badato a lui; il principe, i suoi ministri e i suoi funzionari non avevano mai veduto in lui qualcosa di diverso da un uomo comune. Sopraggiunta la carestia nel paese, decise di emigrare nel paese di Uei. «Maestro» gli dissero i discepoli, «state per partire senza che si possa sapere se e quando ritornerete. Vogliate insegnarci, prima di andarvene, ciò che avete imparato dal vostro maestro Linn di Hu-ch'iù». Lieh-tzu sorrise e disse: «Cosa ho imparato dal mio maestro? Quando dispensava il suo insegnamento a Pai-hunn-u-genn(1), ho inteso qualcosa che cercherò di impartirvi. Diceva che c'è un produttore che non è prodotto, un trasformatore che non è stato trasformato. Questo non-prodotto ha prodotto tutti gli esseri, questo non-trasformato trasforma tutti gli esseri. Dall'inizio della produzione, il produttore non può più non produrre; dall'inizio delle trasformazioni, il trasformatore non può più non trasformare. Il concatenamento delle produzioni e delle trasformazioni è perciò ininterrotto; il produttore e il trasformatore producono e trasformano incessantemente. Il produttore è lo yin-yang (il Principio nella sua duplice modalità alternante); il trasformatore è il ciclo delle quattro stagioni (rivoluzione del binomio cielo-terra). Il produttore è immobile, il trasformatore va e viene. E il mobile e l'immoto dureranno sempre». B

Negli scritti di Hoang-ti è detto: «La potenza espansiva trascendente che risiede nel mezzo (la virtù del Principio) non muore. È la madre misteriosa (di tutti gli esseri). La sua porta è la radice del cielo e della terra (il Principio). Producendo, non si consuma. Agendo, non si usura...» Questo significa che il produttore non è prodotto, che il trasformatore non è trasformato. Il produttore-trasformatore produce e trasforma, diventa sensibile, assume figure, manifesta intelligenza, acquisisce energie, agisce e riposa, e resta sempre se stesso (unicità del cosmo, senza distinzioni reali). Se si dicesse che esseri distinti vengono prodotti e trasformati, diventano sensibili, assumono delle figure, manifestano intelligenza, acquisiscono energie, agiscono e si riposano, si sarebbe nell'errore.

C

Lieh-tzu disse: «[Esaminando] la produzione del cosmo da parte del principio sotto la sua duplice modalità yin e yang, il nascere del sensibile dal non-sensibile, la germinazione tranquilla dell'azione generatrice del cielo e della terra, gli antichi Saggi distinsero le fasi seguenti: la grande mutazione, la grande origine, il grande inizio, il gran flusso. La grande mutazione è lo stadio anteriore all'apparizione della materia tenue (girazione delle due moda-

(1) Un condiscepolo; si tratta di modestia rituale. È norma che non ci si presenti come discepoli di un personaggio illustre, per tema di farlo sfigurare.

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55 lità, nell'essere indefinito, nell'assenza di forma, nel Principio, all'uscita dalla sua immobilità assoluta). La grande origine è lo stadio della materia tenue [stato sottile]. Il grande inizio è lo stadio della materia palpabile. Il gran fluire è lo stadio della materia plastica, delle sostanze corporee, degli esseri individuali come li conosciamo. «Lo stato primigenio, quando la materia non era ancora percepibile, si chiama anche Hunn-lunn; ciò significa che, allora, tutti gli esseri che dovevano venire in seguito erano contenuti in una specie di flutto confuso, indiscernibili, non riconoscibili. Il nome che gli si dà attualmente è I, la mutazione, perché da esso tutto uscirà per via di trasformazione. Partendo dallo stato non-sensibile e non-differenziato, incominciando da uno, la progressione, passando per sette, procedette fino a nove; la regressione riconduce tutto all'unità. Uno fu il punto di partenza della genesi degli esseri sensibili. Essa si produsse nel seguente modo: la sostanza più pura e più leggera, avendo tendenza ad elevarsi, diventò il cielo; la sostanza meno pura e più pesante, avendo tendenza a discendere, diventò la terra; da quella più bilanciata, rimasta nello spazio intermedio, uscirono gli uomini. L'essenza di tutti gli esseri fece prima parte del cielo e della terra, dalla quale uscirono tutti gli esseri successivamente, per via di trasformazione». D

Lieh-tzu diceva: «Presi separatamente, il cielo e la terra non hanno tutte le capacità; un Saggio non ha tutti i talenti; un essere non ha tutte le proprietà. Il cielo dà vita e copre, la terra fornisce la sostanza e porta, il Saggio insegna e corregge, gli esseri hanno, ciascuno, le proprie qualità limitate. Il cielo e la terra hanno le loro manchevolezze rispettive, che compensano reciprocamente; il Saggio ha i suoi difetti, che lo obbligano a ricorrere ad altri; tutti gli esseri sono indotti ad aiutarsi vicendevolmente. Il cielo non può prendere il posto della terra; la terra non può sostituirsi al Saggio; il Saggio non può cambiare la natura degli esseri; gli esseri specifici non possono uscire dal loro grado [di manifestazione]. L'azione del cielo e della terra consiste nell'alternanza dello yin e dello yang; l'influsso del Saggio consiste nel far assimilare la bontà e l'equità; la natura degli esseri è attiva o passiva. Tutto ciò è naturale e immutabile. Essendoci dei prodotti, [è evidente che] di tali prodotti c'è un produttore. C'è un autore delle forme corporee, dei suoni, dei colori, dei sapori. I prodotti sono mortali, il produttore no. L'autore delle forme corporee non è corporeo, l'autore dei suoni non è percepibile dall'orecchio, quello dei colori non è visibile dall'occhio, quello dei sapori non è assaporabile dal gusto. Salvo che per la sua infinitezza e la sua immortalità, il produttore, l'autore (il Principio) è indeterminato, capace di diventare, negli esseri, yin o yang, attivo o passivo, contratto o disteso, rotondo o quadrato, portatore di vita o portatore di morte, veicolo di caldo o di freddo, leggero o pesante, nobile o vile, visibile o invisibile, nero o giallo, dolce o amaro, maleodorante o profumato. Privo di qualsiasi conoscenza riflessa e di ogni potere di intenzione, egli sa tutto e tutto può (perché è immanente in tutto ciò che sa e può, il che rappresenta — dice la Glossa — la conoscenza e la potenza supreme)». E Lieh-tzu stava andando verso il principato di Uei; mentre consumava il suo pasto ai bordi della strada, qualcuno di quelli che l'accompagnavano vide un teschio secolare che giaceva nei pressi, lo raccolse e glielo mostrò. Lieh-tzu lo guardò, poi disse al suo discepolo Pai-fong: «Lui e io sappiamo che la distinzione tra la vita e la morte è solo immaginaria, lui per esperienza, io per intuizione. Lui e io sappiamo che essere attaccati alla vita e temere 56

la morte è una cosa irragionevole, poiché la vita e la morte non sono che due fasi fatalmente successive. Tutto passa, seguendo i tempi suoi e nei suoi luoghi propizi, attraverso stati successivi, senza cambiare in essenza. Così ciò che era una ranocchia diventa una quaglia e ciò che era una quaglia diventa un ranocchio, a seconda che l'ambiente sia umido o secco. Uno stesso germe diventerà una nappa di lenticchie d'acqua sulla superficie di uno stagno, o un tappeto di muschio sulle pendici di una collina. Concimato, il muschio si tramuta nel vegetale detto u-zu, le cui radici si convertono in lombrichi e le cui foglie diventano farfalle. Queste farfalle generano una specie di larva, che si annida nei focolari, e che è chiamata ch'iu-tuò. Dopo un migliaio di giorni da questa ch'iu-tuò ha origine l'uccello ch'ien-u-cu, la cui saliva fa nascere l'insetto se-mì. Questi si tramuta in scie-hi, in meù-gioei, in fuc'uàn (forme successive di uno stesso essere, dice la Glossa). Il fegato di pecora si tramuta in ti-caò. Il sangue di cavallo si tramuta in fuochi fatui. Il sangue umano in farfarelli [folletti]. Il gheppio diventa falco, poi poiana, e poi il ciclo ricomincia. La rondine diventa conchiglia, poi ritorna a esser rondine. Il topo delle campagne diviene quaglia, poi ridiventa topo campagnolo. Le zucche, marcendo, producono pesci. I porri vecchi diventano lepri. I vecchi caproni si tramutano in scimmie. Dal seme dei pesci, in tempo di siccità nascono cavallette. Il quadrupede chiamato lèì, che vive sui monti T'an-yuàn, si feconda da solo. L'uccello i si feconda specchiandosi nell'acqua. Gli insetti ta-yaò sono soltanto femmine e si riproducono senza l'intervento del maschio; le vespe ce-fong sono solo maschi, e si riproducono senza l'intervento delle femmine. Heù-zì nacque dall'impronta di un grosso piede, I-yinn da un gelso cavo. L'insetto c'ué-ciaò nasce dall'acqua, e lo hi-chi dal vino. I vegetali yang-hi e pusunn sono due forme alternanti. Dai vecchi bambù esce l'insetto z'ing-ning, che diventa leopardo, poi cavallo, poi uomo. L'uomo torna nel telaio per tessere (cioè, ricomincia per lui il va e vieni della navetta, ossia la serie delle trasmutazioni). Tutti gli esseri escono dal gran telaio cosmico, per poi rientrarvi. A proposito di questo passo, che forse riassume alcune leggende [di tradizioni] precedenti, la Glossa dice molto opportunamente: «Disordine apparente, ma in realtà sono percorse tutte le forme delle mutazioni: partenogenesi, generazione a fasi alterne, trasmutazione all'interno di una stessa classe (es. vegetali) trasmutazione all'interno di due o più classi (es. vegetali, animali, ecc.), trasmutazione di esseri «inanimati» in viventi, trasmutazione con o senza morte intermedia. Se i Taoisti avessero spinto [in questo campo] la loro analisi al modo [dei moderni Occidentali], ad esempio sugli afidi, le tenie e su tanti altri parassiti, quale soddisfazione per loro! F Negli scritti di Hoang-ti è detto: la sostanza che si proietta [all'esterno] non produce una nuova sostanza, ma un'ombra; il suono che risuona non produce un suono nuovo, ma un'eco; quando il nulla di forma si scuote, non produce un nuovo nulla, ma l'essere sensibile. Ogni sostanza vedrà la sua fine. Essendo il cielo e la terra delle sostanze, essi finiranno, come finirò io; se si può, ad ogni buon conto, chiamare fine ciò che è soltanto un cambiamento di stato. Giacché il Principio, dal quale tutto ha origine, non avrà mai fine, poiché non ha avuto inizio e non è soggetto alle leggi della durata. Gli esseri passano successivamente attraverso stati di essere vivente e di essere non-vivente, di essere materiale e di essere non-materiale. Lo stato di non-vita non è prodotto dalla non-vita, ma segue lo stato di vita (come la sua ombra; si veda sopra). Lo stato di non-materialità non è prodotto dall'immaterialità, ma fa seguito allo stato di materialità (come la sua eco; si veda 57

57 sopra). Quest'alternanza successiva è fatale, inevitabile. Ogni vivente cesserà fatalmente e necessariamente di vivere, e cesserà poi necessariamente di essere non-vivente, e tornerà necessariamente alla vita. Perciò, voler far durare la propria vita e sfuggire alla morte, è volere l'impossibile. Nel composto umano, lo spirito vitale è l'apporto del cielo, il corpo è il contributo della terra. L'uomo incomincia con l'aggregazione del suo spirito vitale con i grossolani elementi terrestri e finisce con l'unione dello stesso spirito con i puri elementi celesti. Quando lo spirito vitale abbandona la materia, ciascuno dei due componenti ritorna alla propria origine. Da questo discende che i morti (coei) sono chiamati (coei) [ritornati]. In effetti essi sono ritornati alla loro dimora propria (il cosmo). Hoang-ti ha detto: «Lo spirito vitale rientra dalla propria porta nel Principio; il corpo ritorna alla propria origine (la sostanza), ed è la fine dell'individualità». G La vita di un uomo, dalla nascita alla morte, comprende quattro grandi periodi: il tempo dell'infanzia, la giovinezza vigorosa, gli anni della vecchiaia, la morte. Nel corso dell'infanzia, quando le energie sono tutte concentrate, l'armonia del complesso è perfetta; nulla può nuocergli, tanto è preciso il suo funzionamento. Nel corso della giovinezza vigorosa, quando il sangue e gli spiriti ribollono da straripare, si moltiplicano le immaginazioni e gli appetiti; l'armonia del complesso non è più perfetta, le influenze esterne rendono il suo funzionamento difettoso. Durante gli anni della senescenza, calmandosi le immaginazioni e gli appetiti, il corpo si tranquillizza, gli esseri esterni cessano di avere presa su di esso; benché il complesso non ritorni alla perfezione dell'infanzia, c'è indubbiamente un progresso rispetto al periodo della giovinezza. E finalmente, alla fine dell'esistenza, con la morte, l'uomo giunge al riposo, ritorna al suo apogeo (alla perfezione integrale, l'unione con il cosmo). H Mentre Confucio si recava in visita al monte T'ai-scian, incontrò nella piana di Ci'eng un certo Giung-ch'i; vestito d'una pelle di cervo, cinto di una corda, costui suonava il liuto e cantava. «Maestro» gli disse, «di che cosa vi rallegrate in questo modo ?» «Ho» rispose Giung-ch'i «molte ragioni per essere allegro: di tutti gli esseri, l'uomo è il più nobile; ora, io ho avuto dal destino un corpo d'uomo; questa è la mia prima ragione di gioia. Essere maschio è più nobile che non essere femmina; ora, io ho avuto la fortuna di avere un corpo di maschio; questa è la mia seconda ragione di gioia. Quanti sono gli uomini che, dopo essere stati concepiti, muoiono senza aver visto la luce, o muoiono in fasce prima che la loro ragione si risvegli? Ora, a me non è capitato niente di simile; sono al mondo da novant'anni; questa è la mia terza ragione di gioia... E di che mi dovrei rattristare? Della mia povertà? È il destino naturale dei Saggi. Della morte che si avvicina? È il termine di tutto ciò che vive». Confucio si rivolse ai suoi discepoli: «Costui sa darsi una ragione delle cose!». I Un tale Linn-lei, più che centenario, ancora vestito di pelle al tempo delle messi (massimo del caldo, perché aveva soltanto quel vestito), spigolava canticchiando. Confucio, che andava a Uei, incontratolo per la campagna, disse ai suoi discepoli: «Provate a chiacchierare con quel vegliardo; forse ci insegnerà qualcosa». Zé-cung si diresse perciò verso Linn-lei, lo salutò, e gli disse in tono di compatimento: 58

«Maestro, non rimpiangete dunque nulla, che cantate in questo modo adoprandovi a una tal bisogna da mendicante?» Linn-lei continuò a spigolare e a canterellare, senza prestare attenzione a Zé-cung. Ma poiché questi non smetteva di salutarlo, si decise a guardarlo, e gli disse: «E che cosa dovrei rimpiangere?» «Ma» disse Zé-cung, «di non esservi dato da fare e di non esservi ingegnato di più, nel corso della vostra giovinezza e della vostra maturità, per mettere da parte un po' di beni; di non esservi sposato, e di essere così arrivato alla vecchiaia senza moglie e senza figli; di aver da morire presto, senza aiuti e senza offerte rituali. Vi siete procurato una situazione simile, e adesso cantate ancora, facendo questo lavoro da mendicante?» «Ma è perché» disse Linn-lei ridendo «la mia felicità io l'ho riposta in cose che sono alla portata di tutti, e che tutti detestano (povertà, oscurità, ecc.). Sì, è vero, non mi sono né impegnato né applicato; questo mi ha permesso di non logorarmi, e di vivere fino alla mia età. Sì, certo, sono rimasto da sposare; ma di conseguenza la prospettiva della morte non mi rattrista, per la vedova e gli orfani che non lascerò dietro di me». «Ma» disse Zé-cung, «ogni uomo ama la vita, e ha paura della morte. Come fate voi a non dar peso alla vita, e ad amare la morte?» «Perché» disse Linn-lei, «la morte sta alla vita come il ritorno sta all'andata. Quando morirò qui, forse che non nascerò da qualche altra parte? E se rinasco, ciò non avverrà in circostanze differenti? Ora, poiché non ho che da guadagnare nel cambio, qualunque esso sia, non sarebbe stoltezza se temessi la morte, dalla quale non ho da aspettarmi se non di meglio di quel che ho?» Zé-cung non capì molto bene il senso di queste parole, e le riferì a Confucio. «Avevo ragione di pensare» disse questi «che avremmo potuto imparare qualcosa da quest'uomo. Sa, però non tutto (perché si arresta alla successione delle esistenze, senza spingersi fino alla possibilità dell'unione con il Principio, che è il termine finale)». J

Zé-cung era stanco di studiare; egli disse perciò a Confucio: «Vogliate concedermi un po' di riposo!» «Non esiste luogo di riposo» rispose Confucio «fra i vivi». «Allora» ribatté Zé-cung, «accordatemi un po' di riposo, senza luogo». «Troverai» disse Confucio «il riposo senza localizzazione, nella morte». «Allora» disse Zé-cung, «viva la morte, riposo del Saggio, che gli stolti temono con gran torto!» «Eccoti vicino all'iniziazione» rispose Confucio. «Sì, la gente comune parla delle gioie della vita, degli onori della vecchiaia, dei terrori della morte. La realtà è che la vita è amara, che la vecchiaia è decadenza, la morte è riposo».

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Yen-zé diceva: «Sono gli Antichi ad aver meglio capito cos'è in realtà la morte, il riposo agognato dai buoni, la fatalità temuta dai malvagi. La morte è il ritorno. Per questo i morti sono chiamati i ritornati. Logicamente, bisognerebbe chiamarli i viventi, i ritornati. Camminare senza sapere dove si va, lo fanno gli sviati, che per questo sono derisi. Ohimè! Di questi tempi la maggior parte degli uomini sono sviati, che ignorano dove vanno nella morte, e nessuno ride di loro. Che un uomo trascuri i propri affari per errare senza scopo, e di lui si dirà che è matto. La stessa cosa io dico di chi, dimenticando l'aldilà, si immerge nelle ricchezze e negli onori; anche se quelli il mondo li considera saggi. Non è vero; sono degli 59

59 sviati. Solo il Saggio sa dove va». L

Qualcuno chiese a Lieh-tzu: «Perché apprezzate tanto il vuoto?» «Il vuoto» rispose Lieh-tzu «non può essere apprezzato per se stesso, [essendo inafferrabile]. Esso è apprezzabile per la pace che si trova in esso. La pace nel vuoto è una cosa che non si può definire. Non si prende e non si dà. Un tempo ad essa si tendeva. Ora si preferisce l'esercizio della bontà e dell'equità, che non dà lo stesso risultato».

M Un tempo Ceù-hiùng diceva: «I trasferimenti degli esseri che sono morti, sotto l'azione del cielo e della terra, sono impercettibili. L'essere che perisce qui, rinasce altrove; chi viene ad accrescere il numero dei viventi, è sottratto da qualche altra parte. Decadenza e prosperità, diventare e cessare; gli andirivieni si concatenano senza che sia percepibile il filo del concatenamento. La venuta di chi viene e la partenza di chi parte sono così insensibili, che l'universo presenta sempre lo stesso aspetto. È come accade per i cambiamenti di un organismo umano: viso, pelle, capelli; dalla nascita alla morte sono quotidiani, ma non sono constatabili da un giorno all'altro». N Nel paese di Ch'i c'era un uomo che era tormentato dalla paura che il cielo gli cadesse sulla testa e che la terra gli sprofondasse sotto i piedi. Era così ossessionato dalla paura di questo gran cataclisma che perdette il sonno e l'appetito. Un amico fu toccato dal suo stato, e decise di confortarlo. «Il cielo» gli disse «non è solido. Lassù non ci sono altro che vapori che vanno e vengono, si dilatano e si contraggono, e questo costituisce la respirazione cosmica. È qualcosa che non può cadere». «Va bene» disse il tremebondo, «ma il sole, la luna, le stelle?» «Questi corpi celesti» gli disse l'amico «sono soltanto fatti di gas luminosi. Se dovessero cadere, non hanno una massa sufficiente da produrre la più piccola ferita». «E se sprofondasse la terra?» domandò il tremebondo. «La terra è qualcosa di troppo grosso» disse l'amico «perché la consumino i passi degli uomini; ed è troppo ben sospesa nello spazio perché le scosse la spostino». Rassicurato, il tremebondo si mise a ridere; e l'amico, contento di essere riuscito a rassicurarlo, rise pure lui. Tuttavia, C'iang-lu-zé, avendo sentito raccontare la storia, criticò in questi termini sia il fissato che l'amico: «Il cielo e i corpi celesti sono fatti di vapori leggeri, e va bene; la terra che tutto sopporta è fatta di sostanza solida, e va bene. Ma questi vapori e questa sostanza solida sono dei composti. Chi può garantire che questi composti non si decomporranno mai? Posta quest'incertezza, è ragionevole che si speculi sull'eventualità possibile della rovina del cielo e della terra. È vivere nella continua attesa di questa rovina che è irragionevole. Lasciamo la cura di gemere sul grande sprofondamento a coloro che ne saranno i testimoni». Lieh-tzu, che aveva sentito parlare di questa soluzione, aggiunse: «Affermare che il cielo e la terra andranno in rovina sarebbe arrischiare troppo. È impossibile sapere con certezza cosa accadrà, se sì o se no. Dirimo la questione con un'analogia: i vivi non sanno nulla del loro futuro stato di morte, i morti non sanno nulla del loro futuro stato di nuova vita. Quelli che arrivano (i vivi) non sanno quali saranno le 60

modalità della loro partenza (morte), e quelli che sono partiti (i morti) non sanno come ritorneranno (alla vita). Incompetenti delle fasi della loro propria evoluzione, come potrebbero gli uomini rendersi conto delle fasi di crisi del cielo e della terra?» O

Ciunn domandò a Cieng: «Può il Principio essere posseduto?» «Ma se non possiedi nemmeno il tuo corpo» rispose Cieng, «come vuoi fare a possedere il Principio?» «Se non possiedo il mio corpo» sbottò Ciunn sorpreso, «allora di chi è?» «Del cielo, della terra, di cui è una particella» rispose Cieng. «La tua vita è una porzione infinitesimale dell'armonia cosmica. La tua natura e il tuo destino sono una porzione infinitesima dell'accordo universale. I tuoi figli e i tuoi nipoti non sono tuoi, ma del gran Tutto, di cui sono i germogli. Tu cammini senza sapere quel che ti spinge, ti fermi senza sapere quel che ti fa arrestare, mangi senza sapere come fai ad assimilare. Tutto quel che sei è un effetto dell'irresistibile manifestarsi cosmico. Allora, che possiedi?»

P Nel paese di Z'i, un certo Cuò era molto ricco. Nel paese di Song, un tale Hiang era poverissimo. Il povero andò a domandare al ricco come aveva fatto ad arricchirsi. «Rubando» gli rispose questi. «Quando incominciai a rubare, dopo un anno riuscii ad avere il necessario; dopo due anni ero nell'abbondanza; alla fine del terzo anno nell'opulenza; poi diventai un grosso notabile». Equivocando sul termine rubare, Hiang non pose altre domande. Sprizzando gioia si congedò, e subito si mise all'opera, forando muri o scavalcandoli, e facendo man bassa di tutto quel che gli interessava. Arrestato poco dopo, dovette restituire tutto, e perdette anche il poco che possedeva prima, troppo contento di cavarsela a così buon mercato. Convinto che Cuò l'avesse ingannato, si recò da lui e gli rivolse amari rimproveri. «Ma come hai fatto?» domandò Cuò sbalordito. Dopo che Hiang gli ebbe raccontato i suoi modi di procedere, «Ah!» fece Cuò, «Ma non è mica con questo genere di furti che io mi sono arricchito. Io, secondo i tempi e le circostanze, ho derubato delle loro ricchezze il cielo e la terra, la pioggia, i monti e il piano. Io mi sono impossessato di quel che avevano fatto crescere e maturare; degli animali selvatici delle praterie, dei pesci e delle tartarughe delle acque. Tutto quel che ho, l'ho rubato alla natura, ma prima che appartenesse a qualcuno; mentre tu hai rubato quel che il cielo aveva già dato ad altri uomini». Hiang se ne andò scontento, ancora convinto che Cuò lo stesse ingannando. Incontrò il Maestro del quartiere dell'Est, e gli raccontò il suo caso. «Ma certo» gli disse questi, «qualsiasi appropriazione è un furto. Anche l'esistere, la vita, sono il furto di una particella dell'armonia dello yin e dello yang; a maggior ragione qualunque appropriazione di un essere animato è un furto perpetrato nei confronti della natura. Ma bisogna saper distinguere tra furto e furto. Derubare la natura è un furto comune, che commettono tutti, e non è punito. Rubare agli altri è il furto privato che commettono i ladri, ed è punito. Tutti gli uomini vivono dei furti perpetrati contro il cielo e la terra, senza per questo essere dei ladri».

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II Semplicità naturale

A Hoang-ti regnava da quindici anni, godendo della sua gran popolarità, preoccupandosi della propria salute, concedendo piacere ai suoi sensi, al punto di essere diventato smunto e assente. Regnato che ebbe trent'anni, esercitando sforzi continui, intellettuali e fisici, per tenere insieme l'impero e migliorare le condizioni di vita della popolazione, si ritrovò ancora più magro e affaticato. A questo punto disse a se stesso, sospirando: «Devo aver esagerato. Se non sono in grado di far del bene a me stesso, come farò ad essere benefico per tutti gli esseri?...» Tratta questa conclusione, Hoang-ti lasciò le cure del governo, abbandonò il palazzo, sciolse il suo seguito, si privò della musica, si costrinse a una dieta frugale, si ritirò in stanze appartate, e qui per tre mesi si dedicò solo più a governare i propri pensieri e a dominare il suo corpo. Nel corso di questa reclusione, un giorno, mentre riposava, sognò che percorreva a piedi il paese di Hoà-su-scie. Questo paese è a ovest di Yen-ceù, non so a quante migliaia di miglia dal paese di Z'i. Non vi si può andare né in barca né in carrozza; sola può permettere di accedervi l'elevazione dello spirito. In questo paese non c'è nessun governante; tutto vi procede spontaneamente. La popolazione non ha né desideri né brame, soltanto il proprio istinto naturale. Nessuno ama la vita, né ha paura della morte; ognuno vive fino alla sua conclusione. Non ci sono né amicizie né inimicizie. Non guadagni e non perdite. Non interessi e non timori. L'acqua non ha il potere di annegare gli abitanti, il fuoco di bruciarli. Nessun'arma può ferirli, nessuna mano può arrecargli danno. Si innalzano nell'aria come se salissero su per le scale, e si sdraiano nel vuoto come se fossero su un letto. Nubi e nebbie non interferiscono con il loro sguardo, il fragore del tuono non disturba il loro udito, nessuna bellezza o bruttezza commuove i loro cuori, nessuna altezza o profondità interferisce con i loro percorsi. L'elevazione dello spirito li conduce dappertutto. Al risveglio, una luce tranquilla investiva l'animo dell'imperatore. Egli chiamò a sé i suoi ministri più importanti, T'ien-lao, Li-mu, T'ai-scian-chi, e disse loro: «Per tre mesi, durante il mio ritiro, ho regolato il mio interno e dominato il mio corpo, riflettendo su come avrei dovuto fare per governare senza affaticarmi. Nello stato di veglia non ho trovato soluzione, essa mi si è presentata mentre dormivo. «So ora che al Principio supremo non si accede con sforzi individuali positivi (ma per distacco e intuizione). Ora si è fatta luce all'interno di me stesso, ma non posso spiegarvi di più la cosa a parole». Dopo questo «sogno», Hoang-ti regnò ancora ventott'anni (applicando il metodo di lasciare evolversi ogni cosa [secondo la sua legge propria]). In conseguenza di ciò l'impero prosperò, quasi quanto il paese di Hoà-su-scie. Poi l'imperatore salì verso le regioni elevate, dalle quali, due secoli dopo, il popolo (che lo rimpiangeva) ancora lo chiamava. B La montagna Lie-cu-ié è situata nell'isola Ho-ceù. È popolata di uomini trascendenti, che non si nutrono di alimenti, ma aspirano l'aria e bevono rugiada. Il loro spirito è limpido come l'acqua di fonte, il loro colorito è fresco come quello di una giovane fan62

ciulla. Gli uni dotati di facoltà straordinarie, gli altri solamente molto saggi, senza attaccamenti, senza paure, vivono pacifici, in semplicità e modestia, provvisti di ciò che gli è necessario, senza aver bisogno di procurarselo. In loro lo yin e lo yang sono costantemente in armonia; il sole e la luna splendono senza interruzione; le quattro stagioni sono regolari; il vento e la pioggia vengono a piacere; la riproduzione degli animali e la maturazione dei raccolti vanno sempre a buon fine. Non ci sono miasmi nocivi, non bestie ostili, non entità sottili [fantasmi] che provochino la malattia o la morte, non apparizioni o fragori fuori della norma (tutti fenomeni che sono sempre i segni di uno squilibrio cosmico). C Dal proprio maestro Lao-sciang-scie, e dal suo amico Paicao-zé, Lieh-tzu apprese l'arte di cavalcare il vento (stati interiori di concentrazione). Yinn-scieng lo venne a sapere e, andato ad abitare da lui nell'intento di imparare quest'arte, assistette alle sue sedute di concentrazione, che lo privavano dei sensi per tempi ragguardevoli. Più volte gliene chiese la tecnica, ma ogni volta si scontrò con il suo rifiuto. Scontento, chiese il permesso di partire. Lieh-tzu non rispose. Yinn-scieng se ne andò. Sennonché, sempre macerato dallo stesso desiderio, nel giro di qualche mese se ne ritornò da Lieh-tzu. Questi gli chiese: «Perché mai te ne sei andato? E perché sei ritornato?» Yinn-scieng rispose: «Avete risposto negativamente a tutte le mie richieste; ne ho concepito dell'astio per voi e me ne sono partito; ora che il mio risentimento è sfumato, sono ritornato». Lieh-tzu ribatté: «Ti credevo di animo più equilibrato; è possibile che la tua natura sia così bassa? Ti racconterò come sono stato formato dal mio maestro. Sono stato introdotto da lui con un amico. Ho passato tre anni interi nella sua casa, impegnato ad addomesticare il mio cuore e la mia bocca, senza che mi degnasse di un solo sguardo. Poiché progredivo, dopo cinque anni mi sorrise per la prima volta. Continuando a progredire, dopo sette anni mi fece sedere sulla sua stuoia rituale. Dopo nove anni di sforzi perdetti alfine ogni nozione di sì o di no, di vantaggio o svantaggio, della superiorità del mio maestro e dell'amicizia del mio condiscepolo. A questo punto l'uso specifico dei miei differenti sensi fu sostituito da un senso generale; il mio spirito si condensò, mentre il corpo si rarefaceva; le ossa e le carni si liquefecero (si sottilizzarono); perdetti la sensazione di pesare sul sedile, di sostenermi sui piedi (levitazione); e alla fine partii, al piacere del vento, verso Est, verso Ovest, in tutte le direzioni, come una foglia morta portata [dal vento], senza che mi rendessi conto se era il vento che mi sollevava, o se ero io che cavalcavo il vento. Ecco attraverso quale lungo esercizio di spoliazione, di ritorno alla natura, ho dovuto passare per giungere alla concentrazione. E tu, che sei appena entrato da un maestro, che sei ancora tanto imperfetto da spazientirti e da offenderti; tu, che sei respinto dall'aria e di cui la terra deve ancora sopportare il corpo grossolano e pesante, pretendi di innalzarti sul vento nello spazio?» Yinn-scieng si ritirò confuso, non osando rispondere nulla. D Lieh-tzu chiese a Coan-yinnzé: «L'uomo superiore [che ha compiuto la sua realizzazione spirituale] passa dove non ci sono aperture, attraversa il fuoco senza bruciarsi, Si innalza a grande altezza senza provare alcun senso di vertigine; ditemi, ve ne prego, come faccia ad arrivare a tanto». «Conservando» rispose Coan-yinnzé «perfettamente pura la propria natura; non certo attraverso alcun procedimento artificiale o ingegnoso. Te lo voglio spiegare. Tutto 63

63 quel che ha forma, figura, suono e colore, tutto ciò sono gli esseri. Perché gli esseri dovrebbero opporsi gli uni agli altri? Perché dovrebbe esistere tra di loro un altro ordine al di fuori di quello della priorità nel tempo? Perché il loro sviluppo [spirituale] dovrebbe interrompersi all'abbandono della loro forma attuale? Capire a fondo queste cose, ecco la vera scienza. Quegli che l'ha capita, possedendo una solida base, abbraccerà l'intera catena degli esseri, unificherà le sue potenzialità, fortificherà il suo corpo, ritirerà in sé le proprie energie, entrerà in comunicazione con lo sviluppo universale. Poiché la sua natura conserverà la sua perfetta integrità, poiché il suo spirito conserverà la sua intera libertà, nulla di ciò che è esterno avrà presa su di lui Se un uomo in stato di ebbrezza cadesse da un carro, non si ferirebbe mortalmente. Anche se le sue ossa e le sue articolazioni sono come quelle degli altri uomini, lo stesso trauma non avrà su di lui gli effetti che avrebbe su di loro; e questo, perché il suo spirito, essendo unificato, ne protegge il corpo. L'incoscienza in questo caso agisce al modo di una guaina protettiva. Nulla ha presa sul corpo quando lo spirito non è disperso. Nessun essere può nuocere al Saggio, avvolto com'è, questi, nell'integrità della sua natura, protetto com'è dalla libertà del suo spirito». E Lie-uch'eù (Lieh-tzu) tirava con l'arco di fronte a Pai-hunn-u-genn, con una scodella piena d'acqua fissata al gomito destro. Tendeva l'arco, con la mano destra, al suo massimo, scoccava la freccia, la sostituiva, scoccava di nuovo; e così via, con l'impassibilità di una statua, senza far traboccare l'acqua dalla scodella. Pai-hunn-u-genn gli disse: «Il vostro tiro è quello di un arciere tutto assorbito dal suo tiro (tiro artificiale), non quello di un arciere indifferente al suo tiro (tiro naturale). Seguitemi su qualche monte elevato, sul bordo di un precipizio, e vedremo se conserverete ancora la vostra presenza di spirito». I due uomini fecero quel che era stato detto. Pai-hunn-u-genn si piazzò sul bordo del precipizio, con le spalle all'abisso, con i talloni che sporgevano nel vuoto (è da capire che l'arciere deve flettersi all'indietro nel tendere l'arco), poi salutò Lieuch'eù, secondo il rituale, prima di apprestarsi al tiro. Ma Lieuch'eù, malato di vertigine, era già disteso per terra, con il sudore che gli scorreva sul corpo fino ai calcagni. Pai-hunn-u-genn gli si rivolse così: «L'uomo superiore immerge lo sguardo nelle profondità del cielo, negli abissi della terra, nel lontano orizzonte, senza che il suo spirito ne sia scosso. Mi par di scorgere che i vostri occhi sono vitrei, e che, se tiraste, non colpireste il bersaglio». F Un membro della famiglia Fan, di nome Zé-hoà, avidissimo di popolarità, aveva attirato a sé tutta la gente del principato di Zinn. Il principe di Zinn aveva fatto di lui il proprio favorito, e ascoltava lui più volentieri persino dei suoi ministri, distribuendo secondo il suo parere le onorificenze e le pene. Ragion per cui i postulanti facevano la coda alla porta di Zé-hoà, che si divertiva a farli scontrare verbalmente davanti a sé, talvolta addirittura a farli battere tra di loro, insensibile agli incidenti che avvenivano nel corso di questi scontri. I costumi pubblici del principato di Zinn soffrivano a causa di simili eccessi. Un giorno Ho-scieng e Zé-pai, che tornavano da una visita alla famiglia Fan, passarono la notte in un quartiere periferico della città, alloggiando in una locanda gestita da un tale Sciang-ch'iù-c'ai (taoista). Parlarono tra di loro di quel che avevano visto poco prima: «Questo Zé-hoà» si dissero «è veramente molto potente; innalza e perde chi vuole; arricchisce o demolisce a proprio capriccio». 64

Sciang-ch'iù-c'ai, che non riusciva a prender sonno per la fame e il freddo, udì la conversazione attraverso la paratia di legno della stanza. Il giorno seguente, portandosi dietro qualche provvista, andò in città e si presentò alla porta di Zé-hoà. Ora, coloro che si accalcavano davanti ad essa erano tutte persone di condizione sociale elevata, vestiti riccamente e accompagnati dal loro seguito, pretenziosi e arroganti. Quando videro quel vecchietto fragile, dal viso abbronzato, malvestito e spettinato, lo guardarono tutti dall'alto in basso, poi si misero a trattarlo sprezzantemente e infine a prendersi gioco di lui in ogni possibile modo. Per quanto costoro facessero, Sciang-ch'iù-c'ai restava impassibile, prestandosi al loro gioco con un sorriso. In quella, Zé-hoà, che aveva condotto tutta la banda su un alto terrazzo, disse: «Cento once d'oro a chi salterà di sotto!...» I beffeggiatori di poco prima ebbero paura. Sciang-ch'iù-c'ai si gettò giù immediatamente, scese tranquillamente, planando come un uccello, e si posò a terra senza neppure rompersi un osso. «È un caso» disse la banda. Poco dopo, Zé-hoà li portò tutti ai bordi del Fiume, in prossimità di un'ansa che formava un profondo gorgo. «In questo punto» egli disse, «proprio sul fondo del fiume, c'è una perla di rara bellezza; chi riuscirà a trarla in superficie, sarà sua!» Sciang-ch'iù-c'ai subito si tuffò, e portò la perla rara dal fondo dell'abisso in superficie. Allora la banda incominciò ad avere qualche sospetto di essere di fronte a un essere straordinario. Zé-hoà lo fece rivestire e tutti si misero a tavola. Improvvisamente scoppiò un incendio in un deposito della famiglia Fan. «Darò» disse Zé-hoà «a chi entra in quel braciere, tutto quanto potrà tirar fuori!...» Senza un moto del volto, Sciang-ch'iù-c'ai si immerse nel fuoco e ne uscì senza alcuna bruciatura o irritazione della pelle. Finalmente convinti che l'uomo era in possesso di qualche dono trascendente, la banda gli porse le sue scuse. «Non potevamo sapere» gli dissero. «Ecco perché vi abbiamo mancato di riguardo. Voi non ci avete neppure fatto caso, come se foste sordo o cieco, confermando con questa vostra imperturbabilità la vostra trascendenza. Vogliate confidarci la vostra formula!» «Formule non ne ho» disse Sciang-ch'iù-c'ai. «Faccio ciò che il mio istinto naturale mi spinge a fare, senza sapere né perché né come. Sono venuto qui per vedere, perché due dei miei ospiti hanno parlato di voi, e la distanza non era grande. Ho prestato fede a tutto quel che mi avete detto, e ho voluto farlo, senza secondi fini relativi alla mia persona. Ho perciò agito sotto l'impulso del mio istinto naturale, integro e indiviso. A colui che agisce in questo modo, nessun essere si oppone (tale azione essendo nel senso del flusso cosmico). Se non me lo aveste detto appena adesso, non avrei mai sospettato che vi stavate prendendo gioco di me. Adesso che lo so, ne sono un po' scosso. In queste condizioni non avrei più il coraggio, come prima, di affrontare l'acqua e il fuoco, perché non lo farei impunemente». Dopo questa lezione, i clienti della famiglia Fan non insultarono più nessuno. Scendevano dalle loro carrozze per salutare, sulla strada, anche i mendicanti e i veterinari. Zai-nò riferì questa storia a Confucio. «Perfettamente verosimile» disse questi. «Non lo sapevi che l'uomo assolutamente semplice piega con la sua semplicità tutti gli esseri, partecipa del cielo e della terra, rende propizie le anime dei morti, cosicché assolutamente nulla gli si oppone nelle sei regioni dello spazio, nulla gli è ostile, il fuoco e l'acqua non gli nuocciono? E se la sua semplicità un po' incosciente ha avuto la virtù di proteggere Sciang-ch'iù-c'ai, quanto più la mia di65

65 rittura sagace potrà proteggere me! Tienitelo per detto!» [conclusione sorniona, mirante a mettere in risalto la prospettiva ristretta della scuola confuciana]. G L'intendente ai pascoli dell'imperatore Suan-uang della dinastia Ceù aveva al proprio servizio un sottoposto, Leang-ying, dotato di un potere straordinario sugli animali selvaggi. Quando entrava nel loro recinto per dar loro da mangiare, i più riottosi, tigri, lupi, aquile pescatrici, si piegavano docilmente alla sua voce. Li poteva affrontare impunemente nelle contingenze più pericolose: epoche del calore, dell'allattamento, o in presenza di specie antagoniste. L'imperatore venne a sapere della cosa, pensò alla messa in opera di qualche incantesimo e diede ordine al funzionario Mao-ch'iuyuan di prendere informazioni. Leang-ying rispose: «Io non sono che un modesto sottoposto, come potrei essere in possesso di un incantesimo? E se anche ne avessi uno, come oserei nasconderlo all'imperatore? In poche parole, eccovi il mio segreto: tutti gli esseri dotati di sangue provano attrazioni e repulsioni. Questi sommovimenti dell'animo non si innescano spontaneamente, ma solo in presenza del loro oggetto. Io mi baso su questo principio nei miei rapporti con le bestie feroci. Non do mai alle mie tigri una preda viva, per non risvegliare in loro la tendenza ad uccidere; né una preda intera, per non eccitare il loro desiderio di squartare. Giudico delle loro disposizioni vedendo a che grado sono affamate o sazie. La tigre ha in comune con l'uomo l'affezionarsi a chi le dà da mangiare o la tratta bene, e di ammazzare soltanto chi la provoca. Io evito perciò sempre di irritare le mie tigri, e, al contrario, faccio di tutto per esser loro gradevole. Questa è una cosa che riesce difficile alle persone di carattere instabile. Il mio carattere è di quelli costanti. Fidandosi di me, le mie bestie mi considerano uno dei loro. Nel mio serraglio esse dimenticano le loro profonde foreste, le loro vaste paludi, le loro montagne e le loro valli. È il semplice effetto di un procedimento naturale». H Yen-hoei disse a Confucio: «Un giorno, attraversando le rapide di Sciang, mi capitò di ammirare la destrezza straordinaria del traghettatore, e gli domandai: "È un'arte che si impara?" — "Sì" mi rispose. "Chiunque sappia nuotare può apprenderla. Un buon nuotatore la impara subito. Un buon tuffatore la conosce già, senza neanche aver bisogno di apprenderla". Non ebbi il cuore di dire al battelliere che non avevo capito la sua risposta. Abbiate la cortesia di spiegarmela voi, per favore». «Ah!» disse Confucio «Questo te l'ho già spiegato spesso in altri termini, ma tu sembri non averlo ancora capito! Ascolta e impara, questa volta!... Chiunque sappia nuotare può apprenderla, perché non ha paura dell'acqua. Un buon nuotatore la impara subito, perché all'acqua non pensa neanche più. Un buon tuffatore la conosce già, senza aver bisogno di impararla, perché, siccome l'acqua è diventata in qualche modo il suo elemento, non gli provoca più il minimo turbamento. Nulla disturba l'esercizio delle facoltà di colui nel cui interno non penetra più nessuna agitazione... «Quando la posta è un pezzo di coccio, i giocatori sono tranquilli. Quando la posta sono un po' di soldi, diventano nervosi. Quando è dell'oro, perdono la testa. L'abilità acquisita è sempre la stessa, ma sono più o meno capaci di utilizzarla se l'attrazione per un oggetto esterno li distrae di più o di meno. Qualsiasi genere di attenzione che si presti a qualcosa di esterno, disturba o altera l'interno». I 66

Un giorno che Confucio stava ammirando la cascata di Lu-leang, salto d'acqua di

ottanta metri che produce un torrente, vorticoso per una lunghezza di cinque o sei chilometri, e così rapido che né coccodrillo, né tartaruga, né pesce, ce la fanno a risalirlo, vide un uomo che nuotava fra i mulinelli. Credendo che fosse un disperato che cercava la morte, disse ai suoi discepoli di costeggiare la riva, per tirarlo fuori se fosse passato a portata. Ma a qualche centinaio di passi più a valle, l'uomo uscì da solo dall'acqua, si sciolse i capelli per asciugarli e si mise a seguire la riva, ai piedi della diga, canterellando. Confucio, che l'aveva raggiunto, gli si rivolse così: «Quando vi ho visto nuotare nella corrente, ho pensato che voleste farla finita. Poi, vedendo la facilità con cui uscivate dall'acqua, vi ho preso per un essere trascendente. E invece mi accorgo che siete un uomo, in carne e ossa. Spiegatemi, vi prego, la tecnica per dominare l'acqua in questo modo». «Non conosco nessuna tecnica del genere» fece l'uomo. «Quando incominciavo, mi applicai; col tempo, la cosa mi diventò facile; finalmente lo feci naturalmente, inconsapevolmente. Mi lascio risucchiare dall'imbuto centrale del vortice, poi risputare dal mulinello periferico. Seguo il movimento dell'acqua senza fare, io, nessun movimento. Eccovi tutto quel che ne posso dire». J Confucio era in viaggio per il reame di Ci'ù. In una radura, vide un gobbo che abbatteva le cicale al volo, come se le prendesse con le mani. «Siete molto abile» gli disse; «confidatemi il vostro segreto». «Eccolo» disse il gobbo. «Mi sono esercitato per cinque o sei mesi a far restare alcune palle in equilibrio su questa canna. Quando riuscii a farne restar ferme due, erano poche le cicale che mancavo. Quando ne feci restar ferme tre, ne mancavo solo più una su dieci. Quando riuscii a tenerne cinque, incominciai a prendere le cicale al volo con la canna come se usassi la mano. Il mio corpo e il mio braccio non risentono più di nessun fremito nervoso incontrollato. La mia attenzione non si lascia più distrarre da nulla. In questo universo immenso, così pieno di esseri, io vedo soltanto la cicala che prendo di mira, e non la sbaglio più». Confucio guardò i discepoli e disse loro: «Concentrare la volontà su un oggetto unico produce la cooperazione perfetta di spirito e corpo». Prendendo a sua volta la parola, il gobbo domandò a Confucio: «Ma voi, letterato, con che fine mi avete fatto questa domanda? A che pro prendere informazioni su qualcosa che non è di vostra competenza? Non avreste per caso qualche intenzione malevola?» Un giovane, che abitava in riva al mare, amava molto i gabbiani. Tutte le mattine andava sulla riva del mare per salutarli, e i gabbiani scendevano a centinaia, a giocare con lui. Un giorno il padre del giovane gli disse: «Visto che i gabbiani hanno così fiducia in te, prendine qualcuno e portamelo, così potrò giocare anch'io con loro...» Il giorno dopo il giovane si recò alla spiaggia come d'abitudine, ma con l'intenzione nascosta di obbedire al padre. Il suo esterno tradì l'interno. I gabbiani sospettarono qualcosa. Giocavano in aria sopra la sua testa, ma nessuno discese. L'uso migliore che si può fare della parola è tacere. L'azione migliore è astenersi dall'agire. Voler abbracciare dall'esterno tutto il conoscibile produce solo una scienza superficiale. K Portando con sé un seguito di centomila persone, Ciaò-siang-zé andava a caccia sui monti Ciung-scian. Per snidare gli animali selvatici dalle loro tane egli fece dar fuoco alla boscaglia. Il chiarore dell'incendio era visibile a chilometri e chilometri di distanza. In mezzo al braciere si vide un uomo uscire da una roccia, volteggiare nelle fiamme, svolaz67

67 zare in mezzo al fumo. Gli spettatori pensarono tutti che non poteva che trattarsi di un essere trascendente. Estintosi l'incendio, questi venne verso di loro, tranquillamente, come se niente fosse stato. Sorpreso, Ciaò-siang-zé lo fece fermare e lo esaminò attentamente. Era un uomo fatto come tutti gli altri. Ciaò-siang-zé gli domandò qual era il segreto che deteneva per poter entrare in quel modo nelle rocce e soggiornare nel fuoco; l'uomo rispose: «Rocce? Cos'è?; Fuoco? Di che si tratta?...» Ciaò-siang-zé disse: «Quella da cui siete uscito, è una roccia; quello che avete attraversato, è fuoco... » «Ah!» fece l'uomo «Non lo sapevo». Il marchese Uenn di Uei sentì raccontare il fatto e chiese a Zé-hià cosa pensasse di un tal uomo... «Ho sentito dire al mio maestro (Confucio)» rispose Zé-hià «che chi abbia realizzato l'unione perfetta con l'universo, nessun essere può più nuocergli; che quegli penetra a suo piacere il metallo e la pietra; che cammina a volontà sull'acqua e nel fuoco... » «Ma voi» domandò il marchese, «questo dono lo possedete?» «No» disse Zé-hià, «perché non sono ancora riuscito a sbarazzarmi della mia intelligenza [individuale] e della mia volontà [particolare]; sono ancora soltanto un discepolo...» «E il vostro maestro Confucio, lo possiede, lui, questo dono?» domandò il marchese... «Sì» disse Zé-hià, «ma non ne fa sfoggio». Il marchese Uenn restò favorevolmente colpito dalla risposta. L Un indovino fra i più abili, di nome Chi-hien, originario della provincia di Z'i, si era venuto a stabilire in quella di Cieng. Prediceva le disgrazie e la morte, giorno più giorno meno, infallibilmente. Per questo la gente di Cieng, che non ci teneva a saperla così lunga, scappava il più lontano possibile quando lo vedeva arrivare. Lieh-tzu era andato a trovarlo, ed era rimasto meravigliato da quanto aveva visto e udito. Tornato dal suo maestro Hu-ch'iù-zé, gli disse: «Fino a oggi pensavo che la vostra fosse la più perfetta delle dottrine, ma adesso ne ho trovata una superiore». Hu-ch'iù-zé rispose: «E perché tu non conosci tutta la mia dottrina, dal momento che da me hai ricevuto soltanto l'insegnamento exoterico, ma non quello esoterico. Il tuo sapere assomiglia alle uova covate dalle galline senza gallo; manca loro (il germe), l'essenziale. E inoltre, quando si discute, occorre avere una ferma fiducia nel proprio punto di vista, se no, se si vacilla, si è dominati dal proprio avversario. Credo che sia quel che è successo a te. Penso che tu ti sia tradito, e che poi abbia preso il fiuto naturale di Chi-hien per divinazione trascendente. Portami quest'uomo, che veda io come stanno le cose». Il giorno dopo, Lieh-tzu portò l'indovino da Hu-ch'iù-zé con la scusa di una consultazione medica. Uscito che fu, l'indovino disse a Lieh-tzu: «Ohimè! Il vostro maestro è un uomo morto. Ne ha solo più per pochi giorni; esaminandolo ho avuto una strana sensazione, come di ceneri umide, presagio di morte». Congedato l'indovino, Lieh-tzu rientrò in lacrime nella stanza e riferì a Hu-ch'iù-zé quel che gli era stato detto. Hu-ch'iù-zé rispose: «Ma è perché mi sono manifestato a lui sotto le apparenze di una terra inerte e sterile, con tutte le mie energie immobili (aspetto che la gente comune presenta solo all'avvicinarsi della morte, ma che il contemplativo presenta a volontà). Lui ci è cascato. Portamelo un'altra volta, e vedrai il seguito dell'esperimento». 68

Il giorno appresso Lieh-tzu ritornò con l'indovino. Quando questi uscì, disse a Lieh-tzu: «Per fortuna che il vostro maestro si è rivolto a me; va già un po' meglio; le ceneri si rianimano. Ho visto qualche segno di energia vitale... » Lieh-tzu riferì queste parole a Hu-ch'iù-zé, che ribatté: «E perché mi sono manifestato a lui sotto l'aspetto di una terra fecondata dal cielo, con l'energia vitale crescente dalle profondità sotto l'impulso [che viene] dall'alto. Ha visto bene, ma interpretato male (prendendo per semplicemente naturale ciò che è effetto di contemplazione). Riportamelo di nuovo, che continuiamo l'esperimento». Il giorno seguente Lieh-tzu ricondusse l'indovino. Fatto il suo esame, Costui gli disse: «Oggi ho trovato al vostro maestro un aspetto vago e indeterminato, da cui non riesco a trarre nessuna previsione; quando il suo stato sarà più definito, potrò dirvi come va...» Lieh-tzu riferì le parole a Hu-ch'iù-zé, il quale disse: «Mi sono manifestato a lui sotto l'aspetto del gran caos non ancora differenziato, con tutte le mie potenzialità in stato di equilibrio neutro. In effetti non poteva trarre nulla di preciso da questo modo di presentarmi a lui. Un gorgo nell'acqua può essere provocato tanto dai movimenti di un mostro marino quanto da uno scoglio o dalla violenza della corrente; da uno zampillo, da una cascata, dall'incontro di due corsi d'acqua, da uno sbarramento [sotto il pelo dell'acqua], da una derivazione, dalla rottura di una diga; effetto identico di nove cause differenti (da cui, impossibilità di dedurre direttamente, dall'apparenza del vortice, la natura della sua causa; necessità conseguente di un ulteriore esame per definire quest'ultima). Portamelo ancora una volta, e vedrai il seguito». Tornato l'indovino il giorno dopo, questi si fermò un momento solo davanti a Huch'iù-zé, non ne capì nulla, si terrorizzò e fuggì... «Corrigli dietro» disse Hu-ch'iù-zé. «Gli ho manifestato la mia uscita dal principio primordiale, prima dei tempi; un sommovimento nel vuoto senza forma apparente, un ribollimento della potenzialità inerte. Per lui era troppo; ecco perché si è dato alla fuga». Toccando con mano che non capiva ancora nulla della dottrina esoterica del proprio maestro, Lieh-tzu si ritirò in casa sua per tre anni consecutivi. Fece la cucina per sua moglie, fece il servizio ai maiali come se si fosse trattato di uomini (per demolire in se stesso qualsiasi pregiudizio umano). Si disinteressò totalmente di ogni cosa esteriore. Ricondusse alla semplicità primitiva tutto quel che in lui era cultura artificiale. Diventò privo di qualità come una zolla di terra, estraneo a tutti gli avvenimenti e accidenti, e così concentrato in uno rimase fino alla fine dei suoi giorni. M

Maestro Lieh-tzu stava andando a Z'i; improvvisamente ritornò sui suoi passi. Pai-hunn-u-genn, che incontrò, gli chiese: «Perché tornate indietro in questo modo?» «Perché ho paura» disse Lieh-tzu. «Paura di cosa?» fece Pai-hunn-u-genn. «Sono entrato in dieci trattorie» disse Lieh-tzu, «e per cinque volte sono stato servito per primo. È probabile che la mia perfezione interiore trasparisse, e abbia dato nell'occhio a quella gente, se hanno servito dopo di me clienti più ricchi o più anziani di me. Di conseguenza, ho avuto paura che, se andavo fino alla capitale di Z'i, il principe, riconosciuto che avesse anche lui il mio merito, scaricasse sulle mie spalle il governo che gli pesa». «Ben pensato» disse Pai-hunn-u-genn. «Siete sfuggito a un padrone principesco; 69

69 ma temo che avrete presto dei padroncini a domicilio». Qualche tempo dopo, Pai-hunn-u-genn, recatosi in visita da Lieh-tzu, vide davanti alla porta una quantità di scarpe (segnale della presenza di numerosi visitatori). Fermatosi nel cortile interno, rifletté a lungo, il mento appoggiato sull'estremità superiore del bastone, poi se ne andò senza dire parola. Il portiere, però, aveva già avvertito Lieh-tzu. Questi afferrò lestamente i calzari e, senza neanche sprecar tempo a metterseli, corse dietro all'amico. Raggiuntolo che ebbe alla porta esterna, gli disse: «Perché ve ne andate così, senza lasciarmi nessun messaggio utile?» «A che servirebbe ormai?» disse Pai-hunn-u-genn «Non ve l'avevo detto? Adesso avete i vostri padroncini. È probabile che non li abbiate attirati, ma neanche avete saputo respingerli. Che influsso potrete avere d'ora in avanti su quella gente? Si può solo avere influenza su qualcuno se lo si tiene a distanza. A coloro che ti hanno comprato, non si può più dire niente. Coloro con cui si è legati, non li si può correggere. Le chiacchiere della gente comune sono veleno per l'uomo perfetto. A che scopo conversare con persone che non sentono e non capiscono?» N Yang-zé-chin andandosene a P'ei, e Lao-tzu a Z'inn, i due si incontrarono a Leang. Colpito dall'atteggiamento vanitoso di Yang-zé-chin, Lao-tzu levò gli occhi al cielo ed esclamò con un sospiro: «Non credo che sia il caso di perdere il mio tempo a istruirvi». Yang-zé-chin non rispose. Arrivati che furono al villaggio, Yang-zé-chin portò subito di persona a Lao-tzu il necessario per rinfrescarsi e lavarsi. Poi, lasciati i calzari fuori della porta, procedette ginocchioni fino alla sua presenza, e gli disse: «Da tanto tempo desidero intensamente ricevere il vostro insegnamento. Non ho avuto il cuore di fermarvi per strada e richiedervelo; ma ora che disponete di un po' di tempo, vi prego di spiegarmi prima di tutto il significato delle parole che avete pronunciato vedendomi». Lao-tzu rispose: «Avete lo sguardo così altezzoso che fate scappare la gente; mentre il discepolo della saggezza è come confuso, per quanto irreprensibile possa essere, e sente la propria insufficienza, per quanto possa essere avanzato». Colpitissimo, Yang-zé-chin rispose: «Approfitterò della lezione». Ne approfittò tanto bene, e diventò così modesto, nello spazio della sola notte che passò alla locanda, che il personale della casa, che l'aveva servito con timore e reverenza all'arrivo, alla partenza non lo degnò più del minimo riguardo. O Yang-ciù, di passaggio per il principato di Song, fu ospitato in una locanda. L'albergatore aveva due mogli, una bella e l'altra brutta. La brutta era amata da tutti, la bella detestata... «Perché?» domandò Yang-ciù a un ragazzino della casa. «Perché» rispose il fanciullo «la bella si atteggia a bella, e questo ce la rende sgradevole; mentre la brutta sa di esser brutta, e questo ci fa dimenticare la sua bruttezza». «Ricordatevi di questo, discepoli!» disse Yang-ciù. «Se siete saggi, non fatelo vedere; questo è il segreto per farsi ben volere dappertutto». P In questo mondo ci sono in qualche modo due vie; quella della subordinazione, la deferenza; quella dell'insubordinazione, l'arroganza. I loro sostenitori sono stati definiti in questo modo dagli Antichi: «Gli arroganti provano simpatia solo per i più piccoli (di loro), i deferenti provano affezione anche per coloro che gli sono superiori». L'arroganza è pericolosa, perché si attira le inimicizie; la deferenza è sicura, perché non si fa che degli 70

amici. Al deferente tutto riesce, tanto nella vita privata quanto in quella pubblica; l'arrogante riscuote solo insuccessi. È per questo che U-zé ha detto che la potenza deve essere sempre temperata dalla condiscendenza; che è la condiscendenza a fare della potenza qualcosa di durevole; che questa è la regola che permette di prevedere con certezza se tale individuo o tale stato prospererà o deperirà. [La forza, di per sé] non è solida, mentre nulla uguaglia la solidità della dolcezza. Per questo Lao-tan ha detto: «La potenza di uno stato gli attira la rovina, così come le grandi dimensioni di un albero chiamano i colpi d'ascia. La debolezza fa vivere, la forza fa morire». Q Il Saggio si allea con coloro che hanno i suoi stessi modi profondi di vedere le cose; la gente comune fa lega con coloro che gli piacciono per le loro caratteristiche esteriori. Ora, un corpo umano può ospitare un cuore d'animale; un corpo d'animale può contenere un cuore d'uomo. In entrambi i casi, se si giudica secondo le caratteristiche esteriori si è indotti in errore. Fu-hi, Niu-uà, Cenn-nung, il Grande U, possedevano chi una testa umana su un corpo di serpente, chi una testa di bue, chi un muso di tigre; ma, sotto queste forme animali, furono grandi Saggi. Mentre Chié, l'ultimo degli Hià, Ceù, l'ultimo degli Yinn, il duca Hoan di Lu, il duca Mu di C'iù, furono bestie sotto forma umana. Quando Hoang-ti diede battaglia a Yen-ti nella pianura di Fan-z'uan, il suo fronte d'attacco era formato da bestie feroci, le sue truppe leggere erano costituite da uccelli. Questi animali erano stati attratti dal suo ascendente. Quando Yao incaricò C'oei di occuparsi della musica, gli animali accorsero e ballarono, incantati dai toni dei suoi strumenti. Dopo questi esempi si può continuare a sostenere che tra gli animali e gli uomini ci sia una differenza sostanziale? Indubbiamente le loro forme e i loro linguaggi differiscono da quelli degli uomini, ma forse che non sarebbe possibile intendersi con loro nonostante ciò? I Saggi di cui sopra, che conoscevano ogni cosa ed estendevano il loro interesse sollecito a tutti, furono anche capaci di attirare e sé gli animali. Numerosi sono i punti di contatto tra gli istinti delle bestie e i costumi degli uomini. Anche loro vivono a coppie, e i genitori sono affezionati ai figli. Anche loro per insediarsi cercano luoghi sicuri. Anche loro preferiscono le regioni temperate a quelle fredde. Anche loro si riuniscono in gruppi, marciano in schiere ordinate, i piccoli al centro, i maggiori e più grandi tutt'intorno. Anche loro si indicano i posti buoni per bere o per brucare. Nei tempi originari gli animali e gli uomini abitavano e viaggiavano insieme. Quando gli uomini si dettero imperatori e re, ebbe origine la diffidenza, che causò la separazione. Più tardi la paura allontanò sempre più gli animali dagli uomini. Nonostante ciò, ancora adesso, la distanza non è insuperabile. All'Est, dai Chie-scie, si comprende ancora il linguaggio, almeno, degli animali domestici. Gli antichi Saggi comprendevano la lingua e sapevano penetrare i sentimenti di tutti gli esseri; comunicavano con tutti essi nello stesso modo in cui lo facevano con il loro popolo umano; tanto con i coei, i cenn, i li, i mei (esseri di natura sottile) come con i volatili, i quadrupedi e gli insetti. Partendo dal principio che la sensibilità degli esseri che hanno lo stesso sangue e respirano la stessa aria non può essere molto diversa, trattavano gli animali più o meno come trattavano gli uomini, e con successo. Un allevatore di scimmie del principato di Song era riuscito a capire le scimmie e a farsi capire da loro. Le trattava meglio dei componenti della propria famiglia, e non gli rifiutava nulla. Cadde però nell'indigenza. Forzato a ridurre loro il cibo, trovò questo metodo, per fargliene accettare la misura. «D'ora in poi» gli disse, «ognuna di voi riceverà tre tuberi la mattina e quattro alla 71

71 sera; vi sta bene?...» Tutte le scimmie insorsero, arrabbiatissime... «Allora» disse loro, «riceverete ciascuna quattro tuberi la mattina e tre alla sera; intesi?...» Soddisfatte che si fosse tenuto conto del loro disappunto, tutte le scimmie si acquietarono, contentissime... È così che si conquistano gli animali. Il Saggio si accattiva alla stessa maniera i deboli d'intelletto fra gli umani. Poco importa che il mezzo di cui ci si serve corrisponda a qualcosa di apparente o di reale; purché si riesca a dar soddisfazione, a non suscitare malcontenti. Altro esempio dell'analogia esistente tra gli animali e gli uomini: Chi-sing-zé allenava un gallo da combattimento per l'imperatore Suan dei Ceù. Al termine di dieci giorni, a qualcuno che gli chiedeva come andasse, rispose: «Non è ancora in condizione di battersi; è ancora vanitoso e testardo». Dieci giorni più tardi, nuovamente interrogato, rispose: «Non ancora; risponde al canto degli altri galli». Dopo altri dieci giorni, disse: «Non ancora; è ancora teso e furioso». Dieci giorni dopo ancora, disse: «Ora è pronto; non bada più al canto dei suoi simili, alla loro vista non ha più nessuna reazione, quasi come se fosse di legno. Tutte le sue energie sono raccolte. Nessun altro gallo ce la farà contro di lui». R Hoei-yang, parente di Hoei-scie e come lui [pensatore] sofista, era andato a render visita al re C'ang di Song; questi s'innervosì e tossicchiò di impazienza al vederlo, e gli disse, volubilmente: «Se c'è qualcosa che mi piace, sono la forza e la bravura; la bontà e l'equità non mi dicono né tanto né poco; tenetevelo per detto. E ora esponetemi quel che avete da esporre». «Uno dei miei temi favoriti è» disse Hoei-yang «proprio la spiegazione del perché non vanno talvolta a segno i colpi dei bravi e dei coraggiosi; sareste interessato allo svolgimento di un argomento simile?» «Molto» disse il re. «Non vanno a segno» riprese il sofista, «quando non sono vibrati. E perché non sono vibrati? O perché i bravi non se la sentono di tirarli, o perché non vogliono. Anche questo fa parte dei miei argomenti favoriti... Prendiamo il caso di quando non vogliono. Perché non vogliono? Perché sanno che non ne trarranno nessun profitto. Un altro dei miei temi favoriti... Adesso, supponiamo che esista un modo per ottenere ogni sorta di profitto, di accattivarsi il cuore di tutti gli uomini e di tutte le donne dell'impero, di mettersi al riparo da tutti gli inconvenienti, questo modo, vi farebbe piacere conoscerlo?» «Accidenti, sì!» sbottò il re. «Ebbene» disse il pensatore sofista, «questo modo è la dottrina di Confucio e di Mei-ti, di cui poco fa non volevate neanche sentir parlare. Confucio e Mei-ti, questi due prìncipi senza terra, questi due nobili senza titoli, sono la gioia e l'orgoglio degli uomini e delle donne di tutto l'impero. Se voi, principe, che avete terre e titoli, abbracciate la dottrina di questi due uomini, tutti si affideranno a voi, e voi diventerete più celebre di entrambi, avendo, per di più, il potere»(1). (1) Hoei-yang non era propriamente un discepolo di Confucio. Ma la soddisfazione dei pensatori cinesi sofisti era di poter porre l'avversario in contraddizione con se stesso sulla sua propria tesi. Il re di Song aveva

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Il re di Song non fu capace di ribattere verbo. Hoei-yang se ne uscì, trionfante. Si era già allontanato un bel po', quando il re di Song ritrovò la parola per dire ai suoi cortigiani: «Ma dite qualcosa, almeno voi! Non vedete che costui mi ha ridotto al silenzio?!»

incominciato con una dichiarazione di insofferenza per il Confucianesimo, e Hoei-yang gli prova, senza che ci creda egli stesso, che si tratta della migliore delle dottrine.

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III Stati sottili

A Al tempo dell'imperatore Mu dei Ceù, arrivò alla corte un mago di un paese sito nell'Estremo Occidente. Costui si immergeva impunemente nell'acqua e nel fuoco, attraversava i metalli e le pietre, faceva risalire l'acqua dei torrenti verso le sorgenti, spostava [senza toccarle] le mura delle città, si librava nell'aria senza precipitare, penetrava nei solidi senza trovar resistenza, assumeva a piacere tutte le fattezze [che voleva], conservava la sua intelligenza d'uomo sotto la forma di oggetti inanimati, e così via. L'imperatore Mu lo trattò come un essere fatato, lo servì come se fosse il suo maestro, gli diede il meglio dei suoi averi in quanto ad alloggio, cibo e donne. E ciò nonostante il mago trovò il palazzo imperiale inabitabile, la cucina imperiale immangiabile, le donne dell'harem indegne del suo affetto. L'imperatore gli fece allora costruire un palazzo solo per lui. I materiali e la mano d'opera, tutto fu sceltissimo. I costi di questo palazzo esaurirono il tesoro imperiale. Una volta finito, il palazzo si elevava ad un'altezza vertiginosa. Quando l'imperatore gli diede un nome, lo chiamò «La torre che tocca il cielo». Lo riempì di giovani scelti, fatti venire dai principati di Ceng e di Uei. Vi installò dei bagni e un harem. Accumulò in esso oggetti preziosi, tessuti raffinati, belletti, profumi, ninnoli. Vi fece eseguire le musiche più celebri. Tutti i mesi offriva una provvista di vesti superbe, tutti i giorni una profusione di cibi squisiti... Non valse a niente. Il mago non trovò nulla di suo gusto; abitò la sua nuova dimora senza prenderne piacere, e si assentò sovente e a lungo. Un giorno che, nel corso di un festino, l'imperatore si meravigliava del suo comportamento, «Venite con me» gli disse... L'imperatore afferrò la manica del mago che all'improvviso lo sollevò nello spazio, fino al palazzo degli uomini trascendenti, situato in mezzo al cielo. Era un palazzo fatto d'oro e d'argento, tempestato di perle e di giade, sito più in alto della regione delle nubi di pioggia e apparentemente, senza fondamenta, galleggiava nello spazio quale una nuvola. In questo mondo sovraterrestre, vedute, armonie, profumi, sapori, niente era simile a quel che si trova nel mondo degli uomini. L'imperatore capì che era nella città del Sovrano celeste. Guardato da lassù il suo palazzo terrestre gli sembrò un monticello di zolle e detriti Sarebbe rimasto là per anni senza neppure ricordarsi del suo Impero; ma il mago lo invitò a seguirlo più in alto... Questa volta lo innalzò, oltre il sole e la luna, fuori della vista della terra e dei mari, in una luce accecante, in un'armonia assordante. Preso dal terrore e dalla vertigine, l'imperatore chiese di discendere. La discesa si effettuò con la rapidità di una stella cadente che precipiti nel vuoto. Quando tornò in sé, l'imperatore si ritrovò seduto sulla sua sedia, circondato dai cortigiani, col bicchiere mezzo pieno, la pietanza mezza mangiata. «Cosa mi è accaduto?» chiese al suo seguito. «Avete avuto l'aria di raccogliervi per un istante» dissero quelli del seguito. L'imperatore aveva avuto l'impressione di essere stato via almeno tre mesi. «Questo cos'è?» chiese al mago. «Oh! Niente di più semplice» rispose questi. «Vi ho rapito lo spirito. Il vostro 74

corpo non si è mosso. O meglio, non è che abbia neppure spostato il vostro spirito. Qualsiasi distinzione, di luogo, di tempo, è illusoria. La rappresentazione mentale di tutti i possibili avviene senza movimento e fa astrazione dal tempo». È da questo episodio che è da far risalire la repulsione dell'imperatore Mu per il governo del suo impero, per i piaceri della corte, e il suo gusto per i viaggi. È da quel momento che, con i suoi famosi otto cavalli dal manto di diverso colore, accompagnato da Zao-fu che gli conduceva la carrozza e da Z'iho che gli faceva da scudiere, da Sciennpai che portava il carro [al seguito] con l'aiuto di Penn-giung, egli intraprese la sua celebre visita dei paesi al di là delle frontiere d'Occidente. Dopo un lungo percorso, giunse presso la tribù dei Chiu-seù, che gli diedero da bere il sangue di cigno e gli lavarono i piedi con il cumis (due prodotti che danno forza). La notte che seguì la passò sulle rive del fiume rosso. A giorno venuto, l'imperatore salì sul monte C'unn-lunn, visitò l'antico palazzo di Hoang-ti, e innalzò un cairn [obelisco in pietra] a ricordo del suo passaggio. Poi rese visita a Si-uang-mu' e fu da lui (o lei) festeggiato al lago verde. Scambiarono dei brindisi, e l'imperatore non nascose la sua tristezza nel dover abbandonare quei luoghi. Dopo aver a lungo osservato la regione dove il sole tramonta al termine della sua lunga corsa diurna, riprese il cammino dell'impero. In conclusione, ritornò deluso, perché non aveva trovato nulla che assomigliasse alla sua visione. «Ohimè!» esclamò sospiroso «I posteri diranno di me che ho sacrificato il dovere al piacere». E infatti, avendo soltanto ricercato la felicità di questo mondo, non fu un buon imperatore, e non divenne uomo perfetto, ma si limitò a vivere a lungo, e morì centenario. B Lao-ci'eng-zé si era fatto ricevere alla scuola di maestro Yinn-Uenn (Coan-yinnzé), per apprendere da lui il segreto della fantasmagoria universale. Per tre anni interi questi non gli insegnò nulla. Attribuendo questa freddezza del maestro al fatto che lo giudicasse poco capace, Lao-ci'eng-zé si scusò e offerse di ritirarsi. Maestro Yinn-Uenn, dopo averlo salutato (segno di stima straordinaria), lo condusse nella propria stanza, e qui, senza testimoni (scienza esoterica), gli disse: «Un tempo, quando Lao-tan partì verso Ovest, riassunse per me la sua dottrina in queste parole: sia lo spirito vitale, sia il corpo grossolano, sono fantasmagoria. I termini vita e morte, indicano la genesi di un essere sotto l'azione della virtù generatrice, e la sua trasformazione finale sotto l'influenza degli agenti naturali. La successione di tali genesi, di tali trasformazioni, quando il loro numero è completo, sotto l'influsso del motore universale, ecco la fantasmagoria. Il principio primo degli esseri è troppo misterioso, troppo profondo, per poter essere sondato. Noi possiamo solo studiare il divenire e il cessare corporei, i quali sono visibili e manifesti. Comprendere che il dispiegarsi cosmico consiste manifestamente nella successione dei due stati di vita e di morte, è questa la chiave dell'intelligenza della fantasmagoria. Io e te siamo entrambi soggetti a questa vicissitudine, e possiamo constatarne gli effetti su noi stessi». Ricevuto questo insegnamento, Lao-ci'eng-zé tornò a casa sua, lo meditò per tre mesi, e trovò il segreto del mistero, tanto che divenne padrone della vita e della morte, fu in grado di modificare le stagioni a volontà, produsse temporali in inverno e gelate in estate, mutò volatili in quadrupedi e viceversa. Non insegnò a nessuno questa tecnica, che nessuno ha mai riscoperto dopo di lui. Del resto, dice Lieh-tzu, se qualcuno possedesse la scienza delle trasformazioni, sa75

75 rebbe meglio che la conservasse segreta, sarebbe opportuno che non se ne servisse. Gli antichi Sovrani non dovettero la loro rinomanza a manifestazioni straordinarie di scienza o di coraggio. Il mondo fu loro grato per aver essi agito senza ostentazione per il bene dell'umanità. C L'applicazione delle proprie forze mentali ha otto effetti, vale a dire: la decisione, l'azione, il successo, l'insuccesso, la tristezza, la gioia, la vita, la morte; tutte queste cose hanno un riferimento con il corpo. L'astrazione delle proprie forze mentali ha sei cause, vale a dire: la volontà, l'avversione, il pensiero intenso, il sonno, il rapimento, il terrore; tutto ciò ha attinenza con il sottile. Coloro che non conoscono l'origine naturale delle emozioni, si preoccupano della loro causa, quando risentono degli effetti di qualcuna di esse. Coloro che sanno che l'origine delle emozioni è naturale, non se ne preoccupano più, conoscendone la causa. Nel corpo di un essere, tutto, pienezza e vacuità, consumo e accrescimento, tutto è in armonia e in equilibrio, con lo stato del cielo e della terra, con l'insieme degli esseri che popolano il cosmo. Una predominanza di yin ha come effetto che si sogni di passare a guado l'acqua, con conseguente sensazione di freschezza. Una predominanza di yang ha come effetto che si sogni di attraversare il fuoco, con conseguente sensazione di bruciore. Un eccesso simultaneo di yin e di yang fa sognare di pericoli e di rischi, con conseguente speranza e timore. In stato di sazietà, si sogna di dare; in stato di digiuno, si sogna di prendere. La gente di animo leggero sogna di sollevarsi in aria, gli spiriti gravi sognano di sprofondare nell'acqua. Coricarsi con indosso una cintura fa sognare di serpenti; l'aver visto degli uccelli con rami nel becco, fa sognare di volare. Prima di un lutto, si sogna del fuoco; prima d'una malattia, si sogna che si mangia. Dopo aver molto bevuto si fanno sogni tristi; dopo aver danzato troppo, si piange in sogno. Lieh-tzu dice: «Il sogno è un incontro che si fa nella sfera sottile; la realtà grossolana (percezione sensibile), è un contatto attraverso il corpo. I pensieri diurni, i sogni notturni, anch'essi sono impressioni. Di conseguenza le persone che hanno un forte equilibrio pensano poco e sognano poco, e non attribuiscono molta importanza ai propri pensieri e ai propri sogni. Costoro sanno che sia i pensieri sia i sogni non possiedono tutta la realtà che sembrano avere, ma sono soltanto riflessi della fantasmagoria cosmica. Gli antichi Saggi, da svegli pensavano poco, dormendo non sognavano, e non parlavano né dei loro pensieri né dei loro sogni, perché poco credevano sia agli uni che agli altri. «Nell'angolo Sud-Ovest della terra rappresentata quadrata, c'è un paese di cui non conosco i confini. Si chiama Cu-mang. Le alternanze dello yin e dello yang non vi si fanno sentire; le stagioni non ci sono; il sole e la luna non lo rischiarano, quindi non ci sono né giorni né notti. I suoi abitanti non si nutrono e non si vestono. Dormono praticamente sempre e non si svegliano che una volta ogni cinquanta giorni. Prendono per realtà quel che hanno provato nel sonno; e per illusione quel che han provato nello stato di veglia. «Al centro della terra e dei quattro mari è situato il regno del centro (la Cina), adagiato sul Fiume Giallo, estendentesi dal paese di Ué fino al monte T'ai-scian, largo da Est a Ovest più di diecimila stadi [misura di indefinita grandezza]. Le alternanze dello yin e dello yang provocano in esso stagioni fredde e calde; la luce e l'oscurità che vi si alternano producono i giorni e le notti. Fra i suoi abitanti ci sono saggi e idioti. I suoi prodotti naturali e artificiali [frutto dell'industria umana] sono numerosi e variati. Ha i suoi prìn76

cipi e i suoi funzionari, i suoi riti e le sue leggi. In esso si parla e si agisce molto. Gli uomini vi vegliano e vi dormono alternatamente, prendendo per reale quel che hanno provato nello stato di veglia e per irreale quel che hanno provato nello stato di sonno. «All'angolo Nord-Est della terra rappresentata quadrata c'è il paese di Fu-laò, il cui suolo è incessantemente bruciato dai raggi del sole e non produce cereali. La gente si nutre di radici e di frutti, che mangia crudi. Brutali, gli abitanti apprezzano più la forza che la giustizia. Sono quasi continuamente in movimento, raramente in stato di riposo. Stanno molto tempo svegli e [conseguentemente] dormono poco. Prendono per reale quel che hanno sperimentato nello stato di veglia.» D Un tale, funzionario dei Ceù, aveva un lussuoso tenore di vita. Dall'alba a notte fonda i suoi servitori non avevano requie. Un vecchio servo, infermo e malandato, non era trattato in modo diverso dagli altri. Si dava però il caso che, dopo aver duramente sgobbato tutto il giorno, ogni notte quest'uomo sognasse di esser principe, assiso su un trono, a capo di un regno, fruendo d'ogni piacere. Al risveglio si ritrovava servitore, e sotto queste vesti penava tutto il giorno. Compatendo alcuni amici il suo destino, il vecchio mozzo rispose loro: «Non sono poi così da compatire. La vita degli uomini si suddivide equamente in giorno e notte. Durante il giorno, io sono servo e soffro; ma durante la notte sono principe e mi diletto non poco. Ho quindi una metà del mio tempo buona; perché dovrei lamentarmi?» D'altro canto, il padrone di questo servitore, dopo una giornata di piaceri, sognava ogni notte di essere mozzo, sovraccarico di incombenze, rimproverato e frustato. Raccontò la cosa a un amico e ne ebbe questa risposta: «Forse, durante il giorno, eccedete nell'approfittare dei favori che il destino vi ha concesso; il destino [conseguentemente] si compensa con le sofferenze della notte». Il funzionario prestò fede all'amico, moderò il lusso, trattò meglio il suo personale e se ne trovò bene. (Improvvisamente il vecchio servo perdette anch'egli il suo piacere notturno, che il destino gli riservava per compensarlo dell'eccesso delle sue fatiche diurne). E Un taglialegna di Ceng, mentre faceva fascine, si imbatté in un capriolo sperduto; lo uccise e lo nascose in un fossato sotto alcune sterpaglie, con l'intenzione di tornare e portarlo via di nascosto. Non fu più capace di ritrovare il nascondiglio, credette di aver sognato e raccontò la sua storia. Uno degli ascoltatori, seguendo le sue indicazioni, ritrovò il capriolo e se lo portò a casa. «Il sogno del taglialegna era reale» disse costui alla gente di casa. «Reale per te» ribatterono questi, «visto che sei tu che hai avuto l'oggetto [del sogno]». La notte seguente, però, il boscaiolo, in sogno, ebbe la rivelazione che il suo capriolo era stato trovato da un tizio, che se lo teneva nascosto in casa. Andò a casa di questo tale il mattino presto, vi scoprì in effetti il capriolo, e accusò il ladro di fronte al capo del villaggio. Questi disse al boscaiolo: «Se tu hai ucciso questo capriolo in stato di veglia, perché sei poi andato a raccontare che lo avevi ucciso in sogno? E se hai ucciso un capriolo in sogno, non può certo essere questo, che è in carne e ossa. Per la qual ragione, essendomi chiaro che tu non hai potuto ammazzare la bestia, non posso attribuirtela. Per contro, poiché il tuo avversario l'ha trovata dietro le indicazioni del tuo sogno, e siccome tu 77

77 l'hai ritrovata in seguito a un altro sogno, dividetevela tra voi due». Il giudizio del capo villaggio fu portato a conoscenza del principe di Ceng, che lo rimandò all'esame del suo ministro. Quest'ultimo disse: «Per decidere quel che è sogno e quel che sogno non è, e dei diritti in materia di sogni, i soli qualificati sono Hoang-ti e C'ung-ch'iù. E siccome attualmente non ci sono né Hoang-ti né C'ung-ch'iù che dirimano questo litigio, credo che il meglio sia attenersi alla sentenza arbitrale del capo villaggio». F A Yong-li, nel principato di Song, un certo Hoà-zé, uomo di mezza età, cadde preda di una malattia che lo privava completamente della memoria. Alla sera non si ricordava più di quel che aveva comprato la mattina; il giorno dopo, ignorava che il giorno prima aveva fatto tale spesa. Fuori di casa, dimenticava di camminare, in casa non gli veniva in mente che poteva sedersi. Ogni ricordo del passato si cancellava in lui a mano a mano che passava il tempo. Un erudito del principato di Lu si fece avanti per trattare questo caso di amnesia. La famiglia di Hoà-zé gli promise metà della loro fortuna se ci fosse riuscito. L'erudito rispose: «Contro questa malattia le incantazioni, le preghiere, le sostanze medicinali e l'agopuntura si sono rivelate senza effetto. Se ce la faccio a riformargli la mente, guarirà; se no, no». Constatato poi, sperimentalmente, che il malato richiedeva ancora i suoi abiti quand'era nudo, da mangiare quando aveva fame, luce in caso di oscurità, disse alla famiglia: «Ci sono speranze di guarigione. Però il mio procedimento è segreto; non lo comunico a nessuno...» Ciò detto, si rinchiuse da solo con il malato, il quale, dopo sette giorni, si ritrovò guarito dell'amnesia che lo tormentava da diversi anni. Ma, oh sorpresa! Ritornatagli la memoria, Hoà-zé fu preso da una gran collera, rivolse sanguinosi rimbrotti alla famiglia, afferrò una lancia e mise in fuga il letterato che l'aveva curato. Fu ridotto all'impotenza, e, calmatolo, gli fu chiesta la ragione di un tal furore. «Ah!» rispose «Ero così felice quando non sapevo neanche più che ci fosse un cielo e una terra! Ora dovrò di nuovo registrare nella memoria i successi e gli insuccessi, le gioie e le pene, il male e il bene passati, e preoccuparmene per l'avvenire. Chi mi restituirà, foss'anche per un momento solo, la felicità dell'incoscienza?» Zé-cung apprese questa storia, ne rimase stupito, e domandò spiegazioni a Confucio. «Non sei in grado di comprendere una cosa così (indole troppo pratica); Yen-hoei (contemplativo e astratto) capirà più facilmente». G Un certo P'ang, del principato di Z'inn, aveva un figlio. Da piccolino questo bambino sembrava intelligente. Ma, crescendo, il suo comportamento diventò assai strano. Il canto lo faceva piangere, il bianco gli sembrava nero, i profumi gli facevano l'effetto di puzze, lo zucchero gli pareva amaro, il male bene. In poche parole, in pensieri e fatti, era esattamente il contrario di tutti gli altri uomini. Un tale Yang disse a suo padre: «Questo caso è ben straordinario, ma gli eruditi di Lu sono molto sapienti; chiedete loro consiglio». Di conseguenza, il padre dello squilibrato si mise in via per Lu. Passando per C'enn incontrò Lao-tan, e gli raccontò il caso di suo figlio. Lao-tan gli rispose: «E per questo pensi che tuo figlio sia matto? Ma se gli uomini, di questi tempi, sono tutti in questo stesso stato! Non vedi che confondono tutti il male con il bene, prendendo il proprio pro78

fitto come regola di costume? La malattia di tuo figlio è una malattia comune; non c'è nessuno che non ne soffra. Un matto per famiglia, una famiglia di matti per villaggio, un villaggio di matti per principato, un principato di matti nell'impero, a rigore, sarebbe ancora tollerabile. Ma ora è tutto l'impero che è matto, e della stessa pazzia di tuo figlio; o meglio, tu che pensi in modo diverso da tutti gli altri, sei tu che sei matto. Chi mai definirà la regola delle sensazioni, dei suoni, dei colori, degli odori, dei sapori, del bene e del male? Io non so se sono veramente saggio, ma so con certezza che gli eruditi di Lu (che pretendono di definire in dettaglio queste cose) sono, loro, i peggiori istigatori di follia. Ed è a loro che tu vai a chiedere di guarire tuo figlio? Credi a me, risparmia i soldi di un inutile viaggio, e tornatene a casa per la strada più breve!» H Un bambino che era nato nel principato di Yen (in pieno Nord), era stato portato e allevato nel regno di Ci'ù (in pieno Sud dell'impero), dove aveva passato tutta la vita. Da vecchio ritornò nel suo paese natale. A mezza strada, mentre si avvicinavano al capoluogo di Zinn, i suoi compagni di viaggio, per beffarsi di lui, gli dissero: «Eccoci arrivati al capoluogo di Yen, tuo paese natale...» L'uomo ci credette, impallidì e divenne triste. Poi, indicatogli un monticello dedicato alla divinità del suolo, gli dissero: «Guarda, ecco la collinetta del tuo paese natio...» L'uomo emise un sospiro addolorato. Poi gli indicarono una casa e gli dissero: «Guarda là, la casa dei tuoi antenati...» L'uomo scoppiò a piangere. E per finire, mostrandogli delle sepolture qualunque, gli dissero: «Ed ecco lì le loro tombe...» A queste parole l'uomo non trattenne più i lamenti. A questo punto i suoi compagni di viaggio, facendosi beffe di lui, gli rivelarono l'inganno. «Ti abbiamo mentito» gli dissero. «Questo è Zinn, non Yen». L'uomo rimase confuso, e da quel momento controllò i propri sentimenti. E tanto bene lo fece, che una volta giunti a Yen e visto veramente il suo capoluogo, l'altura del proprio villaggio, la dimora dei suoi avi e le loro tombe, non provò più emozioni, o molto poche.

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IV Estinzione e Unione

A Ciung-ni stava meditando in solitudine rituale. Zé-cung entrò nel suo ritiro per servirlo e lo trovò triste. Non osò domandargli cosa fosse che lo affliggeva e uscì, avvertendone Yen-hoei (che ne era il discepolo preferito). Questi prese il liuto e incominciò a cantare. Confucio lo udì, lo chiamò e gli chiese: «Perché sei così allegro?» «E perché voi invece siete così triste?» domandò Yen-hoei. «Prima dimmi tu perché sei allegro» ribatté Confucio. Al che, Yen-hoei disse: «Mi avete insegnato voi, tempo fa, che compiacere il cielo e sottomettersi al destino scaccia la tristezza. Io lo sto facendo; la mia contentezza ha origine da qui». Confucio, il volto corrucciato, si raccolse un istante e poi disse: «È vero che queste parole le ho pronunciate; ma tu non le hai capite bene. D'altra parte, da allora ho dovuto io stesso modificarne l'interpretazione... Tu le hai prese nel senso restrittivo del lavoro di rettificazione personale, della pazienza nella povertà e nelle contrarietà, della pacificazione dell'animo in ogni circostanza. Ottenuto il successo in questa impresa, tu provi gioia... Io le intendo adesso in un senso più ampio. Ho voluto, cooperando con il cielo e il destino, correggere con i miei libri il principato di Lu, l'impero al completo, i tempi attuali e quelli a venire. Ma i prìncipi non mi hanno aiutato. Le mie dottrine non sono state accettate. Fallito come ho nel presente, e per un solo principato, che speranze vuoi che abbia di riuscire in futuro e per tutto l'impero? In un primo tempo questo insuccesso dei miei libri mi affliggeva, perché lo pensavo contrario al volere del cielo e ai piani del destino. Ma da allora ho cominciato a capire meglio. Mi sono reso conto di aver mal interpretato i testi antichi, prendendoli [solo] nel loro senso letterale. Intenzione del cielo, piano del destino, sono solo modi di dire, figure retoriche. Così stando le cose, non c'è niente che valga la pena di attaccarcisi, di desiderare, di deplorare, di fare [come se si agisse a titolo individuale]. Adesso non mi importa più molto del successo o dell'insuccesso dei miei libri». Yen-hoei si inchinò a Confucio e disse: «Maestro, io la penso come voi...» Poi, uscito che fu, disse la cosa a Zé-cung. Questi rischiò di perderci la testa. Abbandonò Confucio, ritornò a casa propria, meditò per sette giorni e sette notti senza dormire e senza mangiare, diventò magro come uno scheletro. Tuttavia, Yen-hoei, che era andato da lui per parlargli, riuscì a scuotere la sua fiducia nel senso letterale degli antichi testi, senza però arrivare ad elevarlo fino al distacco dei taoisti. Zé-cung ritornò da Confucio e ripeté [a memoria], senza crederci, le Odi e gli Annali fino alla fine dei Suoi giorni. B Un funzionario di C'enn in missione nel principato di Lu, visitò in privato un tale Ciusunn, il quale gli disse: «Qui abbiamo un Saggio». «Si tratta forse di Cung-ch'iù (Confucio)?» domandò il funzionario. «Proprio lui» rispose Ciusunn. «Come fate a sapere che è veramente un Saggio?» domandò il funzionario. 80

«Perché» disse Ciusunn «ho inteso dire dal suo discepolo Yen-hoei che Cung-ch'iù pensa con il corpo». «Se è così» disse il funzionario, «anche noi un Saggio ce l'abbiamo, e si tratta di C'ang-z'ang-zé, discepolo di Lao-tan, che vede con le orecchie e ode con gli occhi». Questa affermazione del funzionario di C'enn arrivò agli orecchi del principe di Lu, e questi, molto incuriosito, mandò un ministro d'alto rango ad offrire a C'ang-z'ang-zé dei sontuosi regali, e a invitarlo a corte. C'ang-z'ang-zé corrispose all'invito. Il principe lo ricevette con il più grande rispetto. Senza por tempo in mezzo, C'ang-z'ang-zé gli disse: «Se vi hanno detto che vedo con le orecchie e che sento con gli occhi, siete stato mal informato; un organo di senso non può sostituirne un altro». «Non mi importa nulla» ribatté il principe; «quel che desidero, è conoscere la vostra dottrina». «Eccola qua» fece C'ang-z'ang-zé: «Il mio corpo è intimamente unito al mio spirito; il mio corpo e il mio spirito sono intimamente uniti alla sostanza e all'energia cosmiche, le quali sono intimamente unite al nulla di forma primordiale, l'infinito senza limiti, il Principio. In conseguenza di questa intima unione, ogni dissonanza od ogni consonanza che si produce nell'armonia universale, che sia lontanissima [a distanza indefinita] o vicinissima, è da me percepita, ma senza che io possa dire attraverso quale organo la percepisco. [In altre parole], io so, ma senza sapere come lo so». La spiegazione piacque molto al principe di Lu, che il giorno dopo la riferì a Confucio. Questi sorrise assentendo, senza dire nulla. C Il ministro di Song, che aveva incontrato Confucio, gli chiese: «È proprio vero che siete un Saggio?» «Se lo fossi» rispose Confucio, «non dovrei dirlo. Dirò quindi solo che ho studiato molto e che ho molto appreso». «È vero che i primi tre imperatori erano dei Saggi?» domandò il ministro... «So che hanno ben governato, che sono stati prudenti e capaci; se siano stati anche dei Saggi, non lo so» rispose Confucio. «E i cinque imperatori che gli succedettero?» domandò il ministro... «Anche quelli hanno governato bene» disse Confucio, «sono stati buoni e giusti; però non so se sono stati dei Saggi». «E i tre imperatori che li seguirono?» domandò il ministro... «Questi» disse Confucio, «hanno anch'essi ben governato, compatibilmente con i tempi e le circostanze; ma se siano stati dei Saggi, non lo so». «Ma allora» disse il ministro molto stupito, «secondo voi, chi è saggio?» Confucio assunse un'aria molto seria, si raccolse un momento, e poi disse: «Si racconta che fra gli uomini dell'Ovest ce ne siano che mantengono la pace senza governare, che ispirano fiducia senza parlare, che fanno sì che tutto proceda senza intromettersi, tanto impercettibilmente, tanto impersonalmente, che la gente non conosce neppure il loro nome. Io penso che quelli siano dei Saggi, se veramente è come dicono». Il ministro di Song non fece altre domande. Dopo aver riflettuto un po', si disse: «Cung-ch'iù mi ha dato una lezione». D

Zé-hià chiese a Confucio: «Yen-hoei è alla vostra altezza?...» «In bontà» rispose Confucio «mi sorpassa». «E Zé-cung?» domandò Zé-hià... 81

81 «In discernimento» disse Confucio, «Zé-cung mi sopravanza». «E Zé-lu?» chiese Zé-hià... «In bravura» riprese Confucio, «Zé-lu mi è superiore». «E Zé-ciang?» continuò Zé-hià... «Come rigore formale» disse Confucio, «Zé-ciang mi batte». Stupitissimo, Zé-hià si alzò e chiese: «Ma allora, perché queste quattro persone restano ancora alla vostra scuola?» «Ve lo dico subito» rispose Confucio. «Yen-hoei, che è tanto buono, non sa opporre dinieghi. Zé-cung, che è così lungimirante, non sa cedere. Zé-lu, che è così animoso, gli manca la prudenza. Zé-ciang, così dignitoso, non possiede comunicativa. Se ognuno di loro mi sorpassa per qualche qualità, tutti mi sono inferiori per qualche difetto. A causa di questo difetto restano ancora alla mia scuola, e io accetto di trattarli come discepoli». E Diventato a sua volta maestro, Lieh-tzu, il discepolo di maestro Linn di Hu-Ch'iù, e amico di Pai-hunn-u-genn, abitava nel quartiere del Sud (dove abitava anche il celebre taoista conosciuto soltanto secondo il suo appellativo di Nan-cuò-zé, «Maestro del sobborgo del Sud»). Lieh-tzu disputava tutti i giorni con chiunque si presentasse, senza neanche preoccuparsi di sapere con chi aveva a che fare. Quanto a Nan-cuò-zé, fu suo vicino per vent'anni e non gli fece mai visita, anzi, lo incontrava spesso per strada senza neppure guardarlo. I discepoli ne trassero la deduzione che i due maestri fossero nemici. Qualcuno che era da poco arrivato dal paese di C'iù, ingenuamente chiese a Lieh-tzu perché. Lieh-tzu rispose: «Tra Nan-cuò-zé e me non c'è proprio nessuna inimicizia. Quell'uomo nasconde la perfezione del vuoto sotto apparenze corporee. Le sue orecchie non sentono più, i suoi occhi non vedono più, la sua bocca non parla più, il suo mentale non pensa più. Non è più capace di interessi [individuali]; perciò è inutile cercare di avere con lui qualche rapporto. Se volete, possiamo andare a farne l'esperienza». Seguìto da una quarantina di discepoli, Lieh-tzu si recò da Nan-cuò-zé. Questi era di fatto così assorbito in concentrazione, che non fu possibile intrattenere alcuna conversazione con lui. Gettò uno sguardo vago su Lieh-tzu, senza rivolgergli una sola parola; poi, rivolgendosi agli ultimi fra i discepoli, disse loro: «Vi porgo i miei complimenti per la vostra ricerca coraggiosa della verità...» E fu tutto. I discepoli rientrarono al colmo della stupefazione. Lieh-tzu disse loro: «Di cosa vi stupite? Chiunque abbia ottenuto ciò che chiedeva, non parla più. Così è del Saggio, che tace quando ha trovato la verità. Il silenzio di Nan-cuò-zé ha più significato di qualsiasi parola. La sua apparenza di apatia nasconde, coprendola, la perfezione della sapienza. Quest'uomo non parla né pensa più perché sa tutto. Di che vi stupite?» F Un tempo, quando Lieh-tzu era ancora discepolo, impiegò tre anni a disimparare a giudicare e qualificare con parole; a questo punto Lao-ciang per la prima volta lo degnò di uno sguardo. Dopo cinque anni non giudicava più, né qualificava, neppure mentalmente; allora Lao-ciang per la prima volta gli sorrise. Dopo sette anni, dimenticato che ebbe la distinzione fra il sì e il no, fra il vantaggio e lo svantaggio, il suo maestro per la prima volta lo fece sedere sul suo tappeto rituale. Dopo nove anni, perduta che ebbe ogni nozione di diritto e di torto, di bene e di male, sia per sé che per gli altri, una volta che fu diventato assolutamente indifferente a tutto, si stabilì in lui la perfetta comunicazione tra il mondo esterno e il suo interno. Smise di servirsi dei sensi (e conobbe tutto in virtù di 82

una scienza superiore e sottile). Il suo spirito si solidificò, a mano a mano che il corpo si dissolveva; le sue ossa e le sue carni si liquefecero (si sottilizzarono); perdette la sensazione del seggio sul quale sedeva, del suolo su cui i suoi piedi appoggiavano; perdette qualsiasi nozione di idee formulate, di parole pronunciate; raggiunse quello stadio in cui le facoltà intellettive superiori non sono più disturbate da nulla. G Quand'era un giovane discepolo, Lieh-tzu amava passeggiare. Il suo maestro, Huch'iù-zé, facendogli fare il rendiconto [di ciò che pensava e provava] gli chiese: «Cos'è che ti piace nella passeggiata?...» Lieh-tzu rispose: «In linea generale, si tratta per me di qualcosa di distensivo, che mi riposa; molti vi cercano il piacere di osservare; io vi trovo il piacere di meditare; ci sono diversi tipi di persone che amano passeggiare; io sono diverso dal comune». «Non tanto quanto ti illudi» gli disse Hu-ch'iù-zé. «Come tutti gli altri, tu ti diverti. Gli altri si divertono visivamente, tu ti diverti mentalmente. Grande è la differenza tra la meditazione esteriore e la contemplazione interiore. Il meditativo trae il proprio piacere dagli esseri, il contemplativo lo trae da ciò che è interno a lui. Trarre il piacere dal proprio interno è la passeggiata perfetta; il trarlo dagli esseri è la passeggiata imperfetta». Dopo una simile istruzione Lieh-tzu credette di far bene rinunciando completamente [a fare passeggiate]. «Non è questo che volevo dire» gli comunicò Hu-ch'iù-zé; «passeggia pure, ma nel modo perfetto. Il passeggiatore perfetto cammina senza sapere dove va, guarda senza rendersi conto di quel che vede. Andare dappertutto e guardare tutto con questa disposizione mentale (distacco totale, punto di vista globale, niente nei particolari), queste sono la passeggiata e la contemplazione perfette. Io non ti ho proibito di fare passeggiate: ti ho consigliato di fare la passeggiata perfetta». H Lung-ciù disse al medico Uenn-cie: «Siete un diagnosta capace. Io sono malato. Mi potreste guarire?» «Se piace al destino, lo potrò» disse Uenn-cie. «Ditemi di cosa soffrite». «Soffro» disse Lung-ciù «di un male strano. Le lodi mi lasciano indifferente, il disprezzo non mi tocca; un'acquisizione non mi fa piacere, una perdita non mi rattrista; guardo con la stessa indifferenza la morte e la vita, la ricchezza e la povertà. Faccio lo stesso caso degli uomini come dei maiali, e di me stesso m'importa tanto poco quanto degli altri. A casa mia mi sento estraneo come se fossi in una locanda, e nella mia regione natia come se fossi in un paese straniero. Nessuna carica mi fa gola, non mi fa paura nessun supplizio; fortuna o sfortuna, vantaggio o svantaggio, gioia o tristezza, mi fanno tutti lo stesso. Stando così le cose, non mi viene più voglia di servire il mio principe, di frequentare i parenti e gli amici, di vivere con mia moglie e i miei figli, di occuparmi dei servitori. Di che malattia si tratta? Che rimedio può avere ragione di essa?» Uenn-cie pregò Lung-ciù di scoprirsi lo sterno. Poi, dopo averlo fatto mettere in modo che il sole battesse in pieno sulla sua schiena nuda, si piazzò di fronte al suo petto, per esaminare per trasparenza i suoi visceri. «Ah!» disse all'improvviso «Ci sono! Vi vedo il cuore come un piccolo corpo cavo, delle dimensioni di pochi centimetri quadrati. Sei dei suoi orifizi sono già perfettamente aperti, il settimo sta per aprirsi. Siete affetto dalla saggezza dei Saggi. Cosa possono fare i miei poveri rimedi contro un simile male?». 83

83 I Non avendo avuto una causa, vivere sempre, è una via (quella del solo Principio). Nati da un vivente, non cessare d'essere dopo una lunga durata, è una permanenza (quella degli esseri di natura sottile). Dopo la vita, cessare di essere, sarebbe la grande sciagura. Avendo avuto una causa, esser morti sempre sarebbe l'altra via. Morti da un morto, cessar d'esser presto, sarebbe l'altra permanenza (quella del nulla). Dopo la morte, rivivere, è la gran fortuna. Non agire, e vivere, è una via. Ottenere in tal modo di essere a lungo, è una permanenza. Agire e morire, è l'altra via. Ottenere da essa di non essere più, è l'altra permanenza. Chi-leang era morto; Yang-ciù andò a casa sua e si mise a cantare (perché Chileang era vissuto contento fino alla fine dei suoi giorni). Soei-u morì anche lui, e Yangciù accarezzò invece il suo cadavere, piangendo (a guisa di consolazione, perché, dopo una vita dura, Soei-u era morto prematuramente). Fece male in tutti e due i casi, poiché tutto era cambiato dopo la morte. A proposito delle vite e delle morti, la gente comune canta e piange senza sapere perché, a torto e a traverso. Per durare a lungo, non bisogna fare nulla, né spingere nulla all'estremo. È un fatto di esperienza che poco prima di estinguersi la vista diventa, per un po', più acuta, il che contribuisce a consumarla. Percepire il volo delle zanzare è segno che si sta per diventare sordi. Lo stesso succede per il gusto e per l'odorato. Un eccesso di agitazione precede la paralisi e porta ad essa. Una lucidità eccessiva precede la follia e ad essa conduce. Ogni culmine preannuncia la rovina.(1) J Nel principato di Ceng, a P'u-ciai, c'erano molti uomini di dottrina (teorici), a Tong-li c'erano molti uomini di talento (pratici). Un certo Pai-fong-zé di P'u-ciai (teorico), mentre passava per Tong-li con i suoi discepoli, incontrò Teng-si (pratico) che aveva con sé i suoi. Quest'ultimo disse ai suoi discepoli: «Se ci divertissimo un po' con costoro?» «Forza» dissero i discepoli. Rivolgendosi a Pai-fong-zé, Teng-si gli parlò così: «A proposito di allevamento... si allevano cani e porci per poi servirsene. Per quale scopo tu allevi dei discepoli?» Uno dei discepoli che accompagnavano Pai-fong-zé replicò sull'istante: «Nei paesi di Z'i e di Lu abbondano gli uomini di talento come quelli che escono dalla vostra scuola. Ci sono artigiani che lavorano l'argilla, il legno, il metallo, il cuoio; musicisti, scrittori, matematici; specialisti in tattica militare, in cerimoniale, e chi più ne ha più ne metta. Mancano soltanto gli uomini di dottrina, che li dirigano. È a questo che siamo destinati noi. In mancanza di "teorici", i pratici non servono a nulla». Teng-si non fu capace di ribattere nulla. Fece con gli occhi segno ai suoi discepoli di tacere, e si ritirò con la coda fra le gambe. K Cung-i-pai era celebre per la sua forza. Un gran signore, T'ang-hi-cung, vantò i suoi meriti davanti all'imperatore Suang-uang della famiglia dei Ceù. L'imperatore lo fece invitare a corte. Cung-i-pai si vide costretto a obbedire. Ora, il suo aspetto esteriore era quello di un uomo piuttosto mingherlino. Stupito, l'imperatore gli disse: «Mi hanno vantato la tua forza; cosa sei capace di fare?» (1) Alcuni passaggi di questo paragrafo sembrano essere stati inseriti a posteriori e unicamente per amore di parallelismo, ne è un sintomo la loro relativa incongruenza. Il senso generale è che ci sono due stati, quello di vita e quello di morte; che il «non-agire» fa durare la vita; che l'azione fine a se stessa equivale a un suicidio. Nozioni ripetute in altri paragrafi.

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Cung-i-pai rispose: «Riesco a spaccare la zampa di una cavalletta e a strappare l'ala a una cicala». L'imperatore non fu molto soddisfatto. «Io» disse «reputo forte un uomo che sia capace di strappare [con le mani] una pelle di bufalo, o di arrestare la marcia di nove buoi trattenendoli per la coda. Se tu sai solo fare le cose che dici, come mai vantano la tua forza?» «Questa e una domanda intelligente» disse Cung-i-pai con un sospiro, indietreggiando modestamente, «perciò vi risponderò con molta franchezza. Sono stato il discepolo di Sciang-ch'iù-zé (taoista), che, nell'impero, non ebbe rivali in quanto a forza, ma le cui qualità erano ignorate perfino dalla sua famiglia, perché non le ostentò mai. Ho assistito il mio maestro al momento della morte. Egli mi ha confidato queste istruzioni: "Coloro che vanno a caccia di rinomanza la ottengono soltanto con azioni straordinarie. Se si fanno solo cose comuni non si diventa famosi neanche agli occhi della propria famiglia. E tuttavia è proprio questa la soluzione che ho ritenuto migliore e ti consiglio di imitarmi..." Adesso, se un gran signore ha potuto magnificare la mia forza davanti a Vostra Maestà, è perché, venendo meno alle supreme raccomandazioni del mio maestro morente, devo aver lasciato trasparire qualcosa di essa. Che mi sia tradito, ciò dimostra che sono senza forza. Perché più forte è colui che sa nascondere la sua forza, di colui che è capace di esercitarla». L Il principe Meù di Ciung-scian era la testa calda di Uei. Gli piaceva parlare con le persone indipendenti, non si occupava molto di amministrazione e aveva una predilezione manifesta per Cung-sunn-lung, il letterato sofista di Ciaò. Questo debole esilarava il maestro di musica Zé-u. Meù gli chiese: «Perché ridete della mia propensione per Cung-sunn-lung?...» Zé-u rispose: «È un uomo che non ammette di poter avere maestri, non accetta amici, non riconosce nessuno dei prìncipi legittimi, combatte tutte le scuole esistenti, gli piacciono solo le idee originali, e i suoi discorsi sono tutti eccentrici. Quel che si propone è solo di abbindolare la gente e di metterla a tacere. Più o meno come facevano un tempo Han-t'an (pensatore sofista sconosciuto) e quelli della sua risma». Contrariato, il principe Meù ribatté: «Non stareste un po' esagerando? Cercate di contenervi nei limiti della verità». Zé-u riprese: «Giudicate da voi. Sentite quel che ha detto Cungsunn-lung a C'ungc'ioan: "Un buon arciere" gli ha detto "deve essere in grado di tirare colpo su colpo, così in fretta e così giusto, da far sì che la punta di ogni freccia scoccata si infili nella cocca della precedente in modo che formino una linea che vada dalla corda dell'arco al bersaglio...È Siccome C'ung-c'ioan se ne stupiva, "Oh!" disse Cungsunn-lung, "Hung-C'iaò, l'allievo di P'engmong, ha fatto ancor meglio; volendo far paura a sua moglie che l'aveva irritato, tese l'arco migliore che aveva e scoccò la sua freccia più buona così bene, che le sfiorò le pupille senza farle sbattere gli occhi, e cadde a terra senza sollevar polvere". Ma sono cose da dire, da parte di un uomo sensato?» Il principe Meù ribatté: «Talvolta i Saggi dicono cose che gli idioti non riescono a comprendere. Quelle che avete raccontato possono avere tutte una spiegazione sensata». «Siete stato alla scuola di Cungsunn-lung» intercalò Zé-u, «e questo spiega perché vi fate un dovere di difenderlo. Io, che questa ragione non l'ho, continuerò a dirne male. Eccovi qualche esempio dei paradossi che sciorinò alla presenza del re di Uei: "Si può pensare senza intenzione, si può toccare senza contatto; ciò che è può non aver fine; 85

85 un'ombra non può spostarsi; un capello può sostenere quindicimila chili; un cavallo bianco non è un cavallo, un vitello senza madre può averla", e altre idiozie del genere». Il principe Meù ribatté: «Può darsi che siate voi a non capire queste parole profonde. Pensare senza intenzione, può riferirsi alla concentrazione dello spirito unito al Principio; toccare senza contatto, si può riferire al contatto universale preesistente; che ciò che è può non finire, che un'ombra non può muoversi, sono espressioni introduttive per una discussione sulle nozioni di cambiamento e di movimento; che un capello regga quindicimila chili serve a introdurre la questione di cosa siano la continuità e il peso; che un cavallo bianco non è un cavallo, apre la discussione sull'identità o differenza tra sostanza e accidenti; un vitello orfano può avere una madre se non è orfano; e via di questo passo». «Vedo che avete imparato» replicò Zé-u «a zufolare l'unica nota di Cungsunn-lung. Bisogna proprio che qualcun altro vi insegni a servirvi degli altri fori del vostro flauto intellettuale». Il principe accusò il colpo di questa impertinenza e in un primo momento si tacque. Ripresosi, congedò Zé-u dicendogli: «Per farvi di nuovo vedere davanti a me, aspettate che vi mandi a chiamare». M Dopo cinquant'anni di regno, Yao fu preso dal desiderio di sapere se il suo modo di governare aveva avuto effetti benefici, e se il popolo ne era contento. Prese perciò ad interrogare i suoi consiglieri di ruolo, della capitale e delle province; ma nessuno fu in grado di dargli delle risposte probanti. Allora Yao si travestì e incominciò a frequentare i luoghi pubblici. In una di queste occasioni sentì un ragazzo che canterellava questo ritornello: «Tra la folla delle strade, non ci sono più cattivi; tutto è al meglio. Senza bisogno di dirglielo, senza bisogno di saperlo, tutti si piegano al volere dell'imperatore». Raggiante di contentezza, Yao chiese al ragazzo chi gli aveva insegnato questo motivo... «Il mio maestro» questi disse. Yao chiese al maestro se sapeva chi ne era l'autore... «Tramandato dagli Antichi» rispose il maestro. (Felice che il suo regno avesse conservato l'antico status quo, che il suo governo avesse fatto così poche innovazioni che i sudditi non se n'erano neanche accorti), Yao si affrettò ad abdicare e a cedere il trono a Sciunn (timoroso com'era di oscurare la propria gloria prima di morire). N Coan-yinn-hi (Coan-yinn-zé) enunciò: «A colui che risiede nel suo nulla (di forma, interiore; stato indefinibile a parole), tutti gli esseri si manifestano. Egli è sensibile alla loro impressione come un'acqua tranquilla; li riflette come uno specchio; li ripete come un'eco. Unito al Principio, è attraverso lui in armonia con tutti gli esseri. Unito al Principio, conosce tutto attraverso le ragioni generali superiori, e conseguentemente non si serve più dei suoi sensi differenziati per conoscere nello specifico e nel particolare. La vera ragione delle cose è invisibile, inafferrabile, indefinibile, indeterminabile. Soltanto lo spirito, reintegrato nello stato di semplicità naturale perfetta, può intravederla confusamente nella contemplazione profonda. Dopo questo disvelamento, non volere più nulla e non fare più nulla [in dettaglio]. Questi sono la vera scienza e il vero talento. Cosa potrebbe ancora volere, cosa potrebbe ancora fare, colui al quale è stato svelato il nulla di ogni volere e di ogni agire [particolari]? Anche se si limitasse a raccogliere una zolla di 86

terra, a fare un mucchietto di polvere, pur se questo non significa propriamente fare qualcosa, tuttavia mancherebbe ai principi, perché agirebbe [in modo indipendente]».

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V La continuità cosmica

A L'imperatore T'ang della dinastia Yinn' domandò a Hia-co: «Vi furono un tempo, proprio al principio, degli esseri?» Hia-co rispose: «Se non ce ne fossero stati, come farebbero ad essercene ora? Se dubitiamo che ce ne siano stati un tempo, gli uomini dell'avvenire potrebbero dubitare che ce ne siano adesso (quello che è per noi il presente dovendo diventare un giorno il passato), il che sarebbe assurdo». «Per cui» disse T'ang, «nel tempo c'è divisione o continuità? Cos'è che determina l'anteriorità o la posteriorità?» Hia-co rispose: «Fin dall'origine si parla di fini e di inizi d'esseri. C'è in fondo veramente inizio e fine, o non piuttosto transizione successiva continua? Chi può dirlo con certezza? Dal momento che io sono esteriore agli altri esseri, e anteriore ai miei propri stati futuri, come faccio a sapere (se le fini, le morti, sono cessazioni o trasformazioni)?» «Ad ogni modo» disse T'ang, «secondo voi il tempo è dunque indefinito. E che pensate dello spazio? Esso è ugualmente indefinito?» «Non ne so nulla» rispose Hia-co. Poiché T'ang insisteva, Hia-co riprese: «Il vuoto non è finito, giacché al vuoto non si può aggiungere un vuoto; ma siccome agli esseri esistenti si possono aggiungere altri esseri, se il cosmo sia finito o non finito, io non ne so niente». T'ang reiterò: «C'è dunque qualcosa all'infuori dei quattro mari (dello spazio terrestre conosciuto)?» Hia-co rispose: «Sono andato, ad Est, fino a Ying, e qui ho chiesto: "Cosa c'è al di là?». Mi hanno risposto: "Al di là è come al di qua...". Poi sono andato verso Ovest, fino a Pinn, e ho chiesto: "Cosa c'è al di là?". Mi hanno risposto: "Al di là è come al di qua...". Da questa esperienza ho concluso che i termini "quattro mari", "quattro regioni", "quattro poli" forse non sono assoluti. Poiché, sempre aggiungendo, si arriva a un valore indefinito. Se il nostro cosmo (cielo-terra) è finito, forse che non potrebbe essere continuato senza fine da altri cosmi (cielo-terra) limitrofi? Chi può dire che il nostro mondo (cieloterra) non sia altro che un'unità nell'indefinità?» «Un tempo Niu-ua-scie riparò con pietre dai cinque colori l'apertura che si era prodotta all'orizzonte, tra il perimetro della calotta celeste e la superficie terrestre (che delimitava in tal modo il nostro mondo). Immobilizzò la testuggine (che sostiene la terra) tagliandole le quattro zampe, e rese così fissa la posizione dei quattro poli (punti cardinali). In seguito a ciò, nel nostro mondo tutto si equilibrò in modo stabile. Ma più tardi, nel corso della sua lotta contro l'imperatore Cioan-hu, Cung-cungscie spezzò Pu-ceùscian, la colonna celeste (di Nord-Ovest), e ruppe i collegamenti della terra (con il firmamento di Sud-Est). La conseguenza fu che il cielo si inclinò verso Nord-Ovest e che la terra si dispose in discesa verso Sud-Est. Da allora il sole, la luna, le costellazioni, sono in pendenza verso Ovest (loro punto di tramonto); tutti i fiumi della Cina scorrono verso Est.» 88

B T'ang chiese ancora: «Gli esseri sono naturalmente grandi o piccoli, alti o bassi, simili o differenti?...» Ma, procedendo nella sua spiegazione, Hia-co disse: «In un punto molto lontano verso Est (Sud-Est) del Mar della Cina (nel posto dove il cielo si scollò dalla terra), c'è un immenso abisso, senza fondo, il cui nome è la confluenza universale, [luogo] in cui tutte le acque della terra e quelle della Via Lattea (fiume che raccoglie le acque celesti) si precipitano senza che mai il suo contenuto aumenti o diminuisca. Tra questo gorgo e la Cina ci sono (c'erano) cinque grandi isole: Tai-u, Yuan-chiaò, Fang-hu, Ying-ceù, P'eng-lai. «Alla base, ognuna di queste isole misura trentamila stadi [cinquemila chilometri] di perimetro. L'altopiano formato dalla loro superficie ha una circonferenza di novemila stadi [milleseicento chilometri]. Sono tutte distanti l'una dall'altra settantamila stadi [dodicimila chilometri]. Gli edifici costruiti in abbondanza su queste isole sono d'oro e di giada; gli animali che ci vivono sono tutti domestici; la vegetazione è splendida; i fiori profumatissimi; mangiando i frutti di queste piante si è preservati dalla vecchiaia e dalla morte. Gli abitanti di queste isole sono tutti esseri fatati, o dei Saggi. Tutti i giorni si rendono visita spostandosi in volo. «All'inizio le isole non erano fissate al fondo del mare ma galleggiavano alla sua superficie, abbassandosi e alzandosi con la marea, vibrando all'impatto dei passi. Disturbati dalla loro instabilità, i geni e i Saggi [di tali isole] se ne lamentarono al Sovrano. Temendo che esse potessero col tempo andare a naufragare contro le terre d'Occidente, il Sovrano ordinò allo Spirito del Mare del Nord di por rimedio a tale pericolo. Questi incaricò delle tartarughe gigantesche di sostenere le cinque isole sulla loro schiena, in ragione di tre per isola. Ogni sessantamila anni le tartarughe dovevano essere sostituite da altre. Così le isole non oscillarono più. «Ma ecco che un giorno uno dei giganti del paese di Lung-pai (a Nord), giunse nei paraggi volando nello spazio, e gettò la sua lenza. Catturò sei delle quindici testuggini, se le caricò sulle spalle e se ne tornò com'era venuto, preparando poi i loro gusci per la divinazione. All'improvviso le due isole Tai-u e Yuan-chiaò (che erano sostenute dalle sei tartarughe) sprofondarono nell'oceano (e le isole dei geni furono ridotte alle tre della leggenda). Il Sovrano si irritò molto per questo avvenimento. Di conseguenza, egli ridusse le dimensioni del paese di Lung-pai e la statura gigantesca dei suoi abitanti. Ad ogni modo, al tempo di Fu-hi e di Scienn-nung, questi ultimi misuravano ancora diverse tese di altezza. A una distanza di quattrocentomila stadi dalla Cina, verso Est, nel paese di Z'iaòyaò, gli uomini hanno una statura d'un piede e cinque pollici. Verso l'angolo Nord-Est della terra, i Ceng-genn sono solo alti nove pollici. Ecco tutto quel che concerne le dimensioni». C «E adesso parliamo di durate. Nel Sud della Cina cresce l'albero Ming-ling, il cui ciclo vegetativo (primavera ed estate) è di cinque secoli, e il cui periodo spoglio (autunno e inverno) è anch'esso di cinque secoli (il suo anno totale è conseguentemente di mille anni [nostri]). Anticamente il grande albero C'iunn aveva una vita di sedicimila anni [nostri]. Sui letamai cresce un fungo che, nato la mattina, alla sera è già morto. D'estate, le effimere nascono con la pioggia e muoiono appena torna il sole. All'estremo Nord, nelle nere acque del lago celeste, vive un pesce di larghezza pari a diverse migliaia di stadi, e di lunghezza proporzionata, chiamato C'unn; ci vive pure un uccello, detto P'eng, le cui ali, quando le apre, oscurano il cielo come fossero nubi, le sue altre dimensioni sono in proporzione. Sappiamo di questi esseri da U il grande, che li vide, da Pai-i che gli diede il 89

89 nome, e da I-chien che li classificò... «Ai bordi dei corsi d'acqua nascono i ziao ming, che sono tanto piccoli da potersi posare in buon numero sulle antenne di una zanzara senza che questa se ne accorga; invisibili anche per gli occhi di un Li-ciù e di un Zé-u, inaudibili persino dagli orecchi di un Ciai-u e di uno Scien-c'oang. Ma Hoang-ti, dopo aver digiunato tre mesi sul monte C'ungt'ung insieme a Giung-c'eng-zé, lo spirito come spento e il corpo come morto, li vedeva col suo sguardo trascendente grandi come il monte Song-scian, li sentiva col suo orecchio interiore forte come un tuono. «Nel paese di U e in quello di C'iù (a Sud), cresce un grande albero, lo Yu-pi, il quale in inverno produce dei frutti rossi, di sapore acido; trapiantato a Nord di Hoai, si tramuta in un cespuglio spinoso e sterile (citrus spinosa). Il tordo non oltrepassa il fiume Zi, il tasso non riesce a vivere a Sud della Uenn. La natura di questi luoghi sembra essere la stessa, ma la vita degli uni vi si adatta, mentre quella degli altri no, e questo senza che si possa scoprire perché. Se non riusciamo a renderci conto di queste cose concrete, cosa volete sapere da me circa le cose sottili, come il grande e il piccolo, il lungo e il corto, le somiglianze e le differenze?» (Si ripropone la domanda di B). D Il massiccio dei monti T'ai-ching e Uang-u faceva settecento stadi quadrati di larghezza e ottantamila piedi di altezza. Un abitante novantenne di Pei-scian aveva concepito una spiccata avversione nei suoi confronti, perché intralciava le comunicazioni tra il Sud e il Nord. Dopo aver convocato i famigli e i componenti della casa, disse loro: «Diamoci dentro! Spianiamo questa altura! Permettiamo al Nord di mettersi in comunicazione con la vallata della Han!... » «Avanti, allora!» fece eco il coro... Ma la vecchia moglie del novantenne obiettò: «E dove metterete tutta la terra e le pietre di queste montagne?...» «Le butteremo nel mare» rispose il coro... E il lavoro incominciò. Sotto la direzione del vecchio, suo figlio e i nipotini in grado di portare pesi aggredirono le rocce, scavarono la terra, trasportarono i detriti, cesta dopo cesta, fino al mare. Il loro entusiasmo si comunicò a tutto il villaggio. Non ci fu uno, quando il tempo non era troppo caldo o troppo freddo, che non corresse dietro agli operai, compreso il figlioletto della vedova di un funzionario, che stava appena mettendo la seconda dentizione. Ci fu però un uomo di Ho-Ch'iu, che si credeva saggio, il quale cercò di fermare il novantenne con queste parole: «Quel che stai tentando di fare è irragionevole. Con le forze che ti restano non arriverai mai ad averla vinta con quelle montagne... » Il novantenne rispose: «Sei tu ad essere poco ragionevole; meno ragionevole addirittura del figlioletto della vedova. Forse è vero che morirò presto; ma continuerà mio figlio, poi verranno i miei nipoti, poi ancora i figli dei miei nipoti; e così continuando gli operai si moltiplicheranno senza fine, mentre mai nulla si aggiungerà alla massa finita di questa montagna. Perciò finiranno con lo spianarla». La pervicacia del novantenne spaventò il genio tutelare dei serpenti, il quale supplicò il Sovrano [celeste] di impedire che i suoi protetti fossero espropriati [del monte] da quel vecchio ostinato. Il Sovrano [celeste] ordinò ai due giganti, figli di C'oàno, di separare le due montagne T'ai-ching e Uang-u. Così ebbe origine il passo che mette in comunicazione le pianure del Nord con il bacino della Han. (Morale: confidare nell'effetto del tempo). 90

E Un tempo, il padre dei due giganti in questione, volendo competere in velocità con il sole, corse fino a U-cu. Assetato, bevve il Fiume, poi ingurgitò la Uei. Poiché era ancora assetato, corse verso il gran lago, ma non poté raggiungerlo, perché morì di sete per la strada. Il suo cadavere e il suo bastone diventarono il Teng-linn, dall'estensione di diverse migliaia di stadi. F U il grande così disse: «Nelle sei regioni, tra i quattro mari, rischiarati dal sole e dalla luna, regolati dal movimento degli astri, ordinati dalla successione delle stagioni, governati dal ciclo annuale del sole, gli esseri vivono in un ordine che il Saggio può penetrare». Hia-co disse, invece: «Altri esseri vivono in altre condizioni di cui il Saggio non ha la chiave. Per esempio: quando U il grande canalizzava le acque per bonificare le terre, si perdette; costeggiò il Mare del Nord e arrivò, lontanissimo verso Settentrione, in un paese senza vento né pioggia, senza animali né vegetali di nessun genere, ad un altopiano delimitato da rocce scoscese con una montagna conica nel centro. Da una voragine senza fondo in cima al cono sprizzava un'acqua di odore pungente e di gusto vinoso; quest'acqua scorre in quattro torrentelli fino ai piedi della montagna e irriga tutto il paese. La regione è assai salubre, gli abitanti sono dolci e semplici. Vivono tutti in comunione, senza distinzione di età e di sesso, senza capi, senza famiglie. Non coltivano la terra e non portano vestiti. «Numerosissimi, questi uomini non conoscono le gioie della giovinezza né le tristezze della vecchiaia. Sono amanti della musica e cantano insieme per tutta la giornata. Saziano la fame bevendo l'acqua del meraviglioso geyser e recuperano le forze con bagni nell'acqua dello stesso. Vivono tutti in questo modo fino ad esattamente cent'anni, e muoiono senza essere mai stati ammalati. «Un tempo, nella sua scorribanda verso Nord, l'imperatore Mu dei Ceù visitò questo paese e vi soggiornò tre anni. Quando ne fu tornato, il ricordo che ne conservava gli fece trovare insipido il suo impero, il palazzo, i festini, le donne e tutto il resto. Dopo pochi mesi abbandonò tutto per farvi ritorno. Coan-ciung, ministro del duca Hoan di Z'i, aveva quasi convinto quest'ultimo a conquistare il paese. Ma Hien-p'eng aveva rimbrottato il duca per il fatto che così avrebbe abbandonato Z'i, un regno tanto vasto, tanto popoloso, così altamente civilizzato, così bello e ricco, per esporre i suoi soldati alla morte e i suoi feudatari alla tentazione di tradire; e tutto ciò, per la fantasia incongruente di un vecchio. Il duca Hoan rinunciò quindi alla spedizione, e ripeté a Coan-ciung le parole di Hien-p'eng. Coan-ciung ribatté: "Hien-p'eng non è all'altezza delle mie concezioni. E così legato a Z'i, che non vede nulla al di fuori di questo territorio". «Gli uomini del Mezzogiorno si rasano i capelli e vanno nudi; quelli del Nord si avvolgono il capo e il corpo di pellicce; i Cinesi si servono di copricapi e si vestono. In ogni paese, secondo le sue condizioni specifiche e le sue circostanze particolari, gli abitanti hanno escogitato ciò che è meglio in fatto di abitudini, di commercio, di vestiti, di mezzi di comunicazione, e così via. È certo che presso determinati popoli sono in uso pratiche irrazionali o barbare; ma si tratta di soluzioni artificiali; quel che bisogna fare è riformarli, ma non è il caso di stupirsene. È così che, a Est di Ue, i Ceé-mu si mangiano i primogeniti, per il bene, così dicono, dei figli che verranno poi. Quando muore il nonno, cacciano la nonna, perché, sempre così dicono loro, trattandosi della moglie di un morto, attirerebbe le disgrazie. A sud di C'iù, gli Yen-genn scarnificano le ossa dei genitori morti e ne gettano le carni, poi sotterrano le ossa con gran rispetto; chi, da loro, non facesse 91

91 così, sarebbe considerato un figlio poco rispettoso. A ovest di Z'inn, dagli I-ch'iù, nel paese di Uenn-c'ang, i genitori morti vengono bruciati, perché salgano in cielo con il fumo. Chi non seguisse questa pratica sarebbe stimato un empio. G Cerchiamo di essere prudenti nei nostri giudizi, perché anche il Saggio molte cose non le conosce; e cose che accadono tutti i giorni... Confucio, mentre era in viaggio per l'Est, vide due ragazzi che bisticciavano, e chiese loro quale fosse la ragione della disputa. Il primo disse: «Io sostengo che al suo sorgere il sole è più vicino, e a mezzogiorno più lontano». Il secondo disse: «Io invece sostengo che al suo sorgere il sole è più lontano, mentre a mezzogiorno è più vicino». Il primo riprese: «Al suo sorgere il sole sembra grande, mentre a mezzogiorno pieno sembra piccolo; perciò al mattino è più vicino, e a mezzogiorno più lontano; poiché la lontananza rimpicciolisce gli oggetti». Il secondo affermò: «Il sole al suo sorgere è fresco; a mezzogiorno pieno è bollente; dunque è più lontano al mattino e più vicino a mezzogiorno; poiché la lontananza di un braciere ne diminuisce il calore». Confucio rimase senza parole davanti a questo problema, a cui non aveva mai pensato. I due giovani si presero gioco di lui, dicendogli: «Allora, come mai di voi si dice che siete uno scienziato?» H Il «continuo» (la continuità) è la legge più generale del mondo. Esso si distingue dalla coesione, dal contatto. Si dia un capello. Gli si sospendano dei pesi. Avviene rottura. Il capello, si rompe, non la continuità. La continuità non può rompersi. Qualcuno non ci crede. A costoro proverò, con degli esempi, che la continuità è indipendente dal contatto. Cian-ho pescava con una lenza fatta di un solo filo di seta naturale; un ago ricurvo gli faceva da amo, un rametto di giunco da canna, un mezzo grano di frumento da esca. Con quest'apparecchiatura rudimentale tirava fuori da un profondo bacino dei pesci enormi, e questo senza che gli si rompesse la lenza, gli si raddrizzasse l'amo, gli si piegasse il giunco. Il re di C'iù venne a saperlo e gliene chiese spiegazione. Cian-ho gli rispose: «Un tempo, il celebre arciere P'u-z'ié-zé, con un arco debolissimo e una freccia fatta di semplice fil di ferro, prendeva le gru grigie nelle nubi grazie alla sua concentrazione mentale che stabiliva la continuità tra la sua mano e il bersaglio. Io per cinque anni mi sono allenato per ottenere lo stesso risultato nella pesca con la lenza. Quando butto l'amo, la mia mente, completamente vuota di qualsiasi altro pensiero, va dritta al pesce attraverso la mia mano e la mia apparecchiatura; si stabilisce così la continuità, e il pesce è catturato senza che nulla sospetti, od opponga resistenza. Se voi, mio re, applicaste lo stesso procedimento al governo dei vostri sudditi, otterreste lo stesso risultato». «Grazie» disse il re...» È perciò la volontà che realizza la continuità tra la mente e il suo oggetto. I Il cuore è l'organo attraverso il quale si stabilisce la continuità tra l'uomo e la sua famiglia. Cung-hu di Su e Z'i-ying di Ciaò, malati, chiesero a Pien-z'iaò, il celebre medico, di guarirli. Questi li guarì, ma dopo disse loro: «Questa è stata soltanto una crisi passeggera; la predisposizione costituzionale però permane, e vi espone a sicure ricadute; 92

per evitarle occorre qualcosa di diverso da una semplice medicina». «Cosa ci vorrebbe?» chiesero i due uomini... «Tu» disse Pien-z'iaò a Cung-hu, «hai il cuore forte e il corpo debole; di conseguenza ti esaurisci in progetti irrealizzabili. Tu, Z'i-ying, hai il cuore debole e il corpo forte; di conseguenza ti esaurisci in sforzi insensati. Se io scambiassi tra loro i vostri due cuori, i vostri organismi ricupererebbero la loro efficienza». «Fatelo!» esclamarono i due uomini. Pien-z'iaò fece bere ai due uomini del vino a cui aveva aggiunto una droga che li privò di coscienza per tre giorni; aprì loro gli sterni, ne trasse i due cuori, li sostituì tra di loro e richiuse le due incisioni con la sua famosa pomata. Quando si svegliarono, i due uomini erano completamente risanati. Ma ecco che, dopo aver salutato Pien-z'iaò, Cung-hu andò di filato a casa di Z'i-ying, e vi prese dimora con la moglie e i bambini di costui, che non lo riconobbero. Z'i-ying, analogamente, andò dritto a casa di Cung-hu, e vi prese dimora con la moglie e i bambini di quest'ultimo, i quali neppure loro lo riconobbero. Poco mancò che le due famiglie litigassero. Ma quando Pien-z'iaò [il medico] ebbe loro chiarito il mistero, si tranquillizzarono. J La musica costituisce uno dei mezzi con cui si attua la continuità tra l'uomo e tutta la natura. Quando P'ao-pa arpeggiava sul suo liuto, gli uccelli danzavano e i pesci saltavano [fuori dalle acque]. Volendo acquisire lo stesso talento, Scie-Uenn (il quale più tardi diventò capo musica di Ceng) abbandonò la famiglia per entrare alla scuola di Scie-siang. Passò i primi tre anni completi a esercitarsi nella diteggiatura e nel tocco, senza mai suonare una sola aria. Giudicandolo poco adatto [per la musica], Scie-siang finì col dirgli: «Potreste anche tornare a casa...» Deponendo il liuto, Scie-Uenn disse con un sospiro: «Non è che sia un incapace; solo che ho una mira, un obiettivo che è più elevato dello stile classico abituale; non sono ancora in possesso di quel che è necessario per riuscire a comunicare agli esseri esterni l'influsso proveniente dal mio cuore; ecco spiegato perché non me la sento ancora di far vibrare il mio strumento; non produrrebbe ancora i suoni che voglio. Visto che devo andarmene, me ne vado, ma si tratterà solo di un'assenza; ci rivedremo presto». Infatti, non molto tempo dopo, Scie-Uenn tornò da Scie-siang. «A che punto siete con l'acquisizione del vostro stile?» gli domandò questi. «Ho realizzato ciò che intendevo» disse Scie-uenn; «vedete da voi... » Si era in primavera inoltrata. Scie-uenn sfiorò la corda Sciang, che corrisponde al tubo sonoro Nan e alla stagione autunnale; subito soffiò un venticello fresco e i frutti furono maturi. Quando, in autunno, fece vibrare la corda Chiao, che corrisponde alla campana Chià e alla stagione primaverile, soffiò un vento caldo, e fiorirono gli alberi. Quando, in estate, fece vibrare la corda U, che corrisponde alla campana Hoang e alla stagione invernale, la neve si mise a cadere e gelarono i corsi d'acqua. Quando, in inverno, fece vibrare la corda Ceng, che corrisponde al tubo sonoro Gioei-pinn e alla stagione estiva balenarono i fulmini e si sciolsero i ghiacci. Poi, infine, quando fece vibrare le quattro corde insieme e produsse l'accordo perfetto, spirò una dolce brezza, nubi gentili galleggiarono nel cielo, da questo cadde una rugiada dal sapore zuccheroso e dalla terra sgorgarono sorgenti vinose... Battendosi il petto e saltellando (sintomi esteriori di rimorso), Scie-siang esclamò: «Che tecnica possedete! Uguaglia o sorpassa in efficacia quella di Scie-c'oang e di Zeùyen. A petto vostro questi, [che pure furono] maestri, dovrebbero deporre il loro liuto e 93

93 mettersi a suonare lo zufolo per accompagnarvi». K Altro esempio della misteriosa corrispondenza favorita dalla musica. Quando Suét'an imparava il canto da Z'inn-z'ing, si scoraggiò e fece sapere al suo maestro che se ne sarebbe andato. Z'inn-z'ing non gli chiese di restare, ma al momento del pasto in comune, d'uso per la partenza, gli cantò un lamento così toccante che Sué-t'an, mutato totalmente nei propositi, si scusò della propria incostanza e gli richiese il permesso di rimanere. Allora Z'inn-z'ing raccontò all'amico l'episodio seguente: «Una volta Han-no stava andando a Z'i e aveva esaurito il suo viatico; a Yungmenn fu quindi costretto a cantare per procurarsi di che mangiare. Partito che fu, le travi della locanda nella quale aveva cantato, per tre giorni interi continuarono a ripetere il suo canto, tanto che le persone che accorrevano per ascoltarlo, non credendo che se ne fosse andato, non prestavano fede al proprietario che le voleva congedare... Quando questo Han-no cantava una canzone triste, giovani e vecchi nel raggio di un miglio si rattristavano, e questo a tal punto che non mangiavano più. Poi, quando Han-no cantava loro un ritornello allegro, nel raggio di un miglio giovani e vecchi dimenticavano la loro afflizione e ballavano dalla felicità, riempiendo il cantante di regali. Ancora ai nostri giorni gli abitanti di Yung-menn esprimono la loro gioia o il loro dolore in modo particolarmente aggraziato. È qualcosa che hanno imparato da Han-no». L Altro esempio di continuità "esoterica". Quando Pai-ya arpeggiava sul suo liuto, Ciung-zé-ch'i si accorgeva di quale era la sua intenzione mentre suonava. Cosicché, una volta che Pai-ya cercava di esprimere con i suoi accordi l'idea di un'alta montagna: «Bene, bene» disse Ciung-zé-ch'i, «s'innalza come il monte T'ai-scian...» Un'altra volta, che Pai-ya cercava di rappresentare il fluire di un corso d acqua: «Bene, bene» esclamò Ciung-zé-ch'i, «scorre come il Chiang, o come il Fiume [Giallo]... » Qualunque idea nascesse nell'intimo di Pai-ya, Ciung-zé-ch'i la recepiva attraverso i ritmi del suo liuto. Un giorno, i due amici camminavano a nord del monte T'ai-scian; sorpresi da un rovescio di pioggia, si rifugiarono sotto una roccia. Per ingannare la noia dell'attesa, Pai-ya si mise a suonare il liuto e cercò di riprodurre, prima un effetto di pioggia, poi la caduta di un masso. Ciung-zé-ch'i indovinò subito le due intenzioni successive... Allora Pai-ya, sospirando, posò il liuto ed esclamò: «Il vostro orecchio è superbo. Tutto quel che concepisco nel mio cuore Si traduce in immagini nel vostro animo. Come farò mai, se vorrò conservare un segreto?» M Ulteriore esempio della continuità attraverso l'intenzione. L'imperatore Mu dei Ceù stava andando a caccia, verso Ovest; attraversò i monti C'unn-lunn, si spinse fino a Yenscian e di qui ritornò verso la Cina. Sulla via del ritorno gli presentarono un artista di nome Yen-scie. «Che sai fare?» gli chiese l'imperatore... «Vostra maestà mi permetta di mostrarglielo» rispose l'artista... «Ti fisserò un giorno [per mostrarmelo]» disse l'imperatore. Venuto che fu questo giorno, Yen-scie si presentò di fronte all'imperatore con una scorta. «Chi sono mai costoro?» chiese l'imperatore... «Sono le mie creazioni» rispose Yen-scie; «sanno rappresentare la commedia della 94

vita...» L'imperatore li osservò stupefatto. Gli automi di Yen-scie camminavano, sollevavano il capo e lo abbassavano, atteggiavano le loro membra come uomini veri e propri. Toccandoli al mento cantavano, ed erano anche assai intonati. Prendendoli per la mano danzavano a ritmo. Facevano tutto quel che si potesse immaginare. L'imperatore decise di far loro rappresentare uno spettacolo per il suo harem; ed ecco che, mentre recitavano, gli automi facevano l'occhiolino alle dame. Adirato, l'imperatore stava per far mettere a morte Yen-scie, pensando che avesse introdotto di nascosto [negli automi] degli uomini reali. A questo punto [l'artista] aprì i suoi automi e fece vedere all'imperatore che erano fatti di cuoio e di legno dipinto e verniciato. Ciò nonostante le interiora erano tutte formate, e Yen-scie dimostrò all'imperatore che (conformemente alla fisiologia cinese) togliendo il cuore a un automa, la sua bocca ammutoliva; togliendogli il fegato i suoi occhi perdevano la vista; togliendogli i reni i piedi si immobilizzavano. «Ma è meraviglioso» sbottò l'imperatore, ormai calmo; «sei quasi abile come il Principio, autore d'ogni cosa...», e ordinò di caricare gli automi su un carro e di trasportarli nella capitale. Da allora in poi non si è mai più visto niente di simile. I discepoli di Pan-sciù, l'inventore della famosa torre di avvicinamento usata negli assedi, e di Mei-ti, il filosofo scienziato inventore del falco automatico, insistettero vanamente presso questi due maestri perché ripetessero quel che aveva fatto Yen-scie. Costoro non ebbero neppure il coraggio di tentare (mancandogli la forza di volontà per produrre la continuità efficace). N Altro esempio della continuità ottenuta per mezzo dell'intenzione. Quando Canying, famoso arciere, tendeva l'arco, quadrupedi e uccelli venivano a consegnarglisi direttamente, senza neppure attendere che scoccasse la freccia. Egli ebbe come discepolo Fei-uei, che lo superò. Fei-uei ebbe come discepolo Chi-c'iang. All'inizio gli disse: «Impara prima a non sbattere più le palpebre, poi ti insegnerò a tirare con l'arco». Chi-c'iang adottò il metodo seguente: quando sua moglie tesseva, lui si sdraiava sulla schiena sotto il telaio, fissando i fili che si intersecavano e la navetta che andava e veniva. Dopo due anni di un simile esercizio, i suoi occhi divennero così fissi che li si poteva toccare con un punteruolo, e non c'era verso di farglieli sbattere. A questo punto Chi-c'iang andò a trovare Fei-uei, e gli disse che era pronto. «Non ancora» disse Fei-uei. «Devi ancora imparare a fissare il punto. Quando lo vedrai così ingrandito (per la forza della tua intenzione) che non potrai fare a meno di colpirlo, allora ritorna, e ti insegnerò a tirar d'arco». Chi-c'iang appese alla finestra un lungo crine di yak, sul quale fece arrampicare un pidocchio, che poi si esercitò a fissare quando il sole gli passava dietro, battendogli in pieno negli occhi. A mano a mano che i giorni passavano, il pidocchio gli sembrava sempre più grande. Dopo tre anni di esercizio lo vide enorme, finché giunse a distinguerne il cuore. Quando riuscì a trapassare il cuore del pidocchio senza sbagliare mai, e senza che la freccia tranciasse il crine, andò a trovare Fei-uei. «Ora sai tirar d'arco» questi gli disse, «non ho più niente da insegnarti». Chi-c'iang si disse tuttavia che se al mondo egli aveva un rivale, questi era il suo maestro, e decise di sbarazzarsi di lui (in uno di quegli scontri d'abilità a cui si dedicavano gli arcieri di quei tempi). Datisi appuntamento in una piana, i due uomini presero posizione, e simultaneamente tirarono l'uno contro l'altro, avendo stabilito in anticipo il numero delle frecce [che avrebbero scoccato]. Ad ogni lancio, le due frecce si scontra95

95 vano a mezza strada e cadevano inerti, senza sollevar polvere. Sennonché Chi-c'iang aveva messo nella sua faretra una freccia in più, che alla fine tirò contando di sorprendere scoperto il suo maestro. Fei-uei parò la freccia con un ramo di spini (che aveva fatto in tempo a raccogliere da terra, senza sospettare il sotterfugio). A questo punto, deposto l'arco, i due uomini si salutarono sul campo, piangendo di commozione, e si promisero di essere l'uno per l'altro come padre e figlio. Giurarono inoltre, con effusione del loro sangue, di non rivelare a nessuno il segreto della propria arte (continuità attraverso la mente). O Altro esempio dell'efficacia della volontà. Zao-fu apprese da T'ai-teù l'arte di condurre una biga. Quando fu accettato dal maestro come discepolo, il suo inizio fu di servirlo nel modo più umile. Per tre anni T'ai-teù non gli rivolse la parola. Zao-fu non fece che raddoppiare in sottomissione. Alla fine T'ai-teù gli parlò così: «Secondo un antico adagio l'apprendista arciere dev'essere flessibile come un giunco, e l'apprendista pellicciaio morbido come una pelliccia. Adesso tu sei più o meno come è necessario che tu sia. Guarda cosa ti faccio vedere. Quando saprai fare lo stesso, sarai in grado di tenere in mano le redini di un tiro a sei». «Va bene» rispose Zao-fu. T'ai-teù piazzò allora orizzontalmente un'asta spessa appena quel tanto che ci si potesse posare il piede e si mise a camminarci su da un capo all'altro, avanti e indietro, senza fare un solo passo falso. Tre giorni dopo Zao-fu era capace di fare altrettanto. Sorpreso, T'ai-teù gli disse: «Siete molto abile! Avete fatto in fretta a riuscirci! Adesso siete in possesso del segreto del conduttore di bighe. La concentrazione delle vostre facoltà interiori sul movimento dei piedi, vi ha permesso di camminare sull'asta nel modo sicuro in cui lo fate. Concentrate con la stessa intensità le vostre facoltà sulle redini delle vostre bestie; fate in modo che, attraverso la mano, il vostro spirito agisca sui morsi dei cavalli, e la vostra volontà sulla loro. Potrete allora descrivere circonferenze e tracciare angoli retti perfetti, e far correre il vostro tiro senza spossarlo. Ripeto una volta ancora: il vostro spirito faccia tutt'uno con le redini e con i morsi; il segreto è tutto qui. Ottenuto questo, non avrete più bisogno di servirvi né degli occhi, né della frusta. Il tiro essendo completamente in vostra mano, i ventiquattro zoccoli dei vostri sei cavalli toccheranno il suolo in cadenza, e le loro evoluzioni saranno matematicamente precise; passerete sicuro anche là dove la strada avrà appena la larghezza dello scartamento delle vostre ruote, anche là dove il sentiero sarà appena sufficiente perché i vostri cavalli possano posarvi le zampe. Io non ho più niente da insegnarvi; adesso ne sapete come me». P Hei-loan di Uei aveva perfidamente assassinato Ch'iù-pingciang, e il figlio di quest'ultimo, Lai-tan, cercava di vendicare la morte del padre. Lai-tan era coraggioso, ma fragile. Hei-loan, invece, era un colosso, e non aveva più paura di Lai-tan di quanta ne avesse di un pulcino. Scienn-t'uò, che era un amico di Lai-tan, disse a quest'ultimo: «Ce l'avete con Hei-loan, ma lui è molto superiore a voi, come contate di cavarvela?!» «Consigliatemi voi» disse Lai-tan, scoppiando in singhiozzi. «Ho sentito dire» continuò Scienn-t'uò, «che la famiglia C'ung-ceù, nel principato di Uei, custodisce tre meravigliose spade, appartenute all'ultimo imperatore degli Yinn, con le quali un bambino potrebbe fermare un esercito. Chiedetele in prestito!» Lai-tan andò a Uei, si fece ricevere da C'ung-ceù, gli si offrì come schiavo insieme alla moglie e ai figli, poi gli disse ciò di cui aveva bisogno in cambio. «Una spada ve la posso imprestare» disse C'ung-ceù; «quale desiderate, delle tre?» 96

«La terza» disse Lai-tan. C'ung-ceù aggregò Lai-tan al suo clan. Sette giorni dopo, data una festa in suo onore, gli consegnò la spada agognata, che Lai-tan ricevette in prosternazione. Con quest'arma in mano, Lai-tan si mise alla ricerca di Hei-loan. Lo trovò che dormiva, in profonda ubriachezza; lo fendette tre volte, dalle spalle alla vita, senza che si risvegliasse. Uscito, incontrò il figlio di Hei-loan, e tagliò anche lui a fette tre volte. Tutti i colpi attraversavano il corpo, e Lai-tan non provava più resistenza che se tagliasse l'aria; ma la ferita si risaldava dopo il passaggio della lama. Accorgendosi che la sua spada meravigliosa non era in grado di uccidere, Lai-tan scappò, pieno di disappunto. Nel frattempo Hei-loan si era risvegliato, e stava rimproverando la moglie per non averlo coperto meglio durante il sonno. «Mi sono infreddato» diceva. «Mi sento il collo e le reni tutti irrigiditi». A questo punto entrò il figlio, il quale gli disse: «Lai-tan dev'essere passato anche di qui. Era qua fuori e mi ha assestato tre colpi che hanno prodotto su di me esattamente lo stesso effetto». Q Nel corso della sua scorribanda all'Ovest, i Giung, tribù di quelle regioni, offrirono all'imperatore Mu dei Ceù una spada straordinaria e del tessuto d'amianto. La spada, lunga diciotto pollici, attraversava la giada come se fosse fango. Il tessuto, [quando si sporcava], messo nel fuoco ne usciva bianco come la neve. Hanno cercato di smentire questi fatti, ma essi sono certi.

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VI Fatalità

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Azione disse a Fatalità: «Tu non sei alla mia altezza». «Perché?» chiese Fatalità. «Perché» rispose Azione «la longevità, il successo, la nobiltà, la ricchezza, sono io che le procuro agli uomini». «Ah!» fece Fatalità «Se anche questo fosse vero, forse che avresti proprio da vantartene? P'eng-zu visse otto secoli, molto di più [cioè] di Yao e Sciunn, senza [però] aver maggiori meriti di loro. Yen-yuan, che fu così saggio, morì a trentadue anni, mentre un buon numero di inetti vivono fino ad età avanzata Ciung-ni, che valeva bene i prìncipi del suo tempo, andò incontro a grandi rovesci a C'enn e a Z'ai. L'imperatore Ceù degli Yinn non fu all'altezza dei tre celebri personaggi Uei-zé, Chizé, Pi-can, e ciò nonostante ebbe un trono, quando essi non furono che dei miseri. Chi-cià di U, che avrebbe meritato i maggiori onori, non ne ebbe invece nessuno; mentre T'ien-heng, totalmente indegno, ottenne il regno di Z'i. Pai-i e Ciù-z'i, che furono tanto nobili, morirono di fame a Ceùyang, mentre Chi-scie si arricchì a Cian-ch'inn. Se sei proprio stata tu a fare queste spartizioni, perché le hai effettuate così alla cieca?» «Se non sono stata io» disse Azione, «allora sei stata tu, Fatalità, che le hai fatte, e il tuo rimprovero ricade su di te». «Scusa» disse Fatalità, «ma io non ho proprio fatto niente. Io spingo (faccio girare) la ruota, poi lascio [che giri]. Fatalmente, qualcuno vive a lungo e qualcun altro no; fatalmente qualcuno è ricco, e qualcun altro povero. Tutto questo non sono io a provocarlo; anzi, non ne so proprio niente; viene tutto da sé». B Pei-cung-zé disse a Si-menn-zé: «Io sono nato nello stesso momento vostro e appartengo alla stessa stirpe; tra noi non c'è molta differenza di viso, di modo di parlare, di incedere; ciò nonostante voi avete successo, siete rispettato, benvoluto, richiesto, lodato, mentre a me succede tutto il contrario. Ci siamo serviti degli stessi mezzi per tentare la fortuna; voi siete riuscito in tutto, e io in nulla. Io sono malvestito, mal nutrito, male alloggiato, e vado a piedi. Voi invece vivete nel lusso e nell'abbondanza e uscite solo in tiro da quattro. E nella vita privata e in quella pubblica avete talmente la meglio, che non ho neanche il coraggio di paragonarmi a voi». «Suppongo» disse Si-menn-zé «che la differenza delle nostre condizioni sia correlata con la differenza dei nostri comportamenti. È probabile che tu ti sia comportato meno bene di me». Umiliatissimo, Pei-cung-zé non seppe cosa rispondere, e se ne andò tutto avvilito. Per strada incontrò il Maestro del quartiere dell'Est, il quale gli domandò: «Dove state andando di questo passo, e con una faccia simile ?» Pei-cung-zé gli raccontò della batosta subita. «Venite indietro con me» disse il Maestro, «laverò l'affronto che avete subito». Arrivati che furono da Si-menn-zé, il Maestro domandò a quest'ultimo: «Quale umiliazione avete inflitto a Pei-cung-zé?» 98

«Gli ho detto» rispose Si-menn-zé «che pensavo che la disparità delle nostre condizioni [sociali] dovesse derivare dalla differenza dei nostri modi di comportarci». «Non è affatto così» ribatté il Maestro. «Ecco come si deve spiegare la cosa: debitamente qualificato, Pei-cung-zé ha un favorevole. La tua riuscita non è il frutto delle tue qualità, i suoi insuccessi non sono dovuti alla sua incapacità. Non da voi vi siete fatti come siete; la fatalità vi ha indotti a essere così. Perciò se tu, il favorito dalla fortuna, hai umiliato lui; se lui, che ha buone doti, ne ha provato vergogna, [la ragione di tutto ciò] è che ignoravate entrambi ciò che siete veramente». «Non andate oltre, Maestro» disse Si-menn-zé, «non mi comporterò mai più così». Tornato a casa sua, Pei-cung-zé ebbe l'impressione che il suo vestito di tela grossolana fosse più caldo di una pelliccia di volpe o di tasso; le sue vivande grossolane gli parvero deliziose; la sua capanna gli sembrò un palazzo e il suo povero recinto un bastione. Interiormente illuminato, non prestò più alcuna attenzione alle distinzioni sociali fino alla fine dei suoi giorni. Il Maestro del quartiere dell'Est, quando venne a saperlo, osservò: «Dopo un lungo sonno (di ignoranza), è bastata una parola per risvegliare quest'uomo, e farlo cambiare in modo stabile». C Coan-i-u e Pao-sciù-ya, entrambi di Z'i, erano intimi amici. Coan-i-u si legò al principe Chiù, Pao-sciù-ya al principe Siao-pai. A seguito della preferenza accordata a Ucie, figlio di una concubina favorita, da parte del duca Hi di Z'i, quando questi morì e si rese necessario provvedere alla sua successione, scoppiò una rivoluzione. Coan-i-u e Ciaò-hu si rifugiarono a Lu con il principe Chiù, mentre Pao-sciù-ya fuggiva a Chiu con il principe Siao-pai. Più tardi, i due prìncipi, diventati antagonisti per la successione al trono, si dettero guerra. Coan-i-u combatté dalla parte di Chiù quando questi marciò su Chiu, e scoccò contro Siao-pai una freccia che l'avrebbe certo ammazzato se non si fosse spuntata sulla fibbia del suo cinturone. Vinse Siao-pai, il quale pretese che quelli di Lu mettessero a morte il suo rivale Chiù ed essi per compiacerlo, lo fecero. Ciaò-hu fu ucciso, Coan-i-u venne imprigionato. A questo punto Pao-sciù-ya disse al suo protettore Siao-pai, diventato il duca di Hoan: «Coan-i-u è un politico estremamente abile». «È magari vero» rispose il duca; «ma quell'uomo io lo detesto, perché è quasi riuscito ad uccidermi». Pao-sciù-ya riprese: «Un principe saggio deve saper soffocare i propri risentimenti personali. Gli inferiori sono costretti a farlo nei confronti dei loro superiori; un superiore deve talvolta farlo anche lui nei confronti dei suoi soggetti. Se la vostra intenzione è di diventare capo assoluto [«egemone»], Coan-i-u è l'unico uomo in grado di far riuscire il vostro progetto. Dovreste amnistiarlo». Il duca richiese perciò Coan-ciung, con la scusa di volerlo giustiziare. Quelli di Lu glielo mandarono in catene. Pao-sciù-ya gli andò incontro alla periferia della città, e lo sciolse. Il duca Hoan lo fece primo ministro e Pao-sciù-ya diventò suo inferiore. Il duca lo trattò da figlio, chiamandolo padre. Coang-ciung lo fece diventare capo assoluto [«egemone»]. Spesso egli diceva, sospirando: «Nella mia giovinezza, quando mi dedicavo al commercio con Pao-sciù-ya, e mi riservavo la parte migliore, Pao-sciù-ya mi scusava, adducendo il fatto che ero povero. Più tardi, quando, in politica, lui ebbe successo e io non sfondai, Pao-sciù-ya pensò che non era ancora venuto il mio tempo, ed ebbe fiducia in me. Quando fuggii in occasione della 99

99 sconfitta del principe Chiù, Pao-sciù-ya non mi giudicò un vigliacco, ma mi trovò la giustificazione della vecchia madre, ancor viva, per la quale dovevo conservarmi. Quando fui messo in prigione, Pao-sciù-ya continuò a stimarmi, sapendo che per me l'unico disonore che ci sia è restare inattivo, senza lavorare per il bene dello stato. Ah! Se è vero che devo la vita ai miei genitori, a Pao-sciù-ya debbo di più, che ha capito il mio animo». Da allora in poi, è diventata abitudine ammirare l'amicizia disinteressata di Paosciù-ya per Coan-i-u, e lodare il duca Hoan per la sua magnanimità e il suo discernimento nella scelta degli uomini. La verità è che non c'è stato né intervento da parte dei protagonisti, né mutamento di fortuna. Quel che accadde fu tutto frutto di un disegno superiore. Se Ciaò-hu morì, era che doveva morire. Se Pao-sciù-ya protesse Coan-i-u, è che doveva proteggerlo. Se il duca Hoan perdonò Coan-i-u, è che doveva perdonarlo. Volontà superiore, ed è tutto. Lo stesso si può dire di ciò che avvenne alla fine della carriera di Coan-i-u. Quando questi fu costretto a mettersi a letto, il duca andò a trovarlo e gli disse: «Padre mio, Ciung, state invero assai male; mi è giocoforza alludere a quella di cui non si fa il nome (la morte); se il vostro male dovesse aggravarsi (al punto di portarvi con sé), chi dovrei prendere come ministro al vostro posto?» «Chiunque vogliate» rispose il moribondo. «Pai-sciù-ya potrebbe andar bene?» chiese il duca. «No» rispose Coan-i-u; «ha un punto di vista troppo elevato; disprezza quelli che non lo condividono, e non si scorda mai di uno sbaglio che si sia commesso. Se lo prendeste come ministro, Vi trovereste male in due: voi stesso, e il popolo. Non riuscireste a sopportarlo a lungo». «Allora, chi devo prendere?» fece il duca. «Se posso [dire quel che penso]» disse Coan-i-u, «prendete Hien-p'eng, che andrà bene. È flessibile sia con i superiori che con gli inferiori. Ha un gran desiderio, inappagato, di uguagliare in virtù Hoang-ti. Il punto di vista trascendente è dei Saggi di prim'ordine; i Saggi d'ordine inferiore hanno un angolo visuale "pratico". Che si faccia valere [nei loro confronti] la propria saggezza, dà fastidio agli uomini; farla dimenticare attira la benevolenza. Hien-p'eng non è un Saggio di prim'ordine; del Saggio di second'ordine possiede l'arte di cancellarsi. Inoltre, sia lui, sia la sua famiglia, non sono famosi. È questo che mi fa pensare che vada bene per l'incarico di primo ministro». Che pensare di tutto ciò? Coan-i-u non sostenne Pao-sciù-ya, per la semplice ragione che questi non doveva esser sostenuto; patrocinò Hien-p'eng, perché doveva patrocinarlo. Buona sorte prima, malasorte poi, malasorte prima, buona sorte poi; in tutte le vicissitudini della vita umana, nulla è possesso dell'uomo (voluto, fatto da lui); tutto è volontà superiore [imperscrutabile]. D Teng-si era capace di discutere il pro e il contro di una questione, con un flusso di parole inarginabile. Zé-c'ian' aveva emesso un codice [legislativo] nuovo ad uso del principato di Ceng; molta gente lo criticò, e Teng-si lo derise [per questo]. Zé-c'ian infierì contro i suoi detrattori, e fece mettere a morte Teng-si. Ciò facendo, non fu lui ad agire, ma si mise al servizio della fatalità [fu lo strumento della Volontà principiale]. Teng-si doveva morire di questa morte. Teng-si doveva ridicolizzare Zéc'ian, e così provocare la propria condanna a morte. Nascere e morire alla propria ora, sono due cose fortunate. Non nascere, non morire alla propria ora, sono due cose sfortunate. Queste sorti diverse toccano agli uni e agli 100

altri, non per loro merito o demerito [per ragioni che risiedano in loro come individui], ma per fatalità [ragioni imperscrutabili, risiedenti nella «volontà» principiale]. Esse sono imprevedibili. Ecco perché, parlando di esse, si usano le espressioni: «mistero senza regola [umana]», «via del cielo che solo conosce se stessa», «oscurità inscrutabile», «legge celeste che procede da se stessa», e altre analoghe. Questo significa che il cielo e la terra, la scienza degli scienziati, i mani e le creature sottili, nulla possono contro il Volere del Principio [la «fatalità»]. Secondo i suoi disegni quest'ultimo annienta o edifica, schiaccia o accarezza, ritarda o anticipa [rispetto alla volontà limitata degli individui]. E Chi-leang, amico di Yang-ciù, si era ammalato, e nel giro di sette giorni si trovò in fin di vita. In lacrime, il figlio corse da tutti i medici dei dintorni. L'ammalato disse a Yang-ciù: «Vedi di far intendere ragione a quell'idiota di mio figlio... » Yang-ciù recitò perciò al figlio [di Chi-leang] il ritornello: «Quel che il cielo non sa (l'avvenire), come potrebbero prevederlo gli uomini? Non è corretto [dire] che il cielo benedica o che qualcuno sia maledetto. Tu e io sappiamo che la fatalità è cieca e ineluttabile [secondo i criteri puramente umani]. Che potranno farci i medici e i maghi?» Ma il figlio non desistette, e portò tre medici, un Chiao, un U e un Lu. Esaminarono tutti e tre l'ammalato in ordine di arrivo. Il Chiao disse:«In voi c'è il caldo e il freddo che sono squilibrati, il vuoto e il pieno sono sproporzionati; vi siete troppo nutrito, avete preso troppi piaceri, avete troppo pensato, vi siete troppo affaticato; il vostro malanno è di origine naturale, non si tratta dell'effetto di un influsso nocivo; anche se è grave, è guaribile... » «Questo recita le fanfaluche dei libri; mandatelo subito via!» disse Chi-leang. Lo U disse all'ammalato: «Vi espongo il vostro caso. Emerso dal ventre materno con una vitalità difettosa, avete poi poppato più latte di quel che poteste digerire. L'origine del male risale a quell'epoca. Siccome è congenito, questo male non potrà mai guarire completamente... » «Questo parla bene» disse Chi-leang; «dategli da mangiare!» Il Lu disse al malato: «Non sono cause della vostra malattia né il cielo, né un uomo, né un fantasma. Nato con un corpo che è un composto, siete soggetto alla legge della decomposizione, e fareste bene a capire che il tempo s'avvicina; nessuna medicina può farci nulla...» «Questo è acuto» disse Chi-leang, «pagatelo generosamente!» Chi-leang non prese nessun medicamento e guarì perfettamente [imperscrutabilità della Volontà superiore]. Preoccuparsi per la propria vita non l'allunga, la mancanza di riguardi non l'abbrevia. Tenere in gran conto il corpo non lo migliora, disprezzandolo non lo deteriora. Le conseguenze, in questo campo, non corrispondono alle premesse. Esse sembrano anzi, sovente, essere loro diametralmente contrarie, anche se in realtà non lo sono. Di fatto, la Volontà principale [la «fatalità»] non ha contrari. Si vive e si muore perché si doveva vivere o morire. La cura o la negligenza della vita, del corpo, non sono fattori determinanti, né in un senso né nell'altro. È questo il motivo per cui U-hiung diceva a Uenn-uang: «L'uomo non può aggiungere nulla, o sottrarre nulla, alla propria statura; tutti i suoi calcoli non sono in grado di influire su di esse...» Nello stesso ordine di idee, Lao-tan disse a Coan-yinn-zé: «Quando il cielo non vuole, chi indovinerà perché? Vale a dire: "Val meglio conservare la propria serenità che tentare di conoscere le intenzioni del cielo, di prevedere se il futuro sarà fasto o nefasto"» 101

101 (Calcoli vani, poiché ogni cosa è governata da una Volontà impersonale, imprevedibile, ineluttabile). F Yang-pu, fratello minore di Yang-ciù, disse al fratello maggiore: «Ci sono uomini in tutto simili per età, apparenza esteriore, doni naturali, i quali differiscono nel modo più radicale in quanto a durata di vita, ricchezze, successo. Questo mistero io non me lo spiego». Yang-ciù gli rispose: «Hai di nuovo dimenticato quell'adagio degli Antichi che ti ho ripetuto così spesso: "Il mistero che non può essere spiegato è il Disegno principiale [la fatalità]". Esso è fatto di oscurità impenetrabili, di complessità inestricabili, di azioni e di omissioni che si accumulano l'una all'altra giorno dopo giorno. Coloro che sono convinti della presenza di questo Disegno non credono più alla possibilità di pervenire, con i loro sforzi [individuali], a prolungare la propria vita, a riuscire nelle loro imprese, a evitare le disgrazie. Costoro non fanno più affidamento su nulla, sapendo di essere i pupazzi di un destino impersonale [Volontà superiore alla loro]. Diritti e integri, costoro non tendono più in direzioni [particolari]; non agiscono più [di un'azione particolare e individuale], ma lasciano che ogni cosa proceda secondo le sue ragioni proprie...» Le seguenti affermazioni di Hoang-ti riassumono bene la condotta che l'iniziato deve mantenere: «L'Uomo Superiore si mantenga inerte tale un cadavere, e si muova solo indotto, perché spinto [dalle ragioni superiori]. Non raziocini sulla sua propria assenza di volontà [separata da quella del Principio], sulle sue reazioni. Non si preoccupi mai del parere degli uomini, e non modifichi mai i suoi modi di sentire rapportandoli ai loro. Proceda sul suo proprio cammino, segua la sua via personale. Poiché nessuno può nuocergli (solo il Volere superiore avendo potere di disporre di lui)». G Quattro uomini vissero insieme per tutta la vita senza occuparsi dei modi di sentire l'uno dell'altro. Altri quattro passarono analogamente la vita senza che l'uno comunicasse all'altro i suoi progetti. Altri quattro senza manifestare nulla [di loro stessi]. Altri quattro senza mai discutere. Altri quattro senza neppure guardarsi... Tutti costoro procedettero come occorre per uomini governati dalla Volontà superiore [«fatalità»]. Quel che sembrava dover essere propizio risulta poi magari essere stato funesto. Quel che sembrava dover essere funesto, risulta poi magari essere stato favorevole. Quanti uomini trascorrono la loro vita in sforzi insensati, per definire apparenze confuse, per penetrare oscurità misteriose. Non sarebbe forse meglio non temere la disgrazia, non anelare alla fortuna, muoversi o starsene tranquilli secondo necessità, con la convinzione profonda che la ragione è impotente e che la volontà [individuale] è [anch'essa] impotente? Chiunque abbia capito questo in modo corretto, deve applicarlo tanto a se stesso quanto agli altri. Se governa gli uomini seguendo principi diversi da questi è un cieco e un sordo per scelta propria, e si getterà con loro in un fossato. Ricapitoliamo: la vita e la morte, la fortuna e la sfortuna, dipendono dalla fatalità [dalla Volontà insondabile del Principio] Chiunque si lamenti di dover morir giovane, di essere povero o colpito da sorte avversa, mostra con ciò che ignora la legge. Chiunque guardi in faccia la morte senza timore, e sopporti la miseria senza lamenti, mostra con ciò che conosce la legge. Le congetture degli pseudo-saggi, sul più e sul meno, sul vuoto e sul pieno, sulla buona e sulla malasorte, non danno mai nessuna certezza; dopo tutti i loro calcoli, il risultato sarà positivo o negativo senza che si sappia il perché. Che si calcoli o che non si calcoli, le cose succederanno lo stesso [e nello stesso modo]. La salvezza e la 102

rovina non dipendono assolutamente dalla conoscenza preventiva [che se ne ha]. Ci si salva perché ci si doveva salvare, si perisce perché si doveva perire. H Il duca Ching di Z'i, che se n'era andato a passeggio a nord del monte Niù-scian, stava ritornando verso la sua capitale. Quando la scorse da lontano, commosso fino alle lacrime, esclamo: «Oh! La mia bella città, popolata così a modo! Perché bisogna proprio che, insensibilmente, si avvicini il momento in cui dovrò lasciarla?... Ah! Se gli uomini potessero non morire!» Scieù-c'ung e Leangch'iù-chiu, che facevano parte della scorta del duca, piangevano anche loro per compiacenza, e gli dissero: «Se il pensiero della morte è doloroso per noi che siamo solo degli scudieri, di condizione, cioè, modesta, quanto più esso dev'esserlo per voi, o Signore!» Il letterato Yen-zé, che a sua volta faceva parte del seguito del duca, scoppiò in una risata. Fu visto dal duca; questi, asciugandosi le lacrime, fissò Yen-zé e gli chiese: «Mentre io piango, e questi due uomini piangono anche loro con me, cos'è che fa ridere voi, se si può sapere?» «Sto pensando che» disse Yen-zé «se, in accordo con il vostro desiderio, gli uomini non morissero, i saggi duchi T'ai-cung e Hoan-cung, i valorosi duchi Cioang-cung e Lingcung, vostri avi, sarebbero ancora vivi. E se fossero ancora vivi, il trono sarebbe occupato dal più vecchio, e voi, suo lontanissimo discendente, sareste certamente impegnato a condurre qualche podere come mezzadro. Forse che non dovete il trono al fatto che, essendo morti, i vostri avi non sono più qui? Grazie alle loro successive scomparse, il trono ha finito con l'arrivare a voi. Mi sembra che nel vostro rimpianto circa il fatto che gli uomini muoiano, ci sia un po' d'ingratitudine verso coloro che vi hanno fatto il piacere di morire. O no? E i due scudieri che piangevano con Voi per compiacervi, non sono per caso degli stupidi adulatori? Sono questi i pensieri che mi hanno indotto al riso». Vergognoso della sua crisi di sentimentalismo irragionevole, il duca bevve un boccale colmo per penitenza, e dopo di ciò inflisse ai due scudieri la pena di berne anch'essi uno ciascuno. I A Uei, un tale Tong-menn U che aveva perso il figlio, non se ne disperava. Qualcuno che abitava con lui gli disse: «Ma voi a vostro figlio volevate bene; com'è che, adesso che è morto, non lo piangete neppure?» Tong-menn U rispose: «Un tempo, anni e anni prima della sua nascita, ho vissuto senza questo figlio e senza per questo essere addolorato. Ora che è morto, mi riconduco a quel tempo, immagino di non averlo mai avuto, e come allora non provo dolore. Del resto, a che pro? Gli agricoltori si preoccupano dei loro raccolti, i mercanti del loro commercio, gli artigiani del loro mestiere, i funzionari del loro ufficio. Ora, tutte queste cose sono legate a circostanze che non dipendono dalla loro volontà. Per l'agricoltore ci vuole la pioggia, per il mercante fortuna, per l'artigiano lavoro, per il funzionario l'occasione di distinguersi. Ora, è solamente dalla Volontà superiore [«fatalità»] che dipendono le circostanze e le occasioni».

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VII Yang-ciù

A Yang-ciù, che era in viaggio per la provincia di Lu, passò qualche tempo presso la famiglia Mong. Maestro Mong gli chiese: «Ma non è forse sufficiente [aver avuto la fortuna di] essere un uomo (la creatura [terrestre] più nobile)? È proprio necessario, inoltre, agitarsi per diventare celebre (come state facendo voi) ?» «La notorietà» rispose Yang-ciù «richiama la ricchezza». «E poi?» «Poi, arriva la morte». «Allora ci si agita per morire?» concluse Maestro Mong. «Non proprio» ribatté Yang-ciù; «ma per trasmettere la propria reputazione, dopo la morte, ai discendenti». «Siamo proprio sicuri che la erediteranno?» riprese Maestro Mong. «Non è che possa capitare che coloro che hanno penato e sofferto per diventare celebri non trasmettano poi niente [di tutto ciò] ai loro discendenti; mentre coloro che hanno avuto una vita insignificante o anche brutta, riescono ad allevare [bene] la loro famiglia? Abbiamo l'esempio di Coan-ciung, ministro del duca di Z'i, il quale servì il suo padrone con la massima servilità, giungendo a far propri i suoi vizi, e non lasciò nulla alla sua famiglia. Mentre T'ien-scie, un altro ministro di Z'i, che sempre e in ogni cosa fece il contrario di ciò che piaceva al padrone, riuscì a trasmettere ai suoi discendenti il ducato, che arrivò ad usurpare. In questi due casi analoghi [e opposti quanto al risultato], la meritata buona reputazione di Coan-ciung fruttò ai suoi discendenti soltanto la povertà, quando quella, immeritata, di T'ien-scie fruttò alla sua famiglia la fortuna». Troppo spesso la rinomanza è collegata a una falsa immagine, a false apparenze. Si attribuisce come gloria a Yao e a Sciunn l'aver abdicato in favore di Hu-yu e di Sciancuan. In realtà la loro abdicazione fu solo un vuoto simulacro. Essi godettero dei vantaggi della dignità imperiale fino alla morte. La loro gloria è falsa. Quando invece Pai-i e Sciùz'i, che rinunciarono veramente al dominio paterno e morirono di fame sul monte Sceùyang a causa della loro lealtà, sono dagli uni compianti, dagli altri derisi, da nessuno glorificati. Chi sarà in grado, in questa materia, di distinguere il vero dal falso? B Yang-ciù diceva: «Di mille uomini, non ce n'è uno che viva fino a cent'anni. Ma ammettiamo pure che, su mille, ci sia un centenario; gran parte della sua vita l'avrà passata nell'impotenza della prima infanzia e nella decrepitezza dell'estrema vecchiaia. Una gran parte sarà da lui stata consumata nel sonno della notte e nelle distrazioni del giorno. Un'altra gran parte sarà stata resa sterile dalla tristezza o dalla paura. Rimane una porzione, relativamente assai piccola, che sarà andata dedicata all'azione e allo sfruttamento delle sue possibilità di fruizione [della vita]. Ma cosa l'avrà spinto ad agire? Di cosa avrà goduto?... Forse della bellezza delle forme e dei suoni? Sono cose che stancano o che non durano... Forse della legge, con le sue ricompense e le sue punizioni, le sue distinzioni e le sue trasgressioni? Sono ragioni troppo deboli. Un rimprovero è forse così temibile? Un titolo postumo è forse così appetibile? È il caso, per così poco, di rinunciare al piacere 104

degli occhi e delle orecchie, di applicare il freno dei costumi al proprio intimo e al proprio esterno? Consumare la propria vita in questo modo, nella privazione e nella costrizione, è forse meno duro che non passarla in prigione e in ceppi? Senza nessun dubbio, no. Perciò gli Antichi, che sapevano come la vita e la morte siano due fasi alternanti e passeggere, lasciavano che i loro istinti [naturali] si manifestassero liberamente, senza soffocare i propri appetiti naturali, senza privare il loro corpo dei suoi piaceri. Poco gli importavano l'elogio o il biasimo, nel corso della vita o dopo la morte. Davano soddisfazione alla loro natura, e lasciavano che gli altri si prendessero la propria». C Yang-ciù diceva: «Gli esseri differiscono nella vita, ma non nella morte. Nel corso della vita gli uni sono saggi e gli altri insensati, gli uni nobili e gli altri volgari; nella morte sono tutti una massa di liquame sciolto. Queste differenze durante la vita, quest'eguaglianza nella morte, sono opera della fatalità. Non si devono considerare la saggezza e la stupidità, la nobiltà e la volgarità, come se fossero entità reali; esse sono soltanto modalità ripartite sulla massa degli uomini senza che si conosca per quale legge. Qualunque siano state la durata e la forma della vita, questa è chiusa dalla morte. Il buono e il saggio, il malvagio e lo stupido, muoiono entrambi allo stesso modo. Dopo la morte degli imperatori Yao e Sciunn e dei tiranni Chié e Ceù, restarono soltanto dei cadaveri imputriditi che era impossibile distinguere. Di conseguenza, si viva la vita presente, e non ci si preoccupi di quel che accadrà dopo la nostra morte». D Yang-ciù diceva: «Pai-i si lasciò morire di fame per eccesso di lealtà; Cian-chi lasciò estinguere la sua casata per eccesso di continenza. Ecco a cosa porta [anche] i migliori uomini l'ignoranza dei principi». Yang-ciù diceva: «Yuan-hien fu povero a Lu e Zé-cung fu ricco a Uei. La povertà di Yuan-hien gli accorciò la vita; la ricchezza di Zé-cung gliela consumò con le sue preoccupazioni. Ma se la povertà e la ricchezza sono entrambe nocive, che fare, allora? Risposta: vivere felici, trattar bene il proprio corpo, ecco quel che bisogna fare. A colui che è sempre felice, neppure la povertà può nuocere (perché non se ne affligge). A colui che tratta bene il suo corpo, la ricchezza, anch'essa, non nuocerà (perché non ci si logorerà per le preoccupazioni che essa induce)». Yang-ciù diceva: «Essersi propizi nel corso della vita, alla morte interrompere; quest'adagio degli antichi mi piace. Con essersi propizi intendo procurarsi gli agi della vita, i cibi e il riscaldamento, tutto ciò che la vita può facilitare. Con interrompere alla morte intendo, non l'eliminazione delle lamentazioni d'uso, ma la soppressione di quegli sprechi [di cui sono un esempio] la perla o il pezzo di giada introdotto nella bocca del cadavere, le vesti ricche, l'immolazione di vittime, gli oggetti offerti al morto». E Yen-p'ing-ciung, discepolo di Mei-ti, [aveva chiesto] a Coan-i-u, uomo politico con un'attrazione per il taoismo, come si [dovessero] trattare i vivi; questi gli rispose: «Bisogna favorire le loro tendenze naturali, non intralciarle». «Per favore, vogliate essere un po' più specifico» disse Yen-p'ing-ciung. «Ecco a voi» disse Coan-i-u: «occorre conceder loro piena libertà di ascoltare, di guardare, di odorare, di gustare; piena disponibilità per gli agi del corpo e il riposo dello spirito. Qualunque restrizione che si imponga a qualcuna di tali facoltà, nuoce alla natura ed è [subita come] una tirannia. Esser liberi da ogni costrizione, poter soddisfare tutti i propri istinti, giorno dopo giorno, fino alla morte, questo io chiamo vivere. Reprimersi, 105

105 morigerarsi [artificialmente], essere sempre sofferenti, a mio parere non è vivere. E ora che vi ho detto come trattare i vivi, ditemi voi, vi prego, come trattare i morti». «I morti» rispose Yen-p'ing-ciung, «importa poco come sono trattati (poiché il corpo non è che una spoglia usata). Che li si bruci, che li si immerga, che li si seppellisca, che li si esponga all'azione degli elementi, li si avvolga nella paglia e li si getti nei corsi d'acqua, li si rivesta di ricchi abiti e li si deponga in un sarcofago o in una bara, sono tutte cose che si equivalgono». Volgendo lo sguardo agli amici che avevano assistito al colloquio, Coan-i-u disse: «Costui e io la pensiamo giusta sulla vita e sulla morte». F Come ministro del principato di Ceng, Zé-c'ian fece per tre anni delle innovazioni che la popolazione benedisse, ma che provocarono un vivo malcontento nell'aristocrazia. Ora, si dà il caso che Zé-c'ian avesse due fratelli, uno più anziano di lui, Ciaò, e uno più giovane, Mu. Ciaò amava bere, Mu era un gaudente. A un bel po' di distanza dalla porta di Ciaò si sentiva già odore di vino e di feccia, perché egli, a causa dell'ubriachezza permanente, aveva perduto ogni senso del pudore e ogni prudenza. L'harem di Mu era diventato un intero quartiere, che il proprietario continuava a guarnire con ogni mezzo, e dal quale quasi non usciva più. Profondamente deluso della condotta indegna dei suoi due fratelli, argomenti di critica per i suoi nemici, Zé-c'ian consultò in segreto Teng-si. «Temo» gli disse «che si dica di me che, se non sono neppur capace di condurre i miei fratelli all'equilibrio, a maggior ragione non sarò in grado di governare lo stato. Vi prego, datemi un consiglio». «Avreste dovuto pensarci prima» disse Teng-si. «Fategli capire che la vita è una cosa seria, e che la morale e il decoro sono cose "d'importanza"». In seguito a questo consiglio Zé-c'ian rivolse ai suoi due fratelli un discorso sui tre punti seguenti: quel che distingue l'uomo dalle bestie sono la ragione, i riti, la morale; compiacere alle proprie tendenze animali consuma la vita e rovina la reputazione; se riuscivano a riabilitarsi, avrebbero potuto ricevere a loro volta delle cariche. Lungi dall'essere toccati da questi argomenti, Ciaò e Mu risposero: «È da un bel po' [di tempo] che queste cose le sappiamo; è da un bel po' [di tempo], anche, che abbiamo deciso di non tenerne il minimo conto. Siccome la morte mette fine a tutto, secondo noi l'importante è godersi la vita. Non siamo affatto disposti a fare della nostra vita una morte anticipata con le costrizioni rituali, morali, o d'altro genere. Dar libero sfogo ai nostri istinti, esaurire tutti i piaceri, questo è per noi vivere veramente. Se c'è una cosa che ci dispiace è solo che la capienza dei nostri ventri sia inferiore ai nostri appetiti, e che le forze dei nostri corpi non siano proporzionate alla nostra avidità. Che mai ci importa che gli uomini sparlino di noi e che le nostre vite si logorino. Non pensate che siamo uomini da lasciarsi intimidire o convincere. I nostri gusti sono del tutto diversi dai vostri. Voi mettete regole all'esterno, e fate soffrire gli uomini, di cui le propensioni interne sono in questo modo frustrate. Noi lasciamo libero corso a tutti gli istinti, e ciò rende gli uomini felici. Forse voi riuscirete a imporre con la forza il vostro sistema a un principato. Il nostro proprio sistema è spontaneamente accettato dai prìncipi e dai sudditi di tutto l'impero. Grazie tante [del vostro parere]; siamo felici che esso ci abbia dato l'occasione di esprimere il nostro». Sconcertato da queste affermazioni, Zé-c'ian non seppe cosa ribattere. Ritornò a consultare Teng-si, il quale gli disse: «Fate male a non voler rendervi conto che i vostri fratelli la vedono meglio di voi. Io mi chiedo come faccia ad esserci della gente che vi 106

ammira. Che beneficio può trarre dal vostro governo il principato di Ceng?» G Toan-musciù di Uei, ricco contemporaneo di Zé-cung, usò delle grandi ricchezze accumulate dai propri avi per dar piacere a se stesso e agli altri. Palazzi, giardini, banchetti, costumi, musica, harem, in tutto ciò egli fece impallidire il ricordo dei prìncipi di Z'i e di C'iù. Di se stesso e dei suoi ospiti, diede soddisfazione a tutti i desideri del cuore, delle orecchie, degli occhi, della bocca, facendo arrivare a questo scopo gli oggetti più rari dai paesi più lontani. Si metteva in viaggio con lo stesso lusso e le stesse comodità. Gli ospiti giungevano nella sua casa a centinaia, il fuoco delle sue cucine non si spegneva mai, nelle sue sale la musica non smetteva mai di risuonare. Il sovrappiù delle sue ricchezze lo suddivideva tra i parenti, i concittadini, il paese. Per sessantanni condusse questo tenore di vita; poi, sentendo che le forze lo abbandonavano e che la morte si avvicinava, in un solo anno distribuì in regalo tutti i suoi possedimenti, senza dar nulla ai suoi figli. Così completamente si disappropriò, che nel corso della sua ultima malattia venne a mancare delle medicine che sarebbero state necessarie, e dopo la morte, del denaro per i funerali. A questo punto, coloro che avevano goduto dei suoi benefici si tassarono volontariamente, lo seppellirono e misero insieme un peculio per i suoi discendenti... Che giudizio dare sulla condotta d'un uomo simile?... Ch'inn-cu-li pensava che era stato pazzo, e aveva disonorato i suoi avi. Toan-can-sceng, invece, che aveva agito da uomo superiore ed era stato molto più savio del Suoi tirchi avi. Certo si comportò in modo difforme dall'opinione comune, ma secondo un senso superiore. Questo prodigo fu più savio di tutti i morigerati prìncipi di Uei (questo, per lo meno, è il giudizio di Yangciù, l'«epicureo»). H Mong-sunn-yang chiese a Yang-ciù: «Un uomo che sorveglia il suo modo di vita e ha cura del proprio corpo, può riuscire a non morire?» «Certo riuscirà a vivere un po' più a lungo» rispose Yang-ciù. «Ma vivere un po' più a lungo è forse un risultato per cui valga la pena di tormentarsi tanto? Il mondo è sempre stato, e sarà sempre, pieno di sofferenze, di pericoli, di mali, di vicissitudini. Le cose che vi si odono, che vi si vedono, sono sempre le stesse; anche i cambiamenti non portano mai a nulla di nuovo. Dopo cent'anni di vita, quelli che non sono morti di dolore, muoiono di noia». «Allora» riprese Mong-sunn-yang, «secondo voi l'ideale sarebbe suicidarsi?» «Ma neanche per sogno» rispose Yang-ciù. «Bisogna sopportare la vita finché dura, dandosi da fare per procurarsi tutte le soddisfazioni possibili. Bisogna accettare la morte quando arriva, consolandosi con l'idea che così tutto sarà finito. La vita non la si può prolungare, ma nemmeno bisogna affrettare la morte». I Yang-ciù diceva: «Pai-c'eng-zé-caò non avrebbe dato un pelo del suo corpo per amore di chicchessia. Aveva lasciato la capitale e si era messo a fare il contadino in un posticino appartato. U il grande, invece, si sacrificò e si diede per intero a beneficio degli altri. Gli Antichi, allo stato non davano un pelo, né avrebbero accettato che ci si consacrasse a loro in nome dello stato. In quei tempi, nei quali i semplici cittadini per lo stato non facevano nulla, e nei quali lo stato non faceva nulla per i semplici cittadini; in quei tempi, dico, lo stato andava bene». «E voi» chiese Ch'inn-cu-li a Yang-ciù, «sareste di quelli che sacrificano un pelo 107

107 del loro corpo per il bene dello stato?» «Un solo pelo» disse Yang-ciù «non gli servirebbe molto». «Ma, se potesse servirgli, voi lo sacrifichereste, questo pelo?» insistette Ch'inn-culi. Yang-ciù non rispose. Ch'inn-cu-li uscì e riferì a Mongsunn-yang la conversazione avuta con Yang-ciù. «Forse non avete capito la portata del suo pensiero» disse Mong-sunn-yang. «Forse che se vi offrissero una grossa somma di denaro per un lembo di pelle, lo dareste?» «Sì» disse Ch'inn-cu-li. «E se vi offrissero un principato per una gamba o un braccio, li dareste?...» Visto che Ch'inn-cu-li esitava a rispondere, Mong-sunn-yang disse: «Un pelo è meno di un lembo di pelle, un lembo di pelle è meno di una gamba o di un braccio. Ma, assommati, molti peli valgono quanto un lembo di pelle, molti lembi di pelle valgono quanto un membro. Un pelo è una parte del corpo, vale a dire qualcosa di prezioso». Ch'inn-cu-li disse: «Maestro, non sono un dialettico tanto in gamba da rispondere al vostro argomento; ma ho l'impressione che se esponessimo le nostre proposizioni a Lao-tan e a Coan-yinn-zé, essi troverebbero che la vostra è migliore (insieme a quella di Yang-ciù), mentre U il grande e Mei-ti approverebbero la mia». Mong-sunn-yang cambiò discorso. J Yang-ciù diceva: «Di Sciunn, di U, di Ceù-cung e di Confucio si parla solo bene; di Chié (ultimo imperatore degli Hià) e di Ceù (ultimo imperatore degli Yinn) si dice solo male. Ora, Sciunn fece il contadino a Ho-yang, il vasaio a Lei-ciai, disperdendo le proprie forze (colpa, per i taoisti), facendo patire il suo ventre, preoccupando i genitori, dando fastidi a fratelli e sorelle. Si sposò a soli trent'anni, e senza permesso. Quando Yao gli passò l'impero era vecchio e rammollito. In seguito, siccome suo figlio Sciang-chiunn era un incapace, dovette cedere l'impero a U e la sua vita si chiuse con una triste vecchiaia; tutte cose che evitano coloro che vivono secondo natura. «Cunn, che non era riuscito a incanalare le acque, fu mandato a morte a U-scian. Suo figlio U servì così supinamente quegli che aveva maltrattato in questo modo suo padre, che non poté tornare a casa per vedere suo figlio appena nato e nominarlo ritualmente tale. Tanto lavorò e sofferse che logorò il suo corpo, deformandosi mani e piedi di calli. Alla fine, quando Sciunn gli cedette l'impero, fece una figura mediocre e chiuse la sua vita con una triste vecchiaia, cosa che evitano coloro che vivono secondo natura. «Dopo la morte dell'imperatore U-uang, al tempo della giovinezza dell'imperatore C'eng-uang, Ceù-cung (duca di Ceù, fratello dello scomparso e zio del successore), nominato reggente, si mise in urto con il duca di Sciaò, fu criticato duramente, dovette sparire dalla scena per tre anni, mandò a morte due dei suoi fratelli, salvò a stento la propria vita, che finì in una triste vecchiaia, cosa che evitano gli uomini che vivono secondo natura. «Confucio si dedicò a illustrare gli insegnamenti degli antichi imperatori e a farli accettare ai prìncipi del suo tempo. Come ringraziamento per tutti i suoi sforzi, a Song fu abbattuto l'albero sotto il quale si riparava, fu costretto ad andarsene da Uei, fu inseguito mentre fuggiva da Ceù a Sciang, fu assediato tra C'enn e Z'ai. Fu deriso da Chi-scie, oltraggiato da Yang-hu e finì con lo spegnersi dopo una triste vecchiaia, cosa a cui sfuggono coloro che vivono secondo natura. «Questi quattro Saggi, in tutta la loro vita, non ebbero un sol giorno di vera felicità. Dopo la loro morte, la loro reputazione crebbe di epoca in epoca. Questa vana rinomanza 108

postuma è veramente una compensazione per i piaceri reali di cui si privarono nel corso della vita? Adesso sono lodati, gli si fanno le offerte [rituali], ma senza che se ne rendano conto, non più di una trave di soffitto o di una zolla di terra. Mentre Chié, ricco, potente, colto, temuto, si prese tutti i piaceri che volle, soddisfò tutti i suoi appetiti, fu glorioso fino alla morte, ebbe tutto ciò che desiderano gli uomini che vivono secondo natura. «Anche Ceù se ne infischiò dei riti e si divertì fino alla morte, sorte che preferiscono gli uomini che vivono secondo natura. «Questi due uomini, durante la vita ebbero tutto quel che vollero. Certo che adesso sono detti idioti, malvagi, tiranni; ma che può importargliene? Non ne sono più coscienti, non più di una trave di soffitto o di una zolla di terra. «I quattro Saggi hanno sofferto d'ogni male, sono morti nella tristezza, e per tutto compenso non hanno che la loro inutile rinomanza. I due Tiranni hanno usufruito d'ogni beneficio fino alla morte, e ora non soffrono [certo] per la loro cattiva reputazione (epicureismo di Yang-ciù)». K Yang-ciù, che era stato ricevuto dal re di Leang, gli disse che, con la sua propria tecnica, governare l'impero sarebbe stato facile come un gesto della mano. Il re di Leang ribatté: «O Maestro, so che avete una moglie e una concubina che non riuscite neanche a far andare d'accordo; avete pochi metri quadri di giardino che non sapete coltivare, e avete il coraggio di venirmi a dire che con la vostra ricetta governare l'impero sarebbe facile come un gesto della mano? È forse una presa in giro?» Yang-ciù rispose: «Non avete mai visto un pastorello pascolare un gregge di cento pecore, camminandogli dietro tranquillamente con una frusta e lasciando che le bestie vadano dove vogliono? (Questo è il sistema, lasciare ognuno al proprio istinto). Mentre (con il loro sistema di coercizione artificiale), Yao tirando e Sciunn spingendo, non riuscirebbero mai, in due, a far andare avanti una pecora sola. E per quel che riguarda le mie faccende private (mogli e giardino), che avete or ora ricordato, è sufficiente che vi dica questo: non è nei rigagnoli che si trovano pesci così grossi da ingoiare una barca; non sono le paludi ad esser frequentate dai cigni dal volo possente. La campana maestra e la canna sonora maggiore non sono usate per eseguire canzonette. Gli uomini in grado di governare i grandi complessi [umani] non amano occuparsi di quisquilie. Penso di esser stato chiaro...» L Yang-ciù disse: «I fatti dell'antichità si sono così totalmente cancellati che nessuno potrà più raccontarli. Gli avvenimenti dei regni dei tre augusti Imperatori sono nella maggior parte dimenticati. Quelli dei regni dei cinque Sovrani sono ormai sfumati come un sogno. Di quelli dei tre Imperatori si conosce la centomillesima parte. «Degli affari contemporanei si sa la decimillesima parte. Di ciò che abbiamo visto noi stessi ricordiamo la millesima parte. È così lontana da noi la prima antichità! Fu-hi regnò trecentomila anni fa [numero simbolico], e da allora nel mondo ci furono dei savi e degli sciocchi, cose belle e cose brutte, successi e insuccessi, bene e male. Son tutte cose che si inseguono incessantemente, concatenandosi senza intervalli, talvolta più lentamente, talvolta più in fretta. Val forse la pena di affaticare spirito e corpo per acquistare una reputazione postuma di buon principe, che durerà al massimo qualche secolo e di cui non si conserverà forse neppure il ricordo? Costa il sacrificio dei piaceri di tutta una vita, e non rinfresca le ossa dopo morti».

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109 M Un'argomentazione di Yang-ciù: «L'uomo partecipa delle qualità del cielo e della terra. In lui c'è qualcosa dei cinque elementi. Di tutti gli esseri dotati di vita è il più trascendente. Non ha né artigli né denti per difendersi, né epidermide imperforabile dalle frecce, né piedi veloci per fuggire, né pelo né penne che lo proteggano dalle intemperie. Trae il suo sostentamento dagli altri esseri, che domina tutti, non con la forza, ma con l'intelligenza. È l'intelligenza che fa la nobiltà dell'uomo, e costituisce la sua superiorità su esseri che sono molto più forti di lui e per questo gli diventano inferiori. A dire il vero, il suo corpo non gli appartiene (di dominio assoluto); lo prova il fatto che non è in grado di preservare la sua integrità. Né gli appartengono gli esseri (nello stesso senso); lo prova il fatto che non può preservarsi da quelli che gli sono nocivi. L'uomo dipende dal proprio corpo per la vita, e dagli esseri per il mantenimento della vita. È impossibile per l'uomo darsi la vita; e per gli esseri dare l'essere a se stessi. Colui che asservisce gli esseri alla sua dominazione o alla propria fruizione personale, costui non è un Saggio. Colui che fraternizza con gli uomini e con gli esseri, cercando e permettendo a ciascuno di cercare il suo bene naturale, questi è un uomo superiore, più elevato di tutti gli altri». N Yang-ciù disse: «Quattro desideri si agitano negli uomini, forti da non lasciar loro riposo; e sono: il desiderio della longevità, quello della propria reputazione, quello della propria dignità, quello della ricchezza. Coloro che queste cose le hanno ottenute, temendo che siano loro tolte, hanno paura dei morti, dei vivi, dei prìncipi, dei supplizi. Sono sempre tremebondi davanti all'interrogativo se morranno o vivranno, ma nulla hanno compreso della fatalità [Volontà superiore del Principio], e credono che le cose esteriori abbiano potere su di loro. L'ideale taoista è la pratica dell'agricoltura nell'oscurità, con la produzione di ciò che necessita per vivere, e nulla più. Gli Antichi dicevano molto bene: l'attaccamento provoca metà dei travagli degli uomini, e il desiderio di benessere è la causa del resto. La massima dei Ceù, secondo la quale gli agricoltori, per le condizioni in cui vivono, sono i più felici degli uomini, è anch'essa giustissima. Essi lavorano dall'alba al tramonto, orgogliosi della loro resistenza alla fatica. Essi sono convinti che nulla ha tanto gusto quanto i loro legumi grossolani. I loro corpi irrobustiti non risentono delle fatiche. Se fossero obbligati a trascorrere un sol giorno nel lusso e nell'abbondanza dei cittadini, se ne ammalerebbero; per contro, un nobile o un principe soccomberebbe se dovesse vivere un sol giorno da contadino. Le genti arretrate [i barbari] sono dell'idea che nulla di ciò che si trova nell'impero vale quel che possiedono loro e che gli piace. La natura si soddisfa del necessario, i bisogni che vanno al di là di questo sono il frutto di inutile eccesso e di civiltà artificiale. «Una volta, nel principato di Song, un contadino, totalmente ignaro della vita di città, aveva trascorso l'inverno vestito di stracci a malapena sufficienti a ripararlo dal gelo. Venuta la primavera, se ne sbarazzò, per riscaldarsi nudo al sole. Trovò così piacevole il caldo che disse alla moglie: "Forse abbiamo scordato di offrirne al nostro principe; magari se lo facessimo ne trarremmo una buona ricompensa..." «Un ricco del paese [che l'aveva inteso] gli disse: "Tempo fa, un paesano offrì del crescione a un principe; dopo che lo ebbe mangiato, questi ne provò un gran disturbo. Il paesano, poveretto, fu dagli uni deriso, da altri aspramente rimproverato. Sta attento che, se insegni al principe a riscaldarsi nudo al sole, non ti accada una disavventura simile..."» O Un proposito di Yang-ciù: «Quando si abbiano un'abitazione accogliente, dei begli abiti, del buon cibo, delle belle donne, cosa si vorrebbe di più? Se qualcuno volesse di 110

più, si potrebbe dire di lui che è un incontentabile. Ora, gli incontentabili, la propria vita la consumano come fosse legno o carta macerata dai vermi. Non sono affidabili per i loro prìncipi, né buoni per gli esseri, perché sono egoisti e scontenti; o, se lo sono, è soltanto in apparenza, per amore di una vuota rinomanza di lealtà e di bontà. — L'insegnamento trasmesso dagli Antichi è la pace tra i superiori e gli inferiori, e la mutua concessione da parte di tutti dei benefici che gli uni e gli altri possono fornire. «U-zé diceva: "Si sopprima l'amore per la reputazione e scompariranno le afflizioni e i dolori". «Lao-tzu ha detto: "La reputazione non vale la verità, e ciò nonostante le si corre dietro più che non alla verità". La buona reputazione non dovrebbe né essere ricercata, né essere evitata. E questo perché gli sforzi che si fanno per acquisirla logorano, mentre il suo tranquillo possesso riconforta. Anche il disonore logora, a causa della tristezza che provoca. «Conclusione: non ricercare, non evitare. Da evitare, invece, è di danneggiarsi realmente, acquisendo una reputazione falsa, perdendo una gloria vera. Certo, il vero obiettivo sarebbe quello di essere ugualmente insensibili all'onore e al disonore; ma è un obiettivo che pochi riescono a raggiungere».

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VIII Aneddoti

A All'epoca in cui Lieh-tzu era ancora discepolo di Maestro Linn di Hu-ch'iù, questi un giorno gli disse: «Quando ti sarai reso conto di quel che c'è dietro di te, ti insegnerò a prender possesso di te stesso». «E cos'ho, dietro di me?» chiese Lieh-tzu. «La tua ombra» disse Maestro Linn di Hu-ch'iù; «osservala». Lieh-tzu esaminò perciò la propria ombra. Constatò che quando il suo corpo si incurvava, anche l'ombra diventava curva; che quando il suo corpo si raddrizzava, l'ombra diventava dritta. Arrivò quindi alla conclusione che di per sé l'ombra non era né curva né diritta, ma che la sua figura dipendeva interamente dalla forma del corpo. Da questa constatazione trasse la conseguenza che l'uomo deve in ogni circostanza adattarsi, poiché nulla dipende da lui. È questo il significato dell'aforisma: «Capito cosa c'è dietro, star fermi davanti». Coann-yinn-zé disse a Lieh-tzu: «L'eco è gradevole o sgradevole; se il corpo opaco aumenta [di dimensioni], la sua ombra aumenta anch'essa [di dimensioni]; se il corpo opaco diminuisce in grandezza, anche l'ombra diminuisce. La reputazione è l'eco dell'uomo, la sua condotta è l'ombra dell'uomo». Dice un adagio: «Sorvegliate le vostre parole e la vostra condotta, perché le vostre parole saranno ripetute e la vostra condotta sarà imitata». Il Saggio giudica dell'interno secondo l'esterno; questo è il suo modo di trar conclusioni. All'uomo attribuisce ciò che ha notato nei suoi modi. Ognuno ama colui da cui è amato, e odia colui da cui è odiato. Gli imperatori T'ang e U poterono regnare perché, avendo amato il popolo dell'impero, questo li ripagò di ugual moneta. I tiranni Chié e Ceù invece furono uccisi perché, avendo odiato il popolo dell'impero, questo rese loro la pariglia. È questa la grande legge, il compendio della storia. Dall'epoca di Cenn-nung, di Ciunn, delle tre dinastie, tutti i fasti, tutte le sfortune, hanno avuto queste due ragioni. Yen-c'oei soleva dire: «A che serve tanta teoria? Io penso che basti approfittare delle occasioni...» Lieh-tzu [invece] diceva: «Non sono d'accordo con la vostra opinione. Quand'anche si abbia più che l'occasione, [quand'anche si abbia] la cosa [voluta], una condotta inadeguata la farà perdere, come accadde a Chié e Ceù. Coloro che si abbandonano alla golosità, non sono nulla più di cani e galline. Coloro che sanno solo battersi, sono bestie. Nessuno porta rispetto a uomini così, i quali uomini non sono. Il loro disonore porta con sé la loro rovina». B Lieh-tzu desiderava imparare a tirar d'arco; si rivolse quindi a Coan-yinn-zé e lo pregò di volerglielo insegnare. Questi gli chiese: «Lo sai qual è lo scopo del tiro con l'arco?» «No» rispose Lieh-tzu. «Allora vai ad impararlo» disse Coan-yinn-zé; «dopo tornerai». Tre anni passarono, e Lieh-tzu ritornò. 112

«Conosci lo scopo [del tirar d'arco]?» gli domandò Coan-yinn-zé. «Bene, tienilo ben presente nella memoria; stai attento, bada di non dimenticarlo. La regola di ogni apprendimento è che prima di intraprendere [qualsiasi cosa], bisogna sapere perché. Il Saggio non specula se riuscirà o se fallirà, o sulle probabilità che ha di riuscire o di fallire. Si fissa l'obiettivo, e tende ad esso». C Inutilmente si parlerebbe del Principio agli arroganti e ai violenti; essi non posseggono le qualità per capire; le loro tare gli impediscono di ricevere un insegnamento e di essere aiutati. Perché a qualcuno si possa insegnare, questi deve credere di non saper tutto; è questa la condizione sine qua non. L'età non è un ostacolo, così come l'intelligenza non sempre è un mezzo; l'essenziale è la sottomissione di spirito. Un artista di Song impiegò tre anni a intagliare nella giada, per il suo principe, una foglia di gelso in grandezza naturale. Lieh-tzu la vide ed esclamò: «Se la natura ci mettesse lo stesso tempo, gli alberi avrebbero ben poche foglie». Alla stessa stregua, per ciò che concerne la trasmissione della dottrina, il Saggio si affida al potere intrinseco della verità, non all'arte fittizia. D Lieh-tzu era afflitto da una povertà estrema. I patimenti della fame si potevano leggere sul suo volto smagrito. Uno straniero che era venuto a far visita al ministro Zé-yang disse a quest'ultimo: «Lieh-tzu è un Saggio; se lo lasciate in questa miseria si dirà che voi non apprezzate i Saggi». Zé-yang diede ordine a un funzionario di portare dei cereali [commestibili] a Liehtzu. Questi uscì di casa, vide il funzionario, lo salutò, ringraziò e rifiutò [il dono]. Il funzionario se ne tornò indietro, con il suo cereale. Rientrato che fu Lieh-tzu in casa, la moglie gli rivolse uno sguardo triste, si batté il petto dalla disperazione e disse: «Credevo che la moglie e i figli di un Saggio avessero un certo diritto di vivere felici. Siamo invece consunti dalla miseria. Per lungo tempo indifferente [al nostro stato], il principe si è finalmente ricordato di voi, ed ecco che voi rifiutate i suoi regali. Dobbiamo proprio morire di fame?» «No» disse Lieh-tzu ridendo, «non è che il principe si sia ricordato di me. Questo regalo me l'ha fatto indotto da un altro; più o meno come mi avrebbe mandato gli sbirri se qualcuno avesse parlato male di me. Un dono offertomi per un motivo come questo, io non lo accetto». (Ma non doveva finire così; inoltre Lieh-tzu non sopportava di dover qualcosa a Zé-yang. Poco dopo, questi fu massacrato dalla popolazione di Ceng). E Un tal Cie di Lu aveva due figli; uno era studioso, l'altro valente e coraggioso. Lo studioso andò ad offrirsi al marchese di Z'i, a cui piacque, e lo nominò precettore dei suoi figli. Il valoroso andò a proporsi al re di C'iù, gli piacque, e fu nominato generale, arricchito e fatto nobile. Si dà il fatto che un vicino di Cie, di nome Mong, avesse anche lui due figli, uno studioso e l'altro valoroso. Siccome era assai povero, la buona fortuna dei Cie suscitò la sua invidia, ed egli si informò sul come avessero fatto per ottenere [quel che avevano ottenuto]. I Cie glielo dissero con molta semplicità. Senza por tempo in mezzo il Mong studioso andò a offrire i suoi servigi al re di Z'inn. Questi reagì dicendo [a se stesso]: «In questo periodo di guerre, quello di cui ho bisogno sono solo soldati; questo letterato che predica la bontà e l'equità non potrà che nuocere al mio regno...» e ordinò che gli si facesse subire il supplizio della castrazione; poi lo rilasciò. Il Mong bravo guerriero andò a offrirsi al marchese di Uei. Questi disse [a se 113

113 stesso]: «Il mio stato è piccolo e debole, [inoltre] ha dei vicini grandi e temibili, ai quali devo guardarmi dal dispiacere. Meglio tenersi in pace. Qualsiasi apparenza di velleità guerresca potrebbe costarmi il marchesato. Non posso permettermi di dare un posto a questo valent'uomo senza correre il rischio di una [brutta] avventura. D'altro canto, se lo lascio andar via senza aver fatto di lui un invalido, questo andrà ad offrirsi a un altro principe e mi rovinerà...» Diede perciò ordine che gli si tagliasse un piede, e lo rimandò. Quando il vecchio Mong vide tornare i suoi due figli [così] mutilati, battendosi il petto dal dolore se ne andò a esporre i suoi rimproveri al padre dei Cie. Questi gli rispose: «Quando è l'ora della fortuna, riescono le cose; quando è l'ora della sfortuna, arrivano le disgrazie. I vostri figli e i miei hanno fatto esattamente gli stessi passi; il risultato è stato totalmente diverso. Ciò è dovuto al destino (al momento sfavorevole), e niente affatto alle procedure messe in atto. La fortuna e la sfortuna non sono governate da regole matematiche. Ciò che ieri e riuscito, oggi può fallire. Ciò che è fallito oggi, forse domani può andar bene. Il successo favorevole dipende dal fatto che si son fatte le cose giuste al momento buono, ma non ci sono regole che permettano di determinarlo, questo momento. [Anche] i più savi talvolta si sbagliano. Anche un C'ung-ch'iù e un Lu-sciang conobbero l'insuccesso». Sentite che ebbero queste spiegazioni, il Mong e i suoi figli si rasserenarono e dissero: «Grazie! Non aggiungete nulla, abbiamo capito». F Il duca Uenn di Zinn aveva deciso di portare un attacco contro Uei, e suo figlio, il principe C'iù, scoppiò a ridere. «Di che ridete mai?» gli chiese il duca. «Rido» rispose il principe «della disavventura occorsa a uno dei miei vicini. Quest'uomo stava andando in città, allo scopo di accusare la moglie d'infedeltà. Per la strada incrociò una donna che gli piacque, e le fece delle proposte. Un momento dopo si accorse che si trattava di sua moglie, e si rese conto che tutt'intorno c'erano dei testimoni appostati. Qualcuno gli aveva reso pan per focaccia. Non è una storia che fa ridere?» Il duca comprese che il figlio lo stava mettendo in guardia [sul fatto] che mentre lui stava attaccando, qualcun altro avrebbe anche potuto attaccare Uei. Rinunciò [perciò] alla spedizione e richiamò immediatamente l'esercito. Non era ancora tornato nella capitale che fu avvertito d'un [esercito] nemico che aveva di fatto incominciato a invadere la frontiera di Settentrione. Nel principato di Z'inn pullulavano i ladri. Esisteva qui, [però], un certo Hi-yung che, dotato di una seconda vista un po' speciale, riconosceva i ladri dalla faccia. Il marchese lo incaricò di scoprire per lui i ladri, e infatti Hi-yung riuscì a farne catturare a centinaia. Soddisfattissimo, il marchese disse a Ciaò-uenn-zé: «Un sol uomo mi ha ormai quasi ripulito il principato dai ladri che lo infestavano...» «State certo» rispose Ciaò-uenn-zé, «che prima di aver portato a termine il suo repulisti, quest'uomo morirà di mala morte». E infatti, esasperati, i ladri sopravvissuti si dissero: «Se non facciamo fuori questo Hi-yung spariremo tutti...» Di conseguenza, riunitisi tutti, massacrarono Hi-yung. Quando il marchese venne a saperlo ne rimase molto scosso, mandò a chiamare Ciaò-uenn-zé e gli disse: «È accaduto quel che avevate previsto; Hi-yung è stato assassinato; come farò adesso per catturare i ladri che rimangono?» Ciaò-uenn-zé gli rispose: «Ricordatevi della massima dei Ceù, "Nefasto è voler 114

guardare i pesci nelle acque fonde; porta male voler sapere le cose nascoste". Mai guardare le cose da troppo vicino. Per disfarvi dei ladri [che rimangono] basterà che nominiate dei buoni funzionari, che amministrino bene e inculchino una buona morale nel popolo». Il marchese così fece, e ben presto, divenuti oggetto della pubblica riprovazione, tutti i ladri che restavano nei suoi domini scapparono nel paese di Z'inn. G Mentre Confucio ritornava a Lu da Uei, si fermò ad ammirare la cascata di Luleang', che si rovescia da duecentoquaranta piedi [ottanta metri] di altezza e dà origine a un torrente che produce vortici impetuosi per un tratto di novanta stadi [cinque o sei chilometri], [e la corrente è] così violenta che nessun pesce o rettile può viverci. Ora, sotto gli occhi di Confucio un uomo attraversò queste acque tumultuose. Confucio mandò i suoi discepoli a complimentarlo e poi gli disse egli stesso: «Siete molto bravo; possedete forse una formula che vi permetta di avere una tale confidenza con l'acqua?» «Prima di entrare nell'acqua» rispose l'uomo «esamino se il mio cuore è totalmente retto e leale, poi [in caso affermativo], mi butto. È la mia rettitudine a unire ai flutti il mio corpo; facendo un tutt'uno con essi, non possono nuocermi». «Imparate questo» disse Confucio ai discepoli, «la rettitudine vince pure l'acqua, quanto più [vincerà] gli uomini!» H Il principe ereditario Chien, figlio del re P'ing-uang di C'iù, calunniato da Fei-uchi, era fuggito a Ceng, dov'era stato assassinato. Suo figlio Pai-cung meditava di vendicarlo, e domandò a Confucio: «C'è qualche probabilità che un complotto possa non essere scoperto?» Confucio intuì le sue intenzioni e non rispose. Pai-cung riprese: «Una pietra gettata in fondo a un lago, può essere scoperta?» «Sì» rispose Confucio; «da un tuffatore della regione di U». «E dell'acqua mescolata con acqua, può essere scoperta?» «Sì» disse Confucio; «I-yà sapeva distinguere se in una miscela c'era acqua del fiume Zé e acqua del fiume Scieng». «Di conseguenza» riprese Pai-cung, «secondo voi una congiura non può non essere scoperta?» Confucio riprese: «Non sarà scoperta se di essa non si sarà parlato. Per riuscire, sia a caccia che a pesca, ci vuole il silenzio. La parola più efficace è quella che non risuona; l'azione più intensa è quella che non si vede. L'imprudenza e l'agitazione non producono nulla di buono. Con i vostri discorsi e con il vostro atteggiamento, voi tradite le vostre intenzioni». Pai-cung non prestò orecchio all'avvertimento; provocò una sommossa, e in essa perì. I Ciaò-siang-zé aveva dato ordine a Mu-zé, capo delle sue orde, di attaccare i Ti (popolazione nomade); questi ottenne una risonante vittoria, e in un sol giorno si impadronì di due attendamenti. Mu-zé fece pervenire la notizia a Ciaò-siang-zé; questi ne fu messo al corrente mentre consumava il pasto, e si rattristò. «Che cosa vi prende?» chiesero gli astanti. «Se non è una bella notizia, due attendamenti presi in un sol giorno... Cos'è che vi rattrista?» «Penso» disse Ciaò-siang-zé «che le piene dei fiumi durano solo tre giorni e che gli uragani durano solo una parte della giornata. La mia casata è all'apogeo della sua fortuna. 115

115 Chissà che adesso non arrivi la sua rovina?». Confucio venne a sapere di queste dichiarazioni, e disse: «Il principe di Ciaò prospererà». In effetti, è la tristezza (accompagnata dalla prudenza che ne consegue) che fa prosperare, mentre la gioia (imprudente) porta alla rovina. Conseguire una vittoria è abbastanza facile, conservarne i frutti è difficile, e ci riesce soltanto un sovrano saggio. Z'i, Ci'ù, U e Ué conseguirono numerose vittorie, ma non conservarono nulla dei vantaggi acquisiti con esse. Soltanto un principe nutrito di sagge dottrine riuscirà a conservare ciò che ha conquistato. Non la forza, ma la saggezza rende grandi... Confucio era così forte che poteva da solo sollevare la sbarra gigantesca che chiudeva la porta della capitale di Lu, ma di questa sua forza non fece mai mostra. Mei-ti, abilissimo nel progettare e costruire macchine da guerra, di difesa e di offesa, non si gloriò mai di questo suo talento. È facendosi piccoli che meglio si conserva quel che si è acquisito. J Un uomo di Song praticava la benevolenza e la giustizia nella sua famiglia; da tre generazioni le cose andavano così. Un bel giorno, senza ragioni apparenti, la sua vacca nera partorì un vitello tutto bianco. Il nostro uomo mandò a chiedere a Confucio qual era il presagio di un simile evento. «È un evento fausto» rispose Confucio; «il vitello dev'essere sacrificato al Sovrano celeste». Entro un anno, senza causa apparente, il padre di famiglia divenne cieco. Poco tempo dopo la sua vacca nera diede alla luce un secondo vitello tutto bianco. Il padre mandò di nuovo il figlio a chiedere a Confucio qual era il presagio [di un tale fatto]. Il figlio [però, prima di andare], gli disse: «Dopo il responso precedente avete perso la vista; a che serve ripetere l'esperienza?...» «Vai lo stesso!» rispose il padre. «Le parole dei Saggi talvolta hanno un'apparenza intempestiva, ma al tempo loro si realizzano. Pensiamo che quel tempo non sia ancora arrivato, e vacci lo stesso!» Il figlio, conseguentemente, interrogò Confucio, il quale disse nuovamente: «È fausto; sacrificatelo di nuovo al Sovrano celeste» Il figlio ripeté al padre la risposta di Confucio, e il padre gli ordinò di eseguire [ciò che essa imponeva]. Un anno dopo anche il figlio diventò cieco. Su questi fatti, all'improvviso, quelli di C'iù invasero il paese di Song e ne assediarono la capitale. La carestia fu tale che le famiglie si scambiavano i bambini per mangiarli e facevano a pezzi le ossa dei morti per trarne qualche alimento. Tutti gli uomini validi dovettero difendere le mura, e più di metà morirono. In questa emergenza i due ciechi, incapaci di servire a nulla, furono esentati da qualsiasi servizio. Quando l'assedio terminò, all'improvviso, ricuperarono la vista. Il destino li aveva fatti diventar ciechi per preservarne la vita. K A Song un giocoliere ambulante chiese al principe Yuan [il permesso] di mostrargli la sua abilità. Dopo averlo ottenuto, si mise a camminare su due trampoli più alti del proprio corpo, maneggiando nello stesso tempo sette spade, cinque delle quali volteggiavano in aria, mentre raccoglieva e lanciava le altre due con le mani. Ammirato della sua destrezza, il principe Yuan diede ordine che il giocoliere fosse liberalmente ricompensato. Un altro giocoliere venne a saperlo, e si presentò anch'egli al principe offrendosi di farlo divertire. Questi, alla proposta, si rabbuiò: «Questo furbacchione viene [qui] solo perché sa che ho trattato bene l'altro...»; e lo fece mettere in prigione e maltrattare per un 116

mese. L Il duca Mu di Z'inn disse a Pai-yaò, sovrintendente alle sue scuderie: «State diventando vecchio. Non avreste un figlio o un parente che possa sostituirvi nel vostro incarico?» Pai-yaò rispose: «Si riconosce un buon cavallo dall'esame delle sue membra e dei suoi tendini, e questo i miei figli lo saprebbero fare; ma riconoscere un cavallo degno di un principe è un'altra cosa, e i miei figli non ne sarebbero capaci. Fra i miei mozzi di stalla c'è però un certo Caò, di Chiù-fang, che ne sa come me; provate quello». Il duca Mu mandò a chiamare il palafreniere, e lo incaricò di trovargli un cavallo degno d'un principe. Dopo tre mesi Caò ritornò, e annunciò che aveva trovato il cavallo a Scià-ch'iù. «Che cavallo è?» domandò il duca. «Una giumenta saura» rispose Caò. Il duca si fece portare l'animale, e si constatò che era uno stallone baio. Il duca Mu non fu molto contento. Fatto chiamare Pai-yaò, gli disse: «È andata male. Il tipo che ho mandato [a cercarmi il cavallo] su vostra raccomandazione non sa neppure distinguere il sesso e il manto dei cavalli; come potrebbe valutare le loro qualità?» Pai-yaò rispose: «Chiunque è capace di distinguere il sesso e il manto [di un cavallo]. Il mio Caò va sempre dritto all'essenza delle cose, senza impegolarsi in particolari accessori. Quel che vede è l'interno, che è quel che conta, e trascura tutto il resto. Se ha scelto un cavallo, vuol dire che è certamente una bestia di gran valore». Fu riportato il cavallo, e risultò che si trattava di fatto di una cavalcatura degna di un principe. M

Il re Cioang di C'iù disse a Cian-ho: «Che debbo fare per ben governare?» «Non m'intendo che del governo di me stesso; non so nulla di quello dello stato» rispose Cian-ho. «Allora» continuò il re, «ditemi [almeno] cosa debbo fare per conservare il tempio dei miei avi, i tumuli del Protettore della terra e del Protettore delle messi... » Cian-ho rispose: «Il possedimento dell'uomo ordinato è sempre in buon ordine; quello dell'uomo disordinato è sempre in disordine. La radice è interiore. Fatene da solo l'applicazione». Il re di C'iù rispose: «Ben detto!» N Hu-ch'iù ciang-genn disse a Sunn-sciù-naò: «Sono tre le cose che attirano l'invidia, l'odio e la disgrazia: un incarico dl prestigio, un gran potere, un appannaggio consistente». «Non sempre» ribatté Sunn-sciù-naò. «Più i miei incarichi sono diventati importanti, più il mio comportamento è stato di modestia. Più il mio potere si è accresciuto, più è aumentata la mia discrezione. Più sono cresciute le mie ricchezze, più ne ho usato per aiutare gli altri. Risultato: non ho suscitato né invidia, né odio, né sono incorso in disgrazie». Quando questo Sunn-sciù-naò fu vicino a morire, disse a suo figlio: «Più volte il re ha cercato di farmi accettare un territorio. Sempre ho rifiutato. Dopo la mia morte è probabile che ti offra un appannaggio. Ti proibisco di accettare un appezzamento di valore. Se proprio [non puoi fare a meno di acconsentire], tra C'iù e Ué c'è una collina dal nome 117

117 nefasto: Z'inn-ch'iù, [che è una località] dove quelli di C'iù e di Ué vanno a evocare i morti; richiedi quella, di terra; nessuno te l'invidierà». Di fatto, alla morte di Sunn-sciù-naò, il re offrì al figlio un ricco possedimento, e questi lo pregò di concedergli invece la collina di Z'inn-ch'iù. I suoi discendenti ne conservano il possesso ancora ai giorni nostri. O Niù-c'u era un noto letterato di Sciang-ti. Messosi in viaggio verso Han-tan, fu assalito in aperta campagna dai briganti, che lo depredarono di tutto, compresi i vestiti, senza ch'egli opponesse la minima resistenza. Poi si allontanò, e non manifestava alcuna tristezza. Stupito, uno dei briganti gli corse dietro e gli chiese come si spiegava che non fosse attristato. «La ragione» rispose Niù-c'u, «è che il Saggio ai suoi beni preferisce la vita». «Ah!» fece il brigante «Ma allora voi siete un Saggio!» Dopo che ebbe riferito questa risposta agli altri briganti, questi si dissero: «Se è un Saggio, deve essere in viaggio per far visita al principe di Ciaò. Se è così, ci accuserà e per noi sarà la fine. Ammazziamolo finché siamo in tempo...» Corsero dietro a Niù-c'u e lo accopparono. Un uomo di Yen, venuto a sapere di questo fatto, riunì i familiari e disse loro: «Se mai incontraste dei briganti, non lasciatevi depredare passivamente come questo Niù-c'u di Ciang-ti... » Dopo un certo tempo il fratello minore di quest'uomo, mentre si recava a Z'inn, incontrò i briganti nei pressi dei valichi. Ricordandosi dei consigli del fratello maggiore, oppose tutta la resistenza che poté. Mentre i briganti si allontanavano si mise a corrergli dietro, pretendendo la restituzione di quel che gli avevano sottratto e ingiuriandoli a gran voce. Fu un po' eccessivo. «Ti avevamo lasciato salva la vita, contro le nostre abitudini» costoro dissero; «ma visto che inseguendoci ci esponi alla cattura, non ci resta che ammazzarti». Con lui furono uccise anche le quattro o cinque persone che lo accompagnavano. Conclusione: non vantarsi; passare inosservati. P Un tale U di Leang, riccone sfondato, non sapeva più dove mettere i soldi. Aveva fatto costruire una specie di terrazza in prossimità della via maestra, vi aveva installato un'orchestra in pianta stabile, e vi passava il suo tempo a bere e a giocare a scacchi con ospiti di tutte le estrazioni, in maggioranza avventurieri e spadaccini. Un bel giorno, uno di questi ospiti azzeccò un colpo fortunato al gioco; il nostro U, ridendo, ma senza doppi sensi, e senza cattiva intenzione, esclamò: «Guarda, guarda, un rapace che cattura un topo morto». (Espressione indicante un colpo d'azzardo fortunato). I giocatori se l'ebbero a male. «Ma guardate un po' quest'U» confabularono tra di loro, «da troppo tempo gli puzzano i soldi. Sta diventando arrogante. A noi di provvedere!... Siamo stati insultati; vendichiamo il nostro onore». Stabilirono un piano, si riunirono in armi e misero la dimora di U a ferro e a fuoco, uccidendone tutti i componenti. Morale: il lusso e l'arroganza sono letali. Q Nella regione Est, un certo Yuan-zing-mu, mentre era in viaggio, cadde a terra sfinito per mancanza di cibo. Un brigante di Hu-fu, di nome Ch'iù, che passava di lì, gli introdusse in bocca qualcosa da mangiare. Dopo il terzo boccone, Yuan-zing-mu riprese i 118

sentimenti. «Chi siete?» domandò [al brigante]. «Sono quello che chiamano Ch'iù di Hu-fu rispose l'altro. «Ah!» fece Yuan-zing-mu. «Non sei per caso il brigante? E mi hai fatto ingoiare del cibo tuo? Io sono un onest'uomo, e non lo mangerò!...» E, appoggiandosi sulle mani, il nostro uomo si mise a fare sforzi così violenti per vomitare, che ne morì sull'istante. Si comportò da idiota. Anche se Ch'iù di Hu-fu era un brigante, il suo cibo non aveva nulla «del brigante»; trasferendo agli alimenti la qualità che era solo propria del brigante, Yuan-zing-mu mostrò la sua mancanza di raziocinio. R Ciù-li-sciù era al servizio del duca Naò di Chiù. Riscontrando che questi lo trattava, secondo lui, con troppo distacco, se ne andò a vivere da eremita in riva al mare, nutrendosi di alghe in estate, di ghiande e di castagne in inverno. Quando il duca Naò morì, Ciù-li-sciù si accomiatò dagli amici dicendo loro che si sarebbe suicidato. I suoi amici gli dissero: «Avete lasciato il duca perché vi trattava con troppa freddezza, e adesso volete ammazzarvi perché è morto: il vostro comportamento è irrazionale». «Nient'affatto» rispose Ciù-li-sciù. «Ho lasciato il duca perché mi mostrava troppo poco affetto. Adesso mi uccido perché di affetto non potrà mai più dimostrarmene. Voglio con ciò insegnare ai padroni che verranno che si devono trattare in modo conveniente i funzionari, e ai funzionari lasciare un esempio di dedizione non comune». Questo Ciù-li-sciù sacrificò la propria vita per uno scopo veramente elevato. S Yang-ciù soleva dire: «Quando se ne va il bene, è il male che arriva. Ciò che si prova all'interno si riflette all'esterno. Per questo i Saggi fanno attenzione a tutto quel che procede da loro». T Un vicino di Yang-ciù, che aveva perduto una pecora, riunì tutti i suoi domestici, e domandò anche a quelli di Yang-ciù di aiutarlo a cercarla. Yang-ciù sbottò: «C'è bisogno [di mobilitare] tutta questa gente per cercare una sola pecora?» «Il fatto è» rispose il vicino «che in montagna i sentieri sono molti». Quando i servi tornarono dalla ricerca, Yang-ciù chiese loro: «Avete trovato la pecora?» «No» risposero questi. «Come mai?» «Perché i sentieri si biforcano a perdita d'occhio, ed è impossibile batterli tutti». Yang-ciù si incupì e smise di parlare e di ridere. Passati diversi giorni, stupiti da un tale stato di tristezza, i discepoli gli dissero: «Una pecora non è poi una gran perdita; per di più non era neanche la vostra; come mai vi rattristate a questo punto?» Yang-ciù non rispose. I discepoli non ne capirono nulla. Mong-sunn-yang, uscito [dalla stanza di Yang-ciù] riferì la cosa a Sinn-tu-zé. Qualche giorno dopo Sinn-tu-zé entrò con Mong-sunn-yang da Yang-ciù e gli rivolse queste parole: «Nel paese di Lu tre fratelli studiavano la bontà e l'equità sotto lo stesso maestro. Tornati a casa, il padre gli chiese: "Cosa sono la bontà e l'equità?" Il più vecchio rispose: "Sacrificare la reputazione per il bene della propria persona". Il secondo disse: "Sacrificare la propria persona per ottenere reputazione." Il minore invece disse: "Badare alla propria persona e alla propria reputazione."...Tre tesi differenti sostenute da tre allievi di uno stesso insegnante. Di chi 119

119 la colpa? Del maestro, o degli allievi?» Yang-ciù rispose: «Tra coloro che abitano in riva a fiumi e torrenti molti fanno i barcaioli o i traghettatori. Costoro hanno degli apprendisti, ai quali insegnano a portare barche e traghetti. Quasi metà degli apprendisti muoiono annegati. Di chi è la colpa? Loro, o dell'insegnante? È forse questi che gli ha insegnato ad annegarsi?» Sinn-tu-zé uscì senza rispondere. Una volta fuori, Mong-sunn-yang, seccato, gli disse: «Perché avete blaterato in questo modo? Adesso ne sappiamo come prima». «Non avete capito nulla» disse Sinn-tu-zé. «Non vi siete accorto che ho fatto dire al maestro ciò che lo angustia? La pecora sperduta per gli innumerevoli sentieri di montagna l'aveva fatto pensare ai discepoli dispersi fra le innumerevoli scuole diverse. La sua tristezza è dovuta al pensiero degli intelletti dispersi. Se si va al fondo delle cose la scienza è una sola, ed è vera, ma fra le molteplici deduzioni che se ne traggono, ce ne sono di sbagliate. Il maestro che si sbaglia fa deviare i suoi discepoli; i discepoli che si sbagliano deviano ad onta [della dirittura] del loro maestro». U Yang-pu, fratello di Yang-ciù, uscito di casa con un vestito di tela bianca, fu sorpreso dalla pioggia; si cambiò e rientrò rivestito di un abito di tela nera. Il cane di casa, che l'aveva visto uscire vestito di bianco, gli abbaiò contro quando lo vide rientrare vestito di nero. Irritato, Yang-pu stava per batterlo. «Non picchiarlo» gli disse Yang-ciù; «sei passato dal bianco al nero; come faceva a riconoscerti?» (Spiegazione profonda: il mutamento di una persona, ad esempio dal bene al male, compromette i suoi rapporti abituali con gli altri esseri; essa non è più la stessa). V Un'affermazione di Yang-ciù: «Anche senza averne l'intenzione, chi fa del bene agli altri attira buona reputazione su di sé; tale buona reputazione gli attira la fortuna e quest'ultima i nemici. I Saggi, di conseguenza, prima di far del bene agli altri ci pensano due volte». W C'era una volta uno che pretendeva di avere la ricetta per non morire. Il principe di Yen gli mandò un incaricato a richiedergliela. Quando l'incaricato arrivò, l'uomo della ricetta era morto. Il principe se la prese con l'inviato sostenendo che era arrivato troppo tardi; stava per farlo punire, quando uno dei favoriti gli disse: «Se quell'uomo avesse veramente avuto la ricetta per non morire non avrebbe certamente mancato di servirsene per se stesso. Invece è morto; perciò la formula non l'aveva. Non era certo lui che vi avrebbe procurato l'immortalità... » Il principe soprassedette alla punizione dell'inviato. Un tale Z'i, il quale aveva anche lui un gran desiderio di non morire, si rattristò ugualmente della morte di quest'uomo. Un certo Fu lo derise, sostenendo che, poiché l'uomo era morto, rimpiangere il suo inefficace segreto era comportarsi da insensati. Un altro, chiamato Hu, disse invece che Fu aveva detto male; perché, sostenne, può succedere che chi possiede un segreto non sappia servirsene; così come può accadere che qualcuno ottenga un determinato risultato (per puro caso, o per invenzione), senza possederne la formula. Un uomo di Uei era un abile mago. Prima di morire insegnò le sue formule al figlio; questi le recitò perfettamente, ma non ebbero alcun effetto. Costui le insegnò a un'altra persona, la quale le recitò, ottenendo gli stessi effetti del suo defunto padre... «Poiché un vivo poté efficacemente agire con la formula di un morto, mi chiedo» 120

(diceva Lieh-tzu) «se i morti non potrebbero agire efficacemente con le formule dei vivi...» (morte e vita: due modalità dello stesso essere). X Per l'inizio dell'anno la gente di Han-tan offriva dei colombi a Chien-zé, che li accettava con piacere e li pagava bene; uno dei suoi ospiti gli chiese come mai. «Lo faccio per far vedere» rispose questi «come sono buono liberandoli il primo dell'anno». L'ospite gli disse: «La gente li cattura perché voi possiate liberarli. Però, catturandoli, ne muoiono parecchi. Se [veramente] vi stesse a cuore la loro vita, fareste meglio a proibire che si catturassero. In tal modo fareste vedere molto meglio quanto siete buono». «Avete ragione» rispose Chien-zé. Y Dopo aver fatto le offerte agli antenati, T'ien-scie di T'si diede un grande banchetto per un migliaio di convitati, i quali, secondo il costume, gli fecero ciascuno il suo regalo. Uno degli invitati offrì dei pesci e delle oche selvatiche. Vedendoli, T'ien-scie sospirò piamente e disse: «Osservate quanto il cielo tratti bene gli uomini; non soltanto fa crescere i più svariati cereali; ma fa anche nascere i pesci e gli uccelli per l'uso degli uomini...» Tutti gli invitati assentirono servilmente. Soltanto il figlio di Pao-scie, un ragazzino di dodici anni, si fece avanti e disse a T'ien-scie: «Avete detto una cosa non esatta. Anche il cielo e la terra sono esseri come gli altri. Non ci sono esseri superiori ed esseri inferiori. Si dà il fatto che i più ingegnosi e i più forti mangino i meno furbi e i più deboli, ma non è con questo il caso di dire che gli ultimi sono stati messi al mondo solo perché i primi se ne servano. L'uomo mangia gli esseri che può mangiare, ma il cielo non li ha fatti nascere solo perché l'uomo li mangi. Se no si dovrebbe dire anche che il cielo ha fatto nascere gli uomini perché le zanzare e i pappataci li succhino, e perché le tigri e i lupi li divorino». Z Nel principato di Z'i un povero soleva mendicare nei pressi del mercato della città. Disturbata dalle sue insistenze, la gente finì col non dargli più niente. Il mendicante si mise perciò al servizio del veterinario della famiglia del principe T'ien, riuscendo in questo modo a procurarsi di che non morire di fame. Qualcuno gli fece osservare che servire un veterinario costituiva un grave motivo di disdoro. Il poveretto rispose: «Esser costretti a mendicare è agli occhi di tutti la peggiore delle onte. Io facevo il mendicante. Come potrebbe essere motivo di vergogna maggiore per me essere al servizio di un veterinario? [In fondo], è uno scalino più in alto nella gradazione dei valori!» Un abitante di Song rinvenne per strada la metà di un contratto strappato a metà, che il proprietario aveva evidentemente perduto. Lo raccolse religiosamente, contando con cura le frastagliature dello strappo, e confidò a un vicino che ormai la fortuna gli aveva sorriso. S'ingannava, pensando che la sorte, che l'aveva fatto entrare in possesso della metà di un contratto, gli avrebbe regalato anche l'altra metà. Un tale aveva in giardino un albero secco. Il vicino gli disse: «Un albero morto porta male». L'uomo abbatté l'albero, e il vicino gli chiese di cedergli la legna. All'uomo venne il sospetto che il vicino gli avesse fatto abbattere l'albero con l'intenzione di appropriarsi della legna, e si ritenne offeso. Si sbagliava; la richiesta che seguì non prova che esistesse intenzione precedente. Un uomo non trovava più la sua ascia e sospettava il figlio del vicino di avergliela 121

121 presa. Più ci pensava, più se ne convinceva. Pensandoci continuamente, l'atteggiamento, il volto, le parole, tutto ciò che questo ragazzo faceva, gli apparivano come quelli di un ladro. A un certo momento, mentre vuotava il letamaio, ritrovò l'ascia. Il giorno dopo, rivedendo il figlio del vicino, gli parve che avesse la più onesta faccia di ragazzo che si potesse immaginare. (Suggestione). Mentre Pai-cung stava pensando di vendicarsi inciampò e cadde, e il punteruolo fissato al manico del suo scudiscio gli trapassò il mento, senza che ne risentisse dolore. La gente di Ceng, saputolo, commentò: «Se non ha sentito dolore in quest'occasione, quand'è che lo sentirà? Bisogna che fosse proprio assorbito dai suoi progetti di vendetta, per non essersi neanche accorto di cadere e di essersi ferito!» (Concentrazione). Un uomo di Z'i fu ad un tratto preso da un tale desiderio di possedere dell'oro, che si levò di buon mattino, si vestì, andò al mercato, si diresse verso l'esposizione di un cambista, afferrò un pezzo d'oro e si allontanò. Le guardie lo catturarono e gli chiesero: «Come hai fatto a pensare di rubare in un luogo così pieno di gente?» «Vedevo solo l'oro» quegli rispose; «la gente non la vedevo». (Concentrazione).

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Parte terza

Chuang-tzu

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I Verso l'ideale

A Secondo antiche leggende, nell'oceano settentrionale vive un pesce immenso, il quale può assumere la forma di un uccello. Quando questo uccello si leva in volo, le sue ali si dispiegano nel cielo come nuvole. Radendo i flutti in direzione del Sud, esso prende l'abbrivio per una lunghezza di trenta miglia, poi sale con il vento a un'altezza di diecimila miglia nel tempo di sei mesi. Cosa si vede lassù nell'azzurro? Forse dei branchi di cavalli selvaggi che corrono? O sostanza polverulenta che volteggia? O sono i respiri che danno la vita agli esseri?... E l'azzurro è forse il cielo stesso? O non è piuttosto il colore del lontano infinito, nel quale si nasconde il Cielo, l'essere personale degli Annali e delle Odi?... E di là, si vede forse la terra? E che aspetto ha?... Misteri! Qualunque sia la risposta che si può dare a queste domande, allontanandosi dal vasto oceano, e appoggiandosi alla grande massa dell'aria, unici sostegni capaci di fornire un appoggio alla sua immensità, il grande uccello veleggia a un'altezza prodigiosa. B Una cicala appena schiusa e un giovane piccioncello videro il grande uccello, risero di lui e dissero: «A che pro andare così in alto? Perché correre di questi rischi? Noi ci accontentiamo di volteggiare di ramo in ramo, senza allontanarci dal paesaggio che ci è noto; quando cadiamo per terra non ci facciamo male; giorno per giorno, senza affaticarci, troviamo quel che ci è necessario. Perché andare tanto lontano? Perché salire così in alto? Non è forse vero che le preoccupazioni aumentano con la distanza percorsa e con l'altezza raggiunta?» Pensieri di due bestiole su un argomento che va al di là delle loro facoltà di comprensione. Una piccola testolina non afferra ciò che abbraccia [invece] un intelletto [ben conformato]. Un'esperienza limitata non si estende a fatti lontani. Il fungo che non dura se non una mattina non ha l'idea della lunazione. L'insetto che vive una sola estate non s'intende della successione delle stagioni. Non si chiedano alle effimere, informazioni sulla gran testuggine che vive cinque secoli, sul grande albero il cui ciclo vitale è di ottomila anni. Neppure il vecchio P'eng-zù vi dirà qualcosa di ciò che va al di là degli otto secoli che gli attribuisce la tradizione. A ciascun essere, la sua formula propria di sviluppo. C Ci sono uomini [che sono] limitati quasi quanto le due bestiole di cui si parlava prima. Non comprendendo se non i fatti della vita ordinaria, costoro saranno capaci soltanto di essere i mandarini di un distretto, o, al massimo, i signori di un feudo. Maestro Giung di Song fu superiore a questo genere [di uomini], e più simile al grande uccello. Egli visse, indifferente e alla lode e alla critica. Seguendo il proprio giudizio, non si lasciò influenzare dall'opinione degli altri. Non fece mai distinzione tra la gloria e la disgrazia. Fu libero dai legami dei pregiudizi umani. Maestro Lieh-tzu di Ceng, fu superiore a Maestro Giung, e ancor più simile al grande uccello. Sulle ali della contemplazione, il suo spirito prendeva il volo, talvolta per quindici giorni, lasciando il suo corpo inerte e insensibile. Fu quasi completamente libero 125

125 dai legami terrestri. Tuttavia non del tutto, tenuto conto che doveva attendere l'ispirazione [intellettuale], un residuo di dipendenza. Adesso, pensiamo invece a un essere totalmente assorbito dall'immensa rotazione cosmica, e in grado di muoversi in essa, nell'infinito. Un simile essere non dipenderà più da nulla. Egli sarà perfettamente libero, nel senso che la sua persona e la sua attività saranno unite alla persona e all'attività del gran Tutto. Per questo si dice, molto giustamente: «l'uomo superiore non ha più un io proprio; l'uomo trascendente non ha più un'azione propria; il Saggio non ha neanche più un nome proprio. Perché è uno con il Tutto». D Ci fu un tempo in cui l'imperatore Yao voleva cedere l'impero al suo ministro Huyu; perciò gli disse: «Quando risplende il sole o la luna, si spengono le torce. Quando cade la pioggia, si ripongono gli innaffiatoi. L'impero sta prosperando grazie a voi, perché dunque resterei io sul trono? Degnate salirci voi!...» «Grazie molte» rispose Hu-yu; «vi piaccia restarvi! L'impero ha prosperato sotto il vostro comando. Che importa a me la mia personale rinomanza? All'uccello basta un ramo della foresta per posarsi. Il topo si toglie la sete con una sorsata d'acqua bevuta ad un ruscello. Io non ho bisogni maggiori di questi due esserini. Rimaniamo entrambi ai nostri rispettivi posti». Questi due uomini arrivarono pressappoco al livello di Maestro Giung di Song. L'obiettivo del Taoismo è più elevato di così. Un giorno Chien-u disse a Lien-sciù: «Ho inteso dire da Zié-u delle cose esagerate, stravaganti...» «Cos'ha detto?» domandò Lien-sciù. «Ha detto che nella lontana isola Cu-sceé abitano degli uomini trascendenti, bianchi come la neve, freschi come bambini, i quali non assorbono nessun genere di cibo, ma aspirano il vento e bevono la rugiada. Passeggiano nell'aria, e le nubi gli servono da carrozza e i draghi da cavalcatura. In virtù dell'influsso della loro trascendenza proteggono gli uomini dalle malattie e favoriscono la maturazione dei raccolti. Si tratta evidentemente di follie; per cui non ci ho assolutamente creduto...» Lien-sciù rispose: «Il cieco non vede, perché non ha occhi. Il sordo non sente, perché non ha orecchi. Voi non avete capito Zié-u, perché non avete intelletto. Gli uomini superiori di cui parla esistono. Anzi, possiedono virtù ben più meravigliose di quelle che avete elencato. Però, per ciò che riguarda le malattie e le messi, essi se ne preoccupano così poco, che quand'anche l'impero cadesse in rovina e tutti invocassero il loro aiuto, essi non se ne farebbero un problema, tanto sono indifferenti a tutto... «L'uomo superiore non è toccato da nulla. Un diluvio universale non arriverebbe a sommergerlo; un braciere universale non arriverebbe a bruciarlo, tanto è al di sopra di tutto. Dalle sue briciole e dai suoi residui si potrebbero fare altrettanti Yao e Sciunn. E un uomo così dovrebbe occuparsi di bazzecole come i raccolti e la direzione di uno stato? Ma non facciamo ridere!» Ciascuno si raffigura il proprio scopo a modo suo. Per la gente di Song l'ideale è essere ben vestiti e ben pettinati; per la gente di Ué, l'ideale è avere il capo rasato ed essere vestiti di un tatuaggio. L'imperatore Yao si diede molto da fare e pensò di aver regnato in modo impeccabile. Dopo aver visitato i quattro Maestri, nella lontana isola di Cu-sceé, riconobbe di aver sbagliato tutto. L'ideale è l'imperturbabilità dell'uomo superiore, che lascia girare la ruota del cosmo [secondo la sua legge propria].

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E I principi di poca nobiltà non sanno servirsi degli uomini di questa fatta, i quali non danno risultati in incarichi di poco rilievo, poiché le loro qualità risentono negativamente della ristrettezza di questi ultimi. Maestro Hoei, che era riuscito a far crescere nel suo giardino delle zucche di enormi dimensioni, le aveva poi tagliate a mezzo, e delle due metà si era servito come bacili. Constatando che questi recipienti erano troppo grandi, sezionò ciascuna delle mezze zucche a sua volta in due quarti. Questi quarti non stavano in piedi e non gli si poteva metter dentro più nulla. Allora le distrusse... «Siete un povero sciocco» gli disse Chuang-tzu; «non siete stato capace di utilizzare le vostre zucche pregiate. Avreste potuto servirvene a mo' di boe, sulle quali avreste attraversato fiumi e laghi. Volendo rimpicciolirle le avete private di ogni possibilità di utilizzazione». Cosi accade degli uomini come delle cose; tutto dipende dall'utilizzazione a cui li si destina. Una famiglia di allevatori di bachi di Song era in possesso della formula di una pomata per la cui virtù le mani di coloro che ammatassavano la seta dei bozzoli nell'acqua calda non si screpolavano. Costoro vendettero la ricetta a uno straniero per cento tael, e pensarono di averne ottenuto in tal modo un considerevole profitto. Ora, lo straniero, diventato ammiraglio del re di Ué, capitanò una spedizione navale contro quelli di Ué. Era d'inverno, e avendo protetto, grazie alla sua pomata, le mani dei suoi marinai contro i geloni, egli ottenne una gran vittoria, la quale gli procurò un vasto feudo. Di conseguenza, due usi della stessa pomata produssero una piccola somma e un'immensa fortuna. Chi sappia servirsi dell'uomo superiore, ne trae molto. Chi non sia capace di servirsene, non ne ricava nulla. F «Le vostre teorie» disse Maestro Hoei a Maestro Chuang «sentono la vastità, ma non hanno nessun valore pratico; è per questo che tutti le rifiutano. Sono come il grande ailanto, dal cui legno fibroso non si possono ricavare tavole, e i cui rami pieni di nodi sono inutilizzabili». «Meglio per me» rispose Maestro Chuang; «visto che tutto quel che si presta a un uso pratico, proprio per questo perisce. Per quanti stratagemmi possa mettere in opera, la martora finisce col soccombere; perché la sua pelliccia è ricercata. Lo yak, che pure è così possente, finisce ammazzato, perché con la sua coda si possono fare stendardi. Mentre l'ailanto al quale voi mi fate l'onore di paragonarmi, nato su un terreno desertico, potrà crescere finché vuole, dando ombra al viandante e a chi vi si ripara sotto per dormire, e non dovrà temere asce o scuri di sorta; proprio perché, come dite, non ha nessuna qualità che lo renda appetibile. Non servire a nulla: non è forse una caratteristica di cui ci sarebbe piuttosto da rallegrarsi?»

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II Armonia universale

A Maestro Ch'i stava seduto su uno sgabello, gli occhi al cielo, animato solo da una respirazione lieve; l'anima pareva assente. Stupito, il discepolo Yu, che era al suo servizio, disse tra sé: «Cos'è mai questo? Com'è possibile che, senza essere morto, un essere diventi così, insensibile come un albero secco, inerte come cenere spenta? Questo non è più il mio maestro». «Sì» disse Ch'i riprendendo gli spiriti, «è ancora lui. Per un momento, avevo soltanto abbandonato la mia individualità. Ma cosa ne puoi capire tu, che conosci solo gli accordi umani, neppure quelli terrestri, e ancor meno quelli celesti?» «Siate così cortese da farmi capire con qualche paragone». «E va bene» disse Maestro Ch'i. «Il gran respiro indeterminato della natura si chiama vento. Di per sé, il vento non ha suono. Ma quando li fa vibrare, tutti gli esseri diventano per lui come un sistema di ancie. I monti, i boschi, le rocce, gli alberi, tutte le asperità, tutti gli anfratti, risuonano come altrettanti fori di strumenti a fiato, dolcemente quando il vento è leggero, fortemente quando il vento è forte. Sono muggiti, ruggiti, fischi, comandi, lamenti, scoppi, grida, pianti. Al richiamo risponde il richiamo. È un insieme, un'armonia. Poi, quando il vento cessa, tutti questi suoni si tacciono. Non ti è mai capitato di assistere a un fenomeno del genere, in un giorno di tempesta?» «Capisco» rispose Yu. «Gli accordi umani sono quelli degli strumenti musicali, provocati dagli uomini. Gli accordi terrestri sono quelli delle voci della natura. Ma gli accordi celesti, maestro, di che si tratta?» B «Si tratta» disse Maestro Ch'i «dell'armonia di tutti gli esseri, nella loro comune natura, nel loro comune divenire. In essa non c'è contrasto, perché non c'è distinzione. Abbracciare, ecco la gran scienza, il grande verbo. Distinguere, è la scienza e il parlare di ordine inferiore. «Tutto è uno. Durante il sonno l'anima non distratta si riassorbe in questa unità; durante la veglia, distratta, essa distingue esseri diversi. — E cos'è che occasiona queste distinzioni? — Quel che vi dà esca sono l'attività, i rapporti, i conflitti della vita. Da qui nascono le teorie, gli errori. Dal tiro con la balestra ebbe origine la nozione del bene e del male. Dai contratti fu estratta la nozione del diritto e del torto. Si dette forza a queste nozioni immaginarie; si è giunti perfino ad attribuirle al Cielo. È ormai impossibile distoglierne gli esseri umani. E invece, in verità, benevolenza e rancore, pena e gioia, progetti e rimpianti, passione e ragione, indolenza e fermezza, attività e pigrizia, tutti i contrasti, non sono che altrettanti suoni usciti da uno stesso strumento, altrettanti funghi nati da una stessa umidità, modalità fugaci dell'essere universale. «Tutte queste cose si sono presentate nel corso del tempo, da dove sono venute? Sono divenute! Sono nate, dal mattino alla sera, di per se stesse, non come un essere reale, ma come un'apparenza. Non è che ci siano degli esseri reali distinti. C'è un io, solo per contrasto con un "lui". Poiché lui e io sono soltanto esseri di ragione, in realtà non c'è neanche quel qualcosa di più vicino che è chiamato "mio", e quel qualcosa di più distante 128

che è chiamato "tuo". «Sennonché, chi è il produttore di questo stato di cose, il motore del gran Tutto?... Le cose vanno come se ci fosse un vero reggitore, la cui personalità, tuttavia, non può essere constatata [da qualche facoltà individuale]. Questa ipotesi, esplicativa dei fenomeni, è accettabile, ma a condizione che non si faccia di questo reggitore universale un essere materiale distinto. Esso è una tendenza senza forma sensibile, esso è la norma inerente all'universo, la sua formula evolutiva immanente. Le norme di ogni tipo, tali quella che di più organi fa un corpo, di più persone una famiglia, di più sudditi uno stato, sono altrettante partecipazioni del reggitore universale inteso in questo modo. Tali partecipazioni non l'aumentano e non lo diminuiscono, perché esse sono comunicate da lui, e non da lui separate. Prolungamento della norma universale, la norma di [ciascuno di questi esseri distinti], che è il loro essere proprio, non cessa di essere quando questo essere finisce [nelle sue manifestazioni esteriori]. Essa era prima di lui, essa è dopo di lui, inalterabile, indistruttibile. Il resto di lui [la sua manifestazione esteriore e percepibile] non era se non apparenza. «È l'ignoranza di questo principio che è all'origine di tutte le pene e di tutti i dispiaceri degli uomini: lotta per l'esistenza, paura della morte, apprensione per l'aldilà misterioso. La cecità è quasi generale, tuttavia non è ancora universale. Ci sono ancora degli uomini, [sia pure] poco numerosi, che non sono stati sedotti dal tradizionalismo convenzionale [esoterismo esclusivo], uomini che non riconoscono come loro signore se non l'intelletto, e che, per sforzo intellettuale, hanno dedotto, dalle loro meditazioni sull'universale, la dottrina che è qui esposta. Costoro sanno che di reale non c'è se non la norma universale. «La gente comune, che non riflette, crede all'esistenza reale di tutto. L'errore moderno ha sopraffatto la verità antica. Tale errore è così radicato, così inveterato, che i più grandi sapienti, nel senso che il mondo dà a questa parola, ivi compreso U il Grande, ne sono stati tutti vittime. A sostenere la verità, mi ritrovo io, quasi solo». C «Ma» mi si dirà, «se tutto è uno, se tutto si riduce a una norma unica, questa norma comprenderà simultaneamente la verità e l'errore, tutti i contrari; e se i fatti di cui parlano gli uomini sono irreali, la parola umana è dunque solo un vano suono, non diverso dal chiocciare delle galline. «La mia risposta è: no, nella norma non c'è errore, se non per le menti limitate; sì, le distinzioni di Confucio e di Mei-zé sono solo vani chiocciolii. «In realtà non c'è né verità né errore, né sì né no, né qualsiasi altra distinzione, poiché tutto è uno, perfino gli stessi contrari. Quel che c'è sono solo aspetti diversi, i quali dipendono dal punto di vista. Dal mio punto di vista, io vedo in questo modo; da un altro punto di vista vedrei in modo diverso. Io e l'altro sono due posizioni differenti, che fanno giudicare e parlare in modo diverso di quel che è uno. È per questo che si parla di vita e di morte, di possibile e di impossibile, di lecito e di illecito. Si discute; gli uni dicono sì, gli altri dicono no. [Si tratta di errori di assimilazione soggettivi, dovuti al punto di vista]. «Il Saggio, invece, incomincia con il chiarire l'oggetto [del dibattere] alla luce della propria intelligenza; constata prima di tutto che questo è quello, che quello è questo, che tutto è uno. Constata poi che ciò nonostante ci sono il sì e il no, l'opposizione, il contrasto. Il suo punto di vista proprio è un punto [di vista] dal quale questo e quello, sì e no, appaiono ancora non distinti. «Questo punto è il cardine della norma; è il centro immobile di un cerchio sulla cui 129

129 circonferenza si sviluppano tutte le contingenze, le distinzioni e le individualità; un centro dal quale si vede solo un infinito, che non è né questo né quello, né sì né no. Vedere tutto nell'unità primordiale non ancora differenziata, ovvero da una distanza tale che tutto si fonda in uno, questa è l'intelligenza. «I pensatori sofisti si sbagliano quando cercano di arrivare a questo risultato attraverso argomentazioni positive e negative, per via di analisi o di sintesi [dialettica]. [Tutto quel che possono fare in tal modo] è soltanto arrivare a modi di vedere soggettivi, i quali, addizionati [gli uni agli altri], costituiscono l'opinione e vengono confusi con i [veri] principi. Così come un sentiero è formato dai molteplici passi di coloro che vi camminano, allo stesso modo le cose finiscono con l'essere qualificate secondo ciò che i molti ne hanno detto. «È così, si dice, perché è così; è un principio. Non è così, si dice, perché non è così; è un principio. Ma è proprio vero che le cose stiano in questo modo, nella realtà? Assolutamente no. Visti dalla norma, un filo di paglia e una trave, una bruttona e una beltà, tutti i contrasti, sono uno. La prosperità e la rovina, gli stati successivi, sono solo altrettante fasi; tutto è uno. Ma questo, solo le grandi menti sono in grado di capirlo. «Non affanniamoci a distinguere, ma cerchiamo di vedere tutto nell'unità della norma. Non discutiamo per aver ragione, ma usiamo, con gli altri, il modo di procedere dell'allevatore di scimmie. Costui, alle scimmie che allevava, disse: "Vi darò tre tuberi al mattino e quattro alla sera". Tutte le scimmie furono scontente. "Allora" disse, "vi darò quattro tuberi al mattino e tre alla sera". Tutte le scimmie furono contente. Con in più il vantaggio di averle soddisfatte, l'uomo diede loro, in definitiva, soltanto i sette tuberi al giorno che aveva preventivato. «Il Saggio fa la stessa cosa. Dice sì o no, per amor di pace, e rimane tranquillo al centro della ruota universale, indifferente al senso nel quale essa gira». D «Fra gli Antichi, alcuni pensavano che, in origine, non ci fosse nulla di preesistente. Si tratta di una posizione estremistica. Altri pensavano che ci fosse qualcosa di preesistente; si tratta della posizione estremistica opposta. Altri, però, pensavano che ci fosse qualcosa di indistinto, di non differenziato. Si tratta della posizione mediana, quella vera. «Questo essere primordiale non [ancora] differenziato, è la norma. Quando le distinzioni furono immaginate, fu compromessa la sua nozione. Dopo le distinzioni vennero le arti e i gusti, [che sono] impressioni e preferenze soggettive, le quali non possono né essere definite né essere insegnate. È così che i tre artisti Ciao-uenn, Scie-c'oang, Hoei-zé erano affezionati alla loro musica, perché era la loro propria musica, che essi trovavano diversa da quella degli altri, e, ovviamente, superiore. Ebbene, costoro non poterono mai definire in cosa consistessero questa differenza e questa superiorità; essi non furono mai neppure in grado di insegnare ai propri figli a suonare come loro. E questo, perché ciò che è individuale [e soggettivo] non si definisce né si insegna. Il Saggio disdegna queste cose vane; egli si mantiene nella semioscurità della visione sintetica e si accontenta dell'equilibrio efficace». E «"Voi dite" mi si obietta "che non esistono distinzioni. Passi ancora per i termini che sono più o meno simili; ammettiamo pure che la distinzione tra di essi sia soltanto apparente. Ma i termini assolutamente opposti, quelli, come potete ridurli alla semplice unità? Per esempio, come conciliare i termini seguenti: origine dell'essere, essere senza 130

origine, origine dell'essere senza origine; e questi altri: essere e nulla, essere prima del nulla, nulla prima dell'essere? Questi termini si elidono; non può essere che sì o no". «La mia risposta è che tali termini si escludono solamente quando siano considerati all'interno dell'esistenza. Anteriormente al divenire, nell'unità del principio primordiale, non c'era opposizione. Presi in considerazione in tale situazione, un capello non è trascurabile, una montagna non è grande; un nato morto non è giovane, un centenario non è vecchio. Il cielo, la terra, e io stesso, abbiamo la stessa età. Tutti gli esseri, e io, siamo uno [in] origine; dal momento che tutto è uno, secondo un punto di vista obiettivo e in realtà, perché distinguere nelle entità con certe parole, le quali esprimono solo nozioni soggettive e immaginarie? Se si incomincia a denominare e a contare, non ci si ferma più, poiché la serie delle vedute individuali [soggettive] è indefinita. «Innanzi i tempi, tutto era uno, nel principio chiuso al modo di un plico. Tutto quel che si aggiunse dopo è soggettivo, immaginario. Come la differenza tra la destra e la sinistra, le distinzioni, le opposizioni, i doveri; altrettanti esseri di ragione che si indicano con parole a cui in realtà non corrisponde nulla. Per cui il Saggio studia sì tutto, nel mondo sensibile e in quello delle idee, ma senza pronunciarsi su nulla, per non aggiungere una veduta soggettiva in più a tutte quelle che sono già state formulate. Si tace, racchiuso in se stesso, mentre la gente comune pontifica, non alla ricerca della Verità, ma per fare bella figura, come dice l'adagio. «Che si può dire dell'essere universale, se non che è? Vuol dire qualcosa, dire che l'essere è? Vuol dire qualcosa, dire che l'umanità è umana, la modestia modesta, il coraggio coraggioso? Non sono forse piuttosto frasi vuote di senso, che non significano niente?... Se si potesse distinguere nel principio, e se gli si potessero applicare degli attributi, non si tratterebbe più del principio universale. Sapersi fermare dove l'intelligenza [individuale umana] e la parola vengono meno, è questa la saggezza. «A che pro cercare di trovare dei termini impossibili per esprimere un essere ineffabile? Colui che abbia capito che ha tutto in uno, ha conquistato il tesoro celeste, inesauribile; ma anche inscrutabile. [Quegli] ha l'illuminazione sintetica, che rischiara l'insieme senza mettere in rilievo i particolari. È questa la luce, superiore a quella di dieci soli, che un tempo Sciunn magnificava al vecchio Yao». F «Nel mondo tutto è individuale, soggettivo» disse Uang-i a Nié-c'ué. «Un uomo che dorma sdraiato nel fango si procurerà una lombaggine, mentre un'anguilla, in un posto simile, non sarà mai stata così bene. Un uomo arrampicato su un albero vi starà a disagio, mentre una scimmia troverà che per lei la posizione è perfetta. Alcuni mangiano questo, altri quello. Alcuni ambiscono una cosa, altri tutta un'altra. Gli uomini correvano tutti dietro alle due famose bellezze Mao-z'iang e Li-chi, e i pesci, invece, quando le vedevano, si affrettavano a immergersi per lo spavento. Voi non sapete che effetto fa su di me una certa cosa, e io non so quale impressione la stessa cosa fa a voi. La questione della sensibilità e dei gusti, del tutto soggettiva, è, in linea di principio, insolubile. L'unica cosa [da fare] è non perderci il proprio tempo. Gli uomini, su questo argomento, non si metteranno mai d'accordo». «Gli uomini comuni, no, lo capisco» disse Nié-c'ué; «ma l'uomo superiore?» «L'uomo superiore» disse Uang-i «è al di sopra di queste bazzecole. In virtù della sua trascendenza egli è al di sopra di ogni impressione e di ogni emozione. In un lago bollente, non sente il calore; in un fiume gelato, non sente il freddo. Se il fulmine spacca le montagne, se l'uragano sommuove l'oceano, egli non ne è scosso; cavalca le nubi, in131

131 forca il sole e la luna, corre attraverso l'universo. Che interesse può prestare a distinzioni insignificanti qualcuno per cui la vita e la morte sono la stessa cosa?». G Maestro Ch'iù-z'iaò disse a Maestro Ch'iù di Ci'ang-u: «Del Saggio si dice che non si preoccupa delle cose del mondo; che non ricerca il suo proprio vantaggio e che non indietreggia davanti al pericolo; [si dice] che non è attaccato a nulla; che non cerca di compiacere; che si tiene lontano da polvere e fango...» «Io lo definirei meglio, e con meno parole» rispose Maestro Ch'iù. «Il Saggio si mette fuori del tempo e vede tutto in uno. Tace, tenendo per sé le sue impressioni personali, astenendosi dal dissertare sulle questioni che sono incerte e insolubili. Questo raccoglimento, questa concentrazione, gli conferiscono, in mezzo all'affannarsi degli uomini comuni, un aspetto apatico, quasi idiota. In realtà, interiormente, egli è impegnato nell'occupazione più elevata: la sintesi di tutte le epoche e la riduzione di tutti gli esseri all'unità». H «E, per quel che riguarda la distinzione che più tormenta gli uomini, [vale a dire] quella della vita e della morte,... l'attaccamento alla vita non è forse un'illusione? La paura della morte non è forse un errore? Questa dipartita è veramente una disgrazia [come si dice]? O non porta [invece], come quella della fidanzata che lascia la casa paterna, a un [altro genere di] felicità?... «Tempo fa, quando la bella Chi di Li fu rapita, pianse tanto da bagnarsi le vesti. Diventata la favorita del re di Zinn, si rese conto che non aveva avuto ragione di piangere. Non sarà la stessa cosa per tanta gente che è morta? Partiti a collo torto, non pensano magari, adesso, che era senza ragione che erano attaccati alla vita?... «La vita, non sarà magari tutta un sogno? Alcuni, strappati a un sogno gradevole dal risveglio, se ne dispiacciono; altri, liberati dal risveglio da un sogno triste, se ne rallegrano. Sia gli uni che gli altri, finché sognavano, credevano nella realtà del loro sogno. Dopo il risveglio, hanno constatato che si trattava soltanto di un semplice sogno. La stessa cosa accade per il gran risveglio: la morte; al di là del quale, della vita, si dice che sia stata [soltanto] un lungo sogno. Peccato che solo pochi fra i vivi questo lo capiscano. «Quasi tutti credono di essere ben svegli; si credono veramente, qualcuno re, qualcuno servitore. Tutti sognano, sia voi, sia io. Io, che vi sto dicendo che sognate, sto sognando anch'io il mio sogno. «A moltissima gente l'identità della vita e della morte sembra incredibile. Si riuscirà mai a persuaderli? Credo che sia poco probabile, perché, in questa materia, non ci sono dimostrazioni evidenti, non c'è alcuna autorità decisiva: solo una quantità di sensazioni soggettive. «Soltanto la regola celeste sarà in grado di dirimere la questione. E questa regola celeste, che cos'è? È porsi, per giudicare, [in un punto] all'infinito... Siccome è impossibile risolvere il conflitto dei contraddittori, dirimere quale [di essi] è vero e quale falso, poniamoci dunque fuori del tempo, [poniamoci] al di là dei ragionamenti. Esaminiamo la questione dall'infinito, distanza dalla quale tutto si fonde in un tutto indeterminato». I Poiché gli esseri appartengono al Tutto, le loro azioni non sono libere, ma necessitate dalle leggi di quest'ultimo... Un giorno la penombra chiese all'ombra: «Perché ti muovi in questa direzione?...» «Io non mi muovo affatto» rispose l'ombra. «Sono proiettata da un corpo, il quale 132

mi produce e mi orienta, secondo le leggi dell'opacità e del movimento...» Questo si può dire di tutti gli atti. J Non esistono individui che siano veramente tali, ma [esistono] soltanto dei prolungamenti della norma... «Mi è occorso una notte» racconta Chuang-tzu «di sognare di essere una farfalla svolazzante, soddisfatta della sua sorte. Poi mi svegliai, ed ero Chuang-tzu. Chi sono io, in realtà? Una farfalla che sogna di essere Chuang-tzu, o Chuang-tzu che immagina di esser stato una farfalla? Ci sono stati in questo caso due individui reali? O c'è forse stata la trasformazione reale di un individuo in un altro?» Nessuna delle due cose, dice la Glossa. Si è in presenza di due modificazioni irreali dell'essere unico, della norma universale, nella quale tutti gli esseri, in tutti i loro stati, sono uno.

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III Sostentamento del principio vitale

A L'energia vitale è limitata. Lo spirito è insaziabile. Mettere uno strumento limitato a disposizione di un padrone insaziabile è sempre rischioso; spesso è funesto. Il padrone consumerà lo strumento. Lo sforzo intellettuale prolungato ed esagerato esaurirà la vita. Ammazzarsi a fare il bene per amore della rinomanza, o finire i propri giorni, per un crimine, di mano d'un boia, è proprio la stessa cosa; in entrambi i casi, è la morte per eccesso. Chi vuol durare deve moderarsi, evitare di esaurirsi nel perseguire uno scopo, restare sempre a mezza strada. Così facendo manterrà intatto il proprio corpo, conserverà la sua vita fino alla fine, darà da mangiare ai genitori fino alla loro morte, durerà egli stesso fino al termine dei suoi giorni. B Il macellaio del principe Hoei di Leang stava facendo a pezzi un bue. Senza nessuno sforzo, con metodo, quasi seguendo un ritmo, il coltello scollava la pelle, sezionava le carni, dislocava le articolazioni. «Siete veramente in gamba» gli disse il principe, che stava guardandolo lavorare. «Tutta la mia arte» rispose il macellaio «consiste soltanto nell'osservare il principio del sezionamento. Quando ero agli inizi, pensavo al bue. Dopo tre anni di esercitazione incominciai a dimenticarmi dell'oggetto del sezionamento. Adesso, quando taglio, non ho più in mente che il principio. I miei sensi non entrano più in gioco; attiva è solo più la mia volontà. Seguendo le linee naturali del bue il mio coltello penetra e divide, taglia le carni molli, gira intorno alle ossa, fa il suo ufficio secondo natura e senza sforzo. E ciò senza consumarsi, giacché non aggredisce le parti dure. «Un principiante consuma un coltello al mese. Un macellaio mediocre, un coltello all'anno. Io mi servo di questo coltello da diciannove anni. Ha sezionato diverse migliaia di buoi senza risentire della minima usura; perché lo faccio passare solo dove può passare». «Grazie» disse il principe Hoei al macellaio; «mi avete insegnato come si fa a far durare la vita, facendola servire soltanto a quel che non la consuma». C L'afflizione è un'altra delle cause di usura del principio vitale. Tralasciando le cause minori di afflizione, Chuang-tzu ne indica tre gravi, diffuse nel suo tempo di lotte feudali: le mutilazioni legali, l'esilio, la morte. Rassegnarsi alla mutilazione, come il segretario del principe di Leang, al quale era stato tagliato un piede, e non imputava la propria mutilazione al suo signore, bensì se ne faceva una ragione pensando che essa era stata voluta dal cielo. Rassegnarsi all'esilio, come il fagiano delle paludi, il quale vive, soddisfatto della sua esistenza precaria e inquieta, senza che desideri la tranquillità e le facilitazioni di una voliera. Rassegnarsi alla morte, in quanto essa è soltanto un cambiamento, spesso verso il meglio. Quando Lao-tan morì, Z'inn-scie, che era andato a visitarne la spoglia, non emise, 134

davanti alla bara, se non le tre lamentazioni che il rituale impone a tutti. Uscito che fu, i suoi discepoli gli chiesero: «Ma non eravate amico, di Lao-tan?...» «Certo che lo ero» disse Z'inn-scie... «Allora» ribatterono i discepoli, «come mai non avete pianto di più?...» «Perché» rispose Z'inn-scie «questo cadavere non è più l'amico mio. Tutti questi lamentatori di cui è piena la casa, che fanno gara ad urlare, si comportano così per semplice sentimentalità, in modo irragionevole, quasi colpevole. «La legge, che la gente comune dimentica, ma di cui si ricorda il Saggio, è che ogni essere viene in questo mondo a suo tempo, e a suo tempo lo lascia. Di conseguenza, il Saggio non si rallegra delle nascite e non si addolora per le morti. «Gli Antichi paragonavano l'uomo a un fastello di legni che il Signore [del Cielo] mette insieme (nascita) e scompone (morte). Quando la fiamma ha consumato la fascina, passa a un'altra, e non si spegne».

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IV Il mondo degli uomini

A Yen-hoei, che era il discepolo preferito, chiese al suo maestro C'ung-ni (Confucio) di potersene andare... «E per recarsi dove?» gli domandò quest'ultimo. «A Uei» rispose il discepolo. «Il principe di quel paese è giovane e volonteroso. Però governa male, non accetta osservazioni e fa morire i suoi sudditi per ragioni insignificanti. Il suo principato è costellato di cadaveri. La sua gente è immersa nella disperazione... «Ora, io vi ho spesso sentito dire che occorre lasciare il paese ben governato per dedicare i propri sforzi a quello che è mal governato. Il medico [non va dai sani] ma dagli ammalati. Quel che vorrei fare è perciò applicare quanto ho imparato da voi, alla salvezza del principato di Uei». «Non ci andare» rispose C'ung-ni. «Andresti alla rovina. Il gran principio è che non bisogna occuparsi di troppe cose. Gli uomini superiori dell'antichità non si dedicavano mai agli altri al punto di disorientare se stessi. Il loro tempo non lo perdevano certo a correggere un tiranno brutale... «Non c'è nulla di più pericoloso del rivolgersi con insistenza a un uomo violento, dedito al male, parlandogli di giustizia e carità. I suoi consiglieri faranno causa comune con lui, e si alleeranno tra di loro per osteggiarti. Se hai qualche esitazione, o cedimento trionferanno loro, e il male peggiorerà. Se li attacchi con violenza, il tiranno ti farà mettere a morte. «È in questo modo che perirono un tempo il ministro Coan-lung-p'eng, messo a morte dal tiranno Chié e il principe Pi-can, fatto uccidere dal tiranno Ceù; entrambi per aver preso le parti del popolo oppresso contro i prìncipi che lo opprimevano. «Un tempo, i grandi imperatori Yao e U non riuscirono [neppure loro] a convincere i vassalli avidi di gloria e di ricchezze [a moderarsi]; furono costretti a marciare contro di loro e a piegarli con le armi... L'attuale principe di Uei è un uomo di questa specie... Su qual tono gli parleresti per fargli intendere ragione?» «Io gli parlerei» disse Yen-hoei «con modestia e franchezza». «Perderesti sforzo e tempo» disse C'ung-ni. «È un uomo pieno di sé; e per di più è un furbo di tre cotte. Non è impressionato dal male, e la virtù non gli fa né caldo né freddo. O ti contraddirà apertamente, o fingerà di ascoltarti, ma senza crederti». «Allora» disse Yen-hoei, «mantenendo interiormente la mia dirittura, mi adatterò esteriormente a lui. Gli esporrò la ragione celeste, che riuscirà forse ad ammorbidirlo, poiché anche lui è, come me, figlio del cielo. «Senza cercare di compiacerlo, gli parlerò con la semplicità di un fanciullo, da discepolo del cielo. In modo così rispettoso, che nessuno possa accusarmi di avergli, neppur minimamente, mancato di rispetto, gli esporrò dolcemente la dottrina degli Antichi. Il fatto che questa dottrina condanni la sua condotta non potrà addebitarlo a me. Visto che essa da me non proviene. Non pensate, Maestro, che in questo modo io possa raddrizzare il «principe di Uei?» 136

«Non ce la farai» rispose C'ung-ni. «Quello [che mi hai descritto] è il procedimento didattico, che tutti i maestri conoscono, e che non emenda proprio nessuno. Parlando in questa maniera forse non andrai incontro a rappresaglie, ma sarà tutto quel che avrai ottenuto». «Allora» chiese Yen-hoei, «come fare per convertirlo?» «Preparandocisi» disse C'ung-ni «con l'astinenza». «Oh!» rispose Yen-hoei «So cos'è. La mia famiglia è povera, e passiamo dei mesi interi senza bere vino o mangiare carne» «Quella è l'astinenza con cui ci si prepara ai sacrifici. Non è di essa che si tratta, ma dell'astinenza del cuore». «E quest'altra cos'è?» domandò Yen-hoei. «Te lo spiego subito» disse C'ung-ni: «conservare tutta la propria energia intellettuale come in una massa. Non ascoltare con gli orecchi, né col cuore, ma soltanto con lo spirito. Intercettare le vie dei sensi, mantenere terso lo specchio del cuore, non permettere che la mente si occupi, nel vuoto interiore, se non di oggetti "ideali" [nel senso di "riferiti alle idee"]. La visione del Principio richiede il vuoto. Mantenersi "vuoti", questa è l'astinenza del cuore». «Ah!» disse Yen-hoei «Questo non lo sapevo; ed è per questo che sono soltanto un Yen-hoei. Se arrivassi a tanto non sarei più Yen-hoei; diventerei un uomo superiore. Ma, [ditemi], praticamente, ci si può svuotare a questo punto?» «Sì, si può» disse C'ung-ni; «e adesso ti dirò come. Occorre, a questo scopo, non lasciar entrare, dal di fuori, nel campo del cuore, se non esseri che non abbiano più nome; idee pure, non casi specifici. Il cuore deve vibrare soltanto al loro contatto (nozioni obiettive); mai spontaneamente (emozioni individuali). «Occorre mantenersi chiusi, semplici, puramente naturali, senza nessuna mescolanza di artificiale. In questo modo si può giungere a mantenersi senza emozioni, mentre difficile è calmarsi dopo che ci si è lasciati emozionare; così com'è più facile non camminare, che cancellare le tracce dei propri passi dopo che si è camminato. «Tutto ciò che è artificiale, è falso e inefficace. Solamente ciò che è naturale è vero ed efficace. Aspettarsi qualche effetto da un modo di procedere [soltanto] umano è come pretendere di volare senza ali o capire senza intelligenza... «Osserva in qual modo la luce che entra dal di fuori attraverso quel buco nel muro, si diffonde nello [spazio] vuoto di questo ambiente, e vi si smorza dolcemente senza dare origine ad immagini. Allo stesso modo le conoscenze non specifiche devono svilupparsi nella pace, senza disturbarla. «Se le conoscenze, rimaste specifiche, provocano immagini, o vengono riflesse, l'uomo ha un bel restare seduto e immobile, il suo cuore divagherà follemente. Il cuore svuotato attira i Mani, che vengono a eleggervi la loro dimora; sugli esseri viventi esercita un azione di enorme potenza. «Solo essa è strumento di trasformazione profonda, perché è un puro riflesso del Principio, il quale è il trasformatore universale. È in questo modo che occorre spiegare l'azione che sugli uomini esercitavano Yao e Sciunn, dopo Fu-hi, Chi-chiu e molti altri ». B

Altro discorso di Confucio sul distacco dai frutti dell'azione nel Taoismo. Inviato come ambasciatore dal suo signore, il re di Ci'ù, presso il principe di Z'i, Zé-caò chiese consiglio a C'ung-ni. «Il mio re» egli gli disse «mi ha affidato una missione importantissima. [Credo che] sarà assai faticoso; e inoltre, ci riuscirò? Sono in appren137

137 sione per la mia salute e per la mia testa. A dire il vero, sono molto preoccupato... «Io ho sempre condotto una vita sobria, così ho conservato il corpo sano e il cuore tranquillo. Ora, da quando sono stato nominato ambasciatore, m'è scoppiato il fuoco nelle viscere, tanto è vero che alla sera devo bere acqua ghiacciata per sedare questo surriscaldamento interno. Se sono in un tale stato prima di partire per la mia missione, cosa accadrà dopo? Se voglio riuscire dovrò passare attraverso preoccupazioni innumerevoli. E se non dovessi farcela, come fare per salvare la testa? Maestro, che consiglio mi date?» «Ecco a te» rispose C'ung-ni. «La pietà nei confronti dei genitori e la fedeltà al principe, sono i due doveri naturali fondamentali, dai quali nulla può mai dispensare; e ciò in ogni occasione e qualunque cosa accada. «Conseguentemente, in questa materia occorre escludere qualsiasi considerazione di pena o di piacere per considerare soltanto il dovere in se stesso, e non come una cosa facoltativa, ma fatale, alla quale bisogna dedicarsi, se necessario, fino al punto di sacrificare la propria vita e di accettare quindi la morte. Stabilito ciò, siete tenuto ad accettare la vostra missione, e a consacrarvi al suo adempimento. «È però vero che il ruolo di ambasciatore, di intermediario diplomatico, è difficile e rischioso. Ma questo perché, il più delle volte, la persona che fa l'ambasceria ci mette del suo. Se l'ambasciata è gradevole, aggiungere ad essa parole gradevoli ma indiscrete; se essa è sgradevole, aggiungere parole sgradevoli e mortificanti; adottare un atteggiamento vanitoso, sentenzioso, esagerato, andare al di là del proprio mandato: ecco quali sono abitualmente le cause di disgrazia degli ambasciatori. «Qualsiasi eccesso è funesto. Per questo è detto, nelle Regole del parlare: "Si trasmetta il senso di quel che si è incaricati di dire, ma non i termini, se essi sono duri!" A fortiori, non si aggiungano gratuitamente delle parole mortificanti. Se farete così, probabilmente riuscirete a salvare la vita. «In genere è la passione che rovina le cose. I lottatori incominciano lottando secondo le regole; poi, quando si infiammano, tirano colpi irregolari. I bevitori incominciano bevendo moderatamente; poi, surriscaldati, si ubriacano. La gente comune, agli inizi è educata; poi, con la familiarità, diventa incivile. «Molti affari, inizialmente contenuti entro limiti corretti, in seguito assumono proporzioni esagerate. E tutto ciò, perché si è immischiata la passione. La stessa cosa può capitare a coloro che portano ambasciate. Mal per loro se si infiammano per la loro ambasceria. Aggiungeranno del loro a quel che hanno da riferire, e mal gliene incoglierà. Capita all'oratore che si agita quel che succede per l'acqua e il vento; le onde si gonfiano con facilità, i discorsi si accendono rapidamente. «Non c'è nulla di più pericoloso delle parole che hanno origine dalla passione; esse possono assumere le sembianze dei furori d'un animale allo stremo. Esse causano la rottura dei negoziati, l'odio e la vendetta. Per questo le Regole del parlare recitano: "Non andate al di là del vostro mandato. Non insistete con troppa foga, per il desiderio di riuscire. Non cercate di ottenere più di quanto dovete richiedere". «Se non vi atterrete a questa linea di condotta non farete nulla di positivo, e vi metterete in posizione di pericolo. Quindi, evitata ogni passione, fate il vostro dovere, a cuor leggero. E accada ciò che deve! «Caricatevi incessantemente, chiedendovi: "Che devo fare per corrispondere alla benevolenza del mio principe?" E finalmente, tenetevi pronto a fare il sacrificio più difficile: quello della vita, se è necessario. Eccovi il mio consiglio».

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C

Un'altra lezione di moderazione taoista. Il filosofo Yen-ho di Lu era stato nominato precettore del figlio maggiore del duca Ling di Uei; egli chiese [a questo proposito], consiglio a Chiu-pai-u. «Il mio allievo» gli disse «ha un'indole che più malvagia non si potrebbe. Se gli lascio le briglie sul collo, porterà il suo paese alla rovina. Se cercherò di contenerlo, probabilmente lo farò a rischio della vita. È uno di quelli che vedono il torto altrui, ma non il proprio. Come comportarsi, con un discepolo simile?» Chiu-pai-u rispose: «Siate innanzi tutto circospetto, corretto, non prestate il fianco a nessuna critica. Poi cercherete di conquistarlo. Adattatevi a lui, certo senza arrivare fino al punto di agir male insieme a lui, ma neppure senza essere con lui troppo duro. «Se il suo temperamento è giovanile, fatevi giovane con lui. Se rilutta all'imposizione, non infastiditelo. Se non gli piace esser comandato, evitate di imporvi a lui. Soprattutto, non prendetelo contropelo e non indisponetelo nei vostri confronti. Non tentate di fare "il braccio di ferro" con lui... «Sarebbe come se voleste imitare la stupida mantide, che cercò di fermare una carrozza, e ottenne di esserne schiacciata. Abbiate rapporti diretti con lui solo quando è di buon umore. «Saprete cosa fanno i domatori di tigri con i loro pericolosi allievi. Non gli danno mai prede vive, perché la soddisfazione di ucciderle ecciterebbe la loro bruta crudeltà. Né gli danno neppure grossi pezzi di carne da mangiare, giacché l'atto di strapparli risveglierebbe i loro istinti sanguinari. Danno loro il cibo in piccoli pezzi, e non si avvicinano a loro se non quando li vedono, calmi e sazi, dell'umore migliore in cui possa essere una tigre. È così che mettono dalla loro le maggiori probabilità di non essere divorati. «Comunque sia, non rendete intrattabile il vostro allievo, viziandolo. Ci sono degli allevatori di cavalli, maniaci, che per troppo amare le loro bestie, ne conservano perfino gli escrementi. Che cosa capita, allora? Che, capricciosi fino alla frenesia, questi cavalli prendano la mano e spacchino tutto, anche quando sono accostati in modo gentile e con le migliori intenzioni. Più si viziano, e meno sono riconoscenti». I principi taoisti riguardanti l'utilizzazione degli uomini e la conduzione degli affari, principi che sono esposti nei brani che precedono, si riassumono dunque come segue: trattare tutto da lontano e dall'alto [in modo sintetico]; in generale nessun particolare, senza applicazione eccessiva, evitare di preoccuparsi [in modo abnorme]. Prudenza, adattabilità, pazienza e un certo laisser-aller [naturalezza nei comportamenti]; pur tuttavia, nessuna debolezza, al punto di non temere neppure la morte, la quale per il taoista non si presenta come un'eventualità temibile. Il seguito (si veda cap.I, F) è dedicato all'astensione dall'azione diretta in prima persona, al ritiro dalla medesima, che i Taoisti hanno sempre posto al di sopra dell'azione [individuale partecipata passionalmente]; perché l'inazione conserva, mentre l'azione usura. [Nota di L. Wieger] D Il maestro carpentiere Scie, in viaggio verso il paese di Z'i, passò in prossimità della rinomata quercia che dava ombra al tumulo della divinità [protettrice] del suolo, a Ch'iu-yuan. Il tronco di questo celebre albero era così grande da nascondere un bue. Si innalzava diritto a trenta metri d'altezza, e di qui faceva partire una decina di rami maestri in ciascuno dei quali si sarebbe potuto scavare un canotto. Intere folle venivano ad ammirarlo. Il carpentiere gli passò vicino senza degnarlo di uno sguardo. 139

139 «Ma guardate che roba!» gli disse uno dei suoi apprendisti. «Da quando mi servo di un'ascia non ho mai visto un pezzo di legno tanto bello. E voi non gli gettate neppure uno sguardo!» «L'ho visto» rispose il maestro. «Inadatto per ricavarvi una barca, una cassa da morto, un mobile, una porta, una colonna. È legno senza un utilizzazione pratica; vivrà a lungo». Ritornando da Z'i, il maestro carpentiere passò la notte a Ch'iu-yuan. L'albero gli apparve in sogno e gli disse: «Sì, gli alberi dal legno buono vengono tagliati ancor giovani. Agli alberi da frutta si spaccano i rami nella frenesia di strappar loro i frutti. A tutti è fatale la loro utilità; per cui io sono contento di essere inutile. Del resto, ciò che vale per noi alberi vale anche per voi uomini. Se sei un uomo utile, non arriverai alla vecchiaia». Il mattino dopo l'apprendista domandò al maestro: «Se quell'albero immenso è felice di essere inutile, perché si è lasciato fare genio del suolo?» Il maestro gli rispose: «L'hanno piantato lì senza chiedergli il suo parere, e non gliene importa molto. Non è certo la venerazione popolare a proteggere la sua esistenza, bensì la sua inadeguatezza per gli usi comuni. Del resto, la sua azione tutelare si riduce a non far nulla». Come dice il Saggio taoista, che, nominato a una carica suo malgrado, si guarda dall'agire [individualmente]. E È un'altra variazione sullo stesso tema, quasi identica; è un frammento simile, aggiunto al precedente, il quale termina in questo modo: «Quell'albero tutelare, inadatto agli usi comuni, ha [per questa ragione] potuto svilupparsi fino alle dimensioni che ha. La stessa inadeguatezza dà a taluni uomini l'opportunità di giungere alla trascendenza perfetta». F A Ching-scie, nel paese di Song, gli alberi crescono molto folti. I più piccoli vengono tagliati per farne gabbie per scimmie. Quelli di dimensioni medie vengono tagliati per farne abitazioni per gli uomini. I grandi sono tagliati per farne bare ai morti. Se ne vanno tutti prima del tempo, abbattuti dall'ascia, perché hanno qualche utilità. Se non ne avessero, invecchierebbero tranquillamente. Il trattato sulle vittime enuncia che i buoi dalla testa bianca, i maiali dal grugno schiacciato, gli uomini affetti da fistole, non possono essere sacrificati alla divinità protettrice del Fiume perché, dicono gli aruspici, tali esseri sono nefasti. Gli uomini trascendenti pensano che per loro [tali caratteristiche] siano faste, giacché conservano loro la vita. G Sciù lo storpio, un vero e proprio mostro, si guadagnava da vivere e manteneva una famiglia di dieci componenti facendo piccoli lavori di rammendo, di setacciatura, e così via. Quando il paese mobilitava i suoi uomini, nessuno lo chiamava. In occasione dei lavori comuni, a lui nessuno chiedeva niente. Quando c'era la distribuzione degli aiuti per i poveri, riceveva cereali e legna. La sua inabilità per le incombenze di tutti i giorni gli fruttò di vivere fino alla fine dei suoi giorni. Allo stesso modo la sua incapacità per gli incarichi di routine farà vivere l'uomo trascendente fino al termine [naturale] della sua vita. In occasione della sua visita al paese di C'iù, il matto Zié-u' grido a Confucio: «O 140

Fenice! O Fenice! [essere unico]. Certo il mondo è in decadenza; ma tu, cosa puoi farci? «L'avvenire non è ancora arrivato, il passato è già lontano. In tempi di ordine il Saggio lavora per lo stato; in tempi di disordine si occupa della propria salvezza. Adesso i tempi sono tali che sfuggire alla morte è [già] difficile. Non c'è più felicità per nessuno: su tutti incombono le disgrazie. Non è certo il momento che tu ti faccia vedere. Invano parlerai di virtù e senza scopo farai sfoggio della tua compostezza sussiegosa. «A me piace dibattermi come un folle; non interferire con la mia strada. A me va di camminare di traverso; non mi venire tra i piedi. Questo è il momento del non intervento». I Dando vita alle foreste, la montagna attira chi la spoglierà. Facendo colare il grasso fuso, l'arrosto attiva il fuoco che lo sta cuocendo. Si taglia l'albero della cannella perché la sua scorza è un condimento ricercato. Si incide l'albero della lacca per privarlo della sua linfa preziosa. Quasi tutti credono che essere reputati capaci di qualcosa sia un bene. In realtà, quel che è un vantaggio vero è esser giudicato inabile a tutto.

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IV Azione perfetta

A Nel principato di Lu c'era un certo Uang-t'ai, che aveva subito l'amputazione di entrambi i piedi (supplizio comune a quel tempo). Costui attirava a sé più discepoli di Confucio. C'iang-chi di ciò era stupito, e disse al suo Maestro: «Questo Uang-t'ai non fa prediche, non discute; e ciò nonostante quelli che vanno da lui vuoti ne ritornano pieni. Esiste forse un modo di insegnare senza parole, un procedimento impalpabile per influire sui cuori? Da dove viene l'influsso di quell'uomo?» «Dalla sua trascendenza» rispose Confucio. «Io l'ho conosciuto troppo tardi; dovrei chiedere di diventare suo discepolo. Tutti dovrebbero averlo per maestro». «E in cosa, precisamente, costui vi è superiore?» chiese C'iang-chi. «Costui» rispose Confucio «ha conquistato la perfetta imperturbabilità: [siccome] la vita e la morte gli sono entrambe indifferenti, il crollo dell'universo non gli provocherebbe nessuno smarrimento. Scrutando e scrutando, è arrivato alla verità immutabile, alla conoscenza del Principio universale unico. Lascia che tutti gli esseri si sviluppino secondo le loro potenzialità, mentre, per ciò che lo riguarda, egli si mantiene nel centro immobile di tutti i destini». «Non è che capisca bene» disse C'iang-chi. «Ci sono due modi di considerare gli esseri» riprese Confucio; «O come entità distinte, o come se fossero tutti compresi nel gran tutto A coloro che si sono elevati a quest'ultimo punto di vista, non importa molto di quel che percepiscono i loro sensi. È il loro spirito che domina, essendo tutta la sua attività concentrata. In questa loro visione globale, il particolare delle deficienze scompare. È in ciò che consiste la trascendenza di Uang-t'ai, trascendenza che la mutilazione del corpo non può diminuire». «Ah!» disse C'iang-chi «Adesso capisco. Il lavoro interiore l'ha reso padrone dei suoi sensi, e in tal modo è giunto all'impassibilità. Ma è questo stato, il qualcosa che gli fa correre dietro la gente?» «Certo» riprese Confucio; «la tranquillità del mentale attira coloro che cercano la saggezza, così come l'acqua calma attira quelli che desiderano specchiarsi. Nessuno va a rimirarsi nell'acqua che scorre. Nessuno chiede di imparare da un essere instabile. In mezzo alla folla degli umani è l'immutabilità che caratterizza il Saggio. La stessa cosa che accade, fra gli alberi a foglie caduche, ai pini e ai cipressi, che le foglie non le perdono. La stessa cosa che accadeva, fra la gente comune, all'imperatore Ciunn, sempre retto egli stesso, e capace di rettificare gli altri. Il segno esteriore di un tale stato interiore è l'imperturbabilità. Non quella dell'eroe, che per amore della gloria si precipita, solo, contro un esercito schierato in battaglia. Ma quella dello spirito che, superiore al cielo, alla terra e a tutti gli esseri, abita in un corpo al quale non tiene, non presta attenzione alle immagini che gli forniscono i sensi e conosce tutto di una conoscenza globale nella sua immutabile unità. Questo spirito, assolutamente indipendente, è padrone degli uomini: se decidesse di convocarli in massa, nel giorno fissato accorrerebbero tutti. Ma non vuol farsi servire». B 142

Anche a Cennt'u-chià avevano amputato entrambi i piedi, per una colpa vera o pre-

sunta. Nel principato di Ceng, egli seguiva, con Zé-c'ian, l'insegnamento di Pai-hunn-ugenn. Zé-c'ian disprezzava il mutilato, e pretese di avere la precedenza su di lui [quando lo incontrava]... «Alla scuola del nostro maestro non ci sono categorie» rispose Cennt'u-chià. «Se ci tenete all'etichetta andatevene da qualche altra parte. La polvere non si attacca a uno specchio ben pulito; se ci si attacca, è segno che lo specchio è umido o grasso. Le vostre pretese in materia di rituale provano che non siete ancora senza difetti». «Voi, il mutilato, mi date l'impressione di volervi atteggiare a Yao» ribatté Zéc'ian. «Se faceste un po' di esame di coscienza, forse trovereste qualche buona ragione per tacere». «State forse alludendo» disse Cennt'u-chià «alla pena a cui sono stato sottoposto, e pensando che me la sono meritata per qualche grave colpa. La maggioranza di quelli che si trovano nella mie condizioni proclamano ad alta voce che non avrebbe dovuto capitargli. Più savio di loro, io non dico niente, e mi rassegno senza protestare al mio destino. Chi passava a portata di vista del famoso arciere I, chiunque egli fosse, doveva esser trapassato da una freccia; se non capitava, era segno che non lo voleva il destino. Il destino ha voluto che io perdessi i piedi, e che altri li conservassero. La gente con i piedi mi burla perché io, i miei, li ho persi. Una volta mi dava fastidio. Ora questa debolezza l'ho colmata: sono diciannove anni che seguo l'insegnamento del mio maestro, ed egli, attentissimo al mio interno, non ha mai fatto il minimo accenno all'esterno. Voi, che siete suo discepolo, fate esattamente il contrario. Non potrebbe essere che aveste un po' torto?» Zé-c'ian accusò il colpo, mutò volto e rispose: «Non ne parliamo più». C Nel principato di Lu, un tale Sciù-scian, a cui era stata inferta la pena dell'amputazione delle dita dei piedi, era andato a chiedere a Confucio di accettarlo fra i suoi discepoli. «A che potrebbe servirvi?» gli disse questi, «Dal momento che non avete [neanche] saputo conservare l'integrità del vostro corpo?» «Era mia intenzione» rispose Sciù-scian, «per compensare tale perdita, imparare da voi a preservare la mia integrità spirituale. Il cielo e la terra sono generosi verso tutti gli esseri, quali essi siano, senza distinzione. Credevo che gli assomigliaste; non mi aspettavo di essere da voi respinto». «Scusate la mia ineducazione ed entrate» disse Confucio; «vi comunicherò quel che so». Dopo il colloquio, quando Sciù-scian se ne fu andato, Confucio disse ai discepoli: «Prendete animo al bene da questo esempio, figlioli! Avete visto che quel mutilato cerca di por riparo alle sue colpe passate. Voi cercate di non commetterne». Sciù-scian però, deluso dal comportamento di Confucio, si era rivolto a Lao-tan. «Quel C'ung-ni» gli aveva detto «non è certo un uomo superiore. Attira a sé dei discepoli, si atteggia a maestro e mira chiaramente a [procurarsi] un nome. L'uomo superiore, al contrario, tiene le preoccupazioni per pastoie e manette». «Perché» rispose Lao-tan «non avete approfittato del vostro incontro con lui per dirgli senza mezzi termini che la vita e la morte sono una sola e stessa cosa, e che tra il sì e il no non c'è da far distinzione? L'avreste magari aiutato ad affrancarsi dalle sue manette e pastoie». «Impossibile» rispose Sciù-scian. «Quell'uomo è troppo pieno di sé. Il Cielo l'ha punito accecandolo. Nessuno riuscirà più a fargli veder chiaro». 143

143 D Il duca Nai di Lu disse a Confucio: «Nel paese di Uei viveva un uomo di nome T'uò il brutto. Era di fatto la bruttezza in persona, un vero spaventapasseri. E tuttavia le sue mogli, i suoi concittadini e tutti coloro che lo conoscevano, andavano matti per lui. Come mai? Non era certo per la sua intelligenza, visto che la pensava sempre come gli altri. Non per la sua nobiltà, visto che veniva dal popolo. Non per la sua ricchezza, perché era povero in canna. Non per il suo sapere, perché del mondo conosceva solo il suo villaggio... «Volli conoscerlo anch'io. Era veramente brutto da far paura. Ciò nonostante mi conquistò, visto che conquistava tutti. Pochi mesi dopo gli ero amico. Prima che passasse un anno aveva ottenuto tutta la mia fiducia. Gli offrii il posto di ministro. Accettò con riluttanza e ben presto mi lasciò. Non riesco ancora a darmi pace di averlo perduto. Da dove viene il fascino che emana da quell'uomo?» «Tempo fa» rispose Confucio, «ho visto questa scena nel paese di C'iù: era morta una scrofa, e i suoi piccoli tettavano ancora alle sue mammelle. All'improvviso si sparpagliarono terrorizzati. Si erano accorti che la madre non li guardava più, che non era più la loro madre. Ciò che avevano amato in essa d'amore filiale non era il suo corpo, era quel che l'animava e che era scomparso: l'essenza materna che l'abitava. «Nel corpo di T'uò il brutto, aveva sede una virtù latente perfetta; era questa virtù ad attirare la gente a lui, nonostante la forma ripugnante del suo corpo». «E cos'è» chiese il duca Nai «la virtù perfetta?» «È» rispose Confucio «l'impassibilità affabile. La morte e la vita, la prosperità e la decadenza, il successo e l'insuccesso, la povertà e la ricchezza, la superiorità e l'inferiorità, il rimprovero e l'elogio, la fame e la sete, il freddo e il caldo, sono le vicissitudini alternanti di cui è fatto il destino. Esse si seguono l'una dopo l'altra, in modo imprevedibile, senza causa nota. «Queste cose sono trascurabili; occorre non permettergli di penetrare nel palazzo dello spirito, del quale turberebbero la tranquilla pace. Conservare questa pace in maniera stabile, senza lasciarla turbare neppure dalla gioia; far buon viso a tutto, a tutto adattarsi; questa» disse Confucio «è la virtù perfetta». «Perché» riprese il duca Nai «la dite "latente"?» «Perché» rispose Confucio «essa è impalpabile, come la calma che attira, nell'acqua di uno stagno. Alla stessa guisa, la calma pace del temperamento umano, non definibile in modo più specifico, tutto attira a sé». Qualche giorno dopo il duca Nai, da Confucio attirato al Taoismo, confidò a Maestro Minn l'impressione che aveva avuto da questa conversazione. «Fino ad ora» disse «avevo creduto che governare, controllare le statistiche e proteggere la vita dei miei sudditi fosse il mio dovere di stato. Da quando ho sentito parlare un uomo superiore (Confucio), ho la netta impressione di essermi sbagliato Ho fatto torto a me stesso dandomi troppo da fare, e al mio principato occupandomi troppo di esso. «D'ora in poi C'ung-ch'iù non è più uno dei miei sudditi, ma un amico, per il piacere che mi ha fatto aprendomi gli occhi». E Uno storpio era entrato tanto nelle grazie del duca Ling di Uei, che questi lo preferiva agli uomini di più bell'aspetto. Un altro personaggio, afflitto da un enorme gozzo, fu il consigliere preferito del duca Hoan di Z'i. L'aureola di una capacità superiore cancella [l'impressione esteriore] delle forme corporee alle quali si sovrappone. Il peggiore degli errori è badare al corpo e non tener 144

conto delle qualità interiori. Mantenendosi nel suo campo, che è quello della conoscenza globale, il Saggio disdegna la conoscenza dei particolari, le convenzioni, i sentimentalismi, l'artificiosità. Affrancato da questi dettagli artificiali e dispersivi, egli nutre il proprio essere dell'alimento celeste (spirito puro, dice la Glossa), distaccato dalle cose [puramente] umane. Nel corpo d'un uomo, non è più un uomo. Vive con gli uomini, ma è del tutto indifferente alla loro approvazione e alla loro disapprovazione, perché non ha più una sensibilità [individuale] propria. Infinitamente piccolo è ciò per cui è ancora un uomo (il corpo); infinitamente grande è ciò per cui è uno con il cielo (il suo spirito). F Hoei-zé (musicista e filosofo sofista) obiettò: «Un uomo non può giungere fino al punto di non avere più una sensibilità propria». «Certo che può» ribatté Chuang-tzu. «Allora» disse Hoei-zé, «non è più un uomo». «Un uomo lo è ancora» ribatté Chuang-tzu, «giacché il Principio e il cielo gli han dato le caratteristiche dell'uomo». «Se ha perduto il sentire dell'uomo» riprese Hoei-zé, «ha cessato di essere uomo». «Potrebbe essere così se ne avesse perduto anche la potenzialità» disse Chuang-tzu, «(giacché tale potenzialità si confonde con la natura); ma le cose così non stanno. Ne conserva la potenzialità, ma non se ne serve per distinguere, per schierarsi [da una parte o dall'altra], per legarsi o per opporsi. «Di conseguenza non dilapida senza costrutto quel corpo che gli è stato dato dal Principio e dal cielo. Del resto non è il caso vostro, che vi logorate inutilmente a comporre musica e a inventare sofismi».

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VI Il Principio, primo Maestro

A Saper tener conto dell'azione del cielo e dell'azione dell'uomo, questo è il culmine dell'insegnamento e della scienza. Saper quello che si è ricevuto dal cielo e quel che occorre aggiungervi da se stessi, questo è l'apogeo. Il dono del cielo è la natura che si è ricevuta alla nascita. La funzione dell'uomo è cercare, partendo da quel che sa, di imparare quel che non sa [ancora]; di conservare la propria vita fino al termine degli anni assegnati dal cielo, senza accorciarla per colpa propria. Saper ciò, questo è l'apogeo. E quale sarà il criterio di queste affermazioni, la cui verità non è evidente di per se stessa? Su cosa si fonda la certezza di questa distinzione tra il celeste e l'umano nell'uomo stesso?... Sull'insegnamento degli Uomini Veri. Da essi proviene il Vero Sapere. B

E questi Uomini Veri, cosa sono? Gli Uomini Veri dell'antichità si lasciavano consigliare anche dalle minoranze. Non ricercavano nessuna gloria, né militare né politica. Gli insuccessi non li rattristavano, i successi non li inorgoglivano. Nessuna altitudine dava loro il capogiro. L'acqua non li bagnava, il fuoco non li bruciava; e questo, perché si erano innalzati alle sublimi regioni del Principio. Gli Uomini Veri dell'antichità, non li turbava nessun sogno durante il sonno, nessuna tristezza durante lo stato di veglia. Non conoscevano la raffinatezza negli alimenti. La loro respirazione, calma e profonda, gli penetrava l'organismo fino ai talloni, mentre la gente comune respira solo con la gola, come provano gli spasmi della glottide di quelli che litigano; quanto più un uomo è preda della passione, tanto più la sua respirazione è superficiale. Gli Uomini Veri antichi non conoscevano l'amore per la vita e l'orrore per la morte. La loro entrata in scena, nella vita, non gli procurava alcuna gioia; il loro rientro tra le quinte, alla morte, non era accompagnato da nessun orrore. Calmi venivano, calmi se ne partivano, dolcemente, senza scosse, come se scivolassero sull'aria. Ricordandosi soltanto del loro ultimo inizio (nascita); non si preoccupavano della loro prossima fine (morte). Amavano la vita finché durava, e la dimenticavano alla partenza per un'altra vita, al [momento della] morte. In tal modo, il loro sentire di uomini non si opponeva al Principio in loro; l'umano [che era] in loro non disturbava il celeste. Così erano gli Uomini Veri. Di conseguenza il loro cuore era saldo, il loro atteggiamento era raccolto, la loro apparenza era semplice, il loro modo di fare era equilibrato, i loro sentimenti disciplinati. In ogni occasione facevano quel che era necessario fare senza far parte a nessuno dei loro motivi interiori. La guerra la facevano senza odiare, e il bene lo facevano senza amare. Non è un Saggio quegli a cui piace aprirsi, che si fa degli amici, che specula su tempi e circostanze, che non è indifferente al successo e all'insuccesso, che mette a re146

pentaglio la sua persona per la rinomanza o il favore. Hué-pu-hié, U-coang, Pai-i, Sciuz'i, Chi-zé, Su-u, Chi-t'uò, Scienn-t'u-ti, furono utili a tutti e a tutti fecero del bene, e nessuna emozione dei loro cuori viziò [mai] le loro azioni di bontà. Gli Uomini Veri antichi erano sempre imparziali, non erano mai compiacenti; sempre modesti, mai adulatori. Tenevano ai loro modi di vedere, ma senza arrivare alla durezza. Evidente era il loro distacco da tutto, ma non era innaturale. Le loro maniere erano tranquillamente gioconde. Tutti i loro atti avevano l'apparenza della naturalezza e della spontaneità. Ispiravano affetto con le loro maniere, e rispetto per le loro qualità. Sotto un aria di benevolenza apparente, si mantenevano dignitosamente a distanza dalla gente comune. Amavano la solitudine, e i loro discorsi non erano mai preparati. Era loro convinzione che nell'arte del governo i supplizi fossero ciò che più contava, ma li applicavano senza collera. I riti esteriori li ritenevano una cosa accessoria, e li praticavano quel tanto che era necessario per non sconcertare il volgo. Ritenevano una scienza il lasciar agire il tempo, e una qualità l'accomodarsi all'onda. Coloro che hanno pensato che si muovessero in modo [individuale] attivo, si sono sbagliati. In realtà si adattavano al flusso del tempo e degli avvenimenti. Amare e detestare erano per loro la stessa cosa; o meglio, non amavano e non detestavano. Consideravano tutto come essenzialmente uno, al modo del cielo, e distinguevano artificialmente i casi particolari, al modo degli uomini. Per cui, in loro non c era conflitto tra il celeste e l'umano. Ecco tutto ciò che fa, di un uomo, un Uomo Vero. C L'alternanza della vita e della morte è predisposta, come quella del giorno e della notte, dal Cielo. Se l'uomo si sottomette di buon grado alla fatalità [a ciò che è più grande di lui], nulla gli accadrà più che sia in contrasto con la sua volontà [particolare]. Se qualcosa succede che lo ferisca, questo è perché egli aveva concepito attaccamento per qualche essere. Se non si attacca a nulla, sarà invulnerabile. Esistono sentimenti più elevati degli amori ritenuti nobili. Invece di amare il Cielo come un padre, lo veneri come il culmine dell'universo. Invece di amare il principe al punto di morire per lui, si sacrifichi per il solo motivo [distaccato] della dedizione assoluta. Quando i corsi d'acqua si seccano, i pesci si ammucchiano negli incavi del fondo, e cercano di mantenersi umidi accostandosi gli uni agli altri. E questo si ammira perché lo si ritiene mutua carità! Non sarebbe stato invece meglio se, al momento giusto, essi avessero cercato, ciascuno per sé, di salvarsi in acque profonde? Invece di portar sempre ad esempio la bontà di Yao, e di ricordare a mo' di deterrente la malvagità di Chié, gli uomini non farebbero meglio a dimenticare questi due personaggi, e ad orientare il loro modo di comportarsi sulla perfezione informale del Principio? Il mio corpo fa parte della gran massa (del cosmo, della natura, del Tutto). È in essa il sostegno della mia infanzia, l'attività della mia età matura, la pace della mia vecchiaia, il riposo al momento della mia morte. Essa è stata buona, per me, durante lo stato di vita, essa sarà buona per me, durante lo stato di morte. Un oggetto può essere rubato da qualsiasi luogo specifico [in cui sia stato nascosto]; ma se sarà stato affidato al tutto, ciò non potrà avvenire. Identificatevi con la gran massa; in essa è la permanenza. Permanenza che non è immobile, [ma] catena di trasformazioni. Sé persistente attraverso mutazioni senza fine. Questa volta sono contento di essere in una forma umana. Ho già provato prima, e 147

147 proverò dopo, questa stessa contentezza di essere, in una successione senza fine di forme diverse, sequenza indefinita di soddisfazioni. E allora, perché dovrei aborrire la morte, l'inizio della mia prossima contentezza? Il Saggio si ricollega al tutto, di cui fa parte, il quale lo contiene e nel quale si trasforma. Affidandosi al concatenamento di questo processo di modificazioni, sorride alla morte prematura sorride all'età avanzata, sorride al suo inizio, sorride alla sua fine; sorride, e vuole che si sorrida, a tutte le vicissitudini. E questo perché sa che tutti gli esseri fanno parte del tutto, al cui interno tutto si trasforma. D Ora, questo tutto è il Principio, volontà, realtà, non-agente. Può essere trasmesso, ma non afferrato [da una o più facoltà individuali], assimilato ma non visto. Esso ha in se stesso la sua essenza e la sua radice. Prima che fossero il cielo e la terra, esso era, immutabile. Esso è la fonte della trascendenza dei Mani e del Sovrano degli Annali e delle Odi. Esso generò il cielo e la terra degli Annali e delle Odi. Esso era, prima della sostanza senza forma, prima dello spazio, prima del mondo, prima dei tempi; senza che con ciò si possa dirlo elevato, profondo, durevole, antico. Hi-uei lo conobbe, e da questa conoscenza trasse le leggi fisiche. Ad esso l'Orsa (il polo) deve la sua fissità imperturbabile. Ad esso il sole e la luna devono il loro percorso. Per virtù sua C'an-p'ei si stabilì sui monti C'unn-lunn, Fang-i seguì il corso del Fiume Giallo, Chien-u si rifugiò sul monte T'aiscian, Hoang-ti salì al cielo, Cioan-hu dimorò nel palazzo azzurro, U-ch'iang diventò la divinità protettrice del Polo Nord, Si-uang-mu risiedette a Sciao-coang. Nessuno sa nulla, né del suo inizio, né della sua fine. In virtù di esso P'eng-zù visse a partire dai tempi dell'imperatore Sciunn fino a quello dei cinque Signori. Per sua virtù Fu-ué governò l'impero del suo signore, l'imperatore U-ting, e dopo la morte diventò una stella (nella costellazione del Sagittario). E Maestro C'oei, soprannominato Nan-pai, domandò a Niu-u: «Com'è che, nonostante la vostra venerabile età, voi avete la freschezza d'un fanciullo?» «E perché» rispose Niu-u, «avendo vissuto in conformità con la dottrina del Principio, io non mi sono logorato». «Potrei apprenderla, io, questa dottrina?» chiese Maestro C'oei. «Voi non ne possedete i requisiti» rispose Niu-u. «Può-leang-i, invece, aveva le disposizioni richieste [le qualificazioni necessarie]. Gli insegnai. Dopo tre giorni aveva dimenticato il mondo esterno. Ancora sette giorni, e aveva perduto la nozione degli oggetti che lo circondavano. Altri nove giorni ancora, e aveva perduto la nozione della sua esistenza propria. Allora acquisì la penetrazione chiara, e grazie ad essa la scienza dell'esistenza temporanea nel concatenamento ininterrotto. Acquisita questa conoscenza, cessò di distinguere il passato dal presente e dal futuro, la vita dalla morte. Capì che in realtà uccidere non fa morire, generare non fa nascere, giacché è il Principio che sostiene l'essere attraverso le sue fini e le sue trasmutazioni. Per questo è chiamato giustamente il fissatore permanente. È da lui, il fisso, che tutte le mutazioni provengono». «Questa dottrina, l'avete inventata voi?» chiese Maestro C'oei. «No» rispose Niu-u, «l'ho appresa dal figlio di Fu-mei, discepolo del nipote di Laosong, discepolo di Cian-ming, discepolo di Nie-hu, discepolo di Su-i, discepolo di U-neù, discepolo di Hang-ming, discepolo di San-leaò, discepolo di I-scie». F 148

Zé-se, Zé-u, Zé-li, Zé-lai stavano conversando fra di loro. Uno di essi disse: «Chi

pensasse, come me, che ogni essere è eterno [nella sua essenza profonda], che la vita e la morte [degli esseri individuali] si succedono, che essere vivi o essere morti sono due fasi dello stesso essere, io, di costui, sarei amico». E poiché gli altri tre pensavano la stessa cosa, i quattro uomini risero all'unisono, e diventarono amici per la pelle. Accadde che Zé-u cadesse gravemente malato; egli era orribilmente curvo e deforme. Zé-se andò a rendergli visita. Respirando a fatica, ma con il cuore calmo, il moribondo gli disse: «Buono è l'autore degli esseri (il Principio, la Natura), che mi ha fatto, per questa volta, così come sono. Di lui non mi lamento. «Quando avrò abbandonato questa forma, se del mio braccio sinistro farà un gallo, canterò per annunciare l'alba. Se del mio braccio destro farà una balestra, abbatterò i gufi. Se del mio tronco farà una carrozza, e ad essa attaccherà la mia anima trasformata in cavallo, anche così ne sarò soddisfatto. «Ciascun essere [individuale] riceve nel tempo opportuno la sua forma, e alla sua ora l'abbandona. Stando così le cose, perché provare gioia o tristezza per queste vicissitudini? Non è proprio il caso. Come dicevano gli Antichi, la fascina è alternativamente affastellata e disciolta. L'essere [individuale] non si discioglie né si affastella [e lega] da solo. Egli dipende dal cielo per la morte e per la vita. Io, che sono un essere fra gli esseri, perché dovrei lagnarmi se debbo morire?» Più tardi Zé-lai anche lui s'ammalò; era vicino alla morte, e la sua respirazione era affannosa. La moglie e i bambini lo circondavano e piangevano. Zé-li andò a trovarlo e disse agli importuni: «State zitti! Uscite! Non disturbate il suo trapasso!» Poi, appoggiandosi a uno stipite della porta, rivolgendosi all'ammalato, disse: «Buona è la trasformazione; che farà di te? Dove te ne andrai? Diventerai il fegato di un topo, o la zampa di un insetto?» «Non m'interessa molto» disse il morente. «Qualunque sia la direzione in cui lo mandano i genitori, il figlio deve andarci. Ora, lo yin e lo yang, per l'uomo sono più dei suoi genitori. «Quando la loro rivoluzione [un loro ciclo completo] avrà decretato la mia morte [letteralmente: comporterà la mia morte], se non mi sottomettessi di buon grado, mi condurrei da ribelle. La gran massa [il tutto universale, (il cosmo) nella sua sintesi] mi ha portato nel corso di questa esistenza, mi ha servito per farmi vivere, mi ha consolato nella mia vecchiaia, mi dà la pace nel trapasso. Essa è stata buona, per me, nella vita, essa è buona verso di me, nella morte. «Prendiamo un fonditore che sia intento a lavorare il suo metallo in fusione. Se una porzione di questo metallo, saltando su nel crogiuolo, gli dicesse: "Voglio diventare una spada e nient'altro!", il fonditore penserebbe certo che quel metallo è sconveniente. Così sarebbe di un morente se, al momento della trasformazione, esclamasse: "Voglio tornare uomo, e nient'altro!" Evidentemente il trasformatore avrebbe ragione se lo trovasse impertinente. Il cielo e la terra (il cosmo) sono la gran fornace, il trasformatore è il gran fonditore; tutto quel che farà di noi ci deve andar bene. Affidiamoci a lui con tranquillità. La vita termina con un sonno, a cui segue un nuovo risveglio». G Maestro Sang-hu, Mong-zé-fan, Maestro Ch'inn-ciang, erano amici. Uno di loro chiese: «Chissà chi è perfettamente indifferente a ogni influsso, a ogni azione? Chi può innalzarsi nei cieli mediante la concentrazione, vagare nelle nubi con la speculazione, folleggiare nell'etere, dimenticare questa vita e la morte che viene?...» 149

149 I tre amici si guardarono e si misero a ridere, perché tutti e tre erano a quel punto, e si ritrovarono più amici di prima. Ora, uno dei tre, Maestro Sang-hu, morì, e Confucio mandò uno dei suoi discepoli, Zé-cung, alla casa dei morti, ad informarsi sulla necessità di un aiuto per i funerali. Quando Zé-cung arrivò, trovò i due amici sopravvissuti che cantavano davanti al cadavere, accompagnandosi con il liuto, il ritornello seguente: «O Sang-hu! O Sang-hu! Ora sei uno con il trascendente, mentre noi, purtroppo siamo ancora uomini, ohimè!» Zé-cung si rivolse a loro dicendo: «Pensate che sia conforme ai riti cantare in questo modo in presenza di un cadavere?... » I due uomini si guardarono, scoppiarono a ridere e risposero, parlando l'uno all'altro: «Ma che può capire, costui, dei nostri propri riti?» Zé-cung ritornò da Confucio, e dopo avergli riferito ciò che aveva visto, gli chiese: «Ma che persone sono costoro che, irrispettosamente, in disprezzo delle costumanze [rituali], cantano di fronte a un cadavere, senza mostrare traccia di dolore? Io non ne capisco più niente». «Costoro» rispose Confucio «si muovono fuori del mondo, mentre io è nel mondo che mi muovo. Tra loro e me non può esserci nulla in comune. Ho fatto male a mandarti. Secondo la loro dottrina l'uomo deve vivere in comunione con l'autore degli esseri (il Principio del cosmo) facendo riferimento a quando il cielo e la terra non erano ancora separati. «Secondo loro la forma di cui sono rivestiti nel corso di questa esistenza è un elemento accessorio, un'appendice, da cui la morte li libererà, in attesa che rinascano in un'altra esistenza Di conseguenza non ci sono per loro una morte e una vita, un passato e un futuro, nel senso comune delle parole. «A loro giudizio, la sostanza materiale dei loro corpi è servita, e servirà successivamente, a una quantità di esseri diversi. Contano poco le proprie viscere e organi corporei per gente che postula una successione ininterrotta di inizi e di fini. «Costoro si muovono in ispirito fuori da questo mondo di polvere, e si astengono da qualsiasi commistione con le sue vicissitudini. Perché dunque si dovrebbero dar la pena di compiere i riti [esteriori] comuni, o anche soltanto di aver l'aria di compierli?» «Ma perché allora, Maestro» chiese Zé-cung, acquisito al Taoismo, «voi invece fate di questi riti il fondamento del vostro modo di comportarvi?» «Perché il Cielo mi ha condannato a questa pesante bisogna (sic)» rispose Confucio. «Io parlo così, ma in fondo, al pari di te, non ci credo più [al modo esteriore]. I pesci nascono nell'acqua, gli uomini nel Principio. I pesci vivono d'acqua, gli uomini del nonagire. Ognuno per sé nell'acqua, ognuno per sé nel Principio. «Il vero uomo superiore è quegli che ha tagliato con tutto il resto, per aderire unicamente al cielo. Solo lui dovrebbe esser chiamato Saggio dagli uomini. Troppo spesso, invece, gli uomini chiamano Saggio chi è soltanto un essere comune al cospetto del Cielo». H Yen-hoei disse a Ciung-ni (Confucio): «Quando morì la madre di Mongsunn-z'ai, al suo funerale il figlio emise le lamentazioni [rituali] canoniche senza versare neppure una lacrima, ed eseguì i riti [funebri] senza [mostrare] il minimo dolore. Ciò nonostante, nel paese di Lu l'opinione è che si sia comportato conformemente ai dettami della pietà filiale. Io non ci capisco più niente». 150

«È di fatto vero» rispose Confucio, «ma l'ha fatto da quell'iniziato che è. Non poteva infatti astenersi dal compiere i riti esteriori, poiché questo avrebbe troppo sconcertato la gente comune; sennonché si è astenuto dal manifestare i sentimenti interiori della gente comune, che egli non condivide. «Secondo quanto egli pensa, lo stato di vita e quello di morte sono la stessa cosa; inoltre egli non distingue un'anteriorità e una posteriorità tra tali stati, perché li ritiene anelli di una catena indefinita. Egli professa [la teoria] che gli esseri subiscono fatalmente delle trasmutazioni successive, che devono accettare consenzienti, senza preoccuparsene. Quando è immerso nel flusso di queste trasmutazioni l'essere [individuale] ha solo una conoscenza confusa di quel che gli accade. Ogni [stato di] vita [manifestazione] è come un sogno. Tu e io che stiamo ora conversando, siamo anche noi due sognatori non [ancora] svegliati. «Perciò della morte, la quale per Mongsunn-z'ai altro non è che un cambiamento di forma, non è il caso di affliggersi; non più [per lo meno] che del fatto di dover lasciare un'abitazione in cui si è risieduto un solo giorno. E poiché le cose stanno in questo modo, Mongsunn-z'ai si è limitato a praticare soltanto il rito esteriore. In tal modo non ha contraddetto né la gente comune, né le sue proprie convinzioni». «Nessun uomo comune sa con certezza che cos'è che lo fa essere lui, vale a dire la natura intima del suo io [individuale]. Lo stesso uomo che poco prima ha sognato di essere un uccello volteggiante in cielo, sogna subito dopo che è un pesce immerso negli abissi. Ciò che dice, non può rendersi conto se lo dice da sveglio o da addormentato. Niente di ciò che capita vale la pena che se ne resti scossi. La pace consiste nell'attendere con sottomissione gli ordini del Principio. Nel momento della partenza dalla vita presente, l'essere rientra nella corrente delle trasmutazioni. È questo il significato dell'adagio "operare l'unione con l'infinito"». I I-ell-zé aveva fatto visita a Hu-yu; questi gli chiese cosa gli avesse insegnato Yao. «Mi ha detto» rispose I-ell-zé «di praticare la bontà e l'equità, di fare un'accurata distinzione tra il bene e il male». «E allora» gli domandò Hu-yu «perché adesso venite da me? Dopo essere stato, da Yao, imbottito di principi terra-terra, avete perduto ogni capacità di essere preparato a idee più elevate». «Io però lo desidero» rispose I-ell-zé. «Come desiderio è irrealizzabile» rispose Hu-yu. «Un uomo a cui siano stati accecati gli occhi, non è più in grado di imparare qualcosa sui colori». «Voi ne avete raddrizzati altri» disse I-ell-zé «che erano stati stortati; perché non dovreste riuscire a raddrizzare anche me?» «Non ci sono molte speranze» rispose Hu-yu. «Ad ogni modo, ecco qual è la mia dottrina: «O principio! Tu che dai a tutti gli esseri quel che loro compete, non hai mai preteso di esser detto equo. Tu, i cui benefici si estendono a tutti i tempi, non hai mai preteso di esser detto caritatevole. «Tu, che eri prima che l'origine fosse, e che non pretendi di esser detto venerabile. Tu che avvolgi e sostieni l'universo, producendo tutte le forme, senza pretendere di esser detto abile, è in Te che io mi muovo». J

Yen-hoei, il discepolo preferito di Confucio, un giorno gli disse: «Sto avan151

151 zando...» «Come fai a saperlo?» gli domandò Confucio. «Sto perdendo» disse Yen-hoei «la nozione della bontà e dell'equità». «Va molto bene» rispose Confucio, «ma non è tutto». Un'altra volta Yen-hoei disse a Confucio: «Sto sviluppandomi...» «Da cosa lo deduci?» domandò Confucio. «Dimentico i riti [esteriori] e la musica» disse Yen-hoei. «Va bene» rispose Confucio, «ma non è tutto». Ancora una volta Yen-hoei disse a Confucio: «Sto progredendo...» «Quali sono i segni?» domandò Confucio. «Adesso» disse Yen-hoei, «quando mi siedo per meditare, dimentico completamente tutto». Emozionatissimo, Confucio chiese: «Sarebbe a dire?» Yen-hoei rispose: «Liberandomi dal corpo, annullando la mia intelligenza [individuale], abbandonando ogni forma, allontanando ogni scienza, mi unisco a colui che tutto penetra. Questo è quel che intendo dicendo che mi siedo e dimentico tutto». Confucio esclamò: «Questa è l'unione, nella quale ogni desiderio cessa; questa è la trasformazione, nella quale l'individualità si perde. Hai raggiunto la vera saggezza. Sii ormai il mio maestro!» K Zé-u e Zé-sang erano amici. Accadde una volta che la pioggia cadesse a catinelle per dieci giorni di seguito; temendo che Zé-sang, il quale era poverissimo, impossibilitato a uscire, si ritrovasse senza provviste, Zé-u preparò una sporta di alimenti e andò a portarglieli. Avvicinandosi alla porta dell'amico udì la sua voce, a metà tra canto e lamento, che invocava, accompagnandosi al liuto: «O padre! O madre! O cielo, o umanità!...» La voce era debole e il cantò singhiozzante. Zé-u entrò e trovò Zé-sang morente di fame. «Cosa stavate cantando?» gli domandò. «Stavo riflettendo» disse Zé-song «su quali potessero essere le cause della mia estrema miseria. «Essa non proviene certo dalla volontà di mio padre e di mia madre; e nemmeno da quella del cielo e della terra, che coprono e sostengono tutti gli esseri. Non trovando nessuna causa logica della mia situazione angosciosa, arrivai alla conclusione che era il mio destino!»

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VII Governo ideale

A Nié-c'ué fece quattro domande a Uang-i, il quale non seppe rispondervi. Saltellando dalla gioia, Nié-c'ué informò P'u-i-zé del suo successo. «Siete sicuro di essergli veramente superiore?» gli chiese P'u-i-zé. «L'imperatore Sciunn non fu all'altezza dell'antico sovrano T'ai-scie. Invaghito di quelle che credeva essere le proprie virtù, Sciunn criticava sempre gli altri. Il vecchio T'ai-scie non fu così pieno di malizia; dormiva tranquillo e nello stato di veglia non era turbato dalle preoccupazioni. Di se stesso non aveva un'opinione maggiore di quella che avesse di un cavallo o di un bue. Semplice e pacifico, non criticava nessuno. Voi assomigliate piuttosto a Sciunn». B Chien-u andò a trovare Zié-u il folle, il quale gli chiese: «Cosa avete imparato da Gie-ciung-scie?» «Da lui ho imparato» disse Chien-u «che quando i prìncipi promulgano regole e obbligano la gente a osservarle, tutto va bene». «Tutto sembra andar bene» esclamò Zié-u. «Apparenza ingannevole! Solo l'esterno è [in questo caso] governato, e non l'interno. Voler governare con questi procedimenti, è come voler attraversare il mare a guado; far tenere il Fiume Giallo in un letto, far reggere una montagna a una zanzara, cose assolutamente impossibili. Il Saggio non regola l'esterno. Dà l'esempio della rettitudine, esempio che gli uomini seguiranno se ne hanno voglia. Il Saggio è troppo prudente per far qualcosa di più; è come l'uccello che vola alto per evitare le frecce, o il topo che fa un buco tanto profondo da non essere snidato col fumo, né scoperto se si scava. Emettere leggi è inutile e dannoso». C T'ienn-chienn, errando a sud del monte Yinn, nei pressi del fiume Leaò, incontrò U-ming-genn e gli chiese a bruciapelo: «Come si fa a governare l'impero?» U-ming-genn gli rispose: «Sei un maleducato a fare una domanda così in un simile modo. E poi, perché dovrei preoccuparmi del governo, io che, disgustato del mondo, vivo nella contemplazione del Principio, vagando nello spazio al modo degli uccelli e innalzandomi fino al vuoto, al di là dello spazio stesso?» T'ienn-chienn insistette. A questo punto U-ming-genn gli disse: «Mantieniti nella semplicità, tieniti nel vago, lascia che le cose procedano [secondo la loro legge di sviluppo], non desiderare nulla per te stesso, e l'impero risulterà ben governato, giacché così tutto seguirà il suo corso naturale». D Yang-zé-chiu andò a trovare Lao-tan e gli chiese: «Non è forse vero che un uomo intelligente, coraggioso e zelante potrebbe essere paragonabile ai re savi dell'antichità?» «No» rispose Lao-tan. «La sua situazione sarebbe quella dei funzionari di basso rango, oberati di lavoro e travagliati dalle preoccupazioni. Le sue qualità lo condurrebbero alla rovina. 153

153 «La tigre e il leopardo vengono ammazzati per la bellezza delle loro pelli. La scimmia e il cane sono ridotti in schiavitù per le loro abilità». Stupito, Yang-zé-chiu riprese: «Ma che facevano, allora, i re savi?» «I re savi» rispose Lao-tan «diffondevano i loro benefici sull'impero senza far sentire che ne erano loro gli autori. Miglioravano tutti gli esseri, non attraverso azioni sensibili, ma mediante un influsso impercettibile. Nessuno li conosceva, e facevano tutti felici. Planavano sull'abisso e si muovevano nel non-essere (ossia: non facevano nulla di definito, ma lasciavano procedere la "ruota delle cose")». E A Cieng c'era uno stregone dai grandi poteri, il cui nome era Chi-hien. Quest'uomo sapeva tutto sulla vita e la morte, sulla prosperità e la rovina della gente, fino al punto di saper predire il giorno della morte di ciascuno con tanta precisione quanta ne avrebbe potuto avere un demone. La gente di Cieng, che non ci teneva molto a saperla così lunga, scappava perciò il più lontano che poteva quando lo vedeva arrivare. Lieh-tzu era andato a trovarlo, ed era stato affascinato da quell'uomo. Ritornato dalla visita, egli disse a Hu-zé, suo maestro: «Fino a oggi ritenevo che il vostro insegnamento fosse il più elevato, ma ora ho trovato di meglio». «Ne siete proprio sicuro?» gli rispose Hu-zé «[Badate che] avete da me ricevuto solo il mio insegnamento exoterico, e non ancora quello esoterico, che ne è il germe fecondo, il principio vitale. Il vostro sapere attuale è come quelle uova sterili che covano le galline senza gallo; gli manca l'essenziale. «E quanto alle capacità divinatorie di quello stregone, non sarà che l'abbiate lasciato leggere nel vostro intimo? Portatelo da me, e vi farò vedere che vede soltanto quel che gli si lascia vedere». Il giorno dopo Lieh-tzu fece venire l'indovino, il quale, come medico, visitò Hu-zé in qualità di malato. Alla fine della visita, l'indovino disse a Lieh-tzu: «Il vostro maestro è un uomo morto; tra dieci giorni non ci sarà più; al vederlo ho avuto la percezione come di ceneri umide». Lieh-tzu tornò nella stanza piangendo a calde lacrime, e riferì a Hu-zé le parole dello stregone. «In realtà» disse Hu-zé, «È perché mi sono fatto vedere da lui sotto un aspetto di terra durante l'inverno, con tutte le mie energie raccolte. Questo fenomeno, nella gente comune, si presenta soltanto all'avvicinarsi della morte; per cui egli ha dedotto che la mia fine era prossima. Portamelo di nuovo, e vedrai il seguito dell'esperimento». L'indomani Lieh-tzu ricondusse l'indovino. Dopo la visita, questi dichiarò: «È andata bene che il vostro maestro si sia rivolto a me. Va già meglio. Oggi in lui ho visto solo segnali di vita; quel che ho visto ieri corrispondeva perciò soltanto a un episodio, non alla fine vera e propria». Quando Lieh-tzu riferì queste parole a Hu-zé, questi rispose: «La ragione di quel che ha detto è che mi sono fatto vedere a lui sotto l'apparenza di una terra riscaldata dal sole, con tutte le mie energie in piena attività. Portalo ancora qui». Il giorno seguente Lieh-tzu portò nuovamente l'indovino. Al termine della visita questi disse: «È uno stato troppo indefinito; non ne posso trarre nessuna indicazione. Quando la situazione sarà più dichiarata mi pronuncerò». Lieh-tzu riferì tali parole a Hu-zé, il quale spiegò: «Questa volta mi sono mostrato a lui sotto la figura del gran caos, con tutte le mie energie bilanciate. Non poteva distin154

guere nulla. Un gorgo, un mulinello, può essere provocato da un mostro marino, o da uno scoglio, o da una corrente, o da altre sei cause; si tratta di qualcosa di non determinato, che può avere nove spiegazioni diverse. A maggior ragione il gran caos. Portalo qui ancora una volta». L'indomani Lieh-tzu ricomparve con l'indovino. Alla prima occhiata questi fuggì terrorizzato. Lieh-tzu gli corse appresso, ma non poté raggiungerlo. «Non tornerà più» disse Hu-zé. «Mi sono mostrato a lui nello stato corrispondente alla mia "uscita" dal Principio. Egli ha quindi visto, in un vuoto insondabile, come un serpente che si srotola; un proiettarsi, uno sgorgare. Era uno spettacolo per lui inintelligibile; l'ha quindi terrificato e fatto fuggire». Convintosi finalmente che era ancora solo un ignorante, Lieh-tzu si ritirò nella sua casa, dove restò per tre anni consecutivi. Sbrigò le faccende domestiche di sua moglie e servì i maiali con rispetto, allo scopo di eliminare in sé la vanità che l'aveva quasi indotto ad abbandonare il suo maestro. Si libero di qualsiasi interesse, eliminò ogni residuo di cultura artificiale, indirizzò tutte le sue forze verso la semplicità originaria. Alla fine di questi sforzi diventò schietto come una zolla di terra, chiuso, e insensibile a tutto ciò che accadeva intorno a lui; e in questo stato perseverò fino alla fine dei suoi giorni. F Fate del non-agire la vostra gloria, la vostra ambizione, il vostro mestiere, la vostra scienza. Il non-agire non consuma. È impersonale. Restituisce ciò che ha ricevuto dal cielo senza nulla conservare per sé. In sintesi: è un vuoto. L'uomo superiore esercita la propria intelligenza al modo di uno specchio. Egli sa e conosce senza che ne risulti né attrazione né repulsione; senza che ne persista alcuna impronta. In questo modo, egli è superiore a ogni cosa, e neutro al loro riguardo. G Infuriato, re del mare del Sud, e Scervellato, re del mare del Nord, se la intendevano perfettamente con Caos, re del Centro. I primi due si chiedevano che piacere avrebbero potuto fargli. «Gli uomini» si dissero «hanno sette orifizi (gli organi di senso, due occhi, due orecchi, due narici, una bocca). Quel povero Caos non ne ha nessuno; dobbiamo praticargliene qualcuno». Si misero perciò all'opera, e gliene fecero uno al giorno. Il settimo giorno Caos morì (vale a dire: cessò di essere Caos, poiché si mise a distinguere). Gli esseri bisogna lasciarli nel loro stato [normale] di natura, e non cercare di perfezionarli artificialmente, se no cessano di essere quel che erano, e dovevano restare.

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VIII Piedi palmati

A Se una membrana collega tra di loro le dita dei piedi, se la mano ha un dito in più, è il corpo che li ha prodotti, questo è vero, ma certo in eccesso su quel che dovrebbe essere normale. Stessa cosa per un'escrescenza o un tumore; quantunque uscite dal corpo, queste inutili addizioni sono contro natura. Altrettanto si può dire delle teorie diverse sulla bontà e l'equità, (virtù) generate dall'animo, e dei gusti che originano dai cinque visceri (del temperamento) di ciascun uomo. Queste cose non sono naturali, ma artificiali, [quindi] morbose. Esse non sono conformi alla norma. Sì: così come la membrana che collega le dita dei piedi di un uomo, e il dito in più in una mano, disturbano i suoi movimenti fisici naturali; così i gusti indotti dalle sue viscere e le virtù immaginate dal suo animo, disturbano il suo funzionamento comportamentale naturale. La degradazione del senso della vista ha portato agli eccessi di colore e di ornamentazione, di cui è stato promotore il pittore Li-ciu. La degradazione del senso dell'udito ha prodotto gli abusi nell'utilizzazione degli strumenti e negli accordi, che furono patrocinati dal musicista Scie-c'oang. Le teorie sulla bontà e l'equità hanno prodotto quei cacciatori di rinomanza che furono Zeng-scienn, Scie-z'iù e anche altri, i quali diffusero con flauti e tamburi, in tutto l'impero, le loro irrealizzabili utopie. L'abuso nella dialettica generò gli Yang-ciù e i Mei-ti, uomini che fabbricarono argomentazioni e sbrodolarono deduzioni [con lo stesso ritmo con cui] si plasmano tegole e si intrecciano corde; uomini per i quali dissertare sulle sostanze e gli accidenti, sulle somiglianze e le discrepanze, fu un [semplice] gioco mentale; sofisti e retori che si logorarono in sforzi e parole inutili. Tutto ciò è solo superfluità vana, contraria alla verità, la quale consiste nel conservare il naturale e nell'escludere l'artificiale. Non bisogna violentare la natura, neppure con il pretesto di rettificarla. Il composto resti composto e il semplice, semplice. Il lungo resti lungo, e il corto, corto. Evitate di cercar di allungare le zampe all'anatra, o di accorciarle alla gru. Tentare di farlo le farebbe soffrire, e questa è la caratteristica di tutto ciò che è contro natura, mentre il piacere è sintomo di naturalezza. B Da questi principi si deduce che la bontà e l'equità artificiali di Confucio non sono sentimenti naturali nell'uomo, poiché la loro acquisizione e il loro esercizio sono accompagnati da costrizione e sofferenza. Gli uomini che hanno i piedi palmati o dita di troppo, quando si muovono soffrono per questa loro manchevolezza o eccesso fisico. Coloro che ai giorni nostri parteggiano per la bontà e l'equità, soffrono nel vedere come vanno le cose, soffrono nella loro lotta contro le passioni umane. No, la bontà e l'equità non sono sentimenti naturali; perché, se così fosse, nel mondo ce ne sarebbe di più, e il mondo, invece, da quasi diciotto secoli non è più che lotta e clamore. L'uso del settore circolare e del filo a piombo, del compasso e della squadra, genera forme regolari soltanto a prezzo dell'eliminazione di elementi naturali. Gli elementi di 156

collegamento, i collanti che li tengono a posto, le vernici che li ricoprono, fanno violenza ai materiali dei prodotti dell'arte. Il ritmo nei riti e nella musica, le declamazioni ufficiali sulla bontà e l'equità, il cui scopo è di influire sul cuore degli uomini, sono tutte cose contro natura, artificiali, frutto di pura convenzione. La natura, è lei che regge il mondo. È per effetto della natura che gli esseri curvi sono diventati curvi, senza nessun bisogno del settore circolare; gli esseri dritti sono diventati dritti, senza nessun bisogno del filo a piombo; quelli circolari e quadrati senza nessun bisogno del compasso e della squadra. Nella natura tutto è connesso, senza elementi di collegamento artificiali, senza collanti, senza vernici. Tutto diventa [come deve diventare], senza violenza, in conseguenza di una sorta di richiamo, o di attrazione irresistibile. Gli esseri non si rendono conto del perché del loro divenire; si sviluppano senza sapere come, perché la norma del loro divenire e del loro sviluppo è interna ad essi. Le cose sono sempre state così; così è ancora; è una legge immutabile. Se questo è vero [come lo è], perché avere allora la pretesa di tenere insieme gli uomini con lo spago e di legarli gli uni agli altri con i legami artificiali di bontà ed equità, con i riti e la musica, corde colla e vernice dei pensatori-politici? Perché non lasciare che seguano la propria natura? Perché volergli far dimenticare questa natura? Da quando l'imperatore Sciunn (pressappoco nell'anno 2255) sconcertò l'impero con la sua falsa formula della «bontà ed equità», la natura umana è sofferente, soffocata dall'artificiosità e dalla convenzionalità. C Sì, [perché è così]: dall'epoca di Sciunn ai giorni nostri gli uomini corrono dietro ad esche variate, non alla propria natura. La gente comune si ammazza per il denaro; i letterati si ammazzano per la reputazione; i nobili si ammazzano per il buon nome del loro casato, i Saggi si ammazzano per l'impero. [Quelli che sono diventati] uomini celebri, [anche se] di diversa condizione, hanno in comune questo: l'aver agito contro natura e l'essersi di conseguenza rovinati. Che importanza può avere la diversità del modo, se poi il risultato, fatale, è sempre lo stesso? Due pastorelli che abbiano perduto le loro pecore, uno perché stava studiando, l'altro perché stava giocando, alla fine dei conti hanno patito la stessa perdita. Pai-i perì per amore della gloria, Ceé perché era un brigante; il motivo è diverso, il risultato identico. Ciò nonostante la storia ufficiale dice che Pai-i fu un personaggio di gran nobiltà, perché si sacrificò per la bontà e l'equità; dice invece che Ceé fu un uomo qualunque, perché perì a causa del suo desiderio di possesso. A ben riflettere, dal momento che la conclusione a cui giunsero è stata la medesima, non ci sarebbe proprio da usare, nei loro confronti, la distinzione «nobile-comune». Entrambi fecero scempio della propria natura, entrambi perirono nello stesso modo. Di conseguenza, come mai tessere le lodi di Pai-i e prendersela con Ceé? D No, anche se avesse uguagliato [nei meriti] Zeng-scienn e Scie-z'i_, non parlerei bene di qualcuno che abbia violentato la propria natura, praticando la bontà e l'equità. Non parlerei bene di chi si sia dedicato allo studio dei sapori, o dei suoni, o dei colori, anche se fosse celebre come U-ell, o come Scie-c'oang, o come Li-ciù. No, l'uomo non è buono perché pratica la bontà e l'equità artificiali; è buono in quanto esercita le sue facoltà naturali. Fa un buon uso del gusto colui che soddisfa i propri appetiti naturali. Fa un buon uso dell'orecchio colui che ascolta il proprio senso interiore. Fa un buon uso della 157

157 vista colui che guarda soltanto se stesso. Coloro che tengono conto degli altri e li ascoltano, fatalmente assimilano qualcosa del loro modo di fare e di giudicare, a detrimento della dirittura del proprio senso naturale. E poiché hanno abdicato alla loro dirittura naturale mi importa poco che siano tenuti per briganti come Ceé o per savi come Pai-i; per me restano soltanto degli sviati. E questo perché, per me, la regola è la conformità o no alla natura. La bontà e l'equità artificiali sono per me altrettanto repulsive quanto il vizio e la depravazione.

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IX Cavalli addomesticati

A I cavalli sono naturalmente forniti di zoccoli in grado di calpestare la neve, e di un manto di pelo in grado di proteggerli dal vento freddo. Si nutrono d'erba, bevono acqua, corrono e saltano. Questa è la loro vera natura. Di palazzi e di grandi scuderie non sanno che farsene. Dopo che Pai-lao, il primo scudiere, affermò che solo lui s'intendeva di cavalli; quando ebbe insegnato agli uomini a marchiare con il ferro rovente, a tosare, a ferrare, a imbrigliare, a impastoiare, a ricoverare nelle stalle queste povere bestie, tre o quattro cavalli su dieci incominciarono a morire prima del tempo, in conseguenza delle violenze fatte alla loro natura. Quando, con il progredire continuo dell'arte di allevare i cavalli, si fecero loro soffrire la fame e la sete per renderli più resistenti; quando furono obbligati a galoppare per squadriglie, per ordine e in cadenza, per renderli più atti alla guerra; quando le loro bocche furono torturate dal morso, e le loro groppe fustigate dagli staffili, a quel momento, su dieci cavalli ne morirono cinque prima del tempo, a causa di tali violenze fatte alla loro natura. Quando il primo vasaio annunciò che era competente nell'impiego dell'argilla, con questo materiale si fecero, sul tornio, vasi tondi e, nelle forme, mattonelle rettangolari. Quando il primo carpentiere proclamò che sapeva lavorare il legno, a questo materiale si dettero forme curve o diritte con il curvilineo e la cordicella. Sono questi, veramente, modi di trattare i cavalli, l'argilla, e il legno secondo la loro natura? Evidentemente no! È ciò nonostante di epoca in epoca, gli uomini hanno continuato a lodare il primo scudiere, il primo vasaio e il primo carpentiere per la loro abilità e per le loro invenzioni. B In modo simile sono lodati, per la loro abilità e per le loro invenzioni, coloro che hanno trovato la moderna forma di governo. A mio giudizio si tratta di un errore. All'epoca dei valenti sovrani dell'antichità la condizione degli uomini era tutta diversa. I loro sudditi seguivano la loro natura, e la loro natura soltanto. Tutti gli uomini, indistintamente, si procuravano di che vestirsi con la tessitura, e di che nutrirsi con l'agricoltura. Essi costituivano un tutto senza divisioni, retto dalla sola legge di natura. In tali tempi di aderenza perfetta alla natura gli uomini camminavano come meglio credevano e lasciavano completa libertà agli occhi di dirigere i loro sguardi dove volevano; nessun rituale regolava il modo di marciare e di guardare. Sulle montagne non c'erano né sentieri né camminamenti; sui corsi d'acqua non c'erano né battelli né dighe. Tutti gli esseri nascevano e abitavano in comune. Volatili e quadrupedi vivevano dell'erba che cresceva spontaneamente. [Coscienti che] l'uomo non faceva loro alcun male, gli animali si lasciavano condurre da lui senza timore, gli uccelli non si impaurivano se gli si guardava nel nido. Sì, in quei tempi di perfetta aderenza alla natura, l'uomo viveva in fraternità con gli 159

159 animali, in regime di uguaglianza con tutti gli esseri. Si ignorava a quei tempi, fortunatamente, la distinzione resa tanto celebre da Confucio, tra il Saggio e il volgo. Tutti allo stesso modo privi di scienza [artificiale, esteriore], gli uomini agivano in conformità con la propria natura. Tutti ugualmente privi di ambizione, vivevano con semplicità. In tutti la natura si sviluppava liberamente. C Quando comparve il primo Saggio [in senso «esteriore»], questa condizione finì. Vedendolo agghindarsi e contorcersi ritualmente, sentendolo perorare su bontà ed equità, stupiti, gli uomini si chiesero se per caso fino ad allora non si fossero sbagliati. Poi arrivarono l'ebbrezza della musica e l'invaghimento per le cerimonie. Ohimè! L'artificiale ebbe la meglio sul naturale. In seguito a ciò la pace e la carità scomparvero dal mondo. L'uomo fece la guerra agli animali, sacrificandoli al proprio lusso. Per fare i suoi vasi per le offerte, sottopose il legno alla tortura. Per fare gli scettri rituali inflisse l'intaglio alla giada. Con il pretesto della bontà e dell'equità, fece violenza alla natura. I riti [sociali] e la musica compromisero la naturalezza nei movimenti. Le regole della pittura introdussero il disordine nei colori. La scala ufficiale [dei suoni] introdusse il disordine nelle tonalità. In sintesi, gli artisti sono colpevoli di aver tormentato i materiali [per costruzione] allo scopo di eseguire i loro manufatti d'arte e i Savi [esoterici] sono da stigmatizzare per aver sostituito ai comportamenti naturali la bontà e l'equità fabbricate. Un tempo, nello stato di natura, i cavalli brucavano erba e bevevano acqua. Quando erano contenti si sfregavano l'uno contro l'altro il collo; quando erano irritati si giravano e si davano dei calci. Non avendo ancora subito l'allevamento artificiale, erano totalmente semplici e naturali. Ma una volta che Pai-lao li ebbe costretti ai finimenti e all'attacco [per il traino], divennero furbi e maliziosi, per repulsione al morso e alle briglie. È imputabile a lui il crimine di aver pervertito i cavalli. Ai tempi del vecchio imperatore Ho-su, gli uomini se ne stavano nelle loro abitazioni a non far nulla, o se ne andavano in giro senza sapere dove andavano [di preciso]. Dopo essersi ben riempita la bocca, si davano pacche sul ventre per manifestare la loro soddisfazione. Privi di pregiudizi precostituiti, erano completamente semplici e naturali. Ma quando il primo Saggio [secondo l'«esteriore»] gli ebbe insegnato a fare le reverenze rituali a tempo di musica, e le contorsioni sentimentali in nome della bontà e dell'equità, incominciarono le competizioni per il sapere e la ricchezza, le pretese fuori misura e le ambizioni insaziabili. È imputabile al Saggio il crimine di aver disorientato in questo modo l'umanità.

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X Piccoli e grandi ladri

A La gente comune chiude con solidi legacci e robuste serrature le sue borse e i suoi scrigni, per tema che i ladruncoli vi introducano le mani. Ciò fatto, si crede — ed è considerata — prudente Arriva poi un ladrone, che si porta via bisacce e casseforti, con legacci e serrature, ed è ben contento che gli abbiano confezionato i fagotti. Si verifica così che la prudenza di tal gente comune sia servita a preparargli il bottino. Lo stesso accade per il governo e l'amministrazione. Quelli che sono comunemente chiamati i Saggi [esteriori] altro non sono che gli imballatori dei briganti futuri. Un esempio: nel principato di Z'i tutto era stato organizzato secondo le leggi dei Saggi. La popolazione era tanta, che ogni villaggio poteva sentir cantare i galli e abbaiare i cani dei villaggi vicini. Con le reti e le nasse si sfruttavano le acque, con gli aratri e le zappe si faceva produrre la terra. I templi degli antenati, dello spirito della terra, del protettore dei raccolti, i centri abitati, le campagne, anche gli angoli [più remoti] erano nell'ordine più perfetto. Un bel giorno, T'ien-c'eng-zé assassinò il principe di Z'i (nel 482 a.C.) e si impadronì del principato, con tutto quel che i Saggi ci avevano messo dentro. Dopo di che, questo brigante godette del frutto del suo crimine tranquillo come uno Yao e uno Sciunn. Nessun principe, né piccolo né grande, osò tentare di fargli restituire il maltolto. Quando morì, trasmise il possesso del principato ai suoi successori (i quali lo conservarono fino al 221 a.C.). È anche questo, grazie ai Saggi, che consigliano di inchinarsi al fatto compiuto. I più noti fra i Saggi storici hanno operato in simile modo, a favore dei grandi ladri, [a volte] fino a sacrificare per ciò la propria vita. Lung-fang fu decapitato, Pi-can fu sventrato, C'iang-hung fu squartato, Zé-su fu fatto morire annegato. Il colmo è che i briganti di professione applicarono anche loro, alla propria maniera, i principi dei Saggi; ecco cosa insegnava il famoso Ceé ai suoi allievi: scoprire dove c'è un bel gruzzolo, questa è saggezza; entrare per primi dove è nascosto, questo è coraggio; uscire da ultimi, questa è conformità; dedurre se un colpo è fattibile o no, questa è prudenza; dividersi il bottino equamente, questa è la bontà e l'equità; sono briganti per bene solo quelli che assommano in loro tutte queste qualità. Per cui, se i principi dei Saggi hanno talvolta potuto essere profittevoli per la gente onesta, essi sono stati anche, e il più delle volte, profittevoli per i malandrini, e ciò a danno degli onesti. A prova di quel che dico citerò soltanto due fatti storici, quelli ricordati dagli adagi: «quando le labbra sono state tagliate, i denti soffrono il freddo»,... e «il vino scadente di Lu fu causa dell'assedio di Han-tan». È proprio così, l'apparire dei Saggi [confucianisti] induce l'apparire dei briganti, e la scomparsa dei Saggi i briganti li fa scomparire. Saggi e briganti sono due termini correlati; l'uno attira l'altro, come torrente e inondazione, terrapieno e fossato. Ripeto, se si estinguesse la razza dei Saggi, sparirebbero i briganti; in questo mondo si realizzerebbe la pace perfetta, e svanirebbero gli antagonismi. I briganti continuano a esistere perché non si estingue la razza dei Saggi. Più ci si servirà dei Saggi per governare lo stato, più si moltiplicheranno i briganti. Perché sono le invenzioni dei Saggi 161

161 a produrli. Inventando le misure di capacità, i pesi e le bilance, i contratti strappati a mezzo e i sigilli, i Saggi hanno insegnato a molti la frode. Con l'invenzione della bontà e dell'equità, hanno insegnato a molti la malizia e la furberia. Se un povero diavolo ruba la fibbia di una cintura, si ritroverà decapitato. Quando un gran brigante ruba un principato, ne diventerà il signore, e i sostenitori di bontà ed equità (i Saggi politici di professione) accorreranno da lui, e porranno tutta la loro saggezza al suo servizio. La deduzione logica che se ne trae è che non è il caso di perdere il proprio tempo dedicandosi prima a piccoli latrocini, ma che si deve incominciare subito impossessandosi di un principato. Non ci sarà così più da preoccuparsi di rifinire il lavoro; né ci sarà più da temere la mannaia del boia; e si avranno a disposizione tutti i Saggi e le loro invenzioni. Sì; fabbricare briganti, e impedire che vengano disfatti, proprio questo è il lavoro dei Saggi [confucianisti] (politici professionisti). B Corre il detto: «il pesce non esca dalle acque profonde, in cui vive ignorato ma sicuro; che uno stato non vanti le sue ricchezze, per tema di esserne spogliato». Ora, i Saggi (politici) sono considerati una risorsa dello stato. Dovrebbero perciò essere nascosti, esser tenuti nell'oscurità, dovrebbero non essere usati. Si estinguerebbe così la razza dei Saggi, e con essa si estinguerebbe anche quella dei briganti. Si riducano in polvere la giada e le perle, i ladri spariranno. Si brucino i contratti e si frantumino i sigilli, gli uomini torneranno onesti. Si sopprimano i pesi e le misure, e non ci saranno più dispute. Si demoliscano in modo radicale tutte le istituzioni artificiali dei Saggi, e il popolo ritroverà il suo equilibrio naturale di giudizio. Si abolisca la scala dei toni [musicali], si spezzino gli strumenti da musica, si tappino le orecchie dei musicisti, e gli uomini ritroveranno il loro udito naturale. Si aboliscano la gradazione artificiale dei colori e le regole della pittura, si accechino gli occhi ai pittori, e gli uomini ritroveranno la loro vista naturale. Si proibiscano il curvilineo e la cordicella, il compasso e la squadra; si spezzino le dita ai falegnami, e gli uomini ritroveranno i loro modi di essere naturali, quelli di cui si dice «abilità, sotto veste d'incapacità». Si marchino a fuoco Zeng-scienn e Scie-z'iù (fabbricatori di leggi), si imbavaglino Yang-ciù e Mei-ti (pensatori sofisti), si metta al bando la formula bontà-equità (dei Confucianisti), e le predisposizioni naturali potranno di nuovo esercitare la loro virtù misteriosa e unificatrice. Sì: ritorniamo alla vista, all'udito, alla capacità di giudizio, agli istinti naturali, e sarà finita con gli abbagliamenti, assordamenti, modi d'agire [nefasti] e smorfie posticce. Filosofi, musicisti, pittori, artisti vari, hanno solo ingannato e pervertito gli uomini con apparenze speciose; per l'umanità, essi non sono stati di nessuna vera utilità. C Ben diversamente accadeva all'epoca della natura perfetta, al tempo degli antichi sovrani, prima di Fu-hi, di Scienn-nung e di Hoang-ti. A quell'epoca gli uomini, in materia di annali, conoscevano solo le cordicelle a nodi ([chipu], quipu). Trovavano buona la loro alimentazione semplice, buoni i loro vestiti grossolani; vivevano felici dei loro costumi elementari, e in pace nelle loro abitazioni rudimentali. 162

Non li tormentava il bisogno di avere rapporti con gli altri. Morivano di vecchiaia, prima di aver avuto il tempo di visitare il principato confinante, che avevano per tutta la vita visto da lontano, di cui avevano ogni giorno sentito i galli cantare e i cani abbaiare. A quei tempi, in virtù di quei costumi, la pace e l'ordine erano assoluti Perché oggi le cose sono così diverse? Perché i governanti si sono incapricciati dei Saggi [esteriori] e delle loro invenzioni. La gente del popolo tende il collo e si alza in punta di piedi per guardare nella direzione da cui arriva, secondo quanto si dice qualche Saggio. Si abbandonano i genitori, si lascia il proprio maestro, per correre incontro a un tal uomo. A piedi si fa la coda, una fila di carrozze lascia carreggiate profonde, sulla via che conduce alla porta di costui. E tutto ciò perché, imitando i prìncipi, anche la gente comune si è incapricciata della scienza. Ora, nulla è più nefasto, per gli stati, di questo disgraziato invaghimento. D Tutti i mali di questo mondo, e le disgrazie di coloro che lo abitano, sono stati provocati dalla scienza artificiale, contro natura. L'invenzione degli archi, delle balestre, delle frecce prigioniere, delle tagliole a molla, è stata la rovina degli uccelli dell'aria. L'invenzione degli ami, delle esche, delle reti, delle nasse, è stata la rovina dei pesci delle acque. L'invenzione delle ragne, dei lacci, delle trappole, è stata la rovina dei quadrupedi nelle brughiere. L'invenzione della sofistica, odiosa e traditrice, con le sue teorie sulla sostanza e gli accidenti, con le sue sottigliezze sull'identità e la differenza, ha compromesso la semplicità della gente comune. Sì, [è proprio così], l'amore della scienza [esteriore], delle invenzioni e delle innovazioni, è responsabile di tutti i mali di questo mondo. Ansiosi d'apprendere quel che non sanno (ovvero la vana scienza dei sofisti), gli uomini disimparano quel che sanno (le verità naturali che scaturiscono dall'equilibrio di giudizio). Occupati a criticare le opinioni degli altri, chiudono gli occhi sui loro propri errori. Di qui un disordine psichico che si ripercuote, in cielo, sul sole e sulla luna, in terra, sui monti e sui fiumi, nello spazio intermedio, sulle quattro stagioni, fino a toccare gli insetti che si agitano e moltiplicano in tempi sbagliati (cavallette, ecc.). Tutti gli esseri stanno perdendo le proprietà della loro natura. Questo disordine è l'amore per la scienza [esteriore] che l'ha provocato. È da tre dinastie che dura. Da diciotto secoli ci si è abituati a infischiarsi della semplicità naturale e ad aver cura [soltanto] delle complicatezze rituali; si è presa l'abitudine di preferire una politica fallace e verbosa al non-agire spontaneo e leale. A introdurre il disordine nel mondo sono stati i chiacchieroni (saggi [esteriori], politici, retori).

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XI Politica vera e politica falsa

A Il mondo bisogna lasciarlo andare per la sua strada, e non avere la pretesa di governarlo [secondo le proprie vedute individuali]. [Se non si agisce in questo modo], i temperamenti, distorti, non opereranno più secondo natura (ma in modo artificiale, legale, rituale, ecc.). Quando tutte le nature, di per sé sane, si mantengono e agiscono nella loro sfera propria, il mondo resta governato in guisa naturale, e secondo la virtù propria; nessun bisogno di intervenire [individualmente]. Un tempo, con il suo modo di governare, Yao il buono rese felici i suoi sudditi; ora, la felicità, la quale è una passione, disturba l'equilibrio naturale. Dunque, il modo di governare di Yao fu imperfetto, dal momento che assoggettò i sottoposti allo stimolo di una passione. Chié, il malvagio, i suoi sudditi li afflisse. Ora, l'infelicità, la quale è una passione, compromette la tranquillità naturale. Dunque il modo di governare di Chié fu manchevole, dal momento che sottopose i sudditi allo stimolo di una passione. Qualsiasi emozione, perché contro natura, è instabile e non può essere duratura. Il piacere, il compiacimento, sono commozioni del principio yang. L'angustia, il rancore, sono commozioni del principio yin. Nel macrocosmo, la perturbazione dello yin e dello yang riverbera sulle quattro stagioni, che non arrivano più nel loro momento giusto; influisce sul succedersi del caldo e del freddo, che non si alternano più quando dovrebbero. Nel microcosmo umano, lo squilibrio dello yin e dello yang, causato dalle passioni, provoca analogamente gravi disordini. I corpi soffrono, gli animi patiscono. Gli uomini non mantengono più il loro posto, perdono il controllo dei pensieri e dei desideri, intraprendono e non portano a conclusione, (le loro passioni, mobili, li dirigono senza interruzione verso altri obiettivi). Gli uni diventano allora dei Ceé (briganti), gli altri dei Zengscienn e degli Scie-z'iù (politici). A questo punto si promulgano leggi nell'intento di ricompensare i buoni e di punire i cattivi. Compito sovrumano, tentativo impossibile, visto il numero degli uni e degli altri. Ohimè! È purtroppo in un'impresa del genere che hanno perduto il loro tempo e i loro sforzi i governanti delle tre dinastie, invece di andare tranquillamente dietro al corso della natura e del destino. Qualsiasi teoria [inventata], qualsiasi convenzione, è falsa e produttrice di falsità. Le teorie dell'ottica hanno deformato la nozione naturale dei colori. Le teorie dell'acustica hanno alterato la vera nozione dei suoni. Le teorie sulla bontà hanno pervertito la spontaneità dei rapporti. Le teorie sull'equità hanno annullato il senso innato della giustizia. Le teorie sui riti [exoterici], hanno dato origine alla sottigliezze, quelle sulla musica hanno dato corda alla lascivia. Le teorie sulla saggezza hanno fatto proliferare i politici, quelle sulla scienza hanno fatto moltiplicare i cavillatori. Ancora sopportabile sarebbe se, aderendo praticamente alle leggi naturali, si fosse discusso teoricamente sugli argomenti sunnominati; sarebbe stato per lo meno indifferente. Ma poiché, lasciate cadere nell'oblio le leggi naturali, si è permesso a simili specu164

lazioni di aver presa sulla pratica, ne sono nati il disordine e l'anarchia; e se si addiverrà mai a onorarle, a dar loro forza di leggi, ahimè! Povero mondo! Sarà la confusione totale. Si veda a tal proposito cos'è diventata l'arte del governo ai giorni nostri: nient'altro che una successione ininterrotta di riti. Non è ancora finita una cerimonia che già bisogna osservare l’astinenza per prepararsi alla seguente; poi si ripassa per tutta la serie di riverenze, di canti e di danze, e così via, senza tregua e senza fine. Ben diversamente farebbe un Saggio vero [taoista] se, suo malgrado, dovesse avere il carico dell'impero. Mantenendosi nel non-agire, impiegherebbe gli ozi del suo non-intervento a dar libero corso alle sue propensioni naturali. L'impero avrebbe tutto da guadagnare dall'essere affidato alle mani di un uomo simile. Senza far intervenire i suoi organi, senza servirsi dei suoi sensi, seduto nell'immobilità, tutto vedrebbe con il suo occhio trascendente; immerso nella contemplazione, tutto scuoterebbe, come fa il tuono; il cielo fisico si adatterebbe docilmente ai movimenti del suo spirito; tutti gli esseri seguirebbero l'impulso (invisibile) del suo non-intervento, così come la polvere segue il vento. Per quale motivo un tal uomo si dovrebbe dedicare alla manipolazione dell'impero, quando è sufficiente il lasciar fare [impersonale] ? B Z'oei-chiù chiese a Lao-tan: «Com'è che si governano gli uomini senza azione positiva?» Lao-tan rispose: «Evitando di far violenza ai loro cuori. Il cuore dell'uomo è siffatto, che ogni oppressione lo abbatte, ogni eccitazione lo solleva. Depresso, si fa interte; eccitato, si esalta. A volte elastico, si piega a tutto, a volte invece è così duro che tutto spacca. A volte brucia come il fuoco, a volte è freddo come il ghiaccio. La sua espansione è tanto rapida, che nel tempo che ci vuole per abbassare e risollevare il capo, ha visitato i quattro mari e ne è ritornato. La sua concentrazione ha la profondità degli abissi. I suoi movimenti sono liberi e incoercibili, simili a quelli dei corpi celesti. Fiero della sua libertà, è riluttante a ogni legame che gli si imponga [da qualcuno]; tale è il cuore dell'uomo, per sua natura. «Ora, nei tempi antichi (circa l'anno 3000 a.C.), fu Hoang-ti che per primo fece violenza al cuore umano con le sue teorie sulla bontà e sull'equità. Poi vennero Yao e Sciunn, che consumarono il grasso delle cosce e i peli delle gambe a trottare, dandosi da fare per il bene materiale dei loro sudditi. Si tormentarono le viscere nell'esercizio della bontà e dell'equità, ed esaurirono sangue e fiato a escogitare le regole di queste fittizie virtù. E tutto ciò senza successo! Furono costretti a esiliare Hoan-teù nel C'iung-scian, i San-miao a San-uei, e Cung-cung a Yu-tu; ripieghi violenti, i quali provano soltanto che, nonostante la loro bontà e la loro equità, l'impero non gli era devotamente sottomesso. «Molto peggio ciò che accadde sotto le tre dinastie. Comparvero i Chié (tiranni) e i Ceé (briganti), gli Zeng-scienn e i Cie-z'iù (politici), e infine le due razze dei Giù (discepoli di Confucio) e dei Mei (discepoli di Mei-ti). Che tempi [orribili] ! «I teorici, contro e a favore, si guardavano in cagnesco; i savi e gli idioti si davano torto a vicenda; i buoni e i cattivi si perseguitavano reciprocamente; i mentitori e i veridici si schernivano gli uni con gli altri. L'impero [di conseguenza], decadde. Non ci si poté più intendere sui principi primi, e quel che restava di verità naturali sparì, come consumato da un incendio, come travolto da una piena. Tutti vollero diventare sapienti per far carriera, e il popolo si esaurì in sforzi vani. «Fu in quel tempo che si inventò il sistema di governo matematico. L'impero fu 165

165 squadrato con ascia e sega. Pena di morte per tutto quel che scartava dalla linea retta. Ai costumi furono applicati il martello e lo scalpello. Risultato: un sommovimento e un crollo generali. E questo, perché il legislatore aveva avuto il torto di violentare il cuore dell'uomo. «Il popolo se la prese con i Saggi e con i prìncipi. I Saggi [esteriori] dovettero nascondersi nelle caverne in montagna, e i prìncipi non furono più sicuri nei loro templi familiari. Seguirono reazioni violente, quando Saggi e prìncipi tornarono al governo. Ora i cadaveri dei suppliziati si ammucchiano a montagne, i portatori di gogna sfilano in catene, dappertutto non si vedono che uomini puniti con supplizi svariati. «E in mezzo a questo panorama atroce, fra manette, ceppi, strumenti di tortura, i discepoli di C'ung-zé e di Mei-ti si fanno grandi ergendosi sulle punte dei piedi, e si rimboccano le maniche dal compiacimento, in ammirazione davanti alla loro opera. Ahimè! Estrema è la durezza ottusa di simili uomini! Estrema la loro impudenza! La gogna è dunque il simbolo della saggezza dei Saggi [esteriori]? Le manette, i ceppi, le torture sarebbero dunque l'espressione [vera] della loro bontà e equità? Zeng-scienn e Cie-z'iù, questi emblematici Saggi [esoterici], non sono forse stati malfattori più nocivi del tiranno Chié e del brigante Ceé? È giusto l'adagio che dice: "Sterminate la saggezza [esteriore], distruggete la scienza, e l'impero, spontaneamente, ritornerà nell'ordine"». C Hoang-ti era sul trono da diciannove anni, e i suoi ordini erano ascoltati da tutto l'impero, quando sentì parlare di Maestro Coang-c'eng, che abitava sul monte C'ung-t'ung. Andò a trovarlo, e gli tenne questo discorso: «Ho inteso dire, Maestro, che vi siete spinto fino al Principio supremo. Ho l'ardire di chiedervi di comunicarmene la quintessenza. Me ne servirò per far produrre alle campagne i cereali che dan da mangiare al popolo, regolerò il caldo e il freddo per il bene di tutti gli esseri viventi. Vogliate darmene la ricetta!» Maestro Coang-c'eng gli rispose: «L'ambizione voi la spingete fino a voler dominare la natura. Affidarvi le sue forze, vorrebbe dire perdere tutti gli esseri. Dominato voi stesso dalle passioni, siete uomo che, se governaste il mondo, vorreste che piovesse prima che le nubi si fossero radunate, fareste cadere le foglie quando sono ancora verdi, il sole e la luna ben presto si spegnerebbero. Cuore egoista e interessato, cosa avete voi in comune con il Principio supremo?» Hoang-ti si ritirò confuso, abbandonò il governo, andò ad abitare in una capanna dai muri di paglia, con una stuoia di giunco per unico arredo. Passò tre mesi in solitudine, a riflettere e a meditare, poi tornò da Maestro Coang-c'eng, che trovò coricato con il capo a Nord (rivolto verso Sud, nella posizione dell'autorità spirituale). Prendendo il posto del discepolo, con estrema sommissione, Hoang-ti si avvicinò incedendo sui ginocchi, si prosternò, appoggiò la fronte a terra, e disse: «So, Maestro, che siete penetrato fino al Principio supremo. Degnate insegnarmi a comportarmi e a conservarmi». «Ben richiesto, questa volta» disse Maestro Coang-c'eng. «Avvicinatevi! Vi rivelerò le profondità del Principio. La sua essenza è il mistero, l'oscurità, l'indistinzione, il silenzio. Non guardando nulla, non ascoltando nulla, avvolgendo il proprio intimo di raccoglimento, la sostanza (il corpo) spontaneamente si raddrizza. Raccoglietevi, distaccatevi, non logorate il corpo, non commuovete i vostri istinti, e potrete durare per sempre. «Quando i vostri occhi non guarderanno più nulla, quando il vostro cuore (intelligenza e volontà) non conoscerà e non desidererà più nulla, quando il vostro spirito avrà avvolto la sostanza [del vostro corpo], allora questa sostanza durerà sempre. Sorvegliate l'interno, difendete l'esterno. È il voler apprendere molte cose che logora... 166

«Seguitemi in ispirito, al di là della luce, fino al principio yang di tutti gli splendori; e, al di là dell'oscurità, fino al principio yin, delle tenebre. Seguitemi ora, al di là di questi due principi, fino all'unità che governa il cielo e la terra, che contiene il germe e da cui provengono, lo yin e lo yang, e tutti gli esseri. «Conoscere questo Principio, questa è la scienza globale, che non consuma. Mantenersi nel riposo, nella sua contemplazione, questo è ciò che fa durare per sempre. «Ogni essere che si conserva, mantiene il proprio vigore. Io ho abbracciato l'Unità, mi sono stabilito nell'Armonia. Sono in vita da milleduecento anni, e il mio corpo non conosce debolezza». «Siete un essere celeste» disse Hoang-ti, appoggiando nuovamente il capo contro terra. «Ascoltate» rispose Coang-c'eng «senza interrompermi. Il Principio primo è essenzialmente infinito e insondabile; è per errore che gli uomini usano, parlando di Lui, i termini fine e apogeo. Coloro che l'hanno conosciuto sono diventati gli imperatori e i re dell'epoca eroica, e sono finiti con l'apoteosi. Quelli che non l'hanno conosciuto sono rimasti uomini terrestri, ignoranti e carnali. «Adesso il Principio primo è talmente dimenticato che tutti gli esseri, usciti dalla terra, alla terra ritornano. Per cui, io non rimarrò più a lungo in questo mondo. Io vi lascio per andare, al di là della porta dell'infinito, a vagare negli spazi incommensurabili. Vado a unire la mia luce a quella del sole e della luna; vado a fondere la mia durata con quella del cielo e della terra. Non mi interessa neppure sapere se gli uomini pensano come me, o in modo diverso. «Quando saranno tutti morti, io solo sopravviverò, perché solo io, in questi tempi di decadenza, ho raggiunto l'unione con l'Unità». D Il politico Yunn-ziang, che stava viaggiando nella regione dell'Est, oltre il fiume Fu-yaò, incontrò inaspettatamente l'immortale Hung-mong; questi saltellava su un piede solo, percuotendosi le natiche [con le mani]. Sorpreso, Yunn-ziang si fermò, assunse la postura rituale e chiese: «Venerabile, chi siete? Che fate da queste parti?» Senza smettere di saltellare e di battersi sui fianchi, Hung-mong rispose: «Vado a spasso». Sicuro di aver a che fare con un essere trascendente, Yunn-ziang gli disse: «Vorrei farvi una domanda». «Bah!» fece Hung-mong. «Sì» disse Yunn-ziang. «L'influsso del cielo è disturbato, quello della terra impedito; le sei emanazioni sono bloccate, le quattro stagioni sregolate. Vorrei rimettere ordine nel cosmo, per il bene degli esseri che lo abitano. Degnate dirmi come devo fare». «Non lo so, non lo so!» rispose Hung-mong, dondolando il capo, battendosi sulle natiche e saltellando su un sol piede... Yunn-ziang non riuscì a ricavarne di più. Tre anni dopo, di nuovo in viaggio per l'Est, oltre la piana di Yu-song, inaspettatamente Yunn-ziang incontrò un'altra volta Hung-mong. Al colmo della felicità gli corse incontro, e gli si rivolse dicendo: «Essere celeste, vi ricordate ancora di me?» Poi, prosternandosi due volte, inclinato il capo, aggiunse: «Desidero porvi una domanda». «Cosa posso insegnarvi?» fece Hung-mong «Io che cammino senza sapere perché, che vago senza saper dove vado; io che non faccio che andare in giro senza occuparmi di niente, per non risultare nocivo con qualche iniziativa intempestiva?» 167

167 «Vorrei anch'io» disse Yunn-ziang «andarmene in giro senza preoccupazioni; ma la gente mi insegue dappertutto dove vado, una vera schiavitù; mi hanno appena lasciato; ne approfitto per farvi qualche domanda». «Poveretto!» ribatté Hung-mong «Cosa potrei dirvi, a voi che vi impicciate del governo degli uomini? Chi butta per aria l'impero, chi fa violenza alla natura, chi impedisce l'azione del cielo e della terra? Chi dà fastidio alle bestie, chi disturba il sonno degli uccelli, chi nuoce perfino alle piante e agli insetti? Chi, [dite], se non i politici, con i loro sistemi per governare gli uomini?!» «È questo il giudizio che avete di me?» disse Yunn-ziang. «Proprio così» disse Hung-mong; «siete un rompiscatole; lasciatemi andare per la mia strada». «Essere celeste» fece Yunn-ziang, «ho penato molto per trovarvi; di grazia, degnate istruirmi». «Di fatto» disse Hung-mong, «di imparare ne avete proprio bisogno. Dunque, ascoltate!... Incominciate con il non intervenire in nulla, e tutto seguirà naturalmente il suo corso. Abbandonate la vostra individualità (letteralmente: "lasciate cadere il vostro corpo come una veste"), rinunciate all'uso dei vostri sensi, dimenticate i rapporti con gli altri e le contingenze, immergetevi nel grande insieme, liberatevi della vostra volontà [individuale] e della vostra intelligenza [particolare], annullatevi nell'intuizione fino a non aver più un'anima [separata]. A che serve speculare [razionalmente] quando l'intelletto [non individuato] è la legge universale? «Lo stuolo degli esseri ritorna senza coscienza [distinta] alla sua origine. Colui che avrà trascorso la vita in questa condizione avrà seguito la sua natura propria. Se avrà acquisito delle conoscenze [distintive] la sua natura l'avrà deformata; giacché è nato spontaneamente, senza che gli sia stato domandato né chi, né cosa, avrebbe voluto essere. E la natura vuole che se ne torni alla stessa guisa, senza aver saputo né chi, né cosa». «Ah!» esclamò Yunn-ziang «Essere celeste, mi avete illuminato, trasformato. Per tutta la mia vita avevo cercato invano la soluzione del problema, ed ecco che ce l'ho!» Ciò detto, Yunn-ziang si prosternò, con la fronte contro terra, poi si rialzò e riprese il proprio cammino. La gran preoccupazione dei politici comuni è di attirare a sé gli uomini; si irritano, quando qualcuno non vuol far causa comune con loro. Che prediligano quelli che la pensano come loro, e detestino quelli che sono loro contrari, è il risultato del fatto che, alla fin fine, essi cercano soltanto il loro proprio avanzamento [di carriera]. Quando abbiano ottenuto l'oggetto della loro ambizione, sono per questo, forse, superiori alla gente qualunque? Sono forse utili al paese? Imporre al popolo ciò che si compiacciono di dire che è la loro esperienza, non è forse peggio che abbandonarlo a se stesso? Ossessionati dall'idea di far profittare il principato che amministrano, del sistema delle tre antiche dinastie, ai difetti di tale sistema non badano. Il loro tentativo espone il principato ai rischi più gravi; va già bene quando la scampa, essendo le sue probabilità di salvezza una contro diecimila. Contro un principato in cui saranno riusciti in modo imperfetto ad applicare i loro ordinamenti a rischio, ne rovineranno nel modo più radicale diecimila altri. Non è piuttosto triste che i signori della terra non s'accorgano del pericolo?! Hanno nelle mani la cosa più importante di tutte: non dovrebbero affidarla a uomini limitati e interessati. Diano piuttosto la loro fiducia agli uomini trascendenti; a coloro, [vale a dire], che, 168

privi di qualsiasi interesse terreno, vanno e vengono nello spazio, passeggiano nelle nove regioni, sono i cittadini, non di un paese, ma dell'universo. Tali uomini sono i più nobili di tutti gli uomini. L'apprezzamento degli uomini comuni li accompagna in modo così certo quanto [il fatto] che l'ombra segue un corpo opaco, [quanto il fatto] che l'eco segue il suono. Consultato, l'uomo trascendente esaurisce con la sua risposta il problema, ed esaudisce i voti di chi lo interroga. Egli è il soccorso di tutto l'impero. I suoi riposi sono calmi e silenziosi; le sue sortite non hanno uno scopo definito. Senza scosse, conduce e riconduce gli interlocutori per mezzo di un influsso impalpabile. I suoi movimenti non hanno regola fissa. A guisa del sole, brilla sempre. L'elogio più essenziale [che si possa fare] di un tal uomo, si può riassumere in queste parole: egli è uno con il gran tutto. Egli è il gran tutto, e non è più se stesso. Non avendo più un'esistenza particolare, non ha più nessuna proprietà. Gli antichi imperatori, qualche proprietà ce l'avevano ancora. Occorre non averne più del tutto per diventare amici del cielo e della terra (unione). F Piccoli, ma degni di rispetto, sono gli esseri che popolano il mondo. Umile, ma necessario, è il popolo. Incerti, ma importanti, sono gli affari. Dure, ma indispensabili, sono le leggi. Sgradevole, ma necessaria, è la giustizia. Gradevole è l'affetto non egoistico. Minuti sono i riti, ma occorre farli. Aforismi che riassumono la saggezza comune. Io aggiungo: al centro di tutte le cose, e a tutte superiore, è l'azione produttiva del Principio supremo. Trascendente, e senza interruzione produttore, è il Cielo (strumento determinato dell'azione produttrice del Principio). Di conseguenza, i Saggi veri hanno come regola di lasciar fare il Cielo senza aiutarlo, di lasciar agire l'azione produttrice senza interferire, di lasciar libero il Principio primo senza aver la pretesa di decidere per lui. Questo, ai loro occhi è l'importante. Quanto a tutto il resto, — la pratica di tutti i giorni —, essi sono affabili senza artificiosità, giusti senza pretese, rituali senza [eccessiva] rigorosità, attivi senza affettazioni, legali senza passione, dediti al popolo e rispettosi dei diritti di tutti. Non ritengono nessun essere un mezzo particolarmente adeguato, però se ne servono in mancanza di meglio. L'ignoranza di coloro che nulla comprendono dell'azione del Cielo, proviene dal fatto che non capiscono bene quella del Principio supremo, di cui il Cielo è lo strumento. Coloro che non possiedono la nozione di questo Principio stesso, sono inadatti a qualsiasi cosa; sono da compatire. Le vie sono due, la celeste e l'umana. La via del Cielo è concentrarsi nobilmente nel non-agire. Disperdersi, e faticare sui particolari, è la via degli uomini. La via celeste è superiore, la via umana è inferiore. Le due vie sono molto diverse. Le esamineremo attentamente, nei capitoli che seguono.

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XII Cielo e Terra

A Una forza trasformatrice uniforme emana dall'immenso complesso [costituito da] cielo e terra; un'unica regola governa lo stuolo degli esseri; un solo sovrano presiede all'umanità numerosa. Il potere del sovrano discende da quello del Principio; la sua persona è scelta dal Cielo; per questo il sovrano è detto Misterioso, come il Principio. I sovrani dell'antichità si astenevano da qualsiasi intervento individuale, e lasciavano che il Cielo governasse [attraverso di loro]. Poiché il Principio agiva attraverso il sovrano, i suoi ministri e i suoi funzionari, a un tal governo, retto, giusto e illuminato, tutti gli esseri rispondevano con assoluta sottomissione. Al culmine dell'universo, il Principio primo influisce sul cielo e sulla terra, i quali trasmettono questo influsso a tutti gli esseri; questo influsso, diventato buon governo nel mondo degli uomini, vi fa sbocciare i talenti e le capacità. In senso inverso, ogni prosperità proviene dal buon governo, la cui efficacia proviene dal Principio, attraverso l'intermediazione del cielo e della terra. È questa la ragione per cui, quantunque gli antichi sovrani non desiderassero nulla, il mondo era nell'abbondanza; essi non agivano [positivamente], e ogni cosa procedeva; rimanevano sprofondati nella contemplazione, e il popolo osservava l'ordine più perfetto. È ciò che l'antica massima sintetizza in questo modo: «Tutto prospera per colui che si unisce all'Unità; anche gli spiriti degli antenati obbediscono a colui che non ha interesse personale». B Quanto sono vere queste parole del Maestro! Quanto grande, quanto immenso è il Principio, che copre e sostiene tutti gli esseri! Si guardi, il sovrano, dal seguire il suo particolare modo di vedere! L'azione naturale: questa è l'azione celeste; il verbo spontaneo: questo è l'influsso celeste; amare tutti gli uomini e far del bene a tutti gli esseri: questa è la vera bontà; fondere in uno tutte le differenze: questa è la vera grandezza; non voler dominare gli altri in nulla: questa è la vera ampiezza d'intelletto; possedere cose diverse senza che il proprio cuore ne risulti diviso: questa è la vera ricchezza; seguire l'influsso celeste: questo è il modo corretto di procedere nel fare le cose; agire seguendo questo influsso: questo è l'operare efficace; servire da docile intermediario al Principio: questa è la perfezione; non permettere che nulla abbatta la propria determinazione: questa è costanza. Il sovrano concentri in sé questi dieci principi, poi li applichi al governo, e ogni cosa seguirà il suo corso normale. Lasci stare l'oro nelle rocce e le perle nel fondo delle acque; disdegni la ricchezza e l'onore umano; indifferente gli sia vivere fino alla vecchiaia o morire da giovane; non tragga vanità dalla prosperità e non si senta umiliato nell'avversità; disdegni ogni bene di questo mondo, e non provi gloria per il suo rango elevato. La sua gloria sia l'aver compreso che tutti gli esseri sono un solo insieme universale, e che la morte e la vita non sono che due modi di uno stesso essere. C Ha detto il Maestro: «L'azione del Principio, attraverso il Cielo, è infinita nella sua espansione, inafferrabile nella sua sottigliezza. Essa risiede, impercettibile ai sensi, in tutti 170

gli esseri, quale causa del loro essere stesso e di tutte le loro qualità. È essa che risuona nei metalli e nelle selci sonore; è essa, anche, nell'urto che le fa risuonare. Senza di essa, nulla sarebbe. «L'uomo che da essa trae le sue qualità di re, procede nella semplicità e si astiene dal preoccuparsi di troppe cose. Mantenendosi all'origine, alla sorgente, unito con l'unità, conosce al modo degli esseri trascendenti, per intuizione nel Principio. Di conseguenza la sua capacità si estende a tutto. Uscito dalla porta di uno dei sensi, ad esempio dalla vista, il suo spirito, quando incontra un essere, lo afferra, lo penetra, lo conosce a fondo. E questo perché gli esseri, diventati tali per partecipazione con il Principio, sono conosciuti per partecipazione alla virtù del Principio. «Conservare gli esseri con piena conoscenza della loro natura, agire su di essi con piena intelligenza del Principio, sono questi gli attributi dell'essere nato per essere re. Esso appare, inaspettato, sulla scena del mondo, adempie il suo ruolo, e tutti gli esseri si danno a lui. «Questo succede perché egli ha ricevuto dal Principio le qualità che fanno un re. Egli vede nelle tenebre del Principio, comprende il verbo silente del Principio. Per lui l'oscurità è luce, il silenzio è armonia. Egli afferra l'essere nel più profondo del suo essere; e afferra la sua ragion d'essere, al culmine dell'intuizione, nel Principio. «Mantenendosi a quest'altezza, totalmente spoglio e vuoto, dà a tutti ciò che a loro è giusto sia dato. La sua attività si espande nello spazio e nel tempo». D L'imperatore Hoang-ti, che si era spinto a nord del fiume rosso, e aveva scalato il monte C'unn-lunn per visitare le regioni del Sud, aveva [in quest'occasione] perduto la sua perla nera (il suo tesoro, la nozione del Principio; perché si era abbandonato ai suoi sogni ambiziosi). La fece ricercare da Scienza, che non la ritrovò. Né gliela ritrovarono Investigazione e Discussione. Finalmente la ritrovò Intuizione [intellettuale]. Hoang-ti pensò [tra sé e sé]: «Ma non è una strana cosa che sia stata Intuizione ad averla ritrovata? [Intuizione], che la gente comune tiene per la meno pratica delle facoltà?». E Yao ricevette l'istruzione [tradizionale] da Hu-yu, discepolo di Nié-c'ué, discepolo di Uang-i, discepolo di Pei-i. Yao, che stava pensando di abdicare per dedicarsi alla contemplazione, domandò a Hu-yu: «[Pensate che] Nié-c'ué abbia quel che occorre per collaborare con il Cielo (per diventare imperatore al posto mio)? Se sì, gli farò accettare l'incarico dal suo maestro Uang-i». «Si tratterebbe» rispose Hu-yu «di una cosa per lo meno azzardata, fors'anche funesta. Nié-c'ué è troppo intelligente e troppo abile. Applicherà la propria intelligenza e la propria abilità umane al governo, impedendo in tal modo al Cielo, al Principio, di governare. Darà troppi incarichi, terrà conto del parere degli studiosi [dell'esterno], prenderà decisioni [che vengono solo da lui], si preoccuperà dei dettagli tradizionali, si impegolerà in complicatezze, si preoccuperà delle opinioni, applicherà delle teorie aprioristiche sull'evoluzione delle cose, e così via. «È troppo [razionalmente] intelligente per essere imperatore Anche se, a causa della sua nobiltà [di origini], sarebbe qualificato per questo incarico, in ragione della sua eccessiva abilità [individuale] è soltanto in grado di ricoprire una carica di funzionario minore. È dotato delle facoltà che occorrono per catturare dei briganti: se diventasse ministro sarebbe una disgrazia; se accedesse al trono, sarebbe la rovina del paese».

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171 F Durante un'ispezione che l'imperatore Yao effettuava sul territorio di Hoà, il funzionario a capo di quel territorio gli disse: «O Saggio! Vi auguro prosperità e longevità!» «Tacete!» disse Yao. Ma il funzionario continuò: «Vi auguro la ricchezza!» «Tacete!» ribatté Yao. «E gran numero di figli maschi!» concluse l'ufficiale. «Tacete!» rispose Yao per la terza volta. Il funzionario riprese: «Longevità, ricchezza, posterità maschile, sono le cose che tutti gli uomini ambiscono; come mai soltanto voi non ne volete sapere?» «Perché» disse Yao «colui che ha molti figli ha molti grattacapi; colui che ha molte ricchezze ha molte preoccupazioni; chi vive a lungo, incappa in molte contestazioni. Questi tre accidenti si oppongono a un lavoro di realizzazione spirituale; ecco perché non ho accettato i vostri auguri». «Se è così» rispose l'ufficiale, «non vi ritengo più un Saggio, ma un uomo comune. Il cielo dà, a tutti gli individui che mette in questo mondo, la direzione necessaria per mantenervisi; perciò i vostri figli se la caverebbero da soli. Per sbarazzarvi delle ricchezze eccessive, basterebbe che ne faceste parte agli altri. Le vostre preoccupazioni sono maggiori di quelle che sarebbero normali per un Saggio. «Il vero Saggio vive in questo mondo come la quaglia in un campo, senza attaccarsi a un nido, senza preoccuparsi del suo cibo. In tempo di pace, partecipa della prosperità comune. In tempi difficili si occupa degli affari suoi e si disinteressa di quelli degli altri. Dopo mille anni, stanco di questo mondo, lo lascia per salire verso gli Immortali. Inforcata una bianca nuvola, giunge nel regno del Sovrano. Quivi non lo tocca nessuna delle tre disgrazie; il suo corpo perdura a lungo senza sofferenze; non sperimenta più contrasti». Ciò detto, il funzionario se ne andò. Avendo riconosciuto in lui Saggio in incognito, Yao gli corse dietro, dicendogli: «Avrei qualche domanda da farvi». «Lasciatemi in pace» rispose il funzionario. G Al tempo in cui Yao era imperatore, Maestro Caò, chiamato Pai-c'eng, fu da lui gratificato di un fondo. Poi Yao trasmise l'impero a Sciunn, che, a sua volta, lo trasmise a U. A questo punto Caò abbandonò il fondo e si mise a coltivare la terra. U andò a trovarlo e lo incontrò che stava arando nella piana. Avvicinatolo con rispetto, gli disse: «Maestro, l'imperatore Yao vi ha fatto dono di un fondo, che finora avevate mandato avanti. Perché ora volete disfarvene?» «Perché il mondo non è più come quando c'era Yao» disse Maestro Caò; «la gente, sotto Yao, si comportava bene, senza che ci fosse bisogno di compensarla per la sua buona condotta; era obbediente, senza che occorresse indurla a esserlo con le punizioni. «Ora, invece, voi ricompensate e punite in modo sistematico, cosa che fa perdere al popolo le sue qualità naturali. La natura è sparita, l'hanno sostituita le leggi: da qui tutti i disordini. Perché mi fate perdere tempo? Perché mi disturbate mentre lavoro?...» E curvandosi sull'aratro, Maestro Caò proseguì il solco incominciato e non si voltò nemmeno più a guardare U. H Nel grande inizio d'ogni cosa, c'era il nulla di forma, l'essere impercepibile; non c'erano esseri sensibili, e di conseguenza non c'erano nomi. Il primo essere fu l'Uno, non sensibile, il Principio. Si chiama te, norma, la virtù [o «rettitudine»] che emana dall'Uno, 172

la quale diede vita a tutti gli esseri. Moltiplicandosi indefinitamente nei suoi prodotti, tale virtù partecipata, in ciascuno di essi si chiama ming, la sua «dotazione», la sua sorte, il suo destino. La norma dà in tal modo nascita a tutti gli esseri per concentrazione ed espansione alternate. Nell'essere che nasce, certe linee definite specificano la sua forma corporea. In questa forma corporea è rinchiuso il principio vitale. Ciascun essere ha il suo modo di fare, che costituisce la sua natura propria. In questo modo gli esseri discendono dal Principio. Risalgono ad esso mediante la tecnica [metodologica] taoista che coinvolge la mente e il corpo, e che riconduce la natura individuale alla conformità con la virtù agente universale e l'essere particolare all'unione con il Principio primordiale, il grande Vuoto, il gran Tutto. Tale ritorno, tale unione, avvengono non mediante un'azione [individuale], ma mediante una cessazione. Quasi un uccello che, chiudendo il becco, smetta di cantare e si taccia. Fusione silenziosa con il cielo e la terra, in un'assenza d'agire che sembra stupida [solo] a coloro che non la comprendono, ma che in realtà è virtù profonda [esoterica]; comunione con lo sviluppo cosmico. I Confucio chiese a Lao-tan: «Alcuni si dedicano a tutto far simile, e vogliono che lecito e illecito, sì e no, siano la stessa cosa. Altri si dedicano a tutto distinguere, e affermano che la non-identità di sostanza e accidenti è evidente. Si tratta di Saggi?» «Si tratta» rispose Lao-tan «di uomini che si affaticano, senza profitto per se stessi, come gli ausiliari dei funzionari, i cani dei cacciatori, le scimmie dei saltimbanchi. «Ch'iù, ti confido una verità che non potrai né capire, né ripetere in modo corretto Di Saggi non ce n'è più! Ai giorni nostri sono molti gli uomini che, in possesso di una testa e di [due] piedi, non hanno né spirito né orecchi. «Ma ne cercheresti senza successo di quelli che, nel loro corpo grossolano, abbiano conservato intatto il loro riflesso del Principio originario. Costoro (i Saggi, quando esistono) non agiscono e non si riposano, non vivono e non muoiono, non si elevano e non si abbassano, per mezzo di nessuno sforzo positivo, bensì si lasciano andare sul filo dello sviluppo universale. «Far ciò (e di conseguenza diventare un vero Saggio taoista), è [teoricamente] nelle possibilità di tutti gli uomini. Per diventare un Saggio è infatti sufficiente dimenticare gli esseri (individuali), dimenticare il Cielo (le cause), dimenticare se stessi (e i propri interessi). Mediante questo oblio universale l'uomo diviene uno con il Cielo, si fonde nel Cosmo». J Zianglu-mien, che era in visita dal suo maestro Chi-c'eé, gli disse: «Il principe di Lu mi ha chiesto di consigliarlo sul buon governo del suo principato. Ho risposto che non mi avevate dato disposizioni per un simile caso. Ha insistito per avere il mio parere personale. Ecco ciò che gli ho detto; giudicate voi se ho parlato bene o no; ho detto al principe: «Mantenetevi degno [di rispetto] e sobrio; servitevi di funzionari devoti e respingete gli egoisti interessati; se farete così, tutti vi saranno favorevoli». Chi-c'eé scoppiò a ridere. «La vostra politica» disse «si può paragonare alle imprese della mantide che voleva fermare la carrozza. Del tutto inefficiente; e può diventare pericolosa». «Ma allora» disse Zianglu-mien, «in che consiste l'arte del governo ?» 173

173 «Vi dirò» rispose Chi-c'eé «come facevano i grandi Saggi. Inducevano il popolo a migliorarsi, ad avanzare, ispirandogli il gusto del miglioramento e dell'avanzamento; poi lo lasciavano svilupparsi spontaneamente; gli lasciavano credere che avesse volizioni e azioni proprie. «Questa è la grande politica. Costoro non si fondavano certo su quel che facevano i vecchi Yao e Sciunn (come invita a fare Confucio), giacché sono più antichi di questi due Venerabili; risalgono all'origine primordiale, e la loro politica consiste nel ravvivare in tutti i cuori la scintilla di virtù cosmica che risiede in ognuno di noi». K Zé-cung, discepolo di Confucio, recatosi nel principato di C'iù ritornava verso quello di Zinn. Nei pressi del fiume Han vide un uomo impegnato a innaffiare il suo orto. Costui riempiva al pozzo una brocca, che poi vuotava nei solchetti delle aiole; fatica penosa e risultato minimo. «Non sapete» gli disse Zé-cung «che c'è una macchina con cui si possono innaffiare cento aiole in un giorno, con facilità e senza alcuna fatica?» «E com'è fatta?» chiese l'uomo. «È» disse Zé-cung «una cucchiaia a canaletti che bascula. Prende l'acqua da una parte e la rovescia dall'altra». «Troppo bello per esser buono» disse il giardiniere, poco convinto. «Io ho imparato dal mio maestro che tutte le macchine sono costruite su una formula, su un artificio. Le formule e gli artifici compromettono l'ingegnosità naturale, turbano gli spiriti vitali, impediscono al Principio di risiedere in pace nel cuore. Tenetevela, la vostra cucchiaia che bascula». Sorpreso, Zé-cung chinò il capo e non rispose. A sua volta il giardiniere gli chiese: «E voi chi siete?» «Un discepolo di Confucio» disse Zé-cung. «Ah!» fece il giardiniere, «Uno di quei pedanti che si credono superiori alla gente comune, e che cercano di farsi interessanti cantilenando lagne sulle brutte condizioni dell'impero. Suvvia! Dimenticate la vostra anima, dimenticate il corpo, e avrete fatto il primo passo sulla via della saggezza. Ché, se siete incapace di riformarvi voi stesso, con che diritto pretendete di riformare l'impero? E ora, andatevene! Mi avete [già] fatto perdere abbastanza tempo!» Zé-cung si allontanò, pallido dall'emozione. Si rimise in sesto solo dopo un bel po' di miglia [di strada]. I suoi discepoli che lo seguivano gli chiesero allora: «Ma chi è quell'uomo, che vi ha messo così sossopra?» «Ah!» rispose Zé-cung «Finora credevo che nell'impero ci fosse un solo uomo degno di questo nome, [e cioè] il mio maestro Confucio. Il fatto è che quest'altro non lo conoscevo. Gli ho spiegato la teoria confuciana del tendere allo scopo con i mezzi più idonei e con il minimo sforzo. Credevo che questa fosse la formula della saggezza. Ma mi ha confutato, e mi ha fatto capire che la saggezza consiste nell'integrazione degli spiriti vitali, nella conservazione della natura, nell'unione con il Principio. Esteriormente, questi Saggi veri non si distinguono dalla gente comune; interiormente, la loro caratteristica distintiva è l'assenza di scopo [definito], il lasciare che la vita si sviluppi senza voler sapere verso cosa si sviluppa. Qualunque sforzo, qualunque tendenza [artificiale], qualunque arte, è per loro la conseguenza di un oblio di ciò che l'uomo dev'essere. «Secondo loro l'Uomo Vero si muove soltanto sotto l'impulso del suo istinto naturale. Disdegna in modo uguale sia gli elogi, sia le critiche, che non gli fanno né caldo né 174

freddo. Questa è la saggezza che non muta; mentre io sono sballottato da venti e tempeste». Tornato nel principato di Lu, Zé-cung, convinto della [giustezza della dottrina] taoista, raccontò la sua avventura a Confucio, il quale gli disse: «Quell'uomo ha la pretesa di praticare quella che fu la saggezza dell'epoca primordiale. Egli si attiene al Principio, alla dottrina primordiale, e mostra di ignorare le applicazioni e le modificazioni. Certo che se, nel mondo com'è adesso, ci fosse ancora modo di vivere senza pensare [ai particolari] e senza agire [positivamente], unicamente attenti alla [propria realizzazione spirituale], ci sarebbe da ammirarlo. Sennonché, tu ed io siamo nati in un'epoca di intrighi e di lotte, nella quale la saggezza dell'età primordiale non può più essere studiata [in modo esclusivo], giacché essa non si applica più [in modo generalizzato]. [Posizione di tipo esoterico, valida per la maggioranza degli uomini]. L C'iunn-mang, che si dirigeva verso l'oceano orientale, incontrò Yuan-fong, il quale gli domandò: «Maestro, dove state andando?» «Verso il mare» disse C'iunn-mang. «Per quale ragione?» domandò Yuan-fong. «Perché il mare è l'immagine del Principio» disse C'iunn-mang. «Tutte le acque escono da esso, senza mai svuotarlo. Così come gli esseri escono dal Principio e ritornano ad esso. Ecco la ragione per cui vado verso il mare». «E l'umanità» chiese Yuan-fong, «che ne pensate dell'umanità? Qual è la politica dei Saggi inferiori, confuciani?» «Essa è far del bene a tutti, favorire tutti i talenti, imporre regole all'impero e farsi obbedire: ecco [qual è] la politica dei Saggi di questo tipo». «E la politica dei Saggi taoisti, che collaborano con l'influsso cosmico?» chiese Yuan-fong. «Essa è» rispose C'iunn-mang «non fare piani; agire sotto l'ispirazione del momento; non tenere alcun conto delle distinzioni artificiali, di ragione e di torto, di bene e di male. «Donare a tutti, come fossero orfani, come fossero smarriti, per soddisfarli, senza pretendere nessun [beneficio in] ritorno, senza bisogno di ringraziamento, senza neppure farsi conoscere». «E [qual è] la politica degli uomini trascendenti, di gran lunga superiori?» chiese Yuan-fong. «Questi ultimi» disse C'iunn-mang «fondono il proprio spirito con la luce, e il loro corpo con l'universo. Il vuoto luminoso è l'abnegazione totale dell'io. Sottomessi al proprio destino, liberi da ogni attaccamento, tali uomini fruiscono della gioia disinteressata del cielo e della terra, che lasciano operare senza amare e senza odiare, ogni cosa dovendo procedere in modo spontaneo verso la sua soluzione naturale. «Governati in tal guisa, tutti gli esseri tornerebbero al loro istinto innato, e il mondo ritroverebbe il suo stato primordiale». M Menn-u-coei e C'ie-ciang-man-chi avevano assistito alla sfilata dell'esercito imperiale di U; il secondo disse al primo: «Se questo imperatore fosse simile a Sciunn, non avrebbe avuto bisogno di fare la guerra». Menn-u-coei osservò: «Secondo voi, Sciunn ha regnato in un'epoca tranquilla o agitata?» 175

175 «Avete ragione» rispose Man-chi; «non si può fare il paragone. Sciunn regnò in un'epoca così tranquilla che non c'era neanche bisogno di un imperatore. Sprecò il suo tempo a occuparsi di bazzecole come guarire le piaghe dei lebbrosi, far ricrescere i capelli ai calvi, curare gli ammalati. Drogò l'impero con la sollecitudine d'un figlio che dà la medicina al padre ammalato. I Confucianisti lo lodano per aver agito così. Un vero Saggio si sarebbe vergognato di un simile comportamento. «Al tempo dell'azione perfetta non si badava né alla saggezza, né all'abilità. I governanti erano simili ai rami dei grandi alberi, che danno ombra e protezione senza né saperlo né volerlo; il popolo era simile agli animali selvatici, che si rifugiano sotto questi rami e godono della loro ombra senza ringraziarli. «Coloro che governavano agivano in modo giusto senza conoscere la parola equità, [agivano] in modo caritatevole senza conoscere il termine bontà, lealmente e fedelmente, semplicemente e senza chiedere ricompense. «A causa di questa estrema semplicità, di tali tempi non è restato nessun ricordo particolare, e la loro storia non è stata [neppure] scritta». N Un figlio e un ministro che non approvano ciò che il loro padre e principe rispettivamente fanno di male, vengono detti, dalla fama comune, un buon figlio e un buon ministro, d'autorità e senza argomenti [in appoggio]; e la massa fa suo questo verdetto docilmente, ognuno immaginando di averlo emesso egli stesso. Si dica a questa gente che il giudizio che adottano non è il loro, che gli è stato suggerito; e si inalbereranno, considerandosi offesi. La stessa cosa succede nella maggior parte dei casi, per la maggior parte degli uomini. Quasi tutti hanno assorbito le idee che hanno, già tutte ben confezionate, e per tutta la vita vanno dietro alle opinioni di altri. Parlano nello stile del momento, si vestono secondo la moda del tempo, non perché seguano un principio, ma per fare come gli altri. Imitatori servili, dicono sì o no a seconda di come sono stati suggestionati, e credono di esser stati loro a convincersi di ciò che hanno fatto. Ma non si tratta piuttosto di follia? E di una follia insanabile, [per di più], dal momento che gli uomini non hanno il minimo sospetto di essere affetti da questa mania di imitazione. È una follia generale, giacché è tutto l'impero che da tale mania è contagiato. Per la qual ragione sarebbe proprio inutile se io cercassi di riportare gli uomini sul cammino dell'azione personale spontanea, scaturente dal Sé, da quello che è l'istinto [naturale] di ciascuno. Ohimè! La musica nobile lascia indifferenti i villici, mentre una grossolana canzone li fa andare in brodo di giuggiole. Allo stesso modo, i pensieri elevati non entrano in animi imbottiti di idee volgari. Il rumore di due tamburi di coccio sovrasta il suono di una campana di bronzo. Come [dovrei] fare per farmi ascoltare dai pazzi che popolano l'impero? Se sperassi di riuscirci, sarei matto anch'io. Per cui, li lascerò che facciano, senza ingegnarmi per rischiarargli le idee. Nessuno di loro, del resto, se la prenderà; giacché sono affezionati alla loro comune follia. Come quel lebbroso a cui era nato un figlio a mezzanotte: andò a cercare un lume per accertarsi che il bambino fosse lebbroso come lui, e lo accarezzò soltanto dopo essersi convinto di si. O Prendiamo un albero secolare. Gli si taglia un ramo; da un pezzo di questo ramo si ricava un vaso rituale cesellato e dipinto; il resto viene gettato in un fosso a marcire. 176

Dopo si dirà: «Il vaso è bello, il resto [del ramo] è brutto». Io invece dico, il vaso e il resto, tutti e due sono brutti, perché non sono più legno naturale, ma oggetti artificiali deformati. Lo stesso penso quando si tratti del brigante Ceé e dei Saggi [esteriori] Zeng-cienn e Cie-z'iù. L'uno è detto malvagio, gli altri due virtuosi. Per me hanno [tutti e tre] il torto di non essere più degli uomini, perché hanno agito contro natura, e importa poco se in bene o se in male. Ma quali sono le cause di una tal rovina dell'umana natura? Sono le teorie artificiali sui colori (la pittura), le quali hanno viziato la vista; le teorie sui suoni (la musica), le quali hanno viziato l'udito; le teorie sugli odori (la profumeria), le quali hanno viziato l'odorato; le teorie sui sapori (l'arte culinaria), le quali hanno viziato il gusto; gli artifici letterari (retorica e poetica), i quali hanno scosso il cuore e falsato la natura (con il lirismo e l'entusiasmo). Questi sono i nemici della natura umana, cari a Yang-ciù e a Mei-ti. Non sarò certo io che penserò mai alle arti come a una cosa buona. Le regole artificiali stringono, imprigionano; come potrebbero render felici? L'ideale della felicità potrebbe forse essere lo stato del piccione selvatico costretto a vivere in gabbia? O non è forse quello del piccione libero di volare nel cielo? Povera gente! Le loro teorie sono come un fuoco che gli tormenta i visceri, i loro riti sono come un corsetto che gli costringe i fianchi. Torturati e impastoiati in questo modo, a chi potrei paragonarli? [Forse] a criminali attanagliati. [O forse] a bestie ingabbiate. E questa sarebbe felicità?

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XIII L'influsso del Cielo

A L'influsso del cielo, dispiegandosi generosamente, produce tutti gli esseri. L'influsso imperiale, diffondendosi imparzialmente, attira a sé tutti i sudditi. L'influsso del Saggio, propagandosi in modo eguale, fa sì che tutti gli si sottomettano. Coloro che posseggono l'intelligenza del modo [di agire] di questo influsso, del cielo, del Saggio, del capo di stato perfetto, si concentrano nella pace della meditazione, la quale è la sorgente dell'azione naturale. Questa pace non è un obiettivo a cui il Saggio pervenga con sforzi diretti. Essa consiste nel fatto, negativo, che nessun essere commuove più il suo cuore, e si acquisisce con la concentrazione. Essa è il principio della chiaroveggenza del Saggio [vero]. Come un'acqua perfettamente tranquilla, essa è limpida, al punto di riflettere anche i peli della barba e delle sopracciglia di colui che vi si specchia. Non c'è nulla che tenda più dell'acqua al riposo e all'equilibrio; tant'è vero che da essa si è ricavata la livella perfetta (livella ad acqua). Ora, così come il riposo rende chiara l'acqua, così rischiara anche gli spiriti vitali, fra i quali l'intelligenza. Il cuore del Saggio, perfettamente calmo, è come uno specchio che riflette il cielo, la terra e tutti gli esseri. Vuoto, pace, appagamento, tranquillità, silenzio, visione globale, non-intervento; l'insieme di queste cose è la formula dell'influsso del cielo e della terra, del Principio. Gli imperatori e i Saggi dell'antichità conobbero questa formula. Vuoti (d'ogni attaccamento), essi afferrarono nella loro verità le leggi universali. Pacifici (senza subire emozioni), hanno agito con efficacia. Non intervenendo individualmente [per iniziativa propria], abbandonando ai loro funzionari la cura dei particolari, essi furono liberi da piacere e dolore, e di conseguenza hanno vissuto a lungo. Non è forse evidente che il vuoto, la pace, l'appagamento, la tranquillità, il silenzio, la visione globale, il non-intervento, sono alla radice d'ogni bene? Chi abbia capito ciò avrà il valore, come imperatore, di uno Yao, e come ministro, di uno Sciunn. Potrà regnare, in quanto re, sul destino degli uomini; o, in quanto Saggio, sui loro spiriti. Sia che egli viva ritirato, al modo dei solitari, sulla riva dei corsi d'acqua, sulle montagne o nei boschi; o sia che Si manifesti in quanto educatore del mondo, in entrambi i casi sarà riconosciuto e attirerà [gli uomini] a sé. Di fatto, è dalla pace che emanano le speculazioni dei grandi Saggi e le azioni dei grandi re; il non-intervento rende celebri; l'intuizione [intellettuale] eleva al disopra di tutto. Comprendere bene la natura dell'influsso del cielo e della terra, che è un non-intervento benevolo e indulgente, ecco la grande radice, l'intesa con il cielo. Praticare un nonintervento analogo nel governo dell'impero, ecco il principio dell'intesa con gli uomini. Ora, l'accordo con gli uomini è la gioia umana, la felicità sulla terra; l'accordo con il cielo è la gioia celeste, la felicità suprema. In uno slancio d'ammirazione per il suo scopo — il Vuoto, il Riposo, il Principio — Chuang-tzu gli indirizza l'inno seguente: O mio Maestro! O mio Maestro! O tu che distruggi senza [tuttavia] essere crudele! Tu che edifichi senza [tuttavia] esser buono! Tu che fosti prima dei tempi, e non sei vec178

chio! Tu che come cielo tutto copri, che come terra tutto sostieni, che sei l'autore di tutto senza essere abile (attività spontanea) Comprenderti in tal modo è la felicità celeste. Sapere che io sono nato dalla tua influenza; che quando morirò rientrerò nella tua via; che in riposo sono in comunicazione con lo yin, la tua modalità passiva, che in azione sono in comunicazione con lo yang, la tua modalità attiva, questa è la felicità suprema. Per l'iniziato che possiede questa felicità non ci sono più lamenti contro il cielo (intermediario spietato e fatale), non più risentimenti contro gli uomini (i quali, come me, seguono la loro via), non più preoccupazioni per le cose del mondo (che non ne meritano la pena), non più timore degli esseri sottili (che sono impotenti). L'azione dell'iniziato si confonde con l'attività del cielo, il suo riposo con il riposo della terra; il suo spirito imperturbabile domina il mondo; dopo la morte, la sua anima inferiore [residui psichici] non sarà nociva (si dissolverà tranquillamente), la sua anima superiore non errerà famelica (sarà trasformata). Ecco: seguire nel Principio il proprio sviluppo, nel cielo e nella terra, in tutti gli esseri, questa è la gioia celeste. Una tal gioia è il segreto del cuore del Saggio. Da essa egli trae i suoi principi di governo. B Imitatori fedeli del cielo e della terra, del Principio e della sua influenza, gli antichi sovrani non intervenivano direttamente, non si occupavano dei particolari. Da ciò discende che fossero in grado di governare l'intero impero. Inattivi, lasciavano agire i loro sudditi. Immobili, lasciavano muovere gli uomini. Il loro pensiero si estendeva a tutto, senza che pensassero a nulla [di definito]; tutto vedevano in principio, senza distinguere in dettaglio; il loro potere, capace d'ogni cosa, non si applicava a nulla. Così come il cielo, che non fa nascere, e gli esseri nascono; come la terra, che non fa crescere, e gli esseri crescono; così il sovrano non agisce, e i sudditi prosperano. Com'è trascendente l'influsso del cielo, della terra, del sovrano, inteso in questo modo! È com'è giusto dire, in questo senso, che l'influsso del sovrano si unisce a quello del cielo e della terra! Indefinito come quello del cielo e della terra, esso coinvolge tutti gli esseri, e muove lo stuolo degli uomini. Unico, nella sua sfera superiore, tale influsso si diffonde discendendo Il sovrano formula la legge in generale; i suoi ministri la applicano ai casi specifici. Arte militare, leggi e sanzioni, riti e costumi tradizionali, musica e danze, nozze e funerali, e le altre cose che tormentano i Confucianisti, tutto ciò sono particolari minuti che il Saggio lascia ai suoi funzionari. Tuttavia non bisogna pensare che non ci siano, nelle cose umane, gradi, subordinazione e successione. C'è un ordine naturale fondato sul rapporto reciproco del cielo e della terra, e sullo sviluppo [delle cose nel] cosmo. Il sovrano è superiore al ministro, il padre ai figli, i fratelli maggiori ai minori, i vecchi ai giovani, l'uomo alla donna, il marito alla moglie; e tutto ciò perché il cielo è superiore alla terra. Nel ciclo delle stagioni le due stagioni produttive precedono le due stagioni improduttive; ogni essere passa attraverso le due fasi successive di vigore e di declino; questo, in conseguenza dello sviluppo cosmico; ed è per questo che i genitori hanno la precedenza nella famiglia, che a corte è il rango che ha importanza, che nei villaggi si onorano i vecchi, che negli affari ci si affida al più competente. Non osservare queste convenienze sarebbe come mancare di rispetto al Principio, 179

179 del quale queste regole sono come altrettante conclusioni. C È nel suo binomio di cielo e terra che gli antichi prendevano in considerazione il Principio. È dal modo di agire di tale binomio che trassero le nozioni naturali della bontà (indifferente) e dell'equità (non ricercata), (opposte alle nozioni artificiali della bontà ed equità [imposte dall'esterno] dei Confucianisti); poi le nozioni delle funzioni e degli uffici; poi quelle di capacità, di responsabilità, di sanzione e così via. Aumentando le nozioni astratte, si distinsero gli intellettuali dagli idioti; si ebbero uomini superiori e uomini inferiori; tutti furono trattati secondo il loro grado. I Saggi servirono il sovrano, diedero da mangiare agli imbelli, li migliorarono con il loro esempio, senza costringerli, a imitazione dell'azione del cielo e della terra. Fu l'epoca della pace assoluta, del governo perfetto. Non si dissertava, allora, sugli enti e sulle denominazioni, non si sottilizzava come fanno i sofisti dei nostri tempi. Non si aveva la pretesa di ricompensare o punire adeguatamente ogni bene e ogni male, come vorrebbero i nostri uomini di legge. [I Saggi] si rivolgevano, per ogni soluzione, alla fonte, all'origine, al Principio che tutte le contiene; ed era questa visione dall'alto che costituiva la superiorità del loro modo di governo. Mentre, a causa del fatto che si perdono nei particolari, i nostri [pensatori] sofisti e i nostri uomini di legge sono degli incapaci. D Un tempo, Sciunn, quand'era ancora [solo un] ministro, chiese all'imperatore Yao: «O imperatore per volere del cielo, come fate ad esercitare le vostre funzioni?» Rispose Yao: «Non opprimo i piccoli, non faccio torti ai poveri, mi prendo cura delle vedove e degli orfani». «Va molto bene» disse Sciunn, «ma non è molto elevato». «Allora» ribatté Yao, «cosa dovrei fare?» «L'influsso del cielo» rispose Sciunn «porta la pace per la sua semplice emanazione. Per produrre la successione delle stagioni, i giorni e le notti, le nubi e la pioggia, il sole e la luna si accontentano di risplendere». «Capisco» disse Yao, «mi sono agitato troppo, e ho troppo voluto piacere». E Confucio stava viaggiando, dal principato di Lu, nell'Est, verso la capitale dei Ceù (a quel tempo Lao-yang), ad Ovest. La sua intenzione era di offrire i libri da lui composti alla biblioteca imperiale. Il suo discepolo Zé-lu gli disse: «Ho inteso dire che un certo Lao-tan è stato per lungo tempo il conservatore di questa biblioteca. Adesso vive costì, ma si è ritirato. Rendetegli visita. Forse potrà aiutarvi a far accettare i vostri libri». «D'accordo!» disse Confucio, e si recò da Lao-tan. Questi rifiutò decisamente di appoggiare la ricezione dei libri [da parte della biblioteca]. Per convincerlo, Confucio intraprese a esporgliene il contenuto. «Non fate tante parole» fu la reazione di Lao-tan; «ditemi brevemente cosa c'è dentro». «Bontà e equità» rispose Confucio. «Ah!» fece Lao-tan «Si tratta forse della bontà ed equità naturali?» «Ma certo!» disse Confucio «Di quelle che caratterizzano l'uomo». «Se è così, definitele» rispose Lao-tan. «Amare tutti gli esseri e trattarli bene, senza egoismo: questa è la bontà e l'equità» 180

disse Confucio. «E voi predicate una cosa simile; voi che siete ambizioso ed egoista?» fu il commento di Lao-tan. «Maestro, se veramente volete il bene dell'impero, incominciate a studiare l'influsso invariabile del cielo e della terra, l'illuminazione costante del sole e della luna, l'ordine perfetto delle stelle, la stabilità nelle specie animali e vegetali; rendetevi conto che tutto, in natura, è consequenzialità e armonia, poiché il Principio tutto penetra con la sua influenza tranquilla. Vi invito ad unire voi stesso la vostra influenza a quella del Principio, e così potrete arrivare a qualcosa. Smettetela di voler introdurre a forza le vostre virtù artificiali e contrarie alla natura... «Un tale, il cui figlio era scappato [di casa], fece rullare i tamburi affinché gli si desse la caccia, invece di cercare di farlo tornare con la dolcezza. Il risultato che conseguì fu che il fuggitivo se ne scappò più lontano ancora, e non fu mai più trovato. I vostri sforzi per far tornare nel mondo, a suon di grancassa, la bontà e l'equità, avranno, temo, lo stesso risultato negativo; Maestro, state facendo scappare quel che resta della natura». F Scie-c'eng-ch'i andò a far visita a Lao-tzu e gli disse: «Ho inteso dire che siete un Saggio, e ho fatto un lungo viaggio per venire a trovarvi. Ho camminato per cento giorni, sì da averne callosa la pianta dei piedi; ed ecco che trovo che un Saggio non siete. Fate conservare per un tempo indefinito i resti dei vostri pasti; avete trattato male vostra sorella perché i topi avevano rubato i resti dei vostri legumi». Lao-tzu, con aria distratta, lo lasciò parlare senza nulla rispondere. Il giorno dopo Scie-c'eng-ch'i ritornò da Lao-tzu e gli disse: «Ieri vi ho rivolto un rimprovero. Che non abbiate risposto nulla mi ha fatto riflettere. [Ora] vi prego di accettare le mie scuse». «Bado tanto poco alle vostre scuse» disse Lao-tzu, «quanto ai vostri rimproveri. Mi sono sbarazzato di qualsiasi desiderio di esser detto sapiente, trascendente, saggio. Anche se mi deste del bue o del cavallo, non me la prenderei. Sia quel che dicono gli uomini vero, o sia falso: che dicano; mi risparmio la fatica di rispondere. Mi son fatto un principio di lasciare che la gente parli. Il silenzio di ieri ne è una conseguenza». A questo punto Scie-c'eng-ch'i girò intorno a Lao-tzu, evitando di camminare sulla sua ombra; poi, presentandoglisi di fronte gli chiese cosa poteva fare per correggersi. Lao-tzu lo rabbuffò in questi termini: «Essere contorto, i cui gesti e atteggiamenti mettono in rilievo passioni sfrenate e intenzioni disordinate, hai la pretesa di impormi la tua presenza e di farmi credere che desideri essere riformato, e che ne hai le capacità? Vattene! Di te non ho più fiducia di quanta ne avrei in un brigante di frontiera». G Un'asserzione di Lao-tzu: «In se stesso infinito, il Principio penetra con la sua virtù anche i più piccoli fra gli esseri; tutti sono pieni di lui. Immensità in quanto a estensione, abisso in quanto a profondità, Egli tutto abbraccia e non ha fondo. «Tutti gli esseri sensibili e le loro qualità, tutte le idee, come la bontà e l'equità, sono ramificazioni del Principio, ma derivate, lontane. Soltanto l'uomo superiore comprende ciò che ho detto; Confucio, Saggio dell'esterno, su questo punto ha errato. «Per cui, quando governa, l'uomo superiore non s'impastoia in questi particolari, e di conseguenza il governo del mondo gli è di peso leggero. Si occupa solo della barra (del timone), e si guarda dall'entrare in contatto con gli avvenimenti. Il suo colpo d'occhio domina tutto dall'alto. «Nessun interesse particolare lo tocca. Si informa soltanto dell'essenza delle cose. 181

181 Lascia che facciano il cielo e la terra, lascia procedere tutti gli esseri, senza la più piccola fatica dell'animo, essendo senza passioni. «Essendo penetrato fino al Principio e avendo identificato la propria azione con la sua, respinge la bontà e l'equità artificiali, i riti e la musica di convenzione. Giacché l'animo dell'uomo superiore è dominato da un'idea unica e fissa: non intervenire, lasciar agire la natura e il tempo». H Nel mondo d'oggi c'è la voga dei libri (antologie di Confucio). I libri sono soltanto assemblaggi di parole. Le parole esprimono le idee. Ora, le idee vere derivano da un principio non sensibile, e non più di lui possono essere espresse in parole. Le formule che riempiono i libri, [quindi], esprimono solo idee convenzionali, le quali corrispondono poco, o nulla, alla natura delle cose, alla verità. Coloro che la natura la conoscono, non tentano di esprimerla in parole; e coloro che cercano di farlo, mostrano con ciò che non sanno. La gente comune si sbaglia cercando nei libri delle verità; essi contengono solo idee truccate. I Un giorno, mentre il duca Hoan di Z'i stava leggendo, seduto nella sala alta, il carradore Pien costruiva una ruota nel cortile. D'improvviso, posato il martello e lo scalpello, salì i gradini che portavano alla sala, si avvicinò al duca e gli chiese: «Cos'è che leggete di bello?» «Le parole dei Saggi» rispose il duca. «Saggi viventi?» chiese Pien. «Saggi morti» disse il duca. «Ah!» fece Pien, «Le scorie degli Antichi». Piccato, il duca ribatté: «Carraio, di che ti impicci? Cerca di discolparti, o ti faccio mettere a morte». «Mi discolperò al modo dei carrai» rispose il carradore. «Quando fabbrico una ruota, se me la prendo comoda il risultato è modesto; se ci vado di fretta, il risultato è approssimativo; se mi ci applico, non so neanche io come, il risultato è adeguato alla mia concezione, [e ne esce] una ruota efficiente e gradevole a vedersi; il metodo, non so neanche io come descriverlo; è un truschino che non mi riesce di definire: tant'è, che non ce l'ho fatta a insegnarlo a mio figlio e, a settant'anni suonati, se voglio avere una buona ruota devo farmela da me. «I Saggi antichi, trapassati, di cui leggete i libri, hanno saputo far meglio di me? Sono stati, essi, capaci di deporre nei loro scritti il loro marchingegno, quel quid che costituiva la loro superiorità sulla gente comune? «Se così non è, i libri che state leggendo sono solo, come dicevo, i detriti degli Antichi, i rimasugli del loro spirito, che ha cessato di esistere».

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XIV Sviluppo naturale

A Il cielo stellato ruota; la terra è fissa. Il sole e la luna si succedono in modo alternato. Chi è che governa tutto ciò? Chi conserva quest'armonia? Dov'è il motore immobile che tutto muove? Il movimento cosmico sarà libero o forzato?... Le nuvole si sciolgono in pioggia, e la pioggia, evaporata, ricompone le nubi. Chi è che, senza muoversi, dispensa in tal modo l'abbondanza e il benessere?... Dal Nord, il vento soffia verso Ovest, verso Est, in tutte le direzioni. Chi è che muove questo soffio possente? Chi, immobile, gli imprime queste varietà [di movimento]?... «Ve lo dirò io» disse Uhien-t'iaò. «E il cielo, attraverso la rivoluzione dei cinque elementi, nelle sei regioni dello spazio. «È tale rivoluzione che mantiene l'ordine nella natura; e, nelle cose umane, ci sarà buon ordine se il modo di governare vi si conforma, e disordine se esso non vi si conforma. «Quando gli antichi sovrani applicavano le nove leggi, il loro governo portava prosperità ed era efficace. «Essi illuminavano l'impero, che gli era perfettamente sottomesso. Essi furono quelli che sono ora chiamati i Sovrani Augusti». B

Tang, primo ministro di Ciang, domandò a Chuang-tzu cosa fosse la bontà. «È» questi rispose «la virtù delle tigri e dei lupi». «Ma come?» fece Tang. «Ma certo» riprese Chuang-tzu; «non è forse vero che tigri e lupi amano i loro pic-

coli?» «E la bontà suprema?» continuò Tang. «La bontà suprema» rispose Chuang-tzu «consiste nel non amare». «Allora» fece Tang, «l'uomo che possiede la bontà suprema sarà privo di pietà filiale?» «Vi ingannate» disse Chuang-tzu. «La bontà suprema è la benevolenza astratta globale e non differenziata, che non è contraria alle benevolenze concrete e determinate, ma che fa astrazione da esse. È amare da così alto, da così lontano, che l'oggetto [di essa] è perso di vista. [Per fare un paragone], è così che da Ying, guardando a Nord, non si vedono i monti Minn-scian; e tuttavia ci sono. Effetto della distanza. «Perché la pietà filiale si avvicini alla bontà suprema, bisognerebbe che il figlio amasse i genitori senza considerarli, e che i genitori amassero il figlio senza tener conto della sua persona. Amare tutto l'impero senza pensare ad esso, e esserne amati senza essere da esso conosciuti, è qualcosa che si avvicina ancora di più alla bontà suprema. «Essere più benefici di Yao e Sciunn senza rendersene conto, fare del bene a tutti senza che nessuno se ne accorga, questa è la bontà suprema, simile all'influsso inconsapevole del cielo e della terra, che tutto fa sviluppare in modo spontaneo. «Vedete, dunque, che non basta essere ammiratori della pietà filiale per capire 183

183 [quel che ho detto]. È indubbio che la pietà filiale e fraterna, la bontà e l'equità correnti, la fedeltà e la lealtà, la probità e la costanza, e le altre virtù di questo tipo, facciano in qualche modo parte della bontà suprema, ma sono ben limitate se le si paragona alla sua grandezza. «Corre il detto che a chi possiede la beltà, gli ornamenti non aggiungono nulla; che a chi possiede la ricchezza, i premi non aggiungono niente; che a chi ha tutti gli onori, le onorificenze non aggiungono nulla. «Lo stesso vale per chi possiede la bontà assoluta, che altro non è che il Principio; costui praticherà nell'occasione qualsiasi bontà d'ordine inferiore, ed esse non gli aggiungeranno nulla. «E non è partendo da simili particolari che si potrà definire in modo adeguato, a posteriori, la bontà suprema; meglio definirla a priori, partendo dal Principio». C Peimenn-c'eng disse all'imperatore Hoang ti: «Quando ho assistito all'esecuzione della vostra sinfonia Hien-c'ie, in riva al lago Tong-t'ing, la prima parte mi ha spaventato, la seconda mi ha stordito, la terza mi ha dato una sensazione di vaghezza, dalla quale non mi sono ancora ripreso». «È normale che sia stato così» disse l'imperatore. «È una sinfonia che contiene tutto. È un'espressione umana dell'azione celeste, del movimento universale. «La prima parte esprime il contrasto dei fatti terrestri che accadono in conseguenza dell'influsso celeste; il conflitto dei cinque elementi, il succedersi delle quattro stagioni, il nascere e il decadere dei vegetali, l'azione e reazione del leggero e del pesante, della luce e dell'oscurità, del suono e del silenzio; il rinnovarsi della vita animale, ad ogni primavera, quando scoppiano i tuoni dopo i torpori dell'inverno; l'istituzione delle leggi umane, delle funzioni civili e militari, e così via. «E tutto ciò all'improvviso, senza introduzioni, senza transizioni; [il tutto espresso] in suoni accavallantisi, in un succedersi di dissonanze, come [si presenta] il concatenamento delle morti e delle nascite, delle apparizioni e delle scomparse delle effimere realtà terrestri. Doveva mettervi paura. «La seconda parte della sinfonia rappresenta, in suoni vuoi dolci, vuoi forti, insistiti e legati, la continuità dell'azione dello yin e dello yang, del corso dei due grandi luminari, dell'arrivo dei vivi e della partenza dei morti. È questa sequenza che continua a perdita d'occhio, che vi ha stordito con la sua indefinitezza, a un punto tale che, non sapendo più dove eravate, vi siete appoggiato a un tronco d'albero gemendo, sopraffatto dalla vertigine e dall'angoscia causate dal vuoto. «La terza parte della sinfonia esprime le produzioni della natura, il divenire dei destini. Da ciò, effervescenze seguite da calme improvvise; il mormorio dei grandi boschi, poi un silenzio pieno di mistero. Giacché è in questo modo che gli esseri escono da non si sa dove, e rientrano non si sa dove, a ondate, a fiotti. Soltanto il Saggio è in grado di capire quest'armonia, perché solo lui capisce la natura e il destino. «Afferrare i fili del divenire, prima che sia, mentre sono ancora in tensione sul telaio cosmico, questa è la gioia celeste, che si prova, senza che sia possibile esprimerla. Essa consiste, come Maestro Yen ha cantato, nell'udire ciò che ancora non ha suono, nel vedere ciò che ancora non ha forma, ciò che riempie il cielo e la terra, che abbraccia lo spazio, il Principio, motore dello sviluppo cosmico. Non conoscendolo, siete rimasto nella sensazione del vago. «Le mie spiegazioni vi hanno fatto passare da questo vago alla conoscenza [teo184

rica] del Principio. Conservatela come una cosa preziosa». D Mentre Confucio era in viaggio a ovest del principato di Uei, il suo discepolo Yenyuan chiese al maestro di musica Chinn: «Cosa pensate dell'avvenire del mio maestro?» «Penso» disse maestro Chinn, con un sospiro, «penso che non concluderà nulla». «Perché [siete di questo avviso] ?» fece Yen-yuan. «Osservate» disse Chinn «i cani di paglia che si usano per le offerte [rituali]». Prima dell'offerta sono tenuti in scrigni, avvolti in stoffe pregiate, mentre colui che fa le veci del morto e l'officiante si purificano con l'astinenza. Dopo l'offerta sono buttati via, calpestati, bruciati. Se fossero riposti negli scrigni, per servirsene un'altra volta, tutti i componenti della casa sarebbero perseguitati da incubi, perché quei filtri contro i malefici [che sono i cani di paglia] restituirebbero gli influssi nefasti di cui si sono caricati. «Ed ecco che Confucio raccoglie nella sua scuola i cani di paglia dei sovrani dell'antichità (sono i suoi libri, ripieni di vecchi ricordi scaduti e divenuti nefasti). Da qui le persecuzioni di cui è stato l'oggetto in diversi posti; incubi procuratigli dai suoi vecchi Cani di paglia. «Per andare sull'acqua si prende una barca; per andare per terra si prende una carrozza; impossibile viaggiare sull'acqua in carrozza, e per terra in barca. Ora, i tempi passati stanno ai tempi presenti come l'acqua alla terra; l'impero dei Ceù e il ducato di Lu, si assomigliano come una barca e una carrozza. «Voler applicare adesso i principi carichi d'anni degli antichi, voler servirsi nel ducato di Lu dei procedimenti dell'impero dei Ceù, significa voler viaggiare in barca sulla terraferma, significa tentare ciò che non è possibile. Confucio lavora per niente e si attirerà delle disgrazie, come tutti quelli che hanno cercato di applicare un certo sistema in circostanze differenti [da quelle per cui era stato concepito]. «Ai giorni nostri, per tirar su l'acqua, si è abbandonato il secchio degli antichi a favore della cucchiaia a bilanciere, e nessuno sente il bisogno di ritornare al secchio. Analogamente, i procedimenti di governo degli antichi imperatori, che erano adeguati ai loro tempi e adesso non sono più efficaci, non devono essere imposti con la forza al tempo attuale. «In ogni stagione si mangiano determinati frutti, il cui gusto in quel momento piace, mentre non piacerebbe in un'altra epoca [dell'anno]. Lo stesso capita delle regole e degli usi; anche essi devono variare con i tempi. «Fate indossare il vestito del duca di Ceù a una scimmia. Che succederà? Che lo farà a brandelli dalla rabbia, con i denti e le unghie, e non si calmerà finché non ne avrà strappato l'ultimo lembo. Ora, l'antichità e i tempi attuali sono tanto diversi tra di loro quanto il duca di Ceù e una scimmia. «Non travestite i moderni con l'abbigliamento degli antichi. «Un tempo, quando la bella Si-scie aveva la luna di traverso, era ancora più seducente. Una donna di brutta complessione, che l'aveva vista in tale stato, fece un giorno come l'aveva vista fare. Il risultato fu che gli abitanti ricchi del villaggio si barricarono nelle loro case; e che i poveri, spaventati, si diedero alla fuga con mogli e bambini. E questo perché la racchia aveva imitato solo le escandescenze, e non la bellezza, della bella Si-scie. «La stessa cosa accade per la parodia che Confucio ci recita dell'antichità. Essa fa scappare la gente. No, quell'uomo non concluderà nulla».

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185 E All'età di cinquantun anni Confucio non aveva ancora nessuna nozione del Principio. Allora si recò a P'eì, e rese visita a Lao-tan. «Ah! Eccovi qua [finalmente]!» disse quest'ultimo «Siete voi il Saggio del Nord? Cosa ne sapete del Principio?» «Niente» rispose Confucio. «[Se le cose stanno così]» fece Lao-tan, «perché allora non lo cercate?» «L'ho cercato» disse Confucio, «per cinque lunghi anni, nelle formule e nei numeri, ma non l'ho trovato». «E poi?» fece Lao-tan. «Poi» riprese Confucio, «l'ho cercato, per [altri] dodici anni completi, nello yin e nello yang, e anche allora senza nessun risultato». «Non mi stupisce» sbottò Lao-tan. «Se il Principio si potesse trovare così, da tempo esso figurerebbe fra i regali che si fanno agli amici. La conoscenza del Principio non si trova, né si comunica, così facilmente. Essa presuppone, in effetti, che l'uomo sia perfettamente regolato. «Non si deve voler per sé soli la reputazione, a cui tanti uomini ambiscono. Non bisogna riferire a sé in modo esclusivo le nozioni di bontà e di equità, che già sono state di ausilio a tanti Antichi. Di queste cose bisogna prendere solo la propria parte, e al proprio turno. [Se non si fa così] si finisce per aver tutti contro, giacché anche gli altri tirano per sé. «Gli Antichi non si accaparravano nulla. A una sola cosa tenevano, alla libertà di vagare nel vuoto, alla speculazione [intellettuale] senza costrizioni, a essere senza attaccamenti e senza interessi. così essi giungevano alla conoscenza del Principio, la quale questo distacco presuppone. «Chiunque sia legato dall'amore della ricchezza, della rinomanza, della potenza, è troppo preda della distrazione per nemmeno potervi tendere. E per quanto riguarda l'arte del governo, la quale deve consistere nel seguire esattamente lo sviluppo naturale, è a coloro che sono diritti che compete rettificare gli altri. «Di colui che pretenda di rettificare il suo prossimo senza ancora essere diritto egli stesso, si dovrebbe dire che in lui non ha ancora incominciato a brillare la ragione». F Un'altra volta Confucio, in visita a Lao-tan, gli espose le sue idee sulla bontà e l'equità. «Ascoltate» gli disse questi, «a causa della polvere, gli stacciatori [di cereali] non riescono più a vederci; impossibile riposare quando le zanzare sono troppe. I vostri discorsi sulla bontà e sull'equità a me fanno lo stesso effetto; mi impediscono di vedere e mi infastidiscono. Suvvia! Lasciate in pace la gente! «Pensate quel che vorrete, in teoria; ma in pratica, piegatevi al vento, accettate che nel mondo siano avvenuti dei cambiamenti, non picchiate sui tamburi per richiamare il figlio che se n'è andato. Le oche selvatiche sono bianche per natura, i corvi sono neri, [anch'essi] per natura; non c'è dissertazione che possa por rimedio a questo fatto. «Lo stesso avviene per i tempi che si succedono e per gli uomini di questi tempi. I vostri discorsi non faranno dei corvi d'oggi, delle oche d'una volta. Non sarete voi che salverete quel che resta del mondo antico; ha fatto il suo tempo. Quando si prosciugano i corsi d'acqua, i pesci si aggruppano nei buchi, e cercano di salvarsi la vita umidificandosi l'un l'altro con le viscosità che li ricoprono. Espediente da poco! Avrebbero dovuto disperdersi in tempo e raggiungere le acque profonde». 186

Dopo questa visita Confucio restò tre giorni senza parlare. Alla fine i suoi discepoli gli chiesero: «Maestro, cosa avete detto a Lao-tan per confutarlo?» «Nella persona di quell'uomo» rispose Confucio «ho visto il drago. Il drago si ripiega, visibile, su se stesso, poi si distende, invisibile, producendo il tempo coperto o quello sereno, senza che nessuno capisca alcunché della sua azione potente, ma misteriosa. «Io sono rimasto a bocca spalancata davanti a quell'uomo inafferrabile. Per me la sa troppo lunga. Cosa potevo dirgli per confutarlo?» G «Ma allora» disse il discepolo Zé-cung, «quell'uomo potrebbe forse essere quel Saggio di cui si dice che, immerso nella solitudine e nel silenzio, fa arrivare il suo influsso dappertutto; che è potente come il tuono e profondo come l'abisso; che agisce al modo del cielo e della terra? Vogliate permettermi di andarlo a trovare». Con il permesso di Confucio, Zé-cung andò dunque a trovare Lao-tan. Squadratolo, questi gli disse: «Io sono ben [più] vecchio [di voi], e voi siete ben [più] giovane [di me]! Cosa avete da insegnarmi?» Zé-cung gli rispose: «I tre grandi imperatori e i cinque grandi re non hanno governato allo stesso modo, questo è vero, ma da tutti sono ritenuti Saggi Perché solo voi gli rifiutate questo titolo?» «Avvicinati, ragazzo, che ti veda meglio» fece il vecchio Lao-tan. «Così, tu dici che questi Antichi non hanno governato nella stessa maniera». «Ma certo» rispose Zé-cung. «Yao abdicò. Sciunn nominò U suo successore. U e T'ang fecero la guerra. Uenn-uang fu sconfitto dal tiranno Ceù. Invece C'eng-uang lo rovesciò. Non si tratta forse di differenze?» «Vieni più vicino, ragazzo mio, che ti veda meglio» ripeté il vecchio Lao-tan. «È tutto qui quel che sai della storia? Allora ascolta! «Hoang-ti organizzò la sua gente alla maniera di un impero, e in tal modo lese la natura; ma del resto si disinteressò, anche di quel che Confucio ritiene più essenziale, come piangere i propri famigliari morti; al suo tempo, che si facessero o non si facessero riti, nessuno se ne preoccupava. «Yao costrinse il suo popolo ai riti di lutto per i parenti, ma del resto si disinteressò. «Sciunn spinse sul tasto della riproduzione. Secondo i suoi ordini, le donne dovettero fare un figlio ogni dieci mesi; i bambini dovettero parlare a cinque mesi, e riconoscere i propri concittadini prima di tre anni. Attività abnorme, che fece comparire nel mondo le morti premature. «U corruppe totalmente il cuore degli uomini. Rese legittimo l'assassinio, proclamando che, in guerra, si uccidevano dei briganti e non degli uomini, e che di conseguenza non era male. Poi si impadronì dell'impero a favore della propria famiglia (lo rese ereditario). «Da allora il disordine aumentò. Raggiunse il suo acme quando apparvero i partigiani di Confucio e di Mei-ti, che inventarono quelli che chiamano i rapporti sociali, le leggi sul matrimonio, ecc. «E tu hai il coraggio di dire che gli antichi governarono l'impero? Non è vero. Lo misero sossopra. Essi compromisero, con le loro innovazioni, il fondamento d'ogni stabilità, l'influsso potente del sole e della luna, delle montagne e dei fiumi, delle quattro stagioni. La loro abilità artefatta è stata più nociva dell'aculeo di uno scorpione, dei denti di 187

187 una belva. «E questi uomini, che non seppero riconoscere le leggi della natura e del destino umani, pretenderebbero di aver diritto al titolo di Saggi? Mi pare che sarebbe veramente una spudoratezza eccessiva». Davanti a questa tirata di Lao-tan, Zé-cung restò a bocca aperta e in un estremo imbarazzo. H Confucio disse a Lao-tan: «Mi sono applicato alle Odi, agli Annali, ai Riti e alla Musica, alle Mutazioni e alle Cronache. Mi sono dedicato a lungo allo studio di questi sei trattati, al punto di essermi familiarizzato con essi. Ho fatto discorsi a settantadue prìncipi sregolati, esponendo loro i principi degli antichi sovrani, dei duchi di Ceù e di Ciaò, per farli tornare sulla retta via. I miei discorsi non sono serviti neanche a uno di loro. Non è facile da persuadere, gente simile!» «Per fortuna!» sbottò Lao-tan «Che nessuno di essi vi abbia prestato orecchio! Se l'avessero fatto, [indubbiamente] sarebbero peggiorati. I vostri sei trattati sono vecchiume, racconto di fatti accaduti in circostanze ormai passate, gesta che sarebbero fuori luogo in quelle attuali. «Cosa si può dedurre dall'impronta di un piede, se non, [appunto], che è stata fatta da un piede? Chi [l'ha fatta]? Perché? Come? E altre circostanze: su tutti questi interrogativi l'impronta resta muta. Lo stesso per le impronte lasciate dai fatti storici; esse non ci fanno sapere la realtà come fu, viva e vera. «Ogni epoca ha la sua natura propria, così come ogni essere ha la sua; natura a cui nulla può essere cambiato. Gli aironi si fecondano guardandosi, certi insetti ronzando, altri sono ermafroditi, altri ancora si aggiustano diversamente. L'unica cosa è lasciarli fare, ogni specie secondo la sua natura. Quest'ultima non può modificarsi, così come il destino non si cambia, il tempo non si può fermare, lo sviluppo non può essere intralciato. «Lasciate che tutto proceda secondo il suo corso naturale, e non avrete che successi. Opponetevi [al corso naturale delle cose], e avrete solo degli insuccessi». Confucio si ritirò per tre mesi in casa propria per meditare sulla lezione. Finito questo periodo, tornò a trovare Lao-tan. «Finalmente ho capito» gli disse. «I corvi e le gazze covano, i pesci fecondano le loro uova, il vespone nasce dalla trasformazione di un ragno; gli uomini generano bambini in successione, e la nascita di quello che viene dopo fa piangere quello prima. «Era da un bel po' che io, Ch'iù, mi tenevo allo scarto dallo sviluppo naturale, o, addirittura, cercavo di farlo tornare indietro. Per questo non sono [mai] riuscito a far sviluppare l'umanità». «Benissimo!» esclamò Lao-tzu. «Adesso, Ch'iù, hai proprio trovato la chiave!»

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XV Saggezza e incrostazioni

A Avere nella testa idee incrostate, e un'elevata opinione dei propri particolari costumi; rompere con il mondo e far partito a sé; parlare difficile e criticare gli altri, in una parola, comportarsi da pedanti, ecco come fanno quelli che vivono da eremiti sulle montagne e nelle valli, spregiatori dei modi [di vivere] comuni, i quali finiscono con il morire di fame, o annegati in qualche torrente. Dissertare sulla bontà e l'equità, la lealtà e la fedeltà; praticare il rispetto degli altri, la semplicità, la modestia, in altre parole, reprimersi in tutti i modi; ecco come fanno quelli che hanno la pretesa di portare la pace nel mondo e di far la predica agli uomini, Maestri di scuola, ambulanti e sedentari. Esaltare i propri meriti, agitarsi per farsi un nome, sottilizzare sui riti e sull'etichetta, voler dar regole a tutto, ecco come fanno quelli che frequentano i corsi, politici alla ricerca di un padrone da servire, di un principato da organizzare, di alleanze da procurare. Ritirarsi sulla riva dei corsi d'acqua o nei siti solitari, pescare alla lenza o non far nulla, ecco il modo di essere degli amanti della natura e della vita tranquilla. Respirare a ritmo, espirare l'aria contenuta nei polmoni e sostituirla con aria fresca, aiutarsi nella respirazione con gesti simili a quelli dell'orso che si solleva [sulle zampe di dietro] o dell'uccello che vola, ecco quel che fanno quelli che desiderano vivere a lungo, imitatori di P'eng-zu. Tutti costoro sono dei fissati. E adesso parliamo degli uomini veri. B Avere aspirazioni elevate, senza [che siano accompagnate da] pregiudizi preconcetti; tendere alla perfezione, ma non secondo lo schema [esteriore] bontà ed equità; governare senza mirare a farsi una rinomanza; non ritirarsi dal mondo; vivere senza ginnastica respiratoria; aver tutto, e non essere legati a nulla; attirare tutti [a sé] senza far niente [per ottenere questo risultato], questa è la via del cielo e della terra, quella che segue il Saggio taoista. Vuoto, pace, appagamento, imperturbabilità, silenzio, visione globale, non-intervento, questo è il modo d'essere del cielo e della terra, il segreto del Principio e della sua rettitudine. Il Saggio taoista si comporta nello stesso modo. Tranquillo, semplice, disinteressato, nessuna tristezza si insinua nel suo cuore, nessuna cupidità può commuoverlo; la sua condotta è perfetta; i suoi spiriti vitali restano integri. Per tutta la vita agisce al modo del cielo; quando muore rientra nella gran trasformazione. Quand'è in riposo è in comunione con il modo yin; quand'è in azione è in comunione con il modo yang dell'universo. Agli altri non provoca né fortuna ne disgrazia. Non determina d'agire se non quando ne è costretto, quando non può evitarlo. È superiore a ogni scienza; da lui deriva ogni tradizione e può [quindi] operare qualsiasi adattamento. In ogni cosa imita il distaccato opportunismo del cielo. Per cui, non ha da temere nulla né dal cielo, né dagli esseri, né dagli uomini, né dagli esseri sottili. Nel corso della vita si dirige tenendo conto degli avvenimenti; quando muore, si 189

189 ferma [in quanto individuo]. Non pensa all'avvenire, e non fa piani [per esso]. Brilla senza accecare; è fedele senza che prenda partito. Durante il sonno non è preda di sogni; durante la veglia non risente di stati malinconici. I suoi spiriti vitali sono sempre in equilibrio, il suo animo è sempre pronto ad agire. Vuoto, tranquillo, appagato, semplice, è in comunione con la virtù celeste. Il dolore e la gioia sono entrambi morbosi, l'affetto [esclusivo] e il risentimento sono entrambi degli eccessi; colui che ama [in modo esclusivo], o odia, ha perduto l'equilibrio. Non sapere di dispiacere e piacere, questo è l'apogeo della virtù; essere sempre uguali a se stessi, senza alterazioni, questo è l'apogeo della pace; non essere attaccati a nulla, questo è il culmine del vuoto; non aver rapporti con nessuno, questo è il culmine del distacco; lasciar le cose [procedere] e [gli esseri svilupparsi], questo è l'apogeo del disinteresse. La fatica muscolare ininterrotta logora il corpo; la spesa incessante di energie lo esaurisce. Si osservi l'acqua. Per propria natura essa è pura e calma. Non diventa impura o agitata che quando sia stata rimescolata sottoponendola a violenza. Ecco l'immagine adeguata della virtù celeste, [che è] spontaneità calma. Purezza, senza mescolanze, riposo senza alterazioni, distacco senza azione; movimento conforme a quello del cielo, senza intenzione [di tipo individuale], senza dissipazione di pensiero né sforzo; questo è ciò che conserva gli spiriti vitali. Chi possiede una sciabola di qualità Can-ué, la conserva con cura nel suo fodero e se ne serve solo nelle grandi occasioni, per tema di rovinarla senza costrutto. È strano che la maggioranza degli uomini si preoccupino meno per la conservazione del proprio spirito vitale, il quale è invece più prezioso della miglior lama di Canué. Tuttavia, lo spirito vitale si estende a tutto, dal più alto cielo alla terra, più in basso, fino alle trasmutazioni di tutti gli esseri, giacché è così sottile che non è neppure raffigurabile, e confonde la sua azione con quella del Sovrano (qui il Sovrano cosmico, lo spirito del mondo). Integrità e purezza, ecco ciò che conserva l'anima e la protegge dall'usura. Nel suo stato di integrità e di purezza essa è in comunione con la regola celeste (sinonimo del Sovrano di cui sopra). Da qui la seguente massima: «Il volgo dà valore alla ricchezza, il letterato alla reputazione, lo studioso [esteriore] agli incarichi, il Saggio [taoista] allo «spirito vitale». Il principio della vita si conserva con la purezza e con l'integrità. Purezza significa assenza d'ogni mescolanza, integrità significa assenza di ogni carenza. Quegli il cui spirito vitale è perfettamente integro e puro, questi è un Uomo Vero.

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XVI Natura e convenzione

A Aver la pretesa di riformare la natura riconducendola al suo stato originario, fondandosi sugli studi che si conducono nelle scuole [di pensiero] attuali; voler imbrigliare le tendenze [illudendosi di] illuminarle con i ragionamenti canonici [esteriori]; [tutto ciò] è dar prova di una cecità ben grande. I Saggi dell'antichità, di scienze conoscevano solo quelle che emanavano spontaneamente dalla calma della loro natura, la semplice assimilazione delle cose, che non li disturbava affatto. Nacquero così queste nozioni del tutto semplici; bontà: il sopportare tutto; equità: l'essere equilibrati. All'equità corrispose la lealtà; la verità francamente [espressa] produsse la gioia, e la sua espressione la musica; la mutua comprensione produsse l'educazione, e la sua espressione i riti. Più tardi, quando furono falsati, i riti e la musica diventarono un elemento di perversione, come succede di tutto ciò che non è più conforme alla natura. Ai primordi gli uomini erano semplici, come la natura nel suo principio. Nulla turbava i movimenti naturali; le forze fisiche non provocavano nessun disordine. Il corso delle stagioni era regolare, gli esseri non conoscevano la sofferenza, sconosciuta era la morte prematura, non c'erano né teorie né scienze [artificiali]. Fu l'età dell'unità e dell'unione perfette, dell'uomo con la natura e degli uomini fra di loro. Nessuno interferiva con l'ordine naturale. E tuttavia giunse la decadenza. Essa incominciò a partire dalle istituzioni di Soeigenn e di Fu-hi (produzione artificiale del fuoco, leggi sul matrimonio e la famiglia), le quali ebbero l'apparenza di un progresso, ma furono l'inizio della rovina per la semplicità e la vita in comune dei primi tempi. La decadenza si accrebbe al tempo di Scienn-nung e di Hoang-ti (abbandono della vita nomade, agricoltura, formazione dello stato); il benessere aumentò, ma a spese dell'antica spontaneità. [La decadenza] si accentuò molto di più sotto il regno di Yao e di Sciunn, i quali introdussero [l'idea] del miglioramento sistematico (mediante leggi e scuole) e la pratica obbligatoria di un sedicente bene convenzionale. Fu la fine dei modi di vivere primitivi. Da allora gli uomini sostituirono l'istinto innato con le loro teorie [artificiali, razionali] e la pace disparve dall'impero. Infine, il progresso delle lettere e delle scienze terminò di soffocare ciò che ancora restava della semplicità naturale, e riempì gli animi di distrazioni. Di conseguenza [ora] tutto è soltanto più disordine e perversione. B Da questo excursus storico si deduce che l'adozione dei costumi convenzionali è stata la rovina dei modi di vivere originari, e che tale rovina della natura originaria è stata [anche] la rovina del mondo. Natura e convenzionalità sono in contraddizione inconciliabile. I partigiani di queste due vie non possono coesistere insieme. Addirittura non possono comprendersi reciprocamente, perché il loro linguaggio è [appunto] contraddittorio. Un Saggio della schiera della natura (taoista) non avrà neppure bisogno di andare a nascondersi sui monti o nelle foreste; vivendo in mezzo ai propri contemporanei rimarrà sconosciuto, perché non sarà capito. Questo stato di cose non data da ora soltanto, risale 191

191 ad abbastanza presto nel tempo. Gli antichi Saggi, che comunemente sono chiamati i Celati [gli Esoterici], non si rendevano [volutamente] invisibili, non tenevano la bocca chiusa, non dissimulavano deliberatamente la propria saggezza. Non si nascondevano. È la loro totale opposizione al proprio tempo che li nascondeva, che li mascherava alla vista [comune], mantenendoli sconosciuti e incompresi. In tempi favorevoli avrebbero forse riformato il mondo, riconducendolo alla perduta semplicità. Ma poiché i tempi non propizi gli impedivano di farlo, passarono la loro vita tenendo per sé la nozione della perfezione primitiva ed aspettando tranquilli. Erano uomini che non cercavano conoscenze disparate con sottili disquisizioni, come fanno gli attuali pensatori sofisti; né volevano tutto sapere [in dettaglio] o tutto potere. Piuttosto riservati, quasi timidi, rimanevano al loro posto e meditavano sulla loro natura. D'altronde, la materia è abbastanza vasta da impegnare un uomo, e abbastanza difficile da consigliare il riserbo. Farsi passare per maestri della dottrina del Principio, essendo [solo] in possesso di una scienza e di una condotta imperfette, significa nuocere alla dottrina, non servirla. Essi lavoravano perciò alla loro propria persona, traendo la loro soddisfazione dalla propria tensione verso l'obiettivo. Essi non sognavano, come gli ambiziosi dei giorni nostri (Confucianisti), di gradi e distinzioni. Cos'hanno a che vedere, queste cose artificiali, con la perfezione della natura? Assolutamente nulla! Anzi, esse sono una ben misera soddisfazione, perché assai precaria, dal momento che chi le abbia ottenute non può mai essere sicuro di conservarle. I Saggi [veri] sono indifferenti sia alla fortuna che alla sfortuna; non si rallegrano e non si affliggono davanti a nulla. Se un'acquisizione fa gioire, se una perdita fa soffrire, è segno che si era legati a quel che ne era l'oggetto; e affetto e afflizione sono due disordini. Coloro che imprestano il loro affetto a qualunque essere, che violentano il loro istinto naturale a causa di qualsivoglia convenzione costoro fanno il contrario di ciò che dovrebbero. Costoro dovrebbero seguire soltanto il loro istinto, e vivere in modo assolutamente distaccato.

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XVII Acque d'autunno

A Era il tempo della piena d'autunno. Cento corsi d'acqua si rovesciavano gonfi nel Fiume Giallo, il cui letto si era così accresciuto che da una sponda all'altra non si poteva distinguere un bue da un cavallo. Questo spettacolo riempiva di gioia il genio tutelare del Fiume, il quale pensò che nulla al mondo era meglio del suo regno. Accompagnando il flusso delle proprie acque egli discese fino al mare del Nord. Alla vista di queste altre acque, che si estendevano senza limiti fino all'Est, egli si rese conto che c'era di meglio del suo proprio regno, e disse sospirando al Genio del mare: «L'adagio "chi poco sa, crede di esser grande" si attaglia bene alla mia persona. Avevo pur sentito dire che c'era di meglio di Confucio e dei suoi eroi, ma non ci avevo creduto. Ora che ho visto l'estensione del vostro impero, comincio a credere che anche la vostra dottrina sia superiore a quella di Confucio. «Ho avuto una buona idea a venire a chiedere il vostro insegnamento, se no i veri sapienti avrebbero potuto ridere di me». «Siate il benvenuto» gli disse il Genio del mare. «Effettivamente, la rana che vive nel fondo di un pozzo non può farsi un idea di cosa sia il mare, conoscendo solo il suo buco. L'effimera che si schiude in estate e in estate muore, non sa cos'è il ghiaccio, conoscendo una sola stagione. «Un letterato limitato come Confucio nulla sa della superiore scienza del Principio, deformato com'è dai pregiudizi della sua casta. Uscito dal vostro letto [abituale e] ristretto, ora voi avete visto l'oceano senza limiti. Convinto adesso della vostra imperfezione, siete diventato passibile [di istruzione] alla scienza superiore. Quindi, ascoltate!... «La più grande di tutte le acque è l'oceano. Fiumi innumerevoli versano in esso le loro acque, senza che l'aumentino. Continuamente si scarica dallo stretto orientale, senza che diminuisca. Non subisce né piene, né secche, come invece ne patiscono anche i fiumi più grandi; il suo livello è sempre lo stesso, invariabile. «Questo è il mio impero. Eppure la sua immensità non mi ha mai ispirato nessun orgoglio. Perché? Perché, se lo confronto con il cielo e con la terra, con il cosmo fisico, lo trovo piccolo. Io non ho la sensazione di essere qualcosa di più di un sasso, di un arbusto su una montagna. Sentendomi così poca cosa, perché dovrei avere di me stesso un'alta opinione? «Comparati con l'universo, gli abissi dei quattro oceani si riducono a piccoli buchi su un'immensa superficie. Confrontata con la terra, la nostra Cina si riduce proporzionalmente alle dimensioni di un chicco di grano in un vasto granaio. Espressa con il numero di diecimila la totalità degli esseri esistenti, l'umanità vale soltanto un'unità. «Da nessuna parte in effetti, su tutta la terra abitata, la proporzione degli uomini rispetto agli altri esseri supera questa quantità. Di conseguenza, l'umanità sta alla massa dell'universo come un pelo sta al corpo di un cavallo. «Questo è ciò a cui si riduce quel che ha tanto preoccupato gli antichi sovrani, tormentato i Saggi [esteriori], affaticato i politici: a un filo di paglia. Pai-i, l'eroe dei Confucianisti, è considerato grande per il ruolo che ebbe su questa minuscola scena; e Confucio 193

193 è considerato sapiente per aver recitato su di essa. «Questi uomini si credettero qualcuno perché non ne sapevano di più; esattamente come voi, che vi credevate il primo degli spiriti delle acque prima di aver visto il mare». Ricordando le discussioni dei [pensatori] sofisti del tempo, sulle nozioni di grandezza e piccolezza, il Genio del fiume chiese a quello del mare: «Di conseguenza, d'ora in poi terrò l'universo [sensibile] per espressione della grandezza assoluta, e un pelo come il simbolo della piccolezza assoluta, dico bene?» «No!» rispose il Genio del mare, «Non fatelo! L'universo attuale non è l'espressione della grandezza assoluta, giacché si tratta di una quantità non costante. Essa varia, nel corso del tempo, e secondo lo sviluppo [del manifestato], in funzione delle genesi e delle cessazioni. Prese in esame in tal modo, dalla scienza superiore, le cose mutano d'aspetto, e ciò [che sembrava] assoluto diventa relativo. «Conseguentemente, la differenza del grande e del piccolo, nella visione da distanza indefinita, sparisce. Così come sparisce la differenza del passato e del presente, con il cancellarsi dell'anteriorità e della posteriorità nel concatenamento indefinito; come conseguenza, si ha che il passato non suscita più malinconia, e il presente non risveglia più nessun interesse [esclusivo]. «Si cancella altresì la differenza tra prosperità e miseria, fasi effimere che scompaiono nella produzione senza arresto; anche qui, come conseguenza si ha che avere non dà più piacere, e perdere non causa più dolore. Per coloro che guardano da una simile distanza ed altezza, la vita non è più una fortuna, la morte non è più una disgrazia; e questo perché sanno che le fasi si succedono e che nulla può durare [senza finire]. «L'uomo ignora molte più cose di quante ne conosca. Paragonato all'universo, egli è infinitamente poco. Voler indurre, dal poco che si sa, dal poco che si è, ciò che non si sa, vale a dire [ciò che riguarda] l'universalità degli esseri, è un procedimento con il quale non si viene a capo di nulla. Per cui, per le vostre speculazioni, non servitevi di quel pelo che siete voi, come unità di misura della piccolezza; né del cosmo mutevole, come unità di misura della grandezza». Contento di aver trovato un maestro tanto capace, il Genio del fiume proseguì con le sue domande: «I filosofi» egli disse «sostengono che un essere reso tenue all'estremo, diventa zero; e che lo stesso essere, reso ampio all'estremo, diventa infinito; è vero o è falso?» «È vero ed è falso nello stesso tempo» rispose il Genio del mare. «Le nozioni di estrema attenuazione e di estrema amplificazione non si definiscono in modo chiaro prendendo per supporto uno stesso essere. L'estremamente attenuato concepibile è l'essenza. Il sostegno dell'amplificazione misurabile è la sostanza concreta. «Essenza e sostanza sono due cose diverse, che coesistono in ogni essere sensibile, superiore allo zero. Zero è ciò che il calcolo non può più suddividere; l'infinito è ciò che i numeri non possono più abbracciare. La parola può descrivere la materia concreta; l'essenza è afferrata dal pensiero. «Al di là, intuizioni metafisiche, frutto dell'attività interiore, le quali non sono né sostanza né essenza, sono conoscibili soltanto per apprezzamento diretto. È seguendo queste intuizioni inesprimibili che l'uomo superiore fa molte cose in modo del tutto diverso dalla gente comune; senza però disprezzare quest'ultima, che non possiede gli stessi mezzi di conoscenza. «Sono esse che lo pongono al disopra dell'onore e dell'ignominia, delle ricompense e dei castighi. Sono esse che gli fanno dimenticare le distinzioni tra grande e piccolo, tra 194

bene e male. «È questa la ragione per cui si dice: "L'uomo del Principio conserva il silenzio; l'uomo perfetto non ricerca più nulla; l'uomo grande non ha più individualità, perché ha collegato tutte le parti in una"; contemplazione interiore dell'unità universale». Poiché il Genio del fiume insisteva ancora per sapere su cosa si fondino le distinzioni tra nobile e vile, grande e piccolo, e così via, il Genio del mare rispose: «Se si considerano gli esseri alla luce del Principio, tali distinzioni non esistono, perché tutto è uno. Ai loro propri occhi gli esseri sono tutti nobili, e tengono gli altri per vili, in rapporto a se stessi; si tratta di un punto di vista soggettivo [individuale]. «Agli occhi della gente comune, gli esseri sono nobili o vili secondo un certo tipo di apprezzamento [abitudinario] ordinario, non dipendente dalla realtà [in sé]; si tratta di un punto di vista convenzionale. «Considerati in modo oggettivo e relativo tutti gli esseri sono grandi in rapporto a quelli più piccoli di loro, tutti sono piccoli in rapporto a quelli più grandi di loro; il cielo e la terra sono soltanto un granello, un pelo è una montagna. Intesi nella loro utilità, tutti gli esseri sono utili per ciò che possono fare, tutti sono inutili per ciò che non possono fare; l'Est e l'Ovest coesistono, per opposizione, necessariamente, ognuno di essi possedendo i suoi attributi propri, che l'altro non ha. «E infine, in rapporto al gusto dell'osservatore, gli esseri hanno tutti qualche aspetto per cui piacciono ad alcuni e qualche aspetto per cui non piacciono ad altri; Yao e Chié ebbero, entrambi, ammiratori e detrattori. Il fatto di aver abdicato non mandò in rovina né Yao né Sciunn, mentre in rovina mandò il barone C'oai. La rivolta fu favorevole agli imperatori T'ang e U, mentre fu fatale per il duca Pai. «Secondo i tempi e le circostanze il risultato delle stesse azioni non è sempre lo stesso; ciò che costituisce elemento a favore per qualcuno, o in determinate circostanze, per un altro, o in altre circostanze, non lo è. Lo stesso si dica per la qualificazione degli atti; quel che è nobile in qualcuno, o in determinate circostanze, in un altro, o in circostanze diverse, sarà vile. Tutte queste cose sono relative e variabili. «Un ariete è quel che c'è di meglio per sfondare un muro di cinta, ma per turare un foro sarebbe uno strumento del tutto inutilizzabile; i mezzi differiscono [secondo gli scopi da ottenere]. «I destrieri dell'imperatore Mu, che facevano decine di chilometri in un giorno, non sarebbero stati all'altezza di un gatto se si fosse trattato di dar la caccia a un topo; [anche] le qualità differiscono [secondo il metro con cui le si misura]. Il gufo conta le sue penne e cattura le pulci di notte, quando in pieno giorno non vede una montagna; [anche] le nature differiscono. «A maggior ragione non c'è nulla di fisso nelle questioni morali, la stima, l'opinione, e così via. Tutte le cose presentano un aspetto duplice. Di conseguenza, volere il bene senza il male, l'ordine senza il disordine, è dimostrare che non si capisce nulla delle leggi dell'universo; è sognare di un cielo senza terra, di uno yin senza yang; per tutto, l'aspetto duplice coesiste. «Voler distinguere, in quanto entità reali, tali due correlativi inseparabili, è dimostrare di avere una ragione debole; il cielo e la terra sono uno, lo yin e lo yang sono uno; e così [sono uno] gli aspetti opposti di tutti i contrari. «Degli antichi sovrani gli uni ebbero il trono per successione, gli altri lo usurparono. Tutti sono detti buoni sovrani, perché agirono in conformità con il gusto della gente del loro tempo, e alla loro epoca piacquero. Sbagliarsi di epoca, agire in contrasto con i 195

195 gusti dei propri contemporanei, è ciò che fa sì che si sia chiamati usurpatori. «O Genio del fiume, medita su queste cose, e comprenderai che non c'è né grandezza né piccolezza, né nobiltà né bassezza, né bene né male assoluti; ma che tutte queste cose sono relative, che dipendono dai tempi e dalle circostanze, dall'apprezzamento degli uomini, dall'opportunità». «Ma allora» riprese il Genio del fiume, «da un punto di vista pratico, cosa dovrò fare? E cosa dovrò non fare?... Quali [idee] accettare? Quali respingere?... Esiste, o non c'è, una morale, una regola di comportamento?» «Dal punto di vista del Principio» rispose il Genio del mare, «c'è soltanto un'unità assoluta, e degli aspetti mutevoli. Introdurre qualcosa di assoluto, al di fuori del Principio, equivarrebbe a ingannarsi riguardo al Principio. Conseguentemente, nessuna morale assoluta, ma soltanto una convenienza di opportunità. «Da un punto di vista pratico, seguite i tempi e le circostanze. Siate giusto in modo uguale in quanto principe responsabile d'un regno, benefico in modo uguale in quanto protettore del suolo, distaccato in modo uguale in quanto essere umano individuale; [cercate di] abbracciare tutti gli esseri, poiché sono tutti uno. «Il Principio è immutabile, poiché non ha avuto inizio e non avrà fine. Gli esseri sono mutevoli, nascono e muoiono, privi di stabile permanenza. Dal non-essere passano all'essere, senza nessuna forma di riposo, nel corso degli anni e dei tempi. «Inizi e fini, crescite e decadenze, si seguono [l'una all'altra]. Questo è tutto quel che siamo in grado di constatare, in fatto di regola o legge che governa gli esseri. La loro vita passa sulla scena del mondo, così come davanti ai nostri occhi un cavallo imbizzarrito. Non esiste momento senza cambiamenti o vicissitudini. «E voi mi venite a chiedere cosa c'è da fare? Cosa da non fare?... Ma seguite il corso delle trasmutazioni, agite in conseguenza delle circostanze, del momento; questo è tutto quel che c'è da fare». «Per finire» disse il Genio del fiume, «siate buono e mostratemi i vantaggi della comprensione del Principio». «Volete conoscere i vantaggi della comprensione del Principio?» disse il Genio del mare «Eccoveli: colui che conosce il Principio, conosce la legge che da Lui deriva, la applica come occorre, ed è così rispettato da tutti gli esseri. «L'uomo la cui condotta è in tal modo conforme al Principio, il fuoco non lo brucia, l'acqua non lo annega, il freddo e il caldo non gli nuocciono, le bestie feroci non gli fanno alcun male. Non con questo che egli non abbia nulla da temere da questi pericoli; ma perché, nella sua saggezza, egli sa calcolare così opportunamente, da evitare ogni danno; egli saprà così muoversi con una tal circospezione che non gli accadrà nessun male. «Questa saggezza, che discende dalla conoscenza del Principio, è ciò che è stato detto l'elemento celeste (naturale, nell'uomo), in contrasto con l'elemento umano (artificiale). È necessario che tale elemento celeste (la natura) predomini, perché l'azione sia conforme alla perfezione originaria». «Di grazia, vogliate chiarirmi maggiormente la differenza tra il celeste e l'umano» insistette il Genio del fiume. «Ecco a voi» disse il Genio del mare. «Che i buoi e i cavalli siano quadrupedi, questo è l'elemento celeste (la loro natura). «Che abbiano un morso in bocca o un anello nel naso, questo è l'elemento umano (artificiale, contro natura). L'umano non deve soffocare il celeste, l'artificiale non deve 196

spegnere il naturale, il posticcio non deve distruggere la verità intrinseca [dell'essere]. «Riformare la propria natura significa ritornare alla verità primitiva dell'essere». B Un c'oei (animale mitico) con una zampa sola, domandò a un millepiedi: «Come avete fatto per avere tanti piedi?» Il millepiedi rispose: «La natura mi ha fatto così, con un corpo centrale e zampe filiformi lungo tutto il corpo; come uno sputacchio, circondato dai suoi filamenti. «Muovo le mie molle celesti (che la natura mi ha dato) senza sapere né come ne perché». Il millepiedi disse al serpente: «Pur senza piedi andate più veloce di me che ne ho così tanti; com'è che ci riuscite?» «Non so» disse il serpente. «Scivolo naturalmente». Il serpente disse al vento: «Io vado avanti servendomi di vertebre e fianchi; voi non ne avete, e ciò nonostante andate, dal mare del Nord a quello del Sud, più velocemente di quanto io non strisci; come fate a riuscirci?» «Io soffio naturalmente» disse il vento, «tanto da stroncare gli alberi e da rovesciare le case. Solo che non ho nessuna presa su di voi, esserini; da voi io sono dominato. «Un solo essere non è dominato da nulla; e questi è il Saggio, che possiede il Principio». C Confucio passava per C'oang, e un corpo di uomini armati, provenienti da Song, lo circondò, in modo che qualsiasi evasione era impossibile. Confucio prese il liuto e si mise a cantare. Il discepolo Zé-lu gli chiese: «Maestro, come fate a essere così allegro in una circostanza come questa?...» «Il fatto è» rispose Confucio, «che ho fatto tutto quel che ho potuto per evitare una situazione simile; se ora essa mi affligge, non è perciò per colpa mia, ma a causa del destino. Ho fatto, analogamente, tutto quel che ho potuto per riuscire; se non l'ho potuto, non è a causa della mia negligenza, ma in seguito ai tempi sfortunati. «Durante il regno di Yao e Sciunn, nessun Saggio di allora fu ridotto nelle condizioni in cui mi trovo io adesso, e questo non perché la loro prudenza fosse maggiore della mia, ma perché il destino era allora favorevole a tutti. Sotto Chié e Ceù nessun Saggio di quei tempi riuscì ad imporsi, e non perché le loro capacità fossero minori, ma perché il destino era allora sfavorevole per tutti... «Il coraggio dei pescatori consiste nel non temere i mostri marini. Il coraggio dei cacciatori consiste nel non temere le bestie feroci. La bravura dei guerrieri consiste nel non temere le sciabole sguainate e nel guardare con occhio uguale sia la morte, sia la vita... «Sapere che nessuna fortuna arriva se non al tempo suo, che ogni disgrazia è scritta nel destino, e di conseguenza non provar timore neppure nell'imminenza del pericolo, ma confidare allora lucidamente nella Volontà superiore, questo è il coraggio del Saggio. Aspetta ancora un momento, You, e vedrai compiersi ciò che nel destino è scritto per me». Qualche momento dopo che il Saggio aveva parlato in questo modo, il comandante degli armati si avvicinò e disse: «Vi avevamo confuso con un tale Yang-hu, che dovevamo arrestare; vogliate scusarci dell'errore...» E se ne andarono.

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197 D Cungsunn-lung, il pensatore sofista, disse al principe Meù di Uei: «Da giovane ho studiato dapprima la dottrina degli antichi sovrani (le tradizioni classiche); in seguito ho approfondito la questione della bontà e dell'equità (confucianesimo); poi ho esaminato con cura le similitudini e le discrepanze, le sostanze e gli accidenti, l'affermazione e la negazione, il lecito e l'illecito (la logica e la morale); ho penetrato a fondo le teorie e le argomentazioni di tutte le scuole. «Credevo veramente di essere preparatissimo, quand'ecco un certo Chuang-tzu mi stordisce e confonde. Non so [ancora] se è per un difetto della mia dialettica o per una carenza della mia scienza; il fatto è che io, sofista e retore, sono rimasto a bocca chiusa di fronte a lui, senza essere capace di rispondere e senza avere il coraggio di interrogare». Il principe Meù prese una sedia, emise un gran sospiro, levò gli occhi al cielo, sorrise e disse: «Conoscete la storiella della rana del vecchio pozzo, e della testuggine del mar d'Oriente?... "Oh, come mi sento felice nel mio pozzo" disse la rana alla tartaruga; "posso saltare sul parapetto, rannicchiarmi nei fori tra i mattoni, nuotare a pelo d'acqua, tuffarmi nella fanghiglia; di tutti gli abitanti di questo pozzo, larve, girini, nessuno è capace di fare quel che faccio io; per questo, preferisco il mio pozzo al vostro mare; provate anche Voi le sue attrazioni..." «Per far piacere alla rana, la tartaruga provò. Ma dopo aver introdotto la zampa destra nel pozzo, non riuscì più a farvi entrare la sinistra, tanto era stretto il pozzo e tanto larga era lei. Ritratta la zampa, passò alla rana le informazioni seguenti sul mare: "È lungo più di mille miglia. È più profondo di mille uomini in piedi l'uno sull'altro. Ai tempi dell'imperatore U ci furono nove inondazioni in dieci anni: tutta acqua che scolò nel mare, e questo non aumentò. Ai tempi dell'imperatore T'ang ci furono sette siccità in otto anni; nel mare non colò acqua, e questo non diminuì di un pelo. «"Durata, quantità, sono termini che non si applicano al mare. Costante immutabilità, questa è l'attrattiva della mia dimora..." A queste parole, la rana del pozzo fu presa da vertigine, e rese la sua animuccia. «E voi, che non sapendo neppure far bene la distinzione tra il sì e il no, pretendereste di giudicare le asserzioni di Chuang-tzu, non assomigliate forse un po' a quella rana che cercò di capire il mare? «State tentando di far qualcosa che è al di là delle vostre forze. Tanto varrebbe far portare una montagna a un moscerino, o cercare di far gareggiare in velocità un lombrico con un torrente. Che ne capite, voi, rana di vecchio pozzo, del linguaggio sublime di quell'uomo?... «Egli discende sotto terra, fino alle sorgenti, e si innalza fino al firmamento. Si estende al di là dello spazio insondabilmente profondo, incommensurabilmente misterioso. Le vostre regole dialettiche e le vostre distinzioni logiche non sono strumenti adeguati a un argomento del genere. Sarebbe come voler abbracciare il cielo con un tubo, o dissodare un campo con una lesina. «E adesso andatevene, e smettetela di porvi domande, di tema che vi capiti come a quei giovani di Ceù-ling, che, andati a Han-tan per ricevervi un'educazione raffinata, disimpararono il modo di camminare goffo di Ceù-ling e non appresero l'andatura distinta di Han-tan. «Risultato: ritornarono a casa camminando a quattro gambe. Non ponetevi altre domande; dimentichereste le vostre scienzucole da sofista, senza arrivare a nulla comprendere della scienza superiore di Chuang-tzu». Cungsunn-lung, ascoltata la reprimenda a bocca spalancata e con la lingua in fuori, 198

se ne scappò via tutto disorientato. E Chuang-tzu stava pescando alla lenza sulla riva del torrente P'u, quando giunsero da lui due grandi funzionari, mandatigli dal re di C'iù ad offrirgli la carica di ministro. Senza ritirare la lenza, senza neppure distogliere gli occhi dal galleggiante, Chuang-tzu disse loro: «Ho sentito dire che il re di C'iù conserva con venerazione, nel tempio dei suoi avi, il guscio di una tartaruga sacra, offerta in sacrificio a scopo di divinazione tremila anni fa. Ditemi voi, se l'avessero lasciata scegliere, la tartaruga avrebbe preferito morire per avere il proprio guscio riverito in questo modo, o avrebbe scelto di vivere strisciando la coda nel fango delle paludi?» All'unisono, i due grandi funzionari risposero: «Avrebbe preferito vivere, trascinandosi dietro la coda nel fango delle paludi!» «Allora» concluse Chuang-tzu, «tornate da dove siete venuti; anch'io preferisco tirarmi dietro la coda, trascinandola nel fango delle paludi. Continuerò a vivere nell'oscurità, ma libero; non m'interessa una carica, che spesso costa la vita a colui che la ricopre, e che in ogni caso gli costa sempre la tranquillità». F Chuang-tzu si recava in visita da Hoei-zé, che era ministro del principato di Leang. Qualcuno aveva fatto credere a Hoei-zé che Chuang-tzu veniva con l'intenzione di prendere il suo posto. Subito Hoei-zé comandò in tutto il principato una perquisizione di tre giorni e tre notti, allo scopo di catturarlo. Chuang-tzu riuscì a sfuggire alla perquisizione, perché non era ancora entrato in Leang, ma venne a sapere della cosa. Più tardi, incontrato Hoei-zé, gli disse: «Conoscete quel fagiano del Sud che chiamano "Argo"? Quando vola verso Nord, partendo da Sud, si posa solo su alberi elevati e rarissimi (eleococca), si nutre soltanto dei grani del melia, beve solo alle fonti più pure. «Ciò nonostante, un giorno che sfrecciava nel cielo, una civetta che, in un campo, stava divorandosi la carogna di un topo, ebbe timore che gliela portasse via, e si mise a starnazzare per intimidirlo. Il ministro di Leang ha fatto la stessa cosa con me». G Chuang-tzu e Hoei-zé, passeggiando, erano arrivati al ponticello di un piccolo corso d'acqua. Chuang-tzu osservò: «Guardate come saltano i pesci! Quello è il piacere dei pesci!» «Non siete mica un pesce, voi» disse Hoei-zé; «come fate a sapere qual è il piacere dei pesci?» «Voi non siete me» ribatté Chuang-tzu; «come fate a sapere se io non so qual è il piacere dei pesci?» «Io non sono voi» disse Hoei-zé, «e di conseguenza non so tutto quel che sapete o non sapete, ne convengo; ma, in ogni caso, so che non siete un pesce, e resta assodato, di conseguenza, che voi non sapete qual è il piacere dei pesci». «Siete fatto» disse Chuang-tzu. «Torniamo alla vostra prima domanda. Voi mi avete chiesto "come fate a sapere qual è il piacere dei pesci?», con questa frase avete ammesso che lo sapevo; giacché non mi avreste chiesto il come di ciò che sapevate che io non sapevo. Ed ora, come ho fatto a saperlo? Per identificazione diretta, sulla passerella del ruscello» Modo di conoscenza sconosciuto ai pensatori sofisti, capaci soltanto di giochi dialettici. 199

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XVIII Gioia perfetta

A C'è o non c'è, sotto il cielo, uno stato di accontentamento perfetto? C'è o non c'è un modo per far durare la vita del corpo? Per raggiungere questo scopo, cosa occorre fare? Cosa occorre non fare? Di cosa ci si deve servire? Da cosa bisogna astenersi? La gente comune ricerca il suo appagamento nelle ricchezze, negli incarichi [di stato], nella longevità e nella stima altrui; lo ricerca nel riposo, nell'aspetto fiorente, nei bei vestiti, nella bellezza, nella musica, e in tutto il resto. Teme la povertà, la mancanza di rinomanza, l'abbreviazione della vita e la disistima degli altri; teme la mancanza di riposo, di buon cibo, di bei vestiti, di begli spettacoli e di bei suoni. Se non riesce ad avere queste cose si rattrista e si affligge... Ma non è forse assurdo riferire in questo modo tutto al proprio corpo? [Inoltre], alcuni di questi obiettivi sono addirittura estranei ed esteriori al corpo stesso; come le ricchezze accumulate al di là di ogni uso possibile, le cariche e la considerazione degli altri. E tuttavia, per queste cose, la gente comune esaurisce le proprie forze e si logora notte e giorno. È proprio vero che le preoccupazioni nascono con l'uomo e lo seguono per tutta la vita; perfino nel rimbambimento dell'estrema vecchiaia la paura della morte non lo abbandona mal. I soli a non temere la morte sono gli ufficiali militari, e per questo sono stimati dalla gente ordinaria; se sia a ragione o a torto, non so, giacché se il loro coraggio li priva della vita, esso conserva quella dei loro concittadini; [come si vede], c'è il pro e c'è il contro. I funzionari civili che si attirano la morte con le loro censure impertinenti, vengono invece biasimati dalla gente qualunque; se a ragione o se a torto, non so, giacché, se la loro franchezza li priva della vita, essa procura loro la rinomanza; [come si vede], c'è il pro e c'è il contro. Per quel che riguarda la gente comune, poi, confesso che non capisco come si possa trar contentezza da quel che li accontenta; forse [il problema è] che le cose che appagano loro non appagano affatto me. Per me, la felicità consiste nella non azione, mentre la gente comune ama agitarsi. A mio gusto, è vero l'adagio che dice: «L'appagamento supremo, è il non aver nulla che appaghi; la suprema rinomanza è il non aver più un nome». Qualsiasi atto definito è discusso, e da alcuni sarà detto buono, cattivo dagli altri. Soltanto quel che non è stato fatto non può essere criticato. L'inazione: ecco l'appagamento supremo; ecco ciò che fa durare la vita del corpo. Mi si permetta di appoggiare ciò che dico con un esempio illustre. Il cielo deve al non-agire la sua limpidità; la terra deve al non-agire la sua stabilità; insieme, questi due [tipi di] non agire, quello celeste e quello terrestre, producono tutti gli esseri. «Il cielo e la terra» dice l'aforisma «fanno tutto non facendo nulla». Dov'è l'uomo che sarà capace di non far nulla?! Quest'uomo sarà anche lui capace di far tutto. B La moglie di Chuang-tzu era morta, e Hoei-zé andò a offrire le sue lamentazioni rituali. Trovò Chuang-tzu seduto per terra, che cantava battendo il tempo su una scodella 200

che teneva fra le gambe. Disorientato, Hoei-zé gli disse: «È già ben strano che non piangiate la morte di quella che fu la compagna della vostra vita e che vi ha dato dei figli; ma che, davanti al suo cadavere, cantiate battendo su un tamburo, mi sembra proprio eccessivo». «Ma niente affatto!» disse Chuang-tzu «Al momento della sua morte, per un attimo rimasi attristato. Poi, riflettendo sull'avvenimento, capii che non ne era proprio il caso. [Infatti] ci fu un tempo in cui quest'essere non era nato, non aveva un corpo organizzato, non aveva neanche un po' di sostanza tenue, ma era contenuto, indistinto, nella gran massa. «Un giro di questa [gran] massa gli diede la sua sostanza tenue, che diventò un corpo organizzato, il quale si animò e nacque. Un altro giro della massa, ed ecco che era morto. «Le fasi di morte e vita si concatenano, come i periodi chiamati quattro stagioni. Quella che fu mia moglie, dorme ora nel gran dormitorio (lo spazio tra il cielo e la terra), aspettando la propria trasmutazione ulteriore. Se la piangessi, avrei l'aria di non saper nulla del destino (della legge ineluttabile delle trasmutazioni). Ora, poiché invece qualcosa ne so, non la piango». C Cie-li e Hoà-chié (personaggi immaginari) stavano guardando, insieme, le tombe degli Antichi, disseminate nella pianura ai piedi dei monti C'unn-lunn, nel luogo, cioè, dove Hoang-ti si stabilì e trovò riposo. All'improvviso si accorsero che avevano entrambi un antrace al braccio sinistro. Dopo un primo momento di sorpresa, Cie-li domandò: «Avete paura?» «Perché dovrei?» rispose Hoà-chié. «La vita è un prestito, uno stato passeggero, una dimora [temporanea] nella polvere e nell'immondizia di questo mondo. La morte e la vita si susseguono, come il giorno e la notte. «E d'altronde, non stavamo osservando, nelle tombe degli antichi, l'effetto della legge di trasformazione? Quando ci coinvolgerà a nostra volta, cosa avremmo da lagnarci?» D Nel corso di un suo viaggio verso il reame di C'iù, Chuang-tzu vide, ai bordi della strada, giacere un cranio [umano], scarnificato, ma intatto. Accarezzandolo con un'estremità della sua canna, gli chiese: «Sei morto ucciso dai briganti, o hai sacrificato la vita al tuo paese? Sei morto per qualche tuo crimine, o di miseria? O sei finito per morte naturale, quand'era giunta la tua ora?» Raccolse quindi il cranio, e se lo mise sotto il capo la notte seguente, usandolo come reggitesta [per dormire]. A mezzanotte, il cranio gli apparve in sogno, e gli disse: «Mi avete parlato, nello stile dei sofisti e dei retori, da uomo che prende per vere le cose umane. Ora, dopo la morte, di queste cose non se ne parla più; vi interessa, se vi do qualche informazione sull'altro mondo?» «Certo» rispose Chuang-tzu. Il cranio [dunque] parlò: «Dopo la morte, più niente superiori e inferiori, più niente stagioni, più niente lavori. Solo riposo, e il tempo costante del cielo e della terra. È una pace che sopravanza la felicità dei re». «Bah» rispose Chuang-tzu, «se dal reggitore dei destini (il Principio), riuscissi ad ottenere che ti fosse reso il corpo, in ossa, carne e pelle, e che ti fossero ritornati padre, 201

201 madre, moglie, bambini, il tuo paese natale e i tuoi amici, credo proprio che la cosa non ti darebbe fastidio...» Il cranio lo guardò fissamente con le sue orbite cave, fece una smorfia di disprezzo, e disse: «No! Non rinuncerei mai alla mia [attuale] pace regale per ritornare alle miserie umane». E Yen-yuan, il suo discepolo preferito, era partito per il principato di Z'i, e Confucio aveva un'aria triste. Il suo discepolo Zé-cung si alzò dalla sua stuoia [rituale] e gli disse: «Potrei chiedervi rispettosamente perché il viaggio di Hoei vi rattrista?» «Te lo dirò subito» disse Confucio. «Molto tempo fa, Coan-zé pronunciò questa massima, che ho sempre ritenuto molto vera: "Un sacco piccolo non può contenere un grosso oggetto; una corda corta non arriva a toccare il fondo del pozzo". «È infatti la capacità di ciascun essere è contenuta nel suo destino; nulla può essergli tolto, nulla può essergli aggiunto. Ho paura che se, seguendo le sue convinzioni e il suo zelo, Hoei espone al marchese di Z'i le teorie di Yao e di Sciunn, di Hoang-ti, di Soeigenn, di Scienn-nung, questi [il marchese di Z'i], che è un uomo di limitata capacità, veda nei suoi discorsi una critica al suo modo di governare, e, di conseguenza, si irriti e lo condanni a morte. «Soltanto l'arte di approfittare delle opportunità fa sì che si riesca [nelle proprie intraprese]. Non tutto si adatta a tutti. Non bisogna giudicare gli altri secondo se stessi. «Una volta, un uccello di mare cadde alle porte della capitale di Lu. Il fenomeno era fuori del comune, e il marchese pensò che forse si trattava di un essere trascendente, che veniva in visita al suo principato. Andò perciò di persona ad accogliere l'uccello, e lo portò nel tempio dei suoi antenati, dove diede una festa in suo onore. Fu eseguita in sua presenza la sinfonia Chiu-ciaò dell'imperatore Sciunn. «Un bue, un maiale e un montone gli furono offerti in occasione di un gran sacrificio. Ma l'uccello, gli occhi vitrei e l'aspetto irritato, non gustò una sola beccata del pasticcio e non toccò una sola goccia di vino. Dopo tre giorni era morto di fame e di sete... «È questo perché il marchese, deducendo dei gusti dell'uccello in base ai suoi propri, l'aveva trattato come avrebbe trattato se stesso, e non come si tratta un uccello. «Per un uccello di mare ci vuole spazio, foreste e pianure, fiumi e laghi, pesci da mangiare, libertà di volare a modo suo e di pescare dove gli piace. Sentire gli uomini parlare, per quel povero uccello fu un [vero] supplizio; e ancor più la musica che gli fu fatta ascoltare e tutto il movimento che gli fu fatto attorno. «Se si eseguisse la sinfonia Hien-c'ie di Hoang-ti sulle rive del lago Tong-t'ing, gli uccelli si alzerebbero in volo, i quadrupedi scapperebbero, i pesci si immergerebbero nelle profondità del lago; gli uomini, invece, ascolterebbero rapiti. Il fatto è che i pesci nell'acqua ci vivono, mentre gli uomini ci muoiono. E poiché la natura degli esseri è diversa, anche i loro gusti non possono essere gli stessi. «Persino fra gli uomini ci sono differenze, e quel che piace agli uni non piace agli altri. È per questo che gli antichi Saggi non presupponevano che tutti gli uomini avessero la stessa capacità, e non usavano di chicchessia per fare qualunque cosa. Classificavano gli uomini secondo le loro opere, e li trattavano a seconda dei loro risultati. «Questo giusto apprezzamento degli individui è la condizione di ogni successo. Se Yen-hoei sa valutare appropriatamente il marchese di Z'i, e gli parla di conseguenza, avrà successo; se no, morrà».

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F Lieh-tzu, che era in viaggio e consumava il suo pasto ai bordi della strada, si accorse di un vecchio cranio umano [che giaceva nei pressi]; lo raccolse e gli disse: «Tu e io sappiamo cosa siano la morte e la vita: e cioè, che questa distinzione non è reale, ma soltanto di modo; che non è giusto dire, di te, che tu riposi, e di me, che io mi agito; è vero [soltanto] che la ruota gira e che le trasmutazioni si succedono senza pausa. «I germi della vita sono numerosi e indeterminati. Questo diventerà nappa di lenticchie d'acqua se cadrà su uno stagno, o tappeto di muschio se gettato su una collina. Crescendo, la muffa vegetale diventa il vegetale u-zu, le cui radici si trasmutano in vermi, e le cui foglie diventano farfalle. Queste farfalle producono una larva che vive nei focolari e viene chiamata ch'iu-tuò. «Dopo mille giorni, il ch'iu-tuò diventa l'uccello ch'ien-ucu, la cui saliva dà origine all'insetto seu-mi. Questo diventa scie-hi, poi meù-gioei, poi fu-c'uan... «I vegetali yang-hi e pu-sunn sono due forme alternanti. Dai vecchi bambù esce l'insetto z'ing-ning, che diventa leopardo, poi cavallo, poi uomo. L'uomo rientra nel telaio per tessitura della rivoluzione universale incessante. «A loro volta, tutti gli esseri escono dal gran telaio cosmico, per rientrarci quando è il loro turno; e così via».

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XIX Senso della vita

A Quegli che abbia penetrato il senso della vita, non si affanna più per ciò che alla vita non dà nessun contributo. Quegli che abbia penetrato la natura del destino, non cerca più di indagare quest'entità insondabile. Per mantenere il corpo in buone condizioni occorre servirsi dei mezzi adatti; senza eccedere, tuttavia, perché qualsiasi eccesso è inutile. Bisogna, per di più, far di tutto per sostenere lo spirito vitale, senza il quale [anche] il corpo è finito. L'essere vivente non ha potuto opporsi alla sua vivificazione (al momento della nascita); neppure potrà opporsi a che un giorno (al momento della morte) la vita si ritiri da lui. La gente comune pensa che, per conservare la vita, sia sufficiente coltivare il proprio corpo. Si sbaglia. Occorre di più, e, soprattutto, evitare l'usura dello spirito vitale, ciò che è quasi impossibile in mezzo alla confusione del mondo. Bisogna perciò, per conservare e far durare la vita, abbandonare il mondo e le sue preoccupazioni. È nella tranquillità di un'esistenza ben regolata, nella tranquilla comunione con la natura, che si ottiene un rinnovo della vitalità, una recrudescenza di vita. E questo è il frutto dell'intelligenza del senso della vita. Riepiloghiamo: è l'abbandono degli affanni e degli affari [del mondo] che conserva la vita; perché è tale abbandono che preserva il corpo dalla fatica e lo spirito vitale dall'usura. Quegli che ha il corpo e lo spirito vitale freschi e intatti è unito alla natura. Ora, la natura è il padre e la madre di tutti gli esseri. Per condensazione, l'essere si forma; per dissipazione si discioglie, pronto a diventare un altro essere. E se, al momento della dissipazione, il suo corpo e il suo spirito vitali sono intatti, è capace di trasmigrare. Quintessenziato, diventa cooperatore del cielo. B Lieh-tzu chiese a Yinn (Yinn-hi), il guardiano del valico confidente di Lao-tzu: «L'uomo superiore penetra tutti i corpi (pietra, metallo, dice la Glossa) senza incontrare nessuna resistenza da parte loro; non è bruciato dal fuoco; nessuna altitudine gli provoca vertigine; questo, vogliate dirmi, per che ragione?» «Per l'unica ragione» rispose Yinn «che ha conservato puro e intatto lo spirito vitale originario ricevuto alla nascita; non per qualche procedimento [speciale] o per alcuna formula. Accomodatevi, cercherò di spiegarvelo. «Tutti gli esseri materiali hanno ciascuno la sua forma, la sua figura, un suono, un colore proprio. Da queste qualità diverse provengono i loro mutui contrasti (come il fuoco consuma il legno, ecc.). «Nello stato primordiale [caratterizzato dalla percezione, da parte dell'uomo, (dell'unità e dell'immutabilità universali)] queste opposizioni non c'erano. Esse sono tutte derivate dalla diversificazione degli esseri, e dai loro contatti causati dalla girazione universale. Esse cessano di affliggere l'essere, appena questi abbia ridotto il suo io distinto e il suo movimento particolare a quasi nulla. «Un tale essere (il Saggio taoista perfetto) non viene più a conflitto con nessun altro essere, perché si è stabilito nell'infinito, si è cancellato nell'indefinito. Egli è arrivato, e 204

vi si mantiene, nel punto di partenza delle trasmutazioni, punto neutro nel quale non ci sono conflitti (i quali si producono soltanto sui cammini particolari). «Per concentrazione della propria natura, per alimentazione del suo spirito vitale, per unificazione di tutte le sue potenzialità, egli si è unito al principio di tutte le genesi. Poiché la sua natura è indivisa, poiché il suo spirito vitale è intatto, nessun essere potrà attaccarlo. «Si dia un uomo totalmente ubriaco. Se cade da una carrozza, magari finirà contuso, ma non resterà ucciso. Perché? Forse che le sue ossa e le sue articolazioni sono differenti da quelle degli altri uomini? No; ma, al momento della caduta, lo spirito vitale di quest'uomo, concentrato a causa dell'incoscienza, era assolutamente intatto. «Al momento della caduta, in assenza di coscienza, l'idea di vita e di morte, il timore e la speranza, non hanno avuto presa sul cuore di un tal uomo. Egli, [di conseguenza], non si è irrigidito, e il suolo non è stato per lui così duro; ecco perché non si è rotto nessun osso. «Questo ubriaco sarà debitore dell'integrità del corpo al suo stato di ebbrezza. Analogamente, il Saggio perfetto sarà conservato integro dal suo stato di unione con la natura. Il Saggio è nascosto nella natura; da qui proviene che nulla possa ferirlo. «Stando così le cose, chiunque si ferisca non dovrà prendersela con ciò che l'ha ferito; deve piuttosto prendersela con se stesso, poiché la sua vulnerabilità è una prova di imperfezione. «Un uomo che ragioni non se la prende con la spada che l'ha ferito, con la tegola che gli è caduta addosso. Se tutti gli uomini cercassero nella propria imperfezione la causa delle loro disgrazie, si avrebbe la pace perfetta, la fine delle guerre e dei supplizi. Sarebbe la fine del regno di quella falsa natura umana (natura artificiale inventata dai politici), che ha riempito il mondo di briganti; sarebbe l'inizio del regno della vera natura celeste (natura... naturale), fonte di ogni azione [compiuta secondo l'ordine]. «Non soffocare la propria natura, non credere agli uomini, questa è la via del ritorno alla verità (all'integrità originaria)». C Confucio, che si recava nel regno di C'iù, mentre stava uscendo da un bosco vide un gobbo che prendeva al volo le cicale con una bacchetta, con tanta sicurezza quanta ne avrebbe avuta se l'avesse fatto con le mani. «Siete veramente forte» gli disse Confucio; «confidatemi il vostro segreto». «Il mio segreto» rispose il gobbo «è questo: per circa sei mesi mi sono esercitato a far restare alcune palle in equilibrio sulla cima della mia canna. Quando riuscii a farne stare due, le cicale che mi sfuggivano erano poche. Quando riuscii a farne stare tre, di cicale non ne sbagliavo più se non una su dieci. Quando riuscii a farne stare cinque, non ne mancavo più una. «Il mio segreto sta tutto nella concentrazione di tutte le mie energie in direzione dello scopo da raggiungere. «Sono riuscito a dominare il braccio, e tutto il corpo, in modo che non risentano più emozione, o distrazione, di un pezzo di legno. Nell'immenso universo pieno di cose, vedo soltanto più la cicala che voglio prendere. Nulla più mi distrae, ed essa è presa, in modo del tutto naturale». Volgendosi verso i discepoli, Confucio disse: «Unificare le proprie intenzioni; averne soltanto più una, che si confonda con l'energia vitale; eccovi la sintesi del discorso di questo gobbo». 205

205 D Yen-yuan, il discepolo favorito, disse a Confucio: «Attraversando le rapide di Ciang il traghettatore manovrò con un'abilità meravigliosa. Io gli chiesi: "Come si fa a manovrare così bene?". "Un nuotatore" rispose "lo impara con facilità; un tuffatore sa farlo senza averlo imparato..." Che significa una tal risposta, che non ho capito?» «Il senso è questo» disse Confucio (adottando il punto di vista del maestro taoista): «un nuotatore pensa poco all'acqua, poiché ha familiarità con i suoi pericoli, che non teme più molto; un tuffatore non ci pensa affatto, poiché nell'acqua è in qualche modo nel suo elemento. «Quando la sensazione del pericolo, come nel nuotatore, incide poco [sull'uomo], questi si può servire delle sue facoltà naturali in modo quasi completo. Quando la sensazione del pericolo, come nel tuffatore, non incide più del tutto [sull'uomo], egli si può concentrare totalmente sulla sua imbarcazione che governa perciò in modo perfetto. «Nel tiro con l'arco, se la posta in gioco è un oggetto di coccio, di poco valore, il tiratore non influenzato potrà disporre in pieno di tutta la sua abilità. Se la posta è una fibbia di cintura, di bronzo o di giada, il tiratore, influenzato, eseguirà un tiro meno sicuro. «Se la posta è un oggetto d'oro, il suo tiro, molto influenzato, risulterà del tutto incerto. L'uomo sarà sempre lo stesso, il talento anche, ma più o meno modificato in peggio dall'influsso di un oggetto esterno. [Conclusione]: qualsiasi distrazione smussa [le capacità] e indebolisce». E Nel corso di un'udienza, il duca Uei di Ceù disse a T'ien-c'aicie: «Ho inteso dire che il vostro maestro Ciù-hien aveva studiato il problema della conservazione della vita. Vi prego cortesemente di raccontarmi quel che gli avete sentito dire a quel proposito». «Ma cosa pensate che possa dirvene?» fece T'ien-c'aicie, «Io che facevo le pulizie in casa di Ciù-hien!». «Non cambiate discorso, vi prego, Maestro T'ien» disse il duca; «mi preme molto che me ne parliate». T'ien-c'aicie allora parlò così: «Ciù-hien diceva che, per conservare la propria vita, bisogna fare come i pastori, i quali, quando una pecora s'allontana, la frustano perché si ricongiunga al gregge, nel quale è al sicuro dai pericoli». «E cosa vorrebbe dire?» sbottò il duca. «Questo» rispose T'ien-c'aicie: «nel principato di Lu c'era un certo Cian-paò, il quale trascorse la sua vita fra le montagne, bevendo solo acqua pura e non frequentando minimamente gli uomini. In virtù di un tal regime, all'età di settant'anni era ancora fresco come un fanciullo. Una tigre affamata lo incontrò e lo divorò... Ciang-i era uno fra i medici più capaci. Ricchi e poveri si accalcavano alla sua porta per farsi visitare. Morì all'età di quarant'anni di una febbre contagiosa, che aveva contratto al capezzale di uno dei suoi ammalati... «Cian-paò badò al suo spirito vitale, ma si lasciò divorare il corpo da una tigre. Ciang-i badò al suo corpo, ma si lasciò distruggere lo spirito vitale dalla febbre. Tutti e due fecero lo sbaglio di non frustare la loro pecora (cioè, di non badare alla propria sicurezza). Confucio ha detto: "Non troppo isolamento; non troppa frequentazione [di altra gente]; il giusto mezzo, questa è la saggezza". «Quando troppo sovente avvengono incidenti lungo un percorso pericoloso, la gente si avverte reciprocamente e non passa più per quel luogo se non in gruppi numerosi e adottando le precauzioni del caso. Non ci si mette però reciprocamente in guardia contro i pericoli di una condotta o di un modo di nutrirsi fuori della norma. E questo è irra206

gionevole!» F Il funzionario incaricato dei sacrifici era andato a visitare, parato del suo costume ufficiale solenne, il recinto dei maiali destinati ai sacrifici; qui giunto tenne agli animali il discorsetto seguente: «Come si spiega che voi moriate così controvoglia, quando questa morte vi procura tanti privilegi e tanti onori? Io vi ingrasso per tre mesi. Per colpa vostra, prima del sacrificio, mantengo la continenza per dieci giorni e l'astinenza per tre. Dopo il sacrificio, dispongo le vostre membra in bell'ordine su stuoie bianche [disposte] su mobili ben scolpiti. Non pensate di avere un po' torto ad accogliere tutto ciò con tanta mala grazia?» Se l'uomo avesse veramente avuto a cuore il bene dei maiali, avrebbe scelto che vivessero nei loro stabbi fino al termine dei loro giorni, foss'anche di sola crusca come mangime. Sennonché, pensava al suo proprio tornaconto, al suo incarico, al suo stipendio, ai suoi funerali di funzionario dopo la morte. E poiché lui era contento perché aveva tutto quel che gli faceva comodo, pensava che anche i porci avrebbero dovuto essere contenti pur essendo trattati contro natura. Illusione ottica provocata dall'egoismo. G Il duca Hoan di Z'i andava a caccia nelle vicinanze di una palude, e il ministro Hoan-siung conduceva il suo carro. Il duca, all'improvviso, vide uno spettro. Posò la propria mano su quella di Hoan-siung e gli domandò, a voce bassa: «Lo vedete?...» «Non vedo niente» rispose il ministro. Tornati al palazzo, il duca si espresse in modo incoerente, si dichiarò ammalato, e per molti giorni non uscì più dalla sua stanza. Il funzionario Cao-nao (di sangue imperiale) gli si rivolse allora in questo modo: «Siete malato di un terrore insensato; uno spettro non può far del male a un personaggio come voi. Quando troppo spirito vitale sia stato speso in un accesso di umore (sia esso collera o terrore), si ha [certamente] un abbassamento [di esso]. «Quando lo spirito vitale accumulato nella parte alta del corpo (eccesso di yang) non può discendere, l'uomo ha delle crisi di irascibilità. Quando lo spirito vitale accumulato nella parte bassa del corpo (eccesso di yin) non può salire, l'uomo tende a perdere i ricordi. Quando lo spirito vitale accumulato nella parte centrale del corpo non può né salire né scendere, l'uomo si sente ammalato (è il suo cuore che è ostruito, dice la Glossa). «È quest'ultimo il vostro caso; troppa concentrazione; prendetevi un po' di distrazione!» «Magari è così» rispose il duca; «però, ditemi voi, gli spettri, ci sono?» «Ma certo» disse il funzionario; «c'è il Li delle fogne, il Chié delle fonti di calore, il Lei-t'ing dei letamai. A nord-est ci sono il P'ei-ah e il Ua-lung; a nord-ovest c'è lo Iyang. Nei corsi d'acqua c'è lo Uang-siang; sulle colline, il Cenn; nelle montagne, il C'oei; nelle piane steppose, il Fang-hoang; nelle paludi, lo Uei-t'uò». «Ah!» fece il duca, che aveva visto lo spettro nei pressi di una palude, «Com'è fatto lo Uei-t'uò?» «È» rispose Cao-nao «spesso come l'assale di una carrozza, lungo come il timone di un carro, abbigliato di viola e con un copricapo rosso. Gli dà fastidio il rumore delle carrozze che viaggiano. Quando le ode, si inarca tappandosi le orecchie. La sua apparizione porta fortuna. Chi l'abbia visto diventa Egemone (era la grande ambizione di Z'i)». «Ah!» disse il duca, ridendo di cuore «Allora è proprio lo Uei-t'uò quello che ho 207

207 visto». E si mise subito a vestirsi, continuando a chiacchierare con il funzionario. Prima di sera era completamente guarito, per suggestione, senza che avesse preso nessuna medicina. H Chi-sing-zé allenava un gallo da combattimento per l'imperatore Suan della dinastia Ceù. Alla fine dei primi dieci giorni [di addestramento], a qualcuno che gliene chiedeva informazioni, rispose: «L'addestramento non è ancora a punto; l'animale è ancora pieno dl sé e voglioso». Dieci giorni dopo, interrogato di nuovo, disse: «Ancora niente; l'animale risponde ancora al canto degli altri galli, e alla loro vista si agita». Dopo altri dieci giorni, a un'altra sollecitazione rispose: «Non ci siamo ancora; è ancora troppo emotivo e nervoso». Alla fine di altri dieci giorni, nuovamente interrogato, parlò così: «Ci siamo! Il canto e la vista dei suoi simili non lo toccano più, quasi fosse di legno. Adesso è pronto. Nessun altro gallo potrà opporglisi». I Confucio stava ammirando le cateratte di Lu-leang. Precipitando da un'altezza pari a quella di trenta uomini, l'acqua formava un torrente schiumante per un percorso di svariati chilometri, così agitato che né tartaruga, né coccodrillo, né pesce poteva sostenerne la violenza. All'improvviso, Confucio vide un uomo che nuotava fra i vortici. Pensando che fosse un disperato che avesse avuto l'intenzione di annegarsi, disse ai discepoli di costeggiare la sponda per trarlo dall'acqua, se possibile. Qualche decina di metri più a valle, l'uomo se ne uscì dall'acqua da solo, si sciolse i capelli per farli asciugare, e si mise a camminare, canterellando. Confucio gli andò dietro, e, raggiuntolo, gli disse: «Per poco non vi prendevo per un essere trascendente, ma adesso vedo che siete solo un uomo. Come si può arrivare a muoversi nell'acqua con una simile noncuranza? Siate cortese, e confidatemi il vostro segreto». «Segreti non ne ho» disse l'uomo. «Ho incominciato a nuotare con metodo; poi la cosa mi venne naturale; ora sto in acqua come un essere acquatico. Faccio tutt'uno con l'acqua, discendo con il gorgo, risalgo con il riflusso. Seguo il movimento dell'acqua e non la mia propria volontà. Questo è tutto il mio segreto. «Nato sulle rive di questo corso d'acqua, ho voluto imparare a nuotare. A forza di nuotare, la cosa mi è diventata naturale. Dal momento in cui ho dimenticato ogni nozione di ciò che faccio per nuotare, mi muovo nell'acqua come [se fosse] il mio elemento, e l'acqua mi tiene su perché sono uno con lei». J Ch'ing lo scultore aveva fatto, per una batteria di campane e di timpani, un supporto la cui bellezza armoniosa aveva colpito tutti. Anche il marchese di Lu era andato ad ammirarlo, e chiese a Ch'ing come avesse fatto per riuscire [a mettere insieme una simile opera]. «Bene» disse Ch'ing... «Quando ricevetti l'ordine di eseguire il supporto mi sforzai di concentrare tutte le mie energie vitali, di raccogliermi tutto nel mio cuore. Dopo tre giorni di un simile esercizio dimenticai gli elogi e il guadagno che mi sarebbero venuti per un simile lavoro. Dopo cinque giorni, non speravo più il successo e non temevo più l'insuccesso. Dopo sette giorni, quando avevo ormai perduto la nozione del corpo e delle 208

membra, e avevo completamente dimenticato vostra Altezza e i suoi cortigiani, le mie facoltà tutte concentrate sul loro oggetto, sentii che era venuto il momento di agire. «Andai nella foresta, e mi misi a osservare con attenzione le forme naturali degli alberi, il portamento più maestoso dei più belli fra di essi. «Penetratomi a fondo di quest'idea, solo allora misi mano all'opera. È lei che ha diretto il mio lavoro. È per la fusione in una [sola entità], della mia natura e di quella degli alberi, che questo supporto ha acquisito le qualità che lo fanno essere così ammirato». K Tong-ié-zi si presentò davanti al duca Cioang per mostrargli il suo tiro di cavalli ed esibirgli il suo talento di conduttore. I Suoi cavalli andavano avanti e indietreggiavano senza la minima deviazione dalla linea retta. Descrivevano, sia a destra che a sinistra, circonferenze che non avrebbero potuto essere più perfette se fossero state tracciate con il compasso. Il duca ammirò una tale precisione, poi, con l'intenzione di metterne alla prova la costanza, chiese a Zi di fare cento giri di seguito su un percorso determinato. Zi fu così ingenuo da accettare. Yen-ho, che vide, mentre passava, tutto questo maneggio forzato, disse al duca: «I cavalli di Zi scoppieranno [per la fatica]». Il duca non rispose. Dopo poco tempo, di fatto, i cavalli di Zi scoppiarono, e dovettero essere ritirati. A questo punto, il duca chiese a Yen-ho: «Come avete fatto a prevedere quel che sarebbe successo?» «Perché» disse Yen-ho «avevo visto Zi che spingeva a fondo dei cavalli già affaticati». L L'artigiano Scioei riusciva a tracciare, a mano libera, dei cerchi così perfetti, che avrebbero potuto essere stati tracciati con il compasso. Questo, perché [a forza di esercitarsi] era riuscito a tracciarli senza più pensarci; di conseguenza, i suoi cerchi erano perfetti come quelli prodotti dalla natura. Egli era concentrato in uno, senza preoccupazione né distrazione. Una calzatura è perfetta quando il piede non la sente. Una cintura è perfetta quando la vita non la sente. Un cuore è perfetto quando, perduta la nozione artificiale del bene e del male, fa naturalmente il bene e naturalmente si astiene dal fare il male. Uno spirito [umano] è perfetto quando è senza percezione interiore, senza tendenza verso nulla di esteriore. La perfezione è essere perfetti senza sapere che lo si è. (Natura, più mancanza di fine individuale). M Sunn-hiù, che era andato a trovare Maestro Pien-ch'ing, gli rivolse questo stravagante discorso: «Ingiustamente, mi hanno fatto una reputazione di buono a nulla, di cattivo cittadino. Di fatto, se le mie terre non rendono, è perché le annate sono state cattive; se per il mio principe non ho fatto nulla, è perché me ne sono mancate le occasioni. E ora, ecco che di me non si vuol più sentir parlare né in campagna, né in città. O cielo! Cosa ho mai potuto fare, perché mi sia capitato un così crudele destino?!» «L'uomo superiore» disse Maestro Pien «dimentica se stesso, al punto di non sapere se abbia o non abbia visceri e sensi. Si tiene lontano dalla polvere e dal fango di questo mondo, lontano dagli affari degli uomini. Agisce senza mirare al successo, governa senza voler dominare. «È forse così che vi siete comportato? O non avete piuttosto messo in mostra le vostre conoscenze, al punto di confondere gli ignoranti? Non avete per caso fatto valere la 209

209 vostra superiorità, e cercato di brillare al punto di eclissare il sole e la luna, mettendovi così tutti contro? E dopo tutto ciò, ve la prendete con il cielo! «Forse che il cielo non vi ha dato tutto quel che vi si adatta, un corpo ben proporzionato, una durata di vita normale, e tutto il resto? Non è al cielo che dovete di non essere né sordo, né cieco, né zoppo come tanti altri? Con quale diritto ve la prendete dunque con il cielo? Andate per la vostra strada!» Quando Sunn-hiù se ne fu andato, Maestro Pien si sedette, si raccolse, levò gli occhi al cielo e sospirò. «Cosa c'è, Maestro?» chiesero i suoi discepoli. Maestro Pien rispose: «Ho parlato a Sunn-hiù delle qualità dell'uomo superiore. Per lui è troppo. Magari ci perderà la testa». «State tranquillo, Maestro» dissero i discepoli. «Sunn-hiù, o ha ragione, o ha torto. Se ha ragione se ne accorgerà, e quel che gli avete detto non gli farà nessun effetto nocivo. Se ha torto, quel che gli avete detto non potrà fare a meno di tormentarlo, e ritornerà per saperne di più, il che non potrà fargli altro che bene». «Ad ogni modo ho avuto torto lo stesso» disse Maestro Pien. «Non bisogna dire a un uomo ciò che noi comprendiamo, se lui non è in grado di comprendere... «Una volta il principe di Lu fece sacrifici e diede un concerto, per un uccello marino che era precipitato alle porte della sua città. L'uccello morì di fame, di sete e di terrore. «Il principe avrebbe dovuto trattarlo, non al modo di un uomo, ma al modo degli uccelli; il risultato sarebbe stato allora diverso, propizio, non fatale. Io ho agito come il principe di Lu, e ho parlato dell'uomo superiore a quell'idiota di Sunn-hiù... «Portare un topolino in carrozza e cavalli, dare per una quaglia un concerto di campane e tamburi, può solo avere come risultato di spaventare le due piccole bestiole. Devo aver disorientato Sunn-hi_».

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XX Oscurità voluta

A Mentre Chuang-tzu attraversava le montagne vide un grande albero, dai rami lunghi e frondosi. Un boscaiolo stava tagliando della legna nelle vicinanze, ma l'albero grande non lo toccava. «Perché non lo toccate?» gli chiese Chuang-tzu. «Perché il suo legno non è utilizzabile per far nulla» disse il taglialegna. «Dunque il fatto di non essere buono a nulla, procurerà a quest'albero il privilegio di vivere fino alla sua morte naturale» concluse Chuang-tzu. Arrivato al di là delle montagne, Chuang-tzu ricevette ospitalità da una famiglia amica. Contento di rivederlo, il padrone di casa disse a un domestico di ammazzare un'anatra e di cucinarla. «Quale delle due anatre devo ammazzare?» chiese il domestico. «L'anatra muta, o quella che starnazza?» «Quella muta», fu la risposta del padrone. L'indomani, il discepolo che accompagnava Chuang-tzu gli disse: «Ieri, un albero è stato risparmiato perché non era buono a niente, e un'anatra è stata sgozzata perché non sapeva starnazzare; allora, [ditemi], è l'essere incapaci o l'essere capaci che salva?» «Dipende dai casi» ribatté Chuang-tzu ridendo. «Una sola cosa salva in tutti i casi, ed è essersi elevati alla conoscenza del Principio e della sua azione, e di conseguenza mantenersi nel distacco e nella contemplazione. L'uomo che è giunto a questo, tiene nello stesso conto l'elogio e il rimprovero. Sa innalzarsi come il drago e strisciare come il serpente, adattandosi alle circostanze e non incaponendosi per nessun partito preso. Che sia situato in una posizione [esteriore] di rilievo o no, si adegua al suo ambiente. «Egli si muove all'interno dell'Antenato d'ogni cosa (il principio); dispone di tutti gli esseri come occorre, non essendo affezionato [individualmente] a nessun essere. Accada ciò che vuole, non teme nulla. Così fecero Cienn-nung e Hoan-ti. I politici attuali (Confucio e i suoi discepoli) fanno tutto il contrario, e in questo modo subiscono degli scacchi. «Dopo la condensazione, la dissipazione; dopo il successo, la sconfitta. La forza richiama l'attacco, l'elevazione attira la critica, l'azione non è esente da manchevolezze, i consigli della saggezza sono trascurati, nulla è stabile e duraturo. «Tieni ben presente, discepolo, che l'unico fondamento solido è la conoscenza del Principio e della sua azione (distacco e intuizione intellettuale)». B L'incorruttibile Hiung-i-leaò, andato a far visita al marchese di Lu, l'aveva trovato triste e gliene aveva chiesto la ragione. «È perché» disse il marchese, «dopo aver studiato le regole degli Antichi e cercato di far onore ai miei predecessori; dopo aver venerato gli spiriti degli Antenati e onorato i Saggi, personalmente e continuamente, sono perseguitato, colpo su colpo, da ogni genere di disgrazie». «Non mi stupisce per nulla» disse I-leaò. «I mezzi che avete messo in opera non vi 211

211 proteggeranno certo da questo. Pensate alla volpe, pensate al leopardo. Questi animali si nascondono nel profondo delle foreste e nelle caverne di montagna, escono solo di notte e con molta precauzione, soffrono la fame e la sete piuttosto di avventurarsi nei luoghi abitati; e nonostante ciò finiscono sempre col cacciarsi in una rete o in una trappola. Perché? Ma a causa della loro bella pelliccia, che è ambita dagli uomini. «Ora voi, Altezza, avete come pelliccia il marchesato di Lu, e i vostri vicini lo ambiscono. Se volete vivere in pace, disfatevene volontariamente, spegnete tutti i desideri del vostro cuore, ritiratevi in solitudine. Nel paese di Nan-ué c'è una città, chiamata Sede della salda virtù. I suoi abitanti sono semplici e incolti, non hanno né interessi propri, né desideri. Producono, senza accumulare; danno, senza esigere nulla in cambio. Da loro non vigono né etichetta [formale] né cerimonie. «E ciò nonostante, malgrado le apparenze di rozzezza, praticano le grandi leggi naturali, festeggiano le nascite e piangono le morti. Marchese, lasciate il marchesato, abbandonate il vostro modo di vivere ordinario; venite con me a vivere laggiù!» «È distante!» esclamò il marchese; «La strada che vi conduce è impervia; ci sono da attraversare fiumi e montagne; e io non ho né barca né carrozza». I-leaò riprese: «Se foste distaccato dai vostri incarichi ufficiali, se non teneste al vostro marchesato, se veramente desideraste andarci, il vostro desiderio vi ci trasporterebbe». «È lontano!» ribatté il marchese «E le provviste? E i cortigiani?» I-leaò continuò: «Se non foste abituato al vostro lusso, se non foste legato alle vostre comodità, non vi preoccupereste delle provviste; vi affidereste ai fiumi, al mare, senza neanche aver paura di perder di vista la terra; e l'abbandono dei vostri cortigiani non vi farebbe recalcitrare. «Ma mi accorgo bene, o padrone dei vostri sudditi, che i vostri sudditi sono i vostri padroni, poiché è a loro che siete legato. Voi non siete certo come Yao, che mai considerò qualcuno suo suddito, e di nessuno suddito fu mai. «Ho cercato di guarirvi dalla vostra malinconia; ma voi non siete uomo da usare l'unico rimedio efficace, il quale consiste, dopo aver tutto abbandonato, nell'unirsi al Principio, mediante l'intuizione [intellettuale]. «Questa intuizione deve spingersi fino a dimenticare la propria individualità; giacché, finché se ne conservi la nozione, i suoi conflitti con quelle degli altri si opporranno a uno stato di pace. «Prendete un traghetto che attraversi un fiume; se verrà urtato da una barca vuota alla deriva, i marinai del traghetto, anche se irascibili, non se la prenderanno certo, nessuno essendo venuto a conflitto con loro, perché la barca è vuota. Se, invece, nella barca c'è un uomo, dal traghetto partiranno subito ingiurie e grida. Perché? Perché c'è conflitto di persone... «Un uomo che abbia saputo spogliarsi fin della sua individualità, sarà in grado di percorrere il mondo intero senza incontrare ostilità». C Un certo C'eé ricevette, dal duca Ling di Uei, l'incarico di raccogliere il denaro necessario per fondere un carillon di campane. Stabilì la sua base su una collinetta all'entrata della città. Dopo tre mesi il carillon era fuso e messo in opera. Ch'ing-chi, un funzionario di retaggio imperiale, della famiglia Ceù, domandò a Ceé: «Ma come avete fatto per riuscirci così bene e in così poco tempo?» Ceé rispose: «Nulla, ho fatto. Non dice l'adagio: "Cesellare, rifinire, non sostituisce 212

il lasciar agire per suo conto la natura"? Senza parere, senza occuparmene direttamente, ho lasciato che la gente facesse da sé, spontaneamente, come opera la natura. «E la gente è venuta portando le sue offerte, senza essere chiamata, e se ne sono andati senza che io li trattenessi. Io non ho detto niente, né a quelli che mi piacevano, né a quelli che mi dispiacevano. «Hanno dato tutti quel che potevano, o che volevano, e io incassavo senza fare osservazioni. Risultato: tutto è proseguito senza il minimo inconveniente». (Lo stesso procedimento, dice la Glossa, farebbe riuscire in modo simile anche l'impresa più importante, come il governo di un principato o di un impero). D Dopo che Confucio, bloccato per sette giorni con i suoi discepoli [in una località] a cavallo della frontiera tra i principati di C'enn e di Z'ai, ebbe rischiato di morire di fame, il granduca Gienn si dispiacque con lui [della cosa] nei termini seguenti: «Maestro, questa volta avete visto la morte in faccia». «Sì, è vero» rispose Confucio. «E vi ha fatto paura?» «Sì» ripeté Confucio. «Se è così» riprese il granduca Gienn, «vi darò la ricetta contro il pericolo di morte... Sulle rive del mar d'Oriente si trova l'uccello I-tai, che vive in stormi. «Ciascun individuo, poiché teme per la sua vita, si associa agli altri, e volano sempre accostati, in un perfetto ordine, senza che nessuno si stacchi dal gruppo, né per precederlo né per andargli dietro. Quando si nutrono, lo fanno parimenti in gruppo, e nessuno si allontana per servirsi di un boccone migliore, ma ognuno becca il proprio cibo stando al suo posto nella formazione. «Questa ammirevole organizzazione li protegge contro gli animali e contro gli uomini, [nonché] contro qualsiasi pericolo accidentale. «Lo stesso accade per l'uomo, che vive come gli altri e con gli altri, che non fa parte per sé, come voi fate, Confucio. E inoltre, per evitare le disgrazie, bisogna non sbandierare le proprie qualità e talenti eccezionali, come, sempre fate voi. «L'albero più diritto sarà il primo a essere abbattuto. Il pozzo dall'acqua più dolce sarà il primo a essere prosciugato. La vostra scienza allarma gli ignoranti, la vostra luce dà fastidio agli idioti. «Non cercate di accaparrarvi il sole e la luna. Sono le vostre pretese che vi attirano le disgrazie. Ho sentito, una volta, dire questo da un uomo di merito: "Vantarsi significa chiudere la strada alla fortuna; avendo già meriti e rinomanza, significa attirarsi la [loro] perdita". «Sparire, confondersi con la massa, questa è la sicurezza... Seguire la corrente senza distinguersene, fare la propria strada senza attirare l'attenzione, modestamente, semplicemente, fino a confondersi con il volgo; cancellare il ricordo dei propri meriti e far dimenticare la propria reputazione; questo è il segreto per vivere in pace con gli uomini. L'uomo superiore ricerca l'oscurità. Perché voi cercate la notorietà?» «Grazie» disse Confucio; e, abolendo i suoi rapporti abituali, Congedati i suoi discepoli, si nascose fra le canne di una palude, si rivestì di pelli, si nutrì di ghiande e di castagne. Dopo un bel po' di tempo ritornò in modo così compiuto allo stato di natura, che la sua presenza non fece più paura ai quadrupedi e agli uccelli. Perfino gli uomini finirono con il trovarlo sopportabile. 213

213 E Un giorno Confucio disse a Maestro Sang-hu: «Due volte sono stato cacciato dal principato di Lu. A Song hanno buttato giù l'albero sotto il quale mi riparavo. A Uei mi hanno impedito di continuare per il mio cammino. A Ciang e a Ceù ho corso seri pericoli. Tra C'enn e Z'ai sono rimasto intrappolato. In conseguenza di queste successive traversie, gli amici si allontanano da me, e i miei discepoli mi lasciano. Ma che cosa ho potuto fare perché mi accada tutto ciò?» La risposta di Sang-hu fu: «Conoscete certamente la storia di Linn-hoei, il quale, nel corso della disfatta di Chià fuggì, gettando via il suo scettro di giada, che valeva almeno mille lingotti d'oro, e si portò dietro, abbracciato alle sue spalle, il figlioletto. È sicuro che lo scettro valeva più del bambino; e del resto era più difficile salvare il bimbo dello scettro; tuttavia Linn-hoei si portò dietro il bimbo e buttò via lo scettro. «Perché? Perché allo scettro era legato solo da interesse, mentre al bambino lo legava la natura. L'interesse è un debole legame, facilmente sciolto dalla disgrazia. Mentre la natura è un legame forte, che resiste ad ogni prova. «Lo stesso accade per l'amicizia interessata, e per l'amicizia superiore. L'uomo superiore, per quanto non espansivo, attira; la gente comune, per quanto affettuosa, respinge. I legami che non hanno una causa profonda si sciolgono come si sono annodati. «Ora, voi siete solo un uomo comune, e l'unico legame che vi unisce ai vostri discepoli è l'interesse. Per questo il loro attaccamento decade davanti all'avversità». «Vi ringrazio» rispose Confucio... Si ritirò pensieroso, chiuse la scuola e rinunciò ai libri. Dai discepoli congedati non ricevette più reverenze, ma in compenso essi incominciarono a stimarlo. Sang-hu disse, in un'altra occasione: «Sentendo arrivare la sua ultima ora, Sciunn impose a U quel che segue: "Stai in guardia! L'affetto che ha per fondamento le sole forme corporee non è saldo. Per essere saldo, occorre che l'affetto abbia come fondamento delle ragioni serie. L'essere amati non vale quanto imporre rispetto. «"Il rispetto acquisito con qualità vere è il solo che duri. A un uomo [che si conquisti il rispetto in questo modo] si è fedeli non per la bellezza, non per i favori, ma per il suo intrinseco valore"». F Vestito di un abito di tela grossolana, e rappezzato; i calzari legati ai piedi con uno spago, Chuang-tzu incontrò il reuccio di Uei. «In che stato di miseria vi vedo caduto, Maestro» disse il re. «Scusate, o re» rispose Chuang-tzu; «ma povertà non è miseria. L'uomo che possiede la scienza del Principio e della sua azione, in miseria non è mai. Potrà risentire povertà, se è nato in tempi calamitosi... «Al modo d'una scimmia, che, in un bosco di alberi prosperosi dai rami lunghi e lisci, si muove così agilmente che né I, né P'eng-mong (celebri arcieri) potrebbero prenderla di mira; ma che, quando le tocchi arrampicarsi su alberi malandati e spinosi, avrà un comportamento, oh, quanto meno agile! E tuttavia è sempre la stessa bestia, stesse ossa, stessi tendini. Sì; ma le circostanze, che sono ora sfavorevoli, le impediscono di fare un libero uso dei suoi mezzi... «Così è di un Saggio, che, nato sotto un principe stupido circondato da ministri incapaci, avrà da patire. Fu questo il caso di Pi-can, al quale il tiranno Ceù-sinn fece strappare il cuore». G 214

Quando Confucio rimase intrappolato tra C'enn e Z'ai per sette giorni, senza poter

cuocere cibo, raccolse con la mano sinistra un pezzo di legno secco, e con un ramo morto che teneva nella destra lo percosse, canticchiando il poema di Maestro Piao. Era una musica senza melodia e senza ritmo, un'espressione naturale di cuore ferito, che ricordava il rumore del vomere quando fende la terra. Yen-hoei, il discepolo preferito, era vicino a Confucio, m un atteggiamento disperato, con le braccia conserte, e guardava il Maestro. Temendo che si eccitasse fuor di misura, Confucio gli disse: «Hoei, rassegnarsi alle prove naturali è facile. Difficile è rimanere insensibili ai favori degli uomini. Non esiste inizio che non sia seguito da fine. L'uomo è uno con il cielo. Io che ora sto cantando, chi sono?». Yen-hoei non comprese, e domandò spiegazioni: «Rassegnarsi alle prove naturali è facile; che significa, Maestro?...» Confucio rispose: «La fame, la sete, il freddo, il caldo, la povertà, gli ostacoli e le contestazioni, sono tutte cose che fanno parte dello sviluppo cosmico, incluse nella legge delle trasmutazioni; ogni uomo le incontra perciò sulla propria strada e deve rassegnarcisi. Un inferiore non deve rivoltarsi contro gli ordini di un superiore; quanto più il dovere della sommissione incombe all'uomo nei confronti del cielo!» Yen-hoei continuò: «Rimanere indifferenti ai favori degli uomini è difficile; che cosa vuol dire?...» Confucio rispose: «Onori e denaro, tutto ciò si riversa sull'uomo che ha un incarico. Sono beni esteriori, che nulla aggiungono al suo valore intrinseco, che nulla cambiano al suo destino. Colui che si lascia sedurre da essi decade dal livello di Saggio abbassandosi a quello di ladro (tentato dal denaro). «Ora, vivere in mezzo a ricchezze e onori senza lasciarsi sedurre da essi, è cosa assai difficile. In una tal situazione al Saggio occorre la circospezione della rondine. Questo uccello non si posa mai su un punto che il suo occhio acuto abbia giudicato poco sicuro. Mancata la preda, non si ferma e non torna indietro, continuando il suo volo come se nulla fosse. Vive in mezzo alle case degli uomini, ma non si fida dei loro abitanti». Yen-hoei riprese: «Non c'è inizio che non sia seguito da fine; cosa intendete dire?...» Confucio rispose: «Tutti gli esseri cambiano forma senza interruzione, ma l'elargitore di tali forme è sconosciuto e le regole che segue sono misteriose; che si può sapere della propria fine, che si può sapere del nuovo inizio che seguirà la fine? La sola cosa da fare è aspettare cosa succederà, mantenendosi in un atteggiamento corretto». Yen-hoei disse: «L'uomo è uno con il cielo; cosa vuol dire?» E Confucio: «Essere un uomo vuol dire essere cielo (parte integrante della norma universale). Essere il cielo, significa anche essere cielo (la massa della norma universale). Quel che impedisce all'uomo di essere il cielo (fuso nella «massa» con conseguente perdita della propria individualità) è l'attività propria [indipendente]. Per cui il Saggio si astiene dall'agire e si affida al cambiamento che lo assorbirà alla fine nel gran Tutto». H Mentre Cioang-ceù (Chuang-tzu) cacciava senza permesso nel parco riservato di Tiao-ling, vide un grosso uccello arrivare volando da Sud. Le sue ali erano lunghe più di due metri e aveva gli occhi di più d'un pollice di circonferenza. Passò così vicino a Chuang-tzu che un'ala gli sfiorò il capo, e si abbatté in un boschetto di castagni. Chuangtzu corse verso di lui armando la balestra. Una cicala prendeva il fresco posata sul tronco di un albero, rapita nel suo canto. 215

215 Una mantide religiosa l'attaccò. Il grosso uccello si precipitò su entrambi, e Chuang-tzu ebbe così la possibilità di abbatterlo. Mentre lo stava raccogliendo «Ecco» si disse «come l'egoismo e l'antagonismo conducono gli esseri, che pure hanno tutti una stessa natura, a distruggersi gli uni con gli altri!...» Uscendo dal bosco, poco mancò che il guardaboschi lo arrestasse per bracconaggio. Rientrato a casa sua, Chuang-tzu vi si rinchiuse per tre mesi. Il suo discepolo Linnzù gli chiese la ragione di tale lungo ritiro, ed egli gli rispose: «Ho impiegato tutto questo tempo a convincermi che per vivere a lungo non bisogna portare guerra agli altri, ma fare e pensare come tutti. Battagliando senza fine si finisce per soccombere, [un giorno o l'altro]. Tutto questo l'ho imparato dal grande uccello e dal guardacaccia di Tiao-ling». I Maestro Yang (Yang-ciù), mentre si recava nel principato di Song, passò la notte in una locanda. Il proprietario aveva due mogli, una bella e l'altra brutta. Quella brutta era benvoluta, quella bella no. «Perché mai?» chiese Maestro Yang. «Perché» gli disse un giovane servo «la bella sa di esser bella, e a causa di ciò si dà delle arie, il che fa sì che noi ignoriamo deliberatamente la sua bellezza; mentre la brutta si tiene in disparte, e questo fa sì che noi ignoriamo deliberatamente la sua bruttezza». «Tenetelo presente, discepoli!» disse Maestro Yang; «Esser superiori senza far pesare la propria superiorità, questo è il comportamento che fa essere amati dappertutto».

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XXI Azione trascendente

A

T'ien-zefang, aiutante del marchese Uenn di Uei, citava spesso Hi-cung. «È forse stato il vostro maestro?» domandò il marchese. «No» disse T'ienn-zefang. «Veniamo dallo stesso villaggio. Sono stato spesso colpito dalla giustezza dei suoi discorsi. Ed è per questo che lo cito». «Allora» disse il marchese, «voi non avete avuto un maestro?» «Ah! No» fece T'ien-zefang. «E chi è stato?» domandò il marchese. «Maestro Sciunn, del sobborgo dell'Est». «Se questi è stato il vostro maestro, com'è che non citate mai i suoi detti?» «Perché» disse T'ien-zefang «quell'uomo non parla. È un uomo trascendente. È il cielo sotto forma umana. Svuotato d'ogni contingenza, ospita in sé la trascendenza. Ben disposto verso tutti, quando qualcuno non agisce come dovrebbe, glielo fa osservare con il proprio atteggiamento corretto, e in questo modo lo corregge senza parlare. Vedete così, che non si può citare un uomo simile». Uscito che fu T'ien-zefang, il marchese Uenn restò stordito, e non disse più una parola per il resto della giornata. Poi fece chiamare i suoi confidenti abituali e disse loro: «Quanto diverso da noi è l'uomo dalla perfetta virtù! Finora credevo che lo studio delle parole dei saggi e dei sapienti, che la pratica della bontà e dell'equità, costituissero tutto l'ideale possibile (Confucianesimo). Ma dopo aver inteso parlare del maestro di T'ienzefang, sono tutto sconvolto e come paralizzato, né posso più aprir bocca. Tutto quel che ho imparato finora non è saldo. Anche il marchesato, le cui cure mi impediscono di dedicarmi al Taoismo, mi è diventato repellente». B Maestro Sué, conte di Uenn (taoista), che andava a Z'i in provenienza da Sud, passò per la capitale di Lu, paese di Confucio, e quivi diverse persone chiesero di vederlo... «A che pro?» esclamò. «I letterati di questo paese studiano soltanto i riti convenzionali [exoterici], e non la natura umana. Non desidero vederli». Di ritorno da Z'i, Maestro Sué si fermò ancora a Lu, e ancora le stesse persone richiesero di vederlo. Alla fine li ricevette nella sala degli ospiti, poi si ritirò nel suo appartamento, sospirando. Il giorno dopo, nuova visita, e nuovo sospiro alla fine della visita. Incuriosito, il discepolo che serviva Maestro Sué gli chiese: «Come mai sospirate in questo modo tutte le volte che finite di ricevere dei visitatori?» «Perché» rispose Maestro Sué «mi convinco sempre più che i letterati di questo paese, molto competenti in materia di riti exoterici, della natura umana non capiscono proprio nulla. I miei visitatori han fatto le entrate e le uscite più studiate, più compassate, con un'aria di draghi e di tigri. «Poi, invece di chiedermi qualcosa, mi hanno ripreso quasi fossero miei maestri, e mi hanno fatto dei sermoni quasi fossero miei padri (o superiori). Ecco perché ho sospirato». 217

217 Anche Confucio (in via di passaggio al Taoismo, e qui rappresentato più perspicace degli altri letterati di Lu), andò a visitare Maestro Sué, e si ritirò senza avergli detto una sola parola... «Come mai avere mantenuto questo silenzio?» gli chiese il suo discepolo Zé-lu. «Perché» rispose Confucio «mi è bastato guardarlo, quell'uomo. La scienza superiore (trascendente) sgorga dai suoi occhi e penetra seguendo il suo sguardo; non è esprimibile con parole». C Yen-yuan (il discepolo preferito) disse a Confucio (ormai completamente acquisito alle dottrine del Taoismo): «Maestro, quando camminate al passo, io vi seguo al passo; quando trottate, vi seguo al trotto; quando galoppate, vi seguo al galoppo; ma quando prendete lo slancio e lasciate il suolo, allora non posso più far altro che seguirvi con lo sguardo». «Spiegati meglio, Hoei» disse Confucio. «Subito» rispose Yen-hoei. «Il passo, è quando discorrete; riesco a seguirvi. Il trotto, è il vostro ragionamento; riesco a seguirvi. Il galoppo, sono le vostre speculazioni; riesco a seguirle. Ma quel che non arrivo ad afferrare è l'influsso trascendente (taoista) grazie al quale riuscite a persuadere, ad avere la meglio. Quello, cos'è?» «Si tratta» disse Confucio «del fascino che esercita la mia personalità superiore, la mia parte di norma universale, sull'io, sulla parte di norma del mio uditore, se essa non è soffocata. Medita bene su ciò! La morte più triste è la morte del cuore (l'estinzione della norma); essa è ben peggiore della morte del corpo. «L'uomo che ha il cuore vivo, agisce sui cuori che vivono, così come il sole che vivifica il mondo. Il sole si leva a Oriente e tramonta a Occidente. Esso illumina tutti gli esseri, che si orientano tutti nella sua direzione. Quando appare, inizia l'attività degli esseri; quando scompare, essi diventano inerti. Questo è il ritmo diurno: giorno e notte; il ritmo della vita e della morte è analogo. «A volta a volta, l'essere muore, l'essere vive (rivive). Ricevuta che abbia una forma definita, la conserva fino alla fine di questa esistenza, periodo di giorno, nel corso del quale esso agisce. Poi per esso giunge la morte, periodo di notte, durante il quale si riposa. E così di seguito, senza interruzione, come il concatenamento dei tempi. «Egli ritorna ad essere un essere in funzione del suo merito [della legge delle azioni e reazioni concordanti], ma sa soltanto (nella sua nuova esistenza) che è tale a causa del suo destino, e non può misurare la sua "massa" precedente [precedente non in senso temporale, ma ontologico]. «Alla fine di questa esistenza, gli esseri che furono in contatto intimo ("a spalla a spalla"), si lasciano con dolore. Giacché se colui che sopravvive cerca di sapere qual è lo stato del defunto, sarà ben invano, perché questi ha cessato di essere lui. «Cercare informazioni su di lui, sarà perciò come cercare alla fiera [del bestiame] il proprio cavallo (rubato, il quale ha già trovato un altro padrone). Portare il lutto, un essere per un altro, è perciò dar prova di una grave dimenticanza (dottrinale; equivale a dimenticare che l'altro [essere] non esiste più nella sua individualità precedente). «Non bisogna affliggersi per questa cessazione dell'individualità come se fosse una disgrazia. Giacché l'annientamento non è totale, è vero che l'io, il cui supporto era il corpo, ha cessato di esistere [nell'attuale stato di manifestazione], e sarebbe un errore pensare a lui come se esistesse ancora. Ma il sé [la personalità reale] (l'aspetto della norma che dava origine a quella persona) sussiste, e si può pensare ad esso come esi218

stente. «È con questa personalità trascendente non individualizzata, che io agisco sui miei uditori. Essa non è repulsiva, come può esserlo l'individualità di colui che è chiamato Confucio». D Confucio, che era andato a render visita a Lao-tan, lo trovò seduto, immobile e immerso in uno stato di concentrazione profonda. In questo stato era entrato mentre si asciugava i capelli dopo l'abluzione rituale. Confucio attese con discrezione che avesse ripreso il suo stato di coscienza [individuale], e poi gli disse: «Avevate abbandonato le cose e gli uomini; vi eravate ritirato nell'isolamento del sé!» «Sì» rispose Lao-tan. «Stavo vagando all'origine delle cose». «Come sarebbe a dire?» domandò Confucio. «Non ho ancora recuperato completamente [la mia coscienza ordinaria]» disse Laotan; «le mie facoltà individuali, affaticate, non mi permettono ancora di pensare e di agire appieno; la bocca chiusa articola ancora a fatica le parole; ad ogni modo, cercherò di darvi soddisfazione... «Essendosi le due modalità dell'essere differenziate nell'essere primordiale, la loro girazione ebbe inizio, e ne seguì lo sviluppo del cosmo. Il culmine dello yin ([simboleggiato e] condensato nella terra) è la passività tranquilla. Il culmine dello yang ([simboleggiato e] condensato nel cielo) è l'attività feconda. La passività della terra offrendosi al cielo, l'attività del cielo esercitandosi sulla terra, dai due nacquero tutti gli esseri. «Forza invisibile, l'azione e la reazione del binomio cielo terra produce lo sviluppo integrale [degli esseri, della manifestazione]. Inizio e cessazione, pienezza e assenza, rivoluzioni astronomiche, fasi del sole e della luna, tutto è prodotto da questa causa unica, che nessuno vede, ma che sempre agisce. «La vita si sviluppa in direzione di uno scopo, la morte è un ritorno verso un termine. Le genesi si succedono incessantemente, senza che se ne sappia l'origine, senza che se ne veda il termine. L'azione e la reazione del cielo e della terra sono l'unico motore di questo movimento. In essa sono la bellezza e la gioia supreme. Vagare in questo rapimento è la sorte riservata all'uomo superiore». «Ma come si fa a giungervi?» domandò Confucio. «Attraverso il distacco assoluto» riprese Lao-tan. «Gli animali che popolano la steppa non sono attirati da nessun pascolo in particolare; i pesci che vivono nell'acqua non sono attaccati ad alcun habitat determinato; di conseguenza nessuno spostamento altera la loro tranquillità. «Tutti gli esseri non costituiscono che un tutto immenso. Colui che si unisce a questa unità, fino a perdere il senso della sua individualità, quegli tiene il proprio corpo per polvere, la vita e la morte per un giorno e una notte. Cos'è che potrà mai emozionare quest'uomo, per il quale guadagno e perdita, fortuna e sfortuna non sono nulla? Egli tiene le cariche per fango, perché sa di essere più nobile di queste cose. E a tale nobiltà del suo sé, nessuna vicissitudine può portare offesa. Nessun possibile cambiamento potrà alterare la sua pace. Comprende ciò, colui che è giunto al Principio». «Ah!» fece Confucio stupefatto «Questo è un insegnamento vasto come il cielo e la terra; può esso venir riassunto in qualche formula, al modo degli Antichi?» Lao-tan rispose: «Le sorgenti sgorgano naturalmente. L'uomo superiore è così, spontaneamente. Il cielo è alto, la terra è solida, il sole e la luna sono luminosi, e tutto senza formule». 219

219 Dopo che fu uscito, Confucio raccontò quel che era successo al suo discepolo Yenhoei. «Finora» gli disse «sapevo del Principio quanto ne sanno le anguillule che vivono nell'aceto. Se non fosse venuto il Maestro a sollevare il velo che mi ricopriva gli occhi, non avrei mai neppure intravisto il complesso perfetto cielo-terra (la grande unità cosmica)». E Chuang-tzu aveva reso visita al duca Naì di Lu, e questi gli disse: «Nel ducato di Lu ci sono molti intellettuali; ma nessuno, Maestro, che sia paragonabile a voi». «Nel ducato di Lu, intellettuali ce ne sono pochi» ribatté Chuang-tzu. «Ma come fate a dire una cosa simile» fece il duca, «quando non si fa che vedere in giro gente con l'abito del letterato?» «L'abito sì» disse Chuang-tzu. «Con il loro copricapo rotondo, essi fanno sapere che conoscono le cose del cielo; con i loro calzari quadrati, che conoscono le cose della terra; con i loro pendagli sonori, che sono capaci di portare l'armonia dappertutto. Qualcuno queste cose le sa e le sa fare, senza portare il loro abito. Essi portano l'abito, ma non le sanno. Se non mi credete, fate questo esperimento: proibite, con un editto, sotto pena di morte, che non indossino l'abito di letterato se non coloro che hanno la capacità competente». Il duca Naì seguì il consiglio. Cinque giorni dopo, tutti i letterati di Lu, ad eccezione di uno, avevano cambiato abito. Il duca interrogò personalmente questo unico essere sul governo dello stato. Egli rispose a tutto in modo appropriato, senza che fosse possibile trovargli lacune. «Dicevate» disse Chuang-tzu al duca «che nel ducato di Lu c'erano molti intellettuali. Uno, non è molto...» F Pai-li-hi, che non aveva nessun gusto per le cariche e per le ricchezze, fece l'allevatore di bestiame, e riuscì a produrre dei buoi superbi, perché il suo istinto naturale gli suggeriva come trattarli secondo [la loro propria] natura. Visto questo, il duca Mu di Z'inn ne fece il suo ministro, perché sviluppasse il suo popolo. Sciunn non amava la vita e non temeva la morte. Questo lo rese degno, e capace, di governare gli uomini. G Il principe Yuan di Song voleva far tracciare una mappa; gli scrivani convocati si presentarono, ascoltarono le istruzioni, eseguirono le salutazioni di rito; poi gli uni, scoraggiati, si allontanarono; gli altri leccarono i pennelli, prepararono l'inchiostro, tra mille perplessità. Uno scrivano arrivato in ritardo e con un fare disinvolto, anche lui ascoltò le istruzioni, salutò, e si ritirò subito nel locale destinatogli. Il duca mandò qualcuno a vedere cosa stava facendo. Si era messo comodo, nudo fino alla cintola, le gambe incrociate, e incominciava con il riposarsi. Quando il duca lo seppe esclamò: «Questo è quello che ce la farà; è un uomo che ci sa fare». H Il re Uenn, capostipite dei Ceù, passando in quel di Zang, vide un uomo che pescava alla lenza in modo disinvolto, quasi macchinale, la sua sola natura agendo in lui, senza intrusione di passioni. Subito il re Uenn decise di farne il proprio ministro. Pensò però, poi, al probabile scontento dei parenti e dei funzionari, e cercò di scacciare quel pensiero dalla testa. La 220

cosa risultò impossibile. Il timore che il suo popolo restasse senza cielo (vale a dire: senza un ministro che lo governasse in modo naturale, come il cielo), agì in modo da impedirgli di dimenticare il suo progetto. Trovò alla fine un mezzo. Un mattino, convocati i funzionari, disse loro: «Questa notte ho visto in sogno un uomo dall'aspetto buono, bruno di pelle, con la barba; montava un cavallo pomellato con gli zoccoli dipinti in rosso. Mi ha gridato: "Affida il potere all'uomo di Zang, e il tuo popolo ne trarrà vantaggio!"» Emozionatissimi, i funzionari esclamarono: «È il vostro defunto padre che vi è apparso in sogno». «Allora» disse il re Uenn, «non vi dispiace se consultiamo il guscio della tartaruga su quest'avvenimento?» «No, no!» dissero i funzionari all'unisono. «Un ordine verbale del defunto re non deve essere messo in discussione». Il re Uenn fece perciò chiamare il suo pescatore alla lenza e gli affidò l'incarico del governo. Questi non cambiò nulla, non emanò leggi, non dette ordini. Dopo tre anni, quando il re Uenn fece un'ispezione del suo regno, trovò che i briganti erano spariti, che i funzionari erano onesti, che i diritti regali erano rispettati. La gente del popolo viveva in concordia, gli ufficiali facevano il loro dovere, i feudatari non imperversavano [ai confini]. Il re Uenn allora, trattando l'uomo di Zang come fosse suo maestro, lo fece sedere rivolto a Sud e, tenendosi in piedi davanti a lui, rivolto a Nord, gli chiese: «Potreste fare ad un impero il bene che avete fatto ad un regno?» L'uomo di Zang rispose solo con uno sguardo terrorizzato. Lo stesso giorno, prima di sera, scomparve. Non si seppe mai dove fosse finito. Tuttavia, un particolare di questo episodio aveva urtato l'onesto Yen-yuan. «Come può essere accaduto» egli chiese a Confucio, «che il re Uenn si sia servito, per convincere la corte del racconto di un sogno che in realtà non aveva fatto?» «Taci!» rispose Confucio; «Tutto ciò che fece il re Uenn fu ben fatto. Non è un uomo da giudicare... Naturalmente [giusto e] onesto, in questo caso dovette adattarsi alle circostanze». I Lie-uch'eù (Lieh-tzu) tirava d'arco davanti a Pai-hunn u-genn. Il braccio con cui teneva l'arco era così fermo, che, avendo fissato una tazza piena d'acqua al gomito sinistro, quando scoccava la freccia, l'acqua non si rovesciava. La mano destra era così pronta, che, appena lanciata una freccia, era già in posizione la seguente. In tutto questo tempo, poi, il corpo restava rigido come quello di una statua (modello del tiro manierato, di scuola classica)... «Questo» disse Pai-hunn u-genn (il Taoista) «è un tiro da tiratore, d'un uomo che vuol tirare, di un uomo che sa che sta tirando (artificiale, non naturale). Venite con me su qualche altura, sul bordo di un precipizio, e vedremo che cosa resterà dei vostri [bei] gesti». Insieme andarono su un'alta montagna, sul bordo di un profondo precipizio, cento volte l'altezza di un uomo. Pai-hunn u-genn si piazzò sull'orlo dell'abisso, con i talloni che sporgevano nel vuoto. Appoggiato solo sulla punta dei piedi, fece un inchino a Lieuch'eù, e lo invitò a prender posizione al suo fianco. Ma la vertigine aveva già fatto cadere quest'ultimo a quattro gambe, con il sudore che gli colava fino ai talloni. Pai-hunn ugenn gli disse: «L'uomo superiore porta il suo sguardo fino nel fondo dell'azzurro celeste, 221

221 nelle profondità degli abissi terrestri, all'estremità dell'orizzonte, senza che i suoi spiriti vitali siano minimamente scossi. Chi non si trova in queste condizioni non è un uomo superiore. Dagli occhi che avete, mi sembrate soffrire di vertigini». J Chien-u disse a Sunnsciù-naò: «Siete stato nominato ministro tre volte senza che vi montaste la testa, e altre tre volte siete stato deposto senza che ve la prendeste. In un primo tempo, ho sospettato che la vostra indifferenza fosse artefatta. Ma mi sono convinto che in tutte queste occasioni la vostra respirazione resta perfettamente calma, e adesso credo che siate veramente indifferente. Vi chiedo: come avete fatto per arrivare a questo risultato?» «Ma non ho fatto assolutamente niente» rispose Sunnsci-naò. «Nelle mie nomine, e nelle degradazioni, io non sono entrato assolutamente per nulla. Per me, [per la mia vera personalità], in queste vicende non c'è stato né guadagno né perdita, ecco perché non mi sono né montato la testa né abbattuto. Che c'è, in questo, di tanto straordinario? [In realtà], niente di più normale, invece. «La mia carica non ero io, la mia personalità non era la mia carica. La buona e la cattiva sorte riguardavano il mio incarico, non la mia personalità reale. Di conseguenza, perché avrei dovuto procurarmi l'ansietà e la fatica di preoccuparmene? Non avrei forse perduto il mio tempo, se mi fossi preoccupato della considerazione o del disdegno degli uomini?» Saputo di questa risposta, Confucio disse: «Questo è l'uomo vero dell'antichità. Gli Antichi di questa fatta non si lasciavano né impressionare dai discorsi dei sapienti [esteriori], né sedurre dalle lusinghe della bellezza, né far violenza dai potenti brutali. Fu-hi e Hoang-ti invano sollecitarono la loro amicizia. «Non l'amore per la vita, non la paura della morte, motivi che tanto influiscono sulla gente comune, gli facevano alcuna impressione. E allora, che effetto potevano avere su di loro gli incarichi e le ricchezze? Il loro spirito era più elevato delle montagne, più profondo dell'abisso. Che poteva importargli, [perciò], se la loro condizione sociale era infima? «Essendo l'universo intero a loro disposizione in conseguenza della loro unione con il cosmo universale, abbandonare gli onori e le ricchezze alla gente ordinaria non li impoveriva, giacché a loro restava il gran tutto». K Il re di C'iù stava conversando con l'ex principe spodestato di Fan, e i cortigiani dicevano: «Fan è già andato in rovina tre volte». Il principe di Fan li interruppe: «La rovina di Fan non mi ha tolto la vita. Non è poi così certo che la prosperità di C'iù garantisca la conservazione delle vostre. Non fidatevi della prosperità attuale, fino al punto di credervi al riparo dalla rovina futura. La prosperità e la rovina Si alternano. «Se ci poniamo [da un punto di vista più] elevato, al di sopra della ruota che gira, Fan non è stato distrutto, e C'iù non è in condizioni di prosperità. Tutto, alternatamente, passa attraverso le due fasi della rovina e della prosperità».

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XXII Conoscenza del Principio

A Conoscenza era andata verso Nord fino all'Acqua Nera; scalò il monte dell'Oscurità e incontrò Non-agire. Conoscenza disse a Non-agire: «Devo chiedervi delle cose. Con che sorta di pensieri e di riflessioni si riesce a conoscere il Principio? Che posizioni assumere, cosa fare, per comprenderlo? Da dove partire, e che strada seguire, per raggiungerlo?...» A queste tre domande, Non-agire non diede nessuna risposta. Non che non volesse rispondere, ma perché, veramente, non sapeva che cosa rispondere. Non avendo avuto risposta, Conoscenza andò fino all'Acqua Bianca, scalò il monte dell'Investigazione, e qui vide Intuizione, e a lei pose, nuovamente, le sue tre domande. «Ah!» esclamò Intuizione «Adesso ve lo dico...» Mentre stava per incominciare a parlare, si rese conto che non sapeva più di cosa si trattava. Delusa, Conoscenza si recò al palazzo imperiale, e rivolse le sue tre domande a Hoang-ti. Questi le rispose: «Per giungere a conoscere il Principio, prima di tutto bisogna non pensare, bisogna non riflettere. Per arrivare a comprenderlo bisogna non assumere nessuna posizione, non fare nulla. Per raggiungerlo, bisogna non partire da nessun punto preciso, e non seguire nessuna strada definita». «Quindi» disse Conoscenza, «chi ha fatto meglio, [noi due, o le prime due interrogate]?...» «Non-agire» rispose Hoang-ti, «perché non ha detto assolutamente nulla. In secondo luogo, Intuizione, che ha soltanto rischiato di parlare. Noi due, [invece], abbiamo fatto male a parlare. «L'adagio suona: "Chi sa, non parla (poiché sa che non potrà esprimere ciò che sa); chi parla, fa vedere [con ciò] che non sa". Il Saggio non parla, neanche per insegnare. Il Principio non può essere raggiunto, la sua azione non può essere afferrata. Tutto quel che può essere insegnato e appreso, come la bontà, l'equità, i riti, è tutto posteriore e inferiore al Principio; tutto ciò fu adottato quando le vere nozioni sul Principio e la sua azione furono perdute, quando incominciò la decadenza. «L'adagio dice: «Colui che imita il Principio, la sua azione diminuisce giorno dopo giorno, finché giunge a non agire più del tutto!". Quando egli è riuscito a questo (al puro non-agire), è in grado di compiere qualunque cosa. Sennonché, tornare indietro a questo modo, fino alle origini, è una cosa difficilissima, che arriva a fare solo l'uomo superiore. «La vita succede alla morte, la morte è l'origine della vita. Il perché di questa alternanza è inscrutabile... La vita di un uomo è legata a una condensazione di sostanza, la cui dissipazione costituirà la sua morte; e così via. Così stando le cose, è il caso di rattristarsi di qualcosa?... «Tutti gli esseri sono un tutto, che incessantemente si sviluppa. Gli uni sono detti belli, gli altri brutti. È un abuso di parole, giacché non c'è nulla che duri. Nella susseguente trasmutazione, ciò che fu bello diventerà forse brutto, e ciò che fu brutto diventerà forse bello... «Questo è riassunto nel seguente adagio: "L'intero universo è una sola e unica ma223

223 nifestazione". Il Saggio, che non apprezza e non disprezza nessun essere particolare, riserva tutto il suo interesse [e rispetto] all'unità cosmica, al gran tutto». (Quel che segue sembra essere un frammento intercalato). Riassumendo la sua conversazione con Hoang-ti, Conoscenza affermò: «Non-agire non seppe cosa rispondere; Intuizione [intellettuale] dimenticò quel che doveva rispondere; voi avete risposto, dopo di che avete ritirato la vostra risposta ...» «È vero» disse Hoang-ti. «Non si può dire nulla del Principio. Chi ne parla ha torto». Non-agire e Intuizione sentirono parlare di questa risposta di Hoang-ti e la ritennero soddisfacente. B Il cielo e la terra, così maestosi, sono muti. Il percorso degli astri e il susseguirsi delle stagioni, così regolari, non sono frutto di [un atto di] riflessione. Lo sviluppo degli esseri segue una legge immanente, ma non formulata. Imitando questi modelli, l'uomo superiore, il Saggio per eccellenza, non interviene, non agisce [al modo degli individui], lascia che tutto segua il suo corso. Il binomio trascendente cielo e terra presiede a tutte le trasmutazioni, alla successione delle morti e delle vite, alle mutazioni di tutti gli esseri, senza che nessuno di tali esseri abbia una conoscenza esplicita della causa prima di tutti questi movimenti, del Principio, che tutto fa durare fin dall'inizio. Lo spazio immenso è ciò che è intermedio tra il cielo e la terra. Il minimo filo di paglia deve la sua esistenza al cielo e alla terra. Il cielo e la terra presiedono al continuo sviluppo degli esseri, che di volta in volta crescono o deperiscono; alla rotazione regolare dello yin e dello yang, delle quattro stagioni, e così via. Di tutti gli esseri, alcuni sembra che scompaiano, e invece continuano a esistere; altri, per aver perso i loro corpi, diventano più trascendenti. Il cielo e la terra nutrono tutti gli esseri, senza che questi lo sappiano. Da questa nozione dell'universo possiamo risalire a una conoscenza confusa della sua causa, il Principio. È il solo modo praticabile per avvicinarsi alla sua conoscenza. Del Principio si può solo dire che è l'origine di tutto, che su tutto influisce, restando indifferente. C Nié-c'ué domandò a Pei-i di spiegargli il Principio. Pei-i gli rispose: «Regolate il vostro modo di vivere e di agire, concentrate le vostre percezioni, e l'armonia universale si prolungherà nel vostro intimo. Fate rientrare le vostre facoltà, unificate i vostri pensieri, e lo spirito vitale dell'universo aliterà in voi, a mo' di prolungamento. «L'attività del Principio, che vi si sarà in tal modo comunicata, diventerà in voi il principio delle vostre qualità. [In tal modo] abiterete nel Principio. Acquisirete [così] la semplicità del vitello che è appena nato, e cesserete di preoccuparvi di quel che siete e da dove siete venuto ...» Prima che Pei-i avesse finito di parlare, Nié-c'ué si ritrovò profondamente immerso in se stesso [con le apparenze esteriori del sonno]. Gradevolmente stupito, Pei-i elevò questo inno: «Il suo corpo è diventato come legno secco, e il suo cuore come cenere spenta. Diventata trascendente, la sua scienza, vera, non lascia più spazio al dubbio. Diventata cieca, la sua ragione [individuale] non discute più. È giunto all'intuizione del Principio. Che uomo!»

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D

Sciunn chiese al suo ministro C'eng «È possibile arrivare a possedere il Principio?» C'eng rispose: «Dal momento che non possedete il vostro proprio corpo, come fate a pretendere di possedere il Principio?» Allora Sciunn domandò: «Se il mio corpo non è mio, di chi è, dunque?» «Il vostro corpo» disse C'eng «è un prestito di sostanza grossolana, fattovi dal cielo e dalla terra per un certo tempo. La vostra vita è una combinazione transitoria di sostanza sottile, che vi viene anch'essa dal cielo e dalla terra. Il vostro destino, la vostra attività fanno parte integrante del flusso degli esseri, soggetto all'azione del cielo e della terra. I vostri figli e i vostri nipoti sono un ricambio (letteralmente: "un cambiamento di pelle") che il cielo e la terra vi hanno dato. Procedete nella vita senza sapere che cosa vi spinga; vi arrestate senza sapere che cosa vi faccia fermare; mangiate senza sapere come fate ad assimilare. Ed è l'azione poderosa ma invisibile del cielo e della terra che vi muove in tutto: e pretendereste di appropriarvi di qualcosa?» E Confucio disse a Lao-tan: «Oggi che ho un po' di tempo libero, mi piacerebbe sentirvi parlare sull'essenza del Principio». Lao-tan gli rispose: «Avreste dovuto, prima, dar luce al vostro cuore con l'astinenza, poi purificare lo spirito vitale ed eliminare le idee preconcette. Perché, l'argomento è di difficile accostamento, difficile di enunciazione e di ricezione. Ad ogni buon conto, cercherò di dirvene qualcosa... «Il luminoso nacque dall'oscuro, mentre le forme nacquero dall'amorfo. Lo spirito vitale (universale, di cui gli spiriti vitali particolari sono altrettante partecipazioni), nacque dal Principio, la materia prima nacque dallo sperma (universale, di cui lo sperma particolare è una partecipazione). «Poi gli esseri si generarono l'un l'altro, per comunicazione della loro sostanza, vuoi per via di gestazione uterina, vuoi per produzione di uova. Il loro entrare sulla scena della vita non viene notato [in modo particolare], il loro uscire [dalla scena della vita] non attira l'attenzione. Non esiste una porta visibile, non esiste un luogo determinato. Essi arrivano da ogni parte e riempiono l'immensità del mondo, esseri contingenti ed effimeri... «Coloro che, al corrente di ciò, non si preoccupano di nulla, costoro si conducono come bisogna; il loro spirito è libero; conservano i loro organi di senso in perfetto stato. Senza affaticare la loro intelligenza, sono capaci di qualsiasi impresa, e questo, perché agiscono (o piuttosto, non agiscono, ma lasciano fare) spontaneamente, naturalmente, così come il cielo e elevato per natura, come la terra è estesa per natura, come il sole e la luna sono luminosi per natura, come gli esseri si moltiplicano naturalmente... «Lo studio, la discussione, non è che ne facciano sapere di più sul Principio, quindi i Saggi si astengono dallo studiare, dal discutere. Poiché sanno che il Principio è una infinità che non può essere aumentata o diminuita da nulla, i Saggi si limitano ad abbracciarlo nel suo insieme... «Invero, Egli è immenso come l'oceano. Qual maestà in questa incessante rivoluzione, in cui il ricominciare segue immediatamente il cessare... «Seguire il fluire degli esseri facendo del bene a tutti, questa e la via dei Saggi ordinari (confucianisti, [exoterici]). Ma essersi posti fuori da tale fluire, e far del bene a quelli che esso coinvolge, questa è la via del Saggio superiore (taoista, il quale agisce a imitazione [sul modello] del Principio). «Prendiamo un essere umano, allo stato di embrione appena concepito, di cui non 225

225 sia ancora nemmeno stato definito il sesso. Esso è diventato, tra il cielo e la terra. È appena diventato, e può darsi che ritorni alla sua origine ([è il caso del] nato-morto). Visto in questo inizio, cos'è egli se non un insieme di respiro e di sperma? E se mai sopravviverà, sarà soltanto per pochi anni. È così piccola la differenza tra quella che è detta una lunga vita, e una vita breve! In fin dei conti, un breve momento, nel corso indefinito del tempo. «Molti [di questi esseri] non hanno neppure la possibilità di far vedere se abbiano l'animo di uno Yao (imperatore eccellente) o di un Chié (tiranno spregevole). «Lo sviluppo di ciascun essere nel regno vegetale segue una determinata legge. Alla stessa stregua, la legge che governa lo sviluppo umano è tale un processo rigoroso. «Il Saggio segue e asseconda il movimento, senza opporvisi, senza attaccarvisi; prevedere e calcolare, è artificio; lasciare che il processo si sviluppi, è seguire il Principio. È lasciando fare che gli imperatori e i re dell'antichità, hanno elevato se stessi e si sono resi celebri. «Il passaggio dell'uomo tra il cielo e la terra, dalla vita alla morte, è come il balzo di un bianco destriero che attraversi un burrone saltando da un bordo all'altro. Quasi per effetto di un ribollimento, gli esseri entrano nella vita; quasi per l'effetto di un riflusso, rientrano nella morte. «Una trasmutazione li ha fatti vivi, una trasmutazione li fa morti. Tutti gli esseri viventi trovano la morte sgradevole, e gli uomini la piangono. E tuttavia, che altro essa è se non il rilascio della corda tesa di un arco e il riposizionamento di quest'ultimo nel suo fodero; se non lo svuotamento del sacco del corpo e la conseguente messa in libertà delle due anime che vi erano imprigionate? Dopo gli ostacoli e le vicissitudini della vita, le due anime se ne vanno, e il corpo le segue nel riposo. È il gran ritorno (anime e corpo che ritornano nel gran tutto). «Che l'incorporeo abbia prodotto il corporeo, che il corpo ritorni all'incorporeità, questa nozione della girazione perpetua molti uomini la conoscono, ma soltanto l'élite ne trae le conseguenze pratiche. La gente comune disserta volentieri su questo argomento, mentre l'uomo superiore mantiene [su di esso] un profondo silenzio. Se cercasse di parlarne, verrebbe meno ai principi della sua scienza, in virtù dei quali sa che parlarne è impossibile, e che si può soltanto meditarlo. «Aver capito che non serve a nulla interrogare sul Principio, ma che occorre contemplarlo in silenzio, è quel che si dice aver ottenuto il gran risultato (aver raggiunto l'obiettivo)». F

Tong-cuò-zé chiese a Chuang-tzu: «Dov'è quel che chiamano il Principio?» «Dappertutto» rispose Chuang-tzu. «Ad esempio?» riprese Tong-cuò-zé. «Ad esempio in quella formica» disse Chuang-tzu. «E più in basso?» chiese Tong-cuò-zé. «Ad esempio in questo filo d'erba». «E più in basso?» «In questo pezzo di tegola». «E più in basso?» «In quel letame, in quelle deiezioni» rispose Chuang-tzu. Tong-cuò-zé smise di far domande. A quel punto prese la parola Chuang-tzu, e gli disse: «Maestro, l'interrogare che fate, non vi condurrà a niente. È un procedimento

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troppo grossolano. Assomiglia a quello di quegli esperti di mercato che stimano a occhio se un maiale è [sufficientemente] grasso premendoci sopra il piede (il piede lascia un impronta più o meno profonda a seconda dell'ingrassamento dell'animale). «Non chiedete se il Principio è in questo o in quello. Esso è in tutti gli esseri. Per questo gli si danno gli epiteti di grande, supremo, intero, universale, totale. Tutti questi diversi termini si riferiscono a una sola e unica realtà, all'unità del cosmo. «Trasportiamoci in ispirito al di fuori di questo universo di dimensioni e di localizzazioni, e non ci sarà più bisogno di voler situare il Principio. Esso è l'infinito indeterminato. È fatica sprecata quella di volerlo afferrare, di volerlo situare, di volerne studiare i movimenti. Nessuna scienza è in grado di farlo. Colui (il Principio) che ha fatto sì che gli esseri fossero degli esseri, non è soggetto alle stesse leggi degli esseri. Colui (il Principio) che ha fatto sì che tutti gli esseri fossero limitati, è, quanto a Lui, illimitato, infinito. È perciò senza scopo chiedere dove si trovi. «Per quel che riguarda lo sviluppo [dell'universo] e le sue fasi, pienezza e vacuità, prosperità e decadenza, è sì il Principio che produce tale successione, ma non è Lui, questa successione. Egli è sì l'autore delle condensazioni e delle dissipazioni (nascite e morti), ma non è in se stesso condensazione o dissipazione. Tutto procede da Lui, e si sviluppa a causa e sotto il suo influsso; è in tutti gli esseri per una terminazione di norma; ma non è identico agli esseri, perché non è né differenziato né limitato». G A-ho-can e il futuro imperatore Scienn-nung, studiavano sotto la direzione di Laolung-chi. Seduto sopra uno sgabello, Scienn-nung si riposava, con la porta chiusa. A-ho-can aprì la porta, e a bruciapelo gli annunciò che il maestro era appena morto. Scienn-nung balzò in piedi di botto, lasciò cadere la canna che portava, scoppiò a ridere ed esclamò: «Magari è morto per il dispiacere che gli dava la mia incapacità, e per non essere riuscito ad elevarmi con le sue frasi magniloquenti ...» Il taoista Yen-cang, che era venuto a fare le sue condoglianze, inteso che ebbe queste parole, disse a Scienn-nung: «Lo studio del Principio attira i migliori elementi dell'impero. Voi avete le qualità per applicarvi ad esso. E questo perché, senza che abbiate appreso nulla, avete da solo imparato, come prova la battuta sulla morte del vostro maestro, che non sono le frasi roboanti che danno l'intelligenza, il che è un assioma taoista fondamentale. Il Principio non si raggiunge né con la vista, né con l'udito. Di esso si può solo dire che è mistero. Chi ne parla, mostra con ciò che non lo comprende». H

La Purezza chiese all'Infinito: «Conoscete il Principio?» «No, non lo conosco» rispose l'Infinito. Allora la Purezza domandò al Non-agire: «Conoscete il Principio?» «Sì, lo conosco» disse il Non-agire. «Per riflessione o per intuizione?» domandò la Purezza. «Per riflessione» disse il Non-agire. «Spiegatevi» fece la Purezza. «Subito» disse il Non-agire: «del Principio, penso che è la confluenza degli opposti, nobiltà e volgarità, concentrazione e dispersione; di conseguenza lo conosco per riflessione». Purezza andò a consultare lo Stato Primordiale. «Chi» domandò «ha risposto soddisfacentemente? Chi ha ragione, e chi ha torto?» Lo Stato Primordiale rispose: «L'Infinito ha detto: "Io non conosco il Principio"; è 227

227 una risposta profonda. Il Non-agire, [invece] ha detto: "Io conosco il Principio"; è una risposta superficiale. L'Infinito ha avuto ragione nel dire che non sapeva nulla dell'essenza del Principio. Il Non-agire ha potuto dire che lo conosceva, con riferimento alle sue manifestazioni esteriori». Colpita da questa risposta, Purezza esclamò: «Ah! Ma allora non conoscerlo vuol dire conoscerlo (conoscerne l'essenza); conoscerlo (nelle sue manifestazioni) significa non conoscerlo (quale esso è in realtà). Ma come capire che è non conoscendolo che lo si conosce?» «Ecco come» rispose lo Stato Primordiale. «Il Principio non può essere sentito; ciò che si sente, non è Lui. Il Principio non può esser visto; ciò che si vede, non è Lui. Il Principio non può essere enunciato; ciò che si enuncia, non è Lui. «Forse che si può concepire, se non con la ragione (e non con l'immaginazione), l'essere non-sensibile che ha prodotto tutti gli esseri sensibili? Certamente no! Di conseguenza il Principio, che è questo essere non-sensibile, poiché non può essere immaginato, non può neppure essere descritto. «Tenete perciò ben presente questo: colui che fa domande sul Principio, e colui che a queste domande risponde, fanno vedere entrambi che non sanno che cosa è il Principio. «Del Principio, non si può domandare, né rispondere, che cosa sia. Sono domande inutili, risposte senza peso, le quali presuppongono, in coloro che le pongono e le danno, l'ignoranza di cosa sia l'universo e di quella che fu la grande origine. Costoro non si innalzeranno, in questo modo, al di sopra delle altitudini terrestri (il monte C'unn-lunn). Non così, essi raggiungeranno il vuoto assoluto dell'intuizione perfetta». I La luce diffusa chiese al nulla di forma (il Principio): «Ma voi, esistete o non esistete?...» Non intese risposta. Fissatolo a lungo, essa vide un vuoto oscuro, nel quale, nonostante ogni suo sforzo, non poté distinguere o percepire nulla, nulla afferrare. «Questo è il culmine» essa esclamò; «impossibile andare al di là di questo stato. Le nozioni di essere e di nulla sono concepibili. Il nulla di essere non può essere concepito come esistente. Ma qui, ecco, esistente, il nulla di forma (l'essere infinito, indeterminato). Ecco il culmine, il Principio!» J L'uomo che forgiava le spade per il ministro della guerra, all'età di ottant'anni non aveva ancora perso nulla della sua destrezza. Il ministro gli disse: «Siete molto abile; mettetemi a parte del vostro segreto». «Esso consiste solo nel fatto che questo è sempre stato il mio lavoro» rispose il fabbro. «Quando avevo vent'anni, mi si sviluppò il gusto di forgiare spade. Non ebbi più occhi che per tale oggetto; mi dedicai soltanto più a esso. Non forgiando che spade, finii col forgiarle senza pensarci. Qualunque cosa si faccia, se si fa senza interruzione, finisce col diventare irriflesso, naturale, spontaneo (e di conseguenza conforme all'influsso irriflesso e spontaneo del Principio); a questo punto, riesce sempre». K Gian-ch'iù chiese a Confucio: «È possibile sapere ciò che fu, quando il cielo e la terra non erano ancora?» «Certo» rispose Confucio; «quel che è adesso». (Il Principio eterno, immutabile). Gian-ch'iù si ritirò senza più fare domande. Il giorno dopo rivide Confucio e gli disse: «Ieri vi ho chiesto ciò che fu prima del cielo e della terra, e voi mi avete risposto: 228

"quel che è adesso!" Subito mi è sembrato di comprendere; ma, da allora, più ci penso e meno ne capisco. Spiegatemi, per favore, il senso della vostra risposta». «Il fatto è» rispose Confucio «che ieri vi siete servito della vostra facoltà di apprendimento naturale (intuizione che nasce dal vuoto del cuore, dice la Glossa), e di conseguenza avete afferrato la verità della mia asserzione. «Sennonché, a partire da allora avete ragionato con la vostra logica artificiale, e questo ha oscurato l'evidenza della vostra prima intuizione. Vi ho detto: ciò che fu è ciò che è; perché non c'è né passato né presente, né inizio né fine, con riferimento al Principio, il quale è; sempre, al presente... «Ad ogni modo, a mia volta, vi farò una domanda. Rispondetemi: è possibile che ci siano dei figli e dei nipoti che non abbiano genitori e antenati?» E siccome Gian-ch'iù restava a bocca aperta [e non rispondeva], Confucio gli disse: «Fra gli uomini, no, [non è possibile]. La modalità di generazione umana è che determinati esseri comunichino il loro principio di vita a discendenti della stessa natura. Totalmente diversa fu la genesi del cielo e della terra (intesi come "figli"), di tutti gli esseri (intesi come "nipoti" del Principio). Ciò che fu prima del cielo e della terra (il Principio), fu forse un essere determinato, con una forma e una figura? No!... «Colui che determinò tutti gli esseri (il Principio), non fu egli stesso un essere determinato. Fu, [bensì], l'essere primordiale indeterminato, del quale ho detto che quel che fu è quel che è. «Ripugna logicamente che gli esseri sensibili siano stati prodotti da altri esseri sensibili in concatenamento indefinito. (Tale catena ebbe un inizio, il Principio, l'essere nonsensibile, di cui l'influsso si estende, "dopo", a ciò che da Lui [e in Lui] ebbe origine)». L Yen-yuan disse a Confucio: «Maestro, ho sentito dire da voi molto sovente, che non ci si dovrebbe occupare tanto di rapporti, non preoccuparsi tanto di relazioni. Cosa intendete con ciò?» Confucio rispose: «Gli Antichi restavano imperturbabili in mezzo alle vicissitudini degli avvenimenti, perché si mantenevano al di fuori di tale fluire. I moderni, invece, sono immersi in questo flusso, e di conseguenza sono tormentati da interessi diversi. C'è, al di sopra delle trasformazioni, un'unità (il Principio), che rimane immobile, indifferente, non differenziata, non molteplice. «Gli Antichi, i veri Saggi, è di questa Unità che si facevano il modello. È di essa che ci si intratteneva nel parco di Hi-uei, nei giardini di Hoang-ti, nel palazzo di Sciunn, nelle abitazioni degli imperatori T'ang e U. «[Interpolazione: più tardi, coloro che sono detti i savi, i maestri fra i discepoli di Confucio e di Mei-zé, si misero a discutere sul sì e sul no. Ora le discussioni sono generali. Non così facevano gli Antichi]. «A imitazione dell'Unità, gli Antichi erano calmi e neutri. Siccome non ferivano nessuno, nessuno gli voleva male. Quest'unica regola, di non farsi nemici, è sufficiente in materia di rapporti e relazioni». M

Frammento aggiunto, probabilmente fuori posto: Mentre mi rallegro, alla vista delle montagne boscose, degli altopiani elevati, all'improvviso viene la tristezza a dissipare la mia gioia. Nel mio cuore, la tristezza e la gioia arrivano e se ne vanno, senza che io possa aver presa su di loro. Io non so, né trattenere l'una, né proteggermi dall'altra. 229

229 Ohimè! Perché bisogna che il cuore umano sia, a questo modo, come una locanda aperta al primo che viene? Certi incontri si possono prevedere, certi altri non sono prevedibili. Certe cose si possono impedire, certe altre non possono essere impedite. L'imprevisto, la fatalità; non c'è rimedio contro questi due mali. Chi voglia combatterli potrà solo peggiorare ancor più la sua situazione, perché l'insuccesso è certo, in questa lotta contro l'impossibile. L'unica soluzione sarà perciò di sottomettersi al destino, che procede dal Principio. Tacere, è l'uso migliore che si possa fare della facoltà della parola. Non far nulla [individualmente] è il miglior uso che si possa fare della facoltà d'azione. Non apprendere nulla è il miglior uso che si possa fare della propria intelligenza. Voler molto apprendere, voler tutto sapere (Confucio), è il peggiore degli errori.

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XXIII Ritorno alla Natura

A Fra i discepoli di Lao-tan, un tale Cheng-sang-c'iù aveva terminato di ricevere l'insegnamento; si portò quindi verso Nord, si stabilì ai piedi del monte Uei-lei, e a sua volta ebbe dei discepoli. Seguendo i dettami della semplicità taoista, congedò, fra i suoi servitori, quelli che si davano arie di saputi, e allontanò, fra le sue concubine, quelle che erano troppo ricercate, conservando attorno a sé solo persone semplici e spontanee. Dopo i primi tre anni, per effetto della sua presenza e del suo esempio, Uei-lei si ritrovò in uno stato di grande prosperità. La gente del luogo si disse: «Quando Maestro Cheng-sang venne a stabilirsi in mezzo a noi, lo trovammo strano. Ma non lo conoscevamo abbastanza. Ora che abbiamo imparato a conoscerlo, c'è qualcuno fra di noi che non lo ritenga un Saggio? [E allora], perché non fare di lui il nostro Saggio locale, e onorarlo come si onora il rappresentante di un morto, il genio protettore del suolo e quello dei raccolti, con [atti di] reverenza e offerte in certe epoche [dell'anno]?» Cheng-sang-c'iù venne a sapere di queste intenzioni. Seduto nella sua sede, al suo posto di istruttore spirituale, il suo atteggiamento esprimeva imbarazzo. I discepoli gliene chiesero il perché. «La ragione» rispose «è che, secondo il mio maestro Lao-tan, se la primavera fa rivivere i vegetali, se l'autunno fa maturare i frutti, si tratta degli effetti naturali prodotti dal gran Principio che opera in tutto, e non di merito delle stagioni. Analogamente alla natura, l'uomo superiore deve operare restando nascosto (all'interno di casa sua), e non permettere che la gente del popolo lo acclami in tumulto. Ora, ecco che la piccola popolazione di Uei-lei sta pensando di attribuirmi il rango e le offerte riservate ai Saggi; e questo a me, uomo qualunque. Ciò mi mette in imbarazzo, giacché non voglio proprio contravvenire all'insegnamento del mio maestro Lao-tan». «Non temete» dissero i suoi discepoli; «voi siete in possesso di tutto quel che occorre e la posizione non è difficile. Una balena, in un canale non potrebbe rigirarsi, ma un pesce di piccole dimensioni vi si muove a suo agio. Su un poggio, un bufalo sarebbe in pericolo, ma una volpe ci vive benissimo. «E del resto, [non è forse vero] che i Saggi [esteriori] devono essere onorati, le persone capaci devono essere portate in alto, coloro che fanno il bene e le persone utili devono essere distinte dal volgo? «È questa la regola dai tempi di Yao e di Sciunn. Maestro, lasciate che questa piccola popolazione di Uei-lei faccia [ciò che ha divisato di fare]. Accontentate il loro desiderio!» Cheng-sang-c'iù [di rimando] disse: «Venitemi vicino, figlioli, che voglio parlarvi... Mettersi in mostra è sempre letale. Anche se fosse tanto grosso da inghiottire un carro, se abbandona il suo rifugio fra le montagne, l'animale terrestre non potrà evitare le reti e le trappole. Anche se fosse tanto grosso da poter trangugiare una barca, il pesce che finisce in secca sarà divorato dalle formiche. «È per [garantirsi] la sopravvivenza che gli uccelli e le fiere ricercano i luoghi elevati, i pesci e le tartarughe quelli profondi. Alla stessa stregua, l'uomo che desidera con231

231 servare il corpo e la vita deve occultarsi nella solitudine e nell'anonimato... «E, per quel che si riferisce all'autorità di Yao e di Sciunn che avete ricordato, essa è totalmente nulla. Cos'hanno fatto, [infatti], per il bene dell'umanità, questi costruttori di belle frasi, questi innovatori, questi esseri preoccupati solo di cose contingenti e di piccoli dettagli? Onoravano i Saggi: è un buon modo per seminare fra il popolo la concorrenza. Portavano in alto i capaci: è un buon modo per fare di tutti i cittadini dei briganti». «Di tutti i loro ritrovati nessuno rese migliore il popolo. Ben al contrario, essi esaltarono nel popolo l'egoismo [il senso dell'io, dell'individualità], inclinazione che genera i parricidi, i regicidi, i ladri e i saccheggiatori. «Ve lo confermo, tutti i disordini partono dal regno di questi due uomini. Se la loro politica continuerà a esser messa in pratica, verrà un tempo in cui gli uomini si divoreranno l'uno con l'altro». B Nan-giung-ciù (uomo già avanti nell'età, il quale aveva chiesto a Cheng-sang-c'iù di ammetterlo fra i suoi discepoli) assunse la postura del rispetto, e chiese [al suo maestro]: «Che dovrò fare, alla mia età, per diventare un uomo superiore?» Cheng-sang-c'iù gli disse: «Badate che il corpo, perfettamente sano, non si lasci sfuggire neppure minimamente il vostro spirito vitale; non permettete che pensieri e immagini ronzino nel vostro intimo; se per tre anni completi riuscirete a far questo, otterrete quel che desiderate». Nan-giung-ciù rispose: «Gli occhi sembrano tutti uguali, ma quelli dei ciechi non vedono. Le orecchie sembrano tutte uguali, ma quelle dei sordi non sentono. I cuori sembrano tutti uguali, e invece i folli non capiscono. Io sono fatto come voi, in quanto a corpo, ma il mio spirito deve essere fatto in modo diverso dal vostro. Non riesco ad afferrare il senso delle parole che mi avete appena detto». «Dev'essere perché non sono stato capace di esprimermi» disse Cheng-sang-c'iù. «Un moscerino può far poco per aiutare una sfinge. Una gallinella di Ué non riesce a covare un uovo d'oca. Evidentemente non ho i mezzi per condurvi in porto. Perché non andate al Sud, a consultare Lao-tzu?» C Seguendo il consiglio di Cheng-sang-c'iù, Nan-giung-ciù si fornì delle provviste necessarie, camminò per sette giorni e sette notti, e giunse nel posto dove viveva Laotzu... «Vi manda Cheng-sang-c'iù?» gli chiese quest'ultimo «Sì» rispose Nan-giung-ciù. «Perché» gli chiese Lao-tzu «vi siete portato dietro un seguito così imponente?'» Nan-giung-ciù si guardò alle spalle, tutto stupito e preoccupato. «Non avete capito la mia domanda» disse Lao-tzu. Vergognandosi, Nan-giung-ciù chinò il capo, poi, risollevatolo, sospirò e disse: «Perché non sono stato capace di comprendere la vostra domanda, mi proibirete di raccontarvi cosa mi conduce da voi?» «No» esclamò Lao-tzu, «dite pure!» Allora Nan-giung-ciù disse: «Se rimango ignorante, gli uomini mi derideranno; se divento sapiente, lo farò a spese del corpo. Se resto cattivo, farò del male agli altri; se mi sforzo per diventare buono, sarà affaticando la mia persona. Se non pratico l'equità, nuocerò agli altri; se la praticherò, farò torto a me stesso. Queste tre alternative mi tormentano. Cosa devo fare? Cosa devo non fare? Cheng-sang-c'iù mi ha indirizzato a voi per 232

consiglio». Lao-tzu rispose: «Al primo sguardo avevo letto nei vostri occhi che avevate perso la testa. Avete l'aria di qualcuno che cerchi di ripescare dal fondo del mare i genitori annegati. Mi fate pena». Dopo aver ottenuto di essere accettato da Lao-tzu come allievo regolare, Nangiung-ciù incominciò un trattamento di rigenerazione psichica. Si dedicò prima di tutto a confermare le qualità e ad eliminare i difetti. Dopo dieci giorni di tale esercizio, che trovò duro, rivide Lao-tzu. «Il lavoro di purificazione procede?» gli chiese quest'ultimo. «Mi sembra che esso non sia ancora concluso. I disturbi aventi origine esterna (entrati attraverso i sensi) possono essere eliminati solamente con l'opposizione di una barriera interna (il raccoglimento). I disturbi di origine interna (prodotti dalla ragione) possono essere eliminati soltanto da una barriera esterna (autodominio). «Di questa sorta di squilibri, anche coloro che sono avanzati nella scienza del Principio esperimentano saltuariamente gli attacchi, e ancora devono difendersene; a maggior ragione coloro che come voi, sono vissuti a lungo senza conoscere il Principio e sono poco avanzati». «Ohimè!» disse Nan-giung-ciù, scoraggiato «Quando un abitante delle campagne si ammala, racconta il suo male a un altro, e il risultato ne è che si ritrova, se non guarito, [per lo meno] sollevato. Mentre io, tutte le volte che faccio domande sul gran Principio, il male che tormenta il mio cuore si accresce, quasi avessi preso una medicina che lo aggrava. È qualcosa di troppo difficile per me; datemi, vi prego, la ricetta per far durare la vita; mi accontenterò di quella». «E credete» disse Lao-tzu «che [anche] questo si possa passare [in tal modo] da una all'altra mano? Far durare la vita presuppone un bel po' di cose. Sarete capace di conservare l'integrità fisica; di non comprometterla? Sarete capace di fermarvi, e, al limite, di astenervi? Sarete capace di disinteressarvi degli altri, per concentrarvi in voi? Riuscirete a conservare l'animo libero e raccolto? «Sarete in grado di ritornare allo stato della vostra prima infanzia? Il neonato urla giorno e notte senza arrochirsi, tanto è salda e nuova la sua natura. Non abbandona la presa su ciò che ha afferrato, tanto la sua volontà è concentrata. Guarda fissamente senza sbattere gli occhi, perché niente lo distrae. Cammina senza uno scopo e si ferma senza un motivo, procedendo spontaneamente, senza riflettere. Essere indifferenti, e seguire la natura, questa è la formula per far durare la propria vita». «Tutta, la formula?» domandò Nan-giung-ciù... Lao-tzu riprese: «Questo è solo l'inizio della carriera dell'uomo superiore ciò che io chiamo il "disgelo", lo "scioglimento", dopo di che il corso d'acqua incomincia a seguire il proprio flusso. L'uomo superiore vive, come tutti gli altri uomini, dei frutti della terra, dei doni del cielo. Ma non si attacca, né a uomini, né a cose. Profitto e perdita lo lasciano in ugual modo indifferente. Non si formalizza su nulla, non si rallegra di nulla. Scivola [sull'aria], concentrato in se stesso. Ecco qual è la formula per far durare la vita» «Tutta, la formula?» domandò Nan-giung-ciù... Lao-tzu continuò: «Ho detto che occorre ritornare neonati. Quando si muove, quando agisce, il neonato non ha uno scopo [definito], non ha intenzioni. Il suo corpo è indifferente come legno secco, il suo cuore è inerte, come cenere spenta. Per lui non esistono né fortuna, né disgrazia. Che male possono fare gli uomini a chi è al di sopra di queste due grandi vicissitudini del destino? L'uomo situato a tale altezza nell'indifferenza, 233

233 è l'uomo superiore». D

Nel brano che segue è probabilmente Chuang-tzu che parla. «Quegli il cui cuore ha raggiunto questo culmine di immutabilità, emana la luce naturale (intellettualità pura, senza commistioni di convenzionalità), la quale gli rivela quel che può ancora restare in lui di artificiale. A mano a mano che si libera di questa artificialità, egli diventa sempre più stabile. Con il tempo, l'artificialità scomparirà totalmente, e in lui rimarrà solo più quel che è naturale. «Gli uomini che hanno ottenuto questo stato si chiamano "Figli del Cielo", popolazione celeste; vale a dire uomini ritornati al loro stato naturale, ridiventati com'erano stati fatti in principio dal cielo. «Questo è qualcosa che non si impara né con la teoria, né con la pratica, ma per intuizione o esclusione. Fermarsi là dove non si può apprendere di più (e conservarsi, dice la Glossa, nell'indifferenza e nel "non-agire") equivale a essere perfettamente saggi. Chi pretendesse andar oltre (decidere, agire, a caso), sarà stroncato dal corso fatale delle cose (giacché entrerà inevitabilmente in conflitto con il destino [o "Volontà" superiore]). «Quando siano state fatte tutte le provviste e siano state prese tutte le precauzioni per il mantenimento del corpo, quando non si sia provocato nessuno con qualche offesa, se interviene qualche disgrazia, bisognerà attribuirla al destino, non agli uomini, e per conseguenza evitare di schivarla per mezzo di qualche bassezza; [bisognerà] addirittura guardarsi dal rattristarsene nel proprio intimo. «È nelle facoltà dell'uomo chiudere ermeticamente la torre del suo spirito (il cuore); è in suo potere conservarla chiusa, a condizione che non esamini, né discuta, ciò che si presenta, ma ne rifiuti semplicemente l'accesso. «Ogni atto di chi non è perfettamente indifferente [distaccato] è il disordine. Il frutto, [lo scopo], dell'atto, una volta penetrato nel suo cuore, vi si installa, e non ne esce più. Ogni nuovo atto è un nuovo disordine. «Chiunque faccia alla luce del sole ciò che non è bene, sarà punito a suo tempo dagli uomini. Se l'avrà fatto nelle tenebre, saranno i Mani che lo puniranno nell'occasione. Ricordarsi che, quando non si è osservati dagli uomini, si è osservati dai Mani, fa sì che ci si comporti in modo corretto anche nel segreto del proprio ritiro. «Coloro che si curano della propria vita, non si danno da fare per diventare celebri. Coloro che bruciano dal desiderio di acquisire, si riversano all'esterno. I primi sono uomini di ragione, i secondi sono uomini di commercio. Si possono osservare questi ultimi alzarsi, sollevarsi, sforzandosi di arrivare. Essi sono [solo] dei contenitori di preoccupazioni e di cure. Ne sono così pieni, che nel loro cuore non c'è più spazio, neanche per l'amore dei loro simili. E per questo sono detestati alla stregua di non-uomini. «Di tutti gli strumenti di morte, il più mortifero è il desiderio; neppure la celebre sciabola Muò-yé ha mai ucciso tanti uomini Si dice che i peggiori assassini siano lo yin e lo yang, ai quali non sfugge nessuno degli uomini che popolano lo spazio tra il cielo e la terra. E tuttavia, in verità, se lo yin e lo yang ammazzano gli uomini, è perché sono i loro appetiti che li consegnano a questi assassini». E «Il Principio uno e universale sussiste nella molteplicità degli esseri, nelle loro genesi e nelle loro distruzioni. Tutti gli esseri distinti sono tali per differenziazione accidentale e transeunte (individuazione) dal Tutto, e il loro destino finale è di rientrare in tale Tutto, di cui la loro essenza è una partecipazione. 234

«Di questo ritorno, la gente comune dice che i viventi che sono morti e non ne trovano il cammino, errano come fantasmi; e che quelli che, morti, ne hanno trovato il cammino, sono defunti (spenti). «Sopravvivenza, estinzione, non sono se non due modi di parlare di un identico ritorno, modi che derivano dall'aver applicato allo stato d'essere non-sensibile, le nozioni proprie all'essere sensibile. La verità è che, usciti, a motivo della loro generazione, dal nulla di forma (l'essere indeterminato), rientrati, a motivo del loro trapasso, nel nulla di forma, gli esseri conservano una realtà (quella del Tutto universale) ma non hanno più un luogo; conservano una durata (quella del Tutto eterno) ma non hanno più un tempo. «La realtà senza luogo, la durata senza tempo, è l'universale, e l'unita cosmica, il Tutto, il Principio. È all'interno di questa unità che si producono le nascite e le morti, le apparizioni e le scomparse, silenziose e impercettibili. È quella che è stata chiamata la porta celeste o naturale, porta di entrata e di uscita dell'esistenza. Tale porta è il non-essere di forma, l'essere indefinito. Tutto ne è uscito. «L'essere percepibile dai sensi, non può in ultima analisi essere uscito dall'essere percepibile dai sensi. Esso dev'essere necessariamente uscito dal non-essere di forma. Tale non-essere di forma è l'unità, il Principio. È questo il segreto dei Saggi, il seme [causale] della scienza esoterica. «Nelle loro dissertazioni sull'origine, quelli fra gli Antichi che giunsero a un grado superiore di scienza emisero tre spiegazioni. Gli uni dissero che, da tutta l'eternità, fu l'essere, qualificato, infinito, autore di tutti gli esseri limitati. Gli altri, trascurando [l'idea di] essere infinito, dissero che, da tutta l'eternità, esistettero esseri limitati, passanti attraverso fasi alterne di vita e di morte. «Altri ancora, dissero che all'inizio fu il nulla di forma (l'essere non qualificato, infinito), dal quale si manifestarono tutti gli esseri definiti, con le loro genesi e le loro cessazioni. Essere non-qualificato, genesi, cessazione, sono tre termini che vanno insieme, come la testa, la groppa e la coda di un animale. «Io (Chuang-tzu) sostengo quest'ultima tesi. Per me, l'essere non-qualificato, tutti i divenire, tutte le cessazioni, formano un insieme, un tutto. Io pongo la mia mano nella mano di coloro che la pensano così. Ad ogni modo, ad essere rigorosi, le tre affermazioni sopraddette potrebbero essere conciliabili. Esse si apparentano, come rami di uno stesso albero. «L'essere particolare è, nei confronti dell'Essere [in sé] (indefinito) ciò che la fuliggine (deposito palpabile) è nei confronti del fumo (tipo dell'impalpabile). Quando la fuliggine si deposita, non è che ci sia stata una produzione nuova, ma solo un passaggio dall'impalpabile al palpabile, poiché la fuliggine è fumo condensato. Allo stesso modo, [ma inversamente], se la fuliggine si dissolve in fumo, ciò che si è avuto sarà nuovamente una conversione, senza alcuna modificazione di essenza. «Mi rendo conto che il termine conversione da me usato per esprimere la successione delle vite e delle morti all'interno del Principio non è un termine usitato; ma debbo servirmene perché se no non potrei esprimermi... «Le membra separate di un bue sacrificato sono una vittima. Più appartamenti costituiscono un'abitazione. La vita e la morte sono uno stesso stato. Il passaggio dalla vita alla morte non costituisce una trasformazione, ma una conversione [trasmutazione]. I filosofi [scienziati dialettici] si agitano quando si tratta di definire la differenza tra questi due stati. Per me non c'è differenza; i due stati sono uno solo».

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235 F «Quando due persone si urtano, più la persona urtata dall'altra gli è vicina [di rango, di sangue], meno sono necessarie le scuse. Si chiede scusa all'estraneo sul cui piede si è camminato; ma il padre [nella stessa situazione] non chiede scusa al figlio. Il culmine dei riti, è di non doverne fare. Il culmine dei convenevoli, è di infischiarsene del tutto. Il culmine dell'intelligenza, è di non pensare. Il culmine della bontà, è di non amare nulla. Il culmine della sincerità, è di non scambiare pegni. «Quel che occorre fare è reprimere i sussulti degli appetiti; è correggere le aberrazioni dell'animo. Quel che bisogna fare è eliminare tutto quel che intralcia il libero influsso del Principio. Voler essere nobili, ricchi, distinti, rispettati, rinomati, preferiti, questi sono i sei appetiti. L'apparenza, il portamento, la bellezza, gli argomenti, la respirazione, il pensiero, queste sono le cause delle aberrazioni dell'animo. L'antipatia, la simpatia, la compiacenza, la collera, il dolore, la gioia, sono le cose che intralciano il libero influsso del Principio. Repulsione e attrazione, prendere e dare, sapere e potere, sono altrettanti ostacoli. L'intimo di colui dal quale queste ventiquattro cause di disordine sono state eliminate, diventa ordinato, calmo, luminoso, vuoto, non-agente, e capace di qualsiasi cosa. «Il Principio è la sorgente di tutte le facoltà attive, la vita è la loro manifestazione, la natura particolare è una modalità di tale vita, i suoi movimenti sono gli atti, gli atti non fatti sono gli errori. Gli scienziati dividono e speculano; e quando non riescono a vederci più chiaro, fanno come i bambini piccoli e guardano l'oggetto. «Agire soltanto quando non se ne può fare a meno, questa è l'azione ordinata. Agire senza essere obbligati a farlo, è ingerenza rischiosa. Sapere e agire devono procedere di conserva». G «I era un arciere abilissimo (di arte artificiale), e di natura straordinariamente ottusa. Alcuni sono naturalmente molto savi, e non ne capiscono magari niente di nessun'arte. La natura è il fondamento di tutto. «La libertà fa parte della perfezione naturale; e non si perde soltanto per la reclusione in una gabbia. T'ang ingabbiò I-yinn nominandolo suo cuoco. Il duca Mu di Z'inn ingabbiò Pai-li-hi regalandogli cinque pelli di montone. Si mettono in gabbia gli uomini offrendo loro quel che desiderano. Qualsiasi favore asservisce. «La libertà di spirito esige assenza d'interesse. Chi ha subìto il supplizio dell'amputazione dei piedi non si agghinda più; perché non può più farsi bello, e ne ha perso l'interesse. Chi sta per subire l'esecuzione capitale, non patisce più di vertigini a qualunque altezza vada; perché non ha più paura di cadere, non avendo più nessun interesse a conservarsi la vita. «Per essere un uomo tornato allo stato di natura, bisogna aver rinunciato all'amicizia degli uomini, e a tutti i mezzucci che servono ad acquisirla e a conservarla. Bisogna esser diventati insensibili alla venerazione e all'affronto, e mantenersi sempre in equilibrio naturale. Bisogna essere distaccati, prima di fare uno sforzo, prima di agire; di modo che lo sforzo, l'azione, procedendo dal non-sforzo, dal non-agire, siano naturali. «Per godere della pace, bisogna tenere ben in ordine il proprio corpo. Perché gli spiriti vitali funzionino bene, bisogna che il cuore sia messo a suo completo agio. Per agire sempre bene non bisogna uscire dal riposo se non quando non si può far diversamente. Questa è la via dei Saggi».

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XXIV Semplicità

A Il contemplativo Su-ucoei, che viveva in solitudine, fu presentato dal letterato Niusciang al marchese U di Uei; questi gli rivolse le frasi d'uso, richieste dal rituale, poi gli disse: «Le vostre privazioni, su nei monti e per i boschi, senza dubbio hanno inciso su di voi; forse non siete più in grado di continuare un simile genere di vita, e cercate di ottenere una qualche posizione sociale; per questo siete venuto a trovarmi, nevvero?» «Neanche per sogno!» rispose Su-ucoei «Sono venuto ad esprimervi le mie condoglianze. Se continuate a permettere che le passioni vi devastino nell'intimo, ne andrà di mezzo il vostro spirito vitale. Se [invece] deciderete di reprimerle, tenuto conto della forza che gli avete lasciato prendere, avrete molto da soffrire. Nell'uno e nell'altro caso vi offro le mie condoglianze». Queste parole urtarono il marchese, il quale rivolse a Su-ucoei uno sguardo altero, e non rispose. Vedendo che il marchese non era dell'umore di accettare un insegnamento taoista sul piano dottrinale, Su-ucoei cercò di impartirglielo sotto forma concreta. «Permettetemi di parlarvi di qualcos'altro» gli disse. «Io sono competente nell'allevamento dei cani. Il mio parere è che quelli esclusivamente presi dalla voracità (i sensuali) sono la specie inferiore. Considero quelli che abbaiano alla luna (gli intellettuali [nel senso corrente]) come la specie media. Ritengo infine che quelli che hanno l'aria di infischiarsene di tutto siano la specie superiore; perché, messi sulla pista, nessuna distrazione li fa deviare... «M'intendo anche di cavalli. Quelli che descrivono [nei loro percorsi] sapienti figure geometriche, li ritengo degni di appartenere a un principe. Quelli che caricano a testa bassa senza curarsi del pericolo, li considero adatti per un imperatore... Marchese, liberatevi delle preoccupazioni e delle distrazioni di tipo inferiore; dedicatevi [solo] all'essenziale». Tutto felice di aver capito questo semplice discorso, il marchese U si mise a ridere fragorosamente. Quando Su-ucoei uscì, Niu-sciang gli disse: «Siete il primo che sia riuscito a piacere al nostro principe. Io mi faccio in quattro per intrattenerlo sulle Odi, sugli Annali e sui Riti, sulla Musica, la Statistica e l'arte militare; non l'ho mai visto sorridere fino a scoprire i denti. Cosa mai avete potuto raccontargli per farlo diventare di così buon umore?» «Gli ho parlato» disse Su-ucoei «di argomenti di cui è pratico: cani e cavalli». «Ma no!» fece Niu-sciang. «Ma sì!» ribatté Su-ucoei. «Conoscete la storia di quell'uomo del paese di Ué, che era stato esiliato in una regione lontana? Dopo pochi giorni [di esilio] gli faceva piacere vedere un abitante di Ué. Dopo qualche mese, gli faceva piacere vedere un oggetto di Ué. Dopo qualche anno, la sola vista di un uomo o di un oggetto che rassomigliasse a quelli del suo paese, gli faceva piacere. Effetto della nostalgia che aumentava... «Per un uomo sperduto nelle steppe del Nord, abituato a vivere fra erbe e animali selvatici, udire il passo di un uomo è una felicità; e quanto più grande se l'uomo è un amico, o un fratello, con cui possa chiacchierare a cuore aperto... 237

237 «Al vostro principe, io ho parlato da fratello, per natura. Era da così tanto che quel poveretto, imbottito di pedanterie, non udiva più la parola semplice e naturale d'un altro uomo... Per cui, [immaginate voi] la gioia con cui l'ha sentita! Effetto della sua nostalgia un po' mitigata ...» B

Altra variazione sullo stesso tema. Il marchese U, che riceveva in udienza Su-ucoei, gli disse: «Maestro, avete vissuto a lungo sui monti e fra i boschi, mangiando radici e castagne, cipollette e agli selvatici. Adesso che siete vecchio e non più in grado di condurre questo genere di vita, vi sarà senza dubbio tornato il gusto del vino e della carne. Non è forse per avere la vostra parte [di questi cibi] che siete venuto a offrirmi i vostri consigli per la buona condotta del mio marchesato?» «No» rispose Su-ucoei, «non è per questo. Sono abituato alle privazioni fin dall'infanzia, e non ho nessuna voglia del vostro vino, né della vostra carne. Sono venuto per farvi le mie condoglianze». «Per quale [mia] disgrazia?» chiese il marchese stupefatto. «Per la rovina del vostro spirito e del vostro corpo» disse Su-ucoei... «Il cielo e la terra elargiscono a tutti gli esseri, quali essi siano, un influsso uguale, il quale è inteso a far raggiungere a tutti essi la loro perfezione naturale, tanto ai più elevati quanto ai più umili. E allora [mi chiedo], perché voi, signore di un marchesato, fate soffrire il vostro popolo con tasse e pedaggi, per il solo piacere dei vostri sensi, con il quale vi mandate in rovina il corpo? Il vostro spirito, naturalmente conforme alla tendenza del cielo e della terra, questo non lo può approvare, e soffre quindi una violenza che gli nuoce. È per la duplice distruzione del vostro corpo e del vostro spirito, che vi faccio le mie condoglianze». Colpito da questo discorso, il marchese U rispose: «Da lungo tempo desideravo che veniste a trovarmi. Vorrei praticare la bontà nei confronti del mio popolo. Vorrei praticare l'equità nei confronti dei miei confinanti. Che debbo fare, [per realizzare questo mio desiderio]?» Su-ucoei disse: «Smettete di costruire forti, cessate manovre ed esercitazioni, che impoveriscono il popolo e preoccupano i vicini. Finitela di far piani di conquista, di progettare stratagemmi. Ogni guerra esaurisce il popolo, il nemico, e colui che la fa, per l'ansietà che gli procura. A imitazione del cielo e della terra, siate benevolo verso tutti, e non nuocete a nessuno. Tutti saranno contenti: il vostro popolo, i vicini, e voi stesso».

C Hoang-ti si recava a far visita a Ta-uei sul monte Chiu-z'e; Fang-ming guidava il carro, C'iang-u faceva da contrappeso, Ciang-giaò e Si-p'eng procedevano davanti a loro e C'unn-hunn e Hoa-chi li seguivano. Nella pianura di Siang-c'eng i sette saggi persero la strada. [A un certo punto] incontrarono un ragazzo che pascolava dei cavalli e gli chiesero se sapeva dov'era il monte Chiu-z'e e dove abitava Ta-uei. «Sì, lo so» disse il ragazzo. «È possibile che, senza averlo appreso, questo ragazzino sappia dov'è il monte Chiu-z'e e conosca Ta-uei? Che sia un essere trascendente?. . .» E Hoang-ti incominciò a domandargli come fare per ben governare l'impero. «Come faccio io per governare i miei cavalli» ribatté il ragazzo; «non penso che sia molto più difficile... Un tempo mi muovevo unicamente all'interno dei limiti dello spazio, e la molteplicità degli esseri particolari, che mi toccava guardare, poco mancò che mi fa238

cesse consumare la vista. «Allora uno degli Antichi mi consigliò di montare sul carro del sole e di andare in giro per la piana di Siang-c'eng (vale a dire: di elevarmi al di sopra del mondo degli esseri individuali, di guardare tutto da un'altezza pari a quella del sole). Ho seguìto il suo consiglio, e i miei occhi sono guariti. «Ora mi aggiro soltanto più fuori dei confini dello spazio, nel dominio dell'universale, dell'intuizione [intellettuale]. È guardando le cose da questo punto di vista che mi sembra che l'impero possa esser governato come io governo i miei cavalli». Hoang-ti insistette perché il misterioso giovane si spiegasse meglio, e questi aggiunse: «Allontano dai miei cavalli quel che potrebbe nuocergli; per tutto il resto, li lascio fare. Penso che, per quel che riguarda il governo degli uomini, un imperatore dovrebbe limitarsi a questo». Stupito e ammirato, Hoang-ti si prosternò, toccò la terra con la fronte, si rivolse al giovane [dandogli il titolo di] Maestro celeste, e proseguì per la sua strada. D Il Principio occorre cercarlo mediante l'intuizione [intellettuale]. Gli esseri particolari vanno considerati dall'infinito. Ora, la maggior parte degli uomini fanno tutto il contrario. I filosofi si perdono nelle loro speculazioni, i sofisti nelle loro distinzioni, i ricercatori nelle loro investigazioni. Tutti gli uomini di questa sorta sono prigionieri entro i limiti dello spazio, accecati dagli esseri particolari. Lo stesso si dica di coloro che fanno la corte ai prìncipi per ottenerne degli incarichi, di coloro che brigano per avere il favore del popolo, di coloro che si fanno in quattro per far abbassare i prezzi. Lo stesso si dica, [ancora], degli anacoreti che si macerano per diventare celebri; dei legulei, dei cerimonialisti, dei musicanti, che si approfondiscono nelle loro specializzazioni; e, per finire, di coloro che per mestiere esercitano la bontà e l'equità (i Confucianisti). Il contadino è tutto preso dalle bisogne [della campagna], il negoziante dal suo commercio, l'artigiano dal suo mestiere, la gente comune dalle piccole incombenze della vita ordinaria. Più le circostanze sono favorevoli, e più costoro s'immergono nella loro specialità. A ogni sconfitta, a ogni delusione, si affliggono. Seguono un'idea fissa, senza mai adattarsi alle cose. Sforzano i loro corpi [al di là del dovuto] e sovraccaricano di preoccupazioni i propri animi. E questo per tutta la vita; che peccato! E Chuang-tzu disse a Hoei-zé: «Dal fatto che un arciere abbia colpito per caso un bersaglio a cui non aveva mirato, si può dedurre che si tratti di un buon arciere? E poiché questa fortuna può capitare a chiunque, si può concludere che tutti gli uomini sono dei buoni arcieri?...» «Sì» disse il sofista Hoei-zé. Chuang-tzu continuò: «Per il fatto che in questo mondo non c'è una nozione di bene accettata da tutti, poiché ogni uomo chiama bene quel che gli piace; da un tal fatto, [dico], si può arguire che tutti gli uomini sono buoni?...» «Sì» disse di nuovo Hoei-zé. «Allora» riprese Chuang-tzu, «bisognerà anche dire che le cinque scuole attualmente esistenti, quella di Confucio, quella di Mei-ti, quella di Yang-ciù, quella di Cungsunn-lung e la vostra, hanno tutte contemporaneamente ragione. Ora, non può essere che, nello stesso tempo, la verità risuoni con cinque accordi diversi. Poiché qualcuno si 239

239 era vantato in presenza di Lu-chiu, di riuscire a far fare caldo d'inverno e freddo d'estate, Lu-chiu gli disse: "Bel risultato, quello di provocare una rottura dell'equilibrio cosmico! Io faccio esattamente il contrario; mi metto all'unisono con l'armonia universale. Guardate..." Accordati due liuti sullo stesso tono, Lu-chiu ne mise uno nella stanza esterna e l'altro in un appartamento interno. Quando fece vibrare su quest'ultimo la corda cung, vibrò anche sul primo la corda cung. Lo stesso accadde per la corda chiaò e per le altre. Ognuno dei due liuti faceva vibrare a distanza l'altra all'unisono... «Se» concluse Chuang-tzu, «se Lu-chiu avesse accordato una corda su un tono discordante, non conforme alla scala, questa corda, pizzicata, avrebbe fatto fremere — e non vibrare — le venticinque corde dell'altro liuto, la dissonanza essendo tale da offendere il previsto accordo delle corde. «Lo stesso avviene per le cinque scuole (cinque liuti, ciascuno con il suo accordo diverso). Ognuna di esse fa fremere [e non vibrare] le altre. Come potrebbero aver ragione tutte e cinque?» «Che si faccia fremere [e non vibrare]» disse Hoei-zé «non prova che si abbia torto. Colui che ha l'ultima parola ha ragione. È da un bel po' che i discepoli di Confucio, di Mei-ti, di Yang-ciù, di Cungsunn-lung, vivisezionano le mie argomentazioni e cercano di stordirmi con le loro strida. Non sono mai riusciti a farmi star zitto; stando così le cose, ho ragione io». «Sentite questa storia» disse Chuang-tzu. «In un momento di bisogno, un personaggio di Z'i vendette l'unico figlio a quelli di Song, che ne fecero un eunuco. La stessa persona conservava con venerazione i vasi per le offerte agli antenati. Continuò a conservare i vasi per le offerte, e soppresse, con la castrazione del figlio, i discendenti che avrebbero fatto le offerte. Voi fate come quel padre, mio caro sofista; voi, per cui un espediente è tutto, e la verità non è niente. «E adesso, ascoltate ancora la storia di quel servitore di C'iù, che il padrone incaricò d'una importante missione. Dovendo attraversare un corso d'acqua in traghetto, a mezzanotte e in un posto solitario, non fu capace di moderare la sua natura litigiosa, e bisticciò con il traghettatore, che lo buttò nel fiume. Finirete come lui, voi che cercate la disputa con tutti, per il solo piacere di disputare». Anche una volta morto Hoei-zé, Chuang-tzu non la smise di perseguitarlo con le sue frecciate. Sulla tomba di Hoei-zé era stata eretta una statua che lo rappresentava. Un giorno Chuang-tzu passava nelle sue vicinanze seguendo un corteo funebre; indicando la statua con il dito, improvvisamente esclamò: «Guardate, quel grumo di calce che quest'uomo ha sul naso!...» e diede ordine al carpentiere Cie (che seguiva il feretro per le eventuali riparazioni) di toglierlo. Il carpentiere fece con l'ascia un abile movimento che la portò a sfiorare il naso della statua, e il grumo se ne staccò. Il principe Yuan di Song venne a sapere del fatto, e, ammirato della destrezza del carpentiere, gli disse: «Rifate il vostro esercizio di abilità su di me». Il carpentiere non acconsentì, dicendo: «Ho avuto il coraggio di farlo solo perché era sostanza inerte». «Io» disse Chuang-tzu, «invece faccio tutto il contrario. Da quando Hoei-zé è morto, non ho più nessuno su cui agire...» (L'ascia raffigura la dottrina possente di Chuang-tzu, il grumo di calce il poco spirito di Hoei-zé. Quando Chuang-tzu lo prendeva di mira con le sue argomentazioni, senza che neanche toccasse Hoei-zé, il poco spirito di quest'ultimo si disperdeva. Così la Glossa). 240

F Coan-ciung (Coan-zé, secolo VII [a.C.]) si era ammalato gravemente, e il duca Hoan, di Z'i, di cui era ministro, era andato a fargli visita. «Padre Ciung» egli gli disse, «state molto male. Se vi aggravaste ancora (eufemismo per "se doveste morire"), ditemi, a chi dovrei affidare il ducato?» «Il padrone siete voi» rispose Coan-ciung. «Pao-sciù-ya potrebbe andar bene?» domandò il duca. «No» disse Coan-ciung. «È un purista eccessivo, troppo esigente. Non si mescola con chi ritiene inferiore. Non lascia passare a nessuno i suoi errori. Se lo faceste ministro, inevitabilmente darebbe fastidio tanto al suo signore quanto ai suoi sudditi. Vi toccherebbe sbarazzarvi di lui dopo poco tempo». «E allora chi prendo?» chiese il duca. «Visto che devo esprimermi» disse Coan-ciung, «prendete Scie-p'eng (costui, buon taoista, è così sottile che) [neppure] il suo principe si accorgerà della sua presenza, e nessuno si metterà in disaccordo con lui. Biasima se stesso per non essere perfetto come fu Hoang-ti, e non ha il coraggio di rivolgere rimproveri a nessuno. «I saggi di primo rango sono quelli che differiscono dalla gente comune per la loro trascendenza; i saggi di secondo rango sono quelli che ne differiscono per il talento. «[Questi ultimi], se vogliono imporsi per il loro talento, si inimicano gli uomini. Se [invece], nonostante il loro talento, si pongono al di sotto degli uomini, li conquistano tutti. Scie-p'eng è un uomo di quest'ultimo tipo. «E inoltre, essendo poco conosciuto sia come natali sia come persona, nessuno lo invidia. Dovendo consigliarvi, ripeto io sceglierei Scie-p'eng». G Il re di U, che si spostava in battello lungo il Fiume Blu, sbarcò sull'isola delle scimmie. Gli animali, vedendolo arrivare, scapparono via, nascondendosi nella boscaglia. Ne rimase uno, il quale gesticolava come se si volesse prender gioco di lui. Il re gli scoccò una freccia, che la scimmia afferrò al volo. Irritato, il re ordinò a tutto il seguito di dar la caccia alla scimmia impertinente, e questa, sopraffatta dal numero, soccombette. Davanti al cadavere, il re colse l'occasione per dare questa lezione al favorito Yenpu-i: «Questa scimmia è morta perché mi ha provocato ostentando le sue capacità. Fai attenzione a non imitarla! Non mi stuzzicare con le tue bravate!» Terrorizzato, Yen-pu-i chiese a Tong-u di educarlo alla semplicità. Passarono tre anni, e tutti non facevano che dire di lui il più gran bene possibile. H Nan-pai-zé Ch'i se ne stava seduto, lo sguardo al cielo, sospirando. Yen-c'ieng lo sorprese in questa postura, e gli disse: «Eravate immerso in uno stato di concentrazione profonda, non è vero?» Zé-ch'i rispose: «Un tempo vivevo in solitudine, nelle grotte sui monti. Il principe di Z'i mi distolse da questa vita nominandomi ministro, e il popolo di Z'i approvò la sua scelta. Perché mi abbiano trovato in questo modo, devo aver commesso qualche sbaglio. Perché mi abbiano comprato, devo essermi venduto. «Ohimè! La mia libertà se n'è andata. Compiango quelli che si perdono, accettando incarichi [esteriori]. Compiango quelli che si dispiacciono perché non ottengono incarichi. Scappare non posso più. L'unico rifugio che mi resta, è di ritirarmi nella meditazione profonda». I

Confucio si era recato nel reame di C'iù, e il re di questo paese gli fece offrire il 241

241 vino del benvenuto. Sunn-sciù-naò gli presentò il calice e Scie-nan I-leaò fece il brindisi d'apertura, poi disse: «A questo punto gli Antichi tenevano un discorso». Confucio prese la parola: «Oggi adotterò il metodo del discorso senza parole, del quale voi, maestri miei, avete saputo così bene servirvi. Voi, I-leaò, avete evitato una battaglia e fatto far pace a C'iù e Song giocolando con dei sonagli. Voi, Sunn-sciù-naò, avete ammansito i briganti di Z'inn-ch'iù, inducendoli a deporre le armi, facendo il mimo in loro presenza. Se avessi l'ardire di parlare di fronte a voi se non con il silenzio, che mi venga una bocca larga tre piedi (che io diventi muto per tutta la vita)!» Invece di tanto cercare, attenersi all'unità del Principio; tacere davanti all'ineffabile: questa è la perfezione. Coloro che fanno diverso, sono uomini nocivi. La grandezza del mare consiste nell'unire in sé tutti i corsi d'acqua del versante orientale. Così fa il Saggio, che abbracciando il Cielo e la Terra fa del bene a tutti, senza che desideri esser conosciuto. Colui che è vissuto così, senza incarichi nel corso dell'esistenza, senza titoli dopo la morte, senza arricchirsi, senza diventar celebre, quegli è un grand'uomo. Un cane non è utile perché abbaia molto, [così come] un uomo non è un Saggio perché parla molto. Per essere un grand'uomo non basta credere di esserlo, né è sufficiente far credere che lo si è. Essere grandi significa essere completi, come il cielo e la terra. Grandi non si diventa se non imitando il modo d'essere e di agire del cielo e della terra. Tendere a ciò senza affrettarsi, ma senza tuttavia mai diminuire la tensione; non lasciarsi influenzare da nulla; rientrare in sé senza affaticarsi; studiare l'antichità senza rattristarsi; ecco quel che costituisce il grand'uomo. J Zé-ch'i aveva otto figli. Li mise tutti in riga di fronte, davanti al fisionomo Chiùfang-yen, e disse a quest'ultimo: «Per favore, esaminate questi ragazzi, e ditemi quale di loro porta i segni di un favorevole presagio». L'indovino rispose: «Questo qui: C'unn». Stupito e felice, il padre domandò: «Qual è la previsione?» «Mangerà cibo di principe fino alla fine dei suoi giorni» disse l'indovino. Udite queste parole, la gioia di Zé-ch'i si trasformò in tristezza. Piangendo, egli esclamò: «Che male ha dunque fatto mio figlio per avere un simile destino?» «Ma come?» fece l'indovino. «Se qualcuno mangia alla tavola di un principe, l'onore risale fino alla terza generazione dei suoi ascendenti. Condividete perciò una parte della buona fortuna di vostro figlio. E invece piangete come se temeste questo favorevole destino? Non è mica possibile che quel che è fasto per vostro figlio sia nefasto per voi!» «Ohimè!» rispose Zé-ch'i. «Siamo poi sicuri che interpretiate correttamente il destino di mio figlio? Che per tutta la vita egli possa disporre di vino e carne, è certo una buona cosa, ma non potrebbe essere che non abbiate visto chiaramente a qual prezzo li otterrà? Di questa previsione io mi fido poco, perché, in casa mia, non capitano che cose straordinarie. «Non allevo greggi, e una pecora è venuta a figliarmi in casa. Non sono cacciatore, e una quaglia è venuta a costruirvi il suo nido. Non sono forse fatti [un po'] strani? Purtroppo ho paura che anche mio figlio abbia uno strano avvenire. «Gli avrei piuttosto augurato di vivere, come me, libero tra il cielo e la terra, godendo come me dei doni del cielo e nutrendosi dei frutti della terra. Non auguro a lui, più di quanto non auguri a me stesso, di essere immischiato negli affari, nelle preoccupazioni, 242

nelle avventure. Vorrei per lui, così come per me, che si elevi tanto nella semplicità naturale, da non esser più impressionato da alcuna cosa terrestre. «Avrei desiderato per lui che, come me, si assorbisse nel distacco, non nell'interesse. Ed ecco che voi gli predite una retribuzione delle più basse. Essa presuppone che egli la ottenga rendendo servigi altrettanto bassi. La previsione è perciò infausta. [Del resto], si tratta probabilmente di una fatalità inevitabile, giacché, non essendoci né io né mio figlio macchiati di alcun atto riprovevole, si deve trattare di un decreto del destino. Sono queste le ragioni del mio pianto». Ecco come, più tardi, si realizzarono la predizione dell'indovino e i timori del padre: Zé-ch'i inviò il figlio C'unn nel paese di Yen e alcuni briganti lo catturarono nel corso del viaggio. Poiché sarebbe stato problematico venderlo schiavo, in quanto era integro, gli tagliarono un piede e lo vendettero nel principato di Z'i, dove diventò ispettore delle strade nella capitale. Fino al termine della vita mangiò la sua parte dei cibi del principe di Z'i, come aveva predetto l'indovino; angustiato dalle preoccupazioni più basse, come aveva predetto suo padre. K

Nié-c'ué incontrò Hu-yu e gli chiese: «Dove ve ne andate in questo modo?» «Abbandono» disse questi «il servizio dell'imperatore Yao». «Come mai?» domandò Nié-c'ué. «Perché quell'uomo si sta rendendo ridicolo con la sua bontà fasulla. Crede di far chissà cosa attirando a sé gli uomini. Cosa c'è di più banale di questo?! Dimostrate affetto agli uomini, e vi ameranno; fategli del bene, e accorreranno; adulateli, e diranno meraviglie di voi; poi, al minimo inconveniente, vi pianteranno in asso. «È certo che la bontà attira; ma gli attirati vengono per il tornaconto, non per amore di colui che li tratta bene. La bontà è un apparecchio per catturare gli uomini, simile alle trappole per uccelli. Non si può, con uno stesso procedimento, far del bene a tutti gli uomini, le cui nature sono tanto diverse «Yao crede, con la sua bontà, di far prosperare l'impero, mentre invece lo porta alla rovina. Il fatto è che lui vede le cose solo dall'interno, e si illude. I Saggi, che invece le osservano dall'esterno, nel suo caso hanno visto giusto. «Fra le nature diverse degli uomini si possono distinguere le tre seguenti categorie: i molli, i vischiosi, i flessibili... «I molli imparano i detti di un maestro, li fanno propri, li ripetono, e credono di dire qualcosa, mentre invece, semplici pappagalli, recitano soltanto... «I vischiosi aderiscono a chi li fa vivere, come i pidocchi che vivono sul maiali. Arriva il giorno in cui il macellaio, dopo aver ammazzato il porco, ne brucia [il vello con la fiamma]. Succede talvolta lo stesso ai parassiti di un signore. «Il tipo dei flessibili [affabili] fu Sciunn Questi attirava, per non so qual virtù, così come la secrezione del montone attira le formiche con il suo odore pungente. Il popolo amava l'odore di Sciunn. Tutte le volte che questi cambiò residenza, il popolo lo seguì. Risultato: Sciunn non seppe mai cosa fosse la tranquillità. «Per concludere: l'uomo trascendente non è né molle, né vischioso, né flessibile. Detesta la popolarità più d'ogni altra cosa. Non concede familiarità. «Non si dà. Tutto teso verso i principi superiori, va d'accordo con tutti, non è amico di nessuno. Le formiche, per lui, non sono abbastanza semplici. Lui è semplice come le pecore, come i pesci. Dà per vero ciò che vede, ciò che sente, ciò che pensa. Quando agi243

243 sce spontaneamente, la sua azione è retta come una riga tirata con la cordicella. Quando è portato dagli avvenimenti, si adatta al loro corso». L Gli uomini veri dei tempi antichi si conformavano allo sviluppo [del cosmo] e non intervenivano mai, con uno sforzo artificiale, nel corso naturale delle cose. Vivi, preferivano la vita alla morte; morti, preferivano la morte alla vita. Tutto a suo tempo, come quando si prende la medicina. Lottare contro il corso delle cose è volere la propria rovina. Così come il ministro Uenn-ciung, il quale salvando il regno di Ué che doveva essere abbattuto, fu causa della propria morte. Non bisogna voler dare al gufo una vista più buona, né alla gru delle gambe più corte. Le sue doti naturali, sono quelle che più convengono a ognuno. Colui che sa trar partito dalle proprie risorse di natura, se la cava sempre. Esempio: benché il vento e il sole facciano evaporare l'acqua dei fiumi, questi non smettono mai di scorrere, perché le sorgenti, loro riserve naturali, alimentano il loro corso. Non c'è nulla di più costante, di più fedele, delle leggi naturali, come quella che fa sì che l'acqua discenda dai pendii, come quella che fa sì che i corpi opachi proiettino un'ombra. Si guardi, l'uomo, dal far di ciò che la natura gli ha dato, un uso immoderato, eccessivo. La vista consuma gli occhi, l'udito gli orecchi, il pensare consuma lo spirito; ogni attività consuma l'organo agente. Se si pensa che certa gente, invece, è orgogliosa degli abusi che ha fatto in questo senso! Non è forse un'illusione deleteria?! M L'uomo, il cui corpo occupa un così piccolo posto sulla terra, arriva con lo spirito, attraversando lo spazio, fino in cielo. Egli conosce la Grande Unità, il suo stato primigenio di concentrazione, la moltiplicazione degli esseri, lo sviluppo universale, l'immensità del mondo, la realtà di tutto quel che esso contiene, la saldezza delle leggi che lo governano. Al fondo di tutto è la natura. Nelle profondità della natura è il cardine di tutto (il Principio), che pare duplice (yin e yang) senza realmente esserlo; che è conoscibile, ma non adeguatamente, [ai mezzi esterni]. L'uomo giunge a conoscerlo, a forza di cercarlo. Inoltrandosi al di là dei confini del mondo, il suo spirito raggiunge (il Principio) la realtà inafferrabile, sempre uguale a se stessa, indefettibile. Questo è il suo successo maggiore. Lo ottiene meditando, [partendo] dalle certezze già acquisite per arrivare alle cose ancora non certe, che a poco a poco lo diventano a loro volta; la conoscenza del Principio è la certezza finale suprema.

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XXV Verità

A Zai-yang (P'eng-zaiyang) era andato a C'iù, e il ministro I-zié, annunciato il suo arrivo al re, era tornato alle sue incombenze. Poiché non riusciva ad avere udienza, Zaiyang si rivolse a Uang-cuò, un saggio del luogo, e lo pregò di intercedere per lui. «Chiedetelo a Cung-ué-hiù» fu la risposta di Uang-cuò. «E chi è?» domandò Zai-yang. «Si tratta» disse Uang-cuò «di uno che durante l'inverno cattura le tartarughe nel fiume con l'arpione, e l'estate si riposa nel bosco (Saggio taoista). I-zié, per voi non farà nulla. Ambizioso, intrigante, egoista, lavora solo per sé. Cung-ué-hiù, che invece è totalmente disinteressato, ha, a causa dell'elevatezza dei suoi principi, un ascendente sul rozzo re di C'iù. «Con il fascino della sua conversazione, il Saggio fa dimenticare ai suoi i tormenti della miseria e li forma alla rassegnazione. Con la sua statura intellettuale e la sua condotta, fa dimenticare ai grandi l'elevatezza del loro rango e li forma alla modestia. Fraternizza con i piccoli e conversa con i grandi, a ognuno dando quel che può comprendere, e serbando il resto per sé. «Senza parlare, riempie di pace i luoghi che frequenta. Senza far prediche, corregge. Non disdegna, a tratti, di intrattenersi in famiglia, dove adempie al suo ruolo di padre e fa del bene ai suoi. «Semplice, saldo, tranquillo, non è intaccato da preoccupazioni, e si impone a tutti. Cung-ué-hiù è un tal uomo. Solo lui potrà ottenere dal re di C'iù che vi riceva, perché questi è mal disposto nei vostri confronti». B Il Saggio capisce che, legati gli uni agli altri, tutti gli esseri formano un corpo (un tutto), ma non cerca di penetrare la natura profonda di questo legame, che è il mistero della norma cosmica. Seguendo in tutti i suoi movimenti la legge universale, egli è il messaggero del cielo. Gli uomini lo chiamano Saggio, perché coopera con il cielo. Non si intestardisce per sapere quel che non si può sapere, ma agisce con la conoscenza che ha, con perseveranza, con costanza. Non raziocina sulle qualità che può avere, ma lascia agli altri la cura di constatarle, non attribuendo a sé quello che è dono della natura. Nei confronti degli uomini è benevolo, non per affetto, ma per istinto, e non pretende che gli siano riconoscenti. C Quando un uomo ritorna in patria dopo una lunga assenza, prova una sensazione di sollievo, che non è sufficiente a cancellare né la vista delle tombe che si sono moltiplicate, né le rovine [delle costruzioni abbandonate] invase dalla vegetazione, né la scomparsa dei nove decimi dei suoi conoscenti. Questo, perché rivede in ispirito quel che fu un tempo, dimenticando quel che è; questo, perché si eleva al di sopra delle circostanze del momento. La stessa cosa fa il Saggio, impassibile fra le vicissitudini del mondo, contem245

245 plando in esse la natura inalterabile Così fece il leggendario sovrano Gian-siang. Questi si era posto, impassibile, al centro della ruota continuamente in moto delle cose dei mondo, e ne lasciava procedere lo sviluppo indefinito e indiviso, restando egli solo non-mutato (in virtù del suo distacco) in mezzo alla mutazione universale. Tale posizione è unica. Non si può voler imitare il cielo (al modo di Confucio), con un'azione [individuale] autonoma. Il cielo va imitato lasciando che procedano [da sole] tutte le cose. È questo il modo in cui il Saggio serve l'umanità. Egli si astrae da tutto, e segue la propria epoca, senza difetti e senza eccessi. Questa è l'unione con il Principio, quella irriflessa, la sola possibile. Cercare l'unione autonoma [individualmente] è tentare ciò che è impossibile. Il ministro dell'imperatore T'ang tenne la sua carica, in qualche modo, per onoraria. Lasciò che tutte le cose procedessero e si guardò bene dall'applicare le leggi. Questo costituì la ragione del successo del suo governo. Adesso, invece, Confucio vorrebbe che si esaminasse a fondo ogni cosa, e che si promulgassero un gran numero di regolamenti. Dimentica l'aforisma, così vero, di Giung-c'eng (vecchio Taoista): «Mettere insieme i giorni [a formare gli] anni, presupporre una sostanza sotto gli accidenti, sono errori che hanno origine in una concezione artificiale della natura del tempo e degli esseri. La realtà è un eterno presente, un'entità essenziale». (La Glossa aggiunge che non c'è addirittura né «io» né «tu»). D Il re di Uei aveva stipulato un trattato con il re di Z'i. Quest'ultimo lo violò, e il re di Uei, adirato, decise di farlo uccidere da un sicario. Cungsunn-yen, che era il suo ministro per la guerra, gli disse: «Avete diecimila carri da guerra e volete affidare la vendetta a un vile assassino. Affidatemi piuttosto centomila uomini, e io devasterò il regno di Z'i, assedierò il re nella sua capitale, e, al momento della sua disfatta, lo ucciderò. Sarà una cosa nobile e radicale». Il ministro Chi-zé trovò che il consiglio non era buono, e disse al re: «Non provocate Z'i. Abbiamo appena finito di costruire delle magnifiche mura; se dovessero subire danni, ciò farebbe dispiacere ai sudditi che hanno lavorato a quest'opera. La pace è la sola base solida del potere. Il ministro della guerra è un maneggione che non merita ascolto». Il ministro Hoà-zé (taoista) ritenne entrambi i pareri sbagliati, e disse al re: «Quegli che, per avere l'occasione di mettere in mostra il proprio talento militare, vi ha consigliato la guerra, è un maneggione. Quegli che, per far sfoggio di eloquenza, vi ha consigliato la pace, è anche lui un pasticcione. I due consigli si equivalgono». «E allora, che debbo fare?» chiese il re. «Meditate sul Principio» disse Hoà-zé, «e traetene la conclusione». Poiché il re non ci riusciva, Hoei-zé portò da lui Tai-zinn-gienn, un sofista amico suo. Questi entrò in argomento con la seguente parabola: «Prendiamo una lumaca. Essa ha due cornetti; il corno di sinistra rappresenta il principato di re Aggressivo; il corno di destra è quello di re Barbaro. Tra i due regni c'è una guerra perpetua. Il suolo è ricoperto di morti senza numero. Quindici giorni dopo una sconfitta, il vinto già persegue la rivincita». «Sciocchezze!» fece il re di Uei. «Ah! No» disse Tai-zinn-gienn. «Voi, o re, pensate che lo spazio sia limitato in qualcuna delle sue sei dimensioni?» «No» rispose il re; «lo spazio è illimitato in tutte e sei le dimensioni». «Così» riprese Tai-zinn-gienn, «lo spazio immenso non ha limiti! E pensate che i due piccoli principati di Uei e di Z'i abbiano delle frontiere?» 246

«No» fece il re, il quale, poco ferrato in dialettica, pensava di non poter concedere al più piccolo ciò che aveva negato al più grande. «Così, niente frontiere, niente litigi» disse Tai-zinn-gienn. «E ora, o re, ditemi: in che cosa differite voi dal re Barbaro del cornetto di destra?» «Non so» disse il re. Tai-zinn-gienn se ne uscì, lasciando il re completamente stranito. Quando rientrò Hoei-zé, il re gli disse: «Ma quello è un uomo superiore: neppure un Saggio saprebbe cosa rispondergli». «Ah, certo!» disse Hoei-zé. «Soffiando in un clarino esce un suono cristallino; se si soffia nella guardia di una spada (cava, a forma di conchiglia) quel che ne esce è solo un mormorio. Se Tai-zinn-gienn fosse stimato all'altezza del suo valore, gli elogi che vanno a Yao e Sciunn sembrerebbero un mormorio, mentre quello rivolto a Tai-zinn-gienn risuonerebbe come un clarino». La diatriba tra Uei e Z'i fu composta. E Confucio, che si recava a C'iù, fu ospite a I-ch'iù di un produttore di spezie. Subito, nella casa vicina, montarono sul tetto (piatto, per guardare nel cortile della casa in cui Confucio era ospite). «Perché quella gente sembra spaventata?» chiese il discepolo Zé-lu che accompagnava Confucio. Questi rispose: «È la famiglia di un Saggio che si nasconde volontariamente fra il popolo e vive in incognito. L'elevazione [intellettuale e] morale di quell'uomo è sublime. Egli la dissimula però con cura, parlando soltanto di cose banali, senza tradire il segreto del suo cuore. Poiché le sue vedute sono ben diverse da quelle della maggioranza della gente di quest'epoca, frequenta poco gli uomini. In un certo modo si è seppellito vivo in questo posto, come I-leaò». «Volete che vada a invitarlo a venirvi a far visita?» domandò Zé-lu. «È fatica sprecata» disse Confucio. «È montato sul tetto per sapere se sono veramente di passaggio. Siccome mi interesso di politica [di questioni sociali] deve aver poca voglia di parlare con me. Sapendo che mi reco a render visita al re di C'iù, deve temere che riveli il suo luogo di ritiro, e che il re lo obblighi ad accettare una funzione [a corte]. Scommetto che ormai si è già messo al sicuro». Zé-lu andò a verificare, e di fatto trovò la casa deserta. F Il sovrintendente all'agricoltura di C'iang-u disse a Zé-laò, discepolo di Confucio: «Se mai doveste ricevere un incarico, non siate né superficiale né troppo meticoloso. Un tempo, nell'agricoltura, sono incorso in tutti e due questi sbagli; aratura poco profonda, sarchiatura eccessiva; dal che: raccolti che lasciavano a desiderare. Ora faccio arare in profondità, e sarchiare moderatamente; dal che: raccolti sovrabbondanti». Chuang-tzu, venuto a sapere di ciò, commentò: «Oggi, nella cultura del loro corpo e del loro spirito, molta gente cade negli errori indicati da questo sovrintendente. O arano in modo insufficiente il terreno della loro natura, e lo lasciano inquinare dalle passioni; o lo sarchiano senza discernimento, strappando quel che dovrebbe essere conservato e distruggendo così le loro qualità naturali. «Se non si fa attenzione, i vizi invadono la natura sana; così come le piaghe si diffondono in un corpo sano, per effetto di un eccessivo calore interno che si manifesta all'esterno». 247

247 G Pai-chiu, che studiava sotto la guida di Lao-tan, un bel giorno gli disse: «Concedetemi una vacanza perché possa fare il giro dell'impero». «A che pro?» rispose Lao-tan «Qualunque posto dell'impero è come qui». E siccome Pai-chiu insisteva, Lao-tan gli domandò: «Da quale principato incomincerai il tuo giro?» «Da quello di Z'i» disse Pai-chiu. «Quando sarò arrivato costì, andrò dritto al cadavere di qualcuno di quei suppliziati che il re di Z'i lascia in giro senza seppellirli; lo solleverò, lo rivestirò con il mio abito, invocherò al cielo giustizia in suo nome e gli dirò piangendo: "Fratello! Fratello! [Com'è accaduto] che tu cadessi vittima dell'incongruenza di coloro che hanno l'impero in mano?» «I governanti proibiscono, pena la vita, di rubare e di uccidere. E questi stessi uomini inducono al furto e all'assassinio, tenendo in onore la nobiltà e la ricchezza, che sono le cause di tali crimini. Finché saranno mantenute le distinzioni e la proprietà, si vedrà forse la fine dei conflitti tra gli uomini? «Una volta, i prìncipi erano grati ai loro sudditi per l'ordine che mantenevano, e davano a se stessi la colpa per tutti i disordini. Quando un uomo moriva, rimproveravano se stessi per la perdita. Ora le cose sono tutte diverse. Leggi e regolamenti sono agguati ai quali nessuno riesce a sfuggire. «Pena di morte per coloro che non sono riusciti a raggiungere obiettivi irraggiungibili. Così, messo con le spalle al muro, il popolo perde la sua onestà naturale, e si lascia andare agli eccessi. A chi imputarli, questi eccessi? Ai disgraziati che li debbono [poi] espiare? O ai prìncipi che li hanno provocati?» H Nei suoi sessant'anni di vita, Chiu-pai-u cambiò sessanta volte parere. Cinquantanove volte aveva creduto fermamente di possedere la verità, cinquantanove volte aveva all'improvviso riconosciuto di essere nell'errore. E resta da sapere se la sessantesima opinione che intrattenne, quella con cui morì, aveva più fondamento delle cinquantanove precedenti. Questo del resto capita a tutti gli uomini che si perdono nella considerazione dettagliata degli esseri, che cercano qualcosa di diverso dalla scienza senza forme del Principio. Gli esseri diventano, è un fatto; ma la radice di questo loro divenire è invisibile. Dalla propria falsa scienza di dettaglio, la gente comune trae conseguenze sbagliate; mentre se partisse dalla propria ignoranza, potrebbe giungere alla vera scienza, quella del Principio, dell'assoluto, origine di tutto. Il grande errore è questo. Ohimè! Quanto pochi vi sfuggono... Per cui, quando gli uomini dicono sì, è veramente sì? Quando dicono no, è veramente no? Qual è il valore, la verità, delle affermazioni umane?... Solo l'assoluto è vero, perché solo esso è. I Confucio pose, prima al grande storiografo Ta-t'aò, poi a Pai-c'iangch'ien, e infine a Hi-uei, una stessa domanda: «Il duca Ling di Uei fu un ubriacone e un depravato; governò male e venne meno alla propria parola. Avrebbe [certo] meritato un epiteto postumo meno bello di quello di Ling [intelligente, nel senso di "spirituale"]. Perché [dunque] fu chiamato Ling?» «Perché il popolo, che gli voleva piuttosto bene, così volle» rispose Ta-t'aò. «Perché i censori gli accordarono qualche circostanza attenuante» disse Pai-c'ian248

gch'ien, «a motivo del fatto seguente: un giorno, mentre stava prendendo il bagno in una vasca con tre delle sue concubine, entrò [nella stanza] il ministro Scie-z'iù per un affare urgente, e il duca si coperse e fece coprire le sue donne. Da questo [episodio] si concluse che il duca, anche se dissoluto, non mancava di un residuo di pudore, e lo si ricordò come Ling, mantenendosi alti nel giudizio». «Sbagliato» disse Hi-uei. «Ecco la vera ragione: dopo la morte del duca, si consultò la tartaruga [rituale] circa il posto dove si sarebbe dovuto seppellirlo. La risposta fu che questo non avrebbe dovuto essere il cimitero di famiglia ma a Scià-ch'iù. Scavata la fossa nel luogo indicato, si trovò sul fondo un antico sepolcro. La pietra che lo ricopriva fu riportata alla luce e ripulita, e vi si lesse questa iscrizione: "Qui non riposerete né tu né i tuoi posteri; sarà il duca Ling a prendere il vostro posto!" Era stato perciò il destino ad assegnargli questo nome; ecco perché fu chiamato così». Morale. anche la verità storica non è conclusiva se non quando deriva dal Principio. J

Sciaò-cie chiese a T'ai-cung-tiaò: «Cosa sono le "massime di villaggio"?» «Il villaggio» rispose T'ai-cung-tiaò «sono le agglomerazioni umane minime, costituite da una decina di famiglie, un centinaio di individui soltanto, che formano un corpo con i suoi costumi. Questi costumi non sono nati all'improvviso, a priori; sono stati dettati dai membri di rilievo della comunità, per accumulo di esperienze singolari; come una montagna, che è fatta di manciate di terra; come un fiume, che è fatto di innumerevoli rivoli d'acqua. «Le espressioni verbali di queste tradizioni sono chiamate "massime di villaggio". Esse costituiscono legge. Nell'impero tutto funziona, a patto che esse possano godere di libero corso. «Così come il Principio, distaccato, imparziale, lascia che tutte le cose seguano il loro corso senza intervenire direttamente [ed esteriormente] su di esse. Esso non si arroga alcun titolo (signore, governatore). Esso non agisce. Pur non facendo nulla non c'è nulla che non faccia (non intervenendo al modo attivo [degli uomini], ma in quanto norma di sviluppo che è contenuta in tutto). «Nell'apparenza, secondo la nostra maniera umana di vedere, i tempi si succedono, l'universo si modifica, l'avversità e il favore si alternano. Nella realtà, tali variazioni, effetti di un'unica norma, non modificano il tutto, immutabile. «Tutti i contrasti trovano il loro posto in questo tutto, senza collidere; al modo in cui, in uno stagno, crescono l'una accanto all'altra ogni specie di erbe; al modo in cui, su una montagna, alberi e rocce sono mescolati. «Ma torniamo alle "massime di villaggio". Esse infatti sono un'espressione dell'esperienza che è il frutto dell'osservazione dei fenomeni naturali». «Perché affermare, allora» intervenne Sciaò-cie, «che queste "massime" sono l'espressione del Principio?» «Perché» rispose T'ai-cung-tiaò, «siccome non coprono se non il campo delle cose umane, tali massime hanno soltanto un'estensione limitata, mentre il Principio è infinito. Esse [le "massime"] non si applicano neppure alle cose degli altri esseri terrestri, la cui somma sta all'umanità come diecimila a uno. «Al di sopra degli esseri terrestri ci sono il cielo e la terra, l'immensità visibile. Al di sopra del cielo e della terra ci sono lo yin e lo yang, l'immensità invisibile. Al di sopra di tutto, è il Principio, comune a tutto, il quale tutto contiene, il cui attributo proprio è l'infinità, l'unico con cui si possa indicarlo, poiché Esso non ha nome [che gli si addica]». 249

249 «Allora» disse Sciaò-cie, «spiegatemi in che modo tutto ciò che è, è uscito dall'infinito». T'ai-cung-tiaò incominciò: «Originati dal Principio, lo yin e lo yang si influenzarono, si annullarono, si riprodussero reciprocamente. Di qui il mondo sensibile, con la successione delle stagioni, che si producono e si sostituiscono le une alle altre. Di qui il mondo sottile, con le sue attrazioni e repulsioni, i suoi amori e i suoi odi. Di qui la distinzione dei sessi, e la loro unione per la procreazione. Di qui determinati stati correlati e successivi, come l'avversità e la prosperità, la sicurezza e il pericolo. Di qui le nozioni pure, il cui influsso è mutuo, la cui causalità è reciproca, che soggiacciono a un determinato sviluppo ciclico nel corso del quale gli inizi si succedono alle fini. «Ecco più o meno ciò che, dedotto dall'osservazione, espresso con parole, costituisce la somma delle conoscenze umane. Coloro che conoscono il Principio non vanno più in là nelle loro indagini; essi non teorizzano né sulla natura dell'apparizione primordiale delle cose, né sulla fine eventuale dell'ordine di cose presenti». Sciaò-cie [però] insistette: «Ci sono tuttavia degli autori taoisti che queste questioni le hanno discusse È così che Chi-cienn propende per una manifestazione passiva e incosciente, Zié-zé per una produzione attiva e cosciente. [Dei due], chi ha ragione?» «Siete capace di dirmi» fece T'ai-cung-tiaò «perché i galli fanno chicchirichì o perché i cani fanno bau-bau? Questa differenza [tra due tipi di animale] tutti gli uomini la conoscono, ma [neppure] il più sapiente degli uomini dirà mai il perché. «Le cose stanno così per natura; questo è tutto quel che sappiamo. Si riduca un oggetto fino [a renderlo] invisibile, lo si magnifichi fino [a renderlo] incomprensibile, non si riuscirà a trarre da lui la sua ragion d'essere. «A maggior ragione non si potrà mai arrivare a spiegare [dall'esterno] la questione della genesi dell'universo, di tutte la più spinosa! "Esso è opera di un autore", dice Zié-zé. "È venuto dal nulla", ribatte Chi-cienn. Nessuno dei due riuscirà mai a provare la sua affermazione. Hanno torto tutti e due. È impossibile che l'universo abbia avuto un autore preesistente. È impossibile che l'essere sia uscito dal nulla di essere. «L'uomo non ha nessun potere sulla propria vita, perché la legge che governa la vita e la morte, e le sue proprie trasmutazioni, gli sfugge; come potrà dunque sapere qualcosa della legge che governa le grandi trasformazioni cosmiche, lo sviluppo dell'universo? «Dire dell'universo che "qualcuno l'ha fatto" o che "è venuto dal niente" sono, non delle proposizioni dimostrabili, ma delle supposizioni gratuite. Io, quando guardo indietro verso l'origine, la vedo perdersi in una lontananza indefinita; quando guardo avanti verso l'avvenire, non ne vedo il termine. «Ora, le parole umane non sono in grado di esprimere ciò che è indefinito, ciò che non ha termine. Limitate come gli esseri che se ne servono, esse possono solo esprimere le cose del mondo limitato di tali esseri, cose definite e mutevoli. Esse non possono applicarsi al Principio, il quale è infinito, immutabile, eterno. «Dall'origine degli esseri, il Principio dal quale tali esseri hanno origine, essendo inerente ad essi, non può essere detto propriamente l'autore degli esseri [nel senso umano della produzione di qualcosa]; e questo confuta Zié-zé. «Poiché il Principio inerente a tutti gli esseri è esistente prima degli esseri [nel senso logico e nello stesso tempo ontologico], non si può dire, propriamente, che tali esseri sono [di]venuti dal niente; e questo confuta Chi-cienn. «Quando ora diciamo il Principio, questo termine non indica più l'essere unico [in 250

sé], così com'è avanti i tempi; indica l'essere che è presente in tutti gli esseri, norma universale che presiede allo sviluppo cosmico. La natura del Principio, la natura dell'Essere, sono incomprensibili e ineffabili. Soltanto ciò che è limitato può essere compreso ed espresso. «Il Principio inteso come polo, come asse, dell'universalità degli esseri, diciamo di Lui soltanto che è il polo, che è l'asse della girazione universale, senza tentare né di comprenderlo, né di spiegarlo [con termini umani]».

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XXVI Fatalità

A Le avversità che provengono dall'esterno non possono esser previste, né si possono evitare; e questo, sia da parte dei buoni, sia dei cattivi. Fu così che Coan-lung-p'eng e Pican morirono di mala morte, che Chi-zé riuscì a salvarsi la vita soltanto fingendosi matto, che No-lai perdette la propria, così come i tiranni Chié e Ceù. La lealtà più specchiata non protesse dalla rovina ministri come U-yuan e C'ianghung. La pietà filiale più esemplare non impedì che Hiaò-chi e Zeng-scienn fossero malmenati. La rovina ha origine dalle circostanze in apparenza più banali, dalle situazioni in apparenza più favorevoli, così come il fuoco sprizza da due pezzi di legno sfregati tra loro, come il metallo si liquefa a contatto del fuoco, come il tuono nasce dalle rotture di equilibrio tra lo yin e lo yang, come il fuoco della folgore esce improvviso dall'acqua in uno scroscio di temporale. Ma la cosa peggiore è che in certi casi l'uomo si trova preso tra due situazioni ineluttabili, senza possibile via d'uscita; situazioni che lo fanno contorcere, senza che sappia quale decisione prendere; nelle quali il suo animo, come sospeso tra il cielo e la terra, non sa che strada scegliere. Il sollievo e l'abbattimento si alternano, il pro e il contro entrano in conflitto, un fuoco interiore lo consuma. È un incendio che divora la sua pace, così ardente che nessun'acqua può spegnerlo. Cosicché la sua vita declina, e la sua corsa termina prima del tempo. B Chuang-tzu conobbe di queste situazioni estreme. Un giorno la miseria lo indusse a chiedere l'elemosina di un po' di cereali al sovrintendente del Fiume Giallo. «D'accordo» gli disse questi; «appena avrò riscosso l'imposta, vi farò un prestito di trecento tael; vi sta bene?» Seccato, Chuang-tzu rispose: «Ieri, mentre ero in viaggio per venir qui, udii gridare al soccorso. Era un ghiozzo che sguazzava in un po' d'acqua piovana al fondo d'un solco [di ruota], e dopo poco si sarebbe trovato a secco. «Che vuoi?" gli chiesi. Mi rispose: «Ho bisogno di un po' d'acqua, per continuare a vivere!". "D'accordo" gli dissi. "Sto andando alla corte di U e di Ué; quando torno indietro ti porto le acque del Fiume dell'Ovest. Intesi?" «"Ahimè!" gemette il ghiozzo "Per restare in vita mi basterebbe solo un po' di quell'acqua, ma subito. Se potete fare per me soltanto quel che dite, fate piuttosto più in fretta: raccoglietemi e consegnatemi a un negoziante di pesce secco; avrò meno da soffrire"». C Quando la fatalità gli fa curvare le spalle, che il Saggio non disperi. Tenga duro, e la fortuna potrà girare in suo favore. Genn-cungzé, munitosi di un bell'amo, di una lenza robusta e di cinquanta cozze per esca, si rannicchiò sulla costa di Hoei-chi e si mise a pescare nel Mar d'Oriente. Con252

tinuò a pescare ogni giorno, per tutto un anno, senza mai prendere nulla. Alla fine, un bel giorno, un pesce enorme abboccò. Ferrato a dovere, tentò invano di reimmergersi nelle acque profonde; fu riportato alla superficie, batté l'acqua con le pinne tanto da farla ribollire, fece un chiasso d'inferno che si sentiva da lontano e infine fu fatto a pezzi e tutto il paese ne mangiò; la storia fu poi raccontata, cantata, ammirata nelle epoche che vennero. Se pensiamo che, stanco per la sua lunga attesa sulla riva del mare, Genn-cungzé avrebbe potuto ritornare a pescare il ghiozzo in qualche palude, non avrebbe mai catturato una così bella preda, e non si sarebbe procurato tanta celebrità. È quel che fanno coloro che, tralasciando [a un certo punto] lo scopo [a cui miravano], si abbassano a far la corte a piccoli signori. D

Su qualcuno la fatalità infierisce perfino dopo la morte. Alcuni letterati stavano violando un'antica tomba per accertarsi se gli Antichi facessero veramente, per i loro morti, tutto quel che è detto nelle Odi e nei Rituali. Il loro capo, che montava la guardia fuori, gridò loro: «Sbrigatevi! All'oriente biancheggia! A che punto siete?» Dall'interno i giovani risposero: «Dobbiamo ancora esaminare i vestiti. Ma abbiamo già verificato che di fatto il cadavere ha in bocca la perla di cui le Odi parlano, nel testo: "Il grano è verde sulle colline; perché quest'uomo che non fece alcun bene in vita, ha, dopo la morte, una perla in bocca?"...» Poi, separate le labbra al cadavere tirandogli barba e baffi, gli schiusero le mascelle con la penna d'un martello di ferro; con cautela — non per lui —, ma per non intaccare la perla; della quale si impossessarono. E

Criticare, giudicare, attira le disgrazie. Il discepolo di Lao-lai-zé era uscito a raccogliere rametti da bruciare, quando incontrò Confucio. Rientrato, disse al maestro: «Ho visto un letterato, con il torso lungo, le gambe corte, ingobbito, le orecchie molto indietro, con l'aria di aver l'universo sulle spalle; non capisco di che scuola sia». «È Ch'iù» disse Lao-lai-zé; «chiamalo» Arrivato Confucio, Lao-lai-zé così gli parlò: «Abbandona la tua testardaggine e le tue idee particolari; pensa e fai come gli altri letterati». Confucio salutò, per ringraziare del consiglio, come i riti esigono: poi, svanito il sorriso rituale, il volto gli apparve, triste, e domandò: «Credete che i miei piani di riforma non riusciranno?» «Sicuro, che non riusciranno» rispose Lao-lai-zé. «Incapace come siete di sopportare le critiche dei vostri contemporanei, come mai date esca a quelli di tutta la posterità? Ci tenete dichiaratamente ad attirarvi le disgrazie, o non vi rendete conto di quel che state facendo? «Rincorrere il favore dei grandi, brigare per attirarsi l'affetto dei giovani, come state facendo, è un modo di agire affatto superficiale. I vostri giudizi e le vostre critiche vi stanno procurando nugoli di nemici. «I veri Saggi sono assai più riservati di quanto lo siate voi, e se concludono qualcosa, è grazie al loro riserbo. La disgrazia [vi pende sul capo], a voi che vi siete fatta una missione di provocare tutti, e perseverate con testardaggine su questa strada pericolosa! » F

Ci sono degli esseri che riescono a prevedere le fatalità da cui altri sono minacciati, 253

253 e non si accorgono di quelle che minacciano loro. Una notte il principe Yuan di Song vide in sogno una figura umana in lacrime che si presentò alla porta della sua camera da letto e gli disse: «Vengo dall'abisso di Zai-lu. Il genio dello Z'ing-chiang mi ha dato un incarico da trasmettere a quello del Fiume Giallo. Per strada sono stato catturato dal pescatore U-z'ié». Quando si svegliò, il principe Yuan chiese che gli indovini interpretassero il sogno. Questi risposero: «L'essere che vi è apparso [in sogno] è una tartaruga sacra». Il principe chiese: «C'è, fra i pescatori di qui, un tale di nome U-z'ié?» «Sì», dissero i presenti. «Fatelo venire da me» disse il principe. Il giorno dopo, all'udienza ufficiale, il pescatore si presentò «Che cos'hai preso?» gli chiese il principe. «Ho trovato nella rete» rispose il pescatore «una tartaruga bianca, che ha un guscio di cinque piedi di circonferenza». «Portamela» comandò il principe. Quando gliela portarono, il principe era in dubbio se farla uccidere o tenerla viva. Interrogò gli auspici sulla soluzione del problema, e la risposta fu: «Ammazzare la tartaruga sarà un vantaggio per la divinazione». La tartaruga fu uccisa. Il guscio fu forato in settantadue punti, e mai una bacchetta di millefoglie sbagliò la previsione. Confucio intese parlare di questa storia, e disse: «Quella tartaruga sacra fu sì in grado di apparire [in sogno] al principe Yuan, ma non riuscì a prevedere ed evitare la propria cattura! Dopo la sua morte, il guscio continuò a fare per gli altri predizioni infallibili, ma lei, per se stessa, non seppe prevedere che sarebbe stata uccisa! È, così, evidente che il sapere ha i suoi limiti, e che anche la scienza [tradizionale] non arriva a tutto». È vero; se l'uomo, anche il più savio, si è fatto troppi nemici, finisce con il soccombere ad essi. Il pesce che è sfuggito ai cormorani è catturato da una rete. A che pro, dunque, farsi tante sterili preoccupazioni? Meglio limitarsi a guardare le cose dall'alto. A che pro fare progetti ingegnosi? Meglio attenersi alla prudenza naturale. Il neonato non impara a parlare con metodi artificiali e le lezioni di un maestro; apprende naturalmente, attraverso i rapporti con i genitori che parlano. Allo stesso modo, la prudenza naturale si acquisisce con l'esperienza comune, senza sforzi. E per quel che riguarda gli incidenti anomali, a che serve volerli calcolare, giacché nulla ci preserva da essi? È fatalità! I frammenti che seguono, fino al termine del capitolo, sono fuori posto, dice la Glossa, e a ragione. Pianta dei cui rami erano fatte le bacchette divinatorie. G

Il [pensatore] sofista Hoei-zé disse a Chuang-tzu: «Voi parlate solo di cose inutili». Ripagandolo della sua moneta, Chuang-tzu ribatté: «Se conoscete ciò che è inutile, dovete sapere anche, immagino, ciò che è utile. La terra è utile all'uomo, perché sostiene i suoi passi; o mi sbaglio?» «Certo» rispose Hoei-zé. «Ora, se supponessimo che di fronte ai suoi piedi si spalancasse un abisso, gli sarebbe ancora utile?» chiese Chuang-tzu. «No» disse Hoei-zé. «Allora» riprese Chuang-tzu, «resta dimostrato che inutile e utile sono [per voi] si254

nonimi, dal momento che avete detto utile, poi inutile, la stessa terra. Perciò io parlo soltanto di cose utili». H Chuang-tzu disse: «Le disposizioni naturali degli uomini sono differenti. Non si riuscirà mai a far vivere in solitudine qualcuno che è fatto per conversare con gli uomini; non si riuscirà a far conversare con gli uomini qualcuno che è fatto per vivere in solitudine. «Sennonché la solitudine totale, la conversazione smodata, sono eccessi, non la natura. Il misantropo si seppellisce vivo, l'intrigante si butta nel fuoco. Gli estremi vanno evitati. Né è il caso di dare [in esempio] degli atti straordinari, giacché quando siano dimenticate le circostanze in cui furono compiuti, la storia potrà addirittura giudicarli eccentrici, e non eroici. «Non è il caso di esaltare sempre l'antichità e di deprezzare [sistematicamente] il tempo presente, come fanno gli uomini dei libri (Confucio). Dall'epoca di Hi-uei sappiamo che nessuno può risalire la corrente. Seguiamo perciò il filo del tempo. «L'uomo superiore si adatta alle epoche e alle circostanze. Non è eccentrico, non è misantropo, non è intrigante. Agli uomini si concede, senza darsi. Lascia che si pensi e si dica, non contraddice, e conserva il suo modo di vedere». Alla condizione che non ci siano ostacoli, l'occhio vede, l'orecchio ode, il naso sente gli odori, la bocca i gusti, il cuore percepisce, lo spirito produce gli atti adeguati. In qualsiasi canale, la cosa essenziale è che non ci siano ostruzioni. Ogni ostruzione provoca strozzatura, arresto delle funzioni, lesione della vita. Per i loro atti vitali gli esseri dipendono dal respiro. Se in un uomo il respiro non è abbondante, la colpa di ciò non va ascritta al cielo, che di esso giorno e notte lo penetra; essa va attribuita a lui, che ostruisce i suoi canali con ostacoli fisici o psichici. Per ciò che riguarda la concezione, il cavo della matrice dev'essere ben permeabile all'influsso del cielo, ciò che presuppone la buona permeabilità delle sue due vie (le trombe uterine). Per il mantenimento della vita, il cavo del cuore dev'essere ben permeabile all'influsso del cielo, ciò che presuppone la buona permeabilità delle sue sei valvole. Quando una casa è stipata, la suocera e la nuora, per carenza di spazio si accapigliano. Quando gli orifizi del cuore sono ostruiti il suo funzionamento diventa irregolare. La vista della bellezza seduce l'animo. Il valore degenera in ambizione, l'ambizione in violenza, la prudenza in ostinazione, la scienza in dispute, la pienezza in pletora. Il bene pubblico ha prodotto l'amministrazione e il burocratismo. In primavera, sotto l'azione concorde della pioggia e del sole, le erbe e gli alberi crescono in modo esuberante. La falce e la roncola ne eliminano la metà; l'altra metà rimane. Né la parte eliminata né la sopravvissuta conoscono il perché del loro destino. Fatalità! [Volere superiore; non "caso"]. J Il riposo restaura la salute, la continenza ripara l'usura, la tranquillità pone rimedio alla tensione [psichica]. Questi sono rimedi curativi. Migliori sono quelli preventivi. I procedimenti sono diversi. L'uomo superiore ha i suoi. Il Saggio exoterico anche. Gli abili hanno anch'essi i loro. Governanti e sudditi hanno i loro principi. K Il medesimo procedimento non dà sempre gli stessi risultati. Nella capitale di Song era morto il padre del guardiano della porta Yen-menn; il figlio dimagrì talmente dal do255

255 lore che si decise di conferire a un tale modello di pietà filiale l'incarico di capo dei funzionari. Vedendo questo, altri fecero come lui; non ebbero nessun incarico, e morirono di tisi. Per evitare il trono, Hu-yu si limitò a fuggire, U-coang [invece] pensò bene di suicidarsi. Delusi nella propria ambizione, Chi-t'uò andò volontariamente in esilio, Sciennt'u-ti si suicidò annegandosi. L Catturato il pesce, la nassa viene dimenticata. Presa la lepre, non si ha più nessun interesse per la trappola. Trasmessa l'idea, poco importano le parole che sono servite per veicolarla. Quanto vorrei, io (Chuang-tzu), avere a che fare solo con uomini per cui le idee sono tutto, e niente le parole.

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XXVII Verbo e parole

A «Molti dei miei discorsi» disse Chuang-tzu «sono parabole [o «apologhi»]: molti sono la ripetizione di discorsi altrui. Ho detto, a volta a volta, quel che mi è venuto bene di dire, seguendo il mio senso naturale [interiore]. Mi sono servito di esempi simbolici tratti dalla realtà esteriore, per far capire cose che [risiedono nel mondo] delle idee. «Non ho la pretesa di affermare che i miei discorsi siano tutti perfetti, giacché non è bene che un padre tessa l'elogio di suo figlio. La lode ha un valore solo quando provenga da un altro. Ad ogni buon conto, io credo che essi abbiano qualità per farsi capire. Tanto peggio per coloro che non li capiranno. «Ho riportato i discorsi di altri allo scopo di chiarire alcune controversie, visto che coloro a cui piace discutere sono inclini a dare grande importanza alla tesi della propria parte, e a trascurare quella della parte avversa. Gli uomini di cui ho riferito in tal modo i pareri sono [fra i] miei antenati, [fra] coloro che mi hanno preceduto. Non che io ritenga qualunque antico un'autorità; non è proprio così che la penso! «Chi non sia andato al fondo delle cose, per quanto possa essere antico, non è un'autorità ai miei occhi, e secondo me [la sua opinione] non dovrebbe aver peso. Può trattarsi di un narratore di cose antiche (Confucio), ma questo non vuol dire che di cose antiche sia un maestro. «Ho parlato senza orpelli, in modo naturale, secondo l'impulso del mio senso intimo; perché soltanto le parole così profferite piacciono e durano. Infatti, prima ancora di tutti i discorsi c'è in ogni essere un'armonia innata, [che è] la loro natura. In virtù di questa armonia preesistente, il mio verbo, — se è naturale —, farà vibrare quello degli altri, [anche] con poche, o con nessuna parola. «Da qui discendono le note espressioni: "C'è un verbo senza parole... Talvolta non c'è bisogno di parole... Qualcuno ha parlato tutta la vita senza dire nulla... Qualcuno, che è stato zitto per tutta la vita, ha [invece] detto molto". «A questo stesso senso naturale si riferisce la constatazione che ogni uomo percepisce spontaneamente se una cosa è adatta o no, se le cose stanno così, o non stanno così. Una percezione del genere non può spiegarsi in altro modo. È così perché è così; non è così perché non è così. Questo va bene perché va bene; questo non va bene perché non va bene. «Ogni uomo è fornito di questo senso di approvazione o di riprovazione. Esso vibra all'unisono in tutti gli uomini. Le parole che sono conformi a esso sono accettate perché sono consonanti [con esso], e durano perché sono naturali. «[Ci si può chiedere] da dove venga una simile unità del senso naturale; essa proviene dall'unità di tutte le nature. Sotto le distinzioni specifiche e individuali, sotto le innumerevoli e incessanti trasformazioni, al fondo dello sviluppo ciclico [delle possibilità di manifestazione] senza inizio e senza fine, si cela una legge, che è stata chiamata la ruota (del vasaio) naturale, o più semplicemente la natura (una, di cui tutti gli esseri partecipano, nei quali tale partecipazione comune produce un fondo di comune armonia)». 257

257 B Chuang-tzu disse a Hoei-zé: «Nel corso del suo sessantesimo anno [d'età], Confucio cambiò idea. Negò quel che aveva affermato fino a quel momento (la bontà e l'equità artificiali). Ma è poi certo che ciò che sostenne dopo, lo credesse più fermamente di ciò che aveva sostenuto fino ad allora?» «Io credo» rispose Hoei-zé «che Confucio abbia sempre agito conformemente alle sue convinzioni». «Ne dubito» disse Chuang-tzu. «Ma comunque stiano le cose, dopo il suo cambiamento di idee egli insegnava che tutto proviene all'uomo dal grande ceppo; che il suo canto deve essere in armonia con la scala [dei toni] e la sua condotta con la legge; che nel dubbio morale, speculativo o pratico, bisognava decidere in base al "che cosa ne dirà la gente"; che occorreva piegarsi di buon grado ai costumi stabiliti dallo stato, qualunque essi fossero; eccetera, eccetera... «Ma basta! Basta! Anche qui non ce la faccio a seguirlo». Per far bene, l'uomo deve seguire il suo istinto naturale. C Zeng-zé fu [nominato] funzionario due volte, con stati d'animo che egli così spiegò: «Nel corso della mia prima nomina avevo un trattamento da sole trenta moggia di cereali; ma i miei genitori, che erano ancora vivi, potevano approfittarne, e io adempii il mio incarico con piacere. «Durante la seconda nomina, ebbi un trattamento da centonovantaduemila moggia; ma i miei genitori erano ormai morti, e io ricoprii l'incarico senza goderne minimamente». I discepoli di Confucio domandarono a quest'ultimo: «Non pensate che la condotta di Zeng-zé sia stata viziata da un attaccamento fuori posto?» «Certo» rispose Confucio; «un attaccamento d'animo al suo stipendio, al quale non avrebbe dovuto badare più che a una zanzara o a una gru che gli passassero davanti agli occhi». In realtà, attaccamento d'animo per i genitori. Ma poiché la pietà filiale era il fondamento del suo sistema, Confucio non voleva dirlo. Chuang-tzu lo mette in una luce dubbia, e insinua che anche l'attaccamento ai parenti è contro la pura natura, poiché procura piacere o dolore. D Yen-c'eng-zé disse a Tong-cuò-zé Ch'i: «Da quando sono diventato vostro discepolo sono passato attraverso gli stati che vi descriverò: dopo un anno avevo ritrovato la mia semplicità originaria. Dopo tre anni avevo perduto il senso dell'io e del tu. Dopo quattro anni ero diventato distaccato e insensibile. Dopo cinque anni incominciai a vivere d'una vita superiore. Dopo sei anni il mio mentale, interamente concentrato all'interno del corpo, non si disperdeva più. Dopo sette anni, entrai in comunicazione con la natura universale. Dopo otto anni, cessai di preoccuparmi della vita e della morte. Alla fine, dopo nove anni, si compì il mistero; mi ritrovai unito al Principio». È l'attività [che si dispiega] durante la vita a causare la morte. È il principio yang (la natura) che produce la vita. Per la qual ragione, la vita e la morte sono cose derivate. C'è così bisogno di preoccuparsene? Si calcolano i fenomeni celesti, si misurano le superfici della terra; sono scienze superficiali, che non toccano la ragione profonda dell'universo. Se non sappiamo nulla dell'inizio e della fine, come facciamo a sapere se il mondo è retto o no da una legge, la quale presupporrebbe un autore? 258

Quelle che talvolta si fanno passare per sanzioni, siccome possono anche essere soltanto un frutto del caso, come si fa a sapere se dietro di esse ci sono o non ci sono dei Mani? Il senso è: non si può sapere nulla di una causa al di fuori di noi; [tutto quel che si può sapere in via «scientifica» è che] la vita è una questione di sviluppo [cambiamento, «evoluzione» dice il Wieger, ma non nel senso speciale che la parola ha assunto per gli Occidentali moderni]; la morte è un portato dell'usura. E Le penombre (simbolico per: «gli pseudo-scienziati», [i sapienti «dell'esterno»]) dissero all'ombra (per: l'ignoranza [individuale] taoista): «Un po' siete curva, un po' siete dritta, un po' siete raccolta, un po' siete diffusa; seduta, poi in piedi, mobile, poi in riposo; qual è la ragione di tutti questi cambiamenti?» «Non lo so» rispose l'ombra; «sono fatta così, senza che ne sappia il perché. Io sono, alla stregua dell'involucro da cui è uscita una cicala, della pelle di cui si è spogliato il serpente, un accessorio, una cosa che non ha esistenza propria. [Anzi], sono anche meno reale di tali oggetti. «Alla luce del giorno, o del fuoco, io compaio; appena la luce si abbassa, scompaio. Io dipendo, quanto al mio essere, da un oggetto il quale dipende, quanto al suo essere, dall'essere universale. Quando quello appare, anch'io appaio; quando quello muore, io me ne vado con lui. Non vi posso render conto dei miei movimenti». Conseguentemente tutto è «un prodotto», esistente soltanto in grazia del Principio, in dipendenza dal Principio. Cosciente di questo, il discepolo della saggezza deve prima di tutto essere profondamente modesto. F Yang-zechiù andava a P'ei, e Lao-tzu a Z'inn; i due si incontrarono a Leang. Mal impressionato dall'atteggiamento vanitoso di Yang-zechiù, Lao-tzu levò gli occhi al cielo e disse sospirando: «Non credo sia il caso di perdere il mio tempo a istruirvi». Yang-zechiù non rispose. Arrivati alla locanda, Yang-zechiù portò di persona a Lao-tzu il necessario per la toeletta. Poi, lasciati i calzari davanti alla porta, si inoltrò sulle ginocchia [all'interno della stanza] fin davanti a lui, e gli disse: «È da tempo che desidero vivamente ricevere il vostro insegnamento. Non ho osato fermarvi per strada, per richiedervelo; ma ora che siete più tranquillo, abbiate la compiacenza di dirmi prima di tutto il significato delle parole che avete pronunciato quando mi avete visto». Lao-tzu rispose: «Avete uno sguardo così altezzoso che fate scappare la gente; mentre il discepolo della saggezza è come confuso, per quanto possa essere irrreprensibile, e sente la sua insufficienza, per quanto possa essere avanzato». Molto colpito, Yang-zechiù esclamò: «Approfitterò della vostra lezione». Ne approfittò così bene, e si fece così modesto, nello spazio della sola notte che passò alla locanda, che tutta la gente di casa che l'aveva servito con timore e reverenza all'arrivo, non ebbe più il minimo riguardo per lui prima della sua partenza (giacché in Cina i riguardi si misurano sull'insolenza del viaggiatore).

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XXVIII Indipendenza

A Yao voleva cedere il trono a Hu-yu, ma questi lo rifiutò. Yao allora lo offrì a Zéceù-cie-fu, il quale rifiutò anche lui; non che pensasse di non essere all'altezza, ma perché soffriva di atrabile, e le preoccupazioni del governo l'avrebbero aggravata. Preferì perciò la cura della propria vita alla cura dell'impero. Quanto più avrebbe preferito la cura della sua vita a cure di minor importanza [di quelle dell'impero]? A sua volta, Sciunn offrì il trono a Zé-cù-cie-pai. Questi rifiutò adducendo di essere affetto da ipocondria, [malattia] che sarebbe stata peggiorata dalle preoccupazioni [per l'impero]. È cosa certa che non avrebbe voluto nuocere alla propria salute pure per ragioni di portata minore. Ecco in cosa i discepoli del Principio sono diversi dalla maggioranza degli uomini (si preoccupano della conservazione della loro vita, laddove l'uomo comune la sprecherebbe per ambizione). A questo punto Sciunn offri l'impero a Scian-cuan, il quale lo rifiutò con queste parole: «Cittadino dell'universo, obbediente suddito delle sue rivoluzioni, in inverno mi vesto di pelli [di animali] e in estate [di abiti] di garza; in primavera coltivo la terra evitando di affaticarmi troppo, e in autunno raccolgo quel che mi è necessario; di giorno lavoro, di notte mi riposo. «Così vivo, senza attaccamenti, tra il cielo e la terra, soddisfatto e contento. Per qual ragione dovrei prendermi sulle spalle il peso dell'impero? Proponendomelo, dimostrate di conoscermi ben male...» Detto ciò, per evitare nuove proposte se ne andò via, ritirandosi all'interno di una regione montagnosa e nessuno seppe mai dove si stabilì. Allora Sciunn offerse l'impero a un vecchio amico di gioventù, il colono Cie-hu, il quale lo rifiutò con questo discorso: «Se voi, che siete robusto e capace, non ce la fate, quanto più io [fallirei], che non sono alla vostra altezza...» Ciò detto, per evitare di esservi obbligato, si mise per mare con moglie e bambini e non si fece mai più vedere. T'ai-uang Tan-fu, l'antenato dei Ceù, che aveva stabilito la propria residenza a Pinn, era attaccato senza tregua dai nomadi Ti. Qualunque fosse l'entità dei tributi che gli pagava, pelli, sete, cani e cavalli, perle e giada, costoro non ne avevano mai abbastanza, perché in realtà quel che volevano erano le sue terre. Tan-fu rifletté: «I miei sudditi sono miei fratelli, miei figli; non voglio essere la causa della loro rovina». Convocate perciò le sue genti, disse loro: «Sottomettetevi ai Ti, e vi tratteranno bene. Non vedo perché dovreste essere legati a me. Né maggiormente mi piace vivere alle vostre spalle, mettendo a rischio le vostre vite...» Ciò detto, prese il bastone e se ne andò. Tutta la sua gente lo seguì, e andò con lui a stabilirsi ai piedi del monte Ch'i'. Questo è certo un bell'esempio del rispetto che il Saggio ha per la vita altrui. Chi capisce il rispetto che si deve avere per la vita, non espone la propria né per amore di ricchezza, né per timore di povertà; né la espone per procurarsi incarichi sempre 260

più alti. Rimane nella propria condizione, [accontentandosi] della propria sorte; e questo, mentre la gente comune si espone alla leggera, per qualsiasi insignificante piccolo vantaggio. La gente di Ué assassinò il suo re per tre volte di seguito. Per non subire la stessa sorte, il principe Seù scappò, e andò a nascondersi nelle grotte di Tan-hué. Trovatisi senza re, gli abitanti di Ué si misero a cercarlo, scoprirono il suo rifugio, lo affumicarono per farlo uscire, lo caricarono [a forza] sulla carrozza regale, mentre il principe, rivolto al cielo, gridava: «Se questa gente ha bisogno di un re, perché bisogna proprio che quello sia io?!» Non temeva la dignità di re, il principe Seù, ma le disgrazie a cui essa espone. Il trono di un principato non valeva ai suoi occhi il rischio della propria vita. E poiché le cose stavano così, la gente di Ué aveva ragione a volerlo re. B I principati di Han e di Uei si contendevano un fazzoletto di terra [che si trovava] in mezzo ai due loro territori. Zé-hoà-zé, che era andato a render visita al marchese Ciaohi di Han e l'aveva trovato preoccupatissimo per la cosa, gli disse: «Supponiamo che esista una disposizione che suoni così: "Chi metterà mano all'impero avrà l'impero, ma perderà la mano, sinistra o destra [che sia], che ci avrà messo...", in tal caso, mettereste mano all'impero?» «Certo che no!» rispose il marchese. «Benissimo» disse Zé-hoà-zé. «Questo vuol dire che voi tenete più alle vostre due mani che all'impero. Ora, la vostra vita vale ancora di più delle vostre due mani. Han vale meno dell'impero, e il fazzoletto di terra che è causa del litigio vale ancor meno di Han. Perché dunque vi torturate di tristezza, fino al punto di compromettervi la vita, per un oggetto tanto insignificante?» «Nessuno mi aveva ancora mai parlato con tanta saggezza» disse il marchese. E di fatto, Zé-hoà-zé aveva molto opportunamente distinto il futile (aumento del territorio) dall'importante (conservazione della vita). C Avendo il principe di Lu inteso dire che Yen-ho possedeva la scienza del Principio, mandò un messo a portargli in dono, da parte sua, un assortimento di seterie. Vestito di tela grossolana, Yen-ho stava dando da mangiare a un suo bue, sulla porta della sua casupola. Il messo del principe, che non lo conosceva, gli domandò: «È qui che abita Yenho?» «Sì» rispose lui; «sono proprio io». Il messo gli mostrò le sete: «Non è possibile» fece Yen-ho; «amico mio, forse avete capito male le istruzioni; chiedete delucidazioni, perché [se no] correte il rischio di attirarvi l'ira [di chi vi manda]». Il messaggero tornò in città e chiese chiarimenti. Quando ritornò, Yen-ho non c'era più. Questo è un esempio di vera indifferenza per le ricchezze. Per il discepolo del Principio la cosa essenziale è la conservazione della propria vita. Egli dedica al governo di un principato o dell'impero, quando sia obbligato [a occuparsene], soltanto l'eccesso della sua energia vitale, e tiene per accessorio il suo incarico, mentre la cosa principale resta per lui la cura della propria vita. Gli uomini comuni del nostro tempo, al contrario, pregiudicano la loro vita [sacrificandola] al loro interesse; e ciò è deplorevole! Prima di fare qualsiasi cosa, un vero Saggio esamina il fine e sceglie i mezzi. I no261

261 stri moderni, invece, sono tanto sconsiderati che, scegliendo come proiettile la perla del marchese di Soei, tirano su un passero a mille tese di distanza [due chilometri], e si fanno lo zimbello di tutti sacrificando un oggetto tanto prezioso per un risultato così insignificante e incerto. In verità quel che fanno è ancor peggio, perché la loro vita, che rischiano, è ben più preziosa di quanto non fosse la perla del marchese di Soei. D Lieh-tzu era ridotto alla più nera miseria, e sul suo volto si leggevano le sofferenze della fame. Un visitatore parlò di lui a Zé-yang, ministro del principato di Cieng, in questi termini: «Lie-uch'eù è un "letterato" che conosce la scienza del Principio. La sua miseria farà dire del principe di Cieng che non si prende cura dei letterati». Colpito da questa osservazione, [e risentito], Zé-yang fece subito dar ordine al funzionario del suo distretto di mandare del cereali a Lieh-tzu. Quando l'inviato del funzionario si presentò a casa sua, Lieh-tzu lo salutò con molta cortesia, ma rifiutò il dono. Dopo che [l'inviato] fu partito, la moglie di Lieh-tzu, battendosi il petto per il dispiacere, disse al marito: «La moglie e i figli di un Saggio, [mi sembra], dovrebbero vivere nell'agio e nella tranquillità. Finora abbiamo [invece] patito la fame, [e questo] perché il principe ci aveva dimenticati. Adesso, ecco che, ricordandosi di noi, ci manda qualcosa da mangiare. E voi l'avete rifiutato! Non avreste forse agito contro il destino?» «No» disse Lieh-tzu ridendo, «non ho agito contro il destino, perché [in realtà], non è il principe che ci manda quel grano. «Qualcuno ha parlato bene di me al ministro, che ci ha inviato quei cereali; se questo qualcuno avesse [invece] parlato di me sfavorevolmente, egli avrebbe mandato gli sbirri, senza pensarci un momento. «Caso fortuito, non volontà superiore [di cui il ministro sia cosciente]; ecco perché ho rifiutato. Non voglio essere debitore di nulla a Zé-yang». Poco tempo dopo Zé-yang fu ammazzato dalla plebaglia, nel corso di una sommossa. E Il re Ciaò di C'iù era stato cacciato dal suo regno, e Ué, il macellaio di corte, lo aveva accompagnato nella fuga. Quando il re recuperò il suo regno, fece distribuire ricompense a quelli che lo avevano seguito. Venuto il turno del macellaio Ué, questi rifiutò qualsiasi retribuzione. «Avevo perduto il mio incarico con la partenza del re» disse; «con il suo ritorno l'ho riavuto; di conseguenza sono stato rimborsato; non vedo perché mi si debba dare anche una ricompensa». Il re ordinò ai funzionari di insistere, e il macellaio rispose: «Non avevo meritato la morte per qualche colpa che avessi commesso, [perciò] non volli essere ammazzato dai ribelli; ecco perché ho seguito il re; ho [cercato di] salvarmi la vita e non ho fatto nulla che potesse essere utile per il re; a che titolo dovrei accettare una ricompensa?» A questo punto il re ordinò che il macellaio venisse portato in sua presenza, pensando di riuscire a convincerlo personalmente ad accettare. Saputa la qual cosa, il macellaio disse: «Secondo la legge di C'iù soltanto le grandi ricompense concesse per meriti straordinari sono conferite dal re in persona. Ora io, in quanto a saggezza, non ho [certo] impedito la caduta del reame; in quanto a coraggio sono scappato per salvarmi la vita. In tutto rigore, non ho neppure il merito di aver seguito il re nella sua sfortuna. E adesso il re vuole, contro la legge e contro l'uso, convocarmi in udienza [particolare] e ricompensarmi di persona. Io non voglio che si possa dire una cosa del genere di lui e di me». 262

Questi propositi furono riferiti al re, e questi disse al generale in capo Zé-ch'i: «Pur essendo di umile condizione questo macellaio nutre sentimenti sublimi. Offritegli da parte mia un posto nella gerarchia dei grandi vassalli». Zé-ch'i trasmise l'offerta [al macellaio di corte] e Ué rispose: «So bene che un vassallo è più nobile di un macellaio, e che il reddito di un feudo è più alto della somma che io percepisco per il mio ufficio. Sennonché io non voglio saperne di un favore che al mio principe sarebbe imputato come un'illegalità. Lasciatemi conservare [in pace] la mia macelleria!» Per quante insistenze gli fossero fatte, Ué tenne duro, e rimase macellaio. Esempio dell'indipendenza di comportamento dei Taoisti. F Yuan-hien abitava, nel paese di Lu, una casetta rotonda con i muri di paglia e calce; la casa era circondata da una siepe di alberelli spinosi e sul tetto cresceva l'erba. Una tenda anch'essa di paglia, fissata a un ramo di gelso, chiudeva malamente l'apertura che faceva da porta. Due giare sfondate, incastrate nel muro, chiuse da un pezzo di tela chiara distesa, costituivano le finestre delle sue due stanzette minuscole. Il tetto lasciava sgocciolare l'acqua piovana, e il pavimento era marcio di umidità. In questa spelonca miserevole, Yuan-hien, seduto per terra, suonava il suo liuto tutto contento. Zé-cung andò a trovarlo, accomodato su una carrozza di tal larghezza che non riuscì a entrare nella stradina [che portava alla casa], abbigliato d'un abito bianco foderato in porpora Yuan-hien lo accolse, un cappelluccio sdrucito in testa, un paio di calzari sfondati ai piedi, appoggiandosi a un ramo d'albero in guisa di canna. Vedendolo, Zé-cung esclamò: «Oh! Come [dovete sentirvi] infelice!» «Chiedo scusa» ribatté Yuan-hien; «ma esser privo di beni è esser poveri. Sapere e non fare è essere infelici. Io sono [solo] molto povero, ma non infelice». Zé-cung ammutolì. Yuan-hien continuò: «Agire per piacere alla gente, farsi degli amici personali travestendo la cosa da bene pubblico, studiare per farsi ammirare, insegnare per arricchirsi, indossare l'abito della bontà e dell'equità come una maschera, andare in giro in sontuoso equipaggio, — cose che voi fate tutte —, queste sono le cose che io non farò mai». Zeng-zé abitava nel paese di Uei. Indossava un abito di telaccia senza fodera; il volto tradiva la sofferenza e la fame. I calli alle mani e ai piedi rivelavano quanto duramente lavorasse per vivere. Non aveva di che pagarsi un pasto caldo [neanche] una volta ogni tre giorni. Un vestito gli doveva bastare per dieci anni. Se avesse cercato di annodarsi i capelli, i legacci, consumati, si sarebbero strappati. Se avesse cercato di infilare tutto il piede nelle scarpe, il tallone si sarebbe sfondato. Se avesse tirato le maniche della veste, gli sarebbero restate in mano. E tuttavia, [anche] vestito di stracci e calzato di ciabatte, cantava gli inni della dinastia Ciang con una voce che vibrava nell'aria come il suono d'uno strumento di bronzo o di selce. L'imperatore non riuscì a convincerlo a diventare ministro, i grandi feudatari non furono capaci di legarselo come amico. Fu il prototipo degli spiriti indipendenti e liberi. Chi tiene alla propria libertà deve rinunciare agli agi del corpo. Chi tiene alla propria vita deve rinunciare alle cariche. Chi tiene all'unione con il Principio deve rinunciare a ogni attaccamento.

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263 Confucio disse a Yen-hoei: «Hoei, ascoltami! La tua famiglia è povera; perché non cerchi di procurarti qualche carica?» «No» disse Yen-hoei, «di cariche non voglio saperne. Ho cinquemila pertiche [di terra] in campagna che mi danno da mangiare, ne ho mille alla periferia [della città] che mi consentono di vestirmi. Per la mia contentezza mi basta la meditazione su quel che mi insegnate, e il mio accompagnamento sul liuto. No, non cercherò di avere una carica». Questo discorso colpì molto Confucio, il quale si disse: «Quale animo elevato ha Hoei! Sapevo, teoricamente, che chi ha gusti modesti non si procura complicazioni; che colui che si occupa soltanto del suo sviluppo interiore le privazioni non lo imbarazzano; che chi tende solo alla perfezione non tiene le cariche in nessun conto. Anzi, è da molto che predico questi principi. Ma è solo ora che li vedo applicati da Hoei. Oggi io, il teorico, ho ricevuto una lezione di pratica». G Meù, figlio del marchese di Uei, aveva ricevuto l'appannaggio di Ciung-scian (sul mare); egli disse a Cian-zé: «Io sono venuto qui in riva al mare, ma il mio cuore è rimasto alla corte di Uei». Cian-zé rispose: «Cercate di vincere la nostalgia, perché se no, sarà lei a consumarvi la vita». Il principe Meù replicò: «Ci ho provato, ma senza risultato. Il mio è un dolore di quelli che non si vincono». «Allora» riprese Cian-zé, «dategli libero sfogo (piangendo, urlando, ecc.). Giacché reagire con violenza contro un sentimento più forte di noi è sottoporsi a un'usura duplice (il dolore, e in più la reazione). Nessuno di coloro che agiscono in questo modo ha vita lunga». Essere obbligato a vivere in un paese di rocce e di caverne, per un principe abituato alla vita di corte, era senza alcun dubbio più duro di quel che non sarebbe stato per un uomo di casta inferiore. E tuttavia è deplorevole, e per lui triste, che, dotato di ciò che era necessario per tendere verso il Principio, non l'abbia raggiunto. Quivi avrebbe trovato la pace nel distacco. H Quando Confucio fu fermato e bloccato tra C'enn e Z'ai, restò sette giorni senza carne né cereali, costretto a vivere di erbe selvatiche. Nonostante lo sfinimento, continuava a suonare il liuto nella casa in cui si era rifugiato. Yen-hoei, che raccoglieva erbe fuori della casa, udì i discepoli Zé-lu e Zé-cung che dicevano tra di loro: «Il Maestro è stato cacciato due volte da Lu, fermato una volta a Uei. A Song hanno buttato giù l'albero sotto il quale si riparava. A Sciang e a Ceù ha corso grossi rischi. Adesso, eccolo stretto d'assedio in questo posto. Sperano che sparisca senza avere il coraggio di ammazzarlo; ma è certo che chi avrà il coraggio di fare il gesto non sarà punito. Il Maestro lo sa, e suona il liuto. È veramente un Saggio qualcuno che si rende così poco conto della sua situazione?» Yen-hoei riferì a Confucio queste parole, e questi, smettendo di suonare e gettando un sospiro, disse: «Sono due anime da poco. Chiamali, che gli parli!» Dopo che furono entrati, Zé-lu disse a Confucio: «Questa volta è finita!» «No» rispose Confucio. «Fintantoché la dottrina di un Saggio non è stata confutata, egli non è finito. Sceso in lizza per la bontà e l'equità in un'epoca di odi e di disordini, è naturale che io incontri violente opposizioni, ma questo non significa che esse segnino la 264

mia fine. «La mia dottrina è inconfutabile, e io non devierò da essa a causa di nessuna persecuzione. Le brine dell'inverno mettono solo in maggior risalto la forza di resistenza del cipresso, che non per esse perde le foglie. Lo stesso sarà, per la mia dottrina, di questo incidente tra C'enn e Z'ai...» Detto ciò, Confucio ricominciò a suonare il liuto e a cantare, con aria grave. Zé-lu, pacificato, afferrò uno scudo e si mise a danzare una pantomima. Zé-cung affermò: «Non sapevo quanto alto fosse il cielo al disopra della terra (il Saggio, al di sopra della gente comune)». Gli Antichi, che possedevano la scienza del Principio, erano ugualmente contenti sia nella buona che nella cattiva sorte, [e questo] perché il successo e l'insuccesso erano loro indifferenti del pari. La loro contentezza derivava da una causa superiore, dalla coscienza, [cioè], che successo e insuccesso procedono entrambi dal Principio, in modo fatale, ineluttabile, alla stregua del vento e della pioggia, in una successione e alternanza alle quali non resta che sottomettersi. È in virtù di tal scienza che Hu-yu fu contento a nord del fiume Ying, e che Cungpai [fu contento] ai piedi del monte Ch'iù-ceù. (Paragrafo sospetto, probabilmente interpolato. Si confronti: Chuang-tzu, cap. XVII, C; cap. XX, D e G). I

Sciunn' aveva offerto l'impero al suo vecchio amico U-ciai: «Però!» disse questi, «Avete abbandonato i campi per la corte, e ora volete che anch'io mi abbassi [a questo]. Non vi riconosco più!» Detto ciò, U-ciai andò a gettarsi nell'abisso di Z'ing-ling. Prima di attaccare (il tiranno) Chié, (il futuro imperatore) T'ang consultò Pien-soei, il quale gli rispose: «Non sono affari miei». «A chi devo chiedere consiglio, allora?» gli chiese T'ang. «Non lo so» rispose Pien-soei. T'ang si rivolse a U-coang, il quale rispose anch'egli: «Non lo so, non sono cose mie...» T'ang disse allora: «E se chiedessi a I-yinn?» «Perfetto!» disse U-coang. «Grossolano e meschino, ha quel che occorre per i vostri piani; ha solo quello, del resto». Su consiglio di I-yinn, T'ang attaccò Chié, lo batté, poi offrì il trono a Pien-soei. Questi gli rispose: «Il fatto che non abbia voluto darvi consigli, avrebbe dovuto farvi capire che non voglio aver nulla a che fare con un ladro; e adesso mi offrite [addirittura] quel che avete rubato! Bisogna che i nostri tempi siano ben perversi perché un uomo senza coscienza [come voi] venga per ben due volte a cercare di lordarmi con il suo contatto! Un'offesa del genere non me la lascerò fare una terza volta». Ciò detto, Pien-soei andò a gettarsi nel fiume Ceù, [e vi annegò]. Dopo di ciò, T'ang offrì il trono a U-coang, facendogli questo discorso artefatto: «Un saggio (I-yinn) ha fatto il piano (per detronizzare Chié); un valoroso (T'ang) l'ha eseguito; ora tocca al buono (U-coang) salire sul trono, secondo le tradizioni degli Antichi...» U-coang rifiutò, con queste parole: «Detronizzare un imperatore significa mancare di equità; ammazzare i suoi sudditi significa mancare di bontà; profittare dei delitti altrui vorrebbe dire essere senza pudore. Io mi attengo ai dettami tradizionali, i quali proibi265

265 scono di accettare qualsiasi carica da un signore iniquo, e di calcare il suolo di un impero senza principi. Io rifiuto di ricevere un incarico onorifico dalle vostre mani, e non voglio vedervi più!» Con il che, U-coang si legò un pietrone sulla schiena e si buttò nel fiume Lu. J Un tempo, all'origine della dinastia Ceù, i due principi letterati, e fratelli, Pai-i e Sciù-z'i vivevano a Cu-ciù. Come seppero la notizia del cambiamento di dinastia, si dissero: «Pare che all'Ovest regni un uomo che è un Saggio; andiamo a vedere!» Arrivati a sud del monte Ch'i (alla capitale dei Ceù), l'imperatore U li fece ricevere dal fratello Tan, il quale promise loro, sotto giuramento, ricchezze e onori se avessero voluto servire la sua casata. I due fratelli si guardarono, sorrisero di disprezzo e risposero: «Ci siamo sbagliati! Non è questo che cercavamo...» Nel frattempo avevano saputo com'era avvenuto il cambiamento di dinastia; per cui aggiunsero: «Un tempo, l'imperatore Scienn-nung, così devoto e rispettoso [della tradizione], offriva i sacrifici per il suo popolo, senza aggiungere alcuna domanda particolare per sé. Dal governo dei propri sudditi, al quale si dedicava in modo tanto coscienzioso, non traeva per se stesso né gloria né profitto. «I Ceù, che hanno approfittato della decadenza degli Yinn per invadere l'impero, sono uomini del tutto diversi. Hanno cospirato contro l'imperatore, sobillato i suoi sudditi, usato la forza. Giurano per farsi credere (contrario alla semplicità taoista), si vantano per piacere [ad altrui], fanno la guerra per il loro profitto. «È evidente che il mutamento avvenuto nell'impero è stato dal male al peggio. «Un tempo gli Antichi, in tempi d'ordine servivano, in tempi di disordine si ritiravano. Attualmente, l'impero è nelle tenebre, i Ceù sono senza virtù. È meglio per noi che ci ritiriamo, per restare puri, piuttosto che lordarci al contatto di questi usurpatori». Presa questa decisione, i due Saggi andarono verso nord, fino al monte Ceù-yang, dove morirono di fame. L'esempio di questi due uomini è ammirevole. Offertigli ricchezze e onori, inaspettatamente, non se ne lasciarono sedurre; non si separarono dai loro nobili principi, che possono riassumersi in questa massima: «Non asservirsi al mondo».

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XXIX Politici

A Confucio aveva come amico Chi, di Liù-hià. Questi aveva un fratello minore che era chiamato Ceé il bandito. Questo individuo aveva messo insieme una banda di novemila uomini, i quali facevano nell'impero tutto quel che gli aggradava; ricattavano i prìncipi, rapinavano i possidenti, rubavano il bestiame, rapivano donne e ragazze, e non risparmiavano nemmeno i loro parenti prossimi; la loro empietà era tale che trascuravano persino di fare le offerte agli antenati. Quando comparivano loro, le città si chiudevano a difesa, i paesani si barricavano. [Per le bravate] di questi malfattori non c'era nessuno che non soffrisse. Confucio disse a Liuhià-chi: «Tocca ai padri tenere a bada i figli; ai fratelli maggiori tenere a bada i fratelli minori. Se non lo fanno, è perché non hanno a cuore il loro dovere. Voi siete uno dei migliori funzionari dell'epoca, e vostro fratello minore è il brigante Ceé. Quest'uomo è un flagello per l'impero e voi non fate nulla per rimetterlo sulla retta via. Mi vergogno per voi. Vi avverto che andrò io ad ammonirlo al vostro posto». Liuhià-chi gli rispose: «È vero che i padri e i fratelli maggiori hanno il dovere di fare la lezione ai loro figli e ai loro fratelli minori; ma quando i figli e i fratelli minori non vogliono ascoltare, anche se il padre o il fratello maggiore fosse eloquente come voi, il risultato sarà nullo. Mio fratello Ceé ha un carattere appassionato e violento. Per di più, ha una forza tale che non ha da temere nessuno, e una tale eloquenza che è capace di dare alle sue malefatte il colore del bene. «Sopporta solo quelli che lo adulano; appena viene contraddetto s'inalbera, e in tali circostanze non si perita di profferire [le peggiori] ingiurie. Datemi retta, non andate a cercarvi rogne con lui». Confucio non badò al parere [di Liuhià-chi], e partì su un carro portato da Yenhoei, con a fianco Zé-cung che faceva da contrappeso. Incontrò Ceé, che aveva messo il campo a Sud del monte T'ai-scian, mentre la sua banda affettava alcuni fegati umani per il suo pasto. Confucio scese dal carro, procedette da solo fino all'uomo di guardia, e gli disse: «Io, C'ung-ch'iù di Lu, ho inteso parlare degli elevati sentimenti del vostro generale; mi farebbe piacere intrattenermi con lui...», e mentre diceva questo salutava l'uomo di fazione con atteggiamento reverente. La guardia andò ad avvertire il brigante Ceé, e questi alla notizia andò su tutte le furie, tanto che gli occhi gli scintillarono come stelle e i capelli gli si drizzarono sollevandogli il berretto. «Questo C'ung-ch'iù» disse, «non è forse quel fine dicitore di Lu? Ditegli da parte mia: «o borbottone, che attribuisci i tuoi sproloqui al re Uenn e all'imperatore U. O tu che ti metti in testa una tela a fiorami e ti cingi la vita con cuoio di bue. «O tu che dici tante sciocchezze quante sono le parole [di cui ti servi]. Tu, che mangi senza arare e ti vesti senza filare. Tu, che credi che ti sia sufficiente socchiudere le labbra e dare un colpo di lingua perché sia chiaramente definita la distinzione tra il bene e il male. 267

267 «Tu, che hai condotto all'errore tutti i prìncipi e sviato tutti i letterati dell'impero. Tu che, nascondendoti dietro alla predicazione della pietà, lecchi i piedi ai potenti, ai nobili e ai ricchi. «Tu, il peggiore dei malfattori! Vattene via immediatamente. Altrimenti farò aggiungere il tuo, di fegato, allo spezzatino che stanno preparando per cena». L'uomo di guardia riferì a Confucio le parole [di Ceé], ma questi insistette, e gli fece dire a sua volta: «Sono un amico di vostro fratello, e [a questo titolo] desidero essere ricevuto nella vostra tenda». L'uomo di guardia avvertì [di questo] Ceé. «E allora che venga!» rispose questi. Confucio non se lo fece ripetere due volte. Si appressò con passo svelto e andò dritto verso Ceé, salutandolo. Al colmo dell'ira, questi, [che era seduto], allargò le gambe distendendole, e posò su di esse la spada per traverso; fissò gli occhi in quelli di Confucio, e con il tono d'una tigre importunata mentre allatta i cuccioli, disse: «Sta' attento, Ch'iù! Se mi dici cose che mi vadano a genio, ti lascio la vita! Se mi dici anche poco che mi dia fastidio, ti faccio ammazzare!» Confucio incominciò: «In un uomo si apprezzano soprattutto tre doti: una bella figura; una grande intelligenza; e infine il valore guerresco. Chiunque sia in possesso, ad un grado superiore, di anche una sola di queste tre qualità, è degno di comandare [altri] uomini. «Constato in questo momento che voi le possedete a un grado superiore tutte e tre. Siete alto otto piedi e tre pollici [statura imponente, molto superiore alla normale], avete occhi scintillanti, labbra vermiglie, denti bianchi come conchiglie, avete una voce che risuona come un rintocco di campana; e un uomo che assomma tutte queste qualità passa per essere il brigante Ceé?! Generale, ne sono indignato!... «Se voleste accettarmi come consigliere userei del mio credito per conquistarvi il favore di tutti i prìncipi all'intorno; farei costruire una grande città, che diventerebbe la vostra capitale; farei riunire uomini a centinaia di migliaia, che diventerebbero vostri sudditi; farei di voi, [in una parola], un principe feudatario potente e rispettato. «Generale, datemi retta, restituite la vita all'impero, smettete di far guerra; lasciate liberi i vostri soldati, che le loro famiglie possano dedicarsi in pace alla loro sussistenza e alle offerte per gli antenati. Seguite il mio consiglio, e vi procurerete la fama di un Saggio e di un valoroso; sarete applaudito da tutto l'impero». Sempre adirato, Ceé rispose: «Ascoltami bene, Ch'iù, e tieni presente che solo i microcefali si fanno raggirare. Avevo proprio bisogno che venissi tu a insegnarmi che il corpo che i miei genitori mi hanno dato è ben costruito? Credi che mi impressionino i complimenti che mi hai fatto, a me, che so benissimo che dietro le spalle mi denigrerai molto più di quanto mi stia adulando [di fronte], adesso? «E poi, [non ti accorgi che] l'esca con la quale stai cercando di acchiapparmi è veramente troppo grossolana? Ma, anche supponendo che tu riesca ad ottenere per me quel che mi prometti, per quanto tempo credi che potrei conservarlo? «Non è forse vero che l'impero è sfuggito di mano ai successori di Yao e di Sciunn? E che la discendenza di T'ang e di U si è estinta proprio perché i loro avi gli avevano legato un patrimonio troppo ricco per non essere ambìto? Il potere non dura, e la felicità non risiede, come tu e i politici tuoi pari vorrebbero lasciar credere, in cose di questo genere. «All'inizio c'erano molti animali e pochi uomini. Di giorno questi ultimi raccoglie268

vano ghiande e castagne, e durante la notte si rifugiavano sugli alberi per paura delle bestie feroci. Questa fu l'epoca che chiamano dei nidi... «In seguito venne l'epoca delle caverne, durante la quale gli uomini, ancora nudi, raccoglievano combustibile d'estate per scaldarsi d'inverno, [che fu la] prima manifestazione della preoccupazione di conservarsi in vita... «Venne poi l'età di Cienn-nung, il primo agricoltore, epoca dell'assoluta libertà dalle preoccupazioni. Gli uomini conoscevano solo la propria madre, ma non il padre (assenza di matrimoni). Vivevano in pace, con cervi e alci. Coltivavano quel che bastava per vivere, filavano quel che bastava per coprirsi. Nessuno nuoceva a nessuno. Fu l'età in cui tutto seguiva il suo corso naturale, in modo perfetto... «Fu Hoang-ti a metter fine a quest'epoca felice. Per primo questi si arrogò il potere imperiale, fece guerra, diede battaglia a C'ie-yu nella piana di Ciuò-lu, fece scorrere il sangue per chilometri e chilometri (all'inseguimento dei vinti). Poi Yao e Sciunn inventarono i ministri e il congegno dell'amministrazione [di Stato]. Quindi T'ang rovesciò e mandò in esilio il suo sovrano Chié, U detronizzò e mise a morte l'imperatore Ceù. «È da allora, e fino ai giorni nostri, che i forti hanno oppresso i deboli, che la maggioranza ha agito da tiranna sulla minoranza. Tutti, imperatori e prìncipi, hanno sconvolto il mondo, imitando i primi della loro razza. E tu, Ch'iù, ti sei dato per missione di diffondere i principi del re Uenn e dell'imperatore U, e pretendi di imporre questi principi ai posteri! «È a questo fine che indossi abiti e cinture diversi dal comune, che predichi e ti atteggi, ingannando i prìncipi, favorendo i tuoi interessi personali. Tu sei, senza possibilità di smentita, il primo dei malfattori; [con il che] invece di chiamare me, Ceé, il brigante per antonomasia, la gente è te che dovrebbe chiamare il brigante Ch'iù... «Guardiamo i risultati del tuo insegnamento... Hai raggirato Zé-lu, gli hai fatto deporre le armi, l'hai fatto studiare. La gente, attonita, disse: "Ch'iù è capace di ammansire i violenti". Ma l'illusione fu di breve durata. Dopo aver tentato di assassinare il principe di Uei, Zé-lu morì di mala morte, e il suo cadavere, debitamente salato (perché si conservasse più a lungo), fu esposto alla porta orientale della capitale di Uei... «Devo continuare a enumerare i successi di quell'uomo di talento, di quel gran saggio che credi di essere? A Lu si sono sbarazzati di te due volte. Da Uei ti hanno cacciato via. A Z'i stavano per farti un gran brutto scherzo. Tra C'ienn e Z'ai ti hanno circondato. Unanime, l'impero tutto rifiuta di accogliere il maestro che ha fatto salare il suo discepolo Zé-lu. «Riassumendo, non sei stato capace di renderti utile né a te né agli altri, e [con tutto ciò] pretendi che gli altri abbiano rispetto per la tua dottrina?... «Questa dottrina, sono parole tue, non è una dottrina tua. Essa risale, passando attraverso gli antichi sovrani, fino a Hoang-ti. Bei tipi! Sul cui conto soltanto la gentucola si può ingannare. «Scatenandosi, in preda ai suoi istinti sfrenati, Hoang-ti fece la prima delle guerre, e bagnò di sangue la pianura di Ciuò-lu. Yao fu un padre da poco. Sciunn, un figlio, da poco. U rubò l'impero, per darlo alla sua famiglia. T'ang mise al bando il proprio sovrano. U, il suo lo ammazzò. Il re Uenn si fece mettere in galera a Yu-li. «Eccoli qua, i sei bei personaggi che tu presenti all'ammirazione della gente comune. Visti [così], da vicino, furono uomini che agirono contro la loro coscienza e la loro natura spinti dai propri interessi; uomini di cui tutte le azioni non meritano che il più profondo disprezzo... 269

269 «E gli altri tuoi grandi uomini non furono forse, tutti, anch'essi vittime della loro dabbenaggine? Le loro utopie fecero sì che Pai-i e Sciù-z'i morissero di fame e restassero senza sepoltura. Il suo idealismo spinse Pao-ziaò a ritirarsi in una foresta, dove lo si trovò morto, in ginocchio, abbracciato a un tronco d'albero. Scienn-t'u, offeso per non esser stato ascoltato, si legò un pietrone sulla schiena e si buttò nel fiume, dove fu divorato da pesci e tartarughe. «Chié-zé-t'oei, il fedele, che aveva spinto la dedizione fino a nutrire il suo duca di Uenn con un pezzo della propria coscia, fu così toccato dall'ingratitudine di quest'ultimo da rifugiarsi nei boschi, nei quali morì bruciato. Uei-scieng, che aveva dato appuntamento a una bella figliola sotto un ponte, annegò nell'acqua che montava per non mancare di parola. «In cosa, ti chiedo, la sorte di questi sei uomini fu diversa dalla sorte di un cane schiacciato [da una carrozza], di un maiale sgozzato, o di un mendicante morto di miseria? I loro sentimenti furono la causa della loro morte. Avrebbero fatto meglio ad aver cura della propria vita, pacificamente... «Tu porti anche ad esempio, dei ministri fedeli, come Pi-can e U-zesu. Ora, a Pican, condannato a morte, strapparono il cuore; U-zesu dovette suicidarsi, e il suo corpo fu buttato nel fiume. Ecco che cosa rese, a questi fedeli, la loro fedeltà: di far ridere il pubblico... «Perciò, di tutti gli esempi di vita vissuta che tu invochi a prova del tuo sistema, nessuno è fatto per convincermi, tutt'altro. Che se poi porti argomenti dell'aldilà, questa roba per me non prova proprio nulla... «E adesso, a mia volta, ti darò una lezione pratica su cosa sia, in verità, l'umanità. L'uomo ama la soddisfazione degli occhi, degli orecchi, della bocca, dei suoi istinti. Per dar corso alle sue tendenze egli non ha che la durata della sua vita, in media sessant'anni, qualche volta ottanta, raramente cento. E ancora, a questi anni ci sono da togliere i periodi di malattia, di tristezza, di disgrazia. Per cui, per ogni mese di vita, è già tanto se un uomo ha quattro o cinque giornate di vera contentezza e di riso schietto. «Il corso del tempo è indefinito, ma la porzione di vita assegnata a ciascuno è finita, e la morte vi pone un termine quand'è la sua ora. Un'esistenza [umana] non è, nella successione dei secoli, che il balzo di un cavallo al di là di un fosso. «Ora, il mio parere è che chi non sa far durare questa vita tanto corta il più possibile, e durante questo tempo non dà soddisfazione a tutte le inclinazioni della natura, di quel che l'umanità è veramente, non ne capisce nulla... «In conclusione: o Ch'iù, io nego tutto quel che tu affermi, e sostengo tutto quel che tu neghi. E guardati dal replicare una sola parola! Vattene di corsa! Pazzo, fanfarone, illuso, impostore; a te manca quel che occorre per rimettere gli uomini sulla diritta via. Io non ti dirò più una [sola] parola». Confucio salutò umilmente e uscì di fretta. Quando fu per salire in carrozza, per lo stordimento dovette tentare tre volte per trovare lo slancio necessario. Gli occhi spenti, il volto livido, si appoggiò al timone [del carro], ansando e con la testa che traballava. Quando fu in città, incontrò Liuhià-chi alla porta Est. «Ah! Eccovi qua» disse questi. «È da un po' di tempo che non vi vedevo. I vostri cavalli hanno un aspetto affaticato. Non sareste mica andato a trovare Ceé, per caso?» «Sono stato a trovarlo, infatti» rispose Confucio levando gli occhi al cielo e emettendo un profondo sospiro... «Ah!» fece Liuhià-chi. «E ha forse approvato una sola delle cose che gli avete 270

detto?...» «Non ne ha accettata nessuna» rispose Confucio. «Avevate proprio ragione. Per una volta io, Ch'iù, ho fatto come quello che si cauterizzava una piaga che non aveva (mi sono dato da fare, mettendomi in pericolo, senza una ragione). [Sono andato] a tirare i baffi alla tigre, e ho avuto la fortuna di sfuggire ai suoi denti». B Zé-ciang, che studiava per entrare in politica, domandò a Man-cheù-tei: «Perché non abbracciate la via dell'opportunismo (quella di Confucio e dei politici dell'epoca)? Se non la intraprenderete, nessuno vi affiderà incarichi, e non combinerete mai nulla. È la strada più sicura per arrivare alla celebrità e alla ricchezza. Inoltre dà l'occasione di incontrare personaggi di rango». «Davvero?» disse Man-cheù-tei «I politici mi disgustano per la spudoratezza con cui mentono e per gli imbrogli [che fanno] per procurarsi i sostenitori. Al loro opportunismo fittizio preferisco la libertà naturale». «Della libertà» disse Zé-ciang «Chié e Ceù approfittarono in ogni occasione. Tutti e due furono imperatori, e tuttavia se ora voi diceste a un ladro "siete un Chié" o "siete un Ceù", il ladro si riterrebbe gravemente offeso, tanto il loro abuso della libertà ha fatto detestare Chié e Ceù [anche] dalla gente più minuta ... «E questo, mentre C'ung-ni e Mei-ti, poveri e plebei, si sono procurata una tal reputazione che se si dice a qualche ministro di stato "siete un C'ung-ni", o "siete un Meiti", questo pur grande personaggio si ringalluzzirà tutto, ritenendosi molto onorato. Questo prova che non è la nobiltà dei natali che gli uomini rispettano, bensì la saggezza di comportamento». «Credete proprio che sia vero?» riprese Man-cheù-tei. «Coloro che hanno rubato poco sono rinchiusi nelle prigioni. Quelli che hanno rubato molto sono seduti sui troni. Rubare in grande sarebbe dunque opportunismo e saggezza?... «E poi, i politici sono veramente quei puri che voi dite? Dov'è che li si trova appostati? Alla porta dei grandi ladri (i prìncipi feudatari), [in posizione di] postulanti. Siaopai, duca Hoan di Z'i, assassinò il fratello maggiore per sposarne la vedova; e nonostante ciò, Coan-ciung accettò di diventare suo ministro, e gli procurò, con mezzi leciti e illeciti, la supremazia di Signore sugli altri feudatari [il rango di «egemone»]. Confucio ha gradito un regalo in seterie da parte di T'ien-c'eng-zé, assassino del proprio principe, e usurpatore del suo principato. «La morale di natura avrebbe richiesto che questi due politici censurassero i loro padroni. Ben al contrario, essi si accoccolarono come cani [fedeli] ai loro piedi. È il loro opportunismo (egoista, volto al profitto personale), che li fece abbassare fino a soffocare le proprie coscienze. È al loro indirizzo che è stato scritto questo testo: "Oh! Il bene; oh! Il male... Quelli che hanno avuto successo sono i primi; quelli che non han fatto carriera sono gli ultimi"». Zé-cung riprese: «Se per ogni cosa vi affidate alla libertà naturale, se non accettate nessuna istituzione artificiale, addio ordine nel mondo; niente più [distinzioni di] funzioni, niente più gradi; neanche più parentele, [magari]». Man-cheù-tei ribatté: «Forse che i vostri politici, che fanno mostra di dare tanta importanza a queste cose, ne hanno poi proprio tenuto [personalmente] conto? Diamo un'occhiata ai vostri modelli! «Yao mandò a morte il suo primo figlio. Sciunn mandò in esilio lo zio materno. 271

271 Che bel rispetto per la parentela!... T'ang esiliò il proprio sovrano Chié. U ammazzò Ceù. Bel rispetto per le funzioni!... Il re Chi usurpò il posto al fratello maggiore; il duca di Ceù fece fuori il suo fratello maggiore. Bel rispetto dei gradi!... «Ah, certo che i discepoli di C'ung-ni dicono delle belle parole zuccherose; che i discepoli di Mei-ti predicano la carità universale; ed ecco come poi, fanno in pratica». E poiché la discussione non arrivava da nessuna parte, Zé-ciang e Man-cheù-tei si rivolsero a un arbitro, il quale concluse nel seguente modo: «Avete entrambi ragione e torto [nello stesso tempo], come tutte le volte che si difendono posizioni troppo estreme. La gente qualunque vede solo la ricchezza; i politici fanno caso solo della reputazione. Per arrivare ai loro fini lottano, e si deteriorano. Saggio è colui che guarda al sì e al no dal centro della circonferenza e lascia che giri la ruota. «Saggio è colui che quando le circostanze sono propizie, agisce; che quando ne è tempo, smette di agire. Saggio è colui che non si esalta per nessun ideale. Fatale è il perseguimento [sconsiderato] di un ideale. «L'intestardimento nella lealtà fece strappare il cuore a Pican, e scoppiare gli occhi a U-zesu. L'accanimento nel dire la verità e nel tener fede alla parola data spinse, Ceùcung a testimoniare in tribunale contro il proprio padre, e Uei-scieng ad annegare sotto un ponte. Il disinteresse inflessibile fece morire Pao-zé in ginocchio, abbracciato a un albero, e portò alla rovina Scienn-zé, [distrutto] dalle trappole di Chi di Li. Confucio non onorò la memoria della madre; C'oang-ciang si fece cacciare [da casa] dal padre, per scrupoli rituali esagerati. «Questi sono fatti storici ben noti. Essi provano che ogni posizione estrema diventa falsa, e che ogni ostinazione esagerata porta alla rovina. La saggezza consiste nel tenersi al centro, neutrali e imperturbabili». C Agitato disse a Tranquillo: «Tutti tengono in gran conto la rinomanza e la prosperità. La folla fa la corte agli arrivati, si mette in ginocchio davanti a loro e li porta in palmo di mano. La soddisfazione per un tal fatto fa sì che gli arrivati vivano a lungo. Perché non vi date un po' da fare? L'apatia [che mostrate] è forse dovuta a poca intelligenza, o a mancanza di capacità, o a intestardimento in certi principi che vi sono propri?» Tranquillo rispose: «Io non ho voglie, né reputazione, né ricchezze, perché queste cose non danno la felicità. È provato che coloro che si danno da fare, infischiandosi d'ogni principio imbarazzante, costruendosi una coscienza su precedenti storici qualsivogliano, è provato, [dico], qualunque siano le vostre opinioni in proposito, che tali uomini non riescono certo a vivere contenti e a lungo «La loro vita, [in fondo], come quella degli uomini più comuni, non è che un intreccio di faccende e di riposi, di pene e di gioie, di brancolamenti e di incertezze. Per quanto possano essere avanzati [nella loro sfera specifica, exoterica], restano esposti ai rovesci [di fortuna], alle disgrazie». «Ammettiamolo pure» disse Agitato; «resta ad ogni buon conto [da considerare] il fatto che fintantoché possiedono, ne godono. «Costoro possono procurarsi quel che l'Uomo Superiore e il Saggio non hanno. Chiunque fruisca di una posizione di rilievo, tutti fanno a gara nel mettergli a disposizione il braccio, l'intelligenza, le capacità proprie. «Quand'anche situato in un grado non alto, colui che ha ottenuto una posizione resta ancora un privilegiato. Sono a sua portata i piaceri dei sensi e tutte le soddisfazioni della natura». 272

«Egoismo soddisfatto» ribatté Tranquillo. «Questo, è la felicità?... Il mio parere è [invece] che [colui che è] Saggio prende per sé solo quel che gli è strettamente sufficiente, e lascia agli altri il resto. Non si agita, non entra nell'agone [per sé]. Qualunque agitazione, o competizione, è il sintomo morboso di una passione. «Il Saggio dà, si ritira, si cancella, rinuncia, senza attribuirselo a merito, senza aspettare che lo obblighino. Se il destino lo innalza alla sommità, non si impone a nessuno, non pesa su nessuno; pensa al cambiamento che avverrà, al possibile giro della ruota, ed è modesto in conseguenza. «Così fecero Yao e Sciunn. Non trattarono il popolo con bontà, ma non gli fecero del male, [agendo con] globalità e prudenza. Scian-cuan e Hu-yu rifiutarono il trono per amore della sicurezza e della pace. Il mondo loda questi quattro uomini, i quali tuttavia agirono al contrario rispetto ai suoi principi. Essi hanno conquistato la celebrità senza [neppure] averla ricercata». «Ad ogni modo» disse Agitato, «[questa celebrità] non l'hanno ottenuta senza pagare [qualcosa]. Invece delle sofferenze dell'amministrazione si inflissero quelle dell'astinenza e delle privazioni, [con] una forma di vita, [cioè], che equivale a una morte prolungata». «Ma niente affatto» rispose Tranquillo. «Essi condussero una vita comune; ora, la vita comune è la felicità potenziale. Tutto quel che è eccesso provoca infelicità. Le orecchie piene di musica, la bocca stipata di cibo, l'arricchito non è contento. L'ansia di conservare la posizione lo trasforma come in un animale da soma che risalga continuamente lo stesso declivio, sudando e sbuffando. «Qualsiasi ricchezza, qualsiasi incarico [onorifico], non allevieranno la fame e la sete che lo tormentano, la febbre interna che lo divora. Anche se i suoi depositi sono pieni da traboccare, non smetterà [mai] di desiderare di più, né acconsentirà a cedere qualcosa. «La sua vita è un perpetuo montare la guardia a questi ammassi inutili, nell'apprensione e nel timore. Si barrica in casa sua, e non ardisce uscirne senza scorta (per tema di essere rapinato, rapito, o taglieggiato). E questa non è miseria? Ebbene, coloro che ne soffrono non ne risentono gli effetti. Al presente incoscienti [di essa], non sono in grado neppure di prevedere l'avvenire. Quando suonerà l'ora della disgrazia, ne rimarranno sorpresi, e neppure un giorno di dilazione gli varranno, tutti i loro beni. Folle è, colui che si affatica lo spirito e si deteriora il corpo, per fare una fine del genere».

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XXX Spadaccini

A Il re Uenn di Ciaò era appassionato di scherma. Affluivano alla sua corte gli spadaccini di professione. Ospitava così più di tremila uomini di questa fatta, che si battevano di fronte a lui, quando gli faceva piacere, sia di giorno, sia di notte. Tutti gli anni, nel corso di queste giostre, più di cento ne morivano, o erano feriti seriamente. Questi incidenti, [però], non facevano decrescere la passione del re; e questo stato di cose durava [ormai] da tre anni. Venuto in tal modo il regno a essere assai trascurato, i vicini ritennero che il momento fosse buono per impadronirsene. Appresa la qual cosa, Li, il principe ereditario, se ne preoccupò molto. Riunì gli amici, e disse loro: «A chi sarà riuscito a convincere il re che è ora di metter fine agli scontri di questi sgherri, io darò una ricompensa di mille tael...». «Solo Chuang-tzu è in grado di fare una cosa simile» dissero gli amici del principe. Subito il principe mandò dei corrieri, per invitare Chuang-tzu e offrirgli i mille tael. Chuang-tzu rifiutò il denaro, ma seguì gli inviati. «Che cosa desiderate da me, e perché mi avete offerto mille tael?» domandò egli al principe. «Ho inteso dire che siete un Saggio» rispose questi; «ecco perché ho prima di tutto provveduto a mandarvi, rispettosamente, mille tael, aspettando quel che sarebbe accaduto dopo. Il regalo, l'avete rifiutato. Come faccio ad avere il coraggio di dirvi quel che desideravo da voi?» «Ho sentito dire» riprese Chuang-tzu «che desiderate che io ammendi il re vostro padre da una certa passione. Se offendo lui, mi farà uccidere, se non ci riesco, altrettanto mi farete forse voi; in entrambi i casi i vostri mille tael saranno di troppo (non mi serviranno). Se [invece] al re piaccio, e vi accontento, allora i vostri mille tael sono troppo pochi. È per questo che ho rifiutato il vostro denaro». «Ben detto» fece il principe. «Al nostro re piacciono solo gli spadaccini». «Lo so» fece Chuang-tzu. «E io di spada tiro assai bene...» «Perfetto» disse il principe. «Soltanto che gli spadaccini del re portano tutti un turbante a forma di ghianda e un corsetto attillato; hanno un'aria feroce e parlano ad alta voce. Al re piace solo questo modo di presentarsi. Se comparite davanti a lui vestito da letterato, non vi guarderà neanche». «Allora» disse Chuang-tzu, «fatemi preparare un vestito di quel genere». Tre giorni dopo, il principe presentò al re Chuang-tzu vestito da sbirro. Il re lo ricevette con in mano una spada snudata Chuang-tzu andò verso di lui a passo lento (per evitare che lo scambiassero per un assassino travestito), ed evitò di salutarlo [con la spada (per la stessa ragione)]. «Perché» gli chiese il re «vi siete fatto presentare a me da mio figlio?» «Ho inteso dire» rispose Chuang-tzu «che vi piacciono i duelli con la spada. Mi piacerebbe farvi vedere cosa so fare in questa disciplina». «Di che forza siete?» domandò il re. 274

«Ve lo dirò subito: fate mettere i vostri spadaccini a dieci passi di distanza l'uno dall'altro, su una distanza di mille stadi [una ventina di chilometri]; sarò in grado di passare sul loro corpo, uno dopo l'altro». «Ah!» fece il re entusiasta; «Ma allora non avete eguali!» «E adesso [vi espongo] la mia teoria» proseguì Chuang-tzu. «La mia tecnica è di attaccare in dolcezza, lasciar reagire l'avversario, farlo imballare, fingere di cedergli; quando si espone, ferrarlo. Mi permettete di farvi vedere?» «Un po' di calma, maestro». Fece il re, un po' preoccupato «Prima andate a riposarvi. Quando i preparativi saranno finiti, vi manderò a chiamare». B Il re fece allora addestrare i suoi spadaccini per sette giorni di seguito. Più di sessanta restarono uccisi o feriti [nel corso dell'allenamento]. Il re scelse i cinque o sei che erano i più abili, li fece disporre nella parte bassa del salone delle udienze, spada in mano, pronti al combattimento; poi, convocato Chuang-tzu, gli disse: «Vi metterò a confronto con questi maestri...» «Ho dovuto aspettare piuttosto a lungo» osservò Chuang-tzu. «Che dimensioni ha la vostra spada?» chiese il re. «Qualunque spada mi va bene» disse Chuang-tzu. «Tuttavia, tre sono quelle che preferisco. Scegliete voi». «Spiegatevi» disse il re. «Si tratta» continuò Chuang-tzu «della spada dell'imperatore, della spada del vassallo, e della spada comune». «Qual è la spada dell'imperatore?» domandò il re... «È quella che copre tutto» rispose Chuang-tzu «all'interno delle quattro frontiere; quella che estende [il suo potere] fin sui barbari al di là dei confini, quella che regna a partire dalle montagne dell'Ovest fino al Mar d'Oriente. «Seguendo il corso dei due principi e dei cinque elementi, delle leggi della giustizia e della clemenza, essa si riposa in primavera e in estate (stagione dei lavori) e imperversa in autunno e in inverno (stagione delle esecuzioni e delle guerre). «A questa spada, quand'è sguainata e brandita, non c'è nulla che resista. Essa induce tutti gli esseri a sottomettersi. Questa è la spada dell'imperatore». Sorpreso, il re domandò: «E la spada del vassallo, qual è?...» Chuang-tzu rispose: «È un'arma fatta di valore, di fedeltà, di coraggio, di lealtà, di saggezza. Brandita al di sopra di un principato, in conformità con le leggi del cielo, della terra e dei tempi, questa spada mantiene la pace e l'ordine. Temuta come la folgore, doma ogni ribellione. Questa è la spada del vassallo». «E la spada comune, qual è?» chiese il re. Chuang-tzu rispose: «Essa è il ferro che tengono in mano uomini che portano un turbante a forma di ghianda e un corsetto attillato; che fanno gli occhi feroci e parlano a voce troppo alta; che si tagliano la gola, si bucano il fegato o i polmoni, in duelli senza scopo; che si ammazzano tra di loro, come fanno i galli da combattimento, senza nessuna utilità per il proprio paese. «O re! Voi che forse siete destinato a diventare il signore dell'impero [egemone], non è forse indegno di voi apprezzare così tanto quest'arma?» Il re capì. Prese Chuang-tzu per un braccio e lo condusse nella sala alta, dove era preparata una tavola imbandita. Completamente fuori di sé, il re le girava intorno... «Ricomponetevi e accomodatevi» gli disse Chuang-tzu; «non parlerò più di spade 275

275 (non vi svergognerò oltre)». Poi il re si ritirò per tre mesi nei suoi appartamenti privati e rifletté sulla sua condotta. In questo tempo i suoi spadaccini finirono con l'ammazzarsi tutti [fra di loro]. Alcuni commentatori spiegano così: si suicidarono tutti per il dispetto. Ad ogni buon conto, la specie si estinse, e cessò l'abuso.

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XXXI Il vecchio pescatore

A Nel corso di una passeggiata nella foresta di Zé-uei, per riposarsi Confucio si sedette in prossimità del poggio Hiang-t'an. I discepoli presero [in mano] i loro libri. Il Maestro si mise a suonare il liuto e a cantare. Il canto attirò un vecchio pescatore. Con i grigi capelli spettinati e le maniche [del vestito] rimboccate, il vecchio discese dalla barca, si arrampicò per l'erta, si accostò [al gruppo], posò la mano sinistra sul ginocchio, si prese il mento nella mano destra, e ascoltò attentamente. Finito il canto, [il vecchio] fece segno con la mano a Zé-cung e a Zé-lu. Ai due, che si erano avvicinati, egli chiese: «Chi è costui?», e indicava Confucio. Zé-lu gli disse: «È il Saggio di Lu». «Come si chiama?» domandò il vegliardo. «Il suo nome è C'ung» gli rispose Zé-lu. «E cosa fa, questo C'ung?» riprese a chiedere il vecchio. «Sta cercando» disse Zé-cung «di far rivivere la sincerità, la lealtà, la bontà e l'equità, i riti e la musica, per il maggior bene del principato di Lu e dell'impero». «È un principe?» domandò [nuovamente] il vegliardo. «No» disse Zé-cung. «È un ministro?» chiese [ancora] il vecchio. «No» fu la nuova risposta di Zé-cung. Il vegliardo sorrise e incominciò ad allontanarsi. Zé-cung lo udì mormorare: «Bontà! Equità! È certo una gran bella cosa, ma sarà fortunato se a questo gioco non perderà [la vita]. In ogni caso, le preoccupazioni e la pena che si dà, saranno nocive, poiché usurano le sue facoltà più elevate e il suo corpo, per la sua vera perfezione. Quant'è lontano dalla scienza del Principio!» Zé-cung riferì queste parole a Confucio, il quale, allontanato con un gesto vivace il liuto che teneva sulle ginocchia, si alzò dicendo: «È un Saggio», e scese dal pendio per andare a chiedere un colloquio al vegliardo. Questi stava proprio immergendo la punta nell'acqua, per spingere al largo la barca. Vedendo Confucio si arrestò e si volse verso di lui. Confucio si avvicinò e salutò. «Cosa desiderate da me?» gli chiese il vegliardo. Confucio rispose: «Poco fa avete detto delle cose di cui non riesco a capire il senso profondo. Vi prego rispettosamente di degnarvi di istruirmi, per il mio bene». «È un desiderio ben lodevole» rispose il vecchio. B Confucio si prosternò, poi, rialzatosi, disse: «Dall'epoca della mia giovinezza fino alla mia attuale età di sessantanove anni (penultimo anno della sua vita), io, Ch'iù, ho studiato senza interruzione, ma senza essere istruito nella scienza suprema (Taoismo). Ora che mi si presenta l'occasione, pensate con quale avidità vi ascolterò». Il vecchio disse: «Non so se ci intenderemo; giacché è legge comune che si comprendano solo coloro che hanno modi di sentire somiglianti. Ad ogni buon conto, e per 277

277 ogni possibile evenienza, vi dirò i miei principi, applicandoli al vostro modo di agire... «Voi vi occupate esclusivamente delle vicende degli uomini. L'imperatore, i signori, i funzionari, la plebe, questi sono i vostri temi: parliamone. Voi avete la pretesa di influire sui costumi di queste quattro categorie, di costringerle a comportarsi bene, [per ottenere] come risultato finale un ordine perfetto, nel quale tutti vivano felici e contenti. Credete di essere in grado di riuscire veramente a creare un mondo senza mali e senza lamentele? «È sufficiente, per affliggere un uomo del popolo, che il suo campo non produca, che il tetto goccioli, che gli manchino il cibo o i vestimenti, che gli sia imposta una nuova tassa, che le donne di casa non vadano d'accordo, che i giovani manchino di rispetto agli anziani. Credete sul serio di riuscire a eliminare tutti questi inconvenienti? «I funzionari si preoccupano per le difficoltà inerenti ai loro incarichi, per i loro insuccessi, per la negligenza dei loro subordinati, per il fatto che i loro meriti non sono riconosciuti, perché non ottengono avanzamenti. Sarete in grado di cambiare veramente questo stato di cose? «I signori si lamentano della slealtà dei loro funzionari, delle ribellioni dei propri sudditi, dell'inettitudine dei loro artigiani, della cattiva qualità dei prodotti che gli vengono pagati in natura, dell'obbligo [che hanno] di comparire spesso a corte con le mani piene, del fatto che l'imperatore non è mai contento dei loro doni. Vi sentite veramente capace di far sì che tutto ciò abbia un rimedio? «L'imperatore si affligge per i disordini nello yin e nello yang, per il caldo e il freddo, che nuocciono all'agricoltura e fanno soffrire il popolo. Si addolora per le dispute e le guerre dei feudatari [fra di loro], le quali costano la vita di molti uomini. Si addolora perché le sue disposizioni sui riti e sulla musica sono mal osservate, perché le finanze sono carenti, perché le relazioni sono poco rispettate, perché il popolo si comporta male. Come farete per eliminare tutti questi disordini? «Avete la veste, avete il mandato, per dirimere [tutti questi problemi]? Voi, che non siete né imperatore, né signore, né tampoco ministro, ma un semplice privato; avete la pretesa di riformare l'umanità. Non vi sembra che sia volere più di quanto possiate fare? «Per riuscire a vedere il vostro sogno realizzato, occorrerebbe che prima foste in grado di guarire gli uomini dalle otto manie che adesso vi enumererò: mania di impicciarsi delle cose che non sono di loro competenza; mania di parlare senza aver prima riflettuto; mania di mentire; mania di adulare; mania di denigrare; mania di seminare la discordia; mania di creare ai propri amici una cattiva reputazione; mania dell'intrigo e dell'insinuazione. Vi sentite uomo da debellare tutti questi vizi? «Ed inoltre i quattro disordini seguenti: prurito di innovare per procurarsi celebrità; usurpazione del merito altrui per mettere in mostra se stessi; testardaggine [nel perseverare] nei propri difetti anche quando essi siano stati fatti rilevare; ostinazione nelle proprie idee nonostante gli avvertimenti in contrario; sarete capace di modificare tutto questo? «Quando l'avrete fatto, allora potrete incominciare a esporre agli uomini le vostre teorie sulla bontà e sull'equità con qualche probabilità che ci capiscano qualcosa». C Con il viso alterato e respirando con difficoltà per l'emozione, Confucio si prosternò per ringraziare della lezione; [poi] si rialzò e disse: «Ammetto di essere un utopista, però non sono un malfattore. Perché allora sono dappertutto vilipeso, perseguitato, allontanato? Cos'è che mi attira tutti questi mali? Io non so raccapezzarmici». 278

«Veramente non capite?» fece il vecchio stupito. «Ma allora siete proprio ottuso. È la vostra mania di occuparvi di tutto e di tutti, di ergervi a censore e pedagogo universale, che vi attira questi triboli. «Ascoltate questo apologo: un uomo aveva paura dell'ombra del suo corpo e delle orme dei suoi passi. Per liberarsi di esse si mise a scappare. Ora, più passi faceva più impronte lasciava; per quanto corresse veloce, la sua ombra non si distaccava da lui. «Continuando tuttavia a credere che avrebbe finito col batterla in velocità, egli corse tanto e così in fretta che ne morì. L'idiota! Se fosse andato a sedersi in qualche posto al coperto, il suo corpo non avrebbe più fatto ombra; se se ne fosse restato tranquillo, i suoi piedi non avrebbero più lasciato tracce; tutto quel che doveva fare era [solo] di restarsene in pace, e tutti i suoi mali si sarebbero dileguati. «E voi, che invece di starvene tranquillo vi fate una professione di dibattere sulla bontà e sull'equità, sulle rassomiglianze e le disparità, e su non so quali altre sottigliezze insignificanti, vi stupite delle conseguenze di questa mania e non capite che è perché avete seccato tutti che avete attirato su di voi l'ostilità generale? «Credetemi, a partire dal giorno in cui vi occuperete solo più di voi stesso e vi applicherete a lavorare il vostro proprio fondo naturale; dal giorno in cui, restituendo agli altri ciò che gli compete, li lascerete tranquilli; da quel giorno, [ripeto], voi non avrete più [da soffrire] nessuna pena. «È perché chiudete gli occhi su voi stesso, e li aprite troppo sugli altri, che vi attirate tutte le vostre disgrazie». D Tutto abbacchiato, Confucio chiese: «Cosa intendete dire per mio fondo [o podere] naturale?» «Il fondo naturale» disse il vegliardo «è la semplicità, la sincerità, la dirittura, che ognuno [di noi] porta in sé dalla nascita. Solo questo ha influenza sugli uomini. Nessuno resta toccato da un ingannevole verbalismo, da lacrime, sfuriate, da una retorica da commedianti. Mentre i sentimenti veri si comunicano agli altri, senza [bisogno di] artifici nelle parole e nei gesti. Questo [accade] perché emanano dal fondo naturale, dalla verità originaria. «Da questo fondo nascono tutte le virtù vere, l'affetto dei genitori, la tenerezza per i bambini, la lealtà nei confronti del [proprio] principe, la gioia espansiva dei banchetti, la compassione sincera al momento dei funerali. «Questi sentimenti sono spontanei e non hanno niente di artificiale, mentre i riti mediante i quali volete ingabbiare tutti gli atti della vita, sono una commedia fittizia. Il fondo naturale è la porzione [di vita] che ciascun uomo ha ricevuto dalla natura universale. Il suo Verbo è invariabile. Esso è l'unica regola di condotta del Saggio, il quale disdegna ogni influsso [esclusivamente] umano. «Gli imbecilli fanno l'opposto. Dal loro proprio fondo non traggono nulla, e sono alla mercé dell'influsso degli altri. Essi non sono capaci di apprezzare la verità che è in loro, e condividono invece gli affetti frivoli e mutevoli della gente ordinaria. «È un peccato, Maestro, che abbiate passato tutta la vita nella falsità, e abbiate potuto ascoltare l'esposizione della verità soltanto così tardi». E Confucio si prosternò, si raddrizzò, salutò, e disse: «È per me una fortuna avervi incontrato! Un favore del cielo! Ah! Maestro, non giudicatemi indegno di diventare il vostro servitore, perché servendovi abbia occasione di imparare maggiormente [da voi]. 279

279 Ditemi, vi prego, dove posso trovarvi. Verrò ad abitare da voi, per completare la mia istruzione». «No» disse il vecchio. «Dice l'adagio: Rivela i misteri solo a chi è capace di seguirti; non rivelarli a chi è incapace di comprenderli. I vostri pregiudizi sono troppo inveterati perché sia possibile guarirne. Cercate altrove. Io vi lascio...» E così dicendo il vegliardo diede un colpo di punta e disparve con la barca in mezzo ai giunchi verdeggianti. F Nel frattempo Yen-yuan aveva preparato la carrozza per il ritorno, e Zé-lu porgeva l'appiglio [per salirvi]. Ma Confucio non riusciva a staccarsi dalla riva. Finalmente, quando la scia della barca disparve del tutto, quando più nessun suono di punta pervenne più al suo orecchio, egli si decise a malincuore a prender posto nella vettura. Zé-lu, che gli camminava a fianco, gli disse: «Maestro, da tanto tempo che vi servo mai vi ho visto manifestare tanto rispetto e tanta deferenza a nessuno. Accolto da prìncipi e signori, trattato da essi da pari a pari, sempre siete stato altero e sdegnoso. Ed ecco che oggi, davanti a quel vecchio appeso alla sua punta, avete curvato le reni ad angolo retto per ascoltarlo, e vi siete prosternato prima di rispondergli. «Non [pensate anche voi] che questi segni di venerazione fossero un tantino eccessivi? Noi, vostri discepoli, ne siamo rimasti sorpresi. In virtù di che, quel vecchio pescatore era degno di simili atti di rispetto?» Appoggiato alla barra di governo della carrozza Confucio sospirò, e disse: «Yu, sei decisamente ineducabile; il mio insegnamento scivola inefficace sul tuo animo troppo grossolano. Vienimi vicino e ascolta! Non venerare un vecchio è venir meno ai riti. Non onorare un Saggio, è mancanza di giudizio. Non inchinarsi davanti alla virtù che irraggia in un altro, è far torto a se stessi. Ricordatene, zotico!... «E se questo vale per qualsiasi virtù, quanto più esso è vero per la scienza del Principio, in grazia del quale tutto ciò che è sussiste; la cui conoscenza è vita e la cui ignoranza è morte. Conformarsi al Principio produce il successo, opporsi a Lui è rovina certa. Dovere del Saggio è di onorare la scienza del Principio ovunque la incontri. Quel vecchio pescatore la possiede. Potevo [dunque] non onorarlo come ho fatto?»

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XXXII Saggezza

A Lie-ucheù (Lieh-tzu) stava recandosi a Z'i, quando, [ormai] a mezza strada, tornò indietro. Incontrò Pai-hunn-u-genn, il quale gli chiese: «Come mai ritornate sui vostri passi?» «Perché ho avuto paura» rispose Lie-ucheù. «Paura di che?» fece Pai-hunn-u-genn. «Sono entrato» disse Lie-ucheù «in dieci trattorie, e per cinque volte mi hanno servito per primo». «E avete avuto paura?...» sbottò Pai-hunn-u-genn. «Ma di cosa?» «Ho pensato» disse Lie-ucheù «che nonostante il mio stretto incognito, le mie qualità trasparivano senza dubbio attraverso il mio corpo. Giacché, come spiegare in altro modo tale deferenza da parte di gente così comune? [Pensai dunque che], se fossi andato fino a Z'i, magari il principe, riconosciuta anche lui la mia capacità, mi avrebbe addossato la cura del principato, che lo stanca. È questa la possibilità che mi ha spaventato e fatto tornare sui miei passi». «Avete pensato bene» disse Pai-hunn-u-genn, «ma temo che ritroverete la stessa difficoltà a domicilio». E di fatto, poco tempo dopo, Pai-hunn-u-genn, che era andato a trovare Lie-ucheù, vide davanti alla porta una quantità di calzari. Si fermò, appoggiò il mento sulla cima della canna, rifletté a lungo, poi se ne andò. Il portiere aveva però già avuto il tempo di avvertire Lie-ucheù. Afferrati i propri calzari, senza neppure darsi la pena di infilarli, questi corse dietro all'amico. Raggiuntolo alla porta esterna, gli disse: «...E ve ne andate così, senza darmi nessun consiglio?» «A che pro, ormai?» fece Pai-hunn-u-genn, «Non vi avevo già avvertito che avreste avuto difficoltà a domicilio? So bene che non avete fatto nulla per attirare tutta questa gente, ma non avete neanche fatto nulla per tenerli lontani. Ora che vi siete lasciato andare alla dispersione, cosa ne fareste dei miei pareri? «È indubbio che i vostri visitatori profitteranno delle vostre qualità, ma voi invece avrete a soffrire della loro conversazione. «Gente simile non vi servirà per imparare nulla. Le considerazioni della gente ordinaria sono un veleno, non un aiuto, per un uomo come voi. A che serve frequentare persone che sentono e pensano in modo diverso [dal vostro] ? È cosa normale che i capaci si logorino, che i sapienti si affatichino, come fate voi. Ma per chi? Per esseri frivoli e insignificanti, che sanno soltanto andarsene a spasso tra un pasto e l'altro, errando a caso come una barca che, rotti gli ormeggi, se ne va alla deriva, e che di tanto in tanto si offrono una chiacchierata con un Saggio, per alleviare la noia?» B Un tale Hoan, del principato di Cieng, che aveva studiacchiato per tre anni i libri ufficiali, fu promosso letterato. La promozione diede lustro a tutta la famiglia. Per evitare di essere sopravanzato [in seguito] dal fratello minore, il nuovo letterato gli fece adottare 281

281 le dottrine di Mei-ti. Il risultato fu che i due fratelli non smettevano [più] di discutere, e il padre parteggiava per il minore contro il maggiore [dei figli]; in casa era perciò una disputa continua. Dopo dieci anni di una simile vita, non potendone più, Hoan si suicidò. L'animosità del padre e del figlio minore [contro il maggiore] sopravvisse alla morte di quest'ultimo. Essi non visitavano la sua tomba e non gli facevano offerte. Un giorno Hoan apparve in sogno al padre e gli disse: «Perché avercela così con me? Non sono forse io che ho fatto di vostro figlio un partigiano di Mei-ti, di cui apprezzate tanto la dottrina? Dovreste invece essermi riconoscente!...» Da quel momento Hoan ricevette le sue offerte. Questo prova che l'autore degli uomini (il Principio) in essi non retribuisce tanto le intenzioni, quanto il compimento, da parte loro, del destino. Hoan, quando fece abbracciare al fratello la dottrina di Mei-ti, fu mosso da un impulso di basso egoismo, alla stregua di coloro che impediscono agli altri di bere l'acqua del loro pozzo. Ciò nonostante, così agendo, fece bene, giacché il destino voleva che il fratello diventasse un partigiano di Mei-ti, [con le relative conseguenze]. Sfuggì perciò al castigo del cielo, come dicevano gli antichi. La sua azione gli fu [perciò] computata, non l'intenzione. C Il Saggio differisce dal volgo, in quanto conserva la tranquillità ed evita quel che potrebbe essere causa di dispersione. Il volgo fa tutto il contrario: la dispersione la cerca, e fugge la pace. «Inoltre» disse Chuang-tzu, «colui che ha conosciuto il Principio occorre che non ne parli, e questo è difficile. Sapere e tacere, questa è la perfezione. Sapere e parlare, è imperfezione. «Gli Antichi tendevano al perfetto. Ciù-p'ingman apprese da Cie-li l'arte di uccidere i draghi. La ricetta la pagò mille tael, tutto quel che aveva. Per tre anni si esercitò. Quando fu padrone [della sua arte] non se ne servì mai e non ne disse mai nulla. «Allora, a che pro? Quando si sa qualcosa, bisogna farlo vedere, dice la gente comune... «Il Saggio non dice mai bisogna... Dai bisogna nascono i disordini, le guerre, le distruzioni. «Impegolato nei dettagli molteplici, coinvolto nelle preoccupazioni materiali, l'uomo mediocre non può tendere verso il Principio di ogni cosa, verso la grande Unità incorporea. «È all'uomo superiore che è riservato concentrare [tutta] la sua energia sullo studio di ciò che fu prima dell'inizio, di gioire nella contemplazione dell'essere primordiale oscuro e indeterminato, com'era quando esistevano soltanto le acque senza forme, che sgorgavano nella purezza incontaminata. «O uomini! Voi studiate feti, e ignorate [cos'è] il grande riposo (nella scienza globale del Principio)». D Un certo Z'aò-ciang, [uomo] politico di Song, fu mandato dal suo principe [in missione] presso il re di Z'inn. Partito con un seguito modesto, ritornò con un centinaio di carri, carichi dei doni ricevuti dal re di Z'inn, al quale era piaciuto moltissimo. [Z'aòciang] disse a Chuang-tzu: «Io non mi accontenterò mai di vivere, come voi, in un vicolo di paese, mal vestito e mal calzato, magro ed emaciato per la fame e la miseria. Preferisco 282

corteggiare i prìncipi. [Questo] mi ha fruttato ancora recentemente oltre cento carrettate di regali». Chuang-tzu gli rispose: «Conosco le tariffe del re di Z'inn. Al chirurgo che gli apre un ascesso, dà una carrettata di doni; cinque carrettate le dà a quello che gli lecca le emorroidi. Più è basso il servizio, meglio lo paga. Cosa avete potuto fargli, per ricevere più ancora di chi gli lecca le emorroidi? Liberatemi della vostra presenza!» E Il duca Nai di Lu domandò a Yen-ho: «Se nominassi Ciung-ni (Confucio) mio primo ministro, [secondo voi] il mio ducato ne trarrebbe vantaggio?» «Sarebbe esposto a grandi pericoli» disse Yen-ho; «Ciung-ni è l'uomo dei piccoli dettagli ([letteralmente]: un miniatore di ventagli), buon conversatore, s'imbelletta per essere gradito, si agita per far colpo. Accetta solo le sue idee, e va dietro soltanto alle proprie immaginazioni. [Non vedo] che bene potrebbe fare al vostro popolo. Se lo faceste ministro, non tardereste a pentirvene. «Distogliere gli uomini dal vero e insegnar loro l'artefatto, non è profittevole. E inoltre, in ciò che fa, è uomo che mira al suo vantaggio. Agire così non è agire come il cielo, dunque non rende un vero profitto. «Se introduceste un commerciante nella gerarchia dei vostri funzionari, l'opinione pubblica si sentirebbe offesa. Ben più si risentirebbe se faceste ministro quel trafficante di politica. Quell'uomo non concluderà nulla [di ciò che si prefigge], e finirà male. «Ci sono crimini esteriori, che sono puniti dal boia. Ci sono crimini interiori (l'ambizione di Confucio), che sono castigati dallo yin e dallo yang (usura del corpo, morte prematura). C'è solo il Saggio che sfugge alla sanzione penale». F Confucio diceva «Il cuore dell'uomo è di più difficile approccio che non le montagne e i fiumi; i suoi modi di reagire sono più difficili da prevedere di quelli del cielo. Il cielo ha dei movimenti esteriori dai quali si possono inferire le sue intenzioni; mentre l'esteriorità dell'uomo non tradisce, quand'egli non lo voglia, il suo intimo sentire. «Alcuni sembrano retti, mentre [sono dominati] dalle passioni; altri sembrano spontanei, mentre sono [soltanto] abili; altri sembrano semplici, e sono solo pieni di ambizione; altri ancora paiono decisi, e sono solo troppo adattabili; altri paiono lenti, e sono precipitosi. Certi, che sembrano assetati di giustizia, ne hanno paura come del fuoco. «Per cui il Saggio non si fida mai della [sola] apparenza. Gli uomini li saggia; vicino a lui per assicurarsi del loro rispetto; in missioni lontane per assicurarsi della loro fedeltà. «Affidando loro qualche affare da sbrigare, si rende conto del loro talento. Con domande fatte all'improvviso, si rende conto della loro scienza. Fissando loro dei termini, si accerta della loro esattezza. «Arricchendoli, si informa sulla loro benevolenza. Esponendoli al pericolo, mette alla prova il loro sangue freddo. Inebriandoli, si assicura dei loro modi intimi di sentire. Ponendoli in contatto con le donne, constata il loro grado di continenza. «Le nove prove di cui sopra fanno distinguere l'uomo superiore dall'uomo comune». G Quando C'ao-fu «il Retto» ottenne il suo primo incarico, chinò il capo; al secondo, piegò la schiena; quando gliene fu imposto un terzo, fuggì; questo è un bell'esempio. Gli uomini comuni si comportano in modo del tutto diverso. Al loro primo inca283

283 rico, la testa la drizzano; al secondo si pavoneggiano sul loro carro; al terzo si mettono a dar del tu a coloro che gli sono superiori per parentela o per età; gli Antichi non fecero mai così. Niente è più nocivo di un comportamento interessato, irto di intrighi e sotterfugi. Niente è causa di maggior rovina [di quella provocata] dall'ammirazione per le proprie opere, accompagnata al deprezzamento di quelle altrui. Otto cose che paiono favorevoli, sono [invece] nocive, e cioè: primeggiare per la propria bellezza, la propria barba, la propria statura, la propria mole, la propria forza, la propria eloquenza, la propria audacia. Tre cose che sembrano difetti, al contrario procurano spesso la fortuna, e cioè: la carenza di carattere, l'indecisione, la timidezza. Sei cose riempiono l'animo di pensieri, di ricordi, di preoccupazioni, e cioè: la frequentazione affabile, che fa nascere le amicizie; la condotta violenta, che suscita le inimicizie; la preoccupazione per la bontà e l'equità, che riempie di distrazioni; la cura per la salute, che provoca l'ipocondria; le relazioni con i sapienti, che fan nascere il gusto dello studio [delle scienze esteriori]; i rapporti con i grandi, che eccitano la voglia di prevalere; e [infine] la frequentazione degli uomini comuni, che suscita il desiderio di approfittare, come loro, di ogni occasione per fare affari. H Un [uomo] politico alla ricerca di un padrone da servire, dopo aver corteggiato il re di Song, ne aveva ricevuto dieci carri di regali, che mostrò a Chuang-tzu con puerile ostentazione. Chuang-tzu gli disse: «In riva al fiume, una povera famiglia viveva di stenti intrecciando stuoie (mestiere di poco reddito). Tuffatosi nelle acque del fiume, il figlio portò a galla una perla del valore di più di mille tael. Quando il padre la vide, "Svelto" gli disse, "prendi una pietra e schiacciala! Le perle di questa grossezza si trovano solo al fondo dell'abisso, sotto il mento del drago nero. Quando l'hai presa, il drago certo dormiva. Al risveglio la cercherà, e se la trova da noi, sarà la nostra fine". «Il reame di Song è anch'esso un abisso, e il suo re è peggio del drago nero. Senza dubbio era distratto, quando vi ha dato quei dieci carri di belle cose. Se cambia idea, vi farà a pezzi». I Un principe aveva fatto invitare Chuang-tzu per proporgli di diventare suo ministro. Questi rispose al messo: «Il bue destinato al sacrificio viene parato con una gualdrappa ricamata, e gli danno un mangiare speciale. Solo che poi, un bel giorno, lo conducono al tempio (e lo abbattono). In quel momento preferirebbe essere il bue più qualunque, nell'ultimo dei pascoli. Lo stesso accade ai ministri dei prìncipi. Prima onori; al momento buono, disgrazia e la morte». J Quando Chuang-tzu fu vicino a morire, i suoi discepoli espressero l'intenzione di tassarsi per fargli un funerale più degno. «Assolutamente no!» disse il morente. «Ne avrò a sufficienza del cielo e della terra come bara, del sole, della luna e delle stelle come ornamenti (se ne mettevano nei feretri), della natura intera come corteo [funebre]. Sareste in grado di darmi di più di questo gran lusso?» «No» dissero i discepoli, «non lasceremo che il vostro cadavere giaccia insepolto, preda di corvi e avvoltoi». 284

«È per evitargli questa fine» disse Chuang-tzu, «lo fareste divorare, seppellito, dalle formiche. Privarne gli uccelli per abbandonarlo agli insetti, è forse una cosa giusta?» Con queste sue ultime parole Chuang-tzu mostrò quanto era certo dell'identità della vita e della morte, e in quanto poco conto teneva tutte le vane e inutili convenzioni. A che serve voler livellare, con uno strumento che non è piano? A che scopo voler far credere, con quel che non prova nulla? In che proporzione stanno, con il mistero d'oltretomba, i riti e le offerte? I sensi [corporei] servono unicamente per l'osservazione superficiale, solo lo spirito penetra e dà la convinzione. E tuttavia il volgo crede solo ai suoi occhi, e non si serve del suo spirito. Da qui i riti relativi e i simulacri fittizi; che il Saggio disdegna.

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XXXIII Scuole diverse

A Molte ricette per governare il mondo sono state inventate da autori diversi, e ognuno di essi ha presentato la sua come [se fosse] la migliore. Le cose hanno provato che erano tutte insufficienti. Un solo procedimento è efficace: lasciar agire il Principio, senza contrastarlo. Esso è dappertutto, e tutto penetra. Se gli influssi trascendenti discendono dal cielo e salgono dalla terra, se nascono i Saggi, è grazie a Lui, immanente nel tutto universale. Più la sua unione con il Principio è stretta, più l'uomo è perfetto. I gradi superiori di questa unione fanno gli uomini celesti, gli uomini trascendenti, gli uomini superiori. Vengono poi i Saggi, i quali sanno speculativamente [«teoricamente»] che il cielo, manifestazione già differenziata del Principio, è l'origine di tutto; che la sua azione è la radice di tutto; che tutto è manifestato dal Principio, a mo' di sviluppo [delle sue possibilità], e ad Esso ritorna. Infine, i prìncipi applicano praticamente queste idee, con la loro bontà benefica, la loro equità razionale; i riti, che regolano la condotta; la musica, che produce l'intesa, un profumo di benevolenza che tutto penetra. Così, [per lo meno], facevano i prìncipi dell'Antichità, consigliati dai loro Saggi. Essi distinsero i casi, e applicarono loro delle leggi; essi qualificarono e denominarono. Essi approfondirono ogni cosa, prendendole in considerazione ed esaminandole. Alla fine, messo tutto in chiaro, determinarono misure regolate [sui rapporti] uno, due, tre, quattro. Da quel momento, si mise in moto il sistema dei funzionari, gli affari seguirono il loro corso, la preoccupazione per il popolo divenne la questione maggiore; venne incoraggiato l'allevamento del bestiame; i vecchi e i fanciulli, gli orfani e le vedove, diventarono l'oggetto di una grande sollecitudine; tutto quel che si doveva fare ragionevolmente per il bene comune fu fatto. Sobbarcandosi questo sforzo, gli Antichi collaboravano con gli influssi trascendenti, celesti e terrestri, con l'azione, [cioè], del cielo e della terra. Essi davano il nutrimento ai viventi, conservavano la pace, estendevano a tutti i loro benefici. Dai principi che avevano perfettamente penetrato traevano applicazioni svariate, che agivano in ogni direzione, sugli esseri più diversi. Le vecchie leggi, trasmesse di epoca in epoca, conservate ancora in gran numero nelle storie, testimoniano della scienza teorica e pratica degli Antichi. Vennero poi le Odi, gli Annali, i Riti, i trattati sulla musica dei letterati di Zeù e di Lu, dei Maestri ufficiali dei principati. Nella loro essenza le Odi sono un codice di morale, gli Annali un repertorio di fatti, i Riti una regola di condotta, la musica un mezzo per suscitare la concordia, le mutazioni un procedimento per conoscere i movimenti dello yin e dello yang, le cronache un mezzo per distinguere le reputazioni vere dalle false. Diffusisi dalle province centrali in tutto l'impero, questi scritti diventarono l'argomento sul quale si esercitavano i letterati. Giunse quindi un tempo in cui, essendo stato l'impero invaso da un gran disordine e mancando di grandi Saggi, furono elaborati altri 286

principi, incominciarono le discussioni, e ognuno pretese di aver ragione. Si trattò di qualcosa di simile alla disputa degli orecchi e degli occhi con il naso e la bocca, che non riuscirono mai a mettersi d'accordo, poiché ciascun senso aveva ragione, ma soltanto in rispetto al suo proprio oggetto. Analogamente, le diverse scuole hanno ciascuna la sua specialità, buona a suo tempo e a suo luogo; ma nessuna di esse abbraccia tutto, né ha il diritto di escludere le altre. Come potrebbe un letterato solo, accovacciato in un angolo, arrogarsi [il diritto] di giudicare dell'universo e delle sue leggi, di tutto quel che hanno fatto e detto gli Antichi? Chi è [veramente] qualificato [individualmente] per erigersi a giudice di cose e intelligenze? Caduta nell'oblio la scienza del Principio, non agendo più gli uomini se non sollecitati dalle loro passioni, i capi delle diverse scuole questo diritto di giudicare e condannare tutto e tutti, se lo arrogarono. Perdettero [così] di vista l'unità primordiale, che era stata la gran regola degli Antichi. Con le loro spiegazioni differenti divisero in molte [dottrine] la dottrina un tempo unica dell'impero. B Parliamo subito dei sostenitori di Mei-ti. Trasmettere alle generazioni a venire costumi integri; non eccedere nel lusso e nelle cerimonie; evitare [il più possibile] i conflitti della vita usando grande moderazione; [tutte queste] sono regole [che ci vengono] dagli Antichi. Mei-ti e il suo discepolo Ch'inn-hoalì si entusiasmarono per esse, e di conseguenza le esagerarono. Misero rigidamente al bando la musica. Per ragioni di economia ridussero a nulla le regole del lutto. In nome della carità universale, Mei-ti ingiunse di fare ogni genere di bene a chiunque fosse, e proibì ogni [specie] di litigio, ogni [tipo] di frizione. La scienza non la condannò, ma ordinò che lo studioso restasse senza distinzioni, allo stesso livello della gente comune. Facendo questo, offese gli Antichi e [nocque] a se stesso... Che gli Antichi dessero un valore alla musica, le loro sinfonie, di cui la storia ci ha conservato i titoli, lo provano in modo sufficiente. Che essi volessero, nei funerali, un lusso proporzionato alla condizione [delle famiglie], le loro regole sui feretri lo dimostrano [anch'esse]. Per cui, quando Mei-ti proscrisse ogni [tipo di] musica, e volle che tutti i feretri fossero identici, [anche qui] si mise in contrasto con gli Antichi. Egli violò inoltre la propria stessa legge della carità universale, giacché fece violenza alla natura umana proibendo, [come fece], i canti e le lamentazioni, che sono per l'uomo un indispensabile sollievo naturale. Pretendere che l'uomo soffra ininterrottamente senza batter ciglio, e alla fine sia sotterrato alla bell'e meglio, è forse carità? Indubbiamente, no. Per cui, le teorie di Mei-ti non ebbero il successo di quelle di altri Saggi. Esse ferirono il cuore degli uomini, che le respinsero. Invano Mei-ti si appellò all'esempio di U il Grande, che si era consacrato stoicamente al bene dell'impero nel corso dei lunghi anni che aveva passato a canalizzare le terre e a demarcare i [confini dei] feudi. La sua dottrina non fece perciò una grande impressione sugli uomini, i quali lasciarono che i discepoli di Mei-ti si vestissero di pelli e di rustica tela, calzassero zoccoli o scarpacce rudimentali, si sacrificassero senza tregua né riposo, individuassero la loro perfezione nel patire sofferenze per amore del grande U, senza mostrare nessuna voglia di imitarli. Del resto, se fin dal principio non se la fecero con gli altri, gli aderenti [alla scuola di] Mei-ti ben presto [incominciarono] a non andar più d'accordo neanche tra di loro. 287

287 Ch'inn di Siang-li, C'u-hoai, Chi-c'ie, Teng-ling-zé, e altri, pretesero di essere ognuno il depositario delle vere idee di Mei-ti e si aggredirono l'un l'altro. Sull'esempio dei [pensatori] sofisti, dissertarono sulla sostanza e gli accidenti, sulle affinità e le dissonanze, sul compatibile e l'incompatibile. I loro discepoli più abili fondarono altrettante piccole scuole, che essi sperano possano durare. Fino ad ora, le loro discussioni continuano. In fin dei conti [bisogna dire] che nelle intenzioni di Mei-ti e Ch'inn-hoalì c'era del buono, solo che essi nella pratica si sbagliarono. L'obbligo, che imponevano a tutti, di consacrarsi [al dovere] e di sacrificarsi all'estremo, avrebbe prodotto, se avesse trovato un'eco, qualcosa di superiore al basso egoismo, ma di inferiore [tuttavia] al procedimento naturale (il «non-agire», il «lasciar fare»). Ad ogni buon conto: onore a Mei-ti! Fu l'uomo migliore dell'impero. Anche se i suoi sforzi sono rimasti sterili, il suo nome non va dimenticato. Fu un letterato di gran talento. C E adesso parliamo della scuola di Song-hing e di Yinn-uenn. Disdegnare i pregiudizi della bassa gente; evitare ogni lusso; non offendere nessuno; preservare la pace per il benessere e la felicità del popolo; non possedere più del necessario; conservare animo e cuore liberi, sono tutte cose che gli Antichi fecero e dissero. Song-hing e Yinn-uenn fecero di queste massime il fondamento di una nuova scuola, i cui discepoli portano un copricapo di forma particolare per farsi riconoscere. Essi trattarono gli uomini, [di chiunque si trattasse], con amabilità e finezza, e [la ragione di ciò è che essi pensano] che l'aiuto reciproco è, di tutti gli atti morali, il più nobile. Questo modo di condursi dovrebbe avere come effetto, — così essi pensano —, di conquistare ogni uomo e di farne un fratello [per i suoi simili], che era il loro scopo primario. Sopportavano qualsiasi offesa. Cercavano di appianare ogni disputa. Maledivano ogni violenza e soprattutto l'uso delle armi. Apostoli del pacifismo, andavano predicandolo dappertutto, ammonendo i grandi e indottrinando i piccoli. Scacciati, non per questo si scoraggiavano. Rifiutati, ritornavano alla carica, e finivano, a forza di importunare, con l'ottenere che li si ascoltasse. In tutto ciò ci fu senza dubbio del buono, ma anche dello sbagliato. Questi uomini generosi dimenticarono troppo se stessi, per amore del prossimo. Come prezzo per i loro servigi accettavano solo il proprio nutrimento, e [anche questo] soltanto da parte di coloro che giudicassero che l'avevano guadagnato. Risultato: i capi della scuola ebbero da digiunare più che spesso. Ciò non intimoriva i loro giovani discepoli, che si incitavano alla dedizione per il bene comune dicendosi: «La vita è poi una cosa tanto preziosa? Perché non dovrei sacrificare la mia, come fa il mio maestro, per la salvezza del mondo?...» Brava gente, non criticavano nessuno, non facevano torto a nessuno, biasimavano solo gli egoisti che per il bene pubblico non facevano nulla. Non soltanto proibivano la guerra, ma elevandosi [un po' al di sopra delle contingenze], identificavano la causa [della guerra] negli appetiti e nelle ambizioni, e il rimedio [della guerra] nella temperanza e nell'abnegazione. Soltanto che si fermarono lì, e non seppero, nelle loro speculazioni, elevarsi fino al Principio (di queste giuste deduzioni). In sostanza, furono degli aborti di Taoisti. D 288

Adesso parliamo della scuola di P'eng-mong, T'ien-ping, Scienn-tao, e tutti gli al-

tri... L'imparzialità, l'altruismo, la pazienza, l'accondiscendenza, la tranquillità di spirito, l'indifferenza per la scienza [di dettaglio], la carità per tutti i partiti; gli Antichi tutto ciò lo praticavano. P'eng-mong e i suoi discepoli fecero di queste massime il fondo della propria dottrina. Essi posero, quale principio primo, l'unione universale. «Ciascuno» essi dicevano «ha bisogno degli altri. Il cielo copre, ma non porta; quindi occorre che la terra lo aiuti. La terra porta, ma non copre; quindi occorre che il cielo la aiuti. Nessuno degli esseri è sufficiente a se stesso, né è sufficiente per tutto. A imitazione del cielo e della terra, la gran dottrina deve abbracciare tutto e non escludere nulla». Accordo, per mutua tolleranza e [mutuo] accomodamento. Scienn-tao dichiarò perciò guerra a ogni [genere di] egoismo, a ogni modo di vedere particolare, a ogni coercizione [che venisse] da un altro. Egli esigette, nei rapporti, il perfetto disinteresse. Dichiarò che ogni scienza è qualcosa di inutile e di pericoloso. Si rise dell'apprezzamento del mondo per gli abili, della sua ammirazione per i Saggi. Senza principi teorici definiti, tutto e tutti gli andavano bene. La distinzione del bene e del male, del lecito e dell'illecito, per lui non esisteva. Non accettava consigli da nessuno, non teneva in conto nessun precedente, si infischiava assolutamente di tutto. Per agire, aspettava che un'influenza esterna lo mettesse in moto; così come la penna, per volare, aspetta che il vento la sollevi, come la mola, per molare, aspetta di esser fatta girare... Scienn-tao ebbe insieme ragione e torto. Ebbe ragione quando condannò la scienza, in quanto essa provoca l'ostinazione dottrinale, la ressa delle opinioni, le cappelle e i partiti. Ebbe torto, ed ebbero ragione quelli che lo deridevano [per questo], quando pretese dagli uomini che, della loro intelligenza [individuale], non facessero più uso che di una zolla di terra. Spinto a questo grado di esagerazione, il suo sistema si rivelò fatto più per i morti che per i vivi. T'ien-ping abbracciò il medesimo errore, essendo stato, come Scienn-tao, discepolo di P'eng-mong, che tale errore l'aveva ereditato dal proprio maestro. Questo maestro fu [quindi] causa del fatto che essi credettero tutti che gli Antichi non si fossero elevati più su della negazione pratica della distinzione tra bene e male, tra ragione e torto; [e questo] perché trascurò di insegnar loro che essi avevano negato tale distinzione perché avevano scoperto l'unità primordiale. Ora, siccome, se non ci si eleva fino all'unità, non è possibile rendersi conto di questa non-distinzione, il fatto che P'eng-mong e i suoi negassero la distinzione senza fornire prove, li mise in conflitto con tutti. La loro dottrina fu [perciò] incompleta, difettosa. Ebbero tuttavia qualche idea del Principio, e si avvicinarono al Taoismo. E E adesso parliamo della scuola di Coan-yinn-zé e di Lao-tzu... Cercare la causalità pura nella radice non sensibile degli esseri sensibili, e considerare tali esseri come prodotti grossolani. Considerare la loro molteplicità come meno del loro Principio. Restar raccolti nel proprio spirito, nel vuoto e nella solitudine. Queste sono le massime degli antichi Maestri della scienza del Principio. Tali massime, Coan-yinn e Lao-tzu le insegnarono. Essi diedero loro, come solido fondamento, la preesistenza dell'essere infinito indeterminato, l'unione di tutto nella Grande Unità. Dal principio dell'essere, dall'unione universale, essi dedussero che le regole dell'umana condotta dovevano essere la sottomissione [al Principio], l'accettazione [dei decreti], il nonvolere e il non-agire [individuali], il lasciar fare per non nuocere. Coan-yinn disse: «A colui che non è accecato dai suoi interessi, tutte le cose ap289

289 paiono nella loro verità. I movimenti di quest'uomo sono naturali come quelli dell'acqua. Il riposo del suo cuore ne fa uno specchio in cui tutto si concentra. Egli risponde a qualsiasi avvenimento come l'eco risponde al suono, si ritira, si cancella, accetta tutto, per sé non vuole nulla. Non sopravanza mai nessuno [di forza], ci tiene [piuttosto] a essere sempre l'ultimo». Lao-tzu disse: «Pur conservando la propria energia di maschio, sottomettersi come la femmina. Fare di sé [il punto di] confluenza delle acque. Mantenendosi perfettamente puri, accettare che sembri che non lo si sia. Porre se stessi al [livello] più basso nel mondo. Mentre tutti desiderano essere i primi, voler essere l'ultimo e quasi la spazzatura dell'impero. Mentre tutti desiderano l'abbondanza, preferire l'indigenza, ricercare la privazione e l'isolamento. Non fare sforzi eccessivi. Non impicciarsi. Ridersi di quelli che il volgo chiama "gente in gamba". Non attribuirsi nessun merito, ma accontentarsi di essere irreprensibili. «Regolarsi sempre facendo il punto sul Principio, e rispettare le sue leggi. Evitare non fosse che l'apparenza della forza e del talento, perché i forti vengono spezzati e gli affermativi [e dogmatici] smussati dai loro nemici e dagli invidiosi. Essere larghi e condiscendenti verso tutti. Questo è l'apogeo». O Coan-yinn! O Lao-tan! Voi foste gli uomini più grandi di tutte le epoche! F

Parliamo ora di Cioang-ceù (Chuang-tzu). Gli antichi Taoisti trattarono tutti quanti dell'essere originario oscuro e indistinto, delle mutazioni alternanti [che fanno capo ad Esso], dei due stati di vita e di morte, dell'unione con il cielo e la terra, della dipartita dello spirito, dei suoi andare e venire. Chuang-tzu si impadronì di questi temi, e ne fece i suoi argomenti d'elezione. Ne trattò, a modo suo, con termini nuovi e arditi; liberamente, ma senza costituire scisma [adattando, cioè, l'esposizione della dottrina ai tempi, conformemente ai dettami della tradizione]. Tenendo conto che gli uomini [del suo tempo] comprendevano con difficoltà le spiegazioni elevate [espresse in modo] astratto, ricorse alle metafore [ai racconti simbolici], alle comparazioni, alla messa in scena dei personaggi, alla ripetizione di uno stesso argomento [visto] sotto diverse prospettive. Trascurando i particolari di importanza secondaria, puntò soprattutto alla questione capitale dell'unione dello spirito con l'universale. Per non essere coinvolto in discussioni inutili, non si abbassò ad approvare o a disapprovare nessuno. Scintillanti di brio, i suoi scritti non feriscono. Calzanti ai problemi [per la nuova forma], le sue concezioni sono serie e [allo stesso tempo] attraenti. Tutto quel che dice non è mai gratuito [e ha sempre un senso profondo]. Soprattutto due furono le tesi che ebbero le sue preferenze, e cioè: la natura dell'autore degli esseri (il Principio), e l'identità della vita e della morte (fasi successive). Ha trattato dell'origine [della manifestazione] con ampiezza ed elevatezza. Sulla genesi degli esseri e sullo sviluppo del cosmo le sue argomentazioni sono ricche e ben fondate. G

E ora parliamo del sofista Hoei-scie (Hoei-zé). Fu uomo dall'immaginazione fertile. Scrisse tanto da riempire cinque carrette (si scriveva allora su tavolette di legno). Sennonché i suoi principi erano falsi e le sue parole non portavano da nessuna parte. Discuteva da retore, sostenendo e confutando propositi paradossali del genere dei seguenti: «La grande unità è ciò che è così grande, che al di fuori [di essa] non c'è niente; la 290

piccola unità è ciò che è così piccolo che dentro [di essa] non c'è niente. Quel che c'è di più sottile ha uno spessore di mille stadi. Il cielo è più basso della terra; le montagne sono più piatte delle paludi. Il sole è al suo massimo quando tramonta. «Un essere può nascere e morire nello stesso tempo. La differenza tra una grande e una piccola rassomiglianza è la piccola rassomiglianza-differenza; quando gli esseri sono completamente somiglianti e differenti si ha la gran rassomiglianza-differenza. Il Sud illimitato ha confini. «Sono partito oggi da Ué per ritornarvi ieri. Anelli saldati sono separabili. Il centro del mondo è a Nord di Yen (paese del Nord) e a Sud di Ué (località del Sud). Amare tutti gli esseri unisce al cielo e alla terra»(1). Hoei-scie andava matto per queste discussioni, le quali gli valsero, in tutto l'impero, la fama di abile sofista. Volendolo imitare, altri scesero in lizza su questo stesso terreno. Do qualche esempio dei loro temi prediletti: «L'uovo è peloso. Il gallo ha tre zampe. Ying contiene l'impero. Si può chiamare pecora un cane. Il cavallo fa le uova. I chiodi hanno la coda. Il fuoco è freddo. Le montagne hanno la bocca. Le ruote di un carro non toccano terra. L'occhio non vede. Il dito non tocca. Termine non è fine. La tartaruga è più lunga del serpente. Poiché la squadra non è quadrata, né il compasso rotondo, essi non possono tracciare quadrati e cerchi. [In un incastro] la mortasa non tiene il tenone. L'ombra di un uccello in volo non si muove. La freccia che tocca il bersaglio non procede oltre, e non è [ancora] ferma. Un cane non è un cane. Cavallo baio e bue fanno tre. Cane bianco è nero. Pulcino orfano non ha mai avuto madre. Lunghezza di un piede, dimezzata ogni giorno, mai sarà ridotta a zero». Su questi argomenti, e altri simili, questi sofisti discussero per tutta la vita, senza mai trovarsi a corto di parole. Hoan-t'oan e Cungsunn-lung eccelsero, nello scambio di battute, nel seminare dubbi, nel mettere la gente in contraddizione con se stessa, senza mai però convincere nessuno della minima cosa, avvolgendo soltanto le loro vittime nella rete delle loro insensatezze, trionfanti quando le vedevano dibattersi senza [riuscire] a liberarsene. Hoei-scie sprecò tutto il suo tempo e tutta la sua intelligenza a inventare paradossi ancor più sottili [di quelli] dei suoi imitatori. Questo era il suo vanto. Sapendosi abilissimo [in questo], si proclamava volentieri senza uguali al mondo. Ohimè! Pur se aveva [sempre] l'ultima parola, non per questo Hoei-scie aveva [anche] ragione... Un giorno un furbo della zona meridionale di nome Hoang-leaò, gli chiese di spiegargli come mai il cielo non veniva dabbasso e la terra non sprofondava; come mai tirava vento, perché pioveva, tuonava, e tutto il resto. Con gravità e coraggio, Hoei-scie decise di dar soddisfazione a questo bello spirito. Senza un attimo di esitazione incominciò a parlare, parlare, ancora parlare, senza prender fiato, senza arrivare da nessuna parte. La sua felicità era contraddire; ridurre al silenzio era il culmine [delle sue aspirazioni]. Sofisti e retori, tutti lo temevano... Poveretto! La sua forza non fu che debolezza, la sua via, uno stretto sentiero. In (1) Questi paradossi (e quelli che seguono), talvolta semplici calembours, hanno ovviamente, uno per uno, una loro spiegazione dialettica che ne giustifica l'enunciazione da parte dei loro autori, sia pure a un livello concettuale molto basso. Alcuni traduttori dal cinese in lingue occidentali si sono diffusi (come il Giles), su questa loro giustificazione razionale. Il Wieger, onorando anche qui la sua encomiabile tendenza all'essenzialità, molto spesso sorniona, si è limitato a darne l'enumerazione, rilevandone esclusivamente la sola caratteristica importante per l'economia del testo: l'inintelligenza, o la franca stupidità. In perfetta armonia con lo spirito di Chuang-tzu. (N.d.T.)

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291 quanto a efficacia la sua attività prodigiosa non fu, per l'universo, più rilevante del ronzio di una zanzara, un inutile rumore. Se avesse impiegato le sue energie per avvicinarsi al Principio, quanto sarebbe stato meglio! Ma Hoei-scie non fu uomo da trovar pace in considerazioni serie. Si disperse in sforzi inutili, e non fu che un retore prolisso. Fece tutto il contrario di quel che si sarebbe dovuto fare. Gridò per zittire l'eco, e corse per acchiappare la propria ombra. Poveraccio!

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Frontespizio Introduzione Avvertimenti di lettura Parte Prima. Tao Te Ching. L'opera di Lao-tzu I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII XXXIX XL XLI XLII XLIII XLIV XLV XLVI XLVII XLVIII XLIX L LI LII LIII LIV LV LVI LVII LVIII LIX LX LXI LXII LXIII LXIV LXV LXVI LXVII LXVIII LXIX LXX LXXI LXXII LXXIII LXXIV LXXV LXXVI LXXVII LXXVIII LXXIX LXXX LXXXI Parte seconda. Lieh-tzu I. Genesi e trasformazioni II. Semplicità naturale III. Stati sottili IV. Estinzione e Unione V. La continuità cosmica

2 6 11 13 15 16 16 17 18 19 20 20 21 22 22 23 23 24 25 25 26 26 27 27 28 29 29 30 30 30 31 31 32 32 33 33 34 34 35 35 35 36 36 37 37 38 38 38 39 39 39 39 40 40 40 41 41 42 42 42 43 43 43 44 44 44 45 45 46 46 46 47 47 48 48 48 49 49 49 50 50 51 51 51 52 53 55 62 74 80 88

VI. Fatalità VII. Yang-ciù VIII. Aneddoti Parte terza. Chuang-tzu I. Verso l'ideale II. Armonia universale III. Sostentamento del principio vitale IV. Il mondo degli uomini IV. Azione perfetta VI. Il Principio, primo Maestro VII. Governo ideale VIII. Piedi palmati IX. Cavalli addomesticati X. Piccoli e grandi ladri XI. Politica vera e politica falsa XII. Cielo e Terra XIII. L'influsso del cielo XIV. Sviluppo naturale XV. Saggezza e incrostazioni XVI. Natura e convenzione XVII. Acque d'autunno XVIII. Gioia perfetta XIX. Senso della vita XX. Oscurità voluta XXI. Azione trascendente XXII. Conoscenza del Principio XXIII. Ritorno alla natura XXIV. Semplicità XXV. Verità XXVI. Fatalità XXVII. Verbo e parole XXVIII. Indipendenza XXIX. Politici XXX. Spadaccini XXXI. Il vecchio pescatore XXXII. Saggezza XXXIII. Scuole diverse

98 104 112 123 125 128 134 136 142 146 153 156 159 161 164 170 178 183 189 191 193 200 204 211 217 223 231 237 245 252 257 260 267 274 277 281 286