Homo detritus. Critica della società dei rifiuti
 9788809893740

Table of contents :
Copertina
Occhiello
Frontespizio
Colophon
Premessa
Note
Introduzione
L’Antropocene è uno Spazzaturocene
Una nuova specie per una nuova epoca
Una crisi dei rifiuti?
Dimmi cosa getti e ti dirò chi sei
Rifiuti e modernità
Note
Capitolo 1. L’invenzione dei rifiuti: la normalizzazione dell’abbandono
I rifiuti premoderni. Dalla città maleodorante all’idea del riciclo delle materie
Città di sporcizia
Il regno della decomposizione: i rifiuti non esistono
La circolazione permanente dell’immondizia
I lavoratori della spazzatura: professionisti o canaglie?
Venti contrari: la vittoria dell’igiene
Un’economia circolare anzitempo?
I rifiuti moderni. Fine della circolazione e dell’accumulo: verso l’eliminazione dell’immondizia
Confinamenti: «tutto nella fogna» e «tutto nella fossa»
La spazzatura come luogo di confino...
... e come oggetto di protesta
Accumulo: il calcolo economico che istituzionalizza il sistema di smaltimento
Tempo di guerra e tempo di pace: gettare come stile le di vita
La normalizzazione dei rifiuti o la loro presenza patologica
Note
Capitolo 2. La società del riciclaggio: come i rifiuti sono diventati un problema ambientale
Dal locale al globale: l’ecologizzazione strategica dei rifiuti
Waste management: il business della gestione dei rifiuti
Dalla svolta ambientale alla liberalizzazione della gestione dei rifiuti
Rifiuti «per» la tecnica
1990: l’utente al servizio del waste management
La morale del «gettare bene»: come fare di un problema globale una responsabilità individuale
Dal gesto ecologico all’oblio della tecnica
Ecocittadino per dovere
Il punto cieco della politica dei «piccoli gesti»
I rifiuti: il cavallo di Troia dell’ambientalizzazione del quotidiano
«Gettare bene» per dimenticare «meglio»
Note
Capitolo 3. Un mondo di plastica: la fabbrica di un’eternità «usa e getta»
La plastica ha colonizzato la biosfera
Ripulire il pianeta?
La plastica, un materiale del futuro (anteriore)
Una resistenza «extraterrestre»
La plastica è usa e getta?
L’usa e getta come motore di crescita
La plastica è (bio)degradabile?
Bioplastica
Un veleno così discreto
La plastica è riciclabile?
Vietare la plastica?
Note
Capitolo 4. Ritorno alla terra: i nuovi cenciaioli
L’amnesia dei rifiuti organici
Lottare contro lo spreco
Nuovi cenciaioli?
Il lombricompostaggio: l’etica del verme
Lo spreco come nuovo corno dell’abbondanza?
Freegans!
Verso un’economia del dono? Condividere per contestare
Sul potenziale sovversivo dei resti: la messa in subbuglio del mondo
Di qualche potlatch fatto di resti
I rifiuti come indizio?
Note
Capitolo 5. Domani, rifiuti-zero? Una critica delle promesse dell’economia circolare
Il minimalismo light del rifiuti-zero
Città rifiuti-zero
Ecoconcezione ed ecologia industriale: le «falle» dell’economia circolare
Promesse di immortalità
Dalla malattia al sintomo
I rifiuti come materiale politico
Elogio di ciò che resta
Note
Conclusione. Dall’ecocittadino ai cenciaioli
I due volti dell’Homo detritus
Niente all’esterno, solo all’interno
Note
Ringraziamenti
Indice

Citation preview

COMITATO SCIENTIFICO

Gianfranco Bologna, Roberta Mazzanti, Carlo Petrini, Andrea Pieroni, Cinzia Scaffidi

Baptiste Monsaingeon

Homo detritus Critica della società dei rifiuti Traduzione di Monica Miniati

Volume raccomandato dal WWF Italia

WWF Italia – ONG Onlus

Titolo originale: Homo Detritus. Critique de la société du déchet © Editions du Seuil, 2017 Tutti i diritti riservati.

Impaginazione e redazione: Studio editoriale Littera - Rescaldina (MI) www.giunti.it [email protected] – www.slowfoodeditore.it © 2019 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165, 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4, 20123 Milano – Italia © 2019 Slow Food Editore Srl Via Audisio 5, 12042 Bra (CN) – Italia ISBN: 9788809893740 Prima edizione digitale: settembre 2019

Premessa

Nell’ottobre del 2009 sono partito con tre amici su una barca a vela di legno di dieci metri per andare in cerca di un «nuovo continente di rifiuti». La spedizione di nove mesi nell’oceano Atlantico settentrionale doveva essere il terreno di indagine ideale per la mia tesi di dottorato!1 Durante gli scali pensavo di poter raccogliere materiale per capire come e perché i rifiuti erano diventati un problema di dimensioni planetarie. Speravo persino di trovare soluzioni locali a questo grande disordine globale. Mi ero imbarcato con tanto entusiasmo, senza essere marinaio, sociologo o attivista, né specialista in qualcosa. Ingenuo, invece, lo ero di sicuro. Salpare! Mollare gli ormeggi! Prendere il largo! Godere un po’ di quella libertà che mi ero ripromesso di vivere lontano dal tumulto della città e dalla mia quotidianità parigina. Lontano dalla civiltà ma a contatto con la natura, in osmosi con gli elementi, spinto dal vento, scivolando sulle onde... Ignorante della navigazione in alto mare come della vita accademica, da giovane dottorando appena uscito dal guscio, pieno di buone intenzioni e di idee preconcette, speravo di fare con questa esperienza in barca a vela un viaggio verso l’altrove, verso l’altro assoluto. Ho dovuto presto arrendermi all’evidenza: l’altrove sfugge sempre al luogo in cui ci troviamo. I pochi metri 5

PREMESSA

quadri della mia nuova casa galleggiante mi hanno innanzitutto fatto capire che la mia ricerca di libertà avrebbe sempre trovato ostacoli: la barca a vela è uno spazio carcerario che impone a coloro che ci vivono una socializzazione continua, senza sosta. In barca non c’è un esterno per chi ci vive, non c’è un fuori, c’è solo un dentro. Inoltre, la «natura» che immaginavo ospitale e avvolgente mi ha fatto subito capire di nutrire uno scarso interesse per le mie fantasie romantiche di giovane cittadino. I primi giorni di navigazione sono stati solo tempesta e urla: insultando le onde, il cielo e il vento, ho capito che a Gaia2 importava assai poco che fossi vivo o morto. Peggio ancora, anche nel punto più lontano dalle coste, anche quando le condizioni erano favorevoli, era impossibile sganciarsi da quella civiltà che credevo di essermi lasciato alle spalle. Computer, Gps, sistemi di identificazione delle altre imbarcazioni, dispositivi di soccorso, tutta la tecnologia a bordo non cessa di emettere segnali sonori e luminosi che in ogni istante ricordano ai navigatori del XXI secolo che la loro sopravvivenza dipende dal buon funzionamento del mondo moderno: dalle scavatrici che estraggono dalle viscere della terra minerali, rari e preziosi, ai satelliti che orbitano sulle nostre teste. Ma è stato senza dubbio il continuo confronto con ciò che ero andato a cercare che mi ha definitivamente riportato alla gravità dello stato del nostro pianeta. Durante gli scali ho trovato rifiuti che ricoprivano le spiagge ventose delle isole dove i boat-boys depositavano i sacchetti dell’immondizia gettati da turisti attenti a non inquinare; oppure li ho ritrovati come montagne gigantesche nella discarica a cielo aperto di Mbeubeus (in Senegal) o in quella di Mindelo, nell’isola di Capo Verde. In mezzo all’oceano, non è trascorso giorno senza una dose di rifiuti galleggianti lungo la prua. Molto spesso abbiamo raccolto in mare frammenti di plastica di pochi millimetri di diametro, in decomposi6

PREMESSA

zione e scoloriti dalla lunga permanenza nell’acqua salata. Al largo nel Mar dei Sargassi, a più di 1500 chilometri dalla costa, i lunghi filamenti di alghe trascinati dalle correnti custodivano innumerevoli pezzi di polistirene, sacchetti, flaconi, tappi, taniche, posate, bottiglie, a volte intatti, a volte rotti, a volte ricoperti di minuscole conchiglie. Nessun continente: no, piuttosto un altro oceano di plastica. Da Lisbona a L’Avana, da Dakar alle Bermuda, ho avuto modo di parlare con numerosi responsabili del luogo cui raccontavo questi incredibili incontri. Non ho trovato, come speravo, soluzioni creative e locali al problema. Tutti avevano una parola d’ordine da mettere in pratica: «Moder-niz-za-re, riutilizzare, riciclare!». Nei paesi del Nord, dove i sistemi industriali di raccolta, di selezione e di valorizzazione del materiale sembravano efficienti, la maggior parte delle volte si optava per ottimizzare i dispositivi esistenti. Nei paesi del Sud, il problema era trovare i mezzi economici per implementarli. Alla fine, in qualunque parte del mondo, ho trovato conferma di una visione univoca del «problema dei rifiuti»: sono proprio loro che dobbiamo combattere, che dobbiamo arginare... insomma, occorre farli sparire. Navigando verso l’ignoto, in mare aperto, salpato alla ricerca di un altrove, ho finito per trovare soltanto l’orizzonte familiare e inquietante dell’uguale. Questo libro non è il racconto di una spedizione transatlantica che mi ha sempre ricondotto alla mia condizione di «terrestre», ma da quella spedizione il libro ha trovato origine e stimolo. Anziché aver fatto di me quell’avventuriero dei tempi moderni che ha sfidato senza mai commettere errori la furia degli elementi, esploratore eroico di un nuovo «continente fatto di avanzi di supermercato», le migliaia di ore passate a vagare in mezzo a quei frammenti alla deriva mi hanno portato, credo, a guardare in un altro 7

PREMESSA

modo ciò di cui ero andato in cerca. Durante il mio viaggio, in cinque anni ho raccolto dati di tutti i tipi, ho incontrato molte persone, compiuto svariate osservazioni, letto centinaia di articoli scientifici e libri di ogni disciplina. Non pretendo di aver trovato le risposte alle domande che tanti anni di indagine hanno sollevato. Con questo libro non intendo svelare una qualsivoglia «verità» dei rifiuti, e neppure fornire «soluzioni» ai «problemi» che i rifiuti pongono alle società contemporanee. Questo testo è un saggio, un tentativo per forza di cose frammentario che cerca semplicemente di capire come prestare ascolto a ciò che resta.

8

Note

1

2

Questo libro è stato scritto partendo dalla mia tesi di dottorato (Baptiste Monsaingeon, Le déchet durable. Élements pour une socio-anthropologie du déchet ménager, École doctorale de Philosophie, Université Paris 1, discussa il 2 giugno 2014). La teoria di Gaia, elaborata dallo scienziato inglese James Lovelock, si basa sul principio che tutte le varie componenti del pianeta (oceani, mari, atmosfera ecc.) si mantengono in una condizione propizia alla presenza della vita grazie al comportamento e all’azione degli organismi viventi, animali e vegetali (N.d.T.).

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Introduzione

Come siamo arrivati a questo punto? Inquinamento di ogni tipo, acidificazione degli oceani, impoverimento del suolo: i segnali ci sono tutti. Siamo entrati in una nuova era piena di incertezze, in un tempo di catastrofi che pone interrogativi sulla possibilità stessa della vita sulla Terra. Ma quest’epoca, presente e futura, poggia su una convinzione: noi esseri umani siamo i responsabili di tali grandi cambiamenti. Possiamo ormai lasciare che ci paragonino al Sole, alle correnti oceaniche, alla tettonica delle placche, addirittura a degli dei: «noi» siamo diventati una forza tellurica.

L’Antropocene è uno SpAzzAturocene Dopo anni di dibattito tra esperti, la Commissione internazionale di stratigrafia (Ics) dell’Unione internazionale di scienze geologiche (Iugs) sta per trovare un comune accordo: siamo ormai quasi ufficialmente abitanti dell’Antropocene.1 Abituati a pensare il tempo nel lungo periodo, i geologi hanno preferito rifletterci due volte prima di stabilire nuovi punti di riferimento. Per dimostrare l’esistenza dell’Antropocene era necessario trovare una prova geologica inconfutabile del passaggio nella nuova era, identificare indicatori 11

INTRODUzIONE

stratigrafici distinti dal periodo precedente – l’Olocene – che non dessero luogo a eventuali controversie. Ora, nonostante la complessità dell’impresa, la natura della prova del cambiamento di era si rivela di una banalità sconcertante: sono i nostri rifiuti, dispersi ai confini del globo, gli indicatori inequivocabili del periodo geologico in cui l’Homo sapiens è diventato una vera e propria forza geologica. Che siano solidi, liquidi o gassosi, concentrati o sparsi, i rifiuti lasciano traccia nell’acqua, nel terreno, o nelle bolle d’aria che ritroviamo intrappolate nelle carote di ghiaccio. Sono diventati segno indiscutibile, prova tangibile delle ripercussioni dell’attività umana sulla composizione dello strato superiore del pianeta. È proprio intorno alla natura di tali rifiuti che infuria il dibattito sulla datazione della nuova era: sono le grandi concentrazioni di CO2 fissate nel suolo, sprigionate dai tempi della rivoluzione industriale che segnano l’ingresso nell’Antropocene? Si tratta piuttosto di residui radioattivi, conseguenza delle esplosioni nucleari della seconda metà del XX secolo? Le nuove formazioni minerali recentemente scoperte, quali il plastiglomerato, aggregato di polimeri di sintesi, possono essere un segno geologico pertinente? Resta il fatto che sono proprio i rifiuti, l’accumulo di residui dell’attività umana, che forniscono oggi la prova del cambiamento di era. Negli anni Sessanta, Maurice Fontaine, un biologo francese specialista dell’inquinamento marino, aveva proposto il termine «Molysmocène» per indicare la futura era: dal greco macchia, sporcizia. In apparenza meno antropocentrico di quello reso popolare da Paul Crutzen, Will Steffen e Jacques Grinevald,2 il termine non è comunque neutro: l’inquinamento sarebbe il segno caratteristico del modo in cui gli uomini stanno al mondo? Derek Ager, ex presidente della British Geological Association, racconta che, negli anni Settanta, alcuni geologi francesi avevano proposto, con toni umoristici, una classificazione dei livelli 12

INTRODUzIONE

stratigrafici più recenti operando una distinzione tra un Immondezzaio superiore (con la plastica) e un Immondezzaio inferiore (prima della plastica).3 Se sono proprio i nostri rifiuti a fornire la prova inconfutabile dell’ingresso nella nuova era, non dovremmo allora parlare semplicemente di Spazzaturocene?

unA nuovA Specie per unA nuovA epocA L’Olocene è stata l’era dell’espansione senza fine dell’Homo sapiens: dopo essersi insediato sull’insieme delle terre emerse, dopo aver navigato per tutti gli oceani, ha esplorato la Luna e osserva ormai i confini del sistema solare. Per riuscire a «dominare» ha saputo sfruttare le risorse del nostro pianeta e ha lasciato progressivamente sulla Terra la propria impronta. Per l’antropologo André Leroi-Gourhan è proprio grazie ai cumuli di immondizia che risalgono alla fine del Paleolitico che possiamo capire come Sapiens abbia inventato l’idea dello spazio domestico, distinguendosi per raffinatezza tecnica dall’uomo di Neandertal che «viveva circondato dalle carcasse della sua cacciagione e le spingeva lontano per farsi un po’ di spazio in cui vivere»: Il contrasto con gli habitat del periodo intorno al 30.000 è sorprendente. [...] Tutto lo spazio è molto curato; all’esterno si trovano mucchi di grossi detriti e, scaricate sul pendio, «le pattumiere», piccoli cumuli di cenere mischiati a schegge di selce e a minuti frammenti di ossa. Il primo momento dell’evoluzione in cui appare la figurazione è dunque anche quello in cui lo spazio di un habitat è separato dal caos esterno. La funzione dell’uomo come organizzatore dello spazio vi appare attraverso un assestamento sistematico.4 13

INTRODUzIONE

Marcatori archeologici dell’invenzione del «proprio spazio», i rifiuti, allontanati dalla casa, delineano i confini dei primi luoghi della sedentarizzazione umana e prefigurano al contempo l’alba del Neolitico e il futuro geologico del pianeta. Ovunque, nel corso dei secoli, gli agglomerati dei residui dell’attività umana danno forma al paesaggio. Dai tell del Sud della Siria ai Kjökkenmodding sui quali sono stati costruiti i mulini a vento dei Paesi Bassi, passando dal Monte Testaccio di Roma, e dalla sommità del labirinto del Jardin des Plantes e da alcuni avvallamenti dei Grands Boulevards a Parigi, queste collinette, talvolta colline, erano all’inizio semplici accumuli di detriti.5 I rifiuti sono dunque in primo luogo la traccia di una presenza dell’uomo sulla Terra, fin dai tempi della sedentarizzazione. I rifiuti disegnano i contorni degli spazi di vita e marcano il paesaggio, talvolta in maniera indelebile. Oggi sono ovunque: nascosti nelle viscere della Terra, a galla negli oceani, dispersi nell’atmosfera in miliardi di particelle invisibili oppure a orbitare nell’esosfera, spesso si trovano dove meno ce li aspettiamo. A forza di «addomesticare» il proprio spazio di vita spingendo sempre più lontano i suoi rifiuti, Sapiens ha finito per trasformare il pianeta in una gigantesca pattumiera. Come la tigre, il leone o il cane, che per appropriarsi di un territorio ne marcano i confini urinando ai quattro angoli, gli uomini, inquinando, sembrano di fatto aver portato a termine la conquista del globo. Ora, se ammettiamo – come osserva Michel Serres – che «l’inquinamento è appropriazione»,6 allora «noi», uomini dell’Antropocene, saremmo riusciti a trasformarci per sempre in «padroni e possessori della natura». Realizzando qualche promessa della modernità nell’essere diventati una «forza tellurica», dovremmo pensare che Sapiens sia stato soppiantato dall’Homo detritus,7 suo «successore» naturale? Quale potrebbe essere il tratto distintivo di questo ipo14

INTRODUzIONE

tetico discendente di Sapiens? Detritus ha forse il compito di cancellarne le tracce, di eliminare nell’intero arco della sua vita i resti del lontano antenato? Un’affermazione simile fa già discutere. In generale è largamente discutibile – e discusso – assimilare senza fornire ulteriori precisazioni una «umanità» indifferenziata, unita per tramite dei suoi marcatori geologici, alla causa uniforme del passaggio nell’Antropocene.8 È dunque attraverso il confronto con l’Homo œconomicus, invece, che propongo una riflessione su ciò che potrebbe essere Homo detritus. Specchio in negativo della razionalità umana eretta a principio strutturale dell’economia di mercato, Homo detritus potrebbe essere l’erede del «consumatore ideale» immaginato da alcuni economisti neoclassici del XIX secolo. Insomma, uno «sperperatore ideale».

unA criSi dei rifiuti? Non potendo occuparci dell’intera storia dell’umanità nella sua abilità a inquinare, in queste pagine ci concentreremo sull’ultimo periodo, durante il quale sembra essere emersa una vera e propria «crisi dei rifiuti». Il libro racconta di come alcuni abbiano pensato di poter «salvare il pianeta» razionalizzando le tecniche di raccolta e smaltimento dell’immondizia. Nel 1972 i membri del Club di Roma lanciano un grido di allarme sui pericoli legati alla crescita delle economie capitaliste e mettono sotto accusa lo sfruttamento infinito delle materie prime non rinnovabili: in un mondo dalle risorse limitate una crescita economica e materiale illimitata è impossibile.9 Quel credo contribuirà a far sentire le voci di chi denunciava i grandi mali della società contemporanea e consentirà, ad alcuni, di partecipare a una «pre15

INTRODUzIONE

sa di coscienza» globale dei problemi ecologici che minacciano la vita sulla Terra. La questione dei rifiuti occupa un posto di rilievo in quella che molti hanno definito la «svolta ambientale» degli anni Settanta. Si denuncia già il mondo-spazzatura in cui le future generazioni sembrano condannate a vivere. I rifiuti, sempre più ingombranti, sono l’altra faccia della produzione, e hanno catturato l’attenzione dei critici della società di consumo, dell’iperconsumismo. La riedizione del Rapporto Meadows, nel 1992, porrà l’accento sulla questione dei limiti non solo sotto il profilo delle risorse, ma anche e soprattutto in termini di spazio disponibile per accogliere i prodotti residuali legati all’attività umana.10 La riedizione, spesso dimenticata, sottolinea che le capacità di carico del pianeta in materia di produzione di spazzatura e di emissioni inquinanti di qualsiasi tipo sono già largamente oltrepassate. La pattumiera è piena e il mondo resta soffocato. Da almeno quarant’anni è urgente intervenire. Da quarant’anni, o quasi, è necessario che si rispetti la celebre regola delle 3R: «Ridurre, Riutilizzare, Riciclare». È necessario limitare le perdite, evitare gli sprechi di risorse. Occorre anche differenziare i rifiuti. Nello stesso momento in cui lo sviluppo sostenibile compare in ogni rapporto ufficiale ed è sulla bocca di tutti i capi di Stato e delle compagnie multinazionali, la spazzatura non ha mai smesso di diventare sempre più voluminosa. Da quarant’anni la crescita economica è in stretta correlazione con un aumento globale della produzione di rifiuti. Nel 2013 «Nature» ha pubblicato uno studio prospettico (di revisione) sulla crescita mondiale proprio di quest’ultima: lo scenario più realistico, detto del business as usual, prevede che verso il 2100 tale produzione triplicherà, passando dai 4 milioni di tonnellate al giorno di oggi a più di 12 milioni di tonnellate nei prossimi cento anni.11 16

INTRODUzIONE

Nel Nord e nel Sud, nel cuore delle città e delle campagne, in ogni famiglia, oggi si dedica più tempo e spazio alla «buona gestione» dell’immondizia, in nome della protezione dell’ambiente. Le pratiche domestiche razionali in fatto di rifiuti si affermano addirittura come emblema di una forma di ecologia quotidiana: differenziare gli scarti ci fa credere di poter contribuire a «proteggere il pianeta» per continuare a viverci in permanenza. Le promesse di eternità trovano oggi una eco nello slogan unificante di «economia circolare». Poteri pubblici, industriali, associazioni ambientaliste, tutti sembrano d’accordo: rifiuti-zero è l’ideale verso cui è assolutamente necessario tendere. Questo libro cerca di analizzare il progetto che sottende all’impegno di eliminare e gestire i rifiuti. Che cosa desideriamo veramente tutelare quando ci adoperiamo a buttare via nel modo giusto? Tra il gesto topico di scartare e la posta in gioco planetaria evocata, resta in ombra un abisso intermedio che impone un’analisi più attenta del legame di solito riconosciuto tra gestione razionale dei rifiuti e protezione dell’ambiente. In altri termini, che cosa significa rifiuti-zero? Una società senza resti, senza tracce è soltanto auspicabile? Concentrandosi sul problema dei rifiuti, sviluppando strategie sempre più complesse per eliminarli – etimologicamente, metterli sulla soglia –, non abbiamo finito per dimenticare, per nasconderci dietro i processi che li generano? Facendone un problema a se stante, slegato da quelli relativi al nostro modo di stare nel mondo, di produrre, di vivere, di sviluppare le nostre attività, siamo a poco a poco diventati ciechi e abbiamo adottato le scelte politiche, economiche, sociali, responsabili degli spazi terrestri saturati dai resti delle nostre attività, della loro proliferazione, che ha reso alcune aree del mondo letteralmente invivibili. 17

INTRODUzIONE

Se i rifiuti sono ovunque, se oggi sono la prova inconfutabile dell’impatto dell’uomo sull’equilibrio dell’ecosistema terrestre, restano il più delle volte invisibili a chi li produce. È come se le società moderne più ricche avessero costantemente cercato di perfezionare quel gesto inaugurale della sedentarizzazione umana che consisteva nel lasciare gli scarti fuori dalla caverna. Oggi i nostri rifiuti sono messi in centri di stoccaggio controllati, vengono bruciati, disseminati al di là delle nostre frontiere, talvolta depositati a molte centinaia di metri sotto terra... È come se preferissimo rimanere ciechi di fronte alle scomode ombre della civiltà. Questo libro vuole contribuire a rendere più comprensibili i processi ormai sepolti nella memoria delle nostre pattumiere.

dimmi coSA getti e ti dirò chi Sei Per le scienze umane e sociali la questione dei rifiuti è diventata oggetto di indagine soltanto molto di recente. Gli scarti, quel «quasi nulla», sono stati per molto tempo colpiti da un divieto, condizionati da un tabù esaustivamente riassunto da un dialogo tra Socrate e Parmenide. Alla domanda se fosse necessario dare una forma ai rifiuti della vita umana, se fosse pertinente conferire uno statuto di «Idea» a quelle cose «senza alcun valore e senza importanza», Socrate risponde a Parmenide in senso negativo, associandovi la «paura di precipitare in qualche abisso di sciocchezze e di perder[visi]».12 La psicoanalisi, invece, ha fatto molto presto dei rifiuti un oggetto di elezione. Nel 1913 Sigmund Freud, nella prefazione all’edizione tedesca di Escrementi e civiltà: antropologia del rituale scatologico di John Bourke, tenta per primo di spiegare il silenzio nei confronti del residuo nella sua forma escremenziale primaria: 18

INTRODUzIONE

Il divieto fatto alla scienza di esaminare i lati proibiti della vita umana, al punto che chi si occupa di certe cose è considerato poco meno «indecente» di chi effettivamente le pratichi.13

Colui che osa pensare l’escremenziale è dunque destinato alla stessa sorte di chi limita la civiltà ai suoi rifiuti. Ci vuole perciò una certa audacia per abbordare un simile argomento. Freud insiste sul carattere del tutto culturale, acquisito, del disgusto e del disprezzo degli escrementi: «La principale scoperta fatta dalla ricerca psicoanalitica è che il bambino, durante le prime fasi dello sviluppo, ricapitola di norma tutti gli atteggiamenti successivamente mostrati dalla razza umana nei confronti di quel che attiene all’evacuazione, il primo dei quali, probabilmente, fu assunto allorché l’Homo sapiens si alzò dalla terra madre».14 Il tabù è il frutto di un lungo apprendimento. «Sotto la pressione dell’educazione, le tendenze coprofile del bambino cedono a poco a poco alla repressione, sicché egli impara a tenerle segrete e a provarne vergogna e disgusto, benché, a rigore, il disgusto non si estenda mai ai propri escrementi e si limiti alla ripulsa di quelli altrui.»15 Il processo escremenziale, forma biologica primaria della produzione di residui, è tuttavia una prova inconfutabile della presenza di vita: un organismo che non produce più rifiuti è un organismo morto. Italo Calvino, servendosi della celebre espressione cartesiana, associa il principio del «gettare» a un segno indiscutibile dell’essere. «Buttar via è la prima condizione indispensabile dell’essere, perché si è ciò che non si butta via.»16 Getto dunque sono. Nella diffusa tendenza a non volersi confrontare con questo, i rifiuti e il nostro rapporto con essi offrono materia di riflessione sulle modalità di stare nel mondo e su come concepiamo il modo di abitare insieme la Terra. Dimmi cosa e come lo getti, e 19

INTRODUzIONE

allora ti dirò chi sei, come vivi e di che cosa è fatto il tuo mondo. Gli oggetti più comuni sono quelli che ci insegnano più cose di una civiltà. Un barattolo di conserva, per esempio, definisce le nostre società meglio di un gioiello sfarzoso o di un rarissimo francobollo. Non dobbiamo perciò temere di raccogliere le cose, anche le più umili e le più disprezzate. Un oggetto può non avere alcun valore per noi come pure per l’autoctono ed essere una fonte ineguagliabile di informazioni. Frugando in un mucchio di spazzatura possiamo ricostruire tutta la vita di una società.17

Questa citazione, attribuita al sociologo Marcel Mauss, ricorda come, sia per gli etnologi sia per gli archeologi, i rifiuti rappresentino un segno della storia degli uomini e delle civiltà. È necessario perciò andare a scavare nei mucchi di spazzatura. Agli inizi degli anni Novanta, per esempio, gli archeologi Philippe Marquis e Yves Lanchon scoprono le vestigia di un villaggio neolitico lungo un ramo prosciugato della Senna, nei pressi dell’attuale quartiere di Bercy a Parigi. Grazie all’ammasso di oggetti trovati nell’antico letto del fiume, descritto come una discarica naturale, è stato possibile datare l’origine dell’insediamento delle prime comunità agricole.18 Da una trentina d’anni la «rudologia» (studio sistematico dei rifiuti, N.d.T.) di Jean Gouhier, o l’«archaeology of garbage» di William Rathje e Cullen Murphy, cercano di adottare questo criterio di esumazione dei resti per leggere la storia della vita degli uomini.19 I ricercatori hanno impiegato per i rifiuti contemporanei i metodi tradizionali dello scavo archeologico. Infatti, che cos’è l’archeologia se non una scienza degli scarti e dell’immondizia? Impronte o escrementi fossilizzati, scarti di artigianato o di industria, selci appuntite, frammenti di ceramica, 20

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tracce che costituiscono il materiale stesso della ricerca archeologica, resti diventati presupposti imprescindibili di una storia per l’umanità. Se i rifiuti svolgono un’opera di memoria, qualche volta lo fanno a scapito di coloro che li producono. Come afferma l’archeologo Laurent Olivier, «gli oggetti hanno una vita».20 Quelli che oggi sono smaltiti costituiscono già il materiale di un’archeologia del futuro. Dopo «l’età della pietra» o «l’età del ferro», quale sarà l’identità archeologica del mondo contemporaneo?

rifiuti e modernità Se i rifiuti paiono corrispondere a una forma di stabilità tanto biologica quanto antropologica, se sembrano essere una fatalità, una costante specifica dello sviluppo di ogni forma di vita, è ovvio che il modo in cui oggi sono definiti è in larga misura erede della storia – recente – delle società industriali. Di fatto, non esistono rifiuti in sé. La parola indica uno stato transitorio e si definisce, nella sua dimensione materiale, solo per la sua origine e per la sua destinazione.21 In altri termini, tutti i rifiuti sono il rifiuto di qualcosa ed è questo qualcosa che ne determina la diversità. La loro definizione giuridica rimanda a tale specificità. In Francia, il «Journal officiel» del 16 luglio 1975 definisce i rifiuti «qualsiasi bene il cui possessore destina all’abbandono».22 Allo stesso modo, la direttiva europea del 5 aprile 2006 stabilisce il quadro legale del concetto associando i rifiuti a «qualsiasi sostanza o oggetto [...] di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi».23 Gettati o abbandonati, i rifiuti appaiono come un oggetto senza proprietario che si colloca in questa via di mezzo indistinta. Nel diritto, il termine rimanda sempre a un concetto vago, 21

INTRODUzIONE

talvolta materia di controversia.24 Nella prassi quotidiana, tuttavia, la definizione dei rifiuti lascia in genere poco spazio a equivoci: sono quelli che giacciono nella spazzatura, ingombrano le discariche e «inquinano l’ambiente». Concentrando la propria analisi sui «concetti di contaminazione e tabù», l’antropologa Mary Douglas esorta ad assimilare i rifiuti a una figura dell’impuro, a una forma arcaica di sporcizia caratterizzata dal pericolo simbolico della messa in discussione dell’ordine sociale. Un pericolo futuro, più che in sé. «Lo sporco è incompatibile con l’ordine. La sua eliminazione non è un atto negativo, ma è uno sforzo messo in opera per organizzare l’ambiente.»25 In altre parole, l’eliminazione è un atto di costruzione del sociale più che una reazione al pericolo simbolico che rappresenta. Scartare può dunque essere letto come un tentativo costante di uniformare il mondo abitato dall’uomo, «un’azione creativa», un modo «di unificare l’esperienza».26 La paura legata alla sporcizia27 attiene prima di tutto alla minaccia che quest’ultima rappresenta per l’ordine sociale e culturale. «La paura della “sporcizia” è un sistema di protezione simbolico dell’ordine culturale. La società è minacciata sia dall’esterno sia dall’interno.»28 Se noi respingiamo «all’esterno» ciò che chiamiamo i rifiuti, se li concentriamo in di-scariche, se li nascondiamo in sacchi, container e, talvolta, persino sotto la superficie terrestre, se li bruciamo è perché rappresentano un pericolo, un nemico contro cui è necessario lottare. Nelle società industriali, i rifiuti costituiscono l’altra faccia della produzione:29 «Materialmente, la spazzatura rappresenta l’ombra del mondo degli oggetti, gli avanzi di una vita, di un mondo, di un sogno, creati dalle voraci speculazioni della produzione e del consumo di beni».30 La proliferazione dei rifiuti è per certi versi la materializzazione della hýbris, dell’eccesso degli stili di vita creati dallo sviluppo delle società termoin22

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dustriali. In altre parole, dobbiamo farli sparire perché mettono in discussione l’organizzazione della società, l’ordine sociale e i suoi fondamenti; perché – forse – danno corpo alla paura latente della dissoluzione dell’identità culturale della società che li ha prodotti. «L’ordine sociale ideale è mantenuto grazie ai pericoli in cui incorrono i trasgressori» ricorda Mary Douglas: Queste sensazioni di pericolo sono sia delle minacce che si usano per costringere un’altra persona, sia dei pericoli in cui si teme di incappare non appena si abbandona la retta via. Esse rappresentano un violento linguaggio di esortazione reciproca. A questo livello ci si richiama alle leggi della natura per sanzionare il codice morale. [...] L’intero universo viene utilizzato dagli uomini per costringersi reciprocamente ad essere buoni cittadini.31

Oggi, ciò che struttura gran parte di questo «linguaggio di esortazione reciproca» sono le argomentazioni ecologiche che, utilizzate per riconfigurare il nostro rapporto con i rifiuti, sono diventate un fattore essenziale di coercizione morale e politica. In altri termini, la minaccia attuale – che riunisce tanto quanto obbliga – è in qualche modo la catastrofe planetaria annunciata, la «crisi» globale che, in quanto destinata a durare, tende a creare un nuovo contesto cui è assolutamente necessario adattarsi. Vi sono parecchi modi di comportarsi di fronte alle anomalie. In negativo possiamo ignorarle, non percepirle affatto, o condannarle nel momento in cui le percepiamo. In positivo, possiamo deliberatamente affrontare l’anomalia e cercare di creare un nuovo modello di realtà in cui inserirla. [...] Un certo sistema di classificazione deve necessariamente produrre delle anomalie e una certa cul23

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tura deve misurarsi con gli eventi che sembrano sfidare i suoi postulati. [...] Secondo gli studi di Festinger è ovvio che quando una persona scopre che le proprie convinzioni non coincidono con quelle degli amici, resta incerta, oppure cerca di convincere gli amici che sono in errore. Definire pericolosa la persona in questione è un modo per porre l’argomento fuori discussione.32

Questo libro vuole dimostrare che le argomentazioni relative alla questione dei rifiuti, più che pensare a strumenti di riforma e di critica dell’ordine sociale, hanno contribuito a preservarlo con una modalità di adattamento. Tentando di eliminare gli scarti è come se avessimo cercato di cancellare le prove tangibili dell’insostenibilità del nostro modo di vivere e di produrre. I rifiuti, nelle società industriali, nell’ordine sociale dell’Homo œconomicus, sono stati affrontati come una minaccia unificante, un pericolo da tenere sotto controllo, un male da sconfiggere. È come se, rimuovendoli, fosse possibile neutralizzare con un solo gesto la loro forza critica, la loro capacità di dare corpo alla necessaria trasformazione delle società consumistiche che li hanno generati. Il primo capitolo sostiene che i rifiuti sono, in qualche modo, un’invenzione della modernità industriale: «Per la prima volta nella storia dell’umanità, gli scarti furono separati dalla produzione, dal consumo e dall’uso».33 Si affermano, dunque, come problema tecnico autonomo. L’isolamento dei rifiuti, dal punto di vista sia materiale sia concettuale, ha favorito la loro negazione, nella modalità di un’emarginazione indispensabile allo sviluppo della modernità. Quando negli anni Settanta sono diventati un problema ambientale, ci saremmo aspettati che avrebbero trovato spazio nel dibattito pubblico per mostrare il loro valore di 24

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operatori critici. Ci saremmo aspettati che i rifiuti, sempre più ingombranti, fossero considerati l’incontestabile prova materiale di un imprescindibile cambiamento della traiettoria sociotecnica. Dal secondo capitolo emerge, invece, come i nostri rifiuti – con il pretesto della loro «ambientalizzazione»34 e nonostante la conclamata inflazione di tempo e spazio loro consacrata – continuino a essere oggetto di questa caratteristica negazione, e la loro «gestione» l’agente preposto alla salvaguardia dell’imperativo produttivista. Sostenuto da una morale ecocittadina, «gettare nel modo giusto» è servito da strategia diversiva rispetto alle questioni di natura economica, sociale e tecnica sulle quali i rifiuti hanno la facoltà di porre degli interrogativi. Tale cecità, a livello sia individuale sia collettivo, elimina qualsiasi possibilità di pensare i rifiuti diversamente da ciò che deve sparire. Paradossalmente, la spazzatura che ci adoperiamo a eliminare non smette di ritornare. Il caso dei polimeri di sintesi, affrontato nel terzo capitolo, è in tal senso esemplare. La proliferazione della plastica, materiale vedette dei cosiddetti «trenta gloriosi» (1945-1975) e dello sviluppo del consumo di massa, è oggi un aspetto della catastrofe ecologica in corso. Se qualcuno ne ha fatto l’emblema in grado di giustificare una ridiscussione del modello di sviluppo delle società termoindustriali, nella logica dominante di regolamentazione e di gestione, i problemi posti dai rifiuti plastici hanno invece contribuito a rinvigorire l’imperativo di controllo, attraverso la tecnica, dei flussi di materiali residuali. Per contro, la parte putrescibile, organica delle nostre pattumiere è stata largamente trascurata dall’ingegneria dei rifiuti. Il quarto capitolo mette in evidenza come qualcuno ha fatto dei rifiuti organici un’occasione per lo sviluppo di alternative alle tecniche industriali e centralizzate di gestione della spazzatura. Questi nuovi cenciaioli ci invitano ad abbandonare lo sguardo accusatorio che posia25

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mo sui rifiuti, a mettere in dubbio il quadro morale emblematico dell’«ecocittadinanza». L’ultimo capitolo, infine, chiama in causa le promesse dei numerosi sostenitori dell’«economia circolare». Mirando a una civiltà ideale che cesserebbe di produrre rifiuti, le società contemporanee sembrano essere capaci di credere nella loro immortalità. Ma è davvero possibile vivere senza lasciare resti?

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Si vedano i lavori del gruppo «Antropocene» della sottocommissione del Quaternary Stratigraphy dell’Unione internazionale di scienze geologiche: http://quaternary.stratigraphy.org/workinggroups/anthropocene. Will Steffen, Jacques Grinevald, Paul J. Crutzen, John R. McNeill, The Anthropocene: Conceptual and Historical Perspectives, «Philosophical Transactions of The Royal Society A», vol. 369, n. 1938, 2011, pp. 842867. Si veda anche Christophe Bonneuil, Jean-Baptiste Fressoz, L’événement Anthropocène: la Terre, l’histoire et nous, Seuil, Parigi 2013. Derek V. Ager, The Nature of the Stratigraphical Record [1973], J. Wiley & Sons, Chichester-New York-Brisbane 1993, p. 106; si veda anche Patrick De Wever, Temps de la Terre, temps de l’homme, Albin Michel, Parigi 2012. André Leroi-Gourhan, La memoria e i ritmi, in Il gesto e la parola, vol. 2, Einaudi, Torino 1977, pp. 273-274. Catherine de Silguy, Histoire des hommes et de leurs ordures: du Moyen Âge à nos jours [1996], Le Cherche Midi, Parigi 2009, p. 154. Michel Serres, Il mal sano: contaminiamo per possedere? [2008], il melangolo, Genova 2009. Ringrazio Stéphane Le Lay per aver acconsentito che prendessi in prestito l’espressione da lui utilizzata per il titolo di un numero speciale della rivista «Mouvements» (Stéphane Le Lay, L’homo detritus fait-il de la politique? Quelques réponses sous forme de mégots de cigarettes, «Mouvements», vol. 87, 2016, pp. 25-35); si veda anche Agnès Jeanjean, Stéphane Le Lay, Olivier Roueff, Éditorial, in Où va l’homo detritus?, «Mouvements», vol. 87, 2016, pp. 7-12.

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Si veda in particolare Christophe Bonneuil, Pierre de Jouvancourt, Pour en finir avec l’épopée, récit, géopouvoir et sujets de l’Anthropocène, in Émilie Hache (a cura di), De l’Univers clos au monde infini, Déhors, Parigi 2014, p. 57 e sgg.; si veda anche Jason W. Moore, Anthropocene or Capitalocene? Nature, History, and the Crisis of Capitalism, PM Press, Oakland 2016. Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jørgen Randers, William W. Behrens III, I limiti dello sviluppo: rapporto del System Dynamics Group Massachusetts Institute of Technology (Mit) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità, Edizioni scientifiche e tecniche Mondadori, Milano 1972. Cfr. Jacques Grinevald, Ivo Rens, Introduction à la deuxième édition, in Nicholas Georgescu-Roegen, La décroissance. Entropie, écologie, économie [1995], Sang de la Terre, Parigi 2006, p. 20. Daniel Hoornweg, Perinaz Bhada-Tata, Chris Kennedy, Environment: Waste Production Must Peak this Century, «Nature», vol. 502, n. 7473, 2013, pp. 615-617. Platone, Parmenide, (a cura di) Amalia Riccardo, Loffredo, Napoli 1994, p. 89. Sigmund Freud, Prefazione, in John G. Bourke, Escrementi e civiltà. Antropologia del rituale scatologico, Guaraldi, Bologna 1971, p. 24. Ibidem. Ivi, p. 25. Italo Calvino, La poubelle agrée, in La strada di San Giovanni, Mondadori, Milano 1990, p. 97. Citato in Museum national d’histoire naturelle, Instructions sommaires pour les collecteurs d’objet ethnographique, Trocadéro, Mission scientifique Dakar-Djibouti, Parigi 1931, pp. 10-11 (il testo è stato redatto da Michel Leiris sulla base dei corsi di etnografia tenuti da Marcel Mauss). Gérard Bertolini, Montre-moi tes déchets... L’art de faire parler les restes, L’Harmattan, Parigi 2011, p. 29. Jean Gouhier, Rudologie: science de la poubelle, Le Mans, Université du Maine, «Cahiers du GEDEG», n. 1, 1998; William Rathje, Cullen Murphy, Rubbish! The Archaeology of Garbage, University of Arizona Press, Tucson 1993. Laurent Olivier, Le sombre abîme du temps: mémoire et archéologie, Seuil, Parigi 2008, p. 10.

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Si veda il lavoro di dettagliata analisi semantica del filosofo Cyrille Harpet, Du déchet: philosophie des immondices. Corps, ville, industrie, L’Harmattan, Parigi 1999; Le déchet: une horloge chaotique. Série sémantiqique des termes de la déchéance, in Jean-Claude Beaune (a cura di), Le déchet, le rebut, le rien, Champ Vallon, Seyssel 1999, pp. 181199. Legge n. 75/633 del 15 luglio 1975, «Journal officiel de la République française», 16 luglio 1975, p. 7279. Direttiva 2006/12/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 relativa ai rifiuti, «Gazzetta ufficiale dell’Unione europea», L 114/9, 27 aprile 2006. Si veda a questo proposito lo studio di Philippe Billet, Le déchet, du label au statut: considérations juridiques sur un abandon, in Jean-Claude Beaune (a cura di), Le déchet, le rebut, le rien, cit., pp. 99-111. Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù [1966], il Mulino, Bologna 2013, p. 32. Ivi, p. 33. In francese la parola ordure combina l’ord, lo sporco, con l’horridus, latino «che fa rabbrividire». Luc De Heusch, Introduction, in Mary Douglas, De la souillure: essai sur les notions de pollution et de tabou, La Découverte, Parigi 2001, p. 9. Nelle varie edizioni italiane dell’opera di Mary Douglas non compare l’introduzione curata da De Heusch. Serge Latouche, Le revers de la production, «Traverses», n. 12, 1978, pp. 85-98. John Scanlan, Spazzatura, Donzelli, Roma 2006, p. 210. Mary Douglas, Purezza e pericolo, cit., pp. 33-34. Ivi, pp. 81-83. Susan Strasser, Waste and Want: A Social History of Trash, Holt Paperbacks, New York 1999, p. 109. Il termine rinvia a ciò che Andrew Dobson, professore di scienze politiche, definisce «environmentalism». Si veda Green Political Thought: An Introduction, Routledge, Londra-New York 1990.

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CAPITOLO 1

L’invenzione dei rifiuti: la normalizzazione dell’abbandono

I rifiuti, nei secoli, non hanno mai trovato una definizione condivisa. Nella medesima epoca lo stesso pezzo di materiale può essere stato per alcuni un residuo e per altri materia prima. Raccontare la storia dei rifiuti significa anche, e forse prima di tutto, riferire il modo in cui alcuni gruppi umani strutturano il loro rapporto con ciò che resta, cioè con i residui della loro attività, produttiva o semplicemente biologica. È nella storia delle tecniche e delle politiche di gestione del residuale che si può trovare l’origine della definizione contemporanea dei rifiuti. L’obiettivo principale che si prefigge questo capitolo è dimostrare che l’accezione attuale non è affatto una definizione universale e ancor meno una fatalità, conseguenza dell’evoluzione delle società tecniche, o un imprevisto del progresso. Al contrario, i rifiuti come prodotto di un abbandono sono un’invenzione recente e circoscritta, eredità talvolta ingombrante di una serie di scelte che hanno condotto a biforcazioni tecniche e sociali decisive. Sorta nelle società industriali dei paesi del Nord, l’invenzione dei rifiuti si iscrive oggi in un modello di sviluppo e in una cultura industriale ormai globale. 33

CAPITOLO 1

i rifiuti premoderni dALLA città mALeodorAnte ALL’ideA deL ricicLo deLLe mAterie

Nelle città medievali le strade non lastricate, che non prendevano né aria né sole, erano cosparse di sporcizia prodotta dalla terra, dagli escrementi, dalle acque stagnanti, dai rifiuti domestici, dallo sterco dei cavalli, dei maiali e del pollame. La maggior parte delle vie era priva di latrine e di buche, e i passanti facevano i loro bisogni un po’ dappertutto. In mancanza di un sistema di scarico efficace, le acque luride stagnavano e trasformavano le strade più frequentate in vere e proprie cloache.1

città di SporciziA Se questa breve rassegna storica prende avvio dalla Francia del tardo Medioevo, è perché allora si era sviluppata una sensibilità tutta particolare nei confronti dei rifiuti prodotti dagli abitanti delle grandi città. Tra disagio e risorsa per l’attività urbana, i rifiuti diventano oggetto di considerazioni talvolta paradossali. Agli storici di oggi piace descrivere le città medievali osservandole dal punto di vista della loro soffocante sporcizia. La rivoluzione artigianale renderà in effetti i centri urbani focolai per eccellenza di inconvenienti ambientali che non possono ancora definirsi inquinamento. La fabbricazione di carta e tessuti, o la lavorazione del cuoio, sono mestieri che necessitano la vicinanza di un corso d’acqua. La costante crescita di queste attività, dunque, cambierà in larga misura la topografia delle città.2 Alla fine del Medioevo il problema dell’insalubrità diventa impellente. La moltiplicazione dei toponimi che attribuiscono a determinate strade funzioni escremenziali ne è una significati34

L’INVENzIONE DEI RIFIUTI: LA NORMALIzzAzIONE DELL’ABBANDONO

va testimonianza. Ogni città francese possiede almeno una «rue des Aisances», una via delle latrine, nelle vicinanze del mercato centrale.3 Ciò detto, è corretto parlare di rifiuti per definire l’origine di tale insalubrità latente? La storica Sabine Barles ricorda che i termini «rifiuti» o «acque reflue» non sono in uso nei testi normativi e tecnici e neppure nelle opere scientifiche del XVIII e XIX secolo.4 Se ci sono questioni o problemi ambientali da affrontare, non c’è necessariamente un problema dei rifiuti, e ancor più, se ci sono scarti possiamo veramente parlare di cose abbandonate? Sino alla fine dell’Ottocento gli escreti urbani sono costituiti principalmente dalla melma in cui si mescolano le deiezioni di tutti gli abitanti della città: bovini, maiali e volatili compresi. I depositi di immondizia si moltiplicano e soltanto la pioggia, di tanto in tanto, è in grado di ripulire le strade. Gli effetti nocivi sono evidenti.5 Le epidemie di peste e di colera durante tutto il Medioevo sono la ragione dei numerosi tentativi del potere centrale di gestire i problemi di insalubrità. Sin dal 1506, Luigi XII stabilisce che la monarchia si faccia carico della raccolta dell’immondizia a Parigi. Finanziata l’iniziativa con un’imposta, fu costretto ad abbandonare la riforma per via dell’ostilità generale. Dopo Filippo Augusto, Francesco I e Luigi XII, Luigi XIV tenterà senza successo di emanare norme sull’orario in cui portare via la spazzatura dalle case. Questi tentativi falliti non riguardano soltanto la Francia: la maggior parte delle grandi città europee deve affrontare problemi analoghi. Aumento del volume dei rifiuti organici e inorganici, insalubrità crescente e cattivi odori insopportabili: in Europa, fino al passaggio da una società agraria a una a predominanza urbana e industriale, il problema dei rifiuti rimase sostanzialmente identico a com’era nel Medioevo. Più che cecità o mancata consapevolezza da parte degli abitanti dell’epoca della portata contaminante di alcune atti35

CAPITOLO 1

vità, la posta in gioco politica ed economica connessa all’inquinamento è un argomento più forte di quello che reclama la fine degli effetti nocivi. Gli storici hanno sottolineato quanto le «preoccupazioni ambientali» non siano un’invenzione degli ultimi anni del XX secolo; esse infatti si manifestano già dai primi tempi dell’industrializzazione, sia sul piano teorico e della gestione concreta di una messa a norma di pratiche industriali riconosciute insalubri, sia su quello dell’opposizione politica da parte di alcuni gruppi sociali.6 La sporcizia della città preindustriale, un groviglio di strade dall’odore fetido, non può essere descritta in forma adeguata ignorando gli interessi economici e politici forti che sono in relazione con i processi di decomposizione della materia organica. In Europa l’immondo è un segno percettibile della prima tornata dell’industrializzazione, basata sulla circolazione sinergica della materia tra città e campagna.

iL regno deLLA decompoSizione: i rifiuti non eSiStono In questo periodo i processi di decomposizione delle materie organiche sono oggetto di studi scientifici. La putrefazione e la macerazione dei corpi, in particolare, sono al centro dell’interesse di medici e chimici. In altre parole, l’escrementizio ha progressivamente invaso le città, ma ha anche conquistato spazio in ambito scientifico. La medicina che si sviluppa nel Rinascimento si concentra ben presto sull’analisi legata a questo aspetto: la prognosi ippocratica che mira a stabilire una diagnosi sulla base dello studio degli escrementi del paziente torna in auge. Allo stesso modo, la farmacopea si serve di escrementi di ogni tipo. Apparso nel 1696 e per due volte ripubblicato, il titolo del bestseller di medi36

L’INVENzIONE DEI RIFIUTI: LA NORMALIzzAzIONE DELL’ABBANDONO

cina di Paulini è molto esplicito: La Pharmacie de la merde, c’est-à-dire comment presque toutes les maladies même les plus graves peuvent être guéries au moyen de la merde et de l’urine.7 La putrefazione non serve solo a capire la vita e a curare i mali, consente anche di produrre tutto ciò che è utile all’uomo. L’urina fermentata fornisce acido fosforico e ammoniaca, e dallo zucchero fermentato si ottiene l’alcol. Non solo. La decomposizione diventa una questione politica e militare. Il nitrato di potassio, ingrediente essenziale per la fabbricazione della polvere da sparo, è prodotto in ambienti umidi, nelle cantine, nelle stalle, in prossimità di latrine dove si decompone la produzione urbana di escrementi. In questo periodo di guerre continue le città diventano miniere di polvere da sparo: «La potenza di fuoco dello Stato dipende [...] dalle città e più esattamente dalla decomposizione del sottosuolo urbano».8 Lo spazio cittadino è un luogo di produzione fondamentale per la sopravvivenza politica degli Stati. In pratica, la guerra incentiva la decomposizione e la sporcizia acquista un valore strategico, è una vera ricchezza per l’agglomerato urbano. La decomposizione fa tutt’uno con la città come l’umidità con questo lungo periodo di raffreddamento climatico. L’una e l’altra sono decisive per la ricchezza della città. Più una città è maleodorante più è ricca.9

Anziché considerare la potenziale nocività come qualcosa da eliminare o da far sparire, i rifiuti sono visti e trattati come una preziosa risorsa. Se rappresentano un crescente fastidio per la città, e danno adito a ripetuti tentativi per ripulire lo spazio urbano, la palese sporcizia è associata anche a un’immagine di abbondanza cornucopica. Il fetore della città si erge a memento della sicurezza che è in grado di offrire ai propri abitanti. 37

CAPITOLO 1

LA circoLAzione permAnente deLL’immondiziA A inizio Ottocento, la nascente industrializzazione basa il proprio successo sull’uso dei rifiuti urbani. Non si parla ancora di economia circolare, ma il suo principio fondamentale lo si ritrova nell’uso sistematico del materiale escrementizio della vita cittadina. La natura dei rifiuti urbani è ancora essenzialmente organica. Si possono distinguere due principali tipologie di scarto: gli stracci e le ossa da un lato, i liquami e gli scarichi dall’altro. Tali rifiuti non sono affatto esclusi dal circuito produttivo e urbano. Al contrario, sono in relazione reciproca e con il contesto socioeconomico circostante. Se prima dell’industrializzazione si fa largo uso della carta straccia (o carta di cotone), lo sviluppo delle cartiere in tutto l’Occidente fa aumentare il fabbisogno di stracci di origine vegetale e ne sistematizza la circolazione. L’industria della carta, strumento di diffusione della conoscenza, sarà strettamente legata ai giacimenti di questa materia prima prodotta dalla città. Con l’aumento della domanda di carta, gli stracci diventano un materiale prezioso: in Francia la loro esportazione è vietata sin dal XVIII secolo e molti paesi europei adottano misure analoghe fino a metà Ottocento. Sono i commercianti di stracci a stabilire il prezzo della carta e sono anche i primi datori di lavoro dei cenciaioli e di vari altri raccoglitori. Firmin-Didot calcola che nel 1854, in Francia, la raccolta di stracci dia lavoro a 100.000 persone. Lo sviluppo di tali attività cambia il panorama della produzione cartaria, che si avvicina sempre di più ai suoi giacimenti e ai suoi clienti. A Parigi il numero dei lavoratori della carta passa da 1400 nel 1847 a 4500 nel 1860.10 Le ossa, sin dall’avvio dell’industrializzazione, percorrono un cammino altrettanto favorevole. Permettono alla Francia di uscire dalla crisi dello zucchero. Il blocco marittimo inglese degli inizi del XIX secolo ha fatto sprofondare 38

L’INVENzIONE DEI RIFIUTI: LA NORMALIzzAzIONE DELL’ABBANDONO

il paese in una penuria senza precedenti di zucchero di canna, importato soprattutto dalle colonie. La fabbricazione del dolcificante con lo sciroppo di radici vegetali, nella fattispecie di barbabietola, prevede una fase di separazione del glucosio dalle altre sostanze vegetali. Il farmacista Pierre Figuier dimostra l’utilità del carbone animale per assorbire in particolare il colore di questi sciroppi. Prodotto dalla calcinazione delle ossa, il carbone animale sistematizza il recupero degli scarti di macelleria, forniti soprattutto dall’agglomerato urbano. Al pari della carta, le ossa si prestano a molteplici usi, come la fabbricazione di oggetti di ogni sorta (pettini, bottoni e varie impugnature), la produzione di sego, concimi vari, colle, gelatine oppure di fosforo necessario alla fabbricazione di fiammiferi. Le ossa, inoltre, sono tra i materiali più apprezzati dalle prime industrie ottocentesche. Lo stesso avviene per gli scarichi. La creazione di un servizio di nettezza urbana, di spazi per lo stoccaggio del contenuto delle latrine sparse nelle strade e nelle corti delle grandi città, ha riscosso un crescente interesse da parte dei primi tecnici dell’industria agraria per la quantità di escreti accumulata, vera miniera d’oro per la fabbricazione di compost e di altri concimi biologici. Molto ambita da numerosi agricoltori e orticoltori, la polveretta (concime essiccato di liquame di pozzo nero misto a terriccio e ad acido solforico), inventata già nel XVIII secolo, è un eccellente fertilizzante naturale. Ci sono studi che hanno evidenziato la possibilità di concimare quasi un terzo delle terre coltivabili francesi con gli escreti delle quattro più grandi città del paese. Sono stati persino depositati brevetti che prefigurano – forse – ciò che alcuni oggi definiscono «agricoltura biologica». Il materiale escrementizio alla base di queste invenzioni ha una composizione articolata, ma sembra tanto più ricco quanto più la città di provenienza è sporca. 39

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Nel XIX secolo, con l’aumento della domanda alimentare, la necessità di concime urbano esplode. Nel Novecento viene compiuto uno sforzo ulteriore per utilizzare le acque nere generate nel ventre delle grandi città europee. L’idea principale era di incanalarle direttamente verso i terreni agricoli. A Parigi, sin dal 1850, ne dà testimonianza l’unificazione della rete fognaria, realizzata da Eugène Belgrand, e l’attivazione del collettore di Anières, destinato a convogliare le acque fuori dalla città.11 L’agricoltura periurbana svolge un ruolo determinante anche nel far circolare i liquami della città, composti di terra mista ad acqua, ma anche di tutti i rifiuti degli spazi pubblici e in primo luogo del «tutto in strada», vero e proprio antenato della spazzatura domestica. Per il loro spessore, i liquami non possono immettersi nella nascente rete fognaria e dunque amalgamarsi con gli scarichi. Raccolti direttamente dai coltivatori o da imprese private, diventano concimi e possono fertilizzare i terreni del circondario. I liquami sono spesso una fonte di guadagno per i comuni. Sin dal 1854, a Parigi, le imprese per la raccolta di tale «protospazzatura domestica» pagano una tassa per beneficiare del «diritto di liquame», che consiste nel raccoglierla e poi rivenderla.12

i LAvorAtori deLLA SpAzzAturA: profeSSioniSti o cAnAgLie? Ossa e stracci non sono gli unici oggetti che i cenciaioli inseguono senza sosta: cape di sigaro e conchiglie di ostrica, per esempio, sono piccoli rifiuti che, se adeguatamente messi in circolazione, contribuiscono al dinamismo economico della prima industrializzazione. La «strazzeria» (smercio di stoffe e oggetti usati di ogni genere) svolge un 40

L’INVENzIONE DEI RIFIUTI: LA NORMALIzzAzIONE DELL’ABBANDONO

ruolo centrale in questa sinergia. Per quanto sia difficile una valutazione precisa, nella prima metà del XIX secolo il numero dei cenciaioli è in continua crescita. La professione, benché in larga misura legata alla miseria economica e sociale, tende a strutturarsi in differenti gruppi: piqueur, secondeur e gadouilleur. Ognuno ha i propri orari e le proprie zone operative. Il piqueur lavora la notte, in città; il gadouilleur rovista invece nei depositi di sporcizia, dove recupera resti ossei o frammenti di oggetti.13 Alcuni sono più stanziali e limitano l’attività a un quartiere che diventa il loro territorio. L’arrivo dei placiers, sedentari, veri e propri assistenti di portinai e domestici, farà nascere la categoria dei coureurs e di altri raccoglitori che praticano una strazzeria «alla vecchia maniera». I «lavoratori della spazzatura»14 sono ben presto assimilati all’oggetto della loro attività quotidiana. In seguito alle insistenze della borghesia sono relegati fuori dalle città. I luoghi in cui abitano sono di solito disertati dai più benestanti. Dal 1860, per la pressione e l’aggressività dei proprietari e per i metodi di riscossione degli affitti spesso drastici, i cenciaioli si insediano lungo le fortificazioni del 1841, quelle di Luigi Filippo. Soltanto due quartieri di cenciaioli riusciranno a varcare la soglia del XX secolo all’interno della città: la Butte aux Cailles e le Épinettes. Gli altri si trovano fuori dalle fortificazioni, in zone inedificabili, nei pressi dei forti di Charenton, d’Issy, di Romainville e di Montrouge. I «ghetti» degli straccivendoli erano abitati dalle classi sociali più basse: emarginati, operai disoccupati, uomini rovinati dai debiti di gioco, donne mondane, figure abbozzate dai numerosi racconti di giornalisti e scrittori del tempo.15 La loro marginalità ha quasi un carattere identitario: sono per la maggior parte famiglie di cenciaioli, di generazione in generazione, in netta contrapposizione con la massa dei «bravi cittadini». 41

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Fermamente indipendenti, gli straccivendoli mostravano indifferenza e disprezzo per la tranquilla felicità degli «irreggimentati della società».16 L’indipendenza era però abbastanza illusoria, poiché anch’essi erano soggetti a una gerarchia, imposta dalle relazioni che le comunità avevano con la società borghese. Fin dalla metà del XIX secolo, i cenciaioli esercitavano uno dei mestieri più disprezzati senza tuttavia essere condannati dai poteri pubblici: aggressività, furti, sciacallaggio, erano tutte accuse che rispecchiavano in maniera esaustiva la loro condizione di rifiuti per la borghesia. Alcuni storici si sono chiesti se l’assenza di condanne archiviate non fosse la prova della loro innocenza:17 «Cedendo alle pressioni della “società onesta” e degli igienisti, la polizia moltiplicava i regolamenti a loro sfavore».18 Il rafforzamento del controllo dell’attività di strazzeria inizia molto prima del XIX secolo. Già nel 1698, per esempio, agli straccivendoli è vietato andare in strada prima dell’alba. I «lavoratori dei rifiuti» sono stati sottoposti a numerosi tentativi di normalizzazione della loro attività da parte dello Stato, che cercava a tutti i costi di controllare in modo più efficace questo segmento del mercato che gli sfuggiva, ritenuto l’humus da cui traevano origine i mali della società. Sin dagli anni Venti dell’Ottocento, il prefetto di polizia di Parigi, per esempio, tenta di introdurre un sistema di medagliette con cui identificare i lavoratori dei rifiuti. Il tentativo però fallisce. Le medaglie passavano di mano in mano, di padre in figlio o ad amici. Nel 1872 la prefettura vuole ridurre il numero dei cenciaioli e introduce una modifica della medaglietta. Soltanto 6000 su 30-40.000 straccivendoli stabili richiedono il nuovo documento d’identità. Tutti quelli che non ne hanno fatto richiesta riorganizzano la loro attività illegale e la polizia chiuderà gli occhi fino all’arrivo, nel 1883, di un nuovo prefetto dal nome Poubelle.19 42

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C’è dunque una vita sulle montagne di rifiuti. Sebbene ai margini dell’esistenza borghese e della quotidianità operaia, i cenciaioli svolgono un ruolo determinante nell’organizzazione sociale della città del XIX secolo. Suini, polli, roditori: l’onnipresenza di animali accanto ai lavoratori dell’immondo ha contribuito alla loro condanna, perché la condizione di brutalità era troppo lontana dalla cultura della civiltà urbana emergente. La presenza degli animali è un elemento importante, poiché anche loro sono dei lavoratori dell’immondizia. Se i rifiuti sono considerati una potenziale risorsa, deve necessariamente esserci chi getta e ciò che è gettato. Gli scarti sono tuttavia visti come stato transitorio della materia e non sono affatto associati a un divieto morale. La loro natura essenzialmente organica desta l’interesse e la curiosità di medici e urbanisti. Ma la tanto lodata putrefazione resta all’origine di molti inconvenienti: è forse, per definizione, il luogo in cui si sviluppa il malsano?

venti contrAri: LA vittoriA deLL’igiene Noi temiamo l’azione patogena trasmessa dai microrganismi. Spesso le giustificazioni igieniche che diamo delle nostre astensioni sono pura fantasia. La differenza tra noi e loro non è che il loro comportamento si basa sul simbolismo ed il nostro sulla scienza, poiché anche il nostro comporta significati simbolici.20

Nei testi di medicina si comincia a parlare di «igiene» soltanto nel XIX secolo e il termine sostituisce progressivamente «mantenimento» e «tutela» della salute. Derivato dal termine greco hygeinos, «ciò che è sano», l’uso frequente della parola rinvia alla nascita nella medicina di una disciplina autonoma.21 Il sapere medico diventa uno dei pun43

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ti di riferimento dell’azione politica ed è riconosciuto come tale in ambiti molto diversi. Quando la sinergia tra città, campagna e industria raggiunge l’apice grazie allo sfruttamento dei rifiuti organici, un nuovo paradigma scientifico attribuisce al «regno dei minerali» una posizione centrale. Il cambiamento è particolarmente visibile nelle grandi trasformazioni della chimica in quel periodo. Lavoisier, Berthollet, Guyton de Morveau, Fourcroy: una nuova generazione di chimici che vuole limitare l’ambito della putrefazione, della morte, dello statico. Con la nuova chimica si afferma il disgusto, il divieto del putrefatto.22

Ne è prova la sorte riservata alle pratiche di utilizzo degli escrementi urbani nella produzione di concimi: la maggior parte dei grandi trattati della nascente chimica moderna le ignora, o vi accenna appena. La mobilità e la versatilità della materia organica appaiono ormai come difetti rispetto alla stabilità degli elementi minerali. Da questi è possibile sintetizzare tutto. Lo stesso nitrato di potassio è allo stato naturale e per ottenerlo non è indispensabile il contributo dell’attività urbana: lo si importa in Europa dal Cile o dal Perù con l’ausilio di navi a vapore. Le pratiche derivanti dall’influsso igienista sono lungi dall’avere un qualche fondamento scientifico. Con l’avvento dell’igiene viene anche il tempo della diffidenza. Gli igienisti impongono una nuova sensibilità rispetto alla salute e alla morte. Questa nuova ideologia, diffusa in tutti i paesi occidentali, esige una vera e propria rottura nella percezione e nella definizione di immondo. Sebbene all’inizio promuova il ritorno ad antiche pratiche, la tendenza diventa molto presto un simbolo della modernità. Nella città del XIX secolo, la percezione dell’immondo passa prima di tut44

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to dal naso. Le classi borghesi scoprono «la nuova sensualità» dell’«odore della giunchiglia» e vogliono trasformare la città con criteri basati su un’«estetica dell’olfatto».23 Lo attestano le riflessioni di Lavoisier sui processi di putrefazione organica: «L’odore insopportabile delle sostanze [che si ottengono dalla materia animale] non permette di sperare a lungo di poterle impiegare per altro uso che non sia il concime».24 Il periodo è segnato da una diffidenza sempre più accentuata per tutto ciò che è immondo. Benché destinato in seguito a trovare un fondamento scientifico, è a partire da basi essenzialmente percettive, soggettive, che nasce il primo movimento ideologico dell’igienismo. Quest’ultimo riesce a guadagnarsi l’immediato consenso dei più ricchi, ansiosi di proteggersi dai pericoli dell’immondo in tutte le sue forme. Con la scoperta di Pasteur della vita microbica, le pratiche che sono pressoché appannaggio della borghesia in un secondo momento si affermano come norma universale della quotidianità. L’idea che nella città moderna i rifiuti immondi non abbiano più spazio è oramai accettata da tutti, o quasi. Da un pericolo visibile e maleodorante, l’igienismo tende ad allargare la sfera del rischio alle minacce invisibili, impercettibili e microscopiche. Non più semplicemente gettato, l’immondo deve essere eliminato, debellato, perché nasconderlo non sembra ormai sufficiente rispetto al potere distruttivo che gli si attribuisce.

un’economiA circoLAre Anzitempo? Poiché sono in costante movimento ed essenzialmente organici, si può affermare in modo un po’ provocatorio che prima del XIX secolo «i rifiuti non esistono». Sono uno stato transitorio della materia che solo i periodi di stagna45

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zione e di accumulo – talvolta causa di saturazione degli spazi di vita – trasformano in un inconveniente per la città. Prima della modernità, gli scarti urbani sono una risorsa fondamentale che contribuisce a definire l’identità e l’integrità della città. Per quanto nocivi siano, dalla città medievale a quella protoindustriale, sono un «a sé». Chi ne dispone possiede un vero e proprio potere sulla città: indicano un’appartenenza.25 I rifiuti sono la città in quanto tale, poiché con essi se ne valuta la ricchezza e la potenza. Gli escreti urbani «appartengono» alla collettività. Sono, paradossalmente, una forma di bene comune. Sarebbe tuttavia inesatto limitarci a una visione irenica del problema degli effetti nocivi dei rifiuti nello spazio urbano premoderno. Per lo storico Jean-Baptiste Fressoz, l’idea del ciclo delle materie, di un «riciclo anzitempo», dato che convalida l’idea di uno sviluppo sempre virtuoso dell’industria, è stata un’argomentazione determinante per gli ingegneri della prima industrializzazione: Come Dio, l’industria chimica contribuisce al buon funzionamento materiale della Creazione. Sin dalle sue origini, il riciclo industriale ha perciò una funzione giustificatrice. Permette di confutare gli argomenti dei vicini che si lagnano delle esalazioni delle industrie chimiche e fornisce una base logica a una forma di laissez-faire tecnologico: dato che l’industriale-scienziato aumenta i propri guadagni riducendo i rifiuti, è assolutamente necessario lasciare libero corso ai suoi calcoli economici.26

Eco lontana delle riflessioni di Linneo e di altri sull’equilibrio della natura come prova dell’esistenza divina, dell’ordine di quest’economia della natura, «anche l’efficienza materiale della grande industria è una prova della sua santità».27 Sin dal XIX secolo, tuttavia, l’idea secondo la quale 46

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la razionalità economica tende verso il modello di una natura che non produce rifiuti perde credibilità: Alcuni fattori strutturali della produzione industriale, legati ai costi fissi del capitale, alla massa colossale dei rifiuti, alla loro localizzazione geografica, alla difficoltà di trasportarli, diluirli, mischiarli ecc. rendevano assolutamente illusorio il sogno liberale di una mano invisibile che orientava l’industria verso l’efficienza materiale.28

Sostenendo più volte la tesi del libero sviluppo economico a scapito di chi criticava l’impatto sanitario e ambientale, la modernità industriale dà inizio a un lungo periodo di disinibizione. Il futuro sarà caratterizzato da un movimento conflittuale e profondo di separazione dei rifiuti dall’organismo costituito dalle relazioni sinergiche tra la città e il suo contesto: da un «a sé», i rifiuti diventano un «a se stante», e segnano sia la nascita di un concetto autonomo dei rifiuti sia la loro normalizzazione. Mentre i pazzi vengono messi in manicomio e i mostri immersi nei vasi dell’embriologo, l’immondizia passa attraverso un processo di normalizzazione-contenimento e si inserisce tra gli elementi destinati all’isolamento.29

L’evoluzione si verifica sia a livello dello spazio urbano sia sul piano individuale. Alla presenza percettibile e immobile dell’immondo, simbolo di decomposizione mortale, si contrappone una corrente ideologica e scientifica portatrice dei valori dell’igiene pubblica della modernità. Più che una riforma di carattere tecnico, è una svolta culturale e sociale. È il frutto di vari fattori talora del tutto indipendenti l’uno dall’altro: eliminazione graduale della circolazione 47

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in superficie di escreti urbani; scomparsa di alcune sinergie che strutturavano la relazione città-campagna-industria; dequalificazione dell’immondo e tendenza a «imprigionarlo», a confinarlo (in reti sotterranee e contenitori chiusi da un coperchio); nascita di un sistema tecnico industriale dei rifiuti solidi; infine, ma forse soprattutto, normalizzazione del principio di abbandono della materia. Un cambiamento di sensibilità che costituisce un terreno fertile per la svolta modernista dei rifiuti. Con la loro normalizzazione e autonomizzazione li si tratterà come un aspetto della vita urbana da gestire e controllare.

i rifiuti moderni fine deLLA circoLAzione e deLL’AccumuLo: verSo L’eLiminAzione deLL’immondiziA Tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo si impongono da un lato la gestione specifica degli scarti solidi e dall’altro la costruzione dell’accezione moderna di rifiuti. Se si è parlato di un’invenzione dei rifiuti, lo si è fatto per sottolineare che la scomparsa di pratiche sinergiche tra città, campagna e industria determinerà la nascita di una nuova categoria di materiale residuo destinato soltanto all’abbandono. In altre parole, lo stoccaggio a tempo indeterminato. Se in precedenza la città era stata una fonte di prosperità per la nascente industria e per l’agricoltura, i nuovi settori dell’attività umana abbandonano le materie prime escrementizie a favore di risorse minerali, non rinnovabili, estratte dalle viscere della Terra (idrocarburi, fosfati, potassio) e dall’atmosfera (azoto per la produzione di concimi e di esplosivi). Più in generale, la città perde il proprio statuto di fornitrice di materie prime alla nascente industria.30 48

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Per ritornare ad alcune categorie già menzionate, va ricordato che sin dalla fine del XVIII secolo l’industria cartaria, nel tentativo di prevenire la penuria di materie prime provenienti dalla città, crea dei surrogati degli stracci. Da metà Ottocento i processi di estrazione della cellulosa vegetale si affermano come la migliore soluzione alternativa, valida ancora oggi.31 Allo stesso modo, la scoperta di giacimenti di fosforo e la creazione delle prime resine di sintesi hanno messo fine allo sfruttamento delle ossa. Quando alla fine del XIX secolo, con la transizione verso un’agricoltura «moderna» e intensiva, avviene la rottura dell’interazione tra città e campagna, compaiono i primi fertilizzanti chimici. Spesso meno costosi e più efficaci del loro equivalente organico, sono dapprima utilizzati in aggiunta ai concimi biologici. Molto presto, però, i fertilizzanti chimici si affermano come una manna dal cielo per un settore in piena crescita. Il ricorso a sostanze minerali permette di affrancare l’agricoltura dalla sua dipendenza dagli escreti della città. Negli anni Venti del Novecento il concime umano e animale diventa un prodotto desueto e sempre meno importante. Fino alla fine del primo quarto del XX secolo si cercano destinazioni per gli escreti urbani – abbandonati dall’industria e dall’agricoltura – con lo sviluppo di filiere di riciclo e di valorizzazione industriale dei rifiuti solidi. Il riciclo è tanto necessario quanto «naturale», poiché dal punto di vista economico è funzionale a un’industria basata sull’ottimizzazione razionale delle risorse. Ma è una tendenza minoritaria. La maggior parte del Novecento sarà caratterizzata dal progressivo abbandono del materiale urbano definito «liquame» e «rifiuti». Nello stesso periodo la crescita demografica nelle città, la mineralizzazione dell’energia e dell’economia (carbone) e la prima mondializzazione economica (importazione di nitrato di 49

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potassio e di guano dall’America del Sud) contribuiscono all’esplosione e alla diversificazione del volume di materiali da smaltire. In un contesto di ampie trasformazioni i rifiuti saranno un vero e proprio «onere per la collettività e per l’ambiente».32 L’avvento di un «problema dei rifiuti» non è la diretta e necessaria conseguenza della crescita urbana: le scelte politiche ed economiche di allora prefigurano il cambiamento di visione tecnologica oggi in corso.

confinAmenti: «tutto neLLA fognA» e «tutto neLLA foSSA» L’esistenza di una rete sotterranea dell’acqua in città non risponde al principio «tutto nella fogna». Tale espressione mette infatti in evidenza il graduale passaggio da uno scarico collettivo e manuale dei rifiuti a pratiche individuali e «automatizzate». Ogni casa tende a collegarsi alla rete di scarico. Per esempio, i gabinetti privati che fanno la loro apparizione alla fine del XIX secolo riscuotono grande approvazione.33 Sotterraneo, invisibile, il veicolo dell’immondo diventa uno dei simboli della fine della tolleranza per la sporcizia nello spazio pubblico. Con il supporto tecnico, numerose pratiche fino a quel momento collettive diventano private. La pulizia degli indumenti e del corpo, nonché lo scarico di rifiuti di ogni tipo sono ormai consuetudini che, di fatto, contribuiscono all’esclusione dell’immondo dalla città borghese. Con il «tutto nella fogna», sperimentato prima in Inghilterra e poi importato in Francia da Adolphe Mille, gli scarichi e i liquami scompaiono dal paesaggio urbano, lasciando in superficie il resto degli scarti urbani: i rifiuti solidi. In un primo tempo si cerca di sfruttare il prodotto 50

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della rete sotterranea dell’acqua tramite lo spandimento agronomico. Nel 1869 il comune di Parigi acquista sette ettari di terreno sulla penisola di Gennevilliers per scaricarvi le acque reflue provenienti dal ventre della capitale. Lo spandimento offre considerevoli vantaggi all’orticoltura: l’irrigazione e la fertilizzazione gratuita di queste terre spinge molti coltivatori ad affittare dei campi su quel sito che assicura una produzione agricola senza precedenti. Tuttavia, spiega Guillaume Carnino,34 nel 1875 scoppia una controversia ecologico-sanitaria che oppone le municipalità di Gennevilliers e di Parigi sul progetto di collegamento del collettore della Villette alla rete di spandimento. Con l’ausilio di esperti, la prima cerca di attestare i rischi sanitari dello spandimento massiccio che supera abbondantemente la capacità di assorbimento della penisola, mentre la seconda vuole dimostrare sia i benefici sia la salubrità del sistema. Il conflitto coincide con quello tra gli abitanti, che si lagnano del fastidio e dell’inquinamento, e gli agricoltori, che si arricchiscono grazie all’improvvisa redditività del luogo, diventato in pochi anni il principale fornitore ortofrutticolo delle Halles. Nel 1880 si riesce ad arrivare a un accordo amichevole, ma «soltanto nel 1964 verrà posta fine allo spandimento delle acque reflue parigine sulla piana di Gennevilliers».35 In linea di massima, la portata delle acque nere prodotte dalle città supera in fretta la capacità di assorbimento dei terreni circostanti. Anche in questo caso sarebbe fuorviante attribuire la responsabilità di ciò che accade alla crescita demografica. Le riforme in tema di igiene modificano gli standard di pulizia urbana e necessitano di un enorme quantitativo di acqua.36 Spesso in nome della «Scienza» e dell’igienizzazione virtuosa, il modello del «tutto nella fogna» sarà la causa di numerosi e duraturi inquinamenti.37 Lo scarico diretto nei corsi d’acqua sarà quanto mai frequente, tanto da incoraggiare, negli anni 51

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Dieci del Novecento, la creazione di impianti di depurazione, produttori di nuovi rifiuti tanto più tossici perché concentrati. La rapida saturazione di tali dispositivi tecnici favorirà lo sviluppo di soluzioni di stoccaggio che – nel periodo tra le due guerre – saranno la destinazione privilegiata, e sempre «provvisoria», dei rifiuti urbani. Lo sviluppo delle reti idriche ed elettriche coincide con quello di tecnologie per lo smaltimento dei rifiuti solidi. Se Alain Gras, sulla scia di Ingo Braun e Bernward Joerges, definisce il sistema moderno di gestione dei rifiuti un «macrosistema tecnico di second’ordine», è perché mette l’accento sul modo in cui la circolazione della materia residuale si è affiancata allo sviluppo accelerato dei sistemi di circolazione degli uomini, dei materiali e dell’energia sin dall’inizio della società termoindustriale.38

La spazzatura come luogo di confino... All’isolamento delle reti fognarie si aggiunge quello degli scarti solidi. Nell’ultimo terzo del XIX secolo la creazione di reti di scarico delle acque ha fatto nascere il problema dei rifiuti solidi. Il caso parigino è emblematico, soprattutto perché darà un nome ai contenitori, ormai familiari, destinati ad accogliere gli scarti domestici: l’invenzione della spazzatura corrisponde all’ingresso simbolico nell’era dei rifiuti «moderni». All’inizio del XIX secolo, in Europa, si moltiplicano i tentativi per incoraggiare l’uso di ceste per raccogliere i rifiuti. Il più delle volte, però, in assenza di mezzi, i poteri pubblici sono molto permissivi. In Francia, l’idea di buttare gli scarti in appositi contenitori arriva dagli amministratori comunali di Caen, nel 1799, ma la decisione resta a lungo inapplicata, poiché solo i più ricchi hanno la possibilità di acquistare i futuri secchi dell’immondizia. Sarà il 52

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celebre prefetto Poubelle, non senza difficoltà, a imporre alla Francia un modello sanitario basato sul principio di isolamento di ciò che è immondo. Poubelle è nominato prefetto della Senna nel 1883. Il 24 novembre dello stesso anno e il 7 marzo di quello successivo pubblica due decreti ormai famosi. I toni apertamente ridondanti di quei provvedimenti legislativi tradiscono le molte e tenaci resistenze che hanno suscitato. Cenciaioli da una parte e agricoltori dall’altra sono fermamente contrari a tali regolamenti, distruttivi del lavoro degli uni e ostacolo all’accesso a un’importante risorsa per l’attività degli altri. La stessa amministrazione, del resto, si oppone a queste decisioni, per via del carico di lavoro che comportano. Ma in un contesto in cui i valori delle norme igieniche sono onnipresenti, l’aspra contestazione viene progressivamente sedata in nome della salute pubblica.39 I testi dei decreti presentano numerosi elementi di interesse per il lettore d’oggi poiché, contemplando due tipi di contenitori della spazzatura, è possibile scorgervi una forma di protoraccolta differenziata. Gli articoli 5 e 6 del secondo decreto fanno riferimento, per esempio, a quei rifiuti che non possono essere gettati nel normale contenitore. Tra questi «terra, detriti e calcinacci di qualsiasi tipo che provengano dall’esecuzione di lavori o dalla manutenzione di cortili e giardini, [...] residui di stoviglie, porcellana, pezzi di vetro». Non c’è invece il minimo riferimento alla protezione dell’ambiente, ma soltanto un cenno a un criterio di buon senso. Anche altrove è affermata con forza la regola della raccolta differenziata. A New York la distinzione tra garbage e rubbish testimonia della preoccupazione di separare i rifiuti in base alla loro natura: garbage per gli scarti organici in putrefazione, rubbish per quelli secchi, in metallo e in legno.40 Un contenitore per il compost, un altro per i cenciaioli! 53

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... e come oggetto di protesta Ci vorranno almeno cinquant’anni perché a Parigi venga rispettata la normativa introdotta da Poubelle. La protesta più dura viene dagli straccivendoli. Al punto che, dopo la pubblicazione del primo decreto, è emersa la necessità di un cenno al loro lavoro. Anziché proibire la strazzeria senza menzionarla, si cerca di disciplinarla. Mentre il primo decreto, infatti, la vietava senza giri di parole, il secondo stabilisce «che ai cenciaioli è fatto divieto di disseminare i rifiuti sulla pubblica via. Essi potranno farne la cernita su un telo e dovranno poi depositarli nei contenitori» (articolo 7). Gli straccivendoli sono dunque autorizzati a svolgere la loro attività un’ora al giorno. È un momento di tolleranza compreso tra quello in cui la spazzatura poteva essere depositata in strada e quello del passaggio dello sbarello (un carretto con la cassa ribaltabile). In un primo momento il settore industriale si serve di questa lunga tradizione di strazzeria. I lavoratori dei rifiuti talvolta vendono direttamente alle fabbriche il prodotto della loro raccolta. Agli inizi del XX secolo sorgono a Parigi quattro fabbriche per il trattamento dei rifiuti: SaintOuen, Issy-les-Moulineaux, Romainville e Vitry-sur-Seine. «Ogni stabilimento, collegato sia alla ferrovia sia alla rete idrica, è pronto a trarre il massimo beneficio economico dai rifiuti.»41 Raccolta differenziata, frantumazione, triturazione e incenerimento sono le procedure sperimentate dai primi tentativi di trattamento industriale in Francia. Nei paesi anglosassoni si contano numerosi stabilimenti analoghi.42 I primi esperimenti di conversione dell’incenerimento dei rifiuti in energia hanno luogo a Columbus (Ohio) e a Austin (Texas). L’Inghilterra e la Germania non sono da meno. Nel 1897 un trituratore viene collegato al motore a vapore dell’acquedotto di Hereford.43 La produzione di energia di 54

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solito era vista come una buona soluzione per alimentare le macchine per il trattamento dei rifiuti. Talvolta vengono messe a punto «reti di calore» destinate, a livello locale, alla fornitura di energia a case, enti pubblici e industrie. Spesso, però, la resa dell’incenerimento di rifiuti pieni d’acqua è davvero modesta, e il contributo all’«economia del calore» ininfluente.44 Al trattamento di materiale «senza alcun valore» si affiancano le filiere che si sviluppano grazie a materiali caratterizzati dalla loro rarità. Infatti, se non ci sono «rifiuti metallici» è perché questi ultimi vengono recuperati e venduti a grossisti di ferraglia che ne traggono un certo profitto. Ancor prima della sistematizzazione dello sfruttamento della cellulosa vegetale, nascono numerose fabbriche per il riciclo di carta e cartone. Nonostante i molteplici tentativi, la gestione dei rifiuti urbani rappresenta un costo notevole per la collettività: lungi dall’essere «remunerativa», diventa un onere. L’attività di raccolta differenziata, ormai incorporata nella fabbrica, dopo la Seconda guerra mondiale va ben presto a rotoli, perché la composizione sempre più eterogenea dell’immondizia la rende molto costosa.45 La raccolta, attività nevralgica della strazzeria, è resa progressivamente obsoleta dalle nuove tecniche: nel periodo tra le due guerre, a Parigi fanno la loro apparizione gli sbarelli a petrolio e i primi cassonetti. Allo smantellamento dell’attività dei cenciaioli attraverso varie forme di «progresso tecnico» si accompagna la persistente condanna di questa categoria di lavoratori da parte degli igienisti. Assimilati all’oggetto stesso della loro attività, la messa al bando del loro mestiere è inclusa nelle misure adottate per la salute pubblica. Nella capitale francese la Seconda guerra mondiale e gli anni di penuria consentiranno una proroga della loro attività. Tuttavia, la strazzeria sarà ufficialmente vietata da un’ordinanza del prefetto del 30 novembre 1946. I cen55

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ciaioli ancora una volta si oppongono, ma ottengono, a titolo di compensazione, solo di accedere agli scarichi delle grandi fabbriche. In Francia, il divieto di raccogliere stracci e altri oggetti verrà sistematicamente applicato negli anni Cinquanta.46 I lavoratori dell’immondizia assistono alla scomparsa della loro attività a vantaggio di un sodalizio tra i comuni e le industrie nascenti. Già emarginato dalla natura della sua mansione, questo segmento della popolazione è destinato a scomparire: in Francia, alla fine del XIX secolo l’attività di strazzeria dà da vivere a quasi 500.000 persone, una cinquantina d’anni dopo è semplicemente vietata.47

AccumuLo: iL cALcoLo economico che iStituzionALizzA iL SiStemA di SmALtimento

Da risorsa produttiva per lo spazio urbano i rifiuti si trasformano in un onere, in un’esternalità negativa. Il mutamento è in gran parte giustificato dalla valorizzazione economica della gestione dei rifiuti: da un modello urbano in cui le famiglie lasciano gratuitamente i propri rifiuti al servizio municipale e ai cenciaioli si passa a uno in cui le stesse famiglie pagano il servizio di raccolta e di gestione. Fino al periodo tra le due guerre, abbandonare i rifiuti non comporta alcun costo, dato che per gli imprenditori delegati a gestirli gli escreti urbani continuano a essere redditizi. Pertanto, se nel 1860 era necessario pagare al comune un permesso per raccoglierli e utilizzarli, dalla fine del XIX secolo spetta alla città pagare per sbarazzarsene. Due sono le ragioni del passaggio dall’abbandono degli scarti come elargizione (o scambio) al servizio a pagamento: la crescita demografica urbana e l’incremento della quantità di prodotti consumati dalle famiglie agli inizi del XX secolo. 56

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Nel periodo tra le due guerre gli sbocchi produttivi, in particolare nell’agricoltura, scompaiono quasi del tutto, e il centro del sistema di gestione dei rifiuti diventa lo spazio di stoccaggio, dove questi ultimi non rappresentano più una fase transitoria della materia ma si trasformano in un’«entità a se stante». Nello stesso periodo acquista popolarità un famoso proverbio del mestiere: «Quando si controlla l’orifizio si controlla il mercato». Gli imprenditori, dal momento che possono proporre ai comuni una forma di gestione «verticale» dei rifiuti, ne stabiliscono anche il prezzo: il servizio di raccolta è infatti redditizio quando è fatto dalla stessa impresa che si occupa del «trattamento» dell’immondizia (stoccaggio, triturazione e incenerimento). Anche se nella maggior parte dei casi il controllo della gestione dei rifiuti ha una dimensione locale, si passa da un’economia basata su scambi tra soggetti multipli (famiglie, cenciaioli, comuni, industria, agricoltura e imprese) a un modello che poggia su due poli: produttori-finanziatori (famiglie e comuni) e gestori-prestatori (comuni e imprenditori). Per tutto il XX secolo la privatizzazione del settore della gestione dei rifiuti tende ad allargarsi, per poi semplificarsi con l’applicazione quasi generalizzata, in Francia, del principio di delega del servizio pubblico: da una parte le famiglie che finanziano con le imposte o con una tassa il ritiro dei rifiuti, dall’altra il comune che paga un fornitore di servizi per «sbarazzarsi» dell’immondizia. La «delega» del servizio pubblico è la soluzione in larga misura adottata dalle amministrazioni locali francesi ma non è l’unico modello di interazione.48 Perciò bisogna dare conto di alcune differenze tra paesi: l’Inghilterra, in una logica di liberalizzazione della propria economia, arriverà a vietare il monopolio dello Stato nella gestione dei rifiuti per garantire la concorrenza nel settore, mentre la maggior parte delle nazioni europee manterrà un regime di partnership pubblico57

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privato. In ogni caso, per «guadagnarsi il mercato» il prestatore ha tutto l’interesse di proporre al comune le tariffe più vantaggiose: per gran parte del XX secolo, il deposito in discarica resta la soluzione più redditizia e diffusa. L’accumulo di rifiuti nelle grandi città e nelle loro vicinanze continua ad aumentare: si tratta di discariche «selvagge», che la maggior parte degli abitanti considera nocive. La città moderna aveva avuto la pretesa di allontanare sempre di più dalla vista e dall’olfatto ogni sorta di scarto materiale o umano, ma a causa della mancanza di sbocchi produttivi i rifiuti urbani si trovano dappertutto e per i comuni il loro «trattamento» è sempre più costoso. Con l’invenzione della discarica controllata, la città rinuncia alla lotta contro i rifiuti e istituzionalizza al contempo il concetto di abbandono. L’idea viene dall’Inghilterra, che all’inizio del Novecento crea i primi sanitary landfills, vere e proprie «millefoglie» di immondizia in cui si alternano – raggiungendo un’altezza di due metri massimo – strati detritici e strati di materia inerte destinati a limitare la produzione di percolato. Il termine indica ogni sorta di residuo liquido prodotto dalla percolazione dell’acqua attraverso un materiale (nella sua forma liquida il caffè americano è dunque un percolato) ed è subito adottato dai gestori delle discariche per definire i «prodotti liquidi»: il più delle volte è l’acqua piovana a contribuire alla dispersione di sostanze chimiche (organiche e non) presenti negli accumuli detritici. Negli anni tra le due guerre la soluzione della discarica controllata è al centro di un ampio dibattito.49 Alcuni ritengono che quel genere di deposito vada realizzato a grande distanza dalle città, con un notevole aumento dei costi di trasporto. Considerate come un passo indietro, si nutrono forti dubbi sulla capacità dei comuni di esercitare un efficace controllo su quanto accade nelle discariche a cielo aperto. Nonostante gli scarsi risultati degli esperimenti di 58

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discarica controllata,50 il criterio dell’abbandono viene sistematizzato. Valga per tutti il famoso esempio della discarica di Entressen, nel comune di Saint-Martin-de-Crau (Bouches-du-Rhône), la cui apertura, nel 1912, segna la rinuncia della regione marsigliese a fare uso dei rifiuti domestici nell’agricoltura. Considerata la più grande discarica a cielo aperto d’Europa, fino al 2010 accoglierà la maggior parte dei rifiuti del circondario. Attualmente vi è stipato un secolo di abbandono. Dopo il 1945 la discarica controllata si presenta come soluzione ideale, un modello da seguire la cui realizzazione, però, sarà molto lenta, se non addirittura destinata a rimanere sulla carta. Nel 1975 i due terzi dei rifiuti domestici prodotti in Francia marciscono in discariche «rudimentali» o «selvagge».51 Quando valuta l’ipotesi di costruire una discarica, il comune incontra forti resistenze. Negli anni Ottanta gli amministratori parlano addirittura di «sindrome di Nimby», acronimo di Not In My Backyard (non nel mio giardino), per indicare i movimenti locali che si oppongono alla realizzazione di strutture che potrebbero arrecare fastidi (stabilimenti per la fabbricazione di prodotti chimici, inceneritori, basi militari e anche scuole e asili). La «sindrome» accomuna chi concorda sull’opportunità e l’utilità della costruzione di questa o quella infrastruttura ma si rifiuta di affrontare eventuali inconvenienti. Nimby è una delle ragioni che giustifica il costituirsi di organi locali di consultazione che, prima dell’attuazione di un progetto, consentono di «sensibilizzare» gli abitanti e aumentare il livello di «accettabilità» di determinate soluzioni tecniche.52 L’incenerimento è la principale opzione per lo smaltimento: il fuoco sembra essere la tecnica più igienica per neutralizzare la natura immonda del rifiuto e ancor più dei suoi sottoprodotti, o scorie, che permettono la fabbricazio59

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ne di alcuni materiali per la costruzione (i mattoni in particolare). Tale opzione è però piuttosto costosa e lo stoccaggio (ponderato?) verrà ritenuto una soluzione provvisoria e di emergenza anche dai più strenui difensori dell’incenerimento.53 Si assiste perciò a un’industrializzazione progressiva della gestione dei rifiuti e, nonostante le resistenze locali alla costruzione di tali infrastrutture, dal punto di vista dei principali attori della gestione, fino all’indomani della Seconda guerra mondiale la moltiplicazione degli inceneritori non ha mai comportato rischi di inquinamento né un peggioramento della qualità della vita degli abitanti: «Fino agli anni Cinquanta gli inceneritori non erano quasi mai considerati fonte di inconvenienti, ma una soluzione sanitaria del problema dei rifiuti e delle discariche».54 Accanto alla «soluzione» terrestre per assorbire la sovrabbondanza detritica si allargano le discariche in mare o negli oceani, in Francia autorizzate fino alla metà degli anni Settanta. Rispetto ai centri abitati, l’immensità degli oceani è un «altrove» eccellente, poiché elude sia il problema del Nimby sia quello dell’impatto ambientale sul territorio. Già nel periodo tra le due guerre, e negli Stati Uniti in particolare, l’abbandono in mare è stato oggetto di critiche. Nel 1933 le città costiere del New Jersey hanno fatto causa alla città di New York per i rifiuti che inquinavano il loro litorale. Il processo si concluderà con il divieto federale, a partire dal 1934, di abbandonare i rifiuti urbani nelle acque dell’oceano. Alcune raccolte detritiche riescono però ad aggirare la sentenza e si calcola che alla fine degli anni Sessanta siano stati gettati nell’oceano 50 milioni di tonnellate di rifiuti. Gli abissi oceanici restano l’approdo privilegiato dei rifiuti pericolosi, nella fattispecie tossici e nucleari. A metà degli anni Settanta esistevano quasi centoventi siti oceanici di discarica legale di rifiuti controllati dalla guardia costiera americana.55 60

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Anche in questo caso, allontanando sempre di più le discariche dagli spazi abitati, si pensa di aver trovato una soluzione comunque ritenuta provvisoria. Il principio di deposito in mare è sembrato un’opportunità per fare della discarica un prolungamento della terra sul mare. L’esempio più famoso in questo senso è quello di Yumenoshima, «l’isola dei sogni», sorta nel cuore di Tokyo dopo quasi tre secoli di accumulo informale di rifiuti. Alla fine degli anni Cinquanta, quando l’ammasso detritico spuntò fuori dall’acqua, fu realizzato il progetto di urbanizzazione del luogo,56 che oggi ospita centri sportivi e una serra con giardino botanico. Altri esempi testimoniano di un abbandono percepito come una soluzione: l’aeroporto di Haneda a Tokyo e il John Fitzgerald Kennedy di New York sono entrambi costruiti su aree, l’una acquatica, l’altra paludosa, sorte dall’accumulo di rifiuti urbani. Lo «stoccaggio» in mare sarà ufficialmente vietato, a livello internazionale, soltanto dopo la firma e la ratifica della Convenzione internazionale di Londra nel 1972. A quei tempi, però, il protocollo non contemplava determinati rifiuti come quelli nucleari, a debole o ad alta radioattività. Lo stoccaggio in mare di questi ultimi è stato vietato solo nel 1993 e soltanto nel 1996 quello di tutti i rifiuti tossici.57 Pur destinato a favorire l’applicazione del principio di precauzione, quest’ultimo protocollo contempla alcune eccezioni, e non di poco conto, sul principio della «lista di base» (lo scarico in mare di tutti i rifiuti non inclusi in tale lista è, de facto, vietato dal protocollo): dai fanghi di dragaggio a quelli di depurazione, dai rifiuti dell’industria ittica a quelli organici di origine naturale, passando per navi, piattaforme e altre strutture artificiali in mare, rifiuti pericolosi prodotti su territori insulari che non dispongono dei mezzi per smaltirli sul posto o esportarli... In parole povere, l’oceano spazzatura ha davanti a sé un radioso avvenire! 61

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Per tutto il XX secolo, istituzionalizzandosi come «prodotto di un abbandono», i rifiuti sono stati esclusi dagli spazi di vita e dalla sfera percettiva di chi getta.

tempo di guerrA e tempo di pAce: gettAre come StiLe di vitA

In un sistema in cui domina il rifiuto «moderno», «abbandonato», negli anni delle due guerre mondiali la generale penuria ha per un po’ remato contro il movimento di esclusione del residuo. Interi paesi impegnati nello sforzo bellico non potevano permettersi di produrre resti. L’industria militare americana si è avvalsa, in particolare, del recupero di gomma e di metalli per uso domestico.58 Il contributo delle famiglie allo sforzo bellico con il recupero, il reimpiego e la frugalità deve tuttavia essere ridimensionato. La storica Susan Strasser dà accuratamente conto di quanto le famose scrap drives siano state più utili alla propaganda che alla raccolta di materiali strategici. Costosi dal punto di vista organizzativo e poco redditizi da quello del materiale effettivamente ricavato, i «tour di recupero» predisposti dallo Stato federale americano, e spesso realizzati dalle casalinghe nel periodo di guerra, sono stati l’occasione per consentire a più persone di credere di contribuire allo sforzo nazionale senza fare grandi sacrifici. Quanto destinato ai camion della raccolta erano il più delle volte oggetti pronti per essere buttati. In pratica, il periodo di guerra, orientato com’era verso la questione del recupero, più che contribuire a rafforzare la tradizionale tendenza a conservare e a riparare i vari oggetti della vita quotidiana ha permesso di introdurre nuove abitudini e nuove pratiche, prima fra tutte quella di gettare. 62

L’INVENzIONE DEI RIFIUTI: LA NORMALIzzAzIONE DELL’ABBANDONO

Per quanto sia di sicuro necessaria un’analisi più dettagliata dell’opposizione sociale alla tendenza all’abbandono puro e semplice,59 è comunque possibile affermare che, paradossalmente, l’esperienza condivisa di miseria ha costituito un terreno fertile per lo sviluppo del consumismo di massa del dopoguerra. La fine del razionamento alimentare, il senso di liberazione e l’impegno nella ricostruzione di intere nazioni sembrano aver fatto da catalizzatori per creare sulle rovine del conflitto un mondo materiale che prometteva un’abbondanza senza limiti. È sulla base di ricerche militari che molte innovazioni finiranno per assicurare nuovi standard di pulizia domestica e di benessere quotidiano. Vaschette e lattine in alluminio, buste individuali per i generi alimentari: le famiglie del dopoguerra cominciano a utilizzare prodotti monouso. Alcuni di questi esistevano già dalla metà del XIX secolo e prepareranno il terreno al vero e proprio boom postbellico. I primi beni di consumo usa e getta risalgono agli anni Sessanta dell’Ottocento: i colli e i polsini di carta per le camicie da uomo sono proposti come mezzi per semplificare il quotidiano domestico. Invece di lavare ogni giorno colletti e polsini ingialliti dal sudore, si gettano e si sostituiscono con accessori nuovi!60 Allo stesso modo, alla fine del XIX secolo, la società Johnson & Johnson mette in commercio i primi assorbenti usa e getta.61 All’indomani della guerra, «l’usa e getta» è il motto di ogni venditore. Buttare nella spazzatura è qualcosa di più di un modo per semplificare l’esistenza: è ormai un vero e proprio stile di vita della modernità. Questo periodo registra una promozione senza pari di tale pratica: la pubblicità e i giornali femminili insistono sempre di più sulla natura liberatoria di tali prodotti. Nel 1951, un articolo apparso sul mensile «Woman’s Home Companion» pone l’accento sulla possibilità offerta dai prodotti usa e getta di «buttare 63

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nella spazzatura [i propri] problemi di riordino e di bucato».62 Sulle società occidentali spira un vento di libertà: nella cultura del nascente consumismo di massa, gettare è un atto liberatorio, quasi eccitante. Si butta via, perciò, molto più allegramente di prima, e non solo i beni materiali. Il periodo oscuro della guerra ha stimolato una più generale tendenza a sotterrare le storie individuali: chi getta sembra capace di abbandonare tanto gli oggetti quanto parti della propria vita, rinuncia con più facilità all’appartenenza comunitaria, religiosa e politica.63

LA normALizzAzione dei rifiuti o LA Loro preSenzA pAtoLogicA

Poiché in questo periodo sembra possibile affermare che i rifiuti sono «un’invenzione», che hanno una vita autonoma, separata, a valle dalla logica produttiva, è necessario riservare loro uno spazio apposito. La normalizzazione del principio di abbandono si innesta in un processo di eliminazione graduale dei rifiuti, che va dall’essere «scacciati» dallo spazio domestico alla loro esclusione dalla città. Lo smaltimento è sostenuto con dichiarazioni ammantate di scienza che avvalorano l’idea che la concentrazione e la gestione dei rifiuti presentano un interesse sanitario e al tempo stesso economico. I rifiuti devono essere scaricati ed evacuati «altrove», lontano dai centri di vita. Le discariche e tutte le infrastrutture per lo smaltimento non cercano più soltanto di reinserire i rifiuti in un processo produttivo, ma si trasformano progressivamente in «sfoghi», termine tratto dalla medicina che designa anche i luoghi del divenire dei rifiuti: da discarica a centro di valorizzazione energetica. In altre parole, si tratta ogni volta di prevedere un accesso all’esterno per or64

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ganismi minacciati dalla saturazione dovuta all’accumulo di sostanze tossiche. L’«esclusione» fa dei rifiuti una cosa normale, una condizione, una delle logiche conseguenze della vita moderna. La normalizzazione del principio di gettare consente di rispondere tanto ai nuovi standard di igiene e pulizia quanto a determinate esigenze economiche, ma tende anche a semplificare il lavoro domestico. L’avvento dell’usa e getta è vissuto come un guadagno in termini di tempo e di efficacia. Lo sviluppo di tali prodotti e la moltiplicazione degli imballaggi s’inscrive in una cultura modernista fondata sulla valorizzazione dell’efficacia, della pulizia e della sostituibilità degli oggetti della vita quotidiana.64 La logica dell’abbandono sposta la questione del reinserimento degli scarti nel circuito economico e sociale. Fino a quel momento potenziale «carburante» dell’industrializzazione, il rifiuto si trasforma in esternalità negativa che promuove lo sviluppo di un’industria dedita esclusivamente alla sua gestione e al suo smaltimento. Ma l’obiettivo di questo settore in piena crescita consiste soprattutto nel prevedere gli sfoghi, nell’eliminare e scacciare gli scarti dagli spazi di vita. L’abbandono è strettamente connesso a un impegno di controllo. È in questo periodo che alcune innovazioni tecniche mantengono la promessa di un comfort decisamente moderno. La comparsa di scivoli per l’immondizia nelle grandi città americane alla fine degli anni Venti65 e la creazione dei primi sistemi di riscaldamento alimentati dall’incenerimento degli scarti domestici prefigurano l’avvenire di una gestione «sotterranea» e controllata dei rifiuti, lontana dagli occhi e dalle narici dei cittadini sempre più numerosi. Lo sviluppo di un sistema tecnico di gestione funge perciò da struttura incaricata di occultare lo scarto: aziende di rimozione e di negazione. Per chi ha l’abitudine di buttare via, questo momento della storia dei rifiuti può considerarsi un «apprendistato 65

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dell’oblio». Con la creazione di spazi riservati all’abbandono e alla gestione organizzata dei rifiuti, si istituzionalizza l’espressione erroneamente attribuita al prefetto Poubelle: «Chiudete il coperchio e non pensateci più!».66 L’utente, colui che getta, non deve preoccuparsi di quanto destina alla spazzatura: il pericolo di contaminazione è scongiurato e la gestione del rischio di un’invasione di rifiuti è compito di terzi, peraltro assai imprecisati. Rimossi dallo spazio urbano, i rifiuti non sono più una traccia visibile dell’attività sociale: ne costituiscono un’impronta negativa, per lo più invisibile. Su impulso dell’ideologia igienista, gli scarti diventano per la città un’esternalità patologica. Paradossalmente, l’eliminazione dei rifiuti non fa che rafforzare la natura allarmante della loro presenza impercettibile: l’ideale della città pulita espelle l’immondizia dagli spazi di vita e allo stesso tempo ne assimila la presenza a un male contro cui lottare. Dopo questo percorso plurisecolare, il capitolo seguente analizzerà le trasformazioni più recenti del nostro rapporto con i rifiuti, a partire dalla «svolta ambientale» degli anni Settanta. Il «problema dei rifiuti» tenderà ad abbandonare la sfera della percezione immediata, decisamente locale, in favore di una rappresentazione della questione globale, meno percettibile, in cui la scienza, la politica e i mass media svolgeranno un ruolo essenziale. Nel «mondo chiuso» i rifiuti possono legittimamente trasformarsi all’interno delle strutture antropiche e ormai non devono più uscire dalla «tecnosfera». È indispensabile prevedere un fuori e un dentro.

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Catherine de Silguy, Histoire des hommes et de leurs ordures: du Moyen Âge à nos jours [1996], Le Cherche Midi, Parigi 2009, p. 15. Si veda André Guillerme, Les temps de l’eau: la cité l’eau et les techniques, Nord de la France, fin IIIe-début XIXe siècle [1983], Champ Vallon, Seyssel 2009, p. 85. Ivi, p. 174. Sabine Barles, L’invention des déchets urbains. France: 1790-1970, Champ Vallon, Seyssel 2005, p. 6. Su questo argomento si veda Jean-Pierre Leguay, La pollution au Moyen Âge, Éditions Jean-Paul Gisserot, Parigi 1999. Si veda, in particolare, Thomas Le Roux, Le laboratoire des pollutions industrielles. Paris, 1770-1830, Albin Michel, Parigi 2011; Jean-Baptiste Fressoz, L’Apocalypse joyeuse. Une histoire du risque technologique, Seuil, Parigi 2012; Geneviève Massard-Guilbaud, Histoire de la pollution industrielle. France, 1789-1914, éditions EHESS, Parigi 2010. Citato in André Guillerme, Les temps de l’eau, cit., p. 177. Ivi, p. 152. Ivi, p. 179. Ivi, pp. 31, 34-53. Ivi, p. 71. Ivi, pp. 99-100. Il piqueur lavora di notte, perché l’ordinanza della polizia che vieta di lasciare la spazzatura in strada prima del mattino non viene rispettata dai cittadini. Il piqueur, dunque, raccoglie la parte migliore dei rifiuti mentre il secondeur, che lavora a tarda notte, deve accontentarsi di ciò che il piqueur ha scartato. Il gadouilleur cerca nei depositi di melma e,

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dopo la loro soppressione, si reca direttamente dagli agricoltori, per rovistare in mucchi di spazzatura già più volte visitati e ne ricava un assai magro bottino. Cfr. Sabine Barles, L’invention des déchets urbains, cit., p. 62 (N.d.T.). L’espressione è presa dal titolo del volume di Delphine Corteel e Stéphane Le Lay dedicato agli operatori contemporanei dell’immondizia: Delphine Corteel, Stéphane Le Lay (a cura di), Les travailleurs des déchets, érès, Tolosa 2011. Charles Lancelin, Le monde où l’on chiffonne, la cité Doré, «Le Monde moderne», vol. 12, 1900; Victor Fournel, Portrait du chiffonnier-philosophe Liard, «L’intermédiaire des chercheurs et des curieux», 1901, citati in Catherine de Silguy, Histoire des hommes et de leurs ordures, cit., pp. 105-106. Ivi, p. 101 e sgg. Cfr. Sabine Barles, L’invention des déchets urbains, cit., p. 65; Catherine de Silguy, Histoire des hommes et de leurs ordures, cit., pp. 75-76. Ivi, pp. 103-104. Ivi, p. 76. Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù [1966], il Mulino, Bologna 2003, p. 121. Ibidem. André Guillerme, Les temps de l’eau, cit., p. 198. Alain Corbin, Storia sociale degli odori [1982], Mondadori, Milano 2005, pp. 118-119. Antoine Lavoisier, Précis historique sur les émanations élastiques qui se dégagent des corps pendant la combustion, pendant la fermentation e pendant les effervescences, in Œvres complètes, vol. III, Parigi 1858, p. 523, citato in André Guillerme, Les temps de l’eau, cit., p. 198. Lucien Lévy-Bruhl, L’anima primitiva [1927], Bollati Boringhieri, Torino 2007. Jean-Baptiste Fressoz, La main invisible a-t-elle le pouce vert? Les fauxsemblants de “l’écologie industrielle” au XIXe siècle, «Techniques & Culture», n. 65, Reparer le monde. Excès, reste et innovation, 2016, p. 332. Ibidem. Ivi, p. 334. Si veda Cyrille Harpet, Le déchet: une horloge chaotique. Série séman-

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tiqique des termes de la déchéance, in Jean-Claude Beaune (a cura di), Le déchet, le rebut, le rien, Champ Vallon, Seyssel 1999, pp. 190-191. Sabine Barles, L’invention des déchets urbains, cit., p. 135. Ivi, pp. 137-140. L’esistenza, tuttavia, di sistemi di riciclaggio durante tutto questo periodo indica che la raccolta di cartastraccia ha potuto talvolta sostituirsi a quella di stracci vecchi. Ivi, pp. 136, 154-155. Cfr. Alain Corbin, Généalogie des pratiques, in Déchets: l’art d’accomoder les restes, Centre de création industrielle, Centre George Pompidou, Parigi 1984, pp. 132-136. Guillaume Carnino, L’invention de la science dans le second XIXe siècle, tesi di dottorato, éditions EHESS, 2011, pp. 468-496. Ivi, p. 495. Cfr. André Guillerme, Les temps de l’eau, cit., pp. 187-229; Sabine Barles, L’invention des déchets urbains, cit., p. 256. Si veda Guillaume Carnino, L’invention de la science dans le second XIXe siècle, cit. Si veda Alain Gras, Les macro-systèmes technique, Puf, Parigi 1997 e, in particolare, il capitolo VII, Les macro-systèmes techniques de second ordre, cit., pp. 90-95. Jeanne-Hélène Jugie, Poubelle-Paris, la collecte des ordures ménagères à la fin du XIXe siècle, Larousse, Parigi 1993. Christopher J. Preston, Steven H. Corey, Public Health and Environmentalism: Adding Garbage to the History of Environmental Ethics, «Environmental Ethics», vol. 27, n. 1, 2005, p. 10. Sabine Barles, L’invention des déchets urbains, cit., p. 183. Cfr. Martin V. Melosi, Garbage in the Cities: Refuse, Reform, and the Environment [1981], University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 2005, in particolare il capitolo VI, Collection and Disposal Practices in the Early Twentieth Century, pp. 152-188. Ivi, p. 184. Sabine Barles, L’invention des déchets urbains, cit., p. 223. Sabine Barles, Les chiffonnier, agents de la propreté et de la prosperité parisienne aux XIXe siècle, in Delphine Corteel, Stéphane Le Lay (a cura di), Les travailleurs des déchets, cit., pp. 45-67. Ibidem. Catherine de Silguy, Histoire des hommes et de leurs ordures, cit., p. 78.

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Si veda, in particolare, Gérard Bertolini, Économie des déchets: des préoccupations croissantes, de nouvelles règles, de nouveaux marchés, Éditions Technip, Parigi 2005. Per un’accurata indagine sulla storia delle discariche controllate si veda Gérard Bertolini, Décharges: quel avenir?, Société Alpine de Publications, Lione 2000. Si veda, in particolare, il caso di Les Mureaux la cui discarica già prima della guerra sprigionava fumi e gas tossici (Cfr. Sabine Barles, L’invention des déchets urbains, cit., p. 227). Albert Tauveron, Les Années poubelle, Presses universitaires de Grenoble, Grenoble 1984, p. 30 e sgg. Si vedano i saggi di Denise Jodelet, Pierre Moulin, Carole Scipion, Représentations, attitudes et motivations face à la gestion des déchets: autour du phénomène Nimby, rapporto per il ministero dell’Ambiente, laboratorio di psicologia sociale, analisi delle rappresentazioni linguistiche e della comunicazione, Parigi 1997, e di Danny Trom, De la réfutation de l’effet Nimby considéré comme une pratique militante, «Revue française de science politique», vol. 49, n. 1, 1999, pp. 31-50. Cfr. le osservazioni di Antoine Joulot del 1946 citate da Sabine Barles, L’invention des déchets urbains, cit., p. 225. Stéphane Frioux, Le problème des déchets ménagers de la fin du XIXe siècle aux années 1970, «Pour mémoire. Comité d’histoire, Revue du ministère de l’Écologie, du Développement durable et de l’Énergie», n. 12, 2013, p. 15. Martin V. Melosi, Garbage in the Cities, cit., p. 216. Catherine de Silguy, Histoire des hommes et de leurs ordures, cit., p. 157. Cfr. Convenzione sulla prevenzione dell’inquinamento marino causato dallo scarico di rifiuti e di altre materie, nota come Convenzione di Londra o LC72, emendata dal «Protocollo del 1996» (www.imo.org). Martin V. Melosi, Garbage in the Cities, cit., p. 137 e sgg.; Susan Strasser, Waste and Want: A Social History of Trash, Holt Paperbacks, New York 1999, p. 96 e sgg. Per il Regno Unito si veda, in particolare, Arnaud Page, Fertility from Urban Waste? The Case for Composting in Great Britain, 1920s-1960s, «Environment and History», vol. 25, n. 1, 2019, pp. 3-22. Ivi, p. 175. Ivi, pp. 161-168.

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Ivi, p. 270. Per un’analisi esaustiva del contesto francese si veda Kristin Ross, Fast Cars, Clean Bodies: Decolonization and the Reordering of French Culture, Mit Press, Cambridge-Londra 1995. Ibidem; si veda anche Gay Hawkins, The Ethics of Waste: How We Relate to Rubbish, Rowman & Littelfield Publishers, Lanham 2005, p. 25. Martin V. Melosi, Garbage in the Cities, cit. Gérard Bertolini, Les déchets: recueil de citations et dictons, in JeanClaude Beaune (a cura di), Le déchet, le rebut, le rien, cit., p. 222. L’espressione non può essere attribuita al celebre prefetto poiché il coperchio delle pattumiere sarà obbligatorio a Parigi e più in generale in Francia soltanto dalla prima metà del XX secolo (Stéphane Frioux, Le problème des déchets ménagers de la fin du XIXe siècle aux années 1970, cit., p. 9).

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CAPITOLO 2

La società del riciclaggio: come i rifiuti sono diventati un problema ambientale

Abbiamo a che fare con delle montagne. Basta andare a vedere l’impianto di Issy-les-Moulineaux, di Ivry oppure quello di Entressen a Marsiglia. Quando ci troviamo davanti a queste fosse immense piene di rifiuti, è un’immagine che non si può dimenticare. A Marsiglia, tutti i giorni arriva un intero treno. Per un grande agglomerato siamo di fronte a quantità impressionanti e perciò, inevitabilmente, la risposta degli ingegneri è costruire macchine altrettanto impressionanti.1

I «trenta gloriosi» sono anni decisivi nella trasformazione del nostro rapporto con i rifiuti. Dopo un lungo periodo segnato da uno sforzo collettivo di raccolta e conservazione dei residui domestici, questa fase di crescita economica apre la possibilità di una disinibizione senza precedenti. Gettare diventa un gesto unificante, il segno dei nuovi tempi: i rifiuti sono il carburante privilegiato di uno sviluppo più che mai oggetto di venerazione. L’accelerazione in corso non tarda però a far scattare campanelli d’allarme: le discariche sono sature e mancano gli spazi per contenere l’enorme quantità di resti ingombranti. Tra il 1965 e il 1975 la gestione dei rifiuti è in prima linea nella «problematizzazione pubblica» delle questioni ecologiche. Fino ad allora confinato nella sfera di intervento del75

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le politiche locali di sviluppo urbano, con la svolta degli anni Settanta il problema dei rifiuti assume una dimensione globale, in stretto rapporto con l’economia delle risorse naturali, l’ecologia e l’ambiente. Nel 1965, in America del Nord viene promulgato il Solid Waste Disposal Act in cui, per la prima volta, l’aumento continuo dello stoccaggio dei rifiuti solidi e le sue conseguenze in termini di inquinamenti di varia natura sono presentati come grave problema ecologico. Redatto su iniziativa dell’amministrazione di Lyndon B. Johnson, il testo si fa portavoce di un rapporto allarmante del ministero della Sanità e dell’Istruzione che denuncia le conseguenze dell’eccesso dei consumi sull’ambiente. Tassi elevati di produzione e di consumo di beni materiali hanno creato un problema di smaltimento dei rifiuti, superiore ai mezzi e alle infrastrutture esistenti. [...] Le conseguenze di tale problema sono visibili e spaventose: nubi di fumo si sprigionano da centinaia di migliaia di inceneritori obsoleti e saturi, fuochi a cielo aperto nelle discariche urbane [...] ettari di automobili abbandonate che circondano di ruggine le città più grandi, e vere e proprie montagne di rifiuti fumanti in prossimità di zone di estrazione mineraria.2

Se la descrizione si concentra ancora su un inquinamento visibile, il «problema dei rifiuti» sembra emergere dagli stessi luoghi che avevano voluto essere la «soluzione» degli effetti di saturazione degli spazi urbani. In questo periodo di globalizzazione del consumo di massa si levano numerose critiche che condannano la civiltà dei rifiuti, l’economia basata sullo spreco di risorse e sull’inquinamento dell’ambiente. In questa sede farò qualche accenno alla cospicua produzione di opere di divulgazione scientifica che rivelano le catastrofi in corso e quelle 76

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future. Tra i pionieri di un’ecologia scientifica tesa alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica spicca il nome della biologa Rachel Carson. In Primavera silenziosa, pubblicato nel 1962, la scienziata americana denuncia i danni dell’uso intensivo di pesticidi e la natura cancerogena del Ddt (diclorodifeniltricloroetano). Il saggio è considerato una pietra miliare dell’ecologia politica:3 Carson esamina il ruolo delle industrie che cercano di nascondere la pericolosità di tali sostanze. Un anno dopo un altro biologo, l’americano Barry Commoner, pubblica Science and Survival4 e poi, nel 1971, Il cerchio da chiudere.5 Nella presentazione delle sue «quattro leggi dell’ecologia», Commoner pone l’accento sull’assenza di un «altrove» disponibile sulla Terra. È un appello a prendere coscienza della finitezza ecologica del pianeta. Si comincia a parlare di una vera e propria «crisi dei rifiuti» e, sulla scia delle prime critiche alla «società dei consumi», alcuni autori, tra i quali Vance Packard svolge un ruolo di precursore,6 elaborano una riflessione che dimostra l’assurdo di una civiltà contemporanea basata sulla logica dello spreco. Packard, interessato più alla logica industriale che produce i rifiuti che ai rifiuti stessi, denuncia le responsabilità dell’obsolescenza programmata ben mezzo secolo prima che la Francia vari una legge per regolamentarla. Nelle molteplici osservazioni citate, i rifiuti sono considerati operatori critici delle società industriali: la loro abbondanza, prima di tutto, ma anche la loro natura «ingestibile», incontrollabile, sono per tali autori l’espressione concreta dell’impasse del modello produttivistico di sviluppo, basato sul consumo di massa. Le proposte alternative si moltiplicano: sulla base in particolare degli studi di Ivan Illich, la ricerca di un nuovo modello sociale costituisce il filo rosso delle sperimentazioni di un’ecologia politica emergente.7 «Convivialità», «sobrietà», critica dei «grandi 77

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sistemi» e promozione del piccolo è bello sono concetti presenti in tutte le iniziative comunitarie che si moltiplicano nella svolta degli anni Settanta. Pertanto, anziché prendere in seria considerazione i ripetuti appelli per un radicale cambiamento di paradigma, le società industriali cercano di trasformare i rifiuti in risorsa per pensare le modalità del loro rilancio: se l’eccesso di spazzatura causa problemi, è necessario riciclarla! In altri termini, possiamo riprendere le parole di Andrew Dobson per descrivere che cosa in questo periodo è successo intorno ai rifiuti. Anziché una vera ecologizzazione del sociale, a favore di «un’esistenza sostenibile e gratificante che presuppone radicali cambiamenti del nostro rapporto con il mondo della natura non umana e del nostro stile di vita sociale e politico», l’ambientalizzazione dei rifiuti «sostiene un approccio manageriale dei problemi ambientali, certo di una loro possibile soluzione senza fondamentali cambiamenti di valori e di sistemi di produzione e di consumo».8 Il processo di ambientalizzazione descritto in questo capitolo non risponde tanto a una dinamica di trasformazione della rappresentazione di ciò che sono i rifiuti, quanto a un tentativo di soluzione di un’ipotetica «crisi dei rifiuti» con modalità manageriali: quelle del controllo assoluto del loro flusso. La storia si ripete: «Nel XIX secolo, il discorso del riciclaggio era già un discorso di difesa da parte degli industriali, una sorta di greenwashing ante litteram».9

dAL LocALe AL gLobALe: L’ecoLogizzAzione StrAtegicA dei rifiuti

La trasformazione della questione dei rifiuti in problema ambientale è strettamente correlata all’avvento di una riflessione ecologica critica che avrà un forte impatto sulle politi78

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che pubbliche di fine Novecento. Sulla scia dell’eco favorevole suscitata dai temi ecologici nell’opinione pubblica, le industrie e gli operatori politici dei rifiuti si trasformeranno progressivamente in aziende di «protezione dell’ambiente». Più che una risposta politica a una presa di coscienza collettiva dei problemi ecologici globali, la diffusione dei temi legati all’ambiente ha offerto la possibilità di risolvere una crisi sociale e tecnica della gestione dei rifiuti che univa il problema della saturazione delle discariche a quello dei «nimbisti», termine dispregiativo per indicare le proteste locali suscitate dalla costruzione di nuovi siti industriali. Lungi dal ridiscutere un modello sociotecnico dominante «sopraffatto dai suoi rifiuti», la trasformazione ambientale di questi ultimi è diventata un ulteriore argomento per legittimare la necessità del controllo potenziato dei flussi di materiale residuo. La tesi che difendo è semplice e convalidata da altre in numerosi settori industriali: questo movimento di «ambientalizzazione» di un’intera parte dell’attività di gestione dei rifiuti deve innanzitutto essere considerato come un «inverdimento strategico», un piano di greenwashing, ampiamente profittevole per alcuni attori economici dei rifiuti.10 Per effetto dello sviluppo sostenibile, il paradigma moderno dei rifiuti è stato in qualche modo rafforzato più di quanto sia stato criticato: l’era dei rifiuti abbandonati ha ceduto il passo a quella dei rifiuti per la tecnica. Traendo spunto dal caso francese, in larga misura strutturato dall’evoluzione della legislazione europea, è possibile distinguere tre periodi nella costruzione del paradigma contemporaneo dei rifiuti. Tra la metà degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta, i rifiuti sono considerati un problema globale: la logica organizzativa dell’intervento pubblico è l’«eliminazione». In questo periodo, in cui compare la prima definizione legale dei rifiuti, nasce una vera e propria politica nazionale specifica,11 nella fattispecie con la crea79

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zione dell’Anred (Agence nationale pour la récupération et l’élimination des déchets), nel maggio del 1976. La proliferazione di crisi, scandali e conflitti locali contribuirà a un dibattito pubblico sulla questione dei rifiuti. I fattori di disaccordo riguardano più i rifiuti «pericolosi» che non quelli chiamati ancora «rifiuti domestici e residuali» già oggetto dell’intervento pubblico. Negli anni Novanta la partecipazione degli utenti a un’impresa di gestione dei rifiuti in fase di mondializzazione assumerà una dimensione istituzionale. In Francia, la legge detta del «1992» segna una svolta decisiva nella responsabilizzazione dell’utente.12 Qualche mese prima era stato emesso il decreto «ecoimballaggio»,13 che stabiliva un’istituzione preposta alla riscossione dei contributi dei produttori di imballaggi per il finanziamento di una filiera di «valorizzazione» e sanciva il principio del recupero degli imballaggi e della raccolta differenziata «alla fonte». La riforma legislativa introduce, in particolare, il principio della responsabilità estesa del produttore circa i rifiuti da imballaggio e quelli industriali: la logica del «chi inquina paga» interesserà tutti gli operatori dei rifiuti, utenti inclusi.14 La legge fissa la «fine delle discariche» all’inizio del nuovo millennio, dopodiché lo stoccaggio dei rifiuti «grezzi» sarà considerato illegale. Nei primi anni Duemila il progetto di riduzione e di «prevenzione alla fonte» dei rifiuti entra in contraddizione con gli interessi delle industrie che li producono e li gestiscono. Il 2002 è l’ultima tappa della storia più recente dei rifiuti e della loro gestione. Il secondo comma dell’articolo L541-24 del Codice dell’ambiente prevede che dal 1° luglio 2002 siano ammessi nelle discariche esclusivamente i rifiuti all’ultimo stadio: solo quelli che sono stati inceneriti possono raggiungere i centri di interramento tecnico. È proprio a livello europeo che la riduzione dei rifiuti alla fonte è 80

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all’ordine del giorno. Resta da capire che cos’è poi, per il legislatore, la «fonte» in questione. Negli ultimi quarant’anni, la proliferazione di testi giuridici incentrati sulla definizione e sui sistemi di gestione dei rifiuti testimonia un nuovo approccio alla questione. L’inflazione legislativa è pari all’incredibile silenzio giuridico del periodo precedente: da scarti dimenticati a «superstar» delle politiche pubbliche. Il cambiamento ambientale dei rifiuti corrisponde alla nascita di un’«emergenza pubblica»: con la questione ecologica, infatti, essi diventano oggetto di preoccupazione e allarme collettivi. Da scarti di cui non è necessario occuparsi – «Chiudete il coperchio e non pensateci più!» – si passa progressivamente a un controllo scrupoloso dei rifiuti, nel momento in cui li si getta, già nello spazio domestico. A lungo dimenticati, nel corso del tempo sono stati assimilati a una minaccia, a un pericolo diffuso di fronte al quale l’individuo deve prendere posizione. La normativa degli igienisti, principali promotori dei sistemi produttivi di smaltimento dei rifiuti nel XIX secolo, ha trovato continuità nello sviluppo di nuove normative ispirate dalla svolta ambientale. Insomma, per analizzare in maniera adeguata il passaggio della questione dei rifiuti dal locale al globale si deve tenere in debita considerazione lo sviluppo di un loro mercato mondiale e di una gestione in cui le ricadute ambientali sono diventate un’opportunità strategica di sviluppo.

WASte mAnAgement: iL buSineSS deLLA geStione dei rifiuti Se l’esistenza di un mercato mondiale di materie prime seconde è una realtà dalla metà del XX secolo, i flussi materiali in questione riguardano prima di tutto il settore dei 81

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rifiuti industriali. La creazione, nel 1948, del Bir (Bureau international de la récupération), organismo che opera a tutti i livelli dei processi relativi ai rifiuti industriali – recupero, trasporto, distruzione e valorizzazione –, è l’esempio più significativo.15 Per quanto riguarda la gestione dei rifiuti domestici, le grandi corporazioni nel settore della pulizia si costituiscono qualche tempo dopo, confermando la dimensione internazionale del sistema tecnico dei rifiuti. La mondializzazione dell’economia è passata anche attraverso l’internazionalizzazione della questione dei rifiuti. Il mercato dell’import-export dei rifiuti nel 2012 rappresentava l’1% del commercio mondiale, il doppio che nel 2003!16 Oggi la Cina è il primo paese importatore al mondo e gli Stati Uniti il primo esportatore. La tendenza è quella di un aumento esponenziale della circolazione dei rifiuti. La direzione del flusso detritico globale, dalle aree del Nord verso quelle del Sud, pone oggi degli interrogativi sui benefici ambientali e sociali dell’internazionalizzazione della gestione dei rifiuti. Con la crisi petrolifera dei primi anni Settanta, la diminuzione delle risorse materiali diventa un problema di politica internazionale di enorme rilevanza. Il passaggio dalla sicurezza di avere scorte illimitate alla consapevolezza del probabile esaurimento dei giacimenti trasformerà profondamente gli obiettivi del recupero di alcuni materiali come il metallo, la carta e il cartone,17 anche quando sono sparsi nei depositi detritici. Si assiste così alla nascita di un mercato redditizio dei materiali recuperati e allo sviluppo di un’industria, a regime minimo nell’America del Nord, e in Europa praticamente scomparsa dagli anni Trenta, che si propone di trasformare i rifiuti in nuove «risorse». Vari studi attestano la particolare intensità di tale sviluppo tra gli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, e quelli di Harold Crooks sono un punto di riferimento per il modo in cui, a 82

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partire dal caso nordamericano, delineano i contorni di un modello industriale basato sulla gestione di un giacimento di materie prime seconde finora trascurato.18 L’autore mostra come da settore frammentato, costituito da un’infinità di piccole imprese di raccolta e di recupero, il mercato americano dei rifiuti si sia rapidamente strutturato su un esiguo numero di multinazionali che fagocita gli operatori più piccoli della filiera. Un ristretto gruppo di operatori privati detiene attualmente il monopolio di gran parte del mercato dei rifiuti urbani. La società americana Waste Management Incorporated è sicuramente la più famosa, perché ha dato il nome a questo settore industriale. Oggi occupa il terzo posto per volume di affari a livello mondiale nel settore dei rifiuti urbani e assimilati.19 Ma i veri campioni del mondo della spazzatura sono altrove! Le privatizzazioni delle grandi aziende francesi di gestione dell’acqua hanno visto nascere i due più grandi «giganti dei rifiuti»: Veolia Environnement e Sita Environnement (quest’ultima filiale di Suez Environnement). I due fiori all’occhiello dell’industria nazionale francese svettano in cima alla classifica mondiale dei giganti della gestione dei rifiuti solidi. Queste multinazionali, in una situazione di quasi duopolio,20 hanno contribuito in larga misura alla creazione di modelli economici e tecnici alternativi al semplice «deposito in discarica». Un ex dirigente nel settore dei rifiuti riassume così il ruolo svolto dall’industria nella trasformazione ambientale degli scarti: [...] il business dei rifiuti, perché questo è, sia chiaro, si occupa di persone che gettano cose e di comuni che se ne fanno carico [...]. Molto tempo fa i comuni disponevano di servizi che li portavano in una discarica, in una fossa, e la fossa si riempiva. L’ecologia, l’Europa che non vuole più le discariche, l’inquinamento, gli abitanti che 83

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non vogliono più le discariche ecc. tutto questo ha fatto esplodere il servizio pubblico-discarica dei comuni, che sono stati molto contenti di veder arrivare persone, società private, che dicevano «ci occupiamo noi di tutto».21

dALLA SvoLtA AmbientALe ALLA LiberALizzAzione deLLA geStione dei rifiuti

Se il potere crescente dei grandi gruppi nel settore della pulizia si è basato sulla riforma «ambientale» dei rifiuti, quest’ultima deve essere esaminata nel più ampio contesto politico ed economico internazionale. Sulla «consapevolezza» dei problemi ecologici che trova espressione nella nascita di un multilateralismo ambientale all’interno delle grandi istituzioni internazionali (per esempio nel Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente [Unep] del 1972), che critica l’«impasse della crescita e del modello di sviluppo dei paesi del primo mondo»,22 finirà per prendere il sopravvento un movimento opposto di difesa degli interessi economici per limitare la regolamentazione ambientale, avviando quella che gli storici definiscono «svolta neoliberale delle politiche ambientali» degli anni Ottanta. Non potendo qui entrare nei dettagli delle strategie di marginalizzazione delle riflessioni critiche che allora si moltiplicavano, è possibile prendere come esempio l’amministrazione Nixon, che nel 1970 crea l’Environmental Protection Agency (Epa) e si adopera per «riportare gli ambientalisti e i dirigenti dell’Epa alla ragione dell’Homo œconomicus, assegnando all’analisi economica un ruolo sempre maggiore nella valutazione della normativa ambientale».23 Detto in altri termini, più che una ecologizzazione dell’economia, il periodo sarà quello dell’«economizzazione dell’ambiente», una strategia che vuole rendere l’economia di mercato 84

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un mezzo per ottenere benefici finanziari e ambientali. Tra la Conferenza di Stoccolma (1972) e quella di Rio (1992) si registra la vittoria di un ambientalismo di mercato sulla ricerca di soluzioni di regolamentazione. «Sviluppando rappresentazioni della natura e dei saperi economici abbozzati durante la Guerra fredda e tesi a limitare l’intervento governativo in ambito economico, si è progressivamente stabilito un nuovo sistema di governo neoliberale dell’ambiente.»24 Per conseguire i suoi obiettivi «ambientali», la «buona» gestione dei rifiuti deve essere la più redditizia possibile. Le grandi aziende non solo traggono profitti dalla loro attività di raccolta e di selezione dei rifiuti urbani, ma riescono anche a guadagnare somme sempre più ingenti dai prodotti della loro valorizzazione: materie prime ed energia estratta dallo smaltimento dei rifiuti diventano nuove risorse, spesso utilizzabili da chi si occupa della loro gestione. La tendenza alla concentrazione di un mercato dei rifiuti dalla dimensione sempre più internazionale deriva dal controllo da parte degli stessi operatori industriali di tutte le fasi della gestione dei rifiuti. La «raccolta municipale» è un mercato redditizio solo se le discariche appartengono all’azienda che le gestisce. «Collegandosi» alle reti di distribuzione dell’acqua e dell’energia, il sistema tecnico dei rifiuti trae profitto dalla «nuova sinergia». In Francia i gruppi leader nel settore dei rifiuti – Veolia, Suez-Sita e Tiru – hanno dato origine alle aziende pubbliche di gestione dell’acqua (la Lyonnaise des Eaux e la Compagnie Générale des Eaux) e dell’energia (Edf nel caso di Tiru). Il vincolo tra energia, acqua e rifiuti è costituto soprattutto dal fatto che si tratta «di vantaggi» in parte almeno per gli stessi clienti, comuni (in particolare attraverso la rete urbana di riscaldamento) e imprenditori; l’offerta multi85

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servizio a grandi gruppi costituisce un solido asse di sviluppo. Un ulteriore vantaggio dei gruppi così diversificati è l’offerta globale.25

Un dirigente commerciale che negli anni Ottanta aveva lavorato come intermediario tra politici e grandi aziende di gestione dei rifiuti dà conto dell’interesse dei comuni per le soluzioni «chiavi in mano»: Io dovevo vendere progetti chiavi in mano per l’intera filiera dei rifiuti. Si cercava un gruppo di comuni che avesse un problema e si trovava un imprenditore. Andavamo in municipio e dicevamo: vi diamo 150 franchi a tonnellata e ci occupiamo di tutto il resto. Costruiamo l’impianto, lo finanziamo, firmiamo un contratto di delega del servizio pubblico per vent’anni che comprende la costruzione di impianti, il finanziamento, il funzionamento, e non sentirete più parlare dei vostri rifiuti per vent’anni. Questo è molto allettante per un comune.26

Nel caso degli appalti pubblici intercomunali, la stesura dei bandi di gara è così complessa che i comuni non possono rispondere alla pregiudiziale della competenza tecnica necessaria quando si crea una nuova infrastruttura di smaltimento dei rifiuti. Alcuni gruppi industriali qualche volta si offrono di compilare i bandi cui essi stessi risponderanno. Nonostante il divieto della legge, il contratto di appalto pubblico è tacitamente attribuito ancora prima che sia emesso il bando: [...] alcuni gruppi offrono servizi più o meno illeciti soprattutto perché sono le sole strutture che dispongono di esperti, indispensabili per mettere a punto appalti pubblici. È chiaro che l’Ademe qualcosa ne sa. Ma ci si im86

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batte in persone che non hanno una visione abbastanza pratica. Creare un progetto come quello, in una comunità, vuol dire trovare un terreno, rispondere alle proteste dei cittadini, ottenere i permessi per costruire, la dimensione dei forni, i volumi da smaltire.27

Di fronte alla forza economica dei grandi gruppi industriali e alla concentrazione dei saperi tecnici all’interno delle stesse strutture private, i poteri pubblici non hanno più voce in capitolo. Una delle pratiche illegali più diffuse risulta l’accordo tra potenziali concorrenti per un’«equa» spartizione del mercato, indice dell’onnipotenza delle aziende in fatto di gestione dei rifiuti e in particolare di tecnologie di selezione e valorizzazione (soprattutto impianti di incenerimento): Le società che trattano questo genere di affari hanno agganci molto, molto in alto: si parla del progetto tra deputati, ex prefetti ecc., a Veolia e compagnia. Un tempo si facevano accordi tali da facilitare le cose. Il finanziamento dei partiti, è ovvio. Non so cosa succede oggi, deve essere più pericoloso, ma penso si faccia. Una volta c’erano accordi con tutti i partiti politici, si diceva che chi aveva l’impianto doveva versare il 3%. Erano accordi ai vertici. Finiva, però, che non si cambiava più il bando di gara perché avevano ottenuto l’impegno del 3% con ognuno dei giocatori.28

Da un’organizzazione essenzialmente locale e destinata agli enti pubblici, la gestione dei rifiuti sembra ormai appannaggio di un potere accentrato, internazionalizzato e legato a doppio filo all’attività industriale e commerciale di alcune multinazionali: utenti ed enti pubblici dipendono da questo modello di gestione globalizzato. 87

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Anche se il più delle volte sono le istituzioni che invitano gli utenti a «buttare via bene» e a «buttare via meno», gli appelli – numerosi e ripetuti – sono impregnati di una morale dettata soprattutto da necessità economiche e tecniche.

Rifiuti «per» la tecnica Se con l’ecologizzazione i rifiuti tornano a essere una risorsa produttiva, dobbiamo per questo credere al ritorno di uno schema preindustriale ideale in cui i rifiuti non esistono? È più che lecito dubitarne. Sulla base di un modello incentrato sulla «fossa» – semplice abbandono indifferenziato in uno stesso luogo –, l’ecologizzazione della questione dei rifiuti ha determinato una maggiore complessità nella sua gestione. Lo testimoniano le decisioni europee sul divieto di deposito nelle discariche prima dei rifiuti «grezzi», poi di quelli putrescibili (causa di inquinamento: percolato e gas) e, infine, di tutti quelli «non inerti».29 Il divieto ha portato allo sviluppo di molteplici forme di soluzioni industriali alternative allo stoccaggio: incenerimento soprattutto, ma anche recupero materiale (riciclaggio), valorizzazione energetica (incenerimento e sviluppo di centri di metanizzazione). La normativa sulle discariche ha contribuito alla nascita in Francia del concetto di «rifiuto definitivo», ossia «derivante o meno dal trattamento di un rifiuto non più suscettibile di trattamento nelle condizioni tecniche ed economiche del momento, in particolare estraendone la parte valorizzabile o riducendone la natura inquinante e pericolosa».30 Oggi il destino «giusto», auspicato, di ciò che gettiamo nella spazzatura è quello di essere sempre smaltito. È proprio basandosi sul principio del rifiuto abbandonato che tali materiali «senza proprietario» diventano carburante, mezzo di «alimentazione» delle infrastrutture tecniche. La base con88

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trattuale degli appalti pubblici legati alla creazione di infrastrutture per la gestione dei rifiuti ci fa capire qual è la posta in gioco. Nella maggior parte dei casi, si tratti della costruzione di un inceneritore, di un impianto di riciclaggio o di un centro di metanizzazione, i contratti stipulati con le aziende del settore coinvolgono i comuni sul lungo periodo – da dieci a venticinque anni – e su un volume prestabilito di spazzatura da smaltire. I comuni si impegnano perciò a «produrre» un volume di rifiuti pari agli accordi presi. Nel caso dell’incenerimento, un impianto non può mai fermarsi, pena una grossa perdita di profitti. È necessario allora «alimentare il fuoco» in modo continuo per evitare «lo svuotamento dei forni». Se il volume dei rifiuti scende, ci sono due modi per proteggersi. Si chiede un impegno della collettività, e se per ragioni ambientali, di consumo, di sviluppo sostenibile viene meno, diventa una porta aperta: «Ah, be’, abbiamo firmato un contratto per 120.000 tonnellate e ne arrivano 92.000...». Stabilisce il principio del 3% e dice che aumenterà del 30%. Gli imprenditori fanno anche in un altro modo, domandano il permesso di trattare rifiuti provenienti da altre parti. Dicono: «Bene, vi abbiamo fatto un impianto per 92.000 tonnellate e qui c’è una piccola clausola per la quale [...], nel caso si abbia bisogno di trattare delle cose». È questa la base dell’economia dei rifiuti: i rifiuti urbani, e poi fanno venire dei container di scarti industriali, delle cose che bruciano meglio. E qui aumentano gli utili. Il venditore di un inceneritore ha tutto l’interesse a far firmare per un volume il più alto possibile.31

Un altro esempio sorprendente è quello della Svezia, che dal 2012 deve importare rifiuti per alimentare le infrastrutture tecniche di gestione dell’immondizia. Quasi la metà 89

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dei rifiuti urbani è incenerita e tale sistema contribuisce alla produzione di circa il 20% del riscaldamento urbano del paese. Per la «riduzione» dei rifiuti, e la loro «prevenzione», la Svezia ha adottato una soluzione paradossale: dato che ogni anno produce meno immondizia, è obbligata ad acquistarla dai vicini per garantire il buon funzionamento del proprio sistema tecnico.32 Se chi getta continua ad abbandonare i rifiuti, questi ultimi tendono a essere considerati risorse per un sistema tecnico mondializzato che ha reso la questione ambientale un’occasione di sviluppo particolarmente vantaggiosa.

1990: L’utente AL Servizio deL WASte mAnAgement

Una delle caratteristiche dell’ecologizzazione strategica dei rifiuti è la creazione di ciò che ormai si definisce «separazione alla fonte». Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta si affermano le politiche pubbliche basate sul principio della separazione dei rifiuti solidi da parte delle famiglie. Nello stesso periodo il costo medio di stoccaggio dei rifiuti nelle discariche controllate balza alle stelle:33 sotto la pressione dei residenti, l’impianto di nuove discariche è spesso un rompicapo politico. La differenziazione dei rifiuti dipende più dall’ottimizzazione tecnica ed economica in seno alle stesse infrastrutture di gestione dei residui che da un progetto di «protezione dell’ambiente». Per garantire un’eliminazione ottimale degli scarti, in particolare con l’incenerimento, è necessario utilizzare un deposito il più omogeneo possibile: si cerca perciò di separare sempre la materia secca dai residui organici putrescibili. Nel processo di smaltimento dei rifiuti le materie organiche, impregnate d’acqua, sono delle «intruse». Negli anni Ottanta, quando 90

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si è posta agli operatori del settore pubblico la questione del riciclaggio questa si è subito scontrata con il problema dei costi dovuti alle fasi di selezione industriale necessarie per realizzarla. Senza un aumento massiccio (e politicamente poco «redditizio») delle imposte locali, i comuni non potevano da soli farsi carico della gestione del riciclaggio: era necessario che ognuno si «riappropriasse della sua parte di sporco». In altre parole, è nel periodo «in cui le discariche traboccano» che vengono sistematicamente promosse iniziative legate alla separazione dei flussi di rifiuti per mano degli stessi utenti, iniziative fino ad allora limitate a sporadiche sperimentazioni. Alla fine degli anni Ottanta, a Dunkerque, nasce Triselec, una società mista che avvia la realizzazione del primo programma francese di raccolta differenziata «alla fonte». Furono messi a disposizione degli utenti dei bidoni «blu» per i «materiali riciclabili»: vetro, cartone, carta, plastica, lattine. Una pratica oggi del tutto normale. Nel periodo di transizione tra il modello moderno di «tutto nella fossa» e quello contemporaneo della valorizzazione, la necessità di una partecipazione degli utenti continua a essere oggetto di discussione. Qua e là si provava ancora la selezione meccanica «su rifiuti grezzi». Il sistema Flakt, in Svezia, e l’azienda Revalord a Nancy ne sono una testimonianza, ma oggi sono scomparsi: la selezione meccanica, infatti, ha raggiunto tassi di recupero troppo modesti. Non era in grado di produrre materiali separati secondo gli standard richiesti per un loro eventuale riciclaggio. La separazione «alla fonte» il più delle volte ha funzionato con due modelli: il porta a porta e il deposito volontario. Se la raccolta porta a porta è più costosa, la consegna volontaria è meno «efficace». Nello stesso periodo per alcuni contenitori si offre un compenso alla consegna: essenzialmente bottiglie di vetro, qualche volta in pla91

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stica, e lattine. Tale modello è spesso legato al sistema di finanziamento della gestione dei rifiuti ed è prevalentemente adottato nei paesi in cui l’onere finanziario della gestione dei rifiuti da imballaggio ricade sui produttori (industrie dell’imballaggio e dell’agroalimentare). È il caso della Germania, degli Stati Uniti e del Canada.34 La proliferazione di bidoni della spazzatura, comunali e domestici, è un segno visibile, un indicatore – talvolta ingombrante – della trasformazione del sistema tecnico dei rifiuti in un modello incentrato sulla redditività «ecologica» del gettare. Grazie all’informazione, all’istruzione e ai media, gli utenti sono invitati a partecipare alla differenziazione dei propri rifiuti e ciò, molto spesso, in nome della «protezione dell’ambiente». All’inizio, la separazione dei flussi di residui consiste in una differenziazione della parte «riciclabile» tra le mura domestiche: carta, cartoni, metalli, vari imballaggi di plastica e altre bottiglie e taniche. Prima i rifiuti organici erano di rado distinti. Il caso tedesco è un buon controesempio: dalla metà degli anni Ottanta la raccolta differenziata ha permesso di separare quattro tipi di materiale (vetro, organico, carta e cartoni e plastica riciclabile).35 In generale, tuttavia, per la gestione industriale dei rifiuti il problema principale è riuscire a recuperare materiali dal più elevato potenziale economico. La scelta della pattumiera «in più» consente la separazione della parte «utile» del residuo nello stesso modo in cui i cenciaioli ieri – e, per esempio, i cartoneros in Argentina e i catadores in Brasile oggi – prelevavano dai rifiuti una parte di materia «valorizzabile». Ma se ai nostri giorni si parla di separazione «alla fonte», è proprio per limitare le fasi onerose della raccolta differenziata sui mucchi di immondizia e sulle canalizzazioni degli impianti di smaltimento. In altri termini, la «fonte» dei rifiuti è proprio chi getta, sia un’industria, un comune o un utente. Per chi gestisce i 92

LA SOCIETà DEL RICICLAGGIO: COME I RIFIUTI SONO DIVENTATI UN PROBLEMA AMBIENTALE

rifiuti, i dispositivi sociotecnici a monte del gesto di abbandono non rientrano nelle relative competenze. Più che una semplice mondializzazione dei flussi di oggetti, è la globalizzazione delle pratiche individuali e collettive legate alla questione dei rifiuti a essere in gioco oggi. Affermatosi come modello di soluzione di una crisi in corso (dei rifiuti e dell’ambiente), un sistema tecnico mondializzato istituzionalizza al contempo i rifiuti come prodotto di scarto, a valore zero, e le logiche responsabili di tale crisi: l’abbandono, ma anche l’oblio caratteristico del gesto di gettare. Il waste management, espressione dell’industrializzazione su scala mondiale della questione dei rifiuti, promette un duplice controllo: dei flussi materiali e della normalizzazione delle pratiche che li generano.

LA morALe deL «gettAre bene»: come fAre di un probLemA gLobALe unA reSponSAbiLità individuALe

La raccolta differenziata si è progressivamente imposta come unica soluzione per rispondere agli oneri economici, tecnici e finanziari provocati dalla necessaria riforma della gestione dei rifiuti. Dopo che il sistema tecnico di gestione si è interamente ristrutturato sul principio della partecipazione, era necessario modificare la rappresentazione di chi getta i rifiuti. Varie catastrofi direttamente legate alla questione a tema hanno segnato il periodo di costruzione della riforma del gettare e consentito in larga misura di giustificare una certa idea di obbligo, di urgenza ad agire. Il collegamento mediatico dei singoli avvenimenti ha poi trasformato fenomeni locali in preoccupazioni globali. 93

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La rivelazione di un traffico di «carichi infetti di rifiuti ospedalieri» tra la Francia e l’Italia [...], la scoperta che la Francia è la «terra d’asilo dei rifiuti svizzeri» [...], e che una «mafia dei rifiuti» gestisce un traffico tra la Francia e la Germania [...] suscitano sconcerto e indignazione, mentre, al contempo, ci si rende conto che «le pattumiere straboccano» e che «la Francia crolla sotto i suoi rifiuti» [...], che alcuni impianti per lo smaltimento sono vicini alla saturazione e che è sempre più difficile costruirne di nuovi per le resistenze locali.36

I rifiuti si sono guadagnati una reputazione da «problema ecologico» sulla base dell’accumulo – in particolare nei molteplici interventi a sostegno dell’attuazione delle riforme – e della giustapposizione di problemi specifici: c’erano buoni motivi per creare una minaccia collettiva, radicata nell’incuria generalizzata, riguardo alla produzione di rifiuti. Negli interventi dei promotori della razionalizzazione del gettare, la selezione è stata considerata un gesto etico destinato a responsabilizzare il consumatore sui rifiuti che produce, una «buona azione» che doveva diventare automatismo, abitudine. In questo periodo si assiste perciò a una vera e propria «costruzione del consumatore», secondo l’espressione del sociologo Rémi Barbier: «Se la crisi ecologica planetaria ha agito come una minaccia unificante, lo “sviluppo sostenibile” ha svolto il ruolo di “mito fondativo” delle riforme del gettare».37 Facendo perno sulla moralità della protezione dell’ambiente, le riforme del sistema di gestione dei rifiuti hanno riscosso un ampio consenso. L’immondizia è diventata oggetto di considerazione morale: obbliga chi getta a tenere conto della natura di ciò di cui si vuole disfare. Noi, che buttiamo via, ci siamo visti trasformare in protagonisti dell’ambientalizzazione del sistema economico. 94

LA SOCIETà DEL RICICLAGGIO: COME I RIFIUTI SONO DIVENTATI UN PROBLEMA AMBIENTALE

La crescita «verde» dipende dunque dal senso civico dei consumatori: Nella auspicata consapevolezza della popolazione circa i propri rifiuti si crea un legame tra l’individuo e il sistema di produzione-consumo. Un legame che si rafforza facendo del consenso del primo un elemento importante per lo sviluppo del secondo in condizioni ecologicamente sostenibili.38

Dal progetto di riforma del gesto è scaturita una sistematica attività di moralizzazione del rapporto dei consumatori con i loro rifiuti. Se gettare oggi è una colpa, è per la ripetizione di questi «semplici gesti» che ha largamente contribuito a una rappresentazione del problema dei rifiuti in termini di pericolo, di rischio, da tenere sotto controllo. In altre parole i rifiuti sono un settore di attività strutturato su un discorso morale a livello legislativo e normativo, su un codice disciplinare che prescrive il nostro comportamento per finalità di più ampio respiro: dalla diminuzione delle discariche alla sopravvivenza ecologica globale. È un ambito in cui siamo stati indotti a sentire una sorta di dovere morale e di responsabilità.39

dAL geSto ecoLogico ALL’obLio deLLA tecnicA Figura emblematica dello sviluppo sostenibile, la crescente rete tecnica della gestione dei rifiuti non rientra affatto nell’ottica di una «morale ecologica» pragmatica come quella evocata dalla filosofa Émilie Hache.40 Questo «mercato mondiale da 300 miliardi di euro» – all’interno del quale i rifiuti domestici ammontano a 150 miliardi sebbene 95

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costituiscano solo il 4% della massa totale –41 potrebbe essere descritto soprattutto come il risultato di un «capitalismo verde». Lungi dal considerare i rifiuti in termini di bene comune, i principali gruppi industriali privati di gestione e di smaltimento sono i grandi vincitori. Nel mercato ormai mondializzato di alcune importanti materie prime seconde, l’industria della pulizia e dei rifiuti prospera, traendo vantaggio dalla promessa di reinserire ciò che gettiamo nel circuito produttivo. Come i loro antenati capisquadra dei cenciaioli, i principali leader del settore agirebbero contro il loro interesse se incoraggiassero la riduzione del flusso dei rifiuti. Razionalizzando e sistematizzando tale forma moderna di recupero, non imbocchiamo forse un percorso obbligato? Se un domani gli scarti dovessero diventare la nostra principale risorsa, non saremmo costretti a buttare via per continuare a produrre? Le argomentazioni ecologiche rivelano la dimensione ideologica del gettare: facendo dello scarto un «gesto ecologico» resta qualcosa di nascosto, di camuffato, nella realtà dei rifiuti. L’obbligo di controllo della produzione di immondizia ha solo prolungato un gesto modernista di trattamento della sporcizia basato sull’eliminazione, il controllo e la gestione dei rischi. Buttare via permette all’individuo di sbarazzarsi dell’onere morale legato all’imperativo del «controllo» dei rifiuti. «Gettando nel modo giusto», il consumatore diventa un «ecocittadino», liberato da una certa colpa che ha motivato il suo «buon gesto»: il consumatore non è più responsabile dei propri rifiuti perché esiste un dispositivo tecnico efficiente, un waste management che mantiene le promesse. Nessun bisogno di conoscere il funzionamento e l’effettivo lavoro di quanto succede dopo la pattumiera: la certezza di un’azione tecnica razionale e giusta genera un’aspettativa cieca. Poiché opera in nome della protezione dell’ambiente, il waste management dovrebbe 96

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essere al servizio di una collettività, la «società», e ancor più in generale del «pianeta».

ecocittAdino per dovere L’ecocittadinanza è un concetto unificante. L’espressione oggi ricorre spesso tra i protagonisti del dibattito sulla difesa dell’ambiente: associazioni, industrie, enti locali e agenzie nazionali. Invitando a una gamma molto ampia di azioni e gesti quotidiani (dall’uso dei mezzi di trasporto pubblici, alla chiusura del rubinetto quando ci laviamo i denti, proseguendo con l’uso di lampadine a basso consumo), i suggerimenti diventano il più delle volte una guida, buone pratiche di vita che spronano gli aspiranti «ecocittadini» ad acquisire nuove abitudini per contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico, alla riduzione dell’emissione di gas serra e, più in generale, a porre fine allo spreco. La responsabilizzazione dei consumatori è il risultato di quasi trent’anni di educazione ambientale di cui sarebbe noioso e problematico ripercorrere qui la storia. Sembra tuttavia possibile collegarne parte delle origini al testo fondativo della Carta di Belgrado, pubblicata sulla scia della Conferenza di Stoccolma del 1972. Il documento è esplicito su quale sia lo scopo dell’educazione ambientale: formare una popolazione mondiale cosciente e preoccupata dell’ambiente e dei problemi connessi, una popolazione che possieda le conoscenze, le competenze, lo stato d’animo, le motivazioni e il senso del dovere che le permettono di operare individualmente e collettivamente alla soluzione dei problemi attuali, e di impedire che se ne creino di nuovi.42 97

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Attraverso molteplici campagne di promozione della raccolta differenziata, le politiche di riforma delle pratiche quotidiane hanno de facto collegato i gesti di routine locali a questioni ambientali planetarie. Non senza ironia, alcuni commentatori hanno definito i sostenitori del «buon gesto» con nomignoli più o meno benevoli. I «valorosi cittadini della repubblica dei piccoli gesti verdi»,43 oppure i «soldatini verdi dello sviluppo sostenibile»44 sono i «consum’attori» che hanno deciso di difendere, talvolta con il proselitismo, quei gesti della quotidianità che possono contribuire a una rivoluzione verde delle pratiche. Il principio che struttura la valorizzazione del «buon gesto», della «buona pratica» trova eco nei ripetuti inviti di alcuni sostenitori del discorso alternativo, e altermondialista, riassunto nella celebre espressione di René Dubos: «Agire localmente, pensare globalmente». Il ruolo centrale accordato all’individuo, al consumatore, nell’opera di «tutela» dell’ambiente si ritrova anche nell’articolo 2 della Carta dell’ambiente francese, inserito nella Costituzione nel 2005: «Ogni persona ha il dovere di partecipare alla tutela e al miglioramento dell’ambiente».45 La partecipazione cittadina è elevata al rango di responsabilità individuale, di dovere, principio giuridico che non contempla alcuna forma di trasgressione della norma. Pertanto tra il consumatore, il cui raggio d’azione è assai ristretto, e l’ambiente, la cui definizione resta fluida e ne lascia sottintendere la natura assolutamente indeterminata, resta ancora una volta un ampio divario intermedio, mesosociale. È opportuno riflettere sullo iato, sulla notevole differenza di scala tra pratiche eminentemente locali e problemi globali. Cosa comporta il confronto tra le due dimensioni? In che senso il divario di scala pone interrogativi sulla rile-

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vanza della reale portata di un’azione che si svolge su un piano esclusivamente microsociale?

iL punto cieco deLLA poLiticA dei «piccoLi geSti» Una delle argomentazioni fondamentali degli operatori dei «piccoli gesti» è il collegamento di questi ultimi a un principio civico, a un’arte di vivere insieme e a questioni morali di ordine macroscopico, globale, che riguardano la protezione dell’ambiente. Da un punto di vista più semplice, tuttavia, i piccoli gesti hanno la caratteristica comune di essere connessi a varie forme di consumo. Negli ultimi quindici anni, dallo sviluppo «sostenibile» sono scaturite espressioni che collegano le pratiche quotidiane a un più ampio progetto sociale e culturale: con il consumo verde, sostenibile, oppure responsabile, i «consum’attori» hanno il compito di avviare un profondo cambiamento sociale. Con l’idea che anche lì si costruiscono le abitudini di consumo, la problematizzazione del «consumo sostenibile» investe anche gli aspetti culturali (credenze, valori...). Quale fine perseguono le misure adottate? Quasi una ridefinizione delle modalità in base a cui il consumo può dirsi portatore di felicità. Il consumo rimarrebbe possibile e tale normale attività potrebbe continuare in buona coscienza, purché siano adottati comportamenti «responsabili».46

Il progetto di «felicità collettiva» rimane in uno stato embrionale finché i piccoli gesti dipendono da una responsabilizzazione tutta individuale. Il politologo Yannick Rumpala osserva che uno dei tratti caratteristici di questo 99

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incerto orizzonte è profondamente connesso all’indistinzione dei vari piani del problema: Il «consumo sostenibile» determina una connessione tra la sfera privata e quella pubblica, ma piuttosto nel senso di una fluidità dei confini che separano le due sfere. Al consumatore si dà la speranza che la sua azione privata avrà un effetto più ampio, molto al di là dell’universo domestico, ma gli si chiede al contempo un adeguamento soggettivo per finalità che non conosce e che non sono necessariamente le sue.47

In altre parole, collegando sfera pubblica e sfera privata, spazio domestico e spazio comune, la politica dei piccoli gesti è un mezzo per ridistribuire su scala minore le responsabilità proprie dell’azione pubblica e anche un motivo sufficiente per fare di un’azione quotidiana un atto di socializzazione. Tra problemi globali e pratiche domestiche resta tuttavia un divario intermedio: «Porre l’accento sui “piccoli gesti” rimuove anche il problema delle grandi scelte».48

i rifiuti: iL cAvALLo di troiA deLL’AmbientALizzAzione deL quotidiAno Alcuni interventi a sostegno della raccolta differenziata hanno fatto sì che con i rifiuti le famiglie praticassero l’ecologia. Sin dai primi programmi di razionalizzazione del gettare, avviati alla fine degli anni Ottanta, si trattava già di «cambiare le proprie abitudini» e di adottare «la buona pratica»: queste azioni ecocittadine erano destinate a ridurre, se non a impedire, lo spreco di risorse, il nocciolo della crisi ecologica contemporanea. 100

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L’assimilazione da parte dei consumatori della riforma dell’atto di gettare è emblematica del modo in cui si è generato un rifiuto delle radici profonde della crisi ecologica che mette in discussione i fondamenti dell’industrializzazione produttivistica, del capitalismo mondializzato e, in generale, di uno stile di vita «moderno». In altri termini, sotto il manto di argomentazioni finalizzate alla protezione dell’ambiente, gettare bene è diventato un mezzo per poter continuare a consumare (meglio). «In Francia, come in altri paesi industrializzati, la nascita della sensibilità ecologica avrebbe potuto essere occasione di una rivoluzione del quotidiano che invece non c’è stata»49 osserva la sociologa Michelle Dobré. Paradossalmente, alcuni cambiamenti del quotidiano che si presentano come risposte alla crisi ecologica diventano un mezzo per potenziare un sistema di mercato sotto accusa. Il capitalismo verde si è sviluppato sulla base della critica ai suoi stessi fondamenti.50 Se è giusto affermare che si tratta di un processo di «ambientalizzazione», è proprio per sottolineare che alcune di queste pratiche «ecocittadine» sono soprattutto modifiche comportamentali accessorie per gli attori in gioco.51 Ciò che avrebbe potuto apparire come una presa di coscienza collettiva, una vera e propria «ecologizzazione» dell’immaginario, sembra piuttosto essere diventata una soluzione manageriale – sia a livello delle pratiche individuali sia a livello dei protagonisti della politica e dell’industria –, un mezzo, forse, per dimenticare meglio la natura radicale dei cambiamenti indotti dalla comparsa inquietante dei problemi ecologici. In questo senso, «gettare bene» può essere assimilato a un processo di denegazione, di rifiuto dei problemi tecnici, economici e sociali che determinano la crisi ecologica contemporanea. 101

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«gettAre bene» per dimenticAre «megLio» Quando si butta via qualcosa non si ragiona. È un gesto che compiamo ogni giorno senza rifletterci: nessun dubbio con i rifiuti domestici, dobbiamo solo metterli nella spazzatura. Gettare, in questo senso, è come una routine: ripetendo gli stessi gesti, l’abitudine si trasforma in automatismo. Di solito trasmesse sin dai primi anni di vita, le pratiche del gettare si ripetono meccanicamente: se «impariamo» a buttare (a differenziare), ogni volta che lo facciamo non pensiamo alla cosa, alla portata del gesto. Nell’era delle pratiche razionalizzate dei rifiuti il peso morale legato al gesto di buttare mette per prima cosa in evidenza la dimensione profondamente significante di un atto compiuto senza riflettere. La preoccupazione di «fare bene» è la prova del collegamento della pratica a un ordine superiore, a norme che, sebbene interiorizzate, rimandano in maniera sistematica a realtà trascendenti quanto incerte: la «protezione dell’ambiente», il «controllo dell’inquinamento» sono problemi macroscopici indefiniti verso cui tendono tali atti. I «piccoli gesti» hanno del resto una dimensione socializzante: rispettando principi stabiliti, le molteplici declinazioni del «saper vivere insieme», alimentiamo la speranza di assistere alla nascita di un «esercito di soldati valorosi». E tutto questo grazie a un sottinteso presupposto di esemplarità: buttando nella pattumiera giusta «io faccio la mia parte», agli altri tocca «fare la propria». Tutto ciò trasforma il gesto individuale in una partecipazione a un’azione collettiva in fieri, lo collega a un progetto di società. Tali piccoli gesti hanno una dimensione magica basata sulla fede nell’esistenza di un dispositivo tecnico efficace: aver fiducia nel «gettare bene» è innanzitutto credere all’efficacia del sistema tecnico di gestione dei rifiuti. 102

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Quando getta, il consumatore pensa di rado alle «ragioni» del farlo bene. Il gesto «parla da solo», indica ciò che il consumatore tende a dimenticare. Anche se «la crisi dei rifiuti», i problemi ecologici, il buon funzionamento del sistema tecnico di gestione dei rifiuti e altri argomenti sentiti molte volte sembrano giustificare la pratica, sono invece assenti. I modi di gettare sono risposte alla domanda su «come fare con» i rifiuti e i tanti problemi che creano. I gesti trovano la loro giustificazione in ambiti molto distanti dallo spazio domestico in cui i rifiuti pongono tuttavia un problema al consumatore. Dalla distanza tra la natura locale dell’atto e quella assolutamente globale della giustificazione scaturisce la funzione rituale del gettare via. Eppure è proprio l’automatizzazione del gesto che permette al consumatore di «chiudere il coperchio» e di «non pensarci più»: i rifiuti «al loro posto», gettati nel modo giusto, non pongono più problemi né alla famiglia, né alla collettività, né al pianeta. La questione è «sotto controllo». Con la modernizzazione di un reiterato gesto quotidiano, l’ecocittadino potrebbe costituire un caso esemplare di ciò che il filosofo Michael Sandel ha definito «soggetto senza vincoli» nella sua critica alle conseguenze politiche del liberalismo economico che favorisce un ideale di leggerezza, di flessibilità dell’individuo rispetto alla propria appartenenza culturale e sociale. Se il liberalismo valorizza lo sviluppo delle soggettività «senza legami», per Sandel, invece, il soggetto morale non può essere pensato come un individuo slegato dal contesto sociale, economico o familiare in cui agisce. L’individuo è intersoggettivo, sempre «congestionato» da un carattere, da una storia, da un sistema di valori. Figura idealtipica del soggetto liberale, l’uomo decongestionato è la personificazione di un Homo detritus diventato ecocittadino: quando ambisce a «gettare via bene», non solo non mette in discussione il suo «gettare», ma 103

CAPITOLO 2

crea le condizioni per dimenticare l’ambiente ibrido, naturale e sociotecnico che con il suo gesto vuole tutelare: Il soggetto senza legami e l’etica che ispira offrono, nel complesso, una visione liberatoria. Svincolato dai dettami della natura e dall’approvazione dei ruoli sociali, il soggetto umano diventa l’autore sovrano dei soli significati morali che ci possano essere.52

Per il «valoroso soldato dell’esercito verde», per l’ecocittadino, è possibile e moralmente accettabile comprare una bottiglia d’acqua minerale perché, se gettata nel modo giusto, sarà riciclata. La bottiglia, come rifiuto, avrà un futuro in un contesto del tutto tecnico: la pattumiera è l’imprescindibile anticamera della sfera tecnica. In un certo senso, «l’ecocittadino» crea il problema che desidera risolvere: lottando giorno dopo giorno contro «il problema dei rifiuti», getta le basi per obliarlo. «Buttare via bene» serve più a dimenticare che a risolvere un problema in corso, è un rituale contemporaneo di denegazione. I riti di adattamento dipendono da una trama di rappresentazioni che prende in considerazione soltanto gli elementi che giustificano l’accettazione e la persistenza delle situazioni. [...] [le ritualizzazioni] si servono di usi e costumi come esorcismi, dispositivi del già qui, inviolabili, per scongiurare l’entropia e il disordine economico.53

Paradossalmente, il rituale del «gettare bene» è uno dei freni allo sviluppo dell’ecologismo, nell’accezione che ne dà Andrew Dobson, e, come afferma Bruno Latour, alla nascita di una vera città ecologica.54

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Intervista, realizzata il 28 gennaio 2009, a un dirigente dell’Ademe (Agence de l’environnement et de la maîtrise de l’énergie) addetto al problema dei rifiuti. Citato in Martin V. Melosi, Garbage in the Cities: Refuse, Reform, and the Environment [1981], University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 2005, p. 199. Rachel Carson, Primavera silenziosa [1962], Feltrinelli, Milano 1963. Barry Commoner, Science and Survival [1963], Ballantine, New York 1966. Barry Commoner, Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo e la tecnologia [1971], Garzanti, Milano 1972. Vance Packard, The Waste Makers, David McKay, Filadelfia 1960. Il volume è l’ultimo di una trilogia iniziata nel 1957: The Hidden Persuaders (dedicato alla critica della pubblicità, I persuasori occulti, Einaudi, Torino 1958) e The Status Seekers del 1959 (I cacciatori di prestigio, Einaudi, Torino 1961). Si veda, tra gli altri, Ivan Illich, La convivialità [1973], Mondadori, Milano 1974; André Gorz, Ecologia e politica [1975], Cappelli, Bologna 1978; René Dumont, L’utopia o la morte [1973], Laterza, RomaBari 1974. Cfr. Andrew Dobson, Green Political Thought: An Introduction, Routledge, Londra-New York 1990, pp. 3-4. Jean-Baptiste Fressoz, La main invisible a-t-elle le pouce vert? Les fauxsemblants de “l’écologie industrielle” au XIXe siècle, «Techniques & Culture», n. 65, Reparer le monde. Excès, reste et innovation, 2016, p. 337.

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Denis Duclos, La nature, principale contradiction culturelle du capitalisme?, «Actuel Marx», n. 12, Puf, Parigi 1992, pp. 41-58. Michel Affholder, La naissance et les premiers développements d’une politique nationale des déchets entre 1971 et 1984, «Pour mémoire. Comité d’histoire, Revue du ministère de l’Écologie, du Développement durable et de l’Énergie», n. 12, 2013, pp. 27-40. Legge n. 92-646 del 13 luglio 1992 relativa all’eliminazione dei rifiuti e agli impianti per la protezione dell’ambiente. Decreto interministeriale n. 92-358 del 1° aprile 1992. Laurence Rocher, La gestion des déchets ménagers: histoire d’une politique publique, «Pour mémoire. Comité d’histoire, Revue du ministère de l’Écologie, du Développement durable et de l’Énergie», n. 12, 2013, pp. 17-26. Alain Gras, Les macro-systèmes technique, Puf, Parigi 1997. Sophie Bernard, Damien Dussaux, Mouez Fodha, Matthieu Glachant, Le commerce international des déchets, «L’Économie mondiale 2013», La Découverte, Parigi 2012, p. 108. Per quanto riguarda i metalli si veda in particolare, Philippe Bihouix, Benoît de Guillebon, Quel futur pour les métaux? Raréfaction des métaux: un nouveau défi pour la société, Edp Sciences, Les Ulis 2010. Harold Crooks, La Bataille des ordures, Boréal express, Montréal 1984; Harold Crooks, Giants of Garbage: The Rise of the Global Waste Industry and the Politics of Pollution, James Lorimer & Company, Toronto 1993. Per uno studio esaustivo della storia della società si veda Timothy C. Jacobson, Waste Management: An American Corporate Success Story, Gateway Business Book, Washington 1993; Roger Cans, Le Monde Poubelle, First/Robert Laffont, Parigi 1990, pp. 103-112. Cfr. Gérard Bertolini, Économie des déchets: des préoccupations croissantes, de nouvelles règles, de nouveaux marchés, Éditions Technip, Parigi 2005, si veda in particolare il capitolo III, Les marchés et les opérateurs, pp. 93-121. Bertolini sottolinea sia la tendenza alla concentrazione del mercato dei rifiuti sia il suo corollario: la finanziarizzazione. Intervista a un ex dirigente di una società che proponeva ai comuni soluzioni globali per la gestione dei rifiuti urbani (17 aprile 2009). Christophe Bonneuil, Yannick Mahrane, Gouverner la biosphère: de

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l’environnement de la guerre froide à l’environnement néolibéral, in Dominique Pestre (a cura di), Le gouvernement des technosciences. Gouverner le progrès et ses dégâts depuis 1945, La Découverte, Parigi 2014, pp. 133-169. Ibidem. Ibidem. Gérard Bertolini, Le marché des déchets: structures et acteurs, croissance, concentration e recompositions, «Responsabilité & Environnement», n. 45, 2007, p. 108. Intervista, cfr. nota 1. Ibidem. Ibidem. Cfr. direttiva 1999/31 Ce del 26 aprile 1999 relativa alle discariche di rifiuti. Per il caso francese cfr. legge n. 92-646 del 13 luglio 1992, relativa all’eliminazione dei rifiuti e agli impianti classificati per la protezione dell’ambiente (art. 2-1). Codice dell’ambiente, titolo IV, 1-1, art. L541-2-1, II (tratto dall’ordinanza n. 2010-1579 del 17 dicembre 2010 – art. 2). L’articolo è un aggiornamento della legge del 13 luglio 1992. Intervista, cfr. nota 1. Audrey Garric, À force de recycler, la Suède doit importer des déchets, «Le Monde», 22 settembre 2012: ecologie.blog.lemonde. Cfr. Jeffrey D. Kimball, Recycling in America, Abc Clio, Santa Barbara 1992, p. 5. All’inizio degli anni Novanta gli Stati in questione hanno creato dei sistemi di «responsabilità estesa del produttore». Heike Weber, La politique des déchets ménagers en Allemagne au XXe siècle, «Pour mémoire. Comité d’histoire, Revue du ministère de l’Écologie, du Développement durable et de l’Énergie», n. 12, 2013, pp. 139-151. Rémi Barbier, La fabrique de l’usager. Le cas de la collecte sélective des déchets, «Flux», vol. 48-49, n. 2-3, 2002, pp. 36-37. Ivi, p. 36. Yannick Rumpala, Le réajustement du rôle des populations dans la gestion des déchets ménagers, «Revue française des sciences politiques», vol. 49, n. 4-5, 1999, pp. 621-622. Ibidem.

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Émilie Hache, Ce à quoi nous tenons. Propositions pour une écologie pragmatique, La Découverte, Parigi 2011. Philippe Chalmin, Catherine Gaillochet, Du rare à l’infini. Panorama mondiale des déchets 2009, Economica Anthropos, Parigi 2009, p. 22. Carta di Belgrado. Uno schema mondiale per l’educazione ambientale, Conferenza Unesco-Unep di Belgrado, 22 ottobre 1975. Geneviève Férone, 2030 le krach écologique, Grasset, Parigi 2008. Samuel Pelras, Un geste pour la planète. Peut-on ne pas être écolo?, Flammarion, Parigi 2012. Cfr. la legge costituzionale della Repubblica francese n. 2005-205 del 1° marzo 2005 relativa alla Carta dell’ambiente (Jorf n. 0051 del 2 marzo 2005, p. 3697). Yannick Rumpala, La «consommation durable» comme nouvelle phase d’une gouvernementalisation de la consommation, «Revue française des sciences politiques», vol. 59, n. 5, 2009, p. 990. Ivi, p. 994. Ivi, p. 995. Michelle Dobré, L’écologie au quotidien. Éléments pour une théorie sociologique de la résistence ordinaire, L’Harmattan, Parigi 2002, p. 328. Si veda, in particolare, Luc Boltanski, Ève Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo [1999], Mimesis, Milano-Udine 2014. Cfr. Andrew Dobson, Green Political Thought, cit. Michael Sandel, The Procedural Republic and the Unencumbered Self, «Political Theory», vol. 12, n. 1, 1984, p. 87. Pierre Bouvier, De la socioanthropologie, Éditions Galilée, Parigi 2011, pp. 41-43. Cfr. Andrew Dobson, Green Political Thought, cit.; Bruno Latour, Moderniser ou écologiser. À la recherche de la septième cité, «Écologie & Politique», n. 13, 1995, p. 25 e sgg.

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CAPITOLO 3

Un mondo di plastica: la fabbrica di un’eternità «usa e getta»

Così ci siamo messi nella situazione paradossale di dover addomesticare i nostri stessi prodotti; di doverli addomesticare come abbiamo addomesticato finora le forze della natura. Günther Anders, 19581

Spesso, ciò che avevamo finito per dimenticare, ciò che era scomparso dall’orizzonte delle preoccupazioni quotidiane, torna in superficie in modo inatteso, incontrollato. La psicoanalisi ha descritto in maniera esaustiva il principio fondamentale del funzionamento dell’inconscio. Anche Homo detritus deve confrontarsi con ciò che pensava di aver fatto sparire per sempre: lo sforzo di purificazione, di pulizia totale, molto spesso si conclude con il ritorno del rimosso, per sua natura incontrollabile. La promessa di poter gestire i rifiuti con dispositivi tecnici è stata regolarmente smentita dallo stesso fenomeno. I residui sepolti o svaniti in una nuvola di fumo finiscono spesso per riapparire in modo inaspettato. Possiamo citare gli esempi ben noti delle fughe di diossina dagli inceneritori, del percolato e di altri gas a effetto serra che trovano sempre il modo di fuoriuscire dalle discariche anche quando sono «controllate» o chiuse da decenni. 111

CAPITOLO 3

Nel 2008, nel Sud dell’Inghilterra, sulla costa del Dorset è riemersa una discarica in funzione fino agli anni Settanta. La costante decomposizione del materiale accumulato è in parte responsabile del crollo del sito quasi quarant’anni dopo la sua chiusura.2 La discarica di rifiuti inerti ha sventrato un territorio classificato patrimonio mondiale dall’Unesco e rilasciato sostanze tossiche fino a quel momento dimenticate. Data la diffusione per quasi un secolo del «tutto nella fossa», attraverso lo stoccaggio informale o selvaggio, sono certamente da prevedere casi analoghi, ma nessuno può dire dove e quando. Risalendo in superficie, i rifiuti resistono alla propria scomparsa. Ma è così per tutti? Vyvyan Howard, professore di bioimaging e specialista di nanotossicologia, lo spiega bene. Se avessimo sepolto nello stesso posto tutti i rifiuti prodotti dall’umanità prima della metà dell’Ottocento, le conseguenze a medio termine sull’ambiente sarebbero state sicuramente minime: il materiale in questione si sarebbe decomposto e poi reinserito nel ciclo della materia organica.3 Per contro, alcuni tra gli scarti prodotti da un secolo e mezzo si rivelano oggi non solo sempre più tossici, ma anche incapaci di riconfluire nel ciclo naturale: metalli pesanti, materie radioattive e polimeri di sintesi sono il segno di un importante cambiamento della natura del giacimento detritico globale. Alcuni rifiuti prodotti dall’industria nucleare sono particolarmente esemplificativi, perché la loro natura ostacola la possibilità di sviluppo di qualsiasi forma di vita: la loro materialità detta il modo in cui è possibile gestirli. Altri tipi di prodotti, più comuni e a priori più banali, a lungo considerati inoffensivi si rivelano oggi altrettanto resistenti e invasivi: la loro onnipresenza nel paesaggio contemporaneo porta alla luce in realtà le falle del sistema tecnico dei rifiuti. 112

UN MONDO DI PLASTICA: LA FABBRICA DI UN’ETERNITà «USA E GETTA»

LA pLASticA hA coLonizzAto LA bioSferA Alla fine degli anni Novanta il capitano Charles Moore, di ritorno da un’escursione tra la California e le isole Hawaii, navigando in acque poco frequentate, si ritrova di fronte a un mare che non conosce. Bidoni, boe, frammenti di sacchetti di plastica: il cuore dell’oceano Pacifico assomigliava più a un terreno abbandonato che alla selvaggia e sublime immensità del mare. Il gigantesco agglomerato sarà battezzato «Great Pacific Garbage Patch». Le spedizioni per quantificare, analizzare e capire la natura del fenomeno faranno di Moore il nuovo Cristoforo Colombo della postmodernità, eroico scopritore di un continente di rifiuti sperduto in mezzo all’oceano. La metafora ha ben presto suscitato nella società civile una fervida immaginazione. Lo studio di architetti olandesi Whim, agli inizi del nuovo millennio, ha elaborato un progetto di trasformazione delle «isole dei rifiuti» in zone di accoglienza per i rifugiati climatici.4 Purtroppo, i «continenti di plastica» non esistono. La metafora, collegata alla scoperta di Moore, ha permesso di dare concretezza a un fenomeno conosciuto da quarant’anni e la cui ampiezza è ancor più problematica.5 Un continente, pur gigantesco, è circoscritto, localizzabile: è possibile, perché no, abitarci. È altrettanto possibile ripulirlo, recuperare i materiali di cui è composto e riciclarli. Ma la realtà è un’altra. Nell’oceano i rifiuti plastici che galleggiano in superficie si decompongono in minuscoli frammenti che, portati dalle correnti, diventano vere e proprie zuppe detritiche, oceani di plastica. La scoperta di Moore deve perciò essere intesa come la spettacolare reinvenzione metaforica di un problema a lungo ignorato. Dato il numero assai modesto di ricerche scientifiche dagli anni Settanta,6 di fronte alla loro prolife113

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razione negli anni Duemila il colpo mediatico dell’Algalita Marine Research Foundation ha trasformato un fenomeno sconosciuto in un problema globale. Il gran numero di spedizioni di identificazione, compiute da alcune organizzazioni non governative, dei cinque ipotetici agglomerati di rifiuti testimonia dell’interesse suscitato da ciò che allora era soltanto una metafora. L’ultimo decennio ha registrato la crescita di progetti associativi: quello cui ho partecipato, il progetto Kaisei, lanciato nel 2008, a metà tra l’ecoturismo di avventura e la missione scientifica, si è focalizzato sul Pacifico. Anche il progetto Plastiki, promosso nel 2009 da David Mayer de Rothschild, si proponeva di attraversare l’oceano Pacifico, ma questa volta su un’imbarcazione fatta di bottiglie di polietilene tereftalato (Pet); il progetto 5 Gyres, avviato nello stesso anno da Marcus Eriksen dell’Algalita Marine Research Foundation, si è posto come obiettivo l’identificazione delle cinque principali zone di concentrazione di rifiuti plastici nell’oceano.7 Nel 2011 il problema dell’inquinamento idrico provocato dai residui plastici è «ufficialmente» riconosciuto dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente come una questione ecologica ineludibile e planetaria. Il libro verde dell’Unep mette anche in evidenza l’importanza di pubblicizzare il problema grazie alle metafore diffuse dalle Ong e altre istituzioni scientifiche.8 Condotte in acque internazionali, le ricerche sul fenomeno fino a quel momento avevano ottenuto finanziamenti pubblici solo di rado. Anziché prendere in considerazione un’improbabile colonizzazione per mano dell’uomo, le ricerche hanno ben presto dimostrato che un gran numero di organismi marini colonizzava i minuscoli frammenti alla deriva. Dal 2010 alcuni articoli scientifici hanno rivelato la proliferazione di una specie di ragno d’acqua, l’Halobates sericeus, meglio noto come «pattinatore dei mari», nelle zone di concentra114

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zione delle particelle di plastica.9 Le particelle in sospensione fungono da sede per la nidificazione delle uova di questo ragno particolarmente vorace, che colonizza territori molto isolati. Allo stesso modo, uno studio condotto negli anni Duemila e pubblicato nel 2013 rivela l’esistenza – sugli innumerevoli frammenti – di un’intensa vita microbica: gli autori parlano di una «barriera corallina microbica» composta da più di un migliaio di organismi concentrati in uno specifico ecosistema.10 I ricercatori chiamano plastisfera questo habitat originale di batteri, microalghe e altri vegetali, la cui struttura e composizione è molto diversa da quella osservata sulla terraferma. Sembra che i supporti plastici favoriscano alcuni microrganismi e non altri, e costituiscano nuovi veicoli per la circolazione: i rifiuti in fase di frammentazione diventano scialuppe per il trasporto di batteri, talvolta patogeni, e di organismi vegetali potenzialmente invasivi. La colonizzazione proteiforme non si limita agli spazi marittimi. Un articolo del 2014 della rivista della Geological Society of America dà conto della scoperta di nuove formazioni geologiche, caratterizzate da una grande concentrazione di rifiuti fusi in una massa minerale di origine vulcanica.11 Le analisi condotte sulla spiaggia di Kamilo Beach, a sud delle Hawaii, testimoniano l’onnipresenza lungo il litorale di materiali multicompositi. Per definire questo nuovo tipo di rocce, gli autori hanno coniato il termine plastiglomerato e affermano che la loro formazione non è affatto naturale, ma deriva dall’incenerimento selvaggio di rifiuti plastici: una prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, dell’ingresso nell’Antropocene. In mare come sulla terraferma, la plastica allo stato detritico è a tutti gli effetti una componente dell’ambiente. Se una volta si è pensato di trasformare questi improbabili continenti in colonie per le popolazioni in esilio, oggi il pro115

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blema è capire come mettere fine alla colonizzazione della plastica. Tenuto conto della portata di tali processi, restano forti dubbi sulla possibilità di un disinquinamento.

ripuLire iL piAnetA? In meno di dieci anni sono state avanzate proposte, più o meno serie, per realizzare sistemi di disinquinamento. Alcuni progetti sono stati talvolta presentati da attivisti, in altri casi da gruppi di ricerca universitari o legati alle industrie. Occorre ricordare l’ipotesi della «pesca» dei rifiuti galleggianti, che consisteva nel rastrellarli in una zona molto ampia della superficie oceanica mondiale con retini da plancton e nel trattarli sulla terraferma per reinserirli nei sistemi tecnici di gestione dei rifiuti (riciclaggio, incenerimento ecc.). Il costo ecologico ed economico di tale sistema sembra inefficace: la raccolta sistematica, con il prelievo di tutti i biotopi dalla superficie oceanica e con l’uso di una flotta di navi, potrebbe avere un impatto nettamente superiore a quello provocato dall’inquinamento originario. Tale sistema di «disinquinamento» è stato sperimentato nel Mare del Nord nel 2004, con il progetto Fishing for Litter dell’associazione Kimo. Per ogni tonnellata di rifiuti, quest’ultima pagava ai pescatori un prezzo equivalente a quello dei pesci più presenti in quelle zone. Oltre al fatto che il volume dei rifiuti galleggianti è di gran lunga superiore alla capacità di raccolta delle navi da pesca, uno dei risultati è il carattere assolutamente fugace di questo tipo di iniziativa: nuovi flussi di rifiuti continuano ad alimentare i territori solo poche settimane dopo la loro «ripulitura».12 Più di recente, e come molte delle precedenti, una nuova proposta di disinquinamento è stata ampiamente me116

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diatizzata. La storia promette bene. Nel 2012 un giovane studente olandese di diciannove anni, Boyan Slat, lancia una campagna per il finanziamento di un progetto per setacciare l’oceano con sbarramenti galleggianti alimentati dall’energia solare. Il principio è semplice: sfruttare la convergenza delle correnti per raccogliere la plastica, come le draghe utilizzate nei fiumi e nei torrenti.13 Per la maggior parte degli specialisti della materia, il progetto, come i precedenti, somiglia più a una stimolante fiction tecnologica che a una reale possibilità.14 La pulizia oceanica, seppure di notevole incisività sul piano simbolico, in quanto promessa di pulizia in senso proprio della superficie degli oceani, sembra essere di modesta portata rispetto a un fenomeno di accumulo ben lungi dall’essere arginato: come gli spazzini delle strade, l’armata immaginaria si troverebbe costretta a setacciare quotidianamente aree ripulite il giorno prima. Un’altra soluzione per la pulizia globale pone l’accento sulla collaborazione tra esseri umani e non. Alcuni microrganismi (batteri e microbi) sono considerati «spazzini». Un’équipe di microbiologi del Massachusetts rivela che la presenza elevata di alcuni batteri nei vortex oceanici potrebbe spiegare la stagnazione delle concentrazioni misurate di rifiuti plastici in queste aree.15 Per azione dei microrganismi, i residui polimerici letteralmente scompaiono, mentre le materie tossiche che contengono sono rilasciate nell’ambiente: «i mangiatori di minestra di plastica» sono dei buongustai. Il problema dell’intrusione di tali sostanze nella catena alimentare diventa allora di vitale importanza, in quanto il potenziale inquinamento dalla scala microscopica passa a quella nanoscopica. L’ipotesi della dispersione dei rifiuti attraverso l’azione di microrganismi è lungi dall’essere arrivata a maturazione e al momento è in fase sperimentale. Allo stesso modo, gli studenti dello University 117

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College di Londra, nel 2012, hanno isolato un batterio in grado di sintetizzare le microplastiche disperse negli oceani.16 A differenza della «soluzione» precedente, non si tratta più di disintegrare i rifiuti, ma di riunirli per facilitarne la raccolta e poi lo smaltimento sulla terraferma. Il progetto, che si propone di offrire una risonanza effettiva alla metafora delle «isole di plastica», pone tuttavia dei problemi di natura etica e tecnica. Una simile iniziativa disperderebbe le nanoparticelle su aree molto ampie dell’oceano, rischiando di provocare un probabile squilibrio del biotopo marino di superficie. L’idea secondo la quale è possibile un disinquinamento batterico omette, volontariamente o meno, il fatto che gli stessi batteri producono rifiuti e «consumano» energia. Nonostante la loro dimensione nanoscopica, i batteri non sono affatto «immateriali». Se la biologia di sintesi afferma di essere in grado di «fabbricare la vita»,17 è capace, a propria volta, di garantire il controllo dei suoi prodotti? In assenza di soluzioni per disinquinare in modo duraturo la proliferazione della plastica nell’ambiente, la logica vorrebbe che riuscissimo a «chiudere il rubinetto». Tuttavia oggi è molto difficile stabilire con precisione le origini dei rifiuti che si frammentano in mare e formano strani agglomerati di plastica. Per quanto riguarda la presenza di quest’ultima sulla superficie degli oceani, la maggior parte degli specialisti è d’accordo sull’origine terrestre dell’80% dei rifiuti. L’esperto François Galgani, oceanografo all’Ifremer (Institut français de recherche pour l’exploitation de la mer), calcola che ogni anno si trovano in mare tra 450 e 500.000 tonnellate di rifiuti plastici, per lo più prodotti dalla filiera dell’imballaggio agroalimentare. Gli studi sulle correnti mancano di dati su scala globale e il problema della circolazione dei rifiuti dai fiumi e dalle coste fino alle 118

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zone di convergenza delle correnti è ancora aperto. In un articolo pubblicato da «Science» nel 2015, un gruppo di ricercatori ha calcolato che ogni anno 275 milioni di tonnellate di plastica si riversano negli oceani e che almeno fino al 2100 la tendenza sarà al rialzo.18 L’articolo cerca di individuare l’origine dei rifiuti analizzando i dati relativi alla loro gestione in 91 paesi costieri. Poiché è impossibile misurare la quantità effettiva di rifiuti plastici dispersi nell’ambiente, e in particolare sulle coste, l’équipe guidata da Jenna Jambeck parte dal principio che la maggior parte degli scarti «mal gestiti», e perciò potenzialmente perduti, è prodotta dove i sistemi tecnici di gestione sono meno avanzati. Risultato: i ricercatori hanno calcolato che ogni abitante della costa cinese produce poco più di un chilogrammo di rifiuti plastici all’anno, ma che il 76% di questi sono «mal gestiti», mentre negli Stati Uniti le stesse popolazioni costiere (che risiedono a meno di 50 chilometri dalla costa) ne producono 2,5 chilogrammi pro capite, ma soltanto il 2% sono «mal gestiti». Alla luce dello sviluppo del sistema tecnico di gestione, la Cina produce quasi il 30% dei rifiuti plastici mal gestiti e gli Stati Uniti soltanto lo 0,9%. La Repubblica popolare cinese, che in termini assoluti produce meno rifiuti plastici degli Usa, è dunque la nazione più inquinante del mondo, mentre l’efficiente sistema tecnico del waste management nordamericano trasforma i più grandi consumatori di plastica al mondo in «bravi scolari» dell’inquinamento, ventesimi nel mondo, dopo l’Unione europea (al diciottesimo posto) e la Corea del Nord (al diciannovesimo). È dimostrato che per limitare l’inquinamento dovuto alla plastica è necessario sviluppare il waste management mondializzato nei paesi del Sud. La modernizzazione è però insufficiente. La conclusione dell’articolo è esplicita: 119

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Storicamente il waste management era sufficiente per smaltire i rifiuti inerti e biodegradabili con l’interramento e l’incenerimento. Il rapido aumento della plastica nel flusso di rifiuti impone un cambiamento di paradigma. [...] Migliorare le infrastrutture di gestione dei rifiuti nei paesi in via di sviluppo è fondamentale e richiederà tempo e risorse ingenti. Contestualmente alla nascita di tali infrastrutture, i paesi industrializzati possono intervenire nell’immediato riducendo i propri rifiuti e frenando l’aumento di plastica monouso.19

Occorre dunque agire su due fronti: nei paesi del Sud si deve mirare all’ottimizzazione del waste management, in quelli del Nord è necessario ridurre la produzione di rifiuti. Non ci si interroga però sui motivi del «cambiamento di paradigma» che sembra avviare il pianeta verso un modello di sviluppo uniforme. Chi è responsabile di tale rischio? Come spiegare l’ingombrante e persistente proliferazione della plastica? Perché continuiamo a produrre materiali la cui natura pone tanti problemi? La resistenza della plastica e la sua invasività non sono affatto una «sorpresa» dovuta a una tardiva presa di coscienza e al moltiplicarsi delle catastrofi ecologiche. Al contrario, la capacità di resistere al tempo è stata la principale argomentazione dei suoi sponsor, almeno dall’inizio del XX secolo.

LA pLASticA, un mAteriALe deL futuro (Anteriore) Nel 1940 la rivista «Fortune» pubblica un’illustrazione, per certi versi profetica, che descrive l’avvenire dei nuovi materiali: Synthetica, un nuovo continente di plastica esprime le 120

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potenzialità attribuite a una materia fatta dall’uomo. Il «nuovo continente» è ancora una promessa. Se prefigura la colonizzazione plastica già descritta, non la presenta come una minaccia incombente. È invece un Eldorado, un’utopia che catalizza il desiderio di svilupparla negando, forse ingenuamente, il destino detritico di questo materiale del futuro.

Synthetica, un nuovo continente di plastica (fonte: «Fortune», 1940).

A lungo magnificata da industriali, chimici e altri esteti della cultura pop, la celebre espressione «la plastica è fantastica» non ha mai riscosso consenso unanime. Il XX secolo è contrassegnato dallo sforzo dell’industria della plastica per dare legittimità a questo slogan. Si è fatto ricorso a due argomentazioni. La prima consisteva nel trasformare l’immagine «da quattro soldi» collegata alla plastica, insistendo sulla facoltà di quest’ultima di democratizzare il consumo.20 Per i suoi sponsor, il costo modesto del materiale non doveva essere associato alla qualità scadente dei prodotti ma alla loro capacità di essere usati, consumati dal maggior nu121

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mero di persone. C’è, in nuce, l’idea di un consumo di massa inteso come progresso sociale, possibile grazie ai nuovi materiali. Ormai, con la plastica, chiunque può possedere prodotti di uso quotidiano e apparecchi domestici. La seconda argomentazione è una conseguenza virtuosa propria dell’aumento del consumo di plastica che, come alternativa, contribuisce alla «protezione dell’ambiente». Tale materiale prometeico si sostituisce a quelli tradizionali, costosi, spesso pesanti e fragili. La scelta della plastica serve a ridurre l’uso di risorse naturali: sin dalla sua comparsa, o quasi, promette un riciclaggio illimitato. Nella Germania della Repubblica di Weimar, che mirava all’autarchia strategica, la diffusione del policloruro di vinile, meglio noto come Pvc, si inscrive in quella che oggi si definisce economia circolare: intorno al 1915, l’uso del cloro nell’industria chimica ha creato uno sbocco per tale sostanza – altamente inquinante – da cui viene sintetizzato il Pvc. Simbolo originale di un riciclaggio «virtuoso», con il Pvc è «possibile creare qualcosa di nuovo da rifiuti che possono essere rivenduti».21 Omettendo la natura non rinnovabile della principale risorsa necessaria alla sintesi della plastica, gli argomenti per valorizzare la capacità di questo materiale di preservare e ottimizzare l’utilizzo delle risorse sono oggi onnipresenti nelle dichiarazioni dell’industria. Una recente pubblicazione di PlasticsEurope, sindacato europeo che rappresenta le industrie produttrici di plastica, è assai eloquente: «Imballaggio in plastica: nato per proteggere».22 Progresso tecnico, progresso ecologico, progresso sociale, la plastica è diventata il fiore all’occhiello della modernità consumistica, moltiplicando gli argomenti a favore della sua superiorità rispetto alle materie prime, così tristemente corruttibili, corrodibili ed erosive, in breve, «mortali». Sin dall’inizio del Novecento, e nonostante i ripetuti tentativi per rendere popolari i nuovi materiali, la plastica si affranca 122

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dalla sua connotazione di misero sostituto delle materie prime solo tardivamente (e temporaneamente) nel boom economico dei «trenta gloriosi». I polimeri di sintesi hanno determinato l’avvento dell’American way of life, di una cultura nordamericana che ha segnato lo sviluppo della globalizzazione.23 All’indomani della Seconda guerra mondiale molti prodotti attestano la trasformazione in corso nella percezione della plastica. Nel 1948 la Womb Chair, realizzata in fibra di vetro dalla Knoll Associates, è l’antenata delle innumerevoli sedie in plastica oggi in commercio. Nel 1957 la Casa del Futuro creata dalla Monsanto è aperta ai visitatori di Disneyland, in California. La sua struttura, come la maggior parte delle attrezzature realizzate con materiali di sintesi, promette un avvenire all’insegna della plastica. Il suo ideatore, Albert G.H. Dietz, vuole dimostrare che «l’architettura in plastica garantisce una totale flessibilità»:24 «La nuova casa [...] permetterà di aggiungere e di eliminare facilmente delle stanze, in funzione della nascita di bambini o della morte di persone anziane».25 Nello stesso modo in cui il Tupperware, a forza dei famosi Tupperware party, si affermerà nelle famiglie americane come strumento di emancipazione dalla dominazione maschile per la casalinga liberata da certi obblighi domestici, le caratteristiche della plastica diventano un modo di essere, uno standard culturale. La centralità dei nuovi materiali nella nascita di una cultura globale nel XX secolo ha portato alcuni autori a considerare il periodo una vera e propria «era della plastica». Nel 1970 lo storico Robert Sklar indica nella fine della Prima guerra mondiale l’avvio della nuova era, segnata dal passaggio da una cultura borghese tradizionale alla ben nota «cultura di massa».26 L’ampia diffusione della plastica avrebbe favorito il rilancio economico indispensabile dopo l’impegno bellico degli Usa.27 Più di recente, Werner Boote e Gerhard Pretting hanno spostato la metafora dalla di123

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mensione temporale a quella spaziale: non è più soltanto il periodo storico a essere di plastica ma il pianeta stesso.28 Non senza ironia, l’economista Gérard Bertolini propone di fare dell’uomo contemporaneo un Homo plasticus, parente prossimo dell’Homo œconomicus e dell’Homo detritus: gli inventori di questo materiale prometeico si sono a poco a poco confusi con la loro stessa creazione.29 Categoria materiale totemica per la cultura mondializzata, sembra quasi un’assurdità volersene separare. La plastica ha dato un contributo decisivo alle rivoluzioni tecniche e scientifiche degli ultimi decenni:30 gli imballaggi, il polipropilene e altri polietileni hanno consentito una grande riduzione dei costi economici ed ecologici di distribuzione. I policarbonati e altri polimeri semiconduttori hanno permesso la nascita dell’informatica. Infine, e forse soprattutto, in ambito medico e farmaceutico l’avvento delle materie plastiche è spesso presentato come una delle ragioni dei progressi eccezionali della ricerca e costituisce uno dei principali fattori alla base del prolungamento della vita umana. Michel Loubry, ex direttore generale di PlasticsEurope, principale lobby dell’industria di materie plastiche, affermava senza mezzi termini: «Guadagniamo costantemente tre mesi di speranza di vita e possiamo dire che la plastica c’entra qualcosa».31 Solo questo. Nelle sue innumerevoli forme, la plastica ha conquistato la società contemporanea fino a diventarne una delle imprescindibili caratteristiche: ha creato un vero e proprio ecosistema, un sistema tecnologico su larga scala che è ormai impossibile rimettere in discussione. Nel romanzo Sporco denaro di Richard Powers, Laura Bodey, eroina sfortunata, ha un cancro alle ovaie che sembra dovuto a un fertilizzante preparato in una fabbrica di prodotti chimici accanto alla quale vive. Non volendo fare causa alla società, afferma che «anche se l’azienda è effet124

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tivamente responsabile della sua situazione, lei non può incolpare tutto ciò che vi è prodotto, perché le ha dato tutte le altre cose e ha plasmato la sua vita». E conclude: «La plastica c’è: è tutto ciò che abbiamo bisogno di sapere sulla Terra».32

Una resistenza «extraterrestre» Creiamo cose di cui non saremo mai capaci di liberarci. Sospetto sia il principale problema della plastica.33

Se la plastica ha trovato spazio nella vita sociale contemporanea, la sua capacità di resistere al tempo dopo essere stata utilizzata è stata presa in considerazione tardi. All’inizio degli anni Settanta, nel Cerchio da chiudere,34 il biologo americano Barry Commoner ha osservato come gli uomini abbiano spezzato il ciclo della vita, trasformando i suoi cicli infiniti in eventi lineari e artificiali. Sono infatti i soli esseri viventi in grado di produrre sostanze non reperibili in natura e sono perciò responsabili dell’intrusione in un ecosistema di una sostanza che vi è del tutto estranea. Tale profanazione, che si può collegare al rapporto tra materie plastiche e ambiente naturale, è il presupposto di una più ampia critica di ciò a cui il mondo di plastica obbliga gli uomini. Norman Mailer è senza dubbio il critico più celebre del predominio della plastica, soprattutto perché l’ha collegata alla messa in discussione di un modello di società in fieri: una società «di ragione», basata «sulla logica computazionale».35 Quando commenta i programmi spaziali della Nasa, Mailer smaschera l’ambiguità delle promesse di un mondo di plastica: «È la dominante società della plastica, divorziata dai suoi istinti naturali, stravolta da una proliferazione cancerosa che ha immaginato il programma spaziale come 125

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quello dei Wasp... che emerge dalla storia umana per portarci fino alle stelle».36 Di fronte all’enorme quantità e ambivalenza delle rappresentazioni della plastica, è necessario sottolineare l’incredibile cecità che ha caratterizzato il problema dei rifiuti generati da questo materiale. C’è voluto quasi un secolo prima che la questione diventasse oggetto di pubblico dibattito, un secolo in cui la produzione e la crescita dei rifiuti saranno messe in discussione soltanto per la loro natura «extraterrestre». La proliferazione della plastica coincide con la «scoperta» della questione nucleare nelle società del dopoguerra. Percepiti come minaccia e, al contempo, come progresso tecnico, i rifiuti plastici e quelli nucleari rinviano entrambi alla capacità della società umana di controllare i propri prodotti.

LA pLASticA è uSA e gettA? Il fatto che alcuni prodotti di consumo di massa siano pensati per essere gettati subito dopo il loro uso è in sé un’«innovazione» emblematica della modernità tecnica. Se i colletti delle camicie o gli assorbenti, primi beni «usa e getta»,37 erano oggetti fabbricati con sostanze conosciute, la comparsa delle resine polimeriche stravolge la sfera materiale e, di conseguenza, la natura dei rifiuti. Il «nuovo materiale» di allora è stato oggetto di riflessioni ambivalenti sin dalla sua comparsa: tra promesse di malleabilità, trasparenza e leggerezza e preoccupazione per la potenziale pericolosità di questo derivato del petrolio, la plastica è stata prima guardata con sospetto e poi accusata di essere tossica e invadente. Il caso esemplare della «minaccia dei sacchetti di plastica» rispecchia il modo in cui i produttori sono riusciti a mantenere il controllo dell’immagine della loro creazio126

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ne e hanno saputo fare di una crisi grave l’occasione per rinegoziare lo statuto della loro produzione, tutelandosi dal rischio di divieti. Nel 1956 la società DuPont avvia una campagna pubblicitaria su larga scala per promuovere i sacchetti in polietilene a bassa densità: those handy plastic bags.38 Destinato alle lavanderie, il sacchetto diventa molto presto un simbolo delle moderne norme di igiene e pulizia. I vestiti così «avvolti» sono protetti fino a casa dalla sporcizia. Nel 1958 la produzione annuale di sacchetti superava il miliardo di unità,39 un successo particolarmente promettente. L’azienda loda le casalinghe che li hanno adottati sottolineando che sono proprio loro ad aver scoperto la possibilità di «riutilizzarli»: la pubblicità di DuPont fa esplicita menzione dell’idea di farne dei sacchetti della spazzatura.40 Il sacchetto in polietilene continua a essere portatore di promesse di malleabilità grazie al suo potenziale uso al di là della funzione primaria. L’avvenire del sacchetto di plastica sembra già tracciato. Nel 1959, tuttavia, l’American Medical Association segnala il decesso di quattro bambini, morti soffocati per aver giocato con i sacchetti. La stampa dà subito conto di altri numerosi casi e il continente americano è attraversato da un’ondata di panico. In meno di due mesi si registrano cinquanta decessi, trenta dei quali di bambini. Il sacchetto di plastica è causa di una nuova epidemia, e il suo successo è ben presto ostacolato dall’idea che costituisca un pericolo mortale. L’elettricità statica generata favorisce il soffocamento: i sacchetti si ritrovano letteralmente attaccati alle vie respiratorie. I fatti di cronaca provocano una levata di scudi nell’opinione pubblica che si dimostra più colpita da questa serie di drammi della vita quotidiana che dall’aumento, già noto, di giovani malati di cancro per l’ingestione di alimenti radioattivi. Il soffocamento, l’ostruzione respiratoria mec127

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canica, danno drammaticamente corpo al pericolo connesso all’accumulo nelle case di tali oggetti: ogni pellicola, ogni sacchetto è un potenziale killer. Sulla stampa la minaccia della plastica è assimilata a quella nucleare. L’editorialista del «San Francisco Chronicle» si serve del lessico dei movimenti nucleari titolando Ban the Plastic Bags!41 Principale lobby dell’industria della plastica negli Stati Uniti, la Society of the Plastic Industry (Spi) svolgerà un ruolo centrale nella soluzione e nell’«insabbiamento» di una crisi senza precedenti. La Spi investe un milione di dollari per informare l’opinione pubblica sull’uso improprio dei sacchetti e allo stesso tempo dà impulso alla produzione di sacchetti più sottili, presumibilmente meno «pericolosi», affiggendo nei luoghi pubblici cartelli informativi qualche volta allarmanti. In un certo senso la Spi alimenta un clima di panico, che però riesce a controllare. Per quanto lo riguarda, il principale produttore americano di sacchetti in polietilene cerca di prendere le distanze da tale dramma collettivo ribadendo l’assenza di responsabilità dei produttori e dunque del prodotto stesso. Un portavoce di DuPont attribuisce «la responsabilità delle morti alla mancanza di attenzione da parte dei genitori» e precisa che le pellicole in polietilene sono state «fabbricate e progettate per essere monouso».42 Assimilando le sue pellicole a beni usa e getta, DuPont sostiene un’argomentazione opposta a quella utilizzata per promuoverle. In altri termini, poiché i sacchetti sono monouso non costituiscono in quanto tali un pericolo per i consumatori, che sono i soli responsabili del loro cattivo impiego. A parte il cinismo evidente, va osservato che il destino detritico del sacchetto di plastica costituisce già la sua vera «modalità d’uso». In quest’affermazione, che svincola l’oggetto dalla sua potenziale pericolosità, l’atto del gettare diventa il momento in cui si neutralizza il rischio che esso rappresenta. 128

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L’usa e getta come motore di crescita Se i molteplici sforzi dei designer e dei produttori di materie plastiche sono consistiti nel persuadere i consumatori che tali materiali erano solidi, durevoli e per un uso illimitato, e ciò per poter competere con le materie prime, è stato necessario, quasi nello stesso momento, riuscire ad associare gli oggetti in plastica a prodotti monouso, a beni da rinnovarsi di continuo. Bisognava rendere automatico il principio di completa eliminazione, sistematizzare il carattere irresponsabile della logica dell’abbandono. Nella grande depressione della fine degli anni Venti, l’industria chimica era un settore del futuro, in grado di far aumentare ogni giorno i posti di lavoro: A plastic a day keeps depression away.43 Un indice della natura logica della trasformazione «necessaria» della percezione degli oggetti di plastica deve essere cercato nelle difficoltà di commercializzare prodotti «da consumare e gettare». Nel 1957 la rivista «Modern Plastics» dava conto della delusione degli agenti di vendita dell’industria della plastica rispetto a «consumatori poco propensi ad accettare merce prodotta per essere buttata via e che doveva perciò essere gettata e distrutta».44 I consumatori preferivano prodotti durevoli, riutilizzabili, come quelli di cui avevano tessuto loro le lodi fino ad allora. «Era necessaria una nuova educazione.»45 Nel 1956, durante il congresso annuale, un responsabile della Society of the Plastic Industry galvanizzava il pubblico con queste parole: Lo sviluppo della vostra attività deve mirare a costi modesti, grandi quantità, funzionalità e capacità di consumo dei vostri prodotti, con l’obiettivo di ritrovarli nel camion dell’immondizia.46 129

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In breve, era necessario educare i consumatori a un nuovo tipo di consumo, quello di prodotti «pensati per essere gettati». L’idea non era nuova. Bernard London, già nel 1932, aveva pubblicato un pamphlet celebre per la frase che lo titolava: Ending the Depression Through Planned Obsolescence (facciamola finita con la depressione attraverso l’obsolescenza programmata).47 Nel suo testo London individua il ruolo delle politiche pubbliche nel rilancio della crescita attraverso uno stimolo «artificiale» del consumo grazie alla creazione di rifiuti. L’espressione indicava un principio che sarà istituito e diversificato nel XX secolo,48 cioè basare lo sviluppo economico sulla distruzione pianificata del valore dei beni di consumo di uso quotidiano. Proponendo allo Stato di finanziare l’acquisto di merci scadute, London pensava di poter garantire un dinamismo economico derivante dalla crescita continua della produzione. Anche se le proposte di London non furono prese in considerazione, il principio di ciclo di consumo è stato rafforzato, poiché suggeriva la possibilità di una crescita illimitata. La distruzione dei beni di consumo è diventata condizione indispensabile per il loro continuo rinnovo. La volontà di fare dello scarto un vero e proprio stimolo per la crescita economica è da collegare alla creazione artificiale di un’insoddisfazione permanente dei compratori. McCoy, allora vicepresidente di DuPont, pochi giorni dopo la fine della Seconda guerra mondiale dichiara che una «persona soddisfatta è una persona stagnante».49 Osserva che il benessere psicologico deriva in gran parte dall’accumulo di beni materiali, e giunge alla conclusione che le industrie e lo sviluppo dell’economia sono in pericolo se i bisogni materiali vengono completamente saziati. Era perciò necessario fare in modo che «gli americani non fossero mai soddisfatti».50 Con l’avvento dell’usa e getta, l’insoddisfazione non è più una condizione 130

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per rinnovare il prodotto: è il prodotto stesso che è destinato a essere gettato. La plastica ha conquistato una posizione di predominio nel processo di avvio dell’obsolescenza programmata. La cultura dell’abbondanza materiale e della proliferazione dei beni di consumo ha permesso lo sviluppo di un’economia basata sull’adesione al principio di una crescita illimitata della produzione. La plastica è diventata il materiale per eccellenza della crescita infinita. [...] Non era solo un semplice supporto della proliferazione materiale. L’ha incarnata e stimolata.51

La malleabilità, come virtù specifica di questo materiale, è diventata uno strumento di sviluppo per le economie basate sul consumo di massa: poco costosa, proteiforme, la plastica ha una leggerezza quasi immateriale che ne incoraggia la «gettabilità». La confezione in plastica è un modello, perché le risorse necessarie alla sua proliferazione hanno attinto alla logica dell’obsolescenza. All’indomani della Prima guerra mondiale i prodotti con una durata di vita breve si sono moltiplicati, ma il boom ha avuto luogo dopo il secondo conflitto. La comparsa di supermercati e self-service ha favorito la diffusione dei contenitori in plastica.52 Creati allo scopo di proteggere i prodotti – dalla fabbricazione al consumo, passando per il trasporto – e di renderli appetibili,53 le confezioni il più delle volte hanno un tempo d’uso assai limitato. Il vasetto di yogurt di solito è fatto di polipropilene, lontano derivato della raffinazione del petrolio che è, ricordiamo, sintetizzabile in qualche milione di anni. I vasetti di yogurt, che si consumano in pochi minuti, sono quasi sempre non riciclabili. Ancora oggi, il costo della loro pulizia industriale scoraggia le filiere di smaltimento dei 131

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rifiuti a farsene carico. Il tempo della loro decomposizione «naturale» rimane inoltre ampiamente indeterminato: se in termini di inquinamento visivo alcuni sostengono che si deve attendere quasi cinquecento anni per non vedere più i rifiuti di polipropilene fine, le tracce degli additivi che contengono possono in teoria superare di gran lunga tale lasso di tempo.54 Tuttavia, dal momento della produzione del suo contenuto, del suo riempimento e del suo consumo, il vasetto di yogurt sarà utilizzato per poche settimane al massimo. Tale estensione temporale riguarda i contenitori di plastica per alimenti: sacchetti, bottiglie, vaschette, pellicole trasparenti ecc. Più che un paradosso, costituisce un ostacolo enorme per la promozione della gettabilità della plastica. Di fronte a tale problema temporale, la facilità della plastica usa e getta è diventata una minaccia. In particolare nello stoccaggio all’aria aperta di rifiuti domestici, la plastica non riesce a differenziarsi: rimane visibile e crea inconvenienti ambientali che vanno molto al di là del fattore estetico. Nel momento della trasformazione dei sistemi tecnici dei rifiuti, la resistenza della plastica è diventata una delle ragioni visibili, quasi tangibile per tutti, della crisi della società dell’immondizia. Le discariche, divenute simbolo degli eccessi delle società, favorivano la denuncia di un problema sempre più acuto. Questa vera e propria diffidenza nei confronti della plastica è oggi alimentata dalla consapevolezza dei pericoli, potenziali e invisibili, relativi alla sua difficile, se non impossibile, decomposizione.

LA pLASticA è (bio)degrAdAbiLe? Quanto tempo ci vuole a un sacchetto di plastica per decomporsi? La risposta è controversa. Per l’opinione pub132

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blica, il più delle volte, la domanda sembra trovare una risposta nelle informazioni sulla durata della decomposizione dei vari tipi di materiale. Un pezzo di polistirolo è «degradabile» dopo circa mezzo secolo, mentre la plastica da imballaggio in Pvc e in polietilene ha un tempo di decomposizione di cinquecento anni. Ma i dati sono validi solo in termini di percezione umana: dopo questo lasso di tempo i materiali decomposti sono «invisibili» all’occhio umano. Al vetro è in genere attribuito un tempo di decomposizione «indeterminato»: niente di più logico dato che la sua natura minerale ne esclude la biodegrabilità! La preoccupazione di natura estetica per il periodo di decomposizione dei materiali è spesso all’origine di malintesi perché tiene poco o per niente conto della potenziale tossicità del processo di indifferenziazione nell’ambiente cosiddetto naturale. La stessa nozione di «biodegradabilità» riguarda nello specifico le materie putrescibili. In Europa la norma che elenca i requisiti relativi agli imballaggi valorizzabili definisce i criteri di biodegradabilità come segue (sia in ambiente sia aerobico sia anaerobico): In quanto all’azione di microrganismi in presenza di ossigeno, [è possibile parlare di biodegradabilità se c’è] decomposizione di una sostanza chimica organica in diossido di carbonio, acqua e sali minerali, degli altri elementi presenti (mineralizzazione) e comparsa di una nuova biomassa; in assenza di ossigeno, [se c’è] decomposizione in diossido di carbonio, metano, sali minerali e creazione di una nuova biomassa.55

La biodegradabilità è largamente utilizzata come punto di forza, vero e proprio valore aggiunto, nella vendita dei prodotti spesso penalizzati per i danni ambientali attribuiti 133

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ai rifiuti plastici. La definizione di biodegradabilità è correlata alla «comparsa di una nuova biomassa», vale a dire all’indifferenziazione della materia nel suo ambiente di decomposizione. Nel caso della plastica l’indifferenziazione implicherebbe l’eliminazione totale delle strutture molecolari di sintesi sotto l’effetto congiunto dei raggi ultravioletti, dell’ossigeno (per la decomposizione aerobica) e di alcuni microrganismi. Nella stragrande maggioranza dei casi collegati ai polimeri di sintesi, se la decomposizione «naturale» è visibile, a livello molecolare la plastica non riesce a decomporsi. Poiché la resistenza di questo materiale lascia tracce sul lungo periodo e su scale che superano di gran lunga i limiti della percezione umana, in risposta alle critiche nei confronti di questo materiale onnipresente, l’industria della plastica propone soluzioni «innovative».

Bioplastica Lo sviluppo di prodotti sostitutivi dei derivati del carbonio, noti come non rinnovabili o di origine petrolchimica, e il miglioramento della «biodegradabilità» della plastica costituiscono i due principali obiettivi dell’industria della plastica che vuole creare prodotti che non lasciano traccia. Paradossalmente, la bioplastica è diventata una promessa di avvenire per la filiera di produzione delle materie plastiche. In origine la parola rinvia agli «antenati» della plastica di sintesi, i polimeri naturali quali il lattice e il caucciù, che sono stati un modello per lo sviluppo dei polimeri sintetici. Oggi, invece, il termine indica due tipi di materiale che possono garantire un futuro sostenibile allo sviluppo della plastica. Il primo è prodotto con le resine vegetali derivate dalla produzione agricola, come la fecola di patate, la maizena, il grano e la canna da zucchero. Ma tutto ciò non com134

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porta affatto un miglioramento della biodegradabilità dei polimeri. Il secondo, detto «compostabile» o «frammentabile», è caratterizzato da una maggiore degradabilità ma resta un prodotto di derivati petrolchimici. Sul primo tipo di plastica, di origine vegetale, ottenuta dai polimeri «naturali», si fonda gran parte delle potenzialità di sviluppo dell’industria dell’imballaggio. Ottenuta da materiali rinnovabili, rappresenta un’alternativa all’uso di derivati del petrolio, ma non è sistematicamente biodegradabile o compostabile. Inoltre, la sostituzione di tutta la plastica oggi utilizzata con quella di origine vegetale è poco realistica, in particolare per i costi ecologici determinati dalla sua produzione e dall’onere agrario dovuto allo sfruttamento delle terre coltivabili non per colture alimentari. Alcune plastiche di origine petrolchimica, invece, sono considerate «biodegradabili». Nella seconda accezione dell’espressione attuale di bioplastica si mantiene talvolta una certa indeterminatezza sulla modalità di decomposizione. Se alcune bioplastiche sono dette «oxodegradabili», altre sono presentate come «bioframmentabili» o «oxoframmentabili». Anche in questo caso, la molteplicità dei termini indica la capacità di alcuni materiali di perdere rapidamente la loro forma originaria per dividersi in piccole particelle, e questo in presenza di condizioni fisico-chimiche specifiche. I materiali da imballaggio detti bioframmentabili, frammentabili o oxoframmentabili sono un miscuglio di polimeri sintetici (come il polietilene) e additivi vegetali o minerali. Il fine vita di tali materiali si traduce in una biodegradabilità degli additivi e in una decomposizione fisica (visiva) senza disintegrazione molecolare degli elementi sintetici. Simili materiali non rispondono ai requisiti della normativa in vigore. I test di disintegrazione e di ecotossicità non sono conformi. I materiali non sono perciò in realtà né biodegradabili, né compostabili. Il termine bio135

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frammentabile è tuttavia impiegato con frequenza e talvolta in modo improprio per indicare le materie plastiche con additivi.56 Molti studi hanno criticato tali termini, tra i quali l’oxodegradabilità, che consiste essenzialmente in una riduzione del peso molecolare e nella frammentazione del materiale. A questo proposito, la Francia ha di recente deciso di vietare la produzione e la distribuzione di tutte le plastiche dette oxoframmentabili: Sono vietate la produzione, la distribuzione, la vendita, la disponibilità e l’utilizzo di imballaggi e di sacchetti fabbricati, in tutto o in parte, con plastica oxoframmentabile. Una plastica oxoframmentabile è degradabile ma non può essere assimilata dai microrganismi e non è compostabile in conformità con le norme in vigore applicabili per la valorizzazione organica della plastica.57

Un veleno così discreto Molte domande che caratterizzano il dibattito sui rifiuti plastici rinviano alla dimensione microscopica del campo di applicazione: di che cosa sono composti questi materiali? In che misura, ancora una volta, sono un pericolo per gli uomini, ma anche per l’ambiente in cui sono talvolta abbandonati? Prima di proporre possibili risposte, è necessario ricordare che cosa indica la parola plastica. Nell’uso comune, definisce una famiglia allargata di materiali di sintesi, vale a dire prodotti dall’azione dell’uomo, le cui caratteristiche chimiche si basano sul principio della combinazione tra una struttura molecolare di tipo polimerico e alcuni additivi chimici che entrano nella composizione dei principali tipi di plastica. Attualmente, il dibattito sulla poten136

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ziale tossicità della plastica si focalizza sul futuro detritico degli additivi e sulla loro proliferazione nella biosfera. La più recente controversia sulla minaccia invisibile costituita dalle materie plastiche riguarda la tossicità del bisfenolo A (Bpa). Anche se tale controversia tocca solo in maniera indiretta il problema dei rifiuti, simili conflitti tendono oggi a sistematizzarsi quando si tratta di elementi potenzialmente pericolosi, che costituiscono delle vere e proprie zone d’ombra. Mentre la sostanza è utilizzata su larga scala dagli inizi degli anni Sessanta dall’industria della plastica nel settore dell’imballaggio alimentare, per la produzione di «pellicole di contatto», quelle che ricoprono le pareti interne dei contenitori in metallo o in alluminio (barattoli, scatolette, lattine), la polemica è infuriata negli anni Duemila. Alla metà degli anni Novanta, un’équipe di ricercatori di endocrinologia guidata da Frederick Vom Saal scopre per caso la capacità del Bpa di alterare il funzionamento ormonale di topi esposti a quantità infinitesimali di tale sostanza.58 Se le caratteristiche di perturbatore endocrino del bisfenolo A sono note dagli anni Trenta, la sua tossicità a dosi così ridotte è controversa: il pericolo sanitario dipenderebbe dalla diffusione estremamente diversificata di tale sostanza, in particolare nel settore dell’imballaggio alimentare. A chi lo vuole ascoltare, Vom Saal racconta come la Society of the Plastic Industry abbia cercato di convincerlo a ritirare la sua pubblicazione nel tentativo di trovare una «soluzione reciprocamente vantaggiosa».59 L’endocrinologo dichiara che gli industriali della plastica hanno lavorato alla fabbricazione di un dubbio, alla creazione di incertezze intorno al Bpa, finanziando numerosi studi contraddittori.60 La moltiplicazione di lavori scientifici ha determinato una incertezza epistemica. Poiché le varie équipe hanno consacrato un’enorme quantità di tempo e di energie per contraddire i propri contraddittori, la controversia è pro137

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gressivamente divenuta un dato di fatto, quasi insuperabile. A metà degli anni Duemila, tuttavia, alcuni Stati hanno iniziato ad applicare il principio di precauzione rivendicato dai sostenitori degli studi di Vom Saal. Nel 2009, nel quadro del suo «piano di gestione dei prodotti chimici», il Canada ha vietato il bisfenolo A nella produzione dei biberon. Nel 2010 la Francia lo ha seguito, estendendo nel 2011 il principio a tutti i contenitori alimentari. Nello stesso anno il Parlamento europeo ha votato la direttiva 2011/8 e vietato il Bpa nella produzione di biberon. Negli Usa, infine, alcuni Stati hanno votato nel 2009 misure di divieto parziale del bisfenolo A.61 Gli additivi che potrebbero essere oggetto di simili controversie sono innumerevoli. In Europa, dal 2006, il protocollo Reach disciplina l’uso e la circolazione di sostanze chimiche e garantisce la diffusione di informazioni per migliorare «la protezione della salute degli esseri umani e dell’ambiente». Molti studi attestano la difficoltà di provare la tossicità di alcune molecole e dei tentativi di regolamentare o vietare la loro proliferazione,62 altri denunciano con franchezza lo strapotere delle lobby industriali sull’organizzazione dell’istituzione.63 Nella controversia sul Bpa è possibile osservare il modo in cui, nei confronti delle materie plastiche, si articola la ripetuta messa in discussione della tossicità delle sostanze che lo compongono. Se si va a sindacare la natura innocua della plastica con questo genere di scandali, la confutazione degli scienziati contribuisce a perpetuare un’incertezza che rinvia a tempo indeterminato la possibilità di una presa di posizione. Osservando tale forma di agnotologia e la fabbricazione della disinformazione sul «diventare rifiuto» delle materie plastiche, ci rendiamo conto dell’ambivalenza che caratterizza il nostro rapporto con questo materiale.64 138

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LA pLASticA è ricicLAbiLe? Poiché senza l’intervento dell’uomo non riesce a reintegrare il ciclo del carbonio, poiché resta visibile per un tempo indeterminato quando è lasciata in ambiente naturale, poiché costituisce una potenziale minaccia meccanica e chimica per gli organismi viventi, la plastica sembra un rifiuto moralmente ed ecologicamente accettabile solo se non abbandona neanche per un momento la sfera antropotecnica in cui è stata sintetizzata. I rifiuti plastici sono esemplificativi del paradigma del rifiuto «per» la tecnica. Infatti, solo quando fuggono all’esterno della tecnosfera sono un potenziale pericolo per l’uomo e l’ambiente naturale. Com’è stato detto, anche se numerose esperienze di riciclaggio industriale dei materiali di scarto ne attestano la presenza dalla metà del XIX secolo, l’istituzione di un settore che si occupa dello smaltimento dei rifiuti plastici si colloca alla fine del XX secolo. Tra l’immediato dopoguerra, quando il mercato del consumo interno è sommerso dalle materie plastiche, e la fine degli anni Ottanta, quando prende avvio l’industria della gestione dei rifiuti plastici, i «trenta gloriosi» hanno lasciato prosperare una negazione, pilotata o meno, dei problemi relativi al crescente accumulo di rifiuti di origine sintetica. Il riciclaggio è allora inteso come una risposta possibile all’impasse costituita dall’impossibile biodegradabilità della plastica. Il riciclaggio dei rifiuti domestici, e tutto il dispositivo sociotecnico che lo rende possibile, è tanto una soluzione quanto una promessa. Soluzione alla saturazione degli spazi dell’abbandono, promessa d’infinito attraverso la chiusura di un presunto «ciclo di consumo». Anche se la definizione giuridica di riciclaggio è particolarmente restrittiva,65 nel linguaggio degli utenti il termine indica uno spettro ampio che va dal dispositivo tecnico-industriale 139

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all’oggetto che è abbandonato «ma che non è proprio un rifiuto». Sebbene i rifiuti plastici costituiscano di fatto una minaccia, quest’ultima viene disattivata quando colui che getta ritiene di fare uso della «pattumiera giusta»: «Almeno questa roba sarà riciclata!». Per contro, molti sottolineano che, nonostante la sensazione di compiere il proprio dovere con un «gesto corretto», niente garantisce che la buona azione troverà continuità in un’altrettanto buona «gestione» dei rifiuti. Come la pattumiera di casa per la raccolta differenziata che ne costituisce il punto di partenza simbolico, il sistema tecnico dei rifiuti è rappresentato come una scatola nera, la cui complessità organizzativa impedisce di conoscere con certezza il reale futuro dei rifiuti che vi circolano. Per vederci più chiaro, è possibile distinguere due tipi di argomentazioni che mettono in dubbio la riciclabilità dei rifiuti plastici: l’una rinvia ai limiti del loro «recupero materiale», del loro riciclaggio, l’altra ai problemi posti dal loro «recupero energetico», dal loro incenerimento. In primo luogo il riciclaggio, ancora oggi, è un problema tecnico di rado risolto: di fronte alla grande diversità delle resine utilizzate nella fabbricazione di oggetti, imballaggi e altri prodotti, è particolarmente difficile ottenere un deposito detritico uniforme, o «puro», che garantisca un riciclaggio ottimale. Per facilitare l’identificazione dei tipi di plastica riciclabile è stata adottata una classificazione internazionale delle resine plastiche riciclabili. Nel 1988 la Society of the Plastic Industry canadese ha ideato uno schema di identificazione delle resine plastiche.66 Tale classificazione è diventata norma internazionale e distingue sette tipi di plastica considerati riciclabili, associando ciascuno di essi a uno specifico logotipo numerato presente su tutti gli oggetti in plastica. La scelta del nastro di Möbius come simbolo della classificazione permette di richiamare l’attenzione dei 140

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consumatori sulla riciclabilità di tali materiali. Pertanto, nonostante gli sforzi per rendere più chiare le impercettibili differenze tra le varie resine, la suddivisione è per molti aspetti grossolana, in particolare per quanto riguarda l’infinita varietà degli additivi utilizzati nella produzione di massa. Anche quando la selezione è «ben fatta» e nella centrale di raccolta le resine vengono differenziate, l’impurità del deposito detritico ostacola il reimpiego delle resine plastiche riciclate per lo stesso uso di quelle originarie: in altre parole, una bottiglia riciclata di Pet potrà essere «trasformata» in una nuova bottiglia solo in casi eccezionali. Nella misura in cui la plastica viene riciclata solo raramente in prodotti dalle caratteristiche analoghe, oggi si parla di «sottociclaggio»:67 le materie plastiche inserite in un processo di riciclaggio il più delle volte subiscono un declassamento qualitativo dovuto all’ibridazione e alla relativa indifferenziazione nelle catene industriali di smaltimento. La nostra bottiglia di plastica, oggi per lo più in Pet, depositata nella «pattumiera giusta» sarà trasformata in fibra tessile (il «pile») con il nome di «Pet fibra» o «poliestere», il cui riciclaggio è molto più costoso e complesso, se non impossibile.68 Nella maggior parte dei casi la bottiglia di plastica riciclata contiene solo una proporzione minoritaria di «R-Pet» o Pet riciclato, sempre mescolata con una resina detta «vergine». L’aumento della proporzione di «plastica effettivamente riciclata» è diventato oggetto di una vera e propria corsa all’innovazione industriale, in quanto costituisce un argomento di vendita cruciale per i produttori. Resta dunque un’indeterminatezza circa la riciclabilità effettiva della plastica. Se da un punto di vista chimico il riciclaggio dei polimeri, mediante frantumazione, monomerizzazione e policondensazione è quasi sempre tecnicamente possibile, il «recupero materiale», partendo da un deposito eterogeneo come quello dei rifiuti domestici, resta 141

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una promessa molto difficile da mantenere. Nonostante i limiti dovuti alle svariate difficoltà, è giocoforza constatare che il futuro dei rifiuti è diventato un argomento di vendita dei prodotti e degli imballaggi di plastica. La riciclabilità e la natura del tutto o parzialmente riciclabile di alcuni di questi prodotti determinano la loro legittimazione e la loro accettabilità: per l’ecocittadino, il consumo sostenibile passa anche per la scelta del «riciclato». In secondo luogo, lo smaltimento per combustione dei rifiuti genera forme invisibili di inquinamento. L’evoluzione delle infrastrutture deputate all’incenerimento negli ultimi vent’anni risulta in questo senso esemplare. Uno dei principali argomenti dei «nimbisti» contro questo tipo di impianti è stato per molto tempo la tossicità dei fumi che sprigionavano. La combustione di alcuni rifiuti comporta infatti l’emissione di inquinanti organici persistenti (Pop). Le nanoparticelle, tra cui le famose diossine (la cui presenza è talvolta difficile da tracciare), sono state accusate di provocare innumerevoli tipi di inquinamento e patologie nell’uomo e negli animali. Per rispondere a questa minaccia invisibile, gli enti pubblici e i principali operatori del waste management hanno adottato soluzioni di filtrazione delle particelle emesse dagli inceneritori. I filtri, il cui costo di costruzione e di manutenzione è risultato talvolta pari a quello delle installazioni, hanno dovuto essere regolarmente sostituiti a ogni cambiamento dei testi normativi.69 I residui della filtrazione dei fumi di incenerimento si sono inoltre rivelati così tossici che è stato necessario pensare a speciali dispositivi di stoccaggio. Per definire tali residui alcuni hanno parlato di veri e propri «mostri»: dei rifiuti «selvaggi»70 che era urgente isolare in condizioni speciali. L’espressione «rifiuti all’ultimo stadio» indica i rifiuti dei rifiuti, la cui tossicità e caratteristica pericolosità possono assimilarli a una forma di rifiuto «in sé». Con ciò voglio dire che, al pari 142

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di alcuni residui nucleari, lo stato di «abbandono», di esclusione dell’oggetto depositato è condizione essenziale per il mantenimento e lo sviluppo stesso della vita. Le modalità tecniche di gestione dei rifiuti all’ultimo stadio, buona parte dei quali è costituita dai residui del processo di incenerimento, sono molto vicine a quelle delle filiere nucleari: le «centrali di interramento tecnico di livello 1», ormai chiamate in Francia «impianti di stoccaggio di rifiuti pericolosi» (Isdd, Installations de stockage de déchets dangereux), potrebbero assomigliare ai progetti di interramento dei rifiuti radioattivi di lunghissima durata. La possibilità di abbandonarli è prima di tutto una questione di controllo tecnico. Poiché la loro presenza nel mondo costituisce un pericolo per la vita, i rifiuti che siano «all’ultimo stadio» o nucleari, devono essere isolati, interrati e dimenticati.

vietAre LA pLASticA? Sulla base degli attuali tassi di consumo, nel 2050 la massa totale dei rifiuti plastici da gestire sarà di 33 miliardi di tonnellate.71 Di fronte alla continua e crescente invadenza, e dopo aver constatato i ripetuti fallimenti nel «controllo» del loro smaltimento, sono necessarie misure di carattere normativo, giuridico e più in generale politiche. Dal punto di vista legislativo, i sacchetti di plastica, o «sacchi da asporto», sono da vent’anni il bersaglio di numerosi testi di legge che, in ogni parte del mondo, mirano al loro divieto. In pochi anni molti Stati hanno proibito sul loro territorio la produzione, la distribuzione e la circolazione di alcuni «sacchetti del supermercato». Primo fra tutti il Bangladesh: dopo due inondazioni, nel 1988 e nel 1998, che hanno colpito due terzi del paese, gli innumerevoli sacchetti di plastica in polietilene trovati nei tubi di scarico dei 143

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principali centri urbani sono stati accusati di essere i responsabili delle catastrofi. Nel 2002, in seguito a un lungo dibattito pubblico, il primo ministro Khaleda zia ha proclamato il divieto di produrre, commercializzare e utilizzare i sacchetti in polietilene.72 Alcuni Stati indiani seguono l’esempio e, tra il 2003 e il 2010, i sacchetti sono vietati nell’Himachal Pradesh (2003), nel Maharashtra (2005), a Chandigarh (2008), a Delhi (2009), a Mumbai, nel Sikkim, nel Kerala e nel Rajasthan (2010).73 Visti i risultati talvolta modesti, il divieto in alcuni casi è stato esteso a tutti i sacchetti di plastica. In Cina questi ultimi sono stati messi al bando nel 2008. L’Africa non è da meno: il Ruanda dal 2004, il Gabon, il Togo, la Repubblica Democratica del Congo, il Sudafrica, il Ciad, il Marocco e, più di recente, il Mali e la Mauritania74 hanno adottato la radicale politica del divieto dei sacchetti di plastica. Le strategie nazionali messe in atto dai poteri centrali riguardano per lo più i paesi del Sud. Ma anche numerosi Stati del Nord, più ricchi, hanno scatenato la «guerra» contro i sacchetti di plastica con politiche fiscali per frenarne la distribuzione gratuita. Il caso irlandese è portato come esempio perché uno dei primi: sin dal 2002 ha introdotto una tassa di 15 centesimi di euro per ogni sacchetto di plastica distribuito, riducendone di quasi il 90% il consumo in meno di quattro anni.75 Il Belgio, la Germania, la Spagna, la Norvegia, la Bulgaria, il Galles, la Danimarca e l’Italia tra il 2003 e il 2011, hanno adottato analoghe misure legislative.76 Il più delle volte, tuttavia, i paesi più ricchi hanno lasciato che la legislazione si sviluppasse sul piano locale. Molti comuni hanno introdotto un divieto, talvolta totale, di distribuzione dei sacchi da asporto. Nell’America del Nord si contano tra questi San Francisco, Los Angeles e Toronto. Per quanto riguarda l’Europa, Modbury (in Inghilterra) si vanta di essere il primo comune europeo ad aver vietato, 144

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nel 2007, la distribuzione di sacchetti di plastica.77 Nel 2015 una direttiva europea ha unificato la normativa sull’uso dei sacchetti da asporto. Ma la fine di questi ultimi non vuol dire affatto abbandono del sacchetto in polietilene. Al contrario, alcuni fanno osservare che la moltiplicazione dei divieti ha contribuito a dare impulso al mercato dei sacchi della spazzatura, più spessi, la cui produzione richiede più materiale e più energia e la cui tossicità è a volte superiore a quella ammessa per i sacchetti da asporto: nel 2009 il 96,8% dei sacchetti per la spazzatura prodotti in Francia era in polietilene, direttamente estratto dal petrolio grezzo.78 Il potenziale «rebound» relativo al divieto di questo o quell’articolo di plastica è diventato oggetto di controversia, il cui arbitrato sembra spettare ad accurati calcoli di incidenza, «all’analisi del ciclo di vita» e «all’impatto ambientale»: alle industrie della plastica piace ripetere che rispetto ai sacchetti di carta, quelli di plastica sono la migliore soluzione per quanto riguarda, in particolare, la quantità di acqua necessaria alla produzione.79 Di fronte alla loro accertata tossicità, sorge l’interrogativo sullo status da assegnare a tali residui così familiari. La plastica, a lungo magnificata per la sua malleabilità, deve oggi confrontarsi con la sua resistenza particolarmente invasiva, anche se, al di là di tutto, continua a essere assimilata alla categoria dei rifiuti «banali» o «non pericolosi». Nell’infinita complessità delle classificazioni possiamo fare una semplice distinzione: da una parte ci sono i rifiuti pericolosi, dall’altra quelli che non lo sono. A differenza dei secondi, i primi sono oggetto di uno speciale monitoraggio durante l’intero ciclo della loro vita (dalla produzione allo smaltimento) e non devono mai uscire dalla sfera tecnica di una buona gestione. Una direttiva europea del 2008 ne precisa le quindici «caratteristiche pericolose», e tra queste figurano gli aggettivi: «esplosivo», «irritante», «tossico» e 145

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ancora «cancerogeno» o «ecotossico».80 Nel febbraio del 2013, sull’autorevole rivista «Nature», alcuni ricercatori di medicina, biologia ed ecologia, hanno lanciato un appello affinché i rifiuti plastici fossero classificati come «pericolosi».81 Sottolineando il fatto che dei 280 milioni di tonnellate di plastica prodotti ogni anno nel mondo, meno della metà riesce infine a essere smaltita, i ricercatori segnalano che i restanti 150 milioni di tonnellate alimentano il «mondo di plastica», fatto di oceani e di terre letteralmente invasi. Sollecitando la classificazione dei rifiuti plastici nella categoria di quelli pericolosi, gli scienziati sperano che tale modifica legislativa consenta di migliorarne le modalità di smaltimento e stimoli la ricerca di materiali alternativi. Tutti sono però d’accordo nel sottolineare che la legge non sarà in grado di cancellare le tracce, talvolta impercettibili, di decenni di accumulo di rifiuti. Alcuni hanno invece radicalmente mutato il proprio atteggiamento sulla plastica. Il ricercatore e attivista Marcus Eriksen, membro dell’Algalita Marine Research Foundation, ritiene che la «presa di coscienza deve trasformarsi in azione». Quando viene interrogato sulle eventuali soluzioni da adottare per «risolvere» il «problema» dei giganteschi agglomerati di rifiuti plastici, risponde con una metafora: «Dobbiamo chiudere il rubinetto!».82 Il ricercatore fa appello a una forma di «boicottaggio civile»: il rifiuto di acquistare e fare uso di qualsiasi oggetto di plastica, in particolare degli usa e getta. La sua parola d’ordine è ripresa dal movimento Plastic-Free. Da qualche anno su internet spuntano come funghi blog consacrati a esperienze di «vita senza plastica». Beth Terry, sessantenne californiana, è la figura di spicco di questo movimento dalle dimensioni ancora incerte. Nel 2012 Terry pubblica una «guida pratica» con suggerimenti per fare a meno della plastica nella vita quotidiana.83 Un tratto comune delle varie iniziative odier146

UN MONDO DI PLASTICA: LA FABBRICA DI UN’ETERNITà «USA E GETTA»

ne per l’abbandono di questo materiale è il ruolo attribuito agli «oceani di plastica» presentati come fattori scatenanti della presa di coscienza individuale. Beth Terry vuole essere un esempio, ma è possibile fare a meno delle materie plastiche nella vita di tutti i giorni? Il solo fatto di diffondere le «buone pratiche» via internet comporta l’esistenza di infrastrutture tecniche che non potrebbero funzionare senza le materie plastiche. Tenuto ai margini, spesso ridicolizzato, il movimento è ancora frammentario e il più delle volte escluso dal dibattito pubblico. Gli appelli al divieto di produzione e circolazione di tutte le materie plastiche sembrano semplicemente irrealistici, proprio perché tali materie sono onnipresenti in un «mondo di merci» che ha la forma di un «mondo di plastica». La storia detritica di questo materiale prometeico oggi indica il modo in cui la produzione umana ha colonizzato il pianeta a tutti i livelli. Giganteschi oceani di plastica dalle particelle nanometriche, derivate talvolta dai processi di smaltimento dei rifiuti, i polimeri e i loro additivi costituiscono il nostro ambiente quanto il nostro corpo e quello di tutti gli organismi viventi. Nonostante gli sforzi per smaltirli, recuperarli, la loro presenza laddove meno ce lo aspettavamo sembra irreversibile. Anche se gran parte del suo successo si è basato sulla facoltà di «preservare» l’ambiente, sulla capacità di proteggere i beni di consumo, di imballarli, di abbellirli, dobbiamo prendere atto che siamo costretti a cercare di proteggerci dalla invasività della plastica.

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Günther Anders, Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961, p. 205. Si veda in particolare C.N. Njue, Andrew B. Cundy, Martin P. Smith, Iain D. Green, Assessing the Impact of Historical Coastal Landfill Sites on Sensitive Ecosystems: A Case Study from Dorset, Southern England, «Estuarine, Coastal and Shelf Science», vol. 114, 2012, pp. 166-174. Si veda la sua intervista nel film Trashed – Verso rifiuti-zero (Candida Brady, Trashed, 2012). Recycled Island è il progetto sperimentale dello studio Whim. Non era destinato a una realizzazione «in scala naturale» (si veda www.whim.nl e www.recycledisland.com). Negli anni Settanta due articoli hanno rivelato l’esistenza di enormi concentrazioni di rifiuti plastici nell’oceano Atlantico e nel Pacifico (per l’Atlantico cfr. Edward Carpenter, Kenneth Smith, Plastics on the Sargasso Sea Surface, «Science», vol. 175, n. 4027, 1972, pp. 1240-1241; per il Pacifico cfr. Elizabeth Venrick et al., Man-made Objects on the Surface of the Central North Pacific Ocean, «Nature», vol. 241, n. 5387, 1973, p. 271). Kara L. Law et al., Plastic Accumulation in the North Atlantic Subtropical Gyre, «Science», vol. 329, n. 5996, 2010, pp. 1185-1188. Si veda http://watchthewaste.free.fr; http://projectkaisei.org/; www. theplastiki.com; www.5gyres.org/. Peter Kershaw et al., Plastic Debris in the Ocean, «Unep Year Book», 2011, pp. 20-33. Cfr. per esempio Miriam C. Goldstein, Marci Rosenberg, Lanna Cheng, Increased Oceanic Microplastic Debris Enhances Oviposition in

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an Endemic Pelagic Insect, «Biology Letters», vol. 8, n. 5, 2012, pp. 817-820: http://rsbl.royalsocietypublishing.org. Erik R. zettler, Tracy J. Mincer, Linda A. Amaral-zettler, Life in the «Plastisphere»: Microbial Communities on Plastic Marine Debris, «Environmental Science & Technology», vol. 47, n. 13, 2013, pp. 71377146. Patricia L. Corcoran, Charles J. Moore, Kelly Jazvac, An Anthropogenic Marker Horizon in the Future Rock Record, «Gsa Today», vol. 24, n. 6, 2014, pp. 4-8. www.kimointernational.org/fishing-for-litter/. www.theoceancleanup.com/. Si vedano in particolare Stiv Wilson, The Fallacy of Cleaning the Gyres of Plastic With a Floating «Ocean Cleanup Array»: http://inhabitat.com e il giudizio puntuale di François Galgani, specialista dei macrorifiuti all’Ifremer (cfr. Audrey Garric, Peut-on nettoyer les océans des déchets plastiques?, «Le Monde», 3 aprile 2013: http://ecologie.blog.lemonde.fr). Gwyneth D. zaikab, Marine Microbes Digest Plastics, «Nature», 28 marzo 2011: www.nature.com. Il progetto è stato elaborato nel quadro dell’edizione 2012 del concorso Igem (International Genetically Engineered Machine Competition) del Massachusetts Institute of Technology che riunisce alcune équipe di studenti di biologia di sintesi: http://2012.igem.org. Bernadette Bensaude-Vincent, Dorothée Benoit-Browaeys, Fabriquer la vie. Où va la biologie de synthèse?, Seuil, Parigi 2011. Jenna R. Jambeck et al., Plastic Waste Inputs from Land into the Ocean, «Science», vol. 347, n. 6223, 2015, pp. 768-771. Ivi, p. 771. Bernadette Bensaude-Vincent, Reconfiguring Nature Through Syntheses: From Plastics to Biomimetics, in Bernadette Bensaude-Vincent, William Newman (a cura di), The Artificial and the Natural. An EverEvolving Polarity, Mit Press, Cambridge 2007, p. 296. Werner Boote, Gerhard Pretting, Plastic Planet, Actes Sud, Arles 2010, p. 53. www.plasticseurope.org/it. È la tesi centrale dello storico Jeffrey L. Meikle, American Plastic: A Cultural History, Rutgers University Press, New Brunswick 1995.

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Werner Boote, Gerhard Pretting, Plastic Planet, cit., p. 62. Ibidem. Robert Sklar, The Plastic Age (1917-1930), G. Braziller, New York 1970. Ibidem. Werner Boote, Gerhard Pretting, Plastic Planet, cit. Gérard Bertolini, Homo plasticus: les plastiques, défi écologique, Sang de la Terre, Parigi 1991. Per un quadro generale delle applicazioni e dei benefici sociali legati ai polimeri di sintesi, si veda Anthony L. Andrady, Mike A. Neal, Applications and Societal Benefits of Plastics, «Philosophical Transactions of the Royal Society in Biological Science», vol. 364, n. 1526, 2009, pp. 1977-1984. Intervista televisiva (cfr. Olivier d’Angely, «Plastiques: alerte aux toxiques», Pièces à conviction, France 3, 16 dicembre 2012). Richard Powers, Gain, Vintage, Londra 1998, p. 771 (Sporco denaro, Fanucci, Roma 2007) cit. in Bernadette Bensaude-Vincent, Plastics, Materials and Dreams of Dematerialisation, in Jennifer Gabrys, Gay Hawkins, Mike Michael (a cura di), Accumulation: The Material Politics of Plastic, Routledge, Londra 2013, pp. 17-29. Cfr. la trascrizione dell’intervista per la National Public Radio (Usa) realizzata da Michele Norris e diffusa il 13 luglio 2007 nel centenario della Bakelite. Cfr. Barry Commoner, Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo e la tecnologia [1971], Garzanti, Milano 1972. Citato in Jeffrey L. Meikle, American Plastic, cit., p. 282. Ibidem; le cronache di Norman Mailer sono raccolte in Norman Mailer, Un fuoco sulla Luna [1970], Mondadori, Milano 1971. Cfr. Susan Strasser, Waste and Want: A Social History of Trash, Holt Paperbacks, New York 1999, si veda in particolare il capitolo IV, Having and Disposing in the New Consumer Culture, pp. 161-201. «Questi sacchetti di plastica così pratici», celebre slogan dell’azienda DuPont citato in Jeffrey L. Meikle, American Plastic, cit., p. 282. Ivi, p. 253 e sgg. Ivi, p. 283. Ibidem. Ibidem.

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Ivi, p. 106. Ivi, p. 266. Ibidem. Ibidem. Bernard London, Ending the Depression Through Planned Obsolescence, pubblicazione a cura dell’autore, New York 1932. Per una storia del concetto e una tipologia delle forme di obsolescenza programmata, si veda l’opera di riferimento di Giles Slade, Made to Break: Technology and Obsolescence in America, Harvard University Press, Cambridge 2006; si veda anche Vance Packard, The Waste Makers, David McKay, Filadelfia 1960, in particolare la seconda parte In Response, Nine Strategies, pp. 29-182 e il documentario The Light Bulb Conspiracy (titolo originale: Kaufen für die Müllhalde, Cosima Dannoritzer, 2010). Jeffrey L. Meikle, American Plastic, cit., p. 156. Ibidem. Ivi, p. 176. Cfr. Martin V. Melosi, Garbage in the Cities: Refuse, Reform and the Environment, University of Pittsburgh Press, Pittsburgh 2005, p. 210. Per un contributo sociologico essenziale al tema della percezione delle confezioni in situazioni di consumo quotidiano cfr. Gérard Bertolini, La double vie de l’emballage, Economica, Parigi 1995; Franck Cochoy, Une sociologie du packaging ou l’âne de Buridan face au marché, Puf, Parigi 2002. Werner Boote, Gerhard Pretting, Plastic Planet, cit., p. 33. Norma En 13432:2000 accettata per decisione della Commissione europea (decisione 2001/524/Ce); si veda anche Luc Avérous, Éric Pollet (a cura di), Environmental Silicate Nano-Biocomposites, Springer-Verlag, Londra 2012, capitolo II, pp. 13-40. Ibidem. Cfr. Legge n. 2015-992 del 17 agosto 2015 relativa alla transizione energetica per una crescita ecosostenibile, articolo 75-II. Cfr. Susan C. Nagel et al., Relative Binding Affinity-Serum Modified Access (RBA-SMA) Assay Predicts the Relative in Vivo Bioactivity of the Xenoestrogens Bisphenol A and Octylphenol, «Environmental Health Perspectives», vol. 105, n. 1, 1997, pp. 70-76; Frederick Vom Saal et al., A Physiologically Based Approach to the Study of Bisphenol A and

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Other Estrogenic Chemicals on the Size of Reproductive Organs, Daily Sperm Production, and Behavior, «Toxicology and Industrial Health», vol. 14, n. 1-2, 1998, pp. 239-260. Citato in Stéphane Foucart, Bisphénol A, les dessous d’un scandale sanitaire, «Le Monde», 28 ottobre 2011, ultimo aggiornamento 8 ottobre 2012: www.lemonde.fr. Ibidem. Ibidem; per maggiori dettagli cfr. D. Andrew Crain et al., An Ecological Assessment of Bisphenol-A: Evidence from Comparative Biology, «Reproductive Toxicology», vol. 24, n. 2, 2007, pp. 225-239. Si veda in particolare Henri Boullier, Autoriser pour interdire. La fabrique des savoirs sur les molécules et leurs risques dans le réglement européen Reach, tesi di dottorato in sociologia, École des Mines, discussa l’8 gennaio 2016. Si veda Benoît Collombat, Reach: le toxique lobbying du patronat européen, in Benoît Collombat, David Servenay (a cura di), Histoire secrète du patronat de 1945 à nos jours. Le vrai visage du capitalisme français, La Découverte, Parigi 2009, pp. 621-630. Robert N. Proctor, Londa L. Schiebinger (a cura di), Agnotology: The Making and Unmaking of Ignorance, Stanford University Press, Stanford 2008. Cfr. Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008, n. 2008/98/Ce, articolo 3, paragrafo 17: «“riciclaggio”: qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i materiali di rifiuto sono ritrattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini. Include il ritrattamento di materiale organico ma non il recupero di energia né il ritrattamento per ottenere materiali da utilizzare quali combustibili o in operazioni di riempimento». A tale classificazione si ispirerà in larga misura la norma Din 6120 introdotta in Germania, poi in Europa dal 1997 (attraverso la decisione 97/129/Ce). Cfr. in particolare Gay Hawkins, Made to Be Wasted: Pet and Topologies of Disposability, in Jennifer Gabrys, Gay Hawkins, Mike Michael (a cura di), Accumulation, cit., pp. 49-67; William McDonough, Michael Braungart, Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo [2002], Blu edizioni, Torino 2003. Cfr. Gay Hawkins, Made To Be Wasted, cit.

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Nell’Unione europea, dal 1994, la direttiva n. 94/67/Ce del Consiglio del 16 dicembre 1994 sull’incenerimento dei rifiuti pericolosi impone norme di emissione massima di Pop, ulteriormente precisata nel 2000, 2002 e 2005. Elvire Bernardet-Van Staëvel, De la monstruosité du déchet ultime, in Jean-Claude Beaune (a cura di), Le déchet, le rebut, le rien, Champ Vallon, Seyssel 1999, pp. 112-122; Elvire Bernardet-Van Staëvel, La pollution sauvage, Puf, Parigi 2006. Chelsea M. Rochman et al., Classify Plastic Waste as Hazardous, «Nature», vol. 494, 2013, pp. 169-171. Bangladesh Bans Use of Polythene Shopping Bags to Protect the Environment, Associated Press, 24 dicembre 2001. Una pagina di Wikipedia ripercorre la cronistoria delle procedure di regolamentazione e divieto dei sacchetti in polietilene: Phase-Out of Lightweight Plastic Bags, wikipedia.org. Michael Pauron, Mauritanie-Mali: sus aux sacs plastique!, «Jeune Afrique», 11 gennaio 2013: www.jeuneafrique.com. Cfr. Frank Convery, Simon McDonnell, Susana Ferreira, The Most Popular Tax in Europe? Lessons from the Irish Plastic Bags Levy, «Environmental and Resource Economics», vol. 38, 2007, pp. 1-11. In Italia, la normativa sulla commercializzazione dei sacchetti di plastica non biodegradabile (shoppers) si sviluppa a partire dalla legge n. 296/2006 (N.d.R.). John Vidal, Welcome to Modbury. Just Don’t Ask for a Plastic Bag, «The Guardian», 28 aprile 2007: www.theguardian.com. Cfr. Marion Deye, Le marché du sac-poubelle s’emballe, «L’Usine Nouvelle», 28 maggio 2009: www.usinenouvelle.com; Gilles van Kote, L’interdiction des sacs en plastique se mondialise, «Le Monde», 3 gennaio 2013: www.lemonde.fr/planete. http://www.letstalkplastics.com/. Cfr. allegato III della direttiva 2008/98/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008. Cfr. Chelsea M. Rochman et al., Classify Plastic Waste as Hazardous, cit. Intervista realizzata il 2 luglio 2010. Beth Terry, Plastic-Free: How I Kicked the Plastic Habit and How You Can Too, Skyhorse Publications, New York 2012; http://myplasticfreelife.com.

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Ritorno alla terra: i nuovi cenciaioli

Terra! Accusati di aver provocato i grandi mali della modernità urbana, alla fine del XIX secolo i mucchi di immondizia in putrefazione sono stati banditi dai centri cittadini del Nord del mondo. Allo stesso modo, l’eliminazione e l’abbandono dei rifiuti organici fuori dalla città hanno trasformato tali «pezzi di natura» in esternalità negative, atto di nascita dell’accezione contemporanea dei rifiuti. In una prima fase, la fine della circolazione delle materie organiche dalla campagna alla città e viceversa è stata presentata da alcuni imprenditori della modernità come una sorta di progresso tecnico, sanitario e sociale. Tuttavia, sin dalle prime fasi del movimento di modernizzazione, le conseguenze dell’urbanizzazione galoppante che concentrava i residui organici all’esterno delle città sono state oggetto di viva preoccupazione sia per i pensatori della materialità sia per i numerosi tecnici specializzati. Nel Regno Unito, per esempio, lo storico Jean-Baptiste Fressoz ricorda che il fenomeno era descritto come una «rottura metabolica» che provocava la diminuzione della fertilità del suolo: 157

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Se la maggior parte degli ingegneri e degli igienisti ricorre all’argomento della rottura metabolica per difendere i propri progetti di smaltimento e di recupero agricolo della spazzatura [...], per alcuni, la rottura metabolica è il segno di un vizio fondamentale dell’imperialismo economico britannico.1

Anche il chimico Justus von Liebig (1803-1873), inventore dei fertilizzanti chimici, ha ben presto manifestato la sua preoccupazione per il rischio di esaurimento del suolo.2 Il problema principale era – e tuttora è – la costituzione di un humus: la parola (dal latino «suolo») oggi indica la materia organica che deriva dalla decomposizione parziale di quella animale e vegetale. Senza il ritorno alla terra della materia organica, il nutrimento diventa sempre più scarso e rende il suolo incoltivabile. La fine del compost urbano e la sua progressiva emarginazione hanno imposto l’uso di prodotti e di metodi di fertilizzazione chimica che nel XX secolo hanno contrassegnato la produzione agricola. Nonostante gli allarmi, l’impoverimento del suolo è stato riconosciuto solo tardi. Tra il 1870 e il 1970 l’agricoltura convenzionale ha sancito il principio in base al quale soltanto la concimazione artificiale del suolo assicurava un rendimento all’altezza delle necessità dello sviluppo demografico. L’abbandono, l’eliminazione, la «cacciata dalla terra» dei residui organici è stata una delle cause del degrado dei suoli coltivabili3 e, al contempo, l’atto di nascita dell’accezione moderna dei rifiuti. Soltanto di recente la questione dello sfruttamento dei giacimenti di scarti organici è tornata a essere un obiettivo tecnico importante nell’agenda pubblica: in effetti, la separazione di quelli putrescibili dal resto, nei paesi ricchi, è diventata prioritaria tempo dopo l’introduzione della raccolta differenziata dei materiali «riciclabili». Come se, os158

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sessionati dalla valorizzazione economica dei rifiuti per la tecnica, gli odierni manager avessero dimenticato la parte fermentabile della nostra immondizia, quella organica.

L’AmneSiA dei rifiuti orgAnici Cosa si intende per rifiuti organici? Per i chimici, l’aggettivo «organico» indica quella parte della disciplina che si interessa ai composti del carbonio, vale a dire alle sostanze con almeno un legame carbonio-idrogeno (CH): qui, invece, indica i rifiuti costituiti da materiali cosiddetti «biodegradabili». Alcuni li chiamano «biorifiuti», categoria al cui interno è opportuno distinguere i rifiuti alimentari (scarti di preparazione, resti di cucina) dai «rifiuti verdi» (essenzialmente resti dell’attività di giardinaggio e/o di piante ornamentali) come pure dagli altri resti biodegradabili (escrementi di animali). Paradossalmente, la decomposizione dei rifiuti organici – per definizione vegetali o animali – consente di liberare i composti minerali garanti della fertilità del suolo, ma anche responsabili dell’eutrofizzazione dell’ambiente in cui sono concentrati i resti dell’attività produttiva. In Francia, la parola più spesso impiegata dagli operatori tecnici dei rifiuti è «fermentabile», a sottolineare il potenziale di attività della materia, la sua corruttibilità, opposta all’inerte, allo stabile e al duraturo. È la biodegradazione a creare difficoltà ai dispositivi tecnici di gestione dei rifiuti. In particolare nelle situazioni di stoccaggio, il problema principale consiste nel fatto che quegli scarti non sono «inerti»: continuano a «vivere» oltre il tempo del loro uso. Nelle discariche, la degradazione di questi rifiuti provoca il rilascio di percolato, spesso tossico, e di altri gas, anche infiammabili. Allo stesso modo, il processo di biodegradazione è il terreno per uno sviluppo bat159

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teriologico difficilmente controllabile che provoca squilibri ecologici e gravi rischi sanitari: possiamo ricordare, per esempio, il problema dell’inquinamento da nitrati delle acque sotterranee. Per quanto riguarda la «valorizzazione energetica» mediante incenerimento, l’onnipresenza di residui putrescibili costituisce ancora oggi un grave problema: la massa dei rifiuti organici è essenzialmente acquosa, il che nuoce al processo di combustione. Mescolati con gli altri, gli scarti organici non solo sono inutilizzabili, ma ostacolano il buon funzionamento degli inceneritori. Il problema della separazione dei residui organici dal resto del deposito detritico è perciò, paradossalmente, un lavoro «nuovo» per le tecnologie del settore. In Francia quasi vent’anni separano la realizzazione dei primi dispositivi di selezione dei materiali riciclabili da quella dei dispositivi destinati ai biorifiuti. Rennes e Montpellier sono le città precorritrici, poiché hanno introdotto, alla fine degli anni Novanta, sistemi di recupero differenziato dei residui organici. Tale recupero stenta però ad affermarsi nei contesti urbani ad alta densità. A metà degli anni Duemila, dopo aver constatato che la massa dell’«indifferenziato», vale a dire dei rifiuti domestici non separati, era per metà costituita da residui organici, e dovendo attenersi agli obiettivi stabiliti dalla normativa europea, alcuni Stati hanno cercato di creare un canale speciale di smaltimento. Invece di trasformare i depositi putrescibili in compost, è sembrato più semplice concentrarsi sulla produzione elettrica. In condizioni anaerobiche, ossia in mancanza di ossigeno, il processo di putrefazione sprigiona grandi quantità di metano, facile da bruciare per produrre energia. La scelta del fuoco è stata fatta soprattutto per la difficoltà e i costi che richiede il recupero materiale dei rifiuti organici, dato che il loro compostaggio è possibile solo con un deposito «puro», privo cioè di sostanze tossiche e di residui imputrescibili (pla160

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stici).4 Fatta eccezione per alcuni rari esempi di fattorie di lombricompostaggio in Nuova zelanda e di impianti di metanizzazione abbinati a centri di produzione di compost nell’Italia del Nord, la qualità dei compost prodotti su scala industriale è difficilmente compatibile con le norme sanitarie che ne permettono l’utilizzo. Al contrario del recupero energetico – trasformazione di materia organica in elettricità mediante metanizzazione –, il ritardo del recupero materiale dei rifiuti organici – vale a dire la produzione di fertilizzanti biologici – suscita qualche dubbio: i dispositivi tecnici dei rifiuti organici, che oggi catalizzano i processi propri del ciclo di vita, non sono un modello ma una reinterpretazione del ciclo dei materiali riciclabili. In altre parole, il settore di gestione dei materiali «riciclabili» è stato il modello tecnico per pensare la gestione dei residui «compostabili». Ne è testimone la frequente costruzione di centrali a biomassa per garantire la gestione della parte organica dei rifiuti: strutturata intorno alla «dendroenergia», il cui scopo è la riconversione «ecologica» delle centrali a carbone, l’energia prodotta è considerata dal legislatore «rinnovabile». Tale settore è anche quello che ha registrato la crescita maggiore e in Francia rappresenta la prima fonte di energia rinnovabile. Le centrali permettono il recupero mediante combustione di interi comparti di rifiuti dell’agricoltura – in particolare della selvicoltura – e mediante combustione del metano dei residui domestici fermentabili. L’energia è prodotta da un giacimento di materiali carboniosi che, in questo modo, non possono fare ritorno alla terra in alcun modo. Eredi dell’inceneritore, i sistemi tecnici di gestione privilegiano la combustione alla gestione dei processi di decomposizione. Grazie alla raccolta differenziata, agli impianti di recupero energetico mediante metanizzazione e alla promozione 161

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della gestione domestica dei biorifiuti, da una decina d’anni sono state adottate misure che hanno reso i residui organici un nuovo Eldorado della tecnologia di gestione dei rifiuti. Stiamo assistendo a una seconda fase di «ecologizzazione» del waste management. Appare chiaro che il principale obiettivo dell’ottimizzazione della gestione dei rifiuti organici non è affatto una risposta al problema del ritorno alla terra e ancora meno un modo per far fronte alla rottura metabolica della fine del XIX secolo. In altri termini, non si tratta di trovare soluzioni per reinventare una sinergia di arricchimento del suolo né tantomeno di preservare i giacimenti di risorse carboniose. Sembra piuttosto che la legge abbia favorito l’aspetto economico e tecnico di ottimizzazione dei sistemi esistenti facendo, ancora una volta, appello al contributo dell’«armata verde» degli ecocittadini. La riforma dei biorifiuti oggi si articola intorno al credo della lotta globale contro lo spreco alimentare, che è diventato il problema che caratterizza le politiche pubbliche dei paesi ricchi.

LottAre contro Lo Spreco In poche decine di anni il discorso industriale e pubblico ha identificato il problema dello spreco con quello dei rifiuti. È proprio quello che si deve ridurre, evitare: emblema dell’eccesso, lo spreco rinvia a una forma di hýbris, alla smodatezza della società contemporanea. Dal punto di vista etimologico, tuttavia, lo spreco deriva da gaspailler (in francese spreco è gaspillage, N.d.T.), parola del dialetto di Nantes che indica «rifiuto», il fatto di sparpagliare le balle di grano, e da waspa, termine gallico che indica a sua volta «cibo», poi «cibo del bestiame, rifiuti»:5 si tratta di definire pratiche legate a sottoprodotti dell’attività agricola. Per influsso del vespail vallone, l’espressione si è trasformata nel 162

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termine waste (inglese) che indica spreco e rifiuti. Lo spreco è da tempo in stretta relazione con il processo alimentare e il fatto organico. Dallo spessore semantico della parola «spreco» si capisce come i rifiuti possano essere percepiti come segno esteriore di ricchezza: «La ricchezza dell’agricoltore non si stimava forse con le dimensioni del mucchio di letame nel cortile della fattoria?».6 Nel 2011 la Fao ha pubblicato un rapporto che denunciava le perdite alimentari sull’intera catena di produzioneconsumo.7 Gli autori quantificano le derrate destinate al consumo umano e ogni anno sprecate nel mondo in quasi un miliardo e mezzo di tonnellate, pari a circa un terzo della produzione alimentare globale.8 Se nei paesi più poveri le perdite sono attribuite a problemi di natura tecnica e finanziaria e alla mancata modernizzazione della catena di produzione alimentare, nelle nazioni a reddito medio e alto sono invece le pratiche di consumo a essere messe sotto accusa: Le perdite e lo spreco alimentari nei paesi a reddito medio e alto sono causati essenzialmente dal comportamento dei consumatori e dalla mancanza di coordinamento tra i vari operatori della catena alimentare. [...] Anche i consumatori, per l’errata pianificazione degli acquisti e lo scarso controllo delle date di scadenza, possono essere la causa di elevati sprechi, amplificati dal fatto che possono permettersi di buttare via il cibo.9

Se distingue la «perdita», che rinvia agli scarti della catena di produzione, dallo «spreco» collegato al processo di consumo (acquisto delle famiglie e distribuzione),10 il rapporto prende di mira i singoli individui, ritenuti responsabili di una parte non trascurabile del gigantesco spreco in corso negli Stati più ricchi. 163

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Se i consumatori continuano a sprecare le derrate alimentari nella misura a oggi rilevata, le soluzioni adottate nei paesi sviluppati a livello di infrastrutture industriali e produttive avranno solo un effetto secondario. Le famiglie devono essere informate e devono modificare il proprio comportamento, causa degli attuali livelli elevati di spreco alimentare.11

Anche in questo caso, chi getta è considerato responsabile dei suoi eccessi detritici, senza che venga posto neanche per un istante il problema della sovrapproduzione alimentare, né delle sue cause. Per ovviare a tale lacuna, lo storico e attivista Tristram Stuart ha esaminato la questione dello spreco dal punto di vista dei vantaggi che procura a chi lo compie. Sulla scia delle ipotesi dell’antropologo Marvin Harris, Stuart afferma che, per garantire condizioni favorevoli al proprio sviluppo demografico, la società umana si basa su un eccesso di produzione alimentare. Stuart osserva: «Il surplus oggigiorno prodotto dall’Occidente supera il fabbisogno nutrizionale in proporzioni tali da rendere difficile credere che tale eccedenza sia necessaria, sana e senza rischi». Lo spreco è servito a procurare l’aiuto alimentare internazionale dei paesi del Nord verso quelli del Sud. Gli aiuti alimentari da parte di paesi occidentali come gli Stati Uniti sono una valvola di sicurezza per la sovrapproduzione interna, che salva gli agricoltori dal fallimento. Nel 1961 l’amministrazione Kennedy ha dovuto gestire il più grande surplus di cibo della storia degli Stati Uniti ed è stato questo il motivo per cui si sono adottate misure di politica estera (che, per esempio, stabilivano che un quinto della produzione di grano venisse esportata in India).12 164

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Gli aiuti alimentari hanno rappresentato un duplice vantaggio per i paesi ricchi, quello di giustificare la sovrapproduzione globale e di consolidare il dominio politico ed economico delle società più forti su quelle più fragili. Anziché esaminare il problema dello spreco alimentare dal punto di vista della storia della sovrapproduzione come fattore strutturale dello sviluppo, il rapporto della Fao ha fatto del consumatore finale un colpevole ideale e ha messo in secondo piano i meccanismi dell’eccesso di produzione. Assimilando l’atto di «buttare» a una responsabilità morale negativa di chi getta, il rapporto ha un’importanza essenziale nella misura in cui ha stimolato – se non imposto – l’attuazione di numerosi programmi nazionali di «lotta contro lo spreco alimentare», che prendono di mira più i consumatori che i produttori. È necessario ricordare il programma Us Food Waste Challenge, avviato nel giugno del 2013, e coordinato dal dipartimento americano dell’Agricoltura e dall’Epa, per promuovere «la riduzione, il recupero e il riciclaggio dei rifiuti alimentari». Un programma analogo è stato avviato da una relazione del Parlamento europeo.13 Concretizzato in Francia con il Patto nazionale di lotta contro lo spreco alimentare, il protocollo è stato firmato (giugno 2013) dalla federazione dei mercati all’ingrosso, dai rappresentanti delle industrie agroalimentari, dai produttori agricoli, dalla grande distribuzione, dalla ristorazione collettiva e commerciale e dagli enti territoriali. In entrambi i casi, i progetti si sono basati sul rapporto della Fao. Sono disposizioni non coercitive, essenzialmente incentivanti che mirano a «modificare la nozione di data limite di consumo ottimale» perché sia più chiara per il consumatore, e si propongono anche di favorire le donazioni alimentari, informare la popolazione e gli operatori interessati per ottimizzare lo stoccaggio degli alimenti e creare scuole e professionisti. Insomma, «buone intenzioni». 165

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In alcuni Stati la lotta contro lo spreco ha preso una piega più radicale. Nella Corea del Sud il dispositivo di legge è stato portato all’estremo vietando, dal 2005, la raccolta indifferenziata dei rifiuti alimentari. La legge obbliga chi getta a separare i rifiuti organici. Il mancato rispetto comporta una multa. I sacchetti per i rifiuti sono a pagamento: «più sprecate, più pagate». Attualmente, nella Corea del Sud, quasi il 98% dei rifiuti alimentari è differenziato e usato per nutrire vari tipi di allevamento o per alimentare impianti di metanizzazione e compostaggio.14 Oggi, più che mai, è il consumatore il maggiore responsabile dello spreco, mentre una certa razionalità economica impedisce di intervenire sulle modalità di produzione, sull’industria e sulle catene di distribuzione. In Francia la legge di transizione energetica varata nel 2016 sistematizza la regola del pay as you throw attraverso varie forme di incentivazione, ma tende anche a spostare il punto focale dal consumatore al produttore, vietando ai distributori di scartare e distruggere derrate alimentari ancora commestibili e obbligandoli a destinare ad associazioni tutto l’invenduto.15

nuovi cenciAioLi? Se il problema dei rifiuti organici è stato una svista non trascurabile della trasformazione ambientale della gestione dei rifiuti alla fine del XX secolo, è importante sottolineare che molti non hanno atteso le esortazioni moralistiche ed «ecocittadine» a ridurre lo spreco per confrontarsi con la questione dei residui putrescibili. La sfera dei rifiuti organici ha costituito un fronte di resistenza alle norme sociotecniche della gestione dei rifiuti. Nei primi anni dell’Ottocento il filosofo e politico Pierre Leroux aveva pensato la gestione dei rifiuti organici come 166

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lo strumento di una nuova economia politica fondata sulla sua teoria del circulus.16 Secondo Leroux, dato che ognuno è produttore e nello stesso tempo consumatore, i «rifiuti» prodotti da una persona dovrebbero essere utilizzati per fabbricare altri beni. [...] La teoria del circulus è derisa come un’eccentricità caratteristica del socialismo romantico. Tale teoria è tuttavia il riflesso dei ricorrenti interrogativi sul legame tra capitalismo e rifiuti.17

In numerose e più recenti sperimentazioni comunitarie, erette a simbolo dei movimenti sociali alternativi degli anni Settanta, il ritorno alla terra è il filo rosso di un’etica di riavvicinamento degli uomini al territorio. Possiamo ricordare il Larzac e le Cévennes18 in Francia o, altrove, la città indiana di Auroville, per esempio, nel Tamil Nadu, che dopo quasi cinquant’anni continua a sperimentare varie forme di utopia concreta. I rifiuti organici sono un terreno particolarmente ricco per pensare delle alternative al modello centralizzato di produzione industriale: la materialità dei residui putrescibili resiste per se stessa a determinate caratteristiche del mercato globale. I rifiuti organici sopportano a fatica gli spostamenti: la loro consistenza ne ostacola la circolazione a livello globale. Perché far «viaggiare gli escrementi»? Il processo di decomposizione e la morte in atto nei rifiuti organici richiedono di pensare alla gestione di questi scarti in prossimità dei luoghi della loro produzione. Ciò su cui vorrei soffermarmi nelle prossime pagine è il modo in cui alcuni operatori hanno fatto della gestione dei rifiuti organici prima e del loro rapporto con i residui poi l’occasione per sviluppare un ethos che si distingue dalla morale «ecocittadina». «Mettendoci le mani» si aprono nuove strade che indicano le alternative simboliche all’ac167

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cezione contemporanea dei rifiuti che li assimila a un male da abbattere, a una patologia mortifera. Perché prestare interesse a pratiche marginali e spesso definite militanti di gestione dei rifiuti? In che misura il lombricompostaggio impone a chi getta – e a ciò che è gettato – un tipo di relazione con i rifiuti che si sottrae alla logica «eliminazionescomparsa»? L’ipotesi che sostengo consiste nell’attuare pratiche di «sperimentazione attiva»: trasformare tentativi «in atti» di superamento dei vari confini – sia pratici sia simbolici – imposti all’utente dalla tecnologia di gestione dei rifiuti. Mi riferisco a un «processo di soggettivazione», nell’accezione proposta da Gilles Deleuze sulla base di Michel Foucault: Si può effettivamente parlare di processi di soggettivazione quando si considerano le diverse maniere in cui gli individui o le collettività si costituiscono come soggetti: questi processi hanno valore nella misura in cui, nel loro attuarsi, sfuggono al tempo stesso ai saperi costituiti e ai poteri dominanti. [...] In quell’istante hanno indubbiamente una spontaneità ribelle.19

L’esperienza dei nuovi cenciaioli è uno di quei passaggi creativi che rivelano il potenziale sovversivo dei rifiuti.

iL LombricompoStAggio: L’eticA deL verme Apparso agli inizi degli anni Ottanta, il lombricompostaggio ancora oggi è una pratica marginale ma emblematica delle esperienze di autogestione dei rifiuti.20 Mary Appelhof è nota come colei che ha reso accessibili «alle casalinghe» le innumerevoli virtù dei lombrichi. Biologa, agli inizi degli anni Settanta crea un prototipo di allevamento domestico 168

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di vermi. Soprannominata «Worm Woman», il suo libro Worms Eat My Garbage21 ha contribuito allo sviluppo delle pratiche domestiche di vermicompostaggio. Appelhof propone la realizzazione di un allevamento non per la produzione di lombrichi ma per rispondere a determinati disagi legati allo stoccaggio domestico dei rifiuti organici. L’uso dei vermi nella gestione domestica degli scarti è stato molto presto imitato. Nel 1997 Appelhof dichiara che, da poche migliaia di persone, negli anni Ottanta, gli adepti del lombricompostaggio sono diventati vari milioni nel mondo.22 I «lombricolavoratori», come lei amava definire coloro che «utilizzano i vermi per mangiare i nostri rifiuti», costituiscono una comunità informale di operatori in continua espansione, poiché la chiave di tale sviluppo sta nel principio di trasmissione orale delle basi empiriche del lombricompostaggio. Il lombricompostore domestico è una di quelle tecnologie che indirizza la questione dello spreco verso il futuro di ciò che si butta. Ciò che viene dato ai lombrichi non è «sprecato». Il lombricompostore è uno strumento di «decolpevolizzazione». Quella «scatola di terra», quel pezzo di «natura» in fondo al cortile, trasforma l’atto di abbandono, di solito assimilato a una colpa, in un atto di donazione. Tuttavia, date le esigenze alimentari dei lombrichi, ma anche il tempo investito nel controllo del lombricompostore, molti lombricolavoratori urbani dichiarano di non poter fare altrimenti che gettare alcuni tipi di biorifiuti, anche compostabili, nell’indifferenziato. Se «sprecare» rinvia all’«uso disordinato di qualcosa», al «farne un consumo incompleto e inutile», il lombricompostaggio è una pratica che, dal punto di vista di chi getta e in relazione immediata con i processi in atto, costituisce sia un «riordinamento» sia un «utilizzo completo» e subito percettibile di ciò che viene gettato. In sostanza, una forma di sublimazione tutta parziale dello spreco. 169

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Più che una pattumiera, il lombricompostore è un luogo di molteplici cure assicurate da diverse persone che gettano. Pur con qualche reticenza, la necessità di prestare attenzione alla vita del recipiente – di controllarne il colore, l’odore, individuarvi eventuali infestanti, osservare l’attività dei vermi ecc. – richiede un rapporto di reciprocità tra chi getta e la pattumiera. Se i rifiuti sono una risorsa per il recipiente, quest’ultimo non è più il territorio dell’oblio, ma lo spazio di un «dialogo» tra esseri umani e non. Il buon funzionamento dipende dall’interazione tra le dosi effettuate, la «reazione» della colonia di vermi e la percezione di chi getta. Reinvenzione di un legame che si struttura sul modello del «dono tra vicini», forma episodica di una ritrovata circolazione della materia organica tra la città e la campagna, la pratica del lombricompostaggio collettivo, pur restando un fenomeno minoritario, indica all’osservatore percorsi fecondi per (ri)pensare il rapporto tra la popolazione urbana e i suoi rifiuti organici. Poiché il lombricompostore tende a essere assimilato a uno spazio di produzione più che a un territorio dell’abbandono, la questione dell’uso di ciò che è prodotto suscita prese di posizione e promuove iniziative originali. Con l’uso del lombricompostore, i rifiuti abbandonati si trasformano in «appartenenza», proprio come erano considerati i rifiuti premoderni. L’immondizia non è più un «altro da me» che deve essere eliminato, è un prolungamento del sé, o della collettività di coloro che gettano: lungi dal mero abbandono, buttare via è un atto reinventato di appropriazione. Michel Serres dà esaustivamente conto del modo in cui i rifiuti possono essere considerati fondamento naturale dell’atto di proprietà.23 Qui, però, più che una semplice marcatura del territorio attraverso la produzione escremenziale, sono i soggetti stessi a fare un’esperienza di riunificazione, di ridefinizione delle frontiere simboliche della loro identità. 170

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L’antropologa australiana Gay Hawkins pone l’accento sul fatto che «non vedere i rifiuti e la loro materialità è come non vedere la morte e la perdita».24 Con il lombricompostaggio non vedere è impossibile, poiché richiede di «alzare il coperchio» e «metterci le mani». Per definire tale trasformazione Hawkins usa il concetto di transeunte, che esprime il carattere fugace, effimero delle cose materiali e più in generale degli esseri viventi. L’espressione si ricollega alla questione dell’«arte di se stessi» di Foucault: Nella tradizione filosofica dominata dallo stoicismo, askesis significa non già rinuncia, ma progressiva attenzione a sé, e padronanza su se stessi, ottenuta non attraverso la rinuncia alla realtà, ma l’accesso alla realtà di questo mondo.25

Con l’attenzione alle cose del quotidiano e con il tempo necessario, i lombricolavoratori si confrontano con una duplice condizione di mortalità e di rinascita, tra fine e principio, che la presenza dei rifiuti rivela.

Lo Spreco come nuovo corno deLL’AbbondAnzA? E se un mezzo per «lottare contro» lo spreco fosse «conviverci», prestare particolare attenzione a ciò che viene gettato? Alcune iniziative si iscrivono in questo tentativo di riconciliazione, tutto pragmatico, tra un atteggiamento di rifiuto e uno di accettazione di uno stesso fenomeno. La questione del rifiuto organico, commestibile, è fondamentale, ma non è affatto esclusiva: l’ambito materiale nel suo insieme, il «mondo di merci», è investito da vari movimenti collaborativi di riappropriazione e di messa in circolazione. 171

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E se, facendosi fisicamente carico dei rifiuti, Homo detritus riuscisse a riappropriarsi del loro potenziale contestatario e sovversivo?

Freegans! Sebbene il freeganismo resti, come le pratiche di lombricompostaggio, sostanzialmente marginale, il continuo sviluppo da più di un decennio di questo stile di vita è un indice innegabile di vivacità. Oggi si riconosce a Warren Oakes, batterista del gruppo punk Against Me!, l’origine ideologica del movimento. Nel febbraio del 2000 sulla rivista amatoriale «Why Freegans?»26 viene pubblicato un manifesto radicale in cui si elencano i principi etici del futuro collettivo: anticonsumista, anticapitalista, «contro i privilegi» e «in rottura con il veganismo».27 Oakes sostiene il principio della «disoccupazione volontaria». Il filo rosso di tale messaggio contestatario è la riappropriazione del «tempo per vivere» e dell’abbondanza materiale, che provenga o meno dai rifiuti. Non senza sollevare qualche riserva, il manifesto giustifica e promuove la pratica del taccheggio da parte dei clienti o degli impiegati «insoddisfatti del proprio lavoro». Oakes elabora varie soluzioni per la concreta applicazione dell’etica del «non consumo»: dal semplice rovistare nei cassonetti delle distribuzioni alimentari ai «pasti di rifiuti» nei ristoranti che accettano i freegans fino alla promozione della coltivazione «selvaggia» di specie vegetali commestibili nelle aree urbane. Se dall’inizio del secondo millennio si è molto sviluppato nelle grandi città dei paesi più ricchi, il movimento si è anche mitigato: il tratto libertario è sfumato a vantaggio del predominio delle argomentazioni ambientali articolate intorno a una critica della sovrapproduzione che contrassegna il sistema capitalista. 172

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Molti di coloro che rivendicano la propria appartenenza al freeganismo si dichiarano oggi vicini ai movimenti altermondialisti e della decrescita, e commettono reati solo all’interno di una determinata forma di «disobbedienza civile». Questi cenciaioli militanti non sono a priori i cosiddetti «esclusi». «Professori, studenti, assistenti sociali, se non addirittura bobos [borghesi-bohémien, N.d.T.], che il più delle volte hanno un tetto, un lavoro e dunque uno stipendio, i freegans [...] non frugano tra i rifiuti per sopravvivere.»28 Seguaci del «foraggiamento urbano» (urban foraging) e del «tuffo nei cassonetti» (dumpster diving), sono un gruppo poco strutturato che reinventa giorno per giorno pratiche di spigolatura ormai dimenticate. Alcuni si dichiarano precari, ma non considerano la loro attività una forma di sottrazione di risorse agli altri spigolatori, senzatetto o del tutto sprovvisti di mezzi. Tristram Stuart, una delle figure di spicco del movimento e famoso per aver organizzato banchetti pubblici, molto mediatici, a base di avanzi,29 racconta come si realizza tale coabitazione: Nel corso del primo semestre all’università [...] mi concentrai su ciò che i supermercati gettavano via. Fui introdotto nell’area di carico sottostante un supermercato Sainbury’s da un senzatetto chiamato Spider per via della ragnatela di tatuaggi sul suo volto. Quando mi esortò a fare incetta dai loro bidoni, gli dissi che non intendevo appropriarmi di ciò su cui contavano i senzatetto. A loro il cibo serviva davvero, mentre io stavo solo cercando di comprendere come stavano le cose. «Tu non capisci, amico», fu la risposta di Spider, «anche se tutti i senzatetto del paese si procurassero il cibo da questi bidoni, ne rimarrebbe anche per te.»30

Racconta come i cassonetti siano un corno dell’abbondanza da condividere. A forza di rovistare nei bidoni dell’immon173

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dizia gli spigolatori contemporanei imparano a trovare la «manna dal cielo», selezionare i prodotti consumabili, persino a dividersi quello che hanno trovato. Tristram Stuart ricorda il caso di Kurt e Carolyn, due famosi «recuperatori», diventati «il re e la regina del freeganismo» a Londra: Per anni, lui e la compagna Carolyn avevano raccolto anche il surplus alimentare di negozi e ristoranti, organizzando informali mense per poveri. Operavano sul retro del loro furgone nella City, dove gente di tutte le estrazioni, dai bancari ai barboni malmessi, andavano a mangiare il loro cibo gratuito.31

Il percorso di Carolyn è particolarmente significativo. Trovatasi a vivere in strada, aveva cominciato a praticare quello che, non senza pudore, è definito freeganismo. Di fronte all’abbondanza di quei cassonetti, che presto hanno finito per fornirle cibo e vestiti, si è unita a Kurt e per tredici anni ha continuato a distribuire agli altri senzatetto ciò che trovava per strada. Attualmente la loro attività è riconosciuta dalle amministrazioni locali e ricevono un contributo economico per distribuire cibo in strada «a chiunque sia abbastanza umile da venire a prenderselo».32 A Parigi, nel 2016, si è aperta «una mensa partecipativa» a offerta libera: il Freegan Pony si rifornisce con l’invenduto dei mercati generali di Rungis e ha appena ricevuto un sostegno del comune che vuole legalizzare un’attività fino a questo momento informale.

Verso un’economia del dono? Condividere per contestare Anche se i freegans sono una comunità eterogenea, contribuiscono con un insieme di iniziative a un movimento ancora più ampio, di doni e scambi gratuiti di beni. Diffusi attraverso internet, su siti dedicati, o attraverso i social net174

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work, i progetti collaborativi rivelano il dinamismo della reinvenzione della circolazione dei beni come alternativa allo scarto e allo scambio monetizzato. Sorti negli Stati Uniti nel 2003, i gruppi Freecycle sono i più esemplificativi: una trentina di membri al momento del lancio, oggi rivendicano dieci milioni di partecipanti nel mondo, pari a circa cinquemila gruppi. Il network mette gratuitamente in contatto donatori desiderosi di sbarazzarsi di oggetti con destinatari che ne hanno bisogno.33 A differenza dei siti consacrati agli annunci come Leboncoin in Francia e Craigslist negli Stati Uniti, Freecycle non propone scambi commerciali. Innumerevoli iniziative fanno eco ai principi dell’economia del dono e della circolazione gratuita di beni materiali. Ricordiamo i Really Really Free Markets, sorti anch’essi nel 2003, sulla scia di un movimento d’opposizione all’Area di libero commercio delle Americhe. Riunendo militanti verdi e anarchici e moltiplicando gli interventi su tutto il territorio americano, i promotori di tali iniziative non hanno una struttura centralizzata, agiscono su base locale e allestiscono in spazi pubblici aree di scambio di doni e di beni, di servizi e «competenze».34 Per quanto riguarda i paesi francofoni, nel Québec e in Francia troviamo iniziative analoghe dette gratuiteries. A volte itineranti, altre volte stanziali, tali «negozi» si basano sul principio del «dono contro dono»: per ogni oggetto portato si riparte con un oggetto di propria scelta. Ma è possibile anche solo portare o solo prendere. Molto operativi in numerosi campus universitari, i sistemi di scambio rispondono ai problemi posti dai frequenti traslochi degli studenti che si recano per un anno all’estero, e di quelli all’inizio o alla fine degli studi. L’Università di Ottawa, per esempio, dal 2006 ha aperto sul sito del campus una «gratuiteria», divenuta stanziale alla fine del 2012. 175

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Le gratiferias, neologismo spagnolo che riassume i principi di gratuità e di festa, sono un’ulteriore versione degli esempi citati. Tali iniziative si moltiplicano in numerose realtà territoriali e oggi sono collegate a vari movimenti sociali di contestazione. Importati dall’America Latina, e più precisamente da Buenos Aires,35 in Europa i mercati gratuiti sono spuntati come funghi dopo il movimento degli Indignados, che dal 15 maggio 2011 si è concentrato alla Puerta del Sol di Madrid. I promotori vogliono sviluppare la circolazione gratuita di beni ma stimolare anche pratiche di alleggerimento, sinonimo di un rifiuto del consumismo capitalista. Il motto del collettivo Democracia Real Ya è chiaro: «Non siamo merci nelle mani di politici e banchieri». Reti di donazioni di oggetti, nate dall’economia sociale e solidale, preesistevano agli emergenti network di scambio gratuito. Emmaüs, le Ressourceries, in Francia, e i centri Oxfam in numerosi paesi anglosassoni, sono altrettanti esempi del dinamismo dei circuiti di recupero e di reimpiego di beni e persone. È necessario anche ricordare la diffusione di laboratori a libero accesso per la riparazione di oggetti vari, mobili, materiale elettronico, che spesso stanno all’interno delle ressourceries e del riciclo: sostenitori del Diy (Do It Yourself), promotori di una riappropriazione da parte dei consumatori delle competenze tecniche, vi si ritrovano i fondamenti di una pratica dell’autoriparazione, propugnata nel manifesto I fix it.36 Pertanto, ciò che sembra particolarmente determinante nei fenomeni prima descritti, non è tanto la gratuità quanto il carattere informale, quasi autonomo, di tali sperimentazioni. Queste ultime sono una pratica a cura dei soggetti stessi – e delle istituzioni – di un impegno politico, etico e morale e non riguardano soltanto determinate fasce sociali. In simili forme, originali quanto imperfette, di sublimazione dello spreco ci sono pratiche contestatarie e, nello stesso 176

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tempo, ermeneutiche, che sviluppano inedite collaborazioni tra gli uomini e questo mondo di merci.

SuL potenziALe SovverSivo dei reSti: LA meSSA in SubbugLio deL mondo

I movimenti evocati rinviano (volenti o nolenti) alla creazione di nuove forme di convivenza, alla sperimentazione di modelli alternativi allo scambio commerciale, a modi di reinventare il rapporto con ciò che resta. Al di là della diversità delle iniziative e dei loro protagonisti, si avverte la presenza di un progetto critico proteiforme che pone interrogativi sul ruolo della banalizzazione e della normalizzazione del principio di abbandono nel consumismo. Ritroviamo in filigrana una critica del capitalismo come sistema che ha favorito, disinibito, reso naturale lo scarto come veicolo dello sviluppo economico e umano. In questo senso, rimettere in circolazione i rifiuti è un’azione sovversiva nel mondo: rendere i rifiuti percettibili, prendibili, consente di svelarne il potenziale rivoluzionario. Una serie di recenti mobilitazioni sociali ha rivelato con maggiore chiarezza il potenziale innovatore dei rifiuti che alcune norme dell’agire quotidiano tendono a mascherare. Facendo dell’occupazione temporanea di spazi una forma di contestazione, i movimenti sociali spesso collegati a correnti altermondialiste contribuiscono a modificare determinati canoni dell’azione collettiva rivendicando, in particolare, un’organizzazione interna democratica, non gerarchica e autogestita. Sulla falsariga degli interventi del collettivo britannico Reclaim the Streets, che dagli anni Novanta occupa lo spazio urbano riservato alle automobili per organizzare feste di strada, i Camp Action Climat, che si insediano in prossimità di alcuni siti industriali in 177

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fase di progettazione o già operativi, dal 2006 adottano il metodo dell’occupazione comunitaria. Tali movimenti fanno riferimento al pensiero teorico di vari autori, tra i quali Naomi Klein e Hakim Bey.37 Il concetto di «zona di autonomia temporanea» (zat)38 può applicarsi perfettamente a queste originali forme di mobilitazione, fedeli all’idea per la quale la zat non si definisce ma la si capisce nell’azione. Che li si chiami indignati, altermondialisti, neoluddisti o zadisti, tali gruppi riuniscono soprattutto persone che vogliono inventare nuove forme di sociabilità con l’azione collettiva e la sperimentazione di modi diversi di abitare il mondo, facendo dell’occupazione di spazi una rivendicazione del diritto di provare. Tra le caratteristiche, in apparenza marginali, comuni a tutte queste iniziative vi sono le difficoltà materiali causate dall’insediamento nel lungo periodo di decine, addirittura centinaia di persone. Tali iniziative, la cui fugacità è tutta relativa – la zad (zone à defendre) di Notre-Dame-des-Landes è operativa dal 2009 –, determinano una forma di stanzialità e passano sistematicamente dalla costruzione di infrastrutture che consentono di garantire l’alloggio, la ristorazione e la gestione degli escrementi. Le zat hanno una materialità che è il primo segno dell’occupazione: l’onnipresenza di oggetti reimpiegati o riutilizzati contribuisce alla creazione di un’unità estetica. Il problema dell’approvvigionamento di materiali di recupero per costruire insediamenti è fondamentale per i primi occupanti come pure per lo sviluppo dei siti e per l’organizzazione degli eventi. Allo stesso modo, la gestione in loco dei materiali residui è un problema contemporaneamente simbolico e pratico. Come applicare il principio di autogestione con i rifiuti? Come occupare uno spazio senza danneggiare né distruggere quegli «habitat naturali» che l’occupazione vuole proteggere? L’efficacia del discorso veicolato da tali movimenti passa da una gestione col178

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lettiva della materialità dei rifiuti dall’inizio alla fine della mobilitazione. I Camp Action Climat hanno fatto della limitazione dell’impatto ecologico di tali manifestazioni un principio fondativo praticato con la realizzazione di sistemi di gestione dei residui organici. I rifiuti sono sempre un problema fondamentale che struttura il lato materiale di quei microcosmi in costruzione. I residui sono pensati più come bene comune che come esternalità negativa. Con un’osservazione partecipe dell’occupazione del parco zuccotti a New York, nell’autunno del 2011, la ricercatrice Max Liboiron ha dimostrato come «Occupy Wall Street è innanzitutto una questione di rifiuti». Studiando il rapporto tra manifestanti, forze dell’ordine e oggetti di recupero utilizzati nella mobilitazione, Liboiron sottolinea come a New York, e in altri siti interessati dal movimento, le forze di polizia siano ricorse all’argomentazione dell’insalubrità per obbligare i manifestanti a lasciare libero per un po’ lo spazio che occupavano. Liboiron ha rilevato che le installazioni che servivano ai partecipanti come infrastrutture logistiche – libreria per lo scambio di libri, segreterie collettive, tende e cucine comuni create alla bell’e meglio – sono state letteralmente rase al suolo dai servizi di nettezza urbana delle città interessate. Per impedire il ritorno degli occupanti, la strategia delle forze dell’ordine non è stata il confronto diretto con i manifestanti ma sorvegliare, proteggere e impedire l’accesso di questi ultimi ai cumuli di «rifiuti» che erano sorti. Con tale gesto, ciò che per gli occupanti era un bene condiviso è stato de facto considerato abbandonato. I poteri pubblici hanno cercato di liberare gli spazi occupati «imprigionando» gli strumenti dei manifestanti e trasformandoli in «rifiuti».39 I partecipanti alla manifestazione hanno adottato una «controstrategia» con dei bagni chimici, un sistema di lavanderie collettive e la pulizia del suolo dei siti occupati.40 179

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Ritroviamo qui echi lontani del movimento di resistenza dei cenciaioli di cui si è parlato nel primo capitolo. Alla fine del XIX secolo, con i decreti Poubelle, gli straccivendoli denunciavano l’assurdità e la violenza simbolica di una caratterizzazione a senso unico dei rifiuti intesi come prodotto di un abbandono indifferenziato. Oggi, declassare tale materiale a rifiuti per la tecnica rivela il suo lato arbitrario. Adesso, che siano freeganisti, lombricolavoratori o zadisti, i nuovi cenciaioli praticano la loro protesta sociale sperimentando percorsi alternativi al divenire detritico del mondo materiale. In queste sperimentazioni di autonomia ritroviamo una forma di «anomia creatrice», tematizzata dal filosofo e poeta libertario Jean-Marie Guyau, che nel 1885, in Abbozzo di una morale senza obbligazione né sanzione,41 si oppone alla concezione kantiana dell’etica fondata su una legge universale esterna all’uomo. Da tale riflessione trarrà ispirazione il vitalismo di Bergson. «L’anomia», per Guyau, «è creatrice di nuove forme di relazione umana, di autonomia, che non fanno riferimento a una norma prestabilita, ma sono aperte a una creatività possibile.»42 Dalle varie iniziative descritte, emerge come le nuove forme di relazione umana, creative, contribuiscano alla nascita di un rinnovato modo di pensare il nostro rapporto con i rifiuti. «Lasciate vivere i resti», liberateli, date loro l’opportunità di restituire uno spazio al disordine! Ecco un motto unificante per descrivere l’ethos dei nuovi cenciaioli.

di quALche potLAtch fAtto di reSti Con numerose caratteristiche dei fenomeni sopra descritti, il progetto Feeding The 5K – più conosciuto in Francia come «il banchetto dei 5000» e realizzato da Tristram Stuart a Londra, Parigi e da allora in molte altre città nel 180

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mondo –43 è una prova stimolante del modo in cui i rifiuti possono costituire nello stesso tempo un terreno dell’abbondanza e uno strumento per coinvolgere tanto i partecipanti quanto gli osservatori. Il principio comune a queste «grandi abbuffate» è semplice: il collettivo, riunito intorno a Stuart, cucina e distribuisce un pasto gratuito realizzato soltanto con i rifiuti di derrate alimentari. Quel che varia è il numero di partecipanti. Stuart propone a migliaia di persone di condividere un pasto, aprendo a una dimensione più ampia modalità che sembravano esistere soltanto ai margini della società. Per la sua gratuità e per le sue dimensioni, l’enorme banchetto potrebbe sembrare una forma originale e reinventata di potlatch, che l’antropologo Marcel Mauss ha definito come una sorta di scambio primordiale non mercificato.44 Potrebbe essere potlatch nella misura in cui vi ritroviamo il principio del consumo voluttuario di un’eccedenza. La provocazione deriva dal fatto che offre un pasto di enormi dimensioni con ciò che una volta era eccedenza. I resti «obbligano» la persona, questa è la lezione critica dei pasti giganteschi di Stuart. Di fronte al dono, sono gli spettatori che si vedono obbligati, ma anche, ed è lì la ragione dell’entusiasmo popolare per tali manifestazioni, la società nel suo insieme si ritrova spettatrice di questo banchetto di resti. La quantità gargantuesca delle derrate pone interrogativi sia sulla sovrapproduzione sia sulla rappresentazione dei rifiuti. I banchetti di Stuart sono il luogo di una simbologia coprofaga. Mangiando i propri rifiuti, la società prende coscienza del movimento eccedentario che ne delinea le frontiere interiori. Ma è soprattutto il contesto festoso, quasi dionisiaco, del progetto la sua più grande risorsa: la «mensa dei poveri» è veramente aperta a tutti, ai più bisognosi, ai più ricchi e agli altri. Come in alcuni testi di Rabelais o in qualche altra festa, c’è un’inversione dei valori tradizionali, 181

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in maniera simile a ciò che accade ad alcuni spigolatori e, più in generale, a coloro che fanno della raccolta di rifiuti uno stile di vita. Il principio del reciproco gioco al rialzo che caratterizza il potlatch non dipende da un invito a sprecare di più ma, al contrario, la sfida consiste nel fare di tale spreco il luogo di reinvenzione dell’abbondanza. Lo humour, la derisione, che consiste nel fare dell’eccedente un’occasione per festeggiare «l’assoluto dispendio» anziché condannarlo moralmente, è il luogo di una forma di superamento possibile di una concezione nefasta dei rifiuti. Rispettando le «leggi dell’economia generale» enunciate da Georges Bataille, la materia vivente e le società sono determinate dal movimento di essudazione (dilapidazione) inevitabile, dalla produzione di un eccedente che permette agli esseri viventi e alle società di crescere, svilupparsi e che, alla fine, li conduce alla morte. Perché allora non fare di tale «dispendio improduttivo» un momento di festa anziché di desolazione o colpevolizzazione? Se il «movimento di puro dispendio» è ciò che contrassegna la materia vivente, allora tanto vale appropriarsi dell’abbondanza disponibile e cercare di accedere a uno stato di coscienza che rivela il «niente del puro dispendio». Sottolineando l’impasse logica dell’«economia internazionale dominante», che «per fine non ha altro che un accrescimento del livello di vita mondiale», Bataille, paradossalmente, fa appello alla coscienza di sé: Gli esseri che siamo non sono dati una volta per tutte, appaiono candidati a una crescita delle loro risorse di energia. [...] Ma in questa subordinazione alla crescita, l’essere dato perde la sua autonomia, si subordina a ciò ch’egli sarà in avvenire, grazie all’accrescimento delle sue risorse. In realtà la crescita deve collocarsi in rapporto all’istante in cui si risolverà in puro dispendio. [...] In altre 182

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parole, prendere coscienza del senso decisivo di un istante in cui la crescita (l’acquisizione di qualche cosa) si risolverà in dispendio, è esattamente la coscienza di sé, cioè una coscienza che non ha più nulla per oggetto.45

i rifiuti come indizio? L’incontro tra la materialità sempre corruttibile dei residui organici e il carattere localizzato delle pratiche menzionate rivela a chi getta il vincolo fondamentale tra i processi di degradazione e il movimento stesso della materia vivente. I rifiuti e i loro diversi processi di indifferenziazione, di scomparsa, sono il luogo di una fertile interazione: la perdita permette di sfuggire alla negazione? La presenza dei rifiuti è in sé una smentita della norma che vuole la loro scomparsa effettiva: il confronto con ciò che una volta è stato abbandonato, dimenticato, è un’esperienza dell’anomalia.46 Sulla falsariga delle particelle di plastica che proliferano negli oceani, si impone una sola affermazione: «Questi rifiuti non sono al loro posto». Ma per i nuovi cenciaioli e per gli archeologi il confronto con ciò che resta è simile alla lettura di impronte da parte di esperti cacciatori. Il confronto riguarda l’«intuizione bassa», evocata da Carlo Ginzburg, teorico della microstoria. Per precisare il senso di tale intuizione «radicata nei sensi», Ginzburg menziona in particolare la firasa dei sufi, «nozione complessa che designava, in generale, la capacità di passare in maniera immediata dal noto all’ignoto sulla base di indizi».47 Le tracce degli accumuli detritici sono altrettanti segni delle attività sociali e delle caratteristiche di una determinata tradizione culturale. La dimensione assolutamente localizzata e specifica dei rifiuti porta chi tenta di effettuarne lo studio a considerare il proprio lavoro una ricerca senza fine di indizi significanti. Dato che i rifiuti non 183

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esistono in sé e sono sempre soggetti al lavoro del tempo, come indizi sono elementi precari ed effimeri del paesaggio, dell’ambiente umano e, più in generale, del mondo. La caratteristica instabilità che li contraddistingue obbliga a considerare il loro statuto di segno a seconda di come esistono nel tempo. Di fronte a tali palinsesti di indizi costituiti dai mucchi di immondizia, di segni indelebili quali gli agglomerati galleggianti di rifiuti plastici negli oceani o, ancora, di tracce sporche e disagevoli in cui si trasforma la materia in decomposizione negli spazi urbani, alcuni cercano di far parlare i rifiuti. Per l’ecocittadino, invece, l’incontro con i rifiuti segue la logica modernista che li ha visti nascere come categoria autonoma rispetto alla produzione. Bisogna «far sparire» localmente il carico di sporcizia che rende insopportabile e pericolosa la presenza dei rifiuti. Più in generale, la loro scomparsa dipende da un’eliminazione, da un interramento, da un contenimento in molteplici luoghi che devono costituire altrettanti altrove rispetto agli spazi di vita umana. Configurando la sfera tecnica come spazio di un «esterno», di un altrove disponibile, i rifiuti restano su un piano di immanenza rispetto alle tecnologie di gestione. Poiché la tecnicizzazione, il contenimento dei processi di decomposizione all’interno di dispositivi tecnici, è la forma più raffinata, non è più accettabile lasciare alla natura la facoltà di mettere in atto la sua «magia». Oggi, il continuo sforzo di eliminare la materia residua si può facilmente descrivere come un processo di distruzione della sporcizia caratteristica dei rifiuti. Razionalizzata, ottimizzata, la gestione odierna dei rifiuti può essere vista come un processo di disincanto in cui la sporcizia perde la propria dimensione simbolica per ridursi a quella tossicologica. L’impegno per eliminare lo sporco che caratterizza i rifiuti diventa quindi un sistema chiuso di conservazione del184

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la materia. Con una molteplicità di sistemi di riciclo, di «valorizzazione», la sfera tecnica mima processi definiti naturali e, a sua volta, fa di tale imitazione un modello da seguire per gli stessi processi naturali. L’ottimizzazione industriale dei processi di decomposizione è la conferma dell’andata e ritorno di un modello identificato alternativamente nella natura e nella tecnica. Dato che, a rigor di logica, non esistono scarti in un’ipotetica natura disumanizzata, e dato che, in un sistema di riferimento biocentrico, il processo escremenziale – o il principio di mortalità – è una condizione di rinascita che impedisce di considerare i residui come mai abbandonati, oggi è il concetto stesso di rifiuti a essere condannato nelle società contemporanee. Poiché tale percorso, tale obiettivo è diventato il solo orizzonte auspicabile, è necessario discuterlo, precisarne la posta in gioco. «Riciclo», «economia circolare» e «rifiutizero» sono progetti per il controllo congiunto dei flussi di residui e delle pratiche di scarto. Il desiderio di liquidare la sfera tecnologica non è forse il riflesso della ben nota promessa modernista di controllo e di possesso della natura?

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Jean-Baptiste Fressoz, La main invisible a-t-elle le pouce vert? Les fauxsemblants de “l’écologie industrielle” au XIXe siècle, «Techniques & Culture», n. 65, Reparer le monde. Excès, reste et innovation, 2016, p. 329. Ibidem. Si vedano in particolare gli studi dell’agronomo francese Marc Dufumier (Marc Dufumier, Gil Rivière-Wekstein, Thierry Doré, Agriculture biologique: espoir ou chimère?, Le Muscadier, Parigi 2013). Si veda a questo proposito lo studio del sistema britannico di recupero materiale dei rifiuti organici che giunge alla conclusione della difficile riconversione in compost dei digestati provenienti dagli impianti di decomposizione anaerobica (Nicky Gregson, Mike Crang, Sara Fuller, Helen Holmes, Interrogating the Circular Economy: The Moral Economy of Resource Recovery in the Eu, «Economy and Society», vol. 44, n. 2, 2015, pp. 226-234). Cfr. Centre national de ressources textuelles et lexicales, voce «gaspiller»: www.cnrtl.fr. Gérard Bertolini, L’or et l’ordure, le déchet et l’argent, in Jean-Claude Beaune (a cura di), Le déchet, le rebut, le rien, Champ Vallon, Seyssel 1999, p. 40. Jenny Gustavsson, Christel Cederberg, Ulf Sonesson, Global Food Losses and Food Waste. Extent, Causes and Prevention, Fao, Roma 2011. Ivi, p. 4. Ibidem. Ivi, p. 2. Ivi, p. 14.

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Tristram Stuart, Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare, Mondadori, Milano 2009, pp. 163-164. Cfr. Come evitare lo spreco di alimenti: strategie per migliorare l’efficienza della catena alimentare nell’Ue, relazione 2011/2175(Ini) del Parlamento europeo del 20 novembre 2011: www.europarl.europa.eu. Si veda in particolare Tristram Stuart, Sprechi, cit., pp. 196, 252. Legge n. 2016-138 dell’11 febbraio 2016 apparsa sul «Journal officiel», n. 36 del 12 febbraio 2016. Cfr. Dana Simmons, Waste Not, Want Not: Excrement and Economy in Nineteenth-Century France, «Representations», vol. 96, n. 1, 2006, pp. 73-79. Stéphane Le Lay, Le rôle des déchets dans l’histoire. Entretien avec François Jarrige et Thomas Le Roux, «Mouvements», vol. 87, n. 3, 2016, p. 65. Si veda, in particolare, Danièle Léger, Bertrand Hervieu, Le retour à la nature «Au fond de la forêt... l’État», Seuil, Parigi 1979; Bernard Lacroix, L’utopie communautaire: histoire sociale d’une revolte, Puf, Parigi 1981; o, ancora, Lilian Mathieu, Les années 70, un âge d’or des luttes?, Textuel, Parigi 2010. Gilles Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000, p. 232. Questa parte del capitolo si basa essenzialmente su un’indagine sul campo, durata due anni, riguardo alla realizzazione di un sistema/dispositivo di lombricompostaggio collettivo in ambito urbano. Mary Appelhof, Worms Eat My Garbage, Flower Press, Kalamazoo 1982. Ibidem. Michel Serres, Il mal sano: contaminiamo per possedere? [2008], il melangolo, Genova 2009. Gay Hawkins, The Ethics of Waste: How We Relate to Rubbish, Rowman & Littelfield Publishers, Lanham 2005, p. 122. Michel Foucault, Tecnologie del sé [1982], Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p. 32. Una trascrizione della rivista amatoriale è disponibile online: Warren Oakes, Why freegans?, febbraio 2000: http://freegan.info. Ibidem. Caroline Salle, Les militants de la récup’food, «Le Figaro», 2 aprile 2007, p. 39.

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Tristram Stuart, Sprechi, cit. Ivi, p. 18. Ivi, p. 208. Ibidem. http://www.freecycle.org. Si vedano in particolare gli interventi dei gruppi di Toronto (Canada), New York, Miami (Florida) e Raleigh (Carolina del Nord). Questi ultimi due sono i pionieri del movimento: http://rrfmarket. blogspot.fr/. È attribuita a un giovane argentino, Ariel Rodríguez Bosio, l’origine della parola e dell’iniziativa allorché, nel 2010, decide di distribuire gratuitamente nel suo «club di arti marziali» ciò che gli avanza dopo aver fatto un trasloco. Rodríguez Bosio in seguito sceglie di creare un’associazione, l’Arcoiris Universal (www.arcoirisuniversal.org), che promuove le gratiferias e lo sviluppo di «Case per tutti», con accesso libero, gratuito e aperto a chiunque, pensate come spazio di dialogo, scambio e dono. www.ifixit.com/Manifesto. Cfr. Naomi Klein, No logo [1999], Bur, Milano 2000; Hakim Bey, L’art du chaos. Stratégie du plaisir subversif, Nautilus, Parigi 2000. Cfr. Hakim Bey, Taz: zone temporaneamente autonome [1985], Shake edizioni Underground, Milano 1993. Max N. Liboiron, Tactics of Waste, Dirt and Discard in the Occupy Movement, «Social Movement Studies», vol. 11, n. 3-4, 2012, pp. 393-401. Ibidem. Jean-Marie Guyau, Abbozzo di una morale senza obbligazione né sanzione, Le Monnier, Firenze 1971. Jean Duvignaud, Hérésie et subversion: essais sur l’anomie, La Découverte, Parigi 1986, pp. 74-75. Cfr. Mark King, Waste Food Feeds 5000 a Lunchtime Curry in Trafalgar Square, «The Guardian», 18 novembre 2011: www.theguardian.com. Si veda anche il sito dedicato al progetto Feeding The 5K: http://feedingthe5k.com/. Marcel Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche [1923-1924], Einaudi, Torino 2018. Georges Bataille, La parte maledetta, preceduto da La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 220.

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Si veda Éric Chauvier, L’oiseau et la baie vitrée. Anthropologie des déchets dans une zone périurbaine pavillonnaire, «A contrario», vol. 19, n. 1, 2013, pp. 17-33. Carlo Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in Miti emblemi spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino 2000, p. 193.

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CAPITOLO 5

Domani, rifiuti-zero? Una critica delle promesse dell’economia circolare

L’economia circolare è oggi uno slogan unificante in grado di costituire il solo orizzonte auspicabile delle società contemporanee. Più che un’eliminazione, una valorizzazione o una distruzione dei rifiuti, la promessa dell’economia circolare è quella di un mondo senza resti, senza surplus. Pertanto, coloro che la rivendicano e la sostengono non sono affatto un gruppo omogeneo. Possiamo trovare gli appelli per una transizione a un’economia circolare nelle grandi istituzioni nazionali, tra i rappresentanti di tutte le forze politiche e gli operatori industriali della gestione dei rifiuti, nonché in ambito associativo e militante. L’espressione rinvia da un lato a un insieme di iniziative che punta a una «dematerializzazione dell’economia» – ecoconcezione, economia della funzionalità, ecologia industriale –, dall’altro alla necessità di un più radicale cambiamento di paradigma, come l’abbandono di un modello economico produttivistico, basato sul consumo eccessivo, e il sostegno a una transizione verso una forma di decrescita o di a-crescita. Nonostante le divergenze su ciò che dovrebbe essere un’economia «veramente» circolare,1 alcuni principi comuni riscuotono consenso. L’economia circolare è in contrasto con l’economia lineare in cui la «vita degli oggetti» si esplica from cradle to grave (dalla culla alla tomba), secondo la logica estrazione-produzione-consumo-rifiuti. In un’opera 193

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fondamentale per l’ecoconcezione e l’analisi del ciclo di vita, l’architetto svizzero Walter Stahel propone un’alternativa al destino puramente lineare degli oggetti: from cradle to cradle (dalla culla alla culla). Il volume omonimo di Michael Braungart e William McDonough ha contribuito alla diffusione di tale formula.2 Il progetto è stimolante e suggerisce una molteplice soluzione: evitare lo spreco energetico e materiale, l’esaurimento delle risorse e, nello stesso tempo, scongiurare qualsiasi contaminazione, qualsiasi inquinamento dell’ambiente naturale: I prodotti possono essere composti da materiali biodegradabili che diventano cibo per i cicli biologici o da materiali tecnici che rimangono all’interno di cicli tecnici chiusi, circolando continuamente come sostanze nutritive pregiate per l’industria. Affinché questi due metabolismi rimangano sani, mantengano il loro valore e abbiano successo, bisogna assolutamente evitare che si contaminino l’un l’altro.3

Con la formazione di due sfere che devono restare impermeabili l’una all’altra (da una parte quella biologica in cui si rigenerano le risorse di carbonio, dall’altra la sfera tecnica in cui sono rinchiusi gli oggetti che non possono più reinserirsi nel ciclo di vita per limitare i rischi di inquinamento dell’ambiente), l’economia circolare è un progetto in linea di continuità con le grandi riforme dei rifiuti, che criticano la chiusura del mondo della tecnica su se stesso e offrono alla società contemporanea prospettive di eternità. Il problema in questione si può così riassumere: Ci sono due distinti metabolismi, sul nostro pianeta. Il primo è il metabolismo biologico o della biosfera, cioè i cicli della natura. Il secondo è il metabolismo tecnico o 194

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della tecnosfera, cioè i cicli dell’industria, che comprendono anche il prelievo di materiali tecnici da luoghi naturali. Se progettati correttamente, tutti i prodotti e i materiali dell’industria alimenteranno senza rischi entrambi i metabolismi.4

Alternativa al principio dell’abbandono, alla logica dello spreco come motore economico dell’abbondanza, la nuova modernità di gestione dell’economia circolare invita a non pensare più separatamente la produzione e il problema dei rifiuti: la nozione di «fine vita» degli oggetti collega metaforicamente la tecnosfera e la biosfera. Bisogna ridurre al minimo, addirittura evitare del tutto di attingere al deposito disponibile di risorse non rinnovabili, promuovendo una forma di economia funzionale. Se ne conosce il principio: anziché comprare una bicicletta o un’automobile, si paga per il servizio di trasporto che tali beni possono offrire. La manutenzione e la gestione del materiale restano a carico del produttore. Si tratta di incentivare un consumo orientato soltanto all’uso di materiali veramente riciclabili e rinnovabili per trasformare i loro rifiuti in risorse per i cicli del carbonio. Alla luce degli esperimenti effettuati, tale promessa sembra realizzabile. Sul versante dell’economia industriale, il caso del sito danese di Kalundborg è sistematicamente citato come esempio da seguire per realizzare una «simbiosi industriale».5 Sul versante delle pratiche di consumo e di riduzione dei rifiuti «alla fonte», l’itinerario di Bea Johnson è l’imprescindibile punto di riferimento del movimento rifiuti-zero.6 A livello intermedio, Capannori, in provincia di Lucca, figura come pioniera nella transizione verso la «città senza rifiuti».7 Dal locale al globale, uno stesso obiettivo, uno stesso ideale, quello del cerchio perfetto. L’economia circolare tende perciò a essere un progetto basato sul consenso e criticarlo è assurdo se non addirittura 195

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cinico. Ma tutto ciò ricorda alcune promesse già menzionate. L’economia circolare ha per certi versi sostituito lo sviluppo sostenibile e l’economia del riciclo e per alcuni operatori è una nuova formula magica della neolingua della crescita verde che nega, sotto molti aspetti, le questioni di scala e il carattere sistemico dei problemi ecologici. L’economia circolare resta ancora allo stadio di promessa. Inoltre, d’accordo con la critica della «società del riciclo» del sociologo Denis Duclos, è opportuno interrogarsi sull’auspicabilità stessa dell’economia circolare: «Se ci nutriamo soltanto di noi stessi, se la civiltà è solo un fenomeno definito dal riciclo, non entriamo forse in un autoconsumo, in un’autofagia che ricorda le fusioni condannate dalle civiltà più antiche con i termini incesto e cannibalismo?».8 In altre parole, in questo progetto di duplice chiusura del mondo non si nasconde una dimensione mortifera? Una società senza resti, senza tracce, non è una società senza storia?

iL minimALiSmo Light deL rifiuti-zero A livello delle pratiche domestiche, ritroviamo la questione dell’economia circolare nelle riflessioni, numerose, che rivendicano il quotidiano «rifiuti-zero». Da una decina d’anni la tematica si diffonde attraverso racconti di vita, esperimenti familiari di conversione a un’esistenza senza rifiuti.9 Bea Johnson è una madre di famiglia esemplare, emblema della «casalinga ideale» del XXI secolo. La storia della sua conversione al rifiuti-zero ha già fatto il giro del mondo. Il suo libro Zero Waste Home (Zero rifiuti in casa), apparso nel 2013, è un bestseller tradotto in dodici lingue che ha trovato numerosi seguaci.10 Nell’era dell’economia circolare il volume è, per certi aspetti, un aggiornamento dei ma196

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nuali di economia domestica che si sono moltiplicati tra la seconda metà del XIX secolo e gli anni Sessanta.11 Originaria del Sud della Francia, Bea va negli Stati Uniti come ragazza alla pari, poi vi si stabilisce definitivamente realizzando il suo sogno americano: matrimonio, figli, cane, suv, casa enorme. Dopo qualche anno capisce che l’iperconsumo che governa la sua vita quotidiana genera insoddisfazione e un malessere latente. Il trasloco in una casa più piccola e lontana dal centro di San Francisco permette alla famiglia di prendere atto «che è possibile accontentarsi dello stretto necessario». Bea Johnson ricorda il processo di «alleggerimento»: mobili, oggetti, vestiti e altri beni non ritenuti «utili» per la famiglia sono stati dati ad amici e associazioni. In seguito mette in pratica cinque principi ereditati dalle 3R («Ridurre, Riutilizzare, Riciclare») ed eretti a guida di un quotidiano senza rifiuti: «Rifiutare, Ridurre, Riutilizzare, Riciclare, Ridurre in compost». Rispettando tale mantra nell’ordine enunciato, già nel primo anno la famiglia Johnson ha prodotto soltanto un litro di rifiuti. Sul suo blog Bea promuove il suo metodo esibendo come trofei i rifiuti della famiglia in vasetti trasparenti, prova eclatante di un cambiamento possibile. L’estetica del puro, della luce, della trasparenza è onnipresente nell’immaginario veicolato dallo storytelling di Johnson: le foto della casa, ampiamente diffuse, sembrano un catalogo di mobili scandinavi. Puro, lineare, bianco, l’habitat della famiglia vuole essere immacolato, senza tracce, senza passato, senza odori: tra il divano bianco e il muro vegetale del soggiorno, un televisore piantato sul caminetto ricorda che vivere senza rifiuti non implica necessariamente un «ritorno alla candela». Al di là dell’onnipresente immaginario di purezza, ciò che è determinante nella realizzazione domestica del rifiutizero non è tanto il modo in cui l’immondizia tende a «spa197

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rire» dalla casa, quanto il fatto che l’applicazione dei suoi cinque principi fondamentali crea, quasi meccanicamente, nuove pratiche di consumo. L’etica della «spazzatura light» vieta, per esempio, l’acquisto di prodotti industriali e imballati, promuove un’alimentazione locale e stagionale e sistematizza la ricerca di beni di seconda mano, il riutilizzo, il bricolage, la riparazione e il reimpiego. Indica nel compostaggio la chiave di volta per ridurre la produzione di rifiuti che essa non è in grado di gestire. In bilico tra la difesa di un’etica ecocittadina della «buona pratica» e la promozione di un consumismo minimalista, il rifiuti-zero di Bea Johnson somiglia a una versione adattata del vivere semplice e della sobrietà felice. Adattata all’economia di mercato – consumare meno non vuol dire non consumare affatto –, all’estetica contemporanea e all’aspettativa di un futuro sostenibile. Il movimento rifiutizero si presenta come un cammino di speranza tramite l’azione. Chi pratica questo stile di vita si considera il protagonista di un’avanguardia che si distingue dal consumismo sfrenato e dall’estremismo di alcuni esperimenti comunitari di autonomia. Nelle ultime pagine del suo libro Bea Johnson dimostra che ciò che avviene nell’ambito ristretto della famiglia può allargarsi anche agli altri ambienti di vita. Così come abbiamo creato un sistema preventivo per evitare che i rifiuti entrassero nelle nostre case, dobbiamo stabilire delle leggi per evitare che i rifiuti si insinuino nella nostra società. [...] Quanto tempo ci vuole per arrivare a una società rifiuti-zero? Tutto dipende da voi e dal potere della comunità: lo sforzo congiunto di amministratori pubblici, industriali, professori, gestori di supermercati ecc. Il cambiamento ha di che renderci felici. [...] Potremmo tutti consumare meno, lavorare meno e goderci di più la vita.12 198

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Chi potrebbe aspirare a un avvenire migliore? Sul piano delle pratiche domestiche il movimento rifiuti-zero interessa il segmento più abbiente della popolazione. Anche se Bea Johnson non si stanca di ribadire che il suo metodo permette di realizzare notevoli economie, l’«alleggerimento» da lei perorato induce a pensare che rifiuti-zero riguardi soprattutto coloro che posseggono già molto, che, in altre parole, consumano già «troppo». Allo stesso modo, se Bea Johnson dà conto del tempo «risparmiato» nel condurre una vita senza rifiuti, nel non andare ogni settimana al supermercato e ai grandi magazzini, si potrebbe obiettare che è necessario del tempo per mettere in pratica le sue numerose «astuzie» quotidiane che possono essere incompatibili con gli obblighi che, per esempio, comporta un lavoro a tempo pieno. Solo alcune fasce sociali accedono all’ideale del «soggetto alleggerito» di cui si è detto quando è stato tratteggiato il profilo dell’ecocittadino.13 Insomma, concentrandosi sull’ambito domestico (dalla riduzione dei rifiuti a consumi frugali), i promotori del rifiuti-zero talvolta ignorano gli ambiti intermedi e globali coinvolti nelle loro pratiche. Sul suo blog Bea Johnson racconta come ha potuto viaggiare in undici paesi europei in soli quattordici giorni per promuovere il suo libro e il suo metodo: «Mi piace massimizzare il mio tempo e massimizzare anche l’impatto dei miei voli transcontinentali!». Portavoce di un «movimento globale», Johnson precisa che il suo tour mondiale di «sensibilizzazione» al rifiuti-zero proseguirà in Canada, in Sudafrica e poi di nuovo in Europa. Ammette: Questi viaggi si accompagnano a un pesante impatto ambientale, ma tengo ben presente la velocità con la quale mi hanno permesso di diffondere su scala globale il modo di vivere rifiuti-zero [...]. Ciò che più mi interessa è far 199

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crescere il movimento. Ha un effetto positivo, esponenziale e a lungo termine sull’ambiente che nessun calcolo di impatto ambientale potrebbe quantificare.14

città rifiuti-zero Paul Connett, professore emerito di chimica, è un’altra figura di spicco del movimento zero waste che da una trentina d’anni sciama attraverso il mondo. Pacifista durante la guerra del Vietnam, militante antinucleare, fervente critico di una crescita economica eretta a dogma, inizia la sua battaglia contro i rifiuti con la critica dell’inceneritore che paragona a un «aspiratore tossico di rifiuti». Convinto che impegnarsi non significa seguire la modalità negativa dell’opposizione e della pura critica, definisce la sua azione una lotta per il «rifiuti-zero», «un atto positivo». Nel 1997 Connett va a Capannori per sostenere gli abitanti che si opponevano alla costruzione di un inceneritore, imposto alla collettività senza un dibattito pubblico. Aiuta Rossano Ercolini, insegnante, a elaborare una strategia di drastica riduzione dei rifiuti: il maestro assume la guida della locale società di raccolta e mette il compostaggio dei rifiuti al centro del progetto. Associa un impianto di metanizzazione, abbinato a un centro di compostaggio, alla distribuzione di dispositivi domestici e collettivi di trasformazione dei materiali putrescibili (compostori individuali e collettivi per le mense scolastiche). Nel 2012 introduce un’imposta incentivante sulla raccolta dei rifiuti. Il successo di Capannori è innegabile: tasso di separazione alla fonte vicino al 100%, riduzione di più della metà della quantità di rifiuti residui (non differenziati) in cinque anni (da 340 chili all’anno per abitante nel 2006 a 146 chili nel 2011). I  risultati della cittadina sono eccezionali e superano di 200

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gran lunga i tassi rilevati in alcuni paesi europei ritenuti esemplari (nel 2011, in Danimarca, il peso dei rifiuti residui, non differenziati, raggiungeva i 409 chili pro capite). La riduzione dei rifiuti ha permesso al Comune di ottenere un risparmio che è stato reinvestito in varie iniziative locali – sostegno al circuito breve della distribuzione di latte, sovvenzioni per l’acquisto di prodotti di uso quotidiano non usa e getta ecc. – e ha consentito la creazione di cinquanta posti di lavoro.15 Da quel momento l’iniziativa non ha smesso di trovare seguaci. L’associazione zero Waste Europe stima a trecento i comuni che nell’Unione europea hanno varato un programma analogo.16 Ogni volta gli obiettivi sono gli stessi: ridurre la produzione dei rifiuti, evitarne lo smaltimento in discarica e limitarne, perfino vietarne, l’incenerimento sotto qualsiasi forma (dai rifiuti urbani al digestato degli impianti di metanizzazione). Il compito è immenso, forse impossibile se non si accompagna a una forte mobilitazione della popolazione e a una profonda trasformazione degli stili di vita. Da una decina d’anni sono molte le città che puntano a tale risultato. Negli Stati Uniti si fa riferimento al caso di Seattle, di San Francisco, Oakland e San Diego (California) e di Dallas e Austin (Texas), nonché di Washington D.C. e New York nell’Est del paese. In Giappone, Nuova zelanda e Brasile, molte città hanno fatto del rifiuti-zero l’obiettivo che regola le politiche locali di gestione dei materiali residui. Ancora una volta sta emergendo un movimento globale. A livello nazionale si avvertono tensioni interne, e tali iniziative tendono a oscillare tra una posizione riformista (quella della riduzione dei rifiuti alla fonte) e un discorso che promuove l’autonomia delle amministrazioni locali rispetto alle multinazionali di gestione dei rifiuti. Se la rete di associazioni zero Waste persegue l’ideale di autonomia, la messa in atto delle strategie rifiuti-zero solleva dubbi sulla sua fattibi201

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lità. «Lo spirito» del rifiuti-zero è in qualche modo recuperato dal nuovo spirito del capitalismo17 che, criticandolo, trova le risorse per realizzare la propria rinascita. La ricerca di un’autonomia di gestione nell’attuazione del rifiuti-zero può essere relativizzata attraverso due esempi che testimoniano una modalità di recupero del progetto iniziale. La città di Parigi, che dal 2016 persegue una «strategia rifiuti-zero», si è impegnata per ristrutturare il principale impianto d’incenerimento dei rifiuti della capitale situato a Ivry-sur-Seine. Noto come IP13, il progetto, approvato dal sindacato misto Syctom, è guidato dal gruppo Sita, filiale di Suez Environnement in collaborazione con la società Vinci. L’intento dei promotori è la modernizzazione dell’attuale impianto, giunto alla fine dei suoi giorni, per collegarlo a una filiera di trattamento meccanico-biologico.18 Associazioni e collettivi che si oppongono al progetto ritengono invece obsolete tali scelte tecniche: IP13 non tiene conto della riduzione della produzione di rifiuti urbani in corso,19 va contro i principali obiettivi normativi dipartimentali, nazionali ed europei, che puntano alla riduzione dei residui finali. In altri termini, avvalendosi di una expertise industriale, quel progetto impone una scelta tecnologica contraria allo sviluppo di una strategia veramente rifiuti-zero e che si rivela onerosa per i contribuenti quanto vantaggiosa per il consorzio prescelto.20 Visto che accresce alcune forme di ineguaglianza, la struttura mondializzata del mercato dei rifiuti suscita perplessità sull’apparente successo di altre esperienze rifiutizero. In fatto di gestione dei rifiuti San Francisco, la città degli Stati Uniti dove è più costoso trovare un alloggio, è per tutti gli altri centri urbani del mondo un esempio da seguire, perché in meno di dieci anni è riuscita a sottrarre l’80% dei suoi rifiuti all’inceneritore e alla discarica, bisogna però sottolineare che, oltre che da una politica normativa forte che vieta la distribuzione di determinati oggetti e materiali (im202

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ballaggi in polistirene non riciclabili e sacchetti leggeri in polietilene) e favorisce il compostaggio industriale, una buona parte del suo successo dipende dallo sviluppo di una strategia di riciclo basata sull’esportazione dei materiali raccolti. Dal 2008 la California esporta, soprattutto in Cina, tra i 18 e i 20 milioni di tonnellate di rifiuti riciclabili all’anno.21 Una volta trattati in condizioni «economicamente sostenibili», vale a dire grazie ai bassi salari pagati in loco, le materie prime seconde sono rispedite al Nord come materiali «riciclati». Il profitto delle filiere di riciclo è strettamente collegato alla fluttuazione dei prezzi delle materie prime (in special modo del petrolio), ma dipende anche dalla capacità di contenere al massimo i costi nel processo che va dal trattamento all’esportazione. In parole povere, per raggiungere l’obiettivo rifiuti-zero, alcune città del Nord devono contare sul «sottosviluppo» dei paesi del Sud e su una forma «di indebitamento climatico» legato all’impatto del trasporto transnazionale di rifiuti. Ancora una volta, per quanto riguarda la città, rifiutizero vuole essere una prospettiva che dà speranza, che promette una visione positiva del futuro. Ma l’accento «ottimista», focalizzato soltanto sui problemi locali, trascura alcune questioni di scala causa di ineguaglianze economiche e sociali. Rifiuti-zero è ancora un processo in fieri. I suoi sostenitori, militanti di vari gruppi e politici, tendono sempre a farne un progetto auspicabile. Come dice lo slogan di zero Waste Europe: «zero Waste is more a journey than a destination», lo spirito di «rifiuti-zero» consiste più nel cercare che nel riuscire a eliminare tutti i rifiuti. Senza criticarne gli obiettivi, è legittimo dubitare della possibilità stessa di vedere realizzarsi, un domani, tale utopia su scala globale. Grandi cambiamenti possono essere pensati solo nel lungo periodo e sono spesso ridiscussi a seconda degli equilibri politici in gioco. La quantità di materiale da gestire è 203

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tale che i soggetti pubblici non possono prendere in considerazione rotture tecnologiche radicali senza correre il rischio di una rapida saturazione delle esistenti valvole di sicurezza. Le trasformazioni che puntano al rifiuti-zero sono oggetto di acceso dibattito, in particolare sulle scelte tecniche necessarie per realizzare l’ideale di una società omeostatica. La transizione si annuncia, quindi, lunga e accidentata, perché comporta il passaggio da una riorganizzazione profonda sia degli immaginari sia delle modalità di produzione e circolazione dei prodotti su scala mondiale.

ecoconcezione ed ecoLogiA induStriALe: Le «fALLe» deLL’economiA circoLAre Considerata dai suoi promotori una «ri-evoluzione» industriale e sociale,22 a livello macroscopico l’economia circolare si presenta come una promessa che combina la necessità di ridurre «l’impatto degli uomini sul pianeta» con la conservazione di alcuni fondamenti degli attuali stili di vita e della produzione. In altri termini, si tratta di separare la crescita economica da quella del flusso di materiali. Una pubblicazione della Ellen MacArthur Foundation – che ha diffuso la conoscenza del problema negli ambienti politici e nell’industria – afferma senza mezzi termini: «Un sistema circolare di impiego di risorse rende possibile perseguire la crescita senza necessità di maggiori risorse. Crea decisamente più valore per unità di risorse».23 L’obiettivo condiviso dai promotori del rifiuti-zero e da quelli dell’economia circolare è creare le condizioni di una separazione tra crescita economica e crescita del flusso di materiali. Poiché pone il problema nell’ottica dei produttori e degli operatori industriali, rivela una forma di ottimismo tecnologico identica a quella di alcuni promotori di un progresso tecnico virtuoso: 204

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Continuare ad aumentare il Pil pro capite di un numero crescente di abitanti del pianeta con la pretesa di utilizzare meno risorse – oppure, in pratica, produrre più beni con una stessa quantità di risorse – è la promessa della crescita verde che opta per l’idea di economia circolare.24

Da un punto di vista economico «è impossibile anche solo avvicinarsi all’ideale di circolarità senza voltare le spalle a un modello produttivista e crescentista che fa affidamento su una “dematerializzazione” indefinita della sola produzione, senza preoccuparsi della quantità di consumo finale e della crescita della popolazione mondiale». 25 Inoltre, quando il progetto di economia circolare si confronta con la realtà materiale della sua attuazione, i sistemi di produzione, distribuzione, consumo, come anche il sistema tecnico di gestione dei rifiuti oggi esistenti, si oppongono con tutte le loro forze a tali trasformazioni.26 In altri termini l’ideale del cerchio perfetto resta un sogno, una promessa irrealizzabile sia dal punto di vista tecnologico sia da quello biologico e demografico: un modo per perpetuare la negazione necessaria dello sviluppo delle società industriali. Come affermano gli storici Thomas Le Roux e François Jarrige: Il problema del riciclo e della valorizzazione dei rifiuti ha sempre accompagnato e modellato la storia delle società industriali. Il riciclo è stato uno strumento per assorbire i conflitti, conciliare i vari interessi, reinserire la questione dei rifiuti nelle motivazioni economiche dei produttori in cerca di profitti.27

Poiché si iscrive nell’ottica di «riduzione» e di «prevenzione» dei rifiuti alle soglie degli anni Duemila, l’economia circolare è al centro del programma delle società industria205

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li, e tali tematiche si estendono ai paesi emergenti con varie iniziative.28 I «buoni risultati» in materia rivendicati spesso dai soggetti interessati – imprenditori e amministratori pubblici – occultano un fatto evidente: su scala globale la produzione di rifiuti, industriali e non, non è mai stata così ingente ed è ben lontana dal ridursi. Nel 2013, tre ricercatori hanno pubblicato uno studio prospettico sulla rivista «Nature»29 in cui affermano che solo uno scenario molto ottimista consentirebbe di veder raggiunto un waste peak, seguito da una flessione, prima del 2100. Se per i paesi dell’Ocse e per alcune regioni dell’Est asiatico un obiettivo globale di riduzione è ipotizzabile per il 2050, è invece improbabile che gli Stati del Medioriente, dell’Africa del Nord e dell’Asia del Sud possano avviare una riduzione dei rifiuti prima del prossimo secolo. Il più realistico scenario del business as usual prevede entro il 2100 il triplicarsi, su scala mondiale, dei rifiuti. (Si vedano i grafici seguenti).

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Fonte: Daniel Hoornweg et al., Environnement: Waste Production Must Peak this Century, «Nature», vol. 502, n. 7473, 2013, p. 616.

I «buoni risultati» dei paesi dell’Ocse occultano una parte della realtà sempre più internazionalizzata dei flussi di materiali. Se da una decina d’anni osserviamo una tendenza al ribasso nella produzione di rifiuti domestici e industriali nei paesi più sviluppati, lo si deve attribuire al fatto che una crescente quantità di beni è importata da nazioni che non appartengono a questo blocco. I «flussi nascosti» di materiali, vale a dire i prodotti e l’energia necessari alla confezione di tali beni, non appaiono nei conti degli Stati dell’Ocse. Una macchina demolita in Francia per la contabilità nazionale corrisponde a una tonnellata di rifiuti, ma la produzione di quest’auto ha richiesto nel mondo circa dieci tonnellate di materiali, generatori di rifiuti, non inclusi nei calcoli.30 Dietro le statistiche che dimostrano l’effettiva diminuzione della quantità di rifiuti si nasconde spesso un fenomeno di esternalizzazione della produzione: un semplice spostamento delle «fonti» e non una concreta riduzione. 207

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In altre parole, su scala globale, più che una transizione verso un mondo senza rifiuti, è giocoforza rilevare il continuo aumento della quantità di scarti, e la distribuzione sempre più iniqua della loro produzione. «Mentre esortiamo i cittadini a fare la cosa giusta e a convertirsi alla selezione, il nostro metabolismo energetico e il nostro sistema di produzione continuano a generare quantità gigantesche di materiali ingestibili.»31 Allo stesso modo in cui la promozione della società del riciclo ha costituito una strategia diffusa di diversione, la corsa per la realizzazione di un’economia circolare per molti aspetti va nella stessa direzione. In altri termini, l’immaginario dell’economia circolare è in stretto rapporto con le promesse non mantenute della modernità industriale: il mito del cerchio perfetto trascura il problema della effettiva riduzione dei consumi, individuali o collettivi, e tale mito impedisce la riflessione sulle reali possibilità di rallentare l’attività produttiva. Puntando sull’innovazione dell’economia circolare, i promotori di questo tipo di economia negano uno dei principi fondamentali della termodinamica. Nel 1979 Nicholas Georgescu-Roegen indicava i limiti di quel tipo di argomentazione servendosi di un’analogia tra sistemi fisici e sistemi economici: [...] Le varie autorità responsabili della lotta all’inquinamento si sforzano di instillarci l’idea di macchine e di reazioni chimiche che non producono rifiuti e inoltre che la nostra salvezza dipende da un continuo riciclo dei rifiuti. [...] Ma [...] noi siamo costretti a utilizzare una quantità supplementare di bassa entropia ben più alta della diminuzione dell’entropia ottenuta da ciò che è riciclato. Perché non esiste riciclo gratuito come non esiste un’industria senza rifiuti.32 208

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Nell’economia circolare l’obiettivo è il riciclaggio totale di tutto ciò che viene prodotto, l’assenza di spreco, la neutralizzazione dell’entropia. L’utopia del progetto di economia circolare è analoga al processo neghentropico, a un principio generale di organizzazione in grado di eliminare durevolmente e su scala globale il secondo principio della termodinamica: la gestione, il controllo assoluto di tutti gli sprechi, il loro recupero, l’ottimizzazione del loro utilizzo intesi come mezzi per raggiungere un ipotetico stato di equilibrio. In breve «ri-ciclare» indica la promessa di un infinito nuovo inizio: la speranza di riuscire a sfuggire alla finitezza della nostra esistenza e all’insostenibilità del nostro stile di vita, la speranza di scongiurare la morte con la negazione.

promeSSe di immortALità Per molti aspetti l’ideale del cerchio perfetto di una società senza rifiuti, di un mondo senza resti, riecheggia quello di perfezione sotteso allo sviluppo della modernità occidentale in cerca di emancipazione dal proprio substrato naturale. L’antropologo Philippe Descola parla di ontologia naturalistica per definire la cosmologia sviluppatasi in Occidente a partire dal Rinascimento, la quale, affermando il principio di una separazione tra natura e cultura, ha favorito lo sviluppo delle scienze moderne.33 Molte delle teorie ereditate dall’Illuminismo rinviano a una tale rappresentazione della natura. Oggi, la nozione stessa di economia circolare riproduce lo schema già evocato «di economia della natura» sostenuto da Linneo nel XVIII secolo. Nella sua versione «illuminata», l’ordine, l’equilibrio stesso della natura dipende dall’esistenza di una trascendenza divina. Dio è dietro le leggi che assicurano il mantenimento di giuste proporzioni tra gli esseri viventi, 209

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nella fattispecie tra predatori e prede. «Nel XIX secolo la riflessione sul ciclo industriale della materia e sul riciclo sono attraversati dalla teologia naturale.»34 La chimica si svilupperà con la convinzione che soltanto una potenza divina è in grado di mantenere l’equilibrio generale del mondo nell’infinità dei cicli della materia: «Dio è un chimico». Nell’ideale di perfezione cui mira l’economia circolare, ritroviamo la stessa promessa. Oggi, però, non potendo contare su un sovrano creatore, è il controllo della sfera tecnica a garantire l’equilibrio e l’integrità della natura. La promessa igienista di separazione ermetica delle due sfere è soprattutto una sfida tecnologica, una «ri-evoluzione industriale». Nella società odierna il paradosso è probabilmente legato all’immanenza dell’azione tecnica: la ricerca di trascendenza passa per la fede nell’efficacia dei dispositivi tecnici. Dio ha abbandonato la «Natura», lo si riconosce oggi nella perfezione richiesta a un sistema tecnico uniforme e globalizzato. Tale attesa è compromessa dalla sua realtà sempre imperfetta, per le falle dei grandi dispositivi tecnici. I tentativi globalizzanti di separazione tra sfera biologica e sfera tecnica sono emblematici del progetto naturalista descritto da Descola. Essi promuovono un immaginario tecnico di potenza e di controllo. Con l’economia circolare, il controllo tecnico del flusso di materiali, residui e non, vuole essere una promessa di eternità. Per dirla senza mezzi termini, l’economia circolare sostiene una concezione «più che sostenibile» delle società contemporanee. L’aspirazione a una società «immortale», senza resti, ha una duplice prospettiva, caratteristica dell’attuale paradigma dei rifiuti: quella dell’igienismo, che ha ampiamente contribuito alla condanna dei rifiuti in epoca moderna; poi, nella sua continuità, quella della traduzione tecnocratica e manageriale dell’ecologia. Paradossalmente, con lo sviluppo di simili correnti ideologiche che condan210

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nano e bandiscono i rifiuti, diventati ingestibili, questi ultimi si sono moltiplicati. L’ecocittadino è dunque diventato maestro nell’arte di scongiurare la paura della morte? La nostra era dei rifiuti si caratterizza per l’individualizzazione della loro produzione e gestione. Con le misure di riduzione e di prevenzione degli scarti, più che a un’ipotetica «società dello spreco», più che ai processi di produzione, è invece a coloro che gettano che tocca in sorte di essere considerati – e spesso si considerano loro stessi – i responsabili di una «crisi dei rifiuti». Nello stesso modo in cui la società contemporanea ha privilegiato un rapporto sempre più individualizzato con la morte,35 l’individualizzazione del nostro rapporto con i rifiuti è un vero e proprio catalizzatore delle paure: «Sembra che l’angoscia di morte sia legata alla consapevolezza che abbiamo della nostra individualità. A rigor di logica, possiamo affermare che più l’individualismo acquista forza più tale angoscia aumenta».36 Una delle espressioni più dirompenti del «trattamento» odierno della morte la si ritrova in certe promesse, al limite della fantascienza, proprie di ambiti convergenti della tecnoscienza. Alcuni scienziati hanno di recente annunciato «la morte della morte».37 È un approccio analogo alle tematiche centrali del transumanesimo, movimento dai confini ancora incerti.38 Aubrey de Grey, informatico inglese convertito alla biogerontologia, è una delle figure di spicco. Nel 2002 il suo progetto Sens (Strategies for Engineered Negligible Senescence) individua le «sette cause principali dell’invecchiamento», di cui le ultime due indicano esplicitamente i «rifiuti cellulari».39 Lo sviluppo di tali rifiuti e il loro accumulo negli organismi viventi favoriscono l’invecchiamento: in altri termini, sopprimerli, o impedire all’organismo di produrli, garantirebbe una «maggiore speranza di vita». Si configura così un mimetismo con le prospettive 211

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di sviluppo dell’economia circolare: i rifiuti disturbano il dispiegarsi, senza limiti, della vita. Una vita che non può più essere definita dalla sua insormontabile finitezza. In altre parole, la morte non è più un fenomeno naturale ma una malattia da cui guarire. Se oggi i rifiuti e la morte trovano un’eco nella figura della negazione, ciò si deve al fatto che entrambi sono assimilati a un processo patologico. Con le promesse di immortalità dei progetti di economia circolare, queste due figure della negatività sono a loro volta negate. La morte diventa «mortale» e i rifiuti diventano «gettabili»: in ambedue i casi è possibile «sbarazzarsene». Nell’economia circolare gli scarti sono assimilati a una malattia. Innanzitutto nella scelta dei termini: «prevenzione», «smaltimento» e «riduzione» sono espressioni che hanno sostituito «valorizzazione» e «riciclo». Il sistema tecnico di gestione dei rifiuti si è dato il compito di curare una malattia. Allo stesso modo, lo spreco e l’inquinamento sono descritti come manifestazioni concrete del processo patologico. La promessa di una «società senza resti» è decisamente una promessa di guarigione. La negazione dei rifiuti è la condanna della loro stessa esistenza. Vietarli impedisce di esaminarli come operatore critico e di confrontarsi con la loro materialità e condizione di oggetti: assimilando i rifiuti a una malattia si nega il loro status di indizio.

dALLA mALAttiA AL Sintomo Dietro gli slogan di economia circolare e del rifiuti-zero c’è una molteplicità di attori, pratiche, riflessioni e impegni che è improprio assimilare a un unico progetto di società. Mentre coloro che promuovono un approccio macroscopico 212

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dell’economia circolare sollecitano lo sviluppo di una società «tecnotecnologica», con «innovazioni sostenibili» e crescita ecologica, coloro che invece sostengono il rifiuti-zero a livello domestico vogliono una reale riduzione dell’impatto prodotto dai nostri scarti attraverso la stabilizzazione, persino la riduzione dell’attività produttiva, da realizzarsi con una a-crescita o addirittura una decrescita. Due visioni dell’avvenire opposte, anche se entrambe prendono atto dei cambiamenti ecologici irreversibili e incerti che sono il substrato del futuro delle società contemporanee. Da una parte come dall’altra, le trasformazioni necessarie per adattarsi a tali cambiamenti sono di ampia portata e impongono un nuovo paradigma. Se i primi pensano l’avvenire come un cambiamento «dall’alto» delle strutture di produzione, i secondi partono dai rifiuti per individuare «dal basso» i mezzi con cui rendere più resilienti le società industriali. Per riprendere i termini della contrapposizione suggerita da Philippe Bihouix, l’economia circolare pensa il cambiamento su scala macroscopica e sviluppa un immaginario dell’high-tech, mentre il rifiutizero lo intende su scala microsociologica e promuove la reinvenzione di alcune pratiche low-tech.40 A livello intermedio, i comuni del rifiuti-zero stanno in una logica di continuità con le «città di transizione» di Rob Hopkins,41 che cercano di inventare un vivere insieme zero-carbonio. Nelle iniziative locali che promuovono l’ideale di un mondo senza sprechi, le pratiche osservate si articolano, paradossalmente, sull’incessante frequentazione dei rifiuti. Prima con il compostaggio e poi con il recupero, la riparazione, il riutilizzo, ci «mettiamo le mani». Ciò che gli altri hanno abbandonato è spesso la base materiale delle pratiche di reimpiego. In altre parole più che una vita «senza rifiuti», ciò che può favorire il progetto proteiforme di «città senza rifiuti» è «fare mondo» con i resti. 213

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Con i cambiamenti locali e le scelte tecniche che sostiene e, in generale, con la sperimentazione di stili di vita più sobri, possiamo sperare che il movimento dei comuni rifiuti-zero riesca a guadagnare terreno. Preso atto della capacità del movimento di aprire prospettive interessanti, è possibile coglierne i limiti. Sul piano delle pratiche domestiche il rifiuti-zero si riduce il più delle volte a un ideale estetico di purezza «alleggerita» che oscura le questioni politiche, economiche e sociali. «Le buone pratiche» anestetizzano qualsiasi possibilità di critica. Concentrandosi sulla proposta di un’alternativa assolutamente positiva al problema della gestione dei rifiuti, molti degli zero wasters trascurano la necessaria critica degli schemi di produzione: lasciano fare. Quando resta allo stadio di pratiche individuali, slegato da un progetto collettivo, il rifiutizero favorisce lo sviluppo di «piccoli gesti» che mettono in secondo piano le «grandi scelte». Focalizzandosi sulla riduzione dei rifiuti, sul volto nascosto della produzione, si neutralizza la necessaria critica del suo volto «visibile», degli stessi processi di produzione, perché «dimentichiamo» che si continuano a produrre quantità faraoniche di materiale incontrollabile. Dimentichiamo, dunque speriamo. Come andare oltre i meccanismi di difesa che perpetuano la negazione? La terapia psicoanalitica non consiste nel basarsi sul ritorno dell’inconscio per ricostituirne la storia, capirne le dinamiche, accettarne le conseguenze ed evitare coazioni a ripetere? Anziché sigillare e spingere ancora più lontano ciò che, una volta dimenticato, risale in superficie, come fare mondo con i nostri resti? Un indizio, un segno: nel linguaggio medico lo si chiama sintomo. Un sintomo, per la medicina, non è solo un segnale ma è soprattutto una manifestazione che esprime nel visibile qualcosa che agisce nel non-visibile.42 214

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I rifiuti che ritornano dove non erano attesi, i residui che si moltiplicano ai confini del mondo, anche dove non vive l’uomo, tutti questi rifiuti sono ormai materia del presente, in grado di alimentare una storia critica dell’Antropocene. Non potendo un domani veder realizzate le promesse dell’economia circolare, poiché il circolo virtuoso del riciclo fa sempre acqua da qualche parte,43 non ci resta che farci interpreti di indizi un tempo nascosti, cercare di capire e accettare, forse, ciò che i nostri rifiuti ci dicono.

i rifiuti come mAteriALe poLitico Noi, le civiltà, ora sappiamo che siamo mortali.44

Nel 1919 il poeta Paul Valéry scriveva questa celebre frase in apertura a una lunga riflessione sull’avvenire di un’Europa sconvolta dalla Prima guerra mondiale. Quel «noi» erano i moderni e quell’«ora» indicava ciò che succede dopo un conflitto. Un secolo dopo, l’evento Antropocene, con il suo insieme di catastrofi annunciate, invita ad allargare un po’ di più lo sguardo e a riflettere sulla fragilità della potenza delle società termoindustriali. Queste ultime, a forza di porsi come obiettivo l’immortalità, hanno finito con il bruciarsi le ali come Icaro. Le prove della loro ineluttabile caduta si moltiplicano su tutti i fronti45 e, qualora non si riuscisse a evitarle, ognuno cerca di elaborare proposte e soluzioni per prevenire le conseguenze e sperimentare la vita dopo la catastrofe. Siamo ormai di fronte a Gaia: «Gaia, quella che fa intrusione, che non ci chiede niente, neanche una risposta alla domanda che ci impone».46 Alcuni tentano di sperimentare la sopravvivenza in ambiente ostile, altri la resilienza demo215

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cratica. Sta venendo alla luce una disciplina: la collassologia si è data come duplice oggetto di studio il crollo della civiltà industriale e gli scenari che potrebbero seguire.47 Come Paul Valéry, come tutti i collassologi, sono profondamente convinto che le società siano mortali, come Bruno Latour e Isabelle Stengers sono convinto anche che l’intrusione di Gaia nelle cose umane ostacoli la nostra capacità di anticipare il futuro. Stiamo attraversando un’epoca incerta: nessuna teleologia ci guida verso il futuro della nostra storia, nessun «progresso tecnico» cui aggrapparsi per credere in un avvenire migliore. Non potrei pertanto affermare che la proliferazione incontrollata dei rifiuti nella biosfera sia una prova della morte annunciata della civiltà industriale. Al contrario, sin dalle sue origini, quest’ultima non ha mai smesso di cercare di riciclarli per raggiungere l’ideale di immortalità. Ciò che l’esperienza sensibile dei rifiuti è in grado di insegnarci non è tanto la concreta necessità di anticipare e di prepararsi a ciò che verrà, quanto l’invito a capire ciò che è. Mi sembra intelligente trattare i resti prestando loro un’attenzione specifica. Non con il criterio utilitaristico di ciò a cui possono servire, di come è possibile smaltirli, di come restituire loro un valore di scambio, ma seguendo il modello ermeneutico di ciò che hanno da dirci del mondo, l’indizio significante. Nella sua opera incompiuta Parigi, capitale del XIX secolo, Walter Benjamin pensava di fare del cenciaiolo un nuovo genere di studioso.48 Differenziandosi dalla figura romantica del perdigiorno «disordinato, impulsivo e ambiguo, il cenciaiolo è metodico, riflessivo, implacabile».49 Personaggio storico che attira la sua attenzione negli ultimi anni della vita di Benjamin, quest’ultimo cerca di trasformare lo straccivendolo in un personaggio epistemologico, un modello per la sua riflessione. Marc Berdet, specialista dell’opera di Walter Benjamin, lo mette bene in evidenza: 216

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«Come il cenciaiolo raccoglie gli scarti dell’industria, Benjamin fa parlare i detriti della storia».50 Lo straccivendolo contribuisce a rendere significativo ciò che è stato dimenticato, attribuisce ai rifiuti una dimensione politica. Nel capitolo precedente ho cercato di dimostrare che innumerevoli nuovi cenciaioli vagano oggi per il mondo senza sosta, spigolando qua e là qualche frammento significativo. Collegando il mio metodo di ricerca a quello di Walter Benjamin, sostengo che, oltre a farsi interprete degli indizi sparsi, l’etica del cenciaiolo si avvicina a quella di un attivista politico. In poche parole bisogna esercitare un dovere di critica sui processi emersi dalla frequentazione dei rifiuti, perché sono processi che normalizzano un modello di sviluppo insostenibile. Messi al bando nei paesi industrializzati nel XX secolo, i rigattieri svolgono una funzione determinante nella messa in circolazione degli scarti nei paesi emergenti. La loro attività è tuttavia minacciata dall’espansione del sistema tecnico dei rifiuti che, il più delle volte, si impone come percorso non negoziabile dello sviluppo economico e umano globale.51 Qua e là, in Brasile e in Egitto, alcuni collettivi, strutturati sul modello sindacale e cooperativo, hanno deciso di fare della lotta contro l’itinerario imposto dei rifiuti una più ampia battaglia politica per un altro modello di sviluppo.52 Tale lotta non deve essere considerata frutto della responsabilità dei soli professionisti dei rifiuti. Lo sguardo del cenciaiolo aiuta a decolonizzare l’immaginario.53 Per esempio, il semplice fatto di assimilare alcune produzioni umane incontrollabili a dei rifiuti alimenta una strategia di occultamento, di cecità collettiva. Chiamiamo «rifiuti» alcuni residui delle nostre attività con i quali è impossibile fare mondo. Siano essi «radioattivi», «tossici», «scorie» o più in generale «pericolosi», chiamarli «rifiuti» rende familiare la loro natura minacciosa, banalizza la loro stessa esi217

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stenza. Questi rifiuti per la tecnica non lo sono: la loro natura e la loro vita esigono che non li si abbandoni mai. Impossibile recuperarli, impossibile farsene carico, impossibile farci mondo. La loro materialità impone sempre di controllarli, isolarli, per garantire la nostra sopravvivenza. Rifiutando di considerarli rifiuti, i nuovi cenciaioli potrebbero contribuire a restituire una dimensione inquietante a ciò che si presenta come familiare ma che altro non è che una produzione mostruosa. Quelle cose, anche se nascoste, smaltite, sono ormai l’ingombrante e duratura eredità delle società termoindustriali. Resisteranno anche dopo la scomparsa delle società che le hanno generate. Quei resti costringono a pensare una «terza natura» e le forme di vita in grado di svilupparsi. In contrapposizione all’idea di una natura selvaggia da cui la cosmologia naturalista ha cercato di affrancarci, in contrapposizione a una seconda concezione, modernista, di una natura forgiata dall’azione umana che ne rende possibile lo sfruttamento, fatale il suo inquinamento e fondamentale il suo risanamento, l’antropologa Anna Tsing definisce questa terza natura «ciò che riesce a vivere nonostante il capitalismo».54 La vita trova sempre un modo di farsi strada, anche insediandosi tra le rovine delle civiltà scomparse. Quella vita è precaria, fragile. In breve, assomiglia a quella del cenciaiolo, che spigola senza sosta i frammenti dimenticati del mondo facendosene interprete e critico.

eLogio di ciò che reStA La promessa del progetto di chiusura del mondo materiale è l’assenza di rovine, la fine dei resti. L’aspirazione a una società senza rifiuti è il frutto di una cultura moderna tutta occi218

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dentale: una ricerca di purezza fedele all’ideologia igienista che ancora oggi struttura la nostra relazione con ciò che resta. Pertanto, tale paradigma – sempre dominante – trova qualche eco tra i Chagga dell’Africa australe. Piuttosto nota per la qualità del suo sistema di integrazione, la tribù è oggetto di una narrazione illuminante di Mary Douglas. Quest’ultima sostiene che gli uomini adulti Chagga «fondano la loro reputazione di essere superlativamente puri sull’inganno»:55 Gli adulti della tribù Chagga erano soliti fingere che, con l’iniziazione, il loro ano si bloccasse per tutta la vita: si presumeva che gli uomini già iniziati non defecassero mai, a differenza delle donne e dei bambini che restavano soggetti alle loro esigenze corporali. Ci si può immaginare quali complicazioni comportasse questa finzione nei membri della tribù Chagga.56

Nella tribù africana i «maschi adulti» perpetuano una bugia che assicura la perennità del loro potere. Il mito della purezza, la preoccupazione di tenere separate la biosfera e la tecnosfera, costituisce un mezzo di affermazione di un immaginario coercitivo diffuso quanto globalizzato. Pur non avendo un atteggiamento scettico di fronte ai problemi ecologici, ho cercato di dimostrare perché l’argomentazione ecologica continua a essere il «cavallo di Troia» di un immaginario tecnico che rafforza il progetto modernista di dominazione e di controllo della natura. Il mito Chagga aiuta a ripensare l’ethos dell’«ecocittadino» come persistenza della negazione. Invece, le sperimentazioni locali di messa in relazione degli uomini con i loro resti configurano nuovi percorsi produttivi. L’incontro con l’abbandonato, le «scoperte» del cenciaiolo costituiscono percorsi creativi: la presenza dei rifiuti, il loro ascolto quasi ne sottolinea il valore di indizio, 219

CAPITOLO 5

li trasforma in veicolo di un potenziale potere sovversivo. L’oggetto che sta davanti allo spigolatore è o non è destinato a un uso a venire? È ancora «vivo», è in grado o no di funzionare di nuovo? Nelle pratiche di recupero dei rifiuti un tempo considerati inutilizzabili, in ciò che banalmente chiamiamo reimpiego, gli oggetti raccolti sono sempre portatori di consistenza significante, palinsesti che esibiscono la cifra del loro uso e della loro condizione pregressi. Queste «vite precedenti» non sempre si rivelano al cenciaiolo, tuttavia sono lì, dormienti. Ciò che distingue il reimpiego dal progetto di economia circolare è proprio la libertà attribuita o no ai rifiuti. Ciò che accade agli scarti nel loro riutilizzo non è il risultato di un design, quanto piuttosto di un dialogo tra questi, i loro spigolatori e gli ambienti che li ospitano: in breve, un assemblaggio. Ricordando la moschea di Kairouan, Jacques Berque collega la pratica del riutilizzo in architettura a un processo di unione tramite il diverso: I materiali, i lavori arrivano da tutte le parti. La moschea diventa un museo di capitelli romani, di alto e basso impero, greci e arabi, cui si aggiungono mosaici intagliati da artisti mesopotamici, piastrelle di porcellana in cui lo stile policromo dell’Andalusia affianca il monocromo più naïf amato in Africa. Una ricchissima raccolta, uno splendido accumulo e tuttavia unitario.57

Nella moschea costruita con la pratica del reimpiego niente o quasi niente è arabo, salvo, forse, il suolo che la ospita. La moschea è lì, unitaria. Ciò che emerge da questo assemblaggio casuale è il modo in cui si amalgama il diverso, l’eterogeneo. Estendendo la sua riflessione al tema della cultura, Berque afferma: 220

DOMANI, RIFIUTI-zERO? UNA CRITICA DELLE PROMESSE DELL’ECONOMIA CIRCOLARE

Sì, certo, lo spazio, la configurazione. Ma tutte le culture, come la moschea di Kairouan, non sono fatte di pezzi e di frammenti presi in prestito vicino e lontano, con livelli cronologici e distanze geografiche e sociali diversificati? Tutto ciò non è ancora più vero oggi di ieri? Tutte le culture non sono oggi, per molti aspetti, un sistema di reimpiego?58

Ciò che Berque dice della cultura, sarei tentato di applicarlo ai rifiuti: non è forse ciò che resta del miscuglio dei frammenti del mondo che una certa modernità vuole ancora tenere separato?

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Si veda, in particolare, Christian Arnsperger, Dominique Bourg, Vers une économie authentiquement circulaire. Réflexions sur les fondements d’un indicateur de circularité, «Revue de l’Ofce», vol. 145, n. 1, 2016, pp. 91-125; si vedano, inoltre, le pubblicazioni di alcune associazioni (Cniid, Propositions pour une économie vraiment circulaire: http:// cniid.fr; i principi dell’economia circolare promossi dalla Ellen MacArthur Foundation: www.ellenmacarthurfoundation.org). William McDonough, Michael Braungart, Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu edizioni, Torino 2003. Ivi, p. 100. Ibidem. Si veda, in particolare, John Ehrenfeld, Nicolas Getler, Industrial Ecology in Practice: The Evolution of Interdependence at Kalundborg, «Journal of Industrial Ecology», vol. 1, n. 1, 1997, pp. 67-79; Rachel Lombardi, Peter Laybourn, Redefining Industrial Symbiosis: Crossing Academic-Practitioner Boundaries, «Journal of Industrial Ecology», vol. 16, n. 1, 2012, pp. 28-37. Bea Johnson, Zero Waste Home: The Ultimate Guide to Simplifying Your Life by Reducing Your Waste, Scribner, New York 2013 (Zero rifiuti in casa. 100 astuzie per alleggerirsi la vita e risparmiare, Logart Press, Roma 2017). Si veda il dossier dell’associazione zero Waste Europe su questa cittadina che ha rinunciato a delegare al servizio pubblico la gestione dei rifiuti: www.zerowasteeurope.eu. Denis Duclos, La nature, principale contradiction culturelle du capitalisme?, «Actuel Marx», n. 12, Puf, Parigi 1992, p. 52.

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Si veda, per esempio, Colin Beavan, Un anno a impatto zero [2009], Cairo, Milano 2010; Jérémie Pichon, Bénédicte Moret, La famiglia zero rifiuti (o quasi): come adottare uno stile di vita sostenibile [2016], Sonda, Milano 2018. Bea Johnson, Zero Waste Home, cit. Per uno sguardo d’insieme sull’argomento si veda Joël Lebeaume, L’enseignement ménager en France: sciences et techniques au féminin, 1880-1980, Presses universitaires de Rennes, Rennes 2014. Bea Johnson, Zero Waste Home, cit., pp. 375-376. Michael Sandel, The Procedural Republic and the Unencumbered Self, «Political Theory», vol. 12, n. 1, 1984, pp. 81-96. www.zerowastehome.com. www.zerowasteeurope.eu. Cfr. il sito dell’associazione zero Waste Europe: Mapping of European Zero Waste Municipalities: http://zerowasteeurope.eu/zerowastecities.eu/. Cfr. Luc Boltanski, Ève Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo [1999], Mimesis, Milano-Udine 2014. Cfr. www.sita.fr/ip13/. Presentato dal collettivo 3R e dall’associazione zero Waste France, il piano «B’om» vuole dimostrare che si può prendere in considerazione la possibilità di un delta di quasi 200.000 tonnellate di rifiuti prodotti rispetto alle previsioni di Syctom: http://www.planbom.org/. Ibidem. Cfr. il rapporto annuale di CalRecycle (California Department of Resources Recycling and Recovery): www.calrecycle.ca.gov. I materiali interessati sono in ordine di importanza: carte e cartoni, metalli e plastica di vari tipi. William McDonough, Michael Braungart, Cradle to Cradle: créer et recycler à l’infini, cit. in Christian Arnsperger, Dominique Bourg, Vers une économie authentiquement circulaire, cit., pp. 100-101. Ellen MacArthur Foundation, McKinsey Center for Business and Environment, Growth Within: A Circular Economy Vision for a Competitive Europe, «Sun», 2015. Christian Arnsperger, Dominique Bourg, Vers une économie authentiquement circulaire, cit., p. 101. Ivi, p. 102. Cfr. Nicky Gregson, Mike Crang, Sara Fuller, Helen Holmes, Inter-

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rogating the Circular Economy: The Moral Economy of Resource Recovery in the Eu, «Economy and Society», vol. 44, n. 2, 2015, pp. 226234. Stéphane Le Lay, Le rôle des déchets dans l’histoire. Entretien avec François Jarrige et Thomas Le Roux, «Mouvements», vol. 87, n. 3, 2016, p. 68. Cfr., in particolare, Ntlibi Matete, Cristina Trois, Towards Zero Waste in Emerging Countries: A South African Experience, «Waste Management», vol. 28, n. 8, 2008, pp. 1480-1492; e, per esempio, l’iniziativa Lixo zero, promossa in Brasile da zero Waste Youth: http//juventudelixozero.org/. Daniel Hoornweg et al., Environnement: Waste Production Must Peak this Century, «Nature», vol. 502, n. 7473, 2013, pp. 615-617. Cfr. Commissariat général au développement durable, La face cachée des matières mobilisées par l’économie française, «Observation et statistiques environnement», n. 177, 2013. Stéphane Le Lay, Le rôle des déchets dans l’histoire, cit., p. 68. Nicholas Georgescu-Roegen, La décroissance. Entropie, écologie, économie [1979], Sang de la Terre, Parigi 2006, p. 76. In termodinamica, l’entropia può essere assimilata a una misura approssimativa del disordine. L’espressione «bassa entropia» rinvia a ciò che l’economia definirebbe «materia prima». Philippe Descola, Oltre natura e cultura [2005], Seid, Firenze 2014. Jean-Baptiste Fressoz, La main invisible a-t-elle le pouce vert? Les fauxsemblants de “l’écologie industrielle” au XIXe siècle, «Techniques & Culture», n. 65, Reparer le monde. Excès, reste et innovation, 2016, p. 327. Si vedano, per esempio, gli studi di Louis-Vincent Thomas, Morte et pouvoir [1978], Payot & Rivages, Parigi 2010 (Morte e potere, Lindau, Torino 2006); Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente: dal Medioevo ai giorni nostri [1975], Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 2017; Jean-Hugues Déchaux, «L’intimisation» de la mort, «L’Ethnologie française», vol. 30, n. 1, 2000, pp. 153-162. Louis-Vincent Thomas, Morte et pouvoir, cit., p. 81. Cfr. per esempio Laurent Alexandre, La mort de la mort. Comment la technomédecine va bouleverser l’humanité, J.-C. Lattès, Parigi 2011. Numerosi ricercatori si sono già dedicati a un’analisi dettagliata e circostanziata di questi movimenti sociali proteiformi (cfr., in particolare,

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Gabriel Dorthe, Naissance permanente ou immortalité? Essai de cadrage du transhumanisme, «Studia Philosophica», vol. 70, 2011, pp. 3543; nonché Marina Maestrutti, Le désir d’immortalité: la nouvelle utopie technologique?, «Technology Review», n. 5, 2008). www.sens.org. Si veda Philippe Bihouix, L’âge des low-tech: vers une civilisation techniquement soutenable, Seuil, Parigi 2014. Si veda Rob Hopkins, Manuale pratico della transizione: dalla dipendenza dal petrolio alla forza delle comunità locali [2008], Arianna, Bologna 2009; Rob Hopkins, The Power of Just Doing Stuff: How Local Action Can Change the World, Transition Books, Green Books, Cambridge 2013; Luc Semal, Mathilde Szuba, Villes en transition: imaginer des relocalisations en urgence, «Mouvements», vol. 63, n. 3, 2010, pp. 130-136. Laurent Olivier, Des vestiges. Mémoire présenté sous la direction du Professeur Sander van der Leeuw pour l’obtention de l’Habilitation à diriger des Recherches (Hdr), Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, Parigi, giugno 2004, pp. 243-244. Philippe Bihouix, L’âge des low-tech, cit. Paul Valéry, La crisi del pensiero e altri saggi «quasi politici» [1919], il Mulino, Bologna 1994, p. 27. Si veda, in particolare, Johan Rockström et al., Planetary Boundaries: Exploring the Safe Operating Space for Humanity, «Ecology and Society», vol. 14, n. 2, art. 32, 2009. Si vedano anche i famosi «grafici della Grande Accelerazione» in Will Stephen et al., The Trajectory of the Anthropocene: The Great Acceleration, «The Anthropocene Review», vol. 2, n. 1, 2015, pp. 81-98. Isabelle Stengers, Au temps des catastrophes: résister à la barbarie qui vient, La Découverte, Parigi 2008, pp. 53-54. Pablo Servigne, Raphaël Stevens, Comment tout peut s’effondrer: petit manuel de collapsologie à l’usage des générations présentes, Seuil, Parigi 2015. Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo: i passages di Parigi, Einaudi, Torino 1986. Questa parte del testo è tributaria degli studi di Marc Berdet consacrati alla lettura dell’opera di Walter Benjamin. Si veda, in particolare, Marc Berdet, Le chiffonnier de Paris. Walter Benjamin et les fantasmagories, Vrin, Parigi 2015.

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Ivi, p. 9. Ivi, pp. 9-10. Si vedano in particolare i lavori del network «Gaia» (Global Alliance for Incinerator Alternative): http://www.no-burn.org/. Si vedano, nella fattispecie, gli interventi del network mondiale dei raccoglitori, Global Alliance of Waste Pickers: http://globalrec.org; si veda anche Jérémie Cavé, La ruée vers l’ordure: conflits dans les mines urbaines de déchets, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2015; Bénédicte Florin, Résister, s’adapter ou disparaître: la corporation des chiffonniers du Caire en question, in Delphine Corteel, Stéphane Le Lay (a cura di), Les travailleurs des déchets, érès, Tolosa 2011, pp. 6991. Serge Latouche, Decolonizzare l’immaginario: il pensiero creativo contro l’economia dell’assurdo, EMI, Bologna 2014. Anna L. Tsing, The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton 2015, p. VIII. Mary Douglas, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù [1966], il Mulino, Bologna 2003, p. 250. Ibidem. Jacques Berque, L’Orient second, Gallimard, Parigi 1970, p. 34. Ivi, p. 35.

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CONCLUSIONE

Dall’ecocittadino ai cenciaioli

Ridurre la storia recente dei rifiuti a quella di una presa di coscienza di un problema ecologico legato ai fenomeni relativi allo smaltimento sarebbe fuorviante. Se la questione dei rifiuti emerge – in particolare nelle scienze sociali – nel momento della svolta ambientale, il più delle volte è per associare i rifiuti a una minaccia. Minaccia che, come per gli igienisti del XIX secolo, occorre tenere sempre sotto controllo. Nonostante gli sforzi compiuti negli ultimi quarant’anni per ridurli, riciclarli e valorizzarli, gli scarti continuano a essere considerati una patologia, un problema da risolvere. Poiché sono emblema di qualcosa di pericoloso, un rischio di inquinamento talvolta irreversibile, bisogna gestirli, farli sparire. La necessità di cura, di guarigione, si traduce oggi nella moltiplicazione degli appelli alla moderazione. Dalla società del riciclaggio all’economia circolare, passando per la prevenzione dei rifiuti, tutti gli slogan indicano l’urgenza di agire. I tassativi appelli alla moderazione possono essere letti come nuovo avatar del lungo processo di disinibizione sociale e culturale descritto da Jean-Baptiste Fressoz e Christian Bonneuil.1 L’Antropocene è una manifestazione, la conseguenza di una serie complessa di scelte politiche, economiche e scientifiche, e non un dato di fatto, una «cosa» che si presenta oggi come una grande narrazione che impone agli uomini una visione manageriale, 229

CONCLUSIONE

«geocratica» del mondo. In breve, si tratta di sottrarsi al carattere tassativo e disumanizzato dei ripetuti appelli al pilotaggio del pianeta. Appelli che esprimono uno smarrimento collettivo causato da quasi due secoli di sacralizzazione della potenza e di negazione della fragilità.2 La storia dell’Antropocene è quella delle disinibizioni che normalizzarono l’insostenibile: l’igiene che aggirò la medicina ambientale del XVIII secolo, la norma tecnica che eliminò le contestazioni e costituì l’ontologia della gestione dell’inquinamento, la proliferazione di oggetti che costruì il soggetto antropologico liberale, il Pil e la nozione di economia che legittimarono l’idea assurda di crescita infinita, le «soluzioni» tecnoscientifiche che in ogni epoca pretesero di portare la natura al suo massimo rendimento, e molte altre ancora.3

Nel primo capitolo abbiamo posto l’accento sulla centralità dei movimenti igienisti nell’ambito della nascita, nel corso dell’Ottocento, di un’accezione moderna dei rifiuti: le accuse contro la sporcizia organica hanno giustificato la normalizzazione del principio di abbandono ma hanno anche legittimato le tecniche di eliminazione dei residui domestici. L’introduzione della pattumiera, vero e proprio dispositivo di confinamento che disciplina sia il caos dei rifiuti sia le città e i loro abitanti, non è avvenuta senza suscitare le vivaci reazioni dei lavoratori dei rifiuti, i cenciaioli, che avevano fatto dell’immondizia non solo una fonte di sostentamento ma addirittura il loro emblema. Tenendo conto della «proliferazione degli oggetti» che ha costruito il «soggetto antropologico liberale», si deve ricordare il ruolo dell’usa e getta che ha reso il principio di smaltimento l’indispensabile contraltare dello sviluppo del «mondo dei beni». Modalità raffinata del processo di ab230

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bandono, «gettare bene» per il soggetto alleggerito è una risposta moralmente accettabile. Infine, qualche catastrofe ecologica strettamente collegata all’esistenza dei nostri rifiuti stimola la moltiplicazione di incerte e talvolta inquietanti soluzioni geoingegneristiche. Ma è necessario ricordare che le materie plastiche, che hanno colonizzato il mondo a tutti i livelli, sono divenute indispensabili soltanto grazie all’ignoranza, all’«occultamento» delle minacce provocate dalla loro natura extraterrestre. Paradossalmente, la denuncia ambientalista della «civiltà della pattumiera» e la richiesta di un urgente intervento hanno legittimato l’idea secondo la quale stavamo vivendo una «crisi dei rifiuti».4 Le minacce sempre più incalzanti hanno occultato la stessa possibilità di pensarli nel loro impatto sociale, nella loro ecologia mentale, nella complessità del loro percorso storico. Il paradigma della minaccia ha condotto ad affrontare i residui come una quantità di materia abbandonata, da smaltire, gestire razionalmente, cioè ecologicamente. In altre parole, affermare l’esistenza di una crisi dei rifiuti come emergenza ecologica ha impedito a questi ultimi di fungere da operatore critico e ha perpetuato il tabù della nostra presenza rispetto a ciò che resta.

i due voLti deLL’homo detrituS In questo saggio ho cercato di individuare le due grandi narrazioni che strutturano il rapporto delle società contemporanee con i loro rifiuti, due paradigmi che definiscono il ventaglio delle nostre relazioni con ciò che resta. Come l’anthropos dell’Antropocene, l’Homo detritus non è affatto unitario. Da una parte, la figura dell’ecocittadino emblematizza un immaginario modernista di separazione tra sfera tecnica e sfera biologica: la preoccupazione di tenere sepa231

CONCLUSIONE

rati natura e artificio perpetua una negazione necessaria al mantenimento simbolico della frontiera, tutta naturalista, tipica della modernità termoindustriale. Dall’altra, la figura del cenciaiolo, emblema di un immaginario di ibridazione, mostra un rapporto con i resti che si configura come un dialogo tra lo scarto e l’ambiente che lo accoglie, naturale e non, umano e non. Appare come presenza del rifiuto, quale attaccamento e compagnia anziché come un’eliminazione. La distinzione tra l’ecocittadino e il cenciaiolo rinvia all’opposizione proposta da Bruno Latour tra moderni e terrestri che, tutti, si ritrovano di fronte a Gaia. I due volti di Homo detritus sono perciò più il riflesso del conflitto simbolico che anima le nostre relazioni essenzialmente equivoche e contraddittorie con i resti che non dei ritratti realistici e normativi. Tipica dell’epoca contemporanea dei rifiuti, la figura dell’ecocittadino si è lentamente costruita sul credo rappresentato dalla preoccupazione morale di «gettare bene». L’introduzione delle «buone pratiche» poteva essere il punto di partenza di un movimento di ecologizzazione, la conseguenza virtuosa di una presa di coscienza collettiva, di un «risveglio» legato alla svolta ambientale della fine del XX secolo. In realtà, la morale «ecologica» del gettare ha potenziato un approccio manageriale delle tecniche di gestione dei rifiuti. In altre parole, «buttare via nel modo giusto» è stata una strategia di diversione che ha messo da parte la questione delle cause e ha permesso di non confrontarsi con le radici di un problema ben più ampio. Con il pretesto di un approccio pragmatico alla «crisi» dei rifiuti, è stata elaborata una risposta totale che obbliga gli utenti a ravvivare la fede in un ordine superiore, interiorizzato. La fede si è tradotta nel rispetto di rituali quotidiani che garantiscono l’assuefazione al diffuso potere coercitivo e, per certi aspetti, totalitario. L’antropologo e sociologo 232

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Georges Balandier riassume con chiarezza il meccanismo della modernità attraverso l’oblio: Novello ordine, il sistema totalitario moderno fa della rottura con il passato e della proiezione nell’avvenire, verso cui trascina le masse, una trasgressione obbligatoria. Esso rinnega interamente ciò che ha reso l’uomo più umano nel corso della storia anteriore, producendo un’autentica amnesia, una pedagogia dell’oblio.5

La pattumiera e i rifiuti che la riempiono sono il luogo di esercizio privilegiato del potere cui una larga maggioranza di coloro che gettano ha accettato, senza saperlo, di piegarsi. Se tale potere è diffuso ciò dipende dal fatto che esso è nello stesso tempo istituzionale, economico, industriale, politico, ma è anche possibile trovarne traccia nella percezione e nella rappresentazione dei consumatori e dei cittadini, nelle nostre pratiche quotidiane e familiari di routine. Con il pretesto di un approccio pragmatico, il potere è stato esercitato come un tentativo di occultamento: l’argomentazione ecologica ha attribuito allo sviluppo di una «pedagogia dell’oblio» una dimensione pragmatica. Da quarant’anni la riforma ambientale dei rifiuti è stata la vetrina di un sistema di sapere-potere che si è strutturato non sul modello del movimento, caro a Balandier, ma su quello della risposta totale: un’impresa di occultamento paragonabile a una fabbrica dell’oblio. L’oblio è quello delle cose gettate, della loro esistenza, talvolta della loro storia, ma è anche quello della natura, del «pianeta» che cerchiamo tuttavia di preservare sbarazzandoci nel modo giusto dei nostri rifiuti. La figura del cenciaiolo è diversa da quella dell’ecocittadino. Rinvia a un «momento» distinto dei rifiuti: l’attività dello straccivendolo è connessa più al momento del confronto con i rifiuti che ci sono già che non a quello in cui vengono 233

CONCLUSIONE

gettati. Spigolatore, il cenciaiolo raccoglie ciò che altri, esseri umani e non, hanno già abbandonato. Poiché hanno cercato di opporre resistenza alla loro eliminazione annunciata, protestando ferocemente contro la normalizzazione dei rifiuti, l’eredità politica dei cenciaioli sollecita la messa in discussione dell’immaginario gestionale e tecnico totalizzante. Interpreti di una logica utilitaria che fa della loro attività uno snodo imprescindibile dell’equilibrio metabolico urbano, gli straccivendoli sono diventati i portatori di una rivendicazione sociale e culturale. Hanno sostenuto un’idea sovversiva degli scarti: quella della possibilità di riappropriarsene, come la materia prima di un altro modo di fare mondo. I nuovi cenciaioli continuano oggi la lotta, indicando altre modalità per occuparsi di ciò che resta. I rifiuti non sembrano più una minaccia, un’anomalia e ancor meno una patologia, ma un frammento significante del mondo. Nelle realtà locali, dove le persone che gettano si fanno carico della gestione dei rifiuti domestici, assistiamo a esperienze di autonomia, di prese di posizione nei confronti di un modello gestionale onnipresente. I freegans che hanno deciso di fare delle pattumiere la loro dispensa, i collettivi di «recuperatori» che sorgono nei paesi del Sud, tutti tracciano percorsi creativi, strade per inventare un fare mondo con i resti. In linea generale, la figura del cenciaiolo aiuta a capire come determinati modi di gettare possano talvolta essere assimilati a una sorta di dono più che a un semplice processo di abbandono. Poiché sono i rappresentanti di una forma premoderna di gestione dei rifiuti urbani, poiché hanno contribuito alla circolazione permanente dei residui domestici fino a quando la loro attività è stata bandita dalle grandi città occidentali, poiché ne hanno fatto l’oggetto di una rivendicazione politica, i cenciaioli invitano a considerare i rifiuti il supporto di un’azione critica collettiva. Essi obbligano a pensare alla rinascita di una certa economia del do234

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no: collettivi di bricolage, di riparazioni di tutti i tipi, feste della gratuità ma anche fervore per il reimpiego o, persino, reinvenzione della spigolatura in città. Sono percorsi creativi tanto più preziosi in quanto fragili. Essi disegnano i contorni di un’etica della cura, del precario, dei resti come bene comune, in contrapposizione con le promesse di grandezza e di controllo di una civiltà in cerca di immortalità.

niente ALL’eSterno, SoLo ALL’interno Nell’era dell’Antropocene i nostri rifiuti sono gli indicatori materiali della storia sociale, politica e culturale che ci ha proiettati in una nuova geologia. Sin da ora, rappresentano gli indizi di una trasformazione globale cui non è certo che siamo, o saremo un giorno, veramente pronti. Abbiamo a lungo privilegiato tecniche che ci hanno allontanato, e ancora ci separano, dalla nostra casa comune. Abbiamo fatto della Terra e della vita che la anima un ambiente, abbiamo dato al mondo un’esteriorità che oggi ci porta sia a inquinarlo – ad appropriarcene – sia a cercare, spesso invano, di proteggerlo. È forse quel mondo, quella rappresentazione di un mondo da dominare di cui ormai si deve elaborare il lutto.6 Bisogna abbandonare la rappresentazione del pianeta «visto dall’alto» simile a una navicella spaziale high-tech, che ha giustificato l’intervento di un’ingegneria globale presumibilmente capace di regolare l’equilibrio di un «sistema Terra» ridotto a un vasto apparato produttivo da gestire e da ottimizzare.7 Bisogna farla finita con le promesse di alcuni altri «apprendisti stregoni del clima».8 A tutto questo voglio contrapporre l’immagine della nave-mondo che qualche mese passato a vagare sulla superficie del nostro pianeta mi ha portato a immaginare. Quella nave-mondo è fatta alla bell’e 235

CONCLUSIONE

meglio, di umano e non. È impossibile rappresentare tale assemblaggio sempre in movimento nella sua totalità, nella sua diversità, nella sua complessità. Ognuno è in grado di percepirvi puntualmente i rapporti di forza che si stabiliscono, da un lato, tra coloro che vorrebbero che la nave andasse più lontano, più veloce, più in fretta, e altri che, dall’altro, preferirebbero vederla rallentare per ritrovare, a bordo, del tempo per vivere. In quella nave-mondo non c’è nessun timone, «non c’è mai stato»,9 e nessun «pilota» in grado di modificare la rotta della nave investita da una tempesta, neppure un equipaggio coeso ma perenni conflitti, collettivi effimeri,10 spesso in disaccordo. Se davvero siamo «tutti» sulla stessa barca, la figura del cenciaiolo può aiutarci a immaginare un modo proficuo di abitarla: senza sperare di controllarne la corsa, di tamponarne le falle, di cercare di degassare in mare verso un ipotetico fuori, di aggrapparsi alla speranza un po’ folle che un giorno sarà possibile «lasciare la nave» e cambiarla. Andando su e giù per il ponte, rovistando nelle stive e in altri angoli dimenticati, i cenciaioli ci dicono invece che si può sempre agire, anche quando la situazione è disperata. Essi prestano un’attenzione costante e ripetuta a questa casa comune – che non chiede niente, neanche di essere protetta –, raccolgono con pazienza i frammenti sepolti e dimenticati del mondo, si mettono al loro ascolto e cercano di farsene interpreti. Il cenciaiolo, che Walter Benjamin ha reso il «modello di un nuovo tipo di scienziato», è anche, e forse soprattutto, un attivista politico. Assumendosi fisicamente l’onere dei rifiuti, trovandovi materia per una critica delle scelte che hanno fatto proliferare l’insostenibile, obbliga a prendere posizione nel presente, a impugnare politicamente la gestione dei rifiuti per costruire una contestazione collettiva, forse un ammutinamento, nei confronti di coloro che pretendono di controllare il mondo appropriandosene. 236

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Si veda Jean-Baptiste Fressoz, L’Apocalypse joyeuse. Une histoire du risque technologique, Seuil, Parigi 2012; Christophe Bonneuil, JeanBaptiste Fressoz, L’événement Anthropocène: la Terre, l’histoire et nous, Seuil, Parigi 2013, in particolare, «L’Univers historique», pp. 61-112. Cfr. Alain Gras, Fragilità della potenza. Liberarsi dall’incantesimo di un mondo artificiale [2003], Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2015. Christophe Bonneuil, Jean-Baptiste Fressoz, L’événement Anthropocène, cit., p. 270. Su questo tema si veda Martin O’Brien, A Crisis of Waste? Understanding the Rubbish Society, Routledge, New York-Londra 2008. Georges Balandier, Il disordine. Elogio del movimento [1988], Dedalo, Bari 1991, p. 281. Su questo argomento si veda Clive Hamilton, Requiem for a Species: Why We Resist the Truth about Climate Change, Routledge, New YorkLondra 2010. Sebastian V. Grevsmühl, La Terre vue d’en haut. L’invention de l’environnement global, Seuil, Parigi 2014. Clive Hamilton, Earthmasters: the Dawn of the Age of Climate Engineering, Yale University Press, New Haven 2013. Jean-Marie Guyau, Abbozzo di una morale senza obbligazione né sanzione, Le Monnier, Firenze 1971, p. 158. Cfr. Sophie Poirot-Delpech (a cura di), Des collectifs éphemères, Socioanthropologie, Publications de la Sorbonne, n. 33, Parigi 2016.

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Ringraziamenti

Se qualche volta la scrittura di un libro può assumere i tratti di un’esperienza di navigazione in solitaria, queste pagine sono il frutto di incontri decisivi con persone cui va la mia riconoscenza. Per prima cosa devo ringraziare tutti coloro, uomini e donne, che mi hanno concesso del tempo per parlare dei loro rifiuti e di quelli degli altri e mi hanno fornito la materia prima di questa indagine. Grazie a Sophie PoirotDelpech, senza la quale la tesi che sta alla base di questo libro non avrebbe potuto realizzarsi, ad Alain Gras, Bernadette Bensaude-Vincent, Sébastien Broca, Marc Berdet, Raphaël Koster, Jeanne Guien e ai membri del Cetcopra che mi hanno accompagnato nel mio percorso accademico. Un ringraziamento va anche a Laurent Camus per la sua preziosa amicizia, a Gay Hawkins, Élisabeth Anstett, Nathalie Ortar, Delphine Corteel, Octave Debary, Bénédicte Florin, Agnès Jeanjean, Émile Guitard, Violetta Ramirez e a tutti coloro che qui dimentico ma con cui continuo a imparare a pensare i rifiuti. Grazie a Stéphane Le Lay per avermi cortesemente prestato le parole che compongono il titolo di questo libro. Grazie a Christophe Bonneuil per aver deciso di pubblicarlo e per averlo arricchito con le sue illuminanti osservazioni e a Dominique Pestre e ai membri del Centre Alexandre Koyré per l’incoraggiamento e la generosa accoglienza. Grazie all’Ademe e all’Ifris per il con239

RINGRAzIAMENTI

tributo finanziario che mi hanno concesso nelle diverse fasi di questo lavoro. Grazie a Yann, Julien e Pierre per quell’anno indimenticabile passato a navigare negli oceani di plastica, ai membri di Worgamic per avermi insegnato i primi rudimenti del compostaggio nelle aree urbane, all’équipe del Cniid che, già da tempo, mi aveva incoraggiato a continuare le mie ricerche. Grazie alle mie famiglie, numerose, e ai miei amici e alle mie amiche che non potrei qui menzionare senza correre il rischio di dimenticarne alcuni e di fare torto ad altri. Grazie infine a Gabrielle e Luce che illuminano le mie giornate.

240

Indice

Premessa

5

Note

9

Introduzione L’Antropocene è uno Spazzaturocene Una nuova specie per una nuova epoca Una crisi dei rifiuti? Dimmi cosa getti e ti dirò chi sei Rifiuti e modernità

11 11 13 15 18 21

Note

27

Capitolo 1 L’invenzione dei rifiuti: la normalizzazione dell’abbandono I rifiuti premoderni Dalla città maleodorante all’idea del riciclo delle materie Città di sporcizia Il regno della decomposizione: i rifiuti non esistono La circolazione permanente dell’immondizia I lavoratori della spazzatura: professionisti o canaglie? Venti contrari: la vittoria dell’igiene Un’economia circolare anzitempo?

34 34 36 38 40 43 45

I rifiuti moderni Fine della circolazione e dell’accumulo: verso l’eliminazione dell’immondizia Confinamenti: «tutto nella fogna» e «tutto nella fossa»

48 50

La spazzatura come luogo di confino... ... e come oggetto di protesta

52 54

Accumulo: il calcolo economico che istituzionalizza il sistema di smaltimento Tempo di guerra e tempo di pace: gettare come stile di vita La normalizzazione dei rifiuti o la loro presenza patologica

62 64

Note

67

56

Capitolo 2 La società del riciclaggio: come i rifiuti sono diventati un problema ambientale Dal locale al globale: l’ecologizzazione strategica dei rifiuti Waste management: il business della gestione dei rifiuti Dalla svolta ambientale alla liberalizzazione della gestione dei rifiuti Rifiuti «per» la tecnica

78 81 84 88

1990: l’utente al servizio del waste management La morale del «gettare bene»: come fare di un problema globale una responsabilità individuale Dal gesto ecologico all’oblio della tecnica Ecocittadino per dovere Il punto cieco della politica dei «piccoli gesti» I rifiuti: il cavallo di Troia dell’ambientalizzazione del quotidiano «Gettare bene» per dimenticare «meglio»

90

100 102

Note

105

93 95 97 99

Capitolo 3 Un mondo di plastica: la fabbrica di un’eternità «usa e getta» La plastica ha colonizzato la biosfera Ripulire il pianeta? La plastica, un materiale del futuro (anteriore) Una resistenza «extraterrestre»

La plastica è usa e getta? L’usa e getta come motore di crescita

La plastica è (bio)degradabile? Bioplastica Un veleno così discreto

113 116 120 125

126 129

132 134 136

La plastica è riciclabile? Vietare la plastica?

139 143

Note

148

Capitolo 4 Ritorno alla terra: i nuovi cenciaioli L’amnesia dei rifiuti organici Lottare contro lo spreco Nuovi cenciaioli? Il lombricompostaggio: l’etica del verme Lo spreco come nuovo corno dell’abbondanza?

159 162 166 168 171

Freegans! 172 Verso un’economia del dono? Condividere per contestare 174

Sul potenziale sovversivo dei resti: la messa in subbuglio del mondo Di qualche potlatch fatto di resti I rifiuti come indizio?

177 180 183

Note

186

Capitolo 5 Domani, rifiuti-zero? Una critica delle promesse dell’economia circolare Il minimalismo light del rifiuti-zero Città rifiuti-zero Ecoconcezione ed ecologia industriale: le «falle» dell’economia circolare Promesse di immortalità Dalla malattia al sintomo I rifiuti come materiale politico Elogio di ciò che resta

196 200

Note

222

204 209 212 215 218

Conclusione Dall’ecocittadino ai cenciaioli I due volti dell’Homo detritus Niente all’esterno, solo all’interno

231 235

Note

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Ringraziamenti

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