I Normanni nel Sud. 1016-1130 [Vol. 1]

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I Normanni nel Sud. 1016-1130 [Vol. 1]

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Storia, Biografie, Diari L E C IV ILTÀ N E L L A STO RIA

Storia, Biografìe, Diari L E C IV ILTÀ N E L L A STO RIA

John Julius Norwich

I NORMANNI NEL SUD 1016-1130

MURSIA

Titolo originale: The Normans in the South ( 1016-1130) Traduzione di Elena Lante Rospigliosi

Copertina: Omar Carano

II nostro indirizzo Internet è: http://www.mursia.com L’edizione inglese originale è stata pubblicata da Longmans, Green and Co. Ltd, Publishers, London ©Copyright 1967 John Julius Norwich ©Copyright 1971 Ugo Mursia Editore S.p.A. per l’edizione italiana Tutti i diritti riservati - Printed in Italy 1248/AC - Ugo Mursia Editore S.p.A. - Milano Stampato da Genesi Gruppo Editoriale srl - Città di Castello (Perugia) Anno

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1 S 4

a d A nna

IN TRO D U ZIO N E

N ell’ottobre d el 1961 m ia m oglie e d io ci recam m o a trascorrere un p erio d o di vacanze in Sicilia. S apevo vagam ente c h e i nor­ m anni vi avevano regnato p er un certo p eriod o nel M edioevo, m a niente di piti. A d ogni m od o una cosa è certa: ero assolutam ente im preparato a tutto ciò ch e vidi. V i h o infatti trovato cattedrali, chiese, palazzi ch e sem brano riunire, senza sforzo n é tensione, quanto d i più bello vi è n ell’arte e n ell’architettura d elle tre grandi civiltà di qu ell’ep o ca - la nord-europea, la bizantina e la saracena. Qui, al centro d el M editerraneo, si trovava il ponte ch e riuniva N ord e Sud, Est ed Ovest, latini, teutoni, cristiani e musul­ mani; magnifica, inconfutabile testim onianza di un'era di illuminata tolleranza, ignota ovunque n ell’Europa m edioevale e raram ente uguagliata nei secoli ch e seguirono. Mi entusiasm ai e fu i preso dal vivo d esiderio d i saperne di più. Term inate le vacanze, ricorsi alla soluzione più sensata: m i diressi alla L ondon Library. L i m i attendeva un’am ara delusione. P oche opere, per lo più francesi o tedesche, scaturite dalle form id abili penne di eruditi del secolo decim onono, di una m onotonia paralizzante, si allineavano sem inascoste in uno degli scaffali superiori, m a non vi era assolutam ente nulla ch e potesse sodd isfare il lettore com une in cerca di una sem plice cronistoria d ei norm anni in Sicilia. P er un m om ento m i sono chiesto se la più prestigiosa e la più fidata d elle istituzioni inglesi non mi avesse questa volta tradito, m a al tem po stesso ero sicurissim o c h e questo non p otev a essere. S e la Lon don Library non p ossed ev a il tipo di libro ch e io cercavo, significava ch e tale libro non esisteva. E fu cosi ch e m i trovai d i fron te ad un p roblem a che, trascorsi cin qu e anni, an cora m i lascia perp lesso: com ’è possibile ch e una d elle vicende ep ich e più straordinarie e d affascinanti ch e si siano verificate nella storia eu ropea tra l’ep o ca di G iulio Cesare e qu ella d i N apoleon e sia in gen ere tanto p o co conosciuta. Persino in Francia qualsiasi riferim ento a ll’argom ento spesso viene accolto d a un’espressione vaga e d a un silenzio im barazzato; mentre in Inghilterra, c h e d o p o tutto su bì quasi n ello stesso p eriod o una conquista norm anna - seb b en e di gran lunga m eno em ozionante e c h e in seguito av reb b e dato alla Sicilia vari uom ini d i Stato e una regina, tale riferim ento prov oca uno sm arrim ento ancor più gene­ rale. Ferdinand C halandon, autore di un libro su qu el p eriod o ch e

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ancora fa testo, nella sua m onum entale bibliografia di oltre seicento voci, m enziona un solo autore inglese: G ibbon ; e ben ché nei ses­ san tan n i trascorsi d a allora un certo num ero di studiosi inglesi, tra i qu ali prim eggia brillantem ente Evelyn Jam ison, abbian o di­ boscato m olte im pervie zon e d i questo periodo storico piantando la loro bandiera negli angoli più reconditi di questa oscura foresta, fino a d ora sono a conoscen za di du e sole op ere inglesi non specia­ lizzate ch e narrano la vicenda con una certa dovizia d i particolari: Roger of Sicily di E . Curtis, lavoro coscien zioso an che se di stile un pò* pesante, scritto alla vigilia della prim a guerra m ondiale e The Greatest Norman Conquest - ecco un titolo ch e è tutto un program m a - d i Joh n Van W yck O sborne, le cui riflessive capacità d i studioso vengono di continuo soffocate da una esuberante imma­ ginazione. Questi due libri fu ron o p u bblicati a N ew Y ork e sono d a tem po esauriti, m a né Puno né Valtro trattano per intero il p eriod o ch e interessa. L a conclusione era quindi in evitabile: se volevo una storia com ­ pleta della Sicilia norm anna per il lettore m edio, avrei dovuto scri­ verla da me, ed è cosi ch e ora presento, con una certa titubanza e m olta diffidenza, il prim o d ei due volum i ch e narrano questa vi­ cenda a partire da qu el lontano giorno d el 1016, quando un gruppo di pellegrini normanni venne avvicinato da un n obile longobardo nella cappella di S. M ichele A rcangelo sul M onte Gargano, fino al giorno in cui, centosettantotto anni dopo, la più fulgida coron a d el M editerraneo passò ad uno d ei più truculenti im peratori germ an ici Questo volum e narra i prim i centoquattordici anni di questo p e­ riodo fino al giorno di N atale del 1130, quando la Sicilia si tra­ sform ò finalm ente in regno e Ruggero I I ne divenne re. Questi sono gli anni ep ici della lotta e d ella conquista, dom inati dalle figure dei figli e dei nipoti di T ancredi d ’A ltavilla ed in particolare dal torreggiante R oberto il G uiscardo, uno dei p och i avventurieri m ilitari di genio che, sorti dal nulla, m orirono senza con oscere sconfitte. In seguito il clim a muta: la durezza nordica si addolcisce al sole, il fragore d elle arm i si sm orza lentam ente per far posto al m orm orio d elle fontane sotto i portici om brosi ed alla m elodia delle cord e pizzicate. Cosi il secon do volum e parlerà delVetà d'oro della Sicilia norm anna; d ei tem pi di C efalù, di M onreale, della C appella Palatina a Palerm o e poi, con tristezza, del declino e del crollo. È vero ch e lo spirito sarebb e sopravvissuto per un altro m ezzo secolo ancora nelVanimo di F ederico l ì, Stupor Mundi, il più

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INTRODUZIONE

grande prin cipe rinascim entale ch e precorse di due secoli i suoi tem pi, e in M anfredi, suo figlio; m a F ederico, pur essendo un A ltavilla p er parte di m adre e p er educazione, era an che un H ohenstaufen e, p er d i ptu, un im peratore. L a sua è una storia gloriosa e tragica, m a non sta a noi narrarla. Q uesto libro non ha p retese scientifiche. A parte tutto, io non sono uno studioso. N onostante otto anni di qu ella che, con otti­ mismo, si usa definire istruzione classica ed un recente faticoso corso di aggiornam ento, la m ia conoscenza del latino zoppica e qu ella d el greco ancor d i più . B en ché troppo spesso a b b ia dovuto inoltrarm i a fatica tra i m eandri d elle fon ti originali, ogni volta ch e m i è stato possibile m i sono avvalso ben volentieri di tradu­ zioni, annotandole con cura nella bibliografia; e ben ché a b b ia cer­ cato di docum entarm i il più p ossibile sulVargomento, per inserire il raccon to nel quadro gen erale d ella storia europea, non pretendo di aver reperito m ateriale nuovo, n é di essere giunto a strabilianti conclusioni originali. Q uesto vale an ch e p er le ricerche da m e fatte sul p osto. C redo di aver visitato ogni luogo im portante di cui si parla in qu esto volum e (in condizioni clim atiche indicibilm ente difficili), m entre le ricerche n elle bib liotech e e negli archivi locali sono state lim itate e - fu orch é nella B iblioteca V aticana - p o co fruttuose. Non importa. I l m io intento, com e ho già spiegato, era d i presentare al lettore m ed io un tipo di libro ch e io stesso avrei voluto leggere in occasion e della m ia prim a visita in Sicilia - un libro c h e spiegasse, in prim o luogo, co m e vi giunsero i normanni e com e p o i Vavessero trasform ata e fossero riusciti a d impregnarla di una cultura al tem po stesso tanto bella e unica n el suo genere. M entre m i ferm o ora p er riprendere fiato, il m io unico rim pianto è d i non aver saputo render loro m aggior giustizia. * * *

T ra i m olti am ici in Italia ch e m i hanno consigliato ed aiutato nella stesura di questo libro d esidero ringraziare in particolare il dottor M ilton G en del e sua m oglie p er la loro ospitalità e p er aver m esso liberalm en te a m ia disposizione le loro conoscen ze storiche; la signorina G eorgina Masson, la cui p rofon d a conoscen za dellT talia m ed ioev ale e i cui m olti consigli bibliografici m i son o stati preziosi; la duchessa E lena Lante R ospigliosi p er le utilissime ricerche da lei fatte e p er aver voluto curare la traduzione italiana délV opera;

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don A ngelo M ifsud, archivista d ella B adia della Cava, Salerno; il con te dottor Sigmund F ago G olfarelli, cap o d e l Servizio Stam pa dell'Ente N azionale Italian o p er il Turism o; il com pianto padre Guy Ferrari, la cu i prem atura scom parsa è stata una grave per­ d ita p er la B iblioteca V aticana e p er tutti gli studiosi ch e la fre­ quentano. In Inghilterra la m ia riconoscen za va in sp ecial m odo a l dottor Jon athan Riley-Smith, la cu i bon tà e la cui erudizione m i hanno im pedito di ca d ere in m olte inesattezze. Sir Steven Runcim an, Sach ev erell Sitw ell e i loro editori, la Clarendon Press e la G erald D uckw orth & Co., Ltd, m i hanno cortesem ente perm esso di avva­ lerm i di citazioni dalle loro o p ere; la p rofessoressa Lancy L am bton della L ondon University si è prodigata in tutti i m odi per rintrac­ ciare il p oem a di Iq b a l da cui è tratta l’epigrafe p er il capitolo X III. I m iei ringraziamenti vanno pu re al signor C. R. Ligota d el W ar­ burg Institute e d a m olti, purtroppo anonim i, m em bri d el person ale d ella B iblioth èqu e N ationale d i Parigi. M a la m ia più p rofon d a gratitudine spetta a m io cugino, Rupert Hart-Davis. N essuno m eglio d i lui sa com e va scritto un libro: nessun altro a v reb b e potu to m ettere altrettanto generosam ente a m ia disposizion e il suo tem po, la sua esperienza e la sua saggezza. Il m io d eb ito verso di lui è enorm e e d è condiviso dai m iei lettori più d i quanto essi possan o immaginare, p o ich é se questo libro è in qu alch e m od o p iacev ole a leggersi ciò è dovuto in gran parte a lui. Q uesto d ebito pu ò essere riconosciuto m a m ai ripagato. Praticam ente ogni p arola d i quanto segue è stata scritta nella sala di lettura d ella L on don L ibrary; m i rim ane solo da riecheg­ giare le p arole p roferite d a m igliaia di autori ch e m i hanno pre­ cedu to: senza le inesauribili risorse d ella Library alle quali si sono aggiunte la pazienza, la com pren sion e e la serenità d i ogni m em ­ bro d el personale, non v ed o p roprio co m e m i sa reb b e stato possi­ bile portare a com pim ento qu esta m ia opera. J .J .N .

PARTE PRIMA

LA CONQUISTA

CAPITOLO PRIMO

G LI IN IZI His starrie Holme unbuckl'd skew'd him prime In manhood where youth ended; by his side As in a glistering Zodiac hung the Sword, Satan's dire dread, and in his hand the Spear.1 M ilt o n ,

Paradise Lost, XI

Al viaggiatore che procede verso est, da Foggia in direzione del mare, la grigia, scarna sagoma del Gargano si presenta come una grossa nuvola temporalesca che incombe sulla pianura. Una strana escrescenza, questa massa di roccia calcarea che sorge inaspetta­ tamente dai campi della Puglia e, incurante della dolce curva costiera, si spinge per circa sessantacinque chilometri nell'Adria­ tico - strana e in certo modo paurosa. Nota attraverso i secoli come « lo sperone d'Italia », questo nome non le si confà, infatti si trova troppo in alto lungo lo stivale e si direbbe messo alla rovescia. Fa pensare piuttosto ad una callosità accidentale, inat­ tesa e, fondamentalmente, non gradita. E cosi il paesaggio, con le sue fitte foreste di faggi, dall'aspetto più germanico che italiano; e il clima, aspro e lacerato dai venti; e la popolazione, cupa, rav­ volta in panni scuri e composta prevalentemente di vecchi (a dif­ ferenza delle altre zone della Puglia dove l'età media della popola­ zione, in apparenza esclusivamente maschile, sembra aggirarsi in­ torno ai sette anni), stanno ad indicare una singolare particolarità. Il Gargano, sia per i visitatori che per la gente del luogo, è diverso. Si direbbe estraneo. Questa sensazione la gente della Puglia l'ha sempre avuta, ed ha sempre reagito alla stessa maniera. Sin dalla piu remota anti­ chità un alone di sacralità ha circondato la montagna. In età clas­ sica vi sorgevano almeno due templi importanti, uno dedicato a Podalirio - un antico eroe di poco conto e di ancor minore inte-

1 « Dello stellato elmetto il vigor primo / Della virilità nel vago volto / Misto scopria di giovinezza il fiore; / Stringe un'asta la mano, e dal bel cinto / Qual da zodiaco scintillante, pende, / Spavento di Satán, la fera spada. M ilton, Il Paradiso perduto, libro X I, trad, di Lazzaro Papi, Firenze, 1839.

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resse - e uno al vecchio Calcante, l'indovino dell ’Ilia d e: in questo tempio, secondo Strabone, coloro che consultavano l’or acolo gli sacrificavano un ariete nero e poi dormivano ravvolti nella sua pelle. Con l'avvento del cristianesimo tali forme di devozione con­ tinuarono, come spesso accadeva, con quel minimo di mutamento necessario per adeguarsi ai tempi, cosicché nel quinto secolo, con circa un millennio di sacralità alle spalle, la montagna era pronta ad accogliere il miracolo che allora si verificò. Il 5 maggio deiranno 493, un proprietario di bestiame del luogo, messosi alla ricerca di un magnifico toro che aveva smarrito, lo ritrovò in una profonda grotta nel fianco della montagna. Ripetuti tentativi per indurre l'animale ad uscire dalla spelonca si mostrarono infruttuosi e, preso dall'esasperazione, l'uomo scagliò una freccia in direzione del toro. Con sua grande meraviglia la freccia, arrestatasi a mezza strada e poi rifacendo la traiettoria all'inverso, gli si conficcò in una coscia, provocandogli una ferita superficiale ma dolorosa. Af­ frettatosi a far ritorno a casa, come meglio poté, narrò l'accaduto a Laurenzio, vescovo della vicina Siponto, il quale ordinò che ve­ nissero osservati tre giorni di digiuno in tutta la diocesi. Il terzo giorno lo stesso Laurenzio visitò il luogo del miracolo. Era appena giunto, quando gli apparve l'arcangelo san Michele rivestito di una fulgida armatura, il quale gli disse che da quel giorno in poi quella grotta doveva essere trasformata in luogo consacrato a lui e a tutta la milizia celeste. Poi spari, lasciando a testimonianza della sua apparizione uno dei suoi grandi speroni di ferro. Quando Lauren­ zio, alcuni giorni dopo, tornò alla grotta accompagnato da un gruppo di persone, trovò che gli angeli si erano dati da fare du­ rante la sua assenza; la grotta era stata trasformata in cappella e le pareti erano state ricoperte con drappeggi color porpora; tutt’intorno si diffondeva una luce soffice e calda. Mormorando preci di lode, il vescovo ordinò che venisse eretta una chiesa in alto, sulla roccia, all'ingresso della grotta. Quattro mesi dopo, il 29 set­ tembre, egli consacrò la nuova chiesa all'arcangelo san Michele.2 Nella cittadina di Monte Sant'Angelo la chiesa fatta costruire dal vescovo Laurenzio è sparita da tempo, ma il ricordo dell'arcan­ gelo san Michele è sempre vivo. All'ingresso della grotta sorge oggi un campanile ottagonale che risale al secolo decimoterzo, e un por­

2 La storia è narrata nel Breviario Romano, nell’« Uffizio dei Santi » dell’8 maggio.

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ticato di stile romanico, piuttosto pesante, costruito circa cento anni fa. All'interno, scende, fino a raggiungere le viscere della roccia, una scalinata composta di innumerevoli rampe. Da ambo i lati della scalinata le pareti sono cariche di doni votivi: grucce, cinti, arti artificiali; occhi, nasi, seni rozzamente modellati su sottili lamine di latta; pitture - genuini primitivi di arte contadinesca - che rap­ presentano incidenti stradali, scontri, cavalli imbizzarriti, pentole dalle quali si rovescia del liquido bollente ed altri spiacevoli inci­ denti, dalle cui conseguenze perniciose le vittime sono state pre­ servate grazie airintervento miracoloso deirarcangelo; tra le cose più commoventi, alcuni costumini indossati un tempo da bambini in suo onore - sempre in riconoscenza delle grazie ricevute minuscole spade di legno, piccole ali intagliate in lamine di sta­ gno, corazze fatte con latta di scatolame vecchio, spesso accom­ pagnate da fotografie di piccoli guerrieri, le quali vanno pian piano consumandosi, addossate come sono alla roccia umida e scura. In fondo alla scalinata, protetta da due magnifiche porte di bronzo di stile bizantino - donate da un ricco amalfitano nel 1076 - si trova la grotta, in condizioni sostanzialmente simili a quelle in cui l'aveva lasciata il vescovo Laurenzio. AlPintemo Paria vibra sem­ pre al mormorio di innumerevoli preghiere ed è greve delPincenso bruciato nel corso di quindici secoli, inumidita anche da un inin­ terrotto sgocciolare dal soffitto di roccia lucente di acqua che viene raccolta e distribuita ai fedeli in piccoli recipienti di plastica. L'al­ tare maggiore, risplendente di luci, coronato da una statua viscosa ed effeminata dell'arcangelo, che certo non può essere opera del Sansovino, occupa un angolo della grotta; sparse qua e là sono colonne sgretolate e vecchi altari abbandonati, in profondi recessi, all'oscurità e al tempo. Monte Sant'Angelo non tardò molto a diventare uno dei luoghi di pellegrinaggio piu noti d'Europa. V i si recarono santi come Gre­ gorio Magno alla fine del sesto secolo e, alla metà del secolo decimoterzo, Francesco, che non lasciò un buon esempio ai fedeli, intagliando una iniziale sull'altare che si trova proprio all'ingresso della grotta. Vi si recarono pure imperatori, come il sassone Ot­ tone II, che vi giunse nel 981, accompagnato dalla bella e giovane moglie bizantina Teofano, o il figlio di questi, il mistico, megalo­ mane Ottone III il quale, per un eccesso di zelo, percorse tutto il tragitto da Roma a piedi nudi; e forse, ad un livello più umile, vi si recarono, nell'anno 1016, un gruppo di pellegrini normanni i

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quali intavolarono in quella grotta una conversazione con un fore­ stiero dairabbigliamento strano; conversazione che mutò il corso della storia e condusse alla instaurazione di uno dei regni più po­ tenti e magnifici del Medioevo. Airinizio del secolo decimoprimo i normanni avevano com­ pletato quell’evoluzione che, nel breve lasso di appena cento anni, aveva trasformato un gruppo di barbari, pagani e quasi analfabeti, in uno Stato cristiano, civile, semi-indipendente, seppure privo di molti scrupoli. Fu questa, anche per un popolo energico e molto dotato, un’impresa stupenda. Erano ancor oggi vivi quegli uomini i cui padri potevano ricordare Rollone, il vichingo dalla chioma bionda, che guidò le loro agili navi, i d ra k k a r, facendole risalire il corso della Senna e che, nel 911, ebbe in feudo dal re franco Carlo il Semplice, una vasta zona dell’attuale Normandia orien­ tale. È vero che Rollone non fu il primo degli invasori normanni; l ’ondata iniziale si rovesciò dalle loro foreste e dai loro fiordi verso la metà del secolo precedente e, a partire da allora, le migrazioni si susseguirono a ritmo abbastanza regolare. Ma fu Rollone che incanalò le energie e mise a fuoco le aspirazioni dei suoi compa­ trioti, preparando la via per il loro amalgamarsi ed identificarsi con la nuova patria. Già fin dal 912 un gran numero di essi, gui­ dati dallo stesso Rollone, ricevettero il battesimo. Anzi, secondo il Gibbon, alcuni di questi si facevano battezzare « dieci o dodici volte, per amore della veste bianca » che veniva donata ai battez­ z a c i in occasione della cerimonia; il fatto poi che « al funerale di Rollone i doni ai monasteri », in suffragio dell’anima sua, erano accompagnati da un rito pagano in cui venivano sacrificati « cento prigionieri », fa pensare che anche a quei tempi l’opportunismo politico potesse essere un motivo altrettanto potente, per giungere alla conversione, quanto la luce soprannaturale, e che Thor e Odino abbiano opposto resistenza prima di cedere all’influsso dello Spirito Santo. Per ammissione dello stesso Gibbon, tuttavia, trascorsa una generazione o due, « il mutamento dell’intera nazione fu sincero e totale ». Lo stesso può dirsi riguardo alla lingua. Nel 940, l ’antica lingua normanna era ancora in uso a Bayeux e lungo la costa (dove si presume che nuovi immigrati la mantenessero viva), ma era già dimenticata a Rouen; sullo scorcio del secolo, il suo uso era scom­ parso del tutto, senza quasi lasciar traccia. Ai normanni, per tra­ sformarsi in veri e propri franchi, non rimaneva che adottare un’ul-

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tima grande istituzione che, negli anni che seguirono, esercitò su di loro, e sui loro discendenti, un fascino perenne. Questa istitu­ zione, destinata a divenire di li a poco la pietra angolare di due fra le potenze meglio amministrate che il mondo abbia mai cono­ sciuto, era la legge franca, che si stava rapidamente evolvendo; i normanni Adottarono con entusiasmo. Il concetto di legalità fu il marchio che distinse la maggior parte delle strutture sociali delPOccidente; rimane, tuttavia, uno dei paradossi nella storia dei normanni che tale concetto si sia radi­ cato cosi profondamente in seno ad un gruppo etnico noto in tutta Europa per il suo sprezzo dei diritti altrui. La pirateria, lo sper­ giuro, il furto, la rapina, l’estorsione, Pomicidio - delitti simili ve­ nivano perpetrati allegramente e di continuo ad ogni livello, da quello personale a quello nazionale, dai re, dai duchi, dai baroni normanni, assai prima che le Crociate venissero a svilire ancora di più il livello morale del mondo civile. La spiegazione di tale para­ dosso risiede nel fatto che i normanni erano, innanzi tutto, dei prag­ matici. Essi consideravano la legge, molto semplicemente, come una meravigliosa e salda base sulla quale erigere la struttura dello Stato, e della quale servirsi come baluardo a difesa delle loro posizioni in qualunque impresa. Come tale, la legge non era la loro padrona, ma la loro schiava, ed essi la facevano rispettare in quanto una schiava forte era loro più utile di una schiava debole. Tale atteg­ giamento, che fu proprio di tutti i sovrani normanni, sia al Nord che al Sud, spiega come i meno scrupolosi tra questi adducessero sempre qualche geniale giustificazione legale per il loro operato; spiega pure come mai Enrico II dTnghilterta e Ruggero di Sicilia, che furono tra i normanni i due più grandi costruttori di Stati, si sforzassero di organizzare, nei loro rispettivi regni, dei poderosi sistemi legislativi. Né Tuno né l’altro, però, mai considerarono il si­ stema di leggi da loro creato come un ideale astratto; ancor meno commisero l ’errore di identificarlo con la giustizia. Un simile approccio pragmatico ed una simile preoccupazione per la forma esterna erano pure evidenti nell’atteggiamento dei nor­ manni verso la religione. A quanto sembra, essi erano sinceramente timorati di Dio - come, del resto, lo erano tutti nel Medioevo - e come tanti altri rimanevano legati al concetto medioevale, sem­ plicistico ed egoista, che la religione doveva servire ad evitare, dopo la morte, i fuochi dell’inferno e a giungere in Paradiso nel modo più rapido e meno doloroso possibile. Per facilitare questo viaggio,

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bastava attenersi alle prescrizioni della Chiesa - andare regolar­ mente a Messa, digiunare quanto bastava, fare un po' di penitenza quando era. necessario, recarsi ogni tanto in pellegrinaggio e, se possibile, elargire generose donazioni a fondazioni e istituzioni reli­ giose. Queste formalità andavano osservate; quanto poi alla vita quotidiana nel mondo esterno, questa era un fatto del tutto perso­ nale, in fin dei conti, non sarebbe stata giudicata in modo troppo severo. Similmente, non vi era necessità assoluta di sottomettersi al giudizio della Chiesa in ordine alle questioni temporali. Come vedremo, i genuini sentimenti religiosi di un Guiscardo o di un Ruggero non impedirono mai a questi di opporsi, dente per dente, occhio per occhio, a quelle che essi consideravano usurpazioni inam­ missibili da parte del Papato; cosi cerne la religiosità di un Enrico Plantageneto non gli impedì di mostrarsi spietato contro Becket. La scomunica era certo una pena severa, cui non ci si poteva espor­ re alla leggera; eppure vi si incorreva, e spesso, specialmente da parte dei normanni. A dire il vero, la scomunica sembrava avere un effetto assai limitato sulla loro politica: di solito riuscivano a farsela togliere dopo breve tempo. Materialisti, furbi, facili ad adattarsi, eclettici, dotati della ine­ sauribile energia ereditata dagli antenati vichinghi, pieni di fiducia in loro stessi, i primi avventurieri normanni erano mirabilmente preparati al ruolo che erano chiamati a svolgere. A queste qualità, ne aggiungevano altre due, forse non molto lodevoli in sé, ma senza le quali il loro potente regno meridionale non sarebbe mai esistito. In primo luogo, erano incredibilmente prolifici e di qui derivò una popolazione in continuo aumento. Fu questa una delle ragioni che, all’inizio, diede origine alle prime emigrazioni dalla Scandinavia; due secoli dopo, lo stesso fenomeno fu responsabile dello sciamare dei figli cadetti ancora più a sud, in cerca del Lebensraum . In se­ condo luogo, erano dei vagabondi nati - non solo per necessità, ma anche per temperamento. Hanno sempre mostrato, come fa notare un antico cronista, scarso attaccamento ai vari paesi nei quali, in epoche diverse, si sono stabiliti. Le impervie montagne del Nord, le colline della Normandia, gli ampi prati dell’Inghilterra, gli agru­ meti della Sicilia, i deserti della Siria, furono tutti abbandonati, gli uni dopo gli altri, da giovani indomiti e volubili sempre in cerca di nuovi lidi dove i bottini potevano essere più ricchi e piu vari. Quale migliore scusa di un pellegrinaggio per partire alla volta di simile ricerca, quale migliore cornice in cui effettuarla? Non sor­

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prende quindi che, alFinizio del secondo millennio, non essendosi verificata, come predetto, la fine del mondo e mentre un’ondata di sollievo e di gratitudine rifluiva attraverso l’Europa, rappresentata dalle migliaia di pellegrini che affollavano le grandi vie romee, molti di questi fossero proprio normanni. Le mete erano varie, ma quat­ tro di esse cosi sacre che, giungendovi, si poteva acquistare l ’indul­ genza plenaria; queste erano: Roma, Compostella, il Gargano e, prima fra tutte, la Terra santa. In quel periodo, Gerusalemme era già da quattro secoli dominio dei musulmani, ma i pellegrini cri­ stiani erano sempre i benvenuti - uno degli ospizi che li accoglie­ vano era stato fondato dallo stesso Carlomagno - e l ’impresa non presentava nessun ostacolo insormontabile per chi avesse tempo ed energie sufficienti; meno ancora per i giovani normanni, che vede­ vano questo viaggio come un’avventura capace di mettere alla prova la loro resistenza e il loro ardire. Avventura piacevolissima per tutto quello che aveva da offrire sul piano umano, a parte il beneficio più duraturo - anzi eterno - che poteva derivarne per l’anima. Per essi poi, questo viaggio aveva una particolare attrat­ tiva; sulla via del ritorno dalla Palestina, potevano sbarcare a Brin­ disi, o a Bari e da li risalire lungo la costa fino al santuario del­ l’arcangelo. Questi, non solo era il patrono di tutti quelli che viag­ giavano per mare, quindi meritava un attestato di riconoscenza da parte di coloro che il mare avevano attraversato, ma aveva diritto allo speciale riguardo dei normanni, essendo il beneamato patrono della loro grande abbazia di Mont-Saint-Michel. Questo sembra sia stato l’itinerario seguito da quaranta pelle­ grini normanni che si recarono, nell'anno 1016, in quel fatidico pellegrinaggio a Monte Sant’Angelo - per lo meno stando alla testi­ monianza di un certo Guglielmo di Puglia che, a richiesta di papa Urbano II, scrisse un’opera, G esta R oberti W iscardi (poema storico sulle gesta dei normanni, protagonista il Guiscardo, in Sicilia, Pu­ glia e Calabria), sul finire del secolo decimoprimo. Il resoconto fatto da Guglielmo, in eleganti esametri latini, inizia col dire come i pel­ legrini venissero avvicinati, nella grotta, da uno strano individuo che indossava indumenti « di foggia greca », una lunga veste e un copricapo a forma di berretta. Trovarono lui antipatico e le sue vesti effeminate, ma ascoltarono la sua storia. Si chiamava Melo, era un nobile longobardo che veniva da Bari, costretto all’esilio per aver capeggiato una fallita insurrezione contro Bisanzio che, a quel­ l’epoca, estendeva il suo dominio su quasi tutta l’Italia meridionale.

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Melo aveva consacrata tutta la sua vita alla causa dell’indipendenza longobarda che, secondo lui, poteva facilmente essere raggiunta; per realizzarla, sarebbe bastato l’intervento di pochi prodi giovani come loro. Contro un esercito composto di longobardi e di nor­ manni, i greci non avevano possibilità di vittoria; e i longobardi non avrebbero certo dimenticato i loro alleati. È difficile pensare che la pietà religiosa fosse il sentimento domi­ nante nel cuore di quei pellegrini quando uscirono nuovamente a rivedere la luce del sole e volsero lo sguardo alla vasta pianura della Puglia che si stendeva, invitante, ai loro piedi. In quel momento non potevano certo prevedere la magnifica epopea che si preparava, né gli effetti di grande portata che ne sarebbero scaturiti; ma nep­ pure poterono mancare di intravedere le grandiose possibilità offerte dalle parole di Melo. Ecco, si presentava loro l’occasione che ave­ vano sempre atteso - una terra ricca e fertile dove li si incitava, li s’implorava, quasi, di venire; una terra che offriva infinite occa­ sioni di dar prova del loro coraggio e di far fortuna. Inoltre, una impresa come quella che era stata loro proposta poteva trovare ampie giustificazioni sia sul piano legale che su quello religioso; non aveva forse per scopo di liberare un popolo dalla oppressione straniera e restaurare la Chiesa di Roma in tutta l’Italia meridio­ nale, in sostituzione del disprezzato feticcio della Chiesa di Costan­ tinopoli? Dovevano, tuttavia, passare alcuni anni prima che queste vaghe visioni di gloria si cristallizzassero in una chiara ambizione di conquista e un periodo ancora più lungo prima che questa ambi­ zione si realizzasse in maniera tanto spettacolare; nel frattempo, la cosa importante era stabilire una ferma testa di ponte nel territorio; a questo fine l’indipendenza longobarda sarebbe stata un ottimo pretesto. Dissero quindi a Melo che volentieri sarebbero venuti in suo aiuto, ma che al momento le loro forze non erano sufficienti; inoltre, erano giunti in Puglia come pellegrini e non erano quindi equipag­ giati per scendere in campo. Sarebbero prima tornati in Normandia, ma vi si sarebbero trattenuti solo il tempo necessario per fare i preparativi e per reclutare altri compagni d’arme. Di li a un anno, sarebbero ritornati per unirsi ai loro amici longobardi e la grande impresa avrebbe avuto inizio.Il Il patriottismo di Melo era tanto più comprensibile in quanto già allora i longobardi potevano vantare, in Italia, uno stanzia-

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mento lungo e glorioso. Agli inizi non erano che uno dei tanti gruppi di invasori semi-barbari.scesi dalla Germania settentrionale verso la metà del sesto secolo; si erano stabiliti nel territorio che ancora porta il loro nome, e li avevano fondato un regno prospero, la cui capitale era Pavia. Contemporaneamente altri loro conterranei si erano spinti più a sud ed avevano fondato i ducati semi-indipendenti di Spoleto e di Benevento. Per duecento anni tutto era andato bene; ma, nel 774, Carlomagno era sceso in Italia ed aveva conquistato Pavia; il regno dei longobardi era sparito. Il centro della civiltà longobarda si spostò allora nei ducati, in special modo nel ducato di Benevento che presto si mutò in principato e - nonostante si tro­ vasse, in virtù della donazione di Carlomagno, sotto la sovranità del papa - continuò a mantenere inalterate le vecchie tradizioni lon­ gobarde. Li, dove lo stupendo arco di Traiano segna ancora la con­ giunzione delle due grandi strade romane del Sud, l’Appia e la Traiana, l ’aristocrazia longobarda divenne sempre più ricca e po­ tente. Nell’anno 1000 d.C., tre grandi principi, quelli di Benevento, di Capua e di Salerno, erano tra i sovrani più autorevoli della peni­ sola, circondati da corti risplendenti di sfarzo bizantino ed impe­ gnati in continue congiure per realizzare il loro eterno sogno - uno Stato longobardo unito ed indipendente che comprendesse tutta l ’Italia meridionale. Avendo questa mira, essi facevano di tutto per con­ fondere la propria posizione feudale, ora riconoscendo la sovranità delPImpero latino d’Occidente, ora quella dell’Impero bizantine d’Oriente, mettendo di continuo l’uno contro l’altro e, di quando in quando, per opportunismo, riconoscendo pure quella del papa. E, naturalmente, non perdevano occasione per istigare i vari grup­ pi separatisti longobardi, nei territori vicini, a insorgere contro Bisanzio. L ’Impero bizantino aveva subito gravi smacchi in Italia. Gli eserciti di Giustiniano e del suo successore avevano appena termi­ nato di cacciare gli ostrogoti dalla penisola, nel sesto secolo, quando ebbero l’amara sorpresa di vedere questa occupata dai loro alleati d’un tempo, i longobardi. Una mossa rapida avrebbe ancora potuto salvare la situazione, ma in quel momento Costantinopoli era para­ lizzata dagli intrighi di palazzo e l’occasione andò perduta. I lon­ gobardi, intanto, si erano fortificati nei territori acquisiti. Nel 751 erano già abbastanza potenti per estromettere l’esarca bizantino di Ravenna; dopo di che l’influenza greca venne circoscritta alle zone della Calabria, del tallone d’Italia intorno ad Otranto, e ad alcune

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città mercantili lungo la costa occidentale; tra queste le piu impor­ tanti erano Napoli, Gaeta ed Amalfi. In principio queste città erano poco più che prospere colonie deirimpero, ma con l'andar del tem­ po si trasformarono in ducati ereditari; fondamentalmente greci per lingua e per cultura, riconoscevano la sovranità di Bisanzio ed erano stretti a Costantinopoli da potenti legami di amicizia e di commer­ cio, ma in realtà indipendenti. L'avvento di Carlomagno e dei suoi franchi, benché disastroso per i longobardi, non portò nessun vantaggio ai greci, ma servi solo ad introdurre un altro pretendente alla sovranità sull'Italia meri­ dionale; fu solo nel nono secolo, quando la grande dinastia dei Macedoni assurse al potere in Costantinopoli, che Basilio I e il suo successore, Leone V I il Saggio, furono in grado di arrestarne il declino e rialzare in parte le fortune di Bisanzio. Risultato dei loro sforzi fu che la Provincia Longobarda - o, come veniva più comu­ nemente chiamata, la Capitanata - composta dalla Puglia, la Ca­ labria e la regione di Otranto divenne, nell'anno 1000, una potente e prospera provincia dell'Impero, che a sua volta era tornato ad essere la potenza predominante, nella penisola. L'Impero, infatti, continuava a rivendicare la sovranità su tutto il territorio compreso a sud di una linea che, partendo da Terracina sulla costa tirrenica, raggiungeva Termoli su quella adriatica, rifiutandosi di riconoscere sia l’indipendenza delle città-stato greche che quella dei principati longobardi. Il governo della Capitanata si trovava di fronte a gravi pro­ blemi. In primo luogo tutto il territorio era esposto alle continue incursioni dei pirati saraceni provenienti dall'Africa settentrionale, che dominavano il Mediterraneo occidentale. Già nell’846 avevano assalito Roma e saccheggiato S. Pietro e, poco più di vent’anni dopo, si era resa necessaria un’alleanza, instabile e reciprocamente pe­ nosa, tra l'imperatore d'Oriente e quello d'Occidente affinché i sara­ ceni potessero venire allontanati da Bari. Un monaco di nome Bernardo, recatosi in pellegrinaggio a Gerusalemme nell'870, scrisse di aver visto a Taranto migliaia di prigionieri cristiani imbrancati come bestie, caricati sulle galere e destinati alla schiavitù in Africa. Trent'anni dopo - quando ormai avevano ottenuto l'effettivo con­ trollo della Sicilia ed avevano migliorato la loro posizione strate­ gica - i saraceni distrussero Reggio e divennero una minaccia cosi potente che l'imperatore di Bisanzio dovette piegarsi a versare un tributo annuo per garantirsi contro le loro incursioni. Nel 953,

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tuttavia, il pagamento di questo tributo venne sospeso e le incur­ sioni si fecero più terribili che mai. Sullo scorcio del decimo secolo, non passava anno senza che si verificasse qualche strage di vasta proporzione. Bisognava anche guardarsi dalPImpero d'Occidente. Lo stato di rilassamento generale che segui alla scomparsa della famiglia di Carlomagno con la morte, nell'888, di Carlo il Grosso aveva pro­ vocato un senso di sollievo per quanto riguardava le pretese avan­ zate sull'Italia meridionale; ma, all'apparire di Ottone il Grande, nel 951, le rivalità si riaccesero più violente che mai. Ottone aveva dedicato le sue immense energie a liberare l'Italia dall'influenza dei greci e dei saraceni e per circa vent'anni il territorio della pe­ nisola venne dilaniato da lotte crudeli e senza esito. La pace sembrò essere tornata nel 970, quando l'amicizia tra i due Imperi venne, in teoria, cementata dal matrimonio del figlio di Ottone - che in seguito divenne Ottone II - con la principessa greca Teofano; tale matrimonio, tuttavia, permise al giovane Ottone, salendo al trono, di pretendere che gli venissero « restituiti » tutti i possedi­ menti bizantini nell'Italia meridionale, adducendo che questi face­ vano parte della dote della moglie. La sua richiesta, come era da aspettarsi, non venne accolta e la guerra ricominciò. Nel 981, Ottone si recò in Puglia; questa volta la sua ira era diretta princi­ palmente contro i saraceni. A Costantinopoli, l'imperatore Basilio capi che l’occasione gli era propizia; tra i due mali Ottone rappre­ sentava quello che sarebbe durato più a lungo. Messi furono inviati in tutta fretta ai capi saraceni ed una alleanza temporanea fu rapi­ damente conclusa e, dopo qualche successo iniziale, Ottone subì una dura sconfìtta nei pressi di Stilo, in Calabria. Solo il travesti­ mento ed una ignominiosa fuga impedirono all'imperatore di cadere in mano al nemico. Non si riebbe mai da una cosi grande umilia­ zione e mori a Roma l'anno seguente a soli ventotto anni.3 Gli succedette un bimbo di tre anni e da allora in poi, e questo non sorprende, l'Impero d’Occidente non costituì piu una minaccia; tuttavia, la prudenza consigliava di stare in guardia. Anche all'intemo le difficoltà erano molte. In Calabria e in Puglia, i problemi di governo non si presentavano particolarmente 3 Ottone II è Punico imperatore germanico che abbia avuto sepoltura a Roma. La sua tomba è nelle Grotte Vaticane - da questa è stato tolto il coperchio in porfido che, proveniente in origine dullu Mole Adriana, serve ora da fonte battesimale in S. Pietro.

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gravi perché queste regioni avevano risentito relativamente poco della penetrazione longobarda. D ’altra parte, esse offrivano un buon rifugio ad un gran numero di monaci greci fuggiti agli eccessi icono­ clastici perpetrati a Costantinopoli nell’ottavo secolo, ed alle depre­ dazioni dei saraceni siculi nel secolo decimo; ne risultava quindi che l’influenza greca, sia politica che religiosa e culturale, predo­ minava sempre ovunque. La Calabria, in particolare, doveva rima­ nere anche attraverso tutto il periodo rinascimentale, uno dei centri principali di cultura greca. Nella Puglia, la situazione era più deli­ cata. La popolazione era, per la maggior parte, di ceppo italolongobardo e richiedeva un trattamento più cauto da parte del catapaño - come veniva chiamato il governatore bizantino - il quale era costretto a concedere ampia libertà ai suoi sudditi. Il sistema di governo longobardo fu quindi mantenuto in larga misura; giu­ dici e funzionari longobardi amministravano la giustizia secondo le leggi longobarde; si ricorreva alla procedura greca solo nella eventualità (ipotetica) dell’assassinio dell’imperatore, o in quella (meno ipotetica) dell’assassinio del catapano. Il latino era ricono­ sciuto come una delle lingue ufficiali. In quasi tutte le zone l’am­ ministrazione ecclesiastica era in mano a vescovi latini nominati dal papa; solo in alcune città, dove una buona parte della popolazione era di origine greca, si trovavano vescovi greci. Una cosi larga misura di autonomia non aveva l’uguale in nes­ suna altra parte dell’Impero bizantino; eppure i longobardi della Puglia mai si rassegnarono a vivere sotto il dominio greco. Ave­ vano mantenuto sempre vivo un forte nazionalismo - trascorsi cin­ quecento anni, non si erano ancora fusi con la popolazione italiana - e su questa fiamma nazionalistica soffiavano di continuo i grandi principati, sia a nord che ad ovest. Inoltre, il sistema tributario bizantino era notoriamente gravoso e, cosa ancora più importante, negli anni recenti era apparso chiaro che, nonostante il servizio militare obbligatorio - sempre impopolare - l ’Impero non era in grado di garantire la sicurezza delle città della Puglia, in partico­ lare quelle costiere, dalle incursioni dei saraceni. La popolazione longobarda di queste città non aveva altra scelta che organizzare la propria difesa. Sorsero quindi milizie stabili, molte di queste affiancate da flotte che permettevano di intercettare le orde saracene prima che potessero sbarcare. Inevitabilmente queste milizie ven­ nero a costituire, a loro volta, un grave pericolo per le autorità bizantine ma, date le circostanze, non potevano venire disciolte.

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Servivano pure a rafforzare la baldanza longobarda, cosicché, verso la fine del decimo secolo, era sorto un movimento di resistenza bene armato e assai attivo. A Bari, nell'anno 978, si era verificato un piccolo movimento insurrezionale e un altro, molto più grave, si verificò dieci anni dopo e ci vollero tre anni per sedarlo. Nel frat­ tempo un alto funzionario bizantino era stato assassinato. Poi, nel 1009, Melo aveva preso le armi. Con l'aiuto del cognato, Datto, e di un folto gruppo di seguaci, non tardò ad impossessarsi di Bari, quindi, nel 1010, di Ascoli e di Trani; ma nella primavera del 1011, il nuovo catapano, riunendo tutte le forze a sua disposizione, strinse d’assedio Bari e riuscì a corrompere alcuni cittadini greci che gli aprirono le porte della città. L'11 giugno Bari si arrese, Melo fuggì a Salerno; la moglie e i figli furono meno fortunati, catturati vennero inviati in prigionia a Costantinopoli come ostaggi. In alto, su una montagna che sovrasta l’odierna autostrada del Sole tra Roma e Napoli, l'abbazia di Montecassino appare oggi in distanza molto simile a come doveva apparire mille anni or sono. L'apparenza tuttavia inganna; nel corso dei disperati combattimenti del febbraio-marzo 1944, l'intera abbazia fu ridotta ad un mucchio di macerie dagli implacabili bombardamenti alleati; gli edifici oggi esistenti sono, quasi tutti, ricostruzioni post-belliche. Malgrado ciò, la vita del monastero è continuata ininterrotta dal 529, anno in cui san Benedetto si recò su quella vetta e sulle rovine di un tempio pagano dedicato ad Apollo costruì l'immensa abbazia-madre, che fu la sua prima fondazione e la culla dell'Ordine benedettino. Montecassino ha sempre svolto un ruolo vitale nella storia dei normanni del Sud. Il più importante dei monasteri italiani fu uno dei principali centri della cultura europea durante il basso Me­ dioevo. Lì, sono state conservate per la posterità le opere di molti autori classici, che altrimenti sarebbero andate distrutte, com­ prese quelle di Apuleio e di Tacito; inoltre, non si sa come, il monastero era sopravvissuto con tutto il suo prezioso retaggio ad una devastatrice incursione saracena nell'881, durante la quale la chiesa ed altri edifici furono in gran parte distrutti. Ora, all'inizio della nostra storia, si apriva la sua epoca aurea. Nei duecento anni che seguirono, la sua potenza doveva accrescersi a tale punto che il monastero funzionava quasi come uno Stato indipendente, sfi­ dando di volta in volta i franchi, i greci, i longobardi, i normanni e, in qualche occasione, lo stesso pontefice; per due volte un suo

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abate - figura sempre influente nella gerarchia della Chiesa latina ascese al trono di Pietro. Durante la metà del secolo decimoprimo, viveva a Montecassino un monaco di nome Amato - o, come qualche volta viene chia­ mato, Aimé - il quale tra il 1075 e il 1080 scrisse una H istoria N orm annorum nel Sud. A differenza di Guglielmo di Puglia che, sembra, si preoccupava principalmente di mettere in risalto la sua maestria nel verseggiare in latino, Amato scrisse in prosa sobria e chiara; egli ci ha lasciato un resoconto abbastanza fedele, frutto di uno sforzo diligente, degli avvenimenti a lui contemporanei e di cui forse fu in parte testimone oculare. Disgraziatamente il testo originale latino è andato perduto; tutto ciò che possediamo oggi è una traduzione in francese arcaico italianizzato, Y stoire d e li Nor­ matif, del secolo decimoquarto, sotto forma di manoscritto, prezio­ samente illustrato, e che si trova ora nella Bibliothèque Nationale di Parigi. Per gli studiosi, essendo Amato una delle fonti piu sicure d’informazioni sui normanni del Sud, questa perdita è assai grave, ma per noi, grosso pubblico, significa che la sua opera, di cui non esiste altra traduzione, è stata liberata dalle esasperanti circonvolu­ zioni del latino medioevale, ed è non solo per la maggior parte comprensibile ma anche, per la sua vivacità, ingenuità ed amena ortografia, un’opera la cui lettura è veramente piacevole. Amato ci dà un’altra versione della storia dei pellegrini nor­ manni, che siamo tentati di ricollegare con quella di Guglielmo. Secondo lui, un gruppo di quaranta giovani che, nell’anno 999, facevano ritorno dalla Palestina si fermarono a Salerno dove fu­ rono ricevuti in modo molto ospitale dal principe regnante, Guaimaro IV .4 La loro sosta fu, tuttavia, rudemente interrotta dai pirati saraceni, alle cui atroci brutalità la popolazione locale era troppo terrorizzata per opporre resistenza. Sdegnati da un atteggiamento cosi vile, i normanni impugnarono le armi e partirono all’attacco. Il loro esempio ridestò il coraggio dei salernitani i quali si unirono a loro; i saraceni, colti alla sprovvista da questa ritardata reazione, vennero per la maggior parte uccisi, mentre i superstiti si dettero alla fuga. Un simile spirito animoso era raro nel Sud. Guaimaro, entusiasta, offri a quei prodi ricchi compensi per indurli a tratte­ 4 Guaimaro IV, che regnò in Salerno dal 999 al 1027, viene a volte confuso con Guaimaro III. La numerazione dei principi e duchi longobardi è raramente esatta e rappresenta un pericoloso trabocchetto per gli inesperti.

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nersi presso la sua corte, ma essi rifiutarono; dopo cosi lunga assenza dovevano assolutamente far ritorno in Normandia. Erano però pronti a parlarne con gli amici in patria, molti dei quali sa­ rebbero stati allettati dalla prospettiva e il cui coraggio non era certo inferiore al loro... E cosi partirono, accompagnati da messi inviati da Guaimaro, carichi di tutti i doni ritenuti piu atti ad attirare gli intrepidi avventurieri nordici - « limoni, mandorle, noci moscate, vesti finissime ed istrumenti di ferro cesellati d'oro; in tal modo li indussero a venire in questa terra dove scorre latte e miele, e dove vi sono tante cose meravigliose ». Ora, l’anno 1016, che vide Melo a Monte Sant’Angelo, fu pure testimone di una grave incursione saracena a Salerno, mentre non si è a conoscenza di incursioni simili nell’anno 999, cui Amato fa risalire il suo racconto. Può essere quindi che, per quanto i fatti siano veri nella loro parte essenziale, l’autore abbia qui commesso uno dei suoi rari errori cronologici e che le due visite compiute dai pellegrini fossero all’incirca contemporanee. Se ciò fosse, po­ trebbe anche darsi che il gruppo dei pellegrini fosse lo stesso. L ’in­ contro con Melo, presso il santuario, cosi apparentemente fortuito, non potrebbe invece essere stato architettato da lui e da Guaimaro, che di recente gli aveva offerto asilo, e che era uno dei maggiori sostenitori clandestini del separatismo longobardo? È possibile. D ’altra parte è pure possibile, come in maniera assai convincente arguisce uno storico moderno,5 che i due fatti siano leggenda. È probabile che i primi normanni a giungere nel Sud fossero dei rifugiati i quali, in seguito, vennero indotti da papa Benedetto V i l i ad abbracciare la causa longobarda in appoggio alla sua politica anti-bizantina. Che a persuaderli fosse un principe, un patriota o un papa, che i persuasi fossero fuggitivi o pellegrini, di una cosa possiamo essere certi: l ’opera di persuasione riuscì perfettamente. Nella primavera dell’anno 1017, il primo gruppo di giovani nor­ manni era già in viaggio.

5 E. J oranson, The Inception of the Career of the Normans in Italy.

CAPITOLO SECONDO

L ’A RRIVO Et en tant estoit cressute la multitude de lo pueple, que li champ ne li arbre non suffisoit a tant de gent de porter lor necessaires dont peussent vivre... Et se partirent ceste gent, et laissèrent petite choze pour acquester assez, et non firent secont la costumance de molt qui vont par lo monde, liquel se metent a servir autre; mes simillance de U anti­ que chevalier, et voilloient avoir toute gent en lor subjettion et en lor seignorie. Et pristrent Varme, e rompirent la ligature de paiz, et firent grant exercit et grant chevalerie} A m ato , I, i, 2

Fu forse un bene che i capi longobardi non avessero chiesto referenze a quei guerrieri il cui aiuto avevano invocato e non avessero preteso da loro altre qualifiche alLinfuori del coraggio. La notizia dell’invito a loro rivolto si diffuse rapidamente per le città e i manieri della Normandia, ed i racconti delle delizie che offrivano le terre meridionali, il logoramento delle popolazioni lo­ cali e i ricchi premi che attendevano quei normanni che fossero stati pronti ad intraprendere il viaggio certamente non venivano minimizzati nel corso della narrazione. Simili racconti hanno sem­ pre una certa attrattiva per gli elementi più irrequieti di qualsiasi popolo e non sorprende quindi che i primi immigranti normanni in Italia, nonostante possibili somiglianze esterne con gli antique ch ev alier di Amato, avessero in verità poco in comune con i cava­ lieri della leggenda carolingia di cui cantavano le gesta con voce roca. Erano, per la maggior parte, figli cadetti di cavalieri e scu­ dieri che, non possedendo patrimoni propri, non avevano forti legami che li trattenessero presso il focolare domestico; ma vi erano anche elementi decisamente meno raccomandabili; soldati, merce-1 1 « E tanto era cresciuta la moltitudine del popolo, che i campi e gli alberi non bastavano a tanta gente per provvedere loro di che vivere... E si parti questa gente e lasciarono povere cose per acquistarne molte; e non fecero secondo l'usanza di molti che se ne vanno per il mondo a servire altri; ma, similmente ai cavalieri antichi, vollero avere tutte le genti a loro soggette e vollero da tutti essere riconosciuti per signori. E impugnarono le armi, infransero i legami di pace e compirono grandi gesta di guerra e di cavalleria.»

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nari, giuocatori d'azzardo, avventurieri pronti ad accorrere al ri­ chiamo di facili guadagni. A loro ben presto si aggiunse la solita accozzaglia di parassiti che aumentava man mano che il gruppo si spingeva verso sud attraverso la Borgogna e la Provenza. Nell’estate del 1017 traversarono il Garigliano, che segnava il confine meri­ dionale degli Stati Pontifici, e puntarono direttamente su Capua. Li, probabilmente per accordi già presi, trovarono Melo che li atten­ deva con impazienza a capo di un forte contingente pronto a dar battaglia. La migliore probabilità di successo per i longobardi era quella di attaccare i bizantini prima che questi avessero tempo di valutare la nuova situazione e di chiamare rinforzi; Melo aveva quindi ra­ gione di cercare di convincere i suoi nuovi alleati che non vi era tempo da perdere e di condurli subito oltre la frontiera, nella Puglia. Il risultato di questa mossa sembra sia stato di cogliere il nemico completamente di sorpresa. Con ravvicinarsi dell’inverno, ed al ter­ mine del primo anno della loro campagna militare, i normanni pote­ vano vantarsi di aver conseguito notevoli successi ed avere ripor­ tato vittorie significative, e potevano permettersi il lusso, a loro tanto caro, di irridere l’effeminatezza dei greci; nel settembre del 1018 avevano già cacciato i bizantini da tutta quella regione deli­ mitata a nord dal Fortore e a sud da Trani. In ottobre però, improv­ visamente, la marea risali. Lungo la riva destra del fiume Ofanto, a circa sei chilometri dalla costa adriatica, un’enorme roccia proiettava ancora la sua ombra sul campo di Canne dove, nel 216 a.C. l’esercito cartaginese di Annibaie inflisse ai romani una delle più terribili e sanguinose sconfitte della loro storia. Proprio qui, milleduecentotrentaquattro anni più tardi, le forze dei longobardi e dei normanni, agli ordini di Melo, subirono una sconfitta ancor più catastrofica, ad opera degli eserciti bizantini sotto la guida del più grande tra i catapani, Basilio Boioannes. Subito i normanni e i longobardi furono sopraf­ fatti dal numero immensamente superiore delle forze nemiche. In seguito alle insistenze del Boioannes, l’imperatore Basilio II aveva inviato massicci rinforzi da Costantinopoli. Amato scrive che i greci sciamavano sui campi di battaglia come le api dall’alveare e che le loro lance si ergevano diritte e fitte come un canneto. Ma vi fu un’altra ragione, anche se di ordine secondario, che condusse alla sconfitta; la prodezza dei normanni era ben nota nella capitale bizantina e Basilio aveva, di conseguenza, rafforzato il suo esercito

L ARRIVO

aggregandovi alcuni guerrieri nordici - un distaccamento della suu Guardia, i vareghi, quel potente reggimento di vichinghi invia­ togli, in cambio della sorella, dal principe Vladimiro di Kiev, tren­ tanni prima. I longobardi combatterono valorosamente, ma invano; tutti, airinfuori di un esiguo manipolo, furono trucidati e con essi svanirono le ultime speranze di Melo per l’indipendenza longobarda nella Puglia. Egli stesso riuscì a fuggire, e dopo aver girovagato per mesi, senza scopo preciso, attraverso i ducati e gli Stati Pontifìci, finalmente trovò rifugio presso la corte dell'imperatore d’Occidente, Enrico II, a Bamberga. Quivi mori, due anni dopo, disfatto e de­ luso. Enrico, essendo il maggiore rivale di Bisanzio nell'Italia meri­ dionale, lo aveva piu volte appoggiato nel passato; gli fece tributare solenni onoranze funebri e ne collocò i resti in una magnifica tomba, nella nuova cattedrale da lui costruita; ma, né l’abilità dei costrut­ tori del suo monumento funebre, né il vuoto titolo di « duca di Puglia », conferitogli poco prima della sua morte da Enrico II, pote­ vano cancellare il fatto che Melo era fallito nel suo intento e che, - peggio ancora - sognando di conquistare la libertà per il suo popolo, aveva, senza saperlo, reso quella indipendenza per sempre irraggiungibile. Aveva infatti risvegliato nei normanni la sete di sangue. Anche i normanni avevano combattuto da prodi a Canne. Il loro capo, un certo Gilberto, era caduto sul campo e, finita la bat­ taglia, i pochi superstiti si erano stretti attorno a Rainulfo, fratello di Gilberto, eleggendolo suo successore. Ora che Melo se ne era andato, i normanni avrebbero dovuto provvedere a se stessi, almeno fino a quando non avessero trovato un nuovo padrone a cui vendere le loro spade. Scoraggiati, si inol­ trarono per le montagne in cerca di un luogo dove trincerarsi - qual­ che rifugio che potesse loro servire da quartier generale permanente e fosse pure un luogo di raduno per i nuovi immigranti che conti­ nuavano ad affluire a ritmo costante dal Nord. La loro prima scelta non fu felice; durante la costruzione della roccaforte subirono una sconfitta ancor più cocente di quella subita a Canne. Guglielmo di Puglia narra infatti che vennero improvvisamente assaliti da un numero sterminato di ranocchie che li costrinsero ad abbandonare i lavori. Dopo essersi ignominiosamente ritirati, inseguiti dal rauco e gracidante coro dell'insolito nemico, trovarono un secondo sito dove stabilirsi che, fortunatamente, si rivelò piu adatto; ma anche qui non rimasero a lungo. Grazie al continuo afflusso di nuovi arrivi,

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divennero sempre più numerosi. Nonostante la gravità della prima sconfitta, la loro reputazione come guerrieri era sempre impareg­ giabile; i loro servizi venivano richiesti da tutte le parti. Il gran calderone delFItalia meridionale era sempre sul punto di ebollizione. In una terra che si trovava proprio in mezzo a quat­ tro grandi potenze dell'epoca, dove queste incessantemente si scon­ travano; in una terra lacerata dalle rivendicazioni di quattro ceppi etnici e tre religioni diverse, nella quale sorgevano Stati e città indipendenti, o semi-indipendenti, o ribelli, un braccio forte ed una spada affilata non restavano senza lavoro. Molti giovani normanni gravitarono intorno a Guaimaro di Salerno; altri si rivolsero al co­ gnato e rivale di questi, il principe Pandolfo di Capua - il Lupo degli Abruzzi - la cui energia ed ambizione già destavano serie preoccupazioni tra i suoi vicini. Altri ancora preferivano Napoli, Amalfi o Gaeta. Nel frattempo il catapano Boioannes stava consoli­ dando la sua vittoria costruendo una nuova roccaforte per difen­ dere la frontiera della Puglia - la città fortificata di Troia, allo sbocco del passo che dagli Appennini conduce alla pianura. Non avendo forze disponibili per provvederla di una guarnigione per­ manente - i vareghi erano ormai tornati trionfanti a Costantino­ poli - dovette cercarne altrove; e poiché erano tutti più o meno mercenari e il catapano sapeva riconoscere a prima vista un buon soldato, non sorprende che un anno o poco più dopo la disfatta di Canne, un nucleo di normanni bene equipaggiati si mettesse in marcia per la Puglia, per difendere i legittimi diritti di Bisanzio contro i vili attacchi degli arruffa-popolo longobardi. Una simile atmosfera di fedeltà mutevoli e di re-allineamenti sarebbe potuta sembrare dannosa per gli interessi normanni. Certo, si poteva pensare che, se miravano ad accrescere la loro potenza al punto di dominare un giorno la penisola, i normanni sarebbero dovuti rimanere uniti e non sparpagliarsi senza una mira precisa, tra le innumerevoli frazioni che invocavano il loro aiuto. Ma, in questa prima fase, l'idea di dominio non si era ancora cristallizzata e neppure vi era molta unità da salvaguardare. Il proprio, imme­ diato, interesse teneva il primo posto; le aspirazioni nazionalistiche, seppure ve ne erano, passavano molto in seconda linea, per i nor­ manni. Per loro buona fortuna queste due aspirazioni spesso coin­ cidevano; e, per quanto possa sembrare un paradosso, fu proprio la loro disunione a preparare la via alla loro conquista definitiva. Se avessero mantenuto la loro coesione, avrebbero certamente rotto

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l’equilibrio del potere nell’Italia meridionale, essendo troppo pochi per prevalere da soli, ma allo stesso tempo troppo numerosi per non rappresentare un pericoloso consolidamento di qualsiasi fazione alla quale si fossero aggregati. Con il suddividersi e con il mutare continuamente le loro alleanze, facendo in modo, in tutte le meschine lotte alle quali partecipavano, di trovarsi sempre dalla parte del vin­ citore, essi riuscirono ad impedire che un qualsiasi singolo inte­ resse divenisse troppo potente; appoggiando ogni causa, riuscirono a non appoggiarne validamente nessuna; vendendo le loro spade, non a chi li pagava meglio, ma a tutti, riuscirono a mantenere le loro autonomia. 1 normanni non furono i soli a dover rivedere la loro posizione dopo la sconfìtta di Canne. Con tuia sola mossa il potere bizantino era stato ristabilito in tutta la Puglia e il prestigio di Bisanzio si era accresciuto oltre misura in tutta Italia. L ’effetto di questa svolta, come era prevedibile, fu considerevole sui ducati longobardi. All’ini­ zio del 1019, Pandolfo di Capua si schierò apertamente dalla parte dei greci, giungendo persino ad inviare le chiavi della sua capitale in atto di omaggio, all’imperatore Basilio. A Salerno, Guaimaro. pur non ricorrendo ad atti altrettanto significativi, non nascondeva da che parte inclinassero le sue simpatie. Piu sorprendente ancora - almeno a prima vista - fu l’atteggiamento di Montecassino. Il grande monastero era sempre stato considerato il campione della causa latina nell’Italia meridionale, rappresentata dal papa e dal­ l’imperatore d’Occidente. Come tale aveva appoggiato Melo e i suoi longobardi ed aveva persino offerto al cognato di questi, Datto, dopo Canne, lo stesso luogo di rifugio da lui occupato per un certo tempo, dopo la prima sconfitta dei longobardi nel 1011 - una torre fortificata di sua proprietà sulle rive del Garigliano. Poi, dopo soli pochi mesi, anche Montecassino si schierò a favore di Costanti­ nopoli. Solo il principe di Benevento rimase fedele. Queste erano cattive notizie per l’imperatore Enrico e, più an­ cora per il papa, di recente salito al trono. Benedetto V i l i , pur essendo un uomo retto e moralmente ineccepibile,2 non era d’indole particolarmente religiosa. Appartenente alla nobile famiglia dei conti di Tuscolo, è dubbio che avesse ricevuto gli ordini sacri prima 2 Ineccepibile secondo i suoi lumi. È segnato dallo stigma di aver ordi­ nato la prima (e purtroppo non l'ultima) persecuzione degli ebrei nella storia della Roma medioevale, in seguito ad un lieve terremoto verificatosi nel 1020.

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della sua elevazione a pontefice nel 1012; durante i dodici anni che sedette sul trono di Pietro si mostrò soprattutto uomo politico e d’azione, fautore di una più stretta colleganza tra il Papato e l’Im­ pero d’Occidente e favorevole a liberare l ’Italia da qualsiasi altra influenza. Cosi, nel 1016, si mise personalmente alla testa di un esercito che condusse contro i saraceni, mentre aveva dato pieno appoggio a Melo e al cognato contro i greci, ottenendo che per ben due volte il monastero di Montecassino offrisse a quest’ultimo, quale luogo di rifugio, la torre sul Garigliano. Ora dovette consta­ tare che tutti i suoi sforzi erano stati vani ed assistere ad una im­ provvisa esplosione del potere bizantino che certo non si sarebbe mai sognato di vedere. La defezione di Montecassino deve essere stata un duro colpo per il papa - ma anche abbastanza compren­ sibile, considerando che l’abate Atenolfo era fratello di Pandolfo di Capua, ed aveva di recente acquistato, in circostanze alquanto misteriose, una vasta terra vicino a Trani, nella Puglia bizantina. Piu grave ancora, era il pericolo rappresentato dall’espansione greca. I bizantini, visto il loro recente totale trionfo, si sarebbero accon­ tentati della Capitanata? Le guerre nei Balcani, che per cosi lungo tempo avevano impegnato le formidabili energie dell’imperatore Basilio II e gli avevano meritato il titolo di Bulgaroctono - uccisore dei bulgari - erano ormai terminate; gli Stati Pontifici rappresen­ tavano un ricco bottino che egli poteva ben credere di avere già in pugno. Una volta che Boioannes avesse attraversato il Garigliano non vi sarebbero stati piu ostacoli tra esso e le porte di Roma; inoltre, la sinistra schiatta dei Crescenzi, nemici inveterati dei conti di Tuscolo, avrebbe ben saputo volgere a proprio vantaggio una simile catastrofe. Erano trascorsi centocinquant’anni da quando un papa, dirigendosi a nord, aveva attraversato le Alpi, ma quando gli giunse la notizia della defezione di Montecassino il papa non esitò più. Ai primi del 1020, Benedetto V i l i si mise in cammino per andare ad esaminare la situazione con il vecchio amico ed allea­ to, Enrico II, a Bamberga. È impossibile leggere le cronache relative a Benedetto e a Enrico senza pensare quanto sarebbe stato meglio se il papa fosse stato l’imperatore e l ’imperatore il papa. Enrico il Santo si meritava que­ sta qualifica. Pur non essendo forse proprio degno di essere cano­ nizzato, come lo fu nel secolo seguente - onore che, a quanto sem­ bra, gli fu concesso per aver vissuto in uno stato di squallida castità con sua moglie, Cunegonda del Lussemburgo - e nonostante la sua

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pietà fosse liberamente condita di superstizione, egli fu uomo pro­ fondamente religioso, che in vita ebbe due grandi passioni, quella di costruire chiese e quella della riforma ecclesiastica. Queste preoc­ cupazioni spirituali non gli impedirono però di reggere il suo indo­ cile Impero con sorprendente fermezza. Malgrado la sua costante interferenza in questioni ecclesiastiche, lui e Benedetto erano stati amici sin dal 1012, quando Enrico era soltanto re in Germania3 ed aveva dato il suo appoggio alla candidatura di Benedetto al trono pontificio, in opposizione a quella del suo rivale della famiglia dei Crescenzi. La loro amicizia si era rafforzata quando Benedetto, a sua volta, appoggiò la candidatura di Enrico all'Impero e, nel 1014, officiò la cerimonia dell'incoronazione imperiale di lui e della moglie Cunegonda; si cementò ancora piu, per le opinioni religiose profes­ sate da Enrico e quelle politiche del papa. All'orizzonte non erano ancora apparsi i segni forieri di quella lunga ed angosciosa lotta tra l'Impero e il Papato, che doveva di li a poco avere inizio, e rag­ giungere il culmine sotto Federico II, due secoli piu tardi; per il momento, papa ed imperatore agivano d'accordo in perfetta armo­ nia. La minaccia per l'uno era minaccia anche per l’altro. Benedetto giunse a Bamberga poco prima della Pasqua del 1020; dopo aver celebrato con gran pompa questa festività nella nuova cattedrale costruita da Enrico, egli e l’imperatore si misero all’ope­ ra. Agli inizi Melo era presente per dar loro l’aiuto della sua cono­ scenza della situazione politica nell’Italia meridionale e dei punti forti e deboli di Bisanzio; ma una settimana dopo l’arrivo del papa, il « duca di Puglia » spirò e i due dovettero continuare da soli. Per Benedetto, sempre incisivo, la via da seguirsi era chiara: Enrico doveva mettersi di persona alla testa di un potente corpo di spedi­ zione e scendere in Italia. Lo scopo che avrebbe dovuto perseguire questo corpo di spedizione al quale, al momento opportuno, si sa­ rebbe aggregato lo stesso pontefice non doveva essere quello di ricacciare del tutto i bizantini dalla penisola - a questo si sarebbe potuto provvedere in un secondo tempo - ma semplicemente dimo­ strare che l’Impero d’Occidente ed il Papato erano potenze con le quali si dovevano fare i conti e che erano pronte a difendere i loro diritti. Ciò avrebbe infuso nuovo coraggio alle città minori ed ai 3 II titolo di imperatore poteva venire assunto solo dopo l’incoronazione a Roma, per mano del papa, del re germanico. Enrico, quando fu imperatore designato, si fece chiamare Re dei Romani.

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piccoli baroni longobardi, la cui fedeltà si mostrava incerta, pur lasciando chiaramente intendere a Boioannes che qualsiasi ulteriore avanzata dei greci sarebbe avvenuta a suo rischio e pericolo. . Enrico, pur mostrandosi d’accordo in linea di massima, non si lasciò subito persuadere. Per quanto delicata potesse essere la situa­ zione, i greci, in effetti, non avevano varcato i loro confini; e nono­ stante egli non riconoscesse questi confini, le recenti reazioni bizan­ tine erano state provocate, bisognava riconoscerlo, dalle insurre­ zioni longobarde e non potevano definirsi aggressive. L ’atteggia­ mento dei ducati longobardi cosi come quello di Montecassino cer­ tamente dava adito a gravi preoccupazioni ma, come Enrico ben sapeva, tutti questi avevano troppo a cuore la loro indipendenza per permettersi di diventare satelliti di Bisanzio. Questi, d’altronde, non avrebbero richiesto una spedizione come quella progettata da Benedetto. Quando il papa fece ritorno in Italia nel giugno se­ guente, l’imperatore non si era ancora impegnato a fóndo. Per un anno Enrico esitò, e per un anno tutto rimase tranquillo. Poi, nel giugno 1021, Boioannes sferrò il colpo. In base ad un previo accordo finanziario con Pandolfo, un distaccamento di truppe gre­ che penetrò nel territorio di Capua e si spinse rapidamente lungo la sponda del Garigliano fino alla torre dove Datto, con un gruppo di seguaci longobardi e una banda di normanni ancora a lui fedeli, aveva stabilito il suo quartier generale e dove egli - fidando presu­ mibilmente nella protezione del papa - aveva deciso di rimanere dopo il voltafaccia di Capua e di Montecassino. (Né in questa occa­ sione, né mai nel corso della sua vita, Datto diede prova di parti­ colare intelligenza.) La torre era stata costruita, in origine, a difesa dai saraceni. A questo era abbastanza adatta, ma era impossibile che resistesse a lungo agli assalti di una forza greca ben equipag­ giata. Gli uomini di Datto combatterono valorosamente per due giorni, ma al terzo furono costretti a capitolare. I normanni furono risparmiati, ma i longobardi furono tutti passati a fil di spada. Datto stesso fu condotto a Bari dove, carico di catene, fu costretto a percorrere le vie della città cavalcando un asino; poi, la sera del 15 giugno 1021, fu cucito in un sacco insieme ad un gallo, una scimmia ed una serpe, e gettato in mare. La notizia dell’oltraggio giunse rapidamente a Roma e a Bamberga. Benedetto, di cui Datto era amico personale, rimase scanda­ lizzato da questo nuovo tradimento di Pandolfo e dell’abate Atenolfo che, si era venuto a sapere, aveva ricevuto un lauto com-

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penso per aver consegnato al nemico il loro conterraneo - l ’ultimo uomo ancora capace di alzare lo stendardo della indipendenza lon­ gobarda e apertamente impegnato a cacciare i greci dairitalia. Inoltre, era stato proprio il papa a consigliare Datto di cercare rifugio nella torre e che aveva preso accordi con Montecassino per­ ché questa gli venisse consegnata. L ’onore del Papato era quindi stato tradito, delitto questo che Benedetto non avrebbe mai potuto perdonare. Le sue lettere dirette ad Enrico a Bamberga, con le quali aveva esercitato una continua pressione sull’imperatore dopo il suo rientro in Italia, ora si fecero piu insistenti. La sorte toccata a Datto era solo un inizio; il successo di questa operazione avrebbe incoraggiato i greci a lanciarsi in imprese ancora più audaci. Era essenziale agire prontamente e fermamente, finché si era in tempo. Enrico non indugiò oltre. Alla Dieta di Nijmegen, nel luglio del 1021, fu deciso che si sarebbe messo a capo degli eserciti impe­ riali e li avrebbe condotti in Italia appena possibile. I preparativi si protrassero per il resto dell’estate e durante l’autunno; in dicem­ bre l’immensa armata si mise in cammino. La spedizione era intesa, principalmente, come una dimostra­ zione di forza, e dimostrazione di forza indubbiamènte lo era..Nel viaggio di andata venne ripartita in tre divisioni ed Enrico as­ sunse il comando di una di queste, affidando le altre a due dei suoi arcivescovi - Pellegrino di Colonia e Poppo di Aquileia. La prima divisione, agli ordini di Pellegrino, aveva avuto istruzioni di spingersi a sud lungo il lato occidentale della penisola, attra­ versando gli Stati Pontifici e procedendo in direzione di Mon­ tecassino e di Capua e, li giunta, arrestare, in nome dell’imperatore, Atenolfo e Pandolfo. Questa divisione - cosi ci viene riferito, ma non è possibile fare molto affidamento su tali cifre - contava venti­ mila uomini. La seconda colonna, il cui numero si aggirava sugli undicimila effettivi, doveva essere condotta da Poppo, attraverso la Lombardia e gli Appennini, fino alla frontiera con la Puglia. Qui, in un luogo d’incontro prestabilito, si sarebbe unita al grosso del­ l ’esercito al comando di Enrico - questi era a capo di una forza che, da sola, era piu numerosa delle altre due messe insieme - che avrebbe proceduto invece per la via più ad oriente, giù lungo la costa adriatica. Le forze riunite si sarebbero quindi dirette nel retro­ terra per cingere d’assedio e distruggere Troia, l ’orgogliosa rocca­ forte bizantina da poco costruita da Boioannes e difesa da una

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guarnigione normanna; la distruzione di Troia sarebbe dovuta ser­ vire da monito per tutti. Pellegrino, secondo le istruzioni ricevute, si diresse subito a Montecassino, ma vi giunse troppo tardi. L ’abate non aveva sottovalutato l ’ira di Benedetto, e sapeva che per lui non vi sarebbe stata clemenza; appena avuta notizia dell’approssimarsi dell’esercito im­ periale, fuggì ad Otranto, dove si imbarcò in gran fretta per Co­ stantinopoli. Ma il castigo lo raggiunse. Poco dopo aver lasciato il monastero ebbe una visione: san Benedetto, corrucciato, gli apparve per dirgli che era incorso nell’ira divina e per ricordargli quale era il prezzo del peccato; e difatti, la nave sulla quale si era imbarcato era appena uscita dal porto, che si scatenò una furiosa tempesta. Il 30 marzo 1022, la nave colò a picco e Atenolfo peri insieme a tutti quelli che si trovavano a bordo. Nel frattempo, Pellegrino marciava su Capua. Pandolfo non era disposto a cedere senza opporre resistenza e si appellò alla popolazione perché difendesse le mura della città; ma era tanto odiato dai suoi sudditi, che non poté far conto sulla loro fedeltà. Un gruppo di cittadini, incorag­ giati da certi normanni al seguito di Pandolfo, che anch’essi poco lo amavano e che giuocavano nel loro interesse, aprirono di nasco­ sto le porte all’esercito imperiale. Pellegrino poté cosí entrare in Capua ove il furibondo principe fu costretto a fare atto di sottomissione. Secondo il piano prestabilito, Pellegrino avrebbe ora dovuto dirigersi verso est per ricongiungersi con il resto dell’esercito. Prima di far questo, però, decise di recarsi a Salerno dove Guaimaro con­ tinuava a proclamarsi apertamente a favore di Bisanzio e, nono­ stante il suo comportamento fosse stato meno riprovevole di quello del cognato, era chiaramente in grado di creare difficoltà se non fosse stato opportunamente dissuaso. Ma, come ebbe presto ad accorgersi Pellegrino, Salerno era ben diversa da Capua. I sistemi difensivi erano molto più efficaci e la guarnigione ben più risoluta, perché Guaimaro era amato quanto Pandolfo era odiato, e la sua guardia normanna non si lasciava intimorire dalle coorti arcivesco­ vili. La città venne cinta d’assedio per circa un mese ma, pur messa alle strette, era ovvio che non aveva nessuna intenzione di arren­ dersi. Il tempo però passava e Pellegrino aveva davanti a sé una strada dura ed impervia attraverso le montagne che lo separavano dall’imperatore. Finalmente fu decisa una tregua ed egli acconsenti a togliere l’assedio a condizione che gli venisse consegnato un con­

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gruo numero di ostaggi. Avendo cosi protetto la sua ritirata, Pelle­ grino lasciò Salerno e si diresse nel retroterra. Anche Enrico aveva marciato rapidamente. Malgrado la len­ tezza del suo esercito e i rigori dell’inverno sulle Alpi, egli e l’arci­ vescovo Poppo, che anche lui non aveva incontrato ostacoli in cammino, si erano riuniti, come previsto, a metà febbraio 1022. Insieme, quindi, si erano spinti verso l’interno fino ad una località presso Benevento dove il papa era ad attenderli. Il 3 marzo, Bene­ detto ed Enrico fecero il loro ingresso ufficiale nella città. Vi si fermarono per quattro settimane, per riposarsi e per riannodare il loro accordo - e, presumibilmente, in attesa di avere notizie di Pellegrino. Nel frattempo l’esercito faceva i preparativi per entrare in azione. Alla fine del mese decisero di non aspettare oltre l ’arci­ vescovo e si diressero verso Troia. Boioannes, come al solito, aveva lavorato bene. Ai soldati del­ l’esercito imperiale che scendevano dai passi montani nella pianura della Puglia, l’immenso sperone sul quale si erge Troia doveva sembrare praticamente inespugnabile; e la città stessa, protesa sul­ l’orlo del confine che separava il territorio bizantino da quello del ducato di Benevento, doveva apparire minacciosa. Ma la ferma volontà del papa e la pia forza d’animo dell’imperatore furono d’esempio e il 12 aprile ebbe inizio l’assedio. Questo doveva tra­ scinarsi per quasi tre mesi, mentre il caldo si faceva sempre piu afoso; la monotonia ne fu rotta solo dall’arrivo di Pellegrino, che portava notizie dalla Campania e aveva al suo seguito Pandolfo, sempre in agitazione. L'annunzio della sorte toccata ad Atenolfo lasciò indifferente Enrico; si dice che l’imperatore si limitasse a mormorare un versetto del settimo salmo4 voltandosi poi dall’altra parte. Condannò Pandolfo a morte all’istante ma, dietro interces­ sione dell’arcivescovo, che durante il viaggio attraverso le montagne si era affezionato al suo prigioniero, commutò la pena in quella di prigionia oltr’Alpe - atto di clemenza questo che molti, di li a poco, ebbero motivo di rimpiangere. Il Lupo degli Abruzzi fu condotto via, carico di catene, e l’assedio continuò. A differenza della sua celebre omonima dell’Anatolia, Troia resi­ stette ad oltranza. Alcuni cronisti pro-germanici hanno tentato di far credere che Enrico riuscì finalmente a prendere la città d’as­ 4 V II,

V. 1 6 .

« Scava una fossa, l'affonda, e cade nella buca da lui fatta. » Salmo

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salto; uno di questi, il monaco Radulph Glaber, notoriamente ine­ satto nelle sue informazioni (la cui immaginazione era altrettanto sbrigliata quanto la sua vita privata, per cui fu espulso da più monasteri di qualsiasi altro litterateu r del secolo X I), narra un fatto tipicamente esagerato di come Enrico si lasciò intenerire alla vista di una lunga processione di tutti gli abitanti della città, alla testa dei quali camminava un vecchio eremita portando una croce. Ma se Troia si fosse veramente arresa, è inconcepibile che di questo fatto non si parli minimamente neppure nelle cronache contempo­ ranee deiritalia meridionale - ed appare pure altrettanto impro­ babile che Boioannes, subito dopo, abbia concesso alla città nuovi privilegi a ricompensa della sua fedeltà. Cosi Enrico venne privato del suo trionfo. Non poteva conti­ nuare l’assedio a tempo indefinito. Il caldo mieteva le sue vittime, come pure la malaria - una delle piaghe della Puglia fino al ven­ tesimo secolo - , che serpeggiava tra le file del suo esercito. Alla fine di giugno decise di rinunziare all’impresa. L ’assedio fu tolto e il campo fu levato. L ’imperatore, a cui un calcolo alla cistifellea causava molto dolore, a cavallo, alla testa del suo immenso eser­ cito, avvilito e scorato, si allontanò lentamente verso le montagne. Non era la prima volta che la torrida estate dellTtalia meridionale aveva avuto ragione delle più agguerrite forze militari d’Europa né, come vedremo, fu l’ultima. Enrico si incontrò con il papa, che lo aveva preceduto, a Montecassino, e qui rimasero per alcuni gior­ ni; Benedetto per insediare un nuovo abate, ed Enrico per implo­ rare - con successo, a quanto ci viene riferito - un sollievo mira­ coloso dalla sua calcolosi. Poi, dopo una breve visita a Capua, dove un altro Pandolfo, conte di Teano, venne posto in luogo del suo omonimo, caduto in disgrazia, il papa e l’imperatore si diressero via Roma a Pavia, per assistere ad un importante concilio indetto da Benedetto per la riforma della Chiesa. Per Enrico, assistere ad un simile raduno era una tentazione irresistibile, e solo nell’agosto riparti per la Germania. La sua spedizione aveva avuto un successo molto relativo. Pel­ legrino, bisogna riconoscerlo, aveva svolto bene le sue mansioni; tolti di mezzo Pandolfo e Atenolfo, non vi sarebbero dovute essere più difficoltà né a Capua, né a Montecassino, e gli ostaggi presi a Salerno e a Napoli (quest’ultima città li aveva offerti spontanea­ mente pur di non dover sostenere un assedio da parte delle truppe dell’arcivescovo) erano garanzia di calma lungo quel settore della

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costa. La campagna nella Puglia, al contrario, si era risolta in un fiasco. La testarda resistenza di Troia aveva messo in evidenza la fondamentale impotenza degli eserciti imperiali in Italia. Circa sessantamila uomini non erano riusciti a sottomettere una piccola città di montagna che quattro anni prima neppure esisteva. Fatto ancora più grave essi si trovavano agli ordini diretti delFimperatore, al cui prestigio era stato inferto un grave colpo, mentre il prestigio di Boioannes, che aveva ideato, costruito, fortificato e popolato Troia, aveva invece acquistato sempre maggior lustro. Il catapano aveva pure un altro vantaggio, di cui Enrico si rendeva conto fin troppo; risiedendo nella Puglia, egli era in grado di mantenere e consolidare sempre più la sua posizione e di cogliere senza indugio ogni occasione per migliorarla. L ’imperatore d’Occidente, al con­ trario, poteva agire solo tramite i suoi feudatari che, come era stato di recente dimostrato, gli rimanevano fedeli solo fino a quando conveniva loro. Lui presente, attorniato dallo splendore della sua corte, mentre dispensava giustizia e distribuiva donazioni con im­ periale liberalità, i feudatari erano più che pronti a mostrarglisi sot­ tomessi e a rendergli omaggio. Appena assente, il campo era aperto ai malcontenti e agli agitatori, le leggi non venivano rispettate, il morale veniva minato, le ingiunzioni dimenticate; Boioannes non si sarebbe lasciato sfuggire nessuna occasione; e come impedire allora che l’intera struttura imperiale, cosi penosamente costruita, cadesse di nuovo in sfacelo? Per i bizantini, nel vedere l’esercito imperiale che faticosamente si allontanava, trascinandosi attraverso le montagne, il sentimento prevalente doveva essere di sollievo. Se Enrico fosse riuscito ad impossessarsi di Troia, forse tutta la Puglia si sarebbe trovata alla sua mercé. Dopo i rovesci già subiti in Occidente, questo avrebbe significato il disfacimento di tutto ciò che era stato raggiunto negli ultimi quattro anni. Anche cosi, come stavano le cose, vi era molto da ricostruire, ma grazie alla resistenza di Troia le fondamenta erano rimaste salde. La diplomazia greca poteva rimettersi di nuovo all’opera. Non sorprende quindi che Boioannes abbia tanto genero­ samente ricompensato gli abitanti di Troia. Cosi, per i due protagonisti, la campagna del 1022 si era mo­ strata inconcludente. Le vincite e le perdite sembravano bilanciarsi, ed era difficile stabilire a chi fosse andato il vantaggio maggiore. Tra i partecipanti minori, Capua aveva subito un vero e proprio rovescio, Salerno e Napoli erano state severamente castigate. Un

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solo gruppo poteva ritenere del tutto soddisfacenti gli avvenimenti dell’anno. I normanni, resistendo a Troia, avevano assicurato il possesso della Puglia ai greci, guadagnandosi l’imperitura gratitu­ dine di Boioannes. Ad ovest, il ruolo da essi sostenuto nell’ottenere la sottomissione di Capua fu ricompensato da Enrico, che assoldò una considerevole forza normanna per assicurare a Pandolfo di Teano il pieno possesso della città. Altri contingenti normanni erano stati dislocati dall’imperatore lungo la frontiera con Bisanzio ed in vari punti lungo la costa, a guardia contro i saraceni. I normanni, infatti, avevano ormai imparato l ’arte di trovarsi sempre dalla parte del vincitore, avvantaggiandosi sempre dei successi ed evitando di venire coinvolti nelle sconfitte. Sui due lati della penisola essi ave­ vano rafforzato le loro posizioni; erano diventati indispensabili sia all’uno che all’altro Impero. Potevano essere soddisfatti.

CAPITOLO TERZO

L ’INSEDIAMENTO the five fair brothers, W ho attem pted the w orld and shared it with them selves, Coming out o f Normandy from the fresh, green land T o this soil o f m arble and o f broken sherds.1 Sa c h e v e r e l l S i t w e l l ,

Bohem und, Prince o f A ntioch

Forse Enrico il Santo non avrà avuto dubbi sulla possibilità di mantenere viva la sua influenza in Italia dopo il suo rientro in patria, ma neppure poteva prevedere la rapidità con cui la sua opera sarebbe andata distrutta. Vi aveva messo tutta la buona vo­ lontà e sarà stato certamente convinto che, almeno in Occidente, era riuscito a creare una situazione abbastanza stabile. Il miglio­ ramento delle sue condizioni di salute, dovuto all'intercessione di san Benedetto a Montecassino, si era rivelato anch'esso effimero come ogni altra cosa realizzata in Italia. Nel luglio del 1024 mori. Gli fu data sepoltura nella cattedrale di Bamberga, poco lontano dalla tomba di Melo. Enrico mori, come era prevedibile, senza lasciar prole; con lui si estinse la casa di Sassonia. Gli succedette un lontano parente, Corrado II il Salico. Corrado, sia per carattere sia per mentalità, era assolutamente diverso da Enrico - e, per esempio, non si interessava affatto degli affari della Chiesa, se non quando questi venivano ad intralciare la sua politica - né aveva nessuna partico­ lare ragione di seguire la via tracciata dal suo predecessore; ciò non toglie che non si può trovare scusa per Tenorme sciocchezza che ora commise. A richiesta di Guaimaro di Salerno, che gli inviò una melliflua ambasceria accompagnata da doni per congratularsi ccn lui in occasione della sua ascesa al trono, il nuovo imperatore liberò Pandolfo di Capua e gli permise di tornare in Italia. Papa Benedetto non avrebbe mai autorizzato una simile follia, ma papa Benedetto era morto. Egli aveva di poco preceduto Enrico nella 1 « I cinque biondi fratelli / che sfidarono il mondo e lo spartirono tra loro, / uscendo dalla Normandia, dalla terra fresca, verdeggiante / per giun­ gere in questo suolo di marmi e di cocci. »

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tomba ed a lui era succeduto, con rapidità davvero sconveniente, il fratello Romano che si era immediatamente insediato nel Laterano prendendo il nome di Giovanni X IX . Corrotto ed egoista, Giovanni non aveva né l'energia, né l'interesse a rivolgere rimo­ stranze a Corrado. Fu cosi che il Lupo degli Abruzzi fece ritorno nella sua antica dimora e non tardò a giustificare appieno il suo soprannome. Il suo primo obiettivo fu di riprendere possesso di Capua e vendicarsi di tutti quelli, tra i suoi sudditi, che lo avevano di recente tradito. Per far questo aveva bisogno di alleati. Appena giunto in Italia si rivolse a Guaimaro di Salerno, al catapano Boioannes e, per ultimo, a Rainulfo il Normanno, affinché gli venissero in aiuto; a Rainulfo fu ingiunto di radunare quanti più dei suoi compatrioti potesse. Guaimaro, cognato di Pandolfo, che aveva tutto da gua­ dagnare dal ristabilimento dello status qu o a Capua, si dichiarò subito d'accordo e non ebbe difficoltà a convincere Rainulfo che vedeva, nell’invito rivoltogli, una nuova possibilità di favorire la causa normanna. Solo i greci furono deludenti nella loro risposta, ma avevano un'ottima scusante. Proprio in quel periodo, l'impera­ tore Basilio stava allestendo una imponente spedizione militare contro i saraceni, che ormai dominavano in quasi tutta la Sicilia. Quando gli giunse la richiesta di Pandolfo, il grosso del suo eser­ cito - greci, vareghi, valacchi e turchi - già si trovava in Calabria, e Boioannes in persona si era messo alla testa di un'avanguardia che stava per condurre oltre lo Stretto per occupare Messina in nome dell'imperatore. Pandolfo non si preoccupò molto del man­ cato appoggio dell'imperatore bizantino; Rainulfo era giunto con un seguito di sgherri normanni, in numero considerevole, per rin­ forzare le truppe inviate da Guaimaro; inoltre, era improbabile che Capua avrebbe opposto seria resistenza. Poi, inaspettatamente, era giunto un piccolo contingente greco, tratto dalle forze di spedi­ zione dirette in Sicilia, ed era in attesa di ordini. (Se Pandolfo doveva rientrare in possesso di Capua, era ovvio che Boioannes non voleva che ciò avvenisse senza l'appoggio, per lo meno nomi­ nale, di Bisanzio.) Non vi era ormai più nessuna ragione per indu­ giare oltre. Nel novembre del 1024 ebbe inizio l'assedio di Capua; questo si protrasse molto più a lungo di quanto Pandolfo avesse preveduto. Il Volturno costituiva una magnifica difesa naturale lungo tre lati della città. Grazie a questo, e alle fortissime mura che la proteg­

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gevano lungo il quarto lato, e alla ferma volontà dei capuani di ritardare piu a lungo possibile il ritorno del loro odiato signore, resistettero per ben diciotto mesi e probabilmente avrebbero resi­ stito ancora piu a lungo se non fosse sopravvenuta una improvvisa catastrofe. Il 15 dicembre del 1025, proprio mentre stava per la­ sciare Costantinopoli per recarsi in Sicilia, l’imperatore Basilio mori. Il fratello di questi, il sessantacinquenne Costantino V i l i , che gli succedette, era un voluttuoso irresponsabile, il quale, benché avesse condiviso il trono per circa mezzo secolo, era assolutamente inadatto a perseguire i grandiosi disegni di Basilio. Egli fece so­ spendere la spedizione in Sicilia proprio quando questa stava per raggiungere il pieno spiegamento di forze, e Boioannes si trovò libero di scagliare tutta la potenza del suo grande esercito contro Capua. Da quel momento svanì, per i difensori, ogni speranza di suc­ cesso. Nel maggio 1026, il conte di Teano decise che l’aria di Capua più non gli si confaceva ed accettò un salvacondotto offertogli da Boioannes per raggiungere Napoli, a patto che egli si arrendesse. Le porte della città si aprirono e, a distanza di quattro anni precisi da quando, caduto in disgrazia, l ’aveva lasciata per recarsi in pri­ gionia, il Lupo degli Abruzzi si ritrovò in quella che, almeno se­ condo lui, era la sua tana. I cronisti ci hanno risparmiato i det­ tagli della sua vendetta sui capuani, molti dei quali avrebbero senza dubbio preferito resistere ad oltranza e rimanere uccisi in combat­ timento. Per quanto riguarda la guarnigione normanna, questa pro­ babilmente ne usci senza subire troppi danni: il principe vittorioso doveva molto a Rainulfo e ormai era diventata prassi comune che, in qualsiasi battaglia i normanni si trovassero a combattere simul­ taneamente nei ranghi opposti, quelli che si trovavano dalla parte dei vincitori impetrassero clemenza per i meno fortunati compatrioti. Eppure Pandolfo non era ancora soddisfatto. Napoli, in parti­ colare, lo preoccupava. Il duca Sergio, pur essendo nominalmente vassallo di Bisanzio, si era mostrato del tutto inetto durante la cam­ pagna condotta dal vescovo Pellegrino, non aveva opposto resi­ stenza e aveva offerto ostaggi prima ancora di essere minacciato. Non aveva alzato un dito per venire in aiuto a Pandolfo nel ricon­ quistare il suo patrimonio, ed ora era giunto al punto di offrire asilo al meschino conte di Teano. Che, poi, fosse stato proprio Boioannes ad ottenere tale asilo al suo rivale, non era affatto rassicurante per Pandolfo; egli sospettava, e a ragione, che questa fosse stata un’abile

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mossa da parte del catapano, per avere sempre sottomano, in caso di bisogno, un pretendente al trono di Capua. Ad ogni modo, Ser­ gio era un vicino del quale era bene non fidarsi e bisognava elimi­ narlo. L ’unico ostacolo era Boioannes, il quale era in ottimi rapporti con Sergio e che certo sarebbe accorso in suo aiuto se Pandolfo lo avesse attaccato. Le cose erano giunte a questo punto quando, nel 1027, il cata­ pano venne richiamato in patria. Per l’Impero d’Oriente, questo errore fu altrettanto grave di quello commesso tre anni prima da Corrado, quando rimandò libero Pandolfo. Boioannes, che univa una eccezionale abilità diplomatica alle capacità militari, aveva rista­ bilito, in nome dell’imperatore Basilio II, la supremazia bizantina nell’Italia meridionale, portandola al piu alto livello mai raggiunto in trecento anni. Ora, spariti sia l’imperatore che il catapano, ebbe inizio il declino di Bisanzio. Questo trasse origine, come accade sempre, da atti di insubordinazione rimasti impuniti. Se Boioannes si fosse trovato in Italia, o se l’imperatore Basilio fosse stato ancora in vita, Pandolfo non avrebbe mai osato attac­ care Napoli; ma la Capitanata era priva di un governatore, e a Costantinopoli quel barcollante edonista, Costantino, era incapace di vedere piti in là dell’ippodromo. Il Lupo - le fortissim e lu p e, come lo definisce Amato - colse a volo l ’occasione. In un periodo imprecisato durante l’inverno 1027-28, si avventò contro Napoli e, grazie al solito tradimento all’interno della città, ne prese possesso dopo brevissima lotta. Sergio si nascose e il conte di Teano, terro­ rizzato, si rifugiò a Roma dove poco dopo mori. La posizione di Pandolfo era ora quasi invulnerabile. Era pa­ drone non solo di Capua e di Napoli ma, in pratica, anche di Sa­ lerno da quando, dopo la morte di Guaimaro nel 1027, la vedova di questi, sorella di Pandolfo, aveva assunto la reggenza in nome del figlio sedicenne. Poiché, né l’imperatore d'Oriente, né quello d’Occidente mostravano di voler far qualcosa per trattenerlo - Cor­ rado, è vero, era giunto in Italia pochi mesi prima per farsi inco­ ronare, ma aveva docilmente accettato l’omaggio di Pandolfo quale principe di Capua - e poiché anche il papa si mostrava ugualmente incapace di tenergli testa, egli poteva dare libero sfogo alle sue ambizioni. Pandolfo aveva, a quel tempo, solo quarantadue anni; con un po’ di fortuna ed il valido, incondizionato appoggio dei normanni, non avrebbe avuto difficoltà ad impossessarsi di Benevento e delle altre città lungo la costa. Poi, se l ’attuale stato di

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apatia avesse continuato a prevalere a Costantinopoli, nulla gli avrebbe impedito di invadere la Capitanata, e il vecchio sogno lon­ gobardo di uno Stato unificato nelFItalia meridionale si sarebbe finalmente realizzato. Una simile prospettiva non poteva essere gradita ad Amalfi, a Gaeta ed ai loro vicini più deboli. Essi avevano cara la loro indipendenza e gli stretti legami commerciali e culturali che li univano a Costantinopoli; non nutrivano particolare affetto per i longobardi e, come tutti gli altri, detestavano Pandolfo. Nel frattempo, i cit­ tadini di Napoli, pochi dei quali avevano voluto il principe di Capua per signore, incominciavano a risentire della sua durezza e rapacità, e stavano congiurando per rovesciarlo. La chiave della situazione era ora in mano a Rainulfo. Di tutte le bande normanne disseminate per la penisola, la sua era la piu grande e la più influente; il suo numero era in continuo aumento per l'arrivo di nuove reclute accorse dal Nord al suo invito. Se Pandolfo riusciva ad assicurarsi Fappoggio di Rainulfo, scarse sa­ rebbero state le speranze per il resto delFItalia meridionale. Fortu­ natamente però, Fespansione di Capua era altrettanto poco gradita a Rainulfo quanto a chiunque altro. Egli era un politico nato, uno dei pochissimi tra i normanni che, in quel periodo, si fosse reso perfettamente conto delFimportanza della posta in giuoco, ed era abbastanza lungimirante per capire che il su ccesso di Pandolfo avrebbe potuto risultare disastroso per gli interessi normanni. Egli aveva ormai sostenuto abbastanza a lungo il principe di Capua; era giunta Fora di cambiare parte. Inoltre, Rainulfo sapeva benis­ simo quanto fosse indispensabile il suo aiuto per le città-stato e quando giunsero i messi - ed egli era sicuro che sarebbero giunti di Sergio, duca di Napoli e del duca di Gaeta, con proposte di alleanze, egli si trovava in posizione assai vantaggiosa per dettarne i termini. I negoziati ebbero buon esito e condussero alla preparazione di progetti; questi progetti si concretizzarono e portarono a fatti d'arme; i fatti d'arme furono coronati da successo e cosi, nel 1029, a meno di due anni da quando ne era stato espulso, Sergio era di nuovo a Napoli ed il Lupo era stato ricacciato nella sua tana di Capua, a leccarsi le ferite. Ancora una volta i normanni trionfarono. Questa volta però, ottennero una ricompensa più duratura per i servigi resi. Se questa sia stata concessa dietro loro insistenza, o se Sergio stesso, volendosi assicurare adeguata protezione per il futuro,

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la concedesse loro spontaneamente, non lo sappiamo; sta di fatto però, che al principio del 1030, a Rainulfo venne ufficialmente concessa la città di Aversa e il territorio ad essa appartenente e, quale ulteriore attestato di stima e di gratitudine, gli fu pure data in moglie la stessa sorella di Sergio, la vedova del duca di Gaeta. Questa fu, per i normanni, la giornata più fatidica da quando erano scesi in Italia. Dopo tredici anni, potevano ora vantare il possesso di un feudo. Da ora in poi, non sarebbero più stati una razza di mercenari, forestieri e vagabondi. Il territorio che essi occupavano era loro di pieno diritto, conferito ad essi legalmente secondo l’antica tradizione feudale. Erano sudditi di un capo da loro liberamente eletto, uno dei loro, che ormai apparteneva pure alParistocrazia delPItalia meri­ dionale ed era cognato del duca di Napoli. Per un popolo cosi ligio alle forme della legalità, un tale progresso nel campo sociale era di inestimabile valore. In un primo tempo ciò non influì molto sul loro comportamento; continuarono come per il passato, spin­ gendo una parte contro Paîtra, fomentando discordie tra i litigiosi signori greci e longobardi e vendendo le loro spade a chiunque volesse pagarle. Ma ora avevano chiaro innanzi a loro un obiet­ tivo a lungo termine - la conquista di un territorio, che fosse esclu­ sivamente loro, in Italia. Molte bande normanne senza una stabile dimora vagavano ancora nelle montagne e lungo le strade maestre, abbandonandosi ad una vita di saccheggio e di brigantaggio; ma, a partire dal 1030, un numero sempre maggiore tra i loro capi si sarebbe stabilito, a imitazione di Rainulfo, in dimore fisse, forti­ ficate, concentrando ogni loro energia nelPacquisto di un territorio proprio. Dal momento in cui i normanni divengono proprietari ter­ rieri, il loro atteggiamento muta completamente, e non solo nei riguardi dei vicini, ma del paese stesso. L'Italia non è più, per loro, semplicemente un campo di battaglia, una tinozza da pastone, un territorio da saccheggiare e da spogliare, ma una terra da far propria, da sviluppare, da arricchire. Diviene, infatti, la loro terra. In un primo tempo sembra che Rainulfo si sia occupato esclusivamente di rafforzare e consolidare il suo nuovo feudo.2 Aversa 2 Una leggenda popolare, tramandatasi per lungo tempo e che probabil­ mente deve la sua origine al cronista inglese Orderico Vitale, vuole che il nome di Aversa sia derivato dal latino Adversa, ossia il luogo dove si trova­ vano coloro che erano ostili agli altri abitanti del paese. Purtroppo questa

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giace in aperta pianura nella Campania, tra Capua e Napoli, e quindi era inevitabile che le mire di Pandolfo cadessero, prima o poi, su di essa. Infatti cosi fu, ma non nella maniera che si sarebbe potuta prevedere. Nel 1034, la moglie di Rainulfo, sorella del duca Sergio, mori improvvisamente. Pandolfo aveva una nipote, il cui padre era da poco divenuto signore di Amalfi; egli si affrettò ad offrire la mano di questa al vedovo desolato. Alla prospettiva di una simile consolazione, con tutto ciò che comportava - l’alleanza con Pandolfo, la rovina del duca Sergio, suo ex cognato e maggior benefattore - Rainulfo non seppe resistere. Accettò. Il duca di Napoli aveva da poco perduto Sorrento, che gli si era ribellata ad istigazione di Pandolfo e si era costituita in città-stato indipendente sotto la protezione di Capua; ora egli dovette subire un colpo an­ cora piu duro, quello della defezione di Aversa e con questa la perdita dell’appoggio normanno, sul quale faceva maggiore affida­ mento. Per quanto lo riguardava personalmente, il colpo fu ancora più crudele: la sorella che amava era morta, il cognato che egli stimava lo aveva tradito. Non esistevano, dunque, giustizia, lealtà, gratitudine? Non se la sentiva più di lottare. Accorato, sfinito, lasciò Napoli e si ritirò in un monastero dove poco dopo mori. Questo fu, probabilmente, il più vile tradimento perpetrato da Rainulfo in tutta la sua carriera; ma anche se ne provò rimorso, non lo mostrò. Egli si era posto, come al solito, un solo obiettivo - il consolidamento della sua posizione - e, per raggiungerlo, si gettò con entusiasmo nelle braccia del nuovo alleato. Si iniziò allora il periodo durante il quale il principe di Capua, con l’aiuto dei duchi di Sorrento, di Salerno e di Amalfi, diventò, senza dubbio, il signore più potente dell’intera regione. Solo pochi anni avanti, Rainulfo si era adoperato con ogni mezzo per mettere freno alle ambizioni di Pandolfo, ma da quando la sua posizione si era avvantaggiata, la situazione era radicalmente trasformata. La potenza di Capua, per quanto grande, dipendeva totalménte dall’appoggio dei nor­ manni e ormai Rainulfo non era più un semplice alleato; era, in potenza, un rivale. Per il momento, era disposto a lasciare che Pandolfo godesse leggenda non ha alcun fondamento. Tale nome esisteva già sin dall’inizio del secolo, assai prima che Rainulfo e i suoi seguaci lasciassero la Normandia. Tuttavia Aversa, nella sua cattedrale, rivela tracce normanne. Oggi, strano a dirsi, è una città di pochissimo interesse, nota, soprattutto, per aver dato i natali a Cimarosa e per il grande manicomio che vi si trova.

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del suo trionfo. Il principe di Capua, infatti, tronfio, si beava nella sua gloria proprio quando il primo dei figli di Tancredi di Altavilla scendeva in Italia. Circa dieci chilometri a ncrd-est di Coutances, nella Norman­ dia, si trova il piccolo villaggio di Hautevilie-la-Guichard. Oggi non rimane che il nome a ricollegarlo con quella singolare e dotatissima schiatta, la cui reputazione e la cui potenza una volta si estendeva per tutto il mondo civile, da Londra ad Antiochia. All'inizio del secolo scorso a Hauteville-la-Guichard, si potevano ancora vedere, sulle sponde di un corso d’acqua, i resti di un antico castello; uno storico francese, Gauttier du Lys d’Arc, scrivendo di una visita da lui fatta in quel luogo nel 1827, cita con orgoglio le parole di un vecchio contadino che viveva li: Q ui, miei buoni signori, nacque Tincom parabile T an cred i, e R oberto il G uiscardo, che vuol dire prudente; essi diedero al nostro beato G of­ fredo un enorm e tesoro in oro p er costru ire la nostra catted rale, in rin­ graziam ento a D io p er le grazie loro concesse nelPaver rip ortato tante vittorie nelle loro guerre in Sicilia e in E gitto .3

Tancredi gode di una fama immortale poco meritata. Non aveva doti straordinarie questo piccolo barone di provincia, che coman­ dava un modesto gruppo di dieci cavalieri nelle milizie del duca Roberto di Normandia; anzi, per quel poco che sappiamo di lui, non si direbbe che egli sia stato in nessun modo eccezionale tranne forse per la sua insistente e persistente fecondità. - Gof­ fredo Malaterra, un monaco benedettino la cui H istoria Sicu la è una delle maggiori fonti dalle quali io abbia attinto informazioni circa le origini degli Altavilla, ci dice che la prima moglie di Tan­ credi era una certa Muriella, una dama « insigne per moralità e per nobili natali » dalla quale ebbe cinque figli maschi - Guglielmo, Drogone, Umfredo, Goffredo e Serio. Morta Muriella, Tancredi passò a seconde nozze, e Malaterra si sente in dovere di spiegarci dettagliatamente la ragione per cui venne in questa determinazione: 3 « Chest ichirt, mes bons messeus, qu'est né l'incomparable Tancrède, et Robert Guiscard, qui veut dire prudent; ils ont baillé des trésors immenses d'or au bienheureux Geoffroy pour bâtir notre cathédrale, pour rem ercier Dieu des graces qu'il leur avait faites d'avoir si bien réussi dans leurs guerres de Sicile et d'Egypte. »

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Poiché non era an cora vecchio e quindi non si sentiva di osser­ vare la continenza m a, essendo un uom o onesto ed avendo in o rro re le relazioni illecite, si prese una seconda moglie. Infatti, m em ore delle parole dell'A postolo: onde evitare la fornicazione ogni uomo abbia la propria m oglie e il Signore giudicherà i libertini e gli adulteri, egli preferì acconten tarsi di una legittima sposa anziché farsi contam inare dagli amplessi di concubine.

L'ardente Tancredi convolò quindi a nozze con la nobile Fresenda che, « per generosità e moralità non era per nulla inferiore alla prima moglie »; Fresenda, con estrema rapidità e facilità, lo rese padre di ben altri sette figli maschi - Roberto, Maugero, un altro Guglielmo, Alveredo, Tancredi, Umberto e Ruggero - e al­ meno tre figlie femmine. Ovviamente, il feudo di famiglia era del tutto inadeguato a soddisfare le necessità di una cesi formidabile nidiata. Le ripetute richieste di rinforzi da parte di Rainulfo e le occasioni che si offrivano nell'Italia meridionale erano ben note ai giovani normanni; e cosi, circa nel 1035, i primi tre maschi degli Altavilla decisero di tentare la fortuna in questa terra. Guglielmo, Drogone e Umfredo valicarono a cavallo le Alpi, puntando diret­ tamente su Aversa; e cosi vennero a far parte dell'esercito di Rainulfo al servizio del principe di Capua. Gli Altavilla non rimasero a lungo fedeli a Pandolfo. Entro un anno o due, com'era da prevedersi, Pandolfo si era inimicato tutti i suoi alleati. Questi erano disgustati dal suo perenne doppio giuoco, offesi dalle sue prepotenze, nauseati dalla sua crudeltà. Anche per le usanze del tempo, si era nel secolo decimoprimo, il comporta­ mento di Pandolfo era inammissibile - specialmente nei riguardi della Chiesa. Egli aveva caricato di catene l'arcivescovo di Capua ed aveva insediato al suo posto uno dei propri bastardi; ora si accin­ geva ad intensificare i suoi attacchi contro Montecassino. Sin dalla affrettata partenza e dalla morte del fratello, aveva provato rancore per il grande monastero ed era deciso a riaverne il controllo; aveva poi in particolare odio il successore di Atenolfo, l'abate Teobaldo. Cosi, alla prima occasione, con false lusinghe, attirò Teobaldo a Capua e immediatamente lo gettò in prigione. Un nuovo abate venne subito eletto, ma Pandolfo non ne tenne conto e nominò un suo sbirro « amministratore generale », si impossessò di tutte le rendite del monastero, ne espropriò le terre che distribuì in ricom­ pensa a quei normanni che lo avevano meglio servito. I poveri

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monaci, ridotti all’impotenza, non erano in grado di reagire in nessun modo, neppure quando tutti i loro tesori e gli arredamenti sacri vennero presi e portati via a Capua. Furono ridotti ad uno stato di seminedia - il giorno dell’Assunzione mancava persino il vino per celebrare la Messa - ed Amato, che probabilmente in quel tempo vi si trovava, riferisce che, poco dopo, molti monaci per la disperazione abbandonarono il monastero, e tra questi anche l ’abate; « e quelli che vi rimasero vennero miseramente trattati ».* La bandiera della rivolta venne alzata dal giovane principe di Salerno, Guaimaro V,45 che, giunto ormai alla maggiore età, era de­ ciso ad opporsi alla tirannide dello zio. Egli possedeva tutte le qualità per essergli un degno avversario. « Questo Guaimaro », scrive Amato, « era piu coraggioso del padre, più magnanimo, più cortese; egli, infatti, era ricco di tutte quelle doti che si addicono ai laici - l’unico suo difetto era di amare troppo le donne ».* Tale debolezza, abbastanza scusabile, non servi a mitigare le ire del giovane Guaimaro quando venne a sapere, nel 1036, che ima sua nipote era stata vittima di un tentato rapimento da parte del prin­ cipe di Capua. Per Guaimaro questo fu il colmo; era proprio l ’oc­ casione che andava cercando. Le altre città, e i ducati, erano pronti a dargli man forte; Rainulfo, con quella flessibilità nata da lunga esperienza, non trovò difficoltà a passare dalla parte dell’avversario e di li a poche settimane tutta la regione era di nuovo in armi. Pandolfo, non si sa come, era riuscito a mantenersi fedeli due dei suoi antichi alleati, tra cui il notevole contingente dei normanni ai quali aveva distribuito le terre di Montecassino. La defezione di Guaimaro e di Rainulfo significava quindi che, sia nelle file del­ l’uno come dell’altro esercito, combattevano un buon numero di normanni - questo spiega, forse, l’inefficacia dei combattimenti che seguirono. Guaimaro, come lui stesso prevedeva, avrebbe finito col dimostrarsi il più forte; ma sapeva pure con quale facilità poteva spostarsi il pendolo e, con un senno superiore ai suoi anni, si rese conto che nessuna vittoria avrebbe potuto essere duratura senza la ratifica imperiale. Il problema era però: quale Impero? Negli ultimi quindici anni, sia l ’Impero d’Occidente che quello d’Oriente 4 « et cil qui remainstrent estoient vilanement traitié. » 5 Oppure IV. Vedi nota 4, cap. I. • « Cestui Gamérie estoit plus vaillant que le père et plus libéral et cortois à donner, liquel estoit aorné de toutes les vertus que home sécular doit avoir fors de tant que moult se délictoit de avoir moult de fames. *

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avevano inviato eserciti per affermare il loro potere nell’Italia meri­ dionale; questo, forse, era il momento buono per porli l’uno contro l’altro. Il principe di Salerno inviò quindi messi ai due imperatori, richiedendo il loro intervento ed il loro arbitrato e giustificando il suo recente operato con una relazione, lunga e dettagliata, dei delitti commessi dallo zio. Corrado, che già si trovava nell’Italia settentrionale, era a per­ fetta conoscenza della situazione caotica del Meridione; di ciò egli era indirettamente responsabile avendo dodici anni prima, con estrema leggerezza, rimesso in libertà Pandolfo. Durante quegli anni Corrado aveva imparato molte cose, creandosi la reputazione di essere forte, ma, soprattutto, giusto. Egli non poteva rimanere sordo all’appello rivoltogli da Guaimaro - specialmente poi, essendo ve­ nuto a conoscenza che un appello simile era stato rivolto anche a Costantinopoli. L ’autorità sui suoi vassalli doveva essere mante­ nuta ad ogni costo, e la supremazia dell’Impero d’Occidente su quello d’Oriente nella penisola doveva essere chiaramente dimo­ strata. Nei primi del 1038, si mise alla testa del suo esercito e si diresse nel Meridione per ristabilirvi l ’ordine. Andò direttamente a Montecassino. Alcuni dei monaci fuggia­ schi si erano già presentati alla sua corte e gli avevano esposto le loro lagnanze; giungendo al monastero trovò che la situazione era ancora peggiore di quanto egli temesse. Messi furono immediata­ mente inviati a Pandolfo, per intimargli a nome dell’imperatore di restituire tutte le terre di cui si era impossessato e tutti i tesori che aveva rubato; allo stesso tempo gli veniva ordinato di rimettere in libertà gli innumerevoli detenuti politici che languivano nelle pri­ gioni capuane. Pandolfo si trovava alle strette. Non aveva alleati forti e non aveva mezzi per opporsi all'imperatore. Sulle prime adottò la tat­ tica dell’espiazione, offrendo grosse somme in denaro ed i suoi propri figli in ostaggio a garanzia della sua futura buona condotta. Corrado accettò; ma trascorso poco tempo il figlio di Pandolfo sfuggi ai suoi guardiani e il Lupo tornò alle sue vecchie abitudini. Fidando di poter resistere alla tempesta fino a tanto che l’impera­ tore non fosse rientrato in Germania, Pandolfo fuggì, recandosi in uno dei castelli ai confini del suo Stato: quello di Sant’Agata de’ Goti (le rovine di questo sono ancora visibili), barricandovisi den­ tro. Non servi a nulla. L ’imperatore, abilmente assistito da Rainulfo e dai suoi normanni, in un’azione di rastrellamento sgominò

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in breve tempo gli ultimi seguaci di Pandolfo; quindi fece ritorno a Capua dove, con solenne cerimonia, gli sostituì sul trono il gio­ vane Guaimaro, mentre il popolo, comprato con Toro salernitano, applaudiva. La partita era perduta, a Pandolfo non restava che una possibilità. Fuggì a Costantinopoli, dove aveva ancora qualche vecchio amico. Ma anche qui non ebbe fortuna. Appena giunto, con sua grande sorpresa e per ragioni che non sapeva spiegarsi, fu gettato in prigione. Corrado fece ritorno in Germania quella stessa estate. La sua spedizione era stata breve, ma coronata da pieno successo. Egli aveva tolto di mezzo Pandolfo, aveva ridonato a Montecassino la perduta prosperità, ed aveva dimostrato una volta ancora la po­ tenza e l’efficacia della giustizia imperiale. Altrettanto importante, aveva lasciato nell’Italia meridionale, investito di poteri supremi, un giovane principe, forte, energico, particolarmente virile, a lui legato da sentimenti di grande stima e di profonda gratitudine. L ’imperatore sarebbe morto entro Panno, ma avrebbe lasciato i suoi domini meridionali in condizioni assai più prospere e piu stabili di quanto li avesse lasciati il povero Enrico, suo prede­ cessore. Il vero trionfatore, però, era Guaimaro. Giunto appena sulla soglia dell’età virile, era riuscito a stabilirsi in una posizione assai più eminente di quella raggiunta da suo padre o da suo zio. E ciò facendo, non si era creato nemici, né era venuto meno alla parola data. Si era guadagnato non solo l’approvazione dell’imperatore d’Occidente, ma anche il suo efficace appoggio e la sua amicizia. In Italia era generalmente ben visto. Era intelligente, sano ed un bell’uomo. A lui, davvero, sembrava arridesse il futuro. Anche i normanni avevano ragione di essere soddisfatti. Rainulfo ed i suoi, come al solito, avevano finito per trovarsi dalla parte del vincitore. Avevano combattuto per Guaimaro ed avevano combattuto per Corrado. Le perdite da loro subite erano lievi, mentre il loro numero continuava a crescere. Più importante ancora, Guaimaro era riuscito ad ottenere che l’imperatore, prima di la­ sciare l’Italia, confermasse Rainulfo nella sovranità di Aversa, con­ ferendogli un titolo nobiliare e trasferendo il suo vassallaggio da Napoli a Salerno. Così avvenne che, nell’estate del 1038, Corrado conferì ufficialmente a Rainulfo il Normanno la lancia e il gonfa­ lone della città di Aversa. Quando il neoconte, inginocchiato ai piedi dell’imperatore, si rialzò, nessuno meglio di lui sapeva per­

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ché gli fosse stato conferito un onore simile: semplicemente per garantire che lui, che aveva prestato giuramento quale vassallo del principe di Capua e di Salerno, d'ora innanzi avrebbe mantenuto fede ai suoi obblighi di difendere e venire in aiuto al suo signore ogni volta che questi fosse stato minacciato da qualche nemico. Al momento ciò aveva poca importanza. Il fatto nuovo era che Rainulfo ormai non era più soltanto un grosso proprietario ter­ riero, un membro delParistocrazia locale e uno dei più potenti condottieri in Italia, ma faceva pure parte della nobiltà imperiale e possedeva un titolo e dei diritti che potevano venirgli tolti solo dall’imperatore. Egli aveva cosi compiuto un altro passo essenziale verso il raggiungimento di quell’obiettivo che ormai vedeva ben chiaro avanti a sé - il dominio normanno nel Meridione. Quanto ai tre giovani Altavilla, molto avevano imparato da quando erano venuti a contatto con la politica italiana. Avevano potuto constatare quanto fosse tumultuosa la terra da loro scelta, come era facile per un giovane intelligente ed ardimentoso rag­ giungere le vette del potere, e come era facile rovesciare un prin­ cipe. Avevano imparato pure che, in una terra nella quale le cor­ renti erano cosi mutevoli e le alleanze cosi fragili, la diplomazia era altrettanto essenziale quanto il coraggio; che una spada affilata era una ricchezza, ma che una mente acuta era una ricchezza più grande ancora. Si erano resi conto di quanto fosse potente la mano imperiale quando si trovava sul posto, e quanto era inefficace quando era lontana. Avevano poi sotto ai loro occhi l’esempio di un capo che, avendo saputo giuocare le sue carte in maniera scaltra e prudente, era diventato nel breve lasso di vent’anni ricco, in­ fluente e nobile. Erano lezioni, queste, che non dovevano dimenticare.

CAPITOLO QUARTO

LA SIC ILIA T here’s Sicily, fo r instance, - granted m e And taken back, som e years since...1 Browning ,

King V ictor and King Charles

La richiesta di aiuto del principe di Salerno, alla quale Cor­ rado II aveva cosi prontamente e cosi efficacemente risposto nel 1038, era stata invece accolta con deludente indifferenza a Costan­ tinopoli. Dal richiamo in patria di Boioannes nel 1024, l ’influenza greca in Italia era andata indebolendosi. Pandolfo non fu l ’unico ad approfittare della debolezza di Costantino V i l i . In Puglia i longobardi davano nuovi segni di irrequietezza sotto il governo di una serie di catapani inetti; mentre i saraceni, che avevano visto nella morte di Basilio II un benevolo intervento di Allah a loro favore, avevano raddoppiato la violenza dei loro attacchi ed esten­ devano il raggio delle loro incursioni fino a minacciare la stessa Costantinopoli. Se 1’« Uccisore dei Bulgari » avesse lasciato un erede maschio, forse tutto sarebbe andato a finir bene ma, data la situazione, il problema della successione si faceva sempre più confuso. Anche Costantino, morto nel 1028, non aveva lasciato eredi maschi, ma tolo tre femmine; la maggiore di queste, deturpata dal vaiolo, era stata da tempo spedita in convento. Le altre due, Zoe e Teodora, quasi altrettanto brutte, non erano sposate e ormai non erano più giovani. Costantino non provvide a rimediare a questa situazione finché non si trovò sul letto di morte; fu allora che la sua scelta cadde sull’attempato governatore di Costantinopoli, Romano Argirio, al quale fece in tutta fretta sposare Zoe. Tre giorni dopo Costantino era morto, e Romano e Zoe ascesero al trono. Romano non avrebbe goduto a lungo la sua nuova dignità. Poco dopo cadde infermo, vittima di un male che gli minava l ’organismo facendogli cadere tutti i capelli ed i peli della barba - alcuni dissero che 1 sono... »

« Ecco la Sicilia, ad esempio, concessami / E ripresa pochi anni or

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questa malattia era stata causata dalla quantità prodigiosa di afrodisiaci che egli aveva, invano, ingurgitato nella speranza di pro­ creare un figlio con la cinquantenne Zoe, altri che era stato avve­ lenato. Quest’ultima ipotesi non è da scartarsi; l’imperatrice, infatti, avendo finalmente provato quelle gioie che fino ad allora le erano state negate, si era presa un amante - un giovane oriundo della Paflagonia, bell’uomo ma epilettico, di professione cambiavalute, di nome Michele. Questo giovane era fratello del più potente eunuco della corte, un certo Giovanni Orfanotrofos che era, di fatto, l’amministratore dell’Impero; ambiziosissimo, era deciso a far si che dalla sua famiglia avesse a sorgere una dinastia - essendo lui stesso, per sua disgrazia, squalificato per mettere in atto un tale proposito e aveva, con deliberato intento, presentato Michele a Zoe, onde rag­ giungere il proprio fine. Il piano, bene architettato, funzionò; l’im­ peratrice si innamorò pazzamente e non nascose il suo desiderio di liberarsi dell’inutile consorte. Il Venerdì Santo del 1034 Romano spirò mentre faceva il bagno. La sera stessa Michele sposò l’anziana amante e diventò imperatore. Circostanze simili non erano certo di buon auspicio per l ’inizio di un nuovo regno; ma Michele IV , con l’aiuto del fratello, si rivelò migliore del suo predecessore. Di li a poco elaborò piani per con­ tinuare l’opera iniziata da Basilio II mirante a cacciare i saraceni dalla Sicilia. Le incursioni di questi non erano più soltanto moleste, ma stavano rapidamente diventando una vera e propria minaccia per la sicurezza di Bisanzio. E non erano solo le città costiere a soffrire dei loro saccheggi. I mercanti delle città lamentavano che i mari erano infestati dai pirati; di conseguenza aumentavano i prezzi dei beni di importazione ed il commercio con l ’estero comin­ ciava a risentirne. Per i greci, la Sicilia apparteneva di diritto a Bisanzio; vi risiedeva ancora una numerosa popolazione greca. Che venisse occupata dall’infedele era quindi un affronto sia per la sicurezza, che per l ’orgoglio nazionale. Gli arabi dovevano an­ darsene. Le probabilità di portare a buon termine la campagna erano maggiori per Michele di quanto lo fossero state per Basilio dieci anni prima. Era scoppiata ora una guerra interna tra i capi arabi nell’isola. L ’emiro di Palermo, al-Akhal, si era improvvisamente tro­ vato di fronte un esercito di ribelli guidato dal fratello Abu Hafs, rafforzato da seimila guerrieri giunti dall’Africa al comando di Abdullah, figlio del Califfo zirita di Kairouan; nel 1035, al-Akhal,

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messo alle strette, implorò aiuto da Bisanzio. Michele rispose affer­ mativamente - sapeva bene che una occasione simile non gli si sarebbe forse mai più ripresentata. Prima ancora, però, che egli potesse inviare in Sicilia un piccolo contingente, piu per far atto simbolico che altro, al-Akhal venne assassinato e cadde cosi l’utile pretesto per uno sbarco in Sicilia; ma la rivolta si diffondeva ormai rapidamente per tutta l ’isola e tutto faceva pensare che i saraceni, sempre più divisi tra loro, avrebbero potuto offrire ben poca resi­ stenza ad un concertato attacco bizantino. Inoltre, una feroce incur­ sione piratesca lungo la costa della Tracia aveva di recente messo in allarme la capitale, che si sentiva direttamente minacciata. I preparativi per la spedizione in Sicilia proseguirono quindi come prima, seppure a ritmo più lento - perché ora il fattore tempo sembrava volgere a favore dei greci - ma con tutta l’accuratezza e perfezione di cui erano capaci l’imperatore ed il suo bieco, sep­ pure abile fratello, l’eunuco. Soltanto lo scopo era diverso: non si trattava più di andare in soccorso di un alleato, ma di riconquistare la Sicilia. Ecco perché, quando nel 1036 Guaimaro si rivolse a Costanti­ nopoli per ottenere un appoggio militare nell’Italia meridionale, Impegni precedenti in Sicilia servirono di valido pretesto per un rifiuto, come erano serviti una dozzina di anni prima, quando Pandolfo aveva avanzato un’analoga richiesta. Anche senza questa scusa, però, è molto improbabile che Michele avrebbe compiuto un passo decisivo. Pandolfo, in passato, era stato un alleato utile per Bisanzio e la sua causa non poteva ancora dirsi perduta; perché mai, dunque, l’Impero d’Oriente avrebbe dovuto muoversi per eliminare l’uomo che per oltre vent’anni era stata la più grossa spina nel fianco del suo rivale d’Occidente? Due anni dopo, la situazione era radicalmente mutata. Pandolfo aveva subito una schiacciante sconfitta dalla quale, secondo le apparenze, non si sarebbe mai piu risollevato. Guaimaro, d’altra parte, era potente c ambizioso. Se si fosse rivoltato contro Bisanzio avrebbe potuto provocare gravi danni nella Capitanata. Inoltre, i piani per la Si­ cilia si andavano concretizzando e si sperava che il principe di Capua e di Salerno e gli altri signori che si stringevano attorno a lui e che avevano anch’essi, al pari di molti altri, subito danni dalle Incursioni arabe avrebbero .contribuito generosamente all’impresa con l’invio di uomini e di denaro. Se Pandolfo avesse avuto il

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tempo di riflettere, non si sarebbe tanto sorpreso di ritrovarsi in prigione appena giunto a Costantinopoli. Il corpo di spedizione contro la Sicilia prese il mare agli inizi deirestate del 1038. Era stata affidata al comando del più grande generale bizantino dell’epoca, il gigantesco Giorgio Maniace, an­ cora circondato dall’alone di gloria che si era conquistato sei anni prima in Siria con una serie di brillanti vittorie. Maniace era, per carattere, per gesta, come anche per il fisico, molto sopra la media - uno di quei pittoreschi « quasi-genii », che emergono ad inter­ valli nella storia e che sembrano avere il mondo ai loro piedi, solo per perderlo improvvisamente a causa di qualche difetto che li tradisce in un momento di crisi. Lo storico Michele Psello ci ha lasciato di Maniace una descrizione paurosa: Io stesso vidi quest’uomo e ne provai meraviglia; la natura aveva riunito nella sua persona tutte le qualità necessarie per farne un gran condottiero; era alto oltre tre metri, tanto che, per fissarlo in volto, gli uomini dovevano rovesciare il capo all’indietro come per vedere la cima di una collina o di un’alta montagna. Il suo volto non era né bello né piacente, ma faceva pensare ad una tempesta; la sua voce era come il tuono e le sue mani sembravano fatte per abbattere mura e sfondare porte di bronzo. Egli si slanciava come un leone e il suo cipiglio era terribile a vedersi. Ogni altra cosa, in lui, era in proporzione. Coloro che lo vedevano per la prima volta si rendevano conto che tutte le descrizioni che ne avevano sentite erano inferiori alla realtà. L ’esercito al comando di questo stupefacente « orco » era, come al solito, eterogeneo. L ’elemento piu forte era il contingente dei vareghi, a capo del quale si trovava il leggendario eroe nordico Aroldo Hardrada, di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme; quello piu debole, un contingente misto di longobardi ed italici, brontoloni, provenienti dalla Puglia, che non facevano mistero della ripugnanza che provavano di trovarsi costretti a combattere per Bisanzio. Tra questi due estremi era inserito il nucleo centrale delle forze agli ordini di Maniace, costituito principalmente di greci e di bulgari. L'esercito era imbarcato su una flotta di galee al co­ mando di un certo Stefano, in origine un calafato, la cui unica qualifica era quella di aver sposato, molti anni prima, una sorella degli Orfanotrofos e di essersi quindi svegliato una mattina ritro­ vandosi cognato dell’imperatore - questo lo aveva condotto ad una serie di rapidi avanzamenti nella carriera, ponendolo, infine, in una

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posizione di grande responsabilità, assolutamente al di là di ogni sua capacità.2 La spedizione non puntò direttamente sulla Sicilia, ma fece rotta per Salerno, per raccogliere il contingente promesso da Guaimaro. Trovarono il giovane principe piu che disposto ad aiutarli. L ’accre­ scersi del suo potere aveva creato un’atmosfera politica insolita­ mente pacifica, quindi gli erano di grave imbarazzo gli avventu­ rieri normanni, oziosi, annoiati, predatori, privi di qualsiasi prin­ cipio morale, pronti a mettersi nei pasticci, costretti a vivere sulle risorse della terra e il cui numero era in continuo aumento. Egli trattenne presso di sé il conte di Aversa e i suoi piu fedeli seguaci, che gli sarebbero stati indispensabili qualora fosse sorta qualche situazione di emergenza; fra gli altri, vennero scelti trecento, tra i più giovani e più capaci, ai quali venne dato l’ordine di partire per la Sicilia; questi, invogliati da promesse di grosse ricompense, furono imbarcati insieme ad un buon numero di italici e longobardi sulle navi di Stefano. Naturalmente, tra i normanni, si trovavano gli Altavilla. La Sicilia è l’isola più grande del Mediterraneo. Attraverso i se­ coli è stata anche la più infelice. Trampolino di lancio tra l’Europa e l’Africa, porta che separa l’Oriente dall’Occidente, anello di con­ giunzione tra il mondo latino e quello greco; al tempo stesso roccaforte, punto di osservazione e luogo di smistamento, è stata con­ tinuamente campo di battaglia ed ha subito, di volta in volta, l ’occupazione di tutte le grandi potenze che hanno, in un’epoca o nell’altra, lottato per estendere il loro dominio attraverso il Medi­ terraneo. È appartenuta a tutte, eppure non ha mai, propriamente, fatto parte di nessuna; poiché il numero e la varietà dei suoi con­ quistatori, mentre ha impedito lo svilupparsi di una forte indivi­ dualità nazionale propria, la ha arricchita di una eredità caleido­ scopica di esperienze che non permetteranno mai che essa venga completamente assimilata. Anche oggi, nonostante la bellezza dei suoi panorami, la fertilità dei suoi campi e la continua dolcezza del suo clima, vi indugia ovunque una tetra tendenza alla malinconia 2 A proposito di Stefano, Psello scrive: « Lo vidi dopo la metamorfosi... Era come se un pigmeo pretendesse di essere Ercole e tentasse di apparire sotto le spoglie del demiurgo. Quanto più un essere simile vi prova, tanto più Fapparenza lo tradisce - rivestito della pelle del leone, viene sopraffatto dal peso della clava ».

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un qualche dolore profondo di cui, sia la povertà, Pinfluenza eccle­ siastica, la mafia ed ogni altro attuale capro espiatorio, possono essere le manifestazioni, ma non certamente la causa. È un dolore provocato da lunga, infelice esperienza di occasioni perdute, di promesse non mantenute; il dolore, forse, di una bellissima donna, troppo spesso violentata, troppo spesso tradita e che non è più atta all’amore e al matrimonio. I fenici, i greci, i cartaginesi, i romani, i goti, i bizantini, gli arabi, i normanni, i germanici, gli spagnoli, i francesi - tutti vi hanno lasciato il loro marchio. Oggi, trascorso un secolo da quando è stata accolta nell’abbraccio dell’Italia, la Si­ cilia è probabilmente meno infelice di quanto non sia stata da molti secoli a questa parte; ma pur non essendo più sperduta, appare sempre solitaria, sempre alla ricerca di una identità che non riesce mai del tutto a trovare. I greci giunsero per la prima volta in Sicilia nell’V III secolo a.C. Sloggiandone gli abitanti indigeni e distruggendo alcuni centri di commercio dei fenici, essi vi introdussero la vite e l’ulivo e vi fon­ darono ricche colonie. Ben presto queste colonie greche diventarono centri culturali fra i più importanti del mondo civile e la patria di poeti come Stesicoro di Imera - che fu accecato dagli dei per aver composto invettive contro Elena di Troia - e filosofi come il grande Empedocle d’Agrigento il quale svolse una feconda attività nel campo della trasmigrazione delle anime e, trascorso un lungo e uggioso tirocinio sotto la forma di arbusto, improvvisamente gettò via l’argilla delle spoglie mortali per cose piu alte quando, una mattina dell’anno 440, un altro ramo di ricerca scientifica lo con­ dusse troppo addentro nel cratere dell’Etna. Ma, per l’isola, l'età d’oro non si protrasse a lungo. La guerra del Peloponneso e la celebre spedizione ateniese trascinarono la Sicilia nel vortice dei problemi europei ed aprirono la strada alle prime incursioni di Car­ tagine che, insieme ai vari tiranni greci nelle singole città (il più celebre di questi fu Dionisio di Siracusa), vi mantenne il potere fino al III secolo a.C. Finalmente, nel 241, in seguito alla prima guerra punica, che tinse di rosso tutta l’isola, la Sicilia diventò una pro­ vincia romana. Durante la repubblica i romani trattarono l ’isola con scarso rispetto. Il mostruoso complesso di inferiorità a cui andavano sempre soggetti quando si trovarono di fronte alla cultura greca portò a nuove distruzioni ed a uno sfruttamento in grande scala. Alcune città greche riuscirono a mantenere la loro indipendenza,

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ma su gran parte delFisola la fiamma della libertà si era quasi spenta e gli schiavi, a gruppi, lavoravano i nudi campi, seminando e raccogliendo grano per Roma. Di tanto in tanto lo scoppiare di qualche rivolta più estesa tra gli schiavi, o qualche grosso scandalo, come quello di Verre - stigmatizzato da Cicerone nelle sue celebri orazioni - getta un raggio di luce livida, seppur fugace, sulle con­ dizioni delFisola ma, in linea di massima, durante questo periodo la Sicilia sopportò in silenzio le sue miserie. Con Favvento del­ l ’Impero la situazione migliorò alquanto; Adriano, infaticabile viaggiatore, visitò la Sicilia nel 126 d.C. e sali sulFEtna; ma all’isola non fu mai concesso altro riconoscimento che quello di essere il maggior granaio di Roma. Considerata unicamente in questa luce, non furono mai fatti seri tentativi per imporvi la civiltà romana e, ad eccezione di un certo influsso di colonizzatori di lingua latina, rimase essenzialmente greca sia per lingua che per mentalità. Alla metà del quinto secolo l’Impero romano d’Occidente era sull’orlo del disfacimento ed un numero sempre piu grande di provincie e di colonie sfuggivano al suo controllo. Nel 440 d.C. la Sicilia cadde preda dei vandali i quali, poco dopo, con un trattato, la consegnarono agli ostrogoti; per un certo tempo l’isola fu gover­ nata da conti goti. I siciliani venivano trattati con benevolenza, ma conservarono sempre sentimenti di astio verso i loro padroni bar­ bari. Accolsero quindi, nel 535, con manifestazioni di giubilo, le fcrze di « liberazione » dell’imperatore Giustiniano. I goti si riti­ rarono senza opporre resistenza, ovunque, ad eccezione di Panormus - l’odierna Palermo, che a quel tempo era un piccolo porto di secondaria importanza.3 Qui, il governatore locale tentò la resi­ stenza, ma Belisario, il più brillante tra i generali di Giustiniano, diede ordine alla flotta bizantina di entrare nel porto, e tanto si avvicinò che gli alberi delle navi sovrastavano le mura della città. Ordinò quindi che le scialuppe cariche di soldati venissero issate all’altezza dei pennoni da dove potevano tirare in basso, sui difen­ sori. I goti si arresero. La Sicilia era di nuovo una provincia dell’Impero. Ad un certo 3 Malgrado la sua magnifica posizione geografica, Palermo divenne me­ tropoli solo durante Foccupazione saracena. Questo spiega perché la città non vanta nessuna antichità classica - templi, teatri, neppure rovine - della stessa importanza di quelli che si trovano in altre località delFisola. Quasi uniche eccezioni sono il meraviglioso pavimento musivo di Orfeo, e un altro che rappresenta le Quattro Stagioni, che ora si possono ammirare al Museo Nazionale.

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momento sembrò che sarebbe diventata qualcosa di assai più im­ portante. Attorno alla metà del settimo secolo, l’imperatore bizan­ tino Costante II, comprensibilmente preoccupato per l ’avvenire delle sue provincie occidentali nel turbinoso sorgere della potenza islamica, giunse alla grave decisione di spostare il baricentro del­ l ’Impero verso occidente e quindi di trasferire anche la sua capi­ tale. Roma sarebbe dovuta essere la scelta ovvia; ma, dopo una deludente sosta di dodici giorni nel 663 - fu il primo imperatore a rimetter piede nella città-madre, dopo trecent’anni - Costante rinunziò all’idea e si stabili invece a Siracusa dove l’atmosfera grecizzante meglio gli si confaceva. Sarebbe affascinante conget­ turare quale avrebbe potuto essere la storia d’Europa se la capitale dell’Impero fosse rimasta in Sicilia, ma cosi non fu; i funzionari di palazzo ed i cortigiani non potevano rassegnarsi all’idea del tra­ sferimento; cinque anni dopo uno di questi, Andrea figlio di Troilo, colto da un accesso di cupa nostalgia, mentre Costante prendeva il bagno pensò bene di assassinarlo facendogli cadere in testa un pe­ sante vaso di metallo contenente il sapone; al colpo l’imperatore tramortì e cadde riverso nella vasca dove mori per soffocamento. G li arabi stavano ora dirigendo la loro più violenta offensiva verso l’Asia Minore e verso la stessa Costantinopoli e quindi il figlio e successore di Costante, Costantino IV il Barbuto, non aveva altra scelta che fare immediato ritorno sulle rive del Bosforo. La Sicilia conobbe un nuovo periodo di pace. La pace si protrasse, più o meno, per tutto l’ottavo secolo du­ rante il quale la Sicilia, come la Calabria, divenne luogo di rifugio per i profughi che fuggivano da quel calvinism e anticipé,4 che fu il movimento iconoclasta a Costantinopoli; ma nel IX secolo la pace fu infranta. I musulmani avevano atteso abbastanza. Erano ormai dilagati lungo tutta la costa settentrionale dell’Africa ed avevano già da tempo incominciato a molestare l’isola con incur­ sioni sporadiche. Nell’827 si presentò loro l ’occasione per occuparla definitivamente. Il governatore bizantino, Eufemio, avendo sedotto una monaca, fu rimosso dalla carica che ricopriva. Per nulla inti­ midito, capeggiò una rivolta proclamandosi imperatore e invocando l ’aiuto degli arabi. Questi sbarcarono in gran numero, si trincerarono saldamente nell’isola, mostrando indifferenza per la sorte di Eufe­ mio (che di li a poco mori di morte violenta); tre anni dopo, gli 4 L ’espressione è del Lenormant.

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arabi presero d’assalto Palermo e ne fecero la loro capitale. In seguito i progressi furono più lenti; Messina cedette nell’843 e Si­ racusa si arrese solo nell’878, dopo un lungo ed arduo assedio durante il quale i difensori furono ridotti al cannibalismo. Dopo la perdita di queste due città, sembra che i bizantini si riconoscessero sconfitti. Qualche avamposto isolato, situato nella parte orientale dell’isola, resistette ancora per un poco - l’ultimo, quello di Ro­ mena, tenne duro fino alla metà del X secolo - ma in un giorno di giugno, in cui lo stendardo del profeta sventolò su Siracusa, la Sicilia entrò, di fatto, a far parte del mondo musulmano. Terminate le guerre di conquista e ristabilitosi l’ordine nel pae­ se, la vita riprese a scorrere in modo abbastanza piacevole per tutte le comunità cristiane. A queste, nella maggioranza dei casi, era con­ cessa ampia libertà dietro pagamento di un tributo annuo, che molti certamente avranno preferito all’obbligo del servizio militare al quale andavano soggetti sotto il dominio di Bisanzio; i saraceni mostravano di avere, come è sempre avvenuto nel corso della loro storia, una tolleranza religiosa che permetteva alle chiese ed ai monasteri, come alla lunga tradizione di cultura ellenistica, di pro­ sperare e fiorire come mai prima.5 Anche sotto altri aspetti la Si­ cilia trasse beneficio dalla presenza dei suoi conquistatori. Gli arabi introdussero un nuovo sistema di agricoltura basato su innovazioni quali le coltúre a terrazzo e sistemi di irrigazione mediante acque­ dotti a sifone. Portarono pure nell’isola il cotone, il papiro, gli agrumi, la palma dattifera ed una quantità sufficiente di canna da zucchero che rese possibile, nel giro di pochi anni, una fiorente attività di esportazione. Sotto il dominio di Bisanzio, la Sicilia non aveva mai avuto un ruolo importante nel commercio europeo, ma dopo la conquista saracena ben presto divenne uno dei maggiori centri di scambi commerciali del Mediterraneo, e mercanti cristiani, musulmani ed ebrei affollavano i bazar di Palermo. Eppure, tra i molti benefici che la Sicilia ricevette dai suoi con­ 5 Verso la fine del secolo X , san Nilo, il celebre abate calabrese, inviò airemiro di Palermo una somma in denaro con la quale sperava di riscattare tre dei suoi monaci catturati dai pirati saraceni. In appoggio alla sua richiesta indirizzò una lettera al primo notaio dell'emiro, che era cristiano; certo non si sarà aspettato la cordiale risposta che ebbe. L'emiro liberò i tre monaci e rispedì la somma del riscatto accompagnandola con una lettera nella quale diceva che avrebbe concesso al monastero il diritto d'immunità dalle incur­ sioni se l'abate gliela avesse richiesta. Poi invitò san Nilo a stabilirsi in Sicilia, promettendogli che gli sarebbero stati resi tutti gli onori e vi avrebbe trovato tutta la venerazione che gli spettava.

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quistatori arabi, non vi era quello della stabilità. Con l’indebolirsi dei legami di fedeltà che, in un primo tempo, univano l ’emiro di Palermo e gli altri capi arabi al califfato dell’Africa settentrionale, gii emiri stessi persero la loro forza coesiva; divennero sempre più ostili gli uni agli altri e cosi l ’isola si trovò una volta ancora ad essere campo di battaglia delle varie fazioni in guerra tra loro. Fu questo continuo declino politico che culminò nell’invasione degli ziriti al comando di Abdullah, di cui è stata fatta menzione sopra, che nel 1038 fece giungere i greci - e i loro alleati normanni in Sicilia. Verso la fine dell’estate di quell’anno, l’esercito greco sbarcò in Sicilia; in un primo tempo travolse ogni resistenza. I saraceni, divisi tra loro, per quanto valorosamente combattessero, non riusci­ rono ad arginare la marea. Messina cedette quasi subito e dopo aspri combattimenti fu conquistata anche Rometta, fortezza chiave che controllava il passo che univa Messina alla strada lungo la costa settentrionale che conduceva a Palermo. Della seconda fase della campagna sappiamo poco - i cronisti, o non ne parlano, o sono estremamente vaghi in proposito.6 Sembra, tuttavia, che i greci avanzassero lentamente, ma ineluttabilmente in direzione di Sira­ cusa dove, nel 1040, troviamo Maniace e le sue truppe che cingono d’assedio la città. La guarnigione musulmana resistette ad oltranza e tenne a bada gli assalitori il tempo necessario per permettere ad Abdullah di radunare forze di soccorso nelle montagne dietro Sira­ cusa, con l ’intento di attaccare di sorpresa la retroguardia di Ma­ niace. Ai greci giunse notizia di ciò appena in tempo per permet­ tere a Maniace di far fare una rapida conversione alle sue truppe, cogliendo di sorpresa Abdullah e i suoi uomini nei pressi di Troina, dove sferrò immediatamente l’attacco. La sconfitta fu totale, i mu­ sulmani si dettero alla fuga in gran disordine; la guarnigione di Siracusa, avendo perso ormai ogni speranza di ricevere soccorsi dal­ l’esterno, si arrese senza indugio. La popolazione greca, esultante, 6 Una delle poche testimonianze rimaste è la chiesa abbaziale di Santa Maria di Maniace, vicino a Maletto, costruita, nel luogo dove Maniace riportò una vittoria, dalla locale popolazione greca poco dopo la battaglia; ampliata e restaurata dal conte Ruggero I e dalla contessa Adelaide verso la fine del secolo. Questa è la chiesa attorno alla quale, circa il 1170, la regina Marghe­ rita doveva fondare la grande e ricca abbazia benedettina di Maniace, ultima delle grandi fondazioni normanne in Sicilia.

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indisse subito grandi funzioni di ringraziamento e trasse dai nascon­ digli le piu preziose reliquie ed altri oggetti sacri, per rendere il maggiore onore possibile al suo glorioso liberatore; non sarà, però, rimasta troppo soddisfatta quando Maniace fece riesumare dalla tomba il corpo di santa Lucia e, aprendo la bara e trovandola ancora « fresca, intatta e profumata come il giorno in cui ve l ’avevano deposta! » - come informa Amato - la inviò, con i suoi compli­ menti, all’imperatore. È difficile stabilire fino a che punto questo successo iniziale sia da attribuirsi alle gesta del contingente normanno delPesercito di Maniace. I cronisti normanni, che sono la fonte piu ricca di infor­ mazioni, pongono in rilievo il valore dei loro compatrioti a tal punto, che si direbbe che i greci non fecero altro che raccogliere il bottino, una volta terminata la battaglia. Non vi è dubbio che i normanni combatterono bene e strenuamente; e fu durante l’as­ sedio di Siracusa che Guglielmo di Altavilla, scorgendo durante una sortita il formidabile emiro della città alla testa delle sue truppe, gli si scagliò contro, lo disarcionò e lo lasciò morto sul campo. Per questo fatto d’armi egli fu da allora in poi noto come « Braccio di Ferro »; la gloria di cui si ricopri durante l’assedio di Siracusa doveva rivelarglisi assai utile al suo ritorno sul con­ tinente. Eppure, fin qui, il merito maggiore del successo della spedizione va attribuito a Maniace. Quella che poteva essere una disastrosa sconfitta, se fosse riuscita la manovra di Abdullah, fu mutata in una strepitosa vittoria dalla pronta intelligenza e dalla rapida ed ener­ gica capacità di comando di cui dette prova il generale greco. Du­ rante tutta la campagna, ad eccezione forse dell’episodio di Ro­ mena, Maniace aveva subito lievi perdite, ed in meno di due anni aveva riconquistato alla cristianità la parte meridionale dell’isola.7 Fu una vera tragedia, non solo per lui, ma per tutto l’Impero bizan­ tino, che proprio allora cadesse in disgrazia e venisse richiamato a Costantinopoli. La demoralizzazione delle forze di Bisanzio ed il loro collasso dopo la vittoria di Siracusa furono cosi improvvisi e cosi totali, che ben si può capire che i saraceni li attribuissero ad un intervento 7 II castello di Maniace, che ora sorge nelFestremo lembo meridionale della penisola di Siracusa, risale. solo al tredicesimo secolo. Ma pur non essendo in alcun modo collegato con il grande Giorgio, rimane sempre a magnifico ricordo del suo nome.

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di Allah in loro favore. Tutto sembrò andare alla rovescia. E cosi, come gli si attribuisce il merito della vittoria, ora bisogna attribuire, almeno in parte, gli insuccessi alla personalità di Maniace. Pure essendo un magnifico generale, non doveva essere, un collega co­ modo. Non aveva mai fatto mistero del disprezzo che provava verso Stefano e, quando venne a sapere che Abdullah, dopo la sconfitta di Troina, era riuscito a fuggire ed a mettersi in salvo via mare, forzando il blocco navale, perdette ogni controllo di sé, al punto di mettere le mani addosso all’ammiraglio. Stefano, per cui l ’inso­ lito fatto, date le proporzioni gigantesche del suo assalitore, deve essere stato non solo umiliante, ma bensì estremamente allarmante, decise di vendicarsi ad ogni costo ed inviò un messaggio urgente all’imperiale cognato, accusando Maniace di tradimento. Maniace fu richiamato nella capitale dove, senza dargli la possibilità di discolparsi, fu senza tante cerimonie messo in prigione. Il suo suc­ cessore al comando dell’esercito greco, un eunuco di nome Basilio, si dimostrò altrettanto incapace quanto Stefano; le truppe greche perdettero il mordente ed il loro morale cedette; incominciò la ritirata. Nel frattempo, i normanni disgustati avevano abbandonato il campo. Anche di questo, la colpa è probabilmente da attribuirsi a Maniace. Molti tra i generali più estrosi si sono rivelati insoppor­ tabili a battaglia terminata, e l’innegabile tendenza alla violenza che caratterizzava Maniace non poteva che metterlo nei guai con i suoi subordinati. Poco dopo la conquista di Siracusa sorse una discussione circa la distribuzione del bottino, poiché i normanni ritenevano che non fosse stata loro assegnata la parte cui avevano diritto. Questo poteva essere vero; una città greca, liberata dai greci, non offriva certamente occasione per saccheggi e rapine, ed è assai dubbio che questi mercenari di professione avessero rice­ vuto molte ricompense per i due anni di continuata partecipazione alle campagne greche. Ad ogni modo, i normanni persuasero il capo del contingente salernitano, un longobardo chiamato Arduino che parlava il greco, a protestare a nome loro con Maniace. La storia che ci narra Amato, ossia che Arduino stesso si fosse rifiu­ tato di cedere un cavallo arabo, da lui catturato, al comandante supremo, può essere e non essere vera; se lo è, può aver contri­ buito a far divampare ancor più l’ira del generale. Ciò che è certo è che Arduino fu denudato e fustigato per la sua presunzione e che, in seguito a questo, lui, i normanni ed i loro compagni saler-

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nitani abbandonarono immediatamente Tesercito greco e se ne tor­ narono sul continente, conducendo con loro anche la brigata scan­ dinava. Con la partenza dei loro migliori guerrieri, seguita da quella deirunico generale valido, poche erano le speranze che rimanevano ai greci. Ma doveva succedere di peggio. Da molti anni il malcon­ tento serpeggiava nella Puglia. Il giovane Argirio, figlio di Melo, era da poco tornato in Italia dopo aver subito lunghi anni di pri­ gionia a Costantinopoli; aveva ereditato lo spirito ribelle del padre; non ebbe quindi difficoltà, specie dopo che gli sgherri bizantini avevano iniziato la campagna di reclutamento obbligatorio per la spedizione siciliana, a sollevare gli italici ed i longobardi della Puglia contro i loro padroni di Bisanzio. Già nel 1038 alcuni fun­ zionari greci erano stati assassinati; nel 1039 la situazione si era fatta rovente; e nel 1040, Argirio diede il segnale della rivolta. Il catapano fu assassinato e tutte le milizie locali, lungo la costa della Puglia, insorsero; Tinsurrezione raggiunse proporzioni tali che le guarnigioni greche, molto indebolite, non poterono arginarla.

CAPITOLO QUINTO

L ’INSURREZION E Et lo matin li Normant s’en aloient solachant par li camp, et par U jardin lo menoit à Vénoze laquelle estoit de près de Melfe, liez et joians sur lor chevaux, et vont corrant ça et là: et li citadin de la cité virent cil chevalier liquel non cognoissoient, si s*en merveilloient et orent paour. Et U Normant a une proie grandissime et sanz nulle brigue la menoient ad M elfe... Et d'iluec s'en vont à la belle Puille, et celles choses qui lor plaisoit prenoient, et celles qui ne lor plaisoient leissoient... Il firent lor conte Guillerme fil de Tancrède, hom e vaillantissime en armes et aorné de toutes bonnes costumes, et beauz et gentil et jovène.1 A m at o , II

Quando la notizia dell’insurrezione giunse a Costantinopoli, l'imperatore Michele stava morendo. A causa degli attacchi di epi­ lessia, che ora si verificavano assai piu spesso, il trono aveva do­ vuto essere disposto in modo da poter venire tempestivamente celato dietro grandi tende color porpora, in caso di un insorgere improv­ viso del male; inoltre, le restanti energie dell’imperatore, in rapido declino, erano tutte impegnate in pratiche ascetiche ed in opere di carità - in particolare, una casa per accogliere le prostitute ravve­ dute, che egli aveva fondato nella capitale. Il fratello, l’eunuco Orfanotrofos, non perse tempo tuttavia; scelse quale nuovo catapaño un generale giovane e capace, Michele Doukeianos, e lo inviò in Puglia con l’incarico di ristabilirvi l’ordine ad ogni costo. Dou­ keianos si mise subito in viaggio e, raccogliendo attorno a sé tutti gli uomini disponibili, riuscì verso la fine del 1040 a smorzare con­ siderevolmente, ma non certo ad estinguere, la fiamma della rivolta. Era un uomo energico, immaginoso e, se non avesse commesso un errore, avrebbe potuto facilmente far rifiorire le fortune bizantine 1

« E alla mattina i normanni, cavalcando allegramente attraverso campi

e giardini, giunsero a Venosa, che si trova vicino a Melfi, lieti e felici sui

loro cavalli, scorrazzando qua e là; gli abitanti della città, vedendo questi cavalieri a loro ignoti, se ne meravigliarono e ne ebbero paura. E i normanni se ne tornarono con un immenso bottino, senza recare nessun danno a Melfi... e da li, se ne tornarono nella bellissima Puglia e ciò che a loro piaceva pren­ devano, e ciò che non piaceva loro, lasciavano... « E fecero loro conte Guglielmo figlio di Tancredi, uomo valentissimo in armi e dotato di tutte le buone qualità; bello, nobile e giovane. »

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in Italia. Con quel solo errore, però, le compromise irrimedia­ bilmente. Poco dopo il suo arrivo, il nuovo catapano dovette recarsi per una visita affrettata in Sicilia - presumibilmente per sollecitare la partenza degli ultimi reparti dell’esercito greco la cui presenza in Puglia era una necessità urgente. Durante il viaggio di ritorno forse sbarcò a Salerno - s’incontrò con Arduino, che era ritornato con i normanni alla corte di Guaimaro. Sembra che sin dalPinizio tra i due siano corsi ottimi rapporti. Arduino parlava perfettamente il greco; era un soldato di grande esperienza e poteva contare su un gran numero di normanni che lo avrebbero seguito in guerra; la sua recente lite con Maniace, caduto in disgrazia, probabilmente contava a suo favore. Sta di fatto che non passò molto tempo che Arduino, pur essendo un longobardo, accettò l’offerta fattagli dal catapano di diventare il topoterites, o capo militare, di Melfi, una delle principali città sulle colline lungo la frontiera bizantina. Fu questa una grave imprudenza da parte di Doukeianos? La sua credulità fu certo causa della sua rovina, ma non bisogna con­ dannarlo troppo affrettatamente. A Melfi era necessario un coman­ dante energico, e di comandanti energici tra i greci in Italia ve ne erano molto pochi. Arduino poteva vantare un bellissimo curri­ culum e in passato aveva combattuto valorosamente per la causa di Bisanzio. La sua partenza dalla Sicilia non poteva essere consi­ derata una colpa - continuare a combattere agli ordini di Maniace sarebbe stato impossibile dopo quanto era accaduto a Siracusa. Per lingua e per cultura sembrava più greco dei greci e, pur essendo di origine longobarda, ciò non implicava necessariamente una man­ canza di fedeltà; molti longobardi avevano ricoperto cariche impor­ tanti nella Capitanata. Inoltre, il bisogno era urgente e Doukeianos non poteva guardare troppo per il sottile. Non immaginava certo sino a qual punto sarebbe stato tradito. Quali fossero i moventi di Arduino è difficile dire. L ’ambizione fu indubbiamente uno dei principali. Era un longobardo, e i longo­ bardi erano insorti. Gli si presentò l’occasione ed egli si trovò improvvisamente a disporre di mezzi per approfittarne. Trovarsi alla testa di trecento intrepidi cavalieri normanni nel corso di una campagna vittoriosa doveva essere un’esperienza inebriante: sapeva bene che quegli stessi cavalieri, se vi avessero ravvisato il loro tor­ naconto, sarebbero stati pronti a gettarsi nuovamente nella mischia ai suoi ordini. Il suo appoggio alla causa longobarda, in un momento

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simile, avrebbe potuto far pendere la bilancia a favore dell’indipendenza della sua gente. Inoltre, era ancora cocente il ricordo di come era stato trattato da Maniace e ardeva di vendicarsi dei greci. Quindi, appena giunto a Melfi cominciò segretamente a sovvertire il popolo. Amato scrive, tutto preso di meraviglia per la tecnica da lui adoperata: Imbandiva di frequente festini ai quali invitava sia i nobili, sia gli umili, offrendo loro cibi squisiti; e, quando si erano saziati, parlava loro con parole soavi ... fingendo di rammaricarsi per i cattivi tratta­ menti che dovevano subire per il dominio dei greci, e per le offese che questi facevano alle loro donne... Ah, quale sottile astuzia nel togliere signoria ai signori che gli avevano fatto offesa e muovere il popolo contro di loro!2 Nel marzo del 1041, non appena fu sicuro di trovare appoggio all’interno della città, Arduino si recò segretamente ad Aversa. Qui, con la celata connivenza di Rainulfo, ritrovò i suoi trecento ga­ gliardi normanni, radunati sotto dodici capi tra i quali erano Gu­ glielmo e Drogone di Altavilla. La proposta che egli fece era sem­ plice: avrebbe concesso loro Melfi per quartier generale, e da li, i longobardi ed i normanni insieme avrebbero cacciato i greci una volta per sempre dall’Italia meridionale, dividendosi poi tra loro, in parti uguali, il territorio conquistato. Non ci volle molto a per­ suadere i normanni, e la perorazione di Arduino, se il resoconto di Amato è esatto, fu opera veramente magistrale; appellandosi prima al loro orgoglio, poi alle loro ambizioni, suscitando il loro disprezzo per il nemico e, finalmente, risvegliando direttamente la loro avidità: Occupate ancora questa terra che vi è stata donata, eppure vivete come topi, ai margini di essa... è ora di stendere una mano potente e nel far questo io vi guiderò. Seguitemi; vi precederò e voi mi verrete dietro; vi dirò perché vi precederò, perché sappiate che io vi condurrò contro uomini che sono come donne e che vivono in territori ricchi e vasti.3 2 «c Faisoit sovent convit , li gentilh om e et li no n gentil envitoit a son convit, et lor denoit délicioses viandez; et puiz quant avoient m en gié parloit d e am icables paroles... et feingnoit q u ’il estoit dolent d e la grev a n ce q u ’il souffroient d e la seignorie d e li G rex, et l’injure q u ’il faisoient à lor m oilliers et à lor fam es... H a ! quel sage soutillesces p o u r lev er la seignorie à U seign or qui lui firent injure, et ém u t lo p u p le contre eaux! » (II, 16.) 3 « V o u s en co ire estes en ceste terre q u i vouz a été d o n ée et vouz i

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Il topoterites aveva abbandonato il suo posto, protetto dalle ombre della notte, solo; vi ritornò con un esercito. Gli abitanti di Melfi, quando lo scorsero, sulle prime esitarono; ma Arduino, con la sua parola sempre facile, li persuase che questo era il mezzo per raggiungere la libertà. Aprirono quindi le porte della città. Fu una decisione grave; da quel momento Melfi divenne la testa di ponte della rivolta. Già potentemente fortificata dai greci ed ora quasi inespugnabile, arroccata sulle pendici degli Appennini, costi­ tuiva un’ideale roccaforte montana. Da li, i cavalieri normanni, sempre briganti in fondo all’anima, potevano diramarsi in ogni direzione, compiendo incursioni e rapine a loro agio; ad essa pote­ vano far ritorno con il bottino fiduciosi di trovarvi sicuro rifugio ed immunità da ogni rappresaglia.4 Dopo pochi giorni cadde Venosa, poi Lavello, poi Ascoli. Il catapano, amaramente conscio della sua responsabilità per quanto era accaduto - benché forse ancora non si rendesse conto di tutta l’immensità della catastrofe - si mosse rapidamente da Bari, por­ tando seco tutte le forze che aveva potuto raccogliere e il 16 marzo era in vista del grosso dell’esercito normanno, ora rafforzato da un gran numero di longobardi, schierato lungo le rive dell’Olivento, piccolo corso d’acqua che scorre poco sotto Venosa. Intimò l’alt e inviò, oltre il fiume, un messo ai normanni, offrendo loro la scelta: o si ritiravano pacificamente dal territorio bizantino, o sarebbero dovuti scendere in campo contro il suo esercito l’indomani I normanni erano abituati a simili intimazioni e sapevano come rispondervi. Durante l’ambasceria, uno dei dodici capi, Ugo Tuboeuf, si era avvicinato al cavallo del messo e lo stava accarezzando esprimendo la sua ammirazione per la bella bestia; al momento in cui ebbe finito di parlare, il normanno voltandosi improvvisa­ mente sferrò col pugno nudo un potente colpo alla testa dello sfor­ tunato animale, colpendolo tra gli occhi e facendolo cadere tra­ mortito al suolo. A questo punto, secondo il Malaterra, il messo preso dal timor panico svenne; ma i normanni, avendogli con qualhabitez co m m e la sorice qui est en lo partus... en tre il convient q u e faille esten d e vostre main fo rte et dont je vouz m enerai; venez apres m oi , et je irai devant et vous apres; et vouz dirai p o urqu oi je voiz devant, q u e sachiez q u e je vouz m en era i a h o m es co m m e fam es, liquel dem oren t en m olt ricch e et espaciouse terre » (II, 17.)

4 Sulla collina di Melfi sono ancora visibili le rovine del castello nor­ manno che però fu largamente ricostruito nel 1281 e gravemente danneggiato dal terremoto del 1851, per cui ben poco resta della costruzione primitiva.

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che difficoltà fatto riprendere i sensi, gli diedero un altro cavallo, piu bello del primo, e lo rimandarono al catapano per dirgli che erano pronti ad affrontarlo. La battaglia fu combattuta la mattina seguente e si concluse con la totale sconfitta dei greci. Molti di questi rimasero uccisi, tra i quali quasi tutto il contingente dei vareghi che Doukeianos aveva portato con sé da Bari; molti altri perirono annegati tentando di attraversare POlivento in piena. Al catapano non restò che ritirarsi con i resti del suo esercito; sarebbe stato necessario trovare altre reclute prima di affrontare una seconda volta i normanni. Di nuovo gli agenti del catapano effettuarono scorrerie in tutte le città ed i villaggi della Puglia, arruolando forzatamente i citta­ dini. Si muovevano rapidamente e ai primi di maggio avevano por­ tato a termine il loro compito. Questa volta fu il fiume Ofanto che vide di fronte i due eserciti - a Montemaggiore, su quello stesso campo di Canne che i greci, i longobardi e i normanni avevano intriso del loro sangue ventitré anni prima. Benché la disposizione delle forze fosse simile, il risultato fu opposto a quello del 1018. Anche questa volta i normanni erano inferiori per numero ma furono loro, questa volta, a spazzare il nemico dal campo. Loro generale era quel Guglielmo d'Altavilla soprannominato Braccio di Ferro. Colpito da altissima febbre, aveva deciso di non prendere parte al combattimento, ma mentre osservava Pandamente della battaglia da una altura vicina, la tentazione improvvisamente di­ venne troppo forte. Balzato fuori dalla lettiga, discese a passo di carica il pendio, si gettò nella mischia e guidò i suoi uomini alla vittoria. L'annunzio di queste due gravi sconfitte causò viva preoccupa­ zione a Costantinopoli. Doukeianos fu trasferito in Sicilia, dove gli venne affidato Pingrato compito di salvare quanto rimaneva delle forze di spedizione; in Puglia gli succedette un altro Boioannes, figlio del grande Basilio. Se erano state nutrite speranze che Pabilità di questo giovane avrebbe potuto rivaleggiare con quella del grande genitore, queste furono presto deluse. Il giovane catapano, che non aveva condotto con sé forze fresche, decise, molto sag­ giamente, di evitare di impegnarsi, finché gli fosse stato possibile, in una battaglia campale con i normanni e di tentare di assediare questi e i longobardi a Melfi; ma costoro lo prevennero. Riversan­ dosi fuori della città prima che Pesercito greco potesse raggiun­ gerla, si accamparono vicino ad essa, a Monte Siricolo, vicino a

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Montepeloso. Qui, il 3 settembre del 1041, inflissero una terza sconfitta ai bizantini catturando il catapano. Boioannes venne con­ segnato ad Atenulfo, fratello del principe di Benevento, che da poco era stato investito del comando titolare deirinsurrezione. Le­ gato in sella al suo cavallo, il catapano fu condotto per le vie della città in segno di scherno. Intanto l’effetto delle tre vittorie longo­ barde fu quello di minare il prestigio di Bisanzio in Puglia; Bari, Monopoli, Giovinazzo, Matera, tutte si schierarono apertamente a favore degli insorti. La rivolta si estendeva rapidamente per ogni dove. Ecco però che incominciarono a sorgere dissidi. I longobardi della Puglia non avevano nessuna intenzione di sottostare ad Ar­ duino né di accettare per capo, nemmeno come « re travicello », l’inetto Atenulfo di Benevento, nutrendo fondati, sospetti che am­ bedue fossero, inconsciamente, strumento dei normanni. In questo avevano l’appoggio di Guaimaro che dal 1038 era principe di Ca­ pua oltre che di Salerno e che, essendo di gran lunga il più potente tra i principi longobardi, si sentiva profondamente offeso dalla scelta di Atenulfo come capo degli insorti. Una scissione assai simile si era verificata pure tra i normanni. La piccola colonia che si era stabilita a Troia venti anni prima era ora cresciuta e diven­ tata potente, come era accaduto per quella di Aversa; i normanni di Troia si ribellavano all’idea che un’accozzaglia di predoni par­ venus di Melfi dovesse dettar loro legge. Questi normanni di Puglia si unirono quindi ai loro vicini longobardi, chiedendo di avere per capo il giovane Argirio che, dopo tutto, era stato il primo istigatore della rivolta e che, come figlio di Melo, era piu qualificato, per sangue e per tradizione, ad assumere il comando, di qualsiasi principotto beneventano. Invano Arduino tentò di dimostrare che era stato lui con i suoi normanni e non quelli della Puglia a sostenere tutto il peso dei combattimenti; fu Atenulfo stesso a fargli man­ care la terra sotto i piedi, poiché si scopri che egli aveva ricon­ segnato Boioannes ai greci, tenendo per sé tutto il denaro del ri­ scatto. Essendo caduto in disgrazia il suo candidato, la fazione di Melfi capitolò. Nel febbraio del 1042 Argirio venne solennemente proclamato capo dai normanni e dai longobardi insieme, nella chiesa di Sant’Apollinare a Bari. Questa rivalità tra Argirio e Atenulfo dimostra chiaramente, nonostante ciò che possono lasciar trasparire i cronisti normanni, che ancora non si poteva parlare di un’aperta presa di potere da

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parte dei normanni; si trattava in questo caso, essenzialmente, di una rivolta dei longobardi contro Bisanzio, e come tale veniva generalmente considerata. La possibilità di eleggere un capo nor­ manno non era balenata in mente a nessuno, perché i normanni erano ancora, almeno in teoria, dei mercenari che combattevano per ottenere si dei territori in compenso per servizi resi, ma non certo un dominio politico. Eppure, in verità, le cose non erano cosi semplici. Sin da circa il 1040, ci si rende conto che l’atmosfera va lentamente mutandosi. Il prestigio normanno ora deriva da qualcosa di più profondo che non la semplice prodezza guerriera; l'opinione dei normanni viene richiesta su questioni che nulla hanno a che vedere con la strategia e l'arte della guerra, mentre essi stessi prendono decisioni che non interessano solo la loro posizione ma l'avvenire della penisola intera. Non si mette piu in dubbio il loro diritto a soggiornare in Italia, e il loro atteggiamento verso la terra ha assunto un carattere di possesso che prima non aveva. Il futuro già si delinea sempre più chiaramente innanzi a loro e si direbbe che sono solo in attesa di un capo capace di cristallizzare le loro aspirazioni e metterle in atto. Quel capo non doveva tardare a venire. Le liti tra normanni e longobardi erano nulla al confronto di ciò che stava accadendo a Costantinopoli. Michele IV mori il 10 dicembre del 1041. L'Orfanotrofos era pronto. Più che mai deciso a che la sua famiglia dovesse continuare a sedere sul trono impe­ riale, aveva indotto Zoe ad adottare un suo nipote - figlio dell'am­ miraglio Stefano - come erede presunto. Questa mossa tuttavia provocò la sua rovina. Michele V, soprannominato Calafate - figlio del calafato - a ricordo dell'antico mestiere del padre, aveva appena assunto il potere quando condannò lo zio, al quale doveva tutto, all'esilio in un paese lontano. Poche settimane dopo la stessa sorte toccò a Zoe; alla vecchia imperatrice fu raso il capo e fu inviata a finire i suoi giorni in un'isola del Mare di Marinara. La partenza di Orfanotrofos non fu lamentata da nessuno; Zoe però era impe­ ratrice, l'unta del Signore, appartenente alla grande stirpe dei Macedoni; la notizia che era stata mandata in esilio provocò violente sommosse nella capitale. Quando Michele V si presentò alla tribuna imperiale all’Ippodromo, fu fatto segno ad una fitta sassaiola ed al lancio di frecce; poche ore dopo la folla si riversava sul palazzo imperiale. Zoe fu ricondotta in tutta fretta alla capitale

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e indotta a mostrarsi alla folla al balcone, ma era troppo tardi. 1 cittadini appoggiati ora dalla Chiesa e dairaristocrazia si rifiuta­ vano di sottostare più oltre al malgoverno dei Paflagoni, gente ve­ nuta dal nulla. La sorella minore di Zoe, Teodora, che ella aveva obbligato a prendere il velo e che da molti anni ormai aveva con­ dotto una vita da reclusa, fu trascinata a viva forza dal suo con­ vento alla cattedrale di Santa Sofia dove venne acclamata impera­ trice; Michele, al contrario, che si era rifugiato nel monastero dello Studion, fu trascinato sulla pubblica piazza, dove, alla presenza dei suoi sudditi, gli furono strappati gli occhi. E fu cosi che Zoe e Teodora, pur odiandosi cordialmente ed essendo ambedue chiara­ mente inadatte a governare, assunsero insieme il supremo potere suirimpero bizantino. Questo difficile tandem non durò a lungo. Come ebbe in seguito a dire Michele Psello, che la conosceva bene, Zoe sarebbe stata lieta di vedere un mozzo di stalla salire sul trono, pur di non doverlo condividere con la sorella; entro due mesi si gettò con non meno ardore tra le braccia di un terzo marito, Costantino Monocomaco, un piacevole e simpatico donnaiolo al quale, con il titolo di imperatore Costantino IX, la povera Teodora non fu che troppo felice di abbandonare la sua parte di trono. Essendo sparito dalla capitale Tultimo esponente della terribile famiglia degli Orfanotrofos, Maniace venne rimesso in libertà. Tornato di nuovo nelle grazie imperiali fu subito nominato catapano e inviato in Italia a ristabilire la situazione che andava sempre peggiorando. Trascorso appena un mese da quando era stato deposto Michele V, il nuovo catapano sbarcò a Taranto dove scopri che, ad eccezione di Trani, tutta la Puglia a nord di Taranto e Brindisi si era dichiarata per Argirio. Gli orrori di quell’estate del 1042 furono a lungo ricordati nella Puglia. Maniace avanzò su per la costa, magnifico nella sua tre­ menda ira, incendiando città e massacrandone gli abitanti - uomini, donne, vecchi, bambini, religiosi, religiose senza distinzione; alcuni venivano impiccati agli alberi, altri, tra cui molti bambini, sepolti vivi. Monopoli, Matera, Giovinazzo, o quanto ne rimaneva, capi­ tolarono implorando pietà. Con questi sistemi tutta la Capitanata avrebbe potuto essere riconquistata, ma ancora una volta i bizantini furono traditi dalla loro stessa corruzione. Costantino Monocomaco non faceva mistero del suo amore per una donna il cui fratello, Romano Skleros, aveva

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poco prima sedotto la moglie di Maniace. Ne era sorta una rivalità accanita e, non appena salito al trono, fu facile per questo Skleros far richiamare in patria Maniace. Per la seconda volta in poco più di due anni, Maniace era rimasto vittima di un intrigo di palazzo; non aveva però nessuna intenzione di sottomettervisi. Fu lui questa volta a ribellarsi. Rifiutando di riconoscere Costantino, acconsenti a farsi proclamare lui stesso imperatore dal proprio esercito. Giunto in Italia colui che doveva sostituirlo, Maniace lo fece prigioniero, gli fece riempire gli orecchi, il naso e la bocca di sterco e quindi lo torturò a morte; poi, abbandonata a se stessa la Capitanata, attraversò in fretta l’Adriatico - le cui tempeste, secondo Gugliel­ mo di Puglia, egli cercò in un primo tempo di blandire per mezzo di sacrifici umani. Marciando su Tessalonica, incontrò e sconfisse l’esercito imperiale a Ostrovo in Bulgaria ma cadde, ferito a morte, proprio nel momento in cui aveva riportato la vittoria. La sua testa fu portata a Costantinopoli ed esibita, conficcata su una lancia. nell’Ippodromo. Questa, forse, fu una fine non del tutto indegna di una vita gloriosa, burrascosa e sfortunata. Nel frattempo i longobardi, come al solito con l’appoggio dei normanni, avevano opposto una decisa resistenza ed al momento del secondo richiamo di Maniace stavano cingendo d’assedio Trani, l’unica città della Puglia settentrionale che nel corso delle ostilità era rimasta intrepidamente fedele a Bisanzio. Con l’ausilio del loro enorme ariete di legno, il più grande mai visto in Italia e che susci­ tava l’ammirazione di tutti, erano sicuri che presto avrebbero co­ stretto la città ad arrendersi. Ed infatti ciò sarebbe avvenuto se non fosse stato per un terribile ed inaspettato colpo a loro inferto. Ar­ gin o, il capo da loro eletto, figlio del venerato Melo che sembrava essere l’incarnazione stessa del nazionalismo longobardo, passò al nemico. Prima di far questo fece bruciare la grande macchina infer­ nale e ai suoi seguaci di un tempo non rimase che ritirarsi umiliati e sconcertati, abbandonando Trani. È difficile spiegare le cause della defezione di Argirio. È certo che egli si lasciò corrompere dai greci; l’infelice successore di Ma­ niace gli aveva consegnato delle lettere inviategli da Costantino con le quali gli si promettevano grandi ricchezze ed una posizione assai elevata in cambio della sua sottomissione all’Impero. Ma per­ ché accettò tali offerte? Argirio aveva vissuto, aveva combattuto, era stato imprigionato per i suoi ideali; la sua sincerità, la sua inte­ grità non erano mai state messe in dubbio come mai era stato

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messo in dubbio il suo patriottismo. Specie dopo la partenza di Maniace, le probabilità di successo per i longobardi erano ottime e come capo eletto degli insorti avrebbe goduto vantaggi assai mag­ giori di quanto Costantino poteva offrirgli. Forse vi furono altri fattori di cui non siamo a conoscenza; forse, ad esempio, si rese improvvisamente conto che, a lunga scadenza, i normanni avreb­ bero costituito un pericolo assai più grave dei greci per i longo­ bardi. Non ci resta che sperarlo, ed essere contenti che a Melo, che riposava nella sua tomba fastosa nella cattedrale di Bamberga, fosse risparmiato di venire a conoscenza del disonore del figlio. Gli insorti si trovavano ora, ancora una volta, privi di capo. Dei due longobardi che furono scelti in un primo tempo, uno fu scoperto colpevole di loschi affari e l ’altro di grave tradimento e, tra i loro compatrioti demoralizzati, non si trovò nessuno di calibro adatto ad assumere il comando. I normanni, inoltre, stanchi del doppio giuoco dei longobardi, avevano ora deciso di eleggersi un capo supremo tra di loro. Dopo le vittorie riportate a Siracusa, a Montemaggiore e a Montepeloso, la scelta era ovvia - Guglielmo Braccio di Ferro; e cosi nel settembre del 1042, il figlio maggiore di Tancredi venne acclamato all’unanimità capo di tutti i normanni di Puglia, con il titolo di conte. Ma in quei giorni feudali i conti non potevano esistere come signori indipendenti, dovevano far parte di quella continua catena di vassallaggio che univa l’imperatore, per mezzo dei principi, dei duchi, dei baroni minori, agli strati più umili dei contadini. Per Guglielmo fu quindi giuocoforza trovarsi un sovrano feudatario e ne aveva uno a portata di mano. Guaimaro di Salerno che, come abbiamo visto, era piu che pronto ad associarsi agli insorti accolse favorevolmente le proposte fattegli da Guglielmo. Alla fine del 1042, insieme a Rainulfo di Aversa, cavalcò sino a Melfi e li venne acclamato duca di Puglia e di Calabria dai normanni riuniti insie­ me. Come pegno di amicizia Guaimaro concesse in moglie a Gu­ glielmo la nipote, figlia del duca Guido di Sorrento e quindi sparti tra i dodici capi normanni tutte le terre acqu estées et à acqu ester - non solo quelle dei territori già conquistati, ma quelle dei territori che in seguito avrebbero potuto conquistare. Non poteva esserci una più chiara manifestazione di intenzioni - i combattimenti sarebbero dovuti continuare finché l’ultimo greco non fosse stato cacciato dalla penisola. Nel frattempo, a Braccio di Ferro, confermato conte

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di Puglia sotto la sovranità di Guaimaro e autorizzato a fondare nuove baronie man mano che venivano conquistati altri territori, veniva concesso in feudo personale Ascoli; a suo fratello Drogone venne data Venosa, mentre Rainulfo di Aversa, che non era uno dei dodici ma che era troppo potente per essere ignorato, ricevette in feudo Siponto e una parte del Gargano. Melfi rimase invece di proprietà comune, come quartiere generale in Puglia, e come dice Gibbon « la metropoli e la cittadella della repubblica ». L ’Italia meridionale aveva subito un cambiamento radicale. D ’ora in poi sentiamo poco parlare di nazionalismo longobardo. Guaimaro, diventato duca di Puglia, era ora a capo di una nazione tutta sua, il cui territorio era risoluto ad estendere a danno sia dei greci che dei longobardi; mentre nella Puglia « liberata » il potere era detenuto esclusivamente dai normanni che ne avevano avuto il possesso legalmente sancito a Melfi e che non avrebbero ceduto più a nessuno. Essi erano insediati in Puglia ancor più solidamente e in modo più esteso che nella Campania; e dovevano rimanervi. Cosa, possiamo chiederci, era accaduto ad Arduino - colui che aveva condotto i normanni nella Puglia e li aveva stabiliti a Melfi, e piu di ogni altro era responsabile del loro successo? Il suo accordo con i capi, ad Aversa, era stato che- ogni conquista doveva essere divisa in parti uguali tra lui ed essi; ma, delle fonti originali, solo Amato - anche lui con poco convincimento - lascia capire che i normanni mantennero la parola data. Passato questo periodo, nes­ sun altro cronista parla più di Arduino. Forse peri in una delle prime battaglie, vittima della furia di Maniace; forse, come Argirio, si lasciò corrompere dai greci; oppure, cosa più probabile ancora, i normanni, temendo che la sua prolungata presenza potesse creare imbarazzi, lo misero da parte come un vecchio indumento che aveva servito allo scopo ed ora non aveva piu utilità alcuna.

CAPITOLO SESTO

I NUOVI A RRIVATI

Cognomen Guiscardus erat, quia calliditatis Non Cicero tantae fuit, aut versutus Ulysses-1 G u g lielm o

di

P u g l i a , II

Con l’accrescersi della potenza normanna e mentre giungevano In Francia notizie di ripetuti trionfi, il flusso dell’immigrazione era In continuo aumento; in un certo periodo, nell’anno 1046, poco piu di tre anni dopo gli accordi di Melfi, apparvero nellTtalia meridio­ nale, a pochi mesi di distanza Puno dall’altro, due giovani. Tutti e due, in modo diverso, avrebbero raggiunto una posizione eminente; ciascuno doveva fondare una dinastia; e uno era destinato a scuo­ tere le fondamenta stesse della cristianità, a tenere in pugno uno dei papi piu potenti della storia e a far tremare il trono delPImpero d’Occidente come quello d’Oriente, al suono del suo nome. Questi erano Riccardo figlio di Asclettino, che in seguito divenne principe di Capua e Roberto di Altavilla che di li a poco veniva sopranno­ minato il Guiscardo, ossia PAstuto.12 Ambedue questi giovani partirono avvantaggiati rispetto agli altri immigrati. Riccardo era nipote di Rainulfo di Aversa. Suo padre Asclettino, fratello minore di Rainulfo, era stato investito del feudo della contea di Acerenza a Melfi. Il fratello maggiore, che si chiamava anche lui Asclettino, era stato uno dei più brillanti luogotenenti di Rainulfo e alla morte di questi, avvenuta nel 1045, aveva regnato per un brevissimo periodo in Aversa quando dopo pochi mesi mori anche lui. Riccardo era cresciuto in Normandia, ma quando giunse nella penisola con Pimponente seguito di qua­ ranta cavalieri era fiducioso che il futuro gli avrebbe riservato fama e gloria. Le sue speranze n< n andarono deluse. Amato, forse 1 « Guiscardo venne chiamato, perché né Cicerone / né il furbo Ulisse potevano eguagliarlo per l'astuzia. » 2 II soprannome sembra sia stato dato per primo a Roberto dal nipote della moglie, Gherardo di Buonalbergo. La parola, in latino spesso Viscardus, ed in francese arcaico Viscart, proviene dalla stessa radice del vocabolo tede­ sco Wissen e dei vocaboli inglesi Wise e Wisdom; Gibbon lo ricollega più Strettamente con il vocabolo Wiseacre.

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non del tutto dimentico delle generose donazioni fatte in seguito da Riccardo al suo monastero, ce ne ha lasciata una garbata de­ scrizione:

e di ché lieri che

A quest’ep oca giunse R iccard o figlio di A sclettino, bello di form e nobile statu ra, giovane, dal volto fresco e di bellezza radiosa, cosic­ quanti lo vedevano lo am avano; aveva al suo seguito molti cav a­ e popolo. E ra sua abitudine di cavalcare un cavallo tanto piccolo i piedi quasi poggiavano per terra.3

Roberto invece viaggiava solo. Nato nel 1016, sesto dei figli di Tancredi ma primogenito di secondo letto, non poteva permettersi il lusso di un seguito e poteva fidare solo nella generosità dei fratel­ lastri. Fu una disgrazia per lui che Guglielmo Braccio di Ferro morisse più o meno all’epoca del suo arrivo in Italia, ma a Gu­ glielmo succedette come conte di Puglia il fratello Drogone, quindi le prospettive per Roberto si presentavano abbastanza favorevoli. Di fatto, però, come doveva in breve imparare, il suo braccio destro e l’acuta intelligenza dalla quale doveva derivare il soprannome gli sarebbero stati più utili, per raggiungere la meta, di tutte le parentele che poteva vantare. I cronisti delTepoca ci hanno lasciato innumerevoli descrizioni di quest’uomo straordinario, « biondo gigante dagli occhi azzurri, forse il più grande guerriero e il più abile statista del suo tempo ».4 La migliore è quella tramandataci da Anna Comnena il cui padre, Alessio I Comneno, doveva in seguito sedere sul trono di Costanti­ nopoli, proprio in tempo per difenderlo dagli eserciti minacciosi di Roberto. Bisogna tener conto che Anna scriveva molti anni dopo, quando il Guiscardo aveva raggiunto Papcgeo del potere ma non era più giovane. La descrizione che essa ne fa è un miscuglio affa­ scinante del disprezzo di chi è nato nella porpora verso un uomo sorto relativamente dal nulla, dell’odio di una figlia devota per Farcinemico del padre, di ammirazione da parte di una osservatrice intelligente per un grande uomo e di quell’elemento di naturale 3 « En celui temps vint Ricchart fill de Asclitine, bel de form e et de belle estature de seignor, jovène home et clère face et resplendissant de bellesce, liquel estoit amé d e toute persone qui lo véoit; liquel estoit sécute de moult de chevaliers et de pueple. Cestui par industrie chevauchoit un petit cheval, si que petit s’en failloit que U pié ne féroient à terre. » (II, 43.) 4 Citazione da Shorter Cambridge Mediaeval History.

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attrazione sessuale alla quale Anna si mostrò durante tutta la vita spudoratamente suscettibile: Q uesto R oberto era norm anno p er discendenza e di origini insigni­ ficanti; di carattere dinam ico, astuto di m ente, coraggioso in com bat­ tim ento, m olto scaltro n ell'attaccare i beni e le sostanze dei potenti, ostinato nel raggiungere le sue m ire; poiché non p erm etteva a nessun ostacolo di in tralciarlo nell'ottenere ciò che desiderava. E ra cosi alto di statu ra che sorpassava anche i piu alti, il suo volto era rubicondo, i capelli biondi chiarissim i, le spalle larghe, gli occh i sem brava quasi em ettessero faville, di corp oratu ra solida, am pia dove la n atura lo richie­ deva, snella e aggraziata laddove Fam piezza non era n ecessaria. V isto dalla testa ai piedi quest'uom o era m olto ben p rop orzion ato, com e ho sentito dire ripetutam ente d a m olti. O ra O m ero dice di Achille che, quando costui gridava, la sua vo ce a chi Fudiva dava l'im pressione di una m oltitudine in tum ulto, m a si dice che il grido di quest'uom o ne abbia messi in fuga a m igliaia. Cosi dotato dalla fortuna nel fisico e nel carattere, egli era per n atu ra indom ito, né e ra subordinato a nes­ suno al m ondo. I caratteri forti sono sem pre cosi, dice la gente, anche se di discendenza in un certo senso oscu ra.5

I due giovani avventurieri trovarono la loro nuova patria in uno stato di confusione politica che poteva dirsi eccezionale anche rispetto a ciò che avveniva nel Medioevo in Italia. In Puglia la guerra tra i normanni di Melfi - i quali malgrado il presunto vas­ sallaggio nei riguardi di Guaimaro combattevano ora apertamente a favore della propria espansione - e i bizantini che avevano la loro base a Bari divampava con alterne vicende su e giù lungo la costa e ora stava dilagando verso quella regione della Calabria che si trovava ancora sotto il dominio greco. Il voltagabbana Argi­ no, poco dopo la sua defezione, era stato nominato catapano nomina che si può spiegare solo se faceva parte delFesca per se­ durlo - e per tre anni aveva dato prova di essere un campione altrettanto capace ed energico della causa greca, quanto lo era stato prima di quella longobarda. Il potere di Bisanzio in Italia correva ora un serio pericolo ed i greci si trovavano ovunque sulla difensiva, ma fu proprio grazie ad Argirio che l'avanzata normanna si rivelò cosi lenta e dispendiosa. Ad occidente il caos era ancora più grave. L ’imperatore Michele deciso a punire Guaimaro per 5 A nna C omnena , Alexiade, I, 10.

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essersi messo a capo degli insorti aveva, poco prima di cadere in disgrazia, restituito la libertà a Pandolfo di Capua e ai primi del 1042 il vecchio Lupo era tornato furente in Italia, assetato del sangue di Guaimaro e ben deciso a dimostrare che le sue zanne erano affilate quanto mai. Riuscì a raccogliere intorno a sé alcuni antichi seguaci, ma né lui né Guaimaro si dimostrarono abbastanza potenti da riportare una vittoria decisiva. Nel giugno del 1045 mori Rainulfo di Aversa. Lui solo era stato l’artefice dell’espansione normanna in Italia; nella sua lungimiranza si era reso conto dell’importanza dell’obiettivo da raggiungere, il suo senso politico e il suo acume avevano guidato i suoi compatrioti più facinorosi verso la realizzazione del sogno. Benché non avesse mai esitato a passare nel campo avversario ogniqualvolta gli inte­ ressi normanni lo richiedessero, per nove anni egli era rimasto fedele a Guaimaro e continuò ad esserlo fino alla morte. Pochi mesi dopo, quando Asclettino, suo successore, lo ebbe seguito prematu­ ramente nella tomba, una breve ed irrilevante lite provocò una rot­ tura con il principe di Salerno e il conseguente gravitare dei nor­ manni di Aversa verso Pandolfo; ma nell’anno 1046 Guaimaro creò Drogone di Altavilla conte di Puglia e gli diede in spesa la propria figlia; Drogone fece da mediatore tra Aversa e Salerno e cosi fu ripristinata la precedente armonia. Pur essendo alleati di Guaimaro, i normanni non si sentivano - e neppure avrebbero potuto farlo - di impegnarsi a fondo per rovesciare Pandolfo. Vi erano altre cose che premevano loro di più. Da qualche anno ormai, i castelli e le terre piu importanti di pro­ prietà di Montecassino erano in mano ai normanni; alcune di queste erano state loro illegalmente concesse da Pandolfo quale compenso per servizi resi in campo militare, altre invece, liberamente con­ cesse loro in locazione dal monastero stesso che sperava cosi di assicurarne la protezione. In ambedue i casi i risultati furono disa­ strosi. I normanni non furono mai dei vicini raccomandabili; ora, come locatari del monastero, si servivano delle tenute e dei castelli come centri di brigantaggio, partendo da questi per effettuare incur­ sioni e rapine nel territorio circostante. Per un raggio di molti chi­ lometri intorno a Montecassino, non un podere, non una vigna, non un casolare poteva sentirsi al sicuro dai loro attacchi; tutt’intorno la zona era devastata e desolata. Si era arrivati ad un punto tale che avendo l’abate protestato invano con Guaimaro, che si era mostrato incapace di far rispettare i suoi diritti, decise di recarsi

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in Germania a prospettare personalmente la situazione all’imperatore; e lo avrebbe fatto se non fosse naufragato al largo di Ostia. Con il ritorno di Pandolfo la situazione si fece ancora piu critica ed era piu che mai necessario eliminare i banditi normanni, che certo avrebbero contribuito ai rinnovati attacchi ed alle depreda­ zioni che il monastero si attendeva dall’antico nemico. Ora, per la prima volta, i normanni si resero conto cosa vo­ lesse dire non essere piu degli insorti, ma presi di mira da una insurrezione. I monaci, i contadini, gli abitanti delle città e dei villaggi, tutto il circondario, infatti, fece ricorso alle tattiche della guerriglia. Erano disperati e non potevano più permettersi di avere scrupoli. Amato narra come un giorno un giovane barone normanno chiamato Rodolfo si presentò con un gruppo di seguaci alle porte del monastero. Entrarono in chiesa per pregare - lasciando fuori, com’era l’uso, le loro spade. Erano appena entrati in chiesa che gli inservienti del monastero si impossessarono delle spade e dei ca­ valli, chiusero a catenaccio le porte della chiesa ed incominciarono a suonare le campane a stormo. Immaginando che il monastero fosse stato attaccato, tutti i vicini accorsero, sfondarono le porte della basilica e si gettarono sugli attoniti normanni, che non ave­ vano altro che le loro corte daghe per difendersi. Combatterono coraggiosamente, ma invano. In breve si arresero chiedendo che, per rispetto alla casa di Dio, fosse loro risparmiata la vita; le loro preghiere non furono esaudite; quando giunsero i monaci, Rodolfo era prigioniero e quattordici normanni giacevano morti sul pavi­ mento della chiesa. Da quel giorno sembra che i normanni che si trovavano nei dintorni di Montecassino si calmassero, ma che Guaimaro avesse il suo da fare per impedire che quelli di Aversa si sol­ levassero in massa contro il monastero per vendicare i morti. ♦

Una donna Sulamite Ha tre mariti. O Re Enrico,

* *

Una Sunamittë Nupsit tribus maritis. Rex Henrice,

* Sunamitis è una parola interessante. Proviene da una traduzione « Vul­ gata » del Cantico di Salomone, nella quale sostituisce la traduzione più comune di Sulamitis. Il Cantico dei Cantici è cosi chiaramente erotico che oggi è difficile credere che Tinterpretazione allegorica - secondo la quale esso descrive la relazione tra Jahvè e Israele e, per analogia, tra Cristo e la Chiesa rappresentati come un amante appassionato e una donna sulamite - sia stata

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Reggente deirOnnipotente, Sciogli questo connubio Triplo e dubbio.

Omnipotentis vice, Solve connubium Triforme dubium.

Parole rivolte ad Enrico III da Wiprecht l’Eremita. Nel frattempo, a Roma il Papato aveva raggiunto un livello di decadenza piu in basso del quale non era caduto mai - pur occasio­ nalmente uguagliandolo - né prima né dopo; nessuno sapeva dire con precisione a chi spettasse realmente il triregno. Benedetto IX , nipote di Benedetto V il i e di Giovanni X IX , forse aveva solo dodici anni quando, dopo molti raggiri e corruzioni, succedette agli zii nel 1033. Egli fu dissoluto e libertino - e il suo successo con le donne era tale che fu persino sospettato di stregoneria - ed era cosi inviso e disprezzato dai romani che questi, dopo avere già una volta ten­ tato di assassinarlo all’altare, nel 1044 lo cacciarono dalla città e 10 obbligarono a rinunciare al Papato. Lo sostituì una creatura dei Crescenzi, Silvestro III. Dopo soli due mesi, Benedetto riuscì a cacciare il rivale e a rioccupare il trono pontificio, ma non vi rimase a lungo; la sua dissolutezza era troppa anche per la Roma del se­ colo decimoprimo; inoltre era deciso a sposarsi. Rinunciò di nuovo, questa volta a favore del padrino, Giovanni Graziano che, preso 11 nome di Gregorio V I, si pose con animo sincero a ripristinare il decoro del suo alto ufficio e della Chiesa. Per un po’ le cose sem­ brarono andar meglio; ma presto Benedetto, vistasi preclusa la strada al matrimonio, per una spiegabilissima resistenza da parte del futuro suocero, pretese nuovamente la dignità pontificia; mentre Gregorio, malgrado tutte le sue buone intenzioni di attuare la rifor­ ma, si era macchiato di gravi colpe di simonia e si trovava con le spalle al muro. Il clero romano che si trovava ora di fronte tre papi, uno a San Pietro, uno al Laterano e un terzo a Santa Maria Maggiore, si rivolse per disperazione ad Enrico I II , re germanico, figlio e successore dell’imperatore Corrado. Quando morì Corrado nel 1039, Enrico aveva ventidue anni, ma sin dall’infanzia era stato addestrato al mestiere di re, ed era stato proclamato re di Germania all’età di undici anni. Era un gio-

accettata quasi universalmente dai tempi dei Padri della Chiesa fino al XV I secolo, quando fu recisamente negata dagli anabattisti. All'epoca di Wiprecht ciò non sarebbe stato oggetto di discussione.

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vane serio e coscienzioso, con idee ben precise delle sue responsa­ bilità di sovrano cristiano e riteneva un insulto alla cristianità le vergognose dispute che si verificavano a Roma. Quindi, nell’autunno del 1046, scese in Italia dove in due concili diversi, quello di Sutri e quello di Roma, i tre papi rivali furono deposti. A sostituirli Enrico fece eleggere il suo amico fidato e compatriota, Suidgero ve­ scovo di Bamberga, che prese il nome di Clemente II; fu questo pontefice che il giorno di Natale officiò la cerimonia della incorona­ zione imperiale di Enrico e della seconda moglie Agnese di Guienne.7 Il nuovo imperatore e il nuovo papa proseguirono quindi il loro viaggio verso sud. La questione più importante da risolvere era l’avvenire di Ca­ pua. In questa città, il 3 febbraio del 1047, Enrico riunì a confe­ renza Guaimaro, Pandolfo, Drogone d’Altavilla e Rainulfo II Trin­ carotte, nipote del vecchio Rainulfo, che era stato a sua volta eletto conte di Aversa. La crescente potenza di Guaimaro aveva, già da tempo, destato preoccupazioni nellTmpero e non fu quindi del tutto una sorpresa, specialmente dopo che grosse somme di denaro ave­ vano cambiato mano, che Enrico restituisse Capua al trionfante Pandolfo. Comprensibile ed attesa Pira del principe di Salerno che aveva occupato Capua per nove anni e la guerra, che era giunta ad una travagliata tregua, divampò di nuovo. L ’altro importante risultato conseguito durante la conferenza di Capua non doveva essere, neppure questo, atto a smorzare le ire di Guaimaro. Dal punto di vista imperiale, sia la posizione di Guaimaro che quella dei normanni erano ambedue irregolari. Il titolo di « duca di Puglia e di Calabria » era stato conferito a Guaimaro per acclamazione dai normanni e questo, a sua volta, era Punico titolo che gli aveva permesso di investire Drogone e gli altri dei loro titoli e feudi. Infatti né Puna né l’altra parte aveva altro appoggio eccetto quello reciproco. Toccava ora ad Enrico riportare la situazione su una solida base feudale. Concesse a Drogone la piena investitura imperiale a Dux et M agister Italiae C om esque Normannorum totius A puliae et C alabriae e riconfermò ufficial­ mente Rainulfo conte di Aversa; è probabile che a Guaimaro fosse concesso di mantenere la sua sovranità su tutti questi, ma non è certo; il suo ducato spurio gli fu tolto e mai più egli si attribuì quel titolo. 7 La prima moglie di Enrico era stata Gunilda, figlia di re Canuto.

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L ’Imperatore si recò quindi a Benevento dove ebbe un’ingrata sorpresa. La città chiuse le porte e si rifiutò di riceverlo. Già da alcuni anni - da quando Argirio aveva sostituito il principe Atenulfo come capo della insurrezione longobarda - i beneventani erano stati in cattivi rapporti con i normanni e con Guaimaro; sembra pure che avessero la coscienza sporca a causa della cattiva accoglienza fatta alla suocera dell’imperatore, poco prima, quando questa tornava da un pellegrinaggio al Gargano. Enrico non aveva tempo da perdere per assediare la città: la sua presenza era neces­ saria in Germania. Senza indugi consegnò tutto il ducato a Drogone e a Rainulfo e ordinò al sempre acquiescente Clemente di mettere il suggello al suo operato con una scomunica generale. I due quindi ripresero la strada per il nord, lasciando che i normanni regolassero i conti come meglio credessero. Nello scompiglio generale verificatosi in questi anni, i due nuovi arrivati, ossia Roberto e Riccardo, trovarono buon impiego per le loro spade. Per Roberto, l’accoglienza riservatagli alla corte del fratellastro fu, sulle prime, molto tiepida. Drogone era pronto a riceverlo alla pari di qualsiasi altro giovane cavaliere normanno, ma si rifiutò di concedergli un titolo nobiliare o di assegnargli un territorio. La terra a disposizione, in Puglia, era ancora scarsa e molti vi pretendevano; ormai, dovevano esservi in Italia un buon numero di condottieri normanni che potevano vantare parecchie campagne al loro attivo ed erano in attesa dei feudi che loro erano stati promessi, e che ritenevano di aver ben meritato, ma che an­ cora, data la tenace resistenza dei bizantini, erano in mano al nemico. Il fratello di Umfredo dovette aspettare fino al 1 0 4 5 , prima di avere il suo feudo di Lavello e questo gli fu concesso solo alla morte del primo beneficiario; fare delle discriminazioni a favore di Roberto, giovane senza esperienza c praticamente sconosciuto, avrebbe significato suscitare una ribellione. Indignato, Roberto montò in sella e si diresse verso altri campi dove sperava che le sue capacità sarebbero state piu apprezzate. Combatte sotto molte bandiere in quelle interminabili scaramucce di cui era intessuta l’esistenza dei piccoli bareni feudatari ili quel lempo quando, in un imprecisato momento nel 1 0 4 8 , si uni a l \m d o l l o di Capua il quale, malgrado i suoi sessantadue anni, aveva ripreso con estrema violenza la lotta contro l’antico nemico ('»unimmo, rendendo come

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al solito la vita impossibile a tutti coloro che venivano a trovarsi entro il raggio sempre piu ampio delle sue azioni. È certo che Roberto imparò molto da Pandolfo, ma la loro intesa non durò a lungo. Se sia nel vero Amato, quando narra che Roberto si separò da Pandolfo allorché questi si rifiutò di mante­ nere la promessa di dargli un castello e la figlia in sposa, non lo sappiamo. La cosa è, tuttavia, di poca importanza, perché nel 1049 sorse il giorno tanto sospirato e atteso in tutta la Campania. Il 19 febbraio mori Pandolfo di Capua. Uno storico francese8 scrive che: « Pur riconoscendo che molto è esagerazione e leggenda (nelle Cro­ nache di Montecassino)... rimane vero che, di tutti gli innumerevoli odiosi banditi del secolo decimoprimo, Pandolfo era tra i piu spre­ gevoli ». È impossibile non dargli ragione. Solo una volta ancora, il Lupo mostra il suo volto nelle cronache del tempo; in un pe­ riodo leggermente più tardo un altro cronista di Montecassino, Leone di Ostia, racconta come qualche tempo dopo la sua morte il Lupo apparve ad un certo Pitagora, paggio del duca di Napoli, in un bosco. Di ritorno dalla caccia insieme al suo signore, Pita­ gora s'imbatté in due monaci « dall'aspetto assai venerando » che lo condussero « presso uno stagno fangoso, orribile a vedersi ». Qui trovarono Pandolfo « morto di recente, stretto da catene di ferro e miseramente immerso fino al collo nel fango dello stagno. Intanto, due spiriti dall'aspetto eccessivamente maligno, facendo delle corde con tralci di vite selvatica, gliele legavano al collo e lo spingevano fino nelle profondità più recondite dello stagno e poi lo ritiravano su ».9 L'immagine è degna di Dante nonostante che Leone scrivesse due secoli prima che Y Inferno fosse stato con­ cepito. La pena inflitta a Pandolfo, da lui descritta, era certamente sgradevole ma non immeritata. Roberto ritornò da Drogone, ma lo trovò sempre altrettanto deciso a negargli un feudo. Drogone, però, era tornato di recente da una spedizione in Calabria dove aveva lasciato un certo numero di guarnigioni a difesa dei passi appenninici. Più che altro per levar­ selo d'attorno offri al turbolento fratellastro il comando di una di queste, a Scribla vicino a Cosenza. La Calabria era una terra deso­ lata, montagnosa, ostile e decisamente poco attraente. Fino al tempo in cui Guaimaro e Braccio di Ferro avevano per primi iniziato a* * O . D k l a r c . Les Normands en Italie, p. 185 n. * L e o n e d i O s t i a , Chronicon Monasterii Casinensis, 11, 61.

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penetrarvi nel 1044 e vi avevano costruito un importante castello a Squillace, essa era stata per la maggior parte ignorata sia dai nor­ manni che dai longobardi. Naturalmente, faceva sempre parte delFlmpero d’Oriente al quale gli abitanti dotati di qualche consape­ volezza politica - e questi erano per lo piu i monaci di san Basilio10 e i loro discepoli - rimanevano fedeli in teoria; il potere bizantino era tuttavia giunto al tramonto in tutta Italia e la Calabria, nono­ stante l’aspetto sinistro e feroce, sembrava offrire, a lunga scadenza, maggiori vantaggi a un giovane ambizioso di quanti ne potessero offrire la Campania e la Puglia. Roberto accettò. Scribla era un buco infernale. Ubicata giù in fondo alla valle del Crati, afosa, senz’aria e infestata dalla malaria, sembrava non ci si potesse vivere, e nulla prometteva quanto a profitto materiale. Roberto presto l’abbandonò e seguito da uno scelto drappello di compagni d’arme intraprese, secondo l’ormai consacrata tradizione normanna, la carriera del brigantaggio installandosi in un luogo più salubre e più facilmente difeso presso San Marco Argentano. Anche li la vita era dura. Dopo lunghi anni di incursioni saracene le poche città della regione, per lo piu raggruppate lungo la costa, erano troppo potentemente fortificate perché Roberto le potesse attaccare. Non vi era altra scelta che vivere di quello che poteva ricavarsi dalla terra. I casolari isolati, i monasteri e i pochi avam­ posti amministrativi bizantini nella zona soffrirono tutti, ma sof­ frirono anche i normanni. Amato paragona fantasiosamente la loro condizione a quella dei figli d’Israele nel deserto, e ci dice che quando Roberto si incontrò nuovamente con Drogone gli « con­ fessò la sua povertà, e ciò che proferivano le labbra era confer­ mato dall’aspetto, poiché egli era eccessivamente magro ».n Tali condizioni, tuttavia, furono di inestimabile valore per met­ tere alla prova il suo ingegno e fu durante il periodo trascorso a San Marco, che si guadagnò il soprannome che doveva distinguerlo per tutta la vita. Si raccontano molti fatti a proposito della sua furberia. Forse uno dei più ameni, che potrebbe però esser apo­ crifo, è narrato da Guglielmo di Puglia. Un certo monastero che

10 Erano questi monaci di rito ortodosso. Prendono il nome da san Basilio fondatore del monacheSimo ortodosso del IV secolo. La Chiesa Orientale non conosce una proliferazione di ordini monasliei del tipo di quelli noti in Occidente. “ « lui dist sa po uretê, et cellui dist d e sa bo u ch e m oustra par la fa ce, q uar estoit m oult m aigre » (A mato, Ystoire d e li N orm an!, III, 9).

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si trovava in vetta a un monte (probabilmente Malvito, vicino a Monte Pareta) era stato preso di mira dal Guiscardo che ne invi­ diava la posizione dominante che lo rendeva pressoché inespu­ gnabile. Un giorno su per il sentiero che vi conduce fu visto svol­ gersi un lungo e mesto corteo funebre; giunti al monastero, i nor­ manni indicarono una cassa da morto ricoperta da un drappo nero e chiesero all’abate di celebrare una messa in suffragio del­ l’anima del loro compaesano deceduto nella chiesa del monastero. L ’abate aderì alla richiesta. Disarmati, come era l’uso, i normanni entrarono processionalmente nell’edificio e deposero la bara, con riverenza, davanti all’altare. Ebbe inizio il servizio divino. Ad un tratto il drappo nero fu gettato via ed il cadavere balzò in piedi rivelando un mucchio di spade sul quale era adagiato; i normanni che accompagnavano il finto morto le impugnarono e comincia­ rono a menare a destra e a sinistra i poveri monaci che non si riprendevano dallo stupore. Il monastero era loro - Guglielmo di Puglia si affretta ad aggiungere che, una volta stabilitavisi una guar­ nigione normanna, ai monaci fu consentito rimanervi. Il fatto non è molto attendibile e ritorna spesso alla ribalta, sotto forme varie, nella storia dei normanni. Un episodio molto più documentato ed altrettanto illuminante sui metodi adottati da Roberto, e che nei punti essenziali è certamente vero, è la disgrazia che capitò ad un certo Pietro, governatore greco della cittadina di Bisignano vicino a San Marco. Un giorno i due dovevano incon­ trarsi per un colloquio e Roberto, avvicinandosi al luogo dell’in­ contro, ordinò alla sua scorta di fermarsi e prosegui da solo. Pietro, vedendo ciò, fece altrettanto. Quando i due stavano per incon­ trarsi, Pietro si sporse un poco dalla sella nel gesto abituale di saluto. In un baleno Roberto lo afferrò per il collo e lo precipitò a terra. Poi, prima che i greci potessero accorrere in suo soccorso, Roberto mezzo portò, mezzo trascinò il meschino tra i suoi nor­ manni che trionfanti lo condussero prigioniero a San Marco, facen­ dosi poi pagare una somma enorme per il suo riscatto. Anna Comnena12 ci riferisce un’altra versione di questo episo­ dio, ma essa confonde i nomi e lascia credere che in questa occa­ sione la vittima del Guiscardo fosse il di lui suocero. In maniera caratteristica essa vi aggiunge una glossa tutta sua: « Una volta avutolo in suo potere, egli per prima cosa gli strappò tutti i denti, u A lex ia d e , I, XI.

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richiedendogli una grossa somma di denaro per ogni dente strap­ pato ed insistendo per sapere dove era nascosto il tesoro. E non smise di strapparglieli finché non glieli ebbe tolti tutti, perché sia i denti che il denaro si esaurirono allo stesso tempo ». Benché Anna sbagli riferendo questo fatto al suocero di Ro­ berto, è certo che Roberto contrasse le prime nozze proprio in questo periodo. La sposa era una certa Alberada, che sembra sia stata la zia di un potente barone della Puglia, Gherardo di Buonalbergo - a quell’epoca Alberada doveva essere poco piu che una bambina, perché la ritroviamo ancora viva settantanni piu tardi, dopo essersi risposata per ben due volte; infatti, nel 1122 fece una grossa donazione al monastero benedettino di La Cava, vicino a Salerno. Non si sa con esattezza quanti anni avesse quando morí; ma nella chiesa, molto restaurata, dell’Abbazia della SS. Trinità a Venosa si può ancora vedere la sua tomba. Mentre Roberto era obbligato a far affidamento sul suo co­ raggio e sul suo impegno per vivere, Riccardo stava rapidamente realizzando le sue mire più ambiziose. La sua accoglienza ini­ ziale ad Aversa era stata ancora più fredda, se possibile, di quella riservata a Roberto a Melfi; Rainulfo II nell’arrivo del fratello del suo predecessore vide una minaccia e pensava solo a liberar­ sene al più presto. Riccardo, intuendo la situazione, se ne parti cavalcando verso est su per le montagne e, dopo un breve periodo trascorso al servizio di Umfredo di Altavilla, si uni ad un altro barone randagio, Sanilo di Genzano. Con l’aiuto di Sanilo e adot­ tando metodi che erano in pari tempo predatorii e privi di scru­ polo, presto divenne tanto potente da poter sfidare Rainulfo, il quale fu costretto a liberarsene concedendogli le terre appartenute a suo fratello Asclettino. Poi venne alle prese con Drogone, ma questa volta fu meno fortunato, perché Drogone, catturatolo, lo gettò in prigione. La carriera di Riccardo fu cosi alla mercé di Drogone; si salvò solo dopo la morte di Rainulfo, avvenuta nel 1048, il cui figlio Ermanno, un bimbo di pochi mesi, aveva bisogno di un reggente che governasse in suo nome. Il primo ad essere scelto per questo incarico fu un certo barone dal nome alquanto imbarazzante di Bellebouche, che però si dimostrò inadatto al com­ pito e la scelta cadde allora su Riccardo. Riccardo stava ancora languendo nella prigione di Drogone, ma l’intervento di Guaimaro gli ottenne la libertà. Secondo Amato. Guaimaro allora lo rivesti di seta e lo condusse ad Aversa dove, per festosa volontà di po­

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polo, fu acclamato conte. Airinizio sembra che Riccardo abbia governato a nome di Ermanno, ma dopo un anno o due, del bimbo non si senti più parlare. Si direbbe che, per tacito accordo, tutti i cronisti abbiano tirato un velo discreto su quanto accadde al fan­ ciullo. Sta a noi trarre le debite conclusioni.

CAPITOLO SETTIM O

C IV ITA TE S’el s’aunasse ancor tutta la gente Che già in su la fortunata terra Di Puglia fu del suo sangue dolente... Con quella che sentio di colpi doglie Per contrastare a Ruberto Guiscardo... D

ante,

Inferno ,

X X V III

Il pontificato di Clemente II durò meno di un anno. Le sue spoglie mortali furono riportate nella sua antica sede di Bamberga - è Punico papa che abbia avuto sepoltura in Germania e Podioso Benedetto IX , da molti accusato di averlo avvelenato, si insediò nuovamente in San Pietro per altri otto mesi. Nel luglio del 1048, giunse a Roma un’altra creatura di Enrico I II , il vescovo di Bressanone, che ascese al trono pontificio con il nome di Dá­ maso I I; questi governò la Chiesa per soli ventitré giorni e mori a Palestrina. Che gli sia stato fatale il clima eccessivamente caldo, oppure che Benedetto fosse diventato ancora più esperto nell’eliminare i suoi rivali, non è mai stato stabilito con certezza; sta di fatto, però, che i grandi dignitari ecclesiastici di quei tempi, dopo la sua morte, ambivano sempre meno la dignità del Papato ed Enrico, chiamato per la terza volta in meno di due anni a riem­ pire la sede vacante, trovava sempre maggiori difficoltà a farlo. Finalmente, alla grande Dieta di Worms, i vescovi germanici ed italiani chiesero all’unanimità che la scelta cadesse sul cugino del­ l’imperatore, Brunone, vescovo di Toul. La riluttanza mostrata da Brunone ad accettare tale nomina era sincera, né sorprende. Egli acconsenti solo a condizione che venisse spontaneamente ratificata dal clero e dal popolo di Roma, quando vi fosse giunto, e quindi parti alla volta della Città Eterna nel gennaio del 1049, vestito da semplice pellegrino. Arrivato a Roma venne immediatamente acclamato papa e consacrato, assu­ mendo il nome di Leone IX ; nei sei anni che seguirono, fino alla sua morte all’età di cinquantun anni, questo alsaziano di grande statura, dai capelli rossi e dall’aspetto militaresco - aveva infatti

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comandato un esercito, sceso in campo in occasione di una spedi­ zione punitiva intrapresa da Corrado II in Italia - si rivelò per uno dei più grandi papi del Medioevo. Come Giovanni X X III, ai giorni nostri, egli non visse abbastanza a lungo per vedere portata a termine la grande opera da lui iniziata; ma, benché altri, ancora piu grandi di lui, fossero destinati a portarla avanti in maniera che lui non poteva neppure sognare, fu Leone IX che per primo ruppe l’incantesimo che aveva per tanto tempo paralizzato ed avvilito la Chiesa romana; fu lui che pose le fondamenta per la riforma e il risorgere del Papato - fondamenta sulle quali Gregorio V II e i suoi successori dovevano, più tardi, cosi maestosamente costruire. Leone IX era appena asceso al trono pontificio, quando la situa­ zione nell’Italia meridionale s’impose alla sua attenzione. In nessun altro luogo della cristianità la Chiesa si trovava in uno stato piu deplorevole. La simonia aveva raggiunto un punto tale, che le piu alte cariche ecclesiastiche venivano mercanteggiate e messe all’asta come merce vile. L ’obbligo di osservare la castità, tra il clero, veniva rispettato solo quanto bastasse per impedire ai preti di spo­ sare le loro concubine, ma non impediva loro di mettere al mondo innumerevoli figli. Le decime dovute alla Chiesa non venivano pagate e molte istituzioni religiose si ritenevano fortunate se riu­ scivano a conservare le terre ed i tesori già in loro possesso. Tale il contenuto dei vari dispacci che giungevano a Leone dal Sud; e le comunicazioni ufficiali trovavano conferma nelle innumerevoli lettere che gli venivano indirizzate da monaci, da viaggiatori, e persino da semplici pellegrini, per i quali intraprendere un viaggio per recarsi al Gargano equivaleva ad un invito a farsi assalire, derubare, rapire, dai briganti normanni. Il monaco Wilberto, il primo biografo di papa Leone, scrive clic i normanni « accolti come liberatori, presto divennero oppressori »; per molti, essi si rivelarono peggiori dei saraceni, i quali almeno si limitavano ad incursioni isolate, mentre i normanni esercitavano una pressione inesorabile su tutti quelli che si mostravano più deboli. Le viti venivano tagliate, interi raccolti dati alle fiamme; mentre le azioni di rappresaglia delle popolazioni locali aumentavano lo stato di agitazione. Giovanni, abate di Fécamp, che aveva avuta salva, per mira­ colo, la vita durante un recente pellegrinaggio, scrisse a quel tem­ po a Leone: « L ’odio degli italiani per i normanni ha raggiunto proporzioni tali, che è quasi impossibile per un normanno, anche

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se si tratta di un pellegrino, passare per le città italiane senza venire aggredito, rapito, derubato di tutto ciò che possiede, basto­ nato, caricato di catene - tutto ciò, se non esala lo spirito in una fetida prigione ». Circostanze simili avrebbero ampiamente giustificato misure energiche neiritalia meridionale; ma vi erano anche altre consi­ derazioni, di carattere politico, che rendevano imperativo un inter­ vento da parte di Leone. I normanni continuavano ad estendere i loro domini, avvicinandosi sempre più alle frontiere degli Stati Pontifici e la loro posizione era stata notevolmente rafforzata quando Enrico, due anni prima, li aveva non solo infeudati come vassalli dell'Impero ma, accecato dall'ira, era giunto persino a concedere loro il possesso della ribelle Benevento. Nel concedere questo, egli aveva completamente dimenticato - e papa Clemente era stato troppo inetto per ricordarglielo - che per circa due secoli e mezzo Benevento era rimasta, per lo meno in teoria, un territorio appar­ tenente al Papato. Benché la Cattedra di Pietro non fosse mai riuscita ad esercitare in pieno la sua autorità temporale sul prin­ cipato, Leone non poteva permettere che questo cadesse in mano normanna. Quanto a questo, gli stessi beneventani erano i primi ad essere d'accordo. A causa della inettitudine dei loro principi, la potenza e l'influenza della loro città erano andate sempre declinando fin dal­ l'inizio del secolo, ed essi erano perfettamente consci che non si sarebbero mai potuti difendere da soli contro un attacco in forza da parte dei normanni, che già avevano in loro possesso posizioni strategiche chiave, come i passi di Bovino e di Troia, sulle mon­ tagne. Ma a chi rivolgersi per trovare aiuto? Certo non ad Enrico, e neppure a Guaimaro, che doveva la sua posizione al continuato appoggio normanno; Bisanzio non aveva ormai più presa in Italia e cercava solo di sopravvivere. L'unica loro speranza era Roma; ed alcuni ambasciatori beneventani, che erano giunti nella città per congratularsi con Leone per la sua ascesa al trono e per chie­ dergli di togliere la scomunica imposta da Clemente, avevano già lasciato intendere che la città, in determinate circostanze, sarebbe stata pronta a porsi immediatamente sotto la protezione del papa. Prima di giungere ad una decisione, Leone volle esaminare la situazione di persona. Per vari mesi, nel 1049, e ancora nel 1050, lo troviamo in viaggio per la penisola, in visita alle princi­ pali città e ai grandi istituti religiosi. La ragione ufficiale data

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per la sua prima visita a Benevento fu che il papa vi avrebbe sostato nel recarsi in pellegrinaggio al Gargano; la seconda volta fu detto che il papa si spostava « per affari riguardanti la Chiesa »; ma uno dei piu grandi studiosi di questo periodo storico1 velata­ mente accenna che la politiqu e ne fut pas étrangère à c e d ép la­ cem ent d e L éon IX , e certamente le preoccupazioni del papa non dovevano essere un segreto per nessuno. Egli trovò una situazione ancora peggiore di quanto temeva. E, presumibilmente, fu in base a ciò che vide in questa occasione, che poco dopo scrisse all’imperatore Costantino lamentandosi di come i normanni « con una empietà maggiore ancora di quella dei pagani, insorgono contro la Chiesa di Dio, provocando la morte dei cristiani con nuove ed atroci torture, non risparmiando né donne, né bambini, e non fa­ cendo nessuna distinzione tra il sacro e il profano, spogliando chiese, dandole alle fiamme e radendole al suolo »? Era necessario adottare subito misure energiche contro i normanni, se si voleva ancora salvare qualche cosa, per la Chiesa, neiritalia meridionale e se si voleva mettere al sicuro ciò che apparteneva al Patrimonio di San Pietro. Neirinverno del 1050-1051, Leone si recò in Germania per esaminare la situazione con l’imperatore d’Occidente; facendo ri­ torno a Roma nel marzo dello stesso anno, trovò un’altra delega­ zione inviatagli da Benevento, che lo attendeva per informarlo che i nobili della città avevano cacciato i loro principi ed erano decisi a mettersi completamente nelle sue mani. Questa notizia Leone l’aspettava, e non poteva rifiutarsi. Un sinodo riunito a Roma gli impedì di mettersi subito in viaggio ma, ai primi di luglio, era a Benevento e trovò il principato a lui interamente sottomesso. Il problema che ora si poneva era di assicurarne l’incolumità ed a questo fine il papa convocò a consiglio Drogone e Guaimaro. Questi risposero immediatamente all’invito e diedero al papa tutte le garanzie da lui richieste - anche troppo sollecitamente, come doveva vedersi in seguito. L ’autorità di cui godeva Drogone come conte di Puglia era lungi dall’essere assoluta; era appena ripar­ tito da Benevento per far ritorno a Meliì, quando fu raggiunto da messi provenienti da Salerno, dove il papa si era recato con Guaimaro, che lo informarono di nuovi oltraggi perpetrati dai nor­ 1 F. C halandon, Histoire de la domination Nonnntnle. 1 M ig n e , Patrologia Latina, 143, col. 777, ¡m/io

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manni in territorio beneventano. L ’ira di Leone scoppiò veemente e si placò appena un poco solo quando Guaimaro gli spiegò che Drogone aveva certamente agito come meglio poteva, ma che non aveva ancora avuto occasione di ridurre all’ubbidienza i piu tur­ bolenti tra i suoi compatrioti. Sempre adirato, il papa dettò una lettera per Drogone, invitandolo ad intervenire immediatamente per ristabilire l’ordine ed esigere i dovuti risarcimenti. La lettera del papa non giunse mai al destinatario, perché il messo al quale era stata affidata, mentre era ancora per strada, venne a conoscenza di una notizia che lo fece ritornare in tutta fretta a Salerno. Drogone di Altavilla era stato assassinato. Man mano che cresceva l’impopolarità dei normanni, l’oppo­ sizione ad essi si era cristallizzata in tre fazioni diverse - la fa­ zione favorevole a Bisanzio, incoraggiata e sovvenzionata da Argirio, che mirava a restaurare il potere greco nella penisola; i pontifici, che avrebbero voluto che l ’intera regione seguisse l ’csempio di Benevento; gli indipendenti, che non vedevano perche l'Italia meridionale non potesse essere lasciata a se stessa e governata dalla vecchia aristocrazia italolongobarda che vantava ormai cinque se­ coli di esperienza. Benché i sospetti più gravi ricadessero indub­ biamente sulla fazione a favore di Bisanzio, non sapremo mai con certezza quale delle tre fosse responsabile della morte di Drogone. Tutto ciò che sappiamo di sicuro è che, il giorno di San Lorenzo, Ü 10 agosto del 1051, il conte di Puglia si recò nella sua cappella, nel castello di Monte Ilaro (oggi Montella) per assistere ad una messa celebrativa. Mentre entrava in chiesa fu assalito da un certo Riso, che l ’aspettava nascosto dietro la porta, e ucciso all’istante. Riso probabilmente non era solo, perché si narra che molti seguaci di Drogone vennero uccisi insieme a lui; e poiché altri capi nor­ manni in Puglia furono uccisi lo stesso giorno in circostanze si­ mili, non ci resta che concludere che l’assassinio di Drogone fa­ ceva parte di una vasta congiura per liberare, una volta e per sempre, tutta la regione dagli oppressori. Se tale congiura ebbe realmente luogo, si risolvette in un mi­ sero fallimento. Il dominio normanno sul paese non fu sensibil­ mente indebolito; e servi solo a suscitare l’ira dei normanni. Inol­ tre, questi avevano perso il loro capo e mostravano poca voglia di eleggerne un altro; nel frattempo erano liberi di vendicarsi come volevano. Drogone era stato un uomo moderato - sage ch evalier,

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lo chiama Amato - timorato di Dio e fondamentalmente onesto; e anche se gli mancava queU’ultimo briciolo di fermezza, neces­ sario per far rispettare la sua autorità, egli si rendeva perfetta­ mente conto di quanto fosse necessaria una disciplina ferrea per tenere a freno i suoi compatrioti. Dal punto di vista di papa Leone, la morte di Drogone, nonostante i recenti avvenimenti di Benevento, segnò un peggioramento della situazione. Drogone, per 10 meno, si era dimostrato pronto a discutere ragionevolmente e rispettosamente, ed era arrendevole anche se non sempre efficace nel suo modo di agire. Ora non esisteva più un rappresentante che potesse parlare autorevolmente per tutti i normanni e l'intero ter­ ritorio stava rapidamente piombando nell’anarchia. Per ristabilire l’ordine e la quiete, sarebbe stato necessario ricorrere alla forza. 11 papa nel giorno dell’Ascensione celebrò la messa in suffragio dell’anima di Drogone, poi si mise all'opera per organizzare un esercito. Il compito si rivelò più difficile di quanto prevedesse. Enri­ co I II , benché in buona parte responsabile della situazione nel­ l ’Italia meridionale, era probabilmente risentito per il fatto che il papa si fosse impossessato di Benevento; egli era, inoltre, im­ pegnato in una guerra contro l ’Ungheria e in vari altri problemi di ordine interno. Rifiutò a Leone qualsiasi appoggio militare. Altrettanto fece il re di Francia, che aveva già abbastanza fastidi procuratigli dai normanni in casa propria. L ’aiuto venne proprio dalla parte da cui Leone meno se lo sarebbe atteso - Costanti­ nopoli. Argirio che, in compenso per i servizi resi, era stato di recente investito dei vuoti titoli di duca d’Italia, di Calabria e di Sicilia e - stranamente - di Pafiagonia, era sempre l ’esperto e primo consigliere dell’imperatore per la politica in Italia; aveva di recente fatto ritorno dalla capitale dove era riuscito a convin­ cere Costantino - malgrado la violenta opposizione del patriarca greco - della necessità di un ravvicinamento con i latini. I nor­ manni, egli diceva, erano ormai una minaccia assai più grave per gli interessi greci, di quanto lo fossero mai stati l ’imperatore d’Occidente, i longobardi o il papa, e non vi era al^ro modo di stron­ care il loro potere nella penisola. Le origini longobarde di Argirio avranno forse contribuito a dar più peso al suo discorso; i suoi consigli prevalsero e prima della fine del 1051 egli aveva raggiunto un pieno accordo con Leone, per effettuare un’azione militare congiunta.

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In Italia i principotti del Meridione e del Centro avevano ri­ sposto prontamente alle sollecitazioni del papa. Molti avevano risentito delle incursioni normanne e cominciavano a temere per la propria sopravvivenza, altri prevedevano una marea montante e volevano arginarla mentre erano ancora in tempo. Quando, però, Leone si rivolse a Guaimaro (che aveva appositamente lasciato per ultimo) si trovò di fronte ad un netto rifiuto. Ciò ncn avrebbe dovuto sorprenderlo. Drogone aveva sposato la sorella di Guaimaro; l ’alleanza tra i normanni e Salerno era durata, praticamente ininterrotta, per quindici anni con immenso beneficio d’ambo le parti. Se Guaimaro avesse dovuto ora abbandonare i suoi alleati che erano pure suoi vassalli - questi avrebbero con molta proba­ bilità rovesciato il suo trono prima che Leone, o chi per lui, potesse venire in suo aiuto. Inoltre, se le cose fossero andate come voleva il papa, e i normanni fossero stati cacciati dall’Italia, chi avrebbe protetto il principe di Salerno dai trionfanti alleati, il papa e rim pero bizantino? I trascorsi di Guaimaro non erano certo tali da renderlo caro ai greci. Egli, quindi, inviò a Leone un messaggio cortese ma fermo, sottolineando che non scio non poteva far parte di nessuna lega contro i normanni, ma che gli sarebbe stato im­ possibile tenersi in disparte se costoro fossero stati attaccati. La seconda parte del messaggio giunse come un colpo inaspet­ tato per il papa. Pur non nutrendo grandi speranze di avere Guaimaro come alleato, aveva fatto affidamento sulla sua neutralità. Il principe di Salerno, a sua volta, aveva avuto cura che al mes­ saggio fosse data grande pubblicità e la notizia dell’atteggiamento assunto nei confronti del papa dal piu potente sovrano dell’Italia meridionale stava provocando una pericolosa demoralizzazione tra gli elementi italiani e longobardi dell’esercito che si veniva for­ mando. Lo sconforto di questi veniva accresciuto dalle orrende dicerie messe in giro dagli agenti salernitani, sulla prodezza mili­ tare dei normanni e sulle terribili vendette che avrebbero operato, dopo la loro infallibile vittoria, a danno di coloro che avessero osato impugnare le armi contro di loro. Ma vi erano nell’aria altri segni portentosi, ancora piu sinistri. Amato ci narra dettagliatamente molti signez m erv eillou z, che in quell’epoca si verificarono a Salerno e, sembra, pure a Gerusa­ lemme. Nacque un bimbo ciclopico con un sol occhio in mezzo alla fronte, e con gli zoccoli e la coda di toro. Un altro nacque con due teste; le acque di un fiume - non vien detto quale - si

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cangiarono in sangue, e Folio di una lampada nella chiesa di San Benedetto si mutò in latte. Tutte queste cose, ci assicura Amato, erano presagio della morte di Guaimaro. Infatti, di li a poco, anche il principe di Salerno finí i suoi giorni con una morte violenta. Un partito probizantino si era impossessato del potere ad Amalfi ed era insorto contro la sovra­ nità di Salerno rifiutando di pagare il consueto tributo. In qualche modo gli insorti erano riusciti ad ottenere l'appoggio di una parte dei parenti del principe; fu cosi, che il 2 giugno del 1052, Guaimaro V venne colpito a morte nel porto della sua capitale, dai quattro cognati, figli del conte di Teano, il maggiore dei quali si proclamò suo successore. I due maggiori nemici di Bisanzio erano stati trucidati nello spazio di un anno; e benché non sembri che i greci fossero direttamente responsabili di questo secondo delitto, come invece si presume lo fossero per la morte di Drogone, è difficile scagionarli del tutto. Dei parenti di Guaimaro, rimastigli fedeli, uno solo riuscì a sfuggire alla cattura da parte degli insorti ed alla prigionia, il fratello del principe, Guido duca di Sorrento, che inforcando il cavallo si recò immediatamente in cerca di aiuto presso i suoi amici normanni. Per costoro, la situazione era altrettanto grave di quanto lo era per Salerno; Guaimaro era Punico loro alleato; se Salerno fosse caduta sotto il dominio dei bizantini, essi sareb­ bero rimasti accerchiati e, dato Tumore del papa in quel momento, probabilmente annientati per sempre. Fortunatamente Guido li trovò che avevano già mobilitato i loro uomini tra Melfi e Benevento e, fortuna ancora maggiore, dopo quasi un anno di caotico interregno si erano finalmente eletti un nuovo capo, Umfredo di Altavilla, marito di sua sorella. I normanni, prima di acconsentire di venire in aiuto di Guido, vollero negoziare per farsi pagare a caro prezzo il loro intervento; ma il duca, messo alle strette, era pronto a concedere qualunque cosa; a soli quattro giorni dalla morte di Guaimaro, l'esercito normanno si accampò alle porte di Salerno. Contro le massicce forze normanne i quattro fratelli di Teano erano impotenti. Portando con loro il giovane figlio di Guaimaro, Gisulfo, si barricarono nella cittadella; ma i loro familiari erano caduti in mano ai normanni e quindi Guido poté negoziare per farsi riconsegnare il nipote, al quale rese subito omaggio come erede legittimo e successore di Guaimaro. I normanni avrebbero

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preferito che fosse lo stesso Guido ad insediarsi come sovrano a Salerno in un simile momento, ma furono colpiti dal suo altrui­ smo. Essi pure, allora, si dichiararono per Gisulfo, che li ricon­ fermò tutti in possesso dei loro territori. Rimaneva ora solo da fare i conti con i ribelli e questi, di li a un giorno o due, furono costretti a capitolare. Guido e Gisulfo, dando ancora una volta prova di un senso morale assai raro per quei tempi, mantennero la promessa e li fecero uscire incolumi dalla cittadella; ma appena usciti, i normanni, che non avevano promesso nulla, si lanciarono su di loro e li passarono a fil di spada. Uccisero non solo i quattro capi ma, per sanguinosa rappresaglia, anche altri trentasei cava­ lieri, uno per ogni ferita riscontrata sul corpo di Guaimaro. Guaimaro V di Salerno fu l’ultimo dei grandi principi longo­ bardi neiritalia meridionale. Giunto all’apice della sua potenza, i suoi domini comprendevano i vasti territori di Capua, Sorrento, Amalfi e Gaeta; vantava poteri sovrani sui normanni di A versa e di Puglia, che si riconoscevano suoi vassalli. La sua influenza si faceva sentire in lungo e in largo per tutta la penisola, e questo venne dimostrato quando, con il solo prestigio del suo nome, e quasi senza sforzo, riuscì a sabotare i preparativi militari del papa. Aveva sedici anni quando sali al trono, e da allora per tutta la vita ebbe a lottare contro le spregiudicate ambizioni di Pandolfo di Capua da una parte, e dei normanni dall’altra; tenne testa a tutti e due e lo fece senza mai venir meno alla parola data, né mancare ai suoi impegni. Fino alla morte, il suo onore e la sua buona fede non vennero mai offuscati. Quando mori aveva quarantun anni. Sotto la guida di suo figlio, Gisulfo, il principato resistette ancora per una generazione, ma non conobbe mai piu la gloria d’un tempo e, nel 1075, perdette definitivamente la sua indipendenza. Causa di ciò furono i normanni. Per Leone che osservava il tutto da Benevento, questi svi­ luppi saranno stati di magro conforto. L ’assassinio di Guaimaro, per quanto potesse considerarlo terribile e obbrobrioso, aveva tem­ poraneamente rafforzato la sua posizione; ma nel corso degli avve­ nimenti che seguirono, i normanni e i salernitani avevano dato prova incontestabile di come potevano agire all’unisono, in modo rapido ed efficace, e la lezione non era stata vana per le timorose truppe papali. Molte di queste avevano già disertato alla cheti­ chella, e quelle che rimanevano, se si voleva persuaderle a com­ battere, avrebbero dovuto essere notevolmente rafforzate. E cosi

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Leone se ne tornò in Germania, per rivolgere un secondo e piu urgente appello a Enrico III. Il suo viaggio non fu del tutto inu­ tile; mentre insieme all’imperatore celebrava le feste natalizie a Worms, nel 1052, egli riuscì ad ottenere da questi il riconosci­ mento ufficiale della sovranità pontificia su Benevento ed altri territori nell’Italia meridionale. Ma, in seguito agli intrighi di un suo vecchio oppositore, il vescovo Gebeardo di Eichstätt, l’esercito che Enrico aveva, con riluttanza, messo a disposizione di Leone venne richiamato in patria prima ancora che giungesse ai con­ fini con rita lia e al papa non rimase altra alternativa che reclu­ tarne uno per conto suo. Fortunatamente egli aveva con sé il suo cancelliere e bibliotecario, Federico, fratello del duca di Lorena; questo prete guerriero - che fu in seguito anche lui papa, con il nome di Stefano IX - riuscì a mettere insieme un corpo di fan­ teria bene addestrato e composto di settecento svevi che costituì il nerbo dell’esercito. Intorno a questo solido nucleo si radunarono una moltitudine di mercenari e di avventurieri, indisciplinati, la maggior parte dei quali aveva buone ragioni per voler lasciare la Germania, come dice uno storico francese,3 à la suite d e fâcheu ses aventures. Scendendo lungo l’Italia nella primavera del 1053, l ’esercito continuò ad ingrossarsi come una palla di neve. Ecco la descri­ zione che ne fa il Gibbon: Nel corso della lunga avanzata da Mantova a Benevento, una ignobile e promiscua moltitudine di italiani veniva arruolata sotto il sacro stendardo; il prete e il ladro dormivano sotto la stessa tenda; alla testa dell’esercito le picche e le croci si mescolavano; e il santo marziale, nel dare ordini di marcia, di accamparsi, di combattimento, ripeteva le lezioni imparate in gioventù.4 Pur ammettendo che tra i nuovi arruolati pochi saranno stati quelli di indiscussa moralità, la descrizione di Gibbon è esagerata; non sembra probabile che l’esercito del papa abbia accolto tra le sue file un maggior numero di pezzenti e di straccioni di quelli che normalmente facevano parte degli eserciti del Medioevo. Sta di fatto, però, che quando giunse a Benevento, ai primi di giugno, era numericamente assai superiore alle forze che potevano mettere 3 Chalandon. 4 G ib b o n , T h e D eclin e and Fall o f the R om an E m p ire ,

LVI.*

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in campo i normanni; inoltre, i vari principi delFItalia meridio­ nale, di altre stirpi, si erano nuovamente raccolti sotto lo sten­ dardo pontificio. Tra questi, il duca di Gaeta, i conti di Aquino e di Teano insieme a Pietro, arcivescovo di Amalfi; vi erano pure contingenti provenienti da Roma, dai monti della Sabina, dalla Campania, dalla Puglia, dalla terra dei marsi, da Ancona e da Spoleto, tutti rinfrancati dalla presenza gli uni degli altri e, in particolare, dal maestoso condottiero, di bianco vestito, che aveva personalmente assunto il comando delPesercito e infondeva loro, senza pause, la propria serena fiducia. Leone, proseguendo nel suo viaggio verso il Meridione, aveva preso contatto con Argirio ed aveva deciso di ricongiungersi con le forze bizantine vicino a Siponto nella Puglia settentrionale. Ma, poiché la via principale ad est di Benevento era dominata dalle fortezze normanne di Troia e di Bovino, egli fece seguire al suo esercito una strada tortuosa, a nord, attraverso la valle del Biferno, e quindi ad est sotto al Gargano. I normanni seguivano attenta­ mente la sua avanzata. Erano consci che la loro situazione era ora piu pericolosa di quanto non fosse mai stata da quando, trentasei anni addietro, i primi di loro erano giunti in Italia. Dai risultati dei combattimenti che si prevedevano, dipendeva il loro avvenire nella penisola; la sconfitta avrebbe loro precluso ogni possibilità di futuri successi. La vittoria, d’altra parte, appariva assai meno probabile che nel 1052. Erano inferiori per numero, e non avevano alleati; persino i salernitani, che dovevano al valore normanno l’indipendenza della loro città e la vita stessa, li ave­ vano abbandonati nel momento del bisogno. Schierati di fronte a loro, si trovavano non solo due eserciti, quello bizantino e quello del papa, ma anche tutta la popolazione indigena della Puglia, che provava verso di loro un odio profondo ed era decisa a fare quanto era in suo potere per sterminarli. A loro vantaggio ave­ vano unicamente la loro formidabile reputazione militare: corag­ gio, coesione, disciplina; e le loro spade affilate. Riccardo di Aversa, radunati tutti i suoi guerrieri, aveva già raggiunto Umfredo; Roberto il Guiscardo era giunto dal cuore della Calabria, conducendo seco una forza militare considerevole. Si può dire che, a parte alcune guarnigioni inamovibili, l ’esercito ora riunito era composto di tutti gli uomini di stirpe normanna che si trovavano nell’Italia meridionale. Le colonne normanne si snodavano attraverso le montagne e già nella pianura pugliese. Il

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primo obiettivo, ovviamente, era quello di impedire a Leone di ricongiungersi ai bizantini. Giungendo a Troia, i normanni piega­ rono verso nord e il 17 giugno del 1053, lungo le rive del Fortore, nei pressi di Civitate, si trovarono faccia a faccia con l’esercito papale. Il racconto della battaglia di Civitate è uno degli episodi meglio documentati di tutta la storia dei normanni nel Sud. I cronisti piu importanti, da parte normanna, ne davano un reso­ conto dettagliato e tutti dicono la stessa cosa. Piu sorprendente è la conferma, pressoché unanime, di queste versioni da parte di fonti germaniche e pontificie, compresa una lettera indirizzata all’imperatore Costantino dallo stesso Leone IX.5 Naturalmente, bisogna fare qualche concessione alla prospettiva personale e poli­ tica; ma in complesso le diverse versioni sono cosi simili, che ci è facile ricostruire un quadro abbastanza realistico dell’avveni­ mento. Né l’una, né l’altra parte aveva fretta di dar battaglia. Il papa voleva aspettare l’arrivo dei bizantini, mentre i normanni, per quanto spregiudicati negli affari del mondo, erano sinceramente preoccupati all’idea di impugnare le armi contro il Vicario di Cristo e speravano ancora in un accordo pacifico. Appena accam­ pati, perciò, inviarono una delegazione a Leone, sottoponendogli umilmente il loro caso ed offrendogli il loro omaggio. Guglielmo di Puglia aggiunge che riconobbero le loro colpe passate e promi­ sero fedeltà e obbedienza. Ma non servi a nulla. Gli alti teutoni dalla lunga chioma bionda canzonarono i nor­ manni per la loro bassa statura... Si fecero attorno al papa e con arro­ ganza gli intimarono: « Comanda ai normanni di abbandonare Fltalia, di deporre qui le loro armi e di far ritorno alla terra da dove sono venuti. Se si rifiutano, allora non accettare le loro proposte ». I nor­ manni ripartirono, addolorati di non aver potuto concludere la pace, e riferirono ai loro le altere risposte dei germanici.6 Cosi, la mattina seguente, nella piccola piana che si apre alla confluenza del Fortore con il suo affluente, lo Staina, ebbe inizio la battaglia. Papa Leone asserisce - e non si può mettere in dubbio 5 G ià citata a p. 100. • G u g l i e l m o d i P u g l i a , G e s ta R o b e r t i W is c a n ii , 11, SO c ss.

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la sua parola - che il primo attacco avvenne quando erano ancora in corso dei negoziati; bisogna però ricordare che egli cercava con ogni mezzo di guadagnar tempo, sperando neirarrivo di Argirio, mentre i normanni, altrettanto consapevoli deiravvicinarsi del­ l’esercito greco, erano impazienti - se cosi doveva essere - che la battaglia iniziasse al più presto. Erano, inoltre, spinti a questo da un’altra e più urgente ragione; morivano di fame. I contadini del luogo si erano rifiutati di rifornirli di viveri e, per metterli a piu dura prova, avevano iniziato il raccolto benché gran parte del grano non fosse ancora maturo. I soldati normanni, spesso, non avevano altro mezzo di sostentamento che una manciata di grano abbrustolita sul fuoco. L ’attacco improvviso da loro sferrato fu forse Túnico modo per affrettare la conclusione. Fu sferrato dall’ala destra normanna comandata da Riccardo di Aversa. Di fronte a lui si trovavano i contingenti italiani e longobardi dell’esercito pontificio. Il Pugliese fa notare che questo contingente eterogeneo era ammassato senza un minimo di ordine militare, non avendo i soldati nessuna idea di come disporsi in ordine di battaglia; Riccardo e i suoi li travolsero come birilli. Al primo urto, infatti, ruppero le file dandosi alla fuga nella mas­ sima confusione inseguiti dagli uomini del conte di Aversa. Nel frattempo, però, Umfredo d’Altavilla che comandava il centro aveva trovato ben altra resistenza da parte degli svevi assoldati da Leone. Le ripetute cariche normanne non riuscivano a sfon­ dare i loro ranghi; questi maneggiavano le grosse spade a doppia impugnatura, con un coraggio ed una fermezza che i normanni non conoscevano più da quando erano giunti in Italia. L ’ala sinistra dell’esercito normanno al comando di Roberto il Guiscardo era formata dal contingente che egli aveva portato con sé dalla Calabria. Gli ordini ricevuti erano di tenersi di riserva e d’intervenire quando e laddove la loro presenza fosse più neces­ saria. E qui lasciamo di nuovo la parola a Guglielmo di Puglia, cercando di cogliere la limpidezza ed il vigore racchiusi nei suoi sciolti versi latini: A llora R o b erto , vedendo il fratello preso nella m orsa di una lotta furiosa, A ssalito d a un nem ico che m ai si sarebbe piegato alla resa, F ece avan zare le truppe dell’alleato, G h erard o, signore

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di Buonalbergo, Insieme a coloro che obbedivano a lui solo, gli spietati calabri a lui devoti, Con stupendo coraggio ed incredibil forza, si gettò nella mischia. Alcuni egli spacciò con la lancia; ad altri le teste fece turbinar qual trottole, Con un colpo di spada; con le sue stesse mani mutilava, Impugnando nella sinistra la lancia, nell'altra la spada, ambidestro balenava, Schivando ogni colpo, lasciando sbigottiti gli assalitori, Tre volte disarcionato, tre volte ribalzò in sella; Fiamma inestinguibile gli ardea nel cuore, presagio di sicuro trionfo. Come affamato leone piomba su minor prede, e sempre s’infuria per ogni sfida al suo potere, Sollevandosi immenso e superbo nell’ira sua, non concedendo quartiere, Sbrana e divora ogni bestia che si pon sul suo cammino, e le altre disperde, Cosi il gran Roberto seminava morte tra le orde sveve che a lui si opponevano. Vari mezzi adottò; ad alcuni dalle caviglie mozzava i piedi, Altri monchi faceva, ad altri ancor staccava dal tronco la testa; Qui un torso squarciato, Qui un altro trafitto nelle costole pur avendo il capo mozzo; E cosi quei corpi slanciati, or tronchi, a media statura eran ridotti, Affinché tutti vedessero che la palma della vittoria s'addice, non ai giganti, ma a chi vanta più modeste spanne.Il Il fattore decisivo per la vittoria dei normanni non fu tanto il coraggio di Roberto e di Umfredo, quanto l ’arrivo sul campo di Riccardo, di ritorno dall’implacabile inseguimento degli italiani e dei longobardi. Egli e i suoi seguaci si gettarono nuovamente nella mischia e questo tempestivo intervento distrusse ogni spe­ ranza nel campo avversario. Ciononostante, i tedeschi non si arre­ sero; quegli stessi teutoni, dalla lunga chioma, che si erano fatti beffe dei normanni bassi e tozzi ed avevano persuaso il papa a respingere le loro proposte di pace, continuarono a combattere e furono uccisi fino all’ultimo uomo. Papa Leone aveva seguito lo svolgersi della battaglia dai ba­ stioni di Civitate. Aveva visto metà del suo esercito costretto ad

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ignominiosa fuga e l’altra metà massacrata. I suoi alleati bizantini lo avevano ingannato; se fossero giunti in tempo, la battaglia avrebbe potuto avere un esito ben diverso, ma ora non avrebbero mai avuto il coraggio di misurarsi da soli contro i normanni. E dovette subire un’altra umiliazione ancora; gli abitanti di Civitate, volendo ingraziarsi i normanni, rifiutarono la sua richiesta di asilo e lo consegnarono in mano al nemico. Ma i normanni, pur vitto­ riosi, non insuperbirono. Nel furore della battaglia si erano trovati troppo impegnati con gli svevi per ricordarsi del loro principale avversario ed ora, vedendo quell’uomo triste ma altero, che stava li, ritto innanzi a loro, si sentirono sgomenti e sopraffatti. Cad­ dero in ginocchio, implorando il suo perdono. Trascorsi due giorni, dedicati alle solenni esequie dei morti, che furono sepolti là dove erano caduti, i normanni scortarono il papa a Benevento. Leone si trovava in una posizione ambigua. Non era, nel senso stretto, prigioniero. Contrariamente a quanto si sarebbe aspettato, i normanni trattarono i personaggi del suo seguito con rispetto e cortesia. Amato dice: Il papa aveva paura e il clero tremava. E i normanni vincitori gli infusero speranza e promisero che con loro il papa sarebbe stato sicuro, e lo condussero con tutta la sua gente a Benevento, provveden­ dolo continuamente di pane e di vino e di tutto ciò che gli poteva abbisognare.7 D ’altra parte, nonostante non gli fosse impedito di occuparsi giornalmente degli affari ecclesiastici inerenti alla sua alta carica, non poteva certo dirsi libero; fu presto evidente che, malgrado la loro sollecitudine, i normanni non avevano nessuna intenzione di permettergli di lasciare Benevento, fino a quando non fosse stato raggiunto un m odus vivendi di loro gradimento. I negoziati, che non saranno stati facili, si protrassero per nove mesi; Leone, per la maggior parte di questo periodo, sembra essersi mostrato intrattabile. Persino nel gennaio del 1054, in una lettera indirizzata da Benevento all’imperatore Costantino (di cui si par­ lerà ancora nel prossimo capitolo) il papa mette in chiaro che, 7 « L i p a p e avoit pa ou r et li clerc trem bloient. E t li N orm ant vin ceor lui d o n n èren t sp era n ce et proierent q u e secu rem en t venist lo pa p e , li quel m èn e­ ront o tout sa g e n i ju sq u e a B o n v en ic , et lui am inistroicnt continuelm ent pain et vin et toute ch o ze necessaire » ( Y stoire d e li N orm ant, III, 38).

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per quanto dipenderà da lui, la lotta continuerà. « Rimarremo fedeli alla nostra missione di liberare la cristianità e deporremo le armi solo quando il pericolo sarà cessato », egli scrive; e aspetta 11 giorno nel quale « questa nazione nemica verrà espulsa dalla Chiesa di Cristo e la cristianità sarà vendicata » dalle forze unite degli imperatori d’Oriente e d’Occidente. Ma con il passare dei mesi, lo stato di salute di Leone andò peggiorando; e poiché En­ rico, di cui aspettava fiducioso l'arrivo con un potente esercito, non si faceva vedere, non gli rimase altra scelta che venire a patti. Non ci è dato sapere quali furono gli accordi presi, né vi sono Bolle papali che attestino investiture; ma possiamo ritenere, con certezza quasi assoluta, che Leone riconobbe d e fa cto tutte le con­ quiste normanne realizzate fino a quell'epoca, che comprendevano pure, assai probabilmente, alcuni territori appartenenti al princi­ pato di Benevento - ma non la città stessa, che rimase sotto la sua sovranità. Una volta raggiunto questo accordo, nulla piu si frapponeva al suo ritorno a Roma e quindi si mise in viaggio il 12 marzo del 1054; Umfredo, sempre cortese, lo accompagnò fino a Capua. Per l'infelice papa, che aveva trascorso i cinque anni del suo duro pontificato in un quasi ininterrotto peregrinare attraverso la Germania e l'Italia, questo fu l'ultimo viaggio; egli, che era abi­ tuato a trascorrere molte ore in sella, fece ora il suo rientro a Roma in lettiga. Esaurito dalle prove subite, deluso dal tradimento deirimperatore che era pure suo cugino, affranto dalla disastrosa sconfitta subita a Civitate e profondamente addolorato dai fulmini scagliatigli da san Pier Damiani ed altri ancora, che attribuivano la sua sconfitta all'ira di Dio contro un papa militarista; durante i lunghi mesi di angoscia trascorsi a Benevento, era rimasto vit­ tima di una malattia che lo consumava provocandogli dolori con­ tinui.8 All'arrivo al Laterano era conscio che la sua fine era pros­ sima. Ordinò che gli venisse subito preparata una tomba in San Pietro e che la sua lettiga fosse posta accanto ad essa; li, il 19 aprile del 1054, nel giorno stesso da lui predetto mori, circondato 8 Non vi è nessuna ragione di credere alle inevitabili dicerie circolate dopo la sua morte, che Leone, come i due suoi predecessori, fosse vittima di un lento veleno somministratogli dietro istigazione di Benedetto IX. Tali dicerie erano ormai comuni dopo la morte di un papa; il Cardinale Benno, che ne fu il prin­ cipale propagatore, giunge perfino ad accusare l’incorreggibile Benedetto di aver fatto assassinare sei papi nel giro di tredici anni.

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dal clero e dal popolo di Roma. La sua morte fu serena e tran­ quilla, ma velata da un senso di fallimento. Nessun papa, più di lui, si era adoperato per la riforma della Chiesa in Italia e di quanti vi avevano posto mano nessuno aveva, nel corso della pro­ pria vita, ottenuto risultati più deludenti. Si dice, però, che du­ rante gli ultimi giorni che trascorse in terra ebbe molte visioni celesti; chissà se gli sarà stato dato d'intravedere come l'opera da lui iniziata si sarebbe in seguito magnificamente sviluppata, e con quale rapidità i semi da lui gettati sarebbero maturati ed avreb­ bero portato frutti. Ancora meno poteva sospettare che, entro trent’anni dalla sua morte, quegli stessi normanni contro cui aveva lottato giuocando il tutto per tutto ed aveva perso sarebbero stati gli unici amici e sostenitori di un risorto Papato. Nel frattempo un nuovo capitolo si era aperto per i normanni nella loro grande avventura in Italia. La battaglia di Civitate era stata altrettanto decisiva per loro, quanto lo sarebbe stata per i loro fratelli e cugini quella che avrebbe avuto luogo, tredici anni più tardi, a Hastings in Inghilterra. Mai più sarebbero stati posti in discussione i diritti basilari dei normanni nell'Italia meridio­ nale; mai più si sarebbe pensato a cacciarli dalla penisola. Ave­ vano dimostrato di essere qualcosa di piu di uno dei tanti ingre­ dienti razziali che andavano a finire nel pentolone italiano; qual­ cosa di piu che semplici rivali dei capuani, dei napoletani o degli ormai avviliti bizantini, nelle scaramucce che scoppiavano tra loro. Questa volta, privi di amici e di alleati, si erano misurati col Vicario di Cristo e con i migliori soldati italiani e tedeschi che egli aveva potuto mettere in campo. Erano stati vittoriosi. I loro possedimenti, già riconosciuti dall'imperatore, erano stati ora con­ fermati tali dal papa. La loro reputazione di guerrieri invincibili aveva raggiunto l'apogeo. D ’ora innanzi il mondo esterno li avreb­ be guardati con maggior rispetto. Tutto ciò, e molte altre cose ancora, che neppur sognavano, se lo erano conquistato in quelle brevi ore di incubo sulle rive del Fortore. Non sono molti i viaggiatori che oggi si recano da quelle parti; ma coloro che vi passano possono vedere, due o tre chilometri a nord-est dell'odierno villaggio di San Paolo di Civi­ tate, le rovine di una vecchia cattedrale, possono ancora scorgere le tracce dei bastioni dalla cima dei quali papa Leone fu testimone della rovina del suo esercito e delle sue speranze. Della città che trattò il papa tanto indegnamente, non rimane piu nulla; venne

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completamente distrutta all’inizio del secolo XV, si direbbe quasi a segno di una divina, seppur ritardata, vendetta. Gli scavi fatti sul luogo, nel 1820, hanno riportato alla luce, fuori del perimetro delle mura, un grande ammasso di scheletri. Erano tutti maschili e portavano segni delle terribili ferite inferte loro; la gran mag­ gioranza appartenevano ad uomini di oltre un metro e ottanta di statura.

CAPITOLO OTTAVO

LO SCISMA Michele, patriarca abusivo neofita, che per solo timore umano ha ricevuto l'abito dei monaci, ed è ora anche diffamato per crimini pes­ simi, e, con lui, Leone detto Vescovo di Ocrida, e cappellano dello stesso Michele, Costantino che ha calpestato con piedi profani il sacri­ ficio dei latini, e tutti i loro seguaci nei suddetti errori e temerarietà, siano anatema maranatha, insieme con i simoniaci, i vallesiani, gli aria­ ni, i donatisti, i nicolaiti, i severiani, i pneumatomachi, e i manichei e i nazareni, e con tutti gli eretici, anzi col demonio e con i suoi angeli, se non si ravvederanno. Amen, amen, amen. Ultimo paragrafo della Bolla di scomunica di Umberto.

Durante la sosta forzata a Benevento, papa Leone si era messo a studiare il greco. Il suo biografo, Wibert, ci dice che lo faceva perché voleva leggere le Sacre Scritture in quella lingua; tale lode­ vole proposito vi sarà pure stato, ma sembra probabile che non fosse estranea alla mente del papa un’altra considerazione, quella cioè di trovarsi avvantaggiato nelle sue trattative con Costantino­ poli, che si facevano sempre più difficili. Dal punto di vista politico era chiaro al papa, ad Argirio e, tramite questi, alFimperatore Costantino, che l’alleanza tra il Pa­ pato e Bisanzio fosse un fattore essenziale se i normanni dovevano venir cacciati dall’Italia. Anche dopo il disastro di Civitate - e quella giornata avrebbe potuto avere un esito ben diverso se i due eserciti si fossero ricongiunti secondo i piani prestabiliti l’alleanza tra l’Impero d’Oriente e Papato avrebbe potuto porre un freno all’avanzata dei normanni. Ma, a tredici mesi dalla bat­ taglia, giunse improvvisa quanto dolorosa la rottura, aggravata da mutue recriminazioni e ingiurie; cosicché, a distanza di meno di un decennio, il Papato avrebbe apertamente ed entusiasticamente sposato la causa dell’espansione normanna. La ragione di un si­ mile capovolgimento non è difficile a spiegarsi; fu la conseguenza di uno dei maggiori disastri che mai colpirono la cristianità: il grande scisma tra la Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente. Riper­ correndo la storia con il senno di poi, vediamo che questa rottura era, prima o poi, inevitabile; ma il fatto che si sia verificata pro-

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prio in quel momento fu dovuto alla tensione allora esistente per la presenza dei normanni neiritalia meridionale e per le pressioni da loro esercitate. Le due Chiese erano andate allontanandosi Tuna dalPaltra da secoli. La discordia che lentamente si manifestava era, in essenza, un riflesso dell'antica rivalità tra latini e greci, tra Roma e Costan­ tinopoli; la prima e fondamentale causa dello scisma va cercata nel crescere e consolidarsi dell'autorità del romano pontefice che, sul piano umano, portava all'arroganza da una parte e al risenti­ mento dalPaltra. L'innato amore dei greci per la discussione e la speculazione teologica era ripugnante e perfino scandaloso per la mentalità dogmatica e legalistica di Roma; mentre per i bizantini, il cui imperatore si fregiava del titolo di Isoapostolo (uguale agli Apostoli) e per i quali le questioni riguardanti il dogma potevano venire risolte solo dallo Spirito Santo che parlava per mezzo del Concilio Ecumenico, il papa era semplicemente il primus inter pares tra i patriarchi, e le sue pretese alla supremazia apparivano arroganti ed ingiustificate. Già nel nono secolo si era quasi giunti ad una crisi. Iniziata con una discussione di carattere puramente amministrativo che riguardava l'arcivescovato di Siracusa, la lite ben presto si estese; prima ad alcune personalità, quando papa Niccolò I espresse dubbi sulla idoneità del patriarca bizantino l’ozio a ricoprire la carica che gli era stata affidata, e poi al dogma, quando Fozio pubblicamente (e a ragione) si lamentò che un ve­ scovo latino, Formoso da Porto, che si trovava in Bulgaria, inveisse contro la Chiesa ortodossa, insistendo perché la parola F ilioqu e fosse inclusa nel Credo niceno. Questa parola, che indica che lo Spirito Santo procede non solo dal Padre ma anche dal Figlio, trovava sempre maggior consenso in Occidente, dove però le si annetteva poca importanza teologica. I bizantini, al contrario, la ritenevano demolitrice dell'equilibrio della Trinità, che era stato cosi accuratamente formulato dai Padri a Nicea, cinque secoli prima; i greci provavano rancore per l’arroganza della Chiesa di Roma che, secondo loro, si permetteva di correggere la parola di Dio, come era stata rivelata ad un Concilio della Chiesa. Dopo la morte di Niccolò I, e grazie alla buona volontà dei suoi succes­ sori e dello stesso Fozio, furono riallacciate relazioni amichevoli, per lo meno in apparenza; il problema, però, rimase insoluto, il Filioqu e continuò a trovare sostenitori in Occidente, mentre a Costantinopoli l'imperatore mantenne la sua pretesa di governare

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quale vice reggente di Cristo in terra. Fu solo questione di tempo, e il contrasto scoppiò di nuovo. L'alleanza tra il Papato e Bisanzio, sulla quale avevano fatto tanto affidamento sia Leone IX che Argirio, era stata fin dall'inizio violentemente ostacolata da Michele Cerulario, patriarca di Costantinopoli. Ex-funzionario governativo e più amministratore che uomo di chiesa, nel 1043 aveva ordinato che Giovanni Orfanotrofos venisse accecato in prigione; intransigente, ambizioso, di mentalità ristretta, era avverso ai latini e di loro non si fidava; soprattutto aveva in odio il concetto della supremazia del papa. Pur non essendo riuscito, grazie alPinfluenza di Argirio, ad im­ pedire l'alleanza, era deciso ad intralciarla con ogni mezzo a sua disposizione. La prima occasione l’ebbe quando sorse una contro­ versia riguardo al rito; avendo egli saputo che, con l’approvazione del papa, i normanni imponevano le usanze latine nelle chiese greche dell'Italia meridionale - specialmente l'uso del pane non lievitato per la Consacrazione - , immediatamente dette ordine alle chiese di rito latino a Costantinopoli di adottare le usanze greche e quando queste si rifiutarono le fece chiudere. Poi, non contento, indusse il capo della Chiesa bulgara, l'arcivescovo Leone di Ocrida, a scrivere al vescovo ortodosso, Giovanni di Trani, in Puglia, una lettera che attaccava violentemente alcune pratiche della Chiesa occidentale, da lui ritenute peccaminose e « giudaicizzanti ». Questa lettera conteneva precise istruzioni a Giovanni di farla pervenire a tutti i vescovi dei franchi, ai monaci, al popolo e allo stesso « venerabile pontefice ». La lettera giunse a Trani nell'estate del 1053, proprio quando Umberto di Mourmoutiers, Cardinale di Silva Candida, attraversava la Puglia per recarsi da Leone, prigio­ niero a Benevento. Giovanni la consegnò immediatamente a Um­ berto, che sostò appena il tempo per farne una sommaria tradu­ zione latina e, giunto a Benevento, sottopose i due documenti al papa. A Leone, già amareggiato dal mancato arrivo dell'esercito bizantino quando piu ve ne sarebbe stato bisogno, questo insulto gratuito giunse come la goccia che fa traboccare il vaso. Indignato, incaricò il cardinale Umberto di redigere una minuta dettagliata, esponendo gli argomenti a sostegno della supremazia del papa e a difesa delle usanze latine che erano state messe in discussione. Il cardinale non andò per il sottile; sia il papa che lui erano ben decisi a rispondere per le rime - la stessa forma d'indirizzo scelta « A Michele di Costantinopoli e a Leone d'Ocrida, vescovi », mi­

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rava a colpire il patriarca nel punto piu vulnerabile - può quindi, forse, considerarsi una fortuna che, prima che questa lettera ve­ nisse spedita, un’altra missiva giungesse a Benevento; questa por­ tava in calce uno sgorbio a lettere purpuree, la firma dello stesso imperatore Costantino. L ’imperatore, infatti, pur con ritardo era venuto a conoscenza delle macchinazioni del patriarca e ne era rimasto scandalizzato; ed era sincero nel volere porvi rimedio. La sua lettera è andata perduta, ma non è probabile che contenesse nulla di molto interessante; la risposta di Leone lascia intravedere che essa esprimeva semplicemente rammarico per la sconfitta di Civitate e avanzava vaghe proposte per un consolidamento del­ l’alleanza. Più sorprendente era il contenuto di una seconda let­ tera, che accompagnava quella dell’imperatore. Questa, a parte una o due espressioni infelici, sembrava irradiare buona volontà e spirito di conciliazione; invocava una maggiore unità tra le Chiese e non faceva nessun riferimento alla controversia sul rito latino. La firma era quella di Michele Cerulario, patriarca di Co­ stantinopoli. Sembra che Cerulario, essendosi finalmente lasciato convincere dall’imperatore - o più probabilmente da Giovanni, vescovo di Trani - della gravità della posta in giuoco, pur controvoglia, abbia fatto un tentativo sincero per ricomporre la frattura; sarebbe stato piu saggio, da parte di Leone, passare sopra, senza dare im­ portanza, all’indirizzo di « Fratello » in sostituzione di « Padre » ed altre piccole punzecchiature del genere. Ma egli era stanco ed ammalato e, ad istigazione del cardinale Umberto, che nel corso degli avvenimenti che seguirono si mostrò altrettanto astioso e bigotto quanto il patriarca, decise di non fare concessioni. Accon­ senti alla proposta di inviare dei legati a Costantinopoli, per met­ tere in chiaro la questione una volta per sempre, e permise al cardinale Umberto di scrivere altre due lettere, in suo nome, che i legati avrebbero dovuto consegnare. Nella prima, diretta a Ce­ rulario, questi veniva chiamato « arcivescovo », che era già un gesto di cortesia; ma, nel contenuto, era altrettanto aggressiva quanto quella scritta in precedenza e si preoccupava non solo di difendere il rito latino, ma rinfacciava al patriarca la sua pre­ sunzione per aver osato contestarne la validità. Lo rimproverava pure per aver avuto la pretesa di arrogarsi un’autorità ecume­ nica - questo probabilmente era un malinteso dovuto ad un errore nella traduzione in latino della lettera del patriarca - ed infine

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metteva in dubbio la validità deirelezione del Cerulario, definen­ dola non canonica; quest’ultima accusa era del tutto ingiustificata. La seconda lettera di Leone era indirizzata alPimperatore e trat­ tava, come abbiamo visto, principalmente di questioni politiche, ribadiva, in particolare, la sua ferma intenzione di continuare la guerra contro i normanni. Aveva però un pungiglione nella coda; Pultimo paragrafo conteneva una violenta protesta contro il pa­ triarca ortodosso per le sue « molte ed intollerabili presunzioni » c dichiarava che se il patriarca avesse perseverato in esse « e che Dio ciò non voglia, non potrà contare sulla Nostra benevola consi­ derazione ». Forse per addolcire questa minaccia velata, il papa concludeva tessendo gli elogi dei legati che egli inviava a Costan­ tinopoli. Si augurava che a questi sarebbe stata concessa ogni assistenza nello svolgimento della loro missione e che avrebbero trovato il patriarca opportunamente pentito. La tattica era sbagliata. Se il papa aveva a cuore Palleanza con Bisanzio - e i bizantini erano, in fin dei conti, gli unici alleati sui quali poteva fare affidamento contro la minaccia normanna era stoltezza respingere Poccasione di riconciliarsi con la Chiesa ortodossa; e, se fosse stato meglio informato sulla situazione a Costantinopoli, si sarebbe reso conto che con tutta la buona vo­ lontà, Pimperatore non sarebbe riuscito a prevalere sul patriarca, che non solo aveva un carattere molto piu forte di Costantino che era ormai un uomo ammalato e reso storpio dalla paralisi ma che era sostenuto dalPopinione pubblica. Eppoi, non dimo­ strava certo molto tatto Paver scelto quali legati, incaricati di cosi delicata missione, lo stesso Umberto, dalla mentalità ristretta e noto per la sua antipatia per i greci e altri due, il cancelliere Federico di Lorena e Parcivescovo Pietro di Amalfi, che avendo anche loro combattuto a Civitate, probabilmente al pari di Leone, non vedevano di buon occhio i bizantini per essere questi venuti meno ai loro impegni. Questo trio, dalle labbra serrate, si mise in viaggio alPinizio della primavera del 1054 e giunse a Costantinopoli ai primi di aprile. Subito le cose presero una brutta piega. I legati si reca­ rono immediatamente dal patriarca, ma si ritennero offesi per il modo con cui furono ricevuti e, dispensandosi dalle consuete ceri­ monie, consegnarono le lettere, voltarono le spalle e se ne anda­ rono senza aver visto il patriarca. Il loro corruccio, però, era poca cosa se paragonato alPira del Cerulario quando ebbe letto la let-

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tera del papa. Questa confermava ì suoi peggiori sospetti. Contra­ riamente al suo parere era stato indotto a fare un gesto concilia­ torio, e d . ora ciò gli veniva rinfacciato. Ma doveva avvenire di peggio: i legati erano stati ricevuti dall’imperatore con Pabituale cortesia e, incoraggiati da questo, resero pubblico, tradotto in gre­ co, il testo integrale della prima lettera pontificia, quella che non era stata spedita - indirizzata al patriarca e a Leone vescovo di Ocrida - , insieme ad un dettagliato pro-memoria sugli usi con­ troversi. Per il patriarca, questo fu il colmo. La lettera suddetta, seb­ bene in forma poco rispettosa, era stata indirizzata a lui, ma fino a quel momento non ne sospettava neppure resistenza, ed ecco che era già oggetto di discussione in tutta, la città. Un esame piu attento della seconda lettera - che, bene o male gli era stata reca­ pitata - rivelò che i sigilli erano stati manomessi. Subito il pen­ siero del patriarca volò all’antico nemico, Argirio. Probabilmente, mentre erano in viaggio per Costantinopoli, Umberto ed i suoi col­ leghi si erano fermati in Puglia presso il quartier generale di Argirio e gli avevano mostrato la lettera. E se questi l’aveva vista, forse ne aveva alterato il testo? Dimenticando, nelPira, che Ar­ girio aveva tutto Pinteresse a sanare la discordia tra le due Chiese anziché acuirla, Cerulario decise che i legati non solo si erano mostrati scortesi, ma erano pure disonesti. Si rifiutò quindi di rico­ noscere la loro autorità legatizia e di ricevere, da loro, altre comunicazioni. Una situazione in cui una legazione pontificia, cordialmente accolta dalPimperatore, non era riconosciuta, anzi era ignorata dal patriarca, non poteva durare a lungo. Fu quindi una fortuna per Cerulario che la notizia della morte di papa Leone, giunta a Co­ stantinopoli poche settimane dopo l ’arrivo dei legati, venisse a toglierlo, fino ad un certo punto, dall’imbarazzo. I legati erano i rappresentanti personali del papa e, con la morte del pontefice, cadeva ogni loro qualifica ufficiale. La terza soddisfazione del pa­ triarca, per questo inaspettato sviluppo della situazione, è facile ad immaginarsi; può darsi, però, che tale soddisfazione sia stata alquanto mitigata dall’assenza di qualsiasi turbamento da parte dei legati. In apparenza indifferenti al colpo inferto alla loro posi­ zione ufficiale, essi si mostravano piu arroganti che mai. La pub­ blicazione della lettera pontificia, in risposta a quella di Leone di

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Ocrida, aveva provocato una ferma presa di posizione da parte di un certo Niceta Stethatus, un monaco appartenente al monastero di Studium, che criticava in particolare Tuso fatto dai latini del pane non lievitato, la loro usanza di digiunare il sabato e il loro imporre il celibato al clero. Questo documento, sebbene esplicito e, in alcuni punti, privo di tatto, era però redatto in un linguaggio cortese e rispettoso; tuttavia provocò, da parte del cardinale Um­ berto, in luogo di una risposta ponderata, un torrente di invettive stridule, quasi isteriche. Le pagine si ammucchiavano, in stile am­ polloso, nelle quali Stethatus veniva qualificato ora da « pestifero mezzano » ora da « discepolo del maligno Maometto », insinuando che era più probabile che provenisse dal teatro o dal bordello che da un monastero e, finalmente, scagliando Panatema contro di lui e contro tutti coloro che seguivano la sua « perversa dottrina ». Tale dottrina, però, non veniva in nessun modo confutata; questa straordinaria diatriba probabilmente non ebbe altro effetto che quello di confermare i bizantini nella loro opinione che oramai la Chiesa di Roma era rappresentata da un’accozzaglia di rozzi bar­ bari, con i quali non era pcssibile intendersi. Il Cerulario, lieto di vedere i suoi nemici non solo privi di ogni autorità, ma diventati lo zimbello di tutti, continuava a te­ nersi in disparte. Non intervenne neppure quando Pimperatore, temendo ora e a ragione per Pawenire delPalleanza con il papa, che egli voleva a tutti i costi, obbligò Pinfelice Stethatus a ritrat­ tare tutto ciò che aveva scritto ed a fare le scuse ai legati. Nep­ pure quando il cardinale Umberto risollevò, con Costantino, la dibattuta questione sul F ilioqu e - che era ormai diventata la pie­ tra angolare della teologia bizantina - venne alcuna parola dal palazzo del patriarca; né le più alte autorità ortodosse dettero segno di voler partecipare al poco dignitoso alterco che oramai era sulla bocca di tutti, in città. Alla fine - e il Cerulario lo sapeva - la sua imperturbabilità ebbe Peffetto desiderato. Il car­ dinale Umberto perse Pultimo vestigio di pazienza. Alle tre pome­ ridiane del sabato 16 luglio del 1054, alla presenza di tutto il clero riunito per Pesposizione del Santissimo, i tre ex-legati di Roma, un cardinale, un arcivescovo e un cancelliere del papa, rivestiti i sacri paramenti entrarono nella chiesa di Santa Sofia e salirono alPaltare maggiore sul quale deposero in forma solenne la Bolla di scomunica. Quindi, voltando le spalle, uscirono dalla chiesa, sostando solo pochi secondi per scuotere, simbolicamente,

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la polvere dai loro calzari. Due giorni dopo ripartirono per Roma. A parte il fatto che i legati non erano piu investiti di nessuna autorità ufficiale e quindi la Bolla, secondo la legge canonica, non era più valida, essa nella sua sostanza rimase un documento sor­ prendente. Ecco quanto scrive in proposito Sir Steven Runciman: Pochi documenti cosi importanti hanno contenuto errori cosi facil­ mente dimostrabili. È veramente sorprendente che un uomo colto come lo era Umberto abbia potuto stilare un cosi lamentevole manifesto. Cominciava col rifiutare a Cerulario, sia come persona che come ve­ scovo di Costantinopoli, il titolo di patriarca. Dichiarava che non vi era nulla da eccepire riguardo i cittadini dell’Impero o di Costantino­ poli, ma che tutti coloro che sostenevano Cerulario si rendevano col­ pevoli di simonia (che, come ben sapeva Umberto, era il vizio predo­ minante della sua Chiesa); di incoraggiare l’evirazione (pratica in uso anche a Roma); di volere ribattezzare i fedeli di rito latino (ciò che in quell’epoca non avveniva); di permettere ai preti di sposarsi (cosa non esatta: un uomo ammogliato poteva venire ordinato sacerdote, ma chi aveva già ricevuto il sacramento dell’ordine non poteva ammo­ gliarsi); di battezzare le donne durante le doglie del parto, anche se in agonia (pratica molto comune nel cristianesimo primitivo); di volersi disfare della Legge mosaica (che non era vero); di rifiutare la comu­ nione agli uomini che si radevano la barba e, finalmente, di omettere uno degli articoli del credo (ciò che era in netto contrasto con la verità). Dopo simili accuse, le rimostranze per la chiusura delle chiese di rito latino a Costantinopoli, e per disobbedienza al papa, persero ogni mordente.1 A Costantinopoli, dove la mentalità ristretta e l’arroganza del cardinale Umberto e dei suoi colleghi già li avevano resi antipa­ tici, la notizia della scomunica si divulgò rapidamente. In tutta la città si ebbero dimostrazioni in favore del patriarca. In un primo tempo le manifestazioni erano dirette principalmente contro le chiese di rito latino, ma poco dopo la folla trovò un altro ber­ saglio per la sua ira, lo stesso imperatore; perché si riteneva che la simpatia da lui dimostrata ai legati li avesse incoraggiati nei loro eccessi. Fortunatamente per Costantino, egli aveva sottomano un capro espiatorio. Argino era in Italia, ignaro di quanto stava suc­ cedendo e sempre intento a consolidare l’alleanza con il papa, ma tutti i componenti della sua famiglia si trovavano a Costantinopoli 1 S i r S t e v e n R u n c im a n , T h e Eastern S ch ism .

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e furono immediatamente tratti in arresto. Questo servi, fino a un certo punto, a calmare il furore popolare: ma fu solo quando la Bolla fu pubblicamente data alle fiamme e l'anatema fu ufficial­ mente pronunziato contro gli stessi legati, che l’ordine fu ristabi­ lito e la calma tornò nella capitale. Tale è la serie degli avvenimenti che si svolsero a Costanti­ nopoli airinizio deirestate del 1054, e che portarono allo scisma tra la Chiesa d'Occidente e quella d'Oriente. È una storia triste e poco edificante, perché, per quanto inevitabile doveva essere la rottura, gli avvenimenti che vi condussero non avrebbero mai do­ vuto verificarsi, né vi era ragione valida perché si verificassero. Una maggiore forza di volontà da parte del papa moribondo, o del vecchio imperatore; meno bigotteria da parte deirambizioso patriarca, o del testardo cardinale, e la situazione si poteva sal­ vare. Il colpo fatale fu inferto da un legato privo di autorità, in un periodo di interregno - un papa, infatti era morto, e l'altro non era ancora stato eletto - il quale si serviva inoltre, per lan­ ciare l'anatema, di uno strumento che era al tempo stesso canoni­ camente non valido, ed inesatto nelle sue affermazioni. Sia la sco­ munica da parte latina che quella da parte greca erano dirette personalmente contro i dignitari incriminati, piu che contro le Chiese da essi rappresentate; ambedue avrebbero potuto in seguito essere tolte, e né Tuna né l'altra vennero al momento riconosciute di importanza tale da provocare uno scisma permanente. Di fatto, poi, non lo provocarono, perché per due volte, nei secoli che segui­ rono - nel secolo X III a Lione e nel secolo XV a Firenze - la Chiesa Orientale, per ragioni politiche, si trovò costretta a rico­ noscere la supremazia di Roma. Ma una fasciatura, anche se può celare una piaga aperta, non è capace di guarirla; e malgrado il balsamo applicato dal Concilio Ecumenico nel 1965, la ferita inferta alla Chiesa cristiana, dal cardinale Umberto e dal patriarca Cerulario nove secoli orsono, sanguina ancor oggi.

CAPITOLO NONO

CONSOLIDAMENTO Ruggero, il piu giovane dei fratelli, che la giovinezza e devozione filiale avevano fino ad allora trattenuto a casa, ora seguí i fratelli in Puglia; e il Guiscardo molto si rallegrò per la sua venuta e lo rice­ vette con gli onori dovuti. Poiché egli era un giovane assai bello, di alta statura e di proporzioni eleganti... Egli conservò sempre un carat­ tere amichevole e allegro. Era pure dotato di grande forza fisica e di gran coraggio nei combattimenti. E, in virtù di queste qualità, presto si guadagnò il favore di tutti. M alaterra , I, 19

Neireuforia generale che segui la vittoria riportata a Civitate, i normanni non sospettavano neppure da lontano la gravità degli avvenimenti che si andavano svolgendo a Costantinopoli, dei quali essi avevano, a loro insaputa, fatto scoppiare la prima scintilla; né si rendevano cento che con quella vittoria si erano probabil­ mente salvati dalla totale distruzione. D ’altra parte, però, erano consci che la vittoria riportata su un ingente esercito pontificio aveva di molto accresciuto la loro reputazione. In tutte le città ed i paesi della penisola molti ora li ritenevano invincibili, con­ vinti che avessero stretto qualche sinistro patto con le potenze infernali; mentre coloro che tuttora ritenevano che avrebbero po­ tuto ancora essere sconfitti da forze superiori erano costretti a riconoscere che per il momento tali forze non esistevano. Questa atmosfera incombente di disfattismo offriva ai capi normanni un vantaggio che certo essi non si lasciarono sfuggire; e le cronache degli anni che seguirono narrano una serie pressoché ininterrotta di piccole vittorie, su città che si arrendevano una dopo l'altra senza quasi opporre resistenza. L'obiettivo contro il quale dires­ sero subito i loro sforzi furono quei territori della Puglia ancora soggetti a Bisanzio, dove i greci demoralizzati, privi dell'appoggio del papa, sfortunati nei loro tentativi di negoziato con Enrico III - e che di li a poco si sarebbero trovati privi, per un periodo, della guida di Argirio - si mostravano incapaci di offrire una resi­ stenza prolungata. Alla fine del 1055, Oria, Nardò e Lecce ave­ vano capitolato, mentre il Guiscardo, penetrando nel tallone d'Ita-

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lia, aveva con un solo gigantesco balzo occupato Minervino, Otranto e Gallipoli ed andava accumulando tanta potenza e tanta fama che ad un certo punto il conte Umfredo, temendo per se stesso, lo rispedì al suo avamposto isolato in Calabria. Roberto aveva ormai raccolto intorno a sé un considerevole seguito, e il suo secondo soggiorno a San Marco deve essere stato per gli abitanti del luogo ancora più spaventevole del primo. Per loro fortuna non si trattenne a lungo. Una lucrosa spedizione contro i possedimenti meridionali di Gisulfo di Salerno, durante la quale Cosenza ed altre città caddero in potere dei normanni, 10 tenne occupato per qualche mese; poco dopo il suo ritorno al campo, giunsero dei messi che lo avvertirono di recarsi in fretta a Melfi. Il conte Umfredo era moribondo. I fratellastri non erano mai andati molto d’accordo - Guglielmo di Puglia narra che in una certa occasione Roberto provocò l ’ira del conte al punto che questi lo fece rinchiudere in una cupa prigione sotterranea - ma sembra che Umfredo si sia reso conto che non poteva avere altro successore, e nominò Roberto tutore e protettore del figlio Abe­ lardo, ancora in fasce, e amministratore di tutte le sue terre du­ rante la minore età di questi. Nella primavera del 1057 mori. Umfredo era stato un uomo duro, geloso, vendicativo, con una vena di crudeltà rivelatasi in occasione delle selvagge torture in­ flitte agli assassini del fratello Drogone e ad alcuni capi che erano venuti meno ai loro impegni a Civitate; ma anche se gli mancava 11 buon cuore di Drogone e l’allegra ostentazione di Guglielmo Braccio di Ferro e se, già qualche tempo prima di morire, era esacerbato perché si sentiva offuscato dalla fama del giovane Gui­ scardo, il conte Umfredo si era dimostrato un capo potente e co­ raggioso, ricco di tutte quelle qualità che, in meno di un venten­ nio, avevano reso celebre il nome degli Altavilla in mezza Europa. Forse, vedendo Umfredo sepolto a fianco di Guglielmo e di Drogone nel monastero della SS. Trinità a Venosa, Roberto avrà versato qualche lacrima. Goffredo, l’unico fratello maggiore superstite in Italia, non si era distinto in maniera particolare; Guglielmo, conte del Principato e Maugero, conte della Capita­ nata, due fratelli minori di recente arrivati, si stavano facendo strada - specialmente Guglielmo, che aveva già tolto il castello di San Nicandro, presso Eboli, al principe di Salerno: ma né loro, ne alcun altro barone normanno, potevano essere paragonati al Guiscardo per potenza e prestigio. Come aveva previsto Umfredo,

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a Roberto andava la successione. E come era da aspettarsi da lui, ancor prima della sua elezione egli si era impossessato di tutte le terre appartenenti al nipote e pupillo Abelardo e le aveva unite alle sue. Quando, nell'agosto del 1057, dai normanni riuniti a Melfi, venne ufficialmente acclamato successore del fratello e tutte le proprietà private di Umfredo gli vennero devolute, il Guiscardo si trovò ad essere il piu grande proprietario terriero e l'uomo più potente di tutta l’Italia meridionale. Per giungere a questo aveva impiegato solo undici anni. Ma benché Roberto fosse ormai il piu potente, Riccardo di Aversa, il suo rivale piu pericoloso, non era molto da meno. I normanni di Melfi e quelli di Aversa erano due gruppi ben di­ stinti e perciò Riccardo non aveva avanzato pretese alla succes­ sione dei domini normanni in Puglia; anche perché era stato im­ pegnato altrove. Il giovane Gisulfo di Salerno, malgrado gli sforzi dello zio Guido di Sorrento per trattenerlo, sin dal giorno del­ l'assunzione al potere aveva cercato di ostacolare i normanni con ogni mezzo possibile. Era una politica ottusa perché, specie dopo la vittoria di Ci vitate (dove i salernitani avevano brillato per la loro assenza), i principi longobardi nel Sud non potevano più spe­ rare di frenare la marea normanna, e la politica di collaborazione, che aveva dato risultati cosi felici ai tempi di suo padre, Guaimaro, era ora più che mai essenziale se Salerno voleva mantenere la propria indipendenza; Gisulfo però attirò ben presto su di sé l ’osti­ lità armata di Riccardo di Aversa e riuscì a mantenersi sul trono solo in virtù di un’alleanza contratta all'ultimo momento con Amalfi; mentre Riccardo a nord, e Roberto e Guglielmo di Alta­ villa a sud razziavano e depredavano di continuo lungo le sue frontiere e assottigliavano senza posa i suoi territori salernitani, fino a lasciarlo in possesso della sola città o poco più. I giorni di Salerno erano contati, ma non fu questo il primo principato longobardo a soccombere alle armi normanne. Fin dal 1052, Riccardo aveva preso di mira Capua, dove il giovane prin­ cipe Pandolfo, figlio del Lupo degli Abruzzi, dimostrava di avere ereditato poco o nulla del vigore militare o del senso politico dell'odioso padre. Già un’altra volta il conte di Aversa aveva scon­ fitto i capuani, obbligando i disgraziati abitanti della città a ricom­ prarsi la perduta libertà al prezzo di settemila pezzi d'oro; quando nel 1057 Pandolfo mori, Riccardo sferrò un nuovo colpo. In pochi giorni aveva circondato Capua di torri d'osservazione fortificate,

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tagliando fuori i cittadini dai campi e dai poderi dai quali traevano i loro mezzi di sussistenza. I capuani si difesero valorosamente; « le donne portavano le pietre ai loro uomini e riconfortavano i mariti, i padri insegnavano alle figlie Tarte della guerra; e cosi combattevano le une a fianco degli altri, incoraggiandosi vicende­ volmente ».* Ma la città non era preparata a resistere ad un assedio e poco dopo, sotto la minaccia della fame, i cittadini dovettero intavolare negoziati di pace. Questa volta un riscatto era impos­ sibile, Riccardo era deciso ad impossessarsi della città, ed era di­ sposto a concedere soltanto che le chiavi della città e la cittadella rimanessero, almeno nominalmente, in mano ai cittadini, che in effetti le tennero per circa altri quattro anni. Nel frattempo Ric­ cardo il Normanno divenne principe di Capua, e la sovranità lon­ gobarda, che era durata per piu di due secoli, venne ad estinguersi. Per Salerno, la situazione si faceva sempre più disperata; ma Riccardo non aveva fretta di impossessarsene, mentre altre e più facili conquiste si profilavano altrove. Nella vicina Gaeta aveva già stipulato un contratto nuziale tra la propria figlia ed il figlio del duca regnante Atenolfo; il promesso sposo, però, era deceduto nelPautunno del 1058, poco prima della data fissata per le nozze. In simili circostanze, ci si sarebbe aspettati che il mancato suocero avrebbe porto le condoglianze al padre cosi duramente colpito, al contrario il nuovo principe di Capua si rivolse al duca Atenolfo per chiedergli il M orgengab, in base al quale, secondo la legge lon­ gobarda, un quarto delle sostanze del marito diventavano di pro­ prietà della moglie dopo il matrimonio. Nel far questo, Riccardo non aveva giustificazione alcuna; come implica la parola stessa, il M orgengab era pagabile solo il giorno dopo le nozze a testimo­ nianza che il matrimonio era stato consumato.12 Atenolfo, natural­ mente, rifiutò, e ciò diede a Riccardo il pretesto che andava cer­ cando. Tra i modesti appannaggi di Gaeta vi era a quel tempo la piccola contea di Aquino che si trovava a poca distanza, oltre le montagne, a nord; entro pochi giorni, questa innocente ed ignara

1 A m a t o , Ystoire de li Norniant, IV, 28. 2 « Questa famosa donazione, in riconoscimento della verginità, poteva equivalere ad un quarto delle sostanze del marito. Alcune fanciulle astute alle volte dimostravano abbastanza senno per farsi fare in anticipo una dona­ zione che erano sicure di non m eritare» ( G ibbon , The Decline and Fall of the Roman Em pire, cap. XXXI).

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cittadina si trovò presa d’assedio, mentre le terre ed i villaggi cir­ costanti venivano saccheggiati e bruciati dai normanni. È questo un esempio tipico dei metodi più vili adottati dai nor­ manni: il ricorrere ad un cavillo legale, per lo piu insostenibile, nel tentativo di far ricadere la colpa sulla vittima prescelta; poi 10 sferrare l’attacco, quando possibile con una forza di gran lunga superiore, senza riguardo alla giustizia e all’umanità. Queste tec­ niche sono purtroppo abituali anche ai giorni nostri; piu caratte­ ristico di quella gente e di quei tempi invece il fatto che, mentre era in atto l’assedio di Aquino, il principe di Capua compisse la sua prima visita ufficiale a Montecassino, che si trovava a soli pochi chilometri, per ricevervi un’accoglienza da trionfatore. Il mona­ stero, che aveva sempre fatto parte del territorio di Capua, aveva sofferto molto a lungo, come abbiamo visto, ad opera dei prede­ cessori di Riccardo. L ’ultimo dei Pandolfi, pur non essendo che una povera ombra del padre, aveva continuato la tradizione di oppres­ sione e di persecuzione con immutato vigore. Qualsiasi conquista­ tore, fosse pur normanno, capace di liberare Montecassino da un cosi odioso regime, poteva essere sicuro di trovarvi accoglienza entusiastica. Amato, che probabilmente ne fu testimonio oculare, ci ha lasciato la sua descrizione della scena: E poi, il principe seguito da pochi uomini sali a Montecassino per rendere grazie a s. Benedetto. Fu ricevuto con onori regali; la chiesa era addobbata come per le feste pasquali, le lampade erano accese, il cortile risuonava di canti e di lodi del principe... L’abate, con le sue stesse mani, gli lavò i piedi, e la cura e la difesa del monastero gli furono affidate... Ed egli giurò che non avrebbe mai fatto pace con coloro che tentassero di privare la Chiesa dei suoi beni.3 Ma vi era un’altra, più profonda ragione, per la calorosa acco­ glienza riservata al principe di Capua. Fino alla primavera del 1058, il monastero era stato sotto il controllo di Federico di Lo­ rena, uno dei veterani di Civitate e della fatidica legazione inviata a Costantinopoli, sempre accanitamente antinormanno; questi era stato eletto abate l’anno precedente ed aveva assunto nominalmente la carica durante gli otto mesi del suo pontificato per il quale prese 11 nome di Stefano IX.4 Il 29 marzo di quell’anno, papa Stefano 3 A m a t o , Ystoire de li Normant, IV, 13. 4 Vi è una certa confusione tra gli storici circa la numerazione dei vari

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morí e i monaci elessero un nuovo abate nella persona del trentu­ nenne Desiderio di Benevento. La carriera di Desiderio ci offre un ammirevole esempio della dottrina della n oblesse o b lig e, cosí come era concepita dalPItalia del secolo decimoprimo. Appartenente alla dinastia regnante di Benevento, egli aveva visto morire suo padre, ucciso nel 1047 dai normanni nel corso di una scaramuccia. Que­ sto avvenimento lo aveva deciso a rinunciare al mondo. Per un principe longobardo, non era questa una decisione facile a pren­ dersi. Per due volte, prima di aver compiuto i venticinque anni, aveva cercato rifugio in una cella monastica; per due volte era stato rintracciato e riportato a forza a Benevento. Quando la sua famiglia fu espulsa dalla città nel 1050, la situazione divenne più facile, e di nuovo egli fuggì, prima in una delle isole delle Tremiti nell’Adriatico, poi nella desolazione della Majella, ma dopo poco venne richiamato anche da li - questa volta da papa Leone IX , il quale aveva da poco preso possesso di Benevento e capiva che la sua posizione sarebbe stata rafforzata nei riguardi dei soste­ nitori della passata dinastia, se Pultimo erede di questa, il giovane principe che era già stato ricevuto nelPOrdine benedettino, fosse stato chiamato a far parte del suo seguito. Desiderio si mostrò un fedele servitore di papa Leone, ma Lambiente della Curia poco gli si confaceva. Alla morte del papa si ritirò a Montecassino dove sperava potersi dedicare nuovamente alla vita contemplativa. Per quattro anni sembrava esservi riuscito ma, alPinizio del 1058, lo troviamo chiamato a far parte di una nuova legazione inviata dal papa a Costantinopoli; la notizia della morte di papa Stefano, che lo raggiunse a Bari, gli permise di interrompere il suo viaggio. Grazie al dono di tre cavalli e al salvacondotto concessogli da Roberto il Guiscardo, gli fu possibile attraversare i possedimenti normanni e tornarsene per la via piu breve a Montecassino; giun­ tovi, il giorno dopo il suo arrivo fu eletto abate. Sempre contro voglia, Desiderio era destinato a svolgere ruoli importanti negli affari di Stato, sia ecclesiastici che laici, per altri Stefani che sono saliti al trono pontifìcio e ciò dipende dal fatto che alcuni di essi riconoscono uno Stefano II, che succedette a papa Zaccaria nel 752, ma mori dopo quattro giorni e prima di essere stato incoronato. Per questa ra­ gione, Federico di Lorena è alle volte detto Stefano X. La maggior parte degli storici preferiscono chiamarlo Stefano IX : questo è il titolo che si trova nelriscrizione sulla sua tomba, secondo quanto ordinò il fratello Goffredo il Barbuto, e si ritiene che questi doveva essere nel giusto. [Nell'Annuario Pon­ tifìcio è elencato come Stefano X. N .d .T .]

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venticinque anni, finché lui stesso sali sul trono di Pietro con il nome di Vittore III. Poco dopo la vittoria di Ci vitate, e certamente assai prima di qualsiasi altro ecclesiastico influente, egli si rese conto della realtà ormai scontata che dominava il quadro politico dell’Italia meridionale - ossia che i normanni, in Italia, avevano messo radice e che l’opporsi ad essi sarebbe stato non solo inutile ma anche fatale. Solo mantenendosi ad ogni costo nelle loro buone grazie il monastero poteva sopravvivere. Gli avvenimenti dimostra­ rono quanto avesse ragione. Amato ci ha già reso nota la promessa del principe di Capua - certo dovuta all’accoglienza fattagli da Desiderio - di proteggere i beni del monastero, ed entro una o due settimane questa promessa era stata suggellata da un documento ufficiale che confermava alla grande abbazia tutte le sue terre e possedimenti. Benché Desiderio si sia dimostrato molto saggio nel perseguire questa sua politica, il fatto che l’avesse manifestata proprio quando la vicina Aquino era impegnata in una lotta mortale contro una immane forza normanna può sembrare alquanto disumano; proba­ bilmente fu per mantenersi in qualche modo in buoni rapporti con Aquino, che egli colse l’occasione della presenza di Riccardo e della benevolenza da questi manifestatagli, per suggerire che le sue richieste riguardo al M orgengab avrebbero potuto forse essere ri­ dotte, e che la somma richiesta al duca Atenolfo fosse di quattro­ mila soldi anziché cinquemila, poiché il duca « era povero », come spiega Amato. Per una volta il principe di Capua fece una conces­ sione; il disgraziato Atenolfo, dopo qualche settimana di disperata resistenza, in cui Aquino venne ridotta alla fame, fu infine co­ stretto a pagare. Alla popolazione dell’Italia meridionale la progenie del vec­ chio Tancredi di Altavilla doveva sembrare sterminata. Ben sette dei suoi figli avevano impresso il loro marchio sulla penisola; quat­ tro di questi erano assurti al potere supremo, mentre altri tre si erano solidamente stabiliti tra i primi ranghi dei grandi baroni nor­ manni. E questa fonte straordinaria non dava segni di volersi esau­ rire perché ora entrava in campo un altro fratello, l ’ottavo, Rug­ gero, che aveva, a quell’epoca, circa ventisei anni. Benché il piu giovane, doveva mostrarsi capace di tener testa a tutti gli altri,

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mentre per i patiti del regno normanno in Sicilia, egli è il piu grande ed il piu importante.5 Come quasi tutti i giovani normanni al loro arrivo in Italia, Ruggero si diresse immediatamente a Melfi; non può esservi rimasto a lungo perché già neirautunno del 1057 lo troviamo in Calabria al seguito di Roberto il Guiscardo, che vi aveva fatto ritorno subito dopo rinvestitura. Il nuovo conte di Puglia evidentemente non vedeva nulla di incompatibile tra la vita di brigantaggio trascorsa prima e la nuova dignità alla quale era assurto, e fu a questa vita lucrosa, seppur precaria, che ora introdusse il girvane fratello. Rug­ gero si mostrò un abile allievo. Accampato nei pressi di Capo Va­ ticano sulla cima della piu alta montagna della regione, di modo che la popolazione del luogo non avesse mai a dimenticare la sua presenza, lui ed i suoi uomini in poco tempo sottomisero una buona parte della Calabria occidentale. Tale fu il successo da lui ripor­ tato che quando alcuni mesi piu tardi il Guiscardo dovè tornare in fretta a sedare una insurrezione circoscritta in Puglia - cosa che doveva verificarsi molto spesso negli anni a venire - egli non esitò a lasciare Ruggero quale suo rappresentante in Calabria. Quando poi l’insurrezione, nonostante tutti i suoi sforzi, raggiunse proporzioni tali che la stessa Melfi cadde in mano ai ribelli, fu a Ruggero che si trovava in Calabria, che Roberto si rivolse per aiuto. L ’arrivo di Ruggero si dimostrò un fattore decisivo e l ’insurrezione fu completamente sedata. Fu una collaborazione felice, ma breve. La rottura avvenne, a quanto sembra, per colpa di Roberto. Egli era sempre stato noto per la sua liberalità verso i suoi seguaci; ora invece, nei riguardi di suo fratello cominciò a mostrare una parsimonia altrettanto poco caratteristica quanto inflessibile al punto che Ruggero - il quale durante i primi mesi della loro collaborazione aveva doverosa­ mente inviato a Roberto, in Puglia, buona parte del bottino rac­ colto durante la prima campagna in Calabria - venne a trovarsi senza i mezzi necessari per pagare gli uomini al suo seguito. Ciò, per lo meno, è quanto narra Malaterra. La sua cronaca, scritta alcuni anni dopo a richiesta di Ruggero, potrà forse essere ten­ denziosa su questo punto, ma non è improbabile che questa sia 5 Ruggero viene alle volte soprannominato Bosso; ma questo nome non viene usato di frequente, non è necessario né melodico, quindi può essere ignorato. Tende pure a confonderlo con il nipote: Ruggero Borsa, di cui faremo conoscenza più in là.

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la verità. Si trattava forse di un aspetto nuovo del carattere del Guiscardo, che si rivelava per la prima volta - gelosia del fratello molto più giovane di lui, ma non meno di lui ambizioso e capace. Vi sarebbe stato posto per entrambi in Italia? Ad ogni modo, agli inizi del 1058, incollerito, Ruggero abban­ donò il fratello Roberto. Uno dei vantaggi che gli derivava dal­ l’essere giunto cosi in ritardo in Italia era che vi si trovavano ora saldamente stabiliti molti suoi fratelli, ed egli poteva rivolgersi ora alleino ora all’altro; accettò pertanto l’invito di Guglielmo conte del Principato che, a soli quattro anni dal suo giungere in Italia, si era reso padrone di quasi tutto il territorio di Salerno a sud della città e che offriva a Ruggero di condividere con lui tutto ciò che possedeva in misura uguale « ad eccezione » come Malaterra ha cura di precisare « della moglie e dei figli ». Fu cosi che di li a poco Ruggero si trovò installato in un castello sul mare a Scalea, posizione strategica di prim’ordine dalla quale effettuare lucrose incursioni, specie per razziare cavalli e fare scorrerie nei territori appartenenti al Guiscardo. Questo periodo deve aver fruttato bene a Ruggero. Malaterra narra come una volta, con un sol colpo - era in agguato di un gruppo di mercanti che tornavano ad Amalfi - si assicurò un cosi ricco bottino sia in beni che in denaro di riscatto, che poté assoldare altri cento uomini per ingros­ sare le file del suo esercito. Ma questo giovane era destinato a ben altro che una vita di brigantaggio e ripercorrendo all’indietro la storia ci accorgiamo che il momento decisivo per lui, dopo il suo arrivo in Italia, fu Fanno 1058, quando una terribile carestia colpi tutta la Calabria. I nor­ manni stessi furono causa di tanto disastro; la terribile tattica, da loro impiegata, della terra bruciata fece si che per sterminate zone non vi fosse piu né un albero d’ulivo né un campo da coltivare. Anche coloro che disponevano di denaro non trovarono nulla da comperare, altri erano obbligati a vendere come schiavi i propri figli... Quelli che non avevano piu vino erano costretti a bere acqua, che pro­ vocò una epidemia di dissenteria e spesso un’affezione alla milza. Altri, al contrario, cercavano di mantenersi in forze con eccessive libagioni, ma cosi facendo aumentavano il calore naturale del corpo fino a cau­ sare disturbi al cuore, già indebolito per mancanza di pane, e provo­ care cosi nuove fermentazioni interne. La santa osservanza della Qua­ resima, tanto predicata dai santi e reverendi padri, non veniva più

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rispettata, perché venivano consumati non soltanto latte e formaggio, in grandi quantità, ma anche carni - e questo da persone che avevano la pretesa di essere considerate rispettabili. Quest’ultima frase del Malaterra fa pensare che, all’inizio del­ l ’anno almeno, la situazione non doveva essere troppo disastrosa, ma i disgraziati calabresi si trovarono ben presto ridotti agli estremi. Tentavano di fare il pane con le erbe raccolte lungo i fiumi, con la scorza di alcuni alberi, con le castagne, con le ghiande, che di solito si davano ai maiali; queste venivano prima fatte seccare, poi macinate e quindi mischiate con un po' di miglio. Altri si accontentavano di radici crude condite con un po' di sale, ma queste ostruivano gli intestini, causando pallore del volto e rigonfiamento dello stomaco, tanto che le pie madri preferivano togliere il boccone di bocca ai figli, piuttosto che permettere loro di ingoiarlo. Dopo parecchi mesi di condizioni simili, seguiti da un raccolto quasi altrettanto misero di quello dell’annata precedente, il popolo in preda alla disperazione si sollevò contro gli oppressori normanni. La rivolta iniziò col rifiuto di pagare le imposte o di presentarsi per il servizio militare e prosegui con il massacro di sessanta uomini che formavano la guarnigione normanna a Nicastro; quindi si estese a tutta la Calabria. Roberto il Guiscardo, i cui possedi­ menti erano fin troppo estesi e che si trovava ancora impegnato a difendere i suoi territori in Puglia, si andava abituando alle pic­ cole insurrezioni locali, ma queste di solito si limitavano a modesti gruppi di nobili insoddisfatti. Questa volta invece, con tutta la popo­ lazione in armi e la rivolta che andava estendendosi su un’area sempre più vasta, la situazione era più grave. Era chiaro che non poteva più tollerare le piccole scaramucce intestine che non solo logoravano le sue forze ma, come era ovvio dagli avvenimenti in Calabria ed altrove, incoraggiavano l’insubordinazione tra i suoi stessi sudditi. Furono inviati d’urgenza messi a Ruggero, che si trovava a Scalea, e questa volta egli non poté accusare il Guiscardo di mancanza di generosità nelle condizioni che gli offriva. Se Rug­ gero fosse riuscito a sedare l'insurrezione in Calabria, gli sarebbero spettati la metà dei territori da lui sottomessi, piu tutti i territori ancora da conquistare tra Squillace e Reggio. Ruggero e Roberto avrebbero, inoltre, goduto dei medesimi privilegi in ogni città e paese.

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Per il conte di Puglia, era questa Punica via ancora aperta. Egli aveva abbracciato più di quanto, in quel momento, poteva stringere. In una regione cosi deserta e montagnosa, dagli abitanti inquieti e dalle comunicazioni tanto incerte, nessun principe, per quanto potente, poteva illudersi di mantenere da solo, saldamente, il potere. Ruggero non si lasciò sfuggire Poccasione. Scese giù lun­ go la costa, con tutti i soldati che poté radunare. Non si sa se gli fu possibile alleviare la miseria dei suoi futuri sudditi, la storia non lo dice; non sappiamo neppure se si adoprò molto in questo senso. Né i cronisti parlano delle misure che egli adottò contro gli insorti - ma mai piu fecero menzione della insurrezione in Calabria. Mentre il giovane fratello stava riportando Pordine nelle re­ gioni del Sud, Roberto il Guiscardo - probabilmente con una certa riluttanza - stava studiando piani di consolidamento. Il suo istinto 10 portava piu alla conquista che a mantenere quanto già aveva conquistato e le sue ambizioni a lunga scadenza erano, come sem­ pre, rivolte alPespansione e a un sempre più vasto dominio. Era chiaro però che il suo dominio non avrebbe potuto estendersi fin tanto che non avesse potuto tenere i suoi vassalli di Puglia sotto un più stretto controllo. I longobardi in particolare, pur non costi­ tuendo più una minaccia alla sua autorità, erano sempre di con­ tinuo, irritante intralcio al suo progresso. Con il declino del loro potere politico, sembrava accresciuto il loro senso di solidarietà nazionale. Ritenendo, e a ragione, di essere stati traditi dai loro alleati di un tempo, i normanni, essi si tenevano in disparte, acci­ gliati, rifiutandosi di collaborare, senza cercare di nascondere il loro risentimento. Era necessario quindi trovare una via per riconciliare almeno in parte i longobardi con i loro signori normanni. A quei tempi 11 sistema tradizionale per risolvere simili problemi era Pimparentamento matrimoniale, ma anche in questo campo sorgevano diffi­ coltà. Una sola famiglia longobarda di sufficiente prestigio e di alto lignaggio era rimasta in Italia - la famiglia regnante di Sa­ lerno. Il principe Gisulfo aveva una sorella, Sichelgaita, ma disgra­ ziatamente, Punico figlio del conte di Puglia, Boemondo, che aveva avuto dalla moglie Alberada di Buonalbergo, era poco piu di un bimbo in fasce e quindi non in età di sposarsi, neppure secondo il costume medioevale. Non vi era perciò possibilità di risolvere il dilemma in questo modo. Roberto il Guiscardo, però, non era tipo da perdersi per cosi poco. Proprio allora quindi si accorse, con

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gran sfoggio di costernazione, che il suo matrimonio con Alberada rientrava nei limiti proibiti di parentela. Egli era, quindi, legal­ mente ancora celibe e Boemondo era un bastardo. Perché non spo­ sare lui stesso Sichelgaita, riunendo cosi le due grandi famiglie regnanti dei normanni e dei longobardi nella sovranità dei suoi vasti domini nell’Italia meridionale?6 Non risulta che Gisulfo si sia dimostrato eccessivamente entu­ siasta all’idea. Aveva sempre odiato i normanni che lo avevano spogliato di quasi tutti i suoi possedimenti e che, secondo Gu­ glielmo di Puglia, egli ed i suoi compatrioti consideravano « una razza selvaggia, barbara ed abominevole ».7 D ’altra parte, papa Stefano da cui aveva sperato di ottenere un appoggio era morto di recente; Gisulfo si trovava in una posizione disperata ed aveva bisogno di un alleato capace di tenere a bada Riccardo di Capua e Guglielmo d’Altavilla. Nessuno se non il Guiscardo poteva tenere a freno il proprio fratello. E cosi, con estrema riluttanza, il principe di Salerno diede il suo consenso alle nozze - a condizione, però, che prima Guglielmo venisse ridotto alla ragione. Roberto non chie­ deva di meglio. Già era in collera con Guglielmo per aver portato Ruggero sulla cattiva strada ed incoraggiato le sue scappatelle da Scalea, ed era felicissimo di prendersi una rivincita. I cavalieri del suo seguito ed i suoi vassalli si stavano ora stringendo attorno a lui per le festività che avrebbero accompagnato le sue prossime nozze; egli si appellò a loro perché lo seguissero in una immediata spedi­ zione punitiva a sud. Il responso fu, come al solito, praticamente unanime. « Nessun cavaliere normanno si rifiutò di seguirlo, ad eccezione di Riccardo (di Capua), perché l’amore e l ’armonia che prima regnavano tra Roberto e Riccardo si erano in quel tempo un po’ affievoliti. »8 6 Sia Delarc che Osborne sostengono che il matrimonio tra Roberto e Sichelgaita non ebbe luogo fino al 1059, dopo il Concilio di Melfi. Ê certo che Niccolò II rese più stringenti le leggi della consanguineità nell'aprile del 1059, e che Roberto poteva avanzare pretesti più convincenti dopo quel­ l'epoca. Se il suo matrimonio con Alberada fosse davvero stato nullo, questo può spiegare come essa non mostrasse nessun risentimento verso Roberto; dopo la sua morte, infatti, essa fece dire delle messe in, suo suffragio e poi venne sepolta vicino a lui a Venosa. Ciò non spiega, però, come mai, poco dopo aver ottenuto l'annullamento, essa andasse sposa a Riccardo, nipote di Roberto e figlio di Drogone. Inoltre Malaterra dice esplicitamente che il matrimonio salernitano ebbe luogo nel 1058 e Amato lo conferma. Sembra doveroso attenersi alla loro opinione.

7 « E sse videbantur g en s effera, barbara, dira. » * A m a t o , Y stoire d e li N orm a nt , IV, 20.

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Messo a posto Guglielmo, Gisulfo non sollevò piu nessuna obiezione alle nozze. Se esistono ancora lettori del Count R obert o f Paris di Walter Scott, forse ricorderanno l’antipatica contessa Bremilde, che ebbe per modello la nuova contessa di Puglia. È questo un ritratto maligno e ingiusto. Sichelgaita era di stampo wagneriano e deve essere vista in questa luce. Con lei ci troviamo faccia a faccia con il tipo piu vicino ad una « valchiria » che la stqria abbia mai dato. Donna di corporatura grandissima e dotata di straordinaria forza fisica, doveva rivelarsi una moglie perfetta per Roberto e dal giorno in cui si sposarono fino al giorno della di lui morte essa non si allontanò quasi mai dal suo fianco - spe­ cialmente durante le battaglie, che erano la sua occupazione pre­ ferita. Anna Comnena, che, come fa notare Gibbon, « ammira con un certo terrore le sue virtù mascoline », riferisce che « quando indossava l’armatura, la donna era spaventosa a vedersi »9 e vedre­ mo come, molti anni dopo, a Durazzo, essa salvò una situazione pericolosa se non addirittura disperata, con il suo coraggio e il suo esempio. In momenti simili, gettandosi nella mischia, la lunga chioma fluente sotto l’elmo, incoraggiava i normanni con grida assordanti o li spronava con imprecazioni: doveva apparire degna di stare accanto alle figlie di Wotan: Waltrude, Grimgerda e per­ sino Brunilde, anche se queste erano certamente più melodiose a udirsi. Per quanto utile possa essere stata per Roberto l’allarmante ferocia della moglie sul campo di battaglia, egli aveva sposato Sichelgaita per ragioni più diplomatiche che militari; e in questo campo il matrimonio gli apportò vantaggi piu duraturi. Il Gui­ scardo acquistò ora agli occhi dei longobardi un prestigio maggiore di quello che le sue straordinarie capacità naturali avrebbero po­ tuto conferirgli. Come dice Guglielmo di Puglia, « questa alleanza con si nobile famiglia aggiunge nuovo lustro al nome già celebre di Roberto. Coloro che fino allora gli avevano ubbidito perché costretti ora lo facevano per rispetto di un’antica legge, ricordando che la razza longobarda era stata per lungo tempo suddita degli antenati di Sichelgaita ». Roberto, senza dubbio, intendeva che anche i' futuri figli nati da questo matrimonio dovessero fruire del nobile sangue longo­ bardo ereditato dalla madre. Se questo non avvenne, non fu per* * A n n a C o m n e n a , Alexiade, I, 15.

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colpa di Sichelgaita. Nel corso degli anni essa infatti lo rese padre di perlomeno dieci figli, di cui tre maschi; nessuno di questi, tut­ tavia, doveva dar prova di quelle doti che avevano portato i geni­ tori alla ribalta della storia. Il sangue longobardo attenuò quello normanno, e Túnico della progenie di Roberto che doveva mo­ strarsi degno di suo padre fu Boemondo - ripudiato come la madre Alberada, che doveva crescere bastardo e diseredato, ma che in seguito sarebbe diventato uno dei principi franchi d’oltremare e uno dei più celebri crociati dei suoi tempi. L ’erede e successore del Guiscardo, benché convinto di poter contare sulla fedeltà dei longobardi, dimostrò durante tutta la vita una debolezza e una timidezza che gli avrebbero guadagnato il disprezzo di suo padre, e dalle conseguenze della quale solo lo zio, Ruggero, un vero nor­ manno, riuscì - in parte - a salvarlo.

CAPITOLO DECIMO

RICON CILIAZIONE L’acquisto del titolo ducale da parte di Roberto il Guiscardo è una faccenda delicata ed oscura. G ibbon ,

LVI

La morte di Leone IX, nel 1054, riportò la Chiesa ad uno stato di grande confusione. Per quanto ferme e risolute fossero state le sue riforme, avevano avuto poco tempo per mettere radici nel ter­ reno sassoso di Roma; con il soggiorno forzato del papa a Benevento, le vecchie famiglie dell’aristocrazia avevano potuto nuova­ mente allearsi e, lui morto, i conti di Tuscolo e i Crescenzi ripre­ sero subito i loro vecchi intrighi. Il partito della riforma era ancora abbastanza potente da impedire una elezione lampo - che avrebbe quasi certamente fatto salire al potere il più prodigo tra i candidati reazionari - ma i due capi piu energici di tale partito, il cardinale Umberto e il cardinale suddiacono Ildebrando, si trovavano ambe­ due all’estero ed era necessario che un’autorità maggiore li appog­ giasse perché la loro volontà potesse prevalere. L ’interregno durò per un anno. Finalmente, dopo che le due parti si erano rivolte ad Enrico III per giungere ad una decisione, il partito della riforma l’ebbe vinta ed Enrico nominò il suo primo consigliere, Gebeardo vescovo di Eichstätt, che sali al trono ponti­ ficio il 13 aprile del 1055 con il nome di Vittore II. Sembra quasi incredibile che l ’immediato successore di papa Leone - tanto più un uomo politico dell’abilità e dell’esperienza di Gebeardo - , salito al trono a due soli anni dai fatti di Civitate, non mostrasse alcun interesse nei confronti del problema normanno; eppure questo ac­ cadde. Lo abbiamo già visto prima, in Germania, opporsi con te­ starda energia a tutti gli sforzi fatti da Leone per allestire un eser­ cito, e gli eventi successivi evidentemente non gli fecero cambiare opinione. Era tutto preso dall’amministrazione ecclesiastica e dagli affari dell’Impero e, al suo arrivo a Roma, non era ancora pronto a prendere in seria considerazione i problemi del Meridione. Nella primavera del 1056, però, una valanga di proteste per i nuovi oltraggi perpetrati dai normanni lo obbligò a riconoscere che aveva

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sottovalutato tali problemi. Leone aveva avuto ragione; non era possibile permettere il prolungarsi di una tale situazione. Nell’ago­ sto fece ritorno in Germania, forse con un po’ di impaccio, per consultarsi con Enrico sul da farsi. L ’imperatore nutriva assoluta fiducia nel suo consigliere di altri tempi; se il papa riteneva neces­ saria una campagna, una campagna ci sarebbe stata. Ma come spesso avveniva quando si trattava di muovere contro i normanni, il destino interveniva a loro favore. Enrico aveva allora trentanove anni, e si può dire che non sapeva cosa fosse essere ammalato. Alla fine di settembre fu improvvisamente colto da fortissima feb­ bre ed entro una settimana mori. Fu una fortuna per ¡ ’Impero che papa Vittore si trovasse in Germania in quel momento. Ad Enrico succedeva, con il titolo di re, il figlioletto cinquenne Enrico IV, sotto la reggenza nominale della madre Agnese di Guienne; ma poiché nessuno dei consiglieri reali stretti attorno al trono aveva conoscenza e intendimento delle questioni dell’Impero quanto il papa, Vittore II per i sei mesi che seguirono si trovò a dover reggere non solo la Chiesa, ma anche l ’Impero di Occidente. Ed ecco che di nuovo gli si presentavano problemi piu impellenti da risolvere di quello dei normanni, e fu probabilmente con un senso di sollievo che li scacciò dalla propria mente. Tornò in Italia solo nella primavera del 1057; ma prima che le disgrazie del Mezzogiorno potessero ottenere tutta la sua atten­ zione, anche egli cadde vittima di una febbre e mori ad Arezzo il 28 luglio. Il gruppo dei suoi seguaci che scortava la salma in Ger­ mania cadde in un agguato e venne derubato a Ravenna; le spoglie del papa furono frettolosamente inumate nel Mausoleo di Teodorico, che era stato trasformato in chiesa.1 Questa volta la successione al trono pontificio si rivelò piu fa­ cile. Non vi era nessun imperatore da consultare, il re di Germania aveva solo sei anni e il cardinale suddiacono Ildebrando,2 il piu autorevole della Curia, si trovava a Roma pronto ad intervenire energicamente. Era stato lui a persuadere Enrico III a nominare Vittore due anni prima, ed ora non ebbe difficoltà ad ottenere il consenso dei cardinali per la nomina del suo candidato Federico 1 « Mentre le sue spoglie venivano trasportate a Eichstätt... alcuni citta­ dini durante il tragitto se ne impossessarono e le deposero nella chiesa di Santa Reparata a Firenze» ( / Papi, Trivulzio, p. 704) (N.d.T.). 1 II card, suddiacono Ildebrando, futuro Gregorio V II, venne creato arcidiacono della Chiesa romana da Papa Stefano X (IX ).

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di Lorena, un tempo vicario di papa Leone e attualmente abate di Montecassino, che prese il nome di Stefano IX.3 Per i normanni l’elezione di papa Stefano sembrava dovesse significare la cata­ strofe. Molti anni prima, si era vantato con papa Leene che avrebbe potuto sterminarli con cento cavalieri; a Civitate gli avevano dimo­ strato che aveva torto e lui non glielo perdonò mai. Sapevano, quindi, i normanni, di avere in lui un nemico implacabile; sape­ vano pure che il fratello maggiore del papa, il duca Goffredo il Barbuto di Lorena, aveva da poco sposato la vedova marchesa Beatrice di Toscana ed aveva perciò sotto il suo controllo lo Stato piu potente e meglio organizzato dell’Italia centro-settentrionale; erano certo al corrente delle voci che circolavano circa le inten­ zioni di papa Stefano di approfittare della minore età di Enrico IV per togliere la corona imperiale alla casa di Franconia e darla alla casa di Lorena. Se Goffredo fosse divenuto imperatore e le forze riunite del Papato e dell'Impero si fossero quindi riversate nel­ l'Italia meridionale, i normanni avrebbero avuto poche probabilità di sopravvivere. Le prime mosse del papa, appena eletto, sembra­ rono confermare le peggiori previsioni. Dato che era tuttora abate titolare di Montecassino, Stefano ordinò al monastero che gli fos­ sero inviate tutte le suppellettili d'oro e d'argento; promettendo di ripagarle in seguito ad alto interesse. (I monaci ubbidirono, ma con tanta malagrazia che, pur con rammarico, il pontefice decise di non avvalersi dell'invio dell'oro e dell'argento.) Poi, come ab­ biamo visto, inviò una nuova legazione a Costantinopoli, con l'in­ carico di riprendere i delicati negoziati per la progettata alleanza con Bisanzio. Date le circostanze era prevedibile che, quando mori anche Ste­ fano, dopo nemmeno otto mesi di regno, i sospetti circa la sua morte ricadessero almeno in parte sui condottieri normanni. I loro moventi erano ovvi; ma essi avevano poca esperienza dei tortuosi intrighi che rappresentavano le attività abituali di tanti abitanti della Città Eterna ed è dubbio che, in questo periodo della loro sto­ ria, essi disponessero della tecnica e dei contatti necessari per portare a termine un cosi grosso colpo. Negli anni successivi, in Sicilia, si sarebbero dimostrati più che capaci di tener testa ai loro sud­ diti orientali nelle viscide arti delle anticamere e delle alcove; per 3 Vedi nota 3, cap. IX (difatti si tratta di papa Stefano X , come elencato nell’Annuario Pontificio) (N .d .T .).

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il momento, però, erano ancora molto nordici, e il veleno non faceva parte dei loro armamenti abituali. Più verosimilmente sospettabili - se di delitto si trattava - erano come al solito i nobili romani, che preferivano di gran lunga sottostare al potere più lontano e nebuloso dell’Impero che essere dominati dalla più vicina e potente casa di Lorena. Ma Stefano era da tempo ammalato ed è un’ipotesi più probabile, anche se meno piccante che, al pari di molti altri, persino nel Medioevo, egli sia morto di morte naturale. La morte lo colse a Firenze, nel marzo del 1058; e mentre il papa esalava l’ultimo respiro, i normanni invece ripresero fiato. I capi della riforma erano nuovamente assenti da Roma - Um­ berto era a Firenze e Ildebrando non era ancora ritornato dalla Germania dove si era recato, con qualche ritardo, a dare l’annun­ cio dell’elezione di papa Stefano; e ancora una volta i reazionari non si lasciarono sfuggire l ’occasione. L ’esperienza aveva insegnato loro che, in situazioni del genere, il successo dipendeva dalla rapi­ dità. Un colpo di Stato fu prontamente imbastito dalla fazione dei Tuscolo e dei Crescenzi, ed entro pochi giorni Giovanni Mincio, vescovo di Velletri, fu fatto salire sul trono pontificio con l ’infausto nome di Benedetto X. Dal punto di vista di Ildebrando e dei suoi amici la scelta avrebbe potuto essere assai peggiore; il nuovo papa era forse debole di carattere, ma Leone IX lo aveva fatto cardinale e Stefano lo aveva tenuto in considerazione come candidato al suo posto. Non potevano, però, accettare il modo in cui si era proce­ duto alla elezione, che non era canonicamente valida ed era frutto di corruzione. Lasciando Roma in gruppo, i seguaci del cardinale Ildebrando si incontrarono con lui in Toscana e procedettero alla scelta di un papa di loro gradimento. La scelta cadde su Gerardo, vescovo di Firenze, nativo della Borgogna, uomo probo e giudizioso il quale, avendo ottenuto l ’ap­ poggio deirimperatrice Agnese e quello altrettanto importante del duca Goffredo di Lorena, nel dicembre del 1058 si lasciò consa­ crare papa, prendendo il nome di Niccolò II. Il papa e i suoi car­ dinali, forti dell’appoggio del duca di Lorena a capo di un piccolo contingente militare, marciarono su Roma, dove i loro partigiani capeggiati da un ebreo convertito, Leone di Benedetto Cristiano, aprirono loro le porte a Trastevere. Occuparono rapidamente l ’isola Tiberina che trasformarono in quartier generale. Seguirono, per qualche giorno, dei combattimenti per le strade della città, ma

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finalmente il Laterano fu preso d’assalto e Benedetto a stento riuscì a mettersi in salvo a Galeria.4 Il partito della riforma aveva vinto ancora, ma a caro prezzo. Benedetto X era a piede libero e disponeva di un certo numero di seguaci fedeli; molti romani, costretti a giurare fedeltà a Niccolò II, lo fecero alzando la mano sinistra, ad indicare che con la destra avevano già prestato giuramento a favore del suo rivale. Più scon­ fortante ancora era la certezza che senza l’appoggio militare del duca Goffredo non sarebbe stato possibile riportare la vittoria. In breve, dopo tutti gli sforzi dell’ultimo decennio, il Papato si trovava ancora una volta nelle stesse condizioni in cui l ’aveva trovato Leone - stretto in una morsa tra l ’aristocrazia romana e l’Impero, capace qualche volta di trarre qualche vantaggio mettendoli l ’una contro l’altro, ma mai forte abbastanza da proclamarsi indipen­ dente da tutti e due. Non era possibile, in condizioni simili, por­ tare a termine la riforma; in qualche modo, la Chiesa doveva ren­ dersi libera. Il primo problema da risolvere era quello di Benedetto. Erano trascorsi solo tredici anni da quando il suo esecrabile omonimo aveva dimostrato quanto danno poteva causare un antipapa rinne­ gato; Benedetto X era una figura assai piu popolare di Bene­ detto IX , ed ora non vi era un imperatore pronto a calare in Italia per ristabilire l ’ordine, come aveva fatto Enrico I II . Il duca Gof­ fredo era tornato in Toscana - e questa forse era una fortuna perché aveva incominciato a dimostrare una certa tiepidezza che faceva sospettare qualche segreto accordo con i romani. E cosi la Chiesa adottò una misura sorprendente e gravida di conseguenze. Si rivolse per aiuto ai normanni. Può darsi che si sia consigliato in precedenza con l’abate De­ siderio; però, la decisione ultima deve essere stata del cardinale Ildebrando. Nessun altro personaggio della Curia, nemmeno lo stesso Niccolò, possedeva quell’amalgama di coraggio e di pre­ stigio necessari per giungere a tanto. In tutta Italia, e soprattutto negli ambienti ecclesiastici di Roma, i normanni venivano consi­ derati - e non senza ragione - un’orda di barbari e di banditi, tale e quale come i saraceni che avevano terrorizzato le contrade

4 La città di Galeria fu abbandonata nel 1809, ma le sue rovine sono ancora visibili a poca distanza dalla strada di Viterbo, a circa 30 km da Roma.

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meridionali prima di loro. Per molti, tra i cardinali, l’idea di strin­ gere alleanza con uomini simili doveva apparire come una solu­ zione peggiore che venire a patti con i romani o con lo stesso Benedetto. Era ancor vivo il ricordo dei sacrilegi, delle profanazioni di cui si erano macchiati i normanni, che solo cinque anni prima avevano osato rivolgere le armi contro lo stesso Santo Padre e lo avevano tenuto prigioniero per nove mesi. Ma Ildebrando, questo sgraziato, piccolo toscano, dall’apparenza tanto poco attraente, di natali oscuri, forse di origine ebrea, e con un livello di cultura molto al di sotto di quello di parecchi dei suoi colleghi, sapeva di essere nel giusto. Il papa e i cardinali, come avveniva quasi sempre, s’inchinarono alla sua volontà, e nel febbraio del 1059 egli si recò di persona a Capua. Riccardo di Capua fu, come era naturale, assai lusingato dalla visita di Ildebrando e gli fece una calorosa accoglienza. Un anno prima, papa Stefano sembrava minacciare lui e i suoi compatrioti di sterminio; ora, il successore di questi inviava il piu illustre dei suoi cardinali ad invocare l’aiuto dei normanni. Era segno, inoltre, che l’accoglienza che era stata di recente fatta a Riccardo a Montecassino non era, come lui temeva, un fenomeno isolato, ma era, invece, indicativa di un mutamento radicale nell’atteggiamento del Papato, mutamento ricco di promesse. Riccardo mise immediata­ mente a disposizione di Ildebrando trecento uomini e il cardinale tornò in fretta a Roma con la sua nuova scorta. Alla metà di marzo, il papa Niccolò e il cardinale erano accampati nei pressi di Galeria osservando il loro esercito che cingeva d’assedio la città. I nor­ manni, seguendo la loro tattica abituale, seminarono la distruzione in tutta la zona limitrofa, incendiando e saccheggiando per ogni dove; gli abitanti di Galeria resistettero dando grande prova di coraggio, respingendo vari tentativi di assalto alle mura della città, ma alla fine furono costretti ad arrendersi. Benedetto fu fatto pri­ gioniero e pubblicamente spretato, e imprigionato presso la chiesa di S. Agnese in Roma; l’era di amicizia tra Papato e normanni ebbe cosi inizio.Il Il destino riservato a Benedetto fu un grave colpo per il partito reazionario a Roma. Non si erano aspettati la risolutezza né l’unità d’intento con cui i cardinali si erano opposti alla sua elezione, né il vigore dimostrato nel toglierlo di mezzo. Ed ora, prima che aves­ sero il tempo di riaversi, Ildebrando inflisse loro un nuovo e piu

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grave colpo per gli effetti a lunga scadenza che comportava. La procedura seguita per reiezione dei papi era sempre stata alquanto vaga; nell’epoca di cui si parla, era basata su un sistema ideato dalTimperatore Lotario I nell’824 e riconfermato da Ottone il Grande un secolo più tardi; secondo questo sistema, il papa veniva eletto dal clero e dalla nobiltà romana, ma il nuovo pontefice poteva ve­ nire consacrato solo dopo aver giurato fedeltà all’imperatore. Un simile decreto, vago nel suo concepimento, e più vago ancora nelrinterpretazione attraverso oltre due secoli, doveva necessariamente portare al verificarsi di abusi. A parte il potere che esso conferiva alLaristocrazia romana, implicava pure una certa sudditanza all’Impero che, nonostante fosse controbilanciata dalla regola che ogni imperatore fosse incoronato a Roma, non era affatto in accordo con il concetto che nutriva Ildebrando sulla supremazia papale. Ora, con l’aristocrazia romana messa a scompiglio, con un fanciullo sul trono germanico e con l’aiuto dei normanni, qualora ve ne fosse stato bisogno, un tale sistema poteva venire scartato. Nell’aprile del 1059 papa Niccolò II indisse un sinodo al Laterano; e li, alla presenza di centotredici vescovi e Ildebrando come sempre al suo fianco, promulgò un decreto il quale, salvo uno o due emendamenti apportativi in seguito, regola a tutt’oggi le ele­ zioni dei pontefici. Per la prima volta la responsabilità di eleggere il papa fu affidata chiaramente ai cardinali e, onde evitare il peri­ colo di simonia, i cardinali vescovi furono incaricati di sorvegliare l’andamento delle elezioni stesse. Solo dopo che il pontefice era stato eletto si doveva chiedere l’assenso del resto del clero e del­ la popolazione; ai rapporti con l’Impero veniva dato un riconosci­ mento p ro form a a mezzo di una clausola volutamente vaga che gli elettori « avessero riguardo per l’onore e il rispetto dovuto ad Enrico, oggi re e, si spera, futuro imperatore » ed a quelli tra i suoi successori che avessero nel tempo ottenuto personalmente il riconoscimento dei loro diritti dalla Sede Apostolica. Il senso di questo, però, era chiaro; da allora in poi la Chiesa avrebbe rego­ lato da sé i suoi affari e non avrebbe preso ordini da nessuno. Fu una decisione coraggiosa, e neppure Ildebrando avrebbe osato prenderla, se non avesse avuto l’appoggio dei normanni. Sia per la aristocrazia romana che per l’Impero fu uno schiaffo in fac­ cia, per quanto diplomaticamente dato; ed entrambi prima o poi avrebbero tentato di riguadagnare i perduti privilegi con le armi. Ma le conversazioni avute da Ildebrando con il principe di Capua,

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per non parlare degli avvenimenti di Galeria, avevano dato a lui - e per mezzo suo a tutta la Chiesa - nuova fiducia. Con Paiuto di soli trecento normanni di Capua, Ildebrando era riuscito a re­ spingere, a gettare nella confusione il primo dei suoi nemici; cosa non avrebbe potuto fare se tutte le forze normanne di Puglia e di Calabria si fossero riunite sotto lo stendardo pontificio? Un simile appoggio avrebbe permesso alla Chiesa di sbarazzarsi, una volta per tutte, degli ultimi brandelli di sudditanza politica e di mettere in atto misure di riforma a vasto raggio, senza dover te­ mere conseguenze. Inoltre, gli avvenimenti del 1054 avevano creato tra Roma e Costantinopoli un clima nel quale non vi era ovvia­ mente nessuna speranza di una rapida riconciliazione in campo teo­ logico; quindi, quanto prima le perverse dottrine greche potevano venir spazzate via dalPItalia meridionale, tanto meglio. I normanni, essendo finalmente riusciti a stabilire relazioni tollerabili con i loro sudditi longobardi, erano in questo periodo impegnati a respingere i bizantini sulle poche e isolate posizioni loro rimaste in Puglia, in particolare Bari, e nella punta della Calabria. Lasciati a loro stessi avrebbero senza dubbio portato a compimento l’opera rapi­ damente. Poi si sarebbero scagliati contro gli infedeli in Sicilia. I normanni erano senz’altro la razza più efficiente di tutta la peni­ sola e, malgrado tutte le loro pecche, erano dopo tutto latini. Non era quindi meglio incoraggiarli che opporsi a loro? Dal canto loro, Riccardo e Roberto non chiedevano di meglio che stringere un’alleanza con la Chiesa di Roma. Per quanto essi e i loro compatrioti avessero tartassato le singole comunità reli­ giose in passato, avevano sempre - anche a Civitate - mostrato rispetto per il papa, ed avevano rivolto le loro armi contro di lui per autodifesa, dopo che ogni tentativo di raggiungere un accordo pacifico era fallito. Non erano poi tanto forti da non rallegrarsi all’idea di avere una garanzia contro un attacco congiunto delle forze del Papato e dell’Impero, o un alleato contro un qualsiasi altro nemico, toscano, bizantino o saraceno, che avrebbero potuto un giorno trovarsi di fronte. D ’altra parte erano però abbastanza forti da poter negoziare con il papa su un piano di parità politica. Le loro speranze, quindi, crebbero quando nel giugno del 1059 Niccolò II lasciò Roma con un imponente seguito di cardinali, vescovi e clero — e forse dietro invito dello stesso Guiscardo si diressero verso Melfi. Lentamente e con grande pompa il corteo papale attraversò

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la Campania. Si fermò a Montecassino dove si uni ad esso l’abate Desiderio, ora rappresentante ufficiale del papa nel Meridione e perciò suo ambasciatore presso i normanni; il corteo prosegui attra­ verso le montagne fino a Benevento, dove il papa tenne un sinodo; quindi a Venosa dove Niccolò II con grande sfarzo consacrò la nuova chiesa della SS. Trinità, luogo di sepoltura dei primi tre Altavilla e perciò il più importante luogo sacro dei normanni in Italia; e finalmente a Melfi, dove giunse verso la fine di agosto e dove erano ad attendere il papa, alle porte della città, un gran numero di baroni normanni capeggiati da Riccardo di Capua e Roberto il Guiscardo, che si era affrettato a tornare dalla sua guer­ riglia in Calabria per dare il benvenuto ai suoi illustri ospiti. Il ricordo del Concilio di Melfi, che era la ragione palese della visita del papa, si è alquanto offuscato. Lo scopo principale del Concilio era di riportare il clero all’osservanza della castità, o per­ lomeno del celibato, nellTtalia meridionale: impresa che, mal­ grado la pubblica cerimonia della sconsacrazione del vescovo di Trani alla presenza di oltre cento dei suoi confratelli non ebbe, secondo le statistiche fatte in seguito, molto successo. La presenza di Niccolò, tuttavia, fu causa di un avvenimento di straordinaria importanza storica per i normanni come per il Papato: segnò, infatti, la loro riconciliazione ufficiale. Si iniziò con la conferma da parte del pontefice di Riccardo a principe di Capua e con rinvestitura di Roberto a duca di Puglia, poi di Calabria e, final­ mente, di Sicilia, benché il Guiscardo non avesse ancora mai messo piede nell’isola. A quale titolo il papa concesse con tanta munificenza ai nor­ manni dei territori sui quali né lui, né i suoi predecessori avevano mai preteso la sovranità, è cosa incerta. Riguardo ai territori nella penisola, le testimonianze documentate lasciano pensare che egli si appellasse al dono, fatto da Carlomagno al Papato due secoli prima, del ducato di Benevento. I confini di questo territorio erano allora alquanto incerti, ed in seguito si erano dimostrati molto elastici; in un certo periodo si può dire che comprendessero tutta la penisola a sud della città stessa, ma questo non era cer­ tamente il caso del secolo X I. Solo dodici anni prima, Enrico I II, riconsegnando Capua a Pandolfo, alla presenza di papa Clemente, aveva chiaramente lasciato intendere che egli considerava quel principato come un feudo dell’Impero. Riguardo alla Sicilia, Nic­ colò si trovava su terreno ancora piu instabile; l’isola non era

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mai stata sotto la sovranità dei papi, e Túnico fondamento sembra essere stata la cosi detta « Donazione di Costantino » - un docu­ mento con il quale Pimperatore Costantino I avrebbe conferito a papa Silvestro ed ai suoi successori il dominio temporale « su Roma e tutte le province e luoghi e città d’Italia e delle regioni occidentali ». Questo documento già da molto tempo era stata una delle armi preferite a sostegno delle rivendicazioni del Papato; fu solo nel secolo XV che, con grande imbarazzo del mondo ecclesia­ stico, si scopri che esso non era che un falso, vergognosamente architettato dalla curia sette secoli prima.5 Ma nessuno di coloro che erano presenti a Melfi in quella giornata di agosto aveva interesse a porre imbarazzanti doman­ de del genere. Ad ogni modo, Niccolò poteva permettersi di mostrarsi tanto generoso, poiché la contropartita che gliene sa­ rebbe derivata era considerevole; egli, senza dubbio, stendeva il favore e l’appoggio papale ad un elemento politico tra i piu peri­ colosi e disgregatori che si trovassero nell’Italia meridionale, ma con l ’investitura concessa ad entrambi i capi, i cui rapporti erano notoriamente tesi, egli aveva cura di mantenere diviso questo ele­ mento. Inoltre, sia Roberto il Guiscardo che Riccardo di Capua si legavano a lui con solenni giuramenti che avrebbero mutato radicalmente e completamente la politica del Papato. Per una serie di fortunate circostanze, il testo completo del giuramento di Roberto è giunto fino a noi ed è conservato negli archivi vati­ cani, è uno dei più antichi testi del genere esistenti - disgraziata­ mente non possiamo dire altrettanto di quello di Riccardo. La prima parte del documento, relativa al pagamento annuo a Roma di dodici soldi di Pavia per ogni paio di buoi nei suoi domini, è, relativamente, poco importante; ma la seconda parte e,, invece, di importanza vitale: Io, Roberto, per grazia di Dio e di san Pietro duca di Puglia e di Calabria e, con l’aiuto di essi, futuro duca di Sicilia, sarò da ora in poi fedele alla Chiesa Romana ed a te, papa Niccolò, mio signore. Mai prenderò parte a congiure ed altri negoziati in conseguenza dei quali potrebbe esserti tolta la vita, ferita la tua persona o sottratta la tua 5 La più antica copia esistente di questo documento si trova nella Biblio­ thèque Nationale a Parigi (M.S. Latini, N. 2777) e risale al nono secolo. In esso si legge: « q u a m q u e R o m ae U rbis et om nes ltaliae seu occidentalium region um provincias loca et civitates ».

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libertà. Né rivelerò a nessun uomo qualsiasi segreto tu vorrai confi­ darmi, impegnandomi a mantenerlo, affinché non ti sia causa di danno. Ovunque, e contro qualsiasi avversario io resterò, fin quanto è in mio potere, l’alleato di Santa Romana Chiesa, affinché essa possa preservare ed acquisire le rendite e i domini di san Pietro. Ti darò tutto l'appoggio che potrà essere necessario affinché tu occupi, con tutto onore e sicu­ rezza, il trono pontifìcio in Roma. Quanto ai territori di san Pietro e quelli del Principato [di Benevento] non tenterò di invaderli e neppure di devastarli [sic] senza l'espressa autorizzazione tua e dei tuoi suc­ cessori rivestiti degli onori del beato Pietro. Pagherò coscienziosamente ogni anno alla Chiesa Romana l'affitto stipulato per i territori di san Pietro che ora possiedo o possiederò in futuro. Ti restituirò tutte le chiese che sono ora nelle mie mani, con tutti i loro possedimenti e le manterrò nell'obbedienza alla Santa Romana Chiesa. Se tu o altri fra i tuoi successori dovessero partirsi da questa vita prima di me, io, avendo chiesto consiglio ai più eminenti cardinali, come al clero ed al laicato di Roma, mi adopererò affinché il papa sia eletto ed instaurato secondo l’onore dovuto a san Pietro. Osserverò fedelmente, sia nei riguardi della Chiesa Romana che tuoi, gli obblighi che ho ora assunto, c farò altrettanto nei riguardi dei tuoi successori che assurgeranno agli onori del beato Pietro e che mi confermeranno nelle investiture da te concessemi. Lo giuro su Dio e sui suoi Evangeli. Compiute queste cerimonie, Niccolò fece ritorno a Roma. Il suo seguito si era ora accresciuto per la presenza di un consi­ derevole contingente normanno. Riccardo, il cui giuramento pre­ sumibilmente sarà stato molto simile, si diresse a Capua, mentre Roberto si affrettò a raggiungere il suo esercito in Calabria, dove cingeva d’assedio la cittadina di Cariati. Tutti e tre potevano rite­ nersi soddisfatti dell'opera compiuta. Altri, però, non condividevano tale soddisfazione. A Gisulfo di Salerno era stato inflitto un ulteriore duro colpo sia nel potere che nell’amor proprio. Le sue ultime speranze di mobilitare l’ap­ poggio papale contro gli odiati normanni erano ormai svanite ed ora non gli restava altra prospettiva che un triste declino dei suoi domini che andavano sempre piu restringendosi, eternamente alla mercé del principe di Capua e con un sostegno solo occasionale derivantegli dai raggi riflessi della gloria del cognato, Roberto il Guiscardo. L ’aristocrazia romana si rifugiò nei muffiti palazzi, furente e intimorita. I bizantini si accorsero dì aver perduto l’ul­ tima occasione di conservare ciò che era loro rimasto dei loro

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possedimenti in Italia. Neirimpero d'Occidente privato ormai del suo privilegio di eleggere il papa, posto di fronte ad una nuova alleanza, altrettanto formidabile nel campo militare quanto in quello politico e, per colmo di misura, obbligato ad assistere in un silenzio impotente al trasferimento di immense zone di terri­ tori imperiali ai briganti normanni, la reazione al comportamento di Niccolò è facile a immaginarsi e non chiede commenti. Fortunatamente per l'Italia, Enrico IV era ancora bambino: avesse avuto qualche anno di più, non avrebbe mai sopportato di essere trattato a quel modo. Da allora però, in tutte le cappelle e chiese imperiali, le preci per il papa erano ostentatamente omes­ se - ci possiamo chiedere se Niccolò - o Ildebrando - se ne cruc­ ciassero soverchiamente.

CAPITOLO UNDICESIMO

L'IN VASION E Italien ohne Sizilien macht gar kein Bild in der Seele: hier ist’ der Schlüssel zu allem,1 G oethe , scrivendo da Palermo nell’aprile 1787, in italienische Reise,

I termini dell'investitura di Roberto il Guiscardo a Melfi e la formula del giuramento prestato a papa Niccolò non lasciano dubbi su quali fossero le sue ambizioni per il futuro. La Sicilia, verde e fertile a poco più di sette o otto chilometri dal continente, era non solo l'obiettivo ovvio, ma rappresentava anche il luogo naturale di deflusso di quella grande ondata di conquista che aveva condotto i normanni da Aversa all'ultimo lembo della Ca­ labria. La Sicilia era pure il covo dei pirati saraceni; questi, per le continue guerre intestine, erano ora meno audaci e meno attrez­ zati che nel passato, ma costituivano tuttavia una minaccia perenne per le città costiere del Sud e dell'Ovest. Come avrebbe potuto Il duca di Puglia garantire l ’incolumità di quei territori in pos­ sesso dei quali il papa l’aveva da poco confermato? Egli era ora un fedele servitore del Papato e Niccolò non lo aveva forse inca­ ricato di ripulire le terre pontificie cacciando gl’infedeli oppres­ sori? Come la maggior parte dei suoi compatrioti Roberto era fon­ damentalmente religioso; nel suo cuore, insieme ad altri moventi meno nobili, ardeva la scintilla dello spirito del crociato e questa si faceva più viva man mano che da Melfi procedeva attraverso la Calabria fino alla cima dell'Aspromonte da dove poteva spin­ gere lo sguardo oltre lo Stretto fino a scorgere la Sicilia, calda ed invitante nel sole settembrino con solo la piuma bianca dell'Etna, niveo monito, all'orizzonte. Ma prima di rivolgere il pensiero alla Sicilia, il Guiscardo doveva sistemare la Calabria. Una o due città di questa regione erano ancora presidiate da guarnigioni greche; se queste non ve­ nivano rapidamente eliminate potevano costituire una grave mi1 « L ’Italia senza la Sicilia è inconcepibile; qui sta la chiave di tutto. » (Goethe, Viaggio in Italia.)

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naccia per le vie di comunicazione lungo le quali sarebbero dovuti affluire gli approvvigionamenti una volta iniziata la campagna siciliana. Si recò direttamente a Cariati. Le sue truppe l’avevano già cinta d’assedio da parecchie settimane senza risultato, ma all’arrivo di Roberto la città si arrese quasi subito e, prima che egli facesse ritorno in Puglia per svernare, avevano capitolato anche Rossano e Gerace. Ora solo Reggio rimaneva in mano ai bizantini. Nei primi mesi del 1060, dopo una breve puntata a nord-est, durante la quale i greci vennero cacciati da Taranto e da Brindisi, il Guiscardo era di nuovo accampato con il suo eser­ cito sotto le mura di Reggio. Qui si incontrò con Ruggero, al quale aveva affidato il comando durante la sua assenza, che con lodevole lungimiranza aveva impiegato i mesi invernali a costruire massicce macchine da guerra. Questa era la prima volta che i nor­ manni, da quando erano scesi in Italia - a differenza dei loro alleati longobardi - , si servivano di armamenti del genere; Reggio era la capitale della Calabria bizantina ed era prevedibile che i greci vi avrebbero resistito ad oltranza. E, infatti, cosi fu. Alla fine, però, furono costretti ad arrendersi e il duca di Puglia per­ corse, trionfante, a cavallo le vie della città, tra le ville marmoree e i palazzi che la rendevano celebre. La guarnigione, alla quale Roberto aveva offerto condizioni generose, si era rifugiata nella vicina rocca di Scilla2 dove resistette per qualche tempo ancora; ma presto i greci si resero conto che la loro causa era perduta e cosi, in una notte d’estate senza luna s’imbarcarono in segreto, diretti a Costantinopoli. Quella notte segnò la fine del dominio greco in Calabria. Ora, finalmente, Roberto e Ruggero erano pronti ad affrontare l ’impresa siciliana. Gli ostacoli piu gravi erano stati rimossi. I greci erano stati cacciati da tutta l’Italia ad eccezione della città di Bari da dove se era difficile sloggiarli era però piu facile tenerli sotto controllo. E Bari, ad ogni modo, era lontana. L’espres­ sione « Magna Grecia », che per tanto tempo era servita ad indi­ care l’Italia bizantina, poteva ormai venire relegata sul piano di 2 Di fronte alla leggendaria Cariddi sulla costa siciliana. Chalandon traduce lo Scillacium di Malaterra in Squillace, ma si deve trattare di un errore; per raggiungere Squillace, che si trova a circa cento chilometri a volo d’uccello, i greci avrebbero dovuto attraversare tutto il massiccio dell’Aspromonte, percorrendo tutta la strada che li separava da questo, in territorio nemico.

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una curiosità storica. Il papa aveva benedetto l ’impresa dei nor­ manni; l ’Impero d’Occidente era impossibilitato ad intervenire. Nella Sicilia le condizioni sembravano relativamente favorevoli. In molte zone dell’isola la popolazione era ancora cristiana ed era probabile che avrebbe accolto i normanni come liberatori, garan­ tendo loro tutto l ’aiuto e tutta l’assistenza di cui avrebbero avuto bisogno. Quanto ai saraceni, erano certamente guerrieri corag­ giosi - nessuno lo metteva in dubbio - ma erano ormai cosi divisi tra loro che difficilmente avrebbero potuto opporre una resistenza efficace contro un esercito compatto e disciplinato come quello normanno. In quell’epoca la Sicilia era contesa fra tre emiri indipendenti. Il primo era un certo Ibn ath-Thumnah che dominava la regione sud-orientale e disponeva di potenti guarnigioni a Catania, Noto e Siracusa; vi era poi Abdullah Ibn Hawkal, che esercitava la sua sovranità sulla zona nord-ovest, dai suoi palazzi di Trapani e di Mazara; e finalmente, tra i due, si trovava l’emiro Ibn al-Hawwàs la cui residenza era ad Enna.3 Questi tre principi si erano ribellati all’autorità del califfo zirita di Kairouan, il quale era stato cac­ ciato dalla sua capitale un anno o due prima ed ora si trovava impegnato, nell’Africa settentrionale, in una lotta senza quartiere tra le diverse fazioni delle varie tribù; queste, infatti, erano in continuo litigio. Date le circostanze si poteva pensare che la con­ quista della Sicilia da parte dei normanni sarebbe avvenuta piut­ tosto rapidamente. Tale conquista richiese un periodo di trentun anni; piu tempo infatti di quello che avevano trascorso in precedenza in Italia molti dei normanni che vi presero parte; anzi, molti di questi non erano nati quando i primi la iniziarono. I normanni avevano fatto i conti senza la Puglia, dove i nemici tradizionali di Roberto il Guiscardo rifiutavano tenacemente di deporre le armi e lo obbli­ gavano a suddividere le sue energie - e peggio ancora - le sue risorse, proprio quando avrebbe avuto maggior bisogno di concen­ trarle tutte in Sicilia. I dettagli riguardanti le sue campagne in Puglia contro un nuovo esercito bizantino e contro i suoi stessi sudditi ribelli per il momento non ci interessano; queste rive­ stono importanza per le conseguenze che ebbero sul corso degli 3 Fino al 1927 questa cittadina fortificata si chiamava Castrogiovanni, forma corrotta dell'arabico Kasr Janni. In quell'anno Mussolini le ridonò il nome di Enna con il quale era conosciuta nell'antichità.

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avvenimenti in Sicilia. Tali conseguenze non furono del tutto deleterie. Non è necessario sottolineare come la necessità di dover combattere contemporaneamente su due fronti abbia ostacolato e ritardato il successo della campagna in Sicilia, rendendola molto più rischiosa e costosa di quanto avrebbe potuto essere; il corpo di spedizione nelFisola era cronicamente a corto di uomini e di approvvigionamenti e spesso si trovava sull’orlo del disastro. Ep­ pure, per quanto paradossale pcssa sembrare, fu proprio in con­ seguenza delle preoccupazioni che il Guiscardo ebbe in Puglia in questo periodo, che la Sicilia divenne in seguito un regno superbo e magnificamente organizzato. Mentre Roberto era costretto a tra­ scorrere periodi sempre piu lunghi sul continente per tenere a bada i suoi nemici, l’esercito in Sicilia si veniva a trovare sempre più sotto il controllo diretto di Ruggero, fino al momento in cui il fratello minore giunse alla supremazia assoluta. Questo, come vedremo, portò alla spartizione dei domini di Roberto e permise a Ruggero, ormai libero da ogni responsabilità in Puglia, di dedi­ care all’isola tutta l’attenzione che questa meritava. Ruggero doveva essere conscio che, secondo i termini della investitura di Melfi, tutta la Sicilia, una volta conquistata, sarebbe passata in proprietà a Roberto, qualunque fosse stato il contributo da lui apportato all’impresa, e che avrebbe dovuto accontentarsi di quanto il capriccio del fratello gli avrebbe concesso; eppure egli deve, in un certo modo, aver previsto come si sarebbero svolti gli eventi e ritenuto che le occasioni che gli si presentavano avreb­ bero portato a risultati più fecondi di quanto in un primo tempo poteva sembrare. È certo che, fin dall’inizio, Ruggero si mostrò altrettanto ardente ed entusiasta quanto lo stesso duca di Puglia. Poche settimane dopo la resa di Reggio, Ruggero aveva effettuato una scorreria, a mo’ di esperimento, attraverso lo Stretto, sbar­ cando una notte nei pressi di Messina, seguito da una cinquantina di fedelissimi; erano avanzati in direzione della città, ma i sara­ ceni usciti in forza avevano ricacciato gli invasori fino al luogo dove si trovavano le loro imbarcazioni e questi avevano fatto appena in tempo a riprendere il largo. Intanto si stavano facendo preparativi per una invasione su vasta scala. I preparativi si rivelarono penosamente lenti. Già la Puglia era in fermento, e nell’ottobre del 1060 Roberto il Guiscardo dovette farvi ritorno con grande urgenza. L ’imperatore Costan­ tino X Ducas, che fanno prima era salito sul trono di Costanti-

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nopoli, aveva inviato un nuovo esercito in Italia in un ultimo tentativo di salvare quanto gli rimaneva della sua provincia lon­ gobarda. I greci non erano particolarmente numerosi, ma colsero di sorpresa i normanni in un momento in cui il Guiscardo si tro­ vava in Calabria e sulle prime incontrarono poca resistenza da parte di questi. Anche quando Roberto e il fratello Maugero si presentarono con un esercito frettolosamente raccolto, non furono subito in grado di arrestare l'avanzata dei greci e per la fine di quell'anno gran parte della costa orientale era stata riconquistata e Melfi stessa era cinta d'assedio. Nel gennaio del 1061, furono fatti accorrere d'urgenza Ruggero e il resto delle truppe normanne che si trovavano in Calabria. Sembrava che l'operazione Sicilia fosse stata rimandata a tempo indeterminato. Ma Ruggero non si lasciava sviare tanto facilmente. Alla metà di febbraio era di nuovo in Calabria, in tempo per afferrare una nuova occasione che si presentava inaspettata ed improvvisa. La lotta sorda nella quale da tempo erano impegnati i due emiri sici­ liani, Ibn ath-Thumnah e Ibn al-Hawwäs, era divampata in guerra aperta. Qualche tempo prima, nell’intento di venire ad un accordo, Ibn ath-Thumnah aveva sposato la sorella di Ibn al-Hawwäs, ma questi la teneva prigioniera nel suo nido d’aquila ad Enna, rifiutan­ dosi di riconsegnarla al marito; la sua riluttanza era giustificabile e senza dubbio anche la dama era dello stesso parere, perché di recente aveva avuto un diverbio con Ibn ath-Thumnah e questi in un impeto d’ira e in stato di ubriachezza aveva chiamato i suoi schiavi ordinando loro di tagliarle le vene; per sua buona fortuna il figlio, giunto in tempo, aveva fatto accorrere i cerusici salvan­ dole cosi la vita ed era potuta fuggire. Poco dopo la fuga il marito, probabilmente più preoccupato di salvare la faccia che di riavere la moglie, l'aveva inseguita con le sue truppe fino ad Enna per riprendersela; non era però riuscito a far breccia nella roccaforte più inespugnabile della Sicilia ed aveva, al contrario, subito una umiliante sconfitta nella valle sottostante. Con i resti del suo eser­ cito si era ritirato disordinatamente a Catania, dove le sue spie presto gli riferirono che Ibn al-Hawwäs stava preparando una spe­ dizione punitiva, giurando che lo avrebbe annientato una volta per sempre. Ruggero si trovava a Mileto quando, nella seconda settimana di febbraio del 1061, Ibn ath-Thumnah si presentò di persona a chie-

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dergli aiuto e ad offrirgli, secondo quanto riferisce lo storico arabo Ibn al-Athir, nientemeno che il dominio totale della Sicilia se fosse riuscito a liquidare il suo nemico. Una proposta simile non si poteva ignorare. In fretta Ruggero radunò una forza di cento­ sessanta cavalieri e varie centinaia di fanti, e una piccola flotta agli ordini di Goffredo Ridei, uno dei più abili comandanti del Guiscardo e, pochi giorni dopo, sbarcò nel lembo estremo nordorientale deirisola. Una precedente esperienza gli era di monito a non sfidare la guarnigione di Messina. Questa volta il piano, approvato anche da Ibn ath-Thumnah che era con lui, era di pro­ cedere lungo la costa settentrionale fino a Milazzo, effettuando delle scorrerie nel retroterra ogni volta che sembrasse indicato per devastare il piu possibile il territorio di Ibn al-Hawwàs. Poi, benché nessuno dei cronisti sia esplicito su questo punto, la sua inten­ zione sembra fosse stata rassicurarsi il possesso del promontorio di Milazzo onde convertirlo in testa di ponte permanente in Si­ cilia affinché servisse per sbarcarvi rifornimenti, rinforzi ed infine il grosso dell’esercito normanno.4 Sulle prime tutto andò bene. Milazzo venne presa senza quasi colpo ferire e cosi pure Rometta. Il bottino fu considerevole, comprendeva, a quanto sembra, molti capi di bestiame. Per assicurare che questo giungesse sano e salvo a Reggio, tutto l ’esercito fece ritorno a Capo Faro dove era anco­ rata la flotta. Nel frattempo, però, l ’allarme era stato dato a Mes­ sina. La guarnigione era risalita rapidamente lungo la costa ed ora si trovava schierata sui fianchi delle colline che la celavano alla vista dei normanni sulla spiaggia. Piu cauti, questa volta, perché le forze normanne erano più numerose di quelle che con tanta facilità avevano respinto l’anno precedente, i saraceni aspet­ tavano che le operazioni d’imbarco fossero bene avviate per poi attaccare quando le forze avversarie sarebbero state divise, parte sulle navi e parte ancora a terra. L ’idea era buona e forse avrebbe avuto successo; fortunatamente per i normanni, però, i venti erano contrari ed ostacolavano le operazioni d’imbarco, e prima che queste iniziassero Ruggero venne a conoscenza della presenza del nemico. Il fratellastro Serio - uno dei quattro Altavilla che non erano scesi in Italia in cerca di fortuna - aveva un figlio dello stesso nome che di recente aveva raggiunto lo zio in Calabria e 4 Gli Alleati si servirono alla stessa maniera della penisola di Cherbourg per lo sbarco in Normandia nel 1944.

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già si rivelava eccezionalmente dotato nell’arte della guerra. Que­ sto giovane fu ora inviato da Ruggero ad attaccare i saraceni di fianco, avendogli raccomandato sopra ogni cosa di tagliare loro la ritirata lungo la stretta fascia costiera che riconduceva a Messina. Il piano ebbe pieno successo; gli arabi, invece di cogliere di sor­ presa l’aggressore, si trovarono all’improvviso circondati. Pochi furono i superstiti. Ruggero pensò di sfruttare immediatamente questo vantaggio. Con un po’ di fortuna avrebbe trovato Messina praticamente indi­ fesa. Lui ed i suoi uomini giunsero alla città quella sera stessa e la mattina seguente all’alba sferrarono l’attacco. Ma ora fu la volta dei normanni a rimanere sorpresi. Nonostante le perdite subite, l’intera popolazione di Messina, uomini e donne, balzò alla difesa della sua città. Ruggero si accorse che aveva sbagliato calcolo; la vittoria, dopo tutto, non sarebbe stata cosi fulminea. Inoltre, il suo minuscolo esercito sarebbe stato facile preda per qualunque contingente Ibn al-Hawwàs avesse mandato dall’interno in soccorso della città. Diede quindi ai suoi l’ordine di ritirarsi. Questa mossa fu per i saraceni l incoraggiamento di cui avevano bisogno e rove­ sciò le sorti della battaglia. Dopo pochi minuti la ritirata dei nor­ manni si mutò in fuga con i messinesi che incalzavano. Era il disastro, ma doveva verificarsi di peggio. I venti contrari della giornata precedente erano stati preludio ad una terribile tem­ pesta che infuriava intorno a Capo Faro e che strappava agli ormeggi le navi normanne. Le operazioni d’imbarco, difficili prima, erano impossibili. Per tre giorni i normanni attesero, accalcati sulla spiaggia aperta, bloccati dai saraceni ed impossibilitati a mettersi al sicuro dietro qualche riparo naturale, difendendosi come meglio potevano dai ripetuti attacchi nemici. Come riferisce molto apertamente Amato: « Sia per la paura, sia per il freddo, si trovavano in uno stato assai miserevole ». Finalmente la tem­ pesta cessò, il mare tornò calmo ed essi poterono partire; ma non erano andati molto lontani, quando furono intercettati da una flotta saracena partita da Messina e lo scontro navale tra le due flotte si protrasse fino all’entrata del porto di Reggio. Una nave normanna andò perduta; le rimanenti, male in arnese, entrarono a fatica nel porto dove sbarcarono i loro passeggeri esausti ed intirizziti dal freddo. La spedizione, che era partita sotto i migliori auspici, terminò in ciò che potrebbe definirsi un fiasco. La colpa dell’accaduto era senz’altro da attribuirsi a Ruggero.

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Per quanto coraggioso, non aveva ancora imparato che, nell'arte della guerra, la prudenza è altrettanto necessaria quanto il corag­ gio. I successi riportati dai normanni negli ultimi quarantanni erano dovuti principalmente al fatto che, ad eccezione di alcuni episodi verificatisi quando erano ancora dei semplici mercenari, essi avevano impegnato a fondo il nemico solo quando erano quasi certi di riportare la vittoria; inoltre, poiché dovevano fare assegnamento unicamente sulle immigrazioni dei loro conterranei per rifornire il loro esercito, mai esponevano inutilmente le vite dei loro uomini. Ed ora ecco che, per ben due volte in quello stesso anno, Ruggero si era reso colpevole di errori del genere. La sorte toccata alla spedizione di Maniace nel 1040 - alla quale parecchi dei cavalieri più anziani che facevano parte del suo eser­ cito avevano certamente partecipato - avrebbe dovuto farlo riflet­ tere che, divisi o no, i saraceni avrebbero lottato con vigore e con accanimento per difendere la loro isola; di ciò, Ruggero aveva fatto esperienza diretta Tanno prima. L'essersi imbarcato in un'al­ tra impresa scervellata, male organizzata e male equipaggiata, con soli pochi giorni di preavviso, per accondiscendere all'invito di un emiro squilibrato e traditore fu pura follia; le conseguenze della quale furono più che meritate. È da sperarsi che Roberto abbia redarguito energicamente il fratello per la sua sventatezza, quando Ruggero lo raggiunse in Ca­ labria al principio del maggio seguente. Egli aveva condotto con sé tutte le forze che poteva distogliere dall’altro fronte; la cam­ pagna di primavera in Puglia era stata coronata da successo, Melfi era stata soccorsa, Brindisi ed Oria riconquistate. Alcune città del tallone erano, è vero, ancora in mano ai bizantini, ma il grosso dell'esercito greco si era ritirato a Bari e per il momento sem­ brava improbabile che si apprestasse a scatenare altre offensive. Si prospettavano, quindi, sei mesi di buona stagione per imprese guerresche - forse il tempo necessario per fare buona presa in Sicilia prima deU’inverno. Vi erano pure altre ragioni, a parte la congenita impazienza, che spingevano Roberto ad invadere l'isola al più presto. Ibn al-Hawwäs si rendeva perfettamente conto di quali fossero le intenzioni dei normanni e stava provvedendo a rafforzare la guarnigione di Messina facendovi affluire ottocento cavalieri ed una flotta di ventiquattro navi; era chiaro, quindi, che piu i normanni indugiavano, piu tenace sarebbe stata la resistenza

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che avrebbero incontrata. Roberto era pure preoccupato riguardo ai suoi vassalli di Puglia. L'invasione bizantina li aveva tenuti occupati nei mesi passati, ma ora che i greci si erano ritirati, cominciavano a dare nuovi segni di irrequietezza. Bisognava asse­ gnare loro un nuovo compito a lunga scadenza; un audace piano di conquista li avrebbe riuniti tutti, sotto la sua guida, contro un nemico comune. Anche Ruggero mordeva il freno; per nulla sgo­ mento dai recenti rovesci subiti, si era dedicato durante la pri­ mavera alla organizzazione della spedizione più importante. Se questa non fosse subito iniziata, sarebbe ripartito nuovamente per conto suo. Entro pochi giorni dall'arrivo del Guiscardo a Reggio gli eserciti erano pronti ad imbarcarsi. Anche per quei tempi non rappresentavano una forza considerevole; forse duemila uomini in tutto con cavalieri e fanti divisi in parti più o meno uguali. Erano, in effetti, assai meno di quanti Roberto aveva sperato di poter mettere in campo, ma la situazione in Puglia rendeva assai improbabile il reclutamento di altri contingenti in un futuro pros­ simo. Tuttavia, sotto una buona guida potevano bastare. Una cosa era emersa chiara dai rovesci subiti nel febbraio: nessuna spedi­ zione poteva riuscire se non si stabilivano salde linee di comuni­ cazione con il continente. Ciò significava avere il controllo dello Stretto, che a sua volta richiedeva il possesso di Messina; questa, come Ruggero sapeva a sue spese, non era una premessa facile a realizzarsi, ma non vi erano alternative, specialmente ora che la flotta saracena era stata cosi potentemente rafforzata. Per riuscire era indispensabile l'elemento sorpresa. A metà maggio le notti erano ancora oscure e tranquille. La luna nuova sarebbe sorta il venti del mese; fu probabilmente verso il diciotto, sull’ora dell'imbrunire, che un'avanguardia normanna, composta di duecentosettanta cavalieri agli ordini di Ruggero di Altavilla imbarcatisi su tredici navi, scivolò silenziosamente fuori dal piccolo porto di Santa Maria del Faro per sbarcare poche ore dopo su una spiaggia deserta circa otto chilometri a sud di Mes­ sina.5 La traversata dello Stretto, in quel punto, fu piu lunga di 5 In un interessante articolo dal titolo « Operazioni combinate » in Sicilia, negli anni 1060-1078 d.C., Waley esprime l'opinione che i normanni abbiano imparato dai bizantini l'arte di trasportare i cavalli per mare e che l'esoerienza fatta nel 1061 debba essersi rivelata utilissima cinque anni dopo a Hastings,

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quanto sarebbe stata se il Guiscardo avesse optato per la rotta più diretta attraverso la distanza minima che separa risola dal conti­ nente; ma l'aver preso questa decisione si rivelò saggio. I saraceni, che si aspettavano una invasione imminente, ritenevano che le forze di sbarco avrebbero scelto la via più breve a nord di Mes­ sina, come aveva fatto Ruggero nel febbraio precedente; le loro pattuglie di ricognizione, di terra e di mare, perlustravano, quindi, senza sosta la zona costiera tra Messina e Capo Faro. Un simile concentramento di forze lasciava praticamente indifeso l ’accesso meridionale allo Stretto; Ruggero ed i suoi uomini poterono attraversarlo senza essere molestati e prima dell’alba le navi che li avevano trasportati avevano già fatto ritorno in Calabria pronte ad imbarcare nuovi contingenti. Lo scopo principale dell’avanguardia era di effettuare una rico­ gnizione, ma Ruggero non era tipo da commettere errori per ecces­ siva prudenza. Spostandosi dalla testa di ponte sulla spiaggia in direzione di Messina poco dopo l’alba, egli quasi subito s'imbatté in una colonna saracena che trasportava, a dorso di mulo, denari ed approvvigionamenti per rifornire la guarnigione della città. Fu un’occasione provvidenziale. I saraceni, colti di sorpresa, in pochi minuti furono sterminati tutti; i normanni avevano appena rac­ colto le loro file quando uno sventolio di bianche vele annun­ ziò l'arrivo di altri contingenti dell’esercito invasore. Ruggero si trovava cosi alla testa di quasi cinquecento uomini. Non era una forza molto superiore a quella di cui disponeva quan­ do subì la disastrosa sconfitta nel corso della precedente spedi­ zione, ma questa volta sapeva che stavano per giungere altri 1500 uomini agli ordini del Guiscardo stesso. Inoltre, i saraceni di Mes­ sina non avevano ancora dato segno di essere a conoscenza degli sbarchi normanni; vi erano quindi molte probabilità di coglierli di sorpresa. Messina si trovava ora a soli tre chilometri, il sole era appena sorto. Cautamente i normanni avanzarono. Fuori della città si fermarono, all’erta, attesero. I bastioni a difesa dei quali tre mesi prima era accorsa, con magnifico slancio, l’intera popo­ lazione erano ora deserti e tranquilli. Per la seconda volta quella mattina, la Provvidenza sembrava parteggiare per i normanni. dove, si è a conoscenza, le forze di sbarco del duca Guglielmo comprendevano cavalieri provenienti dalla Sicilia e dairitalia meridionale.

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Perché attendere l’arrivo di Roberto? Ruggero avrebbe potuto sbrogliarsela da solo. Diede l ’ordine di attaccare. L ’operazione si svolse rapidissima. Prima ancora che il duca di Puglia avesse preso il largo con il grosso dell’esercito, navi­ gando per un mare tranquillo e amico alla volta del suo nuovo possedimento, la città di Messina era già in mano ai normanni. I saraceni erano rimasti vittime della loro stessa prudenza. Nella loro preoccupazione di bloccare i normanni mentre traversavano lo Stretto, essi avevano lasciato completamente indifese non solo la città ma le vie d’accesso meridionali a questa. La guarnigione, che era in attesa del nemico lungo la costa a nord, non seppe dell’accaduto che troppo tardi; quando ne vennero a conoscenza, giudicando che il loro ritorno a Messina avrebbe significato la cattura immediata, presero la saggia risoluzione di fuggire all’in­ terno. Quelli a bordo delle navi si trovavano nelle stesse condi­ zioni; una volta il porto di Messina in mano al nemico, dirigersi a sud dello Stretto sarebbe equivalso a gettarsi nelle fauci della belva. Effettuando una rapida virata di bordo doppiarono il Capo Faro dirigendosi verso ovest e verso un asilo sicuro. Quando vi giunse, il duca di Puglia percorse a cavallo, da trionfatore, le vie di una città quasi deserta. Vi era stato l’inevi­ tabile saccheggio, ma la carneficina era stata limitata. Malaterra narra, con costernata ammirazione, che un giovane nobile mu­ sulmano uccise con le proprie mani ramatissima sorella piuttosto che lasciarla cadere nei lascivi artigli degli infedeli; ma la maggior parte della popolazione musulmana riuscì a fuggire all’interno senza riportare troppi danni e senza troppa difficoltà. Il Guiscardo non rimpianse questo esodo; la sua massima preoccupazione era salvaguardare la sicurezza di Messina ed era lieto di essersi di­ sfatto di un vasto settore della popolazione, sulla fedeltà del quale avrebbe potuto fare scarso affidamento. Rimaneva quindi solo la minoranza cristiana - per la maggior parte greci - a dare al Gui­ scardo un benvenuto cauto e sbigottito e ad indire, al suo co­ mando, funzioni religiose di ringraziamento nella loro chiesa. Roberto, ora piu che mai, insisteva nel sottolineare il carattere di ispirazione divina della sua spedizione; non solo ne era con­ vinto egli stesso - infatti, le circostanze in cui si era svolta la conquista della città davano adito a credere in un benevolo inter­ vento del cielo - ma sarebbe stato utile se anche i cristiani del

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luogo potessero venir persuasi a considerare ¡ ’invasione normanna come provvidenziale e voluta dall’alto. La prima cura di Roberto fu di trasformare Messina nella testa di ponte inespugnabile di cui aveva bisogno. Per una intera set­ timana, senza sosta, l’esercito lavorò giorno e notte per rafforzarne le difese. Le mura furono ricostruite ed estese, i bastioni rialzati, le torri fortificate, ammassati nuovi terrapieni. Quando tutto fu pronto, un corpo di cavalleria fu insediato nella città a presidiarla in permanenza. Ciò significava ridurre considerevolmente gli effet­ tivi di cui Roberto avrebbe potuto disporre sul campo, ma trat­ tandosi di Messina non gli conveniva correre rischi. Nel frat­ tempo, pronto come sempre a volgere le ambizioni dei normanni a suo vantaggio, riapparve sulla scena la sinistra figura di Ibn ath-Thumnah per ingraziarsi i vincitori e tornare a far parte dei loro consigli. Quando la prima spedizione di Ruggero si era tro­ vata in difficoltà, egli si era prontamente messo al sicuro nel suo castello di Catania; ora si ripresentava più insinuante ed osse­ quioso che mai; trovò un nuovo interlocutore propenso ad ascol­ tarlo: lo stesso Guiscardo. Le sue proposte erano sempre le stesse: se i normanni lo avessero aiutato a demolire il rivale, Ibn al-Hawwàs, sarebbe stato loro riconosciuto il dominio supremo su tutta la Sicilia. Qualunque siano state le opinioni personali del Guiscardo riguardo a Ibn ath-Thumnah, egli non poteva permettersi di toglier­ selo dai piedi. Quest’uomo era, insieme a Ibn al-Hawwäs, il più po­ tente degli emiri siciliani. Ora che Messina era sicura, Tessergli amici poteva assicurare ai normanni il controllo su tutta la Sicilia orientale e, ciò che era d’importanza vitale, il controllo di tutta la fascia costiera che fronteggiava il continente. Inoltre, egli avreb­ be potuto provvedere loro guide, interpreti, armi, vettovagliamenti e mettere a loro disposizione tutte quelle conoscenze pratiche riguardo alTambiente, di cui gli europei tanto difettavano quando si trovavano in territorio musulmano. Anche questa si sarebbe detta un’altra manifestazione della benevolenza divina - ma può darsi che a Roberto sia balenato in mente che, in questo caso, TOnnipotente non poteva scegliere un mezzo piu impensato per raggiungere lo scopo. E cosi fu che, trascorsa una settimana o poco più, non appena le difese di Messina erano state completate secondo i suoi piani, il Guiscardo si mise di nuovo in marcia alla testa del suo esercito, con Ruggero e Ibn ath-Thumnah che gli cavai-

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cavano a fianco, in questa seconda tappa della sua avventura siciliana. Da Messina, due erano le vie che conducevano ai domini di Ibn al-Hawwàs. La più breve era quella lungo la costa, in direzione sud, fino ad una località nei pressi di Taormina, voltando poi verso l'interno per risalire la valle dell'Alcantara lungo le falde settentrionali dell'Etna per giungere all'altipiano centrale. Ibn athThumnah preferì condurre i suoi amici per l'altra via, attraverso territori che, in teoria, erano a lui fedeli ma che di recente ave­ vano dato segni di insubordinazione: egli probabilmente pensava che vedendo da vicino l'esercito normanno quelle popolazioni ne avrebbero tratto un effetto salutare e sarebbero venute a piu miti consigli. Altro vantaggio derivante dal seguire questa via sarebbe stato di permettere al Guiscardo di assicurarsi la fedeltà di Rometta, senza la quale i passi montani che controllavano le vie d'accesso a Messina da ovest non potevano considerarsi sicuri. Rometta era allora, come lo è oggi, una magnifica fortezza naturale e inoltre era stata potentemente fortificata dai saraceni. Essa aveva costituito un formidabile ostacolo per Maniace nel 1038 e lo stesso poteva verificarsi per Roberto il Guiscardo nel 1061; fortunatamente il suo governatore era rimasto fedele a Ibn ath-Thumnah e ora, per la seconda volta in quattro mesi, accolse l'arrivo dei normanni con giubilo. Presentatosi senza indugio al loro campo, il governatore si inginocchiò ai piedi di Roberto, gli giurò fedeltà sul Corano e gli offri, tra molti altri doni, le chiavi della città e della cittadella. Rometta era l'ultimo anello della catena difensiva che il Guiscardo aveva disposto attorno a Mes­ sina; ora poteva proseguire tranquillo. Benché irritato, come sempre, dalla lentezza della fanteria Amato narra come egli galoppava avanti seguito dai suoi cavalieri per poi fermarsi ad attendere l'arrivo dei fanti - il duca di Puglia riusciva a procedere abbastanza speditamente. Due giorni di cam­ mino da Rometta lo condussero a Frazzanò, ai piedi del passo che si apriva sulla cosiddetta pianura di M aniace, l'altipiano sul quale il gigantesco Giorgio e il primo dei giovani Altavilla si erano distinti ventun anni prima. Qui Roberto fece sostare il suo ansimante esercito. Fin qui non avevano incontrato nessuna seria resistenza; il territorio che avevano attraversato era per la mag­ gior parte abitato da cristiani e le popolazioni li avevano accolti

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con entusiasmo sincero - in seguito si sarebbero accorte quanto questo era mal riposto. Giunti sulle rive del Simeto, i normanni si sarebbero trovati in territori ostili; le spie riferivano notizie sul potente esercito con il quale Ibn al-Hawwäs si apprestava a muovere loro incontro dalla sua fortezza di Enna. L ’avanzata normanna continuava, ma ora il Guiscardo si mostrava piu cauto. A Centuripe subì il primo scacco. Il suo attacco sferrato contro la città incontrò una forte resistenza e, piuttosto che rischiare perdite che gli sarebbero state troppo gravose, preferì togliere quasi subito l’assedio rinunciando alla conquista di questa. Una breve pun­ tata verso est si rivelò più fortunata; Paterno cedette senza lotta, i musulmani si squagliavano davanti all’avanzata normanna « come cera al fuoco », dice Amato. Quindi, poiché il tanto decantato esercito saraceno era ancora parecchi chilometri lontano e sem­ brava non avesse voglia di farsi vedere, Roberto fece eseguire alle sue truppe una conversione a destra, avanzando lungo la valle del Dittaino e penetrando sempre piu nel cuore del territorio nemico, e finalmente si accampò tra i mulini ad acqua ai piedi della grande rupe sulla quale sorge Enna. Di tutte le fortezze montane della Sicilia, Enna era la più elevata e la più impervia. Due secoli prima i saraceni erano riu­ sciti a toglierla ai greci con uno stratagemma: essi erano risaliti, un uomo alla volta, su per la fogna principale della città. Era chiaro che mai sarebbe stato possibile prenderla d’assalto e Ro­ berto, conscio del poco tempo che gli rimaneva prima che soprag­ giungesse l ’invemo che l ’avrebbe costretto a battere in ritirata, voleva ad ogni costo evitare di cingerla d’assedio. Si mise perciò, di proposito, a provocare il nemico sfidando Ibn al-Hawwäs, sulla soglia di casa sua ad uscire e combattere per dare un saggio ai normanni di quella formidabile accoglienza che si diceva avesse preparato loro. Ma i saraceni non si fecero vedere; per quattro giorni i normanni attesero in un crescente esacerbarsi, devastando senza pietà tutto il territorio limitrofo e, nella loro impazienza, facendo tutto il possibile per pungere l ’emiro e costringerlo a muoversi. Il quinto giorno vi riuscirono. Come spesso per questo periodo storico, è impossibile valutare con precisione il numero degli uomini impegnati nella battaglia che seguì. Da Malaterra sappiamo che l ’esercito saraceno contava quindicimila uomini; può essere una esagerazione, ma non vi è

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nulla di improbabile in una simile affermazione. Una cosa è certa: i normanni erano in numero infinitamente inferiore. AH’inizio della spedizione Roberto il Guiscardo aveva a sua disposizione circa duemila uomini. Aveva lasciato dietro a sé una forte guar­ nigione a Messina e forse anche a Rometta o altrove. Ibn athThumnah potrà aver rafforzato le file dell’esercito normanno con qualche contingente saraceno sul quale, però, c ’era da fare poco affidamento; il numero di questi deve essere stato esiguo perché nelle cronache non se ne fa menzione. Quando Malaterra valuta la forza di cui disponeva Roberto a circa settecento uomini, forse non era lontano dal vero. Eppure la battaglia di Enna fu una delle più schiaccianti vit­ torie riportate dai normanni. La natura del terreno, oltre al gran numero degli avversari, era loro contraria; non disponevano di luoghi sicuri entro i quali ritirarsi per riposare e consolidarsi; non avevano depositi di armi o di equipaggiamento da cui rifor­ nirsi. Ma quanto a coraggio e soprattutto a disciplina, ne avevano in abbondanza e di natura fino ad allora sconosciuta ai saraceni. Al coraggio e alla disciplina i normanni aggiungevano ora un nuovo e potente fervore religioso che li spronava quando, appena con­ fessati ed assolti, con la poderosa voce di Roberto che rintronava nelle loro orecchie, essi si gettavano nella mischia. E cosi, il primo grosso scontro sul suolo siciliano tra gli eserciti normanni e sara­ ceni si risolse nella rotta completa di quest’ultimi. Cinquemila degli uomini di Ibn al-Hawwàs riuscirono a mettersi in salvo nella loro fortezza; tutti gli altri, al sopraggiungere della notte, giacevano morti o moribondi lungo le rive del fiume. Le perdite normanne furono lievi. A parte il bottino, i risultati della vittoria furono per lo più indiretti. Ibn al-Hawwàs con i resti del suo esercito - e presumi­ bilmente insieme alla moglie di Ibn ath-Thumnah - erano al sicuro nella cittadella da dove i normanni erano ancora ben lontani dal poterli cacciare; e nonostante fosse stato dato l’ordine di cingere d’assedio la città prima ancora che i feriti normanni fossero stati rimossi dal campo di battaglia, era evidente a tutti che la con­ quista di una simile roccaforte sarebbe stato un compito lungo ed arduo. Nel frattempo, però, la notizia dell’esito della battaglia si diffondeva rapidamente per tutte le valli, dove pochi tra i capi locali condividevano la fermezza del loro emiro. Non passò molto

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tempo che il primo fra questi si presentò al campo del Gui­ scardo; e nelle settimane che seguirono ne giunsero a decine, la testa china, le braccia incrociate, seguiti dai loro muli carichi di doni e di tributi. Una tale prontezza a fare atto di sottomissione non ha nulla di sorprendente; essi si trovavano ora indifesi, men­ tre i normanni, seguendo la prassi abituale durante i periodi di assedio, inviavano giornalmente pattuglie a razziare, terrorizzare e devastare tutte íe zone adiacenti, come solo loro sapevano fare. Il periodo del raccolto si avvicinava, ma i contadini musulmani avevano poco da sperare dai loro campi bruciati e dalle loro vigne distrutte. Ibn al-Hawwas, affacciandosi dai bastioni della sua città assediata, a scrutare nella notte i dintorni, avrà visto le fiamme divampare dai casolari sparsi per le campagne, più sfavillanti di quelle dei fuochi dei bivacchi nel campo normanno che poteva scorgere immediatamente sotto. Questa vista non gli avrà forse causato un gran dolore; le sue perdite erano state di gran lungi peggiori; ma deve aver sospettato che per lui e per la sua gente questo era il principio della fine; per loro la Sicilia non sarebbe mai tornata ad essere quella di prima. Poco dopo, però, il tempo si volse a favore delTemiro. Il Gui­ scardo, date le circostanze, non poteva esporsi ai rischi di una campagna invernale; le sue forze erano già pericolosamente sparse ed egli avrebbe avuto bisogno di consolidare le sue vittorie prima di far ritorno sul continente. Dopo due mesi di assedio nella torrida estate siciliana, Enna non dava segni di voler cedere, ma la pazienza normanna si andava esaurendo. Già Ruggero, impe­ tuoso come sempre, si era stancato di quella forzata inattività ed era partito alla testa di trecento uomini per una delle sue cosid­ dette spedizioni di ricognizione, lasciando dietro a sé una scia di saccheggi e di devastazioni fino ad Agrigento e facendo ritorno con un bottino sufficiente per ricompensare Tintero esercito. Que­ sto fu, senz’altro, un bel contentino, ma ormai era chiaro che biso­ gnava togliere Tassedio. Nel luglio, o ai primi di agosto, Roberto dette il segnale della partenza e, con sollievo degli assedianti quasi pari a quello degli assediati, ricondusse i suoi uomini giù per la valle donde erano saliti. Con un esercito tanto esiguo e con tanti dei suoi uomini ormai smaniosi di far ritorno alle loro case in Puglia, il Guiscardo non poteva sperare di impossessarsi saldamente di nessuna parte del

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territorio di Ibn al-Hawwàs. Più a nord, quella terra di nessuno che nominalmente faceva parte dei domini di Ibn ath-Thumnah non era mai al sicuro dalle scorrerie del suo rivale. I greci cristiani che abita­ vano in quel territorio lo avevano supplicato di lasciarvi una guar­ nigione permanente e Roberto non ebbe difficoltà a persuadere alcuni dei suoi cavalieri erranti a stabilirsi definitivamente in suolo siciliano. E cosi, nell’autunno del 1061, a pochi chilometri dalla costa settentrionale, presso le rovine della classica Aluntium, sorse la prima fortezza normanna in Sicilia. Appollaiata sulle colline ai piedi dei monti Nebrodi e a controllo dei passi dai quali scende­ vano i saraceni per compiere le loro scorrerie, la fortezza costi­ tuiva per gli abitanti della zona una difesa efficace e un perenne monito della potenza normanna. Negli anni che seguirono, questa roccaforte isolata doveva trasformarsi in una prosperosa cittadina. Tale è oggi; dell'opera del Guiscardo rimane non solo un castello diroccato, ma anche il nome, San Marco d'Alunzio, da lui dato a ricordo dell'altro San Marco in Calabria, dove solo quindici anni prima aveva avuto inizio la sua cam era. Di ritorno a Messina Roberto fu raggiunto dalla consorte Sichelgaita che, dopo una breve visita ai nuovi possedimenti del marito, convinse questi a tornare con lei in Puglia a trascorrervi il Natale. Ruggero li accompagnò fino a Mileto, dove aveva stabi­ lito il suo quartier generale in Calabria, ma era incapace di star­ sene tranquillo. La Sicilia era per lui un potente richiamo; vi erano ancora tante cose da fare nell'isola, tante occasioni da non lasciarsi sfuggire. Ai primi di dicembre vi aveva fatto ritorno a capo di centocinquanta uomini. Dopo aver percorso come un ciclone il territorio di Agrigento, risali a nord fino a Troina, una roccaforte piu elevata e più inespugnabile di Enna. Fortunata­ mente questa era abitata in prevalenza da greci, i quali subito aprirono le porte all'esercito di Ruggero. Qui trascorse il Na­ tale; e qui gli giunse notizia che la fanciulla che aveva amato in Normandia, fin dalla prima giovinezza, si trovava ora in Calabria dove lo aspettava sperando, come aveva sperato sempre, di diven­ tare sua moglie: la sua gioia fu grande. Giuditta di Evreux era figlia di un cugino germano di Gu­ glielmo il Conquistatore. Quando i due giovani si erano conosciuti ridea di un possibile matrimonio tra la fanciulla cosi altolocata

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e il più giovane e il più povero degli Altavilla, famiglia relativa­ mente oscura, era impensabile; ma da allora molte cose erano cambiate. Una violenta lite era scoppiata tra il duca Guglielmo e Roberto di Grantmesnil, fratellastro e tutore di Giuditta e abate del grande monastero normanno di St. Evroul-sur-Ouche. In se­ guito a tale lite Roberto era fuggito insieme a Giuditta, al fratello e alla sorella di lei e ad undici monaci rimastigli fedeli; si dires­ sero prima a Roma dove Roberto tentò di ottenere soddisfazione dal papa, proseguendo poi per raggiungere i suoi compatrioti nel Sud. Roberto il Guiscardo aveva fatto loro buona accoglienza. Bramoso di minare l’influenza dei monasteri greci in Calabria, incoraggiava l’insediamento di monaci latini ovunque possibile e aveva immediatamente fondato, dotandola riccamente, l’abbazia di Santa Eufemia in Calabria, dove sarebbe stato possibile perpetuare le celebri tradizioni liturgiche e musicali di St. Evroul.6 Ma anche Ruggero aveva i suoi piani. Aveva ora raggiunto, in Italia, un grado di potere e di influenza inferiore solo a quello dello stesso Guiscardo. Tra le famiglie non regnanti, poche sarebbero state quelle che lo avrebbero disdegnato come sposo delle loro figlie. Appena avuta notizia delParrivo di Giuditta, si affrettò a far ri­ torno in Calabria per incontrarsi con lei. La trovò che l’aspettava nella cittadina di San Martino d’Agri. Le nozze furono celebrate immediatamente. Ruggero condusse quindi la sposa a Mileto, dove ebbe luogo la cerimonia ufficiale con l’intervento, secondo lo stile tradizionale di St. Evroul, di un gran numero di musici. Quello di Ruggero e di Giuditta fu senz’altro un matrimonio d’amore e la giovane coppia sembra sia stata molto felice; ma la loro luna di miele fu di brevissima durata. A ll’inizio dell’anno nuovo, mo­ strandosi irremovibile alle preghiere e alle lacrime della sposa, la lasciò a Mileto e tornò in Sicilia. L ’anno 1062 incominciò bene, ma non mantenne le promesse iniziali. Dopo una breve campagna durata poco più di un mese, di cui l’avvenimento più rilevante fu la conquista di Petralia, Ruggero fece ritorno sul continente deciso a sistemare alcune que­ stioni di famiglia che da tempo lo preoccupavano. Il duca di Puglia ricominciava a farne delle sue. Sin dal 1058 si era impegnato a dividere in parti uguali le sue conquiste in Calabria con il fra-• • Santa Eufemia fu a sua volta l'abbazia madre di molte altre fondazioni simili in Sicilia; tra le altre quella di Sant'Agata a Catania, oggi cattedrale.

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tello; da allora in poi però, indispettito per l’influenza sempre maggiore che andava acquistando Ruggero e temendo per la sua stessa posizione, si era rifiutato di mantenere fede alle promesse. Ruggero, per tutto il tempo che era stato impegnato in Sicilia ave­ va accettato, pur di mala voglia, il denaro che Roberto gli aveva offerto in cambio dei territori che gli sarebbero dovuti spettare, ma ora che si era sposato la situazione era diversa. La tradizione del M orgengab, che si era dimostrata tanto utile per il principe di Capua pochi anni avanti, era universalmente rispettata nell’Italia normanna, ed era impossibile che un gran signore, ed in partico­ lare un Altavilla, non fosse in grado di infeudare la propria moglie e la di lei famiglia in maniera consona al loro rango ed alla loro posizione. Messi furono quindi inviati al duca a Melfi, incaricati di trasmettergli le richieste ufficiali di Ruggero accompagnate dal monito che, se entro quaranta giorni queste non fossero state pie­ namente soddisfatte, egli si sarebbe visto costretto a ricorrere alla forza per far rispettare i suoi diritti. Cosi, per la seconda volta in quattro anni, l ’impeto dell’avan­ zata normanna venne arrestato a causa dei contrasti sorti tra i due principali artefici circa lo spartirsi del bottino. Come avvenne la prima volta, anche nella seconda, più che ambizione da parte del fratello minore fu la gelosia del maggiore ad accendere la prima scintilla. Ruggero aveva troppo spiccate le caratteristiche degli Altavilla per mostrarsi un docile subordinato, ma le richieste da lui avanzate sia nel 1058 che nel 1062 non possono dirsi irragio­ nevoli. La colpa era di Roberto; per quanto equilibrato e giusto fosse il suo acume politico in quasi tutte le circostanze, egli era capace di perdere ogni senso di misura al sospetto che il fratello minacciasse la sua supremazia o volesse in qualche modo minarla. In questa occasione in particolare, poco gli conveniva inimicarsi Ruggero. L ’esercito bizantino era sempre insediato a Bari e, cer­ tamente, preparava nuove offensive; se Roberto voleva sperare di tenerlo a freno mentre continuava a consolidare le sue vittorie in Sicilia, doveva poter disporre di un luogotenente sul quale fare assoluto affidamento sia per coraggio che per ingegnosità. Ed ora la situazione si faceva ancora più grave; durante i quaranta giorni fissati da Ruggero prima di mettere in atto il suo ultimatum, giun­ sero notizie dalia Sicilia che Ibn ath-Thumnah, che nel frattempo aveva continuato la sua campagna di primavera lungo la costa

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settentrionale dell’isola, era caduto in un agguato ed era stato trucidato. La sua morte aveva avuto quale conseguenza immediata di risollevare il morale dei suoi nemici al punto che le guarnigioni normanne di Petralia e di Troina, temendo per la vita e prese dal panico, avevano abbandonato i loro presidii ed erano fuggite a Messina. Sarebbe stato ancora possibile, allora, per il duca di Puglia tener fede alla parola data e riconoscere i diritti del fratello, po­ nendo cosi fine ad ogni lite prima che fosse troppo tardi. Invece, in un impeto d’ira si diresse in Calabria e cinse d’assedio Mileto dove si trovava Ruggero. La storia degli avvenimenti che seguirono sembra appartenere a quell’assurdo mondo, semifantastico, che si trova ai confini tra la commedia e il melodramma. Ci viene narrata, con dovizia di dettagli incantevoli, dal Malaterra e vale la pena farne un breve riassunto, non tanto per l’intrinseca im­ portanza storica, quanto per la luce che getta sul carattere di questi due uomini eccezionali e sul modo in cui, alle volte, veni­ vano condotti gli affari di Stato nove secoli orsono. Una notte, durante l’assedio di Mileto, Ruggero usci segretamente dalla città per andare in cerca di aiuti nella vicina città di Gerace, dove fu inseguito poco dopo dall’infuriato Guiscardo. Gli abitanti di Gerace, fedeli a Ruggero, sbatterono le porte della città in faccia al duca; più tardi, però, celato sotto un gran man­ tello con cappuccio Roberto riuscì a penetrarvi inosservato. Una volta entrato si diresse verso la casa di un certo Basilio, a lui fedele, con il quale voleva consigliarsi circa il miglior modo per ristabilire la sua autorità. Basilio con la moglie Melita, noncuranti del rischio al quale si esponevano, invitarono il loro illustre ospite a trattenersi a pranzo ma, disgraziatamente, mentre aspettavano per mettersi a tavola Roberto fu riconosciuto da un servo che immediatamente dette l’allarme; entro pochi minuti la casa fu accerchiata da una folla minacciosa. Basilio, colto dal panico, fuggì per cercare rifugio nella chiesa vicina, ma fu catturato e massacrato dalla folla prima di potervi giungere; Melita, anch’essa catturata, ebbe una sorte ancor più terribile: fu impalata e morì dopo un’atroce agonia. Roberto, invece, causa di tutto l’accaduto, non perse la testa. Impose il silenzio e con la sua arte oratoria seppe dominare la situazione. Ammonì i suoi assalitori che, se avevano cara la vita, non dovevano abbandonarsi a trasporti di euforia perché avevano nelle loro mani il duca di Puglia. Oggi

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la fortuna era a lui avversa, ma tutto ciò che accadeva era per volontà di Dio e domani le loro rispettive posizioni avrebbero potuto venire capovolte. Egli era venuto tra loro liberamente, di sua spontanea volontà e senza intenzioni ostili; da parte loro, essi gli avevano giurato fedeltà e lui non li aveva mai traditi. Sarebbe stata davvero una vergogna se tutta una città, immemore del giuramento prestato, si fosse scagliata senza ragione contro un uomo solo e disarmato. Dovevano pure riflettere che la sua morte avrebbe fatto riversare su di loro Podio perenne dei nor­ manni, dei quali avevano ora la buona fortuna di godere l’ami­ cizia. I normanni lo avrebbero vendicato implacabilmente senza mostrare pietà e la loro ira sarebbe stata altrettanto terribile quanto il disonore che avrebbe insozzato loro, ed i loro figli, per essere stati causa della morte del loro innocente, benamato e glorioso condottiero. Il popolo di Gerace non deve essere rimasto del tutto per­ suaso. Per quindici anni era bastato il solo nome di Roberto il Guiscardo a far fuggire i contadini dai campi e a farli barricàre nelle loro case, a mandare i monaci a scavare nelle cantine dei loro conventi per nascondervi i loro tesori e il loro vasellame d’oro; era quindi con notevole ritardo che egli tentava ora di rive­ stirsi della pelle dell’agnello innocente. Eppure le sue parole ebbero il loro effetto. Pian piano, mentre parlava, la folla si cal­ mava. Forse, pensavano, sarebbe stato meglio non giungere ad una decisione troppo precipitosa. Il duca fu condotto in luogo si­ curo e tutti i cittadini di Gerace si riunirono per deliberare sul da farsi. I seguaci di Roberto, che attendevano fuori della città, ven­ nero presto a conoscenza dell’accaduto. Non rimaneva loro che un’alternativa. Ingoiato il boccone amaro del loro orgoglio, anda­ rono in cerca di Ruggero accampato a pochi chilometri di distanza e lo supplicarono di venir loro in aiuto. Ruggero ora si divertiva. Sapeva che ormai non aveva più nulla da temere per la propria sicurezza; la vita del fratello era nelle sue mani ed egli avrebbe potuto dettare tutte le condizioni che voleva. Naturalmente non poteva permettere che al fratello venisse fatto alcun male. Per quanto litigassero di frequente, egli a modo suo lo amava, rispet­ tava il suo genio e, soprattutto, aveva bisogno di lui per le opera­ zioni in Sicilia. Non vedeva, però, ragioni per non trarre vantaggio dalle circostanze attuali. Si recò in gran pompa fin sotto le mura

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di Gerace e, giuntovi, intimò a tutte le autorità di presentarsi a lui sullo spiazzo davanti alla porta della città. Lo trovarono col volto fiammeggiante d’ira. Perché, egli chiese, non gli avevano conse­ gnato immediatamente il fratello? Era lui, non loro, la vittima della malafede del Guiscardo e lui solo aveva il diritto di inflig­ gere la pena meritata per simile condotta. Ordinò che il « cosid­ detto » duca venisse subito consegnato in suo potere, altrimenti gli abitanti di Gerace potevano dire addio per sempre alla loro città, alle campagne e ai casolari circostanti, perché prima del­ l ’alba ogni cosa sarebbe stata rasa al suolo. I poteri cittadini non chiedevano probabilmente di meglio che obbedire ad un tale ordine. Le minacce di Ruggero offrivano loro una scappatoia da una situazione impossibile. Roberto fu prele­ vato dal suo rifugio e consegnato al fratello; tutti rimasero col fiato sospeso in attesa di vedere quale pena gli sarebbe stata in­ flitta. La sorpresa fu grande. Ruggero, gettata la maschera del­ l ’ira, avanzò con le braccia aperte incontro a Roberto; per qualche istante rimasero abbracciati come Giuseppe e Beniamino - l ’espres­ sione è di Malaterra - versando lagrime di gioia per essersi ricon­ ciliati. Roberto promise seduta stante che avrebbe soddisfatto tutte le richieste di Ruggero; con i volti illuminati dalla gioia i fratelli balzarono in sella e si diressero a Mileto. Come in seguito dimo­ strarono gli avvenimenti, la lite non era del tutto spenta; una volta che il duca si trovò vicino alla moglie e circondato dal grosso del suo esercito, cominciò a pentirsi di avere accondisceso tanto facil­ mente alle pretese del fratello e la lite scoppiò di nuovo; ma non durò a lungo, perché Roberto rinunciò e ben presto i due espo­ nenti più celebri degli Altavilla riannodarono l’amicizia. Non è ancora ben chiarito come venne spartita la Calabria fra Roberto e Ruggero dopo l ’indecoroso alterco tra i fratelli. Sembra che la spartizione sia stata fatta in base ad un accordo per cui ogni città e castello veniva diviso in due zone d’influenza sepa­ rate, impedendo cosi alle popolazioni di parteggiare per l ’uno o per l ’altro, qualora fossero sorte controversie. Tale sistema lascia pensare che la mutua fiducia non poggiava su basi troppo solide; all’atto pratico, poi, una spartizione del genere deve essersi dimo­ strata cosi complessa e difficoltosa che ci si chiede come abbia potuto funzionare. Eppure i due fratelli se ne dimostrarono sod­ disfatti. Una cosa è certa: l ’accordo permise a Ruggero di donare a Giuditta il M orgengab che le spettava, e a quelli della sua fa­

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miglia i beni terrieri che si confacevano alla dignità della loro nuova posizione. Per Roberto il Guiscardo la lezione era stata dura, ma egli mostrò di averne saputo approfittare. Anche a Ruggero la lite con il fratello era costata cara. Gli aveva fatto perdere del tempo prezioso che avrebbe potuto met­ tere a maggior profitto in Sicilia e fu solo nel cuore dell’estate del 1062 che poté rimettere piede nell’isola. Questa volta, ricor­ dando probabilmente le lacrime versate da Giuditta la volta pre­ cedente, la condusse con sé. Ai primi di agosto sbarcarono sulle coste della Sicilia con un esercito di trecento uomini e si diressero immediatamente a Troina. Nonostante l’ignominiosa fuga della guarnigione a seguito dell’uccisione di Ibn ath-Thumnah, la citta­ dina non aveva subito nessun attacco saraceno durante l ’assenza di Ruggero e, anche se questi si accorse che l’accoglienza fatta questa volta a lui e alla sua giovane consorte dai greci cristiani, era meno calorosa, non vi dette importanza. Tutto sembrava abba­ stanza tranquillo. Dopo una settimana o due trascorse nel ripa­ rare e rinforzare le opere di difesa Ruggero, lasciando Giuditta in custodia alla nuova guarnigione, parti per la campagna militare cosi a lungo ritardata. Questo era il momento che avevano atteso i greci di Troina. Infatti, come loro, cosi tanti altri loro compatrioti e correligionari dovevano rendersi conto, durante i primi anni dell’occupazione normanna, che i loro nuovi padroni si rivelavano spesso peggiori dei vecchi. Erano più esigenti dei saraceni, più duri e non avevano scrupoli quando si trattava di ottenere ciò che volevano. Anche la religione cristiana che professavano era incomprensibile ai greci; rude nella pratica, barbara per linguaggio; il loro compor­ tamento verso le donne del luogo era ormai notorio in tutta l’isola. I troiniani avevano sofferto in modo particolare di questo. L ’af­ frettata partenza della prima guarnigione normanna era sembrata loro una liberazione; ma quella era stata ora sostituita da una forza più ingente. Elaborarono con cura i loro piani; non appena Ruggero e i suoi uomini si furono sufficientemente allontanati, sferrarono il colpo. Il loro primo obiettivo era impossessarsi di Giuditta. Una volta in loro potere, avrebbero potuto trattenerla come ostaggio finché i normanni non si fossero impegnati ad abbandonare la loro città. Ma avevano fatto male i conti: ora si trovavano a dover fronteggiare una guarnigione agguerrita pronta

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a respingere ogni loro attacco con un coraggio ed una fermezza ignoti ai loro predecessori. La lotta si protrasse per tutto il giorno lungo le viuzze impervie, mentre messi galoppavano per la cam­ pagna per raggiungere Ruggero e recargli la notizia. Ruggero, che aveva posto Tassedio a Nicosia, abbandonò tutto e si affrettò a far ritorno a Troina, trovandovi una situazione ancora peggiore di quanto si aspettava. Scorgendo una buona occasione per liberarsi per sempre dei normanni oppressori, pa­ recchie migliaia di saraceni provenienti dalle località circostanti si erano riversati nella città facendo causa comune con i greci. Era impossibile per i normanni difendere Tintero abitato contro un nemico numericamente tanto superiore. Ruggero ordinò ai suoi di ritirarsi nella zona attorno alla cittadella. Furono innalzate immediatamente delle barricate, stabiliti avamposti e punti di osservazione. Questa volta toccava ai normanni subire Tassedio. Questo si protrasse per quattro mesi e forse fu il periodo più cri­ tico di tutta la storia dei normanni in Sicilia. Erano stati colti completamente di sorpresa, le provviste scarseggiavano paurosa­ mente e, peggio ancora, la Sicilia stava per essere presa nella morsa di uno degli inverni più precoci e più implacabili che si ricordas­ sero. Troina si trova ad oltre mille metri sul livello del mare; i normanni mancavano di indumenti caldi e di coperte; la zona recinta dalle loro fortificazioni improvvisate offriva poco o nulla, alTinfuori degli edifici stessi, che potesse servire come materiale da ardere. Ciononostante il loro morale si manteneva sempre alto. Malaterra riferisce che, malgrado la fame, il duro lavoro e la man­ canza di sonno, i normanni assediati si incoraggiavano Tun Taltro « celando le loro pene e fingendo ilarità di volto e di linguaggio ». Anche la povera Giuditta, che condivideva con il marito un unico mantello di lana di giorno e sotto al quale dormivano rannicchiati tutti e due di notte, cercava di far buon viso a cattivo giuoco; eppure « non aveva che le proprie lacrime per dissetarsi e solo il sonno per placare i crampi della fame che la tormentavano ». Ma, nonostante il suo coraggio, si ha Timpressione che non fosse davvero un’altra Sichelgaita. AlTinizio del 1063, Ruggero si rese conto che sarebbe stato impossibile resistere ancora a lungo. Ormai vi erano sempre meno viveri e i suoi soldati avevano patito troppo la fame per soppor­ tare il freddo con lo stoicismo di cui avevano dato prova in prin­ cipio. Per fortuna, vi erano indizi che anche i saraceni che erano

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di guardia la notte risentivano della tensione alla quale erano sottoposti. Questi uomini avevano una difesa contro il freddo ne­ gata ai normanni - l'aspro vino rosso che si produceva nella zona, proibito dal Profeta, ma l'uso del quale era ora temporaneamente consentito ai musulmani per le sue proprietà calorifiche. Infatti li riscaldava bene; ma, come si affrettarono a riferire le sentinelle normanne, ne consumavano in quantità sempre maggiore con con­ seguenze pericolose. A Ruggero balenò una speranza. Una notte di gennaio, quando il vento soffiava piu rigido che mai per le viuzze strette, egli radunò i suoi uomini per l’ultima offensiva. Avendo atteso che il silenzio calasse sugli avamposti saraceni, scavalcò cautamente le barricate. Tutto si presentava come egli aveva sospettato. Le sentinelle si erano arrese agli effetti delle libagioni e dormivano un sonno d’innocenti fanciulli. Presto Rug­ gero fece cenno ai suoi seguaci di raggiungerlo. Il rumore dei loro passi non era udibile sulla neve; le posizioni avanzate greche e saracene furono conquistate prima che i loro difensori potessero rendersi conto di quanto stava accadendo. La mattina seguente Troina era di nuovo in mano ai normanni. La vendetta di Ruggero fu fulminea. I capi dell’insurrezione furono immediatamente impiccati e le pene riservate ai loro com­ plici furono, probabilmente, altrettanto severe. Malaterra ce ne risparmia i dettagli, preferendo narrarci le vicende del grande festino imbandito dai normanni per festeggiare la fine della loro dura prova. Se lo erano meritato. Nel corso di quei quattro mesi, Ruggero, Giuditta e i loro seguaci erano stati sottoposti a priva­ zioni e stenti durissimi, mai prima conosciuti dai normanni da quando erano giunti nel Meridione. Ne erano usciti trionfanti grazie al loro coraggio, al loro spirito di iniziativa e, soprattutto, alla loro capacità di resistenza. Ma si erano pure resi conto di quanto fosse precaria la loro posizione in Sicilia.

CAPITOLO DODICESIMO

LA CONQUISTA D extera D om ini fecit virtutem. D extera D om ini exaltavit me. Motto che Ruggero fece incidere sul suo scudo dopo la battaglia di Cerami

Era ormai innegabile che quella della Sicilia si rivelava per un’impresa assai piu formidabile di quanto Ruggero o chiunque altro avesse potuto prevedere. Il suo problema fondamentale era quello di sempre: la carenza di effettivi. Non era questo un fattore di importanza decisiva nelle battaglie campali; i normanni ave­ vano dimostrato ad Enna ed altrove che, perlomeno in terreno montagnoso, la superiorità della loro disciplina e tecnica militare prevaleva sulla potenza numerica. Ma poche centinaia di uomini non potevano trovarsi dappertutto allo stesso tempo, e i vantaggi della vittoria sarebbero presto andati perduti qualora non fosse stato possibile assicurarsi anche il predominio politico. Al mo­ mento il loro numero era assolutamente inadeguato perfino a garan­ tire il controllo della zona nord-orientale dell’isola. Inoltre, erano ormai trascorsi oltre due anni da quando aveva avuto inizio l ’ope­ razione siciliana e l’elemento sorpresa, uno dei più preziosi per un esercito numericamente inferiore, era stato da tempo perduto. La presenza dei normanni in Sicilia aveva ormai avuto l ’inevitabile effetto catalizzatore sui saraceni i quali, una volta liberatisi della nefasta influenza di Ibn ath-Thumnah, avevano dimenticato i loro contrasti per unirsi compatti di fronte al comune nemico. Il sultano zirita Temim aveva inviato i suoi due figli Ayub e Ali alla testa di due eserciti, in aiuto ai loro fratelli siciliani per arginare l’avan­ zata della marea cristiana; mentre Ruggero lottava per sopravvi­ vere a Traina, questi due giovani principi erano sbarcati uno a Palermo ed uno ad Agrigento ed avevano subito iniziato i prepa­ rativi per sferrare un attacco di concerto. Ruggero disponeva ancora di soli tre o quattrocento uomini; era improbabile che Roberto il Guiscardo, impegnatissimo con i

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bizantini in Puglia, fosse in grado di inviargli rinforzi. A peggio­ rare la situazione, a Troina Ruggero aveva perso tutti i suoi cavalli - probabilmente i normanni se ne erano cibati durante i quattro mesi che erano rimasti assediati - ed ora era costretto a fare una veloce puntata in Calabria per rifornirsi. Il fatto che egli si sia nuovamente fidato a lasciare Giuditta a Troina durante la sua assenza è prova di quanto efficacemente egli aveva sedato la rivolta; Giuditta, però, aveva imparato molte cose durante quei fatidici quattro mesi, e Malaterra scrive con viva approvazione del modo in cui ella ora assunse il comando delle opere di difesa, ispezio­ nando giorno e notte la guarnigione per assicurarsi che ai posti di osservazione le sentinelle fossero sempre sveglie e all’erta. A distanza di nove secoli, sarebbe forse poco cavalleresco insinuare che questi giri d’ispezione fossero dovuti più a un certo senso di nervosismo che alla coscienza del dovere; considerato, però, quanto era accaduto quando si era trovata sola la prima volta, non si può incolpare la povera giovane se provava un certo senso di disagio. Il suo sposo, tuttavia, fu ben presto di ritorno con cavalli e provviste in abbondanza, ma sempre con carenza di uomini. Du­ rante tutta la primavera del 1063, Ruggero e il giovane nipote Serio - già divenuto il più abile dei suoi comandanti e un vero Altavilla da capo a piedi - fecero varie sortite da Troina, impe­ gnando i saraceni in scaramucce in tutto il territorio che da Butera a sud si estende fino a Caltavuturo a nord. Il bottino era copioso e i magazzini a Troina si riempivano in maniera soddisfacente; ma solo a metà estate i normanni riuscirono a prendere contatto con il grosso dell’esercito saraceno ora rafforzato dai nuovi elementi africani, che da poco aveva lasciato Palermo e si stava dirigendo verso est, preceduto dal verde stendardo del Profeta, contro le piazzeforti cristiane. Circa dieci chilometri a ovest di Troina, in una conca tra le colline che sovrastano il fiume dello stesso nome, giace la cittadina di Cerami. I fiumi, a quanto sembra, portavano fortuna ai nor­ manni; sul continente, l’Olivento, l’Ofanto e soprattutto il Fortore erano stati tinti di rosso dal sangue dei loro nemici, e in Sicilia il Dittaino era già stato testimone di un altro loro trionfo. Dopo gli avvenimenti dell’inverno precedente, Ruggero voleva evitare ad ogni costo un altro assedio; il Cerami poi offriva molti vantaggi come luogo di raduno per il suo minuscolo esercito, vari posti di osservazione da dove egli poteva sorvegliare il nemico che si schie­

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rava sulle colline opposte. Ancora una volta, come era avvenuto ad Enna, i normanni erano numericamente tanto inferiori che la loro situazione poteva apparire pressoché disperata. L ’entità dell’esercito saraceno è sconosciuta; Malaterra la stima circa « trentamila cava­ lieri, senza contare i fanti, il cui numero era sterminato ». Come al solito, esagera; però un esercito che comprendeva elementi rac­ colti in tutta la Sicilia e rafforzato da contingenti venuti dalPAfrica doveva certamente contare effettivi a migliaia. Contro questo, Rug­ gero poteva mettere in campo solo cento cavalieri, con altri trenta agli ordini di Serio e, presumendo che i fanti fossero in propor­ zione, l’intero esercito normanno poteva essere costituito, al mas­ simo, da cinque o seicento uomini. Per tre giorni consecutivi, normanni e saraceni si osservarono; al quarto, Malaterra ci narra che « i nostri, non potendo più tolle­ rare di vedere il nemico cosi da vicino senza attaccarlo, si confes­ sarono tutti con grande devozione, fecero la penitenza imposta e poi, affidandosi alla misericordia di Dio e fiduciosi nel Suo aiuto, partirono per dar battaglia ». Venuto a conoscenza che i saraceni stavano già cingendo d’assedio Cerami, Ruggero inviò in tutta fretta Serio ed i suoi trenta cavalieri a difendere la cittadina come meglio potevano; e ancora una volta il prode giovane si dimostrò pari al compito affidatogli. Quando, poco dopo, giunse Ruggero con il grosso delle sue forze, trovò che la prima ondata degli attaccanti era stata messa in fuga e che Cerami era ancora in suo possesso. Tutto questo, Ruggero ben lo sapeva, non era che l’inizio. Il nemico stava raccogliendo le sue forze per sferrare un attacco a fondo; i normanni ebbero appena il tempo di schierarsi in ordine di battaglia, che l’esercito nemico parti all’assalto. Ignorando lo schieramento di fianco agli ordini di Serio, si scagliarono compatti contro il centro dello schieramento al comando di Ruggero stesso, sperando di annientare la resistenza normanna con l ’impeto e la potenza del numero. Poco mancò che vi riuscissero ma, non si sa come, le linee normanne resistettero. Nel frattempo Serio si lanciò in soccorso dello zio. La battaglia continuò per l ’intera giornata; i corpi dilaniati e calpestati ricoprivano il terreno. Poi, al calare della notte, i saraceni si dettero alla fuga, con Ruggero ed i suoi alle calcagna. L ’inseguimento li condusse finalmente al campo dei saraceni. C arich i di bottino, i norm anni si installarono o ra nelle tende dei

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m aom ettan i, im padronendosi dei loro cam m elli e di tutto ciò che vi tro varo n o. P oi, al m attino seguente, se ne p artiron o alla ricerca di quei ventim ila fanti che eran o fuggiti verso le m ontagne p er m ettersi al sicu ro. M olti di questi u ccisero, gli altri cattu raron o e vendettero com e sch iavi, facendoseli pagare a ca ro prezzo. M a dopo p oco, il contagio dei corp i in p utrefazione sul cam p o di battaglia li obbligò ad an dar­ sene, ed essi fecero ritorn o a T ro in a.1

Per Ruggero la battaglia di Cerami si rivelò d’importanza fon­ damentale. Ora finalmente era assicurato il controllo normanno su tutta la regione da Troina a Messina. Nonostante rivolte sporadiche in zone isolate, la loro supremazia non sarebbe mai stata più vera­ mente contestata. E cosi, ancora una volta un esercito normanno, numericamente assai inferiore, aveva annientato le forze saracene; questa volta la battaglia era stata più imponente, e i risultati più significativi e più decisivi, di quella combattuta ad Enna due anni prima. I normanni ne erano usciti vittoriosi sempre per le stesse ragioni - il coraggio e la disciplina, a quei tempi ignota nel mondo musulmano - prorompenti da un entusiasmo religioso che scatu­ riva dalla convinzione sempre più profonda di essere guidati dal cielo. Questa convinzione era ormai cosi radicata che Malaterra può notare, senza mostrarsi sorpreso, che, poco prima che i nor­ manni si gettassero nella mischia a Cerami, fu visto in testa alle loro file un giovane e bellissimo cavaliere su uno stallone bianco come la neve, rivestito di un’armatura da capo a piedi, che nella mano teneva una lancia da cui sventolava un candido pennone con una croce smagliante. Non passò molto, che fu riconosciuto per san Giorgio, venuto egli stesso a guidare i soldati di Cristo alla vittoria; in seguito molti tra i combattenti testimoniarono di aver visto quel pennone sventolare sulla lancia di Ruggero al culmine della battaglia. In riconoscimento di questi segni, Ruggero ordinò che fosse inviato a papa Alessandro II un sontuoso dono; cosi avvenne che, una o due settimane dopo la battaglia, i cittadini di Roma rimasero a bocca aperta vedendo passare in processione quattro cammelli - i più belli tra quelli catturati all’esercito sara­ ceno - che procedevano lenti e dinoccolati per le vie della città. A papa Alessandro il dono deve aver fatto un gran piacere; a parte il carattere esotico e l ’interesse zoologico, e assai più impor­ 1 M alaterra,

Historia Siculo, II, 53.

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tante sia delibino che dell’altro, quei cammelli erano una vivente testimonianza che Ruggero era dalla sua parte e che egli avrebbe potuto fare affidamento sugli Altavilla in caso di necessità. Il papa stava attraversando un periodo difficile. Le riforme elettorali volute da Niccolò II avevano avuto l ’effetto esattamente opposto a quello desiderato. Avevano reso inevitabili le dispute per l ’elezione del papa, poiché se l’imperatrice reggente Agnese avesse accettato un qualsiasi candidato eletto canonicamente a Roma, avrebbe impli­ citamente dato il proprio assenso alle nuove disposizioni, e questo era impensabile. La morte di Niccolò nel 1061 aveva quindi creato una situazione ancor più caotica del solito. Di nuovo due papi si contendevano la Cattedra di San Pietro. Le pretese di Alessandro erano le più fondate poiché la sua elezione ad opera dei cardinali vescovi - capeggiati come sempre da Ildebrando - era stata cano­ nicamente ineccepibile. D ’altra parte, il suo rivale, l’antipapa Ono­ rio II, scelto da Agnese ed appoggiato dai vescovi longobardi che secondo il detto arguto di san Pier Damiani erano più capaci di giudicare della bellezza di una donna che delle qualità richieste in un papa - aveva sostenitori influenti a Roma e molto denaro a disposizione per tener vivo il loro entusiasmo e fu solo con l’aiuto militare di Riccardo di Capua - fornito anche questa volta dietro richiesta diretta di Ildebrando - che Alessandro aveva potuto pren­ dere possesso della Sede Apostolica. Ma anche allora Onorio non si era rassegnato. Fino nel maggio 1063, dopo che Agnese era stata messa in disparte e un consiglio imperiale si era dichiarato a favore del suo rivale, egli era riuscito ad impossessarsi per breve tempo della città leonina2 - e benché fosse stato ufficialmente de­ posto l’anno seguente, continuò ad avanzare le sue pretese fino al giorno della sua morte. Durante tutto questo periodo Alessandro ebbe bisogno di tutto l’appoggio che poteva procurarsi. In cambio dei cammelli, egli inviò a Ruggero uno stendardo papale che doveva precedere ed animare i suoi eserciti nelle prossime campagne. Più significativo ancora, il papa concesse l ’assoluzione a tutti coloro che si sarebbero uniti a Roberto e Ruggero nel loro sacro compito di liberare una terra cristiana dal dominio dell’infedele. D’ora innanzi, non solo nel cuore dei normanni, ma agli occhi di tutta 2 Quella zona di Roma sulla riva destra del Tevere che comprende il Vaticano e Castel Sant'Angelo, fortificata nel nono secolo da Leone IV, subito dopo il sacco di Roma ad opera dei saraceni.

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la cristianità, la conquista della Sicilia divenne una vera e propria Crociata. Le guerre hanno questo di caratteristico: che di solito si pro­ traggono assai più a lungo di quanto avevano previsto i combat­ tenti. Quando Ruggero ed i suoi uomini scivolarono silenziosi attra­ verso lo Stretto di Messina in quella buia notte di maggio del 1061, non furono i primi, né saranno gli ultimi guerrieri ad imbarcarsi sperando di essere di ritorno a casa per Natale. Come abbiamo visto, per il Natale di quell’anno i normanni si erano assicurati appena una testa di ponte sulPisola, e alla fine del 1062, le cele­ brazioni che forse si erano permessi i disgraziati assediati di Troina avranno avuto certo un carattere tutt’altro che festoso. Nel 1063 qualche progresso c ’era stato ma, all’approssimarsi del terzo autunno da quando Ruggero aveva messo manò all’impresa, egli deve essersi reso conto che tra i suoi compatrioti regnava un certo clima di sconforto e di delusione. È vero che nei tre anni trascorsi in Sicilia essi si erano assicurati il controllo di forse un quarto del­ l ’isola, ma anche questo modesto successo era dovuto ad un periodo di eccezionale buona fortuna e a circostanze straordinarie che con ogni probabilità non si sarebbero mai piu ripetute. Se non fossero riusciti ad impossessarsi di Messina di sorpresa, probabilmente l ’as­ sedio alla città non avrebbe avuto piu successo di quelli di Enna e Agrigento. Inoltre, fin qui la loro avanzata era avvenuta in terri­ torio prevalentemente cristiano, dove si erano abituati ad essere accolti da delegazioni che davano loro il benvenuto, anziché resi­ stenza armata; avevano poi goduto dell’appoggio pieno di Ibn athThumnah che li aveva garantiti contro attacchi da sud e da sud-est durante l’avanzata verso il centro dell’isola. Invece, il territorio che rimaneva da conquistare era completamente musulmano. Ibn athThumnah era morto; il suo acerrimo nemico, malgrado le gravi per­ dite subite, resisteva ancora ad Enna ed i saraceni erano ancora più uniti di quanto lo fossero stati in tutto quell’ultimo secolo. Man mano che i normanni avanzavano, le loro linee di rifornimento e di comunicazione si sarebbero fatte sempre più lunghe e piu vulnerabili, e i recenti avvenimenti avevano dimostrato che non si poteva fare affidamento sulla fedeltà dei cristiani nativi del luogo una volta lasciati alle spalle. E poi, vi era sempre l’eterno pro­ blema, la tragica carenza di uomini, fattore questo che poteva aumentare la gloria della vittoria ma, da un punto di vista pratico, non prometteva nulla di buono per l’avvenire. In pochi come erano,

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avrebbero potuto conquistare, ma non sarebbero mai riusciti a con­ solidare le loro conquiste. Spentasi l'euforia di Cerami, queste saranno state le amare rifles­ sioni di Ruggero che lo avranno indotto a scartare la prima occa­ sione che gli si presentò, e che gli venne improvvisamente, ed inat­ tesa, da Pisa. Se i pisani fossero semplicemente esasperati dalle continue scorrerie dei saraceni di stanza in Sicilia, o se, furbi e lun­ gimiranti come erano, abbiano voluto associarsi ai normanni preve­ dendo il loro successo finale, non si sa. Fatto sta che le cronache contemporanee di Pisa confermano quanto riferisce Malaterra che nell'agosto del 1063 quella città inviò una flotta in Sicilia, la quale chiese la collaborazione di Ruggero per sferrare contro Palermo un attacco congiunto dalla terra e dal mare. La risposta di Ruggero fu deludente. Egli aveva altri affari da sistemare e non poteva prendere impegni precisi. Forse in seguito sarebbe stato possibile venire ad un accordo del genere; per il momento i pisani dovevano aspettare. L'ammiraglio pisano tentò invano di persuaderlo; Rug­ gero si limitò a rispondere che non era pronto, che non poteva rischiare la vita dei suoi uomini in condizioni simili. Finalmente, disperando di ottenere aiuto da parte dei normanni, l'ammiraglio, indispettito, fece vela per Palermo e da solo sferrò l'attacco. Man­ cando del necessario appoggio da terra, l'impresa come era preve­ dibile falli, ed i pisani poterono ringraziare il cielo di cavarsela senza praticamente subire danni. Secondo Malaterra tutto il loro bottino consisté nella grossa catena con la quale i palermitani bloc­ cavano l'entrata al loro porto. Questa, egli ci dice, afferrarono « cre­ dendo, da buoni pisani, di aver compiuto un’impresa straordinaria, e se ne tornarono a casa ».3 Non deve essere stato facile per Ruggero venire ad una simile decisione. Egli non simpatizzava per i pisani e forse avrà provato 3 Una lapide nella cattedrale di Pisa dice che i pisani riuscirono in quella occasione a far sbarcare un piccolo contingente vicino alla foce delrO reto, dove devastarono le ville ed i giardini tutt’intomo. Parla pure della cattura di sei navi saracene - cinque delle quali dettero alle fiamme. Tutto questo può ben essere vero; Malaterra probabilmente non disponeva di infor­ mazioni precise di ciò che avvenne e tendeva a minimizzare i loro successi. Ciò che certamente è falso è il tratto della Chronica Pisana (M u r a t o r i , Re­ rum Italicarum Scriptores, vol. V I, p. 167) nel quale si dice che i pisani occuparono Palermo e tornarono con cosi ricco bottino che poterono metter mano alla costruzione della loro cattedrale. La costruzione di questa fu in effetti iniziata nel 1063, ma Palermo resistette fino a quando fu occupata dai normanni nove anni più tardi.

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un certo risentimento per il loro intervento; al tempo stesso, però, l’offerta dell’aiuto di una flotta ben equipaggiata per un tentativo del genere doveva certo costituire una forte tentazione per un con­ dottiero ambizioso ed impaziente. Ormai, però, doveva essere a conoscenza di una nuova campagna che Roberto il Guiscardo stava organizzando per l ’anno seguente. La situazione in Puglia era mi­ gliorata; Brindisi, Oria e Taranto erano nuovamente in mano ai normanni e il duca poteva di nuovo volgere la sua attenzione alla Sicilia. Perciò era naturale che Ruggero non volesse mettere a repen­ taglio le sue esigue risorse per far piacere a Pisa; era molto meglio risparmiarle ed approntarle per intraprendere una nuova, grande offensiva normanna insieme al fratello. E cosi attese pazientemente fino a quando, agli inizi del 1064, Roberto giunse in Calabria a capo di un esercito di circa cinque­ cento cavalieri e mille fanti. Ruggero gli andò incontro a Cosenza per fare i piani per l ’imminente campagna. Questa volta, la stra­ tegia sarebbe stata diversa; non avrebbero più sprecato energie per attaccare Enna o spingersi nell’interno, ma sarebbero avanzati lungo la costa settentrionale puntando direttamente su Palermo. Una volta in possesso della capitale - anche in una terra lontana come la Sicilia - tutto il resto sarebbe venuto da sé. Come sempre quando gli Altavilla ne avevano il comando, l’esercito si mosse rapidamente. Non incontrarono opposizione e solo pochi giorni dopo aver attra­ versato lo Stretto, Roberto fece fermare le truppe in un luogo che sembrava ideale per accamparsi, sulla cima di una collina che sovra­ stava Palermo. La sua scelta doveva rivelarsi disastrosa. Quaran­ tasei anni prima i resti del primo esercito normanno sceso in Italia, in ritirata dopo la battaglia di Canne, furono cacciati dal luogo prescelto per accamparsi da un’invasione di ranocchie. L ’esperienza era stata umiliante, ma non dannosa. Il nuovo ostacolo naturale che stavano per affrontare si sarebbe rivelato invece sia umiliante che dannoso all’estremo. La tarantola era stata da secoli una delle piaghe dell’Italia meri­ dionale, specialmente nella zona intorno a Taranto alla quale aveva dato il nome; ma in nessun altro luogo essa doveva rivelarsi altrettanto diffusa e malefica quanto sulla collinà prescelta da Ro­ berto il Guiscardo. Il morso di questa specie siciliana non era seguito da quello scomposto agitare delle membra che in seguito divenne celebre sia come sintomo che come antidoto al suo veleno, l’antidoto era costituito infatti dalla tarantella, l’unico ballo in

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Europa che, a quanto si dice, sia stato creato a scopo puramente terapeutico. Le conseguenze del morso di questi insetti, da come ce lo descrive Malaterra, si rivelarono estremamente spiacevoli per l'esercito normanno. La Taranta è un verme che ha le sembianze di un ragno ma che è provvisto di un aguzzo pungiglione velenoso, cosicché coloro che ne sono morsi vengono riempiti di aria velenosissima. Il loro tormento cresce a dismisura e non essendo piu in grado di contenere quest'aria la medesima fuoriesce rumorosamente e indelicatamente dai loro poste­ riori e se non vengono subito applicate compresse calde o qualche altro calorifero ancor piu potente, la loro stessa vita può essere in pericolo. Tale inizio non fu di buon auspicio. L ’accampamento fu rapi­ damente trasferito in luogo più salubre, ma il morale dei normanni aveva subito uno ch o c piuttosto serio. Il loro slancio li aveva abban­ donati. La Conca d'Oro, quella grande catena di montagne che abbraccia Palermo, costituiva una magnifica difesa naturale da parte di terra. Un esercito attaccante non poteva fare una mossa che non fosse notata dalle fortezze e dalle torri di scorta ivi dislocate, ed anche quando Roberto giunse sotto le mura della città, non riuscì a far breccia. Per tre mesi cinse inutilmente la città d'assedio. Le navi saracene entravano ed uscivano indisturbate dal porto, senza che i palermitani, a quanto pareva, avvertissero il benché minimo disagio. Si ripeteva quanto era già avvenuto ad Enna, solo che questa volta non ci fu neppure uno scontro campale per risollevare l'or­ goglio normanno. E cosi il Guiscardo si trovò costretto, per la se­ conda volta in tre anni, a ricondurre in terraferma un esercito demoralizzato, per trovarvi una situazione nuovamente difficile che non gli avrebbe mai più permesso di allontanarsi a lungo. A parte la conquista di una insignificante cittadina (Buramo, sparita da tempo) non aveva realizzato nulla; anche Agrigento, che aveva attaccato sulla via del ritorno in un debole tentativo di rifarsi delle delusioni subite, gli aveva resistito. Ora era chiaro che i musulmani della Sicilia occidentale erano un nemico piu forte e più deciso di tutti quelli che lui o altri membri della sua famiglia avessero mai incontrato, longobardi, franchi o bizantini. Sullo scor­ cio del 1064, sembrava quasi che l'avanzata normanna fosse final­ mente terminata.

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Per quattro anni, come una nave in bonaccia, l'esercito nor­ manno in Sicilia rimase isolato ed impotente, ogni mordente era ormai svanito. In questo periodo non si ricordano battaglie cam­ pali, né nuove conquiste, né avanzate di qualche rilievo. Per aver notizie di nuovi successi normanni in questi anni bisogna volgersi all'Europa settentrionale, alle spiagge del Kent ed al campo di bat­ taglia di Hastings; per i normanni in Sicilia, gli anni attorno al 1066 furono tra i piu monotoni della loro storia. Per Ruggero questo periodo deve essere stato deludente fino alla follia. Non ridusse mai la sua pressione contro il nemico; ma con un esercito tanto piccolo poteva soltanto effettuare azioni di disturbo, esasperando i saraceni con una guerriglia incessante e logorando i loro nervi per non farli sentire mai al sicuro da una improvvisa scorreria o da qualche agguato. A questo fine spostò la sua capitale a Petralia, città che aveva conquistato già nel 1062, ma che ora, avendone egli fortificato le scarpate rocciose, fungeva da utilissimo quartier generale avanzato, da dove poteva facil­ mente raggiungere tutto il territorio nelle vicinanze di Palermo. Effettuando, da qui, sortite verso nord, sud ed ovest, riusciva a mantenere i saraceni sempre sulla difensiva: ma questo era tutto. Vi era una sola consolazione, i suoi avversari erano di nuovo divisi ed in aspra lite tra loro. Ibn al-Hawwäs sulle prime aveva accolto bene gli eserciti agli ordini di Ayub e Ali: ma, passato qualche tempo dal fatto di Cerami, incominciò ad insospettirsi per la cre­ scente potenza dei giovani principi e i dissensi che si erano mani­ festati non tardarono a degenerare in una guerra civile. Benché Ruggero fosse ancora troppo debole per infliggere una sconfitta decisiva al nemico, poteva almeno osservarlo con una certa soddi­ sfazione mentre questi si distruggevano l'un l'altro. Anche per Roberto il Guiscardo questi furono anni infruttuosi. Era sbarcato in Calabria dopo la fallita spedizione in Sicilia del 1064, solo per trovarsi a fronteggiare una nuova rivolta dei suoi vassalli in Puglia. Era questa la rivolta più grave cui avesse dovuto fin qui far fronte, ed era capeggiata da Jocelin, signore di Moffetta, e da tre dei suoi stessi nipoti; i due fratelli Goffredo di Conver­ sano e Roberto di Montescaglione e il loro cugino Abelardo al quale il Guiscardo aveva sfacciatamente tolto l'eredità alla morte del padre, il duca Umfredo, sette anni prima. Questi tre giovani, facendo causa comune con Bisanzio tramite Perenos, duca di Durazzo - che li riforniva abbondantemente di denaro e di equipag-

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giamenti dall’altra sponda dell’Adriatico - si erano apertamente ribellati nell’aprile del 1064, poco dopo la partenza del Guiscardo per la Sicilia, e durante la sua assenza avevano spazzato via tutto. Il ritorno di Roberto alla fine dell’estate aveva arrestato fino ad un certo punto la loro avanzata ma, nonostante tutti i suoi sforzi, la rivolta continuava a dilagare. Nel 1066 questa ricevette nuovo impulso dall’am vo di un contingente di vareghi da Costantinopoli e, alla fine di quell’anno, non solo Bari ma gli altri due grandi porti pugliesi, Brindisi e Taranto, erano in saldo possesso dei greci. Nell’anno 1067 si verificò una generale battuta d’arresto in Puglia e in Sicilia. Poi, nel 1068 venne il soccorso, quasi simulta­ neamente, sia per Roberto che per Ruggero. Per il Guiscardo per lo meno, questo giunse da una parte del tutto inaspettata. Già da alcuni anni l’Impero bizantino vedeva con sempre crescente trepi­ dazione l’avanzata dei turchi selgiuchidi. In poco più di una gene­ razione queste tribù venute da oltre Oxo avevano sottomesso la Persia e la Mesopotamia. Bagdad, sede del califfato arabo, era caduta nelle loro mani nel 1055; era stata poi la volta dell’Armenia e della Cilicia; ed ora si spingevano su, inesorabilmente, attraverso l'Asia minore, verso la stessa Costantinopoli. Dopo la morte di Costantino X Ducas, nel 1067, i bizantini rimasero senza impera­ tore, dato che il potere imperiale era passato alla vedova di questi, l’imperatrice Eudossia; era chiaro, però, che di fronte alla minaccia dei selgiuchidi occorreva trovare immediatamente un condottiero. Fu cosi che Eudossia si lasciò persuadere a contrarre affrettate nozze con un certo Romano Diogene - cosi chiamato, secondo Guglielmo di Puglia, a causa della sua barba biforcuta - generale dell’esercito bizantino nativo della Cappadocia, di lunga esperienza e indiscusso valore, il quale il Io gennaio del 1068 venne acclamato imperatore. Con l ’avvento di Romano, che concentrò tutte le sue forze in un disperato tentativo contro i turchi, ogni iniziativa greca in Italia venne a cessare; cosicché, privati improvvisamente di ogni appoggio esterno, i vassalli ribelli del Guiscardo perdettero coraggio. Uno dopo l’altro capitolarono, finché alla metà di febbraio solo Goffredo di Conversano resisteva ancora. Barricato nella sua fortezza mon­ tana di Montepeloso, resse ancora per molti mesi, abbandonato da tutti i suoi alleati sia greci che normanni. Poi, nel giugno, Roberto riuscì a subornare uno degli ufficiali di Goffredo il quale, corrotto dalla promessa di un feudo, apri segretamente le porte. I soldati del Guiscardo si riversarono nella fortezza; a Goffredo,

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colto di sorpresa, non rimaneva che arrendersi; il traditore ebbe il suo feudo; e la rivolta fu domata. La soddisfazione provata da Roberto nel veder crollare l’opposizione della Puglia e la sua autorità ristabilita sarebbe stata an­ cora maggiore se avesse potuto sapere che, proprio mentre egli stava stringendo d’assedio Montepeloso, il fratello Ruggero stava inflig­ gendo il colpo di grazia ad ogni resistenza militare organizzata in Sicilia. Nell’anno precedente le forze saracene erano state nuova­ mente riunite sotto un unico comando. Le truppe zirite al comando di Ayub si erano scontrate con quelle di Ibn al-Hawwàs in un’ultima battaglia campale durante la quale il formidabile vecchio emiro rimase ucciso. Ayub aveva immediatamente posto la sua candida­ tura a succedergli, e fu acclamato ad Agrigento, Enna e Palermo. Questo gli conferì l’autorità necessaria per assumere il comando di tutte le forze saracene. Non più impedito da lotte interne, decise di cogliere la prima occasione per attirare i normanni in un con­ flitto aperto del tipo di quello che, dopo la sconfitta di Cerami, lui e i suoi compatrioti avevano cercato in ogni modo di evitare. Cosi, in una mattina d’estate del 1068, l’esercito normanno, che aveva effettuato una delle sue abituali sortite per saccheggiare il terri­ torio alle porte di Palermo, trovò la strada bloccata da una grande milizia saracena davanti alla cittadina di Misilmeri.4 Ruggero sarà rimasto sorpreso da un cambiamento cosi radicale nella tattica del nemico, ma non sembra che se ne sia mostrato eccessivamente sgomento. Malaterra ci riferisce il discorso da lui pronunziato alle sue truppe prima della battaglia. Sorridendo disse loro che non avevano nulla da temere; si trattava solo di quei nemici che avevano già sconfitto altre volte. Il capo saraceno era un altro, e allora? Il loro Dio era sempre fedele; se si affidavano a Lui, come avevano fatto nel passato, Egli avrebbe concesso loro un’altra vittoria. Probabilmente i normanni non avevano bisogno di tale incoraggiamento. La familiarità con i metodi militari dei saraceni aveva generato in essi il disprezzo; loro erano, dopo tutto, i soldati di Dio, che compivano la sua opera; il bottino, ancora una volta, prometteva di essere eccellente. Non aspettavano che il segnale di Ruggero. Egli lo diede e partirono alla carica. In poco tempo tutto era finito. Secondo Malaterra, pochissimi 4 Nota ai tempi degli arabi con il nome di Menzil el Emir « il villaggio deiremiro ».

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saraceni rimasero in vita per portare la terribile notizia a Palermo. Gli avvenimenti che seguirono dimostrarono che ciò non era neces­ sario. Tra il bottino di guerra, i normanni avevano catturato oggetti che per Ruggero erano altrettanto sorprendenti dei cammelli cattu­ rati a Cerami: si trattava di varie ceste di colombi viaggiatori. L ’uso di questi volatili era noto ai tempi dell’antichità classica, ma sem­ bra fosse ignorato nel Medioevo, finché, come tante altre scienze e arti antiche, non fu ripristinato dai saraceni. È improbabile che Ruggero ne avesse mai posseduti prima, ma l’idea di servirsene subito ai propri fini gli si presentò irresistibile. Ordinò che alla zampa di ogni uccello venisse legato un pezzetto di stoffa intinto nel sangue dei saraceni; i colombi viaggiatori rimessi in libertà sarebbero cosi tornati a Palermo col macabro messaggio. Fu in un certo senso l’apice della guerra psicologica che Ruggero aveva com­ battuto durante gli ultimi quattro anni; l ’effetto prodotto nella capitale sembra essere stato proprio quello che desiderava. « L ’aria - scrive il Malaterra - era piena dei lamenti delle donne e dei bam­ bini, e il dolore dei saraceni era altrettanto grande quanto il giu­ bilo dei normanni per la vittoria riportata ». La battaglia di Misilmeri spezzò la resistenza saracena in Sicilia. Ayub aveva posto in gioco non solo il suo esercito, ma la sua repu­ tazione militare e politica, e aveva perso. Con quanto gli rimaneva del suo seguito fuggì in Africa per non fare mai più ritorno. Lasciò l’isola in uno stato di totale confusione e la popolazione musul­ mana in preda alla disperazione. L'esercito distrutto, fuggiti i capi, non poteva piu sperare di opporre resistenza alla pressione nor­ manna. La stessa Palermo si trovava a poco più di quindici chilo­ metri da Misilmeri; l’avrebbero difesa come meglio potevano, ma non si poteva dubitare della conclusione - la capitale era ormai condannata. Caduta questa in mano ai cristiani, le poche piazzeforti arabe rimaste nell’isola non avrebbero potuto piu resistere. Ma Ruggero non era ancora pronto a muovere verso la capitale, poiché gli abitanti non avrebbero ceduto senza opporre resistenza e le forze di cui egli disponeva, pur essendo adeguate per una bat­ taglia campale, erano insufficienti quando si trattava di cingere d’assedio una città. Inoltre, la conquista di Palermo sarebbe equi­ valsa alla conquista dell’isola intera e questo, a sua volta, avrebbe comportato problemi di controllo e di amministrazione che, con solo poche centinaia di uomini a disposizione, egli non poteva assolu­

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I NORMANNI N EL SUD

tamente affrontare. Fortunatamente non vi era motivo per affret­ tarsi; i saraceni erano troppo demoralizzati per potersi riunire di nuovo in breve tempo. Era meglio aspettare e sospendere ogni offensiva fino a quando Roberto non avesse sistemato le cose in Puglia. Allora i due fratelli avrebbero potuto affrontare insieme il problema della Sicilia, mettendoci tutto l’impegno. Sedata la rivolta, il Guiscardo si era mostrato incredibilmente clemente verso i suoi vassalli ribelli. Alcuni di essi, è vero, si erano visti confiscare i loro beni, ma un gran numero, tra i quali anche Goffredo, uno dei maggiori responsabili, sembra essersela cavata senza danno. Vi era, come sempre trattandosi del Guiscardo, una buona ragione a tanta clemenza; egli aveva ora bisogno di quanti più alleati potesse raccogliere per scatenare un’ultima e definitiva offensiva contro i greci. Le preoccupazioni dei greci per la minaccia costituita dai selgiuchidi gli offrivano la tanto attesa occasione di distruggere le ultime vestigia del potere imperiale nella penisola, ed ora che aveva sistemato le sue questioni interne, non se la lasciò sfuggire. Il primo passo fu di lanciare un appello a tutti i normanni e longobardi d’Italia perché si unissero a lui; i greci, dopo cinque secoli di occupazione, erano saldamente trincerati nelle loro posi­ zioni, dalle quali, anche se non fossero giunti rinforzi da Costan­ tinopoli, sarebbe stato diffìcile cacciarli. Poi, senza quasi attendere risposta al suo appello, marciò con tutto il suo esercito contro Bari. Capitale della Longobardia bizantina, quartier generale dell’eser­ cito greco nella penisola, la più grande, la piu ricca e la meglio difesa delle città di Puglia, Bari era l’unico obiettivo possibile per la grande offensiva del Guiscardo. Egli si rendeva perfettamente conto che l’assedio di questa città, se coronato da successo, sarebbe stato l’impresa militare più importante di quante ne avessero effet­ tuate i normanni nei cinquant’anni da quando erano scesi in Italia. La città vecchia è sita su uno stretto promontorio che sorge nel­ l ’Adriatico verso nord; Roberto quindi si trovava a dover cingere d’assedio secondo i metodi ortodossi le massicce mura che difen­ devano la città sul lato verso terra e ad organizzare al tempo stesso un poderoso blocco navale. Era proprio questo il suo punto debole. I normanni avevano scarsa esperienza di guerre navali. Le navi che possedevano servivano principalmente per trasporto e anche per queste facevano affidamento su equipaggi greci ingaggiati in Ca­ labria. Per le popolazioni greche di Puglia, invece, il mare era parte integrante della loro esistenza. Dal mare dipendevano per

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-°3 LA CASA DEGLI ALTAVILLA

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