Pomeriggio di uno scrittore 9788823516298

Dopo un pomeriggio di lavoro, uno scrittore esce per una passeggiata. Attraversa strade e piazze, giunge alla periferia

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Pomeriggio di uno scrittore
 9788823516298

Table of contents :
Indice......Page 55
Frontespizio......Page 4
Presentazione......Page 2
I......Page 6
II......Page 11
III......Page 17
IV......Page 25
V......Page 30
VI......Page 37
VII......Page 45
VIII......Page 50

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Presentazione

«Quando uno scrittore sa raccontare con tanta grazia, il lettore non può fare a meno di credergli.» Frankfurter Allgemeine Zeitung «Il suo sguardo ha il potere di incantare.» Die Welt Uno scrittore, reduce da un periodo di crisi, s’incammina per la città dopo un pomeriggio di lavoro. Attraversa strade e piazze, giunge alla periferia e rientra a casa quando l’oscurità è già calata. Che accada poco, in queste pagine, è pura apparenza: si tratta del resoconto di un viaggio attraverso il mondo intero. Lo scrittore racconta del suo scrivere e del prezzo che per questo deve pagare, della sua vita e del poco tempo che gli rimane dopo i momenti di più intenso lavoro: una leggera pigrizia, il piacere di girovagare, la distaccata percezione delle cose quotidiane e dei particolari più insignificanti. E tutto rientra nello scrivere: assieme a un dubbio costante, nei confronti di se stesso e degli altri. Sotto il sole pomeridiano, alla luce del crepuscolo e poi dell’oscurità notturna, Peter Handke percorre una lunga strada attraverso la città e attraverso se stesso, offrendo al lettore una profonda riflessione su una letteratura che si alimenta nel concreto rapporto con la realtà. Peter Handke, nato a Griffen (Austria), nel 1942, è romanziere, drammaturgo e poeta. Tra le sue opere Guanda ha pubblicato: Storie del dormiveglia, Prima del calcio di rigore, Falso movimento, Il peso del mondo, La storia della matita, Epopea del baleno, Saggio sul luogo tranquillo e Saggio sul cercatore di funghi. Nel 2009 gli è stato conferito il premio Franz Kafka e nel 2014 l’International Ibsen

Award. Ha collaborato in varie occasioni con il regista Wim Wenders, fino alla stesura del testo per Il cielo sopra Berlino.

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www.illibraio.it Titolo originale: Nachmittag eines Schriftstellers In copertina: illustrazione di Laura Dal Maso Grafica: theWorldofDOT Progetto grafico: Guido Scarabottolo ISBN 978-88-235-1629-8 © Suhrkamp Verlag Frankfurt am Main 1989 All rights reserved by and controlled through Suhrkamp Verlag Berlin © 1987 Ugo Guanda Editore S.r.l., Via Gherardini 10, Milano Nuova edizione maggio 2016 Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale maggio 2016 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

I

Da quando una volta, per quasi un anno, era vissuto immaginando di aver perso il linguaggio, per lo scrittore ogni frase che scriveva e con la quale avvertiva anche la spinta alla possibile prosecuzione era diventata un avvenimento. Ogni parola che, non parlata, bensì in forma di scrittura, annunciava la prossima, gli faceva tirare un sospiro di sollievo e lo ricollegava al mondo; soltanto con questo felice annotare per lui cominciava il giorno, e poi, così comunque pensava, fino al mattino seguente poteva anche non accadergli più nulla. Ma questo timore di fronte all’intoppo, al non-poterproseguire, anzi, al dover smettere per sempre, non esisteva forse da sempre, e non soltanto riguardo allo scrivere, ma anche a tutte le altre sue attività: l’amore, l’apprendimento, la partecipazione – in genere tutto ciò che esigeva di restare nel concreto? Il problema della sua professione non gli si rappresentava forse come simbolo del suo problema esistenziale e non gli indicava forse, con esempi evidenti, qual era la sua condizione? Quindi non: «Io in quanto scrittore» ma piuttosto: «Lo scrittore in quanto me»? E soltanto a partire dall’epoca in cui aveva pensato di aver oltrepassato il confine del linguaggio e di non poter più rientrare in patria e dall’incerto nuovo inizio che ne era seguito, giorno dopo giorno, non si riteneva forse seriamente «scrittore» – lui che, sebbene per più di metà della sua vita fosse stato guidato unicamente dal pensiero di scrivere, fino allora aveva usato questa parola in modo tutt’al più ironico o imbarazzato? Ed ora, con l’aiuto di poche righe, per mezzo delle quali un fatto gli si era chiarito e aveva preso vita, sembrava di nuovo uno di quei giorni riusciti, e lo scrittore si alzò dal suo

tavolo con la sensazione di poter affrontare tranquillamente la sera. Non sapeva che ora fosse. Dalla cappella dell’ospizio ai piedi del piccolo colle le campane di mezzogiorno avevano suonato a distesa come di consueto, quasi fosse morto qualcuno, e nella sua immaginazione la loro eco si era appena spenta, tuttavia da allora dovevano essere trascorse ore: infatti nella stanza la luce si era tramutata in luce pomeridiana. Dal tappeto sul pavimento saliva un raggio di luce, che lo scrittore interpretò come un segno di aver colmato la misura del suo lavoro. Alzò entrambe le braccia e si chinò sul foglio infilato nella macchina da scrivere. E nel contempo, come tante altre volte, si ripromise per il giorno seguente di non immergersi di nuovo nella sua attività, ma al contrario, di utilizzarla per allargare i suoi sensi: l’ombra di un uccello guizzante sulla parete, anziché distrarlo, doveva accompagnare il testo e renderlo duttile, così come il latrato dei cani, il ronzio delle seghe a motore, il cambio di marcia degli autocarri, il continuo martellare, gli ordini gridati senza tregua e i fischi provenienti dai cortili delle scuole e delle caserme giù nella pianura. E come già in tutti i giorni precedenti, si accorse che durante l’ultima ora alla scrivania, di tutta la città di nuovo erano penetrate nel suo orecchio soltanto le sirene delle macchine della polizia e delle ambulanze, e che non una sola volta, come già anche al mattino, aveva alzato il capo dal foglio per rivolgerlo verso la finestra, raccogliendosi in contemplazione di un tronco nel giardino, del gatto all’esterno che lo scrutava dal davanzale della finestra, degli aerei di linea che entravano nel suo campo visivo, atterrando da sinistra a destra, decollando da destra a sinistra. Così dapprima non riuscì a focalizzare nulla in lontananza, e anche il motivo del tappeto gli appariva come cancellato; nelle orecchie sentiva un ronzio come se la macchina da scrivere fosse stata elettrica – cosa che non era. La stanza di lavoro dello scrittore, la sua «casa nella casa», si trovava al primo piano. Con la tazza da tè vuota in mano scese stordito in cucina e dall’orologio a muro vide che il giorno si avviava al termine. Era l’inizio di dicembre, e davvero gli spigoli degli oggetti brillavano come prima dell’avvento del crepuscolo. Nel contempo lo spazio esterno e l’interno della casa priva di tende erano avvolti da un’unica luce limpida. Quell’anno non era ancora nevicato. Ma già dal

mattino il fischio particolare degli uccelli – suoni delicati e monotoni, come di richiamo – aveva annunciato la neve. Lo scrittore era immerso nella luce, che a poco a poco gli restituiva l’uso dei sensi, lo incitava a uscire. Fino allora, ogni giorno in cui era uscito di casa soltanto con il buio, aveva avvertito una perdita. Strano, che proprio uno con un mestiere come il suo da sempre si fosse sentito a suo agio per lo più all’aperto. Per prima cosa raccolse da terra la posta che il postino aveva gettato in anticamera attraverso la fessura della porta. Del mucchio spesso e variopinto di carta non rimase che una cartolina illustrata da leggere. Il resto erano volantini pubblicitari, giornali di partito, «gratis per la casa» e inviti in gallerie o a cosiddette «assemblee cittadine» – e la maggior parte consisteva di nuovo nelle ben note buste grigie, tante quante un intero mazzo di carte, tutte scritte dalla stessa mano dello sconosciuto che già da più di dieci anni quasi ogni giorno gli spediva almeno una dozzina di queste lettere da un remoto paese straniero. A suo tempo lo scrittore aveva risposto brevemente alla lettera iniziale, per la sola ragione che a prima vista aveva scambiato la calligrafia dell’altro per la propria; e allora il mittente si rivolgeva a lui come all’amico d’infanzia o come a un vecchio vicino di casa oltre lo steccato del giardino. Le buste contenevano ogni volta foglietti con brevi notizie, in genere non più di una frase, della vita familiare dello straniero, sulla moglie e sui figli, semplici accenni del tipo «Ora è arrivato un espresso della moglie» e «Mi è vietato di vederli entrambi», motti enigmatici come «Meglio morire, che prenotare un biglietto aereo contro la mia volontà» o «Lei potrebbe testimoniare che ieri ho sarchiato le erbacce»; oppure semplici esclamazioni come «Vorrei potermi rallegrare una buona volta» e «Anche per me comincerà un’altra vita» come se il destinatario sapesse comunque da sempre tutta la storia. Nei primi anni aveva ancora letto con cura ognuna delle frasi isolate e persino le singole parole staccate. Ma con l’andar del tempo questi foglietti volanti l’avevano oppresso sempre più, soprattutto nei giorni, niente affatto rari, in cui quella massa di carta era la sua unica posta. Avrebbe voluto che l’altro vedesse la collera con cui, sempre più spesso, richiudeva il coperchio della pattumiera sopra il mucchio

delle buste non aperte. Se tuttavia di tanto in tanto, con una strana coscienza del dovere, ne apriva ancora una, era persino tranquillizzante scoprire che le novità sembravano sempre le stesse. In realtà nel contempo si avvertivano anche grida d’aiuto, persino supplici, ma potevano continuare così, allegramente, per una vita, anche se nessuno le udiva. E probabilmente questo, insieme alla sua inerzia, era il motivo per cui non rimandava indietro le lettere – cosa alla quale, comunque, dinanzi al grigio pacchetto standard a quattro spigoli che arrivava ogni giorno, senza alcun altro segno di vita, si sentiva sempre indotto. Così anche oggi, come il giorno prec dente, consegnò l’intero pacco di lettere non lette al cestino della carta, gettandole dentro una ad una, come se questo fosse già un modo di prenderne coscienza. In una tasca del cappotto infilò, da leggere per strada, la cartolina illustrata di un vecchio amico americano, che ora andava ramingo per il continente. Fece una doccia e si cambiò; si allacciò le scarpe, che erano adatte sia ai marciapiedi e alle scale mobili che ai terreni impervi. Lasciò il gatto in casa e gli preparò le ciotole con la carne e il latte. Era come se nella pelliccia dell’animale si fosse accumulato il gelo, e nelle punte dei peli gli sembrò già di sentire un principio di cristalli di neve. Ma il corpo al di sotto gli riscaldò le mani che si erano raffreddate nelle ore trascorse a scrivere. Per quanto sentisse il desiderio di uscire, come sempre tardò ad avviarsi. Al piano terra aprì le porte di tutte le stanze in modo che dentro si crearono giochi di luce provenienti dai vari punti cardinali. La casa sembrava disabitata. Era come se ora chiedesse di essere non soltanto un luogo di lavoro e di riposo, ma anche di abitazione. Già da sempre lo scrittore era stato incapace di creare questa condizione, così come era stato incapace di creare una vita familiare. Angoli per sedersi, tavoli da pranzo o pianoforti gli davano subito una sensazione d’estraneità; cassette stereo, scacchiere, vasi di fiori, persino biblioteche ordinate gli facevano soltanto specie; da lui i libri erano accatastati sul pavimento o sui ripiani delle finestre. Solo di notte, seduto

da qualche parte al buio con dinanzi a sé le fughe di stanze che, gli sembrava, erano illuminate giusto a sufficienza dalle luci della città e dal loro riflesso in cielo, provava qualcosa di simile a una sensazione familiare. Queste ore, in cui finalmente non doveva più lambiccarsi il cervello o pensare al dopo, ma si limitava a starsene tranquillo e tutt’al più, nel silenzio, a ricordare, per lui erano le ore più amate in casa, e ogni volta le prolungava finché, impercettibilmente, il suo meditare trascorreva in sogni ugualmente tranquilli. Ma durante il giorno, in particolare poco dopo il lavoro, sentiva subito l’oppressione del silenzio. Allora il rumore della lavastoviglie in cucina e il ronzio della centrifuga in bagno erano una vera benedizione. Persino alla scrivania col passare del tempo gli divennero necessari i rumori del mondo esterno: una volta, dopo aver scritto per mesi in cima a un grattacielo quasi a isolamento acustico, per così dire molto vicino al cielo, per poter continuare a lavorare si era trasferito in una stanza al pianterreno affacciata su una strada principale molto rumorosa e in seguito, già nella casa attuale, quando era iniziato il chiasso del cantiere nel terreno confinante, dopo una prima sensazione di disturbo ogni mattina aveva usato i martelli pneumatici e i cingoli scorrevoli per sintonizzarsi con la sua attività, così come una volta, agli inizi, aveva usato un pezzo musicale. Poi, di continuo, aveva anche distolto gli occhi dal foglio per guardare gli operai fuori, cercando l’armonia tra il suo lavoro e la regolarità dei loro gesti. Alla lunga la pura natura con gli alberi, l’erba, la vite canadese abbarbicata alla finestra non gli offriva una simile visione, che gli era sempre necessaria. Comunque una mosca nella stanza lo disturbava più che non un battipalo a vapore all’esterno. Già vicino alla porta del giardino, d’un tratto lo scrittore tornò indietro. Corse in casa, salì a precipizio nel suo studio e sostituì una parola con un’altra. Soltanto allora sentì l’odore del sudore nella stanza e vide che le finestre erano appannate.

II

D’un tratto non ebbe più tanta fretta. D’un tratto tutta la casa vuota, per via di quell’unica parola nuova, sembrava calda e accogliente. Sulla soglia si girò verso la scrivania, che per un attimo gli sembrò un luogo di giustizia o del render giustizia: «Così doveva essere comunque!» Sedette nell’ingresso, che aveva una grande vetrata verso il giardino, cucì un paio di bottoni e pulì una serie di scarpe estive. Nel contempo rifletté su quanto si era detto a proposito di un poeta classico che aveva «dato un’impressione di nobiltà persino mentre si tagliava le unghie», e dubitò che di lui si potesse dire qualcosa di simile. Fuori in giardino un uccello, alto un pollice, scivolò nel cono scuro di un tasso alto quanto un uomo e non uscì più dalla macchia. Il rombo degli aerei monomotori sul paese ricordava l’Alaska, e anche il fischio acuto dei treni che descrivevano una curva attorno alla città sembrava provenire da un lontano paese ricco d’acque. All’orizzonte per un momento si udì con chiarezza il fragore delle ruote che passavano su una ferrovia sospesa, mentre l’animale domestico si grattava ai piedi della scala e nella dispensa il frigorifero tintinnava. Per la seconda volta in quel giorno lo scrittore innaffiò le piante, che insieme alla vetrata conferivano all’ingresso l’aspetto di una serra, diede altro cibo al gatto e infine pulì tutte le maniglie delle porte. Sentiva il bisogno di scrivere una lettera a qualcuno, ma non a casa, bensì più tardi, da qualche parte in città. Una volta, proprio nel tempo in cui aveva rischiato la perdita del linguaggio, si era ripromesso di non chiudere mai più la serratura di una porta dietro di sé: ora gli tornò in mente, quando, uscendo come ogni giorno, diede due giri di chiave alla porta. Ma in compenso si propose di non farlo al suo rientro di notte; d’altra parte, anche senza questo proponimento, già parecchie mattine non l’aveva forse trovata non soltanto non chiusa a chiave, ma addirittura

spalancata? Sul sentiero di terra del giardino calpestò le proprie orme, formatesi durante il suo camminare quotidiano su e giù, spesso per ore, prima di mettersi al lavoro. Adesso si erano congelate, e per tutta la lunghezza del giardino mostravano un disegno fitto di forme collegate tra loro, calcate nella terra, come se di lì fosse passato un intero esercito che si preparava a una lotta corpo a corpo, o come se fosse arrivata un’unità speciale della polizia per arrestare un nemico della società particolarmente pericoloso. In quel momento lo scrittore ricordò un film comico, dove il protagonista aveva camminato su e giù davanti a un edificio così a lungo, che alla fine era caduto in una fossa, da cui poi si vedeva spuntare solo il suo cappello. Nonostante fosse inverno, lì attorno c’era ancora qualche fioritura. Proprio perché piccoli e isolati i garofani selvatici, le margheritine, i ranuncoli e le ortiche morte ravvivavano il terreno percorso da aspri solchi. I calici dei ranuncoli, splendenti come di smalto, talvolta sembravano persino raggi di sole. Dalla cima di un melo pendeva ancora qualche frutto, rosicchiato dagli uccelli, dalla pompa vitrea e ghiacciata. Le ultime foglie, appesantite dalla brina, precipitavano a terra una dopo l’altra, quasi in verticale, con uno scricchiolio. Gli amenti del nocciolo erano incolori, come contorti dal freddo. Una campanula sullo steccato e una accanto alla porta di casa erano illividite dal gelo. All’esterno il giardino confinava con un parco alberato, ma che allo scrittore, come già altre volte nell’ora successiva al lavoro, appariva vasto e primigenio, con il sottobosco e le liane. Si girò ancora una volta verso casa. Con questo gesto gli sembrò di uscire da un’ombra. Il cielo era grigio chiaro solcato da lunghissime strisce più scure, l’insieme dava un’impressione di vastità e di altezza. Non c’era vento, ma l’aria era così fredda che gli sferzava il collo e la fronte. A una biforcazione del sentiero si fermò e rifletté sulla direzione da scegliere: in città ci sarebbe stata molta gente per la vigilia di Natale, in periferia sarebbe stato solo. Nei

periodi d’ozio di regola andava a passeggiare in centro. Quando invece era assorbito dal lavoro, si avviava ai margini della città – dove non c’era anima viva. Almeno finora, questa regola aveva dato buoni risultati. Ma poteva dire di avere delle regole? Le poche che finora aveva cercato di darsi non erano state sempre trascurate a favore di qualcos’altro, gli umori, i casi, le ispirazioni, che a lui sembravano più utili? In realtà, già da decenni, viveva concentrato di volta in volta sulla sua meta scrittoria; ma fino ad oggi non conosceva nessun modo affidabile di raggiungerla; in lui tutto era rimasto provvisorio com’era stato un tempo nel bambino, in seguito nello scolaro e più tardi ancora nell’esordiente: provvisoriamente abitava, lo stesso esordiente di un tempo, in questa città europea del mondo, sebbene nel frattempo avesse cominciato ad invecchiarvi, gli sembrava; soltanto provvisoriamente era tornato in patria da paesi stranieri, sempre in procinto di ripartire per luoghi lontani e vedeva come qualcosa di provvisorio anche la sua esistenza di scrittore, per quanto corrispondesse ai suoi sogni – tutto ciò che era definitivo lo inquietava da sempre. «Tutto passa?» Oppure «Nessuno si bagna nello stesso fiume?» Oppure, come suonava in origine la massima preferita «Sempre diverse sono le acque dei fiumi in cui ci bagnamo?» Sì, per anni si era detto e ripetuto questa frase di Eraclito, come i credenti forse recitavano il loro «Padrenostro». Lo scrittore restò fermo dinanzi all’incrocio per un tempo insolitamente lungo. Era come se lui, cui la sua attività non prescriveva alcuna determinata regola di vita, anche per molti movimenti del quotidiano, sia pur minimi, avesse bisogno di un’idea – e questa si formulò nel pensiero di collegare il cuore della città con il suo limite, di attraversare il centro per andare a passeggiare in periferia. Non si era forse sentito attratto dalla gente, proprio quando sedeva alla scrivania? E non si era forse anche ripromesso, pur non avendo mai mantenuto il proposito, di attraversare almeno una volta al giorno il fiume oltre il quale cominciavano i nuovi quartieri? Ora che aveva stabilito un percorso, subentrò il piacere di passeggiare.

Giù nel parco alberato per lungo tempo non incontrò nessuno. Solo con la natura, dopo le ore trascorse nella sua stanza, lo scrittore fu quasi sorpreso da un sentimento liberatorio di innocenza. Infine smise di rimuginare sulle frasi della mattina e abbracciò con lo sguardo la tavola illustrata a colori vivaci degli uccelli come pure i cartellini con la scritta «Faggio» e «Acero» sui rispettivi tronchi; aveva occhi solo per la corteccia liscia e chiara di un albero o per quella scura e scalfita di un altro. Guardando una dozzina di passeri, che totalmente immobili, con le penne rizzate per il freddo erano appollaiati su un ramo di quercia ancora coperto di foglie avvizzite, poteva credere alla leggenda del santo che un tempo aveva predicato a queste creature; e in realtà ora gli animali, senza muoversi dal loro posto, avvicinarono le teste, quasi aspettassero di nuovo la prima parola. Disse qualcosa, e il gruppo tra le fronde rimase in ascolto. Il sentiero era giallo degli aghi di larice caduti. Lo strato, sebbene in certe curve fosse alto come una scarpa, era così soffice che sotto i passi scivolava di lato. In tal modo sull’asfalto si era formata una pista di strie che avevano qualcosa di labirintico. Durante le ultime ore trascorse in casa, quanto più attorno a lui si era fatto silenzio, lo scrittore era stato incalzato dall’ossessione che fuori nel frattempo il mondo non esistesse più e che lui nella sua stanza fosse l’ultimo sopravvissuto; e tanto più ora si sentì sollevato nel vedere un uomo sano, in carne ed ossa, uno spazzino, già cambiato e pronto per il riposo serale, che uscì curvo dalla sua baracca e poi con un enorme fazzoletto da naso si pulì con cura gli occhiali dalle lenti molto spesse. Quando si salutarono, lo scrittore si accorse che oggi questo era stato il suo primo scambio di parole; sino allora o aveva ascoltato in silenzio l’annunciatore delle notizie del mattino, o aveva parlato con il gatto, o aveva ripetuto ad alta voce una serie di parole alla scrivania, cosicché ora, alla prima consueta formula di saluto da persona a persona, dovette persino schiarirsi la voce. Anche se l’altro nella sua miopia non riusciva quasi a vederlo, com’era rassicurante, dopo aver immaginato la fine del mondo, incontrare questi due occhi vivi pieni di brio. Gli sembrava di sentirsi capito soltanto dai loro colori, così come anche lui capiva i visi dei passanti

sempre più numerosi in vicinanza della città, come se nel loro viso si specchiasse il suo. Sebbene la sua casa fosse in alto sulla collina, con le finestre rivolte verso tutti i punti cardinali, per tutto il giorno non aveva mai guardato davvero in lontananza. Soltanto scendendo ed avvicinandosi alle persone recuperò la capacità di guardare fino all’orizzonte. (A casa non evitava forse anche la terrazza sul tetto – oggetto per così dire d’invidia da parte dei suoi visitatori, perché là si sentiva troppo rapito dal panorama, e non utilizzava forse il luogo soltanto per appendervi la biancheria?) Così, nella montagna da cui sgorgava il fiume apparvero un vitreo campo di neve e dall’altro lato, al limite della pianura con gli ultimi sobborghi della città, un arco morenico come tirato con il carboncino. Mentre camminava, sentiva in modo tangibile i muschi e i licheni sotto la neve e il ruscello scavato nella morena, insieme agli spuntoni di ghiaccio delle rive, dove frusciava l’acqua. Oltre gli isolati della periferia si distingueva ancora una serie di agglomerati urbani più piccoli, che però a distanza più ravvicinata risultavano in movimento: là era riconoscibile l’autostrada con gli autocarri che transitavano in silenzio; e per un momento sentì le sue braccia vibrare, come se anche lui fosse stato un guidatore seduto in una cabina. Vicino alle ciminiere della zona industriale, in una striscia di terra di nessuno, una steppa coperta di arbusti, si accese una luce rossa e il container scuro là dietro si rivelò per un treno in sosta, che al cambio di posizione del segnale, quasi impercettibilmente, cominciò ad avvicinarsi ingrandendosi. La maggior parte dei viaggiatori aveva già indossato il cappotto e si preparava a scendere alla stazione centrale. Una mano infantile cercò la mano di un adulto. Quelli che proseguivano il viaggio allungarono le gambe. Il cameriere in servizio già dal primo mattino nella carrozza ristorante quasi vuota uscì nel corridoio, abbassò il finestrino e si lasciò investire dal vento della corsa, mentre l’addetto al lavaggio delle stoviglie, un meridionale più anziano, guardava fisso dinanzi a sé nella sua nicchia senza socchiudere gli occhi e fumava una sigaretta. Insieme a queste immagini in lontananza («lontananza, la mia materia»), al di sopra dei tetti del centro lo scrittore vide una statua di pietra con in mano un ramoscello di palma scolpito

in ferro stagliarsi in cielo sopra le cupole di una chiesa, circondata da altre figure di contorno che sembravano eseguire un girotondo. L’ultima parte del sentiero della collina scendeva per una scala, fiancheggiata da palazzi vecchi di secoli. Nella parte superiore di tanto in tanto giardini pensili sporgevano verso il parapetto della scala come una serie di ponti levatoi. Nei piani inferiori, accanto al pendio roccioso, le luci erano accese in tutte le stanze probabilmente già dal mattino. Da ogni livello c’era la vista su un piano inferiore. Una lampada da tavolo proiettava un cerchio di luce su alcuni libri aperti che la persona seduta al tavolo, nella sua immobilità, sembrava più contemplare che studiare. Una donna, come se fosse appena entrata dalla porta, aveva ancora indosso cappotto e cappello e in mano una borsa pesante con la spesa. Un uomo dai capelli bianchi con le bretelle e le maniche della camicia rimboccate attraversò lentamente la sua stanza con il bricco del caffè e scese un paio di gradini seguito da una grande faccia piangente in uno schermo quadrato da televisore dietro a una tenda traforata. Sull’ultimo livello, infine, i piani terra, tutti agenzie o uffici, illuminati al neon: i ficus, i raccoglitori, la parete con le cartoline illustrate; i molti che lì erano di casa, e il singolo estraneo maldestro, che davanti agli impiegati si fa sempre da parte, quel che di familiare dato dalla cravatta allentata dell’uno, i capelli sciolti degli altri, i rami di dicembre fioriti nella bottiglia sul davanzale. Era come se qui, vicino alle abitazioni, scendendo di piano in piano il clima diventasse più caldo: in alto, sulla nuda roccia, ghiaccioli grandi come colonne, e sotto, nei giardini, oltre ai consueti arbusti di bosso e alle macchie di abeti si vedevano già singoli tronchi di palma e tondi alberi d’alloro d’un verde splendente, anche se protetti da teloni di plastica. Così, credendosi inosservato dal mondo circostante, lo scrittore fece per così dire il suo ingresso in città. La sua meta era un ristorante, non tanto per fame o per sete, quanto per il bisogno di sedersi in un locale pubblico e di farsi un po’ servire; dopo le lunghe ore trascorse in solitudine nella stanza, gli sembrava persino di averne diritto.

III

Per prima cosa evitò la ressa, facendo un giro attraverso i cortili interni in città. Ai piedi della montagna, infatti, uno di questi cortili descriveva una grande curva laterale immettendosi nel prossimo, il cortile di una scuola sboccava nel cortile di un museo, e questo a sua volta sboccava nel cortile di un convento, da cui infine un passaggio conduceva in un cimitero fuori uso, che ormai fungeva soltanto da parco. Poiché tutti gli edifici erano nello stesso stile e i cortili che si susseguivano avevano più o meno la stessa dimensione e la stessa pianta, si aveva quasi la sensazione di muoversi all’interno di un unico complesso isolato dal resto del mondo, una città nella città, e di addentrarvisi sempre più passando di cortile in cortile senza potersi immaginare che in fondo da qualche parte ci fosse un’uscita. Per qualche istante, davanti ad una fontana coperta con un tetto di legno a bulbo, lo scrittore credette di trovarsi di nuovo a Mosca, dove una volta aveva trascorso un pomeriggio intero in un simile quartiere appartato avanzando di galleria in galleria, una più spaziosa dell’altra e sempre più aperte al silenzio, poi da qualche parte, lontano, solo su una lunga panca a guardare il gioco dei bambini in uno spiazzo di cemento coperto, e infine nel cortile più interno, uno spiazzo erboso di betulle, a lavarsi il viso e le mani con un idrante. Non era strano che quasi soltanto i momenti in cui scriveva potessero dilatare a tal punto il luogo in cui risiedeva? Allora ciò che era piccolo diventava grande; i nomi non contavano più; qui la sabbia chiara tra le commessure del selciato diventava la propaggine di una duna; là l’unico scialbo filo d’erba diventava parte di una savana. In una delle classi c’erano ancora le lezioni, e dentro si vedeva soltanto l’insegnante, in piedi su un podio, agitare le braccia davanti a una lavagna che faceva da specchio. Il basamento del museo era composto da rilievi marmorei con delfini che nuotavano a coppie l’uno verso l’altro o si tuffavano allontanandosi l’uno dall’altro. Nel cortile del convento un monaco, in sandali

malgrado il freddo, potava un ciliegio, e nel cimitero, oltre alle iscrizioni latine, apparvero anche iscrizioni greche. La serie dei cortili chiusi si allargava nella serie delle piazze aperte. Anche queste sboccavano semplicemente l’una nell’altra, come se ognuna fosse la piazza antistante una piazza successiva più vasta – che comunque non si intuiva da nessuna parte: l’ingresso era sempre dietro a un angolo, sia di una chiesa, sia della sede di un ufficio o anche soltanto di un’edicola. Ma l’ultima e la più grande delle piazze, cui si accedeva attraverso veri e propri colonnati, non aveva proprio nulla della piazza centrale: era non lastricata, di color argilla e lievemente in salita verso il centro, come risultava evidente in una serie di scanalature a raggiera scavate in terra dalla pioggia. Di piazza in piazza lo scrittore aveva rallentato il passo, e ora si fermò. Gli sembrava che il suo lavoro non si allontanasse da lui, ma anche invece l’accompagnasse; come se lui, che nel frattempo era molto lontano dalla sua scrivania, fosse ancora all’opera. Ma che cosa significava «opera»? Un’opera, pensava, era qualcosa in cui la materia non era quasi nulla e la struttura quasi tutto. Qualcosa che da fermo, senza bilanciere, era anche in movimento; in cui tutti gli elementi si tenevano in equilibrio; che era aperto, accessibile a tutti, che non si consumava con l’uso. Via via che procedeva, lo scrittore si sarebbe quasi messo a correre. Sebbene la piazza vicina al fiume fosse il punto più basso della città, l’attraversò con una lunga diagonale come fosse un altopiano. Sotto le suole delle scarpe il ghiaccio si spezzava, con un rumore molto lieve, che subito si ripercuoteva su tutta la superficie. Ovunque il terreno era coperto dagli aghi degli alberi di Natale venduti lì tutti gli anni precedenti, schiacciati nell’argilla e divenuti anch’essi color argilla già da tempo: forse da domani ci sarebbe stato di nuovo il finto bosco di pini e di abeti a riempire la piazza, quasi impenetrabile. Quando chiese un giornale all’edicola situata nel passaggio che portava al fiume, si accorse di quanto

tremava. Riuscì a stento a terminare la sua frase mentre prendeva gli spiccioli. Come tante altre volte, si disse che con l’acquisto del giornale aveva commesso il primo errore, e si propose di limitarsi a sfogliarlo, possibilmente ancora per strada, e poi d’infilarlo in un cestino. Già la vista dei titoli per un attimo gli tolse la parola; al saluto del venditore riuscì a rispondere con un cenno del capo. Colto da timidezza improvvisa, trasalì al contatto casuale con un passante e guardò di fianco per evitare l’incontro con un altro che non molto tempo prima gli aveva confidato la storia della sua vita, ma lo scrittore aveva pur sempre come scusa la sua distrazione, nonostante il più delle volte si limitasse a simularla. Al ponte sul fiume lo accolse il vento, con cui poi proseguì. Qui, sulla grande volta aperta, era notevolmente più freddo che non nei cortili e nelle piazze. Sopra l’acqua quasi nera trascorrevano nuvole di fumo, e nella sua immaginazione ricomparvero i lastroni di ghiaccio che nel gelo artico di un inverno passato si erano spezzati l’uno contro l’altro; e il freddo sul ponte era stato tale, che la gente aveva dovuto persino evitare di transitarvi. E ora allo stesso modo rivisse quella scena d’estate in cui in fondo alla scarpata, ai piedi dell’argine, il bambino correva qua e là con la piena, e lui, poiché il bambino nel correre sobbalzava di continuo, in un primo tempo aveva pensato che giocasse, fino a che, per via dello scroscio del fiume, soltanto dai movimenti della sua bocca aveva finalmente capito che il bambino gridava aiuto: era caduto nella scarpata. E ora risentì alle sue spalle il peso vivo che allora aveva riportato su; al di là del fiume, sulla spoglia passeggiata invernale, rivide la figura in calzoni corti sfrecciare via sotto il pergolato con i capelli al vento. Nel punto più alto del ponte lo scrittore si appoggiò al parapetto. Gli anelli per le bandiere erano vuoti. L’orizzonte a valle scintillava di una luce cruda; il campanile sullo sfondo apparteneva già a un villaggio. I vari ponti della città si scaglionavano uno dietro l’altro e apparivano tutti allo stesso livello, cosicché su un sentiero animato in primo piano sembravano passare sia le macchine del ponte più vicino che

la ferrovia del ponte successivo. Nei meandri del fiume il confine tra l’acqua e la terra era sottolineato da una lama di luce. Quando nel rumore del traffico echeggiarono le campane del pomeriggio per annunciare il fine settimana, la loro eco rimase a lungo nell’aria, ed era come se nel frattempo tutti i mezzi della città si fossero fermati e ora ovunque i motori si riavviassero, e anche i gabbiani sul ponte ricominciarono lo stridulo verso che in apparenza avevano interrotto. Mentre risaliva il fiume dall’altra parte, desiderò poter continuare a camminare così a lungo. Il voler sostare in qualche luogo non era forse soltanto frutto dell’abitudine? Sull’acqua le onde che gli fluttuavano incontro gli trasmettevano la loro forza. Lo scrittore fu colto dalla nostalgia – dunque dopo tanti decenni questa parola era pur sempre valida – di vivere di nuovo nelle metropoli straniere, dove anche se aveva viaggiato solo, di tanto in tanto nei quartieri centrali e periferici aveva conosciuto qualcuno che, a suo modo, si era occupato dei suoi stessi problemi e aveva avuto i suoi stessi scopi; non aveva voluto conoscere i sosia, ma soltanto avere in comune con loro il terreno sotto i piedi, il vento, il tempo, l’alba e il crepuscolo. Perché era tanto difficile immaginare che individui simili esistessero anche nella città della sua patria? Perché credeva piuttosto all’aneddoto dei due scrittori, l’uno dei quali aveva cambiato casa soltanto perché l’altro passava ogni giorno sotto la sua finestra? E ora, nello stesso punto del fiume in cui era già avvenuto una volta, si trovò davanti proprio quel vecchio che a suo tempo si era presentato come «collega». Dell’altro sapeva soltanto che era stato prima insegnante, poi soldato nella prima guerra mondiale, poi di nuovo insegnante, e ora, in pensione, scriveva poesie. In forma di saluto il vecchio gliene recitò una d’un tratto, come se avesse atteso a lungo quest’occasione, a voce alta, quasi in tono di minaccia, e poi continuò a parlare allo stesso modo, articolando e scandendo il suo discorso comune come aveva fatto con il suo poema. Proprio per questo ovviamente chi gli stava di fronte, come già in passato, non riuscì a capire nulla. Udì soltanto le

parole senza afferrarne il senso. In compenso vide con chiarezza gli occhi indifesi del vecchio, spalancati come quelli di un cieco; l’iride spenta, un cerchio colorato soltanto al margine; sotto un occhio il pulsare della ghiandola lacrimale. Quando poi lo seguì con lo sguardo, il discorso articolato dell’altro continuò in un ronzio prolungato e acuto, quasi interminabile, che poteva significare entusiasmo o anche lamento. Il ristorante si trovava sulla riva del fiume ed era ancora quasi vuoto, dimodoché lo scrittore trovò un posto dal quale vedeva scorrere l’acqua: sembrava molto rapida, come se si fosse appena fatta strada attraverso la montagna. Aveva la sensazione di stare ancora camminando sui ponti tra le sagome dei passanti. Prima di dedicarsi al giornale, respirò a fondo e s’impresse nella memoria, come norma, la linea più lontana dell’orizzonte esterno. Ma ancora una volta fu inutile: con la prima frase che lesse cessò subito in lui qualsiasi forma di pensiero. In genere cercava di convincersi che era suo dovere leggere il giornale per essere informato. (Nel periodo in cui se l’era proibito, non gli era forse sfuggita la notizia sulla morte di alcuni dei suoi eroi e salvatori, e non l’aveva forse saputo soltanto quando era troppo tardi per commemorarli?) Ma in verità il suo sfogliare i giornali era una malattia. Difficilmente finiva di leggere una colonna, tutt’al più la scorreva con gli occhi, e così un articolo dopo l’altro, in uno stato singolare di furia e di torpore a un tempo. Anche se s’imponeva sempre di cominciare dall’inizio e di assimilare almeno una cronaca parola per parola, poi si accorgeva che già soltanto nello scorrerla ne aveva colto tutto il senso; solo che questo, a differenza di certe poesie, non «finiva nella pace dell’anima», ma al contrario rendeva il lettore del giornale del tutto insensibile. A questo punto il malato – sofferente di una malattia che non era mai anche un piacere – provò il desiderio di rivivere i mesi trascorsi a New York, quando a causa di uno sciopero i giornali non erano usciti per molto tempo. Era uscito solo un giornale di formato ridotto dal nome City News, che riportava qualsiasi evento degno di nota avvenuto sulla terra limitato di volta in volta ad un paio di righe. Allora studiava ogni giorno con gioia queste notizie cittadine, e quando poi, «finalmente» per i più, a tutti gli

ingressi della metropolitana si rividero pile alte come colonne del Weltblatt, un simile titolo onorifico gli sembrò piuttosto spettare a quel paio di paginette che uscivano dalla scena. Infatti, in seguito, come gli sembrarono inutili tutte le opinioni e i rapporti speciali, le rubriche ed i commenti, che non lasciavano nella testa del lettore altro che un ronzio di vespe! E ciò che continuava ad infastidirlo più di tutto era la pagina della «cultura», dove non si poteva parlare quasi di nulla senza dare un giudizio. In verità talvolta aveva constatato che anche la critica è un’arte a sé – la scoperta di un punto cardinale commisurato al suo oggetto che si può chiamare anche «visione» e il coscienzioso sviluppo di questa visione, così come in ogni altra opera –, ma in simili pagine la regola in genere era, nel migliore dei casi, lo schema riempito, oppure, nel peggiore, una truffa, in cui il piacere dell’argomento da tempo aveva lasciato il posto a un secondo fine facilmente intuibile; dove, invece di esercitare una critica, si faceva della politica da strapazzo. In gioventù lo scrittore aveva sognato che la letteratura fosse il più libero di tutti i paesi e questo pensiero era stato l’unico sostegno per passare dalle meschinità e dalle umiliazioni del quotidiano a una fiera parità, e senz’altro molti avevano creduto in qualcosa di simile: e ora tutti loro si trovavano, così gli sembrava, nel più dispotico degli staterelli, o raggruppati in modo corporativo e ottuso, o l’uno da una parte l’altro dall’altra come nemici giurati, e persino i più ribelli tra loro, trasformati in diplomatici in breve tempo, si lasciavano dominare da sbirri del sistema, che, dotati di volontà di potenza più che di discernimento, maltrattavano la loro preda in modo tanto più arbitrario in quanto fuori si presentava come brava gente ligia al dovere. Una volta aveva assistito alla morte di un altro scrittore. Ma fino all’ultimo questi, più di qualsiasi altra cosa, si era occupato della rubrica culturale dei giornali. Gli scontri d’opinione lo distraevano forse in senso positivo, lo incollerivano e lo rallegravano? Gli rappresentavano forse una ripetizione quotidiana da preferire pur sempre di gran lunga a ciò che lo minacciava? Non si trattava soltanto di questo: anche da lontano, nella sua disposizione, lui era prigioniero dei redattori; a costoro, più che ai suoi simili, aspirava nei suoi

sogni, e nelle pause concessegli dal dolore, essendo divenuto nel frattempo incapace di leggere, chiedeva come fossero state commentate in questo o quel giornale questa o quella novità editoriale. Per un certo tempo quindi, con gli intrighi ed il corruccio quasi soddisfatto con cui il malato li smascherava, nella camera mortuaria penetrò una sorta di mondo di durevolezza, e il relatore accanto al letto capiva l’amico che inveiva o che annuiva come se anche lui fosse stato disteso in quel letto. Ma quando l’altro entrò in agonia con il capo già arrovesciato all’indietro e dovettero continuare a leggergli le opinioni dei giornali freschi di stampa, il testimone giurò a se stesso di non arrivare mai al punto di colui che gli stava di fronte! Mai più avrebbe partecipato a quella ridda di classificazioni e giudizi che consistevano quasi unicamente nel servirsi dell’uno contro l’altro. Restare al di fuori e continuare con le proprie forze, non a spese di persone vicine, questa era poi divenuta la sua soddisfazione nel corso degli anni. Soltanto all’idea di rientrare nell’ambiente o nei piccoli gruppi che si divaricavano sempre più era colto da un elementare disgusto. Certo, non se ne sarebbe mai liberato del tutto; infatti anche oggi, tanto tempo dopo quella solenne promessa, gli balzò davanti agli occhi, come una volta, una parola che dapprima prese per il suo nome. Ma a differenza di un tempo si sentì poi sollevato nel constatare l’errore. Cullandosi nella sicurezza, continuò a sfogliare la rubrica locale, dove riuscì a seguire ogni singola notizia. Quando infine lo scrittore distolse lo sguardo dal giornale provò un violento senso di perdita. Per tutto il tempo il figlio della cameriera era stato seduto al tavolo accanto alla porta della cucina intento ai suoi compiti, e lui, anziché osservarlo con attenzione, aveva soltanto registrato brevemente la sua presenza. Ora il suo posto era vuoto, la sedia in cui il bambino aveva stilato le lettere sul quaderno, mostrandole ogni volta alla madre che andava e veniva, era occupata dalla sua lucida e variopinta cartella di scuola. Era come se, leggendo il giornale, avesse perso di vista l’ambiente, già lo spigolo del tavolo vicino non mostrava più nessuna linea. E di scatto spinse il giornale di fianco: lo coprì con la lista delle vivande quando si accorse che pur contro la sua volontà continuava a sbirciarlo con la coda degli occhi; quindi, già

mentre leggeva la lista senza guardarla, allontanò entrambi dal suo campo visivo appoggiandoli sulla sedia vicina spinta sotto il tavolo. Si raddrizzò, ma rimase seduto, solo con il bicchiere di vino da cui di tanto in tanto beveva un sorso. Così, con i sensi offuscati, incapace di una percezione o una riflessione, non voleva allontanarsi dal luogo. Delle persone che entravano sempre più numerose vedeva soltanto le gambe e il busto; neppure un volto. Per fortuna nessuno gli prestava attenzione. Anche la cameriera una volta aveva certo saputo il suo nome, ma da tempo l’aveva dimenticato. Per un momento qualcosa fuori sul fiume luccicò, in realtà null’altro che un piccolo punto nell’acqua, e uno stormo di passeri si diresse verso un albero spoglio sulla riva, con le ali spiegate come una nuvola, che un attimo dopo era sparita dal cielo. Gli uccellini erano appollaiati immobili sui rami, così come i corvi sulla cima dell’albero vicino e persino i gabbiani, in genere così irrequieti, erano immobili sui parapetti del ponte. Sembrava che su tutti loro cadesse già la neve, sebbene non si vedesse alcun fiocco. E proprio in quel punto, accanto a quel quadro vivente formato dal fremito quasi impercettibile delle ali, dall’aprirsi a fessura dei becchi, dal rapido movimento degli occhi puntiformi, all’osservatore si rivelò il paesaggio estivo in cui si svolgeva la storia che stava scrivendo. Dai cespugli di sambuco piovevano a terra fiori bianchi, piccoli bottoni di camicia, e nei noci le scorze dei frutti si arrotondavano. Lo zampillo della fontana toccava quasi il cumulo di nubi. Da un campo di grano in campagna, vicino al quale pascolavano le pecore, le spighe scoppiavano nella calura, e in tutti gli scoli della città s’accumulava il polline dei pioppi – arrivava ai malleoli – ma così soffice che sotto si vedeva l’asfalto, mentre le erbe del giardino erano percorse da un mormorio che, non appena il calabrone scomparve dentro un fiore, si mutò in un ronzio. Il nuotatore nel fiume immerse la testa sott’acqua, quest’anno per la prima volta, e riemerso all’aria e al sole ebbe nelle narici la sensazione del benessere e del temporaneo rinvio. Viceversa una volta lo scrittore, immaginando d’estate una storia invernale, si era chinato nel folto dell’erba e aveva fatto una palla di neve da gettare al gatto per gioco.

IV

Rinfrancato dalle immagini, uscì all’aperto e si azzardò persino a dirigersi subito fuori città attraverso quel vicolo animato che tra sé aveva chiamato «il vicolo delle salmerie», perché lì non aveva mai incontrato una persona sola e inoltre, al massimo a metà strada, si perdeva. In tutti quegli anni aveva sempre cercato di considerare quel tratto di strada come un luogo simile agli altri e aveva cercato di descriverlo in base ai suoi angoli, ai suoi dossi e ai suoi panorami – come se una simile «localizzazione» fosse un problema da scrittore, e infine ogni volta, molto prima del termine del vicolo, si era allontanato in silenzio sgusciando attraverso un passaggio. Ma questa volta non era già un buon segno che lui passasse per così dire a testa alta davanti alla libreria che si trovava sulla strada senza dover guardare la vetrina per vedere se era esposto uno dei suoi libri? (Già altre volte aveva creduto di aver perso finalmente quell’abitudine e poi, ancora felice e fiero all’idea, automaticamente aveva girato la testa.) Nel vicolo, che si snodava in serpentine per tutta la sua lunghezza senza un punto in cui si vedesse l’uscita, con case alte dai tetti sporgenti, imbruniva già, mentre la striscia di cielo in alto era ancora chiara, come una copia del vicolo sottostante. Di negozio in negozio si udiva sempre la stessa musica di Natale, interrotta dalle voci degli altoparlanti che vantavano la merce con una cantilena fatta quasi soltanto di cifre. Per quanto compatti sembrassero i gruppi di persone che gli venivano incontro, lo scrittore non fu ignorato. Tra le prime case, poco dopo la strettoia, un gruppo di giovani concentrò su di lui uno sguardo, ma non di riconoscimento, bensì d’incomprensione o addirittura d’ostilità. Immaginò che fossero appena usciti dalla scuola, dove avevano dovuto parlare del significato o dello scopo o dell’origine di un testo letterario e che ora, tornati infine liberi, avessero deciso di

non aprire mai più un libro e di disprezzare senza eccezioni i responsabili di una simile coazione. E non poteva neppure dar loro torto per questo; infatti, spesso con un suo rincrescimento, non era l’uomo che, sicuro della propria funzione, prende la parola e si presenta, come forse avrebbero fatto un oratore o un cantante – tutt’al più al contrario, ogni volta era sul punto di perdere la parola o nel migliore dei casi era rapito dalle parole e, quando l’avvenimento diveniva pubblico, in seguito ne provava una sorta di timidezza, anzi di vergogna vera e propria, si sentiva persino colpevole, come se avesse infranto un tabù. Era soltanto una sua peculiarità o aveva anche a che fare con questa ben precisa maggioranza etnica o con la lingua tedesca in particolare, dove già da tempo la tradizione non esisteva più, o comunque non era mai riuscita a formarsi? Con quello sguardo ostile del gruppo, comunque, gli sembrò che per tutta la lunghezza del vicolo si svolgesse la sequenza di un film, ripresa e recitata al contempo da lui mentre camminava – gli occhi che fungevano da cinepresa, le orecchie da sonoro. Non pochi si fermarono e rifletterono visibilmente dove avevano già visto la sua faccia: non era quella nella lista dei ricercati all’ufficio postale, l’unica la cui fotografia non era ancora stata segnata con una croce? Alcuni che rimuginavano ancora da lontano, gli sorrisero all’improvviso avvicinandosi, non per cordialità, ma perché infine sapevano dove collocarlo; tuttavia subito dopo si bloccarono, perché non ruscivano a collegarlo a nulla, non ad esempio a un attore che avevano visto recitare un ruolo, né a un politico che avevano visto comparire in televisione. Solo una volta, in mezzo al vicolo, sembrò che uno dei passanti sapesse qualcosa di lui. Mentre lo sfiorava, per la frazione di un battito di ciglia, percepì, o almeno così gli parve, lo sguardo di un lettore. In seguito non avrebbe nemmeno saputo dire se si era trattato di un uomo o di una donna, era come se l’uno o l’altra avessero un sesso proprio. E credette di riconoscerlo da quei due occhi che, a distanza, gli apparivano riconoscenti, ben disposti, gli manifestavano fiducia e si aspettavano con fermezza che lui continuasse il suo lavoro. Ma proprio a causa di quest’esperienza, tanto fuggevole quanto bella, il tranquillo fluire del film subì una brusca scossa. Rapito dalla serietà degli occhi del lettore, lo scrittore con leggerezza improvvisa si mise a cercare tra la folla altri suoi simili (dove ne compariva uno, raro tra i rari,

dovevano essercene anche un secondo e un terzo!) – e da quel momento, fino al termine del vicolo, gli marciò incontro soltanto un esercito di nemici. Seguito da una serie di sguardi pungenti, si vide esposto ai lettori di seconda mano, agli avversari dei libri, che tuttavia come avviene per ogni cosa tra cielo e terra, dal momento che erano informati si ritenevano anche competenti in materia. Ma la loro malevolenza non era soltanto una sua fantasticheria? No, – l’aveva già sperimentato più volte – erano davvero pronti a balzargli addosso, bramosi di avventarsi su di lui, l’incarnazione di ciò che odiavano, dei sogni ad occhi aperti, della scrittura, del voto contrario, infine dell’arte. Bada soltanto di non capitare in aperta campagna davanti ai parafanghi della mia macchina; di non trovarti davanti al mio sportello; di non doverti alzare al mio cenno dal banco degli accusati; di non trovarti incatenato a un letto con le sponde e di non dover ricevere proprio da me la tua iniezione quotidiana... E inoltre nessuno di quelli che formulavano gli stessi pensieri aveva congiurato con gli altri; nessuno di quelli che lo saettavano con gli occhi sapeva che il suo predecessore aveva appena fatto lo stesso. Questi giovani e vecchi, cittadini e campagnoli, passatisti e progressisti di specie così diverse apparivano accomunati unicamente dal loro odio palese, che lui tra sé e sé chiamava l’odio per i paesaggisti – pensando a un racconto di Čechov, si fa dire a una persona perbene, tesa soltanto alla partecipazione concreta e all’intervento diretto: «Io non le piacevo perché ero un paesaggista». Teneva ancora testa all’avanguardia degli avversari, forse li tranquillizzava persino, simulando un muto colloquio con se stesso, come tante altre volte. Ma poi i suoi nemici divennero così numerosi che tutte le sue forze l’abbandonarono, anche quelle dello sguardo conciliante senza pronunciar parola, che riteneva particolarmente efficace. Invece di capire il contesto, nel film fu investito dai singoli oggetti che si presero gioco di lui: ad esempio scambiò una montatura per occhiali, in bilico fra due dita, per un paio di manette. E in queste fronti tutte ugualmente aggrondate e in questi denti scoperti gli sembrò di vedere il suo ritratto, del tutto diverso dal suo di prima nelle piazze aperte. Alla vista di un mazzo di chiavi che si levò contro di lui da un pugno, abbassò gli occhi su di sé, ritenendo di essere lui stesso la persona armata di chiavi... Tentò di alzare gli occhi al cielo, ma anche lassù si ripeteva quella

confusione: e quando poi riabbassò gli occhi, sul selciato, a differenza di quanto avveniva nel catrame, anziché vedersi orme umane, a ogni due passi si vedevano soltanto i coperchi dei tombini con la scritta «Nettezza urbana». Anche di fianco non c’erano sbocchi, né si scendeva in un laboratorio né si entrava in una casa di abitazione: si poteva soltanto farsi strada tra la folla appiattendosi contro un negozio dopo l’altro dove le varie merci in fila sembravano una trappola e i manichini, quando digrignavano ancor più i denti, si rivelavano vivi. Nei passaggi tra un negozio e l’altro gli occhi degli storpi e dei mendicanti cercavano il colpevole della loro infelicità; e alle finestre dei piani superiori, tutte deserte in confronto al tumulto che c’era in basso, non si riusciva a vedere né una pianta né un animale domestico seduto tranquillo sul davanzale, né una testa (soltanto dietro a una finestra apparivano due bambini piccoli, quasi lattanti ancora, visibili fino al collo, profilo contro profilo, e ognuno teneva le mani affondate, totalmente immobili, nei capelli dell’altro). Il film, così armonico all’inizio, procedeva non soltanto a salti, addirittura a strappi. Ma in compenso in quella confusione si potevano distinguere molto meglio le voci e i rumori riguardanti lo scrittore: per strada c’era un numero incredibile di persone che già prima avevano pensato a lui e che ora volevano anche vederselo davanti. Altrimenti, perché avrebbero sputato fuori le loro sentenze così d’un tratto, spesso a voce alta, come se le avessero pronte da tempo? Com’è naturale mai si rivolgevano a lui, ma parlavano al vento o rivolti a chi li accompagnava, molti con semplice bisbiglio, sicché si percepivano unicamente le controdomande, «Chi?», «Che cos’hai detto?», «Che cosa può avere quello lì?», «Perché gli vuoi...?» Anche quelli che si comportavano come una coppia, mano nella mano, persino abbracciati, non appena lo vedevano si lasciavano immediatamente e, notevolmente sollevati dal non dover più recitare la parte di coppia, passandogli accanto sparlavano della sua persona. Non soltanto le parole erano dirette a lui, anche i singoli suoni, anche un semplice prender fiato. Mentre l’uno cantav in modo espressamente sbagliato una melodia, un secondo sbadigliava con tutte le sue forze, un terzo tossicchiava in modo affettato, un altro batteva a terra il suo bastone da passeggio con il puntale di ferro, il suo vicino sbuffava con il naso e a costui rispondeva un coro di ticchettii di scarpe col tacco. Presso le ultime case del vicolo

– oggi ce l’aveva pur fatta ad arrivare lì – ancora una volta fu suggellata la sconfitta dello scrittore: prima fu interpellato da dietro e, quando si girò d’istinto, fu subito fotografato; poi un uomo vestito di nero gli sbarrò il cammino; alzò il dito indice e annunciò solennemente: «Seguo tutti i suoi libri!», e infine un altro, senza neppure guardarlo, chiese: «un autografo per mio figlio». Mentre esaudiva la volontà di costui (avrebbe proprio desiderato possedere un terzo braccio meccanico), a differenza di quanto avveniva dopo aver terminato il lavoro, gli sembrava di non essere più uno scrittore, ma di limitarsi a recitare quel ruolo, in modo coatto e ridicolo; non lo dimostrava anche il fatto che prima di firmare aveva dovuto riflettere per ricordare il suo nome? D’altra parte diceva a se stesso che ben gli stava; aveva pur permesso che il suo viso diventasse noto. – Ma se nel suo mestiere avesse avuto la possibilità di ricominciare, non avrebbe più lasciato circolare nessun suo ritratto! Quando dalla strada carrozzabile in cui si allargava il vicolo si volse ancora una volta a guardare il teatro della sua infelice comparsa in pubblico, pensò a quell’autore di cui a ogni nuova pubblicazione solevano dire che passava «di vittoria in vittoria», poi immaginò che in tutto il paese non esistessero più lettori, e ricordò il suo sogno del libro dal quale, all’inizio ancora pieno di segnalibri – come una nave che abbia messo alla vela – al risveglio erano spariti tutti i segni.

V

Dopo, gli fece bene muoversi nel rimbombo e nel chiasso del traffico. Strano, che dopo decenni potesse ancora perdere la calma così facilmente e che dopo aver lavorato così a lungo, spesso in modo così entusiasta, a opere che l’avevano appassionato, vivesse sempre senza certezza. E fece un altro dei suoi voti: cambiare il corso dei suoi pomeriggi fino al termine del lavoro attuale! Fino allora non avrebbe più aperto un giornale e avrebbe evitato il vicolo, anzi il centro della città in genere. Direttamente in periferia, quello è il mio posto! Oppure perché non restare addirittura a casa, nella sua stanza, dove era giusto stare e dove non sentiva né fame né sete né bisogno della compagnia dei suoi simili – così come se l’immergersi in sé, l’osservare e annotare bastassero a nutrirlo, ad abbeverarlo o a inserirlo nel corteo dei passanti? Nell’ultimo riflesso del giorno, non stava forse rilucendo la carta della macchina da scrivere, con le matite attorno rivolte verso i punti cardinali, e dal colle vicino non brillavano forse nello spazio, a intervalli regolari, i segnali per gli aerei della sera? Tutta la casa, con le orme dei suoi passi e la ringhiera della scala, dava un’impressione di abbandono; le piante nell’ingresso, con qualche fioritura invernale, sembravano esigere considerazione. La strada si trasformò ben presto in una strada d’attraversamento. All’incrocio erano appesi, spalla a spalla, due crocifissi, l’uno rivolto verso il centro, l’altro verso la periferia. Sulla panca sottostante, tra varie sacche di plastica, sedeva un vecchio dai capelli grigi e nel rumore del traffico lanciava all’umanità un’invettiva, di cui, passandogli accanto, si poteva udire soltanto qualcosa come «Cercate la vecchia città in rovina, porci, e siete stati proprio voi a distruggerla!» Quella voce squillante stimolava, si procedeva spediti ascoltandola il più a lungo possibile e quando si

arrivava al tronco di un platano abbattuto di recente, si aveva l’impressione di scoprire davvero le dentellature e i merli della «città in rovina» evocata dal folle. Quando un’automobile frenò bruscamente davanti al viandante e con suo sollievo gli fu chiesta soltanto la strada lui si augurò di incontrarne altri che non la conoscevano; avrebbe potuto aiutarli tutti. Un gruppo di gente ferma a lato della carreggiata, come per un assembramento, era invece in attesa a una fermata d’autobus. Più oltre, seguivano quasi soltanto distributori di benzina, depositi, e tra l’uno e l’altro sempre più spazi vuoti. Guardando indietro verso il centro si avvertiva la presenza del fiume, senza vederlo, dai gabbiani che volavano in cerchio sopra i tetti. Gli alberi lungo la strada digradavano in siepi e cespugli pieni di piccole bacche bianche. Com’era stato vario il verde del fogliame estivo, com’era vario anche adesso il grigio dei rami invernali – il primo distinguibile da lontano, il secondo da vicino. In uno di questi cespugli con tutte le sfumature di grigio vide una massa colorata, a prima vista un cartellone pubblicitario caduto dall’alto, ma poi, dalle dita che si piegavano, divenne riconoscibile un essere vivo. Era una donna anziana, con gli occhi chiusi, quasi senza capelli, stesa bocconi, non però a terra, bensì in alto tra i rami, che si divaricavano sotto il peso. Soltanto le punte delle sue scarpe toccavano terra; il corpo era sospeso per traverso e ricordava, anche per via delle braccia allargate, un aereo che avesse tentato un atterraggio di fortuna finendo sulla cima di un albero. La donna aveva le calze rovesciate fino ai polpacci e la fronte solcata da una ferita sanguinante, forse causata dalla spina di un cespuglio. Doveva trovarsi lì già da molto e avrebbe potuto restare così ancora a lungo, poiché di lì a piedi non passava nessuno. Ora il solo che vi era passato non riuscì a sollevare dalla macchia il corpo pesante, stranamente caldo. Ma allo spettacolo straordinario già molte macchine si erano fermate e accorrevano i soccorritori, pur senza chiedere. Quindi, radunati sul marciapiede attorno alla donna, cui fecero scivolare un cappotto sotto la nuca, rimasero tutti in attesa

dell’autoambulanza. Sebbene nessuno di loro si conoscesse, si misero a chiacchierare, persino gli stranieri, come vicini di vecchia data riuniti da una felice combinazione. Tra loro regnava un anonimato addirittura allegro. E anche l’infortunata, che era in sé, con i grandi occhi molto chiari, costantemente fissi su chi l’aveva trovata, rimase senza nome. Sicuramente lo ignorava, così come ignorava il suo indirizzo e il modo in cui era finita tra le spine sulla strada di scorrimento veloce. Era in camicia da notte, vestaglia e pantofole, e avanzarono l’ipotesi che provenisse da un’ospizio e si fosse smarrita. Parlava la lingua nazionale, non il dialetto, ma con un accento che faceva pensare non a una lontana regione, bensì all’infanzia di colei che parlava; come se, per la prima volta da allora, le uscissero di nuovo i suoni dell’infanzia. E in effetti erano semplici sillabe e singoli suoni, diretti come i suoi sguardi esclusivamente al suo scopritore, a cui lei, in modo incoerente, misterioso e al contempo con voce tanto più chiara, voleva comunicare qualcosa di urgente. Soltanto lui poteva capirla – nient’altri che lui, e senza riserve. In poche frasi spezzate, incomprensibili agli altri, gli raccontò tutta la storia della sua vita, dagli anni di gioventù fino al presente e, già presa in custodia dall’ambulanza, gli impose la sua storia fino all’ultimo sporgendosi dalla vettura come se gli affidasse un incarico. E quando lui fu di nuovo solo, dopo es ersi congedato dai suoi compagni, non ebbe forse l’impressione d’intuire tutto di quella vecchia confusa? Già da sempre l’intuizione non gli aveva forse dato di più che non il sapere letterale? Guardò il cespuglio vuoto e vide in futuro il corpo pesante, con le dita che si piegavano, sempre distesa nello stesso luogo: «O voi, sacri presentimenti, restate». Poi, mentre attraversava un campo, cominciò a nevicare. «Nevicare» e «cominciare» per lui erano due fenomeni connessi come pochi altri, e «la prima neve» era qualcosa come la prima cedronella di una primavera anticipata, il primo richiamo del cuculo a maggio, il primo tuffo in acqua d’estate, il primo morso a una mela d’autunno. Inoltre con gli anni l’attesa era diventata più efficace che non l’evento in sé: anche questa volta era come se lui avesse sentito in anticipo, in mezzo alla fronte, i fiocchi di neve che ora lo sfioravano soltanto.

In aperta campagna, dove camminava come al solito in diagonale, l’anonimato appena acquisito, favorito dalla caduta della neve e dalla passeggiata solitaria, era costante. Era un’esperienza che un tempo forse sarebbe stata definita come «sconfinamento» o «perdita di sé». Essere ormai soltanto all’esterno, vicino alle case, dava una sorta d’entusiasmo; come se s’inarcassero le sopracciglia. Sì, essersi liberato del nome era entusiasmante; così sembrava di sparire nel quadro, come il leggendario pittore cinese; si vedevano, ad esempio, in lontananza i bracci pensili di un filobus sfiorare al passaggio, come antenne, un pino alto, isolato. Strano che tante persone, quando erano sole, col loro borbottare, schiarirsi la gola e soffiarsi il naso ricordassero certe macchine scoppiettanti che devono essere rimesse in moto; e che a lui, di regola, avvenisse esattamente l’opposto: soltanto quando era solo con le cose, senza nome, si metteva davvero in moto. Se qualcuno ora gli avesse chiesto come si chiamava, la risposta sarebbe stata «Non ho nome», e in tono così serio che chi gli aveva posto la domanda l’avrebbe capito all’istante. Dapprima la neve rimase sull’erba dello spartitraffico come se per strada fossero distesi tronchi di betulle uno dietro l’altro, fino all’orizzonte. In un cespuglio spinoso i singoli cristalli rimasero infilati sulle spine cingendole come collari. Sebbene tranne lui nessuno fosse per strada, a ogni passo gli sembrava di calcare le orme di qualcuno che l’aveva preceduto. Lì, al limite della città, c’era il luogo cui si era ispirato quel giorno mentre scriveva. Voleva andarsene, e invece si fermò su un ponte di legno che attraversava il ruscello. La regione fu scossa dal rombo di un areoplano che si alzava in volo, e sul fondo dell’acqua l’erba serpeggiò. La neve, ora non più a fiocchi fluttuanti verso terra, ma sotto forma di palline dure, sprofondò nel ruscello come le ghiande d’autunno e nel contempo da lontano, attraverso il crepuscolo, giunse dal villaggio lo scivolìo e lo schianto delle piastre del curling, e per un attimo l’ascoltatore rivide i suoi avi. Si accinse a innalzare una lode alle sue calzature, gradevolmente calde e solide attorno alle caviglie, come alle prime scarpe della sua vita con cui era bello camminare:

«Con chi vi ha preceduto rischiavo sempre di correre. Ma ora voi siete quelle giuste, perché con voi affondo nella terra, e soprattutto perché mi servite da freno, così necessario. Voi lo sapete, l’unica ispirazione che ho avuto finora è la lentezza». Al limite della città si mise a sedere al coperto sulla panca di una fermata d’autobus. Quanto più stava dritto e quanto più respirava lentamente, tanto più si riscaldava. La neve produceva un rumore raschiante lungo le pareti della baracca. Quest’ultima, come la panca, era di legno grigio disfatta dalle intemperie; sulla parete posteriore un fitto strato di manifesti strappati, brandelli di scrittura bianca senza senso. Subito dietro al casotto per l’autobus c’era la diramazione per l’autostrada; alla biforcazione un posto di ristoro ben illuminato, dove un uomo baffuto, con un alto berretto da cuoco che sembrava di puro lino ma soltanto ad un più attento esame si rivelava di carta, si affaccendava di continuo, senza clientela, tra vapori, esalazioni e fiamme di fornelli; alle sue spalle, vicino ai bidoni di latta e ai bicchieri di carta, un orologio a parete fuori moda con le lancette curve e i numeri romani. Oltre la diramazione per l’autostrada c’era una collina artificiale, un circuito di prova per le vetture, chiuso durante l’inverno così come il campeggio confinante. I pochi pioppi lì dietro, ognuno con il profilo d’un uccello, erano il residuo di un vecchio viale, e lì aveva inizio una savana di stoppie in cui si addentrava la pista di cemento di una vecchia strada militare, ancora con le tracce dei cingoli. Tutto questo paesaggio periferico, immerso nel frastuono dei veicoli che sembravano essersi riuniti qui da tutte le direzioni del mondo, gli appariva confortevole come quel paese di confine dei sogni, dove uno poteva sostare, a differenza di qualsiasi altra parte nell’interno del paese. Sentiva il desiderio di dimorare in una di quelle baracche sparse, con un giardino posteriore che dava direttamente sulla steppa, oppure lì sopra il deposito, dove un paralume appena acceso diffondeva un riflesso giallo. Matite; un tavolo; una sedia. Dalle zone periferiche emanavano freschezza e forza, come in una perenne epoca di pionieri.

Fu sopraffatto dal bisogno di leggere qualcosa, proprio in quel luogo. Tutto ciò che aveva con sé era la cartolina illustrata dall’America. Ma nonostante la cruda illuminazione stradale, ancora una volta non riuscì a decifrare la calligrafia dell’amico di un tempo, che sembrava imitare sempre più il zig-zag del suo inspiegabile vagabondare per il continente – su ogni cartolina c’era un timbro postale diverso. Mentre sul davanti si vedevano sempre le stesse immagini di una natura priva di esseri umani, un deserto, un canyon, una sierra, dal testo sul retro col tempo erano sparite le ultime lettere riconoscibili. Fino a poco tempo prima i due punti, le parentesi e le serpentine avevano ancora fatto pensare a qualcosa di arabo; ma nel frattempo i tratti avevano perso qualsiasi forma, e anche la distanza tra l’uno e l’altro era diventata così grande o irregolare, che non si poteva neppure più intuire un nesso (soltanto l’indirizzo e il «as ever» con sotto il nome erano scritti con la stessa chiarezza di sempre). In compenso, ciò che gli oscuri scarabocchi trasmettevano all’osservatore, evidente nella pressione esercitata sullo strumento usato, nel doppio tratto della penna, negli schizzi d’inchiostro, era uno sforzo furibondo: come se la carta fosse stata aggredita sempre di nuovo e sempre invano. Ma quella scrittura cuneiforme storpiata, cancellata da tutte le impronte delle mani, rivelava anche qualcos’altro: una minaccia, un presagio di morte e di fine che assaliva il destinatario. Dal lato del casotto rivolto verso la città si diramava un’ultima stradina residenziale. Con lo sguardo aguzzato dallo sforzo di decifrare, il lettore alzò il capo. Lo specchio all’imbocco della strada rifletteva ancora il cielo diurno, un piccolo quadrato luminoso nell’oscurità che l’avvolgeva. Sotto quel cielo le case dell’abitato, tutte coi tetti a punta, apparivano rimpicciolite e al contempo rialzate, con gli orli dei tetti ripiegati all’insù come nelle pagode. Persino la strada, in realtà tutta diritta, sembrava serpeggiare e gonfiarsi e alla fine, nello spiazzo tra le case, dava un’illusione prospettica quasi tangibile, come se proseguisse ancora. L’immagine riflessa nello specchio era senza stagione; la neve nell’aria avrebbe potuto essere anche un insieme di semi trasportati dal vento, e quella a terra avrebbe potuto essere anche un ammasso di fiori sfioriti. La

convessità dell’immagine conferì uno splendore allo spazio vuoto, e in questo vuoto gli oggetti, i contenitori per il vetro, i bidoni per l’immondizia, le rastrelliere per le biciclette acquisirono un carattere festivo; e contemplare tutto questo era come uscire su una radura. In quell’immagine anche gli esseri viventi sembravano trasformati: davanti a un supermarket adulti e bambini, ravvicinati dallo specchio e distinti con molta chiarezza nelle loro dimensioni, per una volta stavano insieme tranquilli e avevano tempo; e sulla strada, anziché una macchina, spuntò un unico enorme uccello e nella luce descrisse una curva verso l’osservatore con ampie oscillazioni (e poi gli passò accanto volando minuscolo nell’oscurità, con un pigolio). Il campo giochi quadrato al limite dell’insediamento fu arrotondato dallo specchio in un ovale, al momento senza pubblico, ma nel vuoto dondolava ancora un’altalena, visibile finché il movimento impresso dal bambino fu trascorso in un semplice vibrare delle corde nel nevischio. «Vuoto, mio principio. Vuoto, mio amato.»

VI

Sebbene non si fosse verificato nulla di particolare, aveva la sensazione di aver già vissuto abbastanza per quel giorno – di essersi assicurato il domani. Per oggi non aveva bisogno d’altro; né di vedere né di parlare e meno che mai di sperimentare una novità. Soltanto riposare, chiudere gli occhi, non ascoltare; nient’altro, se non inspirare ed espirare. Avrebbe voluto che fosse già l’ora di dormire. Non essere più alla luce ed all’aperto, ma al buio, a casa, in camera. Ma era anche stanco di essere solo; con il passare del tempo si sentiva sempre più preda di tutte le possibili forme di pazzia, come se gli scoppiasse la testa. E anni prima, quando era andato a camminare ogni pomeriggio per vie secondarie, sempre solo, senza un’anima che prendesse atto della sua persona, non aveva forse pensato, con una strana angoscia, di essersi dissolto nell’aria e di non esistere più? Quindi, da un lato per non provare più nulla, dall’altro per assicurarsi che non era pazzo, bensì al contrario, uno dei pochi abbastanza sani, come la società gli aveva sempre dimostrato – ora entrò in quella trattoria al limite della città che fra sé e sé chiamava «la bettola». Era situata in prossimità di un bivio e durante i mesi di lavoro a intervalli era stata la sua meta. Lì aveva persino il suo posto, in una nicchia della parete vicino al juke-box, con la vista sull’incrocio dietro a cui c’era il deposito delle macchine usate. Ma questa volta, dopo essersi fatto strada tra la folla trovò la sua nicchia murata. Per un attimo ebbe la sensazione di aver scambiato il locale per un altro o di trovarsi in un luogo sbagliato – finché, uno dopo l’altro, riconobbe i visi che potevano far parte solo di quel preciso locale, in quella luce artificiale e in quel fumo. (Se li avesse incontrati di giorno, in centro, presi singolarmente, non avrebbe saputo dove collocarli.) Mentre si sedeva da qualche parte guardandosi attorno, di ognuna di queste persone lo colpirono di nuovo certe particolarità. Era venuto a conoscere tutta la vita di molti di loro e già il giorno

seguente ne aveva dimenticato la maggior parte. Quello che invece gli rimaneva impresso erano certe esclamazioni, certi gesti ed inflessioni. Il primo una volta aveva coniato un proverbio: «Quando ho ragione, mi agito; quando ho torto, mento»; il secondo andava a messa una domenica dopo l’altra, perché in chiesa sentiva sempre un brivido di freddo sulla schiena; la terza chiamava ognuno dei suoi instabili amanti «il mio fidanzato»; il quarto una volta aveva gridato all’improvviso, coprendo gli asco tatori di spruzzi di saliva: «Sono perduto!»; del quinto, che soleva ripetere di continuo di aver avuto tutto dalla vita, gli era rimasto nella memoria un contatto sul polso, un tocco di una delicatezza di cui era capace soltanto una persona prossima alla disperazione. Quella compagnia era tanto indefinita quanto lo era il luogo stesso: in una delle due sale, le corna di cervo accanto alla fotografia a colori di una giunca; nell’altra, il soffitto a stucchi di una villa sopra il pavimento da ballo rustico leggermente rialzato. Anche il solito tavolo riservato, in uno degli angoli, massiccio come da qualsiasi altra parte, era occupato sempre dai medesimi, ma senza che costoro avessero qualcosa in comune: il diplomatico in abito di seta sedeva vicino al locandiere precedente in scarpe di feltro, che ora abitava in una delle stanze al piano superiore; il suo vicino era un reduce della legione straniera, che nel frattempo aveva indossato l’uniforme di «obiettore di coscienza»; e il suo dirimpettaio era un assistente di bordo disoccupato, sempre in tenuta da corsa, con la moglie, un’infermiera (sotto la sedia, un casco da motocicletta). Qualsiasi altro avventore nei due locali sarebbe stato ugualmente bene a quel tavolo. Ognuno di loro aveva in comune soltanto il fatto di aver già pensato spesso di scrivere un libro sulla sua vita «fin dalla nascita!», di mille pagine almeno. Tuttavia, non appena si chiedeva qualcosa di più, in genere veniva fuori soltanto un fatto di scarsa importanza, o c’era chi guardava dalla finestra, una capanna che bruciava nella notte ad esempio, o si parlava dei fiumi di fango dopo un temporale, spesso in tono così fervido, come se questi fatti marginali potessero sostituire l’intera vita. La serata nella bettola cominciò bene per lui. Gli altri si comportavano come se non lo notassero, e nel contempo gli lasciavano persino troppo posto, sia che restasse seduto o

che si muovesse. Sapevano che non veniva lì per osservarli o per «raccogliere del materiale», bensì perché probabilmente era un’esistenza marginale, proprio come loro. Premendo i tasti del juke-box, dopo la ricerca quotidiana della parola provava il benessere delle pure cifre. Ancora prima che attaccasse la canzone – ora aveva voglia di sentir cantare una voce di donna – l’apparecchio gli trasmise il suo ronzio e il successivo scossone. Anche se, per via del rumore, della musica non arrivava quasi nulla, a volte riconosceva quel singolo intervallo che gli bastava. Al tavolo dei giocatori uno alzava gli occhi di continuo all’invisibile cielo, mentre gli altri, con le loro carte ben strette, lo sorvegliavano con la coda dell’occhio. Al tavolo vicino alla porta i pendolari aspettavano l’ultimo autobus per ritornare nei loro villaggi. A un tavolo libero c’era un cartello «Riservato», ed era anche apparecchiato, in attesa di un gruppo che evidentemente aveva qualcosa da festeggiare; infatti la figlia dell’oste, che per un certo tempo aveva fatto il tirocinio in un locale completamente diverso, sfoderava come per magia grandi tovaglioli bianchi; nel sollevarli uno ad uno li spiegava come fossero ventagli. Il gatto, che dormiva sul davanzale tra i vasi delle piante, era talmente simile al suo, che in un primo tempo lo scrittore pensò che gli fosse corso dietro fin lì. Dalla fessura tra le tende si poteva vedere il flusso ininterrotto degli autobus della sera, stracolmi di gente seduta e in piedi, e per un solo momento, attraverso i vetri appannati, ogni singolo viso fu riconoscibile nella sua diversità. Questa immagine richiamò alla mente dell’osservatore un albero, d’estate, davanti alla finestra della sua stanza, verso il quale una volta, dopo esser stato sprofondato a lungo tra le carte, aveva alzato gli occhi e si era delineata la forma di ogni singola foglia e di tutte le foglie insieme al contempo. Quell’estate di lavoro gioioso dischiuse ora alla sua fantasia una lenta danza d’immagini: dalla scala di pietra con le foglie palmate delle felci, tutte spiegate eccetto una, spiraliforme come un pastorale, si saliva sull’altopiano ombreggiato dalle nubi, dove l’albero affollato di api ronzanti simulava un monotono coro umano, da lì si proseguiva su una strada di campagna, dove un ciclista frenava bruscamente, con un occhio lacrimante per la mosca che vi si era posata, e superando il trivio si scendeva fino al lago, nero e deserto per il temporale, sulla cui riva, al riparo di un chiosco, era seduto un vecchio con

un cappello di paglia, vicino a ui il nipote scalzo, a entrambi una raffica di vento gettò davanti ai piedi un tappeto di ghiaccio, sicché infine di notte nel giardino una lucciola s’avvicina descrivendo una curva, vola nella casa aperta, buia, e ne illumina gli angoli, in uno dei quali è rannicchiata una cavalletta. Questo fantasticare in una serie d’immagini lo allontanava dal presente? O non piuttosto glielo decifrava, glielo chiariva, stabiliva un collegamento con ciò che era isolato e dava a ogni cosa il suo nome, al rubinetto gocciolante della birra vicino al rubinetto dell’acqua che perdeva dietro il banco, agli sconosciuti all’interno e ai profili all’esterno? Anzi, mentre fantasticava in questo modo gli oggetti e le persone presenti gli apparvero tutti insieme senza che avesse bisogno di contarli, come gli erano apparse le foglie di quell’albero d’estate. Ma proprio di fronte a un simile presente risultò chiaro che cosa ancora mancava: l’aggiunta della bellezza in forma di una donna – non per lui in particolare (poiché dal tempo in cui aveva toccato il limite del linguaggio, gli sembrava di aver quasi perso anche il suo corpo), ma per tutti coloro che si trovavano nel locale! Già una volta, d’un tratto, una simile apparizione in carne e ossa si era fermata nel vano della porta, alla ricerca di un telefono? per comperare delle sigarette? per farsi spiegare la strada per la città? e alla sua vista tutta la grigia compagnia della bettola si era trasformata ridestandosi. Senza abbassare il tono di voce o senza guardare espressamente nella sua direzione ognuno, per la durata della comparsa della bellezza, aveva cercato di mostrare il suo lato più nobile, fors’anche soltanto al suo immediato dirimpettaio; e anche dopo la sua uscita – su di lei non fu detta neppure una parola – coloro che erano stati lasciati rimasero uniti ancora a lungo da una sorta di timidezza in cui gli occhi, stranamente unanimi, si animavano di continuo. Era accaduto già da tempo, ma ancora adesso lui – lui soltanto? – talvolta alzava il capo verso la porta nella speranza che la sconosciuta comparisse sulla soglia una seconda volta. Non era mai venuta, non venne neppure oggi, e il dolore per la sua assenza si gonfiò quasi in indignazione. La porta restò chiusa. Invece dal banco si avvicinò un ubriaco, reso invisibile dalle nuvole di fumo. Arrivato al tavolo, dapprima, come se avesse un occhio solo, fissò lo sguardo sul blocco per appunti, poi sulla persona che vi sedeva davanti, e con uno sforzo su se stesso cominciò anche a parlare. Così

facendo, il suo viso s’avvicinò al punto da perdere qualsiasi nettezza di contorno; si distinguevano soltanto le palpebre che fremevano con impeto e il farfallino puntat sotto il mento; sulla fronte aveva un graffio, che doveva aver sanguinato di recente. Una puzza atroce, non soltanto di sudore, emanava da lui; come se in lui si fossero accumulate tutte le puzze del mondo, da quella di carogna fino a quella di zolfo. Del suo discorso invece non una parola arrivava all’altro, neppure tenendo l’orecchio vicino alla sua bocca. Né l’uomo parlava un idioma straniero, a giudicare dai movimenti delle labbra e della lingua doveva trattarsi di quello locale. In esso non si percepivano neppure suoni sibilanti di un bisbigliare: dell’oratore si distingueva soltanto il suo continuo passarsi la mano sulla guancia o il suo riprendere fiato nel mezzo del discorso, un suono prolungato come quello di uno strumento che si accorda. La richiesta di alzare il tono della voce era sempre seguita da uno scatto del corpo – le spalle si drizzavano, il corpo si tendeva – quindi ricominciava la loquacità di prima, afona come prima. Sebbene l’uomo non guardasse il suo dirimpettaio né facesse alcun gesto verso di lui, quello che tentava di dire era inequivocabilmente diretto a lui solo. Voleva comunicare qualcosa d’importante proprio a lui. E per un certo tempo in effetti sembrò che l’ascoltatore capisse la questione che gli veniva posta; e sembrò anche che annuisse nei punti giusti (infatti l’altro rideva come a conferma). Ma poi, d’un tratto – questa parola detta alla leggera per una volta corrispondeva all’avvenimento – egli perse il nesso misterioso noto a loro due soltanto, e subito, in modo repentino e inspiegabile, seppe di aver perso anche l’aggancio per poter scrivere la mattina seguente, che aveva creduto di essersi assicurato nel corso del pomeriggio e senza il quale non poteva continuare il lavoro. Già gli era balenata ogni singola frase, fino alla frase conclusiva – ormai si trattava soltanto di trovare la successione giusta – e d’un tratto non c’era più una parola che valesse qualcosa; anzi a ripensarci, tutto quello che aveva fatto finora a partire dall’estate, e che nelle ultime ore gli aveva fatto drizzare le spalle, fu annullato in un momento. In un primo momento lo attribuì al fumo della bettola, che ostacolava non soltanto il respiro ma anche la fantasia, e si recò alla toilette per concentrarsi al fresco, davanti alle piastrelle e all’acqua corrente. Ma anche lì in lui tutto rimase muto; l’opera, sentita fino a un attimo prima

come un arioso involucro, sembrava mai esistita; nello specchio, il suo nemico. Contro voglia ritornò al tavolo, prigioniero dell’uomo che parlava con voce afona, il quale, rimasto nel frattempo in imperiosa attesa, si rizzò e gonfiando il petto riprese senza indugio il suo discorso oscuro come interrotto a metà frase. Il suo -- ormai soltanto in appar nza – ascoltatore aveva un incubo notturno ricorrente. Lo sognava unicamente nei periodi in cui scriveva, e non c’era nessuna azione, bensì una sentenza sempre uguale, ripetuta per tutta la notte: non soltanto ciò che aveva scritto durante il giorno era noioso e di nessun valore, ma non era neppure lecito; lo scrivere era perseguibile; la presunzione di creare un’opera d’arte, di scrivere un libro, era il più grave dei crimini, per il quale diversamente da tutti gli altri c’era la dannazione. E lo stesso sentimento d’imperdonabile colpa e dell’essere bandito dal mondo per sempre lo riviveva ora, con i sensi svegli, in mezzo alla sua cerchia del tempo libero. Ma, a differenza di quanto avveniva nei sogni, poteva interrogarsi con ordine sul problema dello scrivere, del descrivere, del raccontare. Qual era il suo problema, il problema dello scrittore? E nel suo secolo esisteva ancora un simile problema? Che specie d’uomo era ad esempio quello le cui azioni e le cui sofferenze esigevano non soltanto di essere riferite, archiviate o di diventare materia per i libri di storia, ma addirittura di essere tramandate sotto forma di epopea o anche soltanto di poemetto? E a quale Dio si poteva ancora intonare un inno di lode? (E chi aveva ancora la forza di decidersi a lamentarsi di un Dio assente?) E dov’era il vecchio sovrano, il cui regno doveva essere festeggiato non soltanto a colpi di cannone? E dove il suo successore, che assumeva la sua carica accompagnato non soltanto da lampi? E dov’erano i vincitori di Olimpia, il cui ritorno a casa meritava qualcosa di più degli applausi, dello sventolio di stendardi e di una fanfara? E in questo secolo quali assassini di massa, anziché rispuntare a ogni momento dalla loro tana con qualsiasi pretesto, potevano essere mandati all’inferno per sempre da una sola terzina? E invece, di fronte alla fine del mondo non soltanto immaginaria, ma già possibile dall’oggi al domani, come si poteva semplicemente lasciar fare alle care cose del pianeta, sotto forma di una strofa o di un passo in prosa su un albero, un luogo, una stagione? Quella visione d’eternità – dove era mai? E chi poteva

malgrado tutto appellarsi al fatto di essere un artista e di avere in sé un suo mondo universale? A questa serie di domande giunse poi la risposta seguente: già quando io, da quanti anni ormai?, mi sono isolato e mi sono messo in disparte per scrivere, ho confessato la mia sconfitta come individuo sociale; mi sono escluso dagli altri per tutta la vita. Anche se starò insieme a loro sino alla fine, approvato e benvoluto, iniziato ai loro segreti – non ne farò mai parte. Stranamente d’accordo con il risultato del suo monologo, si calmò e alzò gli occhi sul suo vicino di tavolo, che continuava a muovere le labbra. Quegli occhi non lampeggiavano più; ma la loro immobilità era anche l’esatto contrario del «restare-posati-su-qualcosa». L’avevano sorpreso, lui, il supposto compagno, nel suo assentarsi, il che equivaleva a un tradimento. Dopo un rapido sguardo di disprezzo, molto lentamente l’uomo distolse lo sguardo. E infine, durante questo processo, divenne comprensibile anche l’uomo che parlava con voce afona. Disse: «Sei debole». E «Menti»; quindi si rivolse agli astanti, in fervido tono d’accusa: «Voi tutti non avete idea di chi sono». E infine prese il blocco per appunti dello sconosciuto e in un baleno riempì di scarabocchi le pagine ancora libere, in un groviglio di punti e di spirali, dopodiché si alzò e cominciò subito a ballare, con figure che sembravano seguire i suoi scarabocchi come una partitura. Il ballerino, trasformando in grazia anche il suo vacillare e piegarsi, un, due, tre, scomparve nella baraonda. In sua vece colui che era stato lasciato vide tra la folla al tavolo vicino l’unico avventore che aveva soprannominato il «legislatore», pur senza avergli mai rivolto la parola. Era più giovane di lui, sempre con la stessa giacca di pelo, spalle larghe, orecchie a sventola, grandi sopracciglia arcuate, e occhi così infossati da sembrare piccoli. Con la sua attenzione sempre vigile aveva un che di guerriero. Inoltre al suo tavolo era quello che si teneva sempre al di fuori di tutte le risse. Anzi, le moderava: non con l’immischiarsi ma col tacere espressamente. Gli altri attorno a lui agitavano le gambe di continuo in modo inconsulto; soltanto lui restava tranquillo. Lo sguardo equanime ed afflitto con cui osservava

due che si schiaffeggiavano impediva che questi passassero ai pugni o estraessero addirittura i coltelli. Registrava in silenzio qualsiasi minimo particolare e a ognuno dava una muta risposta. Se talvolta apriva bocca per formulare una breve frase, era come se la costante attenzione avesse dato il tono alla sua voce, che non esitava mai a indicare laconicamente il suo posto ad ogni cosa dubbia. Quest’individuo quasi muto era l’istanza del locale; la forza che emanava da lui era la forza del giudizio. Ma il suo genere di giustizia non era una condizione, una norma data, bensì un’attività, sempre diversa a seconda della questione, un rendere giustizia, in un ritmo di muta partecipazione che giudicava e induceva le parti ad accordarsi in silenzio. Questo ascoltatore taciturno dalle pupille lampeggianti che di ognuno si facevano un’immagine, con le spalle larghe che si giravano di continuo – quasi a scandire ciò che avveniva nell’ambiente –, non era forse il narratore ideale? Aveva osservato il legislatore per ore o soltanto per un attimo? Comunque ora gli sembrava di essere nella bettola da un tempo incommensurabile, e non per la prima volta pensò di aver perso la via di ritorno a casa. Incatenato al luogo e incapace di qualsiasi movimento qual era, non riusciva ad immaginare di poter anche soltanto alzarsi, arrivare fino alla porta e raggiungere l’esterno. Per farlo, doveva prima richiamare alla mente ogni singolo tratto della via del ritorno come per l’itinerario di una spedizione, in cui occorre pianificare le strade carovaniere e i sentieri nella giungla, i guadi e i passi come anche i punti d’appoggio. Quando decise di avviarsi, una stecca da biliardo lo sfiorò, un cane gli mostrò i denti, e infine anche la cintura del suo cappotto rimase agganciata alla maniglia della porta.

VII

Fuori per strada abbottonò e riallacciò tutti i suoi indumenti, dalla giacca alle scarpe. Se ora, come aveva immaginato di recente, avesse lanciato il suo blocco per appunti come un disco, questo gli sarebbe caduto davanti ai piedi. Non nevicava più, il cielo era velato dalle nubi. La neve era alta e compatta; le gocce di grasso che colavano a terra dai lampioni disegnavano un paesaggio di bolle in cui sembrava di riconoscere la «città in rovina» del pazzo. Come da bambino si era chinato ad osservare le tracce lasciate dalla pioggia nella polvere di un sentiero, così ora si chinò verso la serie dei crateri; e quando infilò la mano in uno di essi, la neve gli bruciò la pelle con un effetto salutare, come in passato le ortiche. Si avviò verso la città senza compiere deviazioni, con gli occhi bassi, sebbene si sentisse spinto a scegliere la direzione opposta a tutto ciò che si muoveva con lui, o almeno a camminare più in fretta o più lentamente. Era l’ora delle piccole incombenze, in cui, anziché essere assorbito dal lavoro, lo impegnavano soltanto le piccole dimenticanze del quotidiano: di nuovo non aveva scritto la lettera promessa; non aveva ancora letto il manoscritto dello sconosciuto; di nuovo non aveva messo in ordine le ricevute fiscali; non aveva ancora pagato il conto; di nuovo non aveva portato il vestito in tintoria; non aveva ancora potato l’albero del giardino... E gli venne anche in mente che aveva un appuntamento in centro e che a piedi non sarebbe mai arrivato in tempo; anche con il tassì, che fermò subito, avrebbe fatto tardi... Chi lo aspettava era un traduttore, il quale, arrivato dall’estero, era lì da giorni per ripetere i percorsi di un libro ambientato nel luogo, e alla fine voleva ancora chiedere

all’autore un paio di cose e qualche parola. Il punto d’incontro, un bar, era quanto restava di un ex-complesso di cinematografi, dove le tracce della raschiatura sulla facciata esterna, a ben guardarle, lasciavano ancora vedere la scritta «Cinematografi». L’uomo sedeva solo in un angolo in fondo al locale – a prima vista era quasi impossibile distinguerlo dalle fotografie dei divi che tappezzavano tutta la parete – quasi fosse lì da tempi immemorabili, un vecchio che sembrava persino animato dall’attesa, e guardò verso il ritardatario con un’espressione maliziosa, come se conoscesse tutte le fasi del suo pomeriggio. Come sempre lo salutò con una similitudine: «Non è forse vero che sono tutti ai margini del bosco i frutti che invitano ad entrare dove poi non c’è nulla?!» I problemi del traduttore furono risolti rapidamente (perché il responsabile poteva pur sempre rispondere di ogni parola), e subito dopo il vecchio, rivolto verso l’atrio buio dell’ex-sala cinematografica, cominciò un discorso corrente e pacato, come se l’avesse preparato durante l’attesa; e sebbene l’uomo fosse straniero, non soltanto in quella città, ma anche in Europa, la sua voce risuonava nel bar come quella del padrone di casa: per un momento l’elegante proprietaria del locale, una signora con i capelli bianchi che ascoltava la radio dietro il banco d’ottone ricurvo, sembrò sua moglie. Molte delle sue frasi furono precedute da un tono ronzante prolungato, come l’annuncio di un araldo. «Lo sai, anch’io sono stato autore per molti anni. Oggi mi vedi così sereno perché non lo sono più. E ora ti racconterò i motivi della mia liberazione. Ascolta, mio caro! – Agli inizi del mio scrivere scoprii il mondo che era in me come un’attendibile serie d’immagini che mi bastava soltanto guardare e descrivere una dopo l’altra. Ma con il tempo la chiarezza dei contorni si offuscò, e al mio guardare dentro di me fu necessario aggiungere un ascoltare. A quel tempo immaginavo – e sperimentavo anche di continuo che così avveniva – che a me, nel mio intimo, fosse stato dato qualcosa di simile a un testo primigenio, ancora più attendibile delle immagini interne perché non logorabile nel tempo, e che questo testo continuasse a esistere e a

svilupparsi, e se io soltanto avessi interrotto tutte le altre mie attività per concentrarmi su di esso, avrei potuto trasmetterlo all’istante sulla carta. In quel periodo immaginavo lo scrivere come un puro ascoltare ed annotare, come un tradurre, in cui un misterioso linguaggio primigenio sostituiva un originale visibile. Ma con questo mio sogno avvenne come con tutti gli altri miei sogni: quando cercai di annotarlo non solo di tanto in tanto, spontaneamente, come un frammento, bensì in modo sistematico, giorno per giorno, per includerlo in una sorta di Grande Libro dei sogni, il materiale divenne sempre meno e significò anche sempre meno; quello che in modo occasionale, frammentario, diceva tutto, pianificato nel suo insieme non diceva più nulla. Il mio tentativo di decifrare in me un supposto testo primigenio per ricavare in tal modo un contesto mi sembrò quasi un peccato originale. Così ebbe inizio l’angoscia. Di volta in volta mi faceva sempre più orrore occupare il posto e aspettare. Tra tutti i conoscenti che esercitavano la mia professione, per quanto sapevo ero l’unico ad aver paura di scrivere, giorno dopo giorno. E notte dopo notte lo stesso incubo: era imminente una lettura comune davanti ad un pubblico importante, e tutti avevano il loro testo tranne me. Quando poi venne la fine, nel mezzo di una frase totalmente falsa, priva di contenuto, senza ritmo, fui come colpito da un divieto di scrivere, per sempre. Più niente di proprio! Ricordo che quel giorno uscii nel sole cocente, rimasi fermo per ore sotto i meli in fiore, freddo come poteva esserlo soltanto un cadavere, e tuttavia ad un certo punto risi pensando al detto di un grande: ‘Basta soffiare nella mano, e le cose si muovono!’ E dopo un periodo di mutismo divenni quello che conosci: soltanto più niente di proprio! Non oltrepassare la soglia! Restare nell’ingresso! Finalmente posso partecipare, anziché, c me un tempo, dover essere l’unico in gioco, soltanto così, come partecipante, posso finalmente anche avere una possibilità di vittoria. Soltanto nel tradurre – un testo sicuro – godo della mia presenza di spirito e mi sento intelligente. Poiché, a differenza di un tempo, so che in questo caso qualsiasi problema è risolvibile. In verità continuo a tormentarmi, ma non soffro più per i miei tormenti, né aspetto che il tormento prenda forma per sentire il diritto di scrivere. Il traduttore ha la certezza di servire. E quindi mi sono anche liberato dall’angoscia: quanto tempo è passato da quando, temperando le matite

prima di mettermi al lavoro, tremante com’ero, rompevo sempre una mina dopo l’altra! E quando mi sveglio la mattina, anziché, come in passato, tremare di spavento di fronte all’esilio, vorrei essere a casa per tradurre. Un traduttore, questo sono, e nient’altro, senza secondi fini, sono tutto in quello che sono; mentre in passato spesso mi sono sentito un traditore, vivo ogni giorno l’esperienza di essere leale. Il tradurre mi dà una grande pace. Ma attento, amico: le ferite che provo sono rimaste le stesse – soltanto non più nel ruolo del singolo. Una parola giusta mi basta anche oggi per trasformare il mio passo stentato, anche alla mia età, in una corsa. E anche l’urgenza è rimasta la stessa – solo che non mi obbliga più a rimuginare, ma mi concede una riposante superficialità. Così, mentre mostro la tua ferita nella sua veste più bella, nascondo la mia. Morire alla scrivania, lo desidero soltanto da quando sono un traduttore.» Il vecchio voleva ancora rivedere, da solo, la città vuota da cui, mezzo secolo prima, aveva dovuto fuggire al di là del mare, e non volle lasciarsi accompagnare all’albergo. Ma dopo essersi congedato, il suo autore lo seguì di nascosto (com’era sua abitudine, con i conoscenti e anche con gli sconosciuti). Senza essere visto, lo seguì da presso per le piazze e per i ponti e poi anche sull’altra riva. Sebbene l’uomo davanti a lui, tentennando il capo e con l’andatura saltellante di un coniglio, desse l’impressione di camminare in fretta, il pedinatone, per quanto avesse già rallentato il passo, era costretto di continuo a fermarsi bruscamente: non soltanto perché il vecchio camminava a zig-zag come se fosse ubriaco – si fermava anche ogni due passi per portare da una mano all’altra o per posare a terra la borsa con il manoscritto tradotto. In realtà non si trattava di una borsa, bensì di un grosso cesto di vimini rettangolare con un manico per portarlo appeso al braccio e un coperchio di cuoio nero, che a ogni lampione brillava come la pece. Che cosa poteva contenere di tanto pesante? – E in quel momento all’osservatore sembrò di vedere nel cesto il contenitore in cui un tempo avevano affidato al Nilo Mosè neonato, nella speranza che potesse in tal modo sfuggire agli sgherri. Fino alla porta dell’albergo ebbe occhi soltanto per il cesto oscillante sulle onde in cui era nascosto il lattante in viaggio

verso la figlia del faraone.

VIII

Quando fu a casa, in giardino, non sapeva come aveva trovato la via. Non ricordava alcun particolare della sua via del ritorno, sapeva solo di aver camminato sempre in salita, su un sentiero serpeggiante e con gradini di pietra. L’uomo incontrato di notte in fondo alla scarpata del fiume, che suonava un sassofono vicino all’acqua scrosciante, doveva essere stato un’illusione! E non era un’illusione anche il fatto di essere nel suo giardino? Non poteva in realtà essere ancora nella bettola o essere morto da qualche parte, pugnalato, ucciso a colpi d’arma da fuoco o investito da una macchina? Si chinò e cercò di fare una prima palla di neve, ma i fiocchi non volevano restare attaccati. Ripensandoci, gli sembrava, durante le ore in cui non era stato alla scrivania, di essere stato sempre coinvolto in un duello, che però non era più un corpo a corpo o una lotta. Passò in rassegna il giardino e girò attorno a ogni cespuglio e a ogni albero, finché la lentezza con cui lo faceva divenne una forma di riflessione. La casa era illuminata, aveva lasciato le luci accese per il suo ritorno. Sedette vicino alla porta d’ingresso sulla lunga panca di legno, che era simile alle panche su cui solevano sedersi dopo il lavoro i contadini nelle fattorie. Aveva talmente caldo che slacciò il cappotto. Allungò le gambe e sentì sotto i talloni il terreno gibboso del giardino nel suo riposo invernale. Un riflesso brillò sulla neve fresca, in cui l’odore del fogliame caduto e della roccia sottostante si fece più intenso. L’ultima campanula era stata bruciata dai fiocchi di neve che si erano raccolti nel suo calice formando un grumo di ghiaccio; le dentellature del calice di un azzurro luminoso col passar delle ore si erano raggrinzite diventando nerastre. Il rustico sul terreno del vicino, già quasi ricoperto di vegetazione perché il committente aveva terminato i soldi, si ergeva come la rovina di un tempio in un’altra parte della terra. Ora per un attimo un operaio riaprì il suo metro pieghevole, risuonarono grida in una lingua straniera, e la ruota del verricello, che era stata ferma così a lungo ed era

prossima ad arrugginirsi, si rimise in moto e cominciò a girare. In quel momento ricordò il giorno in cui, durante la pausa di mezzogiorno, il giovane apprendista si era disteso sul tetto piano con le braccia incrociate dietro la nuca e lui nella sua stanza, martellando sulla sua macchina da scrivere, attraverso la finestra spalancata aveva a sua volta investito l’altro con il suo rumore universale. Chissà se desiderava avere un vicino? Si accorse che su questa domanda stava addormentandosi: voci che si allontanavano, e poi al loro posto subentrò quell’Unica Voce, atona e nel contempo dilagante per tutto il suo cervello, che gli raccontava i sogni. Sentì parlare di un libro, scritto dal suo predecessore, che conteneva già parola per parola tutto ciò che lui aveva scritto quel giorno. Il sogno dapprima lo fece sussultare e poi lo placò. Si riscosse ed entrò in casa. Come sempre, si aspettava istintivamente di trovare un messaggio o una notizia dietro la porta, gettata attraverso la fessura della buca delle lettere, e anche questa volta non c’era nulla di simile. Come sempre, s’ingarbugliò mentre si slegava le scarpe e ci volle un’eternità per sciogliere i nodi. E come sempre l’animale domestico senza nome, anche quando lui era già entrato da tempo, continuò a fissare immobile la porta in attesa di un altro arrivo. Poiché non sapeva dirgli neanche una parola, lo scrittore lo nutrì, e come sostitutivo per le parole mancanti, gli tagliò la carne a pezzetti più piccoli che poteva. Spense tutte le luci. La neve ed il riverbero della città sulle nubi illuminavano i locali; una chiarità notturna in cui gli oggetti spiccavano tanto più bui. In cucina, fissando il quadrante luminoso della radio, ascoltò le ultime notizie. Sebbene fosse mezzanotte, l’annunciatore sembrava sveglio come in pieno giorno. Tuttavia nel corso dell’annuncio, senza che quello che stava leggendo potesse costituire un motivo, fu sopraffatto da una violenta commozione per qualcosa che l’aveva già tormentato tutto il tempo e che ora stava per esplodere: con un filo di voce, palesemente prossimo alle lacrime – una volta s’interruppe persino e rimase a lungo in silenzio, come uno che cerca ancora di aggrapparsi e che sta per precipitare con un urlo –, riuscì ad arrivare fino alle

previsioni del tempo e a dire ancora «Buona notte», dopodiché lo allontanarono senza indugio dal microfono. Era stato licenziato in quel momento? Era stato abbandonato dalla sua innamorata? Un attimo prima del colpo di gong gli avevano comunicato che gli era morto qualcuno? Si sedette in una delle stanze con la vista sulla stanza seguente, nel suo posto notturno, una sorta di sedia da regista da cui aveva gli oggetti all’altezza degli occhi. La giacca chiara sulla spalliera di una sedia, dove si trovava dall’estate scorsa, per un momento gli fece risentire le ciglia umide del nuotatore nel vento del fiume. Perché sentiva una partecipazione così pura soltanto quando era solo? Perché poteva capire quelli che gli stavano vicino soltanto quando se n’erano andati, e quanto più erano lontani, tanto meglio? E perché si faceva l’immagine più luminosa di quegli assenti che nella sua mente vedeva come coppia? E perché viveva il suo rapporto più intenso con i morti? Perché soltanto i morti ai suoi occhi potevano trasformarsi in eroi? – Si appoggiò una mano sulla fronte, l’altra sul cuore e rimase seduto come in un treno notturno, che poi in realtà sentì anche passare più giù sul ponte d’acciaio attraverso il fiume, con un rumore nella neve come di pattini sul ghiaccio. Poi, quando suonò il telefono nell’ingresso, non alzò il ricevitore: non aspettava nessuno e non voleva neanche più aprir bocca. Non per stanchezza, ma per impedirsi di continuare a pensare si riscosse e si avviò verso la camera da letto. Mentre si lavava al buio – provava una sorta d’avversione già soltanto ad immaginare di vedere il suo viso – gli sembrava che qualcun altro vicino a lui stesse facendo la stessa cosa. Si fermò e sentì che nell’angolo più lontano della casa qualcuno sfogliava di nuovo una pagina di libro. Una sedia fu spostata di nuovo, un armadio riaperto, e le grucce tintinnarono di nuovo una contro l’altra. Strano, come nel ricordo tutti i rumori, persino il cigolio delle porte e il trambusto, si disponessero in accordi. Qualsiasi cosa ora si muovesse a tentoni nella tromba delle scale, aveva il passo troppo leggero per essere una persona.

Prese un bicchiere con la maggior cautela possibile e aprì il rubinetto dell’acqua facendo attenzione per evitare il solito fischio. Tenendo davanti a sé con entrambe le mani il bicchiere colmo fino all’orlo, salì per la scala e rallentò il passo contando i gradini. Anziché rimuginare, voleva soltanto continuare a contare tranquillamente. Con questo pensiero i suoi passi si fecero così leggeri, che nemmeno il solito gradino scricchiolò. Perché non avevano mai inventato un Dio della lentezza? Entusiasta della sua idea, mancò un gradino e sotto i suoi piedi scricchiolò tutta la casa. Evitò di entrare nello studio, nel passarvi davanti diede solo un’occhiata al tavolo per vedere se la pila di carta bianca – dall’estate ogni giorno si aggiungeva un foglio – fosse ancora al suo posto. Sul tappeto era già sistemato, come a guardia della stanza, l’animale senza nome che l’aveva preceduto, una massa curva con la forma del dorso della collina su cui abitava. Quando fu vicino al letto, aprì la finestra. Quel lato della casa opposto al giardino era a strapiombo sulle rocce. Immaginò di cadere e che il rimbalzo fosse ammorbidito dal mucchio di trucioli delle sue matite che col tempo e con gli anni si erano accumulate là sotto. (Già spesso, nel dormiveglia, si era sentito come risucchiare dall’abisso e aveva dovuto aggrapparsi alle colonnine del letto.) Le cime degli alberi apparivano arrotondate dalla neve, e il cielo si era riempito di stelle da un momento all’altro. Ed ecco, cinturato, Orione il cacciatore, e ai suoi piedi il pallido profilo della Lepre: a qualche spanna di distanza scintillavano le Fitte, le Pleiadi. Tirò un profondo respiro, era solo con quel cielo. In un angolo della stanza erano appoggiati i bastoni dei suoi molti vagabondaggi: la bronzea corteccia di nocciolo riluceva all’altezza dei suoi occhi. Che cosa sono? Perché non sono un cantante – neanche un Blind Lemon Jefferson? Chi mi dice che non sia nulla? Ho cominciato sotto il segno del racconto! Continuare. Lasciar perdere. Accettare. Descrivere. Trasmettere. Continuare a elaborare il più volatile dei materiali, il tuo respiro; essere il suo artigiano.

Riposare soltanto, infine. La pace c’era. Lo scrittore pensò al giorno seguente e si ripromise, la mattina prima di mettersi al lavoro, di passeggiare su e giù per il giardino finché le sue orme nella neve fossero diventate così fitte da simulare il passaggio di un’intera carovana, e finché avesse assistito al volo di un uccello. E fece anche un altro dei suoi voti: se non avesse fallito nel suo lavoro – se non avesse perso di nuovo il linguaggio –, la cappella dell’ospizio ai piedi della collina avrebbe ricevuto, per il suo scampanio del mezzogiorno, una campana, che, anziché scampanellare, avrebbe avuto un suono... E poi ripensò al pomeriggio trascorso e tentò di richiamarsene alla mente una parte. Ciò che ricordava erano soltanto i rami oscillanti nella fessura tra le tende della bettola e il cane, che mostrando i denti come un pugile la sua spugnetta, girava intorno lì davanti. Si stupì di sé: quasi il trasalimento, da tempo dimenticato. «... tutto è dato, e io non sono nulla.» Goethe, Torquato Tasso

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