I film liberano la testa 8877480815, 9788877480811

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I film liberano la testa
 8877480815, 9788877480811

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Rainer Werner Fassbinder

I tilin liberano la testa

Li collanina 5

l ludibri

Seconda edizione settembre 1989 Terza edizione maggio 1992

Traduzione di Roberto Menin. Imitation of Life è stato tradotto da Giovanni Spagnolet­ ti; Le città dell'uomo e la sua anima da Patrizia Vitti (apparso in Berliner Alexanderptaiz, a cura di Callisto Ccsulich» Torino» Eri 1983 e qui pubblicato per gemile concessione della edizioni Rai); Note preliminari a Querelle de Brest da Fulvio Ferrari con la collaborazione di Enrico Arosio (ripreso da Rainer Werner Fassbinder» Querelle, Milano, Ubulibri 1982).

Titolo originale: Filme Befreien Den Kopf © 1984 by Verlag der Au Coren, D-Frankfurt am Main © 1988 by Ubulibri via Ramazziti!» 8 - Milano

A.D. Pierluigi Cerri

Finito di stampare nel mese di maggio 1992 presso le Grafiche Granata s.r.l. - Milano

Rainer Werner Fassbinder

film liberano la testa a cura di Giovanni Spagnoletti

Ubulibri

Ringraziamo Rossella Ragazzi per gli interessami sponti che ci ha dato con la sua versio ne dei saggi di Fassbinder dal francese, fatta per gli amici del Centro Sperimentale.

Sommario

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Imitation of Life Se si ha 1'amore in corpo Otto ore non fanno un giorno Molte ombre ma nessuna pietà Aver dato-dover avere Il cinema tedesco si arricchisce A proposito delia disperazione e del coraggio Uff anno con tredici lune La terza generazione Esercizio alla sbarra: verticale» salto mortale» chiusura riuscita Risposte a domande di studenti Le città dell'uomo e la sua anima Premesse al progetto di film Cocaina Michael Curtiz: un anarchico a Hollywood? Hanna Schygulla Alexander Kluge deve aver compiuto gli anni Note preliminari a Querelle de Brest Cannes dagli occhi tristi

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Appendice Come immagino la mia attività professionale futura? Lettera aperta a Franz Xaver Kroetz A proposito di Der Muli, die Stadt und der Tod Ogg.: Premio federale per Germania in autunno Hit-parade del cinema tedesco C'è ancora un futuro per il cinema? Note per il progetto di film Rosa Luxemburg

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Nota editoriale

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I film liberano la testa

Imitation of Life. Sul cinema di Douglas Sirk

"Il cinema è un campo di battaglia” ha detto Samuel Fuller» autore di una sceneggiatura per Douglas Sirk1» in un film di Jean-Luc Godard2 che, poco prima di girare Sino all'ultimo respiro (A bout de souffle, 1959), aveva scritto un peana su Tempo di vivere (A Time lo Love and a Time to Die)*. Ma nessuno di noi, né Godard né Fuller né io né nessun altro, siamo alla sua altezza. Sirk ha detto che il cinema è sangue, lacrime» violenza, odio» amore e morte e ha realizzato film di sangue e di lacrime» di violenza e di odio; film di morte e d’amore. Non è possibile - ha detto Sirk - fare un film su una cosa» bensì solo con qualcosa, con la gente, con la luce, con i fiori, con gli specchi, con il sangue, con tutte queste cose straordinarie che rendono la vita de­ gna di essere vissuta. Ha detto anche che la filosofia del regista è la luce e l’inquadratura. E ha girato i film più teneri che io conosca: sono i film di un uomo che ama la gente invece di disprezzarla come faccia mo noi. Una volta Darryl F. Zanuck gli ha detto: “Un film deve piace­ re a Kansas City e a Singapore”. Non è forse una follia, l’America? Douglas Sirk aveva una nonna dai capelli neri che scriveva poesie. Al­ lora si chiamava ancora Detlef e viveva in Danimarca. I paesi scandi­ navi iniziarono a produrre del cinema intorno al 1910» specializzando­ si in drammi a forti unte; il piccolo Detlef e la nonna poetessa andava­ no in un cinemino danese a piangere tutte le loro lacrime assistendo alla tragica fine di Asta Nielsen e di molte altre bellissime signore truc­ cate di bianco. Dovevano farlo di nascosto» perché Detlef Sierck sa­ rebbe dovuto diventare un intellettuale secondo la tradizione tedesca, con una educazione rigidamente umanistica, e così un giorno il suo 1 Shockproof (Fiori nel fan&>, 1948/49). * Pierrot le fon (// bandite delle ore undici, 1965). 5 Jean-Luc Godard» Dei tarma et de la vitftic (Lacrime e velociti) in “Cahiers du dnémi” n. 94 trad, it, in II cinema è il cinema, Milano 1971, pp. 142-147.

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amore per Asta Nielsen si trasformò in amore per Clitennestra. In Germania fece teatro a Brema, Chemnitz, Amburgo e Lipsia; non era soltanto un uomo istruito, aveva una profonda cultura: annoverava Max Brod fra i suoi amici, conosceva Kafka eccetera. Sembrava essere agli inizi di una brillante carriera, che avrebbe potuto anche portarlo a dirigere il Residenztheater di Monaco. Ma non fu così: nel 1937, do­ po aver girato alcuni film per TUfa, Detlef Sierck emigrò in America, divenne Douglas Sirk e realizzò dei film che in Germania avrebbero al massimo fatto sorridere la gente del suo stesso livello culturale.

Secondo amore A Lugano in Svizzera si può incontrare Tuomo più vivace e intelligen­ te che abbia mai conosciuto, che afferma con un sorriso felice, quasi impercettibile: “Talvolta ho amato molto quello che ho fatto*'. Ha

amato per esempio Secondo amore (AH That Heaven Allows, 1956). Ja­ ne Wyman è una ricca vedova, mentre Rock Hudson cura le sue pian­ te. Nel giardino di Jane cresce quell’albero che fiorisce solo là dove esiste l'amore, e ecco che dopo il primo casuale incontro divampa l’a­ more tra Jane c Rock. Ma lui ha quindici anni di meno e lei è totalmen­ te integrata nella vita sociale di una cittadina americana: Rock è un primitivo e Jane ha molto da perdere: le amiche, la posizione che le deriva dal defunto marito, i figli. All’inizio lui è innamorato della na­ tura, mentre lei non ama nulla perché possiede già tutto. Sono dei pre­ supposti di merda per iniziare una grande storia d’amore: lui, lei e la società in cui vivono. Jane ha un lato materno e dà l’impressione di commuoversi al momento opportuno; comprendiamo benissimo per­ ché Rock ne sia attratto. Lui è un tronco d’albero e ha ragione a ’farse­ la’. Il mondo che li circonda è cattivo. Le donne hanno tutte bocche troppo grandi e nel film non ci sono quasi altre figure maschili, poltro­ ne e bicchieri sono più importanti. Dopo aver visto questo film, l’ulti­ mo posto in cui andrei sarebbe una cittadina americana! Jane dice a Rock che deve lasciarlo a causa dei suoi figli cretini. Egli non si difen­ de quasi: dopotutto gli rimane la natura. E ecco Jane la sera di Natale: i figli la lasceranno e le hanno regalato un televisore. È la goccia che

fa traboccare il vaso; si capisce allora come va il mondo. Più tardi Jane ritorna da Rock perché ha mal di testa, una cosa che capita a tutti quando si scopa troppo poco. Ma anche ora che sono insieme, non c’è io

happy-end: chi complica tanto le faccende d'amore non sarà capace di

essere felice. È su tutto questo che Douglas Sirk costruisce il film: la gente non può vivere sola, ma è anche incapace di vivere insieme. Ecco perché i suoi! film sono così disperati. Secondo amore inizia con un totale Sulla citta-)

dina, mentre scorrono i titoli di testa. L'effetto è di grande tristezza. Poi la gru scende verso la casa di Jane, arriva un'amica che le restitui­ sce dei piatti. Che tristezza! Una carrellata segue le due donne mentre sullo sfondo si vede Rock Hudson non a fuoco, come tutte le comparse dei film hollywoodiani; e poiché l’amica non può bere il caffè, Jane lo prenderà con la comparsa. In queste scene ci sono solo primi piani di Jane Wyman; per il momento Rock non ha alcuna importanza. Quando ne avrà, anche lui sarà ripreso in primo piano: è una cosa bella

e semplice, e ogni spettatore capisce. I film di Douglas Sirk sono descrittivi; molto raramente ci sono primi piani. Persino nel campo-centrocampo V interlocutore non viene ripre­ so tutto in quadro. Le sensazioni profonde dello spettatore non nasco­ no dal processo di identificazione, bensì dal montaggio e dalla musica. Perciò si esce insoddisfatti dai suoi film: si è visto qualcosa degli altri e quanto ci concerne lo si può riconoscere liberamente o comprenderlo ridendo. I figli di Jane sono matti: si presenta un signore anziano, cui sono superiori sotto tutti i punti di vista - giovinezza, cultura eccetera - e credono che sia il partner ideale per la loro madre. Poi compare Rock, che non è molto più anziano di loro, è più bello e neanche tanto stupido. Allora reagiscono con il panico. E stupendo. Il figlio di Jane offre un cocktail a Rock e al vecchio signore; entrambi lo apprezzano. In ambedue i casi si vede la stessa inquadratura: quando è la volta del vecchio signore, i figli sono soddisfatti come si conviene. Quando è la volta di Rock, invece, l'atmosfera nella stanza diventa esplosiva. E è la stessa inquadratura in entrambi i casi. Il modo come Sirk dirige gli attori è straordinario. Se consideriamo gli ultimi film di Fritz Lang, girali aU'incirca nello stesso periodo, in cui troviamo la peggiore incompentenza, non si può fare a meno di apprezzare Douglas Sirk; o mi sbaglio? Le donne pensano nei suoi film e non mi è mai capitato di notarlo con nessun altro regista. Normalmente le donne reagiscono; fanno ciò che fanno le altre donne, mentre nel cinema di Sirk pensano. Notatelo,* è bello veder pensare una donna. Fa sperare, veramente. E poi Sirk colloca sempre la gente in spazi fortemente definiti dalla situazione sociale. È uno spazio estremamente DtedaónJMclfe^asa di

Jane ci si può muovere solo in un determinato modo; si pronunziano solo determinate frasi quando si vuole parlare e si compiono determi­ nati gesti quando ci si vuole esprimere. Jane potrebbe cambiare quan­ do si reca in un'altra casa, ad esempio in quella di Rock? Forse. Ma lei è così prigioniera dei suoi stereotipi che lo stile di vita a cui è abi­ tuata non verrà meno nella casa di Rock. Il che è più probabile. Così Yhappy-end non è affatto tale: Jane si accorda meglio alla sua casa che non a quella di Rock. ; Come le foglie al vento

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Come le foglie al vento (Written on the Wind , 1957) è la storia di una famiglia straricca. Robert Stack interpreta il figlio che non riesce mai a eguagliare il suo amico Rock Hudson. Robert sa come spendere il suo danaro: guida aeroplani, beve, rimorchia ragazze, mentre Rock Hudson è il suo compagno di avventure. Ma entrambi non sono felici perché manca loro l'amore. A questo punto incontrano Lauren Bacall, che naturalmente è diversa da tutte le altre; è una donna semplice, la­ vora, è tenera e comprensiva. Tuttavia lei sceglie Robert, il cattivo, anche se Rock, il buono, le si addice di piu. Anche Rock deve lavorare per vivere, anch'egli è semplice, generoso e comprensivo, proprio co­ me lei. Lei invece si prende quello con cui alla lunga non funzionerà. Quando Lauren Bacali incontra per la prima volta il padre di Robert Stack, egli le chiede di dare al figlio un'ultima chance. E ripugnante vedere come la gentile fanciulla prende per il culo il buono solo per fare un piacere al cattivo. Sì, dovrà finir male, speriamolo. Dorothy

Malone, la sorella [di Stack], è la sola ad amare la persona giusta, cioè Rock Hudson, e si aggrappa a questo sentimento, cosa assolutamente ridicola; è ridicola tra gente che ritiene le proprie azioni surrogati della realtà; lei, invece, quello che fa, lo fa perché non può avere quello che vuole. I^qxen Bacali è un surrogato perJtobert Stack dato che egli è chiaro che non sarà mai in grado di amarla e viceversa. E quando Lauren si decide per Robert, allora Rock la amerà perché non la può più avere. E il padre ha in mano un pozzo di petrolio che rappresenta il surrogato di un pene. E quando alla fine Dorothy Malone, unica superstite della

famiglia, stringe in mano quel pene, si tratta di una cattiveria quanto l’apparecchio televisivo regalato a Natale a Jane Wyman. E il surroga12

to della scopata che i figli non Ie permettono, così come l'impero del petrolio ora diretto da Dorothy rappresenta un surrogato di Rock Hudson. Mi auguro che lei non ce la farà e che diventi pazza come Marianne Kock in Interludio, mi sembra di capire che per Douglas Sirk la follia sia un segno di speranza. In Come le foglie al vento Rock Hudson è il porco più bastardo che si possa immaginare; come fa a non rendersi conto quel che ispira a Dorothy Malone? Lei gli si offre» frequenta tipi che gli assomigliano per farglielo capire. E tutto ciò che è capace di dire» è: "io non ti po­ trei mai rendere felice". Ma certo che potrebbe! Quando Dorothy balla nella sua stanza la danza della morte, forse allora inizia la sua follia c il padre muore. Muore perché è colpevole: ha sempre avvalora* io nei figli la convinzione che Rock Hudson fosse migliore di loro e ciò ha finito per diventare la verità. Dato che non ha mai potuto fare quello che voleva, aveva sempre pensato che il padre di Rock - che non aveva mai guadagnato molto ma poteva andare a caccia quando ne aveva voglia - fosse migliore di lui. I figli non sono che poveri im­ becilli. Forse c la consapevolezza del suo sbaglio ad ucciderlo; in ogni caso lo spettatore se ne rende conto e così la sua morte non ha nulla di terribile. Proprio perché Robert non ama Lauren, vuole un figlio da lei o forse, dato che non è mai riuscito a combinare niente, vuole per lo meno ge­ nerare un figlio. L'atto di coraggio, però, dimostra la sua debolezza: Robert ricomincia a bere. A questo punto si dimostra che Lauren non è affatto di aiuto al marito. Al posto di ubriacarsi con lui, di compren­ dere la sua sofferenza, diventa sempre più nobile e pura, sempre più vomitevole; così con sempre maggiore chiarezza si vede come starebbe meglio cop Rock Hudson, anche lui altrettanto vomitevole e nobile. Le personp educate a uno scopo e con i loro sogni manipolati in testa sono tutti1 nella merda. Se Lauren Bacall avesse vissuto con Robert StackxAÙD.accanto a lui e per lui, ^dlora egli avrebbe potuto, credere che il bambino attesodalei fosse veramente il suo e si sarebbero evita­ te grandi sofferenze. Ma nelle situazioni venutesi a creare, il bambino apparteneva in realtà a Rock che pure non era mai stato a letto con Lauren. Dorothy compie una cattiva azione: spinge il fratello contro Lauren e Rock. Ciò nonostante la amo come raramente mi succede con un per­ sonaggio cinematografico. Io da spettatore seguo con Douglas Si^ le tracce della disperazione umana. In Come le foglie a! vento i bùoni.Xi

normali, i belli sono sempre ripugnanti; i cattivi, i deboli, i dissoluti provocano comprensione anche per i manipolatori del bene. E ancora una volta la casa dove si svolge la vicenda, dominata, per così dire, da un grande scalone; e gli specchi; c sempre fiorì; e denaro e freddezza; una casa che è stata costruita con molto denaro» piena di tutti quelli oggetti che vengono acquistati quando si è molto ricchi e nella quale non ci si sente a proprio agio. È come all'Oktoberfest dove lutto c colore e movimento ma tu sci solo con te stesso. In questa casa che Douglas Sirk si è fatto costruire per la famiglia Hadley, i senti­ menti devono provocare le fioriture più strane. Le luci di Sirk sono le più innaturali possibili: la presenza di ombre là dove non dovrebbe­ ro esserci, rendono plausibili dei sentimenti che altrimenti considere­ remmo inverosimili. Anche le inquadrature, quasi esclusivamente oblique e in prevalenza dal basso, sono scelte in modo tale che quanto risulti strano nella storia passi sullo schermo e non nella testa dello spettatore. Il cinema di Douglas Sirk vi libera la testa.

Interludio

Interludio (Interlude, 1957) è un film difficile da penetrare. AlTinizio sembra tutto falso. E ambientato a Monaco ma noi sappiamo che la città e tutt'altra. La Monaco di Interludio consiste di edifici monumen­ tali: la Kònigsplatz» il Nymphenburg, la Hcrkulessaal. Più tardi capia­ mo che si tratta della Monaco che un americano vorrebbe vedere. June Allyson arriva in città per conoscere l’Europa. Ciò che trova è un grande amore, il suo grande amore. Si tratta di Rossano Brazzi che in­ terpreta un direttore d'orchestra alla Karajan. June Allyson si allonta­ na un po' dalle consuete figure di Douglas Sirk. Mi sembra troppo na­ turalistica, troppo sana, troppo fresca anche se alla fine sarà sufficien­ temente malata. Rossano Brazzi è un direttore d'orchestra persino nei più sommessi e teneri bisbigli d’amore. E un capolavoro della regia co­ me egli si muove, sembra da galletto, con l'aria di recitare anche quan­ do pensa seriamente quanto dice. Musica (Musik) di Wedekind do­ vrebbe essere recitato così come Brazzi fa in questo film. Brazzi ha una moglie, Marianne Koch. E forse questo il personaggio più impor­ tante per comprendere la visione del mondo di Douglas Sirk. Marian­ ne Koch ama Rossano Brazzi. Lui l'ha sposata, lei era sempre felice insieme a lui ma questo amore l'ha distrutta. E diventata pazza. Tutti 14

i personaggi di Sirk inseguono un'ideale; l'unica che l'ha potuto realiz­ zare nc è uscita distrutta. Forse ciò vuol dire che nella nostra società si è accettati solo quando si insegue qualcosa come un cane con la lin­ gua fuori e quando ci si attiene alle regole che ci rendono docili? Dopo aver visto i film di Douglas Sirk mi convinco s^grepiù che Ijrnore è lo strumento migliore, più insidioso c efficacedi oppressione sociale. June Allyson ritornerà negli Stati Uniti con un amore più piccolo. Ma i due non saranno felicissimi insieme: lei continuerà eternamente a so­ gnare il suo direttore d'orchestra e lui noterà la perenne insoddisfazio­ ne della moglie. E così a maggior ragione si concentreranno sul proprio lavoro da cui naturalmente saranno sfruttati. Okay.

U trapezio della vita Il trapezio della vita {The Tarnished Angels, 1958) è l’unico film in bian­ co c nero di Douglas Sirk che sono riuscito a vedere. E l’opera in etti ha avuto maggiore libertà: un film incredibilmente pessimista. La sto­ ria c tratta da un romanzo di Faulkner che purtoppo non conosco. Sembra che Sirk la abbia profanata, il che le ha giovato. Come La stra­ da di Fellini ma in modo molto meno pretenzioso, questo film mostra un mestiere che sta scomparendo. Robert Stack è stato un pilota nella prima guerra mondiale: non ha voluto mai fare altro e ciò spiega per­ che adesso partecipi a degli spettacoli acrobatici intorno a dei piloni. Dorothy Malone, la moglie, si esibisce nel salto con il paracadute; in tal modo si guadagnano a malapena da vivere. Rober Stack è coraggio­ so, ma siccome non sa niente di motori, c'è un terzo, Jiggs, il meccani­ co, che è innamorato di Dorothy. La coppia ha un figlio che Rock Hudson incontra proprio quando viene preso in giro da altri piloti:

“Chi è tuo padre, Jiggs o...?”. Rock Hudson è un giornalista che vuol scrivere qualcosa di fantastico su quegli zingari che hanno nelle vene olio di macchina al posto del sangue. Gli Shuman non hanno da dormire e allora Rock Hudson li invila a casa sua. Durante la notte Dorothy e Rock approfondiscono la loro conoscenza dandoci l'impressione che potrebbero avere un mucchio di cose da raccontarsi. Rock perde il posto; un aviatore preci­ pita durante una gara; Dorothy dovrebbe prostituirsi per un aereo, da­ to che quello di Robert è in panne; Rock e Dorothy, dopotutto, non hanno molte cose da dirsi; Jiggs rimette in sesto l'aereo danneggiato; 15

Robert parte e muore; Dorothy sc ne va; Rock riprende il suo lavoro. Solo sconfitte, questo film è soltanto un cumulo di sconfìtte. Dorothy ama Robert, questi il volo, Jiggs ama anche lui Robert, e Dorothy e Rock? Rock non ama Dorothy, né lei ama lui. Quando il film talvolta ce lo lascia credere, è una bugia, anche se i due per un attimo pensano: chissà... Alla fine Robert promette alla moglie che quello per lui sarà rultimo volo. Ed è allora che muore; sarebbe impensabile che si occu­ passe veramente più di lei che della morte. La macchina da presa si muove costantemente in questo film, si com­ porta in modo simile ai personaggi come se davvero accadesse qualco­ sa. In realtà tutto è finito e i protagonisti farebbero meglio ad arren­ dersi e a farsi seppellire. E ci sono carrellate, movimenti di gru e pano­ ramiche! Douglas Sirk osserva questi cadaveri con un affetto e una lu­ ce tale da indurci a pensare: è una situazione di merda, ma loro sono così cari, ci deve essere un motivo. È la solitudine^ lajpayra; raramen­

te ho provato tali sentimenti come in questo film. Lo spettatore siede al cinema come il figlio di Shuman sulla giostra quando suo padre pre­ cipita con (’aereo: vede quel che accade, vorrebbe precipitarsi a porta­ re aiuto ma, a ben guardare, cosa può fare un ragazzo per un aereo che precipita al suolo? Tutti sono colpevoli della morte di Robert. Ec­ co perché Dorothy Malone diventa così isterica dopo la disgrazia: per­ ché sapeva. E Rock Hudson che voleva uno scoop e, dopo averlo otte­ nuto, incomincia a urlare contro i suoi colleghi. E Jiggs che non aveva saputo riparare l’aereo siede da una parte e si domanda: dove siete fi­ niti tutti quanti? Peccato che non si sia mai accorto che prima non c’e­ ra mai stato nessuno. Tutti questi film mostrano come la gente si in­ ganni da sola e perché sia costretta a farlo. Dorothy aveva visto per la prima volta Robert raffigurato su un manifesto, era l’immagine di un pilota intrepido e se ne era innamorata. Naturalmente egli non cor­ rispondeva affatto a quel manifesto. Che fare? Autoingannarsi, ed ec­ coli invischiati in quella situazione. Noi ci diciamo e vorremmo poter­ le dire che nessuno la obbliga, che il suo sentimento per Robert non è vero amore. Ma a che servirebbe? La solitudine si sopporta meglio

se ci si illude. Questo film ci mostra - credo - che non è così. Sirk ha fatto un’opera in cui fazione non si interrompe mai, in cui accade perennemente qualcosa e la macchina da presa è sempre in movimento facendoci ca­ pire tante cose della solitudine, di come possa spingerci a mentire, e di come sia falso e sciocco essere costretti a farlo. 16

Tempo di vivere

Tempo di vivere M Time to Love and a Time to Die, 1958). John Gavin è un soldato in licenza che nel 1945 torna a Berlino dal fronte orienta­ le. La casa dei suoi genitori è stata distrutta: ritrova per caso Liselotte Pulver» conosciuta quando entrambi erano bambini e siccome sono tutti e due soli incominciano ad amarsi. Il titolo del film è perfetto: tempo di amare e tempo di morire. Il tempo è quello della guerra che è evidentemente anche quello della morte: per Douglas Sirk Famore può nascere là dove ci sono morte e bombe» freddo e lacrime. Liselotte Pulver» ha piantato del prezzemolo sul davanzale della sua finestra» unico segno di vita tra le macerie. E chiaro sin dall'inizio che John Ga­ vin finirà ucciso e che la sua morte non sarà strettamente collegata con la guerra. Un'opera di guerra sarebbe stata diversa; questo è un film su una situazione: sulla guerra considerata come condizione e terreno di coltura per l'amore. Se gli stessi personaggi» John Gavin e Liselotte Pulver» si incontrassero nel 1971, si scambierebbero un sorriso dicen­ dosi: come va» che coincidenza e basta. Nel 1945 poteva nascere un grande amore. Ed è vero, qui l'amore non c un problema» i problemi nascono all'esterno, nelTincimo invece due persone possono provar te­ nerezza l'un per l'altro. Per la prima volta incontriamo in Douglas Sirk un amore normale e dei personaggio non eccezionali. Essi guardano con grandi occhi spa­ lancati quanto accade intorno a loro. Tutto è loro incomprensibile; le bombe, la Gestapo, la pazzia. In tale situazione l'amore è la cosa più semplice da capire. E vi si aggrappano. Ma non riuscirei a immaginar­ mi che cosa avverrebbe di loro se John sopravvivesse alla guerra. La guerra e i suoi orrori sono solo scenografia. Non si possono far film sulla guerra in quanto tale; sarebbe importante descrivere come nasco­ no le guerre, cosa provocano o cosa lasciano dietro di sé nella gente. Tempo di vivere non è neanche un’opera pacifista perché non ci fa mai dire: senza questa orribile guerra tutto andrebbe bene o qualcosa di simile. Il romanzo di Remarque, Zeil zu leben, Zeit zu sterben, è un’o­ pera pacifista. Remarque dice che senza la guerra ci sarebbe un amo­ re eterno, Sirk afferma» invece» che senza la guerra non ci sarebbe l’amore.

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Lo specchio della vita

Lo specchio della vita (Imitation of Life, 1959) è 1* ultima opera di Dou­ glas Sirk, un grande film folle sulla vita e sulla morte; e sull’America. Primo grandioso momento; Annie dice a Lana Turner che Sarah Jane è sua figlia; Annie è nera mentre Sarah Jane è quasi bianca. Lana Tur­ ner esita, poi capisce, esita ancora, poi si comporta frettolosamente co­ me se fosse la cosa piu normale del mondo vedere una madre nera con una figlia bianca. Il che naturalmente non è vero, mai, in nessun punto del film. Eppure tutti cercano disperatamente di considerare come pro­ prio bene i loro desideri e pensieri. Sarah Jane vuole passare per bianca non perché questo colore sia più bello del nero ma perché si vive meglio quando si è bianchi. Lana Turner vuole recitare a teatro non perché la cosa le piaccia ma perché quando si raggiunge il successo, si ha un posto migliore nella vita. E Annie desidera un funerale spettacolare non perché potrà farle piacere dopo la morte, ma perché vuole valoriz­ zarsi retrospettivamente agli occhi del mondo, dato che in vita tale privilegio le era stato negato. Nessuno dei protagonisti si rende conto che tutto, pensieri, sogni, desideri, deriva dalla realtà sociale e ne vie­ ne manipolato. Non conosco nessun altro film dove tale verità sia stata formulata in modo così netto e disperato. Verso la fine del film Annie dice a Lana Turner di avere molti amici; Lana ne rimane colpita: An­ nie ha degli amici? Sono dieci anni che le due donne vivono insieme e Lana non sa niente di Annie. E si meraviglia. Anche quando la figlia le rimprovera di averla lasciata sempre sola, Lana cade dalle nuvole; quando improvvisamente Sarah Jane si ribella contro la dea bianca, ancora una volta Lana non è capace di altro che di mostrarsi sorpresa. £ si sorprende della morte di Annie: come ha potuto mettersi a letto e morire così? Non è giusto ritrovarsi improvvisamente a dover affron­ tare la vita. Tutto ciò che Lana riesce a fare nella seconda parte del film è di apparire stupita. Risultato: in futuro vorrà interpretare delle parti drammatiche: dalla sofferenza, dalla morte, dalle lacrime si può sicuramente ricavare qualcosa. È qui che il problema di Lana diventa quello del regista. Lei è un'attrice, probabilmente una brava attrice, ma di ciò non ne siamo mai certi. All'inizio del film deve innanzitutto guadagnare per sé e per la figlia. O vuole fare solo carriera? Della mor­ te del marito non sembra troppo addolorata; tutto ciò che sa di lui è che era un buon regista. Credo che Lana voglia soprattutto far carriera e che il denaro rivesta per lei un'importanza secondaria rispetto al

successo. Al terzo posto sta John Gavin: egli la ama e per aiutarla ha rinunziato alle sue ambizioni artistiche accettando di lavorare come fotografo in un’agenzia pubblicitaria. Lana non concepisce di poter sa* crificare le sue ambizioni per amore. Sì, ne sono sicuro: lei non vuole guadagnare denaro bensì fare carriera. E John è anche stupido a co­ stringere Lana alla scelta tra matrimonio e carriera; la donna giudica l’alternativa bella e drammatica e si decide per la carriera. La situazio­ ne va avanti così per tutto il film: i due fanno costantemente progetti di felicità e di tenerezza, poi squilla il telefono: una nuova parte e La­ na ritorna alla sua vecchia vita. Questa donna è un caso disperato ma anche John Gavin. Avrebbe dovuto capire subito che la cosa non pote­ va funzionare e invece fa dipendere la sua esistenza da quella di lei. Sono sempre le cose sbagliate a suscitare un interesse durevole. La fi­ glia di Lana si innamora di John: lei è proprio come avrebbe dovuto essere la madre per esaudire i desideri di lui, ma non è Lana. La diffe­ renza è comprensibile ma Sandra Dee non la capisce, forse perché nes­ suno capisce molto quando è innamorato. Anche Annie, d’altronde, ama sua figlia senza capirla affatto. In un giorno di pioggia quando Sa­ rah Jane è ancora bambina, Annie si reca a scuola per portare alla figlia un ombrello. Sarah Jane aveva fatto credere alla classe di essere bianca ma l’inganno si svela quando compare la madre con l'ombrello: la bam­ bina non lo dimenticherà mai. E quando Annie poco prima di morire, vuole rivedere per l’ultima volta Sarah Jane e va a trovarla in un night club di Las Vegas, è sempre il suo amore a impedirle di capire. Per lei è un peccato voler passare per bianca. L’aspetto terribile di quella sce­ na è che Sarah Jane passa per la cattiva mentre la madre è una povera donna da consolare. Ma in realtà è tutto il contrario; la brutalità è quella della madre che vuole possedere la figlia perché l’ama, mentre Sarah Jane si difende contro il terrorismo materno, contro il terrori­ smo della gente. La crudeltà sta nel fatto che le possiamo capire en­ trambe, che entrambe hanno ragione ma che tuttavia nulla potrà aiu­ tarle, a meno di non cambiare il mondo. Per questo motivo abbiamo tutti pianto al cinema perché è così difficile cambiare il mondo. Poi tutti i protagonisti si ritrovano al funerale di Annie e per qualche mi­ nuto si comportano come se tutto fosse O.K. E questo modo d’agire fa sì che si ripetano le stesse cazzate; sospettano vagamente di cercare qualcos’altro ma si affrettano subito a dimenticarlo. Lo specchio della vita inizia come un film sulla figura di Lana Turner e impercettibilmente si trasforma nel film di Annie, la donna nera. 19

Nel finale il regista ha abbandonato la sua problematica» ciò che lo ri­ guardava nel tema» per cercare l’illusione della vita in Annie, trovan­ dovi una crudeltà ancora maggiore di quella che avrebbe potuto sco­ prire in Lana Turner o in se stesso, solo con meno chance e molta più disperazione.

Ho cercato di scrivere su sei film di Douglas Sirk scoprendo così la difficoltà di scrivere su delle opere che parlano della vita e non sono letteratura. Ho tralasciato molte cose che forse sarebbero state più im­ portanti. Non ho parlato abbastanza delle luci, di quanto siano accura­ te e dell’aiuto che forniscono a Sirk nel trasformare le storie che ha dovuto raccontare. L’unico che può stargli alla pari in questo campo è Josef von Sternberg. E ho parlato troppo poco degli interni che Sirk stesso realizzava e della loro incredibile accuratezza. Ho esaminato troppo superficialmente l’importanza dei fiori e degli specchi e il loro significato nelle storie narrate da Sirk. Non ho sottolineato a suffi­ cienza che Sirk è un regista che riesce ad ottenere il massimo dai suoi attori; persino degli zombie come Marianne Koch e Liselotte Pulver hanno Paria di essere umani e riescono ad apparire credibili. E poi ho visto troppo pochi suoi film; vorrei vederli tutti, tutti e trentanove. Forse allora avrei capito di più. su me stesso, sulla mia vita» sui miei amici. Ho visto solo sei film di Douglas Sirk, erano i film più belli del mondo. Febbraio 1971

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Se si ha 1*amore in corpo

Se si ha l'amore in corpo, non serve giocare al flipper. L'amore esige una tensione tale che non c'è più bisogno di rivaleggiare con una mac­ china, con la quale de) resto non si può che perdere. C'è una donna immobile sotto la pioggia, segno che il suo amante l'ha lasciata. Lei non ce l'ha fatta, ecco il punto, a legarlo a sé. L'amore costa fatica, proprio vero. Si è liberi soltanto nelle limitazioni. E non c'è cosa più terrificante dell'aver paura del terrore. Detto altrimenti: essere lascia­ ti non ti fa piombare nella solitudine come quando si è presi dall'ango­ scia che sta finendo; perché quell'angoscia evoca un clima in cui tu hai addosso l'angoscia del terrore. Sarebbe bello smontare la cosa nei suoi particolari, e poi rimontarla come prima. Bisogna sempre partire dalla situazione in cui si è. Non aver utopie è già un'utopia. Sognare un amore vero è proprio un bel sogno, ma le stanze hanno sempre quattro pareti, le strade sono quasi tutte asfaltate e per respirare c'è bisogno dell'ossigeno. Già - la macchina è il frutto perfetto della mente. Io ho deciso di ricominciare a giocare al flipper, e lascio vincere l'aggeggio, che importa, alla fine sono io che vinco. Marzo 1971

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Otto ore non fanno un giorno1 Qualche riflessione estemporanea su Jochen, Marion e...

Ciò che differenzia Jochen, Marion, la nonna, Gregor e un paio d'altri ancora dal tipo deiroperaio che ci si immagina di solito, e che viene spacciato in televisione o altrove, è che loro non sono dei disperati. In effetti, verrebbe da dire, anche in altri casi si evita volentieri di mo­ strare la disperazione, la realtà cruda e tutti gli ingredienti che con­ traddistinguono un certo ambiente. Ed è proprio questa rinuncia che a certuni dà terribilmente fastidio, mentre ad altri - affascina. Comunque, un barlume di utopia loro ce l’hanno, Jochen, Marion, la nonna e un paio d’altri. Quel barlume che in alcuni casi sembra essersi spento e in altri non è vera utopia, ma solo spensieratezza, o menzo­

gna. Jochen c Marion si amano, c amarsi può essere bello, perché può offri­ re nuove opportunità se gli amanti si inventano la loro vita. Dovrebbe essere bello inventare personaggi che a loro volta si inventano la loro storia, e sfruttano possibilità insperate. E bello, lo so! Poi ci sono la nonna e Gregor che, alla loro età, riescono a cambiare la loro vita, a trasformarsi. Che bello se io o qualcun altro avesse gira­ to ventanni fa questo film, magari l’avrebbe visto anche mia nonna, e oggi forse non voterebbe più democristiano, e non si occuperebbe di nient’altro che della propria morte. E poi c'è la solidarietà. Tutti conoscono quei momenti in cui ci si sente nella “stessa barca” con qualcun altro, di punto in bianco si ha l’impres­ sione di stare tutti assieme, che si può continuare in quella vicinanza, che si sta bene cosi, che non si è più soli. Anche di questo si parla nel film.

1 Acbt rind kan Tag, serial familiare televisivo in cinque puntate diretto da Fassbinder nel 1972 L'opera che mescolava pettegolezzi familiari, idilli domestici e fat­ ti di ambiente operaio, riscosse uno straordinario successo di pubblico e provocò aspre controversie nella critica.

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E si parla anche della voglia di lottare. È bello lottare quando si è in tanti, quando se ne ha il diritto. Battersi può essere esaltante. Ma anche darsi al bere può essere bello, quando non se ne ha più biso­ gno per diventare aggressivi. E l'aggressività può essere bella, perché quando svanisce ti lascia una calma più piena, ti dà serenità; e il più delle volte è divertente, l’ag­ gressività, se la si vede in rapporto ad altre cose. Si può riderne. Ci sono talmente tante persone nel film, oltre a Jochen, Marion, la nonna. C’è Monica, Harald. C’è Gregor, poi Wolff e Kàthe, Marmi e Sylvia, c’è Franz. Peter. Jurgen, Rolf, Manfred, Irmgard, Rudiger... tutti l'uno diverso dall'altro, ingenui e sempliciotti, affettuosi e crude­ li, buoni e stupidi e furbi; io li amo tutti. Alla fin fine non ho da vergo­ gnarmi di quello che fanno per lo meno il più delle volte, o di quello che pensano. In realtà mai, perché... credo che farebbero bene a resta­ re quelli che sono. O per lo meno a non cambiare troppo. Quanto a mia nonna, credo di non aver buttato II un esempio tanto per farne uno. Non era affatto fuori luogo. Dicembre 1972

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Molte ombre, ma nessuna pietà. Un paio di riflessioni improvvisate sui film di Claude Chabrol

Non c'è cosa più bella dell'apologià degli oppressi, la vera estetica è la difesa dei de­ boli e dei diseredati.

Gerhard Zwerenz

Giacché tutti gli errori si pagano in questo mondo, anche audio di aver (atto passate delle larve, o delle mezze larve, per uomini. Theodor Fontane

Fin dall’inizio, lui è sempre stato lo stesso. In fin dei conti, a tutt’oggi non è cambiato affatto. Perché quando Francois cammina per le strade di Sardent, il paese natale che non ha più rivisto da tanto tempo, Ma­ rie gli dice con insolita perspicacia: lui sta guardando gli abitanti del villaggio come se fossero degli insetti. Il film era Le beau Serge (Zd.), anno 1957. E Chabrol, che si identificava con Francois, mentiva nel far terminare il film con la redenzione del suo eroe. Chabrol stesso non si è redento. Tutt’altro. Che altrimenti avrebbe portato avanti, nelle sue opere successive, quel finale del Beau Serge in cui Francois si convince dell’importanza della solidarietà. In quel caso credo pro­ prio che sarebbe diventato, chissà, un grande uomo di cinema. Visto retrospettivamente, dall’oggi, il finale del Beau Serge mostra un’attitu­ dine forzata, di un cristianesimo irrigidito. E Chabrol non è diventato un grande uomo di cinema, nonostante le molte cose piacevoli, ben riuscite, e un paio di grandi film. Lo sguardo di Chabrol non è quello dell’entomologo, come si è affer­ mato spesso, piuttosto quello di un bambino che tiene chiusi in una gabbia di vetro un certo numero di insetti e che osserva di volta in volta stupito, impaurito o contento Io strano comportamento delle sue bestioline. A seconda dei suoi stati d’animo, chissà cosa avrà mangia­ to, se ha dormito bene, il ragazzo modifica il suo atteggiamento rispet24

to agli insetti. Dunque è instabile di fronte al suo oggetto. Non fa ri­ cerca. Che altrimenti potrebbe e dovrebbe scoprire le cause del com­ portamento brutale dei suoi animaletti, e spiegarcele. A prescindere dal fatto che esistono tanti altri insetti meno appariscenti, meno lucci­ canti, una schiacciante maggioranza di piccole bestie incolori che crea­ no le condizioni necessarie alla vita delle altre, quelle più belle. Ma questo il bambino-Chabrol non lo vede, perché non sta facendo ricer­ ca, lui guarda soltanto, e si lascia accecare dai bagliori colorati, dagli insetti speciali; e siccome non vede tutti gli altri, non può nemmeno capire il comportamento delle sue creature preferite. Cosi, col tempo, diventa sempre più cieco il bambino, ma anche furioso e disperato di quella cecità, perché di una cosa per lo meno si accorge, della sua ina­ deguatezza: difatti quel bambino, un giorno, girerà un film con le sue bestioline, si intitolerà Sterminate Gruppo Zero (Nada, 1973): insignifi­ cante. C’è sempre un destino tragico che colpisce e una buona sorte che all’ul­ timo momento fa continuare la storia. Perche Paul uccide suo cugino Charles? Già - il destino. Del tutto casuale, per di più. Infatti poteva anche andare diversamente, la pallottola avrebbe potuto colpire Paul, quando Charles nottetempo gli spara addosso. Non sarebbe più stata una storia idiota, per lo meno. E invece l’idiozia resta, fino alla fine, con limpida coerenza, e non è altro che stupidità. Cos’è importante in questa coerente stupidità, la stupidità o la coerenza? Che c’entra, cosi com’è, il plot fa più effetto sullo spettatore rozzo, che si suole disprez­ zare. Che ne è del fascismo della Francia del 1958? I cugini (Lei couùns, 1958) è un documento d’epoca, ma l’epoca non c’è, nemmeno il valore documentario; il fascismo nella Francia del 1958 non c’entra affatto con Wagner, né con un ebreo a cui gridano “Gestapo”. Certo, nel film uno studente di colore viene apostrofato duramente in due occasioni, bisogna concederlo. Chabrol ha avuto il coraggio di mostrarlo. Ma dove sono finite le centinaia di migliaia di nordafricani sfruttati e discrimina­ ti a Parigi? D’accordo, non si può rinfacciare a qualcuno quello che non ha fatto. Solo che le cose che in Chabrol non troviamo mi sembrano le più importanti. C’è pur sempre l’odio tra Therèse e Henri Marcoins. L’odio, in A doppia mandata (À double tour, 1959), ha messo le radici nel loro lungo matrimonio. È già qualcosa. Qualcosa di meglio, a ogni modo, del muto disprezzo di Paul per Charles in I cu^ni, e non è pro­ prio vero che “alla lunga vada a sfociare in un'altra follia, stavolta col­ lettiva; quella del fascismo” (“Cahiers du Cinema”, 1960). Sono ben 25

altre le cose, mio dio, che portano al fascismo, altro che il disprezzo di un furbetto per il suo barboso cugino. L'odio ecco, in A doppia mandata: il matrimonio che annienta l’indivi­ duo, perché è davvero disumano; l’educazione dei figli all'interno del­ la famiglia e i risultati che saltano fuori quando i bambini crescono im­ mancabilmente... questo sarebbe di per sé un bel soggetto. Anche per una bella favola, certo - il film non deve essere la copia fedele della realtà. Ma se poi lo si trasforma in menzogna? Chabrol non ha torto: su quella ristrettissima classe sociale che è la grande borghesia, del re­ sto inaccessibile ai più, si possono tranquillamente raccontare frottole. Ma forse lo spettatore non ha poi anche la possibilità di ragionare su quelle frottole, ripensando alla propria e ben diversa dimensione della realtà? Quelle storie, non hanno in fin dei conti qualcosa in comune con la vita coniugale dei nostri genitori? Non c'è sempre ipocrisia in chi avanza pretese di possesso? E però, il fatto che i nostri genitori sentano quel bisogno di possesso, non è ascrivibile a loro come colpa, la colpa sta nell'educazione che hanno ricevuto, dunque andrebbe chiarito il perché di quell'educazione... Chabrol non vede le cose in questo modo. Chabrol è, indiscutibilmen­ te, e come testimoniano i suoi ultimi film, un difensore del matrimo­ nio. E il matrimonio è innanzitutto un pilastro portante dello stato. Ma Chabrol è contro l'ipocrisia nel matrimonio, contro la pretesa di possesso, invece di essere contro il matrimonio. Semplice per lui, l’im­ portante sono i sentimenti, i bisogni. Mai che si interroghi sui bisogni veri, sui sentimenti autentici. Non c’è il minimo accenno al fatto che noi acconsentiamo a credere autenticamente nostri certi bisogni che sono lì proprio per illuderci. In se tutto sembra funzionare. Il disordi­ ne che si produce è frutto dell'irrazionale, in Chabrol, non come con­ seguenza necessaria, come effettivamente è in questo sistema sociale. Richard Marcoux (in A doppia mandata}, che ha avuto un'educazione sbagliata e diventa assassino, non diventa assassino per colpa di quel­ l’educazione ma perché, oltretutto, è anche un debole di carattere. E qui sta la menzogna di Chabrol, una menzogna che impedisce allo spettatore di confrontare la favola con la sua realtà. Ma allora perché fare un film? Solo per soldi? Eh già, il cinema è un’industria. E far soldi è un’esigenza tutt'altro che deprecabile, ma è proprio l'unica? E poi non sono pericolosi questi film che istupidiscono, che tolgono coraggio invece di dartelo, che imbrogliano le cose invece di chiarirle? Quante domande, il cinema è arte, e cosa si può pretendere dall'arte? Forse... 26

Chabrol dev’essersi accorto del vicolo cieco in cui si era cacciato con A doppia mandata, se poi si è ritagliato un suo spazio con grande de­ strezza. Infatti girò anche Donne facili (Le bonnet femmes, 1959/60). E non ebbe fortuna. Donne facili c Punico film in cui Chabrol ci pre­ senta quasi sempre degli esseri umani» non solo ombre. Chabrol ha fi­

nalmente un barlume di tenerezza per i suoi personaggi, una tenerezza che ben di rado mostrerà in seguito, e solo verso personaggi isolati, come quelli interpretati da Michel Bouquet. Ma in questo film si met­ te con i suoi personaggi nelle più tremende e ripugnanti situazioni, e resta sempre al loro fianco, il bambino ha infilato la mano nella gabbia di vetro, tra gli insetti. Ovviamente quelli l’hanno punto. E lui non oserà tanto presto rimetterci le mani, con quello che è successo. Fino ad oggi almeno non ha più tentato. Ne ha pescato fuori qualcuno, è vero, pati colar mente bello, e l’ha accarezzato con prudenza. Ma non ha fatto passi ulteriori. La critica gli ha appioppato un bel colpo. E il pubblico si è uniformato ai critici. E stranamente, nella loro stronca­ tura, i critici hanno in apparenza preso le parti dei personaggi che Chabrol, in questo film, ha per la prima volta amato sinceramente. Io credo che loro, i critici e il pubblico, disprezzassero quelle donne, e hanno voluto punire Chabrol per il fatto che lui ha voluto svelare a loro stessi l’oggetto e l’entità del loro disprezzo. Donne facili oltretut­ to è un film rivoluzionario, perché attizza la rabbia contro un sistema che condanna gli esseri umani alla loro rovina. E un film che fa chia­ rezza: bisogna che le cose cambino. Chabrol, purtroppo, era costretto dal suo stesso metodo di lavoro a fare film con grossi finanziamenti, altrimenti con meno soldi avrebbe realizzato film più economici, im­ parando a lavorare ai massimi livelli anche con un budget limitato. E avvenuto il contrario. Ha imparato a fare, con budget enormi, film scadenti. Un modo anche questo. Dopo Donne facili, Chabrol ha cercato di realizzare una specie di film di serie B, che però soffrivano palesemente di poca azione e di troppa raffinatezza. Il pubblico, per le meno, non gradiva Les godelureaux (1960), L'oeil du malici (1961), Opbelie (1961/62) e Landru (ld., 1962). Di questo periodo, il secondo di Chabrol, io conosco solo Lan­ dru - strano mostro, il film. A immagini da reportage della prima guer­ ra mondiale vengono affiancate scenografie teatrali; il Landru della storia, giustamente inteso non come mostro ma come una persona che in un’epoca feroce si comporta ferocemente, Chabrol lo porta a tali estremi con Charles Denner, che nessuno crede più alla storia. Tutto 27

è talmente contraddittorio che alla fine sembra di non aver visto “niente”, di non aver imparato niente. Il piacere tipico dello spettato­ re, quello di anticipare la storia, viene sempre annullato dal gusto del nauseabondo in cui Chabrol indulge, fino a farne una mania che an­ noia, al punto che anche il film diventa noioso, perché si riduce a quel­ lo che mostra; il film e le immagini, del resto estremamente belle, di­ ventano ostili. Ciò significa che Chabrol, in quel periodo, ha visto nel suo pubblico, assai più radicalmente che in seguito, un nemico. E a quel punto, perché mai si dovrebbe essere generosi con un nemico? Dal 1957 al 1962, Chabrol ha fatto almeno uno, se non due lungome­ traggi alPanno. Nel 1963 non ha realizzato che uno sketch di diciotto minuti; sicché ci si può spiegare il periodo seguente, il terzo, anche col fatto che doveva guadagnare. Ma, per l'appunto, anche per quello. Non è cosa di poco conto che abbia voluto girare due "Tigri''1, io aggiugerei, due film di spionaggio perfettamente omologhi alla difesa dello stato, e nei quali non fa nemmeno lo sforzo di uscire dai canoni del genere poliziesco, ma solo quello di uniformarsi. Terence Young ci riesce molto meglio di lui. Chabrol non aggiunge nulla di suo al ge­ nere. Fa anche fin troppa fatica nel volerlo imitare, il risultato è debo­ le di un paio di lunghezze, lo stesso dicasi per il divertimento, che in film del genere dovrebbe essere assicurato. Resta solo il connubio tra Chabrol e la repubblica francese. La Francia non ha in Chabrol una voce critica, un Balzac del XX secolo, checché lui creda, come dimo­ strano almeno i suoi film; la Francia ha in Chabrol un cinico del tutto interno al sistema, un cinico che ha una grande nostalgia dell'innocen­ za, dell'identità smarrita. E da questa strana combinazione nascono poi film come Marie Chantal contro il dr, Kha (Marie-Chantal cantre le Docteur Kha, 1965), La liyte de demarcation (1966) e Criminal story (La route de Corintie, 1967). Film ingenui, con eroi ingenui, apparente­ mente. L'ingenuità regge ancora nei due film di spionaggio Marie Chantal e Criminal story, dato che il genere di spionaggio è essenzial­ mente naif; ma ne La tigne de demarcation, che ha un suo rapporto con il reale, l'ingenuità diventa farsa. Non è un caso che Chabrol abbia affidato la sceneggiatura al colonnello Rémy. I protagonisti della Resi­ stenza sono diventati nel dopoguerra i rappresentanti più reazionari

1 La tigre ama la came fretta (Le tigre aime la chair fraìche, 1964) e La tigre profumata alla dinamite (Le tiffe te parfume à la dynamite, 1965).

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di un astratto moralismo di stato, E Chabrol ci è cascato in pieno con la sua ricostruzione distaccata e precisa. Tutti bravi questi francesi, da far rizzare i capelli, e anche il nobile codardo, che per tutta la durata del film trova insensato opporsi ai tedeschi nella clandestinità, è auto* rizzato nel finale a riscattarsi nella morte. E i bravi francesi si mettono anche a intonare frettolosamente V Intemazionale, per poi concludere con la Marsigliese. Non serve, a questo punto, fare una panoramica sul­ la bandiera uncinata; qualsiasi accenno problematico alla Francia del dopoguerra è già sparito lungo le belle acque del Reno. Gli altri due film, con Marie Chantal e Shanny eroine del gioco del caso, sono pur sempre carini, per lo meno sono belle le due interpreti, Marie Laforét e Jean Seberg. Non c’é molto di più, benché qualcuno abbia voluto avventurarsi in riflessioni metafisiche sul messaggio che vuole espri­ mere Chabrol nel mettere sulle spalle della borghesuccia Chantal tutto il potere dell'umanità intera. Affidare le redini del mondo alla piccola borghesia, o qualcosa del genere? Chissà... Chabrol non ha potuto girare la continuazione già prevista di Marie Chantal. Per fortuna. La sua spassionata asserzione di aver lavorato, in quel periodo, solo per la pagnotta non mi convince del tutto. Del resto con ben cinque film, e in più due continuazioni già programma­ te, in quattro anni uno sa quello che fa. E Chabrol sapeva anche quello che avrebbe potuto fare. Si può uscire dai canoni di un genere, si può trasformare tutto nell'esatto contrario. Basta pensare agli happy-end obbligati dei film hollywoodiani: li si può pensare in un modo o in un altro. Chabrol ha fatto la scelta più facile, quella di conformarsi. E Io ripeto, credo che sapesse quello che faceva. Con Delitti e champagne (Le scendale, 1966), anche se realizzato prima di Criminal story, Chabrol entra nel quarto periodo della sua produzio­ ne, in quello che tutti associano per eccellenza al nome di Chabrol. Portando tutto a un unico denominatore, si potrebbe affermare che Chabrol, d'ora in avanti, non fa che rispolverare accuratamente i valo­ ri borghesi. La questione è: li rispolvera per superarli oppure per con­ servarli? Il secondo caso, credo, corrisponde a verità. Chabrol è trava­ gliato dal disordine e dall'inintelleggibilità delle cose; lo rattrista che gli uomini siano così cattivi. Non sono mai le situazioni e i sistemi so­ ciali, quelli che rendono gli uomini così come sono, a interessare Cha­ brol, ma il risultato finale, magari se è sufficientemente pittoresco. Proprio qui sta l'aspetto disumano. I film dell'ultimo Chabrol sono di­ sumani nel loro fatalismo, nel cinismo e nel disprezzo che mostrano 29

per gli uomini. E le eccezioni confermano la regola. Stranamente le storie passate in un contesto irreale sono adesso, contrariamente a pri­ ma, le più sopportabili, Les biches (tó., 1967) e All'ombra del delitto (La ropture, 1970). E II taglìagole (Le bucher, 1969) è, nonostante tut­ to, un gran film, dove Chabrol costruisce per la prima volta una storia, partendo da uomini veri. E sarà, purtroppo, anche l’ultima. E l'unico film che non rovesci addosso allo spettatore unicamente assurdità e verità inappellabili. Cioè quello che succede in tutti gli altri film. Cha­ brol dà addosso al suo pubblico, c lo fa con un livello di perfezione che è pressoché irresistibile. E proprio questo a renderlo pericoloso. Preso in sé, il suo universo funziona a meraviglia. Ma il suo mondo non ha nulla da spartire con quello di coloro che, acquistando il bi­ glietto d'ingresso, finanziano i suoi film. Ma lui fa finta di nulla. Tran­ ne ovviamente Les biches e All'ombra del delitto. Nella loro compiuta separatezza, questi due film sono così distanti dal reale che alla fine, in un certo senso, sortiscono l'effetto contrario. Non guasta più che al posto di esseri umani ci siano soltanto ombre. Ombre tutte avvolte da un'indefinibile glamour. Ombre in grado di reggere una storia. Chabrol è probabilmente il regista che sa dominare con la più compiu­ ta perfezione il suo stile narrativo. Benché formalmente sconfini via via in un'imperdonabile trascuratezza. A volte si ha l'impressione che Chabrol abbia appena fatto la scoperta dello zoom, il più misero degli strumenti filmici. In ogni film ci sono una o due carrellate incredibil­ mente belle; per il resto indicazioni di regia errate, immagini piatte, leccate, senza lavoro di luci o di colori. Poi due film veramente brutti, Trappola per un lupo (Docteur Papaul, 1972) e Sterminate Gruppo Zero. LI siamo al fascismo puro. Non c’é dubbio. Un retaggio che viene da lontano e che un bel giorno salta fuori. Il disprezzo di Chabrol si fa del tutto palese nei suoi quattro film per la televisione2. Non si può lavorare per milioni di persone come fa Chabrol, senza idee e con tanta sbadataggine. Invece di vedere nella televisione uno, e forse il più arduo compito per un cineasta, lui la con­ sidera semplicemente un peso. Ma certo, anche in questo c'é una lo­ gica. 1975

* Monùeur Bébé 0973), Nut n’eii parfait (1974), Uw invitation à la ebatse (1974), Lei g/eiu de l'été (1974).

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Aver dato-dover avere. A proposito del romanzo di Gustav Freytag Dare e avere e del suo mancato adattamento televisivo

Del romanzo Dare e avere (Soli und Haben, 1855) sono precisamente i passaggi indecenti - che noi rifiutiamo perché intrisi di quella co­ scienza politica che, se non ha prodotto gli orrori della storia recente, vi ha per lo meno contribuito fornendone la copertura letteraria, del resto con ambizioni estetiche alquanto modeste - sono precisamente quelle parti, dicevo, che ci chiamano a un confronto forse tra i più im­ portanti, possibili e necessari con le storie di molti e con la nostra sto­ ria, con la storia del secolo scorso e con quella dei nostri padri, un con­ fronto che proprio gli strumenti filmici, ricorrendo alla televisione, so­ no in grado di realizzare. E che cosa c'è di significativo nel romanzo Dare e avere, in quest'opera che, nonostante la mole, è scritta in una lingua, come si diceva, piutto­ sto scadente, e in cui assistiamo a quanto di più detestabile possa in­ quinare, secondo Fontane, una qualsiasi opera d'arte: cioè che larve e fantasmi vengano spacciati per esseri umani? Dare e avere è lajtoria della borghesia nella seconda metà del secolo scorso la quale» dopo il fallimento di una rivoluzione borghese, elabora la propria coscienza di classe, fissa tutta la propria gamma di valori, che non vanno molto più in là di nozioni quali f assiduità, l'onestà e l’affidabilità, e circoscrive i caratteri della cosidetta indole tedesca, sostanzialmente un prendere le distanze da tutte le altre classi, al proprio interno contro il proleta­ riato e la nobiltà, all’esterno contro tutto ciò che è straniero, ma so­ prattutto un volersi distanziare dalla concezione del mondo oggettiva, umanistica e tollerante che viene bollata come ebrea; insomma quel complesso di valori che poterono poi essere inglobati nell'ideologia na­ zionalsocialista del Terzo Reich senza bisogno di riaggiustamenti, ma che nondimeno continuano a coesistere oggi, e qui è il punto decisivo per un confronto con questo romanzo, nella società attuale. Detto semplicemente, sebbene quegli stessi valori siano passati nel 31

Terzo Reich, con Tarma del terrore e tra indicibili crudeltà, a fulcro essenziale dell’anima tedesca, nel tentativo di eliminare tutto ciò che non rientrava e che metteva in dubbio quel quadro ideologico, la so­ stanza di quei riferimenti morali continua a sopravvivere stabilmente in troppi cervelli che, a tutfoggi, non hanno avviato nessuna riflessio­ ne critica. Questo, credo, il prendere coscienza di quei valori e di que­ gli atteggiamenti nel loro divenire storico, può essere l'obiettivo prati­ cabile di una rivisitazione del romanzo Dare e avere. Proprio nel contesto delle riflessioni che evoca, il romanzo può essere letto come una storia incredibilmente appassionante. I personaggi, an­ che se fantasmi, vengono mostrati in situazioni accattivanti, situazioni di volta in volta drammatiche, sentimentali, misteriose. E queste sono premesse più che sufficienti a garantire per lo meno il divertimento. Una ennesima condizione sarà la seguente: la storia non deve più imbambolare, non deve rassicurare. Il nostro compito è quello di mettere in relazione alle vicende storiche ima vicenda emozionante, sentimen­ tale, terribile; e di rendere in trasparenza, nel suo carattere potenzial­ mente fascistoide, il pensiero di Freytag, ovvero Tideologia del “cen­ tro inteso come totalità” (Hans Mayer). Stranamente non è difficile, per il semplice fatto che il Freytag giornalista la spunta sul Freytag ideologo, e tenendo il vissuto rigorosamente distinto dall’interpreta­ zione, relega la sua ideologia in quei passi di commento che sono, sì, qualcosa d’inaudito. A prescindere da questi passaggi, si scopre un Freytag osservatore di una realtà affatto plausibile e, non ho paura a dirlo, un osservatore per buona parte estremamente attendibile. E questo è già tanto, tantissimo. Un ghetto ebreo, ad esempio, viene descritto minuziosamente, con l'angustia imposta che vi regna, e la sconsolatezza, la disperazione dei suoi abitanti; poi nei passaggi ideologizzanti che seguono, Freytag pas­ sa a sostenere bellamente che quei ghetti sono così perché i loro abi­ tanti non li gradirebbero diversamente. Con le figure dei borghesi in­ vece Freytag marcia sicuro facendosi paladino della loro identità; quindi non ha bisogno di decantare le gesta nei commenti, e noi non dobbiamo neanche smitizzarle; loro non devono far altro che agire co­ me agivano con Freytag, anche di fronte allo spettatore di oggi che do­ vrebbe avere e ha la possibilità di interpretare i loro comportamenti, furbeschi, rivoltanti, ragionevoli o meschini che siano. Noi non siamo più tenuti, oggi, a rispondere del modo in cui i nostri padri hanno mes­ so in moto questa nostra società, tanto meno per come Thanno rovina32

ta; noi oggi ne sappiamo di più, c possiamo contentarci di mostrarla tale e quale ai nostri spettatori, dopotutto è anche la loro storia. Il giornalista Freytag e gli ebrei: a lasciar fuori il didascalismo dei suoi criteri morali, balza agli occhi come lui stesso li descrive nei termini di un gruppo sociale emarginato, costretto a vivere così com’è perché non gli è concesso altro, con modelli di comportamento dovuti alla li­ mitazione dei diritti nella compagine statale in cui vivono. E anche con Freytag si può riuscire a dimostrare, condensando appena le sue vicende, come proprio quei privilegi che gli ebrei avevano mantenuto, e che la borghesia aveva accordato loro in esclusiva poiché non colli* ma vano con il suo senso dell'onore, innanzitutto il prestito in denaro e l’attivismo finanziario, che erano proprio quei diritti a fomentare Podio contro gli ebrei. Cos’altro importava, in effetti, alla borghesia se non guadagnare soldi, accumulare sui valori? Nuli’altro. La borghesia dunque si è servita de­ gli ebrei per non essere costretta a disprezzare se stessa, per potersi sentire grande, potente e fiera di se stessa. L’ultima conseguenza di un simile inconscio autodisprezzo fu Io sterminio di massa degli ebrei nel Terzo Reich; in realtà bisognava sterminare ciò che non si voleva ammettere in se stessi. Da tutto ciò, e non soltanto come conseguenza del periodo che va dal ’33 al ’43, deriva che la storia dei tedeschi è ormai indissolubilmente legata a quella degli ebrei; una nuova sorta di peccato originale metterà le radici in tutti coloro che verranno al mon­ do e cresceranno in Germania; peccato originale che non sarà meno tormentoso per il semplice fatto che, oggi, i figli degli assassini si lava­ no le mani nell'acqua dell’innocenza. Il nostro rapporto con l’ideologia borghese, con gli ebrei e con il senso di colpa che è radicato nel nostro inconscio, esige da noi un confronto con una storia come Dare e avere, proprio per sventare, mostrandone gli elementi portanti, un ennesimo pervertimento dell’ideologia bor­ ghese. Non voglio addentrarmi qui sugli “errori", presenti nel romanzo, cir­ ca l’atteggiamento dei tedeschi rispetto agli slavi, e sull’approvazione di Freytag del primo imperialismo della borghesia tedesca, con la rela­ tiva legittimazione del vilipendio di quei popoli che si voleva sotto­ mettere. Un film Dare e avere sarebbe anche storicamente ’giusto’ se mostrasse nella sua falsità ciò che Freytag, e con lui i suoi personaggi e i suoi lettori, ritenevano ’giusto’. Non mi resta che sottolineare ancora una volta come Dare e avere sia

una storia ben costruita» avvincente» emozionante» già scritta, in un certo senso» per il cinema, pur con i suoi intollerabili difetti politici e letterari che però» trasposti in un altro linguaggio, possono anche ri­ velarsi vantaggiosi. È proprio un divertimento emozionante, cioè che

diverte e dà emozione a un tempo» che non annoia» ne istupidisce» né consola; che suscita interrogativi ed esige delle risposte, che è in grado di rendere manifesto, dietro a un mondo apparentemente rassicuran­ te, ciò che è mera apparenza, ma che tuttavia riesce a divertire» allieta, e non da ultimo, riesce a far scoprire a colui che si diverte le proprie falle e gli improvvisati rattoppi cuciti sulla propria realtà, che mette la voglia di guardare in faccia a quel paio di contraddizioni di cui è fatto il nostro mondo. Marzo 1977

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Il cinema tedesco si arricchisce. Qualche riflessione su un bel film (Jane bleibt Jane di Walter Bockmayer)

Lavorando sui problemi dei gruppi sociali emarginati, un bel giorno gli artisti scoprono ‘gli anziani": per loro fortuna e tornaconto, come si è poi dimostrato. La scoperta infatti li dispensa dal farsi coraggio e occuparsi degli omosessuali, degli ebrei, dei comunisti (veri), degli operai, di donne, bambini e tanti altri: non c’è soddisfazione a prende­ re sul serio quelle categorie nel mondo culturale tedesco, che del resto non ha mai smesso di far paura, e che ha astutamente instaurato un clima che fomenta a tal punto le paure da far rifugiare quasi tutti i sog­ getti creativi in una sorta di emigrazione interna, corroborata dall'au­ tocensura. Molti sono già inclini a ritenere i prodotti di quella auto­ censura guidata da una non insensibile brutalità, come il frutto delle loro autentiche intenzioni. Comunque l’argomento è vasto. E i proble­ mi degli anziani restano. A che serve, quindi, rimproverare loro man­

canza di coraggio, se in fin dei conti mostrano pur sempre una società che discrimina gli anziani? H loro dovere, così facendo, è assolto, nevvero? Non è vero!! Da quando è uscito Jane bleibt Jane (t.l.: Jane resta Jane, 1976/77) di Walter Bockmayer, si riesce a capire il perché delle reazio­ ni positive, da parte del mondo culturale, a tante pièce teatrali, sce­ neggiati televisivi e film sulle persone anziane. Tutti questi prodotti, di svariata qualità, consolidano il sistema che dicono di criticare; gli artisti tedeschi hanno raffazzonato una sorta di critica omologa al si­ stema che mette addosso tristezza e paura. Alla fine in Germania avre­ mo un’arte morta, che non sarà più in grado di guardare a due passi dal proprio naso. 1 pochi che cercheranno di mantenersi svegli dovran­ no aspettarsi, prima o poi, una razione micidiale di bastonate. E coloro che impugneranno i bastoni conteranno sul fatto che i bastonati, dopo le legnate, canteranno solo canzoni d’amore, con denti d’oro: e non si saranno sbagliati. Per gli ultimissimi restanti che si rifiuteranno di 55

ingannare se stessi, la nostra società ha a portata di mano un mezzo come un altro: la droga ad esempio, oppure spedirli all'estero, e a quel punto ci si può anche uccidere da soli. Nel paese sarà stata ristabilita la calma. In questa situazione, Walter Bockmayer ha voluto fare con Jane bleibt Jane un film rivoluzionario. Poco importa se nel film c'è molta inge­ nuità; lo44spirito rivoluzionario" che in arte vuole sfruttare una matri­ ce intellettualistica, il più delle volte fallisce lo scopo, anzi proprio in virtù del suo fideismo nelle istituzioni diventa controrivoluzionario.

Come spiegarsi altrimenti il fatto che il teatro, pur ispirandosi con la massima coerenza alle idee marxiane, riesce d'altro canto così felice­ mente a soddisfare le prerogative e i canoni del teatro borghese? Bockmayer invece non ha voluto andare sul sicuro, probabilmente non conosceva neppure le statistiche sugli ospizi e sulla composizione sociale dei degenti quando si è messo a fare un film sulla condizione degli anzia­ ni. In realtà, Jane bleibt Jane non è un film sulla vecchiaia, ma sulla paura della vecchiaia, che prova un artista dotato di ima grande e specifica sensi­ bilità. Questo film non elargisce compassione a buon mercato; non susci­ ta conclusioni dal fiato corto, del tipo “qui si dovrebbe proprio...", ne strizzatine d’occhio d'alcun tipo a quel pubblico che, per l'ottanta per cento, è composto da una platea tra i venti e i trenta (dati statistici, lo so bene); ai furbi e attempati eroi non vengono offerti i soliti ipocriti aiuti, non si vedono teneri vecchietti, poveri e sfruttati, coi loro sguardi implo­ ranti denaro pubblico. Jane bleibt Jane rende palpabile la paura della vec­ chiaia di chi Io ha realizzato, la rende palese, ineludibile. Non c'è malinconia che scavi così impetuosamente nel nostro cuore da soffocare e mettere a tacere la mente. Non c'è tristezza che ci colmi, come quella, delle famose lacrime di cui non c'è bisogno di vergognar­ si. Non sono più concesse scappatoie al nostro furore, alla rabbia di vivere in una società che ci costringe ad avere paura della vecchiaia. Il film ci costringe a meditare. A riflettere se la paura della vecchiaia non significhi anche paura di vivere nell'oggi, e nel domani. Il film è talmente liberatorio per noi, che alla fine ci si chiede: perché questa

paura? E a che serve, è proprio necessaria, non dovremmo forse riflet­ tere sul resto, su cosa cambiare, e come, quando e con quali mezzi?! Jane bleibt Jane è sotto molti aspetti un film esemplare. È stato realiz­ zato grazie ai mezzi di quel magnifico dipartimento Kamerafilm della seconda rete televisiva tedesca, che paga i cineasti giusto quanto basta perché si sentano in dovere di consegnare una pellicola che somigli a

un film, cosa che nella maggior parte dei casi li fa sprofondare in un mare di debiti c che (oso ripeterlo un’altra volta) li rende insicuri, ma­ nipolabili e inoffensivi. Bockmayer è riuscito ad accumulare meno de­ biti di altri. E anche in questo caso, contrariamente a quasi tutti i col­ leghi, non ha affatto tentato di dissimulare la sua estrema precarietà di mezzi. Il film fa continuamente trasparire la beffa finanziaria dell’e­ mittente, che alla fine può anche gloriarsi di avere reso possibile il pro­ getto, ecco come stanno le cose. Bockmayer non dissimula neppure i suoi limiti, e ammette, là dove ha ancora da imparare, di doverlo fare. E così, da una povertà dichiarata, senza bisogno, come al solito succe­ de, di camuffare ad arte i limiti (provvisori) di una regia, emerge una straordinaria ricchezza, che è ben rara nel cinema tedesco. Una ric­ chezza che può aiutarci a esprimere la nostra sofferenza, e a liberare la mente nostra e altrui.

Aprile 1977

A proposito della disperazione e del coraggio di individuare e aprirsi a un'utopia. Due monologhi e una saggio su Despair

Non si può parlare del senso della vita senza ricorrere a parole fallaci. Inadeguate. Ma non ce ne sono altre. Se qualcosa esiste, allora è il mo­ vimento. Un bel giorno si è voluto dar credito a una cosmologia irrigi­ dita, un sistema solare che, muovendosi in maniera preordinata, in realtà non si muove più. Per farlo rimettere in moto bisogna scompagi­ narlo. Questo è il compito dell'uomo, fin dalla sua creazione, ma non c'è alcun progetto che lo fondi. Non ci è più consentito affermare che la nostra esistenza ha uno scopo preciso. U progetto, ma è quello dei potenti, si realizza nel nostro pensiero causale, che è sempre istradato a erigere esclusivamente sistemi di valori, a produrre senso. La storia intera, tutte le mitologie sono il risultato di quella serie pianificata di concatenazioni causali. Ma se noi disarticoliamo le rispettive rotazioni di questo sistema, allora l'equilibrio dei baricentri non tiene più, e tut­ to il sistema va a rotoli. All'improvviso si crea il movimento, qualcosa esiste. L'effetto sarà paralizzante, per noi che partoriamo sempre valo­ ri. Siamo qui per questo. Non riusciamo ad accettare ciò che, rispetto alTesistente, vi si contrappone. Ragion per cui siamo ben lontani dalla libertà. Noi non saremo mai liberi finché non saremo disposti ad ac­ cettare la distruzione. Cosi come accogliamo quel ben regolato sistema solare che testimonia del nostro irrigidimento. E la nostra situazione è dovuta al fatto che l'individuo non percepisce il suo essere estingui­ bile. Non mi riferisco a un sapere intellettuale, bensì a quella certezza

del corpo in ogni sua azione. All'uomo, l'opportunità di capire la fini­ tezza gli viene a lungo negata, ci penserà la sua natura corporea a sup­ plire quella carenza, e però molto tardi. Se la certezza corporea di do­ ver morire fosse tangibile in ciascuno di noi il più presto possibile, nes­ suno patirebbe più sofferenze esistenziali - l'odio, l'invidia, la gelosia. Niente più paure. I nostri rapporti interumani sono giochi crudeli per il semplice fatto che noi, nella nostra fine, non intravvediamo alcun-

che di positivo. Ma c'è il positivo, perché è reale. La fine rappresenta la vita concreta. Il corpo deve capire la morte. A Brema, dopo un mio spettacolo, passai una notte terribile. Un sogno di morte. Che mi colse assolutamente impreparato. Dopodiché mi venne la cardionevrosi e corsi dal medico. Ovviamente non ero malato. Questo esperienza del­ la finitezza mi ha raggiunto in sogno a ventisei anni, anche troppo tar­ di. Non potevo più sfruttarla nella mia relazione. Ed è diventata Fargomento della mia nuova pièce: Endeendlos (t.1. : Fine senza fine). Pe­ rò la distruzione non è il contrario dell'esistenza. La distruzione, come idea, si ha quando questo stesso concetto non esiste più, quando non ha più senso, quando si trasforma in una realtà che lo fa dissolvere. Quello che si potrà inventare dopo, sarebbe entusiasmante. Giugno 1977

Nella vita di ogni uomo arriva sempre quel terribile, meraviglioso mo­ mento che si insinua come un lampo nella coscienza di alami e come un sacro dolore nell’inconscio dei più: il momento in cui si scopre la finitezza della propria esistenza. Nutriti di aberrazioni, noi abbiamo imparato a considerare certe cose aberranti e disgustose come giuste, plausibili, inappellabili e inevitabili; e soprattutto questa strana e futi­ le, ma per l'appunto evidentemente proficua, sensazione paralizzante che ci assale insieme al desiderio di un'utopia tutta nostra. Ci hanno insegnato tanti pensieri aberranti e untuosi che persino la battaglia per certe utopie ci è consentita solo ricorrendo a mezzi che sono, a loro volta, aberranti - non peggio di altri, questo no, ma altrettanto erronei come tutto il resto. Così, anche la terribile scoperta dell'ineluttabilità della morte invece di essere pulsione liberatoria come dovrebbe e po­ trebbe, diventa funzionale a un godimento straziante, a una felicità che affonda le radici in una mediocre non-libertà. La gioia suscitata per l'appunto dalla rivelazione della definitiva mancanza di senso, e della effettiva casualità di ogni esistenza, anche dell’esistenza segnata da quel sacro momento della scoperta - cosa che dovrebbe ridare alla vita stessa il senso delle libere decisioni e il vigore di battersi, posta l'assenza del senso, per qualcosa di meraviglioso, di realizzabile, di sensatamente dotato di senso - quella gioia non viene ammessa tra le esperienze possibili, come ricolmo piacere liberato, ma la si trasforma in angoscia che, nella frustrazione del piacere, rende appetibile pro­ prio la non-libertà. All’infuori del suicidio, questa venerabile giungla

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non sembra offrire vie d'uscita, tranne forse quella di cui parla Despair (Etne Rette ins Licht-Despair, 1977) l'incamminarsi per scelta verso la follia. Ma per il regno della follia vale la stessa conclusione che si im­ pone per la morte: entrambe sembrano bastar a mala pena a nutrire la speranza. E noi non abbiamo che scarse informazioni su quella bella anarchia che, nel regno dei folli, rende fruibile la libertà. Un giorno, se mi costringerò a una decisione, spero di avere abbastanza coraggio per percorrere quelle strade, e per non soccombere alla abbondante panoplia delle scappatoie. 1 marzo 1978

Despair. Compendio di un film che non autorizza ad alcun compendio Prima che fosse coniata l'espressione alla moda "Midlife crisis", che volendo denominare una situazione insolita la sminuisce, aprendo così il varco a una autocompassione d'accatto e togliendone forse ogni

aspetto minaccioso, c'era questa strana e apparentemente inspiegabile fase nella vita di molte persone in cui si diventava di punto in bianco scontenti. Scontenti delle cose fatte, di quanto s'era accumulato e di quella felicità presa per buona che va sotto il nome di contentezza e soddisfazione. Veniva voglia di scappare, o di qualcosa che non si sa­ peva di preciso. Improvvisamente, gli uomini vengono assaliti dall'irresistibile deside­ rio di cambiare quella donna che, stando a come lo dicono, sarebbe la loro; dal giorno alla notte odiano Fattività che svolgono e che cono­ scono bene, e poi sognano isole lontane, avventure, viaggi indefiniti in mondi ineffabili. Davvero inspiegabile? Niente affatto. Semplicemente non possono più negare l'evidenza, la loro vita è chiusa, a parti­ re da quel momento la loro esistenza sarà soltanto ripetizione, col che anche la loro soddisfazione, sia quella che sia, viene a svuotarsi, come il sasso corroso dall'eterna identica goccia. Hermann Hermann, industriale del cioccolato, emigrato dalla Russia, che dopo dodici anni di residenza a Berlino conta per lui meno di una rancida torta al caffè, è sconvolto dalla crisi: si rende conto che ormai non è più in grado di concludere altro se non rifare quello che aveva già fatto in passato. Sua moglie è così sua, lui l'ha a tal punto ridotta a una propaggine di sé, che qualsiasi cambiamento sarebbe un'amputa­ zione, quindi da escludere senz'altro. Il suo lavoro, lui non l'ha mai 40

considerato un'attività gratificante, di modo che il semplice disprez­ zarlo avrebbe significato anche un cambiamento. Isole solitarie, viaggi lontani per fuggire dal reale, dal denominabile non sono cosa per Her­ mann Hermann. U mondo è una palla di terra che a calpestarla lascia ovunque zacchere sulle suole; le montagne non sono altro che monta­ gne e il sole, che se ne infischia dei desideri dell’uno e dell’altro, fa quello che ha sempre fatto. Anche la luna è soltanto luna, l’astro che ci obbliga ad accettare le cose come vanno. Hermann è circondato da fenomeni in movimento che gli provocano angoscia, ma anche questa angoscia non gli giova a cambiar pelle, tutt’altro. La pelle dilata i suoi pori all’ansia, e alla fine ritorna a essere più cauto e prudente passo dopo passo, e i passi che non sono altro che passi non sono, per l’appunto, veri passi. Poi, a un certo punto, Hermann Hermann è preso da una disperazione che lo spinge a trasformare ogni evento in un suo evento, che fa lievi­ tare le sue miracolose e insicure qualità verso grandi cambiamenti, nel rifiuto di essere morti in questa vita. La sua disperazione, la sua dolorosa ricerca di qualcosa che sia in mo­ vimento, il suo coraggio nell'individuare un'utopia e, per quanto pove­

ra possa essere, nell’aprirsi ad essa: ecco quello che racconto in questo film. 1977

Un anno con tredici lune

Il 1978, un anno

Uff anno con tredici lune (/« einem Jahr mit dreizehn Monden, 1978) è la storia degli incontri avuti da una persona negli ultimi cinque giorni della sua vita e tenta, alla luce di questi incontri, di verificare se la de­ cisione presa da quella persona di non permettere che al suo ultimo giorno, il quinto, ne segua il sesto, sia da rifiutare o piuttosto da capi­ re, se non addiritturra da accettare. Il film è ambientato a Francoforte, una città che con la sua specifica struttura sembra sfidare biografie come questa, o per lo meno non le fa sembrare scandalose. A Francoforte non regna una cordiale medio­ crità, l'appiattimento delle contraddizioni, non è un luogo sereno, alla moda o divertente. Francoforte è una città in cui a ogni angolo di stra­ da, sempre e ovunque, si scoprono se non addirittura ci si scontra apertamente con quelle contraddizioni sociali che in altre città ci si sforza con innegabile successo di mascherare.

Una biografia Durante la Seconda guerra mondiale, Anita Weishaupt mette al mon­ do un bambino. Anita è sposata e ha già avuto due bambini, ma il ter­ zo viene al mondo in assenza del marito, già da due anni lontano, sen­ za che si abbiano notizie di lui: forse è morto o prigioniero, non si sa nulla. Qualunque cosa gli sia successa, Anita Weishaupt sa bene che questo terzo bambino, figlio di donna sposata, è pur sempre illegitti­ mo; il matrimonio sarebbe distrutto se il marito tornasse. Ma Anita Weishaupt non ha bisogno di simili congetture per capire che quel fi­ glio comprometterebbe la sua esistenza indipendentemente dalla sor­ 42

te del marito: difatti lei si trova a dover dipendere economicamente dal sostegno dei suoceri, e quel bambino offrirebbe loro l’insperata oc­ casione per liberarsi di lei. Anita Weishaupt, afflitta da smisurate pau­ re per la sua esistenza, decise perciò di mettere al mondo quel bambi­ no in segreto, e di consegnarlo poco dopo il parto ad un orfanotrofio. A quell’epoca, la gente aveva già fin troppo da pensare alla guerra, al terrore e alle distruzioni e Anita Weishaupt riuscì a realizzare il suo piano senza alcuna complicazione, uscendo dall’orfanotrofio cattolico in cui aveva lasciato suo figlio con un certo senso di sollievo. Non era preoccupata per la sorte del bambino, non provava scrupoli per il suo gesto, non era afflitta né adirata per essersi dovuta disfare di quella che era pur sempre una parte di lei stessa. Ecco fin dove può spingersi la paura degli uomini verso altri uomini. Anita Weishaupt dimenticò il bambino, non aveva altra scelta. Alcuni anni dopo, quando qualcuno le ricorderà l’esistenza di quell’essere umano, di quella vita che aveva pur un qualche diritto su di lei, o per lo meno il diritto di approfittare di una minima speranza in un futuro migliore, visto che lei non aveva la forza di offrirglielo, in quell’occasione Anita Weishaupt, per non tradire se stessa, tradirà suo figlio. Se non l’aveva lei la possibilità di una vita migliore, come poteva of­ frirla a un altro essere umano? Suo figlio, come aveva comunicato alle suore, doveva chiamarsi Erwin; e lei per giunta aveva subito firmato il consenso a darlo in adozione. II piccolo venne dunque battezzato con il nome di Erwin, e le suore gli dimostrarono dal primo momento un grande affetto, perché era tranquillo, era un piacere quel bambino, un bravo bambino. Persino nei momenti più difficili, sul finire della guerra e nei tre anni seguenti, le suore gli davano sempre cibo in ab­ bondanza, meglio troppo che troppo poco. E dovevano farlo di nasco­ sto, perché non ce n’era quasi mai a sufficienza per tutti i bambini. Le suore erano affascinate soprattutto dalla sua calma, dalla devozio­ ne, come dicevano, con cui Erwin superava le malattie infantili; e non stupisce che ben presto tutte le suore dell'orfanotrofio provassero per Erwin un sentimento di amore materno. Questo genere di affetti può facilmente risultare molesto a chi ne è l’oggetto, tanto più che nel caso di Erwin, ciascuna di quelle ‘madre supplenti' ambiva a essere la sua preferita. E avendo ben presto scoperto che, per essere premiato, ba­ stava dire alle suore quello che loro volevano sentirsi dire, Erwin im­ parò la menzogna. E si costruì pure un sistema di comportamenti dif­ ferenziati, poiché aveva altrettanto rapidamente intuito che ognuna di -13

queste madri aveva del4suo’ bambino un'immagine particolare che an­ dava rispettata. Dato che Erwin era estremamente intelligente e scal­ tro, nessuna delle suore si accorse, tranne suor Gudrun che gli voleva veramente bene, che quel bravo e silenzioso bambino stava diventan­ do un essere triste e introverso - un animo perseguitato dalla tensione

di voler sempre ottenere ciò che lui riteneva amore. Raggiunta l'età, Erwin andò a scuola. Nei primi due anni fu un bravo scolaro, pur senza mostrarsi particolarmente ambizioso. A metà del se­ condo anno, però, accadde qualcosa che cambiò la vita di Erwin in ma­

niera decisiva. Nell’istituto comparivano sempre più spesso certe cop­ pie sposate, non proprio giovani, soprattutto la domenica pomeriggio; gli adulti giravano nelle sale guardando Erwin e i suoi compagni di scuola con tanta insistenza che a volte lui non riusciva a sopportare i loro sguardi e scappava via. Eppure quegli sguardi celavano qualcosa di buono, perché all’improvviso uno o l’altro dei suoi compagni spari­ va, e suor Gudrun gli aveva spiegato che i ragazzi partiti avevano tro­ vato dei genitori. E i genitori, aveva anche detto suor Gudrun, erano una cosa bella, bellissima, perché un padre e una madre vivono per il loro bambino, lo aiutano, lo amano, e fanno in modo che tutto il possi­ bile si realizzi per lui. Dopo quei chiarimenti, Erwin non scappò più quando, la domenica pomeriggio, quegli occhi si posavano su di lui; anzi, rispondeva a quegli sguardi con la medesima insistenza, perché non era solo compito dei genitori vivere per lui, anche lui doveva vive­ re per loro, voleva amarli. Erwin non desiderava soltanto avere, vole­ va dare, e anche in misura maggiore. Da quel momento, tutto si risolse in fretta: Erwin trovò i suoi genitori, loro trovarono lui. Si chiamava­ no Weber, avevano una casetta in periferia, che forse non era proprio grande, ma tanto che importava, quella nuova vita era per lui più im­ portante della libertà: il paradiso se l'era immaginato così. Non aveva più bisogno di mentire, di recitare una parte per ricevere affetto. I Weber infatti non ignoravano una cosa essenziale, c cioè che tutti han­ no difetti, e non ne sembravano per nulla scontenti. Il loro figlio aveva tutto il diritto di tenersi i suoi difetti, non doveva più dissimularli. I Weber andavano d'accordo tra loro; anche con lui, e fra i tre regnava un clima che si poteva definire fiducia. Fiducia e pazienza. I Weber alla fine decisero di adottare il bambino e la decisione fu presa dopo aver riflettuto più a lungo di quanto generalmente avvenga. Non resta­ vano che poche formalità da sbrigare. La signora Anita Weishaupt aveva formalmente già dato il suo assenso all’adozione, ma allora c'era 44

la guerra, tutto era diverso all’epoca, e forse nel frattempo anche le intenzioni di Anita Weishaupt erano cambiate. Suor Gudrun si prese Tenere di cercare la madre di Erwin per discute­ re con lei il futuro di suo figlio. La trovò in un appartamento piuttosto grande, anche bello, circondata

da quattro bambini, con un quinto in arrivo, vista l’avanzata gravidan­ za della donna. Appena Anita aprì la porta e s’accorse di suor Gudrun, il suo viso fu assalito da una sorta di terrore, e la sua prima reazione fu quella di liberarsi subito della religiosa, rispondendo di non sapere nulla del bambino di nome Erwin. Suor Gudrun però non cedette, pur intuendo che quella donna sembrava davvero esser riuscita a dimenti­ care completamente il proprio figlio; ebbe compassione di lei, proprio perché le sembrava terribile e disumano. Tuttavia quel colloquio non poteva risparmiarglielo. Alla fine Anita Weishaupt fece entrare la suo­ ra, chiuse per timore la stanza dei bambini, e la tirò nel salone, dove richiuse subito la porta e vi si appoggiò contro, come per impedire l’ac­ cesso a chiunque altro. Poi parlò rapidamete, con affanno, quasi che le mancasse il respiro. Spiegò alla suora che il marito era tornato dal campo di prigionia e che lui non doveva assolutamente scoprire nulla, altrimenti ci sarebbe stata una catastrofe che avrebbe distrutto la sua vita, quella dei quattro bambini e dell’ultimo che doveva ancora veni­ re al mondo. Suor Gudrun mostrò, con un gesto del capo, di compren­ dere e le spiegò il motivo della sua visita: l’adozione del figlio Erwin. Anita a quel punto scosse violentemente la testa dicendo che già a suo tempo aveva sottoscritto il consenso all’adozione di Erwin. Suor Gu­ drun le spiegò di essersi sentita in dovere di offrire alla donna un’ulti­ ma possibilità di riavere il bambino. Allora Anita Weishaupt scoppiò a piangere e singhiozzare, ripetendo insistentemente no, no, no. Suor Gudrun già sospettava qualcosa di spiacevole e chiese ad Anita Wei­ shaupt se, all’epoca della nascita di Erwin, fosse già sposata. Anita ri­ spose di sì con un cenno, e la suora si lasciò cadere sconcertata sulla sedia, soggiungendo con voce sommessa ma molto chiara che, stando così le cose, anche il marito di Anita era tenuto a sottoscrivere il con­ senso all’adozione del figlio Erwin. Anita Weishaupt restò senza fiato, fissò a lungo la suora poi scosse lentamente il capo dicendo che, a quel­ le condizioni, un’adozione di Erwin non sarebbe mai stata possibile. Suor Gudrun si strinse nelle spalle con tristezza, si alzò, cercò di riflet­ tere ancora un momento se era possibile far cambiare idea ad Anita Weishaupt, ma si convinse ben presto che non c’erano speranze. Allo45

ra, in preda al dolore muto, uscì da quella casa e giunta in strada non riuscì a trattenere un pianto inconsolabile. I Weber non vennero più a trovare Erwin, c il ragazzo non andò più in visita da loro come nelle settimane precedenti. Dapprima Erwin non sospettò nulla, e continuò ad aspettare; poi però capì da sé che stava aspettando invano, e cercò anche di dimenticarli, i Weber, ma senza successo. Da loro aveva ricevuto qualcosa che non voleva più uscirgli dal corpo. Così si diede a rimuginare nella mente, tentando di ricostruire ogni momento trascorso con loro, ma non gli riusciva di scoprire se aveva commesso un qualche sbaglio; non era in grado di vederci chiaro. Gli venne la febbre. Giunse il dottore e non riuscì a spiegarsi la malattia di Erwin. La febbre saliva, e il ragazzo fu per pa* rocchi giorni in pericolo di vita. I medici non riuscivano a raccappezzarsi di quello strano fenomeno, e finirono per dichiararlo senza spe­ ranze. Allora suor Gudrun si sedette al suo capezzale e, pur non sapen­ do se il bambino febbricitante la potesse ascoltare, e se le poche parole di lei fossero in qualche modo utili, raccontò a Erwin tutta la storia di sua madre e il motivo dell’assenza dei Weber, e benché le costasse parecchio, cercò di essere obiettiva nei giudizi che dava sulla madre del ragazzo. Erwin non manifestò alcuna reazione al discorso della suora, eppure da quel giorno la febbre cominciò a scendere, come per miracolo, ed Erwin si salvò. Nessuno di quelli che l’incontravano riuscivano a intuire che, nella sua mente, la febbre non aveva affatto smesso di avvampare. Tuttavia il ragazzo, nel suo atteggiamento esteriore, era cambiato. Diventò persi­ no un pessimo scolaro, non rispettò più, a volte deliberatamente, quel codice di comportamento che aveva assunto come un rigido sistema nei confronti delle suore, sicché tutti quelli che avevano un qualche rapporto con lui non credevano più all'idea del ragazzo per bene. Erwin sembrava diventato una creatura imprevedibile, e le suore non amano questo genere di ragazzi, casomai li temono. In più si mise a rubare, e rubava cose che avrebbe potuto ottenere facilmente con altri mezzi. Ormai nell'istituto tutti lo evitavano, tranne suor Gudrun, che rimaneva per Erwin l’unica persona disponibile a un rapporto di reci­ proca fiducia. Rapporto che permise alla suora di scoprire, tra l'altro, una cosa importante: Erwin sembrava aver dimenticato, per lo meno a livello cosciente, tutti i cenni sulla madre e l'intera storia che lei gli aveva raccontato. In ogni caso Erwin non fece più menzione dei We­

ber, né fece domande. 46

A scuola, Erwin non ritrovò più l’interesse e l’impegno che l’avevano reso un bravo scolaro, tutt’altro. Sembrava ostile, come per dispetto, a ogni nuova esperienza; anche in questo caso, ci furono situazioni in cui suor Gudrun dovette intervenire più volte con fermezza, contro la volontà delle altre suore, per salvare Erwin dalla scuola differenzia­ le. Per amor suo, così sembrava, Erwin fece qualche sforzo in più, che gli permise di prendere per miracolo la licenza media. Ma quando venne il momento, per lui e i suoi compagni d’età, di sce­ gliere un mestiere, giacché bisognava trovare per tempo un posto di apprendista, suor Gudrun si ammalò. L’unica persona che teneva tan­ to a Erwin da intervenire in suo favore anche all’infuori di ogni con­ venzione, gli veniva a mancare. E ci sarebbe proprio voluto, in quel­ l’occasione, un massiccio intervento da parte di suor Gudrun per veni­ re incontro al desiderio di Erwin di diventare orafo; infatti, contraria­ mente ai mestieri di panettiere, muratore o giardiniere, per i quali ve­ nivano sempre offerti posti d’apprendistato, quello di apprendista ora­ fo era una ben rara opportunità; a volte bisognava cercare di convince­ re un artigiano ad accollarsi la formazione professionale di un appren­ dista. Ovviamente, nulla di tutto questo si realizzò, al contrario; le suore mandarono Erwin da un macellaio, e sembrava quasi che in quella loro decisione giocasse una sorta di vendetta nei suoi confronti. A Erwin dissero che era l’unico posto disponibile per un diplomato con quella media di voti. Ancora piuttosto ingenuo, non avendo affatto imparato a imporsi nel­ la vita, Erwin accettò la decisione senza reagire minimamente, e poco tempo dopo iniziò l’apprendistato dal suo macellaio, che portava il no­ me di Wunsch. Costui attingeva sempre i suoi apprendisti all’orfano­ trofio, e li sistemava tutti in una stanzetta sopra il negozio. Wunsch poteva ritenersi soddisfatto degli orfani apprendisti. Diversamente dai ragazzi che venivano da una famiglia, ai suoi apprendisti bastava dire una parolina d’incoraggiamento per farli lavorare, col sorriso sulle labbra, oltre il dovuto; inoltre mostravano una spiccata docilità, non essendosi ancora messi in testa idee di disubbidienza, ed erano il più delle volte molto legati al negozio, restando per molto tempo da Wunsch, come aspiranti macellai, anche dopo aver concluso l’appren­ distato: una forza lavoro provvidenziale. Il macellaio Wunsch non era un padrone proprio di cuore, ma nemme­ no troppo severo o cattivo. In più non sembrava che gli importasse granché di insegnare il mestiere ai suoi apprendisti, ciò che gli preme­ 47

va era soprattutto la loro forza lavoro. Ma proprio questa sua indole sembrava andare a genio a Erwin, visto che lui non aveva affatto scel­ to di imparare quel mestiere, e gli rendeva meno arduo il periodo del­ l’apprendistato. Lo stanzino per Erwin sopra al negozio era un buco, oltretutto quasi sempre freddo, ma era la prima volta che il ragazzo aveva una cameret­ ta tutta per sé. Così per diverso tempo gli sembrò quasi un paradiso.

Il periodo dell’apprendistato trascorse senza grandi eventi. I giorni an­ davano e venivano sempre uguali. La sola cosa che di tanto in tanto lo tormentava erano gli umori imprevedibili della moglie del padrone, il più delle volte esageratamente gentile, quasi affettuosa, per poi al­ l’improvviso mostrarsi senza alcuna ragione odiosa e offensiva. Erwin comunque imparò a sopportare anche lei. I Wùnsch avevano una figlia dell’età di Erwin, si chiamava Irene e fre­

quentava il ginnasio. Fin dal primo momento in cui Erwin era arrivato dai Wiinsch, Irene aveva ostentato la sua impertinenza, facendogli più di un dispetto. Dal canto suo Erwin, una notte, aveva sognato di ama­ re quella ragazza, e dopo essersi svegliato non aveva affatto smesso di confidare nel proprio amore. Erwin tentò per mesi e mesi di far inten­ dere a Irene la sua simpatia, offrendole spesso dei piccoli regali che

gli costavano tutto quanto possedeva. Tuttavia passarono tre anni pri­ ma che la ragazza mutasse il suo atteggiamento verso Erwin, un misto di permalosità e di sicumera, prima che riuscisse a vedere in Erwin non più l'apprendista di suo padre, ma almeno, se non proprio un esse­ re umano, Tuomo. Ora Irene usciva di casa facendosi accompagnare di tanto in tanto da Erwin, a volte a cena, altre a ballare. Entrambi scoprirono che faticavano a parlare assieme, a trovare una lingua co­ mune, e forse fu proprio questo a far lievitare il loro rapporto più in­ tensamente e più profondamente di quanto in realtà fosse possibile. Nel I960, e fu senz’altro il caso, sostennero quasi negli stessi giorni il loro esame decisivo: Irene la maturità, Erwin l’abilitazione alla pro­ fessione. Lo superarono entrambi, e si diedero a festeggiare come si conviene. Per il suo brillante successo nella maturità, Irene desiderava un solo regalo dai suoi genitori, voleva andare a vivere in un appartamento tutto per lei. Ma non le fu concesso. Era soprattutto il padre a opporsi, perché la voleva ancora con sé. Forse Tatuava, magari si riteneva inso­ stituibile nell’educazione della figlia. Irene però si sentì ferita da quel­ l’atteggiamento. 48

Dapprima vide la cosa in maniera pericolosamente fatalista; dopo qualche giorno, Erwin si fece prestare una moto e la portò in giro con sé per i quartieri malfamati di Francoforte. Il giro in moto le lasciò un'impressione profonda. Quel viaggio le aveva fatto gustare una sen­ sazione nuova, un misto di libertà, e la fiducia nella possibilità di sen­ tirsi liberi avendo al contempo una persona al proprio fianco che dava un senso di sicurezza senza ombra di possesso, una sicurezza scevra da ogni sorta di vincoli. In uno dei giorni seguenti, e dopo un'ennesima e definitiva discussio­ ne col padre, Irene andò a letto con Erwin. E restò incita già la prima volta. Avutane la certezza da un medico, lei non pensò affatto a un aborto, ma neppure a raccontare il fatto, in uno stadio così precoce della gravidanza, ai suoi genitori. In passato Erwin, che nei suoi primi tre anni di amore muto e lontano per Irene aveva scoperto il proprio corpo, si era pure convinto che quel suo corpo poteva stimolare il suo desiderio e soddisfarlo col piacere. Ai tempi si masturbava frequentemente, e lo faceva senza provare al­ cun senso di vergogna. Solo era turbato dagli strani pensieri che gli venivano in quel frangente, pensieri che non riusciva a controllare, pensieri e immagini sfuggenti che venivano e si dileguavano da soli. Ma (intanto che il suo godimento si accompagnava a quelle immagini insolite e a pensieri incontrollabili, il piacere del corpo e il godimento di quel piacere, così si era persuaso, non potevano, affatto raggiungere una pienezza assoluta. E sempre più pressante, irresistibile alla fine, si faceva la necessità di condividere quell'ebbrezza con Irene. Anche la ragazza non ignorava l'esistenza del desiderio e del piacere del corpo, ma solo in teoria, e temeva anche che simili idee potessero, un giorno o l'altro, diventare realtà. Poi però, terminata la scuola e vedendo­ si negata dai genitori quella libertà in cui aveva tanto sperato, Irene deci­ se di farla finita con la paura del piacere, e dell'amore fisico che doveva pur soddisfarla. Così avvenne che andò a letto con Erwin, rimase incinta, e non voleva più separarsi, per volontà di chicchessia, da lui e dal bambino. In seguito» a cose ormai fatte, che ormai non c'era più tempo per un intervento, spiattellò ai genitori quella storia del bambino che portava in grembo e decise, senza averci pensato troppo, di sposare Erwin. I genitori reagirono con rabbia e con sdegno, ma più loro tentavano di opporsi all'unione, più Irene si mostrava decisa nei suoi propositi. Fu così che si sposarono, avevano entrambi ormai diciotto anni, e voleva­ no essere i soli a disporre della loro esistenza. 49

Accortisi che non potevano modificare la situazione» i genitori fecero buon viso al matrimonio e li aiutarono a trovare un appartamentino, ad arredarlo, a sentirsi a loro agio nella nuova casa, tutte piccole cose di poca importanza, che però contavano molto per Irene, e l’incorag­ giavano a sopportare la sua nuova situazione. Infatti, di una cosa era certa: quel ragazzo di nome Envin le piaceva, ma non lo amava. E un giorno, molto tempo dopo, quando ormai sarebbe stato troppo tardi, lei non avrebbe mostrato il coraggio necessario alla situazione. Irene ebbe la sua bambina, Marie-Ann. Il nome l'avevano deciso assie­ me già prima della nascita; e proprio nei giorni di degenza ospedaliera di Irene, accadde ad Erwin qualcosa di decisivo. Tutto era cominciato normalmente: Erwin incontrò un ex compagno di classe che volle invi­ tarlo a bere una birra in un locale da lui frequentato abitualmente. Er­ win non aveva una gran voglia, ma finì con l'accompagnarlo. Quando varcò la porta del locale, a Erwin sembrò improvvisamente, per una frazione di secondo o forse per l’eternità, che il mondo si fosse fermato; qualcosa l'aveva colpito, l'aveva paralizzato al punto di moz­ zargli il respiro. Considerata la cosa in maniera obiettiva, non era suc­ cesso proprio nulla di straordinario. Due giovani, semplicemente, era­ no entrati nel locale semi affolla to, con gente un po' strana è vero, ma quei clienti non erano poi così originali da intuire quello che stava suc­ cedendo a Erwin, e che Erwin stesso, se glielo avessero chiesto, non avrebbe trovato le parole per spiegarlo. La cosa si riduceva tutta a uno di quei molti avventori, si chiamava Anton Seitz, che stava guardando verso l'ingresso del locale proprio nel momento in cui Erwin e il suo amico lo varcarono. I loro sguardi si incrociarono, e Erwin in quel momento fu certo di una cosa: quell'uomo che lo guardava negli oc­ chi avrebbe preso un posto decisivo nella sua vita. Anton Seitz li in­ vitò al suo tavolo con un cenno della mano, e salutò l'amico di Erwin, che a sua volta fece le presentazioni. Erano tutti e tre seduti assie­ me e non accadeva niente. Poi, a un certo punto, come succede di so­ lito, la conversazione cadde su quello che facevano di mestiere; e quando Erwin disse che era macellaio e che lavorava in un negozio di carne, quell'Anton Seitz sembrò interessarsi, per alcuni secondi, al suo caso, ma forse Erwin si era semplicemente ingannato a inter­ pretare la cosa in quel modo.

Poi all'improvviso, Anton si alzò bruscamente, sembrava aver fretta, strinse la mano a Erwin e disse alla svelta che avrebbero potuto rive­ dersi l'indomani, magari alle sei di sera in qualche altro locale, se Er>0

win aveva il tempo e la voglia di continuare quella chiacchierata. Appena Anton partì, a Erwin sembrò che il locale fosse di colpo diven­ tato triste e deserto, e anche lui non restò molto. Ma non tardò ad ac­ corgersi che non riusciva, nonostante gli sforzi, a levarsi di mente quell’Anton Seitz. Dovette anche confessare a se stesso che mai nella

sua vita aveva aspettato così impazientemente il giorno dopo e l’ora convenuta, le sei di pomeriggio. Il mattino seguente, Erwin si recò come sempre in negozio, fece gli acquisti dovuti e lavorò alla macellazione. Fin dai primi tempi Erwin aveva sviluppato una certa capacità di astrarsi da quella sua stessa per­ sona che lavorava con la carne, per ritrovarsi coi suoi pensieri felice in altre faccende, e chissà mai dove perché lui stesso non lo sapeva. Anche quel giorno era distante con la mente, mentre col corpo prepa­ rava i tagli di filetto da un manzo macellato. E però, fatto che non si era mai verificato, era talmente assorto quel giorno nei suoi pensieri, che perse del tutto il controllo dei suoi movimenti. Maneggiando un grande coltello ben affilato si procurò un profondo taglio al dito. Il do­ lore improvviso lo riportò bruscamente al presente, e si accorse di quel dito penzolante che sanguinava come non aveva visto mai in altri uo­ mini. Riuscì ancora, con un ultimo sforzo, a non svenire. Poi mostrò in silenzio la ferita alla moglie del padrone, che sul principio si voltò disgustata, poi però corse al telefono a chiamare un’ambulanza. All’o­ spedale sembrava che la decisione dei medici fosse appesa a un filo, se amputare oppure salvare il dito. Erwin ebbe fortuna, il dito gli fu ricucito e potè dunque conservarlo. Alle sei in punto, con la mano visibilmente bendata, Erwin si trovava nel locale che Anton gli aveva indicato, e l’aspettava. Qualcosa, una sensazione che gli sembrava la felicità, sembrava stringergli la gola. Ogni secondo dava un’occhiata al quadrante dell’orologio, guardava verso la porta d’entrata, era sempre più nervoso col passare dei minu­ ti, le sei e un quarto, e mezza. Poi fu invaso da una sensazione di gran­ de vuoto interiore. Un vuoto che lo tormentava tremendamente, e che non voleva farsi decifrare nonostante tutti i suoi sforzi per capire il proprio stato d’animo. D’un tratto la porta si aprì e Anton la varcò. Alla sua vista, Erwin sentì il proprio corpo attraversato da un fremito insolito, che non aveva mai provato. II vuoto di prima era scomparso, cedendo il passo a un sentimento che improvvisamente lo colmava. Erwin non capiva che era la felicità. Anton gli venne incontro verso il suo tavolo, Erwin si alzò in piedi, gli strinse la mano e arrossì come 51

un pesce lesso. Ma non si accorse del proprio arrossire» né che stava tartagliando dall’emozione; tutti i particolari della scena gli sfuggiva­ no; sapeva soltanto di trovarsi lì» e non solo di esserne contento, ma anche che» per la prima volta nella sua vita, per lo meno a livello co­ sciente, non c’era più bisogno di chiedersi perché si era e si esisteva in questo mondo. Gli bastava esistere» e questa esistenza airimprowiso non aveva più bisogno di un senso, di una dimensione che la tra­ scendesse. Anton si accomodò e parlò di carne. Parlò a lungo, snoccio­ lò anche certe sue teorie che Erwin non ascoltava veramente. Egli semplicemente notava che Anton gli stava promettendo mari c monti circa faccende losche» forse anche pericolose. Ma anzitutto non avreb­ be potuto rifiutare nulla a quell’uomo, che del resto doveva aver ben chiare tutte le conseguenze a cui andava incontro, insomma, strana­ mente tutte quelle storie non gli importavano affatto. Così Erwin, per quasi due anni, si legò ad Anton in certi affari illeciti di cui ben conosceva i rischi, ma che non lo intimorivano minima­ mente. In quel periodo, anche la sua vita con Irene e con la figlia Marie-Ann bene o male andò avanti, ma non aveva mai tempo da dedicare alla famiglia, era sempre via con Anton per qualche motivo, e il più delle volte non sapeva neanche quale. E quando un giorno Anton gli chiese perché Erwin lo guardasse sempre in quel suo modo, Erwin rispose di botto, senza rifletterci punto» che lo amava. Anton annuì con un’e­ spressione cordiale, scrollò le spalle e gli disse soltanto che, se fosse stato una ragazza» magari l’avrebbe anche corrisposto. Un paio d’altre volte si ripeterono le stesse frasi, con l’identica naturalezza d1 allora» ma nulla più. Ad Anton capitava di parlare ripetutamente con Erwin di se stesso, della sua vita passata. Erwin, ascoltandolo, aveva l’im­ pressione che non fosse l’amico a parlare, ma che quelle storie uscisse­ ro da sole dalla bocca di Anton. Erano sempre le solite cose. Anton aveva passato quasi tutta la sua infanzia in un campo di concentramen­ to, ed era riuscito a sopravvivere per puro caso, così almeno diceva in una delle sue versioni. In un’altra versione, Anton raccontava di dover ringraziare soltanto la sua astuzia, in un’altra ancora saltavano fuori sempre nuovi motivi che» nonostante le contraddizioni, sembravano tutti quanti un po’ veri. Sia come sia, Anton si era salvato e, riavuta la libertà, gli era rimasto un unico desiderio» quello di partire per l’A­ merica. Ma sulla via dell’America si era arenato a Francoforte, dove nel giro di poco tempo si era fatto un nome nel cosiddetto sottobosco 52

della mala. A un certo punto» cosi raccontava» si era accorto che non faceva gran differenza vivere a Francoforte o in America, e nei suoi anni di libertà si era anche persuaso di una cosa molto importante che continuava a ripetere: cioè che non c’era una gran diversità tra quello che aveva visto e vissuto nel campo di concentramento, e quello che capitava fuori, Fuori, evidentemente, gli uomini non vivevano in una galera, ma tutti, ciascuno alla sua maniera, erano rinchiusi in un pro­ prio carcere; inoltre tutti erano sempre attanagliati dalla paura, una paura non inferiore a quella vissuta in campo di concentramento, sem­ plicemente un po’ diversa. A volte succedeva che scoppiassero delle liti quanto Anton esponeva i suoi ragionamenti pubblica me ri ce. Ma, come per miracolo, non si era mai fatto coinvolgere in una rissa. In quei frangenti mostrava di possedere qualcosa come un sesto senso. Un giorno finì che Erwin venne arrestato. Per uno stupido accadente qualcuno aveva scoperto il suo coinvolgimento in certi traffici illeciti di carne. Erwin non tradì mai Anton, il suo complice. Prima con la polizia, poi dal giudice istruttore e infine in tribunale volle accollare su di sé tutta la responsabilità. Essendo incensurato, con moglie e fi­ glia, se la cavò con un anno di prigione senza condizionale. Erwin con­ siderava quelTanno di galera come un dono fatto ad Anton; e Irene stranamente non aveva preso le distanze da lui quando tutta la storia era venuta fuori; anzi, lo andava a trovare in carcere a ogni permesso e sembrava che proprio in quel periodo germogliasse in lei un amore sincero per Erwin. Dal canto suo, Erwin continuava a voler bene a quella donna che avrebbe sempre avuto un posto importante nella sua vita. E non avendo altre persone con cui confidarsi, Erwin un giorno raccontò a Irene la storia del suo rapporto con Anton. Non le tenne nascosto neppure che credeva di amarlo. Sul primo momento, Irene fu come paralizzata da quelle parole, ma subito dopo fece intendere a Erwin che ne avrebbero potuto riparlare assieme, e che quella storia non cambiava nulla nel loro rapporto. Anton non andò mai a trovarlo, ma Erwin lo scusava. L’unica cosa che lo rendeva triste era il non ricevere da lui neppure una lettera, una let­ tera attesa ogni giorno con rinnovata speranza per dodici mesi. Mal­ grado ciò, appena rilasciato, Erwin passò in tutti i locali frequentati con Anton. Lo cercava senza darsi pace, ma non riusciva a trovarlo. Alla fine una persona gli riferì che Anton aveva messo su un bordello, uno di quelli che vanno a gonfie vele. Erwin ci mise poco a scovarlo e Anton fu molto contento di rivedere l’amico, ringraziandolo vieppiù 53

per averlo tenuto al di fuori da tutta quella storia. Poi si frugò nelle tasche e mise in mano ad Erwin un gran mazzo di banconote. Erwin, che aveva atteso per dodici mesi il momento di rivederlo, restò a guar­ darlo fisso, incantato quasi, senza levare i! suo sguardo dagli occhi di Anton. Costui, com’era già successo altre volte, gli chiese nell’imba­ razzo il perché di quegli sguardi. Erwin, per l’ennesima volta, gli con­ fessò che l’amava c Anton non fece che rispondere, come altre volte, che Erwin avrebbe dovuto essere una ragazza. Poi cambiò bruscamen­ te argomento, c gli raccontò d’aver instaurato nel suo bordello le stes­ se regole e l’identica strutturazione in ordine, ubbidienza, dovere e terrore che aveva vissuto nei lager, e che tutto funzionava a meravi­ glia. Felice come un bambino, Anton sfogava la sua visibile contentez­ za con un battimani. Erwin lasciò il bordello in uno stordimento che lo paralizzava, e fece poi una cosa strana, qualcosa a cui non aveva mai pensato. Chiamò un taxi, si fece portare all’aeroporto e comprò un biglietto per Casablan­ ca, dove senza la minima esitazione si fece trasformare in una donna con un’operazione totale. A Casablanca dovette trattenersi per tre set­ timane, fino al termine di tutti gli interventi post-operatori; dopodi­ ché uscito dall’ospedale andò in città ad acquistare vestiti da donna e una parrucca, e si imbarcò immediatamente su un volo per Franco­ forte. All’uscita dal Marocco, come pure per il rientro in Germania, gli fece­ ro le solite difficoltà, ma alla fine sia un paese che l’altro lo lasciarono

passare. Erwin prese di nuovo un taxi, voleva raggiungere Anton il più presto possibile. Lo ritrovò nel suo bordello, ma l’altro a prima vista non lo riconobbe, lo credeva una ragazza in cerca di una stanza. Erwin scosse la testa, non era lì per quello, lui era Erwin, ribattezzatosi Elvira; ma siccome Anton, stupefatto, non riusciva a capacitarsi della situazione, Erwin-Elvira gli rammentò le sue parole: tutte le volte che gli aveva dichiarato il proprio amore, lui gli aveva opposto quella condizione non soddisfatta, che non era una donna. Ma adesso la era. Ad Anton non ci volle molto a persuadersi, la squadrò bene da ogni parte, mostrò il suo assenso di esperto, come a giudicare un lavoro particolarmente ben riuscito, che so, di un armadio o di un tavolo. Ma Elvira si spa­ zientì. Era finito il tempo dei trastulli, la cosa per lei era seria, vi ave­ va investito ogni sua speranza. Anton non fece che scrollare la testa, e scoppiò in una risata fragorosa, fino alle lacrime; Elvira non gra­ 54

diva affatto» e ad Anton non restava che parlare apertamente: lui, con le sue parole, non aveva affatto inteso dire quello. A Elvira bastò un secondo per capire. Aveva ormai ben chiaro che il suo amore era senza speranze, tanto più si avvedeva delle terribili conseguenze a cui anda­ va incontro con quell'operazione alle spalle. Con un semplice cenno di assenso, prese congedo da Anton in tutta calma, scrollò le spalle, quasi non fosse successo niente e se ne andò. Comperò dei sonniferi in farmacia, poi si cercò un albergo. Salita in camera ingerì i barbituri­ ci. Ma il proprietario, intuito qualcosa di strano in quel diente, salì per bussare alla sua stanza. Non ottenendo risposta, con quella porta chiusa dall’interno, tornò di corsa alla reception per cercare il cartelli­ no delle generalità, dove Elvira aveva anche scritto l'indirizzo, che corrispondeva al suo domicilio con Irene. La donna» interpellata subi­ to per telefono» non riusciva a spiegarsi quella storia di una donna che abitava al suo stesso indirizzo» e che aveva affittato una camera d'al­ bergo. Malgrado ciò accorse più in fretta che poteva in città. Con Ire­ ne al suo fianco, il proprietario dell'hotel buttò giù la porta: Elvira era stesa sul letto già in coma. Il proprietario chiamò subito un'ambulan­ za, mentre Irene pian piano riusciva a capacitarsi di tutta la storia; la scoperta, stranamente, sembrava esaltare come non mai il suo amore per Erwin, o per quella donna stesa sul letto. Il proprietario tornò di gran furia nella stanza, spinse Irene da un lato e, afferrata Elvira, si diede a schiaffeggiarla in un crescendo di colpi secchi e robusti. Ma non serviva a nulla, Elvira restava incosciente. Per fortuna non passò

molto dall'arrivo dell'ambulanza» ed Irene l'accompagnò in ospedale. Ovviamente a norma di generalità, fu assegnata a un reparto maschile» e riuscirono a salvarla. Quando Elvira si risvegliò nel reparto uomini, c'era chi la osservava con stupore, e chi l'apostrofava odiosamente. Elvira si strinse nel suo cuscino, e sul viso comparvero finalmente le prime calde e piccole la­ crime. Quando venne il dottore, accompagnato da Irene che la conso­ lava accarezzandole i capelli, Elvira chiese perché mai non ('avessero lasciata morire. Allora Irene si sedette sul suo letto, l'abbracciò, la ba­ ciò» pianse assieme a lei, dicendole le solite frasi banali che vengono

in mente, che la vita è pur sempre beila» e che non si può mai disperare nel futuro. Ma già nel dirle» le sembravano parole vuote e di circostan­ za, e si ripromise di riparlare un'altra volta con Elvira, e più ragione­ volmente, sulla vita, sempre ammesso che sia possibile parlare della vi­ ta in maniera ragionevole. 55

Dimessa dall'ospedale, Elvira si trasferì in un appartamento d’affitto nel centro cittadino, iniziando a lavorare come entraineuse in un night-club della Kaiserstrasse. Le ci volle molto tempo per abituarsi a quel lavoro, e ancor più per accettare di essere donna, essendolo del resto diventata per tutt'altri scopi. Trascorse molto tempo in cui Elvi­ ra, ad ogni contatto con un uomo, peraltro mai di natura erotica, pro­ vava la spiacevole sensazione di un rapporto omosessuale, e lei non lo era nel senso corrente del termine. Anche il suo amore per Anton non aveva mai raggiunto quello stadio, per quanto se lo immaginasse in concreto, in cui si pensa a un'unione fisica. Nei primi tre anni successivi all’operazione, Elvira lavorò come entrai­ neuse o al bar dei bordelli senza mai avere rapporti sessuali. Al contra­ rio cercava di dimenticare quel qualcosa che era il suo sesso. La sua vita peraltro stava prendendo una certa piega a dispetto di tutti quelli che non se ne accorgevano: con un piacere quasi masochista assisteva al proprio lento ma lampante declino nel mondo della prostituzione e la sua china procedeva simmetricamente alla grande ascesa di Anton che aveva guadagnato tanto col suo bordello da lanciarsi già nell’acqui­ sto e nella vendita di case. Il mercato immobiliare stava vivendo un boom estremamente redditizio. Ci si arricchiva facilmente comprando a prezzi stracciati case vecchie, cacciando con i più bassi espedienti i vecchi inquilini che non volevano andarsene, e demolendo gli edifici per poi speculare sul terreno o per costruire direttamente. Anton Seitz era in breve tempo diventato uno dei personaggi di spicco del settore, e quando, di successo in successo, sembrò toccare l'apice della sua car­ riera di imprenditore immobiliare, Elvira decise di abbandonare i bor­ delli e di battere i marciapiedi. Di lì a poco diventò una delle più note e delle più ambite prostitute della metropoli di Francoforte. Col tem­ po Elvira era riuscita a fare buon viso al suo ruolo femminile. Ed era anche capace, come donna, di gioire e di provare piacere fisico con gli

uomini. Durante tutti quegli anni, Elvira tenne sempre desto il rapporto con Irene che le stava molto a cuore. Questa, che nel frattempo era diven­ tata professoressa di scuola superiore, tentava ogni strada senza mai scoraggiarsi per stimolare Elvira ai più disparati interessi. In alcuni ca­ si vi riuscì, malgrado il più delle volte i suoi tentativi fallissero. Sapeva bene che solo facendo nuove esperienze, nuove scoperte, Elvira avreb­ be trovato la forza di andare avanti. Un giorno, ormai arrivata, se si può dire, al culmine della sua carriera 56

di prostituta, Elvira incontrò Christoph Hacker, un attore disoccupa­ to in preda a una grave crisi, c si innamorò di lui. Christoph Hacker aveva alle sue spalle diversi anni di attività in circuiti di provincia. A un certo punto della sua carriera aveva dovuto persuadersi che, nel suo mestiere, stava perdendo colpi. Diversamente dagli altri attori che ve­ nivano ingaggiati in città sempre più importanti e significative, lui ri­ ceveva offerte da piazze di sempre minor prestigio, cosicché non gli restava che una sconsolante constatazione, quella di non essere affatto quel grande talento che un tempo aveva creduto di essere. Una scoper­ ta indicibilmente amara, tanto_più che tutte le speranze di una vita in­ tera svanivano dall’oggi al domani. Christoph Hacker si trovava dun­ que, al momento di conoscere Elvira Weishaupt, in una fase critica della sua esistenza, situazione che gli doveva fornire ben pochi motivi per continuare a vivere in questo mondo. Ma incontrando Elvira, tro­ vò una creatura che Taffascinò dal primo momento, tanto che il sem­ plice fatto di esistere era già di per sé un buon motivo, per Christoph, per trovare un senso nella vita. Dato che la prerogativa di un legame con Christoph rappresentava già una scelta audace, Elvira, a sua volta, prima di cominciare la sua nuova relazione con lui, volle, in un certo senso, fare un atto di purificazione. Fu così che gli raccontò tutto, tutti i momenti che, a suo avviso, erano stati decisivi per lei, non tralasciando nulla, perché forse con quelle sue confessioni voleva offrire a Christoph un'ultima opportunità per non mettersi con lei. Ma nulla sembrava far desistere Christoph Hac­ ker. Così si cercarono un appartamento per provare a vivere assieme e lo arredarono per intero secondo i desideri e i criteri di lei. Elvira, comunque, conservò pur sempre il suo appartamentino, di cui aveva bisogno per lavorare. Nei primi tempi della loro convivenza, Christoph Hacker si dedicò so­ prattutto alla sistemazione della casa, e quando non aveva più nulla da fare se ne restò per alcuni mesi in un ozio completo, prima di pren­ dere la decisione di ritentare con un nuovo lavoro. Saggiò il mercato in tutte le direzioni, e poi si decise per il mestiere di agente. Ma non voleva fare il rappresentante di aspirapolveri o di riviste illustrate, vo­ leva lanciarsi nella vendita di un tipo particolare di azioni. Si trattava di titoli di credito che non potevano resistere più di un anno sul mer­ cato; ma non era difficile trovare argomenti convincenti per piazzarli. C*è sempre gente che, quando gli si prospetta rendite del 240 per cen­ to, perde la testa e ci casca. 57

Elvira aiutò Christoph Hacker in mille modi nel suo nuovo lavoro. Sia infondendogli forza e coraggio» sia fornendogli quei mezzi che sono indispensabili in questo mestiere per darsi un’immagine di rispettabili­ tà. Dopo tre anni di vita in comune, Christoph aveva già raggiunto una certa solidità professionale» e Elvira aveva un conto in banca rag­ guardevole. Ormai poteva smettere di punto in bianco di prostituirsi. Cosi Elvira visse sei anni con Christoph senza più lavorare. Svaghi e occupazioni non le mancarono, e anche F assenza di Christoph dal lu­ nedì al venerdì le sembrava poter consolidare la loro unione. Eppure, a un certo punto, le accadde qualcosa: aveva un bell’appartamento pu­ lito e ordinato» e non voleva certo tornare a frequentare i locali d’un tempo, ma neppure la cultura le bastava, ascoltar musica, leggere libri o andare al cinema che fosse, per dare quello che si dice un senso alla propria vita. Aveva provato in diverse maniere, si era comprata una macchina fotografica, ma aveva smesso ben presto di fare fotografie. Un giorno si comprò un’apparecchiatura video per girare dei film, ma anche quest’attività le faceva sentire il peso della solitudine. Un paio di volte aveva accompagnato Christoph nei suoi viaggi d’affari, ma si annoiava a passare le giornate in camere d’albergo. Era pressoché logi­ co che finisse col darsi al bere, e lo fece con sempre maggiore smoda­ tezza, ingerendo a volte anche certe pastiglie per aumentare l’effetto dell’alcool. In certi periodi era attanagliato dalla fame, un sorta di in­ controllabile avidità più che bisogno di mangiare, e non riuscendo più a frenarsi, Elvira diventò sempre più grassa, un’obesa. E fatalmente, nella stessa misura in cui Elvira si allontanava dall’immagine di donna

che si era fatto Christoph, costui aveva sempre meno voglia di tornare da lei. Passavano anche tre, addirittura sei settimane, prima che Chri­ stoph tornasse a casa. Elvira allora capì che, come donna, non aveva altre possibilità all’infuori di quell’unica, adattarsi all’immagine che si aveva di lei. Così, per semplice gioco di deduzione, le venne in mente che forse era meglio ridiventare uomo. Quella prospettiva si fece sempre più chiara e assillante, finché arrivò a non pensare ad altro. Nei periodi in cui Christoph mancava da casa aveva cercato altri uomini per passare al­ meno una notte in compagnia. Ma le riusciva sempre di meno, e visto che trovava umiliante, per una donna, pagare un uomo, le capitò spes­ so di vestirsi da uomo e comprarsi, per due minuti, con qualche trave­ stito, almeno l’illusione della tenerezza.

5S

Un film

Elvira Weishaupt, nei panni di un uomo, va con un ragazzo che batte. Casualmente quello si accorge che Elvira non è un maschio. La vergo­ gna è tanta di fronte a quella donna che il ragazzo, non sapendo far altro, la picchia. Coi vestiti laceri, sconvolta e sfigurata dalle botte, coi lunghi capelli che le escono dal berretto, Elvira se ne torna a casa per la Kaiserstrasse ed è un fantasma terrificante, un misto di donna e di uomo. Con quel poco di orgoglio e di rabbia che le è rimasta riesce ancora a cacciare due ubriachi che la prendono in giro. E quasi mattina, sta spuntando l’alba. Elvira Weishaupt varca la so* glia di casa e trova inaspettatamente Christoph Hacker, l’uomo col quale convive, che non deve essere rientrato da più di una mezz’ora. Elvira non s’aspettava di rivederlo in quell’occasione, e si presenta a lui in quell1 orribile tenuta, così malridotta. Scoppia una lite furiosa nella quale i due sfogano a vicenda le sofferenze a lungo covate. Poi all’improvviso Christoph Hacker afferra la sua valigia e vuole andarse* ne. Elvira gli sbarra il passo, non vuole lasciarlo partire, lo implora, ma lui persiste. Lo insegue giù per le scale, ma lui è più veloce. Quan­ do Elvira arriva giù in strada, lui è già salito in macchina. Elvira cerca di fermare l’auto, continua a piangere e a supplicarlo, ma Christoph parte. Elvira fa appena in tempo a scansarsi. Dall’altra parte della strada si fa avanti Zora la rossa, una prostituta amica di Elvira Weishaupt, che la aiuta a rimettersi in piedi, piange con lei e se la trascina con sé a un chiosco. Bevono assieme una birra; Elvira, piangendo, mentre racconta rabbiosamente l’accaduto, trangu­ gia una quantità enorme di salsicce. Poi se ne va in fretta, credendo che Christoph Hacker sia tornato a casa; scene di quel tipo si erano probabilmente già ripetute, e Christoph era sempre ritornato. Piena di speranza, e del desiderio di ritrovarlo, Elvira entra in casa, sicura di trovarlo lì. Ma Tappartamento è vuoto. Elvira vaga per la casa. Quel luogo all’improvviso le sembra estraneo e ostile. Poi si siede, prende un libro e legge. Si tratta di un romanzo di fantascienza, Il mondo sulfilo*. Si addormenta così, leggendo il suo libro tra le lacri­ me. Il giorno appresso Elvira è svegliata dal suono incessante del cam-

3 Welt am Drabt