Hotel a zero stelle. Inferni e paradisi di uno scrittore senza fissa dimora

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Hotel a zero stelle Inferni e paradisi di uno scrittore senza fissa dimora

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Le foto alle pagine 227 e 229 sono di Alessandro Vasari (courtesy Galleria l’Attico, Roma)

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9552-1

Indice

Breve cronistoria di quando gli alberghi non erano ancora il mio debole e di come e perché finirono per diventarlo Primo piano, la mia selva oscura, dove apprendo che la menzogna è una condizione inevitabile dell’esistenza e mi perdo nelle sue conseguenze

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stanza 101, p. 32 - stanza 102, p. 43 - stanza 103, p. 54

Secondo piano, il mio inferno, dove mi trovo costretto a fronteggiare il fantasma orrifico che mi guasta l’esistenza, lo spettro del fallimento

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stanza 201, p. 69 - stanza 202, p. 82 - stanza 203, p. 97

Terzo piano, il mio purgatorio, dove anch’io ho uno straccio d’illuminazione e scopro che la realtà non è di questo mondo stanza 301, p. 125 - stanza 302, p. 137 - stanza 303,

p. 147

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Quarto piano, il mio paradiso, dove rivendico, nella necessità di ribellarsi alla morte, un senso, seppure effimero, dell’esistere

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stanza 401, p. 173 - stanza 402, p. 188 - stanza 403, p. 202

D’altronde sono sempre gli altri che muoiono (un breve epilogo in forma d’epitaffio)

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Hotel a zero stelle Inferni e paradisi di uno scrittore senza fissa dimora

Ho un debole per gli alberghi. Mi piace tutto di questi luoghi. Per cominciare, mi piace come sono concepiti. Mi piace che siano provvisti di un ricevimento. Non importa quanto maestoso sia, questo ricevimento. Mi va bene anche una semplice scrivania con una persona dietro, come in molte guest house sparse per l’Asia. Mi piace l’idea che, entrando, sia previsto di andare al ricevimento per annunciarsi, comunicare che dovrebbe esserci una stanza riservata a proprio nome. Mi piace il condizionale, «dovrebbe», e mi piace l’espressione «a mio nome», se usati in un contesto alberghiero. E mi piacciono pure e, non poco, sia la parola «ricevimento» che la sua variante inglese «reception». E non mi dispiace nemmeno la possibilità di presentarsi senza una prenotazione e la conseguente paura di essere respinti, con cortesia ma respinti, perché l’albergo è al completo. Allo stesso modo, e per ovvie ragioni, adoro quando, dopo attimi di sospensione trascorsi cercando di sbirciare nel registro che il portiere consulta con professionale distacco, spunta una camera libera. E immagino non sia necessario precisare quanto suadenti suonino alle mie orecchie le parole «camera», «stanza», «room», «chambre» e via dicendo, nel caso in cui queste parole indichino una camera di albergo di qualsivoglia specie. Mi piace poi scoprire se la colazione è compresa nel

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prezzo della stanza e se è eventualmente possibile cenare in albergo, anche se cenare in albergo è l’ultimo dei modi in cui mi piace trascorrere una serata quando sono in viaggio. E mi piace inoltre il momento in cui mi viene comunicato il numero della mia stanza e mi viene pórta la chiave. Non mi dispiace neppure che mi venga pórta una carta magnetica al posto della chiave, sebbene le carte mi piacciano meno delle chiavi perché spesso ho dei problemi a usarle e mi succede di confonderle con quelle di credito. Mi succede pure, non so perché, di perderle o dimenticarle in stanza con più facilità delle chiavi. Per cui, tutto considerato, preferirei che negli alberghi seguitassero a porgere chiavi, anche se oggi c’è la tecnologia. Preferirei seguitare a entrare nella mia stanza alla vecchia maniera, infilando la chiave nella serratura, perché solo così riesco ad apprezzare al meglio il piacere di varcare la soglia e restare immobile per qualche istante a fissare il letto fatto, le lenzuola linde e stirate, i cuscini gonfi e sprimacciati. Mi piace constatare di quale tipo di televisore è dotata la stanza, anche se il televisore in albergo non lo guardo quasi mai. Per questa ragione posso dire che mi piacciono sia le stanze dotate di televisore che quelle senza televisore; indifferentemente. Mi piace controllare la temperatura del condizionatore e alzarla o abbassarla, se è il caso, anche se io sono uno a cui l’aria condizionata piace poco. Quando viaggio per i tropici dell’Oriente estremo preferisco le guest house agli alberghi, perché nelle prime è sempre disponibile l’opzione «stanza con solo ventilatore». Ah, quanto mi piacciono i ventilatori e il loro frullìo stanco e monotono. Mi piace controllare la presenza di tutto il necessario per il bagno; saponi, sciampo e quella roba là. Mi piace che la tavoletta del water sia fasciata dalla striscia di carta che ne garantisce la perfetta igiene, anche se non ho mai compreso come una fascetta di carta possa garantire una cosa del genere. Mi piace soffermarmi a leggere le condizioni affisse sul lato interno della porta, e in particolare mi

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piace leggere che sono tenuto a lasciare la stanza entro le ore 12 antimeridiane. Poi mi piace valutare la differenza di prezzo tra bassa e alta stagione. Mi piace studiare le piantine nelle quali è evidenziato il percorso da seguire in caso di incendio, anche se sono certo che nel panico di un incendio non sarei mai capace di seguire alcun percorso. Mi piace la solitudine delle stanze d’albergo, una solitudine speciale che è in parte tua e in parte della stanza e ti resta appiccicata addosso anche quando esci dall’albergo e giri per la città, tra gli indigeni. E mi piace una serie di altre cose che non sto qui a elencare perché sono tutte cose delle quali chiunque può avere esperienza, e comunque riconducibili allo stato di “ospite” cui si assurge dimorando in un albergo. Mi piace un sacco essere ospite. Ma solo ospite di un albergo. Essere ospite di amici invece mi mette a disagio, anche se alla fine può rivelarsi più piacevole e confortevole dell’essere ospite di un albergo. E comunque sia, preferisco sempre essere ospite di un albergo, perché, come dicevo, io ho un debole per gli alberghi.

BREVE CRONISTORIA DI QUANDO GLI ALBERGHI NON ERANO ANCORA IL MIO DEBOLE E DI COME E PERCHÉ FINIRONO PER DIVENTARLO

Prima che gli alberghi diventassero il mio debole rincorrevo altri luoghi ideali. Mi solleticava, per esempio, l’idea di un bar annegato nella notte. Meglio ancora un dipinto. Un quadro dove il bar annegato nella notte fosse ritratto di sguincio. Non molto di sguincio, però; giusto quel tanto per dare profondità. In questo quadro ideale il bar domina la scena. L’acida luce delle sue lampade si riversa sul marciapiede. Sembra un tappeto di latte. Latte andato a male. Intorno è il deserto. Non un’auto, non una persona. Le finestre degli edifici vicini sono rettangoli neri, paurosi pertugi di vuoto assoluto, simili alle cavità orbitali di un teschio. C’è un negozio sul lato opposto della strada. È chiuso, naturalmente, e non si capisce cosa venda perché nessun tipo di merce è esposta nelle sue vetrine. Forse non vende nulla. Forse non è nemmeno un negozio, ma soltanto un posto muto e buio nel quale nessuno entrerà mai. A pensarci bene, a forza di contemplare questo quadro idea­le, è il mondo intero a sembrare muto e buio. E che dire della notte in cui il mondo è annegato? È così fonda da dubitare che possa mai arrivare un’alba. Un viandante che si trovi a procedere solitario per queste strade si sentirebbe sospeso, ostaggio di un vuoto apparente. Si domanderebbe se

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tutto resterà sempre così, silente e immobile come in una città fantasma, e non troverebbe risposta. Il viandante si imbatterebbe quindi in questo bar e da fuori, dalla strada in cui si trova, si fermerebbe un istante per osservare quanto accade oltre la parete trasparente dell’ampia vetrina. Vedrebbe un cameriere in camicia e berretto bianchi rivolgersi da dietro il bancone a un avventore seduto un paio di metri più in là. Il vetro gli impedirebbe di udire cosa dice il cameriere, ma considerando l’aria assorta dell’avventore, il viandante potrebbe dedurre che si tratti di qualcosa di consolatorio, del tipo «Giornata storta, eh?». Più oltre scorgerebbe una coppia indifferente a tutto, alle parole del cameriere, all’avventore pensieroso, al bar, alla notte. La donna, in vestito rosso, gli apparirebbe assorbita in un gesto molto femminile: lo sguardo concentrato sullo smalto mentre raschia con l’unghia del pollice le altre dita della mano. Il suo compagno verrebbe invece sorpreso con lo sguardo fisso davanti a sé. Al viandante non sfuggirebbe che la mano dell’uomo, dalle cui dita pende una sigaretta accesa, è molto vicina a quella della donna, quasi la sfiora. E siccome i due non si parlano e sono persi in sé stessi e non mostrano alcuna intenzione di rompere il ghiaccio, può ragionevolmente darsi che il viandante consideri quel quasi sfiorarsi come un segno della loro infelicità di coppia. Forse i due hanno appena litigato o, peggio ancora, si sono appena lasciati e non hanno più niente da dirsi. Così come può anche darsi che non ci sia alcuna particolare relazione tra loro né alcuna infelicità se non quella di un rapporto sessuale da consumarsi in fretta e per contratto in un albergo dei dintorni. Alla stessa maniera, chi mai potrebbe escludere che quel quasi sfiorarsi e quel non dirsi niente e quello stare ognuno immerso in sé stesso sia soltanto un attimo, còlto per

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caso dagli occhi del viandante e privo di significati particolari trascorso il quale la coppia tornerà a toccarsi, a parlarsi, a intrufolarsi l’uno nelle pieghe dell’altra? Del resto, importa forse qualcosa? Quel che davvero conta per il nostro viandante cittadino è che la notte è buia e desolata, mentre l’interno di quel bar, nonostante la sua illuminazione acida, da latte andato a male, ha qualcosa di caldo, di accogliente. È come un falò avvistato in una foresta nera. Quel che conta è che lui è fuori e solo, mentre loro sono dentro e insieme. Quel che conta è che vorrebbe entrarci, in quel bar annegato nella notte. Ma non sa come fare, perché non riesce a capire dove sia la porta. La vetrina del bar corre lungo i due lati senza interruzioni di sorta, perfino l’angolo è arrotondato. Una grande lastra che sigilla ermeticamente il locale, separando il dentro dal fuori, la luce delle lampade dal nero della notte, chi guarda da chi è guardato. Naturalmente un simile quadro ideale esiste. Fu dipinto dal pittore Edward Hopper sul finire del 1941, mentre l’America veniva scossa dall’attacco giapponese a Pearl Harbor e Hitler vagheggiava di annientare Washington e New York, oltre che un discreto numero di ebrei. Un viandante che si trovasse a passare per le sponde del lago Michigan, potrebbe ammirarlo esposto nel museo che sorge nel centro di Grant Park. Nottambuli – questo il titolo che l’artista pensò di dargli dietro suggerimento della moglie Jo – è diventato quel che si dice un’icona, per cui lo si può facilmente trovare anche in moltissimi negozi, replicato sotto forma di poster o rivisitato nelle fogge più varie, inclusa un’inguardabile versione ad acquarello dell’austriaco Gottfried Helnwein in cui a vestire i panni di barista e avventori sono Elvis Presley, James Dean, Humphrey Bogart e Marilyn Monroe. Dicono ci sia stata un’epoca in cui i dormitori di ogni college d’America ospitavano una riproduzione di Nottambuli. Dico-

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no che il regista Ridley Scott sventolasse una foto del dipinto sotto al naso dei produttori di Blade Runner ogni qualvolta cercava di spiegare loro l’atmosfera che intendeva ricreare nel film. Dicono che in questa tela sia contenuto molto di più di quel che il pittore vi ha dipinto. Dicono che vi sia condensato il lato oscuro della psiche americana, la quintessenza della profonda solitudine che un essere umano prova quando si arrischia a filosofeggiare intorno al proprio posto nel mondo. Tutto ciò mi ha tolto il piacere di guardarlo; mi ha reso odiosa la sua vista. E ancor meno sopporto coloro che parlano del fascino misterioso e inspiegabile che emana. Mistero è un termine che ricorre spesso tra gli incompetenti. Quando ci si incarta in spericolate speculazioni intorno al significato di un’opera d’arte, presto o tardi salta fuori il mistero, e Nottambuli è per l’appunto il quadro misterioso per antonomasia. Quanto a mistero, solo il sorriso della Gioconda lo sovrasta. Il che è tutto dire. Io, però, non ho trovato mai nulla di così misterioso nel suo fascino. Perlomeno nel fascino che esercita su di me. So spiegare benissimo perché mi attrae. Mi piace perché avrei tanto voluto dipingerlo io. Perché ogni volta che lo vedo mi viene da dire: Eh no, caro il mio signor Hopper, così non vale. Lei mi ha fregato l’idea. Quel quadro lo avevo dentro di me e avrei finito di certo per dipingerlo se non mi avesse battuto sul tempo. E non è da escludere che ne avrei cavato un’opera migliore della sua. Le cose non stanno proprio in questa maniera, ovvio. È assai probabile che se non ci avesse pensato il vecchio Hopper, i negozi di poster non disporrebbero di un articolo molto richiesto e Ridley Scott non avrebbe saputo dove sbattere la testa al momento di far capire ai produttori il genere di film che aveva in animo di girare. Ma non importa. Non è questo il punto.

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Quando io penso a Nottambuli ragiono come un artista, come il pittore che volevo diventare da ragazzo. E i pittori, nessuno escluso, ragionano così. Vedono un quadro e, se gli piace, la prima cosa che pensano è: Fanculo, volevo farlo io. Il buon senso di considerare che non dispongono del talento necessario o che l’idea all’origine di quell’opera è quanto di più lontano dalla loro potenzialità nemmeno li sfiora. Non c’è nulla di biasimevole in ciò. È puro istinto di sopravvivenza. Se un artista non facesse simili elementari e protervi ragionamenti resterebbe quasi certamente schiacciato dalla grandezza dei capolavori realizzati prima di lui. Il vero mistero è come si possa osare tanto, ma anche questo è un mistero che si può spiegare. Quante volte vi è toccato di udire che un dato artista ha subìto l’influenza di un altro artista? Non prestate ascolto. Sono balle, sofismi. Quel che nell’esegesi critica si definisce influenza andrebbe più correttamente chiamato «riappropriazione debita». Gli artisti non fanno che riprendersi ciò che credono loro. Per questo nei confronti dei colleghi che li hanno preceduti provano sentimenti contrastanti: una sincera e commossa ammirazione, mista alla rabbiosa convinzione di essere stati defraudati. Una persona normale, vale a dire chi si accontenta della condizione di spettatore, non conosce simili patimenti. Trae godimento dall’arte perché la guarda come fosse uno specchio. In parole povere, si identifica. Vi riconosce sé stessa o il mondo in cui vive. Certe volte addirittura entrambi, e certe altre volte prova l’ebbrezza di scoprire qualcosa di sé o del mondo, qualcosa che non aveva mai considerato. È per questo che si è sparsa l’infondata voce per cui il senso dell’arte sarebbe farci vedere il mondo con occhi nuovi. Anche i pittori guardano ai quadri altrui come fossero uno specchio. La differenza è che non ci vedono riflessi né il mondo né sé stessi, bensì il modo in cui vorrebbero rappresentare

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queste due cose. In altre parole, non sono loro a identificarsi ma l’ambizione che li muove, ciò a cui cercano di dar forma. Può sembrare contorto, mi rendo conto. Tuttavia non c’è nulla di più semplice. È come se, nell’instabile superficie dell’acqua, Narciso vedesse riflessi non i lineamenti del suo volto bensì i pensieri che sente di pensare pur non riuscendo a tradurli in parole. Si impone ora che riveli cosa mi sottrasse Edward Hopper dipingendo quel bar annegato nella notte. La faccenda risale a certi malinconicissimi pomeriggi domenicali della mia infanzia. Sul calare della sera, quando le partite di calcio erano ormai finite e il tempo non consentiva un’escursione al parco, capitava che i miei genitori sollazzassero me e mio fratello con una passeggiata per il quartiere. Nulla di particolarmente eccitante per un bambino, come è facile immaginare. Per giunta, in quegli autunnali giorni di festa, non era raro che i genitori litigassero o discutessero o si immusonissero per qualche loro motivo, rendendo l’atmosfera più opprimente di quanto già non fosse di suo. Parrà strano, ma la sola attrattiva che mi offrivano quelle desolanti camminate erano i negozi d’arredamento, assai numerosi, forse per via del fatto che vivevamo in un quartiere di famiglie piuttosto abbienti o, per dirla con un po’ di risentimento sociale, un quartiere col quale c’entravamo assai poco. La vista di quelle case in vetrina mi incantava. Soggiorni magnificamente ammobiliati, stanze da letto linde e accoglienti. Ad affascinarmi non era la qualità degli arredi, il design raffinato. Ero troppo piccolo per apprezzare simili cose. Quel che trovavo meraviglioso, di una bellezza quasi consolatoria, era l’ideale che esprimevano. Non avevo visto molte abitazioni oltre al modestissimo appartamento in cui vivevamo allora, ma mi rendevo conto che case come quelle potevano trovarsi soltanto nei negozi. Qualcuno avrebbe potuto acquistare un

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divano o un letto o una lampada o magari tutti gli articoli esposti, ma una volta trasferite in un vero appartamento quelle stanze avrebbero perso la loro magia. Soltanto lì, infatti, sigillate in pareti trasparenti, non sporcate dalle macchie sul tappeto, dalle bruciature di sigaretta sul divano, dalle beghe familiari; solo al riparo dalla contaminazione umana, avrebbero potuto conservare il loro ordine, la loro immacolata, disabitata perfezione. Erano belle perché erano sospese in una virginale immobilità. Perché quantunque solide e concrete, fatte di veri mobili, non erano veramente reali. Perché non erano vere case, bensì promesse di case, simulacri di luoghi dove poter stare bene, al caldo e forse anche felici. In questo non erano poi tanto diverse dai sogni, e proprio per questo mi piacevano. Immagino le considerassi alla maniera in cui in passato ci si emozionava per un paesaggio di sapore arcadico. Se ne potrebbe dedurre che fossi un bambino impaurito dalla vita, ma su questo tornerò a tempo debito. Per il momento conta soltanto dire che la vista di quelle vetrine è all’origine della mia passione per la pittura. Non mi sono mai più discostato dalla loro perfezione da acquario e quando cominciai a uscire dall’Italia, dove gli interni degli edifici sono sempre protetti da tende, e scoprii che esistono città del mondo come Amsterdam o New York nelle quali non soltanto i mobili ma anche le persone sono in vetrina, il mio quadro idea­le divenne per l’appunto un bar annegato nella notte. Io al di qua di un muro trasparente che osservo una ragazza seduta nell’al di là del vetro. Sorseggia il suo caffè incurante del fatto che i passanti possano vederla ed è straordinariamente bella, non perché sia una bella ragazza ma perché è lì dentro, sigillata nella perfetta atmosfera di una grande scatola di vetro, perché inaccessibile come i mobili dei negozi d’arredamento, come il bar senza porte del quadro di Hopper.

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Il destino mi ha risparmiato l’imbarazzo di biasimare Edward Hopper per il furto del bar annegato nella notte. Le mie ambizioni d’artista sono infatti morte sul nascere. Intorno al venticinquesimo compleanno, terminati gli studi, assolti gli obblighi di leva, constatai mio malgrado che non sarei mai diventato un grande pittore. Nei sospirosi anni trascorsi all’accademia non avevo fatto altro che immaginare successi. Vedevo le quotazioni dei miei quadri salire alle stelle. Mi crogiolavo all’idea delle schiere di collezionisti che avrebbero fatto carte false pur di mettere le mani su un mio dipinto, anche piccolo. Al consenso dei critici pensavo poco. Non che disdegnassi la gloria pura e nobile della posterità. Amavo sinceramente la pittura e aspiravo a dipingere quadri che fossero belli oltre che costosi. Ero però vittima del mio tempo, e il mio tempo erano gli anni Ottanta, un decennio che dovrà essere ricordato come il più insulso e diseducativo della storia recente, nonostante il nefasto virus della nostalgia induca molti a riconsiderarlo in termini più indulgenti, a riabilitarne la sua sottocultura, a dire: «Ma in fondo non era mica brutto Drive in. E poi, ha rivoluzionato la televisione». In quel tempo di riflusso e abominio, l’arte contemporanea aveva cominciato a diventare alla moda. Gli artisti conseguivano il successo in giovanissima età. Vestivano Comme des Garçons, a volte sfilavano persino come top model. Giravano in limo. E io mi ero fatto l’idea che essere artisti significasse automaticamente essere pagati centomila dollari a quadro. Le storie di pittori che pativano la fame in gelide soffitte mi parevano roba ottocentesca, preistoria che non mi riguardava. Ricordo distintamente il giorno in cui un artista si presentò negli studi dove allora lavoravo come assistente, a Roma, nel quartiere San Lorenzo. Aveva fatto una capatina, era passato a visitare gli amici, i colleghi, per sfoggiare il suo recentissimo fiammante acquisto, una Porsche bianca nuova di pacca,

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come si dice. Aveva appena trentacinque anni e non era nemmeno famoso come Schnabel o Basquiat. Eppure eccolo lì, a pavoneggiarsi coi frutti della sua arte, che non sarebbe mai passata alla storia. «Se c’è riuscito lui...», mi dicevo. «Dammi solo qualche anno e pure io...». Non era la fuoriserie in sé; di macchine e moto non mi importava nulla. Era quello che rappresentava. Era l’affermazione che simboleggiava, la rivalsa. Gli artisti, a prescindere dal talento, tendono a convincersi di essere in forte credito col mondo, e aspettano solo il momento di dimostrare a tutti che sono stati finalmente ripagati con gli interessi. E che interessi. Può essere una Porsche come qualunque altra cosa: una casa in Toscana, scarpe conciate su misura, ingenti somme sperperate all’ippodromo. Non avevo ancora stabilito quale fra le tante possibilità si confacesse meglio alle mie attitudini. Magari nessuna, ma qualcosa mi sarei inventato. Insomma, mi ero messo in testa una notevole quantità di idiozie. Non so se l’imprevista e tormentata decisione che presi di lì a breve possa considerarsi una sorta di ravvedimento. So soltanto che la presi. Era primavera, il che rese tutto più impietoso. Davanti a un mio dipinto da poco terminato, compresi che quanto andavo facendo era per me privo di significato e non vedevo motivo perché dovesse averne agli occhi del mondo. Non si trattò di una vera e propria folgorazione. Il pensiero mi aveva già sfiorato più volte, ma soltanto quel giorno si manifestò prepotente nelle sembianze di una lastra di metallo scuro e duro che, calando dall’alto, mi ostruiva il passaggio, non mi lasciava altra possibilità che desistere. Divenni cupo e rancoroso. A lungo desiderai che anche i miei amici smettessero di dipingere. Mi adoperai per convincerli. Li lavorai ai fianchi. Ne studiavo i punti deboli, le insicurezze. Poi affondavo. Non vedi quant’è falso il tuo lavoro? Come puoi pensare che l’Arte abbia bisogno di quadri simili? Non

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la mettevo in questi termini, ovviamente. La mascheravo con giri di parole. Mi scoprii un critico abilissimo. Ero capace di stroncare un’opera nei modi più melliflui e soavi. Nei giorni in cui l’umore era meno nero del solito, imbastivo discorsi d’ordine più generale. Risparmiavo l’amico e mi dedicavo ai massimi sistemi, allo spirito dei tempi, allo stato delle cose: uno stato che rendeva inutile, finanche nociva, la produzione di opere d’arte. La conclusione che invitavo a soppesare era sempre la stessa, però: fare come me, mollare. I miei amici non la prendevano bene. Perché cazzo mi dici queste cose? mi dicevano. Li capisco. Mi meraviglio solo che non mi abbiano mai dato un pugno. Capisco anche me, però. Da un giorno all’altro ero diventato niente. Se anche i miei amici lo fossero diventati avrei potuto sopportarlo. Magari ci avrei trovato addirittura qualcosa di bello e rilassante nella prospettiva di vivere come una nullità. Restare nell’ombra, fare un lavoro anonimo e routinario, incontrare una ragazza qualunque, la mia nullità gemella, innamorarmi di lei alla maniera delle persone ordinarie, disinnamorarmi, sempre alla stessa maniera, e poi sposarmi. Pensa che pacchia, che pace: non doversi più preoccupare di cambiare la storia dell’arte, non soffrire più l’angoscia di dover partorire capolavori. Avrei potuto assaporare le semplici gioie di una serata in pizzeria con gli amici e una volta diventato padre avrei scoperto il vero senso di tutto: riprodursi, perpetuare la specie. Era forse una prospettiva indegna? Una parte di me, la più accomodante, era pronta ad affermare che non lo era affatto, non avesse dovuto rendere conto all’altra parte, la più ostinata, che guardava a quella prospettiva con gli occhi del condannato a morte. Questa parte diceva: va bene, mi arrendo, ma almeno che non tocchi solo a me; che almeno uno dei miei amici mi segua in questa triste strada. Una pretesa meschina. E inutile, per giunta. Quale sollievo avrei potuto

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ricavarne? Muoia Sansone con tutti i filistei? Mal comune mezzo gaudio? Per squallida che fosse, la verità è che da solo sentivo di non farcela. Gli amici cominciarono a trovarmi infrequentabile. Mi diedi alla lettura. Lessi Cuore di tenebra. Lessi La terra desolata. Li rilessi entrambi più volte. Li imparai a memoria. Tenebre e desolazione mi erano di conforto. Anche Il critico come artista di Oscar Wilde era un buon farmaco, specialmente quella breve nota in cui si esalta l’importanza del non far niente. Perché ormai ero diventato un esegeta del nulla, in qualunque sua manifestazione. Ero un esaltatore di buchi. Un ammiratore incondizionato dei pozzi senza fondo. Amavo le voragini, gli abissi. Bellezza, per me, era sinonimo di vuoto. Finché concepii un’impresa folle. Un progetto che battezzai così: Perforatore del geoide. Consisteva nell’individuare un sito di questo nostro derelitto pianeta. Avrei perimetrato il sito con una staccionata e mi sarei accampato al suo interno con tenda, sacco a pelo, badili, picconi e il resto necessario. Poi avrei cominciato a scavare. Scavare senza posa. Penetrando nelle viscere della terra. E non per trovare petrolio o minerali preziosi o tesori sepolti o fossili di creature estinte. Solo per scavare. Avrei scavato fin quando ci fosse stata terra da scavare. Avrei scavato fino a sbucare agli antipodi. Questa era l’idea: perforare il geoide da parte a parte. Praticare il foro più profondo che sia possibile praticare. Bucare il mondo. Nel frattempo mi fu offerto un lavoro, e come potevo rifiutare ora che la prospettiva di diventare miliardario con la pittura era tramontata per sempre? Peraltro, non si trattava di un lavoro qualunque bensì di un posto come direttore in una galleria d’arte contemporanea, anche se forse «direttore» è una parola grossa. In sostanza, facevo il tuttofare, esattamente il nulla a cui ardentemente aspiravo. Attaccavo i quadri alle

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pareti, attaccavo i francobolli sugli inviti alle inaugurazioni, attaccavo discorso coi visitatori per cercare di capire se erano intenzionati a comprare qualcosa. Ripensandoci, facevo l’attaccatore. Sussistevano tuttavia le condizioni perché potessi contentarmi. Lo stipendio era niente male. La galleria, importante. Ci transitavano gli artisti più famosi del momento. E poi stilisti, grossi imprenditori, qualche politico e persino un paio di star di Hollywood. Richard Gere mi chiamava per nome. Simili luminescenti frequentazioni non giovarono però al mio umore. Persistevo nelle mie inclinazioni ombrose e mi rodevo il fegato alla maniera in cui avrei voluto perforare il geoi­de. Un giorno la misura fu colma e, incoraggiato dal principiare di quella novella di Conrad dove si parla di momenti che soltanto i giovani possono avere, momenti in cui «chi è ancora giovane è disposto a commettere azioni sconsiderate, quali maritarsi d’improvviso oppure gettare via un impiego senza ragione», gettai giustappunto il mio impiego di direttore, o attaccatore che dir si voglia, e col denaro messo da parte, circa sei milioni del conio di allora, partii per New York. Meditavo di trovare prima una casa, poi un lavoro, poi una nuova vita e magari persino la perduta vocazione d’artista. L’isola dei Manhattanesi era il centro di tutto: c’era forse posto migliore per ritrovarmi? I miei pensieri di allora si mischiano ai tanti modi in cui li ho rievocati nei miei ricordi, per cui non posso affermarlo con certezza, tuttavia credo che in un cantuccio del mio cervello bacato avessi valutato che sarebbe stato un buon luogo anche per sparire. Non avevo amici di vecchia data laggiù, sarei stato uno dei tanti che si giocano le proprie carte. Se avessi fallito nessuno si sarebbe curato di me. Mi sarei confuso tra la folla senza l’obbligo di vergognarmi o spiegare alcunché. Stavo interpretando un classico: la fuga da sé stessi.

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Nel tempo, peraltro non breve, trascorso a New York non ripresi i pennelli in mano neppure per sbaglio. Seguitavo a dipingere, ma solo per lavoro. Ero diventato l’assistente prediletto di Jonathan Lasker, un artista i cui quadri, in postmoderno bilico tra pop art ed espressionismo astratto, riscuotevano discreti apprezzamenti a Soho. Il mio compito consisteva nel riprodurre su tele di enormi dimensioni grovigli di scarabocchi formato bloc notes che Jonathan realizzava stando comodamente in casa, spesso al mattino, all’ora di colazione, tra un succo d’arancia e un uovo fritto. La mia riproduzione doveva essere meticolosa e priva di sentimento, così da ottenere un effetto simile a quello che si sarebbe potuto conseguire con un ingrandimento fotografico. Un lavoro da amanuensi che richiedeva freddezza e pazienza nel quale, con sorpresa sia mia che di Jonathan, riuscivo piuttosto bene. Causa di non minore stupore fu per me la serenità, oserei dire la gaiezza, con cui mi ci dedicavo. Praticando quell’attività meccanica, la testa mi si svuotava, le ore volavano e ogni sera me ne tornavo a casa soddisfatto di me, col cuore leggero: una sensazione che mi sembrava di non aver mai conosciuto prima. Le sole turbolenze che mi agitavano erano ormai scatenate dall’universo femminile. In un simile stato d’animo, tutto sommato positivo, difficilmente poteva risorgere in me l’ambizione di cambiare il mondo con la pittura. Difatti non risorse. Di tanto in tanto il pensiero mi accarezzava, certo, e quando accadeva ricordavo a me stesso, senza molto insistere in verità, la ragione per cui mi ero trasferito a New York. Me Stesso replicava facendo sì con il capo, ma non dava segni di grande sensibilità al problema. Aveva piuttosto l’aria di non voler essere seccato, perché facendo cenno di sì soffocava a stento un grugnito, come a dire: Sì, vabbè, poi ci penso. Semmai mi verrà voglia di pensarci. Il pittore che era in me poteva dichiararsi ufficialmente

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deceduto e la sua dipartita non mi addolorò più di tanto. Seguitai nelle mie occupazioni quotidiane: ricopiare scarabocchi dal tramonto all’alba, flirtare per feste e locali dalla sera al morir della notte. Finché un giorno acquistai una macchina da scrivere elettronica. Non so ben dire cosa mi spinse. La vidi nella vetrina di un negozio e mi sembrò un bell’oggetto da possedere, così l’acquistai. In casa, un piccolo monolocale tra la Ventesima e Fifth Avenue, non c’era nulla, a parte la cucina e un futon, per cui fu molto naturale iniziare ad usarla. Di sicuro era qualcosa che avevo sepolto in me. Le parole mi erano sempre piaciute e anche negli anni in cui mi dedicavo alla pittura non era raro che mi perdessi in lunghi discorsi su ciò che meditavo di fare e perché. Mi succedeva di ragionare e parlare a tal punto dei miei quadri che questi non potevano reggere il confronto: una volta dipinti, non erano che la smunta copia delle mie parole. Il guaio è che avevo fatto un giuramento. C’era una professoressa in accademia: era vedova e in memoria dell’adorato marito esibiva perennemente golfini e gonne nere. Da buona francese, teneva lezioni di filosofia e antropologia culturale fregandosene che era pagata per insegnarci storia dello spettacolo. In molti la consideravano una squinternata. Il primo anno ci fece leggere Omero, solo Omero. In classe versammo tutti calde lacrime sulle pagine dell’Iliade, anche se ci domandavamo quando avremmo cominciato ad affrontare la questione teatro. Il secondo anno se ne andò sviscerando la complessa nascita del concetto di persona nella civiltà occidentale, ma a quel punto nessuno si chiedeva più che fine avessero fatto lo spettacolo e la sua storia. Del resto, la piega esoterica del corso aveva determinato una lenta ma inesorabile moria di studenti. All’inizio del terzo anno eravamo rimasti in pochi, una manciata di fedelissimi a cui lei apriva volentieri le porte di

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casa per lezioni private e consulti di vario genere. Le aprì anche a me e fu come entrare in una specie di deposito di Paperon de’ Paperoni, solo più buio e con cataste di libri e carte polverose al posto delle dorate colline di monete. Non c’era più spazio per fare alcunché. Da quel che mi era dato di vedere non si poteva né scrivere né mangiare né posare un mazzo di chiavi poiché ogni superficie disponibile era stata invasa dai libri. Pile pericolanti erano abbarbicate su sedie e poltrone: nemmeno sedersi era possibile. L’evento che mi turbò ebbe luogo nella cucina in cui la professoressa mi condusse muovendosi alla maniera di un topo nel suo habitat naturale. Ero andato da lei per prendere un libro e caso voleva che il libro che dovevo prendere si trovasse giustappunto in cucina. Così, a un tratto, come nulla fosse, lei aprì lo sportello del forno e si chinò per scrutarne l’interno. Mi spiegò che il mio libro era probabilmente lì dentro. Mi chinai anch’io e mi toccò constatare che il forno era stato adibito a biblioteca di fortuna. Con tutta l’ammirazione che avevo per quella donna e tutta la gratitudine per il modo in cui mi aveva dischiuso la mente su tante questioni, non potei trattenermi dal provare un moto che non esito a definire di schifo. Nel preciso istante in cui la professoressa mi porse il volume estratto dal forno, giurai a me stesso che non sarei mai diventato così, e il semplice prendere in considerazione, anche per mera via ipotetica, l’eventualità di dedicarmi alla letteratura lo giudicai all’istante un primo passo verso l’abiezione e dunque da reprimersi a ogni costo. Ma è andata come è andata. Nel giro di pochi anni mi ritrovai a comprare una macchina da scrivere elettronica. E la usai anche, e a poco a poco giunsi a osservare il mondo in forma di storie e racconti invece che di linee e colori. A chi mi facesse visita oggi si presenterebbe uno scenario non molto diverso da quello che trovai in casa della mia insegnante francese, e se non conservo libri nel forno lo

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devo soltanto alla decenza di non essermi mai dotato di un simile dispositivo domestico. Che senso dare a tutta questa storia? Forse che non si sfugge al proprio destino? È una possibilità che sarei disposto ad ammettere se questa parola comoda e consolatoria, destino, non dicesse molto meno di quel che promette. Dici «Era destino» ed è come abbia detto tutto quando invece non hai detto niente. Io credo in due cose. Credo nell’uomo, nel suo libero arbitrio, e credo nell’impossibilità di cavare sangue dalle rape. È dall’incontro tra queste due cose che il più delle volte scaturisce ciò che chiamiamo destino. Modellarci alla maniera che vogliamo non ci è precluso in assoluto, ma ciò non ci esime dal fare i conti con il blocco di creta che abbiamo in dotazione, ovvero con quel che siamo. Prendiamo il mio caso: ero intenzionato a modellarmi nei panni del pittore ma il mio blocco di creta era più incline ad acquistare una macchina da scrivere. A lungo andare la creta ha preteso di essere modellata secondo la sua natura. Pare facile, ma quel che siamo è spesso nascosto alla maniera della lettera rubata di Poe. La rapa è lì, sotto i nostri occhi, ma non la distinguiamo proprio perché è lì, in bella evidenza. Eppure quella rapa, nel suo piccolo, è quel che ci fa individui. Al suo interno non c’è sangue, ma qualcosa di non meno prezioso che un orientale chiamerebbe karma e un occidentale destino. Il karma della rapa è l’immagine che nascondiamo in bella mostra nel cuore e verso la quale, anche senza rendercene conto, finiremo per tendere. Occorre tempo per scoprire qual è la propria immagine e questo perché il karma di una rapa è fatto di mutevolezza. Pur restando sempre dov’è, cambia forma, adeguandosi, negli anni, alle circostanze. Qualche anno fa mi capitò di intravedere la mia immagine in una breve recensione di un romanzo che avevo pubblicato da poco e al quale mi ero particolarmente

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affezionato. Il critico, in effetti un collega dedito alla narrativa sentimentale per signore borghesi e attempate, trovava che il mondo che andavo descrivendo fosse oltremisura corrivo; lo dimostrava, a suo dire, la reiterata presenza di motel e stanze d’albergo nelle mie pagine. Sul momento mi stizzii, ovvio. Perché mai un hotel dovrebbe essere un indizio di cattiva letteratura? Mi contrariai al punto di prendere in considerazione l’idea di scrivere, per puro dispetto, un romanzo interamente ambientato in un albergo, cosa che qualche tempo dopo feci per davvero. Il risentimento era tuttavia sproporzionato: in fondo, si trattava di appena due righe buttate giù a casaccio per una rivista femminile colma di pubblicità di assorbenti e biancheria intima. La mia reazione denunciava un nervo scoperto, che infatti finii per individuare. Gli alberghi non sono che la versione letteraria di una mia ossessione perduta: il bar annegato nella notte che avrei dipinto se fossi diventato pittore. E l’immagine del bar era a sua volta il prodotto di qualcosa che risaliva all’infanzia: le stanze d’albergo erano per me così importanti perché evocavano le camere e i salotti allestiti nelle vetrine dei negozi d’arredamento. Li accomunava l’atmosfera di precaria immobilità, un misto di accoglienza ed estraneità, il sentirsi al contempo in casa e fuori posto, accuditi e abbandonati a sé stessi, insieme e soli. Tra i tanti alberghi che ho visitato, un angolo speciale del mio cuore se l’è conquistato un postaccio di Tel Aviv. Si trova in pieno centro, alle spalle di quel vialone serpeggiante e rumoroso chiamato Allenby che segna il confine sud della città. A due passi c’è Shenkin, strada molto alla moda, piena di locali pretenziosi, tra cui, un tempo, il Conceptual Bar, dove pagavi per non prendere nulla. Cioè, ordinavi, che so, un caffè, e ti arrivava una tazzina con tanto di piattino, cucchiaino

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e zuccheriera. Il lato concettuale della faccenda, ovverosia il nulla, consisteva nel fatto che tazzina e zuccheriera erano vuote. Il bar è andato fallito nel giro di un paio di mesi, da quel che ricordo, ma Shenkin è rimasta la strada migliore della città, ammesso che non si disdegni di stare in mezzo a giovani in posa conciati all’ultimo grido. È anche un buon posto per sapere tutto dell’India e di esperienze psichedeliche, perché vi vedi ciondolare transfughi appena rientrati da Goa con la testa ancora in orbita. A sciamare tra la gioventù, stralunata o in ghingheri che sia, compaiono di tanto in tanto sperdute frotte di pinguini – come vengono chiamati qui gli ebrei ortodossi – coi loro pastrani neri, le camicie bianche, le basette arricciolate, le nappe che penzolano all’altezza dei fianchi; un contrasto niente male con le giovani soldatesse della Tzva HaHagana LeYisra’el che, mitra in spalla, il venerdì sera, all’inizio dello Shabbat, gironzolano per le boutique provando vestitini o costumi da bagno. Il mio postaccio si trovava vicino e ai margini di tutto questo, in una stradina laterale. Da fuori l’impressione non era granché e l’interno era pure peggio. Ad accogliere il perplesso avventore, l’unico dipendente dell’albergo, se albergo vogliamo chiamarlo. Costui era un uomo maturo, zoppo e guercio – non scherzo – con un’aria nel complesso per nulla rassicurante. Indossava soltanto un paio di pantaloni corti, se non vere e proprie mutande, ed era la persona più scortese che abbia mai incontrato. A parte ciò, lo si poteva considerare un brav’uomo, un greco entrato in Israele grazie alla Legge del Ritorno. I turisti capitavano nel suo albergo per via della Lonely Planet, che assicurava stanze a prezzi decisamente concorrenziali. Restavano però interdetti nell’imbattersi in un concierge con tutti gli attributi dell’omicida seriale. Prendevano tempo, si guardavano attorno, poi domandavano quante stelle avesse l’albergo. Lui, risoluto, scorbutico, minaccioso, si beava di rispondere sem-

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pre alla stessa maniera: «Here no star. If you want the stars go to the sky». Doveva aver letto Dante senza saperlo, quell’uomo, perché al suono delle sue parole, senza pensarci due volte, la maggior parte dei turisti scappava via, fuori, a riveder le stelle. Io, che con quel genere di inferni ci vado a nozze, non mi sono fatto spaventare. Non funzionava niente là dentro. Le stanze erano dotate di un piccolo lavabo lercio e spaccato dal cui rubinetto usciva, tra mille rumori, un filo d’acqua rugginosa. Dire che le pareti erano scrostate non renderebbe l’idea, diciamo dunque che somigliavano a un’opera di Burri. Accendere il ventilatore, ammesso che si accendesse, era sconsigliabile: batuffoli neri si alzavano in volo vorticando come pipistrelli furiosi e rendevano l’aria irrespirabile. La sera il concierge era solito godersi il fresco seduto in mutande in una piccola terrazza da dove era possibile contemplare un cielo pieno di quelle stelle che l’albergo era orgoglioso di negare ai suoi ospiti. Qualche volta mi intrattenevo con lui prima di uscire, prima di tuffarmi nella dolce vita di Shenkin. Mi raccontava storie della sua Grecia e di quando Israele era un paese tutto da costruire. A me veniva da pensare che ogni angolo di Tel Aviv dovesse essere un po’ come il suo albergo, a quei tempi. È qualche anno che non capito più in Medio Oriente, per cui non so se esista ancora. Dubito; posti tanto meravigliosi tendono a scomparire, è una legge di natura. Non ricordo nemmeno come si chiamasse. Ma non mi sorprenderebbe che non l’avesse affatto, un nome. Del resto, importa forse qualcosa? Per me è sempre stato, e sempre resterà, l’hotel a zero stelle, ovvero il mio albergo ideale i cui ospiti tipo dovrebbero essere i vagabondi dell’anima, coloro che ancora gironzolano alla ricerca di sé, senza troppa arte né parte. In questo albergo non poco scalcinato si può stare fin quando si desidera, perlomeno fintanto che non si è compreso

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quale tipo di sangue cavare dalla propria rapa. L’ospite può starsene chiuso in camera, come in un sanatorio, leggendo o riflettendo sul proprio passato o su cosa intende fare del proprio futuro. Se ne ha voglia, può scendere dabbasso e scambiare quattro chiacchiere con il portiere tuttofare dell’albergo, che ha sempre qualcosa da dire, qualche lezione di vita da impartire. Inoltre, diversamente dai normali alberghi, l’ospite può esplorare l’edificio dal piano terra sino al tetto, dal quale è possibile ammirare un magnifico cielo stellato nelle serene notti di luna nuova. Può persino bussare alle stanze degli altri ospiti, i quali, essendo vagabondi dell’anima anch’essi, saranno più che felici di accoglierlo e scandagliare in sua compagnia il senso dell’esistere e le relative questioni, che sono poi la chiave per orientarsi nel mondo all’esterno, spesso assai meno inospitale di questo speciale albergo. Solitamente, un buon albergo a zero stelle si compone di quattro piani perché così vuole il mito della conquista di sé, articolato, come noto, in quattro fasi. Alla maniera del viaggio dantesco lungo i regni ultramondani, il viandante in cerca di sé passa dallo smarrimento iniziale in una qualche selva oscura a tre fasi successive più o meno assimilabili a inferno, purgatorio e paradiso. È una struttura che ricorre in moltissime storie e leggende, anche se ogni leggenda fa un po’ storia a sé, perché ognuno ha il suo modo personale di perdersi così come ha un proprio inferno, un proprio purgatorio, un proprio paradiso. C’è un primo piano, nel quale l’ospite è ancora spaesato e incerto su cosa fare. E un secondo piano dove lo smarrimento si popola di mostri. E un terzo piano in cui l’ospite cerca la forza di reagire e prende le misure di ciò che lo circonda. E un quarto piano in cui l’ospite raggiunge una forma di consapevolezza che gli consente l’accesso al tetto dal quale tornare a vedere un po’ di luce, quelle stelle che l’albergo non ha.

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PRIMO PIANO, la mia selva oscura, dove apprendo che la menzogna è una condizione inevitabile dell’esistenza e mi perdo nelle sue conseguenze

Benché nella mia famiglia si sia sempre dato scarso credito alle faccende di religione, ho avuto la ventura di trascorrere parte della mia fanciullezza in una scuola rigidamente cattolica. Ogni sabato mattina si presentava in classe un parroco munito di gessi colorati. Con quello rosso, nell’angolo in basso a destra della lavagna, disegnava fiamme e forconi, le pene dell’inferno. L’angolo opposto, quello in alto a sinistra, era naturalmente dominio delle nuvole, la celestiale beatitudine del paradiso. Gli antipodi venivano poi uniti con una linea retta che attraversava diagonalmente la lavagna. Era una linea per metà rossa e per l’altra metà azzurra: rappresentava la strada della vita. Noi esseri umani, nella fattispecie io e i miei compagni di prima elementare, un po’ come Dante, ci ritrovavamo posti nel mezzo del cammino: nella sgradevole e tormentosa posizione di decidere se imboccare la via rossa, abbandonandoci così a una agevole discesa che conduceva alla dannazione eterna, o inerpicarci invece per la salita azzurra che ci avrebbe compensato di tante fatiche aprendo le porte della salvezza. Tra i vari passi, che noi aspiranti angioletti eravamo chiamati a compiere lungo questa salita, c’era la cosiddetta santificazione delle feste. E qui mi si parò subito un ostacolo insormontabile. Mio padre, infatti, di portarmi a messa la do-

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menica, non voleva neanche sentirne parlare. Riteneva fosse un’inutile perdita di tempo. Succedeva così che all’inizio di ogni nuova settimana ero sottoposto a una umiliazione tremenda. Come prima cosa, ogni lunedì mattina, la maestra si sincerava infatti che avessimo messo in pratica le direttive del parroco. Io, col candore dell’infanzia, ammettevo che in casa nostra l’abitudine di recarsi in chiesa non era contemplata. Al che la maestra avvampava, additandomi quale pericoloso e cattivissimo esempio di bambino miscredente e senza Dio. I miei compagni, anziché darmi conforto, ci mettevano del loro e la feroce emarginazione cui mi trovavo soggetto fece nascere in me lo sconsiderato desiderio di diventare un fervente cattolico. Spiegai il problema a mio padre. Lo pregai di portarmi in chiesa la domenica. Ma lui niente: non vedeva dove fosse il problema. «La prossima volta non dire alla maestra che non vai a messa e vedrai che tutto si sistema». «E cosa le dico allora?». «Semplice, le dici che ci sei andato». «Ma è una bugia!», feci io allarmato. Non ricordo con esattezza la replica di mio padre, ma dovette trattarsi di una lezione di relativismo culturale sul modello di Homer Simpson, sebbene quel genere di cartoni animati fosse all’epoca di là da venire. Comunque sia il lunedì successivo, forte dell’autorizzazione paterna, a domanda della maestra – «Sei stato a messa?» – risposi: «Sì, ci sono stato». Nemmeno per un secondo potei gustarmi la sensazione di essere finalmente diventato un bambino cattolico come tutti gli altri, perché un nuovo interrogativo calò sul mio piccolo capo come una mannaia. La maestra, evidentemente insospettita dal mio inatteso ravvedimento, mi chiese a bruciapelo: «E sentiamo, che Vangelo hanno letto domenica?».

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Io sprofondai. Balbettai qualcosa di inintelligibile e fui additato quale esempio doppiamente cattivo. Non bastava che fossi un bambino senza Dio: ero diventato anche uno sfacciato mentitore. Nonostante la mia giovanissima età ebbi il buon senso di tacere che a iniziarmi a simili inqualificabili stratagemmi era stato mio padre. D’altra parte, le lezioni di relativismo culturale impartitemi in famiglia mi inducevano a non considerarmi un mentitore in senso stretto. Chi è infatti un vero bugiardo? Colui che mente non potendo fare diversamente, che era giustappunto il mio caso, o colui che può scegliere in piena libertà cosa dire, se il vero o il falso? Naturalmente la questione era parecchio più complessa di come me la dipingevo. Quando si è bambini l’aspetto morale dei problemi è tutt’altro che scontato. Veniamo precocemente educati a distinguere tra il bene e il male, tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, ma ci vogliono molti anni e vagonate di esperienze più o meno traumatiche prima che simili elementari concetti si radichino nella nostra coscienza come valori autenticamente sentiti. Nella mia mente poco plasmata verità e menzogna erano allora pure astrazioni. Certo, mi rendevo conto che affermare il falso significava imbrogliare il prossimo. Tuttavia quel che davvero avvertivo era il conflitto tra la necessità di arrangiarsi con le parole e gli effetti spesso inaspettati e devastanti che questi aggiustamenti sortivano. Qualcosa di molto pratico e immediato, insomma, paragonabile all’istinto di sopravvivenza. Più forte del senso di colpa era lo smarrimento di fronte a questa evidente verità: le parole sono lo strumento a cui si fa ricorso ogni volta che si presenti il bisogno di definire e tenere a bada le cose che ci circondano. In molte circostanze, questo strumento non è soltanto il più facile, è anche l’unico a nostra disposizione e quando succede, quando le parole sono

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l’unico mezzo apparente per guadagnarsi la sopravvivenza, la strada maestra che sembrano indicarci è quasi sempre la menzogna. Cosa dovremmo fare in simili circostanze? Immolarci come martiri sull’altare della verità o giocarci le nostre carte truccate? I miei sfortunati tentativi di manipolare la verità gettarono i semi di un conflittuale rapporto con la morale cattolica e col modo tutto italiano di gestire la menzogna che da questa morale discende. Dovette però passare del tempo perché la natura del problema mi si mostrasse in tutta la contorta ambiguità: all’incirca altri cinque anni, il tempo di diventare uno studente delle medie e trovarmi come compagno di banco il ragazzino più irrequieto di tutta la classe. Tra le molte attività trasgressive cui questo scalmanato era dedito mi turbava non poco un florido commercio che aveva messo in piedi. In cambio di gomme da masticare, figurine dei calciatori, moneta sonante o altra merce di scambio di suo gradimento ti offriva la possibilità di toccare quel che c’era sotto le mutandine di una sua amichetta compiacente. Da quel che mi era parso di capire, non era il tipo di mercimonio che Dio e la Chiesa potessero approvare. Nondimeno, costui frequentava regolarmente la parrocchia di fronte alla scuola, santificava le feste, faceva la comunione e soprattutto si confessava. Si confessava, sì. L’idea di quel misterioso rito praticato nella penombra piena di echi delle chiese mi dava parecchio da pensare. Sapevo che quelle casupole di legno chiamate confessionali erano adibite allo svelamento di verità indicibili, i cosiddetti peccati, ma non mi capacitavo di come si potessero raccontare certe verità a un adulto senza morire di vergogna. Così mi decisi e domandai allo scalmanato quale fosse l’opinione del prete circa i suoi traffici. Mi immaginavo infatti severe reprimende. «Ti pare che glielo vado a dire? Mica so’ scemo».

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«Scusa, ma non devi dire tutti i peccati quando ti confessi?». «Certo, ma vedi io comincio col dire che non sono andato a messa, il prete si arrabbia, mi fa una predica di un’ora e mi lascia andare». Mi si aprì un mondo. L’esercizio della menzogna praticato dal mio compagno di banco era qualcosa di contortamente raffinato. Nulla a che vedere con le dilettantesche menzogne a cui mi aveva addestrato mio padre. Lo scalmanato evitava l’incomodo di rivelare le sue vere colpe confessando un peccato che non aveva commesso. Già, perché lui le santificava, le feste, seppure con scarsa convinzione. Non sapevo se esserne ammirato o schifato. Nemmeno adesso credo di saperlo. Certo è che l’episodio mi si è impresso nella mente, diventando un’ossessione forte e costante o, per meglio dire, uno smarrimento, la mia selva oscura. Col tempo sono riuscito, non dico a ritrovare una retta via, cosa peraltro impossibile quando è in gioco l’inevitabilità della menzogna, ma perlomeno a venire a patti con questo smarrimento e con le sue conseguenze.

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STANZA 101

Vietnam, qualche tempo fa. «When I see sky I think my family. Mama and papa in my countryside. There is no light in my countryside. Only fire, and stars». È appena il terzo giorno che trascorriamo insieme ma ho già imparato che Na fa di questi pensieri. Il cielo esercita su di lei un’attrazione particolare. La sera del nostro incontro, a Saigon, mi ha chiesto se le stelle sono abitate da alieni. Le ho detto che probabilmente qualcuna lo è ma le distanze sono troppo grandi perché gli alieni possano giungere fino a noi. Una risposta di assennato scetticismo. La sera seguente – percorrevamo in moto il lungomare di Mui Ne – mi ha chiesto se pure il Sole è troppo lontano. Spera di poterci andare, un giorno. Ho cercato di spiegarle che in questo caso non è un problema di missili e astronavi. «Non potremo mai avvicinarci al Sole», ho detto. Il vento mi gettava in faccia l’aria appiccicosa del mare e sentivo l’imbottitura del reggiseno che Na mi schiacciava contro la schiena tenendosi aggrappata a me. «È troppo caldo, mo-

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riremmo. Il Sole è un’enorme palla di fuoco che brucia in continuazione». Lei non ha capito. Ha obiettato che qualunque fuoco, per quanto intenso, si estingue prima o poi. «Infatti anche il Sole si spegnerà un giorno, ma né tu né io vivremo abbastanza per vederlo. E nemmeno i nostri figli né i figli dei nostri figli. Accadrà in un tempo in cui il mondo non esisterà più». A Na questo tempo è parso inconcepibile, nessun fuoco brucia tanto a lungo. Anche l’idea che sul Sole non ci sia altro che fuoco l’ha sconcertata. Chi lo accende? Cosa lo tiene acceso? Le ho proposto di provare a pensare al Sole come alla moto su cui viaggiavamo. «Pure lei brucia, in un certo senso. Il Sole è come un enorme motore che seguita a camminare finché ha abbastanza energia oppure fintanto che non si surriscalda troppo ed esplode». Na ha poggiato il viso sulla mia spalla e non ha chiesto più nulla. Per un po’ ci sono stati soltanto l’odore della notte e il rumore della moto che correva. Poi, come ragionando tra sé, ha detto: «Se il Sole è un motore perché non sentiamo puzza di benzina?». Non ho saputo cosa rispondere. Così mi sono ammutolito anch’io. Mi sono tornate alla mente le parole del colonnello Kilgore in Apocalypse Now: «Mi piace l’odore del napalm al mattino. Una volta abbiamo bombardato una collina, per dodici ore, e finita l’azione siamo andati a vedere. Non c’era più neanche l’ombra di quegli sporchi bastardi. Ma quell’odore... sai quell’odore di benzina? Tutto intorno. Profumava come... come di vittoria». Nel corso di circa un decennio, sopra questa striscia di terra affacciata sul Mar della Cina, grande più o meno come

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l’Italia, furono sganciate sei milioni di tonnellate di esplosivi. Una quantità superiore a quella dell’intera seconda guerra mondiale. Il Viet Nam, come lo chiama la gente di quaggiù, o «pisciatoio», come lo chiamava il presidente Lyndon Johnson, è stato un Big Bang del XX secolo. Senza i tre milioni di civili morti, senza i seicentomila soldati vietnamiti morti, senza i quasi sessantamila americani morti, senza il napalm e le sofferenze che gli Stati Uniti inflissero al popolo di questa striscia di terra, la nostra Storia sarebbe stata assai diversa. Non ci fosse stata una guerra del Vietnam, gli anni Sessanta non sarebbero stati il decantato decennio in cui anche alle persone ordinarie fu concesso di fare cose straordinarie. Le strade dell’Occidente non sarebbero state invase da ragazzi coi capelli lunghi. Molte canzoni rock non sarebbero state scritte. Molte droghe non sarebbero state consumate. Il Big Bang del Vietnam è stato il centro di gravità permanente di una generazione. I giovani giornalisti facevano carte false per venire quaggiù e ancora oggi un mucchio di americani vengono in Vietnam in cerca di una guerra che vive nei loro ricordi come la perduta ala della giovinezza. Li ho visti scendere dai pullman. Ho visto vecchi coi capelli bianchi e la pelle avvizzita caracollare sotto il sole cocente diretti alla loro meta, il Museo dei residuati bellici. Cosa si aspettano di trovare? A nessuno importa più nulla della guerra in Vietnam. Se ne conserva la memoria solo perché è un buon souvenir da vendere ai turisti. Ma a parte questo, per la gente di qui la faccenda è chiusa. Il passato nel suo complesso è una faccenda chiusa. Gli orientali sono un popolo più immanente di quel che si crede. I vietnamiti pensano a quello che c’è ora, al Big Bang di adesso. Pensano ai soldi. Ho conosciuto Na in un bar nei pressi di Pham Ngu Lao. Ho ordinato qualcosa da bere e poco dopo lei si è avvicinata chiedendomi se poteva sedersi al mio tavolo per chiacchie-

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rare un po’. Funzionava così anche ai tempi del Big Bang. Seduti nei bar di Saigon, i soldati americani in licenza venivano attorniati all’istante da graziose fanciulle che in cambio di una conversazione elementare, condita di sorrisi e sguardi indecifrabili, si facevano offrire minuscoli bicchieri di tè detti saigonté. Oggi trangugiano tranquillamente birra. È una forma di prostituzione soft, tipicamente orientale. Le ragazze guadagnano sulle consumazioni, alcune di loro arrotondano con quel che eventualmente può seguire. Il seguito non è affatto scontato, però. Molte si limitano a bere. In questi stessi paraggi, punto di riferimento imprescindibile per il viaggiatore giunto di fresco a Saigon – e infatti chiamato anche Western Street, la strada degli occidentali –, capitò molto prima di me lo scrittore Goffredo Parise. Vi giunse nei panni di inviato speciale e finì per dedicarsi con passione allo studio di questo complesso e affascinante fenomeno che è la relazione degli uomini occidentali con le donne di quaggiù. Non c’è da stupirsi. Per qualche ragione gli scrittori sono inguaribilmente attratti da tutto ciò che odora di mercimonio del corpo femminile. Mi vengono alla mente le parole di Vargas Llosa: «Scrivere un romanzo è una cerimonia che somiglia allo strip-tease». Cosa volesse intendere è facile intuirlo: scrivere è, almeno in teoria, un po’ come denudarsi, mostrare la propria anima. Non a caso nel parlare figurato «spogliarsi» è un’azione spesso associata alla verità. Di una verità depurata di ogni lato ambiguo si dice, per esempio, che è «nuda». C’è però una differenza di non poco conto tra le ragazze illuminate da «impudichi riflettori», intente a liberarsi con sapiente lentezza dei vestiti, e gli scrittori che scrivono romanzi. Alla fine della loro performance queste fanciulle sono realmente nude, mentre a romanzo compiuto lo scrittore è vestito di parole. I lati oscuri e i fatti più o meno personali che hanno spinto lo scrittore a scrivere non si mostrano infatti per quello

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che sono; appaiono truccati e ritoccati dal velo di alterazione che qualunque discorso porta inevitabilmente con sé. È probabile che all’origine del fascino esercitato da entraîneuse e spogliarelliste sugli scrittori ci sia un doloroso contrasto. All’apparenza, e il più delle volte anche nei fatti, le intenzioni sono scoperte come i loro corpi: le ragazze in questione offrono compagnia o nudità per lavoro, per soldi. Nessuna verità dovrebbe essere più evidente di questa. Eppure accade spessissimo che gli uomini preferiscano ammantare la certezza d’illusione, convincendosi che nelle attenzioni di queste professioniste vi sia qualcosa di più di un evidente tornaconto, ovvero che nutrano sentimenti sinceri anziché simulati. Lo fanno perché sono soli? Perché sono in cerca d’amore? Perché si vergognano di comprare compagnia? Perché hanno bisogno di appagare la propria vanità di maschi conquistatori? Qualunque sia la ragione, costoro trasformano una verità già svelata in menzogna. Alla tranquillità della luce del sole preferiscono la tormentosa ombra del dubbio, giacché non potrebbe essere altrimenti: per quanto ci si intestardisca, per quanto ci si convinca di ciò che non è, l’illusione non è mai abbastanza forte da fugare il sospetto di essere agli occhi della entraîneuse soltanto un portafoglio che cammina. Parise osservava sornione il mondo dei bar. Osservava i giovani soldati americani perdersi nel tentativo di sedurre le ragazze vietnamite, insetti sensuali, inafferrabili come il nemico che si nascondeva nella giungla. Loro, gli spaesati giovanotti, erano combattuti tra lo stereotipo che dipinge la donna orientale come una creatura docile e dolce e l’immagine, forse non meno inventata, che vuole questa stessa donna adescatrice e sanguisuga, abilissima nello spillare quattrini. Divisi tra due fantasmi, non sapevano come affrontare la realtà del piccolo e caldo corpo che si trovavano davanti.

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Quasi mai ottenevano quel che desideravano. E anche Parise girava attorno all’oggetto del suo interesse senza riuscire a penetrarlo davvero. Nel corso delle sue esplorazioni dei bar si imbatte in un giovane soldato. È innamorato di una ragazza vietnamita e intende sposarla, nonostante sappia che è una prostituta. Quando Parise gli domanda se è sicuro che la ragazza lo ami, l’americano non ha dubbi: «Sicurissimo. La guardi. Non vede che mi ama?». Lo scrittore guarda, ma vede soltanto una ragazza non bella, dotata di «infidi» occhi che fingono di sorridere e mani che carezzano con «gelido calcolo» la guancia dell’ingenuo ragazzone. Alla maniera di molti occidentali, Parise crede di saperla lunga al riguardo. Ma il Vietnam è il paese dove tutto è possibile. È un po’ come la meccanica quantistica. Qui le cose sono e non sono allo stesso tempo. Qui le donne amano e non amano. L’unico fatto certo è il loro fascino, un fatto che ovviamente non sfugge a Parise. «La donna vietnamita è molto bella», scrive, «una tra le più belle del mondo». Ogni vera bellezza è per sua natura indefinibile. Neppure sforzandoci all’infinito troveremmo le parole che stabiliscano una volta per tutte perché una cosa è bella o non lo è. Non abbiamo altro modo di spiegarci se non quello di evocarla per mezzo della nostra rapita ammirazione. Il resto è solo ciò che si vede, e quando Parise cerca di farci vedere la donna vietnamita, lo fa descrivendone i movimenti. Li paragona alla «naturale eleganza, alla souplesse e insieme all’autorità di una volpe quando, di notte, attraversa un prato nevoso al lume di luna, per passare da un bosco all’altro». Un’emanazione ferina della natura, dunque. Un predatore astuto. Come una volpe, la donna vietnamita «non fugge perché nessuno la rincorre. Trotterella soltanto». Sarà. La mia esperienza, però, è un po’ diversa. Da tempo meditavo di ve-

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nire in Vietnam. Alla fine ci sono capitato per caso, come un membro della composita masnada di sfaccendati mistici disadattati che, trovatisi per qualche motivo in rotta di collisione con il rispettivo Occidente d’origine, svernano passando da un Estremo Oriente all’altro. In altre parole, ero anch’io un visa runner, uno di coloro le cui migrazioni sono scandite dai timbri sul passaporto e dai periodi di soggiorno consentiti agli stranieri nei vari paesi. Il mio visto per la Thailandia era in scadenza. Dovevo lasciare Bangkok, passare la frontiera e poi rientrare per guadagnarmi un nuovo timbro, una dilazione di trenta giorni nel paese del sorriso. Una meta valeva l’altra, e infatti il mio primo pensiero era stato quello di raggiungere un vecchio amico a Goa. La paranoide burocrazia indiana si accordava poco con la fretta che avevo, così ho finito con l’acquistare un biglietto per Ho Chi Min City. Come Parise, avevo sentito parlare spesso della bellezza delle donne vietnamite. Tuttavia non mi aspettavo alcunché di particolare. Nulla di speciale rispetto alle donne che già conoscevo: thailandesi, birmane, laotiane, cambogiane. Mi sono dovuto ricredere. La donna vietnamita è effettivamente bellissima. Buona parte del fascino deriva dalle sue eleganti movenze, proprio come nota Parise. Queste movenze non sono però frutto di un temperamento predatorio, bensì l’opposto. Può anche darsi che la donna vietnamita non fugga, ma è comunque preda. Preda dei suoi sogni. Se si muove in quel modo incantevole è perché non fa che sognare. Al risveglio Na mi dice sempre cosa ha sognato. Per esempio: «I dream you take me motorbike some place with many tree». Allora io la porto in un posto che somigli il più possibile al suo sogno, dopodiché ci sdraiamo in terra e una volta sdraia­ti lei mi dice quel che ha sognato mentre eravamo in moto e quel che dice sono sempre cose bellissime. È ciò che

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la cultura vietnamita si aspetta dalle sue donne: che sognino e anelino all’amore romantico. Il che complica la loro vita. «I hate men Vietnam. I hate men Vietnam. I hate men Vietnam», dice sempre Na ripetendo il concetto tre volte. Forse perché l’amore romantico è una leva di cui il maschio vietnamita si serve impunemente o forse solo per farmi capire quanto è capace di odiare. Il guaio è che uno straniero, un uomo dell’Occidente, ma diciamo pure soltanto un uomo, può capire con la mente, col cervello, magari finanche con un pezzo di cuore, ma al fondo della sua anima si anniderà sempre un qualcosa di equivoco e ambiguo che gli farà preferire il sospetto e l’inganno, la messinscena d’uno spogliarello, un gioco delle parti dove non è mai chiaro chi è preda e chi è cacciatore. Mi domando allora se l’uomo chieda certezze soltanto a parole o se di fatto, invece, chieda il dubbio. In fondo, nulla più del dubbio alimenta il desiderio, nulla più del sospetto odora di sangue, per dirla con Parise, il quale, non a caso, riteneva che «la mancanza di desideri è il segno della fine della gioventù e il primo e lontanissimo avvertimento della vera fine della vita». E in effetti, il momento in cui sono stato più sincero ha coinciso con la fine della giovinezza e dei sogni che mi ero dato. Ammettere che non avevo il talento, e forse nemmeno il bisogno, per diventare un vero artista è stato un po’ come morire. Per lungo tempo non ho saputo in che modo interpretare questa mia determinazione, se come un atto di nobile e radicale onestà – che era poi il modo in cui preferivo cantarmela – o piuttosto nei termini di un suicidio figurato, una vigliacca rinuncia alla vita. Qualcosa di simile capitò anche a Goffredo Parise. Anche lui sognava di fare il pittore da giovanissimo. Intorno ai diciassette anni andò a Venezia per visitare la Biennale. Vide parecchi bei quadri, alcuni dei quali realizzati da autentici

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geni: Gauguin, Cézanne, Modigliani, Picasso, Klee. Ma fu soprattutto Chagall a folgorarlo. Concluse che non avrebbe mai raggiunto simili altezze e smise di dipingere. Parise ha raccontato più volte e con vari accenti questa storia, ma io ne venni a conoscenza indirettamente. Me la ripeteva in continuazione un mercante d’arte che conobbi quando ero ancora studente e non di rado il racconto veniva condito con un accenno ai Sillabari. Parise aveva programmato di scrivere una serie di racconti sugli umani sentimenti, ordinandoli per l’appunto come in un sillabario, dalla a alla zeta. Arrivato alla lettera esse fu però costretto a desistere e fermarsi, perché la poesia lo aveva abbandonato. Per il mercante dovevo imparare ad accettare questa verità: che non siamo noi ad abbandonare la nostra vocazione, è lei ad abbandonare noi. Era un momento molto delicato per me. Avevo deposto i pennelli ma mi sentivo ancora artista, soprattutto non volevo accettare l’offerta che il mercante non smetteva di rinnovarmi: lavorare nella sua galleria. La prospettiva di trasformarmi in un ometto d’affari che trafficava in quadri, blandiva i collezionisti, organizzava i trasporti, allestiva le mostre, teneva la contabilità, mi dava il voltastomaco. Sfortunatamente non sapevo che pesci pigliare. Torinese, il mercante Gian Enzo Sperone si era trasferito nella capitale cattolica per corteggiare i pittori che gli interessavano e al contempo fuggire dal vicolo cieco nel quale si erano a suo avviso cacciati gli artisti dell’avanguardia concettuale, minimalista e poverista coi quali aveva lungamente e intensamente lavorato in gioventù. Parise lo descrisse così: «vivissimo, con denti candidi e aguzzi di cane, fulminante, nervoso, di quel genere di persone che, italiane, possono diventare domattina di passaporto americano, giapponese o arabo... l’emozione dell’arte (e della sua valutazione borsistica nel sempre difettibile mercato delle emozioni estetiche) lo

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ha dotato di una febbre, di una temperatura alta dentro cui e con cui si aggira come colui che ha rubato e porta in tasca, invendibile, il più misterioso diamante nero del mondo. Sarà diamante nero o illusione?». Sebbene si fosse lasciato alle spalle certe aspirazioni di gioventù, Parise frequentava ancora pittori e galleristi. Era un ottimo amico di Gian Enzo, perciò seppe descriverlo con tanta accuratezza. All’occhio vivissimo, alla bocca ferina, all’inquietudine febbricitante, tutti dettagli centratissimi, aggiungerei però il carisma. Non ho conosciuto persone capaci d’ammaliare come lui. Gian Enzo era di origini umilissime ma aveva l’eleganza di un principe datosi alla pirateria per imprecisate e avverse circostanze. Se penso ai molti anni che ho trascorso al suo fianco, a quel che ho conosciuto di lui, posso dire che lo era davvero, un pirata. D’altra parte, era nel contrasto che consisteva il suo fascino. Sapevo bene che nel raccontarmi di Parise mirava soltanto a una cosa: indurmi a rinunciare ai castelli in aria per fare anche di me un pirata. Sapevo bene che mi stava raggirando, e detestavo essere manipolato a quel modo. Tuttavia, anziché ribellarmi, incapace di resistere al suo carisma, finii per odiare Parise. Confesso che mi sentivo non poco in colpa per questi miei sentimenti insensati, anche perché in quel periodo Parise era molto malato, praticamente in fin di vita. Nondimeno lo odiavo, incolpandolo di una colpa più mia che sua. Per molti anni, visitando le librerie, ho fatto in modo che l’occhio non mi cadesse sui volumi di Parise e su quel titolo in particolare. Finché un giorno stabilii che era ora di farla finita: presi una copia dei Sillabari e l’aprii più o meno a metà. Il mio sguardo fu calamitato all’istante e per caso dalla seguente frase: «Non ricordavano più quando avevano cominciato a “fare peccato” ma certo erano giovanissimi». Naturalmente, a esercitare una forza magnetica erano quelle due parole poste tra

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virgolette, fare peccato. Ripensai al mio compagno di banco, quello che faceva rovistare nelle mutande della sua amichetta in cambio di qualche spicciolo. Ripensai alla faccenda della confessione, a ciò che era vero e a ciò che era falso, al desiderio. Ci ripensai mentre leggevo il racconto. Era intitolato Italia. La “i”, dunque: un bel po’ di lettere prima che la poesia se ne andasse. E infatti aveva molta poesia. Era il racconto di una coppia, molto italiana, cattolica quel tanto che basta. Un lui e una lei che si conoscono da sempre, da bambini: si amano, si sposano, hanno dei figli, invecchiano e muoiono, prima lei, poi lui. Nelle prime righe vediamo lei alle porte dei vent’anni, coi seni molto belli e i capelli castano scuri. Pur non essendo per nulla grassa è un poco rotonda, nel volto, nel sedere, nei seni. Ha però la vita stretta e il punto esatto della vita forma come una piega di carne da cui partono le natiche, il ventre convesso ed elastico e il sedere alto sulla curva della schiena. La sua carne è solida e i peli, le sopracciglia, le ciglia sono nerissimi, ricciuti, duri, lucenti. Vidi questa ragazza come in un quadro, dipinta, carnosa. La desiderai, ma non ebbi il tempo di eccitarmi sul serio perché, sfogliate poche pagine, dopo anni di matrimonio e due figli, la ragazza, pur non essendo ingrassata, cambia. Ha qualche capello grigio e i seni e la carne non sono più veramente quelli: non c’è più la durezza. Quand’era ragazza lui glieli toccava sempre, i seni, per scherzo e sul serio. Ora ha smesso di farlo, per discrezione. Lei comprende questa discrezione, ma il comprendere è una cosa oscura e ogni tanto, guardandosi allo specchio e nel bagno, nuda, dice tra sé a voce alta: «Sono vecchia». E per questo si copre a sé stessa. Mi venne voglia di piangere, ma non mi riuscì e comprai il libro.

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STANZA 102

Che sono capitato in Vietnam per caso è vero soltanto in parte. L’ho detto, ci sono arrivato da Bangkok, da visa runner, e non è per caso che si passano lunghi periodi in Estremo Oriente, facendo il conto dei timbri sul passaporto. Qualche mio amico mi domanda cosa ci trovo in una città così invivibile. «È uno schifo», dicono. E non posso dargli torto. Bangkok – e un discorso per nulla diverso potrebbe valere per Saigon – è tutt’altro che bella. Assalito dalla sua cementificazione scriteriata, il turista appena sbarcato resta interdetto. Il traffico selvaggio e pestilenziale avvelena i polmoni e rende disagevoli gli spostamenti, peraltro scoraggiati dall’umida canicola che impera nelle ore diurne. Difatti la più parte dei visitatori si trattiene al massimo un paio di giorni, giusto il tempo di guardarsi un po’ attorno. Una fugace visita ai monumenti consigliati dalle guide, un’escursione al mercato galleggiante, un’ora di relax in una sala massaggi e poi via, verso mete più vacanziere: un’isola, una spiaggia, la natura dei tropici. A fermarsi più a lungo sono soprattutto uomini attempati in cerca di avventure a buon mercato, un po’ di sesso sbrigativo condito da un’idea molto

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annacquata di amore. Li vedi ciondolare, questi uomini, affannati e sudati, dalle parti di Sukhumvit Road oppure seduti in un bar a sorseggiare una birra, in attesa che cali la sera, e non sono mai un bello spettacolo. Cosa ci trovo dunque? Io stesso ho stentato a comprenderlo fino al giorno in cui una ragazza thailandese mi ha detto: «Asia men no farang. You farang». Avevo sempre creduto che la parola farang fosse una storpiatura dell’inglese foreign e avesse pertanto lo stesso significato. Mi sbagliavo. Birmani, laotiani, cambogiani, vietnamiti, indonesiani, malesi, cinesi e tutti gli altri orientali che più o meno stabilmente soggiornano in Thailandia non sono farang, veri stranieri cioè. Farang siamo unicamente noi, viaggiatori d’Occidente, e sempre lo resteremo. Per quanto cerchi di insediarsi nel Sud-Est asiatico – e sono in molti a provarci – l’uomo occidentale non cesserà mai di essere un farang. Potrà decidere di trasferirsi, intraprendere qualche attività e magari anche sposarsi, ma il suo tentativo di mettere radici non si compirà mai fino in fondo; la possibilità di diventare uno del luogo, di integrarsi nel senso pieno del termine, gli è preclusa. Il senso di pacificata marcescenza che ristagna ovunque a Bangkok – nella quiete dei templi buddisti come nei lascivi go-go bar o nei soi brulicanti di gente e odori – aiuta però il farang a vivere la propria estraneità con una sorta di felice rassegnazione. Del resto, è la ragione per cui la città degli angeli asiatica attira un tipo ben preciso di persona: l’occidentale che nel mezzo del cammin di propria vita ha finito, deliberatamente, per smarrirsi, estinguendosi nel samsara, l’eterno ciclo di vita morte e rinascita. A fermarsi da queste parti è colui che ha deciso di lasciarsi andare alla deriva, il che fa di città come Bangkok o Saigon il luogo ideale per gli esiliati da sé stessi. Perché farang non indica tanto lo straniero, la persona

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proveniente da un luogo diverso e lontano, ma l’espatriato, colui che non sa più stare in casa propria. Dio benedica le isole provvidenziali Ove mai non giungano d’arresto i mandati; Dio benedica gli Stati ospitali Che offrono un tetto agli sbandati.

A questi versi di Kipling, saturi di facile romanticismo, ricorre Graham Greene per spiegare lo stato d’animo dal quale fu colto in età non più giovanissima, intorno ai cinquanta cioè, e che gli fece acquisire l’abitudine di recarsi in luoghi turbolenti non perché in cerca di materiale da riciclare nei romanzi, ma per ritrovare le sensazioni di insicurezza “godute” durante la guerra, a Londra, grazie alle incursioni tedesche. Che Greene parli di godimento non deve stupire. Quarto di una nidiata di sei figli messi al mondo da una coppia di cugini di primo grado, ebbe un’infanzia felice seguita da una pubertà da incubo. «Cominciai a credere nel paradiso perché credevo nell’inferno», dice riferendosi ai tempi in cui frequentò la scuola diretta da suo padre, il quale pare fosse ossessionato dall’eventualità che i ragazzi avessero rapporti omosessuali. Gli atti di bullismo di cui fu vittima in questo istituto, uniti ad altre esperienze poco fortunate e probabilmente a una naturale predisposizione, lo condussero a una depressione che non lo abbandonò mai del tutto, nonostante le terapie psicanalitiche e la conversione al cattolicesimo. Attraverso strade tortuose, inclusa una serie di suicidi tentati col melodrammatico metodo della roulette russa, riuscì comunque a venire a patti col suo temperamento di annoiato cronico. Perlomeno fino all’approssimarsi dei cinquant’anni, quando iniziò il periodo di profonda irrequietudine che lo

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spinse verso mete turbolente, a cominciare dal Vietnam, a quei tempi chiamato ancora Indocina. Malgrado non sia da tutti vagabondare per il globo, Greene vedeva la sua irrequietudine come un passaggio tutto sommato normale nella vita di un individuo: «Avvertivo quella smania di evadere che è comune, suppongo, a quasi tutti gli uomini intorno alla metà della vita, anche se nel mio caso arrivò prima, persino nella fanciullezza: evadere dalla noia, evadere dallo sconforto. Se fossi stato un impiegato di banca, avrei sognato di venire meno ai miei obblighi e di darmi alla latitanza nell’America del Sud». Ma diversamente dalla media, non aveva un capo cui rendere conto. Non si alzava al mattino ogni giorno per timbrare un cartellino. Poteva mollare tutto e partire quando più gli aggradava. Certo, al mondo esistono anche altri impegni, persino più importanti e vincolanti di quelli lavorativi. Gli affetti, per esempio. E Greene ne era consapevole. Ma quando si sofferma su questa dimensione lo fa riconoscendo di non avere nulla da cui trovare scampo: «avevo soltanto me stesso, e la sola fiducia che potessi tradire era la fiducia di coloro che mi amavano». Quanto a questo, aveva già dato. La sua conversione al cattolicesimo, più che da un autentico richiamo religioso, fu dettata dalla passione per una ragazza, tale Vivien Dayrell-Browning, che non si sarebbe mai lasciata sedurre da un protestante. Le scriveva a ripetizione di desiderarla terribilmente, finché, senza pensarci troppo, decise di farsi accogliere da Santa Romana Chiesa. «La difficoltà principale fu credere in Dio», ammise in seguito. Una volta raggiunto lo scopo, non si fece scrupolo di tradirla ogni qualvolta ne avesse avuto voglia, anche nelle occasioni meno appropriate. Si concesse per esempio una scappatella con una prostituta di Piccadilly dopo aver convinto Vivien, ormai diventata sua moglie, a non recarsi al funerale

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della madre, perché lo stress emotivo avrebbe rappresentato un rischio per il suo stato di gravidanza avanzata. I suoi tradimenti accertati con donne di facili costumi, i cui nomi e cognomi sono noti ai biografi, ammontano a ben quarantasette; a questi va aggiunta un’altra dozzina di relazioni più o meno occasionali con partner rimaste senza identità. È il caso di scandalizzarsi? Col senno di poi, Vivien giunse all’amara conclusione che ad alcuni uomini non dovrebbe essere concesso di accostarsi al sacramento del matrimonio. Ma guardando questa storia da fuori, la censura dell’infedeltà coniugale è l’ultimo dei problemi, come pure lo è la falsa conversione per amore o anche solo per sesso. Che le questioni di letto costituissero un chiodo fisso lo testimoniano i ripetuti tentativi di darsi allo sfruttamento del meretricio. Si racconta che, oltre a finanziare bordelli a Haiti per godere dei favori delle ragazze più giovani, Greene avesse covato per qualche tempo il proposito di aprire una casa di tolleranza tutta sua in un’isola al largo della costa africana. Il quadro generale induce a pensare che i sentimenti non fossero in cima ai suoi pensieri, ovvero che vedesse le donne come un modo per appagare i propri istinti o, al più, un pozzo di sensualità nel quale affogare inquietudini d’altra natura. Nel 1937 la sua contorta visione del corpo femminile si scagliò persino su una bambina di otto anni di nome Shirley Temple. Recensendo uno dei tanti film che all’epoca vedevano protagonista questa piccola stella del cinema soprannominata «riccioli d’oro», Greene scrisse: «I suoi ammiratori – uomini di mezza età e preti – rispondono alla sua ambigua civetteria, alla vista di quel suo corpicino desiderabile e ben formato, stipato di enorme vitalità, soltanto perché un rassicurante velo fatto di trama e dialoghi si frappone fra la loro intelligenza e i loro appetiti». Fu prontamente querelato dalla Twentieth Century Fox che lesse in quelle parole intollerabili

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insinuazioni. Greene la prese malissimo. «Quella puttanella mi costerà all’incirca 250 sterline, se sono fortunato». Gliene costò esattamente il doppio. Lasciare intendere che una bambina non sia innocente come sembra è un estremo, ma rispondeva al suo modo di pensare. Nei suoi romanzi sono frequenti le apparizioni di ragazze che, pur nella loro apparente e magari sostanziale innocenza, anelano con bramosia malcelata a un amore di tipo peccaminoso. Non bisogna tuttavia trarre conclusioni affrettate. Può darsi che a Greene piacesse pensare che molte donne sono puttane, per dirla nei termini più rozzi e diretti, ma al nocciolo c’era una contorta visione dell’umana specie in generale. Nella sua visione delle cose, che nonostante tutto restava una visione cattolica, una persona può definirsi umana fintantoché si mantiene in bilico tra il bene e il male, la grazia e il peccato. In questo si avvicinava al pensiero di T.S. Eliot: «Finché facciamo il bene o il male siamo umani; e per paradosso è meglio fare il male che non fare niente; almeno esistiamo». Greene era solito distinguere le sue opere in due categorie. Da una parte c’erano romanzi che lui chiamava esplicitamente «intrattenimenti», dall’altra i libri in cui sembrava accantonare le attrattive del genere spionistico, giallo o comunque d’azione per puntare a una letteratura d’ordine morale i cui protagonisti erano antieroi costretti a fare i conti con la propria coscienza. Dire però che il Greene scrittore si barcamenasse tra il serio e il faceto, tra un bene e un male artisticamente intesi, sarebbe inesatto quanto lo sarebbe bollare il Greene uomo come un misogino puttaniere. Malgrado fosse lui il primo a marcarlo, il confine era spesso sfumato. Di rado infatti i suoi “intrattenimenti” erano pura azione, pura avventura, pura evasione; allo stesso modo nei suoi romanzi più “seri” non mancavano mai elementi di suspense che conferivano alla storia il carattere di un thriller morale. Senza contare, poi, che moltissimi di questi

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romanzi seri erano ambientati in luoghi lontani, per non dire esotici, proprio come si conviene alla letteratura d’evasione. La gran parte erano luoghi tropicali come il Messico meridionale, Haiti, il Congo, la Sierra Leone; luoghi che per una ragione o per l’altra, per il clima pestilenziale, per le malattie e la povertà che li flagellavano, per il contesto sociale o politico, non erano granché ospitali. Alcuni avevano tutti i caratteri di un’anticipazione terrena dell’inferno, posti dai quali fuggire a gambe levate: l’esatto contrario di una via di scampo, di un rifugio. Il Vietnam fa eccezione. Pur essendo anch’esso un paese tropicale non privo di insidie, Greene lo adorò sin da subito. Restò stregato all’istante da questo paese, dalla sua gente e, superfluo specificarlo, dalle sue donne: «L’incantesimo venne gettato la prima volta, credo, dalle alte ed eleganti fanciulle in pantaloni di seta bianchi, dalla luce grigio-argentea della sera sulle risaie, dove i bufali indiani arrancano affondando fino ai garretti, con un’andatura lenta e primeva, dalle profumerie francesi in rue Catinat, dalle case da gioco cinesi a Cholon e soprattutto da quella sensazione di esultanza indotta nel viaggiatore munito di biglietto di ritorno da una certa misura di pericolo: i ristoranti protetti dalle bombe a mano mediante grovigli di filo spinato, le torri di guardia lungo le strade del delta meridionale». Greene vi svernò per ben cinque anni. Si insediò nel cuore di Saigon, in quella porzione di città stretta tra la sponda occidentale del fiume e la cattedrale di Nôtre-Dame, una chiesa in stile vagamente romanico ma priva di qualunque pregio architettonico costruita dai francesi sul finire dell’Ottocento. I due estremi erano attraversati da rue Catinat che ai tempi di Greene non era soltanto una strada di profumerie ma anche e soprattutto l’arteria principale di un distretto fatiscente ricco di fumerie d’oppio e postriboli, tra cui una famigerata Casa delle Cinquecento Ragazze che passava per essere il più grande bordello di tutta l’Asia. Di quel mondo decadente è rimasto

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ovviamente ben poco. Sopravvivono alcuni edifici coloniali – il Majestic, il Continental, un suggestivo ufficio postale – e il romanzo vietnamita di Greene, L’americano tranquillo, ambientato in buona parte proprio in rue Catinat, oggi chiamata Dong Khoi, e venduto in tutti i negozi di souvenir, per cui è abbastanza frequente imbattersi in qualche turista immerso nella sua lettura, al tavolo di un bar protetto dall’ombra dei tamarindi. La fama del romanzo deriva in massima parte dalle qualità profetiche che gli vengono attribuite. Quando il coinvolgimento statunitense era ancora di là da venire, Greene si immaginò un giovane funzionario americano, Alden Pyle, con opinioni tanto precise quanto velleitarie in merito a quel che gli Stati Uniti fanno per il mondo. Imbevuto di belle teorie, Pyle crede fermamente nella possibilità di mettere in piedi una terza forza in Vietnam, alternativa ai comunisti e al colonialismo francese, e si adopera pertanto all’importazione clandestina di esplosivo che finirà nelle mani sbagliate, mani che lo useranno per un attentato nel quale perderanno la vita molti civili innocenti. Greene scrisse il romanzo nei primi anni Cinquanta, quando soltanto i francesi erano militarmente impelagati in Viet­ nam, ma ci volle meno di un decennio perché il paese pullulasse di americani tranquilli, convinti come Pyle di poter esportare la democrazia là dove si andava affermando il comunismo. Nel 1963, all’inizio di novembre, la Cia macchinò un colpo di Stato per deporre il presidente Ngo Dinh Diem, che di lì a poco fu assassinato. Nel giro di un paio di settimane l’artefice del complotto, il presidente John F. Kennedy, numero uno degli americani tranquilli, sarebbe incappato nella stessa sorte, che è poi anche la sorte di Pyle. La preveggenza storica è soltanto uno dei tanti modi in cui è possibile apprezzare il romanzo e, dal mio personalissimo punto di vista, non il più stimolante. Da quando l’ho scoperto,

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vagando per il centro di Saigon, questo libro straordinario non ha mai cessato di interrogarmi. Dovessi dire in poche parole cos’è per me L’americano tranquillo, l’ultima cosa che mi verrebbe in mente è proprio la lungimirante critica della sconsiderata vocazione imperialista degli Stati Uniti. Preferisco di gran lunga pensarlo come una storia d’amore e morte sulla falsariga di Vittoria di Joseph Conrad, scrittore che Greene immensamente ammirava e smise a un certo punto di leggere proprio per non esserne troppo influenzato. Ma sarebbe anche questa una definizione insoddisfacente, perché sfrondato di tutti i suoi elementi decorativi – la politica, l’ambientazione esotica, l’eterno motivo del triangolo amoroso – il romanzo è un sublime trattato narrativo sull’impossibilità di essere sinceri. A dispetto del titolo, il vero protagonista non è l’americano tranquillo ma un attempato giornalista britannico, Thomas Fowler, che, diversamente da Pyle, non è mosso da partico­lari afflati, giacché non crede più in nulla o quasi. Il suo principale problema è non tornare in patria. Vuole restare in Viet­ nam, dove conduce un’esistenza a base d’oppio e assoluto lassismo, e per far ciò si censura preventivamente, prestando molta attenzione a non scrivere articoli che possano urtare la suscettibilità delle autorità. L’altro suo motivo di interesse è una giovane donna vietnamita di nome Phuong. Dire che la ama sarebbe forse troppo. È piuttosto improbabile infatti che un disilluso cinquantenne dedito ai piaceri sedativi della droga possa provare un sentimento tanto intenso. Diciamo dunque che le è affezionato, abbastanza affezionato da sposarla se sua moglie si degnasse di concedergli il divorzio. Sfortunatamente per lui, però, l’arrivo a Saigon dell’americano tranquillo si configura subito come uno sgradito scombussolamento della soporifera routine. Pyle non è per nulla insensibile al fascino di Phuong e malgrado non capisca una sola parola di vietnamita stabilisce che la ragazza è una creatura innocente e indifesa e

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lui l’eroe che la salverà col matrimonio. La contesa è impari: l’americano è troppo giovane e seriamente intenzionato. A Fowler non resta che farsi da parte e confidare che il rivale si inguai da solo per via dei suoi maldestri intrighi politici. L’azione si apre quando tutto è già successo. Pyle è ormai cadavere e Fowler ha quasi messo in cassaforte il suo lieto fine con Phuong. L’ultimo serio ostacolo da superare è un ispettore della Sûreté, un certo Vigot, che lo convoca per fargli qualche domanda. Vigot è ben consapevole che il giornalista ha la sua parte di responsabilità nella morte dell’americano tranquillo, ma nel giro di poche pagine apprendiamo che non ci sarà nessuna vera indagine. Se l’ispettore procede in un blando interrogatorio è soltanto per curiosità, per un interesse vagamente filosofico, perché vuole sapere o forse per il semplice gusto di strappare una confessione che Fowler non ha ovviamente alcuna intenzione di rilasciare, perlomeno non in un commissariato. I soli cui venga offerto uno straccio di verità siamo noi lettori che ci vediamo così costretti a farci carico del forte senso di ingiustizia che opprime l’intera narrazione. Fowler ci parla, ci svela la desolazione del suo animo, l’indifferenza a qualunque forma di fede o idealismo, il cinismo con cui soppesa le cose e fa in modo che queste volgano a suo favore. Ci racconta le sue menzogne e come e perché si sia reso complice di un omicidio. A noi non resta che subire, ascoltare, leggere insomma. Come un confessore, siamo vincolati al silenzio. La nostra condizione di lettori non ci permette di entrare nella Saigon del romanzo per denunciare all’ispettore come sono andati veramente i fatti o rivelare a Phuong, ammesso che le importi qualcosa, che Fowler la considera incapace di pensare o provare dolore come noi occidentali. Se davvero fossimo un confessore, se davvero ascoltassimo il racconto come ambasciatori di un Dio misericordioso e compassionevole, pronti pertanto al perdono e a

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concedere una assoluzione, potremmo capacitarci delle tante parole tese a dire il falso. Ma siccome siamo solo lettori non ci resta che l’impotenza, la frustrazione di quella inutile verità che solo a noi viene concessa proprio perché irrimediabilmente estranei al mondo del racconto. «Pensai a quando tutto era cominciato», ci dice Fowler al termine del romanzo, «a Pyle che si era seduto al mio fianco al Continental, lo sguardo sul chiosco delle bibite dall’altra parte della strada. Da quando era morto mi andava tutto bene, ma avrei voluto che ci fosse almeno qualcuno a cui poter dire mi dispiace». In un certo senso è a noi che si rivolge, è a noi lettori che dice quanto gli dispiaccia. Ma di fatto quel qualcuno, quel noi lettori, è un signor nessuno o meglio un uditorio fantasma. Nella convenzione romanzesca, la voce narrante non si rivolge mai a un lettore in carne e ossa, bensì a un orecchio ideale, astratto, a un’entità che somiglia più all’incorporeo giudice che ognuno porta dentro di sé. In una parola: la coscienza, la propria capacità di discernere il bene dal male, il buono dal cattivo, il giusto dallo sbagliato, il vero dal falso. Nella convenzione romanzesca, la voce narrante parla a sé stessa. Nella convenzione romanzesca, l’io è al contempo il sommo giudice e l’unico imputato di un processo chiamato narrazione. Fuori delle mura di quel tribunale di finzione, nel mondo delle cose reali, il processo è chiamato confessione, ma quasi mai è a un prete o alle persone care che davvero chiediamo d’essere assolti e possibilmente capiti. Davanti all’inevitabilità della menzogna e delle sue conseguenze ci troviamo quasi sempre nella stessa condizione che imprigiona le voci narranti dei romanzi: soli, come attori in un teatro senza altro pubblico che lo spettro della nostra coscienza, senza nessuno che ci ascolti a parte noi stessi, senza nessuno a cui poter chiedere, in piena sincerità, scusa per le bugie.

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STANZA 103

E giunse dunque un momento nel quale l’Occidente mi venne finalmente a noia, e siccome non ne potevo più di discorsi sulla realizzazione di sé, che altro poi non erano se non discorsi di vanità e riconoscimenti concessi dal dio denaro, decisi di esplorare la parte asiatica del pianeta, un po’ seguendo le rotte dei party people e dei transfughi da Goa, un po’ procedendo per miei personali sentieri, sempre spostandomi a bordo di pullman e dormendo e mangiando dove capitava, così da conoscere luoghi e persone nella convinzione di essere un vero vagabondo del Dharma, finché non mi imbattei in un giovanotto, armato di zaino e vagabondo del Dharma anche lui, che faceva la questua alla stazione degli autobus di Tel Aviv tra gente in attesa, e siccome io ero tra questa gente, intento a leggere un libro del mio adorato Kerouac, forse proprio quello che ha per titolo Vagabondi del Dharma, costui chiese soldi pure a me e io glieli negai non ricordo più per quale motivo, se perché dovevo stare attento a non scialacquare le poche risorse o semplicemente perché non mi piaceva la sua faccia, fatto sta che glieli negai, e pure bruscamente, con un no colmo di sprezzo e fastidio forse

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pure involontari che lui però prese malissimo e mi rinfacciò schifato dicendomi «E leggi pure Kerouac», per poi lasciarmi solo coi miei pensieri e la vergogna di sentirmi un potenziale impostore, uno che mentiva a sé stesso atteggiandosi a qualcosa che non era, e che si pavoneggiava da vagabondo senza mischiarsi troppo ai vagabondi veri. Colto nel vivo, mi domandai dubbioso se davvero fossi indegno di leggere Kerouac. Da sempre adoravo le sue pagine. La sua prosodia, quella sua speciale andatura nel correre dietro alle parole, il suono fresco e allietante di una voce che pare scorrere come acqua da un rubinetto lasciato aperto in un pomeriggio d’estate. Di conseguenza, adoravo anche il suo mondo o perlomeno il mondo che viene spacciato per suo, che è poi il mondo nel quale, da più generazioni ormai, si tramanda il verbo della ribellione e della controcultura o anche solo del semplice chiamarsi fuori dai giochi del sistema. Ecco, ora la sincerità di questi miei sentimenti veniva messa in questione. E questo perché avevo avuto l’ardire di negare qualche spicciolo a un coglione qualsiasi che probabilmente non aveva nemmeno bisogno di elemosinare. Il guaio è che ero dubbioso solo in apparenza, in superficie. Non avrei dovuto scavare molto, infatti, per verificare come stavano le cose: già prima di quel giorno alla stazione di Tel Aviv sapevo che non ero uno di quei pazzi tanto cari a Kerouac, «i pazzi del tutto e subito, quelli che non sbadigliano mai e non dicono mai banalità ma bruciano, bruciano, bruciano come favolosi fuochi d’artificio gialli che esplodono simili a ragni sopra le stelle e nel mezzo si vede scoppiare la luce azzurra e tutti fanno Oooooh!». Mi piaceva ascoltare le loro storie, passare del tempo in loro compagnia, provare per un po’ la loro vita, ma alla fine della fiera ognuno per la sua strada, voi per la vostra, io per la mia. Il dubbio, ammesso sia questo il termine appropriato, non

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riguardava dunque l’eventualità di essere un impostore, perché sapevo già di esserlo. Il dubbio era un altro: se e fino a che punto fosse giusto infiltrarsi in un ambiente estraneo con la scusa della letteratura. Starsene lì, zitto, come una mosca sul muro che osserva gli altri vivere, pronta a volare via al primo accenno di pericolo. Ancora non avevo compreso quanto quel tipo di menzogna fosse congenita al mestiere di scrivere. Figurarsi se potevo immaginare che, quanto a sincera pazzia, Jack Kerouac non era tanto meglio di me. Ero prigioniero del suo mito. Da bravo ammiratore ero al corrente della mutazione sopraggiunta nella mezza età, quel suo trasformarsi in un ubriacone misogino e razzista che caccia la gente da casa a pedate e disprezza chiunque inneggi in suo nome all’amore libero e all’abuso di droghe. Né mi era ignoto l’ammonimento di William Burroughs: «In genere si dice che Jack abbia subìto una sorta di cambiamento e che sia diventato un conservatore. Ma lui è sempre stato un conservatore. Non era un’idea comparsa negli anni. C’era sempre stata e non ci fu alcun cambiamento per tutto il tempo in cui ci siamo frequentati. Certo, non si adattava al suo modo di vivere, però c’era». Queste e altre cose che sapevo mi impedivano di vedere l’uomo e lo scrittore per quello che erano. Quando il velo del mito si è a poco a poco squarciato, Jack Kerouac mi è apparso in una luce nuova, di certo contraddittoria e forse assai meno fascinosa del mito che il fenomeno beat gli aveva cucito addosso. Nondimeno ho seguitato ad amarlo come e più di prima, e non gli sarò mai troppo grato per avermi mostrato l’importanza di saper accettare l’inevitabilità di piccole bugie che, messe insieme dal tempo, finiscono per diventare una grande menzogna. Provate allora a seguirmi indietro nel tempo e nello spazio. Seguitemi oltreoceano nell’inverno del 1949. Fu uno dei peg-

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giori inverni nella storia d’America. Gli animali delle praterie morivano a frotte nelle grandi tormente, la neve cadeva da New York a San Francisco. Voi, però, è a sud che dovete seguirmi, in Texas. Per l’esattezza, dalle parti di un posto chiamato Ozona dove infiniti nastri d’asfalto attraversano distese di artemisia. Su uno di quei nastri, nell’inverno del 1949, sfrecciava una Hudson quasi nuova ma già inzaccherata di fango e praticamente scassata. A bordo c’erano tre giovani nudi. O meglio, una deliziosa fanciulla dai riccioli biondi seduta tra due uomini, tutti e tre come le rispettive mamme li avevano fatti, senza uno straccio addosso. Immaginate la scena: a un tratto la ragazza estrae una crema di bellezza e comincia a spalmarla addosso ai suoi amici. I tre nudisti della strada si stanno preparando a quello che li aspetta. Sono infatti diretti a ovest, verso il sole. E ora fate bene attenzione, perché è giunto il momento della domanda da un milione di euro. Potendo scegliere, quale dei due uomini vorreste essere? L’uomo alla guida della Hudson nuova e scassata o l’altro, quello sul sedile del passeggero? Lo so, in apparenza, uno vale l’altro. Chi sta meglio di loro? Entrambi sembrano felici come due piselli in un baccello, e in effetti lo sono. Giovani e abbastanza sconsiderati da liberarsi come niente fosse dei vestiti e viaggiare in macchina per l’America con una splendida ragazza che gli spalma unguenti profumati e li massaggia. Eppure una differenza c’è. Forse non così netta come quella tra la vita e la morte, ma comunque abbastanza grande da sfiorare quella tra il giorno e la notte. L’uomo alla guida è nato ventitré anni prima in mezzo a una strada, nel senso letterale del termine, perché la madre lo ha partorito in macchina mentre andava a Los Angeles col marito. La cosa ha segnato il suo destino: da allora ha sempre vissuto per strada o dietro le sbarre, dove è finito più di una volta per aver rubato un numero considerevole di auto. Le ha

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rubate così, solo per farci un giro o per andarci a scopare con una donna. Asserisce di voler fare lo scrittore ma siccome è un’autentica forza della natura non è capace di star seduto a lungo davanti a una macchina da scrivere, dopo mezzora si alza e dice: «Andiamo a scolarci una birra». Si chiama Neal Cassady e può anche darsi che il nome non vi dica granché. L’altro è quattro anni più vecchio di Neal. Lui sì che è un vero scrittore, sta addirittura per pubblicare un libro. Gli piacciono i pazzi e i vagabondi, ma non è cresciuto in mezzo a una strada e non è stato mai in galera. Crede fermamente in Dio, è molto attaccato a sua madre, è stato al college e ovunque vada porta sempre con sé un taccuino a spirale su cui annota un pensiero improvviso o una cosa che ha visto. È uno che osserva, assimila e registra. Da ragazzino, gli amici della cittadina del Massachusetts dov’è nato lo chiamavano Memory Babe. Perché ricordava tutto. Più tardi, quando ha cominciato ad andare a caccia di esperienze inseguendo i suoi amati pazzi e vagabondi, altri amici gli hanno affibbiato nomignoli simili. Roba come «grande memore» e «angelo documentatore». Il suo nome anagrafico è Jean-Louis Lebris de Kerouac ma tutti lo conoscono semplicemente come Jack Kerouac. E con ciò arriviamo al sodo. Voi tutti conoscete Sulla strada. Se non l’avete letto sapete comunque di cosa parla o perlomeno che quel libro è il simbolo di una filosofia di vita: l’eccitante inebriante rigenerante filosofia del mollare tutto e partire senza una meta precisa, la filosofia di mettersi in viaggio solo per il gusto di andare, vivendo alla giornata, con pochi soldi in tasca e la disponibilità a fare incontri di ogni genere. Quel genere di vita pericolosa che lui, il buon vecchio Jack, chiamava da «scapestrati». Per tutti, il profeta di questa filosofia è per l’appunto lui, Jack Kerouac. Del resto, ha scritto un mucchio di libri al ri-

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guardo. La scena di lui e dei suoi due amici nudi in macchina, per esempio, l’ha raccontata nel suo libro più famoso. A questo punto la risposta al quesito da un milione di euro sembrerebbe scontata. Chi meglio di uno scapestrato giramondo come Kerouac ha saputo godersi la vita? Inoltre, a differenza del suo amico Neal Cassady, che riuscì solo in parte a coronare il sogno di diventare scrittore, Kerouac è entrato nell’olimpo della letteratura. Insomma, parrebbe aver salvato capra e cavoli: tanto la sua parte di baldoria che quella di gloria. C’è però una cosa che forse è giusto chiedersi prima di fare la nostra scelta e cioè: cosa faceva Kerouac quando scriveva i suoi libri? Domanda stupida, direte: ovvio, scriveva. Ma è proprio questo il problema! La rogna del fare lo scrittore è che non c’è soluzione: o scrivi o vivi. O sei sulla strada o sei a casa, seduto davanti alla tua macchina da scrivere o ad un qualche strumento analogo. È stato un grande e ci ha provato in tutti i modi e ci è perfino quasi riuscito, ma anche lui alla fine ha dovuto arrendersi a questa ovvia legge. O scrivi o vivi. Si dice sempre che la verità sta nel mezzo e infatti eccola là, la nuda verità, seduta tra i due uomini, incarnata nel corpo morbido e fresco di una ragazza forse nemmeno maggiorenne. Nel suo romanzo, Kerouac la chiama MaryLou. La descrive come una bionda dolce e carina con un’infinità di riccioli e un mare di capelli d’oro. Dice anche cose poco lusinghiere sul suo conto, per esempio che «era tremendamente stupida e capace di cose orribili». Che fosse davvero così nessuno potrà mai stabilirlo. Certo è, però, che Kerouac avrebbe potuto essere un po’ più indulgente con lei. LuAnne Henderson – questo il suo vero nome – veniva da Denver, che all’epoca era poco più di un paese. Aveva appena quindici anni quando Neal Cassady la convinse a sposarlo, e solo uno di più quando la portò a New York in ambienti che

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non aveva mai visto prima. Cosa ne poteva sapere una ragazzina come lei di intellettuali che cianciano di Shakespeare e misticismo orientale, strafatti di marijuana in fumosi locali dove suonano jazz? LuAnne Henderson era lì, insieme a Kerouac e Cassady. Con loro fece il viaggio più mitico della storia dell’automobile. Eppure è rimasta in buona parte un personaggio misterioso e negletto. In alcune biografie di Kerouac non viene nemmeno nominata. Forse perché non ha mai scritto una riga in vita sua, a differenza di molte altre donne che sono state amanti o mogli di scrittori beat. A un certo punto, LuAnne è semplicemente scomparsa dalla scena. Per qualche tempo ha fatto una vita normale o quasi: si è risposata, ha avuto una figlia, ha divorziato di nuovo. Quindi ha iniziato a lavorare, si è comprata un bar, poi un altro, ha avuto qualche problema con la droga e alla fine si è ritirata in una casa roulotte in mezzo alla natura. Lontana dal mito di Kerouac e dal passato. Qualcosa da dire, però, doveva averlo senz’altro. E infatti, quando uno dei tanti biografi di Kerouac è andato a scovarla a Wine Country, ha detto che l’autore di Sulla strada e Neal Cassady si invidiavano a vicenda: «Jack, per natura riservato, ammirava l’energia di Neal, mentre Neal invidiava la dedizione di Jack nello scrivere». In sé non sarebbe una grande rivelazione: nel romanzo Kerouac fa di Cassady il nuovo eroe americano e ammette di farlo perché Neal era un sacco di cose che lui avrebbe voluto essere. Una «sex machine», tanto per cominciare. Ma è proprio nella sfera sessuale che le parole di LuAnne aprono squarci illuminanti. La ragazza dai riccioli d’oro se la intese con entrambi. E se Neal era quello che ci si aspetta, ovvero uno per cui scopare è una faccenda irrinunciabile come mangiare e dormire, in Kerouac, LuAnne trovò una specie di lato oscuro. A suo avviso lo scrittore non era realmente

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interessato al sesso. Si comportava in maniera sensuale, ma non era una persona veramente sensuale. Era troppo preso dall’ansia di osservare e registrare. In qualunque situazione si trovasse era come se non fosse presente fino in fondo. In pratica, faceva lo spettatore. «Se avesse potuto scegliere», dice LuAnne, «credo che avrebbe preferito guardare me e Neal scopare piuttosto che portarmi a letto». Potrà sembrarvi assurdo, ma quest’uomo che girava nudo in macchina con una minorenne – Jack Kerouac – aveva paura del sesso e delle donne. Forse non ci avete fatto caso, ma lo ha scritto più di una volta nei suoi libri. Nei Vagabondi del Dharma, per esempio, dice di essersi imposto un anno di celibato perché la lussuria è morte, la causa principale della sofferenza che angustia il mondo. In parole povere, per lui lo scopare determinava la formazione del karma: facendo l’amore si procrea e siccome la vita è sofferenza e la sofferenza porta alla morte, scopando il ciclo si ripete all’infinito e lui voleva tenersi alla larga dal ciclo. C’era poi la parte cattolica, certamente la più vera e profonda. Esiste un dettagliato rapporto della Marina militare americana che costò il congedo anticipato all’allora ventenne e aspirante scrittore. Nel rapporto si traccia un quadro clinico condito di forti tendenze schizoidi, eccessiva inclinazione alla masturbazione, abuso di alcol, traumi sessuali, allucinazioni visive e auditive, idee suicide, manie di grandezza. Il dossier comprende anche una succinta biografia accompagnata dal commento dei genitori. «Credo sia eterosessuale», dichiara la madre, «ma le ragazze non lo attirano più di tanto». Le mamme, si sa, non sono una fonte attendibile. Quella in questione, poi, era un caso clinico. Soffocò il figlio di un affetto opprimente, mettendolo sempre in guardia dal sesso che, da brava cattolica, considerava un’attività ripugnante e peccaminosa. Malgrado ciò, Kerouac era convinto che si do-

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vesse provare tutto nella vita, almeno una volta. Per cui non disdegnò alcuna forma di promiscuità, rapporti omosessuali inclusi. Riconsiderata alla luce di questi particolari, la scelta tra la vita e la scrittura, tra questi due uomini messi a nudo da una ragazzina in una macchina diretta verso il sole, può rivelarsi meno facile del previsto. Se non ve la sentite di rischiare, tutto considerato è meglio che tiriate dritti per la vostra strada e facciate ritorno al tempo che vi appartiene. Dopo quel lontano giorno d’inverno del 1949, Neal Cassady rimase quello che era. In certo senso, ci fu costretto. Ormai sentiva di dover restare fedele al personaggio folle e passionale che Kerouac gli aveva cucito addosso. Molti anni dopo, quando ormai non aveva più l’energia di un tempo, continuava a fare il pazzo pieno di vita scarrozzando un autobus di mattacchioni hippy capitanati da Ken Kesey, quello di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Morì così, allo stremo delle forze, dicendo a un amico di essere così stanco da non voler più andare da nessuna parte. Proprio lui, che del semplice andare aveva fatto una religione. Quanto a Kerouac, soltanto un anno dopo, nel 1950, pochi mesi prima di sposarsi con una donna di nome Joan Haverty, scrisse: «La carne ha cessato di significare qualcosa per me. Cosa importa se guadagno la misera soddisfazione del pene o no? Cosa ha a che spartire con me quello stupido, inadeguato, patetico vermiciattolo?». Col passare del tempo divenne una persona scostante, un predicatore della spontaneità, capace di covare rancori paranoici. Sposò una donna che non amava, per poi tornare da sua madre, ciò che in fondo aveva sempre fatto. A poco a poco si trasformò in un ubriacone misogino pronto a disprezzare chiunque in suo nome predicasse l’amore libero. A un certo punto diventò anche buddista, rimanendo comunque un fervente cattolico. Buddha gli offrì quello di cui aveva bisogno: una scusa per non prendersi le

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proprie responsabilità e tenersi alla larga dalla lussuria. Voleva tenersi alla larga dal ciclo, un modo elaborato per dire che voleva tenersi alla larga dal grande imbroglio della vita: la concupiscenza, il desiderio carnale o, se vogliamo, il puro e semplice desiderio. Qualunque cosa sia questa irrefrenabile inclinazione chiamata desiderio. Che ci sia riuscito davvero è un’altra faccenda. Quando erano ancora all’inizio della loro storia, Kerouac e LuAnne andarono in un parco di New Orleans. Fumarono marijuana per un po’, dopodiché lui le descrisse tutte le varie cose che vedeva nelle nuvole. Otto anni dopo si rividero a San Francisco. Prendendo LuAnne per mano, Kerouac disse qualcosa di diverso questa volta. «Adesso non vedo più niente nelle nuvole». Forse non aveva fumato abbastanza o forse fa anche questo parte del ciclo. Perché la vita, che la si scriva o la si viva, è fatta così. E forse alla fine contano solo i momenti. Due giovani nudi, una ragazza bionda nel mezzo, una macchina che punta verso il sole. Un momento indietro nel tempo. Kerouac se ne andò guardando la televisione e trangugiando lattine di birra. Giunto il momento della «stanca mezza età», la sua vita sulla strada era ormai soltanto un ricordo. Forse a renderlo diverso dall’amico che diceva di voler emulare era proprio il fatto di avere una casa cui tornare. Ripeteva di aver avuto un’infanzia stupenda. Non è esattamente così, ma poco importa. Il passato gli scorreva costantemente davanti agli occhi nelle sembianze di una paradisiaca allucinazione. Aspirava a fare di sé un vagabondo, ma aveva troppa nostalgia di casa per poterlo diventare davvero. Girovagò molto, questo sì, e ne fece di tanti colori. A differenza di Cassady, però, sapeva fin troppo bene dove andare. Si metteva in viaggio per vivere più intensamente, giacché più intensamente si vive più cose si hanno da ricordare e raccontare. Ed è così difatti che William Burroughs lo ricorda: «come uno scrittore che

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parla di scrittori o se ne sta seduto in un cantuccio tranquillo con un taccuino, a scrivere... Dava la sensazione di scrivere tutto il tempo; che la scrittura fosse la cosa cui pensasse. Non ha mai voluto fare nient’altro». Ma queste cose le sapevo già, quando negai i miei spiccioli al ragazzo randagio della stazione di Tel Aviv. Sapevo d’amare Kerouac non soltanto per la musica della sua prosa, ma anche per quella sorta d’impostura che ci accomunava e che in fondo accomuna tutti gli scrittori o perlomeno moltissimi di coloro che scrivono. La verità è che in quel ragazzo vedevo qualcosa di più, un fantasma che veniva da lontano, un mio antico spettro.

SECONDO PIANO, il mio inferno, dove mi trovo costretto a fronteggiare il fantasma orrifico che mi guasta l’esistenza, lo spettro del fallimento

Tra i molti oggetti interessanti in dotazione nelle stanze d’albergo nessuno regge il confronto con la targhetta che si appende alla maniglia per tenere alla larga donne delle pulizie e altri scocciatori. Ne pas déranger. Bitte nicht stören. Do not disturb. Non disturbare. Cosa succede dietro quelle porte? Si dorme, semplicemente? Si fa l’amore? O si consuma qualche atto criminoso? Un uomo picchia a sangue una donna, fa le valigie e se ne va, lasciando esposta la sua richiesta di privacy. Il cadavere verrà scoperto molte ore dopo perché al momento di rifare le stanze la cameriera è passata oltre. È successo. Il reato che più di frequente si verifica è tuttavia un altro, e di natura ben più lieve. Parecchie persone amano portarsi via la targhetta non disturbare. Per la loro collezione, dicono. Il furto è talmente abituale che ormai gli alberghi lo considerano un omaggio. Lo scrittore Georges Simenon ne prese una all’Hotel Plaza di New York. Ne fece buon uso. Era solito sistemarla alla porta del suo studio prima di mettersi al lavoro. Non che ce ne fosse bisogno. In casa era noto a tutti che non tollerava interferenze di alcun tipo, e tutti si guardavano bene dal disturbarlo mentre scriveva. In effetti, l’apposizione della targhetta era più un atto rituale; una delle tante manie vòlte a

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favorire uno stato di concentrazione. Per esempio, era sua abitudine sottoporre sé stesso e i familiari a una visita medica, per evitare che improvvise emergenze d’ordine sanitario potessero distrarlo. Oppure: al termine della seduta di scrittura si toglieva la camicia pretendendo che venisse lavata e stirata per il giorno seguente, perché ogni dettaglio ambientale doveva restare immutato. Non era superstizione. Lo esigeva il rito, la premessa indispensabile per il conseguimento e il mantenimento della concentrazione, che nel caso di Simenon sconfinava in uno stato di trance vera e propria. Spesso i romanzi che nascevano al di là della porta protetta dalla targhetta non disturbare erano storie di cadute, racconti di uomini che finivano per imboccare il vicolo buio di un fallimento. Erano insomma storie di antieroi, di sconfitti, di soccombenti. È un motivo ricorrente tra molti scrittori. George Orwell sosteneva che «ogni libro è un fallimento». David Foster Wallace vedeva il problema da una prospettiva più attorcigliata: «Tutto ciò che è un fallimento è sempre una vittoria». Ma è davvero così? Certo è che se bastasse fallire per diventare ottimi scrittori, dovrebbero darmi il Nobel di corsa. Sono un fallito precocissimo. Nei giorni in cui ero ancora un bambino spaurito capitava che mia madre mi portasse con sé nei suoi irrequieti giri per le vie del centro. Ricordo il modo in cui mi incantavo guardando i giovani che allora popolavano le strade. Avevano capelli lunghi, vestiti colorati e sedevano sul selciato suonando la chitarra e cantando incuranti della gente che scuoteva la testa. Per qualche ragione, nella mia mente di bambino spaurito mi ero fatto l’idea che quei giovani vivessero lì, all’aperto, che si fossero accampati nelle strade alla maniera degli indiani dei film western, con lo scopo di stare sempre insieme, fare musica, sorridere, volersi bene ed essere felici. Naturalmente non sapevo che quei giovani erano hippy, vale a dire persone

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che rifiutavano la società dei consumi e il conformismo borghese. Né sapevo che i figli dei fiori erano contro la guerra e che predicavano pace e amore. Non sapevo che quei capelloni sognavano di cambiare il mondo. Ma pur non sapendo niente di loro ero felice che esistessero. La loro presenza nelle strade mi confortava. Pensavo che se da grande fossi diventato un fallito, se mi fossi rivelato un incapace, un disperato senza soldi né casa, avrei comunque avuto la possibilità di unirmi a loro. Mi sarei fatto crescere i capelli, avrei indossato gli stessi abiti colorati, suonato e cantato con loro. Temevo infatti che non avrei mai combinato niente di buono nella vita e che mi sarei sentito sempre fuori posto. Ero un esserino gracile e imbronciato che diffidava di tutto, perfino dei propri genitori. Gettavo di nascosto il cibo che mi dava mia madre, convinto che fosse avvelenato e scrutavo di sottecchi mio padre, perché una volta lo avevo sentito dire che ero un po’ strano e forse era il caso di farmi visitare da uno specialista. Così me ne stavo tutto il tempo rinserrato in me stesso sperando che un giorno gli alieni venissero a prendermi oppure che un insetto radioattivo avesse il buon cuore di mordermi la mano trasformandomi in un supereroe. Insomma non ero messo granché bene. Considerate le mie tenebrose prospettive, diventare hippy rappresentava un’àncora di salvezza più che ragionevole. Tuttavia i tempi cambiarono. Da molti anni ormai quei giovani colorati dai capelli lunghi sono scomparsi dalle strade. In qualche modo me la sono cavata anche senza di loro ma oggi, quando giro da solo per le vie del centro e vedo gente che fa acquisti nei negozi o mangia nei fast food, mi domando che fine hanno fatto gli hippy. Non essendo più un bambino ovviamente so cosa è successo ai “favolosi” anni Sessanta. So che da un certo momento in poi la storia ha preso un’altra direzione e so che il sogno di cambiare il mondo non si è

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avverato. So che a un tratto si passò dai fiori nei capelli alle P38 nelle tasche. E so che la Storia si è portata via soltanto gli hippy veri. Quelli finti invece ne hanno fatta molta di strada. Uno fu perfino eletto presidente della maggiore potenza del pianeta. Dice che in gioventù ha fumato anche una sigaretta alla marijuana. Senza aspirare però. In seguito, quando era già alla Casa Bianca, l’hanno messo in croce per una pruriginosa faccenda di sigari. Cosa se ne dovrebbe concludere? Che le temerarie promesse di quel decennio infuocato non vennero mantenute? Che siamo stati ingannati? Che scoperta, ovvio che è così. Ma adesso che dobbiamo fare? Sentirci in colpa? O incazzarci piuttosto; incazzarci perché i sogni con cui ci hanno allattato altro non erano che menzogne? «Ex fan dei Sixties, dove sono i tuoi anni di follia? Cosa sono diventati i tuoi idoli?», cantava Jane Birkin. Talvolta mi viene da pensare che i giovani che ricordo di aver visto da bambino non erano hippy. Talvolta mi viene da chiedermi se non me li sia soltanto immaginati, gli hippy. Magari nemmeno io ero quel bambino tanto spaurito che ho sempre creduto di essere. Ma quand’anche fosse, dovrei forse farne un dramma? Covare rancori, sentirmi in colpa, struggermi di nostalgia? E per cosa? Per un tempo che non ho mai vissuto? Andiamo. Se c’è una cosa che ho imparato a forza di scrivere storie, annegando scampoli di realtà in mari di finzioni, è che la letteratura è fatta con ciò che resta e la si fa per chi rimane. È il suo lato più tenero e umano, probabilmente è anche il suo limite, ma è ciò che la rende essenziale. E chissà, forse è proprio questo che fa di ogni fallimento una vittoria.

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STANZA 201

Sorpreso da una disperazione angosciosa nel mezzo della notte, un uomo non più giovanissimo prepara la valigia per andare lontano, in un luogo sperduto e dimenticato da Dio dove sia possibile affittare per pochi soldi una stanza nella quale consumare una scorta di cracker e carne in scatola e restare in solitudine coi propri pensieri. L’uomo era felice un tempo. Forse non felice in senso stretto, perché nessuno può dire cosa sia davvero la felicità. Diciamo allora che si sentiva nel pieno della vita. Sprizzava un entusiasmo e un’esaltazione tali che doveva andarsene a zonzo per strade e vicoli appartati per smaltire tutta quella energia positiva. Gli succedeva infatti che l’estasi fosse troppo grande per essere condivisa con qualcuno, incluse le persone a lui più care, e il solo modo di darle sfogo, a parte girovagare, era distillarne qualche frammento nei libri, nelle frasi dei romanzi. Perché l’uomo era uno scrittore. Per un certo periodo era stato anche uno scrittore di successo. Lui e sua moglie erano stati la coppia più popolare della loro epoca. Avevano vissuto

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nello sfarzo, spendendo più di quanto lui riuscisse a guadagnare; e non guadagnava poco. Poi erano venuti i problemi. L’alcol e altre cose. Ma anche all’apice della gloria, al picco di quella che con un po’ di approssimazione si sarebbe potuta definire felicità, un’ombra si agitava nell’angolo, la sensazione che non potesse durare, il presentimento che alla fine di quella strada di scintillante e dissoluta allegrezza un crollo fosse in attesa. Per molti versi, l’uomo si era già trovato faccia a faccia con quell’ombra. Aveva conosciuto le sue cocenti delusioni ancor prima dei problemi con l’alcol. Si era trattato di attimi o poco più. Nel fulgore dell’ebbrezza giovanile potevano sembrare persino esaltanti, pervasi da un che di epico, nobile, glorioso. Perché non bisogna mai confondere una sconfitta in battaglia con la fine di una guerra, e in gioventù ci sono soltanto battaglie. Anche la guerra più lunga giunge però a una sua risoluzione, e quando il momento arriva, il calare del sipario si accompagna spesso allo squarcio di un velo, soprattutto se si è combattuta una lunga guerra di posizione, uno di quei conflitti in cui si viene prima logorati e poi, soltanto poi, sconfitti. Uscendo di scena, a capo chino e luci spente e senza l’applauso del pubblico, il fantasma di noi stessi riconosce le cose per quello che sono. Non scorge più alcun fascino nelle sconfitte perché ci vede soltanto la preparazione meticolosa e inappellabile del fallimento, finendo così per assumere «un atteggiamento triste nei confronti della tristezza, un atteggiamento malinconico nei confronti della malinconia e un atteggiamento tragico nei confronti della tragedia». Quando Francis Scott Fitzgerald si ritirò in quel che lui definì uno stato di «relativo ascetismo» non si prefiggeva di intraprendere una «magnifica ricerca» dell’anima. Aveva soltanto bisogno di pace, un poco di tranquillità per capire come

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fosse potuto giungere a uno stato interiore tanto sconfortante. Peraltro lo stato non era solo interiore: dopo il ricovero in un ospedale psichiatrico di Zelda, la compagna di una vita, si ritrovò solo o quasi, malato, perennemente ubriaco, sommerso dai debiti, dimenticato dai lettori, incapace di scrivere racconti da vendere a qualche rivista per sbarcare il lunario. In una serie di articoli comparsi nel 1936 su «Esquire» presentò al mondo, con quello strano candore che era sempre stato un lato del suo carattere, la radiografia del suo fallimento. Fosse vissuto più a lungo avrebbe scoperto che talvolta un secondo atto è possibile, avrebbe visto la sua opera rinascere e conquistarsi un posto di primissimo piano nella storia della letteratura statunitense. Col senno della Storia, Fitzgerald non può certo considerarsi un fallito. In vita, col suo primo romanzo, aveva fatto furore. Soltanto in seguito imboccò una parabola discendente che pareva condurre all’oblio. All’indomani del trapasso, il «New York Times» lo liquidò come lo scrittore di un’epoca, lasciando intendere che libri come Tenera è la notte e Il grande Gatsby non sarebbero sopravvissuti al trascorrere degli anni. Tuttavia è proprio nel crollo patito nella parte terminale della sua esistenza; è proprio in quella sua aura di uomo patetico e fallito che affondano le radici del successo postumo. Il Sogno americano, è noto, concede una chance a tutti; riconosce a chiunque il diritto di cercare la felicità nel modo che ritiene più giusto. Di primo acchito si direbbe una cosa fantastica. A guardarla meglio, questa sfavillante opportunità nasconde un lato spietato, una rischiosa controindicazione. Sei libero di giocarti le tue carte, ma una volta che hai giocato, il dado è tratto per sempre. O vinci o perdi. Se vinci puoi tentare ancora la fortuna, se perdi la partita è chiusa e non ti verrà concessa un’altra possibilità; un secondo atto, per dirla alla maniera di Fitzgerald. Il che significa che crollo, sconfitta

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e fallimento, nonché la solitudine che queste sventure comportano, non soltanto sono costantemente in agguato: sono pure l’eventualità più probabile. C’è inoltre un aspetto ancor più crudele del mero perdere in sé. Cercare la felicità seguendo le orme di un sogno presuppone un doppio atto di fede. Tanto per cominciare, bisogna credere che la strada indicata dal sogno sia davvero aperta a tutti; una cosa per nulla scontata, considerato che a vincere sono sempre in pochi e questi pochi quasi sempre gli stessi. Ma questo è il meno, perché l’altra cosa in cui è necessario credere sono le proprie carte e siccome non stiamo parlando di una partita di poker qualunque, bensì della nostra vita, la sola che fino a prova contraria abbiamo a disposizione, quelle carte sono tutto ciò che abbiamo e siamo. Certo, in teoria sarebbe anche possibile bluffare, ma non è affatto agevole assumersi un simile rischio nell’unica mano che ci viene concessa. Senza contare, poi, che con quel bluff dovremo convivere fino alla morte. Per questo, tutto sommato, è meglio crederci: perché se proprio dobbiamo perdere, che almeno sia una sconfitta vera. Per questo il senso di fallimento è totale: perché ci abbiamo creduto. Tutto ciò Fitzgerald lo sapeva molto prima di crollare. Lo sapeva perché l’ha raccontato. L’ha raccontato in questa maniera: due giovani si innamorano, e l’amore è intenso, di quegli amori belli e perfetti da sembrare l’amore della vita. Perlomeno così sembra a lui. Lei si gode invece il momento, qualche bacio rubatole di sera, passeggiando nelle strade deserte, la piacevole sensazione di essere desiderata alla follia. Accade però qualcosa più grande di loro, un evento enorme, qualcosa come una guerra. Lui parte per il fronte, per un paese lontano. Lei resta. La vita prosegue e arriva un matrimonio. Si sposa col rampollo di una famiglia ricca a dismisura e comincia a condurre un’esistenza raminga. Sospinti dalla

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noia, lei e il suo consorte vagano senza una meta precisa, fermandosi ovunque ci sia gente ricca quanto loro, finché non mettono radici in una località alla moda. Un bel giorno – è ormai trascorso qualche anno – il giovane soldato rispunta in nuove e sfolgoranti vesti. Ha preso casa nelle vicinanze. Casa per modo di dire. In realtà si tratta di una roba colossale sotto ogni punto di vista, la replica di un lussuoso albergo francese nella quale il giovanotto tiene ricevimenti spettacolari che diventano ben presto leggenda. Anche la figura del giovane, ormai uomo fatto, è avvolta da un’aura speciale. Si raccontano storie. Si dice che dietro quello sfarzo ostentato si nascondano loschi affari, forse addirittura un omicidio. Si tratta in gran parte di maldicenze, ma un fondo di verità c’è. Perché i soldi non nascono dal nulla e invece il giovane uomo è di umili origini. Ma non importa. Comunque abbia messo insieme quella fortuna, costui è rimasto fedele al suo amore di ragazzo. Tutto quello che ha fatto e conquistato l’ha fatto e conquistato soltanto per lei, per colmare il baratro economico che li ha separati. Ora che è finalmente ricco, crede di poter coronare il suo sogno e forse potrebbe riuscirci davvero se un destino cinico e baro non decretasse un finale da tragedia. Raccontata così la trama del Grande Gatsby sembra il canovaccio di uno di quei romanzi sentimentali infarciti di stereotipi e languidezze. Il nocciolo della faccenda – un amore che non può sbocciare per via di incolmabili differenze di censo – è un motivo fin troppo abusato. Nondimeno proprio di questo si tratta, e Francis Scott Fitzgerald fu il primo a riconoscerlo: «L’idea di base di Gatsby è l’ingiustizia di un povero giovane che non può sposare una ragazza coi soldi. Questo tema ritorna in continuazione perché l’ho vissuto sulla mia pelle». Ovviamente, lo scrittore non voleva limitarsi a esprimere la sofferenza generata dalla cruda realtà per cui «nove ragazze

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su dieci si sposano per denaro». Voleva anche consegnare alle stampe, e alla storia, «qualcosa di nuovo; qualcosa di straordinario e bello e semplice + intricatamente strutturato». E non soltanto voleva. Riteneva fermamente di esserci riuscito, di avere concepito «il migliore romanzo americano di sempre», anche se all’indomani dell’uscita, il 25 aprile 1925, molti critici si dichiararono di tutt’altro avviso. Gli riconobbero di aver colto lo spirito di un’epoca, l’Età del Jazz, ma non più di questo. Trovarono che la prospettiva del romanzo fosse limitata, il soggetto trito e i personaggi sgradevoli e immaturi. E qui si profila un punto di domanda. Se il nocciolo del Grande Gatsby appariva trito e immaturo già agli inizi del secolo passato, cosa lo rende credibile al lettore contemporaneo? Perché mai l’amore romantico di questo gangster buono in abito rosa oggi non ci risulta affatto melenso e fuori dal tempo? Una risposta bella e pronta ce l’avrei, anche se d’ordine personale. Perché una storia così, epilogo tragico a parte, io l’ho vissuta. Ha inizio quando ho all’incirca otto anni; forse anche prima, non ricordo bene. Come molti bambini, detestavo che mi si portasse dal barbiere, ma la mia fiera opposizione non impediva che l’inconcepibile supplizio del taglio di capelli – la spuntatina, per usare l’insensata minimizzazione cara all’uomo delle forbici – avesse ciclicamente luogo. Accadeva allora che mi lasciassi condurre alla bottega come un corpo inerte, alla maniera di un condannato a morte, e lì attendevo il mio turno seduto su un divanetto in finta pelle d’un terrificante colore marroncino. Accadeva pure che il mio sguardo afflitto cercasse riparo nella copertina di certe riviste, un tempo chiamate anche rotocalchi, poste su un tavolinetto col piano di fòrmica, anch’esso d’un colore desolante. Fu così che creai i presupposti per un amore che avrebbe segnato la mia vita. Com’è nella predisposizione di certa stampa scandalistica, quelle copertine mostravano gente del

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bel mondo ritratta nello splendore della sua celebrità. Erano perlopiù stelle del cinema o della televisione e non di rado venivano mostrate in coppia, còlte a tradimento nell’atto di baciarsi o scambiarsi tenere effusioni. Un furtivo stare insieme immancabilmente commentato da frasi brevi e urlate, manco flirtare fosse lo scoppio della terza guerra mondiale. Di tanto in tanto, però, il posto di primo piano veniva riservato a una fanciulla regale e bellissima, dai tratti perfettamente disegnati. Si chiamava Caroline di Monaco e benché fosse più grande di me di pochissimo – aveva tredici o quattordici anni – i miei occhi di bambino, complici gli abiti che lei indossava e le posture impeccabili, la vedevano come una signorina fatta e finita la cui principesca bellezza si librava ad altezze siderali rispetto al ciarpame che solitamente popolava quelle riviste. Tanto mi erano di conforto le sue fotografiche apparizioni nei tenebrosi momenti della spuntatina che finii per innamorarmi. Ero ancora un bambino, ma mi rendevo conto del baratro che ci separava. Sapevo che non sussisteva la benché minima possibilità d’essere corrisposto da un simile angelo del cielo, il che condiva il mio invaghimento di una nostalgia preventiva, al contempo dolce e crudele, la nostalgia per ciò che mai si è avuto e mai si potrà avere. Crescendo, le rimasi abbastanza affezionato da seguire con interesse la cronaca delle sue traversie sentimentali: l’alone quasi soprannaturale di cui l’avevo vista ammantata da piccolo si rivelò radicato con la forza di un imprinting. In altre parole, il tipo di donna che Caroline incarnava aveva su di me l’effetto che potrebbe avere un pioniere dell’etologia su un brutto anatroccolo orfano. Insomma, potevo ritenermi vittima della stortura mentale che, secondo Hemingway, soggiogò Fitzgerald: la convinzione che i ricchi fossero diversi dagli altri esseri umani.

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Hemingway aveva le sue ragioni, visto il tenore delle considerazioni che sottolineano i momenti chiave del romanzo: «Gatsby era immensamente consapevole della gioventù e del mistero che la ricchezza imprigiona e preserva, della freschezza di tanti vestiti, e di Daisy, scintillante come argento, tronfia e sicura, al di sopra delle lotte infuocate dei poveri». Frasi del genere inducono a pensare che l’amore totale e ossessivo per Daisy non sia che la fatale conseguenza dell’attrazione verso il potere magico della ricchezza, un potere che rende una ragazza più bella e più giovane di qualunque bellezza o giovinezza la natura possa regalare, facendola apparire “diversa”, un essere di una razza superiore che coi normali umani condivide una somiglianza soltanto accidentale. Alla maniera di Gatsby, sono rimasto fedele a questa idea di amore per la principessa Caroline finché non mi capitò di conoscere una ragazza che aveva il suo stesso nome e, cosa ancor più importante, un titolo nobiliare. Sosteneva di essere discendente in linea diretta di quella dama anglosassone che secoli fa cavalcò nuda per le vie di non so quale cittadina inglese affinché il marito si convincesse ad abrogare l’ennesima pesante gabella imposta ai sudditi. Non ho mai appurato se fosse vero. Certo è che la sua famiglia aveva i titoli giusti e quando mi ritrovai a diventare il suo fidanzato quasi ufficiale conobbi l’irragionevole consapevolezza di cui si parla nel Grande Gatsby. Credevo di provare un amore assoluto e probabilmente non mi sbagliavo, ma in determinate situazioni la differenza tra ciò che si crede e come stanno le cose davvero conta zero. Malgrado fossimo ormai alle soglie del terzo millennio, la nostra relazione fu oltremodo complicata dall’invalicabile divario sociale. Andò comunque avanti per un paio di anni, nel corso dei quali lei mi lasciò svariate volte, adducendo motivi come la mia impossibilità di accompagnarla a Vienna

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per il valzer delle debuttanti. Viene da sé che questa diversità che mi vedeva manchevole ed escluso non fece che accrescere il mio amore. Era sciocco tutto ciò? Può darsi, ma vissuto dall’interno non lo sembrava affatto. E comunque il cuore della faccenda non è l’errore di rincorrere un amore improbabile. Un giovanotto di modesti natali tormentato ai limiti dell’insensatezza per una principessa o un’ereditiera non perde mai del tutto il lume della ragione. E infatti, il modo in cui Fitzgerald descrive un olimpo fatto di case sontuose dove le feste danzanti paiono il senso primigenio dell’esistere non è cieco. Lo scrittore vede benissimo la futilità quasi oltraggiosa di tutto ciò. «È quello che sono sempre stato: un ragazzo povero in una città ricca, un ragazzo povero in una scuola per ricchi, un giovanotto povero in un club di studenti ricchi, a Princeton. Non sono mai riuscito a perdonare ai ricchi il fatto d’essere ricchi, rabbuiando così la mia vita e tutte le mie opere»: così percepiva sé stesso e i ricchi che lo ossessionavano. Le parole di Hemingway suonano dunque un po’ sbrigative. Prendiamo il momento in cui viene rievocato l’incontro tra Gatsby e Daisy: «Era la prima ragazza “a modo” che avesse mai conosciuto. Sotto varie e mentite spoglie gli era già capitato di entrare in contatto con persone simili, ma un’impercettibile barriera di filo spinato si era sempre frapposta fra lui e loro. La trovò desiderabile alla follia. Andò a casa sua, la prima volta in compagnia di altri ufficiali di Camp Taylor, quindi da solo. Restò sbalordito; non era mai entrato in una casa tanto bella. Ma a donarle un’intensità da togliere il respiro era il fatto che ci vivesse Daisy, per lei era un ambiente normale come per lui lo era la sua tenda da campo». Spesso il verbo stregare viene riferito all’amore, ed è per l’appunto quel che capita a Gatsby: resta stregato, e non soltanto nel senso lato del linguaggio romantico. Più che un col-

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po di fulmine, la vista della meravigliosa casa di Daisy gli si imprime nell’animo come una maledizione. La tenda da campo, il filo spinato, la guerra imminente che condurrà Gatsby all’altro capo dell’oceano fanno certo parte dello scenario dell’epoca, ma sono anche la metafora dei sentimenti contrastanti che Fitzgerald covava verso i ricchi: un calderone dove ribolliva di tutto, dalla voglia di rivalsa alla consapevolezza che non c’era nulla che potesse fare per scavalcare davvero quella barriera. È arbitrario affermarlo, ma nel senso di fallimento che lo oppresse negli anni finali pare di leggere una perversa determinazione, quasi un castigo che lo scrittore si inflisse da sé per essere stato tanto sfrontato da aspirare a qualcosa che non gli competeva e che, forse, nemmeno voleva; un mondo che amava solo perché quello stesso mondo, escludendolo a priori, non gli aveva concesso il diritto di rifiutarlo e, dunque, di detestarlo apertamente. Ma, come ho detto, è un’ipotesi arbitraria. Quel che si può con certezza affermare è che tutto prese forma con la prima ragazza di cui Fitzgerald si innamorò. Si chiamava Ginevra King, un nome che già di per sé era tutto un programma; giunse alle orecchie di Scott quando aveva appena quattordici anni. Ginevra era di Lake Forest, il centro abitato più esclusivo dei dintorni di Chicago, a detta del futuro scrittore: «il luogo più favoloso del mondo». Il padre era un banchiere importante e possedeva una scuderia di pony, proprio come Tom, l’uomo che Daisy sposerà e mai lascerà per tornare con Gatsby. La passione si protrasse per cinque anni, fino al settembre 1918 quando Ginevra si maritò con un uomo consono al suo rango. Molti anni dopo Scott si lamentò di essere stato «abbandonato con la massima noia e indifferenza», ma la verità è che Ginevra lo considerò sempre e soltanto un diversivo, uno delle decine di spasimanti coi quali si divertiva a flirtare. In un’intervista rilasciata nel

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1974 la donna, ormai anziana, dichiarò con molta nettezza di non averlo mai «considerato nulla di speciale», non ricordava neppure di averlo mai baciato e si disfece con noncuranza delle lettere che le aveva scritto. La verità è che non avrebbe mai potuto abbandonarlo, perché non ci fu mai niente di serio tra loro, se non nella mente di Scott. A Gatsby accade lo stesso. Va in guerra, combatte, torna, mette insieme una discreta fortuna con mezzi al di là del lecito, compra una casa enorme, intrattiene la società più in vista di New York e dintorni con feste spettacolari. Tutto nella speranza, anzi no, di più: tutto nella ferma convinzione che Daisy avrebbe lasciato il marito per coronare quello che lui crede essere un sogno condiviso. Ma nel momento decisivo Daisy non viene nemmeno sfiorata dal pensiero di mettere seriamente a repentaglio una vita comoda e sicura per un sogno, per qualcosa che è soltanto nella mente di Gatsby. Nondimeno Gatsby non è un alter ego. Scott era ben lungi dall’ingenuità del suo personaggio. Nel suo strano candore, sapeva che Ginevra era comunque irraggiungibile; sapeva che diventare ricchi non è la stessa cosa che nascere ricchi. «Io parlo con l’autorità del fallimento. Ernest con l’autorità del successo. Per questo non potremo più sederci allo stesso tavolo», ebbe a dire una volta riferendosi all’amico-nemico Hemingway. Parlare con l’autorità del fallimento significava, per lui, avere accettato di vivere nel proprio sogno pur sapendo che sarebbe rimasto un sogno. Secondo qualcuno il peggior destino per un uomo è quello di identificarsi con le proprie illusioni. È il destino che Scott scelse per sé: confondere quel che si desidera col mondo rea­ le, la vita che si sogna con quella che ci tocca vivere. È il destino che condanna Gatsby a una tragica quanto misera fine. Ma la grandezza non consiste nella donchisciottesca sconsideratezza d’inseguire l’irraggiungibile.

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Noi lettori apprendiamo la storia di Gatsby da un narratore di comodo, un amico, un giovanotto di nome Nick Carraway, che nello svolgersi degli eventi riveste perlopiù il ruolo di testimone. Nick appartiene al mondo dei nati ricchi da cui Gatsby è escluso; è un lontano cugino di Daisy e ha frequentato lo stesso college di Tom. Eppure è dalla parte di Gatsby e ne racconta la storia proprio per rendergli giustizia. In un certo senso, Nick è una terra di mezzo. Costituisce il tramite tra il mondo di sogno e la cruda realtà. Laddove Gatsby rappresenta soltanto il lato più ingenuo e capriccioso di Fitzgerald, Nick ne incarna la parte consapevole, quella che conosce bene il fallimento che lo attende. La cosa più interessante di questo personaggio o, per meglio dire, di questa voce è tuttavia la sua discrezione. Nick si dichiara un narratore onesto perché non giudica mai nessuno. In effetti, non è proprio così. Nick giudica eccome, ma lo fa in modo riservato. Non si tratta di un tono accidentale: nelle primissime righe ci rivela che lui e suo padre sono sempre molto comunicativi nel loro modo di dire pochissimo. Suona quasi come una dichiarazione d’intenti, perché nelle pagine del Grande Gatsby, come del resto in quasi tutto ciò che Fitz­ gerald ha scritto, quel che non è detto conta più di quel che è detto, e ancor di più conta il modo in cui non viene detto. Fitzgerald si rammaricava di non possedere il magnetismo animale che emanano certi uomini. Si vantava però di supplire a questa mancanza con l’abilità. Conosceva l’animo femminile e le regole della civetteria, pertanto non ci aveva messo molto a imparare i trucchi della seduzione. Il suo preferito era appunto l’elusione. Se voleva conquistare una ragazza le diceva qualcosa di galante, lasciando però in sospeso il complimento. «I tuoi sono occhi di una bellezza indescrivibile. Be’, forse ci sarebbe una parola per definirli e credo proprio di conoscerla, ma ora non posso dirtela». Ovviamente, la ra-

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gazza gli restava incollata finché non avesse spifferato l’aggettivo negato. Il problema era che un gioco del genere non può durare a lungo. Fitzgerald lo sapeva, ma finché durava gli era possibile vivere all’interno di un sogno irrealizzabile, confondere quel che è con quel che non potrà mai essere. Fece qualcosa di analogo in letteratura. Nel 1933, quando il crollo era alle porte, scrisse: «Tendenzialmente, noi scrittori dobbiamo ripeterci. Nella nostra vita facciamo due o tre esperienze importanti e toccanti... Poi impariamo il mestiere, più o meno bene, e raccontiamo le nostre due o tre storie – ogni volta camuffate in modo diverso – forse dieci volte, forse cento, finché la gente ci sta ad ascoltare». Scrisse in questa maniera finché Zelda, la compagna di una vita, non fu ricoverata in una clinica psichiatrica e i debiti non divennero troppi per poterli onorare. La tristezza cominciò a sembrargli null’altro che tristezza. Allora scrisse su «Esquire» una serie di articoli nei quali, col suo strano candore, gettò in pasto ai lettori la propria disperazione. Nessuno raccolse il suo grido se non per denigrarlo. Non gli restò che morire, convinto, e forse felice, di avere fallito.

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STANZA 202

È all’incirca ora di pranzo. Poco dopo pranzo, credo, perché sono seduto al tavolo della cucina e davanti a me c’è mia zia, e mia zia passa sempre dopo pranzo, dopo certi suoi giri per la città. Prima di avviarsi verso casa, citofona e sale da noi per fare quattro chiacchiere con mia madre, sua sorella. In verità, più che chiacchiere, sono lamentazioni. Quando si riuniscono, mia madre e mia zia snocciolano una vita di sofferenze, disegnano il ritratto di chi le ha fatte soffrire. È fatale dunque che finiscano a dilungarsi per ore su mio padre, che obiettivamente non ha reso agevole l’esistenza di mia madre. Hanno sviscerato l’argomento tante di quelle volte che ora ne parlano quasi ridendo. Quasi. Perché mia madre ne ha passate troppe per poter ridere davvero. Essendo abituato sin da piccolo a questo genere di riunioni, mi mantengo abbastanza tranquillo e indifferente. Ogni tanto butto un occhio al piccolo televisore che mi guarda dall’alto di una mensola ad angolo. Disponiamo di tre apparecchi tv in casa. Tre è un numero ragguardevole, se si considera che il nostro appartamento conta appena due stanze. Non sono rari i frangenti in cui, in casa, ci sono più televisori accesi che

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persone. Uno si trova in camera dei miei, sulla cassettiera di fronte al letto. Un altro è nel salone dove dormo io, incassato tra pile di vestiti in un grosso armadio a muro con gli sportelli scorrevoli; un televisore a scomparsa. E infine c’è questo, il più piccolo di tutti, assiso su quella specie di balconcino. Comunque, dicevo, me ne sto per i pensieri miei, poco attento ai discorsi che si fanno in cucina, quando mia zia si rivolge direttamente a me, forse proprio perché mi vede distratto. «Perché tua madre», mi dice, «per colpa di tuo padre, ha persino tentato il suicidio una volta». Io resto di sasso. È la prima volta che sento una storia simile e allora mi volto per cercare conferma, ma lei non apre bocca. È intenta a lisciare qualcosa con lo straccio. Non ricordo bene cosa, se il lavello di alluminio o le piastrelle attorno al piano cottura o le manopole dei fornelli. Ma sul fatto che stia lisciando qualche parte della cucina non ci sono dubbi. Lo ricordo bene. Come ricordo che tiene sempre la testa bassa, mia madre, quando liscia con lo straccio. Così torno da mia zia, che non si fa pregare e mi racconta tutta la storia. Stiamo parlando di quando mia madre aveva diciannove anni. Pochi mesi di matrimonio le erano bastati a capire di avere commesso uno sbaglio, sbaglio al quale pensa di rimediare facendosi trovare da mio padre distesa nella vasca da bagno, con le vene tagliate. Stando alla versione di mia zia, mio padre rientra dal lavoro, osserva qualche istante la scena, poi dice a mia madre di piantarla con la commedia e riesce di casa. «E mamma?», chiedo a mia zia. «Niente. Ha chiamato qualcuno. Si è fatta portare all’ospedale». Poi ha aggiunto: «Che poteva fare? Doveva pensare anche a te». Io vedo me stesso in quella stessa casa dove ora mi trovo. Mi vedo neonato, in una culla, nella stanza accanto al bagno

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dove mia madre se ne sta distesa in una pozza di sangue aspettando che torni mio padre. Con orecchi da neonato, sento aprire la porta e i passi di mio padre che va in bagno. Lo sento dire quelle parole e uscire di nuovo. Sento la porta di casa chiudersi. Poi faccio due conti e mi rendo conto che ho visto e udito male. «Era incinta», insiste mia zia, ma a questo punto ho già capito da me. A questo punto butto un altro occhio al piccolo televisore affacciato alla sua mensola, a un metro e novanta di altezza, e soltanto adesso mi accorgo che è spento. Ho diciassette anni, sono tornato da scuola, ho mangiato da poco, guardo un televisore spento e mia zia mi ha appena detto che ho tentato il suicidio per interposta persona prima di venire al mondo. Ho avuto giornate migliori nella vita. Talvolta la credenza infondata per cui la letteratura sarebbe salvifica e potrebbe rimediare ai mali dell’anima, se non persino a quelli del mondo, risorge con vigore immotivato. Io sono sempre stato dubbioso al riguardo. Non ho mai creduto fino in fondo alla storia che mi raccontò mia zia. E non ho mai indagato. Ho evitato di tornare sull’argomento. Mi sono guardato dal chiedere, a lei come agli altri familiari. Mi è bastato lo sguardo di mia madre mentre lisciava con lo straccio per sapere che qualcosa di vero c’era, e quel qualcosa era già troppo per me. Non ho mai voluto sapere di più ed è per questa ragione che sono dubbioso riguardo a certi presunti poteri della letteratura. Nondimeno in molti ci credono e, fra costoro, alcuni sono persino scrittori. Una mattina di mezza estate, una mattina di ferragosto per l’esattezza, un mio caro amico mi manda un messaggio. Mi esorta a comprare un quotidiano e a leggere un certo articolo.

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Precisa il numero della pagina in cui lo debbo cercare e mi assicura che non potrò trattenere le risa. Io eseguo, anche se fa un caldo feroce, e mi trovo da solo, in una Roma deserta, e non ho granché voglia di ridere. L’articolo è firmato da uno scrittore piuttosto noto, il quale, tra una citazione di Tolstoj e una di Balzac, afferma che «la letteratura, molto più della vita, è il luogo deputato alla felicità». Lamenta pure, lo scrittore, la disdicevole inclinazione, a quanto pare ignominiosamente dilagata nel corso del Novecento, verso una narrativa di stampo facinoroso, inquinata dalla politica. Al sommo grado di questa inqualificabile degenerazione pone un libro a suo dire «illeggibile», 1984 di George Orwell, perché troppo «tetro» e «privo di gioia». Può darsi che questo estimatore della felicità sia rimasto disgustato dall’olezzo di cavoli bolliti che fa da benvenuto al lettore nelle primissime pagine del romanzo, come non si può escludere che qualunque forma di narrativa engagé gli risulti indigesta. Nondimeno, io non rido. E non tanto perché 1984 è uno dei miei romanzi preferiti, ma perché mi viene da pensare una cosa, la seguente cosa: quand’anche si facesse piazza pulita dei romanzi politici, l’assunto che la felicità dimori nella letteratura è una sciocchezza assoluta. Certo, la felicità è fuggevole e per molti sventurati non resta che un miraggio. Ma basta guardarsi attorno, basta aver vissuto anche solo un po’, per comprendere che la felicità è tutta dentro la vita. Del resto, se il nocciolo del problema fosse la sua natura caduca, potremmo parimenti dire che la letteratura, molto più della vita, è il luogo deputato della giovinezza, il che è una scempiaggine così evidente da non necessitare confutazione alcuna. Proseguo dunque nei pensieri e ipotizzo che lo scrittore piuttosto noto abbia confuso la felicità col piacere della lettura. Perché, quanto a questo, non gli so dare torto: leggere

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è indubbiamente un piacere, e non di rado intenso. C’è però nel piacere – in qualunque genere di piacere, a cominciare da quello sessuale – una voluttà, una fame, una brama di appagamento che ne fa uno stato a sé, affatto diverso dalla felicità, la quale felicità dovrebbe invece essere una sensazione di così pura completezza per cui non si chiede nulla di più di ciò che già si ha o si è. Del resto, quante volte facendo l’amore con la persona che più desideriamo, e al meglio delle nostre possibilità, capita d’essere assaliti da ventate di disperazione angosciosa? La lettura non fa eccezione. E qui mi viene in soccorso l’amato Georges Simenon, che di romanzi ne scrisse a centinaia, e non romanzi facinorosi o imbevuti di ideologia, bensì null’altro che romanzi, storie che si lasciavano – e ancora si lasciano – divorare con facilità suprema. «Gli uomini leggono, perché quasi come il pane, hanno bisogno di finzione», diceva Georges Simenon. E sono parole, le sue, che oltre a rimarcare l’istinto famelico, quasi animalesco, che spinge i lettori alla lettura, lascia intravedere un altro aspetto che per nulla si concilia con la felicità. Lo so, in molti disdegnano l’idea che la lettura soddisfi il nostro bisogno di finzione, poiché in molti ritengono che il tesoro più prezioso riposto nei libri sia la verità o, alla peggio, la realtà delle cose, che della verità è il prosaico surrogato. È tuttavia inessenziale stabilire se sia fame di finzione o di verità, perché lo spasmodico bisogno di finzione di cui parla Simenon non è che la superficie, l’effetto, la manifestazione di un problema più profondo: ci immergiamo nella finzione dei romanzi perché nella vita siamo stati incapaci di trovare la verità. Brutalmente: ci rifugiamo nel teatro della letteratura perché là fuori, nel mondo reale, abbiamo fallito in qualcosa. E che fosse questa l’idea di Simenon emerge in maniera chiara da una frase delle Memorie intime: «È stato in uno dei miei Maigret, credo, che ho coniato l’espressione “riparatore

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di destini” attribuendo al mio commissario la stessa confusa aspirazione che nutrivo io». Simenon rappresenta un caso particolare, se non unico. All’apparenza sembra l’antitesi del pozzo oscuro del fallimento. Le foto ce lo mostrano sempre sorridente, agghindato e sfarzoso, talvolta ai limiti del cattivo gusto. Era l’immagine dell’uomo di successo che non teme il ridicolo e ancora meno l’eventualità di tornare nell’ombra o nella miseria. Nel 1977, chiacchierando con Federico Fellini, si vantò di avere posseduto diecimila donne, e sebbene non abbia mai nascosto che nella maggior parte dei casi si trattò di sesso mercenario, resta un numero da record. Conti alla mano, significa una partner diversa al giorno per tre decenni filati. Coi romanzi teneva un ritmo quasi analogo. Centonovantadue soltanto quelli pubblicati col suo vero nome. Quanti ne abbia sfornati in totale non è possibile stimarlo con certezza assoluta. Qualcuno ha però azzardato un inventario: ottanta pagine al giorno, settanta parole al minuto, centotré inchieste del commissario Maigret, quattrocentotrentuno romanzi, una dozzina di pseudonimi. «Scrivere è un mestiere, e io l’ho imparato», soleva dire. Apponeva il cartello non disturbare alla porta e si metteva al lavoro con una scatola di matite appuntite. Finite le matite, finito il romanzo. La faccenda si risolveva solitamente nel giro di un paio di settimane. Talvolta meno. Tanta velocità non gli impediva di partorire opere di qualità. Basterebbe una decina di romanzi, pescati a caso in questa montagna impressionante, per fare uno scrittore di primo livello. Se a ciò aggiungiamo che a «trent’anni aveva già smesso di leggere narrativa altrui per paura di contaminare la propria», e che ha raccontato il suo secolo fregandosene di Kafka e di Joyce, ignorando marxismo, surrealismo, esistenzialismo e compagnia cantante, la domanda sorge spontanea. Com’è possibile? Come faceva? L’uomo che guardava passare i treni è il primo romanzo

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di Simenon che ho letto. Forse non è tra i suoi migliori e io stesso, sebbene sul momento ne restai folgorato, ho finito per conservarne un ricordo strano, ambiguo, comunque non abbastanza esaltante da farmi venire voglia di rileggerlo. La verità è che non c’era alcun bisogno di rileggerlo. Non c’era bisogno perché di fatto lo avevo riletto ogni volta che leggevo un altro Simenon. Una discreta parte del segreto di questo scrittore, della sua incontinente grafomania, consiste giustappunto nel suo ripetersi. C’è chi lo ha definito un «imbecille di genio», e in un certo senso è proprio così. Perché bisogna essere ostinati al limite dell’ottusità per raccontare quattrocento e più volte la stessa storia. Perché, per un verso e per l’altro, i destini che Simenon si sforzava di riparare hanno tutti la stessa caratteristica, somigliano tutti allo Straniero di Camus. Sono destini di persone che a un certo punto cominciano a perdere pezzi di sé. Da principio il fenomeno è minimo, così impercettibile da sembrare insignificante, ma a un certo punto accade qualcosa. Quel grumo si avvicina all’orlo di un baratro, vi indugia per un po’, finché, quasi per inerzia e senza una chiara ragione, si lascia andare e la caduta non è accompagnata da un urlo di terrore, bensì da una pacatezza che inquieta. Leggendo i suoi romanzi mi è capitato di vederlo spesso, quel grumo. Lo vedo in cima a una montagna innevata. Lo vedo lasciarsi cadere. Il grumo rotola nella bianca discesa, e tutto intorno è notte e silenzio. Rotolando, quella pallottola perniciosa si trasforma a poco a poco in una valanga. Lo sventurato protagonista la vede quando è ancora lontana. La vede soltanto. Forse gli sembra di udirne anche il rumore, una specie di boato ovattato, e forse avrebbe ancora il tempo di fuggire, di mettersi al riparo. Eppure non fa nulla se non aspettare con serena rassegnazione. Lascia che il disastro lo travolga. Si abbandona alla deriva perché si rende conto che,

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dentro di sé, alcuni ingranaggi sono difettosi. Per la precisione, gli ingranaggi che fanno restare le persone all’interno del consesso sociale; gli ingranaggi che inducono gli individui a rispettare le regole della comunità, ad accettarne gli usi, i costumi, la morale e, non di rado, anche le ingiustizie. Si lascia andare perché si rende conto che non è fatto per vivere in armonia con gli altri; perché sa che i suoi ingranaggi sono troppo difettosi per durare a lungo; sa che è soltanto una questione di prima o poi. Per cui tanto vale togliersi il pensiero, tanto vale che sia prima. Nei romanzi di Simenon il delitto non è che la punta di un iceberg. Il massiccio ghiacciato nascosto sotto la superficie è invece l’ombra che ogni uomo porta con sé e soltanto per un puro caso nella maggior parte delle persone si limita a restare un’ombra. Dice un personaggio di Simenon: «Avevo paura del verde scuro che assumono d’inverno gli acquitrini con le pozzanghere d’acqua gelata da cui spuntano brutti ciuffi d’erba». Dice così perché in quel verde scuro già vede l’ombra della parte nascosta dell’iceberg, perché vede la pietra che si legherà al collo. Albert Camus affrontò un tema analogo se non identico e gli riuscì di condensarlo in un paio di romanzi. A Simenon, che probabilmente non aveva letto una sola pagina di Camus, ne sono occorsi centinaia. Perché tanto incaponirsi nello stesso tipo di destino, un destino peraltro che non pareva riguardarlo, visto che ha sempre vissuto come un uomo di successo? Perché insistere nel raccontare un’infelicità dalla quale sembrava del tutto affrancato? In effetti, Simenon conosceva bene il fallimento. Alcuni suoi parenti ci erano passati. Uno di questi, lo zio Léopold, era persino un barbone o perlomeno così lo vedeva lo scrittore. «Avevo uno zio clochard», ricorda in un’intervista. Non so se clochard possa essere una definizione appropriata. Léopold,

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fratello di Henriette, madre di Simenon, frequentò l’università, indossò la divisa dei lancieri, sposò la vivandiera della caserma, dopodiché iniziò una vita raminga fatta di lavori occasionali e molto alcol. Per anni la famiglia ne perse le tracce. Una sera proprio Henriette lo sorprese per caso a orinare in strada. Una riapparizione fugace, perché tornò a dileguarsi nel nulla fino alla morte, sopravvenuta per cancro. Simenon ne conserverà sempre un ricordo affettuoso. Per come lo vedeva lui, «era il personaggio più simpatico della famiglia». Una figura molto simile fa una fantasmatica apparizione nelle primissime pagine dell’Uomo che guardava passare i treni. Si chiama Markemans ed è cognato del protagonista del romanzo, Kees Popinga. Popinga è un uomo di mezza età, un padre di famiglia impeccabile e un onesto lavoratore, e vede nel parente la pecora nera della famiglia. Non che questo Markemans sia realmente un poco di buono. Il massimo che gli si potrebbe rimproverare è di aver messo al mondo otto figli e di aver perso il lavoro per mantenerli. In città, è conosciuto perché va in giro a spillare quattrini. Racconta a tutti le proprie sventure, il che mette a disagio Popinga. Ancora non sa, il nostro Popinga, che di lì a poco perderà anche lui il lavoro, precipitando in una spirale ben più oscura del cognato. Quando accade, sconvolto da certe rivelazioni del suo datore di lavoro, Popinga abbandona la quieta Groninga, la piccola cittadina olandese dove aveva condotto un’esistenza abitudinaria e dignitosa, e finisce ad Amsterdam. Fa visita a una donna di facili costumi e, quasi senza volerlo, la uccide. Nel volgere di poche ore, oltre che disoccupato, diventa un assassino, un criminale ricercato dalla polizia. Inizia così una fuga ai margini della società, cercando riparo tra le prostitute di Pigalle, spostandosi di albergo in albergo. Quando era ancora una persona perbene e passava nelle vicinanze della stazione, dov’era una casa di malaffare il cui

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uscio si apriva al tocco più leggero, Popinga provava una specie di turbamento. In qualche anfratto del suo animo cominciavano ad agitarsi fantasie indistinte che evitava di mettere a fuoco perché il pensiero di tradire sua moglie era semplicemente inconcepibile. Un turbamento non molto diverso lo coglieva quando udiva passare un treno: «una strana angoscia che poteva far pensare a una nostalgia». Ma nel provare simili sensazioni arrossiva all’istante, perché era il tipo d’uomo che «non si sarebbe mai permesso di pensare ufficialmente che al mondo possa esistere un luogo più dolce del focolare». E ora ecco qua l’incredibile: Popinga non fa che prendere treni e infilarsi nei letti delle puttane. È diventato un personaggio da cronaca nera, da romanzetto scabroso. Uno dei tanti, per non dire tantissimi. Le centinaia di volte che Simenon ha raccontato la storia del borghese che rompe il patto con la società costituiscono motivo di diffidenza nei salotti buoni della letteratura. Sono pochi coloro che ammettono con onestà la propria ammirazione per questo scrittore e questi pochi sono perlopiù giallisti. L’assunto è semplice: ha scritto tanto, ergo ha scritto male. E qualcosa di vero c’è. Ma il nocciolo della questione non è la quantità bensì la velocità, anche se ovviamente la prima è una diretta conseguenza della seconda. Simenon liquidava i Maigret in una settimana. Ai romanzi “seri” non dedicava mai più di quindici giorni. Scriveva un capitolo al giorno, dalle sei e mezzo alle nove del mattino. La stesura era preceduta da una sorta di preparazione, due giorni di lunghe passeggiate cui seguiva un altro paio di giorni dedicati alle famose «buste gialle» sulle quali appuntava i vari aspetti del personaggio e schizzava piantine di case e strade. Dopodiché precipitava in quella che lui stesso chiamava «una specie di trance», diventando il personaggio di cui vo-

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leva raccontare la storia. Terminata questa stesura, la storia perdeva di qualunque interesse ai suoi occhi. Rivedeva velocemente il testo e andava a farsi una scopata con una prostituta. Le bozze non le degnava di uno sguardo, le faceva leggere alla sua segretaria. La stessa revisione del testo manoscritto era vòlta soltanto all’eliminazione di avverbi e aggettivi. Non interveniva mai sugli snodi della trama, non si preoccupava di risolvere contraddizioni o passaggi affrettati o immotivati. Simenon era pienamente consapevole delle sue manchevolezze, ma si giustificava dicendo che correggere certi errori sarebbe stato un atto di falsificazione. Pur non arrivando al limite della scrittura automatica di stampo surrealista, credeva nell’autenticità del fluire. Per questo parlava di trance. E per questo molte sue storie si assomigliano: perché essendo scritte in uno stato di trance, in una condizione simile alla seduta psicanalitica, fatalmente tornavano sui temi che più aggrovigliavano l’anima dello scrittore. In un certo senso, la vera revisione di un romanzo era il nuovo romanzo che avrebbe scritto di lì a poco. E c’era, in questo suo atteggiamento, una sorta di rifiuto preventivo della letteratura, della bella letteratura. Simenon detestava gli scrittori malati di perfezione, alla Flaubert. Si vantava di scrivere con un vocabolario limitato a duemila parole, pur precisando di conoscerne un numero maggiore. Difficile che uno scrittore del genere possa essere amato da un certo tipo di letterati: Simenon è la nemesi della letteratura pura. Volendo tentare un confronto azzardato, è l’antitesi di Thomas Mann, per il quale il vero vivere, che era poi un morire, si consumava nell’esistere artisticamente. Per Simenon il vero vivere è sempre stato la vita. Gli interessava l’essere umano e la scrittura era per lui un buon modo per conoscerlo. Ma proprio per questo, proprio perché l’essere umano costituiva il centro dei suoi interessi, all’essere

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umano, alla vita, alle scopate con le puttane sempre tornava. La sua frettolosità era un modo per non lasciarsi irretire troppo dall’arte e dalla letteratura; gli era imposta dalla necessità di non elevare la scrittura al di sopra di un ottimo strumento di conoscenza. Nel 1968 si fece mettere sotto torchio da tre medici in una celebre intervista chiamata Simenon sulla griglia. In quell’occasione affermò: «Esistono alcune verità crude, alcuni ingranaggi segreti che è preferibile ignorare se si vuole conservare un’integrità fisica o morale. Citavo tra gli altri il caso di Nietzsche che è morto pazzo. Molti altri hanno trovato la follia ad attenderli per aver voluto sapere troppo sull’essere umano». Si percepisce infatti un’ombra di paura nel modo in cui Simenon racconta le sue storie. Il timore di spingersi troppo in là. Quasi contemplasse la caduta dei suoi personaggi tenendosi a distanza di sicurezza dall’orlo dell’abisso. Cosa temeva? Di precipitare anche lui? Non si trovava forse agli antipodi di quei destini disgraziati? Cosa aveva mai da spartire con quella piccola gente perbene e piena di inibizioni, con quelle esistenze dimesse e scandite dalla monotonia? I suoi personaggi sembrano spesso più orologi che persone. Per decenni, ripetono lo stesso gesto alla stessa ora nello stesso luogo. Gesti naturalmente banali, come accendersi una pipa o fare una passeggiata, e che paiono acquistare senso soltanto quando, d’improvviso, il ticchettio regolare della loro esistenza si interrompe. Ma Simenon non era quel tipo d’uomo. Era ricco, brillante, girava il mondo, frequentava bella gente e veleggiava tranquillamente al di sopra della morale piccolo borghese. Dunque, cosa temeva? Se qualcosa davvero temeva, può darsi che all’origine della sua straordinaria fertilità di romanziere ci fosse proprio l’oggetto delle sue paure. Simenon aveva uno strano modo di definire la figura del

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romanziere. Diceva che gli autori di romanzi sono quasi sempre uomini che non amano la madre. In effetti, non era farina del suo sacco, ma un’idea che aveva rubato a Balzac. O perlomeno così lui sosteneva, perché malgrado gli sforzi non mi è mai riuscito di trovare la citazione esatta. Spesso le parole che attribuiamo agli altri non sono che rielaborazioni inconsapevoli di quel che abbiamo creduto di udire o leggere. Ci convinciamo di riportare soltanto l’opinione altrui, mentre di fatto stiamo dando una forma o, per meglio dire, una maschera a quel che noi pensiamo. Comunque sia, che fosse davvero un’idea di Balzac o un rimaneggiamento di Simenon, questa definizione del romanziere come uomo che non ama la propria madre non poteva lasciarmi indifferente. Non ho mai odiato la mia per la storia del suicidio; semmai ho provato una forte solidarietà per una giovane donna che si spinge a tanto pur sapendo di portare via con sé un’altra vita. Allo stesso tempo, però, sarei disonesto se dicessi che tra noi tutto sia filato nei termini di quella corrispondenza di affettuosi sensi che ci si augura sempre tra una madre e un figlio. E se scavo al fondo del magnetismo che mi ha da subito attratto verso i romanzi di Simenon, trovo sempre questa faccenda della madre, incombente anche quando la storia sembra parlare di tutt’altro. Se prestiamo fede ai ricordi dello scrittore, le prime parole che egli udì da piccolo furono «Soldi, soldi, soldi»; parole che fanno il paio con quelle che scrisse nel 1974, in tarda età, in Lettera a mia madre: «In cinquant’anni non sono mai riuscito a convincerti che lavoravo, che mi guadagnavo da vivere». La convinzione di non essere mai stato amato, perlomeno non come il fratello minore, si accompagnava alla certezza che la genitrice non lo ritenesse capace di combinare qualcosa di buono nella vita. Henriette, dubbiosa che si nascondesse qualche magagna nel lusso regalato dal succes-

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so al figlio, esortava gli amici a dire la verità o meglio quella che per lei era la verità: «Mio figlio ha tanti debiti, vero?». «Ero io il principale bersaglio della tua diffidenza», si legge ancora in Lettera a mia madre. «Per amore? O perché temevi che mi cacciassi in affari poco puliti? Avevi paura che tuo figlio fosse un truffatore? Cosa immaginavi?». E ancora: «Mi sospettavi sempre dei maggiori misfatti. Quando mio fratello Christian, più giovane di me di tre anni, si metteva a piangere, ti giravi verso di me e chiedevi: “Che gli hai fatto, questa volta?”. Niente gli avevo fatto. Piangeva per conto suo, io non c’entravo. Forse era necessario che a qualcuno della famiglia toccasse la parte del cattivo. Toccò a me». Non si può dunque imputare al caso che lo scrittore abbia deposto per sempre le sue matite appuntite poco dopo la morte della madre, quasi che l’essere diventato orfano avesse tolto senso al suo cocciuto bisogno di riparare in forme diverse lo stesso destino. In fondo, per decenni non aveva fatto che riservare ai protagonisti delle sue storie quella caduta nell’abiezione a cui lui, secondo sua madre, era destinato. In fondo, il riscrivere centinaia di volte lo stesso romanzo era come inviare altrettante lettere destinate a Henriette, missive in cui scriveva: «Ti aspettavi di veder fallire tuo figlio, ed eccoti accontentata». E forse, quando parlava di fame di finzione, Simenon pensava proprio ai fallimenti immaginari dei suoi romanzi. Quei fallimenti che nella vita reale riuscì a evitare, perlomeno nei termini in cui li prefigurava sua madre. Tra i suoi romanzi più crudeli ce n’è uno che fu battuto direttamente a macchina per evitare che «la redazione manoscritta ne favorisse l’effusione lirica e gli artifici letterari». Si intitola Il gatto. È il ritratto impietoso, senza il minimo barlume di luce, di una coppia di anziani irrimediabilmente consegnati all’odio reciproco. Émile e Marguerite, settantatré anni lui, settantuno lei, non hanno passato la crisi del settimo an-

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niversario di matrimonio. Sono marito e moglie da otto anni e hanno smesso di parlarsi. Comunicano unicamente tramite bigliettini imbevuti di livore. Questo asfissiante stato di cose dura da quando il gatto dell’uomo è morto. Émile è convinto sia stato avvelenato da Marguerite e ha perciò consumato la propria vendetta mutilando il pappagallo della consorte. Il volatile, passato anch’esso a miglior vita, è ora impagliato e troneggia in salotto alla sinistra maniera della mamma di Psycho. Fu lo stesso Simenon a rivelare che il romanzo andava letto come una trasposizione del secondo matrimonio di sua madre con un ferroviere in pensione. La somiglianza di Marguerite con Henriette è evidente. Fredda, calcolatrice, spilorcia, fanatica della rispettabilità. È la summa di quelle figure materne per nulla morbide e affettuose che ritornano come una maledizione in tutta l’opera dello scrittore. Il gatto, scritto in una settimana nell’autunno del 1966, rappresenta il primo serio tentativo di chiarire il conflitto con la genitrice. Quello definitivo sarà la lettera aperta del 1974, che ha il sapore del testamento. Ma a quel punto, Henriette era ormai morta e Georges aveva smesso di riparare destini. Si era ritirato a Losanna, in una casetta rosa, vivendo in semplicità, in una specie di ritorno alle origini modeste, quasi un accenno di quel fallimento che la madre gli aveva tanto augurato e che lui aveva praticato soltanto scrivendo. Fingendo, cioè.

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STANZA 203

Immagino non rivelarvi alcunché di straordinario dicendovi che viviamo in un tempo stupido. Immagino lo sappiate già in che tempi viviamo. Voglio tuttavia darvi un saggio concreto, un esempio di quanto sia stupido questo nostro tempo. Un paio d’anni fa si è presentato alla mia famiglia un improvviso problema di natura finanziaria. Ne discutevo al telefono con mio padre, di questo problema, e lui, mio padre, che ha ormai una certa età, non sapendo più cosa dire né tantomeno cosa fare se non dare fondo ai pochi soldi che gli sono rimasti, ha detto: «Dobbiamo giocare all’Enalotto». «Papà». Mio padre è una vita che gioca all’Enalotto. «Non c’è mica bisogno di vincere cento milioni», ha detto. «Basta che vinciamo centomila euro». «Papà». E mentre la conversazione così procedeva, in televisione, al telegiornale della sera, un uomo di governo, che ha più o meno la stessa certa età di mio padre, asseriva di essere Superman. Ecco com’è la vita: passi tutto il giorno chiuso in casa, solo, davanti al computer, e all’imbrunire ti ritrovi preso tra due

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settuagenari, uno che ti parla da un telefono, l’altro da un televisore, uno ti magnifica l’Enalotto, l’altro ti spiega che, a lui, Superman lo fa ridere. Può darsi venga da ridere anche a voi e non vi biasimo. Verrebbe da ridere anche a me se l’improvviso problema di natura finanziaria non avesse riguardato la mia famiglia. Questa situazione, incluso il fatto che ve l’abbia raccontata e che possa strapparvi un sorriso mentre per me è solamente fonte d’angoscia, è una tipica situazione alla David Foster Wallace, nel senso che è la tipica situazione su cui lo scrittore David Foster Wallace avrebbe potuto imbastire un racconto, usando il linguaggio alla sua sfolgorante maniera. L’avrebbe descritta come qualcosa che nella sua apparente, estrema, assurda, comica, straordinaria irrealtà è spietatamente vera e, in quanto vera, non ha nulla di veramente estremo assurdo e straordinario. È soltanto un po’ comica, e la sua comicità deriva proprio dall’essere banale, comune all’esperienza di chiunque, giacché situazioni simili si verificano in continuazione nel nostro tempo. Non ce ne meravigliamo più. Al massimo ne sorridiamo, per l’appunto. In casi estremi, può succedere di ritrovarsi mossi a compassione, di indignarsi o avere reazioni consone alla situazione. Ma a meno di non esserne direttamente coinvolti, tutto si esaurisce in breve tempo. Tutti noi sappiamo bene quanto possa essere stupido il tempo che ci è toccato in sorte, ma è una conoscenza che diamo per scontata. Solo quando veniamo toccati nel vivo diventiamo consapevoli che il nostro tempo è davvero stupido. Il passaggio dal semplice sapere che il nostro tempo è stupido all’essere consapevoli che è davvero stupido è fonte di un dolore strano, non sempre facile da avvertire, ma comunque lancinante. Quasi tutto quel che David Foster Wallace ha scritto parla di questo particolare tipo di dolore. Per lui, però, il mero parlarne non bastava. Sollevò pubblicamente la

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questione nel 1991, nel corso di un’intervista: «La maggior parte di noi conviene che questi sono tempi oscuri e stupidi, ma abbiamo bisogno di una narrativa che si limiti a drammatizzare quanto tutto sia oscuro e stupido?». La risposta a questa domanda retorica è ovviamente no. Il punto è trovare un’alternativa, ammesso che esista. Jonathan Franzen, che di Wallace è stato un caro amico per molti anni, racconta: «Avevamo la sensazione che la narrativa dovesse essere utile a qualcosa. La conclusione cui giungemmo, in sostanza, è che il suo compito è quello di combattere la solitudine». Wallace si è espresso più volte in termini analoghi: diceva che la buona scrittura dovrebbe aiutare i lettori «a diventare meno soli dentro». Non diceva «sentire» ma «diventare», quasi a sottolineare che il risultato deve essere concreto, reale. Specificava inoltre «meno soli dentro», ponendo l’accento sulla dimensione interiore. Una precisazione all’apparenza pleonastica: giacché l’essere soli è un malessere che si patisce perlopiù nell’intimo e non discende necessariamente da una condizione di oggettiva solitudine. Si è soli quando ci si sente soli, quando il fatto di essere soli si rivela una sofferenza. Ma l’abbiamo visto: Wallace va oltre il semplice sentire. Diciamo, allora, che diventiamo soli quando non bastiamo più a noi stessi e attorno a noi non troviamo nessuno che ci possa dare l’aiuto di cui abbiamo bisogno. Messa così, però, il dentro va a farsi friggere perché il problema si sposta all’esterno, verso l’essere soli in generale. Una possibilità è che Wallace intendesse il dentro come qualcosa di molto specifico. Semplificando, esistono tre modi per indicare il dentro di una persona: anima, cuore e testa. Wallace prediligeva indubbiamente l’ultimo. Le parole anima e cuore appaiono assai di rado nelle sue pagine e possiamo intuirne il perché. La prima è troppo astratta e incerta, sconfina nel mistico, presuppone

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verità trascendenti e non dimostrabili come la vita ultraterrena, si affida all’idea che non siamo semplici organismi biologici. La seconda è inesatta: il cuore è lì, dentro la nostra cassa toracica, lo sentiamo battere e palpitare. Le sue reazioni sono talvolta così immediate e intense da indurre a credere che proprio lui, il cuore, sia fonte e ricettacolo di ogni emozione e sentimento, a cominciare dalla più trascinante e fondamentale, l’amore. In realtà, il cuore è fonte di un bel nulla, è soltanto un muscolo, per giunta involontario, costretto a patire gli effetti di scombussolamenti che gli piovono addosso dalle più alte latitudini della testa. Nel parlare comune, quando ci lasciamo guidare dai sentimenti, diciamo che agiamo col cuore, ma la verità è che tutto scaturisce da impulsi elettrici all’interno della nostra scatola cranica. Al di là del parlare comune o dell’esprimersi in senso figurato, è quello il vero dentro, quella la ragione del dolore, quello il luogo della solitudine, quello il dentro che intendeva Wallace: la testa e il suo modo di funzionare. Non a caso tutti noi ricordiamo questo ragazzone straordinariamente dotato dell’Illinois così come appare ritratto in molte foto: la testa fasciata da una bandana, un accessorio che gli conferiva un aspetto inusuale, quantomeno per uno scrittore, a metà strada tra un Jack Sparrow pacioccone e una casalinga trascurata. Di solito, gli uomini scoprono la necessità di coprirsi il capo quando iniziano a perdere i capelli. Lui non aveva problemi di calvizie incipiente. Nondimeno si fasciava la testa e non per semplice vezzo. Cominciò a usarla nel 1987 a Tucson, in Arizona, dove si era trasferito per un master in scrittura creativa. Aveva venticinque anni all’epoca e alle spalle un corposo quanto geniale romanzo intitolato La scopa del sistema. Faceva un caldo mortale in Arizona e la bandana gli serviva per leggere e scrivere, per evitare che la carta si infradiciasse del sudore che colava dalla fronte. Una ragione pratica,

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dunque. Ma seguitò a portarla anche dopo essere tornato a vivere in posti più freddi. Evidentemente ci vedeva qualcosa, un’utilità di natura più simbolica. Un po’ scherzando un po’ no, diceva che gli serviva a tenere insieme la testa, a evitare che esplodesse. La verità è che la bandana risaliva a un tempo precedente a quello trascorso in Arizona. I genitori raccontano che a un certo punto, al liceo, il loro David prese l’abitudine di girare con un asciugamano per tergere la traspirazione generata dagli attacchi di panico. Portava con sé anche una racchetta da tennis il cui scopo era distrarre l’attenzione del prossimo. Non voleva gli chiedessero il senso dell’asciugamano, e non voleva che glielo chiedessero perché si vergognava degli attacchi di panico: li viveva come una colpa. I protagonisti delle sue storie sono spesso persone depresse, ma lui non ha mai scritto del problema in prima persona. Non era soltanto per vergogna. C’era anche una forma di profondo altruismo in questo genere di pudore. Limitarsi a parlare del buio che aveva dentro non gli bastava, non lo riteneva giusto. Infinite Jest, il suo capolavoro, nasce sicuramente dal suo buio interiore – da quella cosa che sua sorella chiamava un «buco nero coi denti» – ma non parla dei problemi di David Foster Wallace. Parla di un buco nero in cui tanti di noi, in un modo o nell’altro, finiscono per cadere. «Ero bianco», ricorda David, «bianco, benestante, colto da far schifo, e avevo avuto più successo di quanto potessi sperare. Eppure ero allo sbando. Un sacco di miei amici si trovavano nelle stesse condizioni. Alcuni facevano un uso massiccio di droghe, altri vivevano soltanto per il lavoro. Certi passavano tutte le sere nei bar per uomini soli. Una realtà che ti si parava davanti in venti modi diversi, ma che era sempre la stessa». Infinite Jest nacque da questa realtà, dalla reale

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tristezza di vivere in un mondo dove benessere e felicità sono un prodotto da supermercato, acquistabile in offerta speciale. Ciò che in effetti compriamo è molto diverso da ciò che ci viene promesso, ma il luccichio della promessa è talmente abbagliante da offuscare la realtà. Lo scherzo infinito che dà il titolo al romanzo di Wallace è un film il cui potere di sedurre e intrattenere è tale che gli spettatori ne rimangono abbacinati e cadono in uno stato di contemplazione vegetativa, anticamera della morte. Il tempo libero, dedicato all’intrattenimento, diventa così un tempo morto nel senso letterale del termine. Infinite Jest uscì nel 1996, lo stesso anno in cui venne inventato uno dei primi giochi elettronici portatili, il tamagotchi. Nella fattispecie, si trattava di un pulcino digitale che andava accudito come un essere vivente. Aveva esigenze proprie, doveva mangiare, evacuare le scorie e divertirsi. Come un vero animale domestico, era soggetto a un ciclo vitale che il proprietario doveva rispettare, pena la morte del tamagotchi. Il giocattolo – in teoria, oggetto di svago – diventava così una fonte di impegni inderogabili. All’epoca in molti contestarono l’assurdità della cosa sottolineando il rischio che i bambini perdessero il senso della realtà. E non soltanto i bambini. Per dar da mangiare al suo pulcino elettronico un automobilista francese investì un ciclista in carne e ossa. Infinite Jest viene spesso definito un romanzo di fantascienza e in effetti l’azione si svolge nel futuro. Lo scenario prefigura tuttavia una condizione soltanto in parte di là da venire. Nel 1996 vivevamo già nel tempo dello scherzo infinito, il tempo stupido in cui la sopravvivenza di un pulcino digitale può valere la morte di un essere umano in carne e ossa. Peraltro quelle due parole, scherzo infinito, appartenevano al passato, non al futuro. Wallace le aveva rubate ad Amleto. «Questo uomo io l’ho conosciuto, fu un giovanotto di scherzo infinito», dice il dubbioso principe di Danimarca nella fa-

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mosa scena del cimitero. Un becchino gli ha appena porto il cranio del defunto buffone di corte e lui si abbandona a tristi considerazioni sulla caducità dell’esistere: «Dove sono adesso i tuoi sberleffi, le burle, le capriole, le canzoni, i folgoranti sprazzi d’allegria che facevano scoppiare dalle risa le tavolate?». E mentre si arrovella in questa maniera e osserva i miseri resti del buffone, non riesce a trattenere un moto di ribrezzo: «E ora? quale orrore! a guardarlo mi si rivolta lo stomaco». Sollazzo e disgusto sono motivi intrecciati anche nel romanzo di Wallace, che difatti diceva: «L’argomento del libro, ammesso che ne abbia uno, è il perché guardo così tante schifezze. È un libro sulle schifezze. Un libro su di me». Naturalmente era qualcosa di più. Per cominciare era anche un libro su di noi o perlomeno su chi fra noi si lascia sprofondare nella melma di questo tempo stupido. Viene da sé che la melma cui primariamente pensava il buon vecchio David era in tutta probabilità la tv. Ma anche in questo caso c’era dell’altro, molto altro. In realtà, il vero problema era il perché. Perché me ne sto stravaccato su questo divano a guardare uno stupido programma che nemmeno mi piace quando potrei utilizzare in maniera decisamente migliore il mio tempo, un tempo che per giunta è tutt’altro che infinito? Che so, potrei leggere un libro o telefonare a un amico che non sta passando un buon momento ed essergli di conforto o magari anche soltanto spegnere il televisore e assaporare il silenzio della stanza, il sincero silenzio di questo spazio domestico cinto da quattro pareti di veri mattoni. Persino questo potrebbe essere meglio del guardare una schifezza simile. Tutto ciò lo so bene, eppure seguito a stare con gli occhi incollati a quello schermo inutile. Il pensiero di fare qualunque altra cosa è così presente e insistente che non riesco nemmeno a seguirlo, questo programma idiota, eppure non mi muovo, non alzo un dito. Perché?

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E perché seguito a fumare quando sarebbe molto meglio smettere e fare un po’ di moto? E perché mangio schifezze immonde nei fast food quando mi è chiaro che così mangiando mi avveleno lo stomaco? E perché molto spesso mi capita di dire cattiverie inutili quando già prima di aprire bocca sono pienamente consapevole non soltanto che sto per ferire senza ragione una persona cara ma anche che me ne pentirò nel giro di un attimo e mi vergognerò di me stesso e non riuscirò a guardarmi allo specchio per moltissime ore e forse dormirò male e farò brutti sogni? Per dirla in un unico perché: perché mi succede di fare cose che so essere sbagliate e che in teoria non vorrei fare? È proprio la mancanza di una risposta adeguata a questa domanda a farci sentire soli dentro. La risposta ci darebbe la forza o un motivo per tirarci fuori dalla melma del nostro tempo stupido, ma ci sfugge o forse non la cerchiamo col dovuto impegno e, quale che sia la causa, l’effetto è segnato: ci sentiamo sconfitti, perdenti, falliti, e a questa colpa che non abbiamo l’ardire di perdonarci si accompagna una convinzione già incontrata nel primo piano di questo albergo: la convinzione di essere impostori. «Ho la sensazione che, varcata la soglia dei trent’anni, molti fra noi americani privilegiati debbano cercare una via per accantonare le cose infantili e confrontarsi con una materia fatta di spiritualità e valori». Dicendo così il caro vecchio Wallace metteva il dito nella piaga, giacché non c’è nulla di più infantile che accoccolarsi nei propri errori. Quel che dovremmo fare è sfrondare la vita dei suoi miraggi inutili e deleteri. Dovremmo andare al fondo delle cose, diventare meno soli. Che la strada sia questa è evidente, ma come imboccarla? All’indomani del trentacinquesimo compleanno, Wallace cominciò a pensare di mettere su famiglia. Sua sorella si era sposata da poco. L’idea di una moglie e qualche bambino per

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casa non gli dispiaceva e in un paio di occasioni era stato quasi sul punto di compiere il passo. C’era però una parte di lui che andava in una direzione diversa. Quando aveva lasciato la casa dei genitori per trasferirsi in un’abitazione tutta sua, la prima cosa che aveva fatto era stata dipingere le pareti di nero e circondarsi di libri e lampade vintage. Uno spazio così organizzato, non poco distante dal classico focolare, era una ricostruzione fedele della sua mente: un mondo buio, ricolmo di linguaggio, illuminato da una luce elegante quanto artificiale. Avrebbe voluto fuggire da questo spazio con tutto sé stesso, perché era lì dentro che il nostro tempo stupido lo assaliva col suo scherzo infinito, era lì che si reiteravano i noti errori. Nondimeno era anche lo spazio in cui finiva per rinchiudersi. Una delle sue fidanzate glielo fece notare; gli rimproverava di non voler mai uscire. Lui ribatteva che voleva scrivere. «Ma se non scrivi mai!», opinava lei. «Proprio per questo devo restare in casa, nel caso mi venga voglia». Alla fine trovò la compagna adatta a lui. La prospettiva di un’esistenza normale restò tuttavia un’impresa ai limiti dell’impossibile. Non che non ci abbia provato. Ci provò eccome. Purtroppo per uscire dalla sua stanza buia rischiarata dalla luce artificiale del linguaggio doveva sconfiggere il buco nero coi denti. Per molti anni, tenne a bada il mostro con il Nardil, un antidepressivo che i medici tendono a non somministrare troppo a lungo per via dei suoi effetti collaterali, uno dei quali parve manifestarsi nella primavera del 2007. Pranzò in un ristorante e una volta a casa si sentì male. Un medico ritenne fosse per via del Nardil, che ha una pessima interazione con svariati cibi e lui, il nostro mai troppo caro David Foster Wallace, colse l’occasione per fare ciò che da molto aveva in animo: smettere di prendere quel farmaco. I problemi di stomaco rappresentavano tuttavia il minore dei mali, una goccia caduta in un vaso già traboccante. Da cir-

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ca un decennio, da dopo l’uscita di Infinite Jest cioè, Wallace era alle prese con una nuova opera, un romanzo. Lui preferiva però chiamarlo la Cosa Lunga. Raccontava di un gruppo di impiegati presso un distaccamento dell’Internal Revenue Service, l’agenzia delle imposte americana. Meglio ancora: parlava del rapporto di queste persone con il lavoro che sono chiamate a svolgere, un’attività noiosa, fatta di numeri e burocrazia, un arido e tediosissimo labirinto di norme il cui unico scopo è in apparenza quello di calcolare quanto i contribuenti debbono versare allo Stato. In apparenza però, perché nella sostanza la noia può rappresentare una salvezza, una via di uscita da questo mondo stupido: «Immergiti profondamente in quanto di più tedioso c’è a questo mondo (la dichiarazione dei redditi, il golf in televisione) e, a ondate, una noia mai conosciuta prima ti travolgerà fin quasi a ucciderti. Venirne fuori è come passare dal bianco e nero al colore. Come acqua dopo giorni di deserto». L’idea è semplice tutto sommato: se questo nostro tempo stupido fonda la propria stupidità su uno scherzo infinito, su un’infinita e artefatta sollecitazione a base di sollazzi e divertimenti tesi a strapparci da un tempo più intelligente, dalla vita vera, quale cura migliore se non quella di immergersi nell’esatto opposto, un abisso di noia assoluta? Disintossicarsi dalle scorie della civiltà dell’intrattenimento col tedio. Ritrovare sé stessi e la libertà grazie alla monotonia. Nelle intenzioni di Wallace la Cosa Lunga avrebbe dovuto rappresentare anche una svolta di tipo più specificamente letterario, il congedo definitivo da un certo modo arguto di servirsi del linguaggio, da un repertorio di trucchi che comportava il rischio di allontanare la scrittura dallo scopo primario, combattere la solitudine. In altri termini, il nostro caro amico andava cercando un’alternativa concreta al semplice dire che questo nostro tempo è oscuro e stupido. Riducendo

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e semplificando parecchio, potremmo dire che voleva passare dalle parole ai fatti. E qui si pone un ostacolo di non poco momento: è mai possibile passare davvero dalle parole ai fatti seguitando a masticare parole? La Cosa Lunga procedette faticosamente. Wallace la mollava, la riprendeva, la correggeva, tornava a mollarla per poi riprenderla ancora. A un certo punto si convinse che alla fonte di questa tormentata stesura ci fosse proprio il Nardil. Temeva che il farmaco influisse sulle emozioni, mutandole e falsificandole, e interferisse pertanto nella sua scrittura costringendola a uno stallo e impedendo a lui di spiccare il salto necessario. Essendo tutt’altro che sciocco, aveva ovviamente messo in conto anche l’eventualità che il Nardil non c’entrasse alcunché o perlomeno che non fosse la causa principale. «Forse», scrisse in una lettera indirizzata all’amico Jonathan Franzen, «la risposta è semplicemente che fare ciò che voglio fare richiede più sforzo di quanto sono disposto a metterci. Se così fosse sarebbe davvero deprimente». Non c’è un solo modo di intendere queste parole, ma viene da pensare che nella mente di Wallace avesse preso corpo il sospetto che un romanzo sulla noia – se non lo scrivere narrativa di finzione tout court – non fosse la strada giusta per raggiungere lo scopo che si era prefisso. A ogni modo smise di prendere il Nardil e non fu una scelta felice, perché spezzò il precario equilibrio che teneva a bada il buco nero coi denti. A quale tragica conclusione abbia portato il devastante scombussolamento interiore seguito a quella decisione è storia nota. Appresi la notizia come molti: in casa, davanti al computer. Era una domenica mattina di settembre. Fuori il tempo faceva le bizze. Una perturbazione giunta dall’Atlantico si stava portando via l’estate. Contrariato e assonnato, navigavo. Saltabeccavo da un sito all’altro ben consapevole del rischio di sprecare l’ennesima mezza giornata attaccato a uno

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stupido monitor. A un certo punto, sulla pagina principale di un quotidiano americano, leggo: «Scrittore postmoderno trovato morto in casa». Scorro in basso e vedo la foto di quel volto familiare. Vedo quel giovane uomo dall’aria dolce, garbatamente sconsolata, e quella testa, la testa fasciata da una bandana, e vengo così a sapere che David Foster Wallace si è impiccato. Il buco nero coi denti aveva avuto la meglio. Poco dopo squilla il telefono. Un amico vuole commentare il fatto. Siamo entrambi sconcertati, affranti. Nessuno dei due può dire di aver conosciuto Wallace, eppure ci è naturale parlarne come di una persona cara perché quel suo modo di raccontare il dolore che si prova vivendo in questo nostro tempo stupido ci ha fatto diventare come lui sperava, meno soli dentro, e di questo gli siamo grati, e per questo ci sembra di averlo conosciuto da sempre pur non avendolo mai incontrato. A un tratto l’amico riporta a galla qualcosa. «Tu ­l’avevi ­predetto», mi fa. «In quel pezzo, ricordi?». Sì, ricordo, seb­be­ ne preferisca non farlo. Si riferisce a un articolo che ho scritto tempo addietro. Aveva per oggetto una raccolta di racconti intitolata Oblio, ma mi ero soffermato su uno in particolare, Caro vecchio neon, nel quale si parlava per l’appunto di un suicidio. Ecco quanto, con imperdonabile sbadataggine, ero riuscito a dire: «Manco a farlo apposta in Caro vecchio neon, una delle otto storie di Oblio, troviamo un personaggio di nome David Wallace il quale preferirebbe non essere infastidito da una vocina interiore che mai manca di ricordargli come ci sia “qualcosa di profondamente sbagliato in lui”, in uno che deve perdere un sacco di tempo ed energie per mettere a fuoco “cosa fare e cosa dire per impersonare un maschio americano accettabile o anche solo marginalmente normale”, un individuo in bilico tra l’argento vivo dell’apparenza e la zona morta della coscienza, incapace o comunque impossibilitato a conciliare il tipo brillante che sembrava dall’esterno

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con ciò che dall’interno lo ha indotto a suicidarsi in modo “teatrale”. Il fatto che questo “David Wallace” si tolga la vita e che lo faccia proprio per via del suo talento – per via di una strabiliante capacità di attorcigliarsi con estrema eleganza attorno alle parole, un dono che è la prova provata di come nessuna normalità sia realmente perseguibile – può essere preso alla lettera, vale a dire come il suicidio letterario di uno scrittore che non regge al dolore di non poter raccontare una storia “vera”. Oppure lo si può interpretare in chiave allegorica, il suicidio messo lì a rappresentare l’inanità di tutte quelle filosofie, e sono tante, nelle quali il limite tra linguaggio e menzogna è oltremodo sfumato». Il mio amico ci vedeva una sorta di profezia, ma certamente non era questo il senso. Mai e poi mai avrei immaginato che il buco nero coi denti, la cui esistenza mi era allora del tutto ignota, potesse condurre a una simile conclusione. Ciò che semplicemente pensavo, che mi era parso di leggere tra le righe dei suoi testi più recenti, era un disagio progressivo nei confronti della narrativa di finzione. Il suicidio a cui pensavo era soltanto letterario: avevo cioè la sensazione che non avremmo dovuto meravigliarci se un giorno Wallace avesse abbandonato la scrittura di romanzi e racconti. Espressi però questa mia ipotesi in maniera contorta, confondendo incautamente la voce narrante con il suicida. La persona che in Caro vecchio neon si toglie la vita non è David Wallace bensì un suo vecchio compagno d’università. Una cialtroneria bell’e buona, la mia. Avevo letto quel racconto un paio d’anni prima e al momento di scrivere l’articolo non mi presi la briga di ridargli un’occhiata, incappando così in un errore soltanto in parte imputabile alla cattiva memoria. Può anche darsi che non abbia verificato per semplice incuria, perché la fretta di questo tempo stupido ci getta nelle

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braccia della superficialità. Ma non è da escludere una possibilità più perversa ovvero che fossi inconsciamente troppo innamorato della mia tesi da non volervi rinunciare anche a costo di incappare in un errore. Ecco dunque ripresentarsi la questione nodale: perché molti di noi sono tanto inclini al fallimento? Cosa troviamo di tanto suadente nel cadere in errore? Wallace l’affrontò in termini abbastanza espliciti parlando di un personaggio dal fascino indiscutibile: la bella e dannata Nastasja dell’Idiota, che è una “condannata” e sa di esserlo e «il cui eroismo consiste nello sfidare altezzosamente una condanna che al tempo stesso dimostra di volere». Figure come Nastasja ci farebbero dunque capire «quanto sia profondo l’amore di certe persone per la loro stessa sofferenza, come la usino e ne siano dipendenti». Ciò che dava da pensare a Wallace non era tanto la morbosità di un simile amore quanto il modo quasi spontaneo in cui esso sembra sbocciare dentro alcuni di noi, quasi che in certe persone il cervello abbia la funzione naturale di indurre sistematicamente all’errore, a comportamenti sbagliati o comunque nocivi. David Foster Wallace era sconcertato dalla facilità con cui il pensiero, torcendosi e rivoltandosi come più gli conviene, possa rivelarsi di ostacolo a una corretta comprensione delle cose e dunque agire contro l’interesse dello stesso soggetto pensante, nonché contro quello che dovrebbe essere lo scopo di ogni ragionamento: capire, sapere, amare. Avete letto bene: anche amare. Perché una reale comprensione delle cose e delle persone porta all’empatia, a una vera identificazione con l’altro, foss’anche un’aragosta bollita viva, «solo per il piacere delle nostre papille gustative». Grande complice e al tempo stesso arma del delitto nella tessitura d’inganni ordita dal cervello è naturalmente lui, il linguaggio. Le parole in sé non sarebbero malvagie. Come un qualunque oggetto reperibile nel mondo fisico fuori della

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nostra testa, restano entità inerti e innocue finché il pensiero non decide come servirsene: se farne uno strumento per conoscere e illuminare o un corpo contundente da scagliare, a seconda delle circostanze, sul prossimo, sulla verità delle cose, su noi stessi. Soprattutto su noi stessi. Nella determinazione ossessiva con cui Wallace cercava una risposta soddisfacente alle trappole del pensiero, il buco nero coi denti non poteva non avere un suo peso. Il mostro che gli rendeva la vita su questa Terra un inferno, quantunque indesiderato, era un parto della sua mente. Ma se così era, perché mai non gli riusciva di controllarlo? Quale perverso fallimento doveva rappresentare per lui il patimento senza speranza generato da un qualcosa che esisteva soltanto nella sua testa e che soltanto nei suoi pensieri pareva prendere forma? Dov’era l’imbroglio? Un’esposizione assai suggestiva si trova proprio in Caro vecchio neon: «Il paradosso dell’impostura era che più tempo e più impegno mettevi nel cercare di fare colpo sugli altri o di affascinarli, meno sorprendente o affascinante ti sentivi dentro: eri un impostore. E più ti sentivi un impostore, più ti sforzavi di offrire un’immagine sorprendente o piacevole di te stesso per evitare che gli altri scoprissero che razza di persona vuota e disonesta eri per davvero. Verrebbe logico pensare che non appena un diciannovenne all’apparenza intelligente si fosse reso conto del paradosso, avrebbe smesso di essere un impostore per limitarsi a essere sé stesso (qualunque cosa fosse) perché aveva capito che essere un impostore significava regredire perversamente all’infinito col risultato di ritrovarsi spaventati, soli, alienati, ecc. Ma ecco spuntare un altro paradosso di ordine superiore, che non aveva forma né nome: io non l’ho fatto, non potevo farlo». A prima vista la sensazione è che la voce stia parlando di un problema diverso dal buco nero coi denti. Il succo del

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suo discorso non è però lo scopo accidentale che questo individuo persegue sfruttando la sua capacità di manipolare il linguaggio: fare colpo sugli altri. Il succo è il metodo o, meglio ancora, la morale: questo individuo persegue il suo scopo costi quel che costi; lo persegue nonostante si renda conto che è lui stesso la prima vittima dell’imbroglio, nonostante sappia che il prezzo della sua impostura è ritrovarsi spaventati, soli, alienati, ecc. Insiste cioè nel farsi del male pur sapendo benissimo cosa sta facendo, esattamente come chi seguita a guardare schifezze in tv pur sapendo che sono schifezze, come chi seguita a nutrirsi di cibo spazzatura pur sapendo che si sta avvelenando e via di questo passo. Si potrebbe a questo punto obiettare che un buco nero coi denti costituisca una minaccia più seria di uno stupido programma televisivo. In fondo, per risolvere il secondo incomodo basta trovare la forza di premere il tasto giusto del telecomando: spento l’apparecchio, spento il problema. Con la depressione una soluzione così a portata di mano non è invece disponibile: non si può certo farla sparire con un semplice clic. Verissimo. Tuttavia l’aspetto su cui si concentrava l’attenzione di Wallace non era quanta forza sia necessaria per superare un ostacolo i cui artefici siamo noi stessi, ma perché stentiamo a trovare questa forza, grande o piccola che sia. Ed è qui che, dal paradosso d’ordine particolare, il paradosso dell’impostura, si giunge a un paradosso più oscuro, privo sia di una forma riconoscibile sia di un nome col quale identificarlo, un paradosso d’ordine superiore che probabilmente precede e determina tutti gli altri. Stando a quanto ci dice la voce di Caro vecchio neon, questo peccato originale dell’umano autolesionismo consisterebbe in una sorta di negazione: non sono stato io. Per meglio comprendere la posta in gioco bisogna tornare ai primi anni Ottanta del secolo scorso quando l’allora giovanissimo Walla-

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ce, studente di filosofia all’Amherst College, lavorò a una tesi che si prefiggeva di confutare determinati aspetti di un testo del 1962 di un certo Richard Taylor intitolato Fatalismo. Cosa sia il fatalismo in generale è noto a tutti: è l’atteggiamento derivato dalla convinzione che le nostre azioni non incidano sostanzialmente sul futuro poiché qualunque cosa facciamo o pensiamo di fare il mondo proseguirà per la sua strada. Taylor ribalta però i termini della questione, sostenendo che sono le condizioni future a ingabbiare ciò che accade nel presente, il che fa dell’atteggiamento una maniera di essere del mondo anziché un semplice atteggiamento rinunciatario delle persone. Poniamo di avere in mano una pistola. Secondo questo Taylor, a quanto pare un filosofo, la possibilità di sparare non sarebbe determinata dalla mia azione di premere il grilletto ma dal fatto che nei secondi a venire la canna diverrà calda per via del colpo esploso. Se in futuro la canna sarà calda noi spariamo, se non lo sarà non spariamo. Taylor non faceva difficoltà a riconoscere che col senno di prima l’affermazione «La canna sarà calda» è al contempo vera e falsa, nondimeno quel che noi facciamo, la decisione di sparare o no, dipende dalle condizioni in cui si verrà a trovare la canna. Alle orecchie del senso comune un simile ragionamento suona come un imbroglio fatto e finito, resta solo da capire dov’è il trucco. Sempre ammesso che un trucco ci sia, perché considerato in sé e per sé il ragionamento parrebbe impeccabile. E infatti nella sua tesi Wallace non contestò le disperanti conclusioni a cui conduce il fatalismo di Taylor. Era disposto ad accettare il paradosso per cui non siamo noi a fare certe cose, non siamo noi a decidere se spegnere la tv, non siamo noi a smettere di nutrirci di cibo spazzatura, non siamo noi a poter mettere un tappo al buco nero coi denti. Quel che non gli andava giù era che Taylor rimestasse, scombinandole,

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le relazioni che normalmente intercorrono tra il pensiero, il linguaggio e il mondo delle cose concrete. Propose dunque di considerare il dilemma della pistola da un’altra prospettiva. Dando per assodato che il punto di partenza deve essere la condizione futura delle cose, l’eventualità che la canna della pistola non si riscaldi per un colpo esploso può derivare dalle seguenti due condizioni: 1) dal fatto che non abbia potuto sparare, 2) dal fatto che non è possibile che io abbia sparato. Di primo acchito non sembra di poter riscontrare differenze apprezzabili; sembra cioè di trovarsi di fronte a due modi diversi per affermare la stessa cosa, la pistola non ha sparato. Nella sua maniacale attenzione al linguaggio, Wallace nota tuttavia qualcosa degno di considerazione. Se io dico di non aver sparato perché non ne ho avuto la possibilità, focalizzo l’attenzione sul passato: lascio cioè intendere che ero in procinto di sparare, ma si è verificato prima un evento che me l’ha impedito (l’arma si è inceppata, mi è mancato il coraggio nel momento topico o altro). Il secondo enunciato è invece una presa d’atto che sposta l’attenzione a una fase successiva in cui le cause hanno lasciato il passo agli effetti. Nel dire che non è possibile che abbia premuto il grilletto pongo infatti l’accento su come lo stato attuale delle cose neghi l’eventualità di uno sparo (la canna dell’arma è fredda, i colpi sono ancora tutti nel caricatore o altro). La distinzione è certo sofisticata, ma cambia forse le carte in tavola? Fa qualche differenza se la ragione per cui i miei occhi restano incollati a uno stupido programma è il non aver premuto il tasto giusto del telecomando anziché il fatto che la televisione è ancora accesa? Probabilmente no. David Foster Wallace non contestava la metafisica del fatalismo in sé. Malgrado l’ipotesi non gli garbasse per nulla, era disposto ad ammettere che ogni nostra azione, compiuta o incompiuta che sia, è soggetta alla dittatura di un futuro già scritto. Ciò

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che trovava moralmente inaccettabile è che una simile ipotesi venisse dimostrata con un’acrobazia linguistica, svincolando le parole da qualunque legame con le cose, con le nostre vite, con la nostra possibilità di amare chi ci sta intorno. Può anche darsi che il nostro destino sia davvero quello di non poter staccare gli occhi da uno stupido programma ma un racconto di questo nostro fallimento condito di arguzia e ironia non potrà mai redimerci e pertanto non deve bastarci. Fuori delle parole, fuori della nostra stanza dalle pareti nere, ricolma di libri e lampade vintage, c’è un mondo di persone e cose e un sole che risplende di luce. Non dobbiamo mai dimenticarlo se vogliamo diventare meno soli dentro. Non è detto che ciò basti a salvarci dal buco nero coi denti, ma è giusto provarci. È l’unico modo per fare di un fallimento una vittoria.

TERZO PIANO, il mio purgatorio, dove anch’io ho uno straccio d’illuminazione e scopro che la realtà non è di questo mondo

Ognuno si acconcia le cose come più gli conviene. Nel catechismo della Chiesa cattolica è possibile leggere un’interessante dimostrazione dell’esistenza del purgatorio riassumibile nei seguenti termini: siccome nel Vangelo di Matteo si legge che la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata né in questo secolo né in quello futuro, è ragionevole concludere che per determinati peccati si può ottenere il perdono in questo secolo, ovvero nel mondo in cui già ci troviamo, mentre per altri si dovrà attendere il momento in cui le nostre anime verranno trasferite in un luogo più appropriato. Lungi da me l’ardire di considerarmi un esegeta delle Sacre Scritture, ma mi risulta difficile non pensare che sarebbe meno astruso leggere il passo di Matteo in senso lato e dedurne che la bestemmia dello Spirito è oltraggio da non poter essere perdonato né ora né mai. Del resto, per quale altra ragione la bestemmia figurerebbe al primo posto della lista di comandamenti redatta dal nostro permalosissimo Dio, precedendo gli atti impuri, il desiderare la donna d’altri, la falsa testimonianza, il furto e persino l’omicidio? Va tuttavia riconosciuto che la dottrina cattolica, pur generando mostri di morale, supera di parecchio in suggestione il principio sola scriptura di marca protestante. Il purgatorio

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è un’invenzione sublime. Il sommo poeta ne era così esaltato da esprimere il meglio di sé proprio in quella cantica. Tale era la sua gioiosa euforia al riguardo, che Dante si figurò un monte della purificazione in cui a essere puniti non sono gli atti peccaminosi – per i quali è possibile ottenere il perdono già in questo secolo, previo, ça va sans dire, adeguato pentimento – bensì le innate propensioni al vizio. La voglia di peccare, in un certo senso. Qual è dunque il vizio capitale dell’albergo a zero stelle, considerato che lo smarrimento scaturisce dalla inevitabilità della menzogna e le pene dell’inferno dalla condanna a fallire? Ancora una volta ci viene in soccorso il mai troppo amato David Foster Wallace, che nel mezzo delle sue considerazioni sull’immenso Dostoevskij si concede questa pausa di riflessione: «Sono io una brava persona? Nel profondo, voglio poi davvero essere una brava persona, o voglio solo sembrare una brava persona in modo che la gente (incluso me stesso) mi approvi? C’è differenza fra le due cose? Come faccio a sapere davvero se mi sto prendendo per il culo da solo, moralmente parlando?». Con parole diverse, il nostro amico torna qui a esprimere il dramma dell’impostura. Il bisogno di diventare brave persone agli occhi del mondo ci induce a mentire aprendoci le porte di un fallimento senza scampo, giacché diventare una brava persona praticando la menzogna è una contraddizione in termini. Viene però introdotto un elemento nuovo, un dubbio: è davvero questo ciò che vogliamo? Chi ci assicura che, nell’intimo, il vero oggetto dei nostri desideri non sia esattamente l’opposto, diventare cattive persone? Del resto, cos’altro è, se non una cattiva persona, chi si adopera per dare al prossimo un’immagine ingannevole di sé? Ecco allora imporsi l’urgenza di capire – per metterla alla maniera di Wallace – se non ci stiamo prendendo per il culo da soli.

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Un bel problema, non c’è che dire. Come risolverlo? Pensandoci bene, una soluzione conveniente ci sarebbe. Poniamo per un istante, per pura ipotesi, che a prenderci per il culo non siamo noi stessi, ma il mondo intorno a noi: il mondo per causa del quale tanto ci affanniamo. Poniamo che sia questo mondo imperfetto e generoso d’ingiustizie a macchiarsi del peccato d’impostura di cui noi ci accusiamo. Poniamo che sia prima di tutto il mondo a cercare di apparire quel che non è. Pensateci: quante cose si sistemerebbero se soltanto la realtà di schifo che ci circonda non esistesse? Come ho detto, ognuno si sistema le cose a modo suo. Il che implica che ognuno ha un suo vizio capitale, una domanda filosofica che lo accompagna nei momenti decisivi, una domanda del tipo: «Esiste un Dio?». Oppure: «Che ci aspetta dopo la morte?». Oppure: «Siamo soli nell’universo?». Ebbene la mia domanda, il vizio capitale che mi consegna al purgatorio, è sempre stata questa: «Cosa fa la realtà nel cuore della notte, mentre ce ne stiamo acquattati e acquietati nei nostri sogni?». Nella prima scena del quarto atto della Tempesta, William Shakespeare mette in bocca a Prospero una frase famosa: «Siamo fatti della stessa pasta dei nostri sogni, e la nostra piccola vita è cinta di sonno». Parole suggestive, e anche vere. Ma non è tanto la natura dei sogni che dovrebbe interessarci, quanto ciò che si trova al di qua di quel mondo nebbioso. Trascorriamo quasi un terzo della vita dormendo, eppure quasi mai restiamo davvero sorpresi dal modo brutale in cui, non appena svegli, il mondo là fuori si affretta ad ammassarsi nella nostra coscienza, occupando più spazio possibile e assoggettando i sensi. Non di rado la realtà ci appare disagevole e insopportabile, per non dire ingiusta, ma lasciamo comunque che abbia ragione su tutto. Immaginiamo e desideriamo mon-

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di fantastici e alternativi, eppure non esitiamo ad adeguarci a quello che ci è toccato in sorte. Perché siamo così rassegnati, quando non ci sono scienze né filosofie che possano resistere a un’obiezione tanto ovvia e immediata quanto quella che la realtà in cui crediamo di esistere sia solo illusione, la magia perversa e sofistica di una qualche sadica entità? Anche il «penso dunque sono» di Cartesio traballa come un castello di carte, se lo si colpisce nelle fondamenta alla maniera di Rimbaud: «È falso dire: io penso. Si dovrebbe dire: io sono pensato». Eppure la dura realtà è lì e le consentiamo di restarci. Perché? Una risposta è possibile trovarla in un volume intitolato Matrix e la filosofia nel quale sono raccolti una ventina di saggi sul film più filosofico mai realizzato a Hollywood. Non c’è bisogno che lo leggiate per intero. Andate pure direttamente al saggio di Slavoj Žižek. Professore di filosofia presso l’Università di Lubiana ed ex candidato alla presidenza della Repubblica slovena, Žižek racconta che quando vide Matrix per la prima volta ebbe «l’eccezionale occasione di sedere accanto allo spettatore ideale del film – nella fattispecie, un idiota». Il nostro filosofo elenca anche i tratti salienti di questo spettatore ideale: maschio, sulla trentina, a tal punto catturato dal film che non può evitare di prorompere in esclamazioni del tipo: «Mio Dio allora non c’è nessuna realtà!». Più o meno il mio ritratto sputato di quando – correva l’anno 1999 – Matrix uscì nelle sale e io lo vidi per la prima volta. In pratica, Žižek mi stava dando dell’idiota. Come si permetteva? Ovviamente, il filosofo non si rivolgeva a me in particolare. Ciò nonostante, presi le sue parole come un’offesa personale. Che questo spettatore ideale somigliasse a decine di milioni di persone sparse per il pianeta non mi consolava affatto. Anzi, sotto certi aspetti era pure peggio, perché mi faceva sentire equiparato a una massa dalla quale credevo fermamen-

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te di distinguermi. È vero, anch’io pensai: «Allora la realtà non esiste!», ma ero convinto di pensarlo in modo diverso dall’esercito di spettatori ideali che ha fatto la fortuna dei fratelli Wachowski. Tanto per essere chiari, ero convinto di saperla più lunga della massa di idioti che si entusiasmano per l’ipotesi che il mondo in cui tutti noi crediamo di vivere non sia altro che un sogno artificiale attraverso il quale maligne entità meccaniche ci tengono sotto controllo. Viene quasi da sé che questo mio convincimento è minato alla base da una contraddizione. Sotto sotto sono d’accordo con Žižek: anche io penso che lo spettatore ideale di Matrix non sia proprio un intelligentone. Ma se il mio ritratto corrisponde a quello dello spettatore ideale, perché mai non dovrei anche essere quel che Žižek pensa, nella fattispecie un idiota? Forse la contraddizione potrebbe essere sanata da Keanu Reeves, l’attore che incarna Neo, il protagonista, l’eroe che smaschera una realtà fatta di menzogne. Anche lui nel 1999 era un trentenne e appariva a molti come il classico rubacuori con poca materia grigia. Nella fattispecie anche lui è potenzialmente un idiota. Bello quanto si vuole ma pur sempre un idiota. Per giunta, nemmeno Neo sembra particolarmente sveglio. Sarà pure l’Eletto, ma ci mette un bel po’ a capire come stanno davvero le cose in Matrix, ovvero che la realtà non esiste. Un esempio: mentre attende di incontrare l’Oracolo per la prima volta, Neo fa anticamera insieme a bambini superdotati. Uno di questi piega un cucchiaio con la forza del pensiero. Neo osserva la prodezza con una tale aria da babbeo che il bambino si sente in dovere di spiegargli ciò che perfino il più ideale degli spettatori ha ormai compreso benissimo: «Non c’è nessun cucchiaio». Ma questo è soltanto l’inizio. In seguito, Neo riuscirà a piegare il cucchiaio e penetrerà l’illusoria essenza della realtà di Matrix come nessun altro prima

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di lui. Keanu Reeves e il suo personaggio sembrano dunque dimostrare che l’appartenenza alla categoria degli idioti non preclude affatto la possibilità di diventare geni. Potevo sentirmi sollevato? Non del tutto. Keanu Reeves e il suo personaggio sanano solo in parte la contraddizione. Nel dipingere il ritratto dello spettatore ideale, Žižek solleva implicitamente un’altra e ben più sostanziale questione. Di fatto ci dice questo: pensare che il mondo reale non esista è un pensare da idioti o perlomeno un’inutile perdita di tempo. E non è il solo. Anche altri filosofi, pur riconoscendo che del problema si sono occupati pensatori illustri come Platone e Cartesio, definiscono superficiale e ingenua l’ipotesi per cui la realtà del mondo può essere messa in dubbio. Gerald J. Erion e Barry Smith, per esempio, scrivono che il cosiddetto scetticismo globale attrae particolarmente «i giovanissimi, la cui ribellione contro le facili certezze dell’autorità genitoriale assume a volte una forma metafisica che li porta a dire “Niente è quello che sembra!” oppure “Solo io so qual è la realtà!”». Insomma, a quanto pare diamo per assodata la consistenza del reale perché cresciamo, perché pensare il contrario non è da adulti. In effetti, se risalgo alla fonte del mio contenzioso con la realtà trovo un me stesso bambino. Ho già parlato di come fossi solito sputare il cibo che i miei genitori mi somministravano e della vana speranza che il morso di un ragno radioattivo mi trasformasse in un supereroe della Marvel. A ciò potrei aggiungere la convinzione di essere un alieno caduto per sbaglio dallo spazio, ma immagino sia superfluo, perché si tratta comunque di alternative bambinesche e inefficaci da contrapporre a un mondo ostile. Sia chiaro, però, che non mi ritenevo un essere superiore né ambivo a diventarlo. Volevo solo un’alternativa, una qualunque, al mondo così com’era. Speravo in un’eccezione. Desideravo che almeno una delle cose che in base al senso comune non potevano essere rien­

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trasse nel novero delle cose che erano e che c’erano. Mi sarei accontentato anche di una semplice catastrofe nucleare o di una terza guerra mondiale. Tutto fuorché lo schifo della normalità. Crescendo ho capito che per quanto volessi, sperassi o desiderassi nulla sarebbe cambiato. Senza farmene una ragione, dovetti guardare in faccia la realtà. Non ero un alieno caduto dallo spazio e i miei genitori erano davvero i miei genitori. Quanto al resto – ragni radioattivi, catastrofi nucleari e guerre mondiali – ho detto a me stesso che non era molto carino confidare in improbabili eventualità che comportano il male di milioni di innocenti. Capire e disilludersi non è stato purtroppo di grande utilità. L’accettazione della realtà non è infatti compresa nel prezzo che bisogna pagare per la comprensione e la disillusione. L’accettazione va acquistata a parte. Te la presentano come un optional e tu pensi che basti un piccolo sforzo in più per aggiudicartela, ma alla fine scopri che non è così. Scopri, come a me è capitato di scoprire, di non avere abbastanza risorse per comprarti sia comprensione che accettazione. E se magari hai le risorse, scopri di non avere comunque la minima voglia di buttare tanti soldi dalla finestra. Così ti ritrovi al punto di partenza. Anzi peggio. Perché se prima non accettavi illudendoti, adesso, siccome hai capito, non ti illudi più ma continui a non accettare. Tempo fa mi capitò di leggere un breve testo nel quale i termini della questione vengono sintetizzati molto chiaramente: «L’adattamento alla normalità e la determinazione a restare entro le sue perimetrazioni è fonte di malessere». Il male di vivere «promana da quella condizione sociale normalizzata in nome della quale vengono decretate tutte quelle esclusioni e marginalizzazioni che affliggono gli esclusi». Non è un male raro, perché «tutti coloro che riproducono la loro

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vita all’interno delle istituzioni ordinarie, vale a dire la grande maggioranza delle persone che studiano, lavorano, si fanno una famiglia in una società tecnologica, ne vengono colpiti». Il verbo riprodurre è il nocciolo della questione. In una società come la nostra non è possibile vivere se non in termini di riproduzione. Ma se riprodurre la propria vita implica necessariamente di accettare e convivere con l’idea che la normalità non può essere evitata, cosa si può fare quando il malessere si trasforma in un dolore lancinante e insopportabile? Ovvero: esiste una possibilità di vivere la propria vita se non riproducendola all’interno di quella che Philip K. Dick definiva «griglia del reale», la griglia che trasforma «ciò che altrimenti sarebbe caotico in un contesto relativamente “stabile”»?

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STANZA 301

Un’idea di cosa combini la realtà mentre ce ne stiamo acquattati nei nostri sogni me la sono fatta la notte in cui sognai di sognare. Per la verità, non era propriamente notte. Sebbene non mi decidessi ad alzarmi, l’alba era trascorsa già da un pezzo e il sole entrava deciso dalla finestra aperta. Mi godevo i beati momenti in cui la coscienza, ancora tutta intontita, si rigira tra sonno e dormiveglia, quando a poco a poco sognai di dormire. Visto lo stato in cui mi trovavo è impossibile dire se un barlume di coscienza guidasse gli eventi, fatto sta che in quella specie di sogno mi vidi nel posto esatto in cui effettivamente ero, nel mio letto, in casa mia, e facevo né più né meno quel che stavo effettivamente facendo ovverosia dormivo, avvoltolandomi nelle lenzuola, giacché, sia detto per inciso, se c’è una cosa che mai ho considerato un punto di merito è l’essere mattiniero. Ma un rumore fragoroso, come di esplosione, mi strappò di soprassalto al torpore. Scesi svestito le scale del soppalco e mi affacciai alla finestra per capire cos’era accaduto. La strada era tranquilla. Gli edifici del circondario erano ancora al loro posto, intatti. E nessuno, a parte me, s’era affacciato alla

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finestra. Mi parve tuttavia di udire in lontananza un suono di sirene e mentre cercavo di capire quanto quel suono fosse lontano e reale avvertii sulla schiena il solletico di quando ci si sente osservati. Mi voltai e vidi due persone, entrate chissà come, accomodate sul mio divano. Mi fissavano. Erano un uomo e una donna e somigliavano in modo impressionante agli agenti Mulder e Scully di X-Files. Anzi, in un primo momento non ebbi il minimo dubbio che fosse proprio quella l’identità degli intrusi e per qualche ragione la cosa non mi stupì più di tanto. Cominciai a provare un certo turbamento soltanto quando mi fu chiaro che si trattava di poliziotti locali, rappresentanti in borghese delle forze dell’ordine italiane. Immaginai che mi facessero visita per via dell’esplosione, per sapere se avevo visto o sentito qualcosa. Eccetto il botto di poco prima, però, nulla autorizzava una simile deduzione. Dall’istante in cui si erano materializzati sul mio divano, i due non avevano aperto bocca. Si erano limitati a fissarmi con un’aria che pur non essendo minacciosa né inquisitoria non aveva alcunché di rassicurante. Che fossero della polizia era una certezza sgorgata d’improvviso dal nulla con la perentorietà misteriosa dei sogni, e io speravo ardentemente di non sbagliarmi circa le ragioni della loro presenza, perché di fronte al divano, giusto sotto i loro occhi, era collocato un baule militare in legno facente funzione di tavolino sul quale era posata una scatoletta di marmo intarsiato. Al suo interno ero solito riporre certe sostanze non del tutto legali che mi servivano ad aprire le porte della percezione ed esplorare nuove dimensioni. Non osavo pertanto pensare all’imbarazzo in cui mi sarei trovato qualora a uno di quei due importuni fosse venuto il ghiribizzo di giocherellare con la mia scatoletta. La natura dell’oggetto era infatti tale da stuzzicare l’attenzione e si era già verificato più volte, in passato, che un ospite

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se ne impossessasse per saggiarne la consistenza e osservare da vicino la qualità dell’intarsio. L’esperienza mi insegnava che da lì a sollevare il coperchio il passo era paurosamente breve. Ringraziando il cielo, finora l’inconveniente era stato di poco conto in quanto accoglievo in casa soltanto persone illuminate come me, esploratori dell’ignoto che bene comprendevano l’utilità di determinate sostanze, persone affatto diverse dai poliziotti, noti più per la suscettibile ostilità di cui si mostrano capaci in certi frangenti che per la loro apertura di vedute. Naturalmente l’ultima cosa da fare era proprio quella che stavo facendo adesso: puntare insistentemente gli occhi sulla mia scatoletta. Non ci volle molto perché l’agente Scully se ne accorgesse. Notò pure che sudavo freddo. Quindi, in completo mutismo, si protese in avanti, afferrò l’oggetto delle mie preoccupazioni per poi tornare a sprofondare con la schiena nel divano. Rigirò la scatoletta nelle mani mentre l’agente Mulder si guardava attorno come in cerca di qualcosa. Più che una puntata di X-Files, la scena somigliava all’inizio del Processo di Kafka, con la differenza che il Josef K. della situazione, cioè io, aveva ben chiaro quale potesse essere l’accusa a suo carico. Mi sentivo mancare e credo proprio che sarei mancato davvero se il rumore di una saracinesca che veniva sollevata in strada non mi avesse svegliato una volta per tutte. Aprendo gli occhi rividi il luogo esatto in cui l’incubo era cominciato, il mio letto. Rizzandomi a sedere, dall’alto del soppalco, vidi lo stesso divano, lo stesso baule verde scuro con sopra la stessa scatoletta di marmo intarsiato contenente le stesse sostanze atte all’esplorazione di nuovi mondi. Mancava soltanto la coppia di visitatori, ma sulla loro effettiva assenza non avrei messo la mano sul fuoco, perché tale era lo spaesamento che non sapevo più bene cosa effettivamente

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vedessero i miei occhi. Scesi le scale e in preda a un’ansia paranoica andai immediatamente alla porta per controllare attraverso lo spioncino che fuori non ci fosse nessuno. La sensazione lasciatami da quel sogno mi rimase addosso per giorni. Mi era già successo di sperimentare stati più o meno coscienti di scollamento dalla realtà, ma si era sempre trattato di situazioni in cui quel che conoscevo del mondo veniva rivoltato come un calzino trasformandosi in qualcosa di completamente diverso. Spesso lo stravolgimento aveva i suoi lati spaventosi e impressionanti ma c’era sempre qualcosa in quelle visioni d’incubo che, similmente alle molliche di pane nella favola di Pollicino, mi riportava a casa. Finanche nelle circostanze più estreme – un paio di angosciosissimi viaggi allucinatori a base di Lsd – ero riuscito a conservare la distinzione tra ciò che avrebbe dovuto essere reale e ciò che i miei sensi credevano di percepire. Probabilmente la ragione per cui non mi ero mai perduto nei miei incubi consiste proprio nel fatto che sembravano ciò che di fatto erano, incubi. Il sogno in cui sognavo di dormire sembrava invece il ritratto sputato del luogo e del momento in cui davvero mi trovavo, e di tutti gli incubi possibili quello da cui è più difficile risvegliarsi è proprio l’incubo che si presenta nei panni di un fratello gemello della realtà. L’ospite della stanza 301 è per l’appunto un grande costruttore di mondi che somigliano a questo genere d’incubi, labirinti dove lo smarrimento è determinato dall’impossibilità di discernere il fittizio dal reale. Qualcuno lo ha definito «una specie di Kafka passato attraverso l’acido lisergico e la rabbia». Lui si definiva un fanatico lumatore di ragazze – mancava solo che si portasse appresso un metro a fettuccia per prendere le misure – e uno sperimentatore di allucinogeni e polveri. Ovviamente fu molte altre cose. Lavorò in un negozio di dischi. Fece il copywriter. Condusse un programma radio-

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fonico di musica classica. Lesse tutti i grandi della letteratura moderna tra cui Proust, Pound e il già più volte menzionato Kafka. Visse gran parte della sua vita in California dove il clima è buono, amichevole perfino, e non sempre orribile come a Chicago dove nacque nel 1928. Scrisse montagne di romanzi e racconti, la quasi totalità d’argomento fantascientifico, che gli fruttarono qualche onore e pochi denari, tant’è che nel 1976, dopo essere stato dimesso da un ospedale della California, tracciò un succinto ma eloquente bilancio: «Mi ritrovo qui, dopo venticinque anni di carriera come scrittore di fantascienza, con la prospettiva di vedermi tagliare acqua, luce e gas se non pago il dovuto entro tre giorni; allora mi domando: A che cosa è servito?». Sei anni dopo passò a miglior vita stroncato da una serie di attacchi cardiaci. La morte sopraggiunse proprio nel momento in cui l’adattamento cinematografico di un suo romanzo stava per consacrarlo profeta del nostro tempo. Ma chissà, può anche darsi che lui non volesse affatto essere consacrato. Forse una vita da misconosciuto scrittore di fantascienza non era esattamente ciò in cui sperava da giovane, ma era ciò che il destino gli aveva riservato. Per cui tanto valeva tenersela questa vita e farla breve: «È triste ma sto invecchiando», considerò. «Sto invecchiando. Non mi sono rappacificato con la società “regolare”, ma allo stesso tempo sono troppo fiacco, troppo sfibrato dalla malattia e dalla paura, per riuscire a far altro che quadrare i conti – cioè pagare la bolletta dell’acqua, del gas, dell’elettricità». Nondimeno è diventato un profeta del perdersi nella somiglianza speculare della realtà e dei suoi tanti doppi, di universi che crollano a pezzi per l’impossibilità di separare la verità dalla finzione. Ma, se davvero si vuole andare alla radice di come Philip K. Dick vedeva il mondo, non è all’inganno delle

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apparenze che bisogna guardare. Bisogna osservare le cose con gli occhi dell’inquietante bambino autistico presente in un suo romanzo, Noi marziani: una sorta di piccolo Buddha dei tempi a venire che vede nelle cose il paradosso del tempo e dello spazio: una persona è lì davanti a lui, gli appare nel fiore dei suoi anni, in tutta la sua gagliardia, ma lui la vede già morta e putrefatta, la vede al capolinea che attende ogni cosa che vive ed esiste. Vede, in una parola, l’entropia. Si consideri dunque la seguente domanda retorica contenuta in quello stesso romanzo: «E dove vuoi che succedano le cose, se non nel futuro?». La si direbbe un’affermazione più che credibile. Il passato è passato e dunque non alla portata di eventi che non siano già accaduti; il presente si presenta spesso come il guado che ci separa da quel che deve accadere. Se a ciò aggiungiamo che la domanda viene posta dal personaggio di un romanzo di fantascienza, genere avveniristico per definizione, la risposta si profila scontata: il luogo dove succedono le cose è il futuro. Proviamo tuttavia a soppesare la questione con un pizzico di paranoia. Il passato è passato, e va bene. Il presente nel suo piccolo sta passando, e anche questo diamolo per buono. Ma il futuro, chi ci garantisce che passerà? Si dice che domani è un altro giorno, ma quante volte il domani ci ha già tradito? Quante volte quel che credevamo o speravamo arrivasse non si è mai fatto vedere? Quando ripensiamo ai tanti domani che ci siamo lasciati alle spalle, spesso il futuro assume i contorni spiacevoli delle promesse mancate e delle amare disillusioni. Senza contare, inoltre, che potrebbe anche non esserci un futuro. Jack Kerouac conclude Sulla strada scrivendo che «nessuno sa quel che succederà di nessun altro se non il desolato stillicidio del diventare vecchi». In pratica, proprio come il bambino autistico di Noi marziani, ci prospetta il futuro come l’anticamera dell’estinzione, e se la prospettiva è davve-

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ro l’assenza di qualunque accadimento, la domanda retorica di Dick va intesa in senso diametralmente opposto: «E dove vuoi che non succeda un bel niente, se non nel futuro?». Il confronto tra i due, tra Dick e Kerouac, non è pretestuoso né accidentale. Entrambi sono nati negli anni Venti. Spiantati per natura e formazione, entrambi hanno dissipato la propria esistenza con irrequieta e anfetaminica malinconia. Entrambi hanno guardato il sistema da fuori, dissociandosene e non di rado odiandolo al punto da diventare bandiere della controcultura. Entrambi si sono infine interrogati sulla effettiva consistenza di quella incrollabile certezza occidentale che passa sotto il nome di «realtà». Dick ha senza dubbio sviscerato il problema con più determinazione, ma anche Kerouac ha fatto la sua parte. Le sue pagine sono disseminate di frasi come: «Poiché nessuno di noi vuole pensare che l’universo sia un sogno vuoto dovuto alla nostra mente, vogliamo convinzioni, molti nomi, vogliamo elenchi di leggi e una certa sdegnosa distanza». Certo, i due non sono esattamente l’uno lo specchio dell’altro. Ciò che li divide è forse più grande di ciò che li unisce, ma fissarsi sulle differenze impedisce di cogliere come negli anni Cinquanta – Kerouac pubblica Sulla strada nel 1957, mentre Dick esordisce in veste di romanziere nel 1955 con Lotteria dello spazio – si siano poste le premesse di una visione del mondo che dalla beat generation porta a Matrix passando per la rivoluzione psichedelica, il postmodernismo, il cyberpunk e altre storie. Quale sia questa visione del mondo lo abbiamo ripetuto più volte: la realtà è indecidibile. Così come abbiamo constatato che il problema è stato posto ben prima degli anni Cinquanta. La novità di quel decennio consiste nel fatto che fino ad allora l’indecidibilità era stata affrontata in termini essenzialmente filosofici e cognitivi. Quel che cambia con la

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nascita della controcultura è che il dilemma diventa anche politico. Kerouac mette gli «elenchi di leggi» nel calderone di un universo di inganni. Dal canto suo, con Lotteria dello spazio, Dick ci proietta invece in un XXIII secolo dove ai vertici massimi del potere apparente si accede attraverso una sorta di ruota della fortuna planetaria mentre il potere effettivo è gestito in modo occulto da corporazioni simili a quelle che già oggi decidono cosa la gente debba comprare e come debba vedere il mondo. Sia Dick che Kerouac erano però mossi anche da un profondo senso religioso, il che finisce per collocarli su un piano diverso rispetto ai tanti altri che, dai “favolosi Sessanta” in poi, hanno speculato intorno a ciò che è davvero reale. Che questo distinguo valga quasi certamente per Kerouac – così preso dallo sregolato individualismo di scrivere le sue memorie di vagabondo – è facile da accettare. Con Dick il discorso si fa più complesso. I suoi universi oppressi dall’entropia dell’apparenza riguardano solo in parte certi stati di paranoia per i quali è diventato famoso. Non che Dick non fosse paranoico, intendiamoci. Lo era e pure parecchio, ma dimostrare che la realtà è il frutto di un imbroglio non gli bastava. Smascherare i colpevoli era per lui marginale. Poco gli importava arrivare a chi ordisce la trama delle illusioni – una razza aliena, un potente allucinogeno, una sofisticatissima macchina, una cinica multinazionale, noi stessi o chissà quale superiore entità. Dick voleva andare oltre il vuoto lasciato da una realtà smascherata. Voleva una risposta. Anelava a un senso. Purtroppo, là dove regna l’entropia, non ci sono né senso né risposta fuorché lo zero assoluto. Per comprendere ciò di cui era effettivamente in cerca Philip K. Dick è necessario partire dal fattore che lo fa dubitare della consistenza del reale: il tempo. Abbiamo già notato che la domanda retorica di Noi marziani è ambigua: da un lato

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indica il futuro come unica direzione possibile, dall’altro lascia trasparire un fondo di sconsolata sfiducia. Arnie Kott, il personaggio che la pronuncia, sarà infatti costretto a tornare nel passato per far accadere le cose che lui si aspetta. Paradossalmente il viaggio a ritroso lo condurrà alla morte ovvero al punto che per ogni individuo rappresenta il limite estremo del proprio futuro. La morale che se ne trae la si potrebbe riassumere nei seguenti termini: se il futuro vi sembra brutto, allora non avete idea di cosa vi aspetta nel passato. Noi marziani non è un caso isolato. In ogni romanzo di Dick, per un verso o per l’altro, il tempo condiziona in senso negativo il destino dei personaggi, i quali si abbandonano perciò a considerazioni deprimenti. Dice, per esempio, Eleanor Stevens in Lotteria dello spazio: «Ho bisogno di una persona da cui dipendere, una persona forte che si prenda cura di me. Questo è un mondo grande e freddo, completamente desolato e ostile, povero di affetto. Sai cosa ti accade se ti lasci andare e fallisci? (...) Le cose finiscono sempre male... non resistono al logorio del tempo». Individuando una stretta relazione tra il bisogno di affetto e la natura spietata del futuro, il ragionamento di Eleanor mette il dito nella piaga: quel che sappiamo del futuro ci mostra quanto miserevole sia la nostra condizione nel presente, aprendo crepe nella nostra percezione del reale. Il futuro è una scelta quasi obbligata per uno scrittore di fantascienza. Viaggiare nello spazio, esplorare pianeti lontani, costruire androidi, leggere nella mente e altre amenità proprie del genere presuppongono conoscenze di cui ancora non disponiamo. Nulla vieta di immaginare che in un futuro si possa giungere a tanto. Più ci si sposta in avanti nel tempo più l’inverosimiglianza sfuma. Pur non mostrando mai un grande interesse a entrare nel dettaglio degli aspetti tecnologici, anche Dick ha fatto suo questo basilare espediente agli

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inizi della sua carriera. Lotteria dello spazio è ambientato nel lontano 2203. Lo stesso vale per i successivi E Jones creò il mondo e Redenzione immorale. Pubblicati nel 1956, entrambi si svolgono nel terzo millennio. In ognuno di questi tre romanzi, però, i disastri possibili venturi hanno legami diretti con un futuro più prossimo, gli ultimi decenni del XX secolo. Ma c’è di più: spesso da questi scenari ostili e negativi sembra trasparire una sorta di fastidio dell’autore, una strana forma di idiosincrasia a spingersi troppo in là con l’immaginazione. In gioventù, Dick aspirava a diventare uno scrittore di mainstream, ma i non pochi romanzi “seri” che portò a compimento gli vennero sistematicamente rifiutati dagli editori. Per sua stessa ammissione, «il tentativo di fare qualcos’altro rispetto alla semplice fantascienza» ha condizionato non poco il suo lavoro negli anni Cinquanta. Il genere gli dava da sopravvivere ma lo viveva come una grande limitazione e le persone che lo frequentarono in quel periodo ricordano che dava l’impressione di scrivere fantascienza, «perché era ciò che gli accadeva» e che «supplicasse Dio perché gli pubblicassero alcune opere serie. La fantascienza era quel che faceva. Era un formato nel quale si potevano presentare alcune idee, ma non lo considerava adeguato a serie indagini intellettuali – nel modo più assoluto. Chi cazzo mai prestava attenzione ai tascabili?». L’adesione parziale, e sotto alcuni aspetti obbligata, al genere fantascientifico potrebbe spiegare il senso di ripulsa nei confronti del futuro. Tuttavia, anche quando comincerà a prendere più seriamente la letteratura di anticipazione, Dick continuerà ad avere un rapporto problematico con il tempo. La stragrande maggioranza delle sue opere più riuscite non si spinge mai oltre l’anno 2000, uno sfondamento praticamente d’ordinanza per chi allora scriveva fantascienza. Date un’occhiata a questa lista:

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Noi marziani del 1964 è ambientato nel 1994; Scorrete mie lacrime, disse il poliziotto del 1974 è ambientato nel 1988; In senso inverso del 1967 è ambientato nel 1998; Ma gli androidi sognano le pecore elettriche? del 1968 è ambientato nel 1992; Ubik del 1969 è ambientato anch’esso nel 1992; Un oscuro scrutare del 1977 si dipana a Los Angeles nel 1994.

Le storie ambientate nella fase conclusiva del secondo millennio sono davvero molte; difficile credere che si tratti di una semplice coincidenza. Se Dick optava sempre per le stesse date aveva certamente le sue ragioni. Ma quali? Una possibilità potrebbe essere il solito pallino per la letteratura “seria”. Scegliere anni non lontanissimi nel tempo equivarrebbe a una specie di avvertenza per il pubblico: «Non fermatevi alle apparenze. Questo è un romanzo di fantascienza, ma non proprio. Diciamo piuttosto che è un mainstream d’anticipazione». Un’altra possibilità è che intendesse rappresentare il presente ribaltandolo nel futuro alla maniera di Orwell: visivamente il numero nove è un sei capovolto, per estensione si potrebbe così ipotizzare che gli anni Novanta siano i Sessanta rivoltati come un calzino. Tuttavia esiste anche la possibilità di una motivazione più viscerale. Come già detto, Philip K. Dick morì in ospedale il 2 marzo 1982, dopo una serie di attacchi apoplettici. Fin da giovane aveva sofferto di tachicardia ma l’uso sconsiderato di anfetamine, psicofarmaci e pasticche di ogni sorta certamente non gli giovò. Se ne andò prematuramente, senza poter go-

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dere del successo di Blade Runner. Non venendo meno alla propria fama, il destino fece sfoggio di sadica ironia. Negò a quest’uomo geniale e tormentato la possibilità di vedere cosa sarebbero effettivamente stati gli anni Novanta, teatro delle sue storie. La possibile motivazione viscerale consisterebbe allora proprio in questo: ossessionato dalla consunzione, Dick ha fatto letteratura di anticipazione spostandosi con la fantasia nel tempo in cui lui stesso avrebbe mostrato i segni del decadimento. «Sembrava a tutti loro che sarebbe durato un’eternità, che sarebbero stati per sempre lì ad ascoltare i loro dischi, a fabbricarsi i loro spinelli, a trascorrere i loro giorni tranquillamente, lontano dal mondo degli adulti. Allo stesso tempo, il loro motto sarebbe potuto essere: “Vivi bene il tuo tempo adesso perché domani sarai morto”. Si sarebbero sentiti insultati se qualcuno avesse detto loro che sarebbero invecchiati». Questo passo, così vicino nello spirito alle parole che chiudono Sulla strada, proviene da Un oscuro scrutare, straziante bilancio di un’intera generazione spazzata via e punita per i suoi eccessi, per avere troppo creduto nella pienezza di vivere. Se fosse stato vivo nel 1994, l’anno in cui si svolge il romanzo, Dick avrebbe avuto settantadue anni. Sarebbe stato un uomo giunto all’anticamera di quel futuro in cui le cose smettono di accadere.

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STANZA 302

Diversi anni fa, quando la mia carriera era ancora ai suoi balbettanti inizi, diedi alle stampe una novella o, come preferisco dire, un romanzetto. Si intitolava Lo spazio sfinito e qualcuno mi fece prontamente notare assonanze, a suo avviso evidentissime, con Cancroregina. Il fatto non meriterebbe di essere menzionato se non fosse per un dettaglio: all’epoca, Tommaso Landolfi era del tutto assente dai miei pensieri. Coltivavo infatti una passione smodata per autori quali Philip K. Dick, George Orwell e Jack Kerouac, tant’è che il protagonista si chiamava proprio come l’erratico e malinconico autore di Sulla strada. Non mi dilungherò sui vari aspetti della storia. Quel che qui conta è il nocciolo del romanzetto; un nocciolo che potrebbe essere riassunto nei seguenti termini: un uomo «solo e sconsolato», scrittore nonché astronauta per caso, si confronta col vuoto vagando in tondo per il cosmo. L’inanità delle parole, la solitudine, la morte a un tempo cercata e temuta: erano questi i temi che ero andato rivisitando in chiave fantascientifica e sebbene fossi più che sicuro di avere attinto ad altri modelli, dovetti ammettere che i punti di contatto con

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Cancroregina erano così spiccati da lasciare intendere che fosse proprio quella la mia principale fonte d’ispirazione. Col tempo compresi però che queste somiglianze – a cominciare dalla più evidente, il viaggio nello spazio – dovevano essere collocate nella giusta prospettiva. Alla maniera delle increspature del mare, non erano che la manifestazione superficiale di più interni sommovimenti. Maturai, insomma, la convinzione che l’autentica affinità con Landolfi e il suo Cancroregina riguardasse non il motivo fantascientifico in sé bensì il particolare modo di trattarlo, di farlo proprio. Il che mi metteva davanti un mistero: mi ero adoperato a scrivere un romanzo intriso d’America, con un personaggio il cui nome era tutto un programma, e avevo finito per partorire qualcosa di profondamente italiano, assimilabile a un autore che mi era pressoché indifferente. Com’era possibile? Cosa ne dovevo concludere? Forse che le radici sono più forti delle nostre intenzioni? La migliore risposta che sono riuscito a darmi è che in fondo le mie involontarie quanto innegabili affinità con Landolfi corrispondono a un’attitudine di più larga scala, a un carattere nazionale, per così dire, riscontrabile, seppure con variegati accenti, anche in altri autori come Calvino e Buzzati, ovvero in specifici testi quali Gli anni perduti di Vitaliano Brancati. Semplificando, questo carattere concerne la speciale maniera in cui noi scrittori italiani ci avviciniamo al fantastico e, sotto certi aspetti, alla finzione narrativa in generale. Una speciale maniera cui mi sono permesso di dare il nome di Fintascienza Italiana. È una vecchia storia o meglio un’antica leggenda. Nel 1983, quando Landolfi era passato a miglior vita già da quattro anni, Italo Calvino curò per Mondadori un’antologia di Racconti fantastici dell’Ottocento. Nella prefazione spiegò di aver preferito estromettere gli autori della Penisola perché gli dispiaceva di «farli figurare solo per obbligo di presenza: il fantastico – scrisse – resta nella letteratura italiana un campo veramente

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“minore”». L’affermazione è stata più volte confutata in quanto parziale e inesatta. Ma comunque la si voglia intendere, vera o falsa che sia, il problema resta in quanto corrisponde a un pregiudizio radicato e diffuso. André Breton, padre del surrea­­ lismo nonché anticlericale acerrimo, vedeva in quella che per lui era prima di ogni cosa la terra dei papi un alveo attraversato da fiumane di «gretto razionalismo e scetticismo». Un’opinione non troppo distante espresse in piena èra romantica Giacomo Leopardi ragionando intorno ai «costumi degli italiani». A suo modo di vedere, tra le nazioni meridionali, la nostra è «la più morta, la più fredda, la più filosofa in pratica, la più circospetta, indifferente, insensibile, la più difficile ad essere mossa da cose illusorie e molto meno governata dall’immaginazione, anzi priva affatto di ogni immaginazione». In seguito, seppure in accenti più moderati, Benedetto Croce ribadirà che l’animo italiano tende per natura al definito e all’armonico. In virtù di questo pregiudizio, scrittori come Tommaso Landolfi hanno finito col diventare eccezioni, casi fuori dell’ordinario. L’atavico scetticismo da cui saremmo affetti noi italiani ha contribuito ad alimentare un’altra presunta certezza ovvero che anche le cosiddette eccezioni ricorrano al fantastico in maniera strumentale, al puro scopo di ordire apologhi metafisici o favole morali, curandosi poco o nulla di favorire la sospensione dell’incredulità. Tanto per venire al concreto, è stato rilevato più volte – nonché accettato alla stregua di un dato di fatto – che la cornice fantascientifica di Cancroregina è solo un mero pretesto per dire altro. Che di pretesto davvero si tratti non è così assodato, ma anche ammettendo che lo sia, un nervo resta comunque scoperto: che bisogno aveva Landolfi di ricorrere a un pretesto per esprimere cose analoghe a quelle che, con «sincerità esibita», avrebbe confidato di lì a pochi anni nei diari? Ma soprattutto: perché proprio un pretesto di tipo fantascientifico?

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Nelle pagine finali di Rien va, seconda tappa del suo percorso diaristico, Landolfi si abbandona a riflessioni di questo tenore: «Mi par chiaro che solo la letteratura fantascientifica è sulla strada giusta, (...) il solo atteggiamento ormai possibile». Il che lo obbliga a domandarsi «cosa potrebbe diventare la fantascienza nelle mani di un Dostoevskij o di un Tolstoj (...), quando cioè divenisse una vera letteratura». Non manca inoltre di precisare che «alcuni autori di fantascienza son gente di prim’ordine che nulla ha da invidiare ai rompiscatole sociologici o alienisti». La data attribuita a questi pensieri è il 10 novembre 1959, ed è pertanto probabile che siano stati solleticati da un volume che proprio in quei giorni approdava in libreria: Le meraviglie del possibile, la prima importante antologia di fantascienza mai pubblicata in Italia, curata da Carlo Fruttero e Sergio Solmi per i tipi di Einaudi. Cancroregina precede però di circa un decennio quel volume, e anticipa pure di un paio d’anni la nascita di quei periodici che importarono la fantascienza in Italia. È infatti dell’aprile 1952 il lancio della rivista «Scienza Fantastica» a cui fece seguito, a distanza di qualche mese, la collana «I romanzi di Urania» diretta da Giorgio Monicelli, al quale dobbiamo il termine italiano fantascienza. E qui è possibile fare una prima interessante considerazione ovvero che «scienza fantastica» sarebbe stata una traduzione più corretta dell’inglese sciencefiction. «Fantascienza» finì per prevalere poiché aveva un suono più «semplice, non astruso, e insieme sufficientemente suggestivo». Mediante il prefisso “fanta” la scienza non era il cuore indiscusso del problema. I contorni si facevano più ambigui e sfumati, in quanto non chiarivano in modo inequivocabile se l’oggetto in questione fosse una scienza della fantasia o una scienza fantastica. La distinzione non era affatto scontata e oziosa per l’Italia degli anni Cinquanta, vale a dire per un paese che, sebbene attratto dall’innovazione scienti-

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fica e tecnologica, era ancora sostanzialmente agricolo e di cultura perlopiù umanistica. Lo stesso Cancroregina si avventura in un territorio dove la fantasia pare in conflitto con la scienza. Le parole con cui il protagonista dà inizio al racconto sono tutte per l’estraneità che lo divide dai marchingegni dell’astronave in cui è intrappolato. Più avanti, descrivendo l’immensa grotta dove il bisbetico mezzo di trasporto riposa in attesa della partenza, lo sconsolato uomo di lettere parlerà di «fiabesca magnificenza». Nondimeno qualche ragguaglio tecnico ci viene offerto: per esempio il fatto che ossigeno e acqua vengono prodotti a bordo, oppure che gli alimenti sono stati precedentemente sintetizzati in pillole e la minima quantità di escrementi che ne deriva è subito riconvertita in gas e sostanze utili. A un certo punto, leggiamo anche che il passaggio nei cieli della bizzarra forma di Cancroregina non sfugge allo sguardo dei terrestri, suscitando curiosità e timori. «La radio di bordo entrò in agitazione: da molti luoghi si chiedevano spiegazioni di ogni genere. Non rispondemmo ad alcuno». La si direbbe quasi un’allusione agli avvistamenti di dischi volanti, un fenomeno esploso nel 1947 e al quale anche la stampa italiana diede ampio risalto. Una simile cura per il particolare, tesa a conferire un’aura di credibilità a scenari altrimenti poco verosimili, rientra nel repertorio tipico, per non dire obbligato, della fantascienza e si concilia poco con una mera appropriazione strumentale di certi stilemi. La prima edizione del romanzo conteneva poi un’appendice ambientata in un manicomio, nella quale risultava evidente che la straordinaria esperienza riferita dal protagonista in forma di diario altro non era che il delirio di un folle. Anche quello di spiegare l’incredibile come il frutto di sogno, messinscene, allucinazione o follia è uno stratagemma classico della letteratura fantastica. È però un espediente facile che rischia di deludere se non persino stizzire. Il lettore

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può infatti trovare ridicolo che la presenza di un fantasma in un romanzo venga spiegata come una puerile messinscena, un semplice lenzuolo bianco con due buchi a far da occhi. Forse proprio per questo, in un secondo tempo Landolfi deciderà di espungere il finale del manicomio, lasciando così al racconto il beneficio di un dubbio, seppur minimo. Che il narratore sprofondi nel delirio resta sempre fuori discussione: la dovizia di dettagli tecnici che correda il suo resoconto autorizza tuttavia a pensare che, almeno in parte, abbia detto il vero. Il gioco si complica ulteriormente se prestiamo fede a quanto ci viene confessato in Rien va: «Un tempo la chiamai Porrovio e la definii una parola. Mentivo. È la mia bestia... bestia folgorosa». Il Porrovio, lo sappiamo bene, è una delle creature che popolano le tormentate allucinazioni finali di Cancroregina; come dice il protagonista: «Il Porrovio non è una bestia: è una parola». Che senso dobbiamo dare a questa smentita? Che Landolfi corregga sé stesso nel “vero” diario di Rien va deve forse indurci a pensare che la voce narrante del “finto” diario di Cancroregina non sia un personaggio immaginario? Ritengo si possa dare per scontato che Landolfi non abbia mai viaggiato nello spazio. Può darsi che abbia sognato o creduto di farlo in un accesso di fantasia, ma se così è, se di sogno o allucinazione si trattò, ha inteso presentarci questa sua esperienza della mente come un racconto di fantascienza ovvero alla classica maniera di un evento fittizio che può diventare realtà nei ristretti e specifici domini della letteratura. La smentita di Rien va confonde tuttavia le acque e induce a domandarci in che termini Landolfi pensasse a Cancroregina: se in quelli convenzionali del romanzo in forma di diario o piuttosto in quelli meno ovvi del diario in forma di romanzo. Cancroregina segna un confine preciso nell’opera dello scrittore. Divide una prima fase giovanile, caratterizzata da

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una produzione di marca strettamente narrativa, da quella della maturità, in cui prende forma un ripiegamento, un avvoltolarsi quasi, negli intimi e perversi piaceri della confessione personale. In Cancroregina sono presenti entrambe le anime: è tanto un romanzo-diario che un diario-romanzo. Alla prima parte, composta in un solo giorno, il 23 marzo di un non specificato anno del Novecento, nella quale il diario è il resoconto nudo e crudo dei fatti che hanno condotto il narratore a vagare nello spazio, fa seguito una seconda, decisamente più frammentaria e diluita lungo un più vasto arco di tempo, per l’esattezza due mesi. In quest’ultima, fatti veri e propri non vengono più riferiti: accadono soltanto pensieri, cose che riguardano la testa del narratore. Nella prima parte, il diario è perlopiù un modo di raccontare; nella seconda, è il racconto a farsi diario. Ciò che di più rilevante le due parti hanno in comune è la voce narrante in prima persona. È un denominatore fondamentale, perché nei suoi rapinosi esordi – soprattutto nella Pietra lunare e nel Mar delle blatte, ma in parte anche nei racconti contenuti nel Dialogo sui massimi sistemi – Landolfi sembra prediligere l’uso della terza e dunque il ricorso al classico raccontatore indistinto e onnisciente della finzione romanzesca. E non è certamente un caso se in apertura al suo primo “vero” diario, La bière du pêcheur, pubblicato tre anni dopo Cancroregina, lo scrittore confessa: «ieri ho veduto che non so ormai costruire neanche il più semplice racconto. Così, su tutte le altre, si trova frustrata la mia antica e perenne aspirazione alla terza persona: son condannato, forse per sempre, a questa prima». Comunque le si vogliano intendere, sono parole che annunciano un rapporto sempre più problematico con la pura narrazione, destinato a culminare in un’opera che suona quasi un manifesto: I racconti impossibili. Una narrativa non più fatta di storie ma dell’impossibilità di narrarne.

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Il racconto, in ogni sua forma, presuppone un atto di fede. Il narratore deve credere alle storie che vuole raccontare, e perché ciò sia possibile, per credere cioè, gli è necessaria la convinzione che immaginare una storia abbia un senso, uno scopo. Se questa convinzione viene meno, qualunque bisogno di raccontare agonizza, e più fantastiche sono le storie che si vorrebbero raccontare più il desiderio patisce. Per me, lo scrivere fantastico è sempre stato uno scrivere alla Kafka. E non tanto perché in lui veda un modello superiore, ideale, assoluto, il che peraltro è. Quanto perché è stato il primo scrittore di questo genere in cui mi capitò d’imbattermi, tredicenne o giù di lì, durante una vacanza estiva. Da quel torrido tardo mattino d’agosto in cui i miei occhi si fissarono su un’edizione tascabile denominata La metamorfosi e altri racconti, non mi sono mai più staccato. Rivivo fortemente la vertigine provata nel leggere le disgrazie di Gregor Samsa, così come rivedo l’abbagliante sfolgorio delle pagine riverberanti alla luce del sole. Si parla spesso delle similitudini che uniscono Landolfi e Kafka, della comune vocazione a mettersi di trasverso rispetto al mondo, deformandolo. Entrambi avevano inoltre una propensione al riso. È comunque opportuno non sottovalutare le differenze, legate anch’esse alla questione della fede. Sia in Kafka che in Landolfi il motivo dell’esclusione è di somma importanza. In Kafka è addirittura il motivo centrale. Lo sventurato protagonista del Processo apprende di essere inquisito, ma nonostante gli sforzi non gli è concesso di conoscere con chiarezza i capi d’imputazione. Parimenti, i tentativi dell’agrimensore di essere accolto nel Castello vengono puntualmente mortificati. Ciò che preme ai personaggi di Kafka è irraggiungibile e viene escluso dal racconto. Nondimeno, sebbene anche a noi lettori non venga dato di conoscere le accuse, non dubitiamo neppure per un istante

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che esista una Legge cui lo sventurato Josef K. deve rispondere. Per quanto invisibile, per quanto inconoscibile, per quanto assurda, la Legge è lì, fortemente presente come può esserlo un Dio. Lo stesso vale per Il castello: l’agrimensore non riesce ad accedervi ma esso è indubitabilmente al suo posto. È come l’aldilà. Non sappiamo come sia fatto né come sia possibile visitarlo, però sappiamo che un aldilà, fosse anche un Nulla assoluto, deve esserci. La legge del Processo e l’aldilà del Castello presuppongono un atto di fede che noi tranquillamente concediamo a Kafka, ed è in questo atto di fede che consiste la fonte della sua comicità. L’inadeguatezza umana al cospetto di assurdità così sublimi o di vuoti tanto supremi scatena situazioni che inducono al sorriso pur essendo in sé tragiche. Vi assicuro questo: che se noi dubitassimo per un solo istante che esista una Legge o un Aldilà non troveremmo nulla da ridere nei racconti di Kafka. È per questo che il riso kafkiano è partecipe, compassionevole quasi, empatico verso personaggi il cui destino è anche il nostro. Mentre il riso di Landolfi è d’opposta natura: «Sprofondiamo. E in fondo, invece del buco, c’è quel riso macabro. Solo il riso...», si legge in un suo racconto, La Morte del Re di Francia, ed è una frase a immagine e somiglianza di tutto Landolfi, tanto dell’uomo che dell’opera. Un riso che è un buco. Ora, quello che dobbiamo chiederci è: cos’è che viene escluso da questi racconti che tendono all’impossibile? Nel racconto Dialogo sui massimi sistemi viene tirata in ballo una lingua improbabile, un falso persiano. Naturalmente, Landolfi non ci dice come sia scritto o quale suono possa avere all’orecchio il falso persiano. Ma al contrario di quanto accade in Kafka, la negazione non ci turba. L’impossibilità di conoscere la Legge nel Processo comporta un vuoto assoluto, palpabile, angoscioso. Conoscere il falso persiano lo giudichiamo invece irrilevante. Prendiamo la cosa come una boutade, un gioco, una provocazione immaginosa,

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un irridente attestato di scetticismo nei confronti del linguaggio. Già, perché Landolfi tratta le parole come guarda le donne. Ne è, malgrado tutto, irretito. Le ammira, si incanta alla vista di una coscia affusolata, ma al fondo di quella gamba giunge fatalmente per scorgere un che di mostruoso, magari un piede forcuto da capra, come accade nella Pietra lunare. Alla maniera delle donne, per Landolfi anche le parole sono inaffidabili e incostanti. Non puoi farne a meno, ma se pensi di credere ciecamente in esse sei soltanto un pazzo, e infatti nella pazzia piombano spesso i personaggi maschili di Landolfi. La misoginia marcia di pari passo con la misologia. Landolfi è un grande profanatore perché è un grande miscredente del linguaggio, pronto a giocare tutto sé stesso nominando la parola invano. In questo suo tratto c’è una profonda, atavica italianità. Possiamo tentare varie definizioni: arguzia condita di scetticismo o mera diffidenza verso l’immaginazione. Ma al fondo si traduce sempre in una sorta di eccesso di consapevolezza: il tarlo di razionalità in virtù del quale non ci riesce di ignorare, di dimenticare o di non vedere, anche solo per poco, che le parole sono prima di tutto parole, le storie soltanto storie, la finzione soltanto finzione e la letteratura una fintascienza. Famosa è la battuta con cui una certa Madame du Deffand sintetizzava lo stato d’animo dell’amatore di racconti fantastici: «Non credo ai fantasmi, ma ne ho paura». Quando l’amatore è italiano l’attitudine è però leggermente diversa: «Non credo ai fantasmi, ma dico di averne paura». In quel «dico» è riposto il cuore di Landolfi e, più in generale, del modo in cui noi italiani tendiamo a raccontare le nostre storie. E non dico che sia un male. Dico soltanto che in questo modo si corre il rischio di non credere più alle parole, ma soltanto alla realtà. E questo sì, che può essere un male.

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STANZA 303

Detesto fare presentazioni. Mi riferisco ovviamente a quell’usanza tristissima che vede lo scrittore seduto dietro a un tavolo in compagnia di un paio di critici o colleghi, quasi sempre amici, per parlare del proprio libro a uno sparuto pubblico. Lo detesto per varie ragioni che è insignificante specificare. Talvolta, però, cerco di reprimere la mia insofferenza. In una di queste occasioni capitò qualcosa che ritengo opportuno anteporre quale avvertenza alla lettura di questa stanza, la numero 303, dedicata a Herman Melville. Capitò che il carissimo amico presentatore intimorisse il pubblico con le seguenti parole: «Badate, signori, i discorsi che faremo questa sera saranno estremamente complicati, per cui chi non se la sente di affaticare il cervello è meglio che se ne vada». Sobbalzai. Le persone presenti erano una de­cina o poco più: non mi sembrava ci fosse bisogno di fare spazio nella sala. Inoltre, non sono avvezzo ai discorsi complicati. Mi piace affrontare questioni ingarbugliate, non posso negarlo, ma cerco sempre di dirimerle con semplicità. Che ci riesca è faccenda diversa. L’intenzione però resta comunque la semplicità.

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Perché dico questo? Perché temo che in questa stanza mi toccherà essere un po’ oscuro e forse pure noioso. Per cui, come direbbe il mio amico, se non ve la sentite, passate pure oltre, al quarto piano. Questa stanza parla soltanto in parte del suo ospite. Per dirla in poche parole: si tratta di una mia capricciosa disamina dell’opera di alcuni pittori transitati per Roma. Pittori speciali, che definisco scrivani riferendomi a un celebre racconto di Melville, che qui, sempre per capriccio, mi diverto a chiamare “trattato”. Cosa c’entra tutto ciò col problema della realtà? Mettiamola così: il “trattato” in questione è anch’esso oscuro, nel senso che può essere interpretato in molti modi. Secondo la mia ipotesi il cocciuto personaggio che ne costituisce il centro si comporta alla sua bizzarra e sconcertante maniera proprio perché rifiuta la real­ tà in cui vive. Naturalmente, il rifiuto va inteso in termini di metafora. Concependo questo inquietante figuro, Melville rivendicò il diritto di scrivere in una maniera che molti suoi contemporanei non apprezzavano, giudicandola astrusa e lontana dal senso comune. Lo strano stile di questa stanza va dunque inteso come un piccolo, inadeguato segno della mia imperitura ammirazione per l’ospite della 303. Alcuni anni fa – quanti con esattezza è ovviamente di secondaria importanza – transitò per Roma un pittore di molto talento appartenente a una razza speciale d’artista nella quale è sempre più raro imbattersi, quella dei pittori scrivani. Gli feci visita nello studio messogli a disposizione dall’Accademia Americana. Le opere in corso alle pareti parlavano di un mondo fatto di incombenti parole nere impresse con l’ausilio di stencil sul fondo bianco della tela. Era il mondo per il quale cominciava a essere noto e apprezzato nell’ambiente. Un mondo cupo. Una nuova, tenebrosa forma di pop art. Quanto a Christopher Wool, alla persona di questo pittore scrivano, ne rivedo ancora

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distintamente la complessione minuta e puntuta, il naso un po’ adunco, gli occhi infilzati come due capocchie di spillo nel viso smunto e composto, le movenze e lo sguardo guizzanti ma tesi, la capigliatura fitta e cortissima e scura, lustra di pece. C’era un che di pennuto in lui che mi faceva pensare a un corvo, l’uccello prediletto da poeti romantici e cantanti punk. In seguito, nelle sparute occasioni in cui mi capitò di tornare a incrociarlo, sempre da lontano, confuso nel tintinnante vocio di un opening oppure ritratto in una foto, in posa davanti a un suo dipinto, seguitai a ricavarne la medesima impressione. Nonostante la chioma ingrigita dal tempo, ha sempre conservato quell’aria da volatile nero: una creatura che vive in disparte, scrutando la città dall’alto, appollaiato e chiuso in un mutismo da sfinge rotto soltanto a tratti per lanciare strani versi somiglianti a parole senza vocali, trbl o drnk, oppure moniti o insulti o giochi di parole, tutti accomunati da un’indefinibile incongruità, dal preoccupante sapore dell’anatema. Leggenda voleva che Christopher Wool avesse iniziato a dipingere i suoi enigmatici quadri di parole dopo avere scorto transitare per le strade di New York un furgone bianco nuovo di zecca con le parole sex e luv dipinte a mano sulla fiancata. Fu una apparizione gravida di possibilità, mesmerizzante persino. A quei tempi il vecchio adagio per cui il mezzo sarebbe il messaggio cominciava a suonare sorpassato, bisognava aggiornarlo. Si faceva strada il pensiero che il messaggio non fosse affatto il mezzo, bensì il suo destinatario. Cosa ci facevano quelle parole, “sex” e “luv”, sulla fiancata di un furgone? A chi volevano parlare? Furono questi i quesiti che Wool trasferì nei suoi quadri a partire da quel giorno. In apparenza un falso problema, perché è ovvio che i pittori dipingono per noi, spettatori e contemplatori più o meno attivi dell’arte. E infatti furono in molti a vedere in quei quadri di parole un monito a noialtri espressamente indirizzato. Un quadro in particolare,

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esposto la prima volta nel 1988 presso la galleria 303, fu accolto dalla comunità artistica come una sorta di mantra. Era ispirato a quel travagliato film di Francis Ford Coppola sulla guerra del Vietnam, Apocalypse Now, e diceva: sell the house, sell the car, sell the kids. Sono parole che il capitano Colby scrive alla moglie dopo aver trovato il colonnello Kurtz. Vendi tutto. Trascritto così, nero su bianco, il messaggio fu inteso come un preciso segnale rivolto al mondo dell’arte, qualcosa a metà strada tra l’imperativo e l’avvertimento. E quando di lì a poco la recessione pose termine alla crassa baldoria del decennio reaganiano parve persino di scorgervi una nota profetica. Permaneva però il sospetto che quelle frasi al contempo incongrue e banali, roba del tipo if you don’t like it you can get the fuckout of my house oppure fuckem if they can’t take a joke, frasi che riuscivano a suonare sinistre anche dicendo soltanto please please please, contenessero un sottotesto per iniziati; quasi che il vedere fosse di tutti e il cogliere di pochi. Eppure quei quadri di parole erano quanto di più esposto si potesse immaginare. Parlavano il linguaggio della strada. Anche la tecnica immediata con cui erano realizzati – vernice spray, vernice stesa con il rullo, stencil – autorizzava a pensare che fosse tutto in piena vista, che non ci fosse alcunché di complesso da decifrare. Forse era per via di un lato più privato, più intimo, che essi lasciavano trasparire. Forse era per via del bianco sintetico, smaltato, che faceva da sfondo e rievocava la superficie lucente dei frigoriferi e le costellazioni di appunti, ritagli e cartoline fissate con magneti – totem della rimembranza eretti nelle cucine domestiche a conservazione del cibo. C’era poi un’altra questione, e cioè che questi dipinti di Christopher Wool non erano propriamente quadri di parole, ma piuttosto quadri di lettere. L’artista sembrava più interessato all’effetto che al senso vero e proprio. Non si faceva problema di troncare le parole. In una serie denominata «Black Book» la segmenta-

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zione veniva praticata e reiterata secondo un metodo ben preciso. Wool sceglieva termini di nove lettere che disponeva su tre righi nel quadrilatero bianco dell’opera. Una sorta di sillabazione, fondata su un criterio puramente aritmetico, 3x3=9. La perfetta geometria di quel semplice calcolo era però contraddetta dalla natura delle parole scelte; indicavano tutte una qualche tipologia di individuo poco raccomandabile. Erano insomma parole che evocavano una qualche forma di destabilizzazione: ana ter par rch ror ano ist ist iac Ma perché frammentarle a quel modo, quasi a volerne rendere difficoltosa la lettura? Pensandoci bene, quel che più di ogni altra cosa evocavano i cosiddetti quadri di parole erano le tavole ottometriche. Le parole di Wool giganteggiavano nere e incombenti alla maniera delle composizioni di lettere appese negli studi degli oculisti. È vero: non rimpicciolivano di rigo in rigo, non mettevano alla prova la vista, non giocavano a nascondino. Restavano grandi e grosse, occupando tutto lo spazio disponibile. C’è da scommettere che, potendo, si sarebbero fatte vedere pure da un cieco. Nondimeno c’era qualcosa, in quei quadri, che andava progressivamente svanendo come un puntino all’orizzonte. Perché più li si fissava, quei quadri, più risultava evidente che la loro ragione di essere si allontanava. Saltava all’occhio che c’era dell’altro da vedere oltre a parole e frasi rubate qua e là, dell’altro che sfuggiva similmente alle lettere più piccole delle tavole ottometriche. È opportuno chiarire che la vocazione scrivana si era manifestata già prima di quei dipinti. Christopher Wool apparteneva a questo «interessante e alquanto singolare genere» di pittore anche quando si dedicava a composizioni apparentemente decorative, recuperando motivi floreali, pattern a base di trifogli o tralci di vite. Non basta infatti dipingere qualche

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parola perché un pittore possa definirsi scrivano, così come non si è scrivani semplicemente perché si scrive. Cos’è dunque uno scrivano? Per quanto oscura, la migliore descrizione di questa figura professionale ormai scomparsa la diede Herman Melville in un succinto trattato mascherato da novella e apparso alle stampe nel 1853. Detto in una parola, lo scrivano è un copista. Ne consegue che pure un pittore scrivano lo sia, sebbene alle maniere specifiche dell’arte, a cominciare dalla maniera più classica e convenzionale che è l’imitazione della natura o, come si direbbe oggi, il realismo. Tuttavia, lo speciale carattere dello scrivano non emerge tanto nella mera copia, quanto nel modo «insipido, tedioso e letargico» in cui l’opera di copiatura o imitazione viene svolta. Volendo ancora ricorrere a una parola soltanto: la meccanicità. «Divenni più interessato al come dipingere che al cosa dipingere», ebbe a confessare Christopher Wool a un certo punto del suo percorso. Il disinteresse per l’oggetto contraddistingue giustappunto il vero copista, il quale ha in cima ai suoi pensieri il metodo da seguire, e siccome l’interesse primario è il copiare, il metodo viene applicato con ripetitività, quasi che, copiando, il copista non si limiti a copiare qualcosa ma replichi anche l’atto stesso del copiare, come per esaltarlo. Lo so, detto così può sembrare esoterico o insensato. Pensate allora ad Andy Warhol, del quale Wool è chiaramente figlio. Alla base di tutto quello che il grande copista pop realizzò c’era la seguente premessa: «Mi piacciono le cose noiose, mi piace che le cose restino uguali a sé stesse». Invero una ben strana passione. Preso alla lettera sembra il pensiero di una persona povera di spirito. Ma è alla lettera che dobbiamo intenderlo o c’è una possibilità più sottile, sfumata? Anche Andy Warhol transitò per Roma e in una di queste sue visite fu introdotto a un romanziere molto noto in Italia, Alberto Moravia, che nell’Urbe era nato e aveva sempre

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vissuto. Il suo udito era particolarmente provato dalla vec­ chiaia, e per questo era solito recarsi al cinema in compagnia di una pittrice sua amica perché gli riferisse all’orecchio quel che andavano dicendo gli attori nel film. Il caso volle che la pittrice fosse anche amica mia. Mi invitava spesso a cena e in una di queste occasioni ebbi il piacere di trovare tra gli ospiti Moravia. Sul finire della serata, il romanziere ci raccontò del suo incontro con Warhol. Eravamo tutti molto curiosi. Non disse molto in verità, ma quel poco non fu irrilevante. Disse di aver teso la mano all’artista per la stretta di rito. Warhol rispose depositandogli sul palmo una polaroid che aveva appena scattato. Naturalmente si guardò bene dallo spiegare il gesto, restò immobile e muto a fissare col suo sguardo straordinariamente inespressivo il romanziere. Fu un momento di solenne incomprensione. Lo sconcertato Moravia non seppe se ridere o ritenersi offeso. Masticando poco o nulla di pop art, optò per una terza possibilità. Non fu esplicito, ma dal modo in cui riferì l’episodio intuimmo che Warhol gli aveva fatto l’impressione di un idiota o qualcosa di molto simile. Circolano svariate voci sul qi di Andy Warhol, tutte riconducibili al popolaresco dubbio «Ci sei o ci fai». I più ritengono che certi suoi surreali atteggiamenti fossero una posa, ovvero che dietro quella faccia da principe Myškin dell’èra dei consumi operasse una materia grigia di qualità sopraffina. Ma c’è anche chi, come Moravia, è più propenso a credere il contrario e considera l’artista di Pittsburgh un idiota fatto e finito, posto dal caso nella condizione di diventare un genio. Qualunque parte si voglia prendere in questa disputa va riconosciuto che Moravia aveva istintivamente colto il cuore dell’arte di Warhol. Stabilire se fosse davvero un idiota baciato dal genio è in fondo irrilevante, perché egli rimarcò che per conoscere lui e il senso di quel che faceva bisogna «guardare la superficie dei miei quadri e dei miei film e di me» perché

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«non c’è niente dietro». Nella filosofia di Warhol cose come la sostanza e l’essenza non vengono neppure contemplate. Tutto è ridotto all’apparenza. Non dobbiamo però commettere l’errore di pensare che l’apparenza sia il paesaggio delle cose pop, giacché anche in una zuppa in scatola Campbell o in un volto esangue di Marilyn replicato centinaia di volte è possibile scovare della profondità. È nel puro guardare queste cose che si manifesta l’apparenza. È il seguitare a vederle senza soluzione di continuità e senza cercare di penetrarle con lo sguardo. È il fermarsi alla superficie. È la mancanza di curiosità per ciò che si trova dietro o dentro o al di là. Il perfetto appagamento per ciò che è davanti o fuori o al di qua: è questo che si deve intendere con apparenza, e non si può negare come una dose di stupidità vi sia implicita. «Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina, e sento che quando faccio una cosa e la faccio come fossi una macchina ottengo il risultato che voglio». Essere una macchina significa guardare senza secondi fini, in modo puro, virginale, senza la pretesa di squarciare l’imene dell’immagine. Copiando senza soluzione di continuità le stupide immagini di questo nostro stupido mondo, Andy Warhol ha elevato il puro vedere a una forma d’arte, ha inventato il fare supremo ovvero il fare qualcosa facendo il meno possibile. Fare qualcosa pur non facendo alcunché è la dimensione ideale tanto per un pittore scrivano che per i semplici scrivani. Tra questi ultimi esiste tuttavia un caso senza eguali, quello di Bartleby, oggetto per l’appunto del trattato di Melville. Costui, il copista Bartleby, divenne solito astenersi dall’ottemperare a certi obblighi previsti dalla sua professione ricorrendo a un curioso modo di dire: «Avrei preferenza di no». Col tempo, il suo mite ma fermo rifiuto si estese a qualunque compito gli fosse sollecitato. Egli intendeva infatti dedicare ogni sua energia alla muta contemplazione di un «muro morto» sul quale si

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affacciavano le finestre dello studio legale presso cui era impiegato. Cosa ci vedesse di tanto eccezionale in una stolida barriera di mattoni lo sapeva soltanto lui. Qualcosa doveva esserci, però, visto che l’ipnotizzò al punto da spingere alla nullafacenza assoluta uno scrivano che fino ad allora si era distinto per la sua instancabile solerzia, svolgendo «una mole straordinaria di lavoro scritturale», pascendosi con ingordigia dei documenti che l’avvocato gli passava e copiandoli notte e giorno indifferentemente, alla luce del giorno come al lume di candela. È peraltro vero che malgrado i promettenti inizi, il suo datore di lavoro aveva notato un non so che di strano, qualcosa che lo tratteneva dal rallegrarsi di avere alle sue dipendenze un così operoso scrivano. Il “non so che” consisteva guarda caso nel fatto che l’impiegato era a tal punto assorbito nell’attività scritturale da svolgerla in un silenzio ermetico e con «moto scialbo e meccanico». Proprio come Andy Warhol, lo scrivano di Melville aspirava a diventare una macchina, perché soltanto nella perpetua reiterazione di un gesto ottuso e quasi inumano pareva trovare la via verso una qualche forma di irragionevole consapevolezza. Lo sconcertante comportamento di Bartleby non ha mai cessato di interrogare gli studiosi. Ridde di congetture si sono succedute nei decenni, sfociando spesso in quello che qualcuno non ha esitato a bollare come «delirio accademico». In questo disorientante mare di interpretazioni astruse, non di rado più incomprensibili delle motivazioni dello scrivano, è tuttavia possibile pescarne di argute e stuzzicanti. La più persuasiva è anche quella che meglio si presta a un parallelo con la categoria dei pittori. Fu pubblicata a firma Leo Marx su una rivista specializzata nell’autunno 1953 e portava il significativo titolo Melville’s Parable Wall. L’idea di fondo è che il muro morto tanto caro allo scrivano rappresenti il limite insuperabile che ossessiona l’artista moderno. E già questo apre una prospet-

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tiva, perché cos’è mai stata la parabola dell’arte moderna se non una grande fiera degli sconfinamenti? Ogni pretesto si è rivelato buono per spingersi al di là, dove nessuno si era mai spinto prima, per dirla alla maniera di Star Trek. Principe degli sconfinatori è il giocatore di scacchi Marcel Duchamp, la cui pittura difficilmente sarebbe passata alla Storia se egli non l’avesse superata con l’esposizione di orinatoi e altri incongrui oggetti. Ebbene i pittori scrivani come Andy Warhol o Christopher Wool si contentano di starsene immobili al di qua dello scandalo e c’è in questa loro attitudine l’onestà di chi è conscio che qualunque superamento del limite estremo è una contraddizione in termini, e dunque un artificio linguistico, una specie d’imbroglio. Quel che la loro arte ci insegna è che l’unico vero superamento possibile è la rêverie del muro morto. Melville presta molta cura nel descrivere l’ufficio presso cui gli scrivani attendono alle loro incombenze. Subito, dopo poche righe, il lettore viene ragguagliato sul fatto che questo ufficio non si affaccia su un unico muro. A un’estremità le finestre guardano «un bianco muro all’interno di un vasto pozzo d’areazione», mentre sul lato opposto si presenta «la libera vista d’un alto muro, annerito dagli anni e dall’ombra perenne». Due muri, dunque, uno bianco, l’altro nero: quale fra questi è la parete estrema della perfetta contemplazione? Alcuni elementi inducono a pensare che il muro caro a Bartleby sia quello annerito. Manca tuttavia la certezza assoluta, perché nel commentare l’insipido spettacolo offerto dal muro bianco, la voce narrante si sofferma a notare che la sua vista è «priva di quel che i pittori paesaggisti chiamerebbero vita». Ognuno dei due muri potrebbe dunque essere il muro morto. Del resto, il bianco è tonalità cadaverica per eccellenza, mentre il nero è da sempre espressione di lutto e sinonimo di notte eterna. Ma se uno vale l’altro, perché Bartleby si fissa su uno in particolare? Per assurdo, sebbene non sia questo il caso,

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si potrebbe pensare che lo scrivano si dedicasse a fasi alterne ora a un muro ora all’altro. Che entrambe le pareti abbiano una loro importanza è possibile desumerlo anche da un’altra osservazione contenuta nel trattato di Melville, quella per cui l’insignificante vista offerta dalle finestre è quantomeno compensata dal contrasto dei due muri. Il luogo in cui lavorano gli scrivani è dunque serrato tra due opposti, uno bianco e l’altro nero, così come la loro attività è tutta compresa tra il bianco della carta e il nero dell’inchiostro. Sul dualismo del bianco e del nero è centrata la massima parte della pittura di Christopher Wool. Anche l’anima della fotografia – matrice dell’arte di Andy Warhol – è sempre un’anima in bianco e nero, perché sempre figlia di luce e buio. Quando si parla di questi estremi, luce e buio, il nome che spicca su tutti è quello leggendario di un artista che a Roma trovò successo e maledizione. Le sue ruvide inclinazioni lo resero inviso a molti colleghi di allora, maestri di cincischiamenti formali come esigeva la moda del tempo. Nicolas Poussin lo giudicava un malfattore venuto al mondo per la rovina della pittura, e non era il solo a pensarla così. Ma la storiella che lo vuole colpevole di rappresentare le figure sante vestite di cenci e tutte infangate come la gente del popolo è perlopiù quel che è, una storiella. Alcuni restavano effettivamente sconcertati davanti a quel «mezzo fra il devoto, et profano»; tuttavia, quando si legge che le «leggierezze» che il Caravaggio si prese dipingendo la Madonna di Loreto furono causa di «estremo schiamazzo» tra il popolo, non si deve necessariamente intendere biasimo e sdegno. Schiamazzo può benissimo significare grande entusiasmo manifestato alla maniera rumorosa della gente semplice, la quale apprezza «le cose dipinte, et imitate dal naturale» perché avvezza «a vederne di sì fatte». Chi poteva trovare indigeste quelle «leggierezze» erano casomai coloro che chiedevano all’arte di librarsi sopra le cose comuni.

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Ancor più sgradita risultava, a questi presunti intenditori, la sua materia pittorica: quegli impasti grassi e corposi e quasi volgari che paiono anticipare l’informale. E che dire della effimera consistenza di cui l’artista si serviva anche quando era chiamato a realizzare opere di grande importanza? Quei lini leggeri non davano molta garanzia di durare nei secoli, quasi non gli interessasse la gloria postuma, ma soltanto lo scalpore del momento, quindici minuti di schiamazzo. Che la popolana umanità di Caravaggio possa considerarsi antenata dell’immaginario pop di Warhol – vuoi per la brutalità di alcune scene, vuoi per la fotografica immediatezza – è pressoché scontato. Non altrettanto ovvi sono i punti di contatto coi pittori scrivani alla Christopher Wool, che pure vi sono e sono forti. La strada che portò Merisi a Roma è simile a quella che condusse Wool a New York. Nato a Chicago nel 1955, Wool giunse nell’isola dei Manhattanesi giovanissimo. A muoverlo fu sicuro un richiamo, la convinzione che per lui non vi fosse luogo migliore di una città dove l’arte era ormai un sistema fiorente, complesso, autosufficiente. Le gallerie spuntavano come funghi, i collezionisti pure. Nei bar e nei ristoranti pareva di incontrare solo giovani artisti. C’era un sacco di gente pronta a mettere sottosopra il linguaggio. Wool vide certamente mostre che cambiarono il suo sguardo. Ma non solo. Frequentò anche la scena notturna, i locali dove prendeva forma il punk. La negritudine da corvo della sua persona, la sporca eleganza dei suoi quadri, l’odore inconfondibilmente metropolitano che emanavano, lo strano misto di raffinatezza e cinismo, a suo modo un «mezzo fra il devoto, et profano»: tutte queste cose sono parte della cultura punk di cui è imbevuto e che lo ha destinato alla pittura scrivana. Anche Merisi giunse a Roma ventenne, vedendovi la sola meta possibile. E anche la Roma di allora era un cantiere d’arte a cielo aperto, sebbene più per controriformare il mondo che rivoluzionare l’arte. E anche quella città aveva

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una sua truce scena notturna, fatta di bettole e taverne e vicoli bui nella quale si sentì subito a casa: tant’è che le testimonianze lo descrivono come un giovanotto che «va vestito di negro non troppo bene in ordine, che porta un paro di calzette negre un poco stracciate, che porta li capelli grandi longhi dinanzi». E se non è un punk di fine Cinquecento un ventenne così conciato, allora non lo era nemmeno Sid Vicious. Quanto ai modi, è superfluo rammentare le tante storie sull’indole intemperante e ribelle che lo portò ad avere non pochi guai con la giustizia; tale divenne la sua confidenza con le aule dei tribunali che l’unica dichiarazione poetica rimastaci è il verbale di un processo per diffamazione nel quale, chiamato a deporre in qualità di imputato, precisò che l’attributo valentuomo «appresso di me vuol dire che sappi fare l’arte sua, così valent’huomo che sappi dipingere bene et imitare bene le cose naturali». Il suo lato più punk non erano però i suoi abiti scuri né il suo caratteraccio, bensì una sorta di pragmatico cinismo che motivò molte delle sue scelte d’artista. È indubbio, infatti, che il denaro lo attirasse parecchio. Non puntava ad arricchirsi. È solo che i soldi portano con sé la considerazione degli altri, nonché la possibilità di sperperarli in bevute, alle carte, con prostitute. E siccome dissipare era la sua passione, non è assurdo pensare che si ingegnasse nel mettere a punto sistemi per portare a compimento un dipinto nel più breve tempo possibile. Un sistema alla fine dovette trovarlo, se è vero quel che si andava dicendo: che non era suo costume consacrarsi allo studio, giacché «quando ha lavorato un paio di settimane se ne va a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo di dietro, gira da un gioco di palla all’altro». Come poteva? Come faceva? Può bastare il solo talento a spiegare il poco tempo che trascorreva in bottega? Caravaggio non disse le cose fino in fondo. O meglio: non le disse esattamente per quello che erano. Anziché parlare di

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«imitare» avrebbe dovuto usare il verbo «copiare», perché questo faceva: copiava le cose naturali nel senso più letterale del termine, nel senso dei pittori scrivani, cioè. Del resto, non fu Picasso a dire che i mediocri imitano mentre i geni copiano? Che la vocazione di Caravaggio fosse quella del genio lo dimostrerebbero le sostanze presenti nelle sue tele, miscele a base di sali di mercurio e altri composti che verranno poi usati dai primi fotografi del XIX secolo. Succintamente, il metodo, basato sulla camera oscura, consisteva nel proiettare le immagini dei modelli in posa. La superficie così trattata si comportava alla maniera delle lucciole che brillano al buio ovvero si ossidava in maniera simile a quella della pellicola, con la differenza che questa sorta di scatto rimaneva impresso per mezzora al massimo, tempo nel quale il pittore si affrettava ad aggiungere sali di mercurio così che l’immagine persistesse abbastanza a lungo da poter campire le sagome con del colore vero e proprio. Quando si afferma che Caravaggio sostituì la luce platonica del Rinascimento con la luce della realtà, si racconta una convincente favola teorica che non tiene in debito conto la pratica. La «luce della realtà» era la condizione necessaria per copiare le cose naturali con la massima efficacia e il minor tempo possibile. Era il presupposto imprescindibile per quella pittura istantanea. La verità è che Caravaggio aveva sostituito le ideali luminarie del Rinascimento con la scrittura della luce, la fotografia. E se passava tanto tempo a bighellonare non è soltanto perché gli piaceva, ma anche perché nelle ore di buio o nei giorni annuvolati non gli era possibile attendere a quella sua speciale tecnica. Non era la luce in sé a interessarlo davvero, ma quel che essa gli consentiva di fare. Per dirla alla maniera di Christopher Wool, era più interessato al come dipingere che al cosa dipingere. Chi lo accusava di essere un assassino della pittura, evocava – in sostanza e senza saperlo – lo spettro della fotografia, la

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macchina, la modernità a venire. Parrebbe dunque che inventando l’arte moderna Caravaggio le abbia consegnato anche la sua ossessione principale: il suo aldilà, l’oltretomba della pittura, la morte dell’arte. Quale conclusione si prefigura? Forse che alcuni pittori si fanno scrivani per redigere testamenti? Forse che la loro fissazione per il nero è un modo di mostrare il lutto per la scomparsa della loro arte? È questo che sono opere come i Black Paintings di Frank Stella, una forma di necrologio? È questo che ci dicono le parole frantumate di Christopher Wool: che la possibilità di un senso è defunta? O bisogna interpretarle diversamente, queste tonalità mortuarie? Per il punk – e sia Caravaggio che Warhol hanno u ­ n’anima punk – morire non è la fine né un fine; è semplicemente un modo di essere, un modo di stare al mondo. La nota frase «Punk is dead» non va presa alla lettera. Non significa che il punk è finito, che c’è stato un momento in cui era vivo e poi un altro in cui cessò di esserlo. Significa che essere punk è esistere nella morte. «Mi resi conto che qualsiasi cosa facessi aveva a che fare con la Morte», raccontò Warhol per spiegare le sue immagini di morte, gli incidenti stradali, i suicidi, i volti di Marilyn. Per un pittore, esistere nella morte vuol dire dipingere come una macchina, diventare un pittore scrivano, spingersi al limite estremo del muro. È il muro, la morte. E morte sono le immagini che vi si imprimono. Caravaggio ha dipinto un’infinità di immagini di morte, persino foglie e frutta le ritraeva avvizzite, bacate, in procinto di marcire. Di Warhol abbiamo appena detto. Quanto a Wool, col tempo ha finito per distaccarsi da quei simulacri di senso che sono le lettere, spostandosi verso una pittura di sola pittura. Pennellate, nuvole di vernice spray, colore colato alla maniera di Pollock, matasse di segni neri, aggrovigliamenti. Quando è ricomparso a Roma, ho visto i suoi nuovi dipinti appesi alle pareti di una grande sala ovale. Vi ho scorto i segni di un maestoso compendio delle svariate possibilità di come

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dipingere. Non vi era rappresentato alcunché. Una pittura dai tanti “come” e senza “cosa” alcuna. Non era vera e propria astrazione, perché i come si sovrapponevano uno sull’altro come la patina del tempo su un muro. In un certo senso non erano nemmeno dipinti, perché alcune di queste macchie e di queste linee erano in realtà fotografie di macchie e linee serigrafate sulla tela. Strati di pittura fotografata sovrapposti ad altri di vera pittura e viceversa. La stratificazione era talmente reiterata e armonicamente ingarbugliata che l’occhio faticava a distinguere ciò che è pittura da ciò che è fotografia, macchina, copia. Il solo elemento certamente riconoscibile era lo strato finale: chiazze di smalto bianco che coprivano porzioni di quadro obliterando quel che c’era sotto. È un metodo a cui si ricorre spesso per rendere presentabili i muri esterni degli edifici, imbrattati da spesse croste di sporco e graffiti. Anziché sprecare chissà quante ore per cercare di pulire, si preferisce occultare il tutto con una bella mano di vernice. In questa maniera il muro morto annerito dagli anni diventa d’incanto un muro bianco, ma ciò non basta a restituirgli l’originaria verginità, la perduta “vita” di un tempo, per usare un termine caro ai pittori di paesaggio. La pellicola di sbrigativo candore stesa sul muro non elimina la morte sottostante, la cela soltanto. Qualcuno, a proposito di queste chiazze bianche di Wool, ha parlato di cancellature, rievocando un oltraggioso gesto perpetrato da Robert Rauschenberg ai danni di un disegno di Willem de Kooning. Accostamento suggestivo. Sfregando la gomma su un foglio, la grafite viene asportata via per sempre insieme a riccioli di carta, e pertanto è giusto parlare di cancellazione. Stendere del bianco per occultare è però un procedimento diverso: è come seppellire un corpo vivo o mettere un tappo. Questi quadri di Wool, coi loro tanti “come” che non tendono a “cosa” alcuna, sono il contrario del rumore

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bianco. Sono frastuono nero. La loro grazia inaspettata è la stessa di quel doppio album inciso nel 1975 da Lou Reed, Metal Machine Music. Ancora oggi non si sa se considerare questa cacofonia sonora uno sberleffo o un’estrema frontiera della musica. Niente ritmo, niente melodia, nessuna struttura formale riconoscibile, solo un susseguirsi di distorsioni elettroniche e feedback chitarristici. Fu paragonato al rumore che potrebbe emettere «un frigorifero intergalattico rotto», anche se il compositore pretendeva – non si sa quanto seriamente – di avervi inserito citazioni di musica classica. Naturalmente ci fu chi lo definì «l’album concettuale punk per eccellenza». Qualunque cosa volesse essere, certo è che, nel silenzio che segue al termine del disco, il nostro udito ferito ha la sensazione di percepire un rimbombo muto e prolungato, un’eco silente dello stridore che tanto stoicamente ha sopportato. Per un istante, si ha la sensazione di essere diventati sordi e la cosa non ci dispiace affatto. Tutto sommato non ci dispiace nemmeno il ricordo di quel disco tanto inascoltabile, perché soltanto ora, nel silenzio, ora che non lo udiamo più, ci pare di percepirne l’armonia nascosta. Le chiazze bianche di Christopher Wool somigliano a quel tipo di silenzio. Sono il tappo che zittisce l’ingarbugliato frastuono dei segni, mostrandoci la loro sublime armonia, il vertiginoso abisso di quel maelström tutta superficie e immobilità che è un muro morto. Ma non solo. Le chiazze riportano alla mente anche ciò che disse John Berger di quel pittore scrivano che «fa macchie e scarabocchi». Disse che i suoi segni e le sue parole visualizzano «lo spazio silente che esiste tra e attorno le parole». Ho conosciuto Cy Twombly quando ero poco più di un ragazzo. Capitava che lo vedessi aggirarsi nel centro di Roma, tra i banchi di venditori di stampe antiche. Oppure che entrasse nella galleria dove allora lavoravo e che si trovava in via di Pallacorda, la strada dove nacque il diverbio tra Caravaggio e Ranuccio per il

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gioco della palla. Si accasciava sul divano di pelle davanti alla mia scrivania e riposava, soprattutto nei giorni d’estate, perché l’età cominciava a fargli sentire il suo peso. Non parlava molto. In effetti, non parlava affatto. Era capace di passare intere mezzore in perfetto silenzio guardandosi attorno con l’indifferenza apparente e sorniona dei gatti. Un giorno, tornando in galleria dopo essermi assentato, vidi la mia collega d’ufficio fissarmi in modo strano. «È passato Cy», mi annunciò. Ovviamente evitai di chiedere se avesse detto qualcosa, ma siccome lei seguitava a scrutarmi con uno strano risolino sulle labbra, ricambiai il suo sguardo come per significare «Vieni al punto, semmai c’è un punto». Lei, seguitando a sorridere e sprofondando il capo tra le sue carte, mi disse: «Ha detto che ti ha visto poco fa. Ha detto che ti baciavi in strada con la tua fidanzata». Chiesi se avesse detto qualcos’altro. «No, ha solo sorriso». Sapevo bene perché. In realtà, avevo soltanto cercato di baciare quella ragazza, che non era affatto la mia ragazza. L’avevo stretta a me e lei aveva girato il capo, prima da una parte poi dall’altra, per sfuggire alle mie labbra. Per questo sorrideva. Da allora ogni volta che mi capita di vedere un quadro suo o di altri pittori scrivani con «macchie e scarabocchi», come questi ultimi di Christopher Wool, penso a quel giorno del bacio. Finché non si verificò un fatto increscioso, nel 2007 ad Avignone. Una sedicente artista d’origine cambogiana accostò le labbra sporche di rossetto a una tela bianca, parte di un trittico di Cy Twombly, sporcandola di rosso. Naturalmente fu condotta in tribunale con l’accusa di danneggiamento volontario di un’opera d’arte. Si difese dicendo che tutto quel che aveva fatto era un bacio. Che non aveva pensato. Che era stato un gesto d’amore. Non so se il pittore scrivano abbia sorriso anche stavolta. Ma non credo. È stato un gesto stupido. Un quadro non può girare il capo di qua e di là. E comunque, non si bacia un muro morto. Non si fa.

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QUARTO PIANO, il mio paradiso, dove rivendico, nella necessità di ribellarsi alla morte, un senso, seppure effimero, dell’esistere

Vorrei ricordare un giorno di vari anni fa, in via del Pantheon al numero 57, nel centro di Roma. Quel momento e quel luogo sono lo studio di un artista con una macchina fotocopiatrice, un letto afgano e tante altre cose che non saprei descrivere. Lui, l’artista, si chiamava Alighiero e con questo nome pensano ancora a lui le persone che a lui erano vicine. Altri, tipo i collezionisti che possiedono una sua opera, se lo immaginano invece come un Boetti appeso a una parete. Comunque, Alighiero o Boetti che fosse, quel giorno mi raccontò di un altro studio di diversi anni addietro, nella città di Torino. Anche quello studio era pieno di cose, o per meglio dire strabocchevole di materiali che sarebbe complicato elencare: roba come lastre di metallo, pezzi di legno, vetro e via dicendo. Stando al racconto di quel giorno, l’artista incaricò qualcuno di svuotare completamente lo studio e dopo, nella pulizia dello spazio sgombro, trovò una cosa molto semplice da fare: ricalcare a matita un reticolo di orizzontali e verticali, dirigendo il segno liberamente per le quattro direzioni, in alto, in basso, a destra e a sinistra, stando però bene attento a non tradire la griglia imposta dal foglio a quadretti. Quel fare è datato 1969 e ha per titolo Cimento dell’armonia e dell’invenzione.

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Quale dimostrazione pratica, l’artista prese una matita e si cimentò di nuovo, davanti ai miei occhi. Ma quel giorno l’inseguimento a matita della griglia avveniva su un pezzo di carta qualunque, privo di quadrettatura stampata. Mi fu così chiaro che si trattava di un racconto ricorrente nelle parole di Alighiero e Boetti, e infatti mi capitò di udirlo di nuovo in circostanze diverse. Una volta lo ritrovai perfino trascritto in un’intervista. Col tempo mi sono convinto che ci fosse un significato molto importante nel ricalco della griglia quadrettata. Il cimento avveniva in uno spazio davvero elementare, al riparo dai dominî rarefatti dell’assoluto; era lo stesso spazio dei quaderni a quadretti, dei ricordi scolastici, dei numeri in colonna, dei simboli delle quattro operazioni, dei triangoli e dei poligoni, delle aree e dei perimetri e di tutte quelle cose che da bambini riempivano le nostre ore di aritmetica e geometria. Era uno spazio che apparteneva alla storia di tutti, il simbolo di una scienza alla portata di tutti. Pur nella sua forma severa e rigorosa, il foglio a quadretti parla una lingua quotidiana e immediata, proprio come immediato è l’automatismo del ricalco. Mi venne allora da pensare che il significato “primo” del cimento consistesse nella pura e semplice decisione dell’artista di svuotare lo studio dei materiali ingombranti, di gettare via tutto per dedicarsi a una disciplina arbitraria e banale: ripassare a matita un foglio a quadretti. C’era stato però un tempo, proprio negli anni Sessanta, in cui Alighiero e Boetti si considerava un artista “povero” e io sapevo quanta rilevanza avesse avuto l’uso dei materiali per quel tipo di artista. Attraverso la loro brutale fisicità, carbone, cera e altre cose del genere, avevano rappresentato il ritorno a uno spazio vitale per l’esistenza umana, sempre più mortificata dall’artificialità di un mondo basato su produzione industriale e consumo. Ciò nonostante quel tipo di arte si dichiarò povera non tanto perché cera e carbone fossero

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materiali oggettivamente poveri, quanto perché l’uso dell’aggettivo «povero» ben si attagliava al moralismo della lotta di classe imperante in quegli anni. Povero divenne così sinonimo di vitalismo, di slancio verso un mondo fondato su valori nuovi, valori fatti di impegno nel presente e avanguardia. In termini ovviamente riduttivi, nel povero confluirono quegli ideali per cui era giusto combattere e che andavano contrapposti a quelli del ricco, che si ritenne altrettanto giusto dover abbattere. Per motivi non tanto diversi, l’arte povera venne spesso intesa quale baluardo contro quello che si usava definire «imperialismo americano», contro quella compiaciuta indulgenza per le immagini di massa, contro il linguaggio del consumismo di cui sembrava bearsi la pop art d’oltreoceano. Tutto ciò per dire che con quel suo cimento Alighiero e Boetti rischiava di mettersi in una posizione alquanto scomoda rispetto agli altri artisti poveri. Cosa che in effetti avvenne e che per molto tempo gettò una luce sospetta sul suo nome. Al cimento seguirono anche vicende personali che ricostruii in parte dalla sua viva voce e che vorrei ricordare. Nel 1970, un anno dopo il ricalco del foglio a quadretti, Alighiero e Boetti cominciò a viaggiare. Partì per il Guatemala. Da lì, chissà come, giunse in Afghanistan. Lui dice che fu per caso, anche se un suo antenato di nome Giovanni Battista si sottrasse alla crudeltà del padre viaggiando per terra e per mare, e vestendo i panni di frate domenicano si spinse fino in Kurdistan, Armenia, Georgia, Circassia e altri luoghi d’Oriente. Al che passò dalla parte dei musulmani per diventare un guerrigliero eresiarca al capo di un esercito di quindicimila uomini. Lo chiamavano Mansur, il vittorioso, e si era sul finire del Settecento. Alighiero ammirava questo contraddittorio personaggio di famiglia. Lo amava proprio per la contraddizione, per la doppiezza. Perché tutto ciò che conteneva in sé due opposti era

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per lui motivo d’incanto. Una volta a Kabul, però, non seguì le orme dell’antenato. Non si assimilò agli indigeni. Non cercò di imitarne le usanze né lo sfiorò la tentazione di conciarsi alla loro maniera, come invece fanno molti turisti che appena giungono in un posto cercano di camuffarsi, di confondersi con l’ambiente, di mascherare la loro natura di stranieri. Era un estimatore della distanza, della diversità, e pertanto girava per le strade in abiti europei. Riteneva fosse più rispettoso comportarsi così, sebbene negli anni, a forza di andare e venire, qualcosa di afgano gli era restato appiccicato addosso. Coi suoi abiti da europeo, aprì un albergo. «Per me creatività è anche fare un albergo», diceva, e lo fece a Kabul, nel ’71. L’ingresso dava su Chicken Street, l’arteria commerciale, e sopra l’Aziz Supermarket, il negozio più moderno della città; moderno si fa per dire ovviamente. L’albergo si chiamava One Hotel. A giudicare dalle foto che sono rimaste, aveva più l’aria di un villino. C’era una specie di giardino che offriva agli ospiti due attrazioni: il gufo addomesticato Rémé e il samovar. Alighiero parlava spesso di questo luogo, ne andava fierissimo, e mi piange il cuore al pensiero di non averlo potuto visitare. Nel mondo dell’arte il One Hotel è un po’ una leggenda, ma non immaginavo fin dove si era spinta la sua fama. È stata per me una bella sorpresa scoprire che in una pagina del sito della Bbc dedicato a Kabul se ne parli diffusamente. Non poco curioso è il modo in cui viene descritto Alighiero, perché è sempre una sensazione particolare apprendere come vengono viste da fuori cose e persone che si sono conosciute dall’interno. «Nella primavera del 1971 – si legge nell’articolo – uno dei maggiori artisti concettuali italiani capitò a Kabul e decise di acquistare l’edificio sovrastante il supermarket di Aziz per convertirlo in un albergo. L’artista si chiamava Alighiero e Boetti. Boetti è una figura affascinante e misteriosa. Fece

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parte dell’avanguardia artistica emersa in Italia dal radicalismo degli anni Sessanta. Boetti era attratto dal mutamento e dalla casualità. Spediva lettere ad artisti di sua conoscenza scrivendo l’indirizzo sbagliato e quindi mostrava le buste che ritornavano al mittente. Le sue opere contenevano spesso codici segreti. Alcuni di questi codici sono stati decifrati, altri restano misteriosi. Nessuno sa se anche l’albergo dovesse essere considerato come un’opera concettuale in sé o se era semplicemente un posto dove lui e i suoi amici potessero soggiornare. Ma è certo che in Afghanistan Boetti trovò un modo per risolvere quel che per lui era la crisi dell’Occidente, l’opprimente fede nell’individuo in quanto creatore ispirato». Nell’articolo viene poi sottolineato che agli occhi di Boet­ti l’Afghanistan rappresentava la dimensione opposta. Un paese privo di cose create. E in effetti, ecco quel che diceva Alighiero al riguardo: «Le case afgane sono vuote: non ci sono mobili e quindi nemmeno gli oggetti che di solito si poggiano sopra i mobili. Ci sono soltanto i tappeti e i materassi sui quali la gente si distende, beve, fuma e mangia. Mi piace anche il fatto che gli afgani indossino gli stessi abiti giorno e notte. Nulla viene aggiunto al paesaggio. Le rocce vengono spostate e usate per costruire case cubiche. La determinazione con cui gli afgani si oppongono alla nostra idea di civiltà mi ha sempre stupefatto». Russi prima e americani poi avrebbero dovuto chiedere consiglio ad Alighiero prima di muovere guerra a quel paese; si sarebbero risparmiati un mucchio di grattacapi. In effetti, chiunque avrebbe dovuto chiedere consiglio a lui prima di fare qualunque cosa, perché Alighiero aveva sempre una visione profonda e spiazzante di qualunque cosa. Non era soltanto un artista; era anche un maestro sufi. Tornato dall’Afghanistan, decise di lasciare Torino, sua città natale, per trasferirsi a Roma. In un certo senso quest’ultimo trasferimento fu un

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viaggio molto più lungo di quello che lo portò in Asia, perché fu allora che comparve una congiunzione tra la sfera privata del nome e quella sociale, per così dire, del cognome. Lasciare Torino per Roma fu come lasciare il certo per l’incerto e fu così che nacque Alighiero e Boetti. Nelle carte topografiche il centro di Torino aveva l’aspetto di un reticolo di verticali e orizzontali; una griglia simile ai fogli a quadretti di Boetti. Vista da un luogo di luce, colore e indolente indifferenza qual era Roma, Torino appariva invece grigia, monotona e operosa; una città artisticamente “povera” e socialmente industriale. Torino sarà stata pure tante altre cose, ma di certo era arte povera e Fiat. Quella città era il luogo dove si produceva la 500, la mini-utilitaria, l’automobile alla portata dell’uomo qualunque, il simbolo di un miracolo economico tutto italiano che pretendeva di far diventare la parola «benessere» una realtà di tutti e che proprio negli anni del «lasciare il certo per l’incerto» aveva conosciuto il suo apogeo e si apprestava a conoscere la sua parabola discendente, preparandosi così a una nuova parola quotidiana: crisi. Si può dunque dire che, allo stesso modo in cui era Fiat e arte povera, Torino era anche benessere e crisi. Per come la vedeva Alighiero e Boetti, l’arte povera rappresentò un momento conclusivo, la linea di confine tra due estremi. Con l’aggettivo «povero» si mise fine alla fase del benessere e si inaugurò quella della crisi, mentre fu con il ’68 che lo svuotamento di senso delle avanguardie giunse a compimento. «Con il ’68 si può dire che sia finito tutto», affermò un critico di quei tempi. «È finito tutto un ciclo». Alighiero giunse a Roma più o meno quando Pier Paolo Pasolini iniziava ad abbozzare la trama di Petrolio, il cui protagonista segue un percorso che da Torino lo porta a Roma e, da qui, a un pae­ se del Medio Oriente: il viaggio è l’allegorica rappresentazione di una «perdita di equilibrio», una cosa molto boettiana.

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In quello stesso periodo, sempre nel ’71, Alighiero e Boet­ti realizzò una coppia di ricami. Vi compaiono due date: 11 luglio 2023 e 16 dicembre 2040. La prima gli era stata sussurrata in sogno da un maestro sufi quale data della sua morte. La seconda corrispondeva al giorno del suo centesimo complean­ no che, stando alla profezia, Alighiero e Boetti non avrebbe mai visto. Ho conosciuto Alighiero all’inizio degli anni Novanta, quando aveva appena superato la cinquantina. Poco tempo dopo si ammalò gravemente e ogni volta che potevo andavo a trovare lui e suo figlio Matteo del quale ero diventato molto amico. Spesso quelle visite erano uno strazio, perché negli ultimi mesi di vita ripeteva in continuazione che non si sentiva affatto sul punto di morire. Il maestro sufi gli aveva sussurrato quella data: 11 luglio 2023. Stando alla profezia del sogno, gli restavano ancora trent’anni da vivere, e poteva mai sbagliarsi un maestro sufi? Così un giorno mi disse che, una volta guarito, avremmo potuto andare in Giappone. Aveva un amico laggiù, diceva. È un paese strano, il Giappone. Diceva. Noi tutti sapevamo che il male di cui soffriva non lo avrebbe mai permesso. Anche lui lo sapeva, ne sono certo. Molto più che certo. Glielo leggevo negli occhi. Quando tirava fuori questa storia dell’11 luglio 2023 era un dolore indicibile per tutti; era il momento in cui non sapevi dove guardare e cosa dire. Ora che Alighiero e Boetti è morto, a volte mi capita di pensare ancora a quella data e mi chiedo se quel maestro sufi non gli avesse sussurrato qualcosa di diverso, mi chiedo se Alighiero e Boetti non abbia per caso capito male. Ma è difficile accettare che si trattasse solo di un sogno. Così mi dico che no, non ha capito male. Mi dico che ha capito quello che per lui era giusto capire. Mi dico che si ribellava a questa

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offesa che non lascia scampo chiamata morte. Mi dico che mi ha insegnato una cosa fondamentale: che ribellarsi è sempre giusto, ma lo è ancor di più quando non hai scampo. E allora mi ricordo di quel giorno di vari anni fa, in via del Pantheon al numero 57, nel centro di Roma. Mi ricordo di Alighiero e Boetti e di cosa mi raccontò quel giorno e di quale cosa meravigliosa potesse diventare una cosa tanto stupida come ricalcare a matita un foglio a quadretti. Mi ricordo che anch’io, nella mia vita, ho avuto la fortuna di avere incontri con un uomo straordinario. Mi ricordo Alighiero raccontare la sua vita: «Nel 1948 strappai un grosso foglio di carta marrone e ottenni piccoli pezzi quadrangolari che ammucchiai e con cui eressi una colonna molto instabile. Nel 1945 lisciai un cartone ondulato che aveva la superficie di un metro quadrato. Invece, dal 1957, ininterrottamente, uso lisciare la carta argentata delle sigarette».

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STANZA 401

«E poi ci sono coloro che vivono ma dovrebbero essere morti», disse Pier Paolo Pasolini nella primavera del 1975. Ed era a me, a persone simili a me, che si riferiva. Quando disse queste parole terribili, e in apparenza anche un po’ reazionarie, avevo appena compiuto dodici anni ed ero dunque un ragazzino che s’affacciava alla vita, l’oggetto privilegiato delle sue pedagogiche attenzioni. Ma non solo. Si riferiva a me perché io vivevo, ma avrei dovuto essere morto; perché appartenevo a quella genìa nuova, comparsa in Italia da una dozzina d’anni appena: la genìa di coloro che in altre epoche, in mancanza di una scienza sufficientemente progredita e di un benessere diffuso, sarebbero scomparsi nella primissima infanzia, in quel limbo periglioso chiamato mortalità infantile. Non bastò infatti che ancor prima di venire al mondo, in uno stato ancora fetale, avessi tentato il suicidio per interposta persona; rischiai pure la morte per inedia. Passai i primissimi mesi di esistenza in vita alla maniera di qualunque infante, aggrappandomi d’istinto al seno materno per succiare il nutrimento necessario. Sfortunatamente, però, la mia genitrice

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non aveva latte, o ne aveva troppo poco, e io, pur succiando, anziché crescere, deperivo, mutandomi in una cosa brutta e rattrappita. Si richiese un consulto con la scienza medica, la quale, parlando per bocca di un pediatra di fiducia, ritenne tuttavia non vi fosse ragione di allarmarsi. «Tutto normale», disse la scienza medica. Mia madre non vedeva cosa ci fosse di tanto normale in un figlio che somigliava ogni giorno di più ai bambini delle tribù africane, ma siccome a fare le veci della scienza medica era un amico che mio padre portava in palmo di mano, tenne per sé le perplessità. Bisogna sapere che in casa nostra la parola di certi amici era Vangelo, Verbo indiscutibile. Questo amico in particolare, poi, pur non essendo un pediatra in senso stretto e probabilmente nemmeno provvisto di una vera laurea in medicina, era una specie di profugo russo e dunque a maggior ragione degno di cieca venerazione per mio padre, all’epoca ancora un leninista convinto e adoratore di tutto ciò che profumava di Unione Sovietica. Quando ero ormai più di là che di qua, in un impeto di disperazione, mia madre mi portò di nascosto da un vero pediatra, il quale le disse che se avesse aspettato un solo giorno di più sarei di sicuro defunto. Ma non è finita qui. Salvandomi da una morte per fame, mia madre aveva pareggiato i conti con la faccenda del tentato suicidio. Il destino doveva ora fornire un’analoga possibilità all’altro mio genitore. Al compimento del mio sesto anno saltò fuori che era opportuno asportarmi le tonsille. Il chirurgo incaricato non era un profugo russo, ma si dimostrò comunque non poco maldestro: mi fece uscire dalla sala operatoria con un tampone conficcato in gola. Nessuno si accorse di nulla. Mi dimisero, ma il giorno seguente, tornato a casa, cominciai a sentirmi male. Mi

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venne un febbrone da cavallo e mia madre, preoccupata, telefonò al medico. «Tutto normale», le fu detto anche stavolta. L’infezione generata dal tampone marcescente fece salire ancora la mia temperatura. Passai giorni penosi, boccheggiante e con la testa in fiamme. La notte rantolavo insonne, imparando a distinguere nel buio della camera i rumori che annunciavano il mattino: una particolare auto che veniva messa in moto a una certa ora, il trillo ovattato che giungeva da una sveglia nell’appartamento accanto, l’ascensore che andava su e giù scandendo come un pendolo gli orari dei condomini. Non mi lamentavo, non emettevo un gemito. Ero rassegnato. Con la naturale consapevolezza dei bambini ero giunto a comprendere che sarei morto. Stranamente, mi trovavo d’accordo col medico. Trovavo normale dover morire. Del resto, avevo vissuto pochissimo. Mio padre dovette leggermi questa consapevolezza negli occhi perché un giorno, guardandomi, disse a mia madre: «Io lo porto a fare un giro». Lei gli domandò se per caso non fosse impazzito. «Il bambino ha la febbre a quaranta», disse. Mio padre non l’ascoltò. Mi imbacuccò per bene, poiché era inverno, e mi portò fuori per farmi vedere il mondo un’ultima volta. In strada camminavo come gli astronauti delle missioni Apollo. Ballonzolavo nel pesante cappotto verde, il berretto di lana calcato sugli occhi e la sciarpa agganciata al naso. Le orecchie mi ronzavano e sentivo la pelle del viso bruciare. Ero tuttavia felice di rivedere il mondo. E triste. Come mio padre, pensavo che fosse la mia ultima passeggiata, dopodiché sarei morto in camera ascoltando i rumori che precedevano il mattino o qualche altra ora del giorno o della notte. C’erano alcuni bambini nel piccolo parco pubblico dove andavo sempre a giocare. Si stavano sfidando in uno speciale

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tipo di capriola che loro chiamavano il giro della morte. Si aggrappavano alla barra orizzontale di una recinzione metallica, quindi piegavano le gambe e si lanciavano in una giravolta completa. Mio padre allentò la presa della mano. Che male poteva farmi, ormai, un giro della morte? Arrancai verso la recinzione e mi aggrappai a una delle barre. Gli altri bambini mi squadrarono interdetti, nessuno di loro era imbacuccato a quella maniera ridicola. Ancora più di stucco li lasciò la mia esecuzione dell’esercizio. Sarà stato per via dei guanti che scivolavano sulla barra o per via del mio stato di debilitazione, fatto sta che non portai a termine la giravolta. Mi bloccai a metà, con il corpo piegato in due, la testa in giù, lo stomaco schiacciato contro la barra. Provai a darmi una spinta, ma non mi mossi da quella posizione. Il berretto cadde in terra, la sciarpa si allentò e vidi mio padre correre verso di me in un mondo sottosopra. A quel punto fui colto da un violento attacco di tosse. Una tosse strana, secca, come quando si è sul punto di vomitare. Per un istante fui consapevole soltanto del sangue che mi andava alla testa e del rumore di quella tosse sempre più convulsa. Poi udii la voce di mio padre dire: «Cos’hai sputato?». Avevo smesso di tossire ed ero ancora con lo stomaco schiacciato sulla barra di metallo. Mi sentivo però come sollevato, leggero. Dopo avermi aiutato a riguadagnare la posizione eretta, mio padre si piegò sulle ginocchia e scrutò la stomachevole cosa che mi era appena uscita dalla bocca. Una pallottola spugnosa di un grigio rossastro. Sembrava un cervello in miniatura. La raccolse. Non sapendo dove metterla, svuotò la scatola di cerini e la sistemò lì. Il giorno dopo la febbre sparì e fu chiaro a tutti, a me per primo, che anche questa volta l’avevo scampata per miracolo. Chi più di me poteva considerarsi un sopravvissuto? Chi più di me aveva visto la mortalità infantile in faccia? A chi, se non

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a me, poteva dunque riferirsi Pasolini parlando di una nuova generazione, la mia, «infinitamente più debole, brutta, triste, pallida, malata di tutte le altre generazioni precedenti che si ricordino»? Mi rendo conto che, a voler guardare il capello, la scienza medica non si era adoperata al meglio per la mia sopravvivenza. Fosse stato per lei, per codesta scienza, sarei tornato dritto al Creatore con grande sollievo di Pasolini. Va tuttavia considerato che entrambe le disavventure impressero il loro segno, rendendo il mio corpo gracile, asmatico, cagionevole. Il caso e l’ostinato amore dei miei genitori mi avevano solo temporaneamente salvato, giacché è molto improbabile che sarei campato a lungo se la scienza medica non mi avesse rimesso in sesto. Ma su questo potremmo anche sorvolare. Dove Pasolini coglieva più nel segno, infatti, non era tanto nell’additarmi come un «destinato a morire», bensì nell’intui­ re che la sopravvivenza mi aveva lasciato qualcosa, una sorta di insegnamento, un retaggio spirituale. Nella vita di noi sopravvissuti, diceva Pasolini, c’è qualcosa di artificiale, di contro natura, come se l’essere stati strappati alla morte innocente dell’infanzia ci avesse reso colpevoli. Non so se davvero questa fosse la ragione, certo è che mi sentivo colpevole d’essere ancora al mondo, colpevole perché mi aspettavo d’essere sfamato, accudito, istruito. Forse all’origine della mia passione per i luoghi sospesi, transitori, precari, per le case in vetrina dei negozi d’arredamento prima e per le stanze d’albergo poi, c’è proprio l’insopprimibile sensazione di essere di troppo, di non meritare lo spazio che si occupa, la vita che si vive. Questa sensazione l’ho provata in maniera confusa fino ai dodici, tredici anni e la misi definitivamente a fuoco intorno ai quindici, sul finire del 1977, che è peraltro il momento in cui la mia strada si incrociò con quella di Pier Paolo Pasolini

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o, per dirla come va detta, il momento in cui la mia condizione di sopravvissuto immerito entrò in rotta di collisione con il cadavere del poeta. Ricorreva il secondo anniversario del fattaccio dell’idroscalo di Ostia. Nell’aula della prima G della succursale del Primo liceo artistico di Roma, in via San Francesco di Sales, a un tiro di schioppo dal carcere di Regina Coeli, il dibattito ferveva. Il corpo del poeta era caldo, così come erano caldi quegli anni di proteste, bombe, rapimenti, ammazzamenti. L’assassinio di Pasolini esigeva giustizia e verità. Nessuno era disposto a credere che si fosse trattato di una «storia di froci» finita male. Nessuno era disposto a riconoscere nel giovane borgataro reo confesso il vero, o perlomeno il solo, omicida. Si diceva che erano stati i fascisti. Si parlava di servizi segreti conniventi, di una esecuzione di Stato ordinata perché il poeta era colui che sapeva: conosceva i nomi e le trame occulte. Io, sopravvissuto immerito, ero piombato nel liceo come un alieno caduto sul pianeta sbagliato. Quel modo di parlare, quel modo di pensare, gli argomenti di quelle discussioni infuocate sul filo della rivoluzione: tutte le cose di quegli anni mi erano ignote. Sapevo del comunismo perché nella libreria di casa una copia del Capitale di Marx accumulava polvere, ma non mi capacitavo che i miei compagni di classe – ragazzi della mia stessa età, quattordicenni e quindicenni – dominassero a quel modo il linguaggio, per me lontanissimo, delle tribune politiche e dei telegiornali. Provenivo inoltre da un quartiere e da una scuola molto borghesi. In quel mio mondo d’origine i ragazzini portavano tutti i capelli corti, tagliati sopra la nuca, e i lembi di una camicia fuori dei pantaloni erano sufficienti a rappresentare l’inconcepibile. La mia timorosa sensazione di essere di troppo non poteva che acuirsi in quella bolgia di acconciature arruffate e abbigliamenti zingareschi. Da bambino avevo visto gli hippy, è vero. Credevo però fossero come

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la gente del circo, abitatori delle strade. Non immaginavo di incontrare persone simili in una scuola. Entrando in classe, adocchiavo un cantuccio protetto e lì mi accartocciavo in me stesso, muto più di un pesce. Col tempo, però, la voglia di interagire prevalse e cominciai a intervenire nei dibattiti. Data la mia sprovvedutezza circa gli ordini del giorno, mi attenevo al principio Ignoramus et ignorabimus, che, in soldoni, si traduceva nell’ostentazione di uno scetticismo militante. Contraddicevo tutti per partito preso, su qualunque argomento. Non sapevo nulla di quel che si andava dicendo ma, al puro e unico scopo di poter dire anch’io qualcosa, interloquivo per sottolineare che ero comunque in disaccordo. Questo modo di fare non mi rese granché popolare, s’intende, ma perlomeno mi dava un’identità. Le cose presero un corso diverso proprio in occasione del secondo anniversario della morte violenta di Pier Paolo Pasolini. Ovviamente non l’avevo mai sentito nominare, Pasolini, nondimeno sentii il dovere di pronunciarmi ovvero di contestare l’opinione corrente che lo dipingeva come un martire della verità. Le mie improvvisate stupidaggini vennero stigmatizzate all’istante da una compagna di classe. Costei, benché scapigliata e politicamente molto impegnata, era di una bellezza abbacinante. La vedevo coi capelli rossi come il fuoco e una pelle perfetta, alabastrina. Sembrava la lavandaia di Toulouse-Lautrec, la Maria Schneider di Ultimo tango a Parigi, la Medusa regina degli Inumani, Medusalith Amaquelin Boltagon. Per giunta, venendo da una scuola media inferiore priva di classi miste, non ero affatto abituato a contatti ravvicinati con creature del sesso opposto. Confesso che mi ero messo di traverso solo nella speranza di attirare la sua attenzione. Non pretendevo chissà cosa. Anche un insulto mi sarebbe bastato, purché mi parlasse. E difatti mi parlava adesso. Mi stava dicendo che ero un idiota

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della specie peggiore e non mancava di fornirmi circostanziati chiarimenti sul perché lo fossi. Io non la udivo però. La vedevo. Le sue parole mi carezzavano silenziose come una brezza di primavera mentre fissavo quelle labbra meravigliose dischiudersi, mostrando denti bianchissimi e imperlati di saliva e, oltre la duna rosata della lingua, un piccolo baratro umido e nero dal quale avrei tanto voluto essere inghiottito. Spostai poi gli occhi sulla pelle diafana del collo, sull’incavo delizioso che, del collo, costituisce la base, e a forza di spostarsi, gli occhi capitarono più in basso, nel varco aperto della camicia slacciata, e siccome lei si era un poco chinata, puntellandosi sul banco coi gomiti per insultarmi meglio, attraverso quel varco potei addirittura scorgere la curva nuda di un seno e, forse, finanche l’areola di un capezzolo. Dico “forse” perché nello stordimento dell’estasi non sapevo più cosa vedevo o credevo di vedere. So che mi girava il capo e, mentre in lontananza mi arrivava il racconto di quest’uomo picchiato a sangue e dell’auto che infieriva passando sopra il suo corpo martoriato, io seguitavo a sbirciare all’interno del varco, nella V della camicia slacciata, che era anch’essa bianchissima, luminescente quasi, come la pelle di quella creatura soave che mi insultava. Finché lei non se ne accorse. «Ma che fai, mi guardi le tette?», disse senza alcuna particolare inflessione nella voce. E prima che io potessi bofonchiare una scusa o anche solo tentare una smorfia o tornare minimamente presente a me stesso, la soave creatura mi fissò imperturbata, slacciò un bottone di più e con un movimento lento e leggero delle dita scostò di lato il bordo della camicia, allargando, seppure di poco, il varco. Mi venne lo stesso respiro affannato di quando rantolavo morente col tampone in gola. Non era il seno, che ora potevo

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ammirare in tutta la sua acerba e crudele perfezione, a mozzarmi il fiato. Era il sorriso con cui lei mi guardava. Un sorriso per nulla complice né tantomeno lascivo, ma beffardo, più insultante di tutti gli insulti di cui mi aveva degnato sinora. Io non so. Non so dire come uscii da quella situazione: l’attacco d’asma fece calare il buio sulla parte cosciente di me, cancellando il ricordo degli istanti che seguirono. Io so soltanto che il nome di Pier Paolo Pasolini e il suo cadavere martoriato si marchiarono a fuoco nella mia mente restando per sempre legati alla prima volta che ho avuto l’opportunità di posare lo sguardo su una nudità femminile. So inoltre che la ferale umiliazione di quel giorno determinò un cambiamento. Rinunciai, anche se non del tutto, all’esercizio di contraddire per partito preso i miei compagni. Iniziai a indossare vestiti sdruciti e cenciosi acquistati nei negozi dell’usato. Appresi i rudimenti del linguaggio contestatario, le parole da dire e quando dirle, le cose di cui parlare e come parlarne. Riuscii persino a prendere un po’ di botte da un gruppetto di fascisti; un episodio che, sebbene maturato un po’ per caso e non privo di una comica assurdità, mi procurò una certa considerazione. Insomma, ero sulla buona strada per diventare uno di quegli imbecilli che Pasolini trovava tristemente odiosi: noi nuovi giovani di allora. Quel che il poeta non sopportava di noi era proprio che parlassimo allo stesso modo, che ci comportassimo allo stesso modo, che facessimo gli stessi gesti, che amassimo le stesse cose. «Vedo delle divise», diceva il poeta. Ne aveva viste anche ai suoi tempi, ma le divise di quando lui era un ragazzo, le divise dei balilla e degli avanguardisti, non erano l’abito uniformante dei sopravvissuti immeriti, la maschera di un movimento informale fondato sui giovani, ammantato dal falso mito, diffuso nella borghesia italiana e tra gli intellettuali di

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sinistra, che noi nuovi giovani di allora fossimo liberi, privi di complessi, disinibiti, votati a una vita felice. «Tutta la mia opera è una dichiarazione d’amore per i giovani», diceva il poeta. «Li amavo e li rappresentavo, un tempo. Ma adesso non potrei fare un film o scrivere un romanzo su questi imbecilli che ci circondano. È una catastrofe», diceva. E i maggiori responsabili del disastro erano proprio i «destinati a essere morti», perché la sensazione di essere di troppo, di non meritarsi la vita che vivevano, li aveva convinti d’essere venuti al mondo indesiderati e ciò aveva alimentato in loro l’ansia di normalità, il bisogno di confondersi, di aderire senza riserve all’orda. Per carità, concedeva il poeta, il ragionamento vale per la massa. Perché anche tra questi poveretti esistono infinità di eccezioni. Potevo forse considerarmi un’eccezione? In fondo, avevo contraddetto tutto e tutti fino a quel giorno del «Ma che fai, mi guardi le tette?». Ed è probabile che mai avrei smesso di contraddire non fosse stato per quel modo beffardo in cui ti guardano le ragazze quando ti arrischi a desiderarle malgrado tu sia un povero idiota. Penso sia probabile, perché spesso avvertivo rigurgiti di quell’inclinazione a schierarmi contro per principio, a prescindere dal contesto, perché essere contro mi faceva sentire quello che volevo essere ovvero, in una parola, vivo. Penso sia probabile, perché se reprimevo quella vocazione era solo per compiacere qualche femmina che mi piaceva, ché poco o niente mi interessava di essere accettato dai miei coetanei maschi. Ma è davvero così che stavano le cose o questo era soltanto il modo in cui preferivo raccontarmela? Il mio conformismo contestatario scaturiva soltanto dal conflitto tra la sopravvivenza immerita e un’indegna concupiscenza o c’era qualcosa di più profondo? Al di là dei miei moti infantili, cosa significa realmente essere contro? Di cosa parliamo quando parliamo di protesta?

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In quell’annus mirabilis del secolo scorso in cui la rivoluzione era dappertutto, il famigerato 1968, un uomo di nome William Burroughs fissò su un periodico americano alcune riflessioni circa la polizia che i governi di mezzo mondo schieravano nelle piazze per fare da muro alle folle in protesta. Nemico impenitente e dichiarato di qualunque ordine costituito, Burroughs riteneva che quei «fantasmi in divisa» esprimessero qualcosa di profondo, pensava cioè che i loro lineamenti inespressivi fossero latori di un preciso messaggio del sistema: «Siamo reali, reali, reali!!! come questo manganello!». Egli era poi convinto di un’altra cosa. Credeva che, nel proprio intimo, in maniera confusa e animalesca, i poliziotti sentissero che la realtà li stava abbandonando. Naturalmente questo è soltanto un modo di considerare la faccenda. Di tenore alquanto diverso fu la famosa posizione che Pasolini prese dopo una manifestazione tenutasi in quello stesso anno a Roma, presso la facoltà di Architettura di Valle Giulia. I violenti scontri tra studenti e poliziotti gli suggerirono lo spunto per una lunga poesia nella quale, pur da intellettuale di sinistra e uomo politicamente impegnato, dichiarò di sentirsi più vicino ai rappresentanti delle forze dell’ordine. Scrisse di preferire gli agenti per la loro estrazione sociale, perché erano più poveri degli studenti che urlavano in nome del proletariato e dunque vere vittime del sistema. Ma soprattutto scrisse di preferirli perché, diversamente da noi sopravvissuti immeriti, erano “innocenti”. Questo punto di vista, certamente insolito per il clima dell’epoca, non mancò di suscitare sconcerto e tale fu la disapprovazione che qualche tempo dopo Pasolini avvertì il bisogno di specificare che la poesia era in effetti «una piccola furberia oratoria paradossale», un modo per sottolineare come «il potere oltre che additare all’odio razziale i poveri – gli spossessati del mondo – ha la possibilità anche di fare di que-

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sti poveri degli strumenti». Malgrado il chiarimento, in molti continuarono a non apprezzare. Del resto, andare per il sottile quasi mai è pratica ben accetta in tempi di rivoluzione. E che la stridente immagine dei poliziotti innocenti fosse fin troppo sottile è poco ma sicuro. Tuttavia, al di là degli innegabili intenti provocatori, la poesia di Pasolini solleva, seppure indirettamente, una questione di carattere più universale. Impone di domandarci di cosa parliamo quando parliamo di protesta. La risposta sembrerebbe già data: parliamo di una energica manifestazione di dissenso. Non c’è niente di sbagliato in una simile idea: protestare è per l’appunto dichiararsi contrari a qualcosa, essere contro. Basta questo, però, a definire cos’è realmente una protesta? Proviamo a mettere a confronto le opinioni di Burroughs e Pasolini. Si direbbero due pensieri agli antipodi. Burroughs detesta i poliziotti più di ogni altra cosa al mondo escludendo per principio qualunque possibilità di redenzione; Pasolini riesce a cogliere invece il lato umano che è in loro e perciò ne prende le difese. La divergenza è senza dubbio sostanziale, ma diventa secondaria, quasi irrilevante, se soltanto prestiamo attenzione a ciò che accomuna i due punti di vista. Il lato strano dei ragionamenti di Burroughs e Pasolini è che, quantunque abbiano entrambi per oggetto la protesta, di fatto finiscono per concentrare la loro attenzione su qualcosa di assolutamente opposto. Che sia per odio o che sia per amore, le forze dell’ordine assumono una centralità imprevista, immotivata, contraddittoria. Non sono forse i rappresentanti delle forze dell’ordine gli incaricati di contenere, e spesso reprimere, la protesta? Da dove nasce allora l’interesse per la polizia? Siamo di fronte al frutto di una semplice coincidenza oppure è il risultato di una perversa attrazione fatale tipo sindrome di Stoccolma? E di qualunque cosa si tratti, come dobbiamo interpretarla? Come un aspetto marginale o piuttosto

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come un nodo essenziale, una specie di cartina di tornasole attraverso cui far venire alla luce le dinamiche più profonde che muovono la contestazione di un ordine costituito? Tra le foto scattate dai giornalisti nel corso dei disordini che hanno accompagnato tanti G8 ce n’è una, famosa, che ritrae una giovane manifestante nell’atto di baciare lo scudo di un poliziotto in tenuta antisommossa. È un classico, quasi uno stereotipo dell’iconografia contestataria, certamente assai più edificante dell’immagine di una ragazzina impegnata che ti sbeffeggia perché hai sbirciato nella sua scollatura. Dalla prospettiva della mia squallida esperienza, baciare, seppur solo idealmente, un poliziotto è inoltre un gesto che ha un qualcosa di pasoliniano perché allude alla possibilità di preferire una divisa vera a quella posticcia di un idiota controcorrente. Trascendendo il personale, l’esperienza insegna infatti che, al momento di arrivare al dunque – ovvero di finire a letto –, spesso le ragazze preferiscono lasciarsi sedurre dal cattivo anziché dal buono. Ovviamente, anche questo mio ricorrere a un luogo comune di stampo maschilista è una piccola furberia oratoria paradossale. Ovviamente, non credo affatto che le ragazze che offrono baci e fiori ai poliziotti sono pronte a farci concretamente l’amore. Quel che voglio dire è che in questa contorta dialettica che contrappone il buono al cattivo, l’ordine corrente al contestatore, il fascino del potere ha un peso che non si può fingere di non vedere. Si appare buoni o cattivi a seconda del punto di vista di chi ci sta guardando, e questo punto di vista non costituisce affatto un assoluto, quantunque vorremmo molto che lo fosse. È invece un punto mobile, ondivago, soggetto a tentennamenti, esposto alle sirene di un porto sicuro. I sogni sono belli ma alla lunga stancano, per cui o diventano realtà o la realtà vigente ha la meglio. Il fascino del potere consiste per l’appunto in questo: è già reale e offre certezze.

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È una cosa che andrebbe sempre tenuta presente: quando si decide di protestare, di essere contro, si segna di fatto un confine tra ciò che appare razionale e ciò che non lo è, tra ciò che già c’è, qui e ora, e ciò che si vorrebbe ci fosse. Pasolini tirava in ballo l’innocenza dei poliziotti proprio perché la protesta implica sempre una vocazione infantile all’irrazionale, uno scontro tra grandi e piccoli. E in qualunque modo si vogliano intendere questi grandi e questi piccoli, viene dato per scontato che i piccoli siano più innocenti. Quanto a Burroughs, se nei volti disumanizzati delle forze dell’ordine leggeva un grido animalesco che dice «Siamo reali», è proprio perché la realtà o, per meglio dire, il potere di definire il reale è un territorio che deve rimanere precluso ai contestatori. In ogni manifestazione viene indicata più o meno esplicitamente una «zona rossa» che i dimostranti non devono violare. Questa zona rappresenta un limite imprescindibile, il confine simbolico che divide il territorio dell’innocenza da quello del reale, la linea che separa la protesta dall’ordine corrente. Finché si rimane dietro la linea che demarca la zona rossa si può giocare all’abbattimento del sistema, urlare, inscenare mascherate, offrire fiori e fare altre bambinate del genere. Pure insultare è concesso. Talvolta perfino lanciare sassi. Ma se si passa il segno, la faccenda smette di essere un gioco e la polizia prende a manganellate i manifestanti per ricordare loro che la realtà è dura e può far male. Ecco in sostanza di cosa parliamo quando parliamo di protesta: realtà. Giunti a questo punto è irrilevante domandarsi se la realtà sia giusta: sappiamo benissimo che non lo è. Né tantomeno dobbiamo chiederci se la realtà sia davvero reale: abbiamo già visto, visitando il terzo piano, che non sempre lo è. Del resto, il punto di partenza era un altro: la natura di noi sopravvissuti immeriti, il nostro senso di colpa per l’essere scampati alla mortalità infantile, l’eredità spirituale che questa

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perdita d’innocenza ci ha lasciato. Ciò cui non abbiamo ancora risposto, ciò cui io non ho risposto è: Posso davvero considerarmi una delle eccezioni di cui Pasolini ammetteva l’esistenza? Se vado al fondo della questione, se la guardo per quella che è, senza piccole furberie oratorie o infingimenti di comodo, la risposta è no. Secondo il poeta, il primo nefasto insegnamento che noi sopravvissuti immeriti diamo al mondo, ai compagni di generazione più vitali di noi, è la rinuncia: «Essi dovevano morire; o meglio, in altre circostanze sociali, sarebbero di sicuro morti. Essi devono istintivamente ridurre al minimo lo sforzo per vivere: il che in termini sociali significa appunto rinuncia». A sua volta, lo spirito di rinuncia significa ansia di integrazione e qualunquismo ovvero ciò che Pasolini più detestava, portandolo a dire: «Non temere di essere ridicolo: non rinunciare a nulla». Ebbene, il giorno della morte di Pasolini ho cominciato a vivacchiare perché scoperto con le mani nella marmellata ovvero cogli occhi incollati a un paio di sisette, come si chiamavano un tempo a Roma quelle deliziose sporgenze. Umiliato dal sorriso beffardo di una ragazzina, ho provato il terrore di essere ridicolo e ho cominciato a rinunciare. Alcune di queste rinunce le ho raccontate, altre le ho taciute. Il senso di diventare scrittore è stato quello di porre una fine, di smettere di rinunciare. «Come si cambia per non morire», dice una canzone. Ma non è esattamente così. Sarebbe più giusto dire: come si cambia per vivacchiare, che non è la stessa cosa di non morire. Non lo è per niente. Non morire significa ribellarsi culturalmente all’idea della morte, in senso pasoliniano. Significa diventare meritevoli della propria sopravvivenza. Significa voler fare di sé stessi un’eccezione. Più avanti, nel tempo, ci avrei provato. Ma all’epoca non ero affatto un’eccezione. Ero solo uno dei tanti che vivono ma dovrebbero essere morti. E tutto per un paio di sisette.

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Mi sono già dilungato a sufficienza sul periodo in cui, da giovane sfrontato qual ero, giudicassi inconcepibile che la mia strada potesse incrociarsi con quella della letteratura. In quegli anni, in cima ai miei pensieri, c’era naturalmente l’arte, ma non disdegnavo di fantasticare intorno a progetti di vita che abbracciassero l’intero spettro delle esperienze umanamente possibili e impossibili, oscillando così tra il rammarico di non poter diventare astronauta e la tentazione di fare il vagabondo; prendevo in considerazione di tutto, dalla meschina e beata tranquillità del posto fisso alle classiche risoluzioni finali, tipo arruolarmi nella legione straniera. Ma non contemplavo affatto la scrittura. L’idea che una persona potesse desiderare o solo pensare di trascorrere la maggior parte del proprio tempo chiusa in una stanza per riempire fogli con le storie di individui mai esistiti mi sembrava inammissibile; una rinuncia alla vita, a quella che io credevo essere la vera vita. Non avevo ancora compreso, da sopravvissuto immerito qual ero, cosa davvero significasse rinunciare. Per come la vedevo allora, i romanzi erano la quintessenza dell’inutilità. «A cosa serve un romanzo?», mi chiedevo. «A

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niente, se non a farti evadere dalla realtà». Ma io non volevo evadere. Volevo essere nel centro vivo e pulsante delle cose e rifiutavo di consolarmi con l’immaginazione di qualcun altro. Poi sono passati gli anni, mi sono fatto meno giovane, nel centro vivo e pulsante delle cose non sono mai stato e sono finito a fare proprio quello che con tanta fermezza avevo escluso, scrivere. Dovesse mai capitarmi di incontrare il ragazzo che ero, mi sentirei senza dubbio in grande imbarazzo perché ai suoi occhi apparirei di certo un fallito. Tutto ciò non avrebbe molto senso raccontarlo, non fosse per due ragioni. La prima è che il nostro mondo occidentale pullula di persone che all’escapismo della narrativa, anche di grande qualità, preferiscono saggi e manuali nella convinzione che il piacere della lettura debba abbinarsi all’apprendimento di informazioni utili. La seconda ragione è che è ancora vivo in me il ricordo di come abbia cominciato a distaccarmi da questa moltitudine che pensa di usare un libro con lo stesso spirito pratico con cui si usa un martello. Non potrò mai dimenticare, cioè, il libro che mi fece scoprire quanto sia indispensabile la scellerata vanità dei romanzi; non potrò mai dimenticare L’amore al tempo del colera di Gabriel García Márquez. Non saprei dire con precisione come arrivai a questo libro. Rammento solo che, di punto in bianco, provai il bisogno di leggere un romanzo. Probabilmente fu perché all’epoca stavo vivendo un amore che non aveva futuro e, malgrado quell’esperienza non si fosse ancora cristallizzata, presagivo che con il passare degli anni la mia tristezza avrebbe finito per assumere un suo odore unico e inconfondibile. Magari non sarebbe stato lo stesso odore di cui parla Márquez, ma mi risultò fatale rispecchiarmi nell’inevitabilità che è all’origine del suo romanzo: l’inevitabilità con cui l’odore delle mandorle amare risveglia il destino degli amori contrastati.

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Posto in questi termini, tutto sembrerebbe doversi ricondurre a quel potere consolatorio che è forse l’unica utilità universalmente accettata della narrativa. Non so, può anche essere che sia davvero andata così, che fossi alla ricerca di un balsamo per la mia condizione di innamorato infelice. Ricordo però che la storia di Florentino Ariza e del suo ostinato e non ricambiato amore per Fermina Daza non servì a lenire nessuna delle mie sofferenze. Quanto a consolazione, la lettura del romanzo di Márquez fu vana, e lo fu perché mi è sempre risultato difficile provare – come certa saggezza popolare vorrebbe – un mezzo gaudio per un male comune. Ciò che ottenni da L’amore al tempo del colera fu di natura affatto diversa e inaspettata. Fu una specie di illuminazione: d’incanto compresi cosa era possibile fare con un romanzo. Impiegare il proprio tempo a scrivere storie non mi sembrò più tanto inutile. Mi rendo conto che usare l’espressione «d’incanto» parlando di Márquez è fin troppo facile, ma come potrei definire un’illuminazione in piena regola, vale a dire un’illuminazione così vaga da impedirmi di spiegare in termini chiari cosa esattamente compresi? D’altro canto, pensandoci bene, l’essenza del romanzo è proprio quella di offrire illuminazioni vaghe. A differenza di tutti i modi in cui è possibile servirsi del linguaggio, i romanzi non brillano mai di luce propria ed esclusiva. I testi filosofici brillano di verità, quelli di storia brillano di passato, le poesie brillano di assoluto, i reportage brillano di realtà. I romanzi invece, se e quando brillano, lo fanno a tratti e di una luce riflessa, una luce che è tutto e niente, che una volta è quella della verità filosofica e un’altra è quella dell’assoluto poetico. È così che funziona perché il racconto impone un uso pratico e prosaico del linguaggio; bisogna descrivere, incastrare eventi, individuare dettagli, spendere un mucchio di energie per definire cose tutt’altro che elevate, e quando finalmente

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giunge il momento di una frase o una parola illuminanti, può essere che ciò avvenga dopo pagine e pagine di parole e frasi opache. La luce di cui brillano a tratti i romanzi è qualcosa di estraneo al placido scorrere della prosa; è simile alla luce degli abbaglianti di un’auto che improvvisamente ci si para davanti nella corsia opposta e, allo stesso modo in cui quei fari ci costringono per un attimo a chiudere gli occhi, così lo sfarfallio di una certa frase ci obbliga per un attimo a sospendere la lettura. Per assurdo, sul piano della mera funzionalità narrativa, il romanzo perfetto dovrebbe o essere scritto solo con parole opache o far brillare il prosaico di luce propria. È evidente però che entrambe le strade sono di fatto impraticabili e da ciò si evince non soltanto che il romanzo perfetto è una chimera, ma che le forme narrative sono sempre qualcosa di spurio, incompleto e relativo; è il loro limite, ma anche ciò che le rende così umane e indispensabili. Non accettare questo limite è il maggiore torto che si possa fare all’essere umano; significa denigrarci per il nostro bisogno di storie o, quantomeno, equivocare. Uno di questi equivoci è, per esempio, parlare di «realismo magico» a proposito di Márquez. Anzi, per certi versi, questa infelice definizione è peggio di un equivoco, perché alla lunga ha finito col rendere inattuale la sua opera agli occhi di quei lettori che avvertono il bisogno di sentirsi al passo con le mode. Sarà forse perché è uno scrittore dell’America Latina, vale a dire un uomo che per luogo comune deve struggersi, languire, grondare passioni e nostalgie esagerate, ma questa macchia di realista magico Márquez l’ha dovuta sopportare anche nel momento più drammatico della sua vita, quando, alla fine del 1999, dopo che la notizia del suo tumore al sistema linfatico aveva fatto il giro del mondo, qualcuno diffuse in rete una

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lettera con la quale lo scrittore diceva melodrammaticamente addio alla vita e alla letteratura. Si trattava di un falso, ma la cosa che avvilì Márquez non fu tanto il falso in sé quanto che molta, troppa gente lo avesse creduto capace di scrivere una cosa così ignobile. Il suo odio per la morte non glielo avrebbe mai permesso. Il suo odio è tale, infatti, che tutta la sua letteratura potrebbe essere letta come un atto di ribellione alla morte. Considerato il tempo che ha dedicato al giornalismo, l’unico vero realismo praticato dal Márquez romanziere è stato quello di scrivere dei modi in cui la morte cerca di sottomettere l’uomo: guerre, miseria, malattie, vecchiaia. Quanto alla magia, Márquez è troppo laico, troppo umanista, per non considerarla un mero strumento del potere, uno dei tanti mezzi con cui il potere cerca di mascherare all’uomo i suoi disegni di morte. È per questo che i suoi romanzi iniziano quasi sempre al cospetto della morte. All’inizio de L’amore al tempo del colera, Márquez ne racconta addirittura due, di morti: Jeremiah de Saint-Amour che si uccide per non diventare vecchio e il dottor Urbino che, troppo vecchio per arrampicarsi sugli alberi, cade nel tentativo di riacchiappare il suo pappagallo. Ma similmente alla guerra che «è più su» perché «nelle città non si uccide a colpi d’arma da fuoco ma con i decreti», la morte di cui parla Márquez non arriva quando si muore. È lì da sempre, un’afflizione tirannica e quotidiana che cerca di umiliare la vita. Basta questo stupendo periodo per capire: «Sul far della sera, nel momento oppressivo del passaggio dal giorno alla notte, si alzava dalle paludi una tempesta di zanzare carnivore, e una tenera esalazione di merda umana, calda e triste, rimestava nel fondo dell’anima la certezza della morte». Ma se la vita merita di essere vissuta, se c’è una dignità nell’essere umani, se c’è un senso nel raccontare storie, è perché di fronte

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al potere e alla morte si ha sempre la possibilità di ribellarsi, di ricordare a sé stessi e agli altri chi si è stati, di testimoniare che, malgrado la sottomissione e la consunzione, si è stati liberi e si è stati vivi. Vivi per raccontare. L’insegnamento di Márquez risale a una fase di molto successiva agli anni in cui ero soltanto un rinunciatario che vivacchiava alla faccia di un destino di morte. Proprio perché tardivi, i suoi pur benefici effetti non possono pertanto considerarsi davvero formativi. Gran parte dei giochi, a cominciare dalla pittura, si erano infatti già chiusi, così come avevo già commesso gli errori migliori, che altro non sono, ovvio, se non gli errori ispirati da tremori e furori della prima gioventù e per i quali è sempre profittevole, sebbene non indispensabile, l’incontro con un cattivo maestro. Poco tempo dopo l’incidente increscioso delle sisette, indottrinato da un compagno di liceo, mi dedicai anima e corpo alla lettura di Junkie ovvero La scimmia sulla schiena, com’è meglio noto nei nostri paraggi. È stato il primo libro che abbia veramente letto, veramente nel senso che avrei poi attribuito al significato della parola «libro» e a quello che mi sarei aspettato di poter trovare nella lettura. Immagino sia superfluo spiegare cosa rappresentava ai miei occhi quel libro, perché tutti hanno una qualche idea di cosa siano la figura di William Burroughs, la sua avventura di tossico irriducibile, l’Interzona e il resto del corollario. Basta un’unica e semplice parola per dire quel che vedevo in Burroughs: l’essere contro. Egli era l’incarnazione assoluta e quasi sacrale dell’essere contro. Non era semplicemente un ribelle. Aveva un’aria rispettabile. Non vestiva in modo trasandato né eccentrico. Spesso portava anche il cappello e aveva una certa età, si abbigliava da signore distinto, come dicevano le donne di un tempo, o da impiegato di banca, volendo usare un’espressio-

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ne più consona all’uomo della strada. Nemmeno il mio professore di matematica aveva un aspetto tanto inappuntabile. Eppure, nonostante la sua aria inappuntabile, Burroughs era un nemico dell’ordine costituito, uno che, come diceva lui stesso, «si trastullava ai margini del delitto». Si trattava di un fatto tutt’altro che secondario. Con i suoi anni, i suoi completi, le sue maniere compassate, William Burroughs era diverso dal classico tipo del ribelle. Aveva vissuto sregolatamente, molto sregolatamente, ma a differenza di chi era asceso all’olimpo del mito prendendo la sconveniente scorciatoia della prematura scomparsa non sembrava destinato a pagarne le conseguenze, quasi fosse immune ai disastri che una vita contro e dissoluta si porta sempre dietro. Incarnava la possibilità di un’esistenza maledetta al riparo dalla dannazione; la possibilità di fare cose sbagliate rimanendo comunque nel giusto e, soprattutto, senza pagarne il prezzo. Questa visione distorta dell’uomo Burroughs soddisfaceva perfettamente i rinunciatari bisogni di un sopravvissuto immerito. In essa l’essere contro e una strisciante voglia di conformismo sembravano andare d’amore e d’accordo. Ma in fondo a tutto ciò si nascondeva, com’era fatale che fosse, l’insensata convinzione, tipica dell’adolescenza, che le azioni possano restare prive di conseguenze e che certe trasgressioni siano soltanto un gioco, una posa, un modo per rendersi più tenebrosi, interessanti. Succedeva così che salissi sugli autobus barcollando, grattandomi in viso, tastandomi le vene, imitando la narcolessia in cui piombano i consumatori di eroina. Mi pareva un’ottima cosa che passeggeri adulti e brave ragazze si scostassero con riprovazione scambiandomi per un tossico. Giocavo insomma al piccolo Burroughs non avendo la più pallida idea di quel che davvero significhi esistere in una simile condizione di abbrutimento, non pensando che, a forza di scherzare col

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fuoco, presto o tardi ci si scotta sul serio. E mi scottai difatti. Tardi, ma mi scottai. E che sia avvenuto tardi ha un senso per nulla secondario: significa che non si è mai abbastanza lontani dalla propria giovinezza per dirsi al riparo dai suoi errori. Potevo considerarmi un uomo fatto e finito quando il momento si presentò. Sapevo ciò che c’era da sapere in merito a un mucchio di argomenti ed ero perfettamente consapevole che giocare al piccolo Burroughs non è affatto un gioco, perlomeno non il gioco innocuo che mi ero prefigurato da ragazzo leggendo La scimmia sulla schiena. Nondimeno, quasi senza pensarci, sostenuto dalla sciocca presunzione di potermela cavare senza molto danno, cominciai a trastullarmi ai margini di quel delitto chiamato droga. Soltanto per poco e per caso il gioco non conobbe il peggiore e più scontato degli esiti. Una notte di gennaio inoltrato, mentre giacevo sul divano di casa, in tossica beatitudine ed ebete ammirazione di un rettangolo di nulla iridescente, un film noleggiato nella videoteca dietro l’angolo, feci per respirare ma non ci riuscii. Lì per lì non compresi. Ero in perfetta salute. Meglio: in uno stato che un consumatore ormai abituale d’eroina definirebbe perfetta salute. E comunque sia, nulla, in teoria, avrebbe potuto impedirmi di immettere nei polmoni l’aria necessaria alla sopravvivenza. Eppure boccheggiavo facendo idiote smorfie da pesce come se la stanza si fosse d’incanto sbarazzata dell’ossigeno. Colto dal panico, mi rizzai di scatto e mi tuffai in avanti prendendo letteralmente a morsi il vuoto sotto il mio naso nella speranza di catturare un poco di quell’aria viziata che, ne ero certo, non poteva essersi volatilizzata. Stavo sperimentando un principio di overdose: ci volle qualche secondo perché questo fatto evidente mi divenisse chiaro. Se fossi rimasto in casa in quelle condizioni, solo, senza nessuno pronto a soccorrermi, sarei morto prima che facesse giorno.

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Trovai la forza di uscire e scendere in strada. Il gelo della notte mi scosse quel tanto da farmi arrivare a un angolo più trafficato. Mi sdraiai sul selciato, in mezzo a due cassonetti per non essere investito da un’auto, e attesi. Mi dicevo: prima o poi qualcuno passerà di qui e mi porterà in ospedale. Per un po’ pensai a quanto sarebbe stato imbarazzante essere schedato come tossicodipendente al pronto soccorso. Dopodiché mi domandai se ci fosse qualcosa di letterario, romantico o anche solo giocoso in un trentenne suonato che agonizza accoccolato tra i rifiuti del suo quartiere in una delle notti più fredde dell’anno. Poi smisi di pensare e pormi domande, perché di lì a poco svenni e non seppi più nulla. Oggi, col senno di poi, sarebbe fin troppo facile indossare i panni del saggio che elargisce lezioni dall’alto di una vita di patetiche sconsideratezze. Sarebbero lezioni ovvie e pertanto non prive di una loro verità, perlomeno secondo la morale. Cose poco interessanti, in definitiva. Esiste tuttavia la possibilità di guardare gli eventi, alla parabola ventennale che porta un ragazzino idiota, tossico per scherzo, a crescere in un adulto non meno idiota che, tossico, lo diventa davvero; esiste la possibilità, dicevo, di vedere la cosa come un semplice sbaglio di lettura ed è qui che emerge un aspetto fondamentale dell’uomo Burroughs sfuggitomi per anni. Burroughs è stato sempre una mia lettura costante. Lo leggevo quando la letteratura in sé e per sé rappresentava un interesse meno che marginale, e ho seguitato a leggerlo quando sono diventato scrittore. Lungo tutti questi anni e queste trasformazioni il mio modo di leggerlo è rimasto in sostanza lo stesso, un modo che ho già illustrato, un modo per il quale mi era impossibile separare la pagina scritta dalla realtà del personaggio Burroughs. Non riuscivo ad assorbire una singola parola dei suoi li-

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bri senza tenere ben presente che quanto andavo leggendo appartenesse all’esistenza davvero vissuta da un signore distinto che, a dispetto dei suoi tanti vizi, delle sue frequentazioni malsane e del suo essere contro, aveva raggiunto la terza età indenne da qualunque seria conseguenza. Di solito, mi lasciava del tutto indifferente sapere che un determinato romanzo scaturisse da una precisa realtà del suo autore. Nel caso di Burroughs non era così. Non riuscivo a prescinderne, non volevo prescinderne. La realtà dell’uomo Burroughs mi angustiava come i fantasmi che infestano le case in cui, da vivi, hanno patito. La realtà di cui parlo non ha ovviamente somiglianza alcuna con quel che di solito si intende per realismo. Fa piuttosto pensare a una forma violenta di realismo; è la rappresentazione della realtà congelata un attimo prima di degenerare nel suo contrario, l’irreale. Una realtà di frontiera dove i fatti e il modo in cui possono essere inventati se ne vanno in giro tranquillamente con la pistola e ingaggiano duelli alla maniera del vecchio West. Un po’ come nella scena iniziale di Strade morte. «Ieri pomeriggio al cimitero di Boulder ha avuto luogo quella che si direbbe una sparatoria del vecchio West. I protagonisti sono stati identificati come William Seward Hall, di settantacinque anni, un agente immobiliare con proprietà nel Colorado e New Mexico, e Mike Chase, un uomo sui cinquant’anni, di cui non si sa niente. Hall risiedeva a New York City e scriveva storie western con lo pseudonimo di Kim Carson. A prima vista è sembrato che Chase e Hall si fossero uccisi a vicenda in una sparatoria, ma nessuna delle due pistole aveva sparato». In questo incipit fulminante decorato con dettagli autobiografici quali il nome William Seward o la professione di scrittore, l’assurdità del contesto – il duello, le pistole che

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non sparano, Burroughs che diventa Hall – viene descritta senza enfasi. O meglio con l’enfasi sotterranea della cronaca giornalistica e del rapporto di polizia. È l’inconfondibile stile Burroughs. Dopo un’affermazione tanto apodittica è lecito attendersi un chiarimento anche minimo circa le ragioni che rendono unico e inconfondibile lo stile Burroughs. Ma un chiarimento non è possibile. Spiegare perché lo stile Burroughs è inconfondibile significherebbe dare risposta a una domanda tutto sommato sensata: che tipo di scrittore era dunque William Burroughs? E una risposta non c’è, perché William Burroughs non era alcun tipo di scrittore. Mi rendo conto che può suonare come una provocazione, ma si tratta di un fatto, della pura e semplice realtà dell’uomo Burroughs. In quanto nemico giurato del linguaggio, non poteva essere un qualsivoglia tipo di scrittore. Considerava la parola alla stregua di virus, una malattia ancora non riconosciuta come tale perché ha raggiunto uno stato di simbiosi relativamente stabile con il suo ospite umano. Alla maniera di qualunque altro virus, la Parola era per Burroughs «un organismo senza altra funzione interna se non quella di replicare sé stesso». Ora possiamo anche discutere sulla fondatezza di una simile affermazione, ma il punto è che la visione del linguaggio come virus gli era suggerita da un’idea estremamente moderna di malattia. Quando pensava al virus, Burroughs aveva in mente qualcosa di molto più complesso di un comune raffreddore. Pensava a qualcosa di insidiosamente legato al modo in cui gli esseri umani vengono a contatto e stabiliscono le regole per una reciproca convivenza. Contatti e regole di convivenza gli apparivano a loro volta determinati dalla dualità del rapporto sessuale. Il che induceva Burroughs a vedere le donne come un «errore essenziale», giungendo alla conclusione che «tutto

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l’universo dualistico» si è evoluto «a partire da questo errore»: l’amicizia non esiste e l’amore è «una frode perpetrata dal mondo femminile». La distanza di Burroughs dal linguaggio non era soltanto una questione di principio. Per sua stessa ammissione, una volta terminato il ciclo di studi presso le scuole superiori, egli non sfiorò i tasti di una macchina da scrivere per molti anni. Malgrado tra i suoi migliori amici ci fosse gente come Allen Ginsberg e Jack Kerouac, non si pensava affatto nei panni dello scrittore né riteneva di avere il talento necessario. «Avevo provato qualche volta, una pagina forse. A rileggerla mi veniva sempre un senso di fatica, di disgusto e avversione per questa forma di attività, proprio come deve provarla un topo di laboratorio quando sceglie il percorso sbagliato e si prende un’aspra ramanzina da un ago nei suoi centri dello scontento... Non volevo sentire niente di letterario». Perché allora? Perché stabilire un contatto più intimo con quel linguaggio che considerava tanto nocivo? Il primo libro, La scimmia sulla schiena, arrivò alle stampe nel 1953, quando Burroughs era ormai prossimo ai quarant’anni. Il soggetto piattamente autobiografico, poi, il suo rapporto con gli stupefacenti, l’eroina su tutti, lascerebbe pensare che il libro nascesse da urgenze non propriamente letterarie. Con il tempo ho imparato che tra le varie conseguenze della tossicomania c’è anche quella di sviluppare una tendenza quasi istintiva al racconto. Questa tendenza ha caratteristiche estremamente precise e facilmente riconoscibili. Il tossico è incline a interpretare l’abuso di determinate sostanze alla stregua di un viaggio per luoghi misteriosi e inesplorati, e come ogni viaggiatore difficilmente resiste alla tentazione di raccontare quanto ha visto e i pericoli che ha corso. È certamente un aspetto presente in tutta l’opera di Burroughs, ma a scatenare in lui una foga affabulatoria fu un

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evento di diversa e ben più tragica natura. È una storia nota, risalente al 1951. In quel periodo il futuro scrittore, oltre che profondamente depresso, era a corto di denaro e pensò di risolvere la questione vendendo la sua pistola, una Star automatica calibro 38. Un amico di nome John Healy conosceva qualcuno che poteva essere interessato all’acquisto e organizzò un incontro tra i due nel suo appartamento. Il compratore non si presentò, ma dal momento che in casa di Healy si stava tenendo un party, Burroughs cominciò a bere pesantemente. Dopo aver mandato giù molti bicchieri, aprì la borsa da viaggio ed estrasse la pistola che avrebbe dovuto vendere. «È arrivato il momento di giocare a Guglielmo Tell», disse alla moglie. «Mettiti un bicchiere sopra la testa». Joan, ubriaca fradicia anche lei, obbedì senza esitare al marito nonostante non avessero mai fatto niente del genere prima di allora. Partì un colpo. Il bicchiere cadde in terra, intatto. Joan rovinò su una sedia con un proiettile conficcato nella fronte. Questo è quanto accadde. O meglio: questo è quanto deve essere probabilmente accaduto. Burroughs non è mai stato veramente esplicito sulla dinamica dell’incidente. Per ovvie ragioni di convenienza, nell’immediatezza dei fatti, negò decisamente la storia di Guglielmo Tell. «Si è trattato di un puro incidente», dichiarò agli inquirenti. «Non ho messo nessun bicchiere in testa a mia moglie. E se lei lo ha fatto, si è trattato di uno scherzo. Non intendevo certo sparare al bicchiere». Nel suo libro d’esordio Burroughs non azzarda la benché minima allusione all’incidente. Soltanto nelle righe finali accenna a una generica separazione dalla moglie che fino a quel momento è stata di fatto assente dal racconto. Sarà lo stesso scrittore, anni dopo, nel 1985, a fornire una spiegazione dello sconcertante atteggiamento. Parlando di Checca, suo secondo romanzo, dirà: «Il libro è motivato e plasmato da un evento che non viene mai menzionato, che anzi è evitato con cura:

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l’uccisione accidentale di mia moglie Joan con un colpo di pistola, avvenuta nel settembre 1951... Sono obbligato a giungere alla terrificante conclusione che senza la morte di Joan io non sarei mai diventato scrittore, e a rendermi conto di quanto questo evento abbia motivato ed espresso la mia scrittura». Burroughs spiega anche cosa gli abbia lasciato in eredità questo evento. Una cosa che, badate bene, non ha niente a che vedere con il senso di colpa o l’ossessione del rimorso. «Vivo sotto la costante minaccia di essere posseduto e un bisogno costante di sfuggire alla possessione, al Controllo... La morte di Joan mi ha messo in contatto con l’invasore, lo Spirito del male, e mi ha trascinato in una battaglia lunga un’intera vita, in cui non ho avuto altra scelta che scrivere la mia via d’uscita». Credo sia opportuno evitare di scavare troppo a fondo nelle parole di Burroughs. Può darsi fosse il suo modo di espiare, ma ne dubito. Probabilmente è più corretto prenderlo alla lettera: il suo modo di ribellarsi alla morte era scrivere una via d’uscita, una fuga dalla parola, da quella cosa che secondo lui ci portiamo dentro come un virus e determina e controlla ogni nostra azione, inducendoci al male. Quanto alla svista di cui dicevo, per molto tempo ho creduto che non avesse pagato alcun prezzo. Ero così attratto dal mito del tossico da non dare troppa importanza alla faccenda del Guglielmo Tell. È stata una svista imperdonabile, scambiare un uxoricidio più o meno accidentale con una sbirciata nella camicia di una ragazzina. E infatti non mi è stata perdonata. Considerato il corso che a un certo punto ha preso la mia esistenza, poteva finire davvero male. Ma ancora una volta l’ho sfangata alla maniera dei figli di Pasolini, da sopravvissuto immerito.

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Nello scorcio di secolo schiacciato tra gli immani conflitti che colorarono di tenebra e sangue il Novecento, Parigi non aveva ancora perduto il carattere bohémien e gitano che la rese a lungo ricettacolo di artisti, scrittori ed esuli d’ogni specie. Al numero 6 di rue Pot-de-Fer, nel quinto arrondissement, a un tiro di schioppo da boulevard Saint-Michel, non distante dalla stazione di place Monge del métro, sorgeva o, per meglio dire, pencolava un alveare consistente di cinque piani e quaranta luride stanze suddivise da sottili tramezzi di legno. In effetti, l’intera via, una strada angusta e miserabile, pullulava di alberghi a zero stelle, costruzioni fatiscenti inclinate l’una verso l’altra come fossero rimaste congelate un attimo prima di crollare. Le stamberghe di rue Pot-de-Fer offrivano ospitalità a un esercito sterminato di cimici e pensionanti di paesi vicini e lontani. La via abbondava inoltre di bistrot a buon mercato, per cui, in special modo il sabato sera, la componente maschile di quella variegata umanità era in buona parte ubriaca e pronta alla rissa per futili motivi, che erano quasi sempre motivi di donne. Non lo si poteva certo definire un

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luogo tranquillo e neppure salubre, ma aveva il pregio di non negare accoglienza a nessuno. Gli accolti, spesso di una povertà senza speranza, andavano e venivano. In molti apparivano come dal nulla, senza manco una valigia al seguito, e sparivano nel giro di qualche settimana. Erano perlopiù muratori, studenti, rigattieri e naturalmente prostitute. Non mancavano tuttavia le anime vaganti, quei cercatori di sé cui apparteneva il giovane inglese che nel 1928 alloggiò al numero 6 di rue Pot-de-Fer. Dobbiamo immaginarcelo con pochi soldi in tasca, questo giovane inglese. Con pochi soldi in tasca ma fermamente intenzionato a diventare scrittore, che è poi la ragione per cui è venuto a Parigi. La topaia che ha scovato nel Quartiere Latino è una conveniente base d’appoggio per chi voglia dedicarsi all’esplorazione di Saint-Germain e Montparnasse nei cui ritrovi pare sia possibile scorgere il grande James Joyce e, un tempo, persino Lenin e Trockij giocare a scacchi. Sebbene non manchi di inoltrarsi per quei dintorni, il nostro amico non si preoccupa affatto di intrecciare relazioni con scrittori affermati né di farsi conoscere nell’ambiente intellettuale. È di gran lunga più interessato ai diseredati che abitano il suo albergo a zero stelle. Li osserva. Considera le loro esistenze che probabilmente non conosceranno mai riscatto. E mentre osserva e considera, scrive. Scrive ostinatamente e prima che l’anno volga al termine ha già partorito un romanzo. Purtroppo non trova editori disposti a pubblicarlo e così, in un impeto di rabbioso sconforto, distrugge il manoscritto. Ma non demorde. Seguita a scrivere e, visto che non riesce a farsi apprezzare come autore di romanzi e storie inventate, si dedica agli sbandati e ai poveri cristi coi quali convive. Scrive di loro e alla fine ne cava un libro che non verrà rispedito al mittente. Si intitola Senza un soldo a Parigi e Londra, e sarà dato alle stampe cinque anni più tardi, nel 1933.

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Il nostro amico, l’ospite dell’hotel a zero stelle al numero 6 di rue Pot-de-Fer, si chiama Eric Arthur Blair. Il mondo dovrà però abituarsi a conoscerlo con un nome diverso, George Orwell. Le ragioni per cui ha scelto di adottare uno pseudonimo non verranno mai chiarite. Vi accenna per la prima volta non appena si profila all’orizzonte la vaga possibilità di trovare un editore disposto a pubblicare il suo romanzo, spiegando che non si sente granché fiero del risultato. A sua sorella Avril dirà persino che tale è la sua vergogna da rendere necessario firmarsi con un nome fittizio. Teme inoltre la reazione dei genitori nell’apprendere quale abietto stile di vita aveva condotto nel suo soggiorno parigino. Avril è però la prima a ritenere che, quantunque perbene e conservatori, i signori Blair non sono tipi da scandalizzarsi, perlomeno non nella misura paventata da Eric. Qualora scavassimo nel passato scopriremmo poi che il nostro amico non la racconta giusta. Da ragazzino è ricorso a un nome falso rispondendo per scherzo a un’inserzione comparsa su un giornale. Usò lo stesso stratagemma in seguito, quando, studente all’Eton College, la più prestigiosa scuola superiore del Regno Unito, si dilettò nella composizione di alcuni pamphlet. E sempre in incognito si è mescolato ai derelitti degli slum parigini e londinesi. Si mormora infine che George Orwell sia uno dei nomi coi quali celava la vera identità nelle sue esplorazioni dei bassifondi, magari persino quello con cui si è registrato presso l’hotel a zero stelle di rue Pot-de-Fer. È più che lecito domandarsi se la scelta del nostro amico attiene a ragioni ben più profonde di una generica riservatezza. Dunque domandiamocelo: quali sono queste ragioni? Un indizio significativo è nascosto in bella evidenza nel modo in cui, da scrittore ormai affermato, rievocherà i tempi andati del soggiorno parigino: «Negli anni della prosperità, quando

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i dollari abbondavano e il cambio del franco era basso, Parigi fu invasa da un tale sciame di artisti, scrittori, studenti, dilettanti, turisti, debosciati e fannulloni di professione quale il mondo non ha probabilmente visto mai. In alcuni quartieri della città i cosiddetti artisti debbono avere superato il numero della popolazione lavoratrice; è stato calcolato infatti che intorno al 1929 si trovassero almeno trentamila pittori a Parigi, in gran parte impostori». Tutto ciò sparirà di lì a breve, spazzato via con la violenza di uno tsunami dal crollo di Wall Street, e forse è proprio il senno del poi che induce Orwell a un sarcasmo tanto accentuato nei confronti degli scapigliati perlopiù americani che affollavano all’epoca le strade della Ville Lumière, integrandosi nel paesaggio urbano alla maniera dei vespasiani di metallo o degli ingressi della metropolitana in stile art nouveau. A cogliere le opportunità offerte dal cambio favorevole non erano però soltanto sedicenti artisti. Nel 1928, in rue Férou, vi abitava Ernest Hemingway, mentre nei pressi di rue de Vaugirard soggiornava Francis Scott Fitzgerald. Per qualche mese pure Henry Miller e sua moglie June trovarono alloggio in città. Ma, come abbiamo visto, il nostro amico non frequentava l’empireo delle lettere. Prediligeva il «popolo comune» che, a suo vedere, «s’era talmente abituato agli artisti, che lesbiche con la voce roca e i pantaloni di fustagno e giovanotti in costume greco o medievale potevano passeggiare per le strade senza venire degnati di uno sguardo». A quel popolo, però, egli non apparteneva affatto. I suoi genitori facevano parte di una «piccola borghesia medio-elevata» o «nobiltà senza terra», e non lo erano nemmeno i personaggi che popolano il suo albergo a zero stelle. «La povertà è l’argomento di cui mi occupo, e il mio primo contatto lo ebbi in questo slum», scrive a proposito di rue Pot-de-Fer. Ma scrivendo ciò mente. Il suo occhio quasi mai

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si posa sul popolo comune, su rappresentanti tipici della classe operaia francese, perché finisce sempre per concentrarsi su espatriati, stranieri, vagabondi e persone che per una ragione o per l’altra trascendono la norma. Non di rado questi eccentrici sono borghesi decaduti, persone costrette a scendere negli inferi dell’indigenza e che vivono tra i veri poveri come infiltrati. Orwell sarebbe potuto rientrare proprio in questa categoria non fosse per un particolare tutt’altro che irrilevante. La caduta nei bassifondi non gli fu imposta da circostanze avverse. Fu la conseguenza di una decisione: dimettersi dalla Polizia imperiale per diventare scrittore. Se nel bollare di impostura la fiumana di artisti che si riversavano sulle rive della Senna egli ostenta uno sprezzo troppo esagerato è perché in fondo è a sé stesso che parla. Del resto, Orwell è il primo a confessare che quando si vestiva da vagabondo non osava parlare con nessuno per evitare che si notasse l’incongruenza tra gli abiti e il perfetto accento britannico. Il nostro amico era dunque un impostore. L’esigenza di non ferire la sensibilità dei genitori non era che una scusa di facciata. La scelta dello pseudonimo rispondeva a un’inclinazione profonda, un’attitudine insopprimibile alla doppiezza che lo portò a trasformarsi, a diventare una persona diversa da quella che era. Per qualche tempo George Orwell rimase un nome consegnato alla sua attività di romanziere, ma a poco a poco si insinuò anche nelle sfere più private. I vecchi amici e i familiari seguitarono a chiamarlo Eric, ma alle nuove conoscenze si presentava come George, e come George cominciò a firmare lettere. Il nuovo nome non scalzò mai del tutto il vecchio, ma si impose al punto di generare un’identità immaginaria in cui il nostro amico si calò con tutte le scarpe, un po’ alla maniera di un dottor Jekyll che scopre un Mr Hyde e ne viene sopraffatto.

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La cosa potrà forse sconcertare, ma non è poi così assurda. Io stesso cominciai a intravederne i contorni quando, al momento di mandare in stampa il mio secondo romanzo, l’editore mi prese da parte. Disse che doveva parlarmi di una cosa importante. «Riguarda il libro», aggiunse. «Il libro?», ripetei io. Le bozze erano state corrette e licenziate; ogni frase era stata passata al setaccio, avevamo già scelto l’immagine per la copertina, e vari altri dettagli erano stati vagliati e sviscerati. Cosa c’era ancora da discutere? Aveva forse cambiato idea? Non intendeva più pubblicarlo? Lo guardai insospettito. La sua faccia grave, da funerale quasi, non prometteva nulla di buono. «Non si tratta del libro, in effetti, ma di te», precisò l’editore. «Di me?». «Sì, pensaci bene. Sei proprio sicuro?». Alludeva al mio nome. O meglio: al nome che avevo deciso di darmi in quanto scrittore. A suo modo di vedere, ero ancora in tempo per tornare sui miei passi. La mia opera prima era uscita con un piccolissimo editore, passando praticamente inosservata. In un certo senso, era come non fosse stata pubblicata e dunque potevo ancora pensarmi come una specie di esordiente, il che mi concedeva la possibilità di un ripensamento. «Questo pseudonimo che sei andato a pescare potrebbe causarti dei problemi», insisté l’editore con vago tono di minaccia, manco gli avessi fatto chissà quale torto. Già altri avevano tentato di dissuadermi. La mia fidanzata di nobile lignaggio, per esempio, non aveva apprezzato affatto l’irragionevole intendimento di firmarmi in incognito. Scrittori e artisti erano tollerati, se non addirittura ben accetti, negli schizzinosi salotti del bel mondo. Se davvero fossi riuscito a diventare un autore pubblicato e, chissà, magari finanche famoso, lei avrebbe finalmente potuto presentarmi in società senza imbarazzi. Ecco invece uscirmene con un ghiribizzo

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fatto apposta per complicarle la vita. Già, perché adesso, nel presentarmi, si sarebbe vista costretta a spiegare ogni volta che sebbene il nome sulla copertina di quel libro fosse diverso ero comunque io ad averlo scritto. Dopodiché avrebbe dovuto spiegare pure la ragione per cui un romanziere rinuncia alla propria identità. La mia fidanzata già si immaginava le facce perplesse degli interlocutori. Nessun argomento sarebbe mai stato abbastanza solido da sgombrare il campo dallo sbigottimento. Non aveva tutti i torti. Le persone sono quasi sempre sospettose nei confronti di chi si presenta con un nome diverso da quello registrato all’anagrafe. Nel consesso del viver sociale, una simile reazione è comprensibile giacché frequentemente coloro i quali assumono una nuova identità nascondono qualcosa, un passato losco o progetti delittuosi. Ma c’è qualcosa di più sottile e profondo del mero timore di concedere confidenza a un pericoloso latitante. Darsi un nome nuovo viene percepito come una sorta di affronto, un’offesa, il rinnegamento di una consuetudine millenaria, tanto è vero che in termini strettamente legali dare al prossimo false generalità può costituire di per sé un reato. Poco importa che lo si faccia per puro capriccio, per scopi che non recano alcun danno al prossimo. È comunque un imbroglio, un attentato alla buona fede altrui. Del resto, chi non ha nulla di cui vergognarsi non ha certo bisogno di sotterfugi. Dunque: che mai mi era saltato in testa? di cosa mi vergognavo? Domande di questo tenore, seppure più velatamente formulate, mi sono state rivolte decine e decine di volte. Senza contare poi che il suono del mio nom de plume aveva la fastidiosa caratteristica di ricalcare il nome di uno scrittore americano famoso per non essere mai apparso in pubblico. Se ne poteva dedurre che volessi usurparne il prestigio ovve-

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ro accoccolarmi sotto la sua ala protettrice ovvero emularlo, dichiarandomi apertamente suo epigono. Nulla di tutto ciò rispecchiava i miei intenti. Mi ero dato Pincio per cognome perché così si chiamava il colle di Villa Borghese, il parco romano dove andavo a pattinare da piccolo, e perché quella stessa parola, pincio, era un tempo usata quale scollacciato sinonimo del sesso maschile. Di Tommaso, invece, mi piaceva che fosse appartenuto all’apostolo scettico, il quale pare venisse chiamato anche Didimo – vale a dire «fratello gemello» in greco – per via di una sua fortissima somiglianza di fattezze col Messia; somiglianza che, stando all’interpretazione che alcuni paranoici hanno dato dei noti accadimenti riferiti nei Vangeli, Tommaso avrebbe addirittura sfruttato all’indomani della crocefissione, apparendo agli altri apostoli affinché credessero che il Messia era davvero risorto. Insomma, era la suggestione di una sconcia impostura ad attrarmi verso quel nome, l’idea che, tra le righe, come in una sorta di rebus, vi si ponesse «un doppio del cazzo». Naturalmente, non mi sfuggiva che ognuno di questi rimandi sarebbe per certo rimasto oscurato dal tratto più marcato, l’omofonia col nome di un noto scrittore. L’assonanza implicava tuttavia un’interessante forma di sempliciotta millanteria. Faceva il paio coi sensi riposti nel nom de plume. A nessuno sarebbe sfuggito che si trattava di un falso, d’un imbroglio, d’una presa in giro, di un doppio del cazzo, pur ignorando la storia di Tommaso e cosa significava pincio nei tempi andati. Per dire le cose fino in fondo, non lo pensavo nemmeno come un vero pseudonimo, ma piuttosto come un soprannome, un nomignolo, e sul momento non gli diedi particolare importanza. Era più che altro un gioco irridente, un modo come un altro di attentare al pomposo feticcio dell’identità. Non avevo valutato che i nomi, inclusi quelli ridicoli, penetra-

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no fino all’osso, al cuore della persona, al punto che non te li scrolli più di dosso, alla maniera di una nomea. Un giorno, aggirandomi tra gli scaffali di un supermercato, udii una madre chiamare il proprio bambino. «Tommaso, vieni subito qui», disse con spazientita perentorietà. Ci volle qualche istante prima che mi rendessi conto di quanto davvero accadeva. Nel frattempo la parte più profonda di me ebbe modo di farmi sobbalzare con violenza ingiustificata. Fu in seguito a quella reazione tanto istintiva che compresi di essere diventato l’irridente soprannome che mi ero affibbiato. Col passare degli anni la cosa si è talmente incancrenita che l’arrivo delle bollette di luce e telefono determina puntualmente una sorta di spaesamento. Leggere il mio nome anagrafico stampato sulla busta è come stentare a riconoscere un vecchio amico incontrato per caso. Ecco allora un interessante quesito: può un nome nuovo arrivare a tanto, attaccarsi a un individuo al punto di trasformarlo in un’altra persona? Può. «Avrai un nome nuovo che il Signore stesso ti darà», è scritto nella Bibbia (Isaia 62, 2). «Nelle mani del Signore diventerai una corona splendida, un diadema regale. Il tuo nome non sarà più “Città abbandonata”, il tuo paese non si chiamerà più “Terra desolata”. Invece il tuo nome sarà “Gioia del Signore” e la tua terra si chiamerà “Sposa felice”. Infatti sarai veramente la delizia del Signore, e la tua terra avrà in lui uno sposo. Come un giovane sposa una ragazza, così il tuo creatore sposerà te. Come l’uomo gioisce per la sua sposa, così il tuo Dio esulterà per te». È Gerusalemme l’oggetto del brano. Tuttavia, quando si tratta di nomi, tra luoghi e persone non corre grande differenza. Acquisire un nome nuovo significa cambiare il corso del proprio destino. All’apparenza è uccidere il vecchio per rinascere in altri panni, ma è una maniera molto occidentale e cartesiana di risolvere il problema. Siamo talmente imbevuti

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di individualismo che nulla ci sembra più naturale del pensarci essenziali a noi stessi, irrinunciabili perché unici come i fiocchi di neve. Quante volte ci capita di rivangare quella celebre massima, «nessun uomo è un’isola»? È però un monito vacuo; pur lasciandoci contaminare dal prossimo, pur non concependoci come mondi completi e autosufficienti, ci definiamo infatti con un nome e uno soltanto, certi di essere un io, certi che in quel pronome pidocchioso si definisca un destino. Darsi un nome nuovo è un atto di ribellione. Significa rivoltarsi contro quel minimo denominatore che ci assegna un posto nella società, rendendoci riconoscibili; individuabili prima ancora che veri individui. Nella maggior parte dei casi al danno si aggiunge la beffa, perché il posto che in virtù del nome ci viene assegnato è non di rado un posto anonimo e oscuro. Questo nostro miserevole tempio della persona, l’io, si riduce così a una catapecchia angusta dove ci si muove a fatica e ogni aspirazione viene soffocata. Non è un caso che molti scrittori facciano uso di pseudonimi o ricorrano a identità fittizie o conducano esistenze da reclusi o si rivelino allergici agli obiettivi delle macchine fotografiche. La scrittura, anche quella più retriva e reazionaria, è un atto sedizioso. Lo è perché ogni qualvolta una persona si pone al cospetto di un foglio o di una tastiera con il proposito di raccontare è come se dicesse: «Io non sono un io. Non sono un pidocchioso mattoncino dell’ordine costituito. Non sono un individuo individuabile». In molti dubiteranno, mi rendo conto, e avranno le loro ragioni, giacché molti sono gli scrittori che non fanno che parlare di sé, di ciò che hanno fatto o credono di fare, di quel che sentono o credono di sentire, e il tutto non per svaporare la propria persona bensì per metterla meglio a fuoco, renderla ancor più riconoscibile ai contemporanei e, hai visto mai,

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persino ai posteri. Nondimeno la scrittura ha una peculiarità che la immunizza dalle più sfrenate forme di egotismo: l’inconsistenza. Non ha corpo né materia. Quando leggiamo un libro quel che in effetti vediamo e sentiamo – una serie di caratteri tipografici stampati su una risma di carta, il ronzio del frigorifero che giunge dalla stanza accanto – è del tutto accidentale. Proviamo emozioni, è vero, ma queste emozioni non sono stimolate dai sensi, bensì dalla sorprendente capacità della nostra mente di estrarre immagini, colori e profumi dalle parole che leggiamo. E qual è l’effettiva consistenza di quelle parole? E soprattutto: cosa ne è dello scrittore mentre leggiamo le sue parole? Che domanda idiota, direte. Se ne starà per i fatti suoi, magari all’altro capo del mondo, fregandosene di noi, oppure, nel caso si tratti di un Kafka o di un Dostoevskij, riposerà in un cimitero, i resti tornati polvere tra la polvere come si conviene agli organismi un tempo viventi, e ovunque si trovi la sua anima, ammesso si trovi in un qualche posto, avrà probabilmente cose più urgenti di noi lettori cui pensare. Ma proprio qui sta il punto. Ovunque si trovi, morto o vivo che sia, quel Kafka o Dostoevskij è lì con noi. Meglio: dentro di noi. L’eco ovattata delle sue parole si propaga nella scatola cranica e a noi pare di udirne il suono. Ovviamente non lo udiamo nel senso stretto del termine, giacché il suono è solo nella nostra testa. Tuttavia qualcosa udiamo. Udiamo una sorta di rumore muto, determinato dal modo in cui uno scrittore tende a mettere insieme le parole, a sceglierne alcune anziché altre. Udiamo il suo modo di vedere e sentire, il rumore che aveva nella testa, la risacca dei suoi pensieri. Non importa quanto ci si affanni a fare di noi stessi un monumento di parole, scrivendo diventiamo quel rumore muto, un’entità impalpabile ma presente che vaga di scatola cranica in scatola cranica, rimbombando nel cervello della gente.

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Tra il rumore muto impresso nei libri di Kafka e l’individuo in carne e ossa che Kafka era in vita ci corre un abisso che nessun nome potrà mai colmare. Non c’è scampo, scrivendo si diventa fantasmi. La persona dello scrittore, spossessata di qualunque consistenza fisica, si coagula nell’incorporeità di una voce muta che vaga per il mondo alla maniera di uno spettro, e sebbene possa ricordare il carattere di un io pidocchioso che si crede unico e irrinunciabile come un fiocco di neve, la voce dello scrittore è di fatto un vuoto, una cavità morta che prende vita soltanto nei pensieri altrui, nella mente di chi leggerà, assumendo pertanto forme sempre diverse e talvolta persino in contrasto tra loro, forme che possono significare al contempo speranza e terrore, consolazione e angoscia. Quel che ho appreso da George Orwell, il motivo per cui gli sarò sempre immensamente grato, non è però il lato più luminoso e nobile della faccenda ovverosia lo spogliarsi della propria consistenza fisica per diventare voce, bensì quello più oscuro e abietto, vale a dire l’impostura che il diventare scrittori fatalmente comporta. La doppiezza, tratto molto diffuso nell’umana specie, era particolarmente sviluppata nel nostro amico e coloro che ebbero il privilegio di conoscerlo da vicino non mancarono di notarlo. C’è chi lo ha definito un «adorabile egoista», chi un uomo che fingeva di essere qualcosa che non era, chi uno speciale tipo di ribelle ovvero un uomo «per più di metà innamorato di ciò contro cui si ribellava». Ad ascoltare lui, si era dato una missione: impedire che il linguaggio venisse corrotto dalle forze avverse alla libertà, quelle forze che hanno per nemiche anche verità e realtà. Ripeteva che «la buona prosa è come il vetro di una finestra», ma nella vita di tutti i giorni non si comportava con altrettanta trasparenza. Era uno specialista dell’inganno. Evitava di far incontrare gli amici così da mostrarsi a ognuno con una faccia diversa. Teneva la famiglia all’oscuro di ciò che faceva. Si ser-

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viva del riserbo per celare i veri sentimenti. Era spesso sleale nelle relazioni sessuali. A un certo punto si dedicò anche alla discutibile arte della delazione, redigendo per conto del Foreign Office una chiacchierata lista di giornalisti e scrittori a suo avviso «cripto-comunisti». Prima di trarre conclusioni affrettate sulle deprecabili inclinazioni caratteriali del nostro amico è bene delineare il quadro generale. L’uomo che diventerà George Orwell nacque agli inizi del secolo scorso, per l’esattezza il 25 giugno 1903 a Motihari, città dell’India settentrionale dove il padre prestava servizio presso il British Opium Department, il cui compito non era quello di arrestare i coltivatori di oppio, bensì di supervisionare i controlli di qualità del prodotto, visto che stiamo parlando di un’epoca in cui gli inglesi si servivano di questa coltura per scopi non esattamente benefici. Lo stipendio del genitore era inadeguato a mantenere un livello di vita consono alle abitudini borghesi cui era però impensabile rinunciare. Il piccolo futuro Orwell crebbe così in un contesto a due facce. Una era quella dei continui sacrifici cui la famiglia si assoggettava per salvare le apparenze. L’altra era il radicato convincimento di essere una spanna più sopra delle classi lavoratrici e fu proprio in virtù di questo convincimento che il giovane Orwell fu sempre dissuaso dall’entrare in contatto con coetanei di estrazione inferiore e obbligato a troncare più di un’amicizia. Compiuti otto anni, il ragazzino fu iscritto al St Cyprian, un collegio che avrebbe dovuto aprirgli le porte di scuole prestigiose quali Eton, disposte ad accettare allievi non benestanti purché particolarmente dotati. Qui si vede costretto a subire il disprezzo che i genitori riservavano alla classe operaia. Tra punizioni corporali e insegnanti sadici, la snobistica denigrazione dei compagni più ricchi e aristocratici lo condannò a un senso di desolata solitudine e impotenza: «Mi sentivo circondato non soltanto da un mondo ostile, ma anche da un

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mondo di bene e male dove le regole erano tali che non era effettivamente possibile per me osservarle... Secondo quella legge io ero dannato. Non avevo soldi, ero debole, ero brutto, ero impopolare, avevo una tosse cronica, puzzavo... Il convincimento di non poter avere successo nella vita era in me così radicato da influenzare le mie azioni anche dopo che divenni adulto. Fino circa ai trent’anni tutti i miei progetti erano basati non soltanto sul presupposto che ogni iniziativa importante sarebbe stata un insuccesso, ma anche che mi potevo aspettare al massimo un paio d’anni di vita». In un modo o nell’altro ne venne fuori e una volta terminati gli studi seguì le orme paterne arruolandosi nella Polizia imperiale. Fu mandato in Birmania dove fece i conti con nuovi mostri. All’insicurezza determinata dal sentirsi sempre fuori posto, non abbastanza ricco per stare tra i ricchi né troppo povero per considerarsi un povero, si aggiunse il senso di colpa per essere complice di un sistema cinico e dispotico che opprimeva con ingiustizie e violenze popolazioni inermi. Scoprì quanto detestabile fosse «mettere in prigione persone per avere fatto cose che lui stesso avrebbe fatto trovandosi nelle loro circostanze» e giunse alla conclusione che «gli oppressi hanno sempre ragione e gli oppressori sono sempre nel torto». Si dimise dalla Polizia imperiale per dedicarsi a una nuova attività: «scendere in mezzo agli oppressi, essere uno di loro e schierarmi al loro fianco contro i tiranni». In due parole, diventare scrittore. Quando il futuro George Orwell tornò dall’Oriente, i signori Blair non soltanto si trovarono davanti un uomo dall’aspetto trasandato che buttava la cenere in terra come avesse ancora a disposizione schiere di servitori pronti a spazzare. Si trovarono pure costretti a inorridire alla prospettiva che Eric, il loro unico figlio maschio, rinunciasse a un impiego sicuro e di tutto rispetto per un’attività astratta e notoriamente poco

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remunerativa come la scrittura. Stando all’opinione di un’amica di famiglia non era nemmeno dotato: «Oh sì, scriveva. Cercava di scrivere, per meglio dire. Non gli veniva facile. In quel periodo non credo che nessuno dei suoi amici pensasse che sarebbe mai riuscito a scrivere bene. Anzi, penso che fosse singolarmente negato. Non cercavamo di scoraggiarlo, ma ridevamo fino alle lacrime di fronte ad alcuni testi che ci mostrava... Per noi, allora, era un giovanotto un po’ svitato che aveva buttato via una buona carriera ed era abbastanza vanitoso da pensare di poter diventare scrittore». Non si tratta certo del giudizio di un esperto, ma è comunque vero che la determinazione di riuscire nel proprio intento a dispetto di qualunque forza ostile, fosse essa incarnata dal censo o dalla mancanza di un naturale talento o dalla semplice contrarietà del prossimo, costituì un elemento importante per non dire centrale. L’apprendistato durò circa cinque anni e, quando finalmente raggiunse il suo obiettivo, trovare un editore disposto a pubblicare un suo romanzo fu come avere la meglio su ciò che fino a quel momento lo aveva oppresso. Darsi un nome nuovo fu come dire all’oppressore: «Ho vinto alla fine. Sono diventato quel che volevo io e non l’Eric Arthur Blair in cui si è cercato di ingabbiarmi». Come scrittore George Orwell tenne fede all’impegno che aveva preso, scendere tra gli oppressi e schierarsi dalla loro parte. Il primo passo, come abbiamo visto, fu quello di mischiarsi ai poveri e ai decaduti prendendo alloggio in alberghi a zero stelle. In seguito, nell’inverno 1936, si spinse ben oltre. Partì per il nord del paese e viaggiò da vagabondo, come ai tempi del soggiorno parigino, spostandosi a piedi e in autobus, dormendo dove capitava, in locande a buon mercato e talvolta anche in dormitori pubblici. Visitò alcune delle rovine più desolate della prima rivoluzione industriale. Arrivò a Manchester. Conobbe un sindacalista, un certo Meade, e sua

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moglie. I Meade gli suggerirono di spingersi fino a Wigan Pier dove la crisi aveva prodotto disastri apocalittici e i tassi di disoccupazione, tanto nei cotonifici che nelle miniere di carbone, erano spaventosi. Ci andò. E il salto dai bassifondi urbani agli inferi delle miniere non fece che rimarcare l’idea di un mondo sotterraneo e derelitto nel quale esiliarsi per espiare le proprie colpe, il passato di Eric Arthur Blair. La strada fino a Wigan Pier, prima ancora di essere una testimonianza sulle miserevoli condizioni degli operai, è un libro autobiografico, il racconto di come un borghese puritano riscatta sé stesso e le sue origini toccando la povertà con mano. Non è una mia personale interpretazione: è lo stesso scrittore ad affermare che la spiegazione di come abbia maturato un determinato atteggiamento nei confronti del classismo «implica la necessità di scrivere brani autobiografici». Quella per Wigan Pier è dunque la strada che porta lo scrittore a essere sempre più George Orwell e sempre meno Eric Arthur Blair. Ai minatori dell’Inghilterra settentrionale succede il momento della Spagna, della Catalogna. Scoppiata la guerra civile, Orwell si arruola nelle milizie del Partido Obrero de Unificación Marxista per combattere contro il dittatore Francisco Franco. Sarà il momento culminante del suo cammino di redenzione. Un colpo sparato da un cecchino lo raggiungerà alla gola, mentre stenti e notti all’addiaccio gli regaleranno una lesione tubercolare. Le vere stimmate saranno tuttavia quelle impresse dalla caccia a oppositori e dissidenti di sinistra cui assiste rientrando a Barcellona. Le persecuzioni appoggiate dal governo di Stalin gli mostreranno come la scusa della resistenza al fascismo possa servire a imporre un fascismo di fatto e faranno di lui un socialista senza partito o, per usare le sue parole, un fautore del «socialismo democratico come lo intendo io». Tralasciamo di addentrarci nel territorio specificamente politico e fermiamoci all’uomo che dice «come lo intendo

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io». L’esperienza spagnola fece capire a Orwell da che parte stare. Il guaio o la fortuna, se vogliamo, è che questo prendere parte non si traduceva con l’aderire a un movimento bensì con l’esatto opposto. «Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia. Quando mi accingo a scrivere un libro non mi dico: “Voglio produrre un’opera d’arte”. Lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio attirare l’attenzione, il mio pensiero è quello di farmi ascoltare». L’intento è certamente nobile, ma la preponderanza dell’io rappresenta un rischio non da poco. Orwell pretende di essere ascoltato in nome del senso d’ingiustizia che lo ha spinto a prendere parte. Nello stabilire ciò che è bene e ciò che è male, chi è nella ragione e chi nel torto, non sarebbe forse però più opportuno appellarsi a qualcosa di più oggettivo del personale senso di ingiustizia? Il nostro amico parrebbe non porsi il problema. Si ritiene dunque infallibile? E su cosa fonderebbe la sua certezza di non sbagliare, di schierarsi nel giusto, ammesso che si tratti di certezza? Abbiamo già visto quanto contraddittoria, ambigua e piena di lati oscuri fosse la sua personalità. È stato accusato di nutrire sentimenti antisemiti, omofobi e persino sessisti. Le donne che hanno avuto rapporti con lui gli hanno spesso rimproverato un certo sadismo e una scarsa considerazione per l’altro sesso. Si prenda, per esempio, l’interessante ritratto che ne fece una sua conoscente, Mabel Fierze: «In tema di ragazze, in effetti egli mi disse una volta che, fra tutte quelle che aveva conosciuto prima di incontrare sua moglie, la preferita era una sgualdrinella adescata in un caffè di Parigi. Era bella, con una figura da ragazzo, i capelli tagliati alla paggio e desiderabile sotto ogni punto di vista. In ogni modo, ebbe una relazione con questa ragazza per qualche tempo, finché un giorno tornò nella sua camera e questo bel soggetto se n’era

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andato con tutto quello che lui possedeva. Il suo bagaglio, i suoi soldi, tutto». La verità è che Orwell non era così cieco da non vedere le sue inclinazioni più oscure, i suoi atteggiamenti meno commendevoli. Era pienamente consapevole che, a dispetto dei tanti sforzi e delle molte espiazioni, l’opera di riscatto non era riuscita del tutto. Era ancora un essere umano, coi suoi limiti e le sue possibili abiezioni. In genere si tende a spiegare 1984, il suo romanzo più letto, quello che lo ha consegnato alla gloria postuma, come la descrizione di un mondo dove il male del totalitarismo ha avuto la meglio e il potere assoluto del governo viene mantenuto con la forza, distorcendo la verità, ricorrendo alla delazione, obnubilando il popolo. E non si può certo negare che tutte queste cose costituiscano un motivo dominante. È però possibile leggere quel libro anche da una prospettiva diversa, ovverosia come la storia di un uomo, Winston Smith, che grazie all’amore trova il coraggio di ribellarsi. Quest’uomo, proprio come George Orwell, crede di giungere a una decisione definitiva, decide di schierarsi dalla parte di ciò che lui crede giusto e di opporsi a colui che considera il male oppressore, il famigerato Grande Fratello. Il finale è però tristissimo, perché Winston Smith tradisce sé stesso e la ragazza che crede di amare, la lasciva Julia del Reparto Finzione. Non si può di sicuro negare che il Grande Fratello e il suo sistema dispotico rappresentino un’entità più che sinistra, così come va riconosciuto che Winston Smith ripudia sé stesso e l’amata perché sottoposto a tortura nel cosiddetto Ministero dell’Amore. Resta però il tradimento. Winston Smith avrebbe potuto sopportare il dolore, lasciarsi morire, tenere duro, diventare un eroe, come molte persone reali hanno fatto nel corso della Storia. Perché mai Orwell ci costringe alla vista

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mortificante di un uomo che nel momento decisivo si dimostra un piccolo uomo? Quando scrisse 1984 il nostro amico era ormai giunto al capolinea. Di lì a poco, alle prime ore dell’alba del 21 gennaio 1950, sarebbe morto, solo, nel suo letto d’ospedale per il cedimento di un’arteria polmonare. Non è quindi escluso che alla pessimistica visione del romanzo possa aver contribuito l’aggravarsi delle condizioni di salute. Io preferisco tuttavia pensare che il mancato riscatto di Winston Smith sia dovuto a quel che lo scrittore sapeva della natura umana e, in modo speciale, di sé stesso. Se lui per primo, nonostante la sua ostentata integrità e le sue discese nei bassifondi e le sue battaglie in nome della verità, aveva ingannato e tradito il prossimo, perché mai avrebbe dovuto immaginare un eroe che si comportasse diversamente? Perché mai confidare che un proprio simile, qualora messo alle strette, si rifiutasse di sacrificare gli affetti e i principî più irrinunciabili pur di continuare a essere un obbediente e stolido servo del sistema? Nel Reparto Finzione del Ministero della Verità, dove lavora Julia, sembrerebbero esserci macchine concepite per scrivere romanzi. Considerato il mondo di 1984, un mondo dove la verità è menzogna e le persone sono addestrate al bipensiero ovvero ad accettare un’affermazione come vera e falsa al contempo, è lecito ipotizzare che i romanzi prodotti in quel Ministero siano della peggior specie, la classica spazzatura per cui non c’è storia d’amore che non sia coronata da un lieto fine. Le fasi iniziali della storia d’amore tra Julia e Smith si muovono proprio sulla falsariga di quei romanzetti rosa. Tutto lascerebbe pensare che la coppia possa farcela in qualche modo. Eppure, quando il finale si rivela più cupo di quanto avremmo mai immaginato, per qualche strana ragione, non restiamo sorpresi. Questo essere in fondo preparati all’assen-

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za di un lieto fine, al tradimento, è forse l’aspetto più crudele di 1984 perché mette noi lettori sullo stesso piano di Julia e Smith, i quali, dopo essersi traditi a vicenda, smettono di amarsi e tornano a «bipensare» proprio come prima, accettando l’inaccettabile come fosse la cosa più normale di questo mondo. C’è poi un altro importante indizio. Nessuno lo ha mai notato forse perché la tendenza è quella di leggere 1984 in chiave perlopiù politica. Nelle primissime righe del romanzo ci viene offerta un’accurata descrizione dell’opprimente figura del Grande Fratello, «un uomo di circa quarantacinque anni, con folti baffi neri e lineamenti severi ma belli». Sono tratti pacificamente afferibili al dittatore che all’epoca andava per la maggiore e che Orwell tanto odiava, Stalin. Un’alternativa credibile potrebbe essere Adolf Hitler, che però era già passato a miglior vita con gran sollievo dell’umanità tutta. Ma cosa ne direste di Orwell stesso? Anche lui aveva un paio di baffi e lineamenti severi ma belli, forse ancora più severi di Stalin. Ma soprattutto il nostro amico scrittore compì quarantacinque anni proprio mentre portava a termine il suo romanzo. Stalin, invece, di anni ne aveva ormai settanta. E se diamo per scontato che il titolo sia l’inversione del 1948, perché mai non dovremmo considerare anche il Grande Fratello alla stregua di uno specchio? Già. Resta solo da capire perché Orwell abbia deciso di associare sé stesso al male assoluto, perché certo non bastano i suoi lati oscuri e le sue umane meschinità a fare di lui un Grande Fratello. Ripensiamo allora all’amara conclusione del romanzo. Nel modo in cui Winston Smith giunge a rinnegare il suo amore c’è qualcosa che trascende i carnefici. Si ha come l’impressione che questo piccolo uomo non aspetti altro che una piccola scusa per soffocare il lumicino di dignità e verità che per un breve tratto gli ha rischiarato l’animo. Pare non

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voglia altro che morire. Morire in quanto persona, individuo. Nell’anima cioè. Presentandoci la triste parabola di Winston Smith come uno specchio è come se ci dicesse: «Vi sto raccontando questa storia, vi sto facendo la morale, ma io non sono meglio della storia che vi ho raccontato. Perché il tradimento – la voglia di tradire, per essere più precisi – è dentro di me, così come è dentro di voi». Nessuno di noi ne è immune, ma ognuno di noi può ribellarsi. Ribellarsi non tanto al dittatore, a un sistema che ci vuole sottomessi, quanto a noi stessi, alla tentazione di sopprimere i nostri slanci migliori e più vitali. Ribellarsi alla morte biologica non ci è concesso, e non è nemmeno detto che sia un male. Ma ribellarsi alla morte interiore invece si può. Non so se è una verità grande o piccola. So che è la più importante che ho imparato finora, vagando per il mondo e per le cose, soggiornando nelle stanze dei miei alberghi preferiti. Stanze dalle pareti lerce e sottili come carta, dove si dorme cullati dai rumori della stanza accanto: scrosci di pisciate, lamenti sconnessi di ubriachi, gemiti di sesso mercenario. Stanze dove è possibile incontrare ospiti come il caro amico della 404, George Orwell, e i non meno cari amici che abbiamo conosciuto salendo dal primo al quarto piano. E quand’anche non fosse chissà quale conquista – questo mio ribellarsi alla morte – in esso è contenuto un senso, una ragione per proseguire il cammino, un poco di quell’amore che muove il sole e le altre stelle.

D’ALTRONDE SONO SEMPRE GLI ALTRI CHE MUOIONO (un breve epilogo in forma d’epitaffio)

Alla fine, pur seguitando a scrivere, sono tornato a dipingere. I sogni di quando ero ragazzo non c’entrano. È che il fatto di passare ore immobile, costretto a una sedia, accumulando parole su fogli di carta, cercando di far combaciare fatti che non sono mai accaduti o che non sono accaduti nel modo in cui li si vuol far combaciare, entrando nella testa di altre persone che spesso manco esistono, ha qualcosa di innaturale. Scrittori non si nasce, non è possibile. In qualche momento della vita, magari anche in tenera età, si contrae questa malattia e, siccome il morbo è incurabile, non se ne può più fare a meno: si scrive ogni giorno qualcosa, foss’anche una parola soltanto, oppure si pensa a ciò che si vuole scrivere o si legge ciò che hanno scritto gli altri. Ho compreso quanto grave fosse il mio male quando mi sono reso conto che la prima cosa che faccio al mattino, appena alzato, è accendere il computer. L’ultima, prima di coricarmi, è spegnerlo. Naturalmente non sto tutto il giorno davanti a questa strana macchina. Capita che mi alzi dalla sedia per espletare funzioni corporali, per nutrirmi, per bere un sorso d’acqua. Capita addirittura che esca di casa per fare delle commissioni o passeggiare o andare in piscina. Ma lei, la macchina è sempre accesa, si sveglia e si addormenta con me. Me ne sono reso conto quando erano ormai anni che la routine

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andava avanti. Ho pensato allora che fosse salutare avere in casa un altro rettangolo sul quale posare lo sguardo, perciò sono entrato in un negozio di belle arti e ho acquistato un cavalletto. Prima, quando mi incagliavo nella scrittura o mi rendevo conto che mi lacrimavano gli occhi o avvertivo qualche dolore dovuto alle mie cattive abitudini posturali, il massimo che potevo fare era andare in bagno. Ora vado al cavalletto e riprendo il dipinto che ho lasciato in sospeso. Mischio qualche colore. Stendo una velatura. È un vero sollievo, anche perché la consapevolezza di non essere un grande pittore non è più una fonte di angustia intollerabile. Talvolta mi viene persino da sorridere al pensiero di quanto possano essere pedanti, accademici e di cattivo gusto i ritratti che mi piace dipingere. Mi sono talmente pacificato con la mia mediocrità d’artista che non escludo la possibilità di esporli al pubblico ludibrio, questi miei dipinti pedanti. Del resto, un fugace ritorno sul palcoscenico dell’arte l’ho già fatto. Tempo fa, nel marzo 2006, un noto gallerista d’avanguardia mi telefonò per parlarmi di un’idea che gli era venuta. Non rammento con quali parole la illustrò, ma il succo era: «Hai già in mente il tuo epitaffio, la tua frase finale, un pensiero lapidario da consegnare a chi verrà a visitare la tua tomba?». «Può darsi di sì», dissi. «Perché me lo chiedi?». «Perché vorrei invitare un gruppo di amici a proporre il proprio epitaffio nella mia galleria. Ogni sera uno degli invitati verrà chiamato a scrivere su una parete con un pezzo di carbone le sue scarnificate, ponderate parole. Ogni mattina il muro verrà mondato, ridipinto di bianco, perché ogni sera sia possibile ripetere il rito con un nuovo invitato. Così per un mese intero: una scritta lapidaria a sera. La rassegna si intitolerà D’altronde sono sempre gli altri che muoiono: la frase che sigla la lapide di Marcel Duchamp. Mi chiedevo se volevi essere della partita». Conoscevo Fabio Sargentini da anni, in pratica da sempre, da quando avevo iniziato a bazzicare la scena dell’arte contemporanea. Era un

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personaggio leggendario nel nostro mondo. Nelle sue gallerie romane era cresciuta gente come Pino Pascali, Jannis Kounellis, Gino De Dominicis, Luigi Ontani. Era un figlio d’arte. Da suo padre aveva ereditato il piacere del mecenatismo, ma coltivava – non senza ragione – anche una più personale inclinazione per il teatro, per la performance. Era solito aggirarsi per le stanze dell’Attico – così si chiamava la sua galleria in via del Paradiso, a due passi da Campo de’ Fiori – con movenze studiate, da ballerino. In mano aveva quasi sempre un fiore che di quando in quando accostava al naso. Camminava a passo lento, il torso dritto come un fuso. Facendosi incontro per salutarmi mi diceva sempre le stesse parole, scandendole alla maniera solenne degli attori: «Come va, mascalzone?». Mi chiamò così anche il giorno in cui mi parlò degli epitaffi: «Che te ne pare, allora? Non è una bella idea, mascalzone?». Gli dissi che era fantastica. Gli dissi anche che mi faceva tornare in mente la storia della porta. Nello studio parigino di Marcel Duchamp, c’era una porta con due stipiti che divideva tre stanze anziché due, per cui era al contempo chiusa e aperta. L’artista l’aveva rigenerata come spesso faceva con gli oggetti d’uso comune: gli aveva dato un titolo, 11 rue Larrey, trasformandola in opera d’arte. Fabio l’acquistò nel 1973 per settanta milioni di lire. Mise insieme la somma vendendo due appartamenti di famiglia. Sua madre non capì. Appena lo venne a sapere, scoppiò in lacrime. Malgrado fosse abituata alle folli quotazioni del mercato dell’arte, sbarazzarsi di due appartamenti per entrare in possesso di quella che ai suoi occhi restava comunque una vecchia porta le sembrava una follia. Ma l’incredibile doveva ancora accadere. Nel 1978 la Biennale di Venezia chiese di esporre l’opera di Duchamp. Fabio accordò volentieri il prestito, ma mentre la mostra era ancora in fase di allestimento, due inservienti videro la vecchia porta poggiata a una parete e pensarono bene di darle una riverniciata. Appresa la notizia, Fabio ebbe un mancamento simile a

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quello avuto da sua madre cinque anni prima. «Questa storia di cancellare con una mano di pittura una serie di epitaffi ispirati a Duchamp è forse un modo per esorcizzare il ricordo di quella Biennale?», domandai a Fabio. «Fai lo spiritoso, mascalzone? Che mi dici della frase lapidaria? Ce l’hai o no?». «Credo di sì, ma dovrai aprirmi la galleria al mattino». «Perché?». «Devo preparare la parete». Il giorno stabilito mi presentai in galleria sul presto e cominciai a disegnare. Riempii il muro bianco di disegni. Disegnai di tutto. Volti di persone famose. Volti di persone anonime: amici, parenti, fidanzate. E poi simboli, immagini, cose. Fabio mi guardava perplesso. «Cos’è quella roba, mascalzone?», mi domandò. «È la mia vita». A lavoro terminato, la parete si presentava così:

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Venne la sera. I visitatori arrivarono in galleria. Prima alla spicciolata, poi più numerosi. Scoccata l’ora dell’epitaffio, Fabio mi prese per un braccio. «Sei pronto, mascalzone?». «Credo di sì». Mi passò il pezzo di carbone. La gente osservava la scena: io che mi avvicinavo alla parete. Aspettava le mie parole definitive. Alcune delle persone presenti erano anche sul muro, tra i volti che avevo disegnato. «Devo dire qualcosa prima di scrivere l’epitaffio», esordii. «Qualcosa a proposito di questa parete. Immagino conosciate tutti la storia per cui, in procinto di morte, si rivedrebbe in pochi secondi la vita che si è vissuta. Anni e anni di cose fatti e persone che si susseguono in un film velocissimo. Non so quanto ci sia di vero, ma quello che vedete disegnato sulla parete non è un film. È la mia vita, questo sì. Ci sono cose che ho fatto e persone che ho conosciuto, ma anziché ripensarla alla maniera di un film, l’ho disegnata come un Big Bang. Al centro, nel cuore dell’esplosione, i ricordi sono ammassati uno sull’altro. Andando verso la periferia, si fanno invece più rarefatti. Procedono alla deriva, sempre più solitari, come pare succeda ai corpi celesti in questo universo in perenne espansione. È il modo in cui penso il tempo e la morte. Fatico a credere che lo scorrere degli anni sia un procedere in un’unica direzione, una freccia scoccata dall’arco del passato e protesa in avanti, verso il futuro. Credo piuttosto che il tempo sia simile a una grande esplosione. E come avviene in una grande esplosione, noi siamo sospinti all’indietro, ognuno per la propria deriva. Credo anche che frasi come Se n’è andato, Ci ha lasciato, Non c’è più, È scomparso, siano sbagliate, perché aveva ragione Duchamp: sono sempre gli altri che muoiono. Agli occhi del defunto, chi davvero non c’è più siamo noi. Siamo noi ad andarcene. Siamo noi quelli che scompaiono. Quella che vedete disegnata sul muro è dunque la mia vita che scompare, i ricordi scagliati in mille direzioni diverse; è il modo in cui immagino la morte.

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Non so cosa ne sarà di me in quel momento, ma so cosa sarà di voi: non ci sarete più, ve ne andrete, mi lascerete, scomparirete. Non per sempre, spero. Perciò, in nome di questa speranza, le mie ultime parole, più che un epitaffio, sono un saluto in forma di monito. Sono le parole che si direbbero a un amico nell’imminenza di un lungo viaggio o di un trasferimento. Parole del tipo: “Mi raccomando, fatti sentire. Non fare al solito tuo, mascalzone, non sparire”». Detto questo, mi sono girato verso la parete e ho iniziato a scrivere: