Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica, Critica del Giudizio
 9788858139400

Table of contents :
Indice......Page 1257
Frontespizio......Page 2
Cronologia della vita e delle opere di Kant......Page 14
CRITICA DELLA RAGION PURA......Page 17
La fondazione della metafisica......Page 18
L’oggetto fisico......Page 19
L’oggetto matematico......Page 21
La critica come propedeutica......Page 22
La teoria dell’oggettivazione......Page 23
I presupposti......Page 24
Le condizioni della ricezione sensibile......Page 26
I nessi pensati dall’intelletto......Page 27
Lo schematismo......Page 28
L’unità dell’esperienza......Page 29
L’unità della deduzione......Page 30
Il rovesciamento del principio di Hume......Page 31
Lo «schematismo» del giudizio......Page 32
La fine della vecchia metafisica......Page 34
La riprova dell’idealismo trascendentale......Page 35
Razionalismo in funzione della scienza......Page 36
La fortuna della «Critica»......Page 39
La «Critica» nella filosofia contemporanea......Page 41
Nota al testo......Page 44
1909......Page 48
1918......Page 61
1966......Page 62
Critica della ragion pura......Page 64
Prefazione......Page 67
Prefazione alla seconda edizione......Page 74
I......Page 93
II......Page 94
III......Page 96
IV......Page 98
V......Page 100
VI......Page 103
VII......Page 106
I. Dottrina trascendentale degli elementi......Page 111
§ 1.......Page 112
§ 2. Esposizione metafisica di questo concetto......Page 113
§ 3. Esposizione trascendentale del concetto di spazio......Page 115
§ 4. Esposizione metafisica del concetto del tempo......Page 118
§ 5. Esposizione trascendentale del concetto del tempo......Page 119
§ 6. Corollari di questi concetti......Page 120
§ 7. Chiarimento......Page 122
§8. Osservazioni generali sull’estetica trascendentale......Page 125
I. Della logica in generale......Page 135
II. Della logica trascendentale......Page 138
III. Della divisione della logica generale in analitica e dialettica......Page 139
IV. Divisione della logica trascendentale in Analitica e Dialettica trascendentale......Page 142
I. Analitica trascendentale......Page 144
Libro Primo. Analitica dei concetti......Page 145
Sezione Prima. Dell’uso logico dell’intelletto in generale......Page 146
§9. Della funzione logica dell’intelletto nei giudizi......Page 148
§ 10. Dei concetti puri dell’intelletto o categorie......Page 152
§ 11.......Page 156
§ 12.......Page 158
§ 13. Dei princìpi di una deduzione trascendentale in generale......Page 160
§ 14. Passaggio alla deduzione trascendentale delle categorie......Page 164
§ 15. Della possibilità di una unificazione in generale......Page 167
§ 16. Dell’unità sintetica originaria dell’appercezione......Page 168
§ 17. Il principio dell’unità sintetica dell’appercezione è il principio supremo di ogni uso dell’intelletto......Page 170
§ 19. La forma logica di tutti i giudizi consiste nell’unità oggettiva dell’appercezione dei concetti in essi contenuti......Page 172
§ 21. Annotazione......Page 174
§ 22. La categoria non ha altro uso alla conoscenza delle cose che di esser applicata agli oggetti dell’esperienza......Page 175
§ 23.......Page 176
§ 24. Dell’applicazione delle categorie agli oggetti dei sensi in generale......Page 177
§ 25.......Page 181
§ 26. Deduzione trascendentale dell’uso empirico possibile in generale dei concetti puri dell’intelletto......Page 182
§ 27. Risultato di questa deduzione dei concetti dell’intelletto......Page 185
Libro Secondo. L’analitica dei princìpi......Page 190
Introduzione Del giudizio trascendentale in generale......Page 192
Capitolo Primo Dello schematismo dei concetti puri dell’intelletto......Page 195
Capitolo Secondo Sistema di tutti i princìpi dell’intelletto puro......Page 201
Sezione Prima. Del principio supremo di tutti i giudizi analitici......Page 202
Sezione Seconda. Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici......Page 204
Sezione Terza. Rappresentazione sistematica di tutti i princìpi sintetici dell’intelletto puro......Page 206
1. Assiomi dell’intuizione......Page 208
2. Anticipazioni della percezione......Page 211
3. Analogie dell’esperienza......Page 217
A. Prima analogia: Principio della permanenza della sostanza.......Page 220
B. Seconda analogia: Principio della serie temporale secondo la legge della causalità.......Page 225
C. Terza analogia: Principio della simultaneità secondo la legge dell’azione vicendevole o reciprocità.......Page 237
4. I postulati del pensiero empirico in generale.......Page 242
Capitolo Terzo. Del principio della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni......Page 260
Appendice. Anfibolia dei concetti della riflessione per lo scambio dell’uso empirico dell’intelletto con l’uso trascendentale......Page 275
I. dell’apparenza trascendentale......Page 293
II. della ragion pura come sede dall’apparenza trascendentale......Page 296
Libro Primo. Dei concetti della ragion pura......Page 303
Sezione Prima. Delle idee in generale......Page 304
Sezione Seconda. Delle idee trascendentali......Page 308
Sezione Terza. Sistema delle idee trascendentali......Page 315
Libro Secondo. Dei raziocinii dialettici della ragion pura......Page 319
Capitolo Primo. Dei paralogismi della ragion pura......Page 321
Capitolo Secondo. L’antinomia della ragion pura......Page 338
Sezione Prima. Sistema delle idee cosmologiche......Page 339
Sezione Seconda. Antitetica della ragion pura......Page 345
Primo conflitto delle idee trascendentali......Page 348
Secondo conflitto delle idee trascendentali......Page 352
Terzo conflitto delle idee trascendentali......Page 357
Quarto conflitto delle idee trascendentali......Page 361
Sezione Terza. Dell’interesse della ragione in questo suo conflitto......Page 366
Sezione Quarta. Dei problemi trascendentali della ragion pura in quanto devono assolutamente poter essere risoluti......Page 373
Sezione Quinta. Rappresentazione scettica delle questioni cosmologiche per tutte quattro le idee trascendentali......Page 377
Sezione Sesta. L’idealismo trascendentale come chiave della soluzione della dialettica cosmologica......Page 380
Sezione Settima. Soluzione critica del conflitto cosmologico della ragione con se stessa......Page 384
Sezione Ottava. Principio regolativo della ragion pura rispetto alle idee cosmologiche......Page 389
Sezione Nona. Dell’uso empirico del principio regolativo della ragione rispetto a tutte le idee cosmologiche......Page 393
I. soluzione dell’idea cosmologica della totalità della riunione dei fenomeni in un universo......Page 394
II. Soluzione dell’idea cosmologica della totalità della divisione d’un tutto dato in una intuizione......Page 397
Osservazione finale sulla soluzione delle idee matematico-trascendentali e avvertenza preliminare per la soluzione delle idee dinamico-trascendentali......Page 400
III. soluzione delle idee cosmologiche della totalità della derivazione degli avvenimenti cosmici dalle loro cause......Page 402
Possibilità della causalità per la libertà in accordo con le leggi universali della necessità naturale......Page 405
Spiegazione dell’idea cosmologica di libertà in rapporto con la necessità universale della natura......Page 407
IV. soluzione dell’idea cosmologica della totalità della dipendenza dei fenomeni, rispetto alla loro esistenza in generale......Page 416
Osservazione finale intorno a tutta l’antinomia della ragion pura......Page 419
Sezione Prima. Dell’ideale in generale......Page 424
Sezione Seconda. Dell’ideale trascendentale (Prototypon trascendentale)......Page 426
Sezione Terza. Degli argomenti della ragion speculativa per dimostrare l’esistenza di un essere supremo......Page 432
Sezione Quarta. Dell’impossibilita di una prova ontologica dell’esistenza di dio......Page 436
Sezione Quinta. Dell’impossibilità di una prova cosmologica dell’esistenza di dio......Page 442
Scoperta e illustrazione dell’apparenza dialettica in tutte le prove trascendentali dell’esistenza di un essere necessario......Page 448
Sezione Sesta. Dell’impossibilità della prova fisico-teologica......Page 451
Sezione Settima. Critica di ogni teologia fondata su princìpi speculativi della ragione......Page 457
Dell’uso regolativo delle idee della ragion pura......Page 465
Dello scopo finale della dialettica naturale della ragione umana......Page 479
II. Dottrina trascendentale del metodo......Page 498
Capitolo Primo. La disciplina della ragion pura......Page 500
Sezione Prima. La disciplina della ragion pura nell’uso dommatico......Page 502
Sezione Seconda. La disciplina della ragion pura rispetto al suo uso polemico......Page 515
Della impossibilità di un appagamento scettico della ragione in disaccordo con se stessa......Page 525
Sezione Terza. La disciplina della ragion pura rispetto alle ipotesi......Page 531
Sezione Quarta. La disciplina della ragion pura rispetto alle sue dimostrazioni......Page 538
Capitolo Secondo. Il canone della ragion pura......Page 547
Sezione Prima. Dello scopo ultimo dell’uso della nostra ragione......Page 548
Sezione Seconda. Dell’ideale del sommo bene come principio determinante del fine ultimo della ragion pura......Page 551
Sezione Terza. Dell’opinione, della scienza e della fede......Page 560
Capitolo Terzo. L’architettonica della ragion pura......Page 567
Capitolo Quarto. La storia della ragion pura......Page 578
Appendice. Brani della prima edizione esclusi dalla seconda......Page 581
Sezione Seconda. Dei fondamenti a priori della possibilità dell’esperienza......Page 582
Sezione Terza. Del rapporto dell’intellettto con gli oggetti in generale e della possibilità di conoscere questi a priori......Page 592
Primo paralogismo: della sostanzialità......Page 601
Secondo paralogismo: della semplicità......Page 602
Terzo paralogismo: della personalità......Page 608
Quarto paralogismo: della idealità (del rapporto esterno)......Page 610
Considerazione sulla somma della psicologia pura in conseguenza di questi paralogismi......Page 617
Abbreviazioni......Page 631
CRITICA DELLA RAGION PRATICA......Page 655
Introduzione. Genesi e struttura dell’opera di Sergio Landucci......Page 656
Nota del traduttore......Page 676
Nota del revisore......Page 679
Critica della ragion pratica......Page 683
Prefazione......Page 684
Introduzione. Dell’idea di una critica della ragion pratica......Page 695
1. Dottrina degli elementi della ragion pura pratica......Page 697
Libro primo. Analitica della ragion pura pratica......Page 698
Scolio......Page 699
§ 2. Teorema I......Page 701
Corollario......Page 702
Scolio I......Page 703
Scolio II......Page 705
§ 4. Teorema III......Page 707
Scolio......Page 708
§ 5. Problema I......Page 709
Scolio......Page 710
§ 7. Legge fondamentale della ragion pura pratica......Page 711
Scolio......Page 712
Scolio......Page 713
§ 8. Teorema IV......Page 714
Scolio I......Page 715
Scolio II......Page 716
I. Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica......Page 723
II. Del diritto della ragion pura, nell’uso pratico, a una estensione che non le è possibile nell’uso speculativo per sé......Page 731
Capitolo secondo. Del concetto di un oggetto della ragion pura pratica......Page 739
Tavola delle categorie della libertà, in relazione ai concetti del bene e del male......Page 747
Della tipica del giudizio puro pratico......Page 748
Capitolo terzo. Dei moventi1 della ragion pura pratica......Page 753
Dilucidazione critica dell’analitica della ragion pura pratica......Page 769
Libro secondo. Dialettica della ragion pura pratica......Page 788
Capitolo primo. Di una dialettica della ragion pura pratica in generale......Page 789
Capitolo secondo Della dialettica della ragion pura nella determinazione del concetto del sommo bene......Page 792
I. L’antinomia della ragion pratica......Page 795
II. Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica......Page 796
III. Del primato della ragion pura pratica nella sua unione con la speculativa......Page 801
IV. L’immortalità dell’anima come un postulato della ragion pura pratica......Page 803
V. L’esistenza di Dio, come postulato della ragion pura pratica......Page 805
VI. Sui postulati della ragion pura pratica in generale......Page 811
VII. Come sia concepibile un’estensione della ragion pura, nel rispetto pratico, senza che perciò nello stesso tempo sia estesa la sua conoscenza come ragione speculativa......Page 813
VIII. Dell’adesione che deriva da un bisogno della ragion pura......Page 821
IX. Della proporzione saggiamente conveniente delle facoltà di conoscere dell’uomo rispetto alla sua destinazione pratica......Page 824
2. Dottrina del metodo della ragion pura pratica......Page 829
Conclusione......Page 840
Abbreviazioni......Page 843
CRITICA DEL GIUDIZIO......Page 855
Introduzione di Paolo D’Angelo......Page 856
Avvertenza alla presente edizione......Page 891
Prefazione del traduttore......Page 892
Nota del revisore......Page 899
Avvertenza del revisore......Page 903
Critica del giudizio......Page 904
Prefazione......Page 905
I. Della divisione della filosofia.......Page 909
II. Del dominio della filosofia in generale.......Page 911
III. Della critica del Giudizio come mezzo per riunire in un tutto le due parti della filosofia.......Page 914
IV. Del Giudizio come facoltà legislativa «a priori».......Page 916
V. Il principio della finalità formale della natura è un principio trascendentale del Giudizio.......Page 917
VI. Dell’unione del sentimento di piacere col concetto della finalità della natura.......Page 922
VII. Della rappresentazione estetica della finalità della natura.......Page 924
VIII. Della rappresentazione logica della finalità della natura.......Page 928
IX. Del legame tra la legislazione dell’intelletto e quella della ragione mediante il Giudizio.......Page 931
Parte prima. Critica del giudizio estetico......Page 935
Sezione prima. Analitica del giudizio estetico......Page 936
§ 1. Il giudizio di gusto è estetico.......Page 937
§ 2. Il piacere che determina il giudizio di gusto è scevro di ogni interesse.......Page 938
§ 3. Il piacere del piacevole è legato ad un interesse.......Page 939
§ 4. Il piacere che dà il buono è legato all’interesse.......Page 940
§ 5. Comparazione dei tre modi specificamente diversi del piacere.......Page 942
§ 7. Comparazione del bello col piacevole e col buono mediante l’osservazione precedente.......Page 944
§ 8. L’universalità del piacere in un giudizio estetico è rappresentata solo come soggettiva.......Page 946
§ 9. Esame della questione, se nel giudizio di gusto il sentimento di piacere preceda il giudizio sull’oggetto, o viceversa.......Page 949
§ 10. Della finalità in generale.......Page 952
§ 12. Il giudizio di gusto riposa su fondamenti «a priori».......Page 953
§ 14. Illustrazione con esempii.......Page 955
§ 15. Il giudizio di gusto è del tutto indipendente dal concetto della perfezione.......Page 958
§ 16. Il giudizio di gusto, col quale un oggetto è dichiarato bello sotto la condizione di un determinato concetto, non è puro.......Page 960
§ 17. Dell’ideale della bellezza.......Page 963
§ 19. La necessità soggettiva, che attribuiamo al giudizio di gusto, è condizionata.......Page 967
§ 21. Se si possa presupporre con ragione un senso comune.......Page 968
§ 22. La necessità dell’accordo universale, che è pensata in un giudizio di gusto, è una necessità soggettiva, che è rappresentata come oggettiva con la presupposizione di un senso comune.......Page 969
Nota generale alla prima sezione dell’analitica......Page 970
§ 23. Passaggio dalla facoltà del giudizio del bello a quella del sublime.......Page 975
§ 24. Della divisione di un’analisi del sentimento del sublime.......Page 977
§ 25. Definizione del termine «sublime».......Page 978
§ 26. Della valutazione delle grandezze delle cose naturali, richiesta dall’idea del sublime.......Page 981
§ 27. Della qualità del piacere nel giudizio del sublime.......Page 987
§ 28. Della natura in quanto potenza.......Page 990
§ 29. Della modalità del giudizio sul sublime della natura.......Page 994
Nota generale sull’esposizione dei giudizii estetici riflettenti......Page 996
Deduzione dei giudizii estetici puri......Page 1007
§ 30. La deduzione dei giudizii estetici sugli oggetti della natura non si può applicare a ciò che in questa chiamiamo sublime, ma soltanto al bello.......Page 1008
§ 31. Del metodo della deduzione dei giudizii di gusto.......Page 1009
§ 32. Prima proprietà del giudizio di gusto.......Page 1010
§ 33. Seconda proprietà del giudizio di gusto.......Page 1012
§ 34. Non può esservi alcun principio oggettivo del gusto.......Page 1013
§ 35. Il principio del gusto è il principio soggettivo del Giudizio in generale.......Page 1014
§ 36. Del problema di una deduzione dei giudizii di gusto.......Page 1016
§ 38. Deduzione dei giudizii di gusto.......Page 1017
§ 39. Della comunicabilità di una sensazione.......Page 1019
§ 40. Del gusto come una specie di «sensus communis».......Page 1020
§ 41. Dell’interesse empirico per il bello.......Page 1023
§ 42. Dell’interesse intellettuale per il bello.......Page 1025
§ 43. Dell’arte in generale.......Page 1029
§ 44. Dell’arte bella.......Page 1031
§ 45. L’arte bella è un’arte in quanto ha l’apparenza della natura.......Page 1032
§ 46. L’arte bella è arte del genio.......Page 1033
§ 47. Spiegazione e conferma della precedente definizione del genio.......Page 1034
§ 48. Del rapporto del genio col gusto.......Page 1036
§ 49. Delle facoltà dell’animo, che costituiscono il genio.......Page 1038
§ 51. Della divisione delle belle arti.......Page 1044
§ 52. Dell’unione delle belle arti in un unico prodotto.......Page 1049
§ 53. Comparazione del valore estetico delle belle arti.......Page 1050
§ 54. Nota......Page 1053
§ 56. Esposizione dell’antinomia del gusto.......Page 1061
§ 57. Soluzione dell’antinomia del gusto.......Page 1062
§ 58. Dell’idealismo della finalità tanto della natura che dell’arte, come principio unico del Giudizio estetico.......Page 1069
§ 59. Della bellezza come simbolo della moralità.......Page 1073
§ 60. Della metodologia del gusto.......Page 1078
§ 61. Della finalità oggettiva della natura.......Page 1080
§ 62. Della finalità oggettiva che è semplicemente formale, a differenza di quella materiale.......Page 1083
§ 63. Della finalità relativa della natura, a differenza della finalità interna.......Page 1087
§ 64. Del carattere proprio delle cose in quanto fini della natura.......Page 1090
§ 65. Le cose, in quanto fini della natura, sono esseri organizzati.......Page 1092
§ 66. Del principio del giudizio sulla finalità interna negli esseri organizzati.......Page 1095
§ 67. Del principio del giudizio teleologico sulla natura considerata in generale come un sistema di fini.......Page 1097
§ 68. Del principio della teleologia come principio interno della scienza della natura.......Page 1100
§ 69. Che cos’è un’antinomia del Giudizio?......Page 1104
§ 70. Esposizione di questa antinomia.......Page 1105
§ 71. Preparazione alla soluzione della precedente antinomia.......Page 1107
§ 72. Dei diversi sistemi sulla finalità della natura.......Page 1108
§ 73. Nessuno dei precedenti sistemi mantiene ciò che promette.......Page 1111
§ 74. La causa dell’impossibilità di trattare dommaticamente il concetto d’una tecnica della natura e l’inesplicabilità d’uno scopo naturale.......Page 1114
§ 75. Il concetto d’una finalità oggettiva della natura è un principio critico della ragione pel Giudizio riflettente.......Page 1116
§ 76. Nota.......Page 1119
§ 77. Della proprietà dell’intelletto umano per cui il concetto d’un fine della natura è possibile per noi.......Page 1123
§ 78. Dell’unione del principio del meccanismo universale della materia col principio teleologico nella tecnica della natura.......Page 1128
§ 79. Se la teleologia debba esser trattata come appartenente alla scienza della natura.......Page 1134
§ 80. Della subordinazione necessaria del principio del meccanismo al principio teleologico nell’esplicazione di una cosa come fine della natura.......Page 1135
§ 81. Dell’associazione del meccanismo col principio teleologico nella spiegazione d’un fine della natura, considerato come prodotto naturale.......Page 1139
§ 82. Del sistema teleologico nei rapporti esterni degli esseri organizzati.......Page 1141
§ 83. Dello scopo ultimo della natura in quanto sistema teleologico.......Page 1146
§ 84. Dello scopo finale dell’esistenza d’un mondo, vale a dire della creazione stessa.......Page 1150
§ 85. Della fisico-teologia.......Page 1151
§ 86. Dell’etico-teologia.......Page 1157
§ 87. Della prova morale dell’esistenza di Dio.......Page 1161
§ 88. Limitazione della validità della prova morale.......Page 1166
§ 89. Dell’utilità dell’argomento morale.......Page 1172
§ 90. Della qualità dell’adesione ad una prova teleologica dell’esistenza di Dio.......Page 1173
§ 91. Della qualità dell’adesione per mezzo di una fede pratica.......Page 1178
Nota generale alla teleologia......Page 1189
Sigle......Page 1200

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Economica Laterza Immanuel Kant

Critica del Giudizio, Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica

Editori Laterza

© 2019, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: settembre 2019 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Bari-Roma Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858139400 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

Indice Cronologia della vita e delle opere di Kant

CRITICA DELLA RAGION PURA Introduzione La fondazione della metafisica L’oggetto fisico L’oggetto matematico La critica come propedeutica La teoria dell’oggettivazione I presupposti Le condizioni della ricezione sensibile I nessi pensati dall’intelletto Lo schematismo L’unità dell’esperienza L’unità della deduzione Il rovesciamento del principio di Hume Lo «schematismo» del giudizio La fine della vecchia metafisica La riprova dell’idealismo trascendentale Razionalismo in funzione della scienza La fortuna della «Critica» La «Critica» nella filosofia contemporanea

Nota al testo Prefazioni alle precedenti edizioni 1909 1918 1966

Critica della ragion pura Prefazione

Prefazione alla seconda edizione Introduzione I II III IV V VI VII

I. Dottrina trascendentale degli elementi Parte Prima. Estetica trascendentale § 1. Sezione Prima. Dello spazio § 2. Esposizione metafisica di questo concetto § 3. Esposizione trascendentale del concetto di spazio Sezione Seconda. Del tempo § 4. Esposizione metafisica del concetto del tempo § 5. Esposizione trascendentale del concetto del tempo § 6. Corollari di questi concetti § 7. Chiarimento §8. Osservazioni generali sull’estetica trascendentale Parte Seconda. Logica trascendentale Introduzione. Idea di una logica trascendentale I Della logica in generale II Della logica trascendentale III Della divisione della logica generale in analitica e dialettica IV Divisione della logica trascendentale in Analitica e Dialettica trascendentale I. Analitica trascendentale Libro Primo. Analitica dei concetti Capitolo Primo. Del filo conduttore per la scoperta di tutti i concetti puri dell’intelletto Sezione Prima. Dell’uso logico dell’intelletto in generale Sezione seconda §9. Della funzione logica dell’intelletto nei giudizi Sezione terza § 10. Dei concetti puri dell’intelletto o categorie § 11. § 12. Capitolo Secondo. Deduzione dei concetti puri dell’intelletto Sezione prima § 13. Dei princìpi di una deduzione trascendentale in generale § 14. Passaggio alla deduzione trascendentale delle categorie Sezione Seconda. Deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto § 15. Della possibilità di una unificazione in generale § 16. Dell’unità sintetica originaria dell’appercezione § 17. Il principio dell’unità sintetica dell’appercezione è il principio supremo di ogni uso dell’intelletto § 18. Che cosa sia l’unità oggettiva della autocoscienza

§ 19. La forma logica di tutti i giudizi consiste nell’unità oggettiva dell’appercezione dei concetti in essi contenuti § 20. Tutte le intuizioni sensibili sottostanno alle categorie, come condizioni in cui soltanto il molteplice di quelle può raccogliersi in una coscienza § 21. Annotazione § 22. La categoria non ha altro uso alla conoscenza delle cose che di esser applicata agli oggetti dell’esperienza § 23. § 24. Dell’applicazione delle categorie agli oggetti dei sensi in generale § 25. § 26. Deduzione trascendentale dell’uso empirico possibile in generale dei concetti puri dell’intelletto § 27. Risultato di questa deduzione dei concetti dell’intelletto Libro Secondo. L’analitica dei princìpi Introduzione. Del giudizio trascendentale in generale Capitolo Primo. Dello schematismo dei concetti puri dell’intelletto Capitolo Secondo. Sistema di tutti i princìpi dell’intelletto puro Sezione Prima. Del principio supremo di tutti i giudizi analitici Sezione Seconda. Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici Sezione Terza. Rappresentazione sistematica di tutti i princìpi sintetici dell’intelletto puro 1. Assiomi dell’intuizione 2. Anticipazioni della percezione 3. Analogie dell’esperienza A. Prima analogia: Principio della permanenza della sostanza. B. Seconda analogia: Principio della serie temporale secondo la legge della causalità. C. Terza analogia: Principio della simultaneità secondo la legge dell’azione vicendevole o reciprocità. 4. I postulati del pensiero empirico in generale. Capitolo Terzo. Del principio della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni Appendice. Anfibolia dei concetti della riflessione per lo scambio dell’uso empirico dell’intelletto con l’uso trascendentale II. Dialettica trascendentale Introduzione I. dell’apparenza trascendentale II. della ragion pura come sede dall’apparenza trascendentale Libro Primo. Dei concetti della ragion pura Sezione Prima. Delle idee in generale Sezione Seconda. Delle idee trascendentali Sezione Terza. Sistema delle idee trascendentali Libro Secondo. Dei raziocinii dialettici della ragion pura Capitolo Primo Dei paralogismi della ragion pura Capitolo Secondo L’antinomia della ragion pura Sezione Prima. Sistema delle idee cosmologiche Sezione Seconda. Antitetica della ragion pura Primo conflitto delle idee trascendentali Secondo conflitto delle idee trascendentali Terzo conflitto delle idee trascendentali

Quarto conflitto delle idee trascendentali Sezione Terza. Dell’interesse della ragione in questo suo conflitto Sezione Quarta. Dei problemi trascendentali della ragion pura in quanto devono assolutamente poter essere risoluti Sezione Quinta. Rappresentazione scettica delle questioni cosmologiche per tutte quattro le idee trascendentali Sezione Sesta. L’idealismo trascendentale come chiave della soluzione della dialettica cosmologica Sezione Settima. Soluzione critica del conflitto cosmologico della ragione con se stessa Sezione Ottava. Principio regolativo della ragion pura rispetto alle idee cosmologiche Sezione Nona. Dell’uso empirico del principio regolativo della ragione rispetto a tutte le idee cosmologiche I. soluzione dell’idea cosmologica della totalità della riunione dei fenomeni in un universo II. soluzione dell’idea cosmologica della totalità della divisione d’un tutto dato in una intuizione Osservazione finale sulla soluzione delle idee matematico-trascendentali e avvertenza preliminare per la soluzione delle idee dinamico-trascendentali III soluzione delle idee cosmologiche della totalità della derivazione degli avvenimenti cosmici dalle loro cause Possibilità della causalità per la libertà in accordo con le leggi universali della necessità naturale Spiegazione dell’idea cosmologica di libertà in rapporto con la necessità universale della natura IV soluzione dell’idea cosmologica della totalità della dipendenza dei fenomeni, rispetto alla loro esistenza in generale Osservazione finale intorno a tutta l’antinomia della ragion pura Capitolo Terzo. L’ideale della ragion pura Sezione Prima. Dell’ideale in generale Sezione Seconda. Dell’ideale trascendentale (Prototypon trascendentale) Sezione Terza. Degli argomenti della ragion speculativa per dimostrare l’esistenza di un essere supremo Non ci sono se non tre specie possibili di prove dell’esistenza di dio per la ragion speculativa Sezione Quarta. Dell’impossibilita di una prova ontologica dell’esistenza di dio Sezione Quinta. Dell’impossibilità di una prova cosmologica dell’esistenza di dio Scoperta e illustrazione dell’apparenza dialettica in tutte le prove trascendentali dell’esistenza di un essere necessario Sezione Sesta. Dell’impossibilità della prova fisico-teologica Sezione Settima. Critica di ogni teologia fondata su princìpi speculativi della ragione Appendice alla dialettica trascendentale Dell’uso regolativo delle idee della ragion pura Dello scopo finale della dialettica naturale della ragione umana

II. Dottrina trascendentale del metodo Capitolo Primo. La disciplina della ragion pura Sezione Prima. La disciplina della ragion pura nell’uso dommatico Sezione Seconda. La disciplina della ragion pura rispetto al suo uso polemico

Della impossibilità di un appagamento scettico della ragione in disaccordo con se stessa Sezione Terza. La disciplina della ragion pura rispetto alle ipotesi Sezione Quarta. La disciplina della ragion pura rispetto alle sue dimostrazioni Capitolo Secondo. Il canone della ragion pura Sezione Prima. Dello scopo ultimo dell’uso della nostra ragione Sezione Seconda. Dell’ideale del sommo bene come principio determinante del fine ultimo della ragion pura Sezione Terza. Dell’opinione, della scienza e della fede Capitolo Terzo. L’architettonica della ragion pura Capitolo Quarto. La storia della ragion pura

Appendice Brani della prima edizione esclusi dalla seconda I Deduzione dei concetti puri dell’intelletto Sezione Seconda. Dei fondamenti a priori della possibilità dell’esperienza Sezione Terza. Del rapporto dell’intellettto con gli oggetti in generale e della possibilità di conoscere questi a priori II Paralogismi della ragion pura Primo paralogismo: della sostanzialità Secondo paralogismo: della semplicità Terzo paralogismo: della personalità Quarto paralogismo: della idealità (del rapporto esterno) Considerazione sulla somma della psicologia pura in conseguenza di questi paralogismi

Glossario Abbreviazioni

CRITICA DELLA RAGION PRATICA Introduzione. Genesi e struttura dell’opera di Sergio Landucci Nota del traduttore Nota del revisore Critica della ragion pratica Prefazione Introduzione. Dell’idea di una critica della ragion pratica 1. Dottrina degli elementi della ragion pura pratica Libro primo. Analitica della ragion pura pratica Capitolo primo. Dei princìpi della ragion pura pratica § 1. Definizione Scolio § 2. Teorema I § 3. Teorema II Corollario

Scolio I Scolio II § 4. Teorema III Scolio § 5. Problema I § 6. Problema II Scolio § 7. Legge fondamentale della ragion pura pratica Scolio Corollario Scolio § 8. Teorema IV Scolio I Scolio II I. Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica II. Del diritto della ragion pura, nell’uso pratico, a una estensione che non le è possibile nell’uso speculativo per sé Capitolo secondo. Del concetto di un oggetto della ragion pura pratica Tavola delle categorie della libertà, in relazione ai concetti del bene e del male Della tipica del giudizio puro pratico Capitolo terzo Dei moventi1 della ragion pura pratica Dilucidazione critica dell’analitica della ragion pura pratica Libro secondo. Dialettica della ragion pura pratica Capitolo primo Di una dialettica della ragion pura pratica in generale Capitolo primo. Di una dialettica della ragion pura pratica in generale Capitolo secondo. Della dialettica della ragion pura nella determinazione del concetto del sommo bene I. L’antinomia della ragion pratica II. Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica III. Del primato della ragion pura pratica nella sua unione con la speculativa IV. L’immortalità dell’anima come un postulato della ragion pura pratica V. L’esistenza di Dio, come postulato della ragion pura pratica VI. Sui postulati della ragion pura pratica in generale VII. Come sia concepibile un’estensione della ragion pura, nel rispetto pratico, senza che perciò nello stesso tempo sia estesa la sua conoscenza come ragione speculativa VIII. Dell’adesione che deriva da un bisogno della ragion pura IX. Della proporzione saggiamente conveniente delle facoltà di conoscere dell’uomo rispetto alla sua destinazione pratica

2. Dottrina del metodo della ragion pura pratica Conclusione

Glossario Abbreviazioni

CRITICA DEL GIUDIZIO Introduzione di Paolo D’Angelo Avvertenza alla presente edizione Prefazione del traduttore Nota del revisore Avvertenza del revisore Critica del giudizio Prefazione Introduzione I. Della divisione della filosofia. II. Del dominio della filosofia in generale. III. Della critica del Giudizio come mezzo per riunire in un tutto le due parti della filosofia. IV. Del Giudizio come facoltà legislativa «a priori». V. Il principio della finalità formale della natura è un principio trascendentale del Giudizio. VI. Dell’unione del sentimento di piacere col concetto della finalità della natura. VII. Della rappresentazione estetica della finalità della natura. VIII. Della rappresentazione logica della finalità della natura. IX. Del legame tra la legislazione dell’intelletto e quella della ragione mediante il Giudizio.

Parte prima. Critica del giudizio estetico Sezione prima. Analitica del giudizio estetico Libro primo. Analitica del bello Primo momento del giudizio di gusto, secondo la qualità § 1. Il giudizio di gusto è estetico. § 2. Il piacere che determina il giudizio di gusto è scevro di ogni interesse. § 3. Il piacere del piacevole è legato ad un interesse. § 4. Il piacere che dà il buono è legato all’interesse. § 5. Comparazione dei tre modi specificamente diversi del piacere. Secondo momento del giudizio di gusto, secondo la quantità § 6. Il bello è ciò che è rappresentato, senza concetti, come l’oggetto di un piacere universale. § 7. Comparazione del bello col piacevole e col buono mediante l’osservazione precedente. § 8. L’universalità del piacere in un giudizio estetico è rappresentata solo come soggettiva. § 9. Esame della questione, se nel giudizio di gusto il sentimento di piacere preceda il giudizio sull’oggetto, o viceversa. Terzo momento dei giudizii di gusto, secondo la relazione con lo scopo, che in essi è presa in considerazione § 10. Della finalità in generale. § 11. Il giudizio di gusto non ha a fondamento se non la forma della finalità di un oggetto (o della sua rappresentazione). § 12. Il giudizio di gusto riposa su fondamenti «a priori». § 13. Il puro giudizio di gusto è indipendente da attrattive ed emozioni.

§ 14. Illustrazione con esempii. § 15. Il giudizio di gusto è del tutto indipendente dal concetto della perfezione. § 16. Il giudizio di gusto, col quale un oggetto è dichiarato bello sotto la condizione di un determinato concetto, non è puro. § 17. Dell’ideale della bellezza. Quarto momento del giudizio di gusto, secondo la modalità del piacere che danno i suoi oggetti § 18. Che cosa è la modalità d’un giudizio di gusto. § 19. La necessità soggettiva, che attribuiamo al giudizio di gusto, è condizionata. § 20. La condizione della necessità, che presenta un giudizio di gusto, è l’idea di un senso comune. § 21. Se si possa presupporre con ragione un senso comune. § 22. La necessità dell’accordo universale, che è pensata in un giudizio di gusto, è una necessità soggettiva, che è rappresentata come oggettiva con la presupposizione di un senso comune. Nota generale alla prima sezione dell’analitica Libro secondo. Analitica del sublime § 23. Passaggio dalla facoltà del giudizio del bello a quella del sublime. § 24. Della divisione di un’analisi del sentimento del sublime. A. Del sublime matematico § 25. Definizione del termine «sublime». § 26. Della valutazione delle grandezze delle cose naturali, richiesta dall’idea del sublime. § 27. Della qualità del piacere nel giudizio del sublime. B. Del sublime dinamico della natura § 28. Della natura in quanto potenza. § 29. Della modalità del giudizio sul sublime della natura. Nota generale sull’esposizione dei giudizii estetici riflettenti Deduzione dei giudizii estetici puri § 30. La deduzione dei giudizii estetici sugli oggetti della natura non si può applicare a ciò che in questa chiamiamo sublime, ma soltanto al bello. § 31. Del metodo della deduzione dei giudizii di gusto. § 32. Prima proprietà del giudizio di gusto. § 33. Seconda proprietà del giudizio di gusto. § 34. Non può esservi alcun principio oggettivo del gusto. § 35. Il principio del gusto è il principio soggettivo del Giudizio in generale. § 36. Del problema di una deduzione dei giudizii di gusto. § 37. Che cosa si afferma propriamente «a priori» in un giudizio di gusto su di un oggetto? § 38. Deduzione dei giudizii di gusto. § 39. Della comunicabilità di una sensazione. § 40. Del gusto come una specie di «sensus communis». § 41. Dell’interesse empirico per il bello. § 42. Dell’interesse intellettuale per il bello. § 43. Dell’arte in generale. § 44. Dell’arte bella. § 45. L’arte bella è un’arte in quanto ha l’apparenza della natura. § 46. L’arte bella è arte del genio. § 47. Spiegazione e conferma della precedente definizione del genio. § 48. Del rapporto del genio col gusto.

§ 49. Delle facoltà dell’animo, che costituiscono il genio. § 50. Dell’unione del gusto col genio nei prodotti dell’arte bella. § 51. Della divisione delle belle arti. § 52. Dell’unione delle belle arti in un unico prodotto. § 53. Comparazione del valore estetico delle belle arti. § 54. Nota. Sezione seconda. Dialettica del giudizio estetico § 55. § 56. Esposizione dell’antinomia del gusto. § 57. Soluzione dell’antinomia del gusto. § 58. Dell’idealismo della finalità tanto della natura che dell’arte, come principio unico del Giudizio estetico. § 59. Della bellezza come simbolo della moralità. Appendice § 60. Della metodologia del gusto.

Parte seconda. Critica del giudizio teleologico § 61. Della finalità oggettiva della natura. Sezione prima. Analitica del giudizio teleologico § 62. Della finalità oggettiva che è semplicemente formale, a differenza di quella materiale. § 63. Della finalità relativa della natura, a differenza della finalità interna. § 64. Del carattere proprio delle cose in quanto fini della natura. § 65. Le cose, in quanto fini della natura, sono esseri organizzati. § 66. Del principio del giudizio sulla finalità interna negli esseri organizzati. § 67. Del principio del giudizio teleologico sulla natura considerata in generale come un sistema di fini. § 68. Del principio della teleologia come principio interno della scienza della natura. Sezione seconda. Dialettica del giudizio teleologico § 69. Che cos’è un’antinomia del Giudizio? § 70. Esposizione di questa antinomia. § 71. Preparazione alla soluzione della precedente antinomia. § 72. Dei diversi sistemi sulla finalità della natura. § 73. Nessuno dei precedenti sistemi mantiene ciò che promette. § 74. La causa dell’impossibilità di trattare dommaticamente il concetto d’una tecnica della natura e l’inesplicabilità d’uno scopo naturale. § 75. Il concetto d’una finalità oggettiva della natura è un principio critico della ragione pel Giudizio riflettente. § 76. Nota. § 77. Della proprietà dell’intelletto umano per cui il concetto d’un fine della natura è possibile per noi. § 78. Dell’unione del principio del meccanismo universale della materia col principio teleologico nella tecnica della natura. Appendice. Metodologia del giudizio teleologico § 79. Se la teleologia debba esser trattata come appartenente alla scienza della natura. § 80. Della subordinazione necessaria del principio del meccanismo al principio teleologico nell’esplicazione di una cosa come fine della natura. § 81. Dell’associazione del meccanismo col principio teleologico nella spiegazione d’un fine della natura, considerato come prodotto naturale.

§ 82. Del sistema teleologico nei rapporti esterni degli esseri organizzati. § 83. Dello scopo ultimo della natura in quanto sistema teleologico. § 84. Dello scopo finale dell’esistenza d’un mondo, vale a dire della creazione stessa. § 85. Della fisico-teologia. § 86. Dell’etico-teologia. § 87. Della prova morale dell’esistenza di Dio. § 88. Limitazione della validità della prova morale. § 89. Dell’utilità dell’argomento morale. § 90. Della qualità dell’adesione ad una prova teleologica dell’esistenza di Dio. § 91. Della qualità dell’adesione per mezzo di una fede pratica. Nota generale alla teleologia

Glossario Sigle

Cronologia della vita e delle opere di Kant*

1724

Immanuel Kant nasce a Königsberg (Prussia Orientale) il 22 aprile da Johann Georg, sellaio o correggiaio proveniente da Memel (Lituania), e da Anna Regina Reuter, originaria per parte di padre di Norimberga. È il quarto di nove figli, di cui solo cinque sopravvissuti dopo i primi tempi di vita.

1732

Ha inizio la sua frequenza del Collegio Fridericiano, che durerà fino al 1740.

1737

Morte della madre.

1740

In data 24 settembre viene immatricolato all’Università di Königsberg.

1746

Morte del padre. Kant lascia l’Università. Porta a termine il suo primo scritto, i Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive, che esce però nel 1749.

1747

Ha inizio la sua attività di precettore in case private, che per molti anni lo tiene lontano dalla città natale. Opera a Judtschen, ad Arns-dorf e forse a Rautenburg in casa dei conti Keyserling.

1754

Con ogni probabilità è da quest’anno di nuovo a Königsberg, dove pubblica due brevi ma importanti scritti di fisica terrestre.

1755

Esce anonima e dedicata a Federico II la Storia universale della natura e teoria del cielo. Ottiene la promozione a magister con il De igne. Si abilita alla docenza, 27 settembre, con lo scritto: Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio.

1756

Nel gennaio-aprile escono tre suoi scritti sui terremoti. Si candida alla cattedra già ricoperta dal suo maestro Martin Knutzen (m. nel 1751). Il 10 aprile vede discussa la sua Monadologia physica. Il 25 aprile pubblica il suo programma per le lezioni del semestre estivo, dal titolo: Nuove annotazioni a chiarimento della teoria dei venti.

1757 1758 1759

Programma per il semestre estivo: Abbozzo e annunzio di un corso di geografia fisica. Programma per il semestre estivo: Nuova dottrina del moto e della quiete. Aspira senza risultato alla cattedra di logica e metafisica di Königsberg. Programma per il semestre invernale: Considerazioni sull’ottimismo.

Redige nell’ordine i seguenti scritti: La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche (pubbl. 1762- 1762); L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio (pubbl. 1763); Indagine 63 sulla distinzione dei princìpi della teologia naturale e della morale (pubbl. 1764); Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto delle quantità negative (1763). 1764

Rinunzia a ricoprire la cattedra di arte poetica dell’Università di Königsberg. Escono le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime e il Saggio sulle malattie della testa.

1765

Esce la sua Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, vero sommario degli interessi, della cultura e dell’attività di Kant professore. A ottobre concorre per il posto di sottobibliotecario presso la «Königliche Schlossbibliothek» di Königsberg.

1766

È nominato, in aprile, sottobibliotecario presso la «Schlossbibliothek», dove lavorerà, oltre i suoi impegni accademici, fino al maggio del 1772. Escono i Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica.

1768

Del primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio.

1769

Non accoglie l’invito a insegnare nell’Università di Erlangen.

1770

Dopo essere stato chiamato a insegnare a Jena concorre a Königsberg per l’ordinariato di logica e metafisica. Ottiene la nomina il 31 marzo. Dissertazione inaugurale: De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis. La discussione ha luogo il 21 agosto: «Respondent», Marcus Herz. Ha inizio il lungo periodo di ricerche che si concluderà con la pubblicazione della Critica della ragion pura.

1772

Il 21 febbraio scrive la famosa lettera a Herz, che contiene un bilancio delle posizioni raggiunte, ma anche un riferimento più che chiaro ai problemi centrali del criticismo: la determinazione e la natura delle funzioni logiche dell’intelletto.

1775

Programma delle lezioni di geografia fisica per il semestre estivo: Delle diverse razze degli uomini.

177678

Attività in favore dell’Istituto educativo di Dessau, il Philanthropin, fondato da Joh. B. Basedow. Nel ’78 declina la chiamata presso l’Università di Halle; diviene membro del senato dell’Università di Königsberg.

1781

A maggio esce a Riga la Critica della ragion pura.

1783

Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza.

Escono i primi testi dell’etica critica e della filosofia kantiana della storia. Dell’84 sono: Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo?; dell’85, oltre le recensioni a Herder e un nuovo scritto sulle razze (Determinazione del concetto di razza 1784umana), la Fondazione della metafisica dei costumi; dell’86, le Congetture sull’origine della storia. 86 Dell’86 sono ancora il breve saggio Che cosa significa orientarsi nel pensare? e i Primi princìpi metafisici della scienza della natura. Kant diviene membro dell’Accademia delle Scienze di Berlino. Inoltre, nel semestre estivo, sempre dell’86, è rettore dell’Università di Königsberg. 1787

Esce la seconda edizione della Critica della ragion pura, in più punti rimaneggiata e rifatta. La nuova Prefazione è dell’aprile dell’87: sono le ultime pagine della grande Critica scritte da Kant.

1788

Critica della ragion pratica; Intorno all’uso dei princìpi teleologici in filosofia. Durante il semestre estivo Kant è ancora una volta rettore dell’Università.

1790

Critica del Giudizio. E, contro Joh. A. Eberhard: Intorno a una scoperta secondo la quale ogni nuova critica della ragion pura deve esser resa superflua da una più antica.

1791

Intorno all’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea.

1792

Esce in aprile sulla «Berlinische Monatsschrift» il saggio sul male radicale nella natura umana, destinato a divenire la prima parte della Religione. La pubblicazione delle rimanenti parti viene impedita dalla censura.

1793

La religione nei limiti della semplice ragione. A settembre esce anche il saggio: Sopra il detto comune: «Questo può esser giusto in teoria, ma non vale per la pratica».

1794

La fine di tutte le cose. Entra a far parte dell’Accademia di Pietroburgo. In ottobre riceve un minaccioso rescritto di Federico Guglielmo II, che gli ingiunge di non persistere nella sua opera di deformazione dei dogmi fondamentali e capitali della Scrittura e del cristianesimo. Kant si difende con profondità e abilità.

1795

Per la pace perpetua.

1796

Il 23 luglio Kant tiene l’ultima lezione: è una lezione di logica.

1797

Esce la Metafisica dei costumi e, inoltre, lo scritto: Sopra un presunto diritto di mentire per amore dell’umanità.

1798

Vedono la luce Il conflitto delle Facoltà e l’Antropologia dal punto di vista pragmatico.

1799

Nell’agosto interviene contro Fichte.

1800Escono le lezioni di Kant a cura dei discepoli: Logica (1800, ed. Jasche); Geografia fisica (1802, ed. 1803 Rink); Pedagogia (1803, ed. Rink).

1804

*

Amorevolmente assistito dal discepolo Wasianski si spegne alle 11 del mattino del 12 febbraio. Viene sepolto il 28. Il 23 aprile l’Università di Königsberg lo commemora solennemente. Compare, a cura di Rink, l’inedito kantiano: I progressi della metafisica.

da A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Roma-Bari 1996.

CRITICA DELLA RAGION PURA

Introduzione

La fondazione della metafisica A un genio che vive in provincia può accadere di impegnarsi in problemi che in una grande capitale nessuno prenderebbe più sul serio. Quale ingegno vivace a Parigi, a Londra o a Berlino, alla fine del Settecento avrebbe considerato come un problema serio il problema della metafisica? Ma per Kant, che non si era mai mosso da Königsberg, fondare la metafisica come scienza fu il problema di tutta la vita e quello che, in particolare, lo tenne occupato tra il 1770 e l’80 a scrivere la Critica della ragion pura. Con quanto aveva fatto fino allora (nel ’70 aveva già 46 anni) il nuovo lavoro non segnava nessuna cesura. Già nel 1755 Kant aveva ottenuto la «venia legendi» con la Principiorum primorum metaphysicae nova dilucidatio, e il problema di una conoscenza razionale indipendente dall’esperienza non aveva cessato di affaticarlo neppure nel periodo di massimo scetticismo metafisico e di massima adesione a un tipo di filosofia analitica: quello dei Sogni di un visionario (1776). La differenza stabilitasi col 1769 – per cui si suol parlare di un periodo critico in contrapposizione al precritico – è dovuta, non allo scopo e all’oggetto della riflessione, che rimangono costanti, ma solo alla scoperta della possibilità e necessità di far precedere alla metafisica una riflessione «trascendentale», senza la quale fondare una metafisica come scienza era un’impresa condannata al fallimento. Da quel momento in poi ciò che essenzialmente interessa del pensiero di Kant è appunto quella filosofia trascendentale che egli considerava come una propedeutica (per quanto indispensabile) alla scienza vera e propria dotata di contenuto, cioè alla metafisica. Egli conservò per tutta la vita, sia la certezza di essere riuscito, con la filosofia trascendentale, a mettere la metafisica sulla via sicura della scienza, sia la convinzione che questo fosse lo scopo

veramente importante, e che la filosofia trascendentale fosse decisiva non per sé, ma in funzione della scienza. Della scienza metafisica Kant ci diede anche un quadro che considerava definitivo e completo nel suo àmbito, sebbene non in tutti i particolari; e quando, negli ultimi sette anni di vita, ritornò sul lavoro critico già svolto, lo fece per aggiungere in esso una cerniera che ancora mancava tra la metafisica e la fisica, ma non cambiò mai idea circa la necessità di una metafisica fondata sulla filosofia trascendentale. Oggi la scienza metafisica esposta da Kant nei Princìpi metafisici della scienza della natura ha poco più che un valore di curiosità, mentre il principio, proposto dalla Critica della ragion pura, di una filosofia trascendentale, non solo è al centro dell’attenzione, ma può dirsi tuttora attivo anche in campi diversi da quelli a cui Kant guardava. Ci troviamo, quindi, nella curiosa condizione di interessarci ad un’opera per uno scopo diverso da quello per il quale fu concepita. E anche chi, oggi, con piena convinzione si professa metafisico non intende minimamente, con questo termine, qualcosa di simile a ciò che con esso intendeva Kant. Di questo spostamento di significati è necessario tener conto per una comprensione del criticismo.

L’oggetto fisico Nel suo programma Kant aveva un modello: i Princìpi matematici della filosofia della natura di Newton. Quando cercherà analogie in fisica per il proprio principio trascendentale, Kant risalirà, bensì, a Galileo, ma quando si tratta dell’ideale sistematico della scienza tutto lo porta a pensare a Newton. Con i suoi Princìpi Newton aveva posto le basi della fisica come scienza: lo stesso si proponeva di fare Kant rispetto alla metafisica. La sua aspirazione e il suo orgoglio furono di essere un Newton della metafisica. Questa analogia diverrà in seguito qualcosa di più: una sorta di collaborazione necessaria del metafisico medesimo alla fondazione della fisica come scienza. Quello che Newton aveva fatto per mezzo della matematica Kant pensava di farlo per mezzo della metafisica. Anzi, con la matematica Newton aveva offerto piuttosto uno strumento, ma il fondamento aveva da essere metafisico. Se, dunque, direttamente la Critica della ragion pura è pensata come una fondazione della metafisica, indirettamente essa presume di stabilire il fondamento ultimo della stessa fisica. Soltanto se

costruita sull’«a priori», infatti, la fisica, agli occhi di Kant, può aspirare ad essere una scienza universale e necessaria, non solo nei procedimenti di verifica, ma nell’insieme sistematico dei contenuti. La Critica, dunque, mentre non segna una vera frattura longitudinale nel pensiero di Kant, stabilisce una saldatura trasversale tra i suoi interessi filosofici e i suoi interessi scientifici, che, nel periodo precritico, si erano sviluppati soprattutto nel campo della fisica. Dopo di ciò, Kant continua a dire, in materia di fisica, esattamente le cose che diceva prima; e le dirà fino all’ultimo (negli scritti più tardi tutta la fisica kantiana, dal De igne in poi, ritorna). Ma il legame delle dottrine fisiche coi princìpi filosofici diviene ben più stretto, sicché anche il loro significato reale cambia e acquista un rilievo trascendentale che prima non aveva. Senza dubbio l’uso fisico che l’ultimo Kant fa dei suoi princìpi filosofici appare oggi, se possibile, ancor più bizzarro del loro uso metafisico. Se tuttavia, in luogo di scendere ai particolari, guardiamo al rapporto che Kant stabilisce tra filosofia trascendentale e scienza fisica, questa impressione si rovescia: la filosofia trascendentale non serve (in realtà) a fondare la metafisica come scienza, ma è adatta ancor oggi, anzi meglio oggi di ieri, a illuminarci sui procedimenti mentali attraverso cui il fisico perviene alle sue costruzioni: e non importa quanto diverse queste siano da quelle che fantasticava Kant. L’ultimo grande rappresentante della scuola di Marburg, e perciò dell’ortodossia neokantiana, Ernst Cassirer, ha lavorato per decenni con successo a mostrare come il criticismo si inserisca intimamente nel processo di sviluppo della fisica moderna, e interpreti profondamente quello che, da Galileo in poi, ne era stato il metodo; e come, appunto perciò, Kant anticipi – in linea di principio, s’intende – i modi di ragionare più avanzati, fino ad Einstein (e, si potrebbe aggiungere, fino all’operazionismo). A ben guardare la stranezza della fisica filosofica di Kant – a parte le ovvie limitazioni delle conoscenze del tempo – deriva in gran parte dal presupposto che la metafisica (la sua metafisica) fosse un anello necessario di mediazione tra la filosofia trascendentale e la fisica. Abbandonato tale presupposto, riportati direttamente i procedimenti scientifici al principio trascendentale, per cui il constare a noi dell’oggetto è condizionato dal lavoro, anzitutto mentale e poi sperimentale, di metterlo in luce, la filosofia della fisica prospettataci dalla Critica della ragion pura rimane

fondamentale, almeno per chi non abbia, della fisica, una concezione puramente empiristica.

L’oggetto matematico Altrettanto non può dirsi, in linea di fatto, per la filosofia della matematica. Qui, in certo senso, di Kant c’era meno bisogno, perché ad evitare l’empirismo – ben più raro per la matematica che per la fisica – bastava intendere le verità matematiche come verità analitiche, risalendo a Leibniz e trascurando Kant. Questo han fatto la maggior parte dei logici e filosofi della matematica contemporanei. Negli ultimi tempi, tuttavia, l’unica grande scuola di filosofia della matematica che si richiamasse sostanzialmente a Kant, l’intuizionismo di Brower e scolari, è risalita d’importanza, e la filosofia della matematica di Kant, ricollocata nella sua luce storica, ha cominciato ad essere vista con occhi nuovi (in Italia, ad esempio, da Mirella Cellucci). L’affiatamento di Kant con la matematica, senza dubbio, era molto minore che con la fisica. La sua sensibilità ai problemi in questo campo era ridotta e, nonostante l’amicizia con Lambert, una sola frase isolata, in tutti i suoi scritti, permette di supporre che egli, molti anni dopo la Critica, avesse qualche notizia dei problemi che si stavano sviluppando a proposito del quinto postulato di Euclide. Se si pensa, tuttavia, che tutta l’Estetica trascendentale è, sostanzialmente, una filosofia della matematica, e che questa parte rimase per una decina d’anni (dalla Dissertazione del ’70 al 1781) l’unica sezione compiuta della filosofia trascendentale, se si ricorda che il principio della «rivoluzione copernicana» è da Kant attribuito a Talete, matematico, prima che a Galilei, e che la meccanica razionale rappresentava ai suoi occhi un esempio privilegiato di scienza puramente a priori, si è portati a riconoscere che il pensiero matematico fu, per Kant, non meno utile del pensiero fisico come palestra in cui esercitare i nuovi metodi del trascendentalismo. Ciò che rende la matematica meno interessante, come banco di prova dei princìpi della Critica, è, semmai, il fatto che qui la vittoria è troppo a buon mercato: manca l’impatto con l’oggetto empirico, ben più difficilmente assoggettabile alla legislazione dell’intelletto che l’oggetto mentale. Per questo alcuni preferiscono far cominciare il periodo critico, anziché

dalla Dissertazione del ’70, De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, dalla Critica del 1771 che, dopo un travaglio lungo, vince l’arrischiata scommessa di «estendere» la filosofia trascendentale anche all’oggetto fisico. In verità, nella mente di Kant, i procedimenti di fondazione della metafisica, della fisica e della matematica fanno tutt’uno: né l’uno è giustificabile senza l’altro; però se uno dei tre è da privilegiare, come scopo ultimo di cui anche gli altri sono funzione, questo è senza dubbio la fondazione della fisica, perché l’oggetto in senso forte, come oggetto d’esperienza è l’oggetto fisico, e in funzione di esso si costituisce qualsiasi tipo di oggettività.

La critica come propedeutica Quanto ai materiali con cui è costruita la Critica, una parte di essi si trova, tal quale, in precedenti opere kantiane: non solo nella Dissertazione del ’70, ma anche in opere precritiche: Saggio per introdurre il concetto delle grandezze negative in filosofia (1763), Ricerca sull’evidenza dei princìpi della teologia naturale e della morale (1764), ecc. Ciò attesta la continuità di contenuto del suo pensiero. Altri materiali si trovano nella letteratura soprattutto di psicologia filosofica del Settecento, in particolare nel Tetens, e nelle discussioni sui problemi dello spazio e del tempo. Nel nostro secolo lo studio genetico delle opere kantiane, oltre a insegnarci a vederle in prospettiva diacronica, si è esercitato con successo nell’indicazione delle fonti, fin quasi ad assumere come un’ipotesi inconfessata di lavoro che nessun enunciato che si trovi nella Critica sia originale, ma che tutti debbano essere ridotti a corrispondenti enunciati di qualche filosofo anteriore. Dalle fonti dirette si è spesso passati anche alle indirette, ben più numerose perché Kant, com’è noto, pensava che, per essere originali, convenisse leggere il meno possibile sull’argomento su cui si scriveva. Per questa via, però, è facile cadere nell’arbitrario e nelle esagerazioni, anche se è un fatto che l’originalità di Kant non sta nei contenuti. Tutto ciò non fa che accentuare la peculiarità del suo pensiero. Infatti nessuna delle dottrine anteriori, né sua né di altri, entrando a far parte della Critica, conserva intatto il proprio significato. Tutte assumono una nuova funzione all’interno della filosofia trascendentale, e il loro significato viene a

dipendere interamente da tale funzione; tanto che né la lettera né lo spirito delle proposizioni kantiane si possono intendere, se li si riporta all’uso che degli stessi termini faceva qualsiasi altra filosofia. Che gli oggetti d’esperienza siano «fenomeni», che la forma spazio-temporale dell’intuizione sia «soggettiva», che l’«autocoscienza» sia punto di riferimento obbligato dell’esperienza, che l’esserci sia una «posizione», che l’«esistenza» di Dio sia indimostrabile, e così via, sono tesi che vanno viste tutte in funzione di ciò a cui servono, la fondazione della possibilità di una conoscenza a priori degli oggetti, non per ciò che quei termini sembrano significare. Questo modo di leggere la Critica, che ne formalizza, all’interno d’un sistema, i significati, risponde doverosamente all’indicazione di Kant secondo cui la filosofia trascendentale, come tale, è priva di contenuto, cioè di riferimento diretto alla realtà. Tuttavia esso non riesce facile; e meno che mai poteva essere congeniale al pensiero romantico, che si forma al tempo della vecchiezza di Kant. Ancora oggi, quasi inevitabilmente, si cerca nella Critica la «filosofia» di Kant, nel senso di ciò che egli pensava della realtà, piuttosto che vedervi un semplice discorso «propedeutico» a tale filosofia. Diversa sarebbe la situazione se Kant fosse riuscito a persuaderci davvero che la cosa importante, per cui la Critica andava scritta, era la sua metafisica. Poiché, al contrario, a stento ci si ricorda che la Critica nacque in vista di essa, è quasi inevitabile che il contenuto della filosofia kantiana sia cercato lì, anche a costo di forzarne il significato. Questa tendenza, come è noto, nacque subito con Schulze, con Fichte, perfino con Beck, vivente ancora Kant, e forse il solo Maimon seppe andarne esente. Del resto c’era da aspettarsi che le proteste di Kant su questo punto riuscissero poco persuasive, perché lui per primo continuava a concentrarsi sul compito critico di fondazione trascendentale; lui per primo sentiva questo come la sua prestazione più significativa, e non era troppo convinto della giustificazione che dava per spiegare lo scarso sviluppo che la sua metafisica aveva assunto («quam sit tibi parva supellex...»). Non solo: quando Fichte ritorse contro di lui il concetto di una filosofia trascendentale come propedeutica alla scienza, Kant mostrò di adontarsene. Come non cercare, dunque, anche i contenuti della filosofia kantiana nella Critica?

La teoria dell’oggettivazione

La verità è che a Kant manca una coscienza di secondo grado di ciò che andava facendo. Egli la cerca, bensì, ma non la trova. La sua filosofia della filosofia è, forse, il solo aspetto veramente manchevole del suo pensiero. Fu senza dubbio un grave equivoco storico, da parte dei romantici, trasformare la Critica della ragion pura in una filosofia della filosofia, in una filosofia che guarda in sé all’atto del proprio prodursi: fino ad estendere, con Schlegel, il termine «trascendentale» al procedimento analogo della poesia in cui il poeta guarda al proprio poetare. Gli enunciati di filosofia della filosofia in Kant abbondano, ma – almeno fino al detto della Antropologia pragmatica, secondo cui «non si può insegnare la filosofia, ma solo a filosofare» – sono contorti, contraddittori e infelici. La fondazione critica non è, dunque, una riflessione filosofica sulla filosofia. Più facile sarebbe, oggi, cogliere il carattere formale della Critica in una prospettiva, per dir così, wittgensteiniana di «gioco» concettuale. Tutto sta a vedere, però, quale sia il risultato di questo gioco. La Critica è, bensì, in tutta la storia della filosofia, l’opera che più si avvicina al concetto di un sistema ipotetico-deduttivo, simile a quelli che costruisce il matematico: di un sistema, cioè, che non vuol darci un contenuto di verità, ma solo una struttura di trasformazioni possibili. Essa non è, tuttavia, una mera costruzione ludica, perché almeno su un punto è rivelativa: mostra come, nello sviluppo del conoscere, si attui il processo di oggettivazione; come si costituisce l’oggetto. Le condizioni indicate da Kant del costituirsi dell’oggetto, appunto perché preoggettuali, non possono essere oggetti a loro volta, pena la contraddizione: vi è, tuttavia, un processo reale in cui si oggettiva, e quindi si costituisce, la realtà fenomenica, e ad esso guarda Kant attraverso la sua costruzione formale, ipotetico-deduttiva. Lo studio di tale processo di oggettivazione è dunque, propriamente, il contenuto della Critica: ad esso conviene riferirsi come ad un centro, nel presentarne gli argomenti.

I presupposti Poiché le condizioni «trascendentali», che rendono originariamente possibile l’oggettivazione, non possono essere oggetti a loro volta, è opportuno assumerle come presupposti. Kant non ha il coraggio di presentarle espressamente così: tuttavia le indica come fatti; e, in una filosofia trascendentale, assumere un fatto o assumere un postulato non sono

due cose molto diverse. Vi è un fatto della sensibilità, ed è l’esistenza di un materiale sensibile, di cui l’oggetto è costituito. Come sia posto in essere questo materiale, non possiamo saperlo: siamo al livello delle condizioni che precedono qualsiasi processo indagabile, e, quindi, le infinite discussioni della letteratura critica in proposito non approdarono a nulla. Vi è poi un fatto dell’intuizione, poiché questo è l’esistenza di due forme trascendentali che ricevono il materiale sensibile: lo spazio e il tempo. Anche questo è un assunto di cui non si possono dare ragioni ulteriori. Vi è, infine, un fatto dell’intelletto, la struttura delle dodici categorie. Più tardi, Kant parlerà di un «fatto della ragione» per indicare la presenza alla coscienza della legge morale. «Fatti» significa, qui, assunzioni che non si ha bisogno né possibilità di giustificare. La giustificazione verrà da ultimo, a costruzione compiuta, quando se ne vedrà la funzione nel sistema. Se dunque ci si domanda: che cosa significa la «ricezione» del materiale conoscitivo da parte della sensibilità? Non si può rispondere. Per farlo, occorrerebbe configurare già come oggetti il senso, il materiale, il luogo da cui questo proviene, il suo passaggio nell’organo ricettore ecc.: se non che l’oggetto ci sarà solo a costruzione avvenuta. Che l’intuizione «sensibile», cioè passiva (di quella passività non ulteriormente definibile che si è detto), abbia due forme – che Kant tratta in genere quasi parallelamente – lo spazio e il tempo, e che queste condizionino necessariamente ogni ricezione di materiale sensibile, è un assunto abbastanza soddisfacente di cui, peraltro, Kant non dà giustificazione o deduzione ulteriore. Lo stesso dicasi delle categorie, che sono quelle dodici, fatte così e così. Kant riporta, bensì, la loro tabella alla tabella delle forme dei giudizi, cioè di tutti i possibili modi in cui il nostro intelletto opera, o unifica il materiale: e in un passo tale procedimento è chiamato anche «deduzione» (cioè giustificazione) metafisica delle categorie; ma il problema si sposta poco più in là: che le forme del giudizio siano quelle dodici, secondo Kant, sarebbe un fatto da tutti ammesso e non bisognevole di ulteriore delucidazione. Eppure è noto che lui stesso, prima di fissare definitivamente la tabella, ebbe molte esitazioni. Molte le accuse di empiricità, arbitrarietà, «rapsodicità», da parte di Fichte, di Hegel e di molti altri, a questo procedimento. Queste accuse potrebbero essere superate se quelli che sono presentati come dati di fatto fossero intesi esplicitamente come postulati. Ma è certo che Kant

protesterebbe vigorosamente, se vedesse interpretato trascendentalismo, come un sistema ipotetico-deduttivo.

così

il

suo

Le condizioni della ricezione sensibile Ammessi dunque i presupposti, la spiegazione kantiana della possibilità di una conoscenza a priori funziona egregiamente. Se (primo presupposto) le forme dello spazio e del tempo condizionano la ricezione del materiale in modo assoluto, sicché fuori di esse non può formarsi per noi alcun oggetto, è chiaro che l’oggetto, per entrare nella nostra esperienza, deve assumere la struttura delle forme in cui lo riceviamo. Allora, conosciute tali forme (secondo presupposto), non occorrerà rifarsi sempre all’esperienza, per conoscere tutti i caratteri che l’oggetto possiede: alcuni potremo conoscerli a priori, indipendentemente dall’esperienza, e saranno, precisamente, tutti quei caratteri che l’oggetto non può non assumere perché dipendono dalle forme in cui lo riceviamo. Il principio molto semplice del trascendentalismo è tutto qui; e, di per sé, non è nuovo. Che la forma del «recipiente» (o ricevente) condizioni il modo della ricezione era universalmente ammesso, anzi tautologico. L’essenziale, però, è pensare un tale condizionamento come condizione sine qua non della ricezione sensibile e, quindi, del formarsi di qualsiasi oggetto empirico; e ciò era possibile solo riconoscendo come forme ricettive condizionanti lo spazio e il tempo. Allora il materiale, o si assoggetta alle condizioni dello spazio e del tempo, o resta fuori, e per noi è come se non ci fosse: è la «cosa in sé», nel senso di cosa per conto suo, indipendente dalle condizioni a cui sottostà ciò che entra nella nostra possibilità di esperienza. La novità stava, dunque, nel concepire spazio e tempo come due organi trascendentali della ricezione sensibile. Anche il modo in cui, è costruito l’occhio, senza dubbio, condiziona la visione, o l’orecchio l’audizione: ma queste condizioni non sono trascendentali perché io posso ricevere sensazioni senza servirmi dell’occhio né dell’orecchio. Poiché, invece, nessuna mente che noi conosciamo riceve materiale sensibile salvo che nello spazio e nel tempo, queste condizioni sono trascendentali, cioè rendono l’esperienza possibile. Grazie a ciò risulta fondata la possibilità di una conoscenza a priori.

I nessi pensati dall’intelletto Quando questo espendiente venne in mente a Kant, nel 1769, egli lo impiegò nella sua dissertazione Sulle forme e i princìpi del mondo sensibile e dell’intelligibile. Doveva inaugurare il suo insegnamento di ruolo, e la questione del mondo intelligibile, data l’urgenza, pensò, per il momento, di accantonarla, trattandone solo per accenni. Passata l’occasione accademica, in pochi mesi avrebbe esteso anche all’intelligibile quel principio trascendentale che risolveva così brillantemente il problema della conoscenza a priori nel campo del sensibile. I «pochi mesi» divennero dieci anni. Stranamente, Kant non si era accorto di una evidente difficoltà, che lo bloccò fin quando non trovò il modo di superarla: allora la Critica fu effettivamente stesa in pochi mesi. Finché si parla del senso, cioè di una facoltà ricettiva (per quanto difficile sia concepire in concreto tale ricettività), il ragionamento che il materiale, per essere ricevuto, deve adattarsi al modo necessario di riceverlo fa gioco. Ma quando si tratta dell’intelletto, cioè di una facoltà attiva, che opera spontaneamente, il ragionamento non gioca più. Tutto ciò che potrei dire, ragionando allo stesso modo, sarebbe che il prodotto dell’intelletto non può venirne fuori se non in quelle forme in cui l’intelletto lo produce: questo è ovvio, ma non fa al caso di Kant. Il nostro intelletto, infatti, per Kant non produce gli oggetti: li condiziona, ma non li produce. Se li producesse, il problema non si porrebbe. Il problema c’è, perché l’intelletto pensa oggetti che non produce: oggetti che anche a Critica compiuta, Kant continua a pensare e a definire come «oggetti dati». Su questo punto Kant non deflette mai, e ha cura di prevenire qualsiasi tentativo di risolvere la difficoltà con una filosofia che interpreti gli oggetti come prodotti dal nostro pensiero. Del resto, se una simile filosofia valesse, tutta la costruzione della Critica risulterebbe vana. Come mai, dunque, accade che un oggetto dato ci si presenti secondo le forme in cui l’intelletto lo pensa? Come mai, ad esempio, ci sono tra i fenomeni quelle successioni necessarie che l’intelletto richiede, come se i fenomeni avessero tra loro legami causali, mentre il legame causale è il modo di pensare di un intelletto che sugli oggetti non esercita alcuna azione, salvo, appunto, quella di pensarli? Qui il condizionamento sembra che non giochi più. Ammettiamo pure che il nostro intelletto abbia un modo necessario di pensare, le dodici categorie, e che questo modo noi possiamo riconoscerlo e

descriverlo: rimarrà sempre il problema di come attribuire la stessa struttura all’oggetto, dato che l’oggetto non è un prodotto del pensiero. Questo problema – il problema del diritto di attribuire ad oggetti nessi che sono nostri modi necessari di pensare – è il problema della deduzione trascendentale. E non è strano che Kant non riuscisse a scrivere la Critica fin quando non trovò il modo di risolverlo. Quando questo modo fu trovato, il criticismo fece il suo definitivo ingresso in scena perché solo allora fu risolto il problema per cui era nato.

Lo schematismo Alla fine la soluzione risultò abbastanza semplice; ma Kant dovette pensarci dieci anni, e possiamo supporre che, se fosse morto nel frattempo, anche dopo la Dissertazione del ’70 questa soluzione non sarebbe venuta in mente a nessuno. Essa consiste nello schematismo trascendentale, e può formularsi così. È vero che l’intelletto non produce gli oggetti e, quindi, non può imprimere direttamente in essi la propria forma (come le forme dello spazio e del tempo si imprimono nel materiale sensibile, di cui condizionano la ricezione). L’intelletto, tuttavia, nella sua spontaneità, può imprimere la propria forma allo spazio e al tempo, cioè nelle forme recettive; e più precisamente, quando si tratta delle forme trascendentali del pensiero, o categorie, nel tempo, che è la condizione recettiva più generale. Per questa via l’intelletto condiziona indirettamente l’oggetto, pur senza produrlo. Infatti, per entrare a far parte dell’esperienza, l’oggetto deve conformarsi alla condizione del tempo; ma il tempo, grazie allo schematismo, è sottoposto a una strutturazione da parte dell’intelletto. Questa traduce in schemi temporali (numero, grado, permanenza, successione ecc.) la struttura delle categorie intellettuali (quantità, qualità, sostanza, causa ecc.), e grazie a ciò l’oggetto, condizionato direttamente dalla forma del tempo, è condizionato indirettamente dalle forme dell’intelletto. Si tratta di un condizionamento formale, dipendente dal modo in cui l’oggetto è ricevuto: quindi solo per la sua forma l’oggetto è assoggettabile alla legislazione dell’intelletto. Ma poiché l’oggetto in senso forte (in contrapposizione ai dati soggettivi) è ciò che si può verificare che si presenta a tutti allo stesso modo, e poiché a tale verifica si può sottoporre l’esperienza solo nei suoi aspetti formali (gli aspetti materiali restando soggettivi), si può dire che l’intelletto condiziona tutto ciò

che l’oggetto ha di oggettivo, ossia quella che Kant chiama la «natura formaliter spectata». Il compito di stabilire che cosa vi sia di oggettivo nell’oggetto spetta, a questo punto, alla scienza, ed è un compito aperto. La scienza, progredendo, estende via via l’oggettività dell’oggetto. E tale progresso avverrà sempre secondo le forme dell’intelletto, perché il solo modo di accertare l’oggettività di un dato, cioè di tradurlo in una rappresentazione valida per tutti, è quello di formalizzarlo, ossia di trasformare i materiali empirici dell’esperienza in rapporti formali (di trasformare, ad esempio, le qualità secondarie in rapporti numerici o «qualità primarie», ecc.). Questo fa la scienza; e questa possibilità, dal punto di vista del criticismo, dipende dallo schematismo trascendentale, che viene ad essere, così, la chiave della fondazione kantiana della scienza. Per questa via l’intelletto diviene il «legislatore della natura», e non, semplicemente, di oggetti da lui pensati. Ma per questo non bastava affermare che, attraverso le forme della temporalità, l’intelletto condiziona l’oggetto: nessuno mi dice che quell’influsso dell’intelletto sulla forma della sensibilità che si chiama «schematismo» sia necessario. Appunto perché non è più immediato, come nel caso delle forme ricettive, il condizionamento intellettuale va giustificato o, come dice Kant con termine giuridico, «dedotto». Mentre la necessità della natura di sottostare alle forme dello spazio e del tempo non ha bisogno di deduzione, la sua necessità di sottostare alle categorie, cioè alla legislazione dell’intelletto, sì. Di qui quella ventina di pagine, molto tormentate, della Critica che vanno sotto il nome di Deduzione trascendentale, e che Kant riscrisse per la seconda edizione. Esse hanno fatto in seguito riempire volumi su volumi.

L’unità dell’esperienza La dimostrazione si fonda sulla necessità che l’oggetto d’esperienza si riferisca a un centro che Kant chiama «io penso», o anche «autocoscienza», o «io puro» (o io trascendentale). Esso non va confuso con l’io nel significato psicologico della parola: trova, tuttavia, nella forma unitaria di tale io empirico la sua esemplificazione. Quando siano presenti tutti i materiali empirici del conoscere e le sue forme intuitive (spazio e tempo), l’oggetto non può ancora divenire un

oggetto d’esperienza, osserva Kant, se non può essere raccolto in un pensiero unitario, e questo significa essere riferito a un unico punto che non è uno dei punti dell’oggetto medesimo, perché è la conduzione primitiva del suo formarsi. Questo riferimento unitario, che è la forma della coscienza, è anche la forma dell’oggetto e condizione trascendentale della sua possibilità. Se il riferimento unitario non è possibile, l’oggetto non è neppur pensabile, e quindi non può esistere come oggetto. L’argomento, si noti, riguarda la forma o la possibilità dell’oggetto, non la sua realtà. Perciò il riferimento necessario all’io penso non implica che l’oggetto inerisca alla coscienza empirica che lo percepisce (come in Berkeley). Ma, pur come forma, l’unità assoluta dell’autocoscienza è condizione assoluta della possibilità dell’esperienza, e quindi dell’esistenza di qualsiasi oggetto d’esperienza. Come condizione indispensabile dell’esistenza empirica, l’io penso è la forma stessa dell’esistenza, e dire «io penso» non è diverso (osserva Kant) dal dire «io sono»: senza però che questo implichi, come in Cartesio, che io sia una «sostanza» pensante, perché qui si tratta della forma dell’esistenza empirica e non del suo contenuto.

L’unità della deduzione A questo punto la giustificazione dell’uso delle categorie intellettuali nel conoscere empirico è cosa fatta. Le categorie sono infatti, secondo Kant, tutte le forme possibili in cui l’intelletto pensa, ossia unifica. E questa unificazione è condizione necessaria del costituirsi dell’oggetto, come oggetto d’esperienza. L’oggetto, dunque, non può costituirsi se non conformemente alle categorie, e questa è la ragione per cui, quando ne faccio esperienza, vi trovo quei nessi categoriali, quali la sostanza, la causa ecc. che rispondono al mio modo di pensare. Ve li trovo perché «io stesso» (cioè, a rigore, la possibilità stessa dell’esperienza, che è la forma unitaria dell’io) li ho posti. Lo schematismo trascendentale, legato al concetto di una «immaginazione produttiva», cioè di una determinazione a priori delle forme dell’intuizione da parte di regole dell’intelletto, chiarisce il meccanismo di questo rapporto, che la deduzione giustifica: cioè chiarisce come io ponga nell’oggetto i nessi categoriali del mio pensiero. Vista così, la Deduzione appare strettamente unitaria, e le stesse differenze tra la prima e la seconda edizione risultano meramente espositive.

Spesso, per contro, i critici, non riuscendo a trovare il bandolo, si sono dati a suddividere la Deduzione trascendentale distinguendo, nella sola seconda edizione, da due a cinque deduzioni successive, quasi che Kant, annaspando, si ripetesse continuamente. L’equivoco (alimentato dall’esprimersi cautamente formalistico di Kant) dipende dal non aver osservato che, per dimostrare il diritto di applicare le categorie a un oggetto che è dato, e che non deriva dal nostro pensiero, la Deduzione deve giungere a dimostrare che tale oggetto si costituisce già in origine secondo le categorie, e non solo che, una volta costituito, l’intelletto può poi pensarlo con le categorie. Ora, si vedrà che a quel risultato la Deduzione giunge solo alla fine, quando Kant è in grado di concludere che l’intelletto è il legislatore della natura. Che, infatti, io non possa pensare un oggetto se non per mezzo delle categorie, è tautologico, né occorre dimostrarlo. Tale necessità vale per il pensiero delle cose in sé così come dei fenomeni, vale della realtà anche se considerata a parte dalle condizioni che ne rendono possibile l’esperienza. Anche Dio, per esempio, che non sottostà alle condizioni che rendono possibile l’esperienza, è pensabile da noi solo come sostanza, come causa di sè e del mondo ecc., perché altro modo di pensare non lo abbiamo. Quando, però, si parla dell’oggetto dell’esperienza, si fa qualcosa di più: si giunge a dimostrare che, pur non essendo fatto dal pensiero, esso si costituisce come oggetto d’esperienza solo a condizione di obbedire alle forme del pensiero. Intorno a questo paradosso l’intera Deduzione si organizza.

Il rovesciamento del principio di Hume Kant risponde così alle difficoltà di Hume, che aveva interpretato come soggettivi tutti i nessi che per lo più si pensano come oggettivi. Data oggettivamente, osservava lo Hume, è solo la contiguità spazio-temporale: noi troviamo le cose l’una accanto all’altra o l’una dopo l’altra. Ma un rapporto più intimo tra un elemento e l’altro dell’esperienza non è dato. Non troviamo nulla che ci indichi un nesso sostanziale tra gli accidenti, o un nesso causale tra i fenomeni. Siamo noi quelli che pensiamo tali nessi tra le cose; e potremo anche averne le nostre buone ragioni, ma non abbiamo diritto a spacciare nessi pensati da noi per nessi oggettivi. Kant spiega, invece, che i nessi sono oggettivi appunto perché sono le condizioni tassative a cui l’oggetto può essere pensato da noi e quindi indirettamente (grazie allo

schematismo) da noi esperito. Le applicazioni più brillanti di questo rovesciamento della tesi di Hume si incontrano, come è noto, nella Analitica dei princìpi, là dove si argomenta, in particolare, che non c’è un post hoc oggettivo da cui dipenda un propter hoc (o spiegazione causale) soggettivo, ma che, al contrario, il post hoc può essere giudicato oggettivo solo a patto di fondarsi su un propter hoc, cioè su un nesso causale. Soggettivamente, noi possiamo vedere il tetto di una casa prima o dopo le fondamenta, senza che ci sia nessuna successione oggettiva tra i due fenomeni. Per contro tra il fulmine e il rimbombo una successione c’è, perché l’ordine è determinato, direttamente o indirettamente, da catene causali. Noi troviamo così, nell’Analitica dei princìpi, gli strumenti a priori per pensare i fenomeni fisici; e, quindi, la fondazione metafisica della fisica, che Kant perseguiva, in linea di principio è raggiunta. «Metafisica» significa ormai, per Kant, scienza delle condizioni a priori; e, nel caso della metafisica della natura, scienza delle condizioni a priori che rendono possibile l’oggetto dell’esperienza. I Princìpi metafisici della scienza della natura, del 1786, ricalcheranno quindi esattamente la struttura dell’Analitica dei princìpi, e con essi Kant poteva supporre di aver assolto, sotto questo aspetto, al compito che si era prefisso. Restava fuori, bensì, l’aspetto organico della natura (non solo gli organismi, ma l’«organizzazione», come Kant la chiama, per cui una specie esiste in funzione dell’altra): per divenire oggetto d’esperienza, infatti, la natura sottostà alla condizione di essere unificata da nessi fondati su un modo in cui necessariamente la pensiamo, ma non sottostà alla condizione di essere organizzata come se l’idea del tutto fosse il principio del costituirsi delle parti. Il problema sarà affrontato, come è noto, dalla Critica del giudizio, e risolto con acrobazie non piccole, per evitare ogni ricorso, nella spiegazione dell’organicità, alla «cosa in sé», che scalzerebbe il principio trascendentale secondo cui ogni unità dell’oggetto dipende dall’unità dell’atto intellettuale o io penso.

Lo «schematismo» del giudizio Solo per accenni possiamo richiamare qui un ulteriore problema che la Deduzione trascendentale lasciava aperto, e su cui Kant tornerà dopo essersi liberato della Critica del giudizio. La metafisica della natura che Kant aveva

giustificata con la Deduzione trascendentale si fondava sulla necessità che l’oggetto, per divenire oggetto d’esperienza possibile, si costituisse secondo i nostri modi universali e necessari di pensare. Ma tali modi (come Kant medesimo osserva, nel concludere la Deduzione) condizionano solo genericamente l’oggetto. Stabiliscono, ad esempio, che esso deve sottostare alle categorie di sostanza, di causa, di azione e reazione ecc., ma non dicono nulla circa i modi specifici dell’agire e reagire, circa i valori e i gradi delle grandezze, e così via. La fisica non si accontenta di ciò; oltre ad accertare che nel mondo vigono leggi quantitative, princìpi di conservazione, di simmetria, legami di causa-effetto in genere, ha la pretesa di configurarli in concreto. In base a che cosa? Tutto questo, dice la Deduzione trascendentale, dipende dall’esperienza. Ma ciò che dipende dall’esperienza, per Kant, è empiria, non scienza, e se la soluzione non fosse che questa bisognerebbe concludere che, per la massima parte, la fisica non ha lo statuto di una scienza. Locuzioni come «concetti empirici», «leggi empiriche» ecc., che a volte Kant usa, non sono a questo proposito molto rassicuranti. Se questi termini, anziché limitarsi a dire che la scienza abbraccia, secondo leggi necessarie, un materiale tratto dall’esperienza, dicessero anche che lo organizza secondo nessi cavati dall’esperienza, allora la parola «legge» o «concetto» diverrebbe impropria, e il trascendentalismo dichiarerebbe fallimento. Questo problema Kant lo affronterà negli abbozzi noti sotto il nome di Opus postumum, ed è un problema pertinente e gravissimo, al contrario di ciò che, irresponsabilmente, aveva sostenuto Kuno Fischer (fidandosi troppo dell’affermazione di Kant secondo cui, con la Critica del giudizio, il compito critico sarebbe terminato). La soluzione che Kant imposterà, senza riuscire a portarla a fondo, è acutissima. Essa consiste nel sovrapporre allo schematismo dell’intelletto, che aveva spiegato come l’oggetto dell’esperienza in genere sia condizionato dalla struttura categoriale, uno «schematismo del giudizio». Questo, per completare l’unificazione dell’esperienza, costruisce liberamente nessi che continuano, bensì, ad essere fondati sulle categorie, ma non sono determinati da esse, e perciò son detti erdichtet o «inventati». Ciò che leggittima queste invenzioni è la necessità che l’esperienza, per essere, sia completamente una (omnimodo determinata), e non solo connessa genericamente. Anche qui, come nello schematismo della Critica, il meccanismo del condizionamento è indiretto, cioè avviene attraverso una determinazione a priori che l’intelletto

dà alle forme dell’intuizione. Salvo che, mentre nello schematismo della Critica la forma che riceve lo schema intellettuale è il tempo, nello schematismo del giudizio, che Kant teorizza nell’Opus postumum, la forma trascendentale che accoglie gli schemi è lo spazio, come «spazio realizzato» o «ipostatizzato», chiamato anche etere. Ipostatizzato perché, in quanto unità, cioè in quanto fondamento necessario di ogni esperienza e quindi di ogni esistenza empirica, l’etere è uno spazio che esiste. Nella materia a priori dell’etere, il nuovo schematismo costruisce un «oggetto indiretto in favore del diretto»: cioè, precisamente, quelli che il Bridgman, più di un secolo dopo, chiamerà «costrutti». Essi sono «reali», ma la loro realtà non è quella di un oggetto d’esperienza diretta, bensì è data dalla capacità di connettere, in sistemi sempre più vasti e unitari, i fenomeni dell’esperienza. Al tempo della Critica questa prospettiva non era ancora presente: ma era necessario accennarla per mostrare le potenzialità di sviluppo che la Critica possiede, anche in direzione dei procedimenti più «sofisticati» dell’epistemologia contemporanea. Solo grazie ad esse Kant potrà rivendicare con qualche ragione il titolo di «emulo di Newton», perché la Critica, di per sé, non permetterebbe una fondazione della fisica specifica.

La fine della vecchia metafisica La pars destruens del lavoro kantiano intorno alla metafisica è molto più nota, capita ed accettata della pars construens. Esposta in uno stile più diffuso e brillante, non coinvolge particolari sottigliezze tecniche, e viene incontro ad una aspettativa generalizzata dei filosofi moderni, stufi di constatare che la loro disciplina è incapace di «progredire in collaborazione come la scienza», per usare una frase di Bergson. La via positiva di uscita da questa situazione, proposta da Kant, però, prova troppo, perché, se fosse valida, porterebbe in breve tempo ad escludere ogni progresso in filosofia per una ragione opposta all’anarchia precedente: la metafisica diverrebbe una scienza chiusa che si tratterebbe di perfezionare nei particolari, ma non più di estendere. Per la mentalità kantiana, tuttavia, questa prospettiva che la filosofia finisca – non costituisce un problema così grave come sarà per lo storicismo successivo. In ogni caso, una struttura salda ormai statica appariva preferibile ad una situazione oscillante, in cui ogni filosofo che scende in lizza (è l’immagine di Kant) butta di sella con facilità

l’avversario, ma ne è buttato a sua volta, appena deve subirne l’assalto. Ancor oggi del resto il tot capita tot sententiae, in filosofia, costituisce per molti uno scandalo a cui la riflessione critica qual è comunemente impostata non riesce a rimediare: non si può, quindi, rimproverare a Kant di vagheggiare una situazione in cui, di sententiae, ce ne sarebbe stata una sola. Ancora oggi è difficile far accettare il punto di vista che la pluralità delle filosofie sia ragione di compiacimento, e non di scandalo. La critica alla metafisica passata fu accettata, dunque, quasi universalmente, pur con diverse intenzioni circa l’avvenire. La metafisica nel senso tradizionale era «morta»: non solo i filosofi critici e gli empiristi conserveranno questa conclusione, ma anche i romantici, gli idealisti, i positivisti, i marxisti, gli esistenzialisti. Si può dire che solo la neoscolastica, quando rivivrà, rappresenterà una voce discorde; anche se poi tutte le altre correnti ricadono, per lo più senza volerlo, in nuove forme di metafisica. L’impostazione critica kantiana, pur essendo tra le più deboli nel tentativo di dar contenuto alla metafisica nuova, e tra le più forti nello spiegare, dal proprio punto di vista, le ragioni per cui per tanti secoli si è professata una metafisica inconsistente.

La riprova dell’idealismo trascendentale Abbiamo visto che il punto di vista trascendentale ci obbliga a considerare solo l’oggetto per noi, ossia l’oggetto che, per entrare nell’esperienza possibile, deve conformarsi a un nostro modo universale e necessario di esperirlo; e che solo questa considerazione permette di spiegare come l’oggetto si costituisca, fin da principio, in modo conforme al nostro modo di pensarlo. L’errore che porta alla falsa metafisica sarà dovuto, dunque, al non tener conto di ciò: ed è un errore inevitabile, se non si adotta il punto di vista trascendentale. La forza della parte distruttiva della logica kantiana, cioè della Dialettica trascendentale, sta appunto nel mostrare che l’errore della cattiva metafisica non è dovuto ad una deviazione casuale dal retto sentiero, bensì ad un’illusione che non si può evitare, perché inerisce costitutivamente al pensiero, come le illusioni ottiche ineriscono costitutivamente al vedere, sicché chi abbia imparato a smascherarle in abstracto continua, percettivamente, a vedere nella forma illusiva. Appunto perché la cosa in sé non si presenta mai, è inevitabile che quella

che si presenta, il fenomeno, sia scambiata senz’altro per la realtà in se stessa: debba, anzi, essere considerata come reale in se stessa, rispetto ai soggetti singoli, e ideale solo nel senso di una relatività alla struttura della mente finita in generale. Il punto di vista trascendentale, perciò, non dichiara falso assolutamente il punto di vista ingenuo, che scambia i fenomeni per cose in sé, ma lo accoglie come subordinato, escludendo solo il suo diritto a credersi definitivo. Fin quando, dunque, la filosofia critica non abbia rivelato il punto di vista trascendentale, l’illusione che scambia il fenomeno per la realtà in sé è inevitabile, e non casuale. Allora l’errore stesso diviene rivelativo o, per lo meno, istruttivo: esso ci conferma indirettamente la verità di quel punto di vista senza di cui l’errore non può essere evitato. Questa linea argomentativa si sviluppa, come è noto, soprattutto a proposito delle antinomie; perché, qui, che ci sia un errore è innegabile: qualunque corno del dilemma si scelga, si è costretti a passare al contraddittorio dalla dimostrazione per assurdo della sua impossibilità. Ora l’inevitabilità dell’errore di chi non accoglie il punto di vista trascendentale dimostra inoppugnabilmente la necessità di quest’ultimo. Nelle dimostrazioni della indivisibilità dell’anima e dell’esistenza di Dio, l’impossibilità di raggiungere la prova non ha la stessa efficacia, perché non dà luogo a nessuna contraddizione. Anche qui, tuttavia, l’inconsistenza delle dimostrazioni date dalla metafisica tradizionale è un argomento a favore del criticismo, perché solo quest’ultimo spiega, non soltanto perché le dimostrazioni non siano probanti, ma perché, ciò nonostante, anche il raziocinio più saldo, senza la critica, sia portato a tentare per lo meno di costruirle.

Razionalismo in funzione della scienza Analitica e Dialettica concorrono così, da lati opposti, a definire i limiti di legittimità della scienza razionale, nel senso che Kant e in genere il Settecento davano a questa locuzione: di una scienza, cioè, che si costruisce interamente senza ricorrere all’esperienza (ancor oggi si parla in questo senso di «meccanica razionale»). Una tal scienza è legittima, secondo Kant, quando sia scienza di forme. Nel caso della matematica – meccanica razionale compresa – questa condizione è rispettata senza difficoltà, poiché la matematica studia forme pure e dà luogo a conoscenze «solo in quanto vi

sono oggetti che in tali forme possono collocarsi». Ma nel caso della filosofia si ha la pretesa di passare dalla forma al reale, e questo passaggio può avvenire in due modi diversi: o considerando le forme che condizionano l’esperienza possibile, cioè le forme trascendentali, e allora il passaggio è legittimo; o, al contrario, scambiando direttamente le forme per realtà, e allora il passaggio è illegittimo: come nel caso della psicologia razionale, che scambia per una realtà quell’«io penso» che è la forma della coscienza possibile; o nel caso della teologia razionale, che scambia per una realtà il principio della determinazione completa della realtà medesima. Solo il condizionamento dell’esperienza da parte di forme trascendentali permette di passare dalle forme alla realtà, e la realtà a cui si passa è sempre, pertanto, una realtà d’esperienza (mai una realtà trascendente). Ciò varrà anche nell’Opus postumum quando, in nome del principio «forma dat esse rei», si tenterà il passaggio, non più alla forma di un oggetto in genere, ma alla forma di oggetti specifici della nostra esperienza naturale. Si spiega così il bisogno che prova Kant di definire una volta per tutte le forme del pensiero o categorie. Apparentemente Kant potrebbe limitarsi ad osservare che il lavoro dell’intelletto consiste nell’«unificare» o stabilire nessi, senza la pretesa di esaurire in anticipo la loro elencazione. Per contro egli pretende di descrivere in un sistema le forme in cui l’unificazione deve avvenire, e preferisce rischiare la prevedibile accusa di non aver dedotto tali forme razionalmente alla possibilità di lasciarne aperto l’àmbito. Mai egli acconsentirebbe all’adattamento storicistico ed evoluzionistico che si tenterà più tardi nel suo pensiero, intendendo le categorie come formazioni storiche. La ragione di ciò è che la tavola delle categorie è necessaria a dare un contenuto a una scienza razionale di forme che, per il principio trascendentale, diviene scienza dell’esperienza possibile. Se non potessimo descrivere le categorie, non potremmo descrivere a priori la possibilità dell’esperienza. Perciò la tavola delle categorie, introdotta a titolo di «fatto dell’intelletto», è uno dei presupposti ineliminabili del criticismo, pur essendo, come presupposto, lontano dallo spirito critico. Alla necessità razionale della tabella delle categorie nessuno o quasi, dopo Kant, ha prestato fede. Ma più importante di questo «idolo della caverna» è il principio metodico che vi presiede: il principio di distinguere radicalmente, nell’esperienza, tra forma e contenuto, fino a fare per questo, delle stesse forme, una sorta di contenuto «dato a priori». Il diritto delle

forme di divenire un contenuto è garantito esclusivamente dal loro essere una condizione necessaria dell’esperienza: il loro esistere è un esistere in funzione dell’esperienza, e solo a questo titolo la forma diviene oggetto di una scienza a sé. Se non che il riferimento necessario all’esperienza si accompagna a un non meno necessario isolamento dall’esperienza, che fa, di quella forma, l’oggetto d’una scienza razionale. In questo procedere, a ben vedere, Kant è profondamente consonante con tutta la scienza moderna. Questa si costituisce come uno studio di forme, cioè tende a fare oggetto di sé forme pure, il più possibile depurate dai contenuti empirici: tuttavia le sue forme, anche quando sono costruite dalla mente, vengono pensate sempre in funzione del coordinamento della realtà empirica. Di più: anche quando si tratta di forme matematiche, costruite come oggetto di puro pensiero, in esse si finisce regolarmente col trovare strumenti atti a pensare fenomeni d’esperienza; e questa sorta di armonia prestabilita – che, evidentemente, non va ascritta al miracolo – si giustifica bene col trascendentalismo di Kant, per cui le forme pensate sono forme della possibilità. Il trascendentalismo ammette che noi siamo in grado di isolare dal corpo dell’esperienza le forme della possibilità, farne oggetto d’uno studio razionale, e tornare poi all’esperienza forti dei risultati acquisiti. Vista così, la dottrina della Critica della ragion pura è tutt’altro che destinata a un interesse puramente storico. Essa è la migliore giustificazione dei procedimenti rigorosamente formali, e tuttavia efficacemente operativi, che caratterizzano la scienza oggi, più ancora che ai tempi di Kant. Ciò che occorre lasciar cadere, per dar luogo a questa lettura attuale della Critica, è solo un assunto a cui Kant, senza dubbio, teneva moltissimo, ma che, a ben vedere, non è indispensabile: l’assunto che lo studio delle forme trascendentali della possibilità sia oggetto di una scienza «metafisica», da sostituire alla pseudoscienza che la tradizione aveva chiamata con quel nome. Se mi è lecito suggerire un parere, dirò che la scienza che studia le forme della possibilità come tale può benissimo riconoscersi nella matematica, tipica scienza di possibilità operative: e la matematica è una scienza aperta, inventiva e non legata ad una struttura categoriale da definire una volta per tutte. Verrà di qui un vantaggio anche per la parola «metafisica», che potrà impiegarsi di nuovo per una ricerca più vicina alla metafisica tradizionale, anche se libera dall’acrisia che Kant vi denunciò.

La fortuna della «Critica» Sotto questo rispetto acquista un rinnovato interesse la Dottrina trascendentale del metodo, solitamente piuttosto trascurata. Strutturalmente essa costituisce l’intera seconda parte della Critica, e quanto a estensione quasi un sesto del totale. Il primo capitolo, su La disciplina della ragion pura, tematizza appunto, alla prima sezione, la differenza di metodo tra matematica e filosofia, sulla traccia dello scritto Sull’evidenza dei princìpi della teologia naturale. Esso definisce la matematica come una «costruzione di concetti», che usa quale materiale le stesse forme pure dell’intuizione sensibile. Nelle sezioni successive questo capitolo indica il rapporto tra una siffatta conoscenza razionale e l’impiego che la ragione trova in sede di Critica. Il secondo capitolo, sul Canone della ragion pura, preforma la Critica della ragion pratica. Infine il terzo capitolo sulla Architettonica, riassume il sistema dei rapporti tra filosofia critica e metafisica, senza fugare quei dubbi che le pagine precedenti avevano lasciati, ma ribadendo ancora una volta, a titolo di conclusione, la finalità «metafisica» dell’intera ricerca, in quanto «distinta da ogni uso empirico come dall’uso matematico della facoltà razionale». La Dottrina del metodo è essenziale per collocare la Critica della ragion pura al suo posto nell’insieme della produzione kantiana, cioè al posto rispondente alle intenzioni di Kant. Sarà, per contro, un’opinione curiosamente quasi costante dei filosofi successivi, che le intenzioni esplicite di Kant fossero distorte, capovolte rispetto a quello che sarebbe dovuto essere il vero scopo della sua filosofia (opinione che può accompagnarsi alla più sincera e smisurata ammirazione per Kant). L’interpretazione profetica di Fichte fece scuola: Kant è un profeta della verità che non si rende conto di quello che sta dicendo. Solo Fichte, il profeta del profeta, acquista per la prima volta coscienza di una verità che non è stato lui a introdurre. La fortuna della Critica della ragion pura segue questa falsariga, anche nei momenti in cui gli atteggiamenti profetici passano di moda. La maestria costruttiva di Kant viene trascurata, anzi, se occorre, interpretata a rovescio, pur di dare spazio alla sua capacità di rivelazione. Senza dubbio anche Kant aveva avuto l’ambizione di dire «come stanno le cose» e di svelare i segreti del processo conoscitivo. Ma per i romantici, che si impadroniscono per

primi del suo pensiero, dire «come stanno le cose» non ha più lo stesso significato che aveva avuto per Kant: la rivelazione promana, ora, da una dimensione diversa da quella in cui si incontrano dati, forme e condizioni dell’esperienza possibile. La filosofia è ora piuttosto scienza dell’esperienza impossibile, e per questo non si esita a rovesciare lo spirito di Kant. Toccherà a un filosofo neoclassico, lo Hegel, il merito di uscire dall’equivoco. Anziché attribuire alla filosofia di Kant significati reconditi, di cui Kant stesso non avrebbe avuto coscienza, Hegel non esitò – a parte un breve periodo di ammirazione per la sua morale, al tempo della Vita di Gesù – ad assumere un atteggiamento decisamente denigratorio nei confronti del criticismo. Hegel vide chiara l’incompatibilità tra il proprio neoclassicismo romantico e il classicismo formale di Kant, e non riuscì mai a collocarsi all’interno del punto di vista dell’avversario, e neppure a rendergli giustizia in sede di dialettica storica, come aveva saputo fare con altri filosofi. Almeno, però, evitò di mascherarlo sotto fattezze non sue. Hegel è all’origine di quasi tutte le valutazioni negative del criticismo, che si svilupperanno soprattutto in Francia. Critiche più profonde aveva formulate lo Hamann, ma erano troppo difficili da capire per potersi generalizzare. L’accusa di Hegel colpisce Kant nel formalismo, cioè in quell’isolamento delle forme con cui, come abbiamo visto, Kant aveva concluso il lavoro critico. Nell’isolare le forme Kant interpretava il procedere della scienza moderna: ma Hegel, come è noto, respingeva con veemenza tale procedere, sicché il rifiuto che egli oppone a Kant è giustificato dal suo punto di vista, ma estrinseco. Più intrinseca l’obiezione di Hamann, che osserva come Kant trascuri di considerare, nella sua Critica, la necessaria mediazione del linguaggio. Egli parla come se le forme razionali condizionassero la conoscenza e il suo oggetto indipendentemente dalle forme linguistiche, mentre il logos come ragione non è isolabile dal logos come parola, poiché solo in connessione con esso si fa veicolo al rivelarsi della realtà, che è un linguaggio a sua volta: il linguaggio di Dio. Hamann avrebbe potuto costituire il contraltare di Kant per i romantici, se questi non avessero preferito innalzare sugli altari Kant medesimo a costo di sfigurarlo. Solo nel nostro secolo, perciò, alcune interpretazioni, in particolare esistenzialistiche, mostreranno di tener conto della Metacritica hamanniana. Nell’Ottocento la filosofia ufficiale si richiama a Kant quasi tutta positivamente, adattandolo in vari modi ai propri scopi. Lo stesso neokantismo usa la Critica per scopi polemici, in funzione

antihegeliana, e Kant diviene il capofila della «filosofia critica» contrapposta alla ebbra «filosofia speculativa». Sotto quell’etichetta generica Kant potrà divenire maestro perfino a pensatori di estrazione positivistica. Alla sua fondazione trascendentale si sostituisce, sulla scorta di Fries, di Nelson e di altri, una fondazione psicologistica o, come in Helmholtz, fisiologistica del conoscere, richiamantesi a condizioni esse stesse empiriche, e non più trascendentali, dell’esperienza.

La «Critica» nella filosofia contemporanea Dopo il mezzo del secolo, contemporaneamente al «ritorno a Kant» della Germania, si ha un ritorno a Kant in Inghilterra, che curiosamente fonde filosofia critica e filosofia speculativa, dando luogo ad una rinascita idealistica che da Kant è fortemente condizionata. Nel 1865 The Secret of Hegel, dello Sterling, spiega, in sostanza, che «il segreto di Hegel» è Kant; e anche il neoidealismo di filosofi più tecnici passa attraverso uno studio assiduo del criticismo, quale si ha nell’opera di E. Caird. Per un verso è un ritorno a posizioni paleoromantiche, influenzate anche dal poeta Coleridge, per un altro è una trasformazione critica dello stesso hegelismo, che l’autore di Apparenza e realtà, F.H. Bradley, giungerà, col suo «idealismo scettico», a rovesciare. In Francia, la Critica della ragion pura offrì spunti e giustificazioni al fenomenismo del Renouvier, le cui vere radici, peraltro, si trovano altrove; e in parte all’epistemologia del Boutroux. Il Brunschvicg la riprese in una prospettiva storicistica, che nega alle categorie il carattere sovratemporale. Nel complesso, però, l’opera rimase sempre abbastanza estranea allo spirito francese, più sensibile, semmai, ai temi della Critica della ragion pratica e del giudizio. In Italia, a partire dal Galluppi e dal Rosmini, la teoretica di Kant fu invece al centro dell’attenzione, e la sua fortuna seguì fedelmente l’alternarsi delle correnti, a cui essa offriva appoggi, ora in senso idealistico, ora in senso antispeculativo. Nel secondo Ottocento essa alimentò un neokantismo italiano, sia in Felice Tocco, sia nella scuola pavese di Carlo Cantoni e nella napoletana di Filippo Masci. Anche qui, tuttavia, sebbene gli interessi storici si appuntassero sulla teoretica, gli sviluppi più originali si ebbero in campo etico.

In Germania frattanto, come reazione alla utilizzazione troppo personale del kantismo si sviluppava la Kantphilologie, che trova echi anche in Italia. Essa acquista meriti rilevanti nell’accertare la lettera dei testi, la loro genesi, la loro storia; ma, restando estrinseca sul piano dell’interpretazione, non riesce a rappresentare un valido correttivo alle tendenze speculative: le quali, infatti, riprendono più vigorose che mai nel nostro secolo, e particolarmente in Italia, soprattutto nelle varie forme di idealismo da Martinetti a Gentile e a Carabellese. Interpretare la Critica della ragion pura era stato e rimaneva un modo per interpretare se stessi. La situazione muta solo dopo l’ultima guerra: da un lato, con l’espandersi degli studi genetici, sulla scia dell’opera di H.J. de Vleeschauwer sulla deduzione trascendentale, dall’altro con il fiorire di studi esegetici più fedeli che quelli dell’età precedente. Negli studi genetici, naturali eredi della Kantphilologie, si sono distinti il Guéroult in Francia e il Tonelli in Italia. In Germania è rimasto più forte il legame con la tradizione interpretativa, e la lunga carriera di Heinz Heimsoeth, che abbraccia insieme la filologia e l’esegesi, è l’emblema di questo legame. Il difetto in cui gli studi genetici talvolta sono caduti è un’eccessiva frammentazione e disarticolazione del pensiero della Critica. Gli strati successivi di formazione sono stati visti come giustapposti nell’opera compiuta, anziché come sviluppi organici di un pensiero coerente. Se, così, si compensa la tendenza di Kant a presentare la propria opera come un blocco fuori del tempo, dall’altro si rischia di attribuire a Kant una schizofrenia che, in realtà, non lo affliggeva. Per evitare ciò è sufficiente che gli studi genetici non trascurino di configurare e tener fermo il problema che Kant aveva in mente e le linee essenziali della sua soluzione, quali che fossero le oscillazioni e le incertezze sui particolari. Questo problema, come abbiamo visto, va riconosciuto nella fondazione di una metafisica che ha ben poco in comune, salvo il nome, con ciò che costituiva tradizionalmente tale disciplina (mentre in Germania le varie interpretazioni metafisiche, dal Paulsen a Gottfried Martin, non sempre tengono presente ciò); e, attraverso la metafisica, nella fondazione della fisica. In vista di ciò la filosofia trascendentale ha una coerenza e semplicità a cui non è difficile riportare tutti gli elementi, anche se in parte variabili, della costruzione. Si tratta di intenderli nella loro funzione tecnica, senza lasciarsi sviare da suggestioni di un linguaggio che Kant mutua dall’illuminismo scolastico, ma che di fatto in-

flette a significati peculiari al sistema. VITTORIO MATHIEU Novembre 1974

Nota al testo

Le due prime edizioni della Kritik der reinen Vernunft (Riga, Hartknoch, 1781, pp. XXIV-856 e ivi 1787, pp. LXIV-884) hanno un andamento diverso, almeno nella formulazione, per una cinquantina di pagine molto importanti: nella Deduzione trascendentale e nella Critica del paralogismo psicologico. Per ragioni esterne e interne non c’è dubbio che la versione da preferire sia la seconda, riprodotta, vivente Kant, in altre tre edizioni (Riga 1790 e 1794, Lipsia 1799; poi ancora Lipsia 1818 e 1828). Solo nel 1838 il Rosenkranz, sollecitato dallo Schopenhauer per ragioni inerenti alla sua interpretazione dell’idealismo trascendentale, prese a base per l’edizione curata da lui e dallo Schubert il testo del 1781, dando come supplementi le varianti principali. Nello stesso anno lo Hartenstein, nella sua raccolta di opere kantiane, seguì il criterio inverso: in nota le varianti della 1a edizione e in appendice i passi paralleli più lunghi. Con l’eccezione del Kehrbach (Lipsia 1877) questo criterio si è esteso a tutte le edizioni successive poiché (come aveva osservato il Jacobi fin dal 1815) qualche volta la prima versione facilita la comprensione della seconda. Solo nell’edizione critica curata da Benno Erdmann per l’Accademia di Berlino (Kants gesammelte Schriften, 1902) le due edizioni sono offerte separatamente: nel vol. III la seconda, nel vol. IV la prima fino ai Paralogismi (ossia fin dove vi sono scostamenti importanti). Lo stesso Erdmann, in una precedente edizione (Berlino 1900) aveva messo in rilievo le differenze introdotte arbitrariamente nelle edizioni terza e quarta, e la necessità di ritornare al testo della seconda, sia pure emendato dagli errori evidenti. Errori erano stati notati già dal Mellin in Marginalien und Register zu Kants Kritik der reinen Vernunft (Gotha 19002), dal Grillo, e dal Meyer («Philosophischer Anzeiger», 1795). Verso la fine dell’Ottocento la filologia prese a sbizzarrirsi sul testo, con risultati a volte apprezzabili, altre volte dubbi. Ancora a chi scrive, nel rivedere nel 1958 la traduzione Gentile,

accadde di proporre un emendamento testuale e di mostrarne inutili altri due, proposti dal Wille e dall’Erdmann. Le incertezze sul testo della Critica, in ogni caso, non sono mai tali da mettere in discussione il significato del pensiero di Kant. La Critica della ragion pura è stata tradotta in tutte le principali lingue europee. In Italia circolò anzitutto la traduzione latina di Friedrich Gottlob Born (Lipsia 1796), poi l’italiana di un chirurgo pavese, Vincenzo Mantovani (Pavia 1820-22, 8 voll.): l’una scorretta, l’altra piuttosto astrusa. In seguito si ricorse alle traduzioni francesi del Tissot (1835) e del Barni (1869). Quando uscì quella di Tremeysagues e Pacaud (1905) fu messa in cantiere una seconda traduzione italiana, affidata da Giovanni Gentile, che curava col Croce i «Classici della filosofia moderna» di Laterza, a Giuseppe Lombardo Radice, che la condusse fino al principio delle Note alle Anfibolie dei concetti della riflessione. L’opera era già in corso di stampa quando il terremoto di Messina del 1908 distrusse le carte e i libri del Lombardo Radice, a cui subentrò nel lavoro il Gentile medesimo che, del resto, aveva presieduto alla sua impostazione. La traduzione di Gentile e Lombardo Radice (Bari 1909-10) ebbe larga fortuna (sei edizioni, con lievi rettifiche) grazie all’aderenza del suo dettato all’andamento del pensiero di Kant, anche se nella scelta di taluni termini (atto, spirito) erano sensibili le preferenze speculative di Gentile. Nel 1957 Giorgio Colli pubblicò presso Einaudi una nuova traduzione con rilevanti innovazioni terminologiche («apparenza» in luogo di fenomeno, «proposizioni fondamentali» in luogo di princìpi), che tuttavia stentarono a entrare nell’uso. Nel 1959 la traduzione Gentile ricomparve rivista da Vittorio Mathieu, che si limitò a interventi puramente filologici, senza mutarne l’impianto; ebbe, nella nuova veste, altre numerose edizioni, ed è ancora la stessa che si ritrova qui. Frattanto Pietro Chiodi pubblicò una nuova traduzione per i classici Utet (Torino 1967), accogliendo la terminologia tradizionale ma sostituendo i termini più tipicamente gentiliani. Un colossale commento alla Critica della ragion pura progettò Hans Vaihinger e i due volumi che uscirono (Kommentar zu Kants Kritik der reinen Vernunft, Stoccarda 1881-92) costituiscono ancor oggi una miniera di notizie per la conoscenza di tutta l’opera e delle questioni dibattute intorno ad essa nel suo primo secolo di vita, anche se l’estensione trattata non va al di là dell’Estetica trascendentale.

Tutti molto meno analitici i commentari che seguirono: H. Cohen (Lipsia 1907), H. Cornelius (Erlangen 1926), C. Nink (Francoforte 1930), F. Grayeff (Amburgo 19662) e S. Caramella (Palermo 1966). Porta il sottotitolo di «Commentario alla prima parte della Critica della ragion pura» l’opera in due volumi di H.J. Paton, Kant’s Metaphysics of Experience (Londra e New York 1936), che peraltro è un’eccellente monografia sulla gnoseologia kantiana; e all’Analitica trascendentale è dedicato il commentario di R.P. Wolff, Kant’s Theory of Mental Activity (Cambridge, Mass. 1963). Alla dialettica sono per contro dedicati i quattro volumi di Heinz Heimsoeth, Tranzendentale Dialektik. Ein Kommentar zur Kritik der reinen Vernunft (Berlino 1966-71). Elementare A.C. Ewing, A Short Commentary on Kant’s Critique of Pure Reason, Londra 1938, autore anche di Kant’s Treatment of Casuality (1924), Hamden 19692. Nell’immensa bibliografia kantiana scegliamo alcune opere che abbiano particolare rilevanza per la Critica della ragion pura: H. Cohen, Kants Theorie der Erfahrung, Berlino 1871 (19183). J. Volkelt, Kants Erkenntnistheorie nach ihren Grundprinzipien analysiert, Lipsia 1879. M. Apel, Kants Erkenntnistheorie, Berlino 1895. H. Vaihinger, Die tranzendentale Deduktion der Kategorien, Halle 1902. H.J. de Vleeschauwer, La déduction transcendantale dans l’oeuvre de Kant, 3 voll., Parigi 193437. A. Massolo, Introduzione all’Analitica kantiana, Firenze 1947. L. Scaravelli, Saggio sulla categoria kantiana della realtà, Firenze 1947. L. Lugarini, La logica trascendentale di Kant, Milano 1950. A. De Coninck, L’Analityque transcendantale de Kant, Lovanio 1955. G. Tonelli, L’origine della tavola dei giudizi e del problema della deduzione in Kant, Torino 1956. V. Mathieu, La filosofia trascendentale e l’Opus postumum di Kant, Torino 1958. P. Chiodi, La deduzione nell’opera di Kant, Torino 1961. G. Bird, Kant’s Theory of Knowledge: an Outline of one Centrale Argument in the Critique of Pure Reason, Londra 1962. G. Santinello, Conoscere e pensare nella filosofia di Kant, Padova 1963. H. Delius, Untersuchungen zur Problematik der sogenannten synthetischen Sätze a priori, Gottinga 1963. M. Gattullo, Categoria e oggetto di Kant, Firenze 1966. R. Torretti, Manuel Kant. Estudio sobre los fundamentos de la filosofía crítica, Santiago del Cile 1967. AA.VV., The First Critique (ed. T. Penelhum), Belmont (Calif.) 1969. A. Philonenko, L’oeuvre de Kant, La philosophie critique. I. La philosophie précritique et la Critique de la raison pure, Parigi 1969. Th.K. Swing, Transcendental Logic, New Haven 1969. Rébade Romeo, Kant. Problemas gnoseologicos de la Critica de la razon pura, Madrid 1969. H. Holzey, Kants Erfahrungsbegriff, Basilea 1970.

W. Bröcker, Kant über Metaphysik und Erfahrung, Francoforte 1970. W. Drescher, Vernunft und Tranzendenz. Einführung in Kants Kritik der reinen Vernunft, Meisenheim 1971.

Prefazioni alle precedenti edizioni

1909. [Prefazione di Giovanni Gentile («Prefazione a questa traduzione», datata Palermo, 10 luglio 1909) all’edizione 1909-10 nei «Classici della filosofia moderna».] I. La Critica della ragion pura tra le altre opere di Kant – II. Composizione della Critica – III. Le varie edizioni e la costituzione del testo – IV. Traduzioni – V. Di questa traduzione.

I Tutta l’attività letteraria di Kant si suole dividere in due periodi principali: di cui l’uno va dal 1746 al 1770, e l’altro da questo anno alla morte del filosofo (1804), o, se si vuole, al 1798, data dell’Antropologia, ultima opera da lui pubblicata. Il 1770 segna il passaggio dal periodo «precritico» al periodo «critico» della speculazione kantiana con la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis, scritta da Kant per ottenere la cattedra di ordinario di Logica e Metafisica nella Università di Königsberg. Gli scritti precedenti si muovono o nell’àmbito della scienza naturale e matematica, di cui il criticismo posteriore doveva ricercare la possibilità e determinare il concetto, o in quello della metafisica leibniziana, di cui il criticismo doveva più tardi dimostrare l’impossibilità. Di questi scritti basterà ricordare i principali: Pensieri intorno alla vera valutazione delle forze e critica degli argomenti, di cui si son serviti in questa questione Leibniz e altri meccanici (1746). Questo libro porta la data dell’anno in cui fu incominciato a stampare; ma la dedica è del 1747, e il libro pare fosse finito di stampare nel ’49.

Storia generale della natura e teoria del cielo, o Saggio intorno alla costituzione e all’origine meccanica del mondo secondo i princìpi newtoniani (1775). Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova dilucidatio (1775). Metaphysicae cum geometria junctae usus in philosophia naturali, cuius specimen I continet monadologiam physicam (1756). Nuove osservazioni sulla spiegazione dei venti (1756). Nuova teoria del movimento e della quiete (1758). Saggio di alcune osservazioni intorno all’ottimismo (1759). La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche (1762). Tentativo d’introdurre il concetto delle quantità negative in filosofia (1763). L’unico possibile argomento dell’esistenza di Dio (1763). Ricerche sulla evidenza dei princìpi della teologia naturale e morale (1764). Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime (1764). Sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica (1764). Del primo principio delle differenze delle regioni nello spazio (1768). Nell’uno o nell’altro di questi scritti lo storico della genesi del pensiero kantiano scorge le tendenze e i germi del criticismo; ma questo nasce, si può dire, nella Dissertazione del 1770: dove Kant si stacca dalla filosofia leibniziana, distinguendo nettamente la conoscenza sensibile dalla conoscenza intellettuale: quella dei fenomeni, questa dei noumeni; e abbozzando, rispetto alla prima, quell’Estetica trascendentale, che sarà la prima parte e il fondamento della Critica della ragion pura: mostrando, cioè, come ogni conoscenza sensibile risulti dalla «materia», o sensazione che presuppone la presenza di qualche cosa di sensibile, e dalla «forma», onde la mente umana coordina e unifica nello spazio e nel tempo il molteplice della sensazione, per dar luogo alle conoscenze particolari, che l’intelletto, nel suo uso «logico», elabora in concetti comuni e leggi generali, costituendo la vera e propria «esperienza». Dall’uso logico si distingue bensì l’uso «reale» dell’intelletto; il quale non serve più alla elaborazione concettuale della conoscenza sensibile, ma alla produzione d’una conoscenza nuova, indipendente dall’esperienza: la metafisica, che è la dottrina del puro intelletto o delle «idee pure» («possibilità, esistenza, necessità, sostanza,

causa, ecc. coi loro contrarii e correlati»): le quali non derivano dall’esperienza, anzi costituiscono la natura stessa dell’intelletto puro, e quindi le sue leggi necessarie operanti inconsapevolmente nello stesso uso logico per la costituzione dell’esperienza. Questa dottrina delle idee pure, o «intellezione reale», dà la conoscenza delle cose in sé o dei noumeni, il cui principio è Dio. L’intelletto puro è, insomma, nel suo uso reale, la ragion pura, di cui si occuperà la critica posteriore; e la possibilità o meno della sua intenzione reale (per la quale, fin dal 1770, Kant vede che si richiederebbe un’intuizione intellettuale analoga a quella sensibile, che fornisce la materia prima dell’esperienza), resta il problema, su cui Kant si travaglierà per un intero ventennio: e la cui soluzione, iniziata nel 1781 con la Critica della ragion pura, si compie nel 1790 con la Critica del giudizio. Tra queste due Critiche si collochi la Critica della ragion pratica (1788): e si ha la trilogia del criticismo kantiano; della quale i Prolegomeni a ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza (1783), la Fondazione della metafisica dei costumi (1785), i Princìpi metafisici della fisica, la polemica con l’Eberhard Intorno a una nuova scoperta, secondo la quale ogni nuova critica della ragion pura sarebbe resa inutile da una più antica (1790), la Religione dentro i limiti della semplice ragione (1793), i Princìpi metafisici della dottrina della virtù (1797), la già ricordata Antropologia, con altri scritti minori e postumi, sono rimaneggiamenti parziali, chiarimenti, appendici, svolgimenti particolari; che non aggiungono, per altro, né modificano alcuna parte sostanziale del pensiero esposto nella detta trilogia. Nella quale trilogia si spezza, per così dire, e si riorganizza, integrandosi, il pensiero della Dissertazione del 1770. In questa Dissertazione, la scienza è scienza del mondo sensibile e scienza del mondo intelligibile: esperienza e metafisica. La Critica della ragion pura è la dimostrazione dell’impossibilità della metafisica, e della necessità di limitare la scienza al mondo sensibile. La Critica della ragion pratica è, invece, la dimostrazione dell’impossibilità d’intendere lo spirito (etico), in quanto libertà, dal punto di vista dell’esperienza, ossia con la scienza garantita dalla prima Critica: quindi, della necessità di una scienza a sé dell’intelligibile in quanto spirito. Donde una dualità di esperienza e metafisica, analoga a quella posta nella Dissertazione del 1770: ma con la differenza, che in questa Dissertazione la vera scienza per Kant è la metafisica, e qui invece, è l’esperienza: lì al

contario, la vera realtà è quella del mondo sensibile o della natura, qui quella del mondo intelligibile o dello spirito. Via via, si può dire, che a Kant si disfà tra mano la scienza del noumeno, gli cresce il desiderio di questo, e il senso profondo della sua realtà. Donde il bisogno di una conciliazione tra il concetto di questa realtà, che è libertà e fine, e quella scienza, che si fonda sulla negazione del fine e della libertà: bisogno, che il Kant procura di soddisfare con la Critica del giudizio, dove il giudizio riflesso sulla natura, oggetto della scienza, dà al filosofo come una seconda vista, la quale al di sotto del meccanismo scorge una finalità necessaria all’intelligenza della natura, e solleva tutta la realtà, da un punto di vista regolativo, e cioè spirituale, al piano dello spirito. II Non aveva, si può dire, pubblicato la dissertazione De mundi sensibilis, e già Kant ne ripigliava il problema, e s’accingeva alla Critica della ragion pura. In una lettera, infatti, del 7 giugno 1771 all’amico e scolaro Marco Hertz dà notizia di un lavoro, a cui attendeva, dal titolo: I limiti della sensibilità e della ragione; il quale doveva non solo trattare dei concetti fondamentali e delle leggi concernenti il mondo sensibile, ma contenere anche «un abbozzo di quel che costituisce la natura della dottrina del gusto, della metafisica e della morale»; poiché gli sembrava di grande utilità, non soltanto per la filosofia, ma anche per i fini più importanti dell’umanità in generale, che si sappia distinguere bene tra ciò che appartiene alla natura della facoltà nostra conoscitiva e ciò che spetta alla natura degli oggetti; e che si conosca esattamente «ciò che riposa sui princìpi soggettivi dei poteri dell’anima umana, non solo del senso, ma dello stesso intelletto»1. I diversi problemi fondamentali – osserva a proposito di questa lettera il Fischer2 – sono raccolti qui tutti insieme nel disegno d’una sola opera, che avrebbe abbracciato così la materia di tutte le tre Critiche. Ma, ben presto, dalla nebulosa si cominciò a staccare, com’era naturale, e a pigliar corpo a sé la questione fondamentale: la teoretica. In una importantissima lettera, del 21 febbraio 1772, Kant scrive allo stesso Hertz: «Percorrendo col pensiero la parte teoretica in tutta la sua estensione nei rapporti reciproci de’ vari elementi tra loro, mi sono accorto, che a me manca tuttavia qualcosa d’essenziale, a cui, come gli altri, né anche io, nel corso delle mie ricerche metafisiche, avevo posto mai attenzione, e che in realtà è la chiave di tutto il segreto della metafisica rimasta finora un mistero. Io, cioè,

mi sono chiesto: su quale base è fondato il rapporto di ciò, che si dice in noi rappresentazione, con l’oggetto?»3. Questo rapporto non si spiega per via naturale, considerando i nostri concetti come cause o come effetti degli oggetti. La spiegazione sovrannaturale suppone un’illuminazione divina (Platone, Malebranche) o un’armonia prestabilita (Leibniz), e si rifugia in ambo i casi nell’intervento divino. «Se non che, il Deus ex machina, per la determinazione dell’origine e del valore delle nostre conoscenze, è ciò che di più assurdo si possa soltanto pensare, e oltre al circolo fallace, che importa nella concatenazione logica delle nostre idee, ha lo svantaggio di venir in aiuto al fantasticare delle chimere divote e sofistiche.» La sua ricerca quindi s’indirizza alle «fonti della conoscenza intellettuale» per determinare la natura e i limiti della metafisica. «Ora sono in grado di fornire una critica della ragion pura, contenente la natura della conoscenza, sì teoretica che pratica, in quanto semplicemente intellettuale: di cui prima elaborerò la prima parte circa le fonti della metafisica, i suoi metodi e limiti; e la pubblicherò forse tra tre mesi»4. In questa lettera apparisce la prima volta il titolo della prima e maggiore Critica, concepita tuttavia come un sol tutto con la seconda. Ma della prima si comincia già a vedere anche l’indipendenza dalla seconda nel disegno dell’autore, dove ne accenna il contenuto, dicendo che essa comprenderebbe «una critica, una disciplina, un canone e una architettonica della ragion pura»: che sono, infatti, le principali sezioni della Critica della ragion pura. Pure, trascorsero più di tre mesi e di tre anni prima che l’opera fosse scritta. Lo stato della salute, molto cagionevole, e la difficoltà delle analisi laboriose richieste soprattutto dall’Analitica trascendentale, obbligarono Kant a lavorarvi attorno ben dieci anni: durante i quali non pubblicò se non alcuni piccoli scritti di nessun interesse per la sua filosofia critica: una recensione d’uno scritto Sulla differenza di struttura tra le bestie e gli uomini (1771), una dissertazione Delle diverse razze umane (1775), e tre articoli pedagogici sul Filantropino del Basedow (1776, 1777, 1778). Né la redazione dell’opera progrediva a passo a passo col tempo. Anzi, è fuor di dubbio, che essa prese nel pensiero di Kant la sua forma definitiva solo negli ultimi anni, o, meglio, negli ultimi mesi di questo faticoso periodo di incubazione. In una lettera, scritta il 5 aprile 1778, all’Hertz, Kant fa conto ancora di poter pubblicare tra pochi mesi la «promessa operetta» e scrive al suo corrispondente: «Le cause del ritardo per un lavoro, che ammonterà a un

numero di fogli non grande, spero vorrà un giorno trovarle giustificate per la natura della cosa e dello stesso disegno propostomi». L’«operetta», a ogni modo, tra pochi mesi sarebbe stata stampata. L’operetta, invece, divenne un’opera, e non fu pronta per la stampa se non verso la fine del 1780. L’editore Hartknoch di Riga, per l’intromissione di Hamann, il 9 settembre aveva offerto a Kant di stampare la sua opera5; e dalle lettere dello stesso Hamann sappiamo che nel dicembre essa era in corso di stampa. Il 6 aprile 1781 Hamann ricevette i primi trenta fogli; e nel maggio, i diciotto seguenti; onde, quattro giorni dopo, scriveva a Herder: «Un libro così corpulento non è proporzionato né alla statura dell’autore né al concetto della ragion pura, che egli contrappone alla pigra = alla mia». E dovette aspettare altre sei settimane per avere tutto il resto con la fine e col principio del libro: e gli ultimi giorni di luglio per ricevere dalla mano del filosofo l’esemplare a lui dedicato. L’operetta, dunque, di tre anni prima riuscì un grosso volume, il cui numero di fogli supera due alfabeti. Segno evidente, che l’opera pubblicata non solo non era scritta intorno alla metà del 1778; ma allora non si poteva né anche calcolare dall’autore quali proporzioni essa avrebbe assunte. Non si tratta, come dice Fischer, di lavoro di lima e di semplici ampliamenti, che Kant poté fare nel ricopiare in pulito il suo manoscritto: ma della vera e propria stesura definitiva, in cui fuse certamente vari materiali raccolti già intorno alle singole parti. E bisogna pertanto intendere alla lettera quello che Kant dice al Mendelssohn nella lettera del 18 agosto 1783; dove, scusandosi delle oscurità della Critica, se ne dice dolente, ma non meravigliato: giacché, egli aggiunge, «menai a termine il prodotto della riflessione di uno spazio di tempo di almeno 12 anni, in 4 o 5 mesi circa, quasi di volo, benché ponendo una grande attenzione al contenuto, ma con poca cura della forma e di quanto occorre per esser facilmente inteso dal lettore»6. Sicché la Critica della ragion pura fu stesa nella prima metà del 17807, dopo un’aspra meditazione di molti anni, durante la quale parve spesso all’autore di essere sul punto di acquistare un’idea chiara e definitiva di tutte le parti della sua opera; ma ancora a mezzo il 1778 s’ingannava, e doveva tuttavia lavorarvi ancora per un pezzo. III La prima edizione della Critica, dunque, vide la luce a Riga, presso l’editore Johann Friedrich Hartknoch nel 1781, in un volume di XXIV-856

pagine in 8°. Nei primi mesi del 1786 era esaurita; e nel marzo di quell’anno, Kant si accingeva a una revisione del testo, per una nuova edizione, che venne fuori nel giugno8 dell’anno dopo come hin und wieder verbesserte (qua e là migliorata) in un volume di pp. LXIV-884, presso lo stesso Hartknoch. Quali miglioramenti Kant intese introdurre nel suo libro, lo dice egli stesso nella prefazione alla nuova edizione (pp. 27 sgg. q. trad.); né è di questo luogo entrare a discutere della questione tanto dibattuta, dal Jacobi e dallo Schopenhauer a B. Erdmann e al Fischer, intorno al valore delle differenze tra le due edizioni. Anche in questa traduzione tutte queste differenze si possono studiare e giudicare direttamente. Esse, oltre a leggere variazioni verbali, consistono in ampliamenti e accorciamenti, aggiunte e soppressioni. Sono ampliate nella seconda edizione l’introduzione e alcune parti dell’Estetica trascendentale; la Deduzione dei concetti puri dell’intelletto è rifatta interamente; parzialmente, il capitolo Del principio della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni. Nell’Analitica dei princìpi sono aggiunte la Confutazione dell’idealismo e l’Osservazione generale sul sistema dei princìpi; rifatto e abbreviato assai è il capitolo dei Paralogismi della ragion pura. Le differenze più importanti sono quattro: 1) la nuova forma data alla Deduzione dei concetti puri dell’intelletto; 2) e alla teoria della distinzione dei fenomeni e dei noumeni; 3) l’aggiunta della Confutazione dell’idealismo; 4) i tagli nei Paralogismi della ragion pura. La sostanza di queste differenze variamente giudicata secondo le tendenze diverse dei critici, si può certamente riassumere nello sforzo fatto da Kant, – dopo l’interpretazione berkeleiana, che fu data generalmente della prima edizione della Critica, – per isfuggire alle spire dell’idealismo e fondare l’affermazione della cosa in sé. Ma è del pari incontestabile, che, se Kant dai giudizi sulla prima edizione fu indotto a scrivere i Prolegomeni e a concentrare nella nuova edizione della Critica il suo pensiero sul bisogno che sentiva fortissimo di non finire nell’idealismo, questo bisogno c’era in lui anche prima, fin dalla Dissertazione del ’70, dove pure si parla del principio del fenomeno fuori del fenomeno. Era la posizione storica di Kant, come di Jacobi e di quanti allora toglievano il problema da Hume. E la seconda edizione fu sempre riprodotta in tutte le successive fino a quella del Rosenkranz (nel secondo volume dell’edizione delle opere complete di Kant, curata da lui e dallo Schubert) nel 1838: ossia nella terza

(Riga, 1790), nella quarta (ivi, 1794), nella quinta (Lipsia, 1799) e nelle due postume: la sesta e la settima (Lipsia, 1818 e 1828). Nel 1815, il Jacobi, nel suo scritto Sull’idealismo trascendentale9, lamentando la mancanza nella seconda edizione di alcuni passi della prima, assai importanti per l’intelligenza dell’idealismo kantiano, notava che la prima edizione si era allora resa assai rara e si vedeva solo nelle biblioteche pubbliche e nelle grandi librerie private. Lo Schopenhauer nella Critica della filosofia kantiana, aggiunta alla sua opera principale, nel 1819, appoggiava la sua critica della cosa in sé, contraddittoriamente fondata da Kant nel principio di causa non applicabile se non ai fenomeni, sulla seconda edizione; e, quando più tardi poté leggere la prima, e non vi trovò tale contraddizione e quell’orrore ingiustificabile che vedeva nella seconda per l’idealismo radicale di Berkeley, trattò questa ultima come un «testo mutilato, corrotto e in certo modo non autentico»: peggioramento senile della mente kantiana; e documento atto a spiegare perché a Kant era successo il periodo dell’incomprensione di Kant. Egli indusse il Rosenkranz nel 1838 a riprodurre per la prima volta l’edizione del 1781, come la vera Critica genuina, scrivendogli tre lettere, di una della quali il Rosenkranz diede un estratto nella prefazione al suo volume10. Il Rosenkranz bensì riprodusse accortamente in ventotto Supplementi le principali varianti della seconda edizione. Contemporaneamente al Rosenkranz una collezione completa degli scritti di Kant fu curata dall’Hartenstein (1838), da lui stesso ripubblicata trent’anni più tardi (1867-68): e questi, all’incontro, messo a fondamento il testo del 1787, diede in nota le minori varianti del 1781, e in appendice le due più lunghe intorno alla. Deduzione dei concetti puri dell’intelletto e ai Paralogismi. E questa sua edizione riprodusse a parte nel 1853 e nel ’68; quando uscì anche quella del Kirchmann (nella sua «philosophische Bibliothek») con lo stesso metodo11. Una nuova collazione più accurata dei due testi si ebbe nel 1877 per opera del Kehrbach12, e nel 1878 dell’Erdmann13, il primo dei quali si attenne al criterio del Rosenkranz, il secondo a quello dell’Hartenstein: ma raccolsero entrambi tutte le minime varianti. Da quella dell’Erdmann, di cui nel 1884 fu fatta una terza edizione in più luoghi migliorata, si sono rifatti l’Adickes per la sua edizione annotata (1889) e il Vorländer per la sua, assai pregevole, curata nel 1899 per la «Bibliothek der Gesammtlitteratur» di Hendel, ornata di un’introduzione storica e d’un utilissimo indice di persone e di cose, che riesce un glossario

veramente prezioso della terminologia kantiana nella Critica14. Ma nel 1900 l’Erdmann, rifacendo per la quinta volta la sua edizione avvertì15 che tutti gli editori (lui compreso), dal Rosenkranz in poi, avevano seguito a occhi chiusi la tradizione cominciata col Jacobi e con lo Schopenhauer, che tutte le edizioni originali, dalla terza alla settima, riproducessero letteralmente la seconda; il che è falso, perché un attento esame dimostra invece, che ogni edizione, dopo la terza, si fonda su quella immediatamente precedente; la sesta quindi sulla quinta, accogliendo senza criterio tutte le correzioni nel 1795 arbitrariamente proposte pel testo di Kant da un dott. Grillo, e già passate nella quinta. A causa di un altro errore, per cui si credeva che alla quinta, come ultima edizione uscita vivente Kant, fosse da attribuire una speciale importanza, il Rosenkranz e l’Hartenstein, pel testo della seconda edizione, attinsero alla quinta, che aveva aggiunti i suoi difetti a quelli della terza e della quarta. Il Kirchmann poi avrebbe riprodotto l’edizione ultima Hartenstein; l’Adickes, per lo più, il testo della quinta; e lo stesso testo, in più punti, anche il Vorländer. L’Erdmann, pertanto, rifacendo a parte la storia del testo, dimostrata la necessità di cercare nell’edizione del 1787 il testo genuino di Kant16, diede una nuova edizione più esatta della Critica, ancora perfezionata più tardi in quella da lui stesso curata per la collezione delle opere complete di Kant, pubblicata dalla R. Accademia prussiana delle scienze. Ma in questa collezione il testo del 1781 (fino al capitolo dei Paralogismi incluso) e quello del 1787 sono riprodotti separatamente, non senza avvertire via via, a piè del secondo, dove occorrono le differenze del primo. Più utili, senza dubbio, sono le edizioni comuni, complessive, che mettono a riscontro i due testi. Ma a torto dell’uno e dell’altro dei vari editori s’è creduto, che il giudizio comparativo intorno al valore dottrinale delle due edizioni dovesse servire di base alla scelta del testo da porre a fondamento della propria. L’editore non deve giudicare, ma presentare nella forma più schietta e genuina l’opera da giudicare: far opera di filologo e non di filosofo. Pure, movendo da un criterio filologico il Kehrbach e l’Erdmann, come si è visto, han creduto di dover giungere a conclusioni opposte: parendo al primo, che un’edizione complessiva della Critica, nella prima e nella seconda sua forma, dovesse porre nel testo l’edizione principe del 1781, rappresentante la forma originaria, della quale poi le varianti dell’edizione successiva rappresenterebbero nelle note e nell’appendice il posteriore processo di

rielaborazione del pensiero kantiano; e parendo, per contro, al secondo, che la seconda redazione rappresenti, secondo la mente dello stesso Kant, la vera forma dell’opera sua; la forma, in cui l’opera fu letta sempre durante i primi cinquant’anni, ossia durante tutto quel periodo della filosofia classica, di cui la Critica segna l’inizio17. Ora è evidente che entrambi questi punti di vista sono egualmente ragionevoli e accettabili; e che però non c’è una ragione per preferire assolutamente un metodo all’altro. L’importante è che, in un modo o nell’altro, si renda possibile lo studio di tutte le differenze fra le due edizioni fondamentali. Ciò che non pare a niun patto accettabile filologicamente, è il partito adottato dagli ultimi traduttori francesi; i quali dànno nel testo l’edizione 1781 con tutte le aggiunte dell’edizione 1787, ma pongono in nota i rifacimenti, che nella seconda corrono parallelamente ai rispettivi luoghi della prima edizione: costituendo così arbitrariamente un testo, che non è né quello della prima edizione, né quello della seconda18. La questione del testo di Kant ha dato bensì anche da fare a causa della scorrezione tipografica delle edizioni curate dallo stesso Kant. Onde è nata una già ricca letteratura di recensioni, che ora emendano errori evidenti, ora propongono congetture più o meno dubbie. Fin dal 1794, nel libro del Mellin Marginalien und Register zu Kants Kritik der reinen Vernunft19, si dava un lungo elenco degli errori di stampa della Critica; e un altro lungo indice ne dava l’anno appresso il dott. Grillo nel «Philosophischer Anzeiger der Annalen der Philosophie u. der philos. Geister», con aggiunte del Meyer. Ma la critica del testo ebbe grande impulso dalla Kantphilologie, che s’accompagnò al fiorire del neokantismo nella seconda metà del secolo XIX. Si cominciò nel 1877 con alcune Textkritische Bemerkungen di Ant. Leclair20, con le recensioni del Kehrbach e dell’Erdmann nelle loro edizioni; continuò il Vaihinger nel suo Commentario della Critica21; e il Vaihinger stesso, il Wille e il Riehl, lo stesso Vorländer, e l’Erdmann vi attesero con lunga pazienza ed acume22. Frutto della stessa Kantphilologie, utile soltanto a chiarimenti meramente verbali del testo, sono le note marginali di Kant a un suo esemplare della Critica, pubblicate dall’Erdmann nel 188123. IV Delle traduzioni della Critica fuori del suolo tedesco lunga, com’è noto, è la lista. Non ne manca nessuna delle principali letterature europee24 e non ne mancava già l’italiana; senza dire di quella, assai infelice per vero, fatta in latino da Federico Gottlob Born, professore dell’Università di Lipsia, nel

1796; che pure fu letta da molti anche in Italia prima che s’avessero altri mezzi tra noi per informarsi del contenuto dell’opera celebratissima25. Ma nel 1820 si cominciò a pubblicare nella «Collezione dei classici metafisici», che dirigevano a Pavia Giuseppe Germani, Luigi Rolla e Defendente Sacchi, una traduzione italiana; della quale uscirono quell’anno i primi tre tometti; e altri cinque nel 182226. Ne era autore il vecchio chirurgo Vincenzo Mantovani, allora professore supplente di medicina pratica in quella Università; il quale era stato una volta a Königsberg e aveva visto nell’atrio della cattedrale, presso l’Università, il busto di Kant, messovi nel 1811; e aveva trovato che quella fronte «per l’ampiezza delle dimensioni e delle sì pronunziate protuberanze anteriori» poteva servir di «modello alla craniologia di Gall, quando sotto quelle protuberanze riponeva gli organi della finezza e speculazione metafisica». Conosceva l’opera del Villers: Philosophie de Kant ou principes fondamentaux de la philosophie trascendentale (1801), la Storia del Degenerando (1804) e la versione francese di quella del Buhle (1816); e se ne giovò per l’intelligenza del testo, per le note aggiunte alla sua traduzione27, e per un discorso Della vita e delle opere di Kant, premesso al primo tomo. Ebbe presente la seconda edizione nella ristampa con la data di Francoforte e Lipsia, 1794. «Edizione», egli dice, «che rinvenne scorretta anzi che no; e mi sarei trovato più volte imbarazzato in errori di stampa, che il senso affatto scambiavano, se non avessi avuto per cui giovarmi della versione latina, essendo altronde impossibile, o per lo manco assai difficile, che i due testi si combinassero negli stessi abbagli appuntino. Il che avverto essendo essa pure inesattissima e veramente sibillina»28. E dalla traduzione del Born ritradusse alla meglio la prefazione alla edizione del 1781, seguendo per tutto il resto quella del 1787. Il saggio della prosa del Mantovani testé riferito può dare un’idea del difetto principale della sua traduzione, non solo «inelegante», com’ei già sospettava, ma così dura da riuscire spesso inintelligibile, per la sua trascuranza delle norme più comuni della sintassi italiana come per l’uso od abuso stranissimo del vocabolario. È stato detto che questa pubblicazione nocque, lungi dal giovare, alla conoscenza di Kant in Italia. Giudizio forse ingiustamente esagerato, poiché non sarebbe possibile, credo, additare nel Galluppi, che di questa traduzione dovette sempre servirsi, o nel Rosmini, che vi fece anche lui ricorso nelle prime sue opere, prima che avesse imparato il tedesco, un’erronea interpretazione da ascriversi in colpa al povero

Mantovani. Il quale pare generalmente esatto nella sua traduzione; ma con la sua orrida forma, che lo stesso Galluppi, nelle sue citazioni, procurava di pulire, dovette certamente, a molti che l’avevano, far passare la voglia di leggere mai in italiano la Critica della ragion pura. Onde con verità può dirsi, che assai più della traduzione pavese abbiano giovato poi alla conoscenza della Critica kantiana in Italia quelle francesi del Tissot (1835) e del Barni (1869); benché la prima, letterale, nel proposito del traduttore, presentasse, con le molte durezze, inesattezze non poche di interpretazione; e la seconda, più esatta, peccasse di libertà eccessiva verso la forma del testo, dato lo studio di renderne il pensiero in buon francese e libero dalle oscurità frequenti nella espressione troppe volte arruffata di Kant. La traduzione di un’opera di filosofia s’imprende in servigio di chi ignori la lingua originale, e non per schiarimento e commento del pensiero che essa contiene; al qual uopo gioverà piuttosto un’esposizione analitica. Le difficoltà, che incontra chi legge il testo originale, devono essere tutte presentate a chi è costretto a leggere la traduzione, ma ha interesse di veder rispecchiato in questa, quanto più fedelmente è possibile, in tutti i suoi particolari, l’atteggiamento dato dallo scrittore al proprio pensiero. Questo criterio han seguito gli autori della nuova traduzione francese, A. Tremeysagues e B. Pacaud29. I quali, pertanto, non hanno esitato, all’occorrenza, a foggiar parole affatto nuove al francese pur di rendere con la più precisa analogia lessicale la terminologia kantiana: traducendo, p. es., anschauen con intuictionner; e non mancando di far seguire tra parentesi il termine tedesco al francese, dove questo potesse corrispondere a più d’una parola tedesca come principe per Princip e Grundsatz, objet per Obiect e Gegenstand, ecc. Per questa cura scrupolosa di rendere fedelissimamente tutti i particolari della espressione kantiana il Tremeysagues e il Pacaud avrebbero fatto opera eccellente senza l’arbitraria costituzione del testo, da essi seguita, come fu sopra notato. Né può dirsi che nella stessa traduzione non siano incorsi anch’essi qua e là in disavvertenze, le quali dimostrano soltanto come in questa specie di lavori, per sforzi che si faccia di accuratezza, non è dato mai di toccare la perfezione. Così, nelle parti che a me è accaduto di riscontrare più minutamente, a pag. 240 alla fine della seconda Remarque si tralice «als e m p i r i s c h e r (spazieggiato da Kant) Anschauung»: «considérée à titre d’intuition»: tralasciando l’empirischer. A pag. 244 sono saltate due righe

come apparisce da questo confronto: In der That ist aber die absolute Möglichkeit (die in aller Absicht gültig ist), kein blosser Verstandesbegriff und kann auf keinerlei Weise von empirischem Gebrauche sein, sondern er gehört allein der Vernunft zu, die über allen möglichen empirischen Verstandesgebrauch hinausgeht.

Mais, en réalité, la possibilité absolue (qui est valable à tous les points de vue) n’est pas un simple concept de l’entendement et ne peut d’aucune façon être d’un usage empirique possible de l’entendement.

Qui la ripetizione della parola usage avrà magari fatto saltare due righe della traduzione al tipografo: ma i traduttori non dovettero in questo punto riscontrare le bozze di stampa col testo originale. Come a pag. 254 dove successive Wiederholung rimane tradotto con répetition nécessaire; e a pag. 266, dove in einer nicht sinnlichen Anschauung è reso: dans une intuition sensible. Non è esatto a pag. 279 dire che: «l’espace et le temps ne seront pas des représentations des choses en soi, mais des phénomènes» («n i c h t B e s t i m m u n g e n der Dinge an sich» ecc.). A pag. 281 è affatto sbagliato il senso, dove la frase das Intelligibile eine ganz besondere Anschauung, die wir nicht haben, erforden würde und in Ermangelung derselben für uns nichts sei (cioè: «l’intelligibile richiederebbe una intuizione affatto particolare, che non abbiamo, e in mancanza della quale per noi esso non è niente») vien tradotta: l’intelligible exigerait une intuition tout à fait particulière, que nous n’avons pas, et que rien ne peut r e m p l a c e r p o u r n o u s . A pag. 302 non si dovrebbe dire eux seuls rendent possible la connaissance ecc. ma eux rendent seulement o seulement rendent possible ecc. A pag. 305 lin. 6 non è reso il pensiero di Kant saltando le parole zur unvollkommenen Erläuterung, che dovrebbero tradursi dopo la frase ne peut jamais servir que d’exemple. E così via. V Questi appunti, cui dà luogo un lavoro tanto accurato, gioveranno forse a procurare un po’ d’indulgenza alle mende, che si potranno trovare in questa nuova traduzione italiana; quantunque l’amico mio Giuseppe LombardoRadice, – che la condusse fino al principio della Nota alle Anfibolie dei concetti di riflessione (pag. 213), e l’avrebbe condotta egli stesso a termine, se nel terremoto di Messina del 28 dicembre non avesse perduto tutti i suoi libri e le sue carte, e smarrito l’animo di riprendere subito e continuare

alacremente un’opera così faticosa, che era già molto innanzi e gli venne troncata tra mano e in molta parte distrutta, – e, dopo di lui, io sottentratogli pel resto del lavoro, fin d’allora in corso di stampa, non abbiamo risparmiato cure per dare agli studiosi italiani una traduzione, che riunisse alla maggiore possibile chiarezza e italianità di forma una fedeltà scrupolosa allo stile di Kant. Il testo, da noi adoperato, è quello del Vorländer, preferito per la sua comodità e pel diligente glossario della terminologia della Critica, utile a chi voglia rendere questa terminologia con precisione, confrontando i varii luoghi in cui ciascun termine ricorre. E però col Vorländer diamo il testo della seconda edizione, e in nota tutte le varianti della prima, rimandando a un’appendice finale i due lunghi brani della prima, concernenti la Deduzione dei concetti puri dell’intelletto e i Paralogismi della ragion pura; poiché non vedemmo l’utilità del metodo seguito dall’Erdmann nella sua quinta edizione, di farli correre per parecchie pagine sotto al testo corrispondente della seconda edizione. Ma la lezione del Vorländer, nella revisione del lavoro, abbiamo sempre collazionata col testo delle edizioni dell’Accademia di Berlino.

1918. [Prefazione di Giovanni Gentile (aggiunta senza titolo alla precedente e datata Roma, 10 settembre 1918) all’edizione 1919-21 nei «Classici della filosofia moderna».] La nuova edizione di questa traduzione non è una semplice ristampa della precedente. Lieto dell’occasione che mi si porgeva di migliorare il nostro lavoro, il quale, malgrado i suoi difetti, ha incontrato favore nel pubblico e recato fors’anco non piccolo giovamento alla cultura filosofica italiana, ne ho profittato per correggere accuratamente e in buona parte rifare la traduzione, studiandomi di ottenere il massimo possibile della fedeltà congiunto con quel tanto di chiarezza che è ragionevole esigere in libro di così astrusa e laboriosa speculazione. Non mi lusingo né anche ora di aver fatto opera perfetta; e non avrei qui

che a ripetere la protesta fatta nove anni fa a proposito delle sviste non potute evitare nello stesso lavoro, del resto eccellente, degli ultimi traduttori francesi; ma posso affermare che la presente edizione si avvantaggia di gran lunga sulla prima, almeno per esattezza.

1966. [Avvertenza di Vittorio Mathieu («Avvertenza a questa edizione», senza data, in calce alle prefazioni di G. Gentile) all’edizione 1966 nell’«Universale Laterza».] Il testo della traduzione che qui si presenta è identico a quello apparso come settima edizione, da me riveduta, nel 1959. Sono stati corretti alcuni, peraltro non numerosi e marginali, errori di stampa sfuggiti nelle edizioni successive. Si omette soltanto la Nota del revisore – che il lettore potrà consultare nell’edizione dei «Classici della filosofia moderna» – in cui rendevo conto dei criteri generali adottati nella revisione del testo di Gentile e Lombardo-Radice e davo un elenco degli interventi più importanti. Questa edizione reca inoltre un Glossario e un Indice dei nomi citati, a cura, quest’ultimo, della redazione della Casa editrice Laterza. Le note di Kant sono siglate N. d. K.; quelle da me aggiunte N. d. R. 1

Vedi Kant, Briefwechsel, in Gesammelte Schr. hg. v. d. königl. preuss. Ak. d. Wiss. zu Berlin, Bd. X, p. 117. 2 I. Kant4 (Gesch. d. n. Philos., Bd. IV), I, 72. 3 Briefw., X, 124. 4 X, 126. 5 Vedi la sua lettera in Kant, Briefwechsel, X, 243. 6 Kant, Briefw., X, 323. Cfr. Fischer, op. cit., I, 74-8. 7 Altri crede che la redazione ultima sia da assegnare agli ultimi mesi del 1779 tra il maggio e il settembre: ma la lettera al Mendelssohn mi pare perentoria. Cfr. l’Intr. di E. Adickes alla sua ed. della Kr. d. r. V., Berlin, Meyer u. Muller, 1889 con la recensione del Vaihinger nell’«Arch. f. Gesch. d. Phil.», IV, 724-29; e principalmente B. Erdmann, Einl. in Kant, Kr. d. r. V. erste Aufl., in Gesamm. Schr. v. d. königl. preuss. Ak. d. Wiss., IV, Berlin, Reimer, 1903, pp. 569-87. 8 Cfr. B. Erdmann, Einl. in Kant, Krit. d. r. V. zw. Aufl. 1787, in Gesamm. Schr. hg. v. der königl. preuss. Ak. der Wissensch., I Abth.: Werke, III Bd. (Berlin, Reimer, 1904), p. 558. 9 Jacobi, Sämmtl. WW., II, 291 sgg. 10 V. anche Schopenhauer, Die Welt als Wille u. Vorst., tr. fr., II, 25 [p. 539 della tr. it., Bari, 1928]. Le tre lettere scritte al Rosenkranz sono state poi pubblicate dal Reicke nell’«Altpreussische Monatschrift», XXVI (1889), 30 sgg.

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Di questa è uscita un’ottava ediz. riveduta da Th. Valentiner (Leipzig, 1906). K. d. r. V. Text der Ausg. von 1781 mit Beifügung sämmtl. Abweichungen der Ausg. von 1787 hg. v. D.K. Kerbach, Leipzig, Reclam, 1877 (2a ediz. migliorata 1878). Nn. 851-55 della «Universal-Bibliothek». 13 Leipzig, 1878; 3a ediz. stereotipa «mehrfach verbesserte», ivi, 1884. 14 Una rist. della 2a ediz., con un’intr. sulla vita e le opere di Kant, è quella di Zimmermann, Leipzig und Wien, Meiers Bibliograph. Institut, 1890. 15 I. Kant, K. d. r. V., hg. v. B. Erdmann, fünfte durchgängig revidierte Aufl., Berlin, Reimer, 1900. 16 V.B. Erdmann, Beitr. z. Gesch. u. Revision des Texts Kritik der reinen Vern., Anhang zur fünfte Aufl. cit., Berlin, Reimer, 1900. 17 V.B. Erdmann, Vorr. alla 3a ediz. della sua Kants Kritik ecc. e Kehrbach, Replik gegen des Hrn. Privatdocentes B. Erdmanns Recension meiner Ausgabe der Kants Kr. d. r. V.; zugleich eine kurze Charakteristik des allerneuesten Studiums der sogenannt. Kantphilologie, in «Ztschr. f. Phil. u. phil. Krit.» Bd. LXXII. 18 A torto dicono di aver seguito la «disposition adoptée par B. Erdmann dans sa cinquième édition» (p. XXII). Perché nella 5a ediz. l’Erdmann mette tutto da una parte, sopra, il testo della 2a ediz. e sotto, soltanto le varianti della 1a. 19 Rist. da L. Goldschmidt, Gotha, 1900. 20 Nel libro Krit. Beiträge zur Kategorienlehre Kants, Praga, 1877, pp. 104-5. 21 Bd. I, 1881 e Bd. II, 1882 (Stuttgart). 22 Pel Vorländer e per l’Erdmann si vedano le loro edizioni. Per gli altri tutti gli articoli citati dallo stesso Erdmann, Introd. all’ed. dell’Accademia della seconda Critica, pp. 566-7. 23 Kant, Krit. d. r. V. Nachträge: aus Kants Nachlass, hg. v. B. Erdmann, Kiel, 1881. 24 Vedi l’elenco nel Dictionary del Baldwin, III, 1a, 287 e in Ueberweg-Heinze, Grundriss, dritt. Th., I8, 260. 25 Vedi su di essa Credaro, A. Testa e i primordi del kantismo in Italia. Nota IV, negli Atti della R. Acc. Lincei, 1885-86, s. 4a, vol. II, 2° semestre, pp. 292-94. 26 Critica della ragion pura di Manuele Kant, traduzione dal tedesco, Pavia, presso i collettori [Germani, Rolla e Sacchi], coi tipi di Pietro Bizzoni succ. di Bolzani, 1820. Manca il nome del traduttore. – Dal tomo IV in poi: C. d. r. p. di M. K. tradotta dal tedesco dal cav. V. Mantovani già professore di medicina pratica nell’I. R. Università di Pavia, Chirurgo in capo militare, ecc., 1822. Sono a stampa dello Stesso M. 3 voll. di Lezioni di terapia speciale sulle infiammazioni e Rendiconto clinico di V. M., suppl. alla nuova cattedra di medicina pratica pei chirurgi nell’I. R. Univ. di Pavia l’anno 1819. Nella ded. del libro al sig. G. de Kluky, i. r. consigliere e protomedico del Governo di Milano, l’A., oltre che Cav. del r. i. ord. ital. della Corona Ferrea, si dice «Ispett. gener. agg. di sanità militare in ritiro, socio di Accad. letterarie e scientifiche». Altrove: «Chiamato a supplire alla rispettiva cattedra sull’ultimo declinare del 1818» (v. III, p. 296). 27 Il Credaro, dice che il M. si servì nelle sue note del Reinhold e dello Schulze. Ma il M. dichiara di essersi servito del Villers, anche perché questo scrittore s’era attenuto «ai meglio reputati fra i concittadini di K., come Reinhold» ecc. (p. 10). 28 Vedi Proemio alla traduzione, t. I, pp. 12-13. 29 Crit. de la rais. pure, Nouv. tr. franc. avec notes: Préf. de A. Hannequin, Paris, Alcan, 1905. 12

Critica della ragion pura

Kritik der reinen Vernunft / von / Immanuel Kant, / Professor in Königsberg, / der konigl. Akademie der Wissenschaften in Berlin Mitglied [manca nella 1a ed.] / Zweite hin und wieder verbesserte Auflage / Riga, / bei [1a ed.: verlegts] Johann Friedrich Hartknoch / 1787 [1a ed.: 1781].

BACO de VERULAMIO Instauratio magna. Praefatio. De nobis ipsis silemus: de re autem, quae agitur, petimus: ut homines eam non opinionem, sed opus esse cogitent; ac pro certo habeant, non sectae nos alicuius, aut placiti, sed utilitatis et amplitudinis humanae fundamenta moliri. Deinde ut suis commodis aequi – in commune consulant – et ipsi in partem veniant. Praeterea ut bene sperent, neque instaurationem nostram ut quiddam infinitum et ultra mortale fingant, et animo concipiant; cum revera sit infiniti erroris finis et terminus legitimus30. 30

Questo motto fu aggiunto da Kant nella 2a edizione, dove sta a tergo del frontespizio.

A Sua Eccellenza Il Real Ministro di Stato Barone Di Zedlitz Grazioso Signore, Promuovere per la propria parte l’incremento delle scienze, significa lavorare nell’interesse particolare dell’Eccellenza Vostra; giacché questo è con quello intimamente legato non soltanto per il posto eminente di mecenate, ma anche per la qualità, che assai meglio affida, di amatore e illuminato conoscitore. Perciò io mi servo dell’unico mezzo, che in certo modo sia in mio potere, di testimoniarle la mia gratitudine per la benevola fiducia della quale l’Eccellenza Vostra mi onora, come se io potessi in qualche modo contribuire a codesto scopo31. A quella stessa benigna attenzione, della quale l’Eccellenza Vostra ha reputato degna la prima edizione di quest’opera, offro ora anche questa seconda, e insieme con essa tutti gli altri interessi della mia carriera letteraria, e sono con la più profonda devozione dell’Eccellenza Vostra Umilissimo e obbedientissimo servitore Immanuel Kant Könisberg, 23 aprile 1787. 31 Nella dedica della 1a edizione (29 marzo 1781) a questo punto seguivano le parole: «Colui, che gode della vita speculativa, trova, fra i suoi modesti desideri, nell’approvazione di un illuminato e valoroso giudice un potente incoraggiamento a sforzi, la cui utilità è grande sebbene lontana e perciò affatto disconosciuta dagli occhi del volgo».

Prefazione 1781

La ragione umana, in una specie delle sue conoscenze, ha il destino particolare di essere tormentata da problemi che non può evitare, perché le son posti dalla natura della stessa ragione, ma dei quali non può trovare la soluzione, perché oltrepassano ogni potere della ragione umana. In tale imbarazzo cade senza sua colpa. Comincia con princìpi, l’uso dei quali nel corso dell’esperienza è inevitabile, ed è insieme sufficientemente verificato da essa. Con essi (come comporta la sua stessa natura) la ragione sale sempre più alto, a condizioni sempre più remote. Ma, accorgendosi che in tal modo il suo lavoro deve rimanere sempre incompiuto, perché i problemi non cessano mai d’incalzarla, si vede costretta a ricorrere a princìpi, che oltrepassano ogni possibile uso empirico e, ciò malgrado, paiono tanto poco sospetti che il senso comune sta in pieno accordo con essi. Se non che, per tal modo, incorre in oscurità e contraddizioni, dalle quali può bensì inferire che in fondo devono esservi in qualche parte errori nascosti, che però non riesce a scoprire, perché quei princìpi, di cui si serve, uscendo fuori dei limiti di ogni esperienza, non riconoscono più una pietra di paragone dell’esperienza. Ora, il campo di queste lotte senza fine si chiama Metafisica. Fu già un tempo che questa era chiamata la r e g i n a di tutte le scienze; e, se si prende l’intenzione pel fatto, meritava certo questo titolo onorifico, per l’importanza capitale del suo oggetto. Ma ormai la moda del nostro tempo porta a disprezzarla, e la matrona si lamenta, respinta ed abbandonata come Ecuba: modo maxima rerum, tot generis natisque potens – nunc trahor exul, inops. – Ovid., Metam.32 A principio, la sua dominazione, sotto il governo dei d o m m a t i c i , era d i s p o t i c a . Ma, poiché la legislazione serbava ancora traccia dell’antica barbarie, a poco a poco degenerò per guerre intestine in una completa

a n a r c h i a ; e gli s c e t t i c i , sorta di nomadi, nemici giurati d’ogni stabile cultura della terra, rompevano di tempo in tempo la concordia sociale. Tuttavia, poiché fortunatamente erano in pochi, non potevano impedire che quelli, sempre di nuovo, sebbene senza un disegno concorde, cercassero di ricomporla. Nell’età moderna in verità, parve una volta che tutte queste lotte dovessero aver fine per mezzo di una certa f i s i o l o g i a dell’intelletto umano (per opera del celebre L o c k e ), e che dovesse esser pienamente risoluta la questione della legittimità di quelle pretese. Ma avvenne che, sebbene l’origine della presunta regina si facesse derivare dalla plebaglia della comune esperienza, e perciò a buon diritto si dovesse aver per sospetta la sua arroganza, poiché nel fatto questa g e n e a l o g i a falsamente le venne attribuita, essa ha continuato sempre a mantenere le sue pretese; e così si è ricaduti nel vecchio e tarlato d o m m a t i s m o , e quindi nel discredito, dal quale si era voluto salvare la scienza. Ormai, dopo avere inutilmente tentato (se n’è convinti) tutte le vie, impera sovrano il fastidio ed un totale i n d i f f e r e n t i s m o , padre del caos e della notte, nelle scienze, ma ad un tempo origine o almeno preludio di un loro prossimo rinnovamento e rischiaramento, mentre uno zelo male impiegato le aveva rese oscure, confuse e inservibili. Giacché invano si vuol affettare i n d i f f e r e n z a riguardo a ricerche siffatte, il cui oggetto non può mai essere i n d i f f e r e n t e alla natura umana. Del resto anche i sedicenti i n d i f f e r e n t i , sebbene s’ingegnino di mascherarsi cangiando il linguaggio della scuola in un tono popolare, appena vogliono riflettere su qualche oggetto, ricadono inevitabilmente in quelle affermazioni metafisiche, verso le quali ostentavano tanto disprezzo. Frattanto, questa indifferenza che s’incontra proprio in mezzo al fiorire di tutte le scienze, e che tocca appunto quella, alle cui conoscenze, se fosse possibile averne, meno si vorrebbe rinunziare, è un fenomeno che merita attenzione e riflessione. Non è per certo effetto di leggerezza, ma del giudizio maturo dell’età moderna, che non vuole più oltre farsi tenere a bada da una parvenza di sapere, ed è un invito alla ragione di assumersi nuovamente il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza di sé, e di erigere un tribunale, che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne ed immutabili leggi; e questo tribunale non può essere se non la c r i t i c a d e l l a r a g i o n p u r a stessa33.

Io non intendo per essa una critica dei libri e dei sistemi, ma la critica della facoltà della ragione in generale riguardo a tutte le conoscenze alle quali essa può aspirare i n d i p e n d e n t e m e n t e d a o g n i e s p e r i e n z a; quindi la decisione della possibilità o impossibilità di una metafisica in generale, e la determinazione così delle fonti, come dell’àmbito e dei limiti della medesima, e tutto dedotto da princìpi. Mi son dunque messo per questa via, che era l’unica che rimanesse, e mi lusingo d’aver in essa trovato il modo di abbattere tutti gli errori che sinora hanno messo la ragione in discordia con se stessa nel suo uso libero da ogni esperienza. Non mi sono schernito dai problemi che si presentavano, adducendo a scusa l’impotenza della ragione umana; al contrario, li ho completamente specificati secondo princìpi; e, dopo aver scoperto il punto del malinteso della ragione rispetto a se stessa, li ho risoluti, appagandone pienamente le esigenze. Certo, la mia risposta a quei problemi non è riuscita come si sarebbe potuto aspettare la curiosità dommaticamente fantasticante: perché ci sarebbe voluta non meno dell’arte magica per accontentarla, ed io non me ne intendo. Se non che, questo non era neppure il fine della destinazione naturale della nostra ragione; ed il dovere della filosofia era di toglier via l’illusione che proveniva da un malinteso, dovesse pur restarne annullata una così apprezzata e cara credenza. In questa impresa ho fatto della completezza la mia mira; e ardisco dire che non c’è un solo problema metafisico che qui sia rimasto insoluto, o della cui soluzione non si sia data almeno la chiave. Infatti, la ragion pura è una unità così perfetta, che, se il suo principio fosse insufficiente a risolvere anche un solo di tutti i problemi che le son proposti dalla sua stessa natura, lo si potrebbe tranquillamente respingere, perché in tal caso non potrebbe essere applicato con piena sicurezza a nessuno degli altri. Dicendo questo mi par di vedere nel volto del lettore un’aria di fastidio misto a disprezzo per le mie pretese, in apparenza orgogliose e reboanti; e pure sono, senza confronto, più moderate di quelle che ha avanzato ogni autore del solito programma, il quale presume, per esempio, di dimostrarvi la semplicità d e l l ’a n i m a o la necessità di un c o m i n c i a m e n t o d e l m o n d o. Giacché costui si fa garante di estendere la ragione umana di là di ogni confine dell’esperienza possibile laddove io modestamente confesso che ciò supera totalmente il mio potere; e invece mi attengo semplicemente alla ragione stessa e al suo pensiero puro, per la

compiuta conoscenza dei quali non devo cercar lontano intorno a me, poiché li trovo in me stesso; di che anche la logica comune mi offre già un esempio: che cioè tutte le sue operazioni semplici si possono enumerare completamente e sistematicamente; soltanto che qui sorge la questione sin dove possa io sperare con esse di conchiuder qualcosa, quando mi venga tolta ogni materia ed appoggio dell’esperienza. Tanto basta circa la c o m p i u t e z z a con cui è raggiunto c i a s c u n f i n e , e circa la completezza con cui sono raggiunti t u t t i i fini nel loro insieme; i quali non ci sono imposti da un disegno arbitrario, ma dalla natura della stessa conoscenza, m a t e r i a della nostra ricerca critica. Inoltre c e r t e z z a e c h i a r e z z a, due punti che riguardano la forma della ricerca stessa, devono esser considerate requisiti essenziali che si posson pretendere da un autore che si accinge a un’impresa così lubrica. Ora, per ciò che riguarda la certezza, mi sono imposto una legge: che cioè in questa specie di considerazioni non è permesso a nessun patto o p i n a r e , e tutto ciò che, anche lontanamente, in esse somigli a un’ipotesi, è merce proibita, che non può essere venduta né anche al prezzo più vile, ma, appena scoperta, deve essere sequestrata. Giacché quello che annunzia ogni conoscenza che deve valere a priori, è che essa vuol essere considerata assolutamente necessaria; tanto più una determinazione di tutte le conoscenze pure a priori, la quale deve essere l’unità di misura e perciò anche l’esempio di ogni certezza apodittica (filosofica). Se poi in questo punto ho mantenuto ciò a cui mi sono impegnato, resta interamente rimesso al giudizio del lettore, poiché all’autore spetta solamente di presentare le sue ragioni, e non di giudicare dell’effetto di esse su’ suoi giudici. Tuttavia, affinché nulla, senza colpa, le indebolisca, gli sia permesso di indicare egli stesso quei passi, che potrebbero dar luogo a qualche diffidenza, sebbene si riferiscano a scopi secondari, a fin di prevenire in tempo l’influenza che anche un minimo scrupolo del lettore potrebbe esercitare in seguito sul suo giudizio intorno allo scopo principale. Io non conosco ricerche relative allo studio della facoltà che noi chiamiamo intelletto, e, insieme, alla determinazione delle regole e dei limiti del suo uso, più importanti di quelle che ho istituite sotto il titolo di Deduzione dei concetti puri dell’intelletto, nel secondo capitolo dell’Analitica trascendentale; ed esse mi son costate la maggiore, e, spero, non inutile fatica. Ma questa trattazione, ancorata alquanto nel profondo, ha due parti.

L’una riguarda gli oggetti dell’intelletto puro, e deve stabilire e spiegare la validità oggettiva de’ suoi concetti a priori; e rientra appunto perciò essenzialmente nei miei fini. L’altra passa a considerare lo stesso intelletto puro secondo la sua possibilità e i poteri conoscitivi su cui esso si fonda, per studiarlo quindi nel rapporto soggettivo; e, sebbene quella esposizione sia di grande importanza per lo scopo principale della mia opera, non ne fa tuttavia parte essenziale, perché la questione principale rimane sempre quella: «che cosa, e fin dove, l’intelletto e la ragione, all’infuori d’ogni esperienza, possono conoscere?»; e non già: «come è possibile la stessa f a c o l t à d i p e n s a r e ?». Poiché quest’ultima è quasi la ricerca della causa di un dato effetto, e perciò ha in sé qualcosa che somiglia ad una ipotesi (sebbene, in realtà, la cosa non stia proprio così, come mostrerò in altra occasione), così pare che qui sia il caso di prendermi libertà di o p i n a r e , e di lasciare al lettore la stessa l i b e r t à d i o p i n a r e a l t r i m e n t i. Al qual proposito devo richiamare alla mente del lettore, che anche se la mia deduzione soggettiva non produce in lui quel pieno convincimento che io mi spero, tuttavia, quella oggettiva, alla quale principalmente io miro, mantiene tutta la sua forza, come, in ogni caso, è sufficientemente dimostrato da ciò che è detto a pag. 92 e 9334. Infine, per quanto concerne la c h i a r e z z a , il lettore ha tutto il diritto di chiedere in primo luogo la c h i a r e z z a d i s c o r s i v a (logica) p e r c o n c e t t i , e quindi anche la chiarezza i n t u i t i v a (estetica) p e r i n t u i z i o n i , ossia per mezzo di esempi o altri chiarimenti in concreto. La prima ho curata abbastanza, ed era l’essenziale pel mio proposito; ma è stata anche causa accidentale ch’io non abbia potuto soddisfare alla seconda esigenza, non veramente così inderogabile come la prima, ma tuttavia anch’essa legittima. Sono stato quasi sempre risoluto nel progresso del mio lavoro, come dovessi comportarmi a questo riguardo. Esempi e chiarimenti mi parevano sempre necessari, e venivano quindi anche effettivamente abbondanti e spontanei al loro luogo, nel primo getto dell’opera. Ma, quando vidi la vastità del mio lavoro e la moltitudine degli oggetti che avrei dovuto trattare, e però mi accorsi che la sola esposizione rigida e nuda, puramente scolastica, avrebbe dato già all’opera una grande estensione, giudicai inopportuno allargarla ancora con esempi e chiarimenti, che del resto sono necessari solo dal punto di vista p o p o l a r e ; tanto più che questo lavoro di certo non è punto adatto all’uso del popolo, e gli speciali conoscitori della

scienza non hanno tanto bisogno di questa facilitazione, che, se è certamente sempre gradita, qui tuttavia può anche nuocere allo scopo dell’opera. L’abate Terrasson veramente diceva35: – Se si misura la lunghezza del libro non dal numero delle pagine, ma dal tempo che è necessario ad intenderlo, di parecchi libri si potrebbe dire che s a r e b b e r o m o l t o p i ù b r e v i , s e n o n f o s s e r o c o s ì b r e v i. – Ma d’altra parte, se si bada alla comprensione di un vastissimo insieme di conoscenza speculativa, sottomesso tuttavia ad un unico principio, si potrebbe dire con ugual diritto: Certi libri sarebbero stati assai più chiari, se non a v e s s e r o v o l u t o e s s e r t a n t o c h i a r i. Gli espedienti utili alla chiarezza servono nelle parti, ma spesso recano danno all’insieme, perché non permettono al lettore di giungere con sufficiente rapidità a una veduta generale del tutto, e coi loro vivaci colori nascondono e rendono irriconoscibili l’articolazione e la struttura del sistema, che è pure quello che più importa, a chi voglia poterne giudicare l’unità e il valore. Potrà, credo, servire di non piccolo allettamento al lettore la prospettiva di unire il suo sforzo a quello dell’autore per seguire, con la guida dell’abbozzo messogli innanzi, compiutamente e durevolmente un’opera grande ed importante. La metafisica, secondo i concetti che qui ne daremo, è la sola fra tutte le scienze che possa ripromettersi, e in breve tempo e con pochi sforzi, ma associati, siffatta compiutezza, in modo che di poi altro non resti da fare alla posterità, se non adattarla nella maniera d i d a t t i c a ai suoi scopi, senza per altro poterne accrescere menomamente il contenuto. Altro non è infatti che l’i n v e n t a r i o di tutto ciò che possediamo per mezzo della r a g i o n p u r a , sistematicamente ordinato. Nulla qui può sfuggirci, perché ciò che la ragione trae interamente da se stessa, non può rimaner celato, ma per opera della stessa ragione viene alla luce, appena scoperto il principio generale che la governa. L’unità perfetta di tale specie di conoscenze, derivanti cioè da puri concetti, senza che nulla di empirico, o anche solo una p a r t i c o l a r e intuizione, che conduca a concrete determinazioni, possa influire su di essa per allargarne la cerchia ed accrescerle, rende non solo possibile, ma necessaria questa compiutezza incondizionata. Tecum habita et noris, quam sit tibi curta supellex. Persio36. Spero anche di dare un tale sistema della ragion pura (speculativa) sotto il titolo: M e t a f i s i c a d e l l a n a t u r a; esso non sarebbe forse per estensione nemmeno la metà, ma per contenuto incomparabilmente più ricco di questa

critica, che doveva innanzi tutto esporre le fonti e le condizioni della possibilità di quella, ed era obbligata così a sbarazzare e spianare un terreno tutto gibboso. Qui dal mio lettore spero la pazienza e l’imparzialità di un g i u d i c e ; nell’altra opera, cui accenno, avrò bisogno invece del buon volere e dell’aiuto di un c o l l a b o r a t o r e ; poiché, per quanto compiutamente siano stati esposti nella critica tutti i princìpi del sistema, nondimeno nell’esecuzione del sistema stesso non deve mancare nessuno dei concetti d e r i v a t i , i quali non si possono dare a un tratto a priori, ma devono essere indagati a uno a uno; e come nella critica è stata esaurita tutta la s i n t e s i dei concetti, così dovrà accadere dell’a n a l i s i ; impresa che sarà molto facile, e più uno svago che un lavoro37. 32

Lib. XIII, vv. 508-510. Si sentono assai spesso lamenti sulla superficialità di pensiero del nostro tempo e sulla decadenza della scienza solida. Ma io vedo che le scienze le cui basi sono ben fondate, come la matematica, la fisica, ecc., non meritano punto simile rimprovero, ché anzi mantengono la vecchia fama di solidità, e negli ultimi tempi l’hanno piuttosto accresciuta. Proprio lo stesso spirito, si dimostrerebbe produttivo anche negli altri campi del conoscere, solo che si fosse curata bene la rettificazione dei loro princìpi. Mancando la quale, indifferenza, dubbio, e infine critica rigorosa sono piuttosto prova di profondità di pensiero. Il tempo nostro è proprio il tempo della critica, cui tutto deve sottostare. Vi si vogliono comunemente sottrarre la r e l i g i o n e p e r l a s a n t i t à s u a , e l a l e g i s l a z i o n e p e r l a s u a m a e s t à: ma così esse lasciano adito a giusti sospetti, e non possono pretendere quella non simulata stima, che la ragione concede solo a ciò che ha saputo resistere al suo libero e pubblico esame (N. d. K.). 34 Della stessa 1a edizione tedesca. L’A. si riferisce al Passaggio alla deduzione trascendentale delle categorie, in principio. 35 N. nel 1670 a Lione, m. nel 1750 a Parigi. La frase citata da Kant è nella sua opera sulla Filosofia nei suoi influssi su tutti gli oggetti dello spirito e dei costumi, 1754, trad. ted. 1762. 36 Sat., IV, 52. 37 Seguono due avvertenze, relative a particolari tipografici della 1a edizione. 33

Prefazione alla seconda edizione 1787

Se l’elaborazione delle conoscenze, che appartengono al dominio della ragione, segua o pur no la via sicura di una scienza, si può giudicare subito dal risultato. Quando essa, dopo aver fatto molti apparecchi e preparativi, appena viene allo scopo, cade in imbarazzo, o, per raggiunger quello, deve di nuovo e più volte rifarsi da capo e mettersi per altra via; se a un tempo non è possibile mettere d’accordo i diversi collaboratori sul modo col quale debba essere perseguito lo scopo comune; allora sempre si può esser convinti, che un tale studio è ancor ben lontano dal seguire la via sicura propria di una scienza, ed è invece un semplice brancolamento; ed è già un merito verso la ragione scoprire possibilmente questa via, dovesse pure ripudiarsi come inutile ciò che era contenuto nello scopo, quale prima veniva senza riflessione concepito. Che la l o g i c a abbia seguito questo sicuro cammino fin dai tempi più antichi, si rileva dal fatto che, a cominciare da Aristotele, non ha dovuto fare nessun passo indietro, se non si vogliano considerare come correzione l’abbandono di qualche superflua sottigliezza o la più chiara determinazione della sua esposizione: ciò che appartiene più all’eleganza, che alla sicurezza di una scienza. Notevole è ancora il fatto che sin oggi la logica non ha potuto fare un passo innanzi, di modo che, secondo ogni apparenza, essa è da ritenersi come chiusa e completa. Infatti, se taluni moderni han preteso di estenderla aggiungendovi alcuni capitoli, o p s i c o l o g i c i , sulle diverse facoltà conoscitive (l’immaginazione, lo spirito); o m e t a f i s i c i , sull’origine della conoscenza o sulla specie diversa di certezza secondo la diversità degli oggetti (i d e a l i s m o , s c e t t i c i s m o , ecc.); o a n t r o p o l o g i c i , sui pregiudizi (loro cause e rimedi): ciò è dovuto alla loro ignoranza della natura propria di questa scienza. Non è un accrescimento, ma uno storpiamento delle scienze, quando se ne confondono i confini; ma il confine della logica è a

sufficienza determinato da ciò, che essa è una scienza, la quale espone per disteso e prova rigorosamente soltanto le regole formali di tutto il pensiero, sia questo a priori od empirico, abbia qualsivoglia origine ed oggetto, trovi nel nostro spirito ostacoli accidentali o naturali. Se la logica è tanto ben riuscita, deve questo vantaggio semplicemente alla sua delimitazione, ond’essa è autorizzata, o, meglio, obbligata, ad astrarre da tutti gli oggetti della conoscenza e dalla loro differenza; sicché l’intelletto non deve nella logica occuparsi d’altro che di se stesso e della propria forma. Doveva naturalmente riuscire assai più difficile per la ragione entrare nella via sicura della scienza, quando avesse avuto da fare non solo con se stessa, ma ancora cogli oggetti; quindi la logica, in quanto propedeutica, non costituisce quasi altro che il vestibolo delle scienze, e, quando si parla di conoscenze, si presuppone bensì una logica pel giudizio su di esse, ma la loro acquisizione deve cercarsi nelle scienze propriamente ed oggettivamente dette. Ora, in quanto in queste deve aver parte la ragione, è necessario che in esse qualcosa sia conosciuto a priori; e la sua conoscenza si può riferire al loro oggetto in doppia maniera: o semplicemente per d e t e r m i n a r questo e il suo concetto (che deve esser dato d’altronde), o per r e a l i z z a r l o . L’una è c o n o s c e n z a t e o r e t i c a della ragione, l’altra p r a t i c a . Dell’una e dell’altra è necessario che la parte pura, ampio o ristretto che ne sia il contenuto, cioè quella nella quale la ragione determina il suo oggetto interamente a priori, sia esposta dapprima da sola, e ciò che proviene da altre fonti non vi deve essere menomamente mescolato; giacché è cattiva amministrazione spendere alla cieca tutti gli introiti, senza poter poi distinguere, quanto si sia in imbarazzo, qual parte di essi possa sopportare le spese e quale richieda che si limitino. La m a t e m a t i c a e la f i s i c a sono le due conoscenze teoretiche della ragione, che devono determinare a priori il loro oggetto: la prima in modo del tutto puro, la seconda almeno in parte, ma poi tenendo conto ancora di altre fonti di conoscenze oltre a quella della ragione. La m a t e m a t i c a , dai tempi più remoti a cui giunge la storia della ragione umana, è entrata, col meraviglioso popolo dei Greci, sulla via sicura della scienza. Soltanto, non bisogna credere che le sia riuscito così facile come alla logica, dove la ragione ha da fare solo con se stessa, trovare, o meglio aprire a se medesima, la via regia; io credo piuttosto che a lungo

(specialmente presso gli Egizi) sia rimasta ai tentativi incerti, e che questa trasformazione definitiva debba essere attribuita a una r i v o l u z i o n e , posta in atto dalla felice idea d’un uomo solo, con una ricerca tale che, dopo di essa, la via da seguire non poteva più essere smarrita, e la strada sicura della scienza era ormai aperta e tracciata per tutti i tempi e per infinito tratto. La storia di questa rivoluzione della maniera di pensare, la quale è stata ben più importante della scoperta della via al famoso Capo, e quella del fortunato mortale che la portò a compimento, non ci è stata tramandata. Ma la leggenda che ci riferisce Diogene Laerzio, il quale nomina il supposto scopritore dei princìpi più elementari delle dimostrazioni geometriche, che, secondo il comune giudizio, non han bisogno di dimostrazione, prova che il ricordo della rivoluzione che si compì col primo passo nella scoperta della nuova via, dové sembrare straordinariamente importante ai matematici, e perciò divenne indimenticabile. Il primo che dimostrò il t r i a n g o l o i s o s c e l e38 (si chiamasse Talete o come si voglia), fu colpito da una gran luce: perché comprese ch’egli non doveva seguire a passo a passo ciò che vedeva nella figura, né attaccarsi al semplice concetto di questa figura, quasi per impararne le proprietà; ma, per mezzo di ciò che per i suoi stessi concetti vi pensava e rappresentava (per costruzione), produrla; e che, per sapere con sicurezza qualche cosa a priori, non doveva attribuire alla cosa se non ciò che scaturiva necessariamente da quello che, secondo il suo concetto, vi aveva posto egli stesso. La fisica giunse ben più lentamente a trovare la via maestra della scienza; giacché non è passato più di un secolo e mezzo circa dacché la proposta del giudizioso Bacone di Verulamio, in parte provocò, in parte, poiché si era già sulla traccia di essa, accelerò la scoperta, che può allo stesso modo essere spiegata solo da una rapida rivoluzione precedente nel modo di pensare. Io qui prenderò in considerazione la fisica solo in quanto è fondata su princìpi empirici. Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato, con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all’aria un peso, che egli stesso sapeva di già uguale a quello di una colonna d’acqua conosciuta, e, più tardi, Stahl trasformò i metalli in calce, e questa di nuovo in metallo, togliendovi o aggiungendo qualche cosa39, fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con princìpi de’

suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno. È necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i princìpi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbian valore di legge, e nell’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi princìpi: per venire, bensì, istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sibbene di giudice, che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge. La fisica pertanto è debitrice di così felice rivoluzione compiutasi nel suo metodo solo a questa idea, che la ragione deve (senza fantasticare intorno ad essa) cercare nella natura, conformemente a quello che essa stessa vi pone, ciò che deve apprenderne, e di cui nulla potrebbe da se stessa sapere. Così la fisica ha potuto per la prima volta esser posta sulla via sicura della scienza, laddove da tanti secoli essa non era stato altro che un semplice brancolamento. Alla m e t a f i s i c a , conoscenza speculativa razionale, affatto isolata, che si eleva assolutamente al di sopra degli insegnamenti dell’esperienza, e mediante semplici concetti (non, come la matematica, per l’applicazione di questi all’intuizione), nella quale dunque la ragione deve essere scolara di se stessa, non è sinora toccata la fortuna di potersi avviare per la via sicura della scienza; sebbene essa sia più antica di tutte le altre scienze, e sopravviverebbe anche quando le altre dovessero tutte quante essere inghiottite nel baratro di una barbarie che tutto devastasse. Giacché la ragione si trova in essa continuamente in imbarazzo, anche quando vuole scoprire (come essa presume) a priori quelle leggi, che la più comune esperienza conferma. In essa si deve innumerevoli volte rifar la via, poiché si trova che quella già seguita non conduce alla mèta; e, quanto all’accordo dei suoi cultori nelle loro affermazioni, essa è così lontana dall’averlo raggiunto, che è piuttosto un campo di lotta: il quale par proprio un campo destinato ad esercitar le forze antagonistiche, in cui nemmeno un campione ha mai potuto impadronirsi della più piccola parte di terreno e fondar sulla sua vittoria un durevole possesso. Non v’è dunque alcun dubbio, che il suo procedimento finora sia stato un semplice andar a tentoni e, quel che è peggio, tra semplici concetti. Da che deriva dunque che essa non abbia ancora potuto trovare il

cammino sicuro della scienza? Egli è forse impossibile? Perché dunque la natura ha messo nella nostra ragione questa infaticabile tendenza, che gliene fa cercare la traccia, come se fosse per lei l’interesse più grave tra tutti? Ma v’ha di più: quanto poco motivo abbiamo noi di ripor fede nella nostra ragione, se essa non solo ci abbandona in uno dei più importanti oggetti della nostra curiosità, ma ci attira con lusinghe, e alla fine c’inganna? Oppure, se fino ad oggi abbiamo semplicemente sbagliato strada, di quali indizi possiamo profittare, per sperare di essere più fortunati che gli altri finora non siano stati, rinnovando la ricerca? Io dovevo pensare che gli esempi della matematica e della fisica, che sono ciò che ora sono per effetto di una rivoluzione attuata tutta d’un colpo, fossero abbastanza degni di nota, per riflettere sul punto essenziale del cambiamento di metodo, che è stato loro di tanto vantaggio, e per imitarlo qui, almeno come tentativo, per quanto l’analogia delle medesime, come conoscenze razionali, con la metafisica ce lo permette. Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori, per mezzo dei concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tal presupposto, non riuscirono a nulla. Si faccia, dunque, finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo l’ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza: ciò che si accorda meglio colla desiderata possibilità d’una conoscenza a priori, che stabilisca qualcosa relativamente agli oggetti, prima che essi ci siano dati. Qui è proprio come per la prima idea di Copernico; il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l’esercito degli astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare l’osservatore, e lasciando invece in riposo gli astri. Ora in metafisica si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda l’i n t u i z i o n e degli oggetti. Se l’intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe saperne qualcosa a priori; se l’oggetto invece (in quanto oggetto del senso) si regola sulla natura della nostra facoltà intuitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità. Ma, poiché non posso arrestarmi a intuizioni di questo genere, se esse devono diventare conoscenze; e poiché è necessario che io le riferisca, in quanto rappresentazioni, a qualcosa che ne sia l’oggetto e che io determini mediante quelle; così non mi rimane che ammettere: o che i c o n c e t t i , coi quali io

compio questa determinazione, si regolino anche sull’oggetto, e in questo caso io non mi trovo nella stessa difficoltà, circa il modo cioè in cui possa conoscerne qualche cosa a priori; oppure che gli oggetti o, ciò che è lo stesso, l’e s p e r i e n z a , nella quale soltanto essi sono conosciuti (in quanto oggetti dati), si regolino su questi concetti; allora io vedo subito una via d’uscita più facile, perché l’esperienza stessa è un modo di conoscenza che richiede il concorso dell’intelletto, del quale devo presupporre in me stesso la regola prima che gli oggetti mi sieno dati, e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti dell’esperienza devono necessariamente regolarsi, e coi quali devono accordarsi. Per ciò che riguarda gli oggetti in quanto sono semplicemente pensati dalla ragione, ossia necessariamente, ma non possono esser dati punto nell’esperienza (almeno come la ragione li pensa), i tentativi di pensarli (devono pur potersi pensare!) forniranno quindi una eccellente pietra di paragone di quel che noi assumiamo come il mutato metodo nel modo di pensare, e cioè: che noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo40. Questo tentativo riesce conforme al desiderio, e promette alla metafisica, nella sua prima parte, dove ella si occupa dei concetti a priori, di cui possono esser dati nell’esperienza gli oggetti corrispondenti ad essi adeguati, il cammino sicuro di una scienza. Si può infatti spiegare benissimo, secondo questo mutamento di metodo, la possibilità di una conoscenza a priori, e, ciò che è più, munire delle prove sufficienti le leggi che a priori sono a fondamento della natura, come complesso degli oggetti dell’esperienza; due cose che, col tipo di procedimento fin oggi seguito, erano impossibili. Ma da questa deduzione della nostra facoltà di conoscere a priori, nella prima parte della metafisica, ne viene uno strano risultato, in apparenza assai dannoso allo scopo generale cui essa mira nella seconda parte, cioè: che noi con essa non possiamo oltrepassare i limiti dell’esperienza possibile, che è tuttavia proprio l’assunto più essenziale di questa scienza. Ma proprio in ciò consiste l’esperimento d’una controprova della verità del risultato di questo primo apprezzamento della nostra conoscenza a priori della ragione: che essa giunge solo fino ai fenomeni, mentre lascia che la cosa in sé sia bensì per se stessa reale, ma sconosciuta a noi. Giacché quel che ci spinge a uscire necessariamente dai limiti dell’esperienza e di tutti i fenomeni, è l’i n c o n d i z i o n a t o , che la ragione necessariamente e a buon diritto esige

nelle cose in se stesse, per tutto ciò che è condizionato, a fine di chiudere con esso la serie delle condizioni. Ora, se ammettendo che la nostra conoscenza sperimentale si regoli sugli oggetti come cosa in sé si trova che l’i n c o n d i z i o n a t o n o n può esser pensato senza c o n t r a d d i z i o n e , mentre, al contrario, se si ammette che la nostra rappresentazione delle cose, quali ci son date, non si regoli su di esse, come cose in se stesse, ma piuttosto che questi oggetti, come fenomeni, si regolino sul nostro modo di rappresentarceli [si trova che] la c o n t r a d d i z i o n e s c o m p a r e , e che perciò l’incondizionato non deve trovarsi nelle cose in quanto noi le conosciamo (esse ci son date), ma nelle cose in quanto noi non le conosciamo, come cose in sé, ciò che noi abbiamo ammesso prima, soltanto in via di tentativo41 si vede che è ben fondato. Resta ora a vedere, dopo avere negato alla ragione speculativa ogni passo nel campo del soprasensibile, se non si trovino nella sua conoscenza pratica dati, per determinare quel concetto trascendente dell’incondizionato proprio della ragione, e per oltrepassare in tal modo, secondo i desideri della metafisica, i limiti di ogni esperienza possibile mediante la nostra conoscenza a priori, possibile, per altro, solo dal punto di vista pratico. Con questo procedimento la ragione speculativa ci ha almeno procurato un campo libero per tale estensione [della ricerca], sebbene essa abbia dovuto lasciarlo vuoto; e noi restiamo così autorizzati, anzi, veniamo da lei stessi invitati ad occuparlo, se ci riesce, con i dati pratici della medesima42. In quel tentativo di cambiare il procedimento fin qui seguito in metafisica, e proprio nel senso di operare in essa una completa rivoluzione seguendo l’esempio dei geometri e dei fisici, consiste il compito di questa critica della ragion pura speculativa. Essa è un trattato del metodo, e non un sistema della scienza stessa; ma essa ne traccia tutto il contorno, sia riguardo ai suoi limiti, sia riguardo alla sua completa struttura interna. Giacché la ragion pura speculativa ha in sé questo di peculiare, che essa può e deve misurare esattamente il suo proprio potere secondo il diverso modo col quale sceglie gli oggetti pel suo pensiero; e perfino enumerare esaurientemente tutti i differenti modi di porsi i problemi; e così, delineare tutto il disegno per un sistema di metafisica. Infatti, per ciò che concerne il primo punto, nella conoscenza a priori nulla può essere attribuito agli oggetti, all’infuori di ciò che il soggetto pensante trae da se medesimo; e, per ciò che riguarda il secondo punto, essa, rispetto ai princìpi della conoscenza, è un’unità affatto

indipendente e per sé stante, nella quale ciascun membro, come in un corpo organico, esiste per gli altri, e tutti esistono per ciascuno; e nessun principio può essere assunto con certezza in un rapporto, se non sia stato investigato nell’i n s i e m e dei suoi rapporti, con tutto l’uso puro della ragione. Ma perciò la metafisica ha anche la rara felicità, della quale nessun’altra scienza razionale, che abbia da fare con oggetti (giacché la l o g i c a si occupa solo della forma del pensiero in generale), può partecipare: che, se per mezzo di questa critica, vien messa sulla via sicura della scienza, essa può abbracciare completamente tutto il campo delle conoscenze che le appartengono, e può quindi lasciare la sua opera compiuta, e tramandarla all’uso della posterità come un’opera importante che non sarà mai da accrescere, poiché essa ha che fare semplicemente con princìpi e con limitazioni del loro uso, determinate da lei stessa. A questa compiutezza quindi essa, in quanto scienza fondamentale, è anche obbligata, e di essa si deve poter dire: nil actum reputans, si quid superesset agendum43. Ma, si chiederà, che tesoro è mai dunque questo, che noi pensiamo di lasciare in eredità ai posteri con una siffatta metafisica, epurata dalla critica, e ridotta quindi a stabile stato? Da uno sguardo fuggevole a quest’opera si crederà di argomentare che l’utilità di essa sia soltanto n e g a t i v a : che cioè noi con la ragione speculativa non potremo mai avventurarci di là dai limiti dell’esperienza; e questo è infatti il primo vantaggio. Ma essa diventerà anche p o s i t i v a appena si accorgerà che i princìpi sui quali si fonda la ragione speculativa per spingersi di là dai suoi limiti, nel fatto non sono un a l l a r g a m e n t o ; anzi, se si considerano più da vicino, portano, come inevitabile conseguenza, una r e s t r i z i o n e del nostro uso della ragione, in quanto essi in realtà minacciano di estendere a tutto i limiti della sensibilità, alla quale propriamente appartengono, e di soppiantare così l’uso puro (pratico) della ragione. Perciò una critica che limiti la prima, è, in ciò, veramente n e g a t i v a ; ma, in quanto nello stesso tempo con ciò non toglie pur via un ostacolo, che ne limita o minaccia di distruggere affatto l’uso indicato da ultimo, in realtà è di vantaggio p o s i t i v o e grandissimo, quando si sia riconosciuto che vi è un uso pratico (morale) della ragion pura, assolutamente necessario; nel quale la ragione inevitabilmente si estende di là dai limiti della sensibilità, e non ha bisogno per ciò dei sussidi speculativi, ma solo di assicurarsi contro le loro opposizioni, per non cadere in contraddizione con se medesima. Negare a questo servizio della critica

un’utilità p o s i t i v a , sarebbe come negare che la polizia renda alcun vantaggio positivo, poiché il suo ufficio principale è quello di chiudere la porta alla violenza che i cittadini possono temere dai cittadini, affinché ciascuno possa, sicuro e tranquillo, attendere alle proprie faccende. Nella parte analitica della critica sarà provato che lo spazio e il tempo non sono se non forme della intuizione sensibile, e perciò soltanto condizioni dell’esistenza delle cose come fenomeni; e che inoltre noi non abbiamo punto concetti dell’intelletto, e perciò nessun elemento per la conoscenza delle cose, se non in quanto può esser data una intuizione corrispondente a questi concetti; e che per conseguenza non c’è dato d’aver conoscenza di nessun oggetto come cosa in se stessa, ma solo come oggetto dell’intuizione sensibile, vale a dire come fenomeno; donde evidentemente deriva la limitazione di ogni possibile conoscenza speculativa della ragione ai semplici oggetti della e s p e r i e n z a . Tuttavia, e questo deve essere ben notato, in tutto ciò si deve far sempre questa riserva: che noi dobbiamo poter p e n s a r e gli oggetti stessi anche come cose in sé, sebbene non possiamo conoscerli44. Giacché altrimenti ne seguirebbe l’assurdo che ci sarebbe un’apparenza45 senza qualche cosa che in essa appaia. Ora, supposto che non fosse punto fatta la distinzione, fatta necessariamente dalla nostra critica, delle cose come oggetti dell’esperienza dalle medesime come cose in sé, ne nascerebbe la conseguenza, che il principio di causalità, e con esso il meccanismo naturale nella determinazione delle cose, dovrebbe valere per tutte le cose stesse in generale, come cause efficienti. Dello stesso ente, dunque, come per es., dell’anima umana, io non potrei dire che la sua volontà sia libera e che sia a un tempo soggetta alla necessità naturale, cioè non sia libera, senza cadere in una contraddizione manifesta; giacché in ambedue le proposizioni, avrei preso l’anima nell’i d e n t i c o s i g n i f i c a t o, cioè come cosa senz’altro (cosa in se stessa); e senza una critica precedente non avrei potuto prenderla diversamente. Ma se la critica non ha errato quando c’insegna a prendere l’oggetto in un d u p l i c e s i g n i f i c a t o, cioè come fenomeno o come cosa in sé; se è esatta la sua deduzione dei concetti dell’intelletto, e pertanto anche il principio di causalità conviene solo alle cose nel primo senso, in quanto cioè sono oggetti dell’esperienza, mentre le cose nel secondo significato non sono soggette a tal principio; allora la stessa volontà è pensata nel fenomeno (azione visibile) come necessariamente conforme alla legge naturale e pertanto n o n l i b e r a; e pure d’altra parte, in quanto appartenente a una cosa

in sé, è pensata come non soggetta a quella, e quindi l i b e r a , senza che in ciò vi sia contraddizione. Ora, sebbene io non possa c o n o s c e r e la mia anima, considerata sotto il secondo rispetto, per mezzo della ragione speculativa (e tanto meno per osservazione empirica), e perciò nemmeno la libertà come proprietà di un essere al quale attribuisco azioni nel mondo sensibile, giacché dovrei conoscere un tale essere determinato nella sua esistenza e pur fuori del tempo (la qual cosa è impossibile, non potendo io mettere a base del mio concetto alcuna intuizione); pure posso, ciò malgrado, p e n s a r e la libertà, – cioè la sua rappresentazione per lo meno non racchiude alcuna contraddizione in se stessa, – ove sia stata fermata la nostra distinzione critica dei due modi di rappresentarmi le cose46 (sensibile ed intellettuale), e la limitazione che ne segue dei concetti puri dell’intelletto, e perciò anche dei princìpi che ne derivano. Ora, posto che la morale necessariamente supponga la libertà (nel senso più rigoroso) come proprietà del nostro volere, giacché essa ammette immanenti a priori nella nostra ragione, come i suoi d a t i , princìpi pratici originari, i quali senza il presupposto della libertà sarebbero assolutamente impossibili; ove però la ragione speculativa avesse provato che essa non è pensabile, di necessità quel presupposto, cioè il presupposto morale, dovrebbe cedere a quell’altro, il cui contrario importa una evidente contraddizione; e, per conseguenza, l i b e r t à e con lei moralità (il cui contrario non racchiude alcuna contraddizione, se non si presuppone già la libertà) dovrebbero cedere il posto al m e c c a n i s m o d e l l a n a t u r a. Ma, poiché per la morale io ho bisogno soltanto che la libertà non sia in sé contraddittoria, e si possa almeno pensare senza che occorra penetrarla più a fondo; in altri termini, che essa non crei un ostacolo al meccanismo naturale della medesima azione (presa sotto altro rapporto), così la dottrina della moralità mantiene il suo posto, e altrettanto fa la scienza della natura; il che non avverrebbe, se la critica non ci avesse in precedenza istruiti della irrimediabile nostra ignoranza rispetto alle cose in sé, e se non avesse limitato ai semplici fenomeni tutto ciò che possiamo c o n o s c e r e teoricamente. La stessa disamina dell’utilità positiva dei princìpi critici della ragion pura si può presentare a proposito del concetto di Dio e della natura semplice della nostra a n i m a , su che non insisto per brevità. Io dunque non posso ammettere mai D i o , l a l i b e r t à , l ’ i m m o r t a l i t à per l’uso pratico necessario della mia ragione, senza togliere a un tempo alla ragione speculativa le sue pretese a vedute

t r a s c e n d e n t i ; giacché per arrivare a questo, bisogna che essa impieghi tali princìpi, non estendendosi in realtà se non agli oggetti di esperienza possibile, quando tuttavia si vogliano applicare a ciò che non può essere oggetto di esperienza, lo trasformano realmente subito in fenomeno, e così mostrano impossibile ogni e s t e n s i o n e p r a t i c a della ragion pura. Io dunque ho dovuto sopprimere il s a p e r e per sostituirvi la f e d e ; e del resto, il dommatismo della metafisica, cioè il pregiudizio di progredire in questa scienza senza una critica della ragion pura, è la vera fonte dello scetticismo che si contrappone alla moralità, e che è sempre mai fortemente dommatico. – Se dunque non può affatto esser difficile lasciare ai posteri una metafisica sistematica, costruita a seconda della critica della ragion pura, questo non va considerato un dono di scarso prezzo; sia che si consideri semplicemente la coltura della ragione lungo le vie sicure di una scienza in generale, in paragone ai tentativi a casaccio e alle scorrerie fatte alla leggiera senza critica; o che si badi anche al miglior impiego del tempo per una gioventù avida di sapere, che trova nell’ordinario dommatismo un incentivo, così precoce e così efficace, a ragionare alla leggiera di cose di cui non comprende nulla, e delle quali essa, come nessuno al mondo, intenderà mai nulla, o a correre alla ricerca di pensieri o di opinioni alla moda, trascurando lo studio delle scienze solide; o, soprattutto, che si tenga in conto l’inestimabile vantaggio di finirla una volta per sempre, al m o d o d i S o c r a t e, cioè con la più evidente prova dell’ignoranza dell’avversario, con tutte le obbiezioni contro la moralità e la religione. Giacché nel mondo c’è sempre stata e ci sarà sempre anche in avvenire una metafisica, ma accanto ad essa si troverà anche sempre una dialettica della ragion pura, poiché le è naturale. Il primo e il più importante bisogno della filosofia è dunque quello di sottrarla a ogni pernicioso influsso, facendo cessare le fonti degli errori. Malgrado questo importante cambiamento nel campo delle scienze, e la p e r d i t a che la ragione speculativa deve risentirne nei possessi che sino ad ora s’era figurato d’avere, ogni cosa resta nel vantaggioso stato di prima, per ciò che concerne il fatto generale dell’umanità, e il frutto che il mondo traeva dalle teorie della ragion pura; e la perdita tocca soltanto il m o n o p o l i o d e l l e s c u o l e, ma non già punto gl’i n t e r e s s i d e g l i u o m i n i. Io domando al più rigido dei dommatici, se la prova della sopravvivenza della nostra anima dopo la morte, ricavata dalla semplicità della sostanza, o quella della libertà del volere, fondata, di contro al meccanismo universale, sulle

sottili ma imponenti distinzioni della necessità pratica soggettiva e oggettiva, o se quella dell’esistenza di Dio desunta dal concetto di un essere realissimo (dalla contingenza del mutevole e necessità di un primo motore); – se, uscite dalle scuole, queste prove abbiano mai potuto arrivare al pubblico, ed esercitare il minimo influsso sulle sue convinzioni. Ora, se ciò non è accaduto, né si può mai sperare che accada, a causa della incapacità intellettuale degli uomini per così sottili speculazioni; se, inoltre, per ciò che riguarda il primo punto, questa notevole disposizione, propria d’ogni uomo, a non poter mai restar soddisfatto dal temporale (come insufficiente al bisogno di tutto intero il suo destino) può far nascere la speranza di una v i t a f u t u r a ; se, per ciò che riguarda il secondo punto, la semplice idea chiara dei doveri, in contrasto con tutte le esigenze delle nostre inclinazioni, basta da sola a far nascere la coscienza della l i b e r t à ; se, da ultimo, per ciò che riguarda il terzo punto, l’ordine sovrano, la bellezza, la provvidenza che traspare da ogni cosa naturale, sono da sole sufficienti a suscitare la fede che ci sia un sapiente e grande c r e a t o r e d e l m o n d o , fede che si diffonde nel pubblico, perché riposa su fondamenti razionali; è da concludere, che non soltanto questo dominio resta intatto, ma, inoltre, guadagna d’importanza, dal fatto che le scuole avranno imparato finalmente a non accampar pretese, su un argomento che riguarda il generale interesse umano, di una cognizione più vasta e più alta di quella alla quale può arrivare facilmente la gran maggioranza degli uomini (per noi degnissima di stima); e a limitarsi quindi unicamente a coltivar quelle prove che sono alla portata di tutti, e sufficienti dal punto di vista morale. La riforma dunque colpisce soltanto le arroganti pretese delle scuole, che in questo punto (come spesso a ragione in parecchi altri) si vantano volentieri d’esser sole capaci di conoscere e custodire la verità; delle quali alla folla lasciano solo l’uso, ma serbano gelosamente per sé la chiave (quod mecum nescit, solus vult scire videri47). Nondimeno io ho avuto cura di alcune pretese più legittime del filosofo speculativo. Egli rimane sempre il depositario esclusivo di una scienza, che è utile al pubblico senza che questo lo sappia; voglio dire della critica della ragione. Essa non può, infatti, diventar mai popolare, ma nemmeno è necessario che sia tale; giacché, come al popolo i sottili argomenti, filati in sussidio delle verità utili, entrano poco in testa, altrettanto poco gli vengono in mente le obbiezioni, egualmente sottili, in contrario; d’altra parte, poiché la scuola, come ogni uomo che s’innalzi alla speculazione, casca inevitabilmente nell’una cosa e

nell’altra, la critica è tenuta a prevenire una volta per sempre, mediante l’esame profondo dei diritti della ragione speculativa, lo scandalo che presto o tardi deve provenire anche al popolo dalle dispute nelle quali si avvolgono inevitabilmente i metafisici (e, in quanto tali, infine anche molti dei teologi), non infrenati dalla critica, e che finiscono per falsare le loro dottrine. Soltanto dalla critica possono essere tagliati alla radice il m a t e r i a l i s m o , i l f a t a l i s m o , l ’ a t e i s m o , l ’ i n c r e d u l i t à dei liberi pensatori, il f a n a t i s m o , l a s u p e r s t i z i o n e, che possono diventare perniciosi a tutti, e infine anche l’i d e a l i s m o e lo s c e t t i c i s m o , che sono dannosi più specialmente alle scuole, e difficilmente possono passare nel pubblico. Se i governi trovano conveniente mescolarsi nelle faccende dei dotti, sarebbe più conveniente alla loro savia sollecitudine per le scienze come per gli uomini, favorire la libertà di una tale critica, per cui soltanto le produzioni della ragione potrebbero essere messe su un solido piede, anzi che sostenere il ridicolo dispotismo delle scuole, che mandano alte grida annunziando un pubblico danno, quando si strappano quelle loro ragnatele, di cui, pure, il pubblico non ha avuto mai notizia e non può avvertire perciò la perdita. La critica per altro non è contraria al p r o c e d i m e n t o d o m m a t i c o della ragione nella sua conoscenza pura in quanto scienza (giacché questa sempre deve essere dommatica, cioè rigorosamente dimostrativa, per sicuri princìpi a priori); ma al d o m m a t i s m o , cioè alla pretesa di procedere innanzi solo con una conoscenza pura ricavata da concetti (la conoscenza filosofica), secondo princìpi come quelli di cui la ragione fa uso da molto tempo, senza ricercare in che modo e con qual diritto essa vi sia arrivata. Il dommatismo dunque è il procedimento dommatico che segue la ragion pura, s e n z a u n a c r i t i c a p r e l i m i n a r e d e l s u o p r o p r i o p o t e r e. Questa opposizione non deve quindi prender partito per quella ciarliera superficialità che impropriamente prende nome di popolarità, né per quello scetticismo, che fa giustizia sommaria di ogni metafisica; la critica è anzi la preparazione necessaria allo svolgimento di una metafisica ben fondata, come scienza che deve esser trattata necessariamente in modo dommatico e secondo rigorosissime esigenze sistematiche, e però scolasticamente (non in maniera popolare); poiché tale esigenza, in essa, è impreteribile, dal momento che prende l’impegno di adempiere il suo ufficio del tutto a priori, e però con piena soddisfazione della ragione speculativa. Nell’esecuzione, dunque, del disegno che la critica traccia, cioè nel sistema futuro della metafisica, ci

toccherà un giorno di seguire il metodo rigoroso del celebre Wolff, il più grande dei filosofi dommatici, il quale per primo diede l’esempio (e per questo esempio divenne in Germania il creatore di quello spirito di sistema48, che non s’è ancora smarrito) di come si possa prendere il sicuro cammino di una scienza, stabilendo regolarmente i princìpi, definendo nettamente i concetti, cercando il rigore nelle dimostrazioni, e rifiutandosi ai salti temerari nel trarre le conseguenze: e perciò sarebbe stato mirabilmente capace di mettere una scienza come la metafisica su questa via, se avesse avuto l’idea di prepararsi in precedenza il terreno con la critica dell’organo, cioè della stessa ragion pura: difetto da attribuire piuttosto alla maniera dommatica di pensare del tempo suo, che a lui stesso: e pel quale i filosofi, del suo e di tutti i tempi anteriori, non han nulla da rimproverarsi l’un l’altro. Quelli che respingono il suo metodo e a un tempo i procedimenti della critica della ragion pura, non possono aver in animo, se non di spezzare le catene della scienza e trasformare in giuoco il lavoro, in opinione la certezza e la filosofia in filodossia. P e r q u e l c h e r i g u a r d a q u e s t a s e c o n d a e d i z i o n e, io non ho voluto, com’era giusto, lasciarmi sfuggire l’occasione di togliere, fin dove ciò m’era possibile, le oscurità e difficoltà, dalle quali possono aver preso origine parecchie false interpretazioni in cui son caduti, forse non senza colpa mia, uomini d’acuto ingegno nel giudicare di questo libro. Nelle tesi e nelle loro dimostrazioni, come nella forma e nell’insieme della costruzione, non ho trovato necessario di mutar nulla; e questo è spiegato, in parte, dal lungo esame a cui avevo sottoposto l’opera mia prima di presentarla al pubblico; in parte, è da attribuire alla natura stessa dell’argomento, cioè alla natura di una ragion pura speculativa, che possiede una vera struttura organica, nella quale tutto è organo, cioè il tutto è per ciascun membro e ciascun membro pel tutto; e nella quale perciò ogni imperfezione, per piccola che sia, difetto, errore od omissione, deve immancabilmente apparire nell’uso. In questa sua immodificabilità questo sistema si affermerà, spero, anche in avvenire. Mi autorizza a questa fiducia, non una vana presunzione, ma solo l’evidenza che conferisce a ciascuna parte l’esperimento della identità del risultato movendo dai più piccoli elementi all’insieme della ragion pura, e ridiscendendo dal tutto a ciascuna parte (giacché questo tutto è anche dato per se stesso dallo scopo finale della ragione nella pratica), laddove il tentativo di mutare solo il più piccolo particolare riconduce a contraddizioni, che toccano non solamente

il sistema, ma anche tutta la ragione umana in generale. Soltanto, resta ancor molto da fare nell’e s p o s i z i o n e ; e in questa seconda edizione ho tentato correzioni che debbono rimediare, sia al fraintendimento dell’estetica, soprattutto nel concetto del tempo, sia all’oscurità della deduzione dei concetti dell’intelletto, sia al presunto difetto di sufficiente evidenza nelle prove dei princìpi dell’intelletto puro, sia infine alla falsa interpretazione dei paralogismi imputati alla psicologia razionale. Soltanto fino a questo punto (vale a dire, sino alla fine del primo capitolo della dialettica trascendentale), e non più oltre, si estendono i mutamenti che ho arrecati nel modo dell’esposizione49, poiché il tempo era troppo breve, e rispetto al resto non mi fu segnalato fraintendimento di nessuno dei lettori competenti e imparziali; i quali, senza che io abbia bisogno di nominarli con le lodi che meritano, vedranno da sé ai loro luoghi il conto da me fatto dei loro avvertimenti. Ma queste correzioni importano per il lettore una piccolissima perdita, che non si poteva evitare senza rendere il libro troppo voluminoso; cioè che diverse cose, che non erano per vero essenziali alla compiutezza del tutto, ma di cui tuttavia qualche lettore non avrebbe volentieri fatto a meno, potendo per altri rispetti essere utili, si son dovute sopprimere o abbreviare per dar luogo a una esposizione ora, spero, più piana; la quale, in fondo, rispetto alle proposizioni e alle stesse prove di queste, non è assolutamente mutata, ma pure nel metodo di trattazione qua e là si allontana tanto dalla precedente, che non si poteva fare per intercalazioni. Piccola perdita, alla quale ognuno può metter riparo, quando gli piaccia, col confronto della prima edizione, e che sarà ampiamente compensata, io spero, da una maggior chiarezza. In vari scritti a stampa (sia occasionalmente in recensione di qualche libro, sia in articoli speciali) ho notato, con gioia riconoscente, che lo spirito di sistema non è morto in Germania, ma solo è stato soffocato per un po’ di tempo dalla moda d’una libertà di pensiero, che aveva pretese di genialità; e che gli spinosi sentieri della critica, conducenti a una scienza scolastica della ragion pura, ma, appunto perché tale, durevole e necessaria, non hanno impedito a spiriti arditi e perspicaci di impadronirsene. A questi valentuomini, che accoppiano così felicemente alla profondità dell’ingegno il talento di una lucida esposizione (della quale io non mi sento capace), lascio di compiere ciò che, rispetto all’ultima, vi ha qua e là di difettoso; giacché, in questo caso, il pericolo non è di esser contraddetto, ma di non essere inteso. Per mio conto, io non posso d’ora innanzi impegnarmi in controversie, pur proponendomi di tener conto

premurosamente di tutti gli avvertimenti di amici e di avversari, per utilizzarli in un ulteriore svolgimento del sistema, conforme a questa propedeutica. Poiché durante questo lavoro mi sono già inoltrato piuttosto a dentro nella vecchiaia (questo mese entro nel 64° anno), se voglio svolgere il mio disegno, di lasciare la metafisica della natura e quella dei costumi a conferma della legittimità della critica, sì della ragione speculativa e sì della ragion pratica, mi tocca di far economia del mio tempo, e attendere sia lo schiarimento delle oscurità, a principio appena evitabili in quest’opera, sia la difesa del tutto, dagli uomini di merito, che se ne sono assunti il carico. Ogni trattazione filosofica presta il fianco a critiche in qualche sua parte (giacché non può procedere ben corazzata, come avviene nella matematica); e sebbene in fondo la struttura del sistema, considerata nella sua unità, non corra il minimo pericolo, pure, data la sua novità, poche persone hanno sufficiente agilità di spirito per impadronirsi del suo insieme, e meno ancora son quelle che vi prendon gusto, poiché ogni novità riesce loro sgradita. Inoltre, apparenti contraddizioni, quando i singoli luoghi vengano avulsi dall’insieme che li collega, e messi a fronte l’uno dell’altro, si possono rilevare in ogni scritto, specie se condotto in forma di discorso libero; e possono gettare su tutto lo scritto una luce sfavorevole agli occhi di coloro che si affidano all’altrui sentenza; ma, per chi si è reso padrone dell’idea centrale, sono facili a dissipare. Comunque, quando una teoria ha in sé la sua solidità, tutte le azioni e reazioni che da principio paiono minacciarla di grave pericolo, col tempo non servono ad altro che a fare scomparire le disuguaglianze e a darle anche la desiderabile eleganza, ove se ne occupino uomini d’imparzialità, d’ingegno e di vera popolarità. Königsberg, nel mese di aprile 1787 38 Vedi Euclide, Elem., lib. I, prop. 5. In tutte le edizioni originali, per un trascorso di penna, si legge gleichseitigen (equilatero) invece di gleichschenklichten (isoscele), come avverte lo stesso Kant in una lettera a Cristoforo Gottofredo Schütz del 25 gennaio (giugno?) 1787. 39 Non seguo qui, in maniera precisa, il filo storico del metodo sperimentale, i cui primi indizi non sono del resto ben noti (N. d. K.). 40 Questo metodo, imitato dal fisico, consiste, dunque, in ciò: ricercare gli elementi della ragion pura in quello che si può c o n f e r m a r e o contraddire per mezzo di un e s p e r i m e n t o . Ora, non v’è esperimento possibile (come c’è in fisica), che permetta di verificare, quanto ai loro oggetti, le proposizioni della ragion pura, soprattutto quando queste si avventurano di là dai limiti di ogni esperienza possibile; non si potrà dunque far questa verifica se non con concetti e princìpi che non ammettiamo a priori, prendendoli in tal maniera, che questi medesimi oggetti possano essere considerati, d a u n l a t o come oggetti dei sensi e dell’intelletto per l’esperienza, d a l l ’ a l t r o come oggetti che soltanto si pensa, tutt’al più per la ragione isolata,

e sforzantesi di elevarsi al di sopra dei limiti dell’esperienza; e perciò da due diversi punti di vista. Ora, se si trova che, considerando le cose da questo duplice punto di vista, ha luogo l’accordo col principio della ragion pura, mentre, considerandoli da un solo punto di vista, la ragione viene necessariamente in conflitto con se stessa, allora l’esperimento decide per la esattezza di tal distinzione (N. d. K.). 41 Questo esperimento della ragion pura ha molto di simile con quello che i c h i m i c i chiamano, qualche volta, p r o v a d i r i d u z i o n e e, in generale, p r o c e d i m e n t o s i n t e t i c o . L’a n a l i s i d e l m e t a f i s i c o scompone la conoscenza a priori in due elementi assai differenti, cioè: quello delle cose come fenomeni e quello delle cose in se stesse. La d i a l e t t i c a li riunisce da capo in a c c o r d o con l’idea necessaria, propria della ragione, dell’i n c o n d i z i o n a t o , e trova che questo accordo non si ha mai altrimenti che mediante tale distinzione, la quale, per conseguenza, è vera (N. d. K.). 42 Così le leggi centrali dei movimenti dei corpi celesti conferiscono certezza assoluta a quel che Copernico da principio aveva ammesso soltanto come una ipotesi, e rivelarono nello stesso tempo la forza invisibile che lega il sistema del mondo (l’attrazione di Newton); la quale sarebbe rimasta per sempre ignota, se Copernico non avesse per primo osato cercare, in modo del tutto opposto alla testimonianza dei sensi, e pur vero, la spiegazione dei movimenti osservati, non negli oggetti del cielo, ma nel loro spettatore. In questa prefazione io presento come una ipotesi il cambiamento di metodo che espongo nella critica, e che è analogo a quella ipotesi: sebbene, nel corso della trattazione, sarà dimostrato, non più ipoteticamente, ma apoditticamente, dalla natura delle nostre rappresentazioni dello spazio e del tempo e dei concetti elementari dell’intelletto: ma egli è solo per far vedere i primi tentativi di una riforma di questo genere, che sono sempre ipotetici (N. d. K.). 43 Lucano, Fars., II, 657 dice: Nil actum credens, quum quid superesset agendum. 44 P e r c o n o s c e r e un oggetto si richiede che io possa provare la sua possibilità (sia per il testimonio dell’esperienza della sua realtà, sia a priori per mezzo della ragione). Ma io posso p e n s a r e ciò che voglio, alla sola condizione di non contraddire a me stesso, cioè quando il mio concetto è solo un pensiero possibile, sebbene io non possa stabilire punto se, nel complesso di tutte le possibilità, gli corrisponda o no un oggetto. Per attribuire a un tale concetto validità oggettiva (reale possibilità, poiché la prima era solo logica) è richiesto qualcosa di più. Ma questo qualcosa di più non occorre che sia cercato nelle fonti teoretiche della conoscenza; può anche trovarsi nelle pratiche (N. d. K.). 45 Erscheinung = apparenza, o fenomeno, come sarà pure tradotto per solito. 46 Vorstellungsarten = modi di rappresentazione. 47 Orazio, Epist., II, I, 87: Quod mecum ignorat, ecc. 48 Gründlichkeit, abito di pensare secondo princìpi, e quindi solidamente. 49 La sola vera e propria aggiunta che potrei menzionare, ma non si tratta d’altro che del modo della dimostrazione, è quella nella quale (a p. 275*) faccio una nuova confutazione dell’idealismo psicologico, e do una prova rigorosa (e anche, io credo, la sola possibile) della realtà obbiettiva della intuizione esterna. Sebbene l’idealismo possa parere innocuo rispetto ai fini essenziali della metafisica (ciò che, nel fatto, non è), rimane sempre uno scandalo per la filosofia e per il senso comune in generale, che l’esistenza delle cose esteriori (dalle quali pure noi ricaviamo tutta la materia delle conoscenze anche per il nostro senso interno), si debba ammettere semplicemente per fede, e che se ad alcuno venisse in mente di dubitarne noi non potremmo opporgli una prova sufficiente. Poiché c’è una certa oscurità nell’esposizione di questa prova, dal terzo al sesto rigo, prego che si modifichi questo periodo come segue:

*

Della seconda edizione originale. «O r a q u e s t o c h e d i p e r m a n e n t e n o n p u ò e s s e r e p u n t o u n a intuizione in me. Giacché tutti i fondamenti della determinazione della mia esistenza che possono trovarsi in me, sono rappresentazioni, ed han bisogno essi stessi, appunto perché tali, di qualcosa di permanente, distinto da esse, rispetto al quale il loro cambiamento – e perciò la mia esistenza nel tempo nel quale e s s e s i m u t a n o – p o s s a e s s e r e d e t e r m i n a t o». Mi si potrà obiettare a questa prova, che io ho soltanto coscienza immediata, di ciò che è in me, della mia r a p p r e s e n t a z i o n e delle cose esterne, e che, per conseguenza, resta sempre a dimostrare se ci sia o no qualcosa di corrispondente fuor di me. Ma io ho coscienza della mia e s i s t e n z a nel tempo (e perciò della sua determinabilità in questo), per mezzo della mia esperienza interna; ciò che è più che aver coscienza semplicemente della mia rappresentazione, ed equivale alla c o s c i e n z a e m p i r i c a d e l l a m i a e s i s t e n z a, la quale non può essere determinata se non per rapporto a qualcosa che, legato con la mia esistenza, sia f u o r d i m e. Questa coscienza della mia esistenza nel tempo è dunque identicamente legata con la coscienza di un rapporto a qualche cosa fuori di me; ed è perciò l’esperienza e non la finzione, il senso e non l’immaginazione, che lega inseparabilmente l’esterno al mio senso interno; poiché il senso esterno è già in sé relazione dell’intuizione a qualcosa di reale fuor di me, e la realtà di questo qualcosa – a differenza della immaginazione – non riposa se non su ciò che è inseparabilmente legato alla stessa esperienza interna, come la condizione della sua possibilità; e così è nel nostro caso. Se io alla c o s c i e n z a i n t e l l e t t u a l e del mio esistere, nella rappresentazione I o s o n o, che accompagna tutti i miei giudizi e le operazioni del mio intelletto, potessi unire anche una determinazione della mia esistenza mediante u n a i n t u i z i o n e i n t e l l e t t u a l e, a questa non apparterrebbe necessariamente la coscienza di un rapporto a qualcosa fuori di me. Se non che quella coscienza intellettuale precede veramente; ma l’intuizione interna, nella quale soltanto può essere determinato il mio esistere, è sensibile, e legata alla condizione del tempo; e questa determinazione, e con essa l’esperienza interna, dipende da qualcosa di immutabile, che non è in me, e per conseguenza è solo in qualche cosa fuori di me; per modo che la realtà del senso esterno è necessariamente collegata, perché possa esservi una esperienza in generale, con quella del senso interno: cioè io sono consapevole con tanta certezza che fuori di me esistono cose, che vengono in rapporto coi miei sensi, con quanta certezza sono consapevole che esisto io stesso determinato nel tempo. Ma, a quali intuizioni date corrispondano realmente fuor di me degli oggetti, che appartengono perciò al s e n s o e s t e r n o, cui debbono attribuirsi piuttosto che all’immaginazione, è cosa da stabilire in ciascun caso particolare secondo le regole con cui l’esperienza in genere (anche interna) vien distinta dall’immaginazione; laddove il principio, che c’è realmente una esperienza esterna, rimane immutabile come fondamento. A questo si può ancora aggiungere l’osservazione, che la rappresentazione di qualche cosa di p e r m a n e n t e nell’esistenza non è tutt’uno con la r a p p r e s e n t a z i o n e p e r m a n e n t e; giacché questa* può essere mutevolissima e instabilissima, come le nostre rappresentazioni tutte, comprese quella di materia, e aver tuttavia rapporto con qualcosa di permanente, che perciò deve essere alcunché di esterno e di diverso da tutte le nostre rappresentazioni; la cui esistenza, compresa necessariamente nella d e t e r m i n a z i o n e della mia propria esistenza, costituisce con essa un’unica esperienza, che non vi sarebbe in nessun modo come interna, se a un tempo non fosse (in parte) anche esterna. Come? Noi qui non lo possiamo spiegare, come non ci è possibile pensare in generale ciò che nel tempo permane, e dalla cui simultaneità con ciò che cambia sorge il concetto del cangiamento (N. d. K.). * Cioè, la rappresentazione. Non occorre correggere, con il Wille, in «quella». L’Erdmann

interpreta: «la rappresentazione di qualcosa di permanente» (N. d. R.).

Introduzione

I50 DELLA DIFFERENZA TRA CONOSCENZA PURA ED EMPIRICA Non c’è dubbio che ogni nostra conoscenza incomincia con l’esperienza; da che infatti la nostra facoltà conoscitiva sarebbe altrimenti stimolata al suo esercizio, se ciò non avvenisse per mezzo degli oggetti che colpiscono i nostri sensi, e, per un verso, danno origine da sé a rappresentazioni, per un altro, muovono l’attività del nostro intelletto a paragonare queste rappresentazioni, a riunirle o separarle, e ad elaborare per tal modo la materia greggia delle impressioni sensibili per giungere a quella conoscenza degli oggetti, che chiamasi esperienza? N e l t e m p o, dunque, nessuna conoscenza in noi precede all’esperienza, e ogni conoscenza comincia con questa. Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, non perciò essa deriva tutta d a l l a esperienza. Infatti potrebbe esser benissimo che la nostra stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che noi riceviamo dalle impressioni e di ciò che la nostra propria facoltà di conoscere vi aggiunge da sé (stimolata solamente dalle impressioni sensibili); aggiunta, che noi propriamente non distinguiamo bene da quella materia che ne è il fondamento, se prima un lungo esercizio non ci abbia resi attenti ad essa, e non ci abbia scaltriti alla distinzione. V’è pertanto almeno una questione, che ha bisogno ancora di essere esaminata più da vicino e che non si può sbrigare subito a prima vista: se cioè si dia una simile conoscenza, indipendente dall’esperienza e dalle stesse impressioni tutte dei sensi. Tali conoscenze son dette a priori e distinte dalle e m p i r i c h e , che hanno la loro origine a posteriori, cioè nell’esperienza. Questa espressione, intanto, non è ancora così precisa da designare adeguatamente tutto il significato della questione proposta. Perché si suole ben dire di molte conoscenze, derivate da fonti empiriche, che noi ne siamo

capaci o partecipi a priori, poiché non le otteniamo immediatamente dall’esperienza, ma da una regola universale, che noi, tuttavia, abbiamo pur ottenuto dall’esperienza. Così di uno che ha scavato le fondamenta della sua casa, si dice che avrebbe potuto sapere a priori che questa sarebbe caduta: cioè egli non avrebbe dovuto aspettare l’esperienza che crollasse di fatto. Se non che, egli non avrebbe potuto saperlo interamente a priori; perché, che i corpi sieno pesanti, e quindi cadano se si sottrae loro il sostegno, doveva pure essergli noto già per esperienza. Noi dunque intenderemo in seguito per conoscenze a priori non conoscenze siffatte che abbian luogo indipendentemente da questa o da quell’esperienza, ma che non dipendano a s s o l u t a m e n t e da nessuna esperienza. Ad esse son contrapposte le conoscenze empiriche, o tali che sono possibili solo a posteriori, cioè per esperienza. Delle conoscenze a priori, poi, si chiamano pure quelle, cui non è commisto punto nulla di empirico. Ad esempio, la proposizione: «ogni cangiamento ha la sua causa» è sì una proposizione a priori, ma non pura, perché cangiamento è concetto che può essere ricavato solo dall’esperienza.

II NOI SIAMO IN POSSESSO DI CERTE CONOSCENZE A PRIORI E NÉ ANCHE IL SENSO COMUNE NE È MAI PRIVO

Si tratta ora di cercare il segno, per cui ci sia dato distinguere con sicurezza una conoscenza pura da una empirica. L’esperienza c’insegna in verità che qualche cosa è fatta in questo o quel modo, ma non che non possa essere altrimenti. Se c’è dunque, i n p r i m o l u o g o , una proposizione che venga pensata insieme con la sua n e c e s s i t à , essa è un giudizio a priori; se, oltre a ciò, non deriva se non da nessun’altra, che non abbia a sua volta valore di proposizione necessaria, la proposizione è assolutamente a priori. I n s e c o n d o l u o g o, l’esperienza non dà mai a’ suoi giudizi una vera e rigorosa u n i v e r s a l i t à , ma solo una universalità supposta e relativa (per induzione), sì che si deve propriamente dire: per quanto sin ad ora abbiamo constatato, non si è trovata eccezione a questa o a quella regola. Se dunque un giudizio è pensato con rigorosa universalità, cioè in guisa da non ammettere come possibile eccezione di sorta, esso non è derivato

dall’esperienza, ma vale assolutamente a priori. L’universalità empirica è dunque soltanto un’estensione arbitraria della validità, da ciò che vale nel maggior numero dei casi a ciò che vale in ogni caso, come, per es., nella proposizione: «tutti i corpi sono pesanti». Al contrario, se a un giudizio spetta essenzialmente una universalità rigorosa, allora questa dimostra una particolar fonte di conoscenza, cioè una facoltà della conoscenza a priori. Necessità e vera universalità son dunque i segni distintivi sicuri di una conoscenza a priori; e sono inseparabilmente inerenti l’uno all’altro. Ma, poiché nell’uso di essi è alle volte più facile far vedere nei giudizi la limitazione empirica anzi che la contingenza, o anche riesce qualche volta più evidente mostrare la illimitata universalità che attribuiamo a un giudizio, che non la sua necessità; così è opportuno servirsi separatamente dei detti criteri, ciascuno dei quali per sé è infallibile. Ora, è facile mostrare che nella conoscenza umana esistono realmente simili giudizi, necessari ed universali nel senso più rigoroso, e quindi puri, a priori. Se si vuole un esempio tolto dalle scienze, non si deve far altro che guardare tutte le proposizioni della matematica; se si vogliono esempi tolti dal più comune uso dell’intelletto, può bastare la proposizione che ogni cangiamento deve avere una causa; anzi, in quest’ultima proposizione, il concetto di causa contiene così manifestamente il concetto di una necessità del legame con un effetto e di una rigorosa universalità della legge, che esso andrebbe interamente perduto, se lo si volesse derivare, come fece Hume, dal frequente associarsi di ciò che accade con ciò che precede, e da una abitudine che ne deriva (e perciò da una necessità semplicemente soggettiva) di collegare certe rappresentazioni. Si potrebbe anche, senza aver bisogno di simili esempi per trovare la reale esistenza di princìpi a priori nella nostra conoscenza, dimostrare che essi sono indispensabili per la possibilità della stessa esperienza, e quindi a priori. Perché, dove l’esperienza stessa cercherebbe mai d’attingere la sua certezza, se tutte le leggi, secondo le quali essa procede, fossero sempre empiriche e però contingenti; e se, per conseguenza, esse non potessero farsi valere come primi princìpi? Per altro, qui può bastarci di aver esposto come un fatto l’uso puro della nostra facoltà di conoscere insieme coi segni distintivi di esso. Ma non solo nei giudizi, sibbene anche nei concetti, apparisce un’origine a priori d’alcuni di essi. Infatti, se sottraete a poco a poco dal vostro concetto empirico d’un corpo tutto ciò che vi è di empirico, il colore, la durezza, la mollezza, la pesantezza

e la stessa impenetrabilità, resta tuttavia lo s p a z i o che esso (che ora è del tutto svanito) occupava, e che non può essere soppresso. Così, se togliete via dal vostro concetto empirico di ciascun oggetto, corporeo o incorporeo, tutte le proprietà che l’esperienza vi insegna, non gli potete nondimeno togliere quella, per cui lo pensate come s o s t a n z a , o a d e r e n t e a una sostanza (sebbene questo concetto abbia una determinazione maggiore che quello di oggetto in generale). Spinti dalla necessità con cui questo concetto vi si impone, dovete dunque convenire che esso ha la sua sede nella vostra facoltà di conoscere a priori.

III51 LA FILOSOFIA HA BISOGNO DI UNA SCIENZA, CHE DETERMINI LA POSSIBILITÀ, I PRINCÌPI E L’AMBITO DI TUTTE LE CONOSCENZE A PRIORI

Ciò che vuol dire anche più di tutto quel che precede, è questo: che certe conoscenze escono affatto dal campo di tutte le possibili esperienze, e han l’apparenza di allargare l’ambito dei nostri giudizi al di là di tutti i limiti dell’esperienza, per mezzo di concetti a cui non si può dare in nessuna parte di essa un oggetto corrispondente. E proprio in queste ultime conoscenze, che trascendono il mondo sensibile, e per le quali l’esperienza non può dare in niun modo né una guida né un controllo, consistono le investigazioni della nostra ragione che noi riteniamo di importanza di gran lunga più alta, e la loro mèta molto più sublime di tutto ciò che possa apprendere l’intelletto nel campo dei fenomeni; tanto che noi, a costo di cader in errore, tutto tentiamo anzi che rinunziare a così interessanti ricerche per una ragione qualunque di dubbio, o per dispregio e indifferenza. Questi inevitabili problemi della ragion pura sono D i o , l a l i b e r t à e l ’ i m m o r t a l i t à . La scienza, poi, il cui scopo finale è con tutti gli sforzi indirizzato propriamente soltanto alla soluzione di essi, si chiama m e t a f i s i c a ; il cui procedere da principio è d o m m a t i c o ; cioè, senza un esame preliminare della capacità o incapacità della ragione a una sì grande impresa, essa ne intraprende, piena di confidenza, l’esecuzione52. Ora pare in verità naturale che, appena abbandonato il terreno

dell’esperienza, non si possa subito, con le conoscenze che si posseggono non si sa donde, e sul credito di princìpi di cui non si conosce l’origine, elevare un edifizio, senza prima essersi assicurati, con accurate ricerche, della fondazione di esso, e senza che dunque sia stata scrutata piuttosto da un pezzo la questione del come possa l’intelletto giungere a tutte queste conoscenze a priori, e quale estensione, quale validità, qual valore esse possano avere. Infatti, nulla è più naturale di ciò, se con la p a r o l a n a t u r a l e s’intende ciò che giustamente e ragionevolmente deve accadere; ma, se s’intende con essa ciò che accade di solito, nulla viceversa è più naturale e comprensibile del fatto che questa ricerca dovesse lungo tempo esser trascurata. Giacché una parte di queste conoscenze, le matematiche, è in possesso antico della certezza, e dà perciò una aspettativa favorevole anche per le altre, ancorché esse siano di natura affatto diversa. Oltre a ciò, se si esce dalla cerchia dell’esperienza, si è sicuri di non essere contraddetti dall’esperienza. Il desiderio di estendere le proprie conoscenze è così grande, che solo da una contraddizione manifesta, in cui si urti, si può essere fermati nel cammino. Questa, per altro, può essere scansata quando le finzioni53 siano foggiate con la cautela, senza che per questo cessino di essere finzioni. La matematica ci dà uno splendido esempio di quanto possiamo spingerci innanzi nella conoscenza a priori, indipendentemente dall’esperienza. È vero che essa ha che fare con oggetti e conoscenze solo in quanto si possono presentare nell’intuizione: ma questa circostanza vien facilmente trascurata, perché l’intuizione stessa può essere data a priori, e perciò difficilmente si può distinguere da un concetto puro. Eccitato da una siffatta prova del potere della ragione, l’impulso a spaziare più largamente non vede più confini. La colomba leggiera, mentre nel libero volo fende l’aria di cui sente la resistenza, potrebbe immaginare che le riuscirebbe assai meglio volare nello spazio vuoto di aria. Ed appunto così Platone abbandonò il mondo sensibile, poiché esso pone troppo angusti limiti54 all’intelletto; e si lanciò sulle ali delle idee al di là di esso, nello spazio vuoto dell’intelletto puro. Egli non si accorse che non guadagnava strada, malgrado i suoi sforzi; giacché non aveva, per così dire, nessun appoggio, sul quale potesse sostenersi e a cui potesse applicare le sue forze per muovere l’intelletto. Ma è un consueto destino della ragione umana nella speculazione allestire più presto che sia possibile il suo edifizio, e solo alla fine cercare se gli sia stato gettato un buon fondamento. Se non che, poi si cercano abbellimenti esterni di ogni specie

per confortarci sulla sua saldezza, o anche per evitare del tutto tale tardiva e pericolosa verifica. Durante la costruzione, quel che ci tien liberi da ogni cura o sospetto, e ci acquieta con una apparente solidità, è questo. Una gran parte, e forse la maggiore, delle occupazioni della nostra ragione consiste nelle a n a l i s i dei concetti, che abbiamo già degli oggetti. Questo ci dà una quantità di conoscenze le quali, sebbene non sieno nulla più che chiarimenti ed esplicazioni di ciò che già era pensato (benché ancora in maniera confusa) nei nostri concetti, vengono tuttavia apprezzate, almeno per la forma, come nozioni nuove, quantunque, per la loro materia e per il loro contenuto, non allarghino punto i concetti che già possediamo, ma soltanto li analizzino. Ora, poiché tale procedimento dà una reale conoscenza a priori, la quale procede con sicurezza e con frutto, così la ragione, senza né anche avvedersene, con questa lusinga carpisce affermazioni di tutt’altra natura; nelle quali ai concetti dati aggiunge nuovi concetti affatto estranei, e pure a priori, senza che si sappia come vi giunga, e senza lasciarsi nemmeno venire in pensiero una tale questione. Io perciò tratterò a principio della differenza di queste due specie di conoscenza.

IV DELLA DIFFERENZA TRA I GIUDIZI ANALITICI E SINTETICI In tutti i giudizi, nei quali è pensato il rapporto di un soggetto col predicato (considero qui soltanto quelli affermativi, perché poi sarà facile l’applicazione a quelli negativi), cotesto rapporto è possibile in due modi. O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (implicitamente) in questo concetto A; o B si trova interamente al di fuori del concetto A, sebbene stia in connessione col medesimo. Nel primo caso chiamo il giudizio a n a l i t i c o , nel secondo s i n t e t i c o . Giudizi analitici (affermativi) son dunque quelli, nei quali la connessione del predicato col soggetto vien pensata per identità; quelli invece, nei quali questa connessione vien pensata senza identità, si devono chiamare sintetici. I primi si potrebbe anche chiamarli giudizi e s p l i c a t i v i , gli altri e s t e n s i v i ; poiché quelli per mezzo del predicato nulla aggiungono al concetto del soggetto, ma solo dividono con l’analisi il concetto ne’ suoi concetti parziali, che eran in esso già pensati (sebbene confusamente); mentre, al contrario, questi ultimi

aggiungono al concetto del soggetto un predicato che in quello non era punto pensato, e non era deducibile con nessuna analisi. Se dico, per es.: tutti i corpi sono estesi, questo è un giudizio analitico. Giacché non mi occorre di uscir fuori dal concetto che io unisco alla parola c o r p o , per trovar legata con esso l’estensione, ma mi basta scomporre quel concetto, cioè prender coscienza del molteplice ch’io comprendo sempre in esso, per ritrovarvi il predicato; questo è dunque un giudizio analitico. Invece, se dico: tutti i corpi sono gravi; allora il predicato è qualcosa di affatto diverso da ciò che io penso nel semplice concetto di corpo in generale. L’aggiunta d’un tale predicato ci dà perciò un giudizio sintetico. I g i u d i z i s p e r i m e n t a l i , c o m e t a l i , s o n o t u t t i s i n t e t i c i. Infatti sarebbe assurdo fondare sull’esperienza un giudizio analitico, poiché io non ho appunto bisogno di uscire dal mio concetto per formare il giudizio, dunque a ciò non m’è d’uopo alcuna testimonianza dell’esperienza. Che un corpo sia esteso, è una proposizione che vale a priori, e non è un giudizio di esperienza. Infatti, prima di passare all’esperienza, io ho tutte le condizioni del mio giudizio già nel concetto, dal quale posso ricavare il predicato soltanto secondo il principio di contraddizione, e acquistar a un tempo coscienza della necessità del giudizio, che l’esperienza non potrebbe mai insegnarmi. Al contrario, sebbene nel concetto di corpo in generale io non includa punto il predicato della gravità, quel concetto tuttavia rappresenta un oggetto dell’esperienza mediante una parte di essa, alla quale io dunque posso aggiungere ancora altre parti della stessa esperienza, che non siano appartenenti al concetto. Posso prima conoscere il concetto di corpo a n a l i t i c a m e n t e per le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma, ecc., che sono tutte pensate in questo concetto. Ma poi estendo la mia conoscenza, e ricorrendo di nuovo all’esperienza, dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo con le note precedenti legata costantemente anche quella della gravità, e l’aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. Sull’esperienza dunque si fonda la possibilità della sintesi del predicato della gravità col concetto del corpo, perché questi due concetti, sebbene l’uno non sia compreso nell’altro, tuttavia, come parti di un tutto, cioè dell’esperienza, che è essa stessa una connessione sintetica delle intuizioni, convengono l’uno all’altro, benché solo in modo accidentale55. Ma nei giudizi sintetici a priori questo sussidio manca assolutamente. Se devo uscire dal concetto A per conoscerne un altro B come legato al primo, su

che cosa mi fondo, e da che cosa è resa possibile la sintesi, poiché qui non ho il vantaggio di orientarmi per ciò nel campo dell’esperienza? Si prenda la proposizione: t u t t o c i ò c h e a c c a d e h a l a s u a c a u s a. Nel concetto di qualche cosa che accade io penso per verità una esistenza, alla quale precede un tempo ecc.; e da ciò si possono trarre giudizi analitici. Ma il concetto di causa sta interamente fuori di quel concetto, e56 indica alcunché di diverso da ciò che accade, e però non è punto incluso in quest’ultima rappresentazione. Come mai dunque giungo ad affermare, di ciò che accade in generale, qualcosa che ne è affatto diverso, e a riconoscere il concetto di causa, sebbene non contenuto in quello, tuttavia come appartenente ad esso, e per di più necessariamente? Che cos’è qui l’incognita x, su cui si appoggia l’intelletto, quando crede di trovar fuori del concetto A un predicato B, ad esso estraneo, e che, ciò malgrado, stima con esso congiunto? Non può essere l’esperienza, poiché il principio citato aggiunge questa seconda rappresentazione alla prima non solo con universalità maggiore [di quella che può dare l’esperienza], ma altresì con la nota della necessità, e perciò del tutto a priori, e in base a semplici concetti. Ora tutto lo scopo supremo delle nostre conoscenze speculative a priori si fonda su tali princìpi sintetici o estensivi; perché gli analitici sono, sì, importantissimi e necessarissimi, ma solo per giungere a quella chiarezza dei concetti, che è desiderabile per una sicura ed ampia sintesi, come per una conquista realmente nuova57.

V IN TUTTE LE SCIENZE TEORETICHE DELLA RAGIONE SONO COMPRESI, COME PRINCÌPI, GIUDIZI SINTETICI A PRIORI 1. I g i u d i z i m a t e m a t i c i s o n o t u t t i s i n t e t i c i . Questa proposizione pare sia sfuggita sinora all’indagine di quanto hanno analizzato la ragione umana, e anzi par proprio opposta alle loro congetture, sebbene sia incontestabilmente certa, e molto importante nel seguito. Infatti, poiché si trovava che le deduzioni dei matematici procedono tutte secondo il principio di contraddizione (richiesto dalla natura di ogni certezza apodittica) così si credeva che anche i princìpi fossero conosciuti in virtù dello stesso principio di contraddizione; e in ciò si sbagliavano; perché una proposizione sintetica può sempre esser conosciuta secondo il principio di contraddizione, ma solo a

condizione che si presupponga un’altra proposizione sintetica, dalla quale possa esser dedotta; non mai in se stessa. Prima di tutto bisogna notare, che le proposizioni propriamente matematiche sono sempre giudizi a priori, e non empirici, perché portano seco quella necessità, che dalla esperienza non si può ricavare. Se questo non si vuol concedere, ebbene, io limito la proposizione alla m a t e m a t i c a p u r a il cui concetto già include che essa non contiene conoscenze empiriche, ma solo conoscenze pure a priori. Veramente a prima vista si dovrebbe pensare che la proposizione 7 + 5 = 12 sia una proposizione semplicemente analitica, risultante pel principio di contraddizione dal concetto di una somma di sette e di cinque. Ma, se si considera la cosa più da vicino, si trova che il concetto della somma di 7 e 5 non racchiude altro che l’unione dei due numeri in uno solo, senza che perciò venga assolutamente pensato qual sia questo numero unico che raccoglie gli altri due. Il concetto di dodici non è punto pensato già pel fatto che io penso semplicemente quella unione di sette e di cinque, io posso analizzare quanto voglio il mio concetto di una tal somma possibile, ma non vi troverò il dodici. Bisogna oltrepassare questi concetti, ricorrendo all’intuizione corrispondente ad uno dei numeri, come, ad es., alle cinque dita della mano, o (come Segner nella sua aritmetica58) a cinque punti, e aggiungendo successivamente al concetto del sette le unità del numero cinque dato nell’intuizione. Infatti io prendo prima il numero 7, e, ricorrendo per il concetto del numero 5 all’aiuto delle dita della mia mano come intuizione, le unità, che prima ho prese tutte insieme per formare il numero 5, ora le aggiungo in quella mia immagine ad una ad una al numero 7, e vedo così nascere il numero 12. Che 5 si d o v e s s e aggiungere a 7, l’avevo in verità pensato nel concetto di una somma 7 + 5; ma non che questa somma fosse uguale a 12. La proposizione aritmetica è, dunque, sempre sintetica; ciò che si fa tanto più manifesto, quanto più alte sono le cifre che si prendono: perché allora risplende chiaro che noi potremmo girare e rigirare i nostri concetti a piacer nostro, ma, senza ricorrere all’aiuto dell’intuizione, mediante la semplice analisi dei nostri concetti non potremmo trovar mai la somma. Altrettanto poco analitico è un qualsiasi principio della geometria pura. Che la linea retta sia la più breve fra due punti, è una proposizione sintetica. Perché il mio concetto di r e t t a non contiene niente di quantità, ma solo una qualità. Il concetto della più breve è dunque interamente aggiunto, e non può

essere ricavato con nessuna analisi da quello della linea retta. Qui deve perciò chiamarsi in aiuto l’intuizione, mediante la quale solamente è possibile la sintesi. Alcune poche proposizioni fondamentali59 presupposte dai geometri sono, in verità, realmente analitiche e riposano sul principio di contraddizione; ma è anche vero che non servono, in quanto proposizioni identiche, se non alla catena del metodo, e non han valore di princìpi; tali sono, per esempio, a = a, il tutto è uguale a se stesso; oppure a + b > a, ossia il tutto è maggiore della parte. E pure anche queste stesse, sebbene valgano in base a semplici concetti, in matematica vengono ammesse solo perché possono esser esibite nell’intuizione. Quel che in questo caso ci fa credere comunemente, che il predicato di tali giudizi apodittici si trovi già nel nostro concetto, e però il giudizio sia analitico, è soltanto l’ambiguità dell’espressione. Cioè, noi d o b b i a m o aggiungere un certo predicato ad un concetto dato, e questa necessità tocca già i concetti. Ma la questione non è che c o s a d o b b i a m o pensare in aggiunta ad un concetto dato, ma che cosa r e a l m e n t e p e n s i a m o in esso sebbene solo oscuramente; e allora è chiaro che il predicato aderisce bensì necessariamente a quei concetti, ma non perché pensato nello stesso concetto, sibbene in virtù di un’intuizione, la quale deve aggiungersi al concetto. 2. La f i s i c a (physica) comprende in sé, come p r i n c ì p i , g i u d i z i s i n t e t i c i a p r i o r i. Addurrò in esempio soltanto un paio di proposizioni, come quella che in tutti i cangiamenti del mondo corporeo la quantità della materia resta invariata; oppure quest’altra, che in ogni comunicazione di movimento l’azione e la reazione saranno sempre uguali tra loro. In entrambe non soltanto è chiara la loro necessità, e pertanto la loro origine a priori, ma è chiaro altresì che sono proposizioni sintetiche. Giacché nel concetto della materia io non penso la permanenza, ma solo la sua presenza nello spazio, in quanto lo riempie. Perciò io oltrepasso realmente il concetto della materia, per aggiungervi a priori qualche cosa che in quel concetto non pensavo. La proposizione, dunque, non è analitica ma sintetica, e tuttavia pensata a priori; e lo stesso si dica delle altre proposizioni della parte pura della fisica. Nella m e t a f i s i c a , considerando questa scienza solo come una scienza finora soltanto tentata, ma tuttavia indispensabile per la natura della ragione umana, d e v o n o e s s e r c o n t e n u t e c o n o s c e n z e s i n t e t i c h e a p r i o r i ; e non si tratta perciò semplicemente di scomporre e chiarire, così,

analiticamente i concetti che ci forniamo a priori della cose, ma noi vogliamo estendere a priori le nostre conoscenze; e a tal uopo dobbiamo servirci di tali princìpi che aggiungano al concetto dato qualche cosa che non vi era contenuto; e mediante giudizi sintetici a priori ci spingiamo fin là, dove l’esperienza non può seguirci: per esempio, nella proposizione: il mondo deve avere un primo principio ecc. La metafisica consta dunque, almeno s e c o n d o i l s u o s c o p o, di mere proposizioni sintetiche a priori.

VI PROBLEMA GENERALE DELLA RAGION PURA È già un bel guadagno quando si può raccogliere una quantità di ricerche sotto la formola di un problema unico. Giacché per tal modo non solo vien agevolato il nostro proprio lavoro in quanto esso è esattamente determinato, ma anche ad ogni altro che voglia esaminarlo è reso facile il giudizio se abbiamo soddisfatto o no al nostro proposito. Il problema proprio della ragion pura è dunque contenuto nella domanda: COME SONO POSSIBILI GIUDIZI SINTETICI A PRIORI? La ragione per la quale la metafisica è rimasta fin qui in una condizione tanto oscillante di incertezza e di contraddizione, è da cercarsi esclusivamente nel fatto, che non s’è posto mente in passato a questo problema, e nemmeno forse alla differenza tra giudizi a n a l i t i c i e s i n t e t i c i . Intanto la vita e la morte della metafisica dipende dalla soluzione di questo p r o b l e m a , o da una dimostrazione soddisfacente che la possibilità di cui esso chiede la spiegazione, in realtà non c’è. David Hume, che fra tutti i filosofi ha affrontato più da vicino questo problema, ma che rimase lungi dal pensarlo con sufficiente precisione e in tutta la sua universalità, e si fermò semplicemente alla proposizione sintetica del nesso dell’effetto con la sua causa (principium causalitatis), credette di poter concludere che un siffatto principio a priori fosse assolutamente impossibile; e, secondo le sue conclusioni, tutto ciò che chiamiamo metafisica, verrebbe ad essere una semplice illusione di conoscere razionalmente ciò che, in realtà, è tratto solo dall’esperienza e ha ricevuto dall’abitudine l’apparenza della necessità. Alla quale asserzione, distruttiva di ogni filosofia pura, egli non si sarebbe mai lasciato andare, se avesse avuto innanzi agli occhi il problema nostro nella

sua universalità; poiché allora avrebbe visto che, secondo i suoi argomenti, non avrebbe potuto esserci più neppure una matematica pura, perché questa comprende certamente princìpi sintetici a priori; affermazione della quale il suo buon senso allora lo avrebbe ben preservato. Nella soluzione del suddetto problema è compresa, a un tempo, la possibilità dell’uso puro della ragione per fondare e recare in atto tutte le scienze che contengono una conoscenza teorica a priori di oggetti: cioè, la risposta alle domande: COM’È POSSIBILE UNA MATEMATICA PURA? COM’È POSSIBILE UNA FISICA PURA? Di queste scienze, poiché esse realmente ci sono, convien bene domandarsi come sieno possibili; poiché, che debban esser possibili, è provato dalla loro stessa esistenza di fatto60. Per ciò che riguarda la m e t a f i s i c a , il suo progresso fin qui assai infelice, poiché di nessuna delle metafisiche fin qui esposte, per ciò che concerne il suo scopo essenziale, si può dire che realmente esista, deve ad ognuno lasciar dubitare con ragione della sua possibilità. Ma, tuttavia, anche questa sp e c i e d i c o n o s c e n z a deve, in un certo senso, essere considerata come data, e la metafisica, se pure non come scienza, esiste certo come disposizione naturale (metaphysica naturalis). Giacché la ragione umana viene irresistibilmente, anche senza che la muova la semplice vanità del molto sapere, spinta da un proprio bisogno fino a problemi tali che non possono essere risoluti da nessun uso empirico della ragione, né da princìpi tolti da questo; e così in tutti gli uomini, appena in loro la ragione si è innalzata sino alla speculazione, v’è stata in ogni tempo una metafisica, e vi sarà sempre. Ora anche per essa c’è la questione: COM’È POSSIBILE LA METAFISICA IN QUANTO DISPOSIZIONE NATURALE? Cioè, come nascono dalla natura della ragione umana universale i problemi che la ragion pura affronta, e ai quali essa si sente dal proprio bisogno spinta a rispondere il meglio che può? Ma, poiché tutti i tentativi fatti fin qui, per rispondere a quelle naturali domande: se il mondo abbia un cominciamento o esista dall’eternità, e così via, sono sempre incorsi in inevitabili contraddizioni, così non ci si può accontentare della semplice disposizione naturale alla metafisica, cioè della stessa facoltà pura della ragione, dalla quale certo deriva sempre una qualche metafisica (quale che sia); ma dev’essere possibile giunger con essa alla

certezza o nella scienza o nella ignoranza de’ suoi oggetti, cioè, a pronunziarsi circa gli oggetti delle sue questioni, o a giudicare della potenza o impotenza della ragione rispetto ai medesimi; e però o ad allargare con sicurezza la nostra ragion pura, o a restringerla entro limiti determinati e sicuri. Quest’ultimo problema, che deriva da quello generale di sopra, sarebbe a ragione questo: COM’È POSSIBILE LA METAFISICA COME SCIENZA? La critica della ragione, dunque, conduce alla fine necessariamente alla scienza; l’uso dommatico, invece, di essa senza critica, ad affermazioni prive di fondamento, alle quali si potrà sempre contrapporne altre ugualmente verisimili, e però allo s c e t t i c i s m o . Inoltre, questa scienza non può essere d’una lunghezza grande, scoraggiante, perché non ha da fare con oggetti della ragione, la cui molteplicità è infinita, ma soltanto con se stessa, con problemi che sorgono esclusivamente dal suo grembo, proposti a lei, non dalla natura delle cose che sono da lei differenti, ma dalla sua propria; dal momento che, quando essa abbia prima imparato a conoscere compiutamente la sua propria capacità rispetto agli oggetti che le si possono presentare nella esperienza, deve diventar facile determinare in modo completo e sicuro l’ambito e i limiti del suo tentato uso al di là di tutti i confini dell’esperienza. Si può, dunque, anzi si deve far conto che non sieno mai esistiti i tentativi fatti sino ad ora per creare d o m m a t i c a m e n t e una metafisica; perché quel che vi è in questa o in quella di analitico, cioè la semplice scomposizione dei concetti che giacciono a priori nella nostra ragione, non costituisce punto ancora lo scopo, ma solo un preparativo per la vera metafisica: per estendere, cioè, sinteticamente la sua conoscenza a priori; e a questo essa61 non basta; poichè mostra solo ciò che è contenuto nei concetti, ma non come noi siamo pervenuti a priori a tali concetti, acciò si possa in conseguenza determinare il loro legittimo uso rispetto agli oggetti di ogni conoscenza in generale. E basta anche soltanto una piccola dose di abnegazione per rinunziare a queste pretese, giacché le incontestabili contraddizioni della ragione con se stessa, inevitabili in un procedimento dommatico, già da molto tempo han gettato il discredito sulla metafisica passata. Piuttosto sarà necessaria molta costanza per non lasciarsi distogliere dalla difficoltà intrinseca, o dalle resistenze esterne, dal promuovere finalmente una volta lo sviluppo rigoglioso e fecondo di una scienza indispensabile alla umana ragione; una scienza della quale si potranno tagliare i rami che ne son venuti fuori, ma non mai svellere

le radici, con un’altra trattazione del tutto opposta alla precedente.

VII IDEA E PARTIZIONE DI UNA SCIENZA SPECIALE SOTTO NOME DI CRITICA DELLA RAGION PURA

Da tutto ciò scaturisce dunque l’idea di una scienza speciale, che si può chiamare C r i t i c a d e l l a r a g i o n p u r a. Poiché la ragione è la facoltà che ci fornisce i princìpi a priori della conoscenza62. Ragion pura è perciò quella che contiene i princìpi per conoscere qualche cosa assolutamente a priori. Un o r g a n o della ragion pura sarebbe un complesso dei princìpi, secondo i quali possono essere acquistate ed effettivamente recate in atto tutte le conoscenze pure a priori. L’applicazione completa di un siffatto organo costituirebbe un sistema della ragion pura. Ma poiché questo sistema è desiderato moltissimo, e resta ancora a veder se e in quali casi una tale estensione della nostra conoscenza sia possibile, così noi possiamo considerare una scienza che si limiti al semplice giudicamento della ragion pura, delle sue fonti e dei suoi limiti, come la p r o p e d e u t i c a al sistema della ragion pura. Una tale scienza non si dovrebbe ancora chiamare d o t t r i n a , ma solo c r i t i c a della ragion pura; e la sua utilità sarebbe in realtà, riguardo alla speculazione63, solo negativa, giacché servirebbe non ad allargare ma solo ad epurare la nostra ragione, e a liberarla dagli errori; ciò che è già moltissimo di guadagnato. Chiamo t r a s c e n d e n t a l e ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti in quanto questa deve esser possibile a priori64. Un sistema di siffatti concetti si chiamerebbe f i l o s o f i a t r a s c e n d e n t a l e. Ma questa filosofia, d’altra parte, è ancora troppo per cominciare. Infatti, dovendo una tale scienza contenere interamente tanto la conoscenza analitica quanto la sintetica a priori, essa è, per ciò che riguarda il nostro scopo, di estensione troppo vasta, dato che noi vogliamo spingere l’analisi solo fin dove sia indispensabilmente necessario affinché si possano cogliere in tutta la loro portata i princìpi della sintesi a priori, come quello che ora soltanto ci riguarda. Questa ricerca, che non possiamo propriamente chiamare dottrina, ma solo critica trascendentale, poiché non mira all’allargamento delle conoscenze stesse, ma soltanto alla loro rettificazione, e ci deve dare la pietra

di paragone del valore o della vanità di tutte le conoscenze a priori, è ciò di cui ora ci occupiamo. Una tale critica è dunque una preparazione, se è possibile, ad un o r g a n o ; e, se questo non dovesse riuscire, almeno ad un c a n o n e della ragione, secondo il quale in ogni caso si potrebbe un giorno esporre, così analiticamente come sinteticamente, il sistema completo della filosofia della ragion pura, abbia esso a consistere nell’estensione o nella semplice limitazione della sua conoscenza. Che poi questo sistema sia possibile, anzi non sia per essere di tale ampiezza da togliere la speranza di compierlo, si può già argomentare da ciò, che qui si tratta non della natura delle cose, che è inesauribile, ma dell’intelletto, che giudica della natura delle cose, anzi di questo intelletto soltanto rispetto alla sua conoscenza a priori; e il contenuto di quest’oggetto, non dovendo esser cercato fuori di noi, non ci può restare celato, e secondo ogni presunzione è abbastanza piccolo da poter essere rilevato interamente, giudicato nel suo valore o non valore, e ridotto al suo giusto apprezzamento. Tanto meno ci si può aspettare qui una critica dei libri e dei sistemi della ragion pura, bensì quella della facoltà stessa della ragion pura. Se non che, se si pone a base questa critica, si ha una sicura pietra di paragone per valutare il contenuto filosofico di opere antiche e moderne in questa branca; se no, storico e giudice, incompetenti, giudicano le asserzioni infondate degli altri in nome delle proprie, che sono altrettanto infondate65. La filosofia trascendentale è l’idea d’una scienza, di cui la critica della ragion pura deve a r c h i t e t t o n i c a m e n t e , cioè per princìpi, abbozzare il disegno intero, con piena garanzia di solidità e sicurezza di tutte le parti che compongono un tale edificio. Essa è il sistema di tutti i princìpi della ragion pura. Se questa critica non si chiama essa stessa filosofia trascendentale, la ragione è che, per essere un sistema completo, dovrebbe contenere altresì un’analisi compiuta di tutta la conoscenza umana a priori. Ora la nostra critica deve bensì metterci sott’occhio l’enumerazione completa di tutti i concetti fondamentali che costituiscono la suddetta conoscenza pura: ma dall’analisi particolareggiata di questi concetti, e dalla rassegna completa di tutti quelli che ne derivano è bene che si astenga; in parte perché tale analisi non sarebbe conforme ai suoi fini, non presentando essa la stessa difficoltà, che sta invece nella sintesi, in vista della quale propriamente lavora tutta la critica; in parte perché sarebbe rotta l’unità del disegno, se si volesse dare con la responsabilità della compiutezza una tale analisi e deduzione, di cui

possiam fare a meno, considerati i fini della nostra critica. Questa compiutezza, per altro, tanto nell’analisi quanto nella deduzione dai concetti a priori da fornire in futuro, è facile a integrare, quando prima di tutto ci siano questi concetti come princìpi completi della sintesi e non manchi loro nulla rispetto a questo scopo essenziale. Appartiene quindi alla critica della ragion pura tutto ciò che costituisce la filosofia trascendentale, ed essa è l’idea completa della filosofia trascendentale, ma non ancora questa scienza stessa, giacché nell’analisi va soltanto fin là dove è necessario, per giudicare perfettamente la conoscenza sintetica a p r i o r i. La mira precipua nella partizione di tale scienza è, che non vi devono entrare punto concetti i quali contengano in sé qualcosa di empirico: ossia, che la conoscenza a priori sia pienamente pura. Perciò, sebbene i princìpi supremi della moralità e i suoi concetti fondamentali sieno conoscenze a priori, essi non appartengono tuttavia alla filosofia trascendentale, poiché essi, per quanto certo non mettano i concetti del piacere e del dolore, dei desideri e delle tendenze, ecc., che son tutti di origine empirica, a base dei precetti morali, tuttavia nel concetto del dovere non possono non farli entrare per la costruzione d’un sistema di moralità pura, o come impedimento che va superato, o come stimolo di cui non va fatto un motivo66. Perciò la filosofia trascendentale è filosofia67 della ragion pura semplicemente speculativa. Giacché tutto ciò che è pratico, in quanto contiene motivi, si riporta a sentimenti, che appartengono alle fonti empiriche della conoscenza. Se dunque si vuol dividere questa scienza dal punto di vista generale di un sistema, la scienza, che ci accingiamo ad esporre, deve comprendere, in primo luogo, una d o t t r i n a d e g l i e l e m e n t i, e in secondo luogo, una d o t t r i n a d e l m e t o d o della ragion pura. Ciascuna di queste parti principali avrebbe poi sue proprie suddivisioni, il cui fondamento tuttavia non è qui ancora il luogo di esporre. In una introduzione o avvertenza preliminare par che sia necessario soltanto notare che si danno due tronchi dell’umana conoscenza, che rampollano probabilmente da una radice comune ma a noi sconosciuta: cioè, s e n s o e i n t e l l e t t o ; col primo dei quali ci son dati gli oggetti, col secondo essi sono p e n s a t i . Ora il senso, in quanto deve contenere rappresentazioni a priori, che formano la condizione a cui ci son dati gli oggetti, apparterrebbe alla filosofia trascendentale. La teoria trascendentale della sensibilità dovrebbe spettare alla prima parte della

scienza degli elementi, poiché le condizioni, a cui soltanto gli oggetti sono dati alla conoscenza umana, precedono quelle, a cui i medesimi oggetti sono pensati. 50

La prima edizione divideva l’introduzione solo in due paragrafi: I. Idea della filosofia trascendentale, II. Partizione della filosofia trascendentale; e al posto dei primi due paragrafi di questa seconda edizione, aveva questi pochi periodi: «L’esperienza è, fuor di dubbio, il primo prodotto che dà il nostro intelletto quando elabora la materia greggia delle sensazioni. Ed è, appunto per ciò, il primo ammaestramento, e, nel suo procedere, fonte così inesauribile di nuovi insegnamenti, che la vita concatenata di tutte le future generazioni non avrà mai difetto di nuove conoscenze che possano essere raccolte su questo terreno. Tuttavia, è ben lungi dall’essere l’unico campo nel quale il nostro intelletto venga circoscritto. Essa ci dice bensì che cosa c’è, ma non che debba necessariamente essere così e non altrimenti. Per ciò appunto non ci dà né anche una vera universalità; e la ragione, così avida di questa specie di conoscenze, è dalla esperienza più eccitata che soddisfatta. Tali conoscenze universali, che abbiano un tempo il carattere della necessità intrinseca, debbono essere, indipendentemente dall’esperienza, chiare e certe per se stesse; quindi prendono il nome di conoscenze a priori, laddove, al contrario, ciò che scaturisce esclusivamente dall’esperienza è, come si suol dire, conosciuto soltanto a posteriori o empiricamente. «Ora è chiaro, ed è sommamente degno di nota, che mescolate alle nostre esperienze si trovano conoscenze, che debbono avere la loro origine, a priori, le quali forse servono solamente a tenere insieme le nostre rappresentazioni sensibili. Giacché se dalle prime si toglie via anche tutto ciò che appartiene ai sensi, rimangono tuttavia taluni concetti originari e taluni giudizi prodotti da questi concetti, che debbono esser sorti assolutamente a priori, indipendentemente dall’esperienza, poiché essi fan sì che degli oggetti che appaiono ai sensi si possa, o almeno si creda di poter dire più che non potrebbe insegnare la semplice esperienza, e poiché vi sono affermazioni che per mezzo di essi acquistano vera universalità e rigorosa necessità, ciò che non potrebbe dare la semplice conoscenza empirica». 51 Questo paragrafo, tolti i pochi periodi tradotti nella nota precedente, e poche e quasi insignificanti aggiunte e correzioni, riproduce il paragrafo I della prima edizione. 52 Questo capoverso: «Questi inevitabili... l’esecuzione», è un’aggiunta della seconda edizione. 53 Erdichtungen, ossia queste conoscenze escogitate senza fondamento nell’esperienza. 54 1a edizione: «così molteplici ostacoli». 55 La prima parte di questo capoverso sino a «... l’esperienza non potrebbe mai insegnarmi», è tolta dai Prolegomeni, con piccolissime e trascurabili modificazioni di forma. Nella prima edizione, al posto di tutto il capoverso, fino a «...sebbene solo in modo accidentale», c’erano questi altri: «Ora da ciò risulta evidente: 1) che per mezzo di giudizi analitici la nostra conoscenza non può estendersi punto, ma può invece essermi reso esplicito e intelligibile il concetto che già posseggo; 2) che nei giudizi sintetici io ho bisogno, oltre che del concetto del soggetto, di qualcos’altro ancora (x), su cui si appoggi l’intelletto per riconoscere che gli appartiene un predicato non compreso in quel concetto. «Nei giudizi empirici o sperimentali non v’è, quanto a ciò, nessuna difficoltà. Giacché questa x è la completa esperienza dell’oggetto che io penso mediante un concetto A, il quale costituisce solo una parte di questa esperienza. Infatti, sebbene io nel concetto di corpo in generale non includa punto il predicato della gravità, tuttavia quel concetto designa tutta l’esperienza per mezzo d’una parte di essa, alla quale dunque posso aggiungere ancora altre parti della medesima esperienza,

come appartenenti a quel concetto. Posso prima conoscere il concetto di corpo a n a l i t i c a m e n t e , per le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma, ecc., che sono tutte pensate in quel concetto. Ma poi, se estendo la mia conoscenza, e guardo di nuovo all’esperienza dalla quale ho tratto il concetto di corpo, trovo con le note precedenti unita costantemente anche quella della gravità. L’esperienza è dunque quella x, che è fuori del concetto A, e sulla quale si fonda la possibilità della sintesi del predicato della gravità B col concetto A». 56 Le parole «sta ...concetto e» sono aggiunte nella 2a edizione. 57 I due paragrafi che seguono (V e VI) sono desunti dai Prolegomeni (V, n. 1) con piccole modificazioni. Nella 1a edizione a questo punto seguivano le parole: «Qui dunque si cela un certo mistero*, il cui scioglimento soltanto può render sicuro e fidato il progresso nel campo sconfinato della conoscenza pura dell’intelletto: occorre cioè scoprire, con la dovuta universalità, il fondamento della possibilità di giudizi sintetici a priori, vedere le condizioni che ne rendono possibile ogni singola specie, e non descrivere con un giro fugace, ma determinare compiutamente, e a sufficienza per ogni possibile uso, tutta questa conoscenza (che costituisce un genere a sé) in un sistema, secondo le sue fonti originarie, le partizioni, l’ambito e i limiti. Tanto basti per ora, quanto a ciò che di peculiare hanno giudizi sintetici». * «Se ad uno degli antichi fosse venuto in mente anche solo di porre il presente problema, questo sarebbe bastato a opporsi validamente a tutti i sistemi della ragion pura sino al tempo nostro, e ci avrebbe risparmiato tante e tante vane prove, che, senza sapere propriamente con che si avesse a fare, si sono ciecamente tentate.» 58 Segner, Anfangsgründe der Mathematik, 2a edizione, Halle 1773. 59 Grundsätze, che in generale da noi si traduce p r i n c ì p i . 60 Taluno potrebbe ancora dubitare che questa esistenza l’abbia la fisica pura. Ma basta dare un’occhiata alle diverse proposizioni, che s’incontrano al principio della fisica propriamente detta (empirica), come quelle della permanenza della stessa quantità di materia, dell’inerzia, dell’uguaglianza di azione e di reazione e così via, per convincersi subito che esse costituiscono una physicam puram (o rationalem), che merita bene di essere esposta separatamente, come scienza speciale, in tutta la sua estensione, piccola o grande che sia (N. d. K.). 61 La scomposizione dei concetti. 62 La prima edizione diceva: «...una scienza speciale, che può servire alla critica della ragion pura. P u r a si chiama ogni conoscenza che non è mista di nulla d’estraneo: ma in particolare si chiama pura una conoscenza, nella quale non sia mescolata nessuna esperienza o sensazione, e che perciò è possibile del tutto a priori. Ora la ragione è la facoltà, ecc.». 63 Le parole «rispetto alla speculazione» sono della 2a edizione. 64 Le parole «...ma alla nostra... a priori» ci sembrano più chiare di quelle della 1a edizione: «ma coi nostri concetti a priori degli oggetti in generale». 65 Le parole «tanto meno... arbitrarie» non erano nella 1a edizione. Dopo di esse, con le parole «la filosofia trascendentale...» incominciava la seconda sezione della primitiva redazione di questa introduzione, intitolata, come già ricordammo: Partizione della filosofia trascendentale. 66 Prima edizione: «poiché i concetti di piacere e dolore, ecc., che hanno tutti origine empirica, devono esservi presupposti». 67 Weltweisheit (= sapienza mondana).

I Dottrina trascendentale degli elementi

Parte Prima Estetica trascendentale

§ 1.68 In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza si riferisca ad oggetti, quel modo, tuttavia, per cui tale riferimento avviene immediatamente, e che ogni pensiero ha di mira come mezzo, è l’i n t u i z i o n e . Ma questa ha luogo soltanto a condizione che l’oggetto ci sia dato; e questo, a sua volta, è possibile, almeno per noi uomini69, solo in quanto modifichi70, in certo modo, lo spirito. La capacità (recettività) di ricevere rappresentazioni pel modo in cui siamo modificati dagli oggetti, si chiama s e n s i b i l i t à . Gli oggetti dunque ci son d a t i per mezzo della sensibilità, ed essa sola ci fornisce i n t u i z i o n i ; ma queste vengono pensate dall’intelletto, e da esso derivano i c o n c e t t i . Ma ogni pensiero deve, direttamente o indirettamente, mediante certe note71, riferirsi infine a intuizioni, e perciò, in noi, alla sensibilità, giacché in altro modo non può esserci dato verun oggetto. L’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto noi ne siamo affetti, è s e n s a z i o n e . Quella intuizione che si riferisce all’oggetto mediante la sensazione, dicesi e m p i r i c a . L’oggetto indeterminato di una intuizione empirica si dice f e n o m e n o 72. Nel fenomeno, io chiamo materia ciò che corrisponde alla sensazione; ciò invece, per cui il molteplice del fenomeno possa essere ordinato73 in determinati rapporti, chiamo f o r m a del fenomeno. Poiché quello in cui soltanto le sensazioni si ordinano e possono essere poste in una forma determinata, non può essere da capo sensazione; così la materia di ogni fenomeno deve bensì esser data solo a posteriori, ma la forma di esso deve trovarsi per tutti bella e pronta a priori nello spirito; e però potersi considerare separata da ogni sensazione.

Tutte le rappresentazioni, nelle quali non è mescolato nulla di ciò che appartiene alla sensazione, le chiamo p u r e (in senso trascendentale). Quindi la forma pura delle intuizioni sensibili in generale, in cui tutta la varietà dei fenomeni viene intuita in determinati rapporti si troverà a priori nello spirito. Questa forma pura della sensibilità si chiamerà essa stessa i n t u i z i o n e p u r a . Così, se dalla rappresentazione di un corpo separo ciò che ne pensa l’intelletto, come sostanza, forza, divisibilità, ecc., e a un tempo ciò che appartiene alla sensazione, come impenetrabilità, durezza, colore, ecc., mi resta tuttavia qualche cosa di questa intuizione empirica, cioè l’estensione e la forma. Queste appartengono alla intuizione pura, che ha luogo a priori nello spirito, anche senza un attuale oggetto dei sensi, o una sensazione, quasi semplice forma della sensibilità. Chiamo e s t e t i c a t r a s c e n d e n t a l e 74 una scienza di tutti i princìpi a priori della sensibilità. Deve esserci una tale scienza, che costituisca la prima parte di una dottrina trascendentale degli elementi, in opposizione a quella che contiene i princìpi del pensiero puro, e vien denominata logica trascendentale. Nella estetica trascendentale, dunque, noi i s o l e r e m o dapprima la sensibilità, separandone tutto ciò che ne pensa coi suoi concetti l’intelletto, affinché non vi resti altro che l’intuizione empirica. In secondo luogo, separeremo ancora da questa ciò che appartiene alla sensazione, affinché non ne rimanga altro che la intuizione pura e la semplice forma dei fenomeni, che è ciò solo che la sensibilità può fornire a priori. In questa ricerca si troverà che vi sono due forme pure d’intuizione sensibile, come princìpi della conoscenza a priori, cioè spazio e tempo, del cui esame noi ci occuperemo ora.

Sezione Prima DELLO SPAZIO § 2. Esposizione metafisica di questo concetto75 Mediante il senso esterno (una delle proprietà del nostro spirito) noi ci

rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi, e tutti insieme nello spazio. Quivi sono determinate, o determinabili, la loro forma, grandezza e reciproche relazioni. Il senso interno, mediante il quale lo spirito intuisce se stesso, o un suo stato interno, non ci dà invero nessuna intuizione dell’anima stessa, come di oggetto; ma c’è tuttavia una forma determinata per la quale soltanto è possibile l’intuizione del suo stato interno, in modo che tutto ciò che spetta alle determinazioni interne vien rappresentato in rapporti di tempo. Il tempo non può essere intuito esternamente, come non può essere intuito lo spazio quasi qualcosa che sia in noi. Che cosa sono dunque lo spazio e il tempo? Sono entità reali? o sono soltanto determinazioni, o anche rapporti delle cose, ma tali che apparterrebbero ad esse anche in sé, ancorché non intuite, oppure son tali che appartengono soltanto alla forma dell’intuizione, e perciò alla costituzione soggettiva del nostro spirito, senza la quale cotesti predicati non potrebbero esser riferiti a veruna cosa? Per venire in chiaro di questo punto, esporremo dapprima l’idea dello spazio. Per e s p o s i z i o n e (expositio) intendo la chiara (anche se non particolareggiata) rappresentazione di ciò che appartiene a un concetto; l’esposizione, poi, è m e t a f i s i c a , se contiene quello che rappresenta il concetto c o m e d a t o a p r i o r i 76. 1. Lo spazio non è un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne. Infatti, affinché certe sensazioni vengano riferite a qualcosa fuor di me (cioè a qualcosa in un luogo dello spazio diverso da quello in cui mi trovo io), e affinché io possa rappresentarmele come esterne e a c c a n t o 77 le une alle altre, quindi non solo differenti ma anche in luoghi differenti, deve esserci già a fondamento la rappresentazione dello spazio. Pertanto, la rappresentazione dello spazio non può esser nata per esperienza da rapporti del fenomeno esterno; ma l’esperienza esterna è essa stessa possibile, prima di tutto, per la detta rappresentazione. 2. Lo spazio è una rappresentazione necessaria a priori, la quale sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne. Non si può mai formare la rappresentazione che non vi sia spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non si trovi nessun oggetto. Lo spazio vien dunque considerato come la condizione della possibilità dei fenomeni, non come una determinazione dipendente da essi; ed è una rappresentazione a priori, la quale è necessariamente a fondamento di fenomeni esterni78. 3. Lo spazio non è un concetto discorsivo o, come si dice, universale dei

rapporti delle cose in generale, ma una intuizione pura. Perché, primieramente, non ci si può rappresentare se non uno spazio unico, e, se si parla di molti spazi distinti, si intende soltanto parti dello stesso spazio unico e universale. Non è possibile che queste parti precedano allo spazio unico ed universale, quasi suoi elementi costitutivi (dai quali risulti poi l’insieme), ma non sono pensate se non in e s s o . Esso è essenzialmente unico, in esso la molteplicità, quindi anche il concetto universale di spazio in generale, si forma esclusivamente su limitazioni79. Ne segue che, quanto a quello, una intuizione a priori (non empirica) sta a base di tutti i concetti di esso. Così anche tutti i princìpi geometrici, per esempio che in un triangolo la somma di due lati è maggiore del terzo, non vengono mai ricavati dai concetti universali di linea e di triangolo, bensì dalla intuizione, e a priori con certezza apodittica. 4. Lo spazio vien rappresentato come una grandezza infinita d a t a . Ora, se conviene certo pensare ogni concetto come una rappresentazione contenuta in un numero infinito di differenti rappresentazioni possibili (come loro nota comune), esso dunque le comprende s o t t o d i s é: ma nessun concetto, come tale, può essere considerato come contenente in sé un’infinita moltitudine di rappresentazioni. Pure, lo spazio è pensato così (giacché tutte le parti dello spazio coesistono, all’infinito). Sicché la rappresentazione originaria dello spazio è i n t u i z i o n e a p r i o r i , e n o n c o n c e t t o80.

§ 3.81 Esposizione trascendentale del concetto di spazio Per e s p o s i z i o n e t r a s c e n d e n t a l e intendo la definizione d’un concetto, come principio dal quale si possa scorgere la possibilità di altre conoscenze sintetiche a priori. A questo fine si richiede: 1) che realmente conoscenze di questa specie discendano dal concetto dato; 2) che tali conoscenze sieno possibili solo se si suppone una determinata definizione di questo concetto. La geometria è una scienza che determina le proprietà dello spazio sinteticamente e, nondimeno, a priori. Quale deve essere dunque la rappresentazione dello spazio, affinché sia possibile di esso una tale conoscenza? Originariamente deve essere un’intuizione; perché da un

semplice concetto non possono derivare proposizioni che lo oltrepassino, come accade in geometria (Introd., V). Ma tale intuizione deve essere in noi a priori, cioè prima di ogni percezione di un oggetto; e perciò intuizione pura, non empirica. Le proposizioni geometriche infatti son tutte quante apodittiche, cioè congiunte con la coscienza della loro necessità; per es., che lo spazio ha solo tre dimensioni; ma tali proposizioni non possono esser giudizi empirici o sperimentali, né derivarne (Introd., II). Come dunque può essere nello spirito una intuizione esterna, che preceda agli oggetti stessi, e nella quale il concetto di questi possa esser determinato a priori? Evidentemente solo ad un patto, che essa abbia sua sede soltanto nel soggetto, come sua disposizione formale ad essere modificato dagli oggetti, e a conseguire per tal modo la loro i m m e d i a t a r a p p r e s e n t a z i o n e, cioè l’i n t u i z i o n e , dunque soltanto in quanto forma del senso esterno in generale. Solo la nostra definizione pertanto rende comprensibile la p o s s i b i l i t à d e l l a g e o m e t r i a, come conoscenza sintetica a p r i o r i . Ogni specie di definizione che trascuri questo punto, anche se in apparenza abbia con essa qualche somiglianza, può esserne distinta nel modo più sicuro a questo contrassegno. COROLLARI DEI CONCETTI PRECEDENTI a) Lo spazio non rappresenta punto una proprietà di qualche cosa in sé, o le cose nel loro mutuo rapporto; ossia, non è una determinazione di esse, che appartenga agli oggetti stessi, e che rimanga anche se si faccia astrazione da tutte le condizioni soggettive dell’intuizione. Giacché né le determinazioni assolute, né quelle relative possono esser intuite prima dell’esistenza delle cose alle quali appartengono, e quindi a priori. b) Lo spazio non è altro se non la forma di tutti i fenomeni dei sensi esterni, cioè la condizione soggettiva, l’unica per la quale ci è possibile un’intuizione esterna, della sensibilità. Ora, poiché l’attitudine recettiva del soggetto ad essere modificato dagli oggetti, precede necessariamente a tutte le intuizioni di questi oggetti, è facile intendere come la forma di tutti i fenomeni possa esser data nello spirito prima di tutte le effettive percezioni, e perciò a priori; e come essa, in quanto intuizione pura, nella quale tutti gli oggetti devono essere determinati, possa contenere i princìpi de’ loro rapporti anteriormente a ogni esperienza. Noi possiamo quindi solo dal punto di vista umano parlare di spazio, di

esseri estesi, ecc. Ma, se uscissimo dalla condizione soggettiva nella quale soltanto possiamo conseguire un’intuizione esterna, dal modo, cioè, in cui possiamo venir modificati dagli oggetti, l’idea di spazio non significherebbe più nulla. Questo predicato viene attribuito alle cose solo in quanto esse appariscono a noi, sono cioè oggetti della sensibilità. La forma costante di questa recettività, che chiamiamo sensibilità, è condizione necessaria di tutti i rapporti, in cui gli oggetti sono intuiti come fuor di noi; e, se si astrae da questi oggetti, essa è una intuizione pura, che porta il nome di spazio. Poiché le condizioni particolari della sensibilità non possiamo farle condizioni della possibilità delle cose, ma solo dei loro fenomeni, così possiamo ben dire, che lo spazio abbraccia tutte le cose che possono apparirci esternamente, ma non tutte le cose in se stesse, siano esse intuite o no, e da qualsivoglia soggetto. Giacché noi non possiamo punto giudicare delle intuizioni di altri esseri pensanti, se esse sieno o no legate alle stesse condizioni che limitano la nostra intuizione, e che per noi sono universalmente valide. Che se al concetto del soggetto aggiungiamo la restrizione di un giudizio, allora il giudizio vale incondizionatamente. La proposizione «tutte le cose sono l’una accanto all’altra nello spazio», vale con la restrizione che per cose si intendano gli oggetti della nostra intuizione sensibile. Se aggiungo al concetto la condizione, e dico: «le cose come fenomeni esterni sono l’una accanto l’altra nello spazio», questa legge vale universalmente e senza restrizione. Le nostre osservazioni dunque ci insegnano la r e a l t à (cioè, la validità oggettiva) dello spazio, rispetto a tutto ciò che può venirci innanzi nel mondo esterno come oggetto; ma, al tempo stesso, l’i d e a l i t à dello spazio, rispetto alle cose, se dalla ragione esse siano considerate in se stesse, cioè senza riguardo alla natura del nostro senso. Noi affermiamo dunque la r e a l t à e m p i r i c a dello spazio (rispetto a tutta l’esperienza esterna possibile), e nondimeno l’i d e a l i t à t r a s c e n d e n t a l e di esso: ossia, che lo spazio non è più nulla, appena prescindiamo dalla condizione della possibilità di ogni esperienza, e lo assumiamo come qualcosa che stia a fondamento delle cose in se stesse. Oltre lo spazio, non c’è nessun’altra rappresentazione soggettiva che si riferisca a qualcosa di esterno, e che possa dirsi a priori oggettiva. Giacché da nessun’altra, come dall’intuizione dello spazio (§ 3), è possibile ricavare proposizioni sintetiche a priori. A parlar propriamente, quindi, non conviene loro82 nessuna idealità, sebbene concordino con la rappresentazione dello

spazio in ciò, che si riferiscono soltanto alla natura soggettiva del senso, per es.: vista, udito, tatto, per le sensazioni dei colori, suoni e calore; ma queste, poiché sono semplici sensazioni, e non intuizioni, non fanno conoscere in sé nessun oggetto, tanto meno a priori83. L’osservazione andava fatta, per impedire che venisse in mente di spiegare l’affermata idealità dello spazio con esempi affatto inadeguati, poiché per es. i colori, il gusto, ecc., sono considerati a ragione non come proprietà delle cose, ma semplicemente come modificazioni del nostro soggetto, le quali anzi possono essere differenti nei differenti uomini. In questo caso, infatti, ciò che originariamente è già soltanto fenomeno, per es. una rosa, in senso empirico vale come cosa in sé, che tuttavia può apparire diversamente a ciascun occhio rispetto al colore. Al contrario, il concetto trascendentale dei fenomeni nello spazio è un avvertimento critico, che in generale niente di quel che è intuito nello spazio, è cosa in sé; e ancora, che lo spazio non è una forma delle cose, la quale sia in qualche modo propria delle cose in se stesse: ma che gli oggetti in sé ci sono affatto ignoti, e quelli che chiamiamo oggetti esterni, non sono altro che semplici rappresentazioni della nostra sensibilità; la cui forma è lo spazio, ma il cui vero correlato, la cosa in sé, rimane pertanto affatto sconosciuto e inconoscibile: né, del resto, nell’esperienza è mai questione di essa.

Sezione Seconda DEL TEMPO § 4. Esposizione metafisica del concetto del tempo 1. Il tempo non è concetto empirico, ricavato da una esperienza: poiché la simultaneità o la successione non cadrebbe neppure nella percezione, se non vi fosse a priori a fondamento la rappresentazione del tempo. Solo se presupponiamo il tempo, è possibile rappresentarsi che qualcosa sia nello stesso tempo (simultaneamente), o in tempi diversi (successivamente). 2. Il tempo è una rappresentazione necessaria, che sta a base di tutte le intuizioni. Non si può, rispetto ai fenomeni in generale, sopprimere il tempo,

quantunque sia del tutto possibile toglier via dal tempo tutti i fenomeni. Il tempo dunque è dato a priori. Soltanto in esso è possibile qualsiasi realtà dei fenomeni. Questi possono sparir tutti, ma il tempo stesso (come condizione universale della loro possibilità) non può esser soppresso. 3. Su questa necessità a priori si fonda anche la possibilità di princìpi apodittici dei rapporti di tempo, o assiomi del tempo in generale. Esso ha una sola dimensione; diversi tempi non sono insieme, ma successivi (come diversi spazi non sono successivi, ma insieme). Questi princìpi non possono esser desunti dall’esperienza, perché questa non potrebbe darci né universalità rigorosa, né certezza apodittica. Potremmo dire soltanto: così ci dice la percezione comune, ma non: così deve essere. Questi princìpi valgono come leggi per le quali è possibile l’esperienza in generale, e ci istruiscono prima, non per mezzo di essa. 4. Il tempo non è un concetto discorsivo o, come si dice, universale, ma una forma pura dell’intuizione sensibile. I diversi tempi non sono se non parti appunto dello stesso tempo. Ma la rappresentazione che non può esser data se non per un solo oggetto, si chiama intuizione. Inoltre, la proposizione che tempi diversi non possono essere insieme non si potrebbe dedurre da un concetto universale. Questa proposizione è sintetica, e non può essere dedotta solo da concetti. E dunque immediatamente contenuta nell’intuizione e rappresentazione del tempo. 5. L’infinità del tempo non significa se non che tutte le quantità determinate di tempo sono possibili solo come limitazioni di un tempo unico, che stia a loro fondamento. Quindi la rappresentazione originaria t e m p o deve essere data senza limitazioni. Ma quando le parti stesse e ogni grandezza di un oggetto non si possono rappresentare determinate se non mediante una limitazione, allora la rappresentazione totale non può esser data mediante concetti (perché essi non contengono se non rappresentazioni parziali), ma a fondamento di esse deve esserci un’intuizione immediata84.

§ 5.85 Esposizione trascendentale del concetto del tempo Posso per ciò rinviare al n. 386, dove, per esser breve, ho detto tra gli articoli della esposizione metafisica quello che propriamente è trascendentale.

Qui soggiungo ancora, che il concetto del cangia-mento, e con esso il concetto del movimento (come cangiamento di luogo), è possibile solo mediante la rappresentazione del tempo; che, se questa rappresentazione non fosse intuizione (interna) a priori, nessun concetto, quale che sia, potrebbe rendere intelligibile la possibilità d’un cangiamento, cioè dell’unione in uno e medesimo oggetto di predicati opposti contraddittori (per es., l’essere e il non essere una stessa cosa nello stesso luogo). Solo nel tempo, ossia u n a d o p o l ’ a l t r a , possono incontrarsi insieme in una cosa due determinazioni opposte contraddittorie. Il nostro concetto del tempo spiega dunque la possibilità di tante conoscenze sintetiche a priori, quante ce ne propone la teoria generale del moto, che non ne è poco feconda.

§ 6. Corollari di questi concetti a) Il tempo non è qualcosa che sussista per se stesso, o aderisca alle cose, come determinazione oggettiva, e che perciò resti, anche astrazion fatta da tutte le condizioni soggettive della intuizione di quelle: perché nel primo caso sarebbe qualcosa che, senza un oggetto reale, sarebbe tuttavia reale. Per quanto riguarda il secondo caso, come determinazione e ordine inerente alle cose stesse, non potrebbe precedere gli oggetti come loro condizione, ed esser conosciuto e intuito a priori per mezzo di proposizioni sintetiche. Ciò che invece ha luogo, se il tempo non è altro che la condizione soggettiva per cui tutte le intuizioni possono accadere in noi. Giacché allora questa forma delle intuizioni interne può essere rappresentata a priori, cioè prima degli oggetti. b) Il tempo non è altro che la forma del senso interno, cioè dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno. Infatti, il tempo non può essere una determinazione di fenomeni esterni: non appartiene né alla figura, né al luogo, ecc.; determina, al contrario, il rapporto delle rappresentazioni nel nostro stato interno. E appunto perché questa intuizione interna non ha nessuna figura, noi cerchiamo di supplire a questo difetto con analogie, e rappresentiamo la serie temporale con una linea che si prolunghi all’infinito, nella quale il molteplice forma una serie avente una sola dimensione; e dalle proprietà di questa linea argomentiamo tutte quelle del tempo, fuorché questa sola; che le parti della linea sono simultanee, laddove le parti del tempo

sempre successive. Da ciò risulta che la rappresentazione del tempo stesso è una intuizione, poichè tutti i suoi rapporti possono essere espressi per mezzo di una intuizione esterna. c) Il tempo è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale. Lo spazio, essendo la forma pura di tutte le intuizioni esterne, è limitato, come condizione a priori, ai soli fenomeni esterni. Invece, poiché tutte le rappresentazioni – abbiano o no oggetti esterni – pure in se stesse, quali modificazioni dello spirito, appartengono allo stato interno; e poiché questo stato interno rientra sotto la condizione formale dell’intuizione interna, e però del tempo; così il tempo è condizione a priori di ogni fenomeno in generale; condizione, invero, immediata dei fenomeni interni (dell’anima nostra), e però mediatamente anche degli esterni. Se posso dire a priori; tutti i fenomeni esterni sono determinati a priori nello spazio e secondo relazioni spaziali; posso anche, movendo dal principio del senso interno, dire universalmente: tutti i fenomeni in generale, cioè tutti gli oggetti dei sensi, sono nel tempo, e stanno fra di loro necessariamente in rapporti di tempo. Se noi facciamo astrazione dalla nostra maniera di intuire internamente noi stessi e di cogliere mediante codesta intuizione anche le intuizioni esterne nella facoltà rappresentativa, e consideriamo quindi gli oggetti come qualcosa per sé stante, il tempo non è più nulla. Esso ha validità oggettiva soltanto rispetto ai fenomeni, poiché i fenomeni sono già cose che noi assumiamo come o g g e t t i d e l n o s t r o s e n s o; ma non è più oggettivo, se si astrae dalla sensibilità della nostra intuizione, e perciò dal modo di rappresentare che ci è proprio, e si parla di c o s e i n g e n e r a l e. Il tempo è dunque unicamente condizione soggettiva della nostra (umana) intuizione (che è sempre sensibile, cioè in quanto noi veniamo modificati da oggetti), e non è nulla in se stesso, fuori del soggetto. Ciò non ostante, rispetto a tutti i fenomeni, quindi anche a tutte le cose, che ci si possono presentare nell’esperienza, esso è necessariamente oggettivo. Non possiamo dire: tutte le cose sono nel tempo, perché, nel concetto delle cose in generale, si fa astrazione da ogni specie di intuizione delle medesime, laddove questa è la condizione speciale per cui il tempo entra nella rappresentazione degli oggetti. Ma, aggiungendo a quel concetto la condizione, e dicendo: «tutte le cose, in quanto fenomeni (oggetti dell’intuizione sensibile), sono nel tempo», il principio acquista la sua oggettiva legittimità e universalità a priori. Le nostre osservazioni dimostrano quindi la r e a l t à e m p i r i c a del

tempo, cioè la sua validità obbiettiva rispetto a tutti gli oggetti, che possano mai esser dati ai nostri sensi. E poiché la nostra intuizione è sempre sensibile, così non può esserci dato mai nell’esperienza un oggetto, che non sia soggetto alla condizione del tempo. Per contro noi contestiamo al tempo ogni pretesa a r e a l t à a s s o l u t a, nel senso che, anche indipendentemente dalla forma della nostra intuizione sensibile, inerisca assolutamente alle cose come loro condizione o qualità. Tali proprietà, spettanti alle cose in sé, non potranno mai esserci date mediante i sensi. In ciò dunque consiste l’i d e a l i t à t r a s c e n d e n t a l e del tempo, secondo la quale esso non è niente, ove si prescinda dalle condizioni soggettive dell’intuizione sensibile, e non può esser considerato né come sussistente né come inerente agli oggetti in se stessi (senza rapporto alla nostra intuizione). Tuttavia questa idealità, al pari di quella dello spazio, non può essere paragonata ai dati surrettizi delle sensazioni, poiché lì il fenomeno stesso, cui tali predicati ineriscono, si suppone sempre che abbia quella realtà oggettiva, che qui vien del tutto a mancare, salvo che come semplicemente empirica, cioè riguardante l’oggetto stesso come semplice fenomeno: su di che è da rivedere sopra l’osservazione della sezione precedente.

§ 7. Chiarimento Contro questa teoria, che ammette la realtà empirica del tempo, ma ne contesta la realtà assoluta e trascendentale, ho ricevuto, da parte di uomini intelligenti, una obbiezione talmente concorde, da farmi argomentare che si dovrebbe naturalmente presentare ad ogni lettore, a cui queste questioni non siano familiari. Essa suona così: i cangiamenti esistono realmente (lo prova l’intero mutarsi delle nostre proprie rappresentazioni, quand’anche si volessero negare tutti i fenomeni esterni unitamente ai loro cangiamenti). Ora i cangiamenti non sono possibili se non nel tempo; dunque il tempo è qualcosa di reale. La risposta non presenta nessuna difficoltà. Accetto tutto l’argomento. Il tempo, non v’ha dubbio, è qualcosa di reale, cioè la forma reale dell’intuizione interna. Ha dunque realtà soggettiva rispetto all’esperienza interna, cioè: io ho realmente la rappresentazione del tempo e delle mie determinazioni in esso. Esso è dunque da considerare reale non

come oggetto, ma come la rappresentazione di me stesso come oggetto. Ma, se io stesso o un altro ente mi potesse percepire senza questa condizione della sensibilità, quelle stesse determinazioni appunto, che noi ora ci raffiguriamo come c a n g i a m e n t i , darebbero una conoscenza, nella quale la rappresentazione del tempo e con essa quella del cangiamento, non avrebbe più luogo. Resta dunque la sua realtà empirica come condizione di tutte le nostre esperienze. Solo la realtà assoluta, dopo ciò che abbiamo detto, non può essergli riconosciuta. Esso è nient’altro che la forma delle nostre intuizioni interne87. Se si toglie da esso la condizione speciale della nostra sensibilità, sparisce anche il concetto di tempo: esso non appartiene agli oggetti stessi, ma semplicemente al soggetto che li intuisce. Ma la causa, per cui tale obbiezione è fatta così concordemente, e da coloro che pur non trovano nulla di evidente da obbiettare contro la dottrina della idealità dello spazio, è questa. La realtà assoluta dello spazio essi non speravano di poterla dimostrare apoditticamente, poiché contro di loro sta l’idealismo, secondo il quale la realtà degli oggetti esterni non è suscettibile di prova rigorosa: laddove quella dell’oggetto del nostro senso interno (di me stesso e del mio stato) è chiara immediatamente per coscienza. Quelli potrebbero esser semplice apparenza; ma questo, a giudizio loro, è innegabilmente qualcosa di reale. Ma essi non han riflettuto che ambedue gli oggetti, senza che la loro realtà come rappresentazione possa esser contestata, non appartengono tuttavia se non al fenomeno, che ha sempre due lati: uno, se si considera l’oggetto in se stesso (astrazion fatta dal modo di intuirlo, ma la cui natura resta perciò sempre problematica); l’altro, se si guarda la forma dell’intuizione di questo oggetto; che non va cercata nell’oggetto in se stesso, ma nel soggetto al quale l’oggetto appare, e che, nondimeno, conviene realmente e necessariamente all’apparenza88 dell’oggetto. Tempo e spazio sono pertanto due fonti del conoscere, dalle quali possono essere attinte a priori varie conoscenze sintetiche, come segnatamente ce ne dà uno splendido esempio la matematica pura, rispetto alla conoscenza dello spazio e de’ suoi rapporti. Essi cioè sono, tutti due, forme pure di tutte le intuizioni sensibili; e così rendono possibili proposizioni sintetiche a priori. Ma queste fonti a priori della conoscenza, si determinano da sé proprio perciò (che sono semplicemente condizioni della sensibilità) i loro confini: cioè si riferiscono agli oggetti, solo in quanto questi sono considerati come fenomeni, ma non rappresentano cose in sè. Solo

quelli sono il campo della loro validità, fuori del quale, ove se ne esca, non c’è più uso oggettivo di esse. Questa realtà89 dello spazio e del tempo, del resto, ci lascia intatta la sicurezza della conoscenza sperimentale; perché noi ne siamo ugualmente certi, o che queste forme appartengono alle cose in sé, o solo alla nostra intuizione di queste cose in un modo necessario. Al contrario, coloro che affermano la realtà assoluta dello spazio e del tempo, la considerino come sussistente o soltanto come inerente, vengono di necessità a contraddire ai princìpi dell’esperienza. Giacché, se si risolvono per la prima ipotesi (ch’è comunemente il partito dei fisici matematici), devono ammettere due non-enti90 (spazio e tempo) come eterni ed infiniti, aventi una realtà per sé; che (pur non essendo niente di reale) esistono solo per contenere in sé tutto il reale. Se prendono il secondo partito (che è quello di alcuni fisici metafisici), e spazio e tempo valgono per loro come rapporti dei fenomeni (giustapposizione o successione), astratti dall’esperienza, benché confusamente rappresentati in tale astrazione: essi debbono negare alle teorie a priori della matematica rispetto alle cose reali (per es. nello spazio) la loro validità, o almeno la certezza apodittica, poiché quest’ultima non c’è punto a posteriori, e i concetti a priori di spazio e di tempo, secondo questa opinione, vengono ad essere solo creature dell’immaginazione; la fonte delle quali, in realtà, va cercata nell’esperienza, dai cui rapporti astratti l’immaginazione ha composto qualcosa, che contiene ciò che in essi v’è di generale, ma che non può esistere senza le limitazioni che la natura ha con essi congiunte. I primi ci fanno il guadagno di rendersi libero il terreno dei fenomeni per le affermazioni matematiche. Al contrario, si smarriscono per causa di queste stesse condizioni, quando l’intelletto vuol andare al di là di cotesto terreno. I secondi in confronto ci guadagnano di più, cioè non capitano loro incontro le rappresentazioni di spazio e tempo se vogliono giudicare degli oggetti non come fenomeni, ma solo in rapporto coll’intelletto; ma essi non possono né giustificare (poiché loro manca una intuizione a priori, vera ed oggettivamente valida) la possibilità di conoscenze matematiche a priori, e né anche mettere le proposizioni sperimentali in un accordo necessario con quelle affermazioni. Nella nostra teoria la vera natura di quelle due forme originarie del senso toglie di mezzo entrambe le difficoltà. Infine, che l’estetica trascendentale non possa contenere più di questi due elementi, spazio e tempo, è chiaro dal fatto che tutti gli altri concetti appartenenti alla sensibilità – anche quello del movimento, che implica l’uno

e l’altro, – suppongono qualcosa di empirico. Questo infatti presuppone la percezione di qualcosa mobile. Ma nello spazio, considerato in se stesso, non c’è nulla di mobile; perciò il mobile deve essere q u a l c o s a c h e n e l l o s p a z i o s i h a s o l o p e r m e z z o d e l l ’ e s p e r i e n z a ; e perciò un dato empirico. Parimenti, l’estetica trascendentale non può contare fra i suoi dati a priori il concetto del cangiamento; perché non il tempo stesso cangia, ma qualcosa che è nel tempo. A ciò dunque occorre la percezione di un qualunque esistente, e la successione delle sue determinazioni; quindi l’esperienza.

§8. Osservazioni generali sull’estetica trascendentale I. Sarà necessario prima di tutto spiegare, più chiaramente che ci sia possibile, quale sia il nostro pensiero sulla natura fondamentale della conoscenza sensibile in generale, per evitare intorno ad esso ogni equivoco91. Noi dunque abbiamo voluto dire, che ogni nostra intuizione non è se non la rappresentazione di un fenomeno; che le cose, che noi intuiamo, non sono in se stesse quello per cui92 noi le intuiamo, né i loro rapporti sono cosiffatti come ci appariscono, e che, se sopprimessimo il nostro soggetto, o anche solo la natura subbiettiva dei sensi in generale, tutta la natura, tutti i rapporti degli oggetti, nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il tempo sparirebbero, e come fenomeni non possono esistere in sé, ma soltanto in noi. Quel che ci possa essere negli oggetti in sé e separati dalla recettività dei nostri sensi ci rimane interamente ignoto. Noi non conosciamo se non il nostro modo di percepirli, che ci è peculiare, e che non è né anche necessario che appartenga ad ogni essere, sebbene appartenga a tutti gli uomini. Noi abbiamo da fare solamente con esso. Spazio e tempo sono le forme pure di esso; la sensazione, in generale, la materia. Quella possiamo conoscerla solo a priori, ossia prima di ogni reale percezione, e perciò la chiamiamo intuizione pura: questa invece è nella nostra conoscenza ciò che fa sì che la si dica conoscenza a posteriori, cioè intuizione e m p i r i c a . Quelli appartengono assolutamente alla nostra sensibilità, qualunque sia la specie delle nostre sensazioni; queste possono essere molto diverse. Anche se portassimo questa nostra intuizione al più alto grado della chiarezza, non ci

accosteremmo perciò di più alla natura degli oggetti in sé. Giacché in ogni caso noi non potremmo conoscere compiutamente se non il nostro modo di intuizione, cioè la nostra sensibilità, e questa sempre nelle condizioni originariamente inerenti al soggetto, di spazio e tempo; ma che cosa possano essere gli oggetti in se stessi, per illuminata che sia la conoscenza dei loro fenomeni, che soltanto ce n’è data, non ci sarebbe mai noto. La dottrina, quindi, che tutta la nostra sensibilità non sia altro che una rappresentazione confusa delle cose, la quale contenga unicamente ciò che appartiene ad esse in se stesse, ma soltanto in un ammasso di note e di rappresentazioni parziali, che noi non distinguiamo con la coscienza, è una falsificazione del concetto di sensibilità e di fenomeno, che ne rende tutta la dottrina inutile e vana. La differenza tra rappresentazione chiara ed oscura è semplicemente logica, e non concerne il contenuto. Senza dubbio, il concetto del diritto di cui si serve il buon senso contiene appunto quello che da esso può sviluppare la più sottile speculazione, salvo che nell’uso comune pratico non si ha coscienza di queste molteplici rappresentazioni contenute in tali pensieri. Ma non per ciò si può dire che il concetto comune sia sensibile, e contenga un semplice fenomeno, perocché il diritto non può esser punto un fenomeno93, ma il suo concetto sta nell’intelletto, e rappresenta una natura (morale) delle azioni, appartenente ad esse, in se stesse. Al contrario, la rappresentazione di un corpo non contiene nulla, nell’intuizione, che possa appartenere a un oggetto in se stesso, ma semplicemente il f e n o m e n o di qualche cosa e il modo onde noi ne siamo modificati, e questa recettività della nostra capacità conoscitiva si chiama sensibilità, e rimane, per quanto si possa scrutare quello (il fenomeno) fino in fondo, toto coelo distinta dalla conoscenza dell’oggetto in se stesso. La filosofia di Leibniz e di Wolff, dunque, ha assegnato a tutte le ricerche sulla natura e sull’origine delle nostre conoscenze un punto di vista affatto erroneo, in quanto considerava come puramente logica la differenza fra senso e intelletto, laddove essa invece è manifestamente trascendentale, e non riguarda semplicemente la forma della chiarezza o non chiarezza, ma l’origine e il contenuto di essi94; così che noi mediante il primo non è già che semplicemente conosciamo in modo oscuro la natura delle cose in sé, ma non la conosciamo punto; e, appena prescindiamo dalla nostra natura soggettiva, non si trova più, né può trovarsi, l’oggetto rappresentato con le proprietà che gli attribuiva l’intuizione sensibile, poiché appunto questa natura soggettiva

determina la forma di esso come fenomeno. Noi distinguiamo sempre, bensì, nei fenomeni ciò che essenzialmente appartiene alla loro intuizione, e vale per ogni senso umano in generale, da ciò che appartiene ad essa solo in modo accidentale, in quanto vale non in rapporto alla sensibilità in generale, ma per una particolare posizione od organizzazione di questo o di quel senso. E allora si dice che la prima conoscenza è quella che rappresenta l’oggetto in se stesso, la seconda invece quella che rappresenta solo il suo fenomeno. Questa distinzione è però soltanto empirica. Se ci si ferma ad essa (come comunemente accade) e non si considera da capo, come si dovrebbe, quella intuizione empirica come semplice fenomeno, in modo che non vi si trovi nulla che in qualche modo riguardi una cosa in se stessa, allora la nostra distinzione trascenderitale va tutta perduta, e noi abbiamo quindi l’illusione di conoscere cose in sé, quantunque dappertutto (nel mondo sensibile), malgrado le più profonde investigazioni dei suoi oggetti, non troviamo altro che fenomeni. Così noi chiameremo bensì l’arcobaleno semplice fenomeno della pioggia col sole, e questa pioggia cosa in sé; ciò che è anche esatto, in quanto intendiamo solo fisicamente quest’ultimo concetto, come quello che nell’universale esperienza, in tutte le posizioni differenti verso i sensi, è tuttavia determinato nell’intuizione così e non altrimenti. Ma se prendiamo questo fatto empirico in generale e, senza curarci dell’accordo di esso con ogni senso umano, domandiamo se questo anche rappresenti un oggetto in se stesso (non le gocce di pioggia, perché allora esse sono già, come fenomeni, oggetti empirici), la questione del rapporto della rappresentazione con l’oggetto è trascendentale, e non soltanto queste gocce sono semplici fenomeni, ma la loro stessa forma rotonda, e anzi lo spazio in cui cadono, ecc., non sono nulla in sé, bensì semplici modificazioni o fondamenti della nostra intuizione sensibile: ma l’oggetto trascendentale ci resta ignoto. La seconda cosa importante della nostra Estetica trascendentale è, che essa non merita d’essere accolta semplicemente come un’ipotesi verosimile, ma è tanto sicura e indubitabile, quanto mai si può richiedere che sia una teoria che deve servire di organo. Per rendere pienamente evidente questa sua certezza, scegliamo qualche caso, in cui il suo valore può saltare quasi agli occhi, e che può servire a dare maggior chiarezza a ciò che fu detto al paragrafo 3. Supposto pertanto che spazio e tempo sieno in se stessi oggettivi, e

condizioni della possibilità delle cose in sé, si ha, anzitutto, che da entrambi possono scaturire a priori in gran numero proposizioni apodittiche e sintetiche: in specie dallo spazio, che perciò prenderemo di preferenza ad esempio. Poiché le proposizioni della geometria possono venir conosciute sinteticamente a priori e con apodittica certezza, io domando: donde prendete tali proposizioni, e su che si appoggia il nostro intelletto, per giungere a tali verità assolutamente necessarie e valevoli universalmente? Non c’è altra via che o da concetti, o da intuizioni: ma queste e quelli o son dati a priori, o a posteriori. Gli ultimi, cioè concetti empirici, al pari di ciò su cui si fondano, ossia dell’intuizione empirica, non possono darci nessuna proposizione sintetica che non sia anche semplicemente empirica, cioè proposizione d’esperienza, che quindi non può mai contenere né quella necessità, né quella universalità assoluta, che costituiscono il carattere di tutte le proposizioni della geometria. Ma, per quel che sarebbe il primo e unico mezzo, ossia giungere ad esse per semplici concetti o per intuizione a priori, è chiaro, che da semplici concetti non c’è modo assolutamente di ottenere nessuna conoscenza sintetica, ma soltanto analitica. Prendete pure la proposizione: due linee rette non possono chiudere uno spazio, e con esse non è possibile nessuna figura; e cercate di dedurla dai concetti di retta e dal numero due. O anche: con tre linee rette è possibile una figura; e provatevi a far altrettanto semplicemente da questi concetti. Ogni vostro sforzo è vano, e vi vedrete obbligati a ricorrere all’intuizione, come fa sempre la geometria. Vi date dunque un oggetto nell’intuizione; di che specie è questa, intuizione pura a priori, o empirica? Se fosse empirica, non potrebbe mai uscirne una proposizione valida universalmente, e tanto meno una proposizione apodittica: perché l’esperienza non può mai produrne di questa specie. Dovete dunque dare a priori il vostro oggetto nella intuizione, e su di esso fondare la vostra proposizione sintetica. Ora, se non fosse in voi una facoltà di intuire a priori; se questa soggettiva condizione per la forma non fosse a un tempo l’universale condizione a priori, a cui soltanto è possibile l’oggetto di questa intuizione stessa (esterna); se l’oggetto (il triangolo) fosse qualcosa in sé, senza rapporto col vostro soggetto, come potreste dire che ciò che si trova necessariamente nelle vostre condizioni soggettive per costruire un triangolo, debba necessariamente convenire anche al triangolo in se stesso? Giacché ai vostri concetti (delle tre linee) non potreste aggiungere nulla di nuovo (la figura), che debba trovarsi necessariamente nell’oggetto, poiché questo è dato

prima della vostra conoscenza, e non in forza di essa. Se lo spazio dunque (e così pure il tempo) non fosse una semplice forma della vostra intuizione, contenente a priori le condizioni in cui soltanto le cose possono esser per voi oggetti esterni, che senza coteste condizioni soggettive in sé non sono niente; voi non potreste, nel modo più assoluto, stabilire nulla a priori, sinteticamente, intorno agli oggetti esterni. È dunque incontestabilmente certo, e non soltanto possibile o verosimile, che lo spazio e il tempo, come condizioni necessarie di ogni esperienza (esterna o interna), sono semplicemente condizioni soggettive di ogni nostra intuizione, in rapporto alla quale, quindi, tutti gli oggetti sono semplicemente fenomeni, e non cose date per sé in questo modo; di cui anche perciò, quanto alla forma, si può dir molto a priori, ma non mai il minimo della cosa in sé che può essere in fondo a questi fenomeni. II.95 A conferma di questa teoria dell’idealità così del senso esterno, come dell’interno, e perciò di tutti gli oggetti dei sensi in quanto semplici fenomeni, si può principalmente osservare, che tutto ciò che nella nostra conoscenza appartiene all’intuizione (esclusi, dunque, il sentimento di piacere e di dolore e il volere, che non sono punto conoscenze) non contiene altro che semplici rapporti: di luogo in una intuizione (estensione), cangiamento di luogo (movimento), e leggi secondo le quali questo cangiamento è determinato (forze motrici). Ma che cosa ci sia nel luogo, o che cosa operi nelle cose stesse, oltre il cangiamento di luogo, con ciò non ci viene dato. Ora con semplici rapporti non si conosce una cosa in sé; è dunque da ritenere che, dal momento che mediante il senso esterno non possono esserci date se non semplici rappresentazioni di rapporti, anch’esso nella sua rappresentazione non possa contenere altro che il rapporto di un oggetto col soggetto, e non l’interno dell’oggetto in se stesso. Altrettanto si dica dell’intuizione interna. Non soltanto le rappresentazioni del s e n s o e s t e r n o costituiscono la materia propria, onde noi arricchiamo il nostro spirito, ma il tempo in cui collochiamo queste rappresentazioni, che precede alla coscienza di queste nella esperienza e, come condizione formale, sta a fondamento del modo in cui noi le poniamo nello spirito, contiene già i rapporti della successione, della simultaneità e di ciò che è simultaneo con la successione (il permanente). Ora ciò che come rappresentazione può precedere ad ogni atto di pensar checchessia è l’intuizione; e se non contiene altro che rapporti, la forma dell’intuizione, la quale, non rappresentando nulla se non in quanto

qualcosa è posto nello spirito, non può dunque esser altro che la maniera colla quale lo spirito viene modificato dalla propria attività, cioè da questo porre la sua rappresentazione, cioè da se stesso; insomma, un senso interno, quanto alla sua forma. Tutto ciò che è rappresentato per mezzo d’un senso, è perciò stesso sempre fenomeno; e un senso interno, dunque, o non dovrebbe punto essere ammesso, o il soggetto, che è oggetto di esso, non potrebbe essere rappresentato per esso se non come fenomeno, non come esso giudicherebbe di se stesso se la sua intuizione fosse semplice spontaneità, cioè intellettuale. Qui tutta la difficoltà consiste in questo: come un soggetto possa intuire internamente se stesso; ma questa difficoltà è comune a tutte le teorie. La coscienza di se stesso (appercezione) è la semplice rappresentazione dell’Io; e, se tutto il molteplice nel soggetto ci fosse dato da essa s p o n t a n e a m e n t e , l’intuizione interna sarebbe intellettuale. Nell’uomo, questa coscienza richiede una percezione interna del molteplice datoci già nel soggetto; e la maniera, con la quale questo vario è dato nello spirito senza spontaneità, deve chiamarsi, in grazia di questa differenza, sensibilità. Se poi la facoltà della coscienza deve cercare (apprendere) ciò che è nello spirito, questo deve modificarla, e soltanto in questo modo può produrre un’intuizione di se stessi, la cui forma però, posta già a fondamento nello spirito, determina nella rappresentazione di tempo la maniera onde il molteplice è riunito nello spirito; poiché lo spirito intuisce se stesso, non come si rappresenterebbe immediatamente e spontaneamente, ma come internamente vien modificato; perciò come appare a sé, non come è. III. Quando io dico: nello spazio e nel tempo così l’intuizione degli oggetti esterni, come anche l’intuizione che lo spirito ha di se stesso rappresenta l’uno e l’altro oggetto così come essi modificano i nostri sensi, cioè come essi a p p a i o n o , ciò non vuol dire che questi oggetti siano una semplice parvenza. Giacché nel fenomeno gli oggetti, anzi le stesse qualità che ascriviamo a loro, sono considerate come qualcosa di effettivamente dato; e solo in quanto queste qualità dipendono esclusivamente dal modo di intuire del soggetto nella realazione dell’oggetto dato con esso, quest’oggetto è distinto, come f e n o m e n o , dallo stesso come o g g e t t o in sé. Perciò io non dico che i corpi p a i o n o semplicemente essermi esterni, o che l’anima mia pare semplicemente data nella mia autocoscienza, quando affermo che le qualità dello spazio e del tempo, secondo le quali, come condizione della loro esistenza, pongo e quelli e questa, sono nel mio modo da intuire, e non in

questi oggetti in sé. Sarebbe un errore il mio, se io facessi una pura parvenza di ciò che devo considerare come fenomeno96. Ma ciò non avviene secondo il nostro principio dell’idealità di tutte le nostre intuizioni sensibili; piuttosto, se a quelle forme rappresentative si attribuisse r e a l t à o g ge t t i v a , allora potrebbe essere inevitabile che tutto per questa via si convertisse in semplice parvenza. Giacché, se si considera lo spazio e il tempo come qualità che dovrebbero trovarsi, per la loro possibilità, nelle cose stesse, e si riflette un po’ alle assurdità in cui si resterebbe impigliati, poiché due cose infinite, non sostanze, e nemmeno inerenti realmente a sostanze, dovrebbero tuttavia essere un che di esistente, anzi condizione necessaria dell’esistenza di tutte le cose, e restare, quand’anche tutte le cose esistenti fossero soppresse; allora non si può fare un aggravio al buon Berkeley, se egli ridusse i corpi a una pura parvenza: anzi la nostra stessa esistenza, che in tal modo verrebbe a dipendere dalla realtà per sé stante di un non-ente, quale il tempo, così si diventerebbe una vana parvenza: assurdità, che finora nessuno s’è voluta addossare. IV. Nella teologia naturale, nella quale si pensa un oggetto che, non solo non può essere punto per noi oggetto d’intuizione, ma nemmeno a se stesso oggetto d’intuizione sensibile, si è badato con gran cura a togliere da ogni sua intuizione (giacché tale deve essere tutta la sua conoscenza, e non p e n s i e r o , che dimostra sempre dei limiti) le condizioni del tempo e dello spazio. Ma con qual diritto ciò si può fare, se l’uno e altro si son fatti forme delle cose in se stesse, e tali da rimanere a priori quali condizioni dell’esistenza delle cose, anche quando si fossero soppresse le cose? perché come condizioni di ogni esistenza in generale essi dovrebbero esserlo anche dell’esistenza di Dio. Se non si vogliono prendere per forme oggettive di tutte le cose, non resta che considerarli come forme soggettive della nostra intuizione, così esterna come interna, la quale è sensibile perché non è o r i g i n a r i a , ossia non è tale che già con essa sia data l’esistenza dell’oggetto della intuizione (e quale, per quanto noi arriviamo a intendere, può appartenere soltanto all’Essere supremo), ma è dipendente dall’esistenza dell’oggetto; ed è perciò possibile solo ad un patto: che la facoltà rappresentativa del soggetto sia modificata da esso. Non è né pur necessario che noi limitiamo il modo di intuire nello spazio e nel tempo alla sensibilità dell’uomo: può darsi che ogni essere pensante finito debba trovarsi nelle identiche condizioni dell’uomo (sebbene non

possiamo decider nulla di questo); ma non per questa sua universale validità tal modo d’intuire cesserebbe di appartenere alla sensibilità, appunto perché è derivato (intuitus derivativus), e non originario (intuitus originarius), e quindi non è una intuizione intellettuale, come quella che, per la ragione addotta, par convenire soltanto all’Ente primo, ma non mai ad un essere che è dipendente, e rispetto alla sua esistenza, e rispetto alla sua intuizione (che determina la sua esistenza, in rapporto ad oggetti dati); sebbene l’ultima osservazione sulla nostra teoria estetica debba soltanto essere tenuta in conto di chiarimento, e non di dimostrazione. CONCLUSIONE DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE Ormai noi abbiamo uno dei punti necessari alla soluzione del problema generale della filosofia trascendentale: c o m e s o n o p o s s i b i l i g i u d i z i s i n t e t i c i a p r i o r i ? cioè intuizioni pure a priori, spazio e tempo, in cui noi, se nel giudizio a priori vogliamo oltrepassare il concetto dato, troviamo quello che, non nel concetto, ma nella intuizione corrispondente può essere scoperto a priori e congiunto con esso sinteticamente. Ma tali giudizi, per questa ragione, non vanno più in là degli oggetti dei sensi, e possono valere soltanto per oggetti di un’esperienza possibile. 68

La divisione in paragrafi mancava nella 1a edizione. 69 «almeno per noi uomini» è aggiunta della 2a edizione. 70 «affiziere». 71 «mediante certe note» è un’aggiunta della 2a edizione. 72 Il testo ha Erscheinung = apparizione, o parvenza. Ma tanto l’uno quanto l’altro di questi termini dicono in italiano qualcosa di troppo più di particolare dell’Erscheinung di Kant, che è, come egli dice altrove, l’oggetto della percezione. Quindi preferiamo tradurlo con «fenomeno», adoperando egli infatti promiscuamente Erscheinung e Phaenomenon. 73 La 1a edizione: «viene intuito, ordinato in determinati rapporti». 74 I tedeschi sono i soli, che si servano al presente della parola e s t e t i c a per indicare ciò che gli altri chiamano critica del gusto. La ragione sta nella fallita speranza dell’eccellente analista B a u m g a r t e n , il quale credette di ridurre a princìpi razionali il giudizio critico del bello, e di elevarne le regole a scienza. Ma codesto sforzo è vano. Imperocché le dette regole e i criteri del gusto sono per le loro principali fonti*, empirici, e però non possono mai servire a determinare leggi a priori, sulle quali dovrebbe appoggiarsi il nostro giudizio del bello: piuttosto questo forma la pietra di paragone della validità di quelli. E perciò ragionevole o abbandonare di nuovo questa denominazione, e mantenerla a quella dottrina che è vera scienza (con che ci si avvicinerebbe anche alla lingua e al significato degli antichi, presso i quali famosa fu la divisione della conoscenza in αἰσθητὰ καὶ νοητὰ), oppure assegnare la parola sia alla filosofia speculativa sia all’estetica, prendendola ora in senso trascendentale, ora in senso psicologico** (N. d. K.). La parola E s t e t i c a , come nome della scienza del bello, venne per la prima volta usata dal Baumgarten nel 1735, nella dissertazione Meditationes philosophicae de nonnullis ad poëma

pertinentibus (ristampato da B. Croce, Napoli, 1900). * La attenuazione «principali» è della 2a edizione. ** Le parole «oppure mantenere... psicologico» sono una aggiunta della 2a edizione. 75 Titolo aggiunto nella 2a edizione. 76 L’ultimo periodo è una aggiunta della 2a edizione. 77 «e accanto», aggiunta della 2a edizione. 78 Seguivano qui nella 1a edizione alcune illustrazioni, rimaneggiate ed estese alquanto al principio del seguente numero 3, nella 2a edizione. Giova riferirle: «3. Su questa necessità a priori si fonda la certezza apodittica di tutti i princìpi geometrici e la possibilità delle loro costruzioni a priori. Se infatti questa rappresentazione dello spazio fosse un concetto ottenuto a posteriori, ricavato dalla generale esperienza esterna, i primi princìpi della determinazione matematica non sarebbero altro che percezioni. Avrebbero cioè tutta la contingenza della percezione, e non sarebbe perciò necessario che fra due punti ci sia solo u n a linea retta, ma dovrebbe insegnarcelo ogni volta di nuovo l’esperienza. Ciò che è derivato dall’esperienza, ha inoltre solo una universalità relativa, cioè per induzione. Si potrebbe dire soltanto: per quanto si è osservato sino ad ora, non si è trovato uno spazio che avesse più di tre dimensioni». Ai numeri seguenti 3 e 4, corrispondevano nella 1a edizione i numeri 4 e 5. 79 Cioè, a determinati spazi circoscritti. 80 Nella 1a edizione: «Lo spazio viene rappresentato dato come una grandezza infinita. Un concetto generale dello spazio (comune così a un piede come a un braccio) non si può determinare rispetto alla grandezza. Se non vi fosse l’illimitatezza nel progresso della intuizione, nessun concetto di relazione porterebbe con sé un principio della infinità di essa». 81 Aggiunta della 2a edizione. Tutto questo paragrafo è un rifacimento, in sunto, dei paragrafi 69 dei Prolegomeni. 82 Cioè alle altre rappresentazioni relative a qualcosa di esterno. 83 Invece degli ultimi periodi «Da nessun’altra... tanto meno a priori», la 1a edizione aveva: «Quindi, questa condizione soggettiva di tutti i fenomeni esterni non può essere paragonata con nessun’altra. Il buon sapore d’un vino non appartiene alle determinazioni oggettive di esso, e perciò di un oggetto considerato magari come fenomeno, ma alla speciale conformazione del senso nel soggetto che lo gusta. I colori non sono punto qualità dei corpi, alla cui intuizione aderiscono, ma soltanto modificazioni del senso della vista, che viene affetto dalla luce in un certo modo. Al contrario lo spazio, come condizione degli oggetti esterni, appartiene necessariamente al loro fenomeno o intuizione. Sapore e colori non son per nulla condizioni necessarie, in cui soltanto le cose possan diventare oggetti per noi dei sensi. Essi sono connessi col fenomeno solo come effetti, aggiuntisi accidentalmente, della nostra particolare organizzazione. Non sono perciò rappresentazioni a priori, anzi sono fondati nella sensazione, e il buon sapore financo sul sentimento (piacere, pena), come effetto della sensazione. Così pure nessuno può avere a priori né una rappresentazione di colore, né una rappresentazione di sapore; lo spazio invece riguarda soltanto la forma pura dell’intuizione, non comprende perciò in sé nessuna sensazione (nulla di empirico), e tutti i modi e le determinazioni dello spazio possono, anzi devono, poter essere rappresentate a priori, se debbono derivarne così i concetti delle forme come i loro rapporti. Soltanto per lo spazio è possibile che le cose sieno per noi oggetti esterni». 84 1a edizione: «(perché in questo caso le rappresentazioni parziali precedono), ma a suo fondamento deve trovarsi un’intuizione immediata». 85 Questo paragrafo è una aggiunta della 2a edizione. 86 Nel paragrafo precedente.

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Certo, io posso dire: le mie rappresentazioni si susseguono; ma ciò significa solamente: noi abbiamo coscienza di esse come in una serie temporale, cioè secondo la forma del senso interno. Il tempo perciò non è qualcosa in sé, e nemmeno come una determinazione inerente oggettivamente alle cose (N. d. K.). 88 Erscheinung. 89 Cioè, questo tipo di realtà solo empirico. Alcuni interpreti correggono in «idealità», ma senza bisogno (N. d. R.). 90 Undinge = non-cose. 91 Questo capoverso è un’aggiunta della 2a edizione. 92 «Wofür». 93 Erscheinen, apparire (= essere Erscheinung, cioè fenomeno). 94 «derselben»: possono anche essere «le conoscenze» (N. d. R.). 95 Ciò che segue, fino alla fine del capitolo, è aggiunta della seconda edizione. 96 I predicati del fenomeno possono essere attribuiti all’oggetto stesso in rapporto al nostro senso, per es.: alla rosa il color rosso o l’odore; ma all’oggetto non può mai esser dato il predicato della p a r v e n z a , appunto perché si verrebbe ad attribuire all’o g g e t t o p e r s é, ciò che gli può convenire solo in rapporto ai sensi o in generale al soggetto, per es.: i due anelli attribuiti una volta a Saturno. Fenomeno è ciò che non appartiene all’oggetto in se stesso, ma si trova sempre nel rapporto di esso col soggetto, ed è inseparabile dalla rappresentazione di questo; giustamente perciò i predicati dello spazio e del tempo sono attribuiti agli oggetti dei sensi come tali, e in ciò non v’è parvenza. Al contrario, se io attribuisco alla rosa in sé il color rosso, a Saturno gli anelli o a tutti gli oggetti esterni in sé l’estensione, senza guardare a un determinato rapporto di questi oggetti col soggetto e senza limitare ad esso il mio giudizio, allora nasce la p a r v e n z a (N. d. K.).

Parte Seconda Logica trascendentale

Introduzione Idea di una logica trascendentale I Della logica in generale La nostra conoscenza scaturisce da due fonti principali dello spirito, la prima delle quali è la facoltà di ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni), la seconda quella di conoscere un oggetto mediante queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti). Per la prima, un oggetto ci è d a t o ; per la seconda esso è p e n s a t o in rapporto con quella rappresentazione (come semplice determinazione dello spirito). Intuizione e concetti costituiscono, dunque, gli elementi di ogni nostra conoscenza; per modo che, né concetti, senza che a loro corrisponda in qualche modo una intuizione, né intuizione, senza concetti, possono darci una conoscenza. Entrambi sono puri o empirici. E m p i r i c i , quando contengano una sensazione (che suppone la presenza reale dell’oggetto); p u r i , invece, quando alla rappresentazione non sia mescolata alcuna sensazione. La sensazione si può dire materia della conoscenza sensibile. Quindi una intuizione pura contiene unicamente la forma in cui qualcosa è intuito, e un concetto puro solamente la forma del pensiero d’un oggetto in generale. Ma solo le intuizioni e i concetti puri e possibili sono a priori, gli empirici soltanto a posteriori. Se noi chiamiamo s e n s i b i l i t à l a r e c e t t i v i t à del nostro spirito a ricevere rappresentazioni, quando esso è in un qualunque modo modificato, l’i n t e l l e t t o è invece la facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero

la s p o n t a n e i t à della conoscenza. La nostra natura è cosiffatta che l’i n t u i z i o n e non può essere mai altrimenti che s e n s i b i l e , cioè non contiene se non il modo in cui siamo modificati dagli oggetti. Al contrario, la facoltà di p e n s a r e l’oggetto dell’intuizione sensibile è l’i n t e l l e t t o . Nessuna di queste due facoltà è da anteporre all’altra. Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. È quindi necessario tanto rendersi i concetti sensibili (cioè aggiungervi l’oggetto nell’intuizione), quanto rendersi intelligibili le intuizioni (cioè ridurle sotto concetti). Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare. La conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione. Ma non perciò si devono confondere le loro parti; ché, anzi, si ha grande ragione di separarle accuratamente e di tenerle distinte. Per questo noi distinguiamo la scienza delle leggi della sensibilità in generale, l’estetica, dalla scienza delle leggi dell’intelletto in generale, la logica. A sua volta la logica può esser presa da due punti di vista: o come logica dell’uso generale dell’intelletto, o come logica dell’uso speciale. La prima comprende le leggi assolutamente necessarie del pensiero, senza le quali non esiste punto uso dell’intelletto; e riguarda perciò l’intelletto, astraendo dalla diversità degli oggetti ai quali può rivolgersi. La logica dell’uso speciale dell’intelletto, invece, comprende le leggi per pensare rettamente una specie determinata di oggetti. Quella si può chiamare logica elementare, questa invece organo di tale o tal’altra scienza. La seconda è fatta precedere per lo più nelle scuole a mo’ di propedeutica delle scienze; sebbene, a seguire il cammino dell’umana ragione, essi segna in realtà l’ultimo termine, al quale essa arriva quando la scienza è già da lungo tempo bella e fatta, e non le occorre se non l’ultima mano per essere rettificata e completata. Giacché, se si vogliono dare le leggi secondo le quali una scienza può essere fondata, bisogna aver conoscenza degli oggetti in grado già piuttosto elevato. La logica generale, poi, è o pura o applicata. Nella prima facciamo astrazione da tutte le condizioni empiriche nelle quali il nostro intelletto viene esercitato, per esempio dall’azione dei sensi, dal giuoco dell’immaginazione, dalle leggi della memoria, dalla forza delle abitudini, dall’inclinazione, ecc.; quindi anche dalle cause di pregiudizio, e in generale da tutto ciò, che dà o si può supporre che dia origine a determinate conoscenze, giacché tutto questo

riguarda semplicemente l’intelletto in peculiari circostanze della sua applicazione, per la conoscenza delle quali si richiede l’esperienza. U n a l o g i c a g e n e r a l e , ma pura ha da fare dunque soltanto con meri princìpi a priori, ed è un c a n o n e d e l l ’ i n t e l l e t t o e della ragione, ma soltanto rispetto a ciò che vi è di formale nel loro uso, sia qualsivoglia il contenuto (empirico o trascendentale). Ma una l o g i c a g e n e r a l e allora si chiama a p p l i c a t a , quando mira alle leggi dell’uso dell’intelletto nelle condizioni soggettive empiriche, che ci insegna la psicologia. Essa dunque ha princìpi empirici, sebbene sia generale in quanto concerne l’uso dell’intelletto senza distinzione di oggetti. Per la qual cosa essa non è né un canone dell’intelletto in generale, né un organo di scienze speciali, ma soltanto un c a t a r t i c o del comune intelletto. Ond’è che, nella logica generale, quella parte che deve costituire la dottrina pura della ragione occorre sia interamente distinta da quella che costituisce la logica applicata (ancorché questa sia sempre generale). La prima soltanto è, a rigore, propriamente scienza, benché breve ed arida, e quale esige l’esposizione scolastica di una dottrina elementare dell’intelletto. In essa dunque i logici debbono sempre aver innanzi agli occhi queste due regole: 1) che essa, come logica generale, astrae da ogni contenuto della conoscenza intellettuale e dalla diversità dei suoi oggetti, e non tratta se non della semplice forma del pensiero; 2) che, come logica pura, non ha princìpi empirici, e perciò non trae (come talora si è creduto) nulla dalla psicologia, la quale perciò non ha, assolutamente, nessuna influenza sul canone dell’intelletto. Essa è una dottrina dimostrata, e tutto in essa deve essere certo interamente a priori. Quanto a ciò che io chiamo logica applicata (contro il comune significato di questa parola, seconda il quale essa deve contenere certi esercizi, a cui fornisce la legge la logica pura), essa è una rappresentazione dell’intelletto e delle leggi del suo uso necessario in concreto, cioè nelle condizioni accidentali del soggetto, che possono impedire o promuovere quest’uso, e che possono essere date soltanto empiricamente. Essa tratta dell’attenzione, dei suoi ostacoli e dei suoi effetti, dell’origine dell’errore, dello stato di dubbio, di scrupolo, di convinzione, e così via; e la logica generale e pura sta a lei, come la morale pura, la quale contiene semplicemente le leggi morali necessarie di una volontà libera in generale, sta alla dottrina della virtù

propriamente detta, la quale considera queste leggi in contrasto con gli ostacoli dei sentimenti, delle inclinazioni, delle passioni, a cui gli uomini sono più o meno sottoposti, e che non può mai formare una scienza vera e dimostrata, poiché ha bisogno appunto, al pari della logica applicata, di princìpi empirici e psicologici.

II Della logica trascendentale La logica generale, come abbiamo avvertito, astrae da ogni contenuto della conoscenza, cioè da ogni rapporto di questa conoscenza con l’oggetto, e considera soltanto la forma logica nel rapporto delle conoscenze fra di loro, cioè la forma del pensiero in generale. Ma, poiché vi sono tanto intuizioni pure quanto intuizioni empiriche (come mostra l’estetica trascendentale), così potrebbe anche esserci benissimo una distinzione fra pensiero puro e pensiero empirico degli oggetti. Nel qual caso si darebbe una logica, nella quale non si farebbe astrazione da ogni contenuto della conoscenza; perché quella che contenesse semplicemente le leggi del pensiero puro d’un oggetto, escluderebbe tutte quelle conoscenze che fossero di contenuto empirico. Essa tratterebbe altresì dell’origine delle nostre conoscenze degli oggetti, in quanto questa origine non possa essere attribuita agli oggetti, mentre la logica generale non ha nulla da vedere con questa origine della conoscenza, ma considera le rappresentazioni, siano esse originariamente in noi a priori, o date soltanto empiricamente, attenendosi semplicemente alle leggi, secondo le quali l’intelletto, quando pensa, le adopera le une in rapporto con le altre; essa, perciò, non considera se non la forma intellettuale che si può dare alle rappresentazioni, da qualunque parte esse possano provenire. E qui io fo un’osservazione, che riguarda tutte le considerazioni che seguiranno, e che converrà aver sempre innanzi agli occhi: non bisogna, cioè, chiamare trascendentale ogni conoscenza a priori, ma soltanto quella onde conosciamo che, e come, certe rappresentazioni (intuizioni e concetti) vengono applicate o sono possibili esclusivamente a priori: cioè, la possibilità della conoscenza, o l’uso di essa a priori. Quindi né lo spazio, né una qualunque determinazione geometrica a priori di esso sono rappresentazioni trascendentali: ma soltanto la conoscenza dell’origine non empirica di queste

rappresentazioni, e la possibilità che hanno tuttavia di riferirsi a priori agli oggetti dell’esperienza, può dirsi trascendentale. Così, l’uso delle spazio a proposito di oggetti in generale sarebbe pure trascendentale; ma, se esso è unicamente limitato agli oggetti dei sensi, allora esso si dice empirico. La distinzione dunque del trascendentale dall’empirico appartiene alla critica delle conoscenze, e non riguarda il rapporto di queste col loro oggetto. Nell’aspettazione, dunque, che si dieno forse concetti che si possano riferire a priori ad oggetti, non come intuizioni pure o sensibili, ma semplicemente come funzioni del pensiero puro, e quindi come concetti, ma non di origine empirica né estetica, noi ci formiamo anticipatamente l’idea di una scienza dell’intelletto puro e della conoscenza razionale, onde pensiamo certi oggetti completamente a priori. Una scienza siffatta, che determini l’origine, l’estensione e la validità oggettiva di tali conoscenze, si deve chiamare l o g i c a t r a s c e n d e n t a l e, poiché essa riguarda semplicemente le leggi dell’intelletto e della ragione, ma solo in quanto si riferisce97 ad oggetti a priori, e non, come la logica generale, a conoscenze tanto empiriche quanto pure, senza distinzione.

III Della divisione della logica generale in analitica e dialettica L’antica e famosa questione con la quale si credeva di mettere in imbarazzo i logici, e si cercava di portarli a tale da lasciarsi cogliere in una misera d i a l l e l e , o da dover riconoscere la propria ignoranza, e perciò la vanità di tutta quanta la loro arte, è questa: c h e c o s a è l a v e r i t à? La definizione nominale della verità, come accordo della conoscenza col suo oggetto, è qui ammessa e presupposta; ma si desidera sapere qual sia mai il criterio generale e sicuro della verità in ciascuna conoscenza. È già una grande e necessaria prova di saggezza e di acume il sapere che cosa ci si debba ragionevolmente domandare. Giacché, se la domanda in sé è assurda, e vuol risposte inutili, presenta, oltre alla vergogna di colui che la solleva, anche l’inconveniente di spingere l’incauto uditore a risposte inconcludenti, e di dare così il ridicolo spettacolo che uno, dicevano gli antichi, munge il becco, e l’altro tiene sotto uno staccio.

Se la verità consiste nell’accordo di una conoscenza col suo oggetto, bisogna per ciò stesso che questo oggetto sia distinto dagli altri; giacché una conoscenza è falsa, se non s’accorda coll’oggetto al quale si riferisce, benché tuttavia contenga qualche cosa che potrebbe bene valere per altri oggetti. Ora, un criterio generale della verità sarebbe quello che fosse valido per tutte le conoscenze, senza distinzione dei loro oggetti. Ma è chiaro che, se si fa astrazione in esso da ogni contenuto della conoscenza (rapporto col suo oggetto), poiché la verità riguarda appunto questo contenuto, riesce assolutamente impossibile e privo di senso andare in cerca di una nota della verità per tale contenuto della conoscenza; ed è chiaro, perciò, che è impossibile dare un carattere distintivo sufficiente e a un tempo universale della verità. Come noi più sopra abbiamo già chiamato il contenuto di una conoscenza materia di essa, così si dovrà dire: non si può chiedere un carattere generale della verità della conoscenza quanto alla sua materia, perché ciò è in se stesso contraddittorio. Ma, per ciò che riguarda la conoscenza quanto alla semplice forma (mettendo da parte ogni contenuto), è altrettanto chiaro che una logica, in quanto espone le leggi generali e necessarie dell’intelletto, deve appunto in queste leggi fornire criteri della verità. Infatti, ciò che contraddice ad esse è falso, perché l’intelletto allora contrasta con le proprie leggi generali del pensiero, e perciò con se stesso. Ma questi criteri riguardano soltanto la forma della verità, cioè del pensiero in generale, e sono perciò verissimi, ma non tuttavia sufficienti. Giacché una conoscenza potrebbe esser benissimo conforme alla forma logica, cioè non contraddittoria in se stessa, tuttavia essere sempre in contraddizione con l’oggetto. Dunque, il criterio semplicemente logico della verità, cioè l’accordo di una conoscenza con le leggi generali e formali dell’intelletto e della ragione, è bensì la conditio sine qua non, quindi la condizione negativa di ogni verità; ma la logica non può andare più oltre, e non ha pietra di paragone con cui possa scoprire l’errore che tocchi non la forma, ma il contenuto. La logica generale risolve dunque l’intera opera formale dell’intelletto e della ragione nei suoi elementi, ed espone questi elementi come princìpi di ogni valutazione logica della nostra conoscenza. Questa parte della logica si può quindi chiamare analitica, ed è appunto per ciò la pietra di paragone, almeno negativa, della verità; poiché bisogna anzi tutto esaminare e valutare le conoscenze secondo la loro forma alla luce di queste regole, prima di

scrutarle nel loro contenuto, per vedere se contengano una verità positiva in rapporto con l’oggetto. Ma, poiché la sola forma della conoscenza, per quanto si accordi con le leggi logiche, è ben lungi dall’esser sufficiente a stabilire la verità materiale (oggettiva) della conoscenza, così, nessuno, col semplice aiuto della logica, può arrischiarsi a giudicare e ad affermare checchessia degli oggetti senza aver prima raccolto, al di là della logica, una fondata informazione intorno ad essi, per tentarne poi secondo leggi logiche, semplicemente l’utilizzazione e la connessione in un tutto coerente, o, meglio ancora, per farne unicamente la prova secondo esse. C’è tuttavia qualcosa di così attraente nel possesso di un’arte tanto appariscente, qual è quella di dare a tutte le nostre conoscenze la forma dell’intelletto, – sebbene in relazione al loro contenuto si possa tuttavia restar vuotissimi e poverissimi, – che quella logica generale, la quale è semplicemente un c a n o n e di valutazione, viene impiegata altresì come o r g a n o di effettiva produzione almeno dell’apparenza di affermazioni oggettive; e quindi, in realtà, l’uso che se n’è fatto, è stato, in realtà, abusivo. Ora, la logica generale, come preteso organo si chiama d i a l e t t i c a . Per vario che sia il significato, in cui gli antichi usarono questa denominazione di una scienza od arte, si può tuttavia desumere con sicurezza, dall’uso che di fatto ne fecero, che la dialettica, per loro, altro non fosse che la l o g i c a d e l l ’ a p p a r e n z a. Arte sofistica di dare alla propria ignoranza, anzi alle proprie volontarie illusioni, la tinta della verità, imitando il metodo del pensare fondato (Gründlichkeit) che prescrive la logica generale, e servendosi della sua topica per colorire ogni vuoto modo di procedere. Ora, come un avvertimento sicuro e utile, si può osservare che la logica generale, c o n s i d e r a t a come o r g a n o , è sempre logica dell’apparenza, cioè dialettica. Infatti, poiché essa non ci insegna nulla circa il contenuto della conoscenza, ma semplicemente le condizioni formali dell’accordo con l’intelletto; le quali del resto, rispetto agli oggetti, sono assolutamente indifferenti; così, la pretesa di servirsene come di strumento (organo) per allargare ed estendere, almeno secondo si pretende, le conoscenze non può riuscire se non a una vuota ciancia, onde si affermi con qualche apparenza, o s’impugni a capriccio ciò che si vuole. Un tale insegnamento non si addice in nessun modo alla dignità della filosofia. E perciò si è attribuito questo nome di dialettica alla logica piuttosto come una critica dell’apparenza dialettica, e come tale lo vogliamo anche

inteso.

IV Divisione della logica trascendentale in A n a l i t i c a e D i a l e t t i c a trascendentale In una logica trascendentale noi isoliamo l’intelletto (come sopra, nell’Estetica trascendentale, la sensibilità), e rileviamo, di tutta la nostra conoscenza, soltanto la parte del pensiero, che ha la sua origine unicamente nell’intelletto. Ma l’uso di questa conoscenza pura si fonda su ciò, come sua condizione: che ci vengano dati nell’intuizione oggetti, ai quali possa essere applicata. Giacché senza intuizione ad ogni nostra conoscenza manca l’oggetto, ed essa allora rimane affatto vuota. La parte, dunque, della logica trascendentale che espone gli elementi della conoscenza pura dell’intelletto e i princìpi senza i quali nessun oggetto può assolutamente essere pensato, è l’analitica trascendentale, e insieme una logica della verità. Infatti, nessuna conoscenza può contraddire ad essa senza perdere insieme ogni contenuto, cioè ogni rapporto a un oggetto qualsiasi, e quindi ogni verità. Ma, poiché è molto seducente e pieno di attrattiva servirsi di queste conoscenze intellettuali e princìpi puri da soli, e anche oltre i limiti dell’esperienza, la quale solamente, per altro, può fornirci la materia (gli oggetti) a cui quei concetti puri dell’intelletto possono essere applicati; così l’intelletto corre il rischio di fare, con vani sofismi, un uso materiale di quelli che sono soltanto princìpi formali dell’intelletto puro, e di giudicare indifferentemente di oggetti, che non ci sono punto dati, anzi probabilmente non possono esserci dati in alcun modo. Poiché dunque essa propriamente non può essere altro che un canone di giudizio nell’uso empirico, se ne abusa se la si fa valere come organo di uso generale ed illimitato, e ci si arrischia, col solo intelletto puro, a pronunziar giudizi sintetici, ad affermare e a decidere sopra oggetti in generale. L’uso infatti dell’intelletto puro sarebbe in tal caso d i a l e t t i c o 98. La seconda parte della logica trascendentale, perciò, deve essere una critica di questa apparenza dialettica, e si chiama dialettica trascendentale, non quasi un’arte di suscitare dommaticamente una tale apparenza (arte, purtroppo corrente, di svariate ciurmerie metafisiche), ma come critica dell’intelletto e della ragione rispetto al loro uso iperfisico99, a fine di svelare l’apparenza

fallace delle sue infondate presunzioni, e ridurre le sue pretese di scoperta e ampliamento di conoscenze, che essa si illude di ottenere mercé princìpi trascendentali, al semplice giudicamento dell’intelletto puro e al suo preservamento dalle illusioni sofistiche. 97

Il soggetto è «la logica», e per questo il verbo è al singolare; ma è accettabile l’interpretazione dell’Erdmann, che intende «le leggi», e quindi volge il verbo al plurale (N. d. R.). 98 Questa parola, come già s’è visto, è adoperata da Kant in significato dispregiativo, quando non è accompagnata da nessun chiarimento che gliene dia uno migliore. La dialettica vale «presunto organo del conoscere», come in questo passo: «logica dell’apparenza», accostata alla «sofistica» degli antichi (cfr. Introd. alla seconda parte della l o g i c a t r a s c e n d e n t a l e), chiamata «infeconda», «rifiutata dalla ragione critica» (paragrafo 4 del cap. 1° della Dottrina del metodo). In miglior senso, ma sempre come umana deficienza, è presa in molti altri passi: «c o n n a t u r a t a e i r r i m e d i a b i l e i l l u s i o n e » (nella Introduzione citata). 99 Ossia, che procede oltre la natura, al sovrannaturale; come è proprio, secondo Kant, della ragione.

I Analitica trascendentale

Questa analitica è la risoluzione di tutta la nostra conoscenza a priori negli elementi della conoscenza pura intellettuale. E qui bisogna por mente ai punti seguenti: 1) che i concetti sieno concetti puri, e non empirici; 2) che appartengano non all’intuizione e alla sensibilità, ma al pensiero e all’intelletto; 3) che sieno concetti elementari, ben distinti dai derivati e da quelli risultanti da essi per composizione; 4) che la loro tavola sia completa, e abbracci interamente tutto il dominio dell’intelletto puro. Or questa compiutezza d’una scienza data non può ottenersi con sicurezza col calcolo all’ingrosso di un aggregato messo insieme per tentativi; quindi essa è possibile soltanto mediante una i d e a d e l l a t o t a l i t à della conoscenza intellettuale a priori e per mezzo della divisione dei concetti che la costituiscono, determinata in base a cotesta idea, e quindi per mezzo della loro c o n n e s s i o n e s i s t e m a t i c a. L’intelletto puro si distingue assolutamente, non solo da ogni elemento empirico, ma anche da ogni sensibilità. È dunque un’unità per sé stante, sufficiente a se stessa, e non suscettibile di aumento per aggiunte dall’esterno. L’insieme quindi della sua conoscenza formerà un sistema, da essere compreso e determinato sotto una sola idea, e la cui compiutezza e articolazione possono fornire a un tempo una pietra di paragone per provare l’esattezza e il valore di tutte le parti di conoscenza che vi rientrano. Tutta questa parte della logica trascendentale consta di due l i b r i , uno dei quali comprende i c o n c e t t i , e l’altro i p r i n c ì p i dell’intelletto puro.

Libro Primo Analitica dei concetti

Intendo per analitica dei concetti non l’analisi di essi o il procedimento, ordinario nelle ricerche filosofiche, di scomporre, pel loro contenuto, i concetti che si presentano, e metterli in chiaro; ma la scomposizione, ancora poco tentata, della s t e s s a f a c o l t à i nt e l l e t t i v a , per ricercare la possibilità dei concetti a priori grazie al fatto di andarli a cercare solo nell’intelletto, come nel loro luogo di origine, e di analizzarne l’uso puro in generale; poiché è questo l’ufficio proprio d’una filosofia trascendentale; e il resto è trattazione logica dei concetti nella filosofia in generale. Noi dunque seguiremo i concetti puri fino ai loro primi germi e alle loro prime virtualità nell’umano intelletto, dove essi giacciono pronti, fino a che da ultimo, svoltisi in occasione dell’esperienza, e per opera dell’intelletto stesso liberati dalle condizioni empiriche che vi aderivano, si manifestano in tutta la loro genuina natura.

Capitolo Primo DEL FILO CONDUTTORE PER LA SCOPERTA DI TUTTI I CONCETTI PURI DELL’INTELLETTO

Quando si adopera una facoltà conoscitiva, ci si forma, secondo le varie circostanze, diversi concetti, i quali rendono possibile la conoscenza di questa facoltà, e si possono raccogliere in un trattato più o meno ampio secondo che l’osservazione di essi sia stata proseguita per più o meno tempo, e con maggiore o minore penetrazione. Quando una tale indagine sia per essere compiuta, con cotesto metodo quasi meccanico non si può mai determinare con sicurezza. Inoltre, i concetti che si trovano in questo modo occasionalmente, non si scoprono in un ordine e in una sistematica unità, ma solo alla fine vengono raggruppati a seconda delle somiglianze, e disposti, a seconda della grandezza del loro contenuto, dai semplici ai più complessi, in serie tutt’altro che sistematiche, sebbene sieno state in certo modo messe insieme metodicamente. La filosofia trascendentale ha il vantaggio, ma anche l’obbligo, di ricercare i suoi concetti colla guida d’un principio, poiché essi rampollano puri e sensa mescolanza dall’intelletto come assoluta unità, e debbono perciò concatenarsi fra di loro secondo un concetto o un’idea. Una tale connessione, pertanto, ci fornisce una regola secondo la quale è possibile a ciascun concetto puro dell’intelletto assegnare a priori il suo posto, e dar compiutezza al loro insieme; ciò che verrebbe altrimenti a dipendere tutto dal capriccio o dal caso.

Sezione Prima DELL’USO LOGICO DELL’INTELLETTO IN GENERALE L’intelletto è stato sopra definito soltanto negativamente, come facoltà di

conoscere non sensitiva. Ora noi non possiamo avere nessuna intuizione indipendentemente dalla sensibilità. L’intelletto, dunque, non è una facoltà dell’intuizione. Ma, oltre l’intuizione, non c’è altra maniera di conoscere che per concetti. Perciò la conoscenza propria di ogni intelletto, almeno dell’intelletto umano, è una conoscenza per concetti: non intuitiva, ma discorsiva. Tutte le intuizioni, in quanto sensibili, riposano su affezioni; i concetti, dunque, su funzioni. Ma io intendo per funzione l’unità dell’atto che ordina diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune. I concetti dunque si fondano sulla spontaneità del pensiero, come le intuizioni sensibili sulla recettività delle impressioni. Ora di questi concetti l’intelletto non può far altro uso se non in quanto per mezzo di essi giudica. Poiché nessuna rappresentazione, tranne la sola intuizione, si riferisce immediatamente all’oggetto, così un concetto non si riferisce mai immediatamente ad un oggetto, ma a qualche altra rappresentazione di esso (sia essa intuizione o anche già concetto). Il giudizio dunque è la conoscenza mediata di un oggetto, e però la rappresentazione di una rappresentazione del medesimo. In ogni giudizio c’è un concetto che si conviene a molti, e che tra questi molti comprende anche una rappresentazione data, la quale ultima vien riferita immediatamente all’oggetto. Così, per es., nel giudizio: t u t t i i c o r p i s o n o d i v i s i b i l i, il concetto del divisibile si riferisce a diversi altri concetti; ma, fra questi, qui viene particolarmente riferito al concetto del corpo, il quale, per altro, si riferisce a certi fenomeni che si presentano a noi. Così dunque questi oggetti vengono rappresentati per mezzo del concetto della divisibilità, mediatamente. Per tanto tutti i giudizi sono funzioni dell’unità tra le nostre rappresentazioni, poiché, invece di una rappresentazione immediata, per la conoscenza dell’oggetto è adoperata un’altra rappresentazione d’ordine più elevato, che raccoglie sotto di sé quella e molte altre; e molte conoscenze possibili vengono in tal modo raccolte in una. Ma noi possiamo ricondurre a giudizi tutti gli atti dell’intelletto, in modo che l’i n t e l l e t t o , in generale, può essere rappresentato come una f a c o l t à d i g i u d i c a r e. Esso infatti, secondo ciò che s’è detto sopra, è una facoltà di pensare. Pensare è la conoscenza per concetti. Ma i concetti si riferiscono, come predicati di giudizi possibili, a qualche rappresentazione di un oggetto ancora indeterminato. Così il concetto di corpo significa qualche cosa, per es., un metallo, che può essere conosciuto mediante quel concetto. È dunque concetto solo a patto che sieno sotto di

esso raccolte altre rappresentazioni, mediante le quali può riferirsi agli oggetti. Esso è, insomma, il predicato di un giudizio possibile, per es., ogni metallo è un corpo. Le funzioni dell’intelletto possono dunque esser trovate tutte quante, se si può esporre completamente le funzioni dell’unità nei giudizi. Ma che ciò si possa benissimo ottenere, sarà mostrato dalla sezione seguente.

Sezione seconda §9. Della funzione logica dell’intelletto nei giudizi Se noi facciamo astrazione da tutto il contenuto d’un giudizio in generale, e badiamo soltanto alla semplice forma dell’intelletto, troviamo che in esso la funzione del pensiero può ridursi sotto quattro titoli, ciascuno dei quali comprende sotto di sé tre momenti. Essi si possono acconciamente rappresentare nella seguente tavola: 1. Q u a n t i t à d e i g i u d i z i. Universali Particolari Singolari. 2. Qualità. Affermativi Negativi Infiniti.

3. Relazione. Categorici Ipotetici Disgiuntivi.

4. Modalità. Problematici Assertori Apodittici.

Poiché questa divisione pare che in alcuni punti, per verità non essenziali, si allontani dalla tecnica solita dei logici, gli avvertimenti che seguono non saranno superflui, contro il fraintendimento che può temersi. 1. I logici dicono con ragione che, nell’uso dei giudizi nei ragionamenti, i

giudizi singolari si possono trattare come gli universali. Infatti, appunto perché non hanno estensione, il loro predicato non può essere riferito soltanto ad una delle cose che sono raccolte sotto il concetto del soggetto, ma escluso dalle altre. Esso dunque vale di quel concetto senza eccezione, come se fosse un concetto universale, avente una estensione per il cui significato tutto intero il predicato avesse valore. Se confrontiamo al contrario un giudizio singolare con un giudizio universale semplicemente come conoscenza, rispetto alla quantità, esso sta con questo nel rapporto dell’unità con l’infinità, e ne è perciò in se stesso essenzialmente diverso. Dunque, se io valuto un giudizio singolare (iudicium singulare), non solo secondo la sua validità interna, ma anche come conoscenza in generale, rispetto alla quantità che esso ha in confronto con altre conoscenze, allora esso è totalmente diverso dai giudizi universali (iudicia communia), e merita in una tavola completa dei momenti del pensiero in generale un posto a sé (sebbene certamente, non trovi posto nella logica limitata esclusivamente all’uso dei giudizi nelle loro reciproche relazioni). 2. Bisogna pure distinguere, in una logica trascendentale, i g i u d i z i i n f i n i t i d a g l i a f f e r m a t i v i , sebbene, nella logica generale, sieno con ragione messi insieme con questi, e non costituiscono un membro particolare della divisione. Questa infatti astrae da ogni contenuto del predicato (anche quando è negativo), e considera soltanto se esso viene attribuito al soggetto o contrapposto ad esso. Quella invece considera il giudizio anche secondo il valore o contenuto di questa affermazione logica mediante un predicato semplicemente negativo, e quale guadagno essa procura rispetto all’insieme del conoscere. Se io dicessi dell’anima che non è mortale, eviterei almeno un errore con un giudizio negativo. Laddove, in quest’altra proposizione: «l’anima è non mortale», io ho realmente affermato quanto alla forma logica, ponendo l’anima nell’ambito illimitato degli esseri che non muoiono. Ora, poiché il mortale forma una parte, e il non-mortale l’altra di tutta l’estensione degli esseri possibili, io non ho detto altro con la mia proposizione, se non che l’anima fa parte del numero infinito delle cose che restano, quando io ho sottratto interamente il mortale. Con ciò la sfera infinita di tutto il possibile non è limitata se non nel senso che tutto ciò che è mortale ne è stato separato, e l’anima vien posta nel restante spazio della sua estensione. Ma questo spazio, pur dopo tale sottrazione, rimane sempre infinito; e noi possiamo toglierne ancora molte altre parti, senza che il concetto dell’anima ne

guadagni per nulla, o venga positivamente determinato. Questi giudizi, infiniti rispetto all’estensione logica, sono dunque realmente soltanto limitativi rispetto al contenuto della conoscenza in generale; e perciò non devono essere trascurati nel quadro trascendentale di tutti i momenti del pensiero nei giudizi, poiché la funzione dell’intelletto qui esercitata può essere importante probabilmente nel campo della sua conoscenza pura a priori. 3. Tutte le relazioni del pensiero nei giudizi sono: a) del predicato col soggetto; b) del principio con la conseguenza; c) della conoscenza divisa e di tutti i membri della divisione fra loro. Nella prima specie di giudizi sono considerati nel loro rapporto reciproco soltanto due concetti; nella seconda, due giudizi; nella terza, più giudizi. La proposizione ipotetica: «se c’è una giustizia perfetta, chi persiste nel male è punito», contiene in realtà il rapporto di due proporzioni: «c’è una giustizia perfetta» e «chi persiste nel male è punito». Se le due proposizioni sieno vere in sé, qui rimane indeciso: solo il loro nesso vien pensato per mezzo di questo giudizio. Finalmente, il giudizio disgiuntivo contiene un rapporto di due o più proposizioni tra loro, ma non un rapporto di derivazione dell’una dall’altra, bensì di opposizione logica, in quanto la sfera dell’uno esclude quella dell’altro; ma contiene altresì un rapporto di comunanza, in quanto quelle proposizioni riunite insieme occupano tutta la sfera di quella tal conoscenza; e però contiene un rapporto fra le parti della sfera d’una conoscenza, giacché la sfera di ogni parte serve di complemento a quella dell’altra per formare tutto l’insieme della conoscenza di cui è parola; per es., «il mondo esiste o per opera del cieco caso, o per interna necessità, o per una causa esterna». Ognuna di queste proposizioni occupa una parte della sfera della conoscenza possibile intorno all’esistenza di un mondo in generale, tutte quante costituiscono la sfera totale. Escludere la conoscenza da una di queste sfere significa porla in una delle rimanenti; e porla invece in una sola sfera, significa toglierla dalle altre. C’è dunque in un giudizio disgiuntivo una certa comunanza delle conoscenze, che consiste nel fatto che le proposizioni che lo costituiscono si escludono vicendevolmente, ma, così facendo, determinano tuttavia nell’i n s i e m e la vera conoscenza, costituendo, prese tutte insieme, il contenuto totale di un’unica conoscenza data. E questo solo è ciò che io credo necessario di avvertire qui, per rispetto a quel che segue. 4. La modalità dei giudizi è una loro funzione tutta particolare, che ha

questo carattere distintivo: che non contribuisce per niente al contenuto del giudizio (giacché, oltre la quantità, la qualità e la relazione, non c’è più altro che formi il contenuto del giudizio), ma tocca solo il valore della copula rispetto al pensiero in generale. Giudizi p r o b l e m a t i c i sono quelli in cui l’affermare, o il negare, si ammette come semplicemente p o s s i b i l e (arbitrario); a s s e r t o r î , quelli in cui si considera come r e a l e (vero); a p o d i t t i c i , quelli in cui si riguarda come n e c e s s a r i o 100. Così i due giudizi, il cui rapporto costituisce il giudizio ipotetico (antecedens e consequens) e la cui azione reciproca forma il giudizio disgiuntivo (membri della divisione), sono tutti soltanto problematici. Nell’esempio di sopra, la proposizione: «C’è una giustizia perfetta», non è detta in modo assertorio, ma soltanto pensata come un giudizio arbitrarlo, che può essere ammesso da qualcuno; e solo la conseguenza è assertoria. Perciò taluni giudizi possono essere perfino manifestatamente falsi, e tuttavia, assunti come problematici, servire di condizione alla conoscenza della verità. Così il giudizio: i l m o n d o e s i s t e p e r c i e c o c a s o, nel giudizio disgiuntivo ha un significato puramente problematico: cioè, qualcuno potrebbe ammettere questa proposizione, in qualche modo, per un istante: ma essa serve (come indicazione di una strada falsa fra tutte quelle che si possono prendere) a trovare la vera. La proposizione problematica è dunque quella, che esprime solo una possibilità logica (che non è punto oggettiva), ossia una libera scelta di assumere tale proposizione come valida: ammissione puramente arbitraria di essa nell’intelletto. La proposizione assertoria enuncia la realtà logica, o verità; come in un sillogismo ipotetico l’antecedente, problematico nella maggiore, si presenta come assertorio nella minore, e indica che la proposizione è già legata con l’intelletto in virtù delle sue leggi. La proposizione apodittica pensa il giudizio assertorio determinato secondo queste leggi dell’intelletto stesso e, per conseguenza, come affermante a priori; ed esprime in tal modo una necessità logica. Ora, poiché tutto qui si incorpora graduatamente nell’intelletto, per modo che si giudica dapprima qualche cosa problematicamente, e la si ammette in seguito assertoriamente come vera, e la si afferma, infine, come inseparabilmente legata con l’intelletto, cioè come necessaria ed apodittica, le tre funzioni della modalità si possono considerare come altrettanti momenti del pensiero in generale.

Sezione terza § 10. Dei concetti puri dell’intelletto o categorie Come è già stato detto parecchie volte, la logica generale astrae da tutto il contenuto della conoscenza, e aspetta quindi che le rappresentazioni le siano date dondechessia, per trasformarle in concetti; il che ha luogo analiticamente. La logica trascendentale, al contrario, trova dinanzi a sé il molteplice della sensibilità a priori, che l’estetica trascendentale le presenta per dare una materia ai concetti puri dell’intelletto; senza la quale essa sarebbe priva di qualsiasi contenuto, e perciò assolutamente vuota. Ora, lo spazio e il tempo contengono il molteplice dell’intuizione pura a priori, ma fanno tuttavia parte di quelle condizioni della recettività del nostro spirito, nelle quali soltanto questo può accogliere le rappresentazioni degli oggetti, e che non possono quindi non entrare ogni volta anche nel concetto di cotesti oggetti. Solo, però, che la spontaneità del nostro pensiero esige che questo molteplice sia dapprima in certo modo penetrato, raccolto e unificato, per cavarne quindi una conoscenza. Questo atto io lo chiamo sintesi. Ma intendo per s i n t e s i , nel senso più generale di questa parola, l’atto di unire diverse rappresentazioni, e comprendere la loro molteplicità in una conoscenza. Tale sintesi è p u r a , se il molteplice è dato non empiricamente, ma a priori (come quello nello spazio e nel tempo). Prima di ogni analisi delle nostre rappresentazioni, queste già devono esserci date, e nessun concetto per il s u o c o nt e n u t o può nascere analiticamente. Ma la sintesi di un molteplice (dato empiricamente o a priori) produce una conoscenza, che può certo, a principio, essere ancora grossolana e confusa e, per conseguenza, aver bisogno dell’analisi; la sintesi è tuttavia ciò che propriamente raccoglie gli elementi per la conoscenza, e li unifica per formarne un certo contenuto; essa è dunque il primo fatto sul quale dobbiamo rivolgere la nostra attenzione, volendo giudicare dell’origine prima della nostra conoscenza. La sintesi in generale è, come vedremo in seguito, il semplice effetto dell’immaginazione, cioè di una funzione dell’anima, cieca, e nondimeno indispensabile, senza la quale noi non avremmo mai veruna conoscenza, ma della quale solo di rado siamo consapevoli. Si badi per altro che ricondurre

questa sintesi a c o n c e t t i è funzione che appartiene all’intelletto, e con la quale soltanto esso ci dà la conoscenza, nel senso proprio di questa parola. La s i n t e s i p u r a , i n t e s a i n g e n e r a l e, ci dà ora il concetto puro dell’intelletto. Ma io intendo per sintesi pura quella che si fonda su un principio dell’unità sintetica a priori: così il nostro numerare (e si vede soprattutto nelle cifre più grandi) è una sintesi s e c o n d o co n c e t t i , poiché essa ha luogo secondo un comune principio della unità (per esempio, quello della decina). Sotto questo concetto, dunque, l’unità nella sintesi del molteplice diventa necessaria. Diverse rappresentazioni sono ricondotte analiticamente sotto un concetto (compito di cui si occupa la logica generale). Ma la logica trascendentale insegna a ricondurre a concetti, non le rappresentazioni ma la s i n t e s i p u r a delle rappresentazioni. La prima cosa che ci deve esser data, affinché la conoscenza a priori di tutti gli oggetti sia possibile, è il m o l t e p l i c e delle intuizioni pure; la s i n t e s i di questo molteplice per mezzo della immaginazione vien dopo, ma non ci dà ancora nessuna conoscenza. I concetti, che conferiscono u n i t à a questa sintesi pura, e che consistono unicamente nella rappresentazione di questa unità sintetica necessaria, fanno il terzo passo verso la conoscenza di un dato oggetto, e sono fondati sull’intelletto. La stessa funzione, che dà unità alle diverse rappresentazioni in u n g i u d i z i o , dà dunque unità anche alla semplice sintesi delle diverse rappresentazioni i n u n a i n t u i z i o n e; unità, che, generalmente parlando, si chiama il concetto puro dell’intelletto. Così lo stesso intelletto, appunto con le stesse operazioni per cui nei concetti, mediante l’unità analitica, produce la forma logica di un giudizio, produce altresì, mediante l’unità sintetica del molteplice nell’intuizione in generale, un contenuto trascendentale nelle sue rappresentazioni; in grazia del quale esse prendono nome di concetti puri dell’intelletto, che si applicano a priori agli oggetti; ciò che la logica generale non può fare. In tal modo sorgono precisamente tanti concetti puri dell’intelletto, che si applicano a priori agli oggetti della intuizione in generale, quante funzioni logiche si avevano in tutti i giudizi possibili nella tavola precedente; perché le dette funzioni esauriscono completamente l’intelletto, e ne misurano perciò tutto il potere. Chiamiamo questi concetti c a t e g o r i e , sull’esempio di Aristotele, giacché il nostro intento è, nella prima origine, in tutto identico al

suo, sebbene molto se ne allontani nell’esecuzione. TAVOLA DELLE CATEGORIE 1. Della quantità: Unità Pluralità To t a l i t à . 2. 3. D e l l a r e l a z i o n e: Della qualità: dell’I n e r e n z a e sussistenza (substantia et accidens) Realtà della C a s u a l i t à e dipendenza (causa ed effetto) Negazione della R e c i p r o c i t à 1 (azione reciproca fra agente e paziente). Limitazione. 4. D e l l a m o d a l i t à: P o s s i b i l i t à – impossibilità E s i s t e n z a – inesistenza N e c e s s i t à – contingenza. 1

Propriamente, Gemeinschaft, comunanza, l’aver qualcosa in comune.

Ecco dunque l’enumerazione di tutti i concetti puri originari della sintesi, che l’intelletto contiene in sé a priori, e soltanto in virtù dei quali è anche intelletto puro; solo per mezzo di essi potendo comprendere qualche cosa nel molteplice della intuizione, cioè pensare un oggetto di essa. Questa divisione ricavata sistematicamente da un principio comune, cioè dalla facoltà di g i u d i c a r e (che equivale a facoltà di pensare), non deriva, rapsodisticamente101, da una ricerca dei concetti puri fatta affidandosi alla buona ventura, della cui compiutezza non si può mai essere certi, poiché non la si può inferire se non per induzione, senza pensare che, in questo modo, non si scorge mai perché siano precisamente questi e non altri i concetti inerenti all’intelletto puro. Ricercare questi concetti fondamentali era un’impresa degna di quella mente acuta di Aristotele. Ma, non avendo nessun principio, Aristotele li raccolse affrettatamente, come gli si presentavano, e ne mise insieme dieci, che chiamò c a t e g o r i e (predica-menti). Dopo, credette averne trovate altre cinque, che aggiunse alle precedenti, col nome di post-predicamenti. Ma la sua tavola rimase sempre difettosa. Oltre di che, vi si trovano anche modi della sensibilità pura (quando, ubi, situs, e così prius,

simul) e anche un modo empirico (motus), i quali non appartengono punto a questo albero genealogico dell’intelletto; e vi s’incontrano pure concetti derivati, frammisti ai concetti originari (actio, passio), e parecchi di questi ultimi mancano affatto. Quanto a questi ultimi concetti, resta infatti ancor da notare che le categorie, essendo i veri c o n c e t t i p r i m i t i v i dell’intelletto puro, hanno per ciò stesso i loro c o n c e t t i d e r i v a t i, ugualmente puri, che non si possono in niun modo trasandare in un completo sistema di filosofia trascendentale; ma io, in un semplice saggio critico, posso accontentarmi di una semplice menzione. Mi sia concesso di chiamare questi concetti puri, ma derivati, dell’intelletto, p r e d i c a b i l i (in contrapposto ai predicamenti) dell’intelletto puro. Quando si hanno i concetti originari e primitivi, è facile poi aggiungere ad essi i concetti derivati e subalterni, e disegnare così in modo definitivo l’albero genealogico dell’intelletto puro. Non dovendomi occupare qui della esecuzione completa del sistema, ma solamente dei princìpi per fare un sistema, riservo questo completamento ad altro lavoro. Ma si può ottenere sufficientemente questo scopo, prendendo i manuali di ontologia, e aggiungendo, per es., alla categoria della causalità i predicabili della forza, dell’azione, della passione; alla categoria della reciprocità, i predicabili della presenza, della resistenza; ai predicamenti della modalità, i predicabili del sorgere, del perire, del cangiamento, ecc. Le categorie, combinate coi modi della sensibilità pura, o fra di loro, forniscono un gran numero di concetti a priori derivati; segnalarli ed esporli il più compiutamente che sia possibile, non sarà certo senza utilità e interesse; ma qui sarebbe fatica superflua. Mi dispenso, a ragion veduta, di dare in questo trattato le definizioni di queste categorie, per quanto ne possa essere già in possesso. Analizzerò questi concetti, in seguito, tanto quanto sarà necessario alla dottrina del metodo, alla quale attendo. In un sistema della ragion pura si potrebbe, a buon diritto, chiedermele; ma qui non servirebbero se non a distrarre l’attenzione dal punto principale della ricerca, sollevando dubbi e obbiezioni, che si possono, senza detrarre nulla al nostro scopo essenziale, rimandare benissimo ad altro lavoro. Dal poco, intanto, che fin qui ne ho accennato, risulta chiaramente che non solo è possibile, ma altresì facile fornire un dizionario completo di questi concetti, con tutti i chiarimenti desiderabili. Una volta che esistono le caselle, non resta che da riempirle, e una topica

sistematica, com’è la presente, difficilmente può sbagliare il posto, al quale ciascun concetto appartiene, mentre può facilmente additare quelli che sono tuttavia vacanti.

§ 11.102 Intorno a questa tavola delle categorie si possono fare diverse considerazioni, che forse potrebbero aver importanti conseguenze, rispetto alla forma scientifica di tutte le conoscenze razionali. Che infatti questo quadro nella parte teoretica della filosofia sia straordinariamente utile, anzi indispensabile, ad abbozzare completamente il d i s e g n o d e l l a t o t a l i t à d i u n a s c i e n z a, in quanto essa si appoggia su concetti a priori, e a ricavarne matematicamente l e p a r t i secondo determinati p r i n c ì p i , risulta chiaro da questo, che la detta tavola comprende tutti quanti i concetti elementari dell’intelletto, anzi la forma d’un sistema di essi nell’intelletto umano; e per conseguenza una guida a t u t t i i m o m e n t i di una scienza speculativa, nonché al suo o r d i n a m e n t o , come io ne ho dato anche una prova altrove103. Ecco ora alcune osservazioni. L a p r i m a è: che questa tavola, contenente quattro classi di concetti dell’intelletto, si può subito suddividere in due parti, delle quali la prima è indirizzata agli oggetti della intuizione (così pura, come empirica), la seconda invece alla esistenza di questi oggetti (o in rapporto reciproco tra loro, o in rapporto con l’intelletto). La prima classe io la chiamerei delle categorie m a t e m a t i c h e , la seconda delle d i n a m i c h e . La prima classe non ha, come si vede, alcun correlato, che si incontra soltanto nella seconda classe. Questa differenza deve tuttavia trovar la sua ragione nella natura dell’intelletto. S e c o n d a o s s e r v a z i o n e: che è sempre uguale in ogni classe il numero delle categorie, cioè tre; la qual cosa invita proprio a riflettere, giacché altrimenti ogni divisione a priori per concetti deve essere una dicotomia. Si noti inoltre, che la terza categoria deriva sempre dall’unione della seconda con la prima della sua classe. Così la t o t a l i t à non è altro che la molteplicità, considerata come unità; la l i m i t a z i o n e , la realtà unita colla negazione; la r e c i p r o c i t à è la causalità di una sostanza in vicendevole determinazione con un’altra; e, finalmente, la n e c e s s i t à , l’esistenza che è data dalla possibilità stessa. Non

si pensi però che la terza categoria si riduca in tal modo a un semplice concetto derivato, e non sia un concetto primitivo dell’intelletto puro. Perché l’unione della prima colla seconda categoria, per poter produrre il terzo concetto, richiede uno speciale atto dell’intelletto, che non fa tutt’uno con quello che si è esercitato nel primo e nel secondo. Così il concetto di n u m e r o (che appartiene alla categoria della totalità), non è sempre possibile dovunque sieno gli altri due di molteplicità e di unità (per es. nella rappresentazione dell’infinito); né pel fatto che io collego i due concetti di c a u s a e d i s o s t a n z a , è possibile intendere l’i n f l u s s o , cioè come una sostanza possa essere causa di qualche cosa in un’altra sostanza. Donde si rileva, che a ciò si richiede un atto speciale dell’intelletto; e così negli altri casi. T e r z a o s s e r v a z i o n e : Di una sola categoria, quella della r e c i p r o c i t à , che si trova sotto il terzo titolo, la coincidenza con la forma del giudizio disgiuntivo, che le corrisponde nel quadro delle funzioni logiche, non salta così agli occhi come le altre. Per assicurarsi di tale coincidenza, devesi notare che in tutti i giudizi disgiuntivi la loro sfera (l’insieme di tutto ciò che è in essi contenuto) vien rappresentata come un tutto diviso in parti (i concetti subordinati); e poiché non si può ridurre nessuna di queste parti sotto l’altra, esse vengono pensate come vicendevolmente c o o r d i n a t e , non s u b o r d i n a t e ; per modo che si determina l’una con l’altra non in un s e n s o s o l o, come in una serie, ma v i c e n d e v o l m e n t e , come in un a g g r e g a t o (posto un membro della divisione, tutti gli altri sono perciò esclusi, e viceversa). Ora un simile concatenamento vien pensato in una t o t a l i t à d i c o s e, in cui una di esse, non è s u b o r d i n a t a , come effetto, all’altra, quale causa della sua esistenza, ma insieme anche e reciprocamente c o o r d i n a t a come causa rispetto alla determinazione delle altre (come in un corpo, le cui parti si attirano scambievolmente l’una con l’altra, e anche si contrastano); ed è questa una specie di unione affatto diversa da quella che si trova nel semplice rapporto di causa e di effetto (di principio e di conseguenza), dove la conseguenza non determina alla sua volta il principio, e perciò (come nel caso del creatore e del mondo) non forma con essa un tutto. Lo stesso procedimento che l’intelletto osserva quando si rappresenta la sfera di un concetto diviso, lo osserva pure quando pensa una cosa come divisibile; e come i membri della divisione nel primo si escludono l’un l’altro, e tuttavia

sono collegati in una sfera, così l’intelletto pone le parti della seconda come tali, la cui esistenza (come sostanza) deriva a ciascuna esclusivamente dalle altre, e pure sono insieme unite in un tutto.

§ 12. Ma nella filosofia trascendentale degli antichi si trova ancora un capitolo, contenente concetti puri dell’intelletto che, pur non essendo annoverati fra le categorie, per loro dovevano tuttavia valere come concetti a priori degli oggetti; nel qual caso il numero delle categorie crescerebbe; ciò che non è possibile. A questi concetti accenna la famosa proposizione degli scolastici, quodlibet ens est UNUM, VERUM, BONUM. Ora, benché veramente l’uso di questo principio rispetto alle conseguenze (che diedero mere frasi tautologiche) abbia avuto un valore così miserevole, che ai tempi nostri quasi solo per convenienza si deve farne menzione nella metafisica; tuttavia un pensiero, che ha resistito sì lungo tempo, per vuoto che sembri, merita sempre una ricerca della sua origine, e giustifica la supposizione che abbia il proprio fondamento in qualche regola dell’intelletto, la quale sia stata soltanto, come spesso accade, falsamente interpretata. Questi presunti predicati trascendentali delle cose non sono altro che esigenze logiche e criteri di ogni c o n o s c e n z a d e l l e c o s e in generale, a fondamento della quale pongono le categorie della q u a n t i t à , ossia della u n i t à , p l u r a l i t à e t o t a l i t à; solo che queste categorie, le quali si sarebbero dovute prendere propriamente nel significato materiale, come appartenenti alla possibilità delle cose stesse, gli antichi le adoperavano in realtà solo in un valore formale, come appartenenti all’esigenza logica nel riguardo di ogni conoscenza; e nondimeno di questi criteri del pensiero facevano incautamente proprietà delle cose in se stesse. In ogni conoscenza cioè d’un oggetto vi è u n i t à del concetto che si può chiamare u n i t à q u a l i t a t i v a, in quanto in esso è pensata solo l’unità della comprensione del molteplice della conoscenza: qualche cosa di simile all’unità del tema in un dramma, in un’orazione, in una favola. In secondo luogo, la v e r i t à delle conseguenze. Più sono le conseguenze vere di un concetto dato, più sono le prove della sua realtà oggettiva. Questo si potrebbe chiamare la m o l t e p l i c i t à q u a l i t a t i v a delle note che appartengono a un concetto come principio comune (e che non sono pensate in esso come quantità). In terzo luogo, finalmente, la

p e r f e z i o n e ; la quale consiste in ciò, che questa molteplicità è alla sua volta ricondotta all’unità del concetto, e con esso, e con nessun altro, si accorda completamente; ciò che si potrebbe chiamare la c o m p i u t e z z a q u a l i t a t i v a (totalità). Donde risulta che questi criteri logici della possibilità della conoscenza in generale trasformano le tre categorie della quantità, nelle quali l’unità nella produzione del quantum deve esser considerata sempre omogeneamente, solo allo scopo di connettere anche elementi conoscitivi e t e r o g e n e i in una coscienza, mediante la qualità di una conoscenza come principio. Così il criterio della possibilità di un concetto (non del suo oggetto) è la definizione, nella quale l’u n i t à del concetto, la v e r i t à di tutto ciò che da esso si può ricavare immediatamente, e infine la c o m p i u t e z z a di quello che ne è stato ricavato, costituiscono la condizione richiesta per la costituzione dell’intero concetto; e così il c r i t e r i o di una i p o t e s i è la intelligibilità del p r i n c i p i o d i e s p l i c a z i o n e assunto, ovvero la sua u n i t à (senza ipotesi sussidiarie), la v e r i t à delle conseguenze che se ne cavano (accordo fra di loro stesse, e con l’esperienza), e, finalmente, la c o m p i u t e z z a del principio di esplicazione rispetto alle conseguenze, per cui queste non richiedano né più né meno di ciò che era stato ammesso nella ipotesi, e riproducano analiticamente a posteriori ciò che era stato pensato sinteticamente a priori, accordandovisi. – Perciò coi concetti di unità, verità, perfezione, la tavola trascendentale delle categorie non è completata, quasi fosse stata incompleta; ma soltanto, essendo posto da parte il rapporto di questi concetti cogli oggetti, l’uso che se ne fa vien ridotto entro le regole generali dell’accordo della conoscenza con se stessa. 100

Esattamente come se il pensiero fosse nel primo caso funzione dell’i n t e l l e t t o , nel secondo della f a c o l t à d i g i u d i c a r e, nel terzo della r a g i o n e . Osservazione, che avrà in ciò che segue il suo chiarimento (N. d. K.). 101 Rhapsodie, rhapsodistisch sono parole adoperate spesso da Kant: r a p s o d i a d e l l a p e r c e z i o n e (in contrapposto a connessione, unità); d e l l e c o n o s c e n z e (in contrapposto a sistema). Sono sinonimi di Principlosigkeit, principlos (= asistematicità, asistematico). 102 I paragrafi 11 e 12 sono un’aggiunta della 2a edizione. 103 Princìpi metafisici della fisica (N. d. K.). Questi Princìpi erano stati pubblicati da K. l’anno innanzi (1786).

Capitolo Secondo DEDUZIONE DEI CONCETTI PURI DELL’INTELLETTO

Sezione prima § 13. Dei princìpi di una deduzione trascendentale in generale I giuristi, quando trattano di facoltà e pretese, distinguono in una questione giuridica quel che è di diritto (quid iuris) da ciò che si attiene al fatto (quid facti); ed esigendo la dimostrazione dell’uno e dell’altro punto, chiamano la prima, quella che deve dimostrare il diritto, o anche la pretesa, d e d u z i o n e . Noi ci serviamo di una quantità di concetti empirici senza opposizione da parte di nessuno; e ci riteniamo autorizzati, anche senza deduzione, ad attribuir loro un senso e una portata quale noi ce l’immaginiamo, perché in ogni tempo noi disponiamo dell’esperienza per provare la loro realtà obbiettiva. Vi sono intanto anche alcuni concetti usurpati, ad esempio quelli di f e l i c i t à , d e s t i n o , che circolano in verità tra l’indulgenza quasi generale, ma che talora vengon messi in questione, con la domanda: quid iuris? Nel qual caso ci si trova in imbarazzo non piccolo per la loro deduzione, non essendo possibile addurre nessun fondamento evidente di diritto, né dall’esperienza, né dalla ragione, per rendere manifesta la legittimità del loro uso. Ma fra i concetti di varie specie, che formano il tessuto così svariato della umana conoscenza, se ne danno, che sono determinati anche per l’uso puro a priori (del tutto indipendentemente da ogni esperienza): e, di questi, il diritto ha sempre bisogno di essere dedotto; giacché per la legittimità di un tal uso non sono sufficienti le prove ricavate dall’esperienza; ma è necessario sapere

altresì come questi concetti possano riferirsi ad oggetti, mentre non traggono punto la loro legittimità dall’esperienza. Chiamo quindi d e d u z i o n e t r a s c e n d e n t a l e la spiegazione del modo in cui i concetti a priori si possono riferire ad oggetti, e la distinguo dalla deduzione e m p i r i c a , la quale mostra in che modo un concetto è acquistato per mezzo dell’esperienza e della riflessione su di essa, e quindi riguarda, non la legittimità, ma il fatto onde risulta il possesso. Abbiamo adesso già due specie di concetti, di genere affatto diverso, i quali però si accordano l’uno e l’altro in questo, che si riferiscono ambedue assolutamente a priori agli oggetti: cioè i concetti dello spazio e del tempo, come forme della sensibilità, e le categorie, come concetti dell’intelletto. Voler tentare di esse una deduzione empirica, sarebbe fatica del tutto sprecata; poiché il carattere differenziale della loro natura è appunto in ciò, che esse si riferiscono ai loro oggetti senza aver nulla tolto dalla esperienza per la loro rappresentazione. Se ne è, dunque, necessaria una deduzione, questa dovrà essere sempre trascendentale. Intanto di questi concetti, come di ogni conoscenza, si può ricercare nell’esperienza, se non il principio della loro possibilità, le cause tuttavia occasionali del loro sorgere; così le impressioni dei sensi danno la prima spinta a spiegare tutta la nostra attività conoscitiva per rispetto a loro, e a costituire l’esperienza; la quale contiene due elementi di assai diversa natura, cioè una m a t e r i a per la conoscenza, che viene dai sensi, e una certa f o r m a per ordinarla, proveniente dalla fonte interiore del puro intuire e del pensiero; i quali sono per la prima volta messi in grado di funzionare e di produrre concetti all’occasione fornita dai sensi. Ma tale ricerca dei primi sforzi della nostra attività conoscitiva per salire dalle singole percezioni ai concetti generali, ha senza dubbio la sua grande utilità, e bisogna esser grati al celebre Locke, che vi ha per il primo aperta la via. Per altro, una d e d u z i o n e dei concetti puri a priori non può aversi mai per mezzo di essa, perché essa assolutamente non si trova su questa via; dal momento che in vista del loro futuro uso, che deve essere assolutamente indipendente dall’esperienza, i concetti puri bisogna che presentino un ben diverso atto di nascita che quello dell’origine sperimentale. Questa tentata derivazione fisiologica, la quale, per parlare propriamente, non può nemmeno chiamarsi deduzione, poiché tocca solo una quaestionem facti, io la chiamerei illustrazione104 del p o s s e s s o di una conoscenza pura. Ond’è chiaro che di

questi concetti può darsi soltanto una deduzione trascendentale e punto empirica, e che una deduzione empirica rispetto ai concetti puri a priori non è altro che un vano tentativo, nel quale possono sbizzarrirsi solo coloro che non abbiano compreso nulla della natura affatto peculiare di siffatte conoscenze. Sebbene tuttavia l’unico modo di una possibile deduzione della conoscenza pura a priori, – cioè quello per la via trascendentale, – sia ormai convenuto, non se ne ricava perciò, che esso sia così inevitabilmente necessario. Noi abbiamo sopra seguita sino alle loro scaturigini e chiarita e determinata la validità oggettiva a priori dei concetti dello spazio e del tempo, mediante una deduzione trascendentale. Eppure la geometria procede diritta per la sua strada, servendosi di sole conoscenze a priori, senza bisogno di ottenere dalla filosofia un lasciapassare comprovante la pura e regolare provenienza dal proprio concetto fondamentale dello spazio. Se non che, è pure da considerare che l’uso del concetto, in questa scienza, concerne solamente il mondo sensibile esterno, del quale lo spazio è la forma pura della sua intuizione, in cui perciò ogni conoscenza geometrica, fondandosi nella intuizione a priori, ha evidenza immediata, e gli oggetti (per la forma) son già dati nell’intuizione, mediante la stessa conoscenza a priori. Al contrario, coi c o n c e t t i puri d e l l ’ i n t e l l e t t o incomincia l’improrogabile esigenza di ricercare non solo la loro deduzione trascendentale, ma altresì quella dello spazio; infatti, poiché essi parlano di oggetti, non mediante predicati dell’intuizione e della sensibilità, ma del puro pensiero a priori, si riferiscono in generale agli oggetti, senza tutte le condizioni della sensibilità; e, non essendo fondati sull’esperienza, non possono nemmeno mostrare nell’intuizione a priori nessun oggetto, sul quale fondino, avanti a ogni esperienza, la loro sintesi; e però non solamente fan sorgere dubbi circa il valore obbiettivo e il limite del loro uso, ma rendono ambiguo quel c o n c e t t o d e l l o s p a z i o, per ciò che sono inclinati a servirsene al di là delle condizioni della intuizione sensibile; e perciò anche sopra era necessaria, di essi, una deduzione trascendentale. Il lettore deve dunque convincersi della imprescindibile necessità di tale deduzione trascendentale, prima che abbia dato anche un sol passo sul terreno della ragion pura; perché altrimenti procede come cieco e, dopo aver errato qua e là, deve tornare a quella ignoranza dalla quale si era partito. Ma deve anche intenderne bene fin da ora la irrimediabile difficoltà, perché non abbia poi a lamentarsi della oscurità, nella quale è profondamente avvolta la cosa stessa,

o non sia troppo presto scoraggiato dagli ostacoli da superare; poiché qui si tratta o di abbandonare del tutto ogni pretesa a vedute della ragion pura, che sono il campo prediletto, quello cioè che oltrepassa i confini di ogni possibile esperienza; o di condurre a termine questa ricerca critica. Più sopra, con piccola fatica, abbiamo potuto rendere intelligibile, pei concetti di spazio e di tempo, come essi, in quanto conoscenze a priori, debbano nondimeno riferirsi necessariamente ad oggetti, e rendere possibile una conoscenza sintetica di essi indipendentemente da ogni esperienza. Giacché, non potendo un oggetto apparirci, cioè essere oggetto dell’intuizione sensibile, se non per mezzo di tali forme pure della sensibilità, lo spazio e il tempo sono intuizioni pure che contengono a priori la condizione della possibilità degli oggetti come fenomeni; e la sintesi in essi ha validità oggettiva. Le categorie dell’intelletto al contrario non ci rappresentano punto le condizioni a cui gli oggetti ci sono dati nell’intuizione; e perciò possono bene apparirci oggetti, senza che si debbano necessariamente riferire a funzioni dell’intelletto, e questo, pertanto, contenga le condizioni di essi a priori. Sorge quindi a questo punto una difficoltà, che non incontrammo nel campo della sensibilità; come, cioè, le c o n d i z i o n i s o g g e t t i v e del pensare abbiano v a l i d i t à o g g e t t i v a , vale a dire ci dieno le condizioni della possibilità d’ogni conoscenza degli oggetti; perché anche senza funzioni dell’intelletto, possono benissimo esserci dati fenomeni nella intuizione. Prendo, per es., il concetto di causa, che significa una particolare maniera di sintesi, in cui a qualche cosa (A), secondo una regola, viene associata qualche altra cosa affatto diversa (B). A priori non è chiaro perché dei fenomeni debbano contenere qualche cosa di tal genere (infatti, esperienze in prova non se ne possono addurre, poiché si deve poter mostrare a priori la validità oggettiva di questo concetto); e a priori, quindi, si può dubitare se un concetto simile non sia alcunché di assolutamente vuoto, e non colga mai tra i fenomeni un oggetto. Che gli oggetti dell’intuizione sensibile debbano infatti essere conformi alle condizioni formali della sensibilità che si trovano a priori nello spirito, è chiaro, perché non potrebbero altrimenti essere oggetti per noi; ma non è altrettanto facile intendere che, inoltre, debbano essere conformi alle condizioni, di cui l’intelletto ha bisogno, per l’unità sintetica del pensiero. Perocché potrebbero in ogni caso darsi fenomeni così fatti, che l’intelletto non li trovasse punto conformi alle condizioni della sua unità, e

che tutto si trovasse in tale stato di confusione che, ad es., nella serie dei fenomeni non si presentasse nulla, che potesse darci una regola della sintesi, e corrispondesse perciò al concetto di causa e di effetto; talché questo concetto sarebbe affatto vuoto, nullo e senza significato. I fenomeni non cesserebbero di presentare oggetti alla nostra intuizione, perché l’intuizione non ha in nessun modo bisogno delle funzioni del pensiero. Che se altri pensasse di trarsi dall’imbarazzo di queste ricerche, dicendo: l’esperienza offre incessantemente esempi di una tal regolarità dei fenomeni, da dar sufficiente appiglio a ricavarne il concetto di causa, e a provare così ad un tempo la validità oggettiva d’un tal concetto; egli non si accorgerebbe che, in questa maniera, non è possibile che sorga mai il concetto di causa, ma che esso o deve essere fondato del tutto a priori nell’intelletto, oppure deve essere abbandonato come una semplice chimera. Giacché questo concetto richiede addirittura che qualche cosa (A) sia di tal guisa che un’altra (B) ne segua necessariamente e secondo una regola assolutamente u n i v e r s a l e . I fenomeni ci danno, sì, casi, da cui è possibile trarre una regola secondo la quale qualche cosa suole accadere, ma non possono mai assicurarci che il conseguente sia n e c e s s a r i o ; quindi alla sintesi di causa e di effetto conviene una dignità, che non si può asserire empiricamente, cioè che l’effetto non solo segua alla causa, ma sia posto da essa, e ne derivi. La rigorosa universalità della regola, non è punto una proprietà delle regole empiriche, le quali per induzione non possono raggiungere mai niente più che una universalità relativa, cioè una diffusa applicabilità. Ora, si altererebbe del tutto l’uso dei concetti puri dell’intelletto, se questi si volessero trattare né più né meno che come prodotti empirici.

§ 14. Passaggio alla deduzione trascendentale delle categorie Vi sono soltanto due casi possibili, nei quali la rappresentazione105 sintetica e i suoi oggetti possono incontrarsi e riferirsi l’uno all’altro in una maniera necessaria, e quasi convenire: o che l’oggetto renda possibile la rappresentazione, o che questa l’oggetto. Se si ha il primo caso, il rapporto è solamente empirico, e la rappresentazione non è mai possibile a priori. E

questo è il caso dei fenomeni rispetto a ciò che in essi appartiene alla sensazione. Ma se si ha il secondo, dato che la rappresentazione in se stessa (giacché qui non si parla della sua causalità mediante il volere) non produce l’oggetto s u o q u a n t o a l l ’ e s i s t e n z a, essa rappresentazione è tuttavia determinante a priori rispetto all’oggetto se solamente per mezzo di essa è possibile c o n o s c e r e alcunché come o g g e t t o . Ma ci sono due condizioni, in cui soltanto è possibile la conoscenza d’un oggetto: prima l’i n t u i z i o n e , per la quale l’oggetto è dato, ma solo come fenomeno, e in secondo luogo il c o n c e t t o , ond’è pensato un oggetto corrispondente a questa intuizione. Ed è chiaro da ciò che precede, che la prima condizione, cioè quella per la quale gli oggetti possono essere intuiti, sta nello spirito a priori, a fondamento di essi oggetti. Con questa condizione formale della sensibilità s’accordano dunque necessariamente tutti i fenomeni, poiché solo per essa appariscono, cioè possono essere intuiti empiricamente, e dati. Ora si tratta di sapere, se non precedano anche concetti a priori, come condizioni in cui solamente sia possibile che qualcosa, sebbene non intuito, venga tuttavia pensato come oggetto in generale; giacché allora ogni conoscenza empirica degli oggetti sarebbe conforme necessariamente a questi concetti, non essendo possibile, senza presupporli, cosa alcuna, come o g g e t t o d e l l’ e s p e r i e n z a . Ma, ogni esperienza, oltre l’intuizione dei sensi, per cui qualcosa è dato, racchiude anche il c o n c e t t o di un oggetto che è dato o apparisce nell’intuizione; quindi a base d’ogni conoscenza sperimentale, ci saranno concetti di oggetti in generale, come condizioni a priori; e, per conseguenza, il valore oggettivo delle categorie, come concetti a priori, riposerà sul fatto che solo per esse è possibile l’esperienza (per la forma del pensiero). Perché allora esse si riferiscono ad oggetti dell’esperienza in modo necessario e a priori, poiché solo per mezzo di esse in generale un oggetto dell’esperienza può essere pensato. La deduzione trascendentale di tutti i concetti a priori ha dunque un principio, al quale deve essere indirizzata tutta la ricerca, cioè questo: che essi debbono essere riconosciuti come condizioni a priori della possibilità dell’esperienza (sia dell’intuizione, che si trova in essa, o del pensiero). Concetti che diano il fondamento oggettivo alla possibilità dell’esperienza, sono appunto perciò necessari. Ma lo svolgimento dell’esperienza, nella quale essi si incontrano, non è la loro deduzione (ma illustrazione), poiché altrimenti sarebbero di natura contingente. Senza questa originaria relazione

coll’esperienza possibile, in cui si hanno tutti gli oggetti della conoscenza, la loro relazione con un qualsiasi oggetto non potrebbe mai esser compresa. Il celebre L o c k e , in mancanza di questa considerazione, e incontrando nell’esperienza concetti puri dell’intelletto, derivò anche questi dall’esperienza; e procedette tuttavia con tanta inconseguenza, che si avventurò in tentativi di conoscenze, che oltrepassano di gran lunga ogni limite dell’esperienza. David Hume riconobbe che, per poter far ciò, è necessario che questi concetti abbiano la loro origine a priori. Ma, non potendosi spiegare assolutamente come fosse possibile che l’intelletto abbia a pensare concetti, non connessi per sé nell’intelletto, come connessi tuttavia necessariamente nell’oggetto, e non essendogli caduto in mente che l’intelletto, con questi concetti, fosse per avventura esso l’autore dell’esperienza, nella quale son dati i suoi oggetti, li derivò, costretto da necessità, dall’esperienza (cioè da una subbiettiva necessità derivante dalla frequente associazione dell’esperienza, necessità che viene alla fine falsamente tenuta per obbiettiva: e cioè dall’a b i t u d i n e ); ma in ciò si condusse molto coerentemente, poiché dichiarò impossibile oltrepassare coi concetti e coi princìpi fondamentali, cui essi dan luogo, i confini dell’esperienza. Ma la derivazione empirica, a cui entrambi ricorsero, non può conciliarsi con l’esistenza effettiva delle conoscenze scientifiche a priori, che noi pur possediamo, cioè della m a t e m a t i c a p u r a e della f i s i c a g e n e r a l e , e vien perciò confutata dal fatto. Il primo di questi due uomini illustri diede libero accesso alla f a n t a s t i c h e r i a , poiché la ragione, se ha dalla sua il diritto, non si lascia più tenere nei cancelli con vaghi consigli di moderazione; il secondo si abbandonò interamente allo s c e t t i c i s m o , poiché credette di avere scoperto che quella che prendiamo universalmente per ragione è una illusione della nostra attività conoscitiva. – Il nostro pensiero, ora, è di fare il tentativo di vedere se si possa felicemente trarre la ragione umana da questi due scogli, e determinare i precisi suoi limiti, pur conservando aperto per lei tutto il campo della sua attività utile. Ma prima voglio ancora soltanto premettere la d e f i n i z i o n e d e l l e c a t e g o r i e . Esse sono concetti di un oggetto in generale, onde l’intuizione di esso è considerata come d e t e r m i n a t a rispetto a una delle f u n z i o n i l o g i c h e del giudicare. Così la funzione del giudizio categorico era quella del rapporto del soggetto col predicato: per es., tutti i corpi sono divisibili.

Soltanto, rispetto al puro uso logico dell’intelletto, rimaneva indeterminato a quale dei due concetti sia da attribuirsi la funzione di soggetto e a quale quella di predicato, potendosi dire ugualmente: qualche divisibile è un corpo. Ma con la categoria di sostanza, se io vi sottopongo il concetto di un corpo, resta determinato che la sua intuizione empirica nell’esperienza debba esser considerata sempre come soggetto e non mai come semplice predicato; e così in tutte le altre categorie106.

Sezione Seconda DEDUZIONE TRASCENDENTALE DEI CONCETTI PURI DELL’INTELLETTO § 15. Della possibilità di una unificazione in generale107 Il molteplice delle rappresentazioni può esser dato in una intuizione che è puramente sensibile, ossia che non è altro che recettività; e la forma di questa intuizione può trovarsi a priori nella nostra facoltà rappresentativa, senza tuttavia esser altro che la maniera, in cui il soggetto è modificato. Ma l’unificazione (coniunctio) di un molteplice in generale non può mai venire in noi dai sensi, e nemmeno perciò essere contenuta immediatamente nella pura forma dell’intuizione sensibile; perché essa è un atto della spontaneità dell’attività rappresentativa;e poiché questa occorre chiamarla intelletto per distinguerla dalla sensibilità, così ogni unificazione, – ne abbiamo noi o no coscienza, e sia unificazione del molteplice dell’intuizione, o di molteplici concetti, e nel primo caso, del molteplice dell’intuizione sensibile o dell’intuizione non sensibile, – è un’operazione dell’intelletto, che possiamo designare colla denominazione generale di s i n t e s i , anche per far in tal modo rilevare che noi non possiamo rappresentarci nulla come unificato nell’oggetto, senza averlo prima unificato già noi, e che fra tutte le rappresentazioni l’u n i f i c a z i o n e è la sola, che non è data dagli oggetti, ma può essere prodotta solo dal soggetto, essendo un atto della sua spontanea attività. Qui facilmente si scorge che questo atto deve essere originariamente unico e valevole ugualmente per ogni unificazione, e che la divisione

(a n a l i s i ), che sembra essere il suo opposto, lo presuppone tuttavia sempre; giacché, se l’intelletto nulla ha prima unificato, non può nulla dividere, poiché soltanto p e r o p e r a d i e s s o è possibile che l’attività rappresentativa sia stato dato qualcosa come unificato. Ma il concetto dell’unificazione implica, oltre al concetto del molteplice e della sintesi di esso, anche quello dell’unità di esso. Unificazione è la rappresentazione dell’unità s i n t e t i c a del molteplice108. La rappresentazione di questa unità, dunque, non può sorgere dall’unificazione, ma essa piuttosto, intervenendo nella rappresentazione del molteplice, rende quindi primieramente possibile il concetto dell’unificazione. Questa unità, che precede a priori tutti i concetti di unificazione, non è punto la categoria della unità (§ 10); giacché tutte le categorie si fondano su funzioni logiche dei giudizi, ma in questi già è pensata l’unione, e perciò l’unità dei concetti dati. La categoria dunque presuppone già l’unificazione. Dobbiamo dunque cercare ancora più in alto l’unità (come qualitativa, § 12), cercarla in ciò che contiene il fondamento stesso dell’unità di diversi concetti nei giudizi, e perciò della possibilità dell’intelletto, perfino nel suo uso logico.

§ 16. Dell’unità sintetica originaria dell’appercezione L’I o p e n s o d e v e p o t e r accompagnare tutte le mie rappresentazioni; ché altrimenti verrebbe rappresentato in me qualcosa che non potrebbe essere per nulla pensato, il che poi significa appunto che la rappresentazione o sarebbe impossibile, o, almeno per me, non sarebbe. Quella rappresentazione che può esser data prima di ogni pensiero, dicesi i n t u i z i o n e . Ogni molteplice, dunque, della intuizione ha una relazione necessaria con l’I o p e n s o , nello stesso soggetto in cui questo molteplice s’incontra. Ma questa rappresentazione è un atto della s p o n t a n e i t à , cioè non può esser considerata come appartenente alla sensibilità. Io la chiamo a p p e r c e z i o n e p u r a , per distinguerla dalla empirica, o anche a p p e r c e z i o n e o r i g i n a r i a , poiché è appunto quella autocoscienza che, in quanto produce la rappresentazione I o p e n s o, – che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è in ogni coscienza una e identica, – non può più essere accompagnata da nessun’altra. L’unità di essa la chiamo pure u n i t à t r a s c e n d e n t a l e della

autocoscienza, per indicare la possibilità della conoscenza a priori, che ne deriva. Giacché le molteplici rappresentazioni che sono date in una certa intuizione, non sarebbero tutte insieme mie rappresentazioni, se tutte insieme non appartenessero ad una autocoscienza; cioè, in quanto mie rappresentazioni (sebbene io non sia consapevole di esse, come tali), debbono necessariamente sottostare alla condizione in cui soltanto p o s s o n o coesistere in una universale autocoscienza, poiché altrimenti non mi apparterrebbero in comune. Da questa originaria unificazione possono seguire molte conseguenze. E cioè: questa identità comune dell’appercezione di un molteplice dato nell’intuizione, contien una sintesi delle rappresentazioni, ed è possibile solo per la coscienza di questa sintesi. Infatti la coscienza empirica, che accompagna diverse rappresentazioni, è in sé dispersa e senza relazione con l’identità del soggetto. Questa relazione dunque non ha luogo ancora per ciò che io accompagno colla coscienza ciascuna delle rappresentazioni, ma perché le c o m p o n g o tutte l’una con l’altra, e sono consapevole della loro sintesi. Solo perciò, in quanto posso legare in u n a c o s c i e n z a una molteplicità di rappresentazioni date, è possibile che io mi rappresenti l’i d e n t i t à d e l l a c o s c i e n z a i n q u e s t e r a p p r e s e n t a z i o n i s t e s s e ; cioè, l’unità a n a l i t i c a dell’appercezione è possibile solo a patto che si presupponga una unità s i n t e t i c a 109. Il pensiero: queste rappresentazioni date nell’intuizione mi appartengon tutte, – suona lo stesso che: io le unisco in una autocoscienza, o almeno posso unirvele; e, sebbene esso non sia ancora la coscienza della s i n t e s i delle rappresentazioni, ne presuppone tuttavia la possibilità; cioè, io chiamo quelle rappresentazioni tutte mie rappresentazioni, solo perché io posso comprendere la loro molteplicità in una coscienza; altrimenti io dovrei avere un Me stesso variopinto, diverso, al pari delle rappresentazioni delle quali ho coscienza. L’unità sintetica del molteplice delle intuizioni, in quanto data a priori, è dunque il fondamento della identità dell’appercezione stessa, che precede a priori ogni mio pensiero determinato. Ma l’unificazione non è dunque negli oggetti, e non può esser considerata come qualcosa di attinto da essi per via di percezione, e per tal modo assunto primieramente nell’intelletto; ma è soltanto una funzione dell’intelletto, il quale non è altro che la facoltà di unificare a priori, e di sottoporre all’unità dell’appercezione il molteplice delle rappresentazioni date; ed è questo il principio supremo di tutta la

conoscenza umana. Ora, questo principio della unità necessaria dell’appercezione, è in verità esso stesso una proposizione identica, e perciò analitica; tuttavia chiarisce per necessaria una sintesi del molteplice dato in una intuizione; sintesi, senza la quale non sarebbe possibile pensare quella identità della autocoscienza. Dall’Io infatti, come rappresentazione comune non è dato nessun molteplice; questo può essere dato solo nell’intuizione, che è altra cosa, e può esser pensato solo mediante l’unificazione in una coscienza. Un intelletto, nel quale ogni molteplicità fosse data immediatamente dall’autocoscienza, i n t u i r e b b e , ma il nostro intelletto può solamente p e n s a r e , e deve cercare nei sensi l’intuizione. Io sono dunque consapevole dell’identico me stesso rispetto al molteplice delle rappresentazioni datemi in una intuizione, poiché chiamo tutte insieme m i e le rappresentazioni, che ne formano u n a . Il che è come dire, che io son consapevole di una loro necessaria sintesi a priori, la quale significa appunto l’unità sintetica originaria dell’appercezione, nella quale stanno tutte le rappresentazioni che mi son date, ma nella quale altresì è necessario che esse sieno state portate in virtù di una sintesi.

§ 17. Il principio dell’unità sintetica dell’appercezione è il principio supremo di ogni uso dell’intelletto Secondo l’Estetica trascendentale, il principio supremo della possibilità di ogni intuizione in rapporto alla sensibilità era: ogni molteplice di essa sottostà alle condizioni formali dello spazio e del tempo. Il principio supremo della possibilità stessa in rapporto all’intelletto è: che ogni molteplice dell’intuizione sottostà alle condizioni della unità sintetica originaria dell’appercezione110. Tutte le molteplici rappresentazioni dell’intuizione sono soggette al primo, in quanto esse ci son date; al secondo, in quanto debbono poter essere u n i f i c a t e in una coscienza; perché senza di ciò niente può esser pensato e conosciuto, perché le rappresentazioni date non avrebbero comune l’atto appercettivo I o p e n s o, e non sarebbero perciò mai unificate in una autocoscienza. L’i n t e l l e t t o è, per parlare in generale, la facoltà delle c o n o s c e n z e . Queste consistono nel rapporto determinato di date rappresentazioni con un

oggetto. Ma l’o g g e t t o è ciò, nel cui concetto il molteplice di una data intuizione è u n i f i c a t o . Se non che ogni unificazione delle rappresentazioni richiede l’unità della coscienza nella sintesi di esse. Dunque, l’unità della coscienza è ciò che solo costituisce il rapporto delle rappresentazioni con un oggetto, e quindi la loro validità oggettiva, ossia ciò che le fa conoscenze, e su cui perciò riposa la possibilità dell’intelletto. Così, la prima conoscenza pura dell’intelletto, sulla quale è fondato tutto il resto del suo uso, e che è insieme affatto indipendente da tutte le condizioni dell’intuizione sensibile, è ora il principio dell’unità s i n t e t i c a , originaria dell’appercezione. La semplice forma, adunque, dell’intuizione sensibile esterna, lo spazio, non è ancora punto conoscenza; non fa se non presentare il molteplice dell’intuizione a priori per una possibile conoscenza. Ma per poter conoscere una cosa qualsiasi nello spazio, per es. una linea, io debba t r a c c i a r l a , cioè eseguire sinteticamente una determinata unificazione del molteplice dato, per modo che l’unità di questa operazione sia a un tempo l’unità della coscienza (nel concetto di linea); e così primamente vien conosciuto un oggetto (uno spazio determinato). L’unità sintetica della coscienza è dunque una condizione oggettiva di ogni conoscenza, della quale non soltanto io stesso ho bisogno per conoscere un oggetto, ma alla quale deve sottostare ogni intuizione per d i v e n i r e o g g e t t o p e r m e, poiché in altro modo, e senza questa sintesi, il molteplice non si unificherebbe in una coscienza. L’ultima proposizione, come s’è detto, è essa stessa analitica, sebbene per vero faccia dell’unità sintetica la condizione di ogni pensiero; giacché altro non dice se non che: tutte le mie rappresentazioni in una qualsiasi intuizione data debbono sottostare a quella condizione, per cui soltanto io posso attribuirle all’identico Me stesso, come mie rappresentazioni, e perciò posso comprenderle come unite insieme sinteticamente in un’appercezione nell’espressione generale: I o p e n s o. Ma questo principio non è valido per ogni possibile intelletto in generale, bensì solo per quello, dalla cui appercezione pura, nella rappresentazione «I o s o n o », nulla ancora è dato di molteplice. Quell’intelletto, invece, dalla cui autocoscienza fosse dato insieme il molteplice dell’intuizione, un intelletto, per la cui rappresentazione già esistessero insieme gli oggetti della rappresentazione stessa, non avrebbe bisogno di quel particolare atto di sintesi del molteplice nell’unità della coscienza, del quale ha bisogno

l’intelletto umano, che pensa semplicemente, e non intuisce. Ma è inevitabile il primo principio per l’intelletto umano, di guisa che esso non può farsi nemmeno la più piccola idea di un altro possibile intelletto, che o intuisse da sé senz’altro, o possedesse a fondamento una intuizione sensibile, ma di diversa natura di quella che è nello spazio e nel tempo.

§ 18. Che cosa sia l’unità oggettiva della autocoscienza L’u n i t à t r a s c e n d e n t a l e dell’appercezione è quella, per la quale tutto il molteplice dato da una intuizione è unito in un concetto dell’oggetto. Perciò essa si chiama o g g e t t i v a , e deve essere distinta dall’unità s o g g e t t i v a della coscienza, che è una d e t e r m i n a z i o n e d e l s e n s o i n t e r n o , onde quel molteplice dell’intuizione è dato empiricamente per una tale unificazione. Se io possa e m p i r i c a m e n t e esser consapevole del molteplice, come simultaneo o come successivo, dipende da circostanze o da condizioni e m p i r i c h e ; quindi l’unità empirica della coscienza per mezzo dell’associazione delle rappresentazioni stesse, riguarda un fenomeno, ed è al tutto accidentale. Al contrario, la forma pura dell’intuizione nel tempo, semplicemente come intuizione in generale, che contiene una molteplicità data, sottostà all’unità originaria della coscienza esclusivamente per il rapporto necessario del molteplice dell’intuizione all’unico «Io penso»; perciò per la sintesi pura dell’intelletto, che a priori sta a base dell’empirica. Soltanto quell’unità è oggettivamente valida; l’unità empirica, invece, dell’appercezione, che qui noi non esaminiamo, e che solo sotto condizioni date deriva in concreto dalla prima, ha un valore soltanto soggettivo. Uno collega la rappresentazione d’una certa parola con una certa cosa, un altro con un’altra; e l’unità della coscienza in ciò che è empirico, e rispetto a ciò che è dato, non è necessariamente e universalmente valida.

§ 19. La forma logica di tutti i giudizi consiste nell’unità oggettiva dell’appercezione dei concetti in essi contenuti

Io non ho mai potuto appagarmi della definizione, che i logici dànno del giudizio in generale; esso è, secondo loro, la rappresentazione di un rapporto fra due concetti. Ora, senza stare qui a contrastare con essi intorno a quel c’è di difettoso in questa definizione (che in ogni caso non si applica se non ai giudizi categorici, ma non agli ipotetici e disgiuntivi, in quanto questi ultimi non contengono una relazione di concetti, ma addirittura di giudizi); e tralasciando le noiose conseguenze derivate da questa svista della logica111, noto soltanto che qui non è determinato in che consista questo r a p p o r t o . Ma se io investigo più profondamente il rapporto delle conoscenze date in ciascun giudizio, e distinguo questo rapporto, come appartenente all’intelletto, dal rapporto secondo leggi della immaginazione riproduttiva (il quale ha un valore solamente soggettivo), trovo che il giudizio non è altro che la maniera di ridurre conoscenze date alla unità o g g e t t i v a dell’appercezione. E la particella relativa «è» mira appunto a distinguere l’unità oggettiva delle rappresentazioni date, dall’unità soggettiva. Essa infatti designa la loro relazione con l’appercezione originaria e la loro u n i t à n e c e s s a r i a , anche quando il giudizio stesso sia empirico, e perciò accidentale, come ad es.: i corpi sono pesanti. Con ciò non voglio dire già, che queste rappresentazioni nell’intuizione empirica siano n e c e s s a r i a m e n t e subordinate l ’ u n a a l l ’ a l t r a; ma che esse sono l’una all’altra subordinate m e r c é l ’ u n i t à n e c e s s a r i a dell’appercezione nella sintesi delle intuizioni, e cioè secondo princìpi della determinazione oggettiva di tutte le rappresentazioni, in quanto possa risultarne una conoscenza; i quali princìpi sono derivati tutti da quello dell’unità trascendentale dell’appercezione. Solamente così da questo rapporto nasce un g i u d i z i o , ossia un rapporto v a l i d o o g g e t t i v a m e n t e, e che si distingue appunto dal rapporto delle rappresentazioni medesime in cui ci sia solamente un valore soggettivo, per es., secondo le leggi dell’associazione. Secondo queste, io potrei dire soltanto: «quando porto un corpo, sento un’impressione di peso»; ma non: «esso, il corpo, è pesante»; che val quanto dire che le due rappresentazioni sono unite nell’oggetto, indipendentemente cioè dallo stato del soggetto, e non stanno insieme semplicemente nella percezione (per quanto spesso essa possa essere ripetuta).

§ 20.

Tutte le intuizioni sensibili sottostanno alle categorie, come condizioni in cui soltanto il molteplice di quelle può raccogliersi in una coscienza Il molteplice dato in una intuizione sensibile è necessariamente Subordinato all’unità sintetica originaria dell’appercezione, poiché solo per essa è possibile l’u n i t à dell’intuizione (5 17). Quell’operazione dell’intelletto, per cui il molteplice di rappresentazioni date (sieno intuizioni o concetti) è ricondotto ad una appercezione in generale, è la funzione logica dei giudizi (5 19). Così ogni molteplicità, in quanto è data in una intuizione empirica, è d e t e r m i n a t a rispetto a una delle funzioni logiche del giudicare, onde essa cioè vien portata a una coscienza in generale. Ma le c a t e g o r i e non sono altro che proprio queste funzioni di giudicare, in quanto il molteplice di una data intuizione (§ 13) è determinato rispetto ad esse. Il molteplice dunque di una data intuizione è sottoposto necessariamente alle categorie.

§ 21. Annotazione Una molteplicità contenuta in una intuizione, che io chiamo mia, viene per la sintesi dell’intelletto rappresentata come subordinata all’unità n e c e s s a r i a della autocoscienza, il che avviene mediante la categoria112. Questa dunque indica che la coscienza empirica di un molteplice dato in una intuizione, è sottoposta così ad una autocoscienza pura a priori, come una intuizione empirica è sottoposta a una intuizione sensibile pura, che ha luogo ugualmente a priori. – Nella proposizione precedente v’è dunque l’inizio di una d e d u z i o n e dei concetti puri dell’intelletto; nella quale, poiché le categorie sorgono solo nell’intelletto, i n d i p e n d e n t e m e n t e d a l l a s e n s i b i l i t à , io debbo astrarre ancora dal modo, in cui il molteplice può esser dato a una intuizione empirica, per guardar solo all’unità, che per opera dell’intelletto, mediante la categoria, interviene in quella molteplicità dell’intuizione. In seguito (§ 26) sarà mostrato, dal modo in cui l’intuizione

empirica è data dalla sensibilità, che l’unità di essa non è altra da quella, che la categoria assegna (secondo il precedente § 20) al molteplice di una data intuizione in generale; e, poiché così sarà chiarita la sua validità a priori rispetto agli oggetti tutti dei nostri sensi, sarà, solo allora, completamente raggiunto lo scopo della deduzione. Se non che da un punto io non avrei potuto astrarre nella dimostrazione precedente, ed è questo: che il molteplice, per l’intuizione, deve essere pur d a t o prima della sintesi dell’intelletto e indipendentemente da essa; ma in qual modo, resta qui indeterminato. Se volessi infatti immaginare un intelletto, che esso stesso intuisse (qualcosa come intelletto divino, che non si rappresenterebbe oggetti dati, ma per la cui rappresentazione gli oggetti sarebbero immediatamente dati o prodotti), le categorie, rispetto a una conoscenza siffatta, non avrebbero punto significato. Esse sono regole soltanto per un intelletto, di cui tutto il potere consista nel pensare, cioè nell’atto di ricondurre all’unità dell’appercezione la sintesi del molteplice, datogli per altra via nell’intuizione; per un intelletto, il quale perciò nulla c o n o s c a da sé, ma soltanto unifichi e ordini la materia del conoscere, l’intuizione, che deve essergli data dall’oggetto. Ma della peculiarità del nostro intelletto, di giungere all’unità a priori dell’appercezione solamente per mezzo delle categorie, e precisamente solo secondo il modo e il numero di esse, si può così poco addurre ulteriormente una ragione, come del perché abbiamo proprio queste e non altre funzioni del giudicare, o del perché tempo e spazio siano le sole forme della nostra intuizione possibile.

§ 22. La categoria non ha altro uso alla conoscenza delle cose che di esser applicata agli oggetti dell’esperienza Pensare un oggetto e c o n o s c e r e un oggetto non è dunque la stessa cosa. La conoscenza comprende due punti: in primo luogo, un concetto per cui in generale un oggetto è pensato (la categoria), e, in secondo luogo, l’intuizione, onde esso è dato; giacché, se al concetto non potesse esser data un’intuizione corrispondente, esso, per la forma, sarebbe un pensiero, ma

senza alcun oggetto, e per mezzo di esso non sarebbe punto possibile la conoscenza di una qualsiasi cosa; poiché, per quanto io ne saprei, n o n v i s a r e b b e , n e p o t r e b b e e s s e r v i alcunché, a cui poter applicare il mio pensiero. Ora, ogni nostra possibile intuizione è sensibile (Estetica); il pensiero dunque di un oggetto in generale mediante un concetto puro dell’intelletto, può in noi diventare conoscenza solo in quanto questo concetto è messo in relazione con oggetti dei sensi. L’intuizione sensibile o è intuizione pura (spazio e tempo), o intuizione empirica di ciò che vien rappresentato, per mezzo della sensazione, immediatamente come reale nello spazio e nel tempo. Per la determinazione della prima noi possiamo ottenere conoscenze a priori di oggetti (nella matematica), ma solo rispetto alla forma di essi, come fenomeni; se poi ci possono essere cose che si debbano intuire in questa forma, è ciò che rimane tuttavia indeciso. Per conseguenza, tutti i concetti matematici non sono per sé conoscenze, se non in quanto si presuppone che ci siano cose che si possono rappresentare solo conformemente alla forma di quella pura intuizione sensibile. Ma le c o s e nello s p a z i o e nel t e m p o sono date solo in quanto percezioni (rappresentazioni accompagnate da sensazione), e perciò per rappresentazione empirica. Quindi i concetti puri dell’intelletto, anche se applicati ad intuizioni a priori (come nella matematica), creano conoscenze solo in quanto queste – e però anche per mezzo di esse i concetti dell’intelletto – possono essere applicate a intuizioni empiriche. Di guisa che le categorie mediante l’intuizione non ci dànno ancora nessuna conoscenza delle cose, se non soltanto per la loro possibile applicazione a u n a i n t u i z i o n e e m p i r i c a, esse cioè servono solo alla possibilità della c o n o s c e n z a empirica. Ma questa si chiama e s p e r i e n z a . Dunque le categorie non hanno alcun uso alla conoscenza delle cose, se non in quanto queste sono prese come oggetti di esperienza possibile.

§ 23. Tale proposizione è della più grande importanza; perché determina i limiti dell’uso dei concetti puri dell’intelletto rispetto agli oggetti, a quel modo che l’Estetica trascendentale ha determinato quelli dell’uso della forma pura della nostra intuizione sensibile. Spazio e tempo valgono, come condizioni della possibilità che ci sien dati degli oggetti, non altrimenti che per gli oggetti dei

sensi, e perciò solo dell’esperienza. Fuori di questi limiti, essi non rappresentano nulla; perocché solo soltanto nei sensi e fuori di essi non hanno nessuna realtà. I concetti puri dell’intelletto sono liberi da questa limitazione, e si estendono ad oggetti dell’intuizione in generale, sia essa simile alla nostra o no, pur che sia sensibile e non i n t e l l e t t u a l e . Ma questa più vasta estensione dei concetti di là dalla n o s t r a intuizione sensibile non ci giova a nulla. Perché allora essi sono concetti vuoti di oggetti, dei quali, per mezzo loro, non abbiamo assolutamente il modo di giudicare se mai sieno possibili o no; semplici forme del pensiero senza realtà obbiettiva, poiché noi non disponiamo di un’intuizione, a cui possa essere applicata quell’unità sintetica dell’appercezione che soltanto esse contengono, e con cui esse possano determinare un oggetto. Soltanto la n o s t r a intuizione sensibile ed empirica può dar loro senso e significato. Se si prende dunque come dato un oggetto di una intuizione n o n s e n s i b i l e , lo si può liberamente rappresentare per mezzo di tutti i predicati, che stanno già nella supposizione, c h e a d e s s o n o n c o n v e n g a n u l l a d i a p p a r t e n e n t e a l l ’ i n t u i z i o n e s e n s i b i l e: che dunque non sia esteso, cioè che non sia nello spazio, che la sua durata non sia un tempo, che in esso non si incontri mutazione alcuna (successione delle determinazioni nel tempo), e così via. Se non che, non c’è una speciale conoscenza quando io indico semplicemente come l’intuizione dell’oggetto non è, senza poter dire che cosa vi sia contenuto; giacché allora io non ho punto rappresentato la possibilità di un oggetto rispondente al mio concetto intellettuale puro, poichè non posso avere un’intuizione che gli corrisponda, ma posso dir soltanto che la nostra intuizione non val nulla per esso. Ma quel che è più è, che a un che di simile non potrebbe applicarsi mai neppure una categoria, per es., il concetto di sostanza, cioè di qualche cosa che può esistere come soggetto, e non mai come semplice predicato; poiché io ignoro affatto se possa mai esistere una cosa qualsiasi che corrisponda a tale determinazione di pensiero, finché una intuizione sensibile non mi porga l’occasione di applicarvela. Ma di ciò meglio in seguito.

§ 24. Dell’applicazione delle categorie agli oggetti dei sensi

in generale I concetti puri dell’intelletto si riferiscono mediante il semplice intelletto ad oggetti dell’intuizione in generale, sia essa la nostra o un’altra qualsiasi, purché sensibile, ma appunto perciò essi sono semplici f o r m e d e l p e n s i e r o , con cui ancora non è conosciuto nessun oggetto determinato. La sintesi o unificazione del molteplice in esse si riferisce semplicemente all’unità dell’appercezione, ed è perciò il fondamento della possibilità della conoscenza a priori, in quanto questa si fonda sull’intelletto; ed è perciò non solo trascendentale, ma anche semplicemente intellettuale pura. Poiché peraltro in noi c’è a priori una certa forma a base dell’intuizione sensibile, la quale riposa sulla recettività del potere rappresentativo (sensibilità), l’intelletto, come spontaneità, può determinare il senso interno mediante il molteplice di rappresentazioni date, secondo l’unità sintetica dell’appercezione, e così pensare a priori l’unità sintetica dell’appercezione del molteplice d e l l ’ i n t u i z i o n e s e n s i b i l e, come la condizione a cui debbono necessariamente sottostare tutti gli oggetti della nostra (umana) intuizione; onde le categorie, in quanto semplici forme del pensiero, acquistano realtà oggettiva, cioè applicazione ad oggetti che ci possono esser dati nell’intuizione, ma solo come fenomeni; perché soltanto di essi noi siamo capaci di avere un’intuizione a priori. Questa s i n t e s i del molteplice dell’intuizione sensibile, che è possibile a priori e necessaria, può esser chiamata f i g u r a t a (synthesis speciosa), per distinguerla da quella che sarebbe pensata rispetto al molteplice di un’intuizione in generale nella semplice categoria, e che si chiama unificazione intellettuale (synthesis intellectualis); ambedue sono t r a s c e n d e n t a l i , non solo perché esse stesse procedono a priori, ma altresì perché fondano a priori la possibilità di altra conoscenza. Se non che la sintesi figurata, se si riferisce semplicemente all’unità sintetica originaria dell’appercezione, cioè a questa unità trascendentale che è pensata nelle categorie, deve, per distinguersi dalla unificazione puramente intellettuale, chiamarsi sintesi trascendentale d e l l ’ i m m a g i n a z i o n e . I m m a g i n a z i o n e è la facoltà di rappresentare un oggetto, anche s e n z a l a s u a p r e s e n z a, nell’intuizione. Ora, poiché ogni nostra intuizione è sensibile, così l’immaginazione, per via della condizione subbiettiva per cui soltanto può dare ai concetti dell’intelletto una

intuizione corrispondente, appartiene alla s e n s i b i l i t à ; pure, in quanto la sua sintesi è una funzione della spontaneità (determinante e non, come il senso, semplicemente determinabile: che può, perciò, determinare a priori il senso secondo la propria forma, in conformità dell’unità dell’appercezione), l’immaginazione è pertanto una facoltà di determinare a priori la sensibilità; e la sua sintesi delle intuizioni, c o n f o r m e a l l e c a t e g o r i e, deve essere sintesi trascendentale d e l l ’ i m m a g i n a z i o n e ; che è un effetto dell’intelletto sulla sensibilità, e la prima applicazione (base, insieme, di tutte le altre) di esso ad oggetti dell’intuizione a noi possibile. Essa è da distinguere, come sintesi figurata, dall’intellettuale, che è senza immaginazione e solo per mezzo dell’intelletto. Ora, in quanto l’immaginazione è soltanto spontaneità, io la chiamo anche talvolta i m m a g i n a z i o n e p r o d u t t i v a, e la distinguo così dalla r i p r o d u t t i v a , la cui sintesi è sottoposta unicamente a leggi empiriche, a quelle cioè dell’associazione; e che quindi non conferisce punto alla spiegazione della possibilità della conoscenza a priori, né rientra perciò nella filosofia trascendentale, ma nella psicologia. È questo ora il luogo di spiegare il paradosso, da cui ciascuno sarà stato colpito nell’esposizione della forma del senso interno (§ 6): che cioè questo rappresenti alla coscienza noi stessi, non già come noi siamo in noi stessi, ma soltanto come appariamo a noi; poiché noi ci intuiamo soltanto come siamo interiormente m o d i f i c a t i ; il che sembra essere contraddittorio, dovendo noi essere passivi rispetto a noi stessi; e quindi si è soliti nei sistemi di psicologia identificare piuttosto i l s e n s o i n t e r n o e la facoltà dell’a p p e r c e z i o n e (che noi teniamo con ogni cura distinti). Ciò che determina il senso interno è l’intelletto e il suo potere originario di unificare il molteplice dell’intuizione, cioè di sottoporlo ad una appercezione (come a ciò su cui riposa la sua possibilità). Ora, poiché l’intelletto stesso in noi uomini non è una facoltà di intuizioni, e queste non può accogliere in sé, anche se date nella sensibilità, per collegare quasi il molteplice di una s u a p r o p r i a i n t u i z i o n e; così la sua sintesi, se esso è considerato solo per se stesso, non è evidentemente altro che l’unità dell’atto, del quale egli, come di un atto, è cosciente anche senza sensibilità, ma per il quale è capace di determinare da sé interiormente la sensibilità, rispetto al molteplice che gli può essere dato secondo la forma dell’intuizione di essa sensibilità. Esso dunque, sotto il nome di s i n t e s i t r a s c e n d e n t a l e

d e l l ’ i m m a g i n a z i o n e , esercita sul soggetto passivo, di cui esso è f a c o l t à , quella azione da cui a buon diritto diciamo che il senso interno è modificato. L’appercezione e la sua unità sintetica son tanto poco una sola cosa col senso interno, che quella piuttosto, come fonte di ogni unificazione, si rivolge al molteplice delle i n t u i z i o n i i n g e n e r a l e, e, sotto il nome di categorie, anteriormente ad ogni intuizione sensibile, ad oggetti in generale; e al contrario il senso interno contiene la semplice forma della intuizione, ma senza unificazione in essa del molteplice, e perciò non contiene alcuna intuizione d e t e r m i n a t a , che è possibile soltanto mediante la coscienza della sua determinazione per l’atto trascendentale dell’immaginazione (influsso sintetico dell’intelletto sul senso interno), che io ho chiamato sintesi figurata. Questo noi riscontriamo sempre in noi stessi. Noi non possiamo pensare una linea, senza t r a c c i a r l a nel pensiero, né pensare un circolo, senza d e s c r i v e r l o , né rappresentarci le tre dimensioni dello spazio, senza c o n d u r r e dallo stesso punto tre linee verticalmente l’una all’altra; e neanche pensare il tempo, senza che, t i r a n d o una linea retta (che sarà la rappresentazione esterna figurata del tempo), badiamo all’atto della sintesi del molteplice, onde successivamente determiniamo il senso interno, e quindi alla successione di questa determinazione in esso. Il moto, come operazione del soggetto (non come determinazione dell’oggetto)113, e perciò la sintesi del molteplice nello spazio – se astraiamo da questo e consideriamo soltanto quell’operazione, per cui determiniamo il s e n s o i n t e r n o secondo la sua forma – genera anche primieramente il concetto di successione. L’intelletto dunque n o n t r o v a nel senso interno una siffatta unificazione del molteplice già pronta, ma la p r o d u c e , in quanto esso lo modifica. Ma in che modo l’Io che pensa differisca dall’Io che intuisce se stesso (in quanto posso rappresentarmi ancora un’altra maniera di intuire, almeno come possibile), pur formando con questo tutt’uno come lo stesso soggetto; in che modo perciò io possa dire: io, come intelligenza e soggetto p e n s a n t e , conosco me stesso come oggetto p e n s a t o – in quanto io sono anche dato a me nell’intuizione, solo come gli altri fenomeni, cioè non come io sono innanzi all’intelletto, ma come apparisco a me – è un problema che non presenta in sé né maggiori, né minori difficoltà, che non ne presenti il come io possa essere a me stesso un oggetto in generale, e un oggetto di intuizione, e precisamente di percezioni interne. Ma che tuttavia debba veramente essere

così, se si prende lo spazio per una semplice forma pura dei fenomeni dei sensi esterni, può esser chiaramente dimostrato da questo: che noi non ci possiamo rappresentare il tempo, che pure non è per nulla oggetto di intuizione esterna, altrimenti che sotto l’immagine simbolica di una linea in quanto la tracciamo; che senza questa maniera di presentarcelo non potremmo conoscere l’unità della sua dimensione; come anche che noi, per determinare la durata o anche la posizione nel tempo di tutte le percezioni interne, dobbiamo continuamente ricorrere a ciò che le cose esterne ci presentano di mutevole, e dobbiamo perciò ordinare le determinazioni del senso interno nel tempo, in quanto fenomeni, allo stesso modo che nello spazio ordiniamo quelle dei sensi esterni; quindi, se per questi ammettiamo che con essi noi conosciamo gli oggetti solo in quanto siamo modificati dal di fuori, anche per il senso interno dobbiamo riconoscere che con esso intuiamo noi stessi soltanto come veniamo interiormente modificati da n o i s t e s s i: ossia, per ciò che riguarda l’intuizione interna, noi conosciamo il nostro proprio soggetto solo come fenomeno, ma non già per quel che esso è in se stesso114.

§ 25. Al contrarlo, io ho coscienza di me stesso, nella sintesi trascendentale del molteplice delle rappresentazioni in generale, e perciò nell’unità sintetica originaria dell’appercezione, non come io apparisco a me, né come io sono in me stesso, ma solo che sono. Questa r a p p r e s e n t a z i o n e e un p e n s a r e , non un i n t u i r e . Ora, poiché per la conoscenza di noi stessi oltre all’operazione del pensiero che riduce all’unità dell’appercezione il molteplice di ogni intuizione possibile, si richiede anche una determinata maniera di intuizione, onde questo molteplice venga dato; così la mia propria esistenza non è per vero fenomeno (e tanto meno semplice parvenza); ma la determinazione della mia esistenza115 può avvenire solo secondo la forma del senso interno, in quella speciale maniera in cui il molteplice, che io unifico, può essere dato nell’intuizione interna; ed io non ho dunque pertanto una c o n o s c e n z a di me quale s o n o , ma semplicemente quale apparisco a me stesso. La coscienza di se medesimo è dunque ben lungi dall’essere una conoscenza di se stesso, malgrado tutte le categorie che costituiscono il pensiero di u n o g g e t t o i n g e n e r a l e mediante l’unificazione del

molteplice in una appercezione. Come per la conoscenza di un oggetto diverso da me, oltre il pensiero di un oggetto in g e n e r a l e (nella categoria), io ho pure bisogno di una intuizione con cui determinare quel concetto generale; così, per la conoscenza di me stesso, oltre alla coscienza, ovvero oltre al pensare me stesso, io ho pur bisogno di una intuizione di un molteplice entro me, con cui io determini quel pensiero; ed io esisto come intelligenza che è consapevole soltanto della sua potenza unificatrice, ma che essendo sottoposta, rispetto al molteplice che deve unificare, a una condizione limitativa che chiama senso interno, non può render intuibile quella unificazione se non secondo rapporti di tempo, i quali restano al tutto fuori dei concetti propri dell’intelletto; e può conoscersi quindi solo come apparisce a se stessa, in rapporto con una intuizione (che non può essere intellettuale e data dallo stesso intelletto), ma non come si conoscerebbe se la sua i n t u i z i o n e fosse intellettuale.

§ 26. Deduzione trascendentale dell’uso empirico possibile in generale dei concetti puri dell’intelletto Nella D e d u z i o n e m e t a f i s i c a l’origine a priori delle categorie in generale è stata dimostrata mediante il loro perfetto accordo con le funzioni logiche generali del pensiero; ma nella D e d u z i o n e t r a s c e n d e n t a l e è stata poi mostrata la possibilità di esse come conoscenze a priori di oggetti di una intuizione in generale. Ora si deve spiegare la possibilità di conoscere a p r i o r i p e r m e z z o d e l l e c a t e g o r i e gli oggetti c h e p o s s o n o p r e s e n t a r s i s o l t a n t o a i n o s t r i s e n s i ; di conoscerli, non secondo la forma della loro intuizione, ma secondo le leggi della loro unificazione: si deve spiegare perciò la possibilità di prescrivere, per così dire, la legge alla natura, anzi di renderla possibile. Giacché, senza questa capacità delle categorie, non risulterebbe chiaro come tutto ciò che può presentarsi ai nostri sensi possa sottostare alle leggi che provengono solo a priori dall’intelletto. Prima di tutto, noto che col nome di s i n t e s i d e l l ’ a p p r e n s i o n e intendo la composizione del molteplice in una intuizione empirica, per cui

diviene possibile la percezione, cioè la coscienza empirica di essa (come fenomeno). Noi abbiamo a p r i o r i f o r m e così della intuizione sensibile esterna, come della interna nelle rappresentazioni di spazio e di tempo, e a queste deve sempre conformarsi la sintesi dell’apprensione del molteplice del fenomeno, poiché essa stessa può sorgere solo secondo questa forma. Ma spazio e tempo non sono rappresentati semplicemente come f o r m e dell’intuizione sensibile, bensì, a priori, come i n t u i z i o n i essi stessi (che contengono un molteplice), e perciò con la determinazione dell’u n i t à di questo molteplice che è in essi (vedi Estetica trascendentale)116. L’u n i t à d e l l a s i n t e s i del molteplice, fuori di noi o in noi, e perciò anche una u n i f i c a z i o n e alla quale deve conformarsi tutto ciò che può esser determinante rappresentato nel tempo e nello spazio, è dunque essa stessa data a priori, come condizione della sintesi di ogni a p p r e n s i o n e , c o l l e (non nelle) intuizioni suddette. Ma questa unità sintetica non può esser altro che quella dell’unificazione del molteplice d’una data i n t u i z i o n e i n g e n e r a l e in una coscienza originaria, applicata, in conformità delle categorie, solo alla nostra i n t u i z i o n e s e n s i b i l e. Perciò ogni sintesi, per la quale la stessa percezione è possibile, sottostà alle categorie; e poiché l’esperienza è conoscenza mediante percezioni connesse, le categorie sono condizioni della possibilità dell’esperienza, e valgono perciò a priori tutti gli oggetti dell’esperienza. Se io dunque, per esempio, dell’intuizione empirica di una casa fo una percezione mediante l’apprensione del molteplice di essa, ho a fondamento l’u n i t à n e c e s s a r i a dello spazio e dell’intuizione sensibile esterna in generale, e ne disegno, per così dire, la forma secondo questa unità sintetica del molteplice nello spazio. Ma questa unità sintetica appunto ha la sua sede nell’intelletto – se faccio astrazione dalla forma dello spazio; ed è la categoria della sintesi dell’omogeneo in una intuizione in generale, ossia della q u a n t i t à , alla quale perciò quella sintesi dell’apprensione, cioè, la percezione, deve essere assolutamente conforme117. Se io (per un altro esempio) percepisco il congelarsi dell’acqua, apprendo due stati (liquido e solido) come tali che stanno tra loro in una relazione di tempo. Ma nel tempo, posto da me a base del fenomeno, come i n t u i z i o n e i n t e r n a , mi rappresento l’u n i t à sintetica necessaria del molteplice, senza la quale quella relazione non potrebbe esser data d e t e r m i n a t a m e n t e in

una intuizione (rispetto alla successione). Ma questa unità sintetica, come condizione a priori, in cui unifico il molteplice di una i n t u i z i o n e i n g e n e r a l e – astraendo dalla forma costante della mia intuizione interna, il tempo – è la categoria di c a u s a , per la quale io, quando l’applico alla mia sensibilità, d e t e r m i n o , r i s p e t t o a l l a s u a r e l a z i o n e , t u t t o c i ò c h e a c c a d e n e l t e m p o. L’apprensione dunque di un tale avvenimento, e insieme l’avvenimento stesso secondo la percezione possibile, sottostà al concetto di r e l a z i o n e d i e f f e t t o e c a u s a; e così in tutti gli altri casi. Le categorie sono concetti che prescrivono leggi a priori ai fenomeni, e perciò alla natura come insieme di tutti i fenomeni (natura materialiter spectata); e, poiché esse non sono derivate dalla natura e non si regolano su di essa come loro modello (ché altrimenti sarebbero semplicemente empiriche), si domanda come sia da intendere, che la natura debba regolarsi su di esse, cioè come mai esse possano determinare a priori l’unificazione del molteplice della natura, senza ricavarla da questa. Ecco la soluzione di questo enimma. Non è per nulla più strano che le leggi dei fenomeni della natura debbano accordarsi con l’intelletto e la sua forma a priori, cioè colla sua facoltà di u n i f i c a r e il molteplice in generale, di quel che non sia che i fenomeni stessi abbiano ad accordarsi con la forma a priori dell’intuizione sensibile. Giacché le leggi esistono non nei fenomeni, ma solo relativamente al soggetto al quale i fenomeni ineriscono, in quanto esso ha un intelletto; così come i fenomeni non esistono in sé, ma solo relativamente a quel soggetto medesimo, in quanto esso è dotato di sensi. Alle cose in sé le loro leggi spetterebbero necessariamente anche all’infuori di un intelletto che le conosca. Ma i fenomeni sono solamente rappresentazioni di cose, le quali rimangono ignote per quel che possono essere in se stesse. E come semplici rappresentazioni, i fenomeni non sottostanno ad altra legge di unificazione da quella che loro prescrive la facoltà unificatrice. Ora, ciò che unifica il molteplice dell’intuizione sensibile, è l’immaginazione, la quale dipende dall’intelletto per l’unità della sua sintesi intellettuale, e dalla sensibilità per il molteplice dell’apprensione. Ma, poiché ogni percezione possibile dipende dalla sintesi dell’apprensione, e questa stessa sintesi empirica, a sua volta, dalla sintesi trascendentale, e quindi dalle categorie; così ogni percezione possibile, e però tutto quello che può sempre giungere alla coscienza empirica – cioè tutti i fenomeni della natura – sottostanno, quanto alla loro

unificazione, alle categorie, dalle quali dipende la natura (considerata semplicemente come natura in generale), come da principio originario delle sue leggi necessarie (quale natura formaliter spectata). Ma né anche la facoltà pura dell’intelletto arriva a prescrivere a priori ai fenomeni mediante le sole categorie più leggi di quelle, sulle quali riposa una n a t u r a i n g e n e r a l e , come regolarità dei fenomeni nello spazio e nel tempo. Le leggi particolari, poiché riguardano fenomeni empiricamente determinati, non possono quindi e s s e r d e s u n t e e s c l u s i v a m e n t e dalle categorie, sebbene sottostieno tutte alle categorie. Deve intervenire l’esperienza per imparare a conoscer queste leggi in generale; ma intorno all’esperienza in g e n e r a l e e a quel che può esser conosciuto come suo oggetto, soltanto quelle leggi a priori danno lume.

§ 27. Risultato di questa deduzione dei concetti dell’intelletto Noi non possiamo p e n s a r e alcun oggetto, se non per le categorie; né possiamo c o n o s c e r e un oggetto pensato, se non per intuizioni che corrispondano a quei concetti. Ora, tutte le nostre intuizioni sono sensibili, e questa conoscenza, in quanto l’oggetto suo è dato, è empirica. Ma la conoscenza empirica è l’esperienza. Dunque, non è per noi p o s s i b i l e nessuna conoscenza a priori, se non unicamente di o g g e t t i d i e s p e r i e n z a p o s s i b i l e118. Se non che questa conoscenza, che è limitata semplicemente ad oggetti dell’esperienza, non è perciò derivata tutta dall’esperienza; ma sì le intuizioni pure, sì i concetti puri dell’intelletto sono elementi della conoscenza, che si trovano in noi a priori. Ora, vi sono soltanto due vie, per le quali si può pensare un accordo n e c e s s a r i o dell’esperienza coi concetti dei suoi oggetti: o l’esperienza rende possibili questi concetti, o questi rendono possibile l’esperienza. La prima non ha luogo rispetto alle categorie (e neppure rispetto alla intuizione sensibile pura); perché esse sono concetti a priori, quindi indipendenti dall’esperienza (l’asserzione di una origine empirica, sarebbe una specie di generatio aequivoca). Dunque, rimane soltanto la seconda via (un sistema, per dir così, di e p i g e n e s i 119 della

ragion pura); cioè che le categorie, dal lato dell’intelletto, contengano i fondamenti della possibilità di ogni esperienza in generale. Ma come rendano possibile l’esperienza, e quali princìpi ci diano della possibilità di essa nella loro applicazione ai fenomeni, ce l’insegnerà meglio il seguente capitolo intorno all’uso trascendentale del Giudizio120. Se si volesse fra le due sole vie ricordate introdurre ancora una via di mezzo, cioè che le categorie non siano né primi princìpi a priori s p o n t a n e i 121 della nostra conoscenza, e neppure tratte dall’esperienza, ma disposizioni soggettive del pensare, piantate in noi col nascere, e così ordinate dal nostro Creatore che il loro uso s’accordi esattamente con le leggi della natura secondo le quali si svolge l’esperienza (una specie di sistema di p r e f o r m a z i o n e della ragion pura); oltre che, in tale ipotesi, nessun può dire fino a che punto si potrebbe spingere la presupposizione di predeterminate disposizioni a futuri giudizi; contro cotesta via di mezzo ci sarebbe questo argomento perentorio: che in tal caso alle categorie mancherebbe la n e c e s s i t à , che è essenziale al loro concetto. Infatti il concetto, ad es., di causa, che esprime la necessità di un effetto supposta una condizione, sarebbe falso, qualora riposasse su una qualsiasi necessità soggettiva, innata in noi, di unire certe rappresentazioni empiriche secondo una tale regola di relazione. Io non potrei dire: l’effetto è collegato con la causa n e l l ’ o g g e t t o (cioè necessariamente); ma: io sono così fatto da non poter pensare questa rappresentazione se non così collegata; che è proprio ciò che più desidera lo scettico; giacché allora tutta la nostra convinzione, fondata sul supposto valore oggettivo dei nostri giudizi, non è altro che una semplice illusione, e non mancherebbero di quelli, che di sé non confesserebbero questa necessità soggettiva (che deve essere sentita): per lo meno non si potrebbero fare contestazioni a nessuno su ciò, che è fondato solo sulla maniera in cui ciascun soggetto è organizzato. CONCETTO SOMMARIO DI QUESTA DEDUZIONE Essa è l’esposizione dei concetti puri dell’intelletto (e perciò di tutta la conoscenza teoretica a priori), come princìpi della possibilità dell’esperienza, ma di questa come d e t e r m i n a z i o n e dei fenomeni nello spazio e nel tempo i n g e n e r a l e; – e, infine, di questa determinazione in virtù del principio dell’unità sintetica o r i g i n a r i a dell’appercezione, in quanto forma dell’intelletto in rapporto allo spazio e al tempo, forme originarie della sensibilità.

Sin qui ritenni necessaria la divisione in paragrafi, giacché avevamo che fare con concetti elementari. Ora per altro che ci accingiamo a mostrarne l’uso, la trattazione potrà proseguire senza di essa, in un nesso continuato. 104

La parola Erklärung ha nella terminologia kantiana quasi sempre il significato di s p i e g a z i o n e p e r v i a d i r a g i o n a m e n t i . Altrove traducemmo c h i a r i m e n t o . Ora, poiché Kant a questa fisiologia (oggi si direbbe p s i c o l o g i a ) dà la modesta portata di descrizione, di constatazione, traduciamo i l l u s t r a z i o n e . Del resto, più in là, parlando del principio della deduzione trascendentale, K. preferisce adoperare la parola Illustration in contrapposto a deduzione (nicht ihre Deduction, sondern Illustration). 105 Vorstellung. Ma K. adopera questo termine per designare ogni atto di conoscenza in quanto atto del soggetto, in contrapposto all’oggetto. 106 La prima edizione, invece che coi periodi: «Il celebre Locke, non avendo fatto... Io stesso avviene in tutte le altre categorie», chiudeva questo paragrafo 14 così: «Vi son dunque tre fonti originarie (attitudini o facoltà dell’anima), che contengono le condizioni della possibilità di ogni esperienza, e non possono venir derivate da nessun’altra facoltà dello spirito, e cioè il s e n s o , l’i m m a g i n a z i o n e e l’a p p e r c e z i o n e . Su di esse si fonda: 1) la s i n o p s i apriori del molteplice mediante il senso; 2) la s i n t e s i di questo molteplice mediante l’immaginazione; e finalmente 3) l’u n i t à di questa sintesi mediante l’appercezione originaria. Tutte queste facoltà hanno, oltre l’uso empirico, un uso trascendentale, che riguarda solo la forma, ed è possibile a priori. Di questo abbiamo discorso più sopra nella prima parte, per r i g u a r d o a l s e n s o; ma ora vogliamo considerare le altre due secondo la loro natura». 107 Sarebbe troppo incomodo alla lettura recare qui in nota, come abbiamo fatto per le altre varianti, il testo intero dei lunghi passi della prima edizione completamente rielaborati da K. in questi paragrafi 15-27. Si troverà nell’Appendice, I. 108 Non è questo il luogo di vedere se le rappresentazioni stesse sieno identiche, e perciò se l’una possa essere pensata analiticamente mediante l’altra. La c o s c i e n z a dell’una, in quanto si parla del molteplice, è sempre da distinguere dalla coscienza dell’altra, e qui si tratta soltanto della sintesi di questa (possibile) coscienza (N. d. K.). 109 L’unità analitica della coscienza appartiene a tutti i concetti generali, come tali; per es., se io penso al r o s s o in generale, mi rappresento una quantità che (come nota) può essere in qualche cosa, e collegata con altre rappresentazioni; così solamente mediante una possibile unità sintetica precedentemente pensata m’è dato di rappresentarmene una analitica. Una rappresentazione, che deve esser pensata come comune a d i v e r s e rappresentazioni, sarà considerata come appartenente a rappresentazioni tali che abbiano in sé, oltre di essa, anche alcunché di d i v e r s o ; e per conseguenza deve esser pensata in unità sintetica con altre rappresentazioni (ancorché solo possibili), prima che io possa concepire in essa l’unità della coscienza, che ne fa il conceptus communis. E dunque l’unità sintetica dell’appercezione il punto più alto, al quale si deve legare tutto l’uso dell’intelletto, tutta la logica stessa, e dopo di questa la filosofia trascendentale, anzi questa facoltà è lo stesso intelletto (N. d. K.). 110 Lo spazio e il tempo e tutte le loro parti sono i n t u i z i o n i , perciò rappresentazioni singole, col molteplice che contengono in sé (vedi l’Estetica trascendentale); non dunque semplici concetti, pei quali la stessa coscienza sia come contenuta in molte rappresentazioni, ma molte rappresentazioni come in una sola e nella coscienza di essa, e quindi come composte; per conseguenza l’unità della coscienza vi si trova come s i n t e t i c a , e tuttavia originaria. Questo loro carattere di s i n g o l a r i t à è importante nella applicazione (vedi paragrafo 25) (N. d. K.).

111

La interminabile teoria delle quattro figure del sillogismo concerne soltanto i sillogismi categorici; e, sebbene essa per vero altro non sia che un’arte di introdurre surrettiziamente, dissimulando le immediate conseguenze (consequentiae immediatae) sotto le premesse di un ragionamento puro l’apparenza di più maniere di concludere, che non sieno nella prima figura; tuttavia non avrebbe avuto, solo per questo, nessuna speciale fortuna, se non le fosse riuscito di far prendere in esclusiva considerazione i giudizi categorici, come quelli, a cui tutti gli altri dovrebbero riferirsi: ciò che è falso, come si vede dal paragrafo 9 (N. d. K.). 112 L’argomento è fondato sulla u n i t à che noi ci rappresentiamo dell’i n t u i z i o n e , unità per la quale un oggetto è dato, e che racchiude sempre in sé una sintesi del molteplice dato in una intuizione, e contiene di già il rapporto di questo con l’unità dell’appercezione (N. d. K.). 113 Il movimento di un oggetto nello spazio non appartiene ad una scienza pura, e perciò nemmeno alla geometria; poiché non si può conoscere a priori, ma solo per mezzo dell’esperienza che qualche cosa si muove. Ma il movimento come d e s c r i z i o n e di uno spazio è un atto puro della sintesi successiva del molteplice nell’intuizione esterna in generale, mediante l’immaginazione produttiva, e non appartiene solo alla geometria, ma alla stessa filosofia trascendentale (N. d. K.). 114 Io non vedo come si possa trovare tanta difficoltà in questo, che il senso interno venga modificato da noi stessi. Ogni atto di a t t e n z i o n e ce ne può fornire un esempio. L’intelletto in essa determina sempre il senso interno, conforme all’unificazione che esso pensa, per avere l’intuizione interna che corrisponde al molteplice nella sintesi dell’intelletto. Ognuno potrà percepire in se stesso quanto venga comunemente modificato in tal modo lo spirito (N. d. K.). 115 L’«io penso» esprime l’atto di determinare la mia esistenza. L’esistenza dunque con ciò è già data; ma la maniera in cui io debba determinarla, cioè porre in me il molteplice ad essa appartenente, con ciò ancora non è data. Occorre l’auto-intuizione, che ha per base una data forma a priori, cioè il tempo, che è sensibile e appartiene alla recettività del determinabile. Ora, se io non ho anche un’altra auto-intuizione, che dia quello che in me è determinante (rispetto al quale io non ho coscienza se non della sua spontaneità), e lo dia innanzi all’atto del determinare, a quel modo che il t e m p o dà il determinabile, io non posso determinare la mia esistenza come quella di essere spontaneo; ma io mi rappresento solo la spontaneità del mio pensiero, cioè del determinare, e la mia esistenza rimane sempre determinabile soltanto sensibilmente, cioè come l’esistenza in un fenomeno. Pure questa spontaneità fa che io mi dica i n t e l l i g e n z a . 116 Lo spazio, rappresentato come o g g e t t o (come occorre realmente fare in geometria), contiene più che la semplice forma dell’intuizione, e cioè la s i n t e s i * del molteplice dato, secondo la forma della sensibilità, in una rappresentazione i n t u i t i v a , per modo che la forma dell’i n t u i z i o n e dà solamente il molteplice, ma l’i n t u i z i o n e f o r m a l e dà l’unità della rappresentazione. Nell’estetica io ho attribuito questa unità semplicemente alla sensibilità, solo allo scopo di rilevare che essa è prima di ogni concetto, sebbene presupponga una sintesi la quale non appartiene ai sensi, ma dalla quale è reso possibile ogni concetto di spazio o di tempo. Poiché, infatti solo per essa (in quanto l’intelletto determina la sensibilità) il tempo e lo spazio vengono dati come intuizioni, l’unità di questa intuizione a priori appartiene allo spazio e al tempo, e non al concetto dell’intelletto (paragrafo 24) (N. d. K.). * Zusammenfassung. 117 In questo modo si dimostra, che la sintesi dell’apprensione, che è empirica, deve essere necessariamente conforme alla sintesi dell’appercezione, che è intellettuale e contenuta nella categoria affatto a priori. È una stessa ed unica spontaneità, che lì sotto il nome di immaginazione, qui di intelletto, porta l’unificazione nel molteplice dell’intuizione (N. d. K.).

118

Affinché non si urti in maniera precipitata nelle conseguenze pregiudizievoli ed inquietanti di questo principio, voglio ricordare che le categorie nel p e n s i e r o non sono vincolate dalle condizioni della nostra intuizione sensibile, ma hanno un campo illimitato; e solamente la c o n o s c e n z a di ciò che pensiamo, la determinazione dell’oggetto, ha bisogno di una intuizione; laddove, in mancanza di questa, il pensiero dell’oggetto può del resto aver sempre le sue conseguenze vere ed utili nell’uso che il soggetto fa d e l l a r a g i o n e, e che non si può ancora qui trattare, poiché non sempre esso è indirizzato alla determinazione dell’oggetto, ma anche a quella del soggetto e del suo volere (N. d. K.). 119 Cioè g e n e r a z i o n e dell’esperienza dalle categorie. 120 Traduciamo con g i u d i z i o tanto Urtheilskraft quanto Urtheil, cioè tanto l’attività giudicatrice, quanto il prodotto di questa attività. Un’altra traduzione (facoltà o attività giudicatrice, potere di giudicare o simili) impaccerebbe spesso il discorso, e nuocerebbe alla chiarezza, per amore di troppa chiarezza. Solo distingueremo il diverso significato mettendo l’iniziale maiuscola al Giudizio come attività. 121 Selbstgedachte, autopensati, ossia prodotti spontaneamente dal pensiero.

Libro Secondo L’analitica dei princìpi

La logica generale è costituita su di un disegno che corrisponde esattamente alla partizione delle facoltà superiori della conoscenza. Queste sono: i n t e l l e t t o , G i u d i z i o e r a g i o n e . Quella dottrina tratta quindi nella sua analitica dei c o n c e t t i , dei g i u d i z i e dei s i l l o g i s m i , giusta appunto le funzioni e l’ordine di quelle facoltà dello spirito, che si comprendono sotto la larghissima denominazione di intelletto in generale. Poiché questa logica, puramente formale, astrae da ogni contenuto della conoscenza (sia puro o empirico), e si occupa soltanto della forma del pensiero (conoscenza discorsiva) in generale; così essa può abbracciare nella sua parte il canone della ragione, la cui forma ha la sua regola sicura, che può esser colta a priori, mediante la semplice analisi delle operazioni della ragione nei loro momenti, senza badare alla natura speciale della conoscenza che vi è adoperata. La logica trascendentale, invece, essendo limitata a un contenuto determinato, cioè soltanto alle conoscenze pure a priori, non può imitarla in questa partizione. Perocché si dimostra che l’u s o t r a s c e n d e n t a l e d e l l a r a g i o n e n o n è oggettivamente valido, e perciò non appartiene alla l o g i c a d e l l e v e r i t à, cioè all’analitica, ma richiede, come l o g i c a d e l l ’ a p p a r e n z a , una parte speciale della trattazione scolastica, sotto il nome di d i a l e t t i c a trascendentale. Intelletto e Giudizio hanno pertanto il canone del loro uso oggettivamente valido, e quindi vero, nella logica trascendentale, e appartengono perciò alla sua parte analitica. Ma la ragione, nei suoi tentativi di stabilire qualche cosa a priori sugli oggetti e di estendere la conoscenza oltre i limiti dell’esperienza possibile, è in tutto e per tutto d i a l e t t i c a , e perciò le sue illusorie asserzioni non si adattano punto a un canone, come quello che deve darci l’analitica.

L’a n a l i t i c a d e i p r i n c ì p i vien quindi ad essere esclusivamente un canone pel G i u d i z i o , al quale essa insegna ad applicare ai fenomeni i concetti dell’intelletto, che contengono la condizione per le regole a priori. Per questo motivo, prendendo a trattare il tema dei p r i n c ì p i propri dell’i n t e l l e t t o , mi servirò della denominazione di d o t t r i n a d e l G i u d i z i o , onde viene più esattamente indicato questo argomento.

Introduzione Del giudizio trascendentale in generale

Se l’intelletto in generale vien definito per la facoltà delle regole, il Giudizio è la facoltà di s u s s u m e r e sotto regole, cioè di distinguere se qualche cosa stia o no sotto una regola data (casus datae legis). La logica generale non contiene punto prescrizioni pel Giudizio, né può contenerne. Giacché, a s t r a e n d o essa da o g n i c o n t e n u t o d e l l a c o n o s c e n z a, non le resta a trattare se non della semplice forma della conoscenza, per distinguerla analiticamente in concetti, giudizi, sillogismi, e cavarne le regole formali di tutto l’uso dell’intelletto. Se volesse poi indicare in maniera generale, come si debba sussumere sotto queste regole, distinguere cioè se qualcosa vi rientri o no, questo non potrebbe avvenire altrimenti che, ancora, mediante una regola. Ma questa, appunto perché regola, esige da capo un ammaestramento del Giudizio; e così si vede che l’intelletto bensì è capace di istruirsi e munirsi con regole, ma il Giudizio è un talento particolare, che non si può insegnare, ma soltanto esercitare. Quindi il Giudizio è l’elemento specifico del così detto ingegno naturale, al cui difetto nessuna scuola può supplire; perocché, per quanto a un intelletto limitato questa possa somministrare e, per così dire, innestare in grande abbondanza regole tolte dalla scienza altrui, la capacità tuttavia di servirsene rettamente deve appartenere allo stesso scolaro; e non c’è regola che si possa suggerire a tale scopo, la quale, in mancanza d’un tal dono di natura, sia sicura dall’abuso122. Quindi un medico, un giudice, un uomo di Stato può avere nella testa molte belle regole patologiche, giuridiche, politiche, tanto da poterne essere egli stesso un profondo maestro, e tuttavia all’applicazione sbagliare facilmente, o perché manchi di Giudizio naturale (sebbene non manchi di intelletto) e comprenda bensì l’universale in abstracto, ma non sappia decidere se un caso particolare in concreto vi rientri, o anche per non essere stato sufficientemente indirizzato a un tal giudizio mediante esempi e casi pratici.

L’unica e grande utilità degli esempi è questa, che acuiscono il Giudizio. Perché, quanto alla giustezza e precisione della comprensione intellettuale, essi piuttosto vi recano comunemente pregiudizio, poiché solo raramente adempiono adeguatamente alla condizione della regola (come casus in terminis) e, oltre a ciò, indeboliscono spesse volte quello sforzo dell’intelletto a comprendere nella loro sufficienza le regole in generale e indipendentemente dalle particolari circostanze dell’esperienza, e abituano quindi, alla fine, ad adoperare quelle regole più come formule che come princìpi. Così gli esempi sono le dande del Giudizio, e chi manca di talento naturale nel giudicare, non può mai farne a meno. Ma, quantunque la l o g i c a g e n e r a l e non possa dare nessuna prescrizione al Giudizio, ben diversa è la cosa per la t r a s c e n d e n t a l e ; anzi quest’ultima pare abbia l’ufficio speciale di rettificare e assicurare il Giudizio nell’uso dell’intelletto puro, mercé regole determinate. Perocché a produrre un’estensione dell’intelletto nel dominio delle conoscenze pure a priori, e quindi come dottrina, la filosofia apparisce non necessaria o piuttosto male applicata; poiché con tutti i tentativi finora fatti s’è guadagnato ben poco o niente terreno; ma, come Critica, per prevenire i passi falsi del Giudizio (lapsus iudicii) nell’uso di quei pochi concetti puri dell’intelletto che noi possediamo (benché l’utilità non sia allora se non negativa), la filosofia interviene con tutto il suo acume e il suo controllo. Ma la filosofia trascendentale ha questo di peculiare, che oltre la regola (o piuttosto condizione generale per le regole), che è data nel concetto puro dell’intelletto, può nello stesso tempo indicare a priori il caso, a cui la regola devesi applicare. La causa del vantaggio, che essa ha in questo punto, al disopra di ogni altra scienza teorica (salvo la matematica), sta in ciò: che essa tratta dei concetti che si debbono riferire a priori ai loro oggetti, e il cui valore obbiettivo perciò non può essere dimostrato a posteriori; perché ciò non deciderebbe punto di cotesta loro dignità123; ma essa deve insieme esporre nei caratteri generali, ma sufficienti, le condizioni in cui gli oggetti possono esser dati in accordo con quei concetti; senza di che questi sarebbero vuoti d’ogni contenuto, quindi forme logiche e non concetti puri dell’intelletto. Questa d o t t r i n a t r a s c e n d e n t a l e d e l G i u d i z i o, conterrà dunque due capitoli: il primo, che tratta della condizione sensibile, in cui soltanto possono essere adoperati i concetti puri dell’intelletto, cioè dello schematismo dell’intelletto puro; il secondo, invece, di quei giudizi, sintetici,

che derivano a priori, sotto queste condizioni, da concetti puri dell’intelletto, e che sono base di tutte le altre conoscenze a priori, cioè dei p r i n c ì p i dell’intelletto puro. 122

Il difetto di giudizio è propriamente quello che si chiama grulleria, difetto a cui non c’è modo di arrecare rimedio. Una testa ottusa o limitata, alla quale non manchi altro che un conveniente grado di intelletto e dei suoi concetti, si può bene armare mediante l’insegnamento fino a farne magari un dotto. Ma, poiché in tal caso di solito avviene che si sia sempre in difetto di quello (di secunda Petri [cioè «Giudizio», così detto scherzosamente da Kant con allusione alla II parte della Logica di Pietro Rame (1515-1572), che tratta appunto del Giudizio, N.d.R.]), non è punto raro il caso di uomini assai dotti, i quali nell’uso della loro scienza lasciano spesso scorgere quel tal difetto, che non si lascia mai correggere (N. d. K.). 123 Ossia non proverebbe il loro valore a priori.

Capitolo Primo Dello schematismo dei concetti puri dell’intelletto

In ogni sussunzione d’un oggetto sotto un concetto, la rappresentazione del primo deve essere o m o g e n e a con quella del secondo, cioè il concetto deve contenere ciò che è rappresentato nell’oggetto da sussumere sotto di esso: perocché questo appunto significa l’espressione, che un oggetto sia compreso sotto un concetto. Così il concetto empirico di un p i a t t o ha omogeneità con quello geometrico puro di un c i r c o l o , giacché la rotondità, che nel primo è pensata, nel secondo è i n t u i t a . Ma i concetti puri dell’intelletto, paragonati alle intuizioni empiriche (anzi sensibili, in generale) sono affatto eterogenei, e non possono trovarsi mai una qualsiasi intuizione. Or com’è possibile la s u s s u n z i o n e di queste sotto di quelli, e quindi l’a p p l i c a z i o n e della categoria ai fenomeni, poiché nessuno tuttavia dirà: questa categoria, per es. la causalità, può essere anche intuita per mezzo dei sensi, e contenuta nel fenomeno? Questa domanda così naturale e importante, è propriamente la causa che rende indispensabile una dottrina trascendentale del Giudizio, per mostrare la possibilità, in generale, di applicare i c o n c e t t i p u r i d e l l ’ i n t e l l e t t o a fenomeni in generale. In tutte le altre scienze, nelle quali i concetti onde l’oggetto è pensato in generale non sono così diversi ed eterogenei da quelli che rappresentano l’oggetto in concreto, come esso è dato, non è necessaria una discussione speciale intorno all’applicazione dei primi al secondo. Ora è chiaro che ci ha da essere un terzo termine, il quale deve essere omogeneo da un lato colla categoria e dall’altro col fenomeno, e che rende possibile l’applicazione di quella a questo. Tale rappresentazione intermediaria deve essere pura (senza niente di empirico), e tuttavia, da un lato, i n t e l l e t t u a l e , dall’altro s e n s i b i l e . Tale è lo s c h e m a trascendentale. Il concetto dell’intelletto contiene l’unità sintetica pura del molteplice in

generale. Il tempo, come condizione formale del molteplice del senso interno, quindi della connessione di tutte le rappresentazioni, contiene un molteplice a priori nella intuizione pura. Ora una determinazione trascendentale di tempo è omogenea alla categoria (che ne costituisce l’unità), in quanto è g e n e r a l e , e poggia sopra una regola a priori. Ma dall’altro lato, è omogenea al f e n o m e n o , in quanto il tempo è contenuto in ciascuna rappresentazione empirica del molteplice. Quindi un’applicazione delle categorie a fenomeni sarà possibile mediante la determinazione trascendentale del tempo, la quale, come schema dei concetti dell’intelletto, media la sussunzione dei fenomeni alla categoria. Dopo quello ch’è stato dimostrato nella Deduzione delle categorie, nessuno, è sperabile, esiterà a risolversi nella questione, se questi concetti puri dell’intelletto sieno di uso semplicemente empirico, o anche di uso trascendentale; cioè, se si riferiscono a priori soltanto a fenomeni, come condizioni di una esperienza possibile, o se invece possano estendersi come condizioni della possibilità delle cose in generale, ad oggetti in se stessi (senza alcuna restrizione alla nostra sensibilità). Poiché quivi noi abbiam visto, che concetti sono affatto impossibili, né possono avere un qualsiasi significato, ove non sia dato o a loro, o almeno agli elementi di cui constano, un oggetto; e che perciò non possono riferirsi alle cose in sé (senza cercare se e come queste possano esserci date); inoltre, che l’unico modo in cui ci son dati gli oggetti, e la modificazione della nostra sensibilità; e in fine, che i concetti puri a priori, oltre alla funzione dell’intelletto nella categoria, debbono pure contenere a priori condizioni formali della sensibilità (specialmente del senso interno) che costituiscono la condizione generale secondo la quale soltanto la categoria può esser applicata a un oggetto qualunque. Questa condizione formale e pura della sensibilità, alla quale si restringe il concetto dell’intelletto nel suo uso, la chiameremo s c h e m a di questo concetto dell’intelletto; e il modo di comportarsi dell’intelletto con questi schemi, s c h e m a t i s m o dell’intelletto puro. Lo schema è sempre, in se stesso, soltanto un prodotto della immaginazione; ma, poiché la sintesi di questa mira, non a una singola intuizione, sibbene solo all’unità nella determinazione della sensibilità, lo schema è da distinguere dall’immagine. Così, se io metto l’un dopo l’altro cinque punti: ....., questa è una immagine del numero cinque. Invece, se io penso soltanto un numero in generale, che in questo caso può essere cinque

come cento, allora questo pensiero è più la rappresentazione di un metodo per rappresentare una molteplicità (per es., mille), secondo un certo concetto, in una immagine, anzi che questa immagine stessa, la quale nell’ultimo caso sarebbe difficile abbracciare colla vista e confrontare col concetto. Ora io chiamo schema di un concetto la rappresentazione di procedimento generale onde l’immaginazione porge a esso concetto la sua immagine. Nel fatto, a base dei nostri concetti sensibili puri non ci sono immagini degli oggetti, ma schemi. Al concetto di triangolo in generale nessuna immagine di esso sarebbe mai adeguata. Essa infatti non adeguerebbe quella generalità del concetto, per cui esso vale tanto pel rettangolo quanto per l’isoscele, ecc.; ma resterebbe sempre limitata solo a una parte di questa sfera. Lo schema del triangolo non può esistere mai altrove che nel pensiero, e significa una regola della sintesi della immaginazione rispetto a figure pure nello spazio. Molto meno ancora un oggetto dell’esperienza o una sua immagine adeguano il concetto empirico; ma questo si riferisce sempre immediatamente allo schema dell’immaginazione, come regola della determinazione della nostra intuizione conforme a un determinato concetto generale. Il concetto del cane designa una regola, secondo la quale la mia immaginazione può descrivere la figura di un quadrupede in generale senza limitarla ad una forma particolare che mi offra l’esperienza, o a ciascuna immagine possibile, che io possa in concreto rappresentarmi. Questo schematismo del nostro intelletto, rispetto ai fenomeni e alla loro semplice forma, è un’arte celata nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi. Possiamo dire soltanto questo: l’i m m a g i n e è un prodotto della facoltà empirica della immaginazione produttiva; lo s c h e m a dei concetti sensibili (come delle figure nello spazio) è un prodotto e, per così dire, un monogramma della immaginazione pura a priori, per il quale e secondo il quale le immagini cominciano ad essere possibili: le quali immagini, per altro, non si ricollegano al concetto se non sempre mediante lo schema, che esse designano; e in sé non coincidono mai perfettamente con esso (concetto). Lo schema, per contro, di un concetto puro intellettuale è qualche cosa che non si può punto ridurre a immagine, ma non è se non la sintesi pura, conforme a una regola dell’unità (secondo concetti in generale), la quale esprime la categoria, ed è un prodotto trascendentale dell’immaginazione, riguardante la determinazione del senso interno in

generale, secondo le condizioni della sua forma (il tempo) in rapporto a tutte le rappresentazioni, in quanto queste debbono raccogliersi a priori in un concetto conformemente all’unità dell’appercezione. Ora senza trattenerci in un’analisi arida e noiosa di ciò che occorre per gli schemi trascendentali dei concetti puri dell’intelletto in generale, li esporremo piuttosto secondo l’ordine delle categorie e in connessione con esse. L’immagine pura di tutte le quantità (quantorum) innanzi al senso esterno è lo spazio, e di tutti gli oggetti del senso in generale è il tempo. Ma lo s c h e m a puro della q u a n t i t à (quantitatis) come concetto dell’intelletto, è il n u m e r o , il quale è una rappresentazione che comprende la successiva addizione di uno a uno (omogenei). Cosicché il numero non è altro che l’unità della sintesi del molteplice di una intuizione omogenea in generale, pel fatto che io produco il tempo stesso nell’apprensione dell’intuizione. La realtà del concetto puro dell’intelletto è ciò che corrisponde a una sensazione in generale, e quindi ciò, il cui concetto indica in se stesso un essere (nel tempo); la negazione è ciò, il cui concetto rappresenta un non essere (nel tempo). La loro contrapposizione risulta dalla differenza dello stesso tempo, come pieno e come vuoto. Poiché il tempo non è altro che la forma dell’intuizione, e perciò degli oggetti in quanto fenomeni, ciò che in questi corrisponde alla sensazione, è la materia trascendentale di tutti gli oggetti come cose in sé (entità124, realtà). Ora ogni sensazione ha un grado o quantità, colla quale può riempire più o meno lo stesso tempo, cioè il senso interno rispetto alla medesima rappresentazione di un oggetto, fino a ridursi a niente (= 0 = negatio). Quindi ciò che ci fa rappresentare come un quantum ogni realtà, è un rapporto o nesso o piuttosto un passaggio dalla realtà alla negazione; e lo schema di una realtà, come quantità di qualche cosa, in quanto questa riempie il tempo, è appunto questa continua e uniforme produzione di essa nel tempo, passando dalla sensazione che ha un certo grado nel tempo, al suo dileguarsi, oppure dalla negazione salendo gradatamente alla quantità di essa. Lo schema della sostanza è la permanenza del reale nel tempo, cioè la rappresentazione del reale come sostrato della determinazione empirica del tempo in generale; sostrato che perciò rimane, mentre tutto il resto muta. (Non è il tempo che scorre, ma in esso scorre l’esistenza del mutevole. Al tempo dunque, che è immobile e permanente, corrisponde nel fenomeno ciò che non muta nell’esistenza, cioè la sostanza, e soltanto in essa può esser

determinata la successione e la simultaneità dei fenomeni nel tempo.) Lo schema della causa e della causalità di una cosa in generale, è il reale a cui, una volta che esso sia posto, segue sempre qualche altra cosa. Esso consiste dunque nella successione del molteplice, in quanto è sottoposta ad una regola. Lo schema della reciprocità (azione scambievole) o della mutua causalità delle sostanze rispetto ai loro accidenti è la simultaneità delle determinazioni dell’una con quelle dell’altra, secondo una regola generale. Lo schema della possibilità è l’accordo della sintesi di diverse rappresentazioni con le condizioni del tempo in generale (per es. l’opposto di una cosa non può essere contemporaneo, ma solo successivo), e perciò la determinazione della rappresentazione d’una cosa in un tempo qualunque. Lo schema della realtà125 è l’esistenza in un determinato tempo. Lo schema della necessità è l’esistenza di un oggetto in ogni tempo. Ora da tutto ciò si vede quello che lo schema di ciascuna categoria contiene e fa pensare; se della quantità, la produzione (sintesi) del tempo stesso nella successiva apprensione di un oggetto; se della qualità, la sintesi della sensazione (percezione) con la rappresentazione del tempo, cioè il colmarsi del tempo; se della relazione, il rapporto delle percezioni fra di loro in ogni tempo (cioè secondo una regola della determinazione temporale); se, infine, della modalità e delle sue categorie, il tempo stesso come il correlato della determinazione di un oggetto, se e come questo appartiene al tempo. Gli schemi quindi non sono altro che d e t e r m i n a z i o n i a p r i o r i d e l t e m p o secondo regole, e queste si riferiscono secondo l’ordine delle categorie alla s e r i e del tempo, al suo c o n t e n u t o , al suo o r d i n e e finalmente all’i n s i e m e d e l t e m p o rispetto a tutti gli oggetti possibili. Donde segue che lo schematismo dell’intelletto, mercé la sintesi trascendentale dell’immaginazione, non mira ad altro che all’unità di ogni molteplice della intuizione nel senso interno, e perciò indirettamente alla unità dell’appercezione come funzione corrispondente al senso interno (recettività). Dunque gli schemi dei concetti puri dell’intelletto sono le sole vere condizioni, che danno ad essi una relazione con oggetti, e quindi un s i g n i f i c a t o ; e le categorie quindi non hanno in fine altro uso che quello possibile empirico, servendo soltanto a sottomettere, sul fondamento di una unità necessaria a priori (per via della necessaria unificazione di ogni coscienza in una appercezione originaria), i fenomeni a regole generali della

sintesi, e a disporli così alla connessione completa in una esperienza. Ma nella totalità d’ogni esperienza possibile stanno tutte le nostre conoscenze, e nel generale riferimento a questa consiste la verità trascendentale, che precede ogni verità empirica e la rende possibile. Ma è pur evidente che, sebbene gli schemi della sensibilità realizzino primieramente le categorie, nello stesso tempo tuttavia anche le restringono, cioè le limitano a condizioni che son fuori dell’intelletto (ossia della sensibilità). Quindi lo schema è propriamente solo il fenomeno o il concetto sensibile di un oggetto in accordo con la categoria. (N u m e r u s est quantitas phaenomenon, s e n s a t i o realitas phaenomenon, c o n s t a n s et perdurabile rerum substantia phaenomenon – a e t e r n i t a s necessitas phaenomenon, ecc.) Ora se noi mettiamo via una condizione restrittiva, allora veniamo ad amplificare, sembra, il concetto dianzi limitato; e così le categorie dovrebbero valere nella loro pura significazione, senza tutte le condizioni della sensibilità, per cose in generale, c o m e e s s e s o n o, laddove i loro schemi rappresentano soltanto queste cose c o m e e s s e a p p a i o n o; e avere un significato indipendente da tutti gli schemi, e molto più esteso. Nel fatto, ai concetti puri dell’intelletto, anche dopo la soppressione d’ogni condizione sensibile, rimane senza dubbio un valore, ma solo logico; quello della semplice unità delle rappresentazioni, alle quali però non vien dato nessun oggetto, e però né anche nessun significato, che possa dare un concetto dell’oggetto. Così, ad es., la sostanza, se uno toglie via la determinazione sensibile della permanenza, non significa se non qualcosa che può essere pensato come soggetto (senza essere predicato di altro). Ora io non posso cavar nulla da una tale rappresentazione, poiché essa non mi indica punto quali determinazioni abbia la cosa che deve valere come tal primo soggetto. Perciò le categorie senza schemi sono soltanto funzioni dell’intelletto per i concetti, ma non rappresentano nessun oggetto. Questo significato viene ad esse dalla sensibilità, la quale realizza l’intelletto, mentre a un tempo lo restringe. 124

Sachheit = cosalità, vocabolo che invano si è tentato d’introdurre nel linguaggio filosofico italiano. 125 Da distinguersi dalla realtà (Realität) categoria della qualità, corrispondente al giudizio affermativo. Qui realtà (Wirklichkeit) è effettualità o realtà di fatto (categoria della modalità).

Capitolo Secondo Sistema di tutti i princìpi dell’intelletto puro

Nel capitolo precedente abbiamo considerato il Giudizio trascendentale solo per rispetto alle condizioni generali, in cui è in diritto di adoperare i concetti puri dell’intelletto nei giudizi sintetici. Adesso il nostro compito è di esporre in un nesso sistematico i giudizi che l’intelletto, con questa precauzione critica, emette realmente a priori; al qual uopo deve senza dubbio esserci guida naturale e sicura la nostra tavola delle categorie. Giacché sono appunto queste, che, entrando in relazione con l’esperienza possibile, debbon costituire a priori ogni conoscenza pura dell’intelletto; e la cui relazione colla sensibilità in generale ci farà perciò appunto presentare compiutamente in un sistema tutti i princìpi fondamentali dell’uso dell’intelletto. I princìpi a priori non portano questo nome semplicemente perché contengono in sé il fondamento di altri giudizi, ma anche perché non sono fondati essi stessi in conoscenze più alte e più generali. Questa proprietà tuttavia non li dispensa in ogni caso da una prova. Giacché, sebbene questa non possa oggettivamente esser condotta più in là, ma [il principio] stia piuttosto a base di ogni conoscenza del suo oggetto; ciò nondimento non impedisce che sia possibile fornire una prova desunta dalle fonti soggettive della possibilità di una conoscenza dell’oggetto in generale; anzi questo sarebbe anche necessario, poiché altrimenti il principio avrebbe su di sé il maggior sospetto di essere una semplice asserzione surrettizia. In secondo luogo, noi ci limiteremo soltanto a quei princìpi che si riferiscono alle categorie. I princìpi dell’Estetica trascendentale per cui lo spazio e il tempo sono le condizioni della possibilità di tutte le cose in quanto fenomeni, nonché la limitazione di questi princìpi, – che cioè essi non possono esser riferiti alle cose in se stesse, – non rientrano dunque nel nostro separato campo di ricerca. Alla stessa maniera i princìpi delle matematiche non fan parte di questo sistema, poiché son ricavati soltanto dall’intuizione,

ma non dal concetto puro dell’intelletto; pure la loro possibilità, poiché essi sono tuttavia giudizi sintetici a priori, troverà qui posto necessariamente, non già per provare la loro giustezza e certezza apodittica (di ciò non hanno bisogno), bensì soltanto per spiegare e dedurre la possibilità di queste evidenti conoscenze a priori. Dovremo anche parlare, però, del principio dei giudizi analitici, e ciò in contrapposto coi sintetici, come quelli coi quali abbiamo particolarmente da fare; giacché proprio questa opposizione libera la teoria di questi ultimi da ogni malinteso, e la mette chiaramente innanzi agli occhi nella sua natura peculiare.

Sezione Prima DEL PRINCIPIO SUPREMO DI TUTTI I GIUDIZI ANALITICI Qualunque sia il contenuto della nostra conoscenza, e comunque essa si riferisca all’oggetto, la condizione tuttavia universale, sebbene soltanto negativa, di tutti i nostri giudizi in generale è questa, che in se stessi non si contraddicano; se no, questi giudizi in se stessi (anche senza riguardo all’oggetto) non sono nulla. Quand’anche per altro, in un nostro giudizio non vi sia contraddizione, esso può nondimeno unire i concetti così come l’oggetto non comporta, o magari senza che ci sia dato, né a priori, né a posteriori, un fondamento qualunque, che giustifichi il giudizio; e però un giudizio può, anche se libero di ogni contraddizione interna, essere o falso o infondato. Ora la proposizione: «a nessuna cosa conviene un predicato che la contraddica», si chiama principio di contraddizione; ed è un criterio generale, benché semplicemente negativo, della verità; ma appartiene anche, appunto perciò, solo alla logica, poiché vale per le conoscenze soltanto come conoscenze in generale, senza riguardo al loro contenuto, e dice che la contraddizione le annulla affatto e distrugge. Ma di esso si può anche fare un uso positivo, cioè non solo per bandire il falso e l’errore (in quanto questo riposa sulla contraddizione), ma anche per conoscere la verità. Giacché, s e i l g i u d i z i o è a n a l i t i c o, sia esso negativo o affermativo, la sua verità deve sempre poter essere sufficientemente conosciuta secondo il principio di contraddizione. Infatti, di

ciò che si trova già e viene pensato nella conoscenza dell’oggetto come concetto, l’opposto dovrà sempre essere giustamente negato, ma lo stesso concetto dovrà di esso essere necessariamente affermato, per la ragion che il suo opposto ripugnerebbe all’oggetto. Dobbiamo quindi far valere anche il p r i n c i p i o d i c o n t r a d d i z i o n e come p r i n c i p i o generale e pienamente sufficiente di ogni c o n o s c e n z a a n a l i t i c a ; ma la sua portata e adoperabilità non vanno più in là di un criterio sufficiente della verità. Infatti, se nessuna conoscenza gli si può opporre senza annientare se stessa, questa fa bensì di tale principio una conditio sine qua non, ma non un fondamento di determinazione della verità della nostra conoscenza. Ora, dovendo qui propriamente trattare solo della parte sintetica della nostra conoscenza, noi ci guarderemo sempre dall’andar contro questo imprescindibile principio; ma, rispetto alla verità di tale specie di conoscenza, non potremo mai attendercene schiarimento di sorta. Tuttavia di questo celebre principio, sebbene sia vuoto di ogni contenuto e puramente formale, c’è una formula, la quale contiene una sintesi, che v’è stata mescolata per inavvertenza e senza necessità alcuna. Essa suona: «è impossibile che qualche cosa sia e non sia n e l l o s t e s s o t e m p o ». Oltre che qui è superflua l’aggiunta della certezza apodittica (con la parola i m p o s s i b i l e ), che si desume da sé dal principio, il principio è affetto dalla condizione del tempo, ed è come se dicesse: una cosa = A, che è qualche cosa = B, non può a un tempo essere non B, ma può ben essere l’una cosa e l’altra (tanto B quanto non B) successivamente. Per es., un uomo che è giovane, non può nello stesso tempo esser vecchio, ma egli può benissimo essere in un tempo giovane, e in un altro non giovane, cioè vecchio. Ora, il principio di contraddizione, in quanto principio semplicemente logico, non deve assolutamente limitare le sue enunciazioni ai rapporti di tempo: quindi una tale formula è affatto contraria allo scopo di esso. L’equivoco sta tutto qui, che prima si separa un predicato di una cosa dal concetto di essa, e poi con questo predicato si collega il suo opposto: ciò che non produce mai contraddizione col soggetto, ma solo col suo predicato, il quale era stato collegato con esso sinteticamente; e per verità ciò avviene soltanto nel caso che il primo e il secondo predicato siano posti nello stesso tempo. Se io dico, che un uomo che è ignorante non è dotto, debbo aggiungere la condizione: n e l l o s t e s s o t e m p o; giacché colui che in un tempo è ignorante, può benissimo esser dotto in un altro. Se invece dico: nessun uomo ignorante è

dotto, allora la proporzione è analitica, poiché la nota (ignoranza) costituisce ormai il concetto del soggetto, e in tal caso la proposizione negativa scaturisce immediatamente dal principio di contraddizione, senza che ci sia bisogno di aggiungere la condizione: n e l l o s t e s s o t e m p o . Ed è questo il motivo, per cui ho sopra modificato la formula in modo che ne venisse chiaramente espresso il carattere proprio di proposizione analitica.

Sezione Seconda DEL PRINCIPIO SUPREMO DI TUTTI I GIUDIZI SINTETICI La spiegazione della possibilità di giudizi sintetici, è cosa che non ha nulla che fare colla logica generale, la quale non ha bisogno di conoscerne neppure il nome. Ma nella logica trascendentale, invece, è il compito più importante di tutti, anzi l’unico, se si parla della possibilità di giudizi sintetici a priori, nonché delle condizioni e dell’ambito del loro valore. Perché dopo l’adempimento di esso la logica trascendentale può dire di aver raggiunto pienamente il proprio fine, che è quello di determinare l’estensione e i limiti dell’intelletto puro. Nel giudizio analitico, io resto nel concetto dato, per stabilire qualche cosa intorno ad esso. Se deve essere affermativo, attribuisco a questo concetto solamente ciò che era già pensato in esso; se deve essere negativo, escludo da esso soltanto il suo opposto. Ma nei giudizi sintetici io debbo uscire dal concetto dato per considerare in rapporto con esso qualche cosa di affatto diverso da ciò che si era pensato in esso; rapporto che, quindi, non è mai di identità né di contraddizione, e in cui il giudizio in se stesso non può presentarci né la verità né l’errore. Posto dunque che si debba uscire da un concetto dato, per paragonarlo sinteticamente con un altro, è necessario avere un terzo termine, dal quale solo può sorgere la sintesi dei due concetti. Ora, che cosa è questo terzo termine, medio in tutti i giudizi sintetici? Può essere solo un insieme, in cui sieno contenute tutte le nostre rappresentazioni, cioè il senso interno e la sua forma a priori, il tempo. La sintesi delle rappresentazioni poggia sulla immaginazione, ma l’unità sintetica di questa (richiesta pel giudizio) sull’unità dell’appercezione. Ecco, dunque, dove sarà da cercare la possibilità dei giudizi sintetici e – poiché tutti i tre termini contengono le fonti delle

rappresentazioni a priori – anche dei giudizi sintetici puri; anzi per tali ragioni essi saranno perfino necessari, se ha da esserci una conoscenza di oggetti, che riposi unicamente sulla sintesi delle rappresentazioni. Se una conoscenza deve avere una realtà oggettiva, cioè riferirsi a un oggetto e avere in esso significato e senso, l’oggetto in una maniera qualunque deve potere esser dato. Senza di che, i concetti sono vuoti, e se uno con essi pensa, in fatto tuttavia con questo pensiero non conosce nulla, ma giuoca semplicemente con rappresentazioni. Dare un oggetto, – se questo a sua volta non deve essere soltanto opinato indirettamente, ma rappresentato immediatamente nell’intuizione, – non è altro che riferire la sua rappresentazione all’esperienza (sia questa reale, o possibile). Anche lo spazio e il tempo, per puri che questi concetti sieno di ogni elemento empirico, e per certo che sia altresì, che essi sono rappresentati nello spirito affatto a priori, sarebbero senza validità obbiettiva e senza senso né significato ove non se ne fosse mostrato l’uso necessario negli oggetti dell’esperienza; anzi la loro rappresentazione è un semplice schema, che si riferisce sempre all’immaginazione riproduttiva, la quale vi chiama gli oggetti dell’esperienza, senza di cui quei concetti non avrebbero valore di sorta; e lo stesso avviene di tutti i concetti indistintamente. La p o s s i b i l i t à d e l l ’ e s p e r i e n z a è dunque ciò che conferisce realtà obbiettiva a tutte le nostre conoscenze a priori. Ora l’esperienza poggia sull’unità sintetica dei fenomeni, cioè su una sintesi, secondo concetti, dell’oggetto dei fenomeni in generale, senza la quale non sarebbe mai conoscenza, ma una rapsodia di percezioni, le quali non potrebbero mai adattarsi insieme in un regolare contesto di una coscienza (possibile) interamente connessa, e quindi né anche all’unità trascendentale e necessaria dell’appercezione. L’esperienza ha dunque, a fondamento, princìpi della sua forma a priori, cioè regole universali dell’unità nella sintesi dei fenomeni; regole, la cui realtà obbiettiva può essere provata sempre nell’esperienza, come di necessarie condizioni di essa, anzi della sua possibilità. Fuori per altro di questo rapporto, non sono punto possibili proposizioni sintetiche a priori, poiché esse non hanno un terzo termine, cioè un oggetto nel quale l’unità sintetica dei loro concetti possa dimostrare realtà obbiettiva. Quindi, sebbene dello spazio in generale, o delle figure che in esso disegna l’immaginazione produttiva, conosciamo già tanto a priori in giudizi sintetici, che realmente non abbiamo punto per questa parte bisogno

dell’esperienza; pure tale conoscenza non sarebbe assolutamente nulla, ma si ridurrebbe a un pascersi di semplici chimere, se lo spazio non fosse da considerare come condizione dei fenomeni, che costituiscono la materia dell’esperienza esterna; quindi quei giudizi sintetici puri si riferiscono, benché solo mediatamente, a una esperienza possibile, o piuttosto alla stessa possibilità sua, e solo in ciò fondano la validità obbiettiva della loro sintesi. Poiché dunque l’esperienza, come sintesi empirica, è, nella sua possibilità, l’unico modo di conoscenza che dia realtà ad ogni altra sintesi; questa, come conoscenza a priori, possiede anche la verità (accordo coll’oggetto), solo in quanto non contiene se non ciò che è necessario all’unità sintetica dell’esperienza in generale. Il principio supremo di tutti i giudizi sintetici è dunque: ciascun oggetto sottostà alle condizioni necessarie dell’unità sintetica del molteplice dell’intuizione in una esperienza possibile. In tal guisa sono possibili i giudizi sintetici a priori, se noi riferiamo le condizioni formali dell’intuizione a priori, la sintesi dell’immaginazione e la sua unità necessaria in una appercezione trascendentale, a una possibile conoscenza empirica in generale, e diciamo: le condizioni della p o s s i b i l i t à d e l l ’ e s p e r i e n z a in generale sono a un tempo condizioni della p o s s i b i l i t à d e g l i o g g e t t i d e l l ’ e s p e r i e n z a, ed hanno perciò valore oggettivo in un giudizio sintetico a priori.

Sezione Terza RAPPRESENTAZIONE SISTEMATICA DI TUTTI I PRINCÌPI SINTETICI DELL’INTELLETTO PURO Se in generale si trovano princìpi dovunque, ciò è da ascrivere unicamente all’intelletto puro, il quale non è soltanto la facoltà delle regole riguardo a ciò che avviene, ma altresì la fonte dei princìpi; quella fonte, per cui tutto (ciò che può presentarcisi comunque come oggetto) è subordinato necessariamente a regole, poiché senza queste ai fenomeni non potrebbe mai spettare la conoscenza di un oggetto a essi corrispondente. Le stesse leggi naturali, se vengono considerate come princìpi dell’uso empirico dell’intelletto, hanno insieme l’impronta della necessità, e quindi almeno la presunzione di una determinazione derivante da princìpi valevoli in sé a

priori e innanzi ad ogni esperienza. Ma tutte le leggi della natura, senza distinzione, sottostanno a princìpi superiori dell’intelletto, poiché esse li applicano a casi particolari del fenomeno. Questi princìpi soltanto, adunque, danno il concetto che contiene la condizione e, per così dire, l’esponente d’una regola in generale; ma l’esperienza dà il caso che è sottoposto alla regola. Né vi può essere propriamente pericolo che si scambino semplici princìpi empirici per princìpi dell’intelletto puro, o viceversa; perché la necessità concettuale, che caratterizza i secondi, e la cui assenza in ogni principio empirico, per quanto generalmente esso valga, ognuno percepisce facilmente, può facilmente evitare un tale scambio. Si danno per altro princìpi puri a priori, che io nondimeno non attribuirei peculiarmente all’intelletto puro, poiché sono desunti non da concetti puri, ma da pure intuizioni (sebbene per mezzo dell’intelletto), laddove l’intelletto è la facoltà dei concetti. La matematica ne ha di questo genere, ma la loro applicazione all’esperienza, e perciò la loro validità obbiettiva, anzi la possibilità di una tale conoscenza sintetica a priori (la sua deduzione), è tuttavia sempre fondata sull’intelletto puro. Quindi non conterò tra i miei princìpi quelli della matematica, bensì quelli sui quali è fondata la sua possibilità e validità oggettiva a priori, e che sono pertanto da considerare come principio dei suoi princìpi, e vanno dai c o n c e t t i all’intuizione e non dall’i n t u i z i o n e ai concetti. Nell’applicazione dei concetti puri dell’intelletto all’esperienza possibile, l’uso della loro sintesi è o m a t e m a t i c o o d i n a m i c o : perocché in parte si riferisce semplicemente all’i n t u i z i o n e , in parte all’e s i s t e n z a di un fenomeno in generale. Ma le condizioni a priori dell’intuizione rispetto a una esperienza possibile, sono assolutamente necessarie, quelle dell’esistenza degli oggetti di una intuizione empirica possibile in sé sono solamente contingenti. Quindi, i princìpi dell’uso matematico varranno incondizionatamente e necessariamente, cioè apoditticamente; quelli, invece, dell’uso dinamico avranno sì il carattere di una necessità a priori, ma sotto la condizione del pensiero empirico in una esperienza, e perciò solo mediatamente e indirettamente; sicché essi non contengono (senza pregiudizio tuttavia della loro certezza riferita in generale alla esperienza) quella evidenza immediata, che è propria dei primi. Ciò, per altro, si potrà meglio giudicare alla fine di questo sistema dei princìpi.

La tavola delle categorie ci indica la via naturale per comporre quella dei princìpi, poiché questi non sono se non regole dell’uso oggettivo di quelle. Tutti i princìpi dell’intelletto puro son dunque: 1. Assiomi dell’intuizione. 2. 3. Anticipazioni Analogie della percezione. dell’esperienza. 4. Postulati del pensiero empirico in generale.

Ho scelto di proposito queste denominazioni per non lasciar passare inosservate le differenze di questi princìpi nel rispetto dell’evidenza e dell’uso. Ma tosto si vedrà che, per ciò che riguarda tanto l’evidenza quanto la determinazione a priori dei fenomeni, secondo le categorie di q u a n t i t à e di q u a l i t à (se si ha riguardo esclusivamente alla forma di queste ultime) i loro princìpi si distinguono notevolmente da quelli delle altre due in ciò, che quelli son capaci di una certezza intuitiva, questi d’una certezza soltanto discorsiva, sebbene gli uni e gli altri d’una certezza piena. Perciò io chiamerò quelli princìpi m a t e m a t i c i , e questi d i n a m i c i 126. Ma si noterà bene, che qui io non ho innanzi agli occhi né i princìpi della matematica nel primo caso, né quelli della dinamica generale (fisica) nel secondo, ma solamente quelli dell’intelletto puro in rapporto col senso interno (senza distinzione delle rappresentazioni in esso date), per cui essi tutti ottengono la loro possibilità. Li denomino, dunque, più in considerazione della loro applicazione che per il loro contenuto: e vengo ora al loro esame nello stesso ordine nel quale sono stati presentati nel quadro.

1. Assiomi dell’intuizione Il loro principio è: t u t t e l e e s t e n s i v e 127. Dimostrazione

intuizioni

sono

quantità

Tutti i fenomeni contengono, per la forma, una intuizione nello spazio e nel tempo, che è a priori a fondamento di essi tutti. Essi non possono dunque essere appresi, cioè assunti nella coscienza empirica, se non mediante la sintesi del molteplice, onde son prodotte le rappresentazioni di uno spazio e di un tempo determinati, cioè mediante la composizione dell’omogeneo e la coscienza dell’unità sintetica di questo molteplice (omogeneo). Ora, la coscienza del molteplice omogeneo nella intuizione in generale, in quanto per essa è primieramente resa possibile la rappresentazione di un oggetto, è il concetto di una quantità (quanti). La percezione stessa, dunque, di un oggetto come fenomeno è possibile solo mediante quella stessa unità sintetica del molteplice della intuizione sensibile data, per la quale l’unità della composizione del molteplice omogeneo vien pensata nel concetto di una q u a n t i t à ; cioè, i fenomeni sono tutti quantità, anzi q u a n t i t à e s t e n s i v e , poichè debbono esser rappresentati come intuizioni nello spazio o nel tempo, per mezzo di quella stessa sintesi, onde sono determinati lo spazio e il tempo in generale128. Chiamo estensiva quella quantità, nella quale la rappresentazione delle parti rende possibile la rappresentazione del tutto (e perciò necessariamente la precede). Io non mi posso rappresentare una linea, per piccola che sia, senza tracciarla nel pensiero, cioè generarne via via tutte le parti muovendo da un punto, e senza disegnare perciò prima di tutta questa intuizione. Altrettanto è da dire delle parti del tempo, anche delle più piccole. In queste io penso soltanto il successivo passaggio da un istante all’altro, per cui tutte le parti del tempo e la loro addizione danno infine una determinata quantità temporale. Ora, poiché la semplice intuizione in tutti i fenomeni è o lo spazio o il tempo, così ogni fenomeno, in quanto intuizione, è una quantità estensiva, non potendo essere conosciuto nell’apprensione se non per sintesi successiva (di parte a parte). Tutti i fenomeni pertanto vengono intuiti come aggregati (molteplicità di parti precedentemente date); ciò che non è precisamente il caso per ogni specie di quantità, ma solo per quelle che vengono da noi rappresentate e apprese estensivamente come tali. Su questa sintesi successiva della immaginazione produttiva nella produzione delle figure si fonda la matematica dell’estensione (geometria) co’ suoi assiomi esprimenti le condizioni dell’intuizione sensibile a priori; condizioni, alle quali soltanto è possibile che si costituisca lo schema di un concetto puro del fenomeno esterno; per es.: fra due punti è possibile soltanto

una retta; due linee rette non chiudono uno spazio, ecc. Ecco gli assiomi che non concernono propriamente se non quantità (quanta), come tali. Ma per ciò che riguarda la quantità (quantitas), cioè la risposta alla domanda: quanto una cosa sia grande, – sebbene parecchie di queste proposizioni sieno sintetiche e immediatamente certe (indemonstrabilia), tuttavia rispetto ad esse non c’è nessun assioma in senso proprio. Infatti, che una quantità uguale aggiunta a quantità uguale, o da questa sottratta, dia quantità uguale, sono proposizioni analitiche, essendo io consapevole immediatamente della identità di una di queste proposizioni di quantità con l’altra; ma gli assiomi debbono essere proposizioni sintetiche a priori. Al contrario, le proposizioni evidenti dei rapporti numerici sono bensì certamente sintetiche, ma non generali, come quelle della geometria, e appunto perciò non sono né anch’esse assiomi; e si possono chiamare formule numeriche. 7 + 5 = 12 non è una proposizione analitica. Giacché il numero 12 io non lo penso né nella rappresentazione del 7, né in quella del 5, né nella rappresentazione della loro somma. (Qui non si tratta se io debba pensare questo numero n e l l ’ a d d i z i o n e d e g l i a l t r i d u e; giacché in una proposizione analitica si tratta soltanto di sapere se io realmente penso il predicato nella rappresentazione del soggetto.) Ma, benché sintetica, tuttavia questa proposizione è soltanto particolare. In quanto qui si guarda semplicemente alla sintesi dell’omogeneo (delle unità), la sintesi qui può avvenire in un solo modo, quantunque l’u s o di questi numeri sia poi generale. Se dico: «con tre linee, delle quali due prese insieme sono maggiori della terza, si può costruire un triangolo», io qui ho la semplice funzione dell’immaginazione produttiva, che può tirare le linee più grandi o più piccole, nonché farle incontrare secondo qualunque angolo a piacere. Al contrario il numero 7 è possibile in una sola maniera, e così anche il numero 12, che vien prodotto dalla sintesi di quello con 5. Proposizioni come queste non debbono dunque chiamarsi assiomi (che altrimenti ve ne sarebbe una infinità), ma formule numeriche. Questo principio trascendentale della matematica dei fenomeni conferisce alla nostra conoscenza a priori una grande estensione. Giacché è il solo che renda applicabile la matematica pura, in tutto il suo rigore, ad oggetti dell’esperienza; ciò che senza questo principio non potrebbe risultare da sé evidente, anzi ha dato luogo a più d’una contraddizione. I fenomeni non sono cose in sé. L’intuizione empirica non è possibile se non per mezzo

dell’intuizione pura (spazio e tempo); ciò, quindi, che la geometria dice di questa, vale anche senza contraddizione di quella, e tutte le difficoltà fondate sul pretesto che gli oggetti dei sensi non possono conformarsi alle regole della costruzione spaziale (per es. della divisibilità infinita della linea o dell’angolo) devon cadere. Giacché altrimenti si nega allo spazio, e per esso a tutta la matematica, ogni valore oggettivo, e non si sa più perché, e fino a che punto essa sia applicabile ai fenomeni. La sintesi degli spazi e dei tempi, come forme essenziali di ogni intuizione, è ciò che rende possibile a un tempo l’apprensione dei fenomeni, e perciò ogni esperienza esterna, e per conseguenza anche ogni conoscenza degli oggetti di essa; e ciò che la matematica pura dimostra dell’una vale anche necessariamente dell’altra. Tutte le obbiezioni in contrario sono soltanto cavilli di una ragione falsamente informata, che erroneamente immagina di liberare gli oggetti dei sensi nella condizione formale della nostra sensibilità, e li rappresenta, malgrado sieno semplici fenomeni, come oggetti in se stessi dati all’intelletto; nel qual caso certamente nulla su di essi potrebbe esser conosciuto a priori e perciò nemmeno sinteticamente coi puri concetti dello spazio, e la scienza che questi determina, la geometria, non sarebbe possibile.

2. Anticipazioni della percezione Il loro principio è: I n t u t t i i f e n o m e n i i l r e a l e c h e è o g g e t t o d e l l a s e n s a z i o n e h a u n a q u a n t i t à i n t e n s i v a, cioè un grado129. D i m o s t r a z i o n e 130. Percezione è la coscienza empirica, cioè quella coscienza in cui c’è insieme una sensazione. I fenomeni, come oggetti della percezione, non sono intuizioni pure (semplicemente formali) come lo spazio e il tempo (giacché questi in sé non possono essere punto percepiti). Contengono dunque in sé, oltre l’intuizione, anche la materia per un qualsiasi oggetto in generale (onde vien rappresentato qualche cosa di esistente nello spazio o nel tempo), ossia il reale della sensazione, come rappresentazione meramente soggettiva, per cui soltanto si acquista la coscienza che il soggetto è modificato, e che si riferisce ad un oggetto in generale. Ora è possibile un passaggio graduale dalla coscienza empirica alla pura, dove il reale della coscienza empirica sparisce e rimane una coscienza meramente formale (a priori) del molteplice nello spazio e nel tempo; dunque è possibile anche una sintesi del progressivo

prodursi della quantità di una sensazione, dal suo principio, cioè dall’intuizione pura = 0, sino ad una quantità qualsivoglia. Ma, poiché la sensazione in sé non è punto una rappresentazione oggettiva, e poiché in essa non si incontra né l’intuizione dello spazio né quella del tempo, ad essa non spetterà una quantità estensiva, bensì una quantità (e ciò per via della sua apprensione, nella quale la coscienza empirica può crescere in un tempo determinato da niente = 0 alla sua misura data), dunque una q u a n t i t à i n t e n s i v a ; in corrispondenza della quale, a tutti gli oggetti della percezione, in quanto questa contiene una sensazione, deve esser attribuita una q u a n t i t à i n t e n s i v a, ossia un certo grado d’influsso sui sensi. Ogni conoscenza colla quale io posso conoscere a priori e determinare ciò che appartiene alla conoscenza empirica, si può chiamare un’a n t i c i p a z i o n e ; ed è questo indubbiamente il senso in cui Epicuro adoperò la sua espressione πρόληψις131. Ma, poiché nei fenomeni c’è qualche cosa che non è mai conosciuto a priori, e che costituisce quindi la differenza specifica fra conoscenza empirica e conoscenza a priori, e cioè la sensazione (la materia della percezione); ne segue, che questa è propriamente ciò che non può mai essere anticipato. Al contrario, anticipazioni dei fenomeni potrebbero chiamarsi le determinazioni pure nello spazio e nel tempo, sì rispetto alla figura che alla quantità, poiché esse rappresentano a priori ciò che sempre può esser dato a posteriori nell’esperienza. Ma, ove ci sia qualcosa, che si possa conoscere a priori in ciascuna sensazione, come sensazione in generale (senza che possa essere data una sensazione particolare), questo qualcosa meriterebbe di essere chiamato anticipazione in senso eccezionale, poiché pare strano anticipare sull’esperienza proprio in ciò che appartiene alla materia di essa, e che soltanto da essa può esser prodotto. E la cosa, intanto, qui sta realmente così. L’apprensione per la semplice sensazione (se io cioè non considero la successione di molte sensazioni) riempie solo un istante. In quanto dunque è qualche cosa nel fenomeno, la cui apprensione non è una sintesi successiva, la quale proceda dalle parti alla rappresentazione totale, essa non ha quantità estensiva; la mancanza della sensazione nello stesso istante rappresenterebbe questo istante come vuoto = 0. Ora, ciò che nella intuizione empirica corrisponde alla sensazione, è realtà (realitas phaenomenon); ciò che corrisponde all’assenza di essa, è negazione = 0. Ma ogni sensazione è suscettibile di diminuzione, tanto che può decrescere, e così a poco a poco

sparire. Quindi fra la realtà nel fenomeno e la sua negazione c’è una catena continua di molte possibili sensazioni intermedie, la cui differenza, dall’una all’altra, è sempre più piccola della differenza che v’è fra quella data e lo zero, o completa negazione. Il che significa: il reale nel fenomeno ha sempre una quantità, che per altro non si incontra nell’apprensione, poiché questa avviene mediante la semplice sensazione in un istante e non per sintesi successive di molte sensazioni, e perciò non va dalle parti al tutto; esso ha dunque bensì una quantità, ma non estensiva. Ora, una tale quantità, che è appresa soltanto come unità, e in cui la molteplicità può essere rappresentata solo per approssimazione alla negazione = 0, io la chiamo q u a n t i t à i n t e n s i v a. Dunque, ogni realtà fenomenica ha una quantità intensiva, cioè un grado. Se si considera questa realtà come c a u s a (della sensazione o di un’altra realtà fenomenica, per es. d’un cangiamento), allora il grado della realtà in quanto causa si chiama momento; per es., il momento della pesantezza; e ciò appunto perché il grado designa solo la quantità, la cui apprensione non è successiva, ma istantanea. Ma questo io mi contento qui di averlo solamente accennato, giacché per ora non mi occupo della causalità. Ogni sensazione pertanto, e quindi ogni realtà fenomenica, per piccola che sia, ha un grado, cioè una quantità intensiva, che può sempre esser ancora diminuita; e fra la realtà e la negazione vi è una catena continua di realtà possibili, e di possibili percezioni meno intense. Ciascun colore, per es. il rosso, ha un grado che, per quanto piccolo, non è mai il minimo: e così è del calore, del momento della pesantezza, ecc. La proprietà delle quantità, per la quale in esse non c’è parte che sia la più piccola possibile (cioè una parte semplice), dicesi la c o n t i n u i t à di esse. Spazio e tempo sono quanta continua, perché non si può darne una parte senza chiuderla fra limiti (punti e istanti), e perciò, solo in guisa che la parte data sia alla sua volta uno spazio o un tempo. Lo spazio dunque consta soltanto di spazi, il tempo di tempi. Punti e istanti sono soltanto limiti, cioè semplici termini della delimitazione di quelli; ma i termini presuppongono sempre quelle intuizioni che essi debbono limitare o determinare, e coi semplici termini, quasi elementi costitutivi, che fossero pur dati innanzi allo spazio o al tempo, non può formarsi lo spazio, né il tempo. Quantità di questo genere si possono chiamare anche f l u e n t i , poiché la sintesi (dell’immaginazione produttiva) è nella loro formazione un processo nel

tempo, la cui continuità si suole indicare in particolare coll’espressione fluire (scorrere). Tutti i fenomeni in generale sono pertanto quantità continue, sia per la loro intuizione, come quantità estensive, sia per la semplice percezione (sensazione e quindi realtà), come quantità intensive. Se la sintesi del molteplice del fenomeno è interrotta, allora questo è un aggregato di molti fenomeni (e non propriamente un fenomeno, come un quantum); il quale non è prodotto dalla semplice continuazione della sintesi produttiva d’una determinata maniera, ma dalla ripetizione di una sintesi sempre tralasciata e ripresa. Quando dico tredici talleri una certa quantità di denaro, dico esatto se intendo con ciò la lega di un marco d’argento puro; che è senza dubbio una quantità continua, in cui nessuna parte è la minima possibile, ma ciascuna potrebbe costituire una moneta, contenente sempre materia per pezzi più piccoli. Ma se con questo modo di esprimermi intendo parlare di tredici talleri tondi, cioè di tante monete (sia qualsivoglia la loro lega argentea) allora impropriamente dico questo un quantum di talleri, laddove debbo chiamarlo un aggregato, un numero di monete. Ora, poiché in ogni numero c’è a base l’unità, il fenomeno, in quanto unità, è un quantum, e come tale sempre un continuo. Se perciò tutti i fenomeni, considerati estensivamente o intensivamente, sono quantità continue, la proposizione che anche ogni cangiamento (passaggio di una cosa da uno stato a un altro) è continuo, potrebbe esser qui facilmente provata con evidenza matematica, se la causalità di un cangiamento in generale non fosse assolutamente fuori dai confini di una filosofia trascendentale, e non presupponesse princìpi empirici. Infatti, che sia possibile una causa che cangi lo stato delle cose, e cioè che le determini in opposizione ad uno stato dato, questo non ce lo dice punto l’intelletto a priori, non solo perché non ne vede in nessun modo la possibilità (infatti questa nozione ci manca nella maggior parte delle nostre conoscenze a priori), ma anche perché la mutabilità riguarda unicamente certe determinazioni dei fenomeni, che solo l’esperienza può insegnare, laddove la sua causa è in quel che non muta. Ma, non avendo innanzi a noi nulla di cui ci si possa servire, tranne i concetti fondamentali puri di ogni possibile esperienza, tra cui non deve essere assolutamente niente di empirico; noi non possiamo, senza ledere l’unità del sistema, invadere il campo della fisica generale, la quale è costruita su certe esperienze fondamentali.

Tuttavia, a noi non mancano prove della grande influenza che questo nostro principio ha per anticipare delle percezioni, e colmare perfino le loro lacune, in modo da serrare la porta a tutte le false conclusioni che se ne potrebbero trarre. Se ogni realtà nella percezione ha un grado, fra il quale e la sua negazione c’è posto per una serie infinita di gradi sempre minori, e se ogni senso deve tuttavia avere un determinato grado di recettività delle sensazioni; non è possibile una percezione, e perciò nemmeno un’esperienza, che dimostri una totale mancanza del reale fenomenico, sia immediatamente, sia mediatamente (per qualsivoglia mai rigiro di ragionamento); cioè, non si può dall’esperienza ricavare mai una prova dello spazio vuoto o del tempo vuoto. Perché l’assenza totale del reale nell’intuizione sensibile, in primo luogo, non può per se stessa essere percepita; in secondo luogo, non può dedursi da un solo fenomeno e dalla differenza di grado della sua realtà, né ammettersi mai come spiegazione del fenomeno stesso. Se anche infatti l’intuizione totale di un determinato spazio o tempo è interamente reale, se cioè nessuna parte di esso è vuota; tuttavia, poiché ogni realtà ha il suo grado che, rimanendo costante la quantità estensiva del fenomeno, può scemare fino al niente (al vuoto) per gradi infiniti, è necessario che ci siano infiniti gradi diversi di cui sia pieno lo spazio e il tempo; e la quantità intensiva può essere nei diversi fenomeni minore o maggiore, benché quella estensiva della intuizione sia uguale. Ne daremo un esempio. Quasi tutti i fisici, percependo una gran differenza nella quantità della materia di differente specie sotto lo stesso volume (e per il momento della gravità o del peso, e per il momento della resistenza ad altre materie in movimento), ne conchiudono concordemente: questo volume (quantità estensiva del fenomeno) deve in tutte le materie, sebbene in misura diversa, esser vuoto. Ma chi avrebbe mai creduto che questi fisici, la massima parte matematici e meccanici, fondassero questa conclusione unicamente su una ipotesi metafisica, che pure essi vanno tanto dicendo di sfuggire, in quanto ammettono che il r e a l e nello spazio (non dico qui impenetrabilità o peso, poiché sono concetti empirici) sia s e m p r e d i u n a u n i c a s p e c i e, e non possa distinguersi se non per la quantità estensiva, cioè per il numero? A questa supposizione, alla quale non possono dare nessuna base nell’esperienza, e che è perciò semplicemente metafisica, io contrappongo una dimostrazione trascendentale; la quale non deve certo

spiegare le varie maniere onde lo spazio è riempito, ma nondimeno distrugge del tutto la presunta necessità di quella supposizione, che non si possa spiegare la detta differenza, se non ammettendo spazi vuoti; ed ha il merito di mettere almeno l’intelletto nella libertà di pensare anche in altra maniera questa differenza, quando la spiegazione fisica dovesse render necessaria per ciò una ipotesi qualsiasi. Infatti noi vediamo che, se spazi uguali possono esser riempiti perfettamente da materie diverse, in modo che in nessun d’essi ci sia un punto nel quale non se n’abbia la presenza; tuttavia ogni reale della stessa qualità ha un grado (di resistenza o di pesantezza) di essa; grado, che, senza diminuzione della grandezza o quantità estensiva, può diminuire all’infinito, prima di risolversi e dileguarsi nel nulla. Così una espansione132 che riempie lo spazio, per es. il calore, e parimenti ogni altra realtà (fenomenica), senza lasciare menomamente vuota, di questo spazio, la più piccola parte, può diminuire all’infinito nei suoi gradi, e non dimeno riempire altrettanto lo spazio con questi gradi minori, come un altro fenomeno con gradi maggiori. Il mio scopo non è di affermare che sia questa realmente la ragione della differenza di peso specifico delle materie; ma solo di far vedere, movendo da un principio dell’intelletto puro, che la natura delle nostre percezioni rende possibile una spiegazione di tal genere, e che falsamente si ritiene che il reale fenomenico sia uguale per il grado, e diverso soltanto per l’aggregazione e la sua quantità estensiva, pretendendo perfino di affermarlo a priori come un principio dell’intelletto. Tuttavia, questa anticipazione della percezione, per un fisico abituato alla riflessione trascendentale e divenuto perciò cauto, ha sempre in sé qualche cosa che colpisce e fa nascere una certa esitanza ad ammettere che l’intelletto anticipi133 una simile proposizione sintetica, come quella del grado di ogni reale fenomenico, e quindi della possibilità della differenza interna della sensazione stessa, astraendo dalla sua qualità empirica; ed è perciò una questione non indegna di essere risoluta, come possa l’intelletto pronunziarsi sinteticamente e a priori sui fenomeni, anzi anticiparli in ciò che è propriamente e semplicemente empirico; che appartiene cioè alla sensazione. La q u a l i t à della sensazione è sempre semplicemente empirica, e non può punto esser rappresentata a priori (per es. colori, gusto, ecc.). Ma il reale, che corrisponde alle sensazioni in generale, in contrapposto con la negazione = 0, rappresenta solo qualche cosa, il cui concetto contiene in sé un essere, e non significa altro che la sintesi in una coscienza empirica in generale. Nel

senso interno, cioè, la coscienza empirica può essere elevata da zero fino al grado più alto, per modo che la stessa quantità estensiva dell’intuizione (per es. una superficie illuminata) provoca una sensazione così grande come potrebbe provocarla un aggregato di molte altre insieme (meno illuminate). Si può dunque astrarre del tutto dalla quantità estensiva del fenomeno, e rappresentarsi soltanto nella semplice sensazione, in un momento, una sintesi dell’incremento uniforme dallo zero alla coscienza empirica data. Tutte le sensazioni quindi come tali vengono solo date a posteriori, ma la loro proprietà di avere un grado si può conoscere a priori. È da notare che nelle quantità in generale noi non possiamo conoscere a priori se non un’unica q u a l i t à , cioè la continuità; ma in ogni qualità (reale fenomenico), niente altro che la sua q u a n t i t à intensiva, ossia che ha un grado; tutto il resto è lasciato all’esperienza.

3. Analogie dell’esperienza Il loro principio è: l ’ e s p e r i e n z a è possibile soltanto mediante la rappresentazione di una connessione n e c e s s a r i a d e l l e p e r c e z i o n i134. D i m o s t r a z i o n e 135 L’esperienza è una conoscenza empirica, cioè una conoscenza che determina un oggetto per mezzo di percezioni. Essa è dunque una sintesi delle percezioni, che non è essa stessa contenuta nella percezione, ma contiene l’unità sintetica del molteplice di questa in una coscienza; unità che costituisce l’essenziale di una conoscenza degli o g g e t t i dei sensi, cioè dell’esperienza (non semplicemente dell’intuizione o impressione sensibile). Ora nell’esperienza le percezioni si uniscono invero tra loro solo in maniera accidentale, cosicché dalle stesse percezioni non risulta né può risultare la necessità della loro connessione; poiché l’apprensione non è altro che una riunione del molteplice dell’intuizione empirica, ma in essa non si trova una rappresentazione della necessità dell’esistenza connessa dai vari fenomeni, che essa raccoglie insieme nello spazio e nel tempo. Se non che, essendo l’esperienza una conoscenza degli oggetti mediante percezioni, e quindi dovendo la relazione nell’esistenza del molteplice esservi rappresentato non come esso vien raccolto nel tempo, ma come oggettivamente è nel tempo, e non potendosi il tempo stesso percepire; così la determinazione dell’esistenza

degli oggetti nel tempo può avvenire solo per via del loro collegamento nel tempo in generale, cioè solo per via di concetti che li connettano a priori. Or, poiché i concetti portano sempre in sé la necessità, così l’esperienza è possibile solo mediante una rappresentazione della connessione necessaria delle percezioni. I tre modi del tempo sono p e r m a n e n z a , s u c c e s s i o n e , s i m u l t a n e i t à . Quindi tre regole proprie di tutti i rapporti di tempo tra i fenomeni, secondo le quali l’esistenza di ciascuno di questi può essere determinata in rapporto all’unità di tutto il tempo, precederanno ogni esperienza, e la renderanno primieramente possibile. Il principio generale di tutte e tre le analogie riposa sull’unità necessaria dell’appercezione rispetto ad ogni possibile coscienza empirica (percezione) i n o g n i t e m p o; e per conseguenza, poiché questa unità serve a priori di fondamento, sull’unità sintetica di tutti i fenomeni quanto al loro rapporto nel tempo. Infatti, l’appercezione originaria si riferisce al senso interno (all’insieme di tutte le rappresentazioni); e si riferisce a priori alla sua forma, cioè al rapporto della coscienza empirica molteplice nel tempo. Ora nell’appercezione originaria tutto questo molteplice deve essere unificato quanto ai suoi rapporti di tempo; giacché questo appunto significa la sua unità trascendentale a priori, cui è sottoposto tutto ciò che deve appartenere alla mia (cioè, all’unica mia) conoscenza, onde può divenire oggetto per me. Questa u n i t à s i n t e t i c a nel rapporto temporale di tutte le percezioni, d e t e r m i n a t a a p r i o r i, è dunque la legge seguente: tutte le determinazioni temporali empiriche debbono sottostare a regole della determinazione generale del tempo; e le analogie dell’esperienza, delle quali adesso tratteremo, debbono essere regole di questo genere. Questi princìpi hanno in sé la particolarità, che non concernono i fenomeni, né la sintesi della loro intuizione empirica, ma soltanto la l o r o e s i s t e n z a e il loro mutuo r a p p o r t o rispetto a questa esistenza. Ora, il modo in cui qualcosa è appreso nel fenomeno, può essere determinato a priori in guisa che la regola della sua sintesi possa a un tempo fornire questa intuizione a priori in ogni caso empirico attuale, cioè per mezzo di essa realizzarla. Se non che l’esistenza dei fenomeni non può esser conosciuta a priori; e, se anche noi per questa via potessimo giungere ad argomentare una esistenza qualunque, non la conosceremmo tuttavia determinatamente, cioè non potremmo anticipare ciò per cui la sua intuizione empirica si distingue da

un’altra. I due precedenti princìpi, che chiamai matematici, avuto riguardo al fatto che essi ci autorizzano ad applicare la matematica ai fenomeni, si riferivano a fenomeni considerati per rispetto alla loro pura possibilità, e insegnavano come i fenomeni, sia rispetto alla loro intuizione sia rispetto al reale della loro percezione, potessero essere prodotti secondo le regole di una sintesi matematica: sicché nell’uno come nell’altro caso possono essere usate le quantità numeriche e con esse la determinazione del fenomeno come quantità. Così, per es., con circa 200.000 illuminazioni lunari io potrò comporre e dare determinato a priori, cioè costruire, il grado delle sensazioni della luce solare. Quindi possiamo chiamare i primi [due] princìpi costitutivi. La cosa deve andare ben diversamente per quei princìpi destinati a ricondurre a priori a regole l’esistenza dei fenomeni. Poiché infatti questa esistenza non si può costruire, essi si riferiranno solo al rapporto dell’esistenza, e non possono esser altro che semplicemente r e g o l a t i v i . Non c’è dunque da pensare ad assiomi, né ad anticipazioni; ma quando una percezione c’è data in un rapporto temporale con un’altra (sebbene indeterminata), allora non si potrà dire, a priori, q u a l e e q u a n t o g r a n d e sia quest’altra, ma come essa sia, per l’esistenza, collegata necessariamente con la prima in questo m o d o del tempo. In filosofia le analogie significano qualche cosa di assai diverso da ciò che rappresentano in matematica. In questa sono formule che esprimono l’uguaglianza di due rapporti quantitativi, e sono sempre c o s t i t u t i v e ; per modo che, quando sieno dati tre membri della proporzione è dato insieme, cioè può esser costruito il quarto. Nella filosofia invece l’analogia è l’uguaglianza di due r a p p o r t i n o n q u a n t i t a t i v i ma q u a l i t a t i v i , in cui dati tre membri può esser conosciuto e dato a priori solo il rapporto a un quarto, ma non questo quarto membro stesso; posseggo bensì una regola per cercarlo nell’esperienza, e un segno per scoprirvelo. Un’analogia dell’esperienza sarà dunque semplicemente una regola secondo la quale l’unità dell’esperienza (non la percezione stessa, come intuizione empirica in generale) deve risultare da percezioni, e deve valere come principio degli oggetti (dei fenomeni) non c o s t i t u t i v o , ma soltanto r e g o l a t i v o . Ma lo stesso per l’appunto varrà anche dei postulati del pensiero empirico in generale, che concernono la sintesi della semplice intuizione (forma del fenomeno), della percezione

(materia del medesimo) e dell’esperienza (rapporto delle percezioni); cioè, essi sono soltanto princìpi regolativi, e differiscono dai matematici, che sono costitutivi: non per la certezza, che è stabilita a priori sì negli uni che negli altri, ma bensì pel modo della evidenza, ossia per ciò che hanno di intuitivo (e perciò anche pel modo della dimostrazione). Ciò per altro che fu avvertito di tutti i princìpi sintetici, e qui si deve mettere particolarmente in rilievo, è questo: che queste analogie hanno il loro esclusivo significato e valore non come princìpi dell’uso trascendentale dell’intelletto, ma semplicemente dell’uso empirico, e quindi anche soltanto come tali possono essere provate, e per conseguenza i fenomeni non devono essere sussunti direttamente sotto le categorie, ma semplicemente sotto i loro schemi. Infatti, se gli oggetti, ai quali debbono essere riferiti questi princìpi, fossero cose in sé, sarebbe affatto impossibile conoscerne qualche cosa sinteticamente a priori. Ma essi non sono altro che fenomeni, la cui perfetta conoscenza, – alla quale infine debbono sempre metter capo tutti i princìpi a priori, – è esclusivamente l’esperienza possibile: e però non possono aver altro di mira che semplicemente le condizioni dell’unità della conoscenza empirica nella sintesi dei fenomeni; ma questa poi è pensata soltanto nello schema del concetto puro dell’intelletto, della cui unità, come sintesi in generale, la categoria contiene la funzione non limitata da alcuna condizione sensibile. Noi dunque da questi princìpi saremo autorizzati a coordinare i fenomeni soltanto secondo un’analogia, con l’unità logica e universale dei concetti, e quindi a servirci bensì della categoria nel principio stesso; ma nell’esecuzione (nell’applicazione di questo ai fenomeni) dovremo mettere al posto di essa il suo schema, come chiave dell’uso della medesima, o piuttosto porglielo accanto come condizione restrittiva, quasi formula del principio.

A. Prima analogia: Principio della permanenza della sostanza. In ogni cangiamento dei fenomeni la sostanza permane, e la quantità di essa nella natura non aumenta né diminuisce136. Dimostrazione Tutti i fenomeni sono nel tempo, nel quale soltanto, come sostrato (forma permanente dell’intuizione interna), può esser rappresentata sì la

s i m u l t a n e i t à che la s u c c e s s i o n e . Il tempo, dunque, nel quale deve essere pensato ogni cangiamento dei fenomeni, rimane e non muta; poiché esso è ciò in cui la successione e la simultaneità possono esser rappresentate soltanto come sue determinazioni. Ora il tempo non può per sé essere percepito. Quindi negli oggetti della percezione, cioè nei fenomeni, deve esserci il sostrato che rappresenti il tempo in generale, e in cui ogni cangiamento o simultaneità nell’apprensione possa percepirsi mediante la relazione dei fenomeni con tale sostrato. Ma il sostrato di ogni reale, ossia di ciò che appartiene all’esistenza delle cose, è la s o s t a n z a , in cui quel che fa parte dell’esistenza può esser pensato solo come determinazione. Il permanente quindi, in relazione col quale soltanto possono esser determinati tutti i rapporti temporali dei fenomeni, è la sostanza nel fenomeno; cioè il reale di esso, che rimane sempre identico come sostrato di ogni cangiamento. Poiché dunque la sostanza nell’esistere non può mutare, così anche la sua quantità nella natura non può né aumentar né diminuire137. La nostra a p p r e n s i o n e del molteplice fenomenico è sempre s u c c e s s i v a , e perciò sempre cangiante. Noi dunque con essa sola non possiamo mai determinare se questo molteplice, come oggetto dell’esperienza, sia simultaneo o successivo, qualora a fondamento di esso non stia qualche cosa che s i a i n o g n i t e m p o , c o s t a n t e c i o è e p e r m a n e n t e , sicché ogni mutamento e la simultaneità non sieno se non come altrettante maniere (modi del tempo) in cui il permanente esiste. Solo nel permanente dunque sono possibili rapporti temporali (giacché la simultaneità e la successione sono i soli rapporti di tempo); cioè il permanente è il s o s t r a t o della rappresentazione empirica del tempo stesso, nel quale soltanto è possibile ogni determinazione temporale. La permanenza esprime in generale il tempo come correlato costante di ogni esistenza fenomenica, di ogni cangiamento e di ogni concomitanza. Giacché il cangiamento non riguarda il tempo in se stesso, ma solo i fenomeni che sono nel tempo (come la simultaneità non è un modus del tempo stesso, in cui non ci sono parti contemporanee, ma tutte le parti sono successive). Se si volesse attribuire al tempo stesso una successione, si dovrebbe poi pensare ancora un tempo, in cui questa successione fosse possibile. Solo per mezzo del permanente l’esistenza acquista nelle varie parti della serie temporale una q u a n t i t à , che si chiama d u r a t a . Giacché nella pura e semplice successione l’esistenza scompare e ricompare sempre, e non ha mai

nemmeno la più piccola quantità. Senza questo permanente non c’è dunque rapporto di tempo. Ora il tempo non può essere percepito in se stesso; perciò questo permanente è, nei fenomeni, il sostrato di tutte le determinazioni temporali, e per conseguenza anche la condizione della possibilità di ogni unità sintetica delle percezioni, cioè dell’esperienza; e in questo permanente ogni esistenza e ogni cangiamento nel tempo può esser considerato soltanto come un modus della esistenza di ciò che è costante e permanente. In tutti i fenomeni dunque il permanente è l’oggetto stesso, ossia la sostanza (phaenomenon); ciò invece che muta, o può mutare, appartiene soltanto al modo in cui questa o queste sostanze esistono, e quindi a determinazioni di esse. Io trovo che, in ogni tempo non solo il filosofo, ma anche il senso comune ha supposto questa permanenza come sostrato di ogni cangiamento dei fenomeni, e che in ogni tempo anche lo ammetterà come fuor di dubbio; soltanto che il filosofo si esprime in proposito in modo alquanto più preciso, dicendo: in ogni cangiamento del mondo la s o s t a n z a permane, e solo gli a c c i d e n t i mutano. Ma non trovo in nessuna parte nemmeno il tentativo di dimostrare questa proposizione così sintetica; anzi solo di rado essa sta, come le spetterebbe, in cima alle leggi pure della natura pienamente valide a priori. Nel fatto la proposizione «la sostanza è permanente», è tautologica. Giacché solo la permanenza è la ragione per cui applichiamo ai fenomeni la categoria della sostanza, e si sarebbe dovuto dimostrare che in tutti i fenomeni c’è qualche cosa di costante, in cui il mutevole non è se non una determinazione della sua esistenza. Ma poiché una tale dimostrazione non può mai essere addotta dommaticamente, cioè per deduzione da concetti, concernendo essa una proposizione sintetica a priori; e poiché non si avvertì mai che proposizioni di questa natura sono valevoli solo in rapporto a una possibile esperienza, e perciò anche si possono provare solo con una deduzione della possibilità di questa ultima; così non è meraviglia se veniva posta a fondamento di ogni esperienza (il bisogno di essa, infatti, è sentito nella conoscenza empirica), ma non era mai provata. Un filosofo fu interrogato: quanto pesa il fumo? Rispose: togli dal peso del legno bruciato il peso della cenere che rimane, e hai il peso del fumo. Egli dunque presupponeva incontestabile, che anche nel fuoco la materia (sostanza) non si distrugge, ma solo la sua forma subisce un cangiamento. Del pari la proposizione: «nulla vien dal nulla» è un’altra conseguenza del

principio della permanenza, o piuttosto dell’esistenza permanente del soggetto proprio dei fenomeni. Infatti, affinchè ciò che si suol chiamare sostanza nel fenomeno possa essere il sostrato proprio di ogni determinazione temporale, è necessario che ogni esistenza, sì nel passato che nel futuro, possa essere determinata esclusivamente in esso. Quindi noi possiamo dare ad un fenomeno il nome di sostanza soltanto perché presupponiamo la sua esistenza in ogni tempo; ciò che non pare sia reso abbastanza bene dalla parola «permanenza» riferendosi questa piuttosto al futuro138. Intanto l’interna necessità di permanere è tuttavia inseparabile da quella di esser sempre stato, e l’espressione perciò può restare. Gigni de nihilo nihil, in nihilum nihil posse reverti139, erano due proposizioni che gli antichi connettevano inseparabilmente, e che talvolta oggi qualcuno separa per malinteso, immaginando che si riferiscano alle cose in sé, e che la prima possa essere in contrasto con l’idea della dipendenza del mondo da una causa suprema (anche per la stessa sua sostanza): preoccupazione fuori di luogo, perché qui si parla soltanto di fenomeni, relativi al campo dell’esperienza, la cui unità non sarebbe mai possibile se noi volessimo far nascere cose nuove (quanto alla sostanza). In tal caso, infatti, verrebbe meno ciò che soltanto può rappresentare l’unità del tempo, cioè l’identità del sostrato, come ciò in cui soltanto tutti i cangiamenti trovano la loro unità universale. Questa permanenza tuttavia non è altro che il modo di rappresentarci l’esistenza delle cose (nel fenomeno). Le determinazioni di una sostanza, le quali non sono altro che modi speciali di esistere della medesima, si chiamano a c c i d e n t i . Essi sono sempre reali, poiché riguardano l’esistenza della sostanza (le negazioni sono soltanto determinazioni, che esprimono il non essere di qualcosa nella sostanza). Ora, se a questo reale che è nella sostanza (per es., al movimento come accidente della materia) si attribuisce una speciale esistenza, allora questa esistenza chiamasi inerenza, per distinguerla dall’esistenza della sostanza, che si chiama s u s s i s t e n z a . Se non che da qui sorgono molti malintesi, e si dice perciò più esatto e più giusto, se si designa l’accidente soltanto mediante il modo in cui l’esistenza d’una sostanza è determinata positivamente. Frattanto però, a causa delle condizioni dell’uso logico del nostro intelletto, non si può a meno separare, per dir così, ciò che nell’esistenza di una sostanza può mutare, mentre la sostanza rimane immutata, e considerarlo in relazione con ciò che propriamente permane, ed è

radicale; quindi anche questa categoria sta sotto il titolo della relazione, più come sua condizione che come contenente essa stessa una relazione. Su questa permanenza si fonda anche la giustificazione del concetto di c a n g i a m e n t o . Sorgere e cessare non sono cangiamenti di ciò che sorge o cessa. Il cangiamento è un modo di esistere, che segue a un altro modo di esistere del medesimo oggetto. Quindi tutto ciò che muta r e s t a , e soltanto la s u a c o n d i z i o n e m u t a. E poiché il mutamento, di cui è parola, non riguarda se non le determinazioni, che possono cessare o sorgere; così noi possiamo dire con espressione di apparenza paradossale: solo il permanente (la sostanza) subisce mutamento, il mutevole non subisce nessun mutamento, ma una v i c e n d a , poiché certe determinazioni cessano ed altre ne sorgono. Il cangiamento non può quindi esser percepito se non nelle sostanze, e il puro sorgere e cessare, senza che spetti a una determinazione del permanente, non può essere punto una percezione, poiché appunto questo permanente rende possibile la rappresentazione del passaggio da uno stato all’altro e dal non essere all’essere, che dunque possono esser conosciuti empiricamente soltanto come determinazioni alterne di ciò che permane. Se ammettete che qualche cosa incominci a essere assolutamente, dovete supporre per essa un punto del tempo in cui non era affatto. Ma, a che volete legare poi questo punto, se non a qualche cosa che già esiste? Infatti un tempo vuoto, che preceda, non è oggetto di percezione; ma se legate ciò che sorge a cose che prima esistevano e durarono sino al suo nascere, allora il nuovo fu solo una determinazione del vecchio, come permanente. Altrettanto si dica anche del cessare; poiché presuppone la rappresentazione empirica di un tempo in cui un fenomeno non c’è più. Sostanze (fenomeniche) sono i sostrati di tutte le determinazioni temporali. Il sorgere di alcune o il cessare di altre verrebbe a togliere la stessa unica condizione dell’unità empirica del tempo, e i fenomeni allora si riferirebbero a due specie di tempo, nelle quali l’esistenza si svolgerebbe parallelamente; ciò che è assurdo. Perché c’è s o l t a n t o un tempo, nel quale tutti i tempi diversi non sono simultanei, ma debbono esser posti uno dopo l’altro. Ecco, pertanto, che la permanenza è una condizione necessaria, in cui solo è possibile che i fenomeni sieno determinabili, come cose od oggetti di una esperienza possibile. Ma su ciò che sia criterio empirico di questa necessaria permanenza, e insieme della sostanzialità dei fenomeni, quel che

segue ci offrirà l’occasione di fare le osservazioni necessarie.

B. Seconda analogia: Principio della serie temporale secondo la legge della causalità. Tu t t i i c a n g i a m e n t i a v v e n g o n o s e c o n d o l a l e g g e d e l n e s s o d i c a u s a e d e f f e t t o140. Dimostrazione (Che i fenomeni della successione temporale tutti quanti non sono se non c a n g i a m e n t i , cioè un successivo essere e non essere delle determinazioni della sostanza che permane, e che perciò l’essere della sostanza stessa che segue al suo non essere, o il non essere che segue al suo essere, o, in altre parole, il sorgere e cessare della sostanza stessa non abbia luogo, lo ha dimostrato il principio precedente. Il quale avrebbe potuto essere espresso anche così: O g n i v i c e n d a [ s u c c e s s i o n e ] d e i f e n o m e n i n o n è s e n o n c a n g i am e n t o ; giacché il sorgere o il cessare della sostanza non sono cangiamenti di essa, in quanto il concetto del cangiamento presuppone appunto un medesimo soggetto con due opposte determinazioni come esistente, e però come permanente. Dopo questo avvertimento, passiamo alla dimostrazione.) Io percepisco che i fenomeni seguono l’uno all’altro, cioè che uno stato della cosa èin un tempo, e il suo opposto era nello stato precedente. Io dunque propriamente connetto due percezioni nel tempo. Ora la connessione non è opera del semplice senso e della intuizione, ma qui è il prodotto di un potere sintetico della immaginazione, che determina il senso interno rispetto al rapporto temporale. Ma questa immaginazione può unire in due modi diversi i due detti stati, in guisa che o l’uno o l’altro preceda nel tempo; perché il tempo in se stesso non si può percepire, e in rapporto ad esso non può essere determinato nell’oggetto, per così dire, empiricamente ciò che precede e ciò che segue. Io dunque ho coscienza solo di questo, che la mia immaginazione mette uno stato prima e l’altro dopo, ma non che nell’oggetto uno stato preceda l’altro, o in altre parole: con la semplice percezione resta indeterminata la r e l a z i o n e o g g e t t i v a dei fenomeni successivi. Ora, affinché possa esser conosciuta come determinata, la relazione fra i due stati deve essere pensata in modo che ne venga determinato necessariamente qual

di essi va posto prima e quale dopo, e non inversamente. Ma il concetto che rechi in sé una necessità dell’unità sintetica, non può essere se non un concetto intellettuale puro, che non si trova nella percezione; e in questo caso è il concetto del r a p p o r t o d i ca u s a e d e f f e t t o, di cui la prima determina nel tempo il secondo come conseguente, e non come qualcosa che potrebbe precedere semplicemente nell’immaginazione (o, in generale non essere punto percepita). Dunque, l’esperienza stessa, cioè la conoscenza empirica dei fenomeni, è possibile solo a patto che sottoponiamo il loro succedersi, e quindi ogni cangiamento, alla legge di casualità; quindi i fenomeni stessi, in quanto oggetti dell’esperienza, sono possibili soltanto secondo questa legge. L’apprensione del molteplice del fenomeno è sempre successiva. Le rappresentazioni delle parti seguono l’una all’altra. Se seguano anche nell’oggetto, è un secondo punto della riflessione, che non è contenuto nel primo. Ora in verità si può chiamare oggetto tutto, e perfino ogni rappresentazione, in quanto se ne ha coscienza; salvo che ciò che questa parola può significare nei fenomeni, non in quanto essi sono oggetti (rappresentazioni), ma in quanto indicano solo un oggetto, è materia di un esame più profondo. In quanto essi, soltanto come rappresentazioni, sono a un tempo oggetto della coscienza, non si distinguono punto dall’apprensione, cioè dalla loro inclusione nella sintesi dell’immaginazione, e quindi devesi dire che il molteplice dei fenomeni è prodotto sempre successivamente nello spirito. Se i fenomeni fossero cose in sé, nessuno potrebbe mai, dalla successione delle rappresentazioni del loro molteplice, comprendere come questo sia collegato insieme nell’oggetto. Noi infatti abbiamo a che fare soltanto con nostre rappresentazioni; e come possono essere in se stesse le cose (senza riguardo alle rappresentazioni, onde esse ci impressionano) è assolutamente fuori della nostra sfera conoscitiva. Ora, benché i fenomeni non sieno cose in sé, poiché pure sono l’unica cosa che possa esser data alla nostra conoscenza, io perciò debbo indicare quale unificazione nel tempo sia propria del molteplice nei fenomeni stessi, quando la rappresentazione di esso nell’apprensione è sempre successiva. Così, ad es., l’apprensione del molteplice, che è nel fenomeno di una casa che mi sta davanti, è successiva. Ora, si domanda, se il molteplice di questa casa sia successivo anche in sé: certo nessuno risponderà di sì. Ma, appena io elevo i miei concetti di un oggetto fino al valore trascendentale, la casa non è cosa in sé, ma soltanto un

fenomeno, cioè una rappresentazione, il cui oggetto trascendentale rimane sconosciuto; che cosa dunque voglio dire domandando come possa esser collegato il molteplice nel fenomeno stesso (che pure non è una cosa in sé)? Qui ciò che sta nell’apprensione successiva, vale come rappresentazione; ma il fenomeno che mi è dato, malgrado non sia altro che un complesso di queste rappresentazioni, è considerato come il loro oggetto, col quale il mio concetto, che ricavo dalle rappresentazioni dell’apprensione, deve coincidere. Poiché la coincidenza della conoscenza coll’oggetto è la verità, si vede subito che qui si può parlare soltanto delle condizioni formali della verità empirica, e il fenomeno quindi, in contrapposto alle rappresentazioni dell’apprensione, può essere rappresentato come l’oggetto dell’apprensione distinto da essa solo se l’apprensione sottostà ad una regola, che la distingua da ogni altra e renda necessario un modo di unificazione del molteplice. Ciò che nel fenomeno contiene la condizione di questa regola necessaria dell’apprensione è l’oggetto. Veniamo ora alla nostra questione. Non si può percepire empiricamente che qualcosa accada, cioè che sorga qualcosa o uno stato che prima non era, se non precede un fenomeno che non contenga in sé questo stato; giacché una realtà che segua a un tempo vuoto, quindi un sorgere, prima del quale non ci sia nessuno stato delle cose, non può essere appreso, più che non possa lo stesso tempo vuoto. Ogni apprensione d’un accadimento è dunque una percezione che segue ad un’altra. Ma, poiché in ogni sintesi dell’apprensione ha luogo quello stesso che sopra ho accennato pel fenomeno della casa, per ciò una sintesi non si distingue ancora dall’altra. Se non che osservo ancora che, chiamando in un fenomeno, che importi un accadere: A lo stato precedente della percezione, e B il seguente; B non può se non seguire A nell’apprensione, laddove la percezione A non può seguire B, ma soltanto precedere. Io vedo, per es., una nave scendere la corrente. La mia percezione della sua posizione più in giù segue alla percezione del posto che occupava più su nel corso del fiume, e non è possibile che nell’apprensione di questo fenomeno la nave possa essere percepita prima giù poi su. L’ordine nella successione delle percezioni nell’apprensione qui dunque è determinato, e l’apprensione è legata ad esso. Nell’esempio dianzi riferito di una casa, le mie percezioni potevano nell’apprensione cominciare dal comignolo e finire al suolo, ma anche cominciare dal basso e finire in alto, e così parimenti apprendere il molteplice dell’intuizione empirica da destra o da sinistra. Nella

serie di queste percezioni non c’era dunque nessun ordine determinato che rendesse necessario donde io dovessi nell’apprensione cominciare, per unificare empiricamente il molteplice. Questa regola, invece si riscontrerà sempre nella percezione di ciò che accade, ed essa rende necessario l’ordine delle percezioni successive (nell’apprensione di questo fenomeno). Nel nostro caso io dovrò ricavare la s u c c e s s i o n e s o g g e t t i v a dell’apprensione dalla s u c c e s s i o n e o g g e t t i v a dei fenomeni; poiché altrimenti la prima è affatto indeterminata, e non distingue un fenomeno dall’altro. Essa sola non prova nulla della connessione del molteplice nell’oggetto, poiché è del tutto arbitraria. La seconda dunque consisterà nell’ordine del molteplice fenomenico, secondo il quale l’apprensione di una cosa (che succede) segue conforme a una regola a quella dell’altra (che precede). Soltanto così io posso essere autorizzato a dire del fenomeno stesso, e non solamente della mia apprensione, che in esso c’è una successione; il che significa che io non posso presentare l’apprensione se non precisamente in questa successione. Secondo una tale regola, dunque, in ciò che precede in generale un avvenimento deve trovarsi la condizione d’una regola, per la quale esso avvenimento segue sempre e necessariamente; ma, viceversa, io non posso retrocedere, movendo da ciò che accade, per determinare (con l’apprensione) ciò che precede. Perocché non c’è fenomeno che ritorni dal momento seguente al precedente, ma si riferisce tuttavia a q u a l c h e m o m e n t o p r e c e d e n t e ; da un tempo dato, invece, il passaggio a un determinato tempo successivo è necessario. Quindi, poiché c’è qualche cosa che segue, io debbo di necessità riferirla a qualche altra, in generale, che precede, e a cui essa segue secondo una regola, cioè in modo necessario; per modo che l’avvenimento, in quanto condizionato richiama sicuramente a una condizione, ma questa determina ciò che accade. Si supponga che a un avvenimento non preceda nulla cui esso debba seguire secondo una regola; in tal caso ogni successione della percezione sarebbe determinata esclusivamente nell’apprensione, cioè solo soggettivamente, ma perciò non sarebbe per nulla determinato oggettivamente quale propriamente dovrebbe essere il precedente e quale il conseguente delle percezioni. Avremmo in tal guisa solo un giuoco di rappresentazioni, che non si riferirebbe a nessun oggetto; cioè per la nostra percezione un fenomeno non sarebbe punto distinto, in rapporto al tempo, da

ogni altro; poiché la successione nell’apprensione è sempre quella, e quindi non c’è nulla nel fenomeno che lo determini in modo che ne venga resa oggettivamente necessaria una certa successione. Io non potrò dire dunque che nel fenomeno due stati si susseguono, ma solamente che a un’apprensione ne segue un’altra: che è semplicemente un fatto s o g g e t t i v o e non determina un oggetto, né può quindi valere per la conoscenza di un qualsiasi oggetto (nemmeno nel fenomeno). Quando noi dunque sperimentiamo che una cosa accade, supponiamo sempre che precede qualche altra cosa, a cui essa segue secondo una regola. Senza di che, infatti, non potrei dire dell’oggetto, che segue, poiché la semplice successione nella mia apprensione, ove non sia determinata da una legge di relazione con un antecedente, non autorizza una successione nell’oggetto. Egli è dunque sempre avendo riguardo a una regola, per cui i fenomeni nella loro successione, cioè così come accadono, sono determinati dallo stato precedente, che io fo obbiettiva la mia sintesi subbiettiva (dell’apprensione); e persino l’esperienza di qualcosa che accade è possibile unicamente in questo presupposto. In verità, questo par contraddire a tutte le osservazioni che si son sempre fatte sull’andamento dell’uso del nostro intelletto; secondo le quali soltanto da molti casi concordi, percepiti e paragonati, in cui certi avvenimenti seguono a fenomeni precedenti, saremmo condotti a scoprire una regola, per la quale certi avvenimenti seguono sempre a certi fenomeni, e così si comincerebbe a formare un concetto di causa. Su tale piede questo concetto sarebbe meramente empirico, e la regola che esso ci fornisce, che cioè tutto ciò che accade ha una causa, sarebbe accidentale come l’esperienza stessa; la sua universalità e necessità, allora, sarebbero solo immaginarie, e non avrebbero un vero valore universale, poiché non sarebbero a priori, bensì fondate sull’induzione. Ma qui accade lo stesso che per le altre rappresentazioni pure a priori (per es. spazio e tempo), che possiamo ricavare dall’esperienza come concetti chiari sol perché le avevamo già poste nell’esperienza, e questa prima di tutto costituimmo per mezzo di quelle. Certamente la chiarezza logica di questa rappresentazione di una regola determinante la serie degli avvenimenti, come concetto di causa, non è possibile se non quando della regola abbiamo fatto uso nell’esperienza; ma un riferimento a essa, come a condizione dell’unità sintetica dei fenomeni nel tempo, fu tuttavia il fondamento della esperienza stessa, epperò l’ha

preceduta a priori. Si tratta dunque di mostrare con un esempio, che noi neppure nella esperienza attribuiamo mai all’oggetto la successione (di un evento, in cui avviene qualche cosa, che prima non era), distinguendola dalla successione soggettiva della nostra apprensione, se non quando vi stia a fondamento una norma, che ci costringe ad osservare questo piuttosto che un altro ordine delle percezioni; anzi, che è appunto quest’obbligo quello che soltanto rende possibile la rappresentazione di una successione nell’oggetto. Abbiamo in noi rappresentazioni, delle quali possiamo anche aver coscienza. Ma per quanto questa coscienza sia estesa, esatta, puntuale, esse restano pur sempre rappresentazioni, cioè determinazioni interne del nostro spirito, in questa o quella relazione temporale. Or come possiamo giungere a dare un oggetto a queste rappresentazioni, o ad attribuir loro, oltre quella realtà soggettiva che hanno come modificazioni, una non so quale oggettiva realtà? Il valore oggettivo non può consistere nella relazione con un’altra rappresentazione (di ciò che si vorrebbe dire dell’oggetto141); ché altrimenti rinasce la questione: come esce questa rappresentazione da se stessa e acquista valore oggettivo, oltre il soggettivo che le è proprio come determinazione dello stato spirituale? Se ricerchiamo quale nuova proprietà conferisca alle nostre rappresentazioni il r a p p o r t o a u n o g g e t t o, e quale sia la dignità che esse ne acquistano, troviamo che esso non fa altro che render necessaria la connessione delle rappresentazioni in una data maniera, e sottometterle a una regola; e che, viceversa, solo pel fatto che un certo ordine nel rapporto temporale delle nostre rappresentazioni è necessario, ad esse vien assegnato un valore oggettivo. Nella sintesi dei fenomeni il molteplice delle rappresentazioni si svolge sempre in una successione. Ora, con ciò non viene punto rappresentato nessun oggetto; poiché per questa successione, comune a tutte le apprensioni, nessuna cosa è distinta da un’altra. Ma, appena io percepisco o presumo in questa successione un rapporto a uno stato precedente, dal quale derivi la rappresentazione secondo una regola, allora si rappresenta qualcosa come un avvenimento, o qualcosa che accade; cioè, io conosco un oggetto, che debbo porre nel tempo a un certo posto, il quale non può essergli assegnato altrove, dato lo stato antecedente. Se io dunque percepisco che qualcosa accade, in questa rappresentazione anzitutto c’è che qualche cosa precede, poiché appunto in rapporto ad essa il fenomeno viene ad avere il suo rapporto

temporale, cioè ad esistere dopo un tempo precedente, nel quale non era. Ma in questo rapporto può acquistare il suo determinato posto nel tempo solo a condizione che nello stato precedente si presupponga una cosa, a cui l’altra deve seguire sempre, cioè secondo una regola; donde risulta in primo luogo che io non posso capovolgere la serie, e far il conseguente anteriore al precedente; in secondo luogo, che, quando lo stato precedente è posto, questo determinato avvenimento deve immancabilmente e necessariamente seguire. Onde avviene che c’è un ordine tra le nostre rappresentazioni, per cui il presente (in quanto è divenuto) richiama uno stato precedente come correlato, benché ancora indeterminato, di questo evento che è dato: il quale, tuttavia, si riferisce adesso come sua conseguenza, determinandolo, e connettendolo necessariamente con sé nella serie cronologica. Ora, se è legge necessaria della nostra sensibilità, e quindi c o n d i z i o n e f o r m a l e di tutte le percezioni, che il tempo precedente determini necessariamente il seguente (non potendosi giungere al seguente se non attraverso al precedente), è anche indispensabile l e g g e d e l l a r a p p r e s e n t a z i o n e e m p i r i c a della serie cronologica, che i fenomeni del tempo passato determinino ogni esistenza nel futuro, e che questi fenomeni, come avvenimenti, non abbian luogo, se non in quanto i primi determinano la loro esistenza nel tempo, cioè la stabiliscono secondo una regola. P e r c h é s o l o n e i f e n o m e n i n o i p o s s i a m o c o n o s c e r e empiricamente questa continuità nella connessione dei tempi. Per ogni esperienza e per la sua possibilità occorre l’intelletto, e la prima cosa che esso fa a tal uopo, non è già di render chiara la rappresentazione dell’oggetto, ma render possibile la rappresentazione di un oggetto in generale. Ora, ciò avviene perché esso trasmette l’ordine temporale ai fenomeni e alla esistenza loro, assegnando ad ognuno di essi, come conseguenza, una posizione nel tempo determinata a priori rispetto ai fenomeni precedenti; posizione, senza di cui il fenomeno non si potrebbe adattare al tempo stesso, che determina a priori il posto di tutte le parti di esso. Questa determinazione del posto non può dunque esser ricavata dal rapporto dei fenomeni col tempo assoluto (che non è oggetto della percezione), ma, all’opposto, ognuno dei fenomeni deve determinare all’altro il suo posto nel tempo, e renderlo necessario nell’ordine cronologico, ossia ciò che segue o avviene, deve seguire, secondo una regola universale a ciò

che era contenuto nello stato antecedente; onde si forma una serie di fenomeni, che produce e rende necessario, mediante l’intelletto, nella serie delle percezioni possibili, quello stesso ordine e saldo nesso che si incontra a priori nella forma dell’intuizione interna (nel tempo), dove tutte le percezioni devono avere il loro posto. Che dunque qualcosa avvenga, è una percezione che appartiene a una esperienza possibile, la quale diviene reale in quanto io considero il fenomeno come determinato pel suo posto nel tempo, quindi come un oggetto che può esser sempre ritrovato secondo una regola nella catena delle percezioni. Ma questa regola per determinare qualcosa nella successione cronologica, è, che in ciò che precede ha da trovarsi la condizione sotto la quale segue sempre (necessariamente) l’evento. Dunque, il principio della ragione sufficiente è il fondamento dell’esperienza possibile, cioè della conoscenza oggettiva dei fenomeni, rispetto al loro rapporto nella serie successiva del tempo. Ma la dimostrazione di questo principio poggia unicamente sui seguenti momenti142. Per ogni conoscenza empirica occorre la sintesi del molteplice mediante l’immaginazione, che è sempre successiva; cioè le rappresentazioni in essa seguono sempre l’una all’altra. Ma la successione nella immaginazione non è determinata punto secondo l’ordine (ciò che deve precedere e ciò che deve seguire) e la serie delle rappresentazioni che si susseguono, può a piacimento esser presa tanto progressivamente, quanto regressivamente. Ma se questa sintesi è una sintesi dell’apprensione (del molteplice di un fenomeno dato), allora l’ordine è determinato nell’oggetto o, per parlare più esattamente, c’è in essa un ordine della sintesi successiva che determina un oggetto, secondo il quale una cosa deve necessariamente precedere e, posta essa, l’altra necessariamente seguire. Se dunque la mia percezione deve contenere la conoscenza di un evento, in cui, cioè, qualcosa realmente avviene, essa deve essere un giudizio empirico, in cui si pensi che la successione è determinata, cioè che un fenomeno ne presuppone nel tempo un altro, al quale esso segue necessariamente, ossia secondo una regola. Altrimenti, se, posto l’antecedente, l’evento non ne seguisse necessariamente, allora la dovrei ritenere per niente altro che un giuoco soggettivo delle mie immagini; e se io con essa mi rappresentassi qualcosa di oggettivo, dovrei chiamarla un puro sogno. Dunque, il rapporto dei fenomeni (come percezioni possibili), secondo il quale il conseguente (ciò che accade) è, per l’esistenza,

determinato nel tempo, necessariamente e secondo una regola, da un antecedente, quindi il rapporto di causa ed effetto, è la condizione della validità oggettiva dei nostri giudizi empirici, relativamente alla serie delle percezioni, e però della loro verità empirica, insomma, dell’esperienza. Il principio del rapporto causale nella successione dei fenomeni vale, quindi, anche di tutti gli oggetti dell’esperienza (sotto le condizioni della successione), poiché è esso stesso il fondamento della possibilità di una tale esperienza. Ma qui si fa innanzi ancora una difficoltà, che deve essere eliminata. Il principio del nesso causale tra i fenomeni nella nostra formula è ristretto alla loro successione, laddove nell’uso di esso si trova che si confà anche ai fenomeni simultanei, e che causa ed effetto possono essere nello stesso tempo. Per esempio: nella camera c’è un calore che non si trova all’aria libera. Mi guardo intorno per cercare la causa, e trovo una stufa accesa. Ora, questa, come causa, è contemporanea col suo effetto, il calore della stanza; qui dunque non c’è successione cronologica tra causa ed effetto, ma contemporaneità; e tuttavia la legge vale lo stesso. La maggior parte delle cause efficienti nella natura coesiste agli effetti, e la successione di questi ultimi nel tempo è causata solo dal fatto che la causa non può render tutto il suo effetto in un istante. Ma nell’istante, in cui questo incomincia, è sempre simultaneo alla causalità della sua causa, poiché, se questa fosse cessata un solo istante prima, esso non sarebbe punto sorto. Qui si deve bene avvertire, che è da guardare all’o r d i n e del tempo, non al suo d e c o r s o ; il rapporto rimane, anche quando non sia scorso alcun tempo. Il tempo tra la causalità della causa e il suo effetto immediato può anche s v a n i r e 143 (essi dunque essere simultanei); ma il rapporto dell’uno all’altro rimane pur sempre determinabile secondo il tempo. Se io considero come causa una palla che sta su di un morbido guanciale e vi scava una fossetta, allora la causa è contemporanea all’effetto. Se non che io li distinguo tuttavia pel rapporto cronologico del loro collegamento dinamico. Infatti, quando depongo la palla sul guanciale, alla forma liscia di prima segue la fossetta; ma, se il guanciale ha già una fossetta (e non so perché), allora non ne segue l’idea di una palla di piombo144. La successione pertanto è assolutamente il criterio empirico unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa, che precede. Il bicchiere è la causa del salire dell’acqua al di sopra della sua superficie orizzontale,

sebbene i due fenomeni sieno in un medesimo tempo. Infatti appena io attingo l’acqua col bicchiere da un vaso più grande, segue qualche cosa, cioè il mutamento dello stato orizzontale, che lì aveva, in quello concavo che prende nel bicchiere. La causalità conduce al concetto dell’azione, questa al concetto della forza, e per esso a quello della sostanza. Non volendo mescolare alla mia ricerca critica, che riguarda esclusivamente le fonti della conoscenza sintetica a priori, analisi che spettano solo al chiarimento (non all’allargamento) dei concetti, io tralascio la discussione particolareggiata di esse, e la rimando ad un futuro sistema della ragion pura; del resto una tale analisi in larga misura si trova già nei manuali di questa specie conosciuti finora. Solo non posso trascurar di parlare del criterio empirico di sostanza, in quanto essa par che si manifesti non colla permanenza dei fenomeni, ma meglio e più facilmente con l’azione. Dov’è azione, quindi attività e forza, ivi è anche sostanza; ed in questa soltanto deve essere cercata la sede di quella feconda sorgente dei fenomeni. Benissimo detto: ma, quando si tratta di spiegare che cosa s’intenda per sostanza, e si vuole evitare un circolo vizioso, non è altrettanto facile rispondere. Come si concluderà dall’azione, immediatamente, alla p e r m a n e n z a dell’agente, che pure è un contrassegno così essenziale e peculiare della sostanza (phaenomenon)? Se non che, in base a quanto abbiam detto, la soluzione del problema non presenta tuttavia una tale difficoltà, laddove secondo il modo consueto (di procedere coi propri concetti solo analiticamente) esso sarebbe assolutamente insolubile. Azione significa già rapporto del soggetto della causalità con l’effetto. Ora: poiché ogni effetto consiste in ciò che accade, e perciò nel mutevole, caratterizzato dal tempo secondo la successione, così l’ultimo soggetto di esso è il p e r m a n e n t e , come sostrato di ogni vicissitudine, cioè la sostanza. Giacché, secondo il principio della causalità, le azioni sono sempre il primo fondamento di ogni vicissitudine dei fenomeni, e non possono perciò stare in un soggetto che esso stesso muti; che altrimenti sarebbero necessarie altre azioni, e un altro soggetto che determinasse la mutazione. Ragione per cui l’azione, come un criterio empirico sufficiente, prova la sostanzialità, senza che io sia costretto a cercare la permanenza di essa attraverso il paragone delle percezioni; ciò che per questa via non potrebbe né anche aver luogo in modo esauriente, come si richiederebbe all’estensione e al valore assolutamente universale del

concetto. Che infatti il primo soggetto della causalità di ogni sorgere e perire non possa esso stesso (nel campo dei fenomeni) sorgere e perire, è una conclusione indiscutibile, che mette capo alla necessità e permanenza empirica nell’esistenza, e quindi al concetto di una sostanza come fenomeno. Se qualche cosa accade, il semplice sorgere, senza riguardo a ciò che sorge, è già per se stesso un oggetto da spiegare. Il solo passaggio dal non essere di uno stato allo stato stesso, posto pure che esso non importi nessuna qualità nel fenomeno, ha bisogno già di un’indagine. Questo sorgere, com’è stato mostrato al numero A, non riguarda la sostanza (che non nasce), ma il suo stato. È dunque un semplice cangiamento, non un’origine dal nulla. Se questa origine viene considerata effetto di una causa esterna, si chiama creazione; la quale non può essere ammessa come avvenimento tra i fenomeni, poiché la sua sola possibilità toglierebbe già ogni unità all’esperienza, sebbene, a considerar tutte le cose non come fenomeni, ma come cose in sé, e come oggetti meramente intelligibili145, essi ancorché siano sostanze, si possano tuttavia credere dipendenti, per la loro esistenza, da una causa estranea; ma ciò darebbe allora un tutt’altro significato alle parole, e non si converrebbe ai fenomeni come oggetti possibili dell’esperienza. Ora, come qualche cosa in generale possa cangiare, come sia possibile che a uno stato in un punto del tempo succeda in un altro punto uno stato opposto, noi non ne possiamo avere il minimo concetto a p r i o r i. A ciò si richiede la conoscenza di forze reali, che può esserci data solo empiricamente, per es. delle forze motrici, o, che è tutt’uno, di certi fenomeni successivi (come movimenti) che indicano tali forze. Ma la forma di ogni cangiamento, la condizione, senza la quale esso, come sorgere di un nuovo stato, non può presentarsi (sia qual si voglia il suo contenuto, cioè lo stato che cambia), e quindi la successione degli stati (ciò che avviene), può tuttavia esser considerata a p r i o r i, secondo la legge di causalità e le condizioni del tempo146. Quando una sostanza passa da uno stato a a un altro b, il momento del secondo è distinto dal momento del primo, e segue ad esso. Allo stesso modo il secondo stato, come realtà (fenomenica), è distinto dal primo, nel quale quella realtà non si trovava, come b dallo zero; cioè, se lo stato b si distingue anche da a solo rispetto alla quantità, il cangiamento è il risultato di b – a; risultato che non c’era nello stato precedente, rispetto al quale era = 0. Si domanda dunque: come una cosa passa da uno stato = a a uno stato =

b? Tra i due istanti c’è sempre un tempo, e tra due stati in essi istanti c’è sempre una differenza, che ha una quantità (giacché tutte le parti dei fenomeni sono sempre alla lor volta quantità). Ogni passaggio dunque da uno stato all’altro avviene in un tempo compreso fra due momenti, dei quali il primo determina lo stato da cui una cosa proviene, il secondo quello al quale perviene. Ambedue sono perciò limiti del tempo di un cangiamento, e quindi dello stato intermedio fra i due stati, e fan parte, come tali, di tutto il cangiamento. Ora, ogni cangiamento ha una causa, che addimostra la sua causalità in tutto il tempo in cui quello ha luogo. Questa causa dunque non produce il suo cangiamento istantaneamente (in una volta o in un istante). Ma in un tempo, per modo che: come dall’istante iniziale a sino al suo compimento b il tempo impiegato va crescendo, così anche la quantità di realtà (b – a) è prodotta attraverso tutti i gradi minori compresi fra il primo e l’ultimo. Ogni cangiamento è dunque possibile soltanto per un’azione continua della causalità, la quale, in quanto è uniforme, dicesi momento. Il cangiamento non consiste in questi momenti, ma ne è prodotto, come loro effetto. Ecco dunque la legge di continuità di ogni cangiamento, il cui principio è, che né il tempo, e né anche il fenomeno nel tempo, constano di parti che siano le più piccole possibili; eppure lo stato della cosa nel suo cangiare passa al suo nuovo stato attraverso tutte queste parti, come elementi. Non c’è reale fenomenico, come non c’è nella quantità del tempo, una d i f f e r e n z a che sia la m i n i m a possibile, e così il nuovo stato della realtà cresce dal primo, nel quale non esisteva, attraverso tutti i suoi gradi infiniti, le differenze dei quali sono tutte insieme più piccole della differenza fra zero ed a. Quali vantaggi possa arrecare questo principio nelle ricerche naturali, non accade qui rilevare. Ma come sia possibile del tutto a p r i o r i un tal principio, che par capace di allargar di tanto la nostra conoscenza della natura, è questione che ben richiede il nostro esame, quantunque già l’aspetto dimostri che esso è reale e legittimo, e perciò ci si potrebbe credere dispensati dalla questione del come esso sia possibile. Giacché vi sono tante specie di pretese infondate di estendere il campo della nostra cognizione mercé la pura ragione, che bisogna su questo punto avere per principio generale di essere assolutamente diffidenti, e non credere né ammettere niente in proposito, né anche in base alla più chiara dimostrazione dommatica, senza documenti, che possano fornire una deduzione solida.

Ogni accrescimento della conoscenza empirica ed ogni progresso della percezione non è altro che una estensione della determinazione del senso interno, cioè un progresso, nel tempo, quali si sieno gli oggetti, fenomeni o intuizioni pure. Questo progresso nel tempo determina tutto, e in se stesso non è determinato da null’altro, cioè le sue parti sono date solo nel tempo e mediante la sua sintesi, ma non prima di esso. Perciò ogni passaggio, nella percezione, a qualche cosa che vien dopo nel tempo, è una determinazione del tempo mediante la produzione di questa percezione, e poiché il tempo sempre e in tutte le sue parti è una quantità, la produzione di una percezione come una quantità ha luogo per tutti i gradi, dei quali nessuno è il minimo possibile, da zero sino al grado suo proprio. Donde evidentemente la possibilità di conoscere a p r i o r i una legge dei cangiamenti, secondo la loro forma. Noi anticipiamo soltanto la nostra propria apprensione, la cui condizione formale, risiedendo in noi innanzi a ogni fenomeno dato, deve senza dubbio poter essere conosciuta a p r i o r i. Pertanto, come il tempo contiene la condizione sensibile a p r i o r i della possibilità di una progressione continua da ciò che esiste a ciò che segue, così l’intelletto, per mezzo dell’unità dell’appercezione, contiene la condizione a p r i o r i della possibilità d’una determinazione continua di tutti i posti per i fenomeni in questo tempo, mediante la serie delle cause e degli effetti, di cui le prime traggono seco immancabilmente l’esistenza dei secondi, e così rendono valevole per ogni tempo (in generale), cioè oggettivamente, la conoscenza empirica dei rapporti temporali.

C. Terza analogia: Principio della simultaneità secondo la legge dell’azione vicendevole o reciprocità. Tu t t e l e s o s t a n z e , i n q u a n t o p o s s o n o e s s e r e p e r c e p i t e nello spazio come simultanee, sono tra loro in una a z i o n e r e c i p r o c a u n i v e r s a l e147. D i m o s t r a z i o n e 148 Le cose sono s i m u l t a n e e quando, nell’intuizione empirica, la percezione dell’una può seguire alla percezione dell’altra, e r e c i p r o c a m e n t e (ciò che non può accadere nella successione cronologica dei fenomeni, come è stato mostrato nel secondo principio). Così io posso

dirigere la mia percezione prima alla Luna e dopo alla Terra; o anche viceversa, prima alla Terra e dopo alla Luna; e poiché le percezioni di questi due oggetti possono reciprocamente seguirsi, dico che coesistono. Ora la simultaneità è l’esistenza del molteplice nel medesimo tempo. Ma non si può percepire il tempo, e quindi, dal fatto che le cose sono poste in un medesimo tempo, desumere che le percezioni di esse si possono seguire reciprocamente l’una all’altra. La sintesi dunque dell’immaginazione nell’apprensione darebbe soltanto ciascuna di queste percezioni come tale che una è nel soggetto quando l’altra non c’è e viceversa, ma non [indicherebbe] che gli oggetti siano simultanei, cioè che, quando v’è l’uno, nel medesimo tempo ci sia anche l’altro e che questo sia necessario affinché le due percezioni possano seguirsi reciprocamente. Per conseguenza si richiede un concetto intellettuale del reciproco seguirsi delle determinazioni di queste cose esistenti simultaneamente l’una fuori dall’altra, per poter dire che il reciproco seguirsi delle percezioni sia fondato nell’oggetto, e per rappresentarsi così la simultaneità come oggettiva. Ma quel rapporto delle sostanze, pel quale l’una contiene determinazioni il cui fondamento è contenuto nell’altra, è il rapporto dell’influsso; e se, reciprocamente, questa contiene il fondamento delle determinazioni della prima, di reciprocità o azione scambievole. Sicché la simultaneità delle sostanze nello spazio non può nell’esperienza esser conosciuta altrimenti che a patto di presupporre una scambievole azione di esse fra di loro; e questa dunque è la condizione della possibilità delle cose stesse come oggetti dell’esperienza. Le cose sono simultanee, in quanto esistono in uno e medesimo tempo. Ma a che si conosce che esse sono in uno e medesimo tempo? Se l’ordine nella sintesi dell’apprensione di questo molteplice è indifferente, cioè se può andare da A ad E passando per BCD, o, anche viceversa da E ad A. Infatti, se essa si svolgesse successivamente nel tempo (nell’ordine che comincia da A e finisce in E), allora non sarebbe possibile nella percezione cominciare l’apprensione da E e retrocedere ad A, giacché A apparterrebbe al passato, e quindi non potrebbe più essere oggetto di apprensione. Ora se voi ammettete che in una molteplicità di sostanze, in quanto fenomeni, ciascuna sia perfettamente isolata, cioè non eserciti sulle altre, e non ne subisca nessun influsso, io dico che la loro s i m u l t a n e i t à non sarebbe oggetto di una percezione possibile, e che l’esistenza dell’una non potrebbe condurre all’esistenza delle altre attraverso la via d’una sintesi

empirica. Infatti, se voi immaginate che sieno separate da uno spazio perfettamente vuoto, la percezione, che va dall’una all’altra nel tempo, potrebbe determinare bensì l’esistenza della seconda mediante una percezione successiva, ma non potrebbe distinguere se il fenomeno, oggettivamente, segua alla prima, o non le sia piuttosto simultaneo. Bisogna dunque che, oltre la semplice esistenza, vi sia qualche cosa per la quale A conferisce a B il suo posto nel tempo e reciprocamente B ad A, perché solo le sostanze pensate sotto questa condizione possono empiricamente essere rappresentate come simultanee. Ora ad una cosa il suo posto nel tempo è determinato soltanto da ciò che è la causa di essa o delle sue determinazioni. Ogni sostanza dunque (poiché può essere conseguenza solo rispetto alle sue determinazioni) deve in sé contenere la causalità di certe determinazioni di altre sostanze, e contenere a un tempo gli effetti della causalità di altre; cioè le sostanze debbono essere in reciprocità dinamica (immediatamente o mediatamente), se la simultaneità deve esser conosciuta in una possibile esperienza. Ma, rispetto agli oggetti dell’esperienza, tutto ciò, senza di cui l’esperienza di questi oggetti non sarebbe in alcun modo possibile, è necessario. Dunque è necessario che tutte le sostanze nel fenomeno, in quanto simultanee, stiano fra loro in una generale reciprocità di scambievole azione. In tedesco la parola Gemeinschaft149 ha un doppio significato, e può significare tanto communio quanto anche commercium. Noi qui ce ne serviamo nel secondo senso, come comunione dinamica, senza la quale anche quella locale (communio spatii) non potrebbe mai esser conosciuta empiricamente. Nelle nostre esperienze è facile notare che soltanto gli influssi continui in tutti i luoghi dello spazio possono condurre il nostro senso da un oggetto all’altro; che la luce che agisce fra il nostro occhio e il mondo corporeo, può produrre una reciprocità mediata fra noi e questo, e provarne così la simultaneità; che noi non possiamo mutar luogo empiricamente (cioè percepire il mutamento) senza che da per tutto la materia ci renda possibile la percezione del nostro posto e che solo mediante il suo influsso reciproco la materia può manifestare la sua simultaneità e mediante la simultaneità la coesistenza degli oggetti (sebbene solo mediatamente) sino ai più lontani. Senza reciprocità, ogni percezione (dei fenomeni nello spazio) è staccata dalle altre, e la catena delle rappresentazioni empiriche, cioè l’esperienza, dovrebbe ricominciare da capo ad ogni nuovo oggetto, senza che la

precedente potesse minimamente collegarsi o trovarsi con essa nel rapporto temporale. Con questo io non voglio per nulla confutare lo spazio vuoto; giacché esso può essere sempre dove non giungano punto percezioni, e però non abbia luogo nessuna conoscenza empirica della simultaneità; ma allora esso non è punto un oggetto per tutta la nostra esperienza possibile. A schiarimento può giovare quanto segue. Nel nostro spirito tutti i fenomeni, come contenuti in una esperienza possibile, debbono essere in una comunanza (communio) di appercezione; e in quanto gli oggetti, come coesistenti, debbono esser rappresentati come collegati, essi debbono determinare scambievolmente l’uno il posto dell’altro in un tempo, e costituire perciò un tutto unico. Se questa soggettiva reciprocità bisogna che sia fondata su una base oggettiva, o esser riferita ai fenomeni come a sostanze, la percezione degli uni deve render possibile, come fondamento, quella degli altri, e viceversa, affinché la successione, che si riscontra sempre nelle percezioni, in quanto apprensioni, non venga attribuita agli oggetti, ma questi possono essere rappresentati come coesistenti. Ma questo è un reciproco influsso, cioè una reciprocità (commercium) reale fra le sostanze, senza la quale, dunque, il rapporto empirico della simultaneità non potrebbe aver luogo nell’esperienza. Per questo commercio i fenomeni, in quanto esistenti gli uni fuori degli altri, e tuttavia in connessione, costituiscono un composto (compositum reale); e siffatti composti sono possibili in varie guise. I tre rapporti dinamici, dai quali derivano tutti gli altri sono quindi quelli dell’inerenza, della conseguenza e della composizione. Queste sono dunque le tre analogie dell’esperienza. Esse non sono altro che princìpi della determinazione dell’esistenza dei fenomeni nel tempo, secondo tutti e tre i suoi modi: rapporto al tempo stesso come quantità (quantità dell’esistenza, cioè durata), rapporto nel tempo come serie (successione), e finalmente rapporto nel tempo come insieme di tutta l’esistenza (simultaneità). Questa unità della determinazione del tempo è assolutamente dinamica, cioè il tempo non è considerato come ciò in cui l’esperienza determini immediatamente a ciascuna esistenza il suo posto; la qual cosa è impossibile, perché il tempo assoluto non è oggetto di percezione, in cui si possono riunire fenomeni; ma la regola dell’intelletto, senza di cui l’esistenza dei fenomeni non può raggiungere l’unità sintetica secondo rapporti temporali, determina a ciascuno di essi il suo posto nel tempo, e perciò a p r i o r i, e in modo valevole per tutti i tempi e per ciascun tempo.

Coll’espressione «natura» (in senso empirico), noi intendiamo la connessione dei fenomeni, per la loro esistenza secondo regole necessarie, o leggi. Vi sono, dunque, certe leggi, e leggi a p r i o r i, che rendono prima di tutto possibile una natura; le leggi empiriche possono esserci ed essere scoperte solo mediante l’esperienza, e però in seguito a quelle leggi originarie, per cui comincia ad essere possibile l’esperienza stessa. Le nostre analogie rappresentano dunque propriamente l’unità della natura nella connessione di tutti i fenomeni sotto certi esponenti, che non esprimono se non il rapporto del tempo (in quanto esso comprende in sé ogni esistenza) con l’unità dell’appercezione, che può aver luogo solo nella sintesi secondo regole. Tutte insieme dunque esse ci dicono: tutti i fenomeni stanno in natura, e debbono starvi, poiché, senza questa unità a p r i o r i, non sarebbe possibile nessuna unità dell’esperienza, quindi nemmeno nessuna determinazione dei suoi oggetti. Ma, circa il modo di argomentare del quale ci siamo valsi in queste leggi trascendentali della natura, e circa il suo carattere peculiare, c’è da fare un’osservazione, che deve essere nello stesso tempo molto importante come norma per ogni altro tentativo di dimostrare a priori proposizioni intellettuali e insieme sintetiche. Se avessimo voluto dimostrare queste analogie dommaticamente, cioè per concetti, dicendo che tutto ciò che esiste può trovarsi soltanto in ciò che permane, e che ogni avvenimento presuppone nello stato precedente qualcosa cui succede secondo una certa regola, e, infine, che nel molteplice che è simultaneo, gli stati coesistono in relazione tra loro (stanno in reciprocità d’azione) secondo una regola, sarebbe stata tutta fatica sprecata. Infatti, da un oggetto e dalla sua esistenza non si può assolutamente venire all’esistenza o al modo di esistere dell’altro, per via di semplici concetti di queste cose, in qualunque modo si analizzino questi concetti. Che cosa ci restava dunque? La possibilità dell’esperienza, come conoscenza in cui tutti gli oggetti ci devono infine poter esser dati, se la loro rappresentazione deve avere per noi realtà oggettiva. Ora, in questa terza analogia la cui forma essenziale consiste nell’unità sintetica dell’appercezione di tutti i fenomeni, noi abbiamo trovato condizioni a priori della completa e necessaria determinazione temporale di ogni esistenza nel fenomeno, senza le quali anche l’empirica determinazione del tempo sarebbe impossibile; e abbiamo trovato regole dell’unità sintetica a priori, per mezzo delle quali possiamo anticipare l’esperienza. In mancanza di questo metodo, e

nella illusione che proposizioni sintetiche, che l’uso empirico dell’intelletto raccomanda come suoi princìpi, si dovessero dimostrare dommaticamente, è dunque accaduto questo fatto: che si sia cercata tanto spesso, ma sempre invano, una prova del principio di ragion sufficiente. Alle altre due analogie nessuno ha mai pensato, sebbene tutti se ne siano tacitamente serviti150, poiché mancava il filo conduttore delle categorie, il quale soltanto può scoprire e mettere in rilievo tutte le lacune dell’intelletto, così nei concetti come nei princìpi.

4. I p o s t u l a t i del pensiero empirico in generale. 1. Ciò che s’accorda colle condizioni formali dell’esperienza (per l’intuizione e pei concetti) è p o s s i b i l e . 2. Ciò che si connette con le condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione) è r e a l e . 3. Ciò la cui connessione col reale è determinato secondo le condizioni universali dell’esperienza è (esiste) n e c e s s a r i a m e n t e . Chiarimento Le categorie della modalità hanno questo di particolare, che non accrescono menomamente, come determinazioni dell’oggetto, il concetto al quale sono unite come predicati, ma esprimono soltanto il rapporto colla facoltà conoscitiva. Quando il concetto di una cosa è già del tutto completo, io posso tuttavia chiedermi sempre, se questo oggetto sia solamente possibile o reale, e, in questo caso, se sia anche necessario. Nessun’altra determinazione così è pensata nell’oggetto come tale, ma si vuol sapere solamente in qual rapporto sta esso (e tutte le determinazioni sue) con l’intelletto e il suo uso empirico, col Giudizio empirico e con la ragione (nella sua applicazione all’esperienza). Appunto perciò i princìpi della modalità non son nulla più che chiarimenti dei concetti della possibilità, della realtà, della necessità, nel loro uso empirico, e quindi a un tempo limitazioni di tutte le categorie al semplice uso empirico, senza ammetterne o permetterne quello trascendentale. Infatti, se le categorie non hanno un valore puramente logico, e non devono esprimere analiticamente la forma del p e n s i e r o , ma devono riguardare le c o s e e la loro possibilità, realtà e necessità, è necessario che esse si riferiscano all’esperienza possibile e alla sua unità sintetica, nella quale soltanto gli

oggetti della conoscenza son dati. Il postulato della p o s s i b i l i t à delle cose richiede, dunque, che il loro concetto si accordi con le condizioni formali d’una esperienza generale. Ma questa, cioè la forma oggettiva dell’esperienza in generale, comprende ogni sintesi che si richiede per la conoscenza degli oggetti. Un concetto che racchiude una sintesi, deve essere considerato come vuoto, e non si riferisce a nessun oggetto, se questa sintesi non appartiene all’esperienza, o come derivata da questa, e allora il concetto si dice c o n c e t t o e m p i r i c o, o come tale che su di essa, quale condizione a priori, poggia l’esperienza in generale (la sua forma), e allora è un c o n c e t t o p u r o che appartiene lo stesso all’esperienza, poiché il suo oggetto non può trovarsi se non in questa. Infatti, donde si ricaverà il carattere della possibilità di un oggetto, che venga pensato mediante un concetto sintetico a priori, se non dalla sintesi che costituisce la forma della conoscenza empirica degli oggetti? Che in un concetto siffatto non debba esservi contraddizione, è certo una condizione logica necessaria, ma tutt’altro che sufficiente a costituire la realtà oggettiva del concetto, cioè la possibilità d’un oggetto quale vien pensato mediante il concetto! Così, non c’è contraddizione nel concetto di una figura chiusa fra due linee rette, giacché il concetto di due linee rette e quello del loro incontrarsi non contengono la negazione di alcuna figura; ma l’impossibilità non sta nel concetto in se stesso, bensì nella costruzione di esso nello spazio, cioè nelle condizioni dello spazio e della sua determinazione; ma queste, alla lor volta, hanno la loro realtà oggettiva, ossia si riferiscono a cose possibili, poiché contengono in sé a priori la forma dell’esperienza in generale. Ed ora vogliamo far constatare l’utilità amplissima e l’influsso di questo postulato della possibilità. Se io mi rappresento una cosa che è permanente, in modo che tutto ciò che in essa cangia, appartenga solo al suo stato, io con questo solo concetto non posso conoscere se una cosa di questa natura sia possibile. Oppure, se io mi rappresento una cosa che deve essere tale, che, se essa è posta, ad essa sempre e inevitabilmente ne segue un’altra, questo certamente è pensabile senza contraddizione; ma non potrei in questo modo giudicare se una tale proprietà (causalità) si trovi in una qualche cosa possibile. Finalmente, io posso rappresentare varie cose (sostanze) così costituite che lo stato dell’una importi un effetto nello stato dell’altra, e viceversa; ma se un rapporto siffatto possa o no convenire a qualche cosa, non si può ricavare punto da questi concetti contenenti una sintesi meramente

arbitraria. Dunque, solo in quanto questi concetti esprimono a priori i rapporti delle percezioni di ogni esperienza, se ne conosce la realtà oggettiva, cioè la verità trascendentale; e ciò indipendentemente, certo, dall’esperienza, ma non indipendentemente da ogni relazione con la forma dell’esperienza in generale e con l’unità sintetica, nella quale solamente è possibile che oggetti si conoscano empiricamente. A volersi formare concetti nuovi di sostanze, di forze, di azioni reciproche, dalla materia che la percezione ci offre, senza trarre dall’esperienza stessa l’esempio della loro connessione, si verrebbe infatti ad incorrere in manifeste fantasticherie destituite di ogni carattere di possibilità, poiché per esse non si avrebbe a maestra l’esperienza, né si desumerebbero da questa tali concetti. Tali concetti fittizi non possono avere a priori il carattere della loro possibilità, – come lo hanno le categorie, – quasi condizioni dalle quali dipenda qualsiasi esperienza, ma solo a posteriori: come quelli che son dati dall’esperienza stessa, e la cui possibilità o deve esser conosciuta empiricamente, a posteriori, o non può esser conosciuta punto. Una sostanza che fosse costantemente presente nello spazio, ma senza riempirlo (come quella cosa di mezzo fra la materia e l’essere pensante, che taluni han voluto introdurre), oppure una speciale facoltà del nostro spirito di p r e v e d e r e il futuro (non già semplicemente argomentarlo), o infine una potenza dello spirito di stare in comunione di pensieri con gli altri uomini (per quanto lontani possano essere), sono concetti, la cui possibilità è priva di ogni fondamento, poiché non può essere fondata sull’esperienza e sulle sue leggi conosciute, senza di cui non è se non una costruzione soggettiva arbitraria; la quale, anche se non contiene alcuna contraddizione, non può tuttavia aver nessuna pretesa alla realtà oggettiva, né, perciò, alla possibilità di un oggetto come quello che in questi casi si vuol pensare. Per ciò che riguarda la realtà, vien da sé che non si potrebbe pensarla in concreto, senza ricorrere all’aiuto dell’esperienza; poiché essa può riferirsi solo alla sensazione come materia dell’esperienza, e non riguarda la forma del rapporto, colla quale si potrebbe sempre giuocare di fantasia. Ma io metto da parte tutto ciò, la cui possibilità non può esser desunta se non dalla realtà dell’esperienza, ed esamino qui soltanto la possibilità delle cose mediante concetti a priori; delle quali continuo ad affermare, che non possono aver luogo mai per deduzione da tali concetti in sé considerati, ma sempre e solo da essi in quanto condizioni formali e oggettive di una

esperienza in generale. Si ha bensì l’apparenza che la possibilità di un triangolo possa esser dedotta dal concetto in sé di triangolo (dall’esperienza esso è di certo indipendente); giacché nel fatto noi possiamo dargli un oggetto del tutto a priori, cioè costruirlo. Ma, poiché questo non è se non la forma di un oggetto, sarebbe pur sempre solo un prodotto dell’immaginazione, del cui oggetto resterebbe tuttavia dubbia la possibilità come ciò per cui si richiede qualcosa di più, cioè che tale figura sia pensata nelle chiare condizioni, sulle quali si fondano tutti gli oggetti dell’esperienza. Ora, ciò che soltanto congiunge con quel concetto la rappresentazione della possibilità di un tale oggetto, è che lo spazio è condizione formale a priori delle esperienze esterne, e che la stessa sintesi figurata, onde noi costruiamo nell’immaginazione un triangolo, è affatto identica a quella, che noi adoperiamo nell’apprensione di un fenomeno, per farcene un concetto d’esperienza. E così la possibilità delle quantità continue, anzi delle quantità in generale, poiché i concetti di esse sono tutti quanti sintetici, non è mai chiara in virtù dei concetti in se stessi, ma solo in virtù dei concetti come condizioni formali della determinazione degli oggetti dati dall’esperienza in generale; e dove mai si dovrebbero cercare, del resto, oggetti corrispondenti ai concetti, se non nell’esperienza, per la quale soltanto gli oggetti ci vengon dati? Quantunque noi, senza ricorrere all’esperienza stessa, possiamo conoscere e caratterizzare la possibilità delle cose, solo in relazione con le condizioni formali, in cui nell’esperienza in generale, qualcosa è determinato come oggetto, e perciò del tutto a priori, benché sempre in rapporto coll’esperienza e dentro i limiti di essa. Il postulato, per conoscere la r e a l t à delle cose, esige la p e r c e z i o n e , quindi la sensazione di cui si abbia coscienza; cioè non la immediata percezione dell’oggetto, di cui si deve conoscere l’esistenza, ma la connessione di esso con una percezione reale, secondo le analogie dell’esperienza, che presentano ogni reale connessione in una esperienza in generale. Nel s e m p l i c e c o n c e t t o di una cosa non può trovarsi nessun carattere della sua esistenza. Giacché, sebbene esso sia così completo, che nulla gli manchi per pensare una cosa con tutte le sue determinazioni interne, pure l’esistenza non ha che fare con tutto ciò, ma solo con la questione se una tale cosa ci è data, in modo che la percezione di essa possa sempre andare innanzi

al concetto. Infatti, che il concetto preceda la percezione, significa la sua mera possibilità; ma la percezione, che fornisce al concetto la materia, è l’unico carattere della realtà. Si può, per altro, anche prima della percezione della cosa, e perciò r e l a t i v a m e n t e a priori, conoscerne l’esistenza, solo a patto che si colleghi con alcune percezioni secondo i princìpi della loro connessione empirica (le analogie). Perocché in tal caso l’esistenza della cosa è collegata colle nostre percezioni in una esperienza possibile, e noi possiamo, muovendo da una nostra percezione reale e seguendo il filo conduttore di quelle analogie, giungere alla cosa nella serie delle percezioni possibili. Così noi riconosciamo l’esistenza di una materia magnetica, che attraversa tutti i corpi, dalla percezione della limatura di ferro attratta: sebbene, per la costituzione dei nostri organi, ci sia impossibile una percezione immediata di questa materia. Infatti noi, secondo le leggi della sensibilità e il contesto delle nostre percezioni, dovremmo in una esperienza imbatterci anche nell’intuizione empirica immediata, se fossero più delicati i nostri organi, la cui grossolanità non tocca punto la forma dell’esperienza possibile in generale. Dunque, fin dove giunge la percezione e ciò vi si connette secondo leggi empiriche, giunge pure la nostra conoscenza dell’esistenza delle cose. Ma, se non cominciamo dall’esperienza, oppure se non procediamo secondo leggi della connessione empirica dei fenomeni, invano facciamo pompa di voler indovinare e ricercare l’esistenza di una cosa qualsiasi. Una obbiezione forte move bensì contro queste regole di dimostrare mediatamente l’esistenza, l’idealismo, la cui confutazione cade qui opportuna151: CONFUTAZIONE DELL’IDEALISMO L’idealismo (m a t e r i a l e )152 è la teoria, che dichiara l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di noi o semplicemente dubbia e i n d i m o s t r a b i l e , o f a l s a e i m p o s s i b i l e ; il primo è l’idealismo problematico d i C a r t e s i o , che dichiara indubitabile solo una affermazione (assertio) empirica, cioè: I o s o n o: il secondo è quello d o m m a t i c o d i Be r k e l e y 153, che considera lo spazio, con tutte le cose a cui esso aderisce quale condizione inseparabile, come qualcosa in se stesso impossibile, e dichiara perciò anche le cose nello spazio semplici immaginazioni. L’idealismo dommatico è inevitabile, quando si consideri lo spazio come una proprietà che debba spettare alle cose in se stesse; giacché in tal caso esso, con tutto ciò a cui serve di condizione, è un non-essere154. Ma

nell’Estetica trascendentale noi abbiamo distrutto il fondamento di questo idealismo. Quello problematico, che non si pronunzia su ciò, ma solamente mette avanti la sua impotenza a provare con una esperienza immediata un’esistenza fuori della nostra, è ragionevole, e conforme a una solida maniera filosofica di pensare: cioè che non sia permesso di pronunziare un giudizio decisivo, prima d’aver trovato una prova sufficiente. La prova desiderata deve dunque dirci, che noi delle cose esterne abbiamo non semplice i m m a g i n a z i o n e , ma anche e s p e r i e n z a : ciò che non può avvenire se non dimostrando che la nostra stessa esperienza i n t e r n a , indubitabile secondo C a r t e s i o , è possibile solo nel supposto di una esperienza e s t e r n a . Teorema La semplice coscienza, ma empiricamente determinata, della mia propria esistenza dimostra l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di me. Dimostrazione Io ho coscienza della mia esistenza come determinata nel tempo. Ogni determinazione temporale presuppone qualcosa di permanente nella percezione. Ma questo che di permanente non può essere qualcosa in me, poiché appunto la mia esistenza nel tempo non può essere determinata se non da questo qualche cosa di permanente155. Dunque, la percezione di questo permanente non è possibile se non mediante una cosa fuori di me, e non mediante la semplice r a p p r e s e n t a z i o n e di una cosa fuori di me. Perciò la determinazione della mia esistenza nel tempo non è possibile se non per l’esistenza di cose reali, che io percepisco fuori di me. Ora, la coscienza nel tempo è legata necessariamente con la coscienza della possibilità di questa determinazione temporale; dunque è anche necessariamente legata con l’esistenza delle cose fuori di me, come condizione della determinazione temporale; vale a dire, la coscienza della mia propria esistenza è a un tempo immediata coscienza dell’esistenza di altre cose fuori di me. A n n o t a z i o n e 1 . Nella precedente dimostrazione si scorge che il giuoco mosso dall’idealismo a maggior diritto vien ritorto contro di esso. Esso ha ammesso che l’unica esperienza immediata sia l’interna, e che da essa si possa solo c o n c l u d e r e alle cose esterne, ma, – come sempre che da effetti dati si concluda a cause d e t e r m i n a t e , – senza certezza: poiché può essere anche in noi stessi quella causa delle rappresentazioni, che noi forse

falsamente attribuiamo alle cose esterne. Se non che, qui si dimostra che l’esperienza esterna è propriamente immediata156, e che solo mediante essa è possibile, non la conoscenza della nostra propria esistenza, ma la determinazione sua nel tempo, cioè l’esperienza interna. Evidentemente la rappresentazione «I o s o n o», – la quale esprime la coscienza che può accompagnare ogni pensiero, – è ciò che racchiude in sé immediatamente l’esistenza di un soggetto, ma non ancora una c o n o s c e n z a di esso, e quindi nemmeno una conoscenza empirica, o esperienza; infatti per questa occorre, oltre il pensiero di qualcosa di esistente, anche l’intuizione, e in questo caso l’intuizione interna, rispetto alla quale, cioè al tempo, il soggetto deve essere determinato; ora ad essa sono assolutamente necessari oggetti esterni; cosicché, per conseguenza, la stessa esperienza interna è possibile solo mediatamente, e solo per mezzo dell’esterna. A n n o t a z i o n e 2 . Ora con tutto questo concorda pienamente ogni uso empirico del nostro potere conoscitivo nella determinazione del tempo. Non soltanto noi non possiamo percepire nessuna determinazione temporale se non mediante il cambiamento dei rapporti esterni (il movimento), in relazione con ciò che permane nello spazio (per es. il movimento del sole rispetto agli oggetti della terra); ma non abbiamo niente assolutamente di permanente, da poter porre, come intuizione, sotto il concetto di una sostanza, fuorché la m a t e r i a , e questa stessa permanenza non è tratta dall’esperienza esterna, bensì presupposta a p r i o r i come condizione necessaria di ogni determinazione temporale, e quindi altresì come determinazione del senso interno rispetto alla nostra propria esistenza mediante l’esistenza delle cose esterne. La coscienza di me stesso nella rappresentazione Io non è punto una intuizione, ma una rappresentazione meramente i n t e l l e t t u a l e della spontaneità di un soggetto pensante. Quindi quest’Io non ha nemmeno il minimo predicato dell’intuizione, che come p e r m a n e n t e possa servire di correlato alla determinazione del tempo nel senso interno; come per esempio, la i m p e n e t r a b i l i t à è nella materia come intuizione e m p i r i c a . A n n o t a z i o n e 3 . Dal fatto che è richiesta l’esistenza di oggetti esterni per la possibilità di una coscienza determinata di noi stessi, non segue già, che ogni rappresentazione intuitiva di cose esterne implichi, senz’altro, la loro esistenza; giacché questa rappresentazione può ben essere il semplice effetto della immaginazione (nei sogni, come nel delirio); ma questa immaginazione non ha luogo se non per la riproduzione di percezioni esterne

passate, le quali, come abbiamo mostrato, sono possibili solo per la realtà di oggetti esterni. Qui dunque era uopo soltanto provare, che l’esperienza interna in generale non è possibile se non per l’esperienza esterna in generale. Se poi questa o quella pretesa esperienza sia o no una immaginazione, è cosa da stabilire secondo le speciali determinazioni della medesima e il suo accordo coi criteri di ogni esperienza reale. Quanto, infine, al terzo postulato, esso riguarda la necessità materiale nell’esistenza, e non quella semplicemente formale e logica nella connessione dei concetti. Ora, poiché nessuna esistenza degli oggetti dei sensi può esser conosciuta assolutamente ma solo relativamente a priori, in rapporto ad un’altra esistenza già data; e poiché anche non si può riferire se non a quell’esistenza, che deve esser contenuta dove che sia nell’insieme dell’esperienza, di cui la percezione data è una parte; così la necessità dell’esistenza non si potrà mai conoscere per concetti, ma sempre soltanto per il legame con ciò che è percepito, secondo leggi universali dell’esperienza. Ora, non c’è esistenza che possa essere conosciuta come necessaria sotto la condizione di altri fenomeni dati, salvo l’esistenza degli effetti da cause date, secondo leggi causali. Dunque, non dell’esistenza delle cose (sostanze), ma di quella del loro stato soltanto possiamo conoscere la necessità; e lo possiamo, per via di altri stati, che sono dati nella percezione, secondo leggi empiriche causali. Donde segue, che il criterio della necessità consiste unicamente in questa legge dell’esperienza possibile: tutto ciò che avviene, è determinato a priori nel fenomeno dalla sua causa. Quindi nella natura noi conosciamo soltanto la necessità degli e f f e t t i dei quali ci sono date le cause; e il carattere della necessità nell’esistenza non si estende oltre il campo dell’esperienza possibile; ed anche in questo non vale per l’esistenza delle cose come sostanze, poiché queste non possono mai esser considerate come effetti empirici o come qualcosa che avvenga e sorga. La necessità riguarda, dunque, soltanto i rapporti dei fenomeni secondo la legge dinamica della causalità, e la possibilità che ne deriva di concludere a priori da una data esistenza qualsiasi (causa) a un’altra esistenza (effetto). Tutto ciò che accade è ipoteticamente necessario; ecco un principio, che subordina il cangiamento nel mondo ad una legge, cioè a una regola dell’esistenza necessaria, senza la quale non vi sarebbe né anche la natura. Perciò la proposizione: «nulla avviene per un cieco caso (in mundo non datur casus)», è una legge a priori della natura; e parimenti quell’altra: «nella natura non c’è necessità cieca, ma

condizionata, quindi intelligibile (non datur fatum)». Queste due sono leggi tali, per cui il giuoco dei cangiamenti vien subordinato a una n a t u r a d e l l e c o s e (come fenomeni), o, che è tutt’uno, all’unità dell’intelletto, in cui soltanto essi possono appartenere a una esperienza, come unità sintetica dei fenomeni. Questi due princìpi fan parte dei princìpi dinamici. Il primo è propriamente una conseguenza del principio di causalità (tra le analogie dell’esperienza). Il secondo appartiene ai princìpi della modalità, la quale alla determinazione causale aggiunge anche il concetto della necessità; ma di una necessità che sottostà a una regola dell’intelletto. Il principio della continuità vietava nella serie dei fenomeni (cangiamenti) ogni salto (in mundo non datur saltus), ma vietava anche nell’insieme di tutte le intuizioni empiriche nello spazio ogni lacuna o intervallo fra due fenomeni (non datur hiatus), perché la proposizione si può enunciare così: nella esperienza niente può entrare, che dimostri un vacuum, o che anche soltanto lo permetta come parte della sintesi empirica. Giacché per ciò che riguarda il vuoto, che si può pensare fuori del campo dell’esperienza possibile (del mondo), esso non rientra nella giurisdizione del semplice intelletto, il quale decide le sole questioni concernenti l’uso di fenomeni dati nella conoscenza empirica, ed è un problema per la ragione idealistica157, la quale oltrepassa anche la sfera di un’esperienza possibile, e vuol giudicare di ciò che è attorno a questa e la limita; deve quindi essere esaminato nella Dialettica trascendentale. Queste quattro proposizioni (in mundo non datur hiatus, non datur saltus, non datur casus, non datur fatum) noi potremmo facilmente rappresentarcele come tutti i princìpi d’origine trascendentale, assegnando ordinatamente a ciascuna un posto conformemente all’ordine delle categorie; ma il lettore già esperto lo farà da sé, o scoprirà facilmente il filo conduttore per ciò. Esse per altro si accordano tutte solamente in ciò, che non ammettono nulla nella sintesi empirica, che possa arrecare pregiudizio o danno all’intelletto e alla connessione continua di tutti i fenomeni, cioè all’unità dei suoi concetti. Giacché esso soltanto è ciò, in cui divien possibile l’unità dell’esperienza, nella quale tutte le percezioni debbono avere il loro posto. Se il campo della possibilità sia maggiore di quello che comprende tutto il reale, e se questo alla sua volta sia maggiore di quel che è necessario, sono questioni eleganti e di soluzione sintetica, ma che toccano anch’esse soltanto alla giurisdizione speciale della ragione; giacché presso a poco equivalgono a dire: se le cose come fenomeni appartengono tutte all’insieme e al contesto di

una esperienza unica, della quale ogni percezione data è una parte, che perciò non potrebbe esser unita con altri fenomeni; o se le mie percezioni possono appartenere a più che una possibile esperienza (nel loro concatenamento generale). L’intelletto dell’esperienza in generale dà a priori soltanto la regola secondo le condizioni soggettive e formali, sia della sensibilità sia dell’appercezione, senza di cui essa non sarebbe possibile. Altre forme dell’intuizione (oltre lo spazio e il tempo), e parimenti altre forme dell’intelletto (oltre le forme discorsive del pensiero o della conoscenza per concetti), anche se fossero possibili, noi tuttavia non le possiamo in nessuna maniera né immaginare, né rendere intelligibili; ma quand’anche lo potessimo, esse tuttavia non rientrerebbero nell’esperienza come l’unica conoscenza, in cui oggetti possano esserci dati. Se esistano percezioni diverse da quelle che, in generale, appartengono alla totalità della nostra esperienza possibile, e quindi se ci sia anche un campo quanto alla materia diverso affatto, non è ufficio dell’intelletto stabilirlo; poiché esso ha da fare soltanto con la sintesi di ciò che è dato. Del resto la meschinità delle nostre abituali deduzioni, con cui produciamo un vasto campo di possibilità, del quale tutto il reale (ogni oggetto cioè dell’esperienza) è solo una piccola parte, è troppo evidente. Ogni reale è possibile; ne segue naturalmente, secondo le regole logiche della conversione, il giudizio semplicemente particolare: alcuni possibili sono reali; giudizio, che pare infatti come dire, che vi sono molti possibili, che non sono reali. C’è sì l’apparenza che si possa elevare senz’altro il numero del possibile al di sopra di quello del reale pel fatto che a quello si deve aggiungere ancora qualcosa, per formare il reale. Se non che, quest’aggiunta da farsi al possibile io non la conosco. Ciò, infatti, che a questo si dovrebbe aggiungere in più, sarebbe poi impossibile. Pel mio intelletto non c’è se non una cosa, che può essere aggiunta all’accordo colle condizioni formali dell’esperienza, ed è il legame con una data percezione; ma ciò che è legato a questa secondo le leggi empiriche, è reale, ancorché non percepito immediatamente. Che poi nella connessione generale con ciò che mi è dato nella percezione, sia possibile un’altra serie di fenomeni, e quindi possa esserci più che un’unica esperienza, che abbracci tutto, non si può dedurre da ciò ch’è dato, e tanto meno poi se non è dato nulla; poiché senza materia nulla mai potrebbe esser pensato. Ciò che è possibile solo a date condizioni, l’e quali sono esse stesse semplicemente possibili, non è tale s o t t o o g n i a s p e t t o. Ma in questo senso vien presa la questione, quando

si vuol sapere se la possibilità delle cose si possa estendere più in là dell’esperienza. Ho fatto solo menzione di queste questioni per non lasciare nessuna lacuna in ciò che appartiene, secondo la comune opinione, ai concetti dell’intelletto. Ma, in realtà, la possibilità assoluta (che vale sotto ogni aspetto), non è un semplice concetto intellettuale, e non può in alcun modo essere d’uso empirico, ma appartiene solo alla ragione, che trascende ogni uso empirico possibile dell’intelletto. Quindi noi abbiamo dovuto accontentarci qui di una semplice avvertenza critica, lasciando al buio la cosa sino alla più larga trattazione che se ne farà appresso. Volendo conchiudere questo quarto numero, e insieme il sistema di tutti i princìpi dell’intelletto puro, debbo ancora indicare la ragione, per la quale ho detto per l’appunto postulati i princìpi della modalità. Non voglio prender qui questo termine nel significato che alcuni moderni autori di filosofia gli han dato, contro il senso dei matematici, ai quali propriamente appartiene, e cioè: che postulare significhi dare una proposizione per immediatamente certa senza giustificazione o prova; perocché, se noi dovessimo in proposizioni sintetiche, per quanto evidenti, ammettere che si abbiano ad accettare senza deduzione e in virtù della loro propria pretesa all’assenso incondizionato, allora tutta la critica dell’intelletto andrebbe perduta; e poiché non mancano le pretese più audaci, cui non si rifiuta neppur la fede comune (che non è per altro una lettera di credito), così il nostro intelletto sarebbe aperto a ogni opinione, senza poter rifiutare l’adesione a sentenze, le quali, sebbene illegittime, chiedano di esser lasciate passare, collo stesso tono di sicurezza dei veri e propri assiomi. Quando, dunque, al concetto di una cosa si aggiunga sinteticamente a priori una determinazione, di una tal proposizione è indispensabile addurre, se non una dimostrazione, almeno una deduzione della legittimità di quanto con essa si asserisce. Ma i princìpi della modalità non sono oggettivamente sintetici, perché i predicati della possibilità, realtà e necessità non accrescono menomamente il concetto del quale si predicano, con l’aggiunta di qualcosa alla rappresentazione dell’oggetto. Sono bensì sintetici; ma solo soggettivamente, cioè aggiungono al concetto di una cosa (di un reale), della quale del resto non dicono nulla, la facoltà di conoscere in cui sorge e ha sede, cosicché se è legato solo nell’intelletto con le condizioni formali dell’esperienza, il suo oggetto si dice p o s s i b i l e ; se poi è legato con la percezione (sensazione,

come materia dei sensi) e mediante essa determinato dall’intelletto, l’oggetto è r e a l e ; se infine è determinato dalla connessione delle percezioni secondo concetti, l’oggetto si dice n e c e s s a r i o . I princìpi della modalità dunque non dicono altro, di un concetto, se non l’operazione della facoltà conoscitiva, da cui esso è generato. Ora, in matematica, si chiama postulato la proposizione pratica, che non contiene altro che la sintesi, con la quale noi ci diamo dapprima un oggetto, e ne generiamo il concetto; per es., con una data linea da un dato punto descrivere un cerchio su una superficie; e una proposizione di questa specie non può esser dimostrata, poiché il procedimento che essa richiede è appunto quello, onde noi generiamo anzitutto il concetto di una tale figura. Noi pertanto possiamo postulare collo stesso diritto i princìpi della modalità, poiché essi non accrescono158 il loro concetto delle cose in generale, ma solo indicano il modo nel quale esso in generale è legato alla facoltà conoscitiva. OSSERVAZIONE GENERALE SUL SISTEMA DEI PRINCÌPI159 È cosa ben degna di nota, che noi non possiamo scorgere la possibilità di una cosa in base alla semplice categoria, ma dobbiamo sempre disporre di una intuizione per dimostrare in essa la realtà oggettiva del concetto puro dell’intelletto. Si prendano, per es., le categorie della relazione. Come 1) qualcosa possa esistere solo come s o g g e t t o , e non come semplice determinazione di un’altra cosa, cioè come possa esser s o s t a n z a ; oppure come 2), pel fatto che qualcosa è, debba anche essere qualcos’altro, cioè come in generale qualcosa possa esser causa; ovvero 3) come, esistendo più cose, dall’esistere una di esse segua qualcosa nelle altre e viceversa, e in tal modo possa aver luogo una reciprocità d’azione tra le sostanze; tutto ciò non si può punto ricavare da semplici concetti. Altrettanto vale anche delle altre categorie, per es., come una cosa possa far tutt’uno con molte, cioè essere una quantità, e via dicendo. Finché dunque manca l’intuizione, non si sa se, colle categorie, venga pensato un oggetto, o se possa mai loro convenire un oggetto qualsiasi, in generale; e per conseguenza si ha una conferma che esse, per sé prese, non sono punto c o n o s c e n z e , ma semplici f o r m e d e l p e n s i e r o , per fare, di date intuizioni, conoscenze. – Da questo appunto deriva altresì, che con semplici categorie non si può fare una proposizione sintetica. Per esempio, in ogni esistenza c’è una sostanza, cioè qualcosa che può esister solamente come soggetto e non come semplice predicato; oppure: ogni cosa è un quanto, e così via; in questi casi non c’è nulla che possa

servirci per andare al di là del concetto dato e unirvene un altro. Quindi né anche si è mai arrivati a dimostrare per mezzo di concetti puri dell’intelletto una proposizione sintetica, per es., la proposizione: «ogni contingente160 ha una causa». Non s’è potuto mai far altro, che dimostrare che senza questa relazione noi non potremmo c o m p r e n d e r e punto l’esistenza del contingente, cioè non potremmo con l’intelletto conoscere a priori l’esistenza di una cosa siffatta; da che per altro non segue che questa sia anche la condizione della possibilità delle cose stesse. Perciò, se si vuol tornare a guardare la nostra dimostrazione del principio di causalità, si scorgerà, che noi non abbiamo potuto dimostrarlo se non di oggetti di esperienza possibile: tutto ciò che avviene (ogni avvenimento) presuppone una causa; – e pertanto che noi non abbiamo potuto dimostrarlo se non come principio della possibilità dell’esperienza, quindi della c o n o s c e n z a di un oggetto dato nell’i n t u i z i o n e e m p i r i c a, e non già con meri concetti. Tuttavia non è da negare che la proposizione: «ogni contingente deve avere una causa», non risulti chiara a ciascuno in virtù di semplici concetti; ma allora il concetto del contingente è già inteso in tal modo che contiene, non la categoria della modalità (come qualcosa di cui si possa p e n s a r e la non esistenza), ma quella della relazione (come qualcosa che può esistere solo in conseguenza di un’altra); e in questo caso certamente è una proposizione identica: ciò che può esistere solo come conseguenza, ha la sua causa. In realtà, quando noi dobbiamo arrecare esempi dell’esistenza contingente, ci richiamiamo sempre a cangiamenti, e non semplicemente alla possibilità del p e n s i e r o d e l c o n t r a r i o 161. Ma, cangiamento, è un avvenimento il quale, come tale, è possibile solo mediante una causa, e il cui non essere dunque per sé è possibile; e la contigenza d’una cosa si conosce da ciò, che essa può esistere soltanto come effetto di una causa; se quindi una cosa è presa per contingente, è una proposizione analitica il dire che essa ha una causa. Ma ancora più degno di nota è, che per intendere la possibilità delle cose in conseguenza delle categorie, e per dimostrare quindi la r e a l t à o g g e t t i v a di queste, non occorrono semplicemente intuizioni, ma addirittura sempre i n t u i z i o n i e s t e r n e. Se noi, per es., prendiamo i concetti puri della r e l a z i o n e , troviamo che 1) per dare al concetto di s o s t a n z a qualcosa di p e r m a n e n t e , che gli corrisponda nell’intuizione (e dimostrare così la realtà oggettiva di questo concetto), ci bisogna una intuizione nello s p a z i o (della materia), poiché solo lo spazio è determinato

in modo permanente, laddove il tempo, e tutto ciò che è nel senso interno, scorre costantemente; 2) per rappresentare il c a n g i a m e n t o come intuizione corrispondente al concetto di c a u s a l i t à , noi dobbiamo prendere ad esempio il movimento, come cangiamento nello spazio, anzi soltanto così possiamo renderci intuibili i cangiamenti, dei quali un intelletto puro non può comprendere la possibilità. Il cangiamento è l’unione di determinazioni opposte contraddittorie nell’esistenza d’una e medesima cosa. Ora come sia possibile che da un dato stato derivi uno stato opposto della medesima cosa, non solo la ragione non può renderselo comprensibile senza un esempio, ma nemmeno intelligibile mai senza una intuizione; e questa intuizione è quella del movimento spaziale di un punto, la cui esistenza in diversi luoghi (quasi un séguito di determinazioni opposte) è ciò soltanto che per prima ci rende intuibili il cangiamento; infatti per poter poi concepire gli stessi cangiamenti interni, il tempo, come forma del senso interno, dobbiamo immaginarlo figuratamente con una linea, e il cangiamento interiore col tirare questa linea (movimento); insomma, ci facciamo comprensibile la nostra successiva esistenza in stati diversi, mediante l’intuizione esterna; di che la ragione propria è questa, che ogni cangiamento presuppone qualcosa di permanente nell’intuizione, anche perché possa esser percepito solo come cangiamento, ma nel senso interno non c’è nessun’intuizione permanente. – Finalmente la categoria della r e c i p r o c i t à , rispetto alla sua possibilità, non può comprendersi mediante la semplice ragione, e perciò la realtà oggettiva di questo concetto non si può vedere senza un’intuizione, anche qui esterna, nello spazio. Perché come si penserà la possibilità che, esistendo più sostanze, dalla esistenza delle une derivi, scambievolmente, qualcosa (come effetto) nell’esistenza delle altre, e che dunque, poiché nelle prime c’è qualcosa, perciò anche nelle altre debba esservi qualche altra cosa, che non si potrebbe intendere per la sola esistenza delle ultime? Questo infatti richiede la reciprocità; ma ciò non è concepibile a nessun patto per cose che siano isolate del tutto, ciascuna nella propria sussistenza. Perciò Leibniz, attribuendo alle sostanze del mondo, soltanto come le pensa il solo intelletto, una reciprocità, ricorreva per la mediazione a una divinità; giacché a ragione quella reciprocità gli pareva inconcepibile pel solo fatto della loro esistenza. Ma noi possiamo facilmente comprendere come sia possibile la reciprocità (delle sostanze come fenomeni), se ce la rappresentiamo nello spazio, e però nella intuizione esterna. Esso, infatti, in sé contiene già a priori, rapporti

esterni formali, quali condizioni della possibilità di quelli reali (nell’azione e reazione, e perciò della reciprocità). Con la stessa facilità si può mostrare che la possibilità delle cose, come q u a n t i t à , e quindi la realtà oggettiva della categoria della quantità, può essere anche essa mostrata soltanto nell’intuizione esterna, e solo mediante questa applicata al senso interno. Ma, per evitare ogni prolissità, devo lasciare poi alla riflessione del lettore il trovare gli esempi. Tutta questa osservazione è di grande importanza, non solo per confermare la nostra precedente confutazione dell’idealismo, bensì anche e piuttosto per additarci, – per quando si verrà a discorrere della c o n o s c e n z a di sé, in base alla semplice coscienza interna, e della determinazione della nostra natura senza l’aiuto di intuizioni empiriche esterne, – i limiti della possibilità di una tale conoscenza. Il resultato ultimo di tutta questa sezione è dunque il seguente: tutti i princìpi dell’intelletto puro non sono altro che princìpi a priori della possibilità dell’esperienza e a questa soltanto si riferiscono anche tutte le proposizioni sintetiche a priori; anzi la loro stessa possibilità si fonda totalmente su questa relazione. 126

O g n i u n i o n e (coniunctio) può essere o u n a c o m p o s i z i o n e (compositio), o u n a c o n n e s s i o n e (nexus). La prima è sintesi del molteplice che n o n è n e c e s s a r i a m e n t e c o n n e s s o : ad es. i due triangoli nei quali resta diviso un quadrato per la diagonale non appartengono necessariamente l’uno all’altro; e di questa specie è la sintesi dell’omogeneo in tutto ciò che si può considerare m a t e m a t i c a m e n t e (sintesi che può essere alla sua volta suddivisa in a g g r e g a z i o n e e c o a l i z i o n e , di cui l’una riguarda le quantità e s t e n s i v e , e l’altra le i n t e n s i v e ). La seconda unione (nexus) è sintesi del molteplice, in quanto questo è n e c e s s a r i a m e n t e c o n n e s s o, come ad es. l’accidente con la sostanza, o l’effetto con la causa, – e perciò, se anche e t e r o g e n e o , pure è rappresentato come connesso a priori; unione che, poiché non è arbitraria, io chiamo d i n a m i c a , poiché riguarda l’unione dell’e s i s t e n z a del molteplice (e può alla sua volta suddividersi in f i s i c a , dei fenomeni fra di loro, e m e t a f i s i c a , come loro unificazione nella facoltà conoscitiva a priori). [N. d. K., aggiunta nella 2a edizione.] 127 Prima edizione «Degli assiomi dell’intuizione. – P r i n c i p i o d e l l ’ i n t e l l e t t o p u r o : tutti i fenomeni sono, per la loro intuizione, quantità e s t e n s i v e ». 128 Questo principio della Dimostrazione e il titolo stesso (Dimostrazione) sono una aggiunta della 2a edizione. 129 Nella prima edizione: «Le anticipazioni della percezione. Il p r i n c i p i o che anticipa tutte le percezioni come tali, suona così: In tutti i fenomeni la sensazione e il r e a l e , che le corrisponde nell’oggetto (realitas phaenomenon), ha u n a q u a n t i t à i n t e n s i v a cioè un grado». 130 Il titolo e il principio di questa «dimostrazione» sino a «...d’influsso sui sensi», sono una aggiunta della seconda edizione. 131 Interpretazione erronea attinta forse a Cicerone, De nat. deor., I, 43. Epicuro non

ammetteva cognizioni non derivanti dall’esperienza sensibile; e la sua πρόληψις è il concetto rappresentativo, evidente, ricavato appunto dalle sensazioni; detto anticipazione solo rispetto al linguaggio, che lo presuppone bello e formato. 132 Ausspannung, che il Grimm traduce «expansio» (N. d. R.). 133 «anticipi» è una integrazione dello Hartenstein (N. d. R.). 134 Nella prima edizione: «Le analogie dell’esperienza. Il loro principio generale è: tutti i fenomeni sottostanno, per la loro esistenza, a regole a priori della determinazione del loro vicendevole rapporto in u n t e m p o». 135 Il titolo e il primo capoverso, sino a «...necessaria delle percezioni», sono una aggiunta della seconda edizione. 136 Prima edizione: «Principio della permanenza. Tutti i fenomeni contengono ciò che permane (s o s t a n z a ), come l’oggetto stesso, e ciò che muta, come sua semplice determinazione, cioè come un modo in cui l’oggetto esiste». 137 La dimostrazione al luogo di questo primo capoverso nella prima edizione aveva: «Tutti i fenomeni sono nel tempo. Questo può determinare in due modi il rapporto dei fenomeni nell’e s i s t e n z a secondo che essi sono s u c c e s s i v i o s i m u l t a n e i . Rispetto ai primi, il tempo è considerato come s e r i e t e m p o r a l e, rispetto ai secondi come à m b i t o t e m p o r a l e ». 138 Beharrlichkeit (permanenza) è infatti da harren = aspettare, sperare. 139 Persio, Sat., III, vv. 83-4. 140 Prima edizione: «Principio della produzione. Tutto ciò che accade (incomincia ad essere) presuppone qualche cosa, a cui segue s e c o n d o u n a r e g o l a». Nella prima edizione mancavano poi i primi due capoversi della seguente «Dimostrazione». 141 man von Gegenstande nennen wollte. È stata proposta la correzione: man Gegenstande nennen wollte (Kantst., IV, 449): cioè, «che si vorrebbe chiamare oggetto». 142 Nella terminologia di Kant la parola «momento» ha vari significati. 1) Parlando del t e m p o , designa una ininterrotta azione della causalità. (Si veda verso la fine di questa dimostrazione della seconda analogia: «I momenti producono i cangiamenti, come un loro effetto».) 2) M o m e n t i d e l p e n s i e r o i n g e n e r a l e, sono le tre funzioni della modalità dei giudizi, dalle quali derivano diversi gradi di verità. 3) In senso fisico, momento è il grado della realtà come causa. (Si veda nella dimostrazione delle a n t i c i p a z i o n i d e l l a p e r c e z i o n e : i l m o m e n t o d e l l a g r a v i t à , d e l l a r e s i s t e n z a, ecc.) Nel caso nostro si tratta della considerazione dei momenti dello spirito: la s i n t e s i d e l l ’ i m m a g i n a z i o n e, alla quale deve necessariamente seguire quella d e l l ’ a p p r e n s i o n e , affinché possa costituirsi l’esperienza, secondo la legge di causalità. 143 Verschwindend sein, essere evanescente. 144 Propriamente, so folgt darauf nicht eine bleierne Kugel: ad essa non segue [nel pensiero] una palla, ecc. 145 als Gegenstnde des blossen Verstandes, come oggetti del semplice intelletto (non accompagnato dall’intuizione empirica). 146 Si noti bene, che io non parlo del cangiamento di certe relazioni in generale, ma del cangiamento di stato. Quindi, se un corpo si muove uniformemente, non cangia punto il suo stato (del movimento): ma lo cangia bensì, se il suo movimento si accelera o si ritarda (N. d. K.). 147 Prima edizione: «P r i n c i p i o d e l l a r e c i p r o c i t à . – Tutte le sostanze, in quanto simultanee, sono in una reciprocità universale (ossia in rapporto

di azione reciproca fra loro)». 148 Tutto il primo capoverso di questa dimostrazione, è un’aggiunta della seconda edizione. 149 Gemeinschaft vale propriamente c o m u n i t à , o comunanza. Ma poiché ciò che è comune qui, come Kant spiega, è l’azione d’una sostanza sull’altra, abbiamo preferito quasi sempre tradurre, precisando: «reciprocità (d’azione)». 150 L’unità dell’universo, in cui tutti i fenomeni bisogna che siano connessi, è, evidentemente, una semplice conseguenza del principio tacitamente ammesso della reciprocità di azione di tutte le sostanze che sono simultanee: giacché, se fossero isolate, non costituirebbero come parti un tutto; e se la connessione loro (la reciproca azione del molteplice) non fosse già necessaria per la simultaneità, da questa, che è un rapporto semplicemente idea e, non si potrebbe concludere a quella, che è un rapporto reale. Quantunque a suo luogo abbiamo mostrato, che la reciprocità è propriamente il fondamento della possibilità di una conoscenza empirica della coesistenza, e che propriamente dunque si conclude soltanto da questa a quella, come a sua condizione (N. d. K.). 151 L’ultimo periodo e il paragrafo che segue, col titolo «Confutazione dell’idealismo», sino alla terza annotazione inclusa, sono un’aggiunta della seconda edizione. 152 Ossia l’idealismo che si riferisce alla materia del conoscere, al quale Kant contrappone il proprio idealismo f o r m a l e o t r a s c e n d e n t a l e, che si riferisce invece alla forma sola del conoscere. 153 Di Giorgio Berkeley (1685-1753) si hanno i Princìpi della conoscenza e Dialoghi tra Hylas e Filonous, trad. da G. Papini, Laterza, Bari 1909. [Nuova edizione a cura di M.M. Rossi, Bari 1955.] 154 Unding = non-cosa. 155 Cfr. le modificazioni fatte da K. a questo luogo nella prefazione alla seconda edizione, pp. 28-29 n. 156 La coscienza i m m e d i a t a dell’esistenza delle cose esterne nel teorema presente non vien presupposta, ma provata, sia che ci rendiamo conto della possibilità di cotesta coscienza, sia che no. La questione intorno a questa possibilità sarebbe: possediamo noi un senso interno soltanto, ma non un senso esterno, bensì solo una immaginazione esterna? È chiaro, per altro, che, anche solo per immaginarci qualche cosa come esterno, cioè per presentare questo qualche cosa al senso nell’intuizione, bisogna che noi possediamo un senso esterno, e per mezzo di esso distinguiamo immediatamente la semplice recettività di una intuizione esterna dalla spontaneità, che caratterizza ogni immaginazione. Giacché immaginarsi anche semplicemente un senso esterno, annienterebbe la facoltà di intuire, che deve essere determinata dalla immaginazione (N. d. K.). 157 Idealische Vernunft. 158 Mediante la r e a l t à di una cosa io certo pongo più che la possibilità, ma non n e l l a c o s a ; giacché la cosa non può mai nella realtà contenere più che non fosse contenuto nella sua completa possibilità. Ma, poiché la possibilità era semplicemente la posizione della cosa in rapporto con l’intelletto (col suo uso empirico), così la realtà è a un tempo una connessione di essa con la percezione (N. d. K.). 159 Tutta questa Osservazione è aggiunta della seconda edizione. 160 Alles zufällig-Existierende, ogni cosa esistente in modo contingente. 161 Il non essere della materia si può pensare facilmente, ma gli antichi non ne deducevano tuttavia la sua contingenza. Perfino l’avvicendarsi dell’essere e del non essere di un dato stato d’una cosa, in cui consiste ogni cangiamento, per sé solo, non prova punto la contingenza di questo stato quasi per mezzo della realtà del suo contrario; per es. la quiete d’un corpo, la quale tien dietro

al moto, non prova la contingenza del moto, per ciò che quella è il contrario di questo. Giacché questo contrario è o p p o s t o solo logicamente, non r e a l m e n t e . Per dimostrare la contingenza del moto, occorrerebbe dimostrare, che nell’istante anteriore invece del movimento era possibile che il corpo stesse fermo, a l l o r a e non d o p o ; perché in quest’ultimo caso entrambi i contrari possono benissimo stare l’uno con l’altro (N. d. K.).

Capitolo Terzo Del principio della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni

Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma questa terra è un’isola, chiusa dalla stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore!), circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza, dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo. Ma, prima di affidarci a questo mare, per indagarlo in tutta la sua distesa, e assicurarci se mai qualche cosa vi sia da sperare, sarà utile che prima diamo ancora uno sguardo alla carta della regione, che vogliamo abbandonare, e chiederci anzi tutto se non potessimo in ogni caso star contenti a ciò che essa contiene; o, anche, se non dovessimo accontentarcene per necessità, nel caso che altrove non ci fosse assolutamente un terreno, sul quale poterci fabbricare una casa; e in secondo luogo, a qual titolo noi possediamo questa stessa regione, e come possiamo assicurarla contro ogni nemica pretesa. Sebbene abbiam già risposto sufficientemente a queste domande nel corso dell’Analitica, tuttavia una scorsa sommaria alle soluzioni di essa può rafforzare la nostra convinzione, riunendo i vari momenti di essa in un punto unico. Infatti, noi abbiamo visto che tutto quello che l’intelletto produce da se medesimo, senza prenderlo a prestito dall’esperienza, non lo possiede tuttavia ad altro uso, che per servirsene nella esperienza. I princìpi dell’intelletto puro, sieno essi costitutivi a priori (come i matematici), o semplicemente regolativi

(come i dinamici), non contengono invero se non quasi lo schema puro per la esperienza possibile; giacché questa riceve la sua unità soltanto dall’unità sintetica, la quale è conferita dall’intelletto originariamente e spontaneamente alla sintesi dell’immaginazione in rapporto con l’appercezione, e con la quale i fenomeni, come d a t i per una conoscenza possibile, debbono già a priori essere in relazione e d’accordo. Ma, sebbene queste regole dell’intelletto non solamente siano vere a priori, ma siano anzi la fonte di ogni verità, cioè dell’accordo della nostra conoscenza con gli oggetti, perché contengono il fondamento della possibilità dell’esperienza, come complesso di ogni conoscenza in cui gli oggetti possono esserci dati; tuttavia non ci sembra sufficiente esporre quello che è vero, ma quello altresì che si desidera di sapere. Se noi dunque da questa ricerca critica non impariamo più di quanto avremmo già messo in opera da noi stessi nel semplice uso empirico dell’intelletto anche senza una così sottile investigazione, potrà parere che il vantaggio che se ne ritrae, non meriti la spesa e la fatica. Ora, a ciò si può veramente rispondere, che nessuna curiosità è più pregiudizievole al progresso della nostra conoscenza, di quella che vuole ogni volta conoscere anticipatamente l’utilità dell’impresa, prima d’imbarcarsi nelle ricerche e prima ancora che uno possa farsi il minimo concetto di questa utilità, ancorché questa fosse già innanzi agli occhi. Ma c’è tuttavia un vantaggio, che può farsi intendere e rendere accetto fino allo scolaro più svogliato di questa indagine trascendentale, ed è: l’intelletto, che è occupato semplicemente nel suo uso empirico e non riflette sulle fonti della sua conoscenza, può, è vero, andare avanti benissimo; ma una sola cosa non può fare, ossia determinare a se stesso e sapere i limiti del suo uso, ciò che può trovarsi al di dentro o al di fuori di tutta la sua sfera; poiché a ciò si richiedono appunto le ricerche profonde che noi abbiamo istituite. E ove non possa distinguere se certe questioni rientrino o pur no nel suo orizzonte, esso non è mai sicuro de’ suoi diritti del suo possesso, ma deve attendersi soltanto frequenti e umilianti richiami, quand’egli oltrepassi (com’è inevitabile) continuamente i confini del suo possedimento, e si smarrisca in illusioni e chimere. Che, dunque, l’intelletto non possa far altro uso che empirico, ma non mai trascendentale, di tutti i suoi princìpi a priori, anzi di tutti i suoi concetti, è proposizione che, quando possa esser conosciuta con certezza, conduce a importanti conseguenze. L’uso trascendentale di un concetto, in un principio

qualsiasi, è questo: che esso vien riferito alle cose i n g e n e r a l e e i n s e s t e s s e , laddove l’uso empirico si ha quando esso vien riferito solo a f e n o m e n i , cioè a oggetti di una e s p e r i e n z a possibile. Ma che, in ogni caso, solo il secondo sia possibile, si vede da questo. Per ogni concetto si richiede in primo luogo la forma logica di un concetto (del pensiero in generale), e poi, in secondo luogo, anche la possibilità di dargli un oggetto al quale esso si riferisca. Senza quest’ultimo, è privo di senso e affatto vuoto di contenuto, sebbene possa sempre contenere la funzione logica di formare da certi d a t i un concetto. Ora l’oggetto non può esser dato a un concetto se non nell’intuizione; e quantunque una intuizione pura sia possibile anche prima dell’oggetto, a priori, nondimeno né anche essa può avere il suo oggetto, e quindi validità oggettiva, se non per mezzo dell’intuizione empirica, della quale è la semplice forma. Sicché tutti i concetti, e con essi tutti i princìpi, per quanto siano possibili a priori, pure si riferiscono a intuizioni empiriche, cioè a d a t i per l’esperienza possibile. Senza di che non hanno mai validità oggettiva di sorta ma si riducono a un semplice giuoco, o della immaginazione o dell’intelletto, con le loro rispettive rappresentazioni. Si prendano, ad esemplo, i concetti della matematica, e prima nelle loro intuizioni pure. Lo spazio ha tre dimensioni, fra due punti non ci può essere se non una sola linea retta, e così via. Sebbene tutti questi princìpi, e la rappresentazione dell’oggetto di cui questa scienza si occupa, sian prodotti interamente a priori nello spirito, tuttavia essi non significherebbero nulla, se noi non potessimo sempre additare il loro significato nei fenomeni (oggetti empirici). Quindi si richiede, altresì, c h e s i r e n d a s e n s i b i l e un concetto astratto, cioè che si presenti nell’intuizione l’oggetto che gli corrisponde, poiché senza di questo il concetto rimarrebbe, come si dice, s e n z a s e n s o, cioè senza significato. La matematica adempie questa esigenza con la costruzione della figura, la quale è un fenomeno presente ai sensi (sebbene prodotta a priori). Il concetto della quantità cerca, nella stessa scienza, il suo punto d’appoggio e il suo significato nel numero, e questo, alla sua volta, nelle dita, nei coralli del pallottoliere, o nei trattolini e punti che vengon messi dinanzi agli occhi. Il concetto rimane sempre prodotto a priori, insieme coi princìpi o con le formule sintetiche che ne derivano; ma il loro uso e la loro relazione con presunti oggetti non possono infine esser cercati altrove che nell’esperienza, di cui essi contengono a priori la possibilità (per la forma).

Che avvenga lo stesso delle categorie tutte e dei princìpi che ne derivano, risulta anche dal fatto che di nessuna di esse noi possiamo dare una definizione r e a l e 162 cioè rendere comprensibile la possibilità del suo oggetto163, senza ricorrere subito a condizioni della sensibilità, quindi alla forma dei fenomeni, come quelli ai quali di necessità debbono limitarsi, come a loro unico oggetto; poiché, se vien tolta questa condizione, cade ogni significato, cioè ogni rapporto all’oggetto, e non possiamo più comprendere con nessun esempio, qual genere di cosa si intenda propriamente con siffatti concetti164. Nessuno può definire il concetto della quantità in generale, se non presso a poco in questo modo: la quantità è quel carattere di una cosa, per cui può pensarsi quante volte l’unità è contenuta in essa. Ma questo «quante volte» si fonda sulla ripetizione successiva, quindi sul tempo e sulla sintesi in esso (dell’omogeneo). La realtà non si può definire in opposizione alla negazione se non quando si pensi un tempo (come l’insieme di ogni essere), il quale o ne è pieno, o ne è vuoto. Se io tralascio la permanenza (che è esistenza in ogni tempo) non mi resta altro, per il concetto di sostanza, che la rappresentazione logica del soggetto; rappresentazione, che io credo di realizzare col rappresentarmi qualcosa che può aver luogo solo come soggetto (senza esser predicato di qualche cosa). Ma così non solo io non conosco le condizioni in cui questa prerogativa logica può appropriarsi a qualche cosa; ma non c’è più niente da fare, né c’è da cavarne la menoma conseguenza, poiché per essa non vien determinato nessun oggetto dell’uso di questo concetto, e però non si sa punto se esso significhi una cosa qualsiasi. Del concetto di causa (se facessi astrazione dal tempo, nel quale una cosa succede ad un’altra secondo una regola) non troverei altro nella pura categoria, se non che c’è qualcosa, da cui si può dedurre l’esistenza di qualche altra cosa; con che non solo non sarebbe possibile distinzione alcuna fra causa ed effetto, ma, poiché questo potere di concludere richiede condizioni delle quali io non so nulla, il concetto non avrebbe determinazione di sorta, quanto al modo in cui egli si accorda con un oggetto. Il preteso principio «ogni contingente ha una causa» certo si fa innanzi con alquanta gravità, come se avesse in se stesso il proprio valore. Ma io domando: che cosa s’intende per contingente? Voi rispondete: ciò di cui il non-essere è possibile. E allora volentieri apprenderei donde mai pretendete conoscere cotesta possibilità di non-essere, qualora non vi rappresentiate nella serie dei fenomeni una successione, e in

questa un essere che segue al non-essere (o viceversa), e perciò un cangiamento; giacché dire che il non-essere di una cosa non sia contraddittorio in se stesso, è un vano appello ad una condizione logica, necessaria bensì al concetto, ma tutt’altro che sufficiente per la reale possibilità; che se io posso annullare nel pensiero ad una ad una tutte le sostanze esistenti, senza contraddirmi, da ciò tuttavia non posso dedurre l’oggettiva contingenza di esse nella loro esistenza, cioè la possibilità del non essere in se stesse. E per ciò che riguarda il concetto di reciprocità, è facile vedere che, se le categorie pure di sostanza e di causalità non si prestano a nessuna definizione che determini l’oggetto, altrettanto poco ne è suscettibile la vicendevole causalità nella relazione delle sostanze fra loro (commercium). Possibilità, esistenza, necessità non si sono mai potute spiegare senza manifesta tautologia, quando si voglia ricavare la loro definizione unicamente dall’intelletto puro. Giacché il giuoco di prestigio per cui la possibilità logica del c o n c e t t o (che non si contraddice) si fa apparire come possibilità trascendentale delle cose (in cui al concetto corrisponde un oggetto) può gabbare e contentare soltanto gli inesperti165. Ne deriva incontrastabilmente che i concetti puri dell’intelletto non possono essere m a i d i u s o t r a s c e n d e n t a l e, ma s o l o s e m p r e d i u s o e m p i r i c o, e che i princìpi dell’intelletto puro soltanto in relazione alle condizioni generali di una esperienza possibile possono esser riferiti agli oggetti dei sensi, ma giammai alle cose in generale (senza riguardo al modo onde possiamo intuirle). L’Analitica trascendentale pertanto ha questo importante risultato, che l’intelletto a priori non può mai far altro che anticipare la forma di una esperienza possibile in generale: e poiché ciò che non è fenomeno non può essere oggetto dell’esperienza, l’intelletto non può mai sorpassare i limiti della sensibilità, dentro i quali soltanto ci sono dati oggetti. I suoi sono semplicemente princìpi dell’esposizione dei fenomeni, e l’orgoglioso nome di Ontologia, che presume di dare in una dottrina sistematica conoscenze sintetiche a priori delle cose in generale (per es., il principio di causalità), deve cedere il posto a quello modesto di semplice Analitica dell’intelletto puro. Il pensiero è l’atto del riferire un’intuizione data ad un oggetto. Se la specie di questa intuizione non è in nessun modo data, l’oggetto è semplicemente trascendentale, e il concetto intellettuale non ha altro uso che

il trascendentale, cioè l’unità del pensiero d’un molteplice in generale. Ora, mediante una categoria pura, in cui s’è fatto astrazione da ogni condizione dell’intuizione sensibile, l’unica che ci sia possibile, non vien dunque determinato un oggetto, ma solo espresso in vari m o d i il pensiero di un oggetto in generale. Ora, nell’uso di un concetto, c’entra anche una funzione del giudizio, onde un oggetto è sussunto sotto di quello, e perciò la condizione, almeno formale, alla quale qualcosa può esser dato nell’intuizione. Se questa condizione del giudizio (schema), manca, vien meno ogni sussunzione; giacché non è dato nulla da sussumere sotto il concetto. L’uso dunque semplicemente trascendentale delle categorie in realtà non è punto un uso, e non ha un oggetto determinato, e né anche determinabile secondo la forma. Donde segue, che la pura categoria non basta nemmeno ad alcun principio sintetico a priori, e che i princìpi dell’intelletto puro hanno soltanto un uso empirico, e non trascendentale; ma che, al di là del campo della esperienza possibile, non possono darsi, in alcun modo, princìpi sintetici a priori. Può quindi esser ragionevole esprimersi dicendo: le categorie pure, senza le condizioni formali della sensibilità, hanno un s i g n i f i c a t o semplicemente trascendentale, ma non hanno alcun u s o trascendentale, poiché questo è in se stesso impossibile, mancando ad esse tutte le condizioni di un uso qualunque (nei giudizi), cioè le condizioni formali della sussunzione d’un qualunque preteso oggetto sotto questi concetti. Poiché dunque esse (come semplici categorie pure) non debbono essere di uso empirico, e non possono esser nemmeno di uso trascendentale, non sono punto di alcun uso, separate che siano da ogni sensibilità; cioè non possono più essere applicate a nessun preteso oggetto; e sono piuttosto semplicemente la forma pura dell’uso dell’intelletto rispetto agli oggetti in generale ed al pensiero, e per mezzo di esse sole non si può mai pensare o determinare verun oggetto166. Qui intanto c’è a fondamento un’illusione difficile ad evitare. Le categorie non si fondano, per la loro origine, sulla sensibilità, come le forme dell’i n t u i z i o n e , spazio e tempo; sembra dunque che esse permettano un’applicazione estesa al di là degli oggetti tutti dei sensi. Se non che, dalla parte loro, esse viceversa non sono se non f o r m e d e l p e n s i e r o, che contengono solamente la facoltà logica di unificare a priori in una coscienza il dato molteplice dell’intuizione; e, se si toglie loro l’unica intuizione a noi

possibile, esse non possono non avere un significato ancora minore di quelle forme sensibili pure, colle quali almeno c’è dato un oggetto, laddove un modo di unificare il molteplice, proprio del nostro intelletto, non significa proprio più nulla, ove non vi si aggiunga quell’intuizione in cui soltanto può esserci dato codesto molteplice. – Tuttavia nel nostro concetto, quando denominiamo certi oggetti, come fenomeni, esseri sensibili (phaenomena), distinguendo il nostro modo di intuirli dalla loro natura in sé, c’è già che noi, per dir così, contrapponiamo ad essi o gli oggetti stessi in questa loro natura in sé (quantunque in essa noi non li intuiamo), o anche altre cose possibili, ma che non sono punto oggetti dei nostri sensi, come oggetti pensati semplicemente dall’intelletto, e li chiamiamo esseri intelligibili (noumena). Ora, si domanda se i nostri concetti puri dell’intelletto rispetto a questi ultimi non abbiano un valore, e se di essi non possano essere una specie di conoscenza. Ma qui si presenta subito un equivoco, che può dare occasione a un grosso malinteso, e cioè: che poiché l’intelletto, quando chiama semplicemente fenomeno un oggetto che è in una relazione, si fa ad un tempo, fuori di questa relazione, ancora una rappresentazione di un o g g e t t o i n s é, e quindi si immagina di potersi parimenti far dei c o n c e t t i di tali oggetti; e poiché l’intelletto non fornisce altri concetti che le categorie, l’oggetto, nell’ultimo significato, si immagina che debba poter essere pensato almeno mediante codesti concetti puri dell’intelletto; ma così è indotto a ritenere un concetto affatto i n d e t e r m i n a t o di un essere intelligibile, come qualcosa in generale al di là della nostra sensibilità, per un concetto d e t e r m i n a t o di un essere, che noi possiamo in qualche modo conoscere mercé dell’intelletto. Se noi intendiamo per noumeno una cosa, i n q u a n t o e s s a n o n è o g g e t t o d e l l a n o s t r a i n t u i z i o n e s e n s i b i l e, astraendo dal nostro modo d’intuirla, essa è un noumeno in senso negativo. Ma, se per esso invece intendiamo l’o g g e t t o d ’ u n a i n t u i z i o n e n o n s e n s i b i l e allora supponiamo una speciale maniera di intuizioni, cioè l’intellettuale, la quale però non è la nostra, e della quale non possiamo comprendere nemmeno la possibilità; e questo sarebbe il noumeno in senso p o s i t i v o . La teoria della sensibilità è dunque insieme teoria dei noumeni in senso negativo, cioè di cose che l’intelletto deve pensare senza questa relazione con la nostra maniera di intuire, quindi non semplicemente come fenomeni, bensì

come cose in sé, ma delle quali in tale astrazione egli ben intende nello stesso tempo questo, che delle sue categorie, a considerarle in questo modo, non può far nessun uso; poiché, non avendo significato se non in relazione all’unità delle intuizioni nello spazio e nel tempo, esse possono determinare a priori questa unità mediante concetti generali unificatori soltanto per via della semplice idealità dello spazio e del tempo. Dove questa unità del tempo non può aversi, e quindi nel noumeno, cessa affatto tutto l’uso, anzi tutto il significato delle categorie; giacché né anche la possibilità delle cose che debbono corrispondere alle categorie, si può più scorgere; per il che io non devo se non richiamarmi a ciò che ho detto a principio della Osservazione generale al precedente capitolo. Ora, la possibilità di una cosa non si può dimostrare mai pel semplice fatto che un concetto di essa non si contraddice, ma solo dall’essere questo attestato da una intuizione, che gli corrisponda. Perciò, se noi volessimo applicare le categorie ad oggetti che non siano considerati come fenomeni, dovremmo porre a fondamento di esse un’intuizione diversa dalla sensibile, e allora l’oggetto sarebbe un noumeno in s e n s o p o s i t i v o. Ma, poiché una tale intuizione, ossia l’intellettuale, è assolutamente fuori della nostra facoltà conoscitiva, anche l’uso delle categorie non può in modo alcuno spingersi al di là dei limiti degli oggetti dell’esperienza; e ci sono sì esseri intelligibili che corrispondono agli esseri sensibili, e si possono pur dare esseri intelligibili coi quali la nostra facoltà di intuizione non ha alcuna relazione; ma i nostri concetti intellettuali, in quanto semplici forme del pensiero per la nostra intuizione sensibile, non li raggiungono menomamente; e ciò, dunque, che da noi è stato chiamato noumeno, deve essere inteso come tale solo in senso n e g a t i v o . Se167 io sottraggo ogni pensiero (per categorie) da una conoscenza empirica, non resta più nessuna conoscenza di un qualsiasi oggetto; giacché con la sola intuizione nulla assolutamente vien pensato, e il fatto che c’è in me questa affezione della sensibilità, non costituisce relazione di sorta di tale rappresentazione con un qualsiasi oggetto. Se invece io sottraggo ogni intuizione, mi rimane ancora la forma del pensiero, cioè la maniera di assegnare un oggetto al molteplice d’una intuizione possibile. Le categorie quindi si estendono più in là dell’intuizione sensibile, poiché pensano oggetti in generale, senza ancora guardare alla speciale maniera (di sensibilità), nella quale gli oggetti possono esserci dati. Ma esse non determinano perciò una sfera di oggetti più grande, poiché non è ammissibile che tali oggetti possono

esser dati senza presupporre come possibile una specie di intuizione diversa dalla sensibile; al che non siamo in nessun modo autorizzati. Chiamo problematico un concetto che non contiene contraddizione, e che, come limitazione di concetti dati, si connette anche con altre conoscenze, ma la cui verità oggettiva non può essere in alcun modo conosciuta. Il concetto di un n o u m e n o , cioè di una cosa che deve esser pensata non come oggetto dei sensi, ma come cosa in sé (unicamente per l’intelletto puro), non è per niente contraddittorio; giacché non si può della sensibilità asserire che sia l’unico modo possibile di intuizione. Anzi, questo concetto è necessario, acciò l’intuizione sensibile non venga estesa fino alle cose in sé, e sia così limitata la validità oggettiva della conoscenza sensibile; (giacché le restanti cose, a cui quella non giunge, si chiamano appunto per ciò noumeni, per indicare così che tale conoscenza non può estendere il suo dominio anche a ciò che pensa l’intelletto). Ma, in fine, nemmeno della possibilità di tali noumeni è possibile punto rendersi conto, e il territorio di là dalla sfera dei fenomeni (per noi) è vuoto; cioè, noi abbiamo un intelletto, che si estende al di là p r o b l e m a t i c a m e n t e , ma non una intuizione, e neppure il concetto d’una possibile intuizione, onde possono esser dati oggetti fuori del campo della sensibilità, e l’intelletto possa essere usato al di là di essa i n m o d o a s s e r t o r i o . Il concetto di noumeno è dunque solo un concetto limite (Grenzbegriff), per circoscrivere le pretese della sensibilità, e di uso, perciò, puramente negativo. Ma esso tuttavia non è foggiato ad arbitrio, sibbene si connette colla limitazione della sensibilità, senza poter nondimeno porre alcunché di positivo al di fuori del dominio di essa. Non può dunque ammettersi punto i n s e n s o p o s i t i vo 168 la divisione degli oggetti in fenomeni e noumeni, e del mondo in sensibile e intelligibile, sebbene i concetti consentano sempre di esser divisi in sensibili e intellettuali; giacché a questi ultimi non si può assegnare nessun oggetto, né essi perciò possono valere oggettivamente. Se ci si allontana dai sensi, come concepire che le nostre categorie (che sarebbero i soli concetti rimanenti per i noumeni) significhino ancora qualche cosa, dal momento che per il loro rapporto ad un qualsiasi oggetto dovrebbe esser dato qualcosa più che la semplice unità del pensiero e cioè inoltre una intuizione possibile, a cui applicarle? Il concetto di noumeno, preso solo problematicamente, rimane, ciò malgrado, non soltanto ammissibile, ma anzi inevitabile, come concetto che limita la sensibilità. Ma, allora, esso non è un particolare o g g e t t o i n t e l l i g i b i l e per il nostro

intelletto; ma un intelletto, al quale esso appartenesse, sarebbe già di per sé un problema, in quanto intelletto capace di conoscere il proprio oggetto non discorsivamente, mediante le categorie, ma in modo intuitivo, con una intuizione non sensibile; né della possibilità di tale oggetto noi possiamo farci la più piccola idea. Ora il nostro intelletto riceve in tal modo una estensione negativa, cioè non viene limitato dalla sensibilità, ma piuttosto la limita, pel fatto che chiama le cose in sé (non considerate come fenomeni) n o u m e n i . Ma, nell’atto stesso, pone anche a sé il limite di non poterle conoscere per nessuna categoria, e poterle soltanto pensare a titolo di un che ignoto. Intanto, io trovo negli scritti dei moderni un uso affatto diverso delle espressioni «m o n d o s e n s i b i l e» e «i n t e l l i g i b i l e »169, il quale si allontana del tutto dal significato degli antichi, e nel quale certamente non si incontra nessuna difficoltà, ma non si incontra neppure altro che un vuoto giuoco di parole. Secondo quest’uso, ad alcuni è garbato di chiamare l’insieme dei fenomeni, in quanto vien intuito, mondo sensibile; ma, in quanto la loro connessione è pensata secondo leggi generali dell’intelletto, mondo intelligibile. L’astronomia teorica, che ci dà la semplice descrizione del cielo stellato, sarebbe della prima specie; la contemplativa170, invece (spiegata per es. secondo il sistema di Copernico, o secondo le leggi della gravitazione di Newton), della seconda, rappresentando un mondo intelligibile. Ma un tale stravolgimento di parole non è altro che un sofistico sotterfugio per evitare un problema imbarazzante, abbassandone il significato a proprio comodo. Rispetto ai fenomeni, si può certamente adoperare l’intelletto e la ragione; ma si domanda, se abbiano ancora qualche uso, quando l’oggetto non è fenomeno (ma noumeno); e l’oggetto è preso in questo senso, quando è pensato in sé come semplicemente intelligibile, cioè dato soltanto all’intelletto e non ai sensi. Si tratta dunque di sapere se, oltre a quell’uso empirico dell’intelletto (nella stessa rappresentazione newtoniana dell’universo), sia possibile anche un uso trascendentale, che si riferisca al noumeno come oggetto; alla quale domanda noi abbiamo risposto negativamente. Se noi dunque diciamo: i sensi ci rappresentano gli oggetti c o m e a p p a i o n o , ma l’intelletto c o m e s o n o, – l’ultima espressione è da prendere non in senso trascendentale, ma semplicemente empirico, cioè: come essi in quanto oggetto dell’esperienza devono essere rappresentati nella connessione totale dei fenomeni; e non per ciò che possono essere

indipendentemente dalla relazione con una possibile esperienza, e, perciò, coi sensi in generale, e quindi come oggetti dell’intelletto puro. Codesto infatti ci resterà sempre ignoto; anzi ci rimane ignoto anche se una tale conoscenza trascendentale (straordinaria171) sia in generale possibile, almeno come conoscenza che sottostia alle nostre solite categorie. L’i n t e l l e t t o e l a s e n s i b i l i t à possono, in noi, determinare gli oggetti s o l o n e l l a l o r o u n i o n e . Se li separiamo, abbiamo intuizioni senza concetti, o concetti senza intuizioni, e in entrambi i casi rappresentazioni, che non possiamo riferire a verun oggetto determinato. Se, dopo tutti questi schiarimenti, qualcuno avesse ancora difficoltà a rinunziare all’uso puramente trascendentale delle categorie, provi a servirsene in qualche affermazione sintetica. Giacché un’affermazione analitica non fa progredire l’intelletto, e poiché in essa egli ha da fare solo con ciò che è già pensato nel concetto, così lascia indeciso se il concetto in se stesso abbia relazione con oggetti, o significhi soltanto l’unità del pensiero in generale (la quale astrae, assolutamente, dal modo in cui un oggetto può esser dato); e gli basta sapere ciò che si trova nel suo concetto; a che cosa il concetto stesso possa riferirsi, gli è indifferente. Provi pertanto con qualche principio sintetico e presunto trascendentale, come: «ciò che è, esiste come sostanza o determinazione ad essa inerente», oppure: «ogni contingente esiste come effetto di un’altra cosa, cioè della sua causa», e così via. Ora io domando: donde egli attingerà queste proposizioni sintetiche, poiché i concetti debbono valere non rispetto all’esperienza possibile, ma alle cose in se stesse (noumeni)? Dove è qui il terzo termine, che si richiede sempre in una proposizione sintetica, per connettere in essa concetti che non hanno nessuna parentela logica (analitica)? Egli non dimostrerà mai la sua proposizione, anzi, quel che è più, non si potrà mai giustificare la possibilità di una tale proposizione pura, senza ricorrere all’uso empirico dell’intelletto, e così rinunziare del tutto al giudizio puro e scevro di sensibilità. Perocché il concetto172 di oggetti puri, semplicemente intelligibili, è assolutamente privo di tutti i princìpi della sua applicazione, non potendosi immaginare un modo in cui questi princìpi debbano esser dati, e il pensiero problematico, che lascia loro un posto libero, serve soltanto da spazio vuoto per delimitare i princìpi empirici, senza tuttavia contenere e additare alcun altro oggetto di conoscenza di là della sfera di questi ultimi. 162

«R e a l e »: aggiunta della seconda edizione.

163

«Cioè... oggetto»: aggiunta della seconda edizione. A questo punto la prima edizione continuava così: «Di sopra, nella esposizione del quadro delle categorie, ci dispensammo dal definire ciascuna di esse, perché il nostro proposito, rivolto esclusivamente al loro uso sintetico, non lo rendeva necessario, e non c’è ragione di esporsi con intraprese inutili a una responsabilità che è possibile evitare. Non era un pretesto, ma una non irrilevante regola di prudenza, di non arrischiarsi senz’altro a definire e cercare o fingere compiutezza e precisione nella determinazione del concetto, quando basti al nostro scopo una o un’altra nota qualunque di esso, senza perciò aver bisogno di un’enumerazione rigorosamente completa di tutte quelle che formano il concetto intero. Ora poi si vede chiaro che la ragione di questa nostra prudenza è anche più profonda, giacché non avremmo potuto definire le categorie, se anche l’avessimo voluto*; ma se si lasciano da parte tutte le condizioni della sensibilità, che mostrano le categorie come concetti di un uso empirico possibile, e si considerano come concetti delle cose in generale (quindi di uso trascendentale), non resta altro che considerare la funzione logica nei giudizi come condizione della possibilità delle cose stesse, senza tuttavia poter menomamente indicare dove mai possano avere la loro applicazione e il loro oggetto, e cioè come possano nel puro intelletto, senza sensibilità, acquistare qualche significato e valore oggettivo». *«Intendo parlare qui di definizione reale, che non sostituisca semplicemente al nome di una cosa parole diverse e più intelligibili; ma quella che in sé contiene una così chiara n o t a , a cui l ’ o g g e t t o (definitum) possa sempre essere riconosciuto sicuramente, e renda adoperabile nell’applicazione il concetto definito. Definizione reale sarebbe quella che non solo chiarisce un concetto, ma anche la sua o g g e t t i v a r e a l t à. Le definizioni matematiche, che presentano nell’intuizione l’oggetto conforme al concetto, sono di questa specie.» (N. d. K.) 165 In una parola, tutti questi concetti non possono punto essere d o c u m e n t a t i , e perciò non possono mostrare la loro r e a l e possibilità, ove si astragga da qualsiasi intuizione sensibile (la sola che non abbiamo); e allora non ci resta altro che la mera possibilità l o g i c a , cioè che è possibile il concetto (pensiero); ma non è questo ciò di cui si tratta, bensì piuttosto di sapere se esso si riferisca ad un oggetto, e se significhi perciò qualche cosa* (N. d. K.). * Questa breve nota non c’era nella prima edizione, nella quale, invece, alle parole «soltanto gli inesperti» seguiva questa più diffusa conclusione: «Ha qualcosa di strano e perfino di assurdo, che ci debba essere un concetto, cui debba pure spettare un significato, ma che non sia suscettibile di definizione. Se non che, questo è il carattere peculiare delle categorie, che esse solo per mezzo della generale c o n d i z i o n e s e n s i b i l e possono avere un significato determinato e relazione a qualche oggetto, ma questa condizione è stata esclusa dalla categoria pura, poiché questa infatti non può contenere altro che la funzione logica di ridurre il molteplice sotto un concetto. Ma da questa funzione soltanto, o forma del concetto, non è dato punto di conoscere e distinguere qual oggetto essa abbracci, poiché s’è fatto astrazione appunto dalla condizione sensibile, in cui degli oggetti in generale possono riferirvisi. Quindi le categorie, oltre ai concetti puri dell’intelletto, han d’uopo delle determinazioni della loro applicazione alla sensibilità in generale (schema); e senza queste determinazioni non sono concetti, coi quali si possa conoscere un oggetto e distinguerlo dagli altri, ma soltanto tante maniere di pensare un oggetto per le intuizioni possibili, e di dargli il suo significato, secondo una qualche funzione dell’intelletto (ma sotto ulteriori condizioni richieste), cioè di d e f i n i r l o : esse stesse non possono dunque venir definite. Le funzioni logiche dei giudizi in generale: unità e molteplicità, affermazione e negazione, soggetto e predicato, non possono esser definite senza avvolgersi in un circolo, poiché questa definizione dovrebbe essere alla sua volta un giudizio, e perciò contenere già quelle funzioni. Ma le categorie pure non son altro che rappresentazioni delle cose in generale, in quanto il molteplice della loro intuizione deve essere pensato con l’una o l’altra di queste funzioni 164

logiche: la quantità e la determinazione, che può essere pensata solo mediante un giudizio che ha quantità (iudicium commune); la realtà, quella che può esser pensata solo mediante un giudizio affermativo; la sostanza, ciò che in rapporto all’intuizione deve essere l’ultimo subbietto di tutte le altre determinazioni. Per altro, che cosa sieno le cose, rispetto alle quali si è obbligati a servirsi piuttosto di una che di un’altra funzione, con ciò resta affatto indeterminato; perciò le categorie, senza la condizione dell’intuizione sensibile, di cui contengono la sintesi, non hanno relazione di sorta a un qualsiasi oggetto determinato, non ne possono definire nessuno e, per conseguenza, non hanno in sé valore di concetti oggettivi». 166 A questo punto la prima edizione continuava così: «Le apparenze, in quanto vengono pensate come oggetti secondo l’unità delle categorie, si chiamano phaenomena. Se io peraltro suppongo cose che sieno soltanto oggetto dell’intelletto, e che tuttavia, in quanto tali, possono esser date come oggetto di una intuizione, quantunque non sensibile (quindi, coram intuitu intellectuali), tali cose potranno chiamarsi noumena (intelligibilia). «Or si dovrebbe pensare che il concetto dei fenomeni, limitato dall’Estetica trascendentale, dia già di per sé la realtà oggettiva dei n o u m e n i , e giustifichi la divisione degli oggetti in f e n o m e n i e n o u m e n i , e perciò anche del mondo in mondo sensibile e mondo intelligibile (mundus sensibilis et intelligibilis), e questo in modo che la distinzione qui riguardi non solo la forma logica della conoscenza, confusa o distinta, di una e medesima cosa, ma altresì la differente maniera in cui le cose possono esser date alla conoscenza nostra, e secondo la quale si distinguono in se stesse, fra di loro, di genere. Giacché, se i sensi ci rappresentano qualcosa semplicemente come a p p a r i s c e , questo qualcosa deve pur essere anche una cosa in sé ed un oggetto di una intuizione non sensibile, cioè dell’intelletto; cioè: deve essere possibile una conoscenza, in cui non ci sia alcuna sensibilità, e che abbia una realtà assolutamente oggettiva, onde cioè gli oggetti si siano presentati c o m e e s s i s o n o, laddove nell’uso empirico del nostro intelletto vengono solo conosciuti c o m e c i a p p a i o n o. Oltre dunque l’uso empirico delle categorie (limitato a condizioni sensibili), ve ne sarebbe ancora un altro, puro e tuttavia di valore oggettivo, e noi non potremmo più affermare, come abbiamo fin qui preteso, che le nostre conoscenze intellettuali pure in niun caso abbiano maggior portata che di princìpi dell’esposizione dei fenomeni, che anche a priori non vadano più in là della formale possibilità dell’esperienza; perché qui ci si aprirebbe innanzi un campo affatto nuovo, come un mondo pensato nello spirito (forse anche ben intuito) che potrebbe non meno, anzi di gran lunga più nobilmente, occupare il nostro intelletto puro. «Tutte le nostre rappresentazioni in realtà dall’intelletto vengono riferite a un qualche oggetto, e poiché i fenomeni altro non sono che rappresentazioni, l’intelletto le riferisce a qualcosa, come oggetto dell’intuizione sensibile; ma questo qualcosa in quanto tale, non è se non l’oggetto trascendentale. Il quale significa un qualcosa = x, di cui non sappiamo nulla, e di cui (data la presente costituzione del nostro intelletto) non possiamo assolutamente saper nulla, ma che può servire solo, come un correlato dell’unità dell’appercezione, a quell’unità del molteplice nell’intuizione sensibile, onde l’intelletto unifica il molteplice nel concetto di un oggetto. Questo oggetto trascendentale non si può a niun patto separare dai dati sensibili, poiché allora non resta nulla, con cui si possa pensarlo. Non è dunque un oggetto di conoscenza, in se stesso, ma soltanto la rappresentazione dei fenomeni, sotto il concetto di oggetto in generale, che è determinabile per il molteplice di essi. «Ora per questa ragione appunto le categorie non rappresentano nemmeno esse un oggetto particolare dato soltanto all’inteletto, ma servono esclusivamente a determinare l’oggetto trascendentale (il concetto di qualcosa in generale) con ciò che è dato nella sensibilità, e a conoscere così, empiricamente, i fenomeni, sotto concetti di oggetti. «Quanto alla causa, per la quale, non essendo paghi del sostrato della sensibilità, si sono

aggiunti ai f e n o m e n i anche i n o u m e n i , che soltanto l’intelletto puro può pensare, essa sta esclusivamente in ciò. La sensibilità e il suo campo, quello cioè dei fenomeni, vengono dell’intelletto chiusi in siffatti limiti, che non si estendono alle cose in sé, ma si riferiscono solo alla maniera, nella quale le cose appaiono a noi a cagione della nostra costituzione soggettiva. Tale è stato il risultato di tutta l’Estetica trascendentale; e già dal concetto di fenomeno in generale naturalmente ne segue, che debba corrispondergli qualcosa che in sé non è fenomeno, non potendo il fenomeno per sé esser nulla, fuori del nostro modo di rappresentazione; e perciò, se non si vuole incappare in un perpetuo circolo, la parola fenomeno indica già una relazione a qualcosa, la cui immediata rappresentazione è certo sensibile, ma che anche senza questa costituzione della nostra sensibilità (sulla quale si fonda la forma della nostra intuizione) deve esssere qualcosa in sé, cioè un oggetto indipendente dalla sensibilità. «Ora di qui sorge il concetto d’un n o u m e n o , che non è però positivo, né è una determinata conoscenza di qualche cosa, ma significa solo il pensiero di un che in generale, in cui io astraggo da tutte le forme dell’intuizione sensibile. Ma acciò u n n o u m e n o significhi un vero oggetto, da distinguere da tutti i fenomeni, non basta che io l i b e r i il mio pensiero da tutte le condizioni dell’intuizione sensibile, ma debbo, oltre a ciò, aver ragione di ammettere un’altra specie di intuizione, diversa dalla sensibile, colla quale un oggetto siffatto possa esser dato; poiché altrimenti il mio pensiero è tuttavia vuoto, sebbene scevro di contraddizione. Noi certo non abbiamo potuto provare più sopra che l’intuizione sensibile sia l’unica intuizione possibile in generale, bensì solo che tale essa è p e r n o i; e non abbiamo potuto nemmeno provare che sia possibile anche un’altra maniera d’intuire, e benché il nostro pensiero possa far astrazione da ogni sensibilità, resta sempre la domanda, se allora non sia una semplice forma d’un concetto, e se dopo tale astrazione rimanga tuttavia un oggetto. «L’oggetto, al quale io riferisco il fenomeno in generale, è l’oggetto trascendentale, cioè il pensiero assolutamente indeterminato di q u a l c o s a in generale. Ma questo non si può chiamare il n o u m e n o ; giacché io non so di esso, che cosa sia in sé; e non ne ho il minimo concetto, tranne semplicemente questo: che è l’oggetto d’una intuizione in generale e che è lo stesso, perciò per tutti i fenomeni. Né posso pensarlo con nessuna categoria, perché le categorie valgono soltanto per l’intuizione empirica per riportarla ad un concetto dell’oggetto in generale. Un uso puro della categoria, certo, è possibile, cioè non contraddittorio, ma non ha valore oggettivo, poiché non si riferisce a una intuizione per conferirle unità di oggetto; perocché la categoria è una semplice funzione del pensiero, da cui non mi è dato verun oggetto, ma per cui soltanto è pensato ciò che può esser dato nell’intuizione». A questo brano nella prima edizione seguiva il capoverso: «Se io tolgo da una conoscenza empirica...» mantenuto, insieme coi successivi, nella seconda. 167 Qui ricomincia il testo della prima edizione. 168 Le parole «in senso positivo» mancavano nella prima edizione. 169 Non bisogna adoperare, invece di questa espressione, quella di m o n d o i n t e l l e t t u a l e , come si è preso a fare nell’uso tedesco; giacché intellettuali e sensitive sono solo le c o n o s c e n z e . Ciò invece che può essere solo un o g g e t t o d i u n a o di un’altra specie di intuizione dobbiamo chiamarlo (malgrado la durezza del suono) intelligibile o sensibile (N. d. K. nella seconda edizione). 170 Osserva il Wille (Kantstudien, IV, 311), che qui forse si dovrebbero invertire i termini, dicendo astronomia contemplativa la prima, e teorica la seconda. 171 Secondo il Vaihinger (Kantst., IV, 461), ausserordentliche (straordinaria) qui sarebbe un errore di stampa per aussersinnliche (estrasensibile). Ma è evidente l’antitesi che Kant ha voluto porre tra queste ausserordentliche Erkenntnisse e le gewöhnlichen (solite) Kategorien.

172

«Il concetto positivo» nella copia postillata da Kant.

Appendice Anfibolia dei concetti della riflessione per lo scambio dell’uso empirico dell’intelletto con l’uso trascendentale

La riflessione (reflexio) non mira agli oggetti stessi, per acquistarne direttamente i concetti, ma è quello stato dello spirito, in cui cominciamo a disporci a scoprire le condizioni soggettive, nelle quali possiamo arrivare ai concetti. Essa è la coscienza della relazione tra rappresentazioni date e le nostre varie fonti di conoscenza, onde soltanto può essere determinata esattamente la loro relazione scambievole. La prima domanda, innanzi a ogni ulteriore considerazione delle nostre rappresentazioni, è questa: A quale facoltà di conoscere appartengono esse tutte quante? è l’intelletto, o sono i sensi a collegarle o compararle? Vi sono alcuni giudizi accolti per abitudine, o combinati per inclinazione; ma, poiché nessuna riflessione precede, o almeno segue criticamente intorno ad essi, valgono come aventi la loro origine nell’intelletto. Non tutti i giudizi han bisogno di una r i c e r c a , cioè d’una attenzione al loro fondamento di verità; giacché, quando sono certi immediatamente, come questo per es.: «fra due punti può esservi solo una linea retta», non si può distinguere in essi un segno di verità più prossimo di quello che essi stessi esprimono. Ma tutti i giudizi, anzi tutti i paragoni, han bisogno di una r i f l e s s i o n e , cioè di una distinzione della facoltà conoscitiva alla quale appartengono i concetti dati. L’atto, col quale io raccosto il paragone delle rappresentazioni in generale con la facoltà conoscitiva in cui esso ha luogo, e col quale io distinguo se esse sono fra di loro confrontate come appartenenti all’intelletto puro o all’intuizione sensibile, io lo chiamo r i f l e s s i o n e t r a s c e n d e n t a l e. Ma le relazioni in cui i concetti possono trovarsi tra loro in uno stato dello spirito, son quelle di i d e n t i t à e d i v e r s i t à , di c o n c o r d a n z a e o p p o s i z i o n e , d i

i n t e r n o e d e s t e r n o e finalmente di d e t e r m i n a b i l e e d e t e r m i n a z i o n e (materia e forma). L’esatta determinazione di questa relazione dipende da ciò: dal sapere cioè in quale facoltà del conoscere i concetti s o g g e t t i v a m e n t e si collegano l’uno con l’altro, se nella sensibilità o nell’intelletto. Giacché la differenza delle facoltà ora ricordate importa una differenza notevole nel modo in cui i concetti debbono esser pensati. Prima di tutti i giudizi oggettivi, noi paragoniamo i concetti per giungere all’i d e n t i t à (di più rappresentazioni sotto un concetto), in vista dei giudizi u n i v e r s a l i , o alla d i v e r s i t à , per la produzione dei p a r t i c o l a r i , alla c o n c o r d a n z a , donde possono nascere gli a f f e r m a t i v i , e all’o p p o s i z i o n e , donde i n e g a t i v i , e così via. Per questa ragione, pare, noi dovremmo chiamare questi concetti, di p a r a g o n e (conceptus comparationis). Ma poiché, quando non si tratta della forma logica dei concetti, sì della loro materia, cioè di sapere se le cose stesse sieno identiche o diverse, in accordo o in opposizione, ecc., le cose possono avere una doppia relazione colla nostra facoltà di conoscere, cioè colla sensibilità e coll’intelletto, e il modo in cui si collegano l’una con l’altra dipende dal posto, in cui esse rientrano173; così soltanto la riflessione trascendentale, cioè la relazione di rappresentazioni date con l’una o l’altra specie di conoscenza, potrà determinare la loro vicendevole relazione; e se le cose sieno identiche o diverse, concordanti o discordanti, ecc., non si può stabilire senz’altro in base ai concetti stessi, col semplice paragone (comparatio), ma soltanto distinguendo le specie di conoscenza, a cui appartengono, mediante una riflessione trascendentale (reflexio). Si potrebbe dunque dire che la r i f l e s s i o n e l o g i c a è un semplice paragone, giacché in essa si fa completamente astrazione dalla potenza conoscitiva, alla quale appartengono le rappresentazioni date, e per conseguenza queste son da considerare, secondo la loro sede nello spirito, come omogenee; invece la r i f l e s s i o n e t r a s c e n d e n t a l e (che si dirige agli oggetti medesimi) contiene la ragione della possibilità del paragone oggettivo delle rappresentazioni fra di loro, ed è pertanto assai diversa dalla precedente, poiché la facoltà del conoscere, alla quale esse appartengono, non è la medesima. Questa riflessione trascendentale è un dovere dal quale nessuno può esimersi, se delle cose si vuol giudicare a priori. Noi adesso ne prenderemo a trattare, e ne trarremo non poca luce per la determinazione dell’ufficio proprio dell’intelletto.

1. I d e n t i t à e d i v e r s i t à. Quando un oggetto ci si presenta più volte, ma ogni volta appunto colle medesime determinazioni interne (qualitas et quantitas), allora esso, se si considera come oggetto dell’intelletto puro, è sempre esattamente il medesimo; non più cose ma una sola (numerica identitas); invece, se si considera come fenomeno, non si tratta più di paragonare dei concetti, ma, quantunque possa essere tutt’uno rispetto ai concetti, pure la diversità dei luoghi del fenomeno in uno stesso tempo è una ragione sufficiente della d i v e r s i t à n u m e r i c a dell’oggetto (dei sensi). Così in due gocce d’acqua si può bensì astrarre del tutto da ogni differenza interna (di qualità e di quantità), ma basta che esse sieno intuite simultaneamente in luoghi differenti per ritenerle numericamente diverse. Leibniz prese i fenomeni per cose in sé, quindi per intelligibilia, ossia oggetti dell’intelletto puro (sebbene egli li designasse col nome di fenomeni, a causa della confusione delle loro rappresentazioni); e così il suo principio degli i n d i s c e r n i b i l i (principium identitatis indiscernibilium), non poteva per nessun verso essere attaccato. Ma, poiché essi sono oggetti della sensibilità, e l’intelletto rispetto a loro non è di uso puro, ma di uso meramente empirico, così la molteplicità e diversità numerica è già data dallo spazio stesso come condizione dei fenomeni esteriori. Perocché una parte dello spazio, per simile ed eguale che sia ad un’altra, è tuttavia fuori di questa, e appunto perciò diversa da essa, che le si aggiunge per formare uno spazio più grande; e questo deve quindi valere di tutto ciò che è contemporaneamente in vari punti dello spazio, per quanto in sé sia simile ed uguale. 2. C o n c o r d a n z a e o p p o s i z i o n e . Quando la realtà vien rappresentata solo dall’intelletto puro (realitas noumenon), non è possibile pensare fra le cose verun’opposizione, cioè nessun rapporto tale che delle realtà congiunte nel soggetto ciascuna sopprima l’effetto dell’altra, e si abbia 3 – 3 = 0. Al contrario, il reale fenomenico (realitas phaenomenon) può indubbiamente contenere opposizioni, e, riunite nello stesso soggetto, può una realtà annullare in tutto o in parte l’e f f e t t o d e l l ’ a l t r a, come due forze agenti sulla medesima linea retta, in quanto tirano o spingono un medesimo punto in direzione opposta, o come anche un piacere che contrabbilanci un dolore. 3. I n t e r n o e d e s t e r n o. In un oggetto del puro intelletto è interno solamente ciò che non ha alcuna relazione (per l’esistenza) a qualcosa di diverso. Al contrario, le determinazioni interiori di una substantia

phaenomenon nello spazio non sono se non rapporti, ed essa stessa non è altro che un complesso di semplici relazioni. Noi conosciamo la sostanza nello spazio soltanto mediante forze che operano in esso, sia attirandone altre (attrazione), sia impedendo alle altre d’entrare (repulsione e impenetrabilità); altre proprietà non conosciamo, che costituiscano il concetto della sostanza, che è fenomenicamente nello spazio, e che chiamiamo materia. Come oggetto dell’intelletto puro, al contrario, ogni sostanza deve avere determinazioni interne e forze relative alla realtà interna. Se non che, quali posso io pensare che siano gli accidenti interni, se non accidenti quali quelli che mi vengono presentati dal mio senso interno? ossia o un p e n s i e r o o pure qualcosa di analogo? Quindi Leibniz di tutte le sostanze, poiché se le rappresentava come n o u m e n i , e perfino degli elementi costitutivi della materia, dopo averne tolto via nel pensiero tutto ciò che poteva significare relazione esteriore e quindi anche la composizione, ne fece soggetti semplici, dotati di forza rappresentativa, in una parola, m o n a d i . 4. M a t e r i a e f o r m a. Questi due sono concetti, che son posti a fondamento di ogni altra riflessione, tanto inseparabilmente son legati con ogni uso dell’intelletto. Il primo significa il determinabile in generale, il secondo la determinazione di esso (l’uno e l’altro in senso trascendentale, facendo astrazione da ogni differenza di ciò che vien dato, e dal modo della determinazione). I logici una volta chiamavano il genere materia, e la differenza specifica forma. In ogni giudizio si può chiamare materia logica (per il giudizio) i concetti dati, e forma del giudizio la loro relazione (mediante la copula). In ogni essere i suoi elementi essenziali (essentialia) sono la materia; il modo del loro collegamento in una cosa, la forma essenziale. Ed anche rispetto alle cose in generale la realtà illimitata è stata considerata come la materia di ogni possibilità, ma la limitazione (negazione) di essa come quella forma per cui una cosa differisce da un’altra giusta concetti trascendentali. L’intelletto cioè, esige, prima di tutto, che qualche cosa sia dato (almeno nel concetto) per poterlo determinare in una certa maniera. Quindi nel concetto dell’intelletto puro la materia precede alla forma, e Leibniz perciò ammise prima le cose (monadi), e interna ad esse una forza rappresentativa, per fondarvi su la loro relazione esterna e la reciprocità d’azione tra i loro stati (cioè le rappresentazioni). Quindi spazio e tempo divenivano possibili, il primo soltanto pel rapporto delle sostanze, l’altro soltanto pel collegamento tra loro delle determinazioni di esse come princìpi

e conseguenze. E così infatti dovrebbe essere, se l’intelletto puro potesse riferirsi immediatamente agli oggetti, e se spazio e tempo fossero determinazioni delle cose in sé. Ma, se essi non sono altro che intuizioni sensibili, in cui determiniamo tutti gli oggetti esclusivamente come fenomeni, la forma dell’intuizione (come disposizione soggettiva della sensibilità) precede a ogni materia (alle sensazioni), – e quindi spazio e tempo a tutti i fenomeni e a tutti i dati dell’esperienza – ed essa primieramente rende possibile l’esperienza. Il filosofo intellettualista174 non poteva ammettere che la forma dovesse precedere alle cose stesse, anzi determinarne la possibilità; censura questa del tutto giusta, una volta che egli assunse, che noi intuiamo le cose quali sono (sebbene con rappresentazione oscura). Ma, poiché l’intuizione sensibile è una condizione soggettiva affatto particolare, che sta a priori a fondamento di tutte le percezioni, e la cui forma è originaria; così la forma è data soltanto per se stessa, e, lungi dal dover la materia (o le cose stesse che appariscono) esser di fondamento (come parrebbe a giudicare secondo semplici concetti), la possibilità di essa presuppone piuttosto come data una intuizione formale (tempo e spazio). NOTA ALL’ANFIBOLIA DEI CONCETTI DELLA RIFLESSIONE Mi si consenta di chiamare l u o g o t r a s c e n d e n t a l e il posto che noi assegnamo ad un concetto nella sensibilità o nell’intelletto puro. In tal guisa la determinazione di questo posto, che spetta a ciascun concetto secondo la diversità del suo uso, e l’indicazione di regole per assegnare il rispettivo posto a tutti i concetti, sarebbe la t o p i c a t r a s c e n d e n t a l e; dottrina che presterebbe una solida garanzia contro le surrezioni dell’intelletto puro e le illusioni che ne derivano, distinguendo costantemente a quale facoltà conoscitiva i concetti propriamente appartengono. Ogni concetto, ogni titolo, sotto il quale si raccolgono molte conoscenze, si può chiamare l u o g o l o g i c o . Su ciò si fonda la t o p i c a l o g i c a di Aristotile, della quale potevano giovarsi maestri di scuola e oratori, per esaminare tra certi titoli del pensiero ciò che meglio si convenisse alla materia da trattare, e sottilizzarvi su con un’apparenza di profondità, o cianciarne verbosamente. La t o p i c a t r a s c e n d e n t a l e, al contrario, non contiene altro che i citati quattro titoli di ogni paragone e distinzione, i quali si distinguono dalle categorie per questo, che per essi non vien rappresentato l’oggetto in ciò che ne costituisce il concetto (quantità, realtà), ma solo il paragone delle rappresentazioni, che precede al concetto delle cose, in tutta la sua varietà.

Ma questo paragone richiede anzi tutto una riflessione, cioè una determinazione del luogo, al quale le rappresentazioni delle cose che vengono raffrontate appartengono, se cioè le pensi il puro intelletto, ovvero le dia la sensibilità nel fenomeno. I concetti possiamo paragonarli logicamente, senza curarci punto di sapere a che luogo appartengono i loro oggetti, se cioè sieno noumeni per l’intelletto o fenomeni per la sensibilità. Ma, se noi con questi concetti vogliamo arrivare agli oggetti, è necessaria prima di tutto una riflessione trascendentale, per sapere la facoltà conoscitiva di cui devono essere oggetti, se l’intelletto puro o la sensibilità. Senza la quale riflessione io faccio un uso troppo insicuro di questi concetti, e ne vengon fuori tanti pretesi princìpi sintetici che la ragione critica non può riconoscere, e che si fondano unicamente su una anfibolia trascendentale, cioè su uno scambio dell’oggetto puro dell’intelletto col fenomeno. In mancanza di una tale topica trascendentale, e sviato quindi dalla anfibolia dei concetti della riflessione, il celebre Leibniz costruì un s i s t e m a i n t e l l e t t u a l e d e l m o n d o, ossia credette di conoscere addirittura l’interna natura delle cose, confrontando tutti gli oggetti solo con l’intelletto e con i concetti formali astratti del suo pensiero. La nostra tabella dei concetti della riflessione ci offre l’inaspettato vantaggio di metterci sott’occhio i caratteri distintivi della dottrina di lui in tutte le sue parti, e insieme il principio direttivo di questa sua peculiar maniera di pensare, il quale non poggiava se non su un malinteso. Egli confrontò tutte le cose fra di loro semplicemente mediante concetti, e trovò, come era naturale, che non c’erano differenze, tranne quelle per cui l’intelletto distingue l’uno dall’altro i suoi concetti puri. Le condizioni della intuizione sensibile, che portano in sé la loro special differenza, egli non le considerò come originarie; poiché la sensibilità era per lui soltanto una specie di rappresentazione confusa, e non già una fonte speciale di rappresentazioni; il fenomeno per lui era la rappresentazione della c o s a i n s é, rappresentazione, sia pure, differente per forma logica dalla conoscenza per mezzo dell’intelletto, poiché quello, nel suo solito difetto di analisi, porta nel concetto della cosa una certa mescolanza di rappresentazioni accessorie, che l’intelletto poi sa eliminare. In una parola: Leibniz i n t e l l e t t u a l i z z ò i fenomeni, come Locke, col suo sistema di n o o g o n i a (se m’è lecito servirmi di questa espressione), aveva s e n s i b i l i z z a t o tutti i

concetti dell’intelletto, riducendoli a nient’altro che a concetti empirici o astratti della riflessione. Invece di cercare nell’intelletto e nel senso due fonti affatto diverse di rappresentazioni, ma che soltanto nella loro unione possono giudicare in maniera oggettivamente valida delle cose, ciascuno di questi grandi uomini si attenne soltanto a quella di esse, che a suo avviso si riferiva immediatamente alle cose in sé, laddove l’altra non faceva che confondere o ordinare le rappresentazioni della prima. Leibniz intanto confrontò fra loro semplicemente nell’intelletto gli oggetti dei sensi come cose in generale. I n p r i m o l u o g o, in quanto essi da questo devono esser giudicati come identici o come diversi. Poiché dunque egli aveva innanzi agli occhi unicamente i loro concetti, e non i rispettivi posti nell’intuizione, dove soltanto gli oggetti possono esser dati, e trascurava del tutto il luogo trascendentale di cotesti concetti (se l’oggetto sia da annoverare tra i fenomeni, o tra le cose in sé); egli non poteva non riuscire al risultato di estendere il suo principio degli indiscernibili, che vale unicamente dei concetti delle cose in generale, anche agli oggetti dei sensi (mundus phaenomenon) e non credere di aver così prodotto una non piccola dilatazione della conoscenza della natura. Certo, se io conosco una goccia d’acqua in tutte le sue determinazioni intrinseche, come cosa in sé, non posso ammettere che essa sia differente da un’altra, se l’intero concetto di questa sia identico a quello della prima. Ma, se essa è un fenomeno nello spazio, non ha più il suo luogo semplicemente nell’intelletto (tra i concetti), bensì nell’intuizione esterna sensibile (nello spazio); e quivi i luoghi fisici rispetto alle determinazioni intrinseche delle cose sono affatto indifferenti, e un luogo = b può accogliere una cosa, tanto nel caso che essa sia perfettamente simile ed eguale ad un’altra che è nel luogo = a, quanto nel caso che ne sia intrinsecamente assai diversa. La differenza di luogo, senza altre condizioni, già per sé rende non solo possibile, ma anche necessaria la molteplicità e distinzione degli oggetti come fenomeni. Quella apparente legge dunque non è una legge della natura. Essa è unicamente una regola analitica, o paragone delle cose per via di semplici concetti. I n s e c o n d o l u o g o, il principio, che i reali (come semplici affermazioni) non sono mai tra loro logicamente opposti, è una proposizione verissima rispetto al rapporto dei concetti, ma non ha nessun significato rispetto alla natura, né rispetto a una qualunque cosa in sé (di cui non possediamo verun concetto). Infatti, l’opposizione reale, ha luogo dovunque

A – B = 0, ossia dove un reale, unito con un altro in un soggetto, annulla l’effetto dell’altro: ciò che ci mettono continuamente sott’occhio tutti gli ostacoli e le reazioni della natura, che intanto, poiché dipendono da forze, devono esser dette realitates phaenomena. La meccanica generale può perfino indicare la condizione empirica di tale opposizione in una legge a priori, prendendo il caso della opposizione delle direzioni: condizione, di cui il concetto trascendentale di reale non sa nulla. Quantunque il signor von Leibniz non abbia per l’appunto enunciato questa proposizione con la solennità di un principio nuovo, egli si serviva tuttavia di essa per nuove affermazioni, e i suoi seguaci la misero espressamente nel loro sistema leibnizio-wolffiano. Secondo questo principio, per esempio, tutti i mali non sono se non conseguenza dei limiti delle creature, cioè negazioni, poiché queste sono l’unica cosa che si opponga alla realtà (ed è realmente così nel semplice concetto di una cosa in generale, ma non nelle cose come fenomeni). Parimenti, i seguaci di lui trovano non pure possibile, ma anche naturale, di riunire in un Ente tutte le realtà senza darsi pensiero d’alcuna opposizione, poiché essi non ne conoscono alcun’altra all’infuori della contraddizione (per cui il concetto stesso di una cosa viene annullato), ma non quella del reciproco annullamento, per cui un principio reale annulla l’effetto dell’altro, e per cui soltanto nella sensibilità incontriamo le condizioni per rappresentarla. I n t e r z o l u o g o, la monadologia leibniziana non ha altro principio che questo: che questo filosofo si rappresentava la differenza dell’interno ed esterno semplicemente in relazione all’intelletto. Le sostanze in generale devono avere qualcosa d’i n t e r n o , e però scevro da tutte le relazioni esterne, e, per conseguenza, anche dalla composizione. Il semplice è dunque il fondamento dell’interno delle cose in sé. Ma l’interno del loro stato non può né anche consistere nel luogo, nella forma, nel contatto o nel movimento (determinazioni che sono tutte relazioni esterne); e quindi non possiamo attribuire alle sostanze altro stato interno che quello, onde noi determiniamo internamente il nostro senso stesso, cioè l o s t a t o delle r a p p r e s e n t a z i o n i . Così infatti sorsero le monadi, che debbono formare gli elementi costitutivi di tutto l’universo, ma la cui forza attiva consiste in rappresentazioni, con cui esse propriamente non operano se non in se stesse. Ma appunto perciò anche il suo principio della possibile r e c i p r o c i t à d ’ a z i o n e d e l l e s o s t a n z e tra loro doveva essere un’a r m o n i a

p r e s t a b i l i t a , e non poteva essere un influsso fisico. Infatti, poiché ogni cosa ha che fare soltanto col proprio interno, ossia con le sue rappresentazioni, lo stato delle rappresentazioni d’una sostanza non poteva stare in nessunissimo rapporto attivo con quello di un’altra sostanza, ma ci voleva una terza causa, operante in comune su tutte, a mettere in corrispondenza l’un con l’altro i loro stati, e non per una assistenza occasionale e arrecata separatamente in ciascun caso particolare (systema assistentiae), bensì per l’unità dell’idea di una causa valida per tutti i casi, in cui le sostanze dovessero ricevere tutte la loro esistenza e permanenza, e quindi anche la loro mutua corrispondenza secondo leggi generali. I n q u a r t o l u o g o, la sua famosa dottrina d e l t e m p o e d e l l o s p a z i o , in cui egli intellettualizzò queste forme della sensibilità, era derivata unicamente dalla stessa illusione appunto della riflessione trascendentale. Se io mi voglio, per mezzo del semplice intelletto, rappresentare le relazioni esterne delle cose, ciò può aver luogo soltanto mediante un concetto della loro azione reciproca; e se io debbo collegare uno stato con un altro stato appunto della stessa cosa, ciò può avvenire soltanto nell’ordine dei princìpi e delle conseguenze. Così dunque Leibniz concepì lo spazio come un certo ordine nell’azione reciproca delle sostanze, e il tempo come la conseguenza dinamica dei loro stati. Ma ciò che l’uno e l’altro paiono avere di peculiare e d’indipendente dalle cose, ei lo ascrisse alla c o n f u s i o n e di questi concetti, che faceva sì che quella che è una semplice forma delle relazioni dinamiche, fosse considerata come un’intuizione speciale, per sé stante e antecedente alle cose stesse. Lo spazio e il tempo erano dunque la forma intelligibile dell’unione delle cose in sé (sostanze e loro stati). Ma le cose erano sostanze intelligibili (substantiae noumena). Nondimeno egli volle far valere questi concetti come fenomeni, poiché non ammetteva per la sensibilità un modo proprio d’intuizione, ma ogni rappresentazione, anche empirica, degli oggetti, la cercava nell’intelletto e ai sensi non lasciava se non il vile ufficio di confondere e deformare le rappresentazioni di quello. Ma se noi, per mezzo dell’intelletto puro, potessimo dire qualcosa di sintetico anche di c o s e i n s é (ciò che peraltro è impossibile), non potrebbe certo tuttavia riferirsi ai fenomeni, che non rappresentano cose in sé. Io dunque in quest’ultimo caso dovrò nella riflessione trascendentale raffrontare i miei concetti sempre soltanto nelle condizioni della sensibilità, e così lo

spazio e il tempo non saranno determinazioni delle cose in sé, ma dei fenomeni: e ciò che possono essere le cose in sé, io non lo so, e non mi serve di saperlo, perché una cosa non mi si può presentare mai se non nel fenomeno. Altrettanto osservo anche degli altri concetti della riflessione. La materia è substantia phaenomenon. Ciò che le appartiene internamente, io lo cerco in tutte le parti dello spazio che essa occupa, e in tutte le azioni che esercita, e che naturalmente non possono esser mai se non fenomeni dei sensi esterni. Io dunque non ho niente di assolutamente interno, ma qualcosa di interno ho solo in un senso meramente relativo, che, esso stesso, a sua volta, consta di relazioni esterne. Se non che, l’assolutamente interno, secondo l’intelletto puro, della materia è anche una semplice fantasia: perché essa non è mai un oggetto per l’intelletto puro; che anzi l’oggetto trascendentale, il quale può esser principio di questo fenomeno che diciamo materia, è un semplice quid, di cui non intenderemmo mai che cosa sia, quand’anche uno potesse dircelo. Noi infatti non possiamo capire se non quello che importa nell’intuizione qualcosa corrispondente alle nostre parole. Se i nostri lamenti che n o i n o n s c o r g i a m o p u n t o l ’ i n t e r n o d e l l e c o s e , devono significare che noi non concepiamo, mediante l’intelletto puro, quello che le cose che ci appaiono possono essere in sé, essi sono al tutto ingiusti ed irragionevoli; perché pretendono che senza i sensi si conoscano tuttavia le cose, e si possa quindi intuirle, e per conseguenza che noi si abbia una facoltà conoscitiva affatto diversa, non solo per grado, ma anche per intuizione e per specie da quella dell’uomo; insomma, che si debba essere, non uomini, ma esseri, dei quali noi stessi non possiamo dire se siano mai possibili, e tanto meno come siano costituiti. Nell’interno della natura entra l’osservazione e l’analisi dei fenomeni, e non è dato sapere fino a che punto si giungerà col tempo. Ma quelle questioni trascendentali, che oltrepassano la natura, noi non potremmo con tutto ciò risolverle giammai, quand’anche ci fosse svelata tutta la natura, perché175 non ci è dato mai di osservare il nostro proprio spirito con un’altra intuizione, che non sia quella del nostro senso interno. Infatti, in esso giace il segreto dell’origine della nostra sensibilità. Il suo riferimento a un oggetto, e ciò che sia il principio trascendentale di questa unità, giacciono senza dubbio troppo profondamente nascosti, perché noi, che conosciamo noi stessi soltanto mercé il senso interno, e però come fenomeno, possiamo adoperare uno strumento d’indagine così disadatto a scoprire qualcos’altro che sempre

nuovi fenomeni, la cui causa non sensibile noi tuttavia vorremmo ben volentieri indagare. Ciò che questa critica delle conclusioni tratte dalle semplici operazioni della riflessione ci presenta inoltre di utile, è, che essa dimostra all’evidenza la nullità di tutte le conclusioni intorno agli oggetti posti tra loro a confronto puramente nell’ambito dell’intelletto; e conferma insieme quello che noi abbiamo principalmente inculcato: che, sebbene i fenomeni non siano compresi, come cose in sé, tra gli oggetti dell’intelletto puro, essi nondimeno sono i soli, in cui la nostra conoscenza può attingere realtà oggettiva, in cui cioè ai concetti corrisponda un’intuizione. Quando noi riflettiamo solo logicamente, allora noi paragoniamo unicamente i nostri concetti tra loro nell’intelletto, per vedere se i due concetti paragonati hanno proprio lo stesso contenuto, se si contraddicono o no, se qualcosa è compresa internamente nel concetto, o se vi si aggiunge, e quale dei due è dato, quale invece deve considerarsi soltanto come un modo di pensare il dato. Ma, se io applico questi concetti a un oggetto in generale (nel senso trascendentale), senza determinare, inoltre, se esso sia oggetto di intuizione sensibile o intellettuale, ecco subito certe limitazioni (per non uscire da questo concetto), le quali ne rovesciano ogni uso empirico176, e appunto perciò dimostrano che la rappresentazione di un oggetto, come cosa in generale, non è soltanto in qualche modo i n s u f f i c i e n t e , ma, senza una determinazione sensibile di essa e indipendentemente da condizioni empiriche, in se stessa c o n t r a d d i t t o r i a ; che dunque bisogna o astrarre da ogni oggetto (nella logica), o, se se ne ammette uno, pensarlo sotto la condizione dell’intuizione sensibile; che, quindi, l’intelligibile richiederebbe un’intuizione affatto particolare, che non abbiamo, e in mancanza della quale p e r n o i esso non è niente; e che, d’altra parte, né anche i fenomeni possono essere oggetti in sé. Se infatti io penso semplicemente cose in generale, la differenza delle relazioni esterne non può certamente costituire una differenza delle cose stesse, anzi essa piuttosto la presuppone; e se il concetto di una cosa non è punto diverso internamente da quello di un’altra, io non fo altro che mettere una stessa cosa in relazioni diverse. Inoltre, per addizione di una semplice affermazione (realtà) ad un’altra, viene bensì aumentato il positivo, e niente gli è sottratto o tolto; quindi il reale nelle cose in generale non può essere, tra i suoi elementi, contraddittorio, ecc. I concetti della riflessione, come abbiamo mostrato, per una sorta di

equivoco esercitano sull’uso dell’intelletto un influsso tale, che sono stati in grado di condurre uno dei più acuti filosofi a un preteso sistema di conoscenza intellettuale, che presume di determinare i suoi oggetti senza il sussidio dei sensi. Appunto perciò la spiegazione della causa d’errore dell’anfibolia di questi concetti nel produrre falsi princìpi, è di grande utilità per determinare in modo attendibile, e assicurare, i limiti dell’intelletto. Si deve dire per vero, che ciò che conviene o contraddice in generale a un concetto, conviene anche, o contraddice, a ogni particolare che è contenuto sotto quel concetto (dictum de omni et nullo); ma sarebbe assurdo cangiare questo principio logico in quest’altro: ciò che non è contenuto in un concetto generale, non è contenuto neppure nei particolari, che sono ad esso subordinati; giacché questi sono concetti particolari, appunto perché contengono in sé più che non si pensi nel generale. Orbene, il sistema intellettuale di Leibniz è tutto edificato sopra quest’ultimo principio; esso cade quindi insieme con questo, e cade pure ogni ambiguità che ne deriva nell’uso dell’intelletto. Il principio degli indiscernibili si fondava propriamente sul presupposto, che se nel concetto di una cosa in generale non si incontra una certa differenza, essa non si incontrerà nemmeno nelle cose stesse; e però saranno assolutamente una sola (numero eadem) tutte le cose, che già nel loro concetto (per qualità o per quantità) non differiscano tra loro. Ma, poiché nel semplice concetto di una cosa qualsiasi s’è fatta astrazione di talune condizioni necessarie alla sua intuizione, così, per una singolare precipitazione, si finisce col considerare ciò da cui si è fatta astrazione, come qualche cosa che non si incontrerà mai in nessuna parte, e col non concedere alla cosa se non ciò che è contenuto nel suo concetto. Il concetto di uno spazio di un piede cubo, lo pensi io dove e quante volte voglia, in sé è affatto identico. Se non che, due piedi cubi nello spazio sono nondimeno, semplicemente per i loro luoghi, differenti (numero diversa); e questi sono condizioni dell’intuizione, in cui l’oggetto di tal concetto vien dato, e che, se non appartengono al concetto, appartengono bensì tuttavia all’intera sensibilità. Conformemente, nel concetto di una cosa non c’è punto contraddizione, quando niente di negativo è unito con un elemento affermativo, e concetti meramenti affermativi non possono unendosi far capo a una negazione. Se non che, nell’intuizione sensibile, in cui è data una realtà (per es., il movimento), si trovano condizioni (direzioni opposte), da cui nel

concetto di movimento in generale si astraeva, le quali rendono possibile un contrasto, che certamente non è logico; facendo cioè di un mero positivo, uno zero = 0; e non si potrebbe dire, che tutte le realtà siano in accordo tra loro per questo, che tra i loro concetti non c’è contraddizione177. Secondo semplici concetti, l’interno è il sostrato di tutte le relazioni o determinazioni esterne. Se io dunque astraggo da tutte le condizioni dell’intuizione, e mi attengo unicamente al concetto di una cosa in generale, posso astrarre da ogni relazione esterna, e deve nondimeno restare un concetto di ciò che designa non una relazione, ma semplici determinazioni interne. Ora, par che ne segua che in ogni cosa (sostanza) ci sia un che assolutamente interno, precedente a tutte le determinazioni estrinseche, in quanto le rende innanzi tutto possibili; e, pertanto, che questo sostrato sia qualcosa che non contiene più in sé veruna relazione esterna, e quindi sia s e m p l i c e (giacché le cose corporee son pur sempre niente altro che relazioni, per lo meno, delle parti tra loro); e poiché noi non conosciamo nessuna determinazione assolutamente interna, salvo quelle conosciute mediante il nostro senso interno, pare che questo sostrato non soltanto sia semplice, ma anche (per l’analogia col nostro senso interno) determinato da r a p p r e s e n t a z i o n i : cioè tutte le cose sarebbero propriamente m o n a d i , o enti semplici dotati di rappresentazioni. Tutto questo avrebbe la sua esattezza, se nelle condizioni, in cui soltanto ci posson esser dati gli oggetti dell’intuizione esterna, e da cui fa astrazione il concetto puro, non ci fosse qualcosa più del concetto d’una cosa in generale. Infatti, vi si nota che un fenomeno permanente nello spazio (estensione impenetrabile) può contenere meri rapporti e niente di assolutamente interno, e pure essere il primo sostrato di ogni percezione esterna. Per semplici concetti io certamente non posso pensare l’esterno senza qualcosa d’interno, appunto perché i concetti di relazione presuppongono sempre cose assolutamente date, e senza queste non sono possibili. Ma, poiché nell’intuizione c’è qualcosa che non è punto nel semplice concetto d’una cosa in generale, ed è questo che procura il sostrato, che non sarebbe punto conosciuto per via di semplici concetti, cioè uno spazio, il quale, con tutto ciò che contiene, consta di mere relazioni formali o anche reali, io non posso dire: poiché senza un che di assolutamente interno nessuna cosa può essere rappresentata per s e m p l i c i c o n c e t t i, così anche nelle cose stesse comprese sotto tali concetti, e nella l o r o i n t u i z i o n e , non c’è nulla di esterno, a base del quale non ci sia qualche cosa di assolutamente interno. Giacché, se noi astraiamo da tutte le

condizioni dell’intuizione, certo nel semplice concetto non ci rimane altro che l’interno in generale e il suo rapporto intrinseco tra le sue parti178, per cui soltanto è possibile l’esterno. Ma questa necessità, che si fonda solo sull’astrazione, non trova luogo nelle cose, in quanto esse son date nelle intuizioni con tali determinazioni, che esprimono semplici rapporti, senza nulla di interno per fondamento, appunto perché esse sono, non cose in sé, ma unicamente fenomeni. Quello che noi nella materia possiamo comunque conoscere sono mere relazioni (quello, che noi diciamo determinazioni interne di essa, è solo relativamente interno); ma fra esse ve n’ha di indipendenti e permanenti, per cui ci è dato un oggetto determinato. Il fatto che io, quando astraggo da queste relazioni, non abbia più nient’altro da pensare, non sopprime il concetto di una cosa come fenomeno, e né anche il concetto di un oggetto in abstracto, sibbene ogni possibilità di un oggetto determinabile secondo semplici concetti, cioè un noumeno. Certo, sorprende sentire che una cosa debba consistere interamente in relazioni; ma una tal cosa è anche semplice fenomeno e non può punto esser pensata mediante categorie pure; essa stessa consiste nella semplice relazione di qualcosa in generale coi sensi. Parimenti, se si comincia con semplici concetti, non si può pensare le relazioni delle cose in abstracto altrimenti che pensando l’una essere causa di determinazioni nell’altra; giacché questo è il nostro concetto intellettuale di relazioni. Ma poiché in tal caso noi prescindiamo da ogni intuizione, vien meno tutto un mondo in cui i molteplici possono determinarsi reciprocamente il loro luogo, ossia la forma della sensibilità (lo spazio), che pure precede a ogni causalità empirica. Se per oggetti semplicemente intelligibili noi intendiamo quelle cose che son pensate per via di categorie pure, senza schema della sensibilità, oggetti di tal natura sono impossibili. La condizione, infatti, dell’uso oggettivo di tutti i nostri concetti dell’intelletto è semplicemente il modo della nostra intuizione sensibile, onde ci son dati oggetti; e se noi astraiamo da questa, quelli non hanno più attinenza con un oggetto qualsiasi. Che se si volesse ammettere anche un’altra specie d’intuizione, diversa da questa nostra sensibile, le nostre funzioni di pensare, rispetto ad essa, non avrebbero più significato. Se poi per essi intendiamo soltanto oggetti di una intuizione non sensibile, per cui, d’altronde non possono valere le nostre categorie, e di cui quindi non ci sarà dato mai di possedere assolutamente una cognizione (né intuizione, né concetto), allora senza dubbio bisogna ammettere dei noumeni

in questo senso meramente negativo; poiché allora essi non dicono altro se non che la nostra specie d’intuizione non raggiunge tutte le cose, ma solo gli oggetti dei nostri sensi, e però la sua validità oggettiva è limitata, e rimane posto per qualche altra specie di intuizione, e quindi anche per altre cose come oggetti della medesima. Ma, allora, il concetto di noumeno è problematico, ossia è la rappresentazione d’una cosa, della quale non possiamo dire né che sia possibile, né che sia impossibile, non conoscendo noi nessuna specie d’intuizione, oltre la nostra sensibile, e nessuna specie di concetti, oltre le categorie, e non essendo per altro né quella né queste adeguate a un oggetto estrasensibile. Noi dunque non possiamo allargare in modo positivo il campo degli oggetti del nostro pensiero al di là delle condizioni della nostra sensibilità, né ammettere, oltre i fenomeni, oggetti altresì del pensiero puro, cioè noumeni, poiché essi non hanno un significato positivo da addurre. Bisogna infatti, delle categorie, aver questo per fermo: che esse, da sole, non sono punto sufficienti alla conoscenza delle cose in sé, e, senza i dati della sensibilità, sarebbero forme meramente soggettive dell’unità dell’intelletto, ma senza oggetto. Il pensiero, certo, non è in sé un prodotto dei sensi, e pertanto non è né anche limitato da essi; ma non per questo ha un uso suo proprio e puro senza intervento della sensibilità, poiché allora verrebbe ad essere senza oggetto. Né anche può dirsi un tal o g g e t t o il noumeno; perché esso designa appunto il concetto problematico di un oggetto per una intuizione affatto diversa e un intelletto affatto diverso dai nostri; concetto, che per se stesso è già, dunque, un problema. Il concetto del noumeno, dunque, non è il concetto di un oggetto, ma il problema inevitabilmente connesso con la limitazione della nostra sensibilità: se non possano esserci oggetti al tutto indipendenti da quelli dell’intuizione propria di essa; questione, la quale non può ricevere se non una soluzione indeterminata, cioè: che, poiché l’intuizione sensibile non si applica a tutte le cose indistintamente, c’è posto per più diversi oggetti, sicché questi non possono essere assolutamente negati, ma, in mancanza di un concetto determinato (poiché non c’è nessuna categoria adatta a ciò), né anche possono essere affermati per oggetti del nostro intelletto. L’intelletto, pertanto, limita la sensibilità, senza perciò estendere il suo proprio campo; e, ammonendola che non presuma di raggiungere cose in sé, ma unicamente fenomeni, si foggia in se stesso un oggetto, ma soltanto come oggetto trascendentale, che è la causa del fenomeno (quindi non fenomeno

esso) e che non può esser pensato né come quantità, né come realtà, né come sostanza, ecc. (poiché tali concetti richiedono sempre forme sensibili, nelle quali essi determinano un oggetto); di cui dunque si ignora affatto se esso sia in noi o anche fuori di noi, se verrebbe annullato insieme con la sensibilità o se, quando noi sopprimessimo questa, esso tuttavia resterebbe. Se noi vogliamo dire questo oggetto noumeno, pel fatto che la rappresentazione di esso non è sensibile, siam liberi di farlo. Ma, poiché non possiamo applicarvi nessuno dei nostri concetti dell’intelletto, tale rappresentazione tuttavia rimane per noi vuota e non serve se non a tracciare i limiti della nostra conoscenza sensibile e a lasciare uno spazio, che non ci è dato di riempire né con una possibile esperienza, né con l’intelletto puro. La critica di questo intelletto puro non permette, adunque, di crearsi un nuovo campo di oggetti, oltre quelli che si possono presentare a lui come fenomeni, né di divagare in mondi intelligibili, anzi neppure nel concetto di essi. L’errore, che trae a questi termini nella maniera più manifesta e che può certamente valere di scusa, benché esso non possa essere giustificato, sta in ciò: che l’uso dell’intelletto, contro la sua destinazione, è fatto trascendentale, e gli oggetti, cioè le intuizioni possibili, devono regolarsi secondo i concetti, non i concetti secondo le intuizioni possibili (come quelle su cui soltanto poggia il loro valore oggettivo). Ma la causa di ciò, a sua volta, è che l’appercezione, e con essa il pensiero, precede a ogni possibile ordine determinato delle rappresentazioni. Noi quindi pensiamo qualcosa in generale, e la determiniamo, da una parte, sensibilmente; se non che distinguiamo tuttavia l’oggetto generale e rappresentato in abstracto, da questo modo di intuirlo; e allora ci resta un modo di determinarlo semplicemente per mezzo del pensiero, che veramente è una semplice forma logica senza contenuto, ma a noi sembra nondimeno un modo in cui l’oggetto esiste in sé (noumeno), senza guardare alla intuizione, che è limitata ai nostri sensi. Prima di lasciare l’Analitica trascendentale, dobbiamo aggiungere ancora qualcosa, che, sebbene in sé di non particolare momento, pure potrebbe parer necessario alla compiutezza del sistema. Il più alto concetto, da cui si suol prendere le mosse in una filosofia trascendentale, è comunemente la divisione di possibile e di impossibile. Ma, poiché ogni divisione presuppone un concetto diviso, deve essere addotto un concetto ancora più alto, e questo è il concetto di un oggetto in generale (assunto in modo problematico, e senza

decidere se esso sia qualche cosa o niente). Poiché le categorie sono i soli concetti, che si riferiscono ad oggetti in generale, il distinguere se un oggetto è qualche cosa o è niente, procederà seguendo la classificazione e l’indicazione delle categorie. 1. Ai concetti di tutto, molti e uno è opposto quello, che annulla tutto, cioè n e s s u n a c o s a, ed è l’oggetto di un concetto, al quale non corrisponde punto una intuizione additabile, = niente; cioè un concetto senza oggetto, come i noumeni, che non possono annoverarsi tra le possibilità, quantunque né anche debbano perciò spacciarsi per impossibili (ens rationis); o come certe forze fondamentali nuove, che si pensano bensì senza contraddizione, ma anche senza esempio desunto dall’esperienza; e però non possono esser annoverate tra le possibilità. 2. La realtà è q u a l c o s a , la negazione è n i e n t e , ossia un concetto della mancanza di un oggetto, come l’ombra, il freddo (nihil privativum). 3. La semplice forma dell’intuizione, senza sostanza, non è in sé un oggetto, ma la semplice condizione formale di questo (come fenomeno), come lo spazio puro e il tempo puro, che sono bensì qualcosa come forme d’intuire, ma non sono essi stessi oggetti, che siano intuiti (ens imaginarium). 4. L’oggetto di un concetto, che contraddice se stesso, è niente, poiché il concetto è niente, l’impossibile, come per es. la figura rettilinea di due lati (nihil negativum). La tavola di questa divisione del concetto del n i e n t e (giacché la divisione, a questa parallela, del qualcosa segue da sé) dovrebbe essere disposta così: NIENTE come 1. Concetto vuoto senza oggetto ens rationis. 2. 3. Oggetto vuoto Intuizione vuota di un concetto senza oggetto nihil privativum. ens imaginarium. 4. Oggetto vuoto senza concetto

nihil negativum.

Ognun vede, che l’ente di ragione (n. 1) dal non-ente (n. 4) si distingue in ciò, da quello non può essere contato tra le possibilità, poiché è una semplice finzione (benché non contraddittoria), laddove questo è opposto alla possibilità, in quanto il concetto annulla perfino se medesimo. Ma entrambi sono concetti vuoti. Il nihil privativum (n. 2), invece, e l’ens imaginarium (n. 3) son vuoti dati di concetti. Se la luce non fosse data ai sensi, non ci si potrebbe rappresentare né anche il buio, e, se non fossero percepiti esseri estesi, non ci si potrebbe rappresentare né anche lo spazio. Tanto la negazione, quanto la semplice forma dell’intuizione senza un reale, non sono oggetti. 173

Cioè, dall’essere in relazione con la sensibilità, o con l’intelletto. Intellektualphilosoph. 175 Prima edizione: «e». 176 È stato proposto (Kants., IV, 462) di correggere: «uso non empirico». Ma quel che segue dimostra invece l’esattezza del testo, volendo Kant dire appunto che altrimenti non sarebbe più possibile l’uso empirico di quei concetti, ossia il loro riferimento a un oggetto dell’esperienza; e bisognerebbe quindi astrarre da ogni oggetto dell’esperienza e non ammetterne più nessuno. 177 Se si volesse qui ricorrere alla solita scappatoia, che per lo meno le realitates noumena non possono agire l’una contro l’altra; si dovrebbe nondimeno addurre un esempio di siffatta realtà pura e indipendente dai sensi, acciò si vedesse, se una tale realtà in generale rappresenti qualcosa o addirittura niente. Ma un esempio non può esser preso d’altronde che dalla esperienza, la quale non offre mai più che fenomeni, e così questa proposizione non significa altro se non che il concetto che contiene mere affermazioni non contiene niente di negativo: proposizione, di cui non abbiamo mai dubitato (N. d. K.). 178 und das Verhältnis desselben unter einander. 174

II Dialettica trascendentale

Introduzione I DELL’APPARENZA TRASCENDENTALE Noi abbiamo detto più sopra la dialettica in generale logica dell’a p p a r e n z a 179. Il che non vuole dire, che essa sia una dottrina della v e r i s i m i g l i a n z a ; giacché questa è verità, ma conosciuta per via dei princìpi insufficienti, la cui conoscenza perciò è bensì difettosa, ma tuttavia non per questo è fallace, né quindi va separata dalla parte analitica della logica. Tanto meno si deve far tutt’uno di fenomeno180 e apparenza. La verità, infatti, o l’apparenza non sono nell’oggetto in quanto questo è intuito, ma nel giudizio su di esso, in quanto è pensato. Si può dunque dire a ragione, che i sensi non sbagliano, ma non perché essi giudichino sempre esattamente, anzi perché non giudicano punto. Quindi tanto la verità quanto l’errore, nonché l’apparenza come via a quest’ultimo, non ha luogo se non nel giudizio, ossia nella relazione dell’oggetto col nostro intelletto. In una conoscenza che si accordi completamente con le leggi dell’intelletto, non c’è errore. In una rappresentazione dei sensi (poiché essa non contiene punto un giudizio) né anche c’è errore. Ma nessuna forza della natura da sé può deviare dalle sue proprie leggi. Quindi né l’intelletto per sé solo (senza influsso d’altra causa), né per se stessi i sensi errerebbero; non il primo, perché, se esso opera semplicemente secondo le sue leggi, l’atto suo (il giudizio) deve necessariamente accordarsi con queste leggi. Ma nell’accordo con le leggi dell’intelletto consiste il lato formale di ogni verità. Nei sensi non c’è giudizio di sorta, né vero, né falso. E poiché noi non abbiamo altre fonti di

conoscenza oltre queste due, ne segue, che l’errore non nasce se non dall’influsso inavvertito della sensibilità sull’intelletto, onde accade che i princìpi soggettivi181 del giudizio si mescolino ai princìpi oggettivi e li facciano deviare dalla loro destinazione182; a quella guisa che un corpo in movimento per sé manterrebbe sempre la linea retta nella stessa direzione, laddove se contemporaneamente agisce su di esso una forza diversa in altra direzione, riesce un movimento curvilineo. Per distinguere l’atto proprio dell’intelletto dalla forza che vi si mescola sarà quindi necessario considerare il giudizio erroneo come la diagonale tra due forze, che determinano il giudizio per due diverse direzioni, le quali formano, per così dire, un angolo, e risolvere quell’azione composta nelle azioni semplici dell’intelletto e della sensibilità; ciò che deve avvenire nei giudizi puri a priori mediante la riflessione trascendentale, per cui (come già è stato mostrato) a ciascuna rappresentazione vien assegnato il posto che le spetta nella facoltà conoscitiva corrispondente, e quindi viene anche distinto l’influsso della seconda sul primo183. A noi non spetta qui di trattare dell’apparenza empirica (per es. di quella ottica) che ha luogo nell’uso empirico di regole, del resto giuste, dell’intelletto, e per cui il giudizio è sviato dall’influsso dell’immaginazione; ma dobbiamo solo occuparci dell’a p p a r e n z a t r a s c e n d e n t a l e , che influisce su princìpi, il cui uso non si appoggia mai sull’esperienza, – nel qual caso noi pure avremmo, almeno, una pietra di paragone della loro esattezza; ma malgrado tutte le avvertenze della Critica ci trae affatto fuor di strada del tutto di là dall’uso empirico delle categorie, e ci attrae col miraggio di una estensione dell’intelletto puro. Noi diremo i m m a n e n t i i princìpi, la cui applicazione si tiene tutto e per tutto nei limiti dell’esperienza possibile; t r a s c e n d e n t i , invece, quelli che devon sorpassare tali limiti. Ma non intendo per questi l’uso o abuso t r a s c e n d e n t a l e delle categorie, che è né più né meno che un errore del giudizio non convenientemente frenato dalla Critica, e che non bada abbastanza ai confini del terreno, in cui soltanto è concesso all’intelletto puro di agire; ma princìpi reali, che ci istigano a rovesciare tutte quelle barriere, e usurparci tutto un nuovo terreno, che non conosce punto delimitazione di sorta. Quindi t r a s c e n d e n t a l e e t r a s c e n d e n t e non sono la stessa cosa. I princìpi dell’intelletto puro, che noi abbiamo sopra esposti, devon essere semplicemente d’uso empirico, e non trascendentale, tale cioè che si spinga di là dai termini dell’esperienza.

Ma un principio che abolisce questi limiti, anzi impone di sorpassarli, si chiama t r a s c e n d e n t e . Se la nostra Critica può arrivare a scoprire l’apparenza di questi pretesi princìpi, allora quei princìpi di uso meramente empirico, in opposizione a questi ultimi, si possono denominare princìpi i m m a n e n t i dell’intelletto puro. L’apparenza logica, che consiste nella semplice imitazione della forma razionale (l’apparenza dei sofismi) sorge unicamente da un difetto di attenzione alla regola logica. Appena quindi questa viene rivolta sul caso in questione, quell’apparenza si dilegua del tutto. L’apparenza trascendentale, invece, non cessa egualmente, quand’anche altri già l’abbia svelata e ne abbia chiaramente scorta la nullità mediante la Critica trascendentale (per es. l’apparenza nella proposizione: il mondo deve avere un principio nel tempo). E la causa è questa, che nella nostra ragione (considerata soggettivamente, come facoltà conoscitiva umana) ci sono regole fondamentali e massime del suo uso, che han tutto l’aspetto di princìpi oggettivi, per cui accade che la necessità soggettiva di una certa connessione dei nostri concetti in favore dell’intelletto venga considerata come necessità oggettiva della determinazione delle cose in sé. I l l u s i o n e , che è affatto inevitabile, come non possiamo evitare che il mare nel mezzo non ci apparisca più alto che alla spiaggia, poiché lì noi lo vediamo per raggi più alti che qui, o come anche lo stesso astronomo non può impedire che la luna al levarsi non gli apparisca più grande, quantunque ei non si lasci ingannare da tale apparenza. La dialettica trascendentale sarà paga pertanto di scoprire l’apparenza dei giudizi trascendenti, e di prevenire insieme che essa non tragga in inganno; ma che questa apparenza anche si dilegui (come l’apparenza logica) e cessi di essere un’apparenza, questo è ciò che non può giammai conseguire. Perché noi abbiamo che fare con una i l l u s i o n e n a t u r a l e ed inevitabile, che si fonda essa stessa su princìpi, soggettivi, e li scambia per oggettivi; laddove la dialettica logica, nella risoluzione dei paralogismi, non ha da fare se non con un errore nello svolgimento dei princìpi, o con un’artificiale apparenza nell’imitazione di essi. Vi è dunque una dialettica naturale e necessaria della ragion pura; non la dialettica in cui si avviluppi, per es., un guastamestieri per mancanza di cognizioni, o che un qualunque sofista abbia escogitata ad arte per imbrogliare la gente ragionevole; ma la dialettica, che è inscindibilmente legata all’umana ragione e che, anche dopo che noi ne avremo scoperta l’illusione, non cesserà tuttavia di adescarla e trascinarla incessantemente in

errori momentanei, che avranno sempre bisogno di essere eliminati.

II DELLA RAGION PURA COME SEDE DALL’APPARENZA TRASCENDENTALE A. DELLA RAGIONE IN GENERALE Ogni nostra conoscenza sorge dai sensi, indi va all’intelletto e finisce nella ragione, al di sopra della quale non c’è in noi nulla di più alto per elaborare la materia della intuizione e sottoporla alla più alta unità del pensiero. Ora se io debbo dare una definizione di questa suprema potenza conoscitiva, io mi trovo in qualche imbarazzo. Di essa, come dell’intelletto, c’è un uso semplicemente formale, cioè logico, in cui la ragione astrae da ogni contenuto di conoscenza; ma c’è anche un uso reale, in cui essa contiene l’origine di certi concetti e di certi princìpi, che non ricava né dai sensi né dall’intelletto. Ora la prima facoltà è stata certamente da un pezzo definita dai logici come la facoltà d’inferire mediatamente (per distinguerla dalle inferenze immediate, consequentiis immediatis); ma la seconda invece, che produce da sé concetti, con questa definizione non è stata ancora considerata. Ora, poiché qui si presenta una divisione della ragione in facoltà logica e facoltà trascendentale, deve cercarsi un concetto più alto di questa fonte di conoscenza, che comprenda sotto di sé entrambi i concetti, potendo noi, per analogia coi concetti dell’intelletto, sperare che il concetto logico ci fornisca ad un tempo la chiave del trascendentale, e che la tavola delle funzioni dei primi184, ci dia la scala genealogica dei concetti della ragione. Noi definimmo nella prima parte della nostra Logica trascendentale l’intelletto come la facoltà delle regole; qui da esso distinguiamo la ragione, dicendola la f a c o l t à d e i p r i n c ì p i. L’espressione «principio» ha un doppio significato; e comunemente significa soltanto una conoscenza che può essere adoperata come principio, comeché, in se stessa e per la propria origine, non sia un principium. Ogni proposizione generale, sia essa desunta magari dall’esperienza (per induzione), può servire da premessa maggiore in un sillogismo; ma non perciò essa è, in se stessa, un principium. Gli assiomi matematici (per es., tra due punti non ci può essere se non una linea retta) sono bensì conoscenze

generali a priori, e son quindi detti a ragione princìpi relativamente ai casi, che possono essere sussunti sotto di essi. Ma non perciò io posso dire tuttavia di conoscere questa proprietà della linea retta in generale e in sé, in virtù di princìpi, sibbene soltanto nella intuizione pura. Direi quindi conoscenza per princìpi quella, in cui conosco il particolare nel generale mediante concetti. Così ogni sillogismo è una forma della derivazione di una conoscenza da un principio. La premessa maggiore, infatti, dà sempre un concetto, che fa sì che tutto ciò che viene sussunto sotto la condizione di esso, venga conosciuto per esso secondo un principio. Ora, poiché ogni conoscenza generale può fungere da premessa maggiore in un sillogismo, e poiché l’intelletto fornisce a priori simili proposizioni generali, così queste, anche rispetto al loro possibile uso, possono esser dette princìpi. Ma, se noi consideriamo questi princìpi dell’intelletto puro in se stessi secondo la loro origine, essi sono tutt’altro che conoscenze ricavate da concetti. Essi infatti neppure sarebbero mai possibili a priori, se noi non vi aggiungessimo l’intuizione pura (in matematica), o condizioni di una possibile esperienza in generale. Che tutto ciò che avviene abbia una causa, non può ricavarsi a nessun patto dal concetto di ciò che avviene in generale; piuttosto il principio mostra come di ciò che accade si possa primieramente formare un determinato concetto d’esperienza. L’intelletto, adunque non può procurare conoscenze sintetiche ricavabili da concetti; e queste sono propriamente quelle che io chiamo assolutamente princìpi, potendo per altro tutte le proposizioni universali, in generale, esser dette princìpi relativi. È antico desiderio, che, non so quando, ma giungerà forse un dì al suo compimento, che si possa scoprire, in luogo dell’infinita molteplicità delle leggi civili, i loro princìpi; giacché soltanto in ciò può consistere il segreto per semplificare, come si dice, la legislazione. Senonché le leggi non sono se non limitazioni della nostra libertà a condizioni, dentro le quali essa si accorda pienamente con se medesima; esse quindi si riferiscono a qualcosa che è totalmente opera nostra, e di cui, per quegli stessi concetti, noi possiamo esser causa. Ma volere che gli oggetti in se stessi, che la natura delle cose, sottostiano a princìpi, e debbano esser determinati secondo meri concetti, è, se non qualcosa di impossibile, per lo meno di molto assurdo. Pure, sia qui come si voglia (perché su ciò abbiamo ancora la ricerca innanzi a noi), da ciò risulta almanco questo: che la conoscenza dedotta da princìpi

(tali in se stessi) è tutt’altra cosa che la semplice conoscenza intellettuale, la quale può anche sì, precedere, in forma di principio, ad altre conoscenze, ma, in se stessa (in quanto essa è sintetica), non si fonda nel semplice pensiero, né contiene in sé un universale secondo concetti. Se l’intelletto può essere una facoltà dell’unità dei fenomeni mediante le regole, la ragione è la facoltà dell’unità delle regole, dell’intelletto sotto princìpi. Essa, dunque, non si indirizza mai immediatamente all’esperienza o a un oggetto qualsiasi, ma all’intelletto, per imprimere alle conoscenze molteplici di esso un’unità a priori per via di concetti; unità, che può dirsi unità razionale, ed è di tutt’altra specie da quella che può esser prodotta dall’intelletto. Questo è il concetto generale della facoltà della ragione, per quanto esso s’è potuto spiegare nella mancanza assoluta di esempi (come quelli che solo in seguito potranno darsi). B. DELL’USO LOGICO DELLA RAGIONE Si distingue ciò che è immediatamente conosciuto, da ciò che è solo dedotto. Che in una figura limitata da tre linee rette ci siano tre angoli, si conosce immediatamente; ma che questi angoli presi insieme siano eguali a due retti, questo non è se non dedotto. Poiché noi abbiamo costantemente bisogno di dedurre, e perciò infine vi abbiamo fatto del tutto l’abitudine, così finiamo col non avvertire più questa differenza, e spesso, come nelle cosiddette illusioni dei sensi, riteniamo per immediatamente percepito qualcosa, che pure abbiamo solamente dedotto. In ogni deduzione c’è una proposizione che sta a base, e un’altra, la conseguenza, che è ricavata da quella, e infine la connessione deduttiva (rapporto conseguenziale) per cui la verità della seconda è indissolubilmente congiunta con la verità della prima. Se il giudizio dedotto è incluso nel primo in modo che ne possa esser ricavato, senza la mediazione di una terza rappresentazione, allora dicesi inferenza immediata (consequentia immediata); e io preferirei dirla inferenza intellettuale. Ma se, oltre la conoscenza messa a base, è necessario anche un altro giudizio, per avere la conclusione, allora l’inferenza dicesi inferenza razionale. Nella proposizione: t u t t i g l i u o m i n i s o n o m o r t a l i, ci sono già incluse le proposizioni: alcuni uomini son mortali; alcuni mortali sono uomini; niente, che sia immortale, è uomo; e queste sono pertanto conseguenze immediate della prima proposizione. Invece, nel detto giudizio non c’è la proposizione: tutti i dotti sono mortali (perché il concetto di dotto

non vi si trova punto), e può esserne inferito soltanto mercé un giudizio intermedio. In ogni inferenza razionale, io penso prima una r e g o l a (major) con l’intelletto. Sussumo poi una conoscenza sotto la condizione della regola (minor) mediante il giudizio. Infine, determino la mia conoscenza col predicato della regola (conclusio), e quindi a priori, con la r a g i o n e . La relazione dunque, rappresentata dalla premessa maggiore come regola fra una conoscenza e la sua condizione, costituisce le differenti specie di sillogismi. Essi perciò sono di tre specie, appunto come tutti i giudizi in generale, in quanto essi si distinguono rispetto al modo in cui esprimono la relazione della conoscenza nell’intelletto, ossia: sillogismi c a t e g o r i c i , o i p o t e t i c i , o disgiuntivi. Se, come per lo più avviene, la conclusione è stata proposta come un giudizio, per vedere se questo non provenga da giudizi già dati, con cui cioè vien pensato un tutt’altro oggetto; allora io ricerco nell’intelletto se l’asserzione di tale conclusione non vi si trovi sotto certe condizioni secondo una regola generale. Se trovo tale condizione, e sotto la condizione data si può sussumere l’oggetto della conclusione, questo è segno che è dedotta dalla regola, c h e v a l e a n c h e p e r g l i a l t r i o g g e t t i d e l l a c o n o s c e n z a . Donde si vede che la ragione, nel dedurre, cerca di ridurre la grande molteplicità della conoscenza dell’intelletto al minimo numero di princìpi (condizioni universali), e di realizzare così la suprema unità di essa. C. DELL’USO PURO DELLA RAGIONE Si può isolare la ragione, ed allora è essa tuttavia una speciale fonte di concetti e di giudizi, che derivino unicamente da essa, e per cui essa si riferisca ad oggetti? o essa è una semplice facoltà subalterna di conferire a conoscenze date una certa forma, che si dice logica, e per la quale le conoscenze dell’intelletto sono subordinate le une alle altre, le regole inferiori alle superiori (la cui condizione abbraccia nella sua sfera la condizione delle prime), per quanto è possibile ottenere ciò col paragone delle medesime? Questa è la questione, di cui ora dobbiamo occuparci soltanto in via preliminare. Nel fatto la molteplicità delle regole e l’unità dei princìpi è una esigenza della ragione, per rendere l’intelletto perfettamente coerente con se stesso; come l’intelletto subordina il molteplice della intuizione a concetti, e così l’unifica. Ma un principio siffatto non prescrive agli oggetti nessuna

legge, e non contiene il principio della possibilità di conoscerli e di determinarli come tali, in generale; anzi è una semplice legge soggettiva dell’economia del corredo del nostro intelletto, a fine di ridurre, mercé il paragone dei suoi concetti, l’uso universale dei medesimi al minor numero possibile, senza che si richieda la comodità e l’estensione del nostro intelletto, e nello stesso tempo a fine di attribuire a quella massima una validità oggettiva. In una parola, la questione è, se la ragione in sé, cioè la ragion pura a priori, contenga princìpi sintetici e regole, e in che questi princìpi possano consistere. Il procedimento logico e formale di essa nel sillogismo già ci dà in proposito lume sufficiente circa il principio sul quale si fonderà il principio trascendentale di essa nella conoscenza sintetica mediante la ragion pura. I n p r i m o l u o g o , il sillogismo non si riferisce a intuizioni, per sottoporle a regole (come l’intelletto con le sue categorie), ma a concetti e giudizi. Se dunque la ragion pura si riferisce anche ad oggetti, non ha tuttavia nessuna attinenza immediata con essi e con la loro intuizione, ma solo con l’intelletto e con i suoi giudizi, che immediatamente si applicano ai sensi e alla loro intuizione, per determinare questo loro oggetto. L’unità razionale dunque non è unità di un’esperienza possibile, anzi è distinta essenzialmente da questa unità come unità dell’intelletto. Che tutto ciò che accade abbia una causa, non è un principio conosciuto ed imposto dalla ragione. Rende esso possibile l’unità dell’esperienza, né trae nulla dalla ragione, la quale, senza questo riferimento a una esperienza possibile, non avrebbe potuto, da semplici concetti, imporre una tale unità sintetica. I n s e c o n d o l u o g o, la ragione ricerca nel suo uso logico la condizione generale del suo giudizio (sillogismo), e lo stesso sillogismo non è altro che un giudizio mediante la sussunzione della sua condizione sotto una regola generale (premessa maggiore). Ora, poiché questa regola, a sua volta, è assoggettata esattamente alla stessa ricerca della ragione, e poiché deve pertanto cercarsi la condizione della condizione (mediante un prosillogismo), finché ciò è possibile, così si vede bene che il principio proprio della ragione in generale (nel suo uso logico) è: trovare per la conoscenza condizionata dell’intelletto quell’incondizionato, con cui è compiuta l’unità di esso intelletto. Ma questa massima logica non può altrimenti diventare principio della r a g i o n p u r a , che ove si ammetta che, se è dato il condizionato, è anche

data (cioè contenuta nell’oggetto e nella sua connessione) tutta la serie delle condizioni l’una all’altra subordinate; serie, quindi, che è essa stessa incondizionata. Ma un tal principio della ragion pura evidentemente è s i n t e t i c o ; perocché il condizionato, veramente, si riferisce analiticamente a una qualche condizione, ma non all’incondizionato. Da esso devono altresì derivare diverse proposizioni sintetiche, di cui l’intelletto puro non sa nulla, come quello che non ha da fare se non con oggetti di un’esperienza possibile, la cui conoscenza e sintesi è sempre condizionata. L’incondizionato, per altro, se ha realmente luogo, può essere particolarmente esaminato secondo tutte le determinazioni, che lo distinguono da ogni condizionato, e deve quindi dare materia a parecchie proposizioni sintetiche a priori. I princìpi derivanti da questo principio supremo della ragion pura saranno però, rispetto a tutti i fenomeni, t r a s c e n d e n t i ; cioè di questo principio non potrà mai farsi un uso empirico ad esso adeguato. Esso dunque è interamente distinto da tutti i princìpi dell’intelletto (il cui uso è pienamente i m m a n e n t e , avendo essi per loro tema soltanto la possibilità dell’esperienza). Ora, se quel principio, che la serie delle condizioni (nella sintesi dei fenomeni, o anche del pensiero delle cose in generale) si spinga fino all’incondizionato, abbia o no la sua esattezza oggettiva; quali conseguenze ne provengano all’uso empirico dell’intelletto; o se piuttosto non ci sia punto una simile proposizione razionale oggettivamente valevole, ma soltanto una semplice prescrizione logica di avvicinarsi, ascendendo a condizioni sempre più alte, alla compiutezza di esse, e di portare così la più alta unità razionale per noi possibile nella nostra conoscenza; se, dico, questo bisogno della ragione sia stato per un equivoco ritenuto per un principio trascendentale della ragion pura, il quale postuli, precipitatamente, una siffatta compiutezza della serie delle condizioni negli oggetti stessi; e, in questo caso, che cosa possa essersi insinuato per false interpretazioni ed abbagli nei sillogismi, la cui premessa maggiore è stata presa dalla ragion pura (e che forse è più una petizione che un postulato), e che dall’esperienza risalgono alle sue condizioni, tutto ciò sarà argomento della nostra ricerca nella Dialettica trascendentale, che ora intendiamo di svolgere dalle sue fonti, che sono profondamente celate dentro alla ragione umana. La divideremo in due parti principali, di cui la prima tratterà dei c o n c e t t i t r a s c e n d e n t i della ragion pura, la s e c o n d a d e i s i l l o g i s m i trascendenti e

d i a l e t t i c i della medesima. 179

Schein; lo stesso che illusione, come K. dirà pure qualche volta. Erscheinung und Schein. 181 Prima edizione «il principio soggettivo». 182 La sensibilità, sottoposta all’intelletto, come l’oggetto a cui questo applica la sua funzione, è la fonte delle conoscenze reali. Ma essa stessa, per l’appunto, in quanto influisce sull’atto stesso dell’intelletto e lo determina al giudicare, è il principio dell’errore (N. d. K.). 183 Ossia: della sensibilità sull’intelletto. 184 Dei concetti dell’intelletto. 180

Libro Primo Dei concetti della ragion pura

Checché ne sia della possibilità dei concetti ricavati dalla ragion pura, essi di certo non sono semplici concetti riflessi, ma dedotti. I concetti dell’intelletto sono anche pensati a priori, prima dell’esperienza e in servizio dell’esperienza; ma essi non contengono se non l’unità della riflessione sui fenomeni, in quanto questi devono necessariamente appartenere a una possibile coscienza empirica. Soltanto per essi vien resa possibile la conoscenza e la determinazione di un oggetto. Essi dunque forniscono primieramente la materia di ogni inferenza, e innanzi ad essi non v’ha concetti a priori di oggetti, da cui essi possano essere dedotti. La loro realtà oggettiva si fonda invece unicamente sul fatto, che, dal momento che essi costituiscono la forma intellettuale di ogni esperienza, deve sempre potersene additare l’applicazione nell’esperienza. Ma la denominazione di concetto razionale dimostra già fin da principio, che questo non vuol essere limitato dentro l’esperienza, poiché esso concerne una conoscenza, di cui ogni conoscenza empirica (e forse la totalità dell’esperienza possibile o della sua sintesi empirica) è soltanto una parte, e alla quale poi invero non c’è esperienza reale che si adegui mai pienamente, benché tuttavia vi appartenga. I concetti della ragione servono a c o m p r e n d e r e 185, come i concetti dell’intelletto a i n t e n d e r e (le percezioni). Se essi contengono l’incondizionato, riguardano qualcosa, sotto cui sta ogni esperienza, ma che per se stesso non è mai oggetto dell’esperienza; qualcosa, a cui la ragione conduce nelle sue conclusioni dall’esperienza, e secondo cui essa giudica e misura il grado del suo empirico, ma che non costituisce mai un membro della sintesi empirica. Se, malgrado ciò, questi concetti hanno valore oggettivo, possono dirsi conceptus ratiocinati (concetti esattamente dedotti); se no, essi si introducono surrettiziamente con un’apparenza almeno di deduzione, e possono essere

detti conceptus ratiocinantes (concetti sofistici). Ma poiché questo può chiarirsi soltanto nel capitolo dei raziocinii dialettici della ragion pura, non possiamo ancora occuparcene; pure, in via preliminare, come abbiamo chiamato categorie i concetti puri dell’intelletto, indicheremo con un nuovo nome i concetti della ragion pura, e li denomineremo idee trascendentali; ma ora spiegheremo e giustificheremo tale denominazione.

Sezione Prima DELLE IDEE IN GENERALE Pur nella grande ricchezza delle nostre lingue, il pensatore si trova spesso in imbarazzo nella ricerca d’una espressione che risponda esattamente al suo concetto; e, in mancanza di questa, non gli riesce di farsi intendere bene né dagli altri e né anche da se medesimo. Coniare nuovi termini è come una pretesa di dettar leggi nella lingua; pretesa, la quale riesce di rado; e, prima di ricorrere a questo mezzo disperato, è prudente cercar di vedere in una lingua morta e dotta se già in essa non si trovi cotesto concetto insieme con la sua espressione appropriata; e, quand’anche l’antico uso di essa fosse divenuto, per malaccortezza dei suoi creatori, alquanto ondeggiante, è sempre meglio raffermare il significato che originariamente le era proprio (avesse anche a restar dubbio, se allora proprio quello si avesse proprio esattamente in mente), che perder tutto col solo rendersi inintelligibili. Pertanto, se per un certo concetto si trova soltanto un termine unico, che nel significato già in corso risponda esattamente a questo concetto, la cui distinzione da altri concetti affini è di grande importanza, non è opportuno esserne prodigo, o adoperarlo a mo’ di sinonimo in luogo di altri, tanto per amore di varietà; ma convien conservargli il suo significato peculiare, con ogni cura: perché altrimenti avviene facilmente che l’espressione non fermi più in modo particolare l’attenzione, anzi si smarrisca nella folla delle altre di significato assai diverso, e pertanto ne vada smarrito anche il pensiero, che soltanto la parola avrebbe potuto fissare. Platone si servì dell’espressione i d e a in modo, che si vede bene che per essa egli intendeva qualcosa che non soltanto non è ricavato mai dai sensi, ma sorpassa anche di gran lunga i concetti dell’intelletto, di cui si occupò Aristotile, in quanto che nell’esperienza non si incontra mai nulla che vi sia

adeguato. Le idee sono per lui gli archetipi delle cose stesse, e non semplici chiavi per le esperienze possibili, come le categorie. Secondo il suo pensiero, esse emanarono dalla ragione suprema, donde vennero partecipate alla ragione umana, la quale, per altro, non si trova più nel suo stato originario, ma deve a fatica richiamare le antiche idee, ora molto oscurate, per mezzo della reminiscenza (cioè la filosofia). Non entrerò qui in un’indagine letteraria, per stabilire il senso che il sublime filosofo annetteva a quella espressione. Noto soltanto, che non è niente insolito, tanto nella conversazione comune quanto negli scritti, mediante il confronto dei pensieri che un autore espone sul suo oggetto, intenderlo, magari, meglio che egli non intendesse se medesimo, in quanto egli non determinava abbastanza il suo concetto, e però talvolta parlava, o anche pensava, contrariamente alla sua propria intenzione. Platone osservò molto bene, che la nostra attività conoscitiva sente un bisogno ben più alto di compitare semplici fenomeni secondo un’unità sintetica, per poterli leggere come esperienza, e che la nostra ragione naturalmente s’innalza a conoscenze, che vanno troppo in là perché un qualunque oggetto, che l’esperienza può dare, possa mai adeguarvisi, ma che, ciò nondimeno, hanno la loro realtà, e non sono per nulla semplici chimere. Platone trovava segnatamente le sue idee in tutto ciò che è pratico186, che cioè si fonda sulla libertà; la quale, dal canto suo, sta tra le conoscenze, che sono un prodotto proprio della ragione. Chi volesse trarre dall’esperienza i concetti della virtù, chi (come molti hanno fatto realmente) volesse prendere come modello, per la fonte della conoscenza, ciò che, in ogni caso, può servire soltanto da esempio per una imperfetta spiegazione, farebbe della virtù un nome vano187 ed equivoco, variabile secondo i tempi e le circostanze, e non adoperabile come regola. Ciascuno, al contrario, vede che, ove gli sia proposto un uomo come modello di virtù, egli tuttavia ha sempre solo nella sua propria testa il vero originale, con cui paragona il preteso modello, e alla cui stregua soltanto l’apprezza. Or questo originale è l’idea della virtù, rispetto alla quale tutti i possibili oggetti dell’esperienza servono sì di esempi (prove della fattibilità, in certo grado, di quello che il concetto della ragione esige), ma non di archetipi. Il fatto che un uomo non agirà mai in un modo adeguato al contenuto dell’idea pura della virtù, non dimostra per nulla un che di chimerico in tale pensiero. Ogni giudizio sopra il valore o disvalore morale è infatti possibile soltanto mediante questa idea; e però essa sta

necessariamente a fondamento di ogni approssimazione alla perfezione morale, per quanto anche gli impedimenti, il cui grado non è determinabile, propri dell’umana natura, possano tenercene discosti. La R e p u b b l i c a p l a t o n i c a è diventata proverbiale come un preteso esempio, che salta agli occhi, di perfezione fantastica, che non può avere sua sede se non nel cervello del pensatore sfaccendato; e il Brucker trova ridicola l’affermazione del filosofo, che un principe non possa mai ben governare se non è a parte delle idee188. Se non che, si farebbe meglio ad insistere di più sopra questo pensiero e (dove il grand’uomo ci lascia senza il suo aiuto) metterlo in luce con nuove cure, anzi che metterlo da parte come inutile sotto il troppo misero e nocivo pretesto della sua inattuabilità. Una costituzione che miri a l l a m a g g i o r e l i b e r t à u m a n a secondo leggi, che facciano che la libertà di ciascuno possa coesistere con quella degli a l t r i (non della maggior felicità, perché questa già ne seguirà da sé), è pure per lo meno un’idea necessaria, che deve essere a fondamento non solo del primo disegno d’una costituzione politica, ma di tutte le leggi, e in cui si deve, da principio, astrarre dagli ostacoli presenti, che probabilmente non derivano inevitabilmente dalla natura umana, quanto piuttosto dall’inosservanza delle idee vere in materia di legislazione. Niente infatti può trovarsi di più dannoso e di più indegno in un filosofo, che quel triviale appello a una presunta esperienza contraria, che per altro non sarebbe punto esistita, se a tempo opportuno si fossero stabilite quelle istituzioni secondo le idee e se, in luogo di queste, concetti, rozzi appunto perché presi dall’esperienza, non avessero frustrato ogni buona intenzione. Quanto più la legislazione e il governo fossero ordinati in accordo a tale idea, tanto più rare sarebbero le pene; ed è perfettamente ragionevole pensare che (come Platone asserisce) in un ordinamento perfetto di quelli, le pene non sarebbero più necessarie. Ora, sebbene quest’ultimo caso non possa mai aver luogo, nondimeno è interamente esatta l’idea, che pone questo maximum come archetipo, affinché alla sua stregua la costituzione legale degli uomini venga sempre più avvicinata alla maggiore perfezione possibile. Giacché quale sia per essere il grado supremo, a cui l’umanità debba arrestarsi, e quanto grande, quindi, il distacco che necessariamente rimanga tra l’idea e la sua attuazione, nessuno può o deve determinarlo, appunto perché si tratta di libertà, che può superare ogni limite che le si voglia assegnare. Ma non soltanto in ciò, in cui la ragione umana dimostra una vera

causalità, e in cui le idee diventano cause efficienti (delle azioni e dei loro oggetti), ossia nel campo morale, sibbene anche rispetto alla stessa natura Platone vede a ragione manifeste prove della sua origine da idee. Un vegetale, un animale, l’ordinamento regolare dell’universo (presumibilmente, dunque, anche l’ordine intero della natura) mostrano chiaro che non sono possibili se non secondo idee; che, certo, nessuna creatura singola, nelle condizioni individuali della sua esistenza, si adegua all’idea dell’essere più perfetto della sua specie (come non si adegua l’uomo all’idea dell’umanità, che egli stesso pur reca nell’anima sua, come archetipo delle sue azioni); che, nondimeno, coteste idee nell’intelletto supremo stanno ognuna di per sé, immutabilmente e interamente determinate, e sono le cause originarie delle cose; e che soltanto la totalità del nesso di queste nell’universo è adeguata a quella idea. Se si toglie quello che v’è di esagerato nell’espressione, lo slancio spirituale del filosofo per sollevarsi dall’osservazione della copia nell’ordine fisico dell’universo al suo sistema architettonico secondo scopi, cioè secondo idee, è uno sforzo che merita di essere rispettato e imitato; ma rispetto a ciò che concerne i princìpi della moralità, della legislazione e della religione, in cui le idee, prima di tutto, rendono possibile la stessa esperienza (del bene), comecché non vi possano trovare una piena espressione, egli è un merito al tutto peculiare, che non si riconosce soltanto perché lo si giudica per l’appunto per mezzo di regole empiriche, la validità delle quali come princìpi ha dovuto esser distrutta appunto da esse idee. Quanto alla natura, infatti, l’esperienza ci fornisce la regola ed è la fonte della verità; ma rispetto alle leggi morali l’esperienza (ahimé) è la madre dell’apparenza, e niente è più da riprovare che voler determinare o limitare la legge di quel che i o d e v o f a r e guardando quel che s i fa . Invece di tutte queste considerazioni, il cui conveniente sviluppo forma nel fatto il vero titolo della filosofia, noi ora ci dobbiamo occupare di un lavoro non così brillante, ma né anche tuttavia privo del suo pregio: di spianare cioè, e rassodare, per quel maestoso edifizio morale, il terreno in cui si trovano ogni sorta di gallerie di talpa fattevi da una ragione che scavava inutilmente, ma con buona intenzione, alla ricerca di non si sa quali tesori; gallerie, che compromettono la sicurezza di quell’edifizio. L’uso trascendentale della ragion pura, i suoi princìpi e le sue idee son ciò che ora ci spetta di conoscere con esattezza, per poter convenientemente determinare e apprezzare l’influsso della ragion pura e il valore della medesima. Tuttavia,

prima di lasciare questa introduzione preliminare, io prego coloro ai quali sta a cuore la filosofia (ciò che si dice più che comunemente non avvenga), che, se dovessero trovarsi convinti di questo e di quel che segue, prendano sotto il loro patrocinio l’espressione idea nel suo significato originario acciò d’ora innanzi essa non vada confusa tra le altre espressioni, con cui comunemente si designa ogni sorta di rappresentazione, in un negligente disordine, e non ne venga a scapitare la scienza. Non ci mancano di certo denominazioni, che siano convenientemente appropriate a ciascuna specie di rappresentazione, senza dovere a forza usurpare il dominio di un’altra. Ecco qui la scala dei gradi di esse. Il genere è la r a p p r e s e n t a z i o n e in generale (repraesentatio); sotto ad esso sta la rappresentazione con coscienza (perceptio). Una p e r c e z i o n e , che si riferisca unicamente al soggetto, come modificazione del suo stato, è s e n s a z i o n e (sensatio); una percezione oggettiva è c o n o s c e n z a (cognitio). Questa è o un’i n t u i z i o n e , o un c o n c e t t o (intuitus vel conceptus). Quella si riferisce immediatamente all’oggetto ed è singolare; questo mediatamente, per mezzo di una nota, che può esser comune a più cose. Il concetto o è c o n c e t t o e m p i r i c o o p u r o ; e il concetto puro, in quanto ha la sua origine unicamente nell’intelletto (non nella immagine pura della sensibilità), dicesi notio. Un concetto derivante da nozioni, che sorpassi la possibilità dell’esperienza, è l’i d e a o concetto razionale. A chi si sia abituato una volta a questa distinzione, deve riuscir intollerabile sentir dire idea la rappresentazione del color rosso. Essa non può dirsi nemmeno nozione (concetto intellettuale).

Sezione Seconda DELLE IDEE TRASCENDENTALI L’Analitica trascendentale ci diede un esempio del come la semplice forma logica della nostra conoscenza possa contenere l’origine di concetti puri a priori, che rappresentano oggetti innanzi a ogni esperienza, o piuttosto denotano la unità sintetica, che sola rende possibile una conoscenza empirica di oggetti. La forma dei giudizi (trasformata in concetto della sintesi delle intuizioni) produsse le categorie, che guidano nella esperienza ogni uso dell’intelletto. Parimenti, possiamo aspettarci che la forma dei raziocinii, se si applica all’unità sintetica delle intuizioni giusta la regola delle categorie,

conterrà l’origine di particolari concetti a priori, che possiamo denominare concetti puri della ragione, o i d e e t r a s c e n d e n t a l i, e che determineranno secondo princìpi l’uso dell’intelletto nel complesso dell’intera esperienza. La funzione della ragione nelle sue interferenze consiste nell’universalità della conoscenza per concetti, e lo stesso raziocinio è un giudizio determinato a priori in tutto l’àmbito della sua condizione. La proposizione: «Gaio è mortale», io potrei anche ricavarla semplicemente dall’esperienza per mezzo dell’intelletto. Se non che, io cerco un concetto, che contenga la condizione sotto la quale è dato il predicato (l’asserzione in generale) di questo giudizio (cioè, qui, il concetto dell’uomo); e dopo averlo sussunto sotto questa condizione, presa in tutta la sua estensione (tutti gli uomini sono mortali), io vengo quindi a determinare la conoscenza del mio oggetto (Caio è mortale). Nella conclusione, pertanto, di un raziocinio, non restringiamo un predicato a un certo oggetto, dopo averlo prima, nella premessa maggiore, pensato in tutta la sua estensione sotto una certa condizione. Questa quantità intera dell’estensione in relazione a una tale condizione si dice l’u n i v e r s a l i t à (universalitas). Ad essa corrisponde, nella sintesi delle intuizioni, la t o t a l i t à 189 (universitas) delle condizioni. Dunque, il concetto trascendentale della ragione non è altro che il concetto della t o t a l i t à d e l l e c o n d i z i o n i per un dato condizionato. Ora, poiché soltanto l’i n c o n d i z i o n a t o rende possibile la totalità delle condizioni, e viceversa la totalità delle condizioni è sempre a sua volta incondizionata, un concetto razionale puro in generale può definirsi come il concetto dell’incondizionato, in quanto contiene un principio della sintesi del condizionato. Ora, quante sono le specie di relazione che si rappresenta l’intelletto mediante la categorie, altrettanti anche saranno i concetti puri della ragione: si dovrà quindi cercare: 1) un i n c o n d i z i o n a t o della sintesi c a t e g o r i c a in un s o g g e t t o , 2) della sintesi i p o t e t i c a dei membri d’una s e r i e , 3) della sintesi d i s g i u n t i v a delle parti in un s i s t e m a . Vi sono infatti altrettante specie di sillogismi, ciascuno dei quali, per mezzo di prosillogismi, mette capo all’incondizionato; l’una al soggetto, che non è più a sua volta predicato; l’altra al presupposto che non presuppone più altro; e la terza a un aggregato dei membri della divisione, al quale non occorre aggiunger altro per completare la divisione di un concetto. Quindi i concetti razionali puri della totalità nella sintesi delle condizioni sono necessari per lo meno come problemi per spingere l’unità dell’intelletto, se

possibile, fino all’incondizionato, e sono fondati nella natura della ragione umana; quantunque, del rimanente, questi concetti trascendentali possano non avere in concreto un uso ad essi adeguato, e non avere perciò altra utilità se non di mettere l’intelletto per la direzione in cui il suo uso, mentre si estende più largo che sia possibile, vien tuttavia ad essere perfettamente d’accordo con se medesimo. Ma, parlando qui della totalità delle condizioni e dell’incondizionato, come di titolo comune a tutti i concetti razionali, noi ci imbattiamo di nuovo in una espressione, di cui non possiamo fare a meno, ma che non possiamo nemmeno usare sicuramente a cagione dell’equivoco significato che essa ha acquistato per lungo abuso. La parola a s s o l u t o è una di quelle poche parole, che nel loro significato originario erano appropriate a un concetto, al quale nessun’altra parola della stessa lingua s’adatta precisamente, e la cui perdita, o, che è lo stesso, il cui uso ondeggiante non può quindi non cagionare anche la perdita dello stesso concetto; e di un concetto il quale, poiché occupa tanto la ragione, non può venire a mancare senza grave inconveniente per tutti i giudizi190 trascendentali. La parola a s s o l u t o oggi viene spesso usata per dire semplicemente che qualcosa vale di una cosa considerata in s e s t e s s a ed ha quindi un valore intrinseco. In questo senso «a s s o l u t a m e n t e p o s s i b i l e» significherebbe quello che è possibile in se stesso (interne), e che nel fatto è il m e n o che di un oggetto si possa dire. Al contrario, talvolta è anche adoperato per esprimere che qualcosa vale sotto ogni rapporto (illimitatamente), (per es., il potere assoluto); e a s s o l u t a m e n t e p o s s i b i l e in quest’altro significato sarebbe ciò che è p o s s i b i l e sotto ogni aspetto, s o t t o o g n i r a p p o r t o; che è, per contro il più che si possa dire della possibilità d’una cosa. Ora questi due significati si trovano bensì qualche volta insieme. Per es., ciò che intrinsecamente è impossibile, è anche sotto ogni rapporto, quindi assolutamente, impossibile. Ma, nel maggior numero dei casi, sono infinitamente lontani l’uno dall’altro; e dal fatto che qualcosa in se stesso è possibile io non posso in modo alcuno inferire che perciò sia possibile anche sotto ogni rapporto, e quindi assolutamente. Anzi, quanto alla necessità assoluta io dimostrerò in seguito, che essa non dipende punto in tutti i casi dalla necessità interna, e che però non è lecito considerarla come sinonimo di questa. Una cosa, il cui contrario è intrinsecamente impossibile, è cosa il cui contrario è di certo impossibile sotto ogni rapporto, e quindi essa stessa assolutamente necessaria; ma io non

posso reciprocamente da ciò che è assolutamente necessario inferire l’i n t r i n s e c a impossibilità del suo contrario, che cioè la necessità a s s o l u t a delle cose sia una necessità intrinseca; giacché in certi casi questa necessità interna è un’espressione affatto vuota, alla quale non possiamo unire il menomo concetto; laddove il concetto della necessità d’una cosa sotto tutti i rapporti (per tutto il possibile) reca in sé determinazioni al tutto particolari. Ora, poiché la perdita di un concetto di grande applicazione nella filosofia speculativa non può essere mai indifferente al filosofo, io spero che non gli riuscirà neppure indifferente la determinazione e la conservazione accurata dell’espressione, a cui il concetto è legato. Io dunque mi servirò della parola a s s o l u t o in questo significato più ampio, e l’opporrò a quello, che ha solo un valore relativo o sotto uno speciale riguardo, in quanto questo è ristretto a certe condizioni, e quello invece vale senza restrizione. Ora il concetto razionale trascendentale non si riferisce mai se non alla totalità assoluta nella sintesi delle condizioni, e non finisce se non nell’incondizionato assolutamente o sotto ogni rapporto. La ragion pura infatti abbandona tutto l’intelletto, che si riferisce immediatamente agli oggetti dell’intuizione, o piuttosto alla loro sintesi dell’immaginazione. E si riserva soltanto la totalità assoluta nell’uso dei concetti dell’intelletto, e cerca di portare l’unità sintetica, che è pensata nella categoria, fino all’assolutamente incondizionato. Si può quindi dire, questa u n i t à r a z i o n a l e dei fenomeni, e u n i t à i n t e l l e t t u a l e quella che esprime la categoria. La ragione adunque si riferisce solamente all’uso dell’intelletto, e non in quanto questo contiene il principio dell’esperienza possibile (giacché la totalità assoluta delle condizioni non è un concetto adoperabile in un’esperienza, poiché nessuna esperienza è incondizionata), ma per prescrivergli la direzione verso una certa unità, di cui l’intelletto non ha nessun concetto, ma che mira a comporre tutti gli atti dell’intelletto concernenti ciascun oggetto in un t u t t o a s s o l u t o. Pertanto l’uso oggettivo dei concetti razionali puri è sempre trascendente, laddove quello dei concetti intellettuali puri, giusta la sua natura, deve essere sempre immanente, limitandosi semplicemente all’esperienza possibile. Intendo per idea un concetto necessario della ragione, al quale non è dato trovare un oggetto adeguato nei sensi. I nostri concetti puri razionali ora esaminati son dunque i d e e t r a s c e n d e n t a l i. Essi son concetti della

ragion pura; considerano infatti ogni conoscenza sperimentale come determinata da una totalità assoluta di condizioni. Non sono escogitati ad arbitrio, ma dati dalla natura della stessa ragione, e si riferiscono quindi necessariamente all’uso intero dell’intelletto. Essi infine sono trascendenti e sorpassano i limiti di ogni esperienza, nella quale perciò non può presentarsi un oggetto che sia adeguato all’idea trascendentale. Quando si dice idea, si dice molto quanto all’oggetto (come oggetto dell’intelletto puro), ma molto poco quanto al soggetto (cioè rispetto alla sua realtà sotto una condizione empirica); proprio perché essa, come concetto del maximum, non può in concreto esser data mai in modo adeguato. Ora, poiché è proprio questo nel semplice uso speculativo della ragione tutto lo scopo, e l’approssimazione a un concetto, che poi all’atto pratico non può tuttavia esser mai raggiunto, è come mancare in tutto e per tutto di cogliere il concetto, accade che, di un concetto di questa fatta, si dica: n o n è s e n o n u n ’ i d e a. Così si potrebbe dire: il tutto assoluto di tutti i fenomeni n o n è s e n o n u n ’i d e a ; poiché infatti non possiamo mai adombrarlo in un’immagine, esso rimane un p r o b l e m a senza soluzione. Al contrario, poiché nell’uso pratico dell’intelletto si ha da fare soltanto con una esecuzione secondo regole, l’idea della ragion pratica può sempre esser data realmente, se anche solo parzialmente in concreto, anzi essa è la condizione indispensabile di ogni uso pratico della ragione. La sua attuazione è bensì limitata sempre e difettosa, ma dentro limiti non determinabili, e però sotto l’influsso del concetto di una perfezione assoluta. Ond’è che l’idea pratica è sempre altamente feconda e, rispetto alle azioni reali, impreteribilmente necessaria. In essa la ragion pura ha fin la causalità di recare in atto realmente ciò che il suo concetto contiene; e però della saggezza non si può, quasi per dispregio, dire: essa n o n è s e n o n u n ’ i d e a ; ma, appunto per ciò che essa è l’idea dell’unità necessaria di tutti gli scopi possibili, bisogna che essa serva di regola a tutto ciò che è pratico, a titolo di condizione originaria, almeno restrittiva. Ora, sebbene noi dei concetti trascendentali della ragione dobbiamo dire che n o n s o n o s e n o n i d e e, tuttavia non avremo in alcun modo a ritenerli superflui e nulli. Se infatti per mezzo di essi nessun oggetto può essere determinato, essi nondimeno possono in fondo, e quasi di nascosto, servire all’intelletto da canone nell’estendere e rendere coerente il suo uso; ond’esso bensì non conosce alcun oggetto più che non lo conoscerebbe coi suoi concetti, ma in questa stessa conoscenza è diretto meglio, e più in là. Per

tacere che, probabilmente, esse possono renderci possibile un passaggio dai concetti della natura a quelli morali, e procurare in tal modo alle idee morali stesse una specie di sostegno e un nesso con le conoscenze speculative della ragione. Su tutto ciò occorre attendere la spiegazione in quel che segue. Ma, conformemente al nostro scopo, lasciamo qui da parte le idee pratiche, e consideriamo quindi la ragione soltanto nel suo uso speculativo, e, più strettamente ancora, solo in quello trascendentale. Qui ora ci tocca di battere la stessa via che prendemmo sopra, nella deduzione delle categorie: esaminare cioè la forma logica della conoscenza razionale, e vedere se mai così la ragione non divenga anche una fonte di concetti per riguardare gli oggetti in sé come determinati sinteticamente a priori rispetto ad una o ad un’altra funzione della ragione. La ragione, considerata come facoltà di una certa forma logica della conoscenza, è la facoltà di dedurre, cioè di giudicare mediatamente (mediante la sussunzione della condizione di un giudizio possibile sotto la condizione di un giudizio dato). Il giudizio dato è la regola universale (premessa maggiore, major). La sussunzione della condizione d’un altro giudizio possibile sotto la condizione della regola è la premessa minore (minor). Il giudizio reale, che enuncia l’asserzione della regola n e l c a s o s u s s u n t o , è la conseguenza (conclusio). La regola, cioè, esprime qualche cosa di universale in una certa condizione. Ora, la condizione della regola ha luogo in un caso che ci sta innanzi. Ciò dunque che in quella condizione valeva universalmente, è da ritenersi valido anche nel caso presente (che porta in sé questa condizione). Si vede agevolmente, che la ragione giunge a una conoscenza attraverso atti dell’intelletto, che costituiscono una serie di condizioni. Se io non arrivo alla proposizione: «tutti i corpi sono mutevoli», se non movendo dalla conoscenza più remota (in cui non c’è ancora il concetto di corpo, ma che ne contiene nondimeno la condizione): «ogni composto è mutevole»; e da questa passo a un’altra più prossima, che sta nella condizione della prima: «i corpi sono composti»; e da questa ancora a una terza, che unisce oramai la conoscenza remota (mutevole) con la presente: «dunque, i corpi sono mutevoli»; io sono giunto a una conoscenza (conclusione) attraverso una serie di condizioni (premesse). Ora, ogni serie, di cui è dato l’esponente (del giudizio categorico o ipotetico), si può continuare; e però l’operazione stessa della ragione conduce alla ratiocinatio polysyllogistica, che è una serie di sillogismi, la quale può essere continuata per una lunghezza indefinita, o dalla parte delle

condizioni (per prosyllogismos) o da quella del condizionato (per episyllogismos). Ma si scorge subito, che la catena o serie dei prosillogismi, ossia delle conoscenze proseguite dalla parte dei princìpi o delle condizioni di una conoscenza data, in altre parole: la s e r i e a s c e n d e n t e dei sillogismi si deve comportare verso la facoltà della ragione altrimenti che la s e r i e d i s c e n d e n t e , ossia la progressione della ragione dalla parte del condizionato per episillogismi. Infatti, poiché nel primo caso la conoscenza (conclusio) non è data se non come condizionata, non si può giungere ad essa per mezzo della ragione altrimenti che nel presupposto, almeno, che sian dati dalla parte delle condizioni tutti i membri della serie (totalità nella serie delle premesse), giacché soltanto in questo presupposto il giudizio di cui si tratta è possibile a priori; al contrario, dalla parte del condizionato o delle conseguenze, non si concepisce se non una serie i n d i ve n i r e , e non già una s e r i e t u t t a presupposta o data, e però solo un processo potenziale. Se pertanto una conoscenza si considera come condizionata, la ragione è costretta a riguardare la serie delle condizioni in linea ascendente come completa e data nella sua totalità. Ma, se questa stessa conoscenza viene intanto considerata come condizione di altre conoscenze, che, l’una sotto l’altra, costituiscono una serie di conseguenze in linea discendente, allora alla ragione può essere del tutto indifferente quanto questo processo si estenda a parte posteriori, e persino se la totalità di questa serie sia possibile; giacché essa non ha bisogno di una serie tale per la conclusione che ha innanzi a sé, essendo questa già sufficientemente determinata e assicurata in forza dei suoi princìpi a parte priori. Ora, può darsi che dalla parte delle condizioni la serie delle premesse abbia un P r i m o come condizione suprema, e può darsi che no, e però a parte priori sia senza limiti; in ogni caso essa deve sempre contenere la totalità delle condizioni, anche ammesso che noi non si possa giunger mai ad abbracciarla, e la serie intera deve esser vera incondizionatamente, se il condizionato, che si considera come una conseguenza da essa derivante, deve valere per vero. È questa una esigenza della ragione, che presenta la sua conoscenza come determinata a priori e necessaria, o in se stessa, e allora non ha bisogno di alcun principio, o, se derivata, come membro d’una serie di princìpi, che alla sua volta è vera in modo incondizionato.

Sezione Terza SISTEMA DELLE IDEE TRASCENDENTALI Qui noi non abbiamo da fare con una dialettica logica, che astrae da ogni contenuto della conoscenza e scopre unicamente la falsa apparenza nella forma di un raziocinio; ma con una dialettica trascendentale, che deve del tutto a priori contenere l’origine di certe conoscenze provenienti dalla ragion pura e di concetti dedotti, il cui oggetto non può esser dato punto empiricamente, e che pertanto sono affatto fuori della facoltà dell’intelletto puro. Dalla relazione naturale, che l’uso trascendentale della nostra conoscenza, così nei sillogismi come nei giudizi, deve avere con l’uso logico, noi abbiamo concluso, che non si danno se non tre specie di sillogismi dialettici, che si riferiscono alla triplice specie di sillogismi, onde la ragione, movendo da princìpi, può arrivare a conoscenze, e che ogni volta l’ufficio loro è di salire dalla sintesi condizionata, a cui l’intelletto resta sempre legato, a una sintesi incondizionata, che esso non può mai raggiungere. Ora, quel che c’è di universale in tutte le relazioni, che possono avere le nostre rappresentazioni, è: 1) la relazione al soggetto, 2) la relazione agli oggetti, e agli oggetti o come fenomeni o come termini del pensiero in generale. Se si collega questa suddivisione con la precedente, ogni relazione di rappresentazioni, di cui noi possiamo formarci o un concetto o un’idea, è triplice: 1) relazione al soggetto, 2) relazione al molteplice dell’oggetto fenomenico, 3) a tutte le cose in generale. Ora, tutti i concetti puri in generale hanno che fare con l’unità sintetica delle rappresentazioni, ma i concetti della ragion pura (idee trascendentali) con l’unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale. Per conseguenza, tutte le idee trascendentali si possono ridurre sotto tre classi, di cui la p r i m a comprende l’assoluta (incondizionata) u n i t à d e l s o g g e t t o p e n s a n t e , la s e c o n d a l’assoluta u n i t à d e l l a s e r i e d e l l e c o n d i z i o n i d e l f e n o m e n o, la t e r z a l’assoluta u n i t à d e l l a c o n d i z i o n e d i t u t t i g l i o g g e t t i d e l p e n s i e r o in generale. Il soggetto pensante, è l’oggetto della P s i c o l o g i a ; il complesso di tutti i fenomeni (il mondo) l’oggetto della C o s m o l o g i a ; e la cosa, che contiene la condizione suprema della possibilità di tutto ciò che può esser pensato (l’essere di tutti gli esseri), l’oggetto della Te o l o g i a . La ragion pura

dunque fornisce l’idea per una dottrina trascendentale dell’anima (psychologia rationalis), per una scienza trascendentale del mondo (cosmologia rationalis), e, infine, anche per una conoscenza trascendentale di Dio (theologia trascendentalis). Perfino il semplice disegno di uno o dell’altra di queste scienze non proviene punto dall’intelletto, quand’anche esso si unisse al più elevato uso logico della ragione, ossia a tutti i raziocinii immaginabili per spingersi da uno dei suoi oggetti (fenomeno) a tutti gli altri, fino ai membri più remoti della sintesi empirica; ma è unicamente un puro e schietto prodotto o problema della ragion pura. Nel capitolo seguente sarà esposto esaurientemente quanti modi dei concetti razionali puri stanno sotto questi tre titoli di tutte le idee trascendentali. Essi seguono il filo conduttore delle categorie. Infatti, la ragion pura non si riferisce mai direttamente agli oggetti, ma ai concetti intellettuali dei medesimi. Così soltanto nella trattazione completa si può chiarire anche come la ragione, per mezzo dell’uso sintetico, appunto, della stessa funzione di cui essa si serve pel sillogismo categorico, è destinata a pervenire necessariamente al concetto dell’unità assoluta del s o g g e t t o p e n s a n t e ; come il procedimento logico usato nei sillogismi ipotetici deve trarsi dietro necessariamente l’idea dell’assolutamente incondizionato in una serie di condizioni date; e, infine, la semplice forma del sillogismo disgiuntivo, a sua volta, il più alto concetto razionale di una essenza di tutte le essenze; pensiero, che a prima vista pare straordinariamente paradossale. Di queste idee trascendentali propriamente non è possibile una d e d u z i o n e o g g e t t i v a, come quella che noi potemmo fornire delle categorie. Perché in realtà esse non hanno nessuna relazione con un oggetto qualunque ad esse adeguato, che possa esser dato, appunto perché esse non sono se non idee. Ma una deduzione soggettiva di esse dalla natura della nostra ragione noi potevamo bensì intraprenderla, ed è quella che è stata anche fatta in questo capitolo. Facilmente si vede che la ragion pura non ha altro scopo che la totalità assoluta della sintesi dalla p a r t e d e l l e c o n d i z i o n i (o di inerenza o di dipendenza o di concorrenza), e che non ha che fare con la compiutezza assoluta dalla p a r t e d e l c o n d i z i o n a t o. Infatti, ha bisogno solo di quella, per presupporre la serie intera delle condizioni e per darla quindi a priori all’intelletto. Ma, se una condizione è data compiutamente (e incondizionatamente), non c’è più bisogno di un concetto razionale rispetto

alla continuazione della serie; giacché l’intelletto fa ciascun passo in giù, dalla condizione al c o n d i z i o n a t o , per se stesso. Sicché le idee trascendentali servono solo a salire nella serie delle condizioni fino all’incondizionato, ossia ai princìpi. Ma, quanto al discendere al c o n d i z i o n a t o , vi ha bensì un uso logico largamente esteso, che la nostra ragione fa delle leggi dell’intelletto, ma non un uso trascendentale; e se noi ci facciamo un’idea della totalità assoluta d’una tale sintesi (del progressus), per es. della serie intera di tutti i cangiamenti f u t u r i del mondo, questo è un ente di ragione (ens rationis), che non è pensato se non arbitrariamente, e non è presupposto dalla ragione necessariamente. Infatti, per la possibilità del condizionato si presuppone bensì la t o t a l i t à delle sue condizioni, ma non già delle sue conseguenze. Un tal concetto, dunque, non è una di quelle idee trascendentali, di cui dobbiamo unicamente occuparci. Infine, si scorge anche, che tra le stesse idee trascendentali si manifesta una certa connessione e unità, e che la ragion pura mercé di esse riduce tutte le conoscenze in un sistema. Procedere dalla conoscenza di se stesso (dell’anima), alla conoscenza del mondo, e attraverso di questa all’Ente supremo, è un processo così naturale, che pare simile al progresso logico della ragione dalle premesse alle conseguenze191. Ora, se a fondamento di ciò si celi realmente un’affinità del genere di quella tra progresso logico e progresso trascendentale, è una delle questioni, la cui soluzione bisogna attendere dal seguito di queste ricerche. Noi abbiamo preliminarmente ottenuto già il nostro scopo, poiché quei concetti trascendentali della ragione, che ordinariamente, nelle teorie dei filosofi, si mescolano fra gli altri concetti, senza che costoro li distinguano mai convenientemente dai concetti intellettuali, noi li abbiamo sottratti alla loro ambigua posizione, ne abbiamo assegnato l’origine e quindi insieme il numero determinato, oltre il quale non ve ne può essere uno di più, e li abbiamo potuti rappresentare in una connessione sistematica, onde vien segnato e limitato un campo particolare per la ragion pura. 185

C o n c e t t o in ted. Begriff da begreifen, comprendere, abbracciare; come intelletto, Verstand, ha la stessa radice di verstehen, intendere. 186 Egli certamente estese il suo concetto anche alle conoscenze speculative, quando esse fossero soltanto pure e date completamente a priori, e perfino alla matematica, sebbene questa non abbia il suo oggetto altrove che nell’esperienza possibile. Ora in ciò io non posso seguirlo, come non posso seguirlo nella deduzione mistica di queste idee, o nelle esagerazioni, onde egli in certo modo le ipostatizzava, per quanto il linguaggio alto, di cui ci si serviva in questo campo, si presti

ad una interpretazione più moderata e proporzionata alla natura delle cose (N. d. K.). 187 Unding, non cosa, niente. 188 Vedi Brucker, Hist. crit. philos.2 (Lipsia, 1767), I, 726. 189 Allheit oder Totalität, che sono sinonimi. 190 Beurtheilung è propriamente l’atto del giudicare (giudicamento distinto dal giudizio che ne sarebbe l’effetto). 191 La metafisica ha lo scopo peculiare di indagare tre sole idee: D i o , la l i b e r t à e la i m m o r t a l i t à , in modo che il secondo concetto, unito col primo, deve condurre al terzo come conseguenza necessaria. Tutto il resto, di cui si occupa questa scienza, le serve soltanto di mezzo, per giungere a coteste idee e alla loro realtà. Essa non ne ha bisogno in servizio della scienza della natura, ma per andare al di là della natura. L’approfondirle, farebbe sì che, la t e o l o g i a , la m o r a l e e, per l’unione di entrambe, la r e l i g i o n e , quindi i fini supremi della nostra esistenza, dipendano semplicemente dal potere speculativo della ragione e da nient’altro. In una rappresentazione sistematica di quelle idee l’ordine già dato, come ordine s i n t e t i c o , sarebbe il più adatto; ma nella elaborazione, che deve di necessità precederle, l’ordine analitico, che è l’inverso del precedente, sarà più appropriato allo scopo di procedere da ciò che l’esperienza ci fornisce immediatamente, l a d o t t r i n a d e l l ’ a n i m a a l l a d o t t r i n a d e l m o n d o e fino quindi alla conoscenza di Dio, per eseguire il nostro grande disegno (N. d. K. nella seconda edizione).

Libro Secondo Dei raziocinii dialettici della ragion pura

Si può dire che l’oggetto di un’idea meramente trascendentale sia qualcosa, di cui non si ha un concetto, benché questa idea la ragione la produca affatto necessariamente secondo le sue leggi originarie. Giacché, in realtà, anche di un oggetto che deve essere adeguato alle esigenze della ragione, non è possibile un concetto intellettuale, che cioè possa essere mostrato e reso intuibile in una esperienza possibile. Tuttavia ci si esprimerebbe meglio, e con pericolo minore di esser fraintesi, se si dicesse che noi, dell’oggetto che corrisponde ad un’idea, non possiamo avere una conoscenza, sebbene se ne possa avere un concetto problematico. Ora la realtà trascendentale (soggettiva) dei concetti razionali puri riposa almeno su ciò, che noi siamo condotti a tali idee da un raziocinio necessario. Ci saranno dunque raziocinii, che non contengono nessuna premessa empirica, e mediante i quali da qualcosa, che conosciamo, inferiamo qualcos’altro, di cui pur non abbiamo nessun concetto, e al quale nondimeno per una inevitabile apparenza attribuiamo una realtà oggettiva. Raziocinii siffatti, rispetto al loro risultato, son dunque da dire s o f i s m i , anzi che sillogismi, quantunque per la loro origine possano anche portare l’ultimo nome, poiché essi non sorgono per finzione od a caso, ma derivano dalla natura della ragione. Sono sofisticazioni, non dell’uomo, bensì della stessa ragion pura, dalle quali il più savio degli uomini non può liberarsi, e magari a gran fatica potrà prevenire l’errore, ma senza sottrarsi mai all’apparenza che incessantemente lo insegue e si prende giuoco di lui. Di questi raziocinii dialettici ve ne ha dunque solo tre specie, tante quante sono le idee, alle quali fan capo le loro conclusioni. Nel raziocinio della p r i m a c l a s s e del concetto trascendentale del soggetto, che esclude ogni molteplicità, concludo all’assoluta unità di questo stesso soggetto, di cui, in questo modo, non ho alcuna specie di concetto. Questo raziocinio dialettico

io lo chiamerò p a r a l o g i s m o trascendentale. La s e c o n d a classe dei raziocinii sofistici si fonda sul concetto trascendentale dell’assoluta totalità della serie delle condizioni di un fenomeno dato in generale; e dal fatto che io posseggo sempre un concetto in se stesso contraddittorio dell’unità sintetica incondizionata della serie da una parte, inferisco la legittimità dell’unità dalla parte opposta, unità di cui neppure ho un concetto. Lo stato della ragione in questi raziocinii dialettici sarà da me denominato a n t i n o m i a della ragion pura. Infine, n e l l a t e r z a specie di raziocinii sofistici, della totalità delle condizioni per pensare oggetti in generale, in quanto essi mi posson esser dati, concludo all’unità sintetica assoluta di tutte le condizioni della possibilità delle cose in generale; ossia da cose, che io per il loro semplice concetto trascendentale non conosco, concludo a una essenza di tutte le essenze, che per mezzo di un concetto trascendentale192 conosco ancor meno, e della cui necessità incondizionata non posso farmi nessun concetto. Questo raziocinio dialettico chiamerò i d e a l e della ragion pura. 192

Nelle prime tre edizioni: «trascendente».

Capitolo Primo Dei paralogismi della ragion pura

Il paralogismo logico consiste nella falsità formale di un raziocinio, sia del resto qualsivoglia il suo contenuto. Ma un paralogismo trascendentale ha un fondamento trascendentale per concludere falsamente quanto alla forma. In tal modo un simile raziocinio erroneo avrà nella natura della ragion umana il suo fondamento, e recherà in sé una illusione inevitabile, benché non insolubile. Veniamo ora a un concetto, che sopra, nella lista generale dei concetti trascendentali, non è stato indicato, ma si deve tuttavia aggiungere al conto, senza perciò modificare menomamente e dare per difettosa quella tavola. Questo è il concetto; o, se si preferisce, il giudizio: «I o p e n s o». Ma è facile accorgersi, che esso è il veicolo di tutti i concetti in generale, e però anche dei concetti trascendentali, sicché è sempre compreso in questi, ed è quindi altrettanto trascendentale, ma non può avere alcun titolo particolare, poiché serve soltanto a presentare ogni pensiero come appartenente alla coscienza. Intanto, per quanto puro sia anche dall’elemento empirico (impressione dei sensi), ci serve sempre a distinguere due specie di oggetti secondo la natura della nostra facoltà rappresentativa. Io, come pensante, sono un oggetto del senso interno, e mi chiamo anima. Ciò che è oggetto del senso esterno, si dice corpo. Pertanto l’espressione Io, come essere pensante, designa già l’oggetto della psicologia; la quale può dirsi la dottrina razionale dell’anima, quando io dell’anima non voglia sapere più oltre di quanto, indipendentemente dall’esperienza (che mi determina più precisamente e in concreto), può essere dedotto da questo concetto dell’Io, in quanto presente in ogni pensiero. Ora la dottrina r a z i o n a l e dell’anima è realmente una impresa di questo genere; giacché, se il minimo elemento empirico del mio pensiero, se una qualunque percezione particolare del mio stato interno si mescolasse tra i fondamenti conoscitivi di questa scienza, essa non sarebbe più una dottrina

razionale, ma e m p i r i c a dell’anima. Noi ci troviamo, dunque, innanzi a una pretesa scienza, edificata sull’unica proposizione «I o p e n s o», il cui fondamento o non fondamento possiamo ora indagare con tutta opportunità e in conformità della natura d’una filosofia trascendentale. Non bisogna qui arrestarsi al fatto, che io pure in tale proposizione, che esprime la percezione di se stesso, ho una esperienza interna, e che quindi la psicologia razionale, che vi è sopra edificata, non è mai pura, ma fondata in parte su un principio empirico. Infatti, questa percezione interna non è altro che la semplice appercezione «I o p e n s o»; la quale rende possibili tutti i concetti stessi trascendentali, nei quali si viene a dire: Io penso la sostanza, la causa, ecc. giacché l’esperienza interna in generale, e la sua possibilità, o la percezione in generale e il rapporto di essa con altra percezione, senza che ne sia data empiricamente una differenza particolare e una determinazione, non può esser considerata come conoscenza empirica, ma deve esser considerata come conoscenza dell’empirico in generale, e rientra nella ricerca della possibilità di ogni esperienza; ricerca, che è senza dubbio trascendentale. Il menomo oggetto della percezione (per es., il semplice piacere o dispiacere), che si aggiungesse alla rappresentazione generale dell’autocoscienza, cangerebbe tosto la psicologia razionale in empirica. «I o p e n s o» è, dunque, l’unico testo della psicologia razionale, dal quale essa deve sviluppare tutta quanta la sua scienza. Si vede bene che questo pensiero, se deve esser riferito a un oggetto (me stesso), non può importare se non predicati trascendentali di esso; poiché il minimo predicato empirico guasterebbe la purezza razionale e l’indipendenza della scienza da ogni esperienza. Ma noi qui dovremo seguire semplicemente il filo conduttore delle categorie; soltanto, poiché qui a principio è data una cosa, Io, come essere pensante, noi, senza alterare l’ordine sopra assegnato delle categorie tra loro, come sono state presentate nella loro tavola, cominceremo qui tuttavia dalla categoria di sostanza, per la quale una cosa è rappresentata in se stessa, e così rifaremo all’inverso la serie di esse categorie. La topica della psicologia razionale, da cui tutto il resto, che vi può esser compreso, deve ricavarsi, è pertanto la seguente: 1. L’anima è s o s t a n z a .

2. Per la sua qualità semplice.

3. Nei tempi diversi, in cui essa esiste, numericamente identica, cioè, u n i t à (non molteplicità).

4. In relazione con oggetti p o s s i b i l i nello spazio1. 1 Il lettore, che da queste espressioni nella loro astrattezza trascendentale non indovinerà tanto facilmente il loro senso psicologico, e perché l’ultimo attributo dell’anima appartenga alla categoria dell’e s i s t e n z a , troverà tutto chiarito e giustificato sufficientemente in quel che segue. Del resto, per le espressioni latine, che contro il gusto del buono stile si sono introdotte in luogo delle equivalenti tedesche, in questa sezione come anche in tutta l’opera, posso a mia scusa addurre, che io ho preferito rinunziare un po’ all’eleganza della lingua, anzi che render difficile l’uso scolastico con la più piccola oscurità (N. d. K.).

Da questi elementi derivano tutti i concetti della psicologia pura unicamente per composizione, e senza conoscere menomamente un altro principio. Questa sostanza, semplicemente in quanto oggetto del senso interno, dà il concetto della i m m a t e r i a l i t à ; in quanto sostanza s e m p l i c e , quello di i n c o r r u t t i b i l i t à ; l’identità di essa in quanto sostanza intellettuale dà la personalità; tutti e tre questi elementi insieme la s p i r i t u a l i t à ; la relazione con essa ci rappresenta la sostanza pensante come il principio della vita nella materia, ossia come l’anima (anima) e come il principio dell’a n i m a l i t à ; questa, limitata dalla spiritualità, l’i m m o r t a l i t à . Ora a questo fan capo quattro paralogismi di una psicologia trascendentale, che falsamente vien ritenuta come una scienza della ragion pura intorno alla natura del nostro essere pensante. A fondamento di essa noi non possiamo porre altro che la rappresentazione semplice e per se stessa vuota affatto di contenuto: Io: della quale non si può dire che sia un concetto, ma una semplice coscienza, che accompagna tutti i concetti. Per questo I o o E g l i o Q u e l l o (la cosa), che pensa, non ci si rappresenta altro che un soggetto trascendentale dei pensieri = x, che non vien conosciuto se non per mezzo dei pensieri, che sono suoi predicati, e di cui noi non possiamo aver astrattamente mai il minimo concetto; e per cui quindi ci avvolgiamo in un perpetuo circolo, dovendoci già servir sempre della sua rappresentazione per giudicar qualche cosa di esso: inconveniente, che non è da esso separabile, poiché la coscienza in sé non è una rappresentazione, che distingua un oggetto particolare, bensì una forma della rappresentazione in generale, in quanto deve esser detta conoscenza: giacché di essa posso dire soltanto, che per suo mezzo i o p e n s o qualunque cosa.

Ma a principio deve pur sembrare strano, che la condizione in cui in generale io penso, e che perciò è semplicemente costituzione del mio soggetto, debba insieme valere per tutto ciò che pensa; e che noi possiamo, sopra una proposizione che pare empirica, arrogarci di fondare un giudizio apodittico e universale, cioè: tutto ciò che pensa, è così costituito come dice in me l’oracolo dell’autocoscienza. Ma la causa di questo risiede in ciò, che noi alle cose dobbiamo necessariamente attribuire a priori tutte le proprietà, che costituiscono le condizioni in cui soltanto le pensiamo. Ora, di un essere pensante io non posso avere la minima rappresentazione per mezzo di una esperienza esterna, sibbene soltanto per mezzo dell’autocoscienza. Oggetti siffatti, adunque, non son altro che il trasferimento di questa mia coscienza ad altre cose, che soltanto così sono rappresentate come esseri pensanti. La proposizione: Io penso, qui per altro non viene assunta se non problematicamente: non in quanto essa può importare una percezione di una esistenza (il cartesiano cogito, ergo sum), ma per la sua semplice possibilità, per vedere quali proprietà da una proposizione così semplice possono derivare al soggetto (esista poi esso, o no). Se, a fondamento della nostra conoscenza razionale pura dell’essere pensante in generale, ci fosse più del cogito; se noi chiamassimo in aiuto le osservazioni sul giuoco dei nostri pensieri e sulle leggi naturali del soggetto pensante, che se ne possono desumere, allora ne verrebbe una psicologia empirica, che sarebbe una specie di f i s i o l o g i a del senso interno, e probabilmente potrebbe servire a spiegare i fenomeni di esso, non mai per altro a manifestare proprietà che (come quelle del semplice) non appartengono punto all’esperienza possibile, né ad insegnarci a p o d i t t i c a m e n t e dell’essere pensante in generale qualcosa che concernesse la sua natura; non sarebbe insomma una psicologia r a z i o n a l e . Ora, poiché la proposizione «I o p e n s o» (presa problematicamente) contiene la forma di ogni giudizio dell’intelletto in generale, e, come lor veicolo, accompagna tutte le categorie, egli è chiaro che i raziocinii che vi si fondano, possono comprendere un uso meramente trascendentale dell’intelletto, uso che esclude ogni mescolanza di esperienza, e del cui processo, giusta quanto abbiamo sopra dimostrato, non possiamo farci in precedenza nessun concetto utile. Noi lo seguiremo con occhio critico per tutti i predicamenti della psicologia pura193; pure, per amor di brevità, faremo procedere il suo esame in una continuazione ininterrotta.

Anzi tutto, la seguente osservazione generale può fermare meglio la nostra attenzione su questa specie di raziocinio. Io non conosco un oggetto qual si sia semplicemente pensando, ma solo determinando un’intuizione data rispetto all’unità della coscienza, in cui ogni pensiero consiste. Sicché io non conosco me stesso pel fatto che sono cosciente di me come pensante, ma se son cosciente dell’intuizione di me stesso, in quanto determinata rispetto alla funzione del pensiero. Tutti i modi dell’autocoscienza nel pensiero in sé non sono quindi ancora concetti intellettuali di oggetti (categorie), ma mere funzioni, che non danno a conoscere al pensiero nessun oggetto, e però né anche me stesso quale oggetto. L’oggetto non è la coscienza del M e d e t e r m i n a n t e , ma soltanto quella del M e d e t e r m i n a b i l e , ossia della mia intuizione interna (in quanto il molteplice di essa può essere unificato conformemente alla condizione generale dell’unità dell’appercezione nel pensiero). 1) Ora in tutti i giudizi io son sempre il soggetto d e t e r m i n a n t e di quella relazione, che costituisce il giudizio. Ma che Io, che penso, nel pensiero debba valer sempre come s o g g e t t o , e come qualcosa, che non è considerato come annesso al pensiero semplicemente come un predicato, questa è una proposizione apodittica e anche i d e n t i c a ; ma essa non significa che io, come oggetto, sia un e s s e r e s u s s i s t e n t e per me stesso, o una s o s t a n z a . Quest’altra proposizione va molto più in là, e richiede quindi per di più dati, che nel pensiero non si trovano punto: più forse (in quanto considero il pensante semplicemente come tale) che io non ne troverò mai (nel pensiero). 2) Che l’Io dell’appercezione, quindi, in ogni pensiero, sia un che di s i n g o l a r e , che non possa esser risoluto in una pluralità di soggetti, e che designi perciò un soggetto logicamente semplice, è già nel concetto del pensiero, sicché viene ad essere una proposizione analitica; ma essa non significa, che l’Io pensante sia una s o s t a n z a semplice; che sarebbe una proposizione sintetica. Il concetto della sostanza si riferisce sempre a intuizioni, che in me non possono essere altrimenti che sensibili, e però son al tutto fuori del campo dell’intelletto e del suo pensiero, che pure è il solo del quale qui propriamente si parla, quando si dice che l’Io nel pensiero è semplice. Ci sarebbe anche da meravigliarsi se ciò che richiede del resto tanto apparato, per distinguere, in ciò che ci fornisce l’intuizione, quel che vi è come sostanza, e sovratutto per vedere se questa sia semplice (come nelle

parti della materia), qui mi fosse dato così direttamente nella più povera rappresentazione tra tutte, quasi come per una rivelazione. 3) La proposizione dell’identità di me stesso in tutto il molteplice di cui ho coscienza, è parimenti implicita negli stessi concetti, e però analitica; ma questa identità del soggetto, di cui, in tutte le sue rappresentazioni, posso aver coscienza, non concerne l’intuizione di esso, ond’egli m’è dato come oggetto, né può quindi significare l’identità della persona, per cui s’intende la coscienza dell’identità della sua propria sostanza come essere pensante in ogni cangiamento dei suoi stati; per dimostrarla, non gioverebbe la semplice analisi della proposizione: «Io penso», ma sarebbero necessari vari giudizi sintetici, fondati sull’intuizione data. 4) Che io distingua la mia propria esistenza, come di un essere pensante, da altre cose fuor di me (a cui appartiene anche il mio corpo), è bene del pari una proposizione analitica; le a l t r e cose infatti son tali in quanto le penso d i s t i n t e da me. Ma, se questa coscienza di me stesso senza cose fuori di me, onde mi son date rappresentazioni, sia punto possibile, e quindi se io possa esistere semplicemente come essere pensante (senza esser uomo), con ciò io non lo so. Con l’analisi, dunque, della coscienza di me stesso nel pensiero in generale rispetto alla conoscenza di me stesso come oggetto, non si fa il minimo guadagno. La spiegazione logica del pensiero in generale è considerata a torto come una determinazione metafisica dell’oggetto. Un grande scoglio, anzi il solo, contro tutta la nostra critica ci sarebbe, se si desse una possibilità di dimostrare a priori, che tutti gli esseri pensanti sono in sé sostanze semplici, e che come tali perciò (che è una conseguenza dello stesso principio) recano in sé inscindibilmente una personalità, e han coscienza della loro esistenza separata da ogni materia. Perché, a questo modo, noi avremmo fatto un passo al di là del mondo sensibile, saremmo entrati nel campo dei n o u m e n i ; e allora nessuno ci potrebbe più negare il diritto di estenderci in esso più oltre, di fabbricarvi, e ciascuno secondo il favore della sua buona stella, prendervi stanza. La proposizione, infatti, «ogni essere pensante come tale è sostanza semplice», è una proposizione sintetica a priori, poiché, in primo luogo, sorpassa il concetto che è posto a base di essa, e al pensiero in generale aggiunge la m a n i e r a d ’ e s i s t e n z a; e, in secondo luogo, a quel concetto unisce un predicato (della semplicità), che non può esser dato di certo in veruna esperienza. Così le proposizioni

sintetiche a priori non sarebbero fattibili e ammissibili soltanto, come noi abbiamo affermato, rispetto ad oggetti di esperienza possibile, e come princìpi della possibilità della stessa esperienza, ma potrebbero riferirsi anche alle cose in generale, e in se stesse; conseguenza che darebbe fine a tutta questa critica, e obbligherebbe a contentarsi dell’antico. Se non che il pericolo non è così grave, se si guarda la cosa più da vicino. Nel procedimento della psicologia razionale regna un paralogismo, che è esposto nel raziocinio seguente: Ciò che non può esser pensato, altrimenti che come sog getto, non esiste, anche, altrimenti che come soggetto, e però è sostanza. Ora un essere pensante, considerato semplicemente come tale, non può esser pensato altrimenti che come soggetto. Dunque, esso esiste anche soltanto come tale, cioè come sostanza. Nella maggiore si parla di un essere, che può esser pensato in generale sotto ogni aspetto, e quindi anche come può esser dato nella intuizione. Ma nella minore si parla soltanto dello stesso essere, in quanto esso stesso si considera come soggetto soltanto relativamente al pensiero e all’unità della coscienza, non già a un tempo in rapporto all’intuizione, ond’esso vien dato al pensiero come oggetto. La conclusione, dunque, è dedotta per sophisma figurae dictionis, e però in forza d’un sillogismo fallace194. Che questa riduzione del celebre argomento a un paralogismo sia perfettamente esatta, si scorge chiaramente, se si vuol qui rivedere l’Osservazione generale alla rappresentazione sistematica dei princìpi, nonché il capitolo sui noumeni, dove è stato dimostrato, che il concetto di una cosa, la quale per se stessa può esistere come soggetto ma non come semplice predicato, non importa punto ancora una realtà oggettiva; che cioè non è dato sapere, se gli possa convenire dove che sia un oggetto, poiché non si scorge la possibilità d’un tal modo di esistere; e, insomma, che esso non ci dà nulla a conoscere. Se, dunque, sotto il nome di sostanza esso deve indicare un oggetto che può esser dato; se esso deve diventare una conoscenza; allora occorre che gli stia a base una intuizione permanente, quale condizione imprescindibile della realtà oggettiva di un concetto, ossia ciò, in cui solo l’oggetto è dato. Ora noi non abbiamo nell’intuizione interna proprio nulla di

permanente, giacché l’Io non è se non la coscienza del mio pensiero; e però, se noi vogliamo starcene semplicemente al pensiero, ci manca anche la condizione necessaria per applicare al Me, come essere pensante, il concetto di sostanza, ossia di soggetto per sé sussistente; e la connessa semplicità della sostanza vien meno del tutto insieme con la realtà oggettiva di questo concetto, e si riduce a una semplice unità qualitativa logica dell’autocoscienza nel pensiero in generale, sia per altro il soggetto composto o no. CONFUTAZIONE DELL’ARGOMENTO DI MENDELSSOHN195 DELLA PERMANENZA DELL’ANIMA Questo acuto filosofo notò subito nel comune argomento per cui si vuol dimostrare che l’anima (ammesso che sia un essere semplice) non può cessar di essere per d e c o m p o s i z i o n e , un’insufficienza rispetto allo scopo di assicurarne sopravvivenza necessaria, poiché si potrebbe anche ammettere una cessazione della sua esistenza per e s t i n z i o n e . Nel suo Fedone, dunque, tentò di rimuoverne tale caducità, che ne sarebbe un vero annientamento, confidando di dimostrare che un essere semplice non possa assolutamente cessar di essere perché, – non potendo esso venire sminuito, e a poco a poco, quindi, perder qualche cosa della sua esistenza, e così p i a n p i a n o esser ridotto in nulla (poiché esso non ha in sé parti, e quindi né anche molteplicità) – tra un istante in cui è, e l’altro in cui non è più, non ci dovrebbe assolutamente esser alcun tempo, che è impossibile. – Se non che, egli non badò che, se anche accordiamo all’anima questa natura semplice, onde non contenga una molteplicità di elementi g l i u n i f u o r i d e g l i a l t r i , e quindi una quantità estensiva, tuttavia non le si può negare, come a nessun altro esistente, una quantità intensiva, cioè un grado di realtà rispetto a tutte le sue facoltà, anzi, in generale, a tutto ciò che ne costituisce l’esistenza; grado che può diminuire per infiniti gradi sempre più piccoli, sicché la presunta sostanza (la cosa, la cui permanenza già non sta salda per altri riguardi), benché non per decomposizione, pure per graduale diminuzione (remissio) delle sue forze (quindi per illanguimento196, se mi è lecito servirmi di questa espressione) può esser annullata. Anche la coscienza, infatti, ha sempre un grado, che può sempre più scemare197, e però anche la facoltà di esser coscienti di sé, e tutte le altre facoltà. – Sicché la permanenza dell’anima, come semplice oggetto del senso interno, resta indimostrata, anzi indimostrabile, benché la sua permanenza nella vita, in cui l’essere pensante

(come uomo) è a se stesso insieme un oggetto dei sensi esterni, per sé è chiara; dove per altro non c’è tutto quello che occorre al psicologo razionale, che imprende a dimostrare l’assoluta sopravvivenza di essa sulla base di semplici concetti198. Se ora noi prendiamo le suddette nostre proposizioni (come esse del resto devon esser prese, in quanto valide per tutti gli esseri pensanti, nella psicologia razionale come sistema) in una connessione s i n t e t i c a ; e, movendo dalla categoria della relazione, con la proposizione: «tutti gli esseri pensanti come tali sono sostanze», retrocediamo per tutta la serie delle categorie, finché il circolo si chiuda, noi ci imbattiamo alla fine nell’esistenza di questi esseri; della quale essi, in questo sistema, non sono solo coscienti indipendentemente dalle cose esterne, ma anche possono determinarla per sé (rispetto alla permanenza, che rientra necessariamente nel carattere della sostanza). Donde per altro segue che l’i d e a l i s m o in questo sistema razionalista è inevitabile, per lo meno quello problematico; e se l’esistenza delle cose esterne non è punto richiesta per la determinazione della nostra propria nel tempo, essa non è ammessa se non affatto gratuitamente, senza che se ne possa dar mai una prova. Se, per contro, noi seguiamo il procedimento a n a l i t i c o , togliendo a fondamento l’«Io penso» come una proposizione data, che implica già in sé una esistenza, e quindi la modalità, e l’analizziamo per conoscere il suo contenuto, se e come questo Io determini semplicemente, così, la sua esistenza nel tempo o nello spazio; allora le proposizioni della psicologia razionale non cominceranno dal concetto in un essere pensante in generale, ma da una realtà; e dal modo in cui questa è pensata, dopo aver astratto tutto ciò che v’è di empirico, si inferirà ciò che si appartiene a un essere pensante in generale, come mostra la seguente tavola: 1. I o p e n s o, 2. come s o g g e t t o ,

3. come soggetto s e m p l i c e ,

4. come soggetto i d e n t i c o , in ogni stato del mio pensiero.

Ora, poiché qui nella seconda proposizione non è determinato se io possa

esistere ed essere pensato soltanto come soggetto e non anche come predicato d’altro, il concetto di soggetto qui è preso solo logicamente, e resta indeterminato se con esso si debba intendere o no una sostanza. Ma nella terza proposizione l’unità assoluta dell’appercezione, l’Io semplice, diviene anche per sé importante nella rappresentazione a cui si riferisce ogni unione o separazione che costituisce il pensiero, sebbene io non abbia ancora stabilito nulla circa la costituzione o sussistenza del soggetto. L’appercezione è qualcosa di reale, e l’unità di essa c’è già nella sua possibilità. Ora, nello spazio non c’è reale che sia semplice: perché i punti (che costituiscono l’unico semplice nello spazio) sono soltanto limiti, ma non sono per se stessi qualcosa che serva a costituire, come parte, lo spazio. Ne viene, dunque, l’impossibilità di spiegare la costituzione del Me come soggetto semplicemente pensante con i princìpi del m a t e r i a l i s m o . Ma, poiché la mia esistenza, nella prima proposizione, è considerata come data – non volendo essa dire: ogni essere pensante esiste (che verrebbe ad affermare la necessità assoluta, e però troppo di essi), ma soltanto: i o e s i s t o pensando – questa proposizione è empirica, e contiene la determinabilità della mia esistenza solo rispetto alle mie rappresentazioni nel tempo. Ma poiché, d’altra parte, io ho bisogno per ciò anzi tutto di qualcosa di permanente, e niente di simile, finché io mi penso, mi vien dato nell’intuizione interna, così, per questa semplice autocoscienza, non è assolutamente possibile determinare il modo in cui io esisto, se come sostanza o come accidente. Se, dunque, il m a t e r i a l i s m o è inetto a una spiegazione della mia esistenza, altrettanto insufficiente è lo spiritualismo; e la conclusione è, che in qualunque modo noi non possiamo conoscere nulla della natura della nostra anima, che riguarda la possibilità della sua esistenza separata in generale. E già come doveva esser possibile che per l’unità della coscienza, che a sua volta ci è nota solo perché non possiamo far a meno di servircene per la possibilità della esperienza, oltrepassassimo l’esperienza (la nostra esistenza in questa vita), anzi estendessimo la nostra conoscenza alla natura di ogni essere pensante in generale mediante la proposizione empirica, ma, rispetto a ogni sorta d’intuizione, indeterminata: «Io penso»? Non c’è dunque una psicologia razionale come d o t t r i n a , che procuri un’aggiunta alla nostra conoscenza di noi stessi, ma solo come d i s c i p l i n a , che pone in questo campo alla ragione speculativa limiti insormontabili, da una parte perché non si getti in grembo al materialismo senz’anima, e non si

smarrisca, dall’altra, vagando in uno spiritualismo senza fondamento, per noi, nella vita; ma ci ammonisce altresì di considerare questo ricusarsi della ragione a dare una risposta soddisfacente alle questioni curiose, che vanno al di là di questa vita, come un cenno di lei, di rivolgere la nostra conoscenza di noi stessi, dalla trascendente ma infruttuosa speculazione, al fecondo uso pratico; che, sebbene indirizzato sempre solo agli oggetti dell’esperienza, attinge tuttavia più alto i suoi princìpi e determina la condotta, come se il nostro destino si estendesse infinitamente di là della nostra esperienza, e però da questa vita. Da tutto ciò si vede, che un semplice equivoco dà origine alla psicologia razionale. L’unità della coscienza, che è a fondamento delle categorie, vien qui presa per intuizione del soggetto preso come oggetto, e vi si applica la categoria di sostanza. Ma essa non è se non l’unità nel p e n s i e r o , per il cui solo mezzo non è dato nessun oggetto, e a cui perciò non si può applicare la categoria di sostanza, come quella che suppone sempre un’intuizione data; e però questo soggetto non può assolutamente esser conosciuto. Il soggetto delle categorie non può dunque, per il fatto che ei le pensa, conseguire un concetto di se stesso come oggetto delle categorie; perché, per pensarle, deve porre a fondamento la sua autocoscienza pura, che pur doveva esser spiegata. Parimenti il soggetto, in cui la rappresentazione del tempo ha il suo fondamento originario, non può per mezzo di essa determinare la sua propria esistenza nel tempo; e se questo non è possibile, né anche può aver luogo quello, come determinazione di se stesso (come essere pensante in generale) mediante categorie199. Così una conoscenza cercata al di là dei limiti della esperienza possibile, e pure spettante all’interesse più alto dell’umanità, fin che la si esige dalla filosofia speculativa, finisce in una speranza illusoria; dove tuttavia il rigore della critica, dimostrando, al tempo stesso questa l’impossibilità di stabilire dommaticamente, di un oggetto di esperienza, qualcosa al di là dei confini stessi dell’esperienza, rende alla ragione, per questo suo stesso interesse, un servizio non privo di importanza, ponendola intanto al sicuro contro tutte le possibili affermazioni del contrario; ciò che non può avvenire se non quando o si dimostra la propria affermazione apoditticamente, o, se non vien fatto ciò, si indagano le fonti di questa impotenza; le quali, se stanno nei limiti necessari della nostra ragione, allora devono assoggettare ogni avversario a quella stessa legge di rinunzia a tutte le pretese di un’affermazione

dommatica. Nondimeno del diritto, anzi della necessità di ammettere, giusta i princìpi dell’uso pratico della ragione unito con lo speculativo, una vita futura, niente va pertanto perduto; giacché l’argomento semplicemente speculativo non ha mai potuto avere un influsso sulla comune ragione umana. Esso è posto sopra la cima di un capello, sì che la stessa scuola non può tanto a lungo mantenervelo se non lo fa girare in tondo su se stesso, incessantemente, come una trottola; e ai suoi propri occhi non offre un saldo fondamento, su cui qualcosa si possa edificare. Gli argomenti, che sono utili per il mondo, restano qui tutti, col loro immutabile valore, e da questa eliminazione di quelle pretese dommatiche guadagnan piuttosto in chiarezza e in forza non artificiale di convinzione, ponendo la ragione nel suo proprio campo, ossia nell’ordine dei fini, che è pure insieme un ordine della natura; la quale ragione allora, per altro, come facoltà pratica in se stessa, senza esser limitata alle condizioni dell’ultimo ordine, è insieme autorizzata ad estendere il primo, e con esso la nostra propria esistenza al di là dei limiti della esperienza e della vita. A giudicare p e r a n a l o g i a c o n l a n a t u r a degli esseri viventi in questo mondo, nei quali la ragione deve necessariamente ammettere, come principio, che non c’è nessun organo, nessuna facoltà, nessuna tendenza, e insomma niente di non necessario, o inadeguato all’uso, quindi non conforme a un fine, ma tutto è proporzionato esattamente alla sua destinazione nella vita, l’uomo, che pure è quello solo che può contenere in sé l’ultimo scopo finale di tutto questo, dovrebbe essere l’unica creatura che ne sia eccettuata. Infatti le sue naturali disposizioni, non semplicemente per i talenti e impulsi a farne uso, ma principalmente per la legge morale, vanno in lui così in alto al di sopra di tutte le utilità e del vantaggio che egli in questa vita può ricavarne, che questa stessa gli insegna, anzi, a stimar sopra tutto la semplice coscienza della rettitudine dell’intenzione, a costo di tutti i beni e dello stesso fantasma della fama; ed ei si sente interiormente chiamato a rendersi, con la sua condotta in questo mondo e colla rinunzia a tanti vantaggi, degno cittadino di un mondo migliore, che egli ha nell’idea. Questo argomento potente e sempre mai irrefutabile, cui si aggiunge la conoscenza incessantemente crescente della finalità inerente a tutto ciò che vediamo innanzi a noi, e la vista della immensità della creazione, e però anche la coscienza di una certa illimitatezza nella estensione possibile delle nostre conoscenze, insieme con uno stimolo corrispondente, resta pur sempre, anche

se dobbiamo rinunziare a scoprire con la conoscenza semplicemente teoretica di noi stessi la continuazione necessaria della nostra esistenza. CONCLUSIONE DELLA SOLUZIONE DEL PARALOGISMO PSICOLOGICO

L’apparenza dialettica nella psicologia razionale riposa sullo scambio di un’idea della ragione (un’idea d’una intelligenza pura) col concetto, in tutte le sue parti indeterminato, di un essere pensante in generale. Io penso me stesso in servigio di una esperienza possibile, mentre astraggo ancora da ogni esperienza reale, e ne concludo che posso aver coscienza della mia esistenza anche fuori dell’esperienza e delle condizioni empiriche della medesima. Sicché scambio l’a s t r a z i o n e possibile della mia esistenza empiricamente determinata con la pretesa coscienza di una possibile esistenza s e p a r a t a del mio Me pensante, e credo di conoscere ciò che v’è di sostanziale in me come soggetto trascendentale, laddove nel pensiero ho semplicemente l’unità della coscienza, che è a fondamento di ogni determinazione come semplice forma della conoscenza. L’ufficio di spiegare il commercio dell’anima col corpo, non appartiene propriamente a quella psicologia di cui qui si parla, perché questa ha per iscopo di dimostrare la personalità dell’anima anche fuori di tal commercio (dopo la morte), e però è nel senso proprio t r a s c e n d e n t e , quantunque si occupi di un oggetto dell’esperienza, ma solo in quanto esso cessa di essere oggetto dell’esperienza. Intanto anche a questo, secondo la nostra dottrina, può esser data una risposta sufficiente. La difficoltà che ha fatto sorgere questo problema consiste, com’è noto, nella supposta difformità dell’oggetto del senso interno (dell’anima) dagli oggetti dei sensi esterni, perché a quello è annesso solo il tempo, a questi anche lo spazio, come condizione formale della loro intuizione. Ma, se si riflette che le due specie di oggetti non differiscono l’una dall’altra intrinsecamente, ma solo in quanto l’uno a p p a r i s c e 200 esternamente all’altro, sicché ciò che è fondamento del fenomeno della materia, come cosa in sé, potrebbe forse non essere così difforme, allora sparisce la difficoltà, e non resta più altro che quella, come in generale sia possibile un commercio di sostanze; difficoltà che non è dato certo di risolvere nel campo della psicologia, e che, come il lettore giudicherà facilmente dopo quel che è stato detto, nell’Analitica, delle forze fondamentali e delle facoltà, senza alcun dubbio resta anche fuori del campo di ogni conoscenza umana.

OSSERVAZIONE GENERALE INTORNO AL PASSAGGIO DALLA PSICOLOGIA RAZIONALE ALLA COSMOLOGIA

La proposizione «Io penso» o «Io esisto pensando», è una proposizione empirica. Ma, a fondamento d’una tale proposizione, c’è un’intuizione empirica: per conseguenza, c’è anche a fondamento l’oggetto che si pensa, come fenomeno; parrebbe dunque, per la nostra teoria, che l’anima tutta intera, persino nel pensiero, si cangiasse in fenomeno, e a questo modo la nostra coscienza stessa, come semplice apparenza, nel fatto dovesse passare in nulla. Il pensiero, preso per sé, è puramente la funzione logica, quindi mera spontaneità dell’unificazione del molteplice di una intuizione puramente possibile, e non ci mette innanzi, a niun patto, il soggetto della coscienza come fenomeno, perocché esso non guarda al modo dell’intuizione, se essa sia sensibile o intellettuale. Con ciò, io non mi rappresento me stesso né come sono, né come mi apparisco; ma penso me solo come ogni oggetto, in generale, astraendo dal modo d’intuirlo. Se io mi rappresento qui come s o g g e t t o dei pensieri, o anche come f o n d a m e n t o del pensiero, questi modi di rappresentarmi non denotano le categorie della sostanza o della causa; giacché queste sono funzioni del pensiero (giudizio) già applicate alla nostra intuizione sensibile, che sarebbe certamente richiesta, se io volessi conoscermi. Ora io voglio aver coscienza di me soltanto come pensante; e però metto da parte come il mio proprio Io sia dato nell’intuizione, e allora per me, che penso, ma non in quanto penso, esso potrebbe essere un semplice fenomeno; nella coscienza del mio Me, nel semplice pensiero io sono l’essere s t e s s o ; ma così di certo niente di esso m’è dato al pensiero. Se non che la proposizione: «Io penso», in quanto dice altrettanto che «I o e s i s t o p e n s a n d o», non è una semplice funzione logica, ma determina il soggetto (che allora è anche oggetto) rispetto all’esistenza; e non può aver luogo senza il senso interno, la cui intuizione fornisce sempre l’oggetto, non come cosa in sé, bensì semplicemente come fenomeno. In questa proposizione, dunque, non c’è più la semplice spontaneità del pensiero, ma anche la recettività dell’intuizione, cioè il pensiero di me stesso applicato all’intuizione empirica appunto dello stesso soggetto. In quest’ultima, pertanto, l’Io pensante dovrebbe cercare le condizioni dell’impiego delle sue funzioni logiche come categorie di sostanza, causa, ecc., non solo per designare mediante l’Io sé come oggetto in se stesso, ma per determinare

anche il modo della sua esistenza, cioè per conoscersi come noumeno; ciò che è impossibile, stanteché l’intuizione empirica interna è sensibile, e non ci dà se non dati del fenomeno, che non può conferir nulla all’oggetto d e l l a c o s c i e n z a p u r a per la conoscenza della sua esistenza separata, ma solo servire di aiuto all’esperienza. Ma, posto che in seguito si trovasse, non nell’esperienza, sì in certe (non dico semplici regole logiche, ma) leggi dell’uso puro della ragione, valide a priori circa la nostra esistenza, un motivo per presupporci, affatto a priori, come l e g i s l a t o r i rispetto alla nostra propria e s i s t e n z a , e come determinanti anche questa esistenza; allora si scoprirebbe così una spontaneità, in virtù della quale potrebbe esser determinata la nostra realtà, senza aver bisogno a tal uopo delle condizioni dell’intuizione empirica; e qui noi scorgeremmo, che nella coscienza della nostra esistenza c’è a priori qualcosa, che può servire a determinare la nostra esistenza, che pure è determinabile completamente solo in modo sensibile; a determinarla, dico, tuttavia rispetto a una certa facoltà interna in relazione a un mondo intelligibile (certo soltanto pensato). Ma questo non farebbe avanzare menomamente tutti i tentativi della psicologia razionale. Infatti, per quella meravigliosa facoltà, che prima di tutto mi rivela la coscienza della legge morale, avrei sì un principio della determinazione della mia esistenza che è puramente intellettuale, ma mediante quali predicati? Non altri da quelli che mi devono esser dati nell’intuizione sensibile; e così tornerei da capo al punto dove ero nella psicologia razionale, ossia al bisogno di intuizioni sensibili, per dare un significato ai miei concetti intellettuali: sostanza, causa, ecc., onde soltanto io posso aver conoscenza di me; ma quelle intuizioni non mi possono mai aiutare al di sopra del campo dell’esperienza. Intanto, rispetto all’uso pratico, che del resto è indirizzato sempre ad oggetti dell’esperienza, conforme al significato analogico che essi hanno nell’uso teorico, sarei sempre autorizzato ad applicare questi concetti alla libertà e al soggetto di essa, intendendo per essi unicamente le funzioni logiche del soggetto e del predicato, del principio e della conseguenza, in conformità delle quali sono determinati gli atti e gli effetti secondo quelle leggi, in modo che insieme con le leggi della natura essi possono essere sempre spiegati secondo le categorie di sostanza e di causa, quantunque derivino da tutt’altro principio. Questo s’è dovuto dire solo per prevenire il malinteso, a cui facilmente è esposta la dottrina

dell’intuizione di sé come fenomeno. Nel seguito si avrà occasione di farne uso. 193

Invece di quel che segue, da questo punto alla fine del presente capitolo nella prima edizione c’era un’esposizione e una critica dei Paralogismi della ragion pura, molto più ampia e particolareggiata: che noi daremo in Appendice. 194 Il pensiero nelle due premesse è preso in significato affatto diverso: nella maggiore, qual esso si riferisce ad un oggetto in generale (quindi, come può esser dato nell’intuizione); nella minore, invece, solo qual esso è in relazione con l’autocoscienza, dove dunque non si pensa più a un oggetto, ma si rappresenta soltanto la relazione a sé come soggetto (come forma del pensiero). Nella prima si parla di cose, che non possono esser pensate se non come soggetti; nella seconda invece non di c o s e , ma del p e n s i e r o (astraendo da ogni oggetto), in cui l’Io serve sempre di soggetto alla coscienza; quindi non posso concludere: io non posso esistere se non come soggetto; ma soltanto: io, nel pensiero della mia esistenza, non posso servirmi di me se non come soggetto del giudizio: che è una proposizione identica, che non dice assolutamente nulla circa il modo della mia esistenza (N. d. K.). 195 Mosè Mendelssohn, n. a Dessau nel 1729, m. a Berlino nel 1786. Kant si riferisce al suo dialogo Phädon od. über die Unsterblichkeit der Seele, Berlin, 1766. 196 Elanguescenz. 197 La chiarezza non è, come dicono i logici, la coscienza d’una rappresentazione; un certo grado infatti di coscienza, che per altro non basta al ricordo, deve pur esserci in certe rappresentazioni oscure, perché, senza punto coscienza, mettendo insieme rappresentazioni oscure noi non formeremmo nessuna distinzione; ciò che possiamo fare tuttavia per le note di taluni concetti (come quelli di diritto ed equità, o quelli del musico, che improvvisando suona più note insieme). Ma chiara è una rappresentazione, in cui la coscienza basta alla c o s c i e n z a d e l l a d i f f e r e n z a di essa da altre rappresentazioni. Che se essa basta bensì alla distinzione, non alla coscienza della differenza, la rappresentazione ancora deve dirsi oscura. Ci son dunque infiniti gradi di coscienza fino all’estinzione (N. d. K.). 198 Coloro che, per mettere innanzi una nuova possibilità credono di aver già fatto abbastanza facendosi forti del fatto che nei loro presupposti non si possa loro dimostrare alcuna contraddizione (come fanno tutti coloro che la possibilità del pensiero, di cui essi nella vita umana non hanno esempio se non nelle intuizioni empiriche, credono di vederla anche dopo la cessazione di essa vita) posson esser messi in grande imbarazzo per altre possibilità della divisione di u n a s o s t a n z a s e m p l i c e in più sostanze e, inversamente, dell’unificazione (coalizione) di più sostanze in una sostanza semplice. Giacché, sebbene la divisibilità presupponga un composto, essa non richiede tuttavia necessariamente un composto di sostanze, ma semplicemente di gradi (delle varie facoltà) di una medesima sostanza. Ora, come si può pensare tutte le forze e facoltà dell’anima, compresa quella della coscienza, dimezzate, in guisa che tuttavia rimanga sempre ancora sostanza; così ci si può rappresentare senza contraddizione anche la metà estinta dell’anima come conservata, non in essa, bensì fuori di essa; e, poiché qui tutto ciò che in essa è comunque reale, e perciò ha un grado, e quindi l’esistenza intera di essa, è stato dimezzato senza che niente venga a mancare, ci si può rappresentare che allora nascerebbe fuori di essa una sostanza separata. Giacché la pluralità, che è stata divisa, era già prima, ma non come pluralità di sostanze, sì di ogni realtà come quantità dell’esistenza in essa, e l’unità della sostanza non era se non un modo di esistere, che da questa divisione è stato soltanto cangiato di una pluralità di sussistenza. Così, d’altra parte, anche più sostanze semplici potrebbero a lor volta, fondersi insieme in una sostanza, in cui niente vada perduto, se non semplicemente la pluralità di sussistenza, poiché quest’unica

conterrebbe in sé il grado di realtà di tutte le precedenti; e forse le sostanze semplici, che ci danno il fenomeno d’una materia (non di certo per mezzo di un reciproco influsso meccanico o chimico, ma pure per un influsso a noi ignoto, di cui quello sarebbe solo il fenomeno) per una simile divisione d i n a m i c a delle anime dei genitori, in quanto quantità intensive, potrebbero produrre le anime dei figli, mentre le prime compenserebbero da capo la loro perdita unendosi con nuova materia della stessa specie. Io son ben lungi dall’accordare il minimo valore e validità a chimere simili, e già i superiori princìpi dell’Analitica hanno inculcato abbastanza di non fare delle categorie (come di quella sostanza) nessun uso che non sia l’uso empirico. Ma, se il razionalista, della semplice facoltà del pensiero, senza una intuizione permanente qual sia onde sia dato un oggetto, e tanto audace da fare un essere per sé sussistente, pel solo motivo che l’unità dell’appercezione nel pensiero non gli consente alcuna spiegazione del composto – dove farebbe meglio a confessare che ei non sa spiegare la possibilità di una natura pensante; – perché il m a t e r i a l i s t a , benché neppur lui possa invocare l’esperienza in aiuto delle sue possibilità, non deve esser autorizzato a una pari audacia, di servirsi del suo principio, conservando l’unità formale del primo, per un uso opposto? (N. d. K.) 199 L’«Io penso» è, come s’è già detto, una proposizione empirica, e contiene in sé la proposizione: «Io esisto». Ma io non posso dire: tutto ciò che pensa, esiste; perché allora la proprietà del pensiero farebbe di tutti gli esseri che la posseggono esseri necessari. Quindi la mia esistenza non si può considerare come conseguente alla proposizione: Io penso, come la ritenne Cartesio (perché, se no, dovrebbe precedere la premessa maggiore: tutto ciò, che pensa, esiste) ma è identica ad essa. Essa esprime un’intuizione empirica indeterminata, cioè una percezione (sicché essa dimostra che la sensazione, la quale naturalmente appartiene alla sensibilità, sta già a fondamento di questa proposizione esistenziale), ma precede l’esperienza, che deve determinare l’oggetto della percezione mediante la categoria rispetto al tempo; e l’esistenza non è ancora qui una categoria, come quella che si riferisce, non a un oggetto dato indeterminato, sibbene a un oggetto tale, di cui si ha un concetto, di cui si vuol sapere se sia anche posto fuori di questo concetto, o no. Una percezione indeterminata qui significa soltanto qualcosa di reale, che è dato, solo per il pensiero in generale; quindi non come fenomeno, e neppure come cosa in sé (noumeno), ma come qualcosa che esiste in realtà, e che, nella proposizione «Io penso» è designato come tale. Giacché bisogna notare che, se io ho detto empirica la proposizione «Io penso», con ciò non voglio dire che l’Io in questa proposizione sia una rappresentazione empirica; che anzi essa è una rappresentazione intellettuale pura, poiché appartiene al pensiero in generale. Ma, senza una rappresentazione empirica qual sia, che fornisca la materia al pensiero l’atto: «Io penso», non potrebbe aver luogo; e l’empirico non è se non la condizione dell’applicazione o dell’uso della facoltà intellettuale pura (N. d. K.). 200 Erscheint. Ma cfr. Erscheinung = fenomeno.

Capitolo Secondo L’antinomia della ragion pura

Nell’introduzione a questa parte della nostra opera noi abbiamo mostrato che ogni apparenza trascendentale della ragion pura si fonda su raziocinii dialettici, il cui schema è dato dalla logica in tre specie formali di sillogismi in generale, come, in qualche modo, le categorie trovano il loro schema logico nelle quattro funzioni di tutti i giudizi. La p r i m a s p e c i e di questi raziocinii sofistici riguardava l’unità incondizionata delle condizioni s o g g e t t i v e di tutte le rappresentazioni in generale (soggetto o anima), in corrispondenza dei sillogismi c a t e g o r i c i , la cui premessa maggiore, come principio, esprime la relazione di un predicato con un s o g g e t t o . La s e c o n d a s p e c i e d’argomento dialettico, per analogia coi sillogismi i p o t e t i c i , farà dunque, suo contenuto l’unità incondizionata delle condizioni oggettive del fenomeno; come la t e r z a s p e c i e, che si presenterà nel capitolo seguente, ha per tema l’unità incondizionata delle condizioni oggettive della possibilità degli oggetti in generale. Ma è degno di nota, che il paralogismo trascendentale produceva un’apparenza meramente unilaterale per ciò che riguarda l’idea del soggetto del nostro pensiero, e, per l’affermazione dell’antitesi non si ha, in base ai concetti della ragione, la minima apparenza. Il vantaggio è interamente dal lato del pneumatismo, benché questo, con tutta la sua apparenza favorevole, non possa negare il vizio d’origine di sciogliersi in semplice fumo alla prova del fuoco della Critica. Ben altrimenti accade, se noi applichiamo la ragione alla s i n t e s i o g g e t t i v a dei fenomeni, dove essa pensa di far valere, e con molta apparenza, il suo principio dell’unità incondizionata; ma s’avvolge tosto in tali contraddizioni, che è costretta, quanto al punto di vista cosmologico, a desistere da ogni pretesa. Qui si presenta cioè un nuovo fenomeno della ragione umana, ossia

un’Antitetica affatto naturale, per cui nessuno ha bisogno di sottilizzare e tendere artificiosi tranelli, ma in cui la ragione incorre da se stessa e inevitabilmente: un’Antitetica, in vero, per cui è premunita contro quell’assopimento in una convenzione immaginaria, che è il prodotto d’una apparenza unilaterale; ma è insieme esposta alla tentazione o di abbandonarsi a una disperazione scettica, o di attaccarsi a un’ostinazione dommatica e intestarsi in certe affermazioni senza voler più porgere ascolto e render giustizia alle ragioni della tesi opposta. L’una cosa e l’altra sono la morte della sana filosofia, quantunque il primo caso possa anche dirsi l’e u t a n a s i a della ragion pura. Prima di far valere le scene di discordia e di scompiglio, cui dà luogo questo conflitto di leggi (antinomia) della ragion pura, vogliamo dare alcuni schiarimenti, che possono illustrare e giustificare i metodi da noi adoperati nella trattazione di questa materia. Io chiamo tutte le idee trascendentali, in quanto concernono la totalità assoluta nella sintesi dei fenomeni, c o n c e t t i c o s m o l o g i c i (Weltbegriffe): sia a causa appunto di questa totalità incondizionata, su cui si fonda il concetto dell’universo, che è esso stesso semplicemente un’idea; sia perché esse tendono unicamente alla sintesi dei fenomeni, quindi alla sintesi empirica, laddove la totalità assoluta nella sintesi delle condizioni di tutte le cose possibili in generale darà luogo a un ideale della ragion pura, che è affatto distinto dal concetto di mondo, benché stia in relazione con esso. Sicché, come i paralogismi della ragion pura davano il fondamento a una psicologia dialettica, così l’antinomia della ragion pura ci farà vedere i princìpi trascendentali di una pretesa cosmologia pura (razionale), non allo scopo di trovarla valida e appropriarcela, ma, come dice già anche il nome di conflitto della ragione, per esporla in tutta la sua abbagliante ma falsa apparenza, come un’idea che non è compatibile coi fenomeni.

Sezione Prima SISTEMA DELLE IDEE COSMOLOGICHE Per poter enumerare queste idee secondo un principio, con precisione sistematica, dobbiamo p r i m i e r a m e n t e osservare, che è soltanto l’intelletto quello da cui possono derivare concetti puri e trascendentali, e che

la ragione propriamente non produce nessun concetto, ma, se mai, libera solamente il c o n c e t t o i n t e l l e t t u a l e dalle inevitabili limitazioni di una esperienza possibile, e tenta perciò di estenderlo di là dai limiti dell’empirico, ma tuttavia in connessione con esso. Questo accade perché essa, per un dato condizionato, dalla parte delle condizioni (a cui l’intelletto sottopone tutti i fenomeni della unità sintetica), richiede un’assoluta totalità, e così fa delle categorie un’idea trascendentale per dare alla sintesi empirica una completezza assoluta, continuando la sintesi stessa fino all’incondizionato (che non è mai nell’esperienza, ma solo nell’idea). La ragione questo richiede, secondo il principio che, se il c o n d i z i o n a t o è d a t o , è d a t a anche tutta la somma delle c o n d i z i o n i, quindi l’a s s o l u t a m e n t e i n c o n d i z i o n a t o mediante cui soltanto era possibile quel condizionato. Sicché, i n u n p r i m o l u o g o, le idee trascendentali non saranno propriamente se non categorie spinte fino all’incondizionato, e si potranno ridurre in una tavola ordinata secondo i titoli di esse categorie. I n s e c o n d o l u o g o, d’altra parte, non tutte le categorie potranno tuttavia servire a tal uopo, ma soltanto quelle, in cui la sintesi costituisce una s e r i e , e una serie di condizioni, subordinate (non coordinate) tra loro, di un condizionato. La totalità assoluta è richiesta dalla ragione solo in quanto essa riguarda la serie ascendente delle condizioni di un dato condizionato, non quindi quando si tratta della linea discendente delle conseguenze, e né anche dell’aggregato di condizioni coordinate a queste conseguenze. Le condizioni, infatti, rispetto al condizionato dato, sono già presupposte, e si devono anche considerare come date con esso; laddove, poiché le conseguenze non sono esse a render possibili le loro condizioni, anzi piuttosto le presuppongono, nel progresso delle conseguenze (o nel discendere da una data condizione al condizionato), si può non darsi pensiero se la serie cessi o no; e in generale, la questione della sua totalità non è punto un presupposto della ragione. Così si pensa necessariamente un tempo interamente trascorso fino all’istante dato, anche come dato (sebbene da noi non sia determinabile). Ma, per ciò che riguarda il tempo avvenire, non essendo esso la condizione per giungere al presente, è affatto indifferente, per concepirlo, il modo in cui noi vogliamo comportarci col futuro, o che si voglia farlo cessare a un certo punto, o lasciarlo scorrere all’infinito. Sia la serie m, n, o, in cui n è dato come condizionato rispetto a m, ma insieme come condizione di o; la serie salga dal condizionato n ad m (l, k, i, ecc.) e discenda anche dalla condizione

n al condizionato o (p, q, r, ecc.): io devo presupporre la prima serie per poter considerar n come dato, ed n per la ragione (secondo la totalità delle condizioni) non è possibile se non mediante quella serie; la sua possibilità, invece, non riposa sulla serie seguente o, p, q, r, la quale pertanto non si può considerare come data, ma soltanto come dabilis. Chiamerò la sintesi di una serie dalla parte delle condizioni, a cominciare da quella che è la più vicina al fenomeno dato e che risalga così verso le condizioni più remote, r e g r e s s i v a ; quella, invece, che procede dalla parte del condizionato, dalla conseguenza più vicina a quelle più remote, sintesi p r o g r e s s i v a . La prima va in antecedentia, la seconda in consequentia. Le idee cosmologiche, dunque, han che fare con la totalità della sintesi regressiva, e vanno in antecedentia, non in consequentia. Quando si dia quest’ultimo caso, è un problema arbitrario e non necessario alla ragion pura, perché noi, per la completa comprensibilità di quel che è dato nel fenomeno, abbiamo bensì bisogno dei princìpi, ma non delle conseguenze. Ora, per istituire secondo la tavola delle categorie la tavola delle idee, prendiamo da prima i due quanti originari di ogni nostra intuizione, tempo e spazio. Il tempo è in se stesso una serie (e la condizione formale di tutte le serie), e quindi in esso, rispetto a un presente dato, bisogna a priori distinguere gli antecedentia, come condizione (il passato), dai consequentia (dal futuro). Quindi l’idea trascendentale dell’assoluta totalità della serie delle condizioni di un dato condizionato si riferisce soltanto a tutto il tempo passato. Secondo l’idea della ragione, tutto il tempo già trascorso è necessariamente pensato come dato quale condizione dell’istante dato. Ma, per ciò che spetta allo spazio, in esso, in se stesso, non c’è distinzione di progresso e regresso, poiché esso costituisce un a g g r e g a t o , non una serie, essendo le sue parti tutte insieme simultaneamente. Il momento attuale del tempo posso considerarlo soltanto come condizionato rispetto al tempo passato, ma non mai come condizione di questo, perché questo istante non proviene se non dal tempo trascorso (o meglio dal trascorrere del tempo precedente). Ma, poiché la parti dello spazio non sono tra loro subordinate, bensì coordinate, una parte non è la condizione della possibilità dell’altra, ed esso non forma, come il tempo, in se stesso una serie. Se non che, la sintesi delle molteplici parti dello spazio, per cui noi lo apprendiamo, è tuttavia successiva, e però avviene nel tempo, e contiene una serie. E poiché in questa serie di spazi aggregati (per es. di piedi in una pertica), a partire da uno

spazio dato quelli via via aggiuntivi del pensiero sono sempre la c o n d i z i o n e d e i l i m i t i de’ precedenti, così la m i s u r a di uno spazio va anche considerata come sintesi d’una serie delle condizioni per un dato condizionato; soltanto che la parte delle condizioni in se stessa non è differente da quella, da cui sta il condizionato, e però regresso e progresso nello spazio pare siano una cosa sola. Intanto, poiché una parte dello spazio non è data dalle altre, ma è solamente limitata, noi dobbiamo considerare come condizionato ogni spazio limitato, che presuppone un altro spazio come la condizione de’ suoi limiti, e così di seguito. Rispetto dunque alla limitazione, il progresso nello spazio è anche un regresso, e l’idea trascendentale dell’assoluta totalità della sintesi nella serie delle condizioni concerne anche lo spazio; e io posso appunto propormi la questione dell’assoluta totalità del fenomeno nello spazio, né più né meno che del fenomeno nel tempo trascorso. Ma, se a tale questione sia anche possibile una risposta, è ciò che si vedrà appresso. In secondo luogo, la realtà nello spazio, cioè la m a t e r i a , è un condizionato, le cui condizioni interne sono le sue parti, e le parti delle parti le condizioni remote; di guisa che qui ha luogo una sintesi regressiva, di cui la ragione esige la totalità assoluta, la quale non può ottenersi altrimenti che con una divisione completa, onde la realtà della materia o finisce in nulla, o pure in quel che non è più materia, ossia nel semplice, sicché anche qui c’è una serie di condizioni e un progresso verso l’incondizionato. In terzo luogo, quanto alle categorie del rapporto reale tra i fenomeni, la categoria della sostanza con i suoi accidenti non si conviene a un’idea trascendentale; cioè la ragione, rispetto a questa categoria, non ha ragione di risalire regressivamente alle condizioni. Gli accidenti, infatti (in quanto ineriscono a una sostanza), sono coordinati tra loro e non formano serie. Ma, rispetto alla sostanza, non sono propriamente subordinati ad essa, anzi sono il modo di esistere nella sostanza stessa. Ciò che qui potrebbe ancora parere un’idea della ragione trascendentale, sarebbe il concetto del s o s t a n z i a l e . Se non che, poiché questo non significa altro che il concetto dell’oggetto in generale, che sussiste in quanto in esso si pensa semplicemente il soggetto trascendentale senza alcun predicato, e qui, all’incontro, si tratta solo dell’incondizionato nella serie dei fenomeni; così è chiaro che il sostanziale non può costituire un membro di essa serie. Altrettanto vale precisamente delle sostanze in reciprocità d’azione, che sono semplici aggregati, e non

hanno l’esponente d’una serie, non essendo tra loro subordinati come condizioni della loro possibilità; ciò che si è ben potuto dire degli spazi, il cui limite non era mai determinato, in sé, ma sempre mediante un altro spazio. Resta, dunque, soltanto la categoria della c a u s a l i t à , la quale presenta una serie di cause di un dato effetto, nella quale si può risalire da quest’ultimo, come condizionato, a quelle, come condizioni, e rispondere alla questione della ragione. In quarto luogo, i concetti del possibile, reale e necessario, non menano a una serie, fuorché solamente in quanto l’a c c i d e n t a l e nell’esistenza deve essere sempre considerato come condizionato, e, secondo la regola dell’intelletto, accenna a una condizione, data la quale è necessario che questa rinvii a una condizione più alta, finché la ragione trovi, solo nella totalità della serie, la n e c e s s i t à incondizionata. Sicché non v’ha più di quattro idee cosmologiche, secondo i quattro titoli delle categorie, scegliendo quelle che portano seco necessariamente una serie nella sintesi del molteplice. 1. La totalità assoluta d e l l a COMPOSIZIONE d e l t u t t o dato di tutti i fenomeni. 2. L a t o t a l i t à a s s o l u t a d e l l a DIVISIONE d i u n tutto dato nel fenomeno.

3. La totalità a s s o l u t a d e l l ’ORIGINE di un fenomeno.

4. L a t o t a l i t à a s s o l u t a d e l l a DIPENDENZA DELL’ESISTENZA d e l m u t e v o l e nel fenomeno.

Primieramente qui è da notare, che l’idea della totalità assoluta non riguarda altro che l’esposizione dei f e n o m e n i , e quindi non il puro concetto dell’intelletto di un tutto delle cose in generale. Qui, dunque, i fenomeni son considerati come dati, e la ragione vuole l’assoluta totalità delle condizioni della loro possibilità, in quanto esse formano una serie, e però una sintesi assolutamente (cioè sotto ogni aspetto) completa, per cui il fenomeno possa essere esposto secondo le leggi dell’intelletto. In secondo luogo, è propriamente soltanto l’incondizionato ciò che la

ragione cerca in questa sintesi per serie, e precisamente per serie regressiva, delle condizioni: qualcosa come la totalità nella serie delle premesse, che insieme non ne presuppongono più nessun’altra. Ora questo i n c o n d i z i o n a t o è sempre contenuto n e l l a t o t a l i t à a s s o l u t a della serie, se uno se la rappresenti nella immaginazione. Se non che, questa sintesi assolutamente completa non è, a sua volta, se non un’idea; giacché non si può, almeno anticipatamente, sapere se una tale sintesi sia anche possibile nei fenomeni. Se uno si rappresenta tutto mediante semplici concetti puri dell’intelletto, senza alcuna condizione sensibile, si può dire senz’altro che di un dato condizionato sia data anche la serie intera delle condizioni tra loro subordinate; perché quello è dato soltanto mediante queste. Soltanto, nei fenomeni s’incontra una speciale limitazione circa il modo in cui le condizioni son date, cioè per la sintesi successiva del molteplice dell’intuizione, che nel regresso dev’essere completa. Ma, se questa completezza sia possibile in modo sensibile, è ancora un problema. Pure l’idea di questa completezza intanto c’è nella ragione, senza guardare alla possibilità o impossibilità di unirvi adeguati concetti empirici. Adunque, poiché nell’assoluta totalità della sintesi regressiva del molteplice nel fenomeno (secondo la guida delle categorie, che la rappresentano come una serie di condizioni di un dato condizionato) è compreso di necessità l’incondizionato – e si può anche lasciare indeciso se e quanto questa totalità si possa realizzare – la ragione qui sceglie la via di muovere dall’idea della totalità, benché essa abbia per ultimo iscopo l’i n c o n d i z i o n a t o , sia della serie intera, sia di una parte di essa. Ora, questo incondizionato si può pensare o come semplicemente consistente nella serie intera, in cui, dunque, tutti i membri senza eccezione sono condizionati, e solo il tutto di essa sarebbe assolutamente incondizionato – in tal caso il regresso si dice infinito –; o l’assolutamente incondizionato è soltanto una parte della serie, a cui tutti gli altri membri sono subordinati, ma che, a sua volta, non sta sotto un’altra condizione201. Nel primo caso, la serie è senza limiti (senza cominciamento), cioè infinita, a parte priori, e pure interamente data: ma il regresso in essa non è completo, e può essere detto infinito solo potentialiter. Nel secondo caso, c’è un primo della serie, che rispetto al tempo passato si dice c o m i n c i a m e n t o d e l m o n d o; rispetto allo spazio, limite del mondo; rispetto alle parti di un tutto dato ne’ suoi limiti, s e m p l i c e ; rispetto alle cause, s p o n t a n e i t à assoluta (libertà);

rispetto alla esistenza delle cose mutevoli, assoluta n e c e s s i t à n a t u r a l e. Noi abbiamo due espressioni: m o n d o (Welt) e n a t u r a , che talvolta si scambiano tra loro. La prima significa il tutto matematico di tutti i fenomeni e la totalità della loro sintesi nel grande come nel piccolo, cioè tanto nel progresso di essa per composizione, quanto per divisione. Ma questo stesso mondo è detto natura202, in quanto vien considerato come un tutto dinamico, e non si guarda all’aggregazione nello spazio o nel tempo, per realizzarlo come una quantità, ma all’unità nell’e s i s t e n z a dei fenomeni. Ora, in questo caso, la condizione di ciò che accade si dice causa, e la causalità incondizionata della causa nel fenomeno libertà; quella condizionata, invece, causa naturale in senso stretto. Il condizionato nell’esistenza in generale si dice accidentale, e l’incondizionato necessario. La necessità incondizionata dei fenomeni può dirsi necessità naturale. Le idee, delle quali noi ora ci occupiamo, le ho chiamate sopra idee cosmologiche, sia perché per cosmo si intende il complesso di tutti i fenomeni, e le nostre idee si riferiscono anche soltanto all’incondizionato tra i fenomeni; sia, anche, perché la parola cosmo (Welt) nel senso trascendentale designa la totalità assoluta del complesso delle cose esistenti, e noi rivolgiamo soltanto la nostra attenzione alla completezza della sintesi (comeché solo propriamente nel regresso verso le condizioni). Considerato che, oltracciò, queste idee sono tutte trascendenti, e, benché non oltrepassino veramente, q u a n t o a l m o d o, l’oggetto, cioè i fenomeni, ma abbiano che fare unicamente col mondo sensibile (non coi noumeni), tuttavia spingono la sintesi fino a un g r a d o , che sorpassa ogni possibile esperienza, si può con tutta proprietà, secondo la mia opinione, denominarle tutte quante c o n c e t t i c o s m o l o g i c i . Rispetto alla distinzione dell’incondizionato matematico e dell’incondizionato dinamico, a cui tende il regresso, io direi tuttavia le due prime idee concetti cosmologici (del cosmo in grande e in piccolo) in senso stretto, e le altre due invece concetti t r a s c e n d e n t i d e l l a n a t u r a. Questa distinzione, al presente, non è ancora di special rilievo; ma può acquistare in seguito una maggiore importanza.

Sezione Seconda ANTITETICA DELLA RAGION PURA

Se Tetica è ogni insieme di dottrine dommatiche, io intendo per Antitetica, non affermazioni dommatiche del contrario, ma il conflitto di conoscenze secondo l’apparenza dommatiche (thesin cum antithesi), senza che si annetta all’una piuttosto che all’altra uno speciale diritto all’assenso. L’Antitetica, dunque, non si occupa punto di affermazioni unilaterali, ma prende a considerare le conoscenze universali della ragione solo pel conflitto di esse tra loro e per le cause di tal conflitto. L’Antitetica trascendentale è una ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo resultato. Quando noi rivolgiamo la nostra ragione non semplicemente, per l’uso dei princìpi dell’intelletto, agli oggetti dell’esperienza, ma ci avventuriamo ad estenderla al di là dei limiti di questa, allora vengon fuori proposizioni s o f i s t i c h e , che dalla esperienza non possono né sperare conferma, né temere confutazione; ciascuna delle quali non soltanto è in se stessa senza contraddizione, ma trova perfino nella natura della ragione le condizioni della sua necessità; solo che, disgraziatamente, il contrario ha dalla parte sua ragioni altrettanto valide e necessarie di affermazione. Le questioni che si presentano naturalmente in una tale dialettica della ragion pura, son dunque: 1) In quali proposizioni propriamente la ragion pura è soggetta inevitabilmente a una antinomia. 2) Su quali cause si fonda questa antinomia. 3) Se nondimeno, e in qual modo, alla ragione, in questo conflitto, resti aperta una via alla certezza. Un teorema dialettico della ragion pura deve, dunque, avere in sé questo, che lo distingua da tutte le proposizioni sofistiche: che non concerna una questione arbitraria, che non si solleva se non per un certo scopo voluto, ma sia una questione siffatta, che ogni ragione umana nel suo cammino vi si deve necessariamente imbattere; e in secondo luogo, che così essa come la contraria porti seco non soltanto un’apparenza artificiosa, che, se uno l’esamini, dilegua tosto, ma un’apparenza naturale e inevitabile, che, quando anche uno non ne sia più ingannato, illude pur sempre, sebbene non riesca più a gabbare; e però può bensì esser resa innocua, ma non può giammai venire estirpata. Una tale dottrina dialettica non si riferirà all’unità intellettuale di concetti d’esperienza, ma all’unità razionale di semplici idee, le cui condizioni – poiché primieramente, come sintesi secondo regole, essa deve accordarsi con l’intelletto, e pure, insieme, come unità assoluta di essa, con la ragione, – se essa è adeguata all’unità della ragione, saranno troppo grandi per l’intelletto,

e se proporzionata all’intelletto, troppo piccole per la ragione; dal che deve sorgere un conflitto, che non si può evitare, donde che si prendano le mosse. Queste affermazioni sofistiche aprono dunque una lizza dialettica, dove ogni parte cui sia permesso di dar l’assalto ha il disopra, e soggiace di sicuro quella che è costretta a tenersi sulla difensiva. Quindi anche i cavalieri gagliardi, s’impegnino essi per la buona o per la cattiva causa, sono sicuri di riportare la corona della vittoria, se badano solo ad avere il privilegio di dar l’ultimo assalto senza essere più obbligati a sostenere un nuovo attacco dell’avversario. Si può facilmente immaginare, che questo arringo pel passato è stato abbastanza spesso corso, che molte vittorie sono state guadagnate da ambo le parti; ma per l’ultima, che decide la cosa, si è sempre badato che il difensore della buona causa tenesse solo il terreno, e così fosse impedito all’avversario di impugnare più oltre le armi. Come giudici di campo imparziali, dobbiamo mettere affatto da parte, se sia la buona o la cattiva causa quella che i combattenti sostengono, e lasciar che essi se la sbrighino prima tra loro. Forse, dopo essersi l’un l’altro più stancati che danneggiati, essi scorgeranno da se stessi la vanità della loro lotta e si separeranno da buoni amici. Questo metodo di assistere a un conflitto di affermazioni, o piuttosto di provocarlo da sé, non per decidere alla fine in favore dell’una o dell’altra parte, ma per ricercare se l’oggetto di esso non sia forse una semplice illusione, che ciascuno vanamente s’affanna ad acchiappare, e in cui ei non può nulla guadagnare, quand’anche non gli si resistesse punto: questo metodo, dico, si può chiamare m e t o d o s c e t t i c o. Esso è da distinguere del tutto dallo s c e t t i c i s m o , principio di una inscienza secondo arte e scienza203, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza, in quanto cerca di scoprire in un tale combattimento, onestamente inteso da ambo le parti e condotto con intelligenza, il punto dell’equivoco, per fare come i saggi legislatori, che dall’imbarazzo dei giudici nell’amministrazione della giustizia ricavano per sé un ammaestramento intorno a ciò che di manchevole e non abbastanza determinato è nelle loro leggi. L’antinomia, che si rivela nell’applicazione delle leggi, è per la nostra limitata sapienza la maggior prova d’esame della nomotetica, per rendere così attenta la ragione, che nella speculazione astratta non s’accorge facilmente dei suoi passi falsi, ai momenti della

determinazione dei suoi princìpi. Ma codesto metodo scettico è essenzialmente proprio solo della filosofia trascendentale; e in ogni modo, può farsene a meno in ogni altro campo di ricerche, solo in questo no. Nella matematica il suo uso sarebbe assurdo: poiché in essa non può restar nascosta e sfuggire all’occhio nessuna falsa affermazione, in quanto le dimostrazioni vi debbono sempre procedere al filo dell’intuizione pura, e mediante una sintesi sempre evidente. Nella filosofia sperimentale204 può bene un dubbio sospensivo esser utile; se non che, nessun malinteso, almeno, è possibile, il quale non si possa facilmente tôr via, e ad ogni modo nell’esperienza devono in definitiva trovarsi gli ultimi mezzi della decisione del dissidio, presto o tardi che essi abbiano a rintracciarsi. La morale può dare tutti i suoi princìpi anche in concreto e insieme le conseguenze pratiche, almeno in esperienze possibili, e così evitare il malinteso dell’astrazione. Per contro, le affermazioni trascendentali, che si arrogano vedute che si estendono al di là del campo d’ogni possibile esperienza, né si trovano nel caso che la loro sintesi astratta possa esser data in qualche intuizione a priori, né son tali che il malinteso possa esser scoperto mercé una qualche esperienza. La ragione trascendentale non ci permette dunque altra pietra di paragone che il tentativo d’un accordo delle sue affermazioni tra loro stesse, e quindi, prima, di una gara di combattimento tra loro, libera e senza ostacoli; e a questa gara al presente noi vogliamo dar corso205.

PRIMO CONFLITTO DELLE IDEE TRASCENDENTALI Tesi Il mondo nel tempo ha un cominciamento, e inoltre, per lo spazio, è chiuso dentro limiti. Dimostrazione Infatti, se si ammette che il mondo non abbia nel tempo un cominciamento, fino a ogni istante dato è passata una eternità e però è trascorsa nel mondo una serie infinita di stati successivi delle cose. Ora l’infinità d’una serie consiste appunto in ciò, che essa non può esser mai compiuta mediante una sintesi successiva. E dunque impossibile una serie

cosmica infinita trascorsa; e però un cominciamento del mondo è condizione necessaria della sua esistenza; ciò che era primieramente da dimostrare. Rispetto poi al secondo punto, si ammetta da capo il contrario; allora il mondo sarà un tutto infinito, già dato, di cose simultaneamente esistenti. Ora, noi non possiamo pensare in altro modo la quantità di un quantum206 che non sia dato dentro certi limiti ad ogni intuizione, se non mediante la sintesi delle parti, e là totalità di un tale quantum solo mercé la sintesi completa, o mercé l’addizione ripetuta dell’unità a se stessa207. Pertanto, per concepire il mondo, che riempie tutti gli spazi, come un tutto, occorrerebbe considerare la sintesi successiva delle parti di un mondo infinito come completa, cioè un tempo infinito dovrebbe essere considerato come trascorso nella enumerazione di tutte le cose coesistenti; il che è impossibile. Dunque, un aggregato infinito di cose reali non può essere considerato come un tutto dato, e però né anche come dato s i m u l t a n e a m e n t e . Per conseguenza, un mondo per la estensione nello spazio e non i n f i n i t o , ma chiuso nei suoi limiti; che era il secondo punto. Antitesi Il mondo non ha né cominciamento né limiti spaziali, ma è, così rispetto al tempo come rispetto allo spazio, infinito. Dimostrazione Poniamo infatti che abbia un cominciamento. Poiché il cominciamento è una esistenza alla quale precede un tempo in cui la cosa non è, ci deve essere stato un tempo in cui il mondo non era, ossia un tempo vuoto. Ora, in un tempo vuoto non è possibile il sorgere di una cosa qual sia, perché nessuna parte di un tempo tale ha in sé, piuttosto che un’altra qualunque, una condizione distintiva di essere piuttosto che di non essere (sia che si supponga che essa sorga da se stessa o per altra causa). Parecchie serie, dunque, di cose possono cominciare nel mondo, ma il mondo stesso non può avere un cominciamento; e però esso, quanto al tempo passato, è infinito. Per ciò che spetta alla seconda parte, se si ammette da principio il contrario, che cioè il mondo, quanto allo spazio, sia finito e limitato, allora esso si trova in uno spazio vuoto, che non è limitato. Si dovrebbe perciò incontrare, non soltanto una relazione delle cose nello s p a z i o , ma altresì una relazione delle cose c o n l o s p a z i o. Ora, poiché il mondo è un tutto assoluto, fuori del quale non c’è oggetto d’intuizione, né, perciò, un correlato del mondo, con cui questo sia in relazione, la relazione del mondo con lo

spazio vuoto sarebbe una relazione con n e s s u n o g g e t t o. Ma una simile relazione, e però anche la limitazione del mondo da parte dello spazio vuoto, non è niente. Dunque il mondo, rispetto allo spazio, non è punto limitato; cioè esso, quanto alla estensione, è infinito208.

Nota alla prima Antinomia I. alla tesi In questi argomenti tra loro in contrasto io non ho cercato l’illusione, per condurre (come si dice) una dimostrazione avvocatesca, che si serva a proprio vantaggio della imprudenza dell’avversario e sfrutti volentieri il ricorso di costui a una legge fraintesa, per edificare le proprie ingiuste pretese sulla confutazione di essa. Ciascuno di questi argomenti è tratto dalla natura della cosa, ed è messo da parte il vantaggio, che potrebbero offrire gli erronei ragionamenti dei dommatici delle due parti. Io avrei potuto dimostrare la tesi anche secondo l’apparenza, premettendo dell’infinità di una quantità data, secondo l’abitudine dei dommatici, un concetto difettoso. I n f i n i t à è una quantità, di cui non è possibile una maggiore (maggiore cioè del numero di una data unità contenutovi). Ora nessun numero è il massimo, perché sempre si può aggiungere una o più unità. Dunque, una quantità infinita data, quindi anche un mondo infinito (quanto alla serie trascorsa, come quanto all’estensione) è impossibile: dunque esso, per entrambi i rispetti, è limitato. Io avrei potuto condurre così la mia dimostrazione; se non che, questo concetto non s’accorda con ciò che s’intende per un tutto infinito. Così non è rappresentato q u a n t o g r a n d e esso sia; quindi il suo concetto non è quello di un maximum, ma vien pensato allora soltanto il suo rapporto a una unità presa a piacere, rispetto alla quale esso è maggiore di ogni numero. Ora, secondo che si assume l’unità maggiore o minore, l’infinito sarebbe maggiore o minore; ma l’infinità, consistendo semplicemente nel rapporto a questa unità data, rimarrebbe sempre la stessa, quantunque certamente la quantità assoluta del tutto così non sarebbe stata guari conosciuta: ma qui non si tratta di questa. Il vero (trascendentale) concetto dell’infinità è, che la sintesi successiva dell’unità nella misurazione d’un quantum non può mai esser compiuta209. Quindi segue con ogni sicurezza, che non può esser trascorsa un’eternità di stati successivi fino a un dato momento (presente), e che il mondo dunque

deve avere un cominciamento. Rispetto alla seconda parte della tesi, la difficoltà di una serie infinita, e nondimeno passata, in verità viene meno, perché il molteplice di un mondo infinito d’estensione è dato s i m u l t a n e a m e n t e . Se non che, per pensare la totalità di un tale insieme, non potendo noi ricorrere a limiti che stabiliscono da sé questa totalità nella intuizione, dobbiamo render conto del nostro concetto, che in tal caso non può andare del tutto all’insieme determinato delle parti: ma deve provare la possibilità di un tutto mediante la sintesi successiva delle parti. Ora, poiché questa sintesi dovrebbe costituire una serie che non possa esser mai completa, così non si può, avanti ad essa, e però neanche per mezzo di essa, pensare una totalità. Il concetto, infatti, della totalità stessa, in questo caso è la rappresentazione di una sintesi completa delle parti: e questa completezza, e quindi anche il suo concetto, è impossibile. II. all’antitesi La dimostrazione dell’infinità della serie cosmica data e del complesso del mondo si fonda su questo, che nel caso contrario un tempo vuoto, come uno spazio vuoto, dovrebbe costituire il limite del mondo. Ora non mi è ignoto che contro questa conseguenza si cercano sotterfugi, col pretesto che sia bene possibile un limite del mondo nel tempo e nello spazio, senza che si debba ammettere appunto un tempo assoluto al di là del cominciamento del mondo, o uno spazio assoluto fuori del mondo reale; cio che è impossibile. Per quest’ultima parte io sono perfettamente soddisfatto di tale opinione dei filosofi della scuola l e i b n i z i a n a . Lo spazio è semplicemente la forma dell’intuizione esterna, non già un oggetto reale, che possa venir intuito esternamente, né un termine correlativo ai fenomeni, ma la forma degli stessi fenomeni. Lo spazio, dunque, non può assolutamente (solo per sé) presentarsi come qualcosa di determinante nell’esistenza delle cose, perché esso non è punto un oggetto, ma solo la forma di oggetti possibili. Le cose, dunque, come fenomeni, determinano bensì lo spazio; cioè di tutti i predicati possibili di esso (grandezza e rapporto) esse fanno che questi o quelli appartengano alla realtà; ma, viceversa, lo spazio non può, come qualcosa che stia per sé, determinare la realtà delle cose rispetto alla grandezza e alla forma, perché in se stesso non è niente di reale. Può dunque uno spazio (sia esso pieno o vuoto)210 esser limitato dai fenomeni, ma i fenomeni non possono essere limitati da u n o s p a z i o v u o t o esteriore ad essi. Lo stesso precisamente

vale pel tempo. Ora, concesso tutto questo, è nondimeno fuor di questione che si dovrebbero ammettere assolutamente queste due nullità (Undinge), lo spazio vuoto al di là e il tempo vuoto prima del mondo, se si ammettesse un limite cosmico, o rispetto allo spazio o rispetto al tempo. Infatti, quanto alla scappatoia della quale si tenta di scantonare, innanzi alla conseguenza per cui noi diciamo che, se il mondo (nel tempo e nello spazio) ha limiti, il vuoto infinito dovrebbe determinare l’esistenza delle cose reali rispetto alla loro grandezza: essa si rifà di soppiatto da ciò solo, che, invece di un m o n d o s e n s i b i l e, si pensa a chi sa quale mondo intelligibile, e invece del primo cominciamento (un’esistenza, alla quale precede un tempo di non essere) si pensa in generale un’esistenza, che non p r e s u p p o n e n e s s u n ’ a l t r a c o n d i z i o n e nel mondo, invece dei limiti della estensione si pensano b a r r i e r e dell’universo, e per tal modo si finisce coll’uscir dalla via del tempo e dello spazio. Ma qui non si tratta se non del mundus phaenomenon e della sua grandezza, rispetto a cui non si può a niun patto astrarre dalle ricordate condizioni della sensibilità, senza distruggerne l’essenza. Il mondo sensibile, se è limitato, sta necessariamente nel vuoto infinito. Se si vuol mettere a priori questo da parte, e però lo spazio in generale quale condizione della possibilità dei fenomeni, allora cade tutto il mondo sensibile. Se non che, nel nostro problema soltanto questo è dato. Il mundus intelligibilis non è se non il concetto universale d’un mondo in generale, in cui si astrae da tutte le condizioni dell’intuizione di esso, e per cui, dunque, non è guari possibile nessuna proposizione sintetica, né affermativa né negativa.

SECONDO CONFLITTO DELLE IDEE TRASCENDENTALI Tesi Ogni sostanza composta nel mondo consta di parti semplici, e non esiste in nessun luogo se non il semplice, o ciò che ne è composto. Dimostrazione Infatti, se si ammettesse che le sostanze composte non constino di parti semplici, sopprimendo nel pensiero ogni composizione, non resterebbe nessuna parte composta, e (non essendoci parti semplici) nessuna parte

semplice, quindi assolutamente niente, e per conseguenza nessuna sostanza sarebbe stata data. O, dunque, è impossibile sopprimere nel pensiero ogni composizione, ovvero, dopo la soppressione di essa, deve restare qualcosa di sussistente senza nessuna composizione, cioè il semplice. Ma, nel primo caso, il composto non consterebbe di sostanze (perché in esse la composizione non è se non una relazione accidentale delle sostanze, senza la quale esse devono sussistere come enti per sé stanti). Ora, poiché questo caso contraddice all’ipotesi, così non resta se non il secondo: che cioè il composto sostanziale nel mondo risulta di parti semplici. Quindi segue immediatamente, che nel mondo le cose sono tutte semplici, che la composizione è solamente uno stato estrinseco di esse, e che, quantunque noi non possiamo mai sottrarre le sostanze elementari a questo stato di unione, pure la ragione deve concepirle come i soggetti primi di ogni composizione, e quindi, anteriormente ad essa, come enti semplici. Antitesi Nessuna cosa composta nel mondo consta di parti semplici; e in esso non esiste, in nessun luogo, niente di semplice. Dimostrazione Poniamo che una cosa composta (come sostanza) consti di parti semplici. Poiché ogni rapporto esterno, quindi anche ogni composizione di sostanze, non è possibile se non nello spazio, il composto deve constare di tante parti, e di altrettante parti deve constare anche lo spazio, che esso occupa. Ma lo spazio non consta di parti semplici, bensì di spazi. Dunque, ogni parte del composto deve occupare uno spazio. Ma le parti assolutamente prime d’ogni composto sono semplici. Dunque, il semplice occupa uno spazio. Ora, poiché ogni reale che occupa uno spazio, contiene in sé una molteplicità di elementi, che si trovano l’uno fuori dell’altro, e quindi è composto, e precisamente un reale composto, non di accidenti (ché questi non possono senza sostanza esser l’uno fuori dell’altro), pertanto un composto di sostanze: il semplice sarebbe un composto sostanziale; ciò che si contraddice. La seconda proposizione dell’antitesi, che nel mondo non esiste niente di semplice, non può qui significare se non che l’esistenza dell’assolutamente semplice non può essere provata per nessuna esperienza o percezione, né esterna né interna, e che l’assolutamente semplice è dunque una semplice idea, la cui realtà oggettiva non può esser dimostrata mai in una qualsiasi esperienza possibile; quindi, che è senza nessuna applicazione e oggetto

nell’esposizione dei fenomeni. Infatti, se noi vogliamo ammettere che sia dato, per questa idea trascendentale, di trovare un oggetto di esperienza, dovrebbe l’intuizione empirica di un oggetto esser conosciuta come tale, che non contenesse assolutamente un molteplice di elementi l’uno fuori dell’altro, e legati in unità. Ora, poiché dalla non coscienza di un tale molteplice non si può inferire l’impossibilità totale di esso in una qualsiasi intuizione di un oggetto, ma questo intanto è affatto necessario per l’assoluta semplicità; ne segue che questa non si possa dedurre da nessuna percezione, quale che essa sia. Poiché, dunque, non può darsi qualcosa come oggetto assolutamente semplice in una qualsiasi esperienza possibile, ma il mondo sensibile dev’esser considerato come il complesso di tutte le esperienze possibili, così in nessun luogo è dato in esso niente di semplice. Questa seconda proposizione dell’antitesi va molto più in là della prima, che bandisce il semplice solo dall’intuizione del composto, laddove questa lo esclude da tutta la natura; per questo, anche, la si è potuta dimostrare non dal concetto di un dato oggetto dell’intuizione esterna (del composto), ma dal rapporto di esso a una esperienza possibile in generale.

Nota alla seconda Antinomia I. alla tesi Se io parlo di un tutto, che consta necessariamente di parti semplici, intendo per esso solamente un tutto sostanziale come vero e proprio composto, cioè l’unità accidentale del molteplice che d a t o s e p a r a t a m e n t e (almeno nel pensiero) è posto in un reciproco rapporto, e così costituisce un che d’uno. Lo spazio si dovrebbe propriamente dire non composto, ma tutto, perché la parti di esso sono possibili solo nell’intero, e l’intero non è possibile in virtù delle parti. In ogni caso, dovrebbe dirsi compositum ideale, ma non reale. Questo tuttavia non è che una sottigliezza. Poiché lo spazio non è un composto di sostanze (né di accidenti reali), soppressa in esso ogni composizione, non potrebbe rimanere nulla, né anche il punto: questo infatti non è possibile se non come limite d’uno spazio (q u i n d i d i u n c o m p o s t o). Lo spazio e il tempo non risultano dunque di parti semplici. Ciò che appartiene soltanto allo stato di sostanza, quantunque abbia una quantità (per es., il cangiamento), né anche è dato dal semplice; cioè un certo grado di cangiamento non deriva dalla coalizione di molti

cangiamenti semplici. La nostra inferenza dal composto al semplice non vale se non delle cose sussistenti per se stesse. Ma gli accidenti di uno stato non sussistono per se stesse. Sicché è facile rovinare la dimostrazione della necessità del semplice come elemento di ogni composto sostanziale, e perciò perdere del tutto la propria causa, se la si spinge troppo oltre, e si vuol farla valere per ogni composto senza distinzione, come molte volte è accaduto pel passato. Io, del resto, non parlo qui del semplice, se non in quanto esso è necessariamente dato nel composto, potendovisi questo risolvere come nei suoi elementi. Il senso proprio della parola m o n a d e (nell’uso di Leibniz) non dovrebbe riferirsi se non al semplice che è dato i m m e d i a t a m e n t e come sostanza semplice (per es. nell’autocoscienza), e non come elemento del composto, che si potrebbe meglio denominare atomo. E poiché, soltanto rispetto al composto, io voglio dimostrare le sostanze semplici come suoi elementi, così io potrei chiamare la tesi211 della seconda antinomia l’atomistica trascendentale. Ma, poiché questa parola, già da molto tempo, è stata adoperata per designare un modo speciale di spiegare i fenomeni corporei (moleculae), e presuppone quindi concetti empirici, essa può dirsi il principio dialettico della m o n a d o l o g i a . II. all’antitesi Contro questa proposizione di una divisione infinita della materia, il cui principio dimostrativo è semplicemente matematico, sono state opposte dai m o n a d i s t i alcune obiezioni, che si rendono già sospette pel semplice fatto che non vogliono riconoscere le più chiare dimostrazioni matematiche come conoscenze circa la natura dello spazio in quanto esso è in fatto la formale condizione della possibilità d’ogni materia, ma le considerano solo come inferenze da concetti astratti, ma arbitrari, che non possono riferirsi a cose reali. Come se fosse anche solamente possibile immaginare un’altra specie di intuizione, diversa da quella che ci è data nella intuizione originaria dello spazio, e le determinazioni di questo a priori non concernessero insieme tutto ciò che non è possibile se non a patto di riempire questo spazio. A sentirli, oltre al punto matematico, che è semplice, ma non è una parte, sì il limite semplicemente dello spazio, si dovrebbero concepire anche punti fisici, che sono bensì anch’essi semplici, ma hanno la prerogativa, come parti dello spazio, di riempirlo con la semplice loro aggregazione. Senza ripetere qui le confutazioni comuni e chiare di quest’assurdità, che si incontrano in gran

copia, come infatti è del tutto vano voler sofisticare contro l’evidenza della matematica valendosi di semplici concetti discorsivi, così io mi limito ad osservare che, se la filosofia qui litiga a cavilli con la matematica, ciò avviene perché dimentica, che in questa questione non si ha da fare se non con f e n o m e n i e con le loro condizioni. Ma qui non basta trovare al puro c o n c e t t o i n t e l l e t t u a l e del composto il corrispondente concetto del semplice, bensì occorrerebbe trovare all’i n t u i z i o n e del composto (della materia) l’intuizione corrispondente del semplice; e, questo, secondo le leggi della sensibilità, e quindi anche negli oggetti dei sensi, è affatto impossibile. Può dunque, di un tutto di sostanze, che è pensato semplicemente mediante il puro intelletto, esser sempre vero, che noi, prima della composizione di esso, dobbiamo avere il semplice; ma questo non è vero del totum substantiale phaenomenon, il quale, come intuizione empirica nello spazio, reca in sé la proprietà che nessuna parte è semplice, per la ragione che nessuna parte dello spazio è semplice. Intanto i monadisti sono stati abbastanza fini per sfuggire a questa difficoltà; giacché essi non presuppongono lo spazio come condizione della possibilità degli oggetti dell’intuizione esterna (corpi), ma questi, invece, è il rapporto dinamico delle sostanze in generale, come la condizione della possibilità dello spazio. Ora, noi abbiamo un concetto dei corpi solo come fenomeni, e, come tali, essi presuppongono necessariamente lo spazio quale condizione della possibilità di ogni fenomeno esterno; e la scappatoia è pertanto vana, come infatti è stata già abbastanza tagliata, di sopra, nella Estetica trascendentale. Se essi fossero cose in sé, allora l’argomento dei monadisti sarebbe senza dubbio valido. La seconda affermazione dialettica ha questo di particolare, che ha contro un’affermazione dommatica, la quale, fra tutte le affermazioni sofistiche, è la sola che assuma di dimostrare evidentemente, in un oggetto della esperienza, la r e a l t à di ciò che noi abbiamo sopra messo semplicemente nel conto delle idee trascendentali, ossia la semplicità assoluta della sostanza: cioè che l’oggetto del senso interno, l’Io che pensa, sia una sostanza semplice. Senza dilungarmi qui su ciò (perché è stato esaminato sopra più distesamente), noto soltanto che, se qualcosa è pensato semplicemente come oggetto, senza aggiungervi qualche determinazione sintetica della sua intuizione (come infatti questo accade con la rappresentazione tutta nuda: Io), non si può certamente percepire niente di molteplice e nessuna composizione in una tale rappresentazione. Inoltre, poiché i predicati, onde io penso quest’oggetto,

sono semplici intuizioni del senso interno, né anche vi si può presentar nulla, che dimostri un molteplice di elementi estrinseci l’una all’altro, né quindi una reale composizione. L’autocoscienza, dunque, implica soltanto che, poiché il soggetto che pensa è insieme, suo proprio oggetto, esso non può divider se stesso (benché possa dividere le determinazioni ad esso inerenti); giacché rispetto a se stesso ogni oggetto (Gegenstand) è unità assoluta. Nondimeno, se questo soggetto si considera e s t e r n a m e n t e , come un oggetto della intuizione, allora mostrerà in sé certamente una composizione nel fenomeno. Ma bisogna sempre considerarlo così, se si vuol sapere se in esso ci sia, o no, una molteplicità di elementi e s t r i n s e c i l’uno all’altro.

TERZO CONFLITTO DELLE IDEE TRASCENDENTALI Tesi La causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui possono esser derivati tutti i fenomeni del mondo. È necessario ammettere per la spiegazione di essi anche una causalità per libertà. Dimostrazione Se si ammette che non si dia altra causalità oltre quella secondo leggi della natura, allora tutto ciò c h e a c c a d e presuppone uno stato antecedente, al quale segue immancabilmente secondo una regola. Ma lo stato antecedente deve essere esso stesso qualcosa che è accaduto (divenuto nel tempo, poiché esso prima non era); giacché, se fosse stato sempre, la sua conseguenza, anche essa, non sarebbe sorta a un tratto, sarebbe stata sempre. La causalità, dunque, della causa, per cui qualcosa avviene, è essa stessa un a c c a d e r e , che, secondo leggi della natura, a sua volta presuppone uno stato precedente e la sua causalità; ma anche questo, del pari, un altro ancor più antico, e così via. Se dunque tutto accade secondo semplici leggi della natura, si ha sempre solo un cominciamento subalterno, ma non si ha mai un primo cominciamento; e però, in generale, non si ha nessuna completezza della serie dalla parte delle cause derivanti l’una dall’altra. Ma la legge della natura consiste appunto in ciò, che niente accada senza una determinata causa a priori sufficiente. Dunque, questa proposizione, che ogni causalità sia possibile soltanto secondo leggi naturali, si contraddice da se stessa nella sua

illimitata universalità; né può, dunque, tale causalità essere ammessa come la sola. Pertanto si deve ammettere una causalità, per cui qualcosa avviene, senza che la causa di essa sia ancora determinata ulteriormente da un’altra causa antecedente secondo leggi necessarie; cioè una s p o n t a n e i t à a s s o l u t a delle cause a cominciare da sé una serie di fenomeni che si svolga secondo leggi naturali; quindi una libertà trascendentale, senza la quale nello stesso corso della natura la successione della serie dei fenomeni dalla parte delle cause non è mai completa. Antitesi Non c’è nessuna libertà, ma tutto nel mondo accade unicamente secondo leggi della natura. Dimostrazione Poniamo che si dia una l i b e r t à nel senso trascendentale come una particolare specie di causalità, secondo la quale gli avvenimenti del mondo potrebbero seguire, ossia una facoltà di incominciare assolutamente uno stato, quindi anche una serie di conseguenze del medesimo; allora comincerà assolutamente, non soltanto una serie mercé questa spontaneità, ma la determinazione di questa stessa spontaneità per la produzione della serie, cioè la causalità, di guisa che non preceda nulla, da cui questa azione, che avviene secondo leggi costanti, sia determinata. Ma ogni cominciare ad agire presuppone uno stato della causa ancora non agente; e un primo cominciamento dinamico dell’azione presuppone uno stato, che non ha con quello precedente appunto della stessa causa nessun rapporto di causalità, cioè non ne segue in nessuna maniera. Dunque la libertà trascendentale è opposta alla legge causale, ed è un tale collegamento di stati successivi di cause efficienti, per cui non è possibile alcuna unità d’esperienza, e che non si riscontra quindi né anche in alcuna esperienza, quindi un vuoto essere immaginario. Noi non abbiamo dunque se non la n a t u r a , nella quale dobbiamo cercare il legame e l’ordine degli avvenimenti del mondo. La libertà (indipendenza) dalle leggi della natura è bensì una l i b e r a z i o n e dalla c o s t r i z i o n e , ma anche dal filo conduttore di tutte le regole. Giacché non si può dire, che al luogo delle leggi della natura subentrino, nella causalità del corso cosmico, leggi della libertà; poiché, se questa fosse determinata secondo leggi, non sarebbe libertà, ma essa stessa non sarebbe altro che

natura. Natura, dunque, e libertà trascendentale, si distinguono come l’esser conforme a leggi e l’essere eslege: di cui quello, in verità, scomoda l’intelletto con la difficoltà di ricercare sempre più alto l’origine degli avvenimenti nella serie della cause, poiché la causalità in essi è sempre condizionata, ma in compenso promette un’unità, completa e conforme a leggi, dell’esperienza; laddove, al contrario, l’illusione della libertà promette bensì pace all’intelletto indagatore lungo la catena delle cause, menandolo a una causalità incondizionata, che prende ad agire da se stessa, ma che, poiché essa stessa è cieca, spezza il filo conduttore delle regole, in cui soltanto è possibile una esperienza tutta legata.

Nota alla terza Antinomia I. alla tesi L’idea trascendentale della libertà è lungi dal costituire tutto il contenuto del concetto psicologico di questo nome, che in gran parte è empirico; ma designa soltanto il contenuto della spontaneità assoluta dell’azione come il fondamento proprio della imputabilità di questa; essa è intanto la pietra dello scandalo per tutta la filosofia, che trova difficoltà insormontabili a concedere una specie simile di causalità incondizionata. Quello dunque, che nella questione della libertà del volere ha messo da tempo immemorabile la ragione speculativa in così grande imbarazzo, non è propriamente se non qualcosa di t r a s c e n d e n t a l e , e si riferisce unicamente a questo, se si deve ammettere una facoltà di cominciar da s e s t e s s o una serie di cose o di stati successivi. Come una tale facoltà sia possibile non è altrettanto necessario poterlo dire, in quanto noi, anche nella causalità secondo leggi naturali dobbiamo contentarci di riconoscere a priori, che tale causalità si deve presupporre, benché noi non intendiamo in nessuna maniera la possibilità che per una certa esistenza sia posta l’esistenza di un’altra cosa, e benché, perciò, noi dobbiamo rimettercene unicamente alla esperienza. Ora noi, per vero, abbiamo mostrata questa necessità di un primo cominciamento di una serie di fenomeni dalla libertà solo in quanto esso è richiesto per la comprensibilità d’una origine del mondo, mentre tutti gli stati seguenti si possono considerare come una conseguenza secondo semplici leggi naturali. Ma, una volta dimostrata (benché non intesa) la facoltà di cominciare assolutamente da se stesso una serie nel tempo, è anche dato oramai di far cominciare da se stesse,

in mezzo al corso del mondo, diverse serie di causalità, e di attribuire alle sostanze di esse facoltà di agire per libertà. Ma qui non bisogna lasciarsi trattenere dal malinteso, che, poiché una serie successiva nel mondo non può avere se non un primo cominciamento relativo, essendoci tuttavia sempre nel mondo uno stato precedente, non ci sia nel corso cosmico un cominciamento di serie assolutamente primo. Noi infatti non parliamo qui di un assoluto primo cominciamento rispetto al tempo, ma rispetto alla causalità. Se io ora (per es.) mi alzo dalla mia sedia affatto liberamente e senza l’influsso necessariamente determinante delle cause naturali, in questo fatto comincia assolutamente, insieme con le sue conseguenze naturali all’infinito, una nuova serie, sebbene quanto al tempo questo fatto non sia se non continuazione di una serie precedente. Giacché cotesta risoluzione e cotesto fatto non sono punto nel seguito dei semplici effetti naturali, e non ne sono una semplice continuazione; ma le cause naturali determinanti cessano in capo ad essa rispetto a questo avvenimento, che segue bensì a queste cause, ma non ne consegue, e però deve esser detto assoluto principio d’una serie di fenomeni, non rispetto al tempo, bensì rispetto alla causalità. La conferma del bisogno della ragione di ricorrere, nella serie delle cause naturali, a un primo cominciamento per libertà, risplende molto chiaramente innanzi ai nostri occhi in ciò: che tutti i filosofi dell’antichità (la scuola e p i c u r e a esclusa) si videro costretti, per la spiegazione dei movimenti cosmici, ad ammettere un p r i m o m o t o r e, cioè una causa agente liberamente, che abbia cominciato da prima e da se stessa questa serie di stati. Giacché essi non ardirono spiegare con la semplice natura un primo cominciamento. II. all’antitesi Il sostenitore dell’onnipotenza della natura (f i s i o c r a z i a trascendentale) contro la dottrina della libertà potrebbe affermare la sua proposizione contro i raziocinii sofistici di questa nel seguente modo. S e voi non ammettete nel mondo un Primo matematico rispetto al tempo non avete neppure necessità di cercare u n P r i m o d i n a m i c o r i s p e t t o a l l a c a u s a l i t à. Chi vi ha detto di escogitare uno stato assolutamente primo del mondo, e quindi un assoluto cominciamento della serie via via svolgentesi dei fenomeni e, – al solo scopo di procurare un punto di riposo alla vostra immaginazione, – di assegnare limiti all’illimitata natura? Poiché le sostanze nel mondo ci son sempre state,

– almeno l’unità dell’esperienza rende necessario tale presupposto – non v’ha difficoltà ad ammettere, anche, che il cangiamento de’ loro stati, cioè una serie de’ loro cangiamenti, ci sia stata sempre; e quindi non c’è bisogno di cercare un primo cominciamento, né matematico, né dinamico. La possibilità di una tale derivazione infinita, senza un primo membro, rispetto al quale tutto il rimanente è semplicemente consecutivo, non si può, quanto alla sua possibilità, render concepibile. Ma, se voi volete perciò buttar via questi enigmi della natura, vi vedrete costretti a buttar via molte proprietà fondamentali sintetiche (forze fondamentali), che voi potete intendere altrettanto poco; e la stessa possibilità di un cangiamento in generale vi deve fare intoppo. Se infatti voi non trovaste, mediante l’esperienza, che essa è reale, non potreste mai escogitare a priori, come sia possibile una tale incessante alternativa di essere e di non essere. Intanto, in ogni caso, quand’anche si conceda una facoltà trascendentale della libertà per dare inizio ai mutamenti del mondo, questa facoltà tuttavia dovrebbe almeno essere soltanto estrinseca al mondo (benché resti sempre una pretesa ardita ammettere, fuori dell’insieme di tutte le intuizioni possibili, un altro oggetto, che non può esser dato in nessuna percezione possibile). Ma nello stesso mondo, non è dato mai attribuire alle sostanze una siffatta facoltà, poiché allora sparirebbe per gran parte quel nesso dei fenomeni determinantisi l’un l’altro secondo leggi universali, che si chiama natura, e con esso il carattere della verità empirica, che distingue l’esperienza dal sogno. A canto, infatti, a una tale facoltà eslege della libertà, a stento si può concepire più una natura; perché le leggi di questa vengono ad essere continuamente modificate dall’influsso di quella, e il giuoco dei fenomeni, che in base alla sola natura sarebbe regolare e uniforme, vien reso così confuso e sconnesso.

QUARTO CONFLITTO DELLE IDEE TRASCENDENTALI Tesi Nel mondo c’è qualcosa che, o come sua parte o come sua causa, è un essere assolutamente necessario. Dimostrazione

Il mondo sensibile, come l’insieme di tutti i fenomeni, contiene anche una serie di cangiamenti. Infatti senza questa, non ci sarebbe data neppure la rappresentazione della serie temporale quale condizione della possibilità del mondo sensibile212. Ma ogni cangiamento sottostà alla sua condizione, la quale precede nel tempo, e sotto la quale esso è necessario. Ora, ogni condizionato che sia dato, suppone, rispetto alla sua esistenza, una serie completa di condizioni fino all’assolutamente incondizionato, che è solo assolutamente necessario. Deve dunque esistere qualcosa di assolutamente necessario, se esiste un cangiamento come sua conseguenza. Ma questo necessario appartiene anch’esso al mondo sensibile. Ponete, infatti, che sia fuori di questo; allora la serie dei cangiamenti deriverebbe da esso il suo cominciamento, senza che tuttavia questa causa necessaria appartenesse essa stessa al mondo sensibile. Ora, questo è impossibile. Poiché infatti il principio di una serie temporale non può essere determinato se non da ciò che precede nel tempo, la condizione suprema del cominciamento di una serie di cangiamenti deve esistere nel tempo in cui questa ancora non era (giacché il cominciamento è un’esistenza, che è preceduta da un tempo, in cui la cosa che comincia, ancora non era). La causalità, dunque, della causa necessaria dei cangiamenti, quindi anche la causa stessa, appartiene al tempo, e però al fenomeno (in cui il tempo solamente è possibile come sua forma); per conseguenza, non può esser pensata separata dal mondo sensibile quale complesso di tutti i fenomeni. Dunque, nel mondo stesso è contenuto qualcosa di assolutamente necessario (sia poi esso la stessa serie cosmica intera, o una parte di essa). Antitesi In nessun luogo esiste un essere assolutamente necessario, né nel mondo, né fuori del mondo, come sua causa. Dimostrazione Supposto che il mondo stesso, o un essere in esso, sia necessario: o nella serie de’ suoi cangiamenti ci sarebbe un cominciamento, che sarebbe incondizionatamente necessario, quindi senza causa, – ciò che contrasta colla legge dinamica della determinazione di tutti i fenomeni nel tempo; o la serie stessa sarebbe senza nessun cominciamento; e quantunque in tutte le parti accidentale e condizionata, pure nell’insieme assolutamente necessaria e incondizionata; ciò che è in se stesso contraddittorio, poiché l’esistenza di un insieme non può essere necessaria, se nessuna singola parte di esso possegga

in sé un’esistenza necessaria. Supposto, al contrario, che si dia una causa cosmica assolutamente necessaria fuori del mondo, questa, come supremo membro nella s e r i e delle c a u s e dei cangiamenti cosmici, darebbe principio all’esistenza di queste e alla loro serie213. Ma allora dovrebbe anche cominciare ad agire, e la sua causalità apparterrebbe al tempo, e appunto perciò al complesso dei fenomeni, cioè al mondo; e però essa stessa, la causa, non sarebbe fuori del mondo: ciò che contraddice all’ipotesi. Dunque, né nel mondo, né fuori del mondo (ma in rapporto causale con esso) c’è alcun essere assolutamente necessario.

Nota alla quarta Antinomia I. alla tesi Per dimostrare l’esistenza di un essere necessario, qui non mi tocca di servirmi se non dell’a r g o m e n t o c o s m o l o g i c o, ossia di un argomento che dal condizionato nel fenomeno risale all’incondizionato nel concetto, considerando questo come la condizione necessaria dell’assoluta totalità della serie. Tentare la dimostrazione dalla semplice idea di un essere supremo tra tutti gli esseri in generale, appartiene a un altro principio della ragione; e questa dimostrazione dovrà essere presentata a parte. Ora, la pura dimostrazione cosmologica non può provare l’esistenza di un essere necessario, se non lasciando insieme indeciso, se sia lo stesso mondo, o altro da esso. Infatti, per decidere questo, occorrono princìpi che non sono più cosmologici, e non procedono nella serie dei fenomeni: bensì concetti di esseri contingenti in generale (in quanto questi son considerati semplicemente quali oggetti dell’intelletto), e un principio per collegare questi esseri a un essere necessario mediante semplici concetti; il che appartiene tutto a una filosofia t r a s c e n d e n t e ; ma non è questo il luogo. Ma, una volta che si imprende la prova cosmologica, ponendo a fondamento la serie dei fenomeni e il regresso in essa secondo le leggi empiriche della causalità, non si può dopo disfarsene, e passare a qualcosa, che non appartiene punto alla serie, come membro di essa. Infatti, qualcosa quale condizione deve essere considerato appunto nello stesso significato nel quale era presa la relazione del condizionato con la sua condizione, nella serie, che, nel suo continuo processo, doveva condurre alla condizione

suprema. Ora, se questa relazione è sensibile, e fa parte del possibile uso empirico dell’intelletto, la suprema condizione o causa può soltanto secondo le leggi della sensibilità, quindi soltanto come appartenente alla serie temporale, chiudere il regresso; e l’essere necessario deve esser considerato come il membro supremo della serie cosmica. Eppure altri si prese la libertà di fare un tale salto (ηετάβασις εἰς ἄλλο γένος). Si inferì cioè da’ cangiamenti nel mondo la sua contingenza empirica, ossia la sua dipendenza da cause empiricamente determinanti; e si ottenne una serie ascendente di condizioni empiriche, ciò che era anche affatto giusto. Ma, poiché qui non si poteva trovare un primo cominciamento e un membro supremo, si abbandonò a un tratto il concetto empirico di contingenza, e si prese la categoria pura, che allora diè luogo a una semplice serie intelligibile, la cui completezza riposava sull’esistenza di una causa assolutamente necessaria; che ormai, non essendo più legata a nessuna condizione sensibile, fu anche liberata dalla condizione del tempo, per cominciare da se stessa la sua causalità. Ma questo procedimento è del tutto illegittimo, come si può argomentare da quanto segue. Contingente nel puro significato della categoria è ciò il cui opposto contraddittorio è possibile. Ma dalla contingenza empirica non si può a nessun patto conchiudere a quella intelligibile. Ciò che cangia è ciò il cui contrario (il contrario del suo stato) in un altro tempo è reale, quindi anche possibile; con ciò, questo non è l’opposto contraddittorio dello stato antecedente, per cui si richiede che nello stesso tempo in cui era lo stato antecedente, al luogo di esso, potesse essere il suo opposto; ciò che non si può ricavare dal cangiamento. Un corpo in movimento = A, entra in quiete = non A. Ora, dal fatto, che uno stato opposto allo stato A segua a questo, non può punto dedursi che l’opposto contraddittorio di A sia possibile, e quindi che A sia contingente; giacché a ciò si richiederebbe, che nello stesso tempo che c’era il movimento, in sua vece potesse esservi la quiete. Ora, noi non sappiamo altro che la quiete era reale, e quindi anche possibile, nel tempo successivo. Ma movimento in un tempo e quiete in un altro tempo non sono opposti contraddittori. Dunque, la successione di determinazioni opposte, ossia il cangiamento, non dimostra menomamente la contingenza secondo concetti della ragion pura; e però non può né anche condurre all’esistenza di un essere necessario secondo concetti puri dell’intelletto. Il cangiamento non dimostra se non la contingenza empirica, ossia che il nuovo stato per se

stesso, senza una causa appartenente al tempo anteriore, non avrebbe potuto punto aver luogo, in conseguenza della legge di causalità. Questa causa, anche se è assunta come assolutamente necessaria, deve tuttavia in questo modo esser incontrata in un tempo, e appartenere alla serie dei fenomeni. II. all’antitesi Se si pensa d’imbattersi in difficoltà nel risalire nella serie dei fenomeni verso l’esistenza di una causa suprema assolutamente necessaria, queste difficoltà non devono nemmeno fondarsi sul semplice concetto dell’esistenza necessaria d’una cosa in generale, ed essere quindi ontologiche, ma provenire dal rapporto causale con una serie di fenomeni per ammettere una sua condizione che sia essa stessa incondizionata, ed essere, pertanto, cosmologiche, e dedotte secondo leggi empiriche. Si deve insomma mostrare, che l’ascensione nella serie delle cause (nel mondo sensibile) non può mai finire in una condizione empiricamente incondizionata, e che l’argomento cosmologico della contingenza degli stati cosmici, secondo i loro cangiamenti, va contro l’ammissione di una causa prima e cominciante assolutamente la serie. Ma in questa antinomia si dimostra un contrasto strano: che cioè dallo stesso argomento, da cui nella tesi è stata dedotta l’esistenza di un essere originario, nell’antitesi vien dedotta, e dedotta con l’identica forza, la sua inesistenza. Prima si diceva: C ’ è u n e s s e r e n e c e s s a r i o, perché tutto il tempo passato comprende in sé la serie di tutte le condizioni, e con essa, quindi, anche l’incondizionato (il necessario). Ora si dice: n o n c ’ è u n e s s e r e n e c e s s a r i o, appunto perché l’intero tempo trascorso comprende in sé la serie di tutte le condizioni (che sono quindi tutte, a loro volta, condizionate). Ma la causa di ciò è questa. Il primo argomento guarda solo alla t o t a l i t à a s s o l u t a della serie delle condizioni, delle quali l’una determina l’altra nel tempo, e ottiene così un incondizionato e necessario. Il secondo, invece, prende in considerazione la c o n t i n g e n z a di tutto quello che è determinato nella s e r i e t e m p o r a l e (poiché ad ognuno precede un tempo, in cui la condizione stessa deve a sua volta esser determinata come condizionata), onde cade affatto ogni incondizionato e ogni necessità assoluta. Intanto, la maniera d’argomentare nei due casi è in tutto adeguata anche alla ragione umana comune, che più volte incorre nel caso di entrare in dissidio con se stessa, considerando il suo oggetto da due punti di vista differenti. Il signor de Mairan214 ritenne la disputa di due celebri astronomi,

che derivava da una difficoltà di questo genere circa la scelta del punto di vista, un fenomeno abbastanza degno di nota per scrivervi sopra una speciale memoria. L’uno ragionava così: l a L u n a g i r a i n t o r n o a l p r o p r i o a s s e , perché rivolge alla Terra sempre la stessa faccia; e l’altro: l a L u n a n o n s i m u o v e i n t o r n o a l p r o p r i o a s s e, appunto perché rivolge alla Terra sempre la stessa faccia. I due ragionamenti erano esatti, secondo il punto di vista scelto per osservare il movimento della Luna.

Sezione Terza DELL’INTERESSE DELLA RAGIONE IN QUESTO SUO CONFLITTO Ora noi possediamo tutto il giuoco dialettico delle idee cosmologiche, che non permettono punto che sia dato loro un congruo oggetto in una qualsiasi esperienza possibile, anzi neppure che la ragione le pensi in accordo con le leggi universali dell’esperienza; ma tuttavia non sono escogitate arbitrariamente; ché ad esse la ragione è tratta per necessità nel processo continuo della sintesi empirica, quando vuol liberare da ogni condizione, e concepire nella sua incondizionata totalità, quello che non può mai essere determinato secondo regole sperimentali se non come condizionato. Queste affermazioni sofistiche sono tanti tentativi di risolvere quattro naturali e inevitabili problemi della ragione; dei quali, dunque, non ce ne può essere se non precisamente tanti, e né più e né anche meno, perché non vi ha un maggior numero di serie di presupposti sintetici, che limitino a priori la sintesi empirica. Noi non abbiamo rappresentate le splendide pretese della ragione estendente il suo dominio di là dai limiti tutti dell’esperienza, se non in secche formole, che contengono semplicemente il principio delle sue pretese legali; e, come si conviene ad una filosofia trascendentale, le abbiamo spogliate d’ogni elemento empirico, quantunque solo in rapporto con questo possa rilucere tutto lo splendore delle affermazioni della ragione. Ma, in questa applicazione e in questa progressiva estensione dell’uso della ragione, quando, cominciando dal campo delle esperienze si solleva poco per volta fino a queste idee sublimi, la filosofia dimostra una dignità, che, se le riuscisse di solo affermare le sue pretese, si lascerebbe di gran lunga al di sotto il valore di ogni altra scienza umana, in quanto ella promette i

fondamenti per le nostre maggiori speranze e vedute sugli scopi ultimi in cui tutti gli sforzi della ragione debbono infine raccogliersi. Le questioni: se il mondo abbia un cominciamento e un limite della sua estensione nello spazio; se si dia mai, e per avventura nel mio stesso Me, una indivisibile e indistruttibile unità, o niente che non sia divisibile e transeunte; se io sia libero nelle mie azioni, o, come tutti gli altri esseri, condotto al filo della natura e del destino; se, infine, ci sia una suprema causa cosmica, o se le cose della natura e il loro ordinamento costituiscano l’ultimo oggetto a cui noi dobbiamo arrestarci in tutte le nostre considerazioni: sono questioni per la cui soluzione il matematico volentieri darebbe tutta la sua scienza; perché questa non gli può procurare nessuna soddisfazione rispetto allo scopo più elevato e più importante dell’umanità. La stessa dignità propria della matematica (di questo orgoglio dell’umana ragione) si appoggia a ciò, che, poiché, essa dà alla ragione la guida per scorgere la natura così in grande come in piccolo, nel suo ordine e nella sua regolarità, e insieme nell’unità mirabile delle forze che la mettono in moto, molto al di là d’ogni speranza della filosofia che costruisce sulla comune esperienza, così essa dà alla ragione motivo e stimolo a un uso esteso oltre ogni esperienza, intanto che provvede la filosofia, che se ne occupa, dei più eccellenti materiali per puntellare la propria indagine con appropriate intuizioni, per quanto la sua natura lo permette. Disgraziatamente per la speculazione (ma forse per buona ventura del destino pratico dell’uomo), la ragione, in mezzo alle sue grandissime speranze, si vede così imbarazzata di argomenti pro e contro, che, non essendo possibile, così pel suo onore come anche magari per la sua sicurezza, ritirarsi indietro, né assistere con indifferenza a questo contrasto quasi fosse un semplice combattimento per giuoco, né tanto meno imporre senz’altro la pace, poiché l’oggetto del contrasto interessa assai, non le rimane se non riflettere sull’origine di questo dissidio della ragione con se stessa; se per avventura non ne sia causa un semplice malinteso, chiarito il quale, cadrebbero probabilmente da ambe le parti le orgogliose pretese, ma in cambio avrebbe principio il governo durevolmente tranquillo della ragione sull’intelletto e sui sensi. Ora, noi intendiamo differire ancora alquanto questo chiarimento fondamentale, e prima togliere ad esame da qual parte potremmo più volentieri batterci se fossimo costretti a prendere partito. Poiché, in questo

caso, noi non interroghiamo la pietra di paragone logica della verità, ma semplicemente il nostro interesse, questa ricerca, se anche non risolve nulla rispetto al diritto contestato delle due parti, pure avrà l’utilità di far intendere perché quelli che han partecipato a questa lotta si sono battuti piuttosto da una parte che dall’altra, senza che ne sia stata causa una conoscenza preminente dell’oggetto; e di chiarire intanto, per di più, certi accessori: per es., lo zelante ardore di una parte e la fredda affermazione dell’altra, perché gli uni applaudono a un partito con lieto consenso, e si lasciano anticipatamente preoccupare contro gli altri in maniera irrevocabile. Ma c’è qualche cosa che, in questo giudizio preliminare, determina il punto di vista, dal quale soltanto esso può essere formulato con adeguata cognizione di causa; ed è il raffronto dei princìpi, da cui le due parti muovono. Nelle affermazioni dell’antitesi si nota una perfetta conformità di modo di pensare, e una piena unità della massima, ossia un principio di puro e m p i r i s m o , non soltanto nella spiegazione dei fenomeni cosmici, ma anche nella soluzione delle idee trascendentali dello stesso universo. Le affermazioni, invece, della tesi, se, da una parte, adottano una spiegazione empirica all’interno della serie dei fenomeni, ricorrono dall’altra a punti di partenza intellettuali, e la massima pertanto non è semplice. Mi piace chiamarle, dal loro carattere distintivo essenziale, il d o m m a t i s m o della ragion pura. Dalla parte, dunque, del d o m m a t i s m o nella determinazione delle idee cosmologiche della ragione, ossia dalla parte della t e s i , si ha: I n p r i m o l u o g o un certo i n t e r e s s e p r a t i c o, a cui partecipa cordialmente ogni persona ben intenzionata, che s’intenda del suo vero interesse. Che il mondo abbia un cominciamento, che il mio Me pensante sia semplice, e quindi di natura incorruttibile, che esso, insieme, nelle sue azioni volontarie sia libero e al di sopra della costrizione naturale, e che infine l’ordinamento generale delle cose, che costituiscono il mondo, tragga origine da un Essere primo, da cui tutto deriva la propria unità e connessione finale: queste sono altrettante pietre fondamentali della morale e della religione. L’antitesi ci porta via, o almeno pare che ci porti via, tutti questi sostegni. I n s e c o n d o l u o g o, da questa parte si manifesta anche un i n t e r e s s e s p e c u l a t i v o della ragione. Infatti, ammesse e usate in questo modo le idee trascendentali, si può abbracciare del tutto a priori la catena intera delle condizioni, e concepire la derivazione del condizionato

cominciando dall’incondizionato; ciò che non fa l’antitesi, che si raccomanda assai male con questo fatto, che non può dare alla questione circa le condizioni della sua sintesi nessuna risposta che non lasci indefinitamente sempre altro da cercare. Secondo essa, da un cominciamento si deve risalire a uno più alto, ogni parte conduce a una parte ancora più piccola, ogni avvenimento ha sempre sopra di sé un altro avvenimento, come sua causa, e le condizioni dell’esistenza, in generale, si appoggiano sempre da capo su altre condizioni, senza giungere mai a fermarsi incondizionatamente e a trovare un appoggio in una cosa per sé stante, come Essere primo. I n t e r z o l u o g o, questa parte ha anche il vantaggio della p o p o l a r i t à , che non costituisce certamente la parte minima della sua raccomandazione. Il senso comune, nelle idee di cominciamento incondizionato di tutta la sintesi non trova la più piccola difficoltà, perché già esso è più abituato a discendere alle conseguenze che a risalire ai princìpi, e nei concetti dell’assolutamente Primo (sulla cui possibilità non sottilizza) ha una comodità e insieme un punto fermo, da legarvi il filo conduttore de’ suoi passi; laddove, nell’ascendere senza posa dal condizionato alla condizione, sempre con un piede in aria, non può trovare punto nessun piacere. Dal lato dell’e m p i r i s m o nella determinazione delle idee cosmologiche, o dal lato dell’a n t i t e s i , si ha: P r i m i e r a m e n t e , nessun interesse pratico, che scaturisca da princìpi puri della ragione, come quelli inerenti alla morale e alla religione. Anzi, il semplice empirismo pare tolga all’una e all’altra ogni potere e ogni influsso. Se non c’è un Essere originario distinto dal mondo, se il mondo non ha un cominciamento, se è quindi senza un creatore, se la nostra volontà non è libera, e l’anima è della stessa divisibilità e corruttibilità della materia: allora anche le idee e i princìpi m o r a l i perdono ogni valore, e cadono insieme con le idee t r a s c e n d e n t a l i , che formavano i loro puntelli teorici. Ma, d ’ a l t r a p a r t e, l’empirismo offre all’interesse speculativo della ragione vantaggi che allettano assai, e sorpassano di gran lunga quelli che può promettere il dommatico sostenitore delle idee razionali. Secondo esso, l’intelletto è sempre nel suo proprio terreno, nel campo cioè delle pure esperienze possibili, di cui egli può rintracciare le leggi, e per loro mezzo estendere senza fine la sua conoscenza sicura e chiara. Qui esso può e deve presentare all’intuizione l’oggetto, tanto in se stesso, quanto nelle sue relazioni, o pure in concetti, la cui immagine può essere esibita chiaramente e

distintamente in intuizioni simili date. Non solo esso non è costretto ad abbandonare questa catena dell’ordine naturale, per attaccarsi a idee di cui non conosce gli oggetti, poiché essi, come enti di ragione, non possono mai esser dati: ma non gli è mai neppure permesso di abbandonare la sua opera e, sotto il pretesto che la sia ormai condotta a termine, trapassare nel dominio della ragione idealizzatrice e a concetti trascendenti, dove non ha più bisogno di osservare e indagare conformemente alle leggi della natura, ma solo di p e n s a r e e i n v e n t a r e , sicuro di non poter essere contraddetto dai fatti della natura, dal momento che ei non sarebbe più legato alla loro testimonianza, ma di poterli trascurare, o magari subordinare a una autorità superiore, ossia a quella della ragion pura. L’empirista, quindi, non permetterà mai di assumere una qualsiasi epoca della natura come assolutamente prima, o di considerare un limite qualunque della sua vista, nell’estensione di essa natura, come il limite estremo; o di passare dagli oggetti della natura, che egli può spiegare mediante l’osservazione e la matematica e determinare sinteticamente nell’intuizione (ossia, dall’esteso), a quelli oggetti che né il senso, né l’immaginazione, può mai rappresentare in concreto (al semplice); né di ammettere che nella stessa n a t u r a si ponga a fondamento una facoltà di agire indipendentemente dalle leggi della natura (libertà), e di abbreviare così all’intelletto il suo ufficio di indagare l’origine dei fenomeni secondo il filo conduttore di regole necessarie; e non permetterà, infine, di cercare fuori della natura la causa di una cosa qualunque (Essere originario), poiché noi non conosciamo altro che essa, in quanto essa sola ci offre oggetti, e può istruirci delle sue leggi. Che se il filosofo empirico, con la sua antitesi, non avesse altro scopo che ribattere l’eccessiva curiosità e temerità della ragione, che, disconoscendo la sua vera destinazione, si dà arie per la sua p e r s p i c a c i a e per il suo s a p e r e , là dove propriamente perspicacia e sapere vengono meno, e vuole spacciare ciò che ha un valore rispetto all’interesse pratico per un avanzamento dell’interesse speculativo, a fin di potere, quando ciò convenga alla sua comodità, spezzare il filo delle ricerche fisiche e, col pretesto di estendere la conoscenza, annodarlo a idee trascendentali, con le quali propriamente non si conosce se non c h e n o n s i s a n i e n t e; se, dico, l’empirista se ne stesse qui, il suo principio sarebbe una massima di moderazione nelle pretese, di discrezione nelle affermazioni, e insieme una massima del maggiore estendimento possibile del nostro intelletto mercé il

maestro che ci è propriamente dato, l’esperienza. In tal caso, infatti, non ci sarebbero tolti i p r e s u p p o s t i intellettuali e la fede in servizio del nostro interesse pratico; soltanto, non si potrebbe farli comparire sotto il titolo e la pompa di una scienza e di una veduta della ragione, poiché il s a p e r e propriamente speculativo non può avere altro oggetto che quello dell’esperienza, e se si sorpassano i suoi confini, la sintesi che tenti conoscenze nuove e indipendenti da essa esperienza, non ha nessun sostrato d’intuizione, su cui possa esercitarsi. Ma, se l’empirismo, rispetto alle idee (come accade il più delle volte), diventa esso stesso dommatico, e nega risolutamente ciò che è sopra la sfera della sua conoscenza intuitiva, allora incorre anch’esso nell’errore della indiscrezione: errore qui tanto più deplorevole, in quanto ne nasce un pregiudizio irreparabile all’interesse pratico della ragione. Questa è l’opposizione dell’e p i c u r e i s m o 215 al p l a t o n i s m o . Ciascuno dei due dice più di quel che sa, ma in modo che il p r i m o incoraggia e promuove il sapere, benché a danno della pratica, il s e c o n d o fornisce bensì alla pratica princìpi eccellenti, ma, appunto perciò, rispetto a tutto quello in cui ci è concesso solamente un sapere speculativo, permette alla ragione d’appigliarsi a spiegazioni idealistiche216 dei fenomeni naturali e di tralasciare rispetto ad essi la ricerca fisica. Quanto infine al t e r z o momento, che si può considerare nella scelta provvisoria tra le due parti contendenti, è sommamente strano, che l’empirismo sia interamente contro ogni popolarità, mentre si potrebbe credere che il senso comune dovrebbe accogliere volentieri un disegno che promette di soddisfarlo unicamente per mezzo di conoscenze d’esperienza e del loro razionale concatenamento; laddove la dommatica trascendentale lo costringe a risalire a concetti, che si elevano di gran tratto al di sopra della cognizione e della facoltà di ragionare propria delle menti più esercitate nel pensiero. Ma appunto questo è il motivo che lo spinge. Giacché esso allora viene a trovarsi in uno stato, in cui né anche il più dotto tra i dotti può cavarne fuori nulla di più. Se esso ne capisce poco o nulla, nessuno, d’altra parte, può vantarsi di capirne di più; e benché egli non ne possa parlare con la precisione scolastica di altri, egli può tuttavia sofisticare certamente di più, perché si aggira tra idee pure, intorno alle quali si può essere eloquentissimi, appunto perché n o n s e n e s a n i e n t e; laddove, sul punto della ricerca sulla natura, dovrebbe a dirittura ammutire, e confessare la propria ignoranza.

Comodità, dunque, e vanità sono già una potente raccomandazione di cotesti princìpi. Inoltre, sebbene a un filosofo riesca molto difficile assumere qualcosa come principio senza poterne rendere conto neanche a se stesso, o a dirittura introdurre concetti di cui non può essere ravvisata la realtà oggettiva; nulla tuttavia è più abituale al pensiero volgare. Esso vuole aver qualcosa, da cui possa cominciare con fiducia. La difficoltà perfino di concepire un tal presupposto non lo turba, perché egli (che non sa che significhi concepire) non l’avverte, e ritiene come noto ciò che gli è, per un uso frequente, familiare. Infine, sparisce in esso ogni interesse speculativo dinanzi all’interesse pratico, ed ei si immagina di vedere e di sapere ciò che le sue apprensioni e le sue speranze lo spingono ad ammettere o a credere. Così è che l’empirismo della ragione idealizzatrice trascendentale217 è privo affatto d’ogni popolarità, e per quanto esso possa anche contenere di pregiudizievole contro i supremi princìpi pratici, non è tuttavia a temere che sia mai per oltrepassare la soglia della scuola, e per guadagnarsi un’autorità solo in qualche maniera considerevole nel pubblico e il favore della gran moltitudine. La ragione umana è per sua natura architettonica, ossia considera tutte le conoscenze come appartenenti a un unico sistema possibile, e non ammette quindi se non princìpi che almeno non rendano impossibile a una conoscenza, a cui si miri, di stare in un sistema qualsiasi insieme con altre conoscenze. Ma le proposizioni dell’antitesi sono tali, che rendono assolutamente impossibile il compimento di un edificio di conoscenze. Secondo esse, al di là di uno stato del mondo ce n’è sempre un altro più antico; in ogni parte ci sono sempre ancora altre parti, egualmente divisibili; innanzi a ciascun avvenimento ce n’è sempre un altro, che a sua volta fu prodotto da un altro; e nell’esistenza in generale tutto è sempre soltanto condizionato, senza che si possa mai riconoscere un’esistenza incondizionata e prima. Poiché, dunque, l’antitesi non ammette in nessun modo un Primo e un cominciamento, che possa servire assolutamente di base alla costruzione; un edificio compiuto di conoscenze con tali presupposti è del tutto impossibile. Quindi l’interesse architettonico della ragione (che richiede a priori una unità della ragione, non empirica, ma pura) importa una naturale raccomandazione per le affermazioni della tesi. Ma un uomo che potesse rinunziare ad ogni interesse, e prendere a considerare le affermazioni della ragione, indifferente a tutte le conseguenze,

e solo rispetto al contenuto dei loro princìpi; un tale uomo, posto che non conoscesse altra via per uscire da queste strette, salvo quella di adottare l’una o l’altra delle dottrine in conflitto, sarebbe in uno stato di ondeggiamento interminabile. Oggi gli riuscirebbe evidente che la volontà umana è libera: domani, considerando la catena indissolubile della natura, terrebbe per fermo che la libertà non è altro che un’autoillusione, e che tutto è semplice n a t u r a . Ma, venendo al fare e all’agire, questo giuoco della ragione puramente speculativa dileguerebbe come le ombre d’un sogno, ed ei sceglierebbe i suoi princìpi unicamente secondo l’interesse pratico. Se non che poiché a un essere che riflette e indaga si addice consacrare un certo tempo unicamente all’esame della sua propria ragione, deponendo bensì interamente, in questa bisogna, ogni partito preso, e comunicando pubblicamente le sue osservazioni agli altri affinché le giudichino, non si può rimproverare a nessuno, e tanto meno impedire, di far venire innanzi così le tesi come le antitesi, così come esse, non atterrite da alcuna minaccia, possono essere difese innanzi a giurati del loro stesso grado (del grado, cioè, di deboli uomini).

Sezione Quarta DEI PROBLEMI TRASCENDENTALI DELLA RAGION PURA IN QUANTO DEVONO ASSOLUTAMENTE POTER ESSERE RISOLUTI

Voler risolvere tutti i problemi e rispondere a tutte le domande sarebbe una invereconda millanteria, e un’arroganza così stravagante da far perdere perciò senz’altro ogni fiducia. Nondimeno ci sono scienze, la cui natura porta con sé, che ogni questione che vi si presenti, deve assolutamente poter ricevere una risposta da quel che si sa, poiché la risposta deve derivare dalle fonti stesse da cui nasce la questione; scienze, dove non è in nessun modo permesso di addurre a pretesto un’irrimediabile ignoranza, e può invece esser richiesta la soluzione. Quello che in tutti i casi possibili sia g i u s t o o i n g i u s t o , deve, secondo la regola, potersi sapere, perché riguarda il nostro obbligo, e noi non abbiamo nessun obbligo rispetto a ciò che n o n p o s s i a m o s a p e r e. Nella spiegazione dei fenomeni della natura deve intanto restare a noi molto d’incerto e parecchie questioni insolubili, perché quello che noi sappiamo della natura è, in ogni caso, di gran lunga insufficiente a quello che noi dobbiamo spiegare. Ora, si tratta di sapere se

nella filosofia trascendentale ci sia una questione concernente un oggetto proposto alla ragione, e per la stessa ragion pura tuttavia insolubile; e se pertanto si abbia il diritto di sottrarsi alla sua risoluzione decisiva, relegando questo oggetto, come assolutamente incerto (in base a tutto ciò che possiamo conoscere), tra quelli di cui abbiamo un concetto sufficiente a far sorgere una questione, ma ci mancano affatto i mezzi o la facoltà per poterla risolvere. Ora, io affermo che la filosofia trascendentale ha questo di speciale tra tutte le conoscenze speculative: che nessuna questione riguardante un oggetto dato alla ragion pura è insolubile per la stessa ragione umana, e che nessuna scusa di irrimediabile ignoranza nostra e profondità imperscrutabile del problema può assolvere dall’obbligo di darne una soluzione solida ed esauriente; poiché appunto lo stesso concetto che ci mette in grado di porre il problema, ci deve anche rendere abili in ogni modo a risolvere il problema stesso, in quanto l’oggetto (come nel caso del giusto e dell’ingiusto) non si trova fuori del concetto. Ma nella filosofia trascendentale non ci sono se non solamente le questioni cosmologiche, rispetto alle quali si possa esigere a ragione una risposta sufficiente, che concerna la natura dell’oggetto, senza che sia permesso al filosofo di sottrarvisi scusandosi con la impenetrabile oscurità; e queste questioni possono riguardare soltanto le idee cosmologiche. L’oggetto, infatti, dev’essere dato empiricamente, e la questione si riferisce soltanto alla conformità di esso con una idea. Se l’oggetto è trascendentale, e quindi esso stesso ignoto, – per es. se il qualcosa, il cui fenomeno (in noi stessi) è pensiero (l’anima), sia in sé un essere semplice; se ci sia una causa di tutte quante le cose che sia assolutamente necessaria, e così via; allora noi dobbiamo cercare alla nostra idea un oggetto, di cui noi possiamo confessare che ci è ignoto, ma non per questo tuttavia impossibile218. Le idee cosmologiche hanno soltanto questo di proprio, che possono presupporre come dato il loro oggetto e la sintesi empirica richiesta pel suo concetto; e la questione che sorge da esse concerne soltanto il progresso di questa sintesi, in quanto deve abbracciare la totalità assoluta, la quale non è più niente di empirico, non potendo esser data in nessuna esperienza. Ora, poiché qui si parla unicamente d’una cosa come oggetto di un esperienza possibile, e non come cosa in se stessa, la risposta alla questione cosmologica trascendente non può esser mai fuori della idea; perché essa non riguarda un oggetto in se stesso; e rispetto all’esperienza possibile non si cerca quel che in concreto

possa esser dato in una qual sia esperienza, ma quel che c’è nell’idea a cui la sintesi empirica si deve semplicemente avvicinare; essa, dunque, deve poter essere risoluta dall’idea soltanto; questa infatti è una semplice creatura della ragione, che non può, quindi, scusarsi e tirar fuori l’oggetto ignoto. Né è cosa tanto straordinaria quanto pare a principio, che una scienza, rispetto a tutte le questioni appartenenti al suo complesso (quaestiones domesticae), possa esigere e attendere vere s o l u z i o n i c e r t e, quantunque pel momento non si siano per anco forse trovate. Oltre la filosofia trascendentale, ci sono altre due scienze razionali pure, una di contenuto puramente speculativo, l’altra di contenuto pratico: l a m a t e m a t i c a p u r a e l a m o r a l e p u r a. Si è mai sentito dire che, quasi a cagione di una ignoranza necessaria delle condizioni, sia stato dato per incerto qual rapporto abbia esattamente in numeri razionali o irrazionali il diametro al cerchio? Poiché coi primi non può esser dato il modo interamente congruo, e coi secondi non è stato tuttavia trovato, si giudicò che almeno l’impossibilità di una tale soluzione potesse essere conosciuta con certezza, e Lambert219 ne diede una dimostrazione. Nei princìpi universali dei costumi non vi può esser nulla d’incerto, perché le proposizioni o sono affatto nulle e prive di senso, o devono scaturire semplicemente da’ nostri concetti razionali. Al contrario, nella scienza della natura c’è un’infinità di congetture, rispetto alle quali non è dato sperar mai certezza, poiché i fenomeni della natura sono oggetti che ci sono dati indipendentemente dai nostri concetti, e la cui chiave, pertanto, non è in noi e nel nostro pensiero puro, ma fuori di noi, e appunto per questo in molti casi non può esser trovata; e quindi non si può sperare una soluzione sicura. Io non conto qui le questioni dell’Analitica trascendentale, che riguardano la deduzione della nostra conoscenza pura, perché noi ora trattiamo della certezza dei giudizi soltanto rispetto agli oggetti, e non rispetto all’origine dei nostri concetti stessi. Noi dunque non potremo sottrarci all’obbligo di una soluzione, almeno critica, delle proposte questioni razionali, levando querimonie per gli angusti limiti della nostra ragione e ripetendo, con l’aria di una umile coscienza della nostra capacità, che sia sopra le forze della nostra ragione determinare se il mondo ci sia dall’eternità o se abbia un principio; se lo spazio cosmico sia pieno d’esseri all’infinito, o se è chiuso dentro certi limiti; se c’è nel mondo qualcosa di semplice, o se tutto dev’essere diviso all’infinito; se si dia una produzione e creazione della libertà, o se tutto è legato alla catena dell’ordine

della natura; se, infine, c’è un essere affatto incondizionato e in sé necessario, o se tutto nella sua esistenza è condizionato, e quindi esternamente dipendente e in sé contingente. Giacché tutte queste questioni concernono un oggetto che non può esser dato altrove che nel nostro pensiero, cioè la totalità assolutamente incondizionata della sintesi dei fenomeni. Se noi su ciò non possiamo dire e determinar nulla di certo in base a’ nostri propri concetti, non ne dobbiamo gettare la colpa sulla cosa, che ci si cela; giacché una cosa di questo genere (non essendo punto fuori della nostra idea) non ci può esser data, ma dobbiamo noi cercare la causa nella nostra idea stessa; che è un problema che non ammette alcuna soluzione, ma a cui tuttavia noi ci ostiniamo ad ammettere che corrisponda un oggetto reale. Una esposizione chiara della dialettica inerente al nostro stesso concetto ci menerebbe subito alla piena certezza di quel che noi dobbiamo giudicare rispetto a una tale questione. Al vostro pretesto dell’ignoranza per ciò che riguarda questo problema, si può prima di tutto opporre questa domanda, alla quale almeno vi tocca di risponder chiaro: donde vi vengono le idee, la cui soluzione vi avviluppa qui in tale difficoltà? Son forse fenomeni, di cui vi occorre la spiegazione e di cui, in conseguenza di queste idee, voi non dovete cercare se non i princìpi o la regola della loro esposizione? Supponete che la natura sia tutta scoperta innanzi a voi, che niente ai vostri sensi e alla vostra coscienza, di tutto quello che è proposto alla vostra intuizione, sia nascosto: voi non potrete tuttavia con nessuna esperienza conoscere in concreto l’oggetto delle vostre idee (perché, oltre questa perfetta intuizione, si richiede anche una sintesi completa e la coscienza della sua assoluta totalità, ciò che è impossibile affatto per una conoscenza empirica); sicché la vostra questione non può in nessun modo essere necessaria alla spiegazione di un qualsiasi fenomeno che si presenti, né quindi può esser posta dall’oggetto stesso. L’oggetto infatti non si può mai presentare, perché non può essere dato per alcuna possibile esperienza. Voi, con tutte le percezioni possibili, restate sempre chiusi tra c o n d i z i o n i , o nello spazio o nel tempo, e non giungete a nulla d’incondizionato, per determinare se questo incondizionato debba essere posto in un cominciamento assoluto della sintesi, o in una assoluta totalità della serie senza nessun cominciamento, ma il tutto nel senso empirico è sempre soltanto relativo. Il tutto assoluto della quantità (l’universo), della divisione, della derivazione, della condizione dell’esistere in generale, con

tutte le questioni se sia da realizzare con una sintesi finita, ovvero con una sintesi prodotta all’infinito, non ha che fare con alcuna esperienza possibile. Voi, per es., non potrete spiegare meglio, o magari solo altrimenti, i fenomeni di un corpo, se ammettete che consti di parti semplici o, in tutto e per tutto, sempre di parti composte; perché non vi si può mai presentare un fenomeno semplice, e tanto meno una composizione infinita. I fenomeni chiedono d’essere spiegati soltanto finché son date nella percezione le condizioni della loro spiegazione; ma tutto ciò che mai possa essere dato in essi, raccolto in un t u t t o a s s o l u t o, non è una percezione. Questo tutto, invece, è quello di cui propriamente si domanda la spiegazione nei problemi trascendentali della ragione. Poiché, dunque, la soluzione stessa di questi problemi non può aversi mai nell’esperienza, voi non potete dire che sia incerto ciò che qui deve attribuirsi all’oggetto. Giacché il vostro oggetto è semplicemente nel vostro cervello, e non può punto esser dato fuori di esso; quindi non dovete curarvi se non di esser coerenti con voi stessi, e di evitare l’anfibolia, che fa della vostra idea una pretesa rappresentazione di un oggetto empiricamente dato, e da conoscere, quindi, secondo le leggi dell’esperienza. La soluzione dommatica, dunque, non è incerta, ma impossibile. Per contro la soluzione critica, che può essere pienamente certa, non considera la questione oggettivamente ma secondo il fondamento conoscitivo su cui la questione è fondata.

Sezione Quinta RAPPRESENTAZIONE SCETTICA DELLE QUESTIONI COSMOLOGICHE PER TUTTE QUATTRO LE IDEE TRASCENDENTALI

Noi ci asterremmo volentieri dalla esigenza di veder risolute dommaticamente le nostre questioni, se comprendessimo anticipatamente che, qualunque dovesse riuscire la soluzione, essa non farebbe se non aumentare ancora la nostra ignoranza, e da una oscurità farci precipitare in una oscurità anche maggiore, e forse a dirittura in contraddizione. Se la nostra questione è posta solamente per avere un’affermazione o una negazione, volendo procedere con prudenza, si devono pel momento lasciar da parte le

ragioni probabili della soluzione, e vedere prima che cosa si guadagnerebbe se la risposta riuscisse favorevole a una parte, e che cosa se riuscisse favorevole all’altra parte. Che se si trova che in entrambi i casi non si riesce se non ad una cosa priva di senso (a un nonsenso), allora noi abbiamo fondato motivo di sottoporre a una ricerca critica la nostra questione stessa, e vedere se essa non poggi per se medesima su un presupposto infondato, e abbia che fare con una idea che svela meglio la propria falsità nell’applicazione e per le sue conseguenze, che nella sua rappresentazione presa per sé. E il gran vantaggio, che ha il metodo scettico di trattare le questioni che la ragion pura propone alla ragion pura; e così con poca spesa si può essere sbarazzati d’una gran farragine dommatica, per porre al suo luogo una critica modesta; la quale come un vero catartico, purgherà felicemente dalla presunzione e dalla sua compagnia, la polimatia220. Se io pertanto d’una idea cosmologica potessi sapere prima che, qualunque parte essa abbracciasse dell’incondizionato della sintesi regressiva dei fenomeni, sarebbe tuttavia per o g n i c o n c e t t o d e l l ’ i n t e l l e t t o o t r o p p o g r a n d e o t r o p p o p i c c o l a, allora io comprenderei che – poiché ella non ha tuttavia che fare se non con un oggetto dell’esperienza, il quale deve essere adeguato a un possibile concetto intellettuale, – essa non può non riuscire affatto vuota e senza significato, dal momento che l’oggetto non è ad essa adeguato, per quanto io procuri di adattarglielo. E questo è effettivamente il caso di tutti i concetti cosmologici, i quali anche appunto perciò avviluppano la ragione, finché questa vi aderisca, in una inevitabile antinomia. Infatti ammette: primieramente, che il mondo non abbia un c o m i n c i a m e n t o ; e allora esso è t r o p p o g r a n d e pel vostro concetto; giacché questo, consistendo in un successivo regresso, non può mai esaurire tutta l’eternità come già trascorsa. Supponete che a b b i a u n c o m i n c i a m e n t o ; e allora esso è al contrario t r o p p o p i c c o l o pel vostro concetto intellettuale nel necessario regresso empirico. Infatti, poiché il cominciamento presuppone sempre un tempo che preceda, così né anch’esso è incondizionato, e la legge dell’uso empirico dell’intelletto vi fa cercare una condizione di tempo ancora più alta; e il mondo è, dunque, manifestamente troppo piccolo per questa legge. Così è del pari per la doppia soluzione della questione circa la grandezza

del mondo rispetto allo spazio. Ché se e s s o è i n f i n i t o e illimitato, è t r o p p o g r a n d e per ogni concetto empirico possibile. Se è f i n i t o e limitato, voi domandate ancora a ragione: che cosa determina questo limite? Lo spazio vuoto non è un correlato per sé stante delle cose, e non può essere una condizione alla quale voi possiate arrestarvi, e molto meno poi una condizione empirica che formi una parte di un’esperienza possibile (giacché, chi può avere un’esperienza dell’assolutamente vuoto?). Ma per la totalità assoluta della sintesi empirica si richiede sempre che l’incondizionato sia un concetto dell’esperienza. Dunque, un m o n d o l i m i t a t o è, pel vostro concetto, t r o p p o p i c c o l o. I n s e c o n d o l u o g o, se ogni fenomeno nello spazio (materia) consta di parti i n f i n i t e , il regresso della divisione è sempre t r o p p o g r a n d e pel vostro concetto; e se la divisione dello spazio deve una volta c e s s a r e a un membro di essa (al semplice), esso è t r o p p o p i c c o l o per l’idea dell’incondizionato. Giacché tale membro lascia sempre possibile un ulteriore regresso a una molteplicità di parti in esso comprese. I n t e r z o l u o g o, se ammettete che in tutto quello che accade nel mondo, non ci sia se non conseguenza delle leggi della n a t u r a , allora la causalità della causa è sempre, da capo, qualcosa che accade, e rende necessario il vostro regresso a una causa sempre più alta e quindi il prolungamento della serie delle condizioni a parte priori, senza arrestarvi. La semplice natura efficiente, dunque, è per ogni vostro concetto, nella sintesi dei fatti cosmici, t r o p p o g r a n d e. Che se voi scegliete qua e là fatti prodottisi da sé, quindi una produzione per l i b e r t à , allora vi insegue il perché secondo una legge inevitabile della natura, e vi obbliga a superare questo punto secondo la legge causale dell’esperienza; e voi trovate che una totalità siffatta del nesso è t r o p p o p i c c o l a pel vostro necessario concetto empirico. I n q u a r t o l u o g o, se ammettete un essere a s s o l u t a m e n t e n e c e s s a r i o (sia esso il mondo stesso, o qualche cosa del mondo, o la causa del mondo), voi lo ponete in un tempo infinitamente lontano da ogni punto dato del tempo; perché, altrimenti, esso dipenderebbe da un’altra e più remota esistenza. Ma allora questa esistenza pel vostro concetto empirico è inaccessibile e t r o p p o g r a n d e, perché possiate mai raggiungerla con un regresso continuato. Che, se a vostro avviso, tutto ciò che appartiene al mondo (sia come

condizionato, sia come condizione), è c o n t i n g e n t e , ogni esistenza a voi data è t r o p p o p i c c o l a pel vostro concetto. Perché essa vi costringe a cercare sempre un’altra esistenza, dalla quale essa dipenda. Noi, in tutti questi casi, abbiamo detto che l’i d e a c o s m o l o g i c a è pel regresso empirico, e quindi per ogni possibile concetto dell’intelletto, o troppo grande o, sempre per gli stessi, troppo piccola. Perché non ci siamo espressi inversamente, e non abbiamo detto che nel primo caso il concetto empirico per l’idea è sempre troppo piccolo, nel secondo invece troppo grande, e che la colpa quindi è del regresso empirico, invece di accusare l’idea cosmologica di scostarsi per eccesso o per difetto dal suo scopo, ossia dall’esperienza possibile? La ragione fu questa: l’esperienza possibile è quello che solo può dare ai nostri concetti la realtà, e senza di cui ogni concetto non è se non idea, senza verità e senza rapporto a un oggetto. Quindi il concetto empirico possibile era stregua, alla quale doveva essere giudicata l’idea, se essa è una semplice idea e un ente di ragione, o se trova nel mondo il suo oggetto. Infatti, che relativamente a qualche altra cosa sia troppo grande o troppo piccolo, non si dice se non di ciò che è ammesso soltanto per codesta altra cosa, e dev’essere ad essa indirizzato. Tra i giuochi delle antiche scuole dialettiche c’era anche la domanda: se una palla non passa per un buco che cosa si deve dire: che la palla è troppo grossa, o che il buco è troppo piccolo? In questo caso è indifferente il modo in cui volete esprimervi; perché voi non sapete quale dei due c’è per l’altro. Invece, non direte che l’uomo è troppo lungo pel suo vestito, ma che il vestito è troppo corto per l’uomo. Noi, dunque, siamo portati almeno a sospettare con ragione che le idee cosmologiche, e con esse tutte le affermazioni sofistiche che sono tra loro in conflitto, abbiano forse a loro fondamento un concetto vuoto e puramente immaginario del modo, in cui c’è dato l’oggetto di queste idee; e questo sospetto già ci può mettere sulla giusta traccia per scoprire l’illusione che ci ha fatto per tanto tempo andare errando.

Sezione Sesta L’IDEALISMO TRASCENDENTALE COME CHIAVE DELLA SOLUZIONE DELLA DIALETTICA COSMOLOGICA

Noi abbiamo dimostrato sufficientemente nell’Estetica trascendentale,

che tutto ciò è intuito nello spazio o nel tempo, e quindi tutti gli oggetti di una esperienza per noi possibile, non sono altro che fenomeni, cioè semplici rappresentazioni, le quali, così come sono rappresentate in quanto esseri estesi o serie di cangiamenti, non hanno fuori del nostro pensiero nessuna esistenza che sia fondata in sé. Questa dottrina chiamo io i d e a l i s m o trascendentale221. Il realista nel senso trascendentale fa di queste modificazioni della nostra sensibilità cose in sé sussistenti, e cangia quindi le semplici rappresentazioni in cose in sé. Ci si farebbe torto, se ci si volesse attribuire quel già da tanto screditato idealismo, il quale, ammettendo la realtà propria dello spazio, nega l’esistenza dell’essere esteso in esso, o almeno la mette in dubbio, e tra sogno e verità, in questo punto non riconosce differenza sufficientemente dimostrabile. Per ciò che riguarda i fenomeni del senso interno nel tempo, non trova in essi come cose reali difficoltà di sorta; che anzi afferma che questa esperienza interna basta di per sé a provare l’esistenza reale del proprio oggetto (in se stesso, con tutta questa determinazione temporale). Il nostro idealismo trascendentale, al contrario, ammette che siano altrettanto reali gli oggetti dell’intuizione esterna così come sono intuiti nello spazio, quanto nel tempo tutti i cangiamenti rappresentati dal senso interno. Infatti, siccome lo spazio è già una forma di quella intuizione che noi diciamo esterna, e senza oggetti (Gegenstände) in esso non vi sarebbe di certo nessuna rappresentazione empirica, noi possiamo e dobbiamo ammettere in esso, come reali esseri estesi; e lo stesso è del tempo. Quello spazio stesso, bensì, insieme con questo tempo, e, in una con entrambi, le rispettive specie di fenomeni, non sono tuttavia in se stesse cose, ma soltanto rappresentazioni, e non possono esistere punto fuori dall’animo nostro, e la stessa intuizione interna e sensibile del nostro animo (come oggetto della coscienza), la cui determinazione vien rappresentata mediante la successione di stati differenti nel tempo, non è né anche l’io (Selbst) vero e proprio, come esiste in sé, o il soggetto trascendentale, ma solamente un fenomeno, dato alla sensibilità, di questo essere a noi ignoto. L’esistenza di questo fenomeno interno come cosa così esistente in sé, non può essere ammessa, perché è sua condizione il tempo, che non può essere determinazione di una qualsiasi cosa in sé. Ma nello spazio e nel tempo la verità empirica dei fenomeni è abbastanza assicurata e sufficientemente staccata da ogni parentela col sogno, se l’uno o l’altro si unificano esattamente e completamente in una esperienza secondo

leggi empiriche. Gli oggetti pertanto dell’esperienza n o n s o n o m a i i n s é, ma soltanto dati nell’esperienza, e non esistono punto fuori di essa. Che nella luna ci possano essere abitanti, benché nessun uomo mai li abbia percepiti, deve certamente ammettersi; ma questo non significa altro se non che nel progresso possibile dell’esperienza noi potremmo incontrarci in essi; giacché reale è tutto quello che sta in un contesto con una percezione secondo le leggi del progresso empirico. Essi dunque allora sono reali, quando stanno in una connessione empirica con la mia coscienza reale, quantunque non siano perciò reali in sé, cioè fuori del progresso dell’esperienza. A noi non è dato altro di reale che la percezione e il progresso empirico da questa ad altre percezioni possibili. Giacché in se stessi i fenomeni, come semplici rappresentazioni, non sono reali se non nella percezione, che nel fatto non è se non la realtà di una rappresentazione empirica, cioè fenomeno. Il dire un fenomeno, prima della percezione, cosa reale, o significa che nel progresso della esperienza dobbiamo imbatterci in tale percezione, o non ha punto significato di sorta: perché che esista in sé, senza relazione ai nostri sensi e all’esperienza possibile, potrebbe dirsi, se si parlasse di una cosa in sé. Invece, si parla solo di un fenomeno nello spazio e nel tempo, che non sono, né l’uno né l’altro, determinazioni della cosa in sé, ma soltanto della nostra sensibilità: sicché ciò che è in essi (fenomeni), non è qualcosa in sé, ma semplici rappresentazioni, le quali, se non sono date in noi (nella percezione), non possono trovarsi in nessun luogo. La facoltà dell’intuizione sensibile non è propriamente se non capacità di essere modificato in un certo modo per via di rappresentazioni, il cui rapporto reciproco è una pura intuizione di spazio e di tempo (pure forme della nostra sensibilità), e che, in quanto sono connesse e determinabili in questo rapporto (nello spazio e nel tempo) secondo le leggi dell’unità dell’esperienza, diconsi o g g e t t i . La causa non-sensibile di queste rappresentazioni ci è affatto sconosciuta, e però non possiamo intuirla come oggetto; giacché un simile oggetto non dovrebbe esser rappresentato né nello spazio né nel tempo (condizioni della sola rappresentazione sensibile): condizioni, senza le quali noi non possiamo pensare punto nessuna intuizione. Possiamo tuttavia chiamare la causa meramente intelligibile dei fenomeni in generale «oggetto trascendentale» unicamente per aver qualcosa che corrisponda alla sensibilità in quanto recettività. A questo oggetto trascendentale possiamo ascrivere

tutto l’ambito e la connessione delle nostre percezioni possibili, e dire che esso è dato in sé prima di ogni esperienza. Ma conformemente ad esso i fenomeni sono dati non in sé, bensì soltanto in questa esperienza, perché sono mere rappresentazioni, che soltanto come percezioni importano un oggetto reale, quando cioè questa percezione si riconnetta con tutte le altre secondo le regole dell’unità dell’esperienza. Così può dirsi, che le cose reali del tempo passato sono date nell’oggetto trascendentale dell’esperienza; ma esse non sono per me oggetti, e non sono reali nel tempo passato se non in quanto io mi rappresento che una serie regressiva di percezioni possibili (vuoi nel filo della storia, vuoi sulle tracce delle cause e degli effetti) secondo leggi empiriche, in una parola, il corso del mondo, riporti a una serie di tempo trascorsa quale condizione del tempo presente; il quale allora è, per altro, rappresentato come reale solo nel nesso di una esperienza possibile, e non in sé; di guisa che tutti i fatti da tempo immemorabile trascorsi prima della mia esistenza non significano altro che la possibilità del prolungamento della catena dell’esperienza, dalla percezione attuale, su, su, alle condizioni che determinano questa percezione nel tempo. Se pertanto io mi rappresento insieme tutti gli oggetti dei sensi, esistenti in tutto il tempo e in tutti gli spazi, io non ve li aggiungo prima dell’esperienza, ma questa rappresentazione non è altro che il pensiero di una esperienza possibile nella sua assoluta totalità. Soltanto in essa quegli oggetti (che sono soltanto semplici rappresentazioni) sono dati. Ma il dire che esistono prima d’ogni mia esperienza non vuol dire se non che essi si dovranno incontrare in quella parte dell’esperienza, alla quale io devo risalire partendo dalla percezione. La causa delle condizioni empiriche di questo risalire – e quindi a quale membro oppure fino a che punto nel regresso io posso trovarne – è trascendentale, e però mi è affatto ignota. Ma neppure si ha da fare con essa, sibbene solo con la regola del progresso dell’esperienza, in cui gli oggetti e cioè i fenomeni, mi sono dati. Nel risultato è del resto tutt’uno, se dico: io posso, nel processo empirico nello spazio, incontrarmi in astri che son lontani cento volte più degli estremi che io vedo, o se dico: probabilmente nello spazio ce ne sono, quantunque nessun uomo mai li abbia percepiti o sia per percepirli; perché quand’anche essi fossero in generale cose in sé senza rapporto a un’esperienza possibile, essi per me non son nulla, e però non sono oggetti, se non in quanto vengon compresi nella serie del regresso empirico. Solo in una diversa relazione, quando appunto questi

fenomeni devono essere adoperati per l’idea cosmologica di un tutto assoluto, e si ha quindi da fare con una questione che supera i limiti dell’esperienza possibile, solo allora la distinzione del modo in cui si prende la realtà degli oggetti sensibili è importante per ovviare a una fallace opinione, che deve inevitabilmente scaturire dall’equivoco circa i nostri propri concetti di esperienza.

Sezione Settima SOLUZIONE CRITICA DEL CONFLITTO COSMOLOGICO DELLA RAGIONE CON SE STESSA

Tutta l’antinomia della ragion pura poggia sull’argomento dialettico: se il condizionato è dato, è data anche la serie intera di tutte le sue condizioni; ma a noi son dati oggetti sensibili come condizionati; dunque, ecc. Con questo raziocinio, la cui premessa maggiore pare così naturale ed evidente, s’introducono, secondo le diverse condizioni (nella sintesi dei fenomeni), in quanto formano una serie, altrettante idee cosmologiche, che postulano la totalità assoluta di questa serie, e appunto per ciò mettono la ragione inevitabilmente in conflitto con se medesima. Ma prima di svelare la fallacia di questo argomento sofistico, dobbiamo prepararci a ciò con la rettificazione e determinazione di certi concetti, che qui ci si presentano. A n z i t u t t o , è chiara e indubitabilmente certa la seguente proposizione: che, se è dato il condizionato, appunto perciò ci è i m p o s t o un regresso nella serie delle sue condizioni; perché questo importa già il concetto del condizionato, che qualcosa con ciò sia riferito a una condizione, e se questa è da capo condizionata, a una condizione più remota, e così per tutti i membri della serie. Questa proposizione è, dunque, analitica, e si solleva al di sopra di ogni paura di fronte alla critica trascendentale. È un postulato logico della ragione questo, di seguire con l’intelletto, e portare quanto più innanzi è possibile, quel rannodamento di un concetto alle sue condizioni, che è inerente già allo stesso concetto. Poi, se tanto il condizionato quanto la sua condizione sono cose in sé, allora, se il primo è dato, non solo è i m p o s t o il regresso alla seconda, ma con ciò questa è già realmente d a t a ; e poiché questo vale di tutti i membri della serie, la serie intera delle condizioni, e quindi anche l’incondizionato, è

pur data, o piuttosto presupposta per ciò stesso che è dato il condizionato, il quale solo mediante quella serie è possibile. Qui la sintesi del condizionato con la sua condizione è una sintesi del semplice intelletto, il quale rappresenta l e c o s e c o m e e s s e s o n o, senza badare se e come noi possiamo pervenire alla conoscenza delle medesime. Al contrario, quando io ho da fare con fenomeni, che, come semplici rappresentazioni, non sono punto dati se non pervengono alla loro conoscenza (ossia, a loro stessi, poiché essi non sono se non conoscenze empiriche), non posso dire, in quello stesso senso, che, se il condizionato è dato, son date anche tutte le condizioni (come fenomeni) di esso, e non posso quindi a niun patto conchiudere alla totalità assoluta della serie di esse. I fenomeni, infatti, nell’apprensione stessa non sono altro che una sintesi empirica (nello spazio e nel tempo), e non sono dunque dati se n o n i n q u e s t a. Ora, non è necessario che, se il condizionato (nel fenomeno) è dato, sia quindi data insieme e presupposta anche la sintesi, che costituisce la sua condizione empirica, ma questa ha luogo nel regresso, e giammai senza di questo. Si può dire bensì, in tal caso, che un r e g r e s s o alle condizioni, ossia una continuata sintesi empirica dal lato di queste, è richiesta o imposta, e che non possono mancare le condizioni, che vengon date mediante tale regresso. Ne risulta, che la premessa maggiore del raziocinio cosmologico prende il condizionato nel senso trascendentale di una categoria pura, ma la minore nel senso empirico di un concetto intellettuale applicato a semplici fenomeni; e però vi ricorre quell’errore dialettico, che si dice sophisma figurae dictionis. Ma questo errore non è commesso ad arte, sibbene è una illusione affatto naturale della comune ragione. Infatti per essa noi supponiamo (nella maggiore), quasi s e n z a b a d a r e, le condizioni e la loro serie, se qualcosa è dato come condizionato, perché questo non è altro che l’esigenza logica di assumere per una data conseguenza premesse complete; e qui nel nesso del condizionato con la sua condizione non c’è un ordine temporale; essi son presupposti in sé come dati s i m u l t a n e a m e n t e . Poi è altrettanto naturale (nella minore) considerare i fenomeni quali cose in sé, e oggetti dati al semplice intelletto, com’è avvenuto nella maggiore, poiché io ho fatto astrazione da tutte le condizioni dell’intuizione, nelle quali soltanto è possibile che oggetti sieno dati. Ma noi qui avevamo trascurato una distinzione degna di nota tra i concetti. La sintesi del condizionato con la sua condizione e la serie totale delle condizioni (nella maggiore) non importava

né la limitazione di carattere temporale, né un concetto di successione. Al contrario, la sintesi empirica e la serie delle condizioni nel fenomeno (sussunta nella minore) è data come necessariamente successiva, e solo un termine dopo l’altro nel tempo: e però io non potevo presupporre qui, come là, la totalità assoluta della sintesi e della serie quindi rappresentata, perché là tutti i membri della serie sono dati in sé (senza condizione temporale), e qui invece non sono possibili se non mediante il regresso successivo, che non è dato se non a patto che lo si compia realmente. Dopo la dimostrazione di un tal errore inerente all’argomento posto da tutti a base (delle affermazioni cosmologiche), entrambe le due parti contendenti possono essere a buon diritto rimandate, come quelle che non fondano la loro pretesa su nessun titolo solido. Ma intanto non è messo termine al loro dissidio nel senso di convincerle che hanno torto, una di esse o tutte due, nella cosa stessa che affermano (nella conclusione), anche se non hanno saputo costruirla su argomenti validi. Pure, nulla parrebbe più chiaro di questo: che cioè di due, uno dei quali afferma: il mondo ha un cominciamento, e l’altro: il mondo non ha un cominciamento, ma è dall’eternità, uno debba aver ragione. Ma se è così, egli è perché, se pari è la chiarezza delle due parti, non è mai possibile tuttavia decider da che parte sia la ragione; e il conflitto dura dopo come prima, benché le due parti siano state mandate in pace dal tribunale della ragione; non rimane, dunque, altro mezzo per porre termine stabilmente al conflitto e con soddisfazione di ambe le parti, se non che siano convinte finalmente, poiché l’una può così bene confutar l’altra, che esse combattono per nulla, e che una certa apparenza trascendentale ha messo loro innanzi una realtà, dove non ce n’è. Questa è la via che noi ora batteremo per la composizione d’una lite che non si può risolvere. Zenone d’Elea, sottile dialettico, fu già da Platone molto biasimato come petulante sofista222, perché egli, per dar prova della sua arte, cercava di una stessa proposizione, di dimostrarla per mezzo di speciosi argomenti, e subito dopo abbatterla con altri argomenti altrettanto forti. Egli affermava che Dio (che probabilmente per lui non era altro che il mondo) non è né finito né infinito; non è né in movimento né in quiete; non è né simile ad altra cosa né dissimile. A quelli che lo ha giudicato su questo, è sembrato che egli abbia voluto negare affatto due proposizioni tra loro contraddittorie, ciò che è assurdo. Ma io non trovo che si abbia ragione a mettergli a carico

quest’assurdo. Illustrerò ora più da vicino la prima di queste proposizioni. Per ciò che riguarda le rimanenti, se con la parola Dio egli intese l’universo, egli doveva certamente dire, che questo né è costantemente presente nel suo luogo (in quiete), né cangia luogo (si muove), perché tutti i luoghi sono nell’universo e q u e s t o stesso, dunque, non è in nessun luogo. Se l’universo comprende in sé tutto quello che esiste, esso altresì pertanto non è simile a un’a l t r a c o s a, né dissimile, perché fuori di esso non c’è un’a l t r a c o s a, con la quale possa essere paragonato. Se due giudizi fra loro opposti presuppongono una condizione impossibile, cadono entrambi malgrado la loro opposizione (che intanto non è una vera e propria contraddizione), perché non ha luogo la condizione alla quale soltanto ciascuna di queste proposizioni dovrebbe essere valida. Se uno dicesse: ogni corpo o odora bene o odora non bene, ci sarebbe un terzo caso, cioè che non odori (non esali) punto, e le due proposizioni opposte potrebbero essere ambedue false. Se io dico che odora bene o non odora bene (vel suaveolens vel non suaveolens), questi sono due giudizi tra loro opposti contraddittori, e solo il primo è falso, ma il suo opposto contaddittorio, ossia che alcuni corpi non odorano bene, abbraccia in sé anche i corpi che n o n o d o r a n o p u n t o. Nell’opposizione precedente (per disparata) la condizione accidentale rispetto al concetto dei corpi (l’odore) rimaneva ancora nel giudizio contrastante, e quindi non era da questa soppressa: sicché quest’ultimo non era l’opposto contraddittorio del primo. Se io pertanto dico: il mondo, rispetto allo spazio, o è infinito o non è infinito (non est infinitus), se la prima proposizione è falsa, dev’esser vero il suo opposto contraddittorio: il mondo non è infinito. Io verrei così a negare soltanto un mondo infinito, senza porne un altro, cioè quello finito. Ma, se si dice: il mondo o è infinito, o è finito (non infinito), tutte due le cose potrebbero essere false. Infatti, io considero allora il mondo come in se stesso determinato quanto alla sua grandezza, poiché nella proposizione opposta non soltanto nego l’infinità, e con essa forse tutta la sua esistenza a sé, ma aggiungo una determinazione al mondo, come cosa reale in se stessa; determinazione, che può ben essere falsa, ove cioè il mondo non dovesse esser dato come u n a c o s a i n s é, e però né come infinito né come finito rispetto alla sua grandezza. Mi sia permesso di poter chiamare questa specie di opposizione d i a l e t t i c a , e quella invece della contraddizione, opposizione a n a l i t i c a . Due giudizi, dunque, tra loro opposti

dialetticamente possono essere tutti due falsi, perché l’uno non contraddice semplicemente all’altro, ma dice qualcosa di più che non occorra alla contraddizione. Se le due proposizioni: – il mondo rispetto alla grandezza è infinito, il mondo rispetto alla sua grandezza è finito, – sono considerate come tra loro opposte contraddittorie, si viene ad ammettere che il mondo (la serie tutta dei fenomeni) sia una cosa in sé. Infatti esso resta, sia che io neghi nella serie de’ suoi fenomeni il regresso infinito o il finito. Ma se io tolgo questo presupposto, o questa apparenza trascendentale, e nego che il mondo sia una cosa in sé, allora l’opposizione contraddittoria delle due affermazioni si muta in una semplice opposizione dialettica; e poiché il mondo non esiste punto in sé (indipendentemente dalla serie regressiva delle mie rappresentazioni), esso non esiste né come un t u t t o i n s é i n f i n i t o, né come u n t u t t o i n s é f i n i t o . Esso può aversi solo nel regresso empirico della serie dei fenomeni, e non per sé. Quindi, se questa è sempre condizionata, essa non è mai data tutta, e il mondo quindi non è un tutto incondizionato, e però non esiste nemmeno come tale, né di grandezza infinita né di grandezza finita. Ciò che qui è stato detto dalla prima idea cosmologica, cioè dell’assoluta totalità della grandezza nel fenomeno, vale anche di tutte le altre. La serie delle condizioni non si può trovare se non nella stessa sintesi regressiva, non già in sé nel fenomeno, come una cosa vera e propria, data innanzi a ogni regresso. Quindi io dovrò anche dire: il numero delle parti in un fenomeno dato in sé non è né finito, né infinito, perché il fenomeno non è nulla di esistente in sé, e le parti son date solo mediante regresso e nel regresso della sintesi decomponitrice; il quale regresso non è mai dato assolutamente t u t t o , né come finito, né come infinito. Lo stesso vale della serie delle cause superordinate l’una all’altra, o delle esistenze condizionate fino a quella incondizionatamente necessaria; serie, che non può esser mai in sé considerata né come finita nella sua totalità, né come infinita, perché essa, in quanto serie di rappresentazioni subordinate, sussiste solo nel regresso dinamico, prima del quale, come serie di cose esistente per sé, non può esistere a nessun patto. Laonde l’antinomia della ragion pura nelle sue idee cosmologiche vien superata dimostrando che essa è meramente dialettica, è un conflitto d’una apparenza che nasce da questo, che si è applicata l’idea dell’assoluta totalità, che non ha valore se non come condizione delle cose in sé, ai fenomeni, i

quali invece non esistono se non nella rappresentazione e, se costituiscono una serie, esistono solo nel regresso successivo, e non altrimenti. Ma si può anche, viceversa, da questa antinomia ricavare un vero vantaggio, non certo dommatico, bensì critico e dottrinale: di dimostrare così indirettamente l’idealità trascendentale dei fenomeni, ove a qualcuno per avventura non bastasse la prova diretta dell’Estetica trascendentale. La dimostrazione consisterebbe in questo dilemma. Se il mondo è un tutto esistente in sé, esso è o finito o infinito. Ora la prima cosa è tanto falsa quanto è falsa la seconda (secondo le sopra addotte prove dell’antitesi, per una parte, e della tesi per l’altra). Dunque, è anche falso che il mondo (il complesso di tutti i fenomeni) sia un tutto esistente in sé. Donde poi segue, che i fenomeni in generale non sono nulla fuori delle nostre rappresentazioni: quello che volevamo appunto significare per l’idealità trascendentale di essi. Quest’osservazione è di rilievo. Di qui si scorge che le prove antecedenti della quadruplice antinomia non erano illusione, ma qualcosa di fondato, nell’ipotesi cioè, che i fenomeni, o il mondo sensibile che li comprende in sé tutti insieme, fossero cose in sé. Ma il conflitto delle proposizioni che ne derivano, rivela che nella ipotesi c’è una falsità, e ci conduce pertanto a una scoperta della vera natura delle cose, come oggetti dei sensi. La dialettica trascendentale, adunque, non dà in alcun modo sostegno allo scetticismo, sibbene al metodo scettico, che può additare in essa un esempio della sua grande utilità, ove si schierino gli uni contro gli altri, nella loro più ampia libertà, gli argomenti della ragione, i quali alla fine, se non quello che si cercava, tuttavia forniranno sempre qualcosa di utile e servibile alla correzione de’ nostri giudizi.

Sezione Ottava PRINCIPIO REGOLATIVO DELLA RAGION PURA RISPETTO ALLE IDEE COSMOLOGICHE

Poiché un massimo della serie di condizioni in un mondo sensibile come cosa in sé non è posto dal principio cosmologico della totalità, ma può solamente essere i m p o s t o nel regresso di essa serie, questo principio della ragion pura, nel suo significato per tal modo legittimo, conserva tuttavia il suo buon valore, ma non come a s s i o m a per pensar la totalità nell’oggetto

come reale, sì come p r o b l e m a per l’intelletto, quindi pel soggetto a fine di instaurare e continuare, secondo la completezza nell’idea, il regresso lungo la serie delle condizioni di un dato condizionato. Infatti, nella sensibilità, cioè nello spazio e nel tempo, ogni condizione a cui noi possiamo giungere nell’esposizione di fenomeni dati, è, a sua volta, condizionata: perché questi fenomeni non sono oggetti in sé, in cui possa in ogni caso aver luogo l’assolutamente incondizionato, ma semplici rappresentazioni empiriche, che devono sempre trovare nella intuizione la loro condizione, che li determini rispetto allo spazio o rispetto al tempo. Il principio della ragione, dunque, non è propriamente se non una r e g o l a , che nella serie delle condizioni di dati fenomeni impone un regresso, al quale non è dato mai di arrestarsi a un assolutamente incondizionato. Esso, dunque, non è un principio della possibilità dell’esperienza e della conoscenza empirica degli oggetti dei sensi, e però non è un principio dell’intelletto giacché ogni esperienza è chiusa ne’ suoi limiti (secondo l’intuizione data); e non è né anche un p r i n c i p i o c o s t i t u t i v o della ragione per estendere il concetto del mondo sensibile oltre ogni possibile esperienza; sibbene un principio della maggiore possibile continuazione ed estensione della esperienza; un principio, per cui nessun limite empirico può valere come limite assoluto; quindi un principio della ragione, che, come r e g o l a , postula ciò che da noi deve farsi nel r e g r e s s o , e n o n a n t i c i p a ciò che nell’oggetto è dato in sé innanzi a ogni regresso. E però lo denomino principio r e g o l a t i v o della ragione, dove, per contro, il principio della totalità assoluta della serie delle condizioni, come date in sé nell’oggetto (nei fenomeni), sarebbe un principio cosmologico costitutivo, di cui ho voluto mostrare la nullità223 appunto per mezzo di questa distinzione, e così evitare che si attribuisca, come altrimenti è inevitabile (per surrezione trascendentale), a un’idea che serve semplicemente di regola, una realtà oggettiva. Ora, per determinare convenientemente il senso di questa regola della ragion pura, si deve anzi tutto notare che essa non può dire c h e c o s a l ’ o g g e t t o è, ma come s i d e v e i s t i t u i r e i l r e g r e s s o e m p i r i c o, per giungere al concetto completo dell’oggetto. Perché, se avesse luogo la prima cosa, essa sarebbe un principio costitutivo, e un principio di questo genere ricavato dalla ragion pura non è mai possibile. Non si può dunque con ciò avere in niun modo l’intenzione di dire che la serie delle condizioni per un dato condizionato sia in sé finita o infinita, perché così una semplice idea

dell’assoluta totalità, che è creata unicamente in lei stessa, penserebbe un oggetto che non può esser dato in nessuna esperienza, mentre a una serie di fenomeni si assegnerebbe una realtà oggettiva indipendente dalla sintesi empirica. L’idea razionale, dunque, prescriverà soltanto alla sintesi regressiva nella serie delle condizioni una regola per la quale essa, dal condizionato, mediante tutte le condizioni l’una all’altra subordinate, procede fino all’incondizionato, sebbene questo non sia mai raggiunto. Giacché l’assolutamente incondizionato non può punto trovarsi nell’esperienza. Ora a questo fine si deve, in primo luogo, determinare esattamente la sintesi d’una serie, in quanto essa non è mai completa. A tal uopo ci si serve ordinariamente di due espressioni, che devono distinguere in ciò qualcosa, senza che si sappia indicar bene il principio di questa distinzione. I matematici parlano unicamente di un progressus in infinitum. Gli studiosi dei concetti (filosofi) vogliono invece che s’adoperi esclusivamente l’espressione di progressus in indefinitum. Senza fermarmi all’esame dello scrupolo che ha consigliato a questi una tale distinzione, e al buon o infecondo uso di essa, cercherò di determinare esattamente questi concetti in rapporto al mio scopo. D’una linea retta si può dire a ragione, che essa può esser prolungata all’infinito, e qui la distinzione dell’infinito e del progresso ulteriore indeterminato (progressus in indefinitum) sarebbe una vuota sottigliezza. Infatti, benché, quando si dice: prolungate una linea, suoni forse meglio se si aggiunge in indefinitum, che non se si aggiunga in infinitum, poiché la prima espressione non significa altro: prolungatela quanto v o i v o l e t e , e la seconda invece: v o i n o n d o v e t e cessar mai di prolungarla (che in questo caso non è per l’appunto l’intenzione): tuttavia, quando si parli soltanto del potere, la prima espressione è interamente esatta; perché potete renderla sempre maggiore all’infinito. E così è anche in tutti i casi in cui non si parla se non del progresso, ossia del processo dalla condizione al condizionato: questo processo possibile va, nella serie dei fenomeni, all’infinito. Da una coppia di antenati, in linea discendente di generazione, voi potete andare innanzi senza fine, e voi potete anche benissimo pensare che essa realmente nel mondo vada tanto innanzi. Qui infatti la ragione non ha mai bisogno d’una assoluta totalità della serie, poiché essa non la presuppone come condizione e come dato (datum), ma solo come qualcosa di condizionato, che è soltanto dabile (dabile), ed è aumentato senza fine. Ben altrimenti va la cosa circa la questione quanto si estenda il regresso,

che ascende dal condizionato dato alle condizioni in una serie determinata; se io posso dire che è u n r e g r e s s o che si estende a l l ’ i n f i n i t o , o solo un regresso che si estende indeterminatamente (in indefinitum); e se io quindi dagli uomini ora viventi posso salire, nella serie, ai loro progenitori all’infinito; o se può dirsi solo che, per quanto io sia anche andato indietro, non ho trovato un principio empirico per ritenere la serie a un certo punto limitata, sicché io sono autorizzato e insieme obbligato a cercare a ciascuno degli antenati ancora i suoi ascendenti, benché io non li possa proprio presupporre. Io dico pertanto: se nell’intuizione empirica è dato il tutto, il regresso nella serie delle sue condizioni interne va all’infinito. Ma, se è dato solo un membro della serie, dal quale il regresso deve quindi andare alla totalità assoluta, allora ha luogo solo un regresso per un tratto indeterminato (in indefinitum). Così della divisione d’una materia data tra i suoi limiti (d’un corpo), deve dirsi che essa va all’infinito. Questa materia infatti è tutta, e però data con tutte le sue parti possibili nella intuizione empirica. Ora, essendo la condizione di questo tutto la sua parte, e la condizione di questa parte la parte della parte, e così via; e non trovandosi mai in questo regresso di decomposizione un membro della serie delle condizioni incondizionato (indivisibile), non solo non c’è mai un principio empirico per arrestarsi nella divisione, ma i membri più lontani della divisione, che se ha da continuare, sono essi stessi dati empiricamente prima di questa continua divisione: cioè la divisione va all’infinito. Al contrario, la serie dei progenitori di un uomo dato non è data nella sua assoluta totalità in nessuna esperienza possibile; ma il regresso risale da ciascun membro di questa generazione a uno più remoto, sicché non è dato mai trovar nessun limite empirico, che rappresenti un membro assolutamente incondizionato. Ma poiché tuttavia anche i membri, che qui potrebbero dare la condizione, non stanno nell’intuizione empirica del tutto già prima del regresso: così questo non va all’infinito (della divisione del dato), ma per un tratto indeterminato di ricerca di un maggior numero di membri, per quelli dati224; membri che, alla lor volta, sono sempre soltanto condizionati. In nessuno dei due casi, così del regressus in infinitum come di quello in indefinitum, la serie delle condizioni è considerata data come infinita nell’oggetto. Non si tratta di cose che siano date in sé, ma di fenomeni, che son dati come condizioni l’un dell’altro solo nello stesso regresso. La

questione, dunque, non è più, quanta sia in se stessa questa serie delle condizioni, se finita o infinita, perché essa non è nulla in sé, ma: come noi dobbiamo porre il regresso empirico, e quanto continuarlo. E a questo proposito c’è una distinzione importante rispetto alla regola di tale progresso. Se il tutto è dato empiricamente, allora è p o s s i b i l e retrocedere a l l ’ i n f i n i t o nella serie delle sue interne condizioni. Ma, se esso non è dato, e deve invece esser dato mediante un regresso empirico, allora io posso solo dire: è p o s s i b i l e all’infinito procedere a condizioni sempre più alte della serie. Nel primo caso, potevo dire: ci sono sempre, e dati empiricamente, più membri che io non ne raggiunga col regresso (della decomposizione); ma nel secondo caso: io posso nel regresso andare sempre più oltre, poiché nessun membro è dato empiricamente come assolutamente incondizionato, e però ancora un membro più remoto è sempre possibile, e quindi ammette una ricerca di esso come necessaria. Lì era necessario t r o v a r e ulteriori membri della serie, qui invece è sempre necessario c e r c a r n e di più, poiché nessuna esperienza è limitata in modo assoluto. Infatti, o voi non avete una percezione che limiti assolutamente il vostro regresso empirico, e allora non dovete ritenere il vostro regresso come completo; o avete una tale percezione limitante la vostra serie, e allora questa percezione non può essere una parte della vostra serie compiuta (perché c i ò c h e l i m i t a, deve esser distinto da ciò che ne è limitato) e allora voi dovete dunque continuare il vostro regresso anche a questa condizione, e così via. La sezione seguente porrà queste osservazioni nella loro giusta luce, mercé la loro applicazione.

Sezione Nona DELL’USO EMPIRICO DEL PRINCIPIO REGOLATIVO DELLA RAGIONE RISPETTO A TUTTE LE IDEE COSMOLOGICHE

Poiché non si dà, come più volte abbiamo mostrato, un uso trascendentale né dei concetti puri dell’intelletto né di quelli della ragione; poiché la totalità assoluta della serie delle condizioni nel mondo sensibile si basa unicamente sull’uso trascendentale della ragione, che esige questa completezza incondizionata di ciò che essa presuppone come cose in sé; e poiché, invece, il mondo sensibile non contiene cose in sé: non si può più parlare della

grandezza assoluta delle serie in esso mondo, né se esse possano essere in sé limitate o illimitate, ma soltanto, quanto noi nel regresso empirico per ricondurre l’esperienza alle sue condizioni dobbiamo retrocedere, per non arrestarci, secondo la regola della ragione, ad altra soluzione delle questioni di essa che non sia quella adeguata all’oggetto. Non c’è dunque altro v a l o r e d e l p r i n c i p i o d e l l a r a g i o n e, se non come d’una regola del p r o s e g u i m e n t o e della grandezza di una esperienza possibile, il solo valore che ci rimanga, dopo che noi abbiamo a sufficienza provato la non validità di esso come principio costitutivo dei fenomeni in se stessi. Che se noi lo possiamo mettere sott’occhio in modo indubitabile, è anche del tutto terminato il conflitto della ragione con se stessa, poiché mediante questa soluzione critica non soltanto vien tolta l’apparenza che la metteva in discordia con se stessa, ma in suo luogo vien dischiuso il senso in cui essa è d’accordo con se stessa, e il cui equivoco soltanto ha cagionato il conflitto, e cangiato un principio altrimenti d i a l e t t i c o in un principio d o t t r i n a l e . Nel fatto, se si può approvare questo principio nel suo significato soggettivo, di determinare il maggior uso possibile dell’intelletto nell’e s p e r i e n z a , adeguatamente agli oggetti di questa, ciò è proprio come se esso, quasi un assioma (che è impossibile per pura ragione), determinasse a priori in se stessi gli oggetti; perché anche l’assioma, rispetto agli oggetti dell’esperienza, non potrebbe aver un maggiore influsso sull’estensione e correzione della nostra conoscenza, che di dimostrarsi attivo nell’uso empirico più esteso del nostro intelletto.

I SOLUZIONE DELL’IDEA COSMOLOGICA DELLA TOTALITÀ DELLA RIUNIONE DEI FENOMENI IN UN UNIVERSO

Così, qui come nelle rimanenti questioni cosmologiche, il fondamento del principio regolativo della ragione è la proposizione che, nel regresso empirico, non si può trovare v e r u n a e s p e r i e n z a d i u n l i m i t e a s s o l u t o ; né però di una condizione come condizione di tal genere, che sia a s s o l u t a m e n t e i n c o n d i z i o n a t a e m p i r i c a m e n t e . La ragione di ciò è che una simile esperienza dovrebbe comprendere in sé una limitazione dei fenomeni mediante il nulla o il vuoto, in cui avrebbe ad imbattersi con

una percezione il regresso continuato; ciò che è impossibile. Ora, questa proposizione, – che dice lo stesso che io non arrivo nel regresso empirico se non a una condizione, che deve essa stessa a sua volta essere considerata come empiricamente condizionata, contiene, in terminis, la regola che, per quanto io possa procedere a questo modo nella serie ascendente, devo sempre cercare un membro superiore della serie, sia che poi questo mi possa esser noto per esperienza, sia che no. Ora, per la soluzione del primo problema cosmologico, non è necessario altro che determinare se, nel regresso verso la grandezza incondizionata dell’universo (nel tempo e nello spazio), questa ascensione, che non è mai limitata, possa dirsi un r e g r e s s o a l l ’ i n f i n i t o, o s o l o u n r e g r e s s o c o n t i n u a t o i n d e t e r m i n a t a m e n t e (in indefinitum). La semplice rappresentazione generale della serie di tutti gli stati passati del mondo, come delle cose che sono simultaneamente nello spazio del mondo, non è altro, per se stessa, che un regresso empirico possibile, che io concepisco, sebbene ancora indeterminatamente, e da cui può sorgere soltanto il concetto di una tale serie di condizioni di una data percezione225. Ora io l’universo l’ho sempre soltanto nel concetto, ma in nessun modo (come totalità) nella intuizione. Non posso, dunque, dalla sua grandeza conchiudere alla grandezza del regresso e determinar questa in conformità di quella; anzi io devo farmi un concetto della grandezza del mondo per mezzo della grandezza del regresso empirico. Del quale per altro non so mai se non che da ogni membro dato della serie di condizioni mi tocca di proceder oltre empiricamente a un membro sempre più alto (più lontano). Per questa via, dunque, la grandezza del tutto dei fenomeni non è punto determinata assolutamente; e quindi né anche può dirsi che questo regresso vada all’infinito, perché questo anticiperebbe i membri a cui il regresso non è ancora pervenuto, e rappresenterebbe la quantità di essi tanto grande, che nessuna sintesi empirica potrebbe più giungervi; e per conseguenza d e t e r m i n e r e b b e la grandezza del mondo innanzi al regresso (benché in modo soltanto negativo): ciò che è impossibile. Giacché esso non mi è dato per nessuna intuizione (nella sua totalità); quindi né anche la sua grandezza può esser data punto prima del regresso. Pertanto della grandezza del mondo in sé non possiamo dir nulla, e né anche, che in esso abbia luogo un regressus in infinitum; ma dobbiamo solo, secondo la regola determinante in esso il regresso empirico, cercare il concetto della sua grandezza. Ma questa regola

non dice altro se non che, per quanto noi possiamo esser andati oltre nella serie delle condizioni empiriche, non dobbiamo mai ammettere un limite assoluto, bensì ogni fenomeno, come condizionato, subordinare a un altro come sua condizione, e quindi passare ulteriormente a questa: che è il regressus in indefinitum; il quale, non determinando una grandezza nell’oggetto, è evidentemente da distinguer bene da quello in infinitum. Io non posso dire: il mondo è, rispetto al tempo passato o rispetto allo spazio, infinito. Infatti, un concetto simile di grandezza, come di una infinità data, è assolutamente impossibile empiricamente, e però anche rispetto al mondo in quanto oggetto de’ sensi. E non dirò neppure: il regresso da una percezione data a tutto quello che la limita in una serie, così nello spazio come nel tempo, va a l l ’ i n f i n i t o ; giacché questo processo suppone la grandezza infinita del mondo; e neppure: esso è f i n i t o ; giacché il limite assoluto è parimenti impossibile empiricamente. Pertanto io non potrò dir nulla dell’oggetto intero dell’esperienza (del mondo sensibile), ma soltanto della regola, secondo la quale l’esperienza corrispondente al suo oggetto dev’esser istituita e proseguita. Alla quistione cosmologica dunque circa la grandezza del mondo c’è la prima risposta, negativa: il mondo non ha un primo cominciamento nel tempo e non ha un limite estremo nello spazio. Infatti, nel caso opposto, esso sarebbe per un verso limitato dal tempo vuoto, e per un altro dallo spazio vuoto. Ora non potendo, come fenomeno, essere in se stesso nessuna delle due cose, perché il fenomeno non è cosa in sé, dovrebbe essere possibile una percezione della limitazione mediante il tempo o lo spazio assolutamente vuoto, percezione onde questi confini del mondo fossero dati in una esperienza possibile. Ma una tale esperienza, come affatto vuota di contenuto, è impossibile. Dunque, un limite assoluto del mondo è empiricamente, quindi anche assolutamente, impossibile226. Di qui poi insieme ne segue la risposta a f f e r m a t i v a : il regresso nella serie dei fenomeni del mondo, come determinazione della grandezza del mondo, va in indefinitum, che è come dire: il mondo sensibile non ha una grandezza assoluta, ma il regresso empirico (onde esso può esser dato soltanto dalla parte delle sue condizioni) ha la sua regola; la regola cioè di passare sempre da ciascun membro della serie come condizionato, a uno ancora più lontano (sia per mezzo di vera e propria esperienza, o del filo della catena delle cause e de’ loro effetti) e di non rinunciare mai all’estensione del

possibile uso empirico del proprio intelletto; che è poi anche il proprio e particolare ufficio della ragione ne’ suoi princìpi. Non è perciò prescritto un determinato regresso empirico, che s’avanzi incessantemente in una certa specie di fenomeni; per es., che da un uomo vivente si debba sempre risalire per la serie dei progenitori, senza aspettarsi una prima coppia, o per la serie di corpi cosmici, senza ammettere un solo estremo: ma è imposto il passaggio da fenomeni a fenomeni, dovessero questi magari non darci nessuna percezione reale (qualora il suo grado sia troppo debole per diventare esperienza) poiché, ciò non ostante, essi tuttavia appartengono all’esperienza possibile. Ogni cominciamento è nel tempo, e ogni limite dell’esteso nello spazio. Ma spazio e tempo non sono se non nel mondo sensibile. E però soltanto i fenomeni nel mondo sono limitati condizionatamente, ma il mondo stesso non è limitato in modo condizionato, né limitato in modo incondizionato. Appunto per ciò, e poiché il mondo n o n p u ò m a i esser d a t o t u t t o e la serie stessa delle condizioni di un dato incondizionato non può né anch’essa, come serie cosmica, esser d a t a interamente, il concetto della grandezza del mondo non può esser dato se non mediante il regresso, e non già prima di questo in una intuizione collettiva. Ma il regresso consiste sempre soltanto nel d e t e r m i n a r e la grandezza e non dà quindi nessun concetto d e t e r m i n a t o , e però né anche nessun concetto d’una grandezza che rispetto a una certa misura infinita, né quindi va all’infinito (quasi fosse dato), ma per un tratto indeterminato, per dare (all’esperienza) una grandezza, che diventa reale per mezzo di questo regresso.

II SOLUZIONE DELL’IDEA COSMOLOGICA DELLA TOTALITÀ DELLA DIVISIONE D’UN TUTTO DATO IN UNA INTUIZIONE Se io divido un tutto, che è dato nella intuizione, vo da un condizionato alle condizioni della sua possibilità. La divisione delle parti (subdivisio o decompositio) è un regresso nella serie di queste condizioni. L’assoluta totalità di questa serie allora soltanto sarebbe data, quando il regresso potesse pervenire alle parti semplici. Ma se tutte le parti sono sempre da capo divisibili in una decomposizione continuamente procedente, la divisione, o il

regresso da condizionato alle sue condizioni, va in infinitum: poiché le condizioni (le parti) sono contenute nel condizionato stesso; ed essendo questo dato tutto in un’intuizione racchiusa dentro i suoi limiti, anch’esse sono date tutte quante con esso. Il regresso, dunque, non deve dirsi semplicemente un retrocedere in indefinitum, come solo consentiva la precedente idea cosmologica, dove io dovevo passare dal condizionato alle sue condizioni, che eran date fuori di esso, e quindi non simultaneamente con esso, ma che sopraggiungevano nel regresso empirico. Ciò non ostante, non è a nessun patto concesso di dire di un tal tutto, che è divisibile all’infinito: e s s o r i s u l t a d ’ i n fi n i t e p a r t i. Perché, quantunque tutte le parti sian contenute nell’intuizione del tutto, pure non v’è contenuta t u t t a l a d i v i s i o n e , che consiste soltanto nella decomposizione progressiva o nel regresso stesso, che solo rende reale la serie. Ora, essendo questo regresso infinito, tutti i membri (le parti), in verità, a cui esso giunge, sono contenuti come a g g r e g a t i nel tutto dato, ma non l ’ i n t e r a s e r i e d e l l a d i v i s i o n e , che è successivamente infinita e non m a i t u t t a, e però non può presentare una moltitudine infinita e un raccoglimento di essa in un tutto. Questa avvertenza generale si può da prima applicare molto agevolmente allo spazio. Ogni spazio intuito ne’ suoi limiti è un tal tutto, le cui parti, in ogni decomposizione, sono sempre da capo spazio, ed è quindi divisibile all’infinito. Quindi anche segue del tutto naturalmente la seconda applicazione, quella cioè a un fenomeno esterno chiuso nei suoi limiti (corpo). La divisibilità di esso si fonda sulla divisibilità dello spazio, che costituisce la possibilità del corpo come un tutto esteso. Questo è, dunque, divisibile all’infinito, senza tuttavia che per ciò consti di infinite parti. Ei pare in vero che, dovendo un corpo, in quanto sostanza, essere rappresentato nello spazio, esso sarà distinto da questo in ciò che concerne la legge della divisibilità dello spazio; infatti si può in ogni caso ammettere che la decomposizione non possa eliminare mai nell’ultimo ogni composizione, in quanto che allora ogni spazio, che del resto non ha niente di per sé stante, cesserebbe (ciò che è impossibile); ma che, se ogni composizione della materia nel pensiero fosse soppressa, non debba restar niente del tutto, non pare si possa conciliare col concetto di una sostanza, la quale propriamente dovrebbe essere il subbietto d’ogni composizione, e dovrebbe restare ne’ suoi elementi quand’anche ogni loro unione nello spazio, ond’essi costituiscono

un corpo, fosse annullata. Se non che, a ciò che si dice nel f e n o m e n o sostanza non si applica ciò che si penserebbe a ragione di una cosa in sé mediante un concetto puro dell’intelletto. Quello non è assoluto soggetto, ma immagine costante della sensibilità e niente più che intuizione, in cui non si trova punto nulla d’incondizionato. Ora, benché questa regola del processo all’infinito abbia luogo senza alcun dubbio nella suddivisione di un fenomeno come d’un semplice riempimento dello spazio, essa tuttavia non può valere se noi la vogliamo estendere anche alla moltitudine delle parti in certo modo già separate nel tutto dato, onde esse costituiscono un quantum discretum. Ammettere che in ogni tutto articolato (organizzato) ogni parte sia a sua volta articolata, e che in tal modo, nella divisione delle parti all’infinito, s’incontrino sempre nuove membra (Kunsttheile), in una parola, che il tutto sia organizzato all’infinito, non si può assolutamente concepire, comeché le parti della materia possano esser organizzate nella loro decomposizione all’infinito. L’infinità infatti della divisione di un fenomeno dato nello spazio si fonda solamente su ciò, che per suo mezzo è data semplicemente la divisibilità, ossia una moltitudine di parti in sé assolutamente indeterminata; ma le parti stesse non son date e determinate se non dalla suddivisione; in breve su ciò, che il tutto non è già diviso in sé. Quindi la divisione può determinare in esso una molteplicità, che si estende di tanto, di quanto si vuol avanzare nel regresso della divisione. Al contrario, in un corpo organico composto all’infinito di membri, il tutto è, appunto per questo concetto, rappresentato già come diviso; in esso si trova una molteplicità infinita di parti prima d’ogni regresso della divisione, onde ci si contraddice; poiché questo infinito sviluppo vien considerato come una serie che non si può mai compiere, e nondimeno nel suo complesso come compiuta. La divisione infinita non denota altro che il fenomeno come quantum continuum, ed è inseparabile dal fatto di riempire lo spazio; giacché appunto in questo è il principio della divisibilità infinita. Ma appena qualcosa è considerato come quantum discretum, vi è determinata una moltitudine di unità; quindi anche è sempre uguale a un numero. Solo l’esperienza, dunque, può decidere fino a che punto può esserci l’organizzazione in un corpo articolato; e, sebbene essa non giunga mai con certezza a una parte inorganica, di queste parti devono tuttavia essercene, almeno in un’esperienza possibile. Ma, fino a che punto si spinga la divisione trascendentale di un fenomeno in generale, non è punto cosa d’esperienza, bensì un principio della

ragione: il principio di non ritenere mai assolutamente compiuto il regresso empirico nella decomposizione dell’esteso conforme alla natura di questo fenomeno.

Osservazione finale sulla soluzione delle idee matematico-trascendentali e avvertenza preliminare per la soluzione delle idee dinamico-trascendentali Quando noi abbiamo rappresentato in una tavola l’antinomia della ragion pura per tutte le idee trascendentali, additando il principio di questo conflitto e l’unico mezzo per eliminarlo, che consisteva in ciò, che entrambe le affermazioni opposte eran chiarite per false; noi abbiamo rappresentato da per tutto le condizioni come appartenenti al loro condizionato secondo rapporti di spazio e di tempo, ciò che è il presupposto abituale del senso comune, sul quale poggiava interamente anche quel conflitto. Per questo rispetto anche tutte le rappresentazioni dialettiche della totalità nella serie delle condizioni d’un condizionato dato erano assolutamente della s t e s s a s p e c i e . C’era sempre una serie, in cui la condizione e il condizionato erano uniti come membri della stessa serie e però d e l l a s t e s s a s p e c i e, poiché allora il regresso non doveva esser pensato completo o, se ciò doveva accadere, occorreva che un membro, in sé condizionato, fosse stato ammesso falsamente come primo membro, e però incondizionato. Non dunque per verità l’oggetto, cioè il condizionato, era in ogni caso esaminato, bensì la serie delle sue condizioni, semplicemente rispetto alla sua grandezza; e lì la difficoltà, che non poteva esser eliminata da nessun confronto, ma solo per un taglio netto del nodo, consisteva in ciò, che la ragione faceva all’intelletto quest’oggetto o t r o p p o l u n g o o t r o p p o b r e v e, sicché questo non poteva mai riuscir pari all’idea di quella. Ma noi abbiamo qui trascurato una distinzione essenziale, che regna tra questi oggetti o concetti dell’intelletto, che la ragione aspira a sollevare a idee: infatti, secondo la nostra tavola antecedente delle categorie, due di esse significano una sintesi m a t e m a t i c a di fenomeni, le altre due invece una sintesi d i n a m i c a . Fin qui si poteva anche benissimo procedere così, perché, come nella rappresentazione generale di tutte le idee trascendentali noi restavamo sempre solo sotto le condizioni del fenomeno, così anche nelle

due idee trascendentali matematiche noi non avevamo o g g e t t o che quello nel fenomeno. Ma ora, che passiamo ai concetti d i n a m i c i dell’intelletto, in quanto essi devono corrispondere alle idee della ragione, quella distinzione diventa importante, e ci apre una prospettiva affatto nuova sul conflitto in cui la ragione è intricata, e che, se prima, messo su falsi presupposti da ambe le parti, fu r e s p i n t o , ora, poiché probabilmente nell’antinomia dinamica ha luogo tale presupposto, che può stare insieme d’accordo con la pretensione della ragione, da questo punto di vista e supplendo il giudice al difetto dei princìpi giuridici disconosciuti da ambo le parti, esso può essere composto con soddisfazione dell’una parte e dell’altra; ciò che non si poteva fare nel conflitto dell’antinomia matematica. Le serie delle condizioni sono certamente tutte omogenee, se si guarda unicamente alla e s t e n s i o n e di esse; se siano adeguate all’idea, o se siano troppo grandi o troppo piccole per questa. Se non che il concetto intellettuale, che sta a fondamento di queste idee, contiene o unicamente una s i n t e s i dell’o m o g e n e o (ciò che è presupposto in ogni grandezza, così nella composizione di essa come nella divisione) o anche dell’e t e r o g e n e o ; ciò che almeno può ammettersi nella sintesi dinamica, così del rapporto causale come di quello del necessario col contingente. Quindi ne viene, che nel nesso matematico della serie dei fenomeni non può intervenire altra condizione che la s e n s i b i l e , tale cioè che essa stessa è una parte della serie; laddove la serie dinamica delle condizioni sensibili ammette ancora una condizione eterogenea, che non è una parte della serie, ma, in quanto s e m p l i c e m e n t e i n t e l l i g i b i l e, è fuori della serie; con cui, quindi, vien soddisfatta la ragione e presupposto ai fenomeni l’incondizionato, senza con ciò confondere la serie di essi, sempre condizionati, e senza spezzarla, contro i princìpi dell’intelletto. Ora, pel fatto che le idee dinamiche ammettono una condizione dei fenomeni esterna alla serie, tale cioè che non sia essa stessa fenomeno, avviene qualcosa, che è del tutto diversa dall’esito dell’antinomia matematica. Questa, cioè, era causa che entrambe le affermazioni dialettiche dovessero esser dichiarate false. Al contrario, l’assolutamente condizionato delle serie dinamiche, che è inseparabile da esse come fenomeni, unito a una condizione bensì empiricamente incondizionata, ma altresì non s e n s i b i l e , può soddisfare da una parte l’i n t e l l e t t o , e dall’altra la r a g i o n e 227; e venendo meno quegli argomenti dialettici, che cercavano in un modo o

nell’altro una totalità incondizionata nei semplici fenomeni, le proposizioni della ragione, nel significato in tal modo rettificato, possono essere t u t t e d u e v e r e: ciò che non può mai aver luogo nelle idee cosmologiche, concernenti l’unità solo matematicamente incondizionata, perché in esse non s’incontra nessuna condizione della serie dei fenomeni, tranne quella che è essa stessa fenomeno, e come tale costituisce un membro della serie.

III SOLUZIONE DELLE IDEE COSMOLOGICHE228 DELLA TOTALITÀ DELLA DERIVAZIONE DEGLI AVVENIMENTI COSMICI DALLE LORO CAUSE

Non si può pensare se non una doppia specie di causalità rispetto a ciò che avviene, o secondo la n a t u r a o per l i b e r t à . La prima è il collegamento d’uno stato con uno stato antecedente nel mondo sensibile, a cui esso segue secondo una regola. Ora, poiché la causalità dei fenomeni si fonda su condizioni di tempo, e lo stato antecedente, se fosse sempre stato, non avrebbe prodotto un effetto sorto a un tratto nel tempo; così la causalità della causa di ciò, che avviene o sorge, è anch’essa s o r t a , e ha bisogno, secondo il principio dell’intelletto, essa stessa, a sua volta, di una causa. Al contrario, per libertà, nel senso cosmologico, intendo la facoltà di incominciare da sé uno stato, la cui causalità, dunque, non sta a sua volta sotto un’altra causa, che la determini nel tempo secondo la legge della natura. La libertà, in questo significato, è un’idea pura trascendentale, che primieramente non contiene nulla di derivato dall’esperienza, e il cui oggetto, in secondo luogo, non può né anche esser dato mai come determinato in un’esperienza, giacché è una legge universale della stessa possibilità di ogni esperienza, che tutto quello che accade deve avere una causa, quindi anche la causalità della causa, che è a c c a d u t a e s s a s t e s s a o s o r t a, deve a sua volta avere una causa: onde infatti l’intero campo dell’esperienza, per quanto si estenda, vien trasformato in un complesso di semplice natura. Ma poiché in tal modo non si può raggiungere una totalità assoluta delle condizioni nel rapporto di causa, così la ragione si crea l’idea d’una spontaneità, che da se stessa possa cominciare ad agire, senza che occorra premetterle un’altra causa

per determinarla all’azione conformemente alla legge del rapporto causale. È soprattutto degno di nota, che su questa idea t r a s c e n d e n t a l e della libertà si fonda il concetto p r a t i c o della medesima, ed essa229 nella libertà230 costituisce il momento proprio delle difficoltà, che hanno finora circondato la questione della sua possibilità. L a l i b e r t à n e l s e n s o p r a t i c o è la indipendenza dell’arbitrio dalla c o s t r i z i o n e degli stimoli sensibili. Giacché un arbitrio è s e n s i b i l e , in quanto esso è m o d i f i c a t o patologicamente (per impulsi del senso); si dice a n i m a l e (arbitrium brutum), se può essere n e c e s s i t a t o p a t o l o g i c a m e n t e. L’arbitrio umano è sì un arbitrium sensitivum, ma non brutum, anzi liberum: perché il senso non rende necessario il suo atto, ma c’è nell’uomo una facoltà di determinarsi da sé indipendentemente dalla costrizione degli stimoli sensibili. È facile vedere che, se ogni causalità fosse nel mondo sensibile semplicemente natura, ogni avvenimento sarebbe determinato da un altro nel tempo secondo leggi necessarie; e quindi, poiché i fenomeni, in quanto determinano l’arbitrio, dovrebbero render necessario ogni atto come lor conseguenza naturale, la soppressione della libertà trascendentale spianterebbe insieme ogni libertà pratica. Questa infatti presuppone che, sebbene qualche cosa non sia accaduto, avrebbe tuttavia d o v u t o accadere, e la sua causa fenomenica non era perciò così determinante, che non fosse nel nostro arbitrio una causalità, di produrre da sé indipendentemente da quelle cause naturali, e perfino contro la loro potenza e il loro influsso, qualche cosa che nell’ordine del tempo è determinato secondo leggi empiriche, e però di cominciare a s s o l u t a m e n t e d a s é una serie di avvenimenti. Qui accade, dunque, quello che in generale s’incontra nel conflitto d’una ragione che s’avventura oltre i limiti dell’esperienza possibile; che il problema non è f i s i o l o g i c o , ma t r a s c e n d e n t a l e . Quindi la questione circa la possibilità della libertà travaglia bensì la psicologia; ma, riposando essa su argomenti dialettici della ragione semplicemente pura, deve essere trattata insieme con la sua soluzione unicamente dalla filosofia trascendentale. Ora affinché questa, che in questo punto non può negare una risposta soddisfacente, sia messa in grado di far ciò, io devo prima di tutto, con una osservazione, tentare di determinare più da vicino il suo procedimento in questa questione. Se i fenomeni fossero cose in sé, e quindi lo spazio e il tempo forme dell’esistenza delle cose in sé, le condizioni sarebbero sempre col

condizionato membri di una e medesima serie; e allora ne sorgerebbe, anche nel caso presente, l’antinomia, che è comune a tutte le idee trascendentali: che cioè questa serie dovrebbe inevitabilmente riuscire per l’intelletto o troppo grande o troppo piccola. Ma i concetti dinamici della ragione, con cui noi abbiamo da fare in questo numero e nel seguente, han questo di particolare: che, non riferendosi essi a un oggetto, considerato come quantità, ma soltanto alla sua e s i s t e n z a , si può astrarre anche dalla quantità della serie delle condizioni, e venire in esse semplicemente al rapporto dinamico della condizione al condizionato; sicché nella questione intorno alla natura e alla libertà già c’imbattiamo nella difficoltà, se la libertà sia comunque soltanto possibile, e se, ove sia possibile, essa possa stare insieme con l’universalità della legge naturale di causalità; quindi, se sia una proposizione esattamente disgiuntiva, che ogni effetto nel mondo deve provenire o da natura o da libertà, ovvero se non possa piuttosto, in un medesimo avvenimento, aver luogo insieme l ’ u n a e l ’ a l t r a c o s a sotto rispetti diversi. L’esattezza del principio della completa connessione di tutti i fatti del mondo sensibile secondo leggi naturali immutabili, come principio dell’Analitica trascendentale è già assicurata, e non patisce deroga di sorta. Si tratta, dunque, soltanto di sapere, se, malgrado questo principio, rispetto appunto a uno stesso effetto, che è determinato secondo la natura, possa esserci anche libertà, o se questa sia affatto esclusa da quella regola inviolabile. E qui il presupposto, certo comune, ma fallace della r e a l t à a s s o l u t a dei fenomeni mostra subito la sua funesta azione sconcertatrice della ragione. Se, infatti, i fenomeni sono cose in sé, non c’è più scampo per la libertà. Allora la natura è la causa completa e in sé sufficientemente determinante di ogni avvenimento, e la condizione di questo è contenuta sempre solo nella serie dei fenomeni, che, al pari dei loro effetti, sono necessariamente subordinati alla legge naturale. Se, invece, i fenomeni non son presi per nulla più di quello che sono in fatto, cioè non per cose in sé, ma semplici rappresentazioni, legate fra loro secondo leggi empiriche, allora devono essi stessi avere delle cause231 che non siano fenomeni. Ma una tale causa intelligibile, rispetto alla sua causalità, non è determinata da fenomeni, benché i suoi effetti siano fenomeni e perciò possano essere determinati da altri fenomeni. Essa, dunque, con la sua causalità, è fuori della serie; al contrario i suoi effetti rientrano nella serie delle condizioni empiriche. L’effetto pertanto può, rispetto alla sua causa intelligibile, essere considerato

come libero, e nondimeno insieme, rispetto ai fenomeni, come una conseguenza di essi secondo la necessità della natura; distinzione che, se si propone in generale e in modo del tutto astratto, deve sembrare straordinariamente sottile ed oscura, ma si chiarirà nell’applicazione. Qui ho voluto soltanto osservare che, essendo la connessione universale di tutti i fenomeni in un contesto della natura una legge irremissibile, questa dovrebbe necessariamente distruggere ogni libertà, se si volesse ostinatamente aderire alla opinione della realtà dei fenomeni. Quindi, coloro i quali seguono in ciò l’opinione comune, neppure han mai potuto giungere a conciliare insieme natura e libertà.

Possibilità della causalità per la libertà in accordo con le leggi universali della necessità naturale Dico i n t e l l i g i b i l e , in un oggetto (Gegenstand) dei sensi, quello che non è esso stesso fenomeno. Se pertanto quello che nel mondo sensibile deve essere considerato come fenomeno, ha in se stesso anche una facoltà che non è oggetto d’intuizione sensibile, ma per cui può essere tuttavia la causa di fenomeni; la c a u s a l i t à di questo essere si può considerare da due lati, come i n t e l l i g i b i l e per l’atto come cosa in sé, e come s e n s i b i l e per gli effetti di esso come fenomeno nel mondo sensibile. Per la facoltà di un tal soggetto noi, quindi, ci faremmo un concetto empirico e nel contempo un concetto intellettuale della sua causalità, che insieme han luogo in uno e medesimo effetto. Un tale doppio modo di concepire la facoltà di un oggetto (Gegenstand) dei sensi, non contraddice a nessuno dei concetti, che noi dobbiamo farci dei fenomeni e di una esperienza possibile. Infatti, dovendo questi, poiché non sono cose in sé, avere a fondamento un oggetto trascendentale che li determini come semplici rappresentazioni, niente impedisce che noi a questo oggetto trascendentale, oltre la proprietà per cui è fenomeno, attribuiamo anche una causalità che non è fenomeno, benché il suo effetto s’incontri tuttavia nel fenomeno. Ma ciascuna causa efficiente deve avere un c a r a t t e r e , cioè una legge della sua causalità, senza di cui non sarebbe punto causa. E allora avremmo in un soggetto del mondo sensibile primieramente un c a r a t t e r e e m p i r i c o, per il quale i suoi atti come fenomeni sarebbero assolutamente legati con altri fenomeni secondo

leggi naturali fisse, e da essi, come loro condizioni, potrebbero essere dedotti, e insieme con essi, quindi, formerebbero i membri di un’unica serie dell’ordine naturale. In secondo luogo, gli si dovrebbe riconoscere anche un c a r a t t e r e i n t e l l i g i b i l e, onde egli è sì la causa di quegli atti come fenomeni, ma per se stesso non sottostà a nessuna condizione del senso, e non è per se stesso fenomeno. Si potrebbe anche dire il primo carattere della cosa nel fenomeno, il secondo carattere della cosa in se stessa. Ora, questo soggetto agente, pel suo carattere intelligibile, non sarebbe sottoposto a nessuna condizione di tempo: perché il tempo è soltanto la condizione dei fenomeni, ma non delle cose in se stesse. In esso nessun a t t o s o r g e r e b b e o c e s s e r e b b e; né però sarebbe sottomesso né anche alla legge di ogni determinazione nel tempo, di ogni cosa che muta: che tutto ciò c h e a c c a d e, trova nei f e n o m e n i (dello stato precedente) la sua causa. In una parola: la causalità di esso, in quanto è intellettuale, non starebbe nella serie delle condizioni empiriche che rendono necessario l’evento nel mondo sensibile. Questo carattere intelligibile potrebbe sì non essere mai conosciuto immediatamente, perché noi non possiamo percepire nulla, se non in quanto apparisce; ma dovrebbe tuttavia esser p e n s a t o conformemente al carattere empirico, come noi in generale dobbiamo nel pensiero porre a fondamento dei fenomeni un oggetto trascendentale, quantunque di esso, in verità, non sappiamo che cosa sia in se stesso. Pel suo carattere empirico, dunque, questo soggetto come fenomeno sarebbe soggetto a tutte le leggi della determinazione secondo il nesso causale; e così, da questo aspetto, non sarebbe se non una parte del mondo sensibile, i cui effetti, come ogni altro fenomeno, deriverebbero immancabilmente dalla natura. Come i fenomeni esterni influirebbero su di esso, come il suo carattere empirico, cioè la legge della sua causalità, verrebbe conosciuto mediante la esperienza, tutte le sue azioni dovrebbero potersi spiegare secondo leggi naturali; e tutti i requisiti per una determinazione completa e necessaria di esse dovrebbero trovarsi in una esperienza possibile. Ma, pel suo carattere intelligibile (benché non se ne possa avere se non solo il concetto universale), lo stesso soggetto tuttavia dovrebbe esser liberato da ogni influsso del senso e determinazione per via di fenomeni; e poiché in esso, in quanto è n o u m e n o , non a c c a d e n u l l a, nessun cangiamento che importi una determinazione dinamica di tempo, e quindi non c’è nessun

rapporto con fenomeni come cause, questo essere attivo, da questo lato, sarebbe indipendente e libero, nelle sue azioni, da ogni necessità naturale, come da quella che non è se non nel mondo sensibile. Di esso potrebbe con tutta ragione dirsi, che esso comincia da s e s t e s s o i suoi effetti nel mondo, senza che l’azione cominci in l u i s t e s s o; e questo sarebbe vero, senza che perciò gli effetti nel mondo sensibile dovessero cominciare da sé, perché essi nel mondo sensibile sono sempre determinati innanzi tutto da condizioni empiriche del tempo anteriore, ma pure solo per mezzo del carattere empirico (che è solo il fenomeno dell’intelligibile); o non sono possibili se non come una continuazione della serie delle cause naturali. Così infatti libertà e natura, ciascuna nel suo pieno significato, si ritroverebbero insieme e senza nessun conflitto, proprio negli stessi atti, secondo che questi si riportino alle loro cause intelligibili o alle loro cause sensibili.

Spiegazione dell’idea cosmologica di libertà in rapporto con la necessità universale della natura Ho creduto opportuno cominciare dall’adombrare la soluzione del nostro problema trascendentale, per potere quindi riscontrar meglio il cammino della ragione nella soluzione di esso. Ora intendiamo porre, un dopo l’altro, i momenti di questa soluzione, di cui ora propriamente si deve trattare, e togliere in esame ciascuno in particolare. La legge naturale che tutto ciò che accade ha una causa; che la causalità di questa causa, cioè l ’ a t t o , precedendo nel tempo e, rispetto a un effetto che ne è s o r t o , non potendo esso stesso essere stato sempre, ma dovendo essere a v v e n u t o , ha anch’essa la sua causa tra i fenomeni, ond’è determinata; e che pertanto tutti i fatti nell’ordine naturale sono empiricamente determinati: questa legge per cui i fenomeni costituiscono primamente una natura e possono fornire gli oggetti a una esperienza, è una legge intellettuale, da cui non è permesso, sotto nessun pretesto, deviare, o escluderne mai un fenomeno qual sia: perché altrimenti lo si metterebbe fuori di ogni esperienza possibile, lo si differenzierebbe da tutti gli oggetti di una possibile esperienza, e se ne farebbe un semplice ente di ragione e una chimera. Ma, sebbene qui non pare ci sia se non una catena di cause, la quale, nel

regresso verso le loro condizioni, non permette una t o t a l i t à a s s o l u t a; non ci trattiene punto questa difficoltà; perché essa è stata già eliminata nel giudizio generale intorno all’antinomia della ragione allorché essa, nella serie dei fenomeni, cerca l’incondizionato. Se noi vogliamo andar dietro all’illusione del realismo trascendentale, allora non resta più né natura, né libertà. Qui si tratta soltanto di sapere: se, ove si riconosca nella serie intera di tutti i fatti la schietta necessità naturale, sia nondimeno possibile, in quello stesso che da un lato è semplice effetto naturale, ravvisare tuttavia d’altro lato un effetto di libertà, ovvero se tra queste due maniere di causalità si dia una diretta contraddizione. Tra le cause nel fenomeno non può, di sicuro, esserci nulla, che possa dar principio assolutamente e da sé a una serie. Ogni atto, come fenomeno, in quanto produce un fatto, è esso stesso un fatto e un avvenimento, che presuppone un altro stato, in cui si trovi la rispettiva causa; e così tutto ciò che accade non è se non una continuazione della serie; e, in questa, un cominciamento che avvenga da se stesso non è possibile. Tutti, dunque, gli atti delle cause naturali nella serie temporale sono essi stessi, a loro volta, effetti, che presuppongono egualmente nella serie temporale le loro cause. U n a t t o o r i g i n a r i o, per cui accada qualche cosa che non era prima, non si può attendere dalla connessione causale dei fenomeni. Ma è anche perciò necessario che, se gli effetti sono fenomeni, la causalità della loro causa, la quale (cioè, la causa) è anch’essa fenomeno, debba essere unicamente empirica? E non è possibile piuttosto che, sebbene per ogni effetto del fenomeno sia richiesta assolutamente una connessione con la sua causa secondo leggi di causalità empirica, tuttavia questa stessa causalità empirica, senza rompere menomamente il suo nesso con le cause naturali, possa essere nondimeno effetto di una causalità non empirica, ma intelligibile? cioè di un atto originario, rispetto ai fenomeni, di una causa, il quale, pertanto, non è fenomeno, ma per questa potenza sua è intelligibile, benché del resto debba rientrare affatto nel mondo sensibile come un anello della catena naturale? Noi abbiamo bisogno del principio di causalità dei fenomeni tra loro, per cercare e poter assegnare dei fatti naturali le condizioni naturali, cioè le cause nel fenomeno. Se si ammette ciò senza attenuarlo per nessuna eccezione, allora l’intelletto, che nel suo uso empirico non vede in tutti i fatti null’altro che natura, e a ciò è anche autorizzato, ha tutto quel che può esigere, e le

spiegazioni fisiche seguono liberamente il loro corso. Ora non gli si fa la menoma deroga, posto che si debba magari semplicemente ammettere come una finzione, se si ammette che tra le cause naturali ce ne siano anche di quelle che hanno una potenza soltanto intelligibile, in quanto la determinazione di questa all’atto non poggia su condizioni empiriche, ma su semplici princìpi dell’intelletto, ma per modo che l’a t t o n e l f e n o m e n o di questa causa sia conforme a tutte le leggi della causalità empirica. In questo modo infatti il soggetto agente, come causa phaenomenon, sarebbe incatenato alla natura in una inscindibile dipendenza di tutti i suoi atti; e soltanto il fenomeno di questo soggetto (con tutta la sua causalità nel fenomeno) conterrebbe certe condizioni, che, se si vuol salire dall’oggetto empirico al trascendentale, dovrebbero esser considerate come meramente intelligibili. Giacché, se noi, in ciò che tra i fenomeni può esser causa, seguiamo la regola naturale, possiamo non curarci di ciò che nel soggetto trascendentale, che ci è empiricamente ignoto, è concepito come principio di questi fenomeni e della loro connessione. Questo fondamento intelligibile non interessa punto le questioni empiriche, ma concerne in qualche modo solo il pensiero nell’intelletto puro; e benché gli effetti di questo pensiero e dell’operare dell’intelletto puro si trovino nei fenomeni, essi devono nondimeno poter esser completamente spiegati dalla loro causa fenomenica secondo leggi naturali, in quanto ci si attiene al suo puro carattere empirico come supremo principio di spiegazioni, e si tralascia affatto, come ignoto, il carattere intelligibile, che ne è la causa trascendentale, tranne in quanto esso ci è additato dall’empirico quale suo segno sensibile. Ci si permetta di applicar ciò all’esperienza. L’uomo è uno dei fenomeni del mondo sensibile, e però anche una delle cause naturali, la cui causalità deve esser soggetta a leggi empiriche. Come tale ei deve pertanto avere un carattere empirico, come tutte le altre cose della natura. Noi lo vediamo per le forze e facoltà, che egli estrinseca nelle sue azioni. Nella natura inanimata o meramente animale non troviamo nessuna ragione di pensare una facoltà qual sia non condizionata in modo sensibile. Soltanto l’uomo, che non conosce, del resto, tutta la natura se non per mezzo dei sensi, conosce se stesso anche per mezzo di semplice appercezione, e si conosce negli atti e nelle determinazioni interne, che egli non può guari attribuire all’impressione dei sensi, ed è a se stesso certamente da una parte fenomeno, ma dall’altra, cioè rispetto a certe facoltà, un mero oggetto intelligibile, perché il suo atto non può in niun modo

esser attribuito alla recettività del senso. Noi diciamo queste facoltà intelletto e ragione; sovrattutto quest’ultima è in modo affatto speciale e preminente distinta da tutte le forze empiricamente determinate, poiché essa esamina i suoi oggetti semplicemente secondo idee, e determina conformemente ad esse l’intelletto, che poi fa de’ suoi concetti (anche puri) un uso empirico. Ora, che questa ragione abbia una causalità, o almeno che noi ce ne rappresentiamo una in essa, è chiaro dagli i m p e r a t i v i , che in tutto il dominio pratico noi proponiamo come regole alle forze da esercitare. Il d o v e r e (Sollen) esprime una specie di necessità e di rapporto con princìpi, che d’altronde non si riscontra in tutta quanta la natura. L’intelletto può di essa conoscere s o l o c i ò c h e è, è stato o sarà. È impossibile che qualcosa d e b b a e s s e r e altrimenti da quel che è in fatto in tutte le relazioni temporali; anzi il dovere, quando si ha l’occhio solo al corso della natura, non ha assolutamente significato di sorta. Noi non possiamo punto chiedere che cosa deve accadere nella natura; come non possiamo cercare quali proprietà deve (soll) avere un circolo; ma che cosa in quella accade o quali proprietà questo possiede. Ora questo dovere esprime un atto possibile, il cui principio non è altro che un semplice concetto; dove, per contro, di un semplice atto naturale il principio non può esser mai se non un fenomeno. L’atto bensì deve assolutamente esser possibile in condizioni naturali se ad esso è indirizzato il dovere; ma queste condizioni naturali non toccano la determinazione dello stesso arbitrio, sibbene solo l’effetto e la conseguenza di essa nel fenomeno. Per quanti possano essere i princìpi naturali che mi stimolano a v o l e r e , per quanti siano gli impulsi sensibili, essi non possono produrre il d o v e r e , ma soltanto un volere, tutt’altro che necessario, anzi sempre condizionato, al quale il dovere, che esprime la ragione, assegna invece misura e scopo, nonché inibizione e autorità. Può essere un oggetto del semplice senso (il piacevole) o anche della ragion pura (il bene): la ragione non s’arrende al principio, che è dato empiricamente, e non segue l’ordine delle cose, com’esse si presentano nel fenomeno; ma si fa, con piena spontaneità, un suo proprio ordine secondo idee, alle quali adatta le condizioni empiriche, e alla stregua delle quali dichiara necessarie perfino azioni che per anco non s o n o a c c a d u t e e probabilmente non accadranno; ma di tutte, nondimeno, suppone che la ragione, rispetto ad esse, possa esercitare una causalità, giacchè senza di ciò dalle sue idee non attenderebbe verun effetto nella

esperienza. Ora, arrestiamoci qui, e ammettiamo almeno come possibile questo, che la ragione ha effettivamente una causalità rispetto ai fenomeni; allora essa deve, per quanto sia anche ragione, mostrar in sé, tuttavia, un carattere empirico, perché ogni causa presuppone una regola secondo la quale certi fenomeni seguono come effetti, e ogni regola esige un’uniformità di effetti, che fonda il concetto della causa (come potere); carattere che noi, in quanto deve risultare da semplici fenomeni, possiamo chiamare il suo carattere empirico; il quale è costante, laddove gli effetti, secondo la diversità delle condizioni concomitanti e in parte limitanti, appariscono sotto forme mutevoli. Sicché ciascun uomo ha un carattere empirico del suo arbitrio, che non è altro che una certa causalità della sua ragione, in quanto questa ne’ suoi effetti fenomenici dimostra una regola, secondo la quale si possono dedurre in fondamenti razionali e le loro azioni, quanto al loro modo e a’ lor gradi, e giudicare i princìpi soggettivi del suo arbitrio. Poiché questo stesso carattere empirico deve esser ricavato come effetto dai fenomeni e dalla loro regola, che l’esperienza fornisce, tutte le azioni dell’uomo nel fenomeno sono determinate dal suo carattere empirico e dalle altre cause coefficienti secondo l’ordine della natura; e se noi potessimo indagare tutti i fenomeni del suo arbitrio fino al fondo, non ci sarebbe una sola azione umana che noi non potremmo con certezza predire e conoscere, per le sue condizioni antecedenti, come necessaria. Rispetto a questo carattere empirico non c’è, dunque, nessuna libertà; e soltanto secondo esso noi possiamo tuttavia guardar l’uomo, se vogliamo starcene unicamente all’o s s e r v a z i o n e , e, come accade nell’Antropologia, ricercare fisiologicamente le cause motrici delle sue azioni. Ma se noi, queste stesse azioni, le esaminiamo in relazione con la ragione, e non con la ragione speculativa, per s p i e g a r n e l’origine, ma solo in quanto la ragione è la causa della loro stessa p r o d u z i o n e , in una parola, se noi le riscontriamo con questa dal punto di vista p r a t i c o , allora troviamo una tutt’altra regola e ordine, che non sia l’ordine naturale. Perché allora d o v e v a forse n o n e s s e r e a v v e n u t o tutto ciò che, secondo il corso della natura, è a c c a d u t o , e secondo i suoi princìpi empirici doveva immancabilmente accadere. Ma talvolta troviamo, o crediamo almeno di trovare, che le idee della ragione hanno realmente dimostrato una causalità

rispetto alle azioni fenomeniche dell’uomo, e che perciò queste sono accadute, non già perché fossero determinate da cause empiriche, no, ma perché furono determinate da princìpi della ragione. Ora, posto che si possa dire, aver la ragione una causalità rispetto al fenomeno: allora la sua azione potrebbe dirsi libera, essendo essa nel suo carattere empirico (temperamento232) esattamente determinata e necessaria? Questo, a sua volta, è determinato nel carattere intelligibile (carattere233). Ma quest’ultimo noi non lo conosciamo, sibbene lo designano per mezzo di fenomeni, i quali propriamente non ci danno a conoscere immediatamente se non il temperamento (carattere empirico)234. Ora l’azione, in quanto va attribuita al carattere come a sua causa, non ne segue nondimeno punto secondo leggi empiriche, in modo cioè, che p r e c e d a n o le condizioni della ragion pura, bensì in modo che precedono soltanto i loro effetti nel fenomeno del senso interno. La ragion pura, come facoltà meramente intelligibile, non è soggetta alla forma del tempo, e quindi neppure alle condizioni della serie temporale. La causalità della ragione nel carattere intelligibile n o n n a s c e e non comincia, in qualche modo, in un certo tempo a produrre un effetto. Perché altrimenti sarebbe anch’essa soggetta alla legge naturale dei fenomeni, in quanto questa determina le serie causali secondo il tempo; e la causalità allora sarebbe natura, e non libertà. Noi, dunque, potremmo dire: se la ragione può aver causalità rispetto ai fenomeni, essa è una facoltà, m e d i a n t e la quale incomincia da prima la condizione sensibile di una serie empirica di effetti. Giacché la condizione, che è nella ragione, non è sensibile, e quindi non comincia già da essa stessa. Quindi pertanto ha luogo quello che noi non trovavamo in tutte le serie empiriche: che la c o n d i z i o n e di una serie successiva di fatti possa essere essa stessa empiricamente incondizionata. Perché qui la condizione è fuori della serie dei fenomeni (nell’intelligibile), e quindi non soggetta a nessuna condizione sensibile e a nessuna determinazione temporale da cause anteriori. Pure questa stessa causa appartiene, per un altro rispetto, anche alla serie dei fenomeni. L’uomo è anch’esso fenomeno. Il suo volere ha un carattere empirico, che è la causa (empirica) di tutte le sue azioni. Non ce n’è una, delle condizioni che determinano l’uomo conformemente a questo carattere, che non sia contenuta nella serie degli effetti naturali e non obbedisca alla loro legge, secondo la quale non si dà causalità empiricamente incondizionata di ciò che accade nel tempo. Quindi nessuna azione data (poiché essa non

può essere percepita se non come fenomeno) può cominciare assolutamente da sé. Ma della ragione non si può dire, che prima di quello stato in cui essa determina il volere, ne preceda un altro, in cui questo stato stesso è determinato. Perché, non essendo la ragione stessa un fenomeno, né essendo essa punto soggetta ad alcuna condizione del senso, non ha luogo in essa, né anche per ciò che riguarda la sua causalità, una serie temporale, e ad essa quindi non si può applicare la legge dinamica della natura, che determina secondo regole la serie temporale. La ragione, dunque, è la condizione permanente di tutte le azioni volontarie, in cui l’uomo si manifesta235. Ognuna di esse è, nel carattere empirico dell’uomo, determinata prima ancora che accada. Rispetto al carattere intelligibile, di cui quello è soltanto lo schema sensibile, non vale n é p r i m a n é d o p o; e ogni azione, a prescindere dalla relazione di tempo in cui essa sta con altri fenomeni, è l’effetto immediato del carattere intelligibile della ragion pura, che opera quindi liberamente, senza essere determinata dinamicamente, nella catena delle cause naturali, da princìpi esterni o interni, ma precedenti nel tempo; e questa sua libertà non può essere considerata soltanto negativamente, come indipendenza da condizioni empiriche (perché così la facoltà della ragione cesserebbe di essere causa di fenomeni), ma può anche definirsi positivamente come facoltà di cominciare da sé una serie di fatti; di guisa che in lei stessa nulla comincia, ma essa, come condizione incondizionata di ogni azione volontaria, non ammette sopra di sé condizioni precedenti nel tempo, mentre tuttavia il suo effetto comincia nelle serie dei fenomeni, ma non vi può mai costituire un cominciamento assolutamente primo. Per spiegare il principio regolativo della ragione con un esempio del suo uso empirico, non certo per assodarlo (perché prove di questo genere sono disadatte alle affermazioni trascendentali), si prenda un’azione volontaria, per es., una menzogna malefica, per cui un uomo ha recato alla società un certo scompiglio; e se ne indaghino prima le cause determinanti, da cui essa è nata, e dopo si giudichi come, insieme con le sue conseguenze, possa essergli imputata. Pel primo scopo si prende ad esaminare tutto il suo carattere empirico fino alle sue scaturigini, che si ricercano nella cattiva educazione, nella mala compagnia, in parte anche nella malignità di un naturale insensibile alla vergogna, in parte si attribuiscono alla leggerezza e alla storditaggine; con che non si tralascia poi di guardare alle circostanze236 che

han dato l’occasione. In tutto ciò si procede a quel modo stesso che, in generale, nell’indagine della serie di cause determinanti di un dato effetto naturale. Ora, quantunque si creda che l’azione sia determinata così, non pertanto si biasima meno l’autore, e si biasima non pel suo infelice naturale, ma per le circostanze che influirono su lui, e neppur a causa della maniera di vita da lui tenuta pel passato, perché si suppone che si possa mettere affatto da parte come egli sia fatto, e considerare la serie trascorsa di condizioni come non accaduta, e questo fatto come del tutto incondizionato rispetto allo stato antecedente, come se l’autore con esso cominciasse del tutto da se stesso una serie di conseguenze. Questo biasimo si fonda su una legge della ragione, per cui questa si riguarda come una causa che poteva e doveva determinare altrimenti la condotta dell’uomo, indipendentemente da tutte le dette condizioni empiriche. E, in verità, nella causalità della ragione non si vede quasi una semplice concorrenza, bensì una causalità in sé completa, benché i motivi sensibili non fossero ad essa favorevoli, anzi piuttosto affatto contrari; l’azione è vista in riferimento al suo carattere intelligibile: egli incorre tosto, nell’istante in cui mentisce, interamente nella colpa; quindi la ragione, malgrado tutte le condizioni empiriche del fatto, era pienamente libera, e il fatto è da ascrivere interamente alla sua omissione. In questo giudizio d’imputazione è facile vedere, che si pensa che la ragione non subisca l’influsso di tutta quella sensibilità; che essa non si muti (quantunque i suoi fenomeni, ossia il modo in cui essa si manifesta nei suoi effetti, si mutino); che in essa non preceda uno stato che determini il successivo; e, però, che essa non appartiene punto alla serie delle condizioni sensibili, che rendono necessari i fenomeni secondo le leggi naturali. Essa, la ragione, è presente e unica in tutte le azioni dell’uomo in tutti gli stati del tempo, ma essa stessa non è nel tempo, e non capita, per così dire, in un nuovo stato, in cui prima non era; essa è d e t e r m i n a n t e , ma n o n d e t e r m i n a b i l e rispetto ad esso. Non si può quindi domandare: perché la ragione non si è determinata altrimenti? Ma soltanto: perché essa, con la sua causalità, non ha determinato i f e n o m e n i altrimenti? Se non che a questo non è possibile nessuna risposta. Giacché un altro carattere intelligibile avrebbe dato un altro carattere empirico; e se noi diciamo che, malgrado tutta la sua condotta fin qui tenuta, l’autore della menzogna avrebbe potuto tuttavia non cascarvi; questo non significa se non che essa sta immediatamente sotto la potenza della ragione, e la ragione nella sua causalità non è soggetta alle

condizioni del fenomeno e del corso temporale; che la differenza del tempo può si costituire una differenza capitale dei fenomeni respective tra loro; ma, poiché questi non sono cose, e però né anche cause, in sé, non può costituire una differenza di azione in rapporto con la ragione. Noi, dunque, col giudizio sulle azioni libere rispetto alle loro causalità possiamo giungere fino alla causa intelligibile, ma n o n a l d i l à d i e s s a ; possiamo conoscere che essa è libera, cioè determinata indipendentemente dal senso, e in tal modo può essere rispetto al senso la condizione sensibilmente incondizionata dei fenomeni. Ma, perché il carattere intelligibile dia per l’appunto questi fenomeni e questo carattere empirico nelle presenti circostanze, è domanda che sorpassa di tanto ogni facoltà che la ragione abbia di rispondere, anzi ogni diritto che essa abbia di domandare, come se si chiedesse: perché l’oggetto trascendentale dia per l’appunto alla nostra intuizione sensitiva esterna solo un’intuizione n e l l o s p az i o , e non un’altra intuizione qual sia. Se non che, il problema che noi dovevamo risolvere non ci obbliga punto a ciò; esso, infatti, non era altro che questo: se libertà e necessità naturale siano in conflitto in una e medesima azione; e a questo problema abbiamo sufficientemente risposto, avendo mostrato che, essendo possibile in quella una relazione con una tutt’altra specie di condizioni che in questa, la legge della seconda non tocca la prima, sicché l’una può aver luogo indipendentemente dall’altra e non turbata dall’altra. Bisogna bene avvertire che, con ciò, non abbiamo inteso di esporre la r e a l t à della libertà, come di una delle facoltà che contengono la causa dei fenomeni del nostro mondo sensibile. Giacché, a parte che ciò non sarebbe stato punto una considerazione trascendentale, che ha che fare semplicemente con concetti, ciò non sarebbe potuto riuscire, in quanto che dall’esperienza non possiamo conchiudere mai a qualcosa, che non dee punto pensarsi secondo le leggi dell’esperienza. Che anzi, non abbiamo neppur voluto dimostare la p o s s i b i l i t à della libertà; infatti né anche questo era possibile, poiché in generale, per via di semplici concetti a priori non ci è dato di conoscere la possibilità di nessun fondamento reale e di nessuna causalità. La libertà qui è trattata solo in quanto idea trascendentale, onde la ragione pensa di iniziare assolutamente la serie delle condizioni del fenomeno mediante qualche cosa di incondizionato rispetto al senso237; dove per altro ella s’avvolge in una antinomia con le sue proprie leggi, che essa prescrive all’uso empirico dell’intelletto. Ora, che questa antinomia si fonda su una semplice

apparenza, e che la natura per lo meno non c o n t r a d d i c e alla causalità per libertà, era la sola cosa, che noi potevamo mostrare, e la sola, anche, che fosse per noi importante.

IV SOLUZIONE DELL’IDEA COSMOLOGICA DELLA TOTALITÀ DELLA DIPENDENZA DEI FENOMENI, RISPETTO ALLA LORO ESISTENZA IN GENERALE

Nel precedente numero considerammo i cangiamenti del mondo sensibile nella loro serie dinamica, dove ciascuno sta sotto l’altro come sua causa. Ora questa serie di stati ci serve solo di guida per giungere a un’esistenza che possa essere la suprema condizione di ogni essere mutevole, ossia all’e s s e r e n e c e s s a r i o. Qui non si tratta della causalità incondizionata, ma della esistenza incondizionata della stessa sostanza. La serie che noi abbiamo innanzi è, dunque, propriamente solo serie di concetti, e non di intuizioni, in quanto l’una è la condizione dell’altra. Ma è facile vedere che, tutto nell’insieme dei fenomeni essendo mutevole, quindi nell’esistenza condizionato, non ci può essere in nessun punto della serie dell’esistenza dipendente un membro incondizionato, la cui esistenza sia assolutamente necessaria; e che perciò, se i fenomeni fossero cose in sé, ma appunto per questo la loro condizione appartenesse sempre ad una identica serie di intuizioni con il condizionato, non potrebbe esserci mai un essere necessario come condizione dell’esistenza dei fenomeni del mondo. Ma il regresso dinamico ha in sé questo di speciale e distintivo dal regresso matematico: che, poiché questo ha che fare propriamente solo con la composizione delle parti in un tutto, o con la divisione di un tutto nelle sue parti, le condizioni di questa serie devono sempre essere considerate come parti di essa, quindi come omogenee, e per conseguenza come fenomeni; laddove in quel regresso, poiché vi si ha che fare, non con la possibilità di un tutto incondizionato di parti date o di una parte incondizionata di un dato tutto, ma con la derivazione di uno stato dalla sua causa o dell’esistenza contingente della stessa sostanza da quella necessaria, la condizione non può per l’appunto formare necessariamente una serie empirica col condizionato.

Ci resta dunque nell’apparente238 antinomia, che ci sta dinanzi, aperta ancora una via di uscita, in quanto cioè tutte due le proposizioni in contrasto possono insieme essere vere per diversi aspetti, di guisa che tutte le cose del mondo sensibile siano affatto contingenti, e però anche abbian sempre solo un’esistenza empiricamente condizionata, benché della serie intera ci sia anche una condizione non empirica, cioè un essere incondizionato necessario. Questo infatti, come condizione intelligibile, non rientrerebbe punto, come un membro, nella serie (oppure come il membro supremo), e non costituirebbe né anche un membro della serie empiricamente incondizionato, ma lascerebbe tutto il mondo sensibile nella sua esistenza empiricamente condizionata attraverso tutti i suoi membri. Questo modo, dunque, di porre a fondamento dei fenomeni un essere incondizionato, si distinguerebbe dalla causalità empiricamente incondizionata (libertà) dell’articolo precedente in ciò, che nella libertà la cosa stessa apparteneva tuttavia, come causa (substantia phaenomenon), alla serie delle condizioni, e soltanto l a s u a c a u s a l i t à era concepita come intelligibile; qui invece l’essere necessario deve esser pensato fuori affatto della serie del mondo sensibile, (come ens extramundanum) e meramente intelligibile, onde soltanto è possibile impedire che esso non soggiaccia pure alla legge della contingenza e dipendenza di tutti i fenomeni. I l p r i n c i p i o r e g o l a t i v o della ragione, rispetto a questo nostro problema, è che tutto nel mondo sensibile ha esistenza empiricamente determinata, e che in nessuna parte di esso e per rispetto a nessuna proprietà, c’è una necessità incondizionata; che non c’è nessun membro della serie di condizioni, di cui non si debba sempre aspettare e, finché si può, cercare la condizione empirica in una esperienza possibile, e niente ci autorizza a derivare un’esistenza qualsiasi da una condizione fuori della serie empirica, o magari nella serie stessa a ritenerla assolutamente indipendente e per sé stante; senza perciò negar punto che tutta la serie possa esser fondata su qualche essere intelligibile (che perciò è libero da ogni condizione empirica, e contiene piuttosto il principio della possibilità di tutti questi fenomeni). Ma qui non è mio intendimento dimostrare l’esistenza incondizionatamente necessaria di un essere, e né anche fondarvi su solamente la possibilità di una condizione meramente intelligibile dell’esistenza dei fenomeni del mondo sensibile: ma soltanto di limitare così la ragione per modo che essa non abbandoni il filo delle condizioni

empiriche, e non si smarrisca nei princìpi di spiegazione t r a s c e n d e n t i e incapaci di una rappresentazione in concreto; come anche, dall’altra parte, di restringere la legge dell’uso meramente empirico dell’intelletto a questo, che non decida esso della possibilità delle cose in generale; e l’intelligibile, benché non ci sia dato servircene a spiegazione dei fenomeni, non lo dichiari perciò senz’altro i m p o s s i b i l e . Così, dunque, resta soltanto dimostrato, che la contingenza universale delle cose naturali e di tutte le loro condizioni (empiriche) può benissimo stare insieme col presupposto arbitrario239 di una condizione necessaria, quantunque meramente intelligibile, sì che nessuna vera contraddizione sia da trovare tra queste due affermazioni, e queste possono quindi e s s e r e v e r e d a a m b e l e p a r t i. Se anche sia sempre impossibile in sé un tale essere intelligibile assolutamente necessario, ciò tuttavia non si può in alcun modo dedurre dalla universal contingenza e dalla dipendenza di tutto ciò che fa parte del mondo sensibile, nonché dal principio che non ci si deve arrestare a nessun particolar membro di esso, in quanto è contingente, né ricorrere a una causa fuori del mondo. La ragione segue una sua via nell’uso empirico e una sua via a parte nell’uso trascendentale. Il mondo sensibile non contiene se non fenomeni, ma questi sono semplici rappresentazioni; le quali, a loro volta, sono sempre sensibilmente condizionate; e poiché qui non abbiamo mai come oggetti cose in sé, non è da meravigliarsi, che non siamo mai autorizzati a fare da un membro della serie empirica, quale che esso sia, un salto fuori del contesto della sensibilità, come se si trattasse di cose in sé che esisterebbero fuori del loro fondamento trascendentale, e le si potesse oltrepassare per cercar la causa della loro esistenza fuori di esse; ciò che dovrebbe certamente accadere, infine, nelle cose contingenti, ma non nelle semplici r a p p r e s e n t a z i o n i di cose, la cui stessa contingenza non è un fenomeno, e non può menare altro regresso che a quello che determina i fenomeni, ossia al regresso empirico. Ma pensare un fondamento intelligibile dei fenomeni, cioè del mondo sensibile, e tale fondamento libero dalla contingenza di quest’ultimo, non è né contro il regresso empirico illimitato nella serie dei fenomeni, né contro l’universale contingenza di questi. Ma essa è anche la sola cosa che noi avevamo da fare, per togliere l’apparente antinomia, e che solo in questo modo poteva farsi. Perché, se la rispettiva condizione di ogni condizionato (quanto alla esistenza) è sensibile, e, appunto perciò, appartenente alla serie, essa stessa a sua volta è condizionata (come dimostra l’antitesi della quarta antinomia).

Bisognava, dunque, o che restasse il conflitto con la ragione, che richiede l’incondizionato, o che quest’ultimo fosse riposto fuori della serie, nell’intelligibile, la cui necessità non esige né permette alcuna condizione empirica, ed è quindi incondizionatamente necessario relativamente ai fenomeni. L’uso empirico della ragione (rispetto alle condizioni dell’esistenza nel mondo sensibile) non è toccato dall’ammissione di un essere meramente intelligibile, ma, secondo il principio della universal contingenza, esso passa da condizioni empiriche a condizioni superiori, che sono sempre egualmente empiriche. Ma questo principio regolativo tanto meno esclude l’ammissione di una causa intelligibile, che non sia nella serie, quando si ha da fare con l’uso puro della ragione (rispetto ai fini). Perché questa causa non denota se non il fondamento, per noi meramente trascendentale e ignoto, della possibilità della serie sensibile in generale; l’esistenza del quale, indipendente da tutte le condizioni di questa serie e, rispetto ad essa, incondizionatamente necessaria, non è punto contraria alla contingenza illimitata di esse, e però né anche al progresso indefinito lungo la serie delle condizioni empiriche.

OSSERVAZIONE FINALE INTORNO A TUTTA L’ANTINOMIA DELLA RAGION PURA

Finché coi nostri concetti razionali abbiamo ad oggetto semplicemente la totalità delle condizioni del mondo sensibile, e ciò che rispetto ad esso può tornare in servigio della ragione, le nostre idee sono sì trascendentali, ma pur c o s m o l o g i c h e . Appena, invece, riponiamo l’incondizionato (con cui tuttavia si ha propriamente da fare) in ciò, che è al tutto fuori del mondo sensibile, e quindi fuori di ogni esperienza possibile, le idee diventano t r a s c e n d e n t i : esse non servono soltanto alla integrazione dell’uso empirico della ragione (che resta sempre un’idea che non è mai realizzata, ma sempre da proseguire), ma se ne separano affatto, e si fanno esse stesse oggetti, la cui materia non è presa dall’esperienza, la cui realtà oggettiva non si fonda né anche sulla integrazione della serie empirica, ma su concetti puri a priori. Simili idee trascendenti hanno un oggetto meramente intelligibile, che, come oggetto trascendentale, di cui del resto non si sa nulla, è certamente permesso ammettere, ma per cui non abbiamo dalla parte nostra, per

concepirlo come cosa determinabile per i suoi predicati differenziali ed intrinseci, né i princìpi della sua possibilità (come indipendente da tutti i concetti sperimentali), né la minima giustificazione di ammettere un tale oggetto; e che insomma è un semplice ente di ragione. Pure, tra tutte le idee cosmologiche, quella che ha dato luogo alla quarta antinomia ci trascina a tentar questo passo. Giacché l’esistenza dei fenomeni, che non è di certo fondata punto in se stessa, ma è sempre mai condizionata, ci invita a cercare qualcosa di distinto da tutti i fenomeni, e però un oggetto intelligibile, in cui cessi questa contingenza. Ma poiché, se noi ci siam presi una volta la libertà di ammettere fuori del campo di tutta la sensibilità una realtà per sé sussistente, i fenomeni non son da considerare se non come specie di rappresentazioni contingenti di oggetti intelligibili, di esseri tali, che sono essi stessi intelligenze; non ci resta altro che l’analogia, secondo cui noi ci serviamo dei concetti sperimentali, per farci un qualsiasi concetto delle cose intelligibili, delle quali in se stesse non abbiamo la minima conoscenza. Poiché noi non impariamo a conoscere il contingente se non mediante l’esperienza, ma qui si tratta di cose che non devono esser punto oggetti dell’esperienza, noi ne dovremo ricavare la cognizione da ciò che in sé è necessario, dai concetti puri delle cose in generale. Quindi il primo passo che noi moviamo fuori del mondo sensibile, ci obbliga a dar principio alle nostre nuove conoscenze dalla ricerca di un essere assolutamente necessario, e a desumere dai concetti di esso i concetti di tutte le cose, in quanto sono meramente intelligibili, e questa ricerca intendiamo istituire nel capitolo seguente. 201

Il tutto assoluto della serie delle condizioni di un dato condizionato è sempre incondizionato; perché, oltre di esso, non vi sono più condizioni, rispetto alle quali potrebbe essere condizionato. Se non che, questo insieme assoluto di una tale serie non è se non un’idea, o piuttosto un concetto problematico, di cui deve indagarsi la possibilità, e indagarsi in relazione al modo in cui l’incondizionato, che è propriamente l’idea trascendentale di cui si tratta, può esservi contenuto (N. d. K.). 202 Natura, presa adjective (formaliter), significa la connessione delle determinazioni di una cosa secondo un principio interno di causalità. Invece, per natura substantive (materialiter) si intende il complesso dei fenomeni, in quanto questi, mercé un interno principio di causalità, sono fra loro legati da un nesso universale. Nel primo senso, si parla della natura della materia fluida, del fuoco, e così via, e ci si serve di questa parola solo adjective; al contrario, se si parla delle cose della natura, si ha in mente un tutto sussistente (N. d. K.). 203 Kunstmässigen und scientifischen Unwissenheit. 204 È superflua anche qui la congettura proposta dal Wille, che si legga fisica sperimentale, invece di filosofia sperimentale (Kantst., IV, 311).

205

Le antinomie si susseguono nell’ordine delle sopra dette idee trascendentali (N. d. K.). Noi possiamo intuire un quantum indeterminato come un tutto, se è chiuso in limiti, senza aver bisogno di costruirne con la misura, cioè con la sintesi successiva delle sue parti, la totalità. Perché i limiti determinano già la totalità, escludendo ogni di più (N. d. K.). 207 Il concetto della totalità non è altro, in questo caso, se non la rappresentazione della sintesi completa delle sue parti, perché, non potendo noi ricavare il concetto dell’intuizione del tutto (come quella, che in questo caso è impossibile), possiamo soltanto coglierlo almeno in idea mercé la sintesi delle parti fino al compimento dell’infinito (N. d. K.). 208 Lo spazio è semplicemente la forma dell’intuizione esterna (intuizione formale) ma non un oggetto reale, che si possa intuire esternamente. Lo spazio anteriore a tutte le cose, che lo determinano (riempiono o limitano) o che piuttosto nella sua forma, danno u n a i n t u i z i o n e e m p i r i c a , rappresenta, sotto nome di spazio assoluto, nient’altro che la semplice possibilità dei fenomeni esterni, in quanto essi o esistono in sé o possono aggiungersi a fenomeni dati. L’intuizione empirica, dunque, non risulta dalla composizione di fenomeni con lo spazio (della percezione e della vuota intuizione). Un elemento non è verso l’altro un correlato di sintesi, ma sono solamente legati in una medesima intuizione empirica, come materia e forma di essa. Se si vuole staccare uno di questi due elementi dall’altro (lo spazio da tutti i fenomeni), ne sorgono ogni sorta di vuote determinazioni dell’intuizione esterna, che non sono per altro percezioni possibili. Per es. il movimento o la quiete del mondo nello spazio vuoto infinito: una determinazione del rapporto di entrambi tra loro, che non può mai essere percepita, e che, quindi, è anche il predicato di un semplice ente immaginario (N. d. K.). 209 Esso contiene un numero (di unità data), che è maggiore di ogni numero; che è il concetto matematico dell’infinito (N. d. K.). 210 Si vede facilmente che con ciò si vuol dire: lo s p a z i o v u o t o , i n q u a n t o è l i m i t a t o d a f e n o m e n i, quindi quello dentro il mondo, almeno non contraddice ai princìpi trascendentali, e potrebbe perciò, rispetto a questi, essere ammesso, benché non ne sia pertanto affermata senz’altro la possibilità (N. d. K.). 211 Il testo reca Antithese, ma è opportuna la correzione del Mellin in These (N. d. R.). 212 Il tempo, per verità, quale condizione formale della possibilità dei cangiamenti, precede oggettivamente questi; se non che, soggettivamente, e nella realtà della coscienza, questa rappresentazione, come ogni altra, non è data se non all’occasione delle percezioni (N. d. K.). 213 La parola: cominciare, è presa in duplice significato. Il primo è a t t i v o , quando la causa comincia una serie di stati quali suoi effetti (infit). Il secondo p a s s i v o , quando la causalità comincia (fit) essa stessa nella causa. Io passo qui dal primo al secondo (N. d. K.). 214 Su Jean-Jacques Dortous de Mairan (1678-1771) matematico, astronomo, filosofo cartesiano, V. Bouiluer, Hist. philos. cartès., II, 588-91. 215 Intanto è ancora una questione, se Epicuro abbia mai esposti questi princìpi come affermazioni oggettive. Se essi non fossero altro, per avventura, che massime dell’uso speculativo della ragione, egli avrebbe mostrato in ciò uno spirito filosofico più schietto che alcun altro filosofo dell’antichità. Che nella spiegazione dei fenomeni si debba procedere come se il campo della ricerca non sia circoscritto da alcun limite o cominciamento del mondo; e ammettere la materia del mondo come essa deve essere, se noi vogliamo essere intorno ad essa ammaestrati dall’esperienza; che non ci sia altra produzione degli avvenimenti, che quella che può essere determinata secondo le leggi immutabili della natura; e, finalmente, che non si deve ricorrere a nessuna causa distinta dal mondo: sono anche oggi princìpi molto giusti, ma poco osservati, per estendere la filosofia speculativa, come pure per trovare i princìpi della morale indipendentemente da ogni fonte estranea 206

di aiuto, senza che perciò chi desidera i g n o r a r e quelle proposizioni dommatiche, finché ce ne stiamo alla semplice speculazione, possa per questo essere accusato di volerle n e g a r e (N. d. K.). 216 Idealischen Erklärungen. 217 L’Erdmann propone di intendere: «l’empirismo è privo della popolarità propria della ragione trascendentale idealizzatrice» (N. d. R.). 218 Certo, non si può dare nessuna risposta alla questione qual sia la natura di un oggetto trascendentale, cioè che cosa esso sia; ma è anche vero, che non c’è né anche la q u e s t i o n e , appunto perché non è stato dato un oggetto di essa. Quindi tutte le questioni della psicologia trascendentale possono ricevere e ricevono effettivamente una risposta, giacché esse riguardano il soggetto trascendentale di tutti i fenomeni interni, che non è a sua volta fenomeno, e però non è dato come oggetto, ed è qualcosa per cui nessuna delle categorie (per le quali propriamente è posta la questione) trova le condizioni per la sua applicazione. Qui è dunque il caso, in cui vale il detto comune, che nessuna risposta è anche una risposta; cioè una questione circa la natura di questo qualcosa, che non può esser concepito mediante nessun predicato determinato, essendo al tutto posto fuori della sfera degli oggetti che ci possono esser dati, è affatto nulla e vuota (N. d. K.). 219 Giovanni Enrico Lambert, di Mülhausen in Alsazia (1728-1777), uno degli amici di Kant, che più influirono sullo sviluppo del suo pensiero; vedi O. Baensch, J.H. Lamberts Philos. u. seine Stellung zu Kant (Tubinga-Lipsia, 1902). Suoi scritti principali, oltre la corrispondenza con K., Kosmologische Briefe üb. die Einrichtung des Weltbauses (1761); Neues Organon od. Gedanken üb. die Erforschung u. Bezeichnung des Wahren und dessen Unterscheidung von Irrthum und Schein, 2 voll. (1764); Anlage zur Architektonik, od. Theorie des Einfachen u. Ersten in der philos. u. mathem. Erkenntniss, 2 voll. (1771); Logische u. Philos. Abhandlungen (1782). 220 Vielwisserei. 221 Io del resto l’ho anche detto talvolta idealismo f o r m a l e , per distinguerlo dal m a t e r i a l e o comune, che mette in dubbio o nega l’esistenza stessa delle cose esterne. In qualche caso pare consigliabile servirsi di questa anzi che della sopra detta espressione, per evitare ogni equivoco (N. d. K. agg. nella seconda edizione). Cfr. pp. 192-3. 222 Questa allusione poco esatta al Fedro, p. 261 D, fa pensare a una conoscenza indiretta e vaga del luogo di Platone. 223 Nichtigkeit, non Richtigkeit (esattezza, regolarità) come, certo per un errore di stampa, dà l’ed. Erdmann dell’Accademia. 224 Ossia, come condizione dei membri dati. 225 Questa serie cosmica, dunque, non può essere né maggiore né minore del possibile regresso empirico, su cui soltanto poggia il suo concetto. E poiché questo non può darci un determinato infinito, ma anche tanto meno un determinato finito (assolutamente limitato): di qui è chiaro, che noi non possiamo assumere la grandezza del mondo né come finita né come infinita, perché il regresso (onde essa è rappresentata) non permette né l’una cosa, né l’altra (N. d. K.). 226 Si noterà che la prova qui è condotta in modo affatto diverso dalla prova dommatica addotta sopra nell’antitesi della prima antinomia. Quivi il mondo sensibile l’avevamo presentato, secondo il modo di vedere comune e dommatico, come cosa in sé, data prima di ogni regresso e nella sua totalità; e gli avevamo negato, se non occupava tutto il tempo e tutto lo spazio, in generale ogni posto determinato qualsiasi in entrambi. Quindi la conseguenza era anche diversa da quella di qui, cioè si conchiudeva alla reale infinità del mondo stesso (N. d. K.). 227 Infatti, l’intelletto non ammette t r a i f e n o m e n i una condizione che non sia essa stessa empiricamente condizionata. Ma, se si potesse pensare una condizione i n t e l l i g i b i l e , che non rientrasse come suo membro nella serie dei fenomeni, per un condizionato (nel fenomeno), senza

tuttavia rompere per ciò menomamente la serie delle condizioni empiriche, allora si potrebbe ammettere una tale condizione come e m p i r i c a m e n t e c o n d i z i o n a t a, in modo che non ci sarebbe così mai interruzione nel regresso empirico continuo (N. d. K.). 228 L’Erdmann corregge: «della idea cosmologica...» ecc. (N. d. R.). 229 Ossia l’idea trascendentale della libertà. 230 In dieser, «in questa», cioè nella libertà. Certamente erronea è la congettura del Wille (Kantst., Bd. IV, p. 451, p. 22) che propone di leggere in diesem «in questo», invece che in dieser, riferendo il q u e s t o al concetto pratico. 231 Gründe, fondamenti, princìpi. 232 Sinnesart. 233 Denkungsart 234 La vera moralità delle azioni (merito e colpa), perfino quella stessa della nostra propria condotta, ci resta qui affatto celata. Le nostre imputazioni possono riferirsi soltanto al nostro carattere empirico. Ma, per quanta parte se ne debba attribuire l’effetto puro alla libertà, per quanta alla semplice natura e al difetto incolpabile del temperamento o alla sua felice natura (merito fortunae), nessuno può scandagliarlo, e quindi né anche può giudicare con piena giustizia (N. d. K.). 235 Erscheint = apparisce, è fenomeno (cfr. Erscheinung = fenomeno). 236 Gelegenheitursachen = cause occasionali. 237 durch das Sinnlichunbedingte. 238 Scheinbaren. 239 Willkürlichen.

Capitolo Terzo L’ideale della ragion pura

Sezione Prima DELL’IDEALE IN GENERALE Abbiamo visto sopra, che mediante i concetti puri dell’intelletto, senza tutte le condizioni della sensibilità, non è possibile rappresentarsi gli oggetti, perché mancano le condizioni della loro realtà oggettiva, e non c’è se non la semplice forma del pensiero. Tuttavia, essi possono essere rappresentati in concreto se si applicano ai fenomeni; perché in essi hanno propriamente la materia pel concetto sperimentale, che non è se non un concetto intellettuale in concreto. Ma le i d e e sono dalla realtà oggettiva ancor più remote che non le c a t e g o r i e ; giacché non è dato trovare alcun fenomeno, in cui esse si possano rappresentare in concreto. Contengono esse una certa completezza, a cui nessuna possibile conoscenza empirica perviene, e la ragione vi mira soltanto a una unità sistematica, alla quale essa cerca di avvicinare l’unità empirica possibile, senza mai raggiungerla perfettamente. Ma, anche più dell’idea, pare che sia lontano dalla realtà oggettiva quello che io dico i d e a l e , e per cui intendo l’idea non semplicemente in concreto, ma in individuo, cioè come una cosa particolare, determinabile o a dirittura determinata soltanto mediante l’idea. L’umanità in tutta la sua perfezione comprende non soltanto l’estensione di tutte le proprietà essenziali appartenenti a questa natura, che costituiscono il nostro concetto di essa, fino alla perfetta congruenza con i loro scopi, che sarebbe la nostra idea della perfetta umanità, ma anche tutto ciò che, al di là di questo concetto, appartiene alla completa determinazione dell’idea; perché di tutti i predicati opposti soltanto uno può convenire all’idea dell’uomo più perfetto. Ciò che per noi è un ideale, era per Platone una i d e a d e l l ’ i n t e l l e t t o divino240, un oggetto singolo nell’intuizione pura di esso,

il più perfetto di ogni specie di esseri possibili e l’esemplare (Urgrund) di tutte le copie nel fenomeno. Ma senza salir così alto, noi dobbiamo riconoscere che l’umana ragione non possiede soltanto idee, ma anche ideali, che non hanno bensì, come gli ideali p l a t o n i c i , una potenza creativa, ma ne hanno tuttavia una pratica (come princìpi regolativi) e sono a base della possibilità della perfezione di certe a z i o n i . I concetti morali non sono interamente concetti puri della ragione, perché in fondo ad essi c’è qualcosa di empirico (piacere o dispiacere). Pure, rispetto al principio, per cui la ragione pone dei limiti alla libertà, in sé sciolta da ogni legge (quindi se si bada semplicemente alla loro forma) essi possono bene servire come esempi di concetti puri della ragione. La virtù e con essa la sapienza umana, in tutta la loro purezza, sono idee. Ma il sapiente (dello stoico) è un ideale, cioè un uomo, che esiste solo nel pensiero, ma corrisponde pienamente all’idea della sapienza. Come l’idea dà la r e g o l a , così l’ideale, in tal caso, serve di m o d e l l o alla perfetta determinazione della copia; e noi non abbiamo altro criterio per giudicare le nostre azioni che la condotta di questo uomo divino in noi, col quale noi possiamo paragonarci, giudicarci, e così, migliorarci, quantunque non ci sia possibile mai raggiungerlo. Questi ideali, sebbene non si possa loro attribuire realtà oggettiva (esistenza), non sono perciò da considerare per chimere, anzi offrono un criterio alla ragione, che ha bisogno del concetto di quel che nel suo genere è perfetto, per apprezzare alla sua stregua e misurare il grado e il difetto dell’imperfetto. Ma voler realizzare l’ideale in un esempio, cioè nel fenomeno, come, poniamo, il saggio in un romanzo, è impraticabile, e oltracciò ha in sé un che di assurdo e di poco edificante, in quanto i limiti naturali, che derogano continuamente alla perfezione dell’idea, rendono in tale tentativo impossibile ogni illusione, e però perfin sospetto il bene che è nell’idea, e simile a una semplice finzione. Così è dell’ideale della ragione, che deve sempre esser fondato su concetti determinati e servire di regola e di modello, sia per attenervisi sia per giudicare. Ben altrimenti è delle creature dell’immaginazione, su cui nessuno può spiegarsi e dare un concetto intelligibile, quasi m o n o g r a m m i , che non sono se non tratti staccati, invero non determinati secondo nessuna pretesa regola, i quali costituiscono più un disegno ondeggiante in mezzo ad esperienze diverse che un’immagine determinata, di quelli che pittori e fisionomisti pretendono di avere nella loro testa, e che devono essere un fantasma incomunicabile dei loro prodotti o

magari de’ loro giudizi. Essi possono, benché impropriamente, dirsi ideali della sensibilità, poiché devono essere il modello irraggiungibile di possibili intuizioni empiriche, e pure non offrono nessuna regola suscettibile di spiegazione e di esame. Lo scopo della ragione col suo ideale è, al contrarlo, la determinazione completa secondo regole a priori; quindi essa pensa un oggetto, che deve essere completamente determinabile secondo princìpi, quantunque manchino a ciò le condizioni sufficienti nell’esperienza, e il concetto stesso, perciò, sia trascendente.

Sezione Seconda DELL’IDEALE TRASCENDENTALE (Prototypon trascendentale) Ogni concetto, rispetto a ciò che non è contenuto in esso, è indeterminato, e sottostà al principio della d e t e r m i n a b i l i t à : che solo uno di o g n i d u e predicati opposti contraddittorii gli può convenire; il quale principio si fonda sul principio di contraddizione, e quindi è un semplice principio logico, che astrae da ogni contenuto della conoscenza, e non bada se non alla forma logica di essa. Ma ogni cosa, per la sua possibilità, sottostà ancora al principio della d e t e r m i n a z i o n e c o m p l e t a, in forza del quale di t u t t i i p o s s i b i l i predicati delle cose, in quanto essi sono paragonati coi loro opposti, gliene dee convenire uno. E questo non riposa soltanto sul principio di contraddizione; perché riguarda, oltre il rapporto di due predicati contrari, ciascuna cosa in rapporto alla p o s s i b i l i t à t u t t a, come il complesso di tutti i predicati delle cose in generale, e, supponendo questa come condizione a priori, si rappresenta ogni cosa, come se essa ricavasse la sua propria possibilità dalla parte che essa ha in quella possibilità intera241. Il principio della determinazione completa concerne, dunque, il contenuto, e non soltanto la forma logica. È il principio della sintesi di tutti i predicati, che devono fare il concetto completo di una cosa, e non soltanto della rappresentazione analitica mediante uno dei due predicati opposti: e contiene un presupposto trascendentale, quello cioè della materia per o g n i p o s s i b i l i t à, la quale deve a priori contenere i d a t i per la possibilità p a r t i c o l a r e di ciascuna cosa.

La proposizione: o g n i esistente è completamente d e t e r m i n a t o , significa non soltanto che, di ogni paio di predicati d a t i , opposti tra loro, ma anche di tutti i predicati p o s s i b i l i gliene spetta sempre uno: per questa proposizione non sono solo paragonati tra loro logicamente certi predicati, ma anche trascendentalmente si paragona la cosa stessa con l’insieme di tutti i possibili predicati. Essa vuol dire questo: per conoscere una cosa completamente, si deve conoscere tutto il possibile, e per mezzo di questo determinarla, o positivamente o negativamente. La determinazione completa è conseguentemente un concetto, che noi non possiamo rappresentare mai in concreto nella sua totalità, e si fonda perciò sopra una idea, che ha la sua sede unicamente nella ragione, la quale prescrive all’intelletto la regola del suo uso completo. Ora, benché questa idea dell’i n s i e m e d i o g n i p o s s i b i l i t à, in quanto esso, come condizione, è a base della determinazione completa di ogni cosa, rispetto ai predicati che possono costituirlo sia ancora essa stessa indeterminata, e noi per essa non pensiamo altro che un complesso di tutti i predicati possibili in generale, tuttavia in una ricerca ulteriore troviamo che questa idea, come concetto originario, esclude una quantità di predicati, che sono già dati come ricavati da altri, o che non possono stare l’uno accanto all’altro, e che essa si depura fino a un concetto perfettamente determinato a priori, e diviene così il concetto di un oggetto singolo, il quale è determinato completamente mediante la semplice idea, e deve quindi esser detto i d e a l e della ragione pura. Se noi esaminiamo tutti i predicati possibili, non pure logicamente, ma trascendentalmente, cioè pel loro contenuto che può esservi pensato a priori, troviamo che per alcuni di essi è rappresentato un essere, per altri un semplice non-essere. La negazione logica, indicata unicamente con la particella «non», si riferisce propriamente non ad un concetto, ma soltanto alla relazione di esso con un altro concetto nel giudizio; e però è ben lungi dal valere a designare un concetto rispetto al suo contenuto. L’espressione «non-mortale» non può punto dare a conoscere che un semplice non-essere è per essa rappresentato nell’oggetto, anzi lascia intatto ogni contenuto. Una negazione trascendentale, invece, significa il non-essere in se stesso, al quale si contrappone l’affermazione trascendentale, che è un qualcosa, il cui concetto esprime già in se stesso un essere, e quindi è detto realtà (cosa)242, perché solo per essa, e per quanto essa si estende, gli oggetti sono qualcosa (cose),

laddove l’opposta negazione significa un semplice difetto, e dove sia pensata essa sola, non è rappresentato altro che la soppressione di ogni cosa. Ora, nessuno può concepire determinatamente una negazione, senza che egli abbia posto a fondamento l’opposta affermazione. Il cieco nato non si può fare la menoma rappresentazione del buio, poiché non ne ha nessuna della luce; né il selvaggio della miseria, poiché non conosce il benestare243. L’ignorante non ha nessun concetto della propria ignoranza, perché non ne ha uno della scienza, e così via. Tutti i concetti delle negazioni sono dunque anch’essi derivati, e le realtà contengono i dati e, per così dire, la materia o il contenuto trascendentale per la possibilità e determinazione completa delle cose tutte. Se, dunque, a base della determinazione completa è posto nella nostra ragione un sostrato trascendentale, che contiene, per dir così, tutta la provvista del materiale donde possono esser tratti tutti i possibili predicati delle cose, questo sostrato non è altro che l’idea di un tutto della realtà (omnitudo realitatis). Tutte le vere negazioni allora altro non sono che l i m i t i , come non si potrebbero dire se non ci fosse a fondamento l’illimitato (il tutto). Ma anche per questo completo possesso (Allbesitz) della realtà, è rappresentato il concetto di una c o s a i n s é, come completamente determinato, e il concetto di un ens realissimum è il concetto di un singolo essere, poiché nella sua determinazione deve trovarsi uno di tutti i possibili predicati opposti, quello cioè che appartiene assolutamente all’essere. C’è dunque un I d e a l e trascendentale, che sta a fondamento della determinazione completa che si trova necessariamente in tutto ciò che esiste, e costituisce la condizione materiale suprema e perfetta della sua possibilità, a cui dev’essere ricondotto ogni pensiero degli oggettti in generale rispetto al loro contenuto. Ma esso è anche l’unico ideale vero e proprio, di cui la ragione umana sia capace, poiché solo in quest’unico caso è conosciuto un concetto in sé universale di una cosa, completamente determinato mediante in se stesso, e come rappresentazione di un individuo. La determinazione logica di un concetto mediante la ragione si fonda su un sillogismo disgiuntivo, in cui la maggiore contiene una divisione logica (divisione della sfera di un concetto generale), la minore limita cotesta sfera a una parte, e la conclusione determina il concetto mediante questa parte. Il concetto generale d’una realtà in genere non può esser diviso a priori, perché

senza esperienza non si conosce nessuna specie determinata di realtà, che sia compresa sotto quel genere. Pertanto la maggiore trascendentale della determinazione completa di tutte le cose non è altro che la rappresentazione del complesso di ogni realtà: non pure un concetto, che comprende s o t t o d i s é tutti i predicati pel loro contenuto trascendentale, ma il concetto che li comprende i n s é; e la completa determinazione di ciascuna cosa si fonda sulla limitazione di questo t u t t o della realtà, poiché alcunché di essa è attribuita alla cosa, ma il resto ne è escluso: ciò che va d’accordo con l’o-o della maggiore disgiuntiva e con la determinazione dell’oggetto mediante uno dei membri della divisione della minore. Perciò l’uso della ragione, onde essa pone l’ideale trascendentale a fondamento della sua determinazione di tutte le cose possibili, è analogo a quello secondo cui essa si comporta nei sillogismi disgiuntivi; che fu il principio da me qui sopra messo a fondamento della divisione sistematica di tutte le idee trascendentali, per cui esse sono prodotte parallelamente e corrispondentemente alle tre specie di sillogismi. S’intende da sé, che la ragione per questo scopo, che è solo di rappresentarsi la necessaria determinazione completa delle cose, non presuppone l’esistenza d’un tale essere, che sia conforme all’ideale, ma solo l’idea di esso, per ricavare, da una totalità incondizionata della determinazione completa, quella determinata, cioè la totalità del limitato. L’ideale, quindi, è per essa il modello (prototypon) di tutte le cose, che tutte insieme, come copie difettose (ectypa), ne prendono la materia per la loro possibilità, e pure accostandovisi più o meno, tuttavia restano infinitamente lontane dal raggiungerlo. Così infatti tutta la possibilità delle cose (della sintesi del molteplice rispetto al suo contenuto) vien considerata come derivata, e come originaria soltanto quella di ciò che racchiude in sé tutta la realtà. Giacché tutte le negazioni (che pure sono i soli predicati per cui ogni altro essere si può distinguere dall’essere realissimo) sono semplici limitazioni di una maggiore e, in fine, della suprema realtà, e quindi presuppongono questa e pel contenuto non sono se non derivate da essa. Tutta la molteplicità delle cose non è altro se non appunto altrettanti modi di limitare il concetto della realtà suprema, che ne è il sostrato comune, a quella guisa che tutte le figure non sono possibili se non come diversi modi di limitare lo spazio infinito. L’oggetto, quindi, dell’ideale della ragione, che non è se non nella ragione medesima, si dice anche E s s e r e o r i g i n a r i o (ens originarium); in quanto

non ha nessun essere sopra di sé, E s s e r e s u p r e m o (ens summum); e in quanto ogni essere, come condizionato, sta sotto di esso, E s s e r e d e g l i e s s e r i (ens entium). Ma tutto questo non importa l’oggettiva relazione di un oggetto reale con altre cose, sibbene quella dell’i d e a c o n c o n c e t t i, e ci lascia in una totale ignoranza circa l’esistenza d’un essere di così eccezionale preminenza. Poiché non si può dire né anche che un essere originario consti di molti esseri derivati, in quanto ciascuno di questi presuppone quello, e quindi non può costituirlo, così l’ideale dell’Essere originario si dovrà concepire anche come semplice. La derivazione quindi di ogni altra possibilità da questo Essere originarlo né anche potrà essere considerata, per parlare esattamente, come una l i m i t a z i o n e della sua suprema realtà e quasi una d i v i s i o n e della medesima; perché allora l’Essere originario verrebbe ad esser considerato come un semplice aggregato di esseri derivati: ciò che, secondo quel che precede, è impossibile, sebbene noi abbiamo da principio in un primo rozzo adombramento rappresentato la cosa così. La realtà suprema, piuttosto, starebbe a base della possibilità di tutte le cose come un f o n d a m e n t o e non come c o m p l e s s o , e la molteplicità di queste proverrebbe non dalla limitazione dell’Essere originario stesso, bensì dal suo completo sviluppo244, di cui anche la nostra sensibilità tutta quanta, insieme con tutta la realtà del fenomeno, farebbe parte: sensibilità, che non potrebbe appartenere come un ingrediente all’idea dell’Essere supremo. Ora, se noi seguiamo più oltre questa nostra idea, di cui facciamo una ipostasi, potremo determinare l’Essere originario mediante il semplice concetto di realtà suprema come un essere unico, semplice, onnipotente, eterno, ecc., in una parola, nella sua incondizionata perfezione, per mezzo di tutti i predicati. Il concetto di un tale essere è così il concetto di Dio, inteso in senso trascendentale, e, così come ho accennato di sopra, l’ideale della ragion pura è l’oggetto di una teologia trascendentale. Ma, intanto, questo uso dell’idea trascendentale sorpasserebbe i limiti della sua determinazione e ammissibilità. Perché la ragione la pone sì a fondamento della completa determinazione delle cose in generale, ma soltanto come il c o n c e t t o di tutta la realtà, senza pretendere che tutta questa realtà sia data oggettivamente e costituisca essa stessa una cosa. Quest’ultima è una semplice finzione, onde noi raccogliamo e realizziamo il

molteplice della nostra idea in un ideale, come in un essere a sé, a cui nulla ci autorizza; anzi niente ci autorizza punto ad ammettere a dirittura la possibilità di una tale ipotesi: come anche tutte le conseguenze, che discendono da un tale ideale, non appartengono alla determinazione completa delle cose in generale, in quanto soltanto l’idea è necessaria a tal uso, e non hanno su ciò il minimo influsso. Non basta descrivere il processo della nostra ragione e la sua dialettica; si deve anche tentare di scoprirne le fonti, per poter spiegare questa apparenza stessa come un fenomeno dell’intelletto; perché l’ideale, di cui parliamo, è fondato su un’idea naturale e non meramente arbitraria. Quindi io domando: in che modo la ragione giunge a considerare ogni possibilità delle cose come derivante da una sola, che ne è a base, ossia dalla possibilità della realtà suprema, e a presupporre quindi questa realtà come contenuta in uno speciale Essere originario? La risposta vien da sé dalle trattazioni dell’Analitica trascendentale. La possibilità degli oggetti dei sensi è un rapporto tra essi e il nostro pensiero, in cui qualcosa (la forma empirica) può essere pensato a priori, ma quello che costituisce la materia, la realtà del fenomeno (ciò che corrisponde alla sensazione), dev’essere dato; senza di che esso non potrebbe essere né anche pensato, né quindi potrebbe esser rappresentata la sua possibilità. Ora, un oggetto dei sensi non può essere completamente determinato se non quando si paragoni con tutti i predicati del fenomeno e per mezzo di essi rappresentato, affermativamente o negativamente. Ma, poiché deve esser dato quello che costituisce la cosa stessa (nel fenomeno), cioè il reale, senza di cui essa non potrebbe essere né anche pensata, e poiché d’altra parte ciò, in cui è dato il reale di tutti i fenomeni, è l’unica esperienza totale245: così la materia per la possibilità di tutti gli oggetti dei sensi dev’essere presupposta come data in un insieme, dalla cui limitazione dipenderà ogni possibilità di oggetti empirici, la loro differenza reciproca e la loro completa determinazione. Ora, nel fatto, non ci possono esser dati altri oggetti che quelli dei sensi, né altrove che nel contesto di una esperienza possibile; e però niente p e r n o i è un oggetto, se esso non presuppone il complesso di tutta la realtà empirica come condizione della sua possibilità. E per una illusione naturale noi consideriamo questo come un principio, che debba valere di tutte le cose in generale, laddove propriamente vale soltanto di quelle che son date quali oggetti de’ nostri sensi. Conseguentemente, quello che è il principio empirico dei nostri

concetti della possibilità delle cose in quanto fenomeni, per omissioni di questa limitazione lo considereremo come un principio trascendentale della possibilità delle cose in generale. Ma che noi poscia ipostatizziamo questa idea del complesso di ogni realtà, nasce da qui: che l’unità d i s t r i b u t i v a dell’uso sperimentale dell’intelletto, noi la mutiamo dialetticamente nell’unità collettiva d’un tutto d’esperienza; e in questo tutto del fenomeno pensiamo una cosa singola che contiene in sé ogni realtà empirica, e che pertanto mediante la già notata surrezione trascendentale, viene scambiata col concetto di una cosa che sta in cima alla possibilità di tutte le cose, per la cui determinazione completa fornisce le condizioni reali246.

Sezione Terza DEGLI ARGOMENTI DELLA RAGION SPECULATIVA PER DIMOSTRARE L’ESISTENZA DI UN ESSERE SUPREMO Malgrado questo urgente bisogno della ragione, di presupporre qualcosa che possa esser fondamento all’intelletto per la determinazione completa de’ suoi concetti, essa s’avvede tuttavia troppo facilmente di quel che d’ideale e meramente fittizio c’è in un tal presupposto, per potersi, per ciò solo, persuadere senz’altro ad ammettere come un essere reale una semplice sua creatura, se essa non fosse d’altronde incalzata a cercare in qualche parte la sua quiete, nel regresso dal condizionato, che è dato, all’incondizionato, che non è veramente, in sé e nel suo semplice concetto, dato come reale, ma che solo può compiere la serie delle condizioni ricondotte ai loro fondamenti. Ora, questo è il cammino naturale, che prende ogni ragione umana, anche la più comune, benché non ognuna vi persista. Essa non comincia da concetti, ma dalla comune esperienza, e pone perciò a fondamento qualcosa di esistente. Ma questo terreno si sprofonda quando non poggi sulla rupe incrollabile dell’assolutamente necessario. E questo stesso rimane senza appoggio, se inoltre, fuori e sotto di esso, c’è uno spazio vuoto, ed esso non riempie per se stesso tutto, e quindi non lascia più posto al p e r c h é , cioè se non è infinito di realtà. Se qualcosa, quale che sia, esiste, si deve anche ammettere che qualche cosa esista pure n e c e s s a r i a m e n t e . Giacché il contingente non esiste se

non con la condizione di un altro contingente come sua causa; e di questa vale ancora lo stesso ragionamento, fino a una causa che non sia contingente, e appunto perciò esista senza condizione, necessariamente. È questo l’argomento, su cui la ragione fonda il suo processo per giungere all’Essere originario. Ora, se la ragione va cercando il concetto di un essere che si convenga a una tale preminenza di esistenza quale la necessità incondizionata, non è tanto per conchiudere quindi dal concetto di esso a priori alla sua esistenza (perché se essa ardisse tanto, potrebbe cercare soltanto tra semplici concetti, e non avrebbe necessità di porre a fondamento una data esistenza), ma solo per trovare, tra tutti concetti di cose possibili, quello che non ha in sé niente di ripugnante alla necessità assoluta. Che infatti debba esistere qualche cosa di assolutamente necessario, essa lo ritiene già per dimostrato con il primo ragionamento. Ora, se essa può disfarsi di tutto ciò che non s’accorda con questa necessità fuorché d’una cosa, questa è l’essere assolutamente necessario, si possa o no comprenderne la necessità, si possa cioè, o no, ricavarla soltanto dal suo concetto. Ora ciò, il cui concetto contiene in sé la risposta a ogni perché, e che non è difettoso in nessuna parte e per nessun rispetto, e che vale dovunque come condizione, pare appunto perciò che sia l’essere adeguato alla necessità assoluta; poiché, in quel suo possedere in sé (Selbstbesitz) tutte le condizioni di ogni cosa possibile, esso non ha bisogno di alcuna condizione, anzi non ne è manco suscettibile; e però, almeno in una parte, soddisfa al concetto della necessità assoluta; nel che non può fare altrettanto nessun altro concetto, il quale, essendo difettoso e bisognoso d’integrazione, non dimostra in sé una nota siffatta d’indipendenza da tutte le condizioni ulteriori. È vero che da questo non si può ancora inferire sicuramente, che ciò che non contiene in sé la condizione suprema e per ogni rispetto completa, debba essere perciò, esso stesso, condizionato quanto alla sua esistenza; ma esso non ha in sé tuttavia l’unico carattere della esistenza incondizionata, di cui la ragione dispone per conoscere, mediante un concetto a priori, un essere qualunque come incondizionato. Il concetto di un essere della realtà suprema s’adatterebbe dunque nel modo migliore, tra tutti i concetti di cose possibili, al concetto di un essere incondizionatamente necessario; e se né anch’esso vi soddisfa perfettamente, noi non abbiamo nondimeno nessuna scelta, ma ci vediamo costretti ad

attenerci ad esso; poiché noi non possiamo gettare al vento l’esistenza di un essere necessario; ma, se l’ammettiamo, non troviamo per altro, in tutto il campo della possibilità, niente che possa avere una pretesa più fondata a una tale prerogativa nell’esistenza. Tale è dunque il cammino naturale della ragione umana. Da prima essa si convince dell’esistenza di u n q u a l c h e essere necessario. In questo riconosce una esistenza incondizionata. Quindi cerca il concetto di ciò che è indipendente da ogni condizione; e lo trova in quello che è condizione sufficiente a tutto il resto, cioè in quello che contiene ogni realtà. Ma il tutto senza limiti è assoluta unità, e importa il concetto di un essere unico, ossia dell’Essere supremo; e così essa conchiude che l’Essere supremo, come primo fondamento di tutte le cose, esiste in modo assolutamente necessario. A questo concetto non si può contestare una certa fondatezza (Gründlichkeit), quando si tratti di r i s o l u z i o n i , cioè quando sia ammessa l’esistenza di un Essere necessario, e s’è d’accordo che convenga prender il proprio partito su dove si voglia porlo; perché allora non si può scegliere meglio, o, piuttosto, non si ha nessuna scelta, ma si è costretti a dare il proprio voto all’unità assoluta della realtà universa come fonte originaria della possibilità. Ma, se niente ci spinge a risolverci, e noi più volentieri lasciamo lì tutta questa faccenda, finché non siamo costretti dal peso pieno degli argomenti all’assenso, cioè se si tratta di g i u d i c a r e semplicemente quanto noi sappiamo di questo problema, e quanto ci lusinghiamo soltanto di sapere: allora il ragionamento di sopra è ben lungi dall’apparire in aspetto così vantaggioso, e ha bisogno d’un certo favore per compensare il difetto delle sue ragioni giuridiche. Infatti, se meniamo per buono tutto ciò che qui ci sta innanzi: che cioè, in primo luogo, sia un ragionamento giusto a concludere da una qualunque esistenza data (e magari semplicemente dalla mia propria) all’esistenza di un essere incondizionatamente necessario; in secondo luogo, che io devo considerare come assolutamente incondizionato un essere che contiene ogni realtà, quindi anche ogni condizione, e pertanto che si sia così trovato il concetto della cosa che si adegua alla necessità assoluta; da ciò tuttavia non si può punto inferire, che il concetto di un essere limitato che non ha la realtà suprema, contraddica pertanto alla necessità assoluta. Giacché, quantunque nel suo concetto io non trovi l’incondizionato, che importa la totalità delle condizioni non se ne può tuttavia dedurre che la sua esistenza debba, perciò

essere condizionata; a quella guisa che in un sillogismo ipotetico io non posso dire: se una certa condizione (cioè, qui, la perfezione secondo concetti) non è, non è né anche il condizionato. Anzi niente ci vieta di ritenere come, né più né meno, incondizionatamente necessari tutti gli altri esseri limitati sebbene non possiamo dedurre la loro necessità dal concetto generale che ne abbiamo. Se non che, in questo modo, tutto questo argomento non ci avrebbe fornito il minimo concetto delle proprietà di un essere necessario, e non avrebbe approdato a nulla. Nondimeno restano a questo argomento una certa importanza e un certo credito, che, malgrado la sua oggettiva insufficienza, non possono per altro essergli tolti senz’altro. Perché, se supponete che ci siano obbligazioni, che nell’idea della ragione sarebbero affatto giuste, ma senza nessuna realtà di applicazione a noi, cioè senza motivi, ove non si supponesse un Essere supremo, che potesse dare alle leggi pratiche efficacia e forza: noi avremmo anche l’obbligo di adottare quei concetti, i quali, sebbene non possano essere oggettivamente sufficienti, pure, secondo la misura della nostra ragione, sono preponderanti, e al paragone di essi noi non conosciamo nulla di meglio e di più convincente. Il dovere di scegliere farebbe qui uscire dall’equilibrio l’irresolutezza della speculazione con una aggiunta pratica; anzi la ragione non troverebbe in se stessa, come presso il giudice più indulgente, nessuna giustificazione, se, sotto i motivi incalzanti, essa, malgrado la conoscenza difettosa, non avesse seguito questi princìpi del suo giudizio, al di sopra dei quali noi almeno non ne conosciamo tuttavia di migliori. Questo argomento, benché nel fatto sia trascendentale, fondandosi sull’intrinseca insufficienza del contingente, pure è così semplice e naturale, che riesce adatto al senso più comune degli uomini, appena questo vi sia una volta richiamato. Si vedono le cose trasformarsi, nascere e perire: esse dunque, o almeno il loro stato deve avere una causa. Ma di ogni causa, che possa esser data mai nell’esperienza, si può di nuovo ripetere appunto il medesimo. Ora, dove noi dovremo più giustamente riporre la causalità s u p r e m a , se non dove è anche la p i ù a l t a causalità, in quell’Essere cioè, che contiene in se stesso originariamente quanto basta per ogni possibile effetto, e il cui concetto si costruisce anche molto facilmente con l’unico tratto di una perfezione assoluta?247 Questa causa somma, infatti, noi l’abbiamo per assolutamente necessaria, perché noi troviamo assolutamente necessario elevarci fino ad essa, e non troviamo nessuna ragione per

spingerci ancora più oltre al di sopra di essa. Quindi presso tutti i popoli vediamo, attraverso il loro più cieco politeismo, tralucere tuttavia alcune scintille di monoteismo, al quale li ha condotti, non la riflessione e una profonda speculazione, ma solo il processo naturale, a poco a poco divenuto intelligente, del senso comune.

NON CI SONO SE NON TRE SPECIE POSSIBILI DI PROVE DELL’ESISTENZA DI DIO PER LA RAGION SPECULATIVA Tutte le vie, che per questo rispetto si possono battere, muovono o dalla esperienza determinata e dalla particolare natura quindi conosciuta del nostro mondo sensibile, e salgono da esso, secondo le leggi della causalità, fino alla causa suprema fuori del mondo; ovvero mettono empiricamente a fondamento soltanto un’esperienza indeterminata, cioè un’esistenza qualunque; o fanno, infine, astrazione da ogni esperienza, e conchiudono affatto a priori da semplici concetti all’esistenza di una causa suprema. Il primo argomento è l’argomento f i s i c o - t e o l o g i c o , il secondo il c o s m o l o g i c o , il terzo l’o n t o l o g i c o . Non ce ne sono, e né anche ce ne possono essere altri. Io mostrerò: che la ragione non fa su una via (l’empirica) più cammino che sull’altra (la trascendentale), e che indarno essa spiega le sue ali per levarsi al di sopra del mondo sensibile con la semplice potenza della speculazione. Ma, per ciò che riguarda l’ordine in cui questi argomenti devono esser sottoposti ad esame, esso sarà proprio l’inverso di quel che segue la ragione nel suo progressivo dilatarsi, e in cui noi li abbiamo anche da principio posti. Giacché si dimostrerà: che, sebbene l’esperienza vi dia la prima occasione, tuttavia solo il c o n c e t t o t r a s c e n d e n t a l e guida la ragione in questo suo sforzo, e in tutti questi tentativi fissa lo scopo che essa si è proposto. Io, dunque, comincerò dall’esame della prova trascendentale, e quindi vedrò ciò che l’aggiunta di quella empirica può fare per l’aumento della sua forza dimostrativa.

Sezione Quarta DELL’IMPOSSIBILITA DI UNA PROVA ONTOLOGICA

DELL’ESISTENZA DI DIO

Da quel che precede è facile vedere che il concetto di un essere assolutamente necessario è un concetto puro della ragione, cioè una semplice idea, la cui realtà oggettiva è ben lungi dall’essere provata dal fatto che la ragione ne ha bisogno; la quale non fa altro che additare una certa perfezione, tuttavia irraggiungibile, e serve propriamente più a limitar l’intelletto che ad estenderlo a nuovi oggetti. Ora qui si trova lo strano e l’assurdo, che l’illazione da un’esistenza data in generale a un’esistenza assolutamente necessaria pare stringente e giusta, e noi tuttavia abbiamo affatto contro di noi tutte le condizioni dell’intelletto per farci un concetto di una tale necessità. Si è in ogni tempo parlato dell’essere a s s o l u t a m e n t e n e c e s s a r io , e non si è pensato tanto da darsi la pena di intendere, se e come si possa anche solamente pensare una cosa di questa specie, quanto piuttosto a dimostrarne l’esistenza. Ora di certo è molto facile una definizione verbale di questo concetto, che cioè esso sia qualche cosa il cui non essere è impossibile; ma con questo non se ne sa niente di più circa le condizioni che rendono impossibile considerare come assolutamente impensabile il non essere di una cosa, e che sono precisamente quel che si vuol sapere; ossia se con questo concetto pensiamo qualche cosa, o no. Infatti metter da parte, con la parola i n c o n d i z i o n a t o , tutte le condizioni di cui l’intelletto ha sempre bisogno, per ritenere qualcosa come necessario, è ancora tutt’altro che sufficiente a far intendere se col concetto d’un essere incondizionatamente necessario io poi pensi tuttavia qualcosa, o se per avventura non pensi più nulla. Inoltre, si è ancora creduto di spiegare questo concetto, lanciato così semplicemente alla ventura e diventato in fine affatto familiare, con una quantità di esempi, in modo che ogni ulteriore indagine intorno alla sua intelligibilità è apparsa del tutto superflua. Ogni proposizione della geometria, per es. che un triangolo ha tre angoli, è assolutamente necessaria, e così si è parlato di un oggetto che è interamente fuori della sfera del nostro intelletto, come se s’intendesse proprio bene ciò che col concetto di esso si voglia dire. Tutti gli esempi proposti, senza eccezione, sono presi soltanto da giudizi, ma non da cose e dalla loro esistenza. Se non che, la necessità incondizionata

del giudizio non è assoluta necessità delle cose. Infatti l’assoluta necessità del giudizio è solo una necessità condizionata delle cose, o del predicato nel giudizio. La proposizione di prima non diceva che tre angoli sono assolutamente necessari, ma che, alla condizione che esiste (è dato) un triangolo, esistono anche tre angoli (in esso) in modo necessario. Tuttavia, questa necessità logica ha dimostrato tanta potenza d’illusione, che altri, essendosi fatto di una cosa un tale concetto a priori da ricomprendere, a modo suo, nell’ambito di esso l’esistenza, s’è creduto di poterne con sicurezza inferire che – convenendo all’oggetto di questo concetto necessariamente l’esistenza, a condizione cioè che io ponga questa cosa come data (esistente) – anche la sua esistenza sia posta necessariamente (secondo la regola dell’identità) e questo essere quindi sia assolutamente necessario, poiché la sua esistenza è stata concepita in un concetto assunto a piacere e sotto la condizione che io ne ponga l’oggetto. Se io in un giudizio identico sopprimo il predicato e mantengo il soggetto, ne viene una contraddizione, e quindi io dico: quello appartiene a questo in maniera necessaria. Ma se io sopprimo il soggetto insieme con il predicato, non nasce nessuna contraddizione, perché non c’è più nulla a cui si possa contraddire. Affermare un triangolo e insieme negarne i tre angoli è contraddittorio; ma negare il triangolo insieme con i suoi tre angoli, non è una contraddizione. Lo stesso è del concetto di essere assolutamente necessario. Se voi ne negate l’esistenza, voi negate anche la cosa stessa con tutti i suoi predicati; dove può sorgere allora la contraddizione? Esternamente non c’è niente a cui si contraddirebbe, perché la cosa non deve essere esternamente necessaria; internamente neppure, perché, negando la cosa, voi avete insieme negato tutto l’interno. «Dio è onnipotente», è un giudizio necessario. L’onnipotenza non può essere negata, se voi affermate una divinità, cioè un essere infinito, col cui concetto egli è identico. Ma se voi dite: Dio non è, allora non è data né l’onnipotenza, né alcun altro de’ suoi predicati, giacché essi sono tutti soppressi insieme col soggetto; né in questo pensiero si vede la minima contraddizione. Voi dunque avete veduto che, se io nego il predicato di un giudizio insieme col soggetto, non può venire mai una contraddizione interna, sia pure il predicato quale si voglia. Ora non vi resta altro scampo che dire: ci sono soggetti, che non possono assolutamente esser negati, e che dunque devono restare. Ma sarebbe precisamente come dire: ci sono soggetti assolutamente

necessari: presupposto, della cui legittimità io ho per l’appunto dubitato, e la cui possibilità voi mi volete dimostrare. Infatti io non mi posso fare il più piccolo concetto di una cosa, che, se fosse negata con tutti i suoi predicati, si lascerebbe dietro una contraddizione; e senza la contraddizione, per via di semplici concetti puri a priori, io non ho nessun carattere della impossibilità. Contro tutti questi ragionamenti generali (ai quali non c’è uomo che possa ricusarsi) voi mi sfidate con un caso, che arrecate come prova di fatto: che tuttavia c’è un concetto, e questo unico concetto, in cui il non essere o la negazione del suo oggetto è in se stesso contraddittorio: e questo è il concetto dell’Essere realissimo. Esso ha, voi dite, tutte le realtà, e voi siete in diritto di ammettere come possibile un tal essere (ciò che io per ora ammetto, benché il concetto che non si contraddice sia ben lungi dal dimostrare la possibilità dell’oggetto)248. Ma fra tutte le realtà è compresa anche l’esistenza; dunque, nel concetto di un possibile c’è l’esistenza. Ora, se si nega questa cosa, è negata la possibilità interna della cosa; ciò che è contraddittorio. Io rispondo: voi avete già commessa una contraddizione quando, nel concetto d’una cosa che volete pensare unicamente nella sua possibilità, avete introdotto, sia pure sotto occulto nome, il concetto della sua esistenza. Se vi si concede questo, voi in apparenza avete guadagnato il giuoco, ma in fatto non avete detto niente; perché siete incorsi in una semplice tautologia. Io vi domando: la proposizione q u e s t a o q u e l l a c o s a (che io vi concedo come possibile, sia qual si voglia) e s i s t e , questa proposizione, dico, è una proposizione analitica o sintetica? Se è analitica, allora voi, con l’esistenza della cosa, non aggiungete nulla al vostro pensiero della cosa; ma allora o il pensiero, che è in voi, dovrebbe essere la cosa stessa, o voi avete supposta un’esistenza come appartenente alla possibilità e poi avete fatto mostra di dedurre l’esistenza dall’intera possibilità. Ciò che non è altro che una misera tautologia. La parola «realtà» che nel concetto della cosa suona altrimenti che «esistenza» nel concetto del predicato, non giova. Perché, se voi dite realtà anche ogni posizione (qualunque cosa poniate), allora voi avete già posto la cosa con tutti i suoi predicati nel concetto del soggetto, e l’avete ammessa come reale, e nel predicato non fate che ripeterla. Se voi riconoscete, al contrario, come discretamente deve ogni essere ragionevole, che ogni giudizio esistenziale è sintetico; come volete asserire, che il predicato dell’esistenza non si possa negare senza contraddizione? Poiché tale prerogativa non spetta propriamente se non ai giudizi analitici, come quelli il

cui carattere si fonda appunto su ciò. Io, in verità, spererei di aver ridotto in nulla con una esatta determinazione del concetto di esistenza questa sottile sofisticheria249, se non avessi trovato che l’illusione, nello scambio di un predicato logico con uno reale (cioè della determinazione di una cosa) prevale quasi su qualsiasi ragionamento. P e r p r e d i c a t o l o g i c o può servire tutto ciò che si vuole, anzi il soggetto si può predicare di se stesso; giacché la logica astrae da ogni contenuto. Ma la d e t e r m i n a z i o n e è un predicato, che s’aggiunge al concetto del soggetto, e lo accresce. Essa quindi non vi può essere già contenuta. E s s e r e , manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa. Essere è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni in se stesse. Nell’uso logico è unicamente la copula di un giudizio. Il giudizio: D i o è o n n i p o t e n t e , contiene due concetti, che hanno i loro oggetti: Dio è onnipotenza: la parolina «è» non è ancora un predicato, bensì solo ciò che pone il predicato in relazione col soggetto. Ora, se io prendo il soggetto (Dio) con tutti insieme i suoi predicati (ai quali appartiene anche l’onnipotenza), e dico: Dio è, o c’è un Dio, io non affermo un predicato nuovo del concetto di Dio, ma soltanto il soggetto in sé con tutti i suoi predicati, e cioè l’o g g e t t o in relazione col mio c o n c e t t o . Entrambi devono avere esattamente un contenuto identico, e però nulla si può aggiungere di più al concetto, che esprime semplicemente la possibilità, per il fatto di pensare l’oggetto come assolutamente dato (con l’espressione: egli è). E così il reale non viene a contenere niente più del semplice possibile. Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili. Perché, dal momento che i secondi denotano il concetto, e i primi invece l’oggetto e la sua posizione in sé, nel caso che questo contenesse più di quello, il mio concetto non esprimerebbe tutto l’oggetto, e però anch’esso non ne sarebbe il concetto adeguato. Ma rispetto allo stato delle mie finanze nei cento talleri reali c’è più che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità). Infatti l’oggetto, per la realtà, non è contenuto senz’altro, analiticamente nel mio concetto, ma s’aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione del mio stato), senza che per questo essere fuori del mio concetto questi cento talleri stessi del pensiero vengano ad essere menomamente accresciuti.

Se io dunque penso una cosa con quali e quanti predicati io voglio (magari nella sua determinazione completa) non s’aggiunge alla cosa stessa il minimo che, pel fatto che io soggiungo ancora: questa cosa è. Perché altrimenti non esisterebbe per l’appunto lo stesso, ma più di quel che io avevo pensato nel concetto; e io non potrei dire che esiste precisamente l’oggetto del mio pensiero. Parimenti, se io in una cosa penso tutte le realtà, eccetto una, non perché dico: una tale cosa difettosa esiste, le si aggiunge la realtà mancante; ma essa esiste precisamente con lo stesso difetto con cui l’ho pensata; altrimenti, esisterebbe qualcos’altro da ciò che io pensavo. Ora, se io mi penso un essere come la Realtà suprema (senza difetto), resta sempre la questione, se esso esista o no. Giacché, quantunque nel mio concetto non ci manchi nulla del possibile contenuto reale di una cosa in generale, pure ci manca ancora qualcosa nel rapporto con lo stato intero del mio pensiero: ossia, manca che la conoscenza di quell’oggetto sia possibile anche a posteriori. E qui apparisce anche la causa della presente difficoltà. Se si trattasse di un oggetto dei sensi, non potrei scambiare l’esistenza della cosa col semplice concetto della cosa. Infatti, pel concetto, l’oggetto non vien pensato se non come conforme alle condizioni generali di una possibile conoscenza empirica in generale; per l’esistenza, invece, come contenuto nel contesto dell’esperienza totale; se dunque per la connessione del contenuto dell’esperienza totale il concetto dell’oggetto non è menomamente accresciuto, il nostro pensiero, per altro, mediante essa acquista una percezione possibile di più. Al contrario, se noi vogliamo pensare l’esistenza soltanto mediante la categoria pura, nessuna meraviglia che non possiamo fornire nessun carattere per distinguerla dalla semplice possibilità. Sia quale e quanto si voglia il contenuto del nostro concetto di un oggetto, noi, dunque, dobbiamo sempre uscire da esso, per conferire a questo oggetto l’esistenza. Negli oggetti dei sensi questo accade mediante la connessione con una delle mie percezioni secondo leggi empiriche; ma per gli oggetti del pensiero puro non c’è assolutamente mezzo di conoscere la loro esistenza, poiché questa dovrebbe conoscersi interamente a priori; ma la nostra coscienza di ogni esistenza (o per percezione, immediatamente, o per ragionamenti, che rannodano qualche cosa alla percezione) appartiene in tutto e per tutto all’unità dell’esperienza; e un’esistenza fuori di questo campo non può certo esser dichiarata assolutamente impossibile, ma è un’ipotesi che non abbiamo modo di giustificare.

Il concetto di un Essere supremo è un’idea per più rispetti molto utile; ma appunto perciò, essendo semplice idea, è affatto incapace di dilatare, soltanto per suo proprio mezzo, la nostra conoscenza rispetto a quello che esiste. Essa non ha tanto potere da istruirci rispetto alla possibilità di una pluralità. Il carattere analitico della possibilità, consistente in questo, che semplici posizioni (realtà) non producono nessuna contraddizione, non può certamente essergli contestato; ma poiché la connessione di tutte le proprietà reali di una cosa è una sintesi, della cui possibilità non ci è dato di giudicare a priori, in quanto che non ci son date specificamente le realtà, e, quand’anche ciò accadesse non ci sarebbe punto di giudizio, perché il carattere della possibilità di conoscenze sintetiche va sempre cercato nell’esperienza, alla quale per altro non può appartenere l’oggetto di una idea, così il celebre Leibniz è rimasto a gran pezza lontano dal fare ciò di cui si lusingava, cioè conoscere a priori la possibilità di un essere così sublimemente ideale. Tutta la fatica e lo studio posto nel tanto famoso argomento ontologico da concetti (cartesiano) dell’esistenza di un Essere supremo sono stati dunque perduti, e un uomo mediante semplici idee potrebbe certo arricchirsi di conoscenze né più né meno di quel che un mercante potrebbe arricchirsi di quattrini se egli, per migliorare la propria condizione, volesse aggiungere alcuni zeri alla sua situazione di cassa.

Sezione Quinta DELL’IMPOSSIBILITÀ DI UNA PROVA COSMOLOGICA DELL’ESISTENZA DI DIO Era qualcosa di affatto innaturale, e una semplice invenzione dello spirito di scuola, volere da un’idea arbitrariamente abbozzata ricavare l’esistenza dell’oggetto stesso ad essa corrispondente. Nel fatto non si sarebbe mai tentato questa via, se non vi fosse stato anzitutto il bisogno della nostra ragione di ammettere all’esistenza in generale qualcosa di necessario (a cui si possa arrestare nel risalire), e se, dovendo questa necessità esser certa in modo incondizionato e a priori, la ragione non fosse stata costretta a cercare un concetto che soddisfacesse, possibilmente, una tale esigenza, e facesse conoscere un’esistenza pienamente a priori. Ora tutto ciò si credette di trovarlo nell’idea di un Essere realissimo, e si adoperò questa idea soltanto

per una conoscenza più determinata di quello che si era, d’altra parte, persuasi e convinti che deve esistere, ossia dell’Essere necessario. Intanto si celò questo processo naturale della ragione, e invece di finire con questo concetto, si tentò di muovere da esso, e ricavarne la necessità dell’esistenza, che esso tuttavia era solo destinato a integrare. Ora di qui provenne l’infelice prova ontologica, che non ha niente che appaghi né il pensiero naturale e il buon senso, né la ricerca scientifica. La prova c o s m o l o g i c a , che ora intendiamo studiare, mantiene la connessione della necessità assoluta con la realtà suprema; ma, in luogo di conchiudere, come la precedente, dalla realtà suprema alla necessità dell’esistenza, essa piuttosto conchiude dalla necessità incondizionata, data innanzi, di un essere, alla realtà illimitata di esso: e così, almeno, porta tutto sulla rotaia d’un modo di ragionare, non so se ragionevole o sofistico, ma almeno naturale, che ha la maggiore efficacia di persuasione non solo nel pensiero comune, ma anche per quello speculativo; come esso infatti ha evidentemente tracciate le prime linee fondamentali per tutte le prove della teologia naturale, che si sono sempre seguite e si seguiranno nell’avvenire, siano pure decorate e nascoste con quanti fogliami e volute sempre si voglia. Questa prova, che Leibniz disse anche prova a contingentia mundi, metteremo ora sott’occhio e sottoporremo ad esame. Essa suona, dunque: se qualche cosa esiste, deve anche esistere un Essere assolutamente necessario. Ma io stesso, per lo meno esisto; dunque, esiste un Essere assolutamente necessario. La minore contiene un’esperienza, la maggiore un’illazione da una esperienza in generale all’esistenza del necessario250. Dunque la prova parte, propriamente, dall’esperienza; quindi non è condotta interamente a priori o ontologicamente; e poiché l’oggetto di ogni esperienza possibile è il mondo, perciò questa prova vien detta c o s m o l o g i c a . E poiché astrae da ogni particolar proprietà degli oggetti dell’esperienza, onde questo mondo si può distinguere da ogni altro mondo possibile, essa è distinta già nel suo nome anche dalla prova fisico-teologica, la quale prende i suoi argomenti da osservazioni della particolar costituzione di questo nostro mondo sensibile. Ma la prova deduce più oltre: l’essere necessario non può essere determinato se non in un unico modo, cioè, rispetto a tutti i possibili predicati opposti, per uno solo di essi, e però dev’essere determinato c o m p l e t a m e n t e dal suo concetto. Ora, c’è un solo concetto possibile di

una cosa, che a priori determini questa completamente, ossia quello dell’ens realissimum. Il concetto, dunque, di Essere realissimo è l’unico concetto onde possa esser pensato un essere necessario; cioè esiste in modo necessario un Essere supremo. In questo argomento cosmologico, si presentano insieme tanti princìpi sofistici, che la ragione speculativa pare abbia qui impegnato tutta la sua arte dialettica, per realizzare la maggiore possibile apparenza trascendentale. Noi ne vogliamo metter da parte per un po’ l’esame, tanto per render manifesta un’astuzia, con cui essa esibisce per nuovo un vecchio argomento travestito, e si appella all’accordo di due testimoni, cioè al testimonio della ragion pura e ad un altro di fede empirica, mentre non c’è altro che il primo solo, il quale cambia semplicemente abito e voce per essere scambiato per un secondo. Per porre sicuramente il suo fondamento, questa prova si affida alla esperienza, e si dà così un’aria come fosse diversa dalla prova ontologica, che ripone tutta la sua fiducia in meri concetti puri a priori. Ma di questa esperienza la prova cosmologica non si serve se non per fare un solo passo, cioè per passare all’esistenza di un essere necessario, in generale. Quali proprietà questo abbia, l’argomento empirico non può dircelo; e allora, la ragione prende interamente congedo da esso, e va in traccia di meri concetti, ossia cerca quali proprietà debba aver un Essere assolutamente necessario in generale, quale, cioè, tra tutte le cose possibili, contenga in sé le condizioni richieste (requisita) di una necessità assoluta. Ma essa crede di trovare questi requisiti unicamente nel concetto di un essere realissimo, e quindi conchiude: è questo l’Essere assolutamente necessario. Se non che, è chiaro, in questo si presuppone che il concetto dell’Essere della più alta realtà soddisfaccia pienamente al concetto dell’assoluta necessità dell’esistenza, cioè che da quella si possa conchiudere a questa; proposizione che era affermata dall’argomento ontologico, e che, dunque, si assume nella prova cosmologica e si mette a suo fondamento, laddove si era voluto evitarlo. Infatti, la necessità assoluta è un’esistenza ricavata da semplici concetti. Ora, se io dico: il concetto dell’ens realissimum è un tal concetto, e l’unico, che corrisponde all’esistenza necessaria, e vi è adeguato, io devo anche ammettere che questa possa esserne dedotta. Non è, propriamente, se non la prova ontologica fondata su meri concetti, che ha nella cosiddetta prova cosmologica tutta la forza dimostrativa; e la pretesa esperienza è affatto oziosa, buona forse soltanto per condurci al concetto della necessità assoluta,

ma non per mostrarcela in una cosa qual si sia determinata. Giacché, non appena miriamo a questo scopo, noi dobbiamo senz’altro abbandonare ogni esperienza, e cercare tra puri concetti quale tra essi possegga davvero le condizioni della possibilità di un Essere assolutamente necessario. Ma se in tal modo è ravvisata solamente la possibilità di un tale Essere, ne è anche mostrata l’esistenza; perché è come dire: in mezzo a tutto il possibile c’è un Essere, che ha in sé necessità assoluta, cioè quest’Essere esiste in modo assolutamente necessario. Tutte le illusioni di questo ragionamento si scoprono nel modo più facile, se esse vengono esposte nella forma scolastica. Ed ecco questa riduzione. Se è esatta questa proposizione: ogni essere assolutamente necessario è insieme Essere realissimo (che è il nervus probandi della prova cosmologica), essa, come tutti i giudizi affermativi, deve potersi convertire almeno per accidens; dunque: alcuni esseri realissimi sono insieme esseri assolutamente necessari. Ma un ens realissimum non è in alcuna parte diverso da un altro, e quindi ciò che vale di alcuni compresi sotto questo concetto, vale anche di t u t t i . Sicché io potrò (in questo caso) convertire anche a s s o l u t a m e n t e , cioè: ogni essere realissimo è un essere necessario. Ora, poiché questa proposizione è determinata in base a’ suoi concetti a priori, il semplice concetto dell’Essere realissimo deve anche importare la necessità assoluta di esso; ciò che appunto affermava la prova ontologica, e che la cosmologica non voleva riconoscere, quantunque, sia pure di soppiatto, ne facesse il fondamento delle sue argomentazioni. Così la seconda via, che la ragione speculativa prende per dimostrare l’esistenza dell’Essere supremo, non soltanto è fallace come la prima; ma, ha per di più, questo di biasimevole, che commette un’ignoratio elenchi promettendoci di condurci per un sentiero nuovo, laddove, dopo un piccolo giro, ci riconduce da capo all’antico, che noi per causa sua avevamo abbandonato. Poco fa ho detto, che in questo argomento cosmologico si teneva celato un nido di pretese dialettiche, che la critica trascendentale può facilmente scoprire e distruggere. Per ora mi contenterò di accennarle, e lascerò al già esperto lettore di esaminare più oltre i princìpi fallaci e toglierli di mezzo. Vi si trova dunque, per es.: 1) Il principio trascendentale di conchiudere dal contingente a una causa: principio che ha un significato solo nel mondo sensibile, ma fuori di questo non ha nessun senso. Infatti il concetto

semplicemente intellettuale di contingente non può dar luogo a una proposizione sintetica come quella della causalità, e il principio di questa non ha significato di sorta, né alcun carattere del suo uso, fuorché nel mondo sensibile; laddove qui per l’appunto dovrebbe servire ad andare al di là del mondo sensibile. 2) Il principio di conchiudere dalla impossibilità di una serie infinita di cause date l’una sull’altra nel mondo sensibile a una causa prima, a cui non ci autorizzano i princìpi dell’uso stesso della ragione nell’esperienza, i quali molto meno possono estendere questo principio al di là di essa (dove questa catena non può certo essere prolungata). 3) La falsa soddisfazione di sé della ragione rispetto al completamento di questa serie, pel fatto che finalmente vien superata ogni condizione, senza di cui per altro non può aver luogo il concetto di una necessità e, non potendosi quindi concepire nulla più in là, si prende questo per un compimento del suo concetto. 4) Lo scambio della possibilità logica di un concetto di tutte le realtà insieme (senza interna contraddizione) con quella trascendentale, la quale ha bisogno di un principio che renda fattibile una tale sintesi, ma che, d’altra parte, potrebbe concernere solo il campo delle esperienze possibili; ecc. L’artificio della prova cosmologica mira semplicemente a sfuggire la dimostrazione dell’esistenza di un Essere necessario a priori mediante semplici concetti, la quale dovrebbe esser condotta ontologicamente; ciò a cui per altro noi ci sentiamo al tutto impotenti. A tal fine concludiamo da un’esistenza reale, messa a base (esistenza di un’esperienza in generale), per quanto è possibile, a una condizione assolutamente necessaria di essa. Allora noi non abbiamo necessità di spiegarne la possibilità. Giacché se è dimostrato che questa condizione esiste, la questione della sua possibilità è affatto superflua. Ora, se noi vogliamo meglio determinare questo essere necessario secondo la sua natura, noi non cerchiamo quello che è sufficiente per comprendere dal suo concetto la necessità dell’esistenza; giacché, se potessimo far questo, non avremmo più bisogno di un presupposto empirico: no, noi cerchiamo soltanto la condizione negativa (conditio sine qua non), senza di cui un essere non sarebbe assolutamente necessario. Ora questo andrebbe bene in tutt’altra specie di argomentazioni da una conseguenza data al suo principio: ma qui, disgraziatamente, si ha che la condizione richiesta per la necessità assoluta non può riscontrarsi se non in un solo essere, che dovrebbe quindi contenere nel suo concetto tutto ciò che è richiesto per

l’assoluta necessità, e quindi rende possibile un ragionamento a priori per giungere a questa; cioè io dovrei anche inversamente poter conchiudere: la cosa, a cui spetta questo concetto (della suprema realtà), è assolutamente necessaria; e se io non posso conchiudere così (come infatti devo riconoscere, se voglio evitare la prova ontologica), questo è segno che io capito male anche nella mia nuova via, e mi ritrovo da capo donde ero uscito. Il concetto dell’Essere supremo soddisfa bensì a tutte le questioni a priori, che possono esser fatte circa le determinazioni interne di una cosa, ed è anche per questo un ideale senza pari, poiché il concetto generale lo designa insieme come un individuo fra tutte le cose possibili. Ma non soddisfa affatto alla questione circa la sua propria esistenza, che era nondimeno ciò di cui propriamente si trattava; e ad informazione di chi, ammettendo l’esistenza di un Essere necessario, volesse solo sapere quale fra tutte le cose dev’essere tenuta per tale, non gli si potrebbe rispondere: l’Essere necessario è questo qui. Può certo essere concesso che si a m m e t t a l’esistenza di un Essere di suprema sufficienza come causa di tutti i possibili effetti, per agevolare alla ragione l’unità, cui essa aspira, dei princìpi di spiegazione. Ma giungere fino al punto di dire: t a l e E s s e r e e s i s t e n e c e s s a r i a m e n t e, questa non è più l’espressione discreta di una ipotesi permessa, ma la pretensione orgogliosa di una certezza apodittica; giacché anche la conoscenza di quello che ci vantiamo di conoscere come assolutamente necessario, dee avere in sé una necessità assoluta. Tutto il problema dell’ideale trascendentale si riduce a questo: o trovare per la necessità assoluta un concetto, o, per il concetto di una cosa qualunque, trovare la necessità assoluta di questa. Se si può l’una, si deve poter anche l’altra cosa; perché come assolutamente necessario la ragione non conosce se non quello, che è necessario per il suo concetto. Ma l’una cosa e l’altra sorpassano affatto tutti gli sforzi estremi per appagare in questo punto il nostro intelletto, nonché tutti i tentativi di acquietarlo per questa sua impotenza. La necessità incondizionata, di cui abbiamo bisogno in maniera così indispensabile, come dell’ultimo sostegno di tutte le cose, è il vero baratro della ragione umana. L’eternità stessa, per orridamente sublime che uno Haller251 possa ritrarla, non fa a gran pezza sull’anima quest’impressione vertiginosa; giacché essa m i s u r a soltanto la durata delle cose, ma non le s o s t i e n e . Non si può evitare, ma non si può nemmeno sostenere, il

pensiero che un Essere, che ci rappresentiamo come il sommo fra tutti i possibili, dica quasi a se stesso: Io sono ab eterno in eterno; oltre a me non c’è nulla, tranne quello che è per volontà mia; ma d o n d e s o n i o d u n q u e ? Qui tutto si sprofonda sotto di noi, e la massima come la minima percezione pende nel vuoto senza sostegno innanzi alla ragione speculativa, alla quale non costa nulla far disparire l’una come l’altra senza il più piccolo impedimento. Molte forze della natura, che manifestano la loro esistenza mediante certi effetti, restano per noi inaccessibili, perché non possiamo spingerci con l’osservazione abbastanza oltre sulle loro orme. L’oggetto trascendentale che è a fondamento dei fenomeni, e insieme il principio pel quale il nostro senso ha queste piuttosto che quelle condizioni supreme, sono e rimangono per noi inaccessibili, benché la cosa stessa sia del resto data, ma non conosciuta. Un ideale, per altro, della ragion pura non può essere i n a c c e s s i b i l e , poiché esso non ha da fornire altra garanzia della propria realtà, che il bisogno della ragione di compiere, mercé sua, tutta l’unità sintetica. Non252 essendo dunque dato mai come oggetto pensabile, esso non è né anche, come tale, inaccessibile; esso piuttosto dee trovare la sua sede e la sua soluzione, come semplice idea nella natura della ragione, e però deve poter essere conosciuto; giacché appunto in ciò consiste la ragione, che noi di tutti i nostri concetti, opinioni e affermazioni, – provengano da princìpi oggettivi, o, quando siano una semplice apparenza, da princìpi soggettivi, – possiamo renderne conto.

SCOPERTA E ILLUSTRAZIONE DELL’APPARENZA DIALETTICA IN TUTTE LE PROVE TRASCENDENTALI DELL’ESISTENZA DI UN ESSERE NECESSARIO

Entrambe le prove riportate fin qui erano tentate da un punto di vista trascendentale, cioè indipendentemente da princìpi empirici. Giacché, sebbene a fondamento di quella cosmologica ci sia una esperienza in generale, essa nondimeno non si rifà ad una speciale determinazione di questa, bensì da princìpi puri di ragione in rapporto a un’esistenza data dalla coscienza empirica in generale, e abbandona perfino questo indirizzo, per appoggiarsi a meri concetti puri. Ora qual è in queste prove trascendentali la causa dell’apparenza dialettica, e tuttavia naturale, che connette i concetti

della necessità e della realtà somma, e realizza e ipostatizza ciò che pure può essere solo idea? La causa che rende inevitabile ammettere tra le cose esistenti qualcosa come in sé necessario e pure, nello stesso tempo indietreggiare innanzi a tale Essere, come innanzi a un baratro? E come avviene che la ragione, su ciò cominci a intender se medesima, e, dallo stato incerto di un assenso timido e sempre da capo ritirato, pervenga a mia conoscenza tranquilla. E cosa particolarmente notevole, che ove si presupponga che qualche cosa esiste, non si può rifiutare la conseguenza che qualche cosa esiste anche necessariamente. Su questo ragionamento del tutto naturale (se anche non perciò sicuro) si fondava l’argomento cosmologico. Al contrario, qualunque concetto di una cosa io prenda, trovo che la sua esistenza non può mai da me esser rappresentata come assolutamente necessaria, e che niente mi impedisce, esista pure ciò che si voglia, di pensare il non essere; che, quindi, io debba bensì per l’esistente in generale assumere qualcosa di necessario, ma non posso pensare una sola cosa per se stessa come necessaria. In altri termini: io non posso giammai v e n i r e a l t e r m i n e del regresso verso le condizioni dell’esistere, senza ammettere un Essere necessario; ma io non posso mai c o m i n c i a r e da questo. Se io, per le cose esistenti in generale, devo pensare qualcosa di necessario, ma non sono in diritto di pensare nessuna cosa in sé come necessaria, ne segue inevitabilmente, che necessità e contingenza non debbano riferirsi alle cose stesse e concernere queste, perché altrimenti ne verrebbe una contraddizione: che quindi nessuno di questi due princìpi sia oggettivo, ma essi, in ogni caso, possano essere soltanto princìpi soggettivi della ragione, ossia da una parte di cercare, per tutto ciò che è dato come esistente, qualcosa che sia necessario, cioè di non fermarsi mai se non ad una spiegazione a priori completa; ma, dall’altra, anche di non sperar mai questa completezza, cioè di non ammettere nulla d’empirico come incondizionato, sì da dispensarci da un’ulteriore derivazione. In questo senso entrambi i princìpi possono benissimo stare l’uno accanto all’altro come princìpi semplicemente euristici e r e g o l a t i v i , che non riguardano altro che l’interesse formale della ragione. L’uno infatti dice: voi dovete filosofare sulla natura come se a fondamento di tutto ciò che appartiene all’esistenza, ci fosse un fondamento primo necessario, unicamente per mettere unità sistematica nella vostra conoscenza seguendo una tale idea, cioè un supremo principio ideale253; ma

l’altro vi ammonisce di non prendere nessuna determinazione singola, che riguardi l’esistenza delle cose, per un tal principio supremo, cioè come assolutamente necessario, bensì a mantenervi sempre aperta la via per un’ulteriore derivazione e considerarla quindi ogni volta come condizionata. Ma, se da noi tutto ciò che è percepito nelle cose dev’essere ritenuto come condizionatamente necessario; nessuna cosa (che possa esser data empiricamente) può esser considerata come necessaria assolutamente. Ma di qui segue, che l’assolutamente necessario dovete ammetterlo f u o r i d e l m o n d o; poiché esso deve servire soltanto da principio della maggiore possibile unità dei fenomeni, quasi loro fondamento supremo; e voi nel mondo non potete mai giungere a questo, perché la seconda regola v’impone di considerare tutte le cause empiriche dell’unità sempre come derivate. I filosofi dell’antichità ritenevano contingente ogni forma della natura, ma originaria e necessaria, secondo il giudizio della ragione comune, la materia. Ma se essi avessero considerato la materia non relativamente (respective) come sostrato dei fenomeni, sì in se stessa, secondo la sua esistenza, l’idea dell’assoluta necessità sarebbe tosto svanita. Giacché non c’è nulla che leghi assolutamente la ragione a questa esistenza, che, anzi essa col pensiero può sempre e senza contraddizione sopprimerla; ma la necessità assoluta era riposta, d’altra parte, soltanto nel pensiero. A base di questa convinzione ci doveva esser dunque un certo principio regolativo. Nel fatto estensione e impenetrabilità (che insieme costituiscono il concetto di materia) sono anche il supremo principio empirico dell’unità dei fenomeni, ed hanno in sé, in quanto empiricamente incondizionate, una proprietà di principio regolativo. Pure, poiché ogni determinazione della materia che costituisca il reale di essa, quindi anche l’impenetrabilità, è un effetto (atto), che deve avere la sua causa, ed è perciò sempre da capo derivata, così la materia non si confà all’idea di un Essere necessario, come principio di ogni unità derivata: poiché ognuna delle sue proprietà reali, in quanto derivata, non è se non condizionatamente necessaria, e quindi può in sé esser soppressa, ma con essa verrebbe soppressa l’esistenza tutta della materia; ché, se questo non fosse, noi avremmo raggiunto empiricamente il supremo fondamento dell’unità, ciò che è vietato dal secondo principio regolativo. Di guisa che la materia e in generale quello che fa parte del mondo, non è adatto all’idea di un essere originario necessario come semplice principio della massima unità

empirica, che deve, per contro, essere posto fuori del mondo: poiché noi possiamo sempre sicuramente ricavare i fenomeni del mondo e la loro esistenza da altri fenomeni, come se non ci fosse nessun essere necessario, e pure tendere incessantemente alla compiutezza della derivazione, come se fosse presupposto un tale essere, quale principio supremo. L’ideale dell’Essere supremo, secondo queste considerazioni, non è altro che un p r i n c i p i o r e g o l a t i v o della ragione, per cui si considera ogni rapporto, nel mondo, come proveniente da una causa necessaria universalmente sufficiente, per fondarvi la regola di un’unità sistematica e necessaria secondo leggi universali nella spiegazione di esso; e non è un’affermazione di un’esistenza necessaria in sé. Ma, intanto, è inevitabile rappresentarsi, mediante una surrezione trascendentale, questo principio formale come costitutivo, e pensare cotesta unità ipostaticamente. Giacché a quel modo che lo spazio, rendendo originariamente possibili tutte le forme, che sono unicamente sue diverse limitazioni, benché non sia se non un principio della sensibilità, vien tuttavia, appunto perciò, ritenuto per qualcosa di assolutamente necessario e per sé stante, e per un oggetto dato a priori in se stesso: così è anche affatto naturale che, poiché l’unità sistematica della natura non può a niun patto rappresentarsi come il principio dell’uso empirico della nostra ragione se non in quanto noi poniamo a fondamento l’idea di un Essere realissimo come causa suprema, questa idea quindi venga rappresentata come un oggetto reale, e questo, a sua volta, poiché è la suprema condizione, come necessario; onde un principio r e g o l a t i v o vien cangiato in un principio c o s t i t u t i v o : la quale sostituzione si manifesta al fatto, che, se io ora considero come cosa in sé questo supremo Essere, che, relativamente al mondo, era assolutamente (incondizionatamente) necessario, questa necessità non è suscettibile di nessun concetto, e quindi deve essersi trovata nella mia ragione soltanto come condizione formale del pensiero, ma non come condizione materiale e ipostatica dell’Esistenza.

Sezione Sesta DELL’IMPOSSIBILITÀ DELLA PROVA FISICO-TEOLOGICA Se, dunque, né il concetto di cose in generale, né l’esperienza di un’e s i s t e n z a i n g e n e r a l e ci può dare quello che si desidera, rimane

ancora un mezzo: tentare se una e s p e r i e n z a d e t e r m i n a t a, quindi quella delle cose del mondo presente, la sua natura, il suo ordine, non ci dia un argomento, che possa con sicurezza procurare la convinzione dell’esistenza di un Essere supremo. Una tale prova potremmo dirla f i s i c o t e o l o g i c a . Se questa dovesse a sua volta essere impossibile, non sarebbe punto possibile nessun argomento soddisfacente, tratto dalla semplice ragione speculativa per l’esistenza di un essere corrispondente alla nostra idea trascendentale. Dopo tutte le superiori osservazioni, si scorgerà subito che si può sperare una soluzione facile e stringente di quest’altra questione. Infatti, come si può dar mai un’esperienza che sia per essere adeguata a un’idea? In ciò appunto consiste il proprio di questa, che non possa mai un’esperienza esser congruente con essa. L’idea trascendentale di un essere originario necessario universalmente sufficiente è così smisuratamente grande, così sublime al di sopra di ogni essere empirico, sempre condizionato, che da una parte non si può rintracciare mai materia sufficiente nell’esperienza, da riempire un tal concetto, e dall’altra si brancola sempre nel condizionato, e si va in cerca perpetuamente indarno dell’incondizionato, di cui nessuna legge di sintesi empirica ci fornisce un esempio o il menomo accenno. Se l’Essere supremo stesse in questa catena delle condizioni, sarebbe anch’esso un membro della serie, e, né più né meno dei membri inferiori ai quali sarebbe preposto, richiederebbe ancora un’ulteriore ricerca per il suo principio superiore. Che se, invece, la si vuole staccare da questa catena, e come essere semplicemente intelligibile, non comprendere nella serie delle cause naturali, allora qual ponte la ragione può agitare per giungere fino ad esso? Giacché tutte le leggi del passaggio da effetti a cause, anzi ogni sintesi ed estensione nella nostra conoscenza in generale, non poggiano su altro che sull’esperienza possibile, e però soltanto in oggetti del mondo sensibile, e solo rispetto a essi possono avere un significato. Il mondo presente ci apre un sì immenso teatro di varietà, ordine, finalità e bellezza, sia che lo si persegua nella infinità dello spazio, o nella sua divisione senza limiti, che, anche dopo le conoscenze che il nostro debole intelletto ne ha potuto acquistare, ogni lingua, a tante e incalcolabilmente grandi meraviglie, perde la sua energia, tutti i numeri la loro capacità di misura e i nostri stessi pensieri ogni limitazione, sì che il nostro giudizio sul tutto deve risolversi in un muto, ma appunto perciò tanto più eloquente

stupore. D’altra parte, noi vediamo una catena di effetti e di cause, di fini e di mezzi, regolarità nel nascere e nel perire; e poiché nulla è pervenuto da sé nello stato in cui si trova, questo rimanda sempre più in là a un’altra cosa come sua causa; la quale, a sua volta, rende necessaria precisamente la stessa ricerca, sicché in tal modo l’intero universo dovrebbe sprofondarsi nell’abisso del nulla, se non si ammettesse qualche cosa che, fuori di questo infinito contingente, sussistendo per sé originariamente e indipendentemente, sostenga questo contingente e insieme, come causa della sua origine, ne assicuri la durata. Questa causa suprema (rispetto a tutte le cose del mondo) quanto si dee pensar grande? Noi non conosciamo il mondo in tutto il suo contenuto, e tanto meno sappiamo calcolare la sua grandezza dal paragone con tutto ciò che è possibile. Ma che cosa ci impedisce, poiché per la causalità abbiamo bisogno di un Essere ultimo e supremo, di porlo insieme, pel grado della perfezione, a l d i s o p r a d i o g n i a l t r o p o s s i b i l e? Ciò che possiamo facilmente, sebbene certo solo mediante il contorno delicato di un concetto astratto, effettuare, se ci rappresentiamo riunita in esso, come in una sostanza, ogni possibile perfezione; il quale concetto, propizio all’esigenza della nostra ragione nel risparmio de’ princìpi, in sé non è, soggetto a nessuna contraddizione, ed è anche utile all’estendimento dell’uso della ragione attraverso all’esperienza, grazie alla guida che una tale idea dà all’ordine e alla finalità; né per altro è decisamente contro ad alcuna esperienza. Questa prova merita d’esser sempre menzionata con rispetto. Essa è la più antica, la più chiara e la più adatta alla comune ragione umana. Essa ravviva lo studio della natura, come da esso ella medesima ha la sua esistenza, e ne riceve sempre nuova forza. Essa porta fini e scopi dove la nostra osservazione da sé non li avrebbe scoperti, e amplia le nostre conoscenze della natura col filo conduttore di una particolar unità, il cui principio è fuori della natura. Ma queste conoscenze reagiscono sulla loro causa, cioè sull’idea che ha dato loro occasione, e accrescono la fede in un sommo Creatore fino a una convinzione irresistibile. Sicché sarebbe non solo sconfortante, ma anche del tutto inutile tentar di detrarre qualche cosa all’autorità di questa prova. La ragione, che è incessantemente elevata da questi argomenti così potenti e sempre crescenti sotto le sue mani, benché soltanto empirici, non può da nessun dubbio di sottile e astratta speculazione esser abbassata al punto, che non debba essere strappata a ogni indecisione sofistica, come ad un sogno, da uno sguardo che

getti alle meraviglie della natura e alla maestà dell’universo, per risollevarsi di grandezza in grandezza fino alla più alta di tutte, di condizione in condizione fino al supremo e incondizionato Creatore. Ma, quantunque noi non abbiamo nulla da opporre alla razionalità e utilità di questo procedere, che anzi abbiamo piuttosto da raccomandarlo e da incoraggiarlo, non per questo, tuttavia, possiamo approvare le pretese che questa specie di prova potrebbe avanzare a una certezza apodittica e a un’adesione non bisognosa punto di grazia e di estrinseco appoggio; né può in alcun modo recar pregiudizio alla buona causa abbassare il linguaggio dommatico di un baldanzoso argomentatore fino al tono della moderazione e discrezione proprio di una fede sufficiente alla pace, benché appunto non imponente una sottomissione incondizionata. Io quindi affermo, che la prova fisico-teologica non può dimostrar mai da sola l’esistenza di un Esser supremo, ma deve lasciare sempre a quella ontologica (a cui serve soltanto d’introduzione) di colmare questo difetto; che pertanto questa contiene sempre l’unico possibile argomento (se mai c’è una prova speculativa), che a nessuna ragione umana è dato di superare. I momenti principali della detta prova fisico-teologica sono i seguenti: 1) Nel mondo vi sono da per tutto segni evidenti di un ordinamento secondo uno scopo determinato, attuato con grande sapienza e in un tutto di indescrivibile molteplicità di contenuto, nonché di illimitata grandezza di estensione. 2) Alle cose del mondo questo ordinamento finale è affatto estraneo, e aderisce ad esse solo in modo contingente; cioè la natura delle diverse cose non avrebbe potuto da se stessa, con mezzi così vari fra loro coordinati, accordarsi per uno scopo finale determinato, se essi non fossero propriamente scelti e disposti a ciò da un principio razionale ordinatore secondo idee che fossero a fondamento di esso. 3) Esiste dunque una causa sublime e saggia (o più cause), che dev’essere la causa del mondo non semplicemente come una natura onnipotente operante ciecamente per la sua p r o d u t t i v i t à , ma come intelligenza per la sua l i b e r t à . 4) L’unità di questa causa si può desumere dall’unità della relazione reciproca delle parti del mondo, come pezzi di un’opera d’arte, in ciò su cui domina la nostra osservazione con certezza, ma più in là, secondo tutti i princìpi dell’analogia, con verisimiglianza. Senza cavillare qui con la ragione naturale nel suo ragionamento, quando dall’analogia di alcuni prodotti naturali con quello che produce l’arte umana esercitando il suo potere sulla natura e costringendola a non comportarsi

secondo i suoi fini, ma a piegarsi ai nostri (ossia dalla somiglianza di essi con case, navi, orologi), conchiude che, a fondamento di essa, ci dev’essere precisamente una causalità di questo genere, ossia intelletto e volere, se essa deriva l’intera possibilità della natura liberamente operante (che comincia a rendere possibile ogni parte e forse anco la stessa ragione) da un’altra arte, benché sovrumana (ragionamento che non potrebbe reggere, forse, alla più rigorosa critica trascendentale): si deve tuttavia confessare che, se mai noi dobbiamo parlare di una causa, non possiamo qui procedere più sicuramente che secondo l’analogia con produzioni finali di questo genere, le quali sono le sole di cui ci sian note pienamente le cause e il modo di effettuarsi. La ragione non potrebbe seco stessa giustificarsi se, dalla causalità che conosce, volesse passare a princìpi esplicativi oscuri e indimostrabili, che non conosce. Secondo questo ragionamento, la finalità e l’armonia di tante disposizioni della natura dovrebbero dimostrare solamente la contingenza della forma, ma non della materia, cioè della sostanza del mondo; giacché per quest’ultima bisognerebbe per di più dimostrare che le cose del mondo non fossero in se stesse atte a un ordine e a un accordo così, secondo leggi universali, se esse non fossero, anche p e r l a l o r o s o s t a n z a, il prodotto di una somma sapienza, a che per altro occorrerebbero ben altri argomenti che quello dell’analogia con l’arte umana. La prova, dunque, potrebbe al più dimostrare un a r c h i t e t t o d e l m o n d o, che sarebbe sempre molto limitato dalla capacità della materia da lui elaborata, ma non un c r e a t o r e d e l m o n d o, alla cui idea tutto è sottoposto: la qual cosa è ben lontana dal bastare al grande scopo a cui si mira, di dimostrare un essere originario sufficiente a tutto. Se noi volessimo dimostrare la contingenza anche della materia, dovremmo ricorrere a un argomento trascendentale, che è ciò appunto che qui ha dovuto essere evitato. Il ragionamento, dunque, va dall’ordine e dalla finalità che si osserva universalmente così nel mondo – come da un concetto del tutto contingente – all’esistenza di una causa che v i s i a p r o p o r z i o n a t a. Ma il concetto di questa causa deve farci conoscere qualcosa di affatto d e t e r m i n a t o di essa, e non può dunque essere altro, che quello di un essere che possiede ogni potenza, sapienza, ecc.: in una parola, ogni perfezione, come essere sufficiente a tutto. Infatti i predicati di a s s a i g r a n d e, di meravigliosa, smisurata potenza ed eccellenza, non danno punto un concetto determinato, e non dicono propriamente ciò che la cosa è in se stessa; ma sono soltanto

rappresentazioni relative della grandezza dell’oggetto, che l’osservatore (del mondo) paragona con se stesso e con la propria capacità di comprendere, e che riescono ugualmente magnificanti o che si ingrandisca l’oggetto, o che, in relazione ad esso, s’impiccolisca il soggetto osservatore. Quando si tratta di grandezza (della perfezione) d’una cosa in generale, non c’è altro concetto determinato all’infuori di quello che si riferisce a tutta la perfezione possibile, e soltanto il tutto (omnitudo) della realtà è determinato completamente nel concetto. Ora, io non spererò che alcuno sia per prendersi l’ardire di conoscere il rapporto della grandezza del mondo da lui osservata (per l’estensione e pel contenuto) con la onnipotenza, e dell’ordine cosmico con la somma sapienza, dell’unità cosmica con l’unità assoluta del Creatore, ecc. La fisico-teologia, dunque, non può dare un concetto determinato della suprema causa del mondo, né quindi esser sufficiente a un principio teologico, il quale, a sua volta, deve costituire il fondamento della religione. Il passo per via empirica alla totalità assoluta è assolutamente impossibile. Ma lo si fa tuttavia nella prova fisico-teologica. A qual mezzo, dunque, si ricorre, per passare sopra sì vasto abisso? Dopo che si è giunti all’ammirazione della grandezza, della sapienza, della potenza, ecc. del Creatore del mondo, e non si può andare più oltre, si abbandona a un tratto questa prova condotta per argomenti empirici, e si viene alla contingenza del mondo egualmente dedotta prima dall’ordine e dalla finalità del mondo stesso. Da questa contingenza sola intanto si sale, unicamente per concetti trascendentali, all’esistenza di un Essere assolutamente necessario, e dal concetto dell’assoluta necessità della causa prima al concetto completamente determinato, o da determinare, della medesima, ossia di una realtà comprensiva di tutto. La prova fisico-teologica è restata incagliata, e in questo imbarazzo è saltata senz’altro alla prova cosmologica; e poiché questa non è altro che una prova ontologica mascherata, essa ha adempiuto il suo scopo solamente per mezzo della ragion pura, sebbene da principio avesse rinnegato ogni parentela con questa, e costruito tutto su prove luminose desunte dall’esperienza. I fisico-teologi, dunque, non hanno punto ragione di far tanto i ritrosi contro la prova trascendentale e, con la arroganza di chiaroveggenti conoscitori della natura, guardarla dall’alto quasi ragnatela dei più sottili sofisti. Giacché, se essi volessero esaminare soltanto se stessi, troverebbero

che, dopo aver proceduto un buon tratto sul terreno della natura e dell’esperienza, ed essersi visti tuttavia sempre egualmente lontani dall’oggetto, che pare di contro alla loro ragione, essi tosto abbandonano questo terreno e passano nel regno delle semplici possibilità, dove sperano di avvicinarsi sulle ali delle idee a quella meta, che s’era sottratta a ogni loro indagine empirica. Dopo che infine essi credono di avere con un sì potente salto posto fermo il piede, estendono oramai il concetto determinato (nel cui possesso, senza sapere come, son venuti) a tutto il campo della creazione, e spiegano l’ideale, che era unicamente un prodotto della ragion pura, sebbene in maniera abbastanza stentata e ben inferiore alla dignità del suo oggetto, per mezzo dell’esperienza, senza voler tuttavia confessare, che a questa conoscenza o ipotesi sono arrivati per altro sentiero da quello dell’esperienza. A base pertanto della prova fisico-teologica c’è quella cosmologica, ma a base di questa la prova ontologica dell’esistenza di un Essere originario come Essere supremo; e poiché, oltre queste tre vie, non ne è aperta nessun’altra alla ragione speculativa, così la prova ontologica, fondata su concetti puri della ragione, è la sola possibile, se in generale è possibile una prova di una proposizione così alta, e tanto superiore a ogni uso empirico dell’intelletto.

Sezione Settima CRITICA DI OGNI TEOLOGIA FONDATA SU PRINCÌPI SPECULATIVI DELLA RAGIONE

Se per teologia intendo la conoscenza dell’Essere originario, essa è fondata o sulla pura ragione (theologia rationalis) o su una rivelazione (revelata). La prima concepisce il suo oggetto o semplicemente con la ragion pura, mediante meri concetti trascendentali (ens originarium realissimum, ens entium), e dicesi teologia t r a s c e n d e n t a l e ; ovvero, mediante un concetto, che essa ricava dalla natura (della nostra anima), con la suprema intelligenza, e dovrebbe dirsi teologia n a t u r a l e . Chi ammette soltanto una teologia trascendentale è detto d e i s t a ; chi ammette anche una teologia naturale, t e i s t a . Il primo ammette che in ogni caso noi possiamo conoscere con la semplice ragione l’esistenza di un Essere originario, di cui per altro il nostro concetto254 è semplicemente trascendentale, cioè solo di un essere, che ha ogni realtà, ma che non si può determinare di più. Il secondo afferma, che

la ragione è in grado di poter determinare di più l’oggetto secondo l’analogia con la natura, ossia come un essere che per intelletto e libertà contenga in sé il primo principio di tutte le altre cose. Quello si rappresenta, dunque, in tale essere solo una c a u s a d e l m o n d o (senza dire se mediante la necessità della sua natura, o mediante la libertà); questo, un c r e a t o r e d e l m o n d o. La teologia trascendentale o intende di dedurre l’esistenza dell’essere originario da un’esperienza in generale (senza determinare nulla di più intorno al mondo a cui essa appartiene), e si dice c o s m o t e o l o g i a ; o crede di conoscere la sua esistenza mediante semplici concetti, senza il soccorso della minima esperienza, e vien detta o n t o t e o l o g i a . La t e o l o g i a n a t u r a l e conclude agli attributi e all’esistenza di un Creatore del mondo movendo dalla costituzione, ordine e unità, che si dà in esso mondo, in cui bisogna ammettere due specie di causalità, e la loro regola, ossia natura e libertà. Quindi da questo mondo sale all’intelligenza suprema, o come principio di ogni ordine e perfezione naturale, o come principio di ogni ordine e perfezione mortale. Nel primo caso si dice t e o l o g i a f i s i c a, nel secondo t e o l o g i a m o r a l e255. Poiché per il concetto di Dio si è abituati a intendere non semplicemente, presso a poco, una natura eterna ciecamente agente come radice di tutte le cose, ma un Essere supremo che mediante intelletto e libertà dev’essere il creatore delle cose, e poiché anche soltanto questo concetto ci interessa, a rigore al d e i s t a si potrebbe negare ogni fede in Dio, e lasciargli unicamente l’affermazione di un essere originario o di una causa suprema. Intanto, poiché nessuno, pel solo fatto che non crede di poter affermare qualche cosa, può esser accusato di volerla negare, così è più discreto e più giusto dire: il d e i s t a crede in un D i o , ma il t e i s t a crede in un D i o v i v e n t e (summa intelligentia). Ora indagheremo le possibili fonti di tutti questi tentativi della ragione. Io mi contento qui di definire la conoscenza teoretica come una conoscenza per cui conosco ciò che e s i s t e ; la conoscenza pratica invece come quella, onde io mi rappresento c i ò c h e d e v e e s i s t e r e. Secondo tale distinzione, l’uso teoretico della ragione è quello, per cui io conosco a priori ciò che è; il pratico, invece, quello per cui si conosce a priori ciò che deve accadere. Ora, se è indubbiamente certo, ma pur nondimeno soltanto condizionato, che qualcosa è o deve essere, una certa condizione determinata o può tuttavia essere per ciò assolutamente necessaria, ovvero può esser

presupposta soltanto come arbitraria e contingente. Nel primo caso la condizione è postulata (per thesin), nel secondo supposta (per hypothesin). Poiché ci sono leggi pratiche che sono assolutamente necessarie (quelle morali), se queste presuppongono necessariamente un’esistenza come condizione della possibilità della loro forza o b b l i g a t o r i a , questa esistenza deve esser p o s t u l a t a , per la ragione che il condizionato, da cui il ragionamento va a questa condizione determinata, è esso stesso conosciuto a priori come assolutamente necessario. Noi mostreremo altra volta, per le leggi morali, che esse non presuppongono soltanto, ma anche, poiché, d’altra parte, sono assolutamente necessarie, postulano a ragione, ma certo solo praticamente, l’esistenza di un Essere supremo: per ora mettiamo tuttavia da parte questa deduzione. Poiché, se si parla solamente di ciò che è (non di ciò che dev’essere), il condizionato, che ci è dato nell’esperienza, è sempre pensato anche come contingente, la condizione rispettiva non può quindi esser riconosciuta come assolutamente necessaria, ma serve solo come una ipotesi relativamente necessaria o piuttosto o c c o r r e n t e , benché in se stessa e a priori arbitraria, per la conoscenza razionale del condizionato. Se, dunque, nella conoscenza teoretica, deve essere conosciuta la necessità assoluta di una cosa, questo potrà solo accadere per concetti a priori, ma giammai come necessità di una causa in rapporto a un’esistenza data dalla esperienza. Una conoscenza teoretica è s p e c u l a t i v a se si riferisce a un oggetto, o a tal concetto di un oggetto, a cui non si può giungere in veruna esperienza. Essa è contrapposta alla c o n o s c e n z a na t u r a l e 256, che non si riferisce ad altri oggetti o predicati da quelli che possono esser dati in una esperienza possibile. Il principio, per cui da ciò che accade (dal contingente empirico), come da effetto, si conchiude ad una causa, è un principio della conoscenza naturale, ma non della speculativa. Se, infatti, si astrae da esso in quanto principio contenente la condizione dell’esperienza possibile in generale, e, tralasciando ogni elemento empirico, lo si vuole enunciare del contingente in generale, non si ha più la menoma giustificazione di una proposizione sintetica come questa, per indi vedere come io da ciò che esiste possa passare a qualcosa di affatto diverso (che si dice causa); anzi, il concetto di una causa, come quello di contingente, in tale uso semplicemente speculativo perde ogni significato, la cui realtà oggettiva possa indicarsi in c o n c r e t o .

Ora, se dall’esistenza delle cose del mondo si conchiude alla loro causa, questo non appartiene all’uso n a t u r a l e , bensì all’uso s p e c u l a t i v o della ragione: perché il primo non riferisce a qualche causa le cose stesse (sostanza), ma soltanto quel che accade, ossia i loro s t a t i , in quanto empiricamente contingenti; laddove, che la sostanza stessa (la materia), sia, quanto alla esistenza, contingente, dovrebbe essere una conoscenza speculativa della ragione. Ma se anche si trattasse solo della forma del mondo, della specie del suo rapporto e del suo cangiamento, e io volessi conchiudere da ciò a una causa distinta interamente dal mondo; questo, da capo, sarebbe un giudizio della mera ragione speculativa, perché l’oggetto, qui, non è punto oggetto d’una esperienza possibile. Ma allora il principio di causalità, che non vale se non dentro il campo dell’esperienza, e fuori di questo è senza uso, anzi senza significato, sarebbe affatto distolto dalla sua destinazione. Ora, io affermo che tutti i tentativi di un uso meramente speculativo della ragione rispetto alla teologia sono affatto infecondi e per la loro intima natura nulli e vani; ma che i princìpi del suo uso naturale non conducono per nulla a una teologia, e che pertanto, se non si mettono a fondamento o non si prendono a guida leggi morali, non è possibile che ci sia mai una teologia della ragione. Tutti, infatti, i princìpi sintetici della ragion pura sono di uso immanente; ma alla conoscenza di un Essere supremo si richiede un uso trascendente di essi, al quale il nostro intelletto non è punto attrezzato. Se dovesse condurci all’Essere originario la legge, di valore empirico, della causalità, anche quest’Essere dovrebbe rientrare nella catena degli oggetti dell’esperienza; ma allora, come tutti i fenomeni, sarebbe esso stesso, a sua volta condizionato. Che, se anche fosse concesso il salto al di là dei limiti dell’esperienza mediante la legge dinamica del rapporto degli effetti con le loro cause; qual concetto potrebbe darci questo procedimento? Non certo un concetto di un Essere supremo, poiché l’esperienza non ci offre mai il massimo tra tutti gli effetti possibili (come quello che dee render testimonianza della sua causa). Che se ci è permesso, per non lasciare nessun vuoto nella nostra ragione, riempire questa lacuna della completa determinazione mediante la semplice idea della somma perfezione e della originaria necessità, questo può bensì esser concesso per favore, ma non si può domandarlo per diritto di una prova incontrastabile. La prova fisicoteologica, dunque, potrebbe forse confermare magari le altre prove (se ce ne

sono), unendo la speculazione con l’intuizione; ma, per se stessa, essa piuttosto prepara l’intelletto alla conoscenza teologica, e gli dà per ciò una retta e naturale direzione, anzi che poter d a s é adempiere a un tale ufficio. Di qui ben si vede che le questioni trascendentali non consentono se non risposte trascendentali, ossia fondate su meri concetti a priori, senza la minima mescolanza empirica. Ma qui la questione evidentemente è sintetica, e richiede un estendimento della nostra conoscenza al di là dei limiti dell’esperienza, fin all’e s i s t e n z a d i u n e s s e r e, che deve corrispondere alla nostra semplice idea, a cui nessuna esperienza può riuscire mai adeguata. Ora, secondo le nostre antecedenti dimostrazioni, ogni conoscenza sintetica a priori non è possibile se non in quanto essa esprime le condizioni formali di una esperienza possibile, e tutti i princìpi son dunque soltanto di valore immanente, cioè si riferiscono unicamente ad oggetti della conoscenza empirica o fenomeni. Di guisa che né anche per via del progresso trascendentale si conchiude nulla allo scopo della teologia di una ragione semplicemente speculativa. Che se si preferisce mettere in dubbio tutte le antecedenti dimostrazioni dell’Analitica, anzi che lasciarsi strappare la convinzione del valore degli argomenti che per tanto tempo si sono usati, non si potrebbe per altro ricusarsi a satisfare la mia esigenza, quando io domando che mi si giustifichi almeno questo: come e per quale illuminazione si crede di poter sorvolare su ogni esperienza possibile in forza di semplici idee. Io pregherei che mi si dispensasse da novelle prove o da rielaborazione delle antiche. Perché, quantunque qui, in verità, non si abbia precisamente molto da scegliere, in quanto che, alla fine, tutte le prove speculative si riducono semplicemente a una sola, l’ontologica, e però io non abbia certo da temere d’essere importunato troppo dalla fecondità dei dommatici propugnatori di quella ragione libera da’ sensi; quantunque, inoltre, senza credermi per questo troppo bellicoso, io non voglia ricusare la sfida di scoprire in ogni tentativo di questa sorta l’errore logico che vi si annida e frustare così la sua pretensione; pure la speranza di miglior fortuna non è perciò distrutta mai completamente in coloro, che si siano una volta abituati a convinzioni dommatiche; e quindi me ne sto alla sola equa pretesa, che si giustifichi in modo generale e con la natura dell’intelletto umano, nonché di tutte le altre fonti di conoscenza, come altri voglia mettersi ad estendere del tutto a priori la propria conoscenza e spingerla al punto, a cui nessuna esperienza possibile è più sufficiente, e

però nessun mezzo rimane per assicurare a un concetto escogitato da noi stessi la sua realtà oggettiva. Comunque l’intelletto possa esser pervenuto a questo concetto, l’esistenza tuttavia del suo oggetto non potrà esser trovata nello stesso concetto analiticamente, perché la conoscenza dell’e s i s t e n z a di un oggetto appunto in questo consiste, che esso è posto f u o r i d e l p e n s i e r o , in se stesso. Ma è affatto impossibile uscir da sé da un concetto, e, senza seguire la connessione empirica (onde, per altro, son sempre dati soltanto fenomeni) giungere alla scoperta di nuovi oggetti e di esseri trascendenti. Ma, benché nel suo uso semplicemente speculativo la ragione resti a gran pezza inferiore a questo suo sì grande disegno, di giungere cioè all’esistenza di un Essere supremo, essa nondimeno ha il vantaggio grandissimo di r e t t i f i c a r e la conoscenza di esso, nel caso che ella possa essere attinta d’altronde, di metterla d’accordo seco stessa e con tutte le concezioni intelligibili, e di purificarla da tutto ciò che potrebbe essere contrario al concetto di un Essere originario, e da ogni miscuglio di limitazioni empiriche. La teologia trascendentale pertanto, nonostante la sua insufficienza, resta tuttavia di un uso negativo importante, ed è una costante censura della nostra ragione, se questa ha da fare semplicemente con idee pure, che appunto perciò non ammettono altra misura che la trascendentale. Giacché, se mai sotto altro rapporto, poniamo sotto quello pratico, il p r e s u p p o s t o di un Essere supremo e a tutto sufficiente affermasse la sua validità senza contraddizione, allora sarebbe della maggiore importanza determinare esattamente, dal lato trascendentale, questo come il concetto di un Essere necessario e realissimo, e scartarne tutto ciò che ripugna alla suprema realtà, e che appartiene al fenomeno (all’antropomorfismo nel senso più largo), e sgombrare insieme tutte le affermazioni opposte, siano esse a t e i s t i c h e , d e i s t i c h e o a n t r o p o m o r f i s t i c h e ; ciò che è ben facile in una tale trattazione critica, in quanto i princìpi stessi, onde è messa sott’occhio l’impotenza della ragione umana rispetto all’affermazione della esistenza di un tale Essere, bastano di necessità anche a dimostrare l’impossibilità di ogni affermazione contraria. Giacché come si vuole, con la pura speculazione della ragione, arrivare a conoscere che non c’è un Essere supremo, primo principio di tutto, o che ad esso non conviene nessuna delle proprietà, che, pei loro effetti, ci rappresentiamo come analoghe alle realtà dinamiche di un essere pensante, o che, nell’ultimo caso, dovrebbero essere anche soggette a tutte le

limitazioni che il senso inevitabilmente impone alle intelligenze che conosciamo per esperienza? L’essere supremo resta dunque per l’uso semplicemente speculativo della ragione un semplice, ma p e r f e t t o 257 i d e a l e , un concetto, che chiude e corona la conoscenza umana intera, e la cui realtà oggettiva, è vero, non è dimostrata, ma non può né anche esser contrastata; e se ci ha da esser una teologia morale, in grado di supplire a questo difetto, allora la teologia trascendentale, prima solo problematica, dimostra la sua indispensabilità, per la determinazione del suo concetto e per l’incessante censura d’una ragione molto spesso ingannata dal senso, e non sempre d’accordo con le sue proprie idee. La necessità, l’infinità, l’unità, l’esistenza fuori del mondo (non come anima del mondo), l’eternità senza le condizioni del tempo, l’onnipresenza senza le condizioni dello spazio, l’onnipotenza, e così via, sono meri predicati trascendentali; e quindi il concetto purificato di essi, onde ogni teologia ha tanto bisogno, può esser solo preso dalla teologia trascendentale. 240

Interpretazione neoplatonica della teoria delle idee, propugnata dal Brucker, Hist. crit. phil., I, 691-701. 241 Ogni cosa, dunque, per questo principio è riferita a un correlato comune, ossia alla possibilità intera, che, se essa (cioè la materia di tutti i possibili predicati) fosse per trovarsi nell’idea di una cosa sola, proverebbe una affinità di tutto il possibile per l’identità del principio della sua determinazione completa. La d e t e r m i n a b i l i t à di ogni concetto è subordinata all’UNIVERSALITÀ (universalitas) del principio dell’esclusione del medio tra due predicati opposti, ma la d e t e r m i n a z i o n e d i u n a c o s a alla TOTALITÀ (universitas) o all’insieme di tutti i predicati possibili (N. d. K.). 242 Sacheit = cosalità. 243 Le osservazioni e i calcoli degli astronomi ci hanno insegnato parecchie cose meravigliose, ma la più importante è che ci hanno scoperto l’abisso dell’i g n o r a n z a , che l’umana ragione, senza queste conoscenze, non avrebbe mai potuto immaginare sì grande; e la riflessione su questa ignoranza non può non produrre un gran cambiamento nella determinazione degli scopi finali dell’uso della nostra ragione (N. d. K.). [Questa nota è, giustamente, riferita dal Wille alla fine del periodo successivo (N. d. R.).] 244 Folge. 245 Allbefassende, che abbraccia tutto. 246 Questo ideale dell’Essere realissimo, sebbene sia una mera rappresentazione, è da prima r e a l i z z a t o , cioè se ne fa un oggetto; quindi i p o s t a t i z z a t o ; infine, per un progresso naturale della ragione verso il compimento dell’unità, anche p e r s o n i f i c a t o , come noi or ora mostreremo; poiché l’unità regolativa dell’esperienza non si fonda sugli stessi fenomeni (soltanto del senso), ma sulla unificazione del loro molteplice mediante l’i n t e l l e t t o (in una appercezione); quindi l’unità della realtà suprema e la completa determinabilità (possibilità) di tutte le cose pare che stia in un intelletto supremo, e però in una i n t e l l i g e n z a (N. d. K.). 247 Allbefassende.

248

Il concetto è possibile tutte le volte che non si contraddice. Questo è il carattere logico della possibilità, e con ciò il suo oggetto è distinto dal nihil negativum. Se non che, cionondimeno, esso può essere un concetto vuoto, se la realtà oggettiva della sintesi, ond’è prodotto il concetto, non è dimostrata particolarmente: ciò che, per altro, come noi abbiamo sopra mostrato, si fonda su princìpi di esperienza possibile, e non sul principio dell’analisi (principio di contraddizione). E un ammonimento, di non conchiudere senz’altro dalla possibilità dei concetti (logica) alla possibilità delle cose (reale) (N. d. K.). 249 Argutation voce adoperata anche dal Baumgarten, che vale come Vernunftelei (Vorländer). 250 Questa illazione è troppo nota perché sia necessaria esporla qui per disteso. Essa si fonda sulla presunta legge trascendentale di causalità della natura: che ogni c o n t i n g e n t e ha la sua causa, la quale, se è a sua volta contingente, deve egualmente avere una causa, finché la serie delle cause subordinate l’una all’altra non si arresti a una causa assolutamente necessaria, senza la quale non avrebbe mai nessuna completezza (N. d. K.). 251 Il celebre medico e poeta svizzero Alberto von Haller (1708-1777), autore della Origine del male (1734). 252 Il Wille propone (Kantst., IV, 312) che si tolga il nicht in questa frase: «da es also nicht einmal als denkbarer Gegenstand gegeben ist». E i più recenti traduttori francesi gli dan ragione: «en effet, l’idéal de la raison nous est donné, non pas comme un objet réel, mais comme un objet concevable». (Crit. de la rais. p., nouv. trad. franç. par Tremeysagues et Pacaud, p. 671). No, l’ideale non è oggetto, dice Kant, ma semplice idea. Perciò la correzione del Wille non ci pare accettabile. 253 eingebildeten = immaginato, supposto. 254 Nella prima edizione: «ma il nostro concetto di esso...». 255 Non morale teologica; perché questa comprende le leggi morali, che p r e s u p p o n g o n o l’esistenza di un supremo rettore del mondo, laddove la teologia morale è una convinzione dell’esistenza di un Essere supremo, che si fonda su leggi morali (N. d. K.). 256 Naturerkenntniss = conoscenza della natura. 257 fehlerfreies, senza difetti.

Appendice alla dialettica trascendentale

DELL’USO REGOLATIVO DELLE IDEE DELLA RAGION PURA Il risultato di tutti i tentativi dialettici della ragion pura non solo conferma quello che noi già dimostrammo nell’Analitica trascendentale, ossia, che tutti i nostri ragionamenti, i quali vogliono condurci al di là del campo dell’esperienza possibile, son fallaci e senza fondamento; ma ci insegna nello stesso tempo questo di particolare, che l’umana ragione ha qui una propensione naturale ad oltrepassare questi limiti, che le idee trascendentali sono per essa altrettanto naturali che per l’intelletto le categorie, sebbene con la differenza, che le ultime conducono alla verità, cioè all’accordo dei nostri concetti con l’oggetto, laddove le prime generano una semplice, ma irresistibile apparenza, la cui illusione, appena si può rimuovere mercé la critica più acuta. Tutto ciò che è fondato nella natura delle nostre forze, deve essere adatto a un fine, e accordarsi col retto uso di esse, perché noi possiamo schivare un certo malinteso e scoprire la direzione propria delle medesime. Le idee trascendentali, secondo ogni presunzione, avranno quindi il loro buon uso, e però il loro uso i m m a n e n t e ; sebbene, ove il loro significato sia disconosciuto ed esse siano prese per concetti di cose reali, possano essere trascendenti nell’applicazione e appunto perciò fallaci. Giacché, non l’idea in se stessa, ma soltanto il suo uso può essere, rispetto a tutta l’esperienza possibile, e s t e r n o 258 (trascendente) o i n t e r n o 259 (immanente), secondo che si applica direttamente a un oggetto, che le si presume corrispondente, o soltanto all’uso dell’intelletto in generale rispetto agli oggetti con cui esso ha da fare; e tutti gli errori di surrezione sono in ogni caso da attribuirsi a un difetto del giudizio, ma non mai all’intelletto o alla ragione. La ragione non si riferisce mai direttamente a un oggetto, ma unicamente all’intelletto, e per suo mezzo al suo proprio uso empirico; non c r e a quindi

concetti (di oggetti) sì solamente li o r d i n a e dà loro quell’unità, che essi possono avere nella loro più grande estensione possibile, ossia in relazione con la totalità delle serie; con quella totalità, alla quale non guarda mai l’intelletto, che mira soltanto a quella connessione onde dappertutto si f o r m a n o s e r i e di condizioni secondo concetti. La ragione, dunque, non ha propriamente ad oggetto se non l’intelletto e l’impiego opportuno di esso; e come questo unifica il molteplice nell’oggetto mediante concetti, così quella, a sua volta, unifica il molteplice dei concetti per mezzo di idee, proponendo una certa unità collettiva a scopo delle operazioni dell’intelletto, le quali altrimenti non han da fare se non con l’unità distributiva. Io affermo per tanto che le idee trascendentali non sono mai d’uso costitutivo, sicché per mezzo di esse possano esser dati concetti di certi oggetti; e che, ove esse siano intese a questo modo, sono semplicemente concetti sofistici (dialettici). Ma, viceversa, hanno un uso regolativo eccellente e impreteribilmente necessario: quello d’indirizzare l’intelletto a un certo scopo, in vista del quale le linee direttive di tutte le sue regole convergono in un punto; il quale, – sebbene non sia altro che un’idea (focus imaginarius), cioè un punto da cui realmente non muovono i concetti dell’intelletto, essendo esso affatto fuori dei limiti dell’esperienza possibile, – serve nondimeno a conferir loro la massima unità insieme con la massima estensione. Ora per noi sorge veramente di qui l’illusione, come se queste linee direttive si diramassero (come gli oggetti sono veduti dietro la superficie dello specchio) da un oggetto stesso, che giaccia fuori del campo della conoscenza empirica possibile; se non che questa illusione (che pure si può impedire che ci inganni) è tuttavia inevitabilmente necessaria, se oltre agli oggetti, che ci sono innanzi agli occhi, vogliamo vedere insieme anche quelli che ci stanno lontani alle spalle, cioè se, nel nostro caso, vogliamo portare l’intelletto al di là d’ogni esperienza data (parte della totale esperienza possibile), quindi anche alla maggiore estensione possibile ed estrema. Se diamo uno sguardo alle conoscenze del nostro intelletto in tutto il loro àmbito, noi troviamo che, quello che la ragione vi mette affatto di suo e vi cerca di recare in atto, è l’elemento s i s t e m a t i c o della coscienza, cioè la connessione di esse secondo un principio. Questa unità razionale presuppone sempre un’idea, cioè l’idea della forma d’un tutto della conoscenza, che preceda la conoscenza determinata delle parti e contenga le condizioni per determinare a priori il posto di ciascuna parte e il suo rapporto con le altre.

Questa idea pertanto postula l’unità completa della conoscenza dell’intelletto; onde questa conoscenza viene ad essere non semplicemente un aggregato accidentale, bensì un sistema connesso secondo leggi necessarie. Ma non si può dire, propriamente, che questa idea sia un concetto dell’oggetto, sibbene dell’unità completa di questi concetti, in quanto questa serve di regola all’intelletto. Simili concetti della ragione non sono ricavati dalla natura, anzi piuttosto noi cerchiamo d’intendere la natura secondo queste idee, e teniamo la nostra conoscenza per difettosa, finché non sia ad esse adeguata. Si sa che difficilmente si trova t e r r a p u r a, a c q u a p u r a, a r i a p u r a, ecc. Tuttavia si è costretti ad averne dei concetti (che hanno dunque, per quanto riguarda l’assoluta purezza, origine soltanto nella ragione) per potere convenientemente determinare la parte che ciascuna di queste cause naturali ha nel fenomeno; e così si riportano tutte le materie alle tre (per così dire, al semplice peso), ai sali e alle sostanze combustibili (come la forza) e in fine all’acqua e all’aria come veicoli (quasi macchine, per mezzo delle quali gli elementi precedenti agiscono) per spiegare le azioni chimiche delle materie tra loro secondo l’idea d’un meccanismo. Giacché, quantunque non ci si esprima in realtà così, pure un tale influsso della ragione sulle divisioni dei fisici è molto facile a scoprire. Se la ragione è la facoltà di ricavare il particolare dall’universale: o l’universale è già i n s é c e r t o e dato, e allora esso non ha bisogno se non del G i u d i z i o per la sussunzione, e il particolare viene così determinato necessariamente260. Questo io dico l’uso apodittico della ragione. Ovvero l’universale è ammesso solo p r o b l e m a t i c a m e n t e ed è una semplice idea; e il particolare è certo, ma l’universalità della regola corrispondente a una tale conseguenza è ancora un problema: allora si provano parecchi casi particolari, che sono tutti certi, se derivano dalla regola; e, in questo caso, se pare che tutti i casi particolari che si danno ne derivino, si conchiude per l’universalità della regola; e, dopo, da essa si conchiude a tutti i casi, anche se non sono dati in sé. E questo mi piace chiamarlo l’uso ipotetico della ragione. L’uso ipotetico della ragione per via di idee messe a fondamento come concetti problematici non è propriamente c o s t i t u t i v o , ossia non è di tal fatta che, se si vuol giudicare con tutto rigore, ne segua la verità della legge universale assunta per ipotesi; come sapere infatti tutte le conseguenze possibili, che, derivando dallo stesso principio assunto, ne dimostrino la universalità? Esso invece è soltanto regolativo, per mettere, quanto è

possibile, unità nelle conoscenze particolari, e a p p r o s s i m a r e così la regola all’universalità. L’uso ipotetico della ragione mira dunque all’unità sistematica delle conoscenze dell’intelletto, ma questa è la p i e t r a d i p a r a g o n e d e l l a v e r i t à delle regole. Viceversa, l’unità sistematica (come semplice idea) è unicamente solo una unità p r o i e t t a t a , che in sé non va considerata come data, anzi soltanto come un problema; la quale per altro serve a trovare un principio all’uso molteplice e particolare dell’intelletto, e quindi a condurre questo anche sopra quei casi che non sono dati, e a renderlo coerente. Ma di qui si vede soltanto che l’unità sistematica o razionale della conoscenza molteplice dell’intelletto è un principio logico per aiutare con le idee ad andare avanti, là dove l’intelletto da solo non giunge a regole, e a procurare insieme, alla diversità di queste regole, un accordo sotto un principio (sistematico) e quindi una coerenza, per quanto ciò è possibile. Ma se l’indole degli oggetti o la natura dell’intelletto, che li conosce come tali, sia in sé determinata per un’unità sistematica, e se questa si possa postulare in certa misura a priori e senza guardare a un tale interesse della ragione, e dire quindi: tutte le conoscenze possibili dell’intelletto (tra cui le empiriche) hanno un’unità razionale e sottostanno a princìpi comuni, da cui possono esser ricavate, nonostante la loro diversità: questo sarebbe un principio t r a s c e n d e n t a l e della ragione, che renderebbe necessaria l’unità sistematica, non solo soggettivamente e logicamente, come metodo, ma oggettivamente. Spieghiamo ciò con un caso dell’uso della ragione. Nei diversi modi di unità per concetti dell’intelletto rientra anche quello della causalità d’una sostanza, che vien detta facoltà. I diversi fenomeni appunto d’una stessa sostanza dimostrano a primo sguardo tanta eterogeneità, che non si può a meno, da principio, d’ammettere perciò pressoché tante facoltà di essa, quanti sono gli effetti che si producono, come nell’anima umana la sensazione, la coscienza, l’immaginazione, la memoria, lo spirito, il discernimento, il piacere, il desiderio, ecc. In primo luogo, una massima logica richiede che si restringa al possibile questa apparente diversità, scoprendo, mercé la comparazione, l’identità segreta, ed esaminando se l’immaginazione, legata con la coscienza, non sia memoria, spirito, discernimento, fors’anco intelletto e ragione. L’idea d’una f a c o l t à f o n d a m e n t a le , di cui per altro la logica non s’occupa guari di vedere se ci sia, è per lo meno il problema di una

rappresentazione sistematica della molteplicità delle facoltà. Il principio logico della ragione esige che questa unità, per quanto è possibile, sia realizzata: e quanto più i fenomeni d’una facoltà son trovati identici con quelli di un’altra, tanto più divien verosimile che essi non siano se non manifestazioni differenti d’una medesima facoltà, la quale può dirsi (relativamente) loro facoltà fondamentale. E così per le altre. Le facoltà fondamentali relative vanno, a loro volta, paragonate tra loro, per ricondurle, scoprendo il loro accordo, a una facoltà fondamentale unica radicale, cioè assoluta. Ma questa unità razionale è semplicemente ipotetica. Si afferma non che una tale unità debba incontrarsi nel fatto, ma che la si deve cercare in grazia della ragione, ossia per stabilire certi princìpi per varie regole, che la esperienza può fornire; e che si deve, quanto è possibile, portare in tal modo nella conoscenza un’unità sistematica. Ma, se si fa attenzione all’uso trascendentale dell’intelletto, è chiaro che questa idea di una facoltà fondamentale in genere è determinata non semplicemente come problema per l’uso ipotetico, anzi essa pretende a una realtà obbiettiva, ond’è postulata l’unità sistematica delle varie facoltà d’una sostanza, e stabilito un principio apodittico della ragione. Giacché, senz’aver cercato mai l’accordo delle varie facoltà, e, magari, dopo esser falliti in tutti i tentativi per iscoprirlo, noi nondimeno presupponiamo, che un tale accordo ci dovrà essere: e ciò non soltanto, come nel caso addotto, per via dell’unità della sostanza; ma perfino là dove se ne trovan parecchie, se anche in certo grado simili, come nella materia in generale, la ragione presuppone l’unità sistematica delle forze molteplici, in cui le leggi particolari della natura sottostanno a quelle più generali; e l’economia dei princìpi non è soltanto un principio economico della ragione, ma diventa legge interna della natura. Nel fatto non si capisce come possa esservi un principio logico della unità razionale delle regole, se non si presuppone un principio trascendentale, per cui tale unità sistematica, in quanto inerente agli oggetti stessi, sia ammessa a priori come necessaria. Giacché con quale diritto può la ragione pretendere di considerare, nell’uso logico, la molteplicità delle forze, che la natura ci dà a conoscere, come una semplice unità nascosta, e ricavarle, quanto è in lei, da una qualsiasi forza fondamentale, quando stesse a lei di ammettere essere altrettanto possibile che tutte le forze siano eterogenee, e l’unità sistematica della loro derivazione non conforme alla natura? Perché in quest’ultimo caso si comporterebbe in maniera direttamente contraria alla sua destinazione,

proponendosi a scopo un’idea che sarebbe in assoluta contraddizione con l’ordinamento della natura. Né anche si può dire che essa abbia ricavato prima quest’unità dalla costituzione accidentale della natura, in conformità di princìpi della ragione. Perché la legge della ragione, per cui si cerca questa unità, è necessaria, poiché altrimenti noi non avremmo punto una ragione, ma senza di questa non avremmo un uso coerente dell’intelletto; e in mancanza di questo non avremmo un segno sufficiente della verità empirica; sicché, in grazia di quest’ultimo, siamo nella necessità di presupporre l’unità sistematica della natura a dirittura come obbiettivamente valida e necessaria. Questo presupposto trascendentale lo troviamo anche meravigliosamente celato nei princìpi dei filosofi, comeché essi non ve l’abbian sempre riconosciuto, o non l’abbian a se medesimi confessato. Che tutte le molteplicità delle singole cose non escludano l’identità della s p e c i e ; che le varie specie non si debbano considerare se non come determinazioni diverse di pochi generi, e questi poi di classi ancora più alte; che si debba quindi cercare una certa unità sistematica di tutti i concetti empirici possibili, in quanto possono esser ricavati da concetti superiori e più generali: questa è una regola della scuola o principio logico, senza il quale non c’è uso di ragione; poiché in tanto noi possiamo conchiudere dal generale al particolare, in quanto a base son poste le proprietà generali delle cose, e ad esse sottostanno le particolari. Ma che un tale accordo si trovi anche nella natura, i filosofi lo presuppongono nella nota regola della scuola, che non sono da moltiplicare i princìpi senza bisogno261 (entia praeter necessitatem non esse multiplicanda). Con che si dice, che la natura delle cose stesse dà materia all’unità razionale, e l’apparente diversità infinita non deve trattenerci dal supporre, dietro ad essa, un’unità delle proprietà fondamentali, dalla quale la molteplicità possa soltanto esser ricavata per mezzo di più determinazioni. A questa unità, benché sia una semplice idea, si è in tutti i tempi aspirato con tanto zelo, che si è avuto piuttosto motivo di moderare il desiderio di essa, che non di stimolarlo. È già molto che i chimici abbian potuto ricondurre tutti i sali a due generi principali, acidi e alcalini; eppure essi cercano di considerare anche questa differenza come una varietà o manifestazione diversa di una medesima materia fondamentale. Le varie specie di terre (la materia delle pietre e fin dei metalli) si è cercato a poco a poco di ridurle a tre, e infine a due; se non che, non contenti ancora di ciò, essi non possono scacciare il pensiero di supporre

tuttavia, dietro a queste varietà, un genere unico, e perfino un principio comune alle terre stesse e ai sali. Si potrebbe forse credere, che questo sia un semplice espediente economico della ragione, per risparmiarsi la fatica, quanto è possibile, e un tentativo ipotetico, che, se riesce, conferisce verosimiglianza, appunto mediante questa unità, al principio esplicativo presupposto. Ma uno scopo interessato di questo genere è molto facile a distingure dalla idea, per cui ognuno presuppone che questa unità razionale sia adeguata alla stessa natura, e che la ragione qui non mendica, ma impone, pur senza determinare i limiti di questa unità. Se tra i fenomeni che ci si presentano ci fosse una differenza così grande, non voglio dire di forma (giacché in questa possono essere simili) ma di contenuto, ossia quanto alla molteplicità degli esseri esistenti, che né anche il più acuto intelletto umano potesse, mediante la comparazione, trovare la minima somiglianza tra l’uno e l’altro (caso che si può ben pensare), la legge logica dei generi assolutamente non avrebbe luogo; e non ci sarebbe nemmeno un concetto di genere o un concetto qualsiasi generale; anzi non ci sarebbe un intelletto, come quello che solo di tali concetti si occupa. Il principio logico dei generi presuppone dunque un principio trascendentale, se dev’essere applicato alla natura (per la quale intendo qui soltanto gli oggetti che ci sono dati). Secondo cotesto principio, nel molteplice di una esperienza possibile è necessariamente presupposta una omogeneità (benché a priori non ne possiamo determinare il grado), perché senza di essa non sarebbero possibili concetti empirici, né quindi una esperienza. Al principio logico dei generi, che postula un’identità, è contrapposto un altro principio, quello cioè della s p e c i e , che richiede una molteplicità e differenze tra le cose malgrado il loro accordo in uno stesso genere; ed esso fa all’intelletto obbligo di attendere a queste262 non meno che a quella263. Questo principio (acume o discernimento), limita molto la leggerezza del primo (dello spirito264); e la ragione qui esplica due diversi interessi in contrasto tra loro: da una parte l’interesse dell’e s t e n s i o n e (dell’universalità), rispetto ai generi, dall’altra quello del contenuto (della determinatezza) in vista della molteplicità delle specie, poiché l’intelletto nel primo caso propriamente pensa molto s o t t o i suoi concetti, ma nel secondo tanto più d e n t r o di essi. Ciò si vede anche nei metodi molto differenti dei naturalisti, alcuni dei quali (che sono sopra tutto speculativi), nemici in certo modo della eterogeneità, mirano sempre all’unità del genere, gli altri (menti

sopra tutto empiriche) cercano incessantemente la natura in una molteplicità così svariata, che si dovrebbe quasi smettere la speranza di giudicare i fenomeni di essa secondo princìpi universali. A fondamento dell’ultimo metodo c’è anche, evidentemente, un principio logico, che ha per iscopo la completezza sistematica di tutte le conoscenze, quando io, movendo dal genere, scendo al molteplice che vi può esser compreso sotto, e procuro in tal modo di dare al sistema estensione, come nel primo caso, quando salgo al genere, semplicità. Giacché dalla sfera del concetto che rappresenta un genere, così come dallo spazio che può racchiudere la materia, non è dato scorgere fino a che punto può procederne la divisione. Quindi ciascun genere esige diverse specie, e ciascuna di queste, a sua volta, diverse sottospecie; e poiché di queste ultime non ce n’è una che non abbia sempre da capo una sfera (estensione, in quanto conceptus communis), così la ragione in tutto il suo svolgimento richiede che nessuna specie venga considerata in se stessa come l’infima, in quanto che, essendo essa sempre un concetto contenente in sé soltanto ciò che è comune a diverse cose, questo non può essere interamente determinato, e però né anche può essere riferito, senz’altro, a un individuo; e per conseguenza, deve sempre comprendere sotto di sé altri concetti o sottospecie. Questa legge della specificazione, si potrebbe formulare così: entium varietates non temere esse minuendas. Ma di leggieri si scorge che anche questa legge logica sarebbe senza senso e senza applicazione, se non avesse a fondamento una trascendentale l e g g e d e l l a s p e c i f i c a z i o n e, che di certo non importerà, nelle cose che possono diventare nostri oggetti, una i n f i n i t à reale di differenze, perché ciò non è richiesto dal principio logico, che afferma unicamente la i n d e t e r m i n a t e z z a della sfera logica rispetto alla divisione possibile; ma nondimeno impone all’intelletto di cercare sotto ogni specie che ci viene innanzi, un certo numero di sottospecie, e per ogni differenza un certo numero di differenze minori. Infatti, se non ci fossero concetti inferiori, non ci sarebbero neppure concetti superiori. Ora l’intelletto conosce tutto solo mediante concetti; dunque, per quanto egli si spinga nella divisione, mai conosce per semplice intuizione, ma sempre da capo per concetti inferiori. La conoscenza dei fenomeni nella loro completa determinazione (che è possibile soltanto per l’intelletto) richiede una specificazione incessantemente progressiva de’ suoi concetti, e un passare a sempre ulteriori differenze, da

cui si era fatta astrazione nel concetto della specie, e tanto più in quello del genere. Né anche questa legge della specificazione può esser ricavata dall’esperienza; perché questa non può darci informazioni che vadano tanto in là. La specificazione empirica s’arresta subito nella distinzione del molteplice, se dalla legge trascendentale della specificazione, ad essa già antecedente come principio della ragione, non sia stata condotta a cercare tale distinzione e a preusupporla sempre di nuovo, quantunque non si manifesti ai sensi. Che le terre assorbenti siano a loro volta di diverse specie (terre calcari e muriatiche) ebbe bisogno, per essere scoperto, di una regola antecedente della ragione, che assegnò all’intelletto il compito di cercare la differenza, supponendo la natura così ricca da sospettare che ci dovesse essere. Giacché noi non abbiamo un intelletto se non appunto nel presupposto delle differenze della natura, così come non l’abbiamo se non a condizione che i suoi oggetti abbiano in sé omogeneità, poiché appunto la molteplicità di quel che può essere raccolto sotto un concetto costituisce l’uso di questo concetto, e l’ufficio dell’intelletto. La ragione, dunque, spiana all’intelletto il suo campo: 1) con un principio della o m o g e n e i t à del molteplice sotto generi superiori; 2) con un principio della v e r i t à dell’omogeneo sotto specie inferiori; e, per compiere l’unità sistematica, essa aggiunge 3) ancora una legge dell’a f f i n i t à di tutti i concetti, che fornisce un trapasso continuo di ciascuna specie a ciascun’altra per mezzo d’un aumento graduale di differenza. Noi possiamo chiamarli princìpi dell’o m o g e n e i t à , della s p e c i f i c a z i o n e e della c o n t i n u i t à delle forme. L’ultimo deriva dall’unificazione dei due primi dopo che si è portato a compimento il collegamento nell’idea sistematico, sia nel salire ai generi superiori, sia nel discendere alle specie inferiori: allora infatti tutte le molteplicità sono tra loro affini, poiché tutte quante derivano da un genere unico attraverso tutti i gradi della determinazione sviluppata. L’unità sistematica dei tre princìpi logici si può render sensibile nel seguente modo. Si può considerare ogni concetto come un punto, che abbia, come il punto di vista di uno spettatore, il suo orizzonte, ossia un insieme di cose che da esso possono essere rappresentate e quasi abbracciate con lo sguardo. Dentro a quest’orizzonte deve poter esser fissato, all’infinito, un insieme di punti ciascuno dei quali, a sua volta, ha una visuale più stretta; cioè ogni specie comprende secondo il principio della specificazione, un

certo numero di sottospecie, e l’orizzonte logico consta soltanto di orizzonti più piccoli (sottospecie), ma non di punti non aventi nessuna estensione (individui). Ma intorno a diversi orizzonti, cioè a diversi generi, determinati appunto da altrettanti concetti, si può pensare descritto un orizzonte comune, onde tutti quanti si possono abbracciare con lo sguardo come da un centro; il quale è il genere superiore; finché da ultimo, il genere supremo è l’universale e vero orizzonte, che vien determinato dal punto di vista del concetto supremo, e raccoglie sotto di sé tutta la molteplicità, come generi, specie e sottospecie. A questo punto di vista supremo mi conduce la legge dell’omogeneità, a quelli inferiori e alla loro massima varietà la legge della specificazione. Ma, poiché in tal modo nell’intero àmbito di tutti i concetti possibili non c’è un vuoto, e fuori di esso non si può trovar niente, dal presupposto di quell’orizzonte universale e della perfetta divisione del medesimo sorge il principio: non datur vacuum formarum, cioè non vi sono diversi generi originari e primi, che siano come isolati e separati l’uno dall’altro (da un intervallo vuoto), ma tutti i molteplici generi non sono se non derivazioni da un unico genere supremo e universale; e da questo principio il suo immediato corollario: datur continuum formarum, cioè tutte le differenze delle specie si limitano reciprocamente, e non permettono che si passi dall’una all’altra con un salto, bensì soltanto attraverso tutti i gradi più piccoli della differenza, per cui dall’una si può giungere all’altra; in una parola, non ci sono specie e sottospecie che siano (nel concetto della ragione) le più prossime tra loro, ma vi sono sempre altre specie intermedie possibili, la cui differenza dalle prime e dalle seconde è più piccola, che non sia la differenza di queste tra loro. La prima legge dunque vieta la dispersione della molteplicità dei diversi generi originari e raccomanda l’omogeneità; la seconda, invece, modera questa tendenza all’accordo, ed ordina una distinzione di sottospecie, prima che ci si rivolga con un concetto generale agli individui. La terza riunisce queste due, prescrivendo, insieme con la suprema molteplicità, anche l’omogeneità per un passaggio graduale da una specie all’altra; il che accenna a una sorta di affinità dei diversi rami, in quanto entrambi sono usciti dallo stesso tronco. Questa legge logica continui specierum (formarum logicarum) presuppone per altro una legge trascendentale (lex continui in natura), senza la quale l’uso dell’intelletto da quel precetto sarebbe solo tratto in inganno,

prendendo forse una via direttamente opposta alla natura. Questa legge, dunque, deve riposare su fondamenti trascendentali puri e non empirici. Giacché in questo secondo caso essa verrebbe dopo i sistemi; laddove è essa propriamente a dare dapprima quanto vi ha di sistematico nella conoscenza della natura. Dietro queste leggi non ci sono neppure segrete intenzioni di una prova da fare con esse, quasi semplici tentativi, quantunque, è vero, questa connessione, quando si dia, fornisca un motivo potente per ritener fondata l’unità ipoteticamente concepita, ed esse quindi abbiano anche da questo aspetto la loro utilità; ma si vede manifestamente che esse giudicano razionali in sé e conformi alla natura l’economia delle cause fondamentali, la molteplicità degli effetti, e per conseguenza un’affinità delle parti della natura; e questi princìpi pertanto direttamente, e non solo come espedienti di metodo, recano in sé la propria raccomandazione. Ma è facile vedere, che questa continuità delle forme è una semplice idea, alla quale non si può additare un congruo oggetto nell’esperienza; n o n s o l t a n t o per la ragione che le specie nella natura sono realmente divise, e devono quindi costituire in sé un quantum discretum e che, se il progresso graduale nell’affinità di esse fosse continuo, dovrebbe anche implicare un’infinità di membri intermedi, che ci sarebbero in mezzo a due specie date; ciò che è impossibile; ma anche per la ragione, che di questa legge noi non possiamo assolutamente fare un uso empirico determinato, in quanto che per essa non ci vien additato il minimo segno dell’affinità secondo cui dobbiamo cercare la successione graduale della loro diversità, né fino a che punto si debba cercarla, ma vien dato solo un avvertimento generale, che noi dobbiamo cercare tal serie. Se noi trasponessimo di ordine questi princìpi, per metterli c o n f o r m e m e n t e a l l ’ u s o d e l l ’ e s p e r i e n z a, i princìpi dell’u n i t à sistematica starebbero press’a poco così: m o l t e p l i c i t à , a f f i n i t à e u n i t à , presa bensì ciascuno di queste, come idea, nel grado supremo della sua perfezione. La ragione presuppone le conoscenze dell’intelletto, che, anzi tutto, sono applicate all’esperienza, e cerca la loro unità secondo idee, la quale va molto più in là che non possa giungere l’esperienza. L’affinità del suo molteplice, salvo la sua differenza, sotto un principio d’unità, non concerne semplicemente le cose, ma ben più altresì le semplici proprietà e forze delle cose. Quindi, se per es., da un’esperienza (ancora non pienamente rettificata) c’è dato il corso dei pianeti come circolare, e troviamo talune

differenze, noi le supponiamo derivanti da quello che può, secondo una legge costante e attraverso tutti gli infiniti gradi intermedi, cangiare il circolo in una di queste orbite divergenti; cioè i movimenti dei pianeti, che non sono circolo, s’approssimano in certo modo, più o meno, alle proprietà di esso, e cadono nell’ellissi. Le comete mostrano una differenza anche maggiore nei loro percorsi, poiché esse (fin dove giunge l’osservazione) non si rivolgono mai in circolo; soltanto noi attribuiamo loro per congettura un movimento parabolico, che è tuttavia affine all’ellissi e, quando l’asse lungo di questo è molto esteso, non può in tutte le nostre osservazioni esserne distinto. Così, dietro la guida di quei princìpi, noi giungiamo all’unità generica della forma di queste orbite, e quindi poi all’unità della causa di tutte le leggi del loro movimento (gravitazione); donde poscia cerchiamo di estendere le nostre conquiste, nonché di spiegare tutte le varietà e le apparenti deviazioni da quelle regole, mediante lo stesso principio; e infine di aggiungere a dirittura più che l’esperienza non può mai confermare, ossia di concepire, secondo le regole dell’affinità stessa, certe orbite iperboliche di comete, in cui questi corpi abbandonano affatto il nostro mondo solare e, andando di sole in sole, riuniscono nel loro corso le parti più lontane d’un sistema del mondo che è per noi senza limiti, stretto insieme da una e medesima forma motrice. Ciò che in questi princìpi è degno di nota, e che del resto soltanto c’interessa, è questo: che paiono essere trascendentali, e, quantunque contengano semplici idee per l’osservanza dell’uso empirico della ragione, alle quali questo può conformarsi, per così dire, soltanto asintoticamente, cioè in modo solo approssimativo, senza poterle mai raggiungere, esse tuttavia, come proposizioni sintetiche a priori, hanno un valore oggettivo, ma indeterminato, e servono di regola all’esperienza possibile, e sono in realtà adoperate con buona fortuna anche nell’elaborazione di essa, come princìpi euristici, senza che non per tanto se ne possa eseguire una deduzione trascendentale: il che, come sopra è stato dimostrato, rispetto alle idee è sempre impossibile. Nell’Analitica trascendentale noi abbiamo tra i princìpi dell’intelletto distinto quelli d i n a m i c i , come princìpi semplicemente regolativi dell’i n t u i z i o n e , da quelli m a t e m a t i c i , che rispetto a questa sono costitutivi. Ciò nonostante, le dette leggi dinamiche sono assolutamente costitutive rispetto all’e s p e r i e n z a , in quanto rendono possibili a priori i concetti, senza i quali non ci sarebbe esperienza. I princìpi, invece, della

ragion pura non possono mai, rispetto ai c o n c e t t i empirici, essere costitutivi, perché non può darsi schema della sensibilità a loro corrispondente, e però essi non possono avere un oggetto in concreto. Ora, se io prescindo da cotesto uso empirico di essi come princìpi costitutivi, come posso nondimeno assicurar loro un uso regolativo, e, con questo, qualche valore oggettivo, e quale potrà esser il suo significato? L’intelletto costituisce per la ragione un oggetto, come la sensibilità per l’intelletto. Rendere sistematica l’unità di tutti i possibili atti empirici dell’intelletto è ufficio della ragione, come l’intelletto connette il molteplice dei fenomeni mediante concetti, e lo sottomette a leggi empiriche. Ma gli atti dell’intelletto senza schemi della sensibilità sono i n d e t e r m i n a t i ; parimenti anche l’unità della ragione in se stessa, rispetto alle condizioni, e al grado in cui l’intelletto debba unificare sistematicamente i suoi concetti, è i n d e t e r m i n a t a . Se non che, quantunque per l’unità sistematica universale di tutti i concetti dell’intelletto non possa trovarsi nella i n t u i z i o n e nessuno schema, può bensì e deve esser dato un a n a l o g o d’un tale schema, che è l’idea del m a s s i m o della divisione della conoscenza dell’intelletto, e della sua unificazione in un principio. Il massimo, infatti, e l’assolutamente perfetto può esser pensato determinatamente, poiché si prescinde da tutte le condizioni limitative, che danno una molteplicità indeterminata. L’idea, dunque, della ragione è l’analogo d’uno schema della sensibilità, ma con la differenza, che l’applicazione dei concetti dell’intelletto allo schema della ragione non è egualmente una conoscenza dell’oggetto stesso (come nell’applicazione delle categorie ai loro schemi sensibili), ma soltanto una regola o principio dell’unità sistematica di tutto l’uso dell’intelletto. Ora, poiché ogni principio che assicuri a priori all’intelletto l’unità universale del suo uso, vale anche, sebbene solo indirettamente, dell’oggetto dell’esperienza: così i princìpi della ragion pura avranno realtà oggettiva anche rispetto a quest’ultimo: soltanto, non per determinare in esso qualcosa, ma solamente per indicare il processo secondo il quale l’uso empirico e determinato dell’intelletto265 può accordarsi completamente con se stesso, mettendolo in rapporto p e r q u a n t o è p o s s i b i l e, col principio dell’unità universale e ricavandolo da esso. Chiamo m a s s i m e della ragione tutti i princìpi soggettivi che non sono ricavati dalla costituzione dell’oggetto, ma dall’interesse della ragione rispetto a una data perfezione possibile della conoscenza di questo oggetto.

Così ci sono massime della ragion speculativa, che si fondano unicamente sull’interesse speculativo della medesima, quantunque possa sembrare che esse siano princìpi oggettivi. Se princìpi meramente regolativi vengono considerati come costitutivi, in quanto princìpi oggettivi possono essere contraddittori; ma, se si considerano semplicemente come m a s s i m e , non c’è una vera contraddizione, bensì solo un interesse diverso della ragione, il quale è causa del metodo diverso. Nel fatto la ragione non ha se non un interesse unico, e il contrasto delle sue massime non è se non una differenza e una limitazione reciproca dei metodi di dar soddisfazione a questo interesse. Per tal modo in un pensatore prevale l’interesse della m o l t e p l i c i t à (secondo il principio della specificazione); in un altro invece l’interesse dell’u n i t à (giusta il principio dell’aggregazione). Ognun di essi crede di ricavare il proprio giudizio dalla cognizione dell’oggetto, e pure lo fonda unicamente sul suo maggiore o minore attaccamento a uno dei due princìpi, nessuno dei quali riposa su basi oggettive, ma soltanto sull’interesse della ragione, e che meglio quindi possono dirsi massime che princìpi. Quando io vedo uomini dotti in disputa tra loro circa la caratteristica degli uomini, degli animali e delle piante, e perfino dei corpi del regno minerale, dove gli uni assumono per es. caratteri nazionali particolari e fondati sull’origine, o anche differenze decise ed ereditarie delle famiglie, delle razze e così via; altri, al contrario, non guardano se non al fatto che la natura, in quest’opera, ha fatto per tutto allo stesso modo, e che ogni differenza riposa su accidentalità estrinseche; non ho che da rivolgere la mia attenzione alla costituzione dell’oggetto, per comprendere che questo per gli uni e per gli altri giace nascosto troppo profondamente, perché essi ne possano parlare per cognizione della natura dell’oggetto stesso. Non c’è se non il duplice interesse della ragione, di cui l’una parte prende o affetta di prendere a cuore questo, e l’altra quello; e però la differenza delle massime della molteplicità della natura o della unità della natura, le quali si possono bensì unire insieme; ma, finché son ritenute vedute oggettive, dan luogo non solo ad un conflitto, ma anche ad ostacoli che ritardano la verità, fino a quando non si sia trovato un mezzo di conciliare gli interessi in conflitto e di mettere in pace su questo punto la ragione. Lo stesso dicasi dell’affermazione o contestazione della tanto famosa legge messa in circolazione dal Leibniz, e così bene sostenuta dal Bonnet266

della s c a l a c o n t i n u a delle creature: la quale non è altro che una conseguenza del principio dell’affinità, poggiante sull’interesse della ragione; perché l’osservazione e l’esame dell’ordinamento della natura non potrebbe certo fonirla come un’affermazione oggettiva. I gradini di questa scala, per quanto può darceli l’esperienza, stanno troppo discosti tra loro, e le nostre credute piccole differenze sono d’ordinario nella natura stessa crepacci così vasti, che non è da contare su tali osservazioni (segnatamente per una grande molteplicità di cose, in cui dev’esser sempre facile trovare certe somiglianze e ravvicinamenti) come intenzioni della natura. Al contrario, il metodo di ricercare secondo un tal principio un ordine nella natura, e la massima di considerare quest’ordine come fondato in una natura in generale, senza determinare dove e fin dove, è certamente un legittimo ed eccellente principio regolativo della ragione; il quale, per altro, come tale, va troppo in là perché l’esperienza e l’osservazione possano pareggiarlo; tuttavia senza determinare nulla, non fa che presegnare loro la via all’unità sistematica.

DELLO SCOPO FINALE DELLA DIALETTICA NATURALE DELLA RAGIONE UMANA

Le idee della ragion pura non possono mai essere in se stesse dialettiche, ma solo il loro abuso non può non fare che ne sorga per noi un’apparenza fallace; perché esse ci son date dalla natura della nostra ragione, e questa suprema corte di tutti i diritti e pretese della nostra speculazione è impossibile che contenga essa stessa illusioni e inganni originari. Presumibilmente, dunque, esse avranno la loro buona e utile destinazione nella disposizione naturale della nostra ragione. Ma la turba dei sofisti grida, come suole, all’assurdità e contraddizione, e ingiuria al governo, nel cui più intimo disegno essa non può entrare, ai cui influssi benefici essa stessa deve la sua conservazione e fino a quella cultura, che la mette in grado di biasimarlo e di condannarlo. Non ci si può con sicurezza servire di un concetto a priori, senza averne fatto la deduzione trascendentale. Le idee della ragion pura non si prestano, veramente, a una deduzione del genere di quella delle categorie; ma se esse devono per lo meno possedere un certo valore oggettivo, benché soltanto indeterminato, e non rappresentare semplicemente esseri immaginari (entia

rationis ratiocinantis), una deduzione di esse deve assolutamente esser possibile, posto pure che essa si allontani molto da quella che è possibile per le categorie. Questo è il compimento del compito critico della ragion pura, e questo ora noi ci vogliamo addossare. C’è una gran differenza, tra l’essere qualche cosa data alla mia ragione come o g g e t t o a s s o l u t a m e n t e , o soltanto come un o g g e t t o n e l l ’ i d e a . Nel primo caso i miei concetti passano a determinare l’oggetto; nel secondo non c’è realmente se non uno schema, al quale non viene attribuito direttamente nessun oggetto, né pure ipoteticamente, ma che serve soltanto a rappresentarci mediante la relazione con questa idea, secondo la loro unità sistematica, e però indirettamente, altri oggetti. Così io dico: il concetto di un’Intelligenza suprema è una semplice idea, cioè la sua realtà oggettiva non deve consistere in ciò, che esso si riferisca direttamente a un oggetto (perché in tal senso noi non potremmo giustificare il suo volere oggettivo), ma esso non è se non uno schema ordinato secondo le condizioni della massima unità razionale, del concetto di una cosa in generale; schema che ci serve soltanto per mantenere nell’uso empirico della nostra ragione la massima unità sistematica, in quanto l’oggetto dell’esperienza, in qualche modo, si ricava dall’oggetto escogitato di questa idea, quasi suo principio e causa. Allora, per es., si suol dire: le cose del mondo devono essere considerate c o m e se avessero la loro esistenza da un’Intelligenza suprema. In tal modo l’idea, propriamente, è solo un concetto euristico, e non ostensivo; e ci dice, non come un oggetto è costituito, ma come, sotto la guida di esso concetto, noi dobbiamo i n d a g a r e la costituzione e la connessione degli oggetti dell’esperienza in genere. Che se si può dimostrare che, sebbene le tre idee trascendentali (p s i c o l o g i c a , c o s m o l o g i c a e t e o l o g i c a ) non si riferiscano direttamente a nessur oggetto a loro corrispondente e alla sua d e t e r m i n a z i o n e , tuttavia tutte le regole dell’uso empirico della ragione, nell’ipotesi d’un tale o g g e t t o n e l l ’i d e a , conducono a un’unità sistematica e ampliano sempre la conoscenza sperimentale, mentre non possono mai esser contro ad essa: allora è una m a s s i m a necessaria della ragione procedere secondo tali idee. E quest’è la deduzione trascendentale di tutte le idee della ragion speculativa, non quali princìpi c o s t i t u t i v i dell’ampliamento della nostra conoscenza sopra più oggetti che non ne possa fornire l’esperienza, ma quali princìpi r e g o l a t i v i dell’unità sistematica del molteplice della conoscenza empirica in generale, la

quale viene così meglio stabilita e regolata dentro i suoi limiti; ciò che non potrebbe accadere senza tali idee, mercé il semplice uso dei princìpi dell’intelletto. Spiego questo più chiaramente. Anzitutto, in conseguenza di queste idee come princìpi, dobbiamo connettere (nella psicologia) tutti i fenomeni, operazioni e recettività della nostra anima al filo conduttore dell’esperienza interna, come se essa fosse una sostanza semplice, che esistesse (almeno nella vita) costantemente con l’identità personale, mentre i suoi stati, ai quali quelli del corpo si riferiscono solo come condizioni esterne, cangiano continuamente. I n s e c o n d o l u o g o (nella cosmologia) in una ricerca che non potrà compiersi mai, noi dobbiamo perseguire la serie delle condizioni così degl’interni come degli esterni fenomeni naturali, come se essa fosse in sé infinita e senza un termine primo e supremo, quantunque non perciò noi neghiamo fuori di tutti i fenomeni i primi princìpi, puramente intelligibili, di essi, ma non pertanto non possiamo mai metterli nella catena delle spiegazioni naturali, poiché non li conosciamo punto. Finalmente, e i n t e r z o l u o g o, noi dobbiamo (rispetto alla teologia) considerare tutto ciò che può comunque entrare nella catena dell’esperienza possibile, come se questa costituisse un’unità assoluta, ma sempre affatto dipendente, e sempre anche condizionata dentro il mondo sensibile, e pur nondimeno come se il complesso di tutti i fenomeni (lo stesso mondo sensibile) avesse fuori del suo àmbito un unico sommo e onnisufficiente fondamento, ossia una ragione in qualche modo per sé stante, originaria e creatrice, in relazione alla quale noi stabiliamo ogni uso empirico della nostra r a g i o n e nella sua massima estensione, c o m e se gli oggetti fossero derivati da quel prototipo di ogni ragione. Ciò vuol dire: dovete derivare i fenomeni interni dell’anima non da una sostanza semplice pensante, ma gli uni dagli altri secondo l’idea di un essere semplice; non da una suprema Intelligenza dovete ricavare l’ordine e l’unità sistematica del mondo, ma, dall’idea d’una causa supremamente sapiente, trarre la regola, alla quale la ragione deve attenersi nella connessione delle cause e degli effetti nel mondo, per la sua propria soddisfazione. Ora non c’è la minima cosa che ci impedisca di a m m e t t e r e queste idee anche come oggettive e ipostatiche, salvo soltanto la cosmologica, in cui la ragione urta in un’antinomia, se la vuol ridurre a tale (la psicologica e la teologica non contengono di queste antinomie). Poiché in esse non c’è

contraddizione, come quindi potrebbe uno contrastarcene la realtà oggettiva, dal momento che della loro possibilità egli, per negarla, ne sa proprio tanto poco, quanto noi per affermarla? Tuttavia, per ammettere qualche cosa, non basta che non vi si opponga nessun positivo impedimento; e non ci può esser permesso d’introdurre, come oggetti reali e determinati, enti di ragione, che sorpassano tutti i nostri concetti, benché non ne contraddicano alcuno, sulla semplice fede della ragione speculativa che vuol compiere l’opera sua. Essi dunque non debbono essere ammessi in se stessi, ma la loro realtà dee valere soltanto come la realtà d’uno schema del principio regolativo per l’unità sistematica di tutte le conoscenze della natura; e però essi devono esser posti a fondamento solo come analoghi di cose reali, non come tali in se stessi. Noi togliamo dall’oggetto dell’idea le condizioni che limitano il nostro concetto intellettuale, ma che sono anche le sole che ci rendano possibile un concetto determinato di una cosa qualunque. E ora noi ci pensiamo un qualcosa, di cui, per quel che sia in se stesso, non abbiamo concetto di sorta, ma di cui tuttavia concepiamo un rapporto con il complesso dei fenomeni, analogo al rapporto che i fenomeni hanno tra loro. Quando pertanto noi ammettiamo di questi esseri ideali, non allarghiamo propriamente la nostra conoscenza intorno agli oggetti della esperienza possibile, ma soltanto l’unità empirica di questa, mercé quell’unità sistematica di cui l’idea ci fornisce lo schema, e che, pertanto, non ha valore di principio costitutivo, ma solo regolativo. Infatti, se noi poniamo una cosa corrispondente all’idea, un qualcosa o essere reale, con ciò non è detto che vogliamo estendere la nostra conoscenza delle cose per mezzo di concetti trascendenti; quest’essere, infatti, vien messo a fondamento nell’idea e non in se stesso, quindi solo per esprimere l’unità sistematica, che deve servirci di regola nell’uso empirico della ragione, senza perciò tuttavia decidere in alcun modo, quale sia il fondamento di questa unità, o la proprietà interna di un tale essere, sul quale, come sulla sua causa, tale unità riposa. Così, il concetto trascendentale, l’unico concetto determinato, che ci dà di Dio la ragione semplicemente speculativa, è, nel senso più esatto, d e i s t i c o : cioè la ragione non ci dà mai la validità oggettiva di un tal concetto, ma soltanto l’idea di un qualcosa, su cui tutta la realtà empirica fonda la sua suprema e necessaria unità; e che noi non possiamo pensare altrimenti che per analogia a una sostanza reale, la quale, secondo leggi razionali, sia la causa di tutte le cose, in quanto noi ci mettiamo a pensarlo assolutamente come un

oggetto particolare, e non piuttosto, contentandoci della semplice idea del principio regolativo della ragione, ci rassegnamo a porre da parte, come superiore all’intelletto umano, il compimento di tutte le condizioni del pensiero: il che per altro non è compatibile con lo scopo di una compiuta unità sistematica nella nostra conoscenza, alla quale, per lo meno, la ragione non pone nessun limite. Quindi accade che, se ammetto un essere divino, io non ho il minimo concetto né della possibilità interna della sua somma perfezione, né della necessità della sua esistenza; ma posso poi soddisfare a tutte le altre questioni che concernono il contingente, e procurare il più perfetto appagamento alla ragione, rispetto alla massima unità da ricercare nel suo uso empirico, non, per altro, rispetto a questo presupposto stesso; ciò che dimostra che il suo interesse speculativo, e non la sua conoscenza l’autorizza a partire da un punto che è tanto di là dalla sua sfera, per considerare quindi i suoi oggetti in una totalità completa. Ora qui si scorge una differenza di metodo in una medesima ipotesi, che è abbastanza sottile, ma pure della più grande importanza nella filosofia trascendentale. Io posso avere un motivo sufficiente per ammettere qualche cosa relativamente (suppositio relativa), senza essere perciò in diritto di ammetterla assolutamente (suppositio absoluta). Questa differenza si ha quando si ha da fare semplicemente con un principio regolativo, di cui conosciamo bensì la necessità in se stessa, ma non ne conosciamo la fonte, e ne ammettiamo un fondamento supremo solo allo scopo di pensare tanto più determinatamente l’universalità del principio che, per es., se io penso un essere come esistente, che corrisponda a una semplice idea, e precisamente a un’idea trascendentale. Giacché allora io non posso ammettere mai in se stessa l’esistenza di questa cosa, da poi che nessun concetto, onde io possa pensar determinato un qualunque oggetto, vi arriva, e le condizioni del valore oggettivo del mio concetto sono escluse dalla stessa idea. I concetti di realtà, sostanza, causalità, quello stesso di necessità di esistere, fuori dell’uso in cui essi rendono possibile la conoscenza empirica d’un oggetto, non hanno significato, che valga a determinare un oggetto qualsiasi. Essi, dunque, in verità, possono servire a spiegare la possibilità delle cose del mondo sensibile, ma non la possibilità di un u n i v e r s o s t e s s o; poiché questo principio di spiegazione dovrebbe esser fuori del mondo, e non sarebbe quindi oggetto di possibile esperienza. Posso tuttavia ammettere un tale

essere inconcepibile, oggetto di una semplice idea, relativamente al mondo sensibile, benché non in se stesso. Infatti, se a base del massimo uso empirico possibile della mia ragione c’è un’idea (della completa unità sistematica, di cui parlerò or ora in modo più determinato), la quale in se stessa non può essere mai mostrata adeguatamente nell’esperienza, sebbene sia impreteribilmente necessaria per raccostare la unità empirica al più alto grado possibile: io non sono soltanto in diritto, ma nella necessità, di realizzare questa idea, cioè di assegnarle un oggetto reale; ma solo come qualcosa in generale, che in se stesso io non conosco punto, ma al quale, come principio di quella unità sistematica, e in rapporto a questa, do proprietà analoghe a quelle che do ai concetti dell’intelletto dell’uso empirico. Io, dunque, per analogia alle realtà del mondo, alle sostanze, alla causalità e alla necessità, concepirò un Essere che possiede tutto ciò nella più alta perfezione; e in quanto questa idea poggia semplicemente sulla mia ragione, potrò concepire quest’Essere come r a g i o n e i n d i p e n d e n t e, che, mediante idee della massima armonia e unità, è causa dell’universo; sicché prescindo da tutte le condizioni limitatrici dell’idea, unicamente per render possibile, col sussidio d’un tal fondamento originario, l’unità sistematica, l’unità del molteplice nell’universo, e, mercé di essa, il massimo uso empirico possibile della ragione, considerando così tutti i rapporti c o m e se fossero disposizioni di una ragione suprema, di cui la nostra sia una debole copia. Allora io vengo a pensare quest’Essere supremo per meri concetti, i quali propriamente non hanno la loro applicazione se non nel mondo sensibile; ma poiché io non mi servo di quel presupposto trascendentale che per un uso relativo, in quanto cioè esso deve fornire il sostrato alla maggiore unità possibile dell’esperienza, così io posso concepire un Essere, che distinguo dal mondo, appunto per mezzo di proprietà che appartengono unicamente al mondo sensibile. Infatti io non voglio punto, e né anche sono in diritto di voler conoscere quest’oggetto della mia idea per quel che esso può essere in se medesimo: giacché a ciò io non ho nessun concetto, e gli stessi concetti di realtà, sostanza, causalità e perfino quello di necessità nell’esistenza perdono tutto il loro significato, e sono titoli vani di concetti senza contenuto, quando io mi spinga con essi fuori del dominio dei sensi. Io non concepisco se non la relazione di un essere a me affatto ignoto in se stesso, con la massima unità sistematica dell’universo, unicamente per farne lo schema del principio regolativo del maggior possibile uso empirico della mia ragione.

Se gettiamo ora il nostro sguardo sull’oggetto trascendentale della nostra idea, vediamo che non possiamo presupporre la sua realtà in s e s t e s s a secondo i concetti di realtà, sostanza, causalità, ecc., poiché questi concetti non hanno la minima applicazione a qualcosa che sia affatto diverso dal mondo sensibile. La supposizione dunque, della ragione, di un Essere supremo come causa suprema, è semplicemente relativa, pensata in servigio dell’unità sistematica del mondo sensibile, e qualche cosa di semplicemente ideale, di cui, per quel che sia in sé, non abbiamo nessun concetto. Quindi si spiega anche perché abbiamo bisogno, in relazione con ciò che è dato esistente ai sensi, della idea di un Essere originario in sé n e c e s s a r i o ; ma di questo e della sua assoluta n e c e s s i t à non ci è dato di avere il minimo concetto. Ormai possiamo chiaramente additare il risultato di tutta la dialettica trascendentale, e determinare esattamente lo scopo finale delle idee della ragion pura, che solo per equivoco e disavvertenza diventano dialettiche. La ragion pura, nel fatto, non s’occupa d’altro che di se stessa, e non può neppure aver altro ufficio, poiché a lei non vengono dati gli oggetti per l’unità del concetto sperimentale, bensì le conoscenze intellettuali per l’unità del concetto razionale, cioè del concatenamento per mezzo d’un principio. L’unità della ragione è l’unità del sistema, e questa unità sistematica serve alla ragione, non oggettivamente, come principio per estenderla sugli oggetti, ma soggettivamente come massima per estenderla su ogni possibile conoscenza empirica degli oggetti. Tuttavia la connessione sistematica che la ragione può dare all’uso empirico dell’intelletto, non ne promuove soltanto l’estensione, ma ne garantisce altresì l’esattezza; e il principio di una tale unità sistematica è anche oggettivo, ma in modo indeterminato (principium vagum); non come principio costitutivo, per determinare qualche cosa rispetto al suo oggetto diretto, bensì per promuovere e rafforzare, come principio semplicemente regolativo e come massima, l’uso empirico della ragione, aprendo nuove vie, ignote all’intelletto, all’infinito (indeterminatamente), senza esser mai con ciò menomamente contro le leggi dell’uso empirico. Ma la ragione non può concepire altrimenti questa unità sistematica, che attribuendo insieme alla sua idea un oggetto, il quale per altro non può esser dato da nessuna esperienza; giacché l’esperienza non presenta mai un esempio di perfetta unità sistematica. Questo ente di ragione (ens rationis

ratiocinatae) è, in verità, una semplice idea, e non vien dunque ammesso assolutamente e in s e s t e s s o come qualcosa di reale, sibbene posto a fondamento solo problematicamente (non potendolo noi raggiungere con nessun concetto intellettuale), per considerare ogni connessione delle cose del mondo sensibile come se avessero il loro fondamento in questo ente di ragione, ma unicamente allo scopo di fondarvi l’unità sistematica, che è indispensabile alla ragione, e alla conoscenza empirica dell’intelletto può ad ogni modo essere di vantaggio, mai d’impedimento. Si disconosce senz’altro il significato di questa idea, se la si considera come l’affermazione, o anche soltanto la presupposizione, di una cosa reale, cui si voglia attribuire il principio della costituzione sistematica del mondo; piuttosto si lasci interamente indeciso, quale natura abbia in sé questo principio che si sottrae ai nostri concetti, e si ponga soltanto una idea come punto di vista, dal quale solamente è dato di estendere quell’unità così essenziale alla ragione e così salutare all’intelletto; in una parola: questa cosa trascendentale è semplicemente lo schema di quel principio regolativo, per cui la ragione, per quanto è in lei, estende l’unità sistematica su tutta l’esperienza. Il primo oggetto d’una tale idea sono io stesso, considerato semplicemente come natura pensante (anima). Se io voglio ricercare le proprietà, con cui un essere pensante esiste in sé, devo interrogare l’esperienza, e già non posso, di tutte le categorie, applicarne nessuna a questo oggetto, se non in quanto di esso m’è dato lo schema nell’intuizione sensibile. Ma con ciò io non arrivo mai a un’unità sistematica di tutti i fenomeni del senso interno. Invece, dunque, del concetto d’esperienza (di ciò che è realmente l’anima), il quale non mi può condurre molto in là, la ragione prende il concetto dell’unità empirica di ogni pensiero; e pensando questa unità come incondizionata e originaria, se ne fa un concetto di ragione (un’idea) di una sostanza semplice, che, immutabile in se stessa (personalmente identica), sta in comunione con le altre cose reali fuori di lei; in una parola, di una intelligenza semplice per sé stante. Ma così essa non ha altro innanzi agli occhi, che princìpi dell’unità sistematica per la spiegazione dei fenomeni dell’anima, cioè di considerare tutte le determinazioni come inerenti a un soggetto unico, tutte le facoltà, quanto è possibile, come derivate da una facoltà fondamentale unica, ogni cangiamento come appartenente allo stato di un identico essere permanente, e di rappresentarci tutti i f e n o m e n i

nello spazio come affatto diversi dagli atti del p e n s i e r o . Quella semplicità della sostanza, ecc., non dovrebbe essere se non lo schema di questo principio regolativo, e non viene presupposta, quasi fondamento reale delle proprietà dell’anima. Giacché queste possono anche essere fondate su ben altri princìpi, che noi non conosciamo punto; come infatti noi non potremmo propriamente conoscere in se stesso l’anima, né pure per mezzo di questi predicati ammessi, se anche noi volessimo farli valere di essa assolutamente, poiché essi costituiscono una semplice idea, che non può punto esser rappresentata in concreto. Ora da una tale idea psicologica non può risultare altro che vantaggio, se si bada soltanto a non farla valere nulla più che come semplice idea, ossia relativamente all’uso sistematico della ragione rispetto ai fenomeni dell’anima. Allora infatti non si mescolano leggi empiriche dei fenomeni corporei, che sono affatto d’altra specie, nelle spiegazioni di ciò che appartiene semplicemente al senso i n t e r n o ; allora non si permettono quelle ventose ipotesi di generazione, distruzione e palingenesi delle anime, ecc.; sicché lo studio di questo oggetto del senso interno è fatto tutto puro e senza mistione di proprietà eterogenee; oltre di che la ricerca della ragione viene diretta a ricondurre in questo soggetto i fondamenti esplicativi, fin dove è possibile, a un unico principio; il che tutto è fatto, nel miglior modo, anzi, unicamente mediante un tale schema, c o m e s e si trattasse di un essere reale. L’idea psicologica non può né anche significare altro che lo schema di un concetto regolativo. Giacché, se io volessi anche solamente domandare se l’anima non sia in sé di natura spirituale, questa domanda non avrebbe nessun senso. Infatti con un tal concetto io non solo metto da parte la natura corporea, ma in generale tutta la natura, cioè tutti i predicati di una qualsiasi esperienza possibile, e però tutte le condizioni per concepire un oggetto per un tal concetto, come quello che solo può far dire che esso abbia un senso. La seconda idea regolativa della ragione semplicemente speculativa è il concetto del mondo in generale. La natura è infatti solo, propriamente, l’unico oggetto dato, rispetto al quale la ragione abbia bisogno di princìpi regolativi. Questa natura è duplice, o natura pensante, o natura corporea. Se non che, per quest’ultima, per concepirla secondo la sua interna possibilità, cioè per determinare l’applicazione ad essa delle categorie, noi non abbiamo bisogno di nessuna idea o rappresentazione che vada di là dall’esperienza; né anche rispetto ad essa è possibile una tale idea, perché nella natura corporea noi siamo guidati semplicemente dall’intuizione sensibile, e non come nel

concetto psicologico fondamentale (Io), che contiene a priori una certa forma del pensiero, cioè la sua unità. Per la ragion pura, dunque, non ci resta altro che la natura in generale e la completezza delle sue condizioni secondo un qualsiasi principio. La totalità assoluta delle serie di queste condizioni nella derivazione de’ loro membri è un’idea, la quale veramente non può aversi mai nell’uso empirico della ragione, ma tuttavia serve di regola secondo la quale noi dobbiamo procedere rispetto ad essa: cioè nella spiegazione dei fenomeni dati (retrocedendo o risalendo) come se la serie in sé fosse infinita, cioè in indefinitum; ma dove la ragione è considerata come causa determinante (nella libertà), quindi nei princìpi pratici, come se non avessimo innanzi a noi un oggetto dei sensi ma dell’intelletto puro, in cui le condizioni potessero esser poste non più nella serie considerata, come se fosse cominciata assolutamente (per una causa intelligibile); il che tutto dimostra che le idee cosmologiche non sono se non princìpi regolativi, e son lungi dallo stabilire, quasi fossero costitutivi, una reale totalità di serie di questa sorta. Il resto può cercarsi a suo luogo nell’Antinomia della ragion pura. La terza idea della ragion pura, che contiene una supposizione, semplicemente relativa, di un Essere causa unica ed onnipotente di tutte le serie cosmologiche, è il concetto razionale di Dio. Noi non abbiamo il minimo fondamento per ammettere assolutamente l’oggetto di questa idea (di s u p p o r l o i n s é); perché ciò che può bene mettere in grado o anche autorizzarci a credere o ad affermare in se stesso, pel semplice concetto che ne abbiamo, un Essere della più alta perfezione e come, per sua natura, assolutamente necessario, non sarebbe il mondo, in relazione col quale soltanto può tale supposizione essere necessaria; e allora si vede chiaramente che l’idea di esso, come tutte le idee speculative, non vuol dire altro, se non che la ragione richiede che ogni connessione del mondo venga considerata secondo i princìpi di un’unità sistematica, e però come se tutte quante fossero provenute da un Essere unico onnicomprensivo, quasi causa suprema e onnipotente. Quindi è evidente che la ragione in questo non può aver di mira se non la sua propria regola formale nello sviluppo del suo uso empirico, ma non mai uno sviluppo al di là d i t u t t i i l i m i t i d e l l ’ u s o e m p i r i c o ; quindi, che sotto questa idea non si nasconde un principio costitutivo del suo uso empirico indirizzato all’esperienza possibile. Questa suprema unità formale, che riposa solo su concetti della ragione, è l’unità delle cose c o n f o r m e a f i n i, e l’interesse s p e c u l a t i v o della

ragione ci obbliga a considerare ogni ordine nel mondo, come se esso fosse germogliato dallo scopo di una ragione sovrana. Un tal principio apre infatti alla nostra ragione, applicata al campo delle esperienze, prospettive affatto nuove, per collegare secondo leggi teologiche le cose del mondo, e quindi pervenire alla loro massima unità sistematica. La supposizione di un’intelligenza suprema, come causa affatto unica dell’universo, ma solamente nell’idea, può dunque giovare sempre alla ragione, e tuttavia non nuocerle mai. Infatti, se noi, rispetto alla figura della terra (rotonda, ma un po’ schiacciata)267, dei monti e dei mari, ecc., ammettiamo subito scopi al tutto saggi d’un creatore, su questa via possiamo fare una quantità di scoperte. Se noi ci arrestiamo a questa supposizione come a un semplice principio r e g o l a t i v o , l’errore stesso non ci può esser di nocumento. Giacché, in ogni caso, non ne può seguire altro se non che, dove noi ci aspettavamo un rapporto teleologico (nexus finalis), se ne trovi soltanto uno meccanico o fisico (nexus effectivus), onde, in un tal caso, noi veniamo a rimetterci soltanto un’unità in più, ma non perdiamo l’unità della ragione nel suo uso empirico. Ma neppure questo contrattempo può colpire la legge stessa nel suo scopo universale e teleologico in generale. Giacché sebbene un anatomista possa esser convinto di errore, se riferisce un qualsiasi organo d’un corpo animale a uno scopo, da cui si può chiaramente mostrare che esso non deriva: tuttavia è affatto impossibile d i m o s t r a r e in un caso, che una disposizione quale si voglia della natura non abbia assolutamente nessuno scopo. Quindi anche la fisiologia (dei medici) estende la sua cognizione empirica molto limitata degli scopi dell’organismo mercé un principio, fornito semplicemente dalla ragion pura, al punto, che vi si ammette con tutta audacia, e insieme col consenso di tutti gl’intelligenti, che tutto nell’animale ha la sua utilità e il suo buon fine; la qual supposizione, se dovesse esser costitutiva, andrebbe molto al di là di quel che l’osservazione finora non possa giustificare; donde, infatti, è dato scorgere, che essa non è altro che un principio regolativo della ragione per giungere alla più alta unità sistematica mercé l’idea della causalità finale della suprema causa del mondo, e come se questa, quale somma intelligenza fosse la causa di tutto secondo il più sapiente disegno. Ma, se noi rinunziamo a questa restrizione dell’idea all’uso semplicemente regolativo, la ragione è tratta in errore in tante maniere, per quante allora essa abbandona il terreno dell’esperienza, che pure deve

contenere i segni del suo cammino, e s’avventura al di là di esso per l’inconcepibile e irraggiungibile, sulle cui altezze essa necessariamente è presa dalle vertigini, vedendosi scissa del tutto da questo punto di vista, da ogni uso conforme con l’esperienza. Il primo difetto che risulta dal prendere l’idea di un Essere supremo, non come semplicemente regolativa, ma (ciò che è contro la natura di un’idea) come costitutiva, è la ragione pigra (ignava ratio)268. Si può chiamare così ogni principio, il quale faccia che si consideri come assolutamente compiuta la propria ricerca naturale, dove che sia, e la ragione quindi si dia pace, come se essa abbia assolto pienamente l’ufficio suo. Quindi la stessa idea psicologica, se è adoperata come principio costitutivo per la spiegazione dei fenomeni della nostra anima, e però a dirittura per l’estensione della nostra conoscenza di questo soggetto anche al di là d’ogni esperienza (al suo stato dopo la morte), riesce bensì molto comoda alla ragione, ma guasta anche affatto e rovina tutto l’uso naturale della medesima dietro la guida delle esperienze. Così lo spiritualista dommatico spiega l’unità della persona, che rimane immutabile attraverso tutti i mutamenti degli stati, con l’unità della sostanza pensante, che egli crede percepire immediatamente nell’Io; spiega l’interesse, che noi prendiamo alle cose, che devono cominciare ad accadere dopo la nostra morte, con la coscienza della natura immateriale del nostro soggetto pensante ecc., e si dispensa da ogni indagine intorno alle cause di questi nostri fenomeni interni per mezzo dei princìpi di spiegazione fisici, trascurando per la parola sovrana, per così dire, d’una ragione trascendente le fonti conoscitive immanenti dell’esperienza, a vantaggio del comodo proprio, ma a scapito di tutta la sua istruzione. Anche più manifestamente questa disastrosa conseguenza ci colpisce nel dommatismo della nostra idea di una intelligenza suprema e nel sistema teologico della natura, che falsamente vi si fonda sopra (fisicoteologia). Infatti tutti i fini che si manifestano nella natura, spesso soltanto escogitati da noi, servono a renderci più comoda la ricerca delle cause, nel senso che, invece di cercarle nelle leggi universali del meccanismo della materia, si ricorre direttamente al decreto imperscrutabile della somma sapienza, e si considera allora come bella e compiuta l’opera della ragione, quando ci si dispensa dal suo uso, che pure non trova un filo conduttore se non dove ce lo forniscono l’ordine della natura e la serie dei cangiamenti secondo le sue leggi interne ed universali. Questo errore si può schivare, se noi non consideriamo dal punto di vista degli scopi soltanto

alcune parti della natura, come per es., la divisione della terra ferma, la sua struttura e la costituzione e posizione delle montagne, o magari soltanto l’organizzazione del regno vegetale e animale, ma rendiamo a f f a t t o u n i v e r s a l e questa unità sistematica della natura in rapporto con l’idea di un’intelligenza suprema. Perché allora noi mettiamo a base una finalità secondo leggi universali della natura, da cui nessuna particolare disposizione è esclusa, ma soltanto viene a noi segnalata più o meno chiaramente, e abbiamo un principio regolativo dell’unità sistematica d’un concatenamento teologico; che noi per altro non possiamo determinare anticipatamente; ma soltanto nell’aspettazione di essa possiamo proseguire il concatenamento fisico-meccanico secondo leggi universali. Solo così, infatti, il principio dell’unità finale può estendere sempre l’uso della ragione rispetto all’esperienza, senza recargli in nessun caso pregiudizio. Il secondo errore, che nasce dalla sbagliata interpretazione del detto principio dell’unità sistematica, è quello della ragion rovesciata (perversa ratio ὕστερoν πρότερoν rationis). L’idea dell’unità sistematica dovrebbe servire soltanto come principio regolativo per cercarla nella connessione delle cose secondo leggi universali della natura, e, finché se ne può trovare269 sulla via empirica, per credere che di tanto ci si è avvicinati alla perfezione del suo uso, benché non la si possa mai raggiungere di certo. Invece si rovescia la cosa, e si comincia dal prendere a base la realtà d’un principio dell’unità finale come ipostatica, si determina antropomorficamente, poiché in se stesso è affatto imperscrutabile, il concetto di una tale intelligenza suprema; e quindi s’impongono alla natura in modo violento e dittatorio certi scopi, invece di cercarli convenientemente sulla via della ricerca fisica: sicché non soltanto la teologia, la quale dovrebbe servire semplicemente a integrare l’unità della natura secondo leggi universali, vi influisce piuttosto per sopprimerla; ma anche la ragione vien meno al suo scopo, di dimostrare, secondo questo, l’esistenza di una tale causa suprema intelligente a partire dalla natura. Giacché, se nella natura non si può presupporre a priori, cioè quasi inerente alla essenza sua, la finalità suprema, come si vorrà fare assegnamento su di essa per cercarla, e spingersi su questa scala fino alla somma perfezione d’un creatore, come a una perfezione assolutamente necessaria, e quindi conoscibile a priori? Il principio regolativo esige che si presupponga assolutamente derivante dall’essenza delle cose, l’unità sistematica come u n i t à d e l l a n a t u r a, unità non semplicemente conosciuta in modo

empirico, ma presupposta a priori, benché ancora indeterminatamente. Ma, se io metto prima a fondamento un essere ordinatore supremo, l’unità della natura nel fatto è soppressa. Giacché essa è del tutto estranea alla natura delle cose, ed accidentale, e non può né anche esser conosciuta dalle leggi universali di essa. Donde proviene un circolo vizioso nella dimostrazione, supponendovisi ciò che dev’essere dimostrato. Prendere il principio regolativo dell’unità sistematica della natura per un principio costitutivo, e presupporre ipostaticamente come causa ciò che soltanto idealmente è posto a base dell’uso coerente della ragione, significa soltanto imbrogliare la ragione. La scienza della natura segue del tutto per conto suo il proprio cammino lungo la catena delle cause naturali, secondo le leggi universali della natura, secondo, bensì, l’idea d’un creatore, ma non per dedurre da questo la finalità, che essa cerca per tutto, ma per conoscere la sua esistenza per via di questa finalità, indagata nell’essenza delle cose naturali, e, quanto è possibile, anche nell’essenza di tutte le cose in generale; per conoscerla, quindi, come assolutamente necessaria. La qual cosa può riuscire o no, ma l’idea resta sempre esatta, e del pari anche l’uso di essa, se vien ristretto alle condizioni d’un semplice principio regolativo. L’unità finale completa è la perfezione (assolutamente intesa). Se noi non troviamo questa nell’essenza delle cose, che costituiscono l’intero oggetto dell’esperienza, cioè di tutta la nostra conoscenza oggettivamente valida, quindi nelle leggi universali e necessarie della natura, come vogliamo da ciò conchiudere direttamente all’idea della perfezione suprema e assolutamente necessaria di un creatore, origine d’ogni causalità? La massima unità sistematica, e perciò anche l’unità finale è la scuola, e perfino il fondamento della possibilità, del massimo uso della ragione. L’idea di essa è inseparabilmente legata con l’essenza della nostra ragione. Questa idea appunto, dunque, è per noi legislatrice, e così è ben naturale ammettere una corrispondente ragione legislatrice (intellectus archetypus), dalla quale, come dall’oggetto della nostra ragione, si deve derivare ogni unità sistematica della natura. A proposito dell’antinomia della ragion pura noi abbiamo detto, che tutte le questioni che la ragion pura solleva, devono assolutamente essere solubili, e che la giustificazione che si appella ai limiti della nostra conoscenza, che in molte questioni naturali è inevitabile non meno che giusta, qui non può essere permessa, poiché qui le questioni non ci sono messe innanzi dalla natura delle

cose, ma soltanto dalla natura della ragione, e si riferiscono unicamente alla sua interna costituzione. Ora noi possiamo confermare questa asserzione, audace alla prima apparenza, rispetto alle due questioni in cui la ragion pura ha il massimo interesse, e portare così all’intero compimento la nostra trattazione della dialettica ad esse relativa. Se, dunque, i n p r i m o l u o g o (in vista di una teologia trascendentale270), si domanda se c’è qualche cosa di diverso dal mondo, che contenga il fondamento dell’ordine cosmico e del suo incatenamento secondo leggi universali, la risposta è: s e n z a d u b b i o. Il mondo, infatti, è una somma di fenomeni; ci dev’essere dunque un fondamento di esso, trascendentale, cioè pensabile semplicemente per l’intelletto puro. Se, i n s e c o n d o l u o g o, si chiede se questo essere è sostanza, della massima realtà, necessario, ecc., io rispondo che q u e s t a d o m a n d a n o n h a a s s o l u t a m e n t e n e s s u n s i g n i f i c a t o. Giacché tutte le categorie, onde io tento farmi un concetto d’un tale oggetto, non sono se non d’uso empirico, e non hanno nessun senso se non vengono applicate ad oggetti di un’esperienza possibile, cioè al mondo sensibile. Fuori di questo campo sono semplici titoli di concetti, che si possono concedere, ma non per questo anche intendere. Se, infine, i n t e r z o l u o g o, si domanda, se almeno possiamo concepire questo essere differente dal mondo per analogia con gli oggetti dell’esperienza, la risposta è: c e r t a m e n t e ; ma solo come oggetto nell’idea, e non nella realtà; ossia solo in quanto è un sostrato, a noi ignoto, dell’unità sistematica, dell’ordine e della finalità della costituzione del mondo, di cui la ragione deve farsi un principio regolativo per la sua investigazione della natura. Di più, noi possiamo in questa idea permettere francamente e impunemente certi antropomorfismi, che giovano al detto principio regolativo. Giacché è sempre soltanto un’idea, che non vien riferita punto direttamente a un essere diverso dal mondo, sibbene al principio regolativo dell’unità sistematica del mondo, ma solo mediante uno schema di questa, ossia una suprema Intelligenza, che ne sia creatore secondo sapienti disegni. Con che non si è dovuto pensare che cosa questo originario principio dell’unità cosmica sia in se stesso, ma come noi dobbiamo adoperarlo, o piuttosto la sua idea, relativamente all’uso sistematico della ragione rispetto alle cose del mondo. Ma, in questo modo, p o s s i a m o noi tuttavia (si continuerà a domandare) ammettere un Creatore del mondo, unico, sapiente e onnipotente? S e n z a

a l c u n d u b b i o: e non solo possiamo, ma ne d o b b i a m o supporre uno così. Ma, allora, noi veniamo pure ad allargare la nostra conoscenza di là dal campo dell’esperienza possibile? N i e n t e d e l t u t t o. Giacché noi abbiamo presupposto solo qualche cosa, rispetto alla quale non abbiamo nessun concetto di quel che sia in se stessa (un oggetto meramente trascendentale); ma in rapporto all’ordine sistematico e finale dell’universo, che noi, se studiamo la natura, dobbiamo supporre, abbiamo concepito quell’Essere a noi ignoto solo per a n a l o g i a con una intelligenza (un concetto empirico); cioè, rispetto agli scopi e alla perfezione, che si fondano su di esso, lo abbiamo dotato appunto di quelle proprietà, che, secondo le condizioni della nostra ragione, possono contenere il fondamento di una tale unità sistematica. Questa idea, dunque, è affatto fondata r i s p e t t o a l l ’ u s o m o n d a n o della nostra ragione. Ma, se volessimo parteciparle un valore assolutamente oggettivo, dimenticheremmo che egli è unicamente un Essere ideale, pensato da noi; e, cominciando allora da un principio non determinabile punto con lo studio del mondo, saremmo quindi posti fuor dalla possibilità di applicare cotesto principio conformemente all’uso empirico della ragione. Ma (si chiederà ancora) a questo modo posso far uso tuttavia del concetto e del presupposto d’un Essere supremo nello studio razionale del mondo? Sì, e proprio perciò questa idea fu posta dalla ragione a fondamento. – Ma posso, dunque, considerare come fini gli ordinamenti simili a scopi, derivandoli dalla volontà divina, benché mediante disposizioni particolari a ciò poste nel mondo? Sì, lo potete anche fare, ma in modo che per voi dev’essere lo stesso, se uno dica che la divina sapienza ha ordinato tutto ai suoi scopi supremi, ovvero che l’idea della somma sapienza è un qualcosa di regolativo nella scienza della natura e un principio dell’unità sistematica e teleologica di essa secondo leggi naturali universali, anche lì stesso dove noi non ce ne avvediamo; cioè che per voi, quando la percepite, dev’essere proprio tutt’uno dire che Dio sapientemente l’ha voluto così; o che la natura dunque lo ha ordinato sapientemente. Giacché la massima unità sistematica e finalistica, che la vostra ragione voleva mettere a fondamento di tutta la scienza della natura come principio regolativo, era appunto ciò che vi autorizzava a mettere a base, come schema del principio regolativo, l’idea di una somma intelligenza; e quanto più voi trovate di questa finalità nel mondo, tanto più avete la conferma della legittimità della vostra idea; ma, poiché il detto principio non aveva altro scopo che di cercar l’unità naturale necessaria e più

grande che fosse possibile, noi dovremo questa unità in verità – nella misura in cui la otteniamo – all’idea di un Essere sommo, ma non possiamo, senza cadere in contraddizione con noi stessi, trascurare le leggi universali della natura, in vista delle quali soltanto quell’idea fu posta a fondamento, e considerare la finalità della natura come accidentale e iperfisica nella sua origine, poiché non siamo autorizzati dalle dette proprietà ad ammettere un essere al di sopra della natura, ma soltanto a mettere a fondamento l’idea di esso, per poter considerare i fenomeni come sistematicamente legati tra loro, per analogia a una determinazione causale. Appunto perciò noi siamo anche in diritto di pensare la causa del mondo nell’idea, non solo secondo un più sottile antropomorfismo (senza di cui niente si potrebbe pensare di esso), cioè come un Essere, che ha l’intelletto, piacere e dispiacere, e quindi, in conformità, un desiderio e un volere, ecc., ma di attribuirgli una perfezione infinita, che supera pertanto a gran pezza quella, a cui noi possiamo essere autorizzati dalla conoscenza empirica dell’ordine che c’è nel mondo. La legge regolativa dell’unità sistematica vuole infatti che noi studiamo la natura come se da per tutto, insieme con la maggiore molteplicità possibile, dovesse esserci un’unità sistematica e finalistica all’infinito. Giacché, anche se noi scopriremo ed otterremo soltanto una piccola parte di questa perfezione, spetta tuttavia alla legislazione della nostra ragione cercarla e supporla per tutto, e deve tornarci sempre conto, senza poterci riuscire mai di pregiudizio, indirizzare lo studio della natura secondo questo principio. Ma in questa rappresentazione dell’idea, posta a fondamento, di un sommo Creatore è anche chiaro che a fondamento non pongo l’esistenza o la conoscenza di un tale Essere, ma soltanto l’idea di esso; e però io non derivo propriamente nulla da questo Essere, ma semplicemente dall’idea di esso, cioè della natura delle cose del mondo secondo una tale idea. Anche una certa, benché non sviluppata, conoscenza dell’uso schietto di questo nostro concetto della ragione pare abbia dato luogo al linguaggio discreto e ragionevole dei filosofi di tutti i tempi, dove essi parlano della sapienza e della previdenza della natura e della sapienza divina come espressioni equivalenti; anzi preferiscono la prima espressione finché s’abbia da fare con la mera ragione speculativa, poiché tiene indietro la pretesa di affermare più di quello a cui siamo autorizzati, e insieme riconduce la ragione al suo proprio campo, la natura. Così la ragion pura, che da principio pareva prometterci nientemeno che

l’estensione delle conoscenze di là dai limiti dell’esperienza, se noi la intendiamo bene, non contiene se non princìpi regolativi, che esigono bensì una unità maggiore di quella che può raggiungere l’uso empirico dell’intelletto, ma appunto perché spingono tanto innanzi il fine dell’approssimarsi ad essa, portano al più alto grado, mediante l’unità sistematica, l’accordo di esso con se medesimo; ma se s’intendono male, e si tengono per princìpi costitutivi di conoscenze trascendenti, producono, con una apparenza splendida sì, ma ingannevole, una convinzione e un sapere immaginario, e con ciò eterne contraddizioni e contrasti. Così, dunque, ogni conoscenza umana comincia con intuizioni, passa indi a concetti e finisce con idee. Quantunque, rispetto a tutti e tre questi elementi, essa abbia fonti conoscitive a priori, che a prima vista paiono sdegnare i limiti di ogni esperienza, pure una critica compiuta ci convince che ogni ragione non può mai, nell’uso speculativo, spingersi con questi elementi al di là del campo dell’esperienza possibile, e che la destinazione propria di questa suprema facoltà della conoscenza è solo di servirsi di tutti i metodi e dei loro princìpi per indagare nel suo intimo la natura secondo tutti i princìpi possibili di unità, tra cui quello dei fini è il più importante, ma non per varcare mai quei limiti, di là dai quali per noi non c’è più se non lo spazio vuoto. In verità, la nostra ricerca critica di tutti i princìpi che possono estendere la nostra conoscenza al di là della esperienza effettiva, ci hanno, nell’Analitica trascendentale, sufficientemente provato, che essi non possono condurre ad altro che ad una esperienza possibile; e se non si fosse diffidenti anche verso i più chiari insegnamenti astratti ed universali, se prospettive lusingatrici e speciose non ci allettassero a respingerne la forza, noi avremmo potuto dispensarci del tutto dal faticoso interrogatorio di tutti i testimoni dialettici, che una ragione trascendentale cita in sostegno delle sue pretese; giacché noi sapevamo fin da prima, con piena certezza, che ogni suo pretesto è escogitato, magari, in buona fede, ma non può non essere assolutamente nullo, concernendo una conoscenza, che nessun uomo mai può raggiungere. Ma, poiché tuttavia non si mette fine al discorso, se non si scopre la vera causa dell’illusione, da cui può esser tratto in inganno anche l’uomo più ragionevole, e la risoluzione di ogni nostra conoscenza trascendentale ne’ suoi elementi (come studio della nostra interna natura) non ha in se stessa un piccolo valore ed è anzi pel filosofo un dovere, così non era solo necessario esaminare per disteso, fino alle sue prime origini, tutta questa, comeché vana,

elaborazione della ragione speculativa: ma, poiché qui l’apparenza dialettica illusoria è allettatrice e sempre naturale, non soltanto rispetto al giudizio, ma anche rispetto all’interesse che qui si mette al giudizio, e tale rimarrà in tutto il tempo avvenire; così era opportuno, per dir così, redigere minutamente gli atti di questo processo, e riporli nell’archivio della ragione umana allo scopo d’impedire gli errori futuri di questa sorta. 258

Ueberfliegend. Einheimisch. 260 Cfr. la Critica del Giudizio, trad. Gargiulo, [Bari, 1906] p. 16. 261 Il testo ha: die Anfänge (Principien). 262 Alle differenze. 263 All’identità. 264 Witz. 265 der empirische u. bestimmte Erfahrungsgebrauch des Verstands. 266 Il famoso naturalista e filosofo ginevrino Carlo Bonnet (1720-1793), di cui vedi il libro: Contemplation de la nature (1764), trad. in tedesco nel 1766. 267 Il vantaggio, che proviene dalla forma sferica della terra, è abbastanza noto; ma pochi sanno che il suo schiacciamento, come uno sferoide, è quello che solo impedisce all’emergere della terra ferma, o anche di montagne minori sollevate probabilmente da terremoti, di spostare continuamente l’asse terrestre e sensibilmente in non molto tempo, se il rigonfiamento della terra all’equatore non fosse una così potente montagna, che la scossa di ogni altro monte non può spostare notabilmente rispetto all’asse. E pure si spiega questa saggia disposizione senza nessuna difficoltà con l’equilibrio della massa terrestre una volta liquida (N. d. K.). 268 Gli antichi dialettici chiamavano così il paralogismo che suonava: se il tuo destino porta che tu devi guarire di questa malattia, questo accadrà, sia che tu ricorra a un medico o no. Cicerone dice che questo modo di ragionare prende il suo nome da ciò, che, seguendolo, non c’è più alcun uso della ragione nella vita. Questa è la ragione, per cui io designo con lo stesso nome l’argomento sofistico della ragion pura (N. d. K.). «Nec nos impediet illa i g n a v a r a t i o, quae dicitur: appellatur enim quidam a philosophis ἀργòς λόγoς, cui si pareamus, nihil omnino agamus in vita. Sic enim interrogant: Si fatum tibi est, ex hoc morbo convalescere; sive medicum adhibueris, sive non adhibueris, convalescere. Item si fatum tibi est, ex hoc morbo non convalescere; sive tu medicum adhibueris, sive non adhibueris, non convalesces. Et alterutrum fatum est. Medicum ergo adhibere nihil attinet. Recte genus hoc interrogationis ignavum atque iners nominatuin est, quod eadem ratione omnis e vita tolletur actio»: M. Tullii Ciceronis de fato, cap. XIII. 269 Cioè, di tale unità. 270 Quello che già ho detto innanzi dell’idea psicologica e della sua destinazione propria, come principio per l’uso semplicemente regolativo della ragione, mi dispensa dal distendermi a spiegare ancora in particolare l’illusione trascendentale, per la quale quell’unità sistematica di ogni molteplicità del senso interno vien rappresentata ipostaticamente. Il processo qui è affatto simile a quello che la critica osserva rispetto all’ideale teologico (N. d. K.). 259

II Dottrina trascendentale del metodo

Se io prendo a considerare il complesso di tutte le conoscenze della nostra ragion pura e speculativa come un edifizio, di cui per lo meno abbiamo in noi l’idea, posso dire: nella Dottrina trascendentale degli elementi noi abbiamo calcolato il materiale, e determinato per quale edifizio, e di quale altezza e solidità, esso basti. Certamente s’è trovato che, sebbene noi avessimo in animo una torre che avrebbe dovuto levarsi fino al cielo, la provvista dei materiali tuttavia non era sufficiente se non per una casa d’abitazione, che era per le nostre occorrenze, sul piano dell’esperienza, abbastanza spaziosa e abbastanza elevata per permettere di abbracciare l’esperienza con lo sguardo, ma che quell’impresa audace, per mancanza di materia, doveva fallire, senza contare poi la confusione delle lingue che doveva inevitabilmente dividere pel disegno i lavoratori, e dispenderli per tutto il mondo a costruire ciascuno per sé secondo un suo progetto. Ora per noi si tratta non tanto dei materiali, quanto piuttosto del disegno, e, essendo noi avvertiti di non arrischiare su un progetto fatto a caso e alla cieca, che potrebbe sorpassare tutti i nostri mezzi, e non potendo d’altronde rinunziare alla costruzione d’una solida abitazione, bisogna fare il piano d’un edifizio in relazione con i materiali che ci son dati e che sia, insieme, proporzionato ai nostri bisogni. Io intendo dunque per dottrina trascendentale del metodo la determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragion pura. Noi a tale scopo ci occuperemo di una d i s c i p l i n a , d’un c a n o n e , di un’a r c h i t e t t o n i c a e infine d’una storia della ragion pura; e faremo, dal punto di vista trascendentale, quello nelle scuole s’è cercato di fare sotto nome di l o g i c a p r a t i c a rispetto all’uso dell’intelletto in generale, ma si è fatto male, perché, non limitandosi la logica generale a un modo speciale di conoscenza intellettuale (per es. a quello puro) e né anche a certi oggetti, essa, senza prendere a prestito conoscenze da altre scienze, non può far altro

che proporre titoli di m e t o d i p o s s i b i l i e formule tecniche, di cui ci serviamo per il lato sistematico delle scienze d’ogni specie che cominciano col mettere il novizio a contatto con nomi, il cui significato e il cui uso dovrà imparare a conoscere soltanto più tardi.

Capitolo Primo La disciplina della ragion pura

I giudizi negativi, che non sono negativi soltanto per la forma logica, ma anche pel contenuto, non sono in nessuna stima speciale, pel desiderio che gli uomini hanno di conoscere; e sono considerati a dirittura come nemici gelosi del nostro stimolo conoscitivo, che spinge incessantemente a dilatare il nostro orizzonte, e c’è bisogno quasi d’una apologia, per procurar loro non più che qualche sopportazione, e ancora più, per conciliar loro un po’ di favore e di considerazione. Si può, in verità, esprimere l o g i c a m e n t e in forma negativa tutte le proposizioni che si vuole; ma, rispetto al contenuto della nostra conoscenza in generale, se essa è estesa o se è limitata per mezzo d’un giudizio, quelle negative hanno unicamente l’ufficio proprio di i m p e d i r e l ’ e r r o r e. Quindi anche le proposizioni negative che debbano impedire una falsa conoscenza là dove, tuttavia, non è possibile mai un errore, sono di certo ben vere, ma son pure vuote; cioè non sono punto adeguate al loro fine, e appunto perciò spesso riescono ridicole; come il detto di quel retore, che Alessandro senza esercito non avrebbe potuto conquistare nessuna regione. Ma dove i limiti della nostra conoscenza possibile sono molto angusti, l’incentivo a giudicare grande, l’apparenza che si presenta assai fallace, e rilevante il danno proveniente dall’errore, l ì i l l a t o n e g a t i v o dell’istruzione, che serve solamente a preservarci dagli errori, ha anche maggior importanza di taluni ammaestramenti positivi, onde la nostra conoscenza potrebbe ricevere incremento. D i s c i p l i n a dicesi la c o s t r i z i o n e per la quale la tendenza costante a deviare da certe regole vien limitata e da ultimo distrutta. Essa è diversa dalla c u l t u r a , che deve conferire soltanto un’a t t i t u d i n e senza toglierne per contro un’altra preesistente. Per l’educazione di un talento, che già per se stesso ha tendenza a manifestarsi, la disciplina porterà dunque un contributo negativo271, ma la

cultura e l’insegnamento (Doctrin) un contributo positivo. Che il temperamento, come i talenti che si concedono volentieri un movimento libero e illimitato (come l’immaginazione e lo spirito), abbia, per certi rispetti, bisogno d’una disciplina, ognuno facilmente l’ammetterà. Ma che la ragione, a cui spetta propriamente di prescrivere a tutte le altre attività272 la loro disciplina, abbia bisogno essa stessa di una disciplina, può certamente parere strano; e nel fatto essa appunto perciò è sfuggita finora a una tale umiliazione, perché di fronte alla solennità e al decoro profondo con cui essa incede, nessuno poteva facilmente entrare nel sospetto di un frivolo giuoco di essa con immagini al luogo di concetti e con parole invece di cose. Nell’uso empirico non c’è bisogno d’una critica della ragione, perché i suoi princìpi sono soggetti, alla pietra di paragone dell’esperienza, ad un esame continuo; del pari né anche nella matematica, dove i suoi concetti devono essere rappresentati in concreto nell’intuizione pura, e ogni cosa che è fondata o arbitraria si fa, perciò, subito manifesta. Ma là dove né l’intuizione empirica né quella pura mantengono la ragione per una carreggiata visibile, cioè nell’uso trascendentale secondo puri concetti, allora essa ha tanto bisogno di una disciplina, che freni la sua tendenza ad estendersi al di là degli stretti confini dell’esperienza possibile, e la tenga lontana da ogni licenza ed errore, che, si può dire, tutta la filosofia della ragion pura non mira se non a quest’utilità negativa. Ad errori particolari si può portar rimedio con una c e n s u r a , e alle cause di essi con una critica. Ma dove, come nella ragion pura, c’è tutto un sistema di illusioni e di fallacie, che si connettono bene tra loro e si radunano sotto i princìpi comuni, allora par sia necessaria tutta una speciale legislazione negativa, che, sotto nome di d i s c i p l i n a desunta dalla natura della ragione e degli oggetti del suo uso puro, costituisca quasi un sistema di previdenze e di esame di sé, innanzi al quale nessuna falsa apparenza sofistica possa reggere, ma si deve palesare subito malgrado tutte le ragioni del suo mascheramento. Ma è da notar bene che in questa seconda parte principale della critica trascendentale io non indirizzo la disciplina della ragion pura al contenuto, ma soltanto al metodo della conoscenza tratta dalla pura ragione. La prima cosa s’è fatta già nella Dottrina degli elementi. Ma l’uso della ragione ha tanto di simile quale che sia l’oggetto a cui si applichi e tuttavia, in quanto esso debba essere trascendentale, è insieme così essenzialmente distinto da ogni altro, che senza la Dottrina negativa, che metta sull’avviso, di una

disciplina particolarmente fatta a tal uopo, non si possono evitare gli errori che devono necessariamente nascere dall’adozione inopportuna di tali metodi, che certamente in altri casi convengono alla ragione, ma solo non qui.

Sezione Prima LA DISCIPLINA DELLA RAGION PURA NELL’USO DOMMATICO La matematica fornisce l’esempio più luminoso di una ragione che si estende felicemente da sé senza aiuto dell’esperienza. Gli esempi sono contagiosi, segnatamente per la medesima facoltà, che naturalmente si lusinga di avere in altri casi quella stessa fortuna che le è toccata in uno. Quindi la ragion pura spera potersi estendere nell’uso trascendentale altrettanto felicemente e fondatamente, quanto le è accaduto nell’uso matematico, specialmente se essa applica lì lo stesso metodo, che qui le è stato di così evidente utilità. Ci preme dunque molto sapere, se il metodo per giungere alla certezza apodittica, che nella scienza or ora detta si dice matematico, sia lo stesso di quello con cui appunto si cerca in filosofia la stessa certezza, e che dovrebbe in tal caso dirsi d o m m a t i c o . La conoscenza filosofica è c o n o s c e n z a r a z i o n a l e p e r c o n c e t t i, la matematica per c o s t r u z i o n e di concetti. Ora, c o s t r u i r e un concetto significa: esporre a priori un’intuizione a esso corrispondente. Per la costruzione di un concetto si richiede dunque un’intuizione n o n e m p i r i c a , che per conseguenza, in quanto intuizione, è un oggetto s i n g o l o , ma deve nondimeno, come costruzione d’un concetto (di una rappresentazione universale), esprimere nella rappresentazione qualche cosa che valga universalmente per tutte le intuizioni possibili, appartenenti allo stesso concetto. Così io costruisco un triangolo, rappresentando un oggetto corrispondente a questo concetto mercé la semplice immaginazione nella intuizione pura, o, secondo questa, anche sulla carta, nell’intuizione empirica, ma ambedue le volte del tutto a priori, senza averne tolto il modello da nessuna esperienza. La singola figura descritta è empirica, e nondimeno serve ad esprimere il concetto senza pregiudizio della sua universalità, poiché in questa intuizione empirica si guarda sempre all’operazione della costruzione del concetto, cui molte determinazioni, per es., della grandezza, dei dati e

degli angoli, sono affatto indifferenti, e però si astrae da queste differenze, che non mutano il concetto del triangolo. La conoscenza filosofica considera dunque il particolare solo nell’universale, la matematica l’universale nel particolare, anzi nel singolo, eppure sempre a priori e mercé la ragione, per modo che, come questo singolo è determinato in certe condizioni universali della costruzione, così, egualmente, l’oggetto del concetto, a cui questo singolo corrisponde soltanto quale suo schema, dev’esser pensato universalmente determinato. In questa forma, pertanto, consiste la differenza essenziale di queste due specie di conoscenza razionale, e non poggia sulla differenza della loro materia od oggetto. Coloro, i quali han creduto distinguere la filosofia dalla matematica col dire che quella ha per oggetto soltanto la q u a l i t à , questa invece solo la q u a n t i t à , han preso l’effetto per la causa. La forma della conoscenza matematica è la causa, per cui essa può riferirsi unicamente a quantità. Giacché non c’è se non il concetto di quantità che si possa costruire, cioè esporre a priori nella intuizione, laddove le qualità non si possono rappresentare in nessun’altra intuizione che in quella empirica. Quindi una conoscenza razionale di esse non è possibile se non per concetti. Così nessuno può avere una intuizione corrispondente al concetto della realtà d’altronde che dalla esperienza; ma non ne verrà mai a parte a priori, da se stesso e prima della coscienza empirica di essa. La forma conica si può far vedere senza nessun sussidio empirico, semplicemente secondo il concetto; ma il colore di questo cono dovrà esser dato prima in una o in un’altra esperienza. Il concetto di una causa in generale io non posso in alcun modo rappresentarlo nell’intuizione, salvo che in un esempio che l’esperienza mi offra, e così via. Del resto la filosofia tratta, al pari della matematica, delle quantità, per es., della totalità, dell’infinità, ecc. La matematica si occupa anche della differenza tra linee e superfici come spazi di qualità diversa, della continuità dell’estensione come d’una qualità di essa. Ma benché esse in tali casi abbiano un oggetto comune, il modo tuttavia di considerarlo mediante la ragione è nella trattazione filosofica tutt’altro che in quella matematica. Quella si attiene semplicemente ai concetti universali, questa non può far nulla col semplice concetto, ma si affretta tosto all’intuizione, in cui essa considera il concetto in concreto, e pur nondimeno non empiricamente, ma soltanto in un’intuizione che essa ha presentata a priori, cioè che essa ha costruita, e in cui quello che è conseguenza delle condizioni generali della

costruzione, deve universalmente valere anche dell’oggetto del concetto costruito. Si dia a un filosofo il concetto di un triangolo e gli si lasci trovare a modo suo, in che rapporto la somma dei suoi angoli sta con l’angolo retto. Egli non ha se non il concetto della sua figura, che è chiusa da tre linee rette, e in essa il concetto di altrettanti angoli. Ebbene, rifletta su questo concetto quanto vuole, non ne caverà mai nulla di nuovo. Può analizzare e chiarire il concetto della linea retta o di un angolo o del numero tre, ma non giungere ad altre proprietà, che non siano punto in questi concetti. Si proponga invece questa questione al geometra. Egli comincia subito a costruire un triangolo. Sapendo che due angoli retti valgono insieme tanto quanto, insieme, tutti gli angoli contigui che da un punto possono tirarsi su una linea, prolunga un lato del suo triangolo e ottiene due angoli contigui, che insieme son uguali a due retti. Divide quindi l’angolo esterno di questi due, tirando una parallela al lato opposto del triangolo, e vede che ne viene un angolo contiguo esterno, che è uguale all’interno, e così via. In questo modo, attraverso una catena di conclusioni, sempre guidato dall’intuizione, perviene a una soluzione del tutto chiara e insieme universale della questione. Ma la matematica non costruisce soltanto delle quantità (quanta), come nella geometria, sì anche la semplice quantità (quantitatem), come nell’algebra, in cui astrae affatto dalla natura dell’oggetto che va concepito secondo codesto concetto di quantità. Essa sceglie, allora, una certa segnatura di tutte le costruzioni della quantità in generale (numeri), come addizione, sottrazione, estrazione di radice e così via; e dopo aver anche segnato il concetto generale delle quantità secondo i loro differenti rapporti, rappresenta nell’intuizione, secondo certe regole generali, ogni operazione, che vien generata o modificata dalla quantità273; dove una quantità dev’essere divisa da un’altra, essa mette insieme i caratteri dell’una e dell’altra nella forma che designa la divisione e così via, e giunge quindi, mercé una costruzione simbolica, allo stesso modo appunto che la geometria per una costruzione ostensiva o geometrica (degli oggetti stessi) là, dove la conoscenza discorsiva, mediante semplici concetti, non avrebbe potuto giungere mai. Quale può essere la causa di questa situazione così diversa in cui si trovano due artefici della ragione, dei quali l’uno procede secondo concetti, l’altro secondo intuizioni, che egli rappresenta a priori in conformità dei concetti? Secondo le sopra esposte dottrine trascendentali fondamentali,

questa causa è chiara. Non si tratta qui di proposizioni analitiche, che possano essere ricavate dalla semplice scomposizione dei concetti (nel che il filosofo senza dubbio avrebbe il vantaggio sul suo rivale), ma di proposizioni sintetiche, e tali che devono esser conosciute a priori. Giacché io non devo guardare a quello che realmente penso nel mio concetto del triangolo (questo è nulla più della semplice definizione); anzi devo proceder oltre passando a proprietà che non sono in questo concetto, ma tuttavia gli appartengono. Ora, questo non è possibile, se io non determino il mio oggetto secondo condizioni o dell’intuizione empirica o dell’intuizione pura. Il primo procedimento darebbe soltanto una proposizione empirica (mercé la misura de’ suoi angoli), che non avrebbe universalità e ancor meno necessità, e di cui non è qui il caso. Il secondo procedimento invece è la costruzione matematica, e propriamente qui la geometria, per mezzo della quale in un’intuizione pura, come in un’intuizione empirica, aggiungo il molteplice, che appartiene allo schema del triangolo, quindi al suo concetto; onde le proposizioni sintetiche universali devono assolutamente essere costruite. Io dunque sul triangolo invano filosoferei, cioè rifletterei discorsivamente, senza perciò andare menomamente al di là della semplice definizione, da cui peraltro avrei dovuto, di ragione, cominciare. C’è bensì una sintesi trascendentale di meri concetti che, alla sua volta, non riesce se non al filosofo, la quale per altro non riguarda mai più che una cosa in generale: quali siano le condizioni in cui la percezione di essa possa appartenere all’esperienza possibile. Ma nei problemi matematici non si tratta di questo, né in generale dell’esistenza, bensì delle proprietà degli oggetti in se stessi, solo in quanto queste son legate al concetto di essi. Nell’esempio addotto noi abbiamo cercato soltanto di mostrare qual grande differenza ci sia tra l’uso discorsivo della ragione secondo concetti e quello intuitivo mediante la costruzione dei concetti. Ora si domanda naturalmente, quale sia la causa, che rende necessario questo doppio uso della ragione, e a quali condizioni si possa conoscere se abbia luogo soltanto il primo, o anche il secondo. Ogni nostra conoscenza infine si riferisce a intuizioni possibili: perché soltanto da queste è dato un oggetto. Ora un concetto a priori (un concetto non empirico) o contiene già in sé una intuizione pura, e allora può essere costruito; ovvero non contiene altro che la sintesi di possibili intuizioni, che non son date a priori, e allora per mezzo di esso si può ben giudicare

sinteticamente e a priori, ma soltanto discorsivamente secondo concetti, e non intuitivamente mediante la costruzione del concetto. Ora di tutte le intuizioni non è data a priori se non la semplice forma dei fenomeni, spazio e tempo; e un concetto di questi come quanta si può rappresentare a priori nell’intuizione o insieme con la qualità di essi (la loro figura), o anche semplicemente la loro quantità (la semplice sintesi del molteplice omogeneo) mediante un numero. Ma la materia dei fenomeni, onde ci son date nello spazio e nel tempo le c o s e , non può esser rappresentata se non nella percezione, quindi a posteriori. L’unico concetto, che rappresenti a priori questo contenuto empirico dei fenomeni, è il concetto di c o s a i n g e n e r a l e; e la conoscenza sintetica di esso non può fornirci a priori altro che la semplice regola della sintesi di ciò che la percezione può dare a posteriori, ma non mai l’intuizione dell’oggetto reale, poiché questa deve necessariamente essere empirica. Le proposizioni sintetiche relative a c o s e in generale, la cui intuizione non può darsi punto a priori, sono trascendentali. Non si possono quindi dare mai a priori proposizioni trascendentali per costruzione di concetti, ma soltanto secondo concetti. Esse racchiudono soltanto la regola, secondo la quale dev’essere cercata empiricamente una certa unità sintetica di ciò che non può esser rappresentato intuitivamente a priori (delle percezioni). Ma esse non possono in nessun caso mai rappresentare un solo dei loro concetti a priori, ma possono far ciò soltanto a posteriori, mediante l’esperienza, che solo secondo quei princìpi sintetici comincia a diventar possibile. Se di un concetto si dee giudicare sinteticamente, si deve uscire da questo concetto, e uscirne per passare alla intuizione, in cui esso è dato. Infatti, se si restasse a quello che è contenuto nel concetto, il giudizio sarebbe semplicemente analitico, e un chiarimento del pensiero per quel che effettivamente è contenuto in esso. Ma dal concetto io posso passare all’intuizione pura o empirica ad esso corrispondente, per esaminarlo in essa in concreto, e per conoscere, a priori o a posteriori, ciò che s’appartiene all’oggetto suo. La prima è la conoscenza razionale matematica mercé la costruzione del concetto; la seconda, la semplice conoscenza empirica (meccanica), che non può dar mai proposizioni necessarie e apodittiche. Così, io potrei analizzare il mio concetto empirico dell’oro, senza con questo guadagnarvi altro, che di poter enumerare tutto ciò che effettivamente penso nella mia parola, onde ne viene bensì un miglioramento logico nella mia

conoscenza, ma non si ottiene né un aumento né un’aggiunta. Se invece prendo la materia che si presenta sotto questo nome, ho con essa percezioni, che mi procureranno diverse proposizioni sintetiche, ma empiriche. Il concetto matematico di un triangolo io lo costruirei, cioè lo darei nell’intuizione, a priori, e per questa via avrei una conoscenza sintetica ma razionale. Ma se mi è dato il concetto trascendentale di una realtà, sostanza, forza ecc., esso non designa né un’intuizione empirica, né un’intuizione pura, bensì soltanto la sintesi delle intuizioni empiriche (che dunque non possono essere date a priori); e però da esso, poiché la sintesi non può passare a priori alla intuizione che gli corrisponde, non può neppure risultare una proposizione sintetica determinante, ma soltanto un principio della sintesi274 di possibili intuizioni empiriche. Una proposizione trascendentale, adunque è una conoscenza razionale sintetica secondo semplici concetti, e però discorsiva, in quanto per essa diviene innanzi tutto possibile ogni unità sintetica della conoscenza empirica, ma nessuna intuizione per essa è data a priori. Così c’è un doppio uso della ragione, che, a parte l’universalità delle conoscenze e la loro origine a priori, che hanno l’uno e l’altro in comune, nel procedimento è tuttavia molto diverso, e diverso per questo che nel fenomeno, come quello in cui tutti gli oggetti ci son dati, ci son due elementi: la forma (spazio e tempo), la quale può esser conosciuta e determinata affatto a priori, e la materia (il lato fisico) o il contenuto, che designa un qualcosa, che s’incontra nello spazio e nel tempo, e però contiene un’esistenza e corrisponde alla sensazione. Rispetto a questo secondo elemento, che non può in modo determinato esser dato mai altrimenti che per via empirica, noi non possiamo avere a priori se non concetti indeterminati di sintesi di sensazioni possibili, in quanto essi appartengono all’unità dell’appercezione (in una esperienza possibile). Rispetto al primo elemento possiamo determinare a priori i nostri concetti nella intuizione, in quanto ci creiamo nello spazio e nel tempo gli oggetti stessi mediante sintesi uniformi, considerandoli semplicemente come quanta. Quello rappresenta l’uso della ragione secondo concetti, nel quale noi non possiamo fare altro che riportare i fenomeni, secondo il loro reale contenuto, sotto concetti; fenomeni, che non possono essere determinati, oltre a ciò, se non empiricamente, cioè a posteriori (ma conformemente a quei concetti, quali regole di una sintesi empirica); questo è l’uso della ragione per costruzione dei concetti, in cui

questi, poiché essi passano già a priori a un’intuizione, perciò stesso possono essere dati e determinati a priori e senza alcun dato empirico di sorta nell’intuizione pura. Esaminare se e fino a che punto tutto ciò che esiste (una cosa nello spazio o nel tempo) è un quantum o no, che in esso dev’esser rappresentata una esistenza o un difetto, fino a che punto questo qualcosa (che riempie lo spazio o il tempo), sia un primo sostrato o una semplice determinazione, abbia una relazione per la sua esistenza con qualcos’altro come causa o effetto, e, infine, se stia isolato o in dipendenza reciproca con altre cose rispetto all’esistenza, esaminare la possibilità di questa esistenza, la realtà e necessità, o i loro contrari: tutto ciò spetta alla c o n o s c e n z a r a z i o n a l e per concetti, che vien detta f i l o s o f i c a . Ma determinare nello spazio una intuizione a priori (forma), dividere il tempo (durata), o semplicemente conoscere l’universale della sintesi di una e medesima cosa nel tempo e nello spazio e la grandezza che ne risulta di una intuizione in generale (numero), questo è o p e r a d e l l a r a g i o n e per costruzione di concetti, e si dice m a t e m a t i c a . La gran fortuna che incontra la ragione mediante la matematica, porta affatto naturalmente a credere che, se non essa stessa, il suo metodo, farebbe buona riuscita anche fuori del campo delle quantità, in quanto essa riporta tutti i suoi concetti a intuizioni che essa può dare a priori, sì da rendersi, per così dire, padrona della natura; laddove la filosofia pura, con i suoi concetti discorsivi a priori, si immischia da guastamestieri nella natura, senza rendere a priori intuitiva la realtà di cotesti concetti, e così appunto accettabile. Pare che ai maestri in quest’arte non facesse di certo difetto la fiducia in se stessi, né al pubblico le grandi aspettazioni della loro abilità, se essi dovevano una volta occuparsene. Infatti, non avendo essi filosofato mai sulla loro matematica (difficile impresa!) a loro la differenza specifica d’un uso della ragione dall’altro non viene punto alla mente. Regole correnti usate empiricamente, che essi tolgono dalla ragione comune, valgono a loro in luogo di assiomi. A loro non importa guari donde possano loro provenire i concetti di spazio e tempo, di cui (come dei soli quanti originari) essi si occupano; e così non par loro che sia utile indagare l’origine dei concetti puri dell’intelletto, e perciò anche l’ambito della loro validità, bensì soltanto servirsene. In tutto ciò fanno benissimo, se non sorpassano i limiti loro imposti, cioè la n a t u r a . Ma così essi s’avventurano, senz’accorgersene, dal campo della sensibilità, sul terreno incerto dei concetti puri, e perfino dei

trascendentali, dove la base (instabilis tellus, innabilis unda) non permette loro né di fermarvi il piede, né di nuotarvi, e possono fare soltanto qualche passo leggiero, di cui il tempo non può conservare la minima traccia, laddove il loro cammino nella matematica forma una strada regia, che anche la più tarda posterità può battere con fiducia. Poiché noi ci siamo fatto un dovere di determinare esattamente e con certezza i limiti della ragion pura nell’uso trascendentale, ma questo genere di tentativi ha in sé questo di speciale, che, nonostante le avvertenze più insistenti e più chiare, si lascia sempre tenere a bada dalla speranza prima di abbandonare del tutto il suo disegno di giungere, oltre i limiti delle esperienze, sin negli attraenti paesi dell’intellettuale: così è necessario togliere quasi l’ultima àncora a una speranza fantastica, e mostrare che l’adozione del metodo matematico in questa sorta di conoscenza non può procacciare il menomo vantaggio, se non dovesse esser quello di scoprirgli tanto più evidentemente i suoi punti deboli: che la geometria e la filosofia son due cose affatto diverse, benché si diano scambievolmente la mano nella scienza della natura; e che, quindi, il processo dell’una non può mai essere imitato dall’altra. La solidità della matematica poggia su definizioni, assiomi, dimostrazioni. Io mi contenterò quindi di mostrare che nessuno di questi elementi, nel senso in cui li prende il matematico, può essere fornito né imitato dalla filosofia; che il geometra, col suo metodo, non può fare nella filosofia se non castelli di carta e il filosofo col suo non può, nel campo della matematica, se non far delle chiacchiere, laddove qui la filosofia consiste nel conoscere i propri limiti, e lo stesso matematico, se il suo talento non è già limitato da natura e chiuso nella sua specialità, non può respingere gli avvertimenti della filosofia, né mettersi al di sopra di essi. 1. Delle DEFINIZIONI. Definire, come dice la stessa parola, non può propriamente significare altro che esporre originariamente il concetto esplicito di una cosa dentro i suoi limiti275. Giusta una tale esigenza un concetto e m p i r i c o , non può essere definito, ma soltanto s p i e g a t o . Giacché, non avendo noi in esso se non alcune note di una certa specie d’oggetti dei sensi, non è mai sicuro se con la parola, che designa uno stesso oggetto, una volta io non pensi più note, e un’altra volta meno; così nel concetto dell’o r o l’uno può pensare, oltre il peso, il colore, la durezza, anche la proprietà che esso non arrugginisce, l’altro magari non saper nulla di

questa. Ci si serve di certe note soltanto finché siano sufficienti alla distinzione: invece nuove osservazioni alcune ne tolgono, altre ne aggiungono, sicché il concetto non sta mai dentro limiti sicuri. E, del resto, a che dovrebbe servire il definire un tal concetto, se, ove si tratta per es. dell’acqua e delle sue proprietà, non ci si ferma a quello che si pensa colla parola «acqua», ma si passa all’esperienza, e la parola, con le poche note che vi si attengono, deve costituire soltanto una d e s i g n a z i o n e e non un concetto della cosa, onde la pretesa definizione non è altro che una determinazione della parola? In secondo luogo, per parlare esattamente, né anche un concetto dato a priori per es. sostanza, causa, diritto, equità, può esser definito. Giacché io non posso mai esser sicuro che la chiara rappresentazione di un concetto dato (ancora confuso) sia stata sviluppata esaurientemente, salvo che io sappia, che essa è adeguata all’oggetto. Ma poiché il concetto di questo, così com’è dato, può contenere molte rappresentazioni oscure, che noi nell’analisi tralasciamo, quantunque in pratica ce ne serviamo sempre; così la completezza dell’analisi del mio concetto è sempre dubbia e può esser resa, mercé molteplici esempi calzanti, soltanto p r o b a b i l e , ma non mai a p o d i t t i c a m e n t e certa. Invece del termine «definizione», io userei a preferenza quello di e s p o s i z i o n e , che resta sempre cauto, e il critico può farla valere a un certo punto e intanto conservar qualche dubbio quanto alla completezza. Poiché, dunque, né i concetti empirici, né quelli dati a priori possono essere definiti, non restano se non i concetti arbitrariamente pensati su cui si possa tentare questa operazione. In questo caso io posso sempre definire il mio concetto, giacché debbo pur sapere che cosa ho voluto pensare, dal momento che l’ho fatto io stesso di proposito, ed esso non mi è stato dato né dalla natura dell’intelletto, né dalla esperienza; ma allora non posso dire di avere perciò definito un vero oggetto. Infatti, se il secondo riposa su condizioni empiriche, per es. un orologio marino, allora l’oggetto e la sua possibilità non è dato ancora da questo concetto arbitrario; io per esso non so mai se esso abbia un oggetto, e la mia spiegazione può significare piuttosto una dichiarazione (del mio progetto) che una definizione dell’oggetto. Sicché non rimangono altri concetti che si prestino a definizione, fuorché quelli, che contengono una sintesi arbitraria, che possa essere costruita a priori; e però soltanto la matematica ha definizione. L’oggetto, infatti, che essa concepisce, essa anche lo rappresenta a priori nell’intuizione, e questo può certamente contenere né

più né meno del concetto, poiché fu dato originariamente dalla spiegazione del concetto dell’oggetto, cioè senza ricavare la spiegazione da qualche altra cosa. La lingua tedesca, per le espressioni e s p o s i z i o n e , e s p l i c a z i o n e , d i c h i a r a z i o n e e d e f i n i z i o n e non ha altro che una parola: Erklärung, e quindi dobbiamo allontanarci un po’ dal rigore della esigenza, per cui rifiutavamo alle spiegazioni filosofiche il titolo di definizione; e intendiamo limitare tutta la nostra osservazione a questo: che le definizioni filosofiche non sono se non esposizioni di concetti dati, le definizioni matematiche invece costruzioni di concetti originariamente foggiati; e quelle sono fatte soltanto analiticamente per scomposizione (la cui compiutezza non è apoditticamente certa), queste sinteticamente, e f a n n o quindi il concetto stesso laddove le prime soltanto lo s p i e g a n o . Donde segue: a) Che nella filosofia non si deve imitare la matematica, premettendo le definizioni, salvo che quasi in via di semplice esperimento. Giacché, essendo queste definizioni analisi di concetti dati, così questi concetti precedono, benché ancora confusi, e l’esposizione incompleta precede la completa in guisa che da alcune note, che abbiamo ricavate da una analisi ancora incompiuta, noi possiamo dedurne qualche altra prima d’essere giunti alla esposizione completa, cioè alla definizione; in una parola, nella filosofia la definizione, come chiarezza precisa, deve piuttosto conchiuder l’opera, che iniziarla276. Al contrario, nella matematica noi non abbiamo alcun concetto prima della definizione, come quella dalla quale anzi tutto il concetto è dato; essa dunque deve, e può, cominciare sempre di lì. b) Le definizioni matematiche non possono mai sbagliare. Infatti, il concetto essendo dato primieramente dalla definizione, contiene precisamente quello che la definizione vuole si pensi per mezzo di esso. Ma quantunque pel contenuto niente possa esservi di falso, può tuttavia talvolta, benché soltanto raramente, esservi difetto nella forma (nella veste), ossia rispetto alla precisione. Così la comune definizione della circonferenza, come linea curva di cui tutti i punti sono equidistanti da un stesso punto (centro), ha il difetto che vi è inclusa senza necessità la determinazione di c u r v a . Perché dev’esserci un teorema particolare, che è conseguenza della definizione e può facilmente essere dimostrato: che ogni linea, di cui tutti i punti sono equidistanti da uno stesso punto, è curva (nessuna parte di essa è retta). Le definizioni analitiche, invece, possono sbagliare in più modi, o introducendo note che non sono realmente nel concetto, o difettando nella completezza, che

costituisce l’essenziale di una definizione, poiché della compiutezza della sua analisi così non si può essere affatto certi. Perciò il metodo della matematica nel definire non si può imitare nella filosofia. 2. Degli ASSIOMI. Questi sono princìpi sintetici a priori, in quanto sono immediatamente certi. Ora, un concetto non si può unire con un altro sinteticamente e tuttavia immediatamente, poiché, per potere andare di là dal concetto, abbiamo bisogno di una terza conoscenza mediatrice. E poiché la filosofia non è se non conoscenza razionale secondo concetti, non si troverà in essa nessun principio che meriti nome di assioma. La matematica, invece, è capace di assiomi, perché essa può riunire a priori e immediatamente i predicati dell’oggetto mediante la costruzione dei concetti nell’intuizione dell’oggetto stesso, per es. che tre punti giacciono sempre in un piano. Al contrario un principio sintetico derivante semplicemente da concetti non può mai essere certo immediatamente, per es. la proposizione: tutto ciò che accade ha la sua causa; dovendo io riferirmi a una terza cosa, cioè alla condizione della determinazione temporale nell’esperienza, e non potendo conoscere un tal principio direttamente, immediatamente dai soli concetti. I princìpi discorsivi sono dunque tutt’altra cosa dai princìpi intuitivi, o assiomi. Quelli richiedono sempre ancora una deduzione, della quale questi possono fare del tutto a meno; e poiché questi, appunto per la stessa ragione, sono evidenti, – ciò che i princìpi filosofici, con tutta la loro certezza, non possono tuttavia pretendere mai, – così ci manca infinitamente a che una qualunque proposizione sintetica della ragion pura e trascendentale sia così evidente (come superbamente ci si suole esprimere) come la proposizione: d u e p e r d u e è u g u a l e a q u a t t r o. Io per verità nell’Analitica, nella tavola dei princìpi dell’intelletto puro, ho anche menzionato certi assiomi dell’intuizione; se non che il principio ivi addotto non era esso stesso un assioma, ma serviva soltanto a fornire il principio della possibilità degli assiomi in generale, e per se stesso era soltanto un principio tratto da concetti. Infatti perfino la possibilità della matematica dev’essere mostrata nella filosofia trascendentale. La filosofia, dunque, non ha assiomi, e non può mai imporre i suoi princìpi a priori così assolutamente, ma deve adattarsi a giustificare il suo diritto rispetto ad essi e con una solida deduzione. 3. Delle DIMOSTRAZIONI. Soltanto una prova apodittica, in quanto è intuitiva, può dirsi dimostrazione. L’esperienza c’insegna bensì ciò che esiste, ma non che non possa essere altrimenti. Quindi princìpi di prova empirici non

possono darci nessuna prova apodittica. Da concetti a priori (nella conoscenza discorsiva) non può nascere mai una certezza intuitiva, o evidenza, per quanto il giudizio, del resto, possa essere apoditticamente certo. Soltanto la matematica, dunque, possiede dimostrazioni; poiché essa, non da concetti, ma dalla costruzione di essi, cioè dall’intuizione, che può essere data a priori, corrispondentemente ai concetti, ricava la sua conoscenza. Lo stesso procedimento dell’algebra con le sue equazioni, donde essa per riduzione desume la verità insieme con la prova, non è per vero una costruzione geometrica, ma è pure una costruzione caratteristica, in cui con i segni si rappresentano i concetti, segnatamente del rapporto delle quantità, nell’intuizione, e, senza guardare punto all’elemento euristico, tutte le deduzioni sono assicurate dagli errori pel fatto che ognuna di esse è messa sott’occhio; la conoscenza filosofica invece dee rinunziare a questo vantaggio, dovendo trattare sempre in abstracto (per concetti) dell’universale, laddove la matematica può studiare l’universale in concreto (nell’intuizione particolare), e tuttavia per una rappresentazione pura a priori, in cui ogni passo falso è visibile. Io preferirei quindi dire le prime piuttosto p r o v e a c r o a m a t i c h e (discorsive), poiché esse non si possono fare se non per semplici parole (per l’oggetto nel pensiero), anzi che d i m o s t r a z i o n i , che, come indica già la stessa espressione, vanno oltre ed entrano nell’intuizione dell’oggetto. Da tutto questo segue, che non si conviene punto alla natura della filosofia, sopra tutto nel campo della ragion pura, gonfiarsi con un’andatura dommatica, e fregiarsi dei titoli e delle insegne della matematica, ai cui ordini essa non appartiene, comeché abbia tutte le ragioni di sperare in una unione sororale con essa. Quelle son vane pretese, le quali non possono mai riuscire, ma devono piuttosto far retrocedere il suo scopo di scoprire le illusioni di una ragione che disconosca i propri limiti, e, mediante un sufficiente schiarimento dei nostri concetti, ricondurre la presunzione della speculazione alla modesta ma solida conoscenza di sé. La ragione, dunque, nelle sue ricerche trascendentali non potrà guardare innanzi a sé con tanta sicurezza, come se la via che essa ha percorsa menasse diritto alla meta; né far così coraggiosamente assegnamento sulle sue premesse poste a fondamento, da non sentire il bisogno di voltarsi spesso indietro, e badare se non si scoprano forse nel progresso delle deduzioni errori, che fossero sfuggiti nei princìpi, e rendessero necessario o tornare a determinarli meglio, o a cambiarli affatto.

Divido tutte le proposizioni apodittiche (siano suscettibili di dimostrazione, o immediatamente certe) in dogmata e mathemata. Una proposizione direttamente sintetica derivante da concetti è un dogma; per contro, una proposizione dello stesso genere derivante dalla costruzione dei concetti è un mathema. I giudizi analitici non ci dicono propriamente di un oggetto più di quello che contiene già il concetto che abbiamo di esso, poiché essi non estendono la conoscenza oltre il concetto del soggetto, ma si limitano a chiarirlo. Essi quindi non possono dirsi propriamente dommi (parola che si potrebbe forse tradurre con i n s e g n a m e n t i 277. Ma tra le due mentovate specie di proposizioni sintetiche a priori, secondo l’ordinario uso linguistico, possono portare tal nome soltanto quelle appartenenti alla conoscenza filosofica, e difficilmente si direbbero dommi le proposizioni del calcolo e della geometria. Quest’uso dunque conferma la nostra avvertenza, che soltanto i giudizi derivanti da concetti, e non quelli dalla costruzione dei concetti, possono dirsi dommatici. Ora, tutta la ragion pura, nel suo semplice uso speculativo, non contiene un solo giudizio direttamente sintetico per concetti. Essa infatti, come abbiamo dimostrato, non è capace di formare con le idee un giudizio sintetico che abbia valore oggettivo; ma con i concetti dell’intelletto stabilisce per vero princìpi sicuri, non certo direttamente da concetti, bensì sempre soltanto indirettamente mediante la relazione di questi concetti con qualcosa di affatto contingente, cioè con l’e s p e r i e n z a p o s s i b i l e; poiché se questa (qualcosa come oggetto di esperienze possibili) è presupposta, essi possono essere assolutamente certi in modo apodittico, ma in se stessi (direttamente) non possono punto essere conosciuti mai a priori. Così nessuno può conoscere fondatamente la proposizione «tutto ciò che accade ha la sua causa» soltanto da questi concetti dati. Quindi non è un domma, quantunque per un altro punto di vista, ossia nell’unico campo del suo possibile uso, cioè nella esperienza, possa essere dimostrato benissimo e apoditticamente. Ma esso dicesi p r i n c i p i o e non t e o r e m a , benché possa essere dimostrato, perocché esso ha la proprietà particolare di rendere possibile la sua stessa prova, l’esperienza, e di dover essere presupposto sempre in questa. Ora, se nell’uso speculativo della ragion pura, anche secondo il contenuto, non ci sono dommi, ogni metodo d o m m a t i c o , preso a prestito dalla matematica, o con un suo proprio carattere, per sé non le si addice.

Giacché esso non fa se non nascondere i difetti e gli errori, e ingannare la filosofia, il cui proprio scopo è di far vedere nella più chiara luce ogni passo della ragione. Tuttavia il metodo può sempre essere s i s t e m a t i c o . Infatti la nostra ragione (soggettivamente) è per se stessa un sistema; ma nel suo uso puro, per semplici concetti, essa è soltanto un sistema di ricerca, secondo princìpi dell’unità, cui l’esperienza può fornire soltanto la materia. Ma del metodo speciale di una filosofia trascendentale non è possibile parlare qui, dove ci occupiamo solo di una critica delle condizioni delle nostre facoltà, per sapere se noi possiamo costruire, e fino a che altezza, col materiale che abbiamo (coi concetti puri a priori), possiamo elevare il nostro edifizio.

Sezione Seconda LA DISCIPLINA DELLA RAGION PURA RISPETTO AL SUO USO POLEMICO

La ragione, in tutte le sue imprese, si deve sottomettere alla critica, e non può mettere nessun divieto alla libertà di questa, senza nuocere a se medesima e attirare su di sé un sospetto pregiudizievole. Poiché niente è così importante rispetto all’utile, niente così sacro, che si possa sottrarre a questo esame che scruta e squadra senza rispetto per nessuno. Su questa libertà, anzi, riposa l’esistenza della ragione, che non ha autorità dittatoria, ma la cui sentenza è sempre non altro che l’accordo di liberi cittadini, ciascuno dei quali deve poter formolare i suoi dubbi, e per fino il suo veto, senza impedimenti. Ora, benché la ragione non possa mai r i f i u t a r s i alla critica, essa non ha sempre ragione di a d o m b r a r s e n e . Ma la ragion pura nel suo uso dommatico (non matematico) non è tanto consapevole della osservanza più esatta de’ suoi supremi princìpi, da non dover comparire con timidezza, deposto affatto ogni preteso diritto dommatico, innanzi all’occhio critico di una ragione più alta e giudicante. Ben altro è il caso, se essa ha da fare, non con la censura del giudice, ma con le pretese del suo concittadino, e da difendersi soltanto contro di esse. Giacché, volendo queste essere altrettanto dommatiche, sia pur nel negare, come quelle nell’affermare, ha luogo allora una giustificazione κατ’ ἄνθρωπον, che assicura contro ogni pregiudizio e procura un possesso

garentito da titoli, che non ha da temere di nessuna estranea pretesa, benché non possa esser dimostrato sufficiente κατ’ ἀλὴθειαν. Ora, per uso polemico della ragione intendo la difesa delle sue proposizioni contro le negazioni dommatiche delle medesime. Ma qui non si tratta di dire, se le sue affermazioni non possano per avventura essere anche false, bensì soltanto che nessuno può affermare il contrario con certezza apodittica (o anche soltanto con maggiore probabilità)278. Giacché noi non ci troviamo più nel nostro possesso per grazia allora, quando noi abbiamo innanzi a noi un titolo, benché non sufficiente; ed è pienamente certo, che niuno può mai dimostrare l’illegittimità di questo possesso. È qualche cosa che attrista e umilia, che debba esserci in generale un’antitetica della ragion pura, e che questa, che rappresenta la corte giudiziaria suprema su tutte le contese, debba entrare in conflitto con se stessa. Noi bensì avemmo innanzi, più sopra, questa apparente antitetica della ragione; ma si dimostrò che essa poggiava sopra un equivoco, poiché si prendevano, conforme al comune pregiudizio, i fenomeni per cose in sé, e allora si desiderava in un modo o nell’altro una perfezione assoluta della loro sintesi (che era nell’uno o nell’altro modo possibile); ciò che invece non può aspettarsi assolutamente per i fenomeni. Allora adunque non c’era una reale c o n t r a d d i z i o n e d e l l a r a g i o n e con se stessa nelle proposizioni «la serie dei fenomeni i n s é d a t i ha un comincimento assolutamente primo» e «questa serie è assolutamente i n s e s t e s s a senza comincimento»; giacché le due proposizioni possono stare benissimo insieme, in quanto che i f e n o m e n i per la loro esistenza (come fenomeni) non sono proprio nulla i n s e s t e s s i , cioè sono qualcosa di contraddittorio, la cui ammissione pertanto deve naturalmente trarsi dietro conseguenze contraddittorie. Ma un tale equivoco non può essere addotto, né con esso può comporsi il conflitto della ragione, se si affermi teisticamente: c ’ è u n E n t e s u p r e m o , e per contro ateisticamente: n o n c ’ è u n E n t e s u p r e m o; o nella Psicologia: «tutto ciò che pensa è un’unità assoluta permanente, e però differente da ogni materiale unità transeunte», a cui si contrappone la proposizione: «l’anima non è unità immateriale, e non può essere esclusa dal regno del transeunte». Qui infatti l’oggetto della questione è libero da ogni che di estraneo, che contraddica alla sua natura, e l’intelletto ha a che fare solo con c o s e i n s é, e non con fenomeni. Qui si avrebbe certamente un vero conflitto, se soltanto la ragion pura potesse per il lato negativo dire

qualche cosa, che s’accostasse al fondamento di un’affermazione; giacché per quel che riguarda la critica degli argomenti di chi dommaticamente afferma, si può benissimo ammetterla, senza perciò rinunziare a queste proposizioni, che tuttavia hanno per sé, per lo meno, l’interesse della ragione, a cui l’avversario non può assolutamente appellarsi. Io non sono in verità dell’opinione, che hanno manifestato così spesso uomini eminenti e profondi (per es. Sulzer279), che sentivano la debolezza delle prove precedenti: che si possa sperare, che si troveranno un giorno dimostrazioni evidenti delle due proposizioni cardinali della nostra ragion pura: c’è un Dio, c’è una vita futura. Anzi, sono certo che questo non accadrà mai. Perché dove prenderà la ragione il principio per tali affermazioni sintetiche, che non si riferiscono agli oggetti dell’esperienza e alla loro interna possibilità? Ma è anche apoditticamente certo, che non vi sarà mai uomo il quale potrà asserire il contrario con la menoma apparenza di vero, e meno che mai dommaticamente. Giacché, non potendo ciò dimostrare tuttavia se non per mezzo della ragion pura, ei dovrebbe assumersi di provare che un Ente supremo, che il soggetto, che pensa in noi, come intelligenza pura, è i m p o s s i b i l e . Ma donde egli torrebbe le conoscenze, che lo autorizzino a giudicare così sinteticamente intorno a cose di là da ogni possibile esperienza? Noi dunque possiamo non darci pensiero, che alcuno sia mai per provarci il contrario, e però appunto non abbiamo bisogno di ruminare argomenti scolastici; ma possiamo sempre accogliere quelle proposizioni, che s’accordano interamente coll’interesse speculativo della nostra ragione nell’uso empirico, e che inoltre sono il solo mezzo di conciliarlo con l’interesse pratico. Per l’avversario (che qui non dev’esser considerato semplicemente come critico), noi abbiamo pronto il nostro non liquet, che deve infallantemente confonderlo, in quanto che noi non neghiamo la ritorsione di esso contro di noi, avendo costantemente in riserva la massima soggettiva della ragione, che manca necessariamente all’avversario, e potendo dietro questo scudo guardare con calma e con indifferenza tutti i suoi colpi in aria. In questo modo, propriamente non c’è un’antitetica della ragion pura. Giacché l’unico terreno di lotta per lei dovrebbe cercarsi nel terreno della teologia pura e della psicologia pura; ma questo terreno non regge nessun combattente con tutta l’armatura e armi, che sian temibili. Egli vi si può far innanzi soltanto per burla e millanteria: ciò di cui si può ridere come di un

giuoco da fanciulli. È un’osservazione confortante, che infonde di nuovo coraggio alla ragione; di che infatti potrebbe essa fidarsi, se essa, che sola è chiamata a tôr via tutti gli errori, fosse in se stessa turbata, senza speranza di pace e di tranquillo possesso? Tutto ciò che la natura stessa dispone, è buono sempre a qualche scopo. I veleni stessi servono a vincere altri veleni, che si producono nei nostri propri umori, e quindi non possono mancare in una raccolta completa di rimedi (in una farmacia). Le obbiezioni alle sollecitazioni e alla presunzione della nostra ragione meramente speculativa sono fornite anch’esse dalla natura della nostra ragione, e devono aver quindi la loro buona destinazione e scopo che non si può buttare al vento. A che fine la provvidenza ci ha posti molti oggetti, quantunque legati col nostro interesse supremo, così in alto che ci è quasi soltanto concesso di coglierli in una percezione oscura e per noi stessi incerta, onde i nostri sguardi ansiosi ne vengano piuttosto stimolati che soddisfatti? Ora, che sia utile arrischiare, rispetto a queste mire, determinazioni audaci, è per lo meno incerto, e forse è a dirittura nocivo. Ma in ogni caso è certamente utile mettere in piena libertà la ragione che indaga, come quella che esamina, affinché ella possa senza impedimenti provvedere al proprio interesse, il quale richiede tanto che essa ponga barriere alle sue speculazioni, quanto che essa estenda queste; e soffre tutte le volte che vi s’immischino mani estranee per rivolgerla contro il suo naturale cammino verso scopi imposti. Lasciate pertanto che il vostro avversario adoperi soltanto la ragione, e combattetelo solo con le armi della ragione. Del resto state senza pensiero per la buona causa (dell’interesse pratico); ché essa non è mai in giuoco in un mero conflitto speculativo. Il conflitto allora non rivela se non una certa antinomia della ragione, la quale, essendo fondata sulla natura di questa, deve necessariamente essere ascoltata ed esaminata. Esso illumina la ragione con la considerazione dell’oggetto suo da due aspetti, e correggere il giudizio suo col delimitarlo. Ciò che qui è in questione, non è la c o s a , ma il t o n o . Vi resta infatti quanto basta per parlare il linguaggio di una fede salda, giustificata dalla più rigorosa ragione, benché dobbiate smettere quello della scienza. Se al grande David Hume, a quest’uomo dal giudizio così equilibrato, si fosse domandato che cosa lo avesse indotto a scalzare, con difficoltà faticosamente escogitate, la convinzione così consolante e utile per gli

uomini, che basti la loro speculazione razionale per affermare e concepire in modo determinato un Essere supremo? – egli avrebbe risposto: null’altro se non lo scopo di portare più innanzi la ragione nella coscienza di se medesima, e insieme un certo sdegno per la violenza che si vuol fare a essa ragione, quando ci si danno con lei delle arie, e insieme le si impedisce di fare una franca confessione delle proprie debolezze, che a lei pur sono manifeste quando faccia l’esame di se medesima. Se voi chiedete, invece, a quello spirito tutto incline ai princìpi dell’uso e m p i r i c o della ragione, e negato ad ogni speculazione trascendente, che è il Priestley, donde egli abbia preso i motivi per abbattere la libertà e l’immortalità della nostra anima (la speranza della vita futura per lui non è se non l’aspettazione di un miracolo di risurrezione), due colonne maestre di ogni religione; egli, che pure è un pio e zelante maestro di religione, non potrebbe rispondervi altro che: il solo interesse della ragione, che ci perde quando si vuol sottrarre certi oggetti alle leggi della natura materiale, le sole, che noi si possa esattamente conoscere e determinare. Parrebbe ingiusto dir male di quest’ultimo, che sa conciliare la sua paradossale asserzione col fine della religione280; pigliarsela con un uomo ben pensante, perché egli non sa più raccapezzarsi appena smarritosi fuori del campo della scienza della natura. Ma la stessa grazia deve egualmente giovare allo Hume, che non aveva intenzioni men buone, e pel suo carattere morale era al di sopra di ogni biasimo; il quale non poté ammettere la speculazione astratta poiché egli, a ragione, ritiene che l’oggetto di essa è affatto fuori dei limiti della scienza naturale, nel campo delle pure idee. Che c’è dunque da fare qui, segnatamente rispetto al pericolo che par minacciare quindi il bene pubblico? Niente più naturale, niente più giusto della decisione che vi tocca di prendere in grazia di esso. Lasciate pur fare costoro: se essi dimostrano talento, se dimostrano una profonda e nuova ricerca, in una parola, se dan prova soltanto di ragione, la ragione allora ci guadagna sempre. Se voi usate altri mezzi da quelli di una ragione libera d’ogni costrizione, se gridate all’alto tradimento, e chiamate a raccolta, quasi per spegnere un incendio, il pubblico, che non s’intende punto di queste sottili speculazioni, voi vi rendete ridicoli. Perché non si tratta di quel che sia vantaggioso o nocivo al pubblico bene, ma soltanto del punto al quale si possa spingere la ragione nella sua speculazione astraente da ogni interesse, e si debba far assegnamento su di essa in generale per qualche cosa, o se, piuttosto, abbandonarla affatto di fronte alla pratica. Invece dunque di tirar

giù colpi di spada, guardate piuttosto tranquillamente, dalla sede sicura della critica, questo combattimento, che deve riuscir penoso per i combattenti, divertente per voi, e di un esito certamente non sanguinoso, anzi salutare per le vostre cognizioni. Giacché è veramente assurdo aspettarsi luce dalla ragione, e nondimeno prescriverle prima da qual lato essa debba necessariamente andare. Oltre di che, la ragione già è così ben frenata e contenuta dentro i limiti dalla ragione stessa, che voi non avete proprio bisogno di chiamare la ronda, per opporre la forza pubblica a quella parte, la cui preponderanza temibile vi pare pericolosa. In questa dialettica non c’è vittoria a cui abbiate a temere di contribuire. La ragione ha altresì bisogno di una tale lotta, e sarebbe a desiderare che essa si fosse fatta più presto, e con una autorizzazione pubblica e illimitata. Perché tanto più presto sarebbe venuta una matura critica, alla cui apparizione tutte queste lotte avrebbero dovuto cadere da sé, poiché gli avversari avrebbero imparato a scorgere il loro accecamento e i pregiudizi che li han divisi. C’è nella natura umana una certa insincerità, che, pure, alla fine, come tutto ciò che vien dalla natura, deve contenere una disposizione a buoni scopi: cioè una inclinazione a celare i propri veri sentimenti e simularne altri, fittizi, ritenuti per buoni o lodevoli. Non c’è dubbio che gli uomini con questa tendenza, così a nascondersi come anche a prendere un’apparenza a loro vantaggiosa, si sono non solo i n c i v i l i t i , ma, fino a certo punto, a poco a poco m o r a l i z z a t i : perché nessuno poteva penetrare attraverso il belletto del decoro, dell’onestà, della costumatezza, sicché nei presunti buoni esempi del bene, che ognuno si vedeva intorno, trovava una scuola di miglioramento per sé. Se non che tal disposizione ad apparir migliore di quel che si è, a manifestare sentimenti che non si hanno, serve soltanto, sto per dire, p r o v v i s o r i a m e n t e , a sottrarre l’uomo alla rozzezza, e cominciare a fargli prendere del bene, che egli conosce, per lo meno la m a n i e r a ; perché dopo, allorché gli schietti princìpi si sono sviluppati e son diventati carattere, quella falsità deve a poco a poco esser combattuta con forza, perché altrimenti essa corrompe il cuore, e, sotto il lussureggiante fogliame della bella apparenza, non lascia venir su i buoni sentimenti. A me rincresce avvertire appunto questa insincerità, questa dissimulazione e finzione perfino nelle manifestazioni del carattere speculativo, in cui pure gli uomini, a scoprire apertamente e francamente i

loro pensieri, hanno molto meno impedimenti e non han certo nessun interesse. Che cosa infatti può esservi di più nocivo alle conoscenze del non comunicarsi reciprocamente se non pensieri falsificati, celarsi dubbi che sentiamo contro le nostre proprie affermazioni, o dare la vernice dell’evidenza ad argomenti che non soddisfano neanche noi stessi? Intanto finché semplicemente la vanità privata è causa di questi segreti artifici – che è il caso ordinario nei giudizi speculativi, che non hanno alcun interesse particolare e non sono facilmente suscettibili di certezza apodittica – ad essi contrasta tuttavia la vanità di altri col p u b b l i c o c o n s e n s o, e le cose alla fine vengono al punto, dove le avrebbe condotte, benché assai più presto, il sentimento più schietto e la sincerità. Ma quando il pubblico ritiene, che sottili sofismi non mirino, niente meno, che a scuotere le fondamenta del bene comune, allora pare non solo conforme a prudenza, ma anche lecito, anzi onorevole, venir piuttosto in aiuto della buona causa con argomenti apparenti, che lasciare a quelli che passano per avversari di essa anche soltanto il vantaggio di abbassare il nostro tono alla moderazione di una semplice convinzione pratica, e di costringerci a confessare la mancanza di certezza speculativa e apodittica. Intanto io crederei che niente al mondo si possa accordare con lo scopo di affermare una buona causa peggio della slealtà, della dissimulazione e dell’inganno. Che nel pesare gli argomenti razionali di una semplice speculazione tutto debba procedere lealmente, è il meno che si possa chiedere. Ma se anche si potesse contare con sicurezza soltanto su questo poco, il conflitto della ragione speculativa intorno alle importanti questioni di Dio, dell’immortalità (dell’anima) e della libertà, o sarebbe stato da un pezzo risolto, o ben presto sarebbe terminato. Se non che spesso la sincerità dei mutamenti è in ragione inversa della buona natura della causa stessa, e questa ha forse più avversari sinceri e in buona fede, che difensori. Io suppongo dunque lettori, i quali non vogliono una causa giusta difesa col torto. Ora per costoro è deciso che, secondo i nostri princìpi della critica, se non si guarda a quel che accade, ma a quel che dovrebbe di ragione accadere, non ci dev’essere propriamente una polemica della ragion pura. Come possono infatti due persone contrastare di una cosa, la cui realtà nessuna delle due può presentare in una reale o magari soltanto possibile esperienza, e sulla cui idea l’uno soltanto rimugina per ricavarne qualcosa d i p i ù di un’idea, ossia la realtà dell’oggetto stesso? Con qual mezzo vogliono

essi trarsi dal conflitto, in cui nessuno dei due può rendere direttamente intelligibile e certa la propria causa, ma soltanto attaccare e contraddire quella dell’avversario? Giacché questo è il destino di tutte le affermazioni della ragion pura; che quando esse trascendano le condizioni d’ogni esperienza possibile, al di là della quale non si incontra in nessuna parte un documento di verità, ma devono tuttavia servirsi delle leggi dell’intelletto, destinate unicamente all’uso empirico, ma senza di cui non si può fare nessun passo nel pensiero sintetico, esse possono sempre scoprire il loro lato debole all’avversario, e per converso trar partito del lato debole dell’avversario. La critica della ragion pura si può considerare come il vero tribunale per tutte le sue controversie; perché essa non s’immischia nelle controversie che si riferiscono immediatamente agli oggetti, ma è istituita per determinare e per giudicare i diritti della ragione in generale, secondo i princìpi della sua prima intuizione. Senza di essa la ragione è quasi allo stato di natura, e non può far valere e garantire le proprie affermazioni e pretese altrimenti che con la g u e r r a . La critica, invece, che desume tutte le decisioni dalle regole fondamentali della sua propria istituzione, la cui autorità nessuno può mettere in dubbio, ci procura la pace di uno stato legale, in cui a noi tocca di non trattare le nostre controversie se non mediante un p r o c e s s o . Ciò che nel primo caso definisce la lite è una v i t t o r i a , di cui entrambe le parti si gloriano, e a cui non segue il più delle volte se non una pace mal sicura, imposta da un’autorità superiore che si interpone; ma nel secondo, la s e n t e n z a , la quale, toccando allora la fonte degli stessi conflitti, può dar luogo ad una pace perpetua. I conflitti interminabili di una ragione meramente dommatica ci obbligano anche a cercare un po’ di quiete in una qualsiasi critica di questa ragione stessa, e in una legislazione che si fondi su di essa; a quella guisa che Hobbes dice: lo stato di natura è uno stato di violenza e di prepotenza, e si deve necessariamente abbandonarlo per assoggettarsi alla costrizione delle leggi, che, sola, limita la nostra libertà a qual tanto, in cui essa possa conciliarsi con la libertà di ciascun altro, e quindi col bene comune. A questa libertà appartiene infatti anche quella di esporre pubblicamente alla critica i propri pensieri, i propri dubbi, che uno non può risolvere da se stesso, senza perciò andare incontro al biasimo di cittadino irrequieto e pericoloso. Questo è già nel diritto originario dell’umana ragione, che non riconosce altro giudice, che, da capo, la stessa universale ragione umana, in

cui ciascuno ha il suo voto; e poiché da questa dee provenire ogni miglioramento di cui il nostro stato è capace, cotesto diritto è sacro, e non dev’essere menomato. Del pari segno di grande insipienza è il deplorare come pericolose certe affermazioni audaci, o certi attacchi temerari a quelle che hanno già dalla loro l’approvazione della maggiore e miglior parte del pubblico: perché significa attribuir loro un’importanza, che proprio non devono avere. Se io sento, che un’intelligenza non comune ha dimostrato che non è da parlare della libertà del volere umano, della speranza di una vita futura e dell’esistenza di Dio, io son desideroso di leggere il libro, perché dal suo talento mi aspetto, che ei faccia progredire le mie cognizioni. Io so già da prima, con tutta certezza, che ei non avrà distrutto nulla di tutto ciò; non perché io creda in qualche modo di essere già in possesso di argomenti irrefutabili di queste importanti proposizioni, ma perché la critica trascendentale, che mi ha scoperto tutto ciò di cui dispone la nostra ragion pura, mi ha pienamente convinto che, sebbene essa sia affatto insufficiente in questo campo ad asserzioni affermative, ne sa altrettanto poco e anche meno, per poter su tali questioni asserire qualche cosa in senso negativo. Perché dove questo presunto libero pensatore attingerà la sua conoscenza, che non c’è, per es., un Essere supremo? Questa proposizione rimane fuori del campo della esperienza possibile, e però anche di là dai limiti di ogni umana cognizione. Il difensore dommatico della buona causa contro questo nemico non lo leggerei nemmeno, poiché io so anticipatamente che egli non criticherà gli argomenti speciosi dell’altro se non per far passare i suoi propri: oltre di che quello che si vede tutti i giorni non offre tanta materia a nuove osservazioni, quanto uno spettacolo strano e ingegnosamente pensato. Al contrario, l’avversario della religione, pur esso a suo modo dommatico, offrirebbe alla mia critica un’occupazione desiderata e un’occasione a rettificare maggiormente i suoi princìpi, senza che per parte sua si avesse nulla a temere. Ma la gioventù, che è affidata all’insegnamento accademico, deve per lo meno esser messa in guardia contro simili scritti, e tenuta lontana da una inopportuna conoscenza di proposizioni così pericolose, prima che il suo giudizio non si sia assodato, o, piuttosto, la dottrina che si vuol fondare in essa non si sia saldamente radicata, sì da potere vigorosamente resistere ad ogni affermazione in senso opposto, donde che essa possa venire? Se nelle cose della ragion pura si dovesse restare al procedimento

dommatico, e se lo spacciamento dell’avversario dovesse essere propriamente polemico, cioè tale, da entrare in combattimento e armarsi di argomenti per opposte affermazioni, nulla certamente sarebbe più prudente p e l m o m e n t o , ma insieme niente di più vano e di più sterile a l u n g o a n d a r e , che mettere per molto tempo la ragione della gioventù sotto tutela e, almeno per questo tempo, preservarla dalla seduzione. Ma se, in seguito, o la curiosità o la moda dell’epoca le mettesse in mano scritti di questo genere, reggerebbe allora quella convinzione giovanile? Chi per respingere gli attacchi dell’avversario, non dispone se non di armi dommatiche, e non sa mettere alla luce la dialettica segreta che non è meno nel suo petto che in quello dell’avversario, vede argomenti speciosi, che hanno il vantaggio della novità, opporsi ad argomenti speciosi, che non l’hanno più, ma destano piuttosto il sospetto di un abuso della credulità propria della gioventù. Egli crede di non poter meglio dimostrare d’essere uscito, crescendo, dalla disciplina dei ragazzi, che mettendosi al di sopra di quegli amichevoli avvertimenti; e, abituato dommaticamente, beve a lunghi sorsi il veleno, che corrompe dommaticamente i suoi princìpi. Proprio l’opposto di quel che qui si consiglia, dee aver luogo nell’istruzione accademica; ma, certo, soltanto nel presupposto di un solido insegnamento di critica della ragione pura. Infatti, per mettere in pratica, al più presto possibile, i princìpi di essa e mostrare la loro sufficienza rispetto alla maggiore illusione dialettica, egli è assolutamente necessario che ciascuno rivolga contro la propria ragione, benché ancor debole, ma illuminata dalla critica, gli attacchi così formidabili per i dommatici, e le faccia fare la prova di sottoporre ad esame, punto per punto, secondo quei princìpi, le affermazioni infondate dell’avversario. Non gli può essere difficile mandarli in fumo; e così egli presto sentirà la sua propria capacità di assicurarsi pienamente contro simili dannose illusioni, che alla fine per lui devono perdere ogni parvenza. Ora, benché appunto gli stessi colpi che atterrano l’edificio del nemico, non possono non essere altrettanto funesti alla sua propria costruzione speculativa, ove egli per avventura avesse pensato di elevarne una, pure su questo punto è affatto tranquillo, poiché egli non ne ha proprio bisogno per abitarvi, ma ha ancora innanzi a sé una prospettiva sul campo pratico, dove può sperare un più saldo terreno, per costruirvi sopra il suo sistema razionale e salutare. Sicché nel campo della ragion pura non c’è una vera e propria polemica.

Ambo le parti sono combattenti in aria, che si battono con le loro ombre, perché vanno di là della natura, dove per le loro prese dommatiche non c’è più nulla che si possa afferrare e tenere. Essi hanno un bel combattere: le ombre, che essi spaccano, si riuniscono da capo in un batter d’occhio come gli eroi del Walhalla, per potersi spassare in nuove lotte incruente. Ma né anche è ammissibile un uso scettico della ragione, il quale potrebbe dirsi il principio della n e u t r a l i t à in tutti i conflitti. Mettere la ragione contro se stessa, fornirle le armi per una parte e per l’altra, e assistere quindi con aria tranquilla e canzonatoria al suo accanito combattimento, ciò non va bene da punto di vista dommatico, ma ha in sé l’aspetto di un sentimento di cattiveria e di malignità. Intanto, se si guarda all’acciecamento invincibile e all’orgoglio dei sofisti, che nessuna critica riesce a moderare, non c’è realmente altro consiglio che di contrapporre all’albagia di una parte un’altra albagia, che si fonda appunto sugli stessi diritti, affinché la ragione, colpita dalla resistenza di un nemico, riesca per lo meno, non dico altro, ad adombrarsi, per gettar qualche dubbio sulle sue pretese e per prestar orecchio alla critica. Ma non andar oltre in questi dubbi e arrestarvisi, voler raccomandare la convinzione e la confessione della propria ignoranza non soltanto come rimedio contro la presunzione dommatica, ma insieme come un modo di porre fine al conflitto della ragione con se medesima, è un calcolo affatto vano, e che non può in alcun modo giovare a procacciare alla ragione uno stato di calma; ma è tutt’al più soltanto un mezzo di svegliarla da’ suoi dolci sogni dommatici perché sottoponga a un più diligente esame il suo stato. Intanto, poiché questa maniera scettica di tirarsi da un cattivo affare della ragione, pare in certo modo la scorciatoia per giungere a una calma filosofica duratura, o, per lo meno, la via regia, che battono volentieri coloro che credono di darsi un’autorità filosofica col disprezzo canzonatorio di ogni ricerca di questa specie, così io trovo necessario esporre questo metodo nella sua propria luce.

DELLA IMPOSSIBILITÀ DI UN APPAGAMENTO SCETTICO DELLA RAGIONE IN DISACCORDO CON SE STESSA

La coscienza della mia ignoranza (se questa non è insieme conosciuta come necessaria), invece di porre fine alle mie ricerche, è piuttosto la causa

atta a provocarle. Ogni ignoranza è ignoranza, o delle cose, o del carattere e dei limiti della mia conoscenza. Ora, se l’ignoranza è contingente, essa dee spingermi, nel primo caso, a indagare d o m m a t i c a m e n t e le cose (oggetti); nel secondo, a indagare c r i t i c a m e n t e i limiti della mia conoscenza possibile. Ma che la mia ignoranza sia assolutamente necessaria, e quindi mi dispensi da ogni indagine ulteriore, non si può stabilire empiricamente, per o s s e r v a z i o n e , ma soltanto criticamente, s c a n d a g l i a n d o le prime fonti della nostra conoscenza. Sicché la delimitazione della nostra ragione non può farsi se non secondo princìpi a priori; ma la sua limitatezza, la quale viene ad essere una, benché solo indeterminata, conoscenza di una ignoranza non mai perfettamente eliminabile, può esser riconosciuta anche a posteriori, da ciò che in ogni sapere ci resta sempre da sapere. Se quella conoscenza della propria ignoranza, possibile soltanto mercé una critica della ragione, è dunque s c i e n z a , questa non è se non p e r c e z i o n e , di cui non si può dire fin dove possa giungere la illazione che se ne può trarre. Se io mi rappresento la superficie terrestre (secondo l’apparenza sensibile) come un piatto, io non posso sapere fin dove essa si estende. Ma l’esperienza m’insegna che, dovunque io giunga, vedo sempre attorno a me uno spazio, dove potrei andare ancora più innanzi; quindi conosco ogni volta i limiti della mia conoscenza effettuale della terra, ma non i limiti di ogni possibile descrizione di essa. Che se, tuttavia, son pervenuto al punto di sapere che la terra è una sfera, e che la sua superficie è sferica, posso anche da una piccola parte di essa, ad es. dalla grandezza di un grado, conoscere determinatamente, secondo i princìpi a priori, il diametro e, con esso, tutti i confini della terra, cioè la sua superficie; e quantunque circa gli oggetti che questa superficie può contenere, io rimanga ignorante, tuttavia non son tale quale all’àmbito che li abbraccia, alla loro grandezza e ai loro limiti281. Il complesso di tutti gli oggetti possibili è, per la nostra conoscenza, come una superficie piana, che ha il suo orizzonte apparente, quello, cioè che abbraccia tutto l’àmbito di essi, ed è stato detto da noi il concetto razionale della totalità incondizionata. Raggiungerlo empiricamente è impossibile, e tutti i tentativi per determinarlo a priori secondo un certo principio sono stati vani. Intanto tutte le questioni della nostra ragion pura mirano a ciò che può essere fuori di questo orizzonte, o in ogni caso sulla linea del suo confine. Il celebre David Hume fu uno di questi geografi della ragione umana, che

credette di essersi bene sbrigato a un tratto di quelle questioni, respingendole al di là di quell’orizzonte di essa, che egli pur non poté determinare. Egli si fermò principalmente al principio di causalità, e osservò di esso, del tutto a ragione, che la verità sua, per non dire la validità oggettiva del concetto di causa efficiente in generale, non si fonda su una veduta, o conoscenza a priori; che, quindi, non la menoma necessità di questa legge, ma una semplice possibilità generale di servirsene nel corso dell’esperienza, e però una necessità soggettiva che ne nasce, e che egli dice abitudine, costituisce tutta la sua autorità. E dalla impotenza della nostra ragione a fare di questo principio un uso che vada di là da ogni esperienza, dedusse la vanità di tutte le pretese della ragione di sorpassare l’empirico. Un procedimento di questa specie, di sottoporre i fatti della ragione all’esame e quindi, se occorra, al biasimo, si può denominare la c e n s u r a della ragione. E di sicuro conduce immancabilmente al d u b b i o verso ogni uso trascendentale dei princìpi. Se non che questo non è se non il secondo passo, che rimane ben lontano dal compiere l’opera. Il primo passo in cose della ragion pura, che si può dire rappresenti la fanciullezza di questa, è d o m m a t i c o . Il secondo passo, di cui s’è parlato, è s c e t t i c o ; e attesta la prudenza del giudizio scaltrito dall’esperienza. Ma è ancora necessario un terzo passo, che s’appartiene solo al giudizio maturo e virile, che ha a fondamento massime salde e di provata universalità: ossia sottoporre ad esame non i fatti della ragione, ma la ragione stessa in tutta la sua potenza e capacità di conoscenze pure a priori: che non è la censura, ma la c r i t i c a della ragione, per cui non si presumono, ma si dimostrano, muovendo da princìpi, non semplicemente i l i m i t i , ma i c o n f i n i precisi di esse; e si dimostra l’ignoranza non semplicemente in una o altra parte, ma in tutte le possibili questioni di una certa specie. Così lo scetticismo è un posto di riposo per la ragione umana, nel quale essa può riflettere sulle sue peregrinazioni dommatiche e farsi uno schizzo del paese in cui si trova, per potere scegliere ormai la sua via con maggior sicurezza, non già un luogo abitabile e adatto a stabile dimora; perché questo può trovarsi soltanto in una piena certezza, vuoi della conoscenza degli oggetti stessi, vuoi dei confini entro i quali deve chiudersi ogni nostra conoscenza di essi oggetti. La nostra ragione non è, per dir così, un piano di estensione indeterminata, i cui limiti perciò si conoscano soltanto in generale, ma dee piuttosto paragonarsi a una sfera, il cui raggio si può trovare in base alla

curvatura del suolo alla sua superficie (la natura delle proposizioni sintetiche a priori); donde, per altro, anche il volume e la limitazione di essa si possono assegnare con sicurezza. Fuori di questa sfera, campo dell’esperienza, non c’è per lei oggetto, e le stesse questioni sopra i presunti oggetti di questa fatta non concernono se non princìpi soggettivi di una determinazione completa dei rapporti che possono incontrarsi, tra i concetti dell’intelletto, dentro di questa sfera. Noi siamo realmente in possesso di conoscenze sintetiche a priori, come lo dimostrano i princìpi dell’intelletto, che anticipano l’esperienza. Ora, se qualcuno non si può assolutamente rendere conto della loro possibilità, può certamente da prima dubitare se esse siano in noi realmente a priori: ma non può tuttavia, con le semplici forze dell’intelletto, dar questo fatto per una impossibilità di quelle, e ritener vani quindi tutti i passi che la ragione faccia in quella direzione. Egli può dire soltanto: se noi scorgessimo la loro origine ed autenticità, potremmo determinare l’àmbito e i confini della nostra ragione; ma, prima che ciò accada, tutte le affermazioni di questa sono ciecamente arrischiate. E in tal modo sarebbe interamente ben fondato un dubbio universale su ogni filosofia dommatica, che fa il suo cammino senza critica della ragione stessa: se non che alla ragione non si potrebbe negare un tal progresso, quando questo fosse preparato ed assicurato da un miglior fondamento. Perché infine tutti i concetti, anzi tutti i problemi, che ci propone la ragion pura, non sono, in certo modo, nell’esperienza, ma sono anch’essi soltanto nella ragione; e devono quindi poter essere risoluti ed intesi quanto alla loro validità o vanità282. Noi poi non abbiamo il diritto di respingere questi problemi, quasi la loro soluzione fosse riposta realmente nella natura delle cose, sotto il pretesto della nostra impotenza, e di rifiutarci a una loro ulteriore indagine, poiché solo la ragione, dal suo seno, ha prodotto queste idee, della cui validità o apparenza dialettica, pertanto, essa è tenuta a render conto. Ogni polemica scettica, non è propriamente rivolta se non contro il dommatico, che, senza diffidare dei suoi princìpi oggettivi originari, cioè senza critica, prosegue gravemente il suo cammino, semplicemente per imbrogliarlo e ricondurlo alla conoscenza di sé. In sé, essa non stabilisce proprio nulla rispetto a quello che sappiamo, e a quello che, per contro, non possiamo sapere. Tutti i tentativi dommatici della ragione falliti sono f a t t i , che è sempre utile sottoporre a censura. Ma ciò non può nulla decidere

intorno alle aspettazioni della ragione, di sperare un miglior risultato dei suoi sforzi futuri, e di aspirarvi: la semplice censura non può dunque mai terminare la controversia sui diritti della ragione umana. Poiché Hume è forse il più acuto tra tutti gli scettici, e senza contrasto il più importante per l’influsso che il procedimento scettico può avere sul risveglio di un fondato esame della ragione, val la pena di far presente, per quanto si confà al mio scopo, il processo delle sue argomentazioni e i traviamenti di un uomo così intelligente e stimabile, che pure han preso le mosse sulle orme della verità. Hume forse aveva un pensiero, benché non lo abbia mai sviluppato chiaramente, che nei giudizi di una certa specie noi sorpassiamo il nostro concetto dell’oggetto. Io ho detto questa specie di giudizi s i n t e t i c i . Come io possa superare il mio concetto, che ho già, mediante l’esperienza, non soggiace a nessuna difficoltà. L’esperienza stessa è una sintesi di percezioni, che accresce il concetto che ho per mezzo di una percezione, mediante altre percezioni che sopraggiungono. Se non che noi crediamo di poter anche uscire a priori dal nostro concetto, ed ampliare così la nostra conoscenza. Questo noi tentiamo, mediante l’intelletto puro rispetto a quello che può sapere essere almeno o g g e t t o d e l l a e s p e r i e n z a, o magari mediante la ragion pura, rispetto a proprietà, delle cose, o ben anche rispetto all’esistenza di oggetti, che non possono incontrarsi mai nell’esperienza. Il nostro scettico non distinse queste due specie di giudizi, come pure avrebbe dovuto, e ritenne senz’altro impossibile questo accrescimento dei concetti da se stessi e questa, per dir così, generazione spontanea del nostro intelletto (nonché della ragione); senza essere fecondata dalla esperienza, e ritenne quindi tutti i presunti princìpi a priori di essa immaginari, e trovò che non sono altro che una abitudine derivante dall’esperienza e dalle sue leggi, e però regole semplicemente empiriche, cioè in sé contingenti, a cui noi attribuiamo una pretesa necessità e universalità. Ma egli, enunciando questa sconcertante proposizione, si riferiva al principio universalmente riconosciuto del rapporto di causa ed effetto. Infatti, poiché nessuna facoltà dell’intelletto ci può portare dal concetto di una cosa all’esistenza di qualcos’altro che sia dato per questa via universalmente e necessariamente; egli pertanto credeva di poterne inferire che, senza esperienza, noi non abbiamo nulla che possa accrescere il nostro concetto, e autorizzarci a un tal giudizio per se stesso estensivo a priori. Che la luce solare, la quale illumina la cera, insieme la fonde, laddove

indurisce l’argilla, nessun intelletto può indovinarlo da concetti, che si abbia anticipatamente di queste cose, e tanto meno dedurlo per leggi, e solo l’esperienza può istruirci di una legge come questa. Al contrario noi abbiamo visto nella Logica trascendentale che, sebbene non ci sia dato mai di sorpassare i m m e d i a t a m e n t e il contenuto del concetto, nondimeno possiamo interamente a priori, ma in rapporto a un terzo elemento, ossia alla esperienza p o s s i b i l e , quindi tuttavia a priori, conoscere la legge del rapporto di una cosa con altre. Quando dunque la cera prima solida si squaglia, io posso a priori conoscere che dev’esserci stato un antecedente (per es. il calore del sole), a cui questo fatto è seguito secondo una legge costante, benché io senza esperienza non possa, a priori e senza attendere l’ammaestramento dell’esperienza283, conoscere d e t e r m i n a t a m e n t e né dall’effetto la causa, né dalla causa l’effetto. Egli dunque concluse falsamente dalla contingenza della nostra determinazione, s e c o n d o l a l e g g e, alla contingenza della l e g g e stessa, e scambiò il passaggio dal concetto di una cosa all’esperienza possibile (passaggio che ha luogo a priori e costituisce la realtà oggettiva di esso concetto) con la sintesi degli oggetti di una esperienza effettiva, che certamente è sempre empirica; onde per altro venne a fare di un principio dell’affinità, il quale ha sede nell’intelletto ed esprime un rapporto necessario, una regola dell’associazione, che si riscontra soltanto nell’immaginazione riproduttiva e non può esprimere se non rapporti affatto contingenti, e per nulla oggettivi. Ma i traviamenti scettici di questo per altro acutissimo uomo trassero origine principalmente da un difetto, che egli ebbe comune con tutti i dommatici: che non esaminò sistematicamente tutte le specie di sintesi a priori dell’intelletto. Perché allora egli avrebbe trovato che, ad es., il p r i n c i p i o d e l l a p e r m a n e n z a, senza parlare qui degli altri, è un principio che, come quello di causalità, anticipa l’esperienza. Onde avrebbe potuto anche all’intelletto che si estende a priori e alla ragion pura segnare limiti determinati. Ma quando egli r e s t r i n g e soltanto il nostro intelletto senza d e l i m i t a r l o , e produce una sfiducia generale, ma non una conoscenza determinata dell’ignoranza per noi irrimediabile; quando sottopone a censura alcuni princìpi dell’intelletto, senza portare sul saggiatore della critica questo intelletto rispetto a tutta la sua facoltà, e oltre a negargli ciò che realmente esso non può dare, va più oltre, e gli contesta ogni facoltà di estendersi a priori, malgrado che non abbia esaminato tutta quanta questa

facoltà; allora egli urta nello scoglio, che rovescia in ogni tempo lo scetticismo, d’avvolgersi cioè esso stesso nel dubbio, poiché le sue obbiezioni si fondano solo su fatti, che sono contingenti, ma non su princìpi che possano avere per conseguenza una necessaria rinunzia al diritto delle affermazioni dommatiche. Inoltre, poiché egli non vede differenza di sorta tra le esigenze fondate dell’intelletto e le pretese dialettiche della ragione, contro di cui nondimeno sono rivolti principalmente i suoi attacchi, la ragione, il cui estro, tutto suo, non è stato qui menomamente distrutto, ma solo impedito, sente che lo spazio pel suo avanzarsi non è chiuso; e non può mai essere del tutto distolta da’ suoi tentativi, malgrado sia or qui or là punzecchiata. Infatti contro gli assalti s’arma alla difesa, e poi leva tanto più fieramente la testa per venire a capo delle proprie richieste. Ma un calcolo completo di tutto il suo potere, e la convinzione che ne deriva della certezza d’un piccol possesso accanto alla vanità di più alte pretese, pone fine a ogni conflitto, e fa sì che ci contentiamo in pace di una proprietà limitata, ma incontestabile. Contro il dommatico privo di critica, che non ha misurato la sfera del proprio intelletto, né quindi determinato secondo princìpi i limiti della sua conoscenza possibile, né sa pertanto fin da principio quanto egli può, ma pensa di scoprirlo con semplici tentativi, questi attacchi scettici sono non soltanto pericolosi, ma a dirittura fatali. Giacché, se lo si coglie ad enunciare anche una sola affermazione che non può giustificare, e di cui né anche può dai princìpi dedurre l’apparenza, il sospetto allora si rovescia su tutte le affermazioni, per quanto persuasive esse per altro possano sempre essere. E così lo scettico è il correttore che spinge il ragionatore dommatico a una sana critica dell’intelletto e della stessa ragione. Quando egli v’è giunto, non ha più a temere nessuna noia: perché egli allora distingue il suo possesso da ciò che ne è al tutto fuori, e su cui non ha nessun diritto; e né anche può essere tratto in controversie. Il metodo scettico, in verità, in se stesso, per le questioni della ragione, non è s o d d i s f a c e n t e , ma è quasi un e s e r c i z i o p r e l i m i n a r e , per svegliare la sua prudenza e additarle i mezzi solidi che possono assicurarla nel suo legittimo possesso.

Sezione Terza LA DISCIPLINA DELLA RAGION PURA RISPETTO ALLE IPOTESI

Poiché mediante la critica della nostra ragione noi finalmente sappiamo, che con l’uso puro e speculativo di essa non possiamo in fatto saper nulla, non dovrebbe essa aprire un campo tanto più largo alle i p o t e s i , essendoci per lo meno consentito d’immaginare e opinare, se non tuttavia di affermare? Se l’immaginazione non d e v e s o g n a r e , ma i m m a g i n a r e sotto lo stretto controllo della ragione, dev’esserci sempre prima qualcosa di assolutamente certo e non immaginario, non una semplice opinione: e questo è la p o s s i b i l i t à dell’oggetto stesso. Allora è ben lecito, per la realtà di questo, ricorrere alla opinione, la quale per altro, per non essere destituita di fondamento, dev’essere messa in rapporto, come principio di spiegazione, con quello che è dato realmente, e quindi è certo; e allora si dice i p o t e s i . Ora, poiché noi a priori non possiamo farci il menomo concetto della possibilità del rapporto dinamico, e la categoria dell’intelletto puro non serve a inventare una tale possibilità, ma soltanto a intenderla quando essa s’incontri nell’esperienza, noi non potremmo inventare originariamente, in base a queste categorie, un solo oggetto di una natura nuova e non riscontrabile empiricamente e porre questa a fondamento di un’ipotesi legittima; perché questo vorrebbe dire appoggiare la ragione su vane chimere, anzi che sui concetti delle cose. Non è dunque permesso immaginare nuove facoltà originarie, per es. un intelletto che abbia il potere di intuire il suo oggetto senza sensi, o una forza di attrazione senza alcun contatto, o una nuova specie di sostanze per es., che fossero situate nello spazio senza impenetrabilità, e però né anche un commercio di sostanze differente da tutti quelli che ci dà l’esperienza, nessuna presenza altrove che nello spazio, nessuna durata che non sia nel tempo. In una parola, alla nostra ragione è possibile soltanto adoperare le condizioni di un’esperienza possibile come condizioni della possibilità delle cose; ma crearsi da se stessa questa possibilità indipendentemente da tali condizioni, assolutamente no, perché concetti simili, benché scevri di contraddizione, sarebbero nondimeno senza oggetto. I concetti della ragione, come s’è detto, sono semplici idee, e non hanno certamente nessun oggetto in un’esperienza qual sia, ma non per ciò essi designano oggetti immaginati e insieme ammessi come possibili. Essi sono pensati soltanto problematicamente, per fondare in relazione con essi (quali finzioni euristiche) i princìpi regolativi dell’uso sistematico dell’intelletto nel campo dell’esperienza. Se si esce di qui, essi sono semplici enti di ragione, la

cui possibilità non è dimostrabile, e che quindi non possono né anche esser messi a fondamento, soltanto per una ipotesi, della spiegazione di fenomeni reali. P e n s a r e l’anima come semplice, è affatto lecito per mettere, secondo quest’i d e a , a principio del nostro giudizio circa i suoi fenomeni interni un’unità perfetta e necessaria di tutte le facoltà spirituali, comeché essa non possa conoscersi in concreto. Ma a m m e t t e r e l’anima come sostanza semplice (concetto trascendente), sarebbe una proposizione non solamente indimostrabile (come tante ipotesi fisiche), ma anche affatto arbitraria e ciecamente arrischiata, perché il semplice non può presentarsi mai in nessunissima esperienza; e se per sostanza qui s’intende l’oggetto permanente della intuizione sensibile, non c’è modo di vedere la possibilità di un f e n o m e n o s e m p l i c e. Esseri semplicemente intelligibili, o proprietà semplicemente intelligibili delle cose del mondo sensibile, non si possono ammettere con una fondata autorizzazione della ragione come opinione, sebbene (poiché della loro possibilità o impossibilità non si ha nessun concetto) né anche si possono dommaticamente negare per una presunta veduta migliore. Per la spiegazione dei fenomeni dati non possono addursi altre cose e princìpi all’infuori di quelle e di quelli, che, secondo le leggi già note dei fenomeni, sono messi in relazione coi fenomeni dati. Una i p o t e s i t r a s c e n d e n t a l e , in cui per la spiegazione delle cose naturali si adoperasse una semplice idea della ragione, non sarebbe quindi punto una spiegazione, poiché ciò che non s’intende abbastanza per princìpi empirici noti, sarebbe spiegato per qualche cosa di cui non s’intende proprio niente. Il principio di una tale ipotesi servirebbe propriamente, inoltre, solo all’appagamento della ragione, e non già a promuovere l’uso dell’intelletto rispetto agli oggetti. L’ordine e la finalità della natura devono a loro volta essere spiegati con cause naturali e secondo leggi naturali, e qui le stesse ipotesi più grossolane, se fisiche, sono più tollerabili di un’ipotesi iperfisica, cioè dell’appello a un creatore divino che si presuppone a tal uopo. Sarebbe infatti un principio della ragion pigra (ignava ratio), mettere da parte tutte le cause, di cui mercé una esperienza continuata si può impgare a conoscere l’oggettiva realtà, almeno quanto alla possibilità, per adagiarsi in una semplice idea assai comoda alla ragione. Ma, per ciò che concerne la totalità assoluta dei princìpi di spiegazione nella loro serie, non può costituire un ostacolo rispetto agli oggetti del mondo, poiché, non essendo questi se non fenomeni, in essi non si

può sperar mai nulla di completo attraverso la sintesi delle serie di condizioni. Non si possono permettere ipotesi trascendentali dell’uso speculativo della ragione, e libertà di servirsi in ogni caso, per supplire al difetto di princìpi fisici di spiegazione, di princìpi iperfisici, da una parte perché la ragione non viene per tal modo condotta più in là, che anzi sopprime il progresso tutto quanto del suo uso; dall’altra perché questa licenza alla fine le farebbe perdere tutti i frutti del suolo che è suo, voglio dire dell’esperienza. Infatti, se la spiegazione della natura qua o là, ci diventa difficile, noi abbiamo sempre sotto mano un principio trascendente di spiegazione, che ci esime da quella ricerca, e mette fine alla nostra indagine, non con una conoscenza, ma con la totale incomprensibilità di un principio, che già era escogitato anticipatamente in modo da contenere il concetto dell’assoluto Primo. Il secondo punto che si richiede per l’ammissibilità d’una ipotesi, è la sufficienza di essa per determinare a priori le conseguenze che son date. Se a questo scopo si è obbligati a ricorrere a ipotesi sussidiarie, esse danno il sospetto di una semplice invenzione poiché ognuna di esse in sé ha già bisogno di quella stessa giustificazione, che era necessaria al pensiero messo a fondamento, e quindi non può dare nessuna testimonianza utile. Se col presupposto di una causa illimitatamente perfetta non c’è davvero difetto di princìpi che spieghino ogni finalità, ordine e grandezza che si trovano nel mondo, quell’ipotesi tuttavia ha bisogno, per le anomalie che si dimostrano, almeno secondo i nostri concetti, e per i mali, ancora di nuove ipotesi per esser messa al sicuro da quelle e da questi, che son pure obbiezioni contro di essa. Se la sostanzialità semplice dell’anima umana, che è stata posta a base de’ suoi fenomeni, è minima dalle difficoltà dei suoi fenomeni simili alle alterazioni di una materia (crescere e decrescere), nuove ipotesi devono essere chiamate in aiuto, che non sono veramente senza apparenza, ma son pure senza alcuna attendibilità, all’infuori di quella che dà loro l’opinione ammessa come principio fondamentale, in favore della quale esse tuttavia devon parlare. Se le affermazioni della ragione tolte qui ad esempio (unità incorporea dell’anima ed esistenza di un Essere supremo), non han da valere come ipotesi, bensì come dommi provati a priori, allora non si tratta più di esse. Ma in tal caso si badi, che la prova abbia la certezza di una dimostrazione

apodittica. Perché voler dare la realtà di tali idee soltanto come v e r o s i m i l e , è un proposito così assurdo come se si volesse dimostrare soltanto come verosimile una proposizione della geometria. La ragione separata da ogni esperienza, può conoscere tutto solo a priori e necessariamente, o non può conoscere assolutamente nulla; quindi il suo giudizio non è mai un’opinione, ma o astensione da ogni giudizio, ovvero apodittica. Opinioni e giudizi verosimili di ciò che s’appartiene alle cose, possono aversi soltanto come princìpi di spiegazione di quello che è effettivamente dato, o come conseguenze, secondo leggi empiriche, di quello che sta effettivamente a fondamento, e però solamente nella serie degli oggetti dell’esperienza. Fuori di questo campo, o p i n a r e , è lo stesso che giuocare coi pensieri, salvo che non si credesse che sopra una via incerta si possa forse trovare la verità. Ma, quantunque in questioni meramente speculative della ragion pura non abbian luogo ipotesi, per fondarvi sopra proposizioni, esse son tuttavia affatto ammissibili all’unico fine di difenderla, non cioè per uso dommatico, ma polemico. Io per altro intendo per difesa non l’accrescimento degli argomenti della propria affermazione, ma solo il mandar a vuoto le conoscenze illusorie dell’avversario, intese a rovinare la proposizione da noi affermata. Ora tutte le proposizioni sintetiche rampollanti dalla ragion pura hanno in sé questo di speciale: che se chi afferma la realtà di certe idee, non ne sa mai tanto rendere certa la sua proposizione, dall’altra parte l’avversario non ne può sapere nulla di più per affermare il contrario. Questa parità di sorte della ragione umana non favorisce per vero nessuno dei due nella conoscenza speculativa, ed e lì anche giusta lizza a polemiche che non si comporranno mai. Ma si mostrerà in seguito, che rispetto all’uso p r a t i c o la ragione ha il diritto di ammettere qualche cosa, che essa in nessun modo sarebbe autorizzata a presupporre senza prove sufficienti nel campo della pura speculazione, perché tutti questi presupposti danneggerebbero quella perfezione della speculazione, di cui l’interesse pratico non si preoccupa punto. Quivi dunque essa è nel possesso, la cui legittimità non ha bisogno di dimostrare, e di cui infatti non potrebbe né anche addurre la prova. L’avversario, dunque, deve provare. Ma poiché costui, degli oggetti messi in dubbio per dimostrarne il non essere, ne sa tanto poco quanto il primo, che ne afferma la realtà; qui si dimostra un vantaggio dalla parte di chi afferma qualcosa, come presupposto praticamente necessario (melior est conditio possidentis). È cioè in sua libertà di servirsi,

come per legittima difesa, per la buona causa, dello stesso mezzo di cui si serve il suo avversario contro di essa, cioè delle ipotesi, le quali non gioveranno punto a rafforzare la dimostrazione di essa, ma a dimostrare soltanto che l’avversario, dell’oggetto della controversia, ne sa troppo poco per potersi lusingare di un vantaggio di conoscenza speculativa in confronto della nostra. Le ipotesi dunque, nel campo della ragion pura, sono permesse soltanto come armi di guerra, non per fondarvi un diritto, bensì solo per difenderlo. Ma qui noi dobbiamo sempre cercare il nemico dentro di noi stessi. Giacché la ragione speculativa, nel suo uso trascendentale, i n s e s t e s s a è dialettica. Le obbiezioni, che si potrebbero temere, sono in noi stessi. Noi le dobbiamo trar fuori, come pretensioni antiche, ma non prescritte mai, per fondare sul loro annientamento una pace perpetua. La calma esteriore è solo apparente. Il germe delle ostilità, che è nel fondo della natura umana, dev’esser estirpato; ma come possiamo noi estirparlo, se non gli diamo la libertà, anzi il nutrimento, perché germogli e produca l’erbaccia, e si venga così a scoprire, e lo si possa quindi distruggere dalla radice? Ruminate dunque voi stessi le obbiezioni, in cui non s’è imbattuto per anco nessun avversario, e prestategli anzi le armi, o accordategli il posto più favorevole, che egli si possa comunque desiderare. Così facendo non c’è da temere, ma c’è ben da sperare, che, cioè, vi procaccerete un possesso che in avvenire non sarà mai osteggiato. Ora al vostro compiuto armamento appartengono anche le ipotesi della ragion pura, le quali, sebbene soltanto armi di piombo (poiché esse non sono acciaiate da nessuna legge dell’esperienza), pur sempre sono potenti quanto quelle di cui può mai servirsi contro di voi un nemico qual sia. Se dunque contro la natura, attribuita all’anima (sotto qualche altro rispetto, non speculativo) di essere immateriale e non soggetta al alcun cangiamento corporeo, urta la difficoltà, che intanto l’esperienza par dimostrare che l’elevarsi come il decadere delle nostre facoltà spirituali non sono altro che diverse modificazioni de’ nostri organi; voi potete indebolire la forza di quest’argomento con l’ammettere che il nostro corpo non è se non il fenomeno fondamentale, a cui, come a condizione, si riferisce nel presente stato (nella vita) tutta la facoltà del senso, e quindi tutto il pensiero: che la separazione dal corpo è la fine di questo uso sensibile della vostra facoltà conoscitiva, e l’inizio di quello intellettuale. Il corpo insomma sarebbe, non la

causa del pensiero, ma una semplice condizione restrittiva di esso, e però certo da considerare come una condizione promotrice della vita sensitiva e animale, ma perciò stesso come un impedimento di quella pura e spirituale; e la dipendenza della prima dalla costituzione corporea non dimostra nulla per la dipendenza di tutta la vita dallo stato de’ nostri organi. Ma voi potete andare più in là, e trovare dubbi affatto nuovi, o non ancora sollevati, o non abbastanza approfonditi. L’accidentalità delle generazioni, che nell’uomo, come nelle creature irragionevoli, dipende dall’occasione, nonché spesso dall’aver o non aver da vivere, dal modo di vita, dai suoi umori e fantasie e spesso anche dal vizio, costituisce una grave difficoltà contro la credenza nella durata eterna di una creatura, la cui vita è cominciata in circostanze così insignificanti e abbandonate interamente alla nostra libertà. Quanto alla durata di tutta la specie (qui sulla terra), la difficoltà, rispetto a questa, è minore, perché quello che è causale nell’individuo non è meno soggetto a legge nel tutto; ma, rispetto a ciascun individuo, pare affatto strano attendersi un effetto così importante da cause così futili. Pure contro di ciò voi potete richiamare un’ipotesi trascendentale: che tutta la vita è soltanto intelligibile, non soggetta punto a cangiamenti di tempo, e non è cominciata con la nascita, né finisce con la morte; che questa vita non è altro che un semplice fenomeno, cioè una rappresentazione sensibile della vita pura dello spirito, e l’intero mondo dei sensi è una semplice immagine, che sta innanzi al nostro presente modo di conoscere, e, al pari di un sogno, non ha in sé nessuna realtà oggettiva; che se noi intuissimo le cose e noi stessi, c o m e e s s e s o n o e c o m e n o i s i a m o , noi ci vedremmo in un mondo di nature spirituali con cui il nostro unico vero commercio né è cominciato con la nascita, né cesserà con la morte della carne (come semplici fenomeni); e così via. Quantunque di tutto questo, che noi qui mettiamo innanzi a difesa, ipoteticamente, contro l’attacco, non ne sappiamo niente, e non l’affermiamo sul serio, ma tutto sia non già un’idea della ragione, bensì soltanto un concetto e s c o g i t a t o a difesa, in ciò tuttavia ci comportiamo affatto ragionevolmente, in quanto all’avversario, che crede di aver esaurito ogni possibilità, dando falsamente la mancanza delle condizioni empiriche di essa per una dimostrazione della totale impossibilità di quel che è creduto da noi, dimostriamo soltanto, che egli non può con semplici leggi empiriche abbracciare il campo intero delle cose possibili in sé, come noi non possiamo

acquistar qualche cosa fondamentale per la nostra ragione al di fuori dell’esperienza. Chi mette fuori questi ipotetici mezzi contro le pretese dell’avversario temerariamente negatore, non dovrà perciò esser ritenuto come uno che voglia appropriarseli come sue proprie opinioni. Egli li abbandona appena si sia sbrigato della presunzione dommatica dell’avversario. Infatti, quantunque sia da ritenere discretezza e moderazione il contenersi, rispetto alle asserzioni altrui, in un atteggiamento puramente negativo284, pure è sempre non meno orgogliosa e immaginaria la sua pretesa, appena egli queste sue obbiezioni voglia valere come prove del contrario, che se egli avesse aderito al partito positivo e alla sua affermazione. Di qui dunque si vede, che nell’uso speculativo della ragione le ipotesi non hanno nessuna validità come opinioni in se stesse, ma ne hanno una soltanto relativa alle pretese trascendenti contrarie. Infatti l’estensione dei princìpi dell’esperienza possibile alla possibilità delle cose in generale è, per l’appunto, tanto trascendente quanto l’affermazione della realtà oggettiva di concetti tali che non possono trovare i loro oggetti se non fuori dei limiti di ogni esperienza possibile. Ciò che la ragion pura giudica in modo assertorio, deve (come tutto ciò che la ragione conosce) essere necessario, o non è niente del tutto. Sicché essa nel fatto non contiene assolutamente nessuna opinione. Ma le dette ipotesi sono soltanto giudizi problematici, che per lo meno non son contraddetti da nulla, quantunque certamente da nulla possono esser dimostrati: e sono pertanto pure285 opinioni private, ma tuttavia (anche per la tranquillità interna) non si può farne a meno di fronte a scrupoli che si svegliano. Ma bisogna che esse siano conservate in questa qualità, e badare con ogni cura che non passino per credibili in se stesse, e di una validità assoluta, e affoghino la ragione sotto le invenzioni e le illusioni.

Sezione Quarta LA DISCIPLINA DELLA RAGION PURA RISPETTO ALLE SUE DIMOSTRAZIONI

Le dimostrazioni delle proposizioni trascendentali e sintetiche hanno, tra tutte le dimostrazioni di una conoscenza sintetica a priori, la proprietà che in esse la ragione, mediante i suoi concetti, non si può volgere direttamente all’oggetto, ma deve prima dimostrare a priori la validità oggettiva dei

concetti e la possibilità della loro sintesi. Ciò non è per dir così, semplicemente una regola necessaria di prudenza, ma concerne l’essenza e la possibilità delle dimostrazioni stesse. Se io devo uscire a priori dal concetto di un oggetto, ciò è impossibile senza un particolare filo conduttore, che si trovi fuori di questo concetto. Nella matematica è l’intuizione a priori, che guida la mia sintesi, e lì tutti i raziocinii possono esser ricondotti immediatamente all’intuizione pura. Nella conoscenza trascendentale, finché si ha da fare con concetti dell’intelletto, questa regola è l’esperienza possibile. La dimostrazione, cioè, non mostra che il concetto dato (per es. di quel che accade) conduca direttamente a un altro concetto (a quello di causa); perché un passaggio di questa specie sarebbe un salto, che non si potrebbe giustificare; ma mostra che l’esperienza stessa, quindi l’oggetto dell’esperienza, senza un tal rapporto, sarebbe impossibile. La dimostrazione, dunque, dovrebbe insieme far vedere la possibilità di giungere sinteticamente e a priori a una certa conoscenza delle cose, la quale nel concetto di esse non è contenuta. Senza questa attenzione, le dimostrazioni corrono come acque, che spezzano le lor dighe, senza freno e attraverso i campi, dove casualmente le trascina il pendio dell’associazione inconsapevole286. L’apparenza della convinzione, che riposa su cause soggettive di associazione, e che è ritenuta come la visione d’un’affinità naturale, non può controbilanciare la titubanza, che ragionevolmente deve sorgere a un passo così arrischiato. Quindi anche tutti i tentativi di dimostrare il principio di ragion sufficiente, per confessione generale dei competenti, sono stati vani, e prima che si facesse innanzi la critica trascendentale, poiché non si poteva tuttavia abbandonare questo principio, si preferiva appellarsi coraggiosamente al buon senso (rifugio che dimostra, in ogni tempo, che la causa della ragione è disperata), anzi che voler tentare nuove prove dommatiche. Ma se la proposizione che dev’essere provata è un’affermazione della ragion pura, ed io voglio, anzi, mediante semplici idee spingermi al di là de’ miei concetti empirici, essa allora dovrebbe, e molto più, contenere in sé la giustificazione di un tal passo della sintesi (quando altrimenti esso fosse possibile), come una condizione necessaria della sua dimostrazione. Per quanta quindi possa essere l’apparenza della presunta dimostrazione della natura semplice della nostra sostanza pensante dall’unità della sua appercezione, c’è tuttavia contro di essa una ragione ineliminabile d’esistenza: ed è che, non essendo tuttavia la semplicità assoluta un concetto

che possa essere immediatamente riferito a una percezione, ma deve essere semplicemente argomentato come idea, non si può punto vedere come la semplice coscienza, – che è contenuta in o g n i p e n s i e r o, o almeno può esservi contenuta, quantunque essa per vero non sia, in quanto v’è contenuta, se non una semplice rappresentazione, debba portare alla coscienza e alla conoscenza di una cosa, n e l l a q u a l e il pensiero può essere soltanto contenuto. Perché se io mi rappresento la forza del mio corpo in movimento, per ciò stesso è per me un’unità assoluta, e la mia rappresentazione di esso è semplice; quindi io posso esprimerla anche mediante il movimento d’un punto, poiché il suo volume qui non fa nulla, e, senza diminuzione della forza, può esser concepito piccolo quanto si vuole, e però anche come ristretto a un punto. Ma da questo io non dedurrò che, se non m’è dato altro che la forza motrice d’un corpo, il corpo può essere pensato come sostanza semplice, perché la sua rappresentazione astrae da ogni grandezza di contenuto spaziale, e quindi è semplice. Ora, poiché il semplice nell’astrazione è affatto diverso dal semplice dell’oggetto, e poiché l’Io, che nel primo senso non comprende punto in sé alcuna molteplicità, nel secondo, significando esso l’anima stessa, può essere un concetto molto complesso, da contenere cioè s o t t o d i s é e da designare moltissimi elementi, io scopro un paralogismo. Se non che, per prevederlo avanti (poiché senza una tal previsione antecedente non si potrebbe concepire verun sospetto contro la dimostrazione), è assolutamente necessario aver alla mano un criterio perpetuo della possibilità di queste proposizioni sintetiche, che devon provare più di quel che può dare l’esperienza; criterio che consiste in questo: che la dimostrazione non sia riferita direttamente al predicato desiderato, sibbene solo mediante un principio della possibilità di estendere a priori il nostro concetto dato fino alle idee, e di realizzar queste. Se si usa sempre questa precauzione, se, prima ancora di tentare la dimostrazione, ci si consiglia saggiamente in noi stessi, come e con qual principio di speranza sia dato bene aspettarsi un tale estendimento per mezzo della ragion pura, e donde in casi siffatti si vuol desumere queste conoscenze, che non possono essere svolte dai concetti e né anche anticipate in rapporto a una esperienza possibile; allora ci si può risparmiare molte gravi e pure infeconde fatiche, in quanto non si attribuisce più alla ragione ciò che evidentemente sorpassa il suo potere, o piuttosto si sottomette questa ragione, che non si lascia volentieri limitare negli impulsi della sua aspirazione ad espansioni speculative, alla

disciplina della continenza. La p r i m a regola, dunque, è questa: non tentare nessuna dimostrazione trascendentale, senza aver prima esaminato, e quindi giustificato, donde si vuol prendere i princìpi su cui fondarla, e con qual diritto da essi si possa attendere il buon risultato deduttivo. Se sono princìpi dell’intelletto (per es. di causalità), è vano voler giungere mediante essi a idee della ragion pura; perché essi non valgono se non per oggetti d’una possibile esperienza. Se devono essere princìpi derivanti dalla ragion pura, ogni fatica è da capo inutile. Perché la ragione ne ha bensì di princìpi, ma, come princìpi oggettivi essi sono tutti quanti dialettici, e possono in tutti i casi esser validi soltanto come princìpi regolativi dell’uso sistematico287 dell’esperienza. Ma se queste presunte dimostrazioni esistono già, alla fallace convinzione contrapponete il non liquet del vostro maturo giudizio; e quantunque non possiate penetrare la loro illusione, voi tuttavia avete per voi il pieno diritto di chiedere la deduzione dei princìpi che vi sono adoperati; deduzione che, se essi devono essere derivati dalla semplice ragione, non si può far mai. E così voi non avete bisogno mai d’occuparvi dello sviluppo o confutazione di un’apparenza infondata; ma potete rimandare in massa, in una volta, tutta la dialettica, inesauribile in espedienti, al tribunale della ragion critica, che domanda leggi. La s e c o n d a proprietà delle dimostrazioni trascendentali è questa, che per ogni proposizione trascendentale non può darsi se non u n a s o l a dimostrazione. Se io non devo ricavarla da concetti, ma dalla intuizione che corrisponde a un concetto, sia essa un’intuizione pura, come nella matematica, o empirica, come nella fisica; allora l’intuizione posta a fondamento mi dà una materia molteplice per proposizioni sintetiche, che io posso unificare in più d’un modo, come, potendo muovere da più di un punto, posso giungere per diverse vie alla medesima proposizione. Ma ogni proposizione trascendentale muove semplicemente da un concetto unico, ed enuncia la condizione sintetica della possibilità dell’oggetto secondo questo concetto. Il fondamento, dunque, della dimostrazione non può esser determinato se non come un solo, poiché esso, fuori di questo concetto, non è altro che ciò per cui l’oggetto possa esser determinato, e la dimostrazione dunque non può contener altro che la determinazione di un oggetto in generale secondo questo concetto, che è anche non più che unico. Noi, per es., nell’Analitica trascendentale, il principio «Tutto ciò che accade, ha una causa» lo abbiamo dimostrato in base

all’unica condizione della possibilità oggettiva di un concetto di ciò che in generale accade, notando che la determinazione di un evento nel tempo, quindi questo (evento) come appartenente all’esperienza, sarebbe impossibile senza sottostare a una tale regola dinamica. Ora questo è anche l’unico argomento possibile: perché soltanto in quanto al concetto, mediante la legge di causalità, vien assegnato un oggetto, l’evento rappresentato ha validità oggettiva, cioè verità. Si sono tentate, a dir vero, anche altre dimostrazioni di questo principio, desumendolo per es. dalla contingenza; se non che, se si guarda questa prova alla luce, non si può trovare altro contrassegno della contingenza che l’a c c a d e r e , cioè l’esistere cui precede il non essere dell’oggetto, e si torna, quindi, sempre allo stesso principio di dimostrazione. Se si deve dimostrare la proposizione «Tutto ciò che pensa è semplice», non ci si attiene a quel che c’è di molteplice nel pensiero, ma ci si ferma soltanto al concetto dell’Io, che è semplice, e a cui ogni pensiero è riferito. Lo stesso accade con la dimostrazione trascendentale dell’esistenza di Dio, che poggia unicamente sulla reciprocità dei concetti dell’Essere realissimo e necessario, e non può esser tentata per altra via. Per questa avvertenza la critica delle affermazioni della ragione vien ridotta a ben poca cosa. Dove la ragione compie l’opera sua per semplici concetti, ivi soltanto una sola dimostrazione è possibile, se ne è comunque possibile una. Quindi, già se si vede farsi innanzi il dommatico con dieci prove, allora si può credere con sicurezza, che egli non ne possiede né anche una. Perché, se ne avesse una, che (come dev’essere nelle cose della ragion pura) dimostrasse apoditticamente, a che egli avrebbe bisogno delle altre? Il suo scopo dunque, come quello di un avvocato del parlamento, è solo che ci sia un argomento per questi, e uno per quelli; di profittare, cioè, della debolezza dei suoi giudici, che, senza impacciarsi profondamente della causa e per liberarsene tosto, afferrano quel che di meglio prima si presenti loro, e decidono in conseguenza. La t e r z a regola speciale della ragion pura, quando essa, rispetto alle dimostrazioni trascendentali, è sottoposta a una disciplina, è: che le sue dimostrazioni non devono essere mai a p a g o g i c h e , ma sempre o s t e n s i v e . La prova diretta od ostensiva è, in ogni maniera di conoscenza, quella che unisce con la certezza della verità la cognizione delle fonti di essa; l’apagogica invece può procurare bensì la certezza, ma non comprensibilità della verità nel suo rapporto con i princìpi della sua possibilità. Quindi le

prove di questa seconda specie sono piuttosto sussidi che un procedimento che soddisfi tutti gli scopi della ragione. Pure queste hanno un vantaggio di evidenza sulle prove dirette in ciò, che la contraddizione ogni volta porta seco più chiarezza nella rappresentazione, che non il miglior nesso, e per tanto s’accosta di più all’intuitivo di una dimostrazione. La causa specifica dell’uso delle prove apagogiche in diverse scienze è ben questa. Quando i princìpi, da cui si deve ricavare una certa conoscenza, sono troppo molteplici o troppo profondamente celati, si tenta se non sia possibile raggiungerli attraverso le conseguenze. Ora il modus ponens di conchiudere alla verità di una conoscenza dalla verità delle sue conseguenze, sarebbe permesso allora soltanto, quando fossero vere tutte le possibili conseguenze; perché allora per esse non è possibile se non un solo principio, il quale dunque è anch’esso il vero. Ma questo procedimento è impossibile, poiché eccede le nostre forze conoscere tutte le conseguenze possibili di una qualsiasi proposizione data; pure ci si serve di questa specie di ragionamento, sebbene, certo, con qualche indulgenza, quando si tratta di provare una cosa soltanto come ipotesi, ammettendo questo ragionamento per analogia: che, se quante conseguenze si son sempre cercate, altrettante concordano bene col principio assunto, anche tutte le altre possibili vi concorderanno. Perciò su questa via non può mai una ipotesi trasformarsi in verità dimostrata. Il modus tollens dei sillogismi, che conchiudono dalle conseguenze ai princìpi non prova soltanto con tutto rigore, ma anche con perfetta facilità. Perché se da una proposizione può esser ricavata anche una sola conseguenza falsa, questo principio è falso. Ora, invece di percorrere la serie intera dei princìpi in una dimostrazione ostensiva che può portare alla verità di una conoscenza attraverso la cognizione completa della sua possibilità, se si può soltanto, tra le conseguenze derivanti dal suo contrario, trovarne falsa una sola, allora anche questo contrario è falso, e quindi la conoscenza, che si doveva dimostrare, è vera. Ma il mondo apagogico della dimostrazione non può esser consentito se non nelle scienze, in cui sia impossibile s o s t i t u i r e il soggettivo delle nostre rappresentazioni all’oggettivo, ossia alla conoscenza di quello, che è nell’oggetto. Ma dove domina quest’ultimo288, deve spesso darsi, che il contrario di una data proposizione o contraddica soltanto alle condizioni soggettive del pensiero ma non all’oggetto, o che le due proposizioni contraddicano solamente a una condizione soggettiva, che è ritenuta

falsamente per oggettiva; e, poiché la condizione è falsa, possono entrambe essere false, senza che dalla falsità dell’una si possa conchiudere alla verità dell’altra. Nella matematica questa surrezione è impossibile; quindi esse hanno qui il loro proprio posto. Nella fisica, poiché in essa tutto è fondato su intuizioni empiriche, può per verità tale surrezione essere prevenuta il più delle volte mercé il confronto di molte osservazioni; se non che questa specie di prova quivi è anche il più delle volte irrilevante. Ma i tentativi trascendentali della ragion pura sono tutti istituiti dentro il mezzo proprio dell’apparenza dialettica, cioè del soggettivo, che nelle sue premesse si offre, o a dirittura s’impone, alla ragione come oggettivo. Ora qui non è dato assolutamente, per ciò che concerne proposizioni sintetiche, giustificare le proprie affermazioni col confutare il contrario. Perché o questa confutazione non è altro che la semplice rappresentazione del conflitto dell’opinione opposta con le condizioni soggettive della concepibilità mediante la nostra ragione, conflitto che non autorizza punto a rigettare la cosa stessa (come, per es., la necessità incondizionata nell’esistenza di un Essere non può assolutamente essere concepita da noi, e a ragione quindi ci si oppone s o g g e t t i v a m e n t e a ogni dimostrazione speculativa di un Essere supremo necessario, ma, a torto, alla possibilità di un tale essere originario in s e s t e s s o); o entrambe le parti, così quella che afferma come quella che nega, ingannate dall’apparenza trascendentale, prendono a fondamento un concetto impossibile dell’oggetto, e allora vale la regola: non entis nulla sunt praedicata; è falso, cioè, tanto ciò che dell’oggetto si dice affermando, quanto ciò che si dice negando, e non si può dalla confutazione del contrario giungere apagogicamente alla conoscenza della verità. Così, per es., se si suppone che il mondo sensibile in sé sia dato nella sua totalità, è falso, che esso, rispetto allo spazio, o dev’essere infinito, o finito e limitato, per la ragione che tutte le due cose son false. Infatti fenomeni (come semplici rappresentazioni), che tuttavia siano dati in s e s t e s s i (come oggetti), sono qualcosa d’impossibile, e la infinità di questo tutto immaginario sarebbe, veramente, incondizionata, ma contraddirebbe (poiché tutto nei fenomeni è condizionato) con la determinazione quantitativa incondizionata, che pure è presupposta nel concetto. La maniera apagogica di dimostrare è anche l’illusione propria, a cui sono stati in ogni tempo presi gli ammiratori della solidità de’ nostri ragionatori

dommatici: essa è stata quasi il campione, che vuol difendere l’onore e il diritto incontestabile della parte abbracciata, impegnandosi formalmente ad azzuffarsi con chiunque volesse metterlo in dubbio, benché con una tale rodomontata non si metta in sodo nulla quanto alla cosa, ma soltanto quanto alle forze rispettive degli avversari, o meglio solo per la parte di colui che fa da aggressore. Gli spettatori, vedendo che ciascuno nella serie delle sue prove ora è vincitore e ora è vinto, ne traggono spesso motivo per dubitare scetticamente dell’oggetto dello stesso conflitto. Ma in ciò essi non hanno ragione, e basta gridar loro: non defensoribus istis tempus eget. Ognuno deve porre la sua causa mediante una dimostrazione legittima, condotta per una deduzione trascendentale degli argomenti, cioè direttamente, affinché si vegga che cosa le sue pretese razionali abbiamo per se stesse da addurre. Giacché se il suo avversario si fonda su princìpi soggettivi, allora è facile confutarlo, ma senza vantaggio pei dommatico, che egualmente si attacca a cause egualmente soggettive di giudizio, e simigliantemente può dal suo nemico esser messo alle strette. Ma se entrambe le parti procedono direttamente, o esse si accorgeranno da sé della difficoltà, anzi impossibilità di trovare il titolo per le loro asserzioni, e non potranno infine che appellarsi alla prescrizione; o la critica scoprirà facilmente l’apparenza dommatica, e costringerà la ragion pura a deporre le sue esagerate pretese dell’uso speculativo e a ritirarsi dentro i limiti del suo terreno proprio, cioè dei princìpi pratici. 271

So bene che nel linguaggio della scuola si è soliti usare il termine d i s c i p l i n a come equivalente di quello d’istruzione. Se non che vi sono tanti altri casi, in cui la prima espressione, nel senso di e d u c a z i o n e (Zucht), è accuratamente distinta dalla seconda nel senso di i n s e g n a m e n t o (Belehrung), e anche la natura stessa delle cose richiede che si conservi per questa distinzione le sole espressioni appropriate, e io vorrei non si permettesse mai di usare quel termine se non nel significato negativo (N. d. K.). 272 Bestrehungen = sforzi. 273 Il Wille corregge «die durch die» in «durch die die» ottenendo: «da cui la quantità viene generata o modificata» (N. d. R.). 274 Per mezzo del concetto di causa io esco effettivamente dal concetto empirico di un fatto (in cui qualcosa avviene), ma non passo alla intuizione, che rappresenta in concreto il concetto della causa, sibbene alle condizioni temporali in generale, che potrebbero esser trovate nell’esperienza conformemente al concetto di causa. Io mi muovo, dunque, semplicemente secondo concetti, e non posso procedere per costruzione dei concetti, poiché il concetto è regola della sintesi delle percezioni, che non sono intuizioni pure e quindi non si possono d a r e a priori (N. d. K.). 275 E s s e r e e s p l i c i t o significa la chiarezza e sufficienza delle note; i limiti, la precisione, che non ce ne sono più di quanto appartengono al concetto esplicato; o r i g i n a r i a m e n t e , che

questa determinazione dei limiti non sia derivata da qualche altra cosa e non abbia quindi bisogno di una dimostrazione, che renderebbe la presunta definizione disadatta a stare a capo di tutti i giudizi intorno a un oggetto (N. d. K.). 276 La filosofia formicola di definizioni difettose, specialmente di quelle, che contengono sì, realmente, alcuni elementi per la definizione, ma non li contengono ancora completamente. Ora, se non si potesse assolutamente cominciare nulla con un concetto prima che lo si fosse definito, sarebbe una faccenda difficile per ogni filosofare. Ma poiché, fin dove giungono gli elementi (dell’analisi), se ne può fare sempre un uso buono e sicuro, si possono anche adoperare molto utilmente definizioni difettose, cioè proposizioni che, propriamente, non sono ancora definizioni, ma sono del resto vere, e però approssimazioni, ad esse. Nella matematica la definizione spetta ad esse, nella filosofia ad melius esse. È bello, ma spesso molto difficile, pervenirvi. I giuristi cercano ancora una definizione pel loro concetto del diritto (N. d. K.). 277 Lehrsprüche. 278 Schein = a p p a r e n z a (di vero). 279 Giov. Giorgio Sulzer (1720-1779), autore della Allgem. Theorie der schönen Künste (177174), e d’una serie di memorie accademiche, raccolte col titolo di Vermischten philos. Schriften (1773-85). 280 Religionsabsicht: inaccettabile la variante del Wille (Kantst., IV, p. 314): Religionsansicht = punto di vista o veduta religiosa. L’Ansicht di Priestley è quella scientifica; l’Absicht, invece, gli è data dalla religione. – Giuseppe Priestley n. nel 1733 nella contea di York, m. nel 1804, associazionista, materialista. Scrisse: Hartley’s Theory of Human Mind on the Principles of the Association of Ideas (1775); Disquisitions relating to Matter and Spirit (1777); The Doctrine of Philosophical Necessity (1777); Free Discussions of the Doctrines of Materialism (1778). 281 Riferisco derselben a sie, cioè agli oggetti, anziché a diese Fläche (questa superficie), come fa il Barni (II, 327) «quant à la circonscription qui les contient, à son étendue et à ses limites»; e il Pacaud e il Tremeysagues (p. 597): «au point de vue de la circoscription qui les contient, de sa grandeur et de ses bornes». Il curioso è poi che questi ultimi traducono, come il Barni, qui les contient, pur dicendo di seguire il testo Erdmann (5a ed., 1900), che dà (p. 554): «den sie enthält». 282 L’edizione dell’Accademia ha Richtigkeit (esattezza); ma deve essere un errore di stampa per Nichtigkeit. Cfr. poche righe dopo: von deren Gültigkeit oder dialektischen Scheine... Rechenschaft zur geben = della cui validità o apparenza dialettica (= Nichtigkeit)... render conto. 283 Questa ripetizione è nel testo: «ohne Erfahrung... a priori und ohne Belehrung der Erfahrung». 284 Weigernd und verneinend. 285 «pure», se si accetta h correzione dello Hartenstein, reine; se si conserva il keine, «non sono punto opinioni private» (N. d. R.). 286 Verborgenen = nascosta. 287 Systematisch zusammenhangenden = sistematicamente coerente. 288 L’oggettivo.

Capitolo Secondo Il canone della ragion pura

È umiliante per la ragione umana che essa nel suo uso puro non conchiuda nulla, e per di più abbia bisogno anche di una disciplina per frenare i suoi eccessi e prevenire le illusioni che gliene vengano. Se non che, d’altra parte, è una cosa che la risolleva e le infonde fiducia in se medesima, che essa possa e debba esercitare questa stessa disciplina, senz’ammettere sopra di sé alcun altra censura, intanto che i limiti, che essa è obbligata a imporre al suo uso speculativo, limitano insieme le pretese sofistiche di ogni avversario; e possa quindi assicurare contro tutti gli attacchi quanto le può tuttavia restare delle sue esigenze, una volta eccessive. La grandissima, e forse unica, utilità d’ogni filosofia della ragion pura è, dunque, soltanto negativa: poiché, essa cioè non serve da organo per l’estendimento, ma da disciplina per la delimitazione, e in luogo di scoprire la verità, ha il merito silenzioso d’impedire gli errori. Intanto, deve pur esserci in qualche parte una sorgente di conoscenze positive appartenenti al dominio della ragion pura, e che dian luogo ad errori, forse, solo per un malinteso, ma nel fatto costituiscano il fine d’ogni industria della ragione. Infatti, altrimenti, a qual motivo si dovrebbe ascrivere il desiderio indomabile di fermare dovunque il piede assolutamente di là dai limiti dell’esperienza? Essa presentisce oggetti aventi per essa un grande interesse. Entra nella via della speculazione pura, per accostarsi ad essi; ma essi s’involano da lei. Probabilmente sarà sperabile per lei una miglior ventura sull’unica via, che le rimane, quella dell’uso p r a t i c o . Io intendo per canone il complesso dei princìpi a priori del retto uso di certe facoltà conoscitive in generale. Così la logica generale, nella sua parte analitica, è un canone per l’intelletto e per la ragione in generale, ma solo rispetto alla forma, perché essa astrae da ogni contenuto. Così l’Analitica trascendentale è stata il canone dell’i n t e l l e t t o p u r o; perché questo

soltanto è capace di vere conoscenze sintetiche a priori. Ma dove non sia possibile il retto uso di una facoltà conoscitiva, non c’è canone. Ora ogni conoscenza sintetica della ragion pura nel suo uso speculativo, giusta tutte le prove fin qui addotte, è affatto impossibile. Dunque, non si dà punto canone dell’uso speculativo della medesima (poiché questo è del tutto dialettico), ma tutta la logica trascendentale non è, per questo aspetto, se non una disciplina. Per conseguenza se, dovunque ci sia un retto uso della ragion pura, ci deve essere anche un c a n o n e di esso, questo non riguarderà l’uso speculativo, ma l’u s o p r a t i c o d e l l a r a g i o n e, che or dunque noi vogliamo indagare.

Sezione Prima DELLO SCOPO ULTIMO DELL’USO DELLA NOSTRA RAGIONE La ragione da una tendenza della sua natura è spinta a proceder oltre l’uso empirico, e da avventurarsi, in un uso puro per semplici idee, fino agli estremi confini di ogni conoscenza e trovar pace soltanto nel compimento del suo giro, in un tutto sistematico per sé stante. Questa tendenza è fondata sul suo interesse speculativo, o piuttosto unicamente e soltanto sul suo interesse pratico? Metto ora da parte la sorte che la ragion pura ha nel rispetto speculativo, e studio soltanto i problemi la cui soluzione costituisce il suo ultimo scopo – possa essa raggiungerlo o no – e in vista del quale tutti gli altri han solo il valore di mezzi. Questi fini supremi a loro volta dovranno, secondo la natura della ragione, avere unità per promuovere unitariamente quell’interesse della umanità che non è subordinato a un interesse superiore. Lo scopo finale, a quale da ultimo mira la speculazione della ragione nell’uso trascendentale, riguarda tre oggetti: la libertà del volere, l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Rispetto a tutti e tre l’interesse meramente speculativo della ragione non è se non molto ristretto; e per esso molto difficilmente sarebbe intrapresa una ricerca trascendentale, che importa un lavoro così faticoso, in lotta con incessanti ostacoli, poiché di tutte le scoperte in essa per avventura possibili, non si può fare alcun uso, che valga a dimostrare in concreto, ossia nello studio della natura, la sua utilità. Se anche la volontà può esser libera, questo non riguarda se non la causa intelligibile

del nostro volere. Perché, quanto ai fenomeni delle sue manifestazioni, cioè alle azioni, noi dobbiamo, secondo una massima fondamentale inviolabile, senza di cui non potremmo esercitare una ragione nell’uso empirico, spiegarle non altrimenti che tutti gli altri fenomeni della natura, ossia secondo le leggi immutabili di questa. Quand’anche noi potessimo conoscere la natura spirituale dell’anima (e con essa la sua immortalità), non vi si potrebbe fare assegnamento né pei fenomeni di questa vita come principio di spiegazione, né per la special natura dello stato futuro, poiché il nostro concetto di una natura incorporea è semplicemente negativo, e non estende menomamente la nostra conoscenza, né ci offre una materia utile a conseguenze, salvo che per tali conseguenze che non potrebbero valere se non come finzioni, – le quali per altro dalla filosofia non devono essere permesse. Se anche, in terzo luogo, fosse dimostrata l’esistenza di una Intelligenza suprema, noi ce ne gioveremmo bensì per rendere intelligibile in generale la finalità della disposizione del mondo e l’ordine, ma non saremmo punto autorizzati a ricavarne una disposizione e un ordinamento particolare, o ad argomentarli quindi arditamente, dove non siano percepiti; in quanto è una regola necessaria dell’uso speculativo della ragione di non trascurare le cause naturali, e di non rinunziare a quello di cui possiamo informarci mercé l’esperienza, per dedurre ciò che conosciamo da quello che trascende del tutto ogni nostra conoscenza. In una parola, queste tre proposizioni per la ragione speculativa restano sempre trascendenti, e non hanno in verun modo uso immanente, cioè ammissibile per gli oggetti dell’esperienza, e quindi utile in qualche modo per noi; ma sono, considerate in se stesse, sforzi oziosi e, per di più, straordinariamente difficili della nostra ragione. Se dunque queste tre proposizioni cardinali non ci sono guari necessarie per il s a p e r e e pur ci sono raccomandate vivamente dalla nostra ragione, la loro importanza non dovrà propriamente riguardare se non il p r a t i c o . Pratico è tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà. Ma, se le condizioni dell’esercizio del nostro libero arbitrio sono empiriche, la ragione non vi può avere se non un uso regolativo, e servire soltanto a realizzare l’unità delle leggi empiriche; come per es., nella dottrina della prudenza, la unificazione di tutti i fini datici dalle nostre inclinazioni in un fine solo, la f e l i c i t à , e l’accordo dei mezzi per raggiungerlo, costituisce tutto l’ufficio della ragione, la quale a tal uopo non può fornire nient’altro che leggi p r a m m a t i c h e della libertà condotta pel raggiungimento dei fini

raccomandatici dai sensi, e quindi non leggi pure, determinate affatto a priori. Invece, le leggi pratiche pure, il cui scopo è dato dalla ragione pienamente a priori, e che comandano, non in modo empiricamente condizionato, ma assolutamente, saranno prodotti dalla ragion pura. Ma tali sono le leggi m o r a l i ; quindi queste appartengono soltanto all’uso pratico della ragion pura, e ammettono un canone. Tutto l’apparecchio, adunque, della ragione nella elaborazione che può dirsi filosofia pura, non è in fatto indirizzato se non ai tre suddetti problemi. Ma questi stessi hanno, a loro volta, uno scopo più remoto, che c o s a c i o è b i s o g n a f a r e, se il volere è libero, se c’è un Dio e un mondo futuro. E poiché questo riguarda la nostra condotta in rapporto al fine supremo, lo scopo ultimo della natura saggia e provvidente nella costituzione della nostra ragione consiste soltanto nel morale. Ma è necessaria una certa cautela per non divagare, – poiché noi rivolgiamo la nostra attenzione a un oggetto, che è estraneo alla filosofia trascendentale289, – in episodi, e non venir meno all’unità del sistema; e d’altra parte anche per non far mancare nulla, dicendo troppo poco su questa nuova materia, alla chiarezza e all’efficacia. Io spero di fare l’una cosa e l’altra tenendomi più vicino che sia possibile al trascendentale, e ponendo affatto da parte ciò che vi può essere in certo modo di psicologico, cioè di empirico. E in primo luogo è da notare, che io, ora, mi servirò del concetto di libertà soltanto nel senso pratico, e metterò da parte, come già disbrigato, quello trascendentale, che non può essere presupposto empiricamente come principio di spiegazione dei fenomeni, ma è esso stesso un problema per la ragione. E arbitrio semplicemente a n i m a l e (arbitrium brutum) quello che non può essere determinato se non da stimoli sensibili, ossia p a t o l o g i c a m e n t e . Ma quello che è indipendente da stimoli sensibili, e quindi può esser determinato da motivi che non sono rappresentati se non dalla ragione, dicesi l i b e r o a r b i t r i o (arbitrium liberum), e tutto ciò che vi si connette, o come principio o come conseguenza, è detto p r a t i c o . La libertà pratica può essere dimostrata per esperienza. Perché non soltanto ciò che stimola, cioè che tocca immediatamente i sensi, determina l’arbitrio umano, ma noi abbiamo il potere di vincere con rappresentazioni di ciò che è, se anche lontanamente, utile o dannoso, le impressioni esercitate sulla nostra facoltà sensibile di desiderare: ma queste riflessioni intorno a ciò che, rispetto

a tutta la nostra condizione, è desiderabile, cioè buono e utile, riposano sulla ragione. Questa dà dunque anche leggi, che sono imperativi, cioè l e g g i o g g e t t i v e , della libertà, e che esprimono q u e l l o c h e d e v e a c c a d e r e , sebbene forse non accada, e si distinguono in ciò dalle l e g g i d e l l a n a t u r a , le quali trattano solo di ciò che a c c a d e ; e però si dicono anche leggi pratiche. Ma, se la ragione stessa in questi atti, con cui prescrive leggi, non sia determinata a sua volta da altri influssi, e se quello che rispetto agli impulsi sensibili si dice libertà, rispetto a cause efficienti più alte e più remote non possa essere a sua volta natura, questo nel pratico non ci riguarda, poiché noi domandiamo alla ragione soltanto la p r e s c r i z i o n e della condotta; ma è una questione meramente speculativa che noi, finché la nostra mira è rivolta al fare e non fare, possiamo porre da parte. Noi dunque conosciamo la libertà pratica per esperienza come una delle cause naturali, cioè come una causalità della ragione nella determinazione della volontà, laddove la libertà trascendentale richiede una indipendenza di questa ragione stessa (rispetto alla sua causalità di iniziare una serie di fenomeni) da tutte le cause determinanti del mondo sensibile, e però pare sia in contrasto alla legge della natura, quindi a ogni esperienza possibile, e perciò resta un problema. Se non che per la ragione questo problema non appartiene all’uso pratico; ond’è che in un canone della ragion pura noi siamo soltanto a due questioni, che si riferiscono all’interesse pratico della ragion pura, e rispetto alle quali un canone del suo uso dev’esser possibile, ossia: C’è un Dio? C’è una vita futura? La questione circa la libertà trascendentale concerne semplicemente il sapere speculativo, e noi, come affatto indifferente, possiamo metterla da parte, quando si tratta del pratico, e su di essa nell’Antinomia della ragion pura si possono trovare gli schiarimenti sufficienti.

Sezione Seconda DELL’IDEALE DEL SOMMO BENE COME PRINCIPIO DETERMINANTE DEL FINE ULTIMO DELLA RAGION PURA

La ragione ci ha condotti, nel suo uso speculativo, attraverso il campo delle esperienze, e poiché quivi non si può trovar mai per lei completa soddisfazione, di lì alle idee speculative, le quali per altro alla fine ci han

ricondotto da capo alla esperienza, e hanno quindi compiuto il suo disegno in modo, utile bensì, ma non conforme alla nostra attesa. Ora ci resta tuttavia un tentativo da fare: se cioè una ragion pura non possa trovarsi anche nell’uso pratico, se in questo essa ci conduce a idee, che raggiungono quei più alti fini della ragion pura, che noi abbiamo additati, e se essa dunque, dal punto di vista del suo interesse pratico, non possa accordare quello che si rifiuta assolutamente rispetto allo speculativo. Ogni interesse della mia ragione (così lo speculativo, come il pratico) si concentra nelle tre domande seguenti: 1° C h e c o s a p o s s o s a p e r e? 2° C h e c o s a d e v o f a r e? 3° C h e c o s a p o s s o s p e r a r e? La prima domanda è meramente speculativa. Noi abbiamo (come mi lusingo) esaurite tutte le risposte possibili ad essa, e trovato, infine, quella di cui la ragione in vero, deve appagarsi, e, se essa non mira al pratico, ha anche giusto motivo di appagarsi; ma dai due grandi scopi ai quali era propriamente rivolto tutto questo sforzo della ragion pura, siamo rimasti tanto distanti, come se per pigrizia avessimo rinunziato da principio a questo lavoro. Se dunque si tratta del sapere, e per lo meno sicuro e stabilito che non si può, rispetto a quei due problemi, esserne mai a parte. La seconda domanda è meramente pratica. Come tale essa può di certo appartenere alla ragion pura, ma allora tuttavia essa non è trascendentale, bensì morale; e però non può, in sé, occupare la nostra critica. La terza domanda, cioè: «Se io ora fo quel che debbo, che cosa allora posso sperare?» è insieme pratica e teoretica, sicché il pratico serve soltanto da filo conduttore per rispondere alla domanda teoretica, e, se questa s’innalza, speculativa. Ogni speranza, infatti, s’indirizza alla felicità, ed è, rispetto al pratico e alla l e g g e morale, quello stesso che il sapere e la legge naturale rispetto alla conoscenza teoretica delle cose. Quella giunge alla conclusione che qualche fine è (ciò che costituisce l’ultimo fine possibile) poiché qualche cosa deve a c c a d e r e ; questo, che qualche cosa è (ciò che opera come causa suprema) poiché q u a l c h e c o s a a c c a d e. La felicità è l’appagamento di tutte le nostre tendenze (tanto extensive, nella molteplicità loro, quanto intensive, rispetto al grado, e anche protensive, rispetto alla durata). Io dico legge prammatica (regola di prudenza) la legge pratica derivante dal motivo della f e l i c i t à ; morale (legge dei costumi)

quella invece, in quanto ce n’è una, che non ha altro motivo, che il m e r i t o 290 di esser felice. La prima consiglia che cosa si deve fare, se noi vogliamo divenir partecipi della felicità, la seconda comanda come dobbiamo comportarci solo per farci degni della felicità. La prima si fonda su princìpi empirici; perché io altrimenti che per esperienza non posso né sapere quali tendenze ci sono, che voglion esser soddisfatte, né quali sono le cause naturali che possono produrre la loro soddisfazione. La seconda astrae da tendenze e mezzi naturali di soddisfarle, e considera soltanto la libertà di un essere ragionevole in generale e le condizioni necessarie, nelle quali soltanto ella si accorda secondo princìpi con la distribuzione della felicità, e può quindi per lo meno poggiare su semplici idee della ragion pura e esser conosciuta a priori. Io ammetto che realmente ci sono leggi morali pure, che determinano affatto a priori (senza riguardo a motivi empirici, cioè alla felicità) il fare e non fare, cioè l’uso della libertà di un essere ragionevole in generale; e che queste leggi comandano a s s o l u t a m e n t e (non semplicemente in modo ipotetico nel supposto di altri fini empirici), e però sono per ogni rispetto necessarie. Io posso presupporre questa proposizione, appellandomi non soltanto alle dimostrazioni dei più chiari moralisti, ma al giudizio morale di ogni uomo, quando egli vuol pensare chiaramente una simile legge. La ragion pura contiene, dunque, per vero, non nel suo uso speculativo, ma in un certo uso pratico, ossia in quello morale, princìpi della p o s s i b i l i t à d e l l ’ e s p e r i e n z a, cioè di azioni che, conformemente ai precetti morali, p o t r e b b e r o incontrarsi nella s t o r i a degli uomini. Infatti, poiché essa comanda che queste azioni debbano accadere, esse devono poter accadere, e deve quindi esser possibile una maniera particolare di unità sistematica, la morale, laddove l’unità sistematica della natura secondo p r i n c ì p i s p e c u l a t i v i della ragione non poteva essere dimostrata; poiché la ragione veramente ha una causalità rispetto alla libertà in generale, ma non rispetto a tutta la natura, e i princìpi morali della ragione possono produrre bensì atti liberi, ma non leggi di natura. I princìpi, pertanto, della ragion pura hanno realtà oggettiva nel loro uso pratico, ma segnatamente nel morale. Dico «mondo morale» il mondo conforme a tutte le leggi morali (come essi p u ò essere secondo la l i b e r t à degli esseri ragionevoli, e d e v e essere secondo le leggi necessarie della m o r a l i t à ). Questo mondo così vien pensato soltanto come mondo intelligibile, poiché in esso si astrae da tutte le

condizioni (fini) e anche da tutti gli ostacoli della moralità a esso inerente (debolezza o impurità della natura umana). Come tale, è dunque una semplice idea, ma nondimeno pratica, la quale realmente può e deve avere il suo influsso sul mondo sensibile, per renderlo, quando è possibile, conforme a questa idea. L’idea di un mondo morale ha quindi realtà oggettiva; non già perché si rivolga a un oggetto di intuizione intelligibile (di tali non ne possiamo guari pensare), sibbene al mondo sensibile, ma come oggetto della ragion pura nel suo uso pratico e corpus mysticum degli esseri ragionevoli che vi sono, in quanto il loro libero arbitrio, sotto leggi morali, ha in sé una generale unità sistematica con se stesso, come con la libertà di ogni altro. Questa è la risposta alla prima delle due domande della ragion pura riguardanti l’interesse pratico: F a c i ò p e r c u i d i v e n t i d e g n o d i e s s e r f e l i c e. La seconda dice: «Se io mi comporto in modo da non essere indegno della felicità, come posso sperare di poterne divenire partecipe?». Per la risposta ad essa si tratta di sapere, se i princìpi della ragion pura, che prescrivono a priori la legge, vi leghino anche questa speranza in modo necessario. Io dico pertanto: che a quella guisa che i princìpi morali secondo la ragione sono necessari nel suo uso p r a t i c o , egualmente necessario secondo la ragione è ammettere nel suo uso291 t e o r e t i c o , che ognuno abbia cagion di sperare la felicità nella stessa misura, in cui egli se n’è reso degno con la sua condotta, e che quindi il sistema della moralità è unito inseparabilmente con quello della felicità, ma soltanto nell’idea della ragion pura. Ora, in un mondo intelligibile, cioè morale, nel cui concetto si fa astrazione da tutti gli impedimenti della moralità (dalle tendenze), un tal sistema di felicità proporzionata congiunta con la moralità si può anche concepire come necessario, poiché la libertà, parte mossa, parte limitata dalle leggi morali, sarebbe essa stessa causa della felicità universale; gli esseri ragionevoli dunque sarebbero, già sotto la guida di tali princìpi, autori del loro proprio benessere duraturo, e insieme di quello altrui. Ma questo sistema, della moralità che ricompensa se stessa, non è se non una idea, la cui realizzazione riposa sulla condizione, che ciascuno faccia quello che deve, cioè che tutti gli atti degli esseri ragionevoli abbian luogo come se derivassero da una suprema volontà, che comprendesse in sé o sotto di sé ogni privato arbitrio. Ma, poiché l’obbligazione della legge morale resta valida per ogni uso particolare della libertà, quand’anche altri non si

comportino in conformità di questa legge, così non è determinato, né dalla natura delle cose del mondo, né dalla causalità degli atti e dal loro rapporto con la moralità, come le loro conseguenze si conteranno verso la felicità; e l’indicata connessione necessaria della speranza di esser felice con lo sforzo incessante di rendersi degno della felicità non può esser conosciuta dalla ragione, se si prende a fondamento semplicemente la natura, ma può essere soltanto superata se una s u p r e m a R a g i o n e, che comanda secondo le leggi morali, vien posta contemporaneamente a fondamento come causa della natura. Io dico i d e a l e d e l S o m m o B e n e l’idea di una tale intelligenza, in cui il volere moralmente più perfetto unito alla più alta beatitudine è causa di ogni felicità del mondo, in quanto essa sta in esatto rapporto con la moralità (come merito di esser felice). La ragion pura, dunque, non può trovare se non l’ideale del Sommo Bene o r i g i n a r i o il fondamento della connessione praticamente necessaria dei due elementi del sommo bene derivato, di un mondo intelligibile, ossia m o r a l e . Ora, poiché noi dobbiamo rappresentarci necessariamente con la ragione come appartiene a un tal mondo, quantunque i sensi non ci presentino se non un mondo di fenomeni, noi dovremmo ammettere quello come una conseguenza della nostra condotta nel mondo sensibile, e poiché questo non ci offre una tale connessione, come un mondo per noi futuro. Dio adunque e una vita futura, secondo i princìpi della stessa ragion pura, sono due presupposti non separabili della obbligazione impostaci da essa ragion pura. La moralità in sé forma un sistema, ma non la felicità, se non in quanto è distribuita in misura esattamente proporzionale alla moralità. Ma questo è possibile soltanto nel mondo intelligibile, sotto un creatore e reggitore sapiente. La ragione si vede costretta o ad ammettere un tal creatore e reggitore con la vita in cotesto mondo, che noi dobbiamo considerare come futuro, o a vedere nelle leggi morali vuote chimere; poiché la conseguenza necessaria, che la stessa ragione connette ad esse, senza quel presupposto è destinata a cadere. E però anche ognuno considera le leggi morali come un c o m a n d o : ciò che esse non potrebbero essere, se non congiungessero a priori con le loro regole conseguenze proporzionate, e non importassero quindi p r o m e s s e e m i n a c c e . Ma questo esse né anche possono fare, dove non siano in un Essere necessario come nel Sommo Bene, che solo può render possibile una siffatta unità finale292.

Leibniz chiamava il mondo, in quanto vi si bada soltanto agli esseri ragionevoli e al loro rapporto secondo le leggi morali, sotto il governo di un sommo bene, il R e g n o d e l l a g r a z i a, e lo distingueva dal R e g n o d e l l a n a t u r a, di cui essi sottostanno bensì alle leggi morali, ma non attendono altra conseguenza della loro condotta, che secondo il corso della natura del nostro mondo sensibile. Vedersi dunque nel regno della grazia, dove ci aspetta ogni felicità, tranne che noi stessi non restringiamo la parte nostra col renderci indegni di esser felici, è una idea della ragione praticamente necessaria. Le leggi pratiche, in quanto diventano insieme fondamenti soggettivi delle azioni, ossia principi soggettivi, diconsi m a s s i m e . Il g i u d i z i o della moralità, nella sua purezza e nelle conseguenze, si fa secondo i d e e ; l’o s s e r v a n z a delle leggi, secondo massime. È necessario che tutta intera la nostra vita sia subordinata a massime morali; ma è insieme impossibile che ciò accada, se la ragione non unisce con la legge morale, che è una semplice idea, una causa efficiente, che per la condotta a norma di quella determini un esito esattamente corrispondente ai nostri fini supremi, sia in questa, sia in un’altra vita. Senza dunque un Dio e senza un mondo per noi ora invisibile ma sperato, le idee sovrane della moralità sono bensì oggetti di approvazione e di ammirazione, ma non motivi di proposito e di azione, poiché esse non adempiono tutte il fine, che per ogni essere ragionevole è, naturalmente e dalla stessa ragion pura, determinato a priori, e necessario. Se non che la felicità per la nostra ragione è a gran pezza diversa dal Bene intero. Essa non l’approva (per quanto l’indicazione possa desiderarla) se non in quanto essa è congiunta col merito di essere felice, cioè con la buona condotta morale. Se non che la moralità e con essa il semplice m e r i t o di esser felice sono ancora ben lontani dal bene intero. Per integrar questo, chi s’è condotto in modo da non esser indegno della felicità, dee potere sperare di diventarne partecipe. La ragione stessa libera da ogni riguardo privato, ove si ponga, senza considerare alcun interesse proprio, al posto di un essere, che avesse da distribuire agli altri ogni felicità, non può giudicare altrimenti; giacché nell’idea pratica i due elementi sono essenzialmente congiunti, ma in modo, che l’intenzione morale renda possibile anzitutto, come condizione, la partecipazione alla felicità; e non viceversa, la mira alla felicità l’intenzione morale. Nel secondo caso infatti questa non sarebbe morale, e quindi né

anche degna di tutta la felicità la quale, di fronte alla ragione, non conosce altra limitazione che quella derivante dalla nostra stessa condotta immorale. La felicità dunque nella esatta proporzione con la moralità degli esseri ragionevoli, ond’essi se ne rendono degni, forma essa solo il Sommo Bene di un mondo, in cui noi, secondo i precetti della ragione pura, ma pratica, dobbiamo affatto metterci, e che non è di certo se non un mondo intelligibile, poiché il mondo sensibile non ci promette dalla natura delle cose una tal unità sistematica dei fini; un mondo, la cui realtà non può essere né anche fondata su altro che sul presupposto di un Sommo Bene originario; un mondo, in cui la ragione per sé stante, fornita di tutta la potenzialità di una causa suprema, con perfetta conformità ai fini fonda, mantiene e compie l’ordine, sebbene affatto celato a noi nel mondo sensibile, universale delle cose. Ora questa teologia morale ha il vantaggio speciale sulla speculativa, che essa conduce immancabilmente al concetto di un primo E n t e u n i c o , o n n i p e r f e t t o e r a g i o n e v o l e, cui la teologia speculativa non ci i n d i c a v a mai con princìpi oggettivi, e tanto meno poteva convincerne. Noi infatti non troviamo né nella teologia trascendentale né nella naturale, per quanto la ragione vi possa andare in là, un argomento importante per ammettere soltanto un u n i c o Ente, da mettere a capo di tutte le cause naturali, e da cui nello stesso tempo abbiamo una ragione sufficiente per farne dipendere totalmente queste. Al contrario, se noi indaghiamo, dal punto di vista dell’unità morale, come legge necessaria dal mondo, la causa che sola può dare a questa un effetto proporzionato, e quindi anche la forza obbligatoria per noi, allora dev’esserci una volontà suprema unica, che comprenda in sé tutte queste leggi. Perché come trovare in volontà diverse una perfetta unità di fini? Questa volontà dev’essere onnipotente, affinché a lei sia soggetta la natura intera e il suo rapporto con la moralità del mondo; onnisciente, affinché essa conosca l’intimo delle intuizioni e il loro valore morale; onnipresente, affinché sia immediatamente pronta a ogni bisogno richiesto dal sommo bene del mondo; eterna, affinché in nessun tempo manchi questo accordo della natura con la libertà, e così via. Ma questa unità sistematica dei fini in questo mondo di intelligenze, – il quale, sebbene come semplice natura non possa dirsi se non mondo sensibile, può, come sistema della libertà, esser detto mondo intelligibile, cioè morale (regnum gratiae), – conduce immancabilmente anche all’unità finale di tutte le cose, che formano questo gran tutto secondo leggi universali della natura,

come la prima secondo leggi universali e necessarie morali; e unisce la ragion pratica con la speculativa. Il mondo dev’esser rappresentato come derivante da un’idea, se deve accordarsi con quell’uso della ragione, senza di cui da noi stessi ci terremmo indegni della ragione, cioè con l’uso morale, come quello che poggia interamente sull’idea del sommo bene. Quindi tutta la scienza della natura riceve una direzione secondo la forma d’un sistema dei fini e nel suo più alto svolgimento diventa fisico-teologia. Ma questa, movendo dall’ordine morale, come da una unità fondata sull’essenza della libertà e non stabilita accidentalmente per comandi esterni, riporta la finalità della natura a princìpi, che debbono essere a priori legati inscindibilmente con l’interna possibilità delle cose, e quindi a una t e o l o g i a t r a s c e n d e n t a l e, che prenda l’ideale della somma perfezione ontologica a principio dell’unità sistematica, che unisce secondo leggi naturali universali e necessarie tutte le cose, poiché esse hanno tutte la loro origine nell’assoluta necessità di un primo unico Ente. Qual uso possiamo fare del nostro intelletto anche rispetto al-[‘esperienza, se noi non ci proponiamo dei fini? Ma i fini supremi sono quelli della moralità; e, questi, soltanto la ragion pura può farci conoscere. Ora, provvisti di essi e con la guida di essi, noi non possiamo, della conoscenza della natura stessa, fare alcun uso finale rispetto alla conoscenza, qualora la natura non ponga essa stessa un’unità finale; perché senza di questa non avremmo né anche una ragione, in quanto che non avremmo una scuola per essa e una cultura per via degli oggetti che offrano la materia a tali concetti. Quella unità finale per altro è necessaria, e fondata sulla natura dell’arbitrio stesso; questa adunque, che importa la condizione per l’applicazione di essa in concreto, dev’esserci anche; e così l’ascensione trascendentale della nostra conoscenza razionale sarebbe, non la causa, ma soltanto l’effetto della finalità pratica impostaci dalla ragion pura. Noi quindi troviamo anche nella storia della ragione umana, che prima che si purificassero e determinassero abbastanza i concetti morali e si conoscesse l’unità sistematica dei fini secondo essi, e cioè per princìpi necessari, la conoscenza della natura, e la stessa cultura, in grado notevole, della ragione in alcune altre scienze, per un verso non potè produrre se non concetti rozzi e vaghi della divinità, per un altro lasciò una troppo strana indifferenza rispetto a tale questione. Un’elaborazione maggiore di idee morali, che fu resa necessaria dalla legge morale estremamente pura della

nostra religione, acuì la ragione all’oggetto, con l’interesse, che ella costringeva a prender per esso; e senza che né più ampie conoscenze della natura, né giuste e sicure vedute trascendentali (di cui in ogni tempo è stato difetto) vi conferissero, esse produssero un concetto dell’Essere divino, che noi oggi teniamo per vero, non perché la ragione speculativa ci convinca della sua verità, ma perché esso s’accorda perfettamente coi princìpi morali della ragione. E così alla fine sempre soltanto la ragion pura, ma solo nel suo uso pratico, ha il merito di unire al nostro supremo interesse una conoscenza, che la pura speculazione può soltanto immaginarsi, ma non far valere, e di farne pertanto non certo un domma dimostrato, ma un presupposto assolutamente necessario ai suoi fini essenziali. Ma se la ragion pratica ha raggiunto quest’altro punto, ossia il concetto di un Ente originario unico come del sommo bene, essa non può guari presumere, come se si fosse elevata al di sopra di tutte le condizioni empiriche della sua applicazione e fosse montata alla conoscenza immediata di oggetti nuovi, di muovere da questo concetto e dedurre da esso le leggi stesse morali. Infatti queste furono ciò la cui i n t e r n a necessità pratica ci ha condotti al presupposto di una causa per sé stante e di un sapiente reggitore del mondo per dar effetto a quelle leggi; e quindi noi non possiamo, in conseguenza, considerarle come contingenti e derivate dal semplice volere, e derivate da un volere, di cui noi non avremmo nessun concetto, se non ce lo fossimo formato in virtù di quelle leggi. Nella misura in cui la ragion pratica ha diritto di guidarci, noi non riterremo le azioni obbligatorie perché sono comandi di Dio, ma le considereremo come comandi di Dio, perché ad essi noi ci sentiamo internamente obbligati. Noi studieremo la libertà sotto l’unità finale conformemente a princìpi della ragione, e crederemo di conformarci alla volontà divina solo in quanto terremo per santa la legge morale, che la ragione c’insegna in base alla natura delle azioni stesse, e crederemo di servire a lui solo in quanto promoveremo in noi e in altri il bene del mondo. La teologia morale è, dunque, soltanto di uso immanente, cioè per adempiere la nostra missione qui nel mondo, stando nel sistema di tutti i fini, e non per abbandonare da esaltati, o addirittura da sacrileghi, la guida d’una ragione moralmente legislatrice in una vita buona, per legar questa immediatamente all’idea di un Ente supremo, ciò che sarebbe un uso trascendentale, ma che, appunto come quello della semplice speculazione, deve rovesciare e render vani i fini ultimi della ragione.

Sezione Terza DELL’OPINIONE, DELLA SCIENZA E DELLA FEDE La credenza è un fatto nel nostro intelletto, il quale può riposare su fondamenti oggettivi, ma richiede anche cagioni soggettive nell’anima di chi giudica. Quando essa è valida per ognuno che soltanto possegga la ragione, allora il fondamento di essa è oggettivamente sufficiente, e allora la credenza si dice c o n v i n z i o n e . Se essa ha il suo fondamento nella natura particolare del soggetto, è detta p e r s u a s i o n e . La persuasione è una semplice apparenza, poiché il fondamento del giudizio, che è unicamente nel soggetto, vien considerato come oggetto. Quindi anche un tal giudizio non ha se non una validità privata, e la credenza non si può comunicare. Ma la verità riposa sull’accordo con l’oggetto, rispetto al quale per conseguenza i giudizi di tutti gli intelletti devono essere d’accordo (consentientia uni tertio, consentiunt inter se). La pietra di paragone della credenza, se essa sia una convinzione o una semplice persuasione, è dunque estrinsecamente la possibilità di comunicarla e di trovar la credenza valida per la ragione di ogni uomo; perché allora c’è almeno la presunzione, che il principio dell’accordo di tutti i giudizi, malgrado la differenza dei soggetti tra loro, riposerà sul comune fondamento, l’oggetto, col quale essi quindi s’accorderanno tutti, e però dimostreranno la verità del giudizio. La persuasione quindi può soggettivamente non essere diversa dalla convinzione, quando il soggetto abbia presente la credenza semplicemente come un fenomeno del suo proprio animo; ma la prova che si fa con i suoi fondamenti, che son validi per noi, in un altro intelletto, per vedere se essi hanno sulla altrui ragione lo stesso effetto che sulla nostra, è un mezzo, sebbene soltanto soggettivo, non già per produrre una convinzione, ma sì per scoprire la semplice validità privata del giudizio, ossia qualcosa in esso, che è semplice persuasione. Inoltre, se si possono sviluppare quelle c a u s e soggettive del giudizio, che noi prendiamo per f o n d a m e n t i oggettivi di esso, e quindi spiegare la credenza fallace come un fatto nell’animo nostro, senza aver bisogno per ciò della natura dell’oggetto: allora mettiamo a nudo l’apparenza, e non ne

saremo più ingannati, sebbene ancor sempre tentati in certo grado, ove la causa soggettiva dell’apparenza dipenda dalla nostra natura. Io non posso a f f e r m a r e , cioè esprimere come un giudizio necessariamente valido per ognuno, se non ciò che genera una convinzione. Una persuasione io posso tenermela per me, se pure io mi ci trovo bene, ma essa non può, né deve, volersi rendere valida fuori di me. La credenza e la validità soggettiva del giudizio in rapporto con la convinzione (che vale insieme oggettivamente) ha i tre gradi seguenti: o p i n i o n e , f e d e e s c i e n z a. L’opinione è una credenza insufficiente t a n t o soggettivamente q u a n t o oggettivamente, accompagnata dalla coscienza. Se essa è sufficiente soltanto soggettivamente e intanto è ritenuta insufficiente oggettivamente, dicesi f e d e . Infine la credenza sufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente dicesi s c i e n z a . La sufficienza soggettiva si dice c o n v i n z i o n e (per me stesso), quella oggettiva c e r t e z z a (per ognuno). Non mi fermerò a spiegare concetti così facili. Non posso mai presumere di aver un’o p i n i o n e , senza s a p e r e almeno qualcosa, per cui il giudizio in sé propriamente problematico abbia una certa connessione con la verità: connessione che, anche se non è completa, pure sia più che una arbitraria finzione. La legge, inoltre, di una tal connessione dev’essere certa. Perché se io, anche rispetto ad essa, non ho se non un’opinione, allora tutto non è se non un giuoco dell’immaginazione, senza la minima relazione con la verità. Nei giudizi derivanti dalla ragion pura non è punto permesso o p i n a r e . Infatti, poiché essi non sono appoggiati a fondamenti empirici, ma tutto dev’esser conosciuto a priori, dove tutto è necessario, così il principio della connessione richiede universalità e necessità, quindi piena certezza; se no, non vi sarà punto una via per giungere alla verità. Quindi è assurdo opinare in matematica; si deve sapere, o astenersi da ogni giudizio. Altrettanto dicasi dei princìpi della moralità, non potendosi arrischiare un’azione su una semplice opinione che qualche cosa sia p e r m e s s a ; ma questo si deve sapere. Nell’uso trascendentale della ragione, al contrario, l’opinione certo è troppo poco, ma la scienza troppo. Dal punto di vista semplicemente speculativo, noi dunque non possiamo qui giudicar punto; perché le ragioni soggettive della credenza come quelle che possono produrre la fede, non meritano nelle questioni speculative alcuna approvazione, non potendo esse né tenersi libere da ogni sussidio empirico, né comunicarsi agli altri nello

stesso grado. Ma soltanto s o t t o i l p r o f i l o p r a t i c o la credenza teoricamente insufficiente può esser detta fede. Ora questo punto di vista pratico è o l’a b i l i t à , o la m o r a l i t à ; la prima pei fini arbitrari e accidentali, la seconda invece per quelli assolutamente necessari. Una volta proposto un fine, le condizioni pel conseguimento di esso sono ipoteticamente necessarie. Questa necessità è soggettiva, ma pure solo relativamente sufficiente, se io non so punto altre condizioni, nelle quali il fine possa conseguirsi: laddove essa è sufficiente assolutamente e per ogni uomo, se io so certamente che nessuno può conoscere altre condizioni, che conducano allo scopo proposto. Nel primo caso la mia ipotesi e la mia credenza a certe condizioni è semplicemente contingente, nel secondo caso invece è una fede necessaria. Il medico, per un malato in pericolo, deve pur fare qualche cosa, ma egli non conosce la malattia. Guarda i fenomeni e giudica, poiché non sa di meglio, che sia una tisi. La sua fede è, anche a suo proprio giudizio, contingente, un altro potrebbe forse capitar meglio. Io chiamo una tale fede contingente, che è per altro a fondamento dell’uso reale dei mezzi per certe azioni, f e d e p r a m m a t i c a. L’ordinaria pietra di paragone per vedere se qualche cosa, che uno afferma, sia una semplice persuasione, o almeno una convinzione soggettiva, cioè una ferma fede, è la s c o m m e s s a . Spesso uno enuncia le sue proposizioni con una risolutezza così sicura e irreducibile da parere abbia interamente deposto ogni tema d’errore. Una scommessa lo fa adombrare. A volte si vede che egli possiede bensì una persuasione da poter essere apprezzata per un ducato, ma non per dieci. Infatti egli arrischia il primo ma, di fronte a dieci, comincia ad avvedersi di ciò che prima non avvertiva, essere cioè possibilissimo che ei si sia sbagliato. Se si immagina di doverci scommettere la felicità di tutta la vita, se ne va il nostro giudizio trionfale, diventiamo timidi, e cominciamo a scoprire che la nostra fede non va tanto in là. Così la fede prammatica ha soltanto un certo grado, che, secondo la differenza dell’interesse che vi è in giuoco, può esser grande e può anche esser piccolo. Ma poiché, quantunque in rapporto a un oggetto non possiamo nulla intraprendere, e la credenza dunque sia meramente teoretica, noi tuttavia in molti casi possiamo concepire nel pensiero e immaginare un’impresa, per cui riteniamo di aver ragioni sufficienti quando ci sia un mezzo di stabilire la

certezza della cosa; allora nei giudizi meramente teoretici c’è un a n a l o g o d e l p r a t i c o, alla cui credenza convien la parola f e d e , e che possiamo dire f e d e d o t t ri n a l e . Se fosse possibile stabilirlo per mezzo di qualche esperienza, io potrei scommettere tutto il mio, che almeno in qualcuno dei pianeti che vediamo ci sono abitanti. Quindi dico, che non è una semplice opinione, ma una più salda fede (sulla cui esattezza arrischierei molti beni della vita), che vi sono anche abitanti di altri mondi. Ora dobbiamo confessare, che la dottrina dell’esistenza di Dio appartiene alla fede dottrinale. Infatti, quantunque, rispetto alla conoscenza teoretica del mondo, io non abbia nulla da d i s p o r r e , che presupponga necessariamente questo pensiero come condizione delle mie spiegazioni dei fenomeni del mondo, ma, anzi, io sia costretto a servirmi della mia ragione come se tutto fosse solo natura: nondimeno l’unità finale è una così grande condizione dell’applicazione della ragione alla natura, che io, poiché inoltre l’esperienza me ne offre copiosamente esempi, non posso punto lasciarla da parte. Ma per questa unità io non conosco nessun’altra condizione, che ne faccia un filo conduttore nella scienza della natura, se non che io presuppongo che una Intelligenza suprema abbia tutto ordinato secondo i fini più sapienti. Per conseguenza è una condizione di uno scopo accidentale bensì, ma tuttavia non irrilevante, cioè per avere una direzione nella ricerca della natura, presupporre un Creatore sapiente. La riuscita dei miei tentativi conferma anche così spesso l’utilità di questo presupposto, senza che nulla possa esser addotto in contrario perentoriamente, che io dico troppo poco, se mi limito a dire opinione la mia credenza; ma anche in questo rapporto teoretico può dirsi che io credo fermamente in Dio; ma, allora, questa fede in stretto senso non è più pratica, e deve esser detta piuttosto una fede dottrinale, che la t e o l o g i a della natura (fisico-teologia) deve necessariamente produrre da per tutto. In vista appunto di questa sapienza, avuto riguardo all’eccellente corredo della natura umana e alla brevità della vita così inadeguata a esso, si può trovar egualmente un fondamento sufficiente per una fede dottrinale nella vita futura dell’anima umana. L’espressione della fede è, in tali casi, un’espressione di discrezione dal punto di vista o g g e t t i v o , ma insieme, tuttavia, della f e r m e z z a della fiducia dal punto di vista s o g g e t t i v o . Se qui volessi dire la credenza semplicemente teoretica anche soltanto un’ipotesi che io sia autorizzato ad ammettere, m’impegnerei così ad avere della natura di una causa del mondo e

di un altro mondo un concetto maggiore di quel che io non posso, in realtà, dimostrare; perché ciò che io assumo, magari solo come ipotesi, debbo almeno conoscerlo nelle sue proprietà al punto da doverne fingere, n o n i l c o n c e t t o , ma soltanto la e s i s t e n z a . Il termine fede, invece, non si riferisce se non alla guida, che una idea mi dà, e all’influsso soggettivo sullo sviluppo degli atti della mia ragione, che mi conferma in essa, sebbene io non sia in grado di renderne conto dal punto di vista speculativo. Ma la semplice fede dottrinale ha in sé qualcosa di traballante; si è allontanati spesso da essa da difficoltà che si trovano nella speculazione, benché sempre vi si ritorni immancabilmente da capo. Ben altrimenti accade nella f e d e m o r a l e. Perché in questa è assolutamente necessario che una certa cosa debba accadere, cioè che io obbedisca in tutti i punti alla legge morale. Lo scopo, qui, è indispensabilmente fissato, e non è possibile, secondo ogni mia veduta, se non una sola condizione, alla quale questo scopo si connette con tutti gli scopi, ed ha pertanto validità pratica: cioè, che vi sia un Dio e un mondo futuro; io so anche, con tutta certezza, che niuno conosce altre condizioni, che conducano alla stessa unità dei fini sotto la legge morale. Ma poiché, dunque, la prescrizione morale è insieme massima mia (la ragione infatti comanda che essa deve esser tale), io crederò immancabilmente nell’esistenza di Dio e in una vita futura, e son sicuro che niente può far scuotere questa fede, poiché così sarebbero rovesciati i miei stessi princìpi morali, ai quali io non posso rinunziare senza essere ai miei propri occhi degno di disprezzo. In tal modo la delusione di tutte le mire ambiziose di una ragione vagante oltre i confini di ogni esperienza, ci resta ancora abbastanza perché si abbia motivo di esser contenti dal punto di vista pratico. Certo, nessuno potrà vantarsi di sapere che c’è un Dio e una vita futura; perché se egli lo sa, egli è appunto l’uomo che io cerco da un pezzo. Ogni sapere (quando riguarda un oggetto della semplice ragione) si può comunicare, e io potrei anche sperare di vedere estendersi, mercé il suo ammaestramento, il mio sapere in misura così meravigliosa. No, la convinzione non è certezza logica, ma certezza m o r a l e , e poiché essa riposa su fondamenti soggettivi (sentimento morale), così io non devo dir mai: è moralmente certo, che c’è un Dio ecc., io s o n o moralmente certo ecc. Cioè: la fede in un Dio e in un altro mondo è talmente intrecciata col mio sentimento morale, che io, come non corro il rischio di perder questo, così non temo che possa mai essermi strappata quella.

La sola difficoltà, che qui s’incontra, è che questa fede razionale si fonda sul presupposto di sentimenti morali. Se noi ce ne dipartiamo, e prendiamo uno che, rispetto alle leggi morali, fosse affatto indifferente, la questione sollevata dalla ragione diventa semplicemente un problema per la speculazione, e allora può, in verità, reggersi tuttavia su saldi fondamenti derivanti da analogia, ma non su fondamenti cui debba arrendersi lo scetticismo più ostinato293. Ma non c’è in queste questioni uomo libero da ogni interesse. Perché, sebbene egli possa esser esente da quello morale per difetto di buoni sentimenti, resta tuttavia anche in questo caso quanto basta per fare che egli tema una esistenza divina e un futuro. Perché a ciò non vi occorre nulla più di questo, che ei non possa per lo meno addurre a pretesto nessuna c e r t e z z a , che non ci sia né un tale Ente né una vita futura; per cui, – poiché ciò dovrebbe esser dimostrato dalla semplice ragione, quindi apoditticamente, – ei dovrebbe provare l’impossibilità di tutte e due le cose, ciò a cui nessun uomo ragionevole può mettersi. Sarebbe una fede n e g a t i v a , che non potrebbe in vero produrre moralità e buoni sentimenti, ma pur qualcosa di analogo a essi: impedire cioè energicamente lo scoppiar dei cattivi. Ma questo è tutto ciò, si dirà, che la ragion pura conchiude quando spinge i suoi sguardi oltre i limiti della esperienza? non più che due articoli di fede? Tanto avrebbe potuto benissimo dire anche il senso comune, senza chiamare a consiglio su ciò i filosofi. Io non voglio qui vantare il merito che ha la filosofia verso la ragione umana per lo sforzo laborioso della sua critica, posto che l’esito dovesse trovarsi meramente negativo; perché di ciò verrà ancora qualcosa a proposito nella sezione seguente. Ma pretendete voi, dunque, che una conoscenza che riguarda tutti gli uomini debba trascendere il senso comune, ed esservi svelata soltanto dai filosofi? Appunto quello che voi biasimate, è la migliore conferma della verità delle affermazioni precedenti, poiché esso scopre ciò che a principio non si poteva prevedere, cioè che la natura, in ciò che sta a cuore agli uomini senza differenza, non può essere incolpata di aver distribuito con parzialità i suoi doni, e che la più alta filosofia, rispetto ai fini essenziali della natura umana, non può portare più in là che non faccia la guida che essa ha dato al senso comune. 289

Tutti i concetti pratici si riferiscono ad oggetti del piacere o dispiacere, quindi almeno indirettamente ad oggetti del nostro sentimento. Ma poiché questo non è una facoltà di

rappresentare le cose, anzi è fuori di tutto quanto il potere conoscitivo, gli elementi dei nostri giudizi in quanto si riferiscono al piacere o al dispiacere, cioè dei giudizi pratici, non appartengono al corpo della filosofia trascendentale, che ha da fare unicamente con conoscenze pure a priori (N. d. K.). 290 W ü r d i g k e i t = e s s e r d e g n o. 291 «Uso» aggiunta della seconda edizione. 292 Conforme a fini. 293 Lo spirito umano (come io credo avvenga necessariamente a ogni essere ragionevole) prende un naturale interesse alla moralità, sebbene esso non sia esclusivo e praticamente preponderante. Rafforzate e accrescete questo interesse, e troverete la ragione assai docile, e anche più illuminata per unire all’interesse pratico anche lo speculativo. Ma se non vi prendete cura di rendere da principio, o almeno a mezza strada, gli uomini buoni, non ne farete mai né anche uomini sinceramente credenti (N. d. K.).

Capitolo Terzo L’architettonica della ragion pura

Per a r c h i t e t t o n i c a intendo l’arte del sistema. Poiché l’unità sistematica è ciò che prima di tutto fa di una conoscenza comune una scienza, cioè di un semplice aggregato d’essa un sistema, l’architettonica è la dottrina della scientificità nella nostra conoscenza in generale, e però appartiene necessariamente alla dottrina del metodo. Sotto il governo della ragione le nostre conoscenze in generale non possono formare una rapsodia, ma devono costituire un sistema, in cui soltanto esse possono sostenere e promuovere i fini essenziali di quella294. Per sistema poi intendo l’unità di molteplici conoscenze raccolte sotto una idea. Questo è il concetto razionale della forma di un tutto, in quanto per mezzo di esso l’àmbito del molteplice, nonché il posto delle parti tra loro, vien determinato a priori. Il concetto razionale scientifico contiene dunque il fine e la forma del tutto ad esso corrispondente. L’unità del fine, a cui tutte le parti si riferiscono, riferendosi intanto, nell’idea del fine stesso, anche tra loro, fa che ciascuna parte non possa mancare nella conoscenza delle altre, e che non possa esserci alcuna addizione accidentale, o alcuna grandezza indeterminata di perfezione, che non abbia i suoi limiti determinati a priori. Il tutto è quindi organizzato (articulatio) e non ammucchiato (coacervatio); può crescere dall’interno (per intussusceptionem), ma non dall’esterno (per appositionem), come un corpo animale, il cui crescere non aggiunge nessun membro, ma, senza alterazione della proporzione, rende ogni membro più forte e più utile. L’idea per l’esecuzione ha bisogno d’uno s c h e m a , ossia d’una molteplicità essenziale e d’un ordine delle parti determinati a priori dal principio del fine. Lo schema, che non è abbozzato secondo un’idea, cioè giusta il fine principale della ragione, ma empiricamente, secondo scopi che si presentano accidentalmente (la cui quantità non si può sapere anticipatamente), da un’unità t e c n i c a ; ma quello, che non sorge se non da

una idea (in cui la ragione fornisce i fini a priori, e non li aspetta empiricamente), fonda un’unità a r c h i t e t t o n i c a . Non tecnicamente, per la somiglianza del molteplice o per l’uso accidentale della conoscenza i n c o n c r e t o per ogni sorta di scopi arbitrari e estrinseci, ma architettonicamente, per l’affinità di esso molteplice e la derivazione da un unico fine supremo ed interno, che è ciò che primieramente rende possibile il tutto, può sorgere quello che noi diciamo scienza; il cui schema deve contenere, in conformità dell’idea, cioè a priori, il quadro (m o n o g r a m m a ) e la divisione del tutto nelle sue membra, e deve distinguere questo, con certezza e secondo princìpi, da tutti gli altri. Nessuno tenti di fare una scienza senza avere un’idea a base. Se non che nell’elaborazione di essa lo schema, e la stessa definizione che uno a principio dà della sua scienza, molto raramente corrisponde alla sua idea, perché questa è nella ragione come un germe in cui tutte le parti sono ancora inviluppate e nascoste, e a stento riconoscibili dall’osservazione microscopica. E però le scienze, poiché sono pure tutte concepite dal punto di vista d’un certo interesse generale, vanno definite e determinate non secondo la descrizione che ne dà il loro creatore, sibbene secondo l’idea che, dall’unità naturale delle parti che egli ha messe insieme, si trova fondata nella ragione stessa. Perché allora si troverà che il creatore, e spesso ancora i suoi più tardi seguaci, sbagliano intorno a un’idea, che essi non hanno chiarita a se stessi, e quindi non possono determinare il contenuto speciale, l’articolazione (unità sistematica) e i limiti della scienza. È triste che soltanto dopo aver lungo tempo, dietro la guida di un’idea che giace nascosta in noi, raccolte rapsodisticamente molte conoscenze ad essa relative, a guisa di materiali da costruzione e messele magari insieme per lungo tempo tecnicamente, diventi possibile per noi veder l’idea in piena luce, a abbozzare un tutto secondo gli scopi della ragione architettonicamente. I sistemi paiono, come i vermi, essere nati per una generatio aequivoca dal semplice concorso di concetti raccolti insieme, da prima mutili, poi, col tempo, formati completamente, quantunque avessero tutti il loro schema, come germe originario, nella ragione che semplicemente si sviluppa; e perciò non soltanto ciascuno per sé è organato secondo un’idea, ma inoltre tutti, a lor volta, sono tra loro riuniti opportunamente, come membri di un tutto, in un sistema di conoscenza umana, e permettono un’architettonica di tutto il sapere umano; la quale, oggi che già tanta materia

è stata raccolta o può esser presa dalle rovine delle antiche costruzioni crollate, non soltanto sarebbe possibile, ma non sarebbe né anche tanto difficile. Noi ci contentiamo di completare la nostra opera, ossia unicamente di abbozzare l’a r c h i t e t t o n i c a di tutta la conoscenza derivante dalla ragion pura, e non cominciamo se non dal punto in cui l’universal radice della nostra facoltà conoscitiva si divide e caccia fuori due ceppi, uno dei quali è la r a g i o n e . Io intendo qui per ragione l’intera facoltà conoscitiva superiore, contrapponendo quindi il razionale all’empirico. Se prescindo da ogni contenuto di conoscenza, considerata oggettivamente, ogni conoscenza allora, soggettivamente, è o storica o razionale. La conoscenza storica è cognitio ex datis, quella razionale invece cognitio ex principiis. Una conoscenza originariamente data, donde che sia, in chi la possiede, è storica se egli conosce soltanto nel grado in cui, e per quel tanto per cui gli è stata data, vuoi per immediata esperienza o narrazione, o anche per istruzione (conoscenze generali). Quindi chi abbia propriamente imparato un sistema di filosofia, per es., il wolffiano, quantunque abbia nella testa tutti i princìpi, schiarimenti e dimostrazioni, nonché la divisione di tutta quanta la dottrina, e possa quasi contar tutto sulle dita, pure non ha altro che una compiuta conoscenza storica della filosofia di Wolff: egli sa e giudica solo quanto gli fu dato. Se gli contestate una definizione, egli non sa dove prenderne un’altra. Egli si è formato secondo una ragione estranea; ma la facoltà imitativa295 non è la facoltà produttiva, cioè la conoscenza non è provenuta in lui d a l l a ragione; benché quella oggettivamente fosse assolutamente una conoscenza razionale, pure soggettivamente è meramente storica. Egli ha ben capito e ritenuto, cioè imparato; ed è una maschera di gesso d’uomo vivo. Le conoscenze razionali, che son tali oggettivamente (cioè che possono a principio provenire soltanto dalla ragione propria dell’uomo) possono portare poi questo nome anche soggettivamente solo quando siano attinte dalle fonti generali della ragione, da cui può scaturire anche la critica e fin la reiezione di ciò che si è imparato; cioè da princìpi. Ora, ogni conoscenza razionale o è conoscenza ricavata dai concetti, o dalla costruzione dei concetti: la prima si dice filosofia, la seconda matematica. Della distinzione intrinseca di entrambe io ho già trattato nel primo capitolo. Una conoscenza dunque può essere oggettivamente filosofica e pure soggettivamente storica, come nella maggior parte degli scolari, e in tutti coloro che non vanno mai al di là della scuola e restano tutta la vita

scolari. Ma è strano che la conoscenza matematica, comunque appresa, può tuttavia anche soggettivamente valere come conoscenza razionale; e in essa non ha luogo una distinzione come nella conoscenza filosofica. La causa è, che le fonti conoscitive, da cui il maestro soltanto può attingere, non si trovano se non nei princìpi essenziali e genuini della ragione, e quindi dallo scolaro non possono esser prese d’altronde, né in alcun modo contrastate; e questo perché avviene qui l’uso della ragione soltanto i n c o n c r e t o, benché tuttavia a priori, cioè nell’intuizione pura, e appunto perciò scevra d’errore, ed esclude ogni confusione ed errore. Tra tutte dunque le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma, per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a f i l o s o f a r e . Ora il sistema di ogni conoscenza filosofica è la f i l o s o f i a . La si deve ammettere oggettivamente, se per essa s’intende il modello della valutazione di tutt’i tentativi di filosofare, il quale296 deve servire a giudicare ogni filosofia soggettiva, la cui costruzione è spesso così varia e così mutevole. In questo modo la filosofia è una semplice idea di una scienza possibile, non data mai in c o n c r e t o , ma a cui si cerca di accostarsi per diverse vie, finché non sia scoperto l’unico sentiero che il senso non lasciava vedere, e che giunga a rendere la copia, finora difettosa, pari, per quanto è concesso agli uomini, al modello. Fin qui non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi princìpi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi princìpi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli. Ma fin qui il concetto della filosofia non è se non un c o n c e t t o s c o l a s t i c o , ossia il concetto di un sistema della conoscenza, che è cercata solo come scienza, senz’altro fine che l’unità sistematica di questo sapere, e quindi la perfezione l o g i c a della conoscenza. Ma c’è, inoltre, ancora un concetto cosmico (conceptus cosmicus), che è stato sempre a fondamento di questa denominazione, segnatamente quando, per dir così, lo si personificava e lo si raffigurava nell’ideale del f i l o s o f o come un modello. Da questo aspetto la filosofia è la scienza della relazione di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione umana (teleologia rationis humanae); e il filosofo non è un ragionatore, ma il legislatore dell’umana ragione. In questo

significato, sarebbe orgoglio dirsi da se stesso filosofo, e pretendere di aver agguagliato il modello, che è soltanto ideale. Il matematico, il naturalista, il logico, per quanti eccellenti progressi possano fare i primi anche in generale nella conoscenza razionale, i secondi particolarmente nella conoscenza filosofica, pure non sono se non ragionatori. C’è ancora un maestro nell’ideale, che giudica tutti questi e li adopra come strumenti per promuovere i fini essenziali della umana ragione. Soltanto costui dovremmo dire filosofo; ma poiché esso non si trova in nessun luogo, e l’idea invece della sua legislazione si trova da per tutto nella ragione umana, conviene attenerci unicamente a questa, e determinare più precisamente quale unità sistematica, dal punto di vista dei fini, la filosofia prescrive secondo questo concetto cosmico297. Scopi essenziali non sono ancora i supremi, di cui (nell’unità sistematica perfetta della ragione) non può esservene che uno. Essi sono, perciò, o lo scopo finale, o scopi subalterni, che a quello necessariamente appartengono come mezzi. Il primo non è se non l’intera destinazione dell’uomo, e la filosofia che lo concerne si chiama morale. In vista di questo privilegio, che la filosofia morale possiede rispetto a ogni altro esercizio di ragione, presso gli antichi s’indicava con il nome di filosofo anche sempre e soprattutto il moralista; e, anzi, l’apparenza esteriore del dominio di sé mediante la ragione, fa sì che ancor oggi noi chiamiamo filosofo, per una certa analogia, chi la possiede, anche se sia limitato il suo sapere. Ora, la legislazione della ragione umana (filosofia) ha due oggetti, la natura e la libertà, e abbraccia, quindi, tanto la legge naturale, quanto anche la legge morale, da prima in due separati, ma da ultimo in un unico sistema filosofico. La filosofia della natura si rivolge a tutto ciò che è; quella dei costumi, soltanto a ciò che d e v ’ e s s e r e . Tutta la filosofia poi è conoscenza derivante dalla ragion pura, o conoscenza razionale derivante da princìpi empirici. La prima si dice filosofia pura, la seconda empirica. Ora, la filosofia della ragion pura o è p r o p e d e u t i c a (esercitazione preliminare), la quale studia la facoltà della ragione rispetto a ogni conoscenza pura a priori, e dicesi c r i t i c a ; o, in secondo luogo, sistema della ragion pura (scienza), l’intera conoscenza filosofica (sia vera, sia apparente) derivante dalla ragion pura nella connessione sistematica, e dicesi m e t a f i s i c a ; quantunque questo nome possa anche darsi a tutta la filosofia

della ragion pura, compresa la critica, per raccogliere così tutta insieme la ricerca di quanto può esser conosciuto a priori, nonché anche l’esposizione di quel che costituisce un sistema di conoscenze filosofiche pure di questa specie, ma che è distinto da ogni uso empirico come dall’uso matematico della ragione. La metafisica si divide in metafisica dell’uso s p e c u l a t i v o e metafisica dell’uso p r a t i c o della ragion pura, ed è quindi o m e t a f i s i c a d e l l a n a t u r a , o m e t a f i s i c a d e i c o s t u m i. La prima abbraccia tutti i princìpi razionali puri derivanti dai semplici concetti (quindi con l’esclusione della matematica) della conoscenza t e o r e t i c a di tutte le cose; la seconda i princìpi, che determinano a priori e rendono necessario i l f a r e e i l n o n f a r e . Ora, la moralità è l’unica legalità delle azioni, che possa esser ricavata del tutto a priori da princìpi. Quindi la metafisica dei costumi è propriamente la morale pura, a base della quale non c’è un’antropologia (una condizione empirica). La metafisica della ragione speculativa, è ciò che si vuol dire in s e n s o s t r e t t o metafisica; ma in quanto la morale pura appartiene a un ramo a parte della conoscenza umana e filosofica derivante dalla ragion pura, noi le vogliamo mantenere quella denominazione, benché qui la mettiamo da parte come non pertinente p e r o r a al nostro scopo. È della più straordinaria importanza i s o l a r e conoscenze, che secondo la loro specie e secondo la loro origine, sono diverse dalle altre; e diligentemente impedire che si mescolino con le altre, con cui nell’uso sono ordinariamente congiunte. Quello che fanno il chimico con l’analisi delle materie e il matematico con la sua teoria delle grandezze pure, spetta ancor più al filosofo, affinché possa determinare sicuramente la parte che uno speciale modo di conoscenza ha nell’uso generico dell’intelletto, nonché il suo valore ed influsso. Quindi la ragione umana, da che ha pensato, o piuttosto riflettuto, non ha potuto mai fare a meno di una metafisica, benché per altro essa non abbia potuto esporla abbastanza depurata da ogni elemento estraneo. L’idea di una tale scienza è antica quanto la ragione umana speculativa: e quale ragione non specula, in modo scolastico o popolare? Si deve intanto confessare, che la distinzione dei due elementi della nostra conoscenza, dei quali gli uni sono del tutto a priori in nostro potere, gli altri possono prendersi soltanto a posteriori dalla esperienza, anche in pensatori di professione rimase soltanto assai oscura; e quindi non poteva mai produrre la delimitazione di una specie a parte di conoscenza, e però né anche la schietta

idea di una scienza, che così a lungo e tanto ha travagliato l’umana ragione. Quando si diceva: la metafisica è la scienza dei primi princìpi della ragione umana, si metteva in rilievo così, non una specie del tutto particolare; ma soltanto un grado rispetto all’universalità, per cui la metafisica non poteva distinguersi chiaramente da quello che è empirico; perché anche tra i princìpi empirici ve n’ha alcuni più universali e più alti di altri; e nella serie di una subordinazione di questo genere (in cui non si distingue ciò che è conosciuto del tutto a priori, e ciò che soltanto a posteriori) dove si farà il taglio, che distingua la p r i m a parte coi membri superiori, dall’u l t i m a parte coi subordinati? Che si direbbe se la cronologia non potesse designare le epoche del mondo se non dividendole in primi secoli e in secoli successivi? Si potrebbe domandare: Il quinto, il decimo secolo, ecc. appartiene anch’esso ai primi? E così io domando: Il concetto dell’esteso appartiene alla metafisica? Se voi rispondete: Sì, – Ebbene, ma anche quello del corpo? Sì, – E quello del corpo fluido? – Voi vi adombrate, perché se si va oltre, tutto apparterrà alla metafisica. Di qui si vede, che il semplice grado della subordinazione (dal particolare al generale) non può determinare i limiti di una scienza, sibbene, nel nostro caso, la totale eterogeneità e anche diversità d’origine. Ma ciò che ancora da un altro lato abbuiava l’idea fondamentale della metafisica, era che essa, come conoscenza a priori, dimostra con la matematica una certa affinità, la quale veramente, per ciò che concerne l’origine a priori, genera tra loro una mutua parentela; ma in quanto al modo di conoscenza, per concetti in quella, di contro al modo di giudicare soltanto per costruzione di concetti a priori, in questa, e però in quanto alla differenza di una conoscenza filosofica da una conoscenza matematica, si dimostra una così decisa eterogeneità, che si è sempre, per dir così, sentita, ma non si è mai saputo dedurre a criteri evidenti. Ond’è accaduto che, fallendo gli stessi filosofi nello svolgimento dell’idea della loro scienza, l’elaborazione di essa non poteva avere un fine determinato e una norma sicura, e che, con un disegno così arbitrario, ignoranti della via che dovevano prendere, e sempre in contrasto circa le scoperte che ciascuno per suo conto pretendeva di aver fatte, fecero cadere la loro scienza in disistima da prima presso gli altri, e da ultimo perfino presso se stessi. Ogni conoscenza pura a priori, dunque, in virtù della speciale facoltà conoscitiva in cui essa può avere soltanto sua sede, costituisce una speciale unità, e la metafisica è quella filosofia, che deve esporre codesta conoscenza

in tale unità sistematica. La parte speculativa di essa, che si è appropriato di preferenza tal nome, ossia quella che noi diciamo m e t a f i s i c a d e l l a n a t u r a , e che esamina per concetti tutto quello che non è (non quello che dev’essere), vien poi divisa nel seguente modo. La metafisica, in senso stretto, consta della f i l o s o f i a t r a s c e n d e n t a l e e della f i s i o l o g i a della ragion pura. La prima studia soltanto l’i n t e l l e t t o e la ragione stessa in un sistema di tutti i concetti e princìpi che si riferiscono ad oggetti in generale, senza assumere oggetti che s a r e b b e r o d a t i (ontologia); la seconda studia la n a t u r a , cioè l’insieme degli oggetti d a t i (siano essi dati ai sensi, o se si vuole, da un’altra specie di intuizione), ed è quindi f i s i o l o g i a (benché soltanto rationalis). Ma l’uso della ragione in questo studio razionale della natura è fisico o iperfisico, o meglio: o i m m a n e n t e o t r a s c e n d e n t e . Il primo si rivolge alla natura, in quanto la sua conoscenza può applicarsi all’esperienza (in concreto); il secondo a quella connessione degli oggetti dell’esperienza che trascende ogni esperienza. Questa fisiologia t r a s c e n d e n t e ha quindi ad oggetto o una connessione i n t e r n a o una e s t e r n a , le quali per altro vanno entrambe di là da ogni esperienza possibile: quella è la fisiologia dell’intera natura, cioè c o s m o l o g i a t r a s c e n d e n t a l e: questa, del rapporto di tutta la natura con un essere al di sopra della natura, cioè la t e o l o g i a t r a s c e n d e n t a l e. La fisiologia immanente, invece, considera la natura come il complesso di tutti gli oggetti dei sensi, e però in quanto essa è data a n o i , sibbene solo secondo condizioni a priori, nelle quali essa può in generale esserci data. V’ha poi due sole specie di oggetti di essi: 1° Gli oggetti dei sensi esterni, quindi il complesso di essi, la n a t u r a c o r p o r e a. 2° L’oggetto del senso interno, l’anima, e, giusta i fondamentali concetti di essa in generale, la n a t u r a p e n s a n t e. La metafisica della natura corporea dicesi f i s i c a , ma, poiché si limita a’ princìpi della sua conoscenza a priori, f i s i c a r a z i o n a l e . La metafisica della natura pensante dicesi p s i c o l o g i a , e, per la ragione detta, qui è da intendere solo come la c o n o s c e n z a r a z i o n a l e di essa. Sicché il sistema intero della metafisica consta di quattro parti principali: 1° o n t o l o g i a ; 2° f i s i o l o g i a r a z i o n a l e; 3° c o s m o l o g i a r a z i o n a l e ; 4° t e o l o g i a r a z i o n a l e. La seconda parte, cioè la dottrina della natura della ragion pura, comprende due suddivisioni: la physica rationalis298, e la psycologia rationalis.

L’idea originaria di una filosofia della ragion pura prescrive essa stessa questa partizione: essa è dunque fatta a r c h i t e t t o n i c a m e n t e , conforme ai suoi fini essenziali, e non soltanto t e c n i c a m e n t e , secondo affinità percepite accidentalmente e quasi per un caso fortunato; ma appunto perciò essa è anche immutabile e legislatoria. Ma vi sono, a questo proposito, alcuni punti che potrebbero far nascere qualche difficoltà, e scuotere la convinzione della sua regolarità. In primo luogo, come posso io sperare una conoscenza a priori, cioè una metafisica di oggetti, se essi son dati ai nostri sensi, e quindi a posteriori? e com’è possibile conoscere secondo princìpi a priori la natura delle cose e pervenire a una fisiologia r a z i o n a l e ? La risposta è: noi dall’esperienza non prendiamo più di quanto è necessario a d a r c i un oggetto e del senso esterno e dell’interno. La prima cosa ha luogo mediante il semplice concetto di materie (estensione impenetrabile e senza vita), la seconda mediante il concetto di un essere pensante (nell’interna rappresentazione empirica: Io penso). Del resto in tutta la metafisica degli oggetti noi dovremmo astenerci affatto da tutti i princìpi empirici, che potrebbero, oltre il concetto, aggiungere una qualche esperienza, per giudicare quindi qualche cosa sopra questi oggetti. In secondo luogo: dove resta poi la p s i c o l o g i a e m p i r i c a, che ha sempre preteso il suo posto nella metafisica, e della quale ai nostri tempi si sono sperate sì gran cose a schiarimento di questa, dopo che s’ebbe dismessa la speranza di stabilire a priori qualcosa di concludente? Io rispondo: essa vien dove dev’essere collocata la fisica vera e propria (empirica), cioè nella parte della filosofia a p p l i c a t a , per cui la filosofia pura contiene i princìpi a priori, e che adunque dee essere congiunta veramente con quella, ma non confusa. La psicologia empirica pertanto dev’essere interamente bandita dalla metafisica, e già ne è interamente esclusa dall’idea di essa. Nondimeno, le si dovrà sempre, secondo l’uso scolastico, concedere in essa un posticino (benché solo come episodio), e ciò per motivi economici, poiché essa non è ancora tanto ricca, da formare da sola uno studio a sé; e tuttavia troppo importante, perché la si possa respingere affatto, o annetterla ad altro, con cui avrebbe ancor meno parentela che con la metafisica. È dunque nient’altro che uno straniero ospitato da tanto, e al quale si concede un soggiorno per qualche tempo, fino a che egli potrà accasarsi da sé in una particolareggiata antropologia (analogo della dottrina empirica della natura).

Questa è dunque l’idea generale della metafisica, la quale, per essersene da principio sperato più che ragionevolmente se ne potesse attendere, ed essersi essa stessa dilettata per lungo tempo di belle aspettazioni, è caduta alla fine nell’universale disistima, poiché ognuno è rimasto deluso nella sua speranza. Da tutto il corso della nostra critica ognuno si sarà abbastanza convinto che, sebbene la metafisica non possa essere il fondamento della religione, essa tuttavia deve restare sempre il suo scudo, e che la ragione umana, la quale già per l’avviamento della sua natura è dialettica, e non può mai fare a meno di questa scienza, che la modera, e con una conoscenza scientifica e pienamente rischiaratrice di se stessa tien lontane le devastazioni che altrimenti una ragione speculativa senza legge apporterebbe immancabilmente, così nella morale come nella religione. Si può dunque esser sicuri, per quanto facciano gli aspri e i severi quelli che non sanno giudicare una scienza secondo la sua natura, ma soltanto dai suoi effetti accidentali, che si ritornerà sempre a lei, come a un’amante che si sia rotta con noi; poiché la ragione, trattandosi qui dei suoi fini essenziali, deve lavorare senza posa a un solido sapere, o alla distruzione delle buone conoscenze precedenti. La metafisica, dunque, della natura e dei costumi, sopra tutto la critica della ragione arrischiantesi sulle sue proprie ali, la quale va innanzi come e s e r c i z i o p r e l i m i n a r e (propedeutica), costituiscono da sole quello che possiamo dire nel senso schietto filosofia. Questa riferisce tutto alla saggezza, ma per la via della scienza, l’unica che, una volta aperta, non si chiude più, e non permette smarrimenti. La matematica, la fisica, la stessa conoscenza empirica dell’uomo hanno un alto valore come mezzo in gran parte per fini accidentali, da ultimo tuttavia per fini necessari ed essenziali dell’umanità: ma, allora, soltanto mediante una conoscenza razionale per semplici concetti, la quale, si denomini come si vuole, non è propriamente altro che metafisica. Sicché la metafisica è il complemento di ogni c u l t u r a della ragione umana; complemento indispensabile, ancorché si metta da parte il suo influsso come scienza su certi fini determinati. Essa, infatti, considera la ragione nei suoi elementi e nelle sue massime supreme, che devono essere, a lor volta, a fondamento della p o s s i b i l i t à di alcune scienze e dell’uso di tutte. Che essa, come semplice speculazione, serva più a impedire gli errori, che ad estendere la conoscenza, ciò non pregiudica il suo valore, ma le conferisce piuttosto dignità e autorità per l’ufficio di censore che assicura

l’ordine pubblico, l’accordo e perfino il benessere della repubblica scientifica, a’ cui lavori animosi e fecondi impedisce di deviare dal fine principale, della felicità universale. 294

Cioè, della ragione. Gioco di parole: «Er bildete sich nach...» ecc. Nach bilden, «imitare», significa letteralmente «formar secondo». 296 Welche (femminile) si riferisce a Beurtheilung = giudizio, valutazione; ma il Rosenkranz propose la variante: welches (neutro), che si riferirebbe a «modello». Il Wille (Kantst., IV, 315) propose col solito arbitrio di togliere der Beurtheilung. 297 C o n c e t t o c o s m i c o qui vuol dire il concetto che riguarda quello che interessa ognuno: e però io determino il fine di una scienza secondo c o n c e t t i s c o l a s t i c i, quando essa vien considerata soltanto come un’abilità per certi fini a piacere (N. d. K.). 298 Non si creda che con questa espressione io intenda ciò che si dice comunemente physica generalis, e che è più matematica che filosofia della natura. Perché la metafisica della natura è affatto separata dalla matematica, e se anche è ben lontana dal fornire vedute così estensive come questa, è tuttavia molto importante rispetto alla critica della conoscenza pura dell’intelletto in generale applicabile alla natura; e in mancanza di essa i matematici stessi, aderendo a certi concetti comuni, in realtà metafisici, hanno senza accorgersene guastato la fisica con ipotesi, che ad una critica di questi princìpi si dileguano, senza pregiudicare pertanto l’uso della matematica in questo campo (che è affatto indispensabile) (N. d. K.). 295

Capitolo Quarto La storia della ragion pura

Questo titolo qui non sta se non a indicare un posto che resta nel sistema, e che dev’essere riempito in avvenire. Io mi contento di gettare, da un punto di vista meramente trascendentale, ossia della natura della ragion pura, un’occhiata fugace all’insieme de’ suoi lavori passati, che mi presenta certamente allo sguardo taluni edifici, ma soltanto in rovina. È abbastanza degno di nota, benché naturalmente non possa accadere altrimenti, che gli uomini, nell’infanzia della filosofia, abbiano cominciato di là, dove noi piuttosto dovremmo finire: cioè a studiare da prima la conoscenza di Dio e la speranza o perfino la natura di un altro mondo. Per quanto rozzi potessero essere i concetti religiosi che furono importati dagli antichi usi, sopravvissuti allo stato barbaro dei popoli, questo non impediva alla parte più illuminata di dedicarsi a libere ricerche su questi oggetti; e si vede facilmente che non può esserci un modo più solido e più sicuro di piacere alla Potenza invisibile che governa il mondo, per essere beato almeno in un altro mondo, che la buona condotta. La teologia quindi e la morale furono i due motivi, o meglio i due punti di riferimento di tutte le varie ricerche razionali, a cui non si cessò più in seguito di dedicarsi. La prima intanto fu quella propriamente che trascinò la ragione meramente speculativa, a poco a poco, all’occupazione che più tardi divenne cotanto famosa, sotto il nome di metafisica. Io non sto ora a distinguere i tempi, in cui occorse questa o quella trasformazione della metafisica, ma voglio rappresentare in un rapido compendio soltando la differenza dell’idea, che diè occasione alle rivoluzioni più capitali. E quivi trovo un triplice fine, per cui sorsero i principali cangiamenti su questo teatro di lotte. 1° R i s p e t t o a l l ’ o g g e t t o di ogni nostra conoscenza di ragione, alcuni filosofi sono stati semplicemente s e n s u a l i s t i , a l t r i

i n t e l l e t t u a l i s t i . Epicuro si può dire il più eminente filosofo del senso; Platone, della parte intellettuale. Ma questa distinzione di scuole, per sottile che sia, era già cominciata nei tempi più antichi, e s’è mantenuta a lungo ininterrottamente. Quelli della prima scuola affermavano che soltanto negli oggetti dei sensi c’è realtà, tutto il resto è immaginazione; quelli della seconda dicevano, al contrario: nei sensi non c’è se non apparenza, soltanto l’intelletto conosce il vero. I primi per altro non contrastavano ai concetti dell’intelletto una realtà, ma questa realtà per loro era solamente logica, laddove per gli altri era m i s t i c a . Quelli ammettevano c o n c e t t i i n t e l l e t t u a l i , ma o g g e t t i soltanto s e n s i b i l i . Questi pretendevano che i veri oggetti fossero soltanto i n t e l l i g i b i l i , e affermavano una i n t u i z i o n e di un intelletto puro non accampagnato da nessun senso, e, a loro avviso, dal senso soltanto confuso. 2° R i s p e t t o a l l ’ o r i g i n e delle conoscenze pure della ragione, se esse derivino dalla esperienza, o se indipendentemente da lei abbiano la loro sorgente nella ragione, Aristotele può essere considerato come il capo degli e m p i r i s t i , Platone invece dei n o o l o g i s t i . Locke, che nei nuovi tempi seguì il primo, e Leibniz, che seguì l’ultimo (sebbene allontanandosi abbastanza dal sistema mistico di lui), non hanno potuto in questa controversia portare ancora a una soluzione. Almeno Epicuro, dalla sua parte, si comportò rispetto al suo sistema sensualistico, molto più conseguentemente (poiché egli non si spinse mai con le sue deduzioni oltre il limiti dell’esperienza) di Aristotele e Locke (specialmente di quest’ultimo), il quale, dopo che ha ricavati tutt’i concetti e princìpi dall’esperienza, nell’uso di essi va tant’oltre, da affermare che l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima (sebbene questi due oggetti siano affatto fuor dei limiti di una possibile esperienza) si possono dimostrare con la stessa evidenza di qualsiasi teorema matematico. 3° R i s p e t t o a l m e t o d o, se si vuol dare a un qualcosa questo nome, esso dev’essere un procedimento secondo p r i n c ì p i . Ora il metodo che domina in questo speciale ordine di ricerche, si può dividere in n a t u r a l i s t i c o e s c i e n t i f i c o . Il n a t u r a l i s t a della ragion pura assume per princìpio che, per mezzo della ragione comune senza scienza (che egli dice ragione sana) si può, rispetto alle questioni più sublimi che costituiscono il còmpito della metafisica, conchiuder più che per mezzo della speculazione. Afferma quindi, che si può determinare con maggior sicurezza la grandezza e

la distanza della luna ad occhio, anzi che pel tramite della matematica. È una semplice misologia, impostata su princìpi, e, ciò che è il colmo dell’assurdo, l’abbandono di ogni mezzo dell’arte pregiato come un m e t o d o p r o p r i o, per estendere le proprie conoscenze. Perché, quanto ai naturalisti che son tali per d i f e t t o di maggiori conoscenze, questo non si può ragionevolmente imputar loro a biasimo. Essi seguono la ragione comune, senza vantarsi della loro ignoranza, come metodo che debba contenere il segreto per tirar su la verità dal pozzo profondo di Democrito. ...quod sapio, satis est mihi: non ego curo esse quod Arcesilas aerumnosique Solones. Pers.299

è il loro motto, con cui possono vivere contenti e meritare approvazione, senza preoccuparsi della scienza e turbarne il lavoro. Quanto ora agli osservatori di un metodo s c i e n t i f i c o , essi hanno qui la scelta tra il d o m m a t i c o e lo s c e t t i c o , m in ogni caso tuttavia l’obbligo di procedere s i s t e m a t i c a m e n t e . Se io qui, rispetto ai primi, nomino il celebre Wolff, per i secondi David Hume, posso tacere di tutti gli altri, pel mio scopo presente. Soltanto, la via c r i t i c a è ancora aperta. Se il lettore ha avuto la compiacenza e la pazienza di percorrerla in mia compagnia, egli ormai può giudicare, ove a lui piacesse di contribuirvi per la sua parte, se per fare di questo sentiero una via regia, non possa, quello che molti secoli non riuscirono a fare, ottenersi prima che finisca il secolo presente: condurre l’umana ragione alla piena soddisfazione rispetto a ciò che in ogni tempo, ma finora indarno, ha occupato la sua curiosità. 299

Persio, Sat. III, 78-9. Il testo dice: «quod satis est sapio mihi».

Appendice Brani della prima edizione esclusi dalla seconda

I Deduzione dei concetti puri dell’intelletto

Sezione Seconda DEI FONDAMENTI A PRIORI DELLA POSSIBILITÀ DELL’ESPERIENZA Che un concetto debba esser prodotto affatto a priori e riferirsi a un oggetto, sebbene né appartenga per se stesso al concetto di un esperienza possibile, né consti di elementi di esperienza possibile, è del tutto contraddittorio e impossibile. Giacché esso non avrebbe nessun contenuto, poiché non gli corrisponderebbe nessuna intuizione, costituendo le intuizioni in generale, onde ci posson esser dati gli oggetti, il campo o l’oggetto tutto quanto dell’esperienza possibile. Un concetto a priori che non si riferisse ad esse, sarebbe soltanto la forma logica di un concetto, ma non il concetto stesso, per cui sarebbe pensato qualcosa. Se dunque vi sono concetti puri a priori, essi certamente non possono contenere niente di empirico; ma devono, nondimeno, essere pure condizioni a priori di una possibile esperienza, come quella su cui può soltanto poggiare la realtà oggettiva di essa. Se si vuol quindi sapere come siano possibili concetti puri dell’intelletto, si deve indagare quali sono le condizioni a priori da cui dipende la possibilità dell’esperienza, e che sono a fondamento di essa, sebbene si astragga da ogni elemento empirico dei fenomeni. Un concetto che esprima questa condizione formale e oggettiva dell’esperienza universalmente e sufficientemente, dovrebbe dirsi concetto puro dell’intelletto. Se io ho concetti puri dell’intelletto io posso anche ben concepire oggetti, che sono forse impossibili, fors’anche possibili in sé, ma che non possono esser dati in nessuna esperienza, in quanto nella connessione di quei concetti può esser

tralasciato qualcosa, che pure fa parte necessariamente della condizione di una esperienza possibile (concetto d’uno spirito), o in quanto, poniamo, i concetti puri dell’intelletto vengono estesi al di là di quel che possa abbracciare l’esperienza (concetto di Dio). Ma gli e l e m e n t i di tutte le conoscenze a priori, fin delle invenzioni arbitrarie ed assurde, non possono invero esser desunti dalla esperienza (ché altrimenti non sarebbero conoscenze a priori), ma debbono sempre contenere le condizioni pure a priori di una possibile esperienza e di un oggetto di essa; ché altrimenti non solo per mezzo di essi non si penserebbe nulla, ma essi stessi, privi di dati, non potrebbero né anche sorgere mai nel pensiero. Ora questi concetti, che contengono a priori il pensiero puro di ogni esperienza, noi li troviamo nelle categorie, ed è già una sufficiente deduzione di esse e una giustificazione della loro validità oggettiva, se noi possiamo dimostrare che soltanto per loro mezzo un oggetto può esser pensato. Ma poiché in un tal pensiero è impiegato più che la sola facoltà di pensare, ossia l’intelletto, e questo stesso, in quanto facoltà conoscitiva che deve riferirsi ad oggetti, ha bisogno a sua volta di un chiarimento circa la possibilità di tale riferimento, così noi dobbiamo innanzi esaminare le fonti soggettive, che formano i fondamenti a priori della possibilità dell’esperienza, non secondo la loro natura empirica, bensì secondo quella trascendentale. Se ogni singola rappresentazione fosse affatto estranea, e per dir così isolata e separata dalle altre, non darebbe mai qualcosa com’è la conoscenza, la quale è una totalità di rappresentazioni comparate e connesse. Se io dunque attribuisco al senso, per il fatto che esso contiene nella sua intuizione una molteplicità, una sinossi, a questa corrisponde sempre una sintesi, e la r e c e t t i v i t à può rendere possibili delle conoscenze solo se congiunta con la s p o n t a n e i t à . Ma questa è il fondamento di una triplice sintesi, che si ha necessariamente in ogni conoscenza: cioè dell’a p p r e n s i o n e delle rappresentazioni come modificazioni dell’animo nella intuizione, della r i p r o d u z i o n e di esse nell’immaginazione, e della loro r i c o g n i z i o n e nel concetto. Ora queste menano a tre fonti soggettive di conoscenza, che rendono possibile lo stesso intelletto e, per mezzo di questo, ogni esperienza come prodotto empirico dell’intelletto. AVVERTENZA PRELIMINARE La deduzione delle categorie è legata a tante difficoltà, ed obbliga a penetrare così profondamente nei primi fondamenti della possibilità della

nostra conoscenza, che io, per evitare la prolissità d’una teoria completa, e intanto non trascurar nulla in una ricerca così necessaria, ho trovato opportuno preparare, più che istruire, il lettore coi seguenti quattro numeri, e soltanto nella terza sezione prossima presentare sistematicamente la trattazione di questi elementi dell’intelletto. Perciò il lettore non si lascerà respingere qui dalla oscurità, che in una via che ancora non è stata mai battuta è da principio inevitabile, ma che, come io spero, nella detta sezione deve rischiararsi fino a una luce completa. 1. Della sintesi dell’apprensione nella intuizione Le nostre rappresentazioni, donde che vengano, e sieno effetto dell’influsso delle cose esterne o di cause interne, sien derivate a priori, o empiricamente come fenomeni, appartengono sempre come modificazioni dello spirito al senso interno, e, come tali, tutte le nostre conoscenze infine sono soggette alla condizione formale del senso interno, il tempo, come quello in cui tutte quante devono essere ordinate, unificate e messe in rapporto. Questa è un’osservazione generale, che si deve assolutamente mettere a fondamento di quel che segue. Ogni intuizione contiene in sé un molteplice, che tuttavia non potrebbe esser rappresentato come tale, se lo spirito non distinguesse il tempo nella serie successiva delle impressioni; giacché in q u a n t o c o n t e n u t a i n u n i s t a n t e , ogni rappresentazione non può mai essere altro che assoluta unità. Ora, affinché da questo molteplice sorga l’unità dell’intuizione (come presso a poco nella rappresentazione dello spazio), è necessario primieramente il trascorrere del molteplice e poi il raccoglimento di esso, operazione che io dico s i n t e s i d e l l’ a p p e r c e z i o n e , poiché essa è indirizzata direttamente all’intuizione, che offre bensì un molteplice, ma questo come tale, e come contenuto in una rappresentazione, non può essere mai realizzato senza l’intervento di una sintesi. Ora questa sintesi dell’apprensione deve esercitarsi anche a priori, ossia rispetto alle rappresentazioni, che non sono empiriche. Perché senza di essa non potremmo avere a priori rappresentazioni né dello spazio né del tempo, non potendo queste nascere se non dalla sintesi del molteplice, che offre la sensibilità nella ricettività originaria. Noi dunque abbiamo una sintesi pura dell’apprensione. 2. Della sintesi della riproduzione nell’immaginazione È in verità una semplice legge empirica, quella per cui le

rappresentazioni, che si sono spesso seguite o accompagnate, alla fine s’associano tra loro, e si mettono pertanto in una connessione secondo la quale, anche senza la presenza dell’oggetto, una di queste rappresentazioni fa passare lo spirito alle altre secondo una regola costante. Ma questa legge delle riproduzioni presuppone che i fenomeni stessi siano effettivamente soggetti a una tale regola, e che nel molteplice delle loro rappresentazioni abbia luogo una concomitanza e successione conforme a certe regole; perché senza di ciò la nostra immaginazione empirica non riceverebbe mai qualcosa da fare in modo conforme al poter suo, onde rimarrebbe nascosto come un potere morto e ignoto a noi stessi nell’interno dello spirito. Se il cinabro fosse ora rosso e ora nero, ora leggero e ora pesante, se un uomo si trasformasse ora in questa, ora in quella forma animale, se, nello stesso giorno, la terra fosse coperta ora dai prati, ora di ghiaccio e di nebbia, la mia immaginazione empirica non potrebbe mai avere l’occasione di ricevere nel pensiero, con la rappresentazione del color rosso, il pesante cinabro; o se una data parola fosse attribuita ora a questa cosa, ora a quella, o la stessa cosa fosse chiamata ora in questo modo, ora in un altro, senza che vi dominasse una regola certa cui i fenomeni già per se stessi fossero soggetti, nessuna sintesi empirica della riproduzione potrebbe aver luogo. Dev’esserci dunque qualche cosa che, a sua volta, renda possibile questa riproduzione dei fenomeni, essendo fondamento a priori di un’unità sintetica necessaria. Ma a questo si vien tosto, se si riflette che i fenomeni non sono cose in sé, ma il semplice giuoco delle nostre rappresentazioni, che si riducono infine a determinazioni del senso interno. Ora, se noi possiamo dimostrare che anche le nostre più pure intuizioni a priori non procurano alcuna conoscenza, se non in quanto esse implicano una tale connessione del molteplice, che renda possibile una sintesi generale della riproduzione, allora questa sintesi dell’immaginazione, anche prima d’ogni esperienza, è fondata su princìpi a priori, e si deve ammettere una sintesi pura trascendentale di essa, che stia ella medesima a fondamento della possibilità di ogni esperienza (come quella che presuppone necessariamente la riproducibilità dei fenomeni). Ora è manifesto che, se io tiro nel pensiero una linea, o voglio rappresentare il tempo da un mezzodì all’altro, o anche solo un dato numero, io devo prima di tutto necessariamente pensare queste molteplici rappresentazioni una dopo l’altra. Che se le precedenti (le prime parti della linea, le parti precedenti del tempo, o le unità successivamente rappresentate)

io, intanto che passo alle seguenti, le perdessi sempre dal pensiero e non le riproducessi, giammai si potrebbe formare una rappresentazione intera, né uno di tutti i pensieri predetti, anzi, né anche mai le più pure e prime rappresentazioni fondamentali dello spazio e del tempo. La sintesi dell’apprensione è dunque legata inscindibilmente con la sintesi della riproduzione. E poiché quella costituisce il fondamento trascendentale della possibilità di tutte le conoscenze (non solo di quelle empiriche, ma anche di quelle pure a priori), così la sintesi riproduttiva dell’immaginazione appartiene alle operazioni trascendentali dello spirito, e riguardo a queste noi chiameremo anche questa facoltà, la facoltà trascendentale dell’immaginazione. 3. Della sintesi della ricognizione nel concetto Senza la coscienza che ciò che noi pensiamo è appunto quel medesimo che pensavamo un momento prima, ogni riproduzione nella serie delle rappresentazioni sarebbe inutile. Infatti ci sarebbe una nuova rappresentazione nello stato presente, la quale non apparterrebbe punto all’atto per cui essa ha dovuto essere prodotta a poco a poco, e il molteplice di essa non costituirebbe mai un tutto, perché mancherebbe dell’unità, che può conferirgli soltanto la coscienza. Se io nel contare dimentico che le unità che mi stanno ora innanzi ai sensi, sono state da me aggiunte l’una all’altra a poco a poco, io non potrei conoscere la generazione della quantità per via di questa successiva addizione dell’uno all’uno, e quindi né anche il numero; giacché questo concetto consiste unicamente nella coscienza di questa unità della sintesi. Il termine «concetto» potrebbe già da se stesso condurci a questa osservazione. Infatti questa coscienza una è quella che unifica il molteplice, quel che s’intuisce a poco a poco e poi anche si riproduce, in u n a rappresentazione. Questa coscienza può spesso essere soltanto debole, sì che noi la uniamo nell’effetto ma non nell’atto stesso, cioè immediatamente, col prodursi della rappresentazione; pure, nonostante questa differenza, deve trovarvisi sempre una coscienza, sebbene le manchi la chiarezza evidente, e senza di essa i concetti, e quindi la conoscenza degli oggetti, sono del tutto impossibili. E qui è necessario farsi un’idea chiara di quel che si intende con l’espressione «oggetto delle rappresentazioni». Noi abbiamo detto più sopra che i fenomeni stessi non sono altro che rappresentazioni sensibili, che in se

stesse, in quello stesso modo, non devono essere considerate come oggetti (fuori della capacità rappresentativa). Che cosa si intende quando si parla di un oggetto corrispondente alla cognizione, e però anche di un oggetto diverso da esso? È facile accorgersi, che questo oggetto non dev’esser pensato se non come qualcosa in generale = x, perché fuori della nostra conoscenza noi non abbiamo più nulla, che si possa porre a riscontro di questa cognizione come corrispondente. Ma noi troviamo che il nostro pensiero del rapporto di ogni cognizione col suo oggetto ha in sé un che di necessario, per cui, poiché questo oggetto si considera come quel che è di contro, le nostre conoscenze non son determinate a caso, o arbitrariamente, ma a priori, in certi modi, poiché, dovendosi riferire a un oggetto, esse devono anche necessariamente, in rapporto a esso, accordarsi tra loro, ossia avere quella unità, che costituisce il concetto di un oggetto. Ma poiché noi abbiamo da fare solo col molteplice delle nostre rappresentazioni, e poiché quell’x che corrisponde ad esse (l’oggetto), dovendo essere qualcosa di diverso dalle nostre rappresentazioni, non è per noi nulla, è chiaro che l’unità richiesta dall’oggetto, non può esser altro che l’unità formale della coscienza nella sintesi del molteplice delle rappresentazioni. Allora diciamo: noi conosciamo l’oggetto quando abbiamo realizzato nel molteplice dell’intuizione un’unità sintetica. Ma questa è impossibile, se l’intuizione non si è potuta produrre, mercé una tale funzione di sintesi, conforme a una regola, che renda a priori necessaria la riproduzione del molteplice, e possibile un concetto in cui questo si unifichi. Così noi pensiamo un triangolo come oggetto, quando abbiamo coscienza della unione di tre linee rette, secondo una regola per cui tale intuizione può sempre esser rappresentata. Ora questa u n i t à della regola determina ogni molteplice, e lo limita alle condizioni che rendono possibile l’unità dell’appercezione, e il concetto di questa unità è la rappresentazione dell’oggetto = x, che io penso mediante i suddetti predicati di un triangolo. Ogni conoscenza richiede un concetto, sia questo imperfetto e oscuro quanto si voglia; ma esso è sempre, per la sua forma, qualcosa di universale, e che serve di regola. Così il concetto del corpo, secondo l’unità del molteplice che con esso vien pensato, serve di regola alla nostra conoscenza dei fenomeni esterni. Una regola delle intuizioni, per altro, esso non può essere se non in quanto rappresenta nei fenomeni dati la riproduzione

necessaria del loro molteplice, e però l’unità sintetica nella conoscenza rispettiva. Così il concetto del corpo, nella percezione di qualcosa di esterno a noi, rende necessaria la rappresentazione dell’estensione, e con questa quella dell’impenetrabilità, della forma, e così via. Ma a fondamento di ogni necessità è sempre una condizione trascendentale. Ci dev’essere dunque un fondamento trascendentale dell’unità della coscienza nella sintesi del molteplice di tutte le nostre intuizioni; quindi anche dei concetti degli oggetti in generale, e per conseguenza altresì di tutti gli oggetti dell’esperienza; senza di che sarebbe impossibile pensare un qualsiasi oggetto per le nostre intuizioni; perché questo non è altro che quel qualcosa, di cui il concetto esprime una tale necessità della sintesi. Ora questa condizione originaria e trascendentale non è altro che l’A p p e r c e z i o n e t r a s c e n d e n t a l e . La coscienza di se stesso, secondo le determinazioni del nostro stato nella percezione interna, è meramente empirica, sempre mutabile; non può darci un Sé stabile e permanente in questo flusso di fenomeni interni, e vien detto abitualmente s e n s o i n t e r n o o a p p e r c e z i o n e e m p i r i c a. Quel che dev’essere n e c e s s a r i a m e n t e rappresentato come numericamente identico, non può esser pensato come tale per mezzo di dati empirici. Ci dev’essere una condizione, che preceda ogni esperienza e renda possibile l’esperienza stessa, la quale deve render valido un tal presupposto trascendentale. Ora in noi non possono aver luogo conoscenze, non può aver luogo alcun rapporto e unità di esse tra loro, senza quell’unità della coscienza, la quale precede tutti i dati delle intuizioni, e in rapporto alla quale soltanto ogni rappresentazione di oggetti è possibile. Ora questa pura immutabile coscienza originaria io voglio denominare a p p e r c e z i o n e t r a s c e n d e n t a l e. Che essa meriti questo nome, risulta già da questo, che anche la più pura unità oggettiva, ossia quella dei concetti a priori (spazio e tempo), non è possibile se non pel riferimento delle intuizioni a essa. L’unità numerica di questa appercezione sta dunque a priori a fondamento di tutti i concetti, a quella guisa che la molteplicità dello spazio e del tempo sta a fondamento delle intuizioni del senso. Ma appunto questa unità trascendentale dell’appercezione fa, di tutti i possibili fenomeni che possano mai essere insieme nell’esperienza, una connessione di tutte queste rappresentazioni secondo leggi. Questa unità infatti della coscienza sarebbe impossibile, se lo spirito nella conoscenza del

molteplice non potesse aver coscienza della identità della funzione ond’essa lo aduna sinteticamente in una conoscenza. La coscienza originaria e necessaria dell’identità di se stesso è dunque insieme la coscienza di un’altrettanta necessaria unità della sintesi di tutti i fenomeni secondo concetti, cioè secondo regole, le quali non soltanto li rendono necessariamente riproducibili, ma assegnano così anche alla loro intuizione un oggetto, ossia il concetto di qualcosa, in cui essi si connettano necessariamente; giacché lo spirito non potrebbe, a priori, pensare l’identità di se stesso nella molteplicità delle sue rappresentazioni, se non avesse presente l’identità della sua operazione, che sottopone ogni sintesi dell’apprensione (che è empirica) a un’unità trascendentale, e ne rende quindi primieramente possibile l’unificazione a priori secondo leggi. Ormai noi potremo determinare più esattamente anche i nostri concetti di un o g g e t t o in generale. Tutte le rappresentazioni, in quanto rappresentazioni, hanno il loro oggetto, e possono esse stesse, alla loro volta, esser oggetti di altre rappresentazioni. I fenomeni sono i soli oggetti che possono esserci dati immediatamente, e quello che in essi si riferisce immediatamente all’oggetto, dicesi intuizione. Ma questi fenomeni non sono cose in sé, ma per sé solamente rappresentazioni, che a loro volta hanno il loro oggetto; il quale pertanto da noi non può esser più intuito, e quindi può esser detto oggetto non empirico, cioè trascendentale = x. Il concetto puro di quest’oggetto trascendentale (che in realtà, in tutte le nostre conoscenze, è sempre identico = x) è quello che a tutti i nostri concetti empirici in generale può conferire un rapporto a un oggetto, cioè una realtà oggettiva. Ora questo concetto non può contenere nessuna intuizione determinata; e però non concernerà altro che quella unità, che deve incontrarsi in un molteplice della conoscenza, in quanto questo si riferisce a un oggetto. Ma questo rapporto non è se non l’unità necessaria della coscienza, quindi anche della sintesi del molteplice mediante la funzione associatrice dello spirito, che lo unifica in una rappresentazione. Ora poiché questa unità dev’esser riguardata come necessaria a priori (ché altrimenti la conoscenza sarebbe senza oggetto), il rapporto a un oggetto trascendentale, cioè la realtà oggettiva della nostra conoscenza empirica riposerà sulla legge trascendentale, che tutti i fenomeni, in quanto per mezzo di essi devono esserci dati oggetti, devono sottostare a regole a priori della loro unità sintetica, le quali soltanto rendono possibile la loro relazione nell’intuizione

empirica; che cioè devono sottostare tanto nell’esperienza a condizioni dell’unità necessaria dell’appercezione, quanto nell’intuizione pura alle condizioni formali dello spazio e del tempo; anzi che per esse prima di tutto divien possibile ogni conoscenza. 4. Chiarimento preliminare della possibilità delle categorie come conoscenze a priori C’è soltanto u n a esperienza, in cui tutte le percezioni sono rappresentate in una connessione generale e conforme a leggi: appunto come c’è soltanto u n o s p a z i o e u n t e m p o, in cui tutte le forme del fenomeno e ogni rapporto dell’essere o non essere hanno luogo. Se si parla di diverse esperienze, vi sono solamente tante percezioni, che in quanto tali appartengono a un’identica esperienza. Ossia l’unità generale e sintetica delle percezioni costituisce appunto la forma dell’esperienza, ed essa non è altro che l’unità sintetica dei fenomeni secondo concetti. Se l’unità della sintesi secondo concetti empirici fosse interamente contingente, e questi non si fondassero su un principio trascendentale dell’unità, sarebbe possibile che una baraonda di fenomeni riempisse la nostra anima senza che tuttavia ne potesse mai provenire un’esperienza. Ma allora verrebbe meno anche ogni rapporto della conoscenza con oggetti, poiché le mancherebbe il concatenamento secondo leggi universali e necessarie, e però ci sarebbe bensì una intuizione senza pensiero, ma non mai una conoscenza, sicché per noi ci sarebbe lo stesso che niente. Le condizioni a priori di una esperienza possibile in generale sono insieme condizioni della possibilità degli oggetti dell’esperienza. Ora io dico: le sopra addotte c a t e g o r i e non sono altro che le c o n d i z i o n i d e l pensiero in una esperienza possibile, come lo spazio e il t e m p o c o n t e n g o n o l e c o n d i z i o n i d e l l ’ i n t u i z i o n e appunto per essa. Esse dunque sono anche concetti fondamentali per pensare oggetti in generale per i fenomeni, e hanno pertanto a priori validità oggettiva; che era quello che noi propriamente volevamo sapere. Ma la possibilità, anzi la necessità di queste categorie, poggia sul rapporto, che tutta la sensibilità e con essa anche tutti i possibili fenomeni hanno con l’appercezione originaria, in cui tutto necessariamente deve essere conforme alle condizioni dell’unità generale dell’autocoscienza, deve cioè sottostare alle funzioni universali della sintesi secondo concetti, come quella in cui l’appercezione soltanto può dimostrare a priori la loro generale e

necessaria identità. Così il concetto di causa non è altro che una sintesi (di quel che nella serie del tempo segue, con altri fenomeni) secondo concetti, e senza tale unità, che ha la sua regola a priori e sottomette a sé i fenomeni, non si potrebbe avere nel molteplice delle percezioni una generale e universale, quindi necessaria, unità della coscienza. Ma queste percezioni allora non apparterrebbero né anche a una esperienza, e però sarebbero senza oggetto e nulla più che un giuoco cieco di rappresentazioni, ossia meno di un sogno. Tutti i tentativi di ricavare quei concetti puri dell’intelletto dall’esperienza e di ascriver loro un’origine semplicemente empirica, son dunque affatto vani ed inutili. Io non voglio a questo proposito ricordare che, per es., il concetto di una causa importa il carattere di necessità, cui nessuna esperienza guari può dare; la quale c’insegna bensì, che a un fenomeno abitualmente segue qualcos’altro, ma non che deve necessariamente seguirvi, né che a priori e del tutto universalmente si possa quindi da una condizione conchiudere alla conseguenza. Ma quella regola empirica dell’a s s o c i a z i o n e , che si deve pure ammettere generalmente, quanto si dice, che tutto nella successione dei fatti sottostà a tali regole; che non accade mai nulla, cui non preceda qualche cosa, cui esso segua sempre: questo come legge della natura su che poggia, domando io, e com’è possibile la stessa associazione? Il fondamento della possibilità di questa associazione del molteplice in quanto è nell’oggetto, dicesi l’a f f i n i t à del molteplice. Io dunque domando: come vi spiegate la generale affinità dei fenomeni (onde essi sottostanno a leggi costanti e devono rientrarvi)? Secondo i miei princìpi, essa si spiega benissimo. Tutti i possibili fenomeni appartengono come rappresentazioni all’intera autocoscienza possibile. Ma da questa, come rappresentazione trascendentale, è inseparabile, ed è certa a priori, l’identità numerica, poiché niente può venire a conoscenza se non mediante questa appercezione originaria. Ora, dovendo questa identità entrare necessariamente nella sintesi d’ogni molteplice dei fenomeni in quanto essa abbia a diventare conoscenza empirica, i fenomeni sono soggetti a condizioni a priori, cui la loro sintesi (dell’apprensione) deve interamente conformarsi. Ma la rappresentazione di una condizione universale, secondo cui un certo molteplice può esser posto (quindi in identico modo), dicesi regola, e, se così deve essere posto, l e g g e . Tutti i fenomeni dunque stanno in una connessione completa secondo leggi necessarie, e però in una a f f i n i t à t r a s c e n d e n t a l e, di cui quella

e m p i r i c a è la semplice conseguenza. Che la natura debba regolarsi secondo il nostro principio soggettivo dell’appercezione, anzi, che, rispetto alla sua conformità a leggi, ne debba dipendere, suona certamente assurdo e strano. Ma se si riflette che questa natura in sé non è altro che un insieme di fenomeni, quindi non è una cosa in sé, bensì semplicemente una moltitudine di rappresentazioni dello spirito, non ci si meraviglierà di vederla, solo nella facoltà radicale d’ogni nostra c o n o s c e n z a , ossia dell’appercezione trascendentale, in quella u n i t à , in grazia della quale soltanto essa può dirsi oggetto d’ogni possibile esperienza, cioè natura; e che, anzi, appunto perciò noi possiamo conoscere questa unità a priori, e però anche come necessaria: cosa a cui dovremmo rinunciare, se essa fosse data in sé, indipendentemente dalle prime fonti del nostro pensiero. Infatti allora io non saprei dove dovremmo prendere le proposizoni sintetiche di una tale universale unità della natura, dovendo esse in tal caso prendersi a prestito dagli oggetti della natura stessa. Ma poiché questo non potrebbe avvenire se non empiricamente, non se ne potrebbe ricavare altro che una semplice unità contingente, che sarebbe ben lontano dal bastare a quel concatenamento necessario, che si pensa quando si dice natura.

Sezione Terza DEL RAPPORTO DELL’INTELLETTTO CON GLI OGGETTI IN GENERALE E DELLA POSSIBILITÀ DI CONOSCERE QUESTI A PRIORI

Quello che nella sezione precedente abbiamo esposto separatamente e particolarmente, vogliamo ora rappresentare unito e connesso. Vi sono tre fonti soggettive di conoscenza, su cui si fonda la possibilità di una esperienza in generale e la conoscenza de’ suoi oggetti: s e n s o , i m m a g i n a z i o n e e a p p e r c e z i o n e : ciascuna di esse può essere considerata come empirica, ossia nell’applicazione a fenomeni dati, ma tutte sono anche elementi o fondamenti a priori, che per se stessi rendono possibile quest’uso empirico. Il s e n s o rappresenta empiricamente i fenomeni nella percezione, l’i m m a g i n a z i o n e nella associazione (e riproduzione), l’a p p e r c e z i o n e nella c o s c i e n z a e m p i r i c a della identità di queste

rappresentazioni riproduttive coi fenomeni onde esse son date, quindi nella ricognizione. Ma a fondamento a priori di tutta la percezione c’è l’intuizione pura (rispetto ad essa come rappresentazione la forma dell’intuizione interna, il tempo); a fondamento a priori dell’associazione la sintesi pura dell’immaginazione; e della coscienza empirica l’appercezione pura, cioè l’identità generale di sé in tutte le rappresentazioni possibili. Ora se vogliamo tener dietro al fondamento interno di questa connessione delle rappresentazioni fino a quel punto in cui esse tutte concorrono, per raggiungervi primieramente l’unità della conoscenza per una possibile esperienza, noi dobbiamo cominciare dall’appercezione pura. Tutte le intuizioni non sono per noi niente e non ci riguardano menomamente, se non possono essere nella coscienza, vi entrino esse direttamente o indirettamente; e soltanto per mezzo di essa la conoscenza è possibile. Noi siamo a priori coscienti della generale identità di noi stessi rispetto a tutte le rappresentazioni che possono mai far parte della nostra conoscenza, come di condizione necessaria della possibilità di tutte le rappresentazioni (poiché queste in me non rappresentano qualcosa se non per ciò che appartengono, con tutto l’altro, a una conoscenza, e però vi devono per lo meno poter essere connesse). Questo principio sta fermo a priori, e può dirsi il p r i n c i p i o t r a s c e n d e n t a l e d e l l ’ u n i t à di tutto il molteplice delle nostre rappresentazioni (quindi anche nell’intuizione). Or l’unità del molteplice in un soggetto è sintetica; dunque, l’appercezione pura fornisce un principio dell’unità sintetica del molteplice in ogni intuizione possibile300. Questa unità sintetica per altro presuppone una sintesi, o la implica, e se essa dev’essere necessaria a priori, questa dev’essere anche una sintesi a priori. L’unità trascendentale dell’appercezione, dunque, si riferisce alla sintesi pura dell’immaginazione come condizione a priori della possibiltà d’ogni composizione del molteplice in una conoscenza. Ma a priori non può esserci se non la s i n t e s i p r o d u t t i v a d e l l a i m m a g i n a z i o n e; perché la riproduttiva poggia su condizioni dell’esperienza. Dunque, il principio dell’unità necessaria della sintesi pura (produttiva) dell’immaginazione è, avanti l’appercezione, il fondamento della possibilità di tutte le conoscenze, specialmente dell’esperienza. Ora noi diciamo la sintesi del molteplice nell’immaginazione, trascendentale, quando senza distinzione delle intuizioni, essa non si riferisce

a priori se non semplicemente all’unione del molteplice; e l’unità di questa sintesi dicesi trascendentale, quando essa è rappresentata come a priori necessaria in relazione all’unità originaria dell’appercezione. Ora perché quest’ultima è a fondamento della possibilità di ogni conoscenza, l’unità trascendentale della sintesi dell’immaginazione è la forma pura d’ogni possibile conoscenza, onde pertanto tutti gli oggetti di esperienza possibile devono essere rappresentati a priori. L’u n i t à d e l l ’ a p p e r c e z i o n e i n r e l a z i o n e a l l a s i n t e s i d e l l ’ i m m a g i n a z i o n e è l ’ i n t e l l e t t o; e questa stessa unità relativamente alla s i n t e s i t r a s c e n d e n t a l e dell’immaginazione, l’i n t e l l e t t o p u r o. Nell’intelletto ci son dunque conoscenze pure a priori, le quali contengono l’unità necessaria della sintesi pura dell’immaginazione rispetto a tutti i fenomeni possibili. Ma queste sono le categorie, cioè i concetti puri dell’intelletto; e però la facoltà conoscitiva empirica degli uomini contiene necessariamente un intelletto, che si riferisce a tutti gli oggetti dei sensi, sebbene solo mediante l’intuizione e la sintesi di essa per l’immaginazione; un intelletto, a cui dunque tutti i fenomeni, in quanto dati per una possibile esperienza, sottostanno. Ora poiché questo riferimento dei fenomeni a una esperienza possibile è parimenti necessario (poiché senza di esso noi non ne otterremmo punto alcuna conoscenza, ed essi quindi non ci riguarderebbero) così ne viene che l’intelletto puro mediante le categorie è un principio formale e sintetico di tutte le esperienze, e i fenomeni hanno un r a p p o r t o n e c e s s a r i o c o n l ’ i n t e l l e t t o. Ora noi questo rapporto necessario dell’intelletto con i fenomeni vogliamo metterlo sott’occhio cominciando dal basso, ossia dall’empirico. La prima cosa, che ci è data, è il fenomeno, il quale, se è legato con la coscienza, dicesi percezione (senza il rapporto con una coscienza almeno possibile, il fenomeno per noi non potrebbe diventar mai oggetto di conoscenza, e quindi per noi non sarebbe, e poiché esso non ha in se stesso nessuna realtà oggettiva ed esiste soltanto nella conoscenza, non sarebbe punto). Ma poiché ogni fenomeno comprende una molteplicità, e quindi nello spirito si trovano diverse percezioni, in sé disperse e singole, è necessario un collegamento di esse, che esse nel senso stesso non possono avere. C’è dunque in noi una facoltà attiva della sintesi di questo molteplice, che noi diciamo immaginazione, la cui operazione, in quanto si esercita immediatamente sulle percezioni, io dico apprensione301. La immaginazione deve cioè ridurre il molteplice dell’intuizione a immagine;

essa deve dunque prendere le impressioni nella sua attività, cioè apprenderle. Ma è chiaro, che anche questa apprensione del molteplice, da sola, non produrrebbe tuttavia un’immagine e un raccoglimento delle impressioni, se non ci fosse un fondamento soggettivo per rievocare una percezione, da cui lo spirito è passato a un’altra, accanto alla seguente, e per rappresentarsi così serie intere di percezioni; cioè una facoltà riproduttiva dell’immaginazione, facoltà che è, poi, anche soltanto empirica. Ma poiché, se le rappresentazioni si riproducessero l’una l’altra senza distinzione, come son insieme capitate, non ne potrebbe venir mai un loro concatenamento determinato, ma solo mucchi senza regole, e però né anche punto una conoscenza; così la loro riproduzione dee avere una regola, secondo la quale una rappresentazione nell’immaginazione si unisca piuttosto con questa che con un’altra. Questo fondamento soggettivo ed e m p i r i c o nella riproduzione secondo regole dicesi a s s o c i a z i o n e delle rappresentazioni. Ma se questa unità dell’associazione non avesse un fondamento oggettivo, sì da essere impossibile che i fenomeni fossero appresi dalla immaginazione altrimenti che sotto la condizione di una possibile unità sintetica di questa apprensione, sarebbe anche affatto contingente che i fenomeni si adattassero in una connessione di conoscenze umane. Infatti, pur avendo noi la facoltà di associare percezioni, in sé resterebbe pur sempre del tutto indeterminato e contingente se esse siano anche associabili; e nel caso che non fossero, sarebbe possibile una moltitudine di percezioni, e anche una intera sensibilità, in cui sarebbero nel mio spirito molte coscienze empiriche302 ma separate, e senza che appartenessero a una coscienza di me stesso; ciò che è impossibile. Giacché solo perché io ascrivo tutte le percezioni a una coscienza (all’appercezione originaria), posso di tutte le percezioni dire d’averne coscienza. Deve dunque esserci un fondamento oggettivo, che cioè si possa scorgere a priori avanti a tutte le leggi empiriche della immaginazione, su cui poggi la possibilità, anzi la necessità di una legge che si estenda per tutti i fenomeni, di riguardarli cioè in tutto e per tutto come tali dati dei sensi, che siano in sé associabili e soggetti a regole universali di una connessione generale nella riproduzione. Questo fondamento oggettivo di ogni associazione dei fenomeni dico a f f i n i t à dei medesimi. Ma noi non possiamo trovarlo altrove che nel principio dell’unità dell’appercezione rispetto a tutte le conoscenze, che mi debbono appartenere.

Secondo esso, tutti quanti i fenomeni devono venire nello spirito, o essere appresi, in modo che si accordino con l’unità dell’appercezione: ciò che sarebbe impossibile senza una unità sintetica nella loro connessione, che è perciò anche oggettivamente necessaria. L’unità oggettiva di ogni coscienza (empirica) in una coscienza (nell’appercezione originaria) è dunque la condizione necessaria financo di ogni possibile percezione, e l’affinità di tutti i fenomeni (vicini o lontani) è una conseguenza necessaria di una sintesi nell’immaginazione, fondata a priori su regole. L’immaginazione è dunque anche una facoltà di sintesi a priori, per cui le diamo il nome di immaginazione produttiva; e, in quanto essa, rispetto a ogni molteplice del fenomeno, non ha di mira nient’altro che l’unità necessaria nella sintesi di quello, questa può denominarsi la funzione trascendentale della immaginazione. E quindi strano, in verità, ma dal fin qui detto nondimeno lampante, che solo mediante questa funzione trascendentale dell’immaginazione divien possibile anche l’affinità de’ fenomeni, e con essa l’associazione, e per questa, infine, la riproduzione secondo leggi, e conseguentemente la stessa esperienza; poiché senza di essa nessun concetto di oggetti potrebbe punto confluire in una esperienza. Infatti l’Io stabile e permanente (dell’appercezione pura) costituisce il correlato di tutte le nostre rappresentazioni, in quanto è comunque possibile acquistarne coscienza, e ogni coscienza rientra in una appercezione pura universale, come ogni intuizione sensibile, in quanto rappresentazione, in un’intuizione interna pura, cioè nel tempo. Ora è questa appercezione, che deve aggiungersi alla immaginazione pura per rendere intellettuale la sua funzione. Giacché in se stessa la sintesi dell’immaginazione, benché esercitata a priori, e pur sempre sensibile, non legando il molteplice se non come a p p a r i s c e nella intuizione, per es. la figura d’un triangolo. Ma, pel riferimento del molteplice all’unità dell’appercezione potranno formarsi i concetti, che appartengono all’intelletto, solo bensì mediante l’immaginazione in rapporto all’intuizione sensibile. Noi dunque abbiamo una immaginazione pura come facoltà fondamentale dell’anima umana, la quale sta a base di ogni conoscenza a priori. Per mezzo di essa mettiamo in rapporto il molteplice dell’intuizione da una parte con la condizione dell’unità necessaria dell’appercezione pura dall’altra. Entrambi i due termini estremi, senso e intelletto, debbono, mediante questa funzione

trascendentale dell’immaginazione, necessariamente coerire; ché altrimenti essi darebbero sì fenomeni, ma non oggetti di una conoscenza empirica, né quindi una esperienza. La esperienza reale, che risulta dall’apprensione, dall’associazione (dalla riproduzione) e infine dalla ricognizione dei fenomeni, contiene in questa ultima e suprema funzione (ricognizioni dei semplici elementi empirici dell’esperienza) concetti, che rendono possibile l’unità formale dell’esperienza, e con essa ogni validità oggettiva (verità) della conoscenza empirica. Ora questi fondamenti della ricognizione del molteplice, in quanto si riferiscono semplicemente alla f o r m a d ’ u n a e s p e r i e n z a i n g e n e r a l e, sono le categorie. Su di esse dunque si fonda ogni unità formale nella sintesi dell’immaginazione, e per mezzo di questa anche di ogni uso empirico di essa (nella ricognizione, riproduzione, associazione, apprensione), giù fino ai fenomeni, poiché questi solo mediante quegli elementi della conoscenza in generale, possono appartenere alla nostra coscienza, e quindi a noi stessi. L’ordine dunque e la regolarità, nei fenomeni che diciamo n a t u r a , l’introduciamo noi stessi, né vi si potrebbero trovare se noi, o la natura del nostro spirito, non ce l’avesse messo originariamente. Giacché questa unità della natura dev’essere un’unità necessaria, ossia una unità certa a priori, della connessione dei fenomeni. Ma come potremmo noi conferire a priori un’unità sintetica, se nelle fonti conoscitive originarie del nostro spirito non fossero compresi fondamenti soggettivi di tale unità a priori, e se queste condizioni soggettive non avessero insieme un valore oggettivo, quali fondamenti della possibilità di conoscere in generale un oggetto nella esperienza? Noi abbiamo sopra definito in più modi l’i n t e l l e t t o : come spontaneità della conoscenza (in opposizione alla recettività del senso); come facoltà di pensare o anche come facoltà dei concetti, o pure dei giudizi; definizioni che, se si guardano alla luce, concorrono in una sola. Ora noi possiamo caratterizzarlo come la facoltà delle regole. E questo carattere è più fecondo e s’avvicina di più all’essenza di esso. La sensibilità ci dà forme (d’intuizione), ma l’intelletto regole. Esso è sempre intento a esplorare a fondo i fenomeni, allo scopo di scoprire in essi una regola. Le regole, in quanto sono oggettive (quindi aderiscono necessariamente alla conoscenza dell’oggetto), si dicono leggi. Quantunque noi impariamo molte leggi per mezzo di esperienza, esse tuttavia non sono se non determinazioni particolari di leggi ancora più alte,

tra cui le più alte (cui sottostanno tutte le altre) provengono a priori dall’intelletto stesso, e non sono attinte dall’esperienza; che anzi esse devono conferire ai fenomeni la loro conformità a leggi, e così appunto render possibile l’esperienza. L’intelletto, dunque non è semplicemente una facoltà di farsi regole mercé il confronto dei fenomeni; esso stesso è la legislazione della natura; cioè senza intelletto non si darebbe assolutamente una natura, unità sintetica del molteplice del fenomeni secondo regole; ché i fenomeni non possono, come tali, aver luogo fuori di noi, ma soltanto esistere nel nostro senso. Ma questo, come oggetto della conoscenza in un’esperienza, con tutto ciò che può contenere, non è possibile se non nell’unità dell’appercezione. Ma l’unità dell’appercezione è il fondamento trascendentale della necessaria conformità di leggi di tutti i fenomeni in una esperienza. Appunto questa unità dell’appercezione, rispetto a una molteplicità di rappresentazioni (per determinarle movendo da una sola), è la regola; e la facoltà di queste regole l’intelletto. Tutti dunque i fenomeni, come esperienze possibili, sono a priori nell’intelletto; e ricevono da esso la loro possibilità formale a quel modo stesso che, come semplici intuizioni, risiedono nel senso e soltanto mercé di questo son possibili per la forma303. Per quanto stravagante, per quanto assurdo possa suonare il dire che l’intelletto è la fonte stessa delle leggi della natura, e quindi dell’unità formale della natura, una tale affermazione tuttavia è esatta e adeguata all’oggetto, ossia all’esperienza. Le leggi empiriche come tali tuttavia non possono invero derivare in nessun modo dall’intelletto puro, come la smisurata molteplicità dei fenomeni non si può sufficientemente concepire dalla forma pura della intuizione sensibile. Ma tutte le leggi empiriche non sono se non determinazioni particolari delle leggi pure dell’intelletto; sotto le quali e a norma delle quali quelle primieramente sono possibili, e i fenomeni assumono una forma legale; a quella guisa che anche tutti fenomeni, malgrado la differenza della loro forma empirica, pur sempre devono conformarsi alle condizioni della forma pura della sensibilità. L’intelletto puro è dunque nelle categorie la legge della unità sintetica di tutti i fenomeni, e rende possibile quindi prima di tutto e originariamente l’esperienza quanto alla forma. Ma, nella deduzione trascendentale delle categorie, noi non avevamo da fare altro che spiegare questo rapporto dell’intelletto con la sensibilità e, mediante esso, con tutti gli oggetti dell’esperienza, quindi il valore oggettivo de’ suoi concetti puri a priori; e

così stabilire la loro origine e verità. RAPPRESENTAZIONE SOMMARIA DELL’ESATTEZZA E UNICA POSSIBILITÀ DI QUESTA DEDUZIONE DEI CONCETTI PURI DELL’INTELLETTO

Se gli oggetti, con cui ha da fare la nostra conoscenza, fossero cose in sé, noi non ne potremmo avere concetti a priori. Perché, donde li prenderemmo? Se li prendessimo dall’oggetto (senza qui cercar oltre, come questo potrebbe esserci noto), i nostri concetti sarebbero semplicemente empirici, e non a priori. Se li prendessimo da noi stessi, quello che è semplicemente in noi non può determinare la natura di un oggetto diverso dalle nostre rappresentazioni, cioè essere un fondamento, per cui debba darsi una cosa, alla quale convenga ciò che noi abbiamo nel pensiero, e non piuttosto tutta questa rappresentazione sia vuota. Al contrario, se noi in generale non abbiamo da fare se non con fenomeni, non soltanto è possibile, ma è anche necessario che certi concetti a priori precedano la conoscenza empirica degli oggetti. Infatti come fenomeni essi costituiscono un oggetto, che è solo in noi, perché una semplice modificazione della nostra sensibilità non può trovarsi punto fuori di noi. Ora questa stessa rappresentazione, che tutti questi fenomeni, quindi tutti gli oggetti di cui non possiamo occuparci, sono tutti in me, cioè determinazioni del mio identico Me, esprime come necessaria una unità generale in una medesima appercezione. Ma in questa unità della coscienza possibile consiste anche la forma di ogni conoscenza degli oggetti (onde il molteplice vien pensato appartenente a u n oggetto). Sicché il modo, in cui il molteplice della rappresentazione sensibile (intuizione) fa parte di una coscienza, precede ogni conoscenza dell’oggetto, come la sua forma intellettuale; e costituisce per sé una conoscenza formale di tutti gli oggetti a priori in generale, in quanto essi sono pensati (categorie). La sintesi di essi per mezzo dell’immaginazione pura, l’unità di tutte le rappresentazioni in rapporto con l’appercezione originaria precedono ogni conoscenza empirica. I concetti puri dell’intelletto, dunque, sono a priori possibili, anzi, rispetto alla esperienza, necessari, soltanto per questo, che la nostra conoscenza non ha da fare se non con fenomeni, la cui possibilità sta in noi, il cui concatenamento e unità (nella rappresentazione di un oggetto) si trova solo in noi, quindi deve precedere ogni esperienza e rendere questa primieramente possibile per la forma. E da questo principio, l’unico possibile tra tutti, è stata infatti ricavata anche la nostra deduzione delle categorie. 300

Si faccia bene attenzione a questa proposizione, che è di grande importanza. Tutte le

rappresentazioni hanno un rapporto necessario con una possibile coscienza empirica; perché se non l’avessero, e fosse affatto impossibile aver coscienza di esse, sarebbe come dire che non esistono punto. Ma ogni coscienza empirica ha un rapporto necessario con una coscienza trascendentale (precedente a ogni particolare esperienza) ossia con la coscienza di me stesso come appercezione originaria. E dunque assolutamente necessario, che nella mia conoscenza ogni coscienza appartenga a una coscienza (a me stesso). C’è dunque un’unità sintetica del molteplice (della coscienza), che vien conosciuta a priori, e che proprio in questo modo fornisce il fondamento alle proposizioni sintetiche a priori riguardanti il pensiero puro, come lo spazio e il tempo a quelle proposizioni che si riferiscono alla forma della semplice intuizione. La proposizione sintetica, che ogni diversa coscienza empirica deve esser legata in un’unica autocoscienza, è il principio assolutamente primo e sintetico del nostro pensiero in generale. Ma non bisogna lasciarsi sfuggire che la semplice rappresentazione Io in rapporto a tutte le altre (la cui unità collettiva essa rende possibile) è la coscienza trascendentale. Questa rappresentazione sarà chiara (coscienza empirica) o oscura, non si tratta di ciò, e neppure della realtà di essa; ma la possibilità della forma logica di ogni conoscenza affatto poggia necessariamente sul rapporto con questa appercezione c o m e c o n u n a f a c o l t à (N. d. K.). 301 Che l’immaginazione sia un ingrediente necessario della stessa percezione, non ci aveva pensato ancora bene nessun psicologo. Il che deriva da questo: che in parte si limitava questa facoltà solo alle riproduzioni, in parte si credeva che i sensi non soltanto ci dessero le impressioni ma anche le componessero insieme e producessero le immagini degli oggetti, per il che senza dubbio, oltre la recettività delle impressioni si richiede qualcos’altro, ossia una funzione della sintesi di esse (N. d. K.). 302 In tedesco al singolare, «viel empirisches bewusstsein», che però, in questo caso, può anche aver valore di plurale (indeterminato) (N. d. R.). 303 Per ragioni di contenuto e di simmetria non è improbabile (sebbene nessuno l’abbia notato) che si debba leggere «per la materia» (N. d. R.).

II Paralogismi della ragion pura

PRIMO PARALOGISMO: DELLA SOSTANZIALITÀ Ciò la cui rappresentazione è s o g g e t t o a s s o l u t o dei nostri giudizi, e non può quindi, a sua volta, essere usato come determinazione di nient’ altro, è sostanza. Io, in quanto essere pensante, sono s o g g e t t o a s s o l u t o di tutti i miei giudizi possibili; e questa rappresentazione di me a sua volta, non può essere usata come predicato di un’altra cosa qual sia. Dunque io sono, in quanto essere pensante (anima), s o s t a n z a . Critica del primo paralogismo della psicologia pura Nella parte analitica della Logica trascendentale abbiamo dimostrato che le categorie pure (e tra queste anche quella di sostanza) in se stesse non han guari verun significato oggettivo, ove ad esse non sia sottoposta un’intuizione, al cui molteplice si possono applicare come funzioni dell’unità sintetica. Senza di che sono unicamente funzioni di un giudizio senza contenuto. Di ogni cosa in generale posso dire che è una sostanza, in quanto la distinguo dai semplici predicati e determinazioni della cosa stessa. Ora in ogni nostro pensiero l’Io è il soggetto, a cui i pensieri ineriscono soltanto come determinazioni: e questo Io non può essere adoperato come determinazione d’altro. Ognuno deve quindi considerare se stesso necessariamente come sostanza, ma il pensiero soltanto come accidenti della sua esistenza e determinazioni del suo stato. Ma qual uso devo io fare di questo concetto di una sostanza? Che io, come essere pensante, c o n t i n u o a d e s i s t e r e, per me stesso, che naturalmente n o n n a s c o n é m u o i o, questo non posso dedurlo da essa, a niun patto; e intanto il concetto della sostanzialità del mio soggetto pensante può essermi utile soltanto a ciò; senza di che io potrei benissimo farne a

meno. Ma, lungi dal potersi inferire queste proprietà dalla semplice categoria pura di sostanza, noi dobbiamo piuttosto mettere a fondamento di essa, togliendola dall’esperienza, la permanenza di un oggetto dato, se ad esso vogliamo applicare il concetto empiricamente adoperabile di s o s t a n z a . Nella nostra proposizione invece non abbiamo messo a fondamento nessuna esperienza, ma soltanto abbiamo argomentato dal concetto del rapporto che ogni pensiero ha con l’Io, come soggetto comune a cui inerisce. Né noi potremmo, anche volendo, dimostrare con una qualche osservazione sicura tale permanenza. Giacché l’Io è in tutti i miei pensieri; ma con questa rappresentazione non è legata la minima intuizione, che lo distingua dagli altri oggetti dell’intuizione. Sì può dunque bensì percepire che questa rappresentazione si ripresenta sempre in ogni pensiero, ma non che essa sia una stabile e permanente intuizione, in cui s’avvicendino i pensieri (in quanto mutevoli). Quindi segue che il primo sillogismo della psicologia trascendentale non ci arreca se non una pretesa nuova veduta, spacciando il soggetto logico costante del pensiero per la conoscenza del soggetto reale dell’inerenza, di cui noi non abbiamo né possiamo avere la minima conoscenza, perché la coscienza è la sola cosa che faccia di tutte le rappresentazioni pensieri, e in cui, quindi, tutte le nostre percezioni devono trovarsi come nel soggetto trascendentale; e noi, fuori di questo significato logico dell’Io, non abbiamo conoscenza del soggetto in sé, che come sostrato è a fondamento di questo come di tutti i pensieri. Intanto si può benissimo accettar come valida la proposizione: l’a n i m a è s o s t a n z a, se ci si contenta di riconoscere che questo concetto non ci fa fare il minimo passo più in là, o che non può apprenderci una qual sia delle solite conseguenze della psicologia raziocinante, come per es. la durata perenne dell’anima attraverso tutti i cangiamenti e di là della stessa morte dell’uomo; e che insomma essa non designa se non una sostanza nell’idea, ma non nella realtà.

SECONDO PARALOGISMO: DELLA SEMPLICITÀ Quella cosa, il cui atto non può esser mai considerato come il concorso di più cose agenti, è s e m p l i c e . Ma l’anima o l’Io pensante è tale.

Dunque, ecc. Critica del secondo paralogismo della psicologia trascendentale Questo è l’Achille di tutti i ragionamenti dialettici della psicologia pura: non quasi un semplice giuoco sofistico messo su ad arte da un dommatico per dare una fugace apparenza alle sue asserzioni, ma un ragionamento, che par resistere alla prova più pentrante e alla riflessione più attenta di chi lo esamini. Ecco qui. Ogni sostanza c o m p o s t a è un aggregato di molte sostanze, e l’atto di un composto, o ciò che inerisce a un composto in quanto tale, è un aggregato di molti atti o accidenti, che son distribuiti tra una quantità di sostanze. Ora, in verità, un effetto, che sorge dal concorso di molte sostanze operanti, è possibile quando questo effetto sia meramente esterno (come per es. il movimento di un corpo è il movimento unito di tutte le sue parti). Se non che ben altrimenti è del pensiero, in quanto accidente appartenente interamente a un essere pensante. Infatti, supponete che pensi il composto; allora ciascuna parte di esso conterrebbe una parte del pensiero, e soltanto tutte le parti insieme il pensiero intero. Ma questo è contraddittorio. Infatti, poiché le rappresentazioni, che son distribuite tra diversi enti (per es. le singole parole di un verso), non costituiscono mai un pensiero intero (un verso); così il pensiero non può inerire a un composto come tale. Egli è dunque possibile soltanto i n u n a sostanza, che non sia un aggregato di molte sostanze, quindi assolutamente semplice304. Il così detto nervus probandi di questo argomento sta nella proposizione, che molte rappresentazioni devono esser comprese nell’unità assoluta del soggetto pensante per formare un pensiero. Ma nessuno può dedurre da c o n c e t t i questa proposizione. Perché donde vorrebbe egli prender le mosse? La proposizione, che un pensiero non può essere effetto se non dell’assoluta unità dell’essere pensante, non può essere considerata come analitica; infatti l’unità del pensiero, che consta di molte rappresentazioni, è collettiva, e, secondo i semplici concetti, può riferirsi tanto all’unità collettiva delle sostanze che vi cooperano (come il movimento di un corpo è il movimento composto di tutte le parti), quanto all’unità assoluta del soggetto. Secondo la regola dell’identità non può dunque scorgersi la necessità del presupposto di una sostanza semplice per un pensiero composto. Ma che questa stessa proposizione possa conoscersi sinteticamente e del tutto a priori da meri concetti, nessuno si sentirà la voglia di sostenerlo, che conosca il

fondamento, della possibilità delle proposizioni sintetiche a priori, come l’abbiamo sopra esposto. Ma è anche impossibile ricavare questa unità necessaria del soggetto, come condizione della possibilità di ogni pensiero, dalla esperienza. Perché questa non ci fa conoscere nessuna necessità, senza dire che il concetto di unità assoluta è ben al di là della sua sfera. Donde dunque prendiamo noi questa proposizione, a cui s’appoggia tutto il ragionamento della psicologia? È manifesto che, se ci si vuol rappresentare un essere pensante, ci si deve mettere al suo posto, e si deve quindi sostituire il proprio soggetto all’oggetto che si vuol esaminare (ciò che non è il caso di nessun’altra specie di ricerca); e che noi non richiediamo per un pensiero l’assoluta unità del soggetto se non per ciò, che altrimenti non si potrebbe dire: Io penso (il molteplice in una rappresentazione). Infatti, quantunque la totalità del pensiero possa esser divisa e scompartita tra molti soggetti, l’Io soggettivo per altro non può esser diviso e scompartito, e questo noi pur lo presupponiamo in ogni pensiero. Qui dunque, proprio come nel paralogismo precedente, la proposizione formale dell’appercezione: io penso, resta l’intero fondamento su cui la psicologia razionale arrischia l’ampliamento delle sue conoscenze; la qual proposizione non è invero un’esperienza, bensì la forma dell’appercezione che si lega con ogni esperienza e la precede, ma pur sempre rispetto soltanto a una conoscenza possibile in generale, e dev’essere considerata come s e m p l i c e c o n d i z i o n e s o g g e t t i v a di essa, che a torto noi riduciamo a condizione della possibilità di una conoscenza degli oggetti, ossia a un c o n c e t t o d e l l ’ e s s e r e pensante in generale, giacché noi quest’essere non ce lo possiamo rappresentare senza metterci noi stessi con la formola della nostra coscienza al luogo di ogni altro essere intelligente. Ma la semplicità del mio Me (come anima) non è d e d o t t a effettivamente dalla proposizione: Io penso, ma sta già in ogni pensiero stesso. La proposizione: I o s o n o s e m p l i c e, dev’essere considerata come una espressione immediata dell’appercezione; come il preteso sillogismo cartesiano cogito, ergo sum, nel fatto è tautologico, in quanto il cogito (sum cogitans) enuncia immediatamente la realtà. I o s o n o s e m p l i c e, non significa altro se non che questa rappresentazione «Io» non comprende in sé la minima molteplicità, e che essa è unità assoluta (per quanto meramente logica). La tanto celebrata prova psicologica è dunque fondata unicamente

sull’indivisibile unità di una rappresentazione, che soltanto dirige il verbo verso una persona. Ma è manifesto che il soggetto dell’inerenza è designato dall’Io aderente al pensiero in modo soltanto trascendentale, senza rilevare la menoma proprietà di esso, o conoscere in generale o saper nulla di lui. Esso significa qualcosa in generale (soggetto trascendentale) la cui rappresentazione deve essere affatto semplice, appunto, perché in esso niente è determinato, come niente infatti può rappresentarsi più semplicemente che pel concetto di un semplice qualcosa. Ma la semplicità della rappresentazione di un soggetto non è perciò una conoscenza della semplicità del soggetto stesso, giacché si astrae interamente dalle sue proprietà quando esso vien designato esclusivamente con questa espressione affatto vuota di contenuto: Io (che io posso applicare a ogni soggetto pensante). Così è certo che, con «l’Io», penso sempre bensì una unità assoluta, ma logica, del soggetto (semplicità), senza per ciò conoscere la semplicità reale del mio soggetto. Come la proposizione: «Io sono sostanza» non significa se non la pura categoria di cui non posso fare alcun uso in concreto (empirico); così anche mi è lecito bensì di dire: io sono una sostanza semplice; cioè una sostanza, la cui rappresentazione non implica mai una sintesi del molteplice; ma questo concetto, o anche questa proposizione, non mi insegna il menomo che rispetto a me stesso come oggetto dell’esperienza, perché il concetto stesso di sostanza è usato solo come funzione della sintesi, senza un’intuizione sotto, quindi senza oggetto, e vale soltanto della condizione d’ogni nostra conoscenza, ma non di un qual sia oggetto che si possa additare. Esaminiamo il preteso uso, a cui può servire questa proposizione. Ognuno deve confessare che l’affermazione della natura semplice dell’anima è di qualche valore solo in quanto io posso così distinguere questo soggetto da ogni materia, e sottrarlo quindi alla caducità, a cui questa è sempre oggetta. A quest’uso la sopra detta proposizione è propriamente destinata: onde il più delle volte essa è anche espressa così: L’anima non è corporea. Ora, se io posso dimostrare che, pur attribuendo per ipotesi a questa proposizione cardinale della psicologia razionale, nel puro significato di un semplice giudizio di ragione (da pure categorie) tutto il valore oggettivo (tutto ciò che pensa è sostanza semplice), non si potrebbe tuttavia fare il menomo uso di questa proposizione rispetto alla eterogeneità o affinità di essa con la materia, sarà precisamente come se io avessi relegato questa pretesa conoscenza psicologica nel campo delle semplici idee, alle quali

manca la realtà dell’uso oggettivo. Nell’estetica trascendentale noi abbiamo incontestabilmente dimostrato che i corpi sono semplici fenomeni del nostro senso esterno, e non cose in sé. Conformemente a questo, noi possiamo a buon diritto dire, che il nostro soggetto pensante non è corporeo, ossia che, poiché esso è rappresentato da noi come oggetto del senso interno, esso, in quanto pensa, non può essere un oggetto dei sensi esterni, cioè un fenomeno nello spazio. Ora questo vuoi dire: non è possibile mai che ci si presentino tra i fenomeni esterni esseri pensanti, c o m e t a l i; ovvero, noi non possiamo intuire i loro pensieri, la loro coscienza, i loro desideri, ecc. esternamente; perché tutto ciò spetta al senso interno. Nel fatto questo pare anche l’argomento naturale e popolare, in cui pure il senso più comune da tanto sembra siasi imbattuto, e per cui ha preso a considerare già ben presto le anime come esseri affatto differenti dai corpi. Ma sebbene l’estensione, l’impenetrabilità, la composizione e il movimento, in breve, tutto ciò che solo i sensi esterni ci possono dare, non siano né pensieri, né sentimento, né inclinazione, né risoluzione, e neppure li contengano, non essendo questi oggetto di intuizione esterna, pure quel qualcosa, che è a fondamento dei fenomeni esterni, e modifica il nostro senso in modo che questo ottiene le rappresentazioni di spazio, materia, forma, ecc., questo qualcosa, considerato come noumeno (o meglio, come oggetto trascendentale) potrebbe tuttavia essere insieme il soggetto dei pensieri, quantunque pel modo in cui ne vien modificato il nostro senso esterno noi non abbiamo un’intuizione delle rappresentazioni, volontà, ecc., ma soltanto dello spazio e delle sue determinazioni. Ma questo qualcosa non è esteso, né impenetrabile, né composto, poiché tutti questi predicati riguardano solo la sensibilità e la sua intuizione, in quanto siamo modificati da oggetti di questo genere (a noi del resto ignoti). Queste espressioni per altro non ci fanno conoscere di che oggetto si tratti, ma soltanto che ad esso, considerato come tale, in se stesso, senza relazione coi sensi esterni, codesti predicati dei fenomeni esterni non possono essere apposti. Invece i predicati del senso interno, le rappresentazioni e il pensiero, non gli contraddicono. Pertanto l’anima umana non è né anche per mezzo di questa concessa semplicità di natura distinta punto sufficientemente, rispetto al suo sostrato, dalla materia, se questa (come si deve) si considera soltanto come fenomeno. Se la materia fosse cosa in sé, essa si distinguerebbe in tutto e per tutto,

come essere composto, dall’anima, essere semplice. Ma essa è un semplice fenomeno esterno, il cui sostrato non vien conosciuto per alcun predicato che si possa addurre; e però di esso io posso ben ammettere che in sé sia semplice, quantunque, nel modo in cui esso modifica i nostri sensi, produca in noi l’intuizione dell’esteso e quindi del composto; e che, dunque, nella sostanza cui, rispetto al nostro senso esterno, appartiene l’estensione, in se stessa, ineriscano pensieri, che possano per il suo proprio senso interno esser rappresentati con coscienza. A questo modo quel medesimo che per un rispetto si dice esser corporeo, per un altro rispetto sarebbe insieme un essere pensante, di cui certamente noi non possiamo intuire il pensiero, sibbene i segni di esso nel fenomeno. Pertanto cadrebbe l’asserto che soltanto le anime (come specie particolari di sostanze) pensano; e si direbbe piuttosto, come abitualmente si fa, che gli uomini pensano, cioè quel medesimo che, come fenomeno esterno, è esteso, internamente (in sé) è un soggetto, che non è composto, ma semplice, e pensa. Ma, senza permettersi di queste ipotesi, si può avvertire in generale che, se per anima intendo un essere pensante in sé, già è fuor di luogo la questione se sia della stessa specie della materia (che non è punto una cosa in sé, ma soltanto una specie di rappresentazione in noi) o no; infatti va da sé, che una cosa in sé, è d’altra natura delle determinazioni che costituiscono semplicemente il suo stato. Se noi paragoniamo l’Io pensante, non con la materia, ma con l’intelligibile che è a fondamento del fenomeno esterno che diciamo materia: né anche possiamo dire, poiché di tale fondamento non sappiamo nulla, che l’anima si distingua da esso interamente in checchesia. La coscienza semplice pertanto non è una conoscenza della natura semplice del nostro soggetto, in quanto, come tale, deve esser distinta dalla materia quale essere composto. Ma se questo concetto non serve nell’unico caso in cui è adoperabile, cioè nel paragone del Me con gli oggetti dell’esperienza esterna, a determinare il proprio e differenziale della sua natura, si può sempre finger di sapere che l’Io pensante, l’anima (nome dell’oggetto trascendentale del senso interno) sia semplice; se non che questa espressione non ha perciò uso che si estenda ad oggetti reali, e non può quindi estendere menomamente la nostra conoscenza. Cade così pertanto tutta la psicologia razionale col suo principal sostegno, e noi non possiamo qui più che altrove sperar di dilatare le nostre cognizioni

mercé semplici concetti (tanto meno per mezzo della semplice forma soggettiva di tutti i nostri concetti, la coscienza) senza riferirci a una possibile esperienza; tanto più che lo stesso concetto fondamentale di una n a t u r a s e m p l i c e e di tal fatta che non può assolutamente incontrarsi in nessuna esperienza, e non c’è quindi proprio nessuna via di pervenire ad esso come concetto oggettivamente valido.

TERZO PARALOGISMO: DELLA PERSONALITÀ Ciò che ha coscienza dell’identità numerica di se stesso in tempi diversi, è per ciò una p e r s o n a . Ma l’anima è, ecc. Dunque, essa è una persona. Critica del terzo paralogismo della psicologia trascendentale Se io voglio conoscere l’identità numerica di un oggetto esterno per mezzo dell’esperienza, porrò attenzione a ciò che permane in quel fenomeno, a cui, come a soggetto, si riferisce tutto il resto come determinazione, e noterò l’identità di quello nel tempo in cui questo muta. Ma io sono un oggetto del senso interno, e tutto il tempo è semplicemente la forma del senso interno. Conseguentemente io riferisco tutti i singoli predicati miei successivi al Me numericamente identico in ogni tempo, cioè nella forma dell’intuizione interna di me stesso. Su questo piede la personalità dell’anima non dovrebbe essere considerata come dedotta, sibbene come una proposizione affatto identica dell’autocoscienza nel tempo, e questo è anche la causa per cui essa vale a priori. Infatti essa non dice altro se non che in tutto il tempo in cui sono cosciente di me stesso, io sono cosciente di questo tempo come appartenente all’unità del mio Me; ed è lo stesso se io dico: tutto questo tempo è in Me come unità individuale, o io mi trovo, con identità numerica, in tutto questo tempo. L’identità della persona deve dunque trovarsi imprescindibilmente nella mia propria coscienza. Se però io mi considero dal punto di vista di un altro (come oggetto della sua intuizione esterna), questo osservatore esterno mi esamina primieramente nel tempo, perché nell’appercezione il tempo non è propriamente rappresentato se non in me. Dall’Io dunque, che nella mia coscienza accompagna in ogni tempo tutte le rappresentazioni, e con piena identità, se anche lo si conceda, non s’inferirà tuttavia la permanenza

oggettiva di me stesso. Giacché come allora il tempo, in cui mi pone l’osservatore, non è quello che si trova nel mio stesso senso, ma quello che si trova nel suo, così l’identità, che è legata necessariamente alla mia coscienza, non è perciò legata alla sua, cioè all’intuizione esterna del mio soggetto. L’identità adunque delle coscienza di me stesso in tempi diversi non è se non una condizione formale del mio pensiero e della sua connessione, ma non dimostra guari l’identità numerica del mio soggetto; in cui, malgrado l’identità logica dell’Io, può esser avvenuto tal cangiamento, che non consenta di mantenere l’identità; quantunque consenta sempre di assegnargli ancora l’omonimo Io, che in ogni altro stato, anche di trasformazione del soggetto, potrebbe sempre conservare il pensiero del soggetto precedente e trasmetterlo al seguente305. Sebbene la proposizione di alcune antiche scuole, che tutto s c o r r e e non c’è niente nel mondo di c o s t a n t e e di permanente, non possa aver luogo tosto che s’ammettono sostanze, essa tuttavia non è contraddetta dalla unità dell’autocoscienza. Infatti noi stessi dalla nostra coscienza non possiamo giudicare se siamo permanenti o no, in quanto anime, poiché al nostro identico Me noi non attribuiamo se non ciò di cui abbiamo coscienza; e così dobbiamo affatto necessariamente giudicare, che noi in tutto il tempo, di cui siamo coscienti, siamo proprio gli stessi. Ma dal punto di vista di un estraneo, non possiamo perciò dar per valido questo, poiché, non trovando noi nell’anima altro fenomeno costante che la rappresentazione «Io», che tutti li accompagna e unifica, così non possiamo mai decidere se questo Io (un semplice pensiero) non scorra anch’esso appunto come tutti gli altri pensieri, che per mezzo suo sono fra loro concatenati. Ma è da notare, che la personalità e il suo presupposto, la permanenza, e però la sostanzialità dell’anima devono essere dimostrati soltanto ora. Infatti se noi potessimo presupporla, non ne varrebbe ancora, invero, il perdurare della coscienza, ma la possibilità di una coscienza perdurante in un soggetto permanente; ciò che è sufficiente già alla personalità, la quale non cessa già essa per ciò che il suo effetto viene per qualche tempo interrotto. Ma questa permanenza non ci è data da nulla prima dell’identità numerica del nostro Me, che noi ricaviamo dall’appercezione identica, e da essa primieramente la deduciamo (e ad essa, se andasse bene, dovrebbe innanzi tutto seguire il concetto di sostanza, che è adoperabile soltanto empiricamente). Ora, poiché questa identità della persona non risulta a niun patto dall’identità dell’Io nella

coscienza di ogni tempo in cui io mi conosco, né anche s’è potuto più fondarvi sopra la sostanzialità dell’anima. Intanto, come il concetto di sostanza e di semplice così anche quello di personalità può restare (in quanto è semplicemente trascendentale, cioè unità del soggetto, che del resto ci è ignoto, ma delle cui determinazioni ha luogo una completa unificazione mercé l’appercezione), e come tale questo concetto è anche necessario e sufficiente all’uso pratico; ma di esso, come stendimento della nostra autocoscienza per mezzo della ragion pura, che ci dà l’illusione di una durata ininterrotta del soggetto dedotta dal semplice concetto di un Me identico, non possiamo mai più far pompa, poiché questo concetto gira sempre su se stesso e non ci fa avanzare rispetto a nessuna questione che si riferisca a una conoscenza sintetica. Qual genere di cosa in sé (oggetto trascendentale) sia la materia, ci è invero affato ignoto; tuttavia la permanenza di essa come fenomeno può essere osservata, poiché essa è rappresentata come qualcosa di esterno. Ma poiché, se io voglio osservare il semplice Io nella vicenda di tutte le rappresentazioni, non ho altro correlato a’ miei confronti se non da capo me stesso, con le condizioni generali della mia coscienza, io non posso dare a tutte le questioni se non risposte tautologiche, sostituendo cioè il mio concetto e la sua unità alle proprietà che spettano a me come oggetto, e presupponendo ciò che si desiderava sapere.

QUARTO PARALOGISMO: DELLA IDEALITÀ (DEL RAPPORTO ESTERNO) Ciò, la cui esistenza si può inferire soltanto come causa di percezioni date, non ha se non un’esistenza d u b b i a . Ma tutti i fenomeni esterni son tali, che la loro esistenza non è percepita immediatamente, ma può inferirsi soltanto come causa di percezioni date. Dunque, l’esistenza di tutti gli oggetti dei sensi esterni è dubbia. Questa incertezza io dico idealità dei fenomeni esterni, e la dottrina di questa idealità dicesi i d e a l i s m o , in confronto del quale l’affermazione di una possibile certezza degli oggetti de’ sensi esterni vien denominata d u a l i s m o . Critica del quarto paralogismo della psicologia trascendentale Sottoponiamo prima ad esame le premesse. Noi possiamo a ragione affermare che soltanto quello che è in noi stessi può essere percepito

immediatamente, e che soltanto la mia propria esistenza può essere oggetto di semplice percezione. L’esistenza dunque di un oggetto reale fuor di me (quando questa parola sia presa in senso intellettuale) non è mai data direttamente nella percezione, ma si può pensare soltanto in aggiunta a questa, che è una modificazione del senso interno, come causa esterna di questa, e può quindi inferirsi. Quindi anche Cartesio a ragione limitava ogni percezione, nel più stretto significato, alla proposizione: Io (come essere pensante) sono. È chiaro cioè che, poiché l’esterno non è in me, io non posso trovarlo nella mia appercezione, quindi né anche in una percezione, che propriamente non è se non la daterminazione dell’appercezione. Io dunque non posso propriamente percepire cose esterne, ma soltanto, dalla mia percezione interna conchiudere alla loro esistenza, considerando quella come l’effetto, di cui qualcosa di esterno sia la causa prossima. Ma la conclusione da un effetto dato a una causa determinata è sempre insicura; poiché l’effetto può essere derivato da più di una causa. E però nel riferimento della percezione alla sua causa resta senza dubbio se questa sia interna o esterna, se quindi tutte le cose così dette percezioni esterne non siano un semplice giuoco del nostro senso interno, o se esse si riferiscano ad oggetti reali esterni, come loro causa. L’esistenza, per lo meno, di questi oggetti è soltanto dedotta, e corre il rischio di tutte le deduzioni; laddove l’oggetto del senso interno (io stesso con tutte le mie rappresentazioni) è percepito immediatamente, e l’esistenza di esso non soffre punto verun dubbio. Per i d e a l i s t a , dunque, si deve intendere non chi nega l’esistenza degli oggetti esterni dei sensi, ma chi soltanto non ammette che essa ci sia nota per percezione immediata e ne conchiude che noi, con tutte le esperienze possibili, non possiam mai diventare certi della loro realtà. Ma prima di esporre il nostro paralogismo nella sua fallace apparenza, devo innanzi osservare, che bisogna necessariamente distinguere un doppio idealismo, il trascendentale e l’empirico. Intendo per i d e a l i s m o t r a s c e n d e n t a l e di tutti i fenomeni la dottrina, secondo la quale noi li consideriamo tutti come semplici rappresentazioni, e non come cose in sé, e per la quale il tempo e lo spazio non sono se non forme sensibili della nostra intuizione, ma non determinazioni da sé date, o condizioni degli oggetti come cose in sé. A questo idealismo è contrapposto un r e a l i s m o t r a s c e n d e n t a l e , che considera il tempo e lo spazio come qualcosa in sé dato (indipendentemente dalla nostra sensibilità). Il realista trascendentale si

rappresenta dunque i fenomeni esterni (una volta ammessa la loro realtà) come cose in sé, che esistono indipendentemente da noi e della nostra sensibilità, e che perciò anche secondo concetti puri dell’intelletto sarebbero fuori di noi. Propriamente è questo realista trascendentale, che poi fa la parte di idealista empirico, e dopo che degli oggetti sensibili ha falsamente presupposto che, se devono essere esterni, essi devono avere in se stessi la loro esistenza anche senza i sensi, da questo punto di vista trova tutte le nostre rappresentazioni sensibili insufficienti, per aver la certezza della loro realtà. L’idealista trascendentale può, al contrario, essere realista empirico, quindi, come si dice, un d u a l i s t a , cioè concedere l’esistenza della materia senza uscire dalla semplice coscienza di sé, e ammettere qualcosa più della certezza delle rappresentazioni in me, e quindi il cogito ergo sum. Infatti, facendo egli valere questa materia, anzi la sua interna possibilità, semplicemente come fenomeno, che, scisso dalla nostra sensibilità, non è nulla, essa non è per lui se non una specie di rappresentazioni (intuizioni), che si dicono esterne non perché si riferiscano ad oggetti e s t e r n i in sé, ma perché esse riferiscono le percezioni allo spazio, in cui tutte le cose sono le une fuori delle altre, laddove esso stesso, lo spazio, è in noi. Per questo idealismo trascendentale noi ci siamo dichiarati già fin dal principio. Nella nostra dottrina cade dunque ogni difficoltà ad ammettere l’esistenza della materia appunto sulla testimonianza della nostra semplice autocoscienza, e darla quindi per dimostrata come l’esistenza di me stesso in quanto essere pensante. Infatti io ho coscienza delle mie rappresentazioni; queste dunque esistono, ed esisto io stesso che ho queste rappresentazioni. Ma gli oggetti esterni (i corpi) sono semplici fenomeni, quindi nient’altro che una specie delle mie rappresentazioni, i cui oggetti soltanto per queste rappresentazioni sono qualcosa; ma, separati da esse, non son nulla. Esistono dunque tanto le cose esterne quanto io stesso, ed entrambi invero sulla testimonianza immediata della mia autocoscienza, con la sola differenza, che la rappresentazione di me stesso come soggetto pensante si riferisce semplicemente al senso interno; le rappresentazioni, invece, che designano esseri estesi, anche al senso esterno. Per me non è necessario concludere alla realtà degli oggetti esterni più che alla realtà dell’oggetto del mio senso interno (del mio pensiero), perché da ambo le parti non sono se non rappresentazioni, la cui percezione immediata (coscienza) è insieme prova

bastevole della loro realtà. L’idealista trascendentale è, dunque, un realista empirico e riconosce alla materia, come fenomeno, una realtà che non ha bisogno di essere dedotta, ma è immediatamente percepita. Al contrario, il realismo trascendentale viene a trovarsi necessariamente in imbarazzo, e si vede obbligato a far posto all’idealismo empirico, poiché egli considera gli oggetti dei sensi esterni come qualcosa di diverso dai sensi e semplici fenomeni come esseri per sé stanti, che si trovino fuori di noi; quando di sicuro, nella nostra migliore coscienza della nostra rappresentazione di queste cose, è tutt’altro che certo che, se la rappresentazione esiste, esista anche l’oggetto a essa corrispondente: laddove, nel nostro sistema, queste cose esterne, cioè la materia, non sono in tutte le loro forme e trasformazioni se non semplici fenomeni, cioè rappresentazioni in noi, della cui realtà diveniamo immediatamente coscienti. Ora poiché, che io sappia, tutti gli psicologi aderenti all’idealismo empirico sono realisti trascendentali, essi si son comportati certo del tutto conseguentemente nel dare grande importanza all’idealismo empirico, come a uno dei problemi da cui difficilmente la ragione può trarsi fuori. Realmente infatti, se si considera i fenomeni esterni come rappresentazioni prodotte in noi dai loro oggetti come cose esistenti in sé fuori di noi, nessuno può dire come questa loro esistenza possa altrimenti esser conosciuta che per mezzo della deduzione dall’effetto alla causa, in cui non può non restar sempre dubbio se la causa sia in noi o fuor di noi. Ma si può invero concedere che delle nostre intuizioni esterne sia causa qualcosa che può esser fuor di noi nel senso trascendentale; ma questo qualcosa non è l’oggetto, che intendiamo con le rappresentazioni della materia e delle cose corporee; perché queste sono unicamente fenomeni, cioè semplici modi di rappresentazione, che si trovano sempre soltanto in noi, e la cui realtà poggia sulla coscienza immediata, né più né meno che la coscienza del mio pensiero. L’oggetto trascendentale, così rispetto all’intuizione interna come rispetto all’esterna, ci è del pari ignoto. Ma né anche si tratta di esso, sibbene dell’oggetto empirico, che allora si dice oggetto e s t e r n o , q u a n d o l o si rappresenta n e l l o s p a z i o, e si dice oggetto i n t e r n o , q u a n d o u n i c a m e n t e n e l r a p p o r t o t e m p o r a l e; ma spazio e tempo non si trovano, entrambi, se non i n n o i. Intanto, poiché l’espressione f u o r d i n o i porta seco un inevitabile equivoco, significando ora qualcosa che esiste come c o s a i n s é distinta da

noi, ora qualcosa che appartiene semplicemente al f e n o m e n o esterno, noi vogliamo, per porre questo concetto nell’ultimo significato (come quello in cui propriamente è presa la questione psicologica circa la realtà della nostra intuizione esterna) fuor d’ogni incertezza, distinguere gli oggetti e m p i r i c a m e n t e e s t e r n i da quelli che possono dirsi tali nel senso trascendentale, dicendoli a dirittura cose che si t r o v a n o n e l l o s p a z i o. Lo spazio e il tempo sono certo rappresentazioni a priori, che stanno in noi come forma della nostra intuizione sensibile, prima ancora che un oggetto reale abbia determinato con la sensazione il nostro senso a rappresentarlo sotto quei rapporti sensibili. Se non che, questo che di materiale o reale, questo qualcosa che dev’essere intuito nello spazio, presuppone necessariamente una percezione e non può, indipendentemente da questa che indica la realtà di qualcosa nello spazio, esser foggiato né prodotto da nessuna immaginazione. La sensazione dunque è ciò che designa una realtà nello spazio e nel tempo, secondo che si riferisce all’una e all’altra specie di intuizione sensibile. Data una volta la sensazione (che, se si applica a un oggetto in generale, senza determinarlo, dicesi percezione), può per mezzo della molteplicità di essa foggiarsi nell’immaginazione un oggetto, che fuori della immaginazione non ha posto empirico nello spazio o nel tempo. Questo è indubbiamente certo, che, se si prendono le sensazioni di piacere e dolore, oppure quelle esterne, i colori, il calore, ecc., la percezione è quella, per cui dev’essere primieramente data la materia per pensare gli oggetti della intuizione sensibile. Questa percezione rappresenta adunque (per rimanere questa volta soltanto nelle intuizioni esterne) qualcosa di reale nello spazio. Infatti in primo.luogo la percezione è la rappresentazione di una realtà, come lo spazio la rappresentazione di una semplice possibilità della coesistenza. In secondo luogo, questa realtà è rappresentata davanti al senso esterno, cioè nello spazio. In terzo luogo, lo spazio stesso non è altro che semplice rappresentazione; quindi in esso non può valere come reale se non ciò, che in esso è rappresentato306, e viceversa, ciò che è dato in esso, cioè rappresentato mediante percezione, è in esso anche reale; perché se non vi fosse reale, cioè dato immediatamente da intuizione empirica, non potrebbe neppure essere immaginato, poiché non si può punto immaginare a priori il reale delle intuizioni. Ogni percezione esterna dimostra adunque immediatamente qualcosa di reale nello spazio, o piuttosto è lo stesso reale; e pertanto dunque è fuori di

dubbio il realismo empirico, cioè alle nostre intuizioni esterne corrisponde qualcosa di reale nello spazio. Certo, lo stesso spazio, con tutti i suoi fenomeni, come rappresentazioni, non è se non in noi; ma in questo spazio nondimeno è dato il reale o la materia di tutti gli oggetti dell’intuizione esterna realmente e indipendentemente da ogni finzione, ed è anche impossibile che in q u e s t o s p a z i o sia dato checchessia f u o r i d i n o i (nel senso trascendentale), poiché lo spazio stesso fuori della nostra sensibilità non è nulla. Il più rigoroso idealista non può dunque pretendere che si dimostri, alla nostra percezione corrispondere l’oggetto fuori di noi (in senso stretto). Perché, se uno ce ne fosse fuori di noi, esso poi non potrebbe essere rappresentato né intuito come fuori di noi, poiché ciò presuppone lo spazio, e la realtà nello spazio come semplice rappresentazione non è altro che la percezione stessa. Il reale dei fenomeni esterni non è dunque reale se non nella percezione, e non può esser reale in altro modo. Ora dalle percezioni la conoscenza degli oggetti può esser ricavata o per mezzo di un semplice giuoco della immaginazione, oppure mediante l’esperienza. E qui possono certamente nascere rappresentazioni fallaci, alle quali non corrispondono gli oggetti, e in cui l’inganno è da ascriversi ora a un’illusione dell’immaginazione (nel sogno), ora a un errore del giudizio (nei così detti inganni dei sensi). Per sfuggire qui alla falsa apparenza, fa d’uopo procedere secondo la regola, che è r e a l e c i ò c h e è l e g a t o c o n u n a p e r c e z i o n e s e c o n d o l e g g i e m p i r i c h e. Se non che questa illusione, come il guardarsi da essa, riguarda così l’idealismo come il dualismo, in quanto qui si ha da fare soltanto con la forma dell’esperienza. Per confutare l’idealismo empirico come una falsa difficoltà circa la realtà oggettiva delle nostre percezioni esterne, è già sufficiente che la percezione esterna dimostri immediatamente una realtà nello spazio; il quale spazio, benché in sé non sia se non semplice forma delle rappresentazioni, tuttavia, rispetto a tutti i fenomeni esterni (che anch’essi non son altro che semplici rappresentazioni), ha realtà oggettiva; e del pari, che senza percezione la stessa finzione e il sogno non sono possibili, e che perciò i nostri sensi esterni, secondo i dati da cui può provenire l’esperienza, hanno nello spazio i loro oggetti reali corrispondenti. L’i d e a l i s t a d o m m a t i c o sarebbe quello che n e g a l’esistenza della materia, lo s c e t t i c o quello che la m e t t e i n d u b b i o, ritenendola indimostrabile. Il primo può esserci solo per ciò che crede di trovare

contraddizioni nella possibilità di una materia in generale, e con costui, per ora, non abbiamo a che fare. La sezione seguente intorno ai raziocinii dialettici, sezione che rappresenta la ragione nel suo interno conflitto rispetto ai concetti che essa si fa della possibilità di ciò che appartiene al contesto dell’esperienza, toglierà anche questa difficoltà. Ma l’idealista scettico, che attacca semplicemente il principio della nostra affermazione e reputa insufficiente la nostra convinzione dell’esistenza della materia, che noi crediamo di poter fondare sulla percezione immediata, è un benefattore della ragione umana, in quanto ci obbliga ad aprire bene gli occhi anche sul minimo passo della esperienza comune, e a non ammettere nel nostro possesso, senz’altro, come bene acquistato, ciò che forse abbiamo soltanto carpito. Il vantaggio, che procurano qui queste obbiezioni idealistiche, salta ora agli occhi. Esse ci spingono potentemente, se noi non vogliamo restar impigliati nelle nostre affermazioni più comuni, a considerare tutte le percezioni, si chiamino esse interne od esterne, semplicemente come una coscienza di ciò che si appartiene alla nostra sensibilità, e i loro oggetti esterni non come cose in sé, ma soltanto come rappresentazioni, di cui, come d’ogni altra rappresentazione, noi possiamo essere immediatamente coscienti, ma che si dicono esterni perché appartengono a quel senso che diciamo senso esterno, la cui intuizione è lo spazio; il quale per altro, a sua volta, non è se non un modo di rappresentazione interna, in cui certe percezioni si connettono tra loro. Se agli oggetti esterni attribuiamo il valore di cose in sé, è assolutamente impossibile comprendere come noi dobbiamo giungere alla conoscenza della loro realtà fuori di noi, fondandoci semplicemente sulla rappresentazione che è in noi. Infatti fuor di sé non si può sentire, ma soltanto in se medesimo; e l’intera autocoscienza non dà quindi se non soltanto nostre proprie determinazioni. L’idealismo scettico, dunque, ci costringe a ricorrere all’unico rifugio che ci rimane, ossia alla idealità di tutti i fenomeni, che noi abbiamo dimostrata nell’Estetica trascendentale indipendentemente da queste conseguenze, che allora non potevamo prevedere. Ma, se si domanda se dopo ciò il dualismo abbia luogo soltanto nella psicologia, la risposta è: Certamente! Ma solo nel senso empirico, che cioè nel contesto dell’esperienza la materia, come sostanza nel fenomeno, è realmente data al senso esterno, come l’Io pensante, parimenti come sostanza fenomenica, innanzi al senso interno; e secondo le regole che questa categoria introduce

nel contesto delle nostre percezioni, sì esterne e sì interne, per formare un’esperienza, devono anche i fenomeni, da ambo le parti, esser unificati tra loro. Che se si volesse estendere il concetto del dualismo, come per solito accade, e prenderlo nel senso trascendentale, né esso né il p n e u m a t i s m o a esso opposto da un lato, né il materialismo dall’altro avrebbero il menomo fondamento, poiché allora verrebbe meno la determinazione dei propri concetti, e la differenza del modo di rappresentarsi gli oggetti, che ci restano ignoti per quel che sono in sé, si prenderebbe per una differenza delle cose stesse. L’Io, rappresentato dal senso interno nel tempo, e gli oggetti nello spazio fuori di me, sono bensì fenomeni specificamente affatto diversi, ma non perciò son pensati come cose diverse. L’oggetto trascendentale, che è a base dei fenomeni esterni, come quello che è base dell’intuizione interna, non è in sé né materia né essere pensante, ma un principio a noi ignoto dei fenomeni che ci danno il concetto empirico della prima come della seconda parte. Se adunque, secondo che evidentemente ci obbliga a fare la presente Critica, restiamo fedeli alla regola sopra stabilita, di non spingere le nostre inchieste al di là dei limiti in cui l’esperienza possibile può fornircene l’oggetto, noi non ci lasceremo mai venire l’idea di istituire una ricerca intorno agli oggetti dei nostri sensi per ciò che essi possono essere in se stessi, cioè senza nessun rapporto ai sensi. Ma se lo psicologo prende i fenomeni per cose in sé, sia come materialista, accogliendo nella sua dottrina unicamente la materia, sia, come spiritualista, soltanto esseri pensanti (secondo cioè la forma del nostro senso interno), o, come dualista, l’una e l’altro, quasi cose in sé esistenti, egli è sempre preso nell’equivoco di dover escogitare come possa esistere in sé quel che pure non è una cosa in sé, ma soltanto il fenomeno di una cosa in generale.

CONSIDERAZIONE SULLA SOMMA DELLA PSICOLOGIA PURA IN CONSEGUENZA DI QUESTI PARALOGISMI

Se noi paragoniamo la p s i c o l o g i a , come fisiologia del senso interno, con la s o m a t o l o g i a , come fisiologia degli oggetti dei sensi esterni, noi troviamo, – a parte che in entrambe molto può esser conosciuto empiricamente, – questa notevole differenza, che nell’ultima scienza molto

tuttavia può esser conosciuto a priori dal semplice concetto di essere esteso impenetrabile, ma nella prima dal concetto di un essere pensante non può essere ricavato nulla per cognizione sintetica a priori. La causa è questa. Benché entrambi siano fenomeni, pure il fenomeno che sta innanzi al senso esterno è qualcosa di stabile e permanente, che fornisce un sostrato a fondamento delle determinazioni mutevoli, e quindi un concetto sintetico, quello cioè dello spazio e di un fenomeno in esso, laddove il tempo, unica forma della nostra intuizione interna, non ha niente di permanente, e quindi fa conoscere solo la vicenda delle determinazioni, ma non l’oggetto determinabile. Infatti in ciò che diciamo anima, tutto è in continuo flusso e non c’è nulla di permanente, salvo forse (se si vuole) l’Io così semplice, perché questa rappresentazione non ha un contenuto, e quindi non ha un molteplice, onde pare anche rappresentare o, per dir meglio, designare un oggetto semplice. Questo Io dovrebbe esser una intuizione, la quale, essendo presupposta nel pensiero in generale (prima di ogni esperienza) fornirebbe, come intuizioni a priori, proposizioni sintetiche, se dovesse essere possibile realizzare una conoscenza razionale pura della natura di un essere pensante in generale. Se non che questo io è così poco intuizione come concetto di un qualunque oggetto, ma è la semplice forma della coscienza307, che può accompagnare le due specie di rappresentazioni ed elevarle così a conoscenze, in quanto cioè qualche altra cosa sia data nell’intuizione, che porga materia alla rappresentazione di un oggetto. Tutta dunque la psicologia razionale cade, come scienza che trascende tutte le forze della ragione umana, e non ci resta altro che studiare la nostra anima con la guida dell’esperienza e tenerci nei limiti delle questioni, che non vanno al di là dei termini, dentro i quali l’esperienza interna possibile può presentare il loro contenuto. Ma quantunque essa non abbia, come conoscenza estensiva, nessuna utilità, anzi come tale sia composta di meri paralogismi, non le si può tuttavia negare una importante utilità negativa, se essa non deve valere se non come trattazione critica dei nostri raziocinii dialettici, e precisamente dei raziocini della ragione comune e naturale. A che ci è necessaria una psicologia semplicemente fondata su princìpi razionali puri? Senza dubbio, principalmente allo scopo di assicurare il nostro Me pensante contro il pericolo del materialismo. Ma questo fa il concetto razionale che noi abbiamo dato del nostro Me pensante. Lungi infatti dal rimanere, secondo questo concetto, qualche timore che, sottratta la materia,

sarebbe perciò distrutto ogni pensiero e la stessa esistenza dell’essere pensante, è stato piuttosto chiaramente dimostrato che, se io sottraggo il soggetto pensante, tutto il mondo corporeo deve cadere, come quello che non è se non il fenomeno nel senso del nostro soggetto e una specie di rappresentazione del medesimo. Certo, così io non conosco meglio questo Me pensante rispetto alle sue proprietà, né posso scorgere la sua permanenza, anzi neppure l’indipendenza del suo esistere dal qualunque sostrato trascendentale dei fenomeni esterni: perché questo, al pari di quello, mi è ignoto. Ma, poiché nondimeno è possibile attingere d’altronde che da meri princìpi speculativi motivi di sperare un’esistenza indipendente e costante in ogni vicenda del mio stato, della mia natura pensante, s’è già molto guadagnato così, a potere, con la libera confessione della mia propria ignoranza, respingere tuttavia gli attacchi dommatici di un avversario speculativo, e dimostrargli che ei non può della natura del mio soggetto saper di più, per negare la possibilità alle mie speranze, che non io per attaccarmi ad esse. Su questa apparenza trascendentale dei nostri concetti psicologici si fondano poi anche tre questioni dialettiche, che formano lo scopo proprio della psicologia razionale, e che non posson essere risolute altrimenti che per le ricerche precedenti; ossia 1) della possibilità del commercio dell’anima con un corpo organico, cioè dell’animalità e dello stato dell’anima nella vita dell’uomo; 2) dell’inizio di questo commercio, cioè dell’anima alla nascita e prima della nascita dell’uomo; 3) della fine di questo commercio, cioè dell’anima alla morte e dopo la morte dell’uomo (questione dell’immortalità). Ora io affermo che tutte le difficoltà, che si crede di trovare in queste questioni, e con cui come obbiezioni dommatiche si tenta di darsi l’aria di una più profonda penetrazione della natura delle cose di quella che può avere l’intelletto comune, riposano sopra una semplice illusione, per cui si fa un’ipostasi di ciò che esiste semplicemente nel pensiero, e lo si ammette, nella stessa qualità appunto, come un oggetto reale fuori del soggetto pensante; cioè si prende l’estensione, che non è se non fenomeno, per una proprietà delle cose esterne sussistente anche senza la nostra sensibilità, e il movimento per un effetto di esse, che avvenga realmente in sé anche fuori dei nostri sensi. Infatti la materia, la cui unione con l’anima fa nascere così grande difficoltà, non è altro che una semplice forma o un certo modo di rappresentarsi un oggetto ignoto, per mezzo di quella intuizione che si dice

senso esterno. Può ben dunque esserci qualcosa fuori di noi, a cui corrisponda questo fenomeno, che diciamo materia; ma, nella sua qualità di fenomeno, essa non è fuori di noi, bensì unicamente, come un pensiero, in noi, quantunque questo pensiero dal detto senso sia rappresentato come esistente fuori di noi. La materia significa adunque, non una specie di sostanza affatto diversa ed eterogenea dall’oggetto del suo interno (anima), ma soltanto la disparità dei fenomeni di oggetti (che in sé ci sono ignoti), le cui rappresentazioni noi diciamo esterne, in confronto di quelle che ascriviamo al senso interno, benché esse appartengano semplicemente al soggetto pensante né più né meno di tutti gli altri pensieri, salvo che hanno in sé questo di illusivo: che, rappresentando esse oggetti nello spazio, sembrano sciogliersi quasi dall’anima e star sospese fuori di essa, mentre pure lo stesso spazio, in cui esse sono intuite, non è se non una rappresentazione il cui riscontro non può guari incontrarsi, nella stessa qualità, fuori dell’anima. Ora la questione non è più del commercio dell’anima con le altre sostanze note ed estranee fuori di noi, ma solo dell’unione delle rappresentazioni del senso interno con le modificazioni della nostra sensibilità esterna, e come queste possano tra loro unirsi secondo leggi costanti, sì da coerire in una esperienza. Finché noi accostiamo tra loro fenomeni interni ed esterni come semplici rappresentazioni dell’esperienza, noi non troviamo nessun controsenso, nulla che renda strana l’unione delle due specie di senso. Ma appena ipostatizziamo i fenomeni esterni, considerandoli, non più come rapprentazioni, ma, nella q u a l i t à s t e s s a i n c u i e s s i s o n o i n n o i , c o m e c o s e s u s s i s t e n t i p e r s é a n c h e f u o r i d i n o i, mentre ne riferiamo azioni, che in quanto fenomeni li mostrano in relazione tra loro, al nostro soggetto pensante, allora abbiamo un carattere delle cause efficienti fuori di noi, il quale non vuol accordarsi con gli effetti di esse in noi, poiché quello si riferisce semplicemente ai sensi esterni, ma questi al senso interno: sensi che, sebbene uniti in un soggetto, pur sono sommamente eterogenei. Allora noi non abbiamo altri effetti esterni che cangiamenti di luogo, e altre forze che semplici tendenze, risolventisi in rapporti nello spazio come loro effetti. Ma in noi gli effetti sono pensieri, tra cui non v’ha nessun rapporto di luogo, movimento, forma o determinazione spaziale in generale, e noi smarriamo interamente il filo conduttore delle cause negli effetti, che se ne dovrebbero dimostrare nel senso interno. Noi tuttavia dovremmo riflettere, che i corpi non sono oggetti in sé, che ci son presenti, bensì un semplice

fenomeno, chi sa di qual oggetto ignoto; che il movimento non è l’effetto di questa causa ignota, ma soltanto il fenomeno del suo influsso sui nostri sensi; che per conseguenza l’uno e l’altro non sono qualcosa fuori di noi, ma solo rappresentazioni in noi; che, quindi, non il movimento della materia cagiona in noi le rappresentazioni, ma che esso stesso (quindi anche la materia, che per suo mezzo ci si rende conoscibile) è una semplice rappresentazione, e che infine tutta la presupposta difficoltà si riduce a ciò: come e per quale causa le rappresentazioni della nostra sensibilità sono tra loro in tale rapporto, che quelle che diciamo intuizioni esterne possano, secondo leggi empiriche, essere rappresentate come oggetti fuori di noi; questione, che non implica assolutamente la presunta difficoltà di spiegare l’origine delle rappresentazioni da cause efficienti esistenti fuori di noi, affatto estranee, prendendo i fenomeni di una causa ignota per la causa fuori di noi, ciò che non può dar luogo se non a confusione. In giudizi in cui ricorre un equivoco radicatosi per lunga abitudine, è impossibile portare la rettificazione fino a quella intelligibilità che può essere richiesta in altri casi, in cui nessuna illusione inevitabile di questo genere confonde il concetto. Quindi questa nostra liberazione della ragione delle teorie sofistiche difficilmente avrà già l’evidenza che le è necessaria per una piena soddisfazione. Ma credo di poterla raggiungere nel seguente modo. Tutte le o b b i e z i o n i possono dividersi in d o m m a t i c h e , c r i t i c h e e s c e t t i c h e. L’obbiezione dommatica è quella diretta contro una p r o p o s i z i o n e , la critica quella diretta contro la d i m o s t r a z i o n e di una proposizione. La prima ha bisogno di una cognizione circa la costituzione della natura d’un oggetto, per poter affermare il contrario di ciò che la proposizione asserisce di questo oggetto: e appunto per questo è essa stessa dommatica, e presume di conoscere meglio dell’avversario la costituzione di cui si tratta. L’obbiezione critica, lasciando intatta la proposizione nel suo valore o non valore, e attaccando soltanto la dimostrazione, non ha punto bisogno di conoscer meglio l’oggetto, o di attribuirsi una miglior conoscenza; essa sostiene soltanto che l’affermazione è priva di fondamento, non che sia falsa. L’obbiezione scettica contrappone, l’una all’altra, tesi e antitesi come obbiezioni di eguale importanza, ciascuna di esse a vicenda come domma e l’altra come obbiezione, ed è pertanto da ambo i lati opposti in apparenza dommatica, per annullare ogni giudizio intorno all’oggetto. Così, dunque, l’obbiezione dommatica come la scettica devono presumere entrambe tanta

cognizione dell’oggetto quanta è necessaria per affermare di esso qualcosa positivamente o negativamente. Solo quella critica è di maniera che, sostenendo semplicemente che si prende a sostegno della propria affermazione qualcosa che è nullo e semplicemente fittizio, rovescia la teoria per ciò che le toglie il suo preteso fondamento, senza per altro voler nulla decidere circa la natura dell’oggetto. Ora noi, secondo i concetti comuni della nostra ragione, siamo dommatici rispetto al commercio in cui il nostro soggetto pensante sta con le cose fuori di noi, e consideriamo queste come veri oggetti sussistenti indipendentemente da noi, secondo un certo dualismo trascendentale, che non attribuisce quei fenomeni esterni, come rappresentazioni, al soggetto, ma li trasferisce, così come ce li porge l’intuizione sensibile, fuori di noi come oggetti, e li separa del tutto dal nostro soggetto pensante. Ora questa surrezione è il fondamento di tutte le teorie sul commercio tra l’anima e il corpo; e non si domanda mai se questa realtà oggettiva dei fenomeni sia così interamente vera, ma la si presuppone per ammessa, e si sottilizza soltanto sul modo in cui si debba spiegare e intendere. I tre ordinari sistemi escogitati sopra questo punto, e realmente i soli possibili, sono quelli dell’i n f l u s s o f i s i c o, dell’a r m o n i a p r e s t a b i l i t a e dell’a s s i s t e n z a s o p r a n n a t u r a l e. I due ultimi modi di spiegare il commercio dell’anima con la materia sono fondati sulle obbiezioni contrarie al primo, che è la rappresentazione del pensiero volgare; che, cioè, quello che apparisce come materia non possa essere, col suo influsso immediato, la causa di rappresentazioni, come di una specie affatto eterogenea di effetti. Ma essi allora non possono legare con quello che intendono per oggetto dei sensi esterni il concetto di materia, che non è altro che fenomeno, e però già in sé semplice rappresentazione, cagionata da oggetti esterni quali si sieno; perché altrimenti direbbero: che le rappresentazioni degli oggetti esterni (i fenomeni) non possono essere cause esterne delle rappresentazioni nello spirito nostro; che sarebbe un’obbiezione affatto priva di senso, perché non avverrà mai a nessuno di ritenere per causa esterna ciò che ha una volta riconosciuto per semplice rappresentazione. Essi dunque devono, secondo i nostri princìpi, indirizzare la loro teoria a questo, che quello che è il vero (trascendentale) oggetto dei nostri sensi esterni, non possa esser la causa di quelle rappresentazioni (fenomeni), che noi intendiamo sotto il nome di materia. Ora, poiché nessuno può a ragione asserire di conoscere qualcosa della causa trascendentale delle nostre

rappresentazioni dei sensi esterni, così la loro affermazione è interamente priva di fondamento. Ma, se quelli che pretendono di migliorare308 la dottrina dell’influsso fisico, volessero, secondo la comune maniera di pensare d’un dualismo trascendentale, vedere nella materia come tale una cosa in sé (e non il semplice fenomeno di una cosa ignota), e rivolgere la loro obbiezione a dimostrare che un tale oggetto esterno, che non dimostra in sé altra causalità che quella dei movimenti, non possa più esser la causa efficiente di rappresentazioni, ma che perciò deve intervenire un terzo essere per fondare tra i due, se non un’azione reciproca, almeno tuttavia una corrispondenza e armonia; allora essi darebbero principio alla loro confutazione ammettendo nel loro dualismo il πρῶτoν φεῦδoς dell’influsso fisico, e così con la loro obbiezione non confuterebbero tanto l’influsso naturale, ma il loro stesso presupposto dualistico. Perché le difficoltà relative all’unione della natura pensante con la materia, provengono tutte senza eccezione unicamente da quella rappresentazione dualistica insinuatasi, che la materia come tale sia, non fenomeno, cioè semplice rappresentazione dello spirito, cui corrisponda un oggetto ignoto, ma l’oggetto in se stesso, così come esso esiste fuori di noi e indipendentemente da ogni sensibilità. Contro dunque l’influsso fisico comunemente ammesso non può muoversi nessuna obbiezione dommatica. Infatti, se l’avversario ammette che la materia e il suo movimento sono semplici fenomeni, e quindi soltanto rappresentazioni, egli può porre la difficoltà soltanto in questo, che l’oggetto ignoto della nostra sensibilità non può essere la causa delle rappresentazioni in noi: ciò che niente autorizza ad asserire, poiché nessuno di un oggetto ignoto può decidere che cosa esso possa fare o non fare. Egli deve invece, secondo le prove addotte, ammettere necessariamente questo idealismo trascendentale, se non vuol fare apertamente un’ipotesi delle rappresentazioni, e trasferirle come vere cose fuori di noi. Pure contro l’opinione comune dell’influsso fisico può esser fatta una fondata obbiezione c r i t i c a . Un tale presunto commercio tra due specie di sostanze, la pensante e la estesa, ha a fondamento un dualismo grossolano, e fa di queste, che pure non sono se non semplici rappresentazioni del soggetto pensante, cose che sussistono per sé. Sicché il malinteso influsso fisico può essere distrutto pienamente mostrando come nullo e fittizio l’argomento suo. La famosa questione intorno al commercio del pensiero e dell’estensione si ridurrebbe, dunque, se si elimini tutto ciò che è immaginario, unicamente a

questo: c o m e i n u n o g g e t t o p e n s a n t e i n g e n e r a l e s i a p o s s i b i l e u n a i n t u i z i o n e e s t e r n a, cioè l’intuizione dello spazio (di ciò che lo riempie, forma e movimento). Ma a questa domanda a niuno è possibile trovare una risposta; né si può mai colmare questa lacuna del nostro sapere, bensì soltanto additarla, ascrivendo i fenomeni esterni a un oggetto trascendentale, che è la causa di questa specie di rappresentazioni, e che noi per altro non conosciamo punto, né ne otterremmo mai nessun concetto. In tutti problemi, che possono presentarsi nel campo dell’esperienza, noi trattiamo quei fenomeni come oggetti in sé, senza preoccuparci del fondamento primo della loro possibilità (come fenomeni). Ma, se andiamo al di là dei suoi confini, divien necessario il concetto di un oggetto trascendentale. Di queste osservazioni sul commercio tra l’essere pensante e l’esteso, la risoluzione di tutte le controversie o obbiezioni riguardanti lo stato della natura pensante, prima di tale commercio (della vita) o dopo tolto tale commercio (alla morte), è una conseguenza immediata. L’opinione che il soggetto pensante abbia potuto pensare prima d’ogni commercio col corpo, si enuncierebbe così: che prima del principio di questo modo di sensibilità, per cui qualcosa ci apparisce nello spazio, gli stessi oggetti trascendentali, che nello stato presente ci appariscono come corpi, han potuto essere intuiti in tutt’altro modo. L’opinione poi che l’anima, dopo la fine di ogni commercio col mondo corporeo, possa tuttavia continuare a pensare, si enuncierebbe in questa forma: che se dovesse cessare il modo di sensibilità per cui gli oggetti trascendentali, e per ora affatto ignoti, ci appaiono come mondo materiale, non perciò verrebbe anche a finire ogni intuizione di essi; ed è ben possibile che gli stessi ignoti oggetti continuino, benché certo non più nella qualità di corpi, ad esser conosciuti dal soggetto pensante. Ora in vero nessuno può addurre la minima ragione in pro di tale affermazione fondata su princìpi speculativi, anzi, neppur dimostrarne la possibilità, ma soltanto presupporla; ma nessuno del pari può muover contro di essa una valida obbiezione dommatica. Giacché chiunque egli sia, della causa assoluta e intima di fenomeni esterni e corporei ne sa tanto poco quanto me o chiunque altro. Ei non può dunque dire con fondamento di sapere su che si fondi la realtà dei fenomeni esterni nello stato presente (nella vita); quindi neppure, che la condizione di ogni intuizione esterna, oppure il soggetto stesso pensante, cesserà dopo questo stato (alla morte).

Ogni conflitto adunque intorno alla natura del nostro essere pensante e del rapporto di esso col mondo corporeo è unicamente una conseguenza di questo, che, rispetto a ciò di cui non si sa nulla, si colma la lacuna con paralogismi della ragione, facendo de’ propri pensieri cose e ipostasi; donde nasce una scienza immaginaria sia rispetto a quello che afferma positivamente, sia rispetto a quello che afferma negativamente, credendosi ognuno di saper qualcosa di oggetti, di cui nessun uomo ha un concetto qual sia, o convertendo le sue proprie rappresentazioni in oggetti, e avvolgendosi in un perpetuo circolo di equivoci e contraddizioni. Solo la freddezza di una critica severa ma giusta può liberare da questa illusione dommatica, che trattiene tanti con una felicità immaginaria tra teorie e sistemi, e limitare tutte le nostre pretese speculative soltanto al campo dell’esperienza possibile; e non quasi con scipita spiritosaggine sui tentativi sì spesso mancati o con pii sospiri sui limiti della nostra ragione, ma per mezzo di una determinazione dei suoi confini compiuta con la scorta dei princìpi sicuri: determinazione, che appone con la maggior sicurezza il suo nihil ulterius alle colonne d’Ercole che la natura stessa ha poste, per far continuare il viaggio della nostra ragione solo fin dove giungono, procedendo continue, quelle coste dell’esperienza, che noi non possiamo abbandonare senza avventurarci in un oceano senza rive; il quale tra orizzonti sempre fallaci, ci costringe infine a rinunziare a tutti gli sforzi faticosi e lunghi, come disperati. Noi fin qui siamo rimasti ancora in debito di una spiegazione chiara e generale e pur naturale dell’apparenza trascendentale, e pur naturale, nei paralogismi della ragion pura, come anche della giustificazione dei loro ordinamenti sistematici e correnti parallelamente alla tavola delle categorie. Non avremmo potuto imprenderle al principio di questa sezione, senza correre il rischio dell’oscurità, o di fare anticipazioni inopportune. Ora vogliamo tentar di soddisfare a questo obbligo. Si può far consistere ogni a p p a r e n z a in ciò, che la condizione s o g g e t t i v a del pensiero è presa per la conoscenza dell’o g g e t t o . Inoltre, nell’introduzione alla Dialettica trascendentale abbiamo mostrato che la ragion pura si occupa soltanto della totalità della sintesi delle c o n d i z i o n i di un dato condizionato. Ora, poiché l’apparenza dialettica della ragion pura non può essere un’apparenza empirica che si trova nella conoscenza empirica determinata, così essa concernerà l’universale delle condizioni del pensiero; e non si daranno se non tre casi dell’uso dialettico della ragion pura:

1. La sintesi delle condizioni di un pensiero in generale. 2. La sintesi delle condizioni del pensiero empirico. 3. La sintesi delle condizioni del pensiero puro. In tutti questi tre casi la ragion pura ha da fare soltanto con la totalità assoluta di questa sintesi, ossia con quella condizione, che a sua volta è incondizionata. Su questa divisione si fonda anche la triplice apparenza trascendentale, che dà luogo alle tre sezioni della dialettica e fornisce le idee ad altrettante scienze apparenti della ragion pura, alla psicologia, alla cosmologia e alla teologia trascendentali. Noi abbiamo a che fare, qui, solo con la prima. Poiché nel pensiero in generale noi facciamo astrazione da ogni riferimento del pensiero a un qualunque oggetto (sia esso dei sensi o dell’intelletto puro), la sintesi delle condizioni di un pensiero in generale (n. 1) non è punto oggettiva, ma semplicemente una sintesi del pensiero col soggetto, la quale per altro falsamente è ritenuta per rappresentazione sintetica di un oggetto. Ma ne segue, altresì, che la conclusione dialettica alla condizione di ogni pensiero in generale, che è a sua volta incondizionata, non incorre in errore pel contenuto (giacché essa astrae da ogni contenuto od oggetto), ma erra soltanto nella forma, e dev’esser detta paralogismo. Poiché poi l’unica condizione che accompagna ogni pensiero, è l’Io nella proposizione universale: Io penso, la ragione ha che fare con questa condizione, in quanto essa stessa è incondizionata. Ma essa non è se non la condizione formale, ossia l’unità logica di ogni pensiero, in cui si astrae da ogni oggetto, e pure vien rappresentata come un oggetto che io penso, ossia l’Io stesso e la sua unità incondizionata. Se uno mi rivolge in generale la domanda: di che natura è una cosa che pensa?, io non posso punto rispondervi a priori, perché la risposta dev’essere sintetica (ché una risposta analitica spiega forse il pensiero, ma non dà nessuna nuova conoscenza di quello su cui poggia questo pensiero, quanto alla sua possibilità). Ma per ogni soluzione sintetica si richiede l’intuizione, che nel problema così universale è stata messa totalmente da parte. Nessuno del pari può rispondere alla domanda nella sua universalità: quale dev’esser una cosa, che è mobile? Giacché l’estensione impenetrabile (materia) non è quindi data. Ora quantunque universalmente a quelle domande io non abbia nessuna risposta, pure mi sembra che, nel caso particolare, una risposta possa

darla nella proposizione che esprime l’autocoscienza: Io penso. Infatti questo Io è il primo soggetto, cioè sostanza; esso è semplice, e così via. Ma queste sarebbero allora mere proposizioni sperimentali, le quali tuttavia, senza una regola universale che esprimesse in generale a priori le condizioni della possibilità di pensare, non potrebbero contenere nessun predicato simile (che non potrebbe essere empirico). In questo modo, la mia capacità, a principio così plausibile, di giudicare intorno alla natura di un essere pensante, e per puri concetti, mi diventa sospetta, benché non ne abbia ancora scoperto l’errore. Se non che le indagini ulteriori circa l’origine di questi attributi, che io attribuisco a me come essere pensante, possono scoprire questo errore. Essi non sono altro che categorie pure, con cui io non penso mai un oggetto determinato, ma soltanto l’unità delle rappresentazioni per determinare un oggetto delle medesime. Se non che, senza un’intuizione che le sia a fondamento, la categoria da sola non può creare il concetto d’un oggetto; perché soltanto per mezzo dell’intuizione vien dato l’oggetto; che poi è pensato in conformità della categoria. Se io considero una cosa come sostanza nel fenomeno, devono prima essermi dati predicati della sua intuizione, in cui distinguo il costante dal variabile e il sostrato (la cosa stessa) da quello che semplicemente vi inerisce. Se dico una cosa s e m p l i c e nel fenomeno, intendo con ciò che l’intuizione di essa è, bensì, una parte del fenomeno, ma essa stessa non può esser divisa, e così via. Che se qualcosa è conosciuta come semplice soltanto nel concetto, e non nel fenomeno, io non ho perciò nessuna conoscenza dell’oggetto, ma solo del concetto che mi fo di qualcosa in generale, che non è capace di nessuna intuizione speciale. Io dico soltanto che penso qualche cosa affatto semplice, poiché realmente non posso dire di più che questo solo: che qualcosa è. Ora la mera appercezione (l’Io) è sostanza nel concetto, semplice nel concetto, e così via: e a questo modo tutti quei teoremi psicologici hanno la loro esattezza incontrastabile. Tuttavia per questo non si conosce in nessun modo quel che si vuol propriamente sapere dell’anima; perché tutti questi predicati non valgono assolutamente dell’intuizione, e non possono quindi avere né anche nessuna conseguenza che si applichi ad oggetti della esperienza: quindi sono affatto vuoti. Infatti quel concetto della sostanza non m’insegna che l’anima dura per se stessa: non mi dice che essa è una parte delle intuizioni esterne, che a sua volta non possa più esser divisa, e che,

perciò, non possa nascere da alcuna trasformazione della natura e non possa morire; le proprietà che veramente potrebbero farmi conoscere l’anima nel contesto dell’esperienza, e darmi modo di sapere qualche cosa rispetto alla sua origine e al suo stato futuro. Ma se io dico per una pura e semplice categoria che l’anima è una sostanza semplice, è chiaro che, poiché il nudo concetto intellettuale di sostanza non contiene altro se non che una cosa dev’esser rappresentata come soggetto in sé, senz’essere a sua volta predicato di qualche altra, di qui non ne discende nulla quanto alla sua permanenza, e l’attributo di semplice non può aggiungere di certo questa permanenza; quindi così non si è menomamente illuminati su quel che possa apettare all’anima nei cangiamenti del mondo. Se ci si potesse dire che essa è una p a r t e s e m p l i c e della materia, di essa, da quel che l’esperienza ce ne insegna, noi potremmo dedurre la permanenza e, insieme con la natura semplice, la indistruttibilità. Ma di ciò il concetto dell’Io nel principio psicologico (Io penso) non dice parola. Ma che l’essere, che in noi pensa, presuma di conoscersi per mezzo di pure categorie, e di quelle che sotto ogni titolo di esse esprimono l’unità assoluta, dipende da ciò. L’appercezione è il fondamento stesso della possibilità delle categorie, che dalla parte loro non rappresentano altro che la sintesi del molteplice dell’intuizione, in quanto questo ha unità nell’appercezione. Quindi l’autocoscienza in generale è la rappresentazione di ciò che è la condizione di ogni unità, e intanto è a sua volta incondizionato. Si può quindi dire dell’Io pensante (anima) che si pensa come sostanza, semplice, numericamente identica in ogni tempo e correlato di ogni esistenza, da cui ogni altra esistenza dev’essere inferita: che esso non conosce s e s t e s s o m e d i a n t e l e c a t e g o r i e, ma le c a t e g o r i e , e per mezzo di esse tutti gli oggetti, nell’assoluta unità dell’appercezione, quindi m e d i a n t e s e s t e s s o. Ora è di certo molto evidente che io quello stesso che devo presupporre per conoscere un oggetto in generale, non posso conoscerlo anch’esso come oggetto, e che il Sé determinante (il pensiero) è diverso dal Sé determinabile (soggetto pensante) come la conoscenza dall’oggetto. Pure nulla è più naturale e seducente dell’apparenza di prendere l’unità nella sintesi del pensiero per una unità percepita nel soggetto di questo pensiero. Si potrebbe dirla la surrezione della coscienza ipostatizzata (apperceptionis substantiatae). Se si vuol dare un titolo logico al paralogismo che ricorre nei raziocinii

dialettici della psicologia razionale in quanto essi hanno tuttavia premesse vere, si può consideralo come un sopbisma figurae dictionis, in cui la premessa maggiore fa della categoria rispetto alla sua condizione un semplice uso trascendentale, la minore invece e la conclusione rispetto all’anima, che è stata sussunta sotto tale condizione, fa della stessa categoria un uso empirico. Così, per es. il concetto di sostanza nel paralogismo della semplicità è un puro concetto intellettuale, di uso meramente trascendentale; ossia di nessun uso senza le condizioni dell’intuizione sensibile. Ma nella minore lo stesso concetto è applicato a tutta l’esperienza interna, senza tuttavia stabilire prima e mettere a fondamento la condizione della sua applicazione in concreto, ossia la permanenza di esso; e ne vien quindi fatto un uso empirico, quantunque qui illecito. Per mostrare infine la connessione sistematica di tutte queste affermazioni dialettiche di una psicologia razionale in un sistema di ragion pura, e però la loro completezza, si noti che l’appercezione si realizza per tutte le classi di categorie, ma solo attenendosi a quei concetti dell’intelletto che, in ciascuna di queste classi, sono per le altre a fondamento dell’unità in una percezione possibile, quindi: sussistenza, realtà, unità (non pluralità) e esistenza; soltanto che la ragione qui le rappresenta tutte come condizioni, esse stesse incondizionate, della possibilità di un essere pensante. L’anima dunque conosce in se medesima: 1. L’unità incondizionata del r a p p o r t o , cioè se stessa, non come inerente, ma s u s s i s t e n t e 2. 3. l’unità incondizionata l’unità incondizionata nella p l u r a l i t à nel tempo, cioè non della qualità, cioè non come numericamente diversa in tempi diversi, ma come come reale totalità ma uno e identico soggetto, semplice, 4. l’unità incondizionata dell’e s i s t e n z a nello spazio, cioè non come coscienza di più cose esterne ma s o l o d e l l ’e s i s t e n z a d i s e s t e s s a e dell’altre cose soltanto come sue rappresentazioni. Ancora io non posso mostrare come il semplice qui corrisponda a sua volta alla categoria della realtà, ma verrà dimostrato nel capitolo seguente a proposito di un altro uso razionale dello stesso concetto (N. d. K.).

La ragione è la facoltà dei princìpi. Le affermazioni della psicologia pura non contengono predicati empirici dell’anima, ma predicati che, se essi han luogo, devono determinare l’oggetto in sé, indipendentemente dall’esperienza, e quindi per mezzo della sola ragione. Devono dunque ragionevolmente esser fondati su princìpi e concetti universali di nature pensanti. Invece si ha che le regge tutte la rappresentazione particolare: Io sono; la quale, appunto perché esprime la formula pura di ogni mia esperienza (indeterminatamente), si annunzia come proposizione universale, che vale per tutti gli esseri pensanti, e poiché essa è per tutti i rispetti particolare, porta con sé l’apparenza di una assoluta unità delle condizioni del pensiero in generale, e così si estende al di là della sfera dell’esperienza possibile. 304

È molto facile dare a questa prova la solita gravità della veste scolastica. Se non che al mio scopo basta già metter sott’occhio il semplice argomento magari in maniera popolare (N. d. K.). 305 Una palla elastica, che ne urta un’altra simile in linea retta, le comunica tutto il suo moto, quindi tutto il suo stato (se non si guarda se non ai posti nello spazio). Ora se ammettete, per analogia a corpi siffatti, sostanze di cui l’una farebbe passare nelle altre delle rappresentazioni, e insieme la loro coscienza, se ne potrebbe pensare tutta una serie, di cui la prima comunicasse il suo stato insieme con la coscienza di questo alla seconda, questa il suo proprio stato insieme con quello della sostanza precedente alla terza, e questa del pari gli stati di tutte le precedenti insieme col suo proprio e la loro coscienza. L’ultima sostanza quindi sarebbe cosciente di tutti gli stati delle sostanze modificatesi prima di essa, come di stati suoi propri, poiché essi insieme con la coscienza sarebbero passati in essa, e ciò non ostante e a non sarebbe stata la stessa persona in tutti questi stati (N. d. K.). 306 Si noti bene questa proposizione paradossale, ma vera: che nello spazio non vi è null’altro che ciò che vi è rappresentato. Poiché lo spazio, esso stesso, non è altro che rappresentazione, e però ciò che è in esso, deve essere contenuto nella rappresentazione, e nello spazio non c’è nulla se non in quanto è in esso effettivamente rappresentato. Proposizione, che certamente deve suonare strana: che una cosa possa esistere soltanto nella sua rappresentazione; ma che perde qui quel che può avere di scandaloso, poiché le cose, con cui abbiamo da fare, non sono cose in sé, ma soltanto fenomeni, cioè rappresentazioni (N. d. K.). 307 Kant sostituì più tardi in una postilla al suo esemplare: «l’oggetto a noi ignoto della coscienza». 308 Die vermeinten Verbesserer = i presunti correttori.

Glossario

I numeri arabi, in carattere corsivo, e preceduti da A o B, rimandano alle pagine della prima (A) o seconda (B) edizione della Critica (ed. dell’Accademia di Berlino), e indicano che i passi relativi appaiono soltanto nella prima o nella seconda edizione. In questo ordine di rinvii le cifre romane compaiono soltanto per rimandare alle pagine delle rispettive prefazioni. Quando le citazioni sono tratte da altre opere di Kant, queste sono richiamate da sigle, di cui si dà l’elenco più sotto. In tal caso alla sigla segue l’indicazione del luogo in cui il brano citato ricorre e, fra parentesi, l’indicazione del volume (in cifre romane) e delle pagine (in cifre arabe) dell’ed. dell’Accademia di Berlino. I brani autentici di Kant, a volte abbreviati, sono tra virgolette («...»); per altri scopi si usano gli apici semplici (‘...’) o doppi (“...”). I rinvii a questo stesso glossario sono indicati con v.; quelli alle opere di Kant con cfr. Quando il rinvio a una voce del glossario è seguito da un numero (es.: SPAZIO 6), esso rimanda soltanto a quella parte della voce in cui è citata la pagina indicata dal numero. Nell’indicare i termini originali si è rispettato l’uso del tempo, di scrivere c e non k nelle parole derivate dal latino; tale uso, peraltro, in Kant è prevalente, ma non esclusivo.

Abbreviazioni concl. = conclusione ed. = edizione intr. = introduzione n. = nota (seguita, eventualmente, dal numero) pref. = prefazione trad. = traduzione ANTR = Antropologia pragmatica ARG = L’unico argomento ecc. CONFL = Il conflitto delle Facoltà COST = Metafisica dei costumi DM = De mundi sensibilis ecc. DIL = Principiorum primorum cognitionis metaphysicae Nova Dilucidatio DIST = Su un tono di distinzione assunto recentemente in filosofia GIUD = Critica del giudizio INDAG = Indagine sull’evidenza dei princìpi della teologia ecc. LOG = Logica NEG = Saggio per introdurre in filosofia le grandezze negative OP = Opus postumum PRAT = Critica della ragion pratica

PRINC = Princìpi metafisici della scienza della natura PROL = Prolegomeni ad ogni futura metafisica ecc. REL = La religione nei limiti della semplice ragione SCOP = Su una scoperta dopo la quale ecc. SOG = Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica ABITUDINE (Gewohnheit) «Subiettiva necessità, derivante dalla frequente associazione dell’esperienza, che viene falsamente tenuta per oggettiva». [È il principio addotto da Hume per spiegare l’unificazione (v.) dell’esperienza. Cfr. PROL, pref. (IV, 260).] ACCIDENTE (accidens; a volte, aczidenz) Termine correlativo alla sostanza (v.). «Le determinazioni di una sostanza, le quali non sono altro che modi speciali di esistere della medesima, si chiamano a.». PROL § 46 (IV, 333): «Tutte le proprietà reali con cui conosciamo i corpi sono meri a.». AFFERMATIVO (bejahend) Giudizio in cui il predicato è attribuito positivamente al soggetto. Va tenuto distinto dal giudizio infinito (v.). AFFEZIONE (Affection) Influsso che l’oggetto esercita sul soggetto conoscente, suscitandovi la sensazione (v.). Sul piano empirico è un fenomeno, accessibile al nostro studio; sul piano trascendentale dobbiamo pensare un’a. del ‘soggetto trascendentale’ da parte della cosa in sé per analogia (v.) con un processo causale, nonostante che la categoria di causa, fuori del fenomeno, non sia applicabile. «L’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa, in quanto ne siamo affetti, è la sensazione». OP (XXII, 527): «Le forze motrici della materia sono cause della percezione del soggetto che ne viene affetto». [Il verbo affizieren è reso generalmente, in questa trad., con ‘modificare’.] AFFINITÀ (Affinität, Verwandschaft) A 122: «Chiamo a. dei fenomeni il fondamento oggettivo della loro associazione. Noi non possiamo trovarlo che nel principio dell’unità dell’appercezione» (v.). – ANTR, § 31, C (VII, 176): «Intendo per a. l’unione che si fonda sulla derivazione del molteplice da un solo fondamento»; ivi (VII, 177): «La parola a. ricorda una reciprocità (v.) tratta dalla chimica, analoga a un collegamento intellettuale». ANALISI (Analyse) DM, § 1, 1, n. (II, 391): «Regresso dal condizionato alla condizione, o dal tutto alle sue parti possibili». Come divisione, essa «presuppone sempre il suo opposto» (la sintesi, v.). – INDAG (II, 276): «La matematica arriva alle sue definizioni per via di sintesi, la filosofia vi arriva per mezzo di a.» (v. ANALITICO; METODO). ANALITICA (Analytik) Prima parte della Logica: «Risolve l’opera dell’intelletto e della ragione nei suoi elementi». – «pietra di paragone negativa della verità». [Gli Analitici, primi e secondi, erano 4 libri dell’Organon di Aristotele, che trattavano, rispettivamente, il giudizio e sillogismo, e la scienza deduttiva.] ANALITICA TRASCENDENTALE «Parte della logica trascendentale che espone gli elementi della conoscenza pura dell’intelletto e i princìpi senza i quali nessun oggetto può essere pensato». (v. CONCETTO PURO; PRINCIPIO). ANALITICO (GIUDIZIO) (Analytisch) Giudizio in cui il predicato «appartiene al soggetto come qualcosa che vi è contenuto». Cioè: quando penso il soggetto, penso già anche in esso, almeno implicitamente, il predicato. Si fonda sul principio di non contraddizione: cfr. PROL, § 5 (IV, 275). ANALITICO (METODO) PROL, § 5, n. (IV, 276): «Il metodo a., contrapposto al sintetico, è tutt’altro che un insieme di giudizi a.: significa solo che si parte da ciò che si cerca come se fosse dato, per risalire alle sue condizioni». Significato affine a quello di m. a. in matematica. La filosofia, in quanto non può «costruire» (v.) i propri concetti, segue un m. a. [La massima vicinanza al concetto contemporaneo di ‘filosofia a.’ si ha, in Kant, al momento dei SOG.] La metafisica (v.) come scienza dovrà tuttavia seguire un m. «sintetico» o costruttivo. ANALOGIA (Analogie) In matematica «è l’eguaglianza di due rapporti quantitativi» (cioè la proporzione: a:b = c:d). «Nella filosofia, invece, l’a. è l’eguaglianza di due rapporti qualitativi, in cui, dati tre membri, può essere conosciuto e dato a priori solo il rapporto a un quarto, ma non questo

quarto membro stesso». – GIUD, § 90, n. (V, 464, n.): «A., in senso qualitativo, è l’identità del rapporto tra fondamenti e conseguenze (cause e effetti), in quanto ha luogo nonostante la differenza specifica delle cose e proprietà» tra cui l’a. intercorre. ANALOGIE DELL’ESPERIENZA Princìpi (v.) corrispondenti alle categorie di relazione (v.). Sono «princìpi della determinazione dell’esistenza dei fenomeni nel tempo»: infatti la posizione (oggettiva) di un fenomeno nel tempo è determinata dalle sue relazioni oggettive (e, quindi, fondate sulle categorie, non sulla semplice apprensione) con gli altri fenomeni. [Corrispondono ai princìpi generalissimi della fisica: 1) conservazione della sostanza; 2) causalità; 3) eguaglianza di azione e reazione.] ANFIBOLIA (Amphybolie) TRASCENDENTALE «Scambio» tra ciò che appartiene alla sensibilità e ciò che appartiene all’intelletto. Vi cadde Leibniz, in conseguenza della sua dottrina secondo cui la sensibilità non sarebbe altro che intellezione confusa: cfr. 218-29. E evitata dalla Topica trascendentale (v.). – OP (XII, 326): «L’a. del Giudizio riflettente è l’autoinganno di prendere l’appercezione (v.) empirica per l’intellettuale». ANIMA (Seele) In senso empirico è l’oggetto del senso interno (v.), studiato dalla psicologia empirica; in senso trascendentale è l’io «in sé», che non possiamo conoscere, e di cui invano la psicologia razionale (v.) si sforza di dimostrare la sostanzialità, la semplicità, la personalità e l’immortalità, attraverso altrettanti paralogismi (v.). ANIMO (Gemüth) v. SPIRITO. ANTINOMIA (Antinomie) DELLA RAGION PURA Contraddizione inevitabile in cui cade la ragione quando scambia i fenomeni (esterni) per cose in sé (cfr. Dialettica trasc., c. II). In essa la tesi è dimostrata per assurdo, supponendo vera l’antitesi, e viceversa: sicché non si sfugge alla contraddizione se non si nega il fondamento stesso su cui le due affermazioni si contrappongono. [La Clavis aurea del Collier aveva proposto a. simili a quelle kantiane, ma senza questo tipo di procedimento dimostrativo.] ANTITESI (Antithesis) Affermazione che contraddice a una tesi (sicché l’una o l’altra, per la logica formale, dovrebbe esser vera: v. ANTINOMIA). ANTITETICA (Antithetik) «Intendo per a., non affermazioni dommatiche del contrario [di certe tesi], bensì il conflitto di conoscenze, secondo l’apparenza (v.), dommatiche» (v. ANTINOMIA). ANTICIPAZIONI (Antizipationen) DELLA PERCEZIONE Si fondano sul principio (a sua volta basato sulle categorie di qualità, v.) che «in tutti i fenomeni il reale, oggetto della sensazione, ha una quantità intensiva, cioè un grado». Ciò permette di «anticipare» una percezione più intensa quando si sia avuta una percezione della stessa specie, più debole. ANTROPOLOGIA (Anthropologie) Studio dell’uomo: cfr. l’ANTR del 1798. – «...solo secondo il carattere empirico possiamo guardare l’uomo, se vogliamo, come nell’A., ricercare i moventi delle sue azioni». APODITTICO (apodiktisch) Da ἀπόδειξιϛ, «dimostrazione». In Kant equivale a «dimostrativamente necessario». Giudizio a. «in cui l’affermare o il negare si riguarda come necessario». A POSTERIORI Tratto dall’esperienza. Termine scolastico che in origine significava: a partire da ciò che segue. A p. era, ad es., la dimostrazione dagli effetti, in contrapposto a quella che muove dalle cause. – PROL, § 5 (IV, 275): «Giudizi sintetici a p., cioè tratti dall’esperienza». – GIUD, § 58 (V, 346): «Fondamenti empirici, cioè tali che son dati solo a p., per mezzo dei sensi». APPARENZA (Schein) Ciò che risulta erroneamente. «...e tanto meno si deve far tutt’uno di fenomeno e apparenza». B 69: «Sarebbe un errore se facessi una pura parvenza di ciò che devo considerare un fenomeno». [Altre trad. rendono con «apparenza» (secondo un uso italiano antico) precisamente «fenomeno», cioè Erscheinung, e a Schein fan corrispondere «illusione».] APPARENZA LOGICA Sofisma. «L’a. l. consiste nella semplice imitazione della forma razionale»: appena si bada alla regola logica, «dilegua del tutto». APPARENZA TRASCENDENTALE Errore che, a differenza dell’a. logica (v.) è inevitabile senza la Dialettica trascendentale della Critica. «Illusione naturale e inevitabile, che si fonda su princìpi

soggettivi e li scambia per oggettivi». APPERCEZIONE (Apperzeption) Coscienza [termine leibniziano, dal franc. s’apercevoir, ‘accorgersi di’]. Più spesso che nel senso di «a. empirica» (v. COSCIENZA) è usata nel senso di «a. pura» o «trascendentale» (v.). B 68: «La coscienza di se stesso (a.) è la semplice rappresentazione dell’io». APPERCEZIONE TRASCENDENTALE È il centro puramente formale (privo di contenuto) a cui si riferiscono tutte le rappresentazioni in quanto appartenenti a un’identica coscienza. Sinonimi: A. pura, originaria; Unità sintetica dell’a.; Io-penso (v.); ecc. B 132: «è l’autocoscienza (v.) in quanto produce la rappresentazione: Io penso». – OP (XXII, 89): «La coscienza di me stesso (apperceptio) è l’atto del soggetto di fare di sé oggetto, ed è unicamente logica, senza determinazione dell’oggetto». APPRENSIONE (Apprehension) Acquisizione, da parte del soggetto, del molteplice sensibile, nella percezione. B 160: «Per sintesi dell’a. intendo la composizione del molteplice in una intuizione empirica, per cui diviene possibile la percezione». [Nella Deduzione trascendentale della 1a ed. questo momento era analizzato più minutamente: cfr. A 98-100.] V. SPAZIO 152. A PRIORI Termine scolastico che in origine significava: a partire da ciò che precede. A p. era, per es., la dimostrazione ex causis. In Kant è una conoscenza, o una forma della conoscenza, in quanto indipendente da ogni esperienza. PROL, § 36 (IV, 139): «a p., cioè indipendente da ogni esperienza». B XVI: «Una conoscenza a p. stabilisce qualcosa relativamente agli oggetti prima che ci siano dati». B XVIII: «Delle cose, conosciamo a p. solo ciò che noi stessi vi mettiamo». «Necessità e vera universalità sono i segni distintivi sicuri di una conoscenza a p.». – Il problema della Critica della ragion pura è «come sian possibili giudizi sintetici (v.) a p.». – «Relativamente a p.» (cfr. 192) è una conoscenza, indipendente bensì da un’esperienza singola, ma non dall’esperienza in generale [ad es.: se scavo le fondamenta di un edificio so «relativamente a p.» che cadrà]. ARBITRIO (Willkür) Volontà consapevole di un essere pensante. COST, intr., I (VI, 213): «La facoltà di desiderare secondo concetti..., con la coscienza della capacità della propria operazione di produrre l’oggetto, dicesi a.». ARCHITETTONICA (Architektonik) «Per a. intendo l’arte del sistema». Secondo Kant la sistematicità è indispensabile a ogni scienza, e alla filosofia in particolare. ASSERTORIO (assertorisch) Giudizio in cui «l’affermare o il negare si considera come reale (vero)», (in contrapposto ai giudizi in cui lo si considera come semplicemente possibile, o come necessario). Sta sotto la categoria modale (v.) dell’Esistenza (v.). ASSIOMA (Axiom) Proposizione la cui verità è immediatamente certa («degna» di essere affermata), secondo il modo tradizionale d’intendere l’assiomatica di Euclide (che chiamava gli a. «nozioni comuni»). «Gli a. sono princìpi sintetici a priori in quanto immediatamente certi». Sono «intuitivi», non discorsivi: quindi «in filosofia non si troverà nessun principio che meriti il nome di a.». ASSIOMI DELL’INTUIZIONE Si fondano sul principio (corrispondente alle categorie di quantità) che «Tutte le intuizioni sono quantità estensive» e possono aversi solo come una sintesi progressiva nello spazio e nel tempo. Tale principio «rende applicabile la matematica pura agli oggetti dell’esperienza». ASSOCIAZIONE (Association) Congiunzione tra «idee», su cui Hume (v. Indice dei nomi s. v. H.) fondava le funzioni psichiche e intellettuali. «L’unità empirica della coscienza per mezzo dell’a. riguarda un fenomeno, ed è del tutto accidentale». ASSOLUTO (Absolut) Ciò che è «sciolto» da ogni vincolo o condizione. «La parola a. è spesso usata per dire, semplicemente, che qualcosa è considerata in se stessa e ha valore intrinseco... Talvolta è adoperata, al contrario, per indicare che qualcosa vale sotto ogni rapporto... Io la userò in questo significato più ampio». ASTRAZIONE (Abstraction) Atto per cui si prescinde da qualcosa. SCOP, I, B, n. 1 (VIII, 199): «Non si astrae un concetto, bensì, nell’uso di un concetto, si astrae dalla diversità di ciò che è contenuto sotto di esso» (v. anche ATTENZIONE).

(Aufmerksamkeit, Aufmerken) ANTR, I, § 3 (VII, 131): «Lo sforzo per rendersi coscienti delle proprie rappresentazioni è, o a. (attentio) o l’astrazione da una rappresentazione di cui son cosciente». «Ogni atto di a. può fornire un esempio di come il senso interno (v.) venga modificato da noi stessi». ATTO Traduzione tipicamente gentiliana di Handlung, ‘operazione’. A volte trovasi anche Akt, o Actus, riferito all’atto del pensiero (il Gentile lo avrebbe chiamato ‘a. puro’). «L’io penso esprime l’a. [Actus] di determinare la mia esistenza». Più frequente nell’OP (XXII, 85): «Io sono [= io penso] è l’a. (Act) logico che precede ogni rappresentazione dell’oggetto: un verbo con cui pongo me stesso». AUTOCOSCIENZA (Selbstbewusstsein) È intesa da Kant non come ‘coscienza di sé’, empirica, bensì come l’unità della coscienza, formale e trascendentale (v. APPERCEZIONE; IO PENSO). – B 134: «Il pensiero “queste rappresentazioni mi appartengono tutte” suona lo stesso che: “io le unisco in un’a. o, almeno, posso unirvele”». [Si tratta, cioè, della semplice forma della possibilità di una coscienza in generale.] AUTOINTUIZIONE (Selbstanschauung) Apprensione della propria vita psichica nel «senso interno» (v.). B 158: Per «determinare la mia esistenza... occorre l’autointuizione, che è sensibile e appartiene alla recettività». AZIONE (That) COST, intr, IV (VI, 223): «A. chiamasi un’operazione in quanto sottoposta alle leggi dell’obbligatorietà, sicché il soggetto vi viene considerato secondo la libertà del suo arbitrio» (v.). AZIONE RECIPROCA v. RECIPROCITÀ CANONE (Canon) Regola. «Intendo per c. il complesso dei princìpi a priori del retto uso di certe facoltà conoscitive» (cfr. Canone della r. pura). – «Le idee della ragione, sebbene non permettano di conoscere nessun oggetto determinato, possono servire all’intelletto da c.». CAPIRE (Verstehen) Sinonimo di «intendere»: cfr. 245. – LOG, intr., VIII (IX, 65): «Capire (intelligere), ossia conoscere o concepire qualcosa con l’intelletto (v.) per mezzo di concetti». – «Noi non possiamo capire se non quello che importa nell’intuizione qualcosa di corrispondente alle nostre parole» (v. ESIBIZIONE). CATEGORIA (Kategorie) Sinonimo di «concetto puro dell’intelletto». Una delle 12 funzioni secondo cui l’intelletto svolge il proprio lavoro di unificazione (v.) del materiale sensibile. La sua forma si manifesta in una delle 12 forme dei giudizi (v.). [Termine di origine aristotelica, da κατμγορέω), «predico»: le c. sono i predicati generalissimi con cui si determina una sostanza.] – «Le c. sono concetti di un oggetto in generale, onde l’intuizione è determinata rispetto a una delle funzioni logiche del giudicare». Le c. sono, insomma, i modi (fondamentali) in cui l’intelletto pensa; e, quindi, la struttura di ogni pensiero (v.). CATEGORICO (kategorisch) Ciò che è affermato (o dato) indipendentemente da ogni condizione: quindi, «incondizionato». G i u d i z i o c.: in cui l’affermazione (o negazione) non è fatta dipendere da una ipotesi. I m p e r a t i v o c.: comando la cui imperatività non dipende da nessuna condizione. CAUSA (Ursache) Evento a cui, per una legge necessaria, ne segue un altro, determinato, detto «effetto». – «il concetto di c. significa una particolare maniera di sintesi in cui a qualcosa (A) viene associata, secondo una regola, qualche altra cosa affatto diversa (B)». «Il concetto di c. contiene così manifestamente il concetto di una necessità del legame con un effetto, che esso andrebbe interamente perduto se lo si volesse derivare, come fece Hume, dal frequente associarsi di ciò che accade con ciò che precede» [invece di fondarlo, trascendentalmente, su una categoria]. CAUSA PRIMA C. che non è, a sua volta, effetto di altro, e quindi si determina da sé: c. libera (cfr. la Tesi della Terza antinomia, 300). CAUSALITÀ (Causalität) Seconda categoria di relazione (v.): quella che più importa salvare dal soggettivismo humiano (cfr. la Seconda Analogia dell’esperienza: «Tutti i cangiamenti avvengono secondo la legge del nesso di causa ed effetto»). – «Noi abbiamo bisogno del principio di c. per assegnare le condizioni naturali dei fatti». – Sul solo piano noumenico noi possiamo «pensare» (ma non «conoscere»: v.) una «c. per la libertà». ATTENZIONE

(Composition, Zusammensetzung) Rapporto per cui i fenomeni, grazie alle leggi di natura, formano un unico mondo d’esperienza. «I tre rapporti dinamici da cui derivano tutti gli altri sono quelli dell’inerenza, della conseguenza e della c.» (coordinati con le tre categorie di relazione). – OP (XXI, 633 n.): «non il composto (compositum) va pensato per primo, quasi si potesse produrre la rappresentazione del tutto con l’intuizione, bensì la composizione (compositio) (forma dat esse rei)». COMPRENDERE (begreifen) LOG, intr., VIII (IX, 65): «C. (comprehendere), cioè riconoscere con la ragione a priori, nella misura che è sufficiente al nostro intento». «I concetti della ragione servono a c., i concetti dell’intelletto a intendere» [verstehen]. COMUNANZA Traduce qualche volta Gemeinschaft, più frequentemente reso con «reciprocità» (d’azione). – «Nel nostro spirito tutti i fenomeni devono essere in una c. di appercezione» (v.). CONCETTO (Begriff) Prodotto dell’attività intellettuale che «prende insieme» diverse rappresentazioni, unificandole secondo le categorie. È, per sua natura, universale, e si riferisce agli oggetti attraverso l’intuizione (v.). – Le intuizioni «vengono pensate dall’intelletto, e da esso derivano i c.». «i pensieri [scil.: concetti] senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti cieche». LOG, § 1 (IX, 91): «Il c. è una rappresentazione generale (per notas communes) o riflessa (discursiva)». CONFL, III, concl. (VII, 113): «Il c. è unità della coscienza di diverse rappresentazioni». CONCETTO PURO a) dell’intelletto: = categoria (v.). È una delle 12 forme pure (studiate nell’Analitica dei c.) del «prendere insieme» (begreifen) le intuizioni [quindi conceptus, in senso attivo, non la cosa «presa insieme», o conceptum, in senso passivo (cfr. la differenza tra conceptus e conceptum in Spinoza)]; b) della ragione: = idea (v.), oggetto della Dialettica trascendentale. «particolari c. a priori che possiamo denominare c. p. della ragione, o idee trascendentali». CONCETTO EMPIRICO Costruito con materiale ricavato dall’esperienza, a differenza del «c. puro» che «ha la sua origine unicamente nell’intelletto». CONDIZIONATO (bedingt) Ciò che dipende da una condizione. «L’intelletto discende di per sé dalla condizione al c.». CONDIZIONE (Bedingung) Ciò da cui qualcosa dipende. C. «trascendentale» è la c. di una possibilità, ed è l’oggetto precipuo studiato dalla filosofia kantiana (filosofia trascendentale). C. empirica è la causa, sul piano dei fenomeni. «La ragion pura non ha altro scopo che la totalità assoluta della sintesi dalla parte delle c.». CONNESSIONE (Verkniipfung) Legame intrinseco tra le rappresentazioni, per cui formano un’unica esperienza. Non può ridursi a rapporti spaziotemporali, ma richiede un collegamento per mezzo dell’intelletto. «L’esperienza è possibile solo mediante una rappresentazione delle c. necessarie delle percezioni» (v. UNIFICAZIONE). CONOSCENZA (Erkenntnis) Rapporto delle nostre rappresentazioni con gli oggetti. – A Beck, 20.1,1792 (XI, 315): «C. è la rappresentazione di un oggetto dato come tale, mediante concetti; è empirica se l’oggetto è dato nella rappresentazione dei sensi, a priori se è dato, bensì, ma non nella rappresentazione sensibile». Se manca il «dato» (v. MOLTEPLICE, sensibile e puro) si può avere bensì un «pensiero» (v.) vuoto, ma non la c. di un oggetto. B 146: «La c. comprende due punti: un concetto, per cui un oggetto è pensato, e l’intuizione onde l’oggetto è dato». Senza quest’ultima «non sarebbe possibile la c. di una cosa qualsiasi», perché non vi sarebbe nulla a cui sia possibile applicare il mio pensiero. B XXVI: «Per conoscere un oggetto si richiede che io possa provare la sua possibilità; ma io posso pensare alla sola condizione di non contraddirmi». CONTINGENTE (zufällig) È ciò a cui «accade» di esistere, non avendo in sé la necessità della propria esistenza. «C., nel puro senso della categoria [non-necessità] è ciò il cui opposto contraddittorio è possibile». – «La proposizione: ogni c. ha una causa, è sintetica» (v.). CONTINUITÀ (Continuität) «La proprietà delle grandezze per cui in esse non c’è parte che sia la più piccola possibile dicesi c.». La «legge della c. delle forme (formarum logicarum)» presuppone la «lex continui in natura», ed è «una semplice idea, alla quale non si può additare un congruo oggetto COMPOSIZIONE

nell’esperienza». CONTRADDITTORIO (widersprechend) Ciò che si oppone logicamente, come non a ad a [a differenza dell’opposizione (v.) reale, +a -a: cfr. NEG, sez. 1, (II, 172)]. «L’oggetto di un concetto che contraddice a se stesso è niente, perché il concetto è niente, l’impossibile» (v. TEMPO 62). CONTRADDIZIONE (Widerspruch) La non contraddizione «è la conditio sine qua non, però solo negativa, di ogni verità». «Il principio di c., in quanto semplicemente logico, non deve assolutamente limitare le sue enunciazioni ai rapporti di tempo». CONVINZIONI (Ueberzeugung) «La credenza quando è valida per ognuno che soltanto possegga la ragione, sicché il suo fondamento è sufficiente oggettivamente, dicesi c.» (se solo soggettivamente, dicesi «persuasione», Ueberredung). COORDINATO (coordiniert) LOG, intr, VIII (IX, 59): «c. sono i caratteri in quanto rappresentati ciascuno come un carattere immediato della cosa; ‘subordinati’, in quanto l’uno è rappresentato solo per mezzo dell’altro». CORPO (Köper) «Non mi occorre di uscir dal concetto di c. per trovare con esso legata l’estensione» [non così la gravità]. COSA IN SÉ (Ding an sich) È la cosa considerata a parte dalla necessità in cui si trova, per entrare nella nostra esperienza, di conformarsi al nostro modo di conoscerla (v. NOUMENO). È quindi «un concetto a cui non corrisponde un’intuizione additabile»: un pensiero vuoto (ens rationis), inevitabile tuttavia come correlato dell’«oggetto per me», o fenomeno, relativo al mio modo di conoscerlo. – B XX: «La nostra conoscenza a priori giunge solo fino ai fenomeni, mentre lascia che la c. in sé sia bensì per se stessa reale, ma a noi sconosciuta». «Niente di quel che è intuito nello spazio è c. in sé»; «Le c. che intuiamo non sono in se stesse quello per cui le intuiamo». Le categorie e i concetti in genere «non possono riferirsi alle c. in sé, senza ricercare se e come possano esserci date». – Fenomeni e c. in sé non sono realtà diverse, ma una stessa realtà, considerata una volta in riferimento al nostro modo di conoscerla, un’altra a parte da questo riferimento. B 69: «solo in quanto queste qualità dipendono esclusivamente dal modo d’intuire del soggetto, l’oggetto è distinto, come fenomeno, dallo stesso oggetto in sé». OP (XXII, 26): «La differenza di una c. in sé da un fenomeno non è oggettiva, ma solo soggettiva. La c. in sé (ens per se) non è un altro oggetto, bensì un’altra relazione (respectus) della rappresentazione al medesimo oggetto». COSCIENZA (Bewusstsein) Consapevolezza delle proprie rappresentazioni, che forma oggetto del «senso interno» (v.). Per la c. pura o «trascendentale», v. APPERCEZIONE. – B 133: «Solo in quanto posso legare in una c. una molteplicità di rappresentazioni date è possibile che io mi rappresenti l’identità della c. in queste rappresentazioni». B 208: «È possibile un passaggio graduale dalla c. empirica alla pura, quando il reale della c. empirica sparisce del tutto, e rimane una c. meramente formale (a priori)» (v. anche PERCEZIONE). COSCIENZA (Gewissen) È la c. morale, cioè la c. immediata del dovere. REL, 2, § 4 (VI, 185): «La c. morale [Gewissen] è una c. [Bewusstsein] che è per se stessa dovere». COSMO (Welt) «La parola c., nel senso trascendentale, designa la totalità assoluta delle cose esistenti». COSMOLOGIA (Cosmologie) RAZIONALE Studio del cosmo condotto, non su basi empiriche, ma con puri concetti della ragione. Conduce alle antinomie (v.). «la ragion pura fornisce l’idea... per una scienza trascendentale del mondo (cosmologia rationalis)». COSTITUTIVO (constitutiv) Uso di un concetto a costituire la conoscenza di un oggetto. Si contrappone a «regolativo» (v.). COSTRUZIONE (Construction) di concetti «Costruire un concetto significa esporre o esibire (v.) [darstellen] a priori un’intuizione ad esso corrispondente. Per la c. di un concetto si richiede quindi un’intuizione non empirica» (e cioè lo spazio e il tempo). Solo la matematica (non la filosofia) può costruire i propri concetti (cfr. PROL, § 7: IV, 287).

(Schöpfung) «Se l’origine dal nulla è considerata come effetto di una causa esterna, si chiama c.; questa non può essere ammessa come un avvenimento tra i fenomeni». CREDENZA (Fürwahrhalten) v. CONVINZIONE; FEDE; SCIENZA. CRITICA DELLA RAGION PURA (Kritik der reinen Vernunft) A XI-XII: «Un tribunale che garantisca la ragione nelle sue pretese legittime e condanni quelle che non hanno fondamento non può essere se non la c. d. r. p. stessa». B XXII: «Nel tentativo di cambiare il procedimento fin qui seguito in metafisica... consiste il compito di questa c. d. r. p. speculativa». «Una scienza che si limiti al semplice giudicamento della r. p., delle sue fonti e dei suoi limiti, come propedeutica al sistema della r. p.» (v. SCIENZA 46). CRITICO (kritisch) Procedimento che sottopone una nostra facoltà a un giudizio preventivo delle sue possibilità e dei suoi limiti. Opposto di «dogmatico» (v.). «soltanto la via c. è ancora aperta». DATO (gegeben) Prodotto dell’affezione (v.) o influsso esercitato dalle cose sul mio animo (v. MOLTEPLICE; MATERIA). «Gli oggetti ci sono d. per mezzo della sensibilità». «Se una conoscenza ha da avere una realtà oggettiva, l’oggetto deve comunque potere esser d.;... dare un oggetto non è altro che riferire la sua rappresentazione all’esperienza (sia questa reale o possibile)». DEDUZIONE (Deduction) Termine usato da Kant nel senso di ‘giustificazione’. «I giuristi distinguono quel che è di diritto (quid juris) da ciò che si attiene al fatto (quid facti), e chiamano la dimostrazione del diritto o della pretesa d.». «D. trascendentale» delle categorie è la giustificazione della pretesa di usare i concetti puri dell’intelletto come costitutivi di un’esperienza che non è prodotta dall’intelletto medesimo. – B 168: «Concetto sommario di questa d.» è «l’esposizione dei concetti puri dell’intelletto come princìpi della possibilità dell’esperienza». – «D. metafisica» [compare in un solo luogo] B 159: «nella d. metafisica è stata mostrata l’origine a priori delle categorie». DEDUZIONE EMPIRICA «mostra in che modo un concetto è acquistato per mezzo dell’esperienza». Fu tentata dal Locke: «peraltro una d. dei concetti puri non può mai aversi per mezzo di essa» che «propriamente non può chiamarsi d.». DETERMINAZIONE (Bestimmung) DIL, prop. 4 (I, 391): «Determinare... è porre un predicato (v.) con esclusione del contrario». «Ogni cosa sottostà al principio della d. completa, per cui di tutti i possibili predicati, in quanto paragonati coi loro contraddittori, glie ne deve convenire uno». a DIALETTICA (Dialektik) TRASCENDENTALE 2 parte della Logica t. (v.), in cui si confutano, e insieme si spiegano, gli errori in cui incorre la ragione quando pretende di conoscere oggetti con le sue sole forze, fuori del campo dell’esperienza possibile. – «Critica dell’apparenza (v.) dialettica: non quasi un’arte di svuotare dommaticamente tale apparenza, ma come critica dell’intelletto e della ragione rispetto a loro uso iperfisico» (v.). A differenza della d. logica, che smaschera i paralogismi, «la d. t. sarà paga di scoprire l’apparenza dei giudizi trascendenti... ma che questa apparenza si dilegui, non può mai conseguire». DIALETTICO (dialektisch) Ciò che è pertinente alla Dialettica (v.): può essere un uso della ragione, un concetto, un sillogismo, ecc. Il senso peggiorativo era già presente in Aristotele (a differenza che in Platone), come «pertinente alla logica dell’apparenza o della mera probabilità». DIALLELE (Diallele) (δίαλλήλφν = l’uno con l’altro): circolo vizioso. DIMOSTRAZIONE (Demonstration) Soltanto «una prova (v.) apodittica (v.) in quanto intuitiva può dirsi d. L’esperienza ci insegna bensì ciò che esiste, ma non che non possa essere altrimenti... Soltanto la matematica possiede d.». [Sulla «d. delle proposizioni trascendentali», cfr. 483 sgg.] DINAMICO (dynamisch) (Da δύναμις = potenza; in senso moderno = «relativo alle forze»). – «Nell’applicazione dei concetti puri (v.) dell’intelletto all’esperienza, l’uso della loro sintesi è, o matematico, o d.; il primo si riferisce semplicemente all’intuizione, il secondo all’esistenza di un fenomeno in generale». Cioè: «sintesi matematica» è quella che dà una connessione meramente spaziotemporale, e pertanto intuitiva; «sintesi d.» quella che connette i medesimi contenuti con rapporti CREAZIONE

pensati (intellettuali), tra condizione e condizionato. [Dal campo dei princìpi (v.) e delle antinomie (v.), la distinzione si è riverberata sulle categorie che ne stanno a fondamento (cfr. 99; B 110), divise perciò in «matematiche» (quantità e quaòlità) e «d.» (relazione e modalità), (v.).] «Il regresso d. ha in sé questo di speciale, rispetto al regresso matematico...: che in esso, poiché si ha da fare non con la possibilità di un tutto, bensì con la derivazione di uno stato o di un’esistenza contingente, la condizione può non formare una serie empirica con il condizionato» [e può essere eterogenea rispetto ad esso]. DIO (Gott) È l’«ideale» (v.) della ragion pura. 371-2: «essere originario, supremo, essere degli esseri», «uno, semplice, onnipotente, eterno». – «Se noi seguiamo più oltre questa nostra idea, di cui facciamo un’ipostasi (v.), potremo determinare l’Essere originario mediante il semplice concetto di realtà suprema... per mezzo di tutti i predicati». Cioè «noi ipostatizziamo l’idea del complesso di ogni realtà». Dal punto di vista pratico (v.) D. è un postulato (v.), come colui che adegua la felicità al merito; ed è l’idea del promulgatore della legge morale. OP (XXI, 35): per D. s’intende una persona che ha potere giuridico su tutti gli esseri razionali»; (XXXII, 108): «D. non è una sostanza, ma l’idea personificata del diritto e della benevolenza»; (XXI, 153): «L’idea D., non di D., perché questo sarebbe un oggetto pensato come esistente». DISCORSIVO (discursiv) Pertinente al «discorso», o «ragione», quindi alla conoscenza logica, mediata, in contrapposto all’intuitiva. «La conoscenza propria dell’intelletto umano è una conoscenza per concetti: non intuitiva ma d.». DISGIUNTIVO (disjunctiv) Giudizio che ha la forma ‘o... o...’. Sta sotto il titolo della relazione, in corrispondenza della categoria di reciprocità (v.). Se tutte le alternative possibili sono considerate, si ha una «disgiunzione completa». «Il giudizio d. contiene un rapporto tra due o più proposizioni, non di derivazione, bensì di opposizione logica...; ma contiene altresì un rapporto di comunanza (v.), in quanto quelle proposizioni riunite occupano tutta la sfera di quella tal conoscenza». DISCIPLINA (Disziplin) «D. dicesi la costrizione per la quale la tendenza costante a deviare da certe regole viene limitata, e infine distrutta». La «d. della ragion pura» è una «dottrina negativa» per evitare gli errori nella costruzione del sistema. DOGMATISMO (Dogmatismus) B XXXV: «D. è il procedimento dommatico che segue la ragion pura, senza una critica preliminare del proprio potere». – Nelle antinomie (v.) le tesi possono essere chiamate «il d. della ragion pura», le antitesi, il suo «empirismo». DOGMATICO (dogmatisch) Oltre al senso peggiorativo (v. DOGMATISMO), ha il senso di «pertinente al dogma», «parola che si potrebbe forse tradurre con insegnamenti [Lehrsprüche». – B XXXV: «La critica non è contraria al procedimento d. (conoscenza dimostrativa per sicuri princìpi a priori), bensì al dogmatismo... Nel sistema futuro della metafisica ci toccherà seguire il metodo di Wolff, il più grande dei filosofi dogmatici». – Però «se nell’uso speculativo della ragione, anche secondo il contenuto, non ci sono dogmi, ogni metodo d., preso a prestito dalla matematica, non le si addice». [Il «procedimento d.», per teoremi, è seguito da Kant nei PRINC.] DOVERE (Pflicht) Costrizione, non di fatto, ma fondata sulla legge morale, e quindi tale che si rivolge solo alla libera volontà. – «Rispetto alle leggi morali l’esperienza è madre dell’apparenza, e niente è più da riprovare che voler determinare quel che devo fare guardando a ciò che si fa». DURATA (Dauer) «Solo per mezzo del permanente l’esistenza acquista nella serie temporale una quantità, che si chiama d.». ECTYPON v. IDEALE. EFFETTO (Wirkting) Ciò che consegue necessariamente a una causa (v.). ELEMENTARE (elementar) Concernente gli «elementi» della conoscenza. PROL, 5 39 (IV, 323): «Concetti e. puri della sensibilità» sono lo spazio e il tempo; concetti e. puri dell’intelletto, le categorie. EMPIRICO (empirisch) Ciò che è cavato dall’esperienza, o che ad essa si riferisce. – «Le conoscenze e. hanno la loro origine a posteriori, cioè nell’esperienza». EMPIRISMO (Empirismus) Indirizzo che riconduce ogni conoscere all’esperienza (cfr. 219-20, su

Locke). Rispetto alle idee, nelle antinomie, v. DOGMATISMO. – «Se l’e. diventa esso stesso dogmatico, e nega assolutamente ciò che è sopra la sfera della sua conoscenza intuitiva, incorre anch’ esso nell’errore dell’indiscrezione». – OP (XXII, 399): «La prima questione è se debba valere l’e. delle forze motrici a costituire il principio della loro connessione, o non piuttosto il razionalismo della concordanza con la possibilità dell’esperienza in generale». ENS RATIONIS Un «concetto vuoto senza oggetto» (ad es., il noumeno, v.): «pensabile», ma non «conoscibile» (v. COSA IN SÉ 231). ESIBIZIONE (Darstellung) GIUD, intr., VIII (V, 192): «L’e. (exhibitio) di un concetto consiste nel porre accanto ad esso un’intuizione corrispondente». – Ivi, § 59 (V, 351): L’e. «è schematica (quando a un concetto è data la corrispondente intuizione a priori), o simbolica» [quando nessuna intuizione è adeguata al concetto, e allora si fa corrispondere ad esso un’intuizione solo per analogia (v.)] (v. ESPOSIZIONE). ESISTENZA (Dasein, Existenz) Categoria modale (v.) per cui l’oggetto è riferito alla mia sensibilità; o perché attestato direttamente alla percezione, o perché connesso con ciò che la percezione attesta. «Ciò che si connette con le condizioni materiali dell’esperienza (della sensazione) è reale». – L’e. non è un predicato, cioè non amplia il contenuto del concetto, ma è (ARG, I, I, 2: II, 73) «assoluta posizione (v.) della cosa». Pertanto «nel semplice concetto di una cosa non può trovarsi nessun carattere della sua e.». – Il concetto del possibile, quanto al contenuto, è identico a quello del reale corrispondente (cento talleri reali non contengono nulla più che cento talleri possibili). «Essere non è un predicato reale, ma semplicemente la posizione di una cosa» nell’esperienza. [Su ciò si fonda la confutazione dell’argomento ontologico, v.] (v. REALTÀ). ESPERIENZA (Erfahrung) Elaborazione del dato sensibile da parte della spontaneità intellettuale. La sua possibilità è l’oggetto specifico studiato dalla «filosofia trascendentale» (v.). – A 1: «L’e. è il primo prodotto che dà il nostro intelletto quando elabora la materia greggia delle sensazioni»; B 1: «Ogni nostra conoscenza comincia con l’e.». [In quest’ultima accezione, l’e. appare, più che il prodotto dell’attività conoscitiva, una delle sue fonti: quella che le fornisce il materiale.] – PROL, § 26 (IV, 310): L’e. non è «un puro aggregato di percezioni», bensì «determinazione dell’esistenza nel tempo, secondo leggi necessarie». «L’e. poggia su una sintesi secondo concetti dei fenomeni in generale, senza la quale non sarebbe conoscenza, ma rapsodia di percezioni... L’e. ha dunque a fondamento princìpi a priori (v.) – OP (XXII, 409-10): «È un malinteso parlare di esperienze: quel che si intende con ciò sono solo percezioni, che appartengono tutte a un’unica e medesima e.». Ivi (XXII, 103): «Non si può dire avere un’e., ma solo fare un’e.». Infatti, come totalità, l’e non è mai data, ma ci si può solo avvicinare ad essa: OP (XXI, 90): «L’e. non è una conoscenza empirica, ma solo un’idea della costruzione (v.) di un concetto. Questo è sempre solo asintotico, approssimazione all’e.». Ivi (XXII, 103): «L’e., come principio della possibile conoscenza empirica, è l’asintoto della determinazione (v.) completa: semplice approssimazione» (v. anche DIMOSTRAZIONE). ESPLICATIVO (erläuternd) È il giudizio analitico (v.), in quanto si limita a rendere più esplicito il contenuto del soggetto logico. ESPOSIZIONE (Erörterung) «Per e. (expositio) intendo la chiara (anche se non esauriente) rappresentazione di ciò che appartiene a un concetto». Le forme pure dell’intuizione si riferiscono direttamente alla esperienza, che accolgono in sé: quindi per esse non occorre una deduzione (v.) ma basta un’esposizione (cfr. 103) (v. ESIBIZIONE). ESSENZA (Wesen) PRINC, pref., n. 1 (IV, 467): «E. è il primo, interiore principio di ciò che appartiene alla possibilità di una cosa». ESSERE (Sein) In senso empirico, equivale ad esistenza (v.); in senso trascendentale si può pensare un essere «assoluto», «necessario», ecc. (v. DIO), ma non «conoscerlo». ESTENSIONE (Umfang) LOGICA È il dominio di un concetto. «La quantità totale dell’e., in relazione a una certa condizione, dicesi universalità».

(Ausdehnung) REALE Per Cartesio era la stessa realtà materiale. Per Kant è un carattere del fenomeno, che dipende dal nostro modo di intuire (v. ASSIOMI DELL’INTUIZIONE). ESTENSIVO (erweiternd) È il giudizio sintetico (v.), in quanto in esso il predicato amplia il contenuto pensato nel concetto del soggetto. ESTERNO (äusser) v. SENSO. ESTETICA (Aesthetik) TRASCENDENTALE Studia i fenomeni della possibilità della conoscenza sensibile (o αἴσθεσις). «I tedeschi sono i soli che si servano al presente della parola e. per indicare ciò che gli altri chiamano critica del gusto» [per influsso del Baumgarten]. In GIUD si parlerà di «giudizio e.» nel senso oggi corrente della parola. ETERNITÀ (Ewigkeit) Nella tesi della 1a antinomia compare l’e. come un «perdurare indefinito»; ma al concetto rigoroso di e. accenna Das Ende alter Dinge (VIII, 327): «L’espressione “passare dal tempo all’e.” non significherebbe nulla se per e. s’intendesse un tempo perdurante all’infinito... Si deve quindi intendere una fine di ogni tempo, e un perdurare dell’uomo, del tutto incomparabile col tempo (duratio noumenon)». EVIDENZA (Evidenz) Certezza intuitiva, e quindi immediata (cfr. 457). LOG, intr., IX (IX, 70): «La certezza matematica [a differenza della filosofica] si dice anche “e.”, perché una conoscenza intuitiva è più chiara che una discorsiva». FACOLTÀ (Vermögen) Capacità dell’animo (v.): a) di conoscere, b) di desiderare. La prima viene determinata dall’intelletto, la seconda, quando si agisca liberamente, dalla pura ragione (v.): cfr. GIUD, intr., III (V, 178). Tra le due, s’inserisce «il sentimento di piacere e di dolore». FEDE (Glaube) «La credenza sufficiente solo soggettivamente, e ritenuta insufficiente oggettivamente, dicesi f.». «F. morale» o «razionale» è la certezza dell’esistenza di Dio e di una vita futura, che si ha «perché altrimenti sarebbero rovesciati i princìpi morali». B XXX: «Ho dovuto sopprimere il sapere per sostituirvi la f.» (v. SOPRASENSIBILE; CONVINZIONE). FENOMENO (Erscheinung, Phänomenon) È l’oggetto della sensibilità (DM, § 3: II, 392), detto dagli antichi phaenomenon. La forma greca ha talvolta in Kant un senso più determinato che la tedesca: «L’oggetto indeterminato di una intuizione empirica si dice f.» [Erscheinung]; A 248-249: «Le cose che appaiono [Erscheinungen], in quanto siano pensate come oggetti secondo l’unità delle categorie, si chiamano phaenomena» [passo espunto dalla 2a ed.]. Alcuni trad. preferiscono perciò rendere Erscheinung con «apparenza» (secondo l’uso italiano antico) e riservare ‘f.’ a Phaenomenon: ma l’uso kantiano non impone tale distinzione. – Il f. è caratterizzato dalla necessità di conformarsi alle forme pure dell’intuizione (v.) per potermi apparire: ciò lo rende relativo al nostro modo universale di conoscere: «Se sopprimessimo il nostro soggetto, o anche solo la natura subiettiva dei sensi in generale, tutta la natura, tutti i rapporti degli oggetti nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il tempo sparirebbero: come f., non possono esistere in sé ma solo in noi». Ciò non significa tuttavia che si tratti di «apparenza» (illusiva) perché i caratteri del f. possono avere una loro oggettività, cioè un’eguale validità per tutti i possibili soggetti conoscenti (conformati come il nostro): B 69: «I predicati del f. possono essere attribuiti all’oggetto stesso, in rapporto al nostro senso; invece l’apparenza non può mai essere attribuita come predicato all’oggetto». – «F. del f.» (Erscheinung der, o einer, Erscheinung) è detto, nell’OP, il «f. indiretto», costruito da noi, in vista dell’unificazione dell’esperienza (e quindi della sua possibilità), ma non direttamente sensibile (es.: un campo di forza). OP (XXII, 367): «La composizione delle percezioni nel soggetto in favore dell’esperienza è, di nuovo, f. del soggetto... ed è di secondo rango, f. del f. delle percezioni della coscienza; pertanto indiretto, per la possibilità dell’esperienza (che è una)». FILOSOFIA (Philosophie; talora Weltweisheit) «Tutta la f. è conoscenza derivante dalla ragion pura, o conoscenza razionale derivante da princìpi empirici. La prima si dice f. pura; la seconda f. empirica». La f. pura è «o propedeutica... o sistema della ragion pura (scienza): l’intera conoscenza filosofica (sia ESTENSIONE

vera, sia apparente, che si dice ‘metafisica’». – la f. «è conoscenza per concetti», non «per costruzione (v.) di concetti». – Nel senso antico, era «dottrina della saggezza»: «riferire tutto alla saggezza, ma per via di scienza»; PRAT, I, II, c. 1 (V, 108): «sarebbe bene lasciare alla parola il suo antico significato di dottrina del sommo bene, in quanto la ragione si sforza di farne una scienza». «tra tutte le scienze razionali solo la matematica si può imparare, non la filosofia: tutt’al più si può imparare a filosofare». – OP (XXI, 120): «Weltweisheit è conoscenza dei fini supremi della ragione umana: ma poiché solo Dio è saggio, la “saggezza mondana” costituisce un analogo della saggezza, commisurato all’uomo, e null’altro che “amore per la saggezza”». FILOSOFIA TRASCENDENTALE È la f. in quanto studia: a) la possibilità dell’esperienza; b) la possibilità dell’agire per puro dovere. «La f. t. ha questo di speciale: che nessuna questione circa un oggetto della ragion pura può essere insolubile per la stessa ragione umana». La f. t. «studia l’intelletto e la ragione in un sistema di tutti i concetti e princìpi che si riferiscono a oggetti in generale, senza assumere oggetti dati». PROL, § 5 (IV, 279): «L’intera f. t., che deve precedere ogni metafisica, non è altro che la soluzione della questione: come son possibili conoscenze sintetiche a priori?». – OP (XXI, 104): «F. t. è la scienza problematica della fondazione di un sistema completo della possibilità dell’assoluto tutto dell’esperienza». [Altre 150, circa, definizioni, più o meno simili, sono date della f. t. in questo scritto.] (v. TRASCENDENTALE; METAFISICA; CONDIZIONE; ESPERIENZA.) FISICA (Physik) «La metafisica della natura corporea si dice f., e, se si limita ai princìpi della sua conoscenza a priori, f. razionale». «ciò che si dice comunemente physica generalis è più matematica che filosofia della natura». «La f. comprende in sé, come princìpi, giudizi sintetici a priori» (v.). – OP (XXII, 457): «Gli oggetti della f. sono di due specie: 1) tali che possono esser dati nell’esperienza; 2) tali che non li si potrebbe neppure ammettere come possibili se l’esperienza non ne mostrasse la realtà (ad es. i corpi organici)». Ivi (XXI, 293): La physica specialis riguarda «particolari sistemi di forze motrici». FISIOLOGIA (Physiologie) RAZIONALE «studia la natura, cioè l’insieme degli oggetti dati, e si divide in fisica e psicologia». – Nell’OP è scienza del «passaggio» dalla metafisica (v.) alla fisica (cfr. XXII, 161). Essa deve (XXI, 512) «trovare a priori i materiali fisiologici, cioè le forze motrici che appartengono alla fisica». FONDAMENTO (Grund) [tradotto anche con «ragione» in locuzioni quali «ragion sufficiente» ecc.] A Reinhold, 12.V.1789 (XI, 35): «F. è ciò per cui vien posto qualcos’altro di determinato». «Il principio di ragione [Grund] sufficiente è il f. dell’esperienza». FORMA (Form) Termine correlativo a «materia» (v.) o «contenuto», come ciò che, ai diversi livelli, determina tale contenuto. – Le f. pure dell’intuizione (spazio e tempo) sono recettive; quelle dell’intelletto (categorie) sono «modi di pensare» in cui si configura la nostra spontaneità (v.). – F. «significa la determinazione del determinabile... In ogni giudizio si può chiamare f. la relazione dei concetti; in ogni essere... il modo del collegamento dei suoi elementi in una cosa». – B 67: «La f. dell’intuizione... non può essere altro che la maniera con cui lo spirito (v.) viene modificato dalla propria attività». [In campo pratico, f. del volere è il principio per cui io voglio, f. della legge è la sua universalità.] FORZA MOTRICE (bewegende Kraft) B 67: Le f. m. sono «leggi secondo le quali è determinato il cangiamento di luogo» della materia; e sono «semplici rapporti». Per sapere come qualcosa possa cambiare «si richiede la conoscenza di f. reali, che può esserci data solo empiricamente: per es., delle f. m.». – OP (XXII, 164): «Si possono pensare due specie di f. m.: o tali che il movimento della materia deve precederle, e la f. ne è l’effetto, o tali che la f. è posta a fondamento, e il movimento ne è derivato». FUNZIONE (Function) F. dell’intelletto è l’attività unificante delle sue varie categorie (v. GIUDIZIO). F. è «l’unità dell’atto (v.) che ordina diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune». «Le f. dell’intelletto si possono trovare tutte quante se si possono esporre completamente le f. dell’unità nei

giudizi». GEOMETRIA (Geometrie) Scienza costruita secondo regole dell’intelletto, nel materiale puro (v.) dello spazio, forma dell’intuizione. B 41: «È una scienza che determina le proprietà dello spazio sinteticamente, e nondimeno a priori». – «La g. non ha bisogno di ottenere dalla filosofia un lasciapassare, perché l’uso del concetto, in questa scienza, concerne solo il mondo sensibile esterno, della cui intuizione lo spazio è forma pura, e in cui perciò ogni conoscenza geometrica ha evidenza (v.) immediata». B 41: «Da un semplice concetto non possono derivare proposizioni che lo oltrepassino, come accade in g.». GIUDIZIO (Urtheil) Proposizione in cui si esprime l’attività unificatrice dell’intelletto secondo le categorie (v.). – B 140-1: Secondo i logici, è «rappresentazione di un rapporto tra due concetti»; ma ciò lascia indeterminato in che cosa consista codesto rapporto. Per Kant «il g. non è altro che la maniera di ridurre conoscenze date all’unità oggettiva dell’appercezione» (v.). Quindi (B 143): «l’operazione dell’intelletto per cui il molteplice di rappresentazioni date è ricondotto ad una appercezione in generale è la funzione logica dei g.» (v. ANALITICO; SINTETICO; APODITTICO; ecc.). GIUDIZIO (con la maiuscola: Urtheilskraft) Facoltà di giudicare. «G. è la facoltà di sussumere sotto regole, cioè di distinguere se qualcosa stia o no sotto una regola data». GRADO (Grad) Misura di intensità della sensazione (v.), a partire da zero. «In tutti i fenomeni, il reale oggetto della sensazione ha una quantità intensiva, cioè un g.». PROL, § 26, n. 1 (IV, 309): «Quantitas qualitatis est gradus». GRANDEZZA (Grösse) Il termine è spesso tradotto con «quantità» (v.); ad es., «Tutte le intuizioni sono quantità [Grössen] estensive... La coscienza del molteplice omogeneo nella intuizione in generale... è il concetto di una quantità [Grösse] (quanti)». Per una distinzione tra i due concetti cfr. GIUD, § 25 (V, 248). IDEA (Idee) Concetto a cui nessuna intuizione è adeguata. – per Platone l’i. «non solo non è ricavata dai sensi, ma sorpassa anche di gran lunga i concetti dell’intelletto». «Un concetto derivante da nozioni, che sorpassi la possibilità dell’esperienza, è l’i., o concetto razionale». «I. trascendentali sono concetti della ragion pura, non escogitati ad arbitrio, ma dati» dalla «natura stessa della ragione». «l’uso ipotetico della ragione per via di i. non è propriamente costitutivo (v.), bensì soltanto regolativo (v.). «Per contro... l’i. della ragion pratica può sempre esser data realmente, anche se solo parzialmente in concreto». [Le i. di Dio (v.), dell’immortalità ecc. possono avere immediata efficacia pratica (v.), in quanto presupposti della determinazione della volontà secondo il dovere.] «I. estetica» è l’inverso di un’i. razionale. GIUD, § 57, n. 1 (V, 342): «Un’i. estetica è un’intuizione, a cui non si può mai trovare un concetto adeguato». – Ancor diverse le «i. trascendentali» dell’OP (XXI, 79): «Filosofia trascendentale è l’autonomia delle i. in quanto formano un tutto... I.: non concetti, bensì pure intuizioni, rappresentazioni non discorsive, ma intuitive, perché c’è un solo oggetto di quella specie (un Dio, un mondo, un principio di tutti i doveri dell’uomo)» (v. TOTALITÀ 251). IDEALE (Ideal) «Per i. intendo l’idea, non semplicemente in concreto, ma in individuo, come una cosa particolare determinabile, o addirittura determinata, solo mediante l’idea». «L’i. è il modello (prototypon) di tutte le cose, che ne sono come copie difettose (ectypa)» (v. DIO). IDEALISMO (Idealismus) L’i. «materiale», o «psicologico», o «empirico», consiste nel negare (B 275) «l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di me». Può essere «dommatico», come in Berkeley, o «problematico», come in Cartesio (che dichiarava l’esistenza del mondo solo indimostrabile: B 274). Kant lo confuta (loc. cit., che corrisponde ad A 367 sgg.). – L’i. «trascendentale», o «formale» è invece la dottrina kantiana per cui gli oggetti della nostra conoscenza sono fenomeni (v.). A 369: «Intendo per i. trascendentale la dottrina secondo cui consideriamo i fenomeni come semplici rappresentazioni...». A 370: «L’idealista trascendentale può essere realista empirico, e quindi, come si dice, dualista, cioè concedere l’esistenza della materia». IDEALITÀ (Idealität) TRASCENDENTALE B 66: dottrina della fenomenicità «così del senso esterno come

dell’interno». IDENTITÀ (Identität) B 403: «l’i. dell’anima in quanto sostanza intellettuale dà la personalità». A 361: «Chi ha coscienza dell’i. numerica di se stesso in tempi diversi è persona». ILLUSIONE v. APPARENZA. IMMAGINAZIONE (Einbildungskraft) B 151: «Facoltà di rappresentare un oggetto anche senza la sua presenza, nell’intuizione». L’i. è produttiva (ivi) se è «soltanto spontaneità», come «effetto dell’intelletto sulla sensibilità e sua prima applicazione a oggetti dell’intuizione possibile»; come quando, ad es., si immagina un cerchio, nell’intuizione, ma secondo una regola dell’intelletto; riproduttiva se è «sottoposta alle leggi empiriche dell’associazione». La prima è a priori (A 118) la seconda no. – La 1a ed. poneva l’i. accanto a sensibilità e intelletto come (A 115) una delle «tre fonti soggettive di conoscenza su cui si fonda la possibilità di un’esperienza in generale». IMMAGINE (Bild) «prodotto della facoltà empirica dell’immaginazione produttiva» (v.). IMMANENTE (immanent) È un concetto, o principio, o «uso» di una facoltà, che rimane nella sfera dell’esperienza. Opposto a «trascendente» (v.). «I princìpi di uso meramente empirico si possono denominare princìpi i. dell’intelletto puro». IMPERATIVO (Imperativ) Comando. È detto «categorico» (v.) quando comanda incondizionatamente; «ipotetico» se la sua imperatività è subordinata a una condizione [es. «Spingere», che significa: «se volete aprire la porta, spingete»). «Che la ragione abbia una causalità, è chiaro dagli i.». INCONDIZIONATO (unbedingt) B XX: «Quel che ci spinge a uscire dai limiti dell’esperienza è l’i., che la ragione a buon diritto esige per tutto ciò che è condizionato» (v.). Senza la Critica, esso non potrebbe venir pensato senza contraddizione (ivi). INERENZA (Inhdrenz) rapporto dell’accidente con la sostanza (v.). INFERENZA Traduce la parola Schluss (altre volte resa con ‘sillogismo’), quando si tratti di «conseguenza immediata» (cfr. 241). INFINITO (unendlich) Nel regresso dal condizionato (v.) alle condizioni è diverso dire «che il regresso si estende all’i. o solo indeterminatamente (in indefinitum)»: solo «se è dato il tutto nell’intuizione empirica il regresso va all’i.». – Giudizio i.: quello ‘che si limita a escludere un solo carattere dal soggetto (es.: l’anima è non mortale); va distinto dall’affermativo. INFLUSSO (Einfluss) Teoria dell’«i. fisico» era quella che ammetteva (al contrario di Leibniz) che le sostanze agiscano direttamente l’una sull’altra (DM, § 17: II, 407). A 392: «Contro l’i. fisico non può muoversi nessuna obiezione dommatica... bensì una fondata obiezione critica». INSIEME Traduce qui generalmente Inbegriff, che Kant volge in latino con complexus. In senso matematico, corrisponderebbe a Menge. INTELLETTO (Verstand) Una delle due facoltà (v.) conoscitive: la facoltà attiva per cui «spontaneamente» pensiamo concetti e uniamo i concetti in giudizi. «L’i. in generale può essere rappresentato come una facoltà di giudicare: esso infatti è una facoltà di pensare». «facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero la spontaneità della conoscenza... Facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile». B 137: «E, in generale, la facoltà delle conoscenze»; «Facoltà di conoscere non sensitiva... ma per concetti, discorsiva». «E, non solo la facoltà delle regole, ma altresì la fonte dei princìpi». B 135: «Il nostro i. può solamente pensare, non intuire» (cfr. 122) (v. UNIFICAZIONE). INTELLETTUALE (intellectuell) Prodotto esclusivamente dall’intelletto e quindi dalla «spontaneità» (facoltà attiva) del conoscere. L’intuizione sarebbe «i.» se creasse l’oggetto anziché riceverlo; ovvero se l’intelletto stesso «intuisse», cioè si riferisse spontaneamente e immediatamente all’oggetto. B 68: «Se tutto il molteplice nel soggetto fosse dato da essa spontaneamente, l’intuizione interna sarebbe i.» [ciò che non è]. INTELLIGENZA (Intelligenz) «Io mi rappresento solo la spontaneità del mio pensiero, e la mia esistenza rimane determinabile solo sensibilmente. Pure tale spontaneità fa sì che mi dica i. ».

(intelligibel) Oggetto del pensiero (in contrapposto a «sensibile») (v. NOUMENO). DM, § 3 (II, 392): «Ciò che non è afferrabile se non dal pensiero appartiene all’i.». «In un oggetto dei sensi, dico i. quello che non è esso stesso fenomeno». – «Mondo i.» è un mondo non dato nell’esperienza, bensì pensato quale deve essere, secondo i dettami della legge morale. «Carattere i.» è il fondamento noumenico dell’agire che «non sottostà a nessuna condizione del senso, e non è per se stesso fenomeno». INTENDERE v. CAPIRE e COMPRENDERE. INTENSITÀ (Intensität) v. GRADO. INTERNO (inner) v. SENSO. – «Le sostanze in generale devono avere qualcosa d’i., e però scevro da tutte le relazioni esterne». Ma nella materia «io non ho nulla di assolutamente i., bensì qualcosa d’i. in senso meramente relativo». INTUIZIONE (Anschauung) «È la conoscenza che si riferisce immediatamente agli oggetti» (mentre il pensiero vi si riferisce mediatamente, attraverso i.). «gli oggetti ci son dati dalla sensibilità, ed essa sola ci fornisce i. ». «Le i. senza concetti sono cieche»; però «l’i. non ha in nessun modo bisogno delle funzioni del pensiero» [nel senso che è immediata]. «L’i sensibile non si applica a tutte le cose indistintamente ma solo all’oggetto per noi, o fenomeno». B 146 e passim: «Ogni nostra possibile i. è sensibile», cioè recettiva (v. INTELLETTUALE). Tuttavia non ogni i. è empirica, perché le forme pure dell’i. (spazio e tempo) costituiscono esse stesse il materiale di un’i. pura (v.): «Questa forma pura della sensibilità si chiamerà essa stessa i. pura». – B 66: «tutto ciò che appartiene all’i. non contiene che semplici rapporti» (v. ESTENSIONE). IO (Ich) B 68: «La coscienza di sé (appercezione) (v.) è la semplice rappresentazione dell’io». B 135: «Dall’io come rappresentazione comune non è dato nessun molteplice» (v.). A 356: «Con l’io, penso un’unità bensì assoluta, ma logica del soggetto, senza perciò conoscere la semplicità reale del mio soggetto» (v.). – B 157: «Io ho coscienza di me... non come apparisco a me, né come sono in me stesso, ma solo che sono». – ANTR, § 1 (VII, 127): «Che l’uomo nella sua rappresentazione possa avere l’io, lo innalza infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri che vivono sulla Terra». IO PENSO (Ich denke) È «l’unità sintetica dell’appercezione» (v.). B 131: «deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni». B 137: «Le rappresentazioni date... senza l’i. p. non sarebbero mai unificate in una coscienza». B 157: «L’i. p. esprime l’atto di determinare la mia esistenza: l’esistenza, con ciò, è già data, ma non la maniera in cui debba determinarla». B 422: «L’i. p. è una proposizione empirica, e contiene in sé la proposizione “io esisto”». – OP (XXII, 93): «I. p. (cogito) [equivale a] Io sono cosciente di me (sum)»; ivi (XXII, 85): «Io sono è l’atto logico che precede ogni rappresentazione del soggetto: è un verbo con cui mi pongo» (v. AUTOCOSCIENZA). IPERFISICO (hyperphysisch) Uso di un concetto fuori di ogni esperienza possibile (cfr. 85, 516). IPOSTASI (Hypostasis) Idea pensata come sussistente, entificata (cfr. 372). IPOTETICO (hypotetisch) Giudizio presentato come vero solo nel caso che valga una certa ipotesi. IMPERATIVO i., v. LEGGE (Gesetz) Regola oggettiva di una connessione. B 164: «Le l. esistono nei fenomeni solo relativamente al soggetto al quale i fenomeni ineriscono». PROL, § 36 (IV, 320): «L’intelletto non trae le sue l. dalla natura, ma le prescrive ad essa». Tuttavia Kant parla anche di «l. empiriche» (es.: GIUD, intr., IV: V, 179); poiché (B 165) «l’intelletto non giunge a prescrivere ai fenomeni più l. di quelle su cui riposa una natura in generale». LIBERTÀ (Freiheit) Indipendenza del volere dalla causalità (v.) fenomenica, e sua capacità di determinarsi per la pura ragione, cioè in obbedienza alla legge morale. – «Che la natura non contraddica alla causalità per la l., era la sola cosa che potevamo mostrare, e anche la sola che per noi fosse importante». LOGICA (Logik) Scienza del pensiero discorsivo (v.). Si distingue in generale e speciale e in pura e applicata. B VIII: «è da ritenersi chiusa e completa». INTELLIGIBILE

«Una scienza che determini l’origine, l’estensione e la validità oggettiva di tali conoscenze [scil.: intellettuali]. Essa «riguarda le leggi dell’intelletto e della ragione, ma solo in quanto si riferisce a oggetti a priori, non, come la logica generale, a conoscenze tanto pure quanto empiriche senza distinzione». MATEMATICA (Mathematik) Scienza «per costruzione di concetti». Essa costruisce concetti secondo una regola dell’intelletto, col materiale fornito dall’intuizione pura (v.) (v. EVIDENZA; COSTRUZIONE; GEOMETRIA). – Su categorie, princìpi, antinomie «m.»; v. DINAMICO. MASSIMA (Maxime) Principio soggettivo a cui s’informa l’azione. PRAT, I, I, § 1 (V, 19): «I princìpi pratici (v.)... sono soggettivi, o m., quando contengono la condizione considerata dal soggetto come valida solo per il suo volere». MATERIA (Materie; in certe accezioni, Stoff) è «il determinabile in generale»; «m. logica», in un giudizio, «sono i concetti dati»; «m. della conoscenza» è il molteplice (v.) dato dalla sensibilità. – Fisicamente «la m. è substantia phaenomenon», ciò che permane attraverso i mutamenti; essa «non ha in sé nulla che non sia solo relativamente interno» (v.). «Nel fenomeno chiamo m. ciò che corrisponde alla sensazione». METAFISICA (Metaphysik) è «la filosofia derivante dalla ragion pura, nella sua connessione sistematica», e si divide in «m. della natura» e «m. dei costumi»: scienza dei princìpi a priori (v.), rispettivamente, della conoscenza della natura, e della moralità. – Tradizionalmente era invece «iperfisica» (v.); e, sebbene fosse chiamata (A VIII) «regina di tutte le scienze», non aveva mai potuto (B XIV) «avviarsi per la via sicura della scienza», perché pretendeva (B XX) «di oltrepassare i limiti di ogni esperienza possibile». METAFISICO (metaphysisch) È ciò che si riferisce a un concetto in quanto dato a priori (v.) (v. ESPOSIZIONE; DEDUZIONE). METODO (Methode) «dev’essere un procedimento secondo princìpi». «Per dottrina trascendentale del m. intendo la determinazione delle condizioni formali di un sistema completo della ragion pura». MODALITÀ (Modalität) Quarto titolo delle categorie (possibilità, esistenza, necessità). «La m. dei giudizi ha questo di peculiare: che non contribuisce per niente al contenuto, ma tocca solo il valore della copula rispetto al pensiero in generale». Ossia: la differenza per cui un oggetto è possibile, reale o necessario non concerne il contenuto dell’oggetto stesso, bensì la sua relazione alla nostra capacità conoscitiva (intelletto, sensibilità, ragione). MODIFICARE (affizieren) v. AFFEZIONE. MOLTEPLICE (mannigfaltig) È il materiale di una qualunque sintesi (v.), considerato nella sua completa indeterminazione. Generalmente si tratta dell’apporto della sensibilità, nell’affezione (v.) del soggetto: ma vi è anche un m. puro, dato dalle stesse «intuizioni pure» di spazio e tempo, in quanto servono da materiale alla sintesi dell’intelletto. MOMENTO (Moment) «Ogni cangiamento è possibile soltanto per un’azione continua della causalità che, in quanto è uniforme, si dice m. Il cangiamento non consiste in questi m., ma ne è prodotto come loro effetto». MONDO (Welt) v. COSMO. È una delle «idee trascendentali» (v.). MORALE (Moral, Sittlichkeit; come dottrina, Sittenlehre) PRAT, I, II, c. 2, V (V, 130): «M. non è propriamente la dottrina di come farci felici, bensì di come dobbiamo diventare degni della felicità». MOVIMENTO (Bewegung) Mutamento di luogo nello spazio. B 154: «Il m. di un oggetto nello spazio non appartiene a una scienza pura, e perciò neppure alla geometria: perché non si può conoscere a priori, ma solo per mezzo dell’esperienza che qualcosa si muove». Vi è però una «foronomia» (PRINC, I: IV, 480) che è una «dottrina delle condizioni a priori del m.». NATURA (Natur) «Con l’espressione “n.” intendiamo la connessione dei fenomeni, per la loro esistenza, secondo regole necessarie o leggi». – In senso materiale è (B 163) «l’insieme di tutti i fenomeni»; in senso formale è (B 165) «la legalità necessaria» che connette in un tutto i fenomeni. LOGICA TRASCENDENTALE

Quest’ultima «dipende dalle categorie dell’intelletto». NECESSITÀ (Notwendigkeit) v. MODALITÀ. In senso logico compete (ARG, I, I, 2: II, 74) «a ciò il cui contrario è impossibile»; in senso reale a ciò che non può non essere (cioè solo a Dio, v.). In senso empirico è determinata dal «terzo postulato del pensiero empirico»: «Il terzo postulato riguarda la n. materiale dell’esistenza, e non quella semplicemente formale e logica nella connessione dei concetti... Ora, non c’è esistenza che possa essere conosciuta come necessaria... salvo l’esistenza degli effetti da cause date, secondo leggi». [La n. empirica è quindi sempre ipotetica: n. di un effetto, supposta la causa.] NIENTE (Nichts) «Il concetto che annulla tutto, cioè nessuna cosa». Può avere diversi sensi (cfr. ivi). NOMOTETICA (Nomothetik) Posizione di leggi. NOUMENO (Noumenon) (v. COSA IN SÉ, OGGETTO TRASCENDENTALE). – È l’oggetto del puro pensiero dell’intelletto (νοῦϛ), a prescindere dalle condizioni a cui un oggetto può essere effettivamente dato alla nostra sensibilità. «Il concetto di un n... non è per niente contraddittorio, anzi è necessario»; ma esso «è solo un concetto limite per circoscrivere le pretese della sensibilità». «Esso non è un particolare oggetto intelligibile (v.) per il nostro intelletto: un intelletto al quale esso appartenesse sarebbe già di per sé un problema, in quanto capace di conoscere il proprio oggetto in modo intuitivo» (v. INTELLETTUALE; INTUIZIONE). «Il n. designa appunto il concetto problematico di un oggetto per una intuizione e un intelletto affatto diversi dai nostri». OGGETTIVO (objectiv) È ciò che appartiene all’oggetto (fenomenico), perché vale di esso necessariamente e universalmente (per tutti i soggetti). – PROL, § 18 (IV, 298): «La validità o. dei giudizi d’esperienza non significa altro che la loro necessaria validità universale. Inversamente, se abbiamo ragione di ritenere un giudizio valido di necessità universalmente, dobbiamo anche considerarlo o.». OGGETTO (Gengenstand, Object) È ciò a cui si riferisce la nostra conoscenza o la nostra azione. B XXVI: Noi «dobbiamo poter pensare gli o. come cose in sé, ma non possiamo conoscerli». «Gli o. in sé ci sono affatto ignoti, e quelli che chiamiamo o. esterni non sono altro che semplici rappresentazioni della nostra sensibilità». – «Le condizioni della possibilità dell’esperienza in generale sono, a un tempo, condizioni della possibilità degli o. d’esperienza». [Principio fondamentale della gnoseologia kantiana.] (v. PENSIERO 205; VERITÀ.) OGGETTO TRASCENDENTALE Equivale, a volte, a «noumeno» (v.); ma più spesso è il puro pensiero di una x, proiettata dall’io penso (v.), come un centro a cui riferire tutti i contenuti empirici con cui costruisco un determinato o. Compare in passi della 1a ed., espunti dalla 2a. A 253: «L’o. al quale riferisco il fenomeno in generale è l’o. t., cioè il pensiero assolutamente indeterminato di qualcosa in generale: ma questo non si può chiamare noumeno». ONTOLOGICO (ontologisch) Relativo a ‘ciò che è’. Argomento o. è chiamata da Kant la prova a priori dell’esistenza di Dio, data da s. Anselmo (secondo cui sarebbe contraddittorio pensare Dio come ciò di cui non può pensarsi nulla di maggiore, e tuttavia non pensarlo esistente). Per la confutazione kantiana, cfr. 378 sgg., e v. ESISTENZA. OPPOSIZIONE (Entgegensetzung, Opposition) (reale) «L’o. reale ha luogo ovunque A – B = 0, ossia dove un reale, unito con un altro, ne annulla l’effetto». [Si distingue dalla contraddizione (v.) secondo una distinzione già esposta in NEG.] PARALOGISMO (Paralogismus) Errore logico involontario (v. SOFISMA). «Il p. logico consiste nella falsità formale di un ragionamento; ma il p. trascendentale ha un fondamento trascendentale, per concludere falsamente quanto alla forma», e quindi dà luogo a un’illusione inevitabile (della Psicologia razionale, v.). PARVENZA v. APPARENZA. PATOLOGICO (pathologisch) Equivale a ‘passivo’, prodotto dalla sensibilità [è riferito, di solito, al

sentimento]. PENSIERO (Denken) Il prodotto della spontaneità dell’intelletto. «P. è la conoscenza per concetti». – «Il p. è l’atto di riferire un’intuizione data a un oggetto». – Pensare non è ancora conoscere (v.), perché per la conoscenza si richiede che il p. si applichi a un’intuizione data: «Pensare un oggetto e conoscerlo non è dunque la stessa cosa». – «I p. senza contenuto sono vuoti». – B XXVI: «Io posso pensare ciò che voglio alla sola condizione di non contraddire me stesso». – B 154: «Noi non possiamo pensare una linea senza tracciarla». PERCEZIONE (Wahrnehmung) «Rappresentazione (v.) accompagnata da sensazione». «Rappresentazione con coscienza (perceptio)». B 207: «P. è la coscienza empirica, cioè quella coscienza in cui c’è insieme una sensazione». PERMANENTE (beharrlich) B 67: «Ciò che è simultaneo con la successione». Il p. nei fenomeni è la sostanza (v.). – B 275: «Ogni determinazione temporale presuppone qualcosa di p. nella percezione. Ma questo che di p. non può essere in me, poiché appunto la mia esistenza nel tempo non può essere determinata che da questo che di p.» [cioè, dalla realtà empiricamente esterna]. PERSONALITÀ (Personalität) v. IDENTITÀ 264. PERSUASIONE v. CONVINZIONE. PHAENOMENON v. FENOMENO. La forma greco-latina è generalmente usata da Kant come apposizione, per indicare che il concetto considerato è inteso nel suo significato empirico [es. «Il reale fenomenico (realitas ph.)», ecc.]. POSIZIONE (Position, Setzung) Rapporto di un oggetto con la mia sensibilità, per cui l’oggetto fa parte dell’esperienza reale (v. ESISTENZA). POSSIBILITÀ (Möglichkeit) Categoria della modalità (v.), corrispondente al giudizio problematico (v.); esprime il riferirsi dell’oggetto al mio semplice pensiero (v.). Quindi il possibile, di per sé, non è ancora ‘dato’. – La non contraddizione è una condizione solo negativa e logica della p.: la p. reale è p. di entrare nell’esperienza effettiva, e quindi «possibile è ciò che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza (per l’intuizione e per i concetti)» (cfr. 113, B 136). «Il concetto è possibile tutte le volte che non si contraddice... cionondimeno può essere un concetto vuoto... E un ammonimento a non concludere senz’altro dalla p. dei concetti (logica) alla p. delle cose (reale)». – ARG, I, II, 2 (II, 78): «La p. interna di una cosa presuppone qualcosa di esistente». «L’aggiunta da farsi al possibile [per ottenere il reale] non la conosco: sarebbe infatti impossibile». [Cioè: non sarebbe un contenuto aggiunto al concetto, bensì una posizione (v.).] POSTULATO (Postulat) LOG, § 38 (IX, 112): «è una proposizione pratica immediatamente certa, o un principio che determina un’azione possibile, in cui si presuppone che il modo di eseguirla sia immediatamente certo». – Vi sono anche «postulati teoretici in funzione pratica» (ivi), cioè presupposti secondo cui devo determinare il mio volere per obbedire alla legge morale (Dio, immortalità, libertà). PRAT, pref. (V, 11): «I p. della matematica postulano la possibilità di un’operazione il cui oggetto è riconosciuto a priori con certezza come possibile»; i p. della ragion pratica postulano invece, in base a leggi pratiche (v.) apodittiche (v.), una possibilità che non è conoscibile teoreticamente. «Poiché ci sono leggi pratiche, se queste presuppongono necessariamente un’esistenza come condizione della possibilità della loro forza obbligatoria, tale esistenza deve essere postulata». POSTULATI DEL PENSIERO EMPIRICO Princìpi corrispondenti alle categorie di modalità (v.), che definiscono le condizioni a cui una cosa è, rispettivamente, possibile, reale o necessaria nell’esperienza. PRATICO (praktisch) È ciò che riguarda la determinazione della volontà. «P. è tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà. Ma se le condizioni dell’esercizio della libertà sono empiriche, la ragione non può avervi se non un uso regolativo... Invece le leggi pratiche... sono prodotti della pura ragione». Nel primo caso (GIUD, intr., I: V, 172) l’uso della ragione è tecnico-p., nel secondo etico-p., cioè la «ragione pura è per se stessa p.» (cfr. PRAT, I, I, c. 2: V, 62), e determina la volontà da sola, senza subordinarsi a indicazioni della sensibilità. – B X: La «conoscenza p.» si riferisce all’oggetto «per

realizzarlo». (Prädicat) Ciò che viene affermato del soggetto (logico). (Grundsatz, che altre trad. rendono, alla lettera, con «proposizione fondamentale»; in altri casi, Anfang, Anfangsgrund, Prinzip) «ha un doppio significato»; propriamente, però (LOG, § 34: IX, 110), i p. sono «giudizi a priori immediatamente certi, da cui se ne ricavano altri, mentre essi stesse non sono subordinati a nessun altro». «Per la loro origine, sono tutt’altro che conoscenze ricavate da concetti». «Danno il concetto che contiene la condizione e, per così dire, l’esponente di una regola in generale» (ivi): «Ovunque si trovino, sono da ascriversi all’intelletto puro... fonte dei p. ». «Tutti i p. dell’intelletto puro non sono altro che p. a priori della possibilità dell’esperienza». – L’Analitica dei p. è la 2a parte dell’Analitica trascendentale. Dà il quadro completo dei p. che applicano le categorie all’esperienza possibile, per la conoscenza di una «natura in generale». Applicati al concetto di una «metafisica in genere», i p. costituiranno la «metafisica della natura» (PRINC, pref.: IV, 472). PROBLEMA (Problem) LOG, § 38 (IX, 112): «Proposizione dimostrabile che ha bisogno di una istruzione; ovvero che enuncia un’operazione di cui non si conosce immediatamente il modo di eseguirla». PROBLEMATICO (problematisch) Ciò che contiene in sé un problema. «giudizio p.», corrispondente alla categoria della mera possibilità (v.). – «Concetto p.» è quello a cui non si può assegnare un oggetto della nostra intuizione: ad es. il noumeno (v.). PROPEDEUTICA (Propädeutik) v. CRITICA DELLA RAGION PURA e FILOSOFIA 514. PROPOSIZIONE (Satz) È il giudizio (v.) formulato linguisticamente. PROVA (Beweis) Argomento fondato su soli concetti, e non ostensibile nell’intuizione. «Io preferirei dire le prime [scil.: filosofiche] “prove acroamatiche” (discorsive) – poiché non si possono fare se non per semplici parole – anziché “dimostrazioni” (v.) che, come indica la stessa espressione, entrano nell’intuizione del soggetto». PSICOLOGIA (Psychologie) RAZIONALE Studio dell’io condotto con la pura ragione, senza servirsi dell’esperienza. «Pretesa scienza, edificata sull’unica proposizione “io penso”» (v.). A 354: «La proposizione “io penso” resta l’unico fondamento su cui la p. r. arrischia l’ampliamento delle sue conoscenze». PURO (rein) Ciò a cui non è commisto nulla di empirico. P. è la ragione che opera da sola, senza dipendere dalla collaborazione di nessuna altra facoltà. «Chiamo p. tutte le rappresentazioni (v.) in cui non è mescolato nulla di ciò che appartiene alla sensazione» (cfr. 241-2). «Ragion p. è quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa assolutamente a priori» (v.). «Il minimo predicato empirico guasterebbe la purezza razionale». QUALITÀ (Qualität) Secondo titolo delle categorie. Q. del giudizio (cfr. LOG, § 22: IX, 103) è il suo carattere affermativo, negativo o infinito (v.). QUANTITÀ (Quantität) Primo titolo delle categorie. Q. del giudizio è il suo carattere universale, particolare o singolare. [La parola traduce però spesso anche Grösse (v. GRANDEZZA).] RAGIONE (Vernunft) È la «facoltà conoscitiva superiore», in contrapposto all’inferiore che è la sensibilità. In questo senso ampio comprende l’intelletto, ed è «la facoltà della conoscenza a priori» (cfr. 47). In senso più ristretto si contrappone, come più specifica, anche all’intelletto, in quanto, esigendo l’incondizionato (v.) spinge la conoscenza oltre i limiti dell’esperienza possibile. – In generale «è la facoltà dei princìpi». «Facoltà dell’unità delle regole dell’intelletto sotto princìpi». – Nel suo uso logico è la capacità di dedurre: ANTR, I, § 34 (VII, 199): «La r. è la facoltà di derivare il particolare dall’universale» (cfr. 241 e 409). – «Il principio proprio della r. (nel suo uso logico) è: trovare per la conoscenza condizionata dell’intelletto quell’incondizionato con cui è compiuta l’unità di esso intelletto». Perciò «la r. non si riferisce mai direttamente all’oggetto, ma unicamente all’intelletto... non cerca quindi concetti (di oggetti), ma solo li ordina». «L’uso ipotetico della r... non è costitutivo, ma PREDICATO PRINCIPIO

solo regolativo» (v.). – Nell’uso pratico (v.), non è la r. pura quella che dev’essere limitata dalla Critica nella sua pretesa di determinare da sé la volontà, bensì, al contrario, la r. «empiricamente condizionata» dalle inclinazioni sensibili (cfr. PRAT, intr.: V, 16). RAGION SUFFICIENTE v. FONDAMENTO. RAPPORTO (Verhältnis) Determinazione di un concetto relativamente a un altro concetto. «Le determinazioni interne di una substantia phaenomenon nello spazio non sono se non r.». B 69: «Nel fenomeno non vi sono che semplici r.» (v. RELAZIONE). RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung) Termine generico, che abbraccia tutto ciò che sia comunque presente alla mente (intuizioni e concetti). «La r. è il genere» [di cui le varie conoscenze sono le specie]. RAZIOCINIO Una delle traduzioni di Schluss: ragionamento, sillogismo (v.). RAZIONALE (rational; in senso più generico, vernünftig) Fondato sulla (pura) ragione. Tali le conoscenze (o pretese conoscenze) della metafisica (v.), in particolare secondo l’assunto del Wolff (v. COSMOLOGIA; ecc.). [In questo senso si parla ancor oggi, ad es., di «meccanica razionale».] REALE (wirklich) È ciò che esiste di fatto, nell’esperienza. Il termine va quindi riferito all’‘esistenza’ (v.) non alla ‘realtà’ (v.) come categoria della qualità. – «Ciò che si connette con le condizioni materiali dell’esperienza è r.». REALTÀ (Realität) Categoria della qualità (v.) corrispondente all’affermazione. Va distinta dalla r. effettuale (v. ESISTENZA), espressa da Kant con Wirklichkeit, o Dasein, o Existenz. Tuttavia si connette con essa, in quanto «la r., nel concetto puro dell’intelletto, è ciò che corrisponde a una sensazione in generale». RECETTIVITÀ (Rezeptivität) Equivale a ‘passività’, e perciò a sensibilità (v.). RECIPROCITÀ (Gemeinschaft) Terza categoria di relazione; esprime «l’azione reciproca tra agente e paziente». Nella 1a ed. (A 211) indicava l’«azione reciproca» di cui tratta la 3a analogia (v.). REGOLATIVO (regulativ) Uso di una facoltà, non per costituire la conoscenza di un oggetto, ma per guidarla (v. CANONE 255, e IDEA). RELAZIONE (Relation) Terzo titolo delle categorie. «Tutte le r. [Verhältnisse: v. RAPPORTO] del pensiero nei giudizi sono: a) del predicato col soggetto; b) del principio con la conseguenza; c) della conoscenza divisa e di tutti i membri della divisione tra loro» [di qui le categorie di sostanza, causa, azione reciproca]. RELIGIONE (Religion) «Congiunzione di teologia e di morale». PRAT, I, II, c. 2, V (V, 129): «Conoscenza di tutti i doveri come comandi divini». La r. nei limiti della sola ragione, titolo dell’opera di Kant del 1793. RIFLESSIONE (Reflexion) «Non mira agli oggetti stessi per aquistarne i concetti, ma... è la coscienza della relazione tra rappresentazioni date e le nostre varie fonti di conoscenza» [per distinguere se la rappresentazione vada riferita all’intuizione o all’intelletto]. SAGGEZZA (Weisheit) v. FILOSOFIA. SCETTICISMO (Skeptizismus) Atteggiamento di universale diffidenza per la ragione, peraltro non sorretto dalla Critica (v.). «L’uso dommatico [della ragione] conduce necessariamente allo s.». «Il metodo scettico non è soddisfacente... ma è quasi un esercizio preliminare per svegliare la prudenza». SCHEMA (Schema) Regola dell’intelletto per determinare l’intuizione (pura o empirica) secondo un concetto. Vi sono s. di concetti puri (del triangolo) o empirici (del cane). Gli s., in particolare, dei «concetti puri dell’intelletto o categorie», sono detti «s. trascendentali». – Lo s. va distinto dall’immagine, essendo una «condizione formale pura della sensibilità, alla quale si restringe il concetto dell’intelletto nel suo uso». – Lo s. trascendentale è un «terzo termine, omogeneo con le categorie da un lato e col fenomeno dall’altro, che rende possibile l’applicazione di quelle a questo». «È una determinazione a priori del tempo» [nel quale si colloca ogni fenomeno, che pertanto è costretto

a conformarsi agli s.]. Gli s. danno alle categorie «una relazione con gli oggetti, e quindi un significato». «Gli s. trascendentali della sensibilità realizzano primieramente le categorie, e al tempo stesso le limitano a condizioni che sono fuori dell’intelletto (nella sensibilità)». Senza di essi alle categorie «rimane un valore, ma solo logico». SCHEMATISMO (Schematismus) Attività per cui l’intelletto fornisce schemi (v.) ai concetti, regolando l’immaginazione produttiva (v.). – L’OP traccerà anche le linee di uno (XXII, 265) «s. delle forze motrici, in quanto può essere pensato a priori». SCIENZA (Wissenschaft; in senso più generico, Wissen) Conoscenza dotata dei caratteri della universalità e necessità. È «la credenza sufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente». «La critica della ragione conduce infine necessariamente alla s.». SCOPO (Zweck) GIUD, intr., IV (V, 180): È il «concetto di un oggetto in quanto contiene, al tempo stesso, il fondamento della realtà di tale oggetto». SEMPLICE (einfach) È s. la parte che non costituisce a sua volta un tutto. Il s. «è il fondamento dell’interno delle cose in sé»; nel mondo fenomenico non esiste se non come idea (v.) regolativa. SENSAZIONE (Empfindung) «È l’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa» (v. AFFEZIONE). «Ogni s. ha un grado, o quantità, con la quale può riempire più o meno lo stesso tempo». SENSIBILE (sinnlich) Ciò che si riferisce alla sensibilità (v.), o come suo oggetto (es.: mondo sensibile) o anche come sua condizione diretta (es.: la forma dell’intuizione). B 146-7: «L’intuizione s. [contrapposta a «intellettuale», v.] è, o intuizione pura (spazio e tempo) o intuizione empirica di ciò che viene rappresentato per mezzo della sensazione». SENSIBILITÀ (Sinnlichkeit) È la facoltà di conoscere «inferiore», recettività (v.) per cui siamo «affetti» da altro. «La capacità di ricevere rappresentazioni, per il modo in cui siamo modificati dagli oggetti, si chiama s.». È una delle «due fonti principali» del conoscere. Non può mai dare l’unificazione (v.) del molteplice. SENSO (Sinn) ANTR, § 15 (VII, 153): «Facoltà dell’intuizione in presenza dell’oggetto» (contrapposto a Immaginazione, v.). Si divide in «esterno» e «interno», a seconda che l’animo venga affetto attraverso il corpo da cose materiali, o invece da se medesimo. «Mediante il s. esterno ci rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi e tutti insieme nello spazio». «Il s. interno, mediante il quale lo spirito (v.) intuisce se stesso o un suo stato interno, non ci dà nessuna intuizione dell’anima stessa come di un oggetto». ANTR, § 7 (VII, 142): «Assumere come equivalenti il s. interno e l’appercezione, sebbene il primo sia solo una coscienza psicologica (applicata) e il secondo una coscienza logica (pura), è fonte di errori». SILLOGISMO (Schluss) «Ogni s. è una forma della derivazione di una conoscenza da un principio». SIMULTANEITÀ (Zugleichsein) Uno dei «tre modi del tempo», dipendente dalla categoria di reciprocità (v.). «Le cose sono simultanee quando, nell’intuizione empirica, la percezione dell’una può seguire a quella dell’altra, e viceversa». SINTESI (Synthesis) Collegamento di un materiale dato (dalla sensibilità) ad opera (diretta o indiretta) dell’intelletto. – «Intendo per s. nel senso più generale l’atto (v.) di unire diverse rappresentazioni e comprendere la loro molteplicità in una conoscenza». «La s. in generale è il semplice effetto dell’immaginazione» (v.). «Per s. pura intendo quella che si fonda su un principio dell’unità sintetica (v.) a priori: così il nostro numerare è una s. secondo concetti». B 130: «L’unificazione... è un’operazione dell’intelletto che possiamo designare con il nome di “sintesi”». «S. trascendentale» è quell’atto unificatore che rende possibile l’esperienza. B 151: «S. intellettuale» è il puro atto di «prendere insieme» dell’intelletto; «s. figurata (speciosa)» è lo stesso atto, ma in quanto applicato al molteplice dell’intuizione sensibile; «entrambe sono trascendentali, non solo perché procedono a priori, ma perché fondano la possibilità di un’altra conoscenza». SINTETICO (synthetisch) Equivale generalmente, in Kant, a ‘sintetizzatore’. – Nel «giudizio s.» «Il predicato si trova interamente fuori del soggetto, sebbene stia in connessione col medesimo». – Unità s.

dell’appercezione (v.) è (B 132) l’io penso (v.), in quanto è principio della possibilità dell’unificazione. [v. ANALITICO (GIUDIZIO, METODO).] SIMBOLICO (symbolisch) v. ESIBIZIONE. SINGOLARE (einzeln) Giudizio il cui soggetto è un solo individuo. Nella Logica trascendentale va distinto dal giudizio universale. SOFISMA (Vernünftelei; Trugschluss) Uso improprio della ragione: inganno logico deliberato. SOGGETTO (Subject) Ciò che «sta sotto» le proprie manifestazioni, come loro fondamento reale (nell’uso moderno comune, è riferito solo al s. psicologico). In senso logico, è ciò di cui si afferma qualcosa. – PROL, § 46 (IV, 334): «Tutti i predicati del senso interno si riferiscono all’io come s., sicché qui sembra dato nell’esperienza lo stesso s. assoluto: ma questa supposizione è vana». A 350: La psicologia trascendentale «non ci arreca se non una pretesa nuova veduta, spacciando il s. logico costante del pensiero per il s. reale dell’inerenza». B 421: «L’unità della coscienza vien presa qui per intuizione del soggetto come oggetto, e vi si applica la categoria di sostanza». – B 155: «In che modo l’io che pensa differisca dall’io che intuisce se stesso, pur formando un identico s., è un problema né più facile né più difficile di come io possa essere a me stesso un oggetto in generale». SOPRASENSIBILE (übersinnlich) Ciò che si trova al di sopra (e quindi al di fuori) di ogni possibile esperienza. B XXI: «La critica nega alla ragione speculativa ogni passo nel campo del s.». DIST, n. 4 (VIII, 397): «Non vi è fede teoretica nel s. Ma in senso pratico (etico-pratico) la fede nel s. è non solo possibile, ma indissolubilmente connessa con la moralità». SOSTANZA (Substanz) Categoria di relazione; è il concetto di ciò che permane nel divenire. «In ogni cangiamento la s. permane, solo gli accidenti mutano». «Le s. in generale devono avere qualcosa d’interno, e però scevro da tutte le relazioni esterne»; tuttavia «le determinazioni interiori di una substantia phaenomenon non sono se non rapporti, ed essa stessa non è che un complesso di relazioni». SPAZIO (Raum) Forma dell’intuizione; in esso accogliamo e ordiniamo i dati del «senso esterno». «Non è un concetto empirico, ricavato da esperienze esterne», bensì «una rappresentazione a priori che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne». «Non è un concetto discorsivo, ma un’intuizione pura». Questo soltanto «rende comprensibile la possibilità della geometria» (v.). – B 137-8: «Per conoscere una cosa qualsiasi nello s., per es. una linea, devo tracciarla». «La sintesi degli s. e dei tempi è ciò che rende insieme possibile l’apprensione dei fenomeni». – B 275: Gli oggetti esistono [empiricamente] «nello s. fuori di me». – «Sotto il nome di s. assoluto, lo s. rappresenta nient’altro che la semplice possibilità dei fenomeni esterni». PRINC, I, 1 (IV, 480): «Lo s. che è mobile esso stesso dicesi s. materiale, o anche relativo; quello in cui dev’essere pensato ogni movimento dicesi s. puro, o assoluto». – OP (XXII, 96): «L’oggetto dell’intuizione pura, per mezzo del quale il soggetto si pone, è infinito: precisamente lo s. e il tempo». SPECULATIVO (speculativ) «Una conoscenza teoretica è s. se si riferisce a un oggetto, o a tal concetto di un oggetto, a cui non può giungere veruna esperienza». SPIRITO Traduzione tipicamente gentiliana di Gemüth, animus. A Sönimering, 10.VIII.1795 (XII, 32 n.): «Per Gemüth s’intende solo la facoltà che compone le rappresentazioni date e pone in atto l’unità dell’appercezione empirica (v.) (animus)» (v. FORMA 72). SPONTANEITÀ (Spontaneität) La componente attiva del conoscere, data dall’intelletto; opposta a ‘recettività’ (v.). – «L’intelletto è facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero la s. della conoscenza». SUBORDINATO (subordiniert) v. COORDINATO. SUCCESSIONE (Folge, Zeitfolge, Succession) Modo del tempo, in cui si schematizza la causalità. «E, assolutamente, il criterio empirico unico dell’effetto in rapporto alla causalità della causa che lo precede». Peraltro la s. oggettiva si fonda su un rapporto di causalità, non viceversa (cfr. dimostrazione della Seconda Analogia). SUSSUNZIONE (Subsumtion) Opera del Giudizio (v.), che prende il particolare sotto il generale. «In

ogni s. di un oggetto sotto un concetto la rappresentazione del primo dev’essere omogenea con quella del secondo». TAUTOLOGIA (Tautologie) È il ‘dire lo stesso’ nel soggetto e nel predicato di un giudizio. – LOG, § 37 (IX, 111): «L’identità esplicita dei concetti nei giudizi analitici (v.)» dà luogo a «proposizioni tautologiche». TEOLOGIA (Theologie) Dottrina intorno a Dio; può essere «naturale» o «rivelata». TEMPO (Zeit) Forma dell’intuizione, in cui accogliamo e ordiniamo in successione (v.) i dati del senso interno, nonché quelli del senso esterno in quanto la loro ricezione è mediata dalla soggettività. «Non è un concetto empirico, ricavato da un’esperienza», bensì «una rappresentazione necessaria che sta a base di tutte le intuizioni». «Non un concetto discorsivo, ma una forma pura dell’intuizione sensibile». «Forma del senso interno, cioè dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno», e «condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale». Ha «realtà empirica, ma non assoluta o trascendentale». «Il t., quale condizione formale della possibilità dei cangiamenti, oggettivamente li precede; ma soggettivamente non è dato se non all’occasione delle percezioni». – B 45: «Solo nel t., ossia una dopo l’altra, possono incontrarsi in una cosa due determinazioni contraddittorie». – «Una determinazione trascendentale del t.» è lo schema (v.) trascendentale. – «I tre modi del t. sono: permanenza, successione, simultaneità». – PROL, § 10 (IV, 283): «L’aritmetica produce il concetto di numero con un’aggiunta successiva di unità nel t.», e «la meccanica pura può produrre i suoi concetti di movimento solo per mezzo della rappresentazione del t.». TEORETICO (theoretisch) Relativo alla conoscenza di ciò che è. LOG, § 32 (IX, 110): «Proposizioni t. sono quelle che si riferiscono all’oggetto, e determinano che cosa gli convenga e che cosa no». TETICA (Thetik) «Insieme di dottrine dommatiche» (v. ANTITETICA). TOPICA (Topik) TRASCENDENTALE «Determinazione del posto [τόποϛ] che spetta a ciascun concetto, secondo la diversità del suo uso» (se rientri, cioè, nella sfera intuitiva o nell’intellettuale). Rimedia all’«anfibolia» (v.). TOTALITÀ (Totalität; a volte, Vollständigkeit) «Non è altro che la molteplicità considerata come unità». «Il concetto trascendentale della ragione [v. IDEA] non è altro che il concetto della t. delle condizioni per un dato condizionato». TRASCENDENTALE (transzendental) È ciò che si riferisce al fondamento a priori di una data possibilità (d’esperienza). – «Chiamo t. ogni conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di conoscenza degli oggetti, in quanto questa dev’essere possibile a priori». «Non bisogna chiamare t. ogni conoscenza a priori, ma soltanto quella onde conosciamo che e come certe rappresentazioni vengono applicate, o sono possibili, esclusivamente a priori». – OP (XXI, 76): «Il filosofo t. non pretende punto di spiegare la possibilità delle cose, ma si accontenta di fissare le conoscenze in base a cui si comprende la possibilità della possibilità della scienza». – «Uso t.» dei concetti è quello in cui «né l’intuizione empirica né quella pura mantengono la ragione in una carreggiata visibile». Perciò il senso di «t.» si avvicina talora a quello di «trascendente» (v.): OP (XXI, 74): La filosofia t. «trae il suo nome dal confinare col trascendente, e dal trovarsi in pericolo di cadere, non solo nel sovrasensibile (v.), ma in ciò che è privo affatto di senso». TRASCENDENTE (transzendent, überschwenglich) Ciò che oltrepassa ogni possibilità d’esperienza. «T. e trascendentale non sono la stessa cosa... un principio che abolisce i limiti [dell’esperienza possibile], anzi impone di sorpassarli, si chiama t.». – Uso t. della ragione, opposto a «immanente» (v.). UNIFICAZIONE (Verbindung) Operazione dell’intelletto, che dà unità al molteplice. B 130: L’u. è «rappresentazione dell’unità sintetica del molteplice». – «Ogni unione (coniunctio) è, o una composizione (compositio) o una connessione (v.) (nexus). La prima è sintesi del molteplice che non è necessariamente connesso... la seconda del molteplice in quanto connesso necessariamente». – B 12930: «L’u. (coniunctio) non può mai venire in noi dai sensi» ed «è la sola che non è data dagli oggetti, ma può essere prodotta solo dal soggetto, essendo un atto della sua spontanea attività». [È il principio

di Hume, di cui Kant rovescia le conseguenze.] UNITÀ (Einheit) Una delle categorie di quantità. Come tutte le categorie, però, essa presuppone un’u. unificante (o, come dice Kant, «sintetica», che è lo stesso) io penso (v.): «La rappresentazione di questa u. non può sorgere dall’unificazione (v.), ma piuttosto la rende possibile... Non è punto la categoria dell’u... Dobbiamo cercare l’u. (come u. qualitativa) in ciò che contiene il fondamento stesso dell’u. di diversi concetti nei giudizi». UNITÀ DELL’APPERCEZIONE a) «sintetica»: è l’atto unificante proprio dell’intelletto, l’io penso; b) «analitica»: è l’u. della coscienza empirica. – B 133: «L’u. analitica della coscienza appartiene a tutti i concetti in generale». B 133: l’identità della coscienza nelle rappresentazioni, cioè l’u. analitica, è possibile solo a patto che si presupponga l’u. sintetica». B 133: «L’u. sintetica dell’appercezione è dunque il punto più alto al quale si deve legare tutto l’uso dell’intelletto... anzi, è lo stesso intelletto». UNIVERSALE (allgemein) Giudizio il cui soggetto è una totalità di individui (v. ESTENSIONE LOGICA). UNIVERSALITÀ (Allgemeinheit) v. A PRIORI 35. VERITÀ (Wahrheit) V. della conoscenza è «l’accordo con l’oggetto» (v. CONTRADDIZIONE). VOLONTÀ (Wille) GIUD, § 10 (V, 220): «Facoltà di desiderare, in quanto determinabile mediante concetti, cioè mediante la rappresentazione di uno scopo (v.) secondo cui agire». VUOTO (leer) Reflexion (XVIII, 411): «Non datur hiatus. Non vi è spazio o tempo v. in natura». OP (XXII, 332): «Lo spazio v. non rientra tra gli oggetti di possibile esperienza».

CRITICA DELLA RAGION PRATICA

Introduzione Genesi e struttura dell’opera di Sergio Landucci

«La filosofia è o critica o metafisica. E la metafisica è o metafisica della natura o metafisica dei costumi». Quest’articolazione della filosofia, che si trova nella Critica della ragion pura – la critica, fondativa o propedeutica, e, la metafisica, sistematica – Kant l’aveva fissata dacché aveva concepito il progetto di quello che sarebbe poi stato il criticismo; e la manterrà sempre. Da subito aveva pensato anche alle due metafisiche, della natura e rispettivamente dei costumi (denominazione, questa seconda, del sistema della morale). Ma, fino alla Critica della ragion pura inclusa, pensò ad una critica sola, per entrambe le metafisiche. Sappiamo che alla Metafisica dei costumi Kant lavorava già nel 1767, poi nel 1770, e di nuovo dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura (1781). Ma, inaspettatamente, nell’agosto 1783 annunciava una «prima parte» della sua Morale, e cioè quella che due anni dopo sarà la Fondazione della metafisica dei costumi («prima», perché la seconda parte sarebbe stata la Metafisica dei costumi stessa). Per l’innanzi Kant non aveva mai programmato un’opera del genere, una ‘propedeutica’ specifica al futuro sistema morale. E con ciò veniva meno la sufficienza, tanto per la filosofia teoretica quanto per la filosofia pratica, della Critica della ragion pura (che, da allora in poi, Kant prende a ribattezzare «Critica della ragion pura speculativa», e cioè teoretica). Dopo la Fondazione, egli si dava ancora una volta alla Metafisica dei costumi; ma neanche questa era quella buona (uscirà solo nel 1797, praticamente ultima delle opere pubblicate dall’autore). Invece, nel giugno 1787, un altro annuncio del tutto inatteso: della Critica della ragion pratica (che uscirà l’anno successivo). Della possibilità d’una tal Critica Kant aveva bensì parlato già nella Prefazione della Fondazione della metafisica dei costumi; ma allora aveva anche dichiarato di non avere

intenzione di comporla mai. All’origine della Fondazione della metafisica dei costumi e rispettivamente della Critica della ragion pratica si trovano dunque dei mutamenti repentini: prima, l’abbandono dell’idea che nella Critica della ragion pura fosse contenuta la fondazione anche della Metafisica dei costumi; poi, l’abbandono dell’idea che, come propedeutica a questa, fosse sufficiente la Fondazione, e non necessaria una Critica della ragion pratica. Quel che nella Critica della ragion pura si trovava sulla morale (alla quale era riservato il capitolo Il canone della ragion pura) era palesemente insufficiente, troppo sommario. Ma, se Kant scrisse la Fondazione della metafisica dei costumi, fu perché nel Canone della ragion pura aveva sostenuto (al pari che nei suoi corsi, da un decennio e più) una dottrina che ora invece rinnegava completamente: che solo l’attesa delle punizioni e dei premi ultraterreni, e cioè la paura e la speranza, possono indurci a rispettare i precetti morali, o funzionare da «moventi» per l’adempimento del dovere; e pertanto – se non esistesse un Dio giudice e la nostra anima non fosse immortale – la legge morale risulterebbe vana, chimerica, appunto in quanto ininfluente quanto alla pratica effettiva. Invece, nella Fondazione della metafisica dei costumi ciò si trova rifiutato con sdegno come l’esatto opposto della moralità, in quanto verrebbe a rendere del tutto eteronoma l’etica, di contro a quella individuazione del principio della moralità nell’«autonomia della volontà» che si trova consegnata appunto alla Fondazione. Era stata quindi questa scoperta, del principio dell’autonomia, ad indurre Kant a scrivere la Fondazione, in alternativa al Canone della ragion pura (e chiamare «Critica della ragion pura speculativa» la Critica del 1781 equivaleva ad espungerne idealmente appunto il Canone). Sull’autonomia dell’etica, naturalmente, la Critica della ragion pratica non farà che ripetere la Fondazione. Da questo punto di vista, quindi, non c’era alcun bisogno d’una Critica della ragion pratica. Ce n’era bisogno, invece, per altro. Nella Fondazione della metafisica dei costumi, infatti, era presentata come insolubile la questione del «movente» della moralità: abbandonate la paura e la speranza nell’al di là, Kant non riusciva a spiegare come avvenga che la sensibilità si sottometta alla ragion pratica; e, poi, era completamente assente quella problematica delle prove ‘morali’ di Dio e dell’immortalità – concetto del «sommo bene» (virtù + felicità), e condizioni della sua realizzazione (esistenza di Dio, immortalità dell’anima) – che Kant

aveva affrontata nel Canone della ragion pura, nel modo che sappiamo (e che era pur presente anche in tutti i suoi corsi di lezioni). Invece, nella Critica della ragion pratica la questione del «movente» della moralità (a cui sarà dedicato il capitolo III dell’Analitica) verrà data per risolta, non senza compiacimento; e ai ‘postulati’ necessari per pensare come possibile la realizzazione del «sommo bene» sarà dedicata un’intera parte: la Dialettica della ragion pura pratica. Naturalmente, in entrambi i casi, con un ribaltamento di posizioni rispetto al mercenarismo che improntava il Canone della ragion pura. Su queste due questioni l’alternativa è dunque fra la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica; anche se certamente il passaggio dall’una all’altra è comandato da quanto scoperto nel frattempo nella Fondazione della metafisica dei costumi relativamente al principio della moralità. Il rapporto della Fondazione col Canone della ragion pura è allora questo: autonomia dell’etica, di contro ad una patente eteronomia; ma non ancora una risposta nuova, adeguata a questo capovolgimento, per gli interrogativi Come è possibile che si agisca moralmente? e Cosa si può sperare? Il rapporto della Critica della ragion pratica con la Fondazione: laddove i primi due capitoli dell’Analitica della ragion pura pratica corrispondono al contenuto delle prime due sezioni della Fondazione, il cap. III presenta invece la risposta nuova, all’altezza del principio dell’«autonomia», su come possa darsi una motivazione propriamente morale, e la Dialettica della ragion pura pratica su quel che sia lecito agli uomini di sperare. Beninteso, neppure i primi due capitoli dell’Analitica della ragion pura pratica sono una ripetizione della Fondazione della metafisica dei costumi. Per esempio, mentre nella Fondazione (sezione II) si avevano le famose tre formule dell’imperativo categorico, invece nella Critica della ragion pratica (Analitica, cap. I, § 7) la formula è una sola, quella che nella Fondazione era la prima: «opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale»; e ciò è rilevante perché la seconda formula – l’umanità come fine in sé – era quantomeno problematica a fronte della formalità dell’etica, e la terza – l’autolegislatività della volontà – si trova messa da parte, nella Critica, col riferimento della legislazione morale sempre e solo alla «ragione». Ancora, nella Critica della ragion pratica è abbandonata quella teoria logico-formale

del giudizio morale (contraddittorietà o meno d’una massima una volta elevata a legge) che nella Fondazione era illustrata, a proposito della prima formula dell’imperativo categorico, con i quattro esempi altrettanto famosi; e nell’appendice al cap. II dell’Analitica della ragion pura pratica intitolata Della tipica del giudizio puro pratico, l’operazione è di chiedersi semplicemente se s’accetterebbe razionalmente un mondo, di cui si facesse parte, in cui tutti si comportassero in un determinato modo. Soprattutto, poi, nella Critica della ragion pratica si trova che della legge morale non è possibile una «deduzione» (naturalmente nel senso di ‘deduzione trascendentale’): la si può solo «esporre», e cioè illustrare (com’è detto nel paragrafo Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica, in appendice al cap. I dell’Analitica); mentre tutta la III sezione della Fondazione era stata dedicata alla ricerca proprio d’una tale deduzione. A questo scopo, allora si muoveva dalla libertà del volere; laddove nella Critica il percorso è invertito: è dalla realtà della legge morale che viene dedotta la realtà della libertà della volontà. Tutto ciò, perché nella Critica (si veda anche il § 7 del cap. I dell’Analitica) la legge morale è considerata da Kant come «un fatto della ragione», autogarantito: di una ‘deduzione’, essa non avrebbe dunque neppur bisogno. Una netta presa di distanza dalla Fondazione è nella Prefazione della Critica della ragion pratica, là dove di quest’opera vien detto che «suppone» sì l’altra, ma «solo» perché vi si può attingere una «prima» conoscenza del principio del dovere; che è davvero ben minimizzante. E tuttavia, non fu certo per procedere a modifiche come quelle accennate, per quanto rilevanti, che Kant s’indusse a scrivere l’opera che solo tre anni innanzi aveva detta non necessaria. Cosa invece l’abbia deciso risulta da sue confidenze epistolari (tutte del 1787)1. Un’indicazione è la presentazione dell’intera Critica della ragion pratica come destinata a recuperare, con la ragion pratica pura, quell’accesso al sovrasensibile precluso invece (secondo la Critica della ragion pura) alla ragione speculativa, e additare così la strada giusta a quei dogmatici che insensatamente continuano a puntare su una strada teoretica. Quest’allusione anticipata è, naturalmente, alle nuove prove ‘morali’, anziché teoretiche, dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima, alle quali verrà riservata la Dialettica della ragion pura pratica. Così, le Dialettiche delle due Critiche verranno a corrispondersi, in simmetria architettonica, come pars destruens e

rispettivamente construens. Ma a procedere alla pars construens Kant era stato sfidato da Moses Mendelssohn (filosoficamente un vecchio leibniziano, ideologicamente prestigioso rappresentate dell’illuminismo a Berlino), che, in apertura d’un libro uscito nell’autunno 1785 – Morgenstunden, oder Vorlesungen über das Dasein Gottes – aveva presentato Kant come uno «schiacciatutto», o stritolatutto, in riferimento alla Dialettica della Critica della ragion pura, ed aveva auspicato che volesse ora «ricostruire», con lo stesso coraggio, quanto là aveva distrutto. Questa sfida, Kant l’accolse appunto con la Dialettica della ragion pura pratica. A sua volta, il libro del Mendelssohn era la risposta a quelle Lettere sulla dottrina dello Spinoza2 che, nello stesso 1785, gli aveva indirizzate Jacobi, dando così il via alla battaglia che va sotto il nome di Pan-theismusstreit. Poi, un certo Wizenmann (che si troverà menzionato anche in una nota a pie’ di pagina nel § 8 del cap. II della Dialettica della ragion pura pratica) ne aveva profittato per rilanciare un cristianesimo tradizionalistico. E alla fine anche Kant dovette prendere posizione, per segnare le distanze da tutti i contendenti nello stesso tempo. Lo fece – nel 1786, col saggio Che cosa significa orientarsi nel pensare?3 – elaborando la prospettiva di una «fede razionale» nell’esistenza di Dio e nell’immortalità dell’anima. ‘Fede’, di contro alle pretese dogmatiche di prove teoretiche, alla Mendelssohn; ma ‘razionale’, in alternativa (oltre che all’oscurantismo del Wizenmann) alla fede teorizzata da Jacobi, il quale alla ragione opponeva il «cuore», sostenendo che, lasciata a se stessa, la ragione non poteva invece che portare allo spinozismo. Per Kant, dunque, la posta in gioco era di difendere l’illuminismo, in presenza di simile deriva irrazionalistica (e delle avvisaglie d’una stretta reazionaria da parte del governo, all’indomani della scomparsa di Federico II), ma a condizione di non farne dipendere le sorti dal persistente dogmatismo filosofico. Del resto, nella Critica della ragion pratica, verso la fine della Delucidazione critica in appendice all’Analitica, si trova anche una menzione esplicita di Mendelssohn, in riferimento all’opera già citata. In questo contesto, i «maestri dommatici della metafisica» sono messi a confronto con Spinoza, al quale è riconosciuta la coerenza mancante invece a quelli (come dire, quindi, che il panteismo è la verità di ogni metafisica, finché si rimanga al dogmatismo); ma il criticismo, infine, è presentato come l’unica alternativa vittoriosa allo spinozismo medesimo. Ed una simile strategia argomentativa,

in precedenza mai praticata da Kant, si spiega appunto col Pantheismusstreit. Con la «fede razionale» del 1786 egli superava dunque la crisi testimoniata dalla Fondazione della metafisica dei costumi, allorché – abbandonata la teoria che aveva sostenuta nel Canone della ragion pura – ancora non aveva trovato come procedere a rinnovate prove ‘morali’ dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima. E l’anno successivo, 1787, alla «fede razionale» si trova dedicato il più (dopo le prime pagine) della Prefazione alla nuova edizione della Critica della ragion pura. Circostanza invero ben singolare, questa; e che non si spiega se non sullo sfondo di quanto s’è accennato fin qui. Fra l’altro, vi si trova la famosa dichiarazione: «Ho dovuto sopprimere il sapere», relativamente al sovrasensibile, «per sostituirvi la fede» (una autointerpretazione, dunque, per cui la distruzione delle prove teoretiche di Dio e dell’anima sarebbe stata già in funzione della restaurazione attraverso prove morali). Poi, finalmente, la «fede razionale» trovava elaborazione compiuta, l’anno ancora successivo, nella Dialettica della Critica della ragion pratica; e così si concludeva il ciclo apertosi inopinatamente, nella riflessione di Kant, con la Fondazione della metafisica dei costumi. Un’altra indicazione che si ricava dall’epistolario è questa: la Critica della ragion pratica servirà ad «eliminare gli equivoci a cui ha dato luogo la Critica della ragion pura teoretica», o «le contraddizioni che i partigiani della vecchia filosofia pretendono di trovare» in essa. Queste allusioni saranno riprese nella Prefazione dell’opera, là dove Kant preannuncia una risposta a quelle, delle obiezioni fino ad allora rivoltegli, che giudicava come le più rilevanti: «da una parte, la realtà oggettiva delle categorie applicate ai noumeni, negata nella conoscenza teoretica e affermata nella conoscenza pratica; dall’altra parte, l’esigenza paradossale di far se stesso, come soggetto della libertà, noumeno, ma nello stesso tempo, rispetto alla natura, nella propria coscienza empirica, fenomeno». Anche qui, si può indicare a cosa Kant si riferisse: a quanto gli era stato contestato in poche dense pagine di una recensione uscita nel 1786 (anonima, ma di H.A. Pistorius, lo stesso a cui c’è un riferimento nella quarta delle note a pie’ di pagina della Prefazione della Critica della ragion pratica)4. In questione era la concezione kantiana della libertà della volontà, in quanto libertà «trascendentale» (a cominciare dalla Soluzione della Terza Antinomia nella Dialettica della Critica della ragion pura). Infatti, una

siffatta libertà non può esser collocata che nel mondo «intelligibile» (noumenico), ché quello fenomenico è dominato, anche per Kant, dal determinismo più rigido; l’attribuzione all’uomo della libertà implica allora considerarlo quale ‘cosa in sé’, anziché quale oggetto fenomenico, come si coglie invece nella propria esperienza interna (coscienza empirica); però così si viene ad applicare a questa particolare cosa in sé che è l’uomo, in quanto portatore della libertà, la categoria di «sostanza»; e, dal momento che la libertà stessa è una forma di causalità (la «causalità per libertà»), si viene ad applicarle appunto anche la categoria della «causalità». Ma com’è possibile conciliare tutto ciò con la limitazione dell’uso delle categorie al mondo fenomenico predicata nella Critica della ragion pura? La risposta si trova (dopo che, assai oscuramente, in un capitoletto aggiunto nella 2a edizione della Critica della ragion pura, intitolato Osservazione generale intorno al passaggio dalla psicologia razionale alla cosmologia) nell’Analitica – questa volta – della Critica della ragion pratica: già nella Prefazione stessa, e poi, tematicamente, nel paragrafo Del diritto della ragion pura, nell’uso pratico, a un’estensione che non le è possibile nell’uso speculativo, seconda delle appendici al cap. I. E qui si registra uno spostamento effettivamente notevole, rispetto alla Critica della ragion pura del 1781: «il concetto di una causa, in quanto derivato interamente dall’intelletto puro [...], e quindi per sé non limitato ai fenomeni (se non quando se ne volesse fare un uso teoretico determinato), può senza dubbio essere applicato a cose che sono enti puri dell’intelletto». Perché una simile presa di posizione non risulti platealmente incompatibile col criticismo, Kant punta sulla differenza fra decidere se si dia o no la libertà, nell’uomo, e invece determinare quel ch’essa sia o come sia possibile. Su questo secondo punto, anche per il Kant della Critica della ragion pratica si rimane del tutto al buio. Invece, sulla prima questione, ora – a differenza che nella Critica della ragion pura e nella Fondazione della metafisica dei costumi – egli è convinto d’essersi definitivamente assicurato della realtà della libertà del volere col dedurla dalla realtà della legge morale. Per Kant, la ‘ragion pratica’ è la ragione che guida l’agire (aristotelicamente, il πράττειν). È esclusa così, oltre alla razionalità meramente teoretica (il φεωρεῖν), anche la razionalità tecnica (il ποιεῖν), che applica delle conoscenze; e, all’interno dell’ambito pratico, sono esclusi i comportamenti non guidati da regole, o impulsivi. Però la ragione può guidare il comportamento in due sensi diversi, e tanto diversi che secondo

Kant si tratta in realtà di due ragioni diverse. L’intera Analitica della ragion pura pratica porta su questa differenza, per l’individuazione della razionalità specificamente morale. Secondo Kant, dal punto di vista morale non sono pertinenti le azioni, in quanto realizzazioni effettive di propositi, bensì esclusivamente le Gesinnungen («intenzioni»), sia che si realizzino sia che non si realizzino in azioni, purché, naturalmente, ci s’impegni quanto possibile a che ciò avvenga. Il valore o disvalore morale attiene solo alla disposizione interiore, all’animus, anziché al successo (dalla prima all’ultima pagina della Critica della ragion pratica si parla di ‘azioni’, ma spesso e volentieri è dunque una metonimia: il tutto per la parte). E questa è la prospettiva della ragion pratica pura, che è la ragione propriamente morale. Se invece viene assunta la prospettiva del successo, la ragione viene ad avere una funzione strumentale (o «pragmatica», come talora Kant la denomina), al servizio dalla sensibilità, in quanto ha di mira il soddisfacimento di inclinazioni. Naturalmente, perché sia un soddisfacimento razionale, anche questo non dev’essere immediato, bensì oculato, e richiederà quindi il sacrificio di inclinazioni attuali in vista di vantaggi a più lungo termine. Un simile calcolo rivolto al futuro ha da sempre un nome, nel pensiero occidentale: ‘prudenza’; e cioè non un’abilità tecnica, specializzata, bensì un’avvedutezza complessiva nella gestione del proprio esser nel mondo. E il fine ultimo a cui è normalmente rivolta la prudenza è la propria felicità (o quel che tutti sono d’accordo nel chiamare felicità, precisa Kant, ché ognuno la concepisce poi a modo suo). Si ha così l’opposizione che attraversa tutta l’Analitica della ragion pura pratica: intenzione morale, da una parte, e, dall’altra, ricerca della felicità. Opposizione, però, non già perché si sia tanto più virtuosi quanto meno felici (un masochismo estraneo a Kant), bensì perché, se si miri unicamente alla propria felicità, si preferirà questa anche allorché la legge morale ci richieda invece di sacrificarla. Alle due diverse ragioni pratiche – pura e prudenziale – corrispondono, nella Critica della ragion pratica, le due specie degli imperativi, «categorici» (incondizionati) e rispettivamente «ipotetici» (condizionati), e poi l’opposizione fra l’«autonomia» e l’«eteronomia» della volontà. Ma alla radice ci sono due concezioni eterogenee della ragione stessa. La ragione che Kant considera prudenziale è infatti la ragione tradizionale (διάνοια), definita in base al suo modo di procedere, come facoltà di inferenze mediate, cioè discorsiva, o, giustappunto, calcolante (a contrasto con l’intuizione, νοῦϛ).

Nella concezione che Kant aveva inaugurata con la Critica della ragion pura, invece la ragione veniva ad esser definita essenzialmente dall’oggetto a cui è rivolta, come la facoltà che (a contrasto con l’«intelletto») mira al trascendente, assoluto, sovrasensibile, incondizionato, ed è quindi sempre e solo pura, in quanto priva di alcun rapporto con la sensibilità. Secondo Kant, tale intenzionalità è destinata a rimanere frustrata in sede teoretica; ma trova soddisfazione in sede pratica, perché qui l’oggetto è perfettamente accessibile: la legge morale, che, in sé considerata, è appunto trascendente (rispetto a qualsiasi esperienza possibile), assoluta, sovrasensibile, incondizionata; e come tale viene appresa dalla ragione. Quest’ultima è allora autonoma, immanente a se stessa, di contro a quella dipendenza da altro – la sensibilità – che caratterizza invece la ragion pratica prudenziale. Il titolo Critica della ragion pratica è spiegato, da Kant, così: si tratta di mostrare che non si dà solo una ragion pratica strumentale, prudenziale, ma anche una ragion pratica pura, organo della legge morale, e che questa seconda reclama d’esser preferita, sacrificando la prima, in tutti i casi in cui si abbia un conflitto fra di esse. Ovvero – secondo la metafora tribunalizia con cui Kant aveva introdotto l’idea di una ‘critica’ della ragione – si tratta di sottoporre a giudizio la pretesa della ragione prudenziale d’esaurire essa tutta la razionalità pratica, argomentandone l’illegittimità. Una critica della ragion pratica ha dunque da mostrare che esiste una ragion pratica pura; ma per questo occorre appunto esaminare tutta intera la ragion pratica, cioè in entrambe le sue forme, per mostrare la loro irriducibilità reciproca e la priorità, quanto a dignità, della forma pura. La strutturazione interna della Critica della ragion pratica ripete quella della Critica della ragion pura, a cominciare dalla partizione formalmente principale: Dottrina degli elementi e Dottrina del metodo (questi due titoli risultano dall’adattamento d’una terminologia in uso nell’epoca). Nella Critica della ragion pratica, l’elaborazione della teoria si ha nella Dottrina degli elementi, mentre la Dottrina del metodo è applicativa. In quest’ultima è infatti presentata una pedagogia (in senso ampio) rispondente alla teoria già esposta. Quanto sostenuto nella Dottrina degli elementi è così ripresentato con tono ed andamento discorsivi, senza tecnicismi; e quindi questa parte risulta ben leggibile (si potrebbe suggerire ad un principiante di cominciare di qui, per farsi un’idea), ma anche senza niente di nuovo dal punto di vista filosofico.

La Dottrina degli elementi è suddivisa in Analitica della ragion pura pratica e Dialettica della ragion pura pratica; mentre nella Critica della ragion pura la Dottrina degli elementi era suddivisa in Estetica trascendentale e Logica trascendentale, ed era quest’ultima ad esser suddivisa, a sua volta, in Analitica e Dialettica (titoli, questi ultimi, risultanti dall’adattamento d’una terminologia all’origine aristotelica). Nella Critica della ragion pratica, dunque, all’Analitica non è premesso alcunché di corrispondente a quella che nella Critica della ragion pura era l’Estetica trascendentale, per «estetica» intendendosi la dottrina della sensibilità. Invece, cominciando direttamente dall’Analitica, nella Critica della ragion pratica ci si trova fin dal principio all’altezza della ragione, anzi della ragione pura, che per Kant è la facoltà più distante dalla sensibilità (intermedio è l’intelletto). Eppure l’elemento sensibile – in questo caso i desideri o (come si trova di solito) le «inclinazioni» – risulta necessario onde si abbia moralità. Questa consiste infatti, per Kant, in una repressione delle inclinazioni a vantaggio della legge morale. Non già, al solito, che le inclinazioni siano in se stesse viziose e quindi da combattersi in quanto tali (in se stesse sono invece innocenti), ma sono da combattere ogniqualvolta si trovino in contrasto con la legge morale, perché in tal caso, se le si seguissero, si violerebbe la legge. La moralità consiste dunque nella vittoria della ragione (pura pratica) sulle inclinazioni; mentre un ente che fosse tutto e solo razionale, privo di inclinazioni sensibili (come per esempio Dio) non sarebbe morale, bensì ‘santo’. In una Critica della ragion pratica non si può allora prescindere dalla presenza della sensibilità in un ente razionale sì, ma finito, com’è l’uomo. Ma quanto se ne deve sapere? Davvero molto poco, proprio il minimo. È chiarito nella terzultima delle note a pie’ di pagina nella Prefazione: basta solo sapere che, oltre che ragione, l’uomo è anche desiderio; ma qualsiasi più dettagliata conoscenza di questo aspetto dell’uomo attiene, non già alla filosofia, bensì ad una disciplina empirica come la psicologia. Le due partizioni principali – Analitica e Dialettica – si distinguono per le due diverse prospettive in cui è presentato il rapporto fra la moralità e la felicità. Beninteso, col passaggio alla Dialettica queste nozioni rimangono identiche, concettualmente, a com’erano nell’Analitica; ché la moralità continua a consistere nell’intenzione virtuosa disinteressata, e la felicità in una soddisfazione compiuta e stabile dei propri desideri. La domanda che

apre la Dialettica è se sia esaustivo quanto sostenuto nell’Analitica, e cioè: senz’altro lecito ricercare la felicità, però a condizione che non vada a scapito del rispetto per la legge morale, ché moralmente non è consentito d’anteporla al perseguimento della virtù. Ma – osserva ora Kant – se ci si limitasse a questo, la virtù da sola sarebbe tutto il bene morale. Eppure c’è un bene morale ancora maggiore, perché più completo che non la virtù da sola, e da considerare quindi, classicamente, come il «sommo bene»: virtù + felicità. Qui la felicità non è più considerata in quanto ricercata per la sua attrattiva, eventualmente anche a scapito della moralità, bensì in quanto la si meriti, e l’unico modo di meritarla è proprio di resistere all’attrattiva di essa al fine di rispettare la legge morale. Che la virtù sia premiata (e il vizio punito, s’intende) è dunque una rigorosa esigenza morale. Non c’entra neanche un po’ la ‘prudenza’ interessata; a parlare è solo la ragion pratica pura. Infatti, cosa costituisce il merito d’una persona? Solo la sua virtuosità morale. Ma un merito reclama pur un riconoscimento, è un credito. E, per un ente finito – e cioè, dal punto di vista pratico, bisognoso – il premio, o il compenso, non può essere che la soddisfazione dei suoi desideri. Così, esser virtuoso si ridefinisce come «esser degno d’essere felice»; e la Dialettica della ragion pura pratica può prendere avvio. Ma, prima, c’è l’Analitica. Kant riteneva che un’etica filosofica dovesse 1) illustrare e fondare il principio della moralità, 2) delucidare il criterio dei giudizi morali, 3) spiegare la motivazione al rispetto degli obblighi morali. E queste tre questioni sono affrontate nell’Analitica della ragion pura pratica: rispettivamente, nel cap. I (Dei princìpi della ragion pura pratica); in quell’appendice al cap. II ch’è intitolata Della tipica del giudizio puro pratico, ben più rilevante che il capitolo stesso e che l’altra appendice, Tavola delle categorie della libertà in relazione ai concetti del bene e del male, aggiunta solo per amor di simmetria con la Critica della ragion pura, per la sua celebre ‘tavola delle categorie’ (concetti puri dell’intelletto); nel cap. III (Dei moventi della ragion pura pratica). Il capitolo I è strutturato secondo il metodo geometrico: alcune Definizioni, quattro Teoremi, due Problemi, con i relativi Scolii e Corollari; ma il § 7 è intitolato direttamente Legge fondamentale della ragion pura pratica. Tutto il capitolo è comandato dall’opposizione fra apriori ed aposteriori, o forma e materia, a cominciare dai primi due teoremi: i desideri sono fenomeni empirici, e, se vengono elevati a regole del comportamento, e

cioè a princìpi pratici, questi non possono essere se non materiali, cioè dipendenti appunto dagli oggetti del desiderio. Princìpi siffatti sono funzione dell’amor proprio individuale; e si riportano, in ultimo, al fine della felicità (sulla quale Kant tornerà più volte, nel séguito). È di contro a ciò che, nel teorema III, si staglia la formalità dell’unica legge pratica, la legge morale, in quanto principio oggettivo, cioè invariabile, indipendente dalle diversità interindividuali, e quindi a priori ed universale, perché non tributario dell’empiria. Quando si ha a che fare con l’empiria si ha sempre a che fare con la datità, ch’è la materia; e quindi un principio universale, una ‘legge’, o non sarà o sarà rigorosamente formale. Così, formale viene a significare valevole per chiunque, indipendentemente dai desideri, dalle preferenze e dagli interessi di ciascuno. A seconda che il soggetto si faccia guidare, nel suo comportamento, dalla legge morale ovvero da princìpi materiali, si ha l’opposizione fra l’«autonomia» della volontà e rispettivamente la sua «eteronomia», sulla quale porta il teorema IV. Naturalmente, autonomia ed eteronomia si distribuiscono dal punto di vista della razionalità pratica pura: una volontà è autonoma quando è conforme a tale razionalità, ed eteronoma quando invece è succube delle inclinazioni sensibili. Ciò offre il destro a Kant di presentare – nel seguito, sempre, del § 8 – le filosofie morali del passato e del suo presente (con una scelta secondo lui esaustiva dei tipi fondamentali), per criticarle tutte come eteronome, anche quando a primo aspetto non si presentino così. Questa illustrazione è in parte anticipata ed in parte posposta, rispetto alla tabella schematica che n’è offerta. Precisamente, nel capoverso che comincia «Finalmente, nell’idea della nostra ragion pratica vi è ancora qualcosa...» vengono considerate le morali teologiche, che riportano tutto alla volontà di Dio e all’attesa di felicità; nel capoverso che comincia «Più sottile ancora, benché altrettanto falsa,...» viene considerata la teoria del ‘senso morale’, che s’era sviluppata in Inghilterra da Hutcheson a Hume ed oltre, per cui organo della morale sarebbe il sentimento, in quanto capace di reazioni disinteressate di approvazione o disapprovazione di fronte ai diversi comportamenti; mentre nel capoverso subito dopo la tabella («Quelli che stanno a sinistra...», ecc.) viene considerata l’etica della ‘perfezione’ di Christian Wolff e in genere dello stoicismo. Nessun commento Kant fa invece sulle altre tre etiche – «dell’educazione», «del governo civile» e «del sentimento fisico» –, evidentemente perché ritiene neppur bisognosa di

illustrazione la loro eteronomicità, tanto è patente. Il § 7, dunque, enuncia la «legge fondamentale della ragion pura pratica», che suona: «opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale», ossia opera sempre in modo che il criterio d’azione che segui possa avere validità universale, e cioè esser valido per tutti, anzi che soltanto per te, nelle circostanze particolari in cui ti trovi. Qualora questa formula risultasse opaca, verrà chiarita nel paragrafo Della tipica del giudizio puro pratico. Da notare che nello scolio I al § 7 compare per la prima volta la qualificazione della legge morale (e della nostra coscienza di essa) come un Factum della ragione, poi illustrata nella prima delle appendici a questo stesso capitolo, Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica. E nel ‘corollario’ che subito segue ne viene tratta la conclusione: «La ragion pura è per sé sola pratica»; col che è data per risolta, quindi, quella che nell’Introduzione era stata presentata come la questione di fondo di una Critica della ragion pratica. Con i due Problemi dei §§ 5 e 6, infine, veniva introdotta la nozione della libertà della volontà. Per un verso, vi si sostiene, solo una volontà libera può determinarsi al rispetto della legge morale, anziché essere sempre e solo in balia delle inclinazioni sensibili (senza libertà, non ci sarebbe l’alternativa fra obbedire alla legge morale o violarla); e, per un altro verso, se la legge morale non è una chimera, è solo perché la volontà umana è in grado di adottarla come principio pratico. La questione della libertà verrà ripresa più volte, nel seguito, mostrando come ora si disponga della premessa necessaria per passare dalla mera «possibilità» della libertà (oltre la quale non consentiva di andare la ‘soluzione’ della terza delle antinomie considerate nella Critica della ragion pura) alla «realtà» di essa; premessa fornita proprio dalla ‘realtà’ della legge morale, ora acquisita. Quanto poi alla nozione di libertà che è in gioco, il chiarimento si ha soprattutto al centro della Dilucidazione critica in appendice a tutta l’Analitica; dove Kant oppone la propria concezione – la «libertà trascendentale», e cioè facoltà di dare inizio da sé ad una serie di eventi, incondizionatamente – alla concezione di Leibniz (ripetuta dai tanti suoi epigoni), della libertà come semplice spontaneità. Questa, Kant la qualifica come meramente «psicologica», perché fondata sulla internità dei motivi (cause) che operano sulla volontà, i quali però sono retti, al pari di tutti gli altri fenomeni, dal determinismo più stretto. Il cap. I dell’Analitica è tanto rilevante quanto faticoso, nonostante

l’andamento geometrico. Se ne presentano qui, a mo’ d’esempi, il primo e l’ultimo paragrafo. Nel § 1 vengono introdotte, concitatamente, alcune nozioni fondamentali. La più generale è quella dei «princìpi» pratici, o regole generali di comportamento. Dall’insieme si ricava che sono di tre specie, a seconda del rapporto con le inclinazioni sensibili. Se si ha solo conformità con queste, la regola non è imperativa (per es., ascoltare musica un tanto ogni giorno, da parte d’una persona che la ami). Una regola è imperativa, invece, allorché per seguirla sia necessario il sacrificio, o la repressione, di inclinazioni. È la ragione (pratica) a formularla e a chiedere alla volontà di darsi da fare per realizzare il sacrificio. Ma qui i casi sono due, a seconda che il sacrificio sia richiesto per un calcolo prudenziale oppure per rispettare la legge morale. Nel primo caso – che è quello dell’imperativo ipotetico – la prescrizione è di sacrificare alcune inclinazioni per il soddisfacimento di altre, di norma differito nel tempo (per es., risparmiare in gioventù per non trovarsi a mal partito in vecchiaia). Nel secondo – che è quello dell’imperativo categorico –, di prescindere dalle inclinazioni ed opporsi a quelle che eventualmente resistano (per es., non testimoniare il falso ai danni di un innocente, nonostante un forte desiderio di non attirarsi guai). I princìpi pratici sono classificati, nel § 1, a seconda della loro oggettività ovvero soggettività. Kant comincia con opporre le «massime» soggettive e la «legge» (morale) oggettiva; ma il rapporto fra queste due nozioni non è esaurito da simile contrapposizione schematica, perché si possono ben seguire massime non rivolte al rispetto della legge morale (come sono le regole non imperative e gli imperativi ipotetici), ma seguire la legge morale significa proprio assumerla a massima del proprio volere. Decidere di darle la preferenza è infatti un atto soggettivo; ed è l’atto morale nella sua interezza. Ad essere oggettiva è dunque solo la legge morale di per sé, cioè quando la si consideri facendo astrazione dalla dinamica del volere individuale, in rapporto ad essa. Poi, alle «massime» soggettive Kant oppone gli «imperativi», sostenendo che questi sono oggettivi tutti quanti, compresi quindi quelli ipotetici. Ma anche qui si impone qualche precisazione, dopo che come oggettiva era stata classificata solo la legge morale. In effetti, l’imperativo categorico è senz’altro oggettivo, appunto nello stesso senso in cui lo è anche la legge morale, cioè finché lo si consideri in sé, prescindendo dall’eventuale

adozione di esso a ‘massima’ di comportamento da parte di un soggetto individuale; laddove negli imperativi ipotetici, e cioè in proposizioni di tipo ‘se vuoi y, allora fa x’, ad essere oggettivo è solo il nesso se... allora (ovviamente nell’ipotesi che sia ben fondato); e difatti Kant avverte anche che l’imperativo ipotetico è pur «condizionato soggettivamente», in quanto nella condizione, «se vuoi...», si riferisce a quanto eventualmente desiderato da qualcuno, e i desideri sono sempre soggettivi. Due sono, allora, le oggettività e le soggettività in gioco. L’oggettività della legge morale e dell’imperativo categorico è la loro incondizionatezza, in contrasto con la condizionatezza dell’imperativo ipotetico e con la completa soggettività delle massime non imperative; mentre l’oggettività dell’imperativo ipotetico è empirica, fattuale, dipendendo dall’esser stato constatato che x porti a y. La soggettività in questione nell’opzione per la legge morale o per l’imperativo categorico, poi, è la soggettività della Gesinnung virtuosa; mentre, quando si seguano massime non imperative o imperativi ipotetici, è la soggettività delle inclinazioni sensibili. Nel § 8, dopo una prima formulazione iniziale dell’opposizione fra l’«autonomia» e l’«eteronomia», Kant propone questa riformulazione: «il principio unico della moralità consiste nell’indipendenza della legge da ogni materia (ossia da un oggetto desiderato) e nello stesso tempo nella determinazione del libero arbitrio mediante la semplice forma legislativa universale di cui una massima dev’esser capace». I predicati (logici) sono dunque due, diversi: prima, «indipendenza della legge»; poi, «determinazione del libero arbitrio» (la quale, naturalmente, è un’auto-determinazione, e libero arbitrio si può assumere come sinonimo di quella che finora s’è chiamato ‘volontà’). Ma così sono accavallate due prospettive, entrambe essenziali, per Kant, ma che qui ha lasciato da dipanare al lettore. Una è la prospettiva della legge morale qua talis; l’altra è la prospettiva della volontà, o del libero arbitrio, in rapporto alla legge morale (ovviamente è in questione solo il caso che la volontà si determini al rispetto della legge morale, perché si sta parlando appunto del «principio unico della moralità»). E le due considerazioni sono dunque esplicitabili più o meno così: a) se per «principio della moralità» s’intende il criterio, o la norma, della moralità, allora consiste nella legge morale, la quale è indipendente da qualsiasi materia; b) se per «principio della moralità» s’intende invece ciò in cui consiste la moralità intesa come pratica effettiva, allora è la determinazione della volontà, e cioè

il decidersi, indipendentemente dai desideri e solo per rispetto della legge morale. Il capitolo II dell’Analitica – Del concetto di un oggetto della ragion pura pratica – è il più scorrevole di tutta la Critica della ragion pratica; ma, precisando come intendere i concetti del ‘bene’ e del ‘male’ in senso morale, non aggiunge granché di nuovo rispetto al capitolo precedente, del quale – e in particolare del paragrafo su autonomia ed eteronomia – si può quindi considerare come una prosecuzione. Nell’appendice Della tipica del giudizio puro pratico, invece, è illustrato come decidere sulla qualità morale delle nostre ‘massime’. Per esempio, sono incerto se mantenere o no una promessa, ché, se non la mantenessi, non solo non me ne verrebbe danno, ma anzi me ne verrebbe vantaggio. Suppongo allora che in un mondo immaginario nessuno mantenga mai le promesse quando gliene venga vantaggio, come se in tale mondo questa fosse una legge naturale necessaria, relativamente al comportamento umano (è in questo senso che Kant propone di assumere quale «tipo» della legge morale, ogni volta, una immaginata legge naturale). E mi chiedo se acconsentirei mai ad un simile mondo, cioè se lo riterrei mai razionalmente accettabile, o non piuttosto orripilante. Insomma, potrei mai volere razionalmente che davvero tutti si comportassero sempre in quel modo? Secondo Kant, la risposta non ammette esitazioni. Quel che è decisivo, invece, è quindi porsi la domanda; perché con questa ci si trasferisce, dalle contingenze della propria situazione personale, al livello dell’universalità (‘tutti’), che è quello in cui opera la ragione pura. Così si sarebbe in grado di conoscere cosa la legge morale ci richieda. Però, stante la sommarietà della Tipica, rimangono in ombra i diversi esiti possibili del confronto fra le massime e la legge. Ora, se una massima non risulta razionalmente accettabile una volta universalizzata (cioè nell’ipotesi che tutti si comportassero in quel modo), si ha senz’altro il dovere di non adottarla a guida del proprio comportamento. Se invece non risulta inaccettabile che tutti si comportino sempre secondo una certa massima, allora non si ha alcun dovere, relativamente ad essa: siamo nell’ambito di quel che è lecito, o indifferente, dal punto di vista morale, cioè né vietato né obbligatorio. Vero è però che, per decidere che una certa massima sia, eventualmente, lecita, è pur necessario essersi chiesti cosa risulterebbe se tutti la seguissero sempre; e in questo senso la ragion pratica pura ha giurisdizione sull’intero ambito della praticità, niente le è sottratto di principio. Ma, infine,

come decidere allora i doveri prescrittivi, gli obblighi positivi? Ad essere obbligatorie sono le massime contrarie a quelle vietate: basta sapere che non è lecito testimoniare il falso, per sapere automaticamente che si ha il dovere di rendere testimonianze veraci, costi quel che costi. Non è affatto vero, quindi, che Kant riconosca soltanto dei divieti; anche se è vero che, secondo lui, è attraverso di essi che si conoscono i doveri positivi. Il capitolo III dell’Analitica individua il movente della moralità nel «rispetto» per la legge morale. Dalla legge morale considerata in se stessa, si passa ora alla nostra «coscienza» (consapevolezza) di essa. E la questione è come siffatta coscienza possa operare contro le inclinazioni sensibili, che sono sempre all’erta per affermarsi, anche a scapito della legge morale (quando ci sia contrasto). Secondo Kant, alla consapevolezza della legge morale si accompagna automaticamente il rispetto per essa, ossia il riconoscimento della sua superiorità e dignità; e questo è tutto quel che sta dalla parte della legge nel confronto con le massime ispirate invece dalle inclinazioni. Si tratterà quindi di rafforzare un simile rispetto, con le tecniche pedagogiche illustrate nella Dottrina del metodo della Critica della ragion pratica. Beninteso, il rispetto per la legge morale non è un sentimento, e cioè un fenomeno empirico della psiche umana al pari di tutti i sentimenti veri e propri, appunto perché è prodotto direttamente dalla coscienza della legge morale stessa; e tuttavia opera come se fosse un sentimento, perché opera contro dei sentimenti, e in questo senso lo si può anche dire un «analogo» del sentimento. – Da notare, all’inizio del capitolo, una chiara formulazione di un’opposizione fondamentale per tutta l’etica kantiana: fra la moralità e la legalità (evangelicamente, fra lo spirito e la lettera). La legalità è la conformità esteriore d’un comportamento ad una norma morale, senza però la Gesinnung di rispettarla, ma con altra motivazione; come nel caso di un commerciante che non imbroglia sul prezzo, ma per paura di perdere clienti. La Dialettica della ragion pura pratica è intitolata così per il modo in cui la problematica di tutta questa parte dell’opera è impostata nei primi due paragrafi del cap. II: L’antinomia della ragion pratica, e Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica; in parallelo con un punto della Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura. In questa, infatti, Kant aveva esaminato gli oggetti sovrasensibili – anima, mondo, Dio – e, a proposito del mondo, aveva presentato quattro antinomie (per esempio, nel mondo c’è anche libertà / nel mondo tutto accade di necessità), procedendo poi a

‘risolverle’ mercé i princìpi del criticismo. Ma, curiosamente, nel paragrafo su L’antinomia della ragion pratica Kant si scorda di formularla, l’antinomia di cui discorre; per cui si potrà supplire pedantescamente. Si ha un’antinomia quando si presentino come entrambe vere due proposizioni reciprocamente contraddittorie, cioè tali che ciascuna sia negazione dell’altra (nella Critica della ragion pura, Kant le aveva chiamate rispettivamente Tesi ed Antitesi). E l’antinomia della ragion pratica si produce sul concetto del «sommo bene»; ossia di una proporzione esatta fra la virtù morale di un individuo e la sua felicità. Ora, nel paragrafo in questione si trovano bensì due proposizioni: a) la ricerca della propria felicità non può produrre l’intenzione morale, b) la virtuosità non produce automaticamente un corrispettivo di felicità; ma queste non sono affatto contraddittorie l’una con l’altra. Al contrario, vanno congiunte: (A) Il sommo bene è impossibile, perché (a) la ricerca della felicità non produce virtù e (b) la virtù non produce felicità.

Ed è la contraddittoria di questa proposizione che non si trova, qui. In compenso è facilmente ricavabile dal capitolo precedente (e la si può considerare come la Tesi, se si considera A come l’Antitesi): (T) Il sommo bene deve essere possibile, perché è l’oggetto necessario della ragion pratica pura, o della legge morale.

Infatti, è la stessa ragion pratica pura, nella sua imparzialità e nel suo disinteresse, a considerare moralmente inaccettabile che sia privo della felicità chi ne abbia bisogno e ne sia anche degno; ché ogni disarmonia fra virtù e felicità è ingiusta, e, dal punto di vista morale, la giustizia è imprescindibile. Esser degni della felicità e non goderne è come aver svolto un duro lavoro e non ricevere il compenso proporzionato, tanto più dovuto in quanto il lavoro non sia stato svolto per averne questo compenso, bensì disinteressatamente, com’è nel caso della virtù morale. Così, per risolvere l’antinomia, e cioè eliminare la contraddizione, Kant sosterrà che (A) non è completa, perché (a) è senz’altro vera, ma (b) no. Quest’altra, infatti, è vera solo se ci si riferisce al mondo che conosciamo per esperienza; ma questo – il mondo sensibile, o fenomenico – non è l’unico pensabile: c’è anche il mondo «intelligibile», o noumenico, e in questo il sommo bene è possibile (sul fondamento dell’immortalità dell’anima umana e dell’esistenza d’un Dio giudice saggio). L’antinomia si risolve, dunque, modificando (A) in maniera tale che non sia più l’antitesi di (T): Il sommo bene è possibile perché – nonostante che la ricerca della felicità non produca virtù e

nonostante che in questo mondo la virtù non produca felicità – tuttavia è possibile che ciò avvenga in un altro mondo.

Le partizioni interne della Dialettica della ragion pura pratica – due capitoli, uno brevissimo, ed il secondo articolato invece in nove paragrafi – non hanno rilevanza strutturale. Nel cap. I è elaborato il concetto del «sommo bene». Nel II, §§ 4 e 5, sono introdotti i «postulati» della ragion pura pratica (esistenza di Dio e immortalità dell’anima). In quanto segue Kant s’affatica a precisare lo statuto di tali postulati, in quanto proposizione in se stesse teoretiche, ma fondate sul diritto della ragion pura pratica; ed a chiarire il rapporto che così si viene ad instaurare fra la ragion pura pratica e la ragion pura speculativa. Semmai, nel paragrafo Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica si trova un’inserzione estranea all’andamento dell’argomentazione: quattro capoversi, da quello che comincia «Se noi ci vediamo obbligati a cercare la possibilità del sommo bene...» a quello che termina «... è analogo alla proprietà di bastare a se stesso, che si può attribuire solo all’essere supremo». A questo punto il discorso riprenderà da dove s’era interrotto: «Da questa soluzione dell’antinomia della ragion pura pratica segue...», ecc.; la soluzione di cui s’era parlato nei primi capoversi del paragrafo. Nei quattro intramezzati, dunque, vien proposto l’ideale di una «contentezza di sé», nell’adempimento della virtù, simile alla beatitudine divina, e del tutto diversa dalla felicità, in quanto questa consiste nella soddisfazione delle inclinazioni. Ma proprio così la felicità era intesa invece nel concetto del sommo bene presentato fino a quel punto; tant’è vero che Kant aveva rifiutato, oltre all’epicureismo, anche lo stoicismo (identificazione della felicità con la virtuosità morale), mentre quella ‘contentezza di sé’ che sopravviene inopinatamente è autosufficienza della virtù, e cioè nient’altro che stoicismo. Così verrebbe meno il problema stesso, impostato com’era sull’idea dell’uomo quale ente bisognoso di felicità, appunto; e verrebbe meno la soluzione, che si troverà nei paragrafi seguenti: se a render contenti di sé, in modo che non s’avrebbe più bisogno di nient’altro, fosse la consapevolezza della propria virtuosità morale, allora non ci sarebbe più da ‘postulare’ l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio quali condizioni per la realizzazione del sommo bene; ché si realizzerebbe già in questo mondo, per chi sia in grado di raggiungerlo, com’era infatti per i ‘saggi’ stoici. Delle molte edizioni della Kritk der praktischen Vernunft a far testo è

ancora quella a cura di P. Natorp, nel vol. V delle Gesammelte Schriften di Kant (cosiddetta ‘edizione dell’Accademia’), Reimer, Berlin 1908. L’anno successivo usciva la prima traduzione italiana, a cura di F. Capra (Laterza, Bari), poi sempre ristampata. Poiché il Capra non aveva fatto in tempo ad adoperare l’edizione Natorp, su questa la traduzione fu rivista, a partire dalla 7a edizione (1955), ad opera di E. Garin. A partire dal 1971 le sono stati aggiunti un Glossario e un Indice dei nomi a cura di V. Mathieu. E così viene ripubblicata nel presente volume. Recentissimo, il maggior strumento di lavoro: Stelleindex und Konkordanz zur «Kritik der praktischen Vernunft», a cura di H. P. Delfosse e M. Oberhausen, vol. XVI del Kant-Index diretto da N. Hinske, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt 1995. Il testo tedesco di riferimento è quello dell’edizione curata da Karl Vorländer, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1990. I numeri tra parentesi quadre [] sono quelli delle pagine della I edizione della Critica della ragion pratica di solito indicata con la A, a loro volta riportati ai margini delle principali edizioni. 1

Dell’Epistolario filosofico di Kant si ha, in trad. it., la scelta a cura di O. Meo, Il Melangolo, Genova 1990. 2 Trad. it. di F. Capra, rivista da V. Verra, Laterza, Bari 1969. 3 Trad. it. in Kant, Scritti sul criticismo, a cura di G. De Flaviis, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 13-29. 4 Per i dati, cfr. S. Landucci, Sull’etica di Kant, Guerini, Milano 1984, pp. 172-74.

Nota del traduttore

1. La «Critica della ragion pratica» nel sistema di Kant L’opera presente, comparsa la prima volta nel 1788, è la seconda, in ordine logico e cronologico, delle tre opere critiche fondamentali kantiane. La Critica della ragion pura, pubblicata sette anni prima, accenna già alla conferma, che i princìpi puramente regolativi, che essa ammette, devono avere nell’uso pratico, e stabilisce la relazione delle diverse teorie metafisiche con la morale. Specialmente nella seconda edizione di quell’opera si afferma la necessità di sostituire al sapere trascendente una fede basata sulla ragion pratica. La Critica della ragion pratica, in relazione alla prima, deve mettere in chiaro l’unità della ragione speculativa con la pratica di un principio comune. Infine, la Critica del Giudizio, pubblicata due anni dopo, afferma la necessità teologica del principio morale e fa consistere in esso il fondamento dei postulati dell’esistenza di Dio, come creatore morale, e dell’immortalità dell’anima. Delle opere morali, la Critica della ragion pratica suppone la Grundlegung zur Methaphysik der Sitten (Fondamento alla metafisica dei costumi)1, in quanto essa segue il principio morale nel suo passaggio dalla conoscenza comune a quella filosofica, dalla filosofia popolare alla metafisica dei costumi e da questa alla critica della ragion pura pratica. La Grundlegung è una propedeutica alla opera seguente, insieme con la quale deve servire di base alla Methaphysik der Sitten (Metafisica dei costumi)2. Questa distingue il dovere in dovere di diritto, o diritto, e dovere di virtù, o dovere propriamente detto, e fa una classificazione empirica dei diritti e dei doveri. Conviene aggiungere, che già nei Träume eines Geistersehers (Sogni di un visionario) del 1766, la legge morale pare sufficiente a Kant per stabilire,

indipendentemente da ogni considerazione teoretica, la libertà, Dio e l’immortalità.

2. Le varie edizioni Delle molte edizioni della Critica della ragion pratica tre apparvero vivente Kant: la prima nel 1788 a Riga, presso G.F. Hartknoch, la seconda nel 1792, e nel 1797 quella che vien chiamata la quarta edizione, per una terza, che è menzionata da Rosenkranz, Hartenstein e Kirchmann, nelle loro edizioni di quest’opera, ma che probabilmente non è mai esistita. Oltre a questi, solo il Kayser nel Vollständiges Bücher-Lexikon menziona con la quarta la terza edizione, ambedue senza data. Dopo la morte del Kant, la seconda Critica fu pubblicata ancora nel 1818 e nel 1827. Fu poi pubblicata dal Rosenkranz, due volte dall’Hartenstein, nelle loro edizioni complete di Kant3 e fece parte della Biblioteca filosofica del Kirchmann4. Infine, il Kehrbach, nel 1878, ne curò l’edizione per l’Universal-Bibliothek del Reclam, sul testo della prima edizione, coi riscontri della seconda e della quarta. Il testo non ebbe mai varianti sostanziali, ma solo correzioni di sviste.

3. Di questa traduzione La prima traduzione della Critica della ragion pratica fu fatta in latino dal Born e pubblicata fra il 1796 e il 1798, insieme con altre opere kantiane da lui voltate nella stessa lingua. Nel 1848 ne uscì (Parigi, Ladrange) la traduzione francese del Barni5 e nel 1889 quella inglese dell’Abbot. Una nuova eccellente traduzione francese fu fatta dal Picavet, edita dall’Alcan nel 1888 e, per la seconda volta, nel 1902, con note e con un saggio sulla fortuna della filosofia kantiana in Francia dal 1773 al 1814. In italiano non era stata mai tradotta finora. La mia traduzione è letterale, per quanto è possibile, e serba quasi sempre il periodo kantiano. Nelle note, ho chiarito i termini strettamente filosofici e quelli che non potevano essere adeguatamente resi in italiano; e ho distinto con la sigla [T] le note mie e con la sigla [P] quelle che ho attinte al Picavet. Francesco Capra Torino, 7 febbraio 1908

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Riga, bey Joh. Fr. Hartknock, 1785. Königsberg, bey Fr. Nicolovius, 1796-7. 3 In Sämmtliche Werke, pubbl. da K. Rosenkranz e F. W. Schubert (Lipsia, 1838-1842), vol. VIII. In Verke, pubbl. da G. Hartenstein (Lipsia, 1838), vol. IV, n. 2. In Sämmtliche Werke, pubbl. da G. Hartenstein (Lipsia, 1867), vol. V, n. 1. 4 In Philosophische Bibliothek, di F. H. von Kirchmann (Berlino, 1869), vol. VIII. 5 Si veda intorno a essa B. Spaventa, Da Socrate a Hegel, Bari, Laterza 1905, pp. 123-50. 2

Nota del revisore

La traduzione di Francesco Capra, uscita la prima volta nel 1909, raggiunse nel 1947 la sesta edizione, sostanzialmente immutata così nel testo come nella prefazione. La sua grande fedeltà all’originale giustifica la sua fortuna. Tuttavia nel ristamparla per la settima volta essa è stata rivista con cura, non solo per eliminare qualche svista, per chiarire qualche punto oscuro, ma anche per togliere alcune di quelle «balourdises particulièrement amusantes», di cui diceva Gide in una lettera del 1928, che sono i curiosi errori che si insinuano nelle ristampe, e che poi si conservano e si riproducono. Una confusione più volte ripetuta fra «fuorché» e «finché» – per far solo un esempio – può recare, in un testo come questo di Kant, non poca oscurità: e non si tratta che di un errore di stampa. Qualche correzione si è ugualmente introdotta nell’interpunzione; il Capra, per un discutibile criterio di aderenza, aveva spesso reso difficilmente comprensibile anche periodi abbastanza chiari. Così, qua e là, a una fedeltà del tutto estrinseca si è preferita una effettiva ‘traduzione’. «Je crois absurde de se cramponner au texte de trop près» – osservava ancora Gide, soggiungendo giustamente che «il importe de ne pas traduire des mots, mais des phrases». Già il Born nell’avvertenza al lettore, posta in calce al primo volume della sua versione latina, aveva affermato l’esigenza di rispettare sì il tecnicismo di certi termini e di certe frasi, ma senza venir meno alle esigenze della lingua in cui si rendeva il testo kantiano («satius esse duxi ut, quoad possem et liceret, a genere dicendi puro disertoque haud recederem, ubi autem verbum latinum minus occurreret, vel metuendum videretur ne sententia eo redderetur ambigua atque incerta, aut pluribus idem verbis exposui, aut exprimi verbum e verbo malui»). E quanto poi a quel tecnicismo di Kant, il cui presunto rigore induceva Max Müller a parlarne come di una specie di lingua franca della filosofia moderna, si richiederebbe ben altro di scorso; ché non solo da opera a opera, ma nello stesso scritto kantiano sono

frequenti le oscillazioni di significato del medesimo termine1. Comunque, accettata la traduzione del Capra per i suoi innegabili meriti, la revisione non poteva non ridursi a qualche minima correzione, precisazione e rettifica, rispettando al massimo l’originale anche là dove non sarebbe stato poi troppo difficile rendere Kant con maggiore scioltezza. Alle poche note storiche del Capra, o dal Capra tratte dal Picavet (contrassegnate le prime con la sigla T, le seconde con la sigla P), se ne sono aggiunte alcune altre, fra parentesi quadra, di numero assai limitato, storiche anch’esse (o volte a indicare le fonti di alcune citazioni). Il lavoro di revisione è stato condotto sul testo stabilito dal Natorp per l’edizione delle opere dell’Accademia prussiana2, e su quello, in qualche punto diverso, del dottor Benzion Kellermann nel quinto volume dell’edizione del Cassirer3, ma s’è anche avuto presente un esemplare dell’ultima edizione pubblicata prima della morte di Kant, indicata come quarta sul frontespizio, ma in realtà terza, e che corrisponde anche nella paginazione alla prima4. La genesi dell’opera, le vicende della pubblicazione, le polemiche suscitate dalla Grundlegung – e di cui l’eco risuona specialmente nella prefazione della Critica – sono già state minutamente illustrate dal Natorp nella sua edizione5: quanto sembrava necessario ad intendere il testo si è – anche se in forma estremamente succinta – indicato nelle note aggiunte a questa ristampa. Un più preciso elenco delle edizioni e delle traduzioni – troppo sommariamente indicate dal Capra fino al 1908 – per essere veramente utile dovrebbe trasformarsi in un capitolo, e non certo dei meno importanti, di storia della cultura filosofica6. La traduzione latina del Born comparve nel 1797 nel terzo volume della sua versione delle opere kantiane, insieme con la Critica del Giudizio (IMMANUELIS KANTII Opera ad Philosophiam Criticam latine vertit Fredericus Gottlob Born. Volumen tertium Lipsiae, Impensis Engelhard Ben. Schwickerti, 1797, pp. I-XVIII [prefazione di Kant], XIX-XXI [indice], 1-168). Ma anche in Inghilterra sembra essersi destato molto presto l’interesse per gli scritti morali di Kant (Essays and Treatises on moral, political, and various philosophical subjects. From the German by the translator of the principles of Critical Philosophy, voll. 2, London, William Richardson, 1798-9). Nel 1873, stampate a Dublino, ma edite a Londra, cominciano a uscire le versioni degli scritti morali di Kant a cura di Thomas Kingsmill Abbot,

vissuto fra il 1829 e il 1913 (KANT’S Theory of Ethics of Practical Philosophy: comprising 1. Fundamental Principles of the metaphysics of morals. 2. Dialectic and methodology of practical reason. 3. On the Radical Evil in human nature, Translated by T.K. Abbot, London 1873; KANT’S Critique of Practical Reason, and Other Works on the Theory of Ethics, Translated by T.K. Abbot... An enlarged edition..., 1879; terza ed. 1883). Nel 1949 è uscita una traduzione americana a Chicago (Critique of Practical Reason and Other Writings in Moral Philosophy [la Fondazione, la Distinzione dei princìpi della teologia naturale e della morale, lo scritto sull’Illuminismo ecc.]. Translated and Edited, with an Introduction, by Lewis White Beck, The University of Chicago Press,1949). Nel 1848, a cura del Barni, usciva la fortunatissima prima traduzione francese (Critique de la Raison Pratique, précédée des Fondements de la métaphysique des moeurs, trad. par. J. Barni, Paris 1848), seguita nel 1888 da quella del Picavet (edita più volte dall’Alcan, e nel 1943 «avec une introduction nouvelle de Ferdinand Alquié»), e nel 1945 da quella del Gibelin7. In Italia, dopo quella del Capra, completa, si ebbero non poche edizioni parziali della Critica, alcune delle quali assai pregevoli8, per uso scolastico. Eugenio Garin 1

Immanuel Kant, Critique of pure reason, In Commemoration of the centenary of its First Pubblication, translated into english by Max Müller, Macmillan, London 1881, vol. I, p. XIV. Per le oscillazioni a proposito di termini caratteristici della morale cfr. per es. le note del Delbos, La philosophie pratique de Kant, Paris 1905, pp. 340-2, sul rispetto (Achtung), avvicinato all’amore ragionevole di sé, all’approvazione di sé (Selbstbilligung), alla soddisfazione di sé (Selbstzufriedenheit), a una facoltà di bastarsi (Selbstgenugsamkeit), pp. 433-34, su Wille e Willkür ecc. (cfr. anche Rudolf Eisler, Kant-Lexikon, Berlin, 1930, oltre a H. Ratke, Systemat. Handlexikon zur Kr. d. r. V., Leipzig 1929). 2 Kant’s Werke, Band V, Berlin 1908, pp. 1-163. 3 Kant’s Werke, Band V, Berlin 1914. 4 Critik / der / praktischen Vernunft / von / Immanuel Kant. / Vierte Auflage. / Riga, / bey Johan Friedrich Hartknoch. / 1797. Secondo il Natorp, loc. cit., p. 498, l’indicazione quarta edizione sarebbe dovuta dal fatto che la tiratura della seconda edizione era stata di 2000 esemplari invece dei soliti mille. 5 Cfr. le pp. 489-509, dell’ed. dell’Accademia. Sul testo della Critica, oltre le correzioni del Grillo, Druckfehlerverzeichnis, «Philos. Anzeiger», I. Jahrg., 1795 (non «un dott. Grillo» – come scriveva il Gentile – ma Friedrich Grillo [1739-1802] professore di filosofia ‘bei dem Kadettenkorps’ a Berlino), cfr. Erich Adickes, Korrekturen und Konjekturen zu Kants etischen Schriften, «Kantstudien», V, 1901, pp. 211-4; Emil Wille, Konjekturen zu Kants Kritik der praktischen Vernunft, «Kantstudien», VIII, 1903, pp. 467-71.

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La prima ed. del 1788, Riga, Johann Friedrich Hartknoch, ha lo stesso numero di pagine (292) della III-IV. La seconda, che doveva uscire nel ’90, vide la luce dallo stesso editore nel 1792 (dopo la morte di Kant fu ancora ristampata nel 1818 e nel 1827). Fu inclusa nella raccolta delle opere del Rosenkranz-Schubert (1838), nelle due dello Hartenstein (1838 e 1867), in quella di J. H. von Kirchmann (1869), oltre che in quelle già citate dell’Accademia e del Cassirer. Fu pubblicata dal Kehrbach nella Reclam, e dal Vorländer (Lipsia, 1906). Sono ristampe abusive quelle del 1791 e del 1795 a Francoforte e a Lipsia, e quella del 1796 a Grätz. 7 Nel 1879 usciva una traduzione russa: trad. spagnola a cura di Manuel Garcia Morente, autore anche di uno studio su La filosofia de Kant, 1917 (cfr. José Ferrater Mora, Diccionario de filosofia, México 1941, pp. 218 e 303). 8 A cura di G. Vidari (Torino, 1924); di C. Motzo Dentice di Accadia (Firenze 1932), di G. E. Barié (Firenze, 1936). A proposito di quanto è accennato sopra circa le variazioni della terminologia kantiana è da vedere il notevole saggio di G . Tonelli, La formazione del testo della «Kritik der Urteilskraft», «Revue Internationale de Philos.», n. 30, 1954, fasc. 4 (tutto dedicato a Kant). La più recente letteratura kantiana è esaminata da L. Sichirollo nell’accurata rassegna Per una storia della storiografia kantiana, «Studi Urbinati», anno XXVI, 1952 [1953], pp. 95-113 (v. anche W. H. Walsh, A Survey of Work on Kant, «Philos. Quarterly», 1953, pp. 257-70). Numerose le pubblicazioni del ’54 per memoria dei 150 anni dalla morte: cfr. per es. il vol. delle «Kantstudien» (Band 45, Heft 1-4, 1953-4) «zur Erinnerung an Immanuel Kant aus Anlass der einhundertfünfzigsten Wiederkehr seines Todestages 12. Februar 1954».

Critica della ragion pratica

[3] Prefazione

La seguente trattazione spiega abbastanza il motivo per cui questa Critica non è intitolata Critica della ragion p u r a pratica, ma semplicemente Critica della ragion pratica in genere, benché il parallelismo di essa con la ragione speculativa sembri richiedere il primo titolo. Essa deve semplicemente dimostrare che v i è u n a r a g i o n p u r a p r a t i c a, e a questo fine ne critica l ’ i n t e r a f a c o l t à p r a t i c a. Se riesce in ciò, essa non ha bisogno di criticare la s t e s s a f a c o l t à p u r a , per vedere se la ragione n o n o l t r e p a s s i se stessa con questa facoltà, come con una semplice presunzione (come invero accade con la ragione speculativa). Poiché se essa, come ragion pura, è veramente pratica, dimostra la realtà propria e quella dei suoi concetti mediante il fatto, ed è vano ogni sofisticare contro la sua possibilità di esser tale. [4] Con questa facoltà è ormai stabilita anche la l i b e r t à trascendentale e, invero, presa nel senso assoluto del quale aveva bisogno la ragione speculativa nell’uso del concetto di causalità, per scampare dall’antinomia in cui essa inevitabilmente cade quando vuol concepire l ’ i n c o n d i z i o n a t o nella serie delle relazioni causali; il quale concetto però essa poteva stabilire il modo solamente problematico, come non impossibile a pensare, senza assicurargli la realtà oggettiva, soltanto per non esser attaccata nella sua essenza e precipitata in un abisso di scetticismo, mediante la pretesa impossibilità di ciò che essa deve lasciar valere almeno come pensabile. Il concetto della libertà, in quanto la realtà di essa è dimostrata mediante una legge apodittica della ragion pratica, costituisce la c h i a v e d i v o l t a dell’intero edificio di un sistema della ragion pura, anche della speculativa, e tutti gli altri concetti (quelli di Dio e dell’immortalità), i quali, come semplici idee, nella ragione speculativa rimangono senza sostegno, ora si uniscono ad esso e ricevono con esso e per mezzo di esso la stabilità [5] e la realtà oggettiva, ossia la loro p o s s i b i l i t à è d i m o s t r a t a dal fatto che la

libertà è reale; poiché quest’idea si manifesta con la legge morale. Ma la libertà è anche l’unica fra tutte le idee della ragione speculativa di cui noi c o n o s c i a m o a priori la possibilità senza tutta via percepirla, perché essa è la condizioneI della legge [6] morale che noi conosciamo. Le idee di D i o e d e l l ’ i m m o r t a l i t à, invece, non sono condizioni della legge morale, ma soltanto condizioni dell’oggetto necessario di una volontà determinata mediante questa legge, cioè dell’uso semplicemente pratico della nostra ragion pura. Quindi noi possiamo affermare di non c o n o s c e r e , n é p e r c e p i r e , non dico semplicemente la realtà, ma neanche la possibilità di queste idee. Nondimeno queste sono le condizioni dell’applicazione della volontà determinata moralmente all’oggetto che le è dato a p r i o r i (il sommo bene). Perciò si può e si deve a m m e t t e r e la loro possibilità in questa relazione pratica, senza però conoscerla né percepirla teoricamente. Per quest’ultima esigenza è sufficiente allo scopo pratico che esse non contengano impossibilità interna (contraddizione). Questo è il fondamento del consenso, semplicemente s o g g e t t i v o in confronto con la ragione speculativa, ma di valore o g g e t t i v o per una ragione bensì pura, ma pratica, pel quale alle idee di Dio e della immortalità mediante il concetto della libertà son procurati la realtà oggettiva e il diritto, anzi la necessità soggettiva (bisogno della ragion pura) di ammetterle, senza che perciò tuttavia la ragione sia estesa nella sua conoscenza teoretica; vien data soltanto la possibilità, che prima [7] era solo un p r o b l e m a , e qui diventa a s s e r z i o n e , è così l’uso pratico della ragione è connesso con gli elementi dell’uso teoretico. E questo bisogno non è il bisogno quasi ipotetico di un intento a r b i t r a r i o della speculazione, che si debba ammettere qualcosa, se si vuol salire alla perfezione dell’uso della ragione nella speculazione; ma è bisogno [avente forza] di l e g g e ammettere qualcosa senza cui non può avvenire ciò che irremissibilmente si d e v e porre come scopo del proprio fare e per mettere. Senza dubbio sarebbe più soddisfacente per la nostra ragione speculativa risolvere da sé quei problemi, senza questo rigiro, e conservarli come criterio per l’uso pratico; ma la cosa non va così bene per la nostra facoltà di speculazione. Quelli che si vantano di avere cognizioni così alte, non dovrebbero nasconderle, ma esporle pubblicamente all’esame e alla venerazione. Essi vogliono d i m o s t r a r e ; ebbene! dimostrino pure, e la critica deporrà le armi ai loro piedi, come a vincitori. Quid statis? Nolint.

Atqui licet esse beatis1. – Dunque, siccome veramente [8] non vogliono, probabilmente per ché non possono, così noi dobbiamo solo riprendere in mano le armi per cercare nell’uso morale della ragione, e fondar su di esso, i concetti di D i o , l i b e r t à e i m m o r t a l i t à , alla cui p o s s i b i l i t à la speculazione non trova garanzia sufficiente. Qui si spiega anche anzitutto l ’ e n i g m a della critica, come nella speculazione si possa n e g a r e l a r e a l t à oggettiva all’uso soprasensibile delle c a t e g o r i e , eppure questa r e a l t à si possa loro c o n c e d e r e relativamente agli oggetti della ragion pura pratica; poiché ciò deve necessariamente parere i n c o e r e n t e , finché si conosce un simile uso pratico soltanto di nome. Ma se ora, mediante un’analisi compiuta di questa, si viene a conoscere che la realtà pensata qui non riesce punto a una d e t e r m i n a z i o n e t e o r e t i c a d e l l e c a t e g o r i e, né a un’estensione della conoscenza al soprasensibile, ma è solo creduta per il fatto che alle categorie in questa relazione conviene dappertutto un o g g e t t o , perché esse, o sono contenute nella determinazione necessaria a p r i o r i della volontà, o sono [9] legate indissolubilmente coll’oggetto di essa; quell’incoerenza scompare, perché di quei concetti si fa un uso diverso da quello di cui aveva bisogno la ragione speculativa. Invece si presenta una conferma, che era appena da aspettare ed è assai soddisfacente, della c o e r e n z a del modo di p e n s a r e della Critica speculativa, in ciò che, mentre questa ingiungeva di lasciar valere soltanto come f e n o m e n i gli oggetti dell’esperienza come tali, e perciò anche il nostro soggetto, e nondimeno di porre loro a fondamento le cose in se stesse, e quindi di non tenere tutto il soprasensibile per invenzione e il concetto di esso vuoto di contenuto; ora la ragion pratica, per se stessa e senza aver fatto un accordo colla ragione speculativa, procura la realtà a un oggetto soprasensibile della categoria della causalità, cioè alla l i b e r t à (benché, come concetto pratico, anche soltanto per l’uso pratico), e perciò conferma mediante un fatto quello che colla speculazione poteva essere semplicemente p e n s a t o . Nello stesso tempo, insieme con questa, la strana, benché indubitabile asserzione della Critica speculativa, che anche il s o g g e t t o p e n s a n t e è a s e s t e s s o , nell’ i n t u i z i o n e i n t e r n a , s e m p l i c e m e n t e u n f e n o m e n o , riceve la sua piena conferma nella Critica della ragion pratica, e in modo tale che si [10] dovrebbe giungere a questa conferma anche se la prima Critica non avesse dimostrato affatto questa proposizioneII.

Quindi comprendo anche perché le obbiezioni più notevoli contro la Critica, che finora mi siano occorse, si aggirino appunto su questi due pernî: cioè da u n a p a r t e la realtà oggettiva delle categorie applicate ai noumeni, negata nella conoscenza teoretica e affermata nella conoscenza pratica, d a l l ’ a l t r a p a r t e l’esigenza paradossale di far se stesso, come soggetto della libertà, noumeno, ma, nello stesso tempo, rispetto alla natura, nella propria coscienza empirica, fenomeno. Poiché, finché non ci fossimo fatto un concetto determinato della [11] moralità e della libertà non potevamo indovinare, da una parte che cosa si deve porre come noumeno a fondamento del supposto fenomeno, e dall’altra se è possibile in genere farci ancora un concetto del noumeno, se prima si erano già applicati tutti i concetti dell’intelletto puro nell’uso teoretico esclusivamente ai semplici fenomeni. Solo un’ampia critica della ragion pratica può togliere tutti questi equivoci, e porre bene in chiaro il modo coerente di pensare che costituisce appunto il suo maggior pregio. Questo per render ragione del fatto che in quest’opera i concetti e i princìpi della ragion pura speculativa, che pure hanno già sostenuto la loro critica speciale, sono di nuovo sottoposti ad esame; cosa che del resto non conviene al processo sistematico con cui viene stabilita una scienza (dove cose giudicate definitivamente possono essere giustamente citate, ma non di nuovo discusse), ma che q u i era lecita, anzi necessaria; perché la ragione vien considerata nel passaggio a un uso di quei concetti [12] affatto diverso da quello che là e s s a ne faceva. Ma un tale passaggio rende necessario un confronto dell’uso antico col nuovo, per distinguere bene la via nuova dalla precedente, e nello stesso tempo far notare la connessione tra di loro. Considerazioni dunque di questo genere, tra le altre quelle che furono rivolte ancora una volta al concetto della libertà (ma nell’uso pratico della ragion pura), non si riterranno interpolazioni che debbano forse servire soltanto a riempire i vuoti del sistema critico della ragione speculativa (poiché questo sistema dal suo punto di vista è perfetto), e a mettervi ancora sostegni e contrafforti, come suole avvenire in un edificio costruito troppo in fretta; ma si riterranno membra genuine, che rendono visibile la coerenza del sistema, in modo da far percepire ad esso, nella loro rappresentazione reale, concetti che prima potevano esser pensati in modo solo problematico. Questa osservazione riguarda specialmente il concetto della libertà, del quale si deve notare con meraviglia, come ancor tanti si vantino di poterlo comprendere

benissimo e di poterne spiegare la possibilità, perché lo considerano semplicemente sotto l’aspetto psicologico, laddove se prima l’avessero esaminato [13] accuratamente sotto l’aspetto trascendentale, avrebbero conosciuto tanto la sua n e c e s s i t à assoluta come concetto problematico nell’uso completo della ragione speculativa, quanto anche la sua totale i n c o m p r e n s i b i l i t à . Se poi fossero andati al suo uso pratico, avrebbero dovuto giungere da sé proprio alla stessa determinazione di quest’uso riguardo ai suoi princìpi, alla quale consentono così malvolentieri. Il concetto della libertà è l’inciampo di tutti gli e m p i r i s t i , ma anche la chiave dei princìpi pratici supremi per i moralisti c r i t i c i , che per mezzo di esso comprendono di dover necessariamente procedere in modo r a z i o n a l e . Perciò prego il lettore di non scorrere con occhio distratto ciò che su questo concetto si dirà in fine dell’Analitica. Se un tale sistema, come la ragion pura pratica qui lo sviluppa dalla sua critica, abbia speso molta o poca fatica per non smarrire il vero punto di vista da cui può esser ben disegnato l’insieme di esso, devo lasciarne giudicare a chi conosce questo [14] genere di lavoro. Esso suppone invero il Fondamento alla metafisica dei costumi, ma solo in quanto questo scritto dà la prima conoscenza del principio del dovere, e trova e giustifica una formula determinata del dovereIII; del resto, esso sussiste per sé. Se la d i v i s i o n e di tutte le s c i e n z e pratiche non è qui aggiunta a c o m p l e m e n t o , come fece la Critica della ragione speculativa, il motivo valido di ciò è da trovare nella natura di questa facoltà pratica della ragione. Poiché la determinazione [15] particolare dei doveri come doveri umani, per la divisione di essi, è possibile solo se prima si è conosciuto il soggetto di questa determinazione (l’uomo), secondo la natura con la quale egli realmente esiste, benché solo per quanto è necessario in relazione al dovere in genere. Ma questa determinazione non spetta a una critica della ragion pratica in genere, la quale deve solo stabilire perfettamente i princìpi della possibilità, dell’estensione e dei limiti della ragion pratica senza particolare relazione alla natura umana. La divisione spetta, dunque, in questo caso al sistema della scienza, non al sistema della critica. [16] Nel secondo capitolo dell’Analitica ho soddisfatto, come spero, un certo critico2 amante della verità e severo, ma sempre degno di estimazione, che obbiettava che, nel Fondamento alla metafisica dei costumi, i l concetto del bene non è stabilito prima del principio

m o r a l e (come a suo parere sarebbe stato necessario)IV. Ho pure tenuto conto di altre [17] obbiezioni, che mi sono venute da uomini che dimostrano di avere a cuore la scoperta della verità (poiché coloro che hanno [18] presente soltanto il loro vecchio sistema, e per cui è già stabilito prima ciò che devono approvare e ciò che devono disapprovare, non desiderano nessuna spiegazione che potrebbe esser d’ostacolo al loro peculiare modo di vedere); e così mi regolerò anche in avvenire. Quando si tratta della determinazione di una facoltà particolare dell’anima umana, quanto alle sue origini, al suo contenuto e ai suoi limiti, non si può invero, secondo la natura della conoscenza umana, cominciare da altro che dalle p a r t i di questa determinazione, dalla spiegazione esatta e (per quanto lo permette la condizione presente dei princìpi da noi già acquisiti) completa di esse. Ma si deve ancora far attenzione a un’altra cosa, che è più filosofica e più a r c h i t e t t o n i c a : cioè ad afferrar bene l ’ i d e a d e l t u t t o , e da essa, in una facoltà razionale pura, tutte quelle parti nella loro relazione reciproca, mediante la loro dipendenza dal concetto di quel tutto. Questo [19] esame e questa garanzia sono solo possibili con l’intima conoscenza del sistema; e coloro che sono rimasti neghittosi riguardo alla prima ricerca, e perciò non hanno stimato meritevoli di fatica l’acquisto di questa condizione, non arrivano al secondo gradino, cioè a quella veduta che è un ritorno sintetico a ciò che prima è stato dato analiticamente; e non c’è da meravigliarsi se essi trovano dovunque incoerenze, sebbene le lacune che essi fanno supporre, non si trovino proprio nel sistema ma semplicemente nel loro modo sconnesso di pensare. Riguardo a questa trattazione, non mi preoccupo del rimprovero di introdurre un nuovo l i n g u a g g i o , perché questo genere di conoscenza si avvicina di per sé alla popolarità. Questo rimprovero, anche riguardo alla prima Critica, non poteva venire in mente ad alcuno che l’avesse non soltanto letta superficialmente, ma meditata. Foggiar nuove parole, quando il [20] linguaggio non manca già di espressioni per dati concetti, è uno sforzo puerile nel distinguersi dalla folla, se non per concetti nuovi e veri, almeno per un pezzo di panno nuovo sopra l’abito vecchio. Quindi se i lettori di quell’opera conoscono espressioni più popolari, che pure siano così adatte al pensiero come a me pare siano le altre, o se mai sono capaci di dimostrare il nessun valore di quel pensiero, e perciò anche di ogni espressione che lo denota: nel primo caso obbligheranno molto la mia riconoscenza, perché io

voglio soltanto essere compreso; nel secondo caso poi saranno benemeriti della filosofia. Ma finché quei pensieri rimangono, dubito molto che si possano trovare per essi altre espressioni più adatte e più in usoV. [21] In questo modo dunque i princìpi a p r i o r i di due facoltà [22] dello spirito, della facoltà della conoscenza e di quella del desiderio, sarebbero ormai trovati e determinati secondo le condizioni, [23] l’estensione e i limiti del loro uso; e con ciò sarebbe posto un fondamento sicuro a una filosofia sistematica, tanto teoretica come pratica, in quanto scienza. Ma invero niente di peggio potrebbe succedere a questi sforzi, che se qualcuno facesse l’inattesa scoperta che non vi è in nessun luogo, né vi può essere, conoscenza a p r i o r i . Ma di ciò non v’è pericolo. Sarebbe come se qualcuno volesse dimostrare mediante la ragione che non vi è ragione. Poiché noi diciamo di conoscere qualcosa mediante la ragione soltanto se sappiamo che avremmo potuto conoscere questa cosa anche se essa non ci [24] fosse apparsa tale nell’esperienza; quindi la conoscenza razionale e la conoscenza a p r i o r i sono identiche. È una vera contraddizione voler ricavare la necessità da una proposizione empirica (ex pumice aquam)3, e con questa necessità voler procurare a un giudizio anche la vera universalità (senza le quali non vi è nessuna deduzione razionale, e quindi nemmeno la deduzione per analogia, poiché l’analogia è un’universalità ed è una necessità soggettiva almeno presunta, e quindi suppone sempre l’universalità e la necessità vera). Sostituire la necessità soggettiva, cioè l’abitudine, a quella oggettiva, che ha luogo soltanto nei giudizi a p r i o r i , vuol dire negare alla ragione la facoltà di giudicare l’oggetto, cioè di conoscere l’oggetto e ciò che gli appartiene, per es., di ciò che seguì sempre a un certo stato antecedente, non dire che si può c o n c l u d e r e da questo a quello (poiché ciò significherebbe la necessità oggettiva e il concetto di un legame a p r i o r i), ma soltanto che ci sarebbero da aspettare (allo stesso modo delle bestie) casi simili, cioè, in sostanza, [25] rigettare il concetto di causa come falso e come semplice illusione. Se voler riparare a questa mancanza di valore oggettivo, e perciò universale, col dire che non si vede nessun motivo di attribuire un altro modo di rappresentazione ad altri esseri razionali, fosse un procedimento valido, la nostra ignoranza servirebbe, più che ogni riflessione, all’estensione della nostra conoscenza. Poiché semplicemente per il fatto che noi non conosciamo altri esseri razionali oltre l’uomo, avremmo una ragione di supporli tali quali noi conosciamo di essere; cioè noi li conosceremmo realmente. Io qui non

ricordo neppure che l’universalità del consenso non dimostra il valore oggettivo di un giudizio (cioè il valore di esso come conoscenza); se anche quell’universalità, per caso, avesse luogo, non potrebbe ancora fornire una prova dell’accordo con l’oggetto; anzi, soltanto il valore oggettivo costituisce il fondamento di un consenso universale necessario. [26] Hume4 si adatterebbe anche benissimo ai princìpi, in questo sistema dell’e m p i r i s m o u n i v e r s a l e , poiché, com’è noto, egli non desiderava nient’altro se non che nel concetto di causa, invece di ogni significato oggettivo della necessità, ne fosse ammesso uno semplicemente soggettivo, cioè l’abitudine, per negare alla ragione ogni giudizio su Dio, la libertà e l’immortalità; ed era certamente assai capace, purché gli si concedessero i prin-cìpi, di trarne le conseguenze con tutta la precisione logica. Ma Hume stesso non fece così universale l’empirismo da includervi anche la matematica. Egli riteneva i suoi princìpi come analitici, e, se ciò fosse giusto, essi veramente sarebbero anche apodittici; non di meno da questo non si potrebbe conchiudere niente riguardo a una facoltà della ragione di produrre anche nella filosofia giudizi apodittici cioè sintetici (come il principio della causalità). Ma, se si ammettesse come u n i v e r s a l e l’empirismo dei princìpi, vi sarebbe compresa anche la matematica. [27] Ora, se questa viene a contrasto con la ragione, che ammette princìpi semplicemente empirici, com’è inevitabile nell’antinomia, in cui la matematica dimostra in modo inconfutabile la divisibilità infinita dello spazio, e l’empirismo invece non la può ammettere; allora la maggior evidenza possibile della dimostrazione è in aperta contraddizione con le pretese deduzioni dai princìpi dell’esperienza, e si deve domandare come il cieco di Cheselden5: che cos’è che m’inganna, la vista o il tatto? (poiché l’empirismo si fonda su una necessità s e n t i t a , ma il razionalismo su una necessità c o n o s c i u t a )6. E così l’empirismo universale si manifesta come il vero s c e t t i c i s m o che a torto si attribuì a Hume in senso così illimitatoVI perché egli almeno [28] lasciava alla matematica una pietra di paragone dell’esperienza, laddove lo scetticismo non ne ammette alcuna (perché la prova può sempre soltanto esser trovata nei princìpi a p r i o r i), benché l’esperienza non consista solo di sentimenti, ma anche di giudizi. Tuttavia, siccome in questo secolo filosofico e critico difficilmente si può prender sul serio quell’empirismo, e probabilmente lo si espone solo per esercitare la facoltà del giudizio a metter più in chiaro mediante il contrasto la

necessità di princìpi razionali a p r i o r i, così si può esser grati a coloro i quali si applicarono a questo lavoro, che nel resto non è istruttivo. 1

Hor. Sat., I, I, 19. [T] [È il recensore della Grundlegung nella «Allgemeinen deutschen Bibliothek», Bd. 66, pp. 447 e sgg., il Pastore Hermann Andreas Pistorius (1730-1798), commentatore delle Observations di Hartley tradotte da v. Spieren.] 3 [Plaut. Pers., I, 1, 42: aquam a pumice postulare.] 4 [Cfr. oltre, p. 141. Kant si riferisce, a proposito del carattere analitico e apodittico della matematica a Inquiry concerning Human Understanding, sect. IV. Ma cfr., oltre al Treatise, Inquiry, sect. XII, 2.] 5 Il chirurgo inglese, Guglielmo Cheselden (1688-1752), operò nel 1728 un cieco nato, rendendogli la vista col mezzo della pupilla artificiale. [T] 6 L’italiano non può riprodurre l’analogia, soltanto letterale, di Gesicht (vista) e Gefühl (tatto) con eingesehenen e gefühlten, che qui non hanno il senso proprio di v e d u t o e t o c c a t o , ma quello traslato di c o n o s c i u t o e s e n t i t o . [T] I Perché qui non si creda di trovare i n c o e r e n z e , se ora chiamo la libertà la condizione della legge morale, e poi nella trattazione asserisco che la legge morale è la condizione alla quale solamente possiamo d i v e n t a r c o n s c i i della libertà, ricorderò soltanto che la libertà è senza dubbio la ratio essendi della legge morale, ma la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà. Poiché, se la legge morale non fosse prima pensata chiaramente nella nostra ragione, noi non ci terremmo mai autorizzati a d a m m e t t e r e una cosa come la libertà (benché questa non sia contraddittoria). Ma se non vi fosse libertà, la legge morale non si potrebbe assolutamente t r o v a r e in noi. [Le incoerenze – Inconsequenz – a cui qui Kant allude, gli erano state rimproverate in una recensione «di Tubinga», uscita nel febbraio del 1786, sulla Grundlegung («Tüb. gel. Anz.», 1786, 14. Stück, 16. Febr., pp. 105 sgg.), attribuita da Hamann, in una lettera a Jacobi del 13 maggio 1786, a Gottlob August Tittel, ma in realtà opera del professore di Tubinga J. Fr. Flatt (1759-1821). Dall’accusa di circolo vizioso Kant tornerà a difendersi in una lettera a Kieseweter del 20 aprile 1790 (Brief wechsel, II, p. 152), osservando che (cfr. V. Delbos, La philosophie pratique de Kant, Paris 1905, p. 139, n. 1) «la libertà concepita come causalità della volontà degli esseri ragionevoli, e la legge morale incondizionata, sono due determinazioni semplicemente reciproche dell’idea trascendentale, posta antecedentemente, di una libertà cosmologica».] II L’unione della causalità come libertà con la causalità come meccanismo naturale, delle quali la prima è mediante la legge morale, la seconda mediante la legge naturale, e invero in un solo e medesimo soggetto, cioè l’uomo, è impossibile se l’uomo non vien rappresentato relativamente alla prima legge come essere in sé, e relativamente alla seconda come fenomeno, quello nella coscienza p u r a , questo nell’e m p i r i c a . Senza di che la contraddizione della ragione con se stessa è inevitabile. III Un critico, volendo dire qualcosa in biasimo di quest’opera, ci è riuscito meglio di quanto egli stesso poteva pensare, poiché dice che in quest’opera non fu stabilito alcun nuovo principio della moralità, ma soltanto una n u o v a f o r m u l a . Ma chi pretenderebbe introdurre anche un nuovo principio di tutta la moralità, ed esser quasi il primo a trovar questa? Come se prima di lui il mondo avesse ignorato in che consista il dovere, o a questo riguardo fosse stato in un errore universale. Ma chi sa che cosa significa pel matematico una f o r m u l a che determina esattamente ciò che è da fare per eseguire un problema, e non permette di 2

sbagliare, non stimerà come qualcosa d’insignificante e d’inutile una formula che ha un simile ufficio riguardo a ogni dovere. [Il ‘critico’ a cui Kant allude è, qui, G. A. Tittel nato il 16 novembre 1739 a Pirna, morto il 16 settembre 1816 in Karlsruhe, nel cui Gymnasium insegnò dal 1764. Filosofo eclettico, scrisse sulla Grundlegung: Ueber Herrn Kants Moralreform, Frankfurt und Leipzig, 1786 (cfr. anche: Kantische Denkformen oder Kategorien, 1788), ove, appunto, p. 35, si chiedeva fra l’altro: «Soll denn die ganze Kantische Moralreform etwa nur auf ein neue Formel sich beschränken?».] IV Mi si potrebbe ancora obbiettare, per qual ragione non ho anche spiegato pri ma il concetto della f a c o l t à d i d e s i d e r a r e o d e l s e n t i m e n t o d e l p i a c e r e ; quest’obbiezione tuttavia sarebbe ingiusta perché si doveva ragionevolmente supporre questa spiegazione come data nella psicologia. Ma quivi, a dir vero, la definizione potrebbe essere stabilita in modo che il sentimento del piacere fosse posto a base della determinazione della facoltà di desiderare (come anche realmente suole avvenire in generale); per altro, così, il principio supremo della filosofia pratica verrebbe necessariamente ad essere e m p i r i c o . La qual cosa è da decidere anzitutto, e in questa Critica sarà confutata interamente. Perciò qui voglio dare questa spiegazione, come dev’esser data, per lasciare, com’è giusto in principio, insoluto questo punto controverso. – La vita è la facoltà, che un essere ha, di agire secondo le leggi della facoltà di desiderare. L a f a c o l t à d i d e s i d e r a r e è l a f a c o l t à di quest’essere d i e s s e r e m e d i a n t e l e s u e r a p p r e s e n t a z i o n i l a c a u s a della realtà degli oggetti di queste rappresentazioni. Il piacere è la rappresentazione della corrispondenza dell’oggetto o dell’azione colle condizioni soggettive della vita, cioè col potere di causalità di una rappresentazione relativamente alla r e a l t à d e l s u o o g g e t t o (o determinazione delle forze del soggetto all’azione di produrre l’oggetto). Di altri concetti che siano presi in prestito dalla psicologia, [17] io non ho bisogno per la critica. Il resto lo fa la critica stessa. Si può vedere facilmente che con questa spiegazione rimane insoluta la questione, se il piacere debba sempre esser posto a base della facoltà di desiderare, oppure se sotto certe condizioni esso segua alla determinazione di questa facoltà; poiché questa spiegazione consta di sole caratteristiche dell’intelletto puro, cioè di categorie, e queste non contengono niente d’empirico. Una tale precauzione è da raccomandar molto in tutta la filosofia, mentre viene spesso trascurata: e cioè bisogna guardarsi dal precorrere con una definizione arrischiata i propri giudizi, prima di una analisi compiuta del concetto, la quale spesso non vien condotta a termine che dopo lungo tempo. Mediante l’intero corso della critica (tanto teoretica come pratica) si vedrà pure che in esso si trovano varie occasioni di supplire a parecchie deficienze del vecchio procedimento dogmatico della filosofia, e di correggere difetti che non si scorgono prima di fare dei concetti un uso di ragione che spetta all’insieme di questa. V Più di quella oscurità io mi curo qui e nuovamente della cattiva interpretazione riguardo ad alcune espressioni, che io scelsi con grandissima cura per non lasciar equivoco circa il concetto che esse indicano. Così nella tavola delle categorie della ragion p r a t i c a , sotto il titolo della modalità, il l e c i t o e [21] l ’ i l l e c i t o (ciò che è, in modo praticamente obbiettivo, possibile o impossibile) nell’uso comune hanno un senso quasi uguale a quello della categoria seguente del d o v e r e e del c o n t r a r i o d e l d o v e r e : qui invece la prima categoria deve significare ciò che è in armonia o in contraddizione con un precetto pratico semplicemente p o s s i b i l e (come, per es., la soluzione di tutti i problemi della geometria e della meccanica), la s e c o n d a , ciò che si trova in tale relazione con una legge che è

r e a l m e n t e nella ragione in genere. Questa differenza di significato non è neanche del tutto estranea all’uso comune, sebbene essa sia qualcosa d’insolito. Così per es., a un oratore, come tale, non è l e c i t o fabbricar nuove parole o sostituzioni di parole, al poeta ciò è l e c i t o fino ad un certo punto, ma in nessuno dei due casi qui si pensa al dovere. Poiché chi vuol privarsi della fama di oratore, non può esser impedito in ciò da nessuno. Qui si deve solo porre la distinzione degli i m p e r a t i v i in motivi determinanti p r o b l e m a t i c i , a s s e r t o r i i e a p o d i t t i c i . Così in quella nota dove [22] posi l’una contro l’altra le idee morali della percezione pratica nelle diverse scuole filosofiche, distinsi l’idea della saggezza da quella della santità, benché in sostanza e oggettivamente le abbia dichiarate identiche. Ma in questo luogo io intendo per saggezza soltanto quella che l’uomo (lo stoico) si attribuisce, dunque, s o g g e t t i v a m e n t e , come una proprietà attribuita all’uomo. (Forse l’espressione v i r t ù , di cui lo stoico faceva sì grande sfoggio, potrebbe meglio designare la caratteristica della sua scuola.) Ma l’espressione di un p o s t u l a t o della ragion pura pratica potrebbe ancora dar motivo più di tutto a una falsa interpretazione, se si confondesse col senso che hanno i postulati della matematica pura, i quali implicano la certezza apodittica. Ma questi postulano la p o s s i b i l i t à d i u n ’ a z i o n e il cui oggetto è conosciuto prima a p r i o r i , teoreticamente con piena certezza come p o s s i b i l e ; quello postula, invece, la possibilità di un o g g e t t o (Dio e l’immortalità dell’anima), inferendola da leggi p r a t i c h e apodittiche, quindi soltanto per uso di una ragione pratica; poiché [23] questa certezza della possibilità postulata non è affatto una necessità teoretica, quindi nemmeno apodittica, cioè riconosciuta relativamente all’oggetto, ma è una supposizione necessaria relativamente al soggetto, per l’osservanza delle sue leggi oggettive, ma pratiche, e perciò semplicemente un’ipotesi necessaria. Non saprei trovare espressione migliore per questa necessità razionale soggettiva, ma pure vera e incondizionata. VI I nomi che designano i seguaci di una setta hanno sempre dato luogo a molti cavilli; come per es. se alcuno dicesse: N. è u n i d e a l i s t a , perché, quantunque non solo ammetta assolutamente che alle nostre rappresentazioni [28] di cose esterne corrispondono oggetti reali di cose esterne, ma insista su ciò, egli vuole tuttavia che la forma dell’intuizione di queste cose non dipenda da esse, ma soltanto dallo spirito umano. [C’è qui un’allusione alla ben nota recensione alla Critica della ragion pura, fatta da Cristiano Garve (1742-98) e abbreviata da G. G. Enrico Feder (1740-1821) a cui Kant rispose nell’appendice ai Prolegomeni. La recensione era comparsa nel numero del 19 gennaio 1782 delle «Geleherte Anzeigen» di Gottinga, ma nell’agosto del 1783 il Garve pubblicò nella propria stesura originale il testo (che il Feder aveva abbreviato) nell’«Allgem. deutsche Bibliothek» del Nicolai. «Commentator des Feders» chiamava Hamann l’altro critico di Kant ricordato sopra, il Tittel. Nella sua autobiografia (Leben, Natur und Grundsätze, 1825) il Feder farà la «storia delle sue controversie circa la filosofia kantiana».]

[29] Introduzione Dell’idea di una critica della ragion pratica

L’uso teoretico della ragione si applicava agli oggetti della sola facoltà della conoscenza, e una critica della ragione, relativamente a quest’uso, riguardava solo propriamente la facoltà pura della conoscenza, poiché questa faceva nascere il sospetto, che si confermava anche in seguito, che essa si perdesse facilmente oltre i suoi limiti, dietro oggetti inaccessibili o concetti affatto contraddittori. Con l’uso pratico della ragione accade ormai diversamente. In questo la ragione si applica ai motivi determinanti della volontà, la quale è una facoltà o di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni, oppure di determinare se stessa, cioè la propria causalità, all’attuazione di essi [30] (sia o no sufficiente il potere fisico). Poiché qui almeno la ragione può bastare alla determinazione della volontà, ed ha sempre realtà oggettiva, in quanto si tratta solamente del volere. Ecco dunque la prima questione: se la ragion pura basti per sé sola alla determinazione della volontà, oppure se soltanto come condizionata empiricamente possa essere un motivo determinante di essa. Ora qui si fa avanti un concetto della causalità giustificato mediante la Critica della ragion pura, sebbene non suscettibile di rappresentazione empirica, cioè il concetto della l i b e r t à ; e se noi ora possiamo trovar argomenti da dimostrare che questa proprietà appartiene veramente alla volontà umana (e così pure alla volontà di tutti gli esseri razionali), con ciò verrà messo in chiaro, non solo che la ragion pura può essere pratica, ma che essa solo, e non la ragione limitata empiricamente, è pratica in modo incondizionato. Perciò noi avremo da trattare una critica, non della ragion p u r a p r a t i c a , ma soltanto della ragion p r a t i c a in genere. Poiché la ragion pura, quando si sia dimostrato che vi è una tale ragione, non ha bisogno di critica. Essa stessa contiene la regola per la critica di tutto il suo uso. [31] La critica della ragion pratica in genere ha dunque l’obbligo di distogliere la ragione, condizionata empiricamente, dalla pretesa

di dar essa solo esclusivamente il motivo determinante della volontà. L’uso della ragion pura, se è stabilito che essa esista, è solo immanente; invece l’uso empiricamente condizionato, che si arroga il potere dispotico, è al contrario trascendente e si manifesta in pretese e precetti, che superano affatto il suo dominio. Il che è precisamente l’opposto di ciò che poteva esser detto della ragione pura nell’uso speculativo. Intanto, siccome ancor sempre la conoscenza della ragion pura è qui a fondamento dell’uso pratico, così la divisione di una critica della ragion pratica, nelle sue linee generali, dovrà esser stabilita conforme a quella della ragione speculativa. Noi dovremo dunque avere una d o t t r i n a d e g l i e l e m e n t i e una d o t t r i n a d e l m e t o d o . Quella, essendo la prima parte, conterrà un’ a n a l i t i c a come regola della verità, e una d i a l e t t i c a come esposizione e soluzione dell’apparenza dei [32] giudizi della ragion pratica. Ma l’ordine della suddivisione dell’analitica sarà invece l’opposto di quello seguito nella Critica della ragion pura speculativa. Infatti nella critica presente, cominciando dai p r i n c ì p i , andremo ai c o n c e t t i , e soltanto da questi, se sarà possibile, andremo ai sensi; mentre invece nella ragione speculativa cominciammo dai sensi e dovemmo finire ai princìpi. Il motivo di ciò consiste nel fatto, che noi ora ci dobbiamo occupare di una volontà e dobbiamo esaminare la ragione in relazione, non agli oggetti, ma a questa volontà e alla sua causalità. Quindi i princìpi della causalità incondizionata empiricamente devono essere il cominciamento; e soltanto dopo si potrà tentare di stabilire i nostri concetti del motivo determinante di una tale volontà, della sua applicazione agli oggetti e, infine, al soggetto e alla sua sensibilità. La legge della causalità per la libertà, cioè un principio puro pratico, è qui inevitabilmente di cominciamento, e determina gli oggetti ai quali può soltanto essere applicata.

[33] Parte prima Della critica della ragion pratica Dottrina degli elementi della ragion pura pratica

[35] Libro primo Analitica della ragion pura pratica

Capitolo primo Dei princìpi della ragion pura pratica

§ 1. DEFINIZIONE I p r i n c ì p i pratici sono proposizioni che contengono una determinazione universale della volontà, la quale ha sotto di sé parecchie regole pratiche. Essi sono soggettivi, ossia m a s s i m e , se la condizione vien considerata dal soggetto come valida soltanto per la sua volontà; ma oggettivi, ossia l e g g i pratiche, se la condizione vien riconosciuta come oggettiva, cioè valida per la volontà di ogni essere razionale.

SCOLIO Se si ammette che la ragion pura possa contenere in sé un motivo pratico, cioè che basti alla determinazione della volontà, [36] allora vi sono leggi pratiche; se no, tutti i princìpi pratici saranno semplici massime. Nella volontà affetta patologicamente di un essere razionale si può trovare un contrasto delle massime con le leggi pratiche riconosciute dalla stessa volontà. Per es., ciascuno può farsi una massima di non sopportare invendicata alcuna offesa, eppure nello stesso tempo vedere che questa non è una legge pratica, ma soltanto una sua massima, mentre come regola per la volontà di ogni essere razionale non potrebbe andar d’accordo con se stessa in un’unica massima. Nella conoscenza della natura i princìpi di ciò che accade (per es., il principio dell’uguaglianza dell’azione e della reazione nella comunicazione del movimento) sono nello stesso tempo leggi della natura; poiché l’uso della ragione là è teoretico e determinato dalla natura dell’oggetto. Nella conoscenza pratica, cioè in quella che si occupa semplicemente dei motivi determinanti della volontà, i princìpi che c’imponiamo non sono ancora perciò delle leggi alle quali sia inevitabile

sottostare, perché la ragione nell’uso pratico ha da fare col soggetto, cioè con la facoltà di desiderare, e secondo la disposizione particolare di questa facoltà si può adattare variamente la regola. La regola pratica è sempre un prodotto della ragione, perché prescrive l’azione come mezzo all’effetto come fine. Ma per un essere, per cui il motivo determinante della volontà non è unicamente la ragione, questa regola è un i m p e r a t i v o , cioè una regola che viene caratterizzata mediante un dovere esprimente la necessità oggettiva dell’azione: essa significa che, se la ragione determinasse interamente la volontà, l’azione avverrebbe immancabilmente secondo [37] questa regola. Gl’imperativi hanno dunque valore oggettivo, e sono affatto differenti dalle massime, in quanto queste sono princìpi soggettivi. Quelli invece, o determinano le condizioni della causalità dell’essere razionale, come causa efficiente, semplicemente riguardo all’effetto e alla sufficienza ad esso, o determinano soltanto la volontà, sia questa sufficiente o no all’effetto. I primi sarebbero imperativi ipotetici, e conterrebbero semplici precetti dell’abilità; i secondi invece sarebbero imperativi categorici e soltanto leggi pratiche. Dunque le massime sono bensì p r i n c ì p i , ma non i m p e r a t i v i . Ma gli stessi imperativi, se son condizionati, cioè se determinano la volontà non semplicemente come volontà, ma soltanto relativamente a un effetto desiderato, cioè se sono imperativi ipotetici, sono bensì p r e c e t t i pratici, ma non l e g g i . Queste ultime devono determinare sufficientemente la volontà come volontà, ancor prima che io domandi se ho il potere necessario a un effetto desiderato, o che cosa debba fare per produrlo. Quindi esse devono essere categoriche, altrimenti non sono leggi, perché manca loro la necessità che, se dev’essere pratica, dev’esser indipendente da condizioni patologiche, quindi da condizioni che aderiscano accidentalmente alla volontà. Se, per es., dite a qualcuno che deve lavorare e risparmiare nella giovinezza per non stentare nella vecchiezza: questo è un precetto pratico giusto, e nello stesso tempo importante, della volontà. Ma si vede facilmente che la volontà qui è diretta a qualche a l t r a c o s a , di cui si suppone in essa il desiderio; desiderio che dev’essere lasciato all’agente stesso, sia che egli preveda ancora altri mezzi oltre al patrimonio acquistato, o che non speri punto di diventar vecchio, o pensi che un giorno, in caso di povertà, potrà campare alla peggio. [38] La ragione, dalla quale solamente possono derivare tutte quelle regole che contengono la necessità, pone bensì in questo suo precetto anche la necessità (poiché altrimenti esso non sarebbe un

imperativo), ma la necessità è condizionata soltanto soggettivamente, e non può esser supposta nello stesso grado in tutti i soggetti. Affinché la ragione possa dare leggi, si richiede che essa abbia bisogno di presupporre semplicemente s e s t e s s a , perché la regola è oggettiva e universalmente valida solo quando vale senza condizioni accidentali e soggettive, che distinguono un essere razionale da un altro. Ora, se dite ad alcuno che egli non deve mai far promesse false, questa è una regola che riguarda semplicemente la sua volontà: i fini che l’uomo può avere possono venire o no conseguiti mediante essa; il semplice volere è ciò che dev’essere determinato interamente a p r i o r i mediante quella regola. Ora, se si trova che questa regola è praticamente giusta, essa è una legge, perché è un imperativo categorico. Dunque le leggi pratiche si riferiscono soltanto alla volontà, senza considerare ciò che vien effettuato mediante la causalità di essa; e si può astrarre dalla causalità (come appartenente al mondo sensibile), per aver queste leggi pure.

§ 2. TEOREMA I Tutti i princìpi pratici, che presuppongono un oggetto (materia) della facoltà di desiderare come motivo determinante della volontà, sono empirici e non possono fornireleggi pratiche. Per materia della facoltà di desiderare intendo un oggetto, la [39] cui realtà è desiderata. Se il desiderio di questo oggetto precede la legge pratica, ed è la condizione per cui ci facciamo di essa un principio, io dico (in primo luogo): che allora questo principio è sempre empirico. Poiché allora il motivo determinante del libero arbitrio è la rappresentazione di un oggetto e quella relazione di essa col soggetto mediante la quale la facoltà di desiderare è determinata all’attuazione di esso. Ma una tale relazione col soggetto si chiama il piacere della realtà di un oggetto. Dunque questo piacere dovrebbe essere presupposto come condizione della possibilità della determinazione del libero arbitrio. Ma di nessuna rappresentazione di un oggetto, qualunque essa sia, si può conoscere a priori se essa sarà legata col p i a c e r e o col d i s p i a c e r e , o se sarà i n d i f f e r e n t e . Dunque, in tal caso, il motivo determinante del libero arbitrio deve sempre essere empirico; e quindi anche il principio pratico materiale che lo presuppone come condizione. Ora, siccome ( i n s e c o n d o l u o g o ) un principio che si fonda soltanto

sulla condizione soggettiva della capacità di sentire un piacere o un dispiacere (la quale condizione può soltanto esser conosciuta empiricamente, e non può esser valida allo stesso modo per tutti gli esseri razionali), può certamente servire come m a s s i m a per il soggetto che la possiede ma non come l e g g e per questa stessa capacità (poiché gli manca la [40] necessità oggettiva che dev’esser conosciuta a p r i o r i ) , così un tale principio non può mai fornire una legge pratica.

§ 3. TEOREMA II Tutti i princìpi pratici materiali, come tali, sono di una sola e medesima specie, e appartengono al principio universale dell’amor proprio, ossia della propria felicità. Il piacere che proviene dalla rappresentazione dell’esistenza di una cosa, in quanto dev’essere un motivo determinante nel desiderio di questa cosa, si fonda sulla c a p a c i t à d i s e n t i r e del soggetto, perché d i p e n d e dall’esistenza di un oggetto; appartiene quindi al senso (sentimento) e non all’intelletto, il quale esprime una relazione della rappresentazione c o n u n o g g e t t o secondo concetti, ma non col soggetto secondo sentimenti. Il piacere è dunque pratico solo per quanto la sensazione del diletto, che il soggetto si aspetta dalla realtà dell’oggetto, determina la facoltà di desiderare. Ma in un essere razionale la coscienza del diletto della vita, che accompagna incessantemente la sua intiera esistenza, è la f e l i c i t à , e il principio di far della [41] felicità il supremo motivo determinante del libero arbitrio è il principio dell’amor proprio. Dunque, tutti i princìpi materiali, che ripongono il motivo determinante del libero arbitrio nel piacere o nel dispiacere che si trova nella realtà di un oggetto qualsiasi, sono affatto della s t e s s a s p e c i e, in quanto appartengono tutti al principio dell’amor proprio, ossia della propria felicità.

COROLLARIO Tutte le regole pratiche m a t e r i a l i ripongono il motivo determinante della volontà nella f a c o l t à d i d e s i d e r a r e i n f e r i o r e ; e, se non vi fossero leggi s e m p l i c e m e n t e f o r m a l i di essa che determinassero sufficientemente la volontà, non si potrebbe neanche ammettere una

facoltà di desiderare superiore.

SCOLIO I C’è da meravigliarsi che uomini, per altro acuti, possano credere di trovar la differenza fra la f a c o l t à d i d e s i d e r a r e i n f e r i o r e e quella s u p e r i o r e nell’aver le r a p p r e s e n t a z i o n i che sono legate col sentimento del piacere la loro origine nei s e n s i o nell’i n t e l l e t t o . Infatti, quando si ricercano i motivi determinanti del desiderio, e si ripongono in un diletto che si aspetta da qualcosa, non importa donde provenga la rappresentazione di quest’oggetto che piace, ma importa solo quanto esso p i a c e . Se una rappresentazione, benché abbia la sua sede ed origine nell’intelletto, può determinare il libero arbitrio solo per ciò che essa suppone nel soggetto un sentimento di piacere, dipende completamente dalla natura del senso interno che essa sia un motivo determinante del libero arbitrio: cioè dal poter essere questo senso impressionato gradevolmente mediante [42] quella rappresentazione. Le rappresentazioni degli oggetti possono pur essere diverse, possono essere rappresentazioni dell’intelletto e anche della ragione in contrapposizione alle rappresentazioni dei sensi; tuttavia, il sentimento del piacere, per cui soltanto propriamente costituiscono il motivo determinante della volontà (il diletto, la contentezza che se ne aspetta, e che eccita l’attività alla produzione dell’oggetto), è della stessa specie, non solo in quanto può essere sempre soltanto conosciuto empiricamente, ma anche in quanto agisce su una sola e medesima forza vitale, che si manifesta nella facoltà di desiderare, e in questa relazione non può essere differente, fuorché nel grado, da ogni altro motivo determinante. Altrimenti come si potrebbe far un confronto rispetto alla q u a n t i t à fra due motivi determinanti affatto differenti rispetto al modo di rappresentazione, per preferire quello che muove di più la facoltà di desiderare? Un medesimo uomo può restituire, senz’averlo letto, un libro per lui istruttivo, che gli viene tra mani solo una volta, per non lasciare la caccia; può andarsene durante un bel discorso per non giunger troppo tardi a pranzo; lasciare una conversazione sensata, che del resto egli apprezza molto, per mettersi alla tavola da giuoco; perfino respingere un povero, che del resto egli ha piacere di beneficare, perché non ha denaro in tasca più di quel che gli abbisogna per pagar l’ingresso alla commedia. Se la determinazione della volontà si fonda sul sentimento del

piacere o del dispiacere che egli si aspetta da una cosa, gli è affatto indifferente il modo di rappresentazione mediante il quale viene affetto. Quanto intenso è questo piacere, quanto lungo, quanto facile a procurare e quanto spesso ripetuto, ecco che cosa [43] importa a lui per risolversi alla scelta. Come a colui che ha bisogno di oro per spendere, è affatto indifferente che la materia di esso, l’oro, sia stata cavata dalla montagna, o detersa dalla sabbia, purché sia ricevuto dappertutto per lo stesso valore, così nessuno, se gl’importa semplicemente del piacere della vita, ricerca se le rappresentazioni sono dell’intelletto o del senso, ma soltanto il n u m e r o e l ’ i n t e n s i t à d e l p i a c e r e che esse gli procurano nel maggior tempo. Solo coloro che toglierebbero volentieri alla ragione il potere di determinare la volontà senza la presupposizione di un sentimento, possono deviare talmente dalla loro propria definizione, da dichiarare poi tuttavia affatto diverso ciò che prima essi stessi hanno ricondotto a un solo e medesimo principio. Così si vede, per es., che si può trovar piacere anche nel semplice u s o d e l l a f o r z a , nella coscienza della propria forza di animo in quanto supera gli ostacoli che si oppongono al nostro proposito, nel coltivar le doti dello spirito ecc.; e giustamente noi chiamiamo ciò le gioie e i piaceri p i ù s q u i s i t i , perché essi, più che gli altri, sono in nostro potere, non si affievoliscono, piuttosto rinvigoriscono il sentimento per un godimento ancor maggiore di essi, e, mentre dilettano, educano. Ma spacciarli perciò come determinanti la volontà in altro modo che mediante il senso, mentre essi suppongono tuttavia per la possibilità di quei piaceri un sentimento posto in noi a quest’effetto come prima condizione di questo piacere, è [agire] proprio come quando gli ignoranti, che volentieri s’immischiano di metafisica, suppongono la materia sì fina, sì sopraffina, che a loro stessi ne viene il capogiro, e poi credono a questo modo di aver trovato un’essenza s p i r i t u a l e eppure estesa. Se con [44] Epicuro noi stabiliamo che nella virtù ciò che determina la volontà sia il semplice piacere che essa promette, non possiamo poi disapprovarlo perché egli ritiene questo piacere omogeneo con quello dei sensi più grossolani; non si ha infatti motivo di fargli carico di aver attribuito unicamente ai sensi corporali le rappresentazioni mediante le quali vien prodotto in noi questo piacere. Per quanto si può indovinare, di molte di queste rappresentazioni egli ricercò l’origine appunto nell’uso della facoltà superiore della conoscenza; ma ciò non gl’impedì, e non gli poteva impedire di ritenere, secondo il principio citato, affatto omogeneo con gli altri il piacere stesso che quelle

rappresentazioni magari intellettuali ci procurano, e per il quale soltanto esse possono essere motivi determinanti della volontà. Essere c o e r e n t e è il dovere più grande di un filosofo; eppure è quello che vien soddisfatto più di rado. Le antiche scuole greche ci danno di ciò più esempi che non ne troviamo nel nostro secolo s i n c r e t i s t i c o , in cui si è prodotto artificiosamente un certo s i s t e m a d i c o a l i z i o n e1 di princìpi che si contraddicono, pieno di slealtà e di superficialità, perché ciò si raccomanda di più a un pubblico che è contento di saper qualcosa di tutto, e in sostanza [non sa] niente, e di aver così un mantello a ogni acqua. Il principio della propria felicità, per quanto possano esser usati in esso anche l’intelletto e la ragione, non conterrebbe tuttavia altri motivi determinanti per la volontà se non quelli che sono adeguati alla facoltà i n f e r i o r e di desiderare; e perciò, non vi è affatto facoltà superiore di desiderare, o la r a g i o n p u r a dev’essere per sé sola pratica, ossia [deve] poter determinare la [45] volontà mediante la semplice forma delle regole pratiche senza la presupposizione di un sentimento, e quindi senza le rappresentazioni del piacevole o dello spiacevole come materia della facoltà di desiderare, la quale materia è sempre una condizione empirica dei princìpi. Soltanto la ragione quindi, in quanto determina per se stessa la volontà (non in servigio delle inclinazioni), è una vera facoltà s u p e r i o r e di desiderare, a cui è subordinata quella patologicamente determinabile. La ragione differisce realmente, anzi s p e c i f i c a m e n t e , da questa facoltà, in modo che anche la minima mescolanza degli impulsi di quest’ultima nuoce alla sua forza e preminenza, allo stesso modo che il minimo elemento empirico, come condizione, in una dimostrazione matematica, diminuisce e annulla il suo valore e la sua efficacia. La ragione in una legge pratica determina la volontà immediatamente, non mediante l’intervento di un sentimento di piacere o dispiacere, neanche di un sentimento per questa legge; e solo il fatto, che essa come ragion pura può essere pratica, le rende possibile di essere legislatrice.

SCOLIO II Esser felici è necessariamente il desiderio di ogni essere razionale ma finito, e perciò un motivo determinante inevitabile della sua facoltà di desiderare. Infatti, la contentezza per la propria intiera esistenza, non è già un

possesso originario e una beatitudine, che supporrebbe una coscienza di autosufficienza e indipendenza, ma un problema che a quest’essere è imposto mediante la sua stessa natura finita; perché esso ha dei bisogni, e questi bisogni riguardano la materia della sua facoltà di desiderare, cioè qualcosa che si riferisce a un sentimento soggettivo di piacere o dispiacere, che sta alla base, e così è determinato ciò di cui esso abbisogna per la contentezza del suo stato. Ma appunto perché questo motivo determinante materiale può esser conosciuto solo empiricamente dal soggetto, è impossibile considerare questo problema come una legge, perché questa come oggettiva dovrebbe contenere in tutti i casi e per tutti gli esseri [46] razionali l o s t e s s o m o t i v o d e t e r m i n a n t e della volontà. Poiché sebbene il concetto della felicità sia d a p p e r t u t t o a base della relazione pratica degli o g g e t t i con la facoltà di desiderare, pure esso è solo il carattere comune dei motivi determinanti soggettivi, e non determina niente in modo specifico, mentre solo di ciò si tratta in questo problema pratico, il quale senza quella determinazione specifica non può esser risolto. Quello, cioè, in cui ciascuno deve riporre la sua felicità, dipende dal suo sentimento particolare di piacere o dispiacere, e, anche in un solo e medesimo soggetto, dalla diversità dei bisogni che seguono le variazioni di tale sentimento; una legge s o g g e t t i v a m e n t e n e c e s s a r i a (come legge naturale) è dunque o g g e t t i v a m e n t e un principio pratico molto a c c i d e n t a l e , che può e dev’essere assai differente in soggetti differenti; quindi non può mai dar luogo a una legge perché nel desiderio della felicità non si tratta della forma della conformità alla legge, ma soltanto della materia, cioè se debba aspettarmi dei piaceri, e quanti me ne debba aspettare nell’osservanza della legge. I princìpi dell’amor proprio possono bensì contenere regole universali dell’abilità (di trovar i mezzi ai fini), ma allora essi [47] sono princìpi semplicemente teoreticiI (per es., come chi ha voglia di mangiar del pane, debba inventare un mulino). Ma i precetti pratici, che si fondano su questi princìpi, non possono mai essere universali, perché il motivo determinante della facoltà di desiderare è fondato sul sentimento del piacere e del dispiacere, che non si può mai ammettere come applicato universalmente agli stessi o g g e t t i . Ma, supposto che esseri razionali finiti pensassero in genere allo stesso modo anche relativamente a ciò che essi dovessero ammettere come oggetti dei loro sentimenti di piacere e dolore, e così pure relativamente ai mezzi di cui dovessero servirsi per ottenere i primi e tener lontani i secondi; tuttavia il

p r i n c i p i o d e l l ’ a m o r p r o p r i o non potrebbe esser mai spacciato da essi per una l e g g e p r a t i c a ; poiché quest’unanimità sarebbe anch’essa soltanto accidentale. Il motivo determinante sarebbe pur sempre soltanto valevole soggettivamente e semplicemente empirico; e non avrebbe quella necessità che si concepisce in ogni legge, cioè la necessità oggettiva per princìpi a p r i o r i ; quindi questa necessità non si dovrebbe punto spacciare come pratica, ma semplicemente come fisica: cioè mediante la nostra inclinazione l’azione ci sarebbe imposta così inevitabilmente, come lo sbadigliare quando vediamo sbadigliare altri. Si potrebbe asserire che non vi sono leggi pratiche, ma soltanto c o n s i g l i per uso dei nostri desideri, piuttosto che ammettere che princìpi semplicemente soggettivi fossero elevati al grado delle leggi pratiche, le quali hanno una necessità affatto oggettiva e non semplicemente soggettiva, e devono esser conosciute a p r i o r i mediante la ragione e non mediante l’esperienza (per quanto empiricamente universale questa possa essere). Perfino le regole di fenomeni concordanti sono chiamate soltanto leggi naturali (per es., quelle meccaniche), quando sono conosciute [48] veramente a p r i o r i , oppure si ammette (come in quelle chimiche) che esse sarebbero conosciute a p r i o r i per princìpi oggettivi, se la nostra cognizione andasse più a fondo. Solo nei princìpi pratici semplicemente soggettivi vien posta manifestamente la condizione che ad essi devono esser di base condizioni non oggettive, ma soggettive del libero arbitrio; quindi che essi possono essere sempre soltanto rappresentati come semplici massime, e non mai come leggi pratiche. Quest’ultima osservazione sembra a prima vista una pedanteria; ma essa contiene la definizione della differenza più importante che si possa considerare nelle ricerche pratiche.

§ 4. TEOREMA III Se un essere razionale deve concepire le sue massime come l e g g i p r a t i c h e universali, esso può concepire queste massime soltanto come princìpi tali che contengano il motivo determinante della volontà, non secondo la materia, ma semplicemente secondo la forma. La materia di un principio pratico è l’oggetto della volontà. Questo è il motivo determinante della volontà, oppure non è. Se è il motivo determinante, la regola della volontà è soggetta a una condizione empirica (la relazione della rappresentazione determinante al sentimento del piacere e del

dispiacere), quindi non è una legge pratica. Ora, di una legge, se si astrae da essa ogni materia, cioè ogni oggetto della volontà (come motivo [49] determinante), non rimane che la semplice f o r m a di una legislazione universale. Dunque un essere razionale, o non può affatto concepire nello stesso tempo i s u o i princìpi soggettivamente pratici, cioè le sue massime, come leggi universali, oppure deve ammettere che la semplice forma di quelle massime, secondo la quale esse s o n o a t t e a l l a l e g i s l a z i o n e u n i v e r s a l e , le faccia per sé sola leggi pratiche.

SCOLIO Quale forma nella massima si adatti alla legislazione universale, quale no, questo lo può distinguere, senza bisogno d’istruzione, l’intelletto più comune. Io mi son fatto, per es., una massima di aumentare con tutti i mezzi sicuri le mie sostanze. Ora è nelle mie mani un d e p o s i t o , e il padrone di esso è morto e non ha lasciato nessuno scritto a questo riguardo. Naturalmente questo è il caso della mia massima. Ora, io voglio soltanto sapere se quella massima può anche valere come l e g g e pratica universale. Io l’applico dunque al caso presente, e domando se essa può ricevere la forma di una legge, e quindi se io, mediante la mia massima, potrei nello stesso tempo far una legge di questo genere: che ognuno può negare di aver un deposito, la cui consegna nessuno può provare. Io vedo subito che un tal principio, come legge, distruggerebbe se stesso, perché farebbe sì che non vi sarebbe più alcun deposito. Una legge pratica, che io riconosca per tale, deve rendersi atta alla legislazione universale; questa è una proposizione identica, e quindi chiara per sé. Ora, se io dico che la mia volontà è soggetta a una l e g g e pratica, non posso addurre la mia inclinazione (per es., nel caso presente la [50] mia cupidigia) come motivo determinante di essa, conveniente a una legge pratica universale; perché quest’inclinazione, ben lungi da poter essere atta a una legislazione universale, deve piuttosto distruggere se stessa nella forma di una legge universale. Perciò è cosa strana che, siccome il desiderio della felicità, quindi la m a s s i m a mediante la quale ognuno si pone la felicità a motivo determinante della sua volontà, è universale, così possa esser venuto in mente a uomini di criterio di spacciar questa massima per una l e g g e p r a t i c a universale. Poiché, laddove negli altri casi una legge universale della natura

fa tutto concorde, qui, se si volesse dare alla massima l’universalità di una legge, ne seguirebbe proprio l’opposto della concordia: il più grave conflitto e l’intera distruzione della massima stessa e del suo scopo. Poiché in quel caso il volere di tutti non ha un solo e medesimo oggetto, ma ognuno ha il suo (il proprio benessere), il quale può bensì anche accordarsi accidentalmente con le intenzioni che altri rivolgono parimente a se stessi, ma è del tutto insufficiente a far una legge, perché le eccezioni, che all’occasione si ha il diritto di fare, sono infinite, e non possono punto esser contenute in modo determinato in una regola universale. In questo modo risulta un’armonia, la quale è simile a quella che una certa satira rappresenta a proposito della concordia di due sposi che si rovinano: O m i r a b i l e a r m o n i a , q u e l l o c h e l u i v u o l e , v u o l e a n c h e l e i , ecc.; o è simile anche a ciò che si racconta dell’impegno preso dal re Francesco I verso l’imperatore Carlo V: ciò che mio fratello Carlo vuole (Milano), lo voglio anch’io. I motivi determinati empirici non sono atti a nessuna legislazione universale esterna, ma neanche a una legislazione universale interna; poiché a base [51] dell’inclinazione questi pone un soggetto, ma un altro un soggetto tutto diverso, e anche in ciascun soggetto è ora un’inclinazione, ora un’altra che ha l’influsso maggiore. È assolutamente impossibile trovare una legge che regga tutte le inclinazioni sotto questa condizione, cioè in concordia universale.

§ 5. PROBLEMA I Supposto che la semplice forma legislativa delle massime sia il motivo determinante sufficiente di una volontà, trovare la natura di quella volontà che è determinata solo per questa forma. Siccome la semplice forma della legge non può esser rappresentata se non dalla ragione, e quindi non è un oggetto dei sensi, e per conseguenza non appartiene nemmeno ai fenomeni; così la rappresentazione di essa come motivo determinante della volontà si distingue da tutti i motivi che determinano gli eventi naturali secondo la legge di causalità, perché in questi i motivi determinanti devono anche essere fenomeni. Ma, se nessun altro motivo determinante della volontà può servir di legge a questa, se non semplicemente quella forma legislativa universale: una tale volontà dev’essere considerata come affatto indipendente dalla legge naturale dei

fenomeni, cioè dalla legge di causalità degli uni rispetto agli altri. Ma una tale indipendenza si chiama l i b e r t à nel senso più stretto, cioè trascendentale. [52] Dunque una volontà, a cui la semplice forma legislativa delle massime può servir di legge, è una volontà libera.

§ 6. PROBLEMA II Supposto che una volontà sia libera, trovar la legge che sola è atta a determinarla necessariamente. Siccome la materia della legge pratica, cioè un oggetto della massima, non può mai essere data se non empiricamente, ma la volontà libera, come indipendente dalle condizioni empiriche (cioè appartenenti al mondo sensibile), deve nondimeno esser determinabile; così una volontà libera, indipendente dalla m a t e r i a della legge, deve tuttavia trovare un motivo determinante nella legge. Ma, oltre la materia, nella legge non è contenuto altro che la forma legislativa. Dunque la forma legislativa, in quanto è contenuta nella massima, è ciò che solo può costituire un motivo determinante della volontà libera.

SCOLIO La libertà e la legge pratica incondizionata si corrispondono dunque reciprocamente. Ora io qui non domando se esse siano anche differenti in realtà, e se una legge incondizionata non sia piuttosto semplicemente la coscienza di sé di una ragion pura pratica, e questa sia affatto identica col concetto positivo della libertà; ma donde c o m i n c i a la nostra c o n o s c e n z a [53] dell’incondizionato pratico, se dalla libertà, o dalla legge pratica. Dalla libertà non può cominciare; infatti noi non possiamo né divenir consci di essa immediatamente, perché il suo primo concetto è negativo, né dedurla dall’esperienza, perché l’esperienza ci manifesta soltanto la legge dei fenomeni, e quindi il meccanismo della natura, il quale è affatto l’opposto della libertà. Dunque è la l e g g e m o r a l e ciò di cui diveniamo consci immediatamente (appena formiamo la massima della volontà), ciò che ci si presenta anzitutto, e che, poiché la ragione ci presenta quella legge come un motivo determinante sopra cui le condizioni sensibili non possono prevalere, ma che è affatto indipendente da esse, ci conduce direttamente al concetto

della libertà. Ma come è anche possibile la coscienza di quella legge morale? Noi possiamo divenir consci delle leggi pure pratiche, come siamo consci dei princìpi teoretici puri, se poniamo mente alla necessità con cui la ragione ce li prescrive, e all’astrazione da tutte le condizioni empiriche che essa ci indica. Il concetto di una volontà pura deriva da quelle leggi, come la coscienza di un intelletto puro deriva da quei princìpi. Che questa sia la vera subordinazione dei nostri concetti, e che soltanto la moralità ci riveli il concetto della libertà, e quindi solamente la r a g i o n p r a t i c a in questo concetto presenti alla ragione speculativa il problema più insolubile, per metterla mediante esso nel più grande imbarazzo, appare già da questo: che, siccome niente può venir spiegato nei fenomeni per il concetto della libertà, ma qui il meccanismo naturale deve sempre costituire il filo conduttore; e inoltre anche l’antinomia della ragion pura, se nella serie delle cause vuol salire all’incondizionato, s’involge nell’incomprensibile, [54] tanto con un concetto come coll’altro, mentre l’ultimo (il meccanismo) è almeno atto alla spiegazione dei fenomeni; non si sarebbe mai venuti all’impresa pericolosa d’introdurre la libertà nella scienza, se la legge morale, e con essa la ragion pratica, non vi fossero pervenute e non ci avessero imposto questo concetto. Ma anche l’esperienza conferma quest’ordine dei concetti in noi. Supponete che qualcuno asserisca della sua inclinazione lussuriosa, che essa gli è affatto invincibile quando gli si presentano`l’oggetto amato e l’occasione propizia; e domandate se, qualora fosse rizzata una forca d’avanti alla casa dove egli trova quest’occasione, per impiccarvelo appena avesse goduto il piacere, in tal caso egli non vincerebbe la sua inclinazione. Non ci vuol molto a indovinare ciò che egli risponderebbe. Ma domandategli se, qualora il suo principe, con minacce della stessa pena di morte immediata, pretendesse che egli facesse una falsa testimonianza contro un uomo onesto, che il principe volesse rovinare con speciosi pretesti, se allora egli, per quanto grande possa essere il suo amore alla vita, crederebbe possibile vincerlo. Forse egli non oserebbe assicurare se lo vincerebbe o no; ma che ciò gli sia possibile, lo deve ammettere senza difficoltà. Egli giudica dunque di poter fare qualche cosa, perché è conscio di doverlo fare, e conosce in sé la libertà che altrimenti, senza la legge morale, gli sarebbe rimasta incognita.

§ 7. LEGGE FONDAMENTALE DELLA RAGION PURA PRATICA

Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale.

[55] SCOLIO La geometria pura ha dei postulati come proposizioni pratiche, le quali però non contengono se non la supposizione che s i p o s s a fare qualcosa, e, se mai si richiedesse, s i d e b b a farla; e queste sono le sole sue proposizioni che riguardino un’esistenza. Sono adunque leggi pratiche sotto una condizione problematica della volontà. Ma qui la regola dice che si deve assolutamente operare in un certo modo. La regola pratica è dunque incondizionata, e quindi rappresenta a p r i o r i come una proposizione pratica categorica, mediante la quale la volontà viene assolutamente e immediatamente (per la regola pratica stessa, la quale qui è dunque legge) determinata oggettivamente. Poiché qui la r a g i o n pura p r a t i c a in sé è immediatamente legislativa. La volontà è concepita come indipendente dalle condizioni empiriche, e quindi come volontà pura, determinata m e d i a n t e l a s e m p l i c e f o r m a d e l l a l e g g e ; e questo motivo determinante è considerato come la condizione suprema di tutte le massime. La cosa è abbastanza singolare, e non ha l’uguale in tutta la conoscenza pratica rimanente. Poiché il pensiero a p r i o r i di una legislazione universale possibile, il quale dunque è semplicemente problematico, vien presentato incondizionatamente come legge, senza prender in prestito qualcosa dall’esperienza o da una volontà esterna. Ma esso non è neanche un precetto secondo il quale deve avvenire un’azione per cui è possibile un effetto desiderato (poiché allora la regola sarebbe sempre condizionata fisicamente), ma è una regola che determina a p r i o r i semplicemente la volontà rispetto alla forma delle sue massime; e allora una legge, la quale serve semplicemente allo scopo della forma soggettiva dei princìpi, non è impossibile, almeno a concepirsi, come motivo determinante mediante la [56] forma oggettiva di una legge in genere. La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare un fatto2 della ragione, non perché si possa dedurre per ragionamento da dati precedenti della ragione, per es., dalla coscienza della libertà (perché questa coscienza non ci è data prima), ma perché essa ci s’impone per se stessa come proposizione sintetica a p r i o r i , la quale non è fondata su nessuna intuizione né pura né empirica; mentre essa

sarebbe analitica, se si presupponesse la libertà della volontà, per la quale però, come concetto positivo, si richiederebbe un’intuizione intellettuale, la quale qui non si può affatto ammettere. Eppure, per riguardare senza falsa interpretazione questa legge come d a t a , si deve ben notare che essa non è empirica, ma è il fatto particolare della ragion pura, la quale per esso si manifesta come originariamente legislativa (sic volo, sic iubeo).

COROLLARIO La ragion pura è per sé sola pratica, e dà (all’uomo) una legge universale che noi chiamiamo l e g g e m o r a l e .

SCOLIO Il fatto sovracitato è innegabile. Occorre soltanto analizzare il giudizio che gli uomini fanno sulla conformità delle loro azioni alla legge, e si vedrà sempre che, qualunque cosa l’inclinazione possa dire in contrario, pure la loro ragione incorruttibile e obbligata mediante se stessa tiene sempre, in un’azione, la massima della volontà salda nella volontà pura, cioè in se stessa, in quanto si considera come pratica a p r i o r i . Ora questo principio della moralità, appunto per l’universalità della legislazione che lo fa motivo determinante formale supremo della volontà, [57] senza tener conto di tutte le differenze soggettive di essa, la ragion lo definisce una legge per tutti gli esseri razionali, in quanto essi hanno in genere una volontà, cioè una facoltà di determinare la loro causalità mediante la rappresentazione di regole, e quindi in quanto sono capaci di azioni secondo princìpi, e per conseguenza anche secondo princìpi pratici a p r i o r i (poiché questi soltanto hanno quella necessità che la ragione richiede pel principio). Esso non si limita dunque semplicemente all’uomo, ma si estende a tutti gli esseri finiti, che hanno la ragione e la volontà, anzi comprende perfino l’essere infinito come intelligenza suprema. Ma nell’uomo la legge ha la forma di un imperativo, perché in esso, a dir vero, come essere razionale, si può bensì supporre una volontà p u r a , ma, in quanto essere soggetto a bisogni ed a cause determinanti sensibili, non si può supporre una volontà s a n t a , cioè tale che non sarebbe capace di nessuna massima contraria alla legge morale. Per quegli esseri la legge morale è dunque un i m p e r a t i v o che comanda

categoricamente, perché la legge è incondizionata. La relazione di una tale volontà a questa legge è d i p e n d e n z a , e ha nome di obbligo, che significa un c o s t r i n g i m e n t o a un’azione, benché mediante la semplice ragione e la legge oggettiva di questa. La quale azione perciò si chiama dovere, perché un libero arbitrio affetto patologicamente (quantunque non determinato patologicamente e quindi ancor sempre libero), implica un desiderio che deriva da cause s o g g e t t i v e , e quindi può anche spesso esser contrario al motivo determinante oggettivo puro, e perciò abbisogna, come di costringimento morale, di un’opposizione della ragion pratica, che può esser chiamata un costringimento interno, ma intellettuale. Nell’intelligenza affatto sufficiente a se stessa il libero arbitrio vien rappresentato a ragione come non capace di nessuna massima che nello stesso tempo non possa [58] essere una legge oggettiva; e il concetto della s a n t i t à , che perciò le conviene, non la pone invero al di sopra di tutte le leggi pratiche, ma al di sopra di tutte le leggi praticamente restrittive, e quindi al di sopra dell’obbligo e del dovere. Questa santità della volontà è nondimeno un’idea pratica, la quale deve necessariamente servire di p r o t o t i p o . Avvicinarsi all’infinito ad essa è l’unica cosa che appartenga a tutti gli esseri razionali e finiti; e questa idea tiene loro sempre e giustamente davanti agli occhi la legge morale pura, che perciò si chiama anch’essa santa. Esser sicuri di questo progresso all’infinito delle proprie massime e dell’immutabilità di esse nel progresso costante, e questo è la virtù, è la cosa più alta che la ragion pratica finita possa attuare. La quale, tuttavia, a sua volta, almeno come potere acquistato naturalmente, non può mai esser perfetta, perché la sicurezza in tal caso non diventa mai certezza apodittica, e, come persuasione, è assai pericolosa.

§ 8. TEOREMA IV L’ a u t o n o m i a della volontà è l’unico principio di tutte le leggi morali e dei doveri che loro corrispondono: invece ogni e t e r o n o m i a del libero arbitrio, non solo non è la base di alcun obbligo, ma piuttosto è contraria al principio di questo e alla moralità della volontà. Cioè il principio unico della moralità consiste nell’indipendenza da ogni materia della legge (ossia da un oggetto desiderato), e nello stesso tempo nella determinazione del libero arbitrio mediante la semplice forma legislativa universale di cui una massima dev’essere capace. Ma [59] quell’i n d i p e n d e n z a è la libertà nel senso

n e g a t i v o ; invece, questa l e g i s l a z i o n e p r o p r i a della ragion pura e, come tale, pratica, è la libertà nel senso p o s i t i v o . Dunque la legge morale non esprime nient’altro che l ’ a u t o n o m i a della ragion pura pratica, cioè della libertà; e questa è anche la condizione formale di tutte le massime, alla quale condizione soltanto esse possono accordarsi con la legge pratica suprema. Se dunque la materia del volere, la quale non può esser altro che l’oggetto di un desiderio unito con la legge, entra nella legge pratica c o m e c o n d i z i o n e d e l l a p o s s i b i l i t à d i e s s a , allora ne deve seguire l’eteronomia del libero arbitrio, cioè la dipendenza dalla legge naturale, da un impulso o da un’inclinazione, e la volontà non si dà essa stessa la legge, ma soltanto il precetto dell’osservanza razionale delle leggi patologiche; ma la massima, che in questo modo non può mai contenere la forma legislativa universale, in tal maniera non solo non è la base di alcun obbligo, ma è anzi contraria al principio di una ragion pratica p u r a , e quindi anche all’intenzione morale, se pur l’azione che ne risulta dovesse esser conforme a legge.

SCOLIO I Dunque non può mai esser tenuto per legge pratica un precetto pratico, che implichi una condizione materiale (e quindi [60] empirica). Infatti, la legge della volontà pura, che è libera, pone questa in una sfera del tutto diversa dall’empirica; e la necessità che essa esprime, siccome non dev’essere una necessità naturale, così può consistere semplicemente nelle condizioni formali della possibilità di una legge in genere. Ogni materia delle regole pratiche si fonda sempre su condizioni soggettive, le quali non procurano loro, per esseri razionali, nessun’altra universalità se non l’universalità condizionata (nel caso che io desideri questa o quella cosa, che cosa debba fare per effettuarla), e si riferiscono tutte al p r i n c i p i o d e l l a f e l i c i t à p r o p r i a . Ora è bensì innegabile, che ogni volere deve anche avere un oggetto, e quindi una materia; ma non perciò questa è il motivo determinante e la condizione della massima; perché se lo fosse, non si potrebbe esporre nella forma universalmente legislativa, perché allora l’aspettazione dell’esistenza dell’oggetto sarebbe la causa determinante del libero arbitrio, e la dipendenza della facoltà di desiderare dall’esistenza di una cosa dovrebbe esser posta a base del volere, la quale dipendenza può sempre

soltanto esser cercata nelle condizioni empiriche, e quindi non può mai fornire la base di una regola necessaria e universale. Così la felicità di altri esseri potrà esser l’oggetto della volontà di un essere razionale. Ma, se essa fosse il motivo determinante della massima, si dovrebbe supporre che del benessere degli altri, non soltanto sentiamo un piacere naturale, ma anche un bisogno, come lo richiede il sentimento simpatico negli uomini. Ma questo bisogno io non lo posso supporre in ogni essere razionale (niente affatto in Dio). Dunque, la materia della massima può bensì [61] rimanere, ma non dev’esser la condizione di essa, perché altrimenti questa non varrebbe come legge. Dunque, la semplice forma di una legge, che limita la materia, dev’essere nello stesso tempo un motivo per raggiungere questa materia alla volontà, ma non per presupporla. La materia sia, per es., la mia propria felicità. Questa materia, se io l’attribuisco a ciascuno (come infatti posso fare negli esseri finiti), può diventare una legge pratica o g g e t t i v a solo quando comprendo in essa la felicità degli altri. Dunque, la legge di promuovere la felicità degli altri non deriva dalla supposizione che questo sia un oggetto per il libero arbitrio di ciascuno, ma semplicemente da ciò, che la forma dell’universalità, di cui la ragione ha bisogno come di condizione per dare a una massima dell’amor proprio il valore oggettivo di una legge, diventa il motivo determinante della volontà; e quindi non fu l’oggetto (la felicità degli altri) il motivo determinante della volontà pura, ma la semplice forma legislatrice, per cui io limitai la mia massima fondata sull’inclinazione, per procurarle l’universalità di una legge, e così farla atta alla ragion pura pratica. Soltanto da questa limitazione, e non dall’aggiunta di un motivo esterno, poté allora derivare il concetto dell’o b b l i g o di estendere la massima del mio amor proprio anche alla felicità degli altri.

SCOLIO II Precisamente il contrario del principio della moralità ha luogo se vien fatto motivo determinante della volontà il principio della p r o p r i a felicità; al quale, come ho mostrato di sopra, dev’essere riferito in generale tutto ciò che ripone il motivo determinante, che deve servire come legge, in altro che nella forma [62] legislativa della massima. Questa contraddizione non è semplicemente logica, come quella tra regole empiricamente condizionate, che però si vorrebbero elevare a princìpi necessari della conoscenza, ma è

pratica, e distruggerebbe affatto la moralità, se la voce della ragione riguardo alla volontà non fosse così chiara, così impossibile a coprire, così distinta anche per l’uomo più volgare. Essa si può mantenere ancora solo nelle speculazioni ingarbugliate delle scuole, le quali sono abbastanza sfacciate da restar sorde a quella voce celeste, per mantenere una teoria che non costa rompicapi. Se uno, che del resto ti fosse amico intimo, pensasse di giustificarsi presso di te di una falsa testimonianza da lui fatta, con l’addurre anzitutto il suo, secondo lui, sacro dovere della propria felicità, e poi enumerasse i vantaggi che egli si è procurato con quel mezzo, facesse notare la prudenza che egli usa per esser sicuro da ogni scoperta, anche da parte tua, cui egli rivela il segreto solo per questo, per poterlo negare in ogni tempo; se poi sostenesse con tutta serietà di aver adempiuto a un vero dovere umano, allora tu, o gli rideresti addirittura in faccia, o ti ritrarresti con orrore. Quantunque, se alcuno avesse fondato i suoi princìpi semplicemente sui propri vantaggi, tu non avresti da fare la minima obiezione a questo metodo. Oppure supponete che qualcuno vi raccomandasse un tale come economo, a cui voi possiate confidare ciecamente tutti i vostri interessi; e che, per ispirarvi fiducia, egli ve lo vantasse come un uomo prudente, il quale sappia perfettamente il suo tornaconto, e come uno di attività instancabile che non lascia passare nessuna occasione [63] senza trarne profitto, e, infine, perché non rimanessero timori di un vile egoismo di costui, egli vantasse come quegli sia pratico del vivere raffinato, e non cerchi il suo piacere nell’ammassar denaro o nella libidine brutale, ma nell’estendere le sue cognizioni, in una scelta conversazione istruttiva, e anche nel far del bene al bisognoso, ma [aggiungendo] che del resto non sarebbe scrupoloso sui mezzi (i quali, però, traggono il loro valore o non valore soltanto dal fine), e che il denaro e la roba altrui gli servirebbero tanto come i propri, appena sapesse di poterlo fare senz’essere scoperto e liberamente; allora voi credereste che chi fa questa raccomandazione, o si prenda giuoco di voi, o abbia perduto il senno. I limiti della moralità e dell’amor proprio sono segnati con tanta chiarezza e precisione, che anche l’occhio più volgare non può mancar di distinguere se qualcosa appartenga all’una o all’altro. Le poche osservazioni seguenti possono invero parere superflue per una verità così evidente, ma esse servono almeno a questo, a procurare alquanto maggior chiarezza al giudizio della ragione umana ordinaria.

Il principio della felicità può bensì fornire massime, ma non mai tali da servire come leggi della volontà, se anche si facesse oggetto la felicità u n i v e r s a l e . Poiché, siccome la cognizione di esso si fonda soltanto su dati empirici, siccome ogni giudizio su di esso dipende assai dall’opinione di ciascuno, la quale inoltre è anche molto variabile, questo principio può dar leggi g e n e r a l i , ma non mai u n i v e r s a l i , cioè leggi che in complesso si verifichino nella maggior parte dei casi, ma non tali da dover valere sempre e necessariamente; quindi su di esso non si possono fondare leggi pratiche. Appunto perché qui un [64] oggetto del libero arbitrio dev’esser posto a base della sua regola, e quindi deve precedere la regola, questa non può esser riferita ad altro se non a ciò che si sente, e quindi all’esperienza, e può esser fondata soltanto su questa, e allora la diversità del giudizio dev’essere infinita. Questo principio non prescrive dunque a tutti gli esseri razionali le stesse regole pratiche, benché esse a dir vero stiano tutte sotto un titolo comune, cioè quello della felicità. Ma la legge morale vien concepita come oggettivamente necessaria soltanto per questo, che essa deve valere per chiunque abbia ragione e volontà. La massima dell’amor proprio (prudenza) c o n s i g l i a soltanto, la legge della moralità c o m a n d a . Ma vi è una gran differenza fra ciò che ci è c o n s i g l i a t o e ciò a cui siamo o b b l i g a t i . Ciò che sia da fare secondo il principio dell’autonomia del libero arbitrio, l’intelletto più volgare lo vede facilmente e senza alcun dubbio; ciò che sia da fare con la supposizione dell’eteronomia di esso, è difficile e richiede la cognizione del mondo; cioè, che cosa sia d o v e r e si presenta da sé a ciascuno: ma che cosa apporti un vantaggio vero e duraturo, è sempre, se questo vantaggio dev’essere esteso all’intiera esistenza, avvolto in un’oscurità impenetrabile, e richiede molta prudenza per conformare la regola pratica così determinata, anche solo in modo sopportabile, mediante adatte eccezioni, ai fini della vita. Tuttavia la legge morale comanda a ciascuno l’osservanza, e in vero l’osservanza più esatta. Quindi il giudicare ciò che secondo questa legge è da fare, non dev’esser così difficile che l’intelletto più volgare e meno esercitato non sappia cavarsela anche senz’alcuna esperienza del mondo. Soddisfare il comando categorico della moralità è sempre in potere di ognuno; soddisfare al precetto empiricamente [65] condizionato della felicità è possibile solo di rado per ognuno, e per lo più non è possibile neanche

rispetto a un unico scopo. La cagione è, che nel primo caso si tratta soltanto della massima, la quale dev’esser vera e pura, ma nel secondo si tratta anche delle forze e del potere fisico di produrre realmente un oggetto desiderato. Un comando, che [imponesse che] ciascuno debba cercare di rendersi felice, sarebbe stolto; poiché non si comanda mai ad alcuno ciò che egli vuole già spontaneamente e immancabilmente di per se stesso. Si dovrebbero comandare semplicemente le misure da prendere, o piuttosto darle, perché l’uomo non può fare tutto quello che vuole. Ma comandare la moralità, col nome di dovere, è affatto ragionevole; poiché al precetto di essa nessuno obbedisce volentieri, se esso è in contrasto con le inclinazioni, e, per quel che riguarda le misure per potere obbedire a questa legge, esse qui non devono esser insegnate; poiché ciò che sotto questo rispetto ciascuno vuole, anche lo può. Chi ha p e r d u t o al giuoco, può bensì adirarsi di se stesso e della sua imprudenza; ma, se è conscio di aver b a r a t o al giuoco (benché così abbia guadagnato), deve d i s p r e z z a r se stesso, appena si mette a confronto con la legge morale. Questa dunque deve esser ben altro che il principio della propria felicità. Poiché, per dover dire a se stesso: io sono un i n d e g n o , quantunque abbia riempito la mia borsa, si deve pur avere un’altra regola di giudizio che non per approvare se stesso e dire: io sono un uomo p r u d e n t e perché ho aumentato il mio tesoro. Finalmente, nell’idea della nostra ragion pratica vi è ancora qualcosa che accompagna la trasgressione di una legge morale, [66] cioè l’esser m e r i t e v o l e d i p u n i z i o n e . Ora il divenir partecipe della felicità non va affatto legato col concetto d’una punizione, in quanto punizione. Perché, sebbene chi così punisce possa avere nello stesso tempo la buona intenzione di dirigere questa punizione anche a questo scopo, pure essa dev’esser anzitutto giustificata per se stessa come punizione, cioè come semplice male, sicché il punito, se la cosa finisce lì, ed egli non vede nessun favore nascosto dietro questo rigore, deve pur confessare che ben gli sta, e che la sua sorte è perfettamente conforme al suo procedere. In ogni punizione come tale dev’esserci anzitutto giustizia, e questa costituisce l’essenziale di tale concetto. Con essa può invero esser legata anche la bontà, ma su questa il meritevole di punizione, secondo la sua condotta, non ha la minima ragione di contare. Dunque la punizione è un male fisico che, se anche non fosse legato col moralmente cattivo come conseguenza n a t u r a l e , pure dovrebbe

esservi legato come conseguenza secondo i princìpi di una legislazione morale. Ora se ogni delitto, anche senza guardare alle conseguenze fisiche rispetto al reo, per sé è meritevole di punizione, cioè fa perdere la felicità (al meno in parte), sarebbe manifestamente assurdo dire che il delitto consiste appunto in questo, che il reo si è attirata una punizione poiché ha diminuito la propria felicità (il che, secondo il principio dell’amor proprio, dovrebbe essere il concetto proprio di ogni delitto). In questo modo la punizione sarebbe il motivo per cui si chiama qualcosa un delitto, e la giustizia dovrebbe piuttosto consistere in questo: nell’astenersi da ogni punizione e impedire anche quelle naturali; poiché allora nell’azione non vi sarebbe più niente di cattivo3, perché i mali4, che in caso diverso seguirebbero e per cui soltanto si chiama cattiva [67] l’azione, ormai sarebbero tenuti lontani. Inoltre, riguardare ogni punizione e ogni ricompensa unicamente come l’ordigno che, in mano di una potenza superiore, dovrebbe solo servire a porre gli esseri razionali in azione per conseguire il loro scopo finale (la felicità), è un meccanismo della volontà il quale toglie ogni libertà; e ciò è troppo evidente, perché sia necessario fermarvisi. Più sottile ancora, benché altrettanto falsa, è la supposizione di coloro che ammettono un certo senso morale particolare, il quale, e non la ragione, determinerebbe la legge morale: secondo la quale supposizione la coscienza della virtù sarebbe legata immediatamente con la contentezza e col piacere; quella del vizio, invece, coll’inquietudine dell’animo e col dolore; e così abbandonano tutto al desiderio della propria felicità. Senza ripetere qui ciò che fu detto di sopra, voglio soltanto far notare l’illusione che qui ha luogo. Per immaginare il vizioso tormentato dall’inquietudine dell’anima mediante la coscienza dei suoi falli, lo devono immaginare già prima, quanto all’elemento principale del suo carattere, come moralmente buono, almeno in qualche grado; così come devono immaginare già prima come virtuoso colui che è rallegrato dalla coscienza di azioni conformi al dovere. Quindi il concetto della moralità e del dovere dovette precedere ogni considerazione di questa contentezza e non può affatto esserne derivato. Ora si deve apprezzare prima l’importanza di ciò che noi chiamiamo dovere, l’autorità della legge morale, e il valore immediato che con l’osservanza di questa la persona acquista davanti a se stessa, per sentire quella contentezza nella coscienza della propria conformità alla legge, e l’amara rimostranza quando ci si deve rimproverare [68] la trasgressione della legge. Non si può dunque sentire

questa contentezza o questa inquietudine prima di conoscere l’obbligo, e porla a base di quest’ultimo. Si deve già essere un uomo onesto almeno a metà, per potersi fare anche soltanto una rappresentazione di quei sentimenti. Io non nego punto, del resto, che, come mediante la libertà la volontà umana può essere determinata immediatamente dalla legge morale, anche l’esercizio frequente conforme a questo motivo determinante, possa produrre infine soggettivamente un sentimento di contentezza di se stesso. Piuttosto è anche un dovere come un altro lo stabilire e coltivare questo, che solo merita veramente di esser chiamato il sentimento morale; ma il concetto del dovere non può esser derivato da esso, altrimenti noi dovremmo immaginare il sentimento di una legge come tale, e fare oggetto della sensazione ciò che può esser soltanto pensato mediante la ragione. Il che, se non dev’essere una contraddizione grossolana, annullerebbe affatto ogni concetto del dovere, e in suo luogo porrebbe semplicemente un giuoco meccanico d’inclinazioni più squisite che a volte vengono a contrasto con inclinazioni più rozze. Ora, se noi paragoniamo il nostro principio supremo f o r m a l e della ragion pura pratica (come di un’autonomia della volontà) con tutti i p r i n c ì p i m a t e r i a l i della moralità fin qui esposti, possiamo presentare in una tavola tutti questi princìpi, come tali, coi quali invero sono esauriti ad un tempo tutti gli altri casi possibili, eccetto uno solo, che è formale; e così dimostrare ad evidenza come sia inutile cercare un altro principio diverso da quello ora esposto. Cioè, tutti i motivi determinanti possibili della volontà sono, o semplicemente s o g g e t t i v i e quindi empirici, oppure o g g e t t i v i e razionali; ma gli uni e gli altri sono o e s t e r n i o i n t e r n i . [69] I motivi d e t e r m i n a n t i p r a t i c i m a t e r i a l i nel principio della moralità sono dunque5: SOGGETTIVI ESTERNI

OGGETTIVI INTERNI

INTERNI

ESTERNI

della volontà di del del del della Dio dell’educazione governo sentimento sentimento perfezione (secondo (secondo civile fisico morale (secondo CRUSIUS e MONTAIGNE) (secondo (secondo (secondo WOLFF e gli altri MANDEVILLE) EPICURO) HUTCHESON) gli Stoici) moralisti

teologi)

[70] Quelli che stanno a sinistra sono tutti empirici e manifestamente non servono al principio universale della moralità. Ma quelli di destra si fondano sulla ragione (perché la perfezione, come q u a l i t à delle cose, e la perfezione suprema rappresentata nella s o s t a n z a , cioè Dio, si devono pensare l’una e l’altra solo mediante concetti razionali). Ma il primo concetto, cioè quello della p e r f e z i o n e , può esser preso in senso t e o r e t i c o ; e allora non significa altro che l’integrità di ogni cosa nel suo genere (trascendentale) o di una cosa semplicemente come cosa in generale (metafisica); e di questo non si può trattare qui. Ma il concetto della perfezione in senso p r a t i c o è l’attitudine ossia la sufficienza di una cosa a vari fini. Questa perfezione, come q u a l i t à dell’uomo, e quindi interna, è nient’altro che i l t a l e n t o , e ciò che rinforza o completa questo, cioè l ’ a b i l i t à . La perfezione suprema nella s o s t a n z a , cioè Dio, e quindi esterna (considerata nel rispetto pratico), è la sufficienza di quest’essere a tutti i fini in genere. Se dunque a noi devono prima esser dati dei fini, relativamente ai quali soltanto il concetto della p e r f e z i o n e (di una perfezione interna, in noi stessi, o di una esterna, in Dio) può diventar motivo determinante della volontà; se un fine come o g g e t t o , che deve precedere la determinazione della volontà mediante una regola pratica e contenere il fondamento della possibilità di questa, quindi la m a t e r i a della volontà presa come motivo determinante di essa, è sempre empirico, e quindi può servire al principio e p i c u r e o della dottrina della felicità, ma non mai al principio razionale puro della dottrina morale e del dovere (come i talenti e il [71] favorirli sol perché contribuiscono ai vantaggi della vita, o la volontà di Dio, se la conformazione ad essa è stata presa per oggetto della volontà, senza un principio pratico antecedente indipendente dall’idea di essa, possono divenir cause determinanti della volontà solo per la f e l i c i t à che noi aspettiamo da essi): segue allora di qui, i n p r i m o l u o g o , che tutti i princìpi su esposti sono m a t e r i a l i , i n s e c o n d o l u o g o che essi comprendono tutti i princìpi materiali possibili onde i n f i n e si conclude che, siccome i princìpi materiali non servono alla legge morale suprema (come si è dimostrato), i l p r i n c i p i o p r a t i c o f o r m a l e della ragion pura, secondo il quale la semplice forma di una legislazione universale possibile mediante le nostre massime deve costituire il motivo determinante supremo e

immediato della volontà, è l ’ u n i c o p r i n c i p i o p o s s i b i l e che serva agl’imperativi categorici, cioè alle leggi pratiche (che fanno delle azioni un dovere), e in genere al principio della moralità, tanto nel giudizio, come pure nell’applicazione alla volontà umana, nella determinazione di essa.

[72] I. Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica L’analitica dimostra che la ragion pura può esser pratica, cioè può determinare per sé, indipendentemente da ogni elemento empirico, la volontà; – e invero dimostra ciò mediante un fatto in cui la ragion pura appare a noi realmente pratica, cioè l’autonomia nel principio della moralità mediante il quale essa determina la volontà all’azione. – Nello stesso tempo questa analitica mostra che questo fatto è legato inseparabilmente con la coscienza della libertà della volontà, anzi è a quella identico; e mediante esso la volontà di un essere razionale, che come appartenente al mondo sensibile si riconosce soggetto necessariamente come le altre cause efficienti alle leggi di causalità, ha nel pratico, però nello stesso tempo, da un altro lato, cioè come essere in sé, coscienza della sua esistenza determinabile in un ordine intelligibile delle cose, invero non conforme a un’intuizione particolare di se stesso, ma a certe leggi dinamiche che determinano la causalità di esso nel mondo sensibile; poiché è stato abbastanza dimostrato altrove che la libertà, se ci è attribuita, ci trasporta in un ordine intellegibile delle cose. [73] Ora, se noi confrontiamo con ciò la parte analitica della Critica della ragion pura speculativa, appare un notevole contrasto delle due analitiche l’una rispetto all’altra. Là non erano dei princìpi, ma l ’ i n t u i z i o n e sensibile pura (lo spazio e il tempo) il primo dato che faceva possibile la conoscenza a p r i o r i , e invero solo per gli oggetti dei sensi. Princìpi sintetici derivati da semplici concetti senza intuizione erano impossibili, anzi potevano esistere soltanto in relazione alla intuizione, che era sensibile, e quindi anche soltanto in relazione agli oggetti di un’esperienza possibile, perché i concetti dell’intelletto legati con quest’intuizione, rendevano possibile soltanto quella conoscenza che chiamiamo esperienza. Oltre gli oggetti dell’esperienza, e quindi delle cose come noumeni, di pieno diritto era negata alla ragione speculativa ogni conoscenza positiva. Pure questa faceva

tanto da porre al sicuro il concetto dei noumeni, cioè la possibilità, anzi la necessità di pensarli, e, per es., salvava da ogni obbiezione l’ammetter la libertà, considerata negativamente, come affatto compatibile con quei princìpi e quelle limitazioni della ragion pura teoretica, senza però far conoscere di tali oggetti qualcosa di determinato e di estensivo, ché anzi toglieva ogni veduta di essi. [74] Invece la legge morale, quantunque non se ne dia nessuna v e d u t a , pure presenta un fatto assolutamente inesplicabile con tutti i dati del mondo sensibile e con tutto l’àmbito dell’uso teoretico della nostra ragione, un fatto che ci indica un mondo dell’intelletto puro, anzi lo d e t e r m i n a in modo affatto p o s i t i v o e ce ne fa conoscere qualcosa, e cioè una legge. Questa legge deve procurare al mondo dei sensi, come a una n a t u r a s e n s i b i l e (per quanto riguarda gli esseri razionali), la forma di un mondo dell’intelletto, cioè di una n a t u r a s o p r a s e n s i b i l e , senza però recar danno al suo meccanismo. Ora la natura nel senso più generale è l’esistenza delle cose sotto leggi. La natura sensibile degli esseri razionali in genere è l’esistenza di essi sotto leggi condizionate empiricamente; quindi, per la ragione, è e t e r o n o m i a . La natura soprasensibile degli stessi esseri è invece la loro esistenza secondo leggi, le quali sono indipendenti da ogni condizione empirica, e quindi appartengono all’a u t o n o m i a della ragion pura. E siccome le leggi secondo le quali l’esistenza delle cose dipende dalla conoscenza sono pratiche, così la natura soprasensibile, in quanto ci possiamo fare un concetto di essa, è nient’altro che u n a n a t u r a s o t t o l ’ a u t o n o m i a d e l l a r a g i o n p u r a p r a t i c a . Ma la legge di questa autonomia è la legge morale, la quale è dunque la legge fondamentale di una natura soprasensibile e di un [75] mondo puro dell’intelletto, la copia del quale deve esistere nel mondo sensibile, per altro nello stesso tempo, senza danno delle leggi di questo. Si potrebbe chiamare a r c h e t i p a quella natura (natura archetypa), che noi conosciamo solamente nella ragione; e questa invece che contiene l’effetto possibile dell’idea della prima come motivo determinante della volontà, si potrebbe chiamare e c t i p a (natura ectypa). Poiché invero la legge morale ci trasporta in modo ideale in una natura in cui la ragion pura, se fosse accompagnata dal potere fisico conveniente, produrrebbe il sommo bene; e determina la nostra volontà a dar la forma al mondo sensibile, come a un insieme di esseri razionali. Che quest’idea serva realmente come modello alle determinazioni della

nostra volontà, è confermato dalla più comune osservazione su se stessi. Se la massima, seguendo la quale io ho intenzione di dare una testimonianza, viene esaminata mediante la ragion pratica, io guardo sempre com’essa sarebbe, se valesse quale legge universale della natura. È chiaro che, in questo modo, essa costringerebbe ciascuno alla sincerità. Poiché non è compatibile con l’universalità di una legge naturale far valere come prove delle testimonianze false di proposito. Così la massima che io prendo [76] riguardo alla libera disposizione della mia vita, vien determinata appena mi domando come essa dovrebbe essere, perché una natura si conservi secondo una legge di questa massima. Evidentemente in una natura simile nessuno potrebbe por fine a r b i t r a r i a m e n t e alla sua vita, poiché una tale situazione non costituirebbe un ordine naturale permanente, e così in tutti gli altri casi. Ma nella natura reale, in quanto questa può essere un oggetto dell’esperienza, la volontà libera non è determinata da se stessa a tali massime, capaci di stabilire per se stesse una natura secondo leggi universali, oppure di adattarsi da sé in una natura ordinata secondo esse; sono piuttosto inclinazioni particolari, che costituiscono un insieme naturale secondo leggi patologiche (fisiche), ma non una natura che sarebbe possibile solo mediante la nostra volontà secondo leggi pure pratiche. Tuttavia, mediante la ragione, noi siamo consci di una legge, alla quale sono soggette tutte le nostre massime, come se mediante la nostra volontà dovesse aver origine un ordine naturale. Quindi questa legge dev’essere l’idea di una natura non data empiricamente, eppur possibile mediante la libertà, perciò soprasensibile, alla quale noi diamo realtà oggettiva, almeno nel rispetto pratico, perché la consideriamo come oggetto della nostra volontà in quanto siamo esseri razionali puri. [77] Dunque la differenza tra le leggi di una natura a cui la v o l o n t à è s o g g e t t a , e quelle di u n a n a t u r a c h e è s o g g e t t a a u n a v o l o n t à (rispetto alla relazione di questa volontà con le sue azioni libere), consiste in ciò che in quella gli oggetti devono esser cause delle rappresentazioni che determinano la volontà, in questa invece la volontà dev’esser causa degli oggetti, sicché la causalità di essa ha il suo motivo determinante soltanto nella facoltà razionale pura, la quale perciò può anche esser chiamata una ragion pura pratica. Quindi sono assai diversi i due problemi: come d a u n a p a r t e la ragione può c o n o s c e r e oggetti a p r i o r i , e come d ’ a l t r a p a r t e essa

può esser immediatamente un motivo determinante della volontà, cioè della causalità dell’essere razionale rispetto alla realtà degli oggetti (semplicemente mediante il pensiero del valore universale delle sue massime come legge). Il primo problema, appartenendo alla Critica della ragion pura speculativa, richiede che si spieghi anzitutto come sono possibili a p r i o r i intuizioni, senza le quali non ci può esser dato assolutamente alcun oggetto, e quindi neanche ne può esser conosciuto alcuno sinteticamente. La soluzione di questo problema riesce a ciò: che le intuizioni sono tutte soltanto sensibili, quindi neppure rendono possibile una conoscenza speculativa [78] che vada oltre l’esperienza possibile, e che perciò tutti i princìpi di quella ragion pura speculativa non fanno altro che render possibile l’esperienza, o degli oggetti dati, o di quelli che posson esser dati in infinito, ma non sono mai dati completamente. Il secondo in quanto appartenente alla Critica della ragion pratica, non richiede che si spieghi come sono possibili gli oggetti della facoltà di desiderare, poiché questo, come problema della conoscenza teoretica della natura, è lasciato alla Critica della ragione speculativa; ma soltanto come la ragione può determinare la massima della volontà, se ciò avviene solo mediante rappresentazioni empiriche come motivi determinanti, ovvero se la ragion pura sia pratica, e legge di un ordine naturale possibile che non si può affatto conoscere empiricamente. La possibilità di una tale natura soprasensibile, il concetto della quale possa essere nello stesso tempo, mediante la nostra volontà libera, il fondamento della realtà di essa, non ha bisogno di alcuna intuizione a p r i o r i (di un mondo intelligibile) che, in questo caso, come soprasensibile, dovrebbe anche essere impossibile per noi. Poiché si tratta soltanto del motivo determinante del volere nelle sue massime, cioè se sia empirico o concetto della ragion pura (della conformità alla legge della ragion pura in genere), e come possa essere un concetto. Se la causalità della volontà pervenga o no alla realtà dell’oggetto, devono [79] giudicare i princìpi teoretici della ragione, come ricerca della possibilità degli oggetti del volere, la cui intuizione perciò non costituisce alcun momento del problema pratico. Qui non si tratta del risultato, ma soltanto della determinazione della volontà e del motivo determinante della massima di questa, in quanto essa è una volontà libera. Infatti, posto che per la ragion pura la v o l o n t à sia conforme alla legge, di quel che avviene del p o t e r e di essa nell’attuazione e se ne risulti realmente o no una natura secondo

queste massime della legislazione di una natura possibile, di ciò non si occupa punto la critica, la quale ricerca soltanto, se e come la ragion pura può esser pratica, cioè determinante immediatamente la volontà. In quest’affare dunque la critica può, senza errore, e deve cominciare dalle leggi pure pratiche e dalla loro realtà. Ma invece dell’intuizione essa pone a base di queste leggi il concetto della loro esistenza nel mondo intelligibile, cioè della libertà. Poiché questo concetto non significa nient’altro, e quelle leggi sono soltanto possibili in relazione alla libertà della volontà, ma nella supposizione di questa libertà sono necessarie; o, inversamente, questa è necessaria perché quelle leggi, come postulati pratici, sono necessarie. Ora, come sia possibile questa coscienza delle leggi morali, o, che è lo stesso, quella della libertà, non si può [80] spiegare di più, e soltanto si può difender bene la loro ammissibilità nella critica teoretica. L’e s p o s i z i o n e del principio supremo della ragion pratica ora è terminata; cioè, si è dimostrato anzitutto quel che contiene, che esiste per sé affatto a p r i o r i e indipendentemente da princìpi empirici, e poi in che si differenzî da tutti gli altri princìpi pratici. Nella d e d u z i o n e , cioè nella giustificazione del valore oggettivo e universale di questo principio, e nell’esame della possibilità di una tale proposizione sintetica a p r i o r i , non si può sperare di proceder così bene, come avvenne coi princìpi dell’intelletto puro teoretico. Questi infatti si riferivano agli oggetti dell’esperienza possibile, cioè ai fenomeni, e si poté dimostrare che soltanto per ciò che questi fenomeni sono sottoposti alle categorie conforme a quelle leggi, questi fenomeni possono essere c o n o s c i u t i come oggetti dell’esperienza, e che quindi ogni esperienza possibile dev’essere conforme a queste leggi. Ma io non posso procedere così nella deduzione della legge morale. Poiché non si tratta della conoscenza della natura degli oggetti che possono essere dati alla ragione in qualche altro modo, ma di una conoscenza che può diventar il [81] fondamento dell’esistenza degli oggetti stessi, e per la quale la ragione ha la causalità in un essere razionale, cioè della ragion pura, che può esser considerata come una facoltà che determini immediatamente la volontà. Ma ogni perspicacia umana è finita, quando siamo giunti alle forze o facoltà fondamentali, poiché la possibilità di esse non può esser concepita in nessun modo, ma non può neppure esser inventata ed ammessa arbitrariamente. Quindi nell’uso teoretico della ragione soltanto l’esperienza ci può autorizzare ad ammetterla. Ma anche questo succedaneo di addurre

una prova empirica, invece di una deduzione dalle origini della conoscenza a p r i o r i , qui ci è tolto rispetto alla facoltà della ragion pura pratica. Poiché ciò che ha bisogno di prendere dai princìpi dell’esperienza la prova della sua realtà, dev’esser dipendente dall’esperienza quanto ai fondamenti della sua possibilità; ma la ragion pura e nondimeno pratica non può esser tenuta per tale a cagione del suo concetto. Inoltre, la legge morale è data, per così dire, come un fatto della ragion pura, del quale noi siamo consci a p r i o r i , e che è apoditticamente certo, anche supposto che nell’esperienza non si potesse trovar nessun esempio nel quale essa fosse esattamente osservata. Dunque, la realtà oggettiva della legge morale non può esser dimostrata mediante nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion teoretica, [82] speculativa o sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse rinunziare alla certezza apodittica, quella realtà non potrebbe venir confermata mediante l’esperienza così dimostrata a p o s t e r i o r i ; e tuttavia essa è stabile per se stessa. Ma a questa deduzione invano cercata del principio morale sottentra qualcosa di diverso e affatto paradossale: cioè che essa stessa invece serve come principio della deduzione di una facoltà imperscrutabile, che nessuna esperienza poteva dimostrare, ma che la ragione speculativa (per trovare tra le sue idee cosmologiche l’incondizionato secondo la sua causalità, per non contraddire se stessa) doveva ammettere almeno come possibile, cioè la facoltà della libertà, di cui la legge morale, che non abbisogna essa stessa di alcun motivo che la giustifichi, dimostra, non semplicemente la possibilità, ma la realtà, negli esseri che riconoscono questa legge come obbligatoria per essi. La legge morale è invero una legge della causalità mediante la libertà, e quindi della possibilità di una natura soprasensibile, come la legge metafisica degli eventi nel mondo dei sensi era una legge della causalità della natura sensibile; e perciò quella determina ciò che la filosofia speculativa doveva lasciar indeterminato, cioè la legge per una causalità, il concetto della quale nella speculazione era soltanto negativo, e quindi soltanto essa procura a questo concetto la realtà oggettiva. [83] Questa specie di credito della legge morale, quando essa stessa vien posta come un principio della deduzione della libertà come di una causalità della ragion pura, poiché la ragion teoretica era obbligata ad a m m e t t e r e almeno la possibilità di una libertà, è affatto sufficiente, invece d’ogni giustificazione a p r i o r i , a soddisfare il bisogno di essa. La legge morale

infatti dimostra la sua realtà in modo soddisfacente anche per la Critica della ragione speculativa, con questo che essa, a una causalità concepita solo negativamente, la cui possibilità era per la ragione speculativa inconcepibile, eppure necessaria ad ammettere, aggiunge una determinazione positiva, cioè il concetto di una ragione che determina immediatamente la volontà (con la sola condizione di una forma legislativa universale delle sue massime). Così può dare per la prima volta una realtà oggettiva, benché soltanto pratica, alla ragione, la quale nelle sue idee, se voleva procedere speculativamente, diveniva sempre trascendente; e muta l’uso t r a s c e n d e n t e della ragione in un uso immanente (la ragione stessa è causa efficiente nel campo dell’esperienza mediante le idee). La determinazione della causalità degli esseri nel mondo sensibile come tale, non poteva mai esser incondizionata; eppure deve necessariamente esservi per ogni serie di condizioni qualcosa d’incondizionato, e quindi anche una causalità che si [84] determini affatto da sé. Perciò l’idea della libertà come di una facoltà di assoluta spontaneità, non era un bisogno, ma, p e r q u e l c h e r i g u a r d a l a p o s s i b i l i t à d i e s s a , era un principio analitico della ragion pura speculativa. Ma, siccome è affatto impossibile dar un esempio conforme ad essa in qualche fatto empirico, perché tra le cause delle cose, come fenomeni, non si può trovare nessuna determinazione della causalità, la quale sia affatto incondizionata, così noi potevamo s o s t e n e r e i l p e n s i e r o di una causa che agisca liberamente soltanto se applicavamo questo pensiero a un essere del mondo sensibile, considerato d’altra parte anche come noumeno; poiché dimostrammo che non vi è contraddizione a riguardare tutte le sue azioni come fisicamente condizionate, in quanto sono fenomeni, ma nello stesso tempo la causalità di queste come fisicamente incondizionata, in quanto l’essere agente è un essere intellettuale; e così a far del concetto della libertà il principio regolativo della ragione, per il quale invero io non conosco affatto che cosa sia l’oggetto a cui vien attribuita tale causalità, ma pure tolgo l’ostacolo, poiché da una parte nella spiegazione degli eventi del mondo, e quindi anche delle azioni delle creature razionali, lascio al meccanismo della necessità naturale il diritto di retrocedere all’infinito dal condizionato alla condizione, ma [85] d’altra parte conservo libero alla ragione speculativa il posto vuoto per essa, cioè l’intelleggibile, per trasportarvi l’incondizionato. Ma io non potevo r e a l i z z a r e q u e s t o p e n s i e r o , cioè non lo potevo mutare in una c o n o s c e n z a di un essere

agente in tal modo, neanche semplicemente rispetto alla possibilità di quest’essere. Questo posto vuoto lo occupa soltanto la ragion pura pratica, mediante una legge determinata della causalità in un modo intellegibile (mediante la libertà), cioè mediante la legge morale. Perciò di niente invero si accresce la ragione speculativa relativamente alla cognizione; ma se ne accresce, tuttavia, relativamente alla certezza del suo concetto problematico della libertà, al quale qui vien procurata la r e a l t à o g g e t t i v a , e, benché solo pratica, pure indubitata. Anche il concetto di causalità, la cui applicazione, e quindi anche il cui significato, ha luogo propriamente solo in relazione ai fenomeni per connetterli in esperienze (come dimostra la Critica della ragion pura), essa [ragione pratica] non amplia in modo da estenderne l’uso oltre i detti limiti. Poiché, se andasse oltre, dovrebbe dimostrare come la relazione logica del principio e della conseguenza possa essere usata sinteticamente in un altro modo d’intuizione, diversa dalla sensibile, cioè come sia possibile la c a u s a n o u m e n o n . Il che non può fare, e neppure, come ragion pratica, considera, perché pone solo nella r a g i o n p u r a (che perciò si chiama pratica) il m o t i v o d e t e r m i n a n t e della [86] causalità dell’uomo come essere sensibile (la quale causalità è data). Quindi usa il concetto della causa stessa, dalla cui applicazione agli oggetti per la conoscenza teoretica essa qui può affatto astrarre (perché questo concetto vien sempre trovato a p r i o r i nell’intelletto, anche indipendentemente da ogni intuizione), non per conoscere gli oggetti, ma per determinare la causalità relativamente agli oggetti in genere; quindi non l’usa a nessun altro scopo che a quello pratico, e perciò può trasportare il motivo determinante della volontà nell’ordine intellegibile delle cose, poiché nello stesso tempo confessa volentieri di non intendere affatto qual determinazione il concetto della causa possa avere per la conoscenza di queste cose. La causalità rispetto alle azioni della volontà nel mondo sensibile essa la deve conoscere in modo affatto determinato, perché altrimenti la ragion pratica non potrebbe produrre realmente alcuna azione. Ma essa non ha bisogno di determinare teoreticamente, ad uso della conoscenza della sua esistenza soprasensibile, il concetto che si fa della propria causalità come noumeno, e quindi [non ha bisogno] di poter dare ad esso, sotto questo rispetto, un significato. Poiché esso riceve un significato in altro modo, benché solo per l’uso pratico, cioè mediante la legge morale. Anche teoreticamente considerato, esso rimane sempre un concetto puro dell’intelletto, dato a p r i o r i , il quale può esser

applicato [87] agli oggetti, siano essi dati sensibilmente o no; benché nell’ultimo caso non abbia nessun significato teoretico determinato e nessuna applicazione, ma sia semplicemente un pensiero formale, eppure essenziale dell’intelletto riguardo a un oggetto in genere. Il significato, che la ragione gli procura mediante la legge morale, è soltanto pratico, poiché l’idea della legge di una causalità (della volontà), ha in se stesso una causalità, ossia è il motivo determinante di tale causalità.

II. Del diritto della ragion pura, nell’uso pratico, a una estensione che non le è possibile nell’uso speculativo per sé Nel principio morale abbiamo proposto una legge della causalità, la quale mette il motivo determinante della causalità molto al di sopra di tutte le condizioni del mondo sensibile; e non abbiamo semplicemente c o n c e p i t o la volontà, come possa esser determinata in quanto appartenente a un mondo intelligibile, e quindi il soggetto di questa volontà (l’uomo) in quanto appartenente a un mondo intellegibile puro, benché in questa relazione a noi sconosciuto (come poteva avvenire secondo [88] la Critica della ragion pura speculativa), ma l’abbiamo anche d e t e r m i n a t a relativamente alla sua causalità mediante una legge, la quale non può essere annoverata fra le leggi naturali del mondo sensibile. Quindi abbiamo e s t e s o la nostra conoscenza oltre i limiti del mondo sensibile, ancorché tale pretesa la Critica della ragion pura speculativa abbia dichiarato vana in ogni speculazione. Ora, come conciliare qui l’uso pratico con l’uso teoretico della ragion pura, relativamente alla determinazione dei confini del suo potere? D a v i d H u m e, dal quale, si può dire, incominciò propriamente ogni contestazione dei diritti di una ragion pura, onde si rese necessario un esame completo di essa, ragionò così. Il concetto dalla c a u s a è un concetto che contiene la necessità della connessione dell’esistenza del diverso, e, invero, in quanto è diverso, in modo che, se A vien posto, io conosco che qualcosa di affatto diverso da esso, B, deve necessariamente anche esistere. Ma la necessità può essere attribuita a una connessione solo in quanto può esser conosciuta a p r i o r i ; poiché l’esperienza farebbe conoscere di una connessione soltanto che essa è, ma non che è in modo necessario. Ora, egli

dice, è impossibile conoscere a p r i o r i e come necessario il legame che esiste fra una [89] cosa e un’a l t r a (o fra una determinazione e un’altra affatto differente da essa), se quel legame non ci vien dato nella percezione. Dunque, il concetto stesso di una causa è falso e ingannevole, e, per parlarne nei termini più miti, è un’illusione scusabile, in quanto l’ a b i t u d i n e (una necessità s o g g e t t i v a ) di percepire spesso certe cose, o le loro determinazioni, l’una accanto o dopo l’altra, come associate nella loro esistenza, è presa senz’avvedersene per una necessità o g g e t t i v a di porre una tale connessione negli oggetti stessi; e così il concetto della causa è usurpato e non è acquistato in modo giusto, anzi non può mai essere acquistato o attestato, perché richiede una connessione in sé vana, chimerica, e che non resiste davanti a nessuna ragione, e alla quale non può mai corrispondere alcun oggetto. – Così, relativamente a ogni conoscenza che riguarda l’esistenza della cose (la matematica quindi ne rimase ancora esclusa), anzitutto era presentato l’ e m p i r i s m o come la sola origine dei princìpi, ma insieme con esso il più rigido s c e t t i c i s m o relativamente all’intera scienza della natura (come filosofia). Poiché, secondo tali princìpi, noi non possiamo mai i n f e r i r e da date determinazioni delle cose, quanto alla loro esistenza, una conseguenza (poiché a ciò si richiederebbe il concetto di una causa, il quale contiene la necessità di una tale connessione); [90] possiamo soltanto, secondo la regola dell’immaginazione, aspettarci casi simili a precedenti, ma questa aspettazione, per quanto spesso si possa avverare, non è mai sicura. Anzi di nessun evento si potrebbe dire: d e v e averlo preceduto qualcosa, a cui è seguito n e c e s s a r i a m e n t e , e cioè ha dovuto avere una c a u s a ; e quindi, se anche si conoscessero casi sì frequenti, in cui vi fosse un antecedente simile, da poterne trarre una regola, non per questo si potrebbe ammettere che ciò debba accadere sempre e necessariamente in tal modo; e così si dovrebbe anche lasciare la sua parte al cieco caso, in cui cessa ogni uso della ragione; il che stabilisce e rende incontrastabile lo scetticismo, relativamente alle argomentazioni che risalgono dagli effetti alle cause. La matematica per così lungo tempo ancora se l’era cavata, perché H u m e riteneva che le proposizioni di essa fossero tutte analitiche, cioè procedessero da una determinazione all’altra in virtù dell’identità, e quindi secondo il principio di contraddizione (ma ciò è falso, perché esse sono piuttosto tutte sintetiche, e benché, per es., la geometria non si occupi

dell’esistenza delle cose, ma soltanto della loro determinazione a p r i o r i in un’intuizione possibile, pure procede proprio come per concetti causali da una determinazione A a un’altra affatto diversa B, in [91] quanto tuttavia connessa necessariamente con quella). Ma quella scienza, tanto pregiata per la sua certezza apodittica, deve pure infine esser vinta dall’ e m p i r i s m o n e i p r i n c ì p i , per lo stesso motivo per cui Hume pose l’abitudine al posto della necessità oggettiva nel concetto della causa, e deve pure rassegnarsi, malgrado tutto il suo orgoglio, a moderare le ardite pretese che reclamavano il consenso a p r i o r i , per aspettare l’approvazione del valore universale delle sue proposizioni dal favore degli osservatori; i quali però come testimoni non esiterebbero a confessare che ciò che il geometra propone come princìpi, essi l’hanno anche osservato sempre, e quindi, sebbene non necessariamente, pure concederebbero che si possa attendere così in avvenire. In questo modo l’empirismo di Hume nei princìpi conduce inevitabilmente allo scetticismo anche rispetto alla matematica, e quindi in ogni uso teoretico s c i e n t i f i c o della ragione (poiché quest’uso appartiene o alla filosofia o alla matematica). Se l’uso ordinario della ragione (in un crollo così terribile come quello che si vede accadere nei capisaldi delle cognizioni) possa cavarsela meglio, e non sia anzi coinvolto ancor più irreparabilmente in questa distruzione di ogni sapere, e non debba quindi seguire dagli stessi princìpi uno [92] scetticismo u n i v e r s a l e (il quale però colpirebbe soltanto i dotti): è cosa che lascio giudicare a ciascuno. Ora, per quel che riguarda il mio lavoro nella Critica dalla ragion pura, al quale invero dette occasione la dottrina scettica di Hume, ma che andò molto più avanti, e comprese l’intero campo della ragion pura teoretica nell’uso sintetico, e quindi anche ciò che in genere si chiama metafisica, riguardo al dubbio del filosofo scozzese relativo al concetto di causalità io procedetti nel modo seguente. Se Hume (come avviene per altro quasi dappertutto) riteneva gli oggetti dell’esperienza c o s e i n s e s t e s s e , e dichiarava il concetto della causa una menzogna e un’illusione, faceva benissimo; poiché delle cose in se stesse, e delle loro determinazioni in quanto tali, non si può vedere come, per il fatto che vien posta qualche cosa A, debba anche esser posta necessariamente qualche altra cosa B; e quindi egli non poteva per nulla ammettere una tale conoscenza a p r i o r i delle cose in se stesse. L’acuto uomo poteva ancor meno ammettere un’origine empirica di questo concetto, poiché questa contraddice affatto alla necessità della connessione, che

costituisce l’essenziale del concetto di causalità; e quindi questo concetto era bandito, e gli sottentrava l’abitudine nell’osservazione del corso delle percezioni. [93] Ma dalle mie ricerche è risultato che gli oggetti con i quali siamo in relazione nell’esperienza non sono affatto cose in sé, ma soltanto fenomeni, e che, quantunque nelle cose in se stesse non si possa comprendere, anzi sia impossibile vedere come, posto A, debba esser c o n t r a d d i t t o r i o non porre B, che è affatto diverso da A (la necessità della connessione tra A come causa e B come effetto), è invece del tutto concepibile che, come fenomeni, debbano essere necessariamente legati in u n ’ e s p e r i e n z a in un certo modo (per es. rispetto alla relazione di tempo), e non possano esser separati senza c o n t r a d d i r e a quel legame mediante il quale è possibile quest’esperienza nella quale essi sono oggetti e sono conoscibili soltanto a noi. E così appunto sta in realtà: sicché io potei, non solo dimostrare il concetto della causa secondo la sua realtà oggettiva relativamente agli oggetti dell’esperienza, ma anche d e d u r l o , come concetto a p r i o r i , a cagione della necessità della connessione che esso implica, cioè ricavare la sua possibilità dall’intelletto puro, senza origini empiriche; e così, dopo aver eliminato l’empirismo della sua origine, potevo anche togliere radicalmente la conseguenza inevitabile dell’empirismo, cioè lo scetticismo, dapprima rispetto alla scienza della natura, poi perciò che seguiva [94] perfettamente dagli stessi motivi anche rispetto alla matematica, due scienze che vengon riferite agli oggetti dell’esperienza possibile; e con questo toglievo completamente il dubbio su tutto ciò che la ragion teoretica asserisce di comprendere. Ma che avviene dell’applicazione di questa categoria della causalità (e così pure di tutte le altre, poiché senza di esse non può aver luogo alcuna conoscenza dell’esistente) alle cose che non sono oggetti dell’esperienza possibile, ma sono oltre i suoi limiti? Giacché io ho potuto dedurre la realtà oggettiva di questi concetti soltanto riguardo agli o g g e t t i d e l l ’ e s p e r i e n z a p o s s i b i l e . Ma appunto questo, che io li ho salvati soltanto in questo caso, in cui ho dimostrato che mediante questi concetti si possono tuttavia p e n s a r e degli oggetti, benché non si possano determinare a p r i o r i ; questo è ciò che dà loro un posto nell’intelletto puro, dal quale essi sono riferiti agli oggetti in genere (sensibili, o non sensibili). Se qualcosa manca ancora, è la condizione dell’ a p p l i c a z i o n e di queste categorie, e

specialmente di quella della causalità, agli oggetti, e cioè l’intuizione, che, se non è data, rende impossibile l’applicazione allo s c o p o d e l l a c o n o s c e n z a t e o r e t i c a dell’oggetto come noumeno; la quale dunque, se alcuno l’arrischia (com’è anche avvenuto nella Critica della ragion pura), viene affatto impedita, [95] mentre tuttavia la realtà oggettiva del concetto rimane sempre, e può anche essere usata per i noumeni, ma senza che si possa in minimo grado determinare teoreticamente e produrre così una conoscenza. Che poi tale concetto non contenga niente di impossibile anche in relazione a un oggetto, fu dimostrato per il fatto che gli fu assicurato un posto nell’intelletto puro in ogni applicazione agli oggetti dei sensi; e benché poi, riferito alle cose in se stesse (le quali non possono essere oggetti dell’esperienza), non sia capace di nessuna determinazione per la rappresentazione di un o g g e t t o d e t e r m i n a t o , ad uso di una conoscenza teoretica, pure esso poteva ancor sempre esser capace in un altro uso (forse nell’uso pratico) di una determinazione per l’applicazione di esso; il che non si darebbe, se, come vuole Hume, questo concetto della causalità contenesse qualcosa di assolutamente impossibile a pensare. Ora, per scoprire questa condizione dell’applicazione ai noumeni del concetto menzionato, dobbiamo soltanto richiamare alla memoria p e r c h é non ci contentiamo dell’applicazione di esso agli oggetti d e l l ’ e s p e r i e n z a , ma desidereremmo anche adoperarlo per le cose in se stesse. Appare subito, infatti, che non è un fine teoretico, ma pratico, quello che ci fa una necessità di questo desiderio. Quand’anche lo realizzassimo, noi non otterremmo per la [96] speculazione alcun vero profitto nella scienza della natura, e in genere relativamente agli oggetti che ci possono esser dati in un modo qualunque, ma faremmo in ogni caso un passo avanti dal sensibilmente condizionato (ed abbiamo già abbastanza da fare a rimanerci, e a percorrere diligentemente la catena delle cause) al soprasensibile, per completare e limitare la nostra conoscenza dal lato dei princìpi, anche se rimarrebbe sempre vuoto un abisso infinito fra quei limiti e ciò che conosciamo e avremmo dato ascolto a una vana curiosità piuttosto che a un desiderio profondo di sapere. Ma l’ i n t e l l e t t o , oltre la relazione con gli oggetti (nella conoscenza teoretica), ne ha anche una con la facoltà di desiderare, la quale perciò si chiama volontà, e volontà pura, in quanto l’intelletto puro (che in tal caso si chiama ragione) è pratico mediante la semplice rappresentazione d’una legge.

La realtà oggettiva di una volontà pura, o, che è lo stesso, di una ragione pura pratica, è data nella legge morale a priori, per così dire, mediante un fatto, poiché così si può chiamare una determinazione della volontà la quale è inevitabile, benché non si fondi su princìpi empirici. Ma nel concetto di una volontà è già contenuto il concetto della causalità, e quindi in quello di una volontà [97] pura il concetto di una causalità con libertà, e cioè di una causalità che non è determinabile secondo leggi naturali, e quindi non è capace di un’intuizione empirica quale prova della sua realtà, ma che però giustifica perfettamente nella legge pura pratica a p r i o r i la sua realtà oggettiva, benché (com’è facile vedere) non allo scopo dell’uso teoretico, ma semplicemente dell’uso pratico della ragione. Ora il concetto di un essere che ha la volontà libera, è il concetto di una causa noumenon; e che questo concetto non contraddica se stesso, è già stato assicurato dal fatto che il concetto di una causa, in quanto derivato interamente dall’intelletto puro, e nello stesso tempo anche accertato mediante la deduzione riguardo alla sua realtà oggettiva relativamente agli oggetti in genere, e inoltre indipendente quanto alla sua origine da tutte le condizioni sensibili, e quindi per sé non limitato ai fenomeni (se non quando se ne volesse fare un uso teoretico determinato), può senza dubbio essere applicato a cose che sono essenze pure dell’intelletto. Ma, siccome a questa applicazione non può esser sottoposta nessuna intuizione, che non può esser se non sensibile, così la causa noumenon rispetto all’uso teoretico della ragione, benché sia un concetto possibile e pensabile, tuttavia è un concetto vuoto. Ma ora io neppur desidero c o n o s c e r e t e o r e t i c a m e n t e [98] la natura di un essere i n q u a n t o ha una volontà p u r a ; a me basta indicarla come tale mediante quel concetto, e quindi soltanto legare il concetto della causalità con quello della libertà (e con ciò che ne è inseparabile, con la legge morale come suo motivo determinante); e questo diritto mi appartiene assolutamente in virtù dell’origine pura e non empirica del concetto di causa, né mi credo in potere di farne alcun uso fuorché in relazione alla legge morale, la quale determina la sua realtà, cioè soltanto un uso pratico. Se io avessi tolto, con Hume, al concetto della causalità la realtà oggettiva nell’uso pratico6 non solo rispetto alle cose in se stesse (al soprasensibile), ma anche rispetto agli oggetti dei sensi, esso avrebbe perduto ogni significato e, come un concetto teoreticamente impossibile, sarebbe stato dichiarato affatto inutile e, siccome del niente nessun uso si può fare, l’uso pratico di un

concetto t e o r e t i c a m e n t e n u l l o sarebbe stato assurdo. Ma il concetto di una causalità empiricamente incondizionata è bensì vuoto (senza un’intuizione appropriata), ma pure è sempre possibile, e si riferisce a un oggetto indeterminato; nella legge morale invece, e quindi nel raporto pratico, gli vien dato un significato; e così io non ne ho alcuna intuizione, che ne [99] determini la realtà oggettiva teoretica, ma esso ha nondimeno un’applicazione reale, che si manifesta in concreto nelle intenzioni, ossia nelle massime: che cioè ha una realtà pratica che può esser indicata; il che poi è sufficiente a giustificarlo anche riguardo ai noumeni. Ma questa realtà oggettiva di un concetto puro dell’intelletto, una volta introdotta nel campo del soprasensibile, dà ormai a tutte le altre categorie, benché sempre solo in quanto sono in unione n e c e s s a r i a col motivo determinante della volontà pura (con la legge morale), anche una realtà oggettiva: ma solo applicabile praticamente, senza il minimo influsso per estendere la conoscenza teoretica di questi oggetti come cognizione della natura di essi mediante la ragion pura. Così vedremo poi anche in seguito che le categorie hanno rapporto sempre soltanto con gli esseri come i n t e l l i g e n z e ; ed anche in queste soltanto con la relazione della r a g i o n e con la v o l o n t à ; quindi sempre soltanto col p r a t i c o , senza attribuirsi oltre a ciò nessuna conoscenza di questi esseri; ma, d’altronde, quanto alle proprietà appartenenti al modo di rappresentazione teoretico di tali cose soprasensibili, e che potrebbero essere legate con esse, sono tutte ascritte, non al sapere, sibbene soltanto al diritto [100] (nel rapporto pratico, alla necessità) di ammetterle e di supporle, anche dove si ammettono esseri soprasensibili (come Dio), secondo un’analogia, cioè secondo la relazione pura della ragione, di cui ci serviamo praticamente relativamente agli esseri sensibili; e così mediante l’applicazione al soprasensibile, ma soltanto nel rapporto pratico non si dà il minimo pretesto alla ragion pura teoretica di vagare nel trascendente. 1

[Coalitions-system, Koalitionsversuche: con questi termini Kant indica, con disprezzo, le varie posizioni eclettiche care alla filosofia ufficiale.] 2 [Nei Prolegomeni, ed. dell’Accademia, IV, p. 274, sono indicate come fatto incontestato le proposizioni scientifiche (della matematica pura e della fisica pura). Nella Critica del Giudizio, V, pp. 467-8, si precisa una teoria della res facti, scibile, Thatsache («...ma ciò che è molto notevole è che tra le cose di fatto si trovi anche un’idea della ragione... ed è l’idea della libertà»).] 3 Böses, cattivo in senso morale. [T] 4 Uebel, male in genere. [T] 5 [Gli scritti di Francis Hutcheson (1694-1747) si diffusero anche in traduzioni tedesche (A

system of moral philosophy = Sittenlehre der Vernunft, tr. Lessing, 1756; Inquiry into the origin of our ideas of beauty and virtue, tr. J. H. Merck, 1762; Essay on the nature and conduct of the passions and affections, tr. ted. 1765). Della sua influenza su Kant si trovano tracce cospicue negli scritti anteriori al ’70 (cfr. per es., Scritti precritici, Bari, 1953, p. 253; V. Delbos, op. cit., p. 105) e lo stesso Borowski nella Vita ricorda la cura con cui Kant aveva studiato la morale di H. (ed. Schwarz, Halle a. S., 1907, p. 77: «In den Jahren, da ich zu seinen Schülern gehörte, waren ihm Hutcheson und Hume, jener im Fache der Moral, dieser in seinen tiefen, philosophischen Untersuchungen ausnehmend wert»). Di Bernardo di Mandeville (1670-1733) The fable of the bees non era tradotta in tedesco, ma circolò in tutta Europa tradotta in francese, in tedesco erano usciti nel 1726 i Free thoughts on religion, the church and national happiness. Di Cristian August Crusius (1715-1775) cfr. per es. Entwurf der notwendigen Vernunftwahrheiten..., Leipzig, 1745 (per la sua influenza su Kant, cfr. A. Marquardt, Kant und Crusius, Kiel, 1885).] 6 [Il testo ha praktischen Gebrauche in tutte le edizioni, e il Born usa practico. Ma il Barni, l’Abbot, il Picavet e il Capra considerano questo termine come errore, e sostituiscono il termine teoretico.] I Le proposizioni, che nella matematica o nella fisica si chiamano p r a t i c h e , dovrebbero propriamente chiamarsi t e c n i c h e . Poiché queste scienze non trattano punto della determinazione della volontà, quelle proposizioni dimostrano soltanto il molteplice dell’azione possibile, il quale è sufficiente a produrre un dato effetto, e perciò sono altrettanto teoretiche, quanto tutte le proposizioni che enunciano la connessione della causa coll’effetto. Ora, colui che vuole l’effetto, deve anche adattarsi alla causa.

Capitolo secondo Del concetto di un oggetto della ragion pura pratica

Per concetto di un oggetto della ragion pratica intendo la rappresentazione di un oggetto come di un effetto possibile mediante la libertà. Essere oggetto di conoscenza pratica come tale significa dunque soltanto la relazione del volere a una azione, mediante la quale l’oggetto, o il suo contrario, sarebbe realmente effettuato; e il giudizio, se qualcosa sia o no un oggetto della ragion p u r a pratica, è soltanto la distinzione della possibilità o dell’impossibilità di v o l e r e quell’azione mediante la quale, se noi avessimo il potere necessario (del che deve giudicare [101] l’esperienza), un certo oggetto diventerebbe reale. Se l’oggetto è supposto come il motivo determinante della nostra facoltà di desiderare, la p o s s i b i l i t à f i s i c a di esso mediante il libero uso delle nostre forze deve precedere il giudizio, se esso sia o no un oggetto della ragion pratica. Invece se la legge a p r i o r i può esser considerata come il motivo determinante dell’azione, e perciò questa come determinata mediante la ragion pura pratica, il giudizio, se qualcosa sia o no un oggetto della ragion pura pratica, è affatto indipendente dal confronto col nostro potere fisico; e la questione è soltanto, se ci è lecito v o l e r e un’azione diretta all’esistenza di un oggetto, essendo questo in nostro potere; e quindi la p o s s i b i l i t à morale dell’azione deve precedere; poiché in questo caso non è l’oggetto, ma la legge della volontà il motivo determinante di essa. I soli oggetti di una ragion pratica sono dunque il b e n e e il m a l e . Col primo s’intende un oggetto necessario della facoltà di desiderare, col secondo un oggetto necessario della facoltà di aborrire, ma tutti e due secondo un principio della ragione. Se il concetto del bene non dev’essere derivato da una legge pratica precedente, ma piuttosto deve servir di base a questa, [102] esso può soltanto essere il concetto di qualcosa, la cui esistenza promette piacere, e così

determina alla produzione la causalità del soggetto, cioè la facoltà di desiderare. Ora, siccome è impossibile vedere a p r i o r i quale rappresentazione sarà accompagnata da p i a c e r e , e quale, invece, da d i s p i a c e r e , così spetterebbe soltanto all’esperienza stabilire ciò che sia immediatamente buono o cattivo. La proprietà del soggetto, in relazione alla quale soltanto quest’esperienza può esser posta, è il s e n t i m e n t o del piacere e del dispiacere, come una recettività appartenente al senso intero; e così il concetto di quel che è immediatamente buono spetterebbe soltanto a ciò con cui è legata immediatamente la sensazione del p i a c e r e , e il concetto di quel che è assolutamente cattivo, dovrebbe soltanto esser riferito a ciò che reca immediatamente d o l o r e . Ma siccome ciò è già contrario all’uso linguistico, il quale distingue il p i a c e v o l e dal b e n e , lo s p i a c e v o l e dal m a l e , e richiede che il bene e il male siano sempre giudicati mediante la ragione, e quindi mediante concetti che si possano comunicare universalmente, e non mediante la semplice sensazione la quale si limita agli oggetti particolari e alla loro recettività, mentre per se stessi un piacere o un dispiacere non possono esser legati immediatamente con nessuna rappresentazione di un oggetto a p r i o r i ; così il filosofo che si credesse obbligato a porre un sentimento [103] di piacere a base del suo giudizio pratico, chiamerebbe b u o n o ciò che è un m e z z o al piacevole, e c a t t i v o ciò che è c a u s a del dispiacere e del dolore; poiché il giudizio della relazione dei mezzi ai fini appartiene certamente alla ragione. Ma quantunque soltanto la ragione sia in grado di vedere la connessione dei mezzi con i loro fini (sicché si potrebbe anche definire la volontà mediante la facoltà dei fini, poiché i fini sono sempre motivi determinanti della facoltà di desiderare secondo princìpi), pure le massime pratiche che deriverebbero semplicemente come mezzi dal concetto su menzionato del bene, non conterrebbero mai come oggetto della volontà qualcosa di buono per se stesso, ma sempre soltanto di buono a qualche cosa; il bene sarebbe semplicemente l’utile, e ciò a cui è utile dovrebbe sempre essere fuori della volontà, nella sensazione. Ora, se questa, come sensazione piacevole, dovesse essere distinta dal concetto del bene, allora non si darebbe in nessun luogo una cosa immediatamente buona, ma il bene dovrebbe soltanto esser cercato nei mezzi per raggiungere qualche altra cosa, cioè qualche soddisfazione. È una vecchia formola delle Scuole: nihil appetimus, nisi sub ratione boni; nihil adversamur, nisi sub ratione mali, ed ha un uso spesso giusto, ma

spesso anche assai nocivo alla filosofia perché [104] le espressioni boni e mali contengono un equivoco, di cui è causa la povertà della lingua, secondo il quale esse sono capaci di un duplice significato e quindi danno un senso ambiguo alle leggi pratiche, e obbligano la filosofia, che nell’uso di esse può benissimo veder la differenza di concetto nella stessa parola, ma non può trovare espressioni specifiche, a distinzioni sottili, sulle quali si può poi non esser d’accordo, poiché la distinzione non poté esser designata immediatamente con nessuna espressione adattaI. La lingua tedesca ha la fortuna di possedere espressioni che non lasciano sfuggire questa differenza. Per ciò che i latini chiamano con una sola parola bonum, essa ha due concetti assai diversi, e anche due altrettanto diverse espressioni. Per bonum essa ha Gute e Wohl; per malum, Böse e Uebel o Weh: sicché sono [105] due giudizî assai diversi, se in un’azione consideriamo il Gute e il Böse di essa, oppure il nostro Wohl e il nostro Weh (Uebel). Di qui segue già che la proposizione psicologica citata è almeno ancora assai incerta, quando vien tradotta così: noi non desideriamo niente, se non per riguardo al nostro Wohl o al nostro Weh; invece viene espressa in modo indubitamente certo, e nello stesso tempo affatto chiaramente, se è resa così: noi non vogliamo niente, secondo la direzione della ragione, che in quanto lo riteniamo gut o böse. Wohl o Uebel significano sempre soltanto una relazione al nostro stato di p i a c e r e o d i s p i a c e r e , di contentezza o di dolore; e, se noi perciò desideriamo un oggetto, o lo detestiamo, ciò accade solo in quanto esso vien riferito alla nostra sensibilità, e al sentimento del piacere o del dispiacere che esso produce. Ma Gute o Böse significano sempre una relazione alla v o l o n t à , in quanto questa è determinata mediante la l e g g e r a z i o n a l e a far di qualcosa il suo oggetto; perché essa non è mai determinata immediatamente mediante l’oggetto e la sua rappresentazione, ma è una facoltà di farsi di una regola della ragione la causa determinante di un’azione (mediante la quale un oggetto può diventar reale). Gute o Böse sono dunque [106] propriamente riferiti ad azioni, non allo stato sensibile della persona; e se qualcosa dovesse esser semplicemente (e sotto ogni rispetto e senz’altra condizione) gut o böse o esser ritenuto tale, sarebbe soltanto il modo d’agire, la massima della volontà, e quindi la persona stessa agente come uomo buono o cattivo, ma non una cosa che potrebbe esser chiamata tale. Si può sempre ridere dello stoico che nei più violenti dolori artritici

gridava: Dolore tu mi puoi ancora tormentar tanto, tuttavia io non riconoscerò mai che tu sia qualcosa di male1 (κακόυ, malum)!; eppure egli aveva ragione. Ciò che sentiva, e che il suo grido accusava, era un Uebel; egli non aveva alcuna ragione di ammettere che per questo egli aveva un Böses; poiché il dolore non diminuiva minimamente il valore della sua persona, ma solo il valore del suo stato. Una sola bugia, della quale egli fosse stato conscio, avrebbe dovuto abbattere il suo animo. Ma il dolore serviva soltanto ad elevarlo, se egli era conscio di non averlo meritato con nessun’azione ingiusta e di non essersi in tal modo reso meritevole di castigo. Ciò che noi dobbiamo chiamar gut, dev’essere nel giudizio di ogni uomo ragionevole un oggetto della facoltà di desiderare; e il Böse dev’essere agli occhi di ognuno un oggetto di avversione, e quindi per questo giudizio occorre, oltre al senso, ancora [107] la ragione. Così è della veracità in opposizione alla menzogna, della giustizia in opposizione alla violenza, ecc. Ma noi possiamo chiamare un Uebel qualcosa, che nello stesso tempo ognuno deve dichiarare gut, a volte mediatamente, a volte affatto immediatamente. Chi si lascia fare un’operazione chirurgica, la sente senza dubbio come un Uebel, ma mediante la ragione egli, e ognuno, la dichiarano gut. Ma, se ad alcuno che stuzzica e infastidisce volentieri la gente pacifica, una volta finalmente càpita male, ed è spedito con una buona carica di busse; questo è senza dubbio un Uebel, ma a cui ognuno dà la propria approvazione, e lo ritiene gut in sé, anche se non ne risulta niente di più; ed anzi quello stesso che riceve le busse nella sua ragione deve riconoscere che ben gli sta, perché in questo caso egli vede messa rigorosamente in pratica quella proporzione fra il benessere e la buona condotta che la ragione gli presenta inevitabilmente. Senza dubbio, il giudizio della nostra ragion pratica dipende n e l l a m a s s i m a p a r t e dal nostro Wohl e dal nostro Weh, e, per quel che riguarda la nostra natura di esseri sensibili, tutto dipende dalla nostra f e l i c i t à , se questa, come la ragione richiede principalmente, non viene giudicata secondo la sensazione transitoria, ma secondo l’influsso che questo caso fortuito [108] ha su tutta la nostra esistenza e sulla contentezza di questa; ma pure non t u t t o i n g e n e r e dipende da questo. L’uomo è un essere che ha bisogni in quanto appartiene al mondo sensibile; e in questo la sua ragione ha certamente un compito; che non può rifiutare da parte della sensibilità, di curarsi dell’interesse di essa e di farsi delle massime pratiche riguardo alla

felicità di questa vita, e, se è possibile, anche di una vita avvenire. Ma, tuttavia, egli non è affatto così animale, da essere indifferente a tutto ciò che la ragione per se stessa dice, e da usar questa solo come strumento del suo bisogno, in quanto egli è essere sensibile. Poiché al pregio di essere al di sopra della semplice animalità, non lo innalza per niente il fatto di possedere la ragione, se essa gli deve servire soltanto a ciò che l’istinto fa negli animali; in tal caso la ragione sarebbe soltanto una maniera particolare di cui la natura si sarebbe servita per indirizzare l’uomo allo stesso fine a cui ha determinato gli animali, senza determinarlo a un fine superiore. Egli dunque, secondo la disposizione della natura a suo riguardo, abbisogna certamente della ragione per tener sempre presente il suo Wohl e il suo Weh; ma egli ha la ragione anche per un fine superiore, cioè non solo per considerare anche ciò che è gut o böse in sé, e di cui può giudicare soltanto la ragion pura, affatto disinteressata dal punto di vista sensibile, ma per [109] distinguere assolutamente questo giudizio da quello, e far di esso la condizione suprema dell’altro. In questo giudizio del bene e del male in sé, a differenza di ciò che può essere chiamato tale solo relativamente al Wohl o all’Uebel, si tratta di considerare i punti seguenti. O un principio razionale vien già considerato in sé come il motivo determinante della volontà, senza riguardo agli oggetti possibili della facoltà di desiderare (dunque solo mediante la forma di legge della massima); e allora quel principio è una legge pratica a p r i o r i , e la ragion pura è da ammettere come pratica per sé. Allora la legge determina i m m e d i a t a m e n t e la volontà; l’azione conforme a questa legge è gut in se stessa; una volontà, la cui massima è sempre conforme a questa legge, e gut a s s o l u t a m e n t e , s o t t o o g n i r i s p e t t o , ed è la c o n d i z i o n e s u p r e m a d i o g n i b e n e. Oppure alla massima della volontà va innanzi un motivo determinante della facoltà di desiderare, il quale suppone un oggetto di piacere o dispiacere, e quindi qualcosa che c o n t e n t a o a d d o l o r a ; e la massima della ragione, di secondar quello e di fuggir questo, determina le azioni, in quanto sono gut relativamente alle nostre inclinazioni, e quindi gut soltanto mediatamente (rispetto a un altro fine, come mezzo ad esso); e allora queste massime non possono mai chiamarsi leggi, [110] ma precetti pratici razionali. Il fine stesso, la contentezza che noi cerchiamo, nell’ultimo caso non è un Gutes ma un Wohl, non un concetto della ragione, ma un concetto empirico di un oggetto della sensazione; solo

l’uso del mezzo conveniente, cioè l’azione (giacché per questo si richiede una considerazione razionale) si dice tuttavia gut, non semplicemente, ma soltanto in relazione alla nostra sensibilità rispetto al suo sentimento del piacere e del dispiacere; ma la volontà, la cui massima è da ciò influenzata, non è una volontà pura, che riguarda soltanto ciò in cui la ragion pura può essere per se stessa pratica. Ecco qui il luogo di spiegare il paradosso del metodo di una Critica della ragion pratica: c h e c i o è i l c o n c e t t o d e l b e n e e d e l m a l e n o n deve esser determinato prima della legge morale (a cui esso in apparenza dovrebbe esser posto a base), ma soltanto (come anche qui avviene) dopo di essa e m e d i a n t e e s s a . Cioè, anche se non sapessimo che il principio della moralità è una legge pura a p r i o r i che determina la volontà, pure dovremmo, per non ammettere dei princìpi del tutto gratuiti (gratis), lasciare i n d e t e r m i n a t o , almeno inizialmente, se la volontà abbia solo motivi determinanti empirici, o anche puri a p r i o r i ; poiché è contro tutte le regole fondamentali del [111] procedimento filosofico ammettere come già risolto ciò che si deve ancora risolvere. Posto che ora volessimo cominciare dal concetto del bene, per far derivare da esso le leggi della volontà, questo concetto di un oggetto (come buono) darebbe nello stesso tempo questo oggetto come l’unico motivo determinante della volontà. Ora, siccome questo concetto non avrebbe nessuna legge pratica a p r i o r i per sua regola; così la pietra di paragone del bene o del male non potrebbe consistere in altro che nella concordanza dell’oggetto col nostro sentimento del piacere o del dispiacere, e l’uso della ragione potrebbe consistere solo in questo, nel determinare questo piacere o dispiacere nella connessione completa con tutte le sensazioni della mia esistenza, e così, pure i mezzi di procurarmi l’oggetto di esso. Ora, siccome può esser determinato solo mediante l’esperienza ciò che è conforme al sentimento del piacere; e la legge pratica, secondo il dato, dovrebbe esser tuttavia fondata su questo sentimento come su condizione; sarebbe così esclusa affatto la possibilità di leggi pratiche a p r i o r i ; perché si crederebbe necessario trovare prima un oggetto della volontà, il concetto del quale, come concetto di un bene dovrebbe costituire il motivo determinante universale, benché empirico, della volontà. Ma pure era necessario ricercare prima, se non vi sia anche un motivo determinante a p r i o r i della volontà (il quale non si sarebbe mai trovato [112] altrove che in

una legge pura pratica, e invero in quanto questa prescrive alle massime la semplice forma di legge senza riguardo a un oggetto). Ma siccome si era già posto a base di ogni legge pratica un oggetto determinato secondo i concetti del bene e del male, senza una legge precedente; e siccome esso poteva esser pensato soltanto secondo concetti empirici, così si era già tolta la possibilità anche solo di pensare una legge pura pratica; mentre invece, se si fosse ricercata prima analiticamente questa legge, si sarebbe trovato che non è il concetto del bene, come concetto di un oggetto, che determina e rende possibile la legge morale, ma al contrario è la legge morale che anzitutto determina e rende possibile il concetto del bene, in quanto esso meriti davvero questo nome. Quest’osservazione, che riguarda semplicemente il merito delle supreme ricerche morali, è importante. Essa espone in una volta sola la causa occasionale di tutti gli errori dei filosofi relativamente al supremo principio della morale. Essi infatti cercavano un oggetto della volontà, per fare di esso la materia e il fondamento di una legge (la quale allora non immediatamente, ma mediante quell’oggetto riferito al sentimento del piacere o del dispiacere, dovrebbe essere il motivo determinante della volontà), [113] laddove essi avrebbero dovuto prima cercare una legge che determinasse a p r i o r i e immediatamente la volontà, e solo conforme a questa legge l’oggetto. Ora essi potevano riporre quest’oggetto del piacere, che doveva dare il concetto del bene, nella felicità, nella perfezione, nel sentimento morale2, o nella volontà di Dio; ma il loro principio era sempre eteronomia, ed essi dovevano inevitabilmente riuscire a condizioni empiriche per una legge morale, perché potevano chiamar buono o cattivo il loro oggetto, come motivo determinante immediato della volontà, soltanto secondo la sua relazione immediata al sentimento, il quale è sempre empirico. Soltanto una legge formale, cioè tale che non prescriva alla ragione niente altro che la forma della sua legislazione universale come condizione suprema delle massime, può essere a p r i o r i un motivo determinante della ragion pratica. Gli antichi lasciavano vedere chiaramente quest’errore riponendo interamente la loro ricerca morale nella determinazione del concetto del sommo bene, e perciò di un oggetto del quale essi pensavano di fare il motivo determinante della volontà nella legge morale: un oggetto il quale, molto dopo, quando la legge morale sia già stata ben confermata per se stessa, e giustificata come il motivo determinante immediato della volontà, può esser rappresentato come oggetto alla volontà

[114] ormai determinata a p r i o r i quanto alla sua forma; il che noi intraprenderemo nella dialettica della ragion pura pratica. I moderni, presso i quali la questione del sommo bene sembra sia andata in disuso, o almeno sia diventata una questione soltanto secondaria, nascondono l’errore menzionato (come in molti altri casi) sotto parole indeterminate; tuttavia lo si vede spuntar fuori dai loro sistemi, dove riesce a ogni sorta di eteronomie della ragion pratica, donde non può mai risultare una legge morale che comandi universalmente a p r i o r i . Ora, siccome i concetti del bene e del male, quali conseguenze della determinazione a p r i o r i della volontà, suppongono anche un principio puro pratico, e quindi una causalità della ragion pura; così essi non si riferiscono originalmente (quasi come determinazioni dell’unità sintetica del molteplice di intuizioni date in una coscienza) ad oggetti, come i concetti puri dell’intelletto, ossia le categorie della ragione usata teoreticamente, ché al contrario essi suppongono questi oggetti come dati; ma sono tutti m o d i di una sola categoria, cioè di quella della causalità, in quanto il motivo determinante di essi consiste nella rappresentazione razionale di una loro legge, la quale, come legge della libertà, la ragione dà a se stessa, e così si dimostra [115] a p r i o r i come pratica. Tuttavia, siccome le azioni, da u n a p a r t e appartengono a una legge che non è una legge naturale, ma una legge della libertà, e quindi riguardante il modo di procedere di esseri intelligibili, ma d’ a l t r a p a r t e appartengono anche, come eventi del mondo sensibile, ai fenomeni; così le determinazioni di una ragion pratica potranno aver luogo soltanto in relazione ai fenomeni, e quindi certamente in conformità alle categorie dell’intelletto, ma non al fine di un uso teoretico di esso, [ossia] per ricondurre il molteplice dell’ i n t u i z i o n e (sensibile) sotto una coscienza a p r i o r i , ma soltanto per assoggettare il molteplice dei d e s i d e r i dell’unità della coscienza di una ragion pratica, che comanda nella legge morale, o di una volontà pura a p r i o r i . Queste c a t e g o r i e d e l l a l i b e r t à , poiché così vogliamo chiamarle, mentre quei concetti teoretici chiamiamo categorie della natura, hanno un vantaggio evidente su queste ultime. Poiché, laddove queste sono soltanto forme del pensiero, le quali, mediante concetti universali, denotano soltanto oggetti indeterminati in genere per ogni intuizione a noi possibile, quelle invece, riferendosi alla determinazione di un l i b e r o a r b i t r i o (al quale invero non può esser data nessuna intuizione pienamente corrispondente, ma

che ha a fondamento una legge pura pratica a p r i o r i , il che non avviene con nessun concetto dell’uso [116] teoretico della nostra facoltà di conoscere) come concetti pratici elementari, invece della forma dell’intuizione (spazio e tempo), che non si trova nella ragione stessa ma dev’essere ricavata altrove, e cioè dalla sensibilità, hanno nella volontà libera, e perciò nella stessa facoltà di pensare la f o r m a d i u n a v o l o n t à p u r a come fondamento intrinseco. Per cui avviene poi che, siccome in tutti i precetti della ragion pura pratica si tratta soltanto della d e t e r m i n a z i o n e d e l l a v o l o n t à , e non delle condizioni naturali (della facoltà pratica) dell’ a t t u a z i o n e d e l s u o f i n e , i concetti pratici a p r i o r i in relazione col principio supremo della libertà diventano tosto conoscenze, e non devono aspettare le intuizioni per avere un significato; e questo per l’importante ragione che producono essi stessi la realtà di quello a cui si riferiscono (l’intenzione della volontà), il che non succede punto coi concetti teoretici. Solo si deve notare bene che queste categorie riguardano esclusivamente la ragion pratica in generale; e così procedono nel loro ordine da quelle che sono ancora indeterminate moralmente e condizionate sensibilmente, a quelle che, incondizionate sensibilmente, sono determinate solo mediante la legge morale.

[117] TAVOLA DELLE CATEGORIE DELLA LIBERTÀ, IN RELAZIONE AI CONCETTI DEL BENE E DEL MALE 1. DELLA QUANTITÀ

2. DELLA QUALITÀ

Regole pratiche Soggettiva, secondo dell’azione massime (opinioni pratiche (praeceptivae). dell’individuo). Regole, Oggettiva, secondo pratiche princìpi (precetti). dell’omissione Princìpi a priori, tanto (prohibitivae). oggettivi come soggettivi, Regole della libertà (leggi). pratiche dell’eccezione (exceptivae).

3. DELLA

4. DELLA

RELAZIONE

MODALITÀ

Alla personalità. Allo stato della persona. Reciproca di una persona allo stato dell’altra.

Il lecito e l’illecito. Il dovere e il contrario al dovere. Dovere perfetto e dovere imperfetto.

[118] Si vede presto che, in questa tavola, la libertà vien considerata come una specie di causalità, la quale però non è soggetta a motivi determinanti empirici rispetto alle azioni che essa può produrre come fenomeni nel mondo sensibile, e che quindi essa si riferisce alle categorie della loro possibilità naturale, mentre ogni categoria vien presa così universalmente che il motivo determinante di quella causalità può anche esser supposto fuori del mondo sensibile, nella libertà come proprietà di un essere intelligibile, finché le categorie della modalità dispongono il passaggio, ma soltanto p r o b l e m a t i c a m e n t e , dai princìpi pratici in genere a quelli della moralità, i quali poi possono essere stabiliti d o m m a t i c a m e n t e soltanto mediante la legge morale. Non aggiungo nient’altro qui a spiegazione della presente tavola, perché essa è abbastanza chiara per sé. Una simile divisione fatta secondo princìpi e assai utile a ogni scienza, tanto per la sua saldezza come per la sua chiarezza. Così, per es., dalla tavola precedente e dal primo numero di essa si sa subito di dove si deve cominciare nelle considerazioni pratiche: dalle massime, che ognuno fonda sulle sue inclinazioni; dai precetti, che valgono per una specie di esseri razionali in quanto essi convengono [119] in certe inclinazioni; e, infine, dalla legge, che vale per tutti, astrazion fatta dalle loro inclinazioni, ecc. In questo modo si abbraccia tutto il piano di ciò che si deve fare, anzi ogni questione della filosofia pratica che si deve risolvere, e, nello stesso tempo, l’ordine da seguire.

DELLA TIPICA DEL GIUDIZIO PURO PRATICO. I concetti del bene e del male determinano, anzitutto, un oggetto per la volontà. Ma essi stessi sono soggetti a una regola pratica della ragione, la quale, se è ragion pura, determina a p r i o r i la volontà relativamente al suo oggetto. Ora per decidere se un’azione, a noi possibile nel mondo sensibile, sia o no il caso soggetto alla regola, si richiede un giudizio pratico mediante il quale, quel che in una regola fu detto in modo universale (in abstracto), venga applicato in concreto a un’azione. Ma siccome una regola pratica della ragion pura riguarda i n p r i m o l u o g o , come p r a t i c a , l’esistenza di un oggetto, e i n s e c o n d o l u o g o , come r e g o l a p r a t i c a della ragion pura, implica la necessità rispetto all’esistenza dell’azione, e quindi è una legge pratica e non una legge naturale mediante motivi determinanti empirici,

ma una legge della libertà, secondo la quale la volontà dev’essere determinabile indipendentemente da ogni elemento empirico (solo mediante la rappresentazione di una legge in [120] genere e della sua forma); e siccome tutti i casi che avvengono possono appartenere ad azioni possibili, ma soltanto empiriche, cioè all’esperienza e alla natura; così pare assurdo voler trovare nel mondo sensibile un caso che, mentre come tale è sempre soltanto soggetto alla legge naturale, pure ammetta l’applicazione a se stesso di una legge della libertà, e al quale possa essere applicata l’idea soprasensibile del moralmente buono, che in esso dev’essere manifestata in concreto. Il giudizio della ragion pura pratica è dunque soggetto alle stesse difficoltà di quello della ragion pura teoretica; il quale ultimo però possedeva un mezzo per trarsi da questa difficoltà; se, cioè, rispetto all’uso teoretico si trattava d’intuizioni a cui potevano esser applicati i concetti puri dell’intelletto, tuttavia tali intuizioni (benché soltanto di oggetti dei sensi) potevano esser date a p r i o r i , e quindi, per quel che riguarda la connessione del molteplice in esse, conformi a p r i o r i (come s c h e m i ) ai concetti puri dell’intelletto. Il moralmente buono, invece è, quanto all’oggetto, qualcosa di soprasensibile per cui, dunque, non si può trovare qualcosa di corrispondente in nessuna intuizione sensibile; e perciò il giudizio sotto le leggi della ragion pura pratica sembra esser soggetto a difficoltà speciali, che consistono in questo, che una legge della [121] libertà dev’esser applicata ad azioni come ad eventi che accadono nel mondo sensibile, e che quindi, come tali, appartengono alla natura. Ma nondimeno qui si apre di nuovo una prospettiva favorevole per il giudizio puro pratico. Nella sussunzione di un’azione possibile per me nel mondo sensibile sotto una l e g g e p u r a p r a t i c a , non si tratta della possibilità dell’a z i o n e come di un evento nel mondo sensibile; questa possibilità infatti è di pertinenza del giudizio intorno all’uso teoretico della ragione secondo la legge di causalità, che è un concetto puro dell’intelletto, per cui essa ha uno s c h e m a nell’intuizione sensibile. La causalità fisica, ossia la condizione in base alla quale questa possibilità ha luogo, appartiene ai concetti della natura, il cui schema è tracciato dall’immaginazione trascendentale. Ma qui non si tratta dello schema di un caso secondo leggi, ma dello schema (se qui è propria questa parola) di una legge, perché la d e t e r m i n a z i o n e d e l l a v o l o n t à (non l’azione relativamente al suo risultato) solo mediante la legge, senza un’altro motivo determinante, lega il

concetto della causalità a condizioni affatto diverse da quelle che costituiscono la connessione della natura. Alla legge naturale, come legge a cui sono soggetti [122] gli oggetti dell’intuizione sensibile come tali, deve corrispondere uno schema, cioè un procedimento universale della immaginazione (per manifestare a p r i o r i ai sensi il concetto puro dell’intelletto che la legge determina). Ma alla legge della libertà (come legge di una causalità non condizionata sensibilmente), e quindi anche al concetto dell’incondizionatamente buono, non può esser sottoposta nessuna intuizione, e quindi nessuno schema per la sua applicazione in concreto. Quindi la legge morale non ha nessun’altra facoltà conoscitiva che ne medî l’applicazione agli oggetti della natura, fuorché l’intelletto (non l’immaginazione), il quale a un’idea della ragione non può sottoporre uno s c h e m a della sensibilità, ma una legge, tale però che possa essere manifestata in concreto negli oggetti dei sensi, e quindi una legge naturale, ma solo quanto alla forma, come legge per il giudizio; e questa legge noi la possiamo chiamare perciò il tipo della legge morale. La regola del giudizio sotto le leggi della ragion pura pratica è questa: Domanda a te stesso se l’azione che tu hai in mente, la potresti considerare possibile mediante la tua volontà, se essa dovesse accadere secondo una legge della natura, della quale tu stesso fossi una parte. Secondo questa regola, infatti, ciascuno giudica se le azioni sono moralmente buone o cattive. Così [123] si dice: se c i a s c u n o , quando credesse di fare il suo vantaggio, si permettesse di truffare; se si credesse in diritto di abbreviarsi la vita, appena gliene venisse un disgusto completo; se guardasse con indifferenza completa alla miseria altrui; tu, appartenendo a un tal ordine di cose, ti troveresti bene in esso, col consenso della tua volontà? Ora ciascuno sa bene che, se egli di nascosto si permettesse una truffa, non per questo tutti farebbero lo stesso; o se egli senza accorgersene fosse freddo di cuore, tali non sarebbero senz’altro tutti verso di lui; quindi, questo paragone delle massime delle sue azioni con una legge universale della natura, non è neanche il motivo determinante della sua volontà. Ma la legge è però un tipo del giudizio delle azioni secondo princìpi morali. Se la massima delle azioni non è tale da reggere al confronto con la forma di una legge naturale in genere, essa è moralmente impossibile. Così giudica anche l’intelletto più comune, poiché la legge naturale è sempre alla base di tutti i suoi giudizi più consueti, anche di quelli empirici. Esso l’ha dunque sempre alla mano; ma

nei casi in cui dev’esser giudicata la causalità della libertà, fa di quella l e g g e n a t u r a l e semplicemente il tipo di una l e g g e d e l l a l i b e r t à , perché se non avesse sotto mano qualcosa capace di servirgli d’esempio nel caso empirico, non potrebbe procurare alla legge di una ragion pura pratica l’uso nell’applicazione. [124] Dunque, è anche lecito usare la n a t u r a d e l m o n d o s e n s i b i l e come t i p o di una n a t u r a i n t e l l i g i b i l e , purché non vi si trasportino le intuizioni e ciò che da esse dipende, ma vi si riferisca semplicemente la f o r m a d e l l a c o n f o r m i t à a l l a l e g g e in genere (il concetto della quale ha luogo anche nell’uso più comune della ragione, ma non può esser riconosciuto a p r i o r i in modo determinato sotto nessun altro rispetto, fuorché per l’uso puro pratico della ragione). Poiché le leggi, come tali, sotto questo rispetto sono identiche, abbiano i loro motivi determinati donde che sia. Del resto, siccome in ogni intelligibile non vi è assolutamente niente altro se non la libertà (mediante la legge morale), e anche quella solo in quanto è una supposizione inseparabile da tale legge; e, inoltre, siccome tutti gli oggetti intelligibili, a cui la ragione, secondo la direzione di quella legge, ci potrebbe ancora condurre, a loro volta non hanno per noi nessun’altra realtà se non per lo scopo di quella legge e dell’uso della ragion pura pratica, che a sua volta è giustificata e anzi obbligata a servirsi della natura (secondo la forma pura intelligibile di essa) come di tipo del giudizio; così la presente osservazione serve a impedire che venga annoverato fra i concetti stessi ciò che serve semplicemente alla t i p i c a dei concetti. Questa, dunque, come tipica del giudizio, ci preserva dall’ e m p i r i s m o della ragion pratica, [125] il quale pone i concetti pratici del bene e del male semplicemente nelle conseguenze dell’esperienza (nella così detta felicità); e benché la felicità e le infinite conseguenze utili di una volontà determinata mediante l’amor proprio, se l’amor proprio nello stesso tempo si faccia legge universale della natura, possono senza dubbio servire come tipo affatto conveniente del moralmente buono, pure non sono identiche con questo. La stessa tipica presenza anche dal m i s t i c i s m o della ragion pratica, il quale di ciò che serviva soltanto come s i m b o l o fa uno s c h e m a cioè sottopone all’applicazione dei concetti morali istituzioni reali eppure non sensibili (di un regno invisibile di Dio), e vaga nel trascendente. All’uso dei concetti morali è adatto solo il r a z i o n a l i s m o del giudizio, il quale della natura

sensibile non prende nient’altro se non ciò che anche la ragion pura per sé può pensare, cioè la conformità alla legge, e nella natura soprasensibile non introduce se non ciò che al contrario si può manifestar realmente mediante le azioni nel mondo sensibile secondo la regola formale di una legge naturale in genere. Tuttavia, è molto più importante e degno di raccomandazioni il preservarsi dall’e m p i r i s m o della ragion pratica, perché il m i s t i c i s m o comporta ancora la purezza e la sublimità della legge morale, e inoltre non è naturale e proporzionato al modo ordinario [126] di pensare il tendere la propria immaginazione fino alle intuizioni soprasensibili, sicché da questo lato il pericolo non è così universale; mentre invece l’empirismo estirpa fino alla radice la moralità nelle intenzioni (nelle quali tuttavia, e non semplicemente nelle azioni, consiste l’alto valore che l’umanità si può e si deve procurare mediante la moralità), e al dovere sostituisce qualcosa di affatto diverso, cioè un interesse empirico con cui le inclinazioni in generale entrano in reciproco rapporto; inoltre l’empirismo, appunto perché è unito con tutte le inclinazioni, le quali (qualunque forma prendano), se vengono innalzate alla dignità di principio pratico supremo, degradano l’umanità, e poiché queste sono così favorevoli al modo di sentire di tutti, per tale ragione è molto più pericoloso di ogni entusiasmo mistico, che non può mai costituire una condizione durevole di molti uomini. 1

[etwas Böses, cfr. Cic. Tusc. disp., II, 25, 61: «Nihil agis, dolor! quamvis sis molestus, numquam te esse confitebor malum».] 2 [La prima ed. ha Gesetze.] I Inoltre, anche l’espressione sub ratione boni è equivoca. Poiché essa può voler dire tanto: noi ci rappresentiamo qualcosa come buona, se e p e r c h é l a d e s i d e r i a m o (vogliamo); come anche: noi desideriamo qualcosa, p e r c h é c e l a r a p p r e s e n t i a m o come b u o n a , sicché o è il desiderio il motivo determinante del concetto dell’oggetto come di un bene, o è il concetto del bene il motivo determinante del desiderio (della volontà); poiché l’espressione sub ratione boni nel primo caso significherebbe: noi vogliamo qualcosa con l’ i d e a del buono, nel secondo, i n s e g u i t o a q u e s t a i d e a , che deve precedere la volontà come motivo determinante di essa.

Capitolo terzo Dei moventi1 della ragion pura pratica

L’essenziale di ogni valore morale delle azioni dipende da questo: c h e l a l e g g e m o r a l e d e t e r m i n i i m m e d i a t a m e n t e l a v o l o n t à . Se la determinazione della volontà avviene bensì c o n f o r m e m e n t e alla legge morale, ma solo mediante un sentimento di qualunque specie, che si deve [127] presupporre perché diventi un motivo determinante sufficiente della volontà; se quindi l’azione non avviene p e r l a l e g g e , l’azione conterrà bensì la l e g a l i t à , ma non la m o r a l i t à . Ora, se per movente (elater animi) viene inteso il motivo determinante soggettivo della volontà di un essere, la cui ragione, già per sua natura, non è conforme necessariamente alla legge oggettiva, ne seguirà anzitutto: che non si può affatto attribuire alcun movente alla volontà divina, ma che il movente della volontà umana (e di ogni essere razionale creato) non può mai essere altro che la legge morale; e quindi il motivo determinante oggettivo dev’essere sempre e nello stesso tempo il solo motivo determinante soggettivamente sufficiente dell’azione, se questa non deve osservare la l e t t e r a della legge senza contenerne lo s p i r i t o I. Siccome dunque per lo scopo della legge morale, e per procurare ad essa un influsso sulla volontà, non si deve cercare nessun altro movente col quale far senza quello della legge morale, [128] perché tutto ciò produrrebbe una mera ipocrisia senza consistenza; e siccome è p e r i c o l o s o anche solo far cooperare a c c a n t o alla legge morale alcuni altri moventi (come quello del vantaggio), così non rimane che determinare accuratamente in che modo la legge morale diventi movente, e cosa avvenga quando essa è tale, nella facoltà di desiderare, come effetto di quel motivo determinante su questa facoltà. Poiché, come una legge possa essere per sé e immediatamente un motivo determinante della volontà (il che è pure l’essenziale di ogni moralità), è un problema insolubile per la ragione umana e identico a questo:

come sia possibile una volontà libera. Dunque, noi avremo da dimostrare a p r i o r i , non il motivo per cui la legge morale ha in sé un movente, ma ciò che essa, in quanto movente, opera (o, meglio, deve operare) nell’anima. L’essenziale di ogni determinazione della volontà mediante la legge morale è: che essa venga determinata solo mediante la legge come volontà libera, e quindi non soltanto senza il concorso degl’impulsi sensibili, ma anche con l’esclusione di tutti questi impulsi, e con danno di tutte le inclinazioni, in quanto possano esser contrarie a quella legge. In questo senso, dunque, l’effetto della legge morale come movente è soltanto negativo, e come tale può essere conosciuto a p r i o r i . Invero, ogni incli [129] nazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul sentimento, e l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a p r i o r i che la legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore; e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti a p r i o r i , possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del dispiacere. Tutte le inclinazioni insieme (che possono anche venire ridotte in un sistema tollerabile, e la soddisfazione delle quali in questo caso si chiama felicità) costituiscono l’egoismo (solipsismus). Questo è, o l’egoismo dell’amore di sé, d i u n a b e n e v o l e n z a verso se stesso (philautia) che supera tutto, o l’egoismo della c o m p i a c e n z a di se stesso (arrogantia). Quello si chiama particolarmente a m o r p r o p r i o , questo p r e s u n z i o n e . La ragion pura pratica reca semplicemente d a n n o all’amor proprio, costringendolo soltanto, come naturale e desto in noi ancor prima della legge morale, ad accordarsi con tale legge; esso viene allora chiamato a m o r r a z i o n a l e d i s é . Ma la ragion pura pratica a b b a t t e completamente la presunzione, in quanto tutte le pretese della stima di sé, le quali precedono l’accordo con la legge morale, [130] sono vane e senza alcun diritto, e in quanto appunto la certezza di un’intenzione, che s’accordi con la legge morale, è la prima condizione di ogni valore della persona (come presto spiegheremo meglio), e ogni pretesa anteriore ad essa è falsa e contraria alla legge. Ora, la tendenza alla stima di sé appartiene alle inclinazioni a cui la legge morale reca danno, in quanto quella stima si fonda soltanto sulla sensibilità. Dunque la legge morale abbatte la presunzione. Ma siccome

questa legge è qualcosa di positivo in sé, e cioè la forma di una causalità intellettuale, ossia della libertà, così, quando in opposizione al contrario soggettivo, cioè alle inclinazioni in noi, i n d e b o l i s c e la presunzione, essa è nello stesso tempo un oggetto di r i s p e t t o ; e quando l’abbatte completamente, e cioè l’umilia, è un obbietto del massimo r i s p e t t o , e quindi anche la base di un sentimento positivo che non è di origine empirica, ma vien conosciuto a p r i o r i . Dunque, il rispetto alla legge morale è un sentimento che vien prodotto mediante un principio intellettuale; e questo sentimento è il solo che noi conosciamo affatto a p r i o r i , e di cui possiamo vedere la necessità. Nel capitolo precedente abbiamo visto che tutto ciò che si presenta come oggetto della volontà p r i m a della legge morale, vien escluso dai motivi determinanti della volontà, che abbiamo [131] chiamati il bene incondizionato, mediante questa stessa legge, come la condizione suprema della ragion pratica; e che la semplice forma pratica, che consiste nell’attitudine delle massime a una legislazione universale, determina anzitutto ciò che è buono in sé ed assolutamente, e fonda la massima di una volontà pura, che sola è buona sotto ogni rispetto. Ma noi troviamo la nostra natura, come esseri sensibili, così fatta che la materia della facoltà di desiderare (oggetti dell’inclinazione, sia della speranza o del timore) s’impone anzitutto, e il nostro io patologicamente determinabile, benché sia del tutto inadatto mediante le sue massime a una legislazione universale, tuttavia, come se costituisse tutto il nostro io, s’è sforzato di far valere le sue pretese come prime e originali. Questa tendenza a far di se stesso, secondo i motivi determinanti soggettivi del proprio libero arbitrio, il motivo determinante oggettivo della volontà in generale, si può chiamare a m o r p r o p r i o , il quale, se si fa legislativo e principio pratico incondizionato, si può chiamare p r e s u n z i o n e . Ora la legge morale, la quale soltanto è veramente (cioè sotto ogni rispetto) oggettiva, esclude completamente l’influsso dell’amor proprio sul principio pratico supremo, e reca un danno infinito alla presunzione la quale prescrive come leggi le condizioni soggettive dell’amor proprio. Ma ciò che reca danno [132] alla nostra presunzione del nostro proprio giudizio, umilia. Dunque la legge morale umilia inevitabilmente ogni uomo, quando esso paragoni con tale legge la tendenza sensibile della sua natura. Quello, la cui rappresentazione, come m o t i v o d e t e r m i n a n t e d e l l a n o s t r a v o l o n t à , ci umilia nella

nostra coscienza, eccita, in quanto è positivo ed è motivo determinante, il r i s p e t t o verso di sé. Dunque, la legge morale è anche soggettivamente un motivo di rispetto. Ora, siccome tutto ciò che si trova nell’amor proprio appartiene all’inclinazione, ma ogni inclinazione si fonda su sentimenti, e quindi ciò che reca danno a tutte le inclinazioni riunite nell’amor proprio, appunto perciò, ha necessariamente un influsso sul sentimento; così comprendiamo come è possibile vedere a p r i o r i che la legge morale, poiché esclude da ogni partecipazione alla suprema legislazione le inclinazioni e la tendenza a fare di esse la condizione pratica suprema, cioè l’amor proprio, può esercitare sul sentimento un effetto che, da una parte, è semplicemente n e g a t i v o , e dall’altra, relativamente al principio limitativo della ragion pura pratica, è p o s i t i v o ; perciò non si può affatto ammettere col nome di sentimento pratico o morale una specie di sentimento che preceda la legge morale e che le sia di base. [133] L’effetto negativo sul sentimento (del dispiacere) è, come ogni influsso su di esso, e come ogni sentimento in genere, p a t o l o g i c o . Ma come effetto della coscienza della legge morale, e quindi in relazione a una causa intelligibile, cioè al soggetto della ragion pura pratica come legislatrice suprema, questo sentimento di un oggetto razionale affetto da inclinazioni si chiama bensì umiliazione (disprezzo intellettuale), ma in relazione al principio positivo di questa umiliazione, alla legge, si chiama anche rispetto alla legge. Per la quale legge non v’è sentimento alcuno; ma nel giudizio della ragione, quando la legge toglie di mezzo l’ostacolo, il togliere un impedimento vien tenuto in ugual conto di un’azione2 p o s i t i v a della causalità. Perciò questo sentimento si può anche chiamare un sentimento di rispetto alla legge morale; e per tutt’e due queste ragioni riunite un sentimento morale. Dunque, la legge morale, com’è il motivo determinante formale dell’azione mediante la ragion pura pratica; com’è anche il motivo determinante materiale, ma soltanto oggettivo, degli oggetti dell’azione chiamati bene e male; così è anche il motivo determinante soggettivo, cioè il movente di quest’azione, poiché ha un influsso sulla moralità del soggetto e produce un [134] sentimento favorevole all’influsso della legge sulla volontà. Qui non p r e c e d e nessun sentimento nel soggetto, che fosse disposto alla moralità. Invero ciò è impossibile, perché ogni sentimento è sensibile, e il movente dell’intenzione morale dev’essere libero da ogni condizione

sensibile. Piuttosto, il sentimento sensibile, che è fondamento di tutte le nostre inclinazioni, è bensì la condizione di quella sensazione che chiamiamo rispetto, ma la causa della determinazione di quel sentimento risiede nella ragion pura pratica; e perciò questa sensazione, per la sua origine, non si deve chiamare patologica, ma p r o d o t t a p r a t i c a m e n t e ; poiché per il fatto che la rappresentazione della legge morale toglie l’influsso all’amor di sé e l’illusione alla presunzione, essa diminuisce l’ostacolo alla ragion pura pratica, e nel giudizio della ragione vien prodotta la rappresentazione della superiorità della sua legge oggettiva sugl’impulsi della sensibilità, e quindi è aumentato relativamente il peso della legge (rispetto a una volontà affetta mediante la sensibilità) col togliere il contrappeso. E così il rispetto alla legge non è un movente alla moralità, ma è la moralità stessa considerata soggettivamente come movente, poiché la ragion pura pratica, per il fatto che abbatte ogni pretesa dell’amor di sé in contrasto con essa, procura autorità alla legge, la quale soltanto ha ora l’influsso. A questo riguardo è da [135] osservare che, come il rispetto è un’azione sul sentimento, e quindi sulla sensibilità di un essere razionale, ciò suppone questa sensibilità, e quindi anche la finitezza degli esseri a cui la legge morale impone rispetto; e che a un essere supremo, oppure a un essere libero da ogni sensibilità, al quale per ciò la sensibilità non può neppure essere un ostacolo per la ragion pratica, non può esser attribuito il rispetto alla l e g g e . Questo sentimento (col nome di sentimento morale) è, dunque, prodotto soltanto dalla ragione. Esso non serve al giudizio delle azioni né a fondare la legge morale oggettiva, ma semplicemente come movente a fare in sé di questa legge una massima. Ma con che nome si potrebbe chiamare più convenientemente questo sentimento singolare, il quale non può esser messo a confronto con alcun sentimento patologico? Esso è d’una natura così caratteristica, che sembra stare soltanto a disposizione della ragione e precisamente della ragion pura pratica. Il r i s p e t t o si riferisce sempre soltanto alle persone, non mai alle cose. Le cose possono far nascere in noi la p r o p e n s i o n e ; e, se sono animali (per es., cavalli, cani ecc.), perfino l ’ a m o r e ; o anche la p a u r a , come il mare, un vulcano, una bestia feroce; ma non mai il r i s p e t t o . Qualcosa che s’avvicina già di più a questo sentimento è l ’ a m m i r a z i o n e ; e questa, [136] come affezione, cioè lo stupore, può anche riferirsi a cose, per es. a montagne altissime, alla grandezza, alla moltitudine, alla distanza dei corpi

celesti, alla forza e alla velocità di parecchi animali, ecc. Ma tutto ciò non è rispetto. Un uomo può essere per me un oggetto d’amore, di paura, o d’ammirazione fino allo stupore, e, con tutto questo, può non essere un oggetto di rispetto. Il suo umore faceto, il suo coraggio e la sua forza, la sua potenza, per il grado che egli ha tra gli altri uomini, possono ispirarmi tali sentimenti; ma manca ancor sempre il rispetto interno verso di lui. Fontenelle3 dice: A u n g r a n s i g n o r e i o m ’ i n c h i n o , m a i l m i o s p i r i t o n o n s ’ i n c h i n a . Io posso aggiungere: a un uomo di umile condizione e del popolo, nel quale io vedo una integrità di carattere in un certo grado che non sento in me stesso, i l m i o s p i r i t o s ’ i n c h i n a , ch’io voglia o no, e per quanto io vada con la testa alta per non lasciargli dimenticare la mia superiorità. Perché ciò? Il suo esempio mi presenta una legge che abbatte la mia presunzione, se paragono questa legge col mio metodo di procedere e vedo dimostrata mediante il fatto l’osservanza di questa legge, e quindi la p o s s i b i l i t à di e s e g u i r l a . Ora, io posso esser conscio di aver anch’io un tale grado d’integrità, e, tuttavia, il rispetto rimane. Poiché, siccome nell’uomo ogni bene è sempre imperfetto, [137] la legge, resa evidente mediante un esempio, abbatte pur sempre la mia superbia, perché l’uomo che io vedo avanti a me, essendo l’imperfezione, che può ancor sempre esser unita a lui, non così nota a me come la mia, mi appare perciò in una luce più pura, e mi serve di misura. Il r i s p e t t o è u n t r i b u t o che, volere o non volere, non possiamo negare al merito; possiamo magari non lasciarlo apparire esteriormente, ma non possiamo impedirci di sentirlo interiormente. Il rispetto è sì p o c o un sentimento di p i a c e r e , che solo mal volentieri vi si cede riguardo a un uomo. Si va in cerca di qualcosa che ce ne possa alleviare il peso, di qualche difetto, per compensarci dell’umiliazione che abbiamo mediante un tale esempio. Anche i morti, specialmente se il loro esempio pare inimitabile, non sono sempre al sicuro da questa critica. Perfino la legge morale, nella sua s o l e n n e m a e s t à , è esposta a questo sforzo di difenderci dal rispetto. Credete forse che si debba attribuire a un’altra causa il desiderio di abbassare al livello della nostra inclinazione familiare la legge morale? e ogni nostro sforzo per fare di questa legge il precetto favorito del nostro interesse ben inteso è fatto forse per altre ragioni, che per liberarci [138] da questo rispetto spaventevole che ci mostra così severamente la nostra indegnità? Nondimeno, in questo rispetto, vi è tuttavia anche si p o c o

d i s p i a c e r e , che una volta che si sia smessa la presunzione, e che si sia concesso a quel rispetto un influsso pratico, non ci si può saziare di mirar la maestà di questa legge; e l’anima crede di elevarsi nella stessa misura in cui vede elevata al disopra di sé e della sua fragile natura la legge santa. Invero grandi talenti, e un’attività proporzionata ad essi, possono anche produrre il rispetto, o un sentimento analogo; è anche affatto conveniente dedicar loro il rispetto, e sembra che in questo caso l’ammirazione sia identica a tal sentimento. Ma se si guarda più da vicino, si vedrà che, siccome rimane sempre incerto quanta parte abbia nell’abilità il talento innato, e quanta la cultura mediante l’applicazione propria, la ragione ci presenta l’abilità come frutto probabile della cultura, e quindi come merito che diminuisce notevolmente la nostra presunzione, e o ce ne fa rimproveri, o c’impone di seguire un tale esempio nel modo per noi conveniente. Non è dunque semplice ammirazione questo rispetto che manifestiamo a una tale persona (propriamente alla legge, che il suo esempio ci manifesta); il che è [139] confermato anche mediante il fatto che il volgo dei dilettanti, se crede di essere stato in qualche modo informato del lato cattivo del carattere di un tale uomo (come, per esempio di Voltaire), perde ogni rispetto verso di lui; ma il vero dotto sente ancor sempre il rispetto almeno dal punto di vista del suo talento, perché egli stesso è impegnato in un’occupazione e in uno stato che in certo modo gli fanno una legge d’imitare quell’uomo. Il rispetto alla legge morale è, dunque, l’unico, e nello stesso tempo indubitato, movente morale; e così pure questo sentimento non si applica a nessun oggetto per altro motivo che per questo. Anzitutto la legge morale determina oggettivamente e immediatamente la volontà nel giudizio della ragione; ma la libertà, la cui causalità è determinabile solo mediante la legge, consiste, precisamente in ciò, che essa limita tutte le inclinazioni, e quindi anche la stima della persona, alla condizione dell’osservanza della sua legge pura. Ora, questa limitazione ha un effetto sul sentimento, e produce una sensazione di dispiacere, che può esser conosciuta a p r i o r i per la legge morale. Ma siccome questo è un effetto semplicemente negativo, che, come derivato dall’influsso di una ragion pura pratica, reca danno specialmente all’attività del soggetto, in quanto le inclinazioni sono i motivi determinanti di esso, e quindi all’opinione che esso si fa del suo valore personale (il quale, se non è in accordo colla [140] legge morale, vien ridotto a niente), così l’effetto di questa legge sul sentimento è semplicemente un’umiliazione, che

noi quindi conosciamo bensì a p r i o r i , ma in cui non possiamo conoscere la forza della legge pura pratica come movente, ma soltanto la resistenza ai moventi della sensibilità. Ma siccome la stessa legge oggettivamente, cioè nella rappresentazione della ragion pura, è un motivo determinante immediato della volontà, e perciò quest’umiliazione avviene solo relativamente alla purezza della legge, così l’abbassamento delle pretese della stima morale di sé, cioè l’umiliazione dal lato sensibile, è un’elevazione della stima morale, cioè pratica, della legge stessa dal lato intellettuale: in una parola, è il rispetto alla legge, e quindi anche un sentimento positivo, quanto alla sua causa intellettuale, il quale vien conosciuto a p r i o r i . Poiché ogni diminuzione degli ostacoli di un’attività è un’agevolazione di quest’attività stessa. Ma il riconoscimento della legge morale è la coscienza di un’attività della ragion pratica per princìpi oggettivi, che non manifesta il suo effetto in azioni semplicemente perché cause soggettive (patologiche) lo impediscono. Dunque il rispetto alla legge morale deve esser considerato anche come un effetto positivo, ma indiretto, di essa sul sentimento, in quanto indebolisce l’influsso contrario delle inclinazioni mediante l’umiliazione [141] della presunzione, e quindi come principio soggettivo dell’attività, cioè come m o v e n t e all’osservanza di questa legge, e come principio di massime di un modo di vivere ad essa conforme. Dal concetto di un movente deriva quello di un interesse; il quale non è mai attribuito ad altro essere che a quello che ha la ragione, e significa un m o v e n t e della volontà, in quanto è r a p p r e s e n t a t o mediante la ragione. Siccome la legge stessa dev’essere il movente in una volontà moralmente buona, così l’ i n t e r e s s e m o r a l e è un interesse puro e libero dai sensi, della semplice ragion pratica. Sul concetto di un interesse si fonda anche quello di una m a s s i m a . Questa è dunque veramente morale solo quando si fonda sul semplice interesse che si prende all’osservanza della legge. Ma tutti e tre i concetti, quello di un m o v e n t e , quello di un i n t e r e s s e e quello di una m a s s i m a , possono esser applicati soltanto ad esseri finiti. Essi infatti suppongono tutti una limitatezza della natura di un essere, in cui la natura soggettiva del suo libero arbitrio non si accorda da sé con la legge oggettiva di una ragion pratica; suppongono un bisogno di essere stimolati in qualche modo alla attività, perché un ostacolo interno si oppone ad essa. Perciò non possono esser applicati alla volontà divina. Vi è dunque qualcosa di particolare nella stima illimitata del [142] la

legge morale pura, scevra da ogni utile, come la presenta alla nostra osservanza la ragion pratica, la cui voce fa tremare anche il malfattore più audace, e l’obbliga a nascondersi al suo cospetto: sicché non c’è da meravigliarsi di trovar impenetrabile per la ragione speculativa quest’influsso di un’idea semplicemente intellettuale sul sentimento, e di doversi contentare di questo, che si può ancora conoscere a p r i o r i , che un tale sentimento è indivisibilmente legato con la rappresentazione della legge morale in ogni essere razionale finito. Se questo sentimento di rispetto fosse patologico, e perciò sentimento di piacere fondato sul s e n s o interno, sarebbe inutile scoprire un legame di questo rispetto con una qualche idea a p r i o r i . Ma esso è un sentimento che si riferisce semplicemente alla pratica, che dipende dalla rappresentazione di una legge solo quanto alla forma, non per qualche oggetto di questa legge, e quindi non può esser riferito né al piacere, né al dolore: eppure produce un i n t e r e s s e all’osservanza di questa legge che noi chiamiamo i n t e r e s s e m o r a l e ; come la capacità di prendere un tale interesse alla legge (ossia il rispetto alla legge morale stessa) è propriamente il s e n t i m e n t o m o r a l e . Ora la coscienza di un assoggettamento l i b e r o della volontà [143] alla legge, legata tuttavia con una coercizione inevitabile che vien fatta a tutte le inclinazioni, ma solo mediante la propria ragione, è il rispetto alla legge. La legge, che esige, e anche ispira, questo rispetto, è, come si vede, niente altro che la legge morale (poiché nessuna altra esclude tutte le inclinazioni dall’immediatezza del loro influsso sulla volontà). L’azione che, secondo questa legge, con esclusione di tutti i motivi determinanti che derivano dall’inclinazione, è oggettivamente pratica, si chiama d o v e r e ; il quale, per questa esclusione, contiene nel suo concetto un c o s t r i n g i m e n t o pratico, cioè una determinazione alle azioni, per quanto m a l v o l e n t i e r i esse avvengano. Il sentimento che deriva dalla coscienza di questo costringimento non è patologico come un sentimento che fosse prodotto da un oggetto dei sensi, ma è soltanto pratico, cioè possibile mediante una determinazione precedente (oggettiva) della volontà e la causalità della ragione. Esso dunque, come a s s o g g e t t a m e n t o a una legge, cioè come comando (che significa violenza per un soggetto affetto sensibilmente), non contiene nessun piacere, ma, in questo senso, piuttosto dispiacere per l’azione in sé. D’altra parte, siccome questa violenza viene esercitata solo mediante la legislazione della p r o p r i a ragione, esso contiene anche un’ e l e v a z i o n e , e l’effetto

soggettivo sul sentimento, in quanto la ragion pura pratica ne è la sola causa, si può quindi chiamare semplicemente a p p r o v a z i o n e di sé relativamente [144] all’elevazione, poiché ci si riconosce determinati senza un interesse, solo mediante la legge, e si viene a conoscenza ormai di un interesse affatto diverso, e per ciò stesso prodotto soggettivamente, puramente pratico e libero, che non ci è consigliato da un’inclinazione per un’azione conforme al dovere, ma che la ragione mediante la legge pratica comanda semplicemente ed anche produce realmente, e perciò porta un nome affatto speciale, cioè quello di rispetto. Il concetto del dovere richiede dunque nell’azione, o g g e t t i v a m e n t e , l’accordo con la legge, ma nella massima di essa, s o g g e t t i v a m e n t e , il rispetto alla legge, come il solo modo di determinazione della volontà mediante la legge. E in ciò consiste la differenza fra la coscienza di aver agito c o n f o r m e m e n t e a l d o v e r e e quella d’aver agito p e r i l d o v e r e , cioè pel rispetto alla legge: il primo caso (la legalità) è possibile anche se semplicemente le inclinazioni siano state i motivi determinanti della volontà; il secondo caso ( l a m o r a l i t à ) , il valore morale, dev’esser posto invece soltanto in ciò che l’azione avvenga pel dovere, cioè semplicemente per la leggeII. [145] In tutti i giudizi morali è della più grande importanza far attenzione con somma diligenza al principio soggettivo di tutte le massime, affinché ogni moralità delle azioni venga posta nella necessità di agire per d o v e r e e per rispetto alla legge, non per amore o per propensione a ciò che le azioni devono produrre. Per gli uomini e per tutti gli esseri razionali creati la necessità morale è un costringimento, cioè un obbligo; ogni azione fondata su di essa si deve immaginare come dovere, e non come un modo di procedere che già ci piace o può diventarci piacevole. Proprio come se noi, senza il rispetto alla legge che è legato al timore o almeno con l’apprensione per la trasgressione, non potessimo da noi, come la divinità che è superiore a ogni dipendenza, e quasi per un accordo divenuto naturale per noi, che non dovesse mai esser turbato, della volontà con la legge pura morale (la quale perciò, giacché non potremmo mai tentare [146] di esserle infedeli, potrebbe bene infine cessar di essere un comando per noi), venire in possesso di una santità della volontà. Vale a dire, la legge morale è per la volontà di un essere perfettissimo una legge della s a n t i t à , ma per la volontà di ogni essere finito razionale è una

legge del d o v e r e , del costringimento morale e della determinazione delle azioni di essa mediante il r i s p e t t o a questa legge e per ossequio al dovere. Non si deve prendere per movente un altro principio soggettivo, poiché altrimenti l’azione può bensì avvenire come la prescrive la legge, ma, essendo essa conforme sì al dovere, ma non compiuta per il dovere, l’intenzione di essa non è morale; ed in questa legislazione si tratta invece propriamente dell’intenzione morale. È cosa molto bella far del bene agli uomini per amore verso di essi e per affettuosa benevolenza, oppure esser giusti per amore dell’ordine; ma questa non è ancora la vera massima morale del nostro modo di procedere, conforme alla nostra condizione, tra esseri razionali come u o m i n i , quando pretendiamo, come soldati volontari, con superbia chimerica, di non curarci del pensiero del dovere e, come indipendenti dal comando, di voler fare soltanto per proprio piacere quello per cui non ci [147] sarebbe necessario alcun comando. Noi stiamo sotto una d i s c i p l i n a della ragione, e in tutte le nostre massime dello assoggettamento ad essa non dobbiamo dimenticare di non toglierle niente, e di non diminuire con un errore egoistico l’autorità della legge (quantunque l’autorità gliela dia la nostra ragione), ponendo il motivo determinante della nostra volontà, benché conforme al dovere, in qualche cosa di altro dalla legge stessa, e dal rispetto per questa legge. Dovere e obbligo sono le denominazioni che dobbiamo dare soltanto alla nostra relazione con la legge morale. Noi siamo bensì membri legislativi di un regno dei costumi, possibile mediante la libertà, rappresentato a noi mediante la ragion pratica come oggetto di rispetto; ma nello stesso tempo ne siamo i sudditi, non il sovrano, e il disconoscere il nostro grado inferiore come creature, e il rifiuto presuntuoso dell’autorità della legge santa, è già una infedeltà alla legge secondo lo spirito, quand’anche se ne osservi la lettera. Ma con ciò s’accorda benissimo la possibilità di un comandamento come questo: A m a D i o s o p r a o g n i c o s a e i l [148] p r o s s i m o t u o c o m e t e s t e s s oIII. Come comandamento infatti esige il rispetto per una legge che c o m a n d a l ’ a m o r e , e non lascia alla scelta arbitraria il farci di questo amore un principio. Ma l’amore di Dio come inclinazione (amore patologico) è impossibile; perché Dio non è un oggetto dei sensi. Un simile amore è bensì possibile verso gli uomini, ma non può essere comandato; poiché non è in potere di nessun uomo amare qualcuno semplicemente per precetto. Dunque è semplicemente l ’ a m o r e p r a t i c o che viene inteso in

quel nucleo di tutte le leggi. Amar Dio, in questo senso, vuol dire eseguir v o l e n t i e r i i suoi comandamenti; amare il prossimo vuol dire metter in pratica v o l e n t i e r i tutti i doveri verso di esso. Ma il comandamento che fa di ciò una regola non può comandare di a v e r quest’intenzione nelle azioni conformi al dovere, ma soltanto di a s p i r a r v i . Un comandamento infatti che imponga di fare qualcosa volentieri è in sé contraddittorio; perché se sapessimo già da noi medesimi ciò che dobbiamo fare, ed inoltre avessimo coscienza di farlo volentieri, un comandamento a questo riguardo sarebbe affatto inutile; e se noi lo facessimo sì, ma non volentieri, e soltanto per rispetto alla legge, un comandamento, che facesse di questo rispetto il movente della massima, agirebbe affatto [149] in contrario all’intenzione comandata. Quella legge di tutte le leggi presenta dunque, come tutti i precetti morali del Vangelo, l’intenzione morale nella sua intera perfezione come un ideale di santità non raggiungibile da nessuna creatura, e che tuttavia è l’esemplare a cui dobbiamo procurare di avvicinarci e diventare pari in un progresso ininterrotto, ma infinito. Se cioè una creatura razionale potesse mai venire ad adempiere affatto v o l e n t i e r i tutte le leggi morali, vorrebbe dire che in essa non si trova neanche una volta la possibilità di un appetito che la ecciti alla trasgressione di quelle leggi; poiché il vincere un tale appetito costa sempre un sacrificio al soggetto, e quindi abbisogna di violenza su di sé, e cioè di costringimento interno, il che non si fa del tutto volentieri. Ma a questo grado d’intenzione morale una creatura non può mai pervenire. Infatti, siccome è una creatura, e quindi sempre dipendente rispetto a ciò che essa richiede per essere perfettamente contenta del suo stato, così non può mai esser affatto libera da appetiti e inclinazioni, le quali, dipendendo da cause fisiche, non s’accordano da sé con la legge morale, che ha tutt’altre origini, e quindi rendono sempre necessario fondare riguardo ad essa l’intenzione delle proprie massime sul costringimento morale; non già sulla sommissione volenterosa, ma sul rispetto che r i c h i e d e l’osservanza della [150] legge, ancorché essa avvenga mal volentieri; non già sull’amore, che non teme nessuna esitazione interna della volontà dinanzi alla legge, ma facendo di esso, cioè del semplice amore alla legge (che cesserebbe allora di essere u n c o m a n d a m e n t o mentre la moralità, che allora si cambierebbe soggettivamente in santità, cesserebbe di essere v i r t ù ) lo scopo permanente, benché irraggiungibile, dei propri sforzi. Poiché in ciò che stimiamo altamente, ma pure (per la coscienza della nostra debolezza)

temiamo, il timore rispettoso, mediante la maggior facilità di soddisfarlo, si cambia in propensione, e il rispetto in amore; ciò almeno sarebbe la perfezione di un’intenzione consacrata alla legge, se mai fosse possibile ad una creatura di raggiungerla. Questa considerazione ha per scopo non tanto di ridurre in concetti chiari il comandamento evangelico citato, in vista del f a n a t i s m o r e l i g i o s o riguardo all’amore di Dio, quanto di determinare esattamente l’intenzione morale, anche immediatamente riguardo ai doveri verso gli uomini, e di opporsi a un fanatismo s e m p l i c e m e n t e m o r a l e che infetta molte menti, o, se è possibile, di prevenirlo. Il grado morale in cui l’uomo (e, secondo ogni nostra cognizione, anche ogni creatura razionale) si trova, è il rispetto alla legge morale. L’intenzione che gli è [151] imposta, di osservare questa legge, è di osservarla per dovere, non per propensione arbitraria, e neanche magari per uno sforzo non comandato ma intrapreso volentieri da lui stesso; e il suo stato morale, in cui si può sempre trovare, è la v i r t ù , cioè l’intenzione morale in l o t t a , e non la s a n t i t à nel creduto p o s s e s s o di una p u r e z z a perfetta delle intenzioni della volontà. È a un semplice fanatismo morale, e a un aumento di presunzione, che vengono disposti gli animi mediante l’incitamento ad azioni dichiarate più nobili, più sublimi e più magnanime; onde gli uomini son posti nell’illusione, come se non fosse il dovere, e cioè il rispetto alla legge, della quale, se pure non volentieri, d e b b a n o sopportare il giogo (giogo, tuttavia, dolce, perché ce l’impone la ragione stessa), ciò che costituisce il motivo determinante delle loro azioni, e ciò che li umilia ancor sempre quando essi lo osservano (gli o b b e d i s c o n o ) ; e come se da essi si attendessero quelle azioni, non per dovere, ma come puro merito. Essi mediante l’imitazione di tali atti, per tale principio, non solo non avrebbero soddisfatto minimamente allo spirito della legge, il quale consiste nella sommissione dell’intenzione alla legge, e non nella conformità dell’azione alla legge (qualunque sia il principio); ma ponendo il movente p a t o l o g i c a m e n t e (nella simpatia oppure nell’amore di sé), non moralmente (nella legge), in tal modo produrrebbero una maniera di pensare [152] leggiera, superficiale, fantastica, vantandosi di una bontà spontanea del loro animo, che non abbisogni né di sproni né di freno, e per cui non sia neanche necessario un comandamento, e di menticando a questo riguardo il loro obbligo, a cui tuttavia essi dovrebbero pensare prima che al merito. Senza dubbio, le azioni di altri, che furono fatte con maggiore

sacrificio e veramente solo per il dovere, possono esser lodate col nome di fatti nobili e sublimi; e tuttavia solo in quanto esistono tracce, che lasciano supporre che quelle azioni furono fatte assolutamente per rispetto al proprio dovere, non per impeti del cuore. Ma se si vuol presentare ad alcuno queste azioni come esempi da imitare, il rispetto al dovere (come l’unico vero sentimento morale) dev’essere assolutamente usato come movente: severo e santo precetto che non permette al nostro frivolo amor proprio di trastullarsi cogli impulsi patologici (in quanto essi sono analoghi alla moralità), e a noi di vantarci del nostro m e r i t o . Purché cerchiamo bene, per tutte le azioni che son degne di lode troveremo una legge del dovere, che c o m a n d a e non lascia dipendere dal nostro arbitrio ciò che potrebbe piacere alla nostra tendenza. Questo è il solo modo di rappresentazione che rende morale l’anima, perché solo esso è capace di princìpi saldi ed esattamente determinati. [153] Se il f a n a t i s m o nel senso più generale è una trasgressione, intrapresa secondo princìpi, dei limiti della ragione umana, il f a n a t i s m o m o r a l e è questo passare i limiti che la ragion pura pratica pone all’umanità, per cui essa vieta di porre il motivo determinante soggettivo delle azioni conformi al dovere, cioè il movente morale di esse, in qualche cosa che non sia la legge stessa, e l’intenzione, che per essa vien recata nelle massime, altrove che nel rispetto per questa legge, e quindi comanda di fare del pensiero del dovere, che abbatte ogni p r e s u n z i o n e e così pure il vano a m o r d i s é , i l p r i n c i p i o d i v i t a supremo di ogni moralità nell’uomo. Se è così, non solo i romanzieri e i pedagoghi sentimentali (benché inveiscano ancor tanto contro la sensibilità affettata), ma persino i filosofi, anzi i più rigidi di tutti, gli stoici, hanno introdotto il f a n a t i s m o m o r a l e , invece della fredda, ma saggia disciplina dei costumi, ancorché il fanatismo degli ultimi fosse più eroico, e quello dei primi di carattere più insipido e più tenero; e si può, senza ipocrisia, con tutta verità ripetere della dottrina morale del Vangelo, che essa, anzitutto mediante la purezza del principio morale, ma nello stesso tempo mediante la [154] proporzione di esso ai limiti degli esser finiti, ha assoggettato ogni buona condotta dell’uomo alla disciplina di un dovere posto davanti ai suoi occhi, che non lascia vaneggiare in perfezioni morali immaginarie, e ha posto i confini dell’umiltà (cioè della conoscenza di sé) alla presunzione, e così pure all’amor proprio, entrambi i quali ignorano

volentieri i loro limiti. D o v e r e ! nome sublime e grande, che non contieni niente di piacevole che implichi lusinga, ma chiedi la sommissione; che, tuttavia, non minacci niente donde nasca nell’animo naturale ripugnanza e spavento che muova la volontà, ma esponi soltanto una legge che da sé trova adito nell’animo, e anche contro la volontà si acquista venerazione (se non sempre osservanza); innanzi alla quale tutte le inclinazioni ammutoliscono, benché di nascosto reagiscano ad essa; – qual è l’origine degna di te, e dove si trova la radice del tuo nobile lignaggio, che ricusa fieramente ogni parentela con le inclinazioni? radice da cui deve di necessità derivare quel valore, che è il solo che gli uomini si possono dare da se stessi. Non può essere niente di meno di quel che innalza l’uomo sopra se stesso (come parte del mondo sensibile), ciò che lo lega a un ordine delle cose che soltanto l’intelletto può pensare, e [155] che contemporaneamente ha sotto di sé tutto il mondo sensibile e, con esso, l’esistenza empiricamente determinabile dell’uomo nel tempo e l’insieme di tutti i fini (il quale solo è conforme a leggi pratiche incondizionate, come la legge morale). Non è altro che la p e r s o n a l i t à , cioè la libertà e l’indipendenza dal meccanismo di tutta la natura, considerata però nello stesso tempo come facoltà di un essere soggetto a leggi speciali, e cioè a leggi pure pratiche, date dalla sua propria ragione; e quindi la persona, come appartenente al mondo sensibile, è soggetta alla sua propria personalità, in quanto appartiene nello stesso tempo al mondo intelligibile. Non è dunque da meravigliarsi se l’uomo, come appartenente a due mondi, non debba considerare la sua propria essenza, in relazione alla sua seconda e suprema determinazione, altrimenti che con venerazione, e le leggi di questa determinazione col più grande rispetto. Su queste origini si fondano parecchie espressioni che denotano il valore degli oggetti secondo le idee morali. La legge morale è santa (inviolabile). L’uomo è bensì abbastanza profano, ma l ’ u m a n i t à , nella sua persona, per lui, dev’essere santa. In tutta la creazione tutto ciò che si vuole, e cui si ha qualche potere, può esser adoperato anche s e m p l i c e m e n t e c o m e m e z z o ; soltanto l’uomo, e con esso ogni creatura razionale, è [156] f i n e a s e s t e s s o . Vale a dire esso è il soggetto della legge morale, la quale è santa in virtù dell’autonomia della sua libertà. Appunto per quest’autonomia ogni volontà, anche la volontà propria di ciascuna persona, rivolta verso la persona stessa, è condizionata dall’accordo con l’ a u t o n o m i a dell’essere

razionale: è limitata cioè dalla condizione di non assoggettare quest’essere a nessun proposito, che non sia possibile secondo una legge la quale possa derivare dalla volontà dello stesso soggetto passivo; perciò di non adoperar mai questo semplicemente come mezzo, ma, nello stesso tempo, anche come fine. Questa condizione noi la attribuiamo giustamente persino alla volontà divina rispetto agli esseri razionali nel mondo come sue creature, perché essa si fonda sulla loro p e r s o n a l i t à , per la quale soltanto essi sono fini in se stessi. Quest’idea della personalità, la quale fa nascere il rispetto, e che ci pone davanti agli occhi la sublimità della nostra natura (secondo la sua determinazione), mentre nello stesso tempo ci fa scorgere la mancanza di conformità del nostro modo di agire riguardo ad essa, e così abbatte la nostra presunzione, è naturale e facilmente percepibile anche alla ragione umana più ordinaria. Ogni uomo, anche solo mediocremente onesto, non ha osservato talvolta di essersi astenuto da una bugia, d’altronde inoffensiva, con la quale egli poteva o trarre se stesso da una situazione spiacevole, o persino recar giovamento a un amico caro e [157] pieno di merito, soltanto per non doversi disprezzare in segreto ai suoi propri occhi? Un uomo giusto nella più gran disgrazia della vita, che poteva evitare purché non si fosse curato del dovere, non è ancora sostenuto dalla coscienza che egli ha mantenuto nella sua dignità e onorato l’umanità nella sua persona, e che non ha motivo di vergognarsi davanti a se stesso, e di temere lo sguardo interno dell’esame di coscienza? Questo conforto non è felicità; non è neanche la minima parte di essa. Nessun uomo desidererà l’occasione di provarlo, e forse neanche desidererà una vita in tali circostanze. Ma egli vive, e non può sopportare di essere indegno della vita ai propri occhi. Questa pace interna è dunque semplicemente negativa riguardo a ciò che rende piacevole la vita; essa cioè tiene lontano il pericolo di diminuire nel valore personale, dopo che si è già rinunziato affatto al valore del proprio stato. Essa è l’effetto di un rispetto per qualcosa d’interamente diverso dalla vita, in paragone e in opposizione al quale, piuttosto, la vita, con tutta la sua piacevolezza, non ha proprio nessun valore. L’uomo vive ancora soltanto per dovere, non perché provi il minimo gusto alla vita. [158] Di tal natura è il vero movente della ragion pura pratica: esso non è altro che la stessa legge morale pura, in quanto ci fa sentire la sublimità della nostra esistenza soprasensibile, e produce soggettivamente negli uomini, che

sono consci insieme della loro esistenza sensibile e della congiunta dipendenza dalla loro natura, in quanto affetta patologicamente, il rispetto per la loro determinazione superiore. Ora con questo movente si possono benissimo legare tante attrattive e piacevolezze della vita, che anche solo per questo la scelta più prudente di un e p i c u r e o ragionevole, e che rifletta sul vantaggio più grande della vita, si dichiarerebbe per la buona condotta morale: e può anche esser conveniente legare questa prospettiva di un sentimento giocondo della vita con quel movente supremo, e che determina già sufficientemente per sé solo; ma soltanto per far da contrappeso alle lusinghe che il vizio non manca mai di fare dalla parte opposta, non per riporre in ciò, neanche per la minima parte, la forza che propriamente muove quando si tratta del dovere. Poiché sarebbe come se volessimo corrompere l’intenzione morale nella sua fonte. La dignità del dovere non ha che fare col godimento della vita; il dovere ha la sua legge speciale, ed anche il suo speciale tribunale; e se anche si volessero confondere l’una [159] con l’altro per porgerli mescolati come una medicina all’anima ammalata, essi tuttavia si separerebbero subito da sé; e se non facessero ciò, la prima non agirebbe punto, ma, se anche la vita fisica ne guadagnasse qualche forza, la vita morale scomparirebbe senza rimedio.

DILUCIDAZIONE CRITICA DELL’ANALITICA DELLA RAGION PURA PRATICA

Per dilucidazione critica di una scienza, o di una sezione di essa che costituisca per sé un sistema, intendo la ricerca e la giustificazione dei motivi per cui essa deve avere proprio questa forma sistematica e nessun’altra, quando essa venga confrontata con un altro sistema che ha per base una simile facoltà conoscitiva. Ora la ragion pratica ha per base la stessa facoltà conoscitiva che la ragione speculativa, in quanto l’una e l’altra sono r a g i o n p u r a . Dunque la differenza fra la forma sistematica dell’una e quella dell’altra dovrà esser determinata mediante il loro confronto, e dovrà esser data la ragione di tale differenza. L’analitica della ragion pura teoretica trattava della [160] conoscenza degli oggetti che possono esser dati all’intelletto, e quindi doveva cominciare dall’ i n t u i z i o n e , e perciò (essendo questa sempre sensibile) dalla

sensibilità; ma di là [doveva] passare ai concetti (degli oggetti di questa intuizione) e, soltanto dopo queste due premesse, poteva terminare coi p r i n c ì p i . Invece la ragion pratica, siccome non tratta degli oggetti per c o n o s c e r l i , ma della propria facoltà di p r o d u r l i (secondo la conoscenza di essi), cioè di una volontà, la quale è una causalità in quanto la ragione contiene il motivo determinante di essa; siccome, per conseguenza, non ha da dare nessun oggetto dell’intuizione, ma (perché il concetto della causalità contiene sempre la relazione a una legge che determina l’esistenza di elementi diversi in relazione gli uni con gli altri) come ragion pratica deve s o l t a n t o fornire u n a l e g g e della volontà; così una critica dell’analitica di essa, in quanto questa dev’essere una ragion pratica (e questo è propriamente il problema), deve cominciar dalla p o s s i b i l i t à d i p r i n c ì p i p r a t i c i a p r i o r i . Solo di qua poteva passare ai c o n c e t t i degli oggetti di una ragion pratica, cioè a quelli del semplicemente buono o cattivo, per darli anzitutto conformi a quei princìpi (poiché questi concetti, come bene e male, prima di quei princìpi non si possono dare mediante nessuna facoltà conoscitiva); e soltanto allora l’ultimo [161] capitolo, ossia quello della relazione della ragion pura pratica con la sensibilità, e dell’influsso necessario e da conoscere a p r i o r i di quella su questa, cioè del s e n t i m e n t o m o r a l e , poteva chiudere la sezione. Così l’analitica della ragion pura pratica divideva in modo affatto analogo all’analitica della teoretica l’intero campo delle condizioni del suo uso, ma in ordine inverso. L’analitica della ragion pura teoretica veniva divisa in estetica trascendentale e logica trascendentale; quella della ragion pura pratica, invece, in logica ed estetica della ragion pura pratica (se mi è lecito qui usar semplicemente per analogia queste denominazioni, che d’altronde non sono del tutto convenienti): la logica, a sua volta, si divideva là in analitica dei concetti e analitica dei princìpi, qui in analitica dei princìpi e analitica dei concetti. L’estetica là aveva ancora due parti, a cagione del duplice modo di un’intuizione sensibile; qui la sensibilità non viene affatto considerata come capacità d’intuizione, ma semplicemente come sentimento (che può essere un principio soggettivo del desiderio), e relativamente ad esso la ragion pura pratica non permette nessuna divisione ulteriore. Si può anche vedere benissimo il motivo per cui questa divisione in due parti, con la loro suddivisione, qui non sia stata realmente seguita (come in principio, per l’esempio della prima, si [162] poteva esser indotti a tentare).

Siccome, infatti, è la r a g i o n p u r a che qui viene considerata nel suo uso pratico, e quindi movendo da princìpi a p r i o r i e non da motivi determinanti empirici; così la divisione dell’analitica della ragion pura pratica dovrà riuscir simile a quella di un sillogismo, procedendo cioè dall’universale nella m a g g i o r e (dal principio morale), mediante una sussunzione a esso di azioni possibili (come buone o cattive) fatta nella m i n o r e , alla c o n c l u s i o n e , cioè alla determinazione soggettiva della volontà (ad un interesse per il bene praticamente possibile e alla massima fondata su quell’interesse). Questi confronti faranno piacere a chi si è potuto convincere delle proposizioni presentate nell’analitica; poiché essi suscitano giustamente la speranza che forse si possa arrivare sino alla cognizione dell’unità dell’intera facoltà della ragion pura (tanto della teoretica come della pratica), e che si possa derivar tutto da un solo principio; che è il bisogno irresistibile della ragione umana, la quale trova piena soddisfazione soltanto in una unità completamente sistematica delle sue conoscenze. Ma se consideriamo anche il contenuto della conoscenza che noi possiamo avere da una ragion pura pratica e mediante essa, come la espone l’analitica di questa ragione, si trovano, insieme ad una notevole analogia tra essa e la ragion teoretica, [163] differenze non meno notevoli. Relativamente alla ragion teoretica, la f a c o l t à d i u n a c o n o s c e n z a r a z i o n a l e p u r a a p r i o r i poteva esser dimostrata in modo del tutto facile ed evidente mediante esempî tratti dalle scienze (nelle quali, siccome mediante l’uso metodico esse mettono alla prova in così vario modo i loro princìpi, non v’è da temere cosi facilmente come nella conoscenza ordinaria una segreta mescolanza di princìpi empirici della conoscenza). Ma che la ragion pura sia per sé sola anche pratica, senza mescolanza di un motivo determinante empirico, si doveva poter dimostrare dall’uso r a z i o n a l e p r a t i c o p i ù o r d i n a r i o , mentre si confermava il principio pratico supremo qual principio che ogni ragione umana naturale conosce come affatto a p r i o r i , indipendentemente da ogni dato sensibile, come la legge suprema della sua volontà. Questo principio doveva prima esser osservato e giustificato, secondo la purezza della sua origine, anche nel g i u d i z i o d i q u e s t a r a g i o n e o r d i n a r i a , prima ancora che la scienza lo potesse prendere nelle mani per farne uso come di un fatto che precede ogni sofisticare sulla sua possibilità e su tutte le conseguenze che ne possono esser tratte. Ma questa circostanza si può anche benissimo spiegare con ciò che s’è detto poco

prima; perché la ragion pura pratica deve necessariamente cominciare da princìpi, [164] i quali perciò devono esser posti, come primi dati, a base di ogni scienza, e non possono prima di tutto derivare da essa. Ma questa giustificazione dei princìpi morali come princìpi di una ragion pura, poteva esser addotta benissimo e con certezza sufficiente anche solo mediante il semplice riferimento al giudizio dell’intelletto umano ordinario; perché ogni elemento empirico che si potesse introdurre nelle nostre massime come motivo determinante della volontà, si dà a c o n o s c e r e subito pel sentimento di piacere o di dolore che si unisce necessariamente ad esso, in quanto tale elemento muove il desiderio; ma ogni ragion pura pratica si o p p o n e direttamente ad ammettere nel suo principio questo sentimento come condizione. La diversità dei motivi determinanti (degli empirici e dei razionali) vien fatta conoscere mediante quest’opposizione di una ragione praticamente legislativa ad ogni inclinazione che vi s’immischi, mediante un modo particolare di s e n s a z i o n e , il quale però non precede la legislazione della ragion pratica, ma piuttosto vien prodotto solo mediante questa legislazione, e invero come una coazione: cioè mediante il sentimento di un rispetto tale che nessun uomo ha verso le inclinazioni, qualunque esse siano, ma solo verso la legge. [E tale diversità si manifesta] in modo così distinto e spiccato che nessun intelletto umano, anche il più ordinario, in un esempio che gli sia presentato, non può non [165] scorgere subito che dei motivi empirici del volere può bensi accadergli di seguire le sollecitazioni, ma che non può mai pretendere di u b b i d i r e a un’altra legge che non sia quella pura pratica della ragione. La distinzione della d o t t r i n a d e l l a f e l i c i t à dalla d o t t r i n a d e i c o s t u m i , della prima delle quali i princìpi empirici costituiscono l’intero fondamento, mentre della seconda non costituiscono neanche il minimo complemento, è dell’analitica della ragion pura pratica il primo e più importante compito, in cui essa deve procedere con tanta p r e c i s i o n e , anzi, per così dire, con tanto scrupolo, come il geometra nel suo lavoro. Ma se il filosofo, che qui (come sempre nella conoscenza razionale per semplici concetti, senza costruzione di essi) ha da lottare con una difficoltà più grave, perché non può porre nessuna intuizione a base (del puro noumeno), ha però anche l’opportunità di potere in ogni tempo fare un esperimento con la ragion pratica di ogni uomo per distinguere il motivo determinante morale (puro) dall’empirico: basta cioè che alla volontà affetta empiricamente (per es. di

colui che volentieri mentirebbe, perché cosi potrebbe acquistarsi qualcosa) egli aggiunga la legge morale (come motivo determinante). È come se il chimico unisce un alcale alla soluzione di terra calcarea nello spirito di sale; [166] lo spirito di sale si separa subito dalla calce, si unisce con l’alcale, e la calce precipita al fondo. Così, presentate a colui, che del resto è un galantuomo (o che tuttavia questa volta soltanto con la mente si pone al posto di un galantuomo), la legge morale, per la quale egli conosce l’indegnità di un mentitore, e subito la sua ragion pratica (nel giudizio su ciò che doveva esser fatto da lui) abbandona il vantaggio, si unisce con ciò che gli mantiene il rispetto per la propria persona (la veracità); e il vantaggio, dopo essere stato separato e ripulito da quanto si collega alla ragione (la quale è solo affatto dalla parte del dovere), viene pesato da ognuno per esser messo ancora in relazione con la ragione in altri casi, ma non dove potrebbe esser contrario alla legge morale, che la ragione non abbandona mai, ma con cui si unisce intimamente. Ma questa d i f f e r e n z a del principio della felicità da quello della moralità non è perciò addirittura un’ o p p o s i z i o n e , e la ragion pura pratica non vuole che si r i n u n z i alle pretese alla felicità ma soltanto che, appena si tratta del dovere, n o n s i a b b i a in nulla r i g u a r d o alla felicità. Sotto un certo rispetto può persino essere un dovere aver cura della propria felicità: sia perché essa (e questo è il caso dell’abilità, della salute, della ricchezza) contiene i mezzi per l’adempimento del proprio dovere, [167] sia perché la mancanza di essa (per es. la povertà) implica tentazione a trasgredire il proprio dovere. Solo che promuovere la propria felicità non può mai essere immediatamente un dovere, e ancor meno un principio di tutti i doveri. Ora, siccome i motivi determinanti della volontà, eccetto l’unica legge razionale pura pratica (la legge morale), sono tutti quanti empirici, e quindi come tali appartengono al principio della felicità; così essi devono esser separati tutti quanti dal principio morale supremo e non devono mai esser incorporati in esso come condizione, perché ciò annullerebbe ogni valore morale, allo stesso modo appunto che la mescolanza di elementi empirici con i princìpi geometrici toglierebbe ogni evidenza matematica: la cosa più eccellente che (secondo il giudizio di Platone) la matematica abbia in sé, e che anzi supera ogni utilità di essa. In cambio della deduzione del principio supremo della ragion pura pratica, cioè della spiegazione della possibilità di una simile conoscenza a

p r i o r i , potrebbe addursi nient’altro che questo, che, se si vedesse la possibilità della libertà di una causa efficiente, si vedrebbe anche, non semplicemente la possibilità, ma la necessità della legge morale come legge pratica suprema di esser razionali, a cui si attribuisce la libertà della causalità della loro volontà; perché i due concetti sono legati così inseparabilmente che la libertà pratica si potrebbe anche definire [168] mediante l’indipendenza della volontà da ogni altra legge, fuorché dalla legge morale. Ma la libertà di una causa efficiente, specialmente nel mondo sensibile, non può esser conosciuta quanto alla sua possibilità; ben fortunati, se possiamo essere sufficientemente assicurati soltanto che non vi è nessuna dimostrazione della sua impossibilità, e se ora, mediante la legge morale che postula questa possibilità, siamo costretti, ed anche, mediante essa, giustificati nell’ammetterla. Tuttavia, siccome vi sono ancora molti che credono ancor sempre di poter spiegare questa libertà secondo princìpi empirici, come ogni altra facoltà naturale, e la considerano come proprietà p s i c o l o g i c a , la cui spiegazione dipenda soltanto da una più diligente ricerca della n a t u r a d e l l ’ a n i m a e dei moventi della volontà, non come predicato t r a s c e n d e n t a l e della causalità di un essere che appartiene al mondo sensibile (il che è nondimeno la sola cosa di cui si tratta), e così sopprimono la magnifica prospettiva che ci spetta per la ragion pura pratica mediante la legge morale, cioè la prospettiva di un mondo intelligibile, mediante la realizzazione del concetto d’altronde trascendente della libertà – e quindi sopprimono la stessa legge morale, la quale non ammette nessun motivo determinante empirico; così sarà necessario addurre ancora qualcosa per premunirci contro questa illusione e presentare l’e m p i r i s m o in tutta la nudità della sua superficialità. [169] Il concetto della causalità come n e c e s s i t à n a t u r a l e , a differenza della causalità come l i b e r t à , riguarda soltanto l’esistenza delle cose, in quanto è d e t e r m i n a b i l e n e l t e m p o , e quindi [delle cose] come fenomeni, in opposizione alla causalità di esse come cose in sé. Ora, se si prendono le determinazioni dell’esistenza delle cose nel tempo per determinazioni delle cose in se stesse (che è il modo di vedere più comune), la necessità nella relazione causale non si può in tal caso unire in nessun modo con la libertà; ma esse sono opposte l’una all’altra in modo contraddittorio. Poiché dalla prima risulta che ogni evento, e quindi anche ogni azione che avviene in un dato momento, è necessariamente condizionato

da ciò che fu nel tempo precedente. Ora, siccome il tempo passato non è più in mio potere, così ogni azione che io faccio, deve essere necessitata da motivi determinanti c h e n o n s o n o i n m i o p o t e r e : cioè, nel momento che io agisco, non sono mai libero. Anzi, se anche ammettessi la mia intera esistenza come dipendente da qualunque causa estranea (per es. da Dio), sicché i motivi determinanti della mia causalità, anzi della mia intera esistenza, non fossero affatto fuori di me; pure questo non muterebbe minimamente quella necessità naturale in libertà. In ogni momento infatti io [170] sono sempre sotto la necessità di esser determinato ad agire mediante ciò c h e n o n è i n m i o p o t e r e , e la serie infinita a parte priori degli eventi, che io continuerei sempre soltanto secondo un ordine già prestabilito, non comincerebbe mai da sé, e sarebbe una catena naturale continua; e quindi la mia causalità non [sarebbe] mai libertà. Se, dunque, si vuol attribuire la libertà a un essere, la cui esistenza è determinata nel tempo, essa non si può ricavare, almeno sotto questo rispetto, dalla legge della necessità naturale di tutti gli eventi della sua esistenza, e quindi anche delle sue azioni; poiché ciò sarebbe come rimetterla al cieco caso. Ma siccome questa legge riguarda inevitabilmente ogni causalità delle cose, in quanto la loro esistenza è determinabile n e l t e m p o , così, se questo fosse il modo in cui si dovesse immaginare anche l’ e s i s t e n z a d i q u e s t e c o s e i n s e s t e s s e , la libertà dovrebbe essere rigettata come un concetto nullo ed impossibile. Quindi, se si vuol ancora salvare la libertà, non rimane altra via che attribuire l’esistenza di una cosa in quanto è determinabile nel tempo, e quindi anche la causalità secondo la legge della n e c e s s i t à naturale, semplicemente al fenomeno, e la libertà invece a l l o s t e s s o e s s e r e c o m e c o s a i n s é . Ciò è senza dubbio inevitabile, se si vogliono mantenere nello stesso tempo i due concetti contrari l’uno all’altro; ma nell’applicazione, quando si uniscono i due concetti come in una [171] sola e medesima azione, e perciò si vuole spiegare quest’unione stessa, appaiono tuttavia grandi difficoltà, le quali sembra che rendano impossibile tale unione. Se di un uomo che commette un furto dico che questa azione, secondo la legge naturale della causalità per i motivi determinanti del tempo precedente, è un evento necessario, ciò significa che era impossibile che essa potesse non aver luogo; come può allora il giudizio secondo la legge morale introdurre qui un mutamento, e supporre che l’azione potesse esser tralasciata; perché la

legge dice che essa doveva esser tralasciata? cioè, come può quell’uomo chiamarsi interamente libero, nello stesso momento e rispetto alla stessa azione in cui nondimeno è sottoposto ad una necessità naturale inevitabile? Cercare una scappatoia nel fatto che si adatta semplicemente la s p e c i e dei motivi determinanti della propria causalità secondo la legge naturale ad un concetto c o m p a r a t i v o della libertà (secondo il quale talvolta si chiama azione libera quella il cui motivo naturale determinante è i n t e r n o all’essere agente, per es., quella di un corpo lanciato, se esso è in movimento libero, e nel qual caso si usa la parola libertà, perché il corpo, mentre è in moto, non è spinto da qualcosa d’esterno; oppure, come chiamiamo movimento libero anche il movimento di un orologio, perché esso [172] stesso spinge la sua sfera, la quale perciò non può essere mossa dall’esterno, così le azioni dell’uomo, benché siano necessarie per i loro motivi determinanti, che precedono nel tempo, tuttavia le chiamiamo libere perché questi motivi sono rappresentazioni interne prodotte mediante le nostre proprie forze, per le quali secondo circostanze causanti sono prodotti desideri, e quindi sono fatte azioni a nostro piacimento), è un meschino ripiego da cui alcuni si lasciano ancor sempre lusingare; e credono d’aver risolto con un piccolo giuoco di parole quel problema così difficile, alla cui soluzione migliaia di anni lavorarono invano, soluzione che perciò ben difficilmente potrebbe esser trovata così alla superficie. Cioè, nella questione di quella libertà che dev’esser posta a base di tutte le leggi morali, e dell’imputazione conforme ad esse, non si tratta punto di sapere se la causalità determinata secondo una legge naturale sia necessaria mediante motivi determinanti che si trovano n e l soggetto o f u o r i di esso; e, nel primo caso, se [sia necessaria] mediante l’istinto o per mezzo di motivi determinanti pensati con la ragione. Se queste rappresentazioni determinanti, a confessione di questi stessi uomini, hanno tuttavia il principio della loro esistenza nel tempo, e invero n e l l a c o n d i z i o n e p r e c e d e n t e , ma questa condizione di nuovo in una precedente, e via dicendo, siano pure queste rappresentazioni sempre interne, abbiano la causalità [173] psicologica e non meccanica, e cioè producano azioni mediante rappresentazione e non mediante il movimento corporale, sono sempre m o t i v i d e t e r m i n a n t i della causalità di un essere, in quanto la sua esistenza è determinabile nel tempo, e quindi sotto le condizioni necessitanti del tempo passato; le quali dunque, quando il soggetto deve agire, n o n s o n o p i ù i n s u o p o t e r e , ed implicano bensì la libertà

psicologica (se pure si vuol usare questa parola per una concatenazione semplicemente interna delle rappresentazioni dell’anima), ma implicano anche la necessità naturale, e quindi non lasciano una l i b e r t à t r a s c e n d e n t a l e , la quale deve essere concepita come indipendenza da ogni elemento empirico, e quindi dalla natura in genere, considerata come oggetto del senso interno semplicemente nel tempo, o anche dei sensi esterni, nello spazio e nel tempo contemporaneamente; e senza questa libertà (nell’ultimo e proprio significato) che sola è pratica a p r i o r i , non è possibile una legge morale, né un’imputazione secondo questa legge. Appunto perciò ogni necessità degli eventi nel tempo secondo la legge naturale della causalità si può anche chiamare il m e c c a n i s m o della natura, benché con ciò non si intenda che le cose che gli sono soggette debbano essere vere m a c c h i n e materiali. Qui si guarda soltanto alla necessità della connessione degli eventi in una serie temporale, come questa si svolge secondo [174] la legge naturale: ed il soggetto in cui avviene questo flusso si può chiamare automaton materiale, quando l’essere meccanico è mosso mediante la materia, o, con Leibniz, spirituale4, quando è mosso mediante rappresentazioni; e se la libertà della nostra volontà non fosse altro che l’ultima (per es., la psicologica e comparativa, non la trascendentale, cioè assoluta), essa in sostanza non sarebbe niente di meglio che la libertà di un girarrosto, che, anch’esso, una volta caricato, fa da sé i suoi movimenti. Ora, per togliere nel caso proposto l’apparente contraddizione fra meccanismo naturale e libertà in una sola e medesima azione, bisogna ricordare ciò che nella Critica della ragion pura fu detto, o ciò che ne risulta: che la necessità naturale, la quale non può coesistere con la libertà del soggetto, è inerente semplicemente alle determinazioni di quella cosa che è sotto le condizioni del tempo, e quindi soltanto alle determinazioni del soggetto agente come fenomeno; che quindi sotto questo rispetto i motivi determinanti di ogni sua azione si trovano in ciò che appartiene al tempo passato, e n o n è p i ù i n s u o p o t e r e (fra i quali motivi determinanti si devono anche annoverare le sue azioni già fatte ed il carattere di lui come fenomeno, che ai suoi propri occhi può essere determinato mediante queste azioni). [175] Ma lo stesso soggetto, che d’altronde è anche conscio di sé come di cosa in sé, considera anche la sua esistenza, in q u a n t o e s s a n o n s t a s o t t o l e c o n d i z i o n i d i t e m p o , e considera se stesso soltanto come determinabile secondo le leggi che si dà mediante la ragione stessa; e in

questa sua esistenza niente è per lui anteriore alla determinazione della sua volontà, ma ogni azione, e in genere ogni determinazione della sua esistenza, la quale cambia secondo il senso interno, e anche l’intera successione della sua esistenza come essere sensibile, non è da riguardare nella coscienza della sua esistenza intelligibile se non come conseguenza, e non mai come motivo determinante della sua causalità in quanto n o u m e n o . Ora, sotto questo rispetto, l’essere razionale può dire giustamente di ogni sua azione compiuta contro la legge (benché quest’azione, come fenomeno, sia determinata sufficientemente nel passato, e, come tale inevitabilmente necessaria) che avrebbe potuto non farla; perché quell’azione, con tutto il passato che la determina, appartiene a un unico fenomeno del carattere, che [l’essere razionale] procura a se stesso e secondo il quale attribuisce a sé, come ad una causa indipendente da ogni sensibilità, la causalità di quegli stessi fenomeni. Con ciò s’accordano perfettamente anche le sentenze di quella meravigliosa facoltà che è in noi, e che chiamiamo coscienza. Un uomo può studiar fin che vuole per fingersi un modo [176] di procedere contrario alla legge, e del quale egli ha ricordo, come un errore non deliberato, come una semplice inavvertenza che non può mai evitarsi del tutto, e quindi come qualcosa in cui sarebbe stato travolto dalla corrente della necessità naturale, e di dichiararsi innocente a questo riguardo; tuttavia egli sente che l’avvocato che parla in suo vantaggio non può far tacere in lui l’accusatore, se egli è conscio che, nel tempo che commise l’azione cattiva, egli era in sé, cioè aveva l’uso della sua libertà; e quantunque egli si s p i e g h i la propria mancanza con una certa abitudine cattiva contratta per aver a poco a poco trascurato l’attenzione su se stesso, sino al punto che egli può riguardare la mancanza stessa come una conseguenza naturale di tale abitudine, ciò, tuttavia, non lo può salvare dalla disapprovazione e dal rimprovero che egli fa a se stesso. Su questo si fonda anche il pentimento per un’azione compiuta da molto tempo, ogni volta che essa vien ricordata: sentimento di dolore, prodotto dalla disposizione morale, il quale è cosi praticamente vuoto da non poter servire a fare che ciò che è avvenuto non sia avvenuto, e sarebbe perfino assurdo (come anche Priestley5 da f a t a l i s t a vero e coerente, dichiara – e riguardo a questa schiettezza egli merita più approvazione di coloro i quali, mentre nel fatto [177] sostengono il meccanismo della volontà, e soltanto a parole la libertà di essa, vogliono ancor sempre che si ritenga che includono la libertà nel loro sistema sincretistico, senza tuttavia rendere

concepibile la possibilità di una tale attribuzione); ma, tuttavia, come dolore, il pentimento è affatto legittimo, perché la ragione, quando si tratta della legge della nostra esistenza intelligibile (della legge morale), non riconosce nessuna differenza di tempo, e domanda soltanto se l’evento mi appartiene come fatto: allora è sempre connessa moralmente con ciò la medesima sensazione, o che l’evento accada adesso, o che sia accaduto da molto tempo. Infatti la v i t a s e n s i b i l e relativamente alla coscienza i n t e l l i g i b i l e della sua esistenza (della libertà) ha l’unità assoluta di un fenomeno che, in quanto contiene semplicemente manifestazioni dell’intenzione che riguarda la legge morale (del carattere), non dev’essere giudicato secondo la necessità naturale, che conviene ad esso come fenomeno, ma secondo la spontaneità assoluta della libertà. Quindi si può ammettere che se a noi fosse possibile avere, del modo di pensare di un uomo, secondo che quel modo si manifesta tanto per le azioni interne quanto per quelle esterne, una cognizione così profonda che ogni movente di queste azioni, anche il minimo, ci fosse noto, e nello stesso tempo tutte le occasioni esterne operanti su questi moventi, si potrebbe calcolare, con la medesima certezza di un’eclisse lunare o solare, il modo di procedere di un [178] uomo in avvenire, e tuttavia affermare, nello stesso tempo, che l’uomo è libero. Cioè, se noi fossimo ancora capaci di un altro sguardo (il quale però non ci è davvero concesso, mentre invece abbiamo soltanto il concetto razionale), cioè di un’intuizione intellettuale del soggetto stesso, scorgeremmo che questa intera catena di fenomeni, relativamente a ciò che può riguardare sempre soltanto la legge morale, dipende dalla spontaneità del soggetto come cosa in sé, della cui determinazione non si può dare alcuna spiegazione fisica. In mancanza di quest’intuizione la legge morale ci assicura della differenza della relazione delle nostre azioni, come fenomeni, rispetto all’essere sensibile del nostro soggetto, dalla relazione mediante la quale questo stesso essere sensibile è riferito al sostrato intelligibile in noi. In questa considerazione, che alla nostra ragione è naturale benché inesplicabile, si possono anche giustificare i giudizi che, dati con ogni scrupolosità, tuttavia, a prima vista, sembrano contrari a ogni equità. Si danno casi in cui certi uomini, dalla fanciullezza, anche con un’educazione che nello stesso tempo riusciva giovevole ad altri, dimostrano tuttavia una perversità così precoce, e continuano a crescere tanto in essa sino agli anni della virilità, che son ritenuti malvagi nati, e, per quel che riguarda il loro modo di pensare, affatto incorreggibili; e tuttavia vengono giudicati

[179] per ciò che fanno e non fanno, si rimprovera ad essi il loro delitto come colpa; anzi essi (i fanciulli) trovano così fondato questo rimprovero, come se, nonostante la natura disperata del carattere attribuito loro, rimanessero responsabili come ogni altro uomo. Ciò non potrebbe avvenire, se noi non supponessimo che tutto ciò che deriva dal loro libero arbitrio (come, senza dubbio, ogni azione fatta deliberatamente) abbia per fondamento una causalità libera, che sin dalla prima giovinezza manifesta il suo carattere nei suoi fenomeni (le azioni); i quali, per l’uniformità del modo di procedere, fanno conoscere una connessione naturale, che però non rende necessaria la natura cattiva della volontà, ma è piuttosto la conseguenza dei princìpi cattivi ammessi liberamente ed immutabili, che rendono soltanto ancor più riprovevole e degno di castigo un uomo. Ma ancora una difficoltà sovrasta alla libertà, in quanto essa dev’esser unita col meccanismo della natura in un essere che appartiene al mondo sensibile: una difficoltà che, anche dopo tutto quello che è stato approvato fin qui, tuttavia minaccia alla libertà la completa rovina. Ma in questo periodo una circostanza fa pur sperare nello stesso tempo un esito ancora felice per il [180] mantenimento della libertà, cioè, che la stessa difficoltà colpisce molto più vigorosamente (e nel fatto, come tosto vedremo, solo esso abbatte) il sistema in cui l’esistenza determinabile nel tempo e nello spazio è presa per l’esistenza delle cose in sé; essa quindi non ci obbliga ad abbandonare la nostra ipotesi capitale dell’idealità del tempo come semplice forma dell’intuizione sensibile, e perciò come semplice modo di rappresentazione proprio del soggetto in quanto appartenente al mondo sensibile, e quindi richiede soltanto di essere unita con quest’idea della libertà. Cioè, se anche ci si concede che il soggetto intelligibile rispetto a una data azione può ancora esser libero, benché, come soggetto che appartiene anche al mondo sensibile, rispetto alla stessa azione sia condizionato meccanicamente, tuttavia, tosto che si ammette che Dio, come essenza prima universale, è anche la c a u s a d e l l ’ e s i s t e n z a d e l l a s o s t a n z a (una proposizione, che non può mai esser rigettata, senza rigettare nello stesso tempo il concetto di Dio come essenza di tutte le essenze, e quindi la sua sufficienza a tutto, dalla quale in teologia tutto dipende), pare che si debba ancora ammettere che le azioni dell’uomo hanno il loro principio determinante in ciò che è d e l t u t t o f u o r i d e l s u o p o t e r e , cioè nella causalità di un essere supremo distinto da lui, dalla quale dipende

assolutamente l’esistenza dell’uomo, e l’intera determinazione della sua causalità. [181] Infatti, se le azioni dell’uomo, come appartengono alle sue determinazioni nel tempo, non fossero semplici determinazioni dell’uomo come fenomeno ma come cosa in sé, la libertà non potrebbe esser salvata. L’uomo sarebbe una marionetta, un automa di Vaucanson6, fabbricato e caricato dal maestro supremo di tutte le opere d’arte, e la coscienza di sé lo renderebbe invero un automa pensante, nel quale però la coscienza della spontaneità, se venisse ritenuta per libertà, sarebbe semplice illusione, poiché solo comparativamente essa merita di esser chiamata così, perché le cause determinanti prossime del suo movimento, e una lunga serie di queste cause sino alle loro cause determinanti, sono bensì interne, ma la causa ultima e suprema si trova interamente in una mano estranea. Perciò io non capisco come coloro i quali persistono ancor sempre nel considerare il tempo e lo spazio per determinazioni appartenenti all’esistenza delle cose in sé, qui vogliano evitare la fatalità delle azioni; o se li ammettono addirittura (come fece Mendelssohn7, mente del resto acuta) tutti e due soltanto come condizioni appartenenti necessariamente all’esistenza degli esseri finiti e derivati, ma non a quella dell’essere primitivo ed infinito, come vogliano giustificare donde prendono il diritto di far una tale distinzione, [182] anzi come vogliano anche solo evitare la contraddizione in cui incorrono quando considerano l’esistenza nel tempo come una determinazione necessariamente inerente alle cose finite in sé, poiché Dio è la causa di quest’esistenza, ma non può anche esser la causa del tempo (o dello spazio) stesso (perché questo dev’essere supposto come condizione necessaria a p r i o r i dell’esistenza delle cose); e quindi la sua causalità rispetto all’esistenza di queste cose, anche quanto al tempo, dev’essere condizionata, e così devono inevitabilmente aver luogo tutte le contraddizioni proprie dei concetti della sua infinità e indipendenza. Invece a noi è affatto facile distinguere la determinazione dell’esistenza divina, come indipendente da tutte le condizioni di tempo, da quella di un essere del mondo sensibile, prendendo la prima come l’ e s i s t e n z a d i u n e s s e r e i n s é , la seconda come l’esistenza di una c o s a n e l f e n o m e n o . Perciò, se non si ammette quell’idealità del tempo e dello spazio, rimane soltanto lo s p i n o z i s m o , in cui lo spazio e il tempo sono determinazioni essenziali dell’essere primitivo stesso; ma le cose dipendenti da esso (quindi anche noi stessi) non sono sostanze, ma semplicemente accidenti inerenti ad esso, perché, se queste cose

esistono semplicemente come suoi effetti, nel t e m p o , il quale sarebbe la condizione della loro esistenza in sé, anche le azioni di questi esseri dovrebbero essere semplicemente sue azioni, che quell’essere farebbe in qualunque luogo e in qualunque tempo. [183] Perciò lo spinozismo, nonostante l’assurdità della sua idea fondamentale, pure conclude più logicamente di quel che possa avvenire secondo la teoria della creazione, se quelli che si ammettono come sostanze e come esseri e s i s t e n t i i n s é n e l t e m p o sono riguardati come effetti di una causa suprema e, tuttavia, non come appartenenti nello stesso tempo a questa causa e alla sua azione, ma come sostanze per sé. La soluzione dell’accennata difficoltà avviene, brevemente e chiaramente, nel modo seguente. Se l’esistenza n e l t e m p o è un semplice modo di rappresentazione sensibile degli esseri pensanti nel mondo, e quindi non appartiene a questi esseri come cose in sé, la creazione di questi esseri è una creazione delle cose in sé; perché il concetto di una creazione non appartiene al modo di rappresentazioni sensibili dell’esistenza e della causalità, ma può esser riferito soltanto a noumeni. Quindi, se degli esseri nel mondo sensibile dico che sono creati, li considero in quanto noumeni. Dunque, come sarebbe una contraddizione dire che Dio è un creatore di fenomeni, così è anche una contraddizione dire che, come creatore, egli è causa delle azioni nel mondo sensibile, e quindi delle azioni considerate come fenomeni, benché egli sia causa dell’esistenza degli esseri agenti (come noumeni). Ora, se è possibile (purché ammettiamo l’esistenza nel tempo come qualcosa che vale semplicemente per i fenomeni, [184] non per le cose in sé) sostenere la libertà nonostante il meccanismo naturale delle azioni come fenomeni, in tal caso il fatto che gli esseri agenti sono creature non può produrre qui il minimo cambiamento, perché la creazione riguarda la loro esistenza intelligibile e non quella sensibile, e quindi non può esser considerata come principio determinante dei fenomeni; il che invece sarebbe affatto diverso, se gli esseri del mondo esistessero nel t e m p o come cose in sé, poiché il creatore della sostanza sarebbe nello stesso tempo l’autore dell’intero meccanismo in questa sostanza. Così grande è l’importanza della separazione, fatta nella Critica della ragion pura speculativa, del tempo (come pure dello spazio) dall’esistenza delle cose in sé. La soluzione qui rappresentata della difficoltà contiene ancora, si dirà,

molte difficoltà, e può appena esser esposta chiaramente. Ma ogni altra soluzione, che si sia tentata o che si possa tentare, è più facile e più comprensibile? Si dovrebbe dire piuttosto che i maestri dommatici della metafisica hanno dimostrato in essa la loro astuzia meglio che la loro sincerità, e che essi allontanavano dagli occhi, per quanto era possibile, questo punto difficile, nella speranza che, se non ne parlassero affatto, forse nessuno vi avrebbe pensato. Se si deve prestar aiuto a una scienza, si devono s c o p r i r e tutte le difficoltà, ed anche [185] r i c e r c a r e quelle che le sono d’ostacolo ancora di nascosto; poiché ciascuna di esse invoca un rimedio che non può esser trovato senza procurare alla scienza un aumento, sia questo in estensione o in precisione; per il quale rimedio gli stessi ostacoli diventano mezzi che contribuiscono alla profondità della scienza. Invece, se le difficoltà vengono nascoste deliberatamente, oppure semplicemente tolte mediante palliativi, esse sfociano, presto o tardi, in mali insanabili, che precipitano la scienza in un completo scetticismo. Siccome propriamente il concetto della libertà è il solo, fra tutte le idee della ragion pura speculativa, che procuri sì grande estensione nel campo del soprasensibile, quantunque soltanto relativamente alla conoscenza pratica, così io mi domando d o n d e s i a d u n q u e t o c c a t a e s c l u s i v a m e n t e a d e s s o u n a s ì g r a n d e f e c o n d i t à , laddove gli altri designano bensì il posto vuoto per i puri enti possibili dell’intelletto, ma non possono determinare in niente il concetto di essi. Io comprendo subito, che siccome non posso pensar niente senza categoria, anche nell’idea razionale della libertà, di cui mi occupo, dev’essere anzitutto ricercata la categoria, la quale qui è la categoria della c a u s a l i t à ; e che, quantunque al [186] c o n c e t t o r a z i o n a l e della libertà, come concetto trascendentale, non possa esser sottoposta nessuna intuizione corrispondente, pure al c o n c e t t o i n t e l l e t t u a l e (della causalità), per la cui sintesi quel concetto razionale richiede l’incondizionato, dev’essere data anzitutto un’intuizione sensibile, per la quale solamente gli viene assicurata la realtà oggettiva. Ora, tutte le categorie sono divise in due classi, le m a t e m a t i c h e , che riguardano semplicemente l’unità della sintesi nella rappresentazione degli oggetti, e le d i n a m i c h e , che riguardano l’unità della sintesi nella rappresentazione dell’esistenza degli oggetti. Le prime (quelle della grandezza e della qualità) contengono sempre una sintesi dell’ o m o g e n e o , nella quale l’incondizionato non si può trovare nel condizionato nello spazio e nel tempo

dato nell’intuizione sensibile, perché allora esso stesso, a sua volta, dovrebbe appartenere allo spazio e al tempo, e perciò esser sempre nuovamente condizionato; perciò, anche nella Dialettica della ragion pura teoretica, i modi vicendevolmente opposti di trovare per essi l’incondizionato e la totalità delle condizioni erano falsi ambedue. Le categorie della seconda classe (quelle della causalità e della necessità di una cosa) non richiedevano affatto questa omogeneità (del condizionato e della condizione nella sintesi), perché qui doveva esser rappresentata non l’intuizione come è composta del molteplice che è in essa, ma soltanto come l’esistenza dell’oggetto condizionato corrispondente ad essa [187] si aggiunge all’esistenza della condizione (nell’intelletto, come connesso coll’esistenza dell’oggetto); e allora era lecito porre per ciò che era universalmente condizionato nel mondo sensibile (tanto relativamente alla causalità come all’esistenza accidentale delle cose stesse) l’incondizionato, benché d’altronde indeterminato, nel modo intelligibile, e far trascendente la sintesi. Perciò anche nella Dialettica della ragion pura speculativa si trovò che, nel fatto, non si contraddicono i due modi, apparentemente opposti l’uno all’altro, di trovare l’incondizionato mediante il condizionato: per es., pensare, nella sintesi della causalità, pel condizionato, nella serie delle cause e degli effetti del mondo sensibile, la causalità, che non è più sensibilmente condizionata; e la stessa azione, la quale, come appartenente al mondo sensibile, è sempre sensibilmente condizionata, cioè meccanicamente necessaria, tuttavia nello stesso tempo, per la causalità dell’essere agente, in quanto appartiene al mondo intelligibile, può anche avere per fondamento una causalità sensibilmente incondizionata, e quindi esser pensata come libera. Ora si trattava semplicemente di ciò, che questo p o t e r e fosse mutato in un e s s e r e , e cioè si potesse dimostrare, in un caso reale mediante un fatto, che certe azioni suppongono una tale causalità (l’intellettuale, sensibilmente incondizionata), siano esse reali oppure soltanto prescritte, cioè oggettivamente e praticamente necessarie. [188] Certamente, nell’esperienza di date azioni come eventi del mondo sensibile, noi non potevamo sperare di trovare questa connessione, perché la causalità mediante la libertà deve sempre esser cercata fuori del mondo sensibile, nell’intelligibile. Ma altre cose, fuori degli esseri sensibili, non sono date alla nostra percezione e alla nostra osservazione. Dunque, non rimaneva altro che trovare un principio non contraddittorio, e invero oggettivo della casualità, che escludesse dalla sua determinazione ogni condizione sensibile, cioè un

principio in cui la ragione non si fondasse su n i e n t ’ a l t r o , come principio determinante relativamente alla causalità, ma lo contenesse già essa stessa mediante quel principio, ed in cui, quindi, come r a g i o n p u r a , fosse anche pratica. Ma questo principio non abbisogna di alcuna ricerca né di alcuna scoperta; esso è stato da molto tempo nella ragione di tutti gli uomini, ed è incorporato alla loro essenza, ed è il principio della m o r a l i t à . Dunque, quella causalità incondizionata e il potere di essa, la libertà, e con questa un essere (io stesso) che appartenga al mondo sensibile, come tale che appartenga insieme al mondo intelligibile, non sono semplicemente concepiti in modo indeterminato e problematico (il che già la ragione speculativa poteva scoprire come possibile), ma sono affatto d e t e r m i n a t i r e l a t i v a m e n t e a l l a l e g g e della loro causalità, e c o n o s c i u t i assertoriamente; e così ci è data la realtà del mondo intelligibile, e invero [189] d e t e r m i n a t a sotto il rispetto pratico, e questa determinazione, che sotto il rispetto teoretico sarebbe t r a s c e n d e n t e ( e s a l t a t a ) , sotto il rispetto pratico è i m m a n e n t e . Ma simile passo noi non potevamo fare relativamente alla seconda idea dinamica, cioè a quella di un e s s e r e n e c e s s a r i o . Noi non potevamo salire ad essa dal mondo sensibile, senza la mediazione della prima idea dinamica. Poiché se volevamo tentar ciò, dovevamo osare di far il salto, abbandonare tutto ciò che ci è dato, e gettarci a ciò di cui non ci è dato niente, onde poter procurare la connessione di una simile essenza intelligibile col mondo sensibile (perché l’essere necessario doveva esser conosciuto come dato f u o r i d i n o i ) ; il che invero è affatto possibile, come adesso l’evidenza manifesta, relativamente al n o s t r o p r o p r i o soggetto, in quanto questo si conosce, d a u n a p a r t e , come essere intelligibile determinato (in virtù della libertà) mediante la legge morale; d ’ a l t r a p a r t e come attivo secondo questa determinazione nel mondo sensibile. Il solo concetto della libertà ci permette di non uscire fuori di noi per trovar l’incondizionato e l’intelligibile per il condizionato e il sensibile. Poiché è la nostra stessa ragione, che si riconosce mediante la legge pratica suprema e incondizionata, e l’essere, che è conscio di questa legge (la nostra propria persona), si riconosce come appartenente al puro mondo dell’intelletto, ed invero anche [190] colla determinazione del modo in cui esso come tale può essere attivo. Così si può comprendere perché in tutta la facoltà della ragione s o l t a n t o la facoltà p r a t i c a possa esser quella che ci aiuta a uscire dal mondo sensibile e ci procura le cognizioni di un ordine e di

una connessione soprasensibile; le quali, tuttavia, appunto perciò possono essere estese solo quanto è affatto necessario per il punto di vista puro pratico. Mi sia concesso in quest’occasione di richiamare ancora l’attenzione su una cosa, e cioè che ogni passo che si fa con la ragion pura, anche nel campo pratico, dove non si ha affatto riguardo a una speculazione sottile, si lega tuttavia così esattamente e spontaneamente con tutti i momenti della Critica della ragion teoretica, come se fosse accortamente immaginato sol per procurar questa conferma. Una tale esatta corrispondenza, in nessun modo cercata, ma (come possiamo convincercene noi stessi, solo che vogliamo continuare le ricerche morali sino ai loro princìpi) spontanea, dei princìpi più importanti della ragion pratica con quelle osservazioni della Critica della ragione speculativa che spesso sembrano troppo sottili e non necessarie, sorprende e reca meraviglia, e conferma la massima già conosciuta ed esaltata da altri, che in ogni ricerca scientifica bisogna continuare tranquillamente il proprio cammino con tutta [191] l’esattezza e la sincerità possibili, senza curarci di ciò con cui tal ricerca potrebbe contrastare fuori del suo dominio, ed eseguirla per sé sola, per quanto si può, secondo verità e in modo completo. L’osservazione frequente mi ha convinto che, quando si sono condotte a termine queste ricerche, ciò che a metà di esse, e rispetto ad altre dottrine, mi pareva talvolta assai incerto, solo che io perdessi di vista tale incertezza e attendessi semplicemente alla mia indagine, questa, terminata, si accordava infine, in modo inaspettato, perfettamente, con ciò che s’era trovato da sé senza la minima considerazione di quelle dottrine, senza parzialità né preferenza per esse. Gli scrittori eviterebbero molti errori e molta fatica sprecata (perché impiegata per un’illusione), solo che si potessero risolvere a lavorare con un po’ più di sincerità. 1

Triebfedern, molle, impulsi, moventi. [T] Beförderung, promuovimento. [T] 3 Bernardo Fontenelle (1657-1757), volgarizzatore delle dottrine astronomiche di Copernico e di Cartesio, e autore di arguti aforismi ed epigrammi. [T] 4 [Leibniz, Theodicée, 52, 403, ed. Gerhardt, VI, 131, 356.] 5 [J. Priestley, The Doctrine of Philosophical Necessity, London, 1777, pp. 86 sgg.] 6 Giacomo Vaucanson (1709-82), celebre meccanico. [T] [Cfr., di La Mettrie, L’homme machine, Leyde, 1748, pp. 92 sgg.: «s’il a fallu plus d’art a Vaucanson pour faire son fluteur...».] 7 Mosè Mendelssohn (1729-86), filosofo dell’Aufklärung. [T] [Morgenstunden, 11 sgg.; Sämmtliche Werke, Wien, 1838, pp. 160 sgg.] I Di ogni azione conforme alla legge, che pure non è fatta per la legge, si può dire che è 2

moralmente buona soltanto secondo la l e t t e r a , ma non secondo lo s p i r i t o (l’intenzione). II Se si esamina accuratamente il concetto del rispetto alle persone, come già fu esposto, si vede che esso si fonda sempre sulla coscienza di un dovere, che un esempio ci presenta, e che quindi il rispetto non può mai avere se non un fondamento morale, e che è cosa assai buona, anzi, dal punto di vista psicologico, assai utile alla conoscenza degli uomini, far attenzione, dovunque usiamo quest’espressione, al riguardo segreto e degno di ammirazione, ma tuttavia frequente, che l’uomo nei suoi giudizi ha alla legge morale. III Con questa legge è in forte contrasto il principio della propria felicità, di cui alcuni voglion fare il principio supremo della moralità. Questo suonerebbe così: A m a t e s t e s s o sopra ogni cosa, ma Dio e il prossimotuo per amor di te stesso.

[192] Libro secondo Dialettica della ragion pura pratica

Capitolo primo Di una dialettica della ragion pura pratica in generale

La ragion pura ha sempre la sua dialettica, venga essa considerata nel suo uso speculativo o in quello pratico; perché essa aspira all’assoluta totalità delle condizioni per un dato condizionato, e questa non si può assolutamente trovare che nelle cose in sé. Ma siccome tutti i concetti delle cose devono esser riferiti a intuizioni, le quali in noi uomini non possono mai essere altrimenti che sensibili, e quindi fanno conoscere gli oggetti non come cose in sé, ma semplicemente come fenomeni, nella cui serie del condizionato e delle condizioni non si può mai trovare [193] l’incondizionato; così dall’applicazione di quest’idea razionale della totalità delle condizioni (quindi dell’incondizionato) ai fenomeni, come se essi fossero cose in sé (poiché vengono sempre ritenuti tali quando manchi una critica che ci avverta), deriva una illusione inevitabile, la quale tuttavia non verrebbe mai notata come ingannevole, se non si scoprisse da sé mediante un c o n t r a s t o della ragione con se stessa nell’applicazione ai fenomeni del suo principio di supporre l’incondizionato per tutto il condizionato. Ma per ciò la ragione vien costretta a indagare da che cosa derivi quest’illusione, e come possa esser tolta; il che non può avvenire altrimenti che mediante una critica completa di tutta la facoltà razionale pura; sicché l’antinomia della ragione pura, che è manifesta nella sua dialettica, è in sostanza l’errore più benefico in cui la ragione umana abbia potuto incorrere, poiché esso infine ci ha indotto a cercar la chiave per uscir da questo labirinto; chiave che, se vien trovata, scopre ancora ciò che non si cercava eppure occorreva: cioè la prospettiva di un ordine superiore e immutabile delle cose, nel quale noi siamo già ora, nel quale, mediante precetti determinati, possiamo ormai procedere per continuare la nostra esistenza secondo la determinazione suprema della ragione. [194] Come nell’uso speculativo della ragion pura si debba risolvere quella dialettica naturale, e impedire l’errore che proviene da un’illusione

d’altronde naturale, si può trovare esposto ampiamente nella critica di quella facoltà. Ma per la ragione nel suo uso pratico la cosa non va meglio. Come ragion pura pratica, essa cerca per il praticamente condizionato (che è ciò che si fonda sulle inclinazioni e sul bisogno naturale) anche l’incondizionato, e invero non come principio determinante della volontà, ma, quando anche questo venga dato (nella legge morale), quale totalità incondizionata dell’o g g e t t o della ragion pura pratica, col nome di SOMMO BENE. Determinare quest’idea praticamente, cioè in modo che basti per la massima della nostra condotta razionale, è la d o t t r i n a d e l l a s a g g e z z a ; e questa a sua volta come s c i e n z a è f i l o s o f i a nel senso in cui intesero questa parola gli antichi, pei quali essa consisteva nell’insegnare il concetto in cui è da riporre il sommo bene, e il modo di procedere mediante cui questo bene si può acquistare. Converrebbe lasciare a quella parola il suo significato antico, come d o t t r i n a d e l s o m m o b e n e , in quanto la ragione si sforza di farne una s c i e n z a . Poiché da una parte la condizione restrittiva ad essa inerente sarebbe conforme all’espressione greca (la quale significa amore [195] della s a g g e z z a ) , e tuttavia sufficiente nello stesso tempo a comprendere sotto il nome di filosofia l’amore della s c i e n z a , e quindi di ogni conoscenza speculativa della ragione, in quanto serve alla ragione così per quel concetto, come pel motivo determinante pratico, ma senza lasciar perdere di vista lo scopo principale, a cagione del quale soltanto si può chiamare dottrina della saggezza. D’altra parte, non sarebbe neanche male intimidire la presunzione di colui che osò attribuire a se stesso il titolo di filosofo mettendogli dinanzi, già mediante la definizione, la misura con cui giudicarsi, la quale abbasserà assai le sue pretese; poiché essere un i n s e g n a n t e d i s a g g e z z a dovrebbe ben significare qualcosa di più che essere uno scolaro, il quale non è ancora arrivato al punto di governare se stesso, e molto meno gli altri, con la ferma speranza di giungere a un fine così alto; significherebbe essere un m a e s t r o d e l l a c o n o s c e n z a d e l l a s a g g e z z a , il che vuol dire più di quello che un uomo modesto attribuirà a se stesso; e la filosofia rimarrebbe ancor sempre, come la saggezza, un ideale che obiettivamente vien rappresentato completamente solo nella ragione, ma soggettivamente, per la persona, è soltanto lo scopo dei suoi sforzi incessanti. Ha il diritto di pretendere di essere in possesso di questo ideale col nome appropriato di filosofo solo colui il quale può anche [196] mostrarne l’effetto immancabile (nel dominare se stesso, e nell’interesse indubitabile che egli

prende principalmente al bene universale) nella sua persona, come esempio; il che anche gli antichi richiedevano perché si potesse meritare quel nome onorevole. Riguardo alla dialettica della ragion pura pratica, sul punto della determinazione del concetto del s o m m o b e n e (la quale dialettica, se la sua soluzione riesce così bene come quella della dialettica teoretica, lascia sperare il più benefico effetto per il fatto che le contraddizioni della ragion pura pratica con se stessa, esposte sinceramente e non nascoste obbligano alla critica completa della sua propria facoltà), dobbiamo ancora premettere solo una osservazione. La legge morale è l’unico motivo determinante della volontà pura. Ma, siccome questa legge è semplicemente formale (cioè richiede soltanto la forma della massima come universalmente legislativa), così essa, come motivo determinante, astrae da ogni materia, e perciò da ogni oggetto del volere. Quindi il sommo bene può sempre essere l’intero o g g e t t o di una ragion pura pratica, cioè di una volontà pura; tuttavia non perciò esso è da ritenersi il m o t i v o d e t e r m i n a n t e di questa volontà, e soltanto la legge morale dev’essere considerata come il motivo [che la spinge] a farsi un oggetto di quel bene, e della sua effettuazione o promuovimento. Quest’osservazione è importante in [197] un caso così difficile come la determinazione dei princìpi morali, in cui anche il più piccolo malinteso altera le intenzioni. Poiché si sarà visto dall’analitica, che, se prima della legge morale si ammettesse qualche oggetto col nome di bene, quale motivo determinante della volontà, e da esso si derivasse poi il principio pratico supremo, questo allora implicherebbe sempre un’eteronomia, e sottentrerebbe al principio morale. Ma va da sé che, se nel concetto del sommo bene è già inclusa la legge morale come condizione suprema, allora il sommo bene non è semplicemente o g g e t t o , ma il suo concetto, e la rappresentazione dell’esistenza possibile di esso mediante la nostra ragion pratica sono anche nello stesso tempo il m o t i v o d e t e r m i n a n t e della volontà pura; perché allora in sostanza la legge morale già inclusa in questo concetto e concepita con esso, e nessun altro oggetto, è ciò che determina la volontà secondo il principio dell’autonomia. Quest’ordine dei concetti della determinazione della volontà non può esser perduto di vista; perché altrimenti si fraintende se stessi e si crede di contraddirsi, mentre tutto è nell’armonia reciproca più perfetta.

[198] Capitolo secondo Della dialettica della ragion pura nella determinazione del concetto del sommo bene

Il concetto di s o m m o contiene già un equivoco, che, se non si fa attenzione, può cagionare dispute inutili. Sommo può significare supremo (supremum) o anche perfetto (consummatum). Il primo è quella condizione che è essa stessa incondizionata, e cioè non è subordinata a nessun’altra condizione (originarium); il secondo è quel tutto che non è parte alcuna di un tutto più grande e della stessa specie (perfectissimum). Nell’Analitica si è dimostrato che la v i r t ù (come merito di esser felice) è la c o n d i z i o n e s u p r e m a di tutto ciò che ci può sembrare soltanto desiderabile, quindi anche di ogni nostra ricerca della felicità; e quindi è il bene s u p r e m o . Ma non per questo essa è il bene intero e perfetto come oggetto della facoltà di desiderare degli esseri razionali finiti: poiché per questo bene si richiede [199] anche la f e l i c i t à , e invero non semplicemente agli occhi interessati della persona che fa di se stessa lo scopo, ma anche al giudizio di una ragione disinteressata che considera la virtù in genere nel mondo come fine in sé. Poiché aver bisogno di felicità, ed esserne anche degno ma tuttavia non esserne partecipe, non affatto compatibile col volere perfetto di un essere razionale, il quale nello stesso tempo avesse l’onnipotenza, solo che tentiamo di rappresentarci un tale essere. Ora, in quanto virtù e felicità costituiscono insieme in una persona il possesso del sommo bene, per questo anche la felicità, distribuita esattamente in proporzione della moralità (come valore della persona e suo merito di esser felice), costituisce il s o m m o b e n e di un mondo possibile; questo bene significa il tutto, il bene perfetto, in cui però la virtù è sempre, come condizione, il bene supremo, perché essa non ha nessuna condizione al disopra di sé, e la felicità è sempre qualcosa che per colui che la possiede è bensì piacevole, ma non è buona per sé sola

assolutamente e sotto ogni rispetto, e suppone sempre come condizione la condotta morale conforme alla legge. Due determinazioni n e c e s s a r i a m e n t e legate in un concetto, devono esser connesse come principio e conseguenza; e invero in modo che questa u n i t à venga considerata o come a n a l i t i c a (connessione logica), o come s i n t e t i c a [200] (legame reale): quella secondo la legge dell’identità, questa secondo la legge della causalità. La connessione della virtù con la felicità può dunque esser intesa o in modo che lo sforzo di esser virtuoso e la ricerca razionale della felicità siano due azioni non già differenti ma affatto identiche, perché allora per la prima non occorrerebbe nessuna massima che quella posta a base della seconda; oppure quella connessione è posta per il fatto che la virtù produce la felicità come qualcosa di diverso dalla coscienza della prima, a quella guisa che la causa produce un effetto. Delle antiche scuole greche ve n’erano propriamente solo due che nella determinazione del concetto del sommo bene seguivano bensì uno stesso metodo, in quanto non ammettevano la virtù e la felicità come due elementi differenti del sommo bene, e quindi cercavano l’unità del principio secondo la regola dell’identità; ma si separavano di nuovo nello scegliere differentemente il concetto fondamentale. L’ e p i c u r e o diceva che l’esser conscio della propria massima, che conduce alla felicità, è la virtù; lo s t o i c o , che l’esser conscio della propria virtù è la felicità. Pel primo la p r u d e n z a equivaleva alla moralità; pel secondo il quale sceglieva una denominazione più alta per la virtù, la m o r a l i t à soltanto era la vera saggezza. [201] Si deve rimpiangere che l’acutezza di questi uomini (che però nello stesso tempo sono da ammirare per il fatto che in tempi così antichi tentarono già tutte le vie possibili delle conquiste filosofiche) fosse infelicemente impiegata a ricercare l’identità fra due concetti estremamente diversi, quello della felicità e quello della virtù. Ma ciò era conforme allo spirito dialettico dei loro tempi; che anche ora talvolta induce alcune menti sottili a cogliere nei princìpi differenze essenziali, e che non si possono mai conciliare, cercando di mutarle in questioni di parole: e così, in apparenza, si produce artificialmente l’unità del concetto semplicemente fra denominazioni differenti; e ciò riguarda comunemente casi in cui la conciliazione di princìpi eterogenei è così profonda o così alta, oppure si richiederebbe una trasformazione così completa delle dottrine d’altronde ammesse nel sistema

filosofico, che si teme di andar troppo innanzi nella differenza reale, e la si tratta piuttosto come disunione di semplici formalità. Mentre tutt’e due le scuole cercavano con sottigliezza di scoprire l’identità dei princìpi pratici della virtù e della felicità, non perciò erano concordi fra di loro nel modo di produrre quest’identità, ma si separavano infinitamente l’una dall’altra, poiché l’una riponeva il suo principio nel lato sensibile, l’altra nel lato logico; [202] quella nella coscienza del bisogno sensibile, questa nell’indipendenza della ragion pratica da tutti i motivi determinanti sensibili. Il concetto della virtù si trovava già, secondo l’e p i c u r e o , nella massima di promuovere la propria felicità; il sentimento della felicità era invece, secondo lo s t o i c o , già contenuto nella coscienza della propria virtù. Ma ciò che è contenuto in altro concetto è bensì identico con una parte del contenente, non con l’intero; e due interi possono, inoltre, essere specialmente differenti l’uno dall’altro, benché siano composti della stessa materia, se cioè in essi le parti sono in modo affatto diverso unite nell’intero. Lo stoico affermava che la v i r t ù è t u t t o i l s o m m o b e n e , e la felicità è soltanto la coscienza del possessore di essa, e quindi appartiene allo stato del soggetto. L’epicureo affermava che la felicità è t u t t o i l s o m m o b e n e , e la virtù è solo la forma della massima per procurarsela, cioè essa consiste nell’uso razionale dei mezzi per ottenerla. Ma dall’analitica risulta chiaramente, che le massime della virtù e quelle della propria felicità sono affatto differenti rispetto al loro principio pratico supremo, e ben lungi dall’esser concordi, benché appartengano a un sommo bene e lo rendano possibile, nello stesso soggetto si limitano assai e si recano pregiudizio. [203] Dunque, la questione: c o m ’ è p r a t i c a m e n t e p o s s i b i l e i l s o m m o b e n e , rimane ancor sempre un problema insoluto, nonostante tutti i t e n t a t i v i d i c o m p o s i z i o n e1 sin qui fatti. Ma ciò che lo rende un problema difficile da risolvere, è dato nell’Analitica, e cioè che la felicità e la moralità sono due e l e m e n t i del sommo bene affatto d i v e r s i specificamente, ed il loro legame non può quindi esser conosciuto a n a l i t i c a m e n t e (quasi colui il quale cerca la sua felicità, in questo suo procedere si trovasse virtuoso mediante la semplice soluzione dei suoi concetti, o colui che segue la virtù, nella coscienza di un tale procedere si trovasse già felice ipso facto), ma è una s i n t e s i di concetti. Poiché per altro questo legame è conosciuto come a p r i o r i , quindi praticamente necessario, e perciò non come derivato dall’esperienza, onde la possibilità del sommo

bene non si fonda su nessun principio empirico, la d e d u z i o n e di questo concetto dovrà essere t r a s c e n d e n t a l e . È necessario a p r i o r i (moralmente) p r o d u r r e i l s o m m o b e n e m e d i a n t e l a l i b e r t à d e l l a v o l o n t à ; dunque anche la condizione della possibilità di esso deve fondarsi soltanto su princìpi della conoscenza a p r i o r i .

[204] I. L’antinomia della ragion pratica Nel sommo bene pratico per noi, cioè da realizzare mediante la nostra volontà, la virtù e la felicità sono concepite come necessariamente legate, sicché l’una non può esser ammessa da una ragion pura pratica senza che anche l’altra gli appartenga. Ora questo legame (come ogni altro in genere) è o a n a l i t i c o o s i n t e t i c o . Ma siccome questo legame dato non può esser analitico, come poco prima fu mostrato, esso dev’esser concepito come sintetico, e cioè come connessione della causa con l’effetto, perché riguarda un bene pratico, ossia ciò che è possibile mediante azione. Dunque, o il desiderio della felicità dev’esser la causa movente per la massima della virtù, o la massima della virtù dev’esser la causa efficiente della felicità. Il primo caso è a s s o l u t a m e n t e impossibile; perché (come si è dimostrato nell’Analitica) le massime che pongono il motivo determinante della volontà del desiderio della propria felicità non sono affatto morali, e non possono fondare nessuna virtù. Ma il secondo caso è anche i m p o s s i b i l e , perché nel mondo ogni connessione pratica delle cause e degli effetti, come conseguenza [205] della determinazione della volontà, non si conforma alle intenzioni morali della volontà, ma alla cognizione delle leggi naturali e al potere fisico di usarle per i propri fini, e quindi nel mondo non si può attendere nessuna connessione necessaria e sufficiente pel sommo bene, della felicità con la virtù, mediante l’osservanza esattissima della legge morale. Ora, siccome il promuovimento del sommo bene, che contiene questa connessione nel suo concetto, è un oggetto necessario a p r i o r i della nostra volontà ed è connesso inseparabilmente con la legge morale, così l’impossibilità di questo promuovimento deve anche dimostrare la falsità della legge. Dunque, se il sommo bene è impossibile secondo regole pratiche, anche la legge morale, che prescrive di promuoverlo, dev’essere fantastica e ordinata a fini vani e immaginari e, quindi, in sé falsa.

II. Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica Nell’antinomia della ragion pura speculativa si trova un contrasto simile fra necessità naturale, e libertà nella causalità degli eventi del mondo. Esso fu tolto col dimostrare che non c’è [206] un vero contrasto se gli eventi, ed anche il mondo in cui essi avvengono, si considerano (come appunto si deve fare) soltanto quali fenomeni; perché un solo e medesimo essere, agente come f e n o m e n o (anche davanti al proprio senso interno), ha una causalità nel mondo sensibile, che è sempre conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo stesso evento, in quanto la persona agente si consideri nello stesso tempo come n o u m e n o (come intelligenza pura, nella sua esistenza non determinabile secondo il tempo), può contenere un motivo determinante di quella causalità secondo leggi naturali, libero esso stesso da ogni legge naturale. Con la presente antinomia della ragion pura pratica avviene appunto lo stesso. La prima delle due proposizioni, e cioè che la ricerca della felicità produca un motivo d’intenzione virtuosa, è f a l s a a s s o l u t a m e n t e ; ma la seconda, e cioè che l’intenzione virtuosa produca necessariamente la felicità, n o n è f a l s a a s s o l u t a m e n t e , ma solo in quanto vien considerata come la forma della causalità nel mondo sensibile, e, quindi, se io ammetto l’esistenza in esso come l’unico modo di esistenza dell’essere razionale; dunque, è falsa solo in modo c o n d i z i o n a t o . Siccome, per altro, non solo ho il diritto di concepire la mia esistenza anche come noumeno in un mondo intelligibile, ma nella legge morale ho anche un motivo puro intellettuale [207] determinante della mia causalità (nel mondo sensibile), così non è impossibile che la moralità dell’intenzione abbia una connessione, se non immediata, almeno mediata (mediante un autore intelligibile della natura), e invero necessaria come causa, con la felicità come effetto nel mondo sensibile; il quale legame, in una natura che è semplicemente oggetto dei sensi, non può mai aver luogo in altro modo che accidentalmente, e non può bastare pel sommo bene. Dunque, nonostante questo contrasto apparente di una ragion pratica con se stessa, il sommo bene è il fine necessario e supremo di una volontà moralmente determinata, un vero oggetto di essa; poiché esso è praticamente

possibile, e le massime della volontà, le quali quanto alla loro materia si riferiscono a questo oggetto, hanno realtà oggettiva, che fu còlta in principio mediante quell’antinomia nel legame della moralità con la felicità secondo una legge universale, ma per semplice equivoco, perché si considerò la relazione tra fenomeni come una relazione delle cose in sé con questi fenomeni. Se noi ci vediamo obbligati a cercare la possibilità del sommo bene, di questo scopo assegnato mediante la ragione a tutti gli esseri razionali per tutti i loro desideri morali, così lontano, [208] e cioè nella connessione con il mondo intelligibile, ci deve meravigliare che nondimeno i filosofi, così dei tempi antichi come dei moderni, abbiano potuto trovare già i n q u e s t a v i t a (nel mondo sensibile) la felicità in proporzione affatto conveniente con la virtù, o abbiano potuto credere di averne coscienza. Infatti, così Epicuro come gli stoici innalzarono sopra ogni cosa la felicità che nella vita deriva dalla coscienza della virtù; né il primo nei suoi precetti pratici aveva intenzioni così basse, come si potrebbe arguire dai princìpi della sua teoria, che egli adoperava per la spiegazione ma non per l’azione, o dall’interpretazione di molti, sviati dall’espressione «voluttà» sostituita a «contentezza»; ché anzi comprese la pratica più disinteressata del bene fra i modi di godere la gioia più intima, e la moderazione e la repressione delle inclinazioni, quale può sempre richiederla il più rigido filosofo moralista, apparteneva al suo concetto del piacere (egli intendeva con ciò la continua letizia del cuore); nel che si separò dagli stoici, soprattutto in ciò che egli ripose in questo piacere il motivo determinante, che gli stoici, e invero con ragione, rifiutarono. Poiché da una parte il virtuoso Epicuro, come ancora adesso uomini moralmente ben intenzionati ma che non riflettono abbastanza profondamente sui loro princìpi, cadde nell’errore di presupporre già l’ i n t e n z i o n e virtuosa nelle persone per le quali egli voleva prima dare il movente alla virtù [209] (e infatti l’uomo onesto non può sentirsi felice, se prima non è conscio della sua onestà; perché in quell’intenzione i rimproveri, che egli per suo proprio modo di pensare sarebbe obbligato a far a se stesso per le trasgressioni, e la condanna morale di se stesso, gli toglierebbe ogni godimento della soddisfazione che altrimenti il suo stato potrebbe contenere). Ma la questione è qui: come diventa anzitutto possibile una tale intenzione e un tale modo di pensare per stimare il valore della propria esistenza, giacché prima di quella intenzione non si troverebbe ancora nel soggetto nessun

sentimento per un valore morale in genere? Certamente l’uomo, se è virtuoso, non diventerà contento della vita senza esser conscio della sua onestà in ogni azione, per quanto favorevole gli sia anche la fortuna nello stato fisico della vita; ma per farlo anzitutto virtuoso, e quindi prima ancora che egli stimi così altamente il valore della sua esistenza, gli si può raccomandare la pace dell’anima, che nascerà dalla coscienza di un’onestà per cui egli tuttavia non ha ancora alcun senso? Ma, d’altra parte, qui vi è ancor sempre motivo a un errore subreptionis (vitium subreptionis), e come a un’illusione ottica, nella coscienza che ciò che si fa, differentemente da ciò che si s e n t e , la quale illusione anche l’uomo più sperimentato non [210] può completamente evitare. L’intenzione morale è necessariamente legata con una coscienza della determinazione della volontà immediatamente mercé la legge. Ora la coscienza di una determinazione della facoltà di desiderare è sempre motivo di compiacimento per un’azione che fu prodotta mediante quella determinazione; ma questo piacere, questa compiacenza di se stessi, non è il motivo determinante dell’azione: la determinazione della volontà immediatamente, solo mediante la ragione, è il motivo del sentimento di piacere; e quella rimane una determinazione pura pratica, non sensibile, della facoltà di desiderare. Ora, siccome questa determinazione produce interiormente proprio lo stesso effetto di un impulso all’attività, come un sentimento della soddisfazione che si attende dall’a zione desiderata, così consideriamo facilmente ciò che noi stessi facciamo come qualcosa che sentiamo solo passivamente, e prendiamo il movente morale per l’impulso sensibile, come suole avvenire nella così detta illusione dei sensi (qui, del senso interno). È qualcosa di assai sublime nella natura umana esser determinati immediatamente ad azioni mercé una legge razionale pura, ed anche l’illusione di ritenere il soggettivo di questa determinabilità intellettuale della volontà come qualcosa di sensibile ed effetto di un particolare sentimento sensibile (poiché un sentimento intellettuale sarebbe una contraddizione). È anche [211] di grande importanza richiamar l’attenzione su questa proprietà della nostra personalità, e coltivare il più che sia possibile l’effetto della ragione su questo sentimento. Ma bisogna pur guardarsi dal degradare e dallo svisare, come per un falso rilievo, il movente proprio e genuino, la legge stessa, con l’esaltare in modo spurio quale movente questo motivo determinante morale, introducendovi come princìpi sentimenti di piacere particolare che in verità sono soltanto

conseguenze. Il rispetto, e non il piacere ossia il godimento della felicità, è dunque qualcosa per cui non è possibile nessun sentimento a n t e r i o r e , posto a base della ragione (perché questo sarebbe sempre sensibile e patologico); e la coscienza del costringimento immediato della volontà mediante la legge è appena un analogo del sentimento del piacere, poiché essa in relazione alla facoltà di desiderare produce esattamente lo stesso effetto, ma da altre origini. Solo mediante questo modo di vedere si può ottenere quello che si cerca, e cioè che le azioni avvengano, non semplicemente conformi al dovere (in conseguenza di sentimenti piacevoli), ma per il dovere; il che dev’esser il vero scopo di ogni educazione morale. Ma non v’è una parola, capace di designare, non un godimento come quello della felicità, ma una compiacenza della propria esistenza, un analogo della felicità, che deve necessariamente [212] accompagnare la coscienza della virtù? Sì! questa parola è c o n t e n t e z z a di sé, che nel suo significato particolare indica sempre soltanto una compiacenza negativa della propria esistenza, in cui si è consci di non aver bisogno di niente. La libertà, e la coscienza di essa come di una facoltà di seguire con intenzione predominante la legge morale, è i n d i p e n d e n z a d a l l e i n c l i n a z i o n i , almeno come cause determinanti (se non come cause affettive) del nostro desiderio; e, in quanto io sono conscio di questa indipendenza nell’osservanza delle mie massime morali, essa è l’unica sorgente di una contentezza immutabile necessariamente legata con essa, che non si fonda su nessun sentimento particolare; e questa contentezza si può chiamare intellettuale. La contentezza sensibile (che impropriamente vien chiamata così), la quale si fonda sulla soddisfazione delle inclinazioni, per quanto raffinate queste si immaginino, non può mai esser adeguata a ciò che ci si rappresenta. Poiché le inclinazioni cambiano, crescono col favore che loro si concede, e lasciano sempre un vuoto ancor maggiore di quello che si era pensato di riempire. Perciò esse sono sempre di peso per un essere razionale; e, benché questi non se le possa levare, tuttavia lo obbligano a desiderare di esserne libero. Anche un’inclinazione a ciò che è conforme al dovere (per es., alla beneficienza) può bensì [213] facilitare assai l’efficacia delle massime m o r a l i , ma non ne può produrre nessuna. Poiché, in queste, tutto deve esser fondato sulla rappresentazione della legge come motivo determinante, se l’azione non deve contenere semplicemente la l e g a l i t à , ma anche la m o r a l i t à . L’inclinazione è cieca e servile, sia essa benigna o no, e la ragione, quando si

tratta della moralità, non deve semplicemente farle da tutrice, ma, senza alcun riguardo, deve solo curare, come ragion pura pratica, il proprio interesse. Anche quel sentimento della compassione e della simpatia tenera, se precede la riflessione su che cosa sia il dovere e diventa motivo determinante, è gravoso alle stesse persone che pensano bene, confonde le massime su cui hanno riflettuto, e produce il desiderio di esserne liberi e di essere soggetti soltanto alla ragione legislatrice. Di qui si può capire come la coscienza di questo potere di una ragion pura pratica possa produrre mediante il fatto (la virtù) una coscienza della superiorità sulle proprie inclinazioni, e quindi dell’indipendenza da esse, e perciò anche della scontentezza che le accompagna sempre, e quindi una compiacenza negativa del proprio stato, e cioè una c o n t e n t e z z a che nella sua origine è contentezza della propria persona. Anche la libertà diviene in tal modo (cioè indirettamente) capace di un [214] godimento, che non si può chiamare felicità perché non dipende dall’intervento positivo di un sentimento, e neanche, a parlare esattamente, si può chiamare b e a t i t u d i n e , perché non contiene l’indipendenza completa dalle inclinazioni e dai bisogni; ma che però è simile a quest’ultima, in quanto cioè la determinazione della propria volontà può almeno conservarsi libera dal loro influsso, e quindi, almeno quanto alla sua origine, è analogo alla proprietà di bastare a se stesso, che si può attribuire solo all’essere supremo. Da questa soluzione dell’antinomia della ragion pura pratica segue: che nei princìpi pratici si può concepire, almeno come possibile, un legame naturale e necessario fra la coscienza della moralità e l’aspettazione di una felicità ad essa proporzionata, come conseguenza di essa (ma certamente non ancora perciò questo legame si può conoscere e percepire); che, al contrario, i princìpi della ricerca della felicità non possono produrre la moralità; che, dunque, la moralità costituisce il bene s u p r e m o (come la prima condizione del sommo bene), mentre la felicità costituisce bensì il secondo elemento di esso, però in modo da essere soltanto la conseguenza moralmente condizionata, ma necessaria, della prima. In questa subordinazione soltanto il s o m m o b e n e è l’intero oggetto della ragion pura pratica, la quale se lo deve necessariamente rappresentare come possibile, perché è un suo precetto di contribuire, per quanto è possibile, [215] alla produzione di questo bene. Ma siccome la possibilità di un tale legame del condizionato con la sua condizione appartiene interamente alla relazione soprasensibile delle cose, e

non può punto essere data secondo leggi del mondo sensibile, benché le conseguenze pratiche di quest’idea, cioè le azioni che mirano ad attuare il sommo bene, appartengano al mondo sensibile; così noi cercheremo di esporre i princìpi di quella possibilità, in primo luogo relativamente a ciò che è immediatamente in nostro potere, e poi in secondo luogo relativamente a ciò che la ragione ci presenta per supplire alla nostra impotenza di fronte alla possibilità del sommo bene (necessaria secondo princìpi pratici) e che non è in nostro potere.

III. Del primato della ragion pura pratica nella sua unione con la speculativa Per primato fra due o più cose legate mediante la ragione, intendo la superiorità che l’una ha di essere il primo motivo determinante del legame con tutte le altre. In un senso più stretto e pratico significa la superiorità dell’interesse dell’una, in quanto ad essa (che non può esser posposta a nessun’altra) è subordinato [216] l’interesse dell’altra. A ogni facoltà dello spirito si può attribuire un i n t e r e s s e , cioè un principio che contiene la condizione alla quale soltanto vien promosso l’esercizio di questa facoltà. La ragione, come facoltà dei princìpi, determina l’interesse di tutte le facoltà dello spirito, ma il proprio interesse se lo determina essa stessa. L’interesse del suo uso speculativo consiste nella c o n o s c e n z a dell’oggetto sino ai princìpi a p r i o r i più alti; quello dell’uso pratico, nella determinazione della v o l o n t à relativamente al fine ultimo e completo. Ciò che si richiede per la possibilità di un uso della ragione in genere, cioè che i princìpi e le affermazioni di essa non devono contraddirsi, non costituisce nessuna parte del suo interesse, ma è la condizione per avere una ragione in generale; solo l’estensione, e non già il semplice accordo con se stessa, viene ascritta al suo interesse. Se la ragion pratica non potesse ammettere e pensare come dato nient’altro che ciò che la ragione s p e c u l a t i v a per sé le potesse presentare per propria cognizione, la ragione speculativa terrebbe il primato. Ma posto che essa avesse per sé princìpi originari a p r i o r i , con cui fossero inseparabilmente legate certe posizioni teoretiche, le quali però si sottraessero a tutta la cognizione possibile della ragione speculativa (benché non

dovessero contraddire ad essa), allora la questione sarebbe di stabilire [217] quale interesse sia il più alto (non quale dovrebbe cedere, perché l’uno non si oppone necessariamente all’altro); di stabilire cioè se la ragione speculativa, la quale non sa niente di tutto ciò che la ragion pratica le propone di ammettere, debba accettare queste proposizioni e, quantunque per essa siano trascendenti, cercare di conciliarle coi suoi concetti, come una proprietà estranea che le viene affidata, o se essa sia giustificata a seguire ostinatamente il suo interesse particolare, e, secondo la canonica di Epicuro, a rigettare come vuota sofisticheria tutto ciò che non può confermare la sua realtà oggettiva mediante esempi evidenti che devono essere stabiliti nell’esperienza, per quanto ciò sia legato con l’interesse dell’uso (puro) pratico, e in sé non sia neanche contraddittorio con l’uso teoretico, semplicemente perché reca veramente pregiudizio all’interesse della ragione speculativa, in quanto sopprime i limiti che questa si è posti, e l’abbandona a tutte le assurdità e a tutte le illusioni dell’immaginazione. Infatti, se venisse presa per fondamento la ragion pratica come patologicamente condizionata, cioè come limitantesi a reggere l’interesse delle inclinazioni sotto il principio sensibile della felicità, in tal caso questa pretesa verso la ragione speculativa non si potrebbe punto menar per buona. Il paradiso di Maometto, o il dissolversi dei t e o s o f i e dei m i s t i c i nel loro unirsi con la divinità secondo il gusto di ciascuno, imporrebbero [218] alla ragione le loro mostruosità, e varrebbe tanto non aver nessuna ragione, quanto abbandonarla in tal modo a tutti i sogni. Ma se la ragion pura può essere pratica per sé, e tale è realmente, come la coscienza della legge morale dimostra, essa è sempre soltanto una sola medesima ragione che, sia sotto il rispetto teoretico sia sotto quello pratico, giudica secondo princìpi a p r i o r i ; e allora è chiaro che, se anche la sua facoltà sotto il primo rispetto non giunge a stabilire affermativamente certe proposizioni, che tuttavia non le sono contrarie, essa deve, appena queste proposizioni appartengono i n s e p a r a b i l m e n t e a l l ’ i n t e r e s s e p r a t i c o della ragion pura, ammetterle bensì come qualcosa di estraneo, che non è cresciuto nel suo terreno, ma che però è sufficientemente attestato; e deve cercare di confrontarle e di connetterle con tutto ciò che ha in suo potere come ragione speculativa, pur convenendo che non sono sue cognizioni, ma estensioni del suo uso sotto un altro rispetto, cioè sotto quello pratico, il che non è punto contrario al suo interesse, che consiste nella limitazione della temerità

speculativa. Dunque, nell’unione della ragion pura speculativa con la ragion pura pratica in una conoscenza, l’ultima tiene il p r i m a t o , supposto cioè che tale unione non sia c o n t i n g e n t e [219] e arbitraria, ma fondata a p r i o r i sulla ragione stessa e quindi n e c e s s a r i a . Poiché, senza questa subordinazione, avverrebbe un contrasto della ragione con se stessa, perché, se fossero semplicemente associate l’una all’altra (coordinate), la prima per sé chiuderebbe strettamente i suoi limiti e non ammetterebbe nel suo dominio niente dell’altra; e questa invece estenderebbe i suoi limiti su ogni cosa, e, dove il suo bisogno lo richiede, cercherebbe di comprendere nei suoi limiti la prima. Ma non si può pretendere dalla ragion pratica che essa sia subordinata alla ragione speculativa, e così inverta l’ordine; perché ogni interesse, infine, è pratico, e anche quello della ragione speculativa è soltanto condizionato e completo unicamente nell’uso pratico.

IV. L’immortalità dell’anima come un postulato della ragion pura pratica L’attuazione del sommo bene nel mondo è l’oggetto necessario di una volontà determinabile mediante la legge morale. Ma in questa volontà la c o n f o r m i t à c o m p l e t a delle intenzioni con la legge morale è la condizione suprema del sommo bene. Dunque questa condizione dev’esser tanto possibile come il [220] suo oggetto, perché è contenuta nello stesso precetto di promuover questo. Ma la conformità completa della volontà con la legge morale è la s a n t i t à , una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del mondo sensibile, in nessun momento della sua esistenza. Poiché essa, mentre nondimeno viene richiesta come praticamente necessaria, può esser trovata soltanto in un p r o g r e s s o che va all’ i n f i n i t o verso quella conformità completa, e, secondo i princìpi della ragion pura pratica, è necessario ammettere un tale progresso pratico come l’oggetto reale della nostra volontà. Ma questo progresso infinito è possibile solo supponendo un’ e s i s t e n z a che continui all’ i n f i n i t o , e una personalità dello stesso essere razionale (la quale si chiama l’immortalità dell’anima). Dunque il sommo bene, praticamente, è soltanto possibile con la supposizione

dell’immortalità dell’anima; quindi, questa, come legata inseparabilmente con la legge morale, è un POSTULATO della ragion pura pratica (col che io intendo una proposizione t e o r e t i c a , ma come tale non dimostrabile, in quanto inerisce inseparabilmente ad una legge p r a t i c a che ha un valore incondizionato a p r i o r i ) . La proposizione della destinazione morale della nostra natura, [221] di poter giungere alla conformità completa con la legge morale soltanto in un progresso che va all’infinito, è della più grande utilità, non semplicemente per supplire presentemente all’impotenza della ragione speculativa, ma anche rispetto alla religione. In mancanza di questa proposizione, o la legge morale viene completamente degradata dalla sua s a n t i t à , poiché essa è rappresentata come t o l l e r a n t e (indulgente) e così conforme alla nostra comodità; oppure si estende la sua vocazione, e nello stesso tempo l’aspettazione, a una determinazione irraggiungibile, cioè alla speranza di un acquisto completo della santità della volontà, e si erra in sogni t e o s o f i c i stravaganti, che contraddicono affatto alla conoscenza di sé. In ambedue i casi viene soltanto impedito lo s f o r z o incessante dell’osservanza esatta e continua di una legge razionale stretta e inflessibile, e tuttavia non ideale, ma reale. A un essere razionale, ma finito, è possibile soltanto il progresso all’infinito dai gradi inferiori ai superiori della perfezione morale. L’ i n f i n i t o , per cui la condizione di tempo è niente, vede in questa serie, per noi senza fine, l’intera conformità alla legge morale, e la santità, che il suo comandamento esige inflessibilmente per essere conforme alla sua giustizia, nella parte che assegna a ciascuno nel sommo bene, è da trovare completamente in un’unica intuizione [222] intellettuale dell’esistenza degli esseri razionali. Ciò che, soltanto, può toccare alla creatura relativamente alla speranza di questa partecipazione, sarà la sicura coscienza della propria intenzione, onde sperare dal progresso avvenuto finora dal peggiore al moralmente migliore, e dal proposito immutabile che essa ha perciò conosciuto, un’ulteriore continuazione ininterrotta di tale progresso finché la sua esistenza può durare, e anche oltre [223] questa vitaI; e così una piena adeguazione alla volontà di Dio (senza indulgenze o remissioni, che non si accordino con la giustizia), e non mai, a dir vero, qui, o in un momento avvenire imma-ginabile dell’esistenza, ma soltanto nell’infinità (comprensibile solo a Dio) della propria durata.

V. L’esistenza di Dio, come postulato della ragion pura pratica La legge morale ha condotto nell’analisi precedente al problema pratico che, senz’alcun intervento di moventi morali, viene prescritto semplicemente mediante la ragion pura, cioè alla completezza necessaria della parte prima e principale del sommo bene, la MORALITÀ; e, poiché questo problema non può essere risolto completamente se non in un’eternità, al postulato dell’IMMORTALITÀ. Questa stessa legge deve anche condurre alla possibilità del secondo elemento del sommo bene, cioè alla [224] FELICITÀ proporzionata a quella moralità, con tanto disinteresse come prima, per semplice e imparziale ragione, vale a dire alla supposizione dell’esistenza di una causa adeguata a questo effetto; cioè deve postulare l ’ e s i s t e n z a d i D i o , come appartenente necessariamente alla possibilità del sommo bene (il quale oggetto della nostra volontà è legato necessariamente con la legislazione morale della ragion pura). Vogliamo esporre in modo convincente questa connessione. La f e l i c i t à è la condizione di un essere razionale nel mondo, a cui, in tutto il corso della vita, t u t t o a v v i e n e s e c o n d o i l s u o d e s i d e r i o e l a s u a v o l o n t à , e si fonda quindi sull’accordo della natura col fine totale di esso, e così pure col motivo determinante essenziale della sua volontà. Ora la legge morale, come legge della libertà, comanda mediante motivi determinanti, che devono essere affatto indipendenti dalla natura e dall’accordo di essi con la nostra facoltà di desiderare (come moventi); ma l’essere razionale agente nel mondo non è tuttavia nello stesso tempo causa del mondo e della natura stessa. Dunque, nella legge morale non vi è il minimo principio di una connessione necessaria fra la moralità e la felicità, ad essa proporzionata, di un essere che appartenga al mondo come parte, e perciò dipenda da esso, il quale essere appunto perciò non può essere causa di questa natura mediante la sua volontà, e, per quel che riguarda la sua felicità, non può con le proprie forze produrre continuamente l’accordo di questa natura coi suoi princìpi pratici. [225] Tuttavia, nel problema pratico della ragion pura, cioè nel lavoro necessario pel sommo bene, una tale connessione vien postulata come necessaria: noi d o b b i a m o cercare di promuovere il sommo bene (che quindi deve tuttavia essere possibile). Dunque viene anche

postulata l’esistenza di una causa di tutta la natura, differente dalla natura, la quale contenga il principio di questa connessione, cioè dell’accordo esatto della felicità con la moralità. Ma questa causa suprema deve contenere il principio dell’accordo della natura, non solamente con una legge della volontà degli esseri razionali, ma con la rappresentazione di questa l e g g e in quanto questi esseri la pongono a m o t i v o d e t e r m i n a n t e s u p r e m o d e l l a v o l o n t à , e quindi non semplicemente coi costumi quanto alla forma, ma anche quanto alla loro moralità, come motivo determinante di essi, cioè con la loro intenzione morale. Dunque, il sommo bene nel mondo è possibile soltanto in quanto viene ammessa una causa suprema della natura2 che ha una causalità conforme all’intenzione morale. Ora un essere, il quale è capace di azioni secondo la rappresentazione di leggi, è un’ i n t e l l i g e n z a (essere razionale), e la causalità di un tale essere secondo questa rappresentazione delle leggi è la sua v o l o n t à . Dunque, la causa suprema della natura, in quanto dev’esser presupposta pel sommo bene, [226] è un essere che mediante l’ i n t e l l e t t o e la v o l o n t à è la causa (perciò l’autore) della natura, cioè Dio. Per conseguenza, il postulato della possibilità del s o m m o b e n e d e r i v a t o del mondo ottimo, e nello stesso tempo il postulato della realtà di un s o m m o b e n e o r i g i n a r i o , cioè dell’esistenza di Dio. Ma era dovere per noi promuovere il sommo bene; e quindi è non solo un diritto, ma anche una necessità legata come bisogno col dovere, supporre la possibilità di questo sommo bene; il quale, avendo luogo soltanto con la condizione dell’esistenza di Dio, lega inseparabilmente la supposizione di quest’esistenza col dovere; ossia è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio. Qui si deve ben notare, che questa necessità morale è s o g g e t t i v a , cioè un bisogno, e non o g g e t t i v a , cioè anche un dovere; poiché non vi può essere punto un dovere di ammettere l’esistenza di una cosa (perché ciò riguarda semplicemente l’uso teoretico della ragione). Nemmeno s’intende con questo, che sia necessario ammettere l’esistenza d i D i o c o m e p r i n c i p i o d i o g n i o b b l i g o i n g e n e r e (poiché questo principio, come si è dimostrato abbastanza, si fonda soltanto sull’autonomia della ragione stessa). Al dovere qui appartiene soltanto di lavorare alla produzione e al promuovimento del sommo bene nel mondo, di cui quindi la possibilità può esser [227] postulata, ma che la nostra ragione non trova concepibile se non col supporre un’intelligenza suprema. Quindi l’ammetter l’esistenza di

questa intelligenza è così legata con la coscienza del nostro dovere, benché questo fatto stesso dell’ammetterla appartenga alla ragion teoretica, rispetto alla quale soltanto essa, considerata come principio di spiegazione, può esser chiamata i p o t e s i ; ma in relazione all’intelligibilità di un oggetto (il sommo bene) dato a noi tuttavia mediante la legge morale, e quindi di un bisogno nel rispetto pratico, può chiamarsi f e d e , e invero f e d e r a z i o n a l e pura, perché semplicemente la ragion pura (tanto secondo il suo uso teoretico, come secondo quello pratico) è la sorgente da cui deriva. Con questa d e d u z i o n e si può ormai comprendere perché le scuole greche non siano mai potute giungere alla soluzione del loro problema della possibilità pratica del sommo bene: della regola dell’uso che la volontà dell’uomo fa della sua libertà, esse infatti facevano sempre il principio unico, e sufficiente per sé solo, di questa possibilità, senza che ci fosse bisogno, a loro parere, dell’esistenza di Dio. Esse invero facevano bene a stabilire il principio della morale indipendentemente da questo postulato per se stesso, soltanto per la relazione della ragione alla volontà, e quindi a farne la condizione pratica s u p r e m a del sommo bene; ma non perciò esso era la condizione t o t a l e della possibilità [228] di questo bene. Ora gli epicurei avevano bensì ammesso un principio affatto falso dei costumi, cioè quello della felicità come principio supremo, e sostituito a una legge una massima dell’elezione arbitraria, secondo l’inclinazione di ciascuno; ma essi procedevano in modo abbastanza c o e r e n t e nell’abbassare il loro sommo bene ugualmente, cioè proporzionatamente alla bassezza del loro principio, e non aspettavano felicità maggiore che quella che si può ottenere mediante la prudenza umana (a cui appartiene anche la temperanza e la moderazione delle inclinazioni): la quale felicità, come si sa, deve riuscire abbastanza meschina e assai differente secondo le circostanze; senza contare le eccezioni che le loro massime dovevano incessantemente ammettere, e che le rendono incapaci d’esser leggi. Gli stoici, invece, avevano scelto affatto giustamente il loro principio pratico supremo, cioè la virtù, come condizione del sommo bene; ma, poiché rappresentavano il grado di virtù che è necessario per la legge pura di essa come pienamente raggiungibile in questa vita, non solo avevano elevato il potere morale dell’ u o m o , che chiamavano s a g g i o , sopra tutti i limiti della sua natura, e ammesso qualcosa che contraddice a ogni conoscenza umana, ma anche, soprattutto, non ammettevano affatto il secondo e l e m e n t o appartenente al sommo bene, cioè la felicità, come un

oggetto particolare della facoltà di desiderare dell’uomo, e avevano [229] fatto del loro s a g g i o come una divinità, con la coscienza dell’eccellenza della sua persona, affatto indipendente dalla natura (relativamente alla sua contentezza), poiché essi lo esponevano bensì ai mali della vita, ma non ve lo assoggettavano (nello stesso tempo lo rappresentavano anche come libero dal male. Così, in realtà, tralasciavano il secondo elemento del sommo bene, la propria felicità, poiché essi lo riponevano semplicemente nell’azione e nella contentezza del proprio valore personale, e quindi lo includevano nella coscienza del modo di pensare morale; nel che essi però avrebbero potuto esser confutati abbastanza dalla voce della loro propria natura. La dottrina del cristianesimoII quando anche non venisse [230] ancora considerata come dottrina religiosa, dà in questo punto un concetto del sommo bene (del regno di Dio), il quale solo soddisfa [231] alla più stretta esigenza della ragion pratica. La legge morale è santa (inviolabile) ed esige la santità dei costumi, benché ogni perfezione morale alla quale l’uomo può giungere sia sempre soltanto virtù, e cioè un’intenzione conforme alla legge per r i s p e t t o alla legge; quindi la coscienza di una continua tendenza alla trasgressione, o almeno all’impurità, cioè mescolare all’osservanza della legge molti motivi determinanti falsi (non morali), e quindi una stima di sé legata con l’umiltà; e perciò, relativamente alla santità che la legge cristiana esige, essa non lascia alla creatura che il progresso all’infinito, ma appunto perciò le dà anche il diritto a sperare una durata all’infinito. Il v a l o r e di un’intenzione p i e n a m e n t e conforme alla legge morale è infinito; perché ogni felicità possibile, nel giudizio di un dispensatore saggio e onnipotente di essa, non ha altra limitazione che la mancanza di conformità di esseri razionali al loro dovere. Ma la legge morale per sé n o n p r o m e t t e nessuna felicità; questa infatti, secondo i concetti di un ordine naturale in genere, non è legata necessariamente con l’osservanza della legge morale. Ora, la dottrina morale cristiana supplisce a questa mancanza (del secondo elemento indispensabile del sommo bene) mediante la rappresentazione del mondo in cui gli esseri [232] razionali si consacrano con tutta l’anima alla legge morale come di un r e g n o d i D i o , in cui la natura e i costumi, mediante un autore santo che rende possibile il sommo bene derivato, pervengono a un’armonia estranea a ciascuno degli elementi preso per se stesso. La s a n t i t à dei costumi vien già mostrata in questa vita come modello; ma il benessere proporzionato ad essa, la b e a t i t u d i n e è rappresentata come raggiungibile

solo in un’eternità; q u e l l a infatti deve sempre essere il prototipo del modo di procedere in ogni stato, e il progredire verso di essa è già possibile e necessario in questa vita, q u e s t a invece in questo mondo, col nome di felicità, non può affatto esser raggiunta (per quanto dipende dal nostro potere), e perciò può essere oggetto solo di speranza. Ciò nondimeno il principio cristiano della m o r a l e stessa non è teologico (quindi eteronomia), ma autonomia della ragion pura pratica per sé stessa, perché essa, della cognizione di Dio e della sua volontà, non fa il principio di queste leggi, ma soltanto il principio del pervenire al sommo bene, con la condizione dell’osservanza di queste leggi; ed anche il m o v e n t e proprio dell’osservanza delle leggi, non lo pone nelle conseguenze desiderate di essa, ma soltanto nella rappresentazione del dovere, come solo nel fedele adempimento di questo consiste il merito onde ottenere la felicità. [233] In questo modo la legge morale, mediante il concetto del sommo bene come oggetto e scopo finale della ragion pura pratica, conduce alla r e l i g i o n e , cioè alla c o n o s c e n z a d i t u t t i i d o v e r i c o m e comandamenti divini, non come sanzioni, cioè decreti arbitrarî e per se stessi accidentali di una volontà e s t r a n e a , ma come leggi essenziali di ogni volontà libera per sé stessa, che però devono essere considerate come comandamenti dell’essere supremo, perché soltanto da una volontà moralmente perfetta (santa e buona), e nello stesso tempo anche onnipotente, possiamo sperare il sommo bene, che la legge morale ci fa un dovere di porre come oggetto dei nostri sforzi, e quindi possiamo sperare di giungervi mediante l’accordo con questa volontà. Anche qui perciò tutto rimane disinteressato e fondato semplicemente sul dovere; senza che il timore o la speranza possano esser posti a base come moventi, che, se diventassero princìpi, distruggerebbero tutto il valore morale delle azioni. La legge morale mi comanda di fare del sommo bene possibile in un mondo l’oggetto ultimo di tutta la mia condotta. Ma io non posso sperare di attuarlo, se non mediante l’accordo della mia volontà con quella di un autore santo e buono del mondo; e benché la mia felicità sia compresa nel concetto del sommo bene come di un tutto in cui la maggior felicità vien rappresentata legata [234] nella proporzione più esatta con la maggiore quantità di perfezione morale (possibile nelle creature), pure non è essa, ma la legge morale (la quale piuttosto limita poi con condizioni rigorose il mio desiderio illimitato) il motivo determinante della volontà, che viene indicato pel

promuovimento del sommo bene. Perciò la morale non è propriamente la dottrina che ci insegna come dobbiamo f a r c i felici, ma come dobbiamo diventar d e g n i della felicità. Solo quando la religione sopraggiunge, viene anche la speranza di partecipare un giorno alla felicità nella misura che avremo procurato di non esserne indegni. Uno è d e g n o del possesso di una cosa, o di uno stato, quando il fatto che egli abbia questo possesso va d’accordo col sommo bene. Ora si può facilmente vedere che ogni merito dipende dalla condotta morale, perché nel concetto del sommo bene essa costituisce la condizione del rimanente (ciò che appartiene allo stato), cioè della parte di felicità. Onde segue che non si deve mai trattare la m o r a l e in sé come d o t t r i n a d e l l a f e l i c i t à , cioè come una dottrina che ci insegni a diventar partecipi della felicità; poiché essa si occupa soltanto [235] della condizione razionale (conditio sine qua non) della felicità, non di un mezzo per acquistarla. Ma se essa (che impone semplicemente doveri, non porge regole ai desideri disinteressati) viene esposta completamente; dopo che è stato eccitato il desiderio morale che si fonda su una legge di promuovere il sommo bene (di procurarci il regno di Dio), il quale desiderio prima non poteva venire a nessun’anima disinteressata; dopo che, in aiuto a questo desiderio, è stato fatto il [primo] passo verso la religione; allora soltanto questa dottrina dei costumi può essere chiamata dottrina della felicità, perché la s p e r a n z a comincia soltanto con la religione. Da questo si può anche vedere che, se si ricerca il f i n e u l t i m o d i D i o nella creazione del mondo, non si deve nominare la f e l i c i t à degli esseri razionali in questo mondo, ma il s o m m o b e n e , che a quel desiderio di questi esseri aggiunge ancora una condizione, ossia quella di esser degni della felicità, cioè la m o r a l i t à degli stessi esseri razionali, la quale soltanto contiene la norma secondo cui essi possono sperare di diventar partecipi della felicità per mano di un autore s a g g i o . Poiché, siccome la s a g g e z z a , considerata teoreticamente, significa la c o n o s c e n z a d e l s o m m o b e n e , e, praticamente la c o n f o r m i t à d e l l a v o l o n t à a l s o m m o b e n e , così non si può attribuire a una saggezza suprema e indipendente un fine [236] che sarebbe fondato semplicemente sulla b o n t à . Poiché non si può concepire questo effetto della bontà (relativamente alla felicità degli esseri razionali) se non con le condizioni restrittive dell’accordo con la

s a n t i t à III della propria volontà, come conforme al sommo bene originario. Perciò coloro che ripropongono il fine della creazione della gloria di Dio (supposto che non si concepisca questa gloria in senso antropomorfico, come desiderio di essere stimato) hanno ben trovato l’espressione migliore. Poiché niente onora Dio quanto ciò che si deve più stimare nel mondo, ossia il rispetto al suo comandamento, [237] l’osservanza del santo dovere che la sua legge ci impone, se si aggiunge la sua mirabile disposizione di coronare un ordine così bello con una felicità proporzionata. Se quest’ultimo punto lo rende amabile (per usare il linguaggio umano), mediante il primo egli è oggetto di adorazione. Anche gli uomini facendo del bene possono bensì acquistarsi l’amore, ma solo con ciò non possono mai acquistarsi il rispetto; sicché la più grande beneficenza fa loro solo onore solo perché fatta secondo il merito. Che nell’ordine dei fini l’uomo (e con esso ogni essere razionale) sia un f i n e i n s e s t e s s o , cioè non possa mai essere adoperato semplicemente come mezzo da alcuno (neanche da Dio), senza che nello stesso tempo sia anche un fine; che dunque l’ u m a n i t à debba esser s a n t a per noi stessi nella nostra persona; questo ormai va da sé, perché l’uomo è il s o g g e t t o della l e g g e m o r a l e , e quindi di ciò che è santo in sé, per cui e in accordo con cui, soltanto, qualcosa può anche esser chiamata santa in genere. Poiché questa legge morale si fonda sull’autonomia della propria volontà, come di una volontà libera che, secondo le sue leggi universali, deve necessariamente potersi a c c o r d a r e con quello a cui si deve s o t t o m e t t e r e .

[238] VI. Sui postulati della ragion pura pratica in generale Essi partono dal principio della moralità, il quale non è un postulato, ma una legge per mezzo di cui la ragione determina immediatamente la volontà. La volontà, per ciò stesso che vien determinata così, come volontà pura richiede queste condizioni necessarie all’osservanza dei suoi precetti. Questi postulati non sono dommi teoretici, ma s u p p o s i z i o n i da un punto di vista necessariamente pratico, e quindi non estendono la conoscenza speculativa, ma danno alle idee della ragione speculativa in g e n e r e (mediante la loro relazione con ciò che è pratico) realtà oggettiva, e le giustificano come

concetti, la cui possibilità altrimenti essa non potrebbe neanche soltanto presumere di affermare. Questi postulati sono quelli dell’ i m m o r t a l i t à , della l i b e r t à positivamente considerata (come causalità di un essere in quanto questo appartiene al mondo intelligibile), e dell’ e s i s t e n z a d i D i o . Il p r i m o deriva dalla condizione praticamente necessaria di una durata corrispondente all’adempimento completo della legge morale; il s e c o n d o dalla supposizione necessaria dell’indipendenza dal mondo sensibile e del potere della determinazione della propria volontà, secondo la [239] legge di un mondo intelligibile, cioè della libertà; il t e r z o dalla necessità della condizione di un mondo intelligibile per l’esistenza del sommo bene, mediante la supposizione del sommo bene indipendente, cioè dell’esistenza di Dio. L’aspirazione necessaria al sommo bene mediante il rispetto alla legge morale, e la supposizione che ne deriva della realtà oggettiva di questo bene, conduce dunque, mercé i postulati della ragion pratica, a concetti che la ragione speculativa poteva bensì esporre come problemi, ma non poteva risolvere. Dunque 1) essa conduce a un concetto (cioè a quello dell’immortalità) per la cui soluzione la ragione speculativa non poteva far altro che p a r a l o g i s m i , perché ad essa mancava la caratteristica della persistenza per completare, per la rappresentazione reale di una sostanza, il concetto psicologico di un soggetto ultimo che viene attribuito necessariamente all’anima nella coscienza di sé; il che la ragion pratica fa mediante il postulato di una durata necessaria alla conformità con la legge morale nel sommo bene, come fine totale della ragion pratica; 2) essa conduce a un concetto, di cui la ragione speculativa non contiene se non un’ a n t i n o m i a , l a cui soluzione poteva fondare soltanto su un concetto che poteva bensì pensare problematicamente, ma non dimostrare o determinare quanto alla sua realtà oggettiva, cioè [240] l’idea c o s m o l o g i c a di un mondo intelligibile e la coscienza della nostra esistenza in esso, mediante il postulato della libertà (la realtà della quale essa dimostra mediante la legge morale, e con essa nello stesso tempo dimostra la legge di un mondo intelligibile, che la ragione speculativa poteva soltanto indicare, senza poterne determinare il concetto); 3) essa dà a ciò che la ragione speculativa poteva bensì pensare, ma doveva lasciar indeterminato come semplice i d e a l e trascendentale, al concetto t e o l o g i c o dell’essere primordiale, un

senso (nel rispetto pratico, cioè come una condizione della possibilità dell’oggetto di una volontà determinata mediante quella legge), come principio supremo del sommo bene in un mondo intelligibile, mediante una legislazione morale onnipotente in quel mondo. Ma in tal modo, mediante la ragion pura pratica, viene estesa realmente la nostra conoscenza, e ciò che era t r a s c e n d e n t e per la ragione speculativa, è i m m a n e n t e nella pratica? Senza dubbio, ma s o l t a n t o n e l r i s p e t t o p r a t i c o . Poiché, invero, noi non conosciamo mediante questi concetti né la natura della nostra anima, né il mondo intelligibile, né l’essere supremo, rispetto a ciò che queste cose sono in se stesse; ma abbiamo soltanto riunito i concetti di esse nel concetto p r a t i c o d e l s o m m o b e n e come oggetto della nostra volontà ed affatto a p r i o r i , mediante la ragion pura, benché solo mediante la legge morale, ed anche semplicemente rispetto a questa, in [241] vista dell’oggetto che essa comanda. Ma anche, soltanto, come sia possibile la libertà, e come si debba rappresentare teoricamente e positivamente questo modo di causalità: ciò non si vede mediante questi concetti; e vien soltanto postulato, mediante la legge morale e allo scopo di questa, che vi sia una tale causalità. Così è anche delle altre idee, che quanto alla loro possibilità nessun intelletto umano stabilirà mai, ma che con nessun sofisma si farà mai credere, neanche all’uomo più volgare, che non siano veri concetti.

VII. Come sia concepibile un’estensione della ragion pura, nel rispetto pratico, senza che perciò nello stesso tempo sia estesa la sua conoscenza come ragione speculativa Per non divenir troppo astratti, vogliamo rispondere a questa questione, applicandola immediatamente al caso presente. Per estendere p r a t i c a m e n t e una conoscenza pura dev’esser dato a p r i o r i un f i n e , cioè uno scopo, come oggetto (della volontà), che, indipendentemente da tutti i princìpi teoretici3, mediante un imperativo (categorico), che determini immediatamente la volontà, vien rappresentato come praticamente necessario; il che in questo caso è il s o m m o b e n e . Ma ciò non è possibile

senza presupporre tre concetti teoretici (per i quali, [242] giacché sono soltanto concetti razionali puri, non si può trovare nessuna intuizione corrispondente, e quindi, per la via teoretica, nessuna realtà oggettiva), e cioè: la libertà, l’immortalità e Dio. Dunque, mediante la legge pratica, la quale comanda l’esistenza del sommo bene possibile in un mondo, vien postulata la possibilità di quegli oggetti della ragion pura speculativa, la realtà oggettiva che questa non poteva loro assicurare. Perciò la conoscenza teoretica della ragion pura riceve senza dubbio un incremento, il quale però consiste semplicemente in ciò, che quei concetti, per essa d’altronde problematici (semplicemente pensabili), adesso sono conosciuti in modo assertorio come tali a cui realmente convengono oggetti, perché la ragion pratica abbisogna inevitabilmente dell’esistenza di essi per la possibilità del suo oggetto, il sommo bene, che praticamente è assolutamente necessario; e quella teoretica perciò è giustificata a supporli. Ma questa estensione della ragione teoretica non è un’estensione della speculazione, per farne ormai un uso positivo nel r i s p e t t o t e o r e t i c o . Poiché, siccome mediante la ragion pratica non può esser fatto nient’altro, a questo proposito, se non dimostrare che quei concetti sono reali ed hanno realmente i loro oggetti (possibili), con questo non ci può esser dato niente che spetti all’intuizione di essi (il che non si può neanche esigere); così non è possibile alcuna proposizione sintetica [243] mediante la realtà che si concede ad essi. Quindi questa scoperta non ci aiuta minimamente nel rispetto speculativo, all’estensione di questa nostra conoscenza, bensì relativamente all’uso pratico della ragion pura. Le tre idee menzionate della ragione speculativa non sono ancora in sé conoscenze; tuttavia sono p e n s i e r i (trascendenti), in cui non è contenuto niente d’impossibile. Ora, mediante una legge pratica apodittica, esse ricevono, come condizione necessaria della possibilità che questa legge comanda di p r e n d e r e p e r o g g e t t o , la realtà oggettiva: cioè mediante quella legge noi apprendiamo che e s s e h a n n o o g g e t t i , senza però poter dimostrare come il loro concetto si riferisca a un oggetto; e ciò non è ancora la conoscenza di q u e s t i o g g e t t i , poiché con ciò non si può punto giudicare di essi sinteticamente, né determinare teoreticamente la loro applicazione, e quindi non se ne può fare alcun uso teoretico con la ragione, nel che consiste propriamente ogni conoscenza speculativa di essi. Ma tuttavia la conoscenza teoretica, non c e r t a m e n t e d i q u e s t i o g g e t t i , ma della ragione in genere, fu estesa, in questo senso che, mediante i postulati pratici, furono

tuttavia d a t i o g g e t t i a quelle idee, in quanto un pensiero semplicemente problematico ricevette soltanto da ciò realtà oggettiva. Quindi con ciò non vi è alcuna estensione della conoscenza di d a t i o g g e t t i s o p r a s e n s i b i l i , ma tuttavia un’estensione [244] della ragion teoretica e della conoscenza di essa rispetto al soprasensibile in generale, in quanto essa è obbligata ad ammettere che v i s o n o t a l i o g g e t t i , senza però poterli determinare di più, e quindi senza poter estendere questa conoscenza degli oggetti (che ora le sono dati soltanto per un principio pratico, ed anche soltanto per l’uso pratico). Il quale incremento, dunque, la ragion pura teoretica, per cui tutte quelle idee sono trascendenti e senza oggetto, lo deve soltanto alla sua facoltà pura pratica. Qui esse diventano i m m a n e n t i e c o s t i t u t i v e , perché sono princìpi della possibilità di realizzare l’ o g g e t t o n e c e s s a r i o della ragion pura pratica (il sommo bene), giacché, senza ciò, sono princìpi t r a s c e n d e n t i e semplicemente r e g o l a t i v i della ragione speculativa, i quali le impongono, non di ammettere un nuovo oggetto oltre l’esperienza, ma soltanto di avvicinare alla perfezione il suo uso nell’esperienza. Ma una volta che la ragione è in possesso di questo incremento, essa, come ragione speculativa, tratterà (propriamente solo per assicurare il suo uso pratico) quelle idee negativamente, cioè non estendendole, ma chiarendole, per impedire da una parte l’ a n t r o p o m o r f i s m o come origine della s u p e r s t i z i o n e , ossia l’estensione apparente di quei concetti mediante una pretesa esperienza, d’altra parte il f a n a t i s m o , che promette questa estensione mediante un’intuizione soprasensibile o con sentimenti [245] della stessa fatta. Questi sono tutti ostacoli all’uso pratico della ragion pura; e rimuoverli si richiede senza dubbio per la estensione della nostra conoscenza nel rispetto pratico, senza che contraddica a questo il riconoscere, nello stesso tempo, che la ragione nel rispetto speculativo non ne ha guadagnato minimamente. Per ogni uso della ragione relativamente a un oggetto si richiedono concetti puri dell’intelletto ( c a t e g o r i e ) , senza i quali non si può pensare nessun oggetto. Questi possono essere applicati soltanto all’uso teoretico della ragione, cioè a tale conoscenza, in quanto nello stesso tempo viene sottoposta ad essi un’intuizione (che è sempre sensibile), e quindi semplicemente per rappresentare mediante essi un oggetto di un’esperienza possibile. Ora, le i d e e della ragione, che non possono essere date in nessuna esperienza, sono ciò che, per conoscere, io dovrei pensare mediante le

categorie. Ma qui non si tratta neanche della conoscenza teoretica degli oggetti di queste idee, sibbene soltanto del fatto che esse hanno degli oggetti in genere. Questa realtà la procura la ragion pura pratica, e perciò la ragion teoretica non ha nient’altro da fare che p e n s a r e quegli oggetti mediante le categorie; il che avviene benissimo, come del resto abbiamo già dimostrato chiaramente, senza bisogno d’intuizione [246] (né sensibile, né soprasensibile); perché le categorie hanno la loro sede ed origine nell’intelletto puro, indipendentemente e prima di ogni intuizione, soltanto nella facoltà di pensare, e significano sempre soltanto un oggetto in genere, i n q u a l u n q u e m o d o q u e s t o c i p o s s a e s s e r d a t o . Ora alle categorie, in quanto devono esser applicate a quelle idee, non è certamente possibile dare un oggetto nell’intuizione; m a c h e u n t a l e o g g e t t o s i a r e a l m e n t e , e quindi che la categoria qui non sia vuota, come una semplice forma di pensiero, ma abbia significato, è assicurato abbastanza mediante un oggetto che la ragion pratica presenta in modo indubitabile: l a r e a l t à d e i c o n c e t t i , i quali appartengono alla possibilità del sommo bene; senza produrre tuttavia mediante questo incremento la minima estensione della conoscenza quanto ai princìpi teoretici. Se, oltre a ciò, queste idee di Dio, di un mondo intelligibile (il regno di Dio) e dell’immortalità, vengono determinate mediante predicati tratti dalla nostra natura, non si può considerare questa determinazione né come r a p p r e s e n t a z i o n e s e n s i b i l e di quelle idee razionali pure (antropomorfismo), né come conoscenza trascendente di oggetti s o p r a s e n s i b i l i ; [247] questi predicati, infatti, non sono altro che intelletto e volontà, e considerati in relazione l’uno all’altra così come devono esser concepiti nella legge morale, e dunque solo in quanto si fa di essi un uso puro pratico. Si astrae allora da tutto il resto che dipende psicologicamente da questi concetti, cioè in quanto noi osserviamo empiricamente queste nostre facoltà nel l o r o e s e r c i z i o (per es., che l’intelletto dell’uomo è discorsivo, che le sue rappresentazioni sono pensieri e non intuizioni, che queste rappresentazioni si succedono nel tempo, che la sua volontà ha sempre la sua soddisfazione dipendente dall’esistenza del suo oggetto, ecc.; il che non può accadere nell’essere supremo), e così dei concetti, mediante i quali noi ci rappresentiamo un essere puro dell’intelletto, non rimane altro se non ciò che si richiede per la possibilità di concepire una legge morale, e quindi bensì una conoscenza di Dio, ma soltanto nel rispetto

pratico. Perciò, se noi tentiamo di estendere questa conoscenza a un punto di vista teoretico, noi abbiamo sotto questo riguardo un intelletto il quale non pensa ma i n t u i s c e , una volontà che è diretta ad oggetti, dalla cui esistenza non dipende minimamente la sua soddisfazione (non voglio nemmeno menzionare i predicati trascendentali, come per es. una grandezza dell’esistenza, cioè la durata, che però non ha luogo nel tempo, come nell’unico mezzo [248] possibile a noi di rappresentarci l’esistenza come grandezza); semplici proprietà, delle quali noi non ci possiamo assolutamente fare un concetto che sia adatto alla c o n o s c e n z a dell’oggetto; e così siamo istruiti che esse non possono mai essere usate per una t e o r i a degli esseri soprasensibili, e quindi, da questo lato, non rendono mai possibile stabilire una conoscenza speculativa, ma limitano il loro uso soltanto alla pratica della legge morale. Quest’ultimo punto è così evidente, e può esser dimostrato così chiaramente mediante il fatto, che si possano invitare francamente tutti i pretesi d o t t i i n t e o l o g i a n a t u r a l e (nome stravaganteIV) a indicare anche solo una proprietà, o dell’intelletto o della volontà, che determini questo loro oggetto (oltre ai predicati semplicemente ontologici), nella quale non si possa [249] dimostrare in modo incontestabile che, se ne vien separato ogni antropomorfismo, ci rimane soltanto la semplice parola, senza potervi congiungere il minimo concetto per cui si possa sperare un’estensione della conoscenza teoretica. Ma, relativamente all’uso pratico, ci rimane ancora della proprietà di un intelletto e di una volontà il concetto di una relazione a cui la legge pratica (che appunto determina a p r i o r i questa relazione dell’intelletto alla volontà) procura la realtà oggettiva. Una volta che ciò è avvenuto, viene anche data la realtà al concetto dell’oggetto di una volontà determinata moralmente (al concetto del sommo bene), e, con esso, alle condizioni della sua possibilità, alle idee di Dio, della libertà e dell’immoralità, ma sempre soltanto in relazione alla pratica della legge morale (per nessuno scopo speculativo). Ora, dopo queste osservazioni, è facile trovare anche la risposta all’importante questione: s e i l c o n c e t t o d i D i o s i a u n c o n c e t t o a p p a r t e n e n t e a l l a f i s i c a (quindi anche alla metafisica, come quella che contiene soltanto i princìpi puri a p r i o r i della prima in senso universale), o p p u r e a l l a m o r a l e . S p i e g a r e le disposizioni naturali o le loro mutazioni col ricorrere a Dio come all’autore di tutte le cose, non è

certo un spiegazione fisica, ed è sempre un confessare che è finita per la propria filosofia; poiché si è costretti ad ammettere [250] qualcosa di cui non si ha del resto nessun concetto per sé, per potersi fare un concetto della possibilità di ciò che si ha davanti agli occhi. Ma giungere mediante la metafisica dalla conoscenza di q u e s t o mondo al concetto di Dio e alla prova della sua esistenza mediante r a g i o n a m e n t i s i c u r i , ciò è impossibile per il fatto che noi dovremmo conoscere questo mondo come il tutto più perfetto possibile; quindi, a quest’effetto, dovremmo conoscere tutti i mondi possibili (per poterli confrontare con questo), e quindi essere onniscienti, per dire che esso fu possibile solo mediante un Dio (come dobbiamo pensare questo concetto). Ma, oltre a ciò, è assolutamente impossibile conoscere l’esistenza di quest’essere per semplici concetti, perché una proposizione esistenziale, che cioè afferma l’esistenza di un essere di cui mi faccio un concetto, è una proposizione sintetica, cioè una proposizione per la quale io vado oltre quel concetto, e dico più di quel che fu pensato nel concetto, e cioè che a questo concetto n e l l ’ i n t e l l e t t o corrisponde anche un oggetto f u o r i d e l l ’ i n t e l l e t t o , che manifestamente è impossibile produrre mediante alcun ragionamento. Alla ragione, dunque, rimane soltanto un unico procedimento per giungere a questa conoscenza, e cioè quando essa, come ragione pura, determina il suo oggetto partendo dal principio supremo del suo uso puro pratico (poiché quest’uso è diretto, del resto, semplicemente a l l ’ e s i s t e n z a di qualcosa come conseguenza della ragione). [251] E allora appare, non solo nel suo còmpito inevitabile, cioè nella tendenza necessaria della volontà al sommo bene, la necessità di ammettere un tale essere primordiale in relazione alla possibilità di questo bene nel mondo; ma, quel che è più mirabile, qualcosa che mancava affatto al progresso della ragione nella via naturale, e cioè u n concetto esattamente determinato di quest’essere o r i g i n a r i o . Siccome noi conosciamo questo mondo soltanto in una piccola parte, e ancora meno lo possiamo confrontare con tutti i mondi possibili, così possiamo bensì arguire dall’ordine, dalla finalità e dalla grandezza di esso, u n a u t o r e di esso, s a g g i o , b u o n o , p o t e n t e , ecc., ma non la o n n i s c i e n z a , b o n t à i n f i n i t a , o n n i p o t e n z a , ecc. di questo autore. Si può anche benissimo ammettere che si è in diritto di supplire a questa mancanza inevitabile mediante l’ipotesi permessa e affatto razionale: che cioè, se in tante parti, quante si offrono più da vicino alla

nostra cognizione, si manifesta la saggezza, la bontà, ecc., sarà così in tutte le altre, e quindi è ragionevole attribuire ogni perfezione possibile all’autore del mondo; ma questi non sono r a g i o n a m e n t i , per cui ci possiamo vantare della nostra perspicacia, ma soltanto diritti che ci si può concedere, e che tuttavia abbisognano ancora di una raccomandazione da qualche altra parte perché se ne possa far uso. Dunque, nella via empirica [252] (della fisica) il concetto di Dio rimane sempre u n c o n c e t t o n o n e s a t t a m e n t e d e t e r m i n a t o della perfezione dell’essere primo per poterlo ritenere adeguato al concetto di una divinità (ma non vi è proprio niente da ottenere dalla metafisica nella sua parte trascendentale). Ora, io tento di connettere questo concetto all’oggetto della ragion pratica; e qui trovo che il principio morale lo permette solo come possibile, con la supposizione di un autore del mondo che abbia la p e r f e z i o n e s u p r e m a . Egli deve essere o n n i s c i e n t e per conoscere la mia condotta fino all’ultimo della mia intenzione in tutti i casi possibili e per tutto l’avvenire; o n n i p o t e n t e , per dare alla mia condotta le conseguenze conformi; e così pure o n n i p r e s e n t e , e t e r n o , ecc. Quindi la legge morale, mediante il concetto del sommo bene come oggetto di una ragion pura pratica, determina il concetto dell’essere primordiale come essere supremo; il che il processo fisico (e andando più in alto il processo metafisico), e quindi l’intero processo speculativo della ragione, non poté effettuare. Dunque, il concetto di Dio è un concetto originale, che non appartiene alla fisica, e cioè non alla ragione speculativa, ma alla morale; e ciò appunto si può anche dire degli altri concetti razionali dei quali, come postulati della ragione nel suo uso pratico, abbiamo trattato di sopra. [253] Se nella storia della filosofia greca, oltre ad A n a s s a g o r a , non s’incontrano tracce manifeste di una teologia razionale pura, il motivo non è nel fatto che gli antichi filosofi mancassero d’intelletto e di perspicacia per elevarsi a quella teologia per la via della speculazione, almeno con l’aiuto di un’ipotesi affatto razionale; che cosa poteva esser più facile, che cosa più naturale del pensiero, che si presenta da se stesso a ognuno, di ammettere, invece di gradi indeterminati di perfezione nelle cause diverse del mondo, una causa unica razionale che ha o g n i p e r f e z i o n e? Ma i mali nel mondo sembrava loro che fossero obbiezioni troppo importanti per ritenersi in diritto di fare una tale ipotesi. Quindi essi dimostravano intelligenza e perspicacia appunto in ciò, che non si permettevano quell’ipotesi, e piuttosto ricercavano

nelle cause naturali, se tra di esse potessero trovare la qualità e il potere necessari all’essere primordiale. Ma dopo che questo popolo acuto progredì nelle sue ricerche tanto da trattare filosoficamente anche gli oggetti morali, su cui gli altri popoli non avevano mai fatto altro che chiacchierare, allora soltanto sentì un nuovo bisogno, cioè un bisogno pratico, che non mancò di indicargli in modo determinato il concetto dell’essere primordiale. In ciò la ragione speculativa stava a vedere, e tutt’al più aveva ancora il merito di abbellire un concetto che non era nato sul suo [254] terreno, e di giovare, con una serie di conferme tratte soltanto allora dall’osservazione della natura, non certamente all’autorità di esso (che era già stata stabilita), ma, per contrario, unicamente al lusso di una presunta perspicacia della ragion teoretica. Da queste osservazioni il lettore della Critica della ragion pura speculativa si convincerà perfettamente di quanto fosse necessaria, quanto giovevole per la teologia e la morale, quella laboriosa d e d u z i o n e delle categorie. Poiché solo per ciò si potrà impedire, se si pongono nell’intelletto puro, di ritenerle con Platone innate, e di stabilire su di ciò le pretese trascendenti a teorie del soprasensibile di cui non si vede nessun fine, facendo così della teologia una lanterna magica di fantasmi; mentre se si considerino come acquistate, s’impedisce di limitare con Epicuro ogni uso di esse, anche nel rispetto pratico, semplicemente agli oggetti e ai motivi determinanti dei sensi. Ora, tuttavia, dopo che la critica in quella deduzione ha dimostrato, in p r i m o l u o g o , che esse non sono di origine empirica, ma hanno la loro sede ed origine a priori nell’intelletto puro; e, in s e c o n d o l u o g o che, essendo riferite a g l i o g g e t t i i n g e n e r e , [255] indipendentemente dalla loro intuizione, esse producono, ancorché solamente in applicazione ad oggetti e m p i r i c i , una c o n o s c e n z a t e o r e t i c a , tuttavia, applicate a un oggetto dato mediante la ragion pura pratica, servono anche a una c o n c e z i o n e d e t e r m i n a t a del s o p r a s e n s i b i l e in quanto vien determinato mediante predicati che appartengono necessariamente al f i n e p u r o p r a t i c o d a t o a p r i o r i , e alla possibilità di questo. La limitazione speculativa della ragion pura e l’estensione pratica di essa, la conducono a quella r e l a z i o n e d ’ u g u a g l i a n z a in cui la ragione in generale può essere usata in conformità a uno scopo; e quest’esempio dimostra meglio di qualunque altro che la via alla s a g g e z z a , se dev’essere assicurata, e non impraticabile, né tale che ci faccia smarrire, per noi uomini deve inevitabilmente passare attraverso la scienza; ma soltanto dopo il suo

compimento, si può esser convinti che essa conduce a quello scopo.

VIII. Dell’adesione che deriva da un bisogno della ragion pura Un bisogno della ragion pura nel suo uso speculativo [256] conduce soltanto a i p o t e s i ; quello invece della ragion pura pratica a p o s t u l a t i ; nel primo caso, infatti, io salgo dal derivato tanto in alto, q u a n t o v o g l i o , nella serie dei princìpi, e abbisogno di un primo principio, non per dare a quel derivato (per es., al legame causale delle cose e delle mutazioni del mondo) la realtà oggettiva, ma soltanto per appagare completamente, rispetto a quel derivato, la mia ragione investigatrice. Così io vedo innanzi a me ordine e finalità nella natura, e per accertarmi della r e a l t à di essi non ho bisogno di passare alla speculazione, ma per s p i e g a r l i , ho bisogno soltanto di s u p p o r r e u n a d i v i n i t à come causa di essi; e poiché la conclusione da un effetto a una causa determinata, come lo dobbiamo pensare in Dio, è sempre incerta e dubbiosa, una tale supposizione non può essere portata a un grado più alto di quello che, per noi [257] uomini, è l’opinione più razionaleV. Invece un bisogno della r a g i o n p u r a p r a t i c a è fondato su un d o v e r e di fare di qualcosa (del sommo bene) l’oggetto della mia volontà, per promuoverlo con tutte le mie forze; ma, in questo caso, io devo supporne la possibilità, e quindi anche le condizioni, e cioè Dio, la libertà e l’immortalità, perché non le posso dimostrare mediante la mia ragione speculativa, quantunque non le possa neanche confutare. Questo dovere si fonda su una legge, invero affatto indipendente da queste ultime supposizioni, e apoditticamente certa per se stessa, cioè sulla legge morale; e in questo senso non ha bisogno di un ulteriore appoggio dell’opinione teoretica sulla natura interna delle cose, sul fine recondito dell’ordine del mondo, oppure su un reggitore che lo governi per obbligarci nel modo più completo ad azioni incondizionatamente conformi alla legge. Ma l’effetto soggettivo di questa legge, cioè l ’ i n t e n z i o n e conforme ad essa, e anche necessaria mediante essa, di promuovere il sommo bene praticamente possibile, suppone almeno che questo bene sia p o s s i b i l e ; altrimenti sarebbe praticamente impossibile aspirare all’oggetto di un concetto che in fondo [258] fosse vuoto e senza oggetto. Ora i postulati menzionati riguardano soltanto le condizioni fisiche o

metafisiche della p o s s i b i l i t à del sommo bene; in una parola, quelle che sono nella natura delle cose, non per un fine speculativo arbitrario, ma per un fine praticamente necessario della volontà razionale pura, che qui non s c e g l i e , ma o b b e d i s c e a un precetto inflessibile della ragione, che ha il suo fondamento, o g g e t t i v a m e n t e , nella natura delle cose come devono essere giudicate universalmente mediante la ragion pura, e non si fonda già su u n ’ i n c l i n a z i o n e , la quale, allo scopo di ciò che d e s i d e r i a m o per motivi semplicemente s o g g e t t i v i , non ha assolutamente il diritto di ammettere senz’altro come possibili i mezzi, oppure come affatto reale l’oggetto. Questo è, dunque, un b i s o g n o i n u n s e n s o a s s o l u t a m e n t e n e c e s s a r i o , e giustifica la sua supposizione non semplicemente come ipotesi lecita, ma come postulato nel rispetto pratico; e, ammesso che la legge pura morale obblighi inflessibilmente ciascuno come comandamento (non come regola di prudenza), l’uomo onesto può ben dire: i o v o g l i o che vi sia un Dio; che la mia esistenza in questo mondo, anche fuori della connessione naturale, sia ancora un’esistenza in un mondo puro dell’intelletto; e finalmente, anche che la mia durata sia senza fine; io persisto in ciò e non mi lascio togliere questa fede; essendo questo l’unico caso in cui il mio interesse, che io non p o s s o trascurare in niente, [259] determina inevitabilmente il mio giudizio, senza badare alle sofisticherie, per quanto poco io sia capace di rispondervi o di contrapporne delle più specioseVI. Per evitare le cattive interpretazioni nell’uso di un concetto [260] ancora così insolito, come quello di una fede razionale pura pratica, mi sia concesso di aggiungere ancora un’osservazione. – Potrebbe quasi sembrare che questa fede razionale sia qui annunciata come un c o m a n d a m e n t o , quello cioè di ammettere il sommo bene come possibile. Ma una fede comandata è un non senso. Senonché, si rammenti l’esposizione precedente di ciò che nel concetto del sommo bene si richiede, e si vedrà come non possa punto esser comandato l’ammettere questa possibilità, e non si esiga nessuna intenzione pratica di a m m e t t e r l a , ma come la ragione speculativa la debba ammettere senza esserne richiesta; nessuno infatti può voler affermare che sia i m p o s s i b i l e in sé per gli esseri razionali nel mondo meritare di esser felici in conformità alla legge morale, in relazione a un possesso di questa felicità proporzionata a questo merito. Ora, relativamente al primo elemento del sommo bene, cioè per quel che riguarda la moralità, la legge morale ci dà semplicemente un comandamento; e la possibilità di dubitare di

quell’elemento sarebbe lo stesso che mettere in dubbio la legge morale. Ma, per quel che riguarda il secondo elemento di quell’oggetto, cioè la felicità continuamente proporzionata a quel merito, la possibilità di ammettere questa felicità in genere non ha invero alcun bisogno di un comandamento, poiché anche la ragion teoretica [261] non ha niente in contrario: solo il modo in cui noi dobbiamo concepire una tale armonia delle leggi naturali con quelle delle libertà, ha in sé qualcosa riguardo a cui ci spetta una s c e l t a , perché la ragion teoretica non decide su ciò con certezza apodittica, e può esservi un interesse morale che dà il tracollo. Più sopra avevo detto che, secondo un corso semplicemente naturale nel mondo, non è da aspettare, né si deve ritenere come impossibile, una felicità esattamente proporzionata al valore morale, e che quindi, da questo lato, la possibilità del sommo bene non poteva essere ammessa se non con la supposizione di un autore morale del mondo. Io mi trattenni, deliberatamente, dal limitare questo giudizio alle condizioni s o g g e t t i v e della nostra ragione, per far uso di questa restrizione solo quando dovesse esser meglio determinato il modo del suo assenso. Infatti, l’impossibilità menzionata è s e m p l i c e m e n t e s o g g e t t i v a : cioè la nostra ragione trova i m p o s s i b i l e p e r e s s a concepire, secondo il semplice corso della natura, una connessione così esattamente determinata, e così continuamente conforme a fini, tra due eventi del mondo che succedono secondo leggi così diverse; benché, come ogni altra cosa che nella natura è conforme a fini, essa non possa neanche dimostrare l’impossibilità [262] di questa connessione secondo leggi universali della natura, cioè provarla sufficientemente con princìpi oggettivi. Ma ora entra in giuoco un motivo di decisione di altro genere, a dare il tracollo all’incertezza della ragione speculativa. Il comandamento di promuovere il sommo bene è fondato oggettivamente (nella ragion pratica); la possibilità di questo bene in genere è pure fondata oggettivamente (nella ragion teoretica, che non ha niente in contrario). Ma la ragione non può decidere oggettivamente in che modo noi ci dobbiamo rappresentare questa possibilità, se secondo leggi universali della natura, senza un saggio reggitore che governi la natura, o soltanto col supporre questo reggitore. Ora qui sopravviene una condizione s o g g e t t i v a della ragione: l’unico modo, che le sia teoreticamente possibile, di concepire l’accordo esatto del regno della natura col regno dei costumi come condizione della possibilità del sommo

bene, e nello stesso tempo il solo modo vantaggioso alla moralità (la quale sottostà a una legge o g g e t t i v a della ragione). Siccome il promuovimento del sommo bene, e quindi la supposizione della sua possibilità, è o g g e t t i v a m e n t e (ma solo in virtù della ragion pratica) necessario, ma nello stesso tempo il modo, in cui noi vogliamo concepire come possibile questo bene, sta alla nostra scelta, nella quale però un libero interesse della ragion pura pratica ci decide ad ammettere un saggio autore del mondo; così, [263] il principio che determina in ciò il nostro giudizio, è bensì s o g g e t t i v o come bisogno, ma nello stesso tempo, come mezzo di promuovere ciò che è o g g e t t i v a m e n t e (praticamente) necessario, è anche il principio di una m a s s i m a dell’adesione dal punto di vista morale, cioè u n a f e d e d e l l a r a g i o n p u r a p r a t i c a . Questa fede non è dunque comandata, ma è derivata dalla stessa intenzione morale come una determinazione libera del nostro giudizio, vantaggiosa al fine morale (comandato), concorde inoltre col bisogno teoretico della ragione di ammettere l’esistenza di questo saggio autore, e porla a base dell’uso della ragione; quindi, in quelli che sono ben intenzionati, può bensì spesso vacillare, ma non mai finire nell’incredulità.

IX. Della proporzione saggiamente conveniente delle facoltà di conoscere dell’uomo rispetto alla sua destinazione pratica Se la natura umana è determinata ad aspirare al sommo bene, si deve ammettere che anche la misura delle sue facoltà di conoscere, e specialmente la relazione di queste facoltà le une colle altre, sia conveniente a questo scopo. Ma la critica della ragion pura s p e c u l a t i v a dimostra la più grande insufficienza di [264] questa facoltà a risolvere in conformità con lo scopo i problemi più importanti che le sono proposti, benché essa non disconosca le indicazioni naturali e non trascurabili di questa ragione, e similmente i grandi passi che può fare per avvicinarsi a questo grande scopo che le è proposto, senza per altro raggiungerlo mai per se stessa, neanche con l’aiuto della più grande conoscenza della natura. Quindi sembra che in questo caso la natura, nel provvederci di una facoltà necessaria al nostro scopo ci abbia trattati soltanto da matrigna.

Ora, posto che essa qui fosse stata condiscendente al nostro desiderio e ci avesse dato quella perspicacia o quei lumi che vorremmo ben possedere, o nel cui possesso alcuni c r e d o n o di trovarsi realmente, quale sarebbe secondo ogni apparenza la conseguenza di ciò? A meno che nello stesso tempo fosse mutata l’intera nostra natura, le i n c l i n a z i o n i , che hanno sempre la prima parola, domanderebbero la loro soddisfazione, e, legate con la riflessione razionale, la soddisfazione più grande possibile e continua col nome di f e l i c i t à ; poi parlerebbe la legge morale per contenere quelle inclinazioni nei limiti che loro convengono, e anzi per assoggettarle tutte insieme a un fine più alto, e che non abbia riguardo a nessuna inclinazione. Ma in luogo della lotta che ora l’intenzione morale deve sostenere con le [265] inclinazioni, nella quale, dopo alcune sconfitte, l’anima acquista a poco a poco la fortezza morale, D i o e l ’ e t e r n i t à , nella loro t r e m e n d a m a e s t à , ci starebbero continuamente d a v a n t i a g l i o c c h i (poiché quello che possiamo dimostrare perfettamente, rispetto alla certezza vale altrettanto per noi che se ce ne accertassimo mediante la vista). La trasgressione della legge sarebbe certamente impedita, quello che è comandato sarebbe eseguito; ma siccome l ’ i n t e n z i o n e , per cui le azioni devono accadere, non può essere introdotta in noi mediante nessun comandamento, e il pungolo dell’attività qui sarebbe sempre alla mano ed e s t e r n o , e quindi la ragione non avrebbe bisogno di sforzarsi a raccoglier le forze per resistere alle inclinazioni mediante la rappresentazione della dignità della legge; così la maggior parte delle azioni conformi alla legge avverrebbe per il timore, soltanto poche per la speranza, e nessuna affatto per il dovere; un valore morale delle azioni, dal quale solo dipende agli occhi della saggezza suprema il valore della persona, e anche quello del mondo, non esisterebbe punto. La condotta dell’uomo rimanendo la sua natura qual’è adesso, sarebbe dunque mutata in un semplice meccanismo, in cui, come nel teatro delle marionette, il tutto g e s t i c o l e r e b b e bene, ma nelle figure non si troverebbe v i t a a l c u n a . Ora, siccome per noi la cosa è ben diversa; siccome noi, con tutto lo sforzo della [266] nostra ragione, abbiamo dell’avvenire soltanto una veduta assai oscura ed ambigua, e il reggitore del mondo ci lascia soltanto congetturare e non scorgere o dimostrar chiaramente la sua esistenza e la sua maestà; e, invece, la legge morale in noi, senza prometterci qualcosa con certezza, senza minacciarci, esige da noi il rispetto disinteressato; e del resto questo rispetto, quando diventa attivo e

predominante solo allora e solo per ciò permette di vedere, ma anche solo debolmente, nel regno del soprasensibile: così può ben aver luogo un’intenzione veramente morale, e consacrata immediatamente alla legge, e la creatura razionale può diventar degna di partecipare al sommo bene che è conforme al valore morale della sua persona, e non semplicemente alle sue azioni. Potrebbe dunque aver anche qui la sua verità quello che del resto lo studio della natura e dell’uomo c’insegna sufficientemente: che la saggezza impenetrabile, per la quale noi esistiamo, non è men degna di venerazione per quello che ci ha negato che per quello che ci ha concesso. 1

[Coalitionversuche, termine corrispondente a Coalitionssystem del § 3, scolio I dell’Analitica] [Il testo dell’ed. dell’Accademia Prussiana ha: «oberste Ursache der Natur», come Hartenstein ecc.; si corregge così l’evidente errore di stampa delle edd. prima e quarta che hanno «oberste der Natur», mentre la seconda ha «oberste Natur», secondo cui tradusse il Capra.] 3 Le edd. originali hanno: «theologischen Grundsätzen». I La c o n v i n z i o n e dell’immutabilità delle proprie intenzioni nel progresso al bene, sembra tuttavia che sia impossibile per sé ad una creatura. Perciò la dottrina cristiana la fa derivare soltanto dallo spirito stesso che opera la santificazione, cioè questo fermo proponimento e con esso la coscienza della costanza nel progresso mo rale. Ma anche naturalmente colui che è conscio di aver persistito per gran parte della sua vita, sino alla fine di essa, nel progresso verso il meglio, e invero per moventi schiettamente morali, può aver la consolante speranza, se non la certezza, che anche in un’esistenza che duri oltre questa vita egli rimarrà in questi princìpi: e quantunque ai suoi propri occhi qui non si trovi giustificato, né possa mai sperare di essere giustificato, malgrado l’aumento che spera in avvenire della sua perfezione naturale, ma con essa anche dei suoi doveri, tuttavia in questo progresso, il quale, benché riguardi un fine rimandato all’infinito, nondimeno per Dio vale come possesso, egli può avere la prospettiva di un avvenire b e a t o ; poiché questa è l’espressione di cui la ragione si serve a designare un b e n e s s e r e completo, indipendente da tutte le cause [223] contingenti del mondo, il qual bene, come la s a n t i t à , è un’idea che può esser contenuta soltanto in un progresso infinito e nella totalità di esso, e quindi non è mai raggiunta da una creatura. II Si ritiene comunemente, che il precetto cristiano dei costumi non abbia nessuna precedenza per ciò che riguarda la sua purezza sul concetto morale degli stoici ma la loro differenza è però assai visibile. Il sistema stoico faceva della coscienza della fortezza d’animo il perno su cui dovevano volgersi tutte le intenzioni morali; e, benché i seguaci di questo sistema parlassero di doveri, e li determinassero anche benissimo, tuttavia riponevano il movente, e il motivo determinante propriamente detto della volontà, in un’elevazione del modo di pensare al di sopra dei moventi inferiori dei sensi, che non hanno potere se non per la debolezza dell’animo. La virtù era dunque per loro un certo eroismo del s a g g i o ; che si eleva sopra la natura animale dell’uomo, il quale saggio basta a se stesso; agli altri presenta bensì dei doveri, ma egli è elevato sopra di essi, e [230] non è soggetto a nessuna tentazione di trasgressione della legge morale. Ma tutto ciò essi non avrebbero potuto fare, se si fossero rappresentata questa legge nella purezza e nel rigore che presenta il precetto del Vangelo. Se per un’idea intendo una perfezione a cui niente nell’esperienza può esser dato come adeguato, le idee morali non sono perciò niente di trascendente, cioè tali che noi non ne possiamo neanche determinare il concetto in modo sufficiente, o di cui è incerto se corrisponda loro 2

dappertutto un oggetto, come le idee della ragione speculativa; ma, come prototipi della perfezione morale, servono da modello indispensabile del procedere morale, e nello stesso tempo da m i s u r a d i p a r a g o n e . Ora, se io considerassi la m o r a l e c r i s t i a n a dal suo lato filosofico, confrontandola con le idee delle scuole greche, essa apparirebbe così. Le idee dei c i n i c i , degli e p i c u r e i , degli s t o i c i e dei c r i s t i a n i sono: la s e m p l i c i t à n a t u r a l e , la p r u d e n z a , la s a g g e z z a e la s a n t i t à . Riguardo alla via per giungervi, i filosofi greci si distinguono talmente gli uni dagli altri che i cinici trovarono sufficiente a ciò l’ i n t e l l e t t o u m a n o o r d i n a r i o , gli altri soltanto la via della s c i e n z a ; e, perciò, gli uni e gli altri il semplice u s o d e l l e f o r z e n a t u r a l i . La morale cristiana, siccome stabilisce il suo precetto (come anche dev’essere) con tanta purezza e severità, toglie all’uomo la confidenza, almeno in questa vita, di esserle pienamente adeguato: ma tuttavia di nuovo lo rianima mediante il fatto che, se noi facciamo bene per quanto è in nostro p o t e r e , possiamo sperare che ciò che non è in nostro potere ci verrà da un’altra parte, sappiamo o no in qual modo. Aristotile e Platone si distinguono soltanto rispetto all’ o r i g i n e dei nostri concetti morali. III A questo proposito, e per far conoscere il carattere proprio di questi concetti, osservo ancora soltanto che, laddove si attribuiscono a Dio diverse proprietà, la cui qualità si trova anche conveniente alle creature, solo che in Dio sono elevate al grado più alto, per es. la potenza, la scienza, la presenza, la bontà, ecc., con le denominazioni di onnipotenza, onniscienza, onnipresenza, bontà, infinità, ecc., ve ne sono tre, che vengono attribuite a Dio esclusivamente, eppure senza aggiunta di grandezza, e che sono tutte e tre morali. Egli solo è il s a n t o , il b e a t o , il s a g g i o , perché questi concetti implicano già l’illimitatezza. Quindi, secondo l’ordine di essi, egli è poi anche il l e g i s l a t o r e (e creatore) s a n t o , il r e g g i t o r e b u o n o (e conservatore) e il g i u d i c e g i u s t o . Tre proprietà, che contengono in sé tutto ciò per cui Dio diventa l’oggetto della religione, e alle quali le perfezioni metafisiche, che sono conformi ad esse, s’aggiungono da sé nella ragione. IV «Gelehrsamkeit» non è propriamente che l’insieme di tutte le scienze s t o r i c h e . Per conseguenza soltanto il professore di teologia rivelata si può chiamare «Gottesgelehrte». Ma se si volesse chiamare «Gelehrte» anche colui che ha il possesso di scienze razionali (matematica e filosofia), benché ciò contraddica già al senso della parola (come quella che ascrive a «Gelehrsamkeit» sempre solo quello, in cui si deve affatto venir i s t r u i t o , e che quindi non si può trovare da sé, mediante la ragione); allora il filosofo con la sua conoscenza di Dio, come scienza positiva, farebbe una figura troppo cattiva per farsi chiamare perciò un «Gelehrte». V Ma anche qui noi non potremmo addurre per iscusa un bisogno della r a g i o n e , se non ci stesse davanti agli occhi un concetto problematico, e tuttavia inevitabile della ragione, cioè quello di un essere assolutamente necessario. Ora questo concetto vuol essere determinato; e questo è, se si aggiunge la tendenza all’estensione, il motivo oggettivo di un bisogno della ragione speculativa, cioè di un bisogno di determinar meglio il concetto di un essere necessario, che deve servire di primo principio agli altri, e così di far conoscere quest’essere. [257] Senza questi problemi precedenti e necessari non vi è nessun b i s o g n o , almeno della r a g i o n p u r a ; gli altri sono bisogni d e l l ’ i n c l i n a z i o n e . VI Nel «Deutsches Museum», febbraio 1787, si trova una trattazione fatta da una mente assai fine e chiara, dal defunto Wizenmann, del quale è da compiangere la morte precoce. In essa egli contesta il diritto di concludere da un bisogno alla realtà oggettiva dell’oggetto di esso, e spiega il suo argomento con l’esempio di un i n n a m o r a t o , il quale, perché ama follemente un’idea di bellezza, che è semplicemente una sua chimera, vorrebbe trarne la conseguenza che un tale oggetto esiste realmente in qualche luogo. Qui io gli do perfettamente

ragione in tutti i casi in cui il bisogno è fondato sull’ i n c l i n a z i o n e , la quale non può mai postulare necessariamente, per colui che è affetto da essa, l’esistenza del suo oggetto, e molto meno contiene un’esigenza valida per ciascuno, e quindi è un motivo semplicemente s o g g e t t i v o del desiderio. Ma qui vi è un b i s o g n o r a z i o n a l e , che deriva da un motivo determinante o g g e t t i v o della volontà, cioè dalla legge morale la quale obbliga necessariamente ogni essere razionale, dunque dà d i r i t t o alla supposizione a p r i o r i delle condizioni conformi a questa legge nella natura, e rende inseparabili queste condizioni dal completo uso pratico della ragione. È dovere realizzare il sommo bene il più che possiamo, quindi ciò deve anche esser possibile, quindi per ogni essere razionale nel mondo è anche inevitabile supporre ciò che è necessario alla possibilità oggettiva di esso. La supposizione è così necessaria come la legge morale, in relazione alla quale soltanto essa è valida. (Tommaso Wizenmann, amico e seguace dello Jacobi. [T] [Di lui era uscito anonimo nel 1786 a Lipsia lo scritto Die Resultate der Jacobi’schen und Mendelssohn’schen Philosophie, kritisch untersucht von einem Freywilligen. Nell’ottobre di quell’anno Kant aveva pubblicato nella «Berliner Monatschrift» il suo saggio Was heisst: sich im Denken orientiren? ove si alludeva a Th. Wizenmann («questo è avvenuto nel dibattito fra Mendelssohn e Jacobi, soprattutto per mezzo delle non insignificanti conclusioni dell’acuto autore dei Resultati»). Wizenmann rispose appunto nel «Deutsches Museum» (1787, I, pp. 116-56) con lo scritto An den Herrn Professor Kant von der Verfasser der Resultate Jacobi’scher und Mendelssohn’scher Philosophie, a cui qui Kant si riferisce. Th. Wizenmann morì il 22 febbraio 1787 a Mühlheim.])

[267] Parte seconda Della critica della ragion pratica Dottrina del metodo della ragion pura pratica

[269] Per d o t t r i n a d e l m e t o d o della ragion pura p r a t i c a non si può intendere il modo (tanto nella riflessione, come nell’esposizione) di procedere coi princìpi puri pratici in vista di una conoscenza s c i e n t i f i c a di essa; il che del resto si chiama propriamente metodo soltanto nella filosofia t e o r e t i c a (poiché la conoscenza popolare ha bisogno di una m a n i e r a , ma la scienza di un m e t o d o , cioè di un procedimento s e c o n d o i p r i n c ì p i della ragione, mediante i quali soltanto il molteplice di una conoscenza può diventare un s i s t e m a ) . Al contrario, per questa dottrina del metodo s’intende il modo in cui si può procurare alle leggi della ragion pura pratica un a d i t o nello spirito umano, un i n f l u s s o sulle massime di esso, cioè il modo di far anche s o g g e t t i v a m e n t e pratica la ragione oggettivamente pratica. Ora, è bensì chiaro che quei motivi determinanti della volontà, i quali solo fanno propriamente morali le massime e dànno loro un valore morale, e cioè la rappresentazione immediata della legge e l’osservanza oggettivamente necessaria di essa come dovere, devono essere rappresentati come i veri moventi delle azioni; perché altrimenti si produrrebbe bensì la l e g a l i t à [270] delle azioni, ma non la m o r a l i t à delle intenzioni. Ma non deve sembrar così chiaro a ciascuno, anzi a prima vista deve sembrar affatto inverosimile che anche soggettivamente quella rappresentazione della virtù pura possa aver p i ù f o r z a sullo spirito umano, e fornirgli un movente molto più potente anche ad effettuare quella legalità delle azioni, a produrre risoluzioni più energiche, a preferire ad ogni altro riguardo la legge per puro rispetto ad essa, che tutti gli allettamenti ingannevoli del piacere e in genere

di tutto ciò che appartiene alla felicità, oppure che tutte le minacce di dolore e di male. Tuttavia è così, e, se la natura umana non fosse costituita in tal modo, nemmeno alcun modo di rappresentazione della legge, mediante ambagi e mezzi di raccomandazione, produrrebbe mai la moralità dell’intenzione. Tutto sarebbe mera finzione, la legge sarebbe odiata o affatto disprezzata, mentre tuttavia sarebbe osservata per amore del proprio vantaggio. Si troverebbe la lettera della legge (la legalità) nelle nostre azioni, ma non già lo spirito di essa nelle nostre intenzioni (la moralità); e poiché con tutti i nostri sforzi non però ci possiamo liberare interamente della ragione, nel nostro giudizio appariremmo inevitabilmente ai nostri propri occhi come uomini [271] indegni, abbietti, pur tentando, avanti al tribunale interno, di rifarci di questa mortificazione mediante il fatto che ci diletteremmo nei piaceri che, secondo la nostra erronea opinione, una legge naturale o divina da noi ammessa avrebbe unito col meccanismo della sua polizia, la quale si regolerebbe solo secondo ciò che si fa, senza curarsi dei motivi determinanti, per cui ciò si fa. Senza dubbio, non si può negare che per far entrare uno spirito ancora rozzo, oppure inselvatichito, nella carreggiata del moralmente buono, occorrono alcune istruzioni preparatorie per attirare questo spirito mediante il suo vantaggio, o spaventarlo mediante il suo danno; ma non appena questo meccanismo, queste dande, abbiano ottenuto un qualche effetto, allora deve essere assolutamente presentato all’anima il motivo determinante morale, il quale, non solo per il fatto di esser l’unico che fondi un carattere (un modo pratico e coerente di pensare secondo massime immutabili), ma anche perché insegna all’uomo a sentire la sua propria dignità, dà allo spirito una forza che esso medesimo non s’aspettava, per distaccarsi da ogni affezione sensibile in quanto questa vuol diventare predominante, e per trovare nell’indipendenza della sua natura intelligibile, e nella [272] grandezza d’animo a cui l’uomo si vede determinato, un largo compenso ai sacrifici che fa. Noi vogliamo dunque dimostrare, mediante osservazioni che ciascuno può fare, questa proprietà del nostro spirito, questa capacità di un interesse puro morale, e quindi la forza motrice della rappresentazione pura della virtù, quando essa vien presentata convenientemente al cuore umano, come il movente più efficace, e, se si tratta della durata e dell’esattezza nell’osservanza delle massime morali, come l’unico movente al bene. Tuttavia, a questo proposito, si deve in pari tempo ricordare che, se queste osservazioni dimostrano

soltanto la realtà di un tale sentimento, ma non il miglioramento morale operato mediante esso, ciò non reca nessun danno all’unico metodo di rendere, mediante la semplice rappresentazione pura del dovere, soggettivamente pratiche le leggi oggettivamente pratiche della ragion pura, quasi questo metodo fosse una vuota fantasticheria. Poiché, siccome esso non fu ancora mai in uso, così anche l’esperienza non può ancor dir niente della sua riuscita, ma si possono solo pretendere prove della suscettibilità di tali moventi. Le quali prove io voglio ora esporre brevemente; e poi abbozzerò in pochi tratti il metodo che serve a fondare e coltivare le vere intenzioni morali. Se si pon mente al filo della conversazione in compagnie miste, [273] le quali si compongono non solo di dotti e di sottili ragionatori, ma anche di uomini d’affari o di signore, si vede che, oltre il raccontare e lo scherzare, vi trova luogo ancora un altro trattenimento, cioè il ragionare; perché il primo trattenimento, se reca novità e quindi interesse, presto si esaurisce, e il secondo diventa facilmente insulso. Ma fra tutte le sorte di ragionamento nessuna ve n’è che muova di più l’assenso di persone, le quali d’altronde si annoiano presto di ogni ragionare sottile, e produca una certa vita nella compagnia, di quella sul v a l o r e m o r a l e di questa o quell’azione in base a cui dev’essere stabilito il carattere di una persona qualunque. Quelli per cui del resto è arida e spiacevole ogni sottigliezza e sofisticheria nelle questioni teoretiche, acconsentono subito, se si tratta di decidere del valore morale di un’azione buona o cattiva che si racconta; e nell’immaginare tutto ciò che può diminuire, o anche soltanto render sospetta la purezza dell’intenzione, e quindi in essa il grado della virtù, sono così precisi, così sofistici, così sottili, come non ci si aspetta che siano in alcun oggetto della speculazione. In questi giudizi si può spesso vedere spuntare il carattere delle persone stesse che giudicano altri: delle quali alcune sembrano maggiormente inclinate, mentre esercitano il loro ufficio di [274] giudici, specialmente riguardo ai morti, a difendere il bene che si racconta di questa o di quell’azione contro ogni obiezione che attenti alla purezza, e nello stesso tempo a difendere l’intero valore morale della persona contro il rimprovero di simulazione e di malvagità nascosta; altri invece pensano piuttosto alle accuse e alle imputazioni per impugnare questo valore. Ma a questi ultimi non si può sempre attribuire l’intento di voler togliere affatto, mediante i loro sofismi, la virtù da tutti gli esempi degli uomini, per far così di essa un nome vuoto; spesso il loro è soltanto un rigore ben intenzionato nella determinazione del

vero contenuto morale secondo una legge inflessibile, e, se vien paragonata con questa e non con gli esempi, la presunzione diminuisce, e l’umiltà non viene semplicemente insegnata ma da ciascuno sentita anche con un esame più acuto su se stesso. Tuttavia, per lo più, si può vedere che coloro i quali difendono la purezza dell’intenzione in dati esempi, toglierebbero a questa fin la minima macchia quando essa ha in suo favore l’apparenza della rettitudine, per timore che, contestando a tutti gli esempi la loro verità e negando a ogni virtù umana la sincerità, la virtù non venga alfine considerata come una semplice chimera, e si disprezzi così ogni sforzo per attuarla come una vana affettazione e un’ingannevole presunzione. [275] Io non so perché gli educatori della gioventù non abbiano già fatto uso da lungo tempo di questa tendenza della ragione a entrare con piacere anche nell’esame più sottile nelle questioni pratiche proposte, e perché, dopo aver posto a fondamento un catechismo semplicemente morale, non abbiano ricercato le biografie dei tempi antichi e moderni per aver in mano esempi dei doveri proposti, con i quali, specialmente pel confronto di azioni simili in circostanze differenti, eserciterebbero il giudizio dei loro allievi a discernere il valore morale maggiore o minore. Nel che troverebbero che anche la gioventù più tenera, che del resto non è ancora matura ad ogni speculazione, presto diventa assai perspicace e inoltre non poco interessata, perché sente il progresso della propria facoltà di giudicare. Ma, ciò che è il più importante, possono aver fiducia che l’esercizio frequente di conoscere la buona condotta in tutta la sua purezza e di approvarla, e al contrario di osservare con compassione e disprezzo anche la più piccola trasgressione, benché fatto allora soltanto come un giuoco della facoltà di giudicare nel quale i ragazzi possono gareggiare gli uni con gli altri, lascia tuttavia un’impressione duratura della stima per un lato e dell’avversione per l’altro, la quale, mediante la semplice abitudine di considerare sovente [276] tali azioni come degne o di approvazione o più spesso di biasimo, costituirebbe un buon fondamento alla rettitudine nella maniera di vivere in avvenire. Vorrei soltanto risparmiare alla gioventù gli esempi delle azioni cosiddette n o b i l i (supererogatorie), di cui i nostri scritti sentimentali sono tanto prodighi, e riferire tutto semplicemente al dovere e al valore che un uomo si può e si deve dare ai suoi propri occhi mediante la coscienza di non averlo trasgredito, perché ciò che riesce a vuoti desideri e brame di perfezione irraggiungibile, produce solo eroi da romanzo; i quali, vantandosi molto del loro sentimento

per la grandezza trascendente, si dispensano dall’osservanza dell’obbligazione comune e d’uso, che a loro sembra poi solo meschinamente piccolaI. [277] Ma, se si domanda che cosa propriamente sia la moralità p u r a , con la quale, come con pietra di paragone, si deve provare il valore morale di ogni azione, io devo confessare che soltanto i filosofi possono rendere dubbiosa la soluzione di questa questione; poiché nella comune ragione umana essa è, non certo mediante la deduzione di formole universali, ma mediante l’uso abituale, risolta da lungo tempo, come la differenza tra la mano destra e la sinistra. Noi vogliamo dunque anzitutto mostrare il carattere distintivo della virtù pura in un esempio; e, mentre immaginiamo che questo esempio sia proposto al giudizio di un ragazzo di dieci anni, vediamo se egli dovrebbe necessariamente giudicare così anche da sé, senza le indicazioni del maestro. Si racconti la storia di un uomo onesto, che si vuol indurre ad associarsi ai calunniatori di una persona innocente, e d’altronde affatto impotente (come per esempio Anna Bolena, accusata da Enrico VIII d’Inghilterra). Gli si offrono guadagni, cioè grandi regali o un alto grado; egli li rifiuta. Questo produrrà semplicemente consenso e approvazione nell’animo dell’ascoltatore, perché si tratta di guadagno. Si comincia poi con la [278] minaccia del danno. Vi sono tra i calunniatori i suoi migliori amici, che adesso gli rifiutano la loro amicizia; parenti prossimi, che minacciano di diseredarlo (lui che è privo di sostanze); potenti, che lo possono perseguitare ed offendere in ogni luogo e condizione; un sovrano, che lo minaccia della perdita della libertà, anzi della vita stessa. Ma perché il suo male sia al colmo, per fargli anche sentire il dolore che solo un cuore moralmente buono può sentire intimamente, si può immaginare la sua famiglia, minacciata dall’estrema miseria e indigenza, s c o n g i u r a r l o a c e d e r e ; si può immaginare lui stesso, benché onesto, pure con capacità di sentimento non resistenti e insensibili così alla compassione come alla propria miseria, in un momento in cui desidera di non aver mai visto il giorno che lo espose a un dolore così indicibile, e tuttavia fedele al proposito di lealtà, senza incertezze e senza nemmeno dubitare. Allora il mio giovane ascoltatore verrà elevato gradatamente dalla semplice approvazione alla meraviglia, da questa allo stupore, finalmente alla più grande venerazione, e a un vivo desiderio di poter anche lui esser un uomo simile (senza desiderare invero di essere nella stessa condizione). Eppure qui la virtù ha tanto valore, perché costa tanto, non

perché è utile a qualche cosa. Tutta la meraviglia, e anche lo sforzo per rassomigliare a questo carattere, si fonda qui [279] interamente sulla purezza del principio morale, il quale può esser rappresentato in modo spiccato solo togliendo dai moventi dell’azione tutto ciò che gli uomini possono ascrivere soltanto alla felicità. Dunque, la moralità deve aver tanta più forza sul cuore umano, quanto più pura essa vien rappresentata. Donde segue che, se la legge dei costumi e l’immagine della santità e della virtù devono esercitare generalmente qualche influsso sulla nostra anima, lo possono esercitare solo in quanto, come moventi del cuore, vengon poste pure, non mescolate con riguardi al proprio benessere, perché è nella sofferenza che la nostra anima si mostra più eccellente. Ma quello il cui allontanamento rafforza l’effetto di una forza movente, dev’essere stato un ostacolo. Quindi ogni mescolanza di moventi che vengono tratti dalla propria felicità, è un ostacolo a procurare alla legge morale un influsso sul cuore umano. Io sostengo, inoltre, che anche in quell’azione che si ammira, se il motivo determinante, per cui essa avvenne, fu la stima del proprio dovere, allora è questo rispetto alla legge, e non la pretesa a un’opinione interna di grandezza d’animo, e di modo nobile e meritorio di pensare, che ha la maggiore efficacia sull’animo dello spettatore; quindi è il dovere, e non il merito, che deve avere sull’animo, non solo l’influsso più determinato, ma, se viene rappresentato nella giusta [280] luce della sua inviolabilità, anche l’influsso più penetrante. Ai nostri tempi, in cui si spera di far più effetto sul cuore con sentimenti teneri e compassionevoli, o con pretese alte che lo gonfiano e l’inaridiscono invece di fortificarlo, anziché mediante la rappresentazione secca e severa del dovere più conforme all’imperfezione umana e al progresso del bene, l’accenno a questo metodo è più necessario che mai. Proporre ad esempio ai ragazzi azioni nobili, magnanime, meritorie, credendo di interessarli ad esse con l’ispirar loro l’entusiasmo, ciò è affatto contrario allo scopo. Infatti, siccome essi sono ancora tanto indietro nell’osservanza del dovere più comune, e anche nel giudicarlo esattamente, ciò equivale a farne per tempo dei sognatori. Ma anche nella parte più istruita ed esperta degli uomini questo cosiddetto movente, se non è dannoso, non ha almeno sul cuore quel vero effetto morale che pure si è voluto produrre mediante esso. Tutti i s e n t i m e n t i , specialmente quelli che devono operare uno sforzo così insolito, devono produrre il loro effetto nel [281] momento in cui sono nella loro veemenza, e prima che si calmino, altrimenti non fanno niente;

poiché il cuore ritorna indietro naturalmente al suo movimento vitale naturale e moderato, e perciò cade nella fiacchezza che prima gli era propria; perché fu arrecato ad esso qualcosa che lo eccitava, ma niente che lo fortificasse. I p r i n c ì p i devono essere stabiliti su concetti; su tutti gli altri fondamenti possono soltanto effettuarsi velleità, che non possono procurare alla persona nessun valore morale, anzi nemmeno alcuna fiducia in se stessa, senza la quale non può affatto aver luogo la coscienza della moralità della propria intenzione e del proprio carattere, che è il sommo bene nell’uomo. Ora questi concetti, se devono diventare soggettivamente pratici, non devono, nelle leggi oggettive della moralità, limitarsi a farle ammirare e stimare altamente in relazione all’umanità, ma si deve considerare la loro rappresentazione in relazione all’uomo e alla sua individualità; quella legge, infatti, appare in una forma invero sommamente rispettabile, ma non così piacevole come se appartenesse all’elemento a cui l’uomo è abituato naturalmente, poiché essa lo obbliga spesso a lasciare, non senza abnegazione, tale elemento, e ad elevarsi a un elemento più alto, in cui egli si può mantenere con timore incessante di ricadere e solo con fatica. In una parola, la legge morale richiede l’osservanza per dovere, e non per una predilezione che non si può e non si deve affatto supporre. [282] Ora ci sia permesso vedere in un esempio se, nella rappresentazione di un’azione come nobile e magnanima, vi sia maggior forza la quale muova oggettivamente, che non se il movente venga semplicemente rappresentato come dovere in relazione alla severa legge morale. L’azione con cui qualcuno, con il più gran pericolo della vita, cerca di salvar gente dal naufragio, se alla fine costui vi rimette anche la propria vita, da una parte viene bensì ascritta al dovere, ma l’altra parte e per lo più vien anche considerata come azione meritoria: ma la nostra alta stima per essa viene assai diminuita a causa del concetto del d o v e r e v e r s o s e s t e s s i , il quale qui sembra patire qualche danno. Più decisivo pare il sacrificio magnanimo della propria vita per la salvezza della patria; eppure, benché sia un dovere così perfetto consacrarsi a questo fine spontaneamente e senza essere comandati, rimane qualche scrupolo a questo riguardo, e l’azione non ha in sé tutta la forza di un esempio e di uno stimolo all’imitazione. Ma se vi è un dovere imprescindibile, la cui trasgressione offende la legge morale in sé, senza riguardo al benesser dell’uomo, e ne calpesta per così dire la santità (simili doveri si usa chiamarli doveri verso Dio, perché noi ci rappresentiamo

in lui l’ideale della santità fatta sostanza), allora noi consacriamo all’ubbidienza ad esso, col sacrificio di tutto ciò che può sempre soltanto aver un valore per le nostre inclinazioni [283] più intime, tutto il rispetto possibile, e sentiamo la nostra anima fortificata ed elevata mediante un tale esempio, se per esso ci possiamo persuadere che la natura umana è capace di un’elevazione così grande su tutto ciò che la natura può sempre soltanto opporre ai moventi. Giovenale presenta un simile esempio in una gradazione, che fa sentire vivamente al lettore la forza del movente che si trova nella legge pura del dovere come dovere: Esto bonus miles, tutor bonus, arbiter idem Integer; ambiguoe si quando citabere testis Incertoeque rei, Phalaris licet imperet, ut sis Falsus, et admoto dictet periuria tauro, Summum crede nefas animam proeferre pudori, Et propter vitam vivendi perdere causas1.

Se noi possiamo recare nelle nostre azioni qualcosa di ciò che il meritorio ha di lusinghiero, allora il movente è già un po’ mescolato con l’amor proprio, e perciò ha qualche aiuto dal lato della sensibilità. Ma tutto posporre soltanto alla santità del dovere, e diventar consci che si può far ciò perché la nostra propria ragione lo riconosce come suo comandamento, e dice che si d e v e fare, vuol dire elevarsi interamente al di sopra della sensibilità; e ciò è inseparabile, nella stessa coscienza della legge, anche come movente di una facoltà c h e d o m i n a l a s e n s i b i l i t à , [284] se anche non sempre legato con l’effetto, il quale però, mediante una pratica frequente con questo movente, e mediante i tentativi, più piccoli dapprima, di farne uso, lascia sperare nella sua realizzazione, in modo da produrre in noi a poco a poco l’interesse più grande, ma puramente morale. Il metodo prende dunque quest’andamento. D a p p r i m a si tratta soltanto di fare, del giudizio secondo le leggi morali, un’occupazione naturale, che accompagni tutte le nostre azioni libere, e cosi pure l’osservazione di quelle degli altri e, nello stesso tempo, di farne un’abitudine e di acuirlo, mentre si domanda anzitutto se l’azione è c o n f o r m e oggettivamente a l l a l e g g e m o r a l e , e a quale; e in ciò si distingue l’attenzione a quella legge che fornisce semplicemente un p r i n c i p i o all’obbligazione, dalla legge che è realmente o b b l i g a t o r i a (leges obligandi a legibus obligantibus) (come per es. la legge di ciò che il bisogno degli uomini richiede da me, in opposizione a quello che il d i r i t t o di essi richiede, ove la seconda legge

prescrive doveri essenziali, e la prima soltanto doveri accidentali); e così insegna a distinguere doveri differenti i quali s’incontrano in un’azione. L’altro punto, sul quale dev’essere diretta l’attenzione, è la questione se l’azione sia avvenuta anche (soggettivamente) [285] p e r l a l e g g e m o r a l e , e quindi, secondo la sua massima, abbia non solo la rettitudine morale come fatto, ma anche il valore morale come intenzione. Ora non vi è alcun dubbio che quest’esercizio, e la coscienza di una cultura che ne risulta alla nostra ragione giudicante semplicemente di cose pratiche, debba produrre a poco a poco un certo interesse anche per la sua legge, e quindi per le azioni moralmente buone. Noi, infatti, finiamo per amare le cose, la cui considerazione ci fa sentire più esteso l’uso delle nostre facoltà di conoscere; la quale estensione è promossa specialmente da quello in cui troviamo la rettitudine morale; perché solo in un simile ordine di cose si può trovar bene la ragione col suo potere di determinare a p r i o r i secondo princìpi quel che deve accadere. Un osservatore della natura finisce per amare oggetti che in principio offendono i suoi sensi, se egli vi scorge la grande finalità della loro organizzazione, e così pasce la sua ragione nella loro considerazione; e Leibniz ripose delicatamente sulla foglia un insetto che aveva considerato accuratamente col microscopio, perché si era trovato istruito vedendolo, e aveva goduto da lui, per così dire un beneficio. Ma questa occupazione della facoltà di giudicare che ci fa [286] sentire le nostre proprie facoltà di conoscere, non è ancora l’interesse alle azioni e alla loro stessa moralità. Essa fa semplicemente che ci si trattenga volentieri in tale giudizio, e dà alla virtù, o al modo di pensare secondo leggi morali, una forma della bellezza, la quale viene ammirata, ma non perciò ancora cercata (laudatur et alget); come tutto ciò la cui considerazione produce soggettivamente una coscienza dell’armonia delle nostre facoltà rappresentative, e in cui noi sentiamo fortificata l’intiera nostra facoltà di conoscere (intelletto e immaginazione), produce un piacere che si può anche comunicare agli altri, benché l’esistenza dell’oggetto ci lasci indifferenti, perché esso vien considerato soltanto come l’occasione per scoprire in noi l’indizio di talenti superiori all’animalità. Ma ora comincia il suo ufficio, il s e c o n d o esercizio, quello cioè di attrarre, con la viva rappresentazione dell’intenzione morale mediante esempi, l’attenzione sulla purezza della volontà: e prima soltanto come perfezione negativa della volontà, in quanto in una azione fatta per dovere non entrano moventi delle inclinazioni come

motivi determinanti di essa. Così il discepolo è reso attento alla coscienza della sua l i b e r t à ; e, benché questa rinunzia produca dapprima una sensazione di dolore, pure, pel fatto che essa sottrae quel discepolo alla violenza di veri bisogni, nello stesso tempo [287] gli annunzia una liberazione dalla molteplice scontentezza in cui tutti questi bisogni lo involgono, e l’anima vien fatta capace di ricevere una sensazione di contentezza da altre origini. Il cuore vien liberato e sollevato da un peso che l’opprime sempre nascostamente quando nelle pure risoluzioni morali, di cui sono presentati esempi, viene manifestato all’uomo un potere interno che egli altrimenti non conosce mai bene: la l i b e r t à i n t e r n a di sbarazzarsi dall’importunità violenta delle inclinazioni, in modo che nessuna affatto, neanche quella che ci è più cara, abbia influsso su una risoluzione, per cui ci dobbiamo ora servire della nostra ragione. Si dia un caso in cui i o s o l t a n t o sappia che il torto è dalla mia parte, e benché la libera confessione di esso e la profferta di riparazione trovi sì grande opposizione nella vanità, nell’egoismo, e anche nell’antipatia, del resto non ingiusta, verso colui il cui diritto fu da me leso, io possa superare tutte queste esitazioni: qui è contenuta la coscienza di un’indipendenza da inclinazioni e da circostanze felici, e della possibilità di bastare a me stesso, la quale possibilità mi è vantaggiosa dappertutto anche da un altro punto di vista. E così la legge del dovere, mediante il valore positivo che l’osservanza di essa ci fa sentire, trova un accesso più facile mediante i l r i s p e t t o p e r n o i s t e s s i alla coscienza della nostra libertà. Su questo rispetto, [288] se è ben fondato, se l’uomo non teme niente più del trovarsi spregevole e riprovevole ai propri occhi nell’esame di coscienza, può essere innestata ogni buona intenzione morale, perché questo è il custode migliore, anzi l’unico, per impedire agl’istinti ignobili e corruttori di penetrare nell’anima. Con ciò ho voluto soltanto indicare le massime più universali della dottrina del metodo di una educazione e di una pratica morale. Siccome la molteplicità dei doveri richiederebbe ancora determinazioni particolari per ogni specie di essi, e ciò importerebbe un lavoro esteso, così mi si terrà per scusato se in un’opera come questa, la quale è soltanto preliminare, mi contento di questi tratti fondamentali. 1

Sat. VIII, vv. 79-84. [T] [Era un testo caro a Kant che lo cita nella Religione, Opp., VI, p. 49, e nella Dottrina del diritto, Opp., VI, p. 334. Alla sua predilezione per il detto di Giovenale accenna anche il Wasianski.]

I

È cosa affatto conveniente lodare le azioni in cui risplende un’intenzione e un’umanità grande, disinteressata e simpatica. Ma qui si deve far notare non tanto l’e l e v a z i o n e d e l l ’ a n i m a , la quale è assai incostante e transitoria, quanto piuttosto la s o m m i s s i o n e d e l c u o r e a l d o v e r e , da cui si può sperare un’impressione più lunga, perché essa implica dei princìpi (laddove l’elevazione dell’anima importa soltanto emozioni). Occorre soltanto riflettere un poco, e si troverà sempre una colpa di cui ci si è resi responsabili rispetto al genere umano (dovesse anche solo essere quella che, mediante l’inuguaglianza degli uomini nell’organizzazione civile, si godono vantaggi per i quali altri sono soggetti a privazioni maggiori), per impedire che la rappresentazione egoistica del m e r i t o r i o scacci il pensiero del d o v e r e .

Conclusione

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio [289] orizzonte; io le vedo d a v a n t i a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di c r e a t u r a a n i m a l e che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell’universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una i n t e l l i g e n z a , mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta [290] alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito. Ma l’ammirazione e il rispetto possono bensì eccitare alla ricerca, ma non compensano la sua mancanza. Ora, che c’è da fare per intraprendere questa

ricerca in un modo utile e conveniente alla sublimità dell’oggetto? Gli esempi a questo proposito possono servire all’esortazione, ma anche all’imitazione. La considerazione del mondo cominciò dallo spettacolo più bello che i sensi umani possano mai presentare, e che il nostro intelletto possa mai sostenere di perseguire nella sua grande estensione, e finì – con l’astrologia. La morale cominciò con la proprietà più nobile della natura umana, il cui sviluppo e la cui cultura mirano ad una utilità infinita, e finì – col fanatismo e con la superstizione. Così avviene di tutti i tentativi ancora rozzi, in cui la parte principale dell’impresa dipende dall’uso della ragione, che non si trova spontaneamente come l’uso dei piedi mediante l’esercizio frequente, specialmente se riguarda proprietà che non si possono manifestare così immediatamente nell’esperienza comune. Ma, dopo che, quantunque tardi, venne in uso la massima di riflettere bene, prima, a tutti i passi che la ragione intende fare, e di non lasciarla procedere altrimenti che per il [291] sentiero di un metodo prima ben esaminato, allora il giudizio sull’universo ricevette tutt’altro indirizzo, e, insieme con questo, un esito, senza paragone, più felice. La caduta di una pietra, il movimento di una pianta, risolti nei loro elementi e nelle forze che vi si manifestano, e trattati matematicamente, produssero, infine, quella cognizione del sistema del mondo chiara e immutabile per tutto l’avvenire, la quale, col progresso dell’osservazione, può sperare sempre soltanto di estendersi, ma non può mai temere di dover ritornare indietro. Ora, questo esempio ci può consigliare a seguir la stessa via nella trattazione delle disposizioni morali della nostra natura, e ci può dare la speranza di un simile buon risultato. Noi abbiamo sotto mano gli esempi del giudizio morale della ragione. Ora, analizzare questi esempi nei loro concetti elementari, e in mancanza della m a t e m a t i c a adottare un procedimento simile a quello della c h i m i c a , della s e p a r a z i o n e dell’empirico dal razionale che si potrebbe trovare in essi, con ripetuti tentativi sull’intelletto umano ordinario, ci può far conoscere con certezza entrambi gli elementi p u r i , e ciò che ognuno per sé solo può fare; e così si può impedire in parte l’errore di un giudizio ancora r o z z o e non esercitato, e in parte (cosa molto più necessaria) le s t r a v a g a n z e g e n i a l i , mediante le quali, come suole avvenire negli adepti della pietra filosofale, si promettono, [292] senza alcuna ricerca metodica e cognizione della natura, tesori immaginari mentre si sprecano quelli veri. In una parola, la scienza (criticamente cercata e metodicamente avviata) è la porta stretta che conduce alla d o t t r i n a d e l l a

s a g g e z z a , se per questa non s’intende semplicemente ciò che si deve fare, ma ciò che deve servire di regola ai m a e s t r i per spianar bene e far conoscere la via della saggezza, che ciascuno deve seguire, e assicurare gli altri dagli errori; una scienza, custode della quale deve sempre restare la filosofia, alla cui sottile ricerca il pubblico non ha da prendere nessuna parte, dovendo bensì partecipare delle d o t t r i n e che soltanto dopo una tale elaborazione gli possono riuscire affatto chiare.

Glossario

I numeri arabi, in carattere tondo, non preceduti da alcuna sigla, rimandano alle pagine dell’edizione della Critica della ragion pratica pubblicata nella «Biblioteca Universale Laterza» nel 1995. Quando le citazioni sono tratte da altre opere di Kant, sono sempre distinte da sigle, di cui si dà l’elenco più sotto. Per le opere kantiane di cui è facilmente accessibile una traduzione italiana, si è pensato di valersene, al fine di rendere più agevole al lettore il reperimento dei luoghi citati. Pertanto dopo la sigla seguirà direttamente, in cifre arabe, l’indicazione del numero della pagina della traduzione italiana da cui è stato desunto il passo citato. Solo nel caso della Critica della ragion pura figurano a volte, dopo il numero arabo in tondo, anche numeri arabi in corsivo e preceduti da A o B, che rimandano alle pagine della prima (A) o seconda (B) edizione della Critica (ed. dell’Accademia di Berlino), e indicano che i passi relativi appaiono soltanto nella prima o nella seconda edizione. Naturalmente nell’utilizzare queste traduzioni si è sempre tenuto conto del termine tedesco originario, anche là dove si verificano eventuali disparità nella sua traduzione. Per tutte le altre opere di Kant, alla sigla segue l’indicazione del volume (in cifre romane) e della pagina (in cifre arabe) dell’ed. dell’Accademia di Berlino in cui si trova il passo citato. Nelle singole voci si è cercato di dare rilievo ai termini particolarmente importanti, adottando o riservando per essi il carattere corsivo. I brani autentici di Kant, a volte abbreviati, sono tra virgolette «...»; per altri scopi si usano gli apici semplici ‘...’. I rinvii a questo stesso glossario sono indicati con v.; quelli alle opere di Kant con cfr.

Abbreviazioni concl. = conclusione ed. = edizione intr. = introduzione n. = nota oss. = osservazione pref. = prefazione r. p. = ragion pura trad. = traduzione sez. = sezione ANTR = Antropologia pragmatica (trad. it., Laterza, Bari 1969) ARG = L’unico argomento ecc. CONFL = Il conflitto delle falcoltà COST = Metafisica dei costumi DM = De mundi sensibilis, etc.

FOND = Fondazione della metafisica dei costumi GIUD = Critica del Giudizio (trad. it. con Glossario, Laterza, Roma-Bari 1991, nella collana «Biblioteca Universale Laterza») LOG = Logica OP = Opus postumum PROL = Prolegomeni ad ogni futura metafisica PURA = Critica della ragion pura (trad. it. con Glossario, Laterza, Roma-Bari 1991, nella collana «Biblioteca Universale Laterza») REL = La religione nei limiti della semplice ragione ABITUDINE (Gewohnheit) «una necessità soggettiva». PURA, «Subiettiva necessità derivante dalla frequente associazione dell’esperienza, che viene falsamente tenuta per oggettiva». Nel senso di ‘assuefazione’ (Angewohnheit). ANTR § 12 (32): «una necessità fisica interna di comportarsi ancora nello stesso modo in cui ci si è comportati». AFFETTO (Affect) ANTR § 73 (141): «sentimento di un piacere o di un dolore attuale che non lascia sorgere nel soggetto la riflessione». AMMIRAZIONE (Bewunderung) GIUD § 29 oss. (110): «meraviglia che non cessa col venir meno della volontà». AMORE (Liebe) in quanto inclinazione è «patologico» (v.) anche se sia (83): «a. di Dio»; in quanto comandato dalla legge morale è «pratico» (ivi). AMOR PROPRIO (Selbstliebe) «benevolenza verso se stessi»; «tendenza a fare di sé il motivo determinante della volontà»; fornisce precetti, ma non leggi pratiche. ANALITICA (Analytik) della r. pratica «regola della verità morale». ANALITICO (analytisch) nesso logico, in contrapposto al legame reale, che è sintetico. Giudizio a., PURA 39, quello in cui il predicato «appartiene al soggetto come qualcosa che vi è contenuto». ANALOGIA (Analogie) PURA in matematica, «l’eguaglianza di due rapporti quantitativi»; in filosofia, l’eguaglianza di due rapporti qualitativi, in cui, dati tre membri, può essere conosciuto e dato a priori solo il rapporto a un quarto, ma non questo quarto membro medesimo. comporta una «universalità o necessità oggettiva almeno presunta». ANTINOMIA (Antinomie): contraddizione inevitabile. A. della r. pratica è l’alternativa per cui, o la felicità dev’essere il movente della virtù, o la virtù deve essere la causa della felicità. ANTROPOMORFISMO (Anthropomorphismus): tendenza a concepire la divinità in forme umane; «origine della superstizione». REL 2, 1, b (VI, 65, n.): quando non sia semplicemente simbolico, bensì dommatico, «ha le conseguenze più funeste per la religione». APODITTICO (apodiktisch): dimostrativamente necessario. PURA Giudizio a. è quello in cui «l’affermare e il negare si considera come necessario». A PRIORI: nella Scolastica significava: ‘a partire da ciò che precede’; in Kant (PROL § 36: IV 139) significa «indipendente da ogni esperienza». ARCHETIPO (Archetypon), v. NATURA. ARCHITETTONICA (Architektonik) PURA «Per a. intendo l’arte del sistema». ASSERTORIO (assertorisch) PURA a. è il giudizio in cui lo «affermare il negare si considera come reale (vero)». AUTONOMIA (Autonomie): proprietà di un principio di fornire la legge a se stesso. Carattere della legge morale per cui l’obbedienza ad essa non è condizionata da alcuna inclinazione sensibile; sola condizione a cui le massime (v.) possono accordarsi con la legge morale. l’a. dell’essere razionale condiziona la volontà di ciascuno, e perciò l’uomo non può essere usato come un puro mezzo. FOND, sez. 2 (IV, 440): «principio dell’a. è: scegliere in modo che le massime della propria scelta siano insieme comprese nel volere medesimo come legge universale». BEATITUDINE (Seligkeit) 123 n.: «benessere completo, indipendente da tutte le cause contingenti del

mondo»; «presuppone una coscienza d’autosufficienza»; implica l’indipendenza completa dalle inclinazioni (v. FELICITÀ). BENE (das Gute) «oggetto della r. pratica», distinto dal piacevole; «non va determinato prima della legge morale, ma solo mediante essa». Il bene razionale (Gut) va distinto dal bene sensibile (Wohl). ‘Sommo b.’ (das höchste Gut) è l’oggetto della r. p. pratica nella sua totalità incondizionata»; è possibile pensarlo solo se si risolve l’antinomia (v.) della r. pratica. sommo b. originario è Dio: PURA «Io dico ideale del sommo b. l’idea di un’intelligenza in cui il volere moralmente più perfetto, unito alla più alta beatitudine, è causa di ogni felicità nel mondo, in quanto essa sta in esatto rapporto con la moralità». ‘B. supremo’ è la virtù, in quanto condizione suprema del sommo b. (dove, alla virtù, deve corrispondere inoltre una pari felicità). BISOGNO (Bedürfnis) della r. pratica: «è fondato su un dovere diperseguire il sommo bene»; «b. in un senso assolutamente necessario»; 141 n.: «gli altri sono b. dell’inclinazione». BUONO (gut): GIUD § 4 (39): «b. è ciò che, mediante la ragione, piace esclusivamente per il suo concetto». CARATTERE (Charakter) intelligibile: fondamento noumenico dell’agire; PURA «non sottostà a nessuna condizione del senso, e non è per se stesso fenomeno». CATEGORICO (kategorisch): ciò che è affermato (o dato) indipendentemente da ogni condizione; quindi, ‘incondizionato’. Giudizio c. è quello in cui la affermazione o negazione non è fatta dipendere da un’ipotesi; imperativo c., è un comando che vale indipendentemente da qualsiasi condizione. CATEGORIA (Kategorie) in senso etimologico vale «predicato»; in Kant è una funzione dell’intelletto, secondo cui esso unifica il materiale in un giudizio. GIUD § 36 (114): «concetto a priori che permette di pensare il molteplice come determinazione dell’oggetto». C. della libertà (66) sono «concetti pratici (v.) a priori» che qualificano il modo in cui si determina la volontà, e «non han bisogno d’intuizione per avere un significato». CAUSA NOUMENON «concetto di un essere che ha la volontà libera»; causa intelligibile (v.), non condizionata dallo schema intuitivo della causalità (successione temporale): ‘pensabile’. GIUD IX (29): «usata a proposito del soprasensibile, la parola c. indica solo il motivo che determina la causalità delle cose naturali a produrre un effetto secondo le proprie leggi, ma anche in accordo col principio formale delle leggi della r.». CAUSALITÀ (Causalität): categoria di relazione, che connette l’antecedente col conseguente. PURA «noi abbiamo bisogno del principio di c. per assegnare le condizioni naturali dei fatti». «come necessità naturale, riguarda solo l’esistenza delle cose in quanto è determinabile nel tempo». ‘C. mediante la libertà’ (Causalität durch Freiheit) potere di agire per attuare la legge morale, dedotto (v. DEDUZIONE) in forza della legge medesima. CONCLUDERE (schliessen): derivare una conoscenza da un principio (cfr. PURA 239). Forma classica del concludere è il sillogismo (Schluss). il c. implica necessità oggettiva. CONOSCERE (erkennen) A Beck 20.I.1792 (XI, 315): «rappresentarsi un oggetto dato come tale mediante concetti». PURA 118 (B146): «comprende due punti: un concetto per cui un oggetto è pensato e l’intuizione onde l’oggetto è dato». Il concetto basta da solo a ‘pensare’ l’oggetto, ma non a ‘conoscerlo’: PURA 22 (B XXVI n.): «per conoscere un oggetto, si richiede che io possa provare la sua possibilità, ma io posso pensare ciò che voglio alla sola condizione di non contraddirmi». CONTENTEZZA (Zufriedenheit) per il dovere compiuto: (41) presuppone il rendersi conto dell’obbligo; (115) presuppone altresì un’inclinazione virtuosa, ma (40) non è legata necessariamente con la coscienza della virtù. CRITICA (Kritik) PURA «una scienza che si limiti a giudicare la r. p., le sue fonti e i suoi limiti». Come c. della r. p. speculativa (PURA 6, A XI-XII) «garantisce la r. nelle sue pretese legittime e condanna quelle che non hanno fondamento» (e cioè: la pretesa che la r. ha di conoscere da sola, anche fuori del campo dell’esperienza possibile). Come c. della r. p. pratica (3 sgg.) non vieta alla r. di determinare da

sola la volontà: al contrario, mostra solo che da tale determinazione risulta l’azione morale. DEDUZIONE (Deduction) PURA giustificazione di un diritto. ‘D. dei princìpi della r. p. pratica’ (43): giustificazione del valore oggettivo e universale del principio morale. la legge morale non richiede d. (v. FATTO), ma fornisce il principio per una d. della libertà. La ‘d. trascendentale del sommo bene’ (114) deve fondarsi su un principio a priori. DIALETTICA (Dialektik) PURA «critica delle apparenze»; seconda parte della Logica, in cui si smascherano gli errori. ‘D. della r. p. pratica’ (15-6): «esposizione e soluzione delle apparenze nei giudizi della r. pratica». DIGNITÀ (Würde) FOND, sez. 2 (IV, 435): «ciò che costituisce la condizione a cui soltanto qualcosa può essere un fine in se stesso ha, non solo un valore relativo, cioè un prezzo, ma un valore intrinseco, cioè una d.». degni del possesso di una cosa o di uno stato si è quando «questo possesso va d’accordo col sommo bene». DIO (Gott) PURA «Essere originario, supremo, essere degli esseri». Causa adeguata a proporzionare la felicità alla virtù, e, pertanto, postulato (v.) della r. p. pratica; (137): il suo concetto non appartiene né alla fisica né alla metafisica, bensì alla morale, che ne offre (138) «un concetto esattamente determinato». DISPOSIZIONE (Anlage) REL c. 1,1 (VI, 28): «per d. di un essere intendiamo, tanto i costituenti che esso richiede, quanto le forme che deve avere il loro collegamento per costituire un tal essere». DOTTRINA DELLA SAGGEZZA (Weisheits-lehre) sapere, non solo «ciò che si deve fare», ma anche «ciò che deve servire di regola ai maestri» (v. SAGGEZZA). DOTTRINA DEL METODO (Methodenlehre) della r. p. pratica: «modo in cui si può procurare alle leggi della r. p. pratica un influsso sulle massime» del nostro volere. DOVERE (Pflicht) «costringimento morale»; azione a cui si è obbligati «mediante la semplice ragione e legge oggettiva di questa»; (FOND sez. 2: IV, 400) «necessità di un’azione per rispetto verso la legge»; tuttavia è impossibile riconoscere con certezza anche un solo caso in cui la massima di una azione «riposi esclusivamente su fondamenti morali e sulla rappresentazione del proprio dovere». ‘D. perfetto’ (voll-kommen) è quello determinato dalla legge in tutte le sue modalità; imperfetto (unvollkommen) quello a cui la legge morale obbliga, senza poter tuttavia determinare le modalità della sua esecuzione e la sua coordinazione con altri doveri imperfetti (ad es.: beneficare il prossimo, e coltivare le proprie doti). In forma di verbo (sollen) ‘d.’ è l’espressione di una necessità morale, in quanto distinta dalla necessità fisica (müssen). (v. OBBLIGO). ECTIPO (Ektypon) PURA «L’ideale [Dio] è il modello (prototypon) di tutte le cose, che ne sono come copie difettose (ectypon)». EGOISMO (Egoismus) ANTR § 2 (12) «Egoista morale è colui che restringe tutti i fini a se medesimo, e non vede alcun utile se non in ciò che gli giova». l’e. dell’amor di sé è philautia, quello della compiacenza di sé è presunzione (arrogantia). EMPIRICO (empirisch) PURA ciò che «ha origine a posteriori, cioè nell’esperienza». le proposizioni e. non hanno necessità. EMPIRISMO (Empirismus): indirizzo che riconduce ogni conoscenza all’esperienza (cfr. PURA 220). E. dei princìpi (12), caratteristico di Hume. L’e. della r. pratica (71) «estirpa sino alla radice la moralità delle intenzioni», facendola dipendere solo da un interesse. ESPERIENZA (Erfahrung) PURA 33 (A 1, n. 1): «il primo prodotto che dà il nostro intelletto, quando elabora la materia greggia delle sensazioni». PROL § 26 (IV, 310); «non un puro aggregato di percezioni», bensì «determinazione dell’esistenza nel tempo secondo leggi necessarie». ETERONOMIA (Eteronomie): dipendenza da una legge esterna; «ogni e. del libero arbitrio non solo non fonda alcun obbligo, ma è contraria al principio di questo e alla moralità» (perché può farsi valere solo agendo sulle inclinazioni). FACOLTÀ (Vermögen) capacità dell’animo: a) di conoscere, b) di desiderare. F. di desiderare

(Begehrungs-vermögen) cfr. 8-9, n. 2 e GIUD § III, 13 n.: «F. di essere, mediante le proprie rappresentazioni, causa della realtà degli oggetti di tali rappresentazioni». La f. di desiderare inferiore (22) è determinata da stimoli sensibili; la superiore (24) è determinata dal rispetto per la legge morale, ed è la stessa ragione. FANATISMO (Schwärmerei) GIUD § 29 (103): «illusione di vedere qualcosa al di là dei limiti della nostra sensibilità»: promette un’estensione della r. pura «mediante un’intuizione soprasensibile». F. morale (84) è una presunzione di poter far coincidere la propria volontà con la legge morale. FATTO (Factum) della r. (32) è la legge morale. FEDE (Glaube) PURA «Credenza sufficiente solo soggettivamente, e ritenuta insufficiente oggettivamente». GIUD § 91 (286): «Fiducia nel raggiungimento di uno scopo, tendere al quale è un dovere, ma di cui non possiamo scorgere la possibilità». ‘F. razionale pura’ (126) è quella di cui «solo la r. pura è la sorgente»; fede nell’esistenza di Dio come condizione del sommo bene richiesto dalla legge morale (cfr. PURA 24, B XXX: altrimenti sarebbero rovesciati i princìpi morali). ‘F. della r. p. pratica’: «determinazione libera del nostro giudizio, favorevole al fine morale (comandato)». FELICITÀ (Glückseligkeit) PURA «appagamento di tutte le nostre tendenze»; «coscienza del diletto della vita, che accompagna l’intera esistenza»; «condizione di un essere razionale nel mondo, a cui tutto avviene secondo il suo desiderio». GIUD § 87 (266): «condizione soggettiva per cui, sotto la legge morale, l’uomo può porsi uno scopo finale. Per conseguenza, il sommo bene fisico possibile nel mondo, per quanto è in noi: sotto la condizione oggettiva che l’uomo si accordi con la legge della moralità, come quella che lo rende degno di essere felice». FENOMENO (Erscheinung) PURA «oggetto indeterminato di una intuizione empirica». PURA 73 n. 1 (B 69): «I predicati del fenomeno possono essere attribuiti all’oggetto stesso in rapporto al nostro senso». FINE (Zweck) GIUD § IV (15): «concetto di un oggetto in quanto contiene anche il principio della realtà di questo oggetto». un essere razionale non può mai essere considerato «semplicemente come mezzo, e non anche al tempo stesso come un f.». FOND, sez. 2 (IV, 433) «soggetto di tutti i f. è ogni essere razionale come f. in se stesso». «Scopo finale» (Enzweck) GIUD § 84 (251): è «quello che non ne richiede alcun altro come condizione della sua possibilità». Scopo finale della creazione (130) non è la felicità, ma il ‘sommo bene’, cioè una felicità condizionata dall’esserne degni. FORMA (Form) è ciò che determina il contenuto, o ‘materia’. PURA «determinazione del determinabile». In campo pratico, è il principio in base al quale determina la volontà. F. della legge (29) è l’universalità, il volere come principio di una legislazione universale, indipendente dalle preferenze di ciascuno. FORMALE (formal), indipendente dalla forma. Motivo determinante pratico f. è la legge morale. FORMULA (Formel) LOG § IX (IX, 77) «regola, la cui espressione serve di modello all’imitazione». 8 n. 1: «determina esattamente ciò che è da fare per eseguire un problema». GIUDIZIO (Urtheilskraft, facoltà del giudicare) PURA «Facoltà di distinguere se qualcosa stia o no sotto una regola data». GIUD § IV (14): «Facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale». GIUD, pref. (4): «termine medio tra intelletto e ragione». G. pratico (72) è la «sussunzione di un’azione possibile sotto una legge pratica». IDEA (Idee) PURA «concetto derivante da nozioni, che sorpassa la possibilità dell’esperienza». GIUD § 49 (138): «concetto a cui nessuna intuizione è adeguata», mentre le «idee estetiche» sono, al contrario, «rappresentazioni della immaginazione che danno occasione a pensare molto, senza però che un qualsiasi pensiero o concetto possa essere loro adeguato». IDEALE (Ideal) trascendentale; Dio. Riceve una realtà oggettiva (131) e un senso (132) come postulato (v.) della r. pratica, ma solo «come principio supremo del sommo bene in un mondo intelligibile mediante una legislazione morale». PURA «per i. intendo l’idea in individuo, come una cosa particolare determinabile o addirittura determinata solo mediante l’idea». IDEALISTA (Idealist): colui che nega l’esistenza degli oggetti indipendente dalle menti (Berkeley), o

nega che essa sia direttamente evidente (Cartesio). «I. trascendentale» (PURA 555: A 369) è chi «considera i fenomeni come semplici rappresentazioni». ILLECITO (unerlaubt) 10 n. «ciò che è impossibile in modo praticamente obiettivo». COST (VI, 222): «un’azione contraria all’obbligazione». IMMORTALITÀ (Unsterblichkeit) dell’anima: «esistenza che continui all’infinito», e con un «carattere di personalità» (v.), dell’essere razionale. È un postulato (v.) della r. pratica, in quanto il progresso morale infinito è imposto dal dovere, e (122) «è possibile solo supponendo un’esistenza che continui all’infinito e una personalità dello stesso essere razionale». IMPERATIVO (Imperativ) «regola caratterizzata mediante un dovere (Sollen) esprimente la necessità oggettiva dell’azione»; è la forma che la legge morale ha nell’uomo, perché l’uomo non ha una volontà ‘santa’. FOND, sez. 2 (IV, 413): «La rappresentazione di un principio oggettivo come necessario per una volontà si dice ‘comando’ (della r.), e la formula del comando si dice ‘i.’». PURA «che la ragione abbia una causalità, è chiaro dagli i.». I. categorico, equivale (422-3) a «legge pratica», mentre l’i. ipotetico «contiene semplici precetti dell’abilità». IMPULSO (Trieb, Instinkt) ANTR § 80 (156): «interna necessitazione della facoltà di desiderare» (v.). INCLINAZIONE (Neigung) ANTR § 73 (141): «desiderio sensibile abituale». FOND, sez. 2 (IV, 413, n.): «indipendenza della facoltà di desiderare da sensazioni». «non produce moralità, anche se conforme al dovere». INCONDIZIONATO (unbedingt): ciò che vale in assoluto, indipendentemente da condizioni. PURA 19 (B XIX): «quel che ci spinge a uscire necessariamente dai limiti dell’esperienza e di tutti i fenomeni». In campo pratico, è il comando della r. pura, indipendente dalla sensibilità (v. CATEGORICO). INTELLETTO (Verstand): una delle due facoltà del conoscere (l’altra è la sensibilità). PURA «Facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero spontaneità della conoscenza». PURA «Facoltà di giudicare». PURA «Facoltà delle regole e, altresì, fonte dei princìpi»: L’i. puro (55) «è pratico ossia: determina la facoltà di desiderare mediante la semplice rappresentazione di una legge». INTELLIGIBILE (intelligibel) DM § 3 (II, 392): «ciò che non è afferrabile se non dal pensiero» (v. MONDO, CARATTERE). INTENZIONE (Gesinnung) morale: «effetto soggettivo della legge» sulla volontà. REL, c. 1 (VI, 25): «primo fondamento soggettivo della assunzione delle massime». INTERESSE (Interesse) GIUD § 2 (36): «il piacere che congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto». I. morale (79) è quello che «si prende all’osservanza della legge morale»; (79): «movente della volontà in quanto rappresentato mediante la r.». INTERNO (inner) PURA senso i. è «quello mediante il quale l’animo intuisce se stesso o un suo stato». INTUIZIONE (Anschauung) PURA «conoscenza che si riferisce immediatamente agli oggetti», PURA 118 (B 146): «ogni nostra possibile i. è sensibile». IPOTETICO (hypothetisch): ciò che vale, o è vero, subordinatamente alla validità di qualche altra proposizione (v. IMPERATIVO). LECITO (erlaubt) 10 n. «ciò che è possibile in modo praticamente obiettivo». COST VI, «un’azione che non è contraria all’obbligazione», né comandata né vietata. FOND IV, «l’azione compatibile con l’autonomia della volontà». LEGALITÀ (Legalität, Gesetzmässigkeit): conformità alla legge, osservata per un movente diverso dal puro rispetto della sua forma universale. COST VI, 219 «il puro accordo di un’azione con la legge, senza alcun riguardo al movente dell’azione stessa». LEGGE (Gesetz): espressione di una connessione necessaria, o tra un fenomeno e l’altro (l. naturale), o tra un’azione e la volontà (l. pratica). L. naturale (26): «regola di fenomeni concordanti, conosciuta a priori». Peraltro Kant parla anche di «l. empiriche» (cfr. GIUD, § IV: 16) PROL § 36 (IV, 320): «l’intelletto non trae le sue leggi dalla natura, ma le prescrive ad essa». ‘L. patologica’ (v.) (45) equivale a ‘fisica’. ‘L. pratica’ (20): «principio pratico oggettivo»; (22): «si riferisce alla volontà senza

considerare ciò che mediante la causalità di essa viene effettuato»; può fornire «semplicemente un principio all’obbligazione», o essere «realmente obbligante». «è impossibile trovare una l. universale delle inclinazioni». LIBERO ARBITRIO (freie Willkühr) non è dato nell’intuizione, ma ha a fondamento la legge morale. REL, c. 1, oss. (VI, 23-4): «La libertà dell’arbitrio non può essere determinata alla azione da alcun motivo, se non in quanto l’uomo lo abbia assunto nella propria massima». COST (VI, 213): «Facoltà di desiderare, in quanto legata alla coscienza della capacità che può avere la sua azione di produrre l’oggetto». LIBERTÀ (Freiheit): in senso negativo (30): «indipendenza dalla legge naturale dei fenomeni»; «indipendenza dalle inclinazioni». In senso positivo (35): «legislazione della r. p. pratica che determina la volontà». ‘L. trascendentale’ (95): «indipendenza dalla natura in genere»; spontaneità attribuibile solo a un essere come cosa in sé. ‘L. interna’ (158) è «la libertà di sbarazzarsi dall’importunità violenta delle inclinazioni». GIUD § I (7): «La l. non contiene nel suo stesso concetto che un principio negativo rispetto alla conoscenza teoretica, mentre stabilisce per la determinazione della volontà princìpi estensivi, che perciò si chiamano pratici». COST VI, «La l., siccome si manifesta a noi solo per mezzo della legge morale, la conosciamo solo come proprietà negativa: vale a dire, non ci sentiamo costretti ad agire da alcun motivo determinante sensibile». La l. dello «automaton spirituale» leibniziano (96) è «simile a quella di un girarrosto». MALE FISICO (Übel) «significa sempre solo una relazione al nostro stato di piacere o dispiacere». MALE MORALE (das Böse) «significa sempre una relazione alla volontà, in quanto questa è determinata mediante la legge razionale a far di qualcosa il suo oggetto». ‘Male radicale’ (REL, 1, 3: VI, 32) «è un male innato nella natura umana, e cionondimeno assunto da noi», dovuto al fatto che la facoltà umana di desiderare è inevitabilmente soggetta alle inclinazioni sensibili. MASSIMA (Maxime) PURA «chiamo m. della r. tutti i princìpi soggettivi, ricavati, non dalla costituzione dell’oggetto, bensì dall’interesse della ragione per una data perfezione possibile della conoscenza di questo oggetto». In campo pratico (20) «principio pratico soggettivo», distinto dall’imperativo oggettivo; «i princìpi pratici sono soggettivi, ossia m., se la condizione viene considerata come valida dal soggetto soltanto per la sua volontà». MATERIA (Materie) PURA «il determinabile in generale». m. della facoltà di desiderare è l’oggetto desiderato. MATERIALE (material): principio pratico m. (22) è quello desunto dall’oggetto desiderato. vi sono «motivi determinanti pratici m.» soggettivi e oggettivi, divisi, a loro volta, in interni (rispettivamente, del «sentimento» e della «perfezione») e esterni (dell’educazione, della società, della volontà di Dio). MERITO (Verdienst): ciò che qualifica ad ottenere una felicità commisurata alla virtù. COST VI, «sebbene la conformità delle azioni al diritto non sia nulla di meritorio, è tuttavia meritoria la conformità della massima (v.) di tali azioni come doveri, cioè il rispetto (v.) per il diritto». Il meritare una punizione (Strafwürdigkeit) (39) «accompagna, nell’idea della nostra r. pratica, la trasgressione della legge morale». METAFISICA (Metaphysik) PURA «è la filosofia derivante dalla r. p., nella sua connessione sistematica», e si divide in ‘metafisica della natura’ e ‘metafisica dei costumi’. Respinta da Kant nella sua forma tradizionale, è accettata come scienza dei princìpi a priori (rispettivamente, del conoscere e dell’agire). COST VI, «se un sistema di cognizioni a priori, derivato da puri concetti, si chiama metafisica, una filosofia pratica che ha per oggetto, non la natura, ma la libertà della volontà, presuppone ed esige una m. dei costumi». METODO (Methode): PURA «procedimento secondo princìpi». MISTICISMO (Mystizismus) della r. pratica (71): suppone che ai concetti morali corrisponda una intuizione non sensibile e «fa, di ciò che serve solo come simbolo, uno schema». È evitato dalla ‘tipica’ (v.).

(Welt) PURA in senso trascendentale è «la totalità assoluta delle cose esistenti». ‘M. intelligibile’ è un m. non dato nell’esperienza, ma pensato quale dev’essere secondo i dettami della legge morale; a base delle leggi pratiche sta «il concetto della loro esistenza in un m. intelligibile, cioè della libertà». ‘M. sensibile’ è quello che cade sotto i sensi, e quindi sottostà alle condizioni del tempo e dello spazio. MORALITÀ (Moralität, Sittlichkeit): conformità alla legge morale, che abbia per movente il puro rispetto (v.) della sua forma universale; si ha (COST VI, 219) «quando l’idea del dovere, derivata dalla legge è, nel contempo, impulso all’azione» (v. LEGALITÀ). La m. (109) è «condizione suprema del sommo bene». GIUD § 29, oss. (103): «La m. è una seconda natura, soprasensibile, di cui conosciamo solo le leggi, senza poter raggiungere con l’intuizione quella facoltà soprasensibile che, in noi stessi, contiene il principio di tale legislazione». MOTIVO DETERMINANTE (Bestimmungs-grund): il fondamento in base al quale si determina l’intenzione (v.); si distingue in ‘materiale’ e ‘formale’ (v. MOVENTE). MOVENTE (Triebfeder) «motivo determinante soggettivo della volontà». Il m. della r. p. pratica è il termine attraverso cui essa determina la facoltà di desiderare, ed è (73-4, 78) il «rispetto per la legge morale»; (88): è la stessa legge morale, in quanto ci fa sentire la sublimità della nostra esistenza soprasensibile. NATURA (Natur) PURA «connessione dei fenomeni, per la loro esistenza, secondo regole necessarie o leggi». GIUD, pref. (3): «Complesso di fenomeni, la cui forma è data a priori». ‘N. archetipa’ (44-45): originaria, quale sarebbe voluta dalla ragione se questa potesse determinarla interamente; ‘n. ectipa’ (44-45): l’effetto possibile dell’idea della n. archetipa nelle cose esistenti. NECESSITÀ (Notwendigkeit) in senso logico: ARG I, I, 2 (II,70): «impossibilità del contrario». In senso empirico: PURA è attribuibile solo all’esistenza dell’effetto, supposta la causa. La n. oggettiva (11) ha luogo solo nei giudizi a priori. La n. soggettiva (11) è l’abitudine; n. morale soggettiva equivale a ‘bisogno’, n. morale oggettiva a ‘dovere’. La n. pratica (20) «dev’essere indipendente da condizioni patologiche (v.), quindi da condizioni che aderiscano accidentalmente alla volontà». NOUMENO (Noumenon): oggetto del puro pensiero (noûs), a prescindere dalle condizioni che ne rendono possibile la ricezione da parte della nostra sensibilità. PURA «il n. designa il concetto problematico di un oggetto per una intuizione e un intelletto affatto diversi dai nostri». OBBLIGO (Verbindlichkeit) «Costringimento a un’azione». COST VI, «l’obbligazione è la necessità propria di un’azione libera sotto un imperativo categorico della ragione»; (ivi): la materia dell’o. è il ‘dovere’. FOND IV, «dipendenza di una volontà non assolutamente buona dai princìpi dell’autonomia». OGGETTIVO (objektiv): ciò che vale per tutti, in forza di una necessità. PROL § 18 (IV, 298): «se abbiamo ragione di ritenere un giudizio valido di necessità universalmente, dobbiamo anche considerarlo o.». In senso pratico (20): «valido per la volontà di ogni essere razionale». OGGETTO (Gegenstand, Objekt): ciò a cui si riferisce la nostra conoscenza o la nostra azione. O. della r. pratica: (58): «il bene e il male», nella sua totalità incondizionata, (111): il sommo bene (v.). PATOLOGICO (pathologisch): attinente all’affezione della sensibilità (non ha quindi, in generale, il senso di ‘morboso’); «volontà affetta patologicamente» è la volontà determinata dalla sensibilità. Tutti i sentimenti sono ‘p.’ (75), salvo il ‘rispetto’. PENA (v. PUNIZIONE, MERITO). PENSABILE (denkbar): l’oggetto in quanto sottostà alle condizioni del pensiero, o categorie, a prescindere dal suo effettivo esser dato nell’esperienza. PENSARE (denken) PURA «conoscere per concetti»; rappresentarsi un oggetto per mezzo delle categorie dell’intelletto. Differisce dal ‘conoscere’ perché questo richiede, in più l’intuizione. PURA 22, n. 1: «io posso p. ciò che voglio alla sola condizione di non contraddirmi». PERCEPIRE (wahrnehmen) PURA 118 (B 147): avere, di un oggetto, «una rappresentazione accompagnata da sensazione». MONDO

(Vollkommenheit) in senso teoretico (42): «integrità di ogni cosa nel suo genere». P. qualitativa (GIUD § 15: 57) «accordo del molteplice di una cosa con un concetto, che dà la regola dell’unione di tale molteplice». In senso pratico (42): «sufficienza di una cosa a vari fini». PERSONALITÀ (Persönlichkeit) PURA 264 (B 403): «identità dell’anima in quanto sostanza intellettuale»; per essa soltanto «ogni essere razionale è fine in se stesso». Equivale (161) a «io indivisibile»; ha «una vita indipendente dall’animalità e dall’intero mondo sensibile». REL I (VI, 28): «idea dell’umanità considerata del tutto intellettualmente». PHILAUTIA (v. AMOR PROPRIO). PIACERE (Lust) ciò che determina all’azione la facoltà di desiderare. GIUD § VI (21): «accompagna il conseguimento di qualsiasi scopo». COST (VI, 212): «il p. che è necessariamente collegato col desiderio (di quell’oggetto la cui rappresentazione determina così il sentimento) si chiama piacere pratico» (v. SODDISFAZIONE). POSSIBILITÀ (Möglichkeit) PURA «Il concetto è possibile tutte le volte che non si contraddice (...) cionondimeno può essere un concetto vuoto». Empiricamente (PURA 184): «possibile è ciò che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza, per l’intuizione e per i concetti». ‘P. fisica’ (GIUD § I: 8) è quella di «un effetto la cui causa non è determinata secondo concetti, bensì, nella materia inanimata, dal meccanismo, o, negli animali, dall’istinto». ‘P. pratica’ (ivi) è quella di «ciò che viene rappresentato come possibile da una volontà». POSTULATO (Postulat) LOG § 38 (IX, 112): «proposizione pratica immediatamente certa, o principio che determina un’azione possibile, in cui si suppone che il modo di eseguirla sia immediatamente certo». I p. matematici (10, n.) implicano certezza apodittica; in geometria (32) il p. «contiene la supposizione che si possa far qualcosa». ‘P. della r. p. pratica’ (122): proposizione teoretica non dimostrabile, che inerisce alla legge morale come condizione della sua pensabilità (immortalità, esistenza di Dio, libertà); «non domma teoretico, ma supposizione» (secondo cui ho il dovere di determinare la mia volontà). PRATICO (praktisch): attinente alla determinazione della volontà. PURA «p. è tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà. Ma se le condizioni dell’esercizio della libertà sono empiriche, la ragione non può avervi se non un uso regolativo (...); invece le leggi p. sono prodotti della pura r.». Nel primo caso (GIUD § I: 8) l’uso della ragione è ‘tecnico-pratico’, nel secondo ‘etico-pratico’, e la r. pura (33) «è per sé sola p.». La conoscenza p. (20) è «quella che si occupa dei motivi determinanti della volontà» e (PURA 14: B X) «si riferisce all’oggetto per determinarlo». PRECETTO (Vorschrift) è un «imperativo condizionato» dal fatto di desiderare già una data cosa. GIUD § I (9): «regola tecnico-pratica dell’arte e dell’abilità in generale, e anche della prudenza, in quanto i suoi princìpi riposano su concetti» (ivi): «corollario della filosofia teoretica». PRESUNZIONE (Eigendünkel) tendenza a fare dell’amor proprio un principio legislativo incondizionato (v. EGOISMO). PREZZO (Preis) FOND sez. 2 (IV, 434): «ciò che si riferisce alle comuni inclinazioni e necessità umane ha un p. di mercato; ciò che, anche senza che si presupponga un bisogno, soddisfa a un certo gusto (...) un p. d’affezione». COST I, § 31 (VI, 286): «pubblico giudizio circa il valore di una cosa». PRIMATO (Primat) «superiorità che una cosa ha su un’altra», per il fatto di essere «il primo motivo determinante del legame con tutte le altre». Il p. della r. p. pratica rispetto alla speculativa (121-2) deriva dalla superiorità del suo interesse (v.). PRINCIPIO (Grundsatz, Prinzip, talora Anfangsgrund): LOG § 23 (IX, 110): «giudizio a priori immediatamente certo, da cui se ne ricavano altri, mentre esso stesso non è subordinato a nessun altro». PURA «Tutti i p. dell’intelletto puro non sono altro che p. a priori della possibilità dell’esperienza». GIUD § V (16): «è un p. trascendentale quello con cui è rappresentata la condizione universale a priori sotto la quale le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza; invece un p. si chiama metafisico quando rappresenta la condizione a priori sotto la quale soltanto oggetti, il cui concetto dev’esser dato PERFEZIONE

empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori». ‘P. pratico’, o morale (20): «proposizione che contiene una determinazione universale della volontà, che ha sotto di sé parecchie regole pratiche»; esso è tecnico-pratico (GIUD § I: 8) «se il concetto che determina la causalità è un concetto della natura»; etico-pratico «se il concetto che determina la causalità è un concetto della libertà». Nella Critica della r. pratica (16) il p. della r. pratica «dev’essere il cominciamento della trattazione». ‘P. materiale’ (41) è quello desunto dall’oggetto voluto; formale, quello desunto dalla forma della legge (universalità). Il principio della felicità (v.) (26) «fornisce massime, ma non leggi pratiche». PROBLEMATICO (problematisch): ciò che coinvolge un problema. ‘Giudizio p.’ (PURA 93-4) è quello che enuncia una possibilità; ‘concetto p.’, quello a cui non si può assegnare un oggetto corrispondente nell’esperienza. PROTOTIPO (Prototypon) è un esemplare o modello, come l’idea della santità (v.) per il nostro volere. PRUDENZA (Klugheit) FOND, sez. 2 (IV, 416): «abilità nella scelta dei mezzi, in vista del proprio massimo benessere» (ivi, n.): si distingue in «mondana» e «privata». consiglia, ma non comanda, fornendo massime dell’amor proprio. PUNIZIONE (Strafe) male fisico legato al male morale, come sua conseguenza doverosa, anche se non sempre naturale (v. MERITO). PURO (rein) PURA «chiamo p. tutte le rappresentazioni in cui non è mescolato nulla di ciò che appartiene alla sensazione» (v. RAGIONE). RAGIONE (Vernunft): facoltà conoscitiva superiore (in contrapposto all’inferiore, o sensibilità) e, in questo senso, comprensiva dell’intelletto (v.). Propria della r., però, è l’esigenza dell’incondizionato (v.): GIUD § 76 (221): «La r. è una facoltà dei princìpi, e la sua ultima esigenza è l’incondizionato (...). Ma in quanto teoretica non contiene per se stessa alcun principio costitutivo, bensì princìpi regolativi soltanto». Per contro come r. pratica (15) basta da sola a determinare il volere, indipendentemente dalla sensibilità: la r. p. (33) è «per sé sola pratica»; (16) «è pratica in modo incondizionato». La r. p. pratica (33) «è immediatamente legislativa». R. pratica «patologicamente condizionata» (121) è, per contro, quella che si limita a servire l’interesse delle inclinazioni. In generale la r. (PURA 47) «è quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa assolutamente a priori»: GIUD, pref. (3): «si può chiamare r. p. la facoltà della conoscenza mediante princìpi a priori, e ‘critica della r. p.’ l’esame della sua possibilità». La r. pratica non va tuttavia criticata quando è ‘pura’ (3), bensì quando è ‘patologicamente determinata’ (v. CRITICA). RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung): termine generico, per indicare tutto ciò che è presente alla mente (compresa la legge morale). PURA «La r. è il genere» (di cui le varie conoscenze sono le specie). RAZIONALE (rational; in senso generale, vernünftig): fondato sulla (pura) ragione, senza ricorrere all’esperienza. Un principio r. non può essere costitutivo (ma solo regolativo) di una conoscenza, mentre può bastare a determinare la volontà, secondo il dovere. REALTÀ (Realität): categoria della qualità, corrispondente al giudizio affermativo, distinta dalla ‘esistenza’ (Dasein, Wirklichkeit), che è una categoria della modalità. La r. oggettiva (sebbene solo ‘pratica’) della ragione (16) è desunta dalla legge morale. REGOLA (Regel) pratica: «prescrive l’azione come mezzo per raggiungere un fine». La r. del giudizio pratico (69) consiste nel chiedersi se la massima della propria azione potrebbe valere come una legge di natura (v. PRINCIPIO). RELIGIONE (Religion) «conoscenza di tutti i doveri come comandamenti divini, non in quanto decreti arbitrari, bensì in quanto leggi essenziali di ogni volontà libera per se stessa». Quindi (GIUD § 91: 286) «è la morale in rapporto con Dio in quanto legislatore». PURA 259 n. 1: «congiunzione di teologia e di morale». RISPETTO (Achtung) per la legge morale: «sentimento positivo, di origine non empirica»; è il movente (v.) attraverso cui la r. p. pratica determina la volontà: (78) «unico indubitato movente morale». Il r. per

noi stessi (158) «facilita l’accesso alla coscienza della nostra libertà». SAGGEZZA (Weisheit) «dottrina del sommo bene»; PURA «idea della necessaria unità di tutti i fini possibili». Nel tedesco del Settecento si diceva ‘s. mondana’ (Weltweisheit) la filosofia, ma Kant osserva (108) che «converrebbe lasciare a quella parola il suo significato antico, come ‘dottrina del sommo bene’ in quanto la ragione si sforza di farne una scienza». Cfr. OP (XXI, 120): «Weltweisheit è conoscenza dei fini supremi della ragione umana: ma poiché solo Dio è saggio, la ‘saggezza mondana’ costituisce un analogo della s. commisurato all’uomo, e quindi null’altro che ‘amore per la s.’». SANTITÀ (Heiligkeit) «conformità completa di una volontà con la legge morale»; proprietà di una «volontà che non fosse capace di alcuna massima contraria alla legge morale». SCETTICISMO (Skeptizismus): atteggiamento di completa diffidenza per la ragione, dovuto (PURA 46) a un suo «uso dogmatico». GIUD § 21 (68): convinzione che le conoscenze siano «un puro gioco delle facoltà rappresentative». Lo s. di Hume (13) «non è illimitato». SCOPO (v. FINE). SENSIBILE (sinnlich): ciò che può cadere sotto i sensi, o, in genere, riguarda la sensibilità. Mondo s. è il mondo dell’esperienza. SENSIBILITÀ (Sinnlichkeit) capacità di sentire del soggetto. PURA «capacità di ricevere rappresentazioni, per il modo in cui siamo modificati dagli oggetti». SENTIMENTO (Gefühl) GIUD § 3 (38): si distingue dalla sensazione (Empfindung) come ciò che «deve restare sempre puramente soggettivo e non può sostituire la rappresentazione di un oggetto». Il ‘s. morale’ se è sensibile, o ‘patologico’ (v.), (42) è un principio pratico ‘materiale’ (v.), inadatto a fondare la moralità; se invece (80) è «capacità di prendere interesse alla legge morale», esso «è un prodotto soltanto della ragione», che coincide col rispetto (v.) per la legge morale ed è (89) «un influsso necessario della r. p. pratica sulla sensibilità». SINCRETISMO (Synkretismus) tendenza a formare «sistemi di coalizione», accogliendo insieme princìpi diversi, anche se si contraddicono. SINTETICO (synthetisch): ‘ottenuto per sintesi’, ma anche spesso, nel linguaggio di K., ‘producente una sintesi». Nel giudizio s. (PURA 39) «il predicato si trova interamente fuori del soggetto, sebbene sia connesso con esso». Legame s. (112) è il «legame reale». SOLIPSISMO (Selbstsucht), (Solipsismus): in senso etico equivale a ‘egoismo’ (v.). SOPRASENSIBILE (übersinnlich): ciò che oltrepassa per sua natura la sensibilità, come oggetto di pensiero, o idea, che non trova riscontro nell’esperienza. GIUD § 57 (167): «ci si fanno incontro tre idee: l’idea del s. in generale come sostrato della natura; l’idea del s. come principio della finalità soggettiva della natura per la nostra facoltà di conoscere; l’idea del s. come principio dei fini della libertà e come principio dell’accordo di quei fini con la libertà nella moralità». (46) «la possibilità di una tale natura s., il concetto della quale possa essere nello stesso tempo, mediante la nostra volontà libera, fondamento della realtà di essa, non ha bisogno di alcuna intuizione a priori (di un mondo intelligibile) che, come s., dovrebbe anche essere impossibile, per motivo determinante del volere». SPIRITO (Geist) della legge: l’intenzione morale (72), contrapposta a ‘lettera’ (Buchstabe). SPONTANEITÀ (Spontaneität): componente attiva di una nostra facoltà (‘in contrapposto a recettività’). PURA «s. della conoscenza è l’intelletto». La possibilità (48) dell’«idea della libertà come di una facoltà di assoluta s.» è un «principio analitico della r. p. speculativa», ma la sua realtà oggettiva sussiste solo in senso pratico, in forza della legge morale. SUPEREROGATORIA (überverdienstlich) è un’azione che (152, n.) va al di là del dovere, e in cui «risplende un’intenzione e una umanità grande e disinteressata». SUPERSTIZIONE (Aberglaube, Superstition) estensione apparente dei concetti della r. p. mediante una pretesa esperienza. Consiste (GIUD § 40: 121) «nel rappresentarsi la natura come non sottoposta alle regole dell’intelletto». CONFL VII, «la s. è l’inclinazione a riporre maggiore fiducia in ciò che si crede non avvenga in modo naturale piuttosto che in ciò che si può spiegare naturalmente».

(Talent) «perfezione in senso pratico» in quanto sia «qualità dell’uomo». ANTR § 54 (108): «s’intende per t. (dono di natura) quella superiorità che non dipende dall’insegnamento, ma dalla disposizione naturale del soggetto». TECNICO (technisch): sono proposizioni t. (26, n.) quelle che «indicano il molteplice della azione possibile» per esempio, il mezzo per una costruzione matematica; esse non vanno chiamate ‘pratiche’ (v. PRINCIPIO). TEORETICO (theoretisch): relativo alla conoscenza. LOG § 32 (IX, 110): «proposizioni t. sono quelle che si riferiscono all’oggetto e determinano che cosa gli convenga e che cosa no». L’uso t. della ragione (15) «si applica agli oggetti della sola facoltà di conoscere». TIPICA (Typik) del giudizio pratico: coglie, nella conformità a leggi propria della natura sensibile, il ‘tipo’, o l’immagine, della natura intelligibile (conforme alla legge morale); corrisponde a quello che è lo ‘schematismo’ per il giudizio teoretico, nella funzione di mediare il passaggio tra il concetto intellettuale e l’intuizione sensibile. UMANITÀ (Menschheit) REL c. 2, sez. 1 a (VI, 60): «è ciò che soltanto può fare del mondo un oggetto di deliberazione divina e uno scopo della creazione». In quanto portatrice della legge morale (86) «dev’essere santa» (pur essendo l’uomo «abbastanza profano») (v. AUTONOMIA). Nel senso di ‘sentimento di u.’ (Humanität) è «da un lato il sentimento universale della simpatia, dall’altro la facoltà di poter comunicare intimamente e universalmente». UNIVERSALITÀ (Allgemeinheit): validità per tutti. GIUD § 8 (45-54): l’u. logica si fonda su concetti, l’u. estetica si fonda sul rapporto delle rappresentazioni con sentimento di piacere e dispiacere in ogni soggetto (v. LEGGE). USO (Gebrauch) pratico: quello in cui la ragione (15) «si applica a motivi che determinano la volontà» (v. TEORETICO). VALORE (Wert) FOND, sez. 2 (IV, 435): costituisce la condizione a cui qualcosa «può essere uno scopo in se stesso», avendo «non solo un v. relativo, cioè un prezzo, ma un valore intrinseco, una dignità». VIRTÙ (Tugend) «progresso all’infinito delle proprie massime», verso una sempre maggiore conformità alla legge morare; implica un contrasto con le inclinazioni, altrimenti si cangerebbe soggettivamente in santità (v.); «bene supremo», come condizione morale di tutto ciò che si può desiderare. VOLONTÀ (Wille) «Facoltà di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni»; GIUD § 10 (51): è la «facoltà di desiderare in quanto può essere determinata ad agire mediante concetti, cioè secondo la rappresentazione di uno scopo». TALENTO

CRITICA DEL GIUDIZIO

Introduzione di Paolo D’Angelo

Delle opere letterarie autenticamente universali è stato detto con ragione che uno dei caratteri principali della loro grandezza consiste nella possibilità che esse offrono di essere lette a diversi gradi di profondità, così che anche il lettore che non riesce a coglierle in tutta la loro complessità è in grado pur sempre di ricavarne qualcosa di importante. Ma dei capolavori filosofici difficilmente si potrebbe affermare il medesimo. Nel loro caso infatti appare immediatamente chiaro che solo un’interpretazione che sappia tenere conto dell’intero orizzonte problematico di ciascuno può essere veramente adeguata, e che ogni lettura che isoli un aspetto parziale del testo, rescindendo i legami che lo legano al tutto di cui fa parte, è anche una lettura semplificata, e quindi infedele. Ciò vale in modo particolare per la Critica del Giudizio, un’opera nella quale non soltanto, come accade nelle altre critiche kantiane, ogni argomentazione esige sempre che si tenga presente il quadro generale in cui essa si inserisce e prende forma, ma persino l’unità materiale del testo è sul punto di andare perduta se ci si arresta soltanto alla sua superficie. A partire da qui, infatti, non è possibile rispondere nemmeno alla domanda più semplice che si possa rivolgere a un testo o su di un testo, anche filosofico, e cioè: di che cosa parla? A prima vista, come chiunque può verificare scorrendo tramite l’indice i titoli dei novantuno paragrafi che la compongono, la Critica del Giudizio parla di (almeno) quattro problemi non solo diversi, ma disparati e anzi eterocliti, quali possono essere quello di ordine gnoseologico o meglio epistemologico delle leggi empiriche della natura e della loro unità possibile (nell’Introduzione), quello del gusto, del bello, del sublime, dell’arte (nella Critica del Giudizio estetico), quello della possibilità di una considerazione finalistica dei prodotti organici della natura, piante e animali (nella Critica del Giudizio teleologico) e persino (nell’ultima sezione di quest’ultima, contenente la sua Metodologia) di problemi che

sembrano riguardare l’etica o la teologia: addirittura, «Dello scopo finale dell’esistenza di un mondo, o della creazione stessa» (§ 84). Quindi, a meno che non si voglia rinunziare subito al criterio esegetico di leggere un testo supponendone regolativamente una qualche coerenza, è giocoforza spostarsi più in profondità all’interno di esso, per trovarvi una prospettiva che consenta di cogliere la relazione di quelle parti apparentemente slegate, e scoprire così che accanto o meglio al di là di quei settori problematici ve ne sono altri che li attraversano e li travalicano: per esempio non tanto quello della architettura sistematica e della relazione tra le diverse parti della filosofia critica kantiana (che, come tale, è piuttosto un quinto o un ennesimo problema sullo stesso piano dei precedenti, e subito evocato, a differenza di questi, nella Prefazione dell’opera), ma quello di un complessivo ripensamento della filosofia trascendentale kantiana, rispetto al quale ognuno di quegli ambiti problematici, epistemologia, estetica, finalismo, etica e, appunto, sistematicità esterna, finisce per valere non tanto per se stesso, ma per il tipo di osservazioni che a partire da esso risultano possibili. Al lettore della Critica del Giudizio, insomma, sembra impedita ogni via d’accesso parziale o graduale all’opera: come e più di ogni altro testo filosofico, esso sembra disposto ad aprire le sue porte solo a coloro che sappiano ponere totum. Eppure, se si guarda alla storia degli effetti della Critica del Giudizio, al modo in cui essa ha operato nello svolgimento del pensiero, la situazione immediatamente si rovescia, e proprio quella possibilità di una lettura fruttuosa anche a livelli diversi di approfondimento, che pareva valere solo per le opere letterarie, riprende subito corpo. Negli oltre due secoli che ci separano dalla prima edizione la Critica del Giudizio si è mostrata capace di offrire avvii decisivi anche a chi di volta in volta ha visto solo singoli aspetti del testo, e persino coloro i quali hanno negato ogni possibilità di scorgere in esso una vera unità – come ad esempio Schopenhauer, al quale la materia della terza Critica pareva frutto di una congiunzione barocca, cioè, etimologicamente, bizzarra e stravagante – non cessavano però di ritenere i risultati raggiunti in alcune delle sue parti come acquisti perpetui. Come pure è vero che interpretazioni autorevolissime non soltanto hanno privilegiato certi lati dell’opera, ma quasi oscurato quelli sui quali non cadeva la loro attenzione: cosicché, sempre exempli gratia, se l’interpretazione che ne diedero Goethe ed Hegel si può dire idealmente centrata sul Giudizio teleologico, per molti decenni tra Ottocento e Novecento si è guardato quasi

soltanto al Giudizio estetico, mentre in seguito si è fatto perno sui temi epistemologici della Introduzione, ma anche, più recentemente, sulla rilevanza della Critica del Giudizio per i problemi dell’etica e della politica. Dalla storia delle interpretazioni il lettore potrebbe dunque ricavare una conclusione diametralmente opposta a quella prima stabilita, e in definitiva più tranquillizzante: la certezza, cioè, che ogni parte dell’opera e ogni livello di lettura gli daranno comunque accesso a idee che hanno svolto una funzione essenziale nella filosofia contemporanea. Forse, però, è più saggio tentare di tenere assieme la prima e la seconda indicazione, e ricavarne non una certezza ma un criterio di interpretazione: quello per cui la Critica del Giudizio va letta, per dir così, per approfondimenti successivi, in modo tale che i singoli risultati delle sezioni di essa vengano riconsiderati man mano che l’opera procede. 1. I quattro momenti del giudizio di gusto. C’è almeno una ragione forte e in qualche misura ‘oggettiva’ a favore di questo approccio al testo: ed è il fatto che la Critica del Giudizio non è stata scritta sulla base di uno schema preordinato corrispondente all’incirca a quello che poi è stato realizzato, ma è piuttosto cresciuta su se stessa ed ha bien changé sur sa route, a tal punto che quella che era nata come una Critica del gusto è diventata una Critica del Giudizio. Dunque, accanto ed oltre all’interrelazione, propria di ogni testo, tra le parti e il tutto, qui siamo di fronte a una progressiva modificazione del complesso in cui le parti vanno a inserirsi, e che modifica a sua volta, almeno in parte, i risultati a cui giungevano quelle parti. È certo che Kant ha maturato tardi, e con tutta probabilità piuttosto rapidamente, la decisione di affiancare alla Critica della ragion pura e a quella della Ragion pratica una terza Critica che affrontasse i problemi del gusto. Perché si potesse trattare di quest’ultimo all’interno della filosofia trascendentale era necessario infatti presumere di poter trovare un qualche tipo di principi a priori per il gusto stesso, e di questo Kant non aveva soltanto dubitato a lungo: era stato convinto del contrario, e cioè che quei principi fossero empirici e soltanto empirici, fino almeno alla prima stampa della Ragion pura. «Le regole e i criteri del gusto sono empirici sulla base delle loro fonti, e non possono mai servire come leggi a priori », scrive Kant nel 1781. Nel 1787, in occasione della seconda edizione della Ragion pura, rivede ed attenua: «sulla base delle loro principali fonti» e «come leggi a priori determinate ». Il 25 giugno dello stesso anno Kant scrive a Schütz

mentre sta ultimando la Ragion pratica, e dice che non può recensire le Idee di Herder perché «deve dedicarsi subito alla Fondazione della Critica del gusto». L’11 settembre la Pratica è ormai dall’editore, e Kant può scrivere a Jakob che «si rivolgerà immediatamente all’elaborazione della Critica del gusto». A fine anno, a Reinhold, può già dire di più: «al momento mi sto occupando della critica del gusto. In questa occasione ho scoperto un tipo di principi a priori nuovo rispetto ai precedenti. Le facoltà dell’animo sono infatti tre: facoltà conoscitiva, sentimento di piacere e dispiacere, facoltà di desiderare. Ho trovato principi a priori per la prima nella Critica della ragion pura (teoretica) e per la terza nella Critica della ragion pratica. Li cercavo anche per il secondo; e, sebbene prima ritenessi impossibile trovarne, sono stato messo su questa strada dalla sistematicità che l’analisi delle facoltà prima menzionate mi ha fatto scoprire nell’animo umano [...]. Cosicché ora riconosco tre parti della filosofia, ognuna delle quali ha i propri principi a priori». Già da questi pochi dati è possibile ricavare due indicazioni importanti per la lettura: una, diciamo così, in negativo, e una in positivo. In negativo, è possibile concluderne che non c’è una vera continuità tra le riflessioni pre-critiche di Kant in materia di estetica e la posizione del problema della Critica del Giudizio. Aver letto le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime del 1764 o conoscere i giudizi di Kant sui poeti classici e contemporanei ricavabili dalle sue Riflessioni manoscritte può certamente essere utile per provare che Kant era più informato sulla letteratura settecentesca in materia di estetica di quanto i pochissimi rinvii espliciti lascino supporre, o che la sua cultura letteraria era meno ristretta e scolastica di quanto si intraveda attraverso le citazioni della terza Critica, ma non è affatto indispensabile per comprenderne il problema: da questo punto di vista vi è cesura, non continuità, e dunque non esiste propriamente una preistoria o una storia della genesi della Critica del Giudizio, se non come storia della formazione del testo stesso1. In positivo, si può invece affermare che all’idea di scrivere una nuova Critica Kant è stato condotto non da un rinnovato confronto con le questioni dell’estetica e del gusto, ma da problemi che nascevano piuttosto nelle parti già elaborate della sua filosofia critica: solo così si spiega infatti che proprio negli anni in cui compone le sue opere critiche fondamentali Kant maturi anche le idee che lo portano, contro le sue precedenti convinzioni, ad ammettere la possibilità di trattare, da un punto di vista trascendentale, appunto della questione del gusto.

Non vi è ragione di dubitare che Kant abbia iniziato la stesura dalla Analitica del Bello2, nella quale viene esaminata la natura del giudizio di gusto. Il punto di stazione dal quale ci si pone non è dunque quello dell’oggetto bello, né quello della produzione di esso, ma piuttosto quello della ricezione da parte di un soggetto. Tale ricezione si esprime in un giudizio, ossia nell’asserzione che riconosce la bellezza, e il giudizio viene esaminato sulla scorta dei quattro momenti che nella Critica della ragion pura articolano il giudizio logico secondo la quantità, la qualità, la relazione e la modalità, invertendo però l’ordine dei due primi momenti3. Bisogna notare che la scelta di condurre l’analisi sulla falsariga del giudizio logico serve a Kant innanzi tutto per rimarcare la diversità tra giudizio logico e giudizio di gusto: quest’ultimo non designa nulla nell’oggetto, non serve alla sua conoscenza. In esso la rappresentazione viene riferita al soggetto, o meglio al suo senso o sentimento di piacere. Nel giudizio ‘x è bello’ il predicato non ci fa conoscere nulla dell’oggetto, ma ci attesta che il soggetto che pronunzia il giudizio prova un sentimento di piacere dinanzi alla rappresentazione dell’oggetto. Occorre allora determinare meglio questo piacere, distinguendolo da altri due tipi di soddisfacimento, quello del piacevole e quello del buono. Il piacevole (per esempio la gradevolezza di un cibo) riposa interamente sulla sensazione, mentre il buono è ciò che piace mediante la ragione, ciò che è oggetto della volontà, come utilità o bontà in se stessa. Piacevole e buono si riferiscono entrambi alla facoltà di desiderare, in ambedue c’è un coinvolgimento pratico che è invece assente nel giudizio di gusto. Il piacere in questi casi, dice Kant, è determinato non dalla semplice rappresentazione dell’oggetto, ma dal rapporto del soggetto con l’esistenza dell’oggetto. Il piacevole riguarda l’animalità dell’uomo; il buono potrebbe riguardare qualsiasi essere razionale; la bellezza riguarda solo l’uomo come animale ragionevole. Essa esprime un piacere nel quale l’approvazione non è imposta da un interesse dei sensi o della ragione, un piacere libero e disinteressato (§§ 1-5). Proprio perché manca l’interesse, cioè il piacere non è fondato su di una inclinazione del soggetto, il bello viene concepito come fonte di un piacere universale, fondato su qualcosa che si può presupporre in ogni altro soggetto giudicante. In questo è simile (ma, appunto, soltanto simile) al giudizio logico, nel quale pure si presuppone la validità per ognuno. Nel giudizio logico infatti l’universalità proviene dai concetti, è fondata su di essi; nel

giudizio di gusto ciò non accade e non può accadere, perché non sono i concetti a determinare il sentimento di piacere e dispiacere, se non in campo morale. Il giudizio di gusto gode dunque di una peculiare forma di universalità, distinta dall’universalità oggettiva del giudizio logico: la sua è un’universalità soggettiva. Con questa determinazione, esso torna a opporsi nuovamente anche al piacevole, che è soggettivo, ma soltanto soggettivo (§§ 6-7). All’esame della particolare forma di universalità di cui gode il giudizio di gusto sono dedicati i due paragrafi seguenti, di grande importanza (in particolare, Kant indica nel § 9 la «chiave» dell’intera «critica del gusto»). Non è in discussione, sia chiaro, un’ universalità de facto del giudizio sulla bellezza, un’universalità ricavabile dall’osservazione o dalla statistica. Kant sa benissimo che ci sono giudizi sul mero piacevole che moltissimi condividono, mentre altrettanti rigettano alcuni giudizi di gusto. L’universalità del bello è una validità comune, un’universalità che non può fondarsi su regole imperative («non si può dare alcuna regola, secondo la quale qualcuno sarebbe obbligato a riconoscere bella qualche cosa»). Nel caso del bello si giudica come se il piacere dipendesse dalla sensazione (come nel piacevole) e tuttavia si «crede di avere per sé una voce universale», e si richiede il consenso degli altri. Non si può contare su tale consenso, ma si deve pretenderlo. A fondamento del giudizio di gusto sta infatti la possibilità di comunicare universalmente lo stato d’animo, ed è questa possibilità a precedere e causare il piacere, non il piacere a precedere il giudizio. Più precisamente, a essere comunicabile è lo stato d’animo che risulta dal rapporto delle facoltà conoscitive (immaginazione e intelletto) quando esse non sono vincolate da una regola (da un concetto), ma stanno piuttosto in quel rapporto libero (Kant dice: in un «libero gioco») nel quale si radica ogni conoscenza (Kant dice: «la conoscenza in generale»). L’universalità soggettiva del giudizio di gusto si fonda sull’universalità delle condizioni soggettive del giudizio, alle quali pure deve competere una comunicabilità: chiunque non può conoscere che mediante un collegamento dell’intelletto e del senso (come è il caso nell’essere umano) deve anche poter realizzare tra l’uno e l’altro un accordo spontaneo, non solo un accordo in vista di una conoscenza effettiva. Quando dichiariamo bello un oggetto, noi ci fondiamo sull’accordo, sulla rispondenza tra quell’oggetto e le nostre facoltà conoscitive: è bello l’oggetto che è conformato in modo tale da porle nello stato di libero gioco. L’oggetto,

diciamo allora con Kant, presenta rispetto a esse una finalità (i molteplici significati che questo termine assume nella Critica del Giudizio si afferrano meglio se si evita, come ammonisce Cassirer4, di pensare subito alla finalità in termini di ‘funzionalità’, del ‘servire a’, e ci si tiene a un significato molto più ampio: finalità come ‘concordanza delle parti in un’unità’, ‘armonia’ o, appunto, ‘accordo’); l’esame di questa peculiare finalità è intrapreso nel terzo momento dell’Analitica del Bello. Kant denomina la finalità su cui si fonda il giudizio di gusto finalità soggettiva (si intenda: una finalità per il soggetto), formale (riguarda la forma dell’oggetto, non la sua materiale costituzione), senza scopo. Quest’ultima determinazione, apparentemente contraddittoria, si chiarisce attraverso la contrapposizione instaurata nel testo tra finalità soggettiva e finalità oggettiva. La seconda ha infatti due forme, l’utilità e la perfezione, ed in ognuna di esse è necessario un concetto di ciò che la cosa deve essere, è necessario figurarsi lo scopo della cosa. Ma la bellezza non riposa né sulla utilità né sulla perfezione, perché altrimenti dipenderebbe da un concetto. Che la bellezza non sia identificabile con l’utilità è già stato visto nel primo momento. Nel terzo, Kant insiste soprattutto sulla sua irriducibilità alla perfezione, perché l’idea della bellezza come perfezione percepita confusamente dai sensi (e non distintamente dall’intelletto) era centrale nell’Aesthetica di A. Baumgarten e, per suo tramite, era divenuta corrente nella Germania del Settecento. È necessario, scorrendo questi paragrafi (e in part. il 14 e il 16) prevenire alcuni possibili fraintendimenti, propiziati dal fatto che Kant è qui prodigo di esempi, più che in altre sezioni dell’opera: Kant non vuol dire che nel giudizio fattuale sul bello non entrino affatto concetti, o che sia necessario ignorare qualsiasi funzione della cosa che si giudica. Quel che gli sta a cuore è stabilire che il giudizio di gusto non discende da concetti, non consegue dalla perfezione: il concreto giudizio di gusto difficilmente potrà ignorare la presenza di scopi nell’oggetto, ma il puro giudizio di gusto ne farà astrazione, ossia non riporterà a essi la propria giustificazione. Altrimenti (e qui l’argomentazione kantiana recupera di colpo la plausibilità anche immediata) sarebbe possibile dare regole oggettive del gusto: che è appunto quello che non accade, se si vuole, proprio di fatto. Qualcosa di simile vale anche per la controversa distinzione tra bellezza libera e bellezza aderente, tra la bellezza che non presuppone un concetto di quello che la cosa dev’essere, e quella che invece lo presuppone. Anche se Kant indica proprio esempi di bellezza libera (un fiore, una conchiglia, un

disegno à la grecque) e aderente (un uomo, un cavallo, un edificio), è chiaro che a opporsi non sono due tipi di oggetti, ma due modi di guardare alla bellezza: ed è solo nel secondo che diventa di nuovo possibile, ma solo a certe condizioni, indicare una norma, anzi un ideale della bellezza (§17)5. Il quarto momento riprende i temi del secondo, così come nel terzo erano riecheggiati quelli del primo. Il bello produce necessariamente piacere. Ancora una volta, questa necessità è diversa sia dalla necessità in campo teoretico sia dalla necessità in campo pratico. Non è una necessità che consegua da una legge oggettiva, fissabile e conoscibile per se stessa. Se alla base dei giudizi di gusto ci fossero principi oggettivi, come nei giudizi conoscitivi e scientifici, si potrebbe reclamare incondizionatamente (apoditticamente) la presenza del piacere. Se il giudizio di gusto fosse un giudizio sul piacevole, si potrebbe dire solo che è possibile che si produca piacere, perché in questo caso il principio mancherebbe del tutto. Nei giudizi di gusto il principio c’è, ma è un principio soggettivo, come soggettiva è l’universalità che ne consegue. Universalità soggettiva vuole dire esigenza e affermazione di una universalità della soggettività: deve esistere un senso comune, deve esserci una comunanza anche delle condizioni soggettive del conoscere (altrimenti la conoscenza stessa non sarebbe partecipabile), dunque deve darsi una comunicabilità del sentimento. Nel giudizio di gusto noi erigiamo a principio il nostro sentire, ma non nella sua privatezza, bensì nel suo essere senso o sentimento comune: io conosco il principio del giudizio solo indirettamente, attraverso il singolo giudizio, che io adduco come un esempio del giudizio del senso comune, attribuendogli perciò una validità che travalica quella della mia individualità. La validità è esemplare, e il piacere del bello è riconosciuto come necessario (§§ 18-22). Prese nella loro secchezza definitoria, le conclusioni dei quattro momenti ci danno il Kant più conosciuto e divulgato, intento a rimarcare l’ateoreticità e l’apraticità del gusto, il Kant passato nella manualistica ma anche quello più facilmente preso a bersaglio: si ricordino i sarcasmi di Nietzsche contro la bellezza ‘senza interesse’, le critiche di arido formalismo, il rimprovero di aver soggettivizzato l’estetica nella prima parte di Verità e metodo di Gadamer. Contro queste critiche si può osservare che persino nel loro carattere di tesi di partenza quelle formule rappresentano una sorta di viatico indispensabile per l’ingresso nell’esperienza estetica: chi di fronte a un’opera d’arte si chiede innanzi tutto che cosa vi si impara, chi cerca il bello come

piacere degustativo e sensuale, chi pretende di argomentare scientificamente i propri giudizi critici merita di esservi sempre richiamato, come a una sorta di pons asinorum dell’estetica. Ma, soprattutto, questi punti di avvio sono destinati acquistare spessore e integrazioni nel corso dell’opera, anzi a ben vedere cominciano a farlo già nel movimento stesso dei quattro momenti6. L’iniziale contrapposizione tra giudizi di gusto e conoscenza si è già rivelata foriera di una ben più complessa relazione tra esperienza estetica ed esperienza conoscitiva; e, d’altro canto, quelle determinazioni che all’inizio paiono esclusivamente negative (il bello piace senza interesse, senza concetto etc.) hanno già lasciato il posto a indicazioni positive (il gusto come senso comune). Questo movimento è destinato ad approfondirsi nella Deduzione dei giudizi estetici puri, al punto che si è anche pensato che quest’ultima sia una parte del testo elaborata tardivamente7: cosa che non vale per la Deduzione, evidentemente legata al piano originario di una Critica del gusto, mentre vale per l’Analitica del Sublime, sulla quale infatti torneremo più avanti. 2. La «Deduzione» e la «Dialettica» del Giudizio estetico. Il termine ‘deduzione’, in questa come nelle altre Critiche kantiane, va preso innanzi tutto nel suo significato giuridico: ‘dedurre’ vuol dire dimostrare la fondatezza di un diritto, per esempio legittimare la pretesa sulla proprietà di un bene. «Deduzione dei giudizi estetici puri» significa dunque accertamento della fondatezza della loro pretesa a valere per ogni soggetto, della loro universalità soggettiva. Come si intuisce subito, si tratta dello sviluppo di un tema già precedentemente toccato: in effetti, tanto la Deduzione (almeno i §§ 30-43) quanto la Dialettica del Giudizio estetico (§§ 55-59) ritornano sul problema già affrontato nel secondo e soprattutto nel quarto momento dell’ Analitica del Bello. Ma vi tornano non per ripetere, ma per scavare più a fondo: quindi sarà buona norma di lettura non precipitarsi a dare ragione a quei critici che vedono qui all’opera soltanto l’amore kantiano per le simmetrie (per cui, siccome la Ragion pura aveva un’analitica, una deduzione e una dialettica, le devono avere anche le altre due critiche), come faceva Schopenhauer al quale l’antinomia del gusto pareva «tirata per i capelli». No, è certamente più produttivo notare come Kant, tornando sulle sue argomentazioni, le arricchisca e le vada dotando di una sempre maggiore profondità. Già in sede di Analitica, ad esempio, si era visto come l’iniziale presentazione antitetica del giudizio di gusto e di quello logico lasciasse poi

luogo a pensare il rapporto tra i due sempre meno come una semplice contrapposizione. Ora il confronto riprende, e si articola ulteriormente8. Tornando a esso, Kant individua due peculiarità del giudizio di gusto. Innanzi tutto, tale giudizio aspira a una validità universale a priori. «Dire che questo fiore è bello val quanto esprimere la propria pretesa al piacere d’ognuno». Il giudizio argomenta come se il piacere che esso esprime fosse oggettivo (si dice ‘x è bello’, non ‘x mi piace’, come se la bellezza fosse una proprietà dell’oggetto). Ma d’altra parte, come se esso fosse del tutto soggettivo, il giudizio di gusto non può essere deciso mediante prove. Se qualcuno non è d’accordo col mio giudizio sulla bellezza di un determinato oggetto, io non posseggo nessuna prova empirica per costringerlo a mutare opinione. Il giudizio di gusto è sempre un giudizio singolare (in senso logico) sull’oggetto, ossia ciò che in esso funge da soggetto (la x) può essere sempre solo una singola cosa (questo tulipano, non i tulipani in genere). Il giudizio di gusto è empirico: ed è empirico non solo perché il soggetto in esso è empirico, ma anche perché empirico è il predicato: il senso di piacere particolare che io provo. Eppure, questo giudizio (che è singolare non solo nel senso logico del termine, ma anche in quello corrente: «strano e deviante», lo definisce Kant) è anche un giudizio sintetico a priori: perché afferma a priori non il piacere, ma l’universalità del piacere. Su quali basi? Non su basi concettuali, tant’è vero che il consenso in materia di gusto non può essere imposto sulla base di argomenti logici. L’universalità allora, non provenendo da concetti, può scaturire solo dalla condizione soggettiva formale del giudicare in genere. L’argomentazione kantiana recupera così, a un livello diverso, quel legame inscindibile tra attività conoscitiva e attività estetica che lo sforzo iniziale di tracciare per prima cosa i confini tra le due attività (l’ateoreticità del giudizio di gusto) sembrava sul punto di recidere. Il giudizio di gusto è una sorta di libero esercizio delle condizioni della conoscenza, un gioco la cui giusta misura può essere solo ‘sentita’, avvertita nel sentimento (ed ecco recuperato il rapporto tra attività estetica e sfera sentimentale), e proprio perché la conoscenza è comune, devono essere comuni anche le sue condizioni non conosciute, ma ‘sentite’. La Deduzione afferma propriamente soltanto questo: che noi siamo autorizzati a supporre in ogni uomo quelle stesse condizioni soggettive del giudizio che troviamo in noi medesimi. Messo in forma (precisamente, nella forma di un sillogismo ipotetico), esso suona: se la conoscenza deve essere comunicabile, debbono

essere comuni anche le sue condizioni soggettive; ma la conoscenza è comunicabile; ergo sono comuni anche le sue condizioni soggettive, ed è comunicabile il loro accordo o disaccordo. Ancora una volta, è un argomento dell’Analitica a tornare, quello del gusto come senso comune; ma, ancora una volta, esso torna per essere approfondito. Il senso comune, come dice il § 41, che è tutt’altro che quella divagazione sotto le cui spoglie si presenta, è innanzi tutto un senso che abbiamo in comune, che lega noi e gli altri, ovvero un modo di giudicare «che tiene conto del modo di rappresentare» altrui, un modo nel quale noi paragoniamo il nostro giudizio a quello degli altri, mettendoci al loro posto. È il tema della intersoggettività a fare prepotentemente il suo ingresso su quel piano trascendentale nel quale non era riuscito a entrare nelle due precedenti critiche9. L’universalità del giudizio di gusto non è propriamente né soggettiva né oggettiva, ma intersoggettiva (donde un’altra indicazione spicciola di lettura: evitare di intendere i termini ‘oggettivo’ e ‘soggettivo’, leggendo la terza Critica, come designanti un’opposizione univoca, e rendersi conto che ognuno di essi contiene in sé più piani). Il gusto, scrive Kant, è la facoltà di giudicare «di tutto ciò in cui il proprio sentimento può essere comunicato ad ogni altro». Inoltre, seconda osservazione, il gusto come senso comune appare sempre di meno come qualcosa di dato, di acquisito, di pacifico. Se il quarto momento già diceva che esso, forse, era «una facoltà artificiale ancora da acquisire», ora si insiste sul fatto che il consenso non è qualcosa di garantito, su cui si può contare (l’errore di sussunzione, e dunque il fraintendimento, è sempre in agguato), ma piuttosto qualcosa che è sempre in via di elaborazione, che si deve costruire10. La linea di pensiero svolta nella Deduzione è proseguita nella Dialettica. Kant nota che può esserci vera dialettica solo là dove c’è pretesa alla universalità, solo in quanto il giudizio di gusto afferma qualcosa a priori. Ma poiché l’apriorità non riguarda il sentimento di piacere effettivamente provato, quanto l’universalità del piacere, la dialettica concernerà non i giudizi di gusto in quanto tali, ma i principii del gusto: non c’è una dialettica del gusto, bensì della critica del gusto. La tesi dell’antinomia della critica del gusto afferma che il giudizio sul bello non si fonda sopra concetti, perché altrimenti di esso sarebbe possibile disputare, ossia decidere mediante prove; l’antitesi che il giudizio di gusto deve fondarsi sopra concetti, perché altrimenti di esso non sarebbe possibile neppure discutere o contendere, cioè

argomentare sopra i giudizi cercando di porli a confronto. La soluzione dell’antinomia passa attraverso il riconoscimento del diverso valore che alla parola concetto viene dato nella tesi e nell’antitesi. Se per concetto si intende il concetto determinato, il concetto dell’intelletto, allora è certo che il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti di questo tipo, e che è vano pensare di provare concettualmente la correttezza di un giudizio di gusto; ma se per concetto si intende il concetto indeterminato, il principio della finalità della natura per il soggetto, allora cade la contraddizione tra tesi e antitesi, ed esse possono essere entrambi vere, ossia del gusto è sempre possibile discutere, andare in cerca argomentativamente dell’accordo, anche se non si può dimostrare logicamente la fondatezza del proprio giudizio. Kant per la verità dice ancora di più, e cioè che il senso comune forse rimanda al sostrato sovrasensibile dell’umanità, aprendo così una prospettiva vertiginosa, nella quale l’antinomia è insieme superata e conservata. Dovremo tornarci. Per ora, notiamo che, anche fermandoci alla soluzione esplicita dell’antinomia, Kant riesce a cogliere e a fissare come acquisto perenne un aspetto costitutivo dell’esperienza estetica. Di contro al supponente buon senso che nella varietà delle valutazioni sul bello e sull’arte coglie soltanto la disparità dei pareri («mi è piaciuto» – «a me invece no»), resterà sempre vero che questa è soltanto una mezza verità, ossia una falsità bella e buona; e che l’esperienza estetica è il luogo della diversità dei pareri solo perché essa è anche, più originariamente, il luogo dell’incontro e della condivisione, e insomma sarà anche vero che de gustibus non est disputandum, e tuttavia non facciamo altro che discutere di gusti (come diceva Nietzsche, in questo per una volta d’accordo con quello che chiamava, spregiativamente, «il cinese di Königsberg»), proprio in quanto cerchiamo, argomentativamente e non dimostrativamente, ciò che ci accomuna in quanto esseri umani. Lo scetticismo estetico resta confutato à jamais. Ma insieme a esso resta confutata con eguale definitività la pretesa altrettanto ingenua che all’interminabile lavoro interpretativo di cui facciamo esperienza nell’estetico si ponga una buona volta fine decidendo scientificamente che cos’è bello e che cosa non lo è. Kant trae questo corollario nell’ultimo paragrafo della Critica del Giudizio estetico, il § 60: la divisione consueta nella filosofia trascendentale tra dottrina degli elementi e dottrina del metodo non ha luogo nella critica del gusto «perché non v’è, né può esservi, una scienza del bello, e il giudizio di gusto non è determinabile

per mezzo di principii», di concetti logici. Kant lo ribadisce nella Prefazione all’opera, ultimo capoverso: se la critica della ragion teoretica è propedeutica a una metafisica della natura, e quella della ragion pratica a una metafisica dei costumi, la critica trascendentale del giudizio non è propedeutica a nessuna teoria, «perché in essa la critica tien luogo di teoria». L’idea che il bello consista in una rispondenza a canoni o norme fissate, determinabili oggettivamente; l’idea che ci siano proporzioni o regole della bellezza, una convinzione che ha percorso l’estetica occidentale per due millenni, esce definitivamente di scena: anche in questo senso Kant apre irrevocabilmente alla modernità, e, almeno in questo senso, resta vera la tesi esposta nella prima edizione della Ragion pura, che le regole del giudizio critico non sono elevabili a scienza. Se l’estetica è scienza del bello, certamente la Critica del Giudizio (nella quale, se l’aggettivo ‘estetico’ è frequente, il sostantivo ‘estetica’ ricorre invece una volta soltanto) non è un’estetica. 3. L’arte e il genio. Ma neppure essa è un’estetica nel senso che diverrà corrente di lì a poco, con Schelling, Solger ed Hegel, ossia come filosofia dell’arte. Nell’ Analitica e nella Deduzione gli esempi sono tratti sia dal bello naturale che da quello artistico, e anzi preferibilmente dal primo; del resto, la stessa impostazione scelta impedisce che la distinzione divenga tematica, posto che si tratta sempre non degli oggetti belli ma del giudizio portato su di essi. Esempio paradigmatico di estetica senza opere, quella kantiana non esclude però affatto dal proprio giro di orizzonte una teoria dell’arte: essa è ospitata nei paragrafi che vanno dal 43 al 54, i quali, sempre nel linguaggio che qualche anno più tardi sarebbe divenuto corrente, formano quella che si sarebbe chiamata la sua Kunstlehre11. Il concetto di arte da cui Kant muove non è ancora il nostro, in forza del quale parlare di arti ‘belle’ è un pleonasmo o un arcaismo. Per lui l’arte nel senso estetico moderno è ancora solo una parte dell’arte in genere intesa come tecnica o abilità. Ecco perché Kant innanzi tutto (§ 43) individua il luogo dell’arte nel nostro senso per mezzo di una serie di distinzioni. L’arte è distinta dalla natura, perché nell’arte c’è un’intenzionalità che attribuiamo a un volere; è distinta dalla scienza, perché l’arte è un saper fare pratico, non un sapere teoretico; inoltre l’arte (liberale) è distinta dal mestiere o dall’artigianato (intrapreso a scopo di lucro), perché è un’occupazione piacevole per se stessa. L’arte che compie semplicemente le operazioni necessarie per realizzare un oggetto è arte meccanica; è arte estetica solo se il suo scopo è quello di produrre un piacere, ma quest’ultima

a sua volta è divisa in arte piacevole, rivolta alle mere sensazioni, e in arte bella (e questa, finalmente, è l’arte in senso estetico moderno, la ‘nostra’ arte). L’arte piacevole ha per scopo il godimento, la bella arte è ricercata per se stessa: ha il suo scopo in sé. La forma del prodotto dell’arte bella deve apparire, per quanto esso sia e non possa non essere intenzionale, come se fosse spontanea: l’arte è bella quando sembra natura (§ 45). Fin qui, Kant ha sostanzialmente applicato all’arte le conclusioni dell’Analitica: è facile riconoscere nei requisiti che fanno bella l’arte il disinteresse, la finalità senza fine, il carattere necessario del piacere. Anche il passo successivo compiuto da Kant (§ 46) con l’affermazione che l’arte bella è arte del genio si lega in qualche modo a un carattere rinvenuto nell’Analitica, perché se la bellezza è senza concetto l’arte non può essere prodotta mediante regole acquisibili ed esplicitabili, non può trovare da se stessa le regole secondo le quali realizzare i suoi prodotti. Deve esserci altro a darle la regola, e questo altro è il genio che, in quanto talento naturale, può essere visto come il tramite per mezzo del quale la natura dà la regola all’arte. Con ciò però si attua anche una svolta notevole, perché il discorso che tutta l’Analitica e la Deduzione vera e propria svolgevano dal punto di vista della ricezione, qui di colpo è spostato alla produzione dell’arte: «per giudicare degli oggetti belli come tali è necessario il gusto; ma per l’arte bella stessa, cioè per la produzione di tali oggetti, è necessario il genio». In questi paraggi si troverà dunque il Kant che più direttamente si candida a svolgere quel ruolo di cerniera tra l’estetica settecentesca e quella romantica che la stessa collocazione storica sembra assegnargli, e che altri aspetti (per esempio proprio la riluttanza a fare un’estetica delle opere d’arte) paiono piuttosto togliergli: legata per più di un verso alle teorizzazioni precedenti (primo fra tutti il Gerard dell’Essay on Genius), la nozione di genio si prolunga sulla stagione successiva, come si coglie con chiarezza nella chiusa del Sistema dell’idealismo trascendentale di Schelling. Il genio è solo artistico. Non esistono geni nella scienza. Non nel senso che in essa non si presentino individui straordinariamente dotati, ma in quest’altro: che quel che essi hanno scoperto si può sempre imparare, mentre non si può imparare a fare un’opera d’arte, e un genio diventa guida di altri artisti solo come esempio o modello. Tuttavia l’arte bella non è esclusivamente arte geniale, e in essa c’è sempre anche una componente meccanica o tecnica, suscettibile, essa sì, di apprendimento. Così pure,

persino il momento produttivo dell’arte non è spiegabile solo con la condizione produttiva, il genio, ma esige insieme la partecipazione di quella ricettiva, il gusto (§ 48). A costituire il genio è essenzialmente la capacità di produrre idee estetiche. Questa locuzione sembra alla prima estranea al lessico kantiano, se è vero che un’idea è un concetto della Ragione, al quale nessuna intuizione può essere adeguata. Ma appunto come contraltare a questa nozione si intende quella di idea estetica : in questo caso si tratta di una intuizione o rappresentazione alla quale nessun concetto è adeguato. Nelle idee estetiche l’immaginazione è creatrice; offre una rappresentazione che non si lascia mai racchiudere in un concetto determinato. È una rappresentazione che «dà luogo a pensare in un concetto molte cose inesprimibili, di cui il sentimento vivifica le facoltà conoscitive», ossia, ancora una volta, immaginazione ed intelletto. Ingiustamente guardata con sospetto da tutti coloro i quali, nelle cose d’arte, temono più di ogni altra l’accusa di ineffabilismo, l’idea estetica è invece una delle più feconde aperture ricavabili dalla Critica del Giudizio, e non a caso sarà destinata a fruttificare nelle Lezioni di estetica di Hegel nella nozione di simbolo, esso stesso avvio di pensiero del quale non sempre si è colta l’importanza12. Negli ultimi paragrafi appartenenti a questo gruppo (§§ 51-54) Kant passa a sbozzare una possibile articolazione sistematica delle arti. Egli, tuttavia, è ben consapevole, come mostra la nota apposta al § 51, del carattere provvisorio e non vincolante della sua ipotesi, e si limita a proporre una delle suddivisioni possibili, quella basata sull’analogia tra l’arte e il linguaggio considerato come espressione (analogia offerta dalla circostanza che sia l’arte che il linguaggio sono appunto espressione). E come il linguaggio consiste in parola, gesto e tono, così le arti restano divise in arti della parola, arti figurative e arti del gioco delle sensazioni. Le prime sono la poesia e l’oratoria, le seconde la plastica e la pittura, a loro volta articolate rispettivamente in scultura e architettura e pittura vera e propria e giardinaggio; le ultime sono la musica e l’arte del colore. Le singole arti possono poi combinarsi in arti composte, dando luogo al canto, al melodramma, alla danza etc. Kant, sempre senza la pretesa di offrire una teoria vincolante, avanza anche una possibile gerarchia delle arti, che vede al primo posto la poesia, seguita dalla musica e dalle arti figurative, nell’ambito delle quali la palma viene assegnata alla pittura. Se però la musica non viene considerata per la commozione che sa produrre, ma come semplice gioco

sensibile, le spetta piuttosto l’ultimo posto13, ed essa può essere accomunata ad altri intrattenimenti, come lo scherzo che allieta la vita in società e al quale, assieme al riso che ne è causato, Kant dedica, quasi come divagazione leggera dopo tante analisi ardue, il § 54. 4. La «Prima Introduzione» e l’«Introduzione» definitiva. In un vecchio libro di O. Schlapp, La dottrina kantiana del genio e la nascita della Critica del Giudizio, del 1901, si trova un’immagine assai suggestiva. La Critica del Giudizio sarebbe sorta attraverso la rapida e quasi improvvisa cristallizzazione di materiali eterogenei, come di masse liquide attorno a un corpo che innesca la reazione. L’identificazione del reagente nell’idea del Genio, proposta da Schlapp, è sicuramente insostenibile; ma la metafora merita forse di essere mantenuta, specie se con essa si intende alludere non tanto al primo avvio del lavoro kantiano, quanto alla trasformazione che esso subisce in corso d’opera. Il 7 Marzo 1788 Kant scrive a Reinhold: «Questo semestre estivo sono assai gravato da un lavoro straordinario, il rettorato dell’Università [...]. Tuttavia spero lo stesso di consegnare la mia Critica del gusto per San Michele». È l’ultima lettera in cui Kant parla della propria opera come di una critica del gusto. Poco più di un anno dopo, e sempre allo stesso corrispondente, scrive: «La mia Critica del Giudizio (di cui la Critica del gusto costituisce una parte) [sarà presente] alla Fiera di San Michele». Gli impegni di rettorato non sono stati dunque l’unica ragione del mancato compimento: qualcosa di decisivo è avvenuto, qualcosa che ha portato a trasformare una critica del gusto in una critica del Giudizio, e a modificare il suo impianto originario in uno assai più simile a quello definitivo a noi noto: e un primo precipitato (tanto per restare nelle metafore chimiche) di questa trasformazione è dato coglierlo nella lunga Introduzione che Kant scrive per la sua opera nel 1789. Non si tratta, è bene chiarirlo subito, della Introduzione definitiva, che il lettore trova nella presente edizione. Quest’ultima fu scritta nei primi mesi del 1790, quando la Critica era quasi completamente terminata, presenta numerose differenze rispetto all’altra, e l’ha soppiantata, tanto che essa rimase manoscritta, e dovette attendere, per essere stampata nella sua interezza e come Prima Introduzione, il nostro secolo14. I tre paragrafi iniziali della Prima Introduzione introducono appunto la ‘nuova’ facoltà del giudizio sulla base di considerazioni di ordine innanzi tutto strutturale e sistematico. In ciò corrispondono abbastanza da vicino ai primi tre paragrafi dell’Introduzione definitiva, e il lettore, se vuole, può

seguire il ragionamento kantiano anche sulla base della Tavola delle facoltà che chiude l’Introduzione definitiva stessa. A essere messa in rilievo è innanzitutto la collocazione mediana che il Giudizio occupa tra l’Intelletto e la Ragione, ossia nell’ambito delle facoltà superiori della conoscenza. Mettendo a riscontro le facoltà conoscitive con il sistema delle facoltà complessive dell’animo, la facoltà di conoscere nel suo insieme, il sentimento di piacere e dispiacere, e la facoltà di desiderare, Kant nota che l’Intelletto possiede principi a priori per la facoltà di conoscere (e prescrive le leggi alla natura), la Ragione ha principi a priori per la facoltà di desiderare (e prescrive le leggi alla libertà), ed avanza quella che è ancora solo una supposizione: che cioè, analogamente, anche il Giudizio possieda un principio a priori (del quale Kant ha già fatto il nome, chiamandolo principio di finalità) per il sentimento di piacere e dispiacere, il quale pure dunque resterebbe determinato a priori. Fin qui, l’acquisto rispetto al quadro delineato nella lettera a Reinhold del dicembre 1787 sembra consistere soltanto nella maggiore simmetria che proviene dal nesso tra sentimento di piacere e dispiacere e Giudizio, e insomma in un progresso strettamente architettonico. Ma è sufficiente passare a considerare il problema rispetto al quale entra in campo il Giudizio (problema che Kant nella Prima Introduzione ha infatti fretta di enunciare, al punto da anticiparlo già nel § II, laddove nella Introduzione definitiva, per vederlo formulato, occorre attendere il § IV), per rendersi subito conto della novità e della importanza della questione. Tale problema, e la cosa non può non stupire a tutta prima, non è infatti quello del gusto e della sua legalità, come si aspetterebbe chi ha seguito lo svolgimento della genesi della terza Critica, ma neppure – come potrebbe ipotizzare il lettore che già conosce la struttura definitiva di essa – quello della considerazione finalistica degli esseri organici. Si tratta invece di un problema di portata più generale, e di natura epistemologica: il problema della unità dell’esperienza come sistema di leggi empiriche. La sua illustrazione sembra riportarci, se non alle soluzioni, certo all’atmosfera e ai problemi della Critica della ragion pura. In essa, come è noto, Kant ha dimostrato che l’intelletto prescrive le leggi al fenomeno, sotto forma di principi sintetici dell’intelletto. Esso ci dice per esempio che ogni fenomeno avrà una quantità estensiva e una quantità intensiva o grado, che esso sarà connesso causalmente agli altri fenomeni, etc. Con ciò però l’intelletto ci dice solo qualcosa di generalissimo, che vale per qualsiasi tipo di fenomeno. Le

sue leggi trascendentali universali ci danno soltanto quel che è identico in tutta la natura, e non ci dicono nulla circa la diversità di essa. Per quel che sappiamo in base a quelle leggi, ci potrebbe essere una tale eterogeneità di forme e una tale molteplicità di casi, che potrebbe risultare impossibile rinvenire somiglianze e regolarità, dunque costruire leggi empiriche della natura, e, a maggior ragione, un sistema coerente di esse. Ma la nostra esperienza non procede affatto così: essa anzi agisce come se queste affinità e regolarità fossero rinvenibili, e su questa base costruisce un edificio coerente di leggi particolari. Anche la fiducia che «l’inquietante e infinita diversità di leggi empiriche, assieme all’ eterogeneità di forme naturali, non siano affatto un attributo della natura, ma piuttosto che essa sia promossa al rango di esperienza come sistema empirico», costituisce un presupposto trascendentale della nostra esperienza15. A fornire questo presupposto, sotto forma di principio trascendentale della finalità o conformità della natura anche rispetto alle sue leggi particolari è il Giudizio, inteso non semplicemente come giudizio determinante (cioè, sostanzialmente, quel Giudizio di cui si parla nella Pura, e che si limita ad applicare le leggi dell’intelletto e quasi si identifica con esse) ma come Giudizio riflettente (ossia come quella facoltà di risalire dal particolare all’universale alla quale è consacrata la terza Critica). Il Giudizio riflettente, che è poi il Giudizio toutcourt, nel considerare la natura segue dunque il principio della finalità formale della natura stessa. Esso, cioè, suppone che la natura si accordi o si accomodi alle esigenze delle nostre facoltà conoscitive, in modo da consentirci di ritenere almeno possibile il costruirne un’esperienza coerente; suppone cioè (questo, ripetiamolo ancora, è il senso da dare alla nozione di finalità della natura) che la varietà infinita dei fenomeni naturali si disponga a vantaggio della nostra esigenza di rinvenirvi una sistematica connessione. Il Giudizio non può sapere che le cose vanno realmente così: esso non prescrive la legge alla natura (come fa l’intelletto). Il Giudizio però lavora come se le cose andassero così, regolandosi sulla base di quel principio e regolandovi la conoscenza effettiva, ovvero, in linguaggio kantiano, prescrive non alla natura, ma a se stesso, la legge: l’accordo della natura col nostro bisogno è bensì contingente, ma al tempo stesso necessario per il nostro modo di conoscerla. Giunti a questo punto, ancora pare che non si scorga il nesso che lega il problema dell’unità della natura secondo leggi empiriche con la questione del

gusto e del piacere suscitato dalla bellezza. Tuttavia, chi ha seguito il percorso compiuto da Kant in quella che doveva essere la Critica del Gusto, si trova nella condizione migliore per afferrare il bandolo della complessa argomentazione che a questo proposito si dipana nella Prima Introduzione. Sappiamo infatti che esiste almeno un caso nel quale il sentimento di piacere che è il correlato soggettivo del ritrovamento di ogni accordo finalistico è determinato mediante un principio a priori, ed è determinato soltanto attraverso la relazione dell’oggetto con la facoltà di conoscere, senza che entri minimamente in gioco una finalità pratica: ed è appunto il caso del puro giudizio di gusto. Se nella natura non si desse altro che la disponibilità ad accordarsi col nostro conoscere al fine di ordinare la infinita varietà dei fenomeni in leggi via via più generali, in ciò stesso ci sarebbe un motivo di ammirazione; ma solo chi fosse in grado di porsi dal punto di vista della filosofia trascendentale sarebbe capace di avvertirlo «e persino costui non potrebbe indicare un caso determinato in cui tale finalità si dimostri in concreto, ma dovrebbe pensarla solo nell’universale»16. Ma noi non dobbiamo ormai andare in cerca di questo caso concreto di una forma finale che non si rivela soltanto alla riflessione trascendentale, ma comunica immediatamente al nostro senso o sentimento, perché lo abbiamo incontrato nella finalità formale che la bellezza esibisce nei riguardi dell’accordo delle nostre facoltà conoscitive. Il principio di determinazione del giudizio estetico, giacché esso pretende alla universalità, non sta solo nel sentimento di piacere e dispiacere, ma nello stesso tempo in una regola del Giudizio: il giudizio estetico riflettente (così ora Kant può chiamare il giudizio di gusto) può considerarsi fondato nel principio a priori della finalità formale: «Sebbene i giudizi estetici non siano possibili a priori, nondimeno sono dati dei principi a priori nella necessaria idea di un’esperienza come sistema, i quali contengono per il nostro Giudizio il concetto di una finalità formale della natura, e da essi risulta a priori la possibilità di giudizi estetici della riflessione fondati su principi a priori»17. Anzi con ciò viene mostrata non soltanto la possibilità che una critica del Giudizio ospiti come sua parte una critica del Giudizio estetico, ma l’assoluta essenzialità di tale analisi: è solo nel Gusto che il Giudizio si manifesta come una facoltà che possiede il proprio principio peculiare, e reciprocamente «la possibilità di un giudizio della mera riflessione, che sia estetico e tuttavia fondato su di un principio a priori, ossia di un giudizio di gusto [...] esige assolutamente una critica del Giudizio come

facoltà con peculiari principi trascendentali»18. Il lettore può ritrovare la linea dell’argomentazione kantiana che abbiamo svolto basandoci sulla Prima Introduzione anche nella Introduzione definitiva, e precisamente nei fondamentali paragrafi centrali di essa, il IV, V e VI, sia pure con alcune differenze particolari sulle quali non è possibile qui soffermarci19. Il § IV esordisce subito con la distinzione tra Giudizio determinante e riflettente, afferma che quest’ultimo ha bisogno di un principio, proprio rispetto al problema della varietà e apparente irriducibilità dei fenomeni naturali, ed enunzia tale principio come principio della finalità della natura nella sua molteplicità. Di questo principio il § V – e questo non accadeva, o almeno non accadeva così esplicitamente, nella Prima Introduzione20 – offre una vera e propria deduzione trascendentale, ossia una dimostrazione della plausibilità della sua pretesa di valere a priori. Si passa poi a parlare (§ VI) del piacere che accompagna la scoperta dell’accordo finalistico, aprendosi così la via che condurrà, nei paragrafi seguenti, a considerare la «rappresentazione estetica della finalità della natura (§ VII) e a riconoscere che solo la parte che comprende il Giudizio estetico «contiene un principio sul quale il Giudizio fonda interamente a priori la sua riflessione sulla natura» (§ VIII). Così pure, tornando a leggere adesso la Deduzione e la Dialettica del Giudizio di gusto, non sarebbe difficile scorgervi l’emergere della terminologia messa in campo dalla Prima Introduzione: lasciando da parte il titolo del § 35 (che, proprio in quanto titolo, potrebbe facilmente essere stato dato in una revisione), nel corpo del paragrafo si dice ad esempio che la «condizione soggettiva di ogni giudizio è la facoltà stessa di giudicare, cioè il Giudizio»; nel § 34 si afferma che il principio soggettivo del gusto è «il principio a priori del Giudizio», mentre nel § 57 troviamo detto che il giudizio di gusto si fonda sul principio «della finalità soggettiva della natura rispetto al Giudizio». 5. Il Giudizio teleologico. Nella Prima Introduzione si parla estesamente anche dell’altro impiego del principio di finalità, quello che incontriamo nella Seconda parte della Critica del Giudizio, dedicata al Giudizio teleologico. Oltre che nel caso del giudizio sulla bellezza di un oggetto, nel quale il principio del Giudizio viene esibito nella sua purezza ed esemplarità, vi è infatti un altro caso nel quale noi facciamo ricorso a quel principio: ciò accade quando, per conoscere un prodotto naturale, per esempio un organismo vivente, noi ci appoggiamo a una considerazione finalistica, ossia

riteniamo che per spiegare quell’ente naturale nella sua struttura interna sia necessario presupporre uno scopo, un nesso finale in base al quale esso è organizzato. Per esempio, nello spiegare l’anatomia di un uccello noi teniamo presente la sua attitudine al volo, oppure nel guardare alla costituzione interna dell’occhio il fatto che esso deve rendere possibile il vedere, e nel far ciò noi ragioniamo come se la natura avesse tenuto presenti tali finalità nel produrre quel determinato organismo od organo, ossia avesse proceduto (naturalmente non intenzionalmente) come procede l’artigiano quando produce un utensile. L’ultimo paragrafo della Prima Introduzione, il XII, offre una suddivisione della Critica del Giudizio teleologico che è ben diversa da quella che incontreremo nell’opera, e questa circostanza, unita alla valutazione delle diversità terminologiche che intercorrono tra i due testi, offre una prova difficilmente controvertibile dell’anteriorità della stesura della Prima Introduzione rispetto a quella del Giudizio teleologico. Ma, al di là di queste considerazioni, la stessa maggiore insistenza della Prima Introduzione sul giudizio teleologico, rispetto a quanto farà l’introduzione definitiva, è forse una spia del fatto che Kant ha solo da poco trovato, nel comune radicamento nella facoltà del giudizio, il nesso tra estetica e teleologia, ed è insomma una prova ulteriore di come la Prima Introduzione ci mostri i criteri di strutturazione della Critica del Giudizio quasi allo stato nascente. In effetti, anche alla convinzione che la considerazione finalistica dei prodotti naturali si possa e anzi si debba riportare al principio che è proprio del Giudizio Kant è giunto tardi, e, ancora una volta, attraverso una modificazione che si deve supporre abbastanza repentina delle sue soluzioni precedenti. Nell’Appendice alla Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura Kant aveva riconnesso la considerazione finalistica alla ragione teoretica, e vi aveva visto uno dei portati dell’uso regolativo delle Idee della Ragione; nel saggio Sull’uso dei principi teleologici nella filosofia, invece, l’aveva ricondotta al concetto di fine puro proprio della Ragion pratica, ai «fini della Libertà», mostrando così non solo una notevole oscillazione, ma un’altrettanto notevole distanza dal partito che avrebbe abbracciato nella Critica del Giudizio: e sì che quel saggio, pubblicato nel 1788, è stato scritto subito prima, e forse addirittura contemporaneamente, ai primi paragrafi dell’Analitica del Bello21. Ecco perché la Prima Introduzione insiste tanto sul tema della finalità intesa come tecnica della natura (una locuzione che nella terza critica viene usata assai meno, e spesso solo come sinonimo di

teleologia): parlare di tecnica della natura, ossia di un procedere in cui la natura si comporta come un artigiano o un artista, è una via per mostrare quasi intuitivamente il legame tra estetica e teleologia22. L’Introduzione definitiva introduce il discorso sul giudizio teleologico nel § VIII, nel quale, marcando la differenza con la rappresentazione estetica della finalità, si parla di una rappresentazione logica di essa. Nel giudizio teleologico infatti noi non riferiamo la finalità al sentimento di piacere e dispiacere, come accade in quello di gusto, ma all’intelletto o alla ragione: il Giudizio cioè, dinanzi a determinati prodotti naturali, ‘applica’ il principio in vista di una conoscenza di essi. Nel giudizio di gusto la finalità è una finalità soggettiva formale; in quello teleologico una finalità oggettiva materiale. Sappiamo cosa significhi finalità soggettiva; comprendere cosa intenda Kant con finalità oggettiva è essenziale per non fraintendere tutta la sua posizione rispetto al finalismo; si può dire anzi che l’intera Analitica del Giudizio teleologico serva a illustrare l’esatto significato che assumono qui ‘finalità’ e ‘oggettività’. Cominciamo dal primo termine. Dopo aver dedicato il § 62 a illustrare un tipo particolare di finalità oggettiva, alla quale si accenna solo in questo luogo, la finalità oggettiva formale o intellettuale che è quella esibita dalle figure geometriche rispetto alla soluzione dei problemi matematici, Kant passa alla finalità oggettiva materiale distinguendo nel § 63 due tipi di essa: la finalità esterna e la finalità interna. La prima, come chiarisce subito l’altra denominazione che Kant le assegna, quella di finalità relativa, pensa le cose come legate fra di loro da rapporti di fine e mezzo, ossia in una relazione di utilità (per l’uomo) o di convenienza (per altri esseri naturali). Si tratta di quel genere di pseudo-spiegazioni di cui era ricca la filosofia del Settecento nelle sue teodicee, ossia nelle dimostrazioni della previdenza e sagacia della natura (o piuttosto del suo Creatore): il lettore pensi, per capirsi, agli Études de la Nature di Bernardin de Saint-Pierre, dove si dice che la natura ha fatto scuri gli insetti affinché l’uomo possa vederli più facilmente sul biancore della sua pelle, e sbarazzarsene. Ora Kant, che in passato non aveva risparmiato i sarcasmi contro questo modo di ragionare, e in uno scritto del 1763 aveva citato la caustica battuta di Voltaire, che allora Dio ci avrebbe dato il naso per appoggiarvi gli occhiali, non ha affatto cambiato idea. Considerare i prodotti naturali come legati da relazioni tra mezzi e fini è un modo «ardito ed arbitrario» di procedere; niente ci autorizza a farlo, e se lo facessimo ci ritroveremmo tra le mani una scienza «senza intima

consistenza»: il § 67 echeggia di ironie non troppo distanti da quella volterriana appena citata. Ben diverso è affermare che una cosa è uno scopo della natura, ossia presenta in sé stessa, al suo interno, una costituzione finalistica, una finalità interna. Kant spiega (§§ 64-65) che solo l’organismo può essere uno scopo della natura: perché ciò accada, infatti, occorre: a) che l’ente naturale si riproduca da sé come specie (un cane produce un altro cane); b) che si produca da sé come individuo (un cucciolo cresce fino a diventare un adulto); c) che la conservazione delle parti e quella del tutto dipendano mutuamente. Solo così, infatti, l’ente naturale viene visto insieme come causa e scopo di se stesso, come un essere organizzato e che si organizza da sé, in cui ogni cosa è al contempo scopo e mezzo. Pensato così, è come se un essere organizzato della natura desse realtà oggettiva al concetto di scopo. La finalità è collocata in un oggetto: è oggettiva. Appunto su questa ‘oggettività’ occorre intendersi. La finalità è ‘oggettiva’ nel senso che è rappresentata in un oggetto, non considerata semplicemente in relazione alle facoltà conoscitive di un soggetto. Ma non è ‘oggettiva’ nel senso che, come diciamo comunemente, le cose stiano oggettivamente così. Nel linguaggio kantiano della prima critica, è oggettivo ciò che è conosciuto mediante i principi determinanti dell’intelletto. Ma è precisamente questo che non accade nella considerazione finalistica: pensare una cosa come fine della natura non significa mettere in campo un principio costitutivo dell’intelletto ma soltanto un principio regolativo del Giudizio (riflettente). Dal principio del Giudizio noi riceviamo «solo una guida per considerare le cose della natura [...] secondo un nuovo ordine di leggi», ma senza pregiudizio per la spiegazione sulla base di leggi meccaniche. Una considerazione teleologica corretta non si pone affatto il problema se i fini della natura siano o meno intenzionali, cioè se la natura proceda effettivamente così; le è sufficiente sapere che ci sono oggetti naturali che non riusciamo a spiegare solo con un modello meccanicistico, e per i quali diventa lecito introdurre una considerazione finalistica. L’anatomista, il biologo (Kant, ovviamente, ha presente la situazione della scienza del suo tempo) si lasciano guidare ad esempio dall’idea che niente è inutile in un organismo naturale, che tutto ha la sua funzione; ma con ciò non rinunziano affatto a estendere ove possibile la conoscenza su basi meccaniche: quello del finalismo della natura, dice Kant già nel § 61, è solo un principio in aggiunta

per ricondurre a leggi i fenomeni naturali. Questa linea argomentativa è ampiamente confermata dalla lettura della Dialettica del Giudizio teleologico. Il Giudizio riflettente (§ 69) «non è se non un principio della riflessione su oggetti, per i quali oggettivamente ci manca affatto una legge». Se la finalità fosse determinante, allora non ci potrebbe essere una dialettica per i suoi principi, giacché il Giudizio determinante non ha un principio proprio (il principio glielo dà l’intelletto). È nelle leggi empiriche che può darsi un conflitto tra due massime o principi guida, rispettivamente quella che afferma che ogni prodotto naturale deve essere considerato possibile secondo leggi meccaniche (tesi) e quella che sostiene invece che la loro considerazione esige l’intervento del finalismo (antitesi). Ora, se questi due principi si pensano come costitutivi, cioè tali da determinate oggettivamente la natura, è chiaro che il loro conflitto diventa insanabile: o è valido l’uno o è valido l’altro. Invece se vengono riguardati come meramente regolativi, la loro coesistenza diventa possibile e anzi fruttuosa. Infatti la tesi significa che io debbo cercare quanto più possibile una spiegazione meccanica dei fenomeni, mentre l’antitesi mi autorizza a fare ricorso alle cause finali per spiegare quegli enti organizzati di fronte ai quali le leggi meccaniche paiono arrestare il loro potere esplicativo: a confrontarsi sono sempre due modi possibili di ordinare i fenomeni, non due convinzioni sulla effettiva costituzione della natura. Può anche darsi che meccanismo e finalità nel loro fondamento interno possano convergere ed essere lo stesso: ma le nostre facoltà conoscitive sono cosiffatte, che non lo sapremo mai. L’impossibilità per il nostro intelletto di decidere se causalità e finalismo possono incontrarsi nella natura dà a Kant occasione per formulare, nei §§ 76-77, alcune osservazioni che già a Schelling parvero tra le più profonde dell’intera filosofia critica23. Al nostro intelletto è indispensabile distinguere tra possibilità e realtà delle cose. Se il nostro intelletto fosse intuitivo, cioè se esso non avesse sempre bisogno che l’intuizione gli sia invece fornita dai sensi, possibile e reale coinciderebbero, perché l’intelletto non avrebbe altro oggetto che il reale. Ma la discorsività dell’intelletto umano, ossia il fatto che esso deve sempre trascorrere dall’universale al particolare, perché non gli è data l’immediatezza che è propria dell’intuizione dei sensi, è il sigillo supremo della sua finitezza. Così pure, la circostanza che certi prodotti naturali debbano essere considerati da noi come fini della natura, senza poter presupporre che la natura li produca davvero intenzionalmente, è una

conseguenza del fatto che il nostro intelletto non può stringere contemporaneamente l’universale e il particolare, la legge e la contingenza del dato, come accadrebbe a un intelletto per il quale le specie e le differenze del particolare non fossero accidentali, ossia non da lui determinabili. Per un tale intelletto tra spiegazione meccanica e spiegazione teleologica non vi sarebbe affatto quella irriducibilità che si dà per noi, che nulla sappiamo circa la possibilità delle cose in se stesse. Un simile intelletto non avrebbe infatti bisogno di derivare l’immagine o l’intuizione, come è costretto a fare il nostro, che perciò Kant denomina ectipo, dal momento che la genererebbe, sarebbe cioè un intelletto produttore di immagini o intuizioni, un intelletto archetipo, ovvero possederebbe quella spontaneità che manca anche alla nostra intuizione, la quale è soltanto ricettiva. Il nesso tra l’inaggirabile finitezza del conoscere umano, sempre assegnato al condizionato, e l’altrettanto insopprimibile esigenza di infinitezza che lo caratterizza e lo spinge a pensare l’incondizionato è qui formulato da Kant con una efficacia raramente raggiunta. 6. L’«Analitica del sublime» e la «Metodologia del Giudizio teleologico». La trasformazione dell’originaria Critica del Gusto in una Critica del Giudizio porta con sé un’altra conseguenza molto importante. Una Critica del Gusto poteva avere spazio soltanto per il bello (il gusto, come Kant dice fin dalla nota al § 1, è «la facoltà di giudicare del bello»), mentre ora Kant ritiene possibile inserire, accanto a una Analitica del Bello, una Analitica del Sublime. Quest’ultimo concetto, già ampiamente trattato su basi empiriche e psicologiche dal Kant precritico, è una delle categorie estetiche più discusse nel corso del Settecento, e da Boileau a Burke, da Dennis a Sulzer intorno al sublime si continua a scrivere e a teorizzare: dal punto di vista della rilevanza nella cultura del tempo e delle fonti di riferimento l’inserimento del sublime si può dire non ponga alcun problema, mentre è assai più interessante il percorso interno che porta Kant a ricomprendere, non più su basi «fisiologiche», ma trascendentali, il sublime all’interno della propria esposizione dei giudizi estetici24. Poiché la Prima Introduzione prevedeva anche per il sublime una Deduzione e una Dialettica, che invece mancano del tutto nel testo della Critica del Giudizio (dove anzi, nel § 30, si spiega che il sublime, giacché in esso la finalità riguarda solo il rapporto reciproco delle nostre facoltà, e non la forma dell’oggetto, non abbisogna di deduzione, ovvero che riguardo a

esso esposizione e deduzione coincidono), si deve dedurre, ancora una volta con il conforto dei riscontri lessicografici, relativamente ad esempio alla frequenza nell’analitica del sublime della dizione «Giudizio riflettente» (estetico), che la stesura dell’Analitica del sublime è posteriore a quella della Prima Introduzione25, e dunque essa è stata inserita nell’attuale collocazione interrompendo la continuità tra l’Analitica del Bello e la Deduzione dei giudizi estetici puri. Questo innesto, che traspare anche dalla evidente natura di raccordo propria del § 23 del § 30, può contribuire a spiegare alcune stranezze o contraddizioni del testo (per esempio, il fatto che non si capisca se «Analitica del Sublime» sia il titolo di tutto il secondo libro o soltanto dei §§ 23-29, oppure il fatto che il § 23 la definisca «una semplice Appendice» dell’Analitica del Bello, mentre il § VII dell’Introduzione definitiva parla di «due parti principali », dedicate rispettivamente al bello e al sublime). È certo, comunque, che introducendo la nuova nozione Kant, pur richiamando alcuni tratti che accomunano il bello e il sublime (entrambi piacciono per se stessi, non si fondano sopra un concetto, danno luogo a giudizi sempre singolari, ma universalizzabili, etc.), tende soprattutto a opporre e divaricare i due concetti, sottolineando le discrepanze tra di loro. Innanzi tutto, il bello riguarda la forma, cioè ha a che fare con la delimitazione; il sublime può essere suscitato anche da un oggetto privo di forma (anzi il § 30 collega il sublime a ciò che è informe e senza figura) ed ha a che fare con l’illimitatezza; il bello è life-enhancing, è intensificazione e accrescimento di vita (suo effetto precipuo è l’animazione, il ‘ravvivamento’ delle nostre facoltà), laddove il sublime non sorge che dopo un momentaneo impedimento, un arresto, ed è insomma un «piacere negativo», che piace contro l’interesse dei sensi (mentre il bello, si ricorderà, piace senza interesse). Il bello è statico, è contemplazione tranquilla, mentre il sublime è eminentemente dinamico, si fonda su di un moto dell’animo; il bello è ordine, o almeno principio di un ordine possibile, mentre invece il sublime è caos, selvaggio disordine, persino devastazione, purché accompagnati da grandezza e potenza. Infine, differenza che riassume e motiva tutte le altre, il bello si fonda sulla finalità dell’oggetto per le nostre facoltà conoscitive, laddove il sublime, che non è nell’oggetto ma nel nostro animo, può essere percepito come addirittura contrario alla finalità per il nostro Giudizio. Alla base dell’articolazione dell’Analitica del Bello c’era il riscontro con la tavola dei giudizi della prima Critica; per l’articolazione dell’ Analitica del

Sublime occorre invece fare riferimento alla tavola delle categorie: infatti Kant distingue, come distingueva tra due gruppi di categorie, un sublime matematico e un sublime dinamico. Il sublime matematico è suscitato nel nostro animo dalla vista di qualcosa di grande, come una cima montuosa, o anche, esemplifica Kant contraddicendo la tesi appena enunziata che il sublime si dà solo nella natura e non nell’arte, le Piramidi di Egitto o la basilica di San Pietro. Non basta però che l’oggetto sia grande: è richiesto che esso sia grande assolutamente, ossia grande al di là di ogni comparazione, sì che ogni cosa al suo confronto sia piccola. Ora, per sapere quanto è grande una cosa noi la raffrontiamo con un’altra grandezza, presa come unità di misura, e in questa misurazione numerica è chiaro che non incontreremo mai una grandezza assoluta, perché tale misurazione può proseguire indefinitamente, senza imbattersi mai in un massimo; accanto alla valutazione aritmetica si dà però, come condizione di essa, anche una misurazione intuitiva delle grandezze, che è quella che effettuiamo, come si dice, ‘a occhio’. Nella valutazione intuitiva è richiesto che oltre a procedere innanzi con la misura si sia in grado di tenere presenti anche le misurazioni precedenti: alla «apprensione» successiva deve accompagnarsi la «comprensione» globale. Ed è proprio in questa seconda operazione che la nostra immaginazione tocca presto il suo limite, dimenticando le sue prime misurazioni e facendoci apparire smisurata la cosa. Ma proprio dinanzi a questo smacco dell’immaginazione noi avvertiamo in noi stessi «la voce della ragione», in quanto facoltà che esige la totalità (in questo caso, la comprensione in un’unica intuizione). Il fatto che noi siamo in grado, di fronte a quel che ci appare infinito, almeno di pensare alla totalità, ci rende consapevoli della presenza in noi stessi di qualcosa che va al di là delle limitazioni dei sensi. La sproporzione tra la nostra capacità immaginativa nel valutare gli oggetti dell’intuizione e l’idea di totalità che ci è fornita dalla ragione desta in noi il sentimento di una facoltà soprasensibile, donde un’altra, e decisiva, definizione di questa sublimità: sublime, dice Kant, «è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore ad ogni misura dei sensi»26. Il sublime dinamico è invece suscitato in noi dalla rappresentazione della natura come potenza. Un vulcano in eruzione, una tempesta in pieno oceano, un uragano distruttore ci comunicano l’impressione dell’onnipotenza della natura e della fragilità delle nostre forze, e certo, se temiamo per la nostra

incolumità, ci suscitano soltanto spavento. Se però non ne va della nostra salvezza, se, stando al riparo dalla loro furia devastatrice, semplicemente ammiriamo questi spettacoli naturali, siamo condotti a riflettere non soltanto sulla debolezza fisica che ci caratterizza come esseri naturali, ma a scoprire in noi anche una indipendenza dalla natura, una nostra superiorità sulla natura bruta, che ci proviene dalla nostra qualità di esseri capaci di moralità. La natura in questo caso è sublime perché suscita in noi il sentimento della nostra destinazione soprasensibile, e il piacere riguarda la scoperta di questa nostra destinazione, occasionata da un dispiacere: una volta di più, la sublimità risiede nel nostro animo soltanto27. La prossimità con i temi dell’etica è, nel caso del sublime dinamico, assolutamente palese. L’immaginazione qui è infatti in rapporto con la ragione in quanto pratica, e la nostra superiorità sulla natura fisica deriva dalla nostra capacità di stabilire degli scopi morali. Ma anche nel sublime matematico (nel quale l’immaginazione è in rapporto con la ragione in quanto teoretica, ovvero come facoltà della totalità), non è difficile scorgere quanto sia forte il legame con il mondo morale. Basti pensare, tra le molte prove che si potrebbero addurre, al fatto che il sentimento connesso al sublime è indicato da Kant come la stima o il rispetto, cioè come quel sentimento che la Critica della ragion pratica aveva distinto e contrapposto a tutti gli altri, in quanto unico movente adeguato della legge morale; oppure si consideri che i giudizi che pronunziamo su entrambe le specie di sublime possono aspirare al consenso di ognuno (come accadeva, ma per motivi diversi, ai giudizi sul bello) solo perché radicati nel sentimento morale, che posso e debbo con ragione presupporre in ogni uomo (§ 29). Ora, nella storia delle interpretazioni della Critica del Giudizio proprio lo stretto rapporto che il sublime allaccia con la moralità ha spesso suscitato diffidenza, e ha indotto molti studiosi a mettere a margine il sublime, considerandolo una pietra di inciampo, perché vi si è visto una sorta di arretramento o di contraddizione rispetto alla tesi notoria della apraticità del giudizio estetico fissata in sede di analitica del bello28. Ma la vicenda che abbiamo visto delinearsi a proposito del rapporto tra giudizio estetico e conoscenza, nel quale, come si ricorderà, la tesi iniziale della ateoreticità del giudizio di gusto, pur senza venire affatto rinnegata, lasciava posto alla scoperta di legami profondi tra la sfera estetica e il conoscere, deve piuttosto ammonirci a ritrovare qualcosa di analogo anche sul versante delle relazioni tra estetica e morale. In luogo di

considerare il sublime un corpo estraneo ed isolato nella compagine della Critica, insomma, è ipotesi interpretativamente assai più feconda ribaltare questo atteggiamento, e fare invece perno sul sublime per muovere verso i numerosi altri luoghi della terza Critica che ridisegnano e approfondiscono i rapporti con la sfera morale29. Dal punto di vista genetico, e anche questo ha la sua importanza, perché configura un movimento all’interno del pensiero kantiano, si tratta sempre di testi relativamente tardivi. Nella soluzione dell’antinomia del gusto Kant aveva affermato (già lo accennammo) che il concetto non determinabile su cui si fonda il giudizio di gusto non è altro che «il concetto razionale del soprasensibile». Come già accadeva nelle due prime Critiche, dunque, l’antinomia ci sollecita a spingere il nostro sguardo al di là del fenomeno, e a cercare nel soprasensibile «il punto di unione di tutte le nostre facoltà a priori». Infatti il soprasensibile al quale rinvia la dialettica del gusto può essere pensato da un lato come il sostrato su cui riposa il senso comune, come la condivisa umanità dei giudicanti; dall’altro come il sostrato della natura fenomenica, quindi come la radice che spiega la costituzione finalistica per il soggetto della natura stessa. Kant non recede affatto dalle sue convinzioni precedenti circa la inconoscibilità di questo presupposto soprasensibile, ma indica nel soprasensibile evocato dal Giudizio un possibile trait d’union tra quello al quale rinvia la ragione teoretica e quello concepito come «principio dei fini della libertà», al quale rimanda invece la ragione pratica. Il nesso tra estetica e morale è poi esplicitamente tematizzato nel successivo § 59, significativamente intitolato Della bellezza come simbolo della moralità. Anche in questo caso, non si tratta di un rapporto determinato, e tantomeno di una meccanica trasposizione dei caratteri dell’una all’altra, procedimento che sarebbe, esso sì, inconciliabile con la tesi della apraticità del giudizio di gusto. Il rapporto è soltanto analogico o simbolico, il simbolo essendo per Kant l’unica esibizione intuitiva possibile nel caso delle idee della ragione. Si tratta insomma di notare una serie di corrispondenze o similitudini tra il bello e il bene morale, che Kant elenca partitamente, al di là delle quali possiamo però intravedere una rispondenza in certo qual modo più profonda: se, da un punto di vista antropologico, la sensibilità per il bello può costituire un avvio verso lo sviluppo del senso morale, è forse perché il bello rappresenta una sorta di conciliazione tra libertà e natura nel fenomeno stesso. Mai come in questi capoversi sembrano prossimi gli sviluppi che delle teorie kantiane

saranno forniti, di lì a poco, dagli scritti estetici schilleriani. Infine, le tematiche etiche sono dominanti, anzi occupano pressoché esclusivamente la scena, nella lunga Appendice al Giudizio teleologico, almeno a partire dal § 82 (i paragrafi precedenti completano il ragionamento esposto in sede di dialettica). Kant qui torna a occuparsi di finalità esterna, una nozione che, come si è visto, è inutilizzabile in sede scientifica, ma che si ripropone quando si è chiamati a riflettere sulla posizione dell’uomo nella natura e nella storia. In questo contesto l’uomo può ben essere considerato lo scopo ultimo della natura, almeno nel senso che egli è l’unico ente in grado di figurarsi lo stesso concetto di scopo; senonché questo tipo di considerazione può essere facilmente rovesciato, mostrando che l’uomo, inteso come specie animale, non è affatto il beniamino della natura, dalla quale non è stato favorito in alcun modo. Non dunque rispetto alla sua felicità, ma solo relativamente alla cultura e alla socialità si può vedere nell’uomo lo scopo ultimo della natura (§§ 82-83). Se però, invece che di scopo ultimo, parliamo di uno scopo finale, noi abbandoniamo la natura fenomenica e i suoi rapporti interni. Poiché lo scopo finale è quello che non ne richiede alcun altro come condizione, esso deve stare al di fuori del fenomeno come regno del condizionato. Scopo finale è allora ancor sempre l’uomo, ma considerato come agente libero, come capace di porre una legge morale indipendente dai condizionamenti naturali. Dell’uomo come sottoposto alla legge morale non ci si può domandare a qual fine esista: la moralità è in se stessa scopo supremo (§ 84). Un passaggio diretto dall’ordinamento finalistico della natura alla sua causa somma, cioè a Dio (una fisico-teologia) è impossibile; ma la fisico-teologia rimanda al passaggio dal fine morale dell’uomo alla divinità (etico-teologia). È sull’uso pratico della ragione che riposa l’idea di un essere supremo, il cui concetto non si può mai desumere sulla base dei principii teoretici. L’unica prova possibile dell’esistenza divina rimane insomma quella morale, la cui validità è però limitata, servendo essa esclusivamente per l’uso pratico della ragione, e non fornendoci alcuna conoscenza (§§ 85 sgg.). Siamo dunque di fronte a un altro caso in cui la considerazione finalistica può essere propedeutica alla moralità, giacché la prova fisico-teologica indirizza verso quella morale, che non tanto la completa quanto supplisce ai suoi intrinseci difetti. E così pure, l’ammirazione per la bellezza della natura e per la perfezione dei suoi esseri organizzati ricorda l’atteggiamento religioso nei confronti della natura stessa e propizia il sorgere di idee morali.

7. Ritorno all’«Introduzione» definitiva. Se, tenendo presenti queste argomentazioni kantiane, torniamo a leggere l’Introduzione definitiva, o per meglio dire i pochi paragrafi di essa che ancora non abbiamo preso in considerazione, è probabile che essi producano un’impressione alquanto diversa da quella che ci avrebbero data se ci fossimo imbattuti subito in essi. L’Introduzione definitiva, che consta di nove paragrafi, mostra un’evidente architettura triadica, essendo composta di tre sezioni omogenee di tre paragrafi ciascuna30. Abbiamo visto che il gruppo centrale dei §§ IV-VI contiene l’esposizione del problema epistemologico dell’unità delle leggi empiriche della natura, che i §§ VII e VIII introducono rispettivamente il Giudizio estetico e quello teleologico, e infine che i paragrafi iniziali espongono il problema sistematico e architettonico della posizione del Giudizio tra le facoltà conoscitive. Ci restano da considerare in particolare, dunque, i paragrafi conclusivi del primo e del terzo gruppo (§ III e § IX) nei quali l’accento batte chiaramente sulla funzione di termine medio e di collegamento che la Critica del Giudizio svolge tra le prime due critiche: fin nei titoli infatti vi si parla della terza Critica come «mezzo per riunire in un tutto le due parti della filosofia» e del Giudizio come «legame tra la legislazione dell’intelletto e quella della ragione». Si tratta di un altro aspetto relativamente noto della Critica del Giudizio, dato che essa, a livello manualistico, viene spesso presentata proprio in questa chiave, ossia come mediazione e passaggio tra ragion pura e ragion pratica, tra legislazione secondo l’intelletto e legislazione secondo la libertà. Il problema è certamente ben presente a Kant, dato che dall’ambito della filosofia teoretica a quello della pratica non c’è alcun transito possibile sul piano conoscitivo, mentre è pur vero che la libertà realizza i suoi scopi nel fenomeno, e dunque rimane aperta la questione di un fondamento dell’unità tra il soprasensibile della natura e quello della libertà; ma sul tenore della sua soluzione sarà più difficile equivocare, se si giunge a essa attraverso le aperture sul tema del soprasensibile, sui rapporti tra bellezza e moralità, sul ruolo della fisicoteologia, e se, infine, si riflette sul fatto che anche l’idea del gusto come «facoltà da acquisire» rimanda necessariamente a un dover essere e insomma non a un possesso ma a una proiezione in ultima analisi di natura etica. Non si dirà dunque che il «passaggio» o la «conciliazione» siano il compito o men che meno il risultato della terza Critica, dato che piuttosto essi sono il compito che sempre deve attuare il soggetto che conosce e che vuole. Tra

legislazione della natura e legislazione della libertà rimane indubitabilmente aperto il «grande abisso», e tra l’uno e l’altro dominio «è impossibile gettare un ponte» (§ IX); mentre resta dimostrato che il passaggio può avvenire tra due «modi di pensare». La funzione del Giudizio non è allora quella di fornirci il passaggio, ma piuttosto quella di offrirci, nella considerazione di un possibile ordinamento finalistico della natura, una qualche garanzia della sensatezza della nostra aspirazione a realizzarlo. Con ciò siamo però anche giunti all’ultimo atto della storia interna del testo della Critica del Giudizio: l’Introduzione e la Prefazione sono infatti l’ultima parte che Kant abbia composto. Il 21 gennaio 1790 Kant inviava all’editore berlinese, de Lagarde, i primi quaranta fogli manoscritti dell’opera, corrispondenti a circa la metà del testo, Introduzione esclusa, promettendo al contempo di spedire la parte restante dell’opera (quarantaquattro fogli, più i diciassette dell’ Introduzione «che però – aggiunge – dovranno forse essere da me ulteriormente abbreviati»). La stampa comincia già nel corso del mese di gennaio. Il 9 febbraio Kant invia altri quaranta fogli manoscritti; un mese dopo l’ultima parte del testo, passata da quattro a nove fogli (è la riscrittura che porta l’Appendice del Giudizio teleologico a dilatarsi tanto). Il corpo dell’opera è dunque a disposizione dell’editore, nella sua completezza, con l’invio del 9 marzo. Mancano solo Introduzione e Prefazione, che vengono spedite il 22 dello stesso mese. Ma forse la rielaborazione della Prima Introduzione era iniziata in precedenza (probabilmente già all’inizio dell’anno), dato che l’Introduzione definitiva è, come si è detto, un testo sostanzialmente nuovo, e una sua stesura così rapida contrasta con quanto sappiamo delle abitudini compositive kantiane. La Critica del Giudizio era effettivamente pronta per la Pasqua, ma non quella del 1788, come inizialmente preventivato, bensì quella di due anni dopo. Il 4 maggio 1790 Kant riceve la prima lettera di ringraziamento per l’invio dell’opera. La letteratura filosofica sull’estetica, nella quale le opere veramente significative si possono contare sulle dieci dita, e forse anche su quelle di una sola mano, si era arricchita di uno dei pochissimi suoi testi che meritino di essere considerati assolutamente imprescindibili. 1

Sull’estetica pre-critica di Kant il lettore può trovare molte informazioni nella Introduzione premessa da A. Bosi alla sua traduzione della Critica del Giudizio, Torino 1993, come pure nella Introduzione di G. Morpurgo-Tagliabue a Kant, Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, Milano 1989. Si veda anche: H.G. Juchem, Die Entwicklung des Begriffs des Schönen bei Kant, Bonn 1970.

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Sulla formazione del testo della Critica del Giudizio sono da vedere: G. Tonelli, La formazione del testo della Critica del Giudizio, in «Revue internationale de Philosophie», 1954, pp. 423-48; Id., Von den verschiedenen Bedeutungen des Wortes Zweckmässigkeit in der Kritik der Urteilskraft, in «Kant-Studien», 1957-58, pp. 154-66; il saggio recente di D. Dumouchel La découverte de la faculté de juger réfléchissante. Le rôle heuristique de la ‘Critique du goût’ dans la formation de la ‘Critique de la faculté de juger’, ivi, 1994, pp. 419-22, conferma sostanzialmente le conclusioni dei due articoli di Tonelli. 3 Una buona introduzione complessiva alla terza critica è il volume di F. Menegoni Critica del Giudizio. Introduzione alla lettura, Roma 1995. L’ Introduzione premessa da L. Amoroso alla sua nuova traduzione della terza Critica (Critica della capacità di giudizio, Milano 1995) è un’esposizione dei contenuti dell’opera assai efficace per chiarezza e concisione. 4 Cfr. E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, Firenze 1977, p. 342. Tutto il capitolo su «La Critica del Giudizio» nel volume cassireriano costituisce una preziosa guida alla lettura. 5 Naturalmente la distinzione tra bellezza libera e bellezza aderente si presta a molteplici considerazioni. Su di essa (e sulla questione del sublime) centra ad esempio la propria interpretazione L. Pareyson, L’estetica di Kant, Milano 19842. 6 Un’analisi dei quattro momenti che mette in luce l’impossibilità di fermarsi alla lectio facilior corrente è in E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Milano 1992, pp. 102-47. In generale, pur nel suo taglio semplicemente introduttivo-espositivo, la nostra presentazione è fortemente debitrice degli scritti kantiani di Garroni, che via via verranno citati, e ad essi rimanda come indispensabile approfondimento. 7 J.H. Zammito, The Genesis of Kant’s Critique of Judgement, Chicago-London 1992, che però non offre nessun convincente supporto filologico a quest’ipotesi. 8 Su questi temi si può vedere in part. J. Kulenkampff, Kants Logik des ästhetischen Urteils, Frankfurt a. M. 19942. 9 Su questi aspetti ha richiamato l’attenzione L. Amoroso, Senso e consenso. Uno studio kantiano, Napoli 1984, in part. nel cap. «Consenso e senso comune», che qui seguiamo. Sulla terza Critica come tentativo di «risolvere il problema capitale della filosofia moderna: l’intersoggettività» e come «logica del senso» insiste anche A. Philonenko, tra l’altro nella Introduzione alla sua traduzione francese della terza Critica (Paris 1993). 10 Sul tema del Giudizio come facoltà «artificiale» oltre che Amoroso, Senso e consenso, cit., pp. 176 sgg., si veda E. Garroni, Une faculté à acquérir: sens et non sens dans la troisième Critique, in Kant’s Aesthetics, a c. di H. Arret, de Gruyter, Berlin 1997. 11 Sulla dottrina dell’arte kantiana si possono vedere: W. Biemel, Die Bedeutung von Kants Begründung der Aesthetik für die Philosophie der Kunst, Köln 1959, §§ 11-16; S. Kemal, Kant and fine art, Oxford 1986. In italiano: C. Cozzoli, Il linguaggio senza nome. Estetica, analogia e belle arti in Kant, Bologna 1996. 12 Sull’idea estetica si veda C. Mazzantini, L’idea estetica nella Critica del Giudizio di Kant, in «Rivista di estetica», 1961, pp. 39-76. 13 Sulla duplice collocazione della musica si veda H. Parret, Kant sulla musica, in P. Montani (a cura di), Senso e storia dell’estetica. Studi offerti a E. Garroni, Parma 1995, pp. 164-90. 14 La si veda nella trad. di P. Manganaro, Prima Introduzione alla Critica del Giudizio, RomaBari 1984. L’esatta datazione della Prima Introduzione è un problema ancora aperto. Tonelli la considera anteriore all’Analitica del Sublime e alla Critica del Giudizio teleologico, ma posteriore a Deduzione e Dialettica; più recentemente, N. Hinske e H. Mertens hanno teso ad anticiparne di

qualche mese la stesura, che potrebbe quindi anche non essere posteriore alla Deduzione e alla Dialettica. 15 Il lettore troverà un’ampia ed efficace esposizione di questo problema capitale in L. Scaravelli, Osservazioni sulla Critica del Giudizio, in Id., Scritti kantiani, Firenze 1973, pp. 341 sgg. 16 Kant, Prima Introduzione, cit., § V. 17 Ivi, § IX. 18 Ivi, § XI. 19 Per la lettura dell’Introduzione definitiva, proprio relativamente ai problemi che abbiamo cercato di individuare, si veda E. Garroni, Estetica ed epistemologia, Riflessioni sulla ‘Critica del Giudizio’, Roma 1976. 20 Si veda in proposito C. La Rocca, La deduzione trascendentale del principio di finalità, in «Il Cannocchiale», 1990 (numero interamente dedicato alla Critica del Giudizio, a cura di G. Traversa), pp. 135-54. 21 Per l’evoluzione delle idee di Kant sul finalismo, come pure per la loro collocazione nel contesto della filosofia e della scienza del Settecento, non possiamo che rimandare ai numerosi e importanti studi di S. Marcucci, da Aspetti epistemologici della finalità in Kant, Firenze 1972, a Studi Kantiani I. Kant e la conoscenza scientifica, Lucca 1988. Sul Giudizio teleologico si può inoltre vedere: AA.VV., Kant e la finalità della natura. A duecento anni dalla Critica del Giudizio, Padova 1990; K. Düsing, Die Teleologie in Kants Weltbegriff, Bonn 19862; P. McLaughlin, Kant’s Critique of Teleology in Biological Explanation, Lewiston 1990. 22 Per questo aspetto si veda K. Kuypers, Kants Kunsttheorie und die Einheit der Kritik der Urteilskraft, Amsterdam 1972. 23 Ma esse colpirono anche Goethe, che in un breve scritto notava come Kant, «dopo averci messi in strettezze [...] si apre alle espressioni più liberali, e lascia a noi di stabilire quale uso fare della libertà che, in certa misura, ci riconosce» (J.W. Goethe, Capacità di giudizio intuitiva, trad. it. di V. Mathieu in Grande Antologia Filosofica, a cura di M.F. Sciacca, vol. XVII, Milano 1971, pp. 454-55). Per il significato che le pagine kantiane sull’intelletto intuitivo assumono nella filosofia dell’idealismo tedesco rinviamo a V. Verra, Immaginazione trascendentale e intelletto intuitivo, in Id. (a cura di), Hegel interprete di Kant, Napoli 1981. 24 Per il rapporto di Kant con i teorici precedenti si veda in part. il saggio di C. La Rocca, Il soggetto e il sublime. Estetica e soggettività tra Burke e Kant, in Id., Strutture kantiane, Pisa 1990. Sul sublime kantiano in genere segnaliamo: P. Crowther, The Kantian Sublime: From Morality to Art, Oxford 1989; J.-F. Lyotard, Leçons sur l’Analitique du sublime, Paris 1991. 25 Che essa poi sia posteriore anche alla stesura della Critica del Giudizio teleologico, come si può forse inclinare a credere, è questione difficilmente dimostrabile. 26 Per un’analisi più approfondita della struttura del sublime matematico rinviamo a: A. Moretto, Sul concetto matematico di ‘grandezza’ secondo Kant. L’‘Analitica del Sublime’ nella ‘Critica del Giudizio’, in «Verifiche», 1990, pp. 51-125; H. Hohenegger, Note per un’interpretazione dell’analitica del sublime matematico in Kant, in «Il cannocchiale», 1990, pp. 155-88. 27 Sul sublime dinamico si veda A. Lazaroff, The Kantian Sublime: Aesthetic Judgement and Religious Feeling, in «Kant-Studien», 1980, pp. 202-20. 28 Esemplare, in proposito, è l’interpretazione di impostazione crociana corrente in Italia nel primo cinquantennio del secolo, e che traspare ancora con molta chiarezza nel volume di A.

Caracciolo, Arte e pensiero nelle loro istanze metafisiche. Ripensamento dei problemi della Critica del Giudizio, Milano 1953. 29 La rilevanza della Critica del Giudizio per le teorie etiche kantiane è stata sottolineata soprattutto in alcune interpretazioni recenti: si veda F. Menegoni, Finalità e destinazione morale nella Critica del Giudizio di Kant, Trento 1988; D. Dumouchel, Esthétique et moralité selon Kant. Le cas du sublime, in «Dialogue», 1993; E. Ferrario, Etica e facoltà di giudizio, in «Almanacchi Nuovi», 1994; M.A. La Torre, L’etica nella terza critica. Il ‘Giudizio’ kantiano e le recenti interpretazioni francesi, Napoli 1996. 30 Per la struttura dell’Introduzione definitiva si veda E. Garroni, Schema di lettura dell’Introduzione alla ‘Critica del Giudizio’, in AA.VV., La tradizione kantiana in Italia, Messina 1986.

Avvertenza alla presente edizione

Il testo tedesco di riferimento è quello pubblicato da W. Windelband nel volume quinto della edizione delle opere kantiane a cura dell’Accademia delle Scienze di Berlino (Kants gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenscaften, Band V, pp. 165-485: Kritik der Urtheilskraft). La numerazione riportata a margine del testo tedesco e di quello italiano si riferisce a quella di tale volume. Non sono state riportate le varianti comprese nell’apparato critico, anche se esse sono state sempre prese in esame. Non abbiamo però ritenuto di modificare la traduzione nei pochi casi in cui essa segue la lezione prescelta da K. Vorländer nella propria edizione della Kritik der Urtheilskraft, basatu sulla terza edizione (1799) dell'opera. Sono stato apportate alcune modifiche alla traduzione, concordate con il revisore.

Prefazione del traduttore

I La Critica del Giudizio, terza ed ultima delle opere fondamentali di Kant, veniva pubblicata nel 1790, due anni dopo la Critica della Ragion pratica, e nove dopo la Critica della Ragion pura. Con essa Kant chiudeva il suo sistema. Nella prima edizione della C. d. R. pura è decisamente affermata l’origine empirica delle regole e dei criteri del giudizio sul bello, e quindi la loro incapacità a servire come leggi a priori; nella seconda edizione (principio del 1787), è detto invece, che quelle regole sono empiriche circa le loro fonti p r i n c i p a l i , e non possono mai servire come d e t e r m i n a t e leggi a priori. E lo stesso anno, nel dicembre, Kant scriveva al Reinhold: Così io mi occupo ora della c r i t i c a d e l g u s t o , la quale dà occasione a scoprire un’altra specie di principii a priori, diversi dai precedenti. Giacché le facoltà dell’animo sono tre: la facoltà conoscitiva, il s e n t i m e n t o d i p i a c e r e e d i s p i a c e r e , la facoltà di desiderare. Per la prima io ho trovato principii a priori nella critica della ragion pura (teoretica), per la terza nella critica della ragion pratica. Ne cercavo anche per la seconda; e, sebbene prima tenessi per impossibile trovarli, il procedimento sistematico, che mi aveva fatto scoprire nell’animo umano la divisione nelle tre facoltà menzionate..., mi condusse su questa via; sicché ora io riconosco tre parti nella filosofia, di cui ciascuna ha i proprii principii a priori, che si possono dedurre, determinando con certezza i limiti della conoscenza possibile in tal modo: – filosofia teoretica, teleologia e filosofia pratica, di cui certamente la seconda è la più povera di fondamenti a priori32.

Questa lettera non lascia dubbi sul processo di formazione della terza Critica, e sul posto che, nella mente di Kant, essa doveva aver nel sistema. Una discussione critica, che qui non può aver luogo, potrebbe mostrare per via di congetture, in quale stadio di sviluppo era il pensiero di Kant al momento della lettera; il che non è possibile se non mediante un confronto di questa con l’intera opera, o almeno con l’introduzione. A tal riguardo gioverà vedere le giustissime osservazioni dell’Erdmann33. Kant non si era mai prima occupato di proposito di questioni estetiche, se non in quello scritto assai noto: Beobachtungen über das Gefühl des Schönen

und Erhabenen, in cui sono osservazioni davvero finissime, ma puramente empiriche34. Così questo scritto, come tutti gli altri presi in considerazione dallo Schlapp35, nei quali si tocca incidentalmente l’estetica, hanno solo una relazione lontana con la Critica del Giudizio, derivata essenzialmente dal procedimento sistematico.

II Le tre edizioni della C. d. G., curate da Kant, furono pubblicate la prima nel 1790 (Berlino e Libau, presso Lagarde e Friederich), la seconda e la terza nel 1793 e nel 1799 (Berlino, presso Lagarde). Curate da Kant, come bene osserva l’Erdmann, per modo di dire; giacché Kant affidava d’ordinario la correzione delle sue opere agli allievi36. La seconda e la terza edizione differiscono per non molte varianti, che riguardano solo la forma dell’espressione (il numero delle pagine, 476, è lo stesso). La seconda differisce dalla prima, scorrettisima, per molte correzioni non solo di errori di stampa ma di forma; contiene molte aggiunte, per lo più brevi, e porta anche nel titolo «migliorata» (ha sei pagine in più). In una traduzione non era il caso di far presente al lettore le varianti di pura forma; e neppure io ho creduto necessario notare – pigliando a fondamento, com’era naturale, la terza edizione – tutte le aggiunte della seconda passate in questa, giacché quasi nessuna ha importanza sostanziale. Specialmente per un traduttore vale ciò che ebbe a dire il Rosenkranz, che cioè Kant non introdusse mai in quest’opera qualche intimo cambiamento. Con vari criteri gli editori tedeschi presero a fondamento ora questa ed ora quella delle tre edizioni originali, dando luogo nelle note alle varianti delle altre edizioni, e introducendo anche correzioni proprie. Così il Rosenkranz37 il Kirchmann38 e il Kehrbach39 presero a fondamento la prima; l’Hartenstein40 e l’Erdmann41, la seconda; il Vorländer42, la terza. La presente traduzione è stata fatta sull’edizione accuratissima dell’Erdmann, col confronto dell’ultima, quella del Vorländer. L’edizione dell’Erdmann è ricca di molte correzioni originali, alcune interpretative, tutte a mio parere giuste, ed accolte anche in massima parte dal Vorländer. Non ho pensato neppure per un momento di aggiungere, seguendo l’Erdmann, il riassunto del Beck43 della prima introduzione, abbandonata da Kant per ragioni di brevità: l’introduzione definitiva contiene tutto quello che

è nella prima (nel riassunto), ed esposto con maggiore ordine, concisione e chiarezza.

III Questa traduzione è letterale, sempre, s’intende, nei limiti del possibile; ma soprattutto io non mi sono curato di rendere più agile l’espressione dove di necessità risultava troppo involuta e pesante, rispettando anche, salvo qualche rara volta, la lunghezza eccessiva del periodo. È nota l’abbondanza di proposizioni subordinate, relative, incidentali, che rende faticoso e spesso oscuro, specialmente in quest’opera, il periodo kantiano. Un amico, il consigliere Wlömer, al quale Kant chiedeva se leggesse i suoi scritti, gli rispondeva che li avrebbe letti più spesso, se non gli fossero mancate le dita: «Sì, caro amico, il vostro stile è così ricco di parentesi e di proposizioni subordinate, da tener presenti, che io pongo un dito su di una parola, poi il secondo, il terzo, il quarto, e, prima di finir la pagina, le mie dita sono esaurite». Il traduttore di Kant ha quasi sempre la tentazione di spezzare il periodo lungo; ma ciò non è perfettamente lecito se non qualche volta. La lunghezza in Kant deriva dal modo di pensare: da un certo modo di pensare che raccoglie tutta l’attenzione dello scrittore nell’interno di ciascun periodo, senza alcuna preoccupazione dello scrivere, cioè dell’ordine e dell’effetto generale: Kant pensa scrivendo, ma non pensa a scrivere, se mi è lecita questa espressione. Tutte quelle proposizioni accessorie sono spesso chiarimenti o ripetizioni inutili; e a me non di rado è avvenuto, volendo spostarne qualcuna, di osservare che era più logico sopprimerla che spostarla. Ho confrontata la mia con la traduzione francese del Barni44. Non mi è riuscito di vedere la traduzione inglese di I. H. Bernard (Londra, 1892). Una traduzione poi non può dirsi il libero rifacimento del Colecchi, per la parte che riguarda il Giudizio estetico45. La traduzione del Barni, che è rimasta unica in Francia, ed è servita molto anche in Italia, non è priva di pregi, specialmente se si pensi che è, in quella lingua, la prima ed unica. Bertrando Spaventa, a proposito della traduzione del Barni della C. d. R. pratica, disse, non senza ragione: Quanto alla traduzione, non essendo io giudice competente in questa materia, dirò solo che a me pare la migliore di tutte le traduzioni francesi di Kant, per fedeltà e precisione, e per proprietà di linguaggio filosofico46.

Un altro traduttore della C. d. R. pratica, il Picavet (Parigi 1886), preoccupatissimo dell’espressione letterale, ponendo in nota tutti i passi in cui la traduzione del Barni diverge dalla sua, non trova moltissime osservazioni da fare; e gli appunti che gli occorre di muovere al suo predecessore, riguardano specialmente qualche falso riferimento di pronomi (cioè veri errori), parole improprie, varianti libere a scopo esplicativo. Improprietà di linguaggio io veramente non ne ho riscontrate: ho trovato invece veri errori di interpretazione (non però molti), e varianti frequenti, e talvolta troppo libere. Aggiungo, quali per me non encomiabili, le spezzature del periodo, spesso assolutamente ingiustificate. Do come saggio gli appunti presi tra le prime pagine. Il testo dice: «Poiché lo studio del gusto [...], non è intrapreso qui allo scopo d’educarlo e coltivarlo [...], ma soltanto per uno scopo trascendentale, esso sarà giudicato, spero, con indulgenza riguardo alla sua insufficienza circa quel primo scopo» (Da die Untersuchung des Geschmacksvermögens [...] hier nicht zur Bildung und Kultur des Geschmaks [...] sondern bloss in transscendentaler Absicht angestellt wird; so wird sie, wie ich mir schmeichle, in Ansehung der Mangelhaftigkeit jenes Zwecks auch mit Nachsicht beurtheil werden); e il Barni traduce (p. 8): «Comme je n’entreprends pas l’étude du goût [...], dans le but de le former et de le cultiver [...], mais seulement à un point de vue transcendental, on sera, je l’espère, indulgent pour les lacunes de cette étude». Subito dopo, «un problema, che la natura ha tanto avviluppato» (ein Problem, welches die Natur so verwickelt hat), è tradotto: «un problème, naturellement si embrouillé». «Ora, qui, riguardo al pratico, si lascia indeterminato se [...]» (Hier wird nun in Ansehung des Praktischen unbestimmt gelassen, ob [...]); e il Barni (p. 13) traduce «Or ici on parle de pratique d’une manière générale, sans déterminer si [...]». «Esse tutte, difatti, non contengono se non regole dell’abilità, per conseguenza tecnico-pratiche, destinate a produrre un effetto, che è possibile secondo i concetti naturali delle cause ed effetti; i quali concetti appartengono alla filosofia teoretica, sicché anche quelle regole rientrano come corollari nella filosofia teoretica (o scienza della natura) e non possono pretendere [...]» (weil sie insgesammt nur Regeln der Geschicklichkeit, die mithin nur technischpraktisch sind, enthalten, um eine Wirkung hervorzubringen, die nach Naturbegriffen der Ursachen und Wirkungen möglich ist, welche, da sie zur theoretischen Philosophie gehören,

jenen Vorschriften als blossen Korollarien aus derselben (der Naturwissenschaft) unterworfen sind, und also... verlangen können); Barni (p. 15): «En effet, ils ne contiennent tous que des règles qui s’adressent à l’industrie de l’homme, qui, par conséquent ne sont que techniquement pratiques, ou destinées à produire un effet possible d’après les concepts naturels des causes et des effets, et qui, rentrant dans la philosophie théorique (ou dans la science de la nature), dont elles sont de simples corollaires, ne peuvent réclamer [...]». Qui il testo, forse per chiarirlo, è tradito addirittura. «Quanto si estende l’applicazione dei concetti a priori, altrettanto si estende l’uso della nostra facoltà di conoscere secondo princìpi, e per conseguenza la filosofia» (Soweit Begriffe a priori ihre Anwendung haben, so weit reicht der Gebrauch unseres Erkenntnissvermögens nach Prinzipien und mit ihm die Philosophie); il Barni (pp. 16-17) traduce con questa inutile artificiosa variante: «L’usage de notre faculté de connaìtre par des principes et la philosophie par conséquent n’ont pas d’autres bornes que celles de l’application des concepts a priori». Immediatamente dopo: «Ma l’insieme di tutti gli oggetti ai quali sono riferiti quei concetti, per darne, se è possibile, una conoscenza, può essere diviso secondo la varia sufficienza o insufficienza delle nostre facoltà rispetto a tale scopo» (Der Inbergriff aller Gegenstände aber worauf jene Begriffe bezogen werden, um womöglich eine Erkenntniss derselben zu Stande zu bringen, kann nach der verschiedenen Zulänglichkeit oder Unzulänglichkeit unserer Vermögen zu dieser Absicht eingetheilt werden); il Barni diluendo: «Mais l’ensemble de tous les objets auxquels se rapportent ces concepts, pour en constituer, s’il est possible, une connaissance, peut être divisé selon que nos facultés suffisent ou ne suffisent pas à ce but, et selon qu’elles y suffisent de telle ou telle manière». «Sicché vi deve essere un principio che stabilisca l’unità del soprasensibile, che sta a fondamento della natura, e di quello che il concetto della libertà contiene praticamente; un principio, il cui concetto è insufficiente, in verità, a darne la conoscenza, sia teoricamente che praticamente, e quindi, non ha alcun dominio proprio, ma che permette nondimeno il passaggio dal modo di pensare secondo i principii dell’uno al modo di pensare secondo i principii dell’altro» (Also muss es doch einen Grund der Einheit des Uebersinnlichen, welches der Natur zum Grunde liegt, mit dem, was der Freiheitsbegriff praktisch enthält, geben, wovon der Begriff, wenn er gleich weder theoretisch noch praktisch zu einer Erkenntniss desselben gelangt, mithin kein

eigenthümliches Gebiet hat, dennoch den Uebergang von der Denkungsart nach den Prinzipien der einen zu der nach Prinzipien der anderen möglich macht); il Barni (pp. 20-21): «Il doit donc y avoir un principe qui rende possible l’accord du supra-sensibile, servant de fondement à la nature, avec ce que le concept de la liberté contient pratiquement, un principe dont le concept insuffisant, il est vrai, au point de vue théorique et au point de vue pratique, à en donner une connaissance, et n’ayant point par conséquent de domaine qui lui soit propre, permette cependant à l’esprit de passer d’un monde à l’autre». Mi restringo a poche pagine, perché queste varianti si somigliano tutte, e i veri errori non sono poi tanti da doverli menzionare. S’intenderà però da questi accenni, tenendo conto anche delle spezzature dei periodi, la specie di alterazione che ha subìto il testo nella traduzione francese. S’intenderà anche meglio se si pensi che la lingua francese di sua natura diluisce ciò che è concentrato e, in certo modo, concretizza ciò che è astratto. È da sperare perciò che la presente traduzione, anche non per merito esclusivo di chi l’ha fatta, e che ha avuto di mira la massima fedeltà, riesca un’immagine più fedele dell’originale, e quindi più utile agli studiosi d’Italia. L’apparente facilità non deve lusingare; Kant non è oscuro – a chi è oscuro – perché abbia periodi lunghi, o perché talora non sviluppi abbastanza il suo pensiero, o perché si ripeta, e via discorrendo. «Se lo stile di Kant è oscuro – diceva Schopenhauer –, è soprattutto per la profondità non comune del suo pensiero». Alfredo Gargiulo Napoli, 10 ottobre 1906 32 Sämmtliche Werke, pubbl. da G. Hartenstein, Leipzig 1868 sgg.; vol. VIII, p. 739. 33 Immanuel Kant’s Kritik der Urtheilskraft, pubbl. da B. Erdmann, Hamburg-Leipzig 1884; vedi l’introduzione. 34 Fu pubblicato la prima volta nel 1764 a Königsberg e oltre che nelle varie edizioni delle opere complete, un’altra volta a Riga, nel 1771. Ebbe fortuna in Francia, dove l’autore meritò il nome di Labruyère de l’Allemagne. Il Barni credette opportuno tradurlo in appendice alla Critica del Giudizio. Altre traduzioni sono quelle di Peyer Imhoff (1796), Weyland (1823), e Kératri (1823), preceduta da un lungo commentario: Examen philosophique des considérations sur le sentiment du sublime et du beau de Kant. Una traduzione italiana da quest’ultima: Considerazioni sul sentimento del sublime e del bello di E. Kant, fu pubblicata a Napoli da V. M. C. nel 1826. [Vedi ora la trad. di P. Carabellese alle pp. 303-363 di I. KANT, Scritti precritici, nuova ed. riv. e accresciuta a cura di R. Assunto e R. Hohenemser, Laterza, Bari 1953.] 35 Otto Schlapp, Kants Lehre vom Genie und die Entstehung der Kritik der Urtheilskraft (Göttingen 1901): libro, per altro assai importante. Cfr. B. Croce, Estetica, 19122, pp. 280-82.

36

Cfr. Borowski, Darstellung des Lebens und Charakters I. Kants, Königsberg 1804, p. 174. [Vedi la trad. it. di E. Pocar in L.E. Borowski, R.B. Jachmann, A. CH. Wasianski, La vita di Immanuel Kant, Laterza, Bari 1969.] 37 In Sämm. Werke, pubbl. da K. Rosenkranz e Fr. W. Schubert, in 12 voll., Leipzig 1838-42. 38 In Sämm. Werke, pubbl. da I.H. von Kirchmann, in 8 voll., Berlin-Leipzig-Heidelberg 1868 sgg. 39 Kritik d. Urtheilskraft. Texte der Ausg. 1790 mit Beifügung sämm. Abweichungen der Ausg. 1793 und 1799, pubbl. da K. Kehrbach, Leipzig 1878. 40 Nei Sämm. Werke, pubbl. da G. Hartenstein, in 10 voll., Leipzig 1838-39; in chronol. Reihenfolge, in 8 voll., Leipzig 1867-69. 41 Kr. d. Ur., pubbl. da B. Erdmann, Hamburg 1880, 18842. 42 Kr. d. Ur., pubbl. da K. Vorländer, Leipzig 1902; vol. 39 della «Philosophische Bibliothek» edita da Dürr. 43 Il Beck pubblicò questo estratto in appendice al secondo vol. del suo Erläuternde Auszug aus den kritischen Schriften des Herrn Prof. Kant, Riga 1794, pp. 541-90, col titolo: Anmerkungen zur Einleitung in die Kr. d. Ur. L’Erdmann lo ha riprodotto con questo titolo più appropriato: I. S. Becks Auszug aus Kant’s ursprünglichem Entwurf der Einleitung in die Kr. d. Ur. [La prima edizione della Erste Einleitung in die Kritik der Urteilskraft apparve nella Kantsausgabe di E. Cassirer, nel 1914, a cura di O. Buek; vedi la trad. it. di P. Manganaro, Prima introduzione alla Critica del Giudizio, Laterza, Bari 1969.] 44 Critique du Jugement, suivie des Observations sur le sentiment du beau et du sublime par E. K., traduite par J. Barni, in 2 voll., Paris 1846. 45 Ottavio Colecchi, Sopra alcune quistioni le più importanti della filosofia. Osservazioni critiche, Napoli, all’insegna di Aldo Manuzio 1843; vedi il 3° ed ultimo volume. 46 Da Socrate ad Hegel, nuovi saggi di critica filosofica a cura di G. Gentile, Laterza, Bari 1905, p. 138.

Nota del revisore

La traduzione della Critica del Giudizio, compiuta da Alfredo Gargiulo nel 1906, ha avuto, com’è noto, grande importanza nello sviluppo degli studi estetici e di quelli kantiani di questo cinquantennio ed ha assolto con efficacia un compito assai impegnativo. Se si considerano infatti le gravi difficoltà del testo e l’esiguo numero di traduzioni di opere kantiane allora disponibili in Italia, quel lavoro fu un notevole successo, ed ebbe soprattutto il merito di presentare il testo kantiano in un linguaggio relativamente agevole, realizzando un felice punto di incontro tra due lingue così diverse, senza discostarsi troppo dal senso del tedesco e senza sottoporre l’italiano a contorsioni e acrobazie stilistiche eccessive. Ma se tutto questo è vero – ed è non solo giusto, ma doveroso riconoscerlo –, nel frattempo si è fatta però sempre più urgente l’esigenza di un’attenta revisione di quel lavoro, che ne proseguisse gli intenti, cercando di conservarne i pregi e di eliminarne i difetti; e questo non solo perché gli attuali lettori di Kant hanno già a disposizione numerose ed eccellenti traduzioni di altri testi kantiani a cui fare riferimento, ma soprattutto perché si manifesta sempre più viva l’aspirazione a una comprensione più intima e più aderente del pensiero e del linguaggio del filosofo di Königsberg, ed occorreva perciò non lasciare nulla di intentato per fare anche della traduzione della Critica del Giudizio un mezzo di studio sempre più adeguato. Questo è stato appunto lo scopo ideale che mi sono proposto nel mio lavoro, cercando di lasciare inalterati gli aspetti stilistici della traduzione del Gargiulo – almeno là dove non si trattasse di termini e di costrutti divenuti decisamente arcaici – ma di intervenire in modo radicale ogni qual volta si presentasse la possibilità di una effettiva rettifica o di una precisazione essenziale. Perciò ho cercato anzitutto di eliminare gli errori veri e propri di traduzione e di interpretazione, di cui alcuni veramente sorprendenti; si pensi

ad esempio a quell’importante definizione del sublime che si trova alla fine del paragrafo 25: «sublime è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore ad ogni misura dei sensi» («Erhaben ist, was auch nur denken zu können ein Vermögen des Gemüts beweist, das jeden Masstab der Sinne übertrifft») e che il Gargiulo traduce invece «è sublime ciò che dimostra che si può anche solo pensare una facoltà dell’animo che superi ogni misura dei sensi»; interpretazione tanto più inspiegabile, in quanto il Gargiulo stesso mostra, poche pagine dopo, di aver inteso rettamente il senso della questione e il costrutto «auch nur denken zu können», traducendo: «Il potere anche solo pensare senza contradizione l’infinito come dato esige nell’animo una facoltà, che sia essa stessa soprasensibile» (p. 105 della 3ª edizione, 1949). Tuttavia non voglio insistere o indugiare sui casi di questo genere, anche perché occorrerebbe via via richiamare l’intero contesto del termine o dell’espressione errata, ma piuttosto ricordare un’altra serie di inconvenienti, forse meno appariscenti, ma non meno nocivi, e cioè quelli derivanti dalla relativa mancanza di rigore terminologico. Molto spesso infatti il Gargiulo, dopo aver adottato una soluzione senz’altro buona, e a volte anche assai efficace, inspiegabilmente l’abbandona, o, comunque, non le si mantiene fedele. Si pensi per esempio alla difficoltà di rendere in italiano i due concetti assai diversi di Urteil e Urteilskraft, difficoltà risolta molto felicemente dal Gargiulo facendo loro corrispondere rispettivamente i termini «giudizio» e «Giudizio», e però alla grande confusione prodotta dal non essersi attenuto a questa convenzione, anzi dall’averla assai spesso dimenticata o rovesciata. Così allgemein e Allgemeinheit vengono a volte tradotti con «universale» e «universalità», mentre altre volte allgemein è reso indifferentemente con «generale», anche se risulta chiaramente dal testo kantiano (per esempio alla fine del paragrafo 7) una distinzione assai netta tra «generale» ed «universale»; Mitteilbarkeit e i connessi mittelein e mitteilbar a volte sono resi con «validità», «condividere» e simili, e più di rado con «comunicabilità» ecc., che, oltre ad essere il termine esatto, ha il vantaggio di richiamare direttamente tutta la dottrina, strettamente connessa, del «senso comune» come presupposto dell’universalità del giudizio estetico, e così via. A parte però la rettifica di questo tipo di incoerenze interne alla traduzione stessa della Critica del Giudizio, a cui ho cercato di rimediare o attenendomi al termine più efficace e eliminando gli altri, oppure

introducendone uno nuovo, quando mi pareva inevitabile, ho creduto di dover tener presente anche un altro tipo di considerazioni, e cioè cercare, per quanto possibile, di stabilire una coerenza tra questa traduzione e quella degli altri testi kantiani ormai divenuti patrimonio della nostra cultura filosofica. Così ad esempio mi è sembrato che non si dovesse trascurare l’importantissima distinzione kantiana tra «conoscere» e «pensare» che nella traduzione del Gargiulo andava interamente perduta, in quanto denken e suoi composti e derivati venivano resi per lo più con un generico «concepire» che non consente affatto di avvertire l’accento con cui Kant parla di qualcosa come «pensato» e soltanto «pensato», anche se necessariamente. Per la stessa ragione ho creduto necessario sostituire «sommo bene» a «bene supremo» quando si incontra l’espressione «das höchste Gut», per non cadere in esplicita contraddizione con la celebre dottrina della Critica della ragione pratica; e così via. Naturalmente questa esigenza di rigore terminologico ha potuto essere soddisfatta solo quando non sorgesse il pericolo di nuovi equivoci causati dalla diversa risonanza e ampiezza di significati del medesimo termine nelle due diverse lingue, o non intervenissero difficoltà veramente insuperabili come ad esempio nel caso del vocabolo Kunst, e soprattutto dei suoi composti, e degli aggettivi e avverbi derivati, a cui è spesso impossibile far corrispondere un termine italiano odierno, senza dare un indebito tono elogiativo o peggiorativo a espressioni che, nel linguaggio e nella mentalità dell’epoca, indicano semplicemente il modo in cui si svolge un processo o un’operazione. Del resto, in casi di questo genere, il lettore sarà avvertito della difficoltà o dalla presenza del termine tedesco (per lo più già riportato in parentesi o in nota dal Gargiulo) o dallo stesso contesto. Per concludere, voglio ricordare che, nello sforzo di giungere alla maggior chiarezza possibile, senza peraltro cadere in eccessive semplificazioni che finiscono per occultare non solo le difficoltà, ma anche il problema effettivo, ho sempre tenuto presente la traduzione inglese del Meredith (Oxford University Press, rist. del 1957) e quella francese del Gibelin (Parigi, Vrin 1946), lavori entrambi utilissimi, soprattutto il primo, anche se spesso discordanti tra loro e se, qualche volta, ho ritenuto di dovermi discostare da entrambi. Naturalmente il lavoro di revisione è stato condotto sul testo dell’edizione critica dell’Accademia delle scienze (Berlino, Reimer, vol. V, 1913), sia pur cosiderando sempre l’edizione della Kritik der Urtheilskraft curata da Karl Vorländer nella «Philosophische Bibliothek»,

1924 (rist., Amburgo 1954). Le note da me introdotte sono contraddistinte dalla siglia [N.d.R.]. Valerio Verra Torino, 20 luglio 1959.

Avvertenza del revisore

Il testo della traduzione che qui si presenta è quello della quarta edizione, da me riveduta, del 1960, salvo la correzione di qualche errore di stampa. Vi è stato aggiunto però un Glossario e un Indice dei nomi citati. Nel compilare il Glossario ho tenuto sempre presenti il Kant-Lexicon di Rudolf Eisler e l’indice degli argomenti curato da Karl Vorländer in appendice alla sua edizione della Kritik der Urtheilskraft nella «Philosophische Bibliothek» (1924). L’ampiezza delle singole voci è stata graduata, per quanto possibile, in base alla loro importanza rispetto ai problemi specifici della Critica del Giudizio. La scelta dei passi citati da altre opere è stata fatta con l’intento non solo di chiarire il termine in questione, ma anche di indicare, compatibilmente con i limiti di spazio, sviluppi, articolazioni e variazioni del relativo problema nell’opera kantiana. V. V. Febbraio 1970

Critica del giudizio

Prefazione47

[167] Si può chiamare r a g i o n p u r a la facoltà della conoscenza mediante principii a priori, e critica della ragion pura l’esame della sua possibilità e dei suoi limiti in generale: quantunque s’intenda per questa facoltà la ragione soltanto nel suo uso teoretico, come per l’appunto fu fatto nella prima opera che reca quella denominazione, senza includere nell’esame la ragione stessa in quanto pratica, secondo i suoi particolari principii. Intesa così, la critica della ragion pura riguarda solo l’esame della nostra facoltà di conoscere qualcosa a priori; si occupa quindi solo della f a c o l t à d i c o n o s c e r e , prescindendo dal sentimento di piacere e dispiacere e dalla facoltà di desiderare48; e nella facoltà di conoscere essa non considera se non l’i n t e l l e t t o , secondo i suoi principii a priori, prescindendo dal G i u d i z i o 49 e dalla r a g i o n e (in quanto facoltà appartenenti egualmente alla conoscenza teoretica), perché nel seguito si trova che nessun’altra facoltà di conoscere, oltre l’intelletto, può fornire principii di conoscenza costitutivi a priori. Sicché la critica, che vaglia queste facoltà riguardo alla parte che ciascuna potrebbe pretendere di avere, per virtù propria, nell’effettivo possesso della conoscenza, non conserva altro che ciò che l’i n t e l l e t t o prescrive a priori, come legge, alla natura in quanto complesso di fenomeni (di cui la forma anche è data a priori); ma rimanda tutti gli altri concetti puri alle i d e e , che escono fuori dalla nostra facoltà teoretica di conoscere, e tuttavia non son punto inutili o superflue, ma servono come principii regolativi. Da una parte, così, essa raffrena le pericolose pretese dell’intelletto, che avendo facoltà di fornire a priori le condizioni della possibilità [168] di tutte le cose che esso può conoscere, vorrebbe racchiudere in questi limiti anche la possibilità di ogni cosa in generale; e, dall’altra, guida l’intelletto stesso nell’osservazione della natura secondo un principio della completezza, sebbene esso non possa mai raggiungerla, e promuove in tal modo quello che è lo scopo finale di ogni conoscenza.

Era dunque veramente l’intelletto – che ha il suo proprio dominio nella f a c o l t à d i c o n o s c e r e , in quanto esso contiene a priori principii costitutivi della conoscenza – che doveva essere messo, dalla critica designata in generale col nome di critica della ragion pura, nel suo sicuro possesso, contro tutti gli altri competitori. Allo stesso modo che alla r a g i o n e , la quale non contiene a priori principii costitutivi se non soltanto relativamente alla f a c o l t à d i d e s i d e r a r e , è stato assicurato il suo possesso nella critica della ragion pratica. Ora, se il G i u d i z i o , che nell’ordine delle nostre facoltà di conoscere fa come da termine medio tra l’intelletto e la ragione, abbia anche per se stesso principii a priori; se questi principii siano costitutivi o semplicemente regolativi (e perciò non attestino un proprio dominio); e se il Giudizio dia a priori la regola al sentimento di piacere o dispiacere, come al termine medio tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare (proprio come l’intelletto prescrive leggi a priori alla prima, e la ragione alla seconda): ecco ciò di cui si occupa la presente critica del Giudizio. Una critica della ragion pura, cioè della nostra facoltà di giudicare secondo principii a priori, sarebbe incompleta, se non fosse trattata come una parte speciale di essa la critica del Giudizio, che, in quanto facoltà di conoscenza, pretende anch’esso di giudicare secondo principii a priori; sebbene i principii del Giudizio non possano costituire, in un sistema della filosofia pura, una parte speciale tra la parte teoretica e la pratica, e si possano invece includere occasionalmente, in caso di necessità, nell’una o nell’altra. Poiché se, sotto il nome generale di metafisica, un tale sistema (che è possibile di compiere interamente ed è della più alta importanza per l’uso della ragione, sotto ogni riguardo) dovrà essere compiuto, bisogna che prima la critica abbia esplorato il terreno per questo edifizio, tanto profondamente da scoprire i primi fondamenti della facoltà dei principii indipendenti dalla esperienza, perché esso non crolli da qualche parte, la qual cosa porterebbe inevitabilmente alla rovina del tutto. [169] Intanto, si può facilmente concludere dalla natura del Giudizio (il cui retto uso è tanto necessario e tanto generalmente richiesto che sotto il nome di sano intelletto non s’intende altro se non per l’appunto tale facoltà), che s’incontreranno gravi difficoltà nel ricercare un suo proprio principio (poiché ne deve contenere qualcuno a priori, altrimenti non sarebbe, come una particolar facoltà di conoscere, esposto alla critica anche più ordinaria); e

questo principio tuttavia non può essere derivato da concetti a priori, perché questi appartengono all’intelletto, mentre il Giudizio non riguarda se non la loro applicazione. Sicché il Giudizio deve fornire da sé un concetto col quale veramente nessuna cosa sia conosciuta, ma che serva di regola soltanto ad esso Giudizio medesimo: non però come regola oggettiva, alla quale essa facoltà possa adattare il suo giudizio, perché allora sarebbe necessaria un’altra facoltà di giudizio, per decidere se sia o no il caso in cui la regola si applica. Questo imbarazzo circa un principio (soggettivo od oggettivo che sia) si trova sopratutto in quei giudizii che si dicono estetici, e che riguardano il bello e il sublime della natura o dell’arte. E parimenti l’esame critico di un principio del Giudizio in essi, è la parte più importante di una critica di tale facoltà. Perché, sebbene per se medesimi questi giudizii non contribuiscano per nulla alla conoscenza delle cose, appartengono nondimeno unicamente alla facoltà di conoscere e rivelano un’immediata relazione di questa facoltà col sentimento di piacere o dispiacere, fondata su qualche principio a priori, da non confondersi con ciò che può essere il fondamento della determinazione della facoltà di desiderare, perché questa ha i suoi principii a priori in concetti della ragione. – Ma, per ciò che concerne il giudizio logico della natura, – quando cioè l’esperienza ci presenta nelle cose una regolarità a intendere o spiegare la quale non basta più il concetto universale intellettivo del sensibile, e la facoltà del giudizio può trarre da se stessa un principio del rapporto dell’oggetto naturale col soprasensibile che non può esser conosciuto, un principio di cui può anche servirsi soltanto in vista di se stessa per la conoscenza della natura, – allora può e deve essere applicato a priori tale principio alla c o n o s c e n z a degli esseri che sono nel mondo, ed esso ci apre nello stesso tempo vedute vantaggiose per la ragion pratica; ma non ha alcun rapporto immediato col sentimento di piacere o dispiacere. Questo rapporto è proprio ciò che v’ha di enimmatico nel principio della [170] facoltà del giudizio e che rende necessaria nella critica una sezione particolare per questa facoltà, poiché il giudizio logico mediante concetti (da cui non si può mai trarre immediatamente una conseguenza circa il sentimento di piacere o dispiacere) si sarebbe potuto riattaccare in ogni caso alla parte teoretica della filosofia, insieme con la determinazione critica dei limiti di tali concetti. Poiché lo studio del gusto, in quanto facoltà del giudizio estetico, non è

intrapreso qui allo scopo di educarlo e coltivarlo (siffatta cultura può continuare a far di meno di queste speculazioni), ma soltanto per uno scopo trascendentale, esso sarà giudicato, spero, con indulgenza riguardo alla sua insufficienza circa quel primo scopo. Ma, per ciò che concerne il punto di vista trascendentale, esso deve fondarsi sull’esame più rigoroso. Anche qui però la grande difficoltà di risolvere un problema, che la natura ha tanto complicato, spero che potrà servire a scusarmi di una certa oscurità non interamente evitabile nella soluzione di esso, sol che sia dimostrato con bastevole chiarezza che il principio è stato indicato con esattezza; posto che la deduzione del fenomeno del Giudizio dal quel principio non abbia tutta la chiarezza che con ragione si può esigere altrove, cioè in una conoscenza mediante concetti, e che io credo di aver raggiunta anche nella seconda parte di questa opera. Con ciò io termino dunque il mio assunto critico. Passerò senza indugio alla parte dottrinale, per strappare, se è possibile, alla mia crescente vecchiezza il tempo che potrebbe essere ancora in qualche modo favorevole a tale lavoro. S’intende facilmente che pel Giudizio non vi sarà una sezione speciale nella parte dottrinale, perché ad esso la critica tien luogo di teoria; ma che, secondo la divisione della filosofia in teoretica e pratica, e della filosofia pura nelle stesse parti, la metafisica della natura e quella dei costumi dovranno costituire il lavoro medesimo. 47

Questa prefazione precedeva la prima edizione del 1790, e fu conservata da Kant in tutte le posteriori [N.d.T.]. 48 Nel testo «Begehrungsvermögen», cioè propriamente facoltà di appetire o di tendere. Abbiamo preferito «facoltà di desiderare», perché appetito e tendenza hanno per noi un significato inconciliabile con le determinazioni volontarie, alle quali pure si applica il termine usato da Kant [N.d.T.]. 49 «Urtheil», giudizio; «Urtheilskraft», facoltà del giudizio. «Giudizio» vale per noi la facoltà o l’atto indifferentemente; seguendo l’esempio del trad. francese, useremo l’iniziale maiuscola quando si tratta della facoltà, per non ripetere sempre «facoltà del giudizio», e per evitare in pari tempo ogni confusione [N.d.T.].

Introduzione

I. Della divisione della filosofia. [171] Allorché col considerare la filosofia in quanto essa contiene i principii della conoscenza razionale delle cose mediante concetti (e non semplicemente, come la logica, principii della forma del pensiero in generale, senza distinguerne gli oggetti), la si divide, come si fa comunemente, in t e o r e t i c a e p r a t i c a , – si ha perfettamente ragione di condursi in tal guisa. Ma allora è necessario che anche i concetti, i quali assegnano il loro oggetto ai principii di questa conoscenza razionale, siano specificamente differenti; perché altrimenti essi non giustificherebbero una divisione, la quale suppone sempre un’opposizione dei principii della conoscenza razionale propria delle diverse parti di una scienza. Ma non vi sono se non due specie di concetti, che ammettano altrettanti principii differenti della possibilità dei loro oggetti; cioè i c o n c e t t i d e l l a n a t u r a e i l c o n c e t t o d e l l a l i b e r t à . E, poiché i primi rendono possibile la conoscenza t e o r e t i c a , mediante principii a priori, e il secondo invece non contiene già nel suo stesso concetto, riguardo a questa, che un principio negativo (della semplice opposizione), mentre stabilisce per la determinazione della volontà principii estensivi, che perciò si chiamano pratici; la filosofia è divisa con ragione in due parti, del tutto diverse riguardo ai principii, cioè in teoretica in quanto f i l o s o f i a d e l l a n a t u r a , e pratica in quanto f i l o s o f i a m o r a l e (perché così è chiamata la legislazione pratica della ragione secondo il concetto della libertà). Ma finora una grande confusione ha dominato nell’uso di queste espressioni per la divisione dei diversi principii, e quindi della filosofia: si identificava ciò che è pratico secondo i concetti della natura con [172] ciò che è pratico secondo il concetto della libertà; e così sotto la stessa denominazione di filosofia teoretica e pratica, si faceva una divisione, con la quale effettivamente non si

divideva niente (poiché le due parti potevano avere gli stessi principii). La volontà, in quanto facoltà di desiderare, è una delle varie cause naturali che sono nel mondo, cioè quella che opera secondo concetti; e tutto ciò che è rappresentato da una volontà come possibile (o necessario), si chiama praticamente possibile (o necessario); per distinguerlo dalla possibilità o necessità fisica di un effetto, la cui causa non è determinata secondo concetti (ma, come nella materia inanimata, dal meccanismo, e, negli animali, dall’istinto). – Ora qui, riguardo al pratico, si lascia indeterminato se il concetto, che dà la regola alla causalità della volontà, sia un concetto della natura o un concetto della libertà. Ma quest’ultima distinzione è essenziale, poiché, se il concetto che determina la causalità è un concetto della natura, i principii saranno t e c n i c o - p r a t i c i ; se invece è un concetto della libertà, saranno e t i c o p r a t i c i ; e siccome nella divisione d’una scienza razionale importa unicamente quella differenza di oggetti la cui conoscenza abbisogna di principii differenti, i primi apparterranno alla filosofia teoretica (in quanto dottrina della natura), e i secondi invece costituiranno essi soli la seconda parte, cioè la filosofia pratica (in quanto dottrina dei costumi). Tutte le regole tecnico-pratiche (cioè quelle dell’arte e dell’abilità in generale, ed anche della prudenza, in quanto attitudine ad avere influenza sugli uomini e sulla loro volontà), in quanto i loro principii riposano su concetti, debbono essere annoverate soltanto tra i corollari della filosofia teoretica. Perché esse riguardano solo la possibilità delle cose secondo concetti della natura, quali sono non soltanto i mezzi reperibili a tal fine nella natura, ma anche la volontà (come facoltà di desiderare, e quindi come facoltà naturale), in quanto può essere determinata in modo conforme a quelle regole da motivi naturali. Pure tali regole pratiche non si chiamano leggi (come le leggi fisiche), ma soltanto precetti; e ciò perché la volontà non sta solamente sotto il concetto della natura, ma anche sotto quello della libertà, in rapporto a cui i suoi principii si chiamano leggi, e, insieme con le loro conseguenze, costituiscono essi soli la seconda parte della filosofia, cioè la pratica. Allo stesso modo che la soluzione dei problemi della [173] geometria pura non appartiene ad una parte speciale di questa scienza, e che l’agrimensura non merita il nome di geometria pratica, come una seconda parte della geometria in generale, e distinta dalla geometria pura; così, e a più

forte ragione, non dev’essere riguardata come una parte pratica della scienza della natura l’arte meccanica o chimica delle esperienze o delle osservazioni, ed infine non devono essere considerate come filosofia pratica l’economia domestica, l’agricoltura, la politica, l’arte del condursi in società, i precetti della dietetica, e neppure la dottrina generale della felicità e l’arte di frenare le inclinazioni e reprimere gli affetti in vista della felicità stessa; quasi che tutte queste cose costituiscano la seconda parte della filosofia in generale. Esse tutte, difatti, non contengono se non regole dell’abilità, per conseguenza tecnico-pratiche, destinate a produrre un effetto, che è possibile secondo i concetti naturali delle cause ed effetti; i quali concetti, poiché appartengono alla filosofia teoretica, sono sottoposti a quei precetti quali semplici corollari tratti dalla filosofia teoretica (dalla scienza della natura), e perciò non possono pretendere di avere un posto in una speciale filosofia, che si chiami pratica. Per contrario, i precetti etico-pratici, che si fondano interamente sul concetto della libertà ed escludono ogni partecipazione della natura nella determinazione della volontà, costituiscono una specie tutta particolare di precetti; i quali, come le regole cui obbedisce la natura, si chiamano semplicemente leggi, ma non riposano, come queste, su condizioni sensibili, sibbene sopra un principio soprasensibile, e richiedono esclusivamente per sé, accanto alla parte teoretica della filosofia, un’altra parte sotto il nome di filosofia pratica. Si vede da ciò che un insieme di precetti pratici, dati dalla filosofia, non costituisce punto una parte speciale della filosofia stessa, accanto alla parte teoretica, per il solo fatto che essi sono pratici; perché essi potrebbero essere pratici egualmente, se i loro principii (come regole tecnico-pratiche) fossero tratti dalla conoscenza teoretica della natura; bisogna, invece, che il loro principio non sia derivato dal concetto della natura, che ha sempre per condizione dati sensibili, e riposi per conseguenza sul soprasensibile, che solo il concetto della libertà ci fa conoscere mediante leggi formali; e quindi bisogna che i precetti siano etico-pratici, cioè che non siano soltanto precetti e regole relative a questo o quello scopo, ma leggi senza precedente riferimento a scopi ed intenzioni.

II. Del dominio della filosofia in generale. [174] Quanto si estende l’applicazione dei concetti a priori, altrettanto si

estende l’uso della nostra facoltà di conoscere secondo principii, e per conseguenza la filosofia. Ma l’insieme di tutti gli oggetti ai quali son riferiti quei concetti, per darne, se è possibile, una conoscenza, può essere diviso secondo la varia sufficienza o insufficienza delle nostre facoltà rispetto a tale scopo. I concetti hanno un loro campo, in quanto sono riferiti ad oggetti, a prescindere dalla possibilità della conoscenza degli oggetti stessi; e questo campo è determinato unicamente dal rapporto del loro oggetto con la nostra facoltà di conoscere in generale. – La parte di questo campo, in cui è possibile per noi la conoscenza, è un territorio (territorium) per questi concetti e per la facoltà di conoscere a ciò richiesta. La parte del territorio, in cui questi concetti sono legislativi, è il dominio (ditio) di essi e della facoltà di conoscere corrispondente. Sicché i concetti dell’esperienza hanno bensì il loro territorio nella natura, che è l’insieme di tutti gli oggetti del senso, ma non vi hanno alcun dominio (vi hanno soltanto il loro domicilio, domicilium); perché essi sono formati bensì secondo leggi, ma non sono legislativi, e le regole che si fondano su di essi sono empiriche, epperò contingenti. Tutta la nostra facoltà di conoscere ha due dominii, quello dei concetti della natura e quello del concetto della libertà; perché mediante entrambi essa è legislatrice a priori. Ora la filosofia si divide anche, come questa facoltà, in teoretica e pratica. Ma il territorio, su cui fonda il suo dominio e su cui e s e r c i t a la sua legislazione, è sempre soltanto l’insieme degli oggetti di ogni esperienza possibile, in quanto essi non sono considerati se non come semplici fenomeni; perché altrimenti non si potrebbe pensare alcuna legislazione dell’intelletto relativa a tali oggetti. La legislazione mediante concetti naturali avviene mediante l’intelletto, ed è teoretica. La legislazione mediante il concetto di libertà è data dalla ragione, ed è puramente pratica. Soltanto nel campo pratico la ragione può essere legislatrice: relativamente alla conoscenza teoretica (della natura), essa può solo [175] trarre da leggi date (in quanto è conoscitrice di leggi mediante l’intelletto) conseguenze, che debbono però restare sempre nei limiti della natura. Ma, viceversa, la ragione non è l e g i s l a t r i c e dovunque vi siano regole pratiche, perché queste possono anche essere tecnico-pratiche. L’intelletto e la ragione hanno dunque due legislazioni differenti su di un solo e medesimo territorio dell’esperienza, senza che l’una possa pregiudicare l’altra. Perché ha così poco influsso il concetto della natura sulla legislazione

fornita dal concetto della libertà, quanto poco questo turba la legislazione della natura. – La possibilità di pensare, almeno senza contradizione, la coesistenza delle due legislazioni, e delle facoltà relative nello stesso soggetto, fu dimostrata dalla critica della ragion pura, che annientò le obiezioni che le si muovono rivelando in esse l’illusione dialettica. Ma, che questi due diversi dominii che si limitano perpetuamente, – non nelle loro legislazioni, è vero, ma nei loro effetti nel mondo sensibile, – non possano costituirne u n o s o l o , dipende da ciò: il concetto della natura può ben rappresentare i suoi oggetti nell’intuizione, ma non come cose in sé, sibbene solo come fenomeni; il concetto della libertà invece può rappresentare il suo oggetto come cosa in sé, ma non nell’intuizione; per conseguenza, nessuno dei due può dare una conoscenza teoretica del suo oggetto (e perfino del soggetto pensante) come cosa in sé, cioè del soprasensibile, la cui idea deve esser posta alla base della possibilità di tutti quegli oggetti dell’esperienza, ma per se stessa non può mai essere elevata ed estesa fino a farne una conoscenza. V’è dunque un campo illimitato, ma anche inaccessibile a tutta la nostra facoltà di conoscere, cioè il campo del soprasensibile, dove non troviamo un territorio per noi, e sul quale non possiamo avere per conseguenza, né per i concetti dell’intelletto né per quelli della ragione, un dominio di conoscenza teoretica; un campo che noi dobbiamo bensì occupare con idee a vantaggio tanto dell’uso teoretico che pratico della ragione, senza poter dare però a queste idee, in relazione con le leggi che derivano dal concetto della libertà, se non una realtà pratica: con che la nostra conoscenza teoretica non si estende menomamente fino al soprasensibile. Ora, sebbene vi sia un immensurabile abisso tra il dominio del concetto della natura, o il sensibile, e il dominio del concetto della libertà, o il soprasensibile, in modo che non è possibile [176] nessun passaggio dal primo al secondo (mediante l’uso teoretico della ragione), quasi fossero due mondi tanto diversi, che il primo non potesse avere alcun influsso sul secondo; tuttavia il secondo d e v e avere un influsso sul primo, cioè il concetto della libertà deve realizzare nel mondo sensibile lo scopo posto mediante le sue leggi, e la natura, per conseguenza, deve poter essere pensata in modo che la conformità alle leggi, che costituiscono la sua forma, possa almeno accordarsi con la possibilità degli scopi, che in essa debbono essere realizzati secondo le leggi della libertà. – Sicché vi deve essere un fondamento dell’u n i t à tra il

soprasensibile, che sta a fondamento della natura, e quello che il concetto della libertà contiene praticamente; un fondamento il cui concetto è insufficiente, in verità, a darne la conoscenza, sia teoreticamente che praticamente, e quindi non ha alcun dominio proprio, ma che permette nondimeno il passaggio dal modo di pensare secondo i principii dell’uno al modo di pensare secondo i principii dell’altro.

III. Della critica del Giudizio come mezzo per riunire in un tutto le due parti della filosofia. La critica delle facoltà di conoscere, considerate in ciò che esse possono fornire a priori, non ha propriamente alcun dominio per riguardo agli oggetti; perché essa non è una dottrina, ma ha solo da ricercare se e come, secondo le condizioni delle nostre facoltà, queste possano fornire una dottrina. Il suo campo si estende a tutte le loro pretese, per chiuderle nei limiti della loro legittimità. Ma ciò che non può entrare nella divisione della filosofia può entrare tuttavia, come una parte principale, nella critica della facoltà pura di conoscere in generale, se questa facoltà contiene principii che per se stessi non siano validi né per l’uso teoretico né per l’uso pratico. I concetti della natura, contenenti il fondamento di ogni conoscenza teorica a priori, riposavano sulla legislazione dell’intelletto. – Il concetto della libertà, che conteneva il fondamento di tutti i precetti pratici a priori e indipendenti da ogni condizione sensibile, riposava sulla legislazione della ragione. Sicché le due facoltà, oltre a poter essere applicate secondo la forma logica a principii di qualunque origine essi siano, hanno ancora [177] ciascuna, secondo il proprio contenuto, una loro legislazione, al disopra della quale non ve n’è alcun’altra (a priori), e che perciò giustifica la divisione della filosofia in teoretica e pratica. Ma nella famiglia delle facoltà conoscitive superiori vi è ancora un termine medio tra l’intelletto e la ragione. Questo termine medio è il G i u d i z i o ; del quale si ha ragione di presumere, per analogia, che contenga anch’esso, se non una sua propria legislazione, almeno un principio proprio di ricercare secondo leggi, e che in ogni caso sarebbe un principio a priori puramente soggettivo; un principio che, se anche non avrà dominio su verun campo di oggetti, potrà tuttavia avere un qualche suo territorio, così costituito

che in esso soltanto quel principio sia valido. Ma vi è ancora (a giudicarne per analogia) un’altra ragione di mettere in connessione il Giudizio con un altro ordine delle nostre facoltà rappresentative, ragione che sembra ancora più importante di quella della parentela colla famiglia delle facoltà conoscitive. Tutte le facoltà o capacità dell’anima possono infatti essere ricondotte a queste tre, che non si lasciano più a loro volta derivare da un fondamento comune: l a f a c o l t à d i c o n o s c e r e , i l s e n t i m e n t o d e l p i a c e r e e d i s p i a c e r e , [178] e l a f a c o l t à d i d e s i d e r a r e50. Per la facoltà di conoscere solo l’intelletto è legislatore, se esso è riferito (come dev’essere, allorché è considerato per sé, senza intrusione della facoltà di desiderare), quale facoltà di una c o n o s c e n z a t e o r e t i c a , alla natura, rispetto alla quale soltanto (in quanto fenomeno) ci è possibile dare leggi mediante concetti della natura a priori, i quali propriamente sono puri concetti dell’intelletto. – Per la facoltà di desiderare, considerata come una facoltà superiore secondo il concetto della libertà, soltanto la ragione (in cui unicamente risiede questo concetto) è legislatrice a priori. – Ora il sentimento del piacere si trova tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare, allo stesso modo che il Giudizio si trova tra l’intelletto e la ragione. Si può dunque supporre, almeno provvisoriamente, che la facoltà del Giudizio contenga anch’essa per sé un principio a priori, e che, essendo il piacere o il dispiacere necessariamente connesso con la facoltà di desiderare (o che preceda [179] il principio di questa facoltà quando essa è inferiore; o segua soltanto, come nella facoltà superiore di desiderare, dalla determinazione di essa mediante la legge morale), la facoltà stessa del Giudizio effettui ancora un passaggio dalla pura facoltà di conoscere, vale a dire dal dominio dei concetti della natura, al dominio del concetto della libertà; allo stesso modo che nell’uso logico rende possibile il passaggio dall’intelletto alla ragione. Così, sebbene la filosofia non possa essere divisa se non in due parti principali, la teoretica e la pratica, e tutto ciò che potremmo dire dei principii proprii della facoltà del Giudizio dovrebbe essere riportato alla parte teoretica, cioè alla conoscenza razionale fondata sopra concetti della natura, tuttavia la critica della ragion pura, – che deve stabilire tutto ciò, prima d’intraprendere la costruzione del suo sistema, a vantaggio della possibilità del sistema stesso, – resta divisa in tre parti: la critica dell’intelletto puro, del Giudizio puro e della ragion pura: facoltà, che son dette pure, perché son

legislative a priori.

IV. Del Giudizio come facoltà legislativa «a priori». Il Giudizio in genere è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Se è dato l’universale (la regola, il principio, la legge), il Giudizio che opera la sussunzione del particolare (anche se esso, in quanto Giudizio trascendentale, fornisce a priori le condizioni secondo le quali soltanto può avvenire la sussunzione a quell’universale), è d e t e r m i n a n t e . Se è dato invece soltanto il particolare, e il Giudizio deve trovare l’universale, esso è semplicemente r i f l e t t e n t e . Il Giudizio determinante sotto le leggi trascendentali universali date dall’intelletto, è soltanto sussuntivo; la legge gli è prescritta a priori, e così esso non ha bisogno di pensare da sé ad una legge per poter sottoporre all’universale il particolare della natura. – Ma vi son così molteplici forme nella natura, e del pari sono tante le modificazioni dei concetti trascendentali universali della natura, le quali son lasciate indeterminate da quelle leggi che fornisce a priori l’intelletto puro, – poiché tali leggi non riguardano se non la possibilità di una natura (come oggetto dei sensi) in generale, – che vi debbono essere perciò anche [180] leggi, le quali, in quanto empiriche, potranno ben essere contingenti secondo il modo di vedere del n o s t r o intelletto, ma che, per essere chiamate leggi (com’è richiesto anche dal concetto di una natura), debbono essere considerate come necessarie secondo un principio, sebbene a noi sconosciuto, dell’unità del molteplice. – Il Giudizio riflettente, che è obbligato a risalire dal particolare della natura all’universale, ha dunque bisogno di un principio, che esso non può ricavare dall’esperienza, perché è un principio, che deve fondare appunto l’unità di tutti i principii empirici sotto principii parimente empirici ma superiori, e quindi la possibilità della subordinazione sistematica di tali principii. Questo principio trascendentale il Giudizio riflettente può dunque darselo soltanto esso stesso come legge, non derivarlo da altro (perché allora diventerebbe Giudizio determinante); né può prescriverlo alla natura, poiché la riflessione sulle leggi della natura si accomoda alla natura, ma questa non si accomoda alle condizioni con le quali noi aspiriamo a formarci di essa un concetto, che è del tutto contingente rispetto alle condizioni stesse. Ora questo principio non può essere altro che il seguente: poiché le leggi

universali della natura hanno il loro fondamento nel nostro intelletto, che le prescrive ad essa (sebbene soltanto secondo il concetto universale della natura in quanto tale), le leggi particolari empiriche, rispetto a ciò che dalle prime vi è stato lasciato indeterminato, debbono essere considerate secondo un’unità, quale avrebbe potuto stabilire un intelletto (quand’anche non il nostro) a vantaggio della nostra facoltà di conoscere, per render possibile un sistema dell’esperienza secondo particolari leggi della natura. Non è che si debba ammettere la reale esistenza di tale intelletto (poiché questa idea serve come principio solo al Giudizio riflettente, per riflettere, non per determinare) ma per tal modo la facoltà del Giudizio dà a se stessa, e non alla natura, una legge. Ora, poiché il concetto di un oggetto, in quanto contiene anche il principio della realtà di questo oggetto, si chiama s c o p o , e l’accordo di una cosa con quella disposizione delle cose, che è possibile soltanto secondo scopi, si chiama la f i n a l i t à della forma di queste cose; il principio del Giudizio, riguardo alla forma delle cose della natura sottoposte a leggi empiriche in generale, è la f i n a l i t à d e l l a n a t u r a nella sua molteplicità. In altri termini, la natura è rappresentata mediante questo concetto [181] come se ci sia un intelletto che contenga il principio che dia unità al molteplice delle leggi empiriche di essa. La finalità della natura è, dunque, un particolare concetto a priori, che ha la sua origine unicamente nel Giudizio riflettente. Perché ai prodotti della natura non si può attribuire qualcosa come un rapporto della natura a scopi, ma si può soltanto adoperare quel concetto per riflettere su di essa in vista del legame dei fenomeni, che è dato da leggi empiriche. Questo concetto è anche del tutto diverso dalla finalità pratica (dell’arte umana o anche della morale), sebbene sia pensato secondo un’analogia con questa finalità.

V. Il principio della finalità formale della natura è un principio trascendentale del Giudizio. È un principio trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso rappresenta la condizione a priori, sotto la

quale soltanto oggetti, il cui concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che quel mutamento debba avere una causa e s t e r n a ; perché nel primo caso basta che il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto), – per esempio, come sostanza, – per conoscere a priori la proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello spazio), ed allora si può vedere interamente a priori, che l’ultimo predicato (del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo. – Così, come mostrerò tra poco, il principio della finalità della natura (nella varietà delle sue leggi empiriche) è un principio trascendentale. Perché il concetto degli oggetti, in quanto sono pensati come sottoposti ad esso, non è che il concetto puro di oggetti della possibile conoscenza d’esperienza [182] in genere, e non contiene nulla di empirico. Invece il principio della finalità pratica, che dev’essere pensato nell’idea della d e t e r m i n a z i o n e di una v o l o n t à libera, sarebbe un principio metafisico; perché il concetto di una facoltà di desiderare in quanto volontà deve essere dato empiricamente (non appartiene ai predicati trascendentali). Nondimeno entrambi i principii non sono empirici, ma a priori, perché a legare il predicato col concetto empirico del soggetto dei loro giudizi, non è necessaria alcuna ulteriore esperienza, e il legame può essere scorto interamente a priori. Che il concetto di una finalità della natura appartenga ai principii trascendentali si può vedere a sufficienza dalle massime del Giudizio, che sono poste a priori a fondamento dell’investigazione della natura, e che tuttavia non riguardano se non la possibilità dell’esperienza, e, per conseguenza, della conoscenza della natura, ma non semplicemente come natura in generale, sibbene come natura determinata mediante una molteplicità di leggi particolari. – Esse si presentano come sentenze della metafisica, frequenti nel corso di questa scienza, ma sparse, all’occasione di alcune regole, di cui non si può dimostrare la necessità per mezzo di concetti. «La natura prende il più breve cammino» (lex parsimoniae); «essa non fa alcun salto, né nella serie dei suoi cambiamenti, né nella giustapposizione delle sue forme specificamente diverse» (lex continui in natura); «nella

grande varietà delle sue leggi empiriche vi è l’unità sotto pochi principii» (principia praeter necessitatem non sunt multiplicanda); e simili. Ma significa disconoscer interamente la natura di questi principii, quando, a dimostrarne l’origine, si ricorre alla via psicologica. Perché essi non ci dicono ciò che avviene, vale a dire secondo quali regole le nostre facoltà conoscitive compiono realmente il loro ufficio: non come si giudica, ma come si deve giudicare; e questa necessità logica oggettiva non si ottiene quando i principii sono semplicemente empirici. Sicché la finalità della natura rispetto alle nostre facoltà conoscitive e al loro uso, finalità che traspare chiaramente dalle facoltà medesime, è un principio trascendentale dei giudizii, e quindi richiede anche una deduzione trascendentale, con cui deve essere cercato a priori nelle fonti della conoscenza il fondamento di un tal modo di giudicare. Noi troviamo bensì in primo luogo, nei fondamenti della [183] possibilità dell’esperienza, qualcosa di necessario, cioè le leggi universali senza le quali non può esser pensata la natura in generale (come oggetto dei sensi); e tali leggi riposano sulle categorie, applicate alle condizioni formali di ogni nostra intuizione possibile, in quanto è data egualmente a priori. Il Giudizio, sotto queste leggi, è determinante perché non ha da far altro che sussumere sotto leggi date. Per esempio, l’intelletto dice: ogni cangiamento ha la sua causa (è questa una legge universale della natura); il Giudizio trascendentale non deve se non fornire a priori la condizione, che permetta di sussumere sotto il dato concetto dell’intelletto: cioè la successione delle determinazioni di un’unica e sola cosa. E questa legge è riconosciuta come assolutamente necessaria per la natura in generale (come oggetto di possibile esperienza). – Ma gli oggetti della conoscenza empirica, oltre questa determinazione formale del tempo, sono anche determinati, – o determinabili, per quanto se ne possa giudicare a priori, – in diversi modi; sicché nature specificamente differenti, a prescindere da ciò che hanno di comune in quanto appartengono alla natura in generale, possono essere cause in una infinità di maniere diverse; ed ognuna di queste maniere (secondo il concetto di una causa in generale) deve avere la sua regola, che sia legge, e per conseguenza abbia il carattere della necessità, sebbene noi, per la natura e i limiti delle nostre facoltà conoscitive, non scorgiamo punto questa necessità. Dobbiamo quindi pensare che nella natura, considerandola nelle sue leggi puramente empiriche, siano possibili leggi empiriche infinitamente varie, che, tuttavia, son contingenti per noi

(non possono essere conosciute a priori); e secondo le quali giudichiamo come contingente l’unità della natura nelle sue leggi empiriche, e la possibilità dell’unità dell’esperienza (in quanto sistema di leggi empiriche). Ma, poiché bisogna necessariamente presupporre ed ammettere una tale unità, perché altrimenti non si troverebbe una generale connessione delle conoscenze empiriche da formarne un’esperienza totale (le leggi universali dell’esperienza ci mostrano bensì questa connessione delle cose secondo il loro genere, in quanto cose naturali in generale, ma non in quanto si considerino specificamente, come esseri particolari della natura), il Giudizio deve ammettere pel proprio uso, come principio a priori, che ciò che è contingente per noi nelle leggi particolari [184] (empiriche) della natura, contenga tuttavia un’unità conforme a leggi nella composizione del molteplice in un’esperienza possibile in sé, sebbene tale unità noi non possiamo comprenderla e la possiamo soltanto pensare. Per conseguenza, essendo tale unità – che noi riconosciamo bensì conforme ad uno scopo necessario (ad un bisogno) dell’intelletto, ma nello stesso tempo come contingente in sé, – rappresentata come finalità degli oggetti (in questo caso della natura), il Giudizio che, relativamente alle cose sottoposte a leggi empiriche possibili (ancora da scoprire), è soltanto riflettente, deve pensare la natura, riguardo a queste ultime secondo un p r i n c i p i o d e l l a f i n a l i t à per la nostra facoltà di conoscere, che è espresso nelle massime anzidette del Giudizio. Questo concetto trascendentale di una finalità della natura non è né un concetto della natura né un concetto della libertà, perché esso non attribuisce niente all’oggetto (della natura), ma rappresenta soltanto l’unico modo che noi dobbiamo seguire nella riflessione sugli oggetti della natura allo scopo di ottenere un’esperienza coerente in tutto nel suo complesso; per conseguenza, esso è un principio soggettivo (una massima) del Giudizio. Perciò, come se si trattasse di un caso felice e favorevole al nostro scopo, noi proviamo un sentimento di piacere (propriamente, di liberazione da un bisogno), quando c’imbattiamo, tra le leggi puramente empiriche, in siffatta unità sistematica; sebbene dobbiamo necessariamente ammettere l’esistenza dell’unità stessa, senza poterla tuttavia né comprendere né dimostrare. Per convincersi dell’esattezza della deduzione di questo concetto e della necessità di ammetterlo come un principio trascendentale della conoscenza, basta pensare all’importanza di questo problema: delle percezioni date di una natura che contiene un’infinita varietà di leggi empiriche, fare un’esperienza

coerente; il quale problema sta a priori nel nostro intelletto. L’intelletto, in verità, è in possesso a priori di leggi universali della natura, senza cui non potrebbero esservi alcun oggetto d’esperienza; ma esso ha bisogno, inoltre, di un certo ordine della natura nelle leggi particolari, che esso può conoscere solo empiricamente e che rispetto ad esso son contingenti. Queste regole, senza le quali non potrebbe esservi passaggio dall’analogia generale di una esperienza possibile in generale all’analogia particolare, l’intelletto deve pensarle come leggi (vale a dire, come necessarie); perché altrimenti esse non costituirebbero un ordine della natura; e ciò, malgrado che l’intelletto non conosca la loro necessità né possa mai conoscerla. Così, sebbene l’intelletto [185] non possa determinar nulla a priori rispetto ad esse (agli oggetti), deve nondimeno, per cercare queste cosiddette leggi empiriche, porre a fondamento di ogni riflessione su di esse un principio a priori, che cioè esse rendano possibile un ordine conoscibile della natura, un principio che è espresso dalle seguenti proposizioni: nella natura v’è una subordinazione di generi e specie, che noi possiamo trovare; i generi si approssimano sempre più ad un principio comune, in modo che è possibile il passaggio dall’uno all’altro, e quindi a uno più elevato; se da principio pare inevitabile al nostro intelletto che si debbano ammettere per gli effetti specificamente diversi della natura altrettante differenti specie di causalità, esse nondimeno possono restringersi sotto un minimo numero di principii, che noi dobbiamo ricercare, etc. Questo accordo della natura con la nostra facoltà di conoscere è presupposto a priori dal Giudizio, allo scopo di riflettere su di essa secondo le sue leggi empiriche; ma l’accordo è riconosciuto nel tempo stesso dall’intelletto oggettivamente come contingente, e soltanto il Giudizio lo attribuisce alla natura come una finalità trascendentale (rispetto alla facoltà conoscitiva del soggetto); perché senza questa supposizione non avremmo alcun ordine della natura secondo leggi empiriche e per conseguenza non vi sarebbe nessuna guida per l’esperienza e la ricerca in tanta varietà delle leggi stesse. Difatti, è agevole pensare che, malgrado l’uniformità delle cose naturali rispetto a quelle leggi universali senza cui la forma d’una conoscenza d’esperienza in genere sarebbe impossibile, la differenza specifica delle leggi empiriche della natura e dei loro effetti potrebbe essere così grande, che sarebbe impossibile pel nostro intelletto di scoprirvi un ordine comprensibile, di dividere i suoi prodotti in generi e specie, in modo da applicare i principii

della spiegazione e dell’intelligenza dell’uno alla spiegazione e all’intelligenza dell’altro, e di giungere a un’esperienza coerente da una materia così confusa (in realtà, soltanto infinitamente varia e non adeguata alla nostra facoltà comprensiva). Il Giudizio ha in sé, dunque, anche un principio a priori della possibilità della natura, ma soltanto dal punto di vista soggettivo, col quale prescrive, non già alla natura (in quanto autonomia), [186] ma a se stesso (in quanto eautonomia) una legge per la riflessione della natura, che si potrebbe chiamare la l e g g e d e l l a s p e c i f i c a z i o n e d e l l a n a t u r a relativamente alle sue leggi empiriche: una legge, che esso conosce a priori nella natura, ma ammette, – a fine di render comprensibile all’intelletto un ordine della natura nella ripartizione che esso fa delle sue leggi universali, – quando vuol subordinare a queste la molteplicità delle leggi particolari. Sicché, quando si dice che la natura specifica le sue leggi universali secondo il principio d’una finalità relativa alla nostra facoltà di conoscere, vale a dire in conformità alla funzione necessaria dell’intelletto umano, che è quella di trovare l’universale, cui dev’essere ricondotto il particolare fornito dalla percezione, e il legame nell’unità del principio pel diverso (che è l’universale rispetto a ciascuna specie) non si prescrive in tal modo una legge alla natura, né se ne ricava una da essa con l’osservazione (sebbene quel principio possa essere confermato da questa). Giacché non si tratta di un principio del Giudizio determinante, ma semplicemente di quello riflettente; si vuole soltanto, qualunque sia la disposizione delle leggi universali della natura, poter rintracciare le sue leggi empiriche mediante quel principio e le massime che ne derivano, perché, senza ciò, noi non possiamo, con l’uso del nostro intelletto, estendere la nostra esperienza ed acquistar conoscenza.

VI. Dell’unione del sentimento di piacere col concetto della finalità della natura. L’accordo pensato della natura, nella varietà delle sue leggi particolari, col nostro bisogno di trovare per essa principii universali, deve esser giudicato come contingente, per quanto ne possiamo sapere; ma nello stesso tempo come indispensabile per bisogno del nostro intelletto, e quindi come una finalità per la quale la natura si accorda col nostro intento, ma soltanto in

quanto questo mira alla conoscenza. – Le leggi universali dell’intelletto, che sono nel tempo stesso leggi della natura, sono tanto necessarie rispetto ad essa (sebbene derivate dalla spontaneità) quanto le leggi del movimento della materia; la loro origine non presuppone alcun intento rispetto alle nostre facoltà conoscitive, perché è soltanto per mezzo di esse che noi giungiamo [187] a un concetto di ciò che è la conoscenza delle cose (della natura); ed esse appartengono necessariamente alla natura in quanto oggetto della nostra conoscenza in generale. Ma che l’ordine della natura nelle sue leggi particolari, in questa varietà ed eterogeneità, almeno possibili, che trascendono ogni nostra facoltà di comprensione, sia realmente conforme a questa facoltà, è, per quanto ci è dato di scorgere, qualche cosa di contingente; e la scoperta di tale ordine è un’impresa dell’intelletto, che viene compiuta avendo di mira un fine necessario dell’intelletto stesso, e cioè l’unificazione dei principii nella natura: un fine, che il Giudizio deve poi attribuire alla natura, perché l’intelletto non le può prescrivere alcuna legge a questo proposito. Il conseguimento di qualunque scopo è accompagnato dal sentimento di piacere; e, se la condizione dello scopo è una rappresentazione a priori, come, in questo caso, è un principio per Giudizio riflettente in generale, il sentimento di piacere è anch’esso determinato mediante un principio a priori e valido per ognuno; e, precisamente, è determinato soltanto mediante la relazione dell’oggetto con la facoltà di conoscere, senza che il concetto della finalità riguardi menomamente la facoltà di desiderare, distinguendosi così interamente da ogni finalità pratica della natura. Infatti, se la concordanza delle percezioni con le leggi fondate sui concetti universali della natura (le categorie) non produce il minimo effetto sul sentimento di piacere, né può produrne alcuno, perché l’intelletto in tal caso agisce necessariamente, secondo la propria natura, e senza intenzione; per converso, la scoperta della combinabilità di due o parecchie leggi empiriche eterogenee della natura sotto uno stesso principio è fonte di un notevolissimo piacere: spesso anzi di un’ammirazione, la quale non cessa quando anche l’oggetto sia abbastanza conosciuto. Certamente, noi non troviamo più un piacere notevole nella possibilità di abbracciare la natura e l’unità della sua divisione in generi e specie, onde soltanto son possibili i concetti empirici e quindi la conoscenza della natura stessa nelle sue leggi particolari; ma questo piacere si ebbe senza dubbio a suo tempo, ed è soltanto perché la più comune

esperienza non sarebbe possibile senza di esso, che si è andato via via confondendo con la semplice conoscenza, e non è stato più particolarmente notato. – Si richiede dunque qualche cosa che, nel giudicare della natura, richiami l’attenzione sulla sua finalità rispetto al nostro intelletto, uno studio di ricondurre, per quanto è possibile, leggi eterogenee a leggi più alte, sebbene sempre empiriche, per provare, [188] se riusciamo nell’intento, quel piacere che deriva dalla concordanza della natura con la nostra facoltà di conoscere, concordanza che noi consideriamo come puramente contingente. Per contrario, ci dispiacerebbe senz’altro una rappresentazione della natura, con la quale fossimo minacciati di vedere la minima nostra ricerca, eccedente la più comune esperienza, urtare contro un’eterogeneità delle leggi naturali, la quale mettesse il nostro intelletto nell’impossibilità di ricondurre le leggi particolari alle leggi empiriche generali; perché ciò ripugna al principio della specificazione soggettivamente finale51 della natura nei suoi generi, e al nostro Giudizio che riflette su tale specificazione. Tuttavia questa supposizione del Giudizio lascia così indeterminato fino a qual punto quella finalità ideale della natura rispetto alla nostra facoltà conoscitiva debba essere estesa, che, se ci si dicesse che una più profonda o più vasta conoscenza della natura, mediante l’osservazione deve alla fine imbattersi in una varietà di leggi che nessun intelletto umano può ricondurre ad un principio, noi pure saremmo soddisfatti; sebbene preferiremmo che qualcuno ci desse questa speranza: quanto più conosceremo intimamente la natura, o quanto più potremo ragguagliare le parti ancora ignote a quelle che si conoscono, tanto più la troveremo semplice nei suoi principii, e, allargandosi la nostra esperienza, la troveremo sempre più unitaria nell’apparente eterogeneità delle sue leggi empiriche. Perché, difatti il nostro Giudizio c’impone di seguire, per quanto è possibile, il principio dell’accordo della natura con la nostra facoltà conoscitiva, senza decidere (poiché non è un Giudizio determinante che ci dà questa regola) se esso ha o non dei limiti; giacché noi possiamo bensì determinare i limiti dell’uso razionale delle nostre facoltà conoscitive, ma nessuna determinazione di confini è possibile nel campo dell’esperienza.

VII. Della rappresentazione estetica della finalità della natura.

Ciò che è puramente soggettivo nella rappresentazione di un oggetto, vale a dire ciò che costituisce il suo rapporto col soggetto, non con l’oggetto, è la sua qualità estetica; quello invece [189] che in essa serve alla determinazione dell’oggetto (alla conoscenza), o può servire a quest’uso, costituisce il suo valore logico. Nella conoscenza di un oggetto dei sensi hanno luogo entrambe le relazioni. Nella rappresentazione sensibile delle cose fuori di me, la qualità dello spazio, nel quale io le intuisco, è l’elemento semplicemente soggettivo della rappresentazione (pel quale resta indeterminato ciò che esse sono come oggetti in sé), e per tale relazione l’oggetto è concepito soltanto come fenomeno; ma lo spazio, malgrado la sua qualità puramente soggettiva, non cessa di essere un elemento di conoscenza delle cose in quanto fenomeni. La s e n s a z i o n e (in questo caso, la sensazione esterna) esprime appunto l’elemento puramente soggettivo delle nostre rappresentazioni delle cose fuori di noi, e propriamente il loro elemento materiale (reale, ciò con cui è dato qualcosa di esistente), proprio come lo spazio esprime la semplice forma a priori della possibilità della loro intuizione; e tuttavia la sensazione viene anche usata per la conoscenza degli oggetti esterni. Ma quell’elemento soggettivo di una rappresentazione che n o n p u ò essere elemento di conoscenza, è il piacere o il d i s p i a c e r e congiunto con la rappresentazione stessa: perché con l’uno o con l’altro io non conosco niente dell’oggetto rappresentato, benché essi possano bene essere l’effetto di qualche conoscenza. Ora la finalità di un oggetto, in quanto è rappresentata nella percezione, non è una proprietà dell’oggetto stesso (perché tale proprietà non può essere percepita), sebbene possa esser desunta dalla conoscenza degli oggetti. Sicché la finalità, che precede la conoscenza di un oggetto, e che, anche quando non si voglia usare la rappresentazione in vista di una conoscenza, è immediatamente legata con la rappresentazione stessa, è l’elemento soggettivo di essa, ciò che non può mai divenire elemento di una conoscenza. Si dice perciò che l’oggetto è conforme al fine, solo perché la sua rappresentazione è legata immediatamente col sentimento di piacere; e questa rappresentazione stessa è una rappresentazione estetica della finalità. – Rimane solo il problema se vi è in genere una simile rappresentazione della finalità. Quando il piacere è legato con la semplice apprensione (apprehensio) della forma di un oggetto dell’intuizione, senza riferimento di essa ad un

concetto in vista di una conoscenza determinata, la rappresentazione non è riferita all’oggetto, ma unicamente al soggetto; e il piacere non può esprimere altro che l’accordo dell’oggetto con le facoltà conoscitive che sono in [190] giuoco nel Giudizio riflettente, e in quanto vi sono in giuoco, e quindi soltanto una finalità soggettiva formale dell’oggetto. Giacché quella apprensione delle forme nell’immaginazione non può mai avvenire, senza che il Giudizio riflettente almeno le paragoni, anche inintenzionalmente, con la sua facoltà di riferire le intuizioni ai concetti. Ora, se in questa comparazione l’immaginazione (come facoltà delle intuizioni a priori) si trova d’accordo spontaneamente con l’intelletto, come facoltà dei concetti, mediante una rappresentazione data, ed è suscitato un sentimento di piacere, allora l’oggetto deve essere riguardato come conforme al fine rispetto al Giudizio riflettente. Un giudizio cosiffatto è un giudizio estetico sulla finalità dell’oggetto, e che non si fonda sopra alcun concetto dato dell’oggetto, né ne fornisce alcuno. Si giudica cioè la forma dell’oggetto (non l’elemento materiale della sua rappresentazione, come sensazione), nella semplice riflessione su di essa – senza alcuna mira a un concetto che se ne potrebbe ricavare – come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un tal oggetto; e questo piacere viene pure considerato connesso con tale rappresentazione in modo necessario, e quindi non solo per il soggetto che apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante in generale. L’oggetto allora si chiama bello, e la facoltà di giudicare mediante tale piacere (e, per conseguenza, universalmente) si chiama gusto. Poiché, infatti, il fondamento del piacere è posto soltanto nella forma dell’oggetto rispetto alla riflessione in generale, quindi non in qualche sensazione dell’oggetto, ed anche senza riferimento ad un concetto che contenga uno scopo: ciò che si accorda con la rappresentazione dell’oggetto nella riflessione, di cui le condizioni a priori hanno un valore universale, è solo la legittimità, nel soggetto, dell’uso empirico del Giudizio in generale (unità dell’immaginazione e dell’intelletto); e, poiché questa concordanza dell’oggetto con le facoltà del soggetto è contingente, ne risulta la rappresentazione di una finalità dell’oggetto rispetto alle facoltà conoscitive del soggetto. Ora questo piacere, come ogni piacere, o dispiacere che non sia prodotto dal concetto della libertà (vale a dire, mediante la determinazione anteriore della facoltà superiore di desiderare, per via della ragion pura), non può

essere mai considerato secondo concetti come necessariamente legato con la rappresentazione di un oggetto; [191] ed invece deve essere riconosciuto come congiunto necessariamente con quella, soltanto mediante la percezione riflessa, e, per conseguenza, come tutti i giudizii empirici, esso non può attribuirsi alcuna necessità oggettiva e pretendere a priori alla validità universale. Ma il giudizio di gusto, come tutti i giudizii empirici, ha soltanto la pretesa di esser valido per ognuno; ciò che, malgrado l’intima contingenza di esso, è sempre possibile. Ciò che vi è qui di strano e di singolare è, che non un concetto empirico, ma un sentimento di piacere (e quindi nessun concetto), debba essere dal giudizio di gusto attribuito ad ognuno, come se fosse un predicato legato alla conoscenza dall’oggetto e debba esser congiunto con la rappresentazione dell’oggetto stesso. Un giudizio singolare di esperienza, quello, per esempio, di colui che in un cristallo di rocca percepisce una goccia d’acqua mobile, esige con ragione di essere condiviso da tutti, perché esso è stato dato secondo le condizioni generali del Giudizio determinante, sotto le leggi di una esperienza possibile in generale. Allo stesso modo pretende con ragione al consenso di ognuno colui che, riflettendo semplicemente sulla forma di un oggetto, senza aver in vista alcun concetto, prova piacere, sebbene questo giudizio sia empirico e singolare, perché il fondamento di questo piacere si trova nella condizione universale, sebbene soggettiva, dei giudizii riflettenti, cioè nell’accordo finalistico, richiesto da ogni conoscenza empirica, di un oggetto (di un prodotto dell’arte o della natura) col rapporto delle facoltà conoscitive tra loro (l’immaginazione e l’intelletto). Sicché il piacere nel giudizio di gusto dipende, è vero, da una rappresentazione empirica, e non può essere legato a priori con un concetto (non si può determinare a priori quale oggetto debba accordarsi col gusto, e quale no: bisogna farne esperienza); ma il piacere è fondamento di tale giudizio sol perché si ha coscienza che esso riposa unicamente sulla riflessione e sulle condizioni universali, sebbene soltanto soggettive, dell’accordo della riflessione stessa con la conoscenza degli oggetti in generale, rispetto al quale accordo la forma dell’oggetto è conforme al fine. Per questa ragione, che la possibilità dei giudizii di gusto presuppone un principio a priori, essi, considerati nella loro possibilità medesima, sono anche sottoposti ad una critica; quantunque [192] questo principio non sia né un principio conoscitivo per l’intelletto, né un principio pratico per la

volontà, e quindi non sia determinante a priori. Ma la capacità che noi abbiamo di trarre un piacere dalla riflessione sulla forma delle cose (della natura come dell’arte) non dimostra soltanto una finalità degli oggetti rispetto al Giudizio riflettente, conformemente al concetto della natura che è nel soggetto, ma anche, per converso, del soggetto rispetto agli oggetti considerati nella loro forma, o perfino nell’assenza di forma, in virtù del concetto della libertà; donde deriva che il giudizio estetico non si deve riferire soltanto, in quanto giudizio di gusto al bello, ma anche, in quanto proviene da un sentimento spirituale al s u b l i m e ; e che perciò la critica del Giudizio estetico dev’essere divisa in due parti principali corrispondenti a questi due giudizii.

VIII. Della rappresentazione logica della finalità della natura. La finalità in un oggetto dato dall’esperienza può essere rappresentata, o in quanto riposa su di un fondamento puramente soggettivo, come accordo della forma dell’oggetto nell’a p p r e n s i o n e (apprehensio) di esso anteriore ad ogni concetto, con le facoltà di conoscere, a fine di riunire l’intuizione coi concetti facendone una conoscenza in genere; oppure, in quanto riposa su di un fondamento oggettivo, come accordo della forma dell’oggetto con la possibilità della cosa stessa, secondo un concetto di essa che precede e contiene il fondamento di questa forma. Noi abbiamo visto che la rappresentazione della finalità della prima specie riposa sul piacere immediato per la forma dell’oggetto, nella semplice riflessione sulla forma medesima; sicché la rappresentazione della seconda specie di finalità, – poiché questa non riferisce la forma dell’oggetto alle facoltà conoscitive del soggetto nell’apprensione di essa, e la riferisce invece ad una determinata conoscenza dell’oggetto, sotto un concetto dato, – non ha da fare col sentimento di piacere suscitato dalle cose, ma con l’intelletto, nel giudizio che esso ne dà. Quando il concetto d’un oggetto è dato, il compito del Giudizio consiste nel metterlo in una e s i b i z i o n e (exhibitio), servendosene per la conoscenza: consiste cioè nel porre accanto al concetto un’intuizione corrispondente; avvenga ciò per mezzo della nostra [193] propria immaginazione, come nell’arte, quando realizziamo il concetto

precedentemente formato di un oggetto e che ci proponiamo come scopo, o avvenga per mezzo della natura, nella sua tecnica (come nei corpi organizzati), quando noi per giudicare dei suoi prodotti le attribuiamo il nostro concetto di scopo; nel qual caso non ci rappresentiamo semplicemente la f i n a l i t à della natura nella forma della cosa, ma il prodotto è rappresentato come u n o s c o p o d e l l a n a t u r a . – Sebbene il nostro concetto di una finalità soggettiva della natura, nelle forme che essa prende secondo leggi empiriche, non sia un concetto dell’oggetto, ma solo un principio che usa il Giudizio per formarsi concetti nell’immensa varietà della natura (per potervisi orientare), nondimeno noi attribuiamo alla natura quasi un riferimento alla nostra facoltà di conoscere, secondo l’analogia di uno scopo; e così possiamo riguardare la b e l l e z z a n a t u r a l e come l ’ e s i b i z i o n e del concetto della finalità formale (puramente soggettiva), e i f i n i d e l l a n a t u r a come esibizione del concetto di una finalità reale (oggettiva), giudicando della prima col gusto (esteticamente, per mezzo del sentimento di piacere), e dei secondi con l’intelletto e con la ragione (logicamente, secondo concetti). Su ciò si fonda la divisione della critica del Giudizio in critica del Giudizio e s t e t i c o e critica del Giudizio t e l e o l o g i c o ; comprendendo nella prima la facoltà di giudicare la finalità formale (detta anche altrimenti soggettiva) per via del sentimento di piacere o dispiacere, e nella seconda la facoltà di giudicare la finalità reale (oggettiva) della natura, mediante l’intelletto e la ragione. La parte che comprende il Giudizio estetico, è essenziale in una critica del Giudizio, perché essa sola contiene un principio, sul quale il Giudizio fonda interamente a priori la sua riflessione sulla natura: cioè il principio di una finalità formale della natura, secondo le sue leggi particolari (empiriche), rispetto alla nostra facoltà di conoscere, ovvero d’una finalità senza cui l’intelletto non si ritroverebbe nella natura; dove, al contrario, non può esser indicato alcun fondamento a priori, né la possibilità di questo può essere tratta dal concetto di una natura considerata come oggetto dell’esperienza così in generale come in particolare, è chiaro che debbano esservi fini oggettivi della natura, cioè cose che son possibili soltanto come suoi fini; ma solo il Giudizio, pur non avendo in sé a priori un principio per questo scopo, contiene la regola per applicare il concetto di scopo a vantaggio della ragione, in casi determinati (di certi prodotti), dopo [194] che già quel principio

trascendentale ha preparato l’intelletto ad applicare alla natura il concetto di uno scopo (almeno secondo la forma). Ma il principio trascendentale, pel quale ci rappresentiamo nella forma di una cosa una finalità della natura in rapporto soggettivo con la nostra facoltà di conoscere, e come se fosse un principio per giudicare di quella forma, lascia del tutto indeterminato dove e in quali casi devo giudicare un prodotto secondo un principio della finalità, anziché semplicemente secondo le leggi universali della natura; e lascia al Giudizio e s t e t i c o il compito di trovare nel gusto la corrispondenza di questo prodotto (della sua forma) con le nostre facoltà di conoscere (giacché il Giudizio estetico non decide mediante l’accordo con concetti, ma per mezzo del sentimento di piacere). Il Giudizio teleologico, invece, determina le condizioni sotto le quali qualche cosa (per esempio, un corpo organizzato) sia da giudicarsi secondo l’idea di uno scopo della natura; ma esso non può trarre dal concetto della natura, in quanto oggetto d’esperienza, alcun principio che ci autorizzi ad attribuirle a priori una relazione con scopi o anche soltanto a ammetterne in modo indeterminato, basandosi sull’esperienza reale di tali prodotti; e la ragione è questa: che debbono essere date molte esperienze particolari, e debbono essere considerate nell’unità del loro principio, perché si possa riconoscere solo empiricamente una finalità oggettiva di un certo oggetto. – Il Giudizio estetico è, dunque, una particolare facoltà di giudicar delle cose secondo una regola, ma non secondo concetti. Il Giudizio teleologico non è una facoltà, ma è semplicemente il Giudizio riflettente in generale, in quanto procede non soltanto secondo concetti, come in generale nella conoscenza teoretica, ma, riguardo a certi oggetti naturali, secondo principii particolari, vale a dire come un Giudizio puramente riflettente, che non determina oggetti; sicché, considerato nella sua applicazione, esso appartiene alla parte teoretica della filosofia, e in virtù dei suoi principii particolari che non sono determinanti, come dovrebbero essere in una dottrina, deve costituire anche una parte speciale della critica; mentre il Giudizio estetico non porta alcun contributo alla conoscenza dei suoi oggetti, e deve essere riportato perciò s o l t a n t o alla critica del soggetto giudicante e delle sue facoltà conoscitive, – che è la propedeutica di ogni filosofia, – in quanto queste facoltà son capaci di principii a priori qualunque possa essere il loro uso (teoretico o pratico).

IX. Del legame tra la legislazione dell’intelletto e quella della ragione mediante il Giudizio. [195] L’intelletto è legislatore a priori per la natura come oggetto dei sensi, in vista di una conoscenza teoretica di essa in un’esperienza possibile. La ragione è legislatrice a priori per la libertà e per la sua propria causalità, in quanto elemento soprasensibile del soggetto, in vista di una conoscenza pratica incondizionata. Il dominio del concetto della natura, che è sottomesso alla prima legislazione, e quello del concetto della libertà, sottomesso alla seconda, sono interamente separati, contro ogni influsso reciproco che potrebbe avere (ciascuno secondo le sue leggi fondamentali), dal grande abisso che divide il soprasensibile dai fenomeni. Il concetto della libertà non determina niente riguardo alla conoscenza teoretica della natura; e proprio allo stesso modo il concetto della natura non determina niente riguardo alle leggi pratiche della libertà; sicché è impossibile gettare un ponte tra l’uno e l’altro dominio. – Ma, se i principii che determinano la causalità secondo il concetto della libertà (e la regola pratica che esso contiene) non risiedono nella natura, e il sensibile non può determinare il soprasensibile nel soggetto, il contrario nondimeno è possibile (non relativamente alla conoscenza della natura, ma rispetto alle conseguenze che il soprasensibile può avere sul sensibile); e questo è già contenuto nel concetto di una causalità della libertà, il cui e f f e t t o secondo le leggi formali della libertà stessa, deve attuarsi nel mondo; sebbene la parola c a u s a , usata a proposito del soprasensibile, indichi soltanto il m o t i v o che determina la causalità delle cose naturali a produrre un effetto in conformità alle proprie leggi, ma insieme anche in accordo col principio formale delle leggi della ragione; certo non si può comprendere la possibilità di questo fatto, ma si può sufficientemente confutare l’obbiezione di chi pretende di scorgervi una contraddizione52. – L’effetto prodotto secondo il concetto della libertà (o il fenomeno ad esso [196] corrispondente nel mondo sensibile) è lo scopo finale, che deve esistere, e che a ciò è presupposto come possibile nella natura (del soggetto, in quanto essere sensibile, cioè in quanto uomo). Il Giudizio, che presuppone questa possibilità a priori e senza riguardo al pratico, fornisce il concetto intermediario tra i concetti della natura e quello della libertà, concetto che rende possibile il passaggio dalla ragion pura teoretica alla ragion pura

pratica, dalla conformità alle leggi secondo l’una, allo scopo finale secondo l’altra, ponendo il concetto di una f i n a l i t à della natura; perché in tal modo si conosce la possibilità dello scopo finale, che può esser realizzato soltanto nella natura, e d’accordo con le sue leggi. Con la possibilità delle sue leggi a priori per la natura, l’intelletto dà una prova che questa è conosciuta da noi soltanto come fenomeno; e perciò rinvia nel tempo stesso a un sostrato soprasensibile di essa, che lascia nondimeno interamente i n d e t e r m i n a t o . Il Giudizio, mediante il suo principio a priori, che serve a giudicare la natura secondo le sue possibili leggi particolari, rende quel sostrato soprasensibile (in noi e fuori di noi) d e t e r m i n a b i l e p e r m e z z o d e l l a f a c o l t à i n t e l l e t t u a l e . Al sostrato stesso la ragione, con la sua legge pratica a priori, dà la d e t e r m i n a z i o n e ; e così il Giudizio rende possibile il passaggio dal dominio del concetto della natura a quello del concetto della libertà. Se si considerano le facoltà dell’anima in generale come facoltà superiori, cioè come capaci di autonomia, l’intelletto è, per la f a c o l t à c o n o s c i t i v a (della conoscenza teoretica della natura), quella che contiene i principii c o s t i t u t i v i a priori; quella, che contiene questi principii pel sentimento di piacere e d i s p i a c e r e , è il Giudizio, indipendentemente da concetti e sensazioni che potrebbero determinare la facoltà [197] di desiderare, e perciò essere immediatamente pratici; per la f a c o l t à d i d e s i d e r a r e , è la ragione, la quale è pratica immediatamente, senza l’intervento di qualunque piacere, qualunque sia la sua origine, e dà a questa facoltà, in quanto facoltà superiore, lo scopo finale, che include il puro piacere intellettuale relativamente all’oggetto. – Il concetto, che ha il Giudizio di una finalità della natura, appartiene ancora ai concetti della natura, ma solo come principio regolativo della facoltà di conoscere; sebbene il giudizio estetico su certi oggetti (della natura o dell’arte), il quale dà luogo a quel concetto, sia un principio costitutivo rispetto al sentimento di piacere o dispiacere. La spontaneità nel giuoco delle facoltà conoscitive, il cui accordo contiene il fondamento di questo piacere, rende atto quel concetto a far da intermediario tra il dominio del concetto della natura e quello del concetto della libertà nelle sue conseguenze, perché essa favorisce nel tempo stesso la capacità dell’animo pel sentimento morale. – Il seguente quadro può facilitare una vista d’insieme su tutte le facoltà superiori, considerate nella loro unità sistematica53.

[198] Facoltà dell’animo Facoltà di conoscere Sentimento di piacere e dispiacere Facoltà di desiderare Facoltà di conoscere

Principii a priori

Applicazione alla

Intelletto Giudizio Ragione

Conformità a leggi Finalità Scopo finale

Natura Arte Libertà

50

Dei concetti di cui si fa uso come principii empirici, quando si ha ragione di supporre che essi abbiano relazione con la pura facoltà di conoscere a priori, è utile, a cagione di questa relazione, di tentare una definizione trascendentale, cioè mediante categorie pure, dacché queste bastano da sole a dar la differenza tra il concetto in questione e gli altri concetti. Si segue in ciò l’esempio del matematico, che lascia indeterminati i dati empirici del suo problema e riduce soltanto il loro rapporto, nella pura sintesi di essi, al concetto dell’aritmetica pura, generalizzando in tal modo la soluzione del problema. – Mi si è rimproverato un procedimento simile (Critica della ragion pratica, prefazione), biasimando questa definizione della facoltà di desiderare: la facoltà di essere, mercé le proprie rappresentazioni, la causa della r e a l t à d e g l i o g g e t t i d i t a l i r a p p r e s e n t a z i o n i : perché, si è detto, i d e s i d e r i i f a n t a s t i c i [«Wünsche», desiderii: abbiamo aggiunto l’aggettivo «fantastici», usato poco dopo da Kant, per serbare il senso che abbiamo assunto per la parola «desiderio», la quale per noi corrisponde a «Begehrung» (vedi n. 2) (N.d.T.)]. sono anche desiderii, e ognuno nondimeno riconosce che essi da soli non possono realizzare il loro oggetto. – Ma ciò prova soltanto che nell’uomo vi sono anche desiderii, pei quali egli si trova in contradizione con se medesimo; perché egli tende alla realizzazione del suo oggetto soltanto mediante la sua rappresentazione, da cui non può aspettarsi niente, dacché sa che le sue forze meccaniche (se così debbo chiamare quelle che non sono psicologiche), le quali dovrebbero essere determinate da quella rappresentazione a realizzare l’oggetto (quindi, mediatamente), o non sono sufficienti, o si volgono all’impossibile, come per esempio se debbono fare che l’avvenuto non sia avvenuto (O mihi praeteritos... etc.), o annullare, nell’attesa impaziente, l’intervallo che ci divide dal momento desiderato. – Sebbene in tali desiderii fantastici noi siamo coscienti dell’insufficienza (o, perfino, dell’incapacità) delle nostre rappresentazioni a divenir c a u s e dei loro oggetti, tuttavia il rapporto di esse, in quanto cause, e per conseguenza la rappresentazione della loro c a u s a l i t à , è contenuto anche in qualsiasi d e s i d e r i o , ma è soprattutto visibile quando il desiderio è un affetto, vale a dire una vera b r a m a . Perché questi desiderii, col dilatare ed afflosciare il cuore, e quindi con l’esaurire le forze, dimostrano che queste forze sono ripetutamente tese dalle rappresentazioni, ma fan poi sempre ricader l’animo nella depressione, per la constatata impossibilità di realizzarli. Anche le preghiere per scongiurare mali grandi, e, per quel che si crede, inevitabili, ed alcuni mezzi superstiziosi per raggiungere scopi naturalmente impossibili, dimostrano la relazione causale delle rappresentazioni coi loro oggetti, la quale nemmeno dalla coscienza della loro insufficienza a produrre l’effetto può essere arrestata nella sua spinta. – Ma perché nella nostra natura è stata messa questa propensione a desiderii dichiarati vani dalla coscienza? È questa una questione di teleologia antropologica. Pare che se noi dovessimo determinarci ad usare le nostre forze soltanto dopo esserci assicurati della sufficienza della nostra facoltà a produrre un oggetto, le forze stesse

resterebbero in gran parte senza applicazione. Giacché ordinariamente noi impariamo a conoscere le nostre forze, soltanto col saggiarle. Questa illusione dei desiderii vani è, dunque, la conseguenza di un benefico ordine della nostra natura [Questa nota fu aggiunta da Kant nella seconda edizione (N.d.T.)]. 51 Traduciamo «zweckmässig», che significa «adeguato allo scopo», con l’aggettivo «finale», quando non vi sia luogo ad equivoco [N.d.T.]. 52 Una delle tante pretese contraddizioni, che si trovano in questa differenziazione assoluta tra la causalità naturale e la causalità della libertà, consiste nel rimprovero che mi si fa, dicendo che quando io parlo di o s t a c o l i che la natura oppone alla causalità secondo le leggi della libertà (le leggi morali), o delle f a c i l i t a z i o n i che essa le offre, ammetto un’e f f i c a c i a della prima sulla seconda. Ma, purché si voglia comprendere ciò che è stato detto, è facile prevenire questa cattiva interpretazione. L’ostacolo o la facilitazione non sono tra la natura e la libertà, ma tra la natura in quanto fenomeno e gli e f f e t t i della libertà in quanto fenomeni nel mondo sensibile; e la causalità stessa della libertà (della ragion pura e pratica) è la causalità di una causa naturale sottoposta alla libertà (la causalità del soggetto, in quanto uomo, cioè considerato come fenomeno), di una causa la cui d e t e r m i n a z i o n e è fondata nell’intelligibile, che è pensato sotto la libertà, sebbene in una maniera inesplicabile (proprio come ciò che costituisce il sostrato soprasensibile della natura). 53 Si è trovato sospetto che, quasi sempre, le mie divisioni nella filosofia pura riescano triadiche. Ma ciò è nella natura stessa della cosa. Se una divisione dev’esser fatta a priori, o sarà a n a l i t i c a secondo il principio di contraddizione, ed allora è sempre in due parti (quodlibet ens est aut A aut non A); o sarà s i n t e t i c a , e, se in tal caso deve esser derivata da c o n c e t t i a priori (non, come in matematica, dall’intuizione corrispondente a priori al concetto), essa, – secondo ciò che è richiesto dall’unità sintetica in generale, cioè: 1° la condizione, 2° un condizionato, 3° il concetto, che nasce dall’unione della condizione col condizionato, – dovrà essere necessariamente una tricotomia.

[201] Parte prima Critica del giudizio estetico

Sezione prima Analitica del giudizio estetico

Libro primo Analitica del bello

PRIMO MOMENTO DEL GIUDIZIO DI GUSTO54, SECONDO LA QUALITÀ

§ 1. Il giudizio di gusto è estetico. [203] Per discernere se una cosa è bella o no, noi non riferiamo la rappresentazione all’oggetto mediante l’intelletto, in vista della conoscenza; ma, mediante l’immaginazione (forse congiunta con l’intelletto), la riferiamo al soggetto, e al suo sentimento di piacere o dispiacere. Il giudizio di gusto non è dunque un giudizio di conoscenza, cioè logico, ma è estetico; il che significa che il suo fondamento non può essere se non s o g g e t t i v o . Ma ogni rapporto delle rappresentazioni, ed anche delle sensazioni, può essere oggettivo (e allora esso indica ciò che è reale in una rappresentazione empirica); e non è tale soltanto il rapporto [204] al sentimento di piacere e dispiacere, col quale non vien designato nulla nell’oggetto, e nel quale il soggetto sente se stesso, secondo la rappresentazione da cui è affetto. Il rappresentarsi con la facoltà conoscitiva (in una rappresentazione chiara o confusa) un edifizio regolare ed appropriato al suo scopo, è una cosa del tutto diversa dall’esser cosciente di questa rappresentazione col sentimento di piacere. In quest’ultimo caso la rappresentazione è riferita interamente al soggetto, e, veramente al suo senso vitale, sotto il nome di piacere o dispiacere; la qual cosa dà luogo ad una facoltà interamente distinta di discernere e di giudicare, che non porta alcun contributo alla conoscenza, ma pone soltanto in rapporto, nel soggetto, la rappresentazione data con la facoltà rappresentativa nella sua totalità; di che l’animo ha coscienza nel sentimento del proprio stato. Le rappresentazioni date in un giudizio possono essere

empiriche (e quindi estetiche); ma il giudizio che risulta da esse è logico, se esse sono riferite soltanto nel giudizio all’oggetto. E viceversa, se anche le rappresentazioni date siano razionali, qualora vengano riferite in un giudizio unicamente al soggetto (al suo sentimento), il giudizio resterà sempre estetico.

§ 2. Il piacere che determina il giudizio di gusto è s c e v ro d i o g n i i n t e re s s e . È detto interesse il piacere, che noi congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto. Questo piacere perciò ha sempre relazione con la facoltà di desiderare, o in quanto movente di essa, o in quanto necessariamente connesso col movente stesso. Ma, quando si tratta di giudicare se una cosa è bella, non si vuol sapere se a noi o a chiunque altro importi, o anche soltanto possa importare, della sua esistenza; ma come la giudichiamo contemplandola semplicemente (nell’intuizione o nella riflessione). Se qualcuno mi domanda se trovo bello il palazzo che mi è davanti, io posso ben dire che non approvo queste cose fatte soltanto per destar stupore, o rispondere come quel Sachem55 irocchese, cui niente a Parigi piaceva più delle bettole; posso anche biasimare, da buon seguace di Rousseau, la vanità dei grandi, che spendono i sudori del popolo in cose tanto [205] superflue; infine, posso anche facilmente convincermi che, se mi trovassi su di una isola deserta senza speranza di tornar mai tra gli uomini, e potessi magicamente col solo mio desiderio elevare un sì splendido edifizio, io non mi darei nemmeno questa pena, sol che avessi già una capanna che fosse abbastanza comoda per me. Mi si può concedere ed approvare tutto ciò; ma gli è che non si tratta di questo: si vuol sapere soltanto se questa semplice rappresentazione dell’oggetto è accompagnata in me da piacere, per quanto, d’altra parte, io possa essere indifferente circa l’esistenza del suo oggetto. Si vede facilmente che dal mio apprezzamento di questa rappresentazione, non dal mio rapporto con l’esistenza dell’oggetto, dipende che si possa dire se esso è b e l l o , e che io provi di aver gusto. Ognuno deve riconoscere che quel giudizio sulla bellezza, nel quale si mescola il minimo interesse, è molto parziale e non è un puro giudizio di gusto. Non bisogna essere menomamente preoccupato dell’esistenza della cosa, ma del tutto indifferente sotto questo

riguardo, per essere giudice in fatto di gusto. Ma non possiamo chiarir meglio questa proposizione, che è della più grande importanza, se non contrapponendo al piacere puramente disinteressato56 del giudizio di gusto quello che è legato con l’interesse; sopratutto se possiamo essere certi che non vi son altre specie d’interesse oltre quelle che ora dobbiamo esporre.

§ 3. Il piacere del p i a c e v o l e è legato ad un interesse. Piacevole è ciò che piace ai sensi nella sensazione. Qui si presenta l’occasione di biasimare e far notare uno scambio frequentissimo dei due significati, che può avere la parola sensazione. Ogni piacere (si dice e si pensa) è per se stesso [206] una sensazione (di un piacere). Quindi tutto ciò che piace, appunto perché piace, è piacevole (e secondo i diversi gradi, o i rapporti ad altre sensazioni piacevoli, è g r a t o , a m a b i l e , d i l e t t e v o l e , g i o c o n d o , etc.). Ma, ammesso ciò, le impressioni dei sensi che determinano l’inclinazione, i principii della ragione che determinano la volontà, e le semplici forme riflesse dell’intuizione che terminano il Giudizio, diventano, per ciò che riguarda l’effetto sul sentimento di piacere, la stessa cosa. Perché non si tratterebbe se non del piacevole, che è nella sensazione del nostro stato; e poiché infine ogni uso delle nostre facoltà deve tendere al pratico ed unirvisi come a suo scopo, non si potrebbe pretendere dalle facoltà stesse alcun apprezzamento delle cose e del loro valore, oltre quello che consiste nel diletto che esse promettono. Il modo, con cui arrivano al piacere, non importa; e poiché qui solo la scelta dei mezzi può stabilire una differenza, gli uomini potrebbero ben accusarsi reciprocamente di stoltezza e d’imprudenza, non mai però di bassezza e di malvagità; poiché tutti, ciascuno secondo il suo modo di veder le cose, tendono ad uno scopo, che è per ciascuno il diletto. Quando si chiama sensazione una determinazione del sentimento di piacere o dispiacere, la parola ha un significato del tutto diverso da quando viene adoperata ad esprimere la rappresentazione di una cosa (mediante i sensi, in quanto ricettività inerente alla facoltà di conoscere). Perché in quest’ultimo caso la rappresentazione è riferita all’oggetto, mentre nel primo è riferita unicamente al soggetto, e non serve ad alcuna conoscenza: nemmeno a quella con cui il soggetto c o n o s c e se stesso.

Ma, nella definizione data, intendiamo con la parola sensazione una rappresentazione oggettiva dei sensi; e, per non correre sempre il rischio di esser fraintesi, chiameremo col nome, del resto usato, di sentimento ciò che deve restar sempre puramente soggettivo e non può assolutamente costituire una rappresentazione di un oggetto. Il color verde dei prati appartiene alla sensazione o g g e t t i v a , in quanto percezione d’un oggetto del senso; il piacere che esso produce, si riferisce invece alla sensazione s o g g e t t i v a , con la quale nessun oggetto è rappresentato: vale a dire al sentimento, nel quale l’oggetto è considerato come termine del piacere (che non dà di esso alcuna conoscenza). [207] Ora è chiaro che il giudizio, col quale io dichiaro piacevole un oggetto, esprime un interesse nei suoi riguardi, perché il giudizio stesso, mediante la sensazione, suscita il desiderio di oggetti simili, e per conseguenza il piacere non presuppone il semplice giudizio sull’oggetto, ma il rapporto della sua esistenza col mio stato, in quanto sono affetto da un tal oggetto. Perciò del piacevole non si dice semplicemente che esso p i a c e , ma che esso d i l e t t a . Non è una semplice approvazione che io ad esso concedo, ma in me si produce un’inclinazione; e a ciò che più vivamente desta piacere è estraneo qualsiasi giudizio sulla natura dell’oggetto; tanto è vero che quelli, i quali mirano sempre al solo godimento (è questa la parola con cui si designa l’intimo del diletto), si dispensano volentieri da ogni giudizio.

§ 4. Il piacere che dà il b u o n o è legato all’interesse. Buono è ciò che, mediante la ragione, piace puramente pel suo concetto. Chiamiamo qualche cosa b u o n a (utile), quando essa ci piace soltanto come mezzo; un’altra invece, che ci piace per se stessa, la diciamo b u o n a i n s é . In entrambe è sempre contenuto il concetto di uno scopo, il rapporto della ragione con la volontà (almeno possibile), e per conseguenza un piacere legato all’e s i s t e n z a di un oggetto o di un’azione, vale a dire un interesse. Per trovar buono un oggetto, io debbo sempre sapere che specie di cosa è, cioè averne un concetto. Per trovare in esso la bellezza non ho bisogno di ciò. I fiori, i disegni liberi, quelle linee intrecciate senza scopo che vanno sotto il nome di fogliami, non significano niente, non dipendono da alcun concetto determinato e tuttavia piacciono. Il piacere, che dà il bello, deve dipendere dalla riflessione su di un oggetto, la quale conduce a qualche concetto (non

importa quale); e si distingue perciò anche dal piacevole, che riposa interamente sulla sensazione. Veramente in molti casi pare che il piacevole sia identico col buono. Così si dice comunemente che ogni diletto (specie se durevole) è buono in se stesso; il che presso a poco significa che il piacevole avente una certa durata e il buono sono la stessa cosa. Ma si può subito notare che questo è semplicemente un erroneo scambio di parole, perché i concetti che corrispondono precisamente [208] a quelle espressioni non possono essere confusi in alcun modo. Il piacevole che, come tale, rappresenta l’oggetto unicamente in relazione col senso, affinché possa essere chiamato buono, come oggetto della volontà, dev’essere anzitutto sottoposto ai principii della ragione mediante il concetto di uno scopo. Ma che si tratti di un rapporto del tutto diverso verso il sentimento del piacere, quando chiamo nello stesso tempo b u o n o ciò che mi piace, è dimostrato dal fatto che pel buono sussiste sempre la domanda, se esso sia buono mediatamente o immediatamente (utile o buono in sé); mentre pel piacevole la domanda non ha ragion d’essere, poiché la parola significa in ogni caso qualche cosa che piace immediatamente. (È così per ciò che io chiamo bello.) Anche nel linguaggio più comune si distingue il piacevole dal buono. Di una vivanda che eccita il nostro gusto per mezzo di aromi ed altri ingredienti si dice senza esitare che essa è piacevole, e si confessa nello stesso tempo che non è buona, perché s o d d i s f a immediatamente il senso, ma mediatamente, cioè alla ragione che ne considera gli effetti, dispiace. Si può notare questa differenza anche nel giudicare della salute corporale. Essa è immediatamente piacevole a colui che la possiede (almeno negativamente, come assenza di ogni dolore corporale). Ma, per dire che essa è buona, bisogna considerarla, mediante la ragione, relativamente a uno scopo, cioè come uno stato che ci rende atti a tutte le nostre occupazioni. Dal punto di vista della felicità infine ognuno crede di poter chiamare un vero bene, ed anche il sommo bene, la maggiore somma (riguardo alla quantità e alla durata) dei piaceri della vita. Ma anche contro di ciò si rivolta la ragione. Il piacevole è godimento. Ma se questo soltanto contasse, sarebbe da stolto l’essere scrupolosi riguardo ai mezzi che ce lo procurano; se accettarlo, cioè, passivamente dalla generosità della natura, o se produrlo con la propria attività e l’opera propria. Ma la ragione non si lascerà mai persuadere che abbia un valore per se stessa l’esistenza di un uomo, che viva semplicemente per g o d e r e (ed anche sia

molto attivo sotto questo rispetto); perfino se egli fosse di grande giovamento agli altri che tendono allo stesso scopo, con l’adoperarsi a goder con simpatia del loro diletto. Solo mediante ciò che egli fa, senza riguardo al godimento, in piena libertà e con indipendenza da ciò [209] che la natura passivamente gli può procurare, egli dà un valore assoluto alla sua esistenza, come esistenza di una persona; e la felicità, con tutta l’abbondanza dei suoi godimenti, è ben lungi dall’essere un bene incondizionato57. Ma, malgrado tutte queste differenze, il piacevole e il buono si accordano in ciò, che entrambi son legati sempre con un interesse pel loro oggetto: non solo il piacevole (§ 3) e il buono mediato (l’utile), che piace come mezzo per ottenere il piacevole; ma anche ciò ch’è buono assolutamente e sotto ogni riguardo, il buono morale, che include il più alto interesse. Giacché il buono è l’oggetto della volontà (vale a dire di una facoltà di desiderare determinata dalla ragione). Ma volere qualche cosa ed aver piacere della sua esistenza, cioè prendervi interesse, sono la stessa cosa.

§ 5. Comparazione dei tre modi specificamente diversi del piacere. Il piacevole ed il buono si riferiscono entrambi alla facoltà di desiderare e producono quindi, il primo un piacere condizionato patologicamente (da eccitazioni, stimuli), il secondo un piacere pratico puro; cioè un piacere che è determinato in entrambi i casi non semplicemente dalla rappresentazione dell’oggetto, ma anche da quella del rapporto del soggetto con l’esistenza dell’oggetto stesso. Non è soltanto l’oggetto che piace, ma anche la sua esistenza. Invece il giudizio di gusto è puramente c o n t e m p l a t i v o , è un giudizio, cioè, che, indifferente riguardo all’esistenza dell’oggetto, ne mette solo a riscontro i caratteri con il sentimento di piacere e di dispiacere. Ma questa contemplazione a sua volta non è diretta a concetti; perché il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza (né teorico né pratico), e per conseguenza non è f o n d a t o sopra concetti, né se ne p r o p o n e alcuno. Il piacevole, il bello, il buono designano dunque tre diversi rapporti delle rappresentazioni verso il sentimento di piacere e [210] dispiacere, secondo cui distinguiamo gli oggetti o i modi della rappresentazione. Anche le espressioni adeguate, con le quali si designa il compiacimento nei tre casi,

non sono le stesse. Ognuno chiama p i a c e v o l e ciò che lo d i l e t t a ; b e l l o ciò che gli p i a c e senz’altro; b u o n o ciò che a p p r e z z a , a p p r o v a , vale a dire ciò cui dà un valore oggettivo. Il piacevole vale anche per gli animali irragionevoli; la bellezza solo per gli uomini, nella loro qualità di essere animali, ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono semplicemente ragionevoli (come sono, per esempio, gli spiriti), ma in quanto sono nello stesso tempo animali; il buono invece ha valore per ogni essere ragionevole in generale. Questo punto, del resto, potrà esser interamente chiarito e giustificato solo in seguito. Si può dire che di questi tre modi del piacere, unico e solo quello del gusto del bello è un piacere disinteressato e l i b e r o ; perché in esso l’approvazione non è imposta da alcun interesse, né dai sensi, né dalla ragione. Del piacere quindi si potrebbe dire che esso si riferisce nei tre casi esaminati all’i n c l i n a z i o n e , al f a v o r e o alla s t i m a . Perché il f a v o r e è l’unico piacere libero. L’oggetto di un’inclinazione e quello che è imposto da una legge della ragione al nostro desiderio, non ci lasciano alcuna libertà di farcene noi stessi un oggetto del piacere. Ogni interesse presuppone o produce un bisogno, e, come motivo dell’approvazione, non lascia libertà al giudizio sopra l’oggetto. Per ciò che riguarda l’interesse dell’inclinazione nel piacevole, si dice da ognuno che la fame è il migliore dei cuochi e che la gente di buon appetito gusta qualunque cosa, purché sia mangiabile; quindi un piacere di questa specie non dimostra nel gusto nessuna scelta. Solo quando il bisogno sia soddisfatto, si può distinguere tra molti chi ha e chi non ha gusto. Allo stesso modo può esservi costume (condotta) senza virtù, cortesia senza benevolenza, decoro senza onestà, etc. etc. Poiché dove parla la legge morale non resta oggettivamente alcuna libertà nella scelta circa ciò che si deve fare; e mostrare gusto nella propria condotta (o nel giudicare quella degli altri) è cosa del tutto diversa dal manifestare il proprio carattere morale; perché questo contiene un precetto e produce un bisogno, mentre invece il gusto morale gioca soltanto con gli oggetti del piacere, senza legarsi propriamente con nessuno. DEFINIZIONE DEL BELLO DESUNTA DAL PRIMO MOMENTO

[211] Il gusto è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse. L’oggetto di un piacere simile si dice bello.

SECONDO MOMENTO DEL GIUDIZIO DI GUSTO, SECONDO LA QUANTITÀ

§ 6. Il bello è ciò che è rappresentato, senza concetti, come l’oggetto di un piacere u n i v e r s a l e . Questa definizione del bello può esser dedotta dalla precedente, per la quale esso è l’oggetto di un piacere senza alcun interesse. Difatti colui che ha coscienza di esser disinteressato nel piacere che prova di qualche cosa, non può giudicare la cosa medesima se non come contenente un motivo di piacere, che sia valevole per ognuno. Non essendo il piacere fondato su qualche inclinazione del soggetto (o su qualche altro interesse consapevole), e sentendosi invece colui che giudica completamente l i b e r o rispetto al piacere che dedica all’oggetto; egli non potrà trovare alcuna condizione particolare, esclusiva del suo soggetto, come fondamento del piacere, e dovrà quindi considerarlo come fondato su qualcosa, che si possa presupporre anche in ogni altro; per conseguenza, dovrà credere di aver ragione di pretendere dagli altri lo stesso piacere. Egli parlerà così del bello come se la bellezza fosse una qualità dell’oggetto, e il suo giudizio fosse logico (un giudizio che dà una conoscenza dell’oggetto mediante il suo concetto), sebbene sia soltanto estetico e non implichi che un rapporto della rappresentazione dell’oggetto col soggetto; perché, infatti, esso è simile in questo al giudizio logico, che si può presupporre la sua validità per ognuno. Ma questa universalità non può neppure provenire da concetti. Poiché non vi è alcun passaggio dai concetti al sentimento di piacere o dispiacere (eccetto nelle pure leggi pratiche, le quali [212] però implicano un interesse, che non c’è nei puri giudizii di gusto). Al giudizio di gusto, per conseguenza, poiché in esso v’è la coscienza del disinteresse, deve unirsi l’esigenza della validità per ognuno, sebbene tale validità non si tenga connessa agli oggetti; in altri termini, il giudizio di gusto deve pretendere all’universalità soggettiva.

§ 7. Comparazione del bello col piacevole e col buono mediante l’osservazione precedente.

Per ciò che riguarda il p i a c e v o l e , ognuno riconosce che il giudizio che egli fonda su di un sentimento particolare, e col quale dichiara che un oggetto gli piace, non ha valore se non per la sua persona. Perciò quando qualcuno dice: – il vino delle Canarie è piacevole, – sopporta volentieri che gli si corregga l’espressione e gli si ricordi che deve dire: – è piacevole per me; – e così non solo pel gusto della lingua, del palato e della gola, ma anche per ciò che può essere piacevole agli occhi o agli orecchi. Per uno il colore della violetta è dolce ed amabile, per l’altro è cupo e smorto. Ad uno piace il suono degli strumenti a fiato, all’altro quello degli strumenti a corda. Perciò sarebbe da stolto litigare in tali casi per riprovare come errore il giudizio altrui, quando differisce dal nostro, quasi che tali giudizii fossero opposti logicamente; sicché in fatto di piacevole vale il principio: o g n u n o h a i l p r o p r i o g u s t o (dei sensi). Per il bello la cosa è del tutto diversa. Sarebbe (proprio al contrario) ridicolo, se uno che si rappresenta qualche cosa secondo il proprio gusto, pensasse di giustificarsene in questo modo: questo oggetto (l’edificio che vediamo, l’abito che quegli indossa, il concerto che sentiamo, la poesia che si deve giudicare) è bello p e r me. Perché egli non deve chiamarlo b e l l o , se gli piace semplicemente. Molte cose possono avere per lui attrattiva e vaghezza; questo non importa a nessuno; ma quando egli dà per bella una cosa, pretende dagli altri lo stesso piacere; non giudica solo per sé, ma per tutti, e parla quindi della bellezza come se essa fosse una qualità della cosa. Egli dice perciò: – la c o s a è bella; – e non fa assegnamento sul consenso altrui nel proprio [213] giudizio di piacere, sol perché molte altre volte quel consenso vi è stato; egli lo e s i g e . Biasima gli altri se giudicano altrimenti, e nega loro il gusto, pur pretendendo che debbano averlo; e per conseguenza qui non si può dire: – ognuno ha il suo gusto particolare. – Varrebbe quanto dire che il gusto non esiste; che non v’è un giudizio estetico, il quale legittimamente possa esigere il consenso universale. Accade bensì di trovare anche riguardo al piacevole un certo accordo nel giudizio degli uomini, in virtù del quale ad alcuni si nega il gusto, ad altri lo si attribuisce, e non come senso, ma come facoltà di giudicare del piacevole in generale. Così si dice di uno che sappia intrattenere i suoi ospiti tanto piacevolmente (col godimento di tutti i sensi) da contentarli tutti, che egli ha gusto. Ma qui si parla comparativamente; e non vi sono che regole g e n e r a l i (come son tutte le regole empiriche) e non regole u n i v e r s a l i ,

come quelle cui sottostà, o pretende, il giudizio di gusto sul bello. È un giudizio relativo alla socievolezza, in quanto questa riposa su regole empiriche. In quanto al buono i nostri giudizii anche pretendono legittimamente alla validità per ognuno; ma il buono è rappresentato come l’oggetto d’un piacere universale solo m e d i a n t e un c o n c e t t o , ciò che non vale né pel piacevole né pel bello.

§ 8. L’universalità del piacere in un giudizio estetico è rappresentata solo come soggettiva. Questa particolare determinazione dell’universalità di un giudizio estetico, che si rinviene in un giudizio di gusto, è un fatto degno di nota, non veramente per il logico, bensì pel filosofo trascendentale, che spende non poca fatica per scoprire la sua origine, ma con essa viene anche a scoprire una proprietà della nostra facoltà di conoscere, che senza questa ricerca sarebbe rimasta ignota. In primo luogo, bisogna convincersi pienamente di questo: [214] col giudizio di gusto (sul bello) si pretende da o g n u n o il piacere riguardo ad un oggetto, senza fondarsi però su qualche concetto (perché allora si tratterebbe del buono); e questa esigenza dell’universalità appartiene così essenzialmente ad un giudizio col quale si dichiara b e l l a qualche cosa, che, senza di essa, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di usare tale espressione, ma tutto ciò che piace senza concetto sarebbe stato riportato al piacevole, pel quale si lascia ad ognuno il proprio parere e nessuno esige dagli altri il consenso al proprio giudizio di gusto; ciò che pel giudizio di gusto sulla bellezza avviene in ogni caso. Posso chiamare il primo, gusto dei sensi, ed il secondo, gusto della riflessione, in quanto il primo dà semplici giudizii personali, il secondo invece giudizii che vogliono valere universalmente (pubblici), ma entrambi danno giudizii estetici (non pratici) su di un oggetto, soltanto circa il rapporto della sua rappresentazione col sentimento di piacere o dispiacere. Sembra strano però che, non solo l’esperienza dimostri che il giudizio (di piacere o dispiacere riguardo a qualche cosa) dal gusto dei sensi non vale universalmente, ma che ognuno sia convinto spontaneamente di non potere esigere il consenso dagli altri (sebbene possa trovarsi anche molto spesso un estesissimo accordo anche su tali giudizii); e che, d’altra parte, sebbene il

gusto della riflessione, come l’esperienza insegna, sia bene spesso rigettato con la sua pretesa alla validità universale dei suoi giudizii (sul bello), tuttavia si possa ammettere (ciò che anche realmente avviene) la possibilità di giudizii che abbiano ragione di esigere l’universale consenso, e che questo sia effettivamente richiesto da ognuno pei proprii giudizii di gusto, senza che i giudicanti facciano questione della possibilità di tale pretesa, potendo essere soltanto divisi, in casi determinati, sulla giusta applicazione di questa facoltà di giudicare. Qui è innanzi tutto da notare che una universalità, che non abbia fondamento nei concetti dell’oggetto (quand’anche soltanto empirici), non è punto logica, ma estetica, cioè non include una quantità oggettiva del giudizio, sibbene soltanto una quantità soggettiva; per la quale io adopero l’espressione v a l i d i t à c o m u n e , che indica la validità non del rapporto di una rappresentazione con la facoltà di conoscere, ma della rappresentazione medesima col sentimento di piacere o dispiacere in ogni soggetto. (Ma si può anche adoperare la stessa espressione [215] per la quantità logica del giudizio, notando però che si tratta di una universalità o g g e t t i v a , per distinguerla da quella semplicemente soggettiva, che è sempre estetica.) Ora, ogni giudizio o g g e t t i v a m e n t e u n i v e r s a l e è anche sempre soggettivo, vale a dire che, quando il giudizio vale per tutto ciò che è compreso in un dato concetto, esso vale anche per ognuno, che si rappresenti un oggetto secondo quel concetto. Ma da una u n i v e r s a l i t à s o g g e t t i v a , cioè quella estetica, che non ha fondamento in alcun concetto, non si può concludere alla universalità logica; perché quella specie di giudizii non si rapporta all’oggetto. Ma appunto perciò l’universalità estetica, che è attribuita ad un giudizio, dev’essere di una specie particolare, perché essa non lega il predicato della bellezza col concetto dell’o g g e t t o considerato nella sua intera sfera logica, e tuttavia lo estende all’intera sfera d e i giudicanti. Rispetto alla quantità logica ogni giudizio di gusto è s i n g o l a r e . Poiché io debbo riportare l’oggetto immediatamente al mio sentimento di piacere o dispiacere, e però senza concetti, i giudizii di gusto non possono avere la quantità di giudizii oggettivamente universali; quantunque, se la rappresentazione singola dell’oggetto del giudizio di gusto vien cambiata per via di paragone in un concetto secondo le condizioni che determinano il giudizio stesso, si possa avere un giudizio logicamente universale. Così, per

esempio, la rosa, che io guardo, la dichiaro bella con un giudizio di gusto; e invece il giudizio che corrisponde al paragone di molti giudizii singolari – le rose in generale son belle – non esprime più un semplice giudizio estetico, ma un giudizio logico fondato su di un giudizio estetico. Ora il giudizio – la rosa è piacevole (all’odorato)58 – è bensì un giudizio estetico singolare, ma non è un giudizio di gusto, sibbene un giudizio dei sensi. E si distingue dall’altro per questo, che il giudizio di gusto implica la q u a n t i t à e s t e t i c a dell’universalità, cioè la validità per ognuno, che nel giudizio del piacevole non si può trovare. Solo i giudizii sul buono, sebbene anch’essi determinino il piacere per un oggetto, hanno universalità logica e non soltanto estetica; perché essi valgono per l’oggetto, come conoscenza di esso, e perciò universalmente. Quando si giudicano gli oggetti semplicemente secondo concetti, ogni rappresentazione della bellezza va perduta. Così non si può dare alcuna regola, secondo la quale ognuno sarebbe obbligato a riconoscer bella qualche cosa. Se si tratta di giudicar [216] bello un abito, una casa, un fiore, non ci lasceremo imporre il giudizio da ragioni o principii. Si vuol sottoporre l’oggetto ai proprii occhi, appunto come se il piacere dovesse dipendere dalla sensazione; e nondimeno, quando poi si dichiara bello l’oggetto, si crede di avere per sé una voce universale, e si esige il consenso di ognuno; mentre ogni sensazione individuale dovrebbe decidere solo pel contemplatore e pel suo sentimento di piacere. Ora qui è da notare che nel giudizio di gusto non vien postulato altro che tale v o c e u n i v e r s a l e , riguardo al piacere senza mediazione di concetti, e quindi la p o s s i b i l i t à di un giudizio estetico, che possa essere nello stesso tempo considerato valevole per ognuno. Il giudizio di gusto, per se stesso, non p o s t u l a il consenso di tutti (perché ciò può farlo solo un giudizio logico, che fornisce ragioni); esso e s i g e soltanto il consenso da ognuno, come un caso della regola, rispetto al quale esso attende la conferma non da concetti, ma dalla adesione altrui. La voce universale è così soltanto una idea (dove sia il suo fondamento, non è da cercare per ora). Può esser dubbio se chi crede di sentenziare in fatto di gusto giudichi effettivamente secondo quest’idea; ma che egli vi si riferisca, e che il suo debba essere perciò un giudizio di gusto, lo proclama egli stesso usando l’espressione «bellezza». Ma per se stesso egli può assicurarsene con la semplice coscienza di prescindere da tutto quello che nel suo giudizio appartiene al piacevole e al

buono; il piacere che ancora gli resta è quello da cui soltanto egli si promette il consenso di ognuno; e sotto queste condizioni, sarebbe giustificata la sua pretesa, se però egli non mancasse assai spesso di osservarle, pronunziando giudizii di gusto sbagliati.

§ 9. Esame della questione, se nel giudizio di gusto il sentimento di piacere preceda il giudizio sull’oggetto, o viceversa. La soluzione di questo quesito è la chiave della critica del gusto, e perciò degna di ogni attenzione. Se ci fosse prima il piacere per l’oggetto dato, e al giudizio di gusto spettasse soltanto il compito di attribuire alla rappresentazione [217] dell’oggetto la comunicabilità universale di quel piacere, si avrebbe un procedimento intimamente contradittorio. Perché allora quel piacere non sarebbe che il semplice piacevole della sensazione, e, quindi, per sua natura, potrebbe avere soltanto una validità particolare, perché dipenderebbe immediatamente dalla rappresentazione, con la quale l’oggetto è d a t o . È quindi la possibilità di comunicare universalmente lo stato d’animo, prodottosi rispetto alla rappresentazione data, che deve stare a fondamento del giudizio di gusto, come sua condizione soggettiva, e avere come conseguenza il piacere per l’oggetto. Ma nulla può essere comunicato universalmente se non la conoscenza e la rappresentazione in quanto è conoscenza. Perché la rappresentazione solo allora è puramente oggettiva, e ha perciò un punto universale di riferimento, col quale la facoltà rappresentativa di tutti è obbligata ad accordarsi. Ora se deve essere pensato come puramente soggettivo il fondamento del giudizio su questa comunicabilità universale della rappresentazione, cioè senza un concetto dell’oggetto, essa non può essere altro che lo stato d’animo che risulta dal rapporto delle facoltà rappresentative tra loro, in quanto queste riferiscono una rappresentazione data alla c o n o s c e n z a i n g e n e r a l e . Le facoltà conoscitive, messe in giuoco da questa rappresentazione, son qui in un giuoco libero, perché nessun concetto determinato le costringe a una particolare regola di conoscenza. Sicché lo stato d’animo in questa rappresentazione deve essere quello che è costituito dal sentimento del libero

gioco delle facoltà rappresentative in una rappresentazione data, rispetto ad una conoscenza in generale. Ora, ad una rappresentazione con cui è dato un oggetto, affinché ne nasca in generale una conoscenza, appartengono l’i m m a g i n a z i o n e , per l’unione del molteplice dell’intuizione e, l’i n t e l l e t t o , per l’unità del concetto che unisce le rappresentazioni. Questo stato di l i b e r o g i u o c o delle facoltà conoscitive in una rappresentazione con cui è dato un oggetto, deve poter essere universalmente comunicato; perché la conoscenza, come determinazione dell’oggetto, con cui date rappresentazioni (in qualunque soggetto) debbono accordarsi, è l’unica specie di rappresentazione che valga per ognuno. La comunicabilità soggettiva universale del modo di rappresentazione propria del giudizio di gusto, poiché deve sussistere senza presupporre un concetto determinato, non può essere altro che [218] lo stato d’animo del libero giuoco dell’immaginazione e dell’intelletto (in quanto essi si accordano tra loro come deve avvenire per una c o n o s c e n z a i n g e n e r a l e ); perché noi sappiamo che questo rapporto soggettivo appropriato alla conoscenza in generale deve valere per ognuno, e quindi essere universalmente comunicabile, come è ogni conoscenza determinata, che però riposa sempre su quel rapporto in quanto condizione soggettiva. Ora questo giudizio puramente soggettivo (estetico) dell’oggetto, o della rappresentazione con cui esso è dato, precede il piacere per l’oggetto, ed è il fondamento di questo piacere per l’armonia delle facoltà di conoscere; ma su quell’universalità delle condizioni soggettive nel giudizio degli oggetti si fonda soltanto questa validità soggettiva universale del piacere, che noi leghiamo alla rappresentazione dell’oggetto, che chiamiamo bello. Che il poter comunicare il proprio stato d’animo anche solo riguardo alle facoltà di conoscere, porti con sé un piacere, si potrebbe dimostrare facilmente (in modo empirico o psicologico) con la naturale tendenza dell’uomo alla socievolezza. Ma ciò non è sufficiente pel nostro scopo. Il piacere che noi sentiamo, lo esigiamo come necessario da ognuno nel giudizio di gusto, quando diciamo bella qualche cosa, proprio come se esso fosse da considerarsi come una proprietà dell’oggetto, determinata in questo secondo concetto; poiché la bellezza, senza il riferimento al sentimento del soggetto, per sé non è nulla. Ma la soluzione di questa questione dobbiamo rinviarla fino alla risposta a quest’altra: se e come siano possibili giudizii estetici a priori.

Ora occupiamoci ancora della questione subordinata: in che modo, nel giudizio di gusto, noi siamo coscienti di uno scambievole accordo soggettivo delle facoltà di conoscere, se esteticamente, mediante il semplice senso interno e la sensazione, o intellettualmente, mediante la coscienza della nostra attività intenzionale, con la quale le poniamo in giuoco. Se la rappresentazione data, che provoca il giudizio di gusto, fosse un concetto che unisse l’intelletto e l’immaginazione nel giudizio dell’oggetto allo scopo di conoscerlo, la coscienza di questo rapporto sarebbe intellettuale (come nello schematismo oggettivo della facoltà del giudizio, di cui tratta la Critica). Ma allora il giudizio non sarebbe dato relativamente al piacere o al [219] dispiacere, e perciò non sarebbe un giudizio di gusto. Il giudizio di gusto determina l’oggetto riguardo al piacere e al predicato della bellezza, indipendentemente da concetti. E quindi quell’unità soggettiva del rapporto si rende conoscibile solo mediante la sensazione. L’animazione di entrambe le facoltà (l’intelletto e l’immaginazione) in vista di un’attività indeterminata59, e purtuttavia concorde grazie allo stimolo della rappresentazione data – in vista cioè di quell’attività che appartiene ad una conoscenza in generale – è la sensazione, la cui comunicabilità universale è postulata dal giudizio di gusto. Un rapporto oggettivo può essere soltanto pensato; ma in quanto esso, secondo le sue condizioni, è soggettivo, può essere anche sentito nel suo effetto sull’animo: e di un rapporto che non abbia a fondamento alcun concetto (come quello delle facoltà rappresentative con una facoltà di conoscere in generale) non vi è altra coscienza che la sensazione dell’effetto che consiste nel facile giuoco delle due facoltà dell’animo (intelletto ed immaginazione), avvivate da un accordo reciproco. Una rappresentazione, che in quanto singola e senza confronti con altre, si accordi nondimeno con le condizioni dell’universalità, – la quale costituisce la funzione dell’intelletto in generale, – dà alle facoltà conoscitive quell’accordo proporzionato che noi esigiamo in ogni conoscenza, e riteniamo valevole, quindi, per ognuno che debba giudicare mediante l’intelletto e il senso collegati tra loro (per ogni uomo). DEFINIZIONE DEL BELLO DESUNTA DAL SECONDO MOMENTO È b e l l o ciò che piace universalmente senza concetto.

TERZO MOMENTO DEI GIUDIZII DI GUSTO, SECONDO LA

RELAZIONE CON LO SCOPO, CHE IN ESSI È PRESA IN CONSIDERAZIONE

§ 10. Della finalità in generale. Se si vuol definire che cosa sia uno scopo secondo le sue determinazioni trascendentali (senza presupporre niente di empirico, [220] come sarebbe il sentimento di piacere), esso è l’oggetto di un concetto, in quanto questo è considerato come la causa di quello (il fondamento reale della sua possibilità); e la causalità di un c o n c e t t o rispetto al suo o g g e t t o è la finalità (forma finalis). Così, quando non si pensa semplicemente la conoscenza d’un oggetto, ma l’oggetto stesso (la sua forma o la sua esistenza) come un effetto, possibile solo mediante un concetto dell’effetto medesimo, allora si pensa uno scopo. La rappresentazione dell’effetto è allora il principio che ne determina la causa, e la precede. La coscienza della causalità che ha una rappresentazione rispetto allo stato del soggetto per c o n s e r v a r l o in questo stato, può designare qui in generale ciò che si chiama piacere; e invece il dispiacere è quella rappresentazione, che dà allo stato rappresentativo il motivo a determinarsi per la sua contraria (rigettando e disfacendosi dell’altra). La facoltà di desiderare, in quanto può esser determinata ad agire solo mediante concetti, cioè secondo la rappresentazione di uno scopo, sarebbe la volontà. Ma un oggetto, uno stato d’animo o anche un’azione, è detto finalistico anche se la sua possibilità non presuppone necessariamente la rappresentazione di uno scopo, e pel semplice fatto che la sua possibilità non può essere spiegata e concepita da noi, se non ammettendo come principio di essa una causalità secondo fini, cioè una volontà, che l’abbia così ordinata secondo la rappresentazione di una certa regola. La finalità dunque può essere senza scopo, quando non possiamo porre in una volontà la causa di quella forma, e tuttavia non possiamo concepire la spiegazione della sua possibilità se non derivandola da una volontà. Ora, ciò che è oggetto della nostra osservazione non dobbiamo sempre riguardarlo necessariamente mediante la ragione (secondo la sua possibilità). Sicché possiamo almeno osservare una finalità secondo la forma, senza porre a fondamento di essa uno scopo (come materia del nexus finalis), e scorgerla negli oggetti, sebbene non altrimenti

che con la riflessione.

§ 11. Il giudizio di gusto non ha a fondamento se non la f o r m a d e l l a f i n a l i t à di un oggetto (o della sua rappresentazione). [221] Ogni scopo, quando è considerato come fondamento del piacere, implica sempre un interesse, come fondamento della determinazione del giudizio sull’oggetto che suscita il piacere. Sicché non può esservi nessuno scopo soggettivo a fondamento del giudizio di gusto. Il giudizio di gusto però, non può essere nemmeno determinato dalla rappresentazione di uno scopo oggettivo, cioè della possibilità dell’oggetto stesso secondo principii della relazione con un fine, e quindi da un concetto del buono; poiché esso è un giudizio estetico, non un giudizio di conoscenza, e quindi, come tale, non concerne alcun c o n c e t t o della qualità o della possibilità interna od esterna dell’oggetto, derivante da questa o quella causa, ma soltanto il rapporto delle facoltà conoscitive tra loro, in quanto sono determinate da una rappresentazione. Ora questo rapporto, quando si determina un oggetto come bello, è legato col sentimento di un piacere, che nel tempo stesso è dichiarato universalmente valido dal giudizio di gusto; per conseguenza, il fondamento della determinazione del giudizio non può essere una sensazione piacevole che accompagna la rappresentazione, o la rappresentazione della perfezione dell’oggetto e il concetto del buono. Non altro dunque che la finalità soggettiva nella rappresentazione di un oggetto, senza nessun fine (né oggettivo, né soggettivo), e quindi la semplice forma della finalità nella rappresentazione con cui un oggetto ci è d a t o , può, in quanto ne siamo coscienti, costituire il piacere che giudichiamo, senza concetto, come universalmente comunicabile, e per conseguenza la causa determinante del giudizio di gusto.

§ 12. Il giudizio di gusto riposa su fondamenti «a priori».

Stabilire a priori il legame del sentimento di piacere o dispiacere, come effetto, con una qualunque rappresentazione (sensazione o concetto), in quanto causa, è assolutamente impossibile; si tratterebbe d’un rapporto di causalità, il quale (tra gli oggetti dell’esperienza) non può esser mai riconosciuto se [222] non a posteriori, e mediante la esperienza stessa. Nella critica della ragion pratica abbiamo, è vero, derivato effettivamente a priori da concetti morali universali il sentimento della stima (come una particolare e propria modificazione di quel sentimento, la quale non può in verità avere riscontro né nel piacere né nel dispiacere che riceviamo dagli oggetti empirici). Ma lì noi potevamo anche superare i limiti dell’esperienza, ed invocare una causalità fondata su una qualità soprasensibile del soggetto, cioè la causalità della libertà. Anche lì, del resto, non facevamo dipendere propriamente questo s e n t i m e n t o dall’idea della moralità in quanto causa, e derivavamo da questa soltanto la determinazione della volontà. Ma lo stato d’animo di una volontà in qualsiasi modo determinata è già in se stesso un sentimento di piacere e identico con questo; non ne segue come effetto: la qual cosa si dovrebbe ammettere solo quando il concetto della moralità, in quanto è un bene, precedesse la determinazione della volontà mediante la legge; perché allora il piacere, che sarebbe legato col concetto, invano si deriverebbe da questo come da una semplice conoscenza. Lo stesso si può dire del piacere nel giudizio estetico: solo che qui esso è puramente contemplativo e senza alcun interesse per l’oggetto, mentre nel giudizio morale è pratico. La coscienza della finalità puramente formale nel giuoco delle facoltà conoscitive del soggetto, rispetto a una rappresentazione con cui un oggetto è dato, è il piacere stesso, perché essa implica un fondamento della determinazione dell’attività del soggetto, diretto a vivificare le sue facoltà conoscitive, e quindi una causalità interna (che è finale) rispetto alla conoscenza in generale, senza però essere limitata ad una determinata conoscenza; e perciò ancora una semplice forma della finalità soggettiva di una rappresentazione in un giudizio estetico. Questo piacere non è in nessun modo pratico, né come quello del piacevole che ha fondamento patologico, né come quello che ha a fondamento intellettuale la rappresentazione del bene. Esso ha però una causalità in se stesso, che consiste nel c o n s e r v a r e , senza uno scopo ulteriore, lo stato della rappresentazione stessa e l’attività delle facoltà conoscitive. N o i i n d u g i a m o nella contemplazione del bello, perché essa si rinforza e si

riproduce da sé: e questo indugio è analogo (ma non identico) a quello che si ha, quando qualche attrattiva nella rappresentazione dell’oggetto eccita ripetutamente l’attenzione, mentre l’animo resta passivo.

§ 13. Il puro giudizio di gusto è indipendente da attrattive ed emozioni. [223] Ogni interesse corrompe il giudizio di gusto e gli toglie la sua imparzialità, in ispecie quando (al contrario dell’interesse della ragione) esso non pone la finalità avanti al sentimento di piacere, ma fonda quella su questo; ciò che sempre avviene nel giudizio estetico su alcuna cosa, quando questa diletta o digrada. Perciò i giudizii così modificati non possono avere alcuna pretesa alla validità universale del piacere, o possono averla tanto meno quanto maggiore è il numero delle sensazioni di questa specie, che si trovano tra le cause determinanti del gusto. Il gusto resta sempre barbarico, quando abbia bisogno di unire al piacere le a t t r a t t i v e e le e m o z i o n i , o di queste faccia anche il criterio del suo consenso. Tuttavia, le attrattive non solo sono spesso attribuite alla bellezza (che dovrebbe riguardare propriamente solo la forma), come un contributo al piacere estetico di validità universale, ma son date esse stesse come bellezze, e la materia del piacere viene scambiata con la forma: un fraintendimento che, come parecchi altri, ha pure qualche fondamento di verità, e si può eliminare mediante una esatta definizione di questi concetti. Un giudizio di gusto, su cui non hanno influsso l’attrattiva e l’emozione (sebbene l’una e l’altra possano congiungersi col piacere del bello), e che ha quindi come c a u s a determinante soltanto la finalità della forma, è un p u r o giudizio di gusto.

§ 14. Illustrazione con esempii. I giudizii estetici, proprio come quelli teoretici (logici), possono distinguersi in empirici e puri. I primi sono quelli che esprimono ciò che è piacevole o spiacevole, i secondi affermano la bellezza d’un oggetto o della sua rappresentazione; quelli sono giudizii dei sensi (giudizii estetici materiali), questi soltanto (in quanto formali) sono veri giudizii di gusto.

[224] Un giudizio di gusto, dunque, è puro, solo quando nessun piacere semplicemente empirico è mescolato alla sua causa determinante. Il che però avviene sempre, quando l’attrattiva o la emozione hanno una parte nel giudizio, col quale una cosa dev’essere dichiarata bella. Qui di nuovo si affacciano parecchie obiezioni, le quali in sostanza vogliono far passare l’attrattiva non soltanto come necessario ingrediente della bellezza, ma come per se stessa sufficiente ad esser chiamata bella. Un semplice colore, per esempio il verde di un prato, un semplice suono (a differenza del rumore e del frastuono), come quello di un violino, in generale son dichiarati belli per se stessi; sebbene entrambi mostrino di aver a fondamento la semplice materia della rappresentazione, cioè unicamente la sensazione, e perciò meritino di esser chiamati soltanto piacevoli. Ma nello stesso tempo si noterà che le sensazioni del colore, come quelle del suono, non possono essere giustamente ritenute belle, se non in quanto sono p u r e ; ed è questa una determinazione che già riguarda la forma, ed è anche l’unica in queste rappresentazioni che si possa con certezza universalmente comunicare; perché la qualità delle sensazioni non si può ammettere come concordante in tutti i soggetti, e la superiorità, riguardo al piacevole, di un colore sull’altro, o del suono di uno strumento musicale su quello d’un altro, difficilmente si può ammettere che sia giudicata da ognuno allo stesso modo. Si ammetta con E u l e r o che i colori siano un seguito di vibrazioni isocrone (pulsus) dell’etere, come i suoni son vibrazioni isocrone dell’aria messa in movimento, e, ciò che importa, che l’animo possa percepire non soltanto, mediante il senso, l’effetto di ciò sull’attività dell’organo, ma anche, con la riflessione (di che non dubito affatto), il giuoco regolare delle impressioni (e quindi la forma nell’unione di diverse rappresentazioni). Colore e suono, allora, anziché semplici sensazioni, sarebbero già una determinazione formale dell’unità di un molteplice, e perciò potrebbero essere considerati per se stessi come bellezze. Ma, quando si parla di purezza di una sensazione semplice, s’intende che la sua uniformità non è turbata ed interrotta da alcuna sensazione estranea, e che essa appartiene soltanto alla forma: perché si può astrarre dalla qualità della sensazione (non guardare se essa rappresenti un suono o un colore, e quale suono o colore). È perciò che tutti i colori semplici, in quanto son [225] puri, son ritenuti belli; i misti non hanno questa proprietà, appunto perché, non essendo semplici, non si ha alcun criterio per giudicare se essi sono o no

da riguardarsi come puri. È un errore comune però, e molto nocivo alla purezza, integrità e solidità del gusto, il credere che la bellezza, la quale consiste nella forma, possa essere aumentata dall’attrattiva; sebbene si possano aggiungere a t t r a t t i v e alla b e l l e z z a , per interessare l’animo anche mediante la rappresentazione dell’oggetto, indipendentemente dal puro piacere, e per favorire il gusto e la sua coltura, raccomandandogli la bellezza, specialmente quando esso è ancora rozzo ed incolto. Ma le attrattive effettivamente turbano il giudizio di gusto, se attirano su di sé l’attenzione, come se fossero esse i motivi del giudizio sulla bellezza. Perché esse sono tanto lungi dal contribuire alla bellezza che, piuttosto, possono essere tollerate come estranee solamente quando il gusto sia ancora debole ed incolto in quanto non guastano la bella forma. Nella pittura, nella scultura, e in tutte le arti figurative, l’architettura, il giardinaggio, in quanto sono arti belle, l’essenziale è il d i s e g n o , in cui ogni affermazione del gusto non riposa su ciò che diletta nella sensazione, ma su ciò che piace semplicemente per la sua forma. I colori, che avvivano il disegno, appartengono all’attrattiva; possono bensì ravvivare l’oggetto per la sensazione, ma non farlo degno dell’intuizione, e bello; sono, invece, quasi sempre molto limitati da ciò che esige la bella forma, ed anche dove si può fare una parte all’attrattiva, è sempre la forma che li nobilita. Ogni forma degli oggetti dei sensi (dei sensi esterni e, mediatamente, anche dei sensi interni) è o figura o giuoco; nel secondo caso, o giuoco delle figure (nello spazio, la mimica e la danza), o semplice giuoco delle sensazioni (nel tempo). L’attrattiva dei colori o dei suoni piacevoli di uno strumento può contribuire all’effetto; ma il disegno nel primo caso, e la composizione nel secondo, costituiscono l’oggetto proprio del puro giudizio di gusto; e se la purezza dei colori e dei suoni, o anche la loro varietà e il loro contrasto, sembrano contribuire alla bellezza, ciò non vuol tanto dire che essi, poiché sono piacevoli per se stessi, possano portare un contributo omogeneo al piacere della forma, ma solo che la rendono più esattamente, determinatamente e [226] perfettamente intuibile, ed inoltre vivificano con la loro attrattiva la rappresentazione, risvegliando e conservando l’attenzione sull’oggetto. Anche quelli che si chiamano f r e g i (parerga), vale a dire quelle cose che non appartengono intimamente, come parte costitutiva, alla

rappresentazione totale dell’oggetto, ma soltanto come accessorii esteriori, aumentando il piacere del gusto, non compiono tale ufficio se non per via della loro forma: così le cornici dei quadri, i panneggiamenti delle statue, i peristilii degli edifizii. Ma, se il fregio non consiste esso stesso nella bella forma, ed è adoperato, come le cornici dorate, soltanto per raccomandare il quadro all’ammirazione mediante l’attrattiva, allora esso si chiama o r n a m e n t o , e nuoce alla pura bellezza. L’e m o z i o n e , o quella sensazione in cui il piacere non è prodotto che da un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione della forza vitale, non appartiene punto alla bellezza. Ma il sublime (con cui è legato il sentimento dell’emozione) richiede una misura del giudizio diversa da quella che è di fondamento al gusto; e così un puro giudizio di gusto non ha come causa determinante né l’attrattiva né l’emozione, in una parola nessuna sensazione in quanto materia del giudizio estetico.

§ 15. Il giudizio di gusto è del tutto indipendente dal concetto della perfezione. La finalità o g g e t t i v a può essere riconosciuta solamente per mezzo del rapporto del molteplice con uno scopo determinato, cioè per mezzo di un concetto. Da questo soltanto già risulta chiaro che il bello, il cui giudizio ha a fondamento una finalità puramente formale, cioè una finalità senza scopo, è del tutto indipendente dalla rappresentazione del bene, che presuppone una finalità oggettiva, vale a dire la relazione dell’oggetto con uno scopo determinato. La finalità oggettiva o è esterna, u t i l i t à , o interna, p e r f e z i o n e dell’oggetto. Che il piacere suscitato da un oggetto, che chiamiamo bello, non possa riposare sulla rappresentazione della sua utilità, è stato sufficientemente dimostrato nei due [227] paragrafi precedenti; perché allora esso non sarebbe una soddisfazione suscitata immediatamente dall’oggetto, mentre questa è la condizione essenziale del giudizio sulla bellezza. Ma una finalità oggettiva interna, cioè la perfezione, si avvicina di più al predicato della bellezza; e perciò anche da rinomati filosofi è stata identificata con la bellezza stessa, nel caso però che la perfezione medesima sia pensata confusamente. È della massima importanza, in una critica del gusto, decidere se anche la bellezza

possa effettivamente risolversi nel concetto della perfezione. Per giudicare della finalità oggettiva abbiamo bisogno sempre del concetto di uno scopo e, – se tale finalità non dev’essere esterna (utilità), ma interna, – del concetto di uno scopo interno, che contenga il principio della possibilità interna dell’oggetto. Ora, poiché in generale è uno scopo quello il cui c o n c e t t o può essere riguardato come il principio della possibilità dell’oggetto stesso, per rappresentarsi una finalità oggettiva in una cosa, deve precedere il concetto di questa, di c i ò c h e l a c o s a d e v e e s s e r e ; e l’accordo del molteplice di essa con questo concetto (che dà la regola dell’unione del molteplice) è la p e r f e z i o n e q u a l i t a t i v a di una cosa. Da questa è del tutto diversa la perfezione q u a n t i t a t i v a come sarebbe la completezza di una cosa qualunque nella sua specie, e che è un semplice concetto di grandezza (totalità), in cui c i ò c h e l a c o s a d e v e e s s e r e è pensato come determinato anteriormente, e si cerca soltanto se in essa è t u t t o quello che vi si deve trovare. Ciò che è formale nella rappresentazione di una cosa, cioè l’accordo del molteplice in un’unità (che non è determinato quale debba essere), non fa conoscere, per se stesso, alcuna finalità oggettiva, perché fatta astrazione da questa unità c o m e s c o p o (da ciò che la cosa deve essere), non resta altro che la finalità soggettiva delle rappresentazioni nell’animo di colui che intuisce; la quale mostra bensì una certa finalità dello stato rappresentativo nel soggetto e un certo gradimento nell’accogliere con l’immaginazione una forma data, ma non dà punto la perfezione di un oggetto, che in tal caso non è pensato col concetto di uno scopo. Così per esempio, se io incontro in una foresta un prato intorno a cui sono in circolo degli alberi, e non mi rappresento qualche scopo che esso potrebbe avere, di servire, poniamo, alla danza campestre, mediante la semplice sua forma non [228] mi è dato il minimo concetto di perfezione. Ma rappresentarsi una finalità formale o g g e t t i v a senza scopo, cioè la semplice forma di una p e r f e z i o n e (senza alcuna materia, e senza un c o n c e t t o di ciò con cui deve avvenire l’accordo, se anche si trattasse della semplice idea d’una regolarità in generale), è una vera contradizione. Ora il giudizio di gusto è un giudizio estetico, cioè tale che riposa su principii soggettivi, e di cui causa determinante non può essere un concetto, e quindi nemmeno quello di uno scopo determinato. Sicché, mediante la bellezza, in quanto finalità soggettiva formale, non si pensa affatto una perfezione dell’oggetto, come finalità, che è data per formale, ma non

pertanto è oggettiva: è vano credere che i concetti del bello e del buono differiscano solo per la forma logica, e che il primo sia un concetto confuso, il secondo un concetto chiaro della perfezione, pur essendo identici nel contenuto e nell’origine: perché allora non vi sarebbe tra essi alcuna differenza s p e c i f i c a , e un giudizio di gusto sarebbe un giudizio di conoscenza come quello con cui una cosa è dichiarata buona; sarebbe qui come quando l’uomo comune dice che la frode è ingiusta, e fonda il suo giudizio sopra principii razionali confusi, mentre il filosofo fonda lo stesso giudizio su principii chiari, ma in fondo si appoggiano entrambi agli stessi principii razionali. Io però ho già fatto notare che un giudizio estetico è unico nella sua specie, e non dà assolutamente alcuna conoscenza (nemmeno confusa) dell’oggetto; la conoscenza è data solo da un giudizio logico; il giudizio estetico invece riferisce unicamente al soggetto la rappresentazione con cui è dato un oggetto, e non ne dà a conoscere alcuna proprietà, rivelando solo la forma finale nella determinazione delle facoltà rappresentative, che son messe in azione. Il giudizio si chiama estetico appunto perché la sua causa determinante non è un concetto, ma il sentimento (del senso interno) di quell’accordo nel giuoco delle facoltà dell’animo, in quanto può essere soltanto sentito. Invece, se si volessero chiamare estetici i concetti confusi, e il giudizio oggettivo cui essi stanno a fondamento, si avrebbe un intelletto che giudicherebbe sensibilmente, un senso che si rappresenterebbe i suoi oggetti mediante concetti: un assurdo in entrambi i casi. La facoltà dei concetti, confusi o chiari che siano, è l’intelletto; e sebbene nel giudizio di gusto, in quanto giudizio [229] estetico, entri (come in tutti i giudizii) anche l’intelletto, esso vi entra però non come facoltà della conoscenza di un oggetto, ma come facoltà della determinazione del giudizio e della sua rappresentazione (senza concetto), secondo il rapporto di questa al soggetto e al suo sentimento interno, e precisamente in quanto questo giudizio è possibile secondo una regola universale.

§ 16. Il giudizio di gusto, col quale un oggetto è dichiarato bello sotto la condizione di un determinato concetto, non è puro. Vi son due specie di bellezza: la bellezza libera (pulchritudo vaga), e la

bellezza semplicemente aderente (pulchritudo adhaerens). La prima non presuppone alcun concetto di ciò che l’oggetto deve essere; la seconda presuppone questo concetto, e la perfezione dell’oggetto alla stregua di esso. La prima si dice bellezza (per sé stante) di questa o quella cosa; l’altra, essendo aderente ad un concetto (bellezza condizionata), è attribuita ad oggetti i quali stanno sotto il concetto di uno scopo particolare. I fiori sono bellezze naturali libere. Difficilmente si sa, senza essere botanico, che cosa debba essere un fiore, e il botanico stesso, che vede nel fiore l’organo riproduttore della pianta, quando dà del fiore un giudizio di gusto, non ha riguardo a questo scopo della natura. Sicché a questo giudizio non è messo a fondamento alcuna perfezione, di nessuna specie, alcuna finalità interna, cui si rapporti l’unità del molteplice. Molti uccelli (il pappagallo, il colibrì, l’uccello di paradiso), una quantità di conchiglie, sono bellezze per se stessi, che non convengono ad un oggetto determinato secondo concetti in vista del suo scopo; piacciono liberamente e per sé. Così i disegni à la grecque, i fogliami delle cornici e delle tappezzerie per se stessi non significano nulla, non rappresentano nulla, nessun oggetto sotto un concetto determinato, e sono bellezze libere. Si possono considerare come della stessa specie quelle che in musica si chiamano fantasie (senza tema), ed anche tutta la musica senza testo. Nel giudizio d’una bellezza libera (secondo la semplice forma) il giudizio di gusto è puro. Non è presupposto alcun concetto di scopo, cui debba rispondere il molteplice dell’oggetto dato, [230] e quindi ciò che l’oggetto deve rappresentare: con che sarebbe limitata la libertà dell’immaginazione, la quale in certo modo giuoca nella contemplazione della figura. Ma la bellezza di un essere umano (e nella stessa specie, quella di un uomo, di una donna, d’un bambino), la bellezza di un cavallo, di un edifizio (come una chiesa, un palazzo, un arsenale, una villa), presuppone un concetto di scopo, che determina ciò che la cosa deve essere, e quindi un concetto della sua perfezione; ed è perciò una bellezza aderente. Ora, allo stesso modo che l’unione del piacevole (della sensazione) con la bellezza, che riguarda propriamente solo la forma, impediva la purezza del giudizio di gusto, la purezza stessa è alterata dall’unione del buono (cioè di ciò per cui il molteplice è buono rispetto all’oggetto, secondo il suo fine) con la bellezza. Si potrebbe adornare un edifizio con molte cose piacevoli immediatamente all’intuizione, se esso non dovesse essere una chiesa; si

potrebbe abbellire una figura umana con ogni sorta di disegni e tratti di forme spigliate e regolari, come fanno i neozelandesi col loro tatuaggio, se non si trattasse di un uomo; e un essere umano potrebbe avere lineamenti molto più fini e nel volto un contorno più grazioso e delicato, soltanto se non dovesse rappresentare un uomo, o, peggio, un guerriero. Ora il piacere che si prova per il molteplice in una cosa, in relazione con lo scopo interno che determina la possibilità della cosa stessa, è un piacere fondato sopra un concetto; ma il piacere della bellezza è tale che non presuppone alcun concetto, ed è legato invece immediatamente con la rappresentazione con cui l’oggetto è dato (non con cui è pensato). Se riguardo all’ultimo, il giudizio di gusto si fa dipendere dallo scopo, che è nel primo come giudizio di ragione, e vien così delimitato, esso cessa di essere un libero e puro giudizio di gusto. Il gusto, veramente, da questa unione del piacere estetico col piacere intellettuale, guadagna questo, che vien fissato e se non diventa universale, gli possono però essere prescritte regole relativamente a certi oggetti che son determinati secondo fini. Queste però non sono regole del gusto, ma soltanto dell’unione del gusto con la ragione, cioè del bello col buono, in virtù delle quali il primo diventa adoperabile come strumento della volontà rispetto al secondo, allo scopo di subordinare quella disposizione [231] d’animo che si conserva da sé ed ha una validità soggettiva universale, a quel carattere che può essere mantenuto solo mediante un laborioso proposito, ma che ha una validità universale oggettiva. In verità, né la perfezione acquista dalla bellezza, né questa da quella; ma poiché quando compariamo la rappresentazione con cui è dato un oggetto con l’oggetto (quale deve essere), mediante un concetto, non possiamo evitare che contemporaneamente ad essa si unisca la sensazione che ne riceviamo, – quando i due stati dell’animo si accordino, quella che se ne avvantaggia è la facoltà rappresentativa nel suo complesso. Un giudizio di gusto sopra un oggetto avente uno scopo interno determinato sarebbe puro, o quando il giudicante non avesse alcun concetto di questo scopo, o quando nel giudizio ne facesse astrazione. Ma allora, anche pronunziando un giudizio di gusto esatto, in quanto giudica l’oggetto come bellezza libera, egli sarebbe biasimato ed accusato di avere un gusto falso da colui che considera la bellezza dell’oggetto come qualità aderente (che guarda allo scopo dell’oggetto); mentre pure ognuno dei due dal suo punto di vista giudicherebbe rettamente: l’uno, secondo ciò che ha sotto i

sensi, l’altro, secondo quello che ha nel pensiero. Con questa distinzione si possono comporre molte discordie tra quelli che giudicano di gusto sulla bellezza, mostrando loro che l’uno parla della bellezza libera, l’altro della bellezza aderente, il primo dà un puro giudizio di gusto, il secondo un giudizio di gusto applicato.

§ 17. Dell’ideale della bellezza. Non si può dare alcuna regola oggettiva del gusto, che determini per mezzo di concetti che cosa sia bello. Perché ogni giudizio derivante da questa fonte è estetico; in altri termini, la sua causa determinante è il sentimento del soggetto, non un concetto dell’oggetto. Il cercare un principio del gusto, che sia il criterio universale del bello mediante concetti determinati, è una fatica vana, perché ciò che si cerca è impossibile e in se stesso contradittorio. La comunicabilità universale della sensazione (di piacere o dispiacere), ed una comunicabilità tale che sussiste senza concetto; l’accordo, per quanto è possibile, di tutti i tempi [232] e di tutti i popoli riguardo a questo sentimento nella rappresentazione di certi oggetti: è questo il criterio empirico, per quanto debole, e appena sufficiente alla congettura, col quale si possa derivare un gusto così autenticato per via di esempii, da quel fondamento, profondamente nascosto e comune a tutti gli uomini, dell’accordo nel giudizio delle forme sotto cui son dati loro gli oggetti. È perciò che si considerano alcuni prodotti del gusto come e s e m p l a r i ; il che non vuol dire che il gusto possa acquistarsi con l’imitazione. Perché il gusto deve essere una facoltà originale: chi imita un modello mostra abilità, in quanto riesce, ma dà prova di gusto solo in quanto può giudicare il modello stesso60. E da ciò si vede che il modello supremo, il prototipo del gusto, è una semplice idea che ognuno deve produrre in se stesso, e secondo la quale deve giudicare tutto ciò che è oggetto del gusto, che è esempio del giudizio di gusto, ed anche il gusto di ciascuno. I d e a significa propriamente un concetto della ragione, e i d e a l e la rappresentazione di un essere singolo in quanto è adeguata ad un’idea. Perciò quel prototipo del gusto, che riposa certamente sull’idea indefinita di un massimo fornita dalla ragione, e che non può essere rappresentato mediante concetti, ma soltanto in una esibizione singola, sarebbe chiamato meglio l’ideale del bello; un ideale che, se non lo possediamo, ci sforziamo di produrlo in noi. Ma sarà semplicemente un

ideale dell’immaginazione, appunto perché non riposa sopra concetti, ma sulla esibizione, e la facoltà della esibizione è l’immaginazione. – Come arriviamo a questo ideale della bellezza? A priori o empiricamente? E ancora: quale specie di bellezza è capace di un ideale? In primo luogo, si deve ben considerare che la bellezza per la quale si deve cercare un ideale non può essere una bellezza v a g a , ma una bellezza f i s s a t a mediante un concetto di finalità oggettiva, e per conseguenza non può appartenere all’oggetto di un giudizio di gusto interamente puro, ma all’oggetto di un [233] giudizio di gusto in parte intellettuale. In altri termini, quella specie di principii del giudizio, in cui deve sussistere un ideale, deve avere a fondamento un’idea della ragione secondo concetti determinati, che determini a priori lo scopo su cui riposa la possibilità interna dell’oggetto. Non si può concepire un ideale d’un bel fiore, d’un bello ammobigliamento, d’una bella veduta. Ma è anche impossibile rappresentarsi l’ideale di certe bellezze aderenti a fini determinati, per esempio l’ideale d’una bella abitazione, di un bell’albero, di un bel giardino, etc.; probabilmente perché i fini qui non sono abbastanza determinati e fissati dal loro concetto, e quindi la finalità è presso a poco libera come nella bellezza v a g a . Solo ciò che ha in se stesso lo scopo della sua esistenza, l ’ u o m o , il quale può determinare da sé i suoi fini mediante la ragione, o, quando debba prenderli dalla percezione esterna, può accordarli con scopi essenziali ed universali, e giudicare anche esteticamente tale accordo; l’u o m o dunque, tra tutti gli oggetti del mondo, è il solo capace dell’ideale della b e l l e z z a , così come l’umanità nella sua persona, in quanto intelligenza, è essa sola capace dell’ideale della p e r f e z i o n e . Qui bisogna distinguere due cose: in primo luogo, l’idea estetica normale, che è un’intuizione singola (dell’immaginazione), la quale rappresenta la regola del suo giudizio come una cosa appartenente ad una data specie animale; in secondo luogo, l’idea razionale, che pone gli scopi dell’umanità, in quanto non possono essere rappresentati sensibilmente, come principio del giudizio della sua figura, mediante la quale gli scopi stessi si manifestano come effetti nel mondo fenomenico. L’idea normale deve prendere dall’esperienza i suoi elementi per comporre la figura di un animale di una data specie; ma quella massima finalità nella costruzione di una figura, che potrebbe essere norma universale del giudizio estetico su ogni individuo di questa specie, il tipo, su cui quasi con intenzione si fondò la tecnica della

natura, e cui solo è adeguata tutta la specie nel suo complesso ma nessun individuo singolo, questo tipo sta soltanto nell’idea del giudicante, la quale, con le sue proporzioni, in quanto idea estetica, può essere rappresentata del tutto in concreto in un modello. Per rendere chiaro in qualche modo come ciò avvenga (poiché chi può strappare interamente alla natura il suo segreto?), vogliamo tentare una spiegazione psicologica. V’è da notare che non soltanto, in un modo che non possiamo [234] punto concepire, l’immaginazione può richiamare all’occasione i segni dei concetti anche dopo lungo tempo, ma può anche riprodurre l’immagine e la figura di un oggetto tra un infinito numero di oggetti di specie diverse, o anche della stessa specie; inoltre, quando il nostro animo istituisce paragoni, essa, secondo ogni verosimiglianza, e sebbene la coscienza non ne sia sufficientemente avvertita, può lasciar quasi cadere un’immagine sull’altra, e dalla congruenza di quelle della stessa specie trarre una media, che serve a tutte di comune misura. Qualcuno ha visto mille persone adulte. Se ora egli vuol giudicare per via di comparazione della grandezza media dell’uomo, la sua immaginazione (come io credo) farà coincidere un gran numero delle figure (forse tutte quelle mille); e, se mi è permesso di adoperare qui l’analogia con la rappresentazione ottica, è nello spazio dove il più gran numero di esse si riunisce, e dentro il contorno dove lo spazio è illuminato dai più vivi colori, che egli riconoscerà la g r a n d e z z a m e d i a , che è lontana egualmente dai limiti estremi delle stature più grandi e più piccole tanto in altezza che in larghezza. Ed è questa la statura di un uomo bello. – Si potrebbe arrivare meccanicamente allo stesso risultato, misurando le mille figure, addizionando le loro altezze e le loro larghezze (e i loro spessori), e dividendo le somme per mille. Ma l’immaginazione fa appunto questo mediante un effetto dinamico, che risulta dalle impressioni di tutte le immagini sull’organo del senso interno. – Intanto se, allo stesso modo, di quest’uomo medio si ricerca la testa media, e di questa il naso medio, la figura che risulta starà a fondamento dell’idea normale dell’uomo bello, nel paese dove è stata fatta la comparazione; perciò, sotto queste condizioni empiriche, il negro deve necessariamente avere un’idea normale della bellezza della figura umana diversa da quella che ha il bianco, e il cinese l’avrà diversa dall’europeo. Lo stesso sarebbe del modello di un bel cavallo o di un bel cane (d’una certa razza). – Questa idea normale non è derivata da proporzioni raccolte dalla esperienza come regole determinate; ma è essa che

rende anzitutto possibili le regole del giudizio. È, per l’intera specie, l’immagine fluttuante tra tutte le intuizioni particolari e in varii modi diverse, degli individui, e che la natura pose come prototipo nei prodotti della specie medesima, [235] senza, a quel che pare, raggiungerla pienamente in nessun individuo. Essa non è il prototipo perfetto della bellezza, in quella specie, ma solamente quella forma che costituisce la condizione imprescindibile di ogni bellezza, e quindi non altro che la esattezza nella rappresentazione della specie. È, come si chiamava il famoso Doriforo di Policleto, il c a n o n e (e così sarebbe adoperabile nella sua specie la Va c c a d i M i r o n e). Appunto per queste ragioni essa non può contenere niente di specificamente caratteristico; altrimenti, non sarebbe più l’i d e a n o r m a l e di quella specie. La sua rappresentazione piace anche senza bellezza, solo perché non contradice a nessuna delle determinazioni, sotto cui una cosa di quella specie può essere bella. La rappresentazione è semplicemente corretta61. Dall’i d e a n o r m a l e del bello si deve però ancora distinguere l’ideale del medesimo, che si può aspettare unicamente nella f i g u r a u m a n a , per le ragioni già dette. Ora, in questa, l’ideale si trova nell’espressione della m o r a l i t à , senza la quale l’oggetto non piacerebbe universalmente, e quindi positivamente (non soltanto negativamente in una rappresentazione corretta). L’espressione visibile delle idee morali, che dominano nell’interno dell’uomo, può bensì esser ricavata solo dall’esperienza; ma a render quasi visibile nelle manifestazioni corporee (in quanto effetti dell’interno) il legame con tutto ciò che la nostra ragione congiunge col bene morale nell’idea della suprema finalità, la bontà d’animo, la purezza, la forza, la calma, e via dicendo, è necessario che le pure idee della ragione e un grande potere d’immaginazione si trovino insieme in chi vuol solo giudicare, e ancor più in chi vuol darne la rappresentazione. La giustezza di un [236] simile ideale della bellezza si vede da ciò, che esso non permette ad alcun’attrattiva sensibile di mischiarsi al piacere del suo oggetto, e nondimeno suscita un grande interesse; il che poi dimostra che il giudizio secondo tale misura non può essere mai un puro giudizio estetico, e che il giudizio secondo un ideale della bellezza non può essere un semplice giudizio di gusto. DEFINIZIONE DEL BELLO DESUNTA DA QUESTO TERZO MOMENTO La b e l l e z z a è la forma della f i n a l i t à di un oggetto, in quanto questa vi è percepita s e n z a l a r a p p r e s e n t a z i o n e d ’ u n o s c o p o62.

QUARTO MOMENTO DEL GIUDIZIO DI GUSTO, SECONDO LA MODALITÀ DEL PIACERE CHE DANNO I SUOI OGGETTI

§ 18. Che cosa è la modalità d’un giudizio di gusto. Di ogni rappresentazione posso dire che è almeno p o s s i b i l e che essa (in quanto conoscenza) sia congiunta con un piacere. Ciò che chiamo p i a c e v o l e , dico che mi produce r e a l m e n t e piacere. Ma del b e l l o si pensa che abbia una relazione necessaria col piacere. Questa necessità però è di una specie particolare; non è una necessità teoretica oggettiva, per la quale [237] possa esser riconosciuto a priori che ognuno s e n t i r à lo stesso piacere dall’oggetto, che io ho chiamato bello; non è nemmeno una necessità pratica, per cui, mediante concetti di un puro volere razionale, che serve di regola ad un essere libero, il piacere sia la necessaria conseguenza di una legge oggettiva, e non significhi altro se non che bisogni operare assolutamente in un certo modo (senz’altro scopo). Ma, in quanto necessità che è pensata in un giudizio estetico, essa può esser chiamata soltanto e s e m p l a r e , ed è la necessità dell’accordo di t u t t i in un giudizio considerato come esempio d’una regola universale, che però non si può addurre. Siccome un giudizio estetico non è un giudizio oggettivo conoscitivo, tale necessità non può esser derivata da concetti determinati e quindi non è apodittica. Ancor meno essa può esser inferita dalla universalità dell’esperienza (di un accordo completo dei giudizii sulla bellezza d’un certo oggetto). Perché non solo l’esperienza difficilmente ne potrebbe fornire a sufficienza i documenti; ma sui giudizii empirici non si può fondare alcun concetto della loro necessità.

§ 19. La necessità soggettiva, che attribuiamo al giudizio di gusto, è condizionata. Il giudizio di gusto esige il consenso di tutti; e chi dichiara bella una cosa pretende che ognuno dia l’approvazione all’oggetto in questione, e d e b b a dichiararlo bello allo stesso modo. Il d o v e r e nel giudizio estetico è dunque espresso per tutti i dati, che sono richiesti dal giudizio; ma solo

condizionatamente. Si pretende al consenso di ognuno, perché si ha, per tale esigenza, un principio, che è comune a tutti; e su questo consenso si potrebbe anche sempre contare, se però si avesse la certezza che il caso singolo sia stato esattamente sussunto a quel principio come regola dell’approvazione.

§ 20. La condizione della necessità, che presenta un giudizio di gusto, è l’idea di un senso comune. Se i giudizii di gusto (come i giudizii di conoscenza) avessero un principio oggettivo determinato, colui che giudica pretenderebbe [238] ad una necessità incondizionata del suo giudizio. Se essi invece fossero senza alcun principio, come quelli del semplice gusto del senso, nessuno penserebbe mai ad una loro necessità. Sicché essi debbono avere un principio soggettivo, che solo mediante il sentimento e non mediante concetti, ma universalmente, determini ciò che piace e ciò che dispiace. Un tale principio però non potrebbe esser riguardato che come un senso comune, che è essenzialmente diverso dall’intelligenza comune, la quale talvolta si chiama anche senso comune (sensus communis); perché quest’ultima giudica non secondo il sentimento, ma sempre secondo concetti, sebbene ordinariamente questi concetti siano principii oscuramente rappresentati. Soltanto dunque nell’ipotesi che ci sia un senso comune (col quale non intendiamo nessun senso esterno, ma solo l’effetto del libero giuoco delle nostre facoltà conoscitive), soltanto nell’ipotesi, dico, di un tal senso comune, può esser pronunziato il giudizio di gusto.

§ 21. Se si possa presupporre con ragione un senso comune. Le conoscenze e i giudizii, con la convinzione che li accompagna, debbono poter essere comunicati universalmente, altrimenti non si accorderebbero per nulla con l’oggetto; sarebbero tutti un giuoco puramente soggettivo delle facoltà rappresentative, proprio come vorrebbe lo scetticismo. Ma se le conoscenze debbono esser comunicabili, si deve poter comunicare universalmente anche quello stato d’animo che consiste nella disposizione delle facoltà conoscitive rispetto ad una conoscenza in generale,

e quella proporzione che conviene ad una rappresentazione (con cui è dato un oggetto), affinché essa diventi una conoscenza; altrimenti, senza questa proporzione, come condizione soggettiva del conoscere, la conoscenza, come effetto, non potrebbe nascere. Ciò avviene effettivamente sempre quando un oggetto dato, per mezzo dei sensi, stimola l’immaginazione alla composizione del molteplice, e l’immaginazione a sua volta eccita l’intelletto all’unificazione in concetti del molteplice stesso. Ma questa disposizione delle facoltà conoscitive ha una diversa proporzione, secondo la diversità degli oggetti dati. Tuttavia ve ne deve essere una nella quale questo rapporto interno al ravvivamento (dell’una mediante l’altra) sia il più favorevole per entrambe le facoltà dell’animo, relativamente alla conoscenza [239] (di oggetti dati) in generale; e questa disposizione non può essere determinata altrimenti che dal sentimento (non da concetti). Ora la disposizione stessa, dovendo poter essere universalmente comunicata, e con essa anche il sentimento che ne abbiamo (in una data rappresentazione), e poiché la comunicabilità universale di un sentimento presuppone un senso comune, quest’ultimo potrà essere ammesso con ragione, senza appoggiarsi perciò ad osservazioni psicologiche, ma come la condizione necessaria dell’universale comunicabilità della nostra conoscenza, che dev’essere presupposta in ogni logica e in ogni principio della conoscenza che non sia scettico.

§ 22. La necessità dell’accordo universale, che è pensata in un giudizio di gusto, è una necessità soggettiva, che è rappresentata come oggettiva con la presupposizione di un senso comune. In tutti i giudizii coi quali dichiariamo bella una cosa, noi non permettiamo a nessuno di essere di altro parere, senza fondare tuttavia il nostro giudizio sopra concetti, ma soltanto sul nostro sentimento, di cui così facciamo un principio, non però in quanto sentimento individuale, ma in quanto sentimento comune. Ora questo senso comune, che serve a tale uso, non può esser fondato sull’esperienza; perché esso vuol giustificare giudizii che contengono un dovere; questo senso comune non dice che ognuno si a c c o r d e r à , ma che si d o v r à a c c o r d a r e , col nostro giudizio. Quindi il

senso comune, del cui giudizio io adduco qui il mio giudizio di gusto come un esempio, e gli attribuisco perciò una validità e s e m p l a r e , è una pura norma ideale, presupponendo la quale si potrebbe a buon dritto far una regola universale di un giudizio che si accordi con essa, e di quel piacere per l’oggetto che ha trovato espressione nel giudizio medesimo, poiché il principio, preso bensì solo soggettivamente, ma come soggettivamente universale (un’idea necessaria ad ognuno), potrebbe esigere, per ciò che riguarda l’accordo di diversi giudicanti, l’approvazione universale, come un principio oggettivo, a condizione soltanto che si avesse la certezza di aver fatta esattamente la sussunzione. Questa norma indeterminata di un senso comune è effettivamente presupposta da noi: ciò è dimostrato dal diritto che ci [240] attribuiamo di pronunziare giudizii di gusto. Se vi sia infatti un tal senso comune, come principio costitutivo della possibilità dell’esperienza, o se esso ci sia fornito solo come principio regolativo da un principio più alto della ragione, per produrre in noi un senso comune in vista di scopi superiori; se quindi il gusto sia una facoltà originaria e naturale, o solo l’idea di una facoltà artificiale ancora da acquisire, in modo che un giudizio di gusto, con la sua pretesa all’universale approvazione, in effetti non sia altro che un’esigenza della ragione per produrre tale accordo nel modo di sentire, e il dovere, cioè la necessità oggettiva dell’accordo del sentimento di ognuno col nostro, significhi solo la possibilità di essere unanimi, e il giudizio di gusto non rappresenti che un esempio dell’applicazione di questo principio; tutto ciò qui non vogliamo, né possiamo ancora indagare, e per ora, dobbiamo solamente scomporre la facoltà del gusto nei suoi elementi, per unificarli infine nell’idea d’un senso comune. DEFINIZIONE DEL BELLO DESUNTA DAL QUARTO MOMENTO Il b e l l o è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere n e c e s s a r i o .

NOTA GENERALE ALLA PRIMA SEZIONE DELL’ANALITICA Se si considera il risultato delle precedenti analisi, si trova che tutto procede dal concetto del gusto; che questo è una facoltà di giudicare un oggetto in relazione con la l i b e r a r e g o l a r i t à dell’immaginazione. Ora, se nel giudizio di gusto l’immaginazione deve essere considerata nella sua

libertà, essa s’intenderà in primo luogo non come riproduttiva, in quanto è sottomessa alle leggi dell’associazione, ma come produttiva e spontanea (come produttiva di forme arbitrarie di possibili intuizioni); e, sebbene nell’apprensione di un dato oggetto del senso essa sia legata a una forma determinata di questo, e non abbia un libero giuoco (come nella poesia), si comprende bene nondimeno che l’oggetto le possa proprio fornire una forma, [241] che contenga una composizione del molteplice tale che, se fosse lasciata libera, essa potrebbe idearla conformemente alle leggi dell’i n t e l l e t t o in generale. Ma che l’i m m a g i n a z i o n e sia libera e tuttavia p e r s e s t e s s a c o n f o r m e a l e g g i , cioè che abbia una propria autonomia, è una contradizione. L’intelletto solo dà la legge. Quando però l’immaginazione è costretta a procedere secondo una legge determinata, il suo prodotto, per ciò che riguarda la forma, è determinato secondo concetti, i quali prescrivono ciò che esso deve essere; e allora il piacere, come è stato dimostrato, non è il piacere del bello, ma del buono (della perfezione, in ogni caso della semplice perfezione formale), e il giudizio non è un giudizio di gusto. Con la libera regolarità dell’intelletto (che è stata chiamata anche finalità senza scopo) e con il carattere specifico del giudizio di gusto saranno quindi compatibili solo una regolarità senza legge e un accordo soggettivo dell’immaginazione con l’intelletto e non un accordo oggettivo, perché questo implica il riferimento della rappresentazione a un concetto determinato di un oggetto. Ora, dai critici del gusto sono citate comunemente le figure geometriche regolari, un circolo, un quadrato, un cubo, etc., come i più semplici e chiari esempii di bellezza; e nondimeno esse sono dette regolari appunto perché non possiamo rappresentarcele che come semplici esibizioni di un concetto determinato, che prescrive a quella figura la regola (secondo la quale soltanto essa è possibile). Uno dei due, dunque, deve essere erroneo: o il giudizio del critico che a quelle figure attribuisce la bellezza, o il nostro che trova necessario per la bellezza la finalità senza concetto. Nessuno certo giudicherà che sia necessario essere un uomo di gusto per trovare più piacere in una figura circolare che in un’altra a contorno frastagliato, in un quadrilatero equiangolo ed equilatero che in un quadrilatero storto, coi lati diseguali, e come storpiato: perché ciò riguarda solo l’intelletto comune e non il gusto. Dove si vede uno scopo, per esempio, quello di determinare la grandezza di un luogo o di mostrare il rapporto delle

parti tra loro e al tutto in una partizione, son necessarie le figure regolari, ed anche quelle della specie più semplice; e il piacere non deriva immediatamente dalla visione della figura, ma [242] dalla sua utilità rispetto a ogni scopo possibile. Una stanza, le cui pareti facciano angoli diseguali, uno spiazzato di giardino della stessa specie, ogni violazione della simmetria, così nella figura degli animali (per esempio, la privazione di un occhio), come in quella degli edifizii, o delle aiuole di fiori, dispiace, perché contrasta allo scopo di queste cose, non solo praticamente riguardo ad un loro determinato uso, ma anche nel giudizio di ogni scopo possibile; la qual cosa non si verifica pel giudizio di gusto, nel quale, quando sia puro, il piacere e il dispiacere, senza riguardo all’uso o ad un fine, è legato immediatamente alla semplice c o n t e m p l a z i o n e dell’oggetto. La regolarità che conduce al concetto di un oggetto, è bensì la condizione indispensabile (conditio sine qua non) per percepire l’oggetto in un’unica rappresentazione e determinare il molteplice nella sua forma. Questa determinazione è un fine rispetto alla conoscenza; e relativamente a questa è sempre legata col piacere (il quale accompagna l’attuazione di uno scopo qualunque, anche problematico). Ma allora si tratta soltanto dell’approvazione che si dà alla soluzione di un quesito, e non di una libera occupazione, indeterminatamente finalistica, delle facoltà dell’animo, che abbia per oggetto ciò che chiamiamo bello, e in cui l’intelletto sia a servigio dell’immaginazione, non viceversa. In una cosa che sia possibile solo mediante uno scopo, in un edifizio, anche in un animale, la regolarità, che consiste nella simmetria, deve esprimere l’unità dell’intuizione, che accompagna il concetto dello scopo, ed appartiene alla conoscenza. Ma dove dev’essere soltanto intrattenuto un libero giuoco delle facoltà rappresentative (però a condizione che l’intelletto non soffra alcun urto), nei parchi, nelle decorazioni delle stanze, nelle suppellettili di lusso, e simili, la regolarità, che si rivela come costrizione, è, per quant’è possibile, evitata; perciò il gusto inglese dei giardini, il gusto barocco nei mobili, spingono spesso la libertà della fantasia fino ai limiti del grottesco, e in questo prescindere da ogni costrizione della regola si vede appunto il caso in cui il gusto nelle fantasie dell’immaginazione può mostrare la sua maggiore perfezione. Tutto ciò che è rigidamente regolare (che si avvicina alla regola matematica) ha in sé qualcosa che ripugna al gusto: perché non permette

d’intrattenersi a lungo nella sua contemplazione, [243] e se non ha espressamente per iscopo la conoscenza o un determinato fine pratico, produce noia. Invece ciò con cui l’immaginazione può giocare con naturalezza e opportunamente, ci è sempre nuovo e la sua visione non diventa fastidiosa. M a r s d e n 63, nella sua descrizione dell’isola di Sumatra, osserva che ivi le bellezze libere della natura circondano dapertutto lo spettatore, e perciò non hanno più per lui se non poca attrattiva; mentre a lui stesso riusciva molto attraente, incontrandola nel mezzo di una foresta, una di quelle piantagioni di pepe, in cui si allineano in viali paralleli le pertiche cui le piante sono avviticchiate: e da ciò conclude che la bellezza selvaggia, irregolare all’apparenza, piace solo come divertimento a chi sia sazio di bellezze regolari. Ma egli avrebbe dovuto fare l’esperimento d’intrattenersi per una giornata nella sua piantagione di pepe, per accorgersi che, quando l’intelletto, mediante la regolarità, si pone nella disposizione all’ordine di cui ha bisogno, l’oggetto non lo trattiene più oltre, e impone invece un pesante sforzo all’immaginazione; mentre la natura che quivi è prodiga di varietà fino al lusso, che non è sottomessa alla costrizione di regole artificiali, avrebbe potuto dare al suo gusto un durevole nutrimento. – Anche il canto degli uccelli, che non sapremmo riportare a regole musicali, pare che mostri più libertà e più ricchezza pel gusto, perfino di un canto umano, eseguito secondo tutte le regole dell’arte musicale; perché di quest’ultimo, quando sia ripetuto spesso e a lungo, si è ben presto annoiati. Ma in tal caso probabilmente noi scambiamo la nostra partecipazione alla gioia di una piccola e cara bestiolina, con la bellezza del suo canto, che, quando è esattamente imitato dall’uomo (come avviene talvolta pel canto dell’usignolo), pare al nostro orecchio interamente privo di gusto. Ancora son da distinguere gli oggetti belli dalle belle vedute di oggetti (i quali spesso, a causa della distanza, non si possono più vedere chiaramente). In esse il gusto pare che si applichi non tanto a ciò che l’immaginazione a b b r a c c i a in quel campo, ma piuttosto a ciò che le dà motivo di f i n z i o n e , alle sue proprie fantasie, da cui l’animo è intrattenuto, continuamente eccitato dalla varietà di cose che cadono sotto la vista; tale è, per esempio, la visione delle mutevoli figure del fuoco di un camino, o di un ruscello mormorante; che non son punto due oggetti [244] belli, ma hanno un’attrattiva per l’immaginazione, perché intrattengono il suo libero giuoco. 54

La definizione del gusto, messa qui a fondamento, è la seguente: esso è la facoltà di

giudicare del bello. Ma che cosa si richieda affinché un oggetto si possa chiamare bello, sarà messo in evidenza dall’analisi dei giudizii del gusto. I momenti, cui ha riguardo questa facoltà del giudizio nella sua riflessione, ho cercato di giudicarli sulla scorta delle funzioni logiche (perché nel giudizio di gusto è pur sempre contenuta qualche relazione con l’intelletto). Ho cominciato dal momento della qualità, perché il giudizio estetico del bello ha riguardo ad esso in primo luogo. 55 «Sachem», titolo di capo, in popolazioni indiane [N.d.T.]. 56 Un giudizio sopra un oggetto del piacere può essere del tutto disinteressato ed insieme molto interessante, vale a dire che esso può non fondarsi sopra alcun interesse, ma produrne uno esso stesso; tali sono i giudizii morali. Ma i giudizii di gusto non fondano per se stessi alcun interesse. Solo nella società diventa interessante l’aver gusto, di che la ragione sarà data in sèguito. 57 L’obbligazione al godimento è un’assurdità manifesta. E tale è anche una pretesa obbligazione a qualunque azione, che abbia per scopo unicamente il piacere, sia anche questo spirituale (o abbellito) quando si voglia, o perfino uno di quei piaceri mistici cosiddetti celesti. 58 Il testo di Kant ha: «im Gebrauche» (nell’uso): «im Geruche» è correzione di B. Erdmann, accettata dal Vorländer [N.d.T.]. 59 Nella 1ª e 2ª edizione: indeterminata (N.d.R.). 60 I modelli del gusto, relativamente alle arti della parola, debbono essere presi da una lingua morta e dotta: da una lingua morta, per non subire i cambiamenti che colpiscono inevitabilmente le lingue viventi, per cui le espressioni nobili una volta diventano triviali, quelle che erano in uso diventano vecchie, e le nuove hanno una breve durata; in una lingua dotta, perché vi sia una grammatica non sottoposta alle variazioni arbitrarie della moda, e che conservi le sue regole immutabili. 61 Si troverà che un volto perfettamente regolare, quale un pittore potrebbe desiderare d’avere per modello, ordinariamente non esprime niente; gli è che esso non ha nulla di caratteristico, e quindi esprime piuttosto l’idea della specie che il carattere proprio d’una persona. Il caratteristico di questa specie, quando sia esagerato, cioè pregiudichi all’idea normale stessa (alla finalità della specie), si chiama c a r i c a t u r a . L’esperienza dimostra pure che tali volti perfettamente regolari d’ordinario annunziano soltanto degli uomini mediocri nell’interno; probabilmente (se è lecito ammettere che la natura esprima esteriormente le proporzioni interne) perché, quando nessuna disposizione dell’animo si eleva al disopra di quella proporzione necessaria perché un uomo sia esente da difetti, non è da aspettarsi nulla di ciò che si chiama g e n i o , nel quale la natura sembra uscire dalle proporzioni ordinarie delle facoltà dell’animo a profitto di una sola. 62 Contro questa definizione si potrebbe obbiettare che vi son cose nelle quali si vede una forma finale, senza riconoscervi uno scopo, – per esempio, questi utensili di pietra che si son trovati spesso nelle tombe antiche, e che hanno un buco che forma una specie di manico –; e che non son dichiarate belle, pure presentando chiaramente nella loro figura una finalità, di cui non si conosce lo scopo. Ma basta scorgere che sono oggetti dell’arte per affermare che la loro figura si riferisce a qualche intenzione, ad uno scopo determinato. È perciò che non vi è piacere immediato nella loro intuizione. Invece un fiore, per esempio un tulipano, è ritenuto bello, perché nella sua percezione si nota una certa finalità, che, per quanto possiamo giudicarne, non si riferisce ad alcuno scopo. 63 Autore di una History of Sumatra, London 18113 [N.d.T.].

Libro secondo Analitica del sublime

§ 23. Passaggio dalla facoltà del giudizio del bello a quella del sublime. Il bello si accorda col sublime in questo, che entrambi piacciono per se stessi. Inoltre, entrambi non presuppongono un giudizio dei sensi né un giudizio determinante dell’intelletto ma un giudizio di riflessione; per conseguenza, in essi il piacere non dipende da una sensazione, come pel piacevole, né da un concetto determinato, come pel buono, ma tuttavia viene riferito a concetti, sebbene indeterminati, per cui il piacere è legato alla pura esibizione o alla facoltà dell’esibizione, in modo che questa facoltà, o, in altri termini, l’immaginazione, è considerata in accordo, in una intuizione data, con la f a c o l t à d e i c o n c e t t i dell’intelletto o della ragione, e a vantaggio di essa. Perciò entrambi i giudizii sono s i n g o l a r i , ma si danno come giudizii universali rispetto ad ogni soggetto, sebbene pretendano solo al sentimento di piacere e non alla conoscenza dell’oggetto. Ma saltano agli occhi anche delle differenze considerevoli. Il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell’i l l i m i t a t e z z a , pensata per di più nella sua totalità; sicché pare che il bello debba esser considerato come l’esibizione d’un concetto indeterminato dell’intelletto, e il sublime come l’esibizione d’un concetto indeterminato della ragione. Nel primo caso il piacere è quindi legato con la rappresentazione della q u a l i t à , nel secondo invece con quella della q u a n t i t à . Tra i due tipi di piacere c’è inoltre una notevole differenza quanto alla specie: mentre il bello implica direttamente un sentimento di agevolazione e intensificazione della vita, e [245] perciò si può conciliare con le attrattive e con il gioco dell’immaginazione, il

sentimento del sublime invece è un piacere che sorge solo indirettamente, e cioè viene prodotto dal senso di un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione, delle forze vitali, e perciò, in quanto emozione, non si presenta affatto come un gioco, ma come qualcosa di serio nell’impiego dell’immaginazione. Quindi il sublime non si può unire ad attrattive; e, poiché l’animo non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva, ma piuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere chiamato un piacere negativo. Ma ecco la più importante ed intima differenza tra il sublime e il bello: se, com’è giusto, prendiamo qui in considerazione prima di tutto soltanto il sublime degli oggetti naturali (quello dell’arte è limitato sempre dalla condizione dell’accordo con la natura), troveremo che la bellezza naturale (per sé stante) include una finalità nella sua forma, per cui l’oggetto sembra come predisposto pel nostro Giudizio, e perciò costituisce essa stessa un oggetto di piacere; mentre ciò che, senza arzigogolarci troppo sopra, nella semplice apprensione, produce in noi il sentimento del sublime, può apparire, riguardo alla forma, contrario alla finalità per il nostro Giudizio, inadeguato alla nostra facoltà d’esibizione e quasi come violento contro l’immaginazione stessa, nondimeno però soltanto per esser giudicato tanto più sublime. Da ciò si vede subito che, ci esprimiamo del tutto impropriamente, quando diciamo sublime un o g g e t t o n a t u r a l e , mentre con tutta proprietà possiamo chiamare belli moltissimi oggetti della natura; perché, come può essere indicato con un’espressione di approvazione ciò che in sé è percepito, come contrario alla finalità? Non possiamo dire se non questo, che cioè l’oggetto è capace dell’esibizione di una sublimità che si può cogliere nel nostro animo; poiché il vero sublime non può essere contenuto in alcuna forma sensibile, ma riguarda solo le idee della ragione, le quali, sebbene nessuna esibizione possa esser loro adeguata, anzi appunto per tale sproporzione che si può esibire sensibilmente, sono svegliate ed evocate nell’animo nostro. Così l’immenso oceano sollevato dalla tempesta non può essere chiamato sublime. La sua vista è terribile; e bisogna che l’animo [246] sia stato già riempito da parecchie idee, se mediante tale intuizione deve esser determinato ad un sentimento, che è esso stesso sublime, in quanto l’animo è sospinto ad abbandonare la sensibilità e ad occuparsi di idee che contengono una finalità superiore.

La bellezza naturale per sé stante ci rivela una tecnica della natura, che ce la rappresenta come un sistema secondo leggi di cui non sappiamo trovare il principio nella nostra facoltà intellettiva; cioè secondo un principio, che è quello di una finalità relativa all’uso del Giudizio applicato ai fenomeni, in modo che questi possano essere considerati come appartenenti non soltanto alla natura nel suo meccanismo senza scopo, ma anche alla natura come analogo dell’arte. Sicché essa non estende veramente la nostra conoscenza degli oggetti naturali, ma estende il nostro concetto della natura, dal concetto di semplice meccanismo al concetto della natura come arte; il che invita a profonde ricerche sulla possibilità di tale forma. Ma ciò che d’ordinario chiamiamo sublime nella natura non è punto qualcosa che conduca a determinati principii oggettivi e a forme della natura ad essi adeguate, perché anzi la natura suscita sopratutto le idee del sublime nel suo caos, nel suo maggiore e più selvaggio disordine e nella devastazione, quando però presenti insieme grandezza e potenza. E da ciò vediamo che il concetto del sublime naturale è molto meno importante e ricco di conseguenze di quello del bello naturale; e che, in generale, esso non rivela qualche cosa di finalistico nella natura stessa, ma soltanto nel possibile u s o delle intuizioni di essa, affine di suscitare in noi il sentimento di una finalità del tutto indipendente dalla natura. Pel bello naturale dobbiamo cercare un principio fuori di noi, pel sublime naturale invece soltanto in noi stessi e nel modo di pensare che rende sublime la rappresentazione della natura; ed è questa un’osservazione preliminare molto importante, che distingue nettamente le idee del sublime da quelle di una finalità della n a t u r a e fa della teoria del sublime una semplice appendice al giudizio estetico della finalità naturale; perché col sublime non vien rappresentata nella natura alcuna forma particolare, ma si sviluppa solo un uso finale, che l’immaginazione fa della sua rappresentazione.

§ 24. Della divisione di un’analisi del sentimento del sublime. [247] Per ciò che riguarda la divisione dei momenti del giudizio estetico degli oggetti relativamente al sentimento del sublime, l’analitica potrà procedere secondo lo stesso principio che ha guidato l’analisi del giudizio di

gusto. Poiché, in quanto giudizio della facoltà estetica riflettente di giudicare, il piacere del sublime, proprio come quello del bello, deve esser rappresentato come universalmente valido secondo la q u a n t i t à , senza i n t e r e s s e secondo la q u a l i t à , soggettivamente finale secondo la r e l a z i o n e , e necessario in questa finalità secondo la m o d a l i t à . Sicché qui non ci allontaniamo dal metodo del libro primo; ma bisogna tener conto di questo, che cominciavamo dalla qualità là dove il giudizio estetico riguardava la forma dell’oggetto, mentre qui, dove l’assenza di forma può convenire a ciò che diciamo sublime, cominceremo dalla quantità come primo momento del giudizio estetico del sublime; e la ragione di ciò risulta dal paragrafo precedente. All’analisi del sublime è però necessaria una divisione di cui non aveva bisogno quella del bello, cioè la divisione in s u b l i m e m a t e m a t i c o e sublime dinamico. Infatti, poiché il sentimento del sublime implica, come suo carattere, un m o v i m e n t o dell’animo congiunto col giudizio dell’oggetto, mentre invece il gusto del bello presuppone e mantiene l’animo in una contemplazione s t a t i c a ; e poiché quel movimento deve essere giudicato come finale soggettivamente (perché il sublime piace); esso è riferito, mediante l’immaginazione, o alla f a c o l t à d i c o n o s c e r e o alla f a c o l t à d i d e s i d e r a r e . In entrambi i casi la finalità della rappresentazione data è giudicata solo rispetto a questa f a c o l t à (senza scopo o interesse); e allora la prima finalità è attribuita all’oggetto come una disposizione m a t e m a t i c a dell’immaginazione, la seconda come una disposizione d i n a m i c a ; e perciò l’oggetto è rappresentato come sublime in quel duplice modo.

A. DEL SUBLIME MATEMATICO § 25. Definizione del termine «sublime». [248] Noi chiamiamo s u b l i m e ciò che è a s s o l u t a m e n t e g r a n d e . Ma l’essere grande e l’essere una grandezza son due concetti interamente distinti (magnitudo e quantitas). Allo stesso modo d i r e s e m p l i c e m e n t e (simpliciter) che qualcosa è grande, è ben diverso dal dire che questa cosa è assolutamente g r a n d e (absolute, non comparative magnum).

Quest’ultima è c i ò c h e è g r a n d e a l d i l à d i o g n i c o m p a r a z i o n e . – Ma che cosa vuol dire quest’espressione, che qualcosa è grande, piccola, o di media grandezza? Non si tratta di un puro concetto dell’intelletto in ciò che in tal modo viene indicato; ancor meno di una intuizione del senso; né egualmente, d’un concetto della ragione, perché quell’espressione non include alcun principio di conoscenza. Dev’essere, dunque, un concetto della facoltà del giudizio, o derivato da questa, ed avere a fondamento una finalità soggettiva della rappresentazione rispetto al Giudizio. Che qualcosa sia una grandezza (quantum) si vede dalla cosa stessa senza comparazione con altre; quando cioè una molteplicità di elementi omogenei compone un’unità. Ma, per sapere q u a n t o una cosa è grande, è necessaria sempre qualche altra cosa, che sia pure una grandezza, come misura. E poiché per giudicare della grandezza non si deve considerare soltanto la molteplicità (il numero), ma anche la grandezza dell’unità (della misura), e la grandezza di quest’ultima ha sempre bisogno di nuovo di qualcos’altro come misura, cui possa essere paragonata, vediamo che ogni misurazione della grandezza dei fenomeni non può fornire affatto un concetto assoluto di una grandezza, ma sempre soltanto un concetto comparativo. Ora se io dico semplicemente che qualche cosa è grande, pare che io non mi riferisca ad alcun termine di confronto, o almeno ad alcuna misura oggettiva, perché con tale espressione non è determinato quanto è grande l’oggetto. Ma se anche il termine del confronto è puramente soggettivo, il giudizio non pretende meno il consenso universale; i giudizii – l’uomo è bello – e – l’uomo è grande – non si limitano solo al soggetto giudicante, ma esigono, come i giudizii teoretici, l’approvazione di tutti. [249] Ma, poiché con un giudizio col quale qualche cosa è data come semplicemente grande, non si vuol dire soltanto che l’oggetto ha una grandezza, ma che questa gli è attribuita a preferenza su molti altri oggetti della stessa specie, senza che tuttavia sia determinata questa superiorità; in tal giudizio si pone sempre a fondamento una misura, la quale si presuppone che possa essere accettata da ognuno, ma che non è adoperabile per alcun giudizio logico (matematicamente determinato) della grandezza, bensì soltanto pel giudizio estetico della medesima, perché è una misura puramente soggettiva su cui si basa il giudizio che riflette sulla grandezza. Questa misura poi può essere empirica, come la grandezza media degli uomini che conosciamo, degli animali di una certa specie, degli alberi, delle case, dei

monti, etc.; o può essere una misura data a priori, che per difetto del soggetto giudicante è limitata a condizioni soggettive dell’esibizione in concreto; come, nel campo pratico, la grandezza d’una virtù o della giustizia e della libertà pubblica in un paese; o, nel campo teoretico, la grandezza dell’esattezza o dell’inesattezza di una certa osservazione o misura, etc. Qui è degno di nota che, sebbene non abbiamo alcun interesse per l’oggetto, vale a dire ci è indifferente la sua esistenza, la semplice grandezza di esso, anche quando è considerato come informe, ci può dare un piacere, che è comunicabile universalmente, e contiene perciò la coscienza di una finalità soggettiva dell’uso delle nostre facoltà conoscitive; ma non è questo un piacere che deriva dall’oggetto (perché l’oggetto può essere informe), la qual cosa si verifica pel bello, dove il Giudizio riflettente si trova disposto finalisticamente rispetto alla conoscenza in generale; è un piacere, che consiste nell’estensione dell’immaginazione in se stessa. Quando diciamo semplicemente (con la limitazione suddetta) che un oggetto è grande, non diamo un giudizio determinante matematicamente, ma un semplice giudizio di riflessione sulla rappresentazione dell’oggetto, la quale è finale soggettivamente rispetto ad un certo uso delle nostre facoltà conoscitive nella valutazione delle grandezze; e noi allora congiungiamo sempre alla rappresentazione una specie di stima, come una specie di disistima a ciò che diciamo semplicemente piccolo. Del resto, il giudizio delle cose in quanto grandi o piccole si estende a tutto, anche a tutte le qualità degli oggetti; perciò diciamo grande o [250] piccola anche la bellezza; la ragione di ciò deve essere cercata nel fatto che, qualunque sia la cosa che secondo la regola del Giudizio possiamo esibire nell’intuizione (rappresentare esteticamente), è nel tempo stesso un fenomeno, e quindi anche una grandezza. Quando invece chiamiamo qualcosa non solo grande, ma assolutamente grande, sotto ogni riguardo (al di là d’ogni comparazione), vale a dire sublime, si vede subito che non intendiamo di cercare una misura adeguata fuori di essa, ma soltanto in essa medesima. È una grandezza, che è eguale solo a se stessa. E da ciò segue, dunque, che il sublime non è da cercarsi nelle cose della natura, ma solo nelle nostre idee; in quali idee si trovi, dev’esser determinato dalla deduzione. La definizione precedente può anche essere espressa così: s u b l i m e è c i ò a l c u i c o n f r o n t o o g n i a l t r a c o s a è p i c c o l a . E qui si vede

facilmente che non può esser dato niente in natura, per quanto grande sia giudicato da noi, che non possa esser ridotto, considerato sotto un altro rapporto, all’infinitamente piccolo; e viceversa, niente di così piccolo che non si possa ingrandire per la nostra immaginazione, mediante il confronto con misure ancora più piccole, fino a diventare un mondo. I telescopii e i microscopii ci hanno fornito rispettivamente una ricca materia per la prima e la seconda osservazione. Sicché niente che può essere oggetto del senso, può dirsi sublime, quando sia considerato in questo modo. Ma appunto perché nella nostra immaginazione vi è una spinta a proseguire all’infinito, e vi è invece nella nostra ragione una pretesa all’assoluta totalità, come ad una idea reale, proprio quella stessa sproporzione, rispetto a quest’idea, che ha la nostra facoltà di valutare le cose del mondo sensibile, desta in noi il sentimento di una facoltà soprasensibile; e ciò che è assolutamente grande non è l’oggetto del senso, ma l’uso che fa naturalmente la facoltà del giudizio di certi oggetti a vantaggio di quel sentimento, in modo che rispetto ad esso ogni altro uso riesce piccolo. Per conseguenza, è da chiamarsi sublime non l’oggetto, ma la disposizione d’animo, la quale risulta da una certa rappresentazione che occupa il Giudizio riflettente. Alle precedenti formule della definizione del sublime possiamo quindi aggiungere ancora questa: s u b l i m e è c i ò c h e , p e r i l f a t t o d i poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore ad ogni misura dei sensi.

§ 26. Della valutazione delle grandezze delle cose naturali, richiesta dall’idea del sublime. [251] La misura delle grandezze mediante concetti di numeri (o dei loro segni algebrici) è matematica, mentre quella della semplice intuizione (a occhio) è estetica. Ora, è vero, noi possiamo acquistare concetti esatti della g r a n d e z z a delle cose solo mediante numeri la cui misura è l’unità (o almeno mediante approssimazione per progressioni all’infinito); e così ogni misura logica delle grandezze è matematica. Ma, poiché la grandezza della misura deve essere considerata come conosciuta, se essa dovesse essere di nuovo misurata soltanto matematicamente, cioè con numeri la cui unità dovrebbe essere un’altra misura, non avremmo mai una misura prima o

fondamentale, e quindi non potremmo mai avere un concetto determinato d’una grandezza data. Sicché la valutazione della grandezza della misura fondamentale deve consistere semplicemente in ciò, che essa possa essere colta immediatamente in un’intuizione e si possa adoperarla, mediante l’immaginazione, nell’esibizione dei concetti numerici: vale a dire che ogni valutazione della grandezza degli oggetti naturali è in ultima analisi estetica (cioè determinata soggettivamente, non oggettivamente). Intanto, per la valutazione matematica delle grandezze non vi è un massimo (poiché il potere dei numeri va all’infinito); ma per la valutazione estetica vi è sempre un massimo; e di questo io dico che, quando è giudicato come assoluta grandezza, al di là di cui soggettivamente (pel soggetto giudicante) non ve n’è una più grande, implica l’idea del sublime, e produce quell’emozione che non può esser data da alcuna valutazione matematica delle grandezze mediante numeri (a meno che anche la misura estetica non sia vivamente conservata nell’immaginazione); perché quest’ultima valutazione non rappresenta che la grandezza relativa per via del confronto con altre della stessa specie, mentre la valutazione estetica rappresenta la grandezza assolutamente nella misura in cui l’animo può abbracciarla in una intuizione. Per adottare intuitivamente una quantità da potersene servire come misura od unità nella valutazione delle grandezze mediante numeri, all’immaginazione son necessarie due operazioni: l’a p p r e n s i o n e (apprehensio) e la c o m p r e n s i o n e (comprehensio aesthetica). L’apprensione non è una fatica per [252] l’immaginazione, perché in essa può procedere all’infinito; ma la comprensione diventa sempre più difficile a misura che procede l’apprensione, e raggiunge presto il suo massimo, cioè la più grande misura estetica nella valutazione delle grandezze. Perché, quando l’apprensione procede tanto che le prime rappresentazioni parziali dell’intuizione sensibile cominciano ad estinguersi nell’immaginazione, se questa procede ancora nell’apprensione, andrà perdendo da un lato quanto guadagna dall’altro; e la comprensione vien condotta ad un massimo, oltre il quale non si può andare. In tal modo, si può spiegare quello che dice Savary64 nelle sue notizie sull’Egitto: che non bisogna né avvicinarsi troppo né tenersi troppo lontani dalle Piramidi, per provare tutta l’emozione che dà la loro grandezza. Perché nel secondo caso le parti (le pietre sovrapposte) sono rappresentate solo

oscuramente, e la loro rappresentazione non ha alcun effetto sul giudizio estetico del soggetto. Nel primo caso, invece, l’occhio ha bisogno di un certo tempo per compiere l’apprensione dalla base fino all’apice; e frattanto si estinguono in parte le prime rappresentazioni, prima che l’immaginazione abbia ricevute le ultime, e la comprensione non è mai completa. – Allo stesso modo si può spiegare il turbamento o quella specie d’imbarazzo da cui, come si racconta, è colpito lo spettatore nell’entrare la prima volta nella chiesa di S. Pietro a Roma. Vi è qui il sentimento della inadeguatezza della sua immaginazione a formare una esibizione delle idee di un tutto; l’immaginazione raggiunge il suo massimo, e, per la spinta ad estendersi ancora, ricade su se stessa, e in tal modo si produce una piacevole emozione. Io ora non voglio parlare ancora del fondamento di questo piacere, che è legato con una rappresentazione, dalla quale invece si dovrebbe aspettare che ci facesse scorgere la sua inadeguatezza, e quindi la sua mancanza di finalità soggettiva rispetto al Giudizio nella valutazione delle grandezze; noto soltanto che, quando il giudizio estetico deve essere dato p u r a m e n t e (senza esser m e s c o l a t o c o n a l c u n g i u d i z i o t e l e o l o g i c o , come giudizio della ragione), e quindi come un esempio pienamente appropriato alla critica del Giudizio e s t e t i c o , il sublime non si può cercare nei prodotti dell’arte (come, per esempio, edificii, colonne, etc.), dove uno scopo umano determina così la forma come la grandezza, né nelle cose della natura i l c u i c o n c e t t o i n c l u d e g i à u n o s c o p o determinato [253] (come, per esempio, negli animali di cui è nota la destinazione naturale), ma soltanto nella natura grezza (e in questa soltanto a condizione che non presenti alcuna attrattiva e non susciti la paura d’un pericolo reale), in quanto è semplicemente grande. Perché in questa specie di rappresentazione la natura non contiene nulla di mostruoso (né di magnifico o terribile); la grandezza che vi è percepita può aumentare quanto si vuole, purché possa essere compresa in un tutto dall’immaginazione. Un oggetto è m o s t r u o s o , quando con la sua grandezza annulla lo scopo, che è nel suo stesso concetto. Si chiama c o l o s s a l e , invece, la semplice esibizione di un concetto che è presso a poco troppo grande per ogni esibizione (si limita al mostruoso relativo); perché lo scopo dell’esibizione d’un concetto è reso più difficile dal fatto che l’intuizione dell’oggetto è presso a poco troppo grande per la nostra facoltà di apprensione. – Ma un puro giudizio del sublime non deve avere a fondamento alcun fine dell’oggetto, quando vuol essere estetico e non

mescolato con un giudizio dell’intelletto o della ragione. Poiché tutto ciò che deve piacere senza interesse al Giudizio semplicemente riflettente deve contenere nella sua rappresentazione una finalità soggettiva, e, in quanto tale, valida universalmente; e poiché, nello stesso tempo, qui non v’è a fondamento del giudizio una finalità della f o r m a dell’oggetto (come nel bello); si domanda: qual è questa finalità soggettiva? e perché è prescritta come una norma che dà un fondamento al piacere universalmente valido nella semplice valutazione delle grandezze, e proprio in quella valutazione che è spinta fino a mostrarci l’insufficienza della nostra immaginazione rispetto all’esibizione del concetto d’una grandezza? L’immaginazione procede da sé all’infinito nella composizione che è necessaria alla rappresentazione delle grandezze, senza che nulla le faccia impedimento; ma l’intelletto la guida coi concetti dei numeri, cui essa deve fornire lo schema; e in questo procedimento, in quanto proprio della valutazione logica delle grandezze, vi è bene qualche cosa di finale oggettivamente rispetto al concetto di uno scopo (ogni misura è tale), ma niente di finale e di piacevole per la facoltà del giudizio estetico. In questa finalità intenzionale non vi è nemmeno nulla che costringa [254] a spingere la grandezza della misura, e quindi della c o m p r e n s i o n e del molteplice in una intuizione, fino al limite della facoltà dell’immaginazione, fin dove questa può estendere il suo potere di esibizione. Poiché nella valutazione intellettuale delle grandezze (aritmetica) si procede egualmente bene spingendo la comprensione delle unità fino al numero 10 (nel sistema decadico), o soltanto fino al numero 4 (sistema tetradico); ma nella composizione, o nell’apprensione, quando la quantità è data nell’intuizione, non si procede nella produzione delle grandezze se non progressivamente (non comprensivamente), secondo un dato principio di progressione. In questa valutazione matematica della grandezza, l’intelletto è egualmente soddisfatto e contento, quando l’immaginazione sceglie come unità una grandezza che si abbraccia con un colpo d’occhio, per esempio, un piede o una pertica, o quando sceglie un miglio tedesco, o perfino il diametro terrestre, di cui è bensì possibile l’apprensione, ma non la comprensione in una intuizione dell’immaginazione (non mediante la comprehensio aesthetica, sibbene mediante la comprehensio logica in un concetto di numero). In entrambi i casi la valutazione logica della grandezza si estende

senza ostacoli all’infinito. Intanto, l’animo sente in se stesso la voce della ragione, che, per tutte le grandezze date, ed anche per quelle che non potranno mai essere apprese interamente, ma che tuttavia son giudicate come interamente date (nella rappresentazione sensibile), esige la totalità, e quindi la comprensione in u n a intuizione; e richiede l’e s i b i z i o n e per tutti gli elementi di una serie progressivamente crescente di numeri, non escludendo dalla sua esigenza nemmeno l’infinito (lo spazio e il tempo trascorso), rendendoci anzi inevitabile di pensarlo (nel giudizio della ragione comune) come i n t e r a m e n t e d a t o (nella sua totalità). Ma l’infinito è grande assolutamente (non per semplice comparazione). Paragonata con esso, ogni altra grandezza (della stessa specie) è piccola. Ma, ciò che più importa, il poterlo anche solo pensare come un t u t t o dimostra una facoltà dell’animo che trascende ogni misura dei sensi. Perché a ciò sarebbe necessaria una comprensione che fornisse come unità una misura, la quale avesse con l’infinito un rapporto determinato, esprimibile in numeri: il che è impossibile. I l p o t e r e a n c h e s o l o p e n s a r e senza contradizione l’infinito dato, esige nell’animo umano una facoltà, che sia essa stessa soprasensibile. Poiché solo [255] mediante questa facoltà e la sua idea di un noumeno, il quale per se stesso non ammette alcuna intuizione, ma fa da sostrato all’intuizione del mondo in quanto semplice fenomeno, l’infinito del mondo sensibile è compreso i n t e r a m e n t e s o t t o u n c o n c e t t o , nella valutazione puramente intellettuale delle grandezze, sebbene esso, nella valutazione matematica m e d i a n t e concetti numerici, non possa esser mai pensato interamente. Tale facoltà di potersi rappresentare come dato (nel suo sostrato intelligibile) l’infinito dell’intuizione soprasensibile, trascende ogni misura della sensibilità, ed è più grande, senza paragone, della facoltà della valutazione matematica; non certo dal punto di vista teoretico, in quanto aiuti la facoltà di conoscere, ma per la sua capacità ad estendere l’animo, il quale si sente capace di superare i limiti della sensibilità, da un altro punto di vista (dal punto di vista pratico). La natura, dunque, è sublime in quei suoi fenomeni, la cui intuizione include l’idea della sua infinità. La qual cosa non può avvenire se non mediante l’insufficienza anche del più grande sforzo della nostra immaginazione, nella valutazione della grandezza di un oggetto. Ora, nella valutazione matematica delle grandezze, la immaginazione è atta a dare ad

ogni oggetto una misura sufficiente, perché i concetti numerici dell’intelletto possono adattare, per via di progressione, ogni misura ad ogni grandezza data. È dunque nella valutazione e s t e t i c a delle grandezze che sentiamo la tendenza a una comprensione superiore ad ogni capacità dell’immaginazione di comprendere la apprensione progressiva in una totalità dell’intuizione, e avvertiamo insieme l’inadeguatezza di questa facoltà, illimitata nel suo procedere, a cogliere e ad applicare alla valutazione delle grandezze, una misura fondamentale a ciò adatta, e con la minima fatica dell’intelletto. Ora, la vera misura immutabile della natura è la sua assoluta totalità, che, per la natura come fenomeno, è un’infinità di cui sia stata raggiunta la comprensione. Ma, poiché questa misura fondamentale è un concetto in se stesso contradittorio (data l’impossibilità della totalità assoluta di un progresso all’infinito), quella grandezza di un oggetto naturale, cui l’immaginazione applica inutilmente tutto il suo potere di comprensione, deve condurre il concetto della natura ad un sostrato soprasensibile (che sta a fondamento della natura e, nel tempo stesso, della nostra facoltà di pensare), che è grande al di là di ogni misura [256] dei sensi, e perciò ci farà giudicare s u b l i m e non tanto l’oggetto, quanto lo stato d’animo di chi compie la valutazione. Così, allo stesso modo che il Giudizio estetico applicato al bello riferisce il libero giuoco dell’immaginazione all’i n t e l l e t t o , per accordarlo c o i c o n c e t t i di questo in generale (senza determinare quali); il Giudizio stesso, nel giudicare qualcosa sublime, riferisce l’immaginazione a l l a r a g i o n e , per accordarla soggettivamente con le i d e e di questa (indeterminate), vale a dire per produrre uno stato di animo conforme e conciliabile con quello che risulterebbe dall’influsso sull’animo di determinate idee (pratiche). Da ciò si vede ancora che la vera sublimità non dev’essere cercata se non nell’animo di colui che giudica, e non nell’oggetto naturale, il cui giudizio dà luogo a quello stato d’animo. Chi vorrebbe chiamar sublimi masse montuose informi, poste l’una sull’altra in un selvaggio disordine, con le loro piramidi di ghiaccio, oppure il mare cupo e tempestoso, e altre cose di questo genere? Ma l’animo si sente elevato nella propria stima, quando, contemplando queste cose, senza guardare alla loro forma, si abbandona all’immaginazione, e a una ragione, che, sebbene si unisca all’immaginazione senza nessuno scopo determinato, ha per effetto di estenderla; e trova nondimeno che tutta la potenza dell’immaginazione è inadeguata alle idee della ragione.

Esempii di sublime matematico della natura nella semplice intuizione ci sono forniti da tutti i casi, in cui (per abbreviare le serie numeriche) è data come misura all’immaginazione non tanto un maggior concetto numerico, quanto una grande unità. Un albero, che valutiamo secondo l’altezza dell’uomo, costituisce la misura per una montagna; e questa, se la sua altezza è presso a poco un miglio, può servire come unità pel numero che esprime il diametro terrestre, per rendercelo intuibile; il diametro terrestre può servire pel sistema planetario da noi conosciuto, e questo pel sistema della Via lattea; e nessun limite c’è da aspettarsi dall’innumerevole quantità di tali sistemi di Vie lattee, chiamate nebulose, le quali probabilmente costituiscono in se stesse nuovi sistemi. Ora il sublime, nel giudizio estetico di un tutto così immensurabile, non sta tanto nella grandezza del numero, quanto nel fatto che, procedendo, raggiungiamo unità sempre maggiori; in che siamo aiutati dalla divisione sistematica del mondo, [257] la quale ci rappresenta ogni grandezza naturale come piccola da un altro punto di vista, e propriamente ci rappresenta la nostra immaginazione in tutta la sua illimitatezza, e quindi la natura come qualcosa che scompare di fronte alle idee della ragione, quando l’immaginazione debba fornire un’esibizione ad esse adeguata.

§ 27. Della qualità del piacere nel giudizio del sublime. Il sentimento dell’insufficienza del nostro potere a raggiungere un’idea, c h e p e r n o i è l e g g e , è l a s t i m a . Ora, l’idea della comprensione di ogni fenomeno, che può esserci dato, nell’intuizione di tutto, è tale che ci è imposta da una legge della ragione, la quale non riconosce come misura, valida per ognuno ed immutabile, se non il tutto assoluto. Ma la nostra immaginazione, anche nel suo massimo sforzo, mostra i suoi limiti e la sua insufficienza riguardo a quella comprensione, che ad essa si richiede, di un oggetto dato in un tutto dell’intuizione (e quindi riguardo all’esibizione dell’idea della ragione); e mostra, nel tempo stesso, come una legge, la sua destinazione ad adeguarsi a quell’idea. Sicché il sentimento del sublime della natura è un sentimento di stima per la nostra propria destinazione, che, con una specie di sostituzione (scambiando in stima per l’oggetto quella per l’idea dell’umanità nel nostro soggetto), attribuiamo ad un oggetto della natura, il

quale ci rende quasi intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive, anche sul massimo potere della sensibilità. Il sentimento del sublime è dunque un sentimento di dispiacere, che nasce dall’insufficienza dell’immaginazione, nella valutazione estetica delle grandezze, rispetto alla valutazione della ragione; ed è insieme un sentimento di piacere suscitato dall’accordo appunto di questo giudizio sulla insufficienza del massimo potere sensibile, con idee della ragione, in quanto il tendere a queste è per noi una legge. Per noi cioè è una legge (della ragione), ed appartiene alla nostra destinazione, valutare piccolo, in confronto con le idee della ragione, tutto ciò che la natura, come oggetto dei sensi, contiene di grande per noi; e tutto ciò che eccita in noi il sentimento di questa destinazione [258] soprasensibile si accorda con quella legge. Ora, il massimo sforzo dell’immaginazione nell’esibizione dell’unità per la valutazione delle grandezze costituisce una relazione a qualcosa di a s s o l u t a m e n t e g r a n d e ; e per conseguenza anche una relazione alla legge della ragione, che prescrive di assumerlo come misura suprema delle grandezze. Cosicché l’intima percezione dell’insufficienza di ogni misura sensibile rispetto alla valutazione delle grandezze fatta dalla ragione, è in accordo con le leggi di questa; ed è un dispiacere, che suscita in noi il sentimento della nostra destinazione soprasensibile, per cui riesce finale, ed è quindi un piacere, il trovare inadeguata alle idee della ragione ogni misura della sensibilità. L’animo, nella rappresentazione del sublime naturale, si sente c o m m o s s o ; mentre nel giudizio estetico sul bello della natura resta in c a l m a contemplazione. Tale commozione (specialmente al suo principio) può esser paragonata ad uno scotimento, vale a dire ad un alternarsi rapido di ripulse e di attrazioni dell’oggetto stesso. Ciò che trascende l’immaginazione (e a cui essa è spinta nell’apprensione dell’intuizione) è come un abisso, in cui teme di perder se stessa; ma per l’idea razionale del soprasensibile è legittimo, non trascendente, il produrre tale sforzo dell’immaginazione: quindi ciò che per la pura sensibilità era ripugnante, diventa attraente nella stessa misura. Ma il giudizio stesso resta sempre estetico, perché, senza avere a fondamento un concetto determinato dell’oggetto, esso rappresenta semplicemente il giuoco soggettivo delle facoltà dell’animo (immaginazione e ragione), come armonico nel loro stesso contrasto. Perché, come, pel loro accordo, l’immaginazione e l’i n t e l l e t t o nel giudizio del bello, così qui,

pel loro contrasto, l’immaginazione e la r a g i o n e producono una finalità soggettiva delle facoltà dell’animo: il sentimento, cioè, che noi abbiamo una ragione pura autonoma, o una facoltà di valutare la grandezza, la cui superiorità non può esser resa intuibile se non mediante l’insufficienza di quella facoltà, che è essa stessa illimitata nell’esibizione delle grandezze (degli oggetti sensibili). La misurazione di uno spazio (in quanto apprensione) è nel tempo medesimo una descrizione di esso, quindi un movimento oggettivo nell’immaginazione, e un progresso; la comprensione del molteplice nell’unità, non del pensiero, ma dell’intuizione, e quindi la comprensione in un istante di ciò che è stato appreso successivamente, è invece un regresso, che sopprime la [259] condizione del tempo nel processo dell’immaginazione, e rende intuibile la c o e s i s t e n z a . Si tratta dunque (poiché la successione temporale è una condizione del senso interno e di ogni intuizione), d’un movimento soggettivo dell’immaginazione, con cui essa fa violenza al senso interno, e in modo tanto più notevole quanto maggiore è la grandezza che comprende in una intuizione. Sicché lo sforzo per comprendere in una intuizione singola una misura di grandezza, la cui apprensione esige un tempo notevole, è un modo di rappresentazione che, soggettivamente considerato, è in contrasto con la finalità; ma, considerato oggettivamente, in quanto necessario alla valutazione delle grandezze, è finale; e la stessa violenza, che è esercitata nel soggetto dall’immaginazione, è giudicata come finale r i s p e t t o a l l a d e s t i n a z i o n e t o t a l e dell’animo. La q u a l i t à del sentimento del sublime sta in ciò, che esso è un sentimento di dispiacere circa un oggetto, nel Giudizio estetico, ma è rappresentato nel tempo stesso come finale; il che è possibile, perché la nostra propria insufficienza suscita la coscienza di una facoltà illimitata del nostro stesso soggetto, e l’animo non può giudicare esteticamente di questa se non per mezzo di quella. Nella valutazione logica delle grandezze, l’impossibilità di arrivare all’assoluta totalità mediante la misurazione progressiva delle cose del mondo sensibile nel tempo e nello spazio, era riconosciuta come oggettiva, cioè come un’impossibilità di p e n s a r e l’infinito come semplicemente dato, e non come puramente soggettiva, cioè come impossibilità di c o m p r e n d e r l o ; perché là non si è guardato al grado della comprensione

in una intuizione, in quanto misura, ma tutto è stato riportato ad un concetto numerico. Ma, in una valutazione estetica delle grandezze, il concetto di numero dev’essere escluso o modificato; e solo la comprensione dell’immaginazione è adeguata come unità di misura (evitando quindi i concetti d’una legge della produzione successiva dei concetti di grandezza). – Ora, quando una grandezza tocca quasi il limite della nostra facoltà di comprensione in una intuizione, e nondimeno l’immaginazione è spinta da grandezze numeriche (per le quali sappiamo illimitata la nostra facoltà) a cercare la comprensione estetica in una maggiore unità, sentiamo allora il nostro animo come esteticamente costretto da limiti; ma, guardando alla necessaria estensione dell’immaginazione, che cerca di raggiungere ciò che è illimitato [260] nella nostra facoltà della ragione, cioè l’idea del tutto assoluto, noi ci rappresentiamo come finalistico il nostro dispiacere, e quindi anche, rispetto alle idee della ragione e al loro risveglio, l’insufficienza dell’immaginazione. Ma appunto perciò il giudizio estetico stesso è finalistico soggettivamente rispetto alla ragione, in quanto sorgente delle idee, vale a dire rispetto ad una comprensione intellettuale, di fronte a cui ogni comprensione estetica è piccola; ed anche perciò l’oggetto, in quanto sublime, è accolto con un piacere, il quale non è possibile se non mediante un dispiacere.

B. DEL SUBLIME DINAMICO DELLA NATURA § 28. Della natura in quanto potenza. La p o t e n z a è un potere superiore a grandi ostacoli. Questa potenza si chiama i m p e r o , quando è superiore anche alla resistenza di ciò che è pure una potenza. La natura, considerata nel giudizio estetico come una potenza che non ha alcun impero su di noi, è d i n a m i c a m e n t e s u b l i m e . La natura, per essere giudicata dinamicamente sublime, dev’essere rappresentata come suscitante timore (sebbene non sia vera la reciproca, che cioè ogni oggetto che suscita timore debba esser trovato sublime nel giudizio estetico). Perché nel giudizio estetico (senza concetto) la superiorità sugli ostacoli non può essere giudicata se non dalla grandezza della resistenza. Ora, ciò cui noi siamo spinti ad opporci è un male, e, quando sentiamo che il

nostro potere non è adeguato, è un oggetto di timore. Perciò la natura, pel Giudizio estetico, non può essere una potenza, e quindi dinamicamente sublime, se non è considerata come oggetto di timore. Ma si può considerare un oggetto come t e m i b i l e senza avere timore davanti ad esso, quando cioè lo giudichiamo tale pensando semplicemente il caso che gli volessimo far resistenza, e vedendo che allora qualunque resistenza sarebbe vana. Così l’uomo virtuoso teme Iddio, senza aver paura davanti a lui, perché non immagina il terribile caso in cui volesse opporsi a lui [261] e ai suoi ordini. Ma per tutti i casi di questa specie, che non gli sembrano in se stessi impossibili, riconosce che Dio è da temersi. Colui che teme non può giudicare del sublime della natura, come non può giudicare del bello chi è dominato dall’inclinazione e dall’appetito. Egli fugge la vista dell’oggetto, che gli incute timore; ed è impossibile trovar piacere in uno spavento, che è seriamente sentito. Perciò quel piacere, che sentiamo al cessar di qualcosa che ci opprime, è una g i o i a . Ma è una gioia per la liberazione da un pericolo, accompagnata dal proposito di non esporvisi mai più; ben lungi dal cercare l’occasione di ripensare alla sensazione provata, non possiamo neppure ricordarla senza fastidio. Le rocce che sporgono audaci in alto e quasi minacciose, le nuvole di temporale che si ammassano in cielo tra lampi e tuoni, i vulcani che scatenano tutta la loro potenza distruttrice, e gli uragani che si lascian dietro la devastazione, l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta, la cataratta d’un gran fiume, etc., riducono ad una piccolezza insignificante il nostro potere di resistenza, paragonato con la loro potenza. Ma il loro aspetto diventa tanto più attraente per quanto più è spaventevole, se ci troviamo al sicuro; e queste cose le chiamiamo volentieri sublimi, perché esse elevano le forze dell’anima al disopra della mediocrità ordinaria, e ci fanno scoprire in noi stessi una facoltà di resistere interamente diversa, la quale ci dà il coraggio di misurarci con l’apparente onnipotenza della natura. Di fatti, allo stesso modo che nell’immensità della natura e nell’incapacità nostra a trovare una misura adeguata per la valutazione estetica della grandezza del suo d o m i n i o , scoprimmo la nostra propria limitazione, ma ci fu rivelata nel tempo stesso, nella facoltà della ragione, un’altra misura non sensibile, la quale comprende quell’infinità stessa come una unità, e di fronte a cui tutto è piccolo nella natura, – trovammo per conseguenza nel nostro animo una superiorità sulla natura considerata anche nella sua immensità;

così l’impossibilità di resistere alla potenza naturale ci fa conoscere la nostra debolezza in quanto esseri della natura, cioè la nostra debolezza fisica, ma ci scopre contemporaneamente una facoltà di giudicarci indipendenti dalla natura, ed una superiorità che abbiamo su di essa, da cui deriva una facoltà di conservarci ben diversa da quella che può essere attaccata e messa in pericolo dalla natura esterna; perché [262] in virtù di essa l’umanità della nostra persona resta intatta, quand’anche dovessimo soggiacere all’impero della natura. In tal modo la natura, nel nostro giudizio estetico, non è giudicata sublime in quanto è spaventevole, ma perché essa incita quella forza che è in noi (e che non è natura) a considerare come insignificanti quelle cose che ci preoccupano (i beni, la salute e la vita), e perciò a non riconoscere nella potenza naturale (a cui siam sempre sottoposti relativamente a tali cose) un duro impero su di noi e sulla nostra personalità, al quale dovremmo piegarci, quando si trattasse dei nostri principii supremi, della loro affermazione o del loro abbandono. La natura qui non è dunque chiamata sublime se non perché eleva l’immaginazione a rappresentare quei casi in cui l’animo può sentire la sublimità della propria destinazione, anche al disopra della natura. Questa stima di se stesso non perde nulla pel fatto che dobbiamo sentirci al sicuro per poter trovare quel piacere entusiasmante; non perché non vi è serietà nel pericolo, non vi potrà essere serietà (come potrebbe sembrare) nella sublimità della nostra facoltà spirituale. Perché qui il piacere riguarda soltanto la scoperta della destinazione della nostra facoltà, in quanto la disposizione a questa si trova nella nostra natura, mentre lo sviluppo e l’esercizio di essa sono a noi affidati e sono compito nostro. Ed è la verità, per quanto l’uomo, allorché spinge la sua riflessione fin là, possa aver coscienza della sua presente e reale debolezza. In verità, questo principio sembra tratto da troppo lungi e troppo cavilloso, e quindi al di là della portata di un giudizio estetico; ma l’osservazione dell’uomo dimostra il contrario, che esso cioè può stare a fondamento del più comune giudizio, sebbene di esso non si sia sempre coscienti. Difatti, che cosa è, anche pel selvaggio, l’oggetto della massima ammirazione? Un uomo, che non teme niente, che non si spaventa di nulla, che non cede davanti al pericolo, ma che nel tempo stesso scende energicamente all’azione con piena riflessione. Anche nello stato di civiltà più raffinato resta questa stima singolare pel guerriero; e solo si richiede che egli mostri nello stesso tempo tutte le virtù della pace, la dolcezza, la pietà, e

perfino una cura conveniente della persona, perché appunto in ciò si riconosce l’invincibilità del suo animo di fronte al pericolo. Perciò si potrà disputare finché si vuole per decidere a chi spetti la preferenza [263] nella nostra stima, se all’uomo di stato o al guerriero; il giudizio estetico è per quest’ultimo. Perfino la guerra, quando è condotta con ordine e col sacro rispetto dei diritti civili, ha in sé qualcosa di sublime, e rende il carattere del popolo, che la fa in tal modo, tanto più sublime quanto più numerosi sono stati i pericoli a cui si è esposto e più coraggiosamente vi si è affermato; mentre invece una lunga pace di solito dà il predominio al semplice spirito mercantile, e quindi al basso interesse personale, alla viltà, alla mollezza, abbassando il carattere e la mentalità del popolo. Con questa spiegazione del concetto del sublime, che lo attribuisce alla potenza, pare contrastare il fatto che noi siamo soliti rappresentarci Dio come in collera nelle tempeste, negli uragani, nei terremoti e via discorrendo; ma nel tempo stesso come rivelante la sua sublimità, in modo tale che sarebbe stoltezza e follia l’immaginare una superiorità del nostro animo sugli effetti, e, a quanto pare, anche sui fini di una tale potenza. Pare che non sia il sentimento di sublimità della nostra propria natura, ma piuttosto la sottomissione, la costernazione, il sentimento della propria assoluta debolezza, lo stato d’animo che conviene di fronte alle manifestazioni di un essere cosiffatto, e che ordinariamente va congiunto con l’idea che di esso ci facciamo in presenza di simili avvenimenti naturali. Pare che nella religione in generale l’unica maniera adeguata di comportarsi alla presenza della divinità sia il prosternarsi, l’adorare a testa bassa, con atteggiamento compunto e voce angosciata; ed è perciò che questa maniera è stata adottata dalla maggior parte dei popoli, ed è ancora osservata. Ma questa disposizione d’animo è ben lungi dall’essere in se stessa e necessariamente legata con l’idea della s u b l i m i t à d’una religione e dell’oggetto di questa. L’uomo, che teme realmente, perché ne trova la ragione in se stesso, avendo coscienza di peccare con le sue cattive intenzioni contro una potenza, la cui volontà è irresistibile ma nel tempo stesso giusta, non si trova nella disposizione d’animo favorevole per ammirare la grandezza divina, per cui è necessaria una disposizione alla contemplazione calma e un giudizio interamente libero. Solo quando è cosciente delle sue rette intenzioni che sa grate a Dio, quegli effetti della potenza divina possono suscitare nell’uomo l’idea della sublimità di questo essere, perché allora egli trova in se stesso una sublimità di sentire

conforme alla volontà di lui, e si eleva al disopra della paura davanti a questi avvenimenti [264] naturali, che non considera più come sfoghi della sua collera. Anche l’umiltà, in quanto giudizio rigoroso di quegli errori proprii, che altrimenti, quando si ha coscienza delle buone intenzioni, potrebbero essere facilmente scusati con la fragilità della natura umana, è una sublime disposizione dell’anima, che consiste nel sottoporsi volontariamente al dolore del rimorso, per estirparne a poco a poco la causa. Solo così la religione si distingue intimamente dalla superstizione: questa non induce nell’animo il rispetto pel sublime, ma la paura e l’angoscia davanti all’essere onnipotente, alla cui volontà l’uomo spaventato si vede sottomesso, senza però rispettarlo; da che non possono nascere, invece di una religione della condotta buona, se non pratiche propiziatrici ed adulatorie. La sublimità non risiede dunque in nessuna cosa della natura, ma soltanto nell’animo nostro, quando possiamo accorgerci di esser superiori alla natura che è in noi, e perciò anche alla natura che è fuori di noi (in quanto ha influsso su di noi). Tutto ciò che suscita in noi questo sentimento, e quindi la p o t e n z a della natura che provoca le nostre forze, si chiama (sebbene impropriamente) sublime; e solo supponendo questa idea in noi, e relativamente ad essa, siamo capaci di giungere all’idea della sublimità di quell’essere, il quale produce in noi un’intima stima, non solamente con la potenza che mostra nella natura, ma ancor più con la facoltà, che è in noi di giudicarla senza timore, e di concepire la nostra destinazione come sublime rispetto ad essa.

§ 29. Della modalità del giudizio sul sublime della natura. Vi è un’infinità di cose della bella natura, per le quali esigiamo l’accordo del nostro giudizio con quello di ciascun altro, e, senza molto ingannarci, possiamo anche aspettarlo; ma dal nostro giudizio sul sublime della natura non ci possiamo ripromettere così facilmente il consenso altrui. Pare difatti che, per pronunziare un giudizio su questa eccellenza degli oggetti naturali, sia necessaria una coltura molto maggiore, non soltanto del Giudizio estetico, ma anche delle facoltà conoscitive che vi stanno a fondamento. [265] La disposizione dell’animo al sentimento del sublime esige

nell’animo stesso una capacità di accogliere le idee, perché appunto nella insufficienza della natura rispetto alle idee e, solo quando si ammetta tale insufficienza e lo sforzo dell’immaginazione per considerare la natura come uno schema per le idee, c’è qualcosa di terribile per la sensibilità, che è nel tempo stesso attraente: è un impero che la ragione esercita sulla sensibilità soltanto per estenderla in modo da renderla adeguata al proprio dominio (il dominio pratico), e per farle intraveder l’infinito, che è per essa un abisso. In realtà ciò che noi, preparati dalla coltura, chiamiamo sublime, senza lo sviluppo delle idee morali è per l’uomo rozzo semplicemente terribile. Questi, in quelle manifestazioni dell’impero devastatore della natura e della sua grande potenza, di fronte a cui il suo potere si riduce a niente, non vedrà che il disagio, il pericolo, l’affanno, che colpirebbe l’uomo che vi sarebbe esposto. Così, quel buono e peraltro intelligente contadino savoiardo (di cui parla il signor di S a u s s u r e ) 65, chiamava pazzi senz’altro tutti gli amatori delle alte montagne. E chi sa se egli avrebbe avuto tanto torto nel caso che quell’osservatore avesse affrontato i pericoli cui si esponeva, soltanto, come la maggior parte dei viaggiatori, per divertimento o per darne un giorno qualche patetica descrizione? Ma lo scopo suo era l’istruzione degli uomini; e quest’uomo eccellente aveva inoltre, e comunicava ai lettori dei suoi viaggi, il sentimento che eleva l’anima. Ma, se il giudizio sul sublime della natura (più che quello sul bello) esige una certa coltura, esso non è prodotto originariamente dalla coltura stessa, né è introdotto nella società da una semplice convenzione, ma ha il suo fondamento nella natura umana, in qualche cosa che si può supporre ed esigere da ognuno insieme con il sano intelletto, vale a dire nella disposizione al sentimento per le idee (pratiche), cioè al sentimento morale. Su ciò si fonda la necessità che noi attribuiamo al giudizio del sublime, quando esigiamo l’accordo del giudizio altrui col nostro. Difatti, allo stesso modo che accusiamo di mancanza di g u s t o colui che resta indifferente davanti a un oggetto naturale che noi troviamo bello, diciamo che manca di s e n t i m e n t o chi non si commuove per ciò che noi giudichiamo sublime. Da tutti esigiamo il consenso nei due casi e, se v’è bisogno di una [266] coltura, in tutti la supponiamo: con questa differenza soltanto, che nel primo caso, poiché l’immaginazione è riferita semplicemente all’intelletto in quanto facoltà dei concetti, esigiamo il consenso da ognuno, senz’altro; mentre nel secondo, essendo l’immaginazione riferita alla ragione in quanto facoltà delle

idee, esigiamo il consenso sotto una condizione soggettiva (ma che ci crediamo autorizzati a esigere in ognuno), cioè il sentimento morale, e così attribuiamo la necessità anche a quest’altro giudizio estetico. Questa modalità dei giudizii estetici, cioè la necessità che è loro attribuita, costituisce uno dei punti capitali della critica del Giudizio. Perché questa qualità ci scopre in essi un principio a priori, e li trae fuori dalla psicologia empirica nella quale resterebbero sepolti tra i sentimenti del piacere e del dolore (col solo epiteto insignificante di sentimenti p i ù d e l i c a t i ) , per riportarli, e con essi la facoltà del giudizio, a quei sentimenti che hanno a fondamento principii a priori, e farli rientrare come tali nella filosofia trascendentale.

NOTA GENERALE SULL’ESPOSIZIONE DEI GIUDIZII ESTETICI RIFLETTENTI

Riguardo al sentimento di piacere un oggetto dev’essere riportato o al p i a c e v o l e , o a l b e l l o , o a l s u b l i m e , o a l b u o n o (assoluto) (iucundum, pulchrum, sublime, honestum). Il p i a c e v o l e , in quanto motivo delle inclinazioni, è sempre della stessa specie, qualunque sia la sua origine, e per quanto siano specificamente diverse le rappresentazioni (del senso e della sensazione, oggettivamente considerate). Così, quando si tratta di giudicare dell’influsso del piacevole sull’animo, non si guarda se non al numero degli stimoli (simultanei e successivi) e, per così dire, solo alla massa della sensazione piacevole, la quale non si può concepire se non come q u a n t i t à . Il piacevole non produce alcuna coltura, ma appartiene al semplice godimento. – Il b e l l o , invece, esige la rappresentazione di una certa q u a l i t à dell’oggetto, che si può anche rendere intelligibile e riportare a concetti (sebbene ciò non si faccia nel giudizio estetico): coltiva l’animo, richiamando l’attenzione sulla finalità nel sentimento di piacere. – Il s u b l i m e consiste puramente [267] nella r e l a z i o n e in cui si giudica il sensibile, nella rappresentazione della natura, come atto ad un possibile uso soprasensibile. – Il b u o n o a s s o l u t o , considerato soggettivamente secondo il sentimento che ispira (l’oggetto del sentimento morale), come la determinabilità delle forze del soggetto per via della rappresentazione d’una legge a s s o l u t a m e n t e

n e c e s s i t a n t e , si distingue principalmente per la m o d a l i t à di una necessità fondata su concetti a priori; la quale non solo p r e t e n d e , ma i m p o n e il consenso ad ognuno, e per se stessa non appartiene al Giudizio estetico, ma al Giudizio intellettuale puro; non è affermata da un giudizio riflettente, ma da un giudizio determinante, e non è riferita alla natura, ma alla libertà. Ma la d e t e r m i n a b i l i t à d e l s o g g e t t o mediante quest’idea, e di un soggetto che può trovare o s t a c o l i in se stesso, nella propria sensibilità, e pure sentire la sua superiorità su tali ostacoli, col loro superamento in quanto m o d i f i c a z i o n e d e l p r o p r i o s t a t o , – il sentimento morale, insomma, è legato col Giudizio estetico, e con le sue condizioni f o r m a l i , in quanto è possibile rappresentarsi anche esteticamente la legalità di un’azione compiuta per dovere, cioè come sublime o bella, senza alterare la sua purezza: la qual cosa non accadrebbe se la si volesse congiungere con un legame naturale al sentimento del piacevole. Riassumendo il risultato di tutta la precedente esposizione delle due specie di giudizii estetici, si avranno le seguenti brevi definizioni: B e l l o è ciò che piace nel semplice giudizio (e quindi non per mezzo della sensazione dei sensi, secondo un concetto dell’intelletto). Segue naturalmente che debba piacere senza interesse. S u b l i m e è ciò che piace immediatamente per la sua opposizione all’interesse dei sensi. Queste due, in quanto definizioni di giudizii estetici universalmente valevoli, si riferiscono a motivi soggettivi: nell’uno della sensibilità in quanto favorisce l’intelletto contemplativo, nell’altro della sensibilità stessa in quanto contrasta coi fini della ragion pratica66; e nondimeno i due giudizii, riuniti nello stesso soggetto, sono finali rispetto al sentimento morale. Il bello ci prepara ad amar qualche cosa, anche la natura, senza interesse; il sublime a stimarla, anche contro il nostro interesse (sensibile). [268] Si può definire così il sublime: è un oggetto (della natura) l a c u i rappresentazione determina l’animo a pensare l’impossibilità di raggiungere la natura come esibizione d i i d e e. Letteralmente, e dal punto di vista logico, le idee non possono essere esibite. Ma, quando noi, per l’intuizione della natura, estendiamo (matematicamente o dinamicamente) la nostra facoltà rappresentativa empirica, interviene infallibilmente la ragione, come facoltà

dell’indipendenza della totalità assoluta, a produrre uno sforzo (sebbene inutile) dell’animo, allo scopo di rendere adeguata alle idee la rappresentazione sensibile. Questo sforzo, e il sentimento dell’impotenza dell’immaginazione a raggiungere l’idea, costituiscono essi stessi un’esibizione della finalità soggettiva del nostro animo nell’uso dell’immaginazione circa la sua destinazione soprasensibile, e ci costringono a p e n s a r e soggettivamente la natura stessa nella sua totalità come esibizione di qualcosa di soprasensibile, senza che questa esibizione possa essere o g g e t t i v a m e n t e prodotta. Noi, difatti, siamo presto convinti che alla natura, nello spazio e nel tempo, manca l’incondizionato e quindi anche l’assoluta grandezza, la quale nondimeno è richiesta anche dalla ragione più ordinaria. E appunto ciò ci ricorda che noi abbiamo da fare soltanto con una natura fenomenica; la quale dev’esser considerata come semplice esibizione di una natura in sé (di cui la ragione possiede l’idea). Ma quest’idea del soprasensibile, che noi non determiniamo ulteriormente, in modo che possiamo soltanto p e n s a r e la natura come sua esibizione, ma non c o n o s c e r l a come tale, è suscitata in noi da un oggetto, il giudizio estetico del quale estende l’immaginazione fino agli ultimi limiti, sia della sua estensione (matematicamente), sia della sua potenza sull’animo (dinamicamente), e ciò col fondarsi sul sentimento di una destinazione dell’animo stesso (sul sentimento morale), la quale trascende del tutto il dominio dell’immaginazione, rispetto a cui la rappresentazione dell’oggetto è giudicata come soggettivamente finale. In realtà è impossibile concepire un sentimento pel sublime della natura, senza legarvi una disposizione dell’animo simile a quella che è propria del sentimento morale; e, sebbene il piacere immediato pel bello naturale supponga e coltivi una certa l i b e r a l i t à nel modo di pensare, cioè l’indipendenza del piacere dal semplice godimento sensibile, la libertà qui sta piuttosto nel g i u o c o che in una o c c u p a z i o n e regolare; mentre quest’ultima [269] è il carattere proprio della moralità umana, in cui la ragione fa necessariamente violenza alla sensibilità; soltanto che nel giudizio estetico sul sublime questa violenza ce la rappresentiamo come esercitata dall’immaginazione stessa, in quanto strumento della ragione. Il piacere pel sublime della natura è perciò soltanto n e g a t i v o (mentre quello pel bello è p o s i t i v o ) , vale a dire è il sentimento dell’immaginazione che si priva da sé della propria libertà, in quanto si

determina conformemente a un’altra legge, che non è quella del suo uso empirico. In tal modo, l’immaginazione raggiunge un’estensione e una potenza maggiore di quella che ha sacrificata, ma il cui principio le è ignoto, mentre s e n t e però il sacrificio o la privazione e, nel tempo stesso, la causa cui è sottomessa. Lo s t u p o r e che confina con lo spavento, il raccapriccio e il sacro orrore che prova lo spettatore alla vista di montagne che si elevano fino al cielo, di profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose, di una profonda e ombrosa solitudine che ispira tristi meditazioni, etc., quando egli si senta al sicuro, non costituiscono un timore effettivo; sono soltanto una prova ad abbandonarvisi con la nostra immaginazione, per sentire il suo potere di collegare l’emozione suscitata da tali spettacoli con la serenità dell’animo, e di essere superiore alla natura in noi stessi, e quindi anche a quella fuori di noi, in quanto può avere influenza sul sentimento del nostro benessere. L’immaginazione, difatti, quando opera secondo la legge dell’associazione, fa dipendere da condizioni fisiche lo stato di soddisfazione; quando opera, invece, secondo principii dello schematismo del Giudizio (per conseguenza, quando si subordina alla libertà), è uno strumento della ragione e delle sue idee, e come tale è un potere che afferma la nostra indipendenza contro gli influssi naturali, abbassa ed impiccolisce ciò che è grande secondo natura, e pone l’assoluta grandezza solo nella propria destinazione (vale a dire in quella del soggetto). Questa riflessione del Giudizio estetico, per innalzarsi ad un piano adeguato alla ragione (senza però un concetto determinato di quest’ultima), rappresenta l’oggetto come soggettivamente finale, in virtù della sproporzione oggettiva medesima, che è tra l’immaginazione nella sua estensione massima e la ragione (come facoltà delle idee). Qui bisogna badare a ciò che già prima è stato ricordato, che cioè nell’estetica trascendentale del Giudizio si parla unicamente di [270] guidizii estetici puri, e che quindi gli esempii non possono esser presi da quegli oggetti naturali belli o sublimi, i quali presuppongono il concetto di uno scopo; perché allora i giudizii o sarebbero teleologici, o sarebbero fondati sulle semplici sensazioni di un oggetto (piacere o dolore), e perciò la finalità nel primo caso non sarebbe estetica, e nel secondo non sarebbe puramente formale. Così quando si dice s u b l i m e il cielo stellato, non è necessario, per giudicarlo tale, di avere il concetto di mondi abitati da esseri ragionevoli, di vedere, in quei punti luminosi di cui è pieno lo spazio sopra di noi, i soli di

quei mondi moventisi sulle loro orbite tracciate adeguatamente al loro scopo; basta semplicemente considerarlo come si vede, quale una immensa volta che comprende tutto; e solo in questa rappresentazione dobbiamo riporre la sublimità che è attribuita all’oggetto da un puro giudizio estetico. Allo stesso modo non dobbiamo rappresentarci l’oceano quale lo p e n s i a m o in quanto siamo ricchi di svariate conoscenze (che non stanno però nell’intuizione immediata), vale a dire come un vasto regno di esseri acquatici, come un grande serbatoio d’acqua pei vapori che impregnano l’aria di nuvole a vantaggio della terra, o come un elemento che, pur dividendo le parti del mondo, rende possibile tra esse la massima comunicazione; perché questi sono veri giudizii teleologici. Per poterlo trovar sublime, bisogna rappresentarselo semplicemente come fanno i poeti, secondo ciò che ci mostra la vista: per esempio, quando è calmo, come un chiaro specchio d’acqua limitato soltanto dal cielo; quando è tempestoso, come un abisso che minaccia d’inghiottir tutto. Lo stesso deve dirsi del sublime e del bello nella figura umana, in cui fondamento del nostro giudizio non devono essere i concetti dei fini c u i son destinate le varie parti che la compongono, e l’accordo delle parti coi fini medesimi non deve i n f l u i r e sul nostro giudizio estetico (che cesserebbe d’esser puro), sebbene sia una condizione necessaria anche pel piacere estetico, che le parti non contrastino coi loro fini. La finalità estetica è la legalità del Giudizio nella sua l i b e r t à . Il piacere che deriva dall’oggetto dipende dalla relazione in cui vogliamo porre l’immaginazione, sempre a condizione però che essa mantenga da sé l’animo in una libera occupazione. Quando invece il giudizio è determinato da qualcos’altro, una sensazione dei sensi o un concetto [271] dell’intelletto, esso, pur essendo legittimo, non è più il giudizio di una l i b e r a facoltà di giudicare. Quando, dunque, si parla di bellezza o sublimità intellettuale, in p r i m o l u o g o non si adoperano espressioni del tutto esatte, perché la bellezza e la sublimità sono modi di rappresentazione estetica che non si troverebbero in noi se fossimo soltanto pure intelligenze (o anche se immaginiamo di esser tali); in s e c o n d o l u o g o , sebbene entrambe, come oggetto di un piacere intellettuale (morale), siano conciliabili col piacere estetico in quanto non r i p o s a n o sopra alcun interesse, tuttavia la conciliazione è difficile, perché allora esse debbono p r o d u r r e un interesse; e ciò, se l’esibizione deve accordarsi col piacere del giudizio estetico, non avverrebbe nel giudizio se

non mediante un interesse sensibile congiunto con l’esibizione, e però a danno della finalità intellettuale, che perderebbe la sua purezza. L’oggetto di un piacere intellettuale puro ed incondizionato è la legge morale con la potenza che essa esercita in noi su tutti i motivi dell’animo che la p r e c e d o n o ; e poiché questa potenza non si rende esteticamente conoscibile se non mediante sacrifizi (con una privazione, che è però a vantaggio della libertà interna, e ci scopre la insondabile profondità di questa facoltà soprasensibile, con tutte le sue conseguenze che si estendono all’infinito), il piacere dal punto di vista estetico (relativamente alla sensibilità) è negativo, cioè contrario all’interesse dei sensi, ma dal punto di vista intellettuale è positivo e legato con un interesse. Da ciò segue che il bene intellettuale o finale in se stesso (il bene morale), quando è giudicato esteticamente, dovrebbe essere rappresentato piuttosto come sublime che come bello, in modo da suscitare più il sentimento della stima (la quale disdegna le attrattive) che un sentimento d’amore e intima inclinazione; perché la natura umana non si concilia da sé con quel bene, ma soltanto per via dell’impero, che la ragione esercita sulla sensibilità. Reciprocamente, anche ciò che diciamo sublime nella natura fuori di noi, o in noi (per esempio, certi affetti), non è rappresentato se non come una potenza dell’animo ad elevarsi per mezzo dei principii morali al disopra degli ostacoli della sensibilità, ed è perciò interessante. Voglio indugiare un poco su quest’ultimo punto. L’idea del [272] bene congiunta con un affetto si dice entusiasmo. Questo stato dell’animo sembra talmente sublime, da far dire comunemente che senza di esso niente di grande può essere compiuto. Ma ogni affetto67 è cieco, o nella scelta del suo scopo, o, quand’anche questo sia dato dalla ragione, nella sua realizzazione; perché è un movimento dell’animo che ci rende incapaci della libera riflessione sui principii secondo i quali ci dobbiamo determinare. Esso non può dunque meritare in alcun modo la benevolenza della ragione. Tuttavia, considerato esteticamente, l’entusiasmo è sublime, perché è una tensione delle forze prodotta da idee, le quali danno all’animo uno slancio di gran lunga più potente e durevole dell’impulso che deriva da rappresentazioni sensibili. Ma, (e ciò sembra strano) anche l ’ i n d i f f e r e n z a a f f e t t i v a (apatheia, flegma in significatu bono) di un animo che segue rigorosamente i suoi principii immutabili, è sublime, e in una maniera singolare, perché ha dalla sua anche la benevolenza della ragione. Questo stato spirituale soltanto si

dice nobile; e tale espressione si applica poi anche alle cose, come per esempio a un edifizio, ad un abito, a un modo di scrivere, al portamento della persona, etc., quando queste cose suscitano meno lo s t u p o r e (cioè l’affetto prodotto dalla novità superiore all’attesa), che l ’ a m m i r a z i o n e (cioè una meraviglia la quale non cessa col venir meno della novità); il che avviene quando le idee, nella loro esibizione, si accordano, inintenzionalmente e senz’arte, col piacere estetico. Ogni affetto del genere v a l o r o s o , vale a dire che eccita la coscienza delle nostre forze a superare ogni resistenza (animi strenui), è e s t e t i c a m e n t e s u b l i m e , come per esempio la collera, e perfino la disperazione (quella in cui domina la i n d i g n a z i o n e , non l ’ a b b a t t i m e n t o ) . Ma l’affetto del genere l a n g u i d o , che fa oggetto di pena lo sforzo del resistere [273] (animum languidum), non ha in sé niente di n o b i l e , e può esser riportato al bello del genere sensibile. Le e m o z i o n i , che possono crescere fino a diventare affetti, sono dunque molto differenti. Vi sono emozioni forti e vi sono emozioni t e n e r e . Queste ultime, quando si elevano ad essere affetti, non valgono a niente; la tendenza ad esse si dice s d o l c i n a t e z z a . Un dolore che deriva dalla compassione, e non vuol essere consolato, o il dolore a cui ci abbandoniamo volontariamente, quando siamo colpiti da mali i m m a g i n a r i i , fino a considerarli reali per un’illusione della fantasia, sono segni e fattori d’un’anima tenera, ma nel tempo stesso debole, che mostra un suo lato bello, e se può chiamarsi fantastica, non si dirà mai dotata di entusiasmo. Quei romanzi, quei drammi lagrimosi, quegli insipidi precetti morali, i quali giuocano con quelli che si dicono (a torto) sentimenti nobili, ma che in realtà ammolliscono il cuore, lo rendono insensibile alla severa legge del dovere, incapace d’ogni stima per la dignità umana nella nostra persona, pel diritto degli uomini (che è ben diverso dalla loro felicità), e, in genere, incapace di ogni fermo principio; perfino quelle prediche religiose, che ci raccomandano pratiche basse e vili, le quali ci fanno perdere ogni fiducia nel nostro potere di resistere al male, invece di ispirarci la ferma risoluzione di esercitare le forze che ancora ci restano, malgrado la nostra fragilità, a vincere le inclinazioni; la falsa umiltà, che del disprezzo di se stesso, d’un pentimento lamentoso ed ipocrita, d’una disposizione d’animo puramente passiva, fa i mezzi unici per riuscire grati all’essere supremo: son tutte cose, queste, incompatibili con ciò che si può riguardare come la bellezza, e tanto meno con ciò che è da considerarsi come

la sublimità dell’animo. Ma anche i movimenti impetuosi dell’animo – o siano congiunti con idee religiose in ciò che si dice edificazione, oppure, in quanto diretti soltanto alla coltura, siano congiunti con idee che contengono un interesse sociale, – per quanto anche diano uno slancio all’immaginazione, non possono pretendere in alcun modo all’onore di una esibizione s u b l i m e , se non lasciano dietro di sé una disposizione d’animo, che sia pure indirettamente, abbia influsso sulla coscienza delle proprie forze e sulla fermezza per ciò che include una finalità intellettuale pura (il soprasensibile). Perché altrimenti tutte queste emozioni si riportano alle e m o z i o n i che son gradite in vista della salute. Il languore piacevole, che segue ad una scossa prodotta dal giuoco [274] degli affetti, è un godimento del benessere, che risulta dal ristabilimento dell’equilibrio delle diverse forze vitali; qualche cosa che, infine, somiglia a ciò che trovano tanto piacevole i voluttuosi orientali, quando si fanno massaggiare il corpo, premere e piegare dolcemente tutti i muscoli e le articolazioni; con la sola differenza che nel primo caso la causa motrice è in gran parte in noi, mentre nel secondo è interamente fuori. Qualcuno crede di esser rimasto edificato da una predica, in cui non v’è nulla di edificante (non vi è alcun sistema di massime buone), e qualche altro pensa di essere stato migliorato da una tragedia, mentre è contento soltanto di avere scacciata felicemente la noia. Sicché il sublime deve sempre riferirsi alla m a n i e r a d i p e n s a r e , cioè a massime dirette a imporre il dominio dell’elemento intellettuale e delle idee della ragione sulla sensibilità. Non è da temere che il sentimento del sublime abbia da perdere qualcosa per questo modo astratto d’esibizione, che è del tutto negativo riguardo al sensibile; perché sebbene l’immaginazione non trovi nulla al di là del sensibile cui possa attaccarsi, essa si sente illimitata appunto per questa soppressione dei suoi limiti: e, per conseguenza, quell’astrazione è un’esibizione dell’infinito, la quale appunto perciò, è vero, non può esser mai altro che negativa, ma estende l’anima. Forse non v’è nel libro delle leggi degli ebrei un passo più sublime di questo comandamento: «Tu non ti farai alcuna immagine o figura di ciò che è in cielo, o in terra, o sotto la terra, etc.». Questo solo precetto può spiegare l’entusiasmo che sentiva il popolo ebreo per la propria religione, nel suo periodo migliore, quando si paragonava con gli altri popoli; può spiegare quella fierezza che ispira la religione di Maometto. Lo stesso vale per la rappresentazione della legge morale e per la

nostra disposizione alla moralità. È perfettamente assurdo temere che, togliendo a questa legge tutto ciò che la può raccomandare ai sensi, essa non riceverebbe altro che un’approvazione fredda e inerte, e non produrrebbe in noi alcun moto od emozione. È proprio il contrario, perché quando i sensi non hanno più nulla davanti a sé, e resta tuttavia l’idea della moralità, che non si può né disconoscere né abolire, sarebbe piuttosto necessario moderare lo slancio di un’immaginazione illimitata, per impedirle di abbandonarsi all’entusiasmo, anziché, temendo dell’impotenza di quell’idea, apprestarle aiuti con [275] immagini ed apparati puerili. È perciò che i governi hanno concesso volentieri alle religioni di provvedersi riccamente di apparati, cercando così di togliere ai sudditi la pena, ma nel tempo stesso il potere, di estendere le forze dell’anima al di là dei limiti loro arbitrariamente imposti, a fine di poterli trattare più agevolmente come puramente passivi. Questa esibizione pura, semplicemente negativa, della moralità, e che eleva l’anima, non comporta invece il pericolo del f a n t a s t i c a r e , che consiste nell’i l l u s i o n e d i v o l e r v e d e r e q u a l c h e c o s a a l d i l à d e i l i m i t i d e l l a s e n s i b i l i t à , cioè nel sognare secondo principii (vaneggiare con la ragione); appunto perché l’esibizione non è se non puramente negativa. L’i m p e r s c r u t a b i l i t à d e l l ’ i d e a d e l l a l i b e r t à rende impossibile, difatti, ogni esibizione positiva; ma la legge morale è in noi un principio sufficiente e originario di determinazione, che non ci permette di aver riguardo a qualche altro principio. Se l’entusiasmo può paragonarsi al d e l i r i o , il fantasticare può esser ragguagliato alla demenza, che può meno di ogni altra cosa accordarsi col sublime, perché è profondamente ridicola. Nell’entusiasmo, in quanto affetto, l’immaginazione è senza freno; nel fantasticare in quanto passione radicata e coltivata, è senza regola. Il primo è un accidente passeggero, che colpisce qualche volta anche l’intelligenza più sana; il secondo è una malattia, che sconvolge l’intelligenza. La s e m p l i c i t à (la finalità senz’arte) è come lo stile della natura nel sublime, e quindi anche della moralità, che è una seconda natura (soprasensibile), di cui conosciamo solo le leggi, senza poter raggiungere con l’intuizione quella facoltà soprasensibile che, in noi stessi, contiene il principio di questa legislazione. Sebbene così il piacere del bello come quello del sublime non soltanto si differenzino dagli altri giudizii estetici per la loro universale

c o m u n i c a b i l i t à , ma appunto per questa loro proprietà includano un interesse relativamente alla società (in cui sono comunicabili), è da notare che tuttavia si considera come qualcosa di sublime l’i s o l a m e n t o d a o g n i s o c i e t à , quando ciò sia fatto in virtù di idee superiori ad ogni interesse sensibile. Esser sufficiente a se stesso, non aver quindi bisogno di compagnia, senza essere però antisocievole, cioè senza fuggirla, è qualcosa che si avvicina al sublime, come ogni liberazione da bisogni. Al contrario, il fuggire gli uomini perché si odiano, [276] per m i s a n t r o p i a , o per a n t r o p o f o b i a , perché si considerano come nemici (paura degli uomini), è cosa odiosa e disprezzabile insieme. Vi è nondimeno una specie di misantropia (detta così molto impropriamente), di cui la disposizione si trova con l’invecchiare in molti uomini assennati; è uno stato d’animo, che non lascia a desiderare riguardo alla b e n e v o l e n z a , perché è abbastanza filantropico, ma che è ben lungi dal trovar p i a c e r e nella compagnia degli uomini, per effetto di una lunga e triste esperienza; di ciò sono segni la tendenza alla solitudine, il fantastico desiderio di abitare in una remota campagna, ed anche (nei giovani) il sogno di una felicità su di un’isola sconosciuta al resto del mondo, ove si passi la vita con una piccola famiglia, – sogno che sanno così bene sfruttare i romanzieri e i poeti di robinsonate. La falsità, l’ingratitudine, l’ingiustizia, la puerilità in quei fini che da noi stessi sono tenuti per grandi e importanti, e nel conseguimento dei quali gli uomini si fanno reciprocamente tutti i mali immaginabili, stanno in tale contrasto con l’idea di ciò che gli uomini potrebbero essere, se volessero, e con l’ardente desiderio che abbiamo di vederli migliori, che per non odiarli, perché amarli non si può, pare un piccolo sacrificio la rinunzia di tutti i piaceri sociali. Questa tristezza, che non ci deriva dal vedere i mali che il destino assegna agli altri uomini (e che è causata dalla simpatia), ma quelli che gli uomini si fanno tra loro (e che si fonda sull’antipatia nei principii), è sublime perché riposa sopra idee, mentre quella causata dalla simpatia non può essere altro che bella. – Quello scrittore non meno spiritoso che profondo che è S a u s s u r e , nella descrizione del suo viaggio alle Alpi, dice del Bonhomme, un monte della Savoia, che «vi domina una certa t r i s t e z z a i n s i g n i f i c a n t e » . Egli conosceva dunque anche una tristezza i n t e r e s s a n t e , come quella ispirata dalla vista di una solitudine, in cui gli uomini ben potrebbero ridursi per non udire e saper più nulla del mondo, ma non inospite al punto da non offrir loro che un miserrimo ricovero. – Faccio

questa osservazione soltanto per ricordare che anche la tristezza (non la costernazione) può essere considerata tra gli affetti f o r t i , quando abbia fondamento in idee morali; quando invece riposa sulla simpatia, e come tale, è anche amabile, appartiene semplicemente agli affetti t e n e r i : e perché da ciò si noti che lo stato d’animo soltanto nel primo caso è s u b l i m e . [277] Per vedere a che cosa conduce un’esposizione puramente empirica del sublime e del bello, si può paragonare con la precedente esposizione trascendentale dei giudizii estetici quella fisiologica, come l’hanno elaborata B u r k e e, presso di noi, molti uomini d’ingegno. B u r k e 68, che merita di essere considerato come l’autore più importante di questo genere di ricerche, arriva per tale via al seguente risultato (p. 223 della sua opera): «il sentimento del sublime si fonda sulla tendenza alla propria conservazione e sul t i m o r e , vale a dire su di un dolore, il quale, poiché non arriva allo sconcerto reale delle parti del corpo, produce dei movimenti, che, liberando i vasi sottili o grossi da ingorghi pericolosi e molesti, son capaci di suscitare emozioni piacevoli, non un vero piacere, ma una specie di orrore piacevole, una certa calma mista allo spavento». Il bello, che egli fonda sull’amore (da cui però vuole esclusi i desiderii), lo riconduce a (pp. 251-252): «l’allentamento e rilassamento delle fibre del corpo, e quindi un intenerimento, una dissoluzione, un illanguidimento, un soggiacere, un morire, uno struggersi dal piacere». E conferma questa specie di definizione non soltanto coi casi in cui il sentimento del bello o del sublime può esser suscitato in noi dall’immaginazione congiunta con l’intelletto, ma anche con quelli in cui la causa determinante è una sensazione. – Come osservazioni psicologiche, queste analisi dei fenomeni del nostro animo sono straordinariamente belle e forniscono ricca materia alle più gradite ricerche dell’antropologia empirica. Non si può negare, egualmente, che tutte le nostre rappresentazioni, siano esse oggettivamente soltanto sensibili, o interamente intellettuali, possono essere soggettivamente congiunte col piacere e col dolore, per quanto anche l’uno e l’altro siano inavvertiti (perché tutte quante affettano il sentimento della vita, e nessuna, in quanto è una modificazione del soggetto, può essere indifferente); così pure, come affermava Epicuro, il p i a c e r e e il d o l o r e , infine, sono sempre corporei anche se provengano dall’immaginazione o perfino da rappresentazioni intellettuali: la vita, [278] senza il sentimento dell’organismo corporeo, è la semplice coscienza dell’esistenza, ma non sentimento di benessere e di malessere, vale a dire dell’esercizio facile o

intralciato delle forze vitali; l’animo per sé solo è tutto vita (il principio stesso della vita), e gli ostacoli o le facilitazioni debbono essere cercati fuori d’esso, ma sempre nell’uomo, e quindi nel legame dell’animo col corpo. Ma, se il piacere, per un oggetto, si fa dipendere del tutto dal fatto che questo diletta per via di attrattive od emozioni, non si può esigere da n e s s u n a l t r o il consenso nel giudizio estetico che noi pronunziamo; perché allora ciascuno consulta a buon diritto il suo sentimento particolare. Ma allora cessa anche interamente ogni disputa sul gusto; l’esempio, che danno gli altri con l’accordo accidentale dei loro giudizii, dovrebbe diventare un p r e c e t t o pel nostro consenso, e contro questo principio noi probabilmente resisteremmo, facendo appello al naturale diritto di sottoporre al nostro proprio sentimento, e non a quello degli altri, un giudizio che riposa sul sentimento immediato del proprio benessere. Se dunque il giudizio di gusto non deve avere un valore e g o i s t i c o , ma necessariamente un valore p l u r a l i s t i c o , secondo la sua intima natura, cioè per se stesso, e non per gli esempii che gli altri danno del loro gusto; e se deve essere apprezzato come tale che possa esigere che ognuno debba approvarlo; bisogna che abbia a fondamento qualche principio a priori (oggettivo o soggettivo che sia), al quale non si può mai arrivare con l’osservazione delle leggi empiriche delle modificazioni dell’animo, perché queste leggi ci fanno conoscere soltanto come si giudica, ma non ci prescrivono come si deve giudicare, e il modo che il precetto sia anche i n c o n d i z i o n a t o ; il che è presupposto dai giudizii di gusto, i quali esigono che il piacere sia i m m e d i a t a m e n t e legato con una rappresentazione. Sicché per quanto l’esposizione empirica dei giudizii estetici possa esser fatta da principio, per preparare il materiale d’una investigazione superiore, un esame trascendentale di questa facoltà è però possibile ed appartiene essenzialmente alla critica del gusto. Poiché se il gusto non avesse principii a priori, sarebbe impossibile che giudicasse il giudizio altrui, approvandolo o biasimandolo, anche solo con una certa apparenza di ragione. Ciò che resta dell’analitica del Giudizio estetico contiene prima di tutto la

DEDUZIONE DEI GIUDIZII ESTETICI PURI

§ 30. La deduzione dei giudizii estetici sugli oggetti della natura non si può applicare a ciò che in questa chiamiamo sublime, ma soltanto al bello. [279] La pretesa di un giudizio estetico alla validità universale per ogni soggetto in quanto questo giudizio deve fondarsi su qualche principio a priori, abbisogna di una deduzione (legittimazione), la quale deve essere aggiunta all’espozione del giudizio, quando questo riguarda il piacere o il dispiacere per la f o r m a d e l l ’ o g g e t t o . Tali sono i giudizii di gusto sul bello naturale. In essi, difatti, la finalità è fondata nell’oggetto e nella sua figura, sebbene essa non denoti un rapporto dell’oggetto dato con altri secondo concetti (per costituire un giudizio di conoscenza), ma concerna in generale soltanto l’apprensione di questa forma, in quanto questa riesce adeguata, nel nostro animo, così alla f a c o l t à dei concetti, come a quella dell’esibizione dei medesimi (la quale è identica con la facoltà dell’apprensione). Si possono proporre perciò diverse questioni anche relativamente al bello naturale, le quali concernono la causa di questa finalità delle sue forme: per es., come si potrebbe spiegare che la natura abbia profusa dovunque la bellezza con tanta prodigalità, perfino nel fondo dell’oceano, dove solo raramente penetra l’occhio umano (solo pel quale, tuttavia, la bellezza sussiste). Solo il sublime della natura, – quando il nostro sia un giudizio estetico puro, e non comprenda concetti di perfezione in quanto finalità oggettiva, che lo renderebbero un giudizio teleologico, – può essere considerato come informe o senza figura, e nondimeno come oggetto d’un piacere puro, e mostrare una finalità soggettiva della rappresentazione data; per cui si domanda se di un giudizio estetico di questa specie si possa richiedere, oltre l’esposizione di ciò che in esso è pensato, anche una deduzione della sua pretesa a qualche principio (soggettivo) a priori. E la risposta è questa: il sublime della natura è chiamato così [280] solo impropriamente, ed esso dovrebbe propriamente essere attribuito soltanto al nostro modo di pensare, o piuttosto al suo fondamento nella natura umana. La coscienza di questo fondamento è soltanto occasionata dall’apprensione di un oggetto altrimenti privo di forma e non conforme a un fine, il quale è usato così in modo soggettivamente-finale, ma non è giudicato

finale p e r s é e per via della sua forma (come species finalis accepta, non data). Perciò la nostra esposizione dei giudizii sul sublime della natura è stata, insieme, la loro deduzione. Poiché, difatti, analizzando la riflessione del Giudizio abbiamo trovato in essi un rapporto finale delle facoltà conoscitive, il quale deve stare a priori a fondamento della facoltà dei fini (la volontà), e perciò esso stesso è finale a priori; e questo è proprio la deduzione, vale a dire la legittimazione della pretesa di questi giudizii alla validità universale e necessaria. Sicché non abbiamo ad occuparci se non della deduzione dei giudizii di gusto, cioè di quelli sulla bellezza degli oggetti naturali, esaurendo così il compito della deduzione per tutto il Giudizio estetico.

§ 31. Del metodo della deduzione dei giudizii di gusto. L’obbligo della deduzione, cioè dell’accertamento della legittimità d’una certa specie di giudizii, non ha luogo se non quando il giudizio pretende alla necessità; e tale è anche il caso del giudizio che esige l’universalità soggettiva, vale a dire il consenso di ciascuno; pur non essendo un giudizio di conoscenza, ma solo un giudizio sul piacere o dispiacere per un oggetto dato: giudizio che aspira ad una assoluta validità soggettiva, la quale non si fonda sopra alcun concetto della cosa perché si tratta d’un giudizio di gusto. Poiché in tal caso non si ha un giudizio di conoscenza, né teoretico, che abbia a fondamento il concetto d’una n a t u r a in generale, fornito dall’intelletto, né pratico (puro), fondato sull’idea della l i b e r t à , fornita a priori dalla ragione, e poiché per conseguenza, non è da legittimare a priori la validità di un giudizio che rappresenti ciò che una cosa è, o ciò che si deve fare per produrla; si dovrà dimostrare semplicemente, per il Giudizio [281] in genere la v a l i d i t à u n i v e r s a l e di un giudizio s i n g o l a r e , il quale esprime la finalità soggettiva di una rappresentazione empirica della forma d’un oggetto, per spiegare, così, come sia possibile che qualche cosa piaccia puramente nel giudizio (senza sensazione o concetto), e come il piacere di uno possa essere prescritto come regola agli altri, allo stesso modo che il giudizio di un oggetto in vista di una c o n o s c e n z a in generale sottostà a regole universali. Ora, se questa validità universale non si può derivare dal consenso comune e da un’inchiesta sul modo di sentire altrui, ma deve fondarsi sopra

un’autonomia del soggetto che giudica del sentimento di piacere (per una data rappresentazione), cioè sul suo gusto, e senza esser derivata da concetti; un giudizio che possiede questa specie di validità – e tale è il giudizio di gusto – presenta una doppia qualità logica: i n p r i m o l u o g o la validità universale a priori, che non è però l’universalità logica secondo concetti, ma l’universalità d’un giudizio singolare, e i n s e c o n d o l u o g o , una necessità (che deve sempre riposare su principii a priori), ma non dipende da alcuna prova a priori, la cui rappresentazione possa costringere a quel consenso, che è richiesto ad ognuno dal giudizio di gusto. Per un’adeguata deduzione di questa singolare facoltà non si può se non analizzare queste due proprietà logiche per cui un giudizio di gusto si distingue da tutti i giudizii di conoscenza, astraendo prima in esso da ogni contenuto, cioè dal sentimento di piacere, e paragonando semplicemente la forma estetica con la forma dei giudizii oggettivi qual è prescritta dalla logica. Noi quindi esporremo prima queste proprietà caratteristiche del gusto, chiarendole con esempii.

§ 32. Prima proprietà del giudizio di gusto. Il giudizio di gusto determina il suo oggetto, per ciò che [282] riguarda il piacere (in quanto bellezza), pretendendo il consenso d ’ o g n u n o , come se il piacere fosse oggettivo. Dire che questo fiore è bello val quanto esprimere la propria pretesa al piacere di ognuno. Il piacevole del suo odore non ha simili pretese. Ad uno piace, ad un altro dà alla testa. E che cosa si potrebbe presumere da ciò se non che la bellezza dovrebbe essere considerata come una proprietà dell’oggetto stesso, non regolata dalla diversità degli individui e dei loro organismi, ma su cui invece questi dovrebbero regolarsi, volendone giudicare? E nondimeno non è così. Perché il giudizio di gusto consiste proprio nel chiamar bella una cosa soltanto per la sua proprietà di accordarsi col nostro modo di percepirla. Inoltre, in quel giudizio che deve dar prova del gusto del soggetto, si esige che il soggetto stesso giudichi da sé, senza andare a tentoni tra i giudizii degli altri, per conoscere prima il loro piacere o dispiacere riguardo all’oggetto dato; e quindi si vuole che il suo giudizio sia pronunziato a priori, e non per imitazione, cioè perché la cosa in effetti piace a tutti. Si potrebbe pensare, è vero, che un giudizio a priori debba contenere un concetto

dell’oggetto, contenendo il pricipio per la conoscenza di esso; il giudizio di gusto però non si fonda sopra concetti, e non è mai un giudizio di conoscenza, ma soltanto estetico. Un giovane poeta perciò non si lascerà rimuovere dalla convinzione che la sua poesia sia bella, né dal giudizio del pubblico, né da quello dei suoi amici; e se darà loro ascolto, ciò non sarà perché il suo giudizio è cambiato, ma perché, sebbene il pubblico abbia un gusto falso (almeno secondo il suo punto di vista), egli nel suo desiderio del plauso trova la ragione di accomodarsi (contro il suo giudizio stesso) con l’opinione comune. Solo più tardi, quando il suo Giudizio è fatto più raffinato dall’esercizio, egli rinunzierà volentieri al suo modo precedente di giudicare; come potrebbe fare per quei suoi giudizii che riposano interamente sulla ragione. Il gusto esige non altro che l’autonomia. Fare dei giudizii altrui il motivo dei proprii, sarebbe eteronomia. Il vantare le opere degli antichi, e con ragione, come modelli, il chiamar classici i loro autori, il conferire a questi una certa nobiltà tra gli altri scrittori, tale che abbia il privilegio di dettar regole al popolo; tutto ciò pare che dimostri esservi delle sorgenti a posteriori del gusto, e contrastare all’autonomia di esso in ogni soggetto. Ma si potrebbe dire egualmente bene che gli [283] antichi matematici, ritenuti finora come modelli, da non potersi trascurare, della massima solidità ed eleganza nel metodo sintetico, dimostrano in noi una ragione imitativa ed impotente a produrre da sé dimostrazioni rigorose per mezzo della costruzione dei concetti e con una forte intuizione. Non v’è alcun uso delle nostre facoltà, per quanto libero sia, compreso l’uso della ragione (che deve trarre tutti i suoi giudizii dalle comuni fonti a priori), il quale non darebbe luogo a tentativi difettosi, se ogni soggetto dovesse cominciare soltanto dalla sua rozza capacità naturale, se gli altri non lo avessero preceduto con le loro ricerche, non per fare dei loro successori semplici imitatori, ma per metterli col loro procedimento sulla via di cercare i principii in se stessi, e così seguire l’istesso cammino, e spesso uno migliore. Perfino nella religione, dove ognuno deve certo trarre da se stesso la regola della propria condotta, perché egli medesimo ne è responsabile e non può rigettare sugli altri, come a maestri o a predecessori, la colpa dei proprii errori, hanno meno efficacia i precetti generali, dati dai preti o dai filosofi, o che si possono trarre da se stesso, che un esempio di virtù e di santità rappresentato dalla storia, il quale non rende superflua

l’autonomia della virtù, fondata sulla vera ed originaria idea della moralità (a priori), né cambia questa in un meccanismo dell’imitazione. S e g u i r e , che ha relazione con qualcosa che precede, non imitare, è la giusta espressione che designa l’influsso che possono avere sugli altri i prodotti di un autore esemplare; e ciò non significa altro che attingere alle stesse sorgenti da cui quegli attinse, e apprendere dai predecessori soltanto il modo che tennero nel produrre. Ma tra tutte le facoltà e i talenti il gusto, poiché il suo giudizio non è determinabile da concetti o precetti, è quello che più ha bisogno di esempii riguardo a ciò che nel progresso della coltura ha ottenuto il più durevole consenso, per non ridiventare incolto e ricadere nella rozzezza dei primi tentativi.

§ 33. Seconda proprietà del giudizio di gusto. [284] Il giudizio di gusto non può essere determinato mediante prove, proprio come se fosse puramente s o g g e t t i v o . Se qualcuno non trova bello un edificio, una veduta, una poesia, quand’anco mille voci gliene esaltino il valore, non si lascerà intimamente costringere al consenso. Ciò è da osservare i n p r i m o l u o g o . Egli potrà anche fingere che la cosa gli piace, per non essere trattato da uomo senza gusto; può perfino cominciare a dubitare di non aver coltivato sufficientemente il proprio gusto con la conoscenza di una quantità sufficiente di oggetti di una certa specie (come uno che, credendo di vedere in lontananza una foresta dove tutti gli altri vedono una città, dubita del giudizio della propria vista). Egli però ha questa certezza, che l’applauso degli altri non fornisce, pel giudizio della bellezza, una prova valida; e che altri certamente possono vedere ed osservare per lui; e che se ciò che molti hanno visto in un certo modo, ed egli crede di aver visto diversamente, può esser per lui una prova sufficiente rispetto ad un giudizio teoretico, e quindi logico, ciò che è piaciuto agli altri non mai può servir di fondamento ad un giudizio estetico. Il giudizio altrui, a noi sfavorevole, può con ragione farci dubitare del nostro, ma non convincerci della sua inesattezza. Sicché non v’è nessuna p r o v a empirica per costringere in qualcuno il giudizio di gusto. I n s e c o n d o l u o g o , una prova a priori, secondo regole definite, ancor meno può determinare il giudizio sulla bellezza. Se qualcuno mi legge una sua poesia, o mi conduce ad uno spettacolo teatrale che non riesce a

soddisfare il mio gusto, potrà bene invocare, per dimostrare la bellezza della sua poesia, B a t t e u x , L e s s i n g e altri critici del gusto più antichi e famosi, e tutte le regole da loro stabilite; forse alcuni punti, che proprio mi dispiacciono, si accorderanno benissimo con le regole della bellezza (come son date da quegli scrittori e riconosciute universalmente); ma io mi turo le orecchie, non voglio più sentire parlare di principii e ragionamenti, ed ammetterò più volentieri che quelle regole dei critici siano false o che almeno non era lì il caso di applicarle, anziché ammettere che il mio giudizio debba [285] lasciarsi determinare da prove a priori, se dev’essere un giudizio del gusto e non dell’intelletto o della ragione. Pare che questa sia una delle principali ragioni per cui a questa facoltà estetica di giudicare sia stato apposto il nome di gusto. Perché mi si possono enumerare tutti gli ingredienti che entrano in una pietanza, farmi notare che ognuno di essi mi piace, magnificarmi, anche con ragione, le qualità salutari di tale specie di cibo; ed io resto sordo a tutte queste ragioni, assaggio la pietanza sulla mia lingua e sul mio palato, e in base a questi (non a principii generali) pronuncio il mio giudizio. Il giudizio di gusto infatti è pronunziato sempre come un giudizio singolare sull’oggetto. L’intelletto, paragonando l’oggetto, circa il piacere che esso produce, col giudizio degli altri nello stesso caso, può formulare un giudizio universale: per esempio, – tutti i tulipani sono belli –; ma questo è allora un giudizio logico, non di gusto, che dà come predicato, alle cose di una certa specie in generale, la relazione di un oggetto col gusto; il giudizio invece, col quale trovo bello un singolo tulipano, vale a dire quello in cui riconosco universalmente valido il piacere che esso mi dà, quello soltanto è un giudizio di gusto. La proprietà di questo giudizio consiste dunque in ciò: sebbene abbia una validità puramente soggettiva, esso esige il consenso di t u t t i , come se fosse proprio un giudizio oggettivo, fondato su principii della conoscenza e che può essere imposto per via di una prova.

§ 34. Non può esservi alcun principio oggettivo del gusto. Un principio del gusto significherebbe un principio alla cui condizione si potrebbe sussumere il concetto d’un oggetto, derivandone con

un’argomentazione che l’oggetto stesso è bello. Ma ciò è assolutamente impossibile. Perché io debbo sentire immediatamente piacere per la rappresenatazione dell’oggetto, e il piacere non mi può essere inculcato da argomenti. Sebbene, come dice H u m e , i critici possano ragionare più plausibilmente dei cuochi, hanno con questi un comune destino. Non possono aspettarsi il fondamento determinante del loro giudizio [286] dalla forza degli argomenti, ma soltanto dalla riflessione del soggetto sul proprio stato (di piacere o dispiacere), prescindendo da ogni precetto o regola. Se nondimeno i critici possono e debbono ragionare, in modo da correggere ed estendere i nostri giudizii di gusto, non è per esprimere in una formula universalmente applicabile il fondamento determinante di questa specie di giudizii estetici, – perché ciò è impossibile; ma per studiare le facoltà di conoscere e le loro funzioni nei giudizii stessi, e mostrare negli esempii quella finalità soggettiva reciproca, la cui forma in una data rappresentazione è, come abbiamo dimostrato, la bellezza dell’oggetto. Sicché la critica del gusto è anch’essa soltanto soggettiva, relativamente alla rappresentazione con cui un oggetto è dato; essa è, in altri termini l’arte, o la scienza, che riporta a regole il rapporto reciproco dell’immaginazione e dell’intelletto nella rappresentazione data (indipendentemente da sensazioni o concetti anteriori), e quindi il loro accordo e disaccordo, e le determina rispetto alle loro condizioni. È a r t e , quando fa ciò soltanto con esempii; è s c i e n z a , quando deriva la possibilità di questa specie di giudizio dalla natura delle due facoltà in quanto facoltà della conoscenza in generale. Qui non abbiamo da considerarla se non sotto questo secondo punto di vista, in quanto critica trascendentale. Essa deve sviluppare e legittimare il principio soggettivo del gusto in quanto principio a priori del Giudizio. La critica in quanto arte cerca soltanto di applicare ai giudizii di gusto le regole fisiologiche (in questo caso psicologiche), e quindi empiriche, secondo le quali il gusto procede realmente (senza preoccuparsi della loro possibilità); e critica i prodotti delle belle arti, allo stesso modo che la critica, in quanto scienza, critica la facoltà stessa di giudicarli.

§ 35. Il principio del gusto è il principio soggettivo del Giudizio in generale.

Il giudizio di gusto si distingue in questo dal giudizio logico, che quest’ultimo sussume, e quello no, una rappresentazione al concetto di un oggetto; perché, altrimenti, il consenso universalmente necessario potrebbe essere imposto nel giudizio di gusto per mezzo di argomenti. Si somigliano invece nell’esigenza [287] dell’universalità e necessità, che però nel giudizio di gusto non dipendono da concetti dell’oggetto, e quindi son puramente soggettive. Ora, poiché in un giudizio sono i concetti che costituiscono il suo contenuto (ciò che appartiene alla conoscenza dell’oggetto), e il giudizio di gusto non è determinabile mediante concetti, esso si fonda semplicemente sulla condizione soggettiva formale d’un giudizio in generale. La condizione soggettiva di ogni giudizio è la facoltà stessa di giudicare, cioè il Giudizio. Questa facoltà, adoperata relativamente ad una rappresentazione con cui è dato un oggetto, esige l’accordo di due facoltà rappresentative: l’immaginazione, cioè, (per l’intuizione e la comprensione del molteplice di essa), e l’intelletto (pel concetto, in quanto rappresentazione dell’unità di questa comprensione del molteplice). E, poiché qui nessun concetto dell’oggetto sta a fondamento del giudizio questo non può consistere che nella sussunzione dell’immaginazione stessa (in una rappresentazione con cui un oggetto è dato), a quelle condizioni che permettono all’intelletto in generale di passare dall’intuizione ai concetti. In altri termini, poiché la libertà dell’immaginazione consiste nello schematizzare senza concetto, il giudizio di gusto deve riposare su di una semplice sensazione dell’azione animatrice reciproca dell’immaginazione nella sua l i b e r t à e dell’intelletto con la sua l e g a l i t à , e quindi su di un sentimento, che ci fa giudicare l’oggetto secondo la finalità della rappresentazione (con cui esso è dato) rispetto alle facoltà conoscitive nel loro libero giuoco; e il gusto, in quanto Giudizio soggettivo, contiene un principio della sussunzione, ma non delle intuizioni ai c o n c e t t i , sebbene della f a c o l t à delle intuizioni, o delle esibizioni (vale a dire della immaginazione), alla f a c o l t à dei concetti (cioè all’intelletto), in quanto la prima n e l l a s u a l i b e r t à si accorda con la seconda n e l l a s u a l e g a l i t à . Ora, per trovare questo principio legittimo mediante una deduzione dei giudizii di gusto, ci possiamo servir di guida soltanto delle proprietà formali di questa specie di giudizii, considerando perciò in essi semplicemente la forma logica.

§ 36. Del problema di una deduzione dei giudizii di gusto. Con la percezione di un oggetto può esser legato immediatamente, in modo da formare un giudizio di conoscenza, il concetto [288] di un oggetto in generale, del quale la percezione contiene i predicati empirici; e si produrrà così un giudizio d’esperienza. Questo giudizio ha a suo fondamento i concetti a priori dell’unità sintetica del molteplice dell’intuizione, i quali permettono di pensare il molteplice come determinazione dell’oggetto; e questi concetti (le categorie) esigono una deduzione, che abbiamo data nella Critica della ragion pura, e con la quale è stata anche possibile la soluzione del problema: come son possibili i giudizii di conoscenza sintetici a priori. Questo problema concerneva dunque i principii a priori dell’intelletto puro e dei suoi giudizii teoretici. Ma con una percezione può anche essere legato immediatamente un sentimento di piacere (o dispiacere), una soddisfazione che accompagna la rappresentazione dell’oggetto e tien luogo ad essa di predicato; e così si produrrà un giudizio estetico, che non è punto un giudizio di conoscenza. Quando questo giudizio non è un semplice giudizio di sensazione, ma un giudizio formale di riflessione, che esige da ciascuno lo stesso piacere come necessario, esso deve avere a fondamento qualcosa in quanto principio a priori, che può essere in ogni caso puramente soggettivo (perché un principio oggettivo sarebbe impossibile per questa specie di giudizii), ma che ha bisogno, anche come tale, di una deduzione con la quale si spieghi come un giudizio estetico possa pretendere alla necessità. Su ciò si fonda il problema di cui ci occupiamo: come son possibili i giudizii di gusto? Il quale problema concerne perciò i principii a priori del Giudizio puro nei giudizii estetici, in quelli cioè nei quali questa facoltà non ha semplicemente da sussumere a concetti oggettivi dell’intelletto (come nei giudizii teoretici) e sottostà ad una legge, ma, soggettivamente, è essa stessa oggetto e legge ad un tempo. Questo problema può essere enunciato anche così: come è possibile un giudizio, che dal solo sentimento p a r t i c o l a r e di piacere per un oggetto, e indipendentemente dal concetto di questo, proclami a priori, senz’aver bisogno di attendere il consenso altrui, che quel piacere inerisce alla rappresentazione dell’oggetto in o g n i a l t r o s o g g e t t o ?

È facile vedere che i giudizii di gusto sono sintetici, perché essi oltrepassano il concetto ed anche l’intuizione dell’oggetto ed aggiungono a questa, come predicato, qualcosa che non è conoscenza; cioè il sentimento di piacere (o dispiacere). Ma che essi, sebbene il predicato (del piacere p a r t i c o l a r e congiunto [289] alla rappresentazione) sia empirico, sieno nonpertanto giudizi a priori; o pretendano d’esser tali, per ciò che concerne il consenso che esigono d a c i a s c u n o , si vede già dalle espressioni stesse con cui proclamano la loro pretesa; e così questo problema della critica del Giudizio rientra nel problema generale della filosofia trascendentale: come son possibili i giudizii sintetici a priori?

§ 37. Che cosa si afferma propriamente «a priori» in un giudizio di gusto su di un oggetto? L’unione immediata della rappresentazione d’un oggetto con un piacere può esser percepita solo internamente, e, se non si volesse indicare se non questo, si avrebbe un semplice giudizio empirico. Perché, difatti, a priori io non posso congiungere con alcuna rappresentazione un determinato sentimento (di piacere o dispiacere), fuorché con quella che ha a fondamento a priori, nella ragione, un principio che determina la volontà; poiché in tal caso ne segue un piacere (nel sentimento morale) che però non può essere paragonato col piacere del gusto, perché suppone il concetto determinato di una legge, mentre quest’altro deve legarsi immediatamente col semplice giudizio, anteriormente ad ogni concetto. Tutti i giudizii di gusto sono quindi giudizii singolari, perché legano il loro predicato del piacere non con un concetto, ma con una data rappresentazione empirica singolare. Non è dunque il piacere, ma l’u n i v e r s a l i t à d i q u e s t o p i a c e r e , percepita come legata nell’animo col semplice giudizio di un oggetto, che è rappresentata a priori, in un giudizio di gusto, come regola universale pel Giudizio, valida per tutti. Con un giudizio empirico io percepisco e giudico un oggetto con piacere. Ma lo trovo bello, cioè posso esigere come necessario quello stesso piacere negli altri, con un giudizio a priori.

§ 38. Deduzione dei giudizii di gusto.

Se si ammette che in un puro giudizio di gusto il piacere per l’oggetto è legato con semplice giudizio della sua forma, non resta [290] se non la finalità soggettiva di questa rispetto al Giudizio, che nel nostro animo sentiamo legata con la rappresentazione dell’oggetto. Ora, poiché la facoltà di giudicare, considerata in relazione con le regole formali del giudizio, e a prescindere da ogni materia (sensazione o concetto), non può riguardare se non le condizioni soggettive dell’uso del Giudizio in generale (che non si applica né ad un modo particolare di sensibilità, né ad un particolare concetto dell’intelletto), – quelle condizioni soggettive, per conseguenza, le quali si presuppongono in ogni uomo (come necessarie per la possibilità della conoscenza in generale); – l’accordo di una rappresentazione con queste condizioni del Giudizio può essere ammesso a priori come valido universalmente. Vale a dire, il piacere, o la finalità soggettiva della rappresentazione rispetto al rapporto delle facoltà conoscitive nel giudizio di un oggetto sensibile in generale, si può con ragione esigere da ciascuno69. NOTA Questa deduzione è così facile, perché non deve giustificare la realtà oggettiva di un concetto; la bellezza, difatti, non è un concetto dell’oggetto, e il giudizio di gusto non è un giudizio di conoscenza. Il giudizio di gusto afferma soltanto che noi siamo autorizzati a presupporre universalmente in ogni uomo quelle stesse condizioni soggettive del Giudizio, che troviamo in noi; e che abbiamo fatto esattamente la sussunzione dell’oggetto dato a queste condizioni. Ora, sebbene questa sussunzione presenti inevitabili difficoltà, che non si trovano nella facoltà logica di giudicare (perché in questa si sussume ai concetti, e invece nel [291] Giudizio estetico si sussume ad un rapporto semplicemente sensibile, cioè a quello dell’immaginazione e dell’intelletto, che si accordano reciprocamente nella rappresentazione della forma d’un oggetto – e qui l’errore è facile); ciò non toglie nulla alla legittimità della pretesa, che ha il Giudizio a contare sul consenso universale, la quale pretesa si riduce a proclamare la legittimità del principio di giudicare su fondamenti soggettivi validi per ognuno. Per ciò che riguarda la difficoltà e il dubbio circa l’esattezza della sussunzione a questo principio, essi rendono tanto poco dubbia la legittimità della pretesa alla validità universale di un giudizio estetico in generale, e quindi il principio stesso, quanto una sussunzione erronea (sebbene la cosa non sia così frequente e facile) del Giudizio logico al suo principio può rendere dubbio questo principio stesso, il

quale è oggettivo. Se poi si domanda come è possibile ammettere a priori la natura come un insieme di oggetti del gusto, tale questione si riferisce alla teleologia, perché bisognerebbe considerare come uno scopo della natura, inerente essenzialmente al concetto che abbiamo di essa, la produzione di forme finali pel nostro Giudizio. Ma la esattezza di questa ipotesi è ancora molto dubbia, mentre la realtà delle bellezze naturali è un fatto d’esperienza.

§ 39. Della comunicabilità di una sensazione. La sensazione, in quanto elemento reale della percezione, che è riferito alla conoscenza, è la sensazione dei sensi; e ciò che è specifico della sua qualità possiamo ammettere che sia generalmente ed uniformemente comunicabile, soltanto nell’ipotesi che ciascuno abbia lo stesso senso che abbiamo noi; il che però non si può assolutamente supporre per una sensazione dei sensi. Così, a colui che manca del senso dell’odorato non può essere comunicata la sensazione relativa; e, se anche il senso non gli manchi, non si può essere proprio sicuri che egli abbia da un fiore la stessa sensazione che ne abbiamo noi. Ma dobbiamo ammettere una differenza anche maggiore tra gli uomini riguardo al p i a c e v o l e o s p i a c e v o l e nella sensazione di uno stesso oggetto dei sensi; e non si può assolutamente pretendere che il piacere per i medesimi oggetti sia lo stesso in ciascuno. Il piacere [292] di questa specie, che penetra nell’animo per via dei sensi e nel quale siamo passivi, si può chiamare il piacere del g o d i m e n t o . Il piacere che dà un’azione pel suo carattere morale non è, invece, un piacere del godimento, ma dell’attività autonoma e della sua conformità all’idea della sua destinazione. Ma questo sentimento, che si dice morale, suppone dei concetti; non rivela una finalità libera, ma conforme a leggi; non può essere, quindi, comunicato universalmente se non per mezzo della ragione, e, se deve esser lo stesso per ognuno, mediante concetti pratici della ragione ben determinati. Il piacere per il sublime della natura, come piacere della contemplazione ragionante, esige anch’esso la partecipazione universale: ma presuppone già un altro sentimento, quello della nostra destinazione soprasensibile, il quale, per quanto sia oscuro, ha un fondamento morale. Ma io non sono autorizzato a supporre senz’altro, che gli altri uomini abbiano in vista tale sentimento, e che essi troveranno piacere nella contemplazione della selvaggia grandiosità

della natura (un piacere, che veramente non si può attribuire all’aspetto della natura, il quale è piuttosto spaventevole). E tuttavia, considerando che si dovrebbe, in ogni occasione opportuna, avere in vista quella disposizione morale, posso anche esigere da ognuno lo stesso piacere, ma solo attraverso la legge morale, la quale a sua volta è fondata sopra concetti della ragione. Il piacere del bello invece non è né un piacere del godimento, né di un’attività conforme a leggi, né della contemplazione ragionante secondo idee, ma un piacere della semplice riflessione; e, senza aver per guida né uno scopo né un principio, accompagna la comune apprensione di un oggetto mediante l’immaginazione, in quanto facoltà dell’intuizione, in relazione con l’intelletto, in quanto facoltà dei concetti, con un procedimento del Giudizio, che esso deve usare anche nella più comune esperienza; con la differenza però che in quest’ultimo caso il Giudizio mira ad un concetto oggettivo empirico, mentre nel primo (nel giudizio estetico) ha soltanto lo scopo di percepire la finalità della rappresentazione rispetto all’azione armonica (soggettivamente finale) delle due facoltà conoscitive nella loro libertà, cioè di sentir con piacere lo stato rappresentativo. Questo piacere deve necessariamente fondarsi in ognuno sulle stesse condizioni, perché sono le stesse condizioni soggettive della possibilità di una conoscenza in generale, e la proporzione di queste [293] facoltà conoscitive, che è richiesta dal gusto, è richiesta anche dalla comune e sana intelligenza, quale si può supporre in ognuno. E appunto perciò colui che giudica in fatto di gusto (sempre che abbia una giusta coscienza del suo giudizio, e non prenda la materia per la forma, l’attrattiva per la bellezza) può esigere in ogni altro la finalità soggettiva, cioè il suo piacere per l’oggetto, e considerare il suo sentimento come universalmente comunicabile, e ciò senza l’intervento di concetti.

§ 40. Del gusto come una specie di «sensus communis». Spesso si dà al Giudizio, quando non si bada tanto alla riflessione, da cui proviene, quando al suo semplice risultato, il nome di senso, e si parla di un senso della verità, di un senso della decenza, di un senso del giusto, e via discorrendo; sebbene si sappia, o almeno ragionevolmente si dovrebbe sapere, che non è in un senso che tali concetti possono aver sede, e che ancor

meno un senso è capace di esprimere regole universali; ma che invece non potremmo mai concepire una rappresentazione della verità, del decoro, della bellezza o della giustizia, se non potessimo elevarci al disopra dei sensi a facoltà di conoscere superiori. L’ i n t e l l i g e n z a c o m u n e , che, in quanto semplice sano intelletto (non peranco coltivato), si riguarda come il minimo che si possa sempre aspettare da chi aspiri al nome di uomo, ha anche perciò il non lusinghiero onore di ricevere il nome di senso comune (sensus communis), e per modo che con la parola c o m u n e (non soltanto nella nostra lingua, che in questo caso è veramente equivoca, ma anche in parecchie altre) s’intende il vulgare, ciò che si trova dovunque, e che non è affatto né un merito né un privilegio il possedere. Ma per sensus communis si deve intendere l’idea di un senso che abbiamo i n c o m u n e , cioè di una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori, del modo di rappresentarne di tutti gli altri, per mantenere in certo modo il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso, e per evitare così la facile illusione di ritenere come oggettive delle condizioni particolari e soggettive; illusioni che avrebbero una [294] influenza dannosa sul giudizio. Ora ciò avviene quando paragoniamo il nostro giudizio con quello degli altri, e piuttosto coi loro giudizii possibili che con quelli effettivi, e ci poniamo al posto di ciascuno di loro, astraendo soltanto dalle limitazioni che sono attinenti in modo contingente al nostro proprio giudizio: il che si ottiene rigettando dal nostro stato rappresentativo tutto ciò che è materia, cioè sensazione, e portando unicamente l’attenzione sulle proprietà formali della nostra rappresentazione o del nostro stato rappresentativo. Ora, questa operazione sembrerà forse troppo artificiosa perché possa essere attribuita alla facoltà che chiamiamo senso comune; ma essa pare così quando è espressa in formule astratte; in se stesso non v’è niente di più naturale che l’astrarre dalle attrattive e dall’emozione, quando si cerca un giudizio, che deve servir da regola universale. Le massime seguenti del senso comune non le esponiamo qui come parti della critica del gusto, ma possono servire alla spiegazione dei suoi principii: 1) pensare da sé; 2) pensare mettendosi al posto degli altri; 3) pensare in modo da essere sempre d’accordo con se stesso. La prima è la massima del modo di pensare l i b e r o d a i p r e g i u d i z i i , la seconda del modo di pensare l a r g o , la terza del modo di pensare c o n s e g u e n t e . La prima è la massima di una ragione che non è mai p a s s i v a . La tendenza alla ragione

passiva, quindi all’eteronomia della ragione, si chiama p r e g i u d i z i o ; e il più grande di tutti consiste nel rappresentarsi la natura come non sottoposta a quelle regole, che l’intelletto le dà a fondamento in virtù della propria legge essenziale, – ed è la s u p e r s t i z i o n e . La liberazione dalla superstizione si chiama i l l u m i n i s m o 70; perché, sebbene questo nome convenga anche alla liberazione dai pregiudizii in generale, la superstizione merita d’esser chiamata il pregiudizio per eccellenza (in sensu eminenti), considerata la cecità in cui ci trascina, e che impone quasi come un obbligo, mettendo nella [295] migliore evidenza il bisogno d’esser guidati dagli altri, e quindi lo stato di una ragione passiva. Per ciò che riguarda la seconda massima del modo di pensare, noi siamo già ben abituati a chiamar ristretto (l i m i t a t o , il contrario di l a r g o ) colui del quale i talenti non sono capaci di qualcosa di grande (soprattutto di qualche cosa d’intensivo). Ma qui non si tratta della facoltà della conoscenza, ma del m o d o d i p e n s a r e , del modo di fare un uso appropriato della facoltà della conoscenza; per cui un uomo, per quanto siano piccoli in lui la capacità e il grado delle doti naturali, mostrerà di avere un l a r g o m o d o d i p e n s a r e , quando si elevi al disopra delle condizioni soggettive particolari del giudizio, tra le quali tanti altri sono come impigliati, e rifletta sul proprio giudizio da u n p u n t o d i v i s t a u n i v e r s a l e (che può determinare soltanto mettendosi dal punto di vista degli altri). La terza massima, cioè quella del modo di pensare c o n s e g u e n t e , è la più difficile ad applicare, e non si può raggiungere se non con l’unione delle due prime, e dopo che per una costante abitudine si sia acquistata in questa una certa abilità. Si può dire che la prima di queste massime è la massima dell’intelletto, la seconda del Giudizio e la terza della ragione. Ripigliando il filo interrotto da questo episodio, dico che il gusto potrebbe esser chiamato sensus communis con più ragione che il sano intelletto; e che spetta piuttosto al Giudizio estetico che al Giudizio intellettuale il nome di senso comune71, se per senso si vuole intendere un effetto della semplice riflessione sull’animo, perché allora per senso s’intende il sentimento di piacere. Si potrebbe perfino definire il gusto come la facoltà di giudicare ciò che rende u n i v e r s a l m e n t e c o m u n i c a b i l e il nostro sentimento rispetto a una data rappresentazione, senza la mediazione di un concetto. L’attitudine che hanno gli uomini di comunicarsi i loro pensieri esige anche un rapporto dell’immaginazione e dell’intelletto, pel quale ai concetti si associano intuizioni, e di nuovo a queste dei concetti sicché gli uni e le

altre concorrano a formare una conoscenza; ma allora l’accordo delle due facoltà dell’animo è [296] l e g a l e per la costrizione di concetti determinati. Ma, dove l’immaginazione in libertà risveglia l’intelletto e questo a sua volta, senza concetti, pone l’immaginazione in un giuoco regolare, la rappresentazione è comunicata non come pensiero, ma come un sentimento intimo di uno stato finalistico dell’animo. Il gusto è perciò la facoltà di giudicare a priori la comunicabilità dei sentimenti, che son legati (senza mediazione d’un concetto) con una data rappresentazione. Se si potesse ammettere che la semplice comunicabilità universale del proprio sentimento debba già implicare per noi un interesse (ciò che, per altro, non si ha il diritto di concludere dalla natura di una facoltà di giudicare semplicemente riflettente), si potrebbe spiegare perché il sentimento nel giudizio di gusto è attribuito a ciascuno quasi come un dovere.

§ 41. Dell’interesse empirico per il bello. È stato sufficientemente dimostrato innanzi che il giudizio di gusto, col quale una cosa è dichiarata bella, non deve avere alcun interesse come m o t i v o . Ma da ciò non segue che, pronunziato questo giudizio come un giudizio estetico puro, nessun interesse vi si possa congiungere. Questo legame, però, potrà sempre essere soltanto indiretto, vale a dire il gusto deve esser anzitutto rappresentato come legato con qualche altra cosa, affinché si possa congiungere col piacere della semplice riflessione su di un oggetto anche un p i a c e r e p e r l ’ e s i s t e n z a di esso (nel quale consiste ogni interesse). Perché vale qui, pel giudizio estetico, ciò che si dice pel giudizio di conoscenza (delle cose in generale): a posse ad esse non valet consequentia. Ora quest’altra cosa può essere qualche cosa di empirico, cioè un’inclinazione propria della natura umana, o qualche cosa di intellettuale, in quanto proprietà della volontà di poter essere determinata a priori dalla ragione; due cose che implicano un piacere circa l’esistenza dell’oggetto, e che possono quindi fondare un interesse per ciò che prima era piaciuto per sé e indipendentemente da ogni interesse. Empiricamente il bello interessa solo nella s o c i e t à ; e se si ammette come naturale nell’uomo la tendenza alla società, e la s o c i e v o l e z z a , cioè l’attitudine e l’inclinazione alla vita sociale, [297] come una qualità inerente

ai bisogni dell’uomo, in quanto creatura destinata alla società, e quindi inerente all’u m a n i t à , – allora non si potrà non considerare il gusto come la facoltà di giudicare di tutto ciò in cui il proprio s e n t i m e n t o può esser comunicato ad ogni altro, e quindi come il mezzo di soddisfare ciò che è richiesto dall’inclinazione naturale di ognuno. Per se stesso un uomo relegato in un’isola deserta non ornerebbe né la sua capanna, né la sua persona, non cercherebbe dei fiori e tanto meno ne coltiverebbe per adornarsene; soltanto nella società egli comincerà a pensare di non essere semplicemente un uomo, ma un uomo distinto nella sua specie (ciò che è il principio dell’incivilimento): perché così è giudicato colui che è disposto e capace di comunicare agli altri il proprio piacere, e che non è soddisfatto da un oggetto, se non ne può condividere con gli altri il piacere. Inoltre, ognuno aspetta ed esige dagli altri che si abbia in vista questa comunicazione universale, quasi come se fosse un patto originario dettato dall’umanità stessa; e così certamente in principio ebbero importanza nella società e furono oggetto di un grande interesse delle cose che son semplicemente attraenti, come i colori per dipingere la persona (il rocou dei caraibi e il cinabro degli irocchesi), i fiori, le conchiglie, le penne d’uccelli di bei colori, e col tempo poi anche le belle forme (come nei canotti, negli abiti, etc.), che per se stesse non danno alcuna soddisfazione, cioè alcun piacere di godimento; finché la civiltà, pervenuta al suo massimo grado, ha fatto di ciò quasi l’essenziale delle tendenze raffinate, e non ha apprezzato se non quelle sensazioni le quali possono essere universalmente comunicate; di guisa che, ora, se anche uno ritrae da un oggetto un piacere insignificante e che non ha per lui un interesse notevole, all’idea della comunicabilità universale del piacere stesso, ne vede quasi cresciuto il valore infinitamente. Ma questo interesse indiretto pel bello, che dipende dalla tendenza alla società, ed è quindi empirico, non ha qui alcuna importanza per noi, che dobbiamo guardare soltanto a ciò che può riferirsi a priori al giudizio di gusto, sia pure indirettamente. Perché, difatti, se potessimo scoprire un interesse sotto tale condizione, il gusto ci mostrerebbe un passaggio della nostra facoltà di giudicare dal godimento dei sensi al sentimento morale; e così non soltanto si sarebbe meglio guidati a impiegare il gusto [298] in modo conforme al fine, ma esso sarebbe considerato come un anello della catena delle facoltà umane a priori dalle quali deve dipendere ogni legislazione. Tutto ciò che si può dire circa l’interesse empirico per gli oggetti del gusto e

del gusto stesso è che, siccome il gusto indulge alle tendenze, per quanto queste siano raffinate, l’interesse per il bello va facilmente confuso con tutte le altre inclinazioni e passioni, che raggiungono nella società la loro massima varietà e il loro grado più alto; che, inoltre, l’interesse per il bello, su tali basi, fornisce un passaggio assai dubbio dal piacevole al buono. Ma abbiamo ragione di ricercare se questo passaggio possa esser fornito dal gusto, quando lo si consideri nella sua purezza.

§ 42. Dell’interesse intellettuale per il bello. Con buona intenzione quelli che vollero riportare tutte le occupazioni, cui gli uomini sono spinti dalle loro disposizioni interne, all’ultimo scopo dell’umanità, cioè al bene morale, videro nell’interesse per il bello un segno di un buon carattere morale. Ma da altri fu loro opposto non senza ragione, e sulla scorta dell’esperienza, che i virtuosi del gusto, non pur di frequente, ma d’ordinario, sono vanitosi, capricciosi, dominati da funeste passioni, e forse meno degli altri possono pretendere ad una superiorità nella devozione ai principii morali; e quindi sembra non solo che il sentimento del bello sia (come è realmente) diverso in modo specifico dal sentimento morale, ma che l’interesse che vi si lega possa difficilmente accordarsi con l’interesse morale, e certo non mai per intima affinità. Ora io concedo volentieri che l’interesse pel b e l l o d e l l ’ a r t e (con che intendo anche l’uso artificiale delle bellezze naturali a scopo di ornamento, e quindi di vanità) non fornisca una prova di un carattere devoto, o anche soltanto inclinato, al bene morale. Ma affermo invece che il prendere u n i n t e r e s s e i m m e d i a t o alla bellezza della natura (non soltanto l’avere gusto per giudicarla) è sempre segno di un animo buono; e che, [299] quando questo interesse è abituale e si accoppia volentieri alla c o n t e m p l a z i o n e d e l l a n a t u r a , mostra almeno una disposizione d’animo favorevole al sentimento morale. Bisogna ricordarsi però che io parlo qui propriamente delle belle f o r m e della natura, escluse le a t t r a t t i v e , che essa vi unisce con tanta profusione, perché l’interesse in tal caso è anche immediato, ma nello stesso tempo empirico. Colui che contempla da solo (e senza intenzione di comunicare agli altri le sue osservazioni) la bella figura di un fiore selvaggio, di un uccello, di un insetto, per ammirarla ed amarla, e non vorrebbe che essa mancasse nella

natura, anche se dovesse venirgliene un danno, e ancora meno si promette da essa qualche utilità, – costui prende un interesse immediato ed intellettuale alla bellezza della natura. Vale a dire che il prodotto naturale non gli piace soltanto per la sua forma, ma anche per la sua esistenza, senza che in ciò v’abbia parte alcuna attrattiva sensibile, o che egli stesso vi connetta uno scopo. Qui è notevole questo fatto, che se s’ingannasse segretamente questo amatore del bello, piantando a terra dei fiori artificiali (come se ne possono fare perfettamente simili a quelli della natura), o mettendo degli uccelli artisticamente scolpiti su pei rami degli alberi, e dopo gli si scoprisse l’inganno, sparirebbe subito quest’interesse immediato che egli aveva prima, e forse darebbe luogo ad un altro interesse, a quello della vanità, al desiderio cioè di ornare la propria stanza di quegli oggetti per farne mostra. Il pensiero che deve accompagnare l’intuizione e la riflessione è questo: è la natura che ha prodotto questa bellezza; e solo su ciò si fonda l’interesse immediato, che si ha per la bellezza naturale. Altrimenti non resta che o un semplice giudizio di gusto, privo di qualsiasi interesse, o un giudizio legato a un interesse mediato, cioè in relazione con la società, il quale non dà alcun indizio sicuro di buone diposizioni morali. Questo vantaggio che ha la bellezza naturale sulla bellezza artistica, di destare essa sola un interesse immediato, sebbene possa essere superata dall’altra per ciò che riguarda la forma, si accorda col carattere raffinato e solido di tutti gli uomini che hanno coltivato il proprio sentimento morale. Se un uomo, che ha gusto sufficiente per giudicare dei prodotti delle belle arti [300] con la massima giustezza e finezza, abbandona volentieri la stanza in cui brillano queste bellezze che soddisfano la vanità ed alimentano i piaceri sociali, e si rivolge a cercare il bello naturale per trovarvi quasi una voluttà pel suo spirito su una via di pensiero di cui egli non potrà mai raggiungere il termine; noi considereremo questa scelta con grande rispetto, e vedremo in lui una bell’anima, quale non può pretendere di essere un intenditore o un amatore d’arte, per via dell’interesse che prova per i suoi oggetti. – Quale è dunque la differenza di queste valutazioni così diverse di due oggetti, i quali nel giudizio del semplice gusto appena si disputerebbero la superiorità? Noi abbiamo una facoltà del puro Giudizio estetico, cioè la facoltà di giudicare le forme senza concetti, e di trovare, nel semplice giudizio di esse, un piacere del quale facciamo una regola per ciascuno, senza che questo

giudizio si fondi su qualche interesse o ne produca alcuno. – Abbiamo d’altra parte una facoltà del Giudizio intellettuale, la quale determina a priori un piacere per le semplici forme delle massime pratiche (in quanto queste costituiscono da se stesse una legislazione universale), e fa di questo piacere una legge per tutti, senza che il giudizio si fondi su qualche interesse, m e n t r e p e r ò n e p r o d u c e u n o . Il piacere o dispiacere nel primo giudizio si dice piacere del gusto, il secondo si dice piacere del sentimento morale. Ma siccome anche interessa la ragione che le idee (per le quali essa produce nel sentimento morale un interesse immediato) abbiano anche realtà oggettiva, vale a dire che la natura mostri almeno qualche traccia, dia qualche cenno di contenere in sé qualche fondamento, pel quale possiamo ammettere un accordo regolare dei suoi prodotti col nostro piacere indipendente da ogni interesse (che noi riconosciamo a priori come legge per tutti, senza poterne dare una dimostrazione); la ragione dovrà prendere interesse per ogni manifestazione della natura che esprima un simile accordo; e per conseguenza l’animo non può riflettere sulla bellezza della natura, senza trovarvisi nello stesso tempo interessato. Ma questo interesse è morale per parentela; e colui che prende interesse al bello della natura non ne sarebbe capace se prima non avesse avuto un interesse ben fondato [301] pel bene morale. Si ha dunque ragione di supporre in colui che s’interessa immediatamente pel bello di natura, almeno una disposizione ai buoni sentimenti morali. Si dirà che questa interpretazione dei giudizii estetici, per via della parentela col sentimento morale, sembra troppo artificiosa perché possa riguardarsi come la vera spiegazione del linguaggio cifrato col quale la natura ci parla nelle sue forme belle. Ma, in primo luogo, questo interesse pel bello naturale è in realtà poco comune, ed è proprio di coloro il cui carattere o già è educato al bene, o è eminentemente disposto a ricevere questa educazione; e allora l’analogia tra il puro giudizio di gusto che, senza dipendere da alcun interesse, fa sentire un piacere e insieme lo rappresenta a priori come appropriato all’umanità in generale, e il giudizio morale, che fa la stessa cosa in base a concetti, è un’analogia che porta, anche senza una riflessione chiara, sottile e intenzionale, a un ugual interesse immediato per l’oggetto di entrambi; soltanto che il primo interesse è libero, mentre il secondo si basa su leggi oggettive. A ciò si aggiunga l’ammirazione della natura, la quale si

rivela come arte nei suoi bei prodotti, non per puro caso, ma quasi con intenzione, secondo un ordine regolare e come finalità senza scopo: questo scopo, poiché non lo troviamo esternamente, lo cerchiamo naturalmente in noi stessi, e in ciò che costituisce lo scopo ultimo della nostra esistenza, cioè nella destinazione morale (ma del fondamento della possibilità di una simile finalità della natura si discorrerà soltanto nella teleologia). È anche facile mostrare che il piacere per l’arte bella nel giudizio puro di gusto non è legato a un interesse immediato come quello per la bella natura. Perché, difatti, l’arte bella o è un’imitazione, fino all’illusione, della bella natura, e allora fa lo stesso effetto della bellezza naturale (è tenuta per tale); o è un’arte evidentemente diretta con intenzione al nostro piacere; ma allora il piacere per i suoi prodotti starebbe sì immediatamente nel gusto, eppure non vi sarebbe alcun interesse mediato per la causa produttrice, cioè per l’arte, la quale può interessare solo per il suo scopo, non mai per se stessa. Si dirà forse che questo è anche il caso degli oggetti naturali che interessano per la loro bellezza, [302] solo in quanto vi si associa una idea morale; ma non è punto questo che interessa immediatamente; è, invece, il carattere della bellezza naturale in se stessa, ossia la sua attitudine a una tale associazione, che le si addice quindi per ragioni intrinseche. Le attrattive della bella natura, che si trovano spesso come confuse con le belle forme, appartengono o alle modificazioni della luce (nel colorito), o alle modificazione del rumore (nei suoni). Perché queste son le sole sensazioni, che non danno luogo semplicemente a un sentimento dei sensi, ma permettono anche la riflessione sulla forma di queste modificazioni dei sensi, e contengono come un linguaggio che la natura rivolge a noi, e che sembra avere un senso superiore. Così pare che il color bianco del giglio disponga l’animo all’idea dell’innocenza, e, seguendo l’ordine dei sette colori, dal rosso al violetto, pare che le disposizioni dell’animo siano le seguenti: 1) all’idea della sublimità, 2) dell’ardimento, 3) della franchezza, 4) dell’affabilità, 5) della modestia, 6) della costanza, 7) della tenerezza. Il canto degli uccelli esprime la gioia e la contentezza della loro esistenza. Almeno così noi interpretiamo la natura, siano questi o no i suoi fini. Ma questo interesse che noi prendiamo per la bellezza esige assolutamente che si tratti della bellezza naturale; ed esso scompare non appena ci accorgiamo di essere stati ingannati e che si tratta soltanto dell’arte; al punto che allora anche il gusto non può trovar più niente di bello nell’oggetto, o la vista niente di

attraente. Che cosa è più altamente vantato dai poeti se non il canto affascinante dell’usignolo, in un boschetto solitario, in una placida sera estiva, al dolce chiaror della luna? È accaduto, però, qualche volta, che non vi fosse realmente un tal cantore: un ospite allegro, per contentare maggiormente i suoi amici, invitati ai piaceri campestri, li prese in giro, facendo nascondere in un boschetto un furbo ragazzo, che sapesse imitare al naturale quel canto, con una canna od un tubo. Non appena si scoprì l’inganno nessuno volle più udire quel canto, che poco prima era stato tanto piacevole; e così è del canto di qualunque altro uccello. Bisogna che si tratti della natura, o di qualcosa che riteniamo come natura, perché possiamo avere pel bello un interesse immediato; e tanto più se possiamo esigere dagli altri un simile interesse; [303] perché allora, difatti, chiamiamo grossolana ed ignobile la maniera di sentire di quelli che non hanno il s e n t i m e n t o della bella natura (perché così chiamiamo la capacità di interessarsi alla contemplazione della natura), e si attengono al godimento puramente sensuale del mangiare e del bere.

§ 43. Dell’arte in generale. 1) L’a r t e si distingue dalla n a t u r a come fare (facere) da agire o da operare in generale (agere), e il prodotto o risultato della prima si distingue da quello della seconda come opera (opus) da effetto (effectus). A rigore non si dovrebbe dare il nome di arte se non alla produzione mediante libertà, cioè per mezzo di una volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azioni. Difatti, sebbene piaccia chiamare opera d’arte anche ciò che producono le api (le cellette di cera regolarmente costruite), ciò si fa soltanto per analogia; non appena ci accorgiamo che esse non fondano il loro lavoro su di una vera riflessione razionale, diciamo che si tratta di un prodotto della loro natura (dell’istinto), e in quanto arte lo attribuiamo soltanto al loro creatore. Quando, scavando in una palude, si trova, come spesso accade, un pezzo di legno sgrossato, non si dice che esso è un prodotto della natura, ma dell’arte; la sua causa efficiente concepì uno scopo, cui esso deve la sua forma. D’altra parte si vede volentieri dell’arte in tutto ciò che è fatto in modo che la sua rappresentazione dovette essere nella causa prima della realizzazione (come anche nelle api), senza che tuttavia l’effetto debba essere

stato proprio p e n s a t o come tale dalla causa stessa; ma quando qualche cosa si chiama assolutamente un’opera d’arte, per distinguerla da un effetto della natura, s’intende sempre con ciò un’opera degli uomini. 2) L’a r t e in quanto abilità dell’uomo è distinta anche dalla s c i e n z a (come potere da sapere), come la facoltà pratica dalla teoretica, come la tecnica dalla teoria (l’agrimensura dalla geometria). Ed è perciò che non si chiama propriamente arte tutto ciò che si p u ò fare non appena si s a p p i a ciò che si deve fare e si conosca sufficientemente l’effetto desiderato. Soltanto ciò che, anche quando sia conosciuto perfettamente, non [304] si ha ancora l’abilità per produrlo, appartiene all’arte. Camper72 descrive esattissimamente come dovrebbe esser fatta un’ottima scarpa; ma certamente egli non la sapeva fare73. 3) L’a r t e è anche distinta dal m e s t i e r e ; la prima si chiama l i b e r a l e , il secondo può esser chiamato m e r c e n a r i o . Si riguarda la prima come se potesse aver esito (riuscita) conforme al fine, soltanto come gioco, cioè come un’occupazione piacevole per se stessa; il secondo invece come un lavoro, cioè come un’occupazione che per se stessa è spiacevole (penosa) ed attrae soltanto pel risultato (per esempio, la ricompensa) che promette, e che quindi può essere imposta con la costrizione. Per giudicare se nella gerarchia delle professioni l’orologiaio debba essere considerato come un artista ed il fabbro come un artigiano, è necessario un altro punto di vista, diverso da quello che assumiamo qui; cioè la proporzione dei talenti che debbono stare a fondamento dell’una o dall’altra professione. Potremmo anche essere condotti ad esaminare se tra le sette cosidette arti liberali ve ne sia qualcuna che andrebbe nel novero delle scienze e qualche altra che potrebbe essere pareggiata ai mestieri; ma di ciò ora non voglio parlare. Non è tuttavia fuor di luogo ricordare che in tutte le arti liberali è pure necessario qualche cosa di costretto, ovvero, come si dice, un m e c c a n i s m o , senza del quale lo s p i r i t o , che nell’arte dev’esser l i b e r o e che solo anima l’opera, non acquisterebbe corpo e svaporerebbe interamente (così, per esempio, nella poesia, la proprietà e la ricchezza della lingua, come la prosodia e la ritmica); non è inopportuna questa osservazione; perché parecchi dei nuovi educatori credono di favorire l’arte nel miglior modo, scartando da essa ogni costrizione e mutandola da lavoro in semplice giuoco.

§ 44. Dell’arte bella. Non v’è una scienza del bello, ma solamente la critica di esso, e non vi son belle scienze, ma soltanto belle arti. Difatti, se vi fosse una scienza del bello, in essa si dovrebbe decidere scientificamente, [305] cioè con argomenti, se una cosa deve essere tenuta per bella o no; così il giudizio sulla bellezza, appartenendo alla scienza, non sarebbe punto un giudizio di gusto. Per ciò che riguarda le belle scienze, è un non senso una scienza che, come tale, dev’essere bella. Perché se ad essa, in quanto scienza, domandassimo una risposta in principii e dimostrazioni, essa ce la darebbe in sentenza di buon gusto (bonmots). – Ciò che ha dato luogo alla comune espressione di b e l l e s c i e n z e74 è, senza dubbio, niente altro che questo: si è osservato molto giustamente che nell’arte bella, nella sua completa perfezione, vien richiesta molta scienza, come, per esempio, la conoscenza delle lingue antiche, la lettura degli autori ritenuti classici, la storia, la conoscenza delle antichità, etc.; e poiché queste scienze storiche costituiscono la necessaria preparazione e il fondamento dell’arte bella, ed anche perché in esse è stata compresa la conoscenza stessa dei prodotti delle arti belle (eloquenza e poesia), con uno scambio di parole sono state chiamate esse stesse belle scienze. Quando l’arte, adeguatamente alla c o n o s c e n z a di un oggetto possibile, compie soltanto le operazioni necessarie per realizzarlo, essa è m e c c a n i c a ; se, invece, ha per scopo immediato il sentimento di piacere, è e s t e t i c a . Questa è o arte p i a c e v o l e o arte b e l l a . È piacevole quando il suo scopo è di far accompagnare il piacere alle rappresentazioni in quanto semplici s e n s a z i o n i ; è bella quando ha per iscopo di accoppiare il piacere alle rappresentazioni come m o d i d i c o n o s c e n z a . Le arti piacevoli son quelle dirette unicamente al godimento; tali sono tutte quelle attrattive che possono dilettare una riunione conviviale; come il raccontare piacevolmente, l’impegnare i commensali in una conversazione franca e vivace, il portarli con lo scherzo e col riso ad un certo tono di allegria, in modo che si possa chiacchierare spensieratamente, e nessuno voglia rispondere di ciò che dice, perché si pensa soltanto al divertimento momentaneo, e non a fornire una materia durevole alla riflessione e alla discussione. (Bisogna anche aggiungervi il modo di allestire la tavola in vista del godimento, ed ancora la musica da tavola dei grandi pranzi: una cosa

meravigliosa, la quale soltanto con un gradevole rumore deve mantenere negli animi la disposizione allegra, e, senza che nessuno presti la minima attenzione [306] alla sua composizione, favorisca la conversazione libera tra l’uno e l’altro vicino.) A queste arti appartengono anche tutti quei giochi i quali non offrono altro interesse oltre quello di far passare il tempo. L’arte bella, invece, è una specie di rappresentazione che ha il suo scopo in se stessa, e nondimeno, pur non avendo altro fine, favorisce la coltura delle facoltà dell’animo sotto il riguardo della socievolezza. La comunicabilità universale di un piacere implica già nel suo concetto che il piacere stesso non debba essere proprio di godimento, derivando da una semplice sensazione, ma debba dipendere dalla riflessione; e quindi l’arte estetica, in quanto arte bella, è tale che ha per criterio il Giudizio riflettente e non la sensazione.

§ 45. L’arte bella è un’arte in quanto ha l’apparenza della natura. Davanti a un prodotto dell’arte bella bisogna aver la coscienza che esso è arte e non natura; ma la finalità della sua forma deve apparire libera da ogni costrizione di regole volontarie, come se fosse un prodotto semplicemente della natura. Su questo sentimento della libertà nel giuoco delle nostre facoltà conoscitive, che dev’essere nel tempo stesso finalistico, riposa quel piacere che solo può essere universalmente comunicato, senza che tuttavia si fondi su concetti. Vedemmo che la natura è bella quando ha l’apparenza dell’arte; l’arte, a sua volta, non può esser chiamata bella se non quando noi, pur essendo coscienti che essa sia arte, la riguardiamo come natura. Possiamo quindi dire in generale, si tratti della bellezza naturale o artistica, che b e l l o è c i ò c h e p i a c e u n i c a m e n t e n e l g i u d i z i o (non nella sensazione o per mezzo di un concetto). Ora, l’arte ha sempre lo scopo determinato di produrre qualche cosa. Ma se si trattasse di una semplice sensazione (qualcosa di puramente soggettivo), che dovrebbe essere accompagnata dal piacere, allora questo prodotto piacerebbe nel giudizio soltanto per mezzo di un sentimento risultante dal senso. Se invece lo scopo dell’arte fosse la produzione di un oggetto determinato, questo, una volta che l’arte l’avesse realizzato, piacerebbe soltanto per mezzo di concetti. In

entrambi i casi l’arte non piacerebbe n e l s e m p l i c e a t t o d e l g i u d i z i o , cioè in quanto bella, ma in quanto meccanica. Sicché la finalità nei prodotti delle arti belle, sebbene sia voluta, [307] deve apparire spontanea; vale a dire, l’arte bella deve p r e s e n t a r s i come natura, sebbene si sappia che è arte. Ma un prodotto dell’arte ha l’apparenza della natura quando sia stata p u n t u a l m e n t e ottenuta la conformità alle regole secondo cui soltanto esso può essere ciò che dev’essere, ma senza s f o r z o , senza che trasparisca la forma scolastica, vale a dire senza che per alcuna traccia si veda che l’artista ebbe la regola sotto gli occhi e le facoltà del suo animo furono inceppate.

§ 46. L’arte bella è arte del genio. Il g e n i o è il talento (dono naturale), che dà la regola all’arte. Poiché il talento, come facoltà produttrice innata dell’artista, appartiene anche alla natura, ci si potrebbe esprimere anche così: il g e n i o è la disposizione innata dell’animo (ingenium) p e r m e z z o d e l l a q u a l e la natura dà la regola dell’arte. Checché ne sia di questa definizione, sia essa semplicemente arbitraria, o adeguata al concetto che comunemente si associa alla parola g e n i o (ciò che dev’esser chiarito nel paragrafo seguente), si può sempre dimostrare in precedenza che, secondo il significato della parola che abbiamo accolto, le arti belle debbono essere necessariamente considerate come arti del g e n i o . Difatti, ogni arte presuppone delle regole, sul fondamento delle quali ogni produzione che debba essere chiamata artistica, è rappresentata come possibile. Ma il concetto dell’arte bella non permette che il giudizio sulla bellezza del suo prodotto sia derivato da qualche regola che abbia a fondamento un c o n c e t t o , il quale determini come il prodotto sia possibile. Sicché l’arte bella non può trovare da se stessa la regola secondo cui deve realizzare i suoi prodotti. E poiché senza una regola anteriore un prodotto non può mai chiamarsi arte, bisogna che la natura dia la regola all’arte nel soggetto (mediante la disposizione delle sue facoltà), vale a dire l’arte bella è possibile soltanto come prodotto del genio. Da ciò si vede quanto segue: 1) Il genio è il t a l e n t o di produrre ciò di cui non si può dare una regola determinata, non un’attitudine particolare a ciò che può essere appreso mediante [308] una regola; per conseguenza,

l’o r i g i n a l i t à è la sua prima proprietà. 2) Poiché vi possono essere anche stravaganze originali, i suoi prodotti debbono essere insieme modelli, cioè e s e m p l a r i ; quindi, benché essi stessi non nati da imitazione, devono tuttavia servire per gli altri a ciò, vale a dire come misura e regola del giudizio. 3) Il genio stesso non può mostrare scientificamente come compie la sua produzione, ma dare la regola in quanto n a t u r a ; perciò l’autore di un prodotto, che egli deve al proprio genio, non sa esso stesso come le idee se ne trovino in lui, né ha la facoltà di trovarne a suo piacere o metodicamente delle altre, e di fornire agli altri precetti che li mettano in condizione di eseguire gli stessi prodotti. (È perciò, probabilmente, che la parola genio è stata derivata da genius, che significa lo spirito proprio di un uomo, quello che gli è stato dato con la nascita, lo protegge, lo dirige, e dalla cui ispirazione provengono quelle idee originali.) 4) La natura mediante il genio non dà la regola alla scienza, ma all’arte, e a questa soltanto in quanto dev’essere arte bella.

§ 47. Spiegazione e conferma della precedente definizione del genio. Tutti si accordano nel riconoscere che il genio è da mettere in opposizione assoluta con lo s p i r i t o d ’ i m i t a z i o n e . Ora, poiché l’apprendere non è altro che imitare, la più grande facilità ad apprendere, la più grande capacità, come tale non può far le veci del genio. Se anche qualcuno pensa o immagina da sé, e non si limita a comprendere semplicemente ciò che gli altri hanno pensato, ma inventa qualche cosa nel campo dell’arte e della scienza, tuttavia non si ha una buona ragione per chiamare una tal mente (spesso grande) un g e n i o (in opposizione a chi, non potendo far mai altro che apprendere ed imitare, è detto un p a p p a g a l l o ) ; perché appunto tutto ciò che egli fa, avrebbe potuto impararlo, giugervi per la via naturale della ricerca e della riflessione secondo regole, e non è specificamente diverso da ciò che si può conseguire con la diligenza e l’imitazione. Così, tutto ciò che Newton ha esposto nella sua immortale opera dei principii della filosofia naturale, per quanto a scoprirlo sia stata necessaria una grande mente, si può bene imparare; ma non si può imparare a poetare genialmente, per quanto [309] possano essere minuti i precetti della poetica, ed eccellenti i modelli. La ragione è questa, che Newton avrebbe potuto, non solo a se stesso, ma ad

ogni altro, render visibili ed additare precisamente all’imitazione tutti i suoi passi, dai primi elementi della geometria fino alle grandi e profonde scoperte; ma nessuno Omero o Wieland potrebbe mostrare come si siano prodotte e combinate nella sua testa le sue idee, ricche di fantasia e dense di pensiero, perché non lo sa egli stesso, e non può quindi insegnarlo agli altri. Nel campo della scienza il più grande inventore non è dunque diverso dal più travagliato imitatore e discepolo se non per una differenza di grado, ma è specificamente diverso da colui che la natura ha dotato per le arti belle. Questo non significa abbassare il merito di quei grandi uomini, ai quali deve tanto il genere umano, rispetto a quei favoriti della natura che hanno il talento per le belle arti. Appunto perché il talento dei primi è destinato al sempre progressivo perfezionamento delle conoscenze e di tutti i vantaggi che ne derivano, ed anche all’istruzione degli altri nelle conoscenze stesse, essi hanno una grande superiorità su quelli che meritano l’onore di essere chiamati genii; per questi ultimi infatti l’arte deve cessare in qualche punto, perché le sono imposti dei limiti che non può sorpassare, e che verosimilmente ha già raggiunti da lungo tempo e non possono essere allargati; inoltre l’abilità dell’artista non è comunicabile, ma vuole essere data ad ognuno direttamente dalla mano della natura, e muore con lui, finché la natura un giorno non dia il dono ad un altro, che non abbia bisogno d’altro che di un esempio per esercitare in modo simile il talento, di cui egli è cosciente. Se il dono naturale dell’arte (in quanto bella) deve dare la regola, di che specie dovrà essere questa? Essa non può esser racchiusa in una formula per servir da precetto, perché allora il giudizio sul bello sarebbe determinabile mediante concetti; ma la regola deve essere astratta dal fatto, cioè dal prodotto, sul quale gli altri possono saggiare il proprio talento e servirsene come modello, non già da c o p i a r e ma da s e g u i r e . È difficile spiegare come ciò sia possibile. Le idee dell’artista suscitano idee analoghe nell’allievo, se questi è stato dotato dalla natura di una analoga proporzione delle facoltà dell’animo. I modelli delle belle [310] arti sono perciò l’unico mezzo che trasmetta l’arte alla posterità; il che non potrebbe avvenire mediante semplici descrizioni (in specie nel campo delle arti della parola); e anche in queste non possono diventar classici se non i modelli formulati in lingue antiche, morte, e ora conservate soltanto come lingue dotte. Sebbene vi sia una grande differenza tra l’arte meccanica, come arte semplicemente della diligenza e dello studio, e l’arte bella, in quanto arte del

genio, non vi è alcun’arte bella in cui non si trovi qualche cosa di meccanico, che può essere appreso e seguito secondo regole, e quindi qualche cosa di s c o l a s t i c o che costituisce la condizione essenziale dell’arte. Poiché nell’arte bisogna che sia pensato uno scopo; altrimenti i suoi prodotti non si potrebbero attribuire all’arte, e sarebbero un puro effetto del caso. Ma per effettuare uno scopo son necessarie regole determinate, alle quali non è lecito sottrarsi. Ora, poiché l’originalità del talento costituisce un elemento essenziale (ma non il solo) del carattere del genio, alcuni spiriti superficiali credono di non poter mostrar meglio di essere genii brillanti, che sbarazzandosi della costrizione scolastica d’ogni regola, ed immaginando che si faccia miglior figura su di un cavallo furioso che su di un cavallo di maneggio. Il genio non può se non fornire una ricca m a t e r i a ai prodotti delle belle arti; per lavorarla e darle la f o r m a occorre un talento formato dalla scuola e che sia capace di farne un uso che possa essere approvato dal Giudizio. Ma è qualche cosa di perfettamente ridicolo quando qualcuno parla e decide come un genio in quelle cose che esigono dalla ragione le più laboriose ricerche; e non si sa di chi si debba ridere più, se del ciarlatano che spande tanto fumo intorno a sé che non si possa veder niente chiaramente, ma immaginare quanto si vuole, o del pubblico, il quale crede ingenuamente che la sua incapacità a discernere chiaramente e a comprendere quel capolavoro dell’intelligenza dipenda dal fatto che gli si danno delle nuove verità in grande abbondanza, mentre poi gli pare un lavoro da ciabattino quello che è fatto con le definizioni appropriate e l’esame metodico dei principii.

§ 48. Del rapporto del genio col gusto. [311] Per g i u d i c a r e degli oggetti belli come tali è necessario il g u s t o ; ma per l’arte bella stessa, cioè per la p r o d u z i o n e di tali oggetti, è necessario il g e n i o . Se si considera il genio come un talento per l’arte bella (ciò che è nel significato proprio della parola), e sotto questo rispetto lo si voglia scomporre nelle facoltà che debbono concorrere a costituirlo, è necessario determinare prima esattamente la differenza tra la bellezza naturale, il cui giudizio esige solo del gusto, e la bellezza d’arte, la cui possibilità (che deve anche essere tenuta in conto nel giudizio sugli oggetti dell’arte) esige del genio. Una bellezza naturale è una c o s a b e l l a : la bellezza d’arte è una

r a p p r e s e n t a z i o n e b e l l a di una cosa. Per giudicare una bellezza naturale come tale io non ho bisogno di aver prima un concetto di ciò che l’oggetto deve essere; vale a dire, non ho bisogno di conoscerne la finalità materiale (lo scopo), ma la semplice forma, senza conoscenza dello scopo, mi piace per se stessa nel giudizio. Ma se l’oggetto è dato come un prodotto dell’arte, e come tale dev’esser dichiarato bello, poiché l’arte presuppone sempre uno scopo nella sua causa (e nella causalità di questa), bisogna prima appoggiarsi al concetto di ciò che la cosa deve essere; e, poiché l’accordo del molteplice in una cosa in vista di una destinazione interna di essa, in quanto scopo, costituisce la perfezione della cosa stessa; – nel giudizio della bellezza d’arte deve anche esser presa in considerazione la perfezione della cosa che non c’entra affatto nel giudizio d’una bellezza naturale (come tale). – Nel giudizio della bellezza specialmente degli oggetti animati della natura, per esempio, dell’uomo o d’un cavallo, si prende comunemente in considerazione anche la finalità oggettiva; ma allora il giudizio non è più puramente estetico, cioè un semplice giudizio di gusto, la natura non è più giudicata come avente l’apparenza dell’arte, ma in quanto è realmente arte (sebbene sovrumana) e il giudizio [312] teleologico serve a quello estetico da fondamento e da condizione cui questo deve guardare. In tal caso, quando per esempio si dice: «è una bella donna», non si pensa altro che questo: la natura rappresenta bellamente in questa forma gli scopi che essa si propone nel corpo femminile; perché bisogna guardare, oltre che alla semplice forma, ad un concetto, in modo che il giudizio sull’oggetto diventa un giudizio logico ed estetico insieme. L’arte bella mostra la sua preminenza in questo, che può render belle quelle cose che in natura sono brutte o spiacevoli. Le furie, le malattie, le devastazioni della guerra, e simili, possono essere come cose dannose molto ben descritte, ed anche rappresentate nei quadri; una sola specie di cose brutte non può essere rappresentata secondo natura, senza che vada distrutto ogni piacere estetico e quindi la bellezza d’arte, cioè quelle che ispirano d i s g u s t o . Perché, siccome in questa singolare sensazione, che riposa soltanto sull’immaginazione, l’oggetto è rappresentato come se si imponesse al nostro piacere, e noi però lo respingiamo con forza, la rappresentazione artistica dell’oggetto non si distingue più nella nostra sensazione dalla natura dell’oggetto stesso, e quindi non può essere tenuta per bella. Così la scultura,

i cui prodotti quasi possono scambiarsi con quelli della natura, ha escluso dalle sue figurazioni la rappresentazione immediata di oggetti brutti, e non permette di rappresentare semplicemente pel Giudizio estetico, ma solo indirettamente mediante un’interpretazione della ragione, per via di allegorie o di attributi piacevoli, certi temi, come per esempio la morte (che essa converte in un bel genio) e lo spirito della guerra (di cui ha fatto Marte). E tanto basti per la bella rappresentazione di un oggetto, che propriamente non è altro che la forma dell’esibizione di un concetto, il quale in tal modo è comunicato universalmente. – Ma per dare questa forma ai prodotti delle belle arti non è necessario che del gusto, col quale l’artista, quando lo abbia esercitato e corretto per mezzo di numerosi esempii dell’arte o della natura, giudica la sua opera, e, dopo molti tentativi spesso laboriosi, trova quella forma che lo soddisfa: perciò questa forma non è cosa dell’ispirazione o di un libero slancio delle facoltà dell’animo, ma di un lungo e anche penoso processo di perfezionamento, [313] volto a adeguare la forma al concetto, senza recar tuttavia pregiudizio al libero gioco delle facoltà dell’animo. Ma il gusto è semplicemente una facoltà di giudicare, non una facoltà produttiva; e ciò che è adeguato ad esso, non è solo per questo un’opera d’arte bella; può essere un prodotto dell’arte utile e meccanica o anche della scienza, che sia l’effetto di regole determinate, le quali possono essere apprese e debbono essere rigorosamente seguite. Ma la forma piacevole che le si dà è soltanto il mezzo di comunicarla e un modo di presentarla, rispetto al quale si ha ancora una certa libertà, sebbene si sia legati ad uno scopo determinato. Così si richiede che un servizio da tavola, o anche un trattato morale, e perfino una predica, abbiano questa forma dell’arte bella, senza che vi sembri v o l u t a ; ma non si chiamano perciò opere d’arte bella. Si considerano tali, invece, un poema, una musica, una galleria di quadri, e simili; e in un’opera, che dev’essere tenuta come appartenente alle arti belle, si trova spesso del genio senza gusto, o del gusto senza genio.

§ 49. Delle facoltà dell’animo, che costituiscono il genio. Si dice di certi prodotti che dovrebbero mostrarsi, almeno in parte, come appartenenti alle arti belle, che esse sono senza anima, sebbene per ciò che

concerne il gusto non vi si trovi niente da biasimare. Una poesia può essere molto garbata ed elegante, ma è senz’anima. Una storia è esatta ed ordinata, ma senz’anima. Un discorso solenne è solido e ornato insieme, ma senz’anima. Molte conversazioni non sono senza interesse, ma senz’anima; perfino d’una donna si dice che è bella, affabile e graziosa, ma senz’anima. Che cosa si vuol dunque intendere con la parola anima? A n i m a nel significato estetico è il principio vivificante dell’animo. Ma ciò con cui questo principio vivifica l’anima, la materia di cui si serve, è ciò che dà uno slancio armonico alle facoltà dell’animo, e le pone in un giuoco che si alimenta da sé e fortifica le facoltà stesse da cui risulta. Ora io sostengo che questo principio non è altro che la [314] facoltà di esibizione delle i d e e e s t e t i c h e; dove per idee estetiche intendo quelle rappresentazioni dell’immaginazione, che danno occasione a pensare molto, senza che però un qualunque pensiero o un c o n c e t t o possa esser loro adeguato, e, per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili. – Si vede di leggieri che esse sono il corrispondente (pendant) delle i d e e d e l l a r a g i o n e, le quali sono invece concetti cui nessuna i n t u i z i o n e (rappresentazione dell’immaginazione) può essere adeguata. L’immaginazione (come facoltà di conoscere produttiva) ha una grande potenza nella creazione di un’altra natura tratta dalla materia che le fornisce la natura reale. Noi ci divertiamo con essa, quando l’esperienza ci par troppo banale, trasformandola, sempre, è vero, secondo leggi analogiche, ma anche secondo principii che hanno la loro più alta origine nella ragione (e che ci son naturali proprio come quelli con cui l’intelletto comprende la natura empirica); e così facendo noi sentiamo la nostra indipendenza dalla legge dell’associazione (la quale è inerente all’uso empirico dell’immaginazione), perché se, secondo essa, caviamo la materia dalla natura, la elaboriamo però in vista di qualcos’altro, vale a dire di ciò che trascende la natura. Si possono chiamare idee queste rappresentazioni dell’immaginazione; sia perché esse tendono, almeno, a qualcosa che sta al di là dei limiti dell’esperienza, e cercano così di approssimarsi a un’esibizione dei concetti della ragione (delle idee intellettuali), ciò che dà loro un’apparenza di realtà oggettiva; e sia perché, ciò che è capitale, nessun concetto può essere loro completamente adeguato (in quanto intuizioni interne). Il poeta osa render sensibili idee razionali di esseri invisibili, il regno dei beati, il regno

infernale, l’eternità, la creazione, e simili; o anche trasporta ciò, di cui trova i modelli nell’esperienza, come per esempio la morte, l’invidia e tutti i vizii, l’amore, la gloria, etc., al di là dei limiti dell’esperienza con un’immaginazione che gareggia con la ragione nel conseguimento di un massimo, rappresentando tutto ciò ai sensi con una perfezione di cui la natura non dà nessun esempio; ed è propriamente nella poesia che la facoltà delle idee estetiche può mostrarsi in tutto il suo potere. Ma questa facoltà considerata soltanto in se stessa, non è propriamente altro che un talento (dell’immaginazione). Ora, se si sottopone ad un concetto una rappresentazione [315] dell’immaginazione, che appartenga alla sua esibizione, ma che per se stessa dia tanta occasione a pensare da non lasciarsi mai racchiudere in un concetto determinato, e quindi estenda esteticamente il concetto stesso in un modo illimitato; l’immaginazione è in tal caso creatrice, e pone in moto la facoltà delle idee intellettuali (la ragione), facendola così pensare, all’occasione di una rappresentazione (ciò che appartiene bensì al concetto dell’oggetto), più di quanto in essa possa essere compreso e pensato chiaramente. Quelle forme, che non costituiscono da sé l’esibizione di un concetto dato, ma, in quanto rappresentazioni secondarie dell’immaginazione, esprimono soltanto le conseguenze che vi si legano e l’affinità di quel concetto con altri concetti, son chiamate a t t r i b u t i (estetici) di un oggetto, il cui concetto, in quanto idea della ragione, non può essere esibito adeguatamente. Così l’aquila di Giove con la folgore tra gli artigli è un attributo del potente re del cielo, e il pavone della splendida regina del cielo. Essi non rappresentano, come gli a t t r i b u t i l o g i c i , ciò che è nei nostri concetti della sublimità e maestà della creazione, ma qualcos’altro; il che dà occasione all’immaginazione di estendersi su di una quantità di rappresentazioni affini, le quali danno più da pensare di quanto si possa esprimere in un concetto determinato per via di parole; e danno una i d e a e s t e t i c a , la quale tien luogo dell’esibizione logica di quell’idea razionale, ma propriamente per vivificare l’animo, aprendogli una vista su di un campo smisurato di rappresentazioni affini. Ma le belle arti non procedono in tal modo soltanto nella pittura e nella scultura (per cui si usa comunemente il termine di attributi); anche la poesia e l’eloquenza traggono lo spirito che anima le loro opere unicamente dagli attributi estetici degli oggetti, i quali accompagnano gli attributi logici, e danno uno slancio all’immaginazione,

fornendo più da pensare (sebbene confusamente) di quanto si può racchiudere in un concetto, e quindi in una determinata espressione verbale. – Mi limiterò, per brevità, a pochi esempii. Quando il gran Re si esprime così in una delle sue poesie75: Oui, finissons sans trouble et mourons sans regrets, En laissant l’univers comblé de nos bienfaits: Ainsi l’astre du jour au bout de sa carrière, [316] Répand sur l’horizon une douce lumière; Et les derniers rayons qu’il darde dans les airs, Sont les dernier soupirs qu’il donne à l’univers;

egli anima la sua idea razionale di un sentimento cosmopolitico anche presso la fine della vita, mediante un attributo che l’immaginazione associa a quella rappresentazione (nel ricordo di tutte le gioie di una bella giornata estiva giunta al termine, richiamate alla nostra mente dalla serenità della sera), e che suscita una quantità di sensazioni e di rappresentazioni secondarie, alle quali non si trova alcuna espressione. D’altra parte, perfino un concetto intellettuale può servire da attributo ad una rappresentazione dei sensi e avvivarla con l’idea del soprasensibile, ma non si adopera per questo uso se non l’elemento estetico, che è inerente soggettivamente alla coscienza del soprasensibile. Così, per esempio, nella descrizione di un bel mattino, un certo poeta dice: «Il sole sorgeva, come la pace sorge dalla virtù». La coscienza della virtù, se anche uno si metta soltanto col pensiero al posto di un uomo virtuoso, spande nell’anima una quantità di sentimenti sublimi e calmi, ed apre una veduta sconfinata su di un avvenire felice, che non può esser reso interamente da alcuna espressione adeguata ad un concetto determinato76. In una parola, l’idea estetica è una rappresentazione dell’immaginazione associata ad un concetto dato, la quale, nel libero uso dell’immaginazione, è legata con tale quantità di rappresentazioni parziali, che non si potrebbe trovare per essa nessuna espressione che designi un concetto determinato; e quindi una rappresentazione che dà luogo a pensare in un concetto molte cose inesprimibili, di cui il sentimento vivifica le facoltà conoscitive e dà lo spirito alla parola in quanto semplice lettera. Le facoltà dell’animo, la cui unione (in un certo rapporto) costituisce il g e n i o , sono dunque l’immaginazione e l’intelletto. Soltanto che l’immaginazione, quando serve alla conoscenza, è sottoposta alla costrizione dell’intelletto e alla limitazione d’essere adeguata al concetto, mentre dal

punto di vista [317] estetico essa è libera, ed oltre all’accordarsi col concetto, fornisce spontaneamente all’intelletto una materia ricca e non definita, che esso non conteneva nel concetto, che però adopera, non oggettivamente in vista della conoscenza, ma soggettivamente ad animare le facoltà conoscitive, e quindi indirettamente anche a vantaggio della conoscenza, sicché il genio consiste propriamente in quella felice disposizione, – che nessuna scienza può insegnare e nessun esercizio può raggiungere, – per la quale si trovano idee per un concetto dato, e d’altra parte si trova per esse l’e s p r e s s i o n e giusta con cui si può comunicare agli altri lo stato d’animo che ne risulta, in quanto accompagnamento del concetto medesimo. È a quest’ultimo talento che si dà propriamente il nome di anima; perché per esprimere ciò che è inesprimibile nello stato d’animo in cui ci mette una certa rappresentazione, e per renderlo comunicabile universalmente, – sia l’espressione verbale, pittorica o plastica – è necessaria una facoltà che colga a volo il rapido giuoco dell’immaginazione, e lo unisca ad un concetto che si possa comunicare senza la costrizione delle regole (a un concetto che appunto perciò è originale, e rivela nel tempo stesso una nuova regola, che non si è potuta derivare da nessun principio od esempio anteriore). Se ora, dopo questa analisi, ritorniamo sulla definizione che si è data sopra del g e n i o , troveremo: 1) che esso è un talento per l’arte, non per la scienza, nella quale il procedimento deve essere stabilito su regole conosciute chiaramente in precedenza; 2) che esso, come talento artistico, presuppone un concetto determinato del prodotto come scopo, e per conseguenza l’intelletto, ma anche una rappresentazione (sebbene indeterminata) della materia, cioè dell’intuizione che serve all’esibizione di quel concetto, e quindi un rapporto dell’immaginazione con l’intelletto; 3) che esso si rivela meno nel conseguire lo scopo prefisso, nell’esibizione d’un c o n c e t t o determinato che nella rappresentazione o espressione di i d e e e s t e t i c h e , le quali contengono una ricca materia per quello scopo, e quindi nel rappresentare l’immaginazione nella sua indipendenza dalla costrizione delle regole, ma nella sua finalità rispetto all’esibizione del concetto dato; 4) che finalmente la finalità soggettiva, spontanea, [318] inintenzionale nel libero accordo dell’immaginazione con la legalità dell’intelletto, presuppone una tale proporzione e disposizione di queste facoltà, che nessuna osservanza di regole, sia della scienza, sia dell’imitazione meccanica, può produrre, ma che soltanto la natura del soggetto può far nascere.

Posto ciò, il genio è l’originalità esemplare del talento di un soggetto nel l i b e r o uso delle sue facoltà di conoscere. In tal modo il prodotto di un genio (in ciò che è da attribuirsi appunto al genio, e non allo studio o alla scuola) è per un altro genio un esempio, non da imitare (perché nell’imitazione va perduto ciò che è dovuto al genio e costituisce l’anima dell’opera), ma da seguire; esso risveglia in quest’altro genio il sentimento dell’originalità, e lo spinge ad esercitare quindi nell’arte la sua indipendenza dalle regole, sicché l’arte acquista una nuova regola mediante la quale il talento si dimostra esemplare. Ma, poiché il genio è un privilegiato della natura, e la sua apparizione è da ritenersi rara, il suo esempio produce per gli uomini ben dotati una scuola, ovvero un insegnamento metodico secondo le regole che si possono trarre dalle opere vive del genio e dalla loro originalità; e così per questi seguaci l’arte bella è un’imitazione di cui la natura dà la regola per via del genio. Ma questa imitazione diventa c o n t r a f f a z i o n e , quando lo scolaro i m i t a tutto, finanche quei punti difettosi che il genio ha dovuto lasciar nell’opera soltanto perché, senz’essi, l’idea ne sarebbe rimasta indebolita. Questo coraggio è un merito per un genio; ed una certa a u d a c i a nell’espressione, e in generale certe deviazioni dalle regole comuni convengono al genio, ma non son degne d’essere imitate; son sempre difetti, che bisogna cercar di evitare, e solo il genio è privilegiato rispetto ad essi, perché ciò che in lui è dovuto allo slancio originale soffrirebbe da una scrupolosa circospezione. La m a n i e r a è un’altra specie di contraffazione, la quale consiste nell’imitazione dell’o r i g i n a l i t à in generale, per allontanarsi per quanto è possibile dagli imitatori, senza però possedere il talento di essere per se stesso e s e m p l a r e . – Nell’esporre vi sono in generale due modi di comporre i proprii pensieri, di cui uno si chiama m a n i e r a (modus aestheticus) e l’altro m e t o d o (modus logicus), i [319] quali differiscono in questo, che il primo ha come misura soltanto il s e n t i m e n t o dell’unità nella esibizione, il secondo invece segue p r i n c i p i i determinati. Per l’arte bella vale solo il primo modo. Ma un’opera d’arte si dice m a n i e r a t a solo quando l’esposizione dell’idea che vi è contenuta m i r a alla singolarità e non è adeguata all’idea stessa. Il prezioso, il ricercato, l’affettato, per distinguersi dal comune (ma senz’anima), somigliano ai modi di colui del quale si dice che sta ad ascoltare se stesso, o che si muove come se fosse sulla scena a esser guardato a bocca

aperta, – il che è sempre indizio di stupidità.

§ 50. Dell’unione del gusto col genio nei prodotti dell’arte bella. Domandare che cosa sia più appropriato in cose delle arti belle, se il genio o il gusto, è lo stesso che domandare quali delle due facoltà, l’immaginazione o il Giudizio, abbia maggior importanza. Ora, poiché, relativamente alla prima, un’arte merita piuttosto d’essere chiamata a n i m a t a , e solo relativamente alla seconda di essere chiamata un’arte b e l l a , questa seconda, almeno come condizione indispensabile (conditio sine qua non), è quella che prima dev’essere presa in considerazione nel giudizio dell’arte in quanto bella. Alla bellezza son meno necessarie la ricchezza e l’originalità delle idee, che l’accordo della libertà dell’immaginazione con la legalità dell’intelletto. Perché tutta la ricchezza dell’immaginazione, nella sua libertà senza freno, non produce se non stravaganza; e il Giudizio invece è la facoltà che la mette d’accordo con l’intelletto. Il gusto, come il Giudizio in generale, è la disciplina (l’educazione) del genio; gli ritaglia le ali e lo rende costumato e polito; ma nel tempo stesso gli dà una guida, mostrandogli dove e fin a che punto possa estendersi per non smarrirsi; e, portando chiarezza e ordine nella massa dei pensieri, dà consistenza alle idee, facendole insieme degne di un consenso durevole ed universale, d’esser seguite dagli altri, e di concorrere a una sempre progressiva coltura. Sicché, se qualcolsa dovesse sacrificarsi [320] nell’opposizione tra le due qualità in una opera, ciò dovrebbe avvenire piuttosto dal lato del genio; e il Giudizio, che fa appello ai proprii principii in cose delle belle arti, permetterà piuttosto di derogare alla libertà e alla ricchezza dell’immaginazione, che non all’intelletto. Le belle arti esigono dunque i m m a g i n a z i o n e , i n t e l l e t t o , a n i m a e g u s t o77.

§ 51. Della divisione delle belle arti. Si può dire in generale che la bellezza (della natura o dell’arte) è

l’e s p r e s s i o n e di idee estetiche; con questa differenza, che nell’arte bella quest’idea deve essere occasionata da un concetto dell’oggetto, mentre nella bella natura è sufficiente la semplice riflessione su di una intuizione data, senza il concetto di ciò che l’oggetto deve essere, per suscitare e comunicare l’idea di cui l’oggetto è considerato come l’e s p r e s s i o n e . Se dunque vogliamo fare una divisione delle belle arti, non possiamo scegliere, almeno a titolo di prova, nessun principio più comodo di quello dell’analogia dell’arte con quella specie di espressione di cui si servono gli uomini nel parlare per comunicarsi, quanto perfettamente è possibile, non soltanto i loro concetti, ma anche le sensazioni78. – Questa specie di espressione consiste nella p a r o l a , nel g e s t o e nel t o n o (articolazione, gesticolazione e modulazione). Soltanto l’unione di queste tre specie di espressioni costituisce la perfetta comunicazione di quelli che parlano. Perché in tal modo pensiero, intuizione e sensazione sono trasmessi agli altri uniti e nello stesso tempo. Sicché non vi sono che tre specie di arti belle: l’a r t e d e l l a [321] p a r o l a , l’a r t e f i g u r a t i v a e l’a r t e d e l g i u o c o d e l l e s e n s a z i o n i (come impressioni sensibili esterne). Si potrebbe anche condurre questa divisione dicotomicamente, distinguendo le belle arti in quelle che esprimono il pensiero e quelle che esprimono l’intuizione, quest’ultime secondo la forma o la materia (della sensazione). Soltanto che tale divisione sembrerebbe troppo astratta e non conforme ai concetti usuali. 1) Le arti della p a r o l a sono l’e l o q u e n z a e la p o e s i a . L’e l o q u e n z a è l’arte di trattare un compito dell’intelletto come se fosse un libero giuoco dell’immaginazione; la p o e s i a è l’arte di dare ad un libero giuoco dell’immaginazione il carattere di un compito dell’intelletto. Così l’o r a t o r e promette qualche cosa di serio, e l’esegue come se fosse un semplice g i u o c o d’idee per divertire gli spettatori. Il p o e t a annunzia semplicemente un piacevole g i u o c o d’idee, ed ha tuttavia tanta efficacia sull’intelletto come se non avesse avuto altro intento che di occuparsi di esso. L’unione e l’armonia di queste due facoltà, la sensibilità e l’intelletto, che non possono star l’una senza dell’altra ma che non si lasciano riunire senza sforzo e danno reciproco, debbono essere spontanee e mostrare di essersi formate da sé; altrimenti non si tratterebbe più di un’arte b e l l a . Perciò tutto ciò che rivela la ricerca e il travaglio dev’essere evitato, perché le belle arti devono esser libere in questo doppio significato: non sono un lavoro

mercenario, che si possa giudicare alla stregua di una data misura, imporre e pagare; e poi l’animo trova in esse un’occupazione, ma si sente eccitato e soddisfatto senza riguardo a qualche altro scopo (indipendentemente dalla ricompensa). L’oratore dà dunque qualche cosa che non aveva promesso, cioè un giuoco piacevole dell’immaginazione; ma egli toglie anche qualcosa a ciò che aveva promesso e che era il suo compito annunziato, occupare adeguatamente l’intelletto. Il poeta al contrario promette poco ed annunzia un semplice giuoco d’idee, mentre poi fornisce qualche cosa degna di seria occupazione, con l’alimentare, giocando, l’intelletto, e animarne i concetti con l’immaginazione. Per conseguenza il primo mantiene, in fondo, meno di quello che promette, e il secondo più. 2) Le arti f i g u r a t i v e o quelle che esprimono delle idee [322] per mezzo dell’i n t u i z i o n e s e n s i b i l e (non mediante le rappresentazioni della semplice immaginazione, che vengono suscitate dalla parola) sono o quella che rappresenta la v e r i t à s e n s i b i l e o quella che rappresenta l’a p p a r e n z a s e n s i b i l e . La prima si chiama p l a s t i c a , la seconda p i t t u r a . Entrambe rappresentano figure nello spazio per la espressione di idee; la prima fa le figure percettibili per due sensi, la vista e il tatto (sebbene per quest’ultimo non abbia per scopo la bellezza), e la seconda solo per la vista. L’idea estetica (l’archetipo, il modello) sta a fondamento di entrambe nell’immaginazione; ma la figura che ne costituisce l’espressione (l’ectipo, la copia) è data o nella sua estensione materiale (come esiste l’oggetto stesso reale), o come si disegna all’occhio (secondo la sua apparenza in una superficie); e, nel primo caso, o vien posto per condizione alla riflessione il rapporto con uno scopo reale, o soltanto l’apparenza di tale scopo. Alla p l a s t i c a , in quanto prima specie di belle arti figurative, appartengono la s c u l t u r a e l’a r c h i t e t t u r a . La prima è quella che esibisce materialmente concetti di cose come p o t r e b b e r o e s i s t e r e i n n a t u r a (però, come arte bella, con riguardo alla finalità estetica); la s e c o n d a è l’arte di esibire concetti di cose che son possibili s o l o n e l l ’ a r t e e la cui forma non ha il suo principio determinante nella natura, ma in un fine dell’arbitrio, – nel perseguire il quale l’arte deve però raggiungere anche una finalità estetica. In questa seconda arte il fine principale è un certo uso dell’oggetto artistico, che, come condizione, pone un limite alle idee estetiche. Nella prima, lo scopo principale è la pura

e s p r e s s i o n e di idee estetiche. Così appartengono alla scultura le statue di uomini, dei, animali, etc.; e invece appartengono all’architettura i tempii, gli edifizii destinati a riunioni pubbliche, ed anche le abitazioni, gli archi di trionfo, le colonne, i mausolei, e simili ricordi monumentali, potendosi anche aggiungervi i mobili (i lavori da falegname e simili utensili); perché l’essenziale di un’o p e r a a r c h i t e t t o n i c a è la sua adeguatezza ad un certo uso; laddove un’opera puramente p l a s t i c a , che è fatta unicamente per l’intuizione e deve piacere per se stessa, è, come rappresentazione corporea, una semplice imitazione della natura, in vista tuttavia di idee estetiche, e in cui la v e r i t à s e n s i b i l e non deve essere spinta tant’oltre, da perdere l’aspetto di arte e di prodotto dell’arbitrio. La p i t t u r a , come seconda specie delle arti figurative, che [323] rappresenta l ’ a p p a r e n z a s e n s i b i l e congiunta per via dell’arte con le idee, la dividerei nell’arte di r i t r a r r e bellamente la natura e quella di c o m p o r r e bellamente i suoi p r o d o t t i . La prima sarebbe la p i t t u r a p r o p r i a m e n t e d e t t a e la seconda il g i a r d i n a g g i o . La prima, difatti, non dà se non l’apparenza dell’estensione corporea: la seconda dà questa estensione nella sua realtà, è vero, ma presenta solo l’apparenza di un’utilità e di un uso per altri scopi, oltre il semplice giuoco dell’immaginazione, per mezzo della contemplazione delle forme79. Il giardinaggio non è altro che l’abbellimento del suolo per mezzo di quella stessa varietà che la natura offre all’intuizione (prati, fiori, cespugli ed alberi, ed anche le acque, colline e valli), ma combinata diversamente e conformemente a certe idee. Senonché la bella composizione delle cose corporee è fatta soltanto per la vista, come la pittura, e il senso del tatto non può fornire alcuna rappresentazione intuitiva di una tale forma. Alla pittura in senso largo io attribuirei anche la decorazione delle stanze con tappezzerie, e ogni bel mobile, che serva unicamente alla v i s t a ; così l’arte del vestire con gusto (anelli, tabacchiere, etc). Perché un’aiuola di diverse specie di fiori, una stanza con molti ornamenti (compresi gli abbigliamenti delle signore), costituiscono in una festa sontuosa una specie di quadro, che, come i quadri propriamente detti (che non hanno lo scopo d’i n s e g n a r e la storia, o la conoscenza della natura), stanno lì soltanto per esser mirati, per mantenere l’immaginazione in libero giuoco con le idee, ed occupare il Giudizio estetico senza uno scopo determinato. Il lavoro per tutti questi ornamenti [324] potrà essere, dal punto di vista meccanico, differentissimo, e differentissimi gli artisti richiesti a

compirlo; ma il giudizio di gusto è determinato in un sol modo da ciò che vi è di bello in quest’arte; cioè non è diretto se non a giudicare le forme (senza riguardo a veruno scopo), così come si presentano all’occhio, isolatamente o nel loro complesso, secondo l’effetto che fanno sull’immaginazione. – Ma che le arti figurative possano corrispondere (secondo l’analogia) al gestire che fa parte del linguaggio, è giustificato da ciò, che l’anima dell’artista dà un’espressione materiale, mediante le sue figure, a ciò che ha pensato, e al modo in cui l’ha pensato, e fa parlare la cosa stessa quasi mimicamente; ed è questo un giuoco comunissimo della nostra fantasia, la quale suppone un’anima nelle cose inanimate, in corrispondenza della loro forma, e che ci parli dalle cose medesime. 3) L’arte del b e l g i u o c o d i s e n s a z i o n i (che son prodotte dal di fuori), – il quale giuoco deve tuttavia essere comunicabile universalmente, – non può riguardare se non la proporzione dei diversi gradi della disposizione (tensione) del senso cui le sensazioni appartengono, cioè il tono di questo senso; e, così largamente intesa, tale arte si può dividere nel giuoco artistico delle sensazioni auditive, e di quelle visive, per conseguenza in m u s i c a e c o l o r i t o . – È un fatto degno di nota che questi due sensi, oltre la capacità che hanno per le impressioni richieste ad acquistare il concetto degli oggetti esterni, sono ancora capaci di una sensazione particolare, congiunta a quelle impressioni, della quale non si può veramente decidere se ha il suo fondamento nel senso o nella riflessione; e che questa affettibilità possa mancare qualche volta, sebbene il senso non sia difettoso, ed anzi sia squisito per ciò che concerne il suo uso nella conoscenza degli oggetti. Il che significa che non si può dire con certezza se un colore e un suono siano semplici sensazioni piacevoli, o siano già in se stessi un bel giuoco di sensazioni e quindi contengano, in quanto giuoco, un piacere per la loro forma nel giudizio estetico. Se si pensa alla rapidità delle vibrazioni della luce o, nel secondo caso, dell’aria, la quale verosimilmente supera di molto la nostra facoltà di giudicare immediatamente, nella percezione, la proporzione della divisione del tempo mediante le vibrazioni stesse; si dovrebbe credere che da noi sia sentito soltanto il l o r o e f f e t t o sulle parti elastiche del nostro corpo, ma che non sia avvertita e presente nel giudizio la d i v i s i o n e d e l t e m p o da essa compiuta, e perciò che ai colori [325] e ai suoni sia congiunto soltanto il piacevole, non la bellezza della loro composizione. Ma se invece si pensa, in p r i m o l u o g o , all’elemento matematico che si può

trovare nella proporzione di quelle vibrazioni nella musica e nel giudizio nostro su di essa, e si considera, com’è giusto, la divisione dei colori secondo l’analogia con la musica; se, in s e c o n d o l u o g o , si ricordano gli esempii, sebbene rari, di uomini che con la miglior vista del mondo non sapevano discernere i colori, o con l’udito più acuto i suoni, laddove, per quelli che hanno questa facoltà, son percepibili le variazioni qualitative (non soltanto i gradi della sensazione), nei diversi gradi di una scala di suoni o di colori, ed anzi il numero delle variazioni è determinato per differenze i n t e l l i g i b i l i ; si potrebbe vedersi obbligati a riguardare le sensazioni dei due sensi, non come semplici impressioni sensibili, ma come l’effetto di un giudizio della forma nel giuoco di molte sensazioni. Secondo che si adotterà l’una o l’altra opinione nel giudicare del principio della musica, ne sarà diversa la definizione, e la si definirà come noi abbiamo fatto, quale un bel giuoco di sensazioni (dell’udito) oppure come un giuoco di sensazioni p i a c e v o l i . Soltanto secondo la prima definizione la musica è considerata come a r t e b e l l a senz’altro, e invece con la seconda è considerata (almeno in parte) come un’arte p i a c e v o l e .

§ 52. Dell’unione delle belle arti in un unico prodotto. L’eloquenza può essere unita con una rappresentazione pittorica dei suoi soggetti e dei suoi oggetti in un d r a m m a ; la poesia con la musica nel c a n t o , il canto a sua volta con la pittura (teatrale) in un’o p e r a ; il giuoco delle sensazioni musicali col giuoco delle figure nella d a n z a ; etc. Anche la rappresentazione del sublime, in quanto appartiene alle belle arti, si può unire con la bellezza in una t r a g e d i a i n r i m a , in un p o e m a d i d a s c a l i c o , in un o r a t o r i o ; e in queste unioni l’arte bella appare ancor maggiormente arte; ma in alcuni casi è dubbio se essa ne guadagni anche in bellezza (dal momento che vi s’intersecano tante diverse specie di piacere). In tutte le belle [3206] arti però l’essenziale sta nella forma, che è finale per la contemplazione e il giudizio, e p r o d u c e un piacere che è nel tempo stesso una cultura, e dispone lo spirito alle idee, rendendolo capace ancora di molti piaceri e trattenimenti simili; l’essenziale non è la materia della sensazione (l’attrattiva o l’emozione), la quale non produce se non il godimento, da cui niente risulta in favore dell’idea, ottunde lo spirito, rende a poco a poco noioso l’oggetto e l’animo, cosciente di uno stato che contrasta al giudizio

razionale, scontento di se stesso e disgustato. È questa la sorte che attende infine le arti belle, quando non siano più o meno strettamente legate con idee morali, le quali soltanto danno un piacere per sé stante. Diventano allora semplicemente una specie di distrazione, di cui si ha tanto più bisogno quanto più se ne usa, per dissipare l’intima scontentezza dell’animo, facendosi sempre più disutile e scontento di se medesimo. In generale, son le bellezze naturali le più confacenti a quel primo scopo, quando si sia già di buon’ora abituati a contemplarle, giudicarle ed ammirarle.

§ 53. Comparazione del valore estetico delle belle arti. Tra le belle arti il primo posto spetta alla p o e s i a (che deve quasi interamente al genio la sua origine, e meno di tutte si lascia guidare da precetti od esempii). Essa allarga l’animo mettendo l’immaginazione in libertà; e, tra l’infinita varietà di forme che possono accordarsi con un concetto dato, presenta quella che congiunge l’esibizione del concetto con una quantità di pensieri, cui nessuna espressione verbale è pienamente adeguata; e si eleva così esteticamente alle idee. Essa fortifica l’animo, facendogli sentire quella sua facoltà libera, spontanea ed indipendente dalle condizioni naturali, con la quale considera e giudica la natura come fenomeno, – secondo vedute che questa non presenta da sé, nell’esperienza, né al senso né all’intelletto, – e l’usa in servigio del soprasensibile, quasi come uno schema [327] di questo. La poesia giuoca con l’apparenza che produce a suo piacere, senza però ingannare; perché essa dichiara un semplice giuoco la sua stessa occupazione, la quale nondimeno può essere usata finalisticamente dall’intelletto per i suoi compiti. – L’eloquenza, quando s’intenda come l’arte di persuadere, ossia di abbindolare con una bella apparenza (ars oratoria), e non la semplice arte del dire (eloquenza e stile), è una dialettica, che non si allontana dalla poesia se non quanto è necessario per guadagnare gli animi all’oratore e toglier loro la libertà; sicché non si può consigliare né pel tribunale né per la cattedra. Perché quando si tratta delle leggi civili e del diritto delle singole persone, o quando si tratta di istruire e indirizzare durevolmente gli animi alla retta conoscenza e coscienziosa osservanza del loro dovere, è indegno di un compito così importante il lasciare scorgere anche una traccia di lusso di spirito e

d’immaginazione, e ancor più dell’arte di persuadere e di predisporre gli animi a favore di qualcuno. Perché questa, sebbene possa essere usata talvolta per fini legittimi e lodevoli, diventa riprovevole quando corrompe soggettivamente le massime e le intenzioni, sebbene oggettivamente il fatto sia conforme alla legge; giacché non basta fare ciò che è giusto, ma bisogna farlo soltanto perché è giusto. E, d’altra parte, il semplice concetto chiaro di questa specie di interessi umani, esposto vivacemente con esempii, senza urtare contro le regole dell’armonia della lingua e la convenienza dell’espressione, ha già per se stesso sufficiente influsso sugli animi umani circa le idee della ragione (le quali pure contribuiscono all’eloquenza), perché non sia necessario mettere in moto anche le macchine della persuasione; le quali, potendo anche essere adoperate per abbellire o nascondere il vizio o l’errore, non possono impedire del tutto il segreto sospetto di qualche insidia dell’arte. Nella poesia tutto procede lealmente e sinceramente. Essa si presenta come diretta a produrre un semplice giuoco che intrattiene l’immaginazione, d’accordo, per la forma, con le leggi dell’intelletto; non vuol sorprendere e irretire l’intelletto con la rappresentazione sensibile80. [328] Dopo la poesia, s e s i g u a r d a a l l ’ a t t r a t t i v a e a l l ’ e m o z i o n e d e l l ’ a n i m o , io porrei quell’arte che ad essa, tra le arti della parola, è più prossima, e ad essa molto naturalmente si può congiungere, cioè la m u s i c a . Perché, sebbene quest’arte parli per mere sensazioni, senza concetti, e quindi non lasci qualcosa alla riflessione, come la poesia, essa commuove lo spirito più variamente, e più intimamente, sebbene solo con effetto passeggiero; ma essa è piuttosto godimento che coltura (il giuoco di pensieri che suscita, è l’effetto di una associazione quasi meccanica) e, giudicata dalla ragione, ha minor valore di qualunque altra delle arti belle. Perciò, come ogni godimento, essa abbisogna di frequente varietà, e non sopporta d’esser ripetuta varie volte, senza produrre noia. La sua attrattiva, che si comunica così universalmente, pare che riposi su questo: – ogni espressione del linguaggio ha, nel contesto, un tono appropriato al suo significato; – questo tono mostra più o meno un affetto di colui che parla, e reciprocamente la produce anche in colui che ascolta, suscitando in lui, col processo inverso, l’idea che nella lingua è espressa con tale tono; – e siccome la modulazione è quasi una lingua universale delle sensazioni comprensibile da ogni uomo, la musica l’usa per sé sola e in tutta la sua energia, cioè come linguaggio degli affetti, e così, secondo la legge dell’associazione, comunica

universalmente le idee estetiche che vi sono naturalmente congiunte; – per altro, giacché [329] quelle idee estetiche non sono concetti e pensieri determinati, è solo la forma della composizione di queste sensazioni (armonia e melodia), invece della forma linguistica, che, mediante un accordo proporzionato delle sensazioni stesse (il quale accordo nei suoni, riposando sul rapporto del numero delle vibrazioni dell’aria nello stesso tempo, in quanto i suoni sono riuniti simultaneamente o successivamente, può esser ridotto matematicamente sotto regole determinate) serve ad esprimere l’idea estetica di una totalità coerente di una quantità inesprimibile di pensieri, conformemente ad un certo tema, il quale costituisce l’affetto dominante del pezzo. Solo da questa forma matematica, sebbene non sia rappresentata da concetti determinati, dipende il piacere, che congiunge la semplice riflessione su tale quantità di sensazioni simultanee e successive col loro giuoco, come una condizione universalmente valida della sua bellezza, e solo per questa forma il gusto può attribuirsi qualche dritto anticipato sul giudizio di ognuno. Ma certamente la matematica non ha la benché minima parte nell’attrattiva e nella commozione dell’anima prodotte dalla musica; è soltanto la condizione indispensabile (conditio sine qua non) di quella proporzione delle impressioni, nella loro unione e vicenda, che permette di abbracciarle tutte insieme, impedendo che si distruggano reciprocamente, e che rende possibile il loro accordarsi per produrre, per via di consoni affetti, una continua commozione ed eccitazione dell’animo, e quindi un piacevole godimento seco stesso. Se invece si stima il valore delle belle arti secondo la coltura che portano all’animo, e si prende per misura la estensione delle facoltà che nel Giudizio debbono concorrere alla conoscenza, la musica avrà l’ultimo posto tra le arti belle, perché essa non fa che giocare con le sensazioni (allo stesso modo che forse è la prima, quando le arti si valutino dal punto di vista del piacere). A tal titolo, dunque, le arti figurative la precedono di molto; poiché mentre mettono l’immaginazione in un giuoco libero, ma nel tempo stesso adeguato all’intelletto, promuovono un’occupazione in quanto producono qualche cosa che serve ai concetti dell’intelletto come un veicolo, durevole e che si raccomanda da sé, capace di favorire l’unione dei concetti stessi con la sensibilità, e quindi, in certo modo, l’urbanità delle facoltà superiori [330] della conoscenza. Queste due specie d’arte seguono un cammino del tutto diverso: la prima procede da sensazioni a idee indeterminate; la seconda

specie, invece, da idee determinate a sensazioni. Quest’ultima è prodotta da impressioni d u r e v o l i , l’altra da impressioni p a s s e g g i e r e . L’immaginazione può rievocare le prime ed intrattenervisi con diletto; le seconde invece si estinguono subito, oppure, se sono ripetute involontariamente dall’immaginazione, ci riescono piuttosto penose che piacevoli. Inoltre alla musica è propria quasi una mancanza di urbanità, specialmente per la proprietà, che hanno i suoi strumenti, di estendere la loro azione al di là di quel che si desidera, (sul vicinato), per cui essa in certo modo s’insinua e va a turbare la libertà di quelli che non fanno parte del trattenimento musicale; il che non fanno le arti che parlano alla vista, perché basta rivolgere gli occhi altrove, quando non si vuol dar adito alla loro impressione. È presso a poco come del piacere che dà un odore che si spande lontano. Colui che tira fuori dalla tasca il suo fazzoletto profumato, tratta quelli che gli sono intorno contro la loro volontà, e, se vogliono respirare, li obbliga nello stesso tempo a godere; perciò quest’uso è anche passato di moda81. Tra le arti figurative darei la precedenza alla p i t t u r a : sia perché come arte del disegno, essa sta a fondamento di ogni altra; sia perché può penetrare assai più nella regione delle idee, e, conformemente a queste, estendere anche il campo dell’intuizione più che non sia permesso alle altre.

§ 54. Nota. Tra ciò che p i a c e s e m p l i c e m e n t e n e l g i u d i z i o , e ciò che d i l e t t a (piace n e l l a s e n s a z i o n e), vi è, come abbiamo mostrato spesso, una differenza essenziale. In quest’ultimo caso non si può, come nel primo, esigere il piacere da ognuno. Il diletto (anche quando la sua causa stia nelle idee), pare che [331] consista sempre in un sentimento dello svolgimento, più facile di tutta la vita dell’uomo, e quindi anche del benessere corporeo, cioè della salute; sicché E p i c u r o , che considerava ogni diletto come, in fondo, una sensazione corporea, in ciò forse, non aveva torto, e s’ingannava soltanto quando poneva tra i diletti il piacere intellettuale e perfino il piacere pratico. Quando si abbia davanti agli occhi la differenza ora accennata, ci si può spiegare come un diletto possa dispiacere a quello stesso che lo prova (per esempio, la gioia che prova un uomo bisognoso, ma di buoni sentimenti, per l’eredità che gli viene da un padre affezionato, ma avaro), o come un

profondo dolore possa piacere a colui che lo sopporta (la tristezza d’una vedova per la morte del suo eccellente marito), o come un diletto possa anche piacere (come quello che deriva dalle scienze che coltiviamo), o come un dolore possa anche dispiacere (per esempio, l’odio, l’invidia, la vendetta). Il piacere o il dispiacere riposa qui sulla ragione ed è identico con l’a p p r o v a z i o n e o d i s a p p r o v a z i o n e ; ma il diletto o il dolore non possono fondarsi che sul sentimento o la previsione di un possibile b e n e s s e r e o m a l e s s e r e (qualunque ne sia la ragione). Ogni giuoco variato e libero delle sensazioni (che non abbiano a fondamento uno scopo) diletta perché favorisce il sentimento della salute, vi sia o no nel nostro giudizio razionale un piacere per l’oggetto e il diletto stesso; e tale diletto può elevarsi fino a diventare un affetto, sebbene non abbiamo alcun interesse per l’oggetto, o almeno nessun interesse proporzionato al grado dell’affetto. Questi giuochi possiamo dividerli in giuoco di fortuna, giuoco musicale e giuoco di pensieri. Il p r i m o esige un i n t e r e s s e , sia della vanità, sia dell’utilità, il quale però non è così grande come quello che poniamo nel modo di procurarcelo, il s e c o n d o non suppone che la variazione delle s e n s a z i o n i , ciascuna delle quali si riferisce ad un affetto, senza avere il grado dell’affetto, e suscita delle idee estetiche; il t e r z o nasce semplicemente dal variare delle rappresentazioni nel Giudizio, con che, è vero, non vien prodotto alcun pensiero che implichi qualche interesse, ma l’animo resta vivificato. Tutte quelle riunioni che facciamo la sera mostrano come i giuochi possano dilettare, senza che in essi vi sia a fondamento uno scopo interessato; perché senza giuochi le riunioni stesse quasi non si potrebbero intrattenere. Ma tutti gli affetti, della speranza, del timore, della gioia, della collera, della beffa, vi sono [332] in giuoco, succedendosi ad ogni istante, e sono così vivaci da sembrare che tutta la vita organica sia eccitata come da un movimento interno, come dimostra quel brio dell’animo, che pure né guadagna né apprende qualche cosa. Ma, poiché il giuoco di fortuna non è un giuoco bello, vogliamo metterli da parte. La musica e le cose che suscitano il riso son invece due specie del giuoco con idee estetiche, od anche con rappresentazioni intellettuali, con le quali in fondo non si pensa niente, ma che possono dilettare soltanto pel loro variare, e nondimeno vivacemente; con che esse ci danno a conoscere abbastanza chiaramente che l’animazione nei due casi è semplicemente corporea, sebbene sia prodotta da idee dell’animo,

e che tutto il diletto d’una allegra riunione, ritenuto tanto fine e spirituale, è costituito dal sentimento della salute, prodotto da un movimento di visceri corrispondente a quel giuoco. Non è il giudizio dell’armonia dei suoni o delle arguzie, che con la sua bellezza serve soltanto da veicolo necessario; ma è lo svolgimento più facile della vita corporea, l’affetto che mette in moto i visceri e il diaframma: è, in una parola, il senso della salute (la quale fuor di tali occasioni non si fa sentire) che costituisce il diletto che vi si trova, in modo che si può giungere al corpo anche attraverso l’anima, e servirsi di questa come d’un medico di quello. Nella musica questo giuoco va dalla sensazione del corpo alle idee estetiche (degli oggetti che suscitano le affezioni), e da queste, con la forza acquistata, ritorna al corpo. Nello scherzo (che, come la musica, merita piuttosto di esser annoverato tra le arti piacevoli che tra le arti belle) il giuoco comincia da pensieri, i quali, in quanto vogliono esprimersi sensibilmente, occupano tutti anche il corpo; e poiché l’intelletto, non trovando in questa esibizione quello che s’aspettava, s’arresta d’un tratto, si sente nel corpo, mediante la scossa degli organi, l’effetto di questa interruzione, la quale favorisce il ristabilimento dell’equilibrio degli organi stessi, ed ha un benefico influsso sulla salute. In tutto ciò che è capace di eccitare un vivace scoppio di riso, dev’esserci qualcosa di assurdo (in cui per conseguenza l’intelletto per se stesso non può trovare alcun piacere). I l r i s o è u n ’ a f f e z i o n e , c h e d e r i v a d a un’aspettazione tesa, la quale d’un tratto si risolve in n u l l a . Proprio questa risoluzione, che certo non ha niente di rallegrante per l’intelletto, indirettamente rallegra per un istante con molta [333] vivacità. La causa deve dunque consistere nell’influsso della rappresentazione sul corpo e nella reazione del corpo sull’animo; e non certo in quanto la rappresentazione è oggettivamente oggetto di diletto (perché come potrebbe dilettare un’aspettazione delusa?), ma unicamente perché essa, in quanto semplice giuoco delle rappresentazioni, produce nel corpo un equilibrio delle forze vitali. Si racconta che un indiano, a S u r a t e , trovandosi a tavola con un inglese, vedendo aprire una bottiglia d’ale e tutta la birra scappar fuori in ischiume, espresse con molte esclamazioni il suo stupore; e alla domanda dell’inglese: – che cosa dunque vi è da meravigliare in questo modo? –, rispose: – non mi meraviglia di veder uscire questa cosa, ma come abbiate

potuto costringerla là dentro –. Il fatto ci fa ridere e ci desta un vero piacere: non perché ci sentiamo più intelligenti di questo ignorante, o per qualche cosa di piacevole che l’intelletto ci faccia scorgere nel fatto stesso; ma soltanto perché la nostra aspettazione era tesa, e d’un tratto si è ridotta a niente. Un altro fatto: l’erede d’un ricco parente volendo preparare funerali solenni, si lamenta di non potervi riuscire; perché, dice, quanto più danaro do alle persone che debbono mostrarsi afflitte, tanto più le vedo allegre. Anche qui scoppiamo a ridere, e la causa del nostro riso è sempre un’aspettazione che istantaneamente si risolve in nulla. E si noti bene questo, che l’oggetto atteso non deve risolversi nel suo contrario positivo – perché questo sarebbe sempre qualche cosa, e spesso potrebbe contristare –, ma deve risolversi in nulla. Perché, difatti, se qualcuno col racconto d’una storia suscita in noi una grande aspettazione, e, giunti alla fine, ne riconosciamo la falsità, proviamo un dispiacere; come, per esempio, quando ci si racconta di persone, che, per un grande dolore, in una notte hanno visto diventar bianchi i loro capelli. Se, invece, un altro furbo, per far la pariglia con questa storia, racconta molto circostanziatamente il dolore d’un mercante che, ritornando in Europa dalle Indie con tutto il suo avere in mercanzie, è obbligato da una forte tempesta a gittare a mare ogni cosa, e si dispera al punto che nella stessa notte la sua p a r r u c c a diventa grigia, – noi ridiamo, e proviamo un diletto, perché il nostro errore per una cosa che del resto ci è indifferente, o piuttosto l’idea che seguiamo, è per noi come una palla che per un certo tempo gettiamo di qua e di là, pensando soltanto ad afferrarla e a ritenerla. [334] Qui non è l’uscita di un bugiardo o di uno sciocco, che suscita diletto; perché quest’ultima storia, anche raccontata con un tono serio, per se stessa farebbe scoppiare in un riso sincero tutta una riunione; mentre la precedente d’ordinario non sarebbe nemmeno giudicata degna di attenzione. È da notare che in tutti questi casi lo scherzo deve sempre contener qualcosa, che per un istante possa produrre illusione; sicché, quando l’illusione è dissipata, l’animo si rivolge indietro per provarla di nuovo, e così, per un rapido alternarsi di tensioni e rilassamenti, si trova sospinto e ondeggiante di qua e di là: e, poiché ciò che, per così dire, tendeva la corda, vien meno d’un tratto (non per un rilassamento progressivo), ne risulta necessariamente un movimento dell’animo, e accordato ad esso, un movimento interno del corpo, che si prolunga involontariamente, e produce stanchezza ma anche allegria (gli effetti di un movimento favorevole alla

salute). Difatti, se si ammette che con tutti i nostri pensieri sia sempre congiunto armonicamente qualche movimento negli organi del corpo, si comprenderà abbastanza come a quegli istantanei passaggi dell’animo da un punto di vista all’altro, per considerare il suo oggetto, possa corrispondere un alternarsi di tensioni e rilassamenti delle parti elastiche dei nostri visceri, che si comunica al diaframma (come in quelli che soffrono il solletico), in modo che i polmoni espellono l’aria a rapidi intervalli e si produce così un movimento favorevole alla salute, il quale, e non ciò che avviene nell’animo, è la vera causa del piacere per un pensiero che in fondo non rappresenta niente. – Vo l t a i r e diceva che, in compenso delle molte miserie della vita, il cielo ci ha dato due cose: la s p e r a n z a e i l s o n n o . Avrebbe potuto aggiungervi il r i s o , supposto che potessimo disporre facilmente dei mezzi per produrlo negli uomini sensati, e che non fossero così rari lo spirito e l’originalità comica necessarii, come invece è comune il talento d’immaginare delle cose che r o m p o n o l a t e s t a , come fanno i sofisti del misticismo, o c h e f a n n o r o m p e r e i l c o l l o , come fa il genio, o c h e s p a c c a n o il cuore, come fanno i romanzieri sentimentali (ed anche i moralisti della stessa specie). Sicché, mi pare, si può concedere ad Epicuro che ogni diletto, anche quando sia occasionato da concetti che suscitano [335] idee estetiche, è una sensazione a n i m a l e cioè corporea; senza che perciò si faccia minimamente torto al sentimento s p i r i t u a l e della stima per le idee morali, che non è un diletto, ma una stima di sé (dell’umanità in noi), che ci eleva al di sopra del bisogno del diletto; e senza che si faccia torto neppure al sentimento meno nobile del g u s t o . Qualcosa di questi due sentimenti, il sentimento morale e quello del gusto, si trova nell’i n g e n u i t à , che è lo sfogo dell’originaria sincerità naturale dell’u m a n i t à contro l’arte di fingere, diventata una seconda natura. Si ride della semplicità, che ancora non ha imparato a fingere; ma si gode anche della semplicità della natura che a quell’arte sa giocare un tiro. Si aspettava ciò che accade giornalmente, una condotta affettata in vista della bella apparenza; ed ecco la natura incorrotta ed innocente, che non ci si aspettava d’incontrare, e che, anche colui che l’ha messa in luce, non pensava di scoprire. Poiché qui quella bella, ma falsa apparenza, che d’ordinario ha tanto peso nel nostro giudizio, si risolve d’un tratto nel nulla, e giacché quel

furbo che è in ciascuno di noi si svela quasi da sé, si produce un movimento dell’animo in due direzioni contrarie, il quale nello stesso tempo dà al corpo una scossa salutare. Ma poiché si vede che non è ancora del tutto estinta nella natura umana ciò che è infinitamente migliore di ogni convenienza sociale, la sincerità del carattere (o almeno la disposizione a tale sincerità), a questo giuoco dell’immaginazione si congiunge la serietà e la stima. Siccome però quella rivelazione dura poco, e si riaffaccia subito il velo dell’arte di fingere, vi si aggiunge nel tempo stesso una specie di compassione, o un movimento di tenerezza, che, come giuoco, può ben congiungersi, e infatti si congiunge ordinariamente, col nostro ridere cordiale, e spesso compensa colui che ha dato occasione al riso, dell’imbarazzo di non essersi scaltrito rispetto alle convenzioni umane. – Un’arte d’esser i n g e n u o è perciò una contradizione in termini; ma è possibile rappresentare l’ingenuità in una persona immaginaria; e, sebbene rara, questa è arte bella. Con l’ingenuità non dev’essere scambiata quella franca semplicità, la quale non dissimula la natura soltanto perché non comprende che cosa sia l’arte del vivere in società. Si può riportare anche la maniera u m o r i s t i c a a ciò che, rallegrando, è affine assai al piacere che nasce dal riso, ed appartiene all’originalità dello spirito, ma non proprio al talento [336] per le arti belle. L’ u m o r e 82 bene inteso significa cioè il talento di mettersi volontariamente in una certa disposizione d’animo, in cui tutte le cose son giudicate in modo del tutto diverso dall’ordinario (perfino al rovescio), e pure conformemente a certi principii razionali che sono nella disposizione stessa. Chi va soggetto involontariamente a questi cambiamenti, si dice l u n a t i c o ; ma colui che ha facoltà di assumerli volontariamente e con uno scopo (per produrre una vivace rappresentazione che col contrasto suscita il riso), si chiama u m o r i s t a , e umoristico il suo modo di vedere. Ma intanto questo modo appartiene più alle arti piacevoli che alle belle arti, perché l’oggetto di queste deve sempre mostrare in sé una certa dignità, e perciò esige serietà nella rappresentazione, come il gusto nel giudizio. 64

Nicola Savary (1750-1785), viaggiatore e autore delle Lettres sur l’Egypte, Paris 1788-9 [N.d.T.]. 65 Hor. Ben. de Saussure (1740-1799), naturalista ginevrino, celebre per aver fatto pel primo l’ascensione del Monte Bianco [N.d.T.]. 66 1ª ed. (N.d.R.). 67 Gli a f f e t t i sono specificamente distinti dalle p a s s i o n i . I primi si riferiscono solo al sentimento, le seconde appartengono alla facoltà di desiderare, e sono inclinazioni che rendono

difficile o impossibile ogni determinazione della volontà per mezzo di principii. I primi sono impetuosi ed irriflessi, le seconde durevoli e riflesse: così lo sdegno, come collera, è un affetto, e come odio (desiderio di vendetta) è una passione. La passione non può essere chiamata sublime mai e in nessuna relazione; perché, se nell’affetto la libertà spirituale è i m p e d i t a , nella passione è addirittura soppressa. 68 Vedi la traduzione tedesca del suo scritto: Ricerche filosofiche sull’origine dei nostri concetti del bello e del sublime, Riga, Hartknoch 1773 [Trad. it., Milano 1804 (N.d.T.)].. 69 Per essere in dritto di esigere il consenso universale in un giudizio della facoltà estetica di giudicare, il quale riposi unicamente su principii soggettivi, è sufficiente ammettere: 1) che in ogni uomo le condizioni soggettive di questa facoltà sono le stesse, per ciò che concerne il rapporto delle facoltà conoscitive, che vi son messe in attività, con una conoscenza in generale; il che dev’esser vero, perché altrimenti gli uomini non potrebbero comunicarsi le loro rappresentazioni e la conoscenza stessa; 2) che il giudizio non ha in vista se non questo rapporto (e quindi la c o n d i z i o n e f o r m a l e della facoltà di giudicare), e che è puro, cioè non mescolato né con concetti dell’oggetto, né con sensazioni, in quanto ragioni determinanti. Quando manchi questa condizione, si fa un’applicazione illegittima di un dritto, che ci è dato da una legge, ad un caso particolare, ma con ciò non è distrutto il dritto in generale. 70 Si vede subito che l’i l l u m i n i s m o (Aufklärung) è una cosa facile in tesi, ma difficile e lunga ad ottenersi in ipotesi; perché il non esser passivo con la propria ragione, facendola essere sempre legislatrice di se stessa, è qualcosa di molto facile per un uomo che vuol restar fedele al suo scopo essenziale e non desidera sapere ciò che è al disopra della sua intelligenza; ma poiché la tendenza a sapere al di là si può appena impedire, e non mancherà mai chi promette con molta sicurezza di potere appagare questo desiderio di sapere, sarà molto difficile mantenere o stabilire la semplice negativa (che costituisce il vero illuminismo) nel modo di pensare (specialmente presso l’opinione pubblica). 71 Si potrebbe chiamare il gusto sensus communis aestheticus, e l’intelligenza comune sensus communis logicus. 72 Pietro Camper (1722-1789), anatomico olandese [N.d.T.]. 73 Nel mio paese, un uomo del popolo cui si proponga un problema come quello dell’uovo di Colombo risponde che q u e l l a n o n è a r t e , ma s c i e n z a , vale a dire che chi sa la cosa può farla: e proprio lo stesso dice di tutte le pretese arti dei giocolieri. Quella del funambolo, invece, egli non esiterà punto a chiamarla arte. 74 Schöne Wissenschaften; sono, presso a poco, le belle lettere nostre [N.d.T.]. 75 È l’epistola al maresciallo Keith, Sur les vaines terreurs de la mort et les frayenurs d’une autre vie: nelle Oeuvres du philosophe de Sans-Souci, 1750, vol. II. Qui è restituito il testo francese: Kant dà la traduzione in prosa [N.d.T.]. 76 Forse non è stato mai detto qualche cosa di più sublime, o espresso in un modo più sublime un pensiero, come in quell’iscrizione del tempio d’I s i d e (la madre n a t u r a ) : «Io sono tutto ciò che è, che fu e che sarà, e nessun mortale ha sollevato il mio velo». S e g n e r si servì di questa idea per mezzo di una figura i n g e g n o s a messa nel frontespizio della sua fisica, affine di riempire di un sacro orrore l’allievo che si accingeva ad introdurre in questo tempio, e di disporre il suo spirito ad una solenne attenzione. 77 Le tre prime facoltà trovano nella quarta la loro u n i o n e . Hume nella sua storia dà ad intendere agli inglesi che, sebbene essi non cedano in nulla agli altri popoli del mondo rispetto alle tre prime facoltà, isolatamente considerate, debbono cedere ai loro vicini, i francesi, relativamente alla facoltà unificatrice.

78

Il lettore non considererà questo abbozzo di una possibile divisione delle belle arti come una teoria nell’intenzione dell’autore. Si tratta di uno di quei tanti tentativi che si possono, e si debbono, fare. 79 Pare strano che il giardinaggio possa essere considerato come una specie di pittura, sebbene rappresenti le sue forme materialmente; ma, poiché esso le trae realmente dalla natura (gli alberi, i cespugli, le erbe, i fiori li trasse, almeno originariamente, dalle selve e dai campi), e non è un’arte come la plastica, poiché non è condizionato nella sua composizione (come l’architettura) da alcun concetto dell’oggetto e del suo scopo, ma soltanto dal libero giuoco dell’immaginazione nella contemplazione; esso si accorda con la pittura semplicemente estetica, che non ha alcun tema determinato (mette insieme gradevolmente aria, terra e acqua con luci ed ombre). – In generale il lettore terrà tutto ciò in conto di un tentativo, fatto per riportare le belle arti a un principio, che, in questo caso, è quello dell’espressione di idee estetiche (s e c o n d o l ’ a n a l o g i a d i u n l i n g u a g g i o ), e non lo riguarderà come una deduzione definitiva da quel principio. 80 Debbo confessare che una bella poesia mi ha dato sempre un diletto puro, laddove la lettura del miglior discorso di un oratore del popolo romano o di un oratore moderno, del parlamento o della cattedra, per me è stata sempre accompagnata dallo spiacevole sentimento di disapprovazione per un’arte insidiosa, che, in cose importanti, vuol muovere gli uomini, come fossero macchine, ad un giudizio cui una riflessione calma deve togliere presso di essi tutto il suo peso. L’eloquenza e l’arte del dire (insieme, retorica) appartengono alle arti belle; ma l’arte oratoria (ars oratoria), in quanto arte di servirsi della debolezza umana ai propri fini (siano supposti o siano realmente buoni quanto si voglia), non merita alcuna stima. Così quest’arte raggiunse il suo massimo grado, ad Atene e a Roma, in un tempo in cui lo stato correva alla rovina e il vero patriottismo era estinto. Chi, con una chiara visione delle cose, possiede la lingua nella sua ricchezza e purezza, e, con un’immaginazione feconda ed abile nell’esibizione delle sue idee, s’interessa vivamente e cordialmente al vero bene, è il vir bonus dicendi peritus, l’oratore senz’arte, ma pieno d’efficacia, quale lo domanda Cicerone, senza che peraltro egli stesso sia rimasto sempre fedele a questo ideale. 81 Quelli che hanno raccomandato, negli esercizi religiosi domestici, anche il canto di inni religiosi, non hanno riflettuto che con una divozione così r u m o r o s a (già perciò generalmente farisaica) imponevano una grande molestia al pubblico, obbligando il vicinato o a prender parte al canto o a rinunziare ad ogni occupazione mentale. 82 Laune; il Lessing (Hamburgische Dramaturgie, 22 marzo 1768; Werke, ed. Göring, XII, 1701), distinguendo la Laune dall’humour inglese, dice che quella risponde piuttosto all’humeur francese [N.d.T.].

Sezione seconda. Dialettica del giudizio estetico

§ 55. [337] Per esser dialettica una facoltà del giudizio deve essere innanzi tutto ragionante, vale a dire i suoi giudizii debbono, a priori, pretendere all’universalità83 perché la dialettica consiste nell’opposizione di tali giudizii. Perciò la contradizione tra giudizii estetici sensibili (sul piacevole e lo spiacevole) non è dialettica. Anche il contrasto tra i giudizi di gusto, quando ciascuno fa appello semplicemente al gusto proprio, non costituisce una dialettica del gusto; perché nessuno pensa di fare una regola universale del proprio giudizio. Sicché non resta altro concetto di una dialettica, che possa riguardare il gusto, se non quello di una dialettica della c r i t i c a del gusto (non del gusto stesso), considerata nei suoi p r i n c i p i i ; qui, infatti, s’incontrano naturalmente ed inevitabilmente, sul principio della possibilità dei giudizii di gusto in generale, concetti reciprocamente contradittorii. La critica trascendentale del gusto comprenderà dunque una parte, che possa avere il nome di dialettica del Giudizio estetico, soltanto se si trovi tra i principii di questa facoltà un’antinomia, la quale ne faccia dubbia la legittimità, e per conseguenza l’intima possibilità.

§ 56. Esposizione dell’antinomia del gusto. [338] Il primo luogo comune del gusto sta in questa proposizione, colla quale ognuno che sia privo di gusto crede di difendersi da ogni biasimo: o g n u n o h a i l p r o p r i o g u s t o . Il che non significa altro se non che il fondamento determinante di questo giudizio è puramente soggettivo (piacere o dolore); e che il giudizio non ha alcun dritto all’approvazione necessaria degli altri.

Il secondo luogo comune del gusto, invocato anche da quelli che riconoscono al giudizio di gusto il diritto alla validità per ognuno, è: d e l g u s t o n o n s i p u ò d i s p u t a r e . Il che significa che il fondamento determinante d’un giudizio di gusto può bene essere oggettivo, ma non si può riportare a concetti determinati, e che quindi non si può d e c i d e r e niente, in questo giudizio, mediante dimostrazioni, sebbene si possa a ragione c o n t e n d e r e . Perché il c o n t e n d e r e e il d i s p u t a r e si accordano in questo che, nell’uno e nell’altro modo, si cerca di produrre l’accordo dei giudizii ponendoli l’uno contro l’altro; ma sono poi differenti, in quanto col disputare si spera di conseguire lo scopo mediante concetti determinati a guisa di argomenti, e perciò si ammettono come principii del giudizio c o n c e t t i o g g e t t i v i . Quando ciò si consideri come impossibile, diventa anche impossibile il disputare. Si vede facilmente che tra questi due luoghi comuni manca una proposizione, che veramente non è passata in proverbio, ma è ammessa da tutti implicitamente; cioè, s u l g u s t o s i p u ò c o n t e n d e r e (sebbene non si possa disputare). Ma questa proposizione è proprio l’opposto della prima. Perché dove è lecito contendere, vi può essere la speranza dell’accordo; si può quindi contare su principii del giudizio, che non abbiano una validità puramente individuale e che non siano, quindi, soltanto soggettivi; ed è ciò a cui si oppone recisamente il detto: o g n u n o h a i l p r o p r i o g u s t o . Riguardo al principio del gusto si presenta dunque la seguente antinomia: 1) T e s i . Il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti; perché altrimenti di esso si potrebbe disputare (decidere mediante prove). 2) A n t i t e s i . Il giudizio di gusto si fonda sopra concetti; [339] perché altrimenti non si potrebbe neppure contendere, qualunque fosse la diversità dei giudizi (non si potrebbe pretendere alla necessaria approvazione altrui).

§ 57. Soluzione dell’antinomia del gusto. Non è possibile togliere la contradizione tra questi principii impliciti in ogni giudizio di gusto (i quali non sono poi altro che le due proprietà del giudizio di gusto esposte innanzi all’Analitica), se non dimostrando che il concetto al quale si riferisce l’oggetto di questa specie di giudizii, non è preso nello stesso significato nelle due massime del Giudizio estetico; e che questo doppio significato, o punto di vista, nel giudicare, è necessario al nostro

Giudizio trascendentale; ma che anche è inevitabile, come illusione naturale, l’apparenza, che deriva dalla confusione dell’uno con l’altro. A qualche concetto deve riferirsi il giudizio di gusto, perché altrimenti esso non potrebbe affatto pretendere alla validità necessaria per ognuno. Ma esso non può esser dimostrato mediante un concetto, perché un concetto o è determinabile, o è in se stesso indeterminato e insieme indeterminabile. Della prima specie è il concetto dell’intelletto, il quale è determinabile per via di predicati dell’intuizione sensibile, che gli può corrispondere; della seconda specie è il concetto razionale del soprasensibile, che sta a fondamento di ogni intuizione, e che non può essere perciò ulteriormente determinato per via teoretica. Ora, il giudizio di gusto concerne oggetti dei sensi, ma non per determinarne un c o n c e t t o per l’intelletto; perché esso non è un giudizio di conoscenza. E quindi, in quanto rappresentazione intuitiva individuale relativa al sentimento di piacere, è un giudizio particolare84, e perciò la sua validità sarebbe ristretta all’individuo giudicante; l’oggetto è per me oggetto di piacere, e per gli altri può non avere questa qualità; – ognuno ha il proprio gusto. Tuttavia nel giudizio di gusto è compresa, senza dubbio, una relazione più estesa della rappresentazione dell’oggetto (e in pari tempo anche del soggetto), per cui noi consideriamo questa specie di giudizii come valevoli per ognuno, e che deve avere necessariamente [340] a fondamento un concetto; ma un concetto non determinabile per via dell’intuizione; un concetto col quale non si conosce niente, e che quindi non f o r n i s c e a l c u n a p r o v a pel giudizio di gusto. Ma un concetto siffatto non è altro che il puro concetto razionale del soprasensibile, che sta a fondamento dell’oggetto (ed anche del soggetto giudicante) in quanto oggetto sensibile, e quindi fenomeno. Poiché, se si prescinde da questo riguardo, non trova scampo la pretesa del giudizio di gusto alla validità universale; se il concetto su cui esso si fonda fosse semplicemente un concetto confuso dell’intelletto, come quello della perfezione, al quale si potrebbe far corrispondere l’intuizione sensibile del bello, sarebbe almeno possibile fondare il giudizio di gusto su prove; il che contradice alla tesi. Ora cade ogni contradizione, quando io dico: il giudizio di gusto si fonda su un concetto (d’un fondamento in generale della finalità soggettiva della natura rispetto al Giudizio), su di un concetto pel quale, è vero, nulla può

essere conosciuto e provato riguardo all’oggetto, perché esso è in sé indeterminabile ed inutile per la conoscenza; che tuttavia però dà al giudizio la validità per ognuno (restando in ognuno il giudizio singolare, concomitante immediatamente all’intuizione); perché forse il principio determinante del giudizio sta nel concetto di ciò che può essere considerato come il sostrato soprasensibile dell’umanità. Per risolvere un’antinomia è necessario dimostrare che è possibile che due proposizioni, in apparenza contradittorie, in realtà non si contradicono, potendo sussistere l’una accanto all’altra, se anche l’esplicazione della possibilità del loro concetto trascenda la nostra facoltà conoscitiva. Che tale apparenza sia anche naturale ed inevitabile per la ragione umana, e perché essa sussista ancora quando, risoluta l’apparenza contradittoria, non può più ingannare, – si comprenderà in conseguenza. Noi diamo, difatti, nei due giudizii contradittorii, lo stesso significato al concetto sul quale si deve fondare l’universalità del giudizio, e tuttavia ricaviamo da esso due predicati opposti. Nella tesi perciò si dovrebbe dire: il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti d e t e r m i n a t i ; e invece nell’antitesi: il giudizio [341] di gusto si fonda sopra un concetto, sebbene i n d e t e r m i n a t o (cioè quello del sostrato soprasensibile dei fenomeni); e allora tra l’una e l’altra non vi sarebbe più alcuna contradizione. Oltre la soluzione del contrasto tra le pretese e contropretese del gusto, non si può fare altro. Dare un principio oggettivo determinato del gusto, col quale i giudizii si possano dirigere, esaminare e dimostrare, è assolutamente impossibile; perché allora non si tratterebbe più di giudizio di gusto. Può essere soltanto mostrato il principio soggettivo, cioè l’idea indeterminata del soprasensibile in noi, come l’unica chiave per spiegare questa nostra facoltà di cui a noi stessi le sorgenti sono sconosciute; ma non è possibile chiarirla ulteriormente in altro modo. Sta a fondamento dell’antinomia qui esposta e risoluta il vero concetto del gusto, cioè d’un Giudizio estetico puramente riflettente; e qui sono conciliati i due principii in apparenza contradittorii, in quanto e n t r a m b i p o s s o n o e s s e r e v e r i ; ciò che è anche sufficiente. Se, al contrario, si ponesse la ragione determinante del gusto nel p i a c e v o l e , come fanno alcuni (a causa della singolarità della rappresentazione che sta a fondamento del giudizio di gusto), o come altri vogliono (a causa dell’universalità della medesima), nel principio della p e r f e z i o n e , e si derivassero le corrispondenti definizioni

del gusto; si verrebbe ad avere un’antinomia assolutamente insolubile, onde si dedurrebbe che entrambe le p r o p o s i z i o n i opposte (ma non puramente contradittorie) s o n o f a l s e ; il che dimostra che il concetto su cui ciascuna è fondata, è in se stesso contradittorio. Si vede dunque che la soluzione dell’antinomia del Giudizio estetico prende una via analoga a quella che seguì la critica nella soluzione delle antinomie della ragion pura teoretica; e che qui, come nella critica della ragion pratica, le antinomie ci costringono a guardare al di là del sensibile, e a cercare nel soprasensibile il punto di unione di tutte le nostre facoltà a priori; poiché non resta alcun’altra via d’uscita per mettere la ragione in accordo con se medesima. NOTA PRIMA Poiché abbiamo così di frequente occasione nella filosofia trascendentale di distinguere le idee dai concetti dell’intelletto, [342] può essere utile introdurre delle espressioni tecniche adeguate alla loro differenza. Credo che non si obietterà nulla se io ne propongo qui qualcuna. – Le idee, nel significato più generale, sono rappresentazioni riferite ad un oggetto secondo un certo principio (oggettivo o soggettivo), in quanto esse però non possono mai divenire una conoscenza dell’oggetto stesso. Esse o sono riferite ad una intuizione secondo un principio puramente soggettivo dell’accordo delle facoltà conoscitive (l’immaginazione e l’intelletto), e allora si dicono e s t e t i c h e ; o son riferite ad un concetto secondo un principio oggettivo, senza poter fornire però una conoscenza dell’oggetto, e si chiamano i d e e d e l l a r a g i o n e ; nel qual caso il concetto è un concetto t r a s c e n d e n t e , che è diverso dal concetto dell’intelletto, cui si può sempre sottoporre una esperienza corrispondente adeguata, e si chiama perciò i m m a n e n t e . Un’idea estetica non può divenire una conoscenza, perché essa è un’i n t u i z i o n e (dell’immaginazione), alla quale non si può mai trovare un concetto adeguato. Un’i d e a d e l l a r a g i o n e non può mai diventare una conoscenza, perché contiene un concetto (del soprasensibile), al quale non può esser mai data un’intuizione adeguata. Ora io credo che si potrebbe chiamare l’idea estetica una rappresentazione i n e s p o n i b i l e dell’immaginazione e l’idea della ragione un concetto i n d i m o s t r a b i l e della ragione. Di entrambe è presupposto che non sono senza alcun fondamento, ma (secondo la precedente definizione di idea in generale) sono prodotte conformemente a certi principii delle facoltà conoscitive, a cui esse appartengono (quella ai principii soggettivi, questa

agli oggettivi). I c o n c e t t i d e l l ’ i n t e l l e t t o debbono, come tali, esser sempre dimostrabili (se per dimostrare s’intende semplicemente, come nell’anatomia, l’e s i b i r e ); vale a dire, l’oggetto loro corrispondente deve sempre poter essere dato nell’intuizione (pura o empirica); perché soltanto in tal modo possono diventar conoscenze. Il concetto della g r a n d e z z a può esser dato a priori nell’intuizione dello spazio, per esempio di una linea retta, etc.; il concetto di c a u s a nell’impenetrabilità, nell’urto dei corpi, etc. Sicché entrambi possono essere attestati per via di un’intuizione empirica, vale a dire il pensiero può esserne provato (dimostrato, presentato) con un esempio; e ciò deve poter [343] avvenire, altrimenti non si è sicuri che il pensiero non sia vuoto, senza o g g e t t o . Nella logica ci serviamo comunemente delle espressioni «dimostrabile» e «indimostrabile» soltanto riguardo alle p r o p o s i z i o n i ; ma meglio sarebbero indicate le prime chiamandole proposizioni m e d i a t a m e n t e c e r t e , e le seconde col nome di i m m e d i a t a m e n t e c e r t e , perché la filosofia pura ha anch’essa delle proposizioni di queste due specie, se con ciò s’intendono delle proposizioni vere, suscettibili o no di dimostrazione. Ma essa, in quanto filosofia, mediante principii a priori può provare bensì, non dimostrare, a meno che non si voglia interamente prescindere dal senso della parola, pel quale dimostrare (ostendere, exhibere) significa esibire il proprio concetto nell’intuizione (o con prove, o anche in una semplice definizione); in un’intuizione, che se resta a priori, si chiama la costruzione del concetto, ma se è anche empirica, costitutisce la presentazione dell’oggetto, con la quale al concetto viene assicurata la realtà oggettiva. Così si dice di un anatomico che egli dimostra l’occhio umano, quando, sezionando quest’organo, rende intuitivo il concetto che prima ha esposto discorsivamente. In conseguenza di ciò il concetto razionale del sostrato soprasensibile di tutti i fenomeni in generale, o anche di ciò che deve esser posto a fondamento della nostra volontà in relazione con le leggi morali, vale a dire della libertà trascendentale, – questo concetto è già, secondo la specie, un concetto indimostrabile e un’idea della ragione, mentre quello della virtù è tale secondo il grado; perché al primo nulla si può far corrispondere, secondo la qualità, nell’eperienza, laddove rispetto al secondo, nessun prodotto empirico di quella causalità raggiunge il grado, che l’idea della ragione prescrive come

regola. Come in un’idea della ragione l’i m m a g i n a z i o n e , con le sue intuizioni, non raggiunge il concetto dato, così in un’idea estetica l’i n t e l l e t t o , coi suoi concetti, non raggiunge mai l’intera intima intuizione dell’immaginazione, che questa congiunge a una rappresentazione data. Ora, poiché il riportare una rappresentazione dell’immaginazione ai concetti, si dice e s p o r l a ; l’idea estetica si può chiamare una rappresentazione i n e s p o n i b i l e dell’immaginazione (nel suo libero giuoco). Io avrò ancora occasione in seguito di dire qualche cosa di questa specie di idee; ed ora noterò soltanto che le due specie di idee, [344] così quelle della ragione come quelle estetiche, debbono avere i loro principii; e debbono averli nella ragione, quelle nei principii oggettivi, queste nei principii soggettivi dell’uso di tale facoltà. Dopo di che si può anche definire il g e n i o la facoltà delle i d e e e s t e t i c h e , mostrando in pari tempo perché nei prodotti del genio è la natura (del soggetto), non uno scopo premeditato, che dà la regola dell’arte (della produzione del bello). Difatti, poiché il bello non può esser giudicato mediante concetti, ma secondo la finalità che è nella disposizione dell’immaginazione ad accordarsi con la facoltà dei concetti in generale, non bisogna cercare qui regole e precetti; soltanto ciò che è semplicemente natura nel soggetto, e non può essere concepito sotto regole o concetti, cioè il sostrato soprasensibile di tutte le sue facoltà (che nessun concetto dell’intelletto raggiunge), per conseguenza ciò che fa dell’accordo di tutte le nostre facoltà conoscitive lo scopo ultimo dato alla nostra natura dall’intelligibile: – ecco quello che deve servire come misura soggettiva a quella finalità estetica, ma incondizionata, nelle arti belle, che esige legittimamente di piacere ad ognuno. Sicché, non potendosi assegnare a tale finalità un principio oggettivo, resta solo possibile ch’essa abbia a fondamento a priori un principio soggettivo e tuttavia universale. NOTA SECONDA Qui si presenta spontaneamente la seguente importante considerazione: vi sono, cioè, t r e s p e c i e d i a n t i n o m i e della ragion pura, le quali però si accordano in questo, che la costringono ad abbandonare il presupposto, d’altra parte ben naturale, che gli oggetti dei sensi siano cose in sé, a farli anzi valere semplicemente come fenomeni, e a supporre in loro un sostrato intelligibile (qualche cosa di soprasensibile, il cui concetto è soltanto un’idea

e non permette una vera conoscenza). Senza una tale antinomia, la ragione non potrebbe mai decidersi ad accettare un principio, che restringe in tal modo il campo della sua speculazione, e consentire al sacrifizio completo di tante e così brillanti speranze; perché anche ora che, a compensare tale perdita, le si offre un campo assai più vasto dal punto di vista pratico, [345] pare che essa non possa separarsi senza dolore da quelle speranze e sciogliersi dalla sua antica affezione. Il fatto che vi son tre specie di antinomie dipende dall’esservi tre facoltà conoscitive, intelletto, Giudizio e ragione, di cui ciascuna (in quanto facoltà di conoscere superiore) deve avere i suoi principii a priori; perché la ragione, in quanto giudica di questi principii, e del loro uso, esige assolutamente riguardo ad essi, pel condizionato dato, l’incondizionato: il quale però non si lascia trovare mai quando si considera il sensibile come appartenente alle cose in sé, e non gli si sottopone invece, come a semplice fenomeno, qualche cosa di soprasensibile come cosa in sé (il sostrato intelligibile della natura, fuori e dentro di noi). Vi sono dunque: 1) p e r l a f a c o l t à d i c o n o s c e r e , un’antinomia della ragione relativamente all’uso teoretico dell’intelletto spinto fino all’incondizionato; 2) p e l s e n t i m e n t o d e l p i a c e r e e d i s p i a c e r e , un’antinomia della ragione circa l’uso estetico della facoltà del giudizio; 3) p e r l a f a c o l t à d i d e s i d e r a r e un’antinomia relativamente all’uso pratico della ragione in quanto autonomia legislatrice: poiché tutte queste facoltà hanno i loro principii superiori a priori, e, conformemente ad un’esigenza inevitabile della ragione, debbono secondo questi principii giudicare e poter determinare il loro oggetto anche incondizionatamente. Riguardo alle due antinomie, che risultano dall’uso teoretico e pratico di queste superiori facoltà di conoscere, abbiamo già mostrato altrove la loro i n e v i t a b i l i t à quando in tale specie di giudizio non si considerava il sostrato soprasensibile degli oggetti dati, in quanto fenomeni, e, per contrario, la loro s o l u b i l i t à non appena si faceva tale considerazione. In quanto ora all’antinomia che risulta dall’uso della facoltà del giudizio conformemente all’esigenza della ragione, e alla soluzione che ne abbiamo data, osserveremo che non vi sono se non due mezzi di evitarla: o si nega che il giudizio di gusto estetico abbia a fondamento un principio a priori, e si pensa per conseguenza che ogni pretesa al consenso universale e necessario è vuota ed infondata, e che un giudizio di gusto dev’esser tenuto per giusto soltanto

perché c a p i t a che parecchi vi si accordino; e ciò ancora non perché si s u p p o n g a sotto questo accordo un principio a priori, ma (come nel gusto del palato) perché i soggetti [346] casualmente sono organizzati allo stesso modo; o p p u r e si dovrebbe ammettere che il giudizio del gusto è propriamente un occulto giudizio della ragione sulla perfezione che essa scopre in una cosa e nel rapporto, in questa, del molteplice ad uno scopo, e che quindi esso è chiamato estetico solo per l’oscurità di questa nostra riflessione, sebbene in fondo sia un giudizio teleologico: in questo caso si troverebbe che è inutile e nulla la soluzione dell’antinomia mediante idee trascendentali e si potrebbero conciliare le leggi del gusto con gli oggetti del senso, non in quanto semplici fenomeni, ma anche come cose in sé. Ma quanto valore abbiano questi due espedienti lo abbiamo mostrato in parecchi luoghi dell’esposizione dei giudizii di gusto. Ma se si concede almeno alla nostra deduzione che essa è sulla buona via, sebbene non sia ancora chiarita in tutte le sue parti, ci si fanno incontro tre idee: in p r i m o l u o g o , l’idea del soprasensibile in generale, senz’altra determinazione, come sostrato della natura; s e c o n d o , l’idea del soprasensibile, come principio della finalità soggettiva della natura per la nostra facoltà di conoscere; t e r z o , l’idea del soprasensibile, come principio dei fini della libertà, e come principio dell’accordo di quei fini con la libertà nella moralità.

§ 58. Dell’idealismo della finalità tanto della natura che dell’arte, come principio unico del Giudizio estetico. Si può, in primo luogo, o porre il principio del gusto in questo, che esso giudica sempre in base a motivi determinanti empirici e quindi dati soltanto a posteriori mediante i sensi, o ammettere che esso giudica in base a un fondamento a priori. La prima tesi sarebbe l’e m p i r i s m o della critica del gusto, la seconda il r a z i o n a l i s m o della medesima. Secondo la prima, l’oggetto del nostro piacere non sarebbe distinto dal p i a c e v o l e ; per la seconda, se il giudizio riposasse sopra concetti determinati, non sarebbe distinto dal b u o n o ; e così ogni bellezza sarebbe bandita dal mondo e al suo posto non resterebbe se non un nome particolare per esprimere forse un

miscuglio delle due [347] specie precedenti di piacere. Senonché noi abbiamo mostrato che vi sono anche a priori fondamenti del piacere, che possono accordarsi col principio del razionalismo, pur non potendo essere ricondotti a concetti determinati. Il razionalismo del principio del gusto, invece, o è quello del r e a l i s m o della finalità o quello dell’i d e a l i s m o della medesima. Ora, poiché un giudizio di gusto non è punto un giudizio di conoscenza, e la bellezza non è una qualità dell’oggetto in se stesso considerato, il razionalismo del principio del gusto non può mai consistere in questo, che la finalità di quel giudizio sia pensata come oggettiva, vale a dire che il giudizio sia teoreticamente e quindi anche logicamente (sebbene in maniera confusa) riferito alla perfezione dell’oggetto; ma soltanto come e s t e t i c a , si riferisca, nel soggetto, all’accordo della rappresentazione nell’immaginazione coi principii essenziali della facoltà del giudizio in generale. Per conseguenza, anche secondo il principio del razionalismo, la differenza tra il realismo e l’idealismo del g i u d i z i o d i g u s t o può esser posta solo in ciò, che nel primo caso si considera quella finalità soggettiva come uno s c o p o reale (intenzionale) della natura (o dell’arte) per accordarsi col nostro Giudizio; nel secondo soltanto come un accordo finalistico senza scopo, che si produce da sé e casualmente, accordo che risponde all’esigenza del Giudizio rispetto alla natura e alle sue forme prodotte secondo leggi particolari. Si potrebbe accettare questa considerazione in favore del realismo della finalità estetica nella natura: le belle forme nel regno della natura organizzata parlano forte a vantaggio della tesi che la produzione del bello abbia a fondamento l’idea di esso nella causa produttrice, cioè uno s c o p o a favore della nostra immaginazione. I fiori, la figura di intere piante, l’eleganza delle forme in ogni specie di animali, inutile per loro, ma come fatta apposta pel nostro gusto, specialmente la varietà e l’armonia dei colori (nel fagiano, nei crostacei, negli insetti, e perfino nei fiori più comuni), varietà e armonia che tanto piacciono ed attraggono la vista; tutte queste cose che riguardano semplicemente la superficie e anche in questa non hanno relazione con la figura che potrebbe essere necessaria ai fini interni dell’organismo, sembra che siano fatte apposta per la contemplazione [348] esterna: ed esse danno un gran peso all’opinione che ammette nella natura scopi effettivi rispetto alla nostra facoltà del giudizio estetico. Senonché contro tale opinione sta non soltanto la ragione con la sua

massima di evitare per quanto è possibile dappertutto l’inutile moltiplicazione dei principii; ma la natura mostra dovunque nelle sue libere formazioni una tendenza meccanica alla produzione di forme, le quali sembrano bensì fatte per l’uso estetico del nostro Giudizio, senza però darci la menoma ragione di supporre che sia perciò necessaria qualche cosa oltre il loro meccanismo in quanto semplice natura, in modo che le forme stesse, senz’alcuna idea che loro serva di fondamento, possano essere finali rispetto al nostro giudizio. Io intendo per l i b e r a f o r m a z i o n e della natura quella per cui, evaporando o sparendo una parte di un f l u i d o i n r i p o s o (talvolta il semplice calorico), ciò che resta prende nel solidificarsi una determinata figura o struttura, che è diversa secondo la specifica differenza delle materie, ma è costante per la stessa materia. Questo però nella supposizione che si tratti di vera fluidità, che la materia cioè vi sia completamente disciolta, e non si abbia un semplice miscuglio di parti solide in sospensione. La formazione avviene allora per p r e c i p i t a t o , vale a dire con una solidificazione istantanea, non con un passaggio progressivo dallo stato liquido allo stato solido, ma come d’un colpo; il quale passaggio si chiama c r i s t a l l i z z a z i o n e . L’esempio più comune di questa specie di formazione è la congelazione dell’acqua, nella quale si formano dapprima degli aghi di ghiaccio, che s’incrociano formando angoli di 60 gradi, mentre altri aghi vengono a porsi ad ogni punta dei primi, finché tutto sia congelato; sicché, durante questo tempo, l’acqua che sta tra gli aghi di ghiaccio non diventa a poco a poco più solida, ma resta così completamente liquida come potrebbe essere ad una temperatura molto superiore, e tuttavia ha la stessa temperatura del ghiaccio. La materia che si libera, e sparisce istantaneamente al momento della solidificazione, è una quantità considerevole di calorico, la quale, liberandosi, poiché non serviva ad altro che a mantenere lo stato liquido, lascia il nuovo ghiaccio niente affatto più freddo di quanto era l’acqua liquida poco prima. Molti sali e molte pietre che hanno figura cristallina vengono prodotti appunto da sostanze terrose disciolte, non si sa in [349] qual modo, nell’acqua. Così si formano le configurazione drusiche di molti minerali, della galena cubica, dell’argento rosso, etc., verisimilmente, per soluzione nell’acqua e precipitato delle parti, che da qualche causa sono obbligate a lasciare quel veicolo e ad unirsi in forme esteriori determinate. Ma, anche internamente, tutte quelle materie che erano allo stato fluido

solo per effetto del calore e si sono solidificate col raffreddamento, mostrano nella frattura una struttura determinata, e da ciò ci fanno supporre che, se il loro peso o il contatto dell’aria non l’avessero impedito, esse avrebbero mostrato anche al di fuori la loro figura specificamente propria; ciò che si è osservato in alcuni metalli induriti solo alla superficie dopo la fusione, decantando la parte liquida interna e facendo solidificare liberamente ciò che ancora rimaneva dentro. Molte cristallizzazioni minerali, come lo spato, l’ematite, l’aragonite offrono spesso figure così belle come solo l’arte potrebbe immaginare; e le stalattiti, che sono nell’antro di Antiparo, non sono altro che il prodotto dell’acqua stillata attraverso strati di gesso. Lo stato fluido è verosimilmente anteriore, in generale, allo stato solido, e così le piante come i corpi degli animali sono formati da una sostanza nutritiva fluida, in quanto questa prende forma nel riposo; certamente questa prende forma da principio secondo una disposizione originaria verso scopi (che dev’esser giudicata, come sarà dimostrato nella seconda parte, non esteticamente, ma teleologicamente, secondo il principio del realismo); ma in pari tempo forse essa si compone e si forma in libertà, secondo la legge universale dell’affinità delle materie. Ora, poiché i vapori d’acqua che si trovano in una atmosfera, che è un miscuglio di differenti gas, col raffreddamento si separano da questi ultimi e producono dei cristalli di neve, i quali, secondo le diversità dei gas atmosferici, presentano spesso delle forme artistiche e singolarmente belle; così, senza toglier nulla al principio teleologico del nostro giudizio dell’organizzazione, si può ben pensare che la bellezza dei fiori, del piumaggio degli uccelli, delle conchiglie, per la forma come pel colore, possa essere attribuita alla natura e al suo potere di produrre liberamente, senz’alcuno scopo particolare, secondo le leggi chimiche, [350] mediante l’accumulamento della materia necessaria all’organizzazione, certe forme che presentano una finalità estetica. Ma ciò che dimostra direttamente che il principio dell’i d e a l i t à della finalità nel bello naturale è quello che noi poniamo sempre a fondamento del giudizio estetico, e che non ci permette di usare come principio esplicativo il realismo di uno scopo rispetto alla nostra facoltà rappresentativa, è che, quando noi giudichiamo della bellezza in generale, cerchiamo in noi stessi a priori il criterio del giudizio, e la facoltà del giudizo estetico, quando si tratta di vedere se qualche cosa è bella o no, è per se stessa legislatrice; il che non è possibile quando si ammette il realismo della finalità della natura, perché

allora dovremmo apprendere dalla natura stessa quali sono gli oggetti da trovar belli, e il giudizio di gusto sarebbe sottoposto a principii empirici. Poiché, difatti, in questa specie di giudizii non si tratta di sapere che cosa è la natura, o quale scopo essa si propone rispetto a noi, ma qual è l’effetto che produce in noi. La sua finalità sarebbe sempre una finalità oggettiva se avesse prodotto le sue forme pel nostro piacere; non sarebbe punto una finalità soggettiva, la quale riposa sul libero giuoco dell’immaginazione, e in cui siamo noi che accogliamo la natura con favore, non è essa che offre un favore a noi. La proprietà che ha la natura di fornirci l’occasione di percepire l’intima finalità nei rapporti delle facoltà dell’animo, quando giudichiamo di certi suoi prodotti, e di percepirla come necessaria ed universale in virtù di un fondamento soprasensibile, non può essere uno scopo della natura, o meglio noi non possiamo considerarla come tale; perché altrimenti il giudizio così determinato sarebbe eteronomo e non libero ed autonomo, come si conviene ad un giudizio di gusto. Ancora più chiaramente si vede il principio dell’idealismo della finalità nell’arte bella. In essa non si potrebbe ammettere un realismo estetico fondato sulle sensazioni (perché allora non sarebbe più un’arte bella, ma solo un’arte piacevole): e ciò essa ha di comune con la bella natura. Ma che il piacere dato da idee estetiche non debba dipendere dal conseguimento di fini determinati (in quanto l’arte sarebbe meccanica), e, per conseguenza, che anche nel razionalismo del principio vi sia a fondamento l’idealità, non la realtà, dello scopo; – si vede chiaramente anche da ciò, che l’arte bella, come tale, non può essere [351] considerata come un prodotto dell’intelletto e della scienza, ma del genio, e che quindi essa riceve la sua regola da idee e s t e t i c h e , le quali sono essenzialmente diverse da idee razionali di fini determinati. Allo stesso modo che l’i d e a l i t à degli oggetti dei sensi in quanto fenomeni è la sola maniera di spiegare la possibilità che le loro forme siano determinate a priori, – l’i d e a l i s m o della finalità, nel giudizio del bello naturale ed artistico, è l’unica ipotesi con cui la critica possa spiegare la possibilità di un giudizio di gusto che abbia a priori la pretesa alla validità universale (senza però fondare sopra concetti la finalità che è rappresentata nell’oggetto).

§ 59. Della bellezza come simbolo della moralità.

Per provare la realtà dei nostri concetti son necessarie sempre le intuizioni. Se i concetti sono empirici, le intuizioni si chiamano e s e m p i i ; e si chiamano s c h e m i , quando i concetti sono concetti puri dell’intelletto. Ma si esige l’impossibile quando si vuol veder provata la realtà oggettiva dei concetti della ragione, cioè delle idee, sia anche a vantaggio della conoscenza teoretica; poiché non si può assolutamente dare alcuna intuizione ad esse adeguata. L’ i p o t i p o s i (esibizione, subiectio sub adspectum), in quanto è qualche cosa di sensibile, è duplice; s c h e m a t i c a , quando l’intuizione corrispondente ad un concetto dell’intelletto è data a priori; s i m b o l i c a , quando ad un concetto che può esser pensato solo dalla ragione, e a cui non può essere adeguata alcuna intuizione sensibile, vien sottoposta un’intuizione, nei cui confronti il procedimento del Giudizio è soltanto analogo a quello dello schematismo; vale a dire, che si accorda con questo soltanto secondo la regola del procedimento, non secondo l’intuizione stessa, e quindi soltanto secondo la forma della riflessione, non secondo il contenuto. A torto e con uno stravolgimento di senso i logici moderni accolgono l’uso della parola s i m b o l i c o per designare un modo di rappresentazione opposto a quello i n t u i t i v o ; perché il simbolico non è che una specie del modo intuitivo. Questo (l’intuitivo) si può dividere cioè in modo di rappresentazione s c h e m a t i c o [352] e s i m b o l i c o . Entrambi sono ipotiposi, cioè esibizioni (exhibitiones): non sono c a r a t t e r i s m i , cioè designazioni dei concetti per mezzo di segni sensibili concomitanti, che non contengono nulla che appartenga all’intuizione dell’oggetto, ma servono soltanto come mezzo di riproduzione, secondo la legge dell’associazione immaginativa, e quindi per uno scopo soggettivo; tali sono, come semplici e s p r e s s i o n i dei concetti, o le parole oppure i segni visibili (gli algebrici, ed anche i mimici)85. Tutte le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori sono dunque o s c h e m i o s i m b o l i , e le prime contengono esibizioni dirette del concetto, le seconde indirette. Le prime procedono dimostrativamente, le seconde per mezzo di una analogia (per la quale ci serviamo anche di intuizioni empiriche), in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto di una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo, di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il primo non è che il simbolo. È in tal

modo che si rappresenta uno stato monarchico come un corpo animato quando esso sia governato da leggi popolari sue, e invece come una semplice macchina (una specie di mulino a braccia), quando sia dominato da un’unica assoluta volontà; i tutti i due casi la rappresentazione è soltanto s i m b o l i c a . Non c’è, è vero, alcuna somiglianza tra uno stato dispotico e un mulino a braccia; ma l’analogia sta tra le regole con le quali riflettiamo sulle due cose e la loro causalità. Questo fatto è stato finora poco chiarito, sebbene meriti un più profondo esame; ma non è questo il luogo di intrattenervisi. La nostra lingua è piena di queste esibizioni indirette, fondate sull’analogia, in cui l’espressione non contiene lo schema proprio del concetto, ma soltanto un simbolo per la riflessione. Tali sono le parole f o n d a m e n t o (appoggio, base), d i p e n d e r e (essere tenuto dall’alto), d e r i v a r e da qualche cosa (invece di seguire), s o s t a n z a (il sostegno degli accidenti, come dice L o c k e ) , ed innumerevoli altre ipotiposi non schematiche, ma simboliche, ed altre espressioni che designano concetti, non mediante intuizioni dirette, ma soltanto secondo l’analogia con queste, cioè col trasferimento della riflessione su di un oggetto [353] dell’intuizione ad un concetto del tutto diverso, al quale forse non potrà mai corrispondere direttamente un’intuizione. Se si può già chiamare conoscenza un semplice modo di rappresentazione (il che certo è permesso, quando essa non è un principio della determinazione teoretica dell’oggetto per quello che l’oggetto è in se stesso, ma un principio della determinazione pratica, per ciò che l’idea di esso dev’essere per noi e pel suo uso appropriato); allora tutta la nostra conoscenza di Dio è puramente simbolica; e chi la ritiene schematica, con i suoi attributi di intelletto, volontà, etc., che attestano la loro realtà oggettiva soltanto negli esseri di questo mondo, cade nell’antropomorfismo; così come chi in essa ripudia ogni modo di rappresentazione intuitiva, cade nel deismo, pel quale non si può conoscere assolutamente niente, nemmeno dal punto di vista pratico. Ora io dico che il bello è il simbolo del bene morale. E che anche solo sotto questo punto di vista (di una relazione che è naturale in ognuno, ed ognuno esige dagli altri come un dovere) esso piace con la pretesa al consenso universale, mentre in esso l’animo si sente come nobilitato ed elevato sulla semplice capacità di provar piacere dalle impressioni dei sensi, ed apprezza il valore degli altri secondo una massima simile del loro Giudizio. È l’i n t e l l i g i b i l e ciò cui mira il gusto, come è stato dimostrato

nel paragrafo precedente; ad esso, cioè, in cui si accordano anche le nostre facoltà superiori della conoscenza, e senza del quale nascerebbe una profonda contradizione tra la natura delle facoltà conoscitive e le pretese del gusto. In questa facoltà il Giudizio non si vede, come quando è empirico, sottoposto all’eteronomia delle leggi dell’esperienza: riguardo agli oggetti di un piacere così puro esso dà a se stesso la legge, come fa la ragione riguardo alla facoltà di desiderare; e, sia per questa interna possibilità che è nel soggetto, sia per la possibilità esterna d’una natura che si accordi con la prima, il Giudizio si vede legato a qualche cosa che è nel soggetto stesso e fuori di esso, che non è natura né libertà, ma è congiunto col principio di quest’ultima, vale a dire col soprasensibile, nel quale la facoltà teoretica e la pratica si congiungono in una maniera comune, ma sconosciuta. Vogliamo indicare alcuni punti di questa analogia senza per altro lasciare inosservate le differenze. 1) Il bello piace i m m e d i a t a m e n t e (ma solo nell’intuizione [354] riflettente, non, come la moralità, nel concetto). 2) Esso piace s e n z a a l c u n i n t e r e s s e (il bene morale è bensì necessariamente legato con un interesse, ma non con un interesse che precede il giudizio di piacere, perché anzi l’interesse è prodotto dal giudizio). 3) La l i b e r t à dell’immaginazione (quindi della sensibilità della nostra facoltà) è rappresentata nel giudizio del bello come in accordo con la legalità dell’intelletto (nel giudizio morale, la libertà del volere è concepita come accordo della volontà con se stessa secondo le leggi universali della ragione). 4) Il principio soggettivo del giudizio del bello è rappresentato come u n i v e r s a l e , cioè valevole per ognuno, ma non conoscibile mediante alcun concetto universale (il principio oggettivo della moralità è rappresentato anch’esso come universale, cioè valido per tutti i soggetti e nello stesso tempo per tutte le azioni di ogni soggetto, ma anche come conoscibile mediante un concetto universale). Perciò il giudizio morale è non soltanto capace di principii costitutivi determinati, ma non è possibile se non sul fondamento delle massime che derivano da quei principii e dalla loro universalità. L’osservazione di questa analogia è familiare anche al senso comune; e chiamiamo spesso gli oggetti belli della natura o dell’arte con termini che sembrano avere per principio un giudizio morale. Diciamo maestosi e magnifici degli edifici e degli alberi, ridenti e gai i campi; anche i colori li chiamiamo innocenti, modesti, teneri, perché eccitano sensazioni, le quali hanno qualche cosa di analogo con la coscienza di uno stato d’animo

prodotto da giudizii morali. Il gusto rende possibile così il passaggio, senza un salto troppo brusco, dell’attrattiva dei sensi all’interesse morale abituale, rappresentando l’immaginazione anche nella sua libertà come capace di esser determinata in modo da accordarsi con l’intelletto, e insegnando a trovare perfino negli oggetti dei sensi, anche senza attrazione sensibile, un libero piacere. 83

Si può chiamare giudizio ragionante (iudicium ratiocinans) ogni giudizio che si proclama universale; in quanto esso può far da maggiore in un sillogismo. Invece si può chiamare giudizio razionale (iudicium ratiocinatum) soltanto quello che è concepito come la conclusione d’un sillogismo, per conseguenza come fondato a priori. 84 Privaturtheil, giudizio privato [N.d.T.]. 85 Il modo intuitivo della conoscenza deve essere opposto al discorsivo (non al simbolico). Il primo è o s c h e m a t i c o , per via della d i m o s t r a z i o n e , o s i m b o l i c o , come rappresentazione secondo una semplice analogia.

Appendice

§ 60. Della metodologia del gusto. La divisione di una critica in dottrina degli elementi e dottrina del metodo (metodologia), la quale precede la scienza, non [355] può essere applicata alla critica del gusto; perché non v’è, né può esservi, una scienza del bello, e il giudizio del gusto non è determinabile per mezzo di principii. Ciò che si potrebbe dire scientifico in ogni arte, ciò che concerne la v e r i t à nella esibizione del suo oggetto è bensì la condizione imprescindibile (conditio sine qua non) dell’arte bella, ma non è l’arte stessa. Sicché vi è per l’arte bella soltanto una m a n i e r a (modus), non un m e t o d o (methodus). Il maestro deve far vedere all’allievo ciò che deve fare e come lo deve fare; e le regole generali alle quali infine egli riconduce il suo procedimento possono piuttosto servire all’occasione per ricordare all’allievo certi punti principali, anziché ad essergli prescritte. Qui però bisogna aver riguardo ad un certo ideale, che l’arte deve avere davanti agli occhi, sebbene nella pratica non possa mai raggiungerlo interamente. Solo svegliando l’immaginazione dell’allievo all’adeguatezza ad un concetto dato; facendogli notare l’insufficienza dell’espressione rispetto all’idea che il concetto stesso non raggiunge, perché è un’idea estetica; e mediante una critica rigorosa, si potrà impedire che gli esempii che gli sono proposti siano considerati da lui senz’altro come tipi e modelli da imitare, i quali non possano essere sottoposti ad una norma più alta e al suo proprio giudizio; il che soffocherebbe il genio e con esso anche la libertà dell’immaginazione nella sua conformità a leggi, senza cui non è possibile alcun’arte bella e nemmeno un gusto che la giudichi esattamente. La propedeutica di tutte le arti belle, in quanto mira al grado supremo della loro perfezione, sembra che non consista nei precetti, ma nella coltura delle facoltà dell’animo per via di quelle conoscenze preliminari che si

chiamano humaniora, probabilmente perché u m a n i t à significa da un lato il s e n t i m e n t o universale d e l l a s i m p a t i a e dall’altro la facoltà di poter c o m u n i c a r e intimamente ed universalmente; due proprietà che, prese insieme, costituiscono la socievolezza propria dell’umanità per cui essa si differenzia dalla limitatezza propria della vita animale. L’epoca e i popoli, in cui la spinta viva a una vita associata regolata da l e g g i che fa di un popolo una comunità durevole, lottò con le grandi difficoltà in cui si avvolge l’arduo problema dell’unione della libertà (e quindi anche dell’eguaglianza) con la costrizione (piuttosto col rispetto e la sottomissione al dovere, che con la paura); quest’epoca e questo popolo [356] dovettero trovare dapprima l’arte della comunicazione scambievole delle idee tra la parte più colta e la parte più rozza, l’accordo dello sviluppo e del raffinamento della prima con la semplicità naturale e l’originalità della seconda, stabilendo in tal modo quel mezzo tra la più alta coltura e la semplice natura, che costituisce anche per il gusto, in quanto senso comune degli uomini, quella giusta misura, che non può essere data secondo regole generali. Difficilmente un’epoca successiva potrà far a meno di quei modelli, perché essa si terrà sempre meno vicino alla natura, e infine, se non ne avesse degli esempii permanenti, sarebbe appena in istato di farsi un concetto di quella felice unione, nello stesso popolo, della costrizione legale propria della più alta coltura con la forza e la sicurezza della libertà natura, che sente il proprio valore. Ma, poiché in fondo il gusto è una facoltà di giudicare dalla rappresentazione sensibile delle idee morali (mediante una certa analogia della riflessione su l’una e le altre), e poiché ancora da questa facoltà, e da una maggiore capacità (fondata su di essa) di avvertire il sentimento risultante dalle idee morali (che si chiama sentimento morale) deriva quel piacere che il gusto proclama valido per l’umanità in generale e non pel sentimento particolare di ciascuno; si vede chiaramente che la vera propedeutica per fondare il gusto è lo sviluppo delle idee morali e la coltura del sentimento morale; perché solamente quando la sensibilità è d’accordo con questo sentimento, il vero gusto può ricevere una forma determinata ed immutabile.

Parte seconda [357] Critica del giudizio teleologico

§ 61. Della finalità oggettiva della natura. [359] Secondo i principii trascendentali si ha buona ragione di ammettere una finalità soggettiva della natura nelle sue leggi particolari, rispetto alla sua intelligibilità per il Giudizio umano e alla possibilità di collegare le esperienze particolari in un sistema; nel che poi, tra i molti prodotti naturali, si può aspettare anche la possibilità di tali che, come se fossero fatti proprio pel nostro Giudizio, contengano una forma specifica appopriata a questa facoltà, in modo che la varietà e l’unità che sono in essi servano come a rinforzare e ad intrattenere le facoltà dell’animo (che sono in giuoco nell’esercizio del Giudizio), e cui si attribuisce perciò il nome di b e l l e forme. Ma che le cose della natura servano l’una all’altra come mezzi a fini, e che la loro possibilità stessa sia sufficientemente intelligibile solo per via di tale specie di causalità, sono affermazioni di cui non troviamo alcuna ragione nell’idea universale della natura come insieme degli oggetti dei sensi. Perché, difatti, nel caso precedente, la rappresentazione delle cose, essendo qualche cosa in noi, poteva ben essere pensata, anche a priori, come appropriata e adatta a produrre l’accordo finale interno delle nostre facoltà conoscitive; ma come dei fini, che non sono nostri, e che neppure convengono alla natura (che noi non ammettiamo come un essere intelligente), possano o debbano costituire una specie particolare di causalità, o almeno una singolare regolarità di questa, non si può presumere a priori con qualche fondamento. E, inoltre, l’esperienza stessa non ci può provare la loro realtà; bisognerebbe che con un procedimento sofistico si fosse già introdotto il concetto dello scopo nella natura [360] delle cose, ma senza derivarlo dagli oggetti e dalla loro conoscenza per via d’esperienza; allora lo si adopera più per concepire la

natura per analogia con un principio soggettivo del legame delle rappresentazioni in noi, che per conoscerla mediante principii oggettivi. Inoltre, la finalità oggettiva, come principio della possibilità delle cose naturali, è tanto lungi dall’esser connessa n e c e s s a r i a m e n t e col concetto della natura stessa, che anzi è proprio essa che s’invoca a preferenza per provare la contingenza di questa e della sua forma. Così, per esempio, nel parlare della struttura d’un uccello, delle cavità che sono nelle sue ossa, della disposizione delle sue ali al movimento, della sua coda destinata a far da timone, etc., si dice che tutto ciò è contingente in supremo grado quando si guarda al semplice nexus effectivus della natura, e non si ricorre ancora ad una specie particolare di causalità, cioè a quella dei fini (nexus finalis); vale a dire che la natura, considerata come semplice meccanismo, avrebbe potuto configurarsi in mille altri modi, senza che le capitasse di giungere proprio all’unità secondo un tale principio, e che quindi non si può sperare di trovarne a priori neppure la menoma ragione nel concetto di natura, ma solo fuori di esso. Tuttavia il giudizio teleologico è applicato a ragione, almeno problematicamente, all’investigazione della natura; ma soltanto per sottoporla a principii di osservazione ed investigazione mediante l’a n a l o g i a con la causalità secondo fini, e senza pretendere di poterla s p i e g a r e . Sicché esso appartiene al Giudizio riflettente, non al Giudizio determinante. Il concetto dei legami e delle forme della natura secondo fini è almeno un p r i n c i p i o d i p i ù per ricondurre a regole i suoi fenomeni, dove non bastano le leggi della causalità puramente meccanica. Perché, difatti, noi introduciamo un principio teleologico quando attribuiamo al concetto di un oggetto una causalità rispetto all’oggetto stesso, come se il concetto si trovasse nella natura (non in noi), o meglio quando ci rappresentiamo la possibilità dell’oggetto, per analogia con una simile causalità (che troviamo in noi), e quindi pensiamo la natura come tecnica per virtù propria; mentre quando non le attribuiamo tale modo di azione, la sua causalità dovrebbe essere rappresentata come cieco meccanismo. Se invece supponessimo, nella natura, cause che agiscono con i n t e n z i o n e , e quindi mettessimo a fondamento della [361] t e l e o l o g i a non un principio puramente r e g o l a t i v o pel g i u d i z i o dei fenomeni, cui la natura potrebbe esser pensata come sottoposta secondo le sue leggi particolari, ma anche un principio c o s t i t u t i v o della d e r i v a z i o n e dei suoi prodotti dalle sue cause, – il

concetto d’uno scopo naturale non apparterrebbe più al Giudizio riflettente, ma al Giudizio determinante; ma allora in realtà esso non apparterrebbe propriamente al Giudizio (come il concetto della bellezza in quanto finalità soggettiva formale), sibbene, come concetto della ragione, introdurrebbe una nuova causalità nella scienza della natura, che però noi deriviamo solo da noi stessi, ed attribuiamo ad altri esseri senza tuttavia volerli assimilare a noi.

Sezione prima Analitica del giudizio teleologico

§ 62. Della finalità oggettiva che è semplicemente formale, a differenza di quella materiale. [362] Tutte le figure geometriche tracciate secondo un principio mostrano una finalità oggettiva molteplice e spesso meravigliosa, vale a dire contengono la possibilità della soluzione di molti problemi secondo un unico principio, ed anche di ciascuno di essi in infiniti modi diversi. La finalità qui è evidentemente oggettiva ed intellettuale, non puramente soggettiva ed estetica. Perché essa esprime la proprietà, che ha la figura, di produrre molte figure proposte, ed è riconosciuta dalla ragione. Ma la finalità tuttavia non rende possibile il concetto dell’oggetto stesso, vale a dire questo non è considerato come possibile soltanto relativamente a quest’uso. In una figura così semplice qual è il cerchio sta il principio della soluzione di una quantità di problemi, di cui ciascuno esigerebbe da solo molte operazioni, mentre la sua soluzione si offre quasi spontaneamente come una delle infinite e bellissime proprietà della figura stessa. Così, per esempio, quando si debba costruire un triangolo di cui sia data la base e l’angolo opposto ad essa, il problema è indeterminato, cioè si può risolvere in infiniti modi diversi. Ma il cerchio comprende tutte queste soluzioni, come luogo geometrico di tutti i triangoli che soddisfano a quelle condizioni. Oppure due rette si debbano tagliare tra loro in modo che il rettangolo formato dalle due parti dell’una sia eguale al rettangolo formato dalle due parti dell’altra: il problema presenta in apparenza molta difficoltà. Ma tutte le rette che, [363] limitate dalla circonferenza, si tagliano nell’interno del cerchio, si dividono spontaneamente in quella proporzione. Le altre linee curve forniscono a loro volta altre soluzioni appropriate, cui non si era pensato nella regola che costituisce la loro costruzione. Tutte le sezioni

coniche, per quanto sia semplice la definizione che determina il loro concetto, per se stesse, o paragonate tra loro, sono feconde di principii per la soluzione di una quantità di problemi possibili. – È un vero piacere vedere il fervore con cui gli antichi geometri ricercavano le proprietà di questa specie di linee, senza lasciarsi sconcertare dalla domanda dei cervelli limitati: a che servirà questa conoscenza? Così, per esempio, ricercavano la proprietà della parabola senza conoscere la legge della gravità sulla terra, che loro avrebbe potuto fornire l’applicazione della parabola alla traiettoria dei corpi pesanti (la cui direzione della gravità può essere considerata come parallela a se stessa durante il movimento); oppure studiavano le proprietà dell’ellisse, senza sospettare che vi fosse anche una gravitazione pei corpi celesti, e senza conoscere la loro legge circa le diverse distanze dal punto di attrazione, la quale fa sì che essi descrivano con un movimento libero tale linea. Mentre che così, senza saperlo, lavoravano per la posterità, si compiacevano di trovare una finalità nell’essenza delle cose che pure potevano rappresentare interamente a priori nella sua necessità. Platone, maestro egli stesso di questa scienza, era preso dall’entusiasmo per questa costituzione originaria delle cose, a scoprire la quale possiamo far di meno d’ogni esperienza, e per la facoltà dell’animo di ricavare l’armonia degli esseri dal loro principio soprasensibile (comprese anche le proprietà dei numeri, con cui l’anima gioca nella musica); e questo entusiasmo lo innalzava dai concetti dell’esperienza alle idee, che gli apparivano spiegabili solo mediante una comunione intellettuale col principio di tutti gli esseri. Nessuna meraviglia che egli escludesse dalla sua scuola gli ignoranti della geometria, quando pensava di derivare dalla pura intuizione, intimamente inerente allo spirito umano, ciò che Anassagora desumeva dagli oggetti dell’esperienza e dal loro legame finale. Poiché nella necessità di ciò che è finale ed è fatto in modo come se fosse destinato con intenzione al nostro uso, ma sembra appartenere originariamente all’essenza delle cose, senza riguardo all’uso nostro, sta la ragione della grande ammirazione che suscita la natura, non soltanto fuori di noi, ma nella nostra propria ragione; [364] onde si può ben scusare l’errore per cui questa ammirazione può a poco a poco elevarsi fino al fantasticare. Ma, sebbene questa finalità intellettuale sia oggettiva (e non soggettiva come la finalità estetica), la si può bensì concepire, circa la sua possibilità, come puramente formale (non reale), vale a dire come una finalità cui non è necessario di porre a fondamento uno scopo, e quindi una teleologia, ma solo

in generale. Il cerchio è un’intuizione determinata dall’intelletto secondo un principio; l’unità di questo principio che io assumo arbitrariamente e che pongo come concetto fondamentale, applicato ad una forma dell’intuizione (lo spazio), che si trova in me come semplice rappresentazione e propriamente a priori, fa comprendere l’unità di molte regole che derivano dalla costruzione di tale concetto, e che son conformi a molti scopi possibili, senza che sia necessario supporre uno scopo o qualunque altro fondamento in quella finalità. Non è in tal caso come quando io trovo l’ordine e la regolarità in un insieme limitato di c o s e fuori di me; come per esempio in un giardino, l’ordine e la regolarità degli alberi, delle aiuole, dei viali, etc., che io non posso sperare di dedurre a priori dalla limitazione di uno spazio da me fatta, secondo una regola arbitraria; perché si tratta di cose esistenti, che debbono esser date empiricamente per poter essere conosciute, e non semplicemente di una mia rappresentazione determinata secondo un principio a priori. Perciò quest’ultima finalità (che è empirica), in quanto r e a l e , dipende dal concetto d’uno scopo. Ma si vede bene e appare legittima l’ammirazione anche per una finalità che è percepita nell’essenza delle cose (in quanto i loro concetti possono esser costruiti). Le molteplici regole, la cui unità (fondata su di un principio) suscita questa ammirazione, son tutte sintetiche, e non derivano da un c o n c e t t o dell’oggetto, per esempio del circolo, ma esigono che l’oggetto sia dato nell’intuizione. Ma quest’unità prende così l’aspetto di avere empiricamente un principio di regole estraneo e diverso dalla nostra facoltà rappresentativa, sicché pare che l’accordo dell’oggetto con quell’esigenza delle regole, che è propria dell’intelletto, sia in se stesso accidentale, e quindi possibile soltanto mediante uno scopo diretto espressamente a ciò. Ora tale [365] armonia, poiché malgrado tutta questa finalità non è conosciuta empiricamente, ma a priori, dovrebbe appunto condurci da se stessa a questa conclusione: che lo spazio, la determinazione del quale soltanto rendeva possibile l’oggetto (mediante l’immaginazione e conformemente a un concetto), non è una proprietà delle cose fuori di me, ma un semplice mio modo di rappresentare; e che quindi nella figura che costruisco c o n f o r m e m e n t e a d u n c o n c e t t o , vale a dire nella mia propria maniera di rappresentarmi ciò che mi è dato esternamente, checché sia in se stesso, i o i n t r o d u c o l a f i n a l i t à , senza esserne istruito empiricamente dal dato stesso, e per conseguenza senza aver bisogno di uno scopo

particolare esistente fuori di me nell’oggetto. Ma, poiché questa riflessione esige già un uso critico della ragione, e quindi non può essere implicita nel giudizio dell’oggetto secondo le sue proprietà, questo giudizio non mi fornisce immediatamente se non l’unione di regole eterogenee (anche in ciò che hanno di eterogeneo) in un principio, che è riconosciuto da me come vero a priori, senza aver bisogno di un principio particolare che stia a priori fuori del mio concetto e, in generale, della mia rappresentazione. Ora lo s t u p o r e nasce quando l’animo urta nell’impossibilità di conciliare una rappresentazione e la regola data da questa, coi principii che in esso sono fondamentali, in modo che gli nasce il dubbio se abbia ben visto o giudicato; ma l’a m m i r a z i o n e è uno stupore che si rinnova sempre, anche quando scompare questo dubbio. Per conseguenza, l’ammirazione è un effetto del tutto naturale di quella finalità che osserviamo nell’essenza delle cose (in quanto fenomeni), e che non può esser biasimata: perché non soltanto è inesplicabile per noi come l’unione di quella forma dell’intuizione sensibile (che si chiama lo spazio) con la facoltà dei concetti (l’intelletto) sia proprio quella e non altra; ma l’unione stessa estende l’animo e gli fa quasi presentire qualcosa che sta al di là di quelle rappresentazioni sensibili e in cui si può trovare l’ultimo principio, sebbene a noi sconosciuto, di quell’accordo. Noi non abbiamo bisogno, è vero, di conoscerlo, quando si tratta semplicemente della finalità formale delle nostre rappresentazioni a priori; ma anche la sola necessità di guardare al di là suscita l’ammirazione per l’oggetto, che vi ci costringe. Si suol chiamare b e l l e z z a l’insieme delle proprietà mentovate, [366] così nelle figure geometriche, come nei numeri, per una certa loro finalità a priori rispetto ad usi diversi della conoscenza, che non si aspettava dalla semplicità della loro costruzione; si parla così, per esempio, di questa o quella b e l l a proprietà del cerchio, che si scoprirebbe in questo o quel modo. Ma il giudizio con cui le troviamo finali, non è punto un giudizio estetico; non è un giudizio senza concetto, che denota una semplice finalità s o g g e t t i v a nel libero giuoco delle nostre facoltà di conoscere; ma è un giudizio intellettuale secondo concetti, il quale ci fa conoscere chiaramente una finalità oggettiva, vale a dire la adeguatezza a scopi d’ogni genere (infinitamente diversi). Si dovrebbe chiamarla piuttosto una p e r f e z i o n e r e l a t i v a che una bellezza delle figure matematiche. Anche la denominazione di b e l l e z z a i n t e l l e t t u a l e in generale non può essere ammessa; perché allora la parola

bellezza perderebbe ogni significato definito, o il piacere intellettuale perderebbe ogni superiorità sul piacere sensibile. Piuttosto si potrebbe chiamar bella una d i m o s t r a z i o n e di quelle proprietà, perché con essa l’intelletto, come facoltà dei concetti, e l’immaginazione, come facoltà dell’esibizione dei concetti stessi, si sentono fortificati a priori (il che, insieme con la precisione introdotta dalla ragione, vien detto l’eleganza della dimostrazione): qui almeno il piacere, sebbene sia fondato sopra concetti, è soggettivo, mentre la perfezione implica un piacere oggettivo.

§ 63. Della finalità relativa della natura, a differenza della finalità interna. L’esperienza conduce il nostro Giudizio al concetto di una finalità oggettiva e materiale, vale a dire al concetto di uno scopo della natura, soltanto quando vi sia da giudicare un rapporto di causa ad effetto86, che noi non ci sentiamo capaci di considerare [367] conforme a leggi senza supporre, a fondamento della causalità della causa, l’idea dell’effetto come condizione della possibilità dell’effetto stesso. Ma ciò può avvenire in due modi: o consideriamo l’effetto immediatamente come prodotto di un’arte, oppure come semplice materiale per l’arte di altri possibili esseri della natura; sicché o come scopo, o come mezzo per l’impiego finale di altre cause. Quest’ultima finalità si chiama utilità (rispetto agli uomini) o convenienza (per ogni altra natura), ed è semplicemente relativa; mentre la prima è una finalità interna dell’essere naturale. I fiumi, per esempio, trasportano varie terre utili alla vegetazione, che depositano qualche volta nei paesi che attraversano, oppure alla foce. I flutti spandono questa specie di fango su parecchie coste, o lo depositano sul lido; e, specialmente quando gli uomini procurano di non farlo riportar via dal riflusso, aumenta l’estensione del terreno coltivabile, e la vegetazione prende il posto che prima era dimora dei pesci e dei crostacei. La maggior parte degli accrescimenti di terra sono stati prodotti in tal modo dalla natura stessa, la quale continua ancora, sebbene lentamente, questo lavoro. – Ora si tratta di sapere se queste cose siano da giudicarsi come fini della natura, poiché contengono un’utilità per gli uomini; giacché non è da parlare di utilità pel regno vegetale stesso, posto che quello che torna a vantaggio della terra, è

tolto alle creature marine. Oppure per dare un esempio della convenienza di certe cose della natura rispetto ad altre creature (quando si considerano come mezzi), non vi è terreno più propizio ai pini di un terreno sabbioso. Ora il mare di un tempo, prima di ritirarsi dalla terra, ha lasciato molti strati sabbiosi nelle nostre contrade del nord, onde su questo suolo, prima così inadatto ad ogni cultura, hanno potuto elevarsi estese foreste di pini, che noi accusiamo spesso i nostri antenati di avere abbattute senza ragione; e si può domandare se questo antico deposito di strati di sabbia era uno scopo della natura rispetto alle foreste di pini che potevano crescervi. Certo, se si ammettono come scopo della natura le foreste di pini, anche quella sabbia si deve ammettere come scopo, ma come scopo soltanto relativo, di cui a loro volta erano mezzi l’antica riva del mare e il ritirarsi delle acque; poiché nella serie dei membri reciprocamente subordinati di un legame finale, [368] ogni membro deve esser considerato come scopo (sebbene non come scopo finale), di cui è mezzo la causa più prossima. Così, se nel mondo dovevano esservi buoi, pecore, cavalli, etc., doveva anche esservi dell’erba sulla terra, ma nei deserti di sabbia doveva anche crescere il riscolo, se dovevano esservi dei camelli; e, ancora, queste ed altre specie di bestie erbivore si dovevano trovare in abbondanza, se dovevano esistere lupi, tigri e leoni. Perciò la finalità oggettiva, che si fonda sulla convenienza, non è una finalità oggettiva delle cose in se stesse, come sarebbe se la sabbia non potesse essere concepita per sé, come effetto della sua causa, il mare, senza attribuire a quest’ultimo uno scopo e considerare l’effetto, cioè la sabbia, come un prodotto d’arte. È una causalità puramente relativa e solo accidentale rispetto alla cosa stessa cui è attribuita; e, sebbene, tra gli esempii citati, l’erba debba esser giudicata per sé come un prodotto organizzato della natura, e quindi come fatto con arte, rispetto agli animali che se ne nutrono dev’esser considerata come semplice materia bruta. Ma, quando infine l’uomo, mediante la libertà della sua causalità, trova la convenienza delle cose naturali rispetto ai suoi scopi – spesso stolti (si serve delle penne colorate degli uccelli come ornamento del vestire, delle terre colorate e dei succhi delle piante come belletti), ma talvolta anche ragionevoli, come quando adopera il cavallo per cavalcare, il bue e, come a Minorca, perfino l’asino e il maiale per l’aratura, – non si può ammettere neanche qui uno scopo relativo della natura (rispetto a questo uso). Perché la sua ragione sa accordare le cose con fantasie arbitrarie, cui egli stesso non era

predestinato dalla natura. Soltanto se si ammette che degli uomini debbono vivere sulla terra, non debbono mancare almeno i mezzi senza i quali essi non potrebbero sussistere in quanto animali, o anche in quanto animali ragionevoli (per quanto in minimo grado); ma allora quelle cose naturali, che sono indispensabili per quest’uso, dovrebbero anche essere riguardate come fini della natura. Da ciò si vede chiaramente che la finalità esterna (la convenienza d’una cosa per un’altra) non può essere considerata come uno scopo esterno della natura, se non alla condizione che l’esistenza della cosa cui essa, da vicino o da lontano, si riferisce, sia per se stessa uno scopo della natura. Ma, poiché ciò non può mai essere deciso dalla semplice considerazione della natura, la [369] finalità relativa, sebbene accenni ipoteticamente a fini naturali, non autorizza alcun giudizio teleologico assoluto. La neve, nei paesi freddi, protegge le semenze dal gelo; facilita la comunicazione tra gli uomini (per mezzo delle slitte); il lappone ha per quest’uso certi animali (le renne), che trovano sufficiente nutrimento in un musco secco che da se stessi sanno trarre da sotto la neve, e si lasciano facilmente domare e sottrarre a quella libertà in cui avrebbero potuto benissimo conservarsi. Nella stessa zona glaciale il mare contiene per altri popoli una ricca provvista di animali che, oltre il nutrimento e il vestito, forniscono loro materie infiammabili, con le quali riscaldano le loro capanne costruite col legno che dal mare stesso ricevono. V’è qui un meraviglioso concorso di molte relazioni della natura ad uno scopo, che è il groenlandese, il lappone, il samoiedo, il iacuto, etc. Ma in generale non si vede perché in quei luoghi debbano vivere uomini. Così sarebbe un giudizio molto ardito ed arbitrario il dire che ivi i vapori cadono sotto forma di neve, il mare ha correnti che trasportano il legno cresciuto nei paesi caldi, e si trovano grossi animali marini contenenti olio, p e r c h é la causa che produce tutte le cose della natura si è basata sull’idea del vantaggio di certe povere creature. Giacché se anche non esistessero tutti questi vantaggi naturali, per noi le cause della natura non sarebbero punto insufficienti in questo senso; anzi a noi stessi sembrerebbe temerario ed inconsiderato domandare alla natura una simile disposizione e l’attribuirle un tale scopo (visto che solo la massima discordia degli uomini tra loro li ha potuti spingere fino a paesi così inospitali).

§ 64. Del carattere proprio delle cose in quanto fini della natura. Per comprendere che una cosa non è possibile se non come fine, vale a dire che la causalità della sua origine deve essere cercata non nel meccanismo della natura, ma in una causa il cui potere [370] è determinato ad agire da concetti, è necessario che la sua forma non sia possibile secondo semplici leggi naturali, cioè tali che possono esser conosciute da noi col solo intelletto applicato agli oggetti dei sensi, ma che la sua conoscenza empirica stessa, circa la causa e l’effetto, presupponga concetti della ragione. Questa c o n t i n g e n z a della sua forma, in tutte le leggi empiriche relativamente alla ragione – poiché la ragione, che di ogni forma d’un prodotto naturale deve riconoscere anche la necessità, anche quando vuol considerare soltanto le condizioni legate con la produzione di esso, non può ammettere tale necessità in quella forma data, – è per se stessa un argomento per considerare la sua casualità come possibile soltanto mediante la ragione; ma la ragione è allora la facoltà di agire secondo fini (una volontà); e l’oggetto, che è rappresentato come possibile soltanto per mezzo di questa facoltà, sarebbe rappresentato come possibile solamente in quanto fine. Se qualcuno scoprisse una figura geometrica, per esempio un esagono regolare, disegnata sulla sabbia, in un paese che gli sembra disabitato, la sua riflessione, cercando di farsene un concetto, noterebbe mediante la ragione, se pure oscuramente, l’unità del principio con cui fu prodotta, e, conformemente alla ragione stessa, non giudicherebbe come principio della possibilità della figura la sabbia, il mare vicino, i venti, o anche le impronte dei piedi degli animali, o qualunque altra causa priva di ragione; perché la contingenza dell’accordo della figura con un tal concetto possibile solo nella ragione gli sembrerebbe così infinitamente grande, che sarebbe proprio come se non vi fosse alcuna legge della natura capace di produrlo: e per conseguenza gli sembrerebbe che la causalità di un simile effetto non possa essere contenuta in alcuna causa del semplice meccanismo della natura, ma solo nel concetto dell’oggetto, in quanto concetto che solo la ragione può dare e a cui può confrontare l’oggetto; e quindi che l’effetto possa essere considerato come fine, ma non come un fine naturale, sibbene come un prodotto dell’arte (vestigium hominis video).

Ma per giudicare come un fine, e quindi come un f i n e d e l l a n a t u r a , qualche cosa che si riconosce come un prodotto naturale, si richiede, se non vi è qui nulla di contradittorio, qualche cosa di più. Io direi, per ora, che una cosa esiste come fine della natura q u a n d o è l a c a u s a e l ’ e f f e t t o d i [3701] s e s t e s s a (sebbene in doppio significato); perché vi è qui una causalità che non può essere congiunta col semplice concetto d’una natura, senza attribuire a questa uno scopo, e che però, se può essere pensata senza contradizione, non può essere concepita. Prima di esporla completamente, vogliamo chiarire con un esempio la determinazione di questa idea d’uno scopo naturale. In primo luogo, un albero ne produce un altro secondo una legge naturale conosciuta. Ma l’albero prodotto è della stessa specie; e così l’albero si produce da sé relativamente alla s p e c i e , nella quale, da un lato come effetto, dall’altro come causa, prodotto incessantemente da se stesso, e quindi producendo sovente se stesso, si conserva costantemente, in quanto specie. In secondo luogo, un albero si produce da sé come i n d i v i d u o . Questa specie di effetto noi veramente la chiamiamo semplicemente crescita; ma questa crescita bisogna intenderla nel senso che è interamente diversa da ogni altro accrescimento secondo leggi meccaniche, e, sebbene sotto un altro nome, va considerata come una produzione. Questa pianta elabora la materia che si appropria in modo da darle la qualità che ad essa è specificamente propria e che il meccanismo della natura ad essa esterna non può fornire; e si sviluppa così mediante una materia che relativamente alla composizione, è un suo proprio prodotto. Perché se, per ciò che riguarda le parti costitutive che trae dalla natura esterna, questa materia deve esser considerata come un’e d u z i o n e , si trova però, circa la scelta e nuova composizione della materia rozza, tanta originalità in questa specie di esseri naturali nella facoltà di scegliere e di comporre, che ogni arte ne resta infinitamente lontana, quando cerca di ricostituire quei prodotti del regno vegetale con gli elementi ottenuti dall’analisi di essi, o con la materia che la natura fornisce per nutrirli. In terzo luogo, una parte di questa creatura si produce da sé in modo che la conservazione della parte e la conservazione del tutto dipendono l’una dall’altra. Un occhio preso dalla foglia d’un albero e innestato sul ramo di un altro albero, produce sopra un ceppo estraneo una pianta della sua specie, e così l’innesto sopra un altro tronco. Perciò anche nello stesso albero si può considerare ogni ramo o foglia come semplicemente innestato o innocchiato,

quindi come un albero che sussiste per se stesso, e [372] che soltanto è attaccato ad un altro e si nutre da parassita. Così le foglie sono, è vero, produzioni dell’albero, ma a loro volta lo conservano; perché si distruggerebbe l’albero spogliandolo ripetutamente delle sue foglie, e la sua crescita dipende dal loro effetto sul tronco. Menzionerò qui solo di sfuggita, sebbene appartengano alle proprietà più meravigliose delle creature organizzate, quel soccorso che la natura dà spontaneamente alle piante private di qualche parte necessaria alla conservazione delle parti vicine, sostituendola con altre parti; e quei difetti di organizzazione, o quelle deformità acquistate nella crescita, in cui certe parti, a causa dei difetti e degli ostacoli, si formano in una maniera del tutto nuova, per conservare ciò che vi è e produrre una creatura anormale.

§ 65. Le cose, in quanto fini della natura, sono esseri organizzati. Secondo il carattere indicato nel paragrafo precedente, una cosa che deve esser riconosciuta come un prodotto naturale, ma nel tempo stesso come possibile soltanto in quanto fine della natura, deve essere rispetto a se stessa, a vicenda, causa ed effetto; ma è questa una espressione alquanto impropria ed indeterminata, che dev’essere derivata da un concetto definito. Il legame causale, in quanto è pensato semplicemente dall’intelletto, è un legame che costituisce una serie (di cause ed effetti), che va sempre all’in giù; e le cose stesse, che in quanto effetti ne presuppongono altre come cause, non possono nello stesso tempo esser cause di queste. Questo legame causale si chiama delle cause efficienti (nexus effectivus). Ma si può anche pensare, invece, una relazione causale secondo un concetto della ragione (di fini), che, quando la si consideri come serie, implicherebbe una dipendenza ascendente e discendente, in modo che la cosa che una volta è designata come effetto, risalendo, meriti il nome di causa di quell’altra cosa di cui è effetto. Nella pratica (o nell’arte) si trova facilmente un simile legame: per esempio, la casa è bensì la causa del denaro che si riceve pel fitto, ma viceversa la rappresentazione di questo introito possibile fu la causa della sua costruzione. Un tal legame causale è detto delle cause finali (nexus finalis). Forse il primo si potrebbe chiamar [373] meglio legame delle cause reali, e il secondo

legame delle cause ideali, perché queste denominazioni fanno comprendere che non possono esservi se non queste due specie di causalità. In una cosa in quanto fine della natura si richiede i n p r i m o l u o g o che le parti (relativamente alla loro esistenza e alla loro forma) siano possibili soltanto mediante la loro relazione col tutto. Perché la cosa stessa è un fine, e quindi è compresa sotto un concetto o un’idea, che deve determinare a priori tutto ciò che in essa dev’essere contenuto. Ma una cosa, in quanto è pensata come possibile soltanto in questo modo, è semplicemente un’opera d’arte; vale a dire, è il prodotto di una causa ragionevole distinta dalla materia della cosa (le parti), e la cui causalità (nella raccolta e nella composizione delle parti) è determinata dalla sua idea di un tutto possibile (e quindi non dalla natura esteriore). Ma se una cosa, in quanto prodotto della natura, deve contenere in se stessa e nella sua possibilità interna una relazione a fini, vale a dire deve essere possibile soltanto come fine della natura e senza la causalità dei concetti di esseri ragionevoli ad essa esterni, si richiede i n s e c o n d o l u o g o che le parti si leghino a formare l’unità del tutto in modo da essere reciprocamente causa ed effetto della loro forma. Perché solo in tal modo è possibile che a sua volta l’idea del tutto determini la forma e il legame di tutte le parti: non in quanto causa – perché allora si avrebbe un prodotto dell’arte – ma, per colui che giudica, come fondamento della conoscenza dell’unità sistematica della forma e del legame di tutto il molteplice contenuto nella materia data. Sicché in un corpo che, in se stesso e secondo la sua possibilità interna, dev’essere giudicato come un fine della natura, si richiede che le parti tutte insieme si producano reciprocamente, circa la loro forma e il loro legame, e producano così, in forza della propria causalità, un tutto, di cui il concetto a sua volta (in un essere che possegga la causalità secondo concetti, adeguata ad un tale prodotto) è causa del prodotto secondo un principio, in modo che perciò il legame delle c a u s e e f f i c i e n t i possa esser giudicato nel tempo stesso come e f f e t t o m e d i a n t e c a u s e f i n a l i . In un simile prodotto della natura ogni parte è pensata come [374] esistente solo p e r m e z z o delle altre, e p e r l e a l t r e e il tutto, vale a dire come uno strumento (organo); il che però non basta (perché potrebbe essere anche uno strumento dell’arte, e quindi essere rappresentata solo come uno scopo possibile in generale); dev’essere pensata come un organo c h e

p r o d u c e le altre parti (ed è reciprocamente prodotto da esse), mentre nessuno strumento dell’arte può essere così, ma solo quello della natura che fornisce tutta la materia agli strumenti (anche a quelli dell’arte); solo allora e solo per questo un tale prodotto, in quanto essere o r g a n i z z a t o e c h e s i o r g a n i z z a d a s é , può esser chiamato un f i n e d e l l a n a t u r a . In un orologio, una parte è lo strumento che serve al movimento delle altre; ma una ruota non è la causa efficiente della produzione delle altre; una parte esiste bensì in vista delle altre, ma non per mezzo di esse. Perciò la causa produttrice dell’orologio e della sua forma non è contenuta nella natura (di questa materia), ma sta fuori di esso, in un essere che può agire secondo le idee di un tutto possibile mediante la sua causalità. Se quindi nell’orologio una ruota non produce l’altra, ancor meno un orologio produrrà un altro orologio, impiegando altra materia (organizzandola); perciò non rimpiazzerà da sé le parti mancanti, o riparerà, mediante le altre, ai difetti della costruzione primitiva di certe parti, o si correggerà spontaneamente quando si trova in disordine: tutte cose che invece ci possiamo aspettare dalla natura organizzata. – Un essere organizzato non è dunque una semplice macchina, che non ha altro che la forza m o t r i c e : possiede una forza f o r m a t r i c e , tale la comunica alle materie che non l’hanno (le organizza): una forza formatrice, che si propaga, e che non può essere spiegata con la sola facoltà del movimento (il meccanismo). Si dice assai poco della natura e della falcoltà che essa dimostra nei prodotti organizzati, quando questa si chiama un a n a l o g o d e l l ’ a r t e ; perché allora si pensa l’artista (un essere ragionevole) fuori di essa. La natura invece si organizza da sé, e, in ogni specie dei suoi prodotti organizzati, secondo uno stesso esemplare; ma anche con quelle opportune deviazioni, che esige la conservazione di se stessa, secondo le circostanze. Forse ci si avvicina di più a questa proprietà impenetrabile, quando la si chiama un a n a l o g o d e l l a v i t a : ma allora o bisogna dotare la materia, in quanto semplice materia, di una proprietà (l’ilozoismo), che ripugna alla sua essenza, oppure bisogna associarle un principio estraneo (un’anima), c h e s t i a i n c o m u n i o n e [375] con essa; nel qual caso, se un tale prodotto deve essere un prodotto naturale, o si deve presupporre già la materia organizzata come strumento di quell’anima, e allora non la si spiega affatto, oppure bisogna far dell’anima l’artista di quest’opera sottraendone la produzione alla natura (corporea). Rigorosamente parlando, l’organizzazione della natura non ha

dunque alcuna analogia con qualche causalità che noi conosciamo87. La bellezza della natura, che è attribuita agli oggetti solo relativamente alla riflessione sulla intuizione e s t e r n a di essi, e quindi soltanto per la forma della loro superficie, può esser detta con ragione un analogo dell’arte. Ma la p e r f e z i o n e i n t e r n a d e l l a n a t u r a , quale la posseggono quelle cose che son possibili solo come f i n i d e l l a n a t u r a , e si chiamano perciò esseri organizzati, non si può pensare e spiegare con alcuna analogia con qualche facoltà fisica o naturale che conosciamo, e, sebbene noi stessi, nel senso più largo, apparteniamo alla natura, neppure con una stretta analogia con l’arte umana. Il concetto d’una cosa, come fine della natura in sé, non è dunque un concetto costitutivo dell’intelletto o della ragione; ma può essere un concetto regolativo pel Giudizio riflettente, dirigendo la ricerca sugli oggetti di queste specie, e permettendo la riflessione sul loro principio supremo, per via di lontana analogia con la nostra causalità secondo fini in generale; il che veramente non è a vantaggio della conoscenza della natura o della sua origine, ma piuttosto a vantaggio di quella stessa facoltà pratica della ragione con la quale analogicamente consideriamo la causa di quella finalità. Gli esseri organizzati son dunque i soli nella natura che, anche quando siano considerati per sé e senza rapporto ad altre cose, devono essere pensati come possibili scopi di essa, son quelli che [376] dànno la prima volta una realtà oggettiva al concetto d’u n o s c o p o , che non sia uno scopo pratico, ma uno scopo d e l l a n a t u r a , e forniscono perciò alla scienza della natura un fondamento per una teleologia, cioè per un modo di considerare gli oggetti della natura secondo un principio particolare, che altrimenti non si sarebbe assolutamente autorizzati ad introdurvi (perché la possibilità di una simile specie di causalità non si può scorgere punto a priori).

§ 66. Del principio del giudizio sulla finalità interna negli esseri organizzati. Questo principio, che è nel tempo stesso la definizione di essi, dice: è u n prodotto organizzato della natura quello in cui tutto è r e c i p r o c a m e n t e s c o p o e m e z z o . Nulla in esso è vano, senza scopo, o da attribuirsi ad un cieco meccanismo della natura.

Questo principio, veramente, se si guarda all’occasione della sua origine, è da ritenersi derivato dall’esperienza, cioè da quella esperienza istituita metodicamente e che si chiama osservazione, ma per la universalità e la necessità, che esso afferma di una tale finalità, non può riposare semplicemente sopra principii dell’esperienza, e deve avere a fondamento qualche principio a priori, sia pure soltanto regolativo, e ammesso pure che quei fini risiedano soltanto nell’idea di colui che giudica e non in qualche causa efficiente. Il principio suddetto si può chiamare perciò una m a s s i m a del giudizio della finalità interna degli esseri organizzati. È noto che gli anatomisti delle piante e degli animali, per studiarne la struttura, e per poter riconoscere perché e a qual fine furono date loro quelle parti, quelle disposizione e quel legame delle parti stesse, e proprio quella forma interna, ammettono come imprescindibilmente necessaria la massima, che n i e n t e è i n u t i l e in tali creature, e le accordano lo stesso valore che al principio della scienza generale della natura, cioè che n u l l a avviene a caso. E, in realtà, essi non possono rinunziare a questo principio teleologico, più che non possano rinunziare al principio generale della fisica; perché, come con l’abbandono di quest’ultimo non resta più possibile l’esperienza in generale, così con l’abbandono del primo principio non resta più alcuna norma per l’osservazione d’una specie di cose naturali, che abbiamo pensate una volta teleologicamente sotto il concetto di fini della natura. [377] Perché, difatti, questo concetto conduce la ragione in tutt’altro ordine di cose che non sia un semplice meccanismo della natura, che qui non ci può più soddisfare. A fondamento della possibilità del prodotto della natura dev’esservi un’idea. Ma, poiché un’idea è un’assoluta unità di rappresentazione, mentre la materia è una molteplicità di cose, che per se stessa non può fornire alcuna unità determinata della composizione, se quell’unità dell’idea deve servire pure come principio che determini a priori una legge naturale della causalità di una tale forma del composto, lo scopo della natura si estende a t u t t o ciò che è contenuto nel suo prodotto. E, difatti, dal momento che noi riferiamo i n t e r a m e n t e questo effetto ad un fondamento soprasensibile, al di là del cieco meccanismo della natura, lo dobbiamo giudicare interamente secondo questo principio; e non v’è alcuna ragione per ammettere che la forma di una tale cosa dipenda ancora in parte dall’altro principio, perché allora nel miscuglio di principii eterogenei non resterebbe più alcuna regola sicura del giudizio.

Senza dubbio, per esempio, nel corpo di un animale, parecchie parti possono essere concepite come concrezioni secondo leggi puramente meccaniche (come la pelle, le ossa, i capelli). Però la causa che fornisce la materia adatta, la modifica in tal modo, la forma, e la depone nei posti appropriati dev’essere giudicata sempre teleologicamente in modo che tutto in questo corpo deve essere considerato come organizzato, e tutto a sua volta come organo in un certo rapporto con la cosa stessa.

§ 67. Del principio del giudizio teleologico sulla natura considerata in generale come un sistema di fini. Della finalità e s t e r n a delle cose della natura abbiamo detto avanti che essa non basta ad autorizzarci a considerare queste cose come fini della natura per spiegare la loro esistenza, e ad usare i loro effetti, accidentalmente finali rispetto all’idea, come fondamenti della loro esistenza secondo il principio delle cause finali. Così i f i u m i , perché favoriscono la comunione tra i popoli nell’interno dei paesi, le m o n t a g n e perché contengono le sorgenti di questi fiumi e le provviste di neve per conservarli nei tempi in cui non piove, l’i n c l i n a z i o n e d e i t e r r e n i [378] che trasporta queste acque lasciando asciutte le terre, non possono essere tenuti senz’altro per fini della natura; poiché, sebbene questa forma della superficie terrestre sia molto necessaria alla formazione e alla conservazione del regno vegetale ed animale, non ha in sé nulla la cui possibilità ci obblighi ad ammettere una causalità secondo fini. Lo stesso vale per le piante che l’uomo adopera pel suo bisogno e pel suo piacere: degli animali, il cammello, il bue, il cavallo, il cane, etc., di cui l’uomo usa in tanti modi, sia pel suo nutrimento, sia pel suo servizio, e di cui in gran parte non può far da meno. Delle cose di cui non si ha alcuna ragione di considerarle per se stesse come fini, il rapporto esterno può esser giudicato come finale soltanto in via d’ipotesi. Giudicare una cosa come fine della natura, a causa della sua forma interna, è tutt’altro che considerare come fine della natura l’esistenza di questa cosa. In quest’ultimo caso abbiamo bisogno non soltanto del concetto di uno scopo possibile, ma della conoscenza dello scopo finale (scopus) della natura, il quale implica un rapporto della natura a qualcosa di soprasensibile, che trascende di molto tutta la nostra conoscenza teleologica della natura;

perché lo scopo dell’esistenza della natura stessa deve essere cercato al di sopra della natura. La forma interna di un semplice filo d’erba può dimostrare a sufficienza per la nostra umana facoltà di giudicare, che la sua origine è possibile soltanto secondo la regola dei fini. Ma, se si prescinde da ciò, e si guarda soltanto all’uso che ne fanno altri esseri naturali, se si tralascia quindi la considerazione dell’organizzazione interna, e si guarda solo alle relazioni finali esterne, come il fatto che l’erba sia necessaria qual mezzo d’esistenza pel bestiame, e questo per l’uomo; e se non si vede perché è necessario che esistano degli uomini (al che non sarebbe tanto facile rispondere, se si pensa agli abitanti della Nuova Olanda o a quelli della Terra del Fuoco); non si arriva ad alcun fine categorico: ma tutta questa relazione di finalità riposa su di una condizione che si deve porre sempre più in alto, e che, in quanto incondizionata (l’esistenza di una cosa come scopo finale), sta interamente fuori della considerazione fisico-teleologica del mondo. Ma allora una tal cosa non è uno scopo della natura; perché non la si può considerare (o considerare tutta la sua specie) come un prodotto della natura. Solo la materia, in quanto organizzata, implica quindi necessariamente nel proprio concetto uno scopo naturale, perché questa sua forma specifica è nel tempo stesso un prodotto naturale. [379] Ma questo concetto conduce necessariamente all’idea dell’intera natura come un sistema secondo la regola dei fini; alla quale idea deve essere subordinato, secondo principii della ragione, tutto il meccanismo della natura (perché si possano almeno studiare i fenomeni naturali). Tutto nel mondo è utile a qualche cosa, niente vi esiste invano, è un principio inerente alla ragione solo soggettivamente, vale a dire in quanto massima; e dall’esempio che la natura dà nei suoi prodotti organizzati, si è autorizzati, anzi invitati, a non aspettare da essa e dalle sue leggi niente che, nell’insieme, non abbia carattere finalistico. Si comprende che questo non è un principio pel Giudizio determinante, ma soltanto pel Giudizio riflettente; che è regolativo e non costitutivo, e che perciò noi riceviamo da esso solo una guida per considerare le cose della natura, relativamente a un fondamento di determinazione già dato, secondo un nuovo ordine di leggi, e per estendere la scienza della natura secondo un altro principio, cioè quello delle cause finali, s e n z a pregiudizio, per altro, di quello del meccanismo della sua causalità. Del resto, in tal modo non si decide punto, se una cosa che giudichiamo secondo questo principio sia uno scopo i n t e n z i o n a l e della natura; se l’erba esista pel bue o per la pecora, e

se questi animali e le altre cose della natura esistano per gli uomini. È bene considerare anche da questo lato le cose che ci sono spiacevoli, ed anche contrarie sotto certi rispetti. Così, per esempio, si potrebbe dire che l’insetto che travaglia l’uomo stando nei suoi abiti, nei capelli e nel letto, è, per una saggia disposizione della natura, uno stimolo alla nettezza, che per se stessa è già un mezzo importante per la conservazione della salute. Oppure che le zanzare e gli altri insetti pungenti, che rendono così penosi ai selvaggi i deserti dell’America, siano tanti assilli per spingere l’attività di questi uomini inesperti a rasciugar le paludi, a diradare le folte foreste che arrestano la luce, e a rendere così, mediante anche la cultura del suolo, più sano il loro soggiorno. Perfino ciò che nell’organizzazione interna dell’uomo pare contrario alla sua natura, riguardato in questo modo, ci apre una veduta interessante, e qualche volta anche istruttiva, sopra un ordine teleologico delle cose, cui non ci condurrebbe mai, senza un tal principio, la semplice considerazione fisica. Allo stesso modo che alcuni giudicano il verme solitario esser stato dato all’uomo o all’animale, in cui abita, quasi a compensare [380] un certo difetto dei suoi organi vitali, io domanderei se i sogni (che accompagnano sempre il sonno, sebbene ce ne ricordiamo raramente) non possano essere una disposizione finalistica della natura, in quanto servono cioè, nel rilassamento di tutte le forze motrici del corpo, a muovere intimamente gli organi vitali per mezzo dell’immaginazione e della sua grande attività (che in tale stato arriva spesso fino all’affetto); l’immaginazione, d’ordinario, nel sonno notturno gioca con tanto maggiore vivacità, quando per la pienezza dello stomaco, quei movimenti son tanto più necessarii; e quindi, senza questa forza che muove dall’interno, e senza quell’inquietudine faticosa di cui accusiamo i sogni (che forse in realtà sono intanto dei rimedii), il sonno, anche nello stato sano, sarebbe una totale estinzione della vita. Anche la bellezza della natura, vale a dire il suo accordo col libero giuoco delle nostre facoltà conoscitive nell’apprensione e nel giudizio dei suoi fenomeni, può esser considerata in tal modo come una finalità oggettiva della natura, in quanto questa nel suo insieme può essere un sistema, di cui l’uomo è un membro, dappoiché il giudizio teleologico della natura stessa mediante quei fini che ci forniscono gli esseri organizzati, ci ha autorizzati all’idea di un grande sistema di fini naturali. Noi possiamo considerare come un favore88 della natura, che essa abbia, oltre l’utile, dispensato con tanta ricchezza le

bellezze e le attrattive, ed amarla perciò, allo stesso modo che la consideriamo con stima per la sua immensità, e che da questa considerazione ci sentiamo nobilitati, proprio come se la natura avesse stabilito ed ornato, precisamente per questo scopo, il suo magnifico teatro. In questo paragrafo noi vogliamo dire soltanto questo: che cioè dal momento che nella natura abbiamo scoperto una facoltà di formare prodotti, che possono essere pensati da noi solo secondo il concetto delle cause finali, noi andiamo oltre, e possiamo giudicare come appartenenti ad un sistema di fini anche [381] quelle cose (o il loro rapporto, sebbene finale), che non rendono necessario, per spiegare la loro possibilità, il cercare un altro principio al di là del meccanismo delle cieche cause efficienti; perché già la prima idea, per ciò che riguarda il suo principio, ci conduce al di là del mondo sensibile, giacché l’unità del principio soprasensibile non dev’essere considerata come valida soltanto per certe specie di esseri naturali, ma valida allo stesso modo per l’insieme della natura in quanto sistema.

§ 68. Del principio della teleologia come principio interno della scienza della natura. I principii d’una scienza o sono interni ad essa, e si dicono nativi (principia domestica); o sono fondati sopra concetti che possono trovar posto soltanto fuori di essa, e sono p r i n c i p i i stranieri (peregrina). Le scienze, che contengono questi ultimi, pongono a fondamento delle loro dottrine dei lemmi (lemmata); vale a dire, prendono in prestito da un’altra scienza un concetto, e con questo un principio pel loro ordinamento. Ogni scienza è per se stessa un sistema: e in essa non è sufficiente costruire secondo principii, e quindi procedere tecnicamente; ma è necessario trattarla architettonicamente, come un edificio per sé stante, non come una dipendenza o una parte di un altro edificio, ma come un tutto; sebbene dopo si possa costruire un passaggio da essa a un’altra scienza, o viceversa. Se, dunque, nel contesto della scienza della natura si introduce il concetto di Dio, per spiegare la finalità naturale, e quindi si adopera a sua volta questa finalità per dimostrare che esiste Dio, ciascuna delle due scienze resta senza intima consistenza, ed un circolo vizioso le rende incerte entrambe, per aver esse confuso i loro limiti.

L’espressione di fine della natura previene già abbastanza questa confusione, da non farci confondere la scienza della natura, e l’occasione che ci dà al giudizio t e l e o l o g i c o dei suoi oggetti, con la considerazione di Dio e quindi con una deduzione t e o l o g i c a ; e non si deve riguardare come insignificante lo [382] scambiare quell’espressione con l’altra di uno scopo divino nell’ordinamento della natura o darla come più appropriata e conveniente ad un’anima pia, giacché infine si dovrebbe sempre arrivare alla deduzione di quelle forme finali della natura da un saggio creatore del mondo; ma bisogna scrupolosamente e modestamente limitarsi a quell’espressione che non dice più di quello che sappiamo, cioè all’espressione di fine naturale. Perché difatti, prima di domandarci qual è la causa della natura, noi troviamo, in essa e nel corso della sua produzione, prodotti che son formati secondo leggi dell’esperienza a noi note e secondo le quali la scienza della natura deve giudicare i suoi oggetti, e quindi cercarne la causalità nella natura stessa secondo la regola dei fini. Essa perciò non deve superare i propri limiti per introdurre in se stessa, come principio nativo, ciò il cui concetto non può essere adeguato ad alcuna esperienza, e che non si può osare d’introdurre se prima la scienza della natura non sia completa. Le qualità della natura, che si possono dimostrare a priori e di cui perciò la possibilità si può scorgere per via di principii universali senza il concorso dell’esperienza, non possono essere riferite alla teleologia della natura, in quanto è un metodo di risolvere le questioni appartenenti alla fisica, perché, sebbene esse implichino una finalità tecnica, sono però assolutamente necessarie. Le analogie aritmetiche e geometriche, come pure le leggi generali della meccanica, per quanto si presenti strana e meravigliosa l’unione di regole diverse e in apparenza indipendenti l’una dall’altra, in un unico principio, non contengono alcun diritto per esser principii teleologici esplicativi nella fisica; e, se meritano di essere prese in considerazione nella teoria generale della finalità delle cose naturali, sarebbe questa una considerazione che vien da un’altra parte, che appartiene alla metafisica, e non costituisce un principio inerente alla scienza della natura; come, invece, quando si tratta delle leggi empiriche dei fini della natura negli esseri organizzati, è non soltanto permesso, ma inevitabile, di adoperare il g i u d i z i o teleologico come principio della scienza della natura relativamente ad una classe particolare dei suoi oggetti. Ora la fisica, per tenersi strettamente nei suoi limiti, prescinde totalmente

dalla questione se i fini della natura siano o no i n t e n z i o n a l i , perché questo significherebbe impacciarsi [383] d’un còmpito estraneo (cioè di quello della metafisica). Basta che vi siano oggetti spiegabili unicamente secondo leggi che noi possiamo pensare solo prendendo come principio l’idea di fine, e conoscibili solo così nella loro forma interna, anzi soltanto internamente. Per non incorrere nel sospetto che si pretenda anche menomamente di mischiare tra i nostri principii di conoscenza qualche cosa che non appartiene punto alla fisica, cioè una causa sopranaturale, nella teleologia si parla bensì della natura come se la finalità in essa fosse intenzionale, ma nello stesso tempo se ne parla in modo da attribuire quell’intenzione alla natura, vale a dire alla materia; con che si vuol mostrare (giacché un malinteso non è possibile, non potendo nessuno attribuire ad una materia inanimata l’intenzione nel senso proprio della parola), che qui questa parola significa solo un principio del Giudizio riflettente, non del Giudizio determinante: e quindi non introduce un principio particolare di causalità, ma aggiunge soltanto all’uso della ragione un’altra specie d’investigazione, diversa da quella secondo le leggi meccaniche, allo scopo di compensare la deficienza di queste ultime nella stessa ricerca empirica di tutte le leggi particolari della natura. Perciò nella teleologia, in quanto si riferisce alla fisica, si parla giustamente della saggezza, dell’economia, della preveggenza, della beneficienza della natura, senza però farne un essere ragionevole (il che sarebbe assurdo), ma anche senza ardire di mettere al disopra di essa un altro essere intelligente, come artefice, perché ciò sarebbe temerario89; si designa solamente una specie di causalità della natura secondo una analogia con la causalità nostra nell’uso tecnico della ragione, affine di aver davanti agli occhi la regola con cui debbono essere studiati certi prodotti naturali. Ma perché la teleologia non costituisce d’ordinario una parte speciale della scienza teoretica della natura, ed è riferita alla teologia come una propedeutica o un passaggio? Questo avviene [384] per mantenere fermo lo studio della natura, nel suo meccanismo, a ciò che possiamo sottoporre alla nostra osservazione e ai nostri esperimenti, in modo che possiamo produrre noi stessi come la natura, o almeno con analogia con le sue leggi; perché si comprende perfettamente solo quello che si può fare da sé e realizzare secondo concetti. Ma l’organizzazione, come fine interno della natura, supera infinitamente ogni facoltà di produrre un’esibizione simile per mezzo dell’arte: e per ciò che riguarda quelle disposizioni esterne della natura che

son tenute come finali (per esempio, i venti, la pioggia, etc.), la fisica ne considera bensì il meccanismo, ma non può mostrare la loro relazione a fini, in quanto questi debbono essere una condizione inerente necessariamente alla causa, perché questa necessità del legame riguarda i nostri concetti e non la natura delle cose. 86

Poiché nella matematica pura non si tratta dell’esistenza, ma soltanto della possibilità delle cose, cioè di un’intuizione corrispondente al loro concetto, e quindi non si può parlare di causa ed effetto, tutta la finalità che vi si osserva dev’essere considerata soltanto come formale, e non mai come uno scopo della natura. 87 Si può invece dar lume, mediante un’analogia coi fini suddetti della natura, ad una certa connessione, che però si trova più nell’idea che nella realtà. Così, trattandosi dell’impresa di una totale trasformazione di un grande popolo in uno stato, si è adoperata spesso e molto opportunamente la parola o r g a n i z z a z i o n e per designare l’assettamento delle magistrature, etc., e perfino di tutto il corpo dello stato. Perché in un tutto come questo ogni membro dev’essere non soltanto mezzo, ma anche scopo; e, mentre concorre alla possibilità del tutto, è determinato a sua volta dall’idea del tutto, relativamente al suo posto e alla sua funzione. 88 Nella parte estetica si disse che noi g u a r d i a m o c o n f a v o r e a l l a b e l l a n a t u r a , provando per la sua forma un piacere interamente libero (disinteressato). Perché, difatti, in questo semplice giudizio di gusto non si considera per quale scopo esistano queste bellezze naturali: se per eccitare in noi un piacere, o senza nessun rapporto a noi come scopo. Ma in un giudizio teleologico badiamo anche a questa relazione; e allora possiamo c o n s i d e r a r e c o m e u n f a v o r e d e l l a n a t u r a che essa abbia voluto giovare alla nostra cultura con l’esposizione di tante belle figure. 89 La parola tedesca vermessen (temerario) è una parola bella e piena di senso. Un giudizio in cui si dimentichi di calcolare la portata delle nostre forze (dell’intelletto), può apparire qualche volta molto umile, e tuttavia aver grandi pretese ed esser molto temerario. Di questa specie sono la maggior parte dei giudizii con cui si pretende d’innalzare la saggezza divina, attribuendole, nelle opere della creazione e nella conservazione di queste opere, intenzioni che veramente possono fare onore solo alla saggezza di colui che almanacca in questo modo.

Sezione seconda Dialettica del giudizio teleologico

§ 69. Che cos’è un’antinomia del Giudizio? [385] Il giudizio d e t e r m i n a n t e non ha per se stesso principii che fondino c o n c e t t i d ’ o g g e t t i . Non è autonomo; perché s u s s u m e soltanto a leggi date o a concetti, presi come principii. Appunto perciò non è esposto al pericolo di un’antinomia propria e ad una contradizione dei suoi principii. Così il Giudizio trascendentale, che conteneva le condizioni per la sussunzione sotto le categorie, vedemmo che per se stesso non era n o m o t e t i c o ; non faceva che enunciare le condizioni dell’intuizione sensibile, sotto le quali può esser data realtà (applicazione) ad un concetto dato, in quanto legge dell’intelletto; e in ciò non poteva mai trovarsi in disaccordo con se stesso (almeno secondo i principii). Ma il Giudizio r i f l e t t e n t e deve sussumere sotto una legge che non è ancora data, e quindi in realtà non è se non un principio della riflessione su oggetti, per i quali oggettivamente ci manca affatto una legge, o un concetto dell’oggetto che possa essere principio sufficiente pei casi che si presentano. Ora, poiché nessun uso delle facoltà conoscitive può sussistere senza principii, il Giudizio riflettente in tali casi dovrà fare da principio a se stesso: il quale principio, non essendo oggettivo, e non potendo fondare una conoscenza dell’oggetto sufficiente allo scopo, deve servire soltanto, come principio puramente soggettivo, all’uso finale delle facoltà conoscitive, cioè per riflettere sopra una certa specie di oggetti. Sicché per questi casi il Giudizio riflettente ha le sue massime, e massime necessarie, dirette alla conoscenza delle leggi [386] naturali nell’esperienza, e a raggiungere, per mezzo di tali leggi, dei concetti, che possono essere anche concetti della ragione, quando il Giudizio ne abbia assolutamente bisogno per imparare a conoscere la natura secondo le sue leggi empiriche. – Ora, tra queste massime

necessarie del Giudizio riflettente può esserci una contradizione, e quindi un’antinomia; su cui si fonda una dialettica, che, se ciascuna delle due massime contradittorie ha il suo fondamento nella natura delle facoltà conoscitive, può esser chiamata una dialettica naturale, e un’illusione inevitabile, la quale, perché non inganni, dev’essere scoperta e risoluta dalla critica.

§ 70. Esposizione di questa antinomia. In quanto si applica alla natura come insieme degli oggetti dei sensi esterni, la ragione può fondarsi sopra leggi che l’intelletto in parte prescrive da sé a priori alla natura, e in parte può estendere all’infinito per mezzo delle determinazioni empiriche che presenta l’esperienza. Per l’applicazione della prima specie di leggi, cioè delle leggi u n i v e r s a l i della natura materiale in generale, il Giudizio non ha bisogno di un principio particolare di riflessione, perché, in tal caso, è determinante essendogli dato un principio oggettivo mediante l’intelletto. Ma per ciò che riguarda le leggi particolari, che solo l’esperienza può farci conoscere, può esservi in esse tanta varietà ed eterogeneità, che il Giudizio deve servir da principio a se stesso anche solo per ricercare ed investigare i fenomeni della natura secondo una legge; poiché di questa ha bisogno come di una guida, se deve anche soltanto sperare in una conoscenza coerente dell’esperienza, fondata sopra una regolarità generale della natura, e quindi nell’unità di questa secondo leggi empiriche. In questa unità accidentale delle leggi particolari può accadere che il Giudizio nella sua riflessione proceda da due massime, di cui l’una gli è fornita a priori dal semplice intelletto, mentre l’altra è occasionata da esperienze particolari che pongono in giuoco la ragione, in modo da impostare secondo un particolare principio il giudizio della natura corporea e delle sue leggi. Si trova allora che queste [387] due massime di tipo diverso non sembra che possano star bene insieme; e ne nasce una dialettica, che confonde il Giudizio nel principio della sua riflessione. La p r i m a m a s s i m a del Giudizio è la t e s i : Ogni produzione di cose materiali e delle loro forme deve essere giudicata possibile secondo leggi puramente meccaniche. La s e c o n d a m a s s i m a è l ’ a n t i t e s i : Alcuni prodotti della natura materiale non possono esser giudicati possibili secondo leggi puramente

meccaniche (il loro giudizio esige una legge di causalità del tutto diversa, cioè quella delle cause finali). Se questi principii, che son regolativi per l’investigazione della natura, si convertissero in principii costituitivi della possibilità degli oggetti stessi, suonerebbero così: T e s i : Ogni produzione di cose materiali è possibile secondo leggi puramente meccaniche. A n t i t e s i : La produzione di alcune cosi materiali non è possibile secondo leggi puramente meccaniche. Enunciate in tal modo, come principii oggettivi pel Giudizio determinante, queste due proposizioni si contradirebbero, ed una sarebbe necessariamente falsa; si avrebbe allora un’antinomia, ma non un’antinomia del Giudizio, bensì una contradizione nella legislazione della ragione. Ma la ragione non può dimostrare né l’uno né l’altro di questi principii, perché non possiamo avere a priori alcun principio determinante della possibilità delle cose secondo leggi della natura puramente empiriche. In quanto invece alla prima massima citata di un Giudizio riflettente, essa in realtà non contiene alcuna contradizione. Perché quando dico: io debbo g i u d i c a r e possibili secondo leggi puramente meccaniche tutti i fatti della natura materiale, e quindi tutte le forme che ne sono il prodotto; non dico implicitamente che tali cose s o n p o s s i b i l i s o l o i n q u e s t o m o d o (con l’esclusione di ogni altra specie di causalità); voglio indicare solamente che debbo r i f l e t t e r e su di esse sempre s e c o n d o i l p r i n c i p i o del puro meccanismo della natura, e che perciò questo meccanismo debbo studiarlo quanto più possibile, perché se non lo si mette a fondamento della ricerca, non si può avere una vera conoscenza della natura. Ciò non impedisce alla seconda massima, quando se ne presenti l’occasione, di investigare e di riflettere su certe forme della natura (e all’occasione di queste anche su tutta la natura) secondo un principio [388] che è interamente diverso dall’esplicazione col meccanismo naturale, cioè il principio delle cause finali. Perché così non è abolita la riflessione secondo la prima massima, ché anzi è comandata di seguirla finché si può; e nemmeno è detto che quelle forme non fossero possibili secondo il semplice meccanismo della natura. Si afferma soltanto che la r a g i o n e u m a n a , seguendo questo principio del meccanismo in questo modo, potrà ben trovare altre conoscenze di leggi naturali, ma non si formerà mai il minimo concetto di ciò che costituisce il

carattere specifico di uno scopo naturale; lasciando così indeciso se nel fondamento interno, da noi ignorato, della natura, possano riunirsi in un principio unico la relazione fisico-meccanica e la relazione finalistica delle cose medesime: e si dice solo che la nostra ragione non è capace di operare questa unione, e quindi il Giudizio, in quanto r i f l e t t e n t e (in base a un fondamento soggettivo), e non in quanto determinante (conformemente a un principio oggettivo della possibilità delle cose in sé), è obbligato a pensare a fondamento della possibilità di certe forme della natura un altro principio, diverso da quello del meccanismo naturale.

§ 71. Preparazione alla soluzione della precedente antinomia. Noi non possiamo punto dimostrare l’impossibilità della produzione dei prodotti naturali organizzati mediante il puro meccanismo della natura, perché non possiamo scorgere nel suo primo fondamento interno l’infinita varietà delle leggi particolari di natura, che son per noi accidentali, essendo conosciute solo empiricamente, e quindi non possiamo assolutamente raggiungere il principio interno, e interamente sufficiente della possibilità di una natura (principio che risiede nel soprasensibile). Se dunque la potenza produttrice della natura sia sufficiente a ciò che noi giudichiamo come formato o connesso secondo l’idea di fini, proprio come sufficiente a ciò per cui crediamo di aver bisogno di un semplice meccanismo della natura; e se, in realtà, le cose che consideriamo come veri fini della natura (come dobbiamo giudicarle necessariamente) hanno a fondamento una specie del tutto diversa di causalità originaria, che non può essere contenuta nella natura materiale o nel suo sostrato intelligibile, vale a dire un intelletto architettonico: sono questioni di [389] cui non ci può dare assolutamente alcuna notizia la nostra ragione, la quale è strettamente limitata rispetto al concetto di causalità, quando questo deve essere specificato a priori. – Ma questo è indubbiamente certo, che relativamente alla nostra facoltà di conoscere, il semplice meccanismo della natura non può fornire nessun principio esplicativo per la produzione degli esseri organizzati. Sicché pel G i u d i z i o r i f l e t t e n t e è un principio giustissimo, che pel legame, così manifesto, delle cose secondo le cause finali, si debba pensare una causalità

diversa dal meccanismo, cioè quella di una causa del mondo che agisca secondo fini (intelligente); per quanto anche questo principio possa essere precipitato e indimostrabile pel G i u d i z i o d e t e r m i n a n t e. Nel primo caso, esso è una mera massima del Giudizio, in cui in concetto di questa causalità è una semplice idea, alla quale non si pretende affatto di attribuire realtà, ma che si usa soltanto come guida della riflessione, che resta sempre aperta a tutte le esplicazioni meccaniche e non esce dal mondo sensibile; nel secondo caso, il principio dovrebbe essere oggettivo, prescritto dalla ragione, e il Giudizio vi si dovrebbe sottoporre come se fosse determinante, passando così dal mondo sensibile al trascendente, forse per smarrirvisi. Tutta l’apparenza d’un’antinomia tra la massima dell’esplicazione propriamente fisica (meccanica) e quella dell’esplicazione teleologica (tecnica), riposa su questo, che si converte un principio del Giudizio riflettente in un principio del Giudizio determinante, e l ’ a u t o n o m i a del primo (che vale solo soggettivamente per l’uso della nostra ragione relativamente alle leggi particolari dell’esperienza) si cambia con l ’ e t e r o n o m i a dell’altro (che deve regolarsi sulle leggi universali o particolari), date dall’intelletto.

§ 72. Dei diversi sistemi sulla finalità della natura. Nessuno ha ancora dubitato della verità di questo principio, che cioè si debbano giudicare secondo il concetto delle cause finali certe cose della natura (gli esseri organizzati) e la loro possibilità; anche quando si cerca soltanto un f i l o c o n d u t t o r e per imparare a conoscere la loro costituzione mediante l’osservazione, [390] senza innalzarsi fino alla ricerca della loro origine prima. La questione così si riduce a sapere se quel principio è valido solo soggettivamente, cioè non è altro che una massima del nostro Giudizio, oppure è un principio oggettivo della natura, pel quale ad essa conviene, oltre il suo meccanismo (secondo le semplici leggi del movimento) un’altra specie di causalità, vale a dire quella delle cause finali, rispetto a cui quelle leggi (delle forze motrici) sarebbero solo cause intermediarie. Tale questione, o questo problema della speculazione, si potrebbe lasciare interamente indecisa ed irresoluta; perché, se ci contentiamo di restare nei limiti della semplice conoscenza della natura, in quelle massime abbiamo abbastanza per studiare ed investigare i segreti più riposti della natura, fin

dove è consentito alle forze umane. Vi è dunque un certo presentimento della nostra ragione, o come un cenno che ci è dato dalla natura, i quali ci indicano che, mediante quel concetto delle cause finali, noi potremmo elevarci al disopra della natura e riattaccare la natura stessa al punto supremo della serie delle cause, se abbandonassimo l’investigazione della natura, (pur non essendo andati ancora in essa molto lontano), o almeno la sospendessimo per un poco, per cercar prima di sapere dove ci conduce quel principio estraneo alla scienza della natura, cioè il concetto dei fini naturali. Ora quella massima incontestata qui dovrebbe mutarsi in un problema, che apre un largo campo alle contestazioni: se cioè la connessione finalistica nella natura p r o v a una specie particolare di causalità nella natura stessa; oppure se, considerata in sé e secondo principii oggettivi, non è piuttosto identica al meccanismo della natura, o riposa con esso sopra un unico fondamento: soltanto che quest’unico fondamento, essendo spesso troppo profondamente nascosto alla nostra investigazione in molti prodotti naturali, proviamo ad usare un principio soggettivo, quello dell’arte, cioè della causalità secondo idee, per attribuirla alla natura per analogia; e questo espediente riesce in molti casi, ma in alcuni sembra fallire, e in tutti i casi non autorizza ad introdurre nella scienza della natura una particolare specie di azione, differente dalla causalità secondo semplici leggi meccaniche della natura stessa. Poiché chiamiamo tecnica il procedimento (la causalità) della natura, per quella specie di finalità che troviamo nei suoi prodotti, vogliamo dividerla in i n t e n z i o n a l e (technica intentionalis) ed i n i n t e n z i o n a l e (technica naturalis). La prima significherà che la potenza produttiva della [391] natura secondo cause finali deve esser tenuta come una specie particolare di causalità; la seconda, che essa in fondo è identica col meccanismo della natura, e che l’accordo accidentale coi nostri concetti d’arte e con le loro regole, in quanto condizione puramente soggettiva di giudicarla, è considerato falsamente come una specie particolare di produzione della natura. Se ora noi parliamo dei sistemi che spiegano la natura dal punto di vista delle cause finali, dobbiamo notar bene questo: che tutti quanti disputano tra loro dommaticamente, vale a dire sopra principii oggettivi della possibilità delle cose, sia ammettendo cause efficienti intenzionali, sia ammettendo cause efficienti puramente inintenzionali; e non disputano sulla massima soggettiva, che prescrive di giudicare semplicemente della causa di questi

prodotti finali; in quest’ultimo caso si potrebbero ben conciliare principii d i s p a r a t i , mentre, nel primo, principii opposti c o n t r a d i t t o r i a m e n t e si distruggono a vicenda e non possono sussistere l’uno accanto all’altro. I sistemi relativi alla tecnica della natura, vale a dire alla sua forza produttiva secondo la regola dei fini sono di due specie: sistemi dell’i d e a l i s m o e sistemi del r e a l i s m o dei fini della natura. Ai primi è propria la tesi che ogni finalità della natura è i n i n t e n z i o n a l e ; ai secondi che una parte di questa finalità (quella degli esseri organizzati) è i n t e n z i o n a l e ; donde si potrebbe anche trarre come ipotesi questa conseguenza, che la tecnica della natura, anche per ciò che concerne tutti gli altri suoi prodotti relativamente all’insieme della natura, è intenzionale, cioè fine. 1) L’i d e a l i s m o della finalità (intendo qui sempre la finalità oggettiva) è o quello della c a u s a l i t à o quello della f a t a l i t à della determinazione della natura nella forma finalistica dei suoi prodotti. Il primo principio riguarda il rapporto della materia alla causa f i s i c a della sua forma, cioè le leggi del movimento; il secondo riguarda il rapporto della materia alla causa i p e r f i s i c a della materia e di tutta la natura. Il sistema della c a u s a l i t à , che si attribuisce ad Epicuro o a Democrito, preso alla lettera, è così evidentemente assurdo, che non ci può nemmeno intrattenere; il sistema della f a t a l i t à invece (di cui si fa autore Spinoza, sebbene molto probabilmente sia assai più antico), che riposa su qualche cosa di soprasensibile cui non arriva la nostra veduta, non può essere confutato tanto facilmente, perché il suo concetto dell’essere originario non può esser compreso. Ma è chiaro questo, che in esso il legame finale nel [392] mondo deve esser considerato come inintenzionale (perché deriva da un essere originario, ma non dal suo intelletto, e quindi non da una sua intenzione, bensì dalla necessità della sua natura e dall’unità del mondo che ne consegue), e che, per conseguenza, il fatalismo della finalità è nel tempo stesso un idealismo della medesima finalità. 2) Il r e a l i s m o della finalità della natura è anch’esso fisico o iperfisico. Il p r i m o fonda i fini della natura sull’analogo di una facoltà che agisce con intenzione, cioè sulla v i t a d e l l a m a t e r i a (che è nella materia stessa, oppure è prodotto da un principio animatore interno, un’anima del mondo); e si chiama i l o z o i s m o . Il s e c o n d o deriva i fini dal fondamento originario

dell’universo, in quanto è un essere intelligente (originariamente vivente) e che produce con intenzione; ed è il t e i s m o 90.

§ 73. Nessuno dei precedenti sistemi mantiene ciò che promette. Che vogliono tutti questi sistemi? Vogliono spiegare i nostri giudizi teleologici sulla natura, e lo fanno in modo che alcuni negano la verità di tali giudizii, e quindi li spiegano con un idealismo della natura (rappresentata come arte), ed altri li riconoscono come veri, e promettono di dimostrare la possibilità d’una natura secondo l’idea delle cause finali. 1) I sistemi, che sostengono l’idealismo delle cause finali nella natura, ammettono, da una parte, una causalità secondo le leggi del movimento nel principio delle cause finali (per cui le cose esistono conformemente a fini della natura); ma negano in [393] essa l’i n t e n z i o n a l i t à , vale a dire che essa sia determinata intenzionalmente a questa sua produzione finale, o, in altri termini, negano che la causa sia uno scopo. Tale è la spiegazione di E p i c u r o , con la quale vien negata del tutto la differenza tra una tecnica della natura e la semplice meccanica, ed il cieco caso è preso come principio esplicativo, non soltanto per l’accordo dei prodotti naturali coi nostri concetti di fine, e quindi per la tecnica, ma anche per la determinazione delle cause di questa produzione secondo le leggi del movimento, e quindi per la loro meccanica; sicché non spiega nulla, nemmeno l’apparenza che è nel nostro giudizio teleologico, e per conseguenza il suo preteso idealismo non è affatto dimostrato. S p i n o z a , d’altra parte, vuol dispensarci da ogni ricerca sul principio della possibilità dei fini della natura, togliendo a questa idea ogni realtà, per farli valere in generale non come prodotti, ma come accidenti inerenti ad un essere primo, e attribuendo a questo essere, come sostrato di quelle cose naturali, non la causalità rispetto ad esse, ma la semplice sostanzialità; e (a cagione della necessità incondizionata di questo essere, come di tutte le cose naturali in quanto accidenti che gli sono inerenti) egli assicura bensì alle forme della natura l’unità del fondamento che è richiesta da ogni finalità, ma nel tempo stesso toglie loro la contingenza, senza la quale non si può concepire un’u n i t à d i s c o p o, e quindi esclude ogni i n t e n z i o n a l i t à ,

come nega ogni intelligenza al fondamento originario delle cose naturali. Ma lo spinozismo non giunge a ciò che vorrebbe. Vorrebbe dare un principio esplicativo del legame finale (che non nega) nelle cose della natura, e non fa se non nominare l’unità del soggetto al quale sono inerenti. Ma, anche se gli si concede questo modo di esistere per gli esseri del mondo, tuttavia quell’unità ontologica non è già per questo un’u n i t à d i f i n i , e non fa comprendere affatto questa. Quest’ultima, difatti, è una specie tutta particolare di unità, che non deriva dalla connessione delle cose (gli esseri del mondo) in un soggetto (l’essere primo), ma implica assolutamente la relazione ad una c a u s a intelligente, in modo che, se anche si riunissero tutte queste cose in un soggetto semplice, non si avrebbe mai una relazione finale: a meno che non si concepiscano in primo luogo queste cose come e f f e t t i i n t e r n i della sostanza in quanto causa, e poi questa causa stessa come causa m e d i a n t e l a s u a i n t e l l i g e n z a . Senza queste condizioni formali ogni unità è semplice necessità di natura; e, applicata anche alle cose che ci rappresentiamo l’una [394] fuori dell’altra, è cieca necessità. Se poi si vuol chiamare finalità della natura ciò che la scuola chiama perfezione trascendentale delle cose (relativamente alla loro propria essenza), e per cui ogni cosa ha in sé tutto quello che è necessario per essere tale e non altra, significa giocare puerilmente con le parole prendendole per concetti. Perché, se tutte le cose debbono essere pensate come fini, e quindi essere una cosa è lo stesso che essere un fine, in fondo non vi è più nulla che meriti di esser rappresentato particolarmente come scopo. Da ciò si vede bene che Spinoza, riconducendo i nostri concetti di finalità nella natura alla coscienza che abbiamo noi stessi di appartenere ad un essere che comprende tutto (ma nel tempo stesso semplice), e cercando quella forma soltanto nell’unità di questo, dovette aver la mira di affermare non il realismo, ma semplicemente l’idealismo della finalità della natura; e che però non poteva effettuare questo sistema, giacché la semplice rappresentazione dell’unità del sostrato non può mai produrre l’idea di una finalità, anche non intenzionale. 2) Quelli che non soltanto affermano il r e a l i s m o dei fini naturali, ma pensano anche di poterlo spiegare, credono di poter scorgere una specie particolare di causalità, cioè quella di cause efficienti intenzionali, almeno per ciò che riguarda la sua possibilità; altrimenti non potrebbero presumere d’imprenderne la spiegazione. Perché, difatti, anche l’ipotesi più ardita esige

che almeno sia c e r t a l a p o s s i b i l i t à di ciò che si assume come principio, e che al concetto di questo principio si possa assicurare la sua realtà oggettiva. Ma la possibilità d’una materia vivente (il cui concetto implica una contradizione, perché l’assenza di vita, inertia, costituisce il carattere essenziale della materia) non si può neppure pensarla; quella di una materia animata, e di tutta la natura come un animale, potrebbe essere usata tutt’al più (per un’ipotesi della finalità della natura, in grande), se l’esperienza ce la rendesse manifesta nell’organizzazione della natura, in piccolo, ma non se ne potrebbe scorgere affatto a priori la possibilità. La spiegazione si aggirerà dunque in un circolo, quando si vuol derivare la finalità della natura negli esseri organizzati dalla vita della materia, e questa vita a sua volta non si conosce che negli [395] esseri organizzati, e per conseguenza senza una simile esperienza non è possibile farsi un concetto della loro possibilità. L’ilozoismo non mantiene dunque ciò che promette. Il t e i s m o finalmente non può meglio stabilire dommaticamente la possibilità dei fini naturali come una chiave per la teleologia; sebbene tra tutti i principii esplicativi abbia il vantaggio di sottrarre nel miglior modo all’idealismo la finalità della natura, per via di un’intelligenza che attribuisce all’essere primo, e di introdurre una causalità intenzionale per la produzione della finalità. Infatti, dovrebbe essere prima dimostrata a sufficienza pel Giudizio determinante l’impossibilità dell’unità dei fini nella materia mediante il suo semplice meccanismo, per essere autorizzati a porne il fondamento determinante al di là della natura. Ma noi non possiamo dire altro se non che, secondo la natura e i limiti delle nostre facoltà conoscitive (poiché non scorgiamo il primo fondamento interno di questo meccanismo), non dobbiamo cercare in alcun modo nella materia un principio di determinate relazioni finali; e che non ci resta, invece, nessuna maniera di giudicare la produzione dei prodotti naturali in quanto fini della natura, oltre quella che è fornita da un’intelligenza suprema come causa del mondo. Ma questo è un principio soltanto pel Giudizio riflettente, non pel Giudizio determinante, e non può assolutamente giustificare una affermazione oggettiva.

§ 74. La causa dell’impossibilità di trattare

dommaticamente il concetto d’una tecnica della natura e l’inesplicabilità d’uno scopo naturale. Si tratta dommaticamente un concetto (anche quando sottostà a condizioni empiriche), quando lo consideriamo come contenuto sotto un altro concetto dell’oggetto, il quale costituisce un principio della ragione, e lo determiniamo conformemente a questo. Trattiamo un concetto solo criticamente, quando lo consideriamo semplicemente in relazione con la nostra facoltà di conoscere, e quindi con le condizioni soggettive di pensarlo, senza pretendere di decider nulla sul suo oggetto. Il procedimento dommatico rispetto a un concetto è dunque quello che è legittimo per il Giudizio determinante; il procedimento critico è quello che è legittimo solo per il Giudizio riflettente. [396] Ora il concetto d’una cosa come fine naturale è un concetto che sussume la natura ad una causalità pensabile soltanto dalla ragione, per farci giudicare secondo questo principio di ciò che è dato dell’oggetto nell’esperienza. Ma, per applicare dommaticamente questo concetto al Giudizio determinante, dovremmo esserci assicurati prima della sua realtà oggettiva, perché altrimenti non vi potremmo sussumere nessuna cosa della natura. Ora il concetto di una cosa come fine della natura è bensì condizionato empiricamente, cioè non è possibile che sotto certe condizioni date nell’esperienza; ma non può essere astratto da esse, ed è possibile, solo secondo un principio della ragione nel giudicare dell’oggetto. Per conseguenza, in quanto tale, di esso non si può scorgere e stabilire dommaticamente la realtà oggettiva (vale a dire, che un oggetto è possibile conformemente ad esso); e non sappiamo se è un semplice concetto ragionante ed oggettivamente vuoto (conceptus ratiocinans), oppure un concetto della ragione, che fonda una conoscenza ed è confermato dalla ragione (conceptus ratiocinatus). Sicché esso non può essere trattato dommaticamente pel Giudizio determinante; vale a dire non soltanto non si può decidere se le cose della natura, considerate come fini naturali, esigano o no per la loro produzione una specie particolare di causalità (quella intenzionale), ma non si può nemmeno porre la questione, perché la realtà oggettiva del concetto d’un fine naturale non è dimostrabile dalla ragione (cioè questo concetto non è costitutivo pel Giudizio determinante, ma

semplicemente regolativo pel Giudizio riflettente). Che però non sia costitutivo, risulta chiaro da ciò che, in quanto concetto d’un p r o d o t t o n a t u r a l e , esso implica, nella stessa cosa considerata come fine, la necessità della natura e, nel tempo stesso, la contingenza della forma dell’oggetto (relativamente alle semplici leggi della natura); e che, per conseguenza, se qui non v’è contradizione, esso deve contenere un principio della possibilità della cosa in natura, ed anche un principio della possibilità di questa natura stessa e del suo rapporto a qualcosa che non è natura conoscibile empiricamente (a qualcosa di soprasensibile), e quindi non conoscibile da noi, perché lo si possa giudicare secondo una specie di causalità diversa dal meccanismo della natura, quando vogliamo decidere della sua possibilità. Poiché dunque il concetto di una cosa in quanto fine della natura è trascendente pel G i u d i z i o d e t e r m i n a n t e , quando si considera l’oggetto mediante la ragione (sebbene [397] esso possa essere immanente pel Giudizio riflettente circa gli oggetti dell’esperienza), e quindi non gli si può attribuire la realtà oggettiva pei giudizii determinanti, si comprende come tutti i sistemi che si possono immaginare per trattare dommaticamente il concetto di fine naturale e della natura in quanto un tutto coerente in virtù di cause finali, oggettivamente non possano decidere niente, né affermativamente, né negativamente; perché, difatti, quando si sussumono delle cose sotto un concetto che è semplicemente problematico, i predicati sintetici di questo concetto (qui, per esempio, la questione se il fine della natura che concepiamo per spiegare la produzione della cosa, sia intenzionale o no) debbono fornire giudizii anche problematici dell’oggetto, affermativi o negativi che siano, giacché non si sa se si giudica di qualche cosa o di niente. Il concetto d’una causalità mediante fini (dell’arte) ha certamente una realtà oggettiva, proprio come quella di una causalità secondo il meccanismo della natura. Ma il concetto d’una causalità della natura secondo la regola dei fini, e ancor più di un essere che non può esserci dato nell’esperienza, cioè di un essere che è considerato come fondamento originario della natura, può essere pensato senza contradizione, ma non determinato dommaticamente; perché, non potendo esser tratto dall’esperienza, né essendo necessario alla possibilità dell’esperienza stessa, non v’è modo di assicurare la sua realtà oggettiva. Ma si ammetta anche questo; e allora cose che son date in maniera determinata come prodotti dell’arte divina, come posso metterle tra i prodotti della natura, la cui incapacità a produrre tali cose secondo le proprie leggi

rende appunto necessario l’invocare una causa distinta da essa?

§ 75. Il concetto d’una finalità oggettiva della natura è un principio critico della ragione pel Giudizio riflettente. V’è un’assoluta differenza tra il dire che la produzione di certe cose della natura, o anche di tutta la natura, non è possibile se non mediante una causa che si determina ad agire intenzionalmente, e il dire che, s e c o n d o l a p a r t i c o l a r e n a t u r a d e l l a m i a f a c o l t à c o n o s c i t i v a , io non posso giudicare [398] della possibilità di quelle cose e della loro produzione se non pensando una causa che agisce intenzionalmente, e quindi un essere che produce analogamente alla causalità di un intelletto. Nel primo caso voglio affermare qualcosa dell’oggetto, e sono tenuto a dimostrare la realtà oggettiva d’un concetto ch’io ammetto; nel secondo, la ragione non fa se non determinare l’uso delle mie facoltà conoscitive, conformemente alla loro natura e alle condizioni essenziali della loro portata e dei loro limiti. Sicché il primo è un principio o g g e t t i v o pel Giudizio determinante, il secondo un principio soggettivo, che serve semplicemente pel Giudizio riflettente, e quindi una massima che gli è assegnata dalla ragione. Dunque, ci è necessario assolutamente supporre il concetto di uno scopo nella natura, quando vogliamo anche soltanto studiare i suoi prodotti organizzati con un’osservazione continua, e questo concetto, per conseguenza, è già per l’uso empirico della nostra ragione una massima assolutamente necessaria. È chiaro che, quando abbiamo ammessa una volta e trovata valida questa guida per studiare la natura, dobbiamo almeno cercare di applicare tale massima del Giudizio anche all’insieme della natura, perché con essa si potrebbero trovare molte altre leggi della natura, le quali altrimenti ci resterebbero nascoste per la limitazione della nostra facoltà di penetrare nell’intimo del meccanismo naturale. Circa quest’ultimo uso quella massima del Giudizio è certamente utile, ma non è indispensabile, perché la natura nel suo insieme non c’è data come organizzata (nel senso stretto della parola indicato avanti). La stessa massima del Giudizio riflettente invece è assolutamente necessaria, relativamente a quei prodotti della natura che debbono esser giudicati come formati così e non altrimenti solo in virtù d’una

intenzione, quando della loro interna natura si voglia anche soltanto conseguire una conoscenza d’esperienza; poiché è impossibile anche il pensarli come cose organizzate, senza associarvi il pensiero di una produzione intenzionale. Ora il concetto d’una cosa, di cui ci rappresentiamo l’esistenza o la forma come possibile sotto la condizione d’uno scopo, è congiunto indissolubilmente col concetto della contingenza di questa cosa (relativamente alle leggi della natura). Perciò anche le cose naturali, che troviamo possibili solo come fini, costituiscono la migliore prova della contingenza dell’universo, e [399] sono, così per l’intelligenza comune come pei filosofi, l’unica prova della dipendenza e dell’origine dell’universo da un essere che è fuori del mondo e intelligente (a causa di quella forma finale), per cui la teleologia non trova la perfetta conclusione delle sue investigazioni che in una teologia. Ma, infine, che cosa prova la teleologia anche più perfetta? Prova forse che esiste un tale essere intelligente? No; non prova altro che, secondo la natura delle nostre facoltà conoscitive, e quindi nell’unione dell’esperienza coi principii supremi della ragione, noi non possiamo farci assolutamente un concetto della possibilità di questo mondo, senza concepire una causa suprema c h e a g i s c e c o n i n t e n z i o n e . Oggettivamente quindi non possiamo dimostrare la proprosizione: vi è un essere primo intelligente; solo soggettivamente possiamo ammetterla per l’uso del nostro Giudizio nella sua riflessione su quei fini della natura, i quali non possono esser pensati secondo un altro principio che non sia quello di una causalità intenzionale d’una causa suprema. Se volessimo dimostrare dommaticamente la suddetta proposizione, mediante ragioni teleologiche, ci troveremmo avviluppati in difficoltà da cui non potremmo distrigarci. Perché allora bisognerebbe mettere a fondamento di quei ragionamenti la proposizione: gli esseri organizzati nel mondo sono possibili soltanto mediante una causa che agisce con intenzione. Dovremmo allora inevitabilmente affermare che, siccome noi possiamo considerare queste cose nel loro legame causale e conoscere questo nelle sue leggi soltanto per mezzo dell’idea di fine, siamo anche autorizzati ad ammettere ciò come necessario per ogni essere pensante e conoscente, e quindi come una condizione inerente all’oggetto e non semplicemente al nostro soggetto. Ma con questa affermazione non risolviamo nulla. Perché, siccome i fini della

natura in quanto intenzionali noi propriamente non li o s s e r v i a m o , ma soltanto nella riflessione sui suoi prodotti vi aggiungiamo col p e n s i e r o questo concetto, come una guida del Giudizio, i fini stessi non ci son dati dall’oggetto. A priori per noi è perfino impossibile giustificare l’ammissibilità di un tal concetto, per ciò che riguarda la sua realtà oggettiva. E resta così una proposizione che riposa assolutamente sopra condizioni soggettive, vale a dire sulle condizioni del Giudizio che riflette conformemente alle nostre facoltà di conoscere; una proposizione, che, se le si attribuisse un valore oggettivo-dommatico, [400] suonerebbe così: Dio esiste; ma a noi uomini non è permessa se non questa espressione limitata: non possiamo concepire e comprendere la finalità, che deve esser posta essa stessa a fondamento della nostra conoscenza della possibilità interna di molte cose naturali, senza rappresentarcela, e rappresentarci il mondo in generale, come un prodotto d’una causa intelligente (di un Dio). Ora, se questa proposizione, fondata sopra una massima assolutamente necessaria del nostro Giudizio, soddisfa perfettamente all’uso speculativo e pratico della nostra ragione, da ogni punto di vista u m a n o , io vorrei ben sapere che cosa ci manca se non possiamo dimostrarla valida per esseri superiori, cioè mediante principii puramente oggettivi (che disgraziatamente trascendono le nostre facoltà). Difatti, è assolutamente certo che noi non possiamo imparare a conoscere sufficientemente, e tanto meno a spiegare gli esseri organizzati e la loro possibilità interna, secondo i principii puramente meccanici della natura; e questo è così certo che si potrebbe dire arditamente che è umanamente assurdo anche soltanto il concepire una simile impresa, o lo sperare che un giorno possa sorgere un Newton, che faccia comprendere sia pure la produzione d’un filo d’erba per via di leggi naturali non ordinate da alcun intento: assolutamente bisogna negare agli uomini questa veduta. Ma, al contrario, giudicheremmo troppo temerariamente se dicessimo che, anche potendo penetrare fino al principio della natura nella specificazione delle sue leggi universali che conosciamo, non p o s s a affatto trovarsi nascosto in essa un principio sufficiente a spiegare la possibilità di esseri organizzati, senza ammettere un disegno nella loro produzione (e quindi col semplice meccanismo): perché come facciamo a saperlo? Le verosimiglianze non hanno valore, quando si tratta di giudizii della ragion pura. – Sicché noi oggettivamente non possiamo giudicare affatto, né affermando né negando, della questione: se vi sia, come principio di ciò che a ragione chiamiamo

scopi naturali, un essere che agisce secondo intenzioni in quanto causa (e quindi autore) del mondo; quello che è certo almeno è questo, che se noi giudichiamo secondo ciò che alla nostra propria natura è permesso di scorgere (secondo le condizioni e i limiti della nostra ragione), non possiamo porre come principio della possibilità di quei fini naturali se non un essere intelligente: solo questo è conforme alla massima [401] del nostro Giudizio riflettente, e per conseguenza ad un principio soggettivo, ma inerente necessariamente al genere umano.

§ 76. Nota. Questa osservazione, che merita di essere ampiamente svolta nella filosofia trascendentale, qui entra solo episodicamente come schiarimento (non come dimostrazione di ciò che si espone). La ragione è una facoltà dei principii e la sua ultima esigenza è l’incondizionato; l’intelletto invece è al suo servigio sempre soltanto sotto una condizione che deve esser data. Ma, senza i concetti dell’intelletto, cui deve esser data una realtà oggettiva, la ragione non può punto giudicare oggettivamente (sinteticamente); e, in quanto teoretica, per se stessa non contiene assolutamente alcun principio costitutivo, ma principii soltanto regolativi. Si comprende subito che, quando l’intelletto non può susseguire, la ragione diventa trascendente, e si manifesta con idee che hanno sì un fondamento (in quanto principii regolativi), ma non con concetti validi oggettivamente; mentre l’intelletto che non può procedere di pari passo, ma che sarebbe necessario per la validità oggettiva, limita la validità di quelle idee della ragione solamente al soggetto, estendendola però universalmente a tutti i soggetti della stessa specie; vale a dire, la sottopone alla condizione che, secondo la natura della nostra (umana) facoltà di conoscere, o, in generale, secondo il concetto c h e c i p o s s i a m o f a r e in generale delle facoltà di un essere ragionevole finito, non altrimenti che così si possa e si debba pensare: senza affermare tuttavia che il fondamento di tale giudizio stia nell’oggetto. Citeremo qui degli esempii, i quali hanno in verità troppa importanza e presentano anche troppe difficoltà perché si possano subito imporre al lettore come proposizioni dimostrate; ma possono fornirgli materia alla riflessione, e servire di schiarimento a quello che qui è propriamente il nostro còmpito.

All’intelletto umano è indispensabilmente necessario distinguere la possibilità e la realtà delle cose. La ragione di ciò è nel soggetto e nella natura della sua facoltà di conoscere. Perché, difatti, se all’esercizio di questa non fossero necessarii due elementi del tutto eterogenei, l’intelletto pei concetti, e l’intuizione sensibile per gli oggetti che corrispondono a quei concetti, [402] non vi sarebbe quella distinzione (tra il possibile e il reale). Se cioè il nostro intelletto fosse intuitivo, non avrebbe altri oggetti che il reale. Tanto i concetti (che concernono semplicemente la possibilità di un oggetto) che le intuizioni sensibili (che ci danno qualche cosa, senza perciò farcela conoscere come oggetto), scomparirebbero. Ora tutta la nostra distinzione del semplicemente possibile dal reale riposa su questo, che il primo significa soltanto la posizione della rappresentazione d’una cosa relativamente al nostro concetto e, in generale, alla facoltà di pensare, mentre il secondo significa la posizione della cosa in se stessa, al di fuori di questo concetto. Sicché la distinzione tra le cose possibili e le reali è tale che vale solo soggettivamente per l’intelletto umano, perché possiamo sempre pensare qualche cosa, sebbene non esista, o rappresentarci qualcosa come dato, sebbene non ne abbiamo ancora alcun concetto. Così le proposizioni che le cose possono esser possibili senza essere reali, e che, per conseguenza, non si può concludere dalla possibilità alla realtà, valgono giustamente per la ragione umana, senza che sia dimostrato che tale differenza stia nelle cose stesse. Perché, difatti, che non si possa trarre questa conseguenza, e che quindi quelle proposizioni valgano certamente anche per gli oggetti, in quanto la nostra facoltà di conoscere come sensibilmente condizionata si occupa pure di oggetti dei sensi, ma non valgano per le cose in generale, – risulta chiaro dall’esigenza imprescindibile della ragione, di ammettere qualcosa che esista in una maniera assolutamente necessaria (il fondamento originario), in cui più non si distinguono la possibilità e la realtà, e per l’idea del quale il nostro intelletto non ha assolutamente alcun concetto, cioè non può trovare un modo di rappresentarsi una simile cosa e la sua maniera di esistere. Poiché se lo si p e n s a (può pensarlo come vuole), è rappresentato come semplicemente possibile. Se ne ha coscienza come di qualche cosa che è data nell’intuizione, allora è realtà, ma l’intelletto in questo caso non ne pensa per nulla la possibilità. Perciò il concetto d’un essere assolutamente necessario è bensì un’idea inevitabile della ragione, ma è un concetto irraggiungibile e problematico per l’intelletto umano. Ha però un valore per l’uso delle nostre facoltà conoscitive,

considerate nella loro natura particolare; non ne ha alcuno rispetto all’oggetto e per ogni essere capace di conoscere; perché io non posso supporre, in ogni essere capace di conoscere, il pensiero e l’intuizione, come due condizioni diverse dell’esercizio delle sue facoltà conoscitive, e quindi della possibilità e della realtà [403] delle cose. Un intelletto pel quale non esistesse questa distinzione, direbbe: tutti gli oggetti che io conosco, s o n o (esistono); e la possibilità di alcuni oggetti che tuttavia non esistono, vale a dire la contingenza di essi, quando esistono, e perciò anche la necessità, che va distinta da quella contingenza, non potrebbero neppure esser concepite da un tale essere. Ma tanta difficoltà, che il nostro intelletto trova qui nel trattare i suoi concetti come fa la ragione, sta semplicemente in questo, che per l’intelletto, in quanto intelletto umano, è trascendente (cioè impossibile per le condizioni soggettive della sua conoscenza) ciò di cui la ragione fa un principio nel considerarlo come appartenente all’oggetto. – Ora qui vale sempre la massima che tutti gli oggetti, la cui conoscenza supera la facoltà dell’intelletto, noi li pensiamo secondo le condizioni soggettive nostre (cioè della natura umana), inerenti necessariamente all’esercizio delle nostre facoltà: e se i giudizii pronunziati in tal modo (come non può essere altrimenti anche circa i concetti trascendenti) non possono essere principii costitutivi, che determinano l’oggetto qual è, restano tuttavia come principii regolativi, immanenti e sicuri nell’esercizio che se ne fa, adeguati ai fini dell’uomo. Allo stesso modo che la ragione nella considerazione teoretica della natura, deve ammettere l’idea di una necessità incondizionata del suo fondamento originario, essa presuppone anche dal punto di vista pratico una propria incondizionata causalità (relativamente alla natura), vale a dire la libertà, pel fatto stesso che ha coscienza del suo imperativo morale. Ora, poiché qui la necessità oggettiva dell’azione, in quanto dovere, è opposta a quella necessità che essa, in quanto avvenimento, dovrebbe avere, se il suo principio fosse nella natura e non nella libertà (cioè nella causalità della ragione); e poiché l’azione moralmente necessaria in modo assoluto è considerata fisicamente come del tutto accidentale (vale a dire, che ciò che d o v r e b b e avvenire necessariamente, spesso non avviene); è chiaro che deriva unicamente dalla natura soggettiva della nostra facoltà pratica il fatto, che le leggi morali debbono essere rappresentate come comandi (e le azioni conformi ad esse come doveri), e la ragione esprime questa necessità non con

un e s s e r e (accadere) ma con un d o v e r e s s e r e ; il che non potrebbe verificarsi, se la ragione, nella sua causalità, si considerasse senza la sensibilità (come condizione soggettiva della sua applicazione agli oggetti della natura), per conseguenza come causa in un mondo [404] intelligibile consono sempre alla legge morale, in modo che in questo mondo non vi sarebbe più alcuna differenza tra il dovere e il fare, tra la legge pratica che determina ciò che per opera nostra è possibile, e la legge teoretica che determina ciò che per opera nostra è reale. Ora, sebbene un mondo intelligibile nel quale tutto ciò che è possibile (in quanto buono) sarebbe perciò stesso reale, e la libertà stessa di questo mondo, come sua condizione formale, sia per noi un concetto trascendente, che non è atto a fornire alcun principio costitutivo per determinare un oggetto e la sua realtà oggettiva; tuttavia, la libertà secondo la costituzione della nostra natura (in parte sensibile) e della nostra facoltà, serve – per noi e per tutti gli esseri ragionevoli in relazione col mondo sensibile, in quanto possiamo rappresentarceli secondo la natura della nostra ragione, – come un p r i n c i p i o r e g o l a t i v o universale, che non determina oggettivamente la natura della libertà come forma di causalità, ma nondimeno, con non minore validità, e come se quella determinazione vi fosse, prescrive ad ognuno come un comando la regola delle azioni secondo quell’idea. Allo stesso modo, per ciò che riguarda il caso di cui ci occupiamo, si può concedere che non troveremmo alcuna differenza tra il meccanismo della natura e la tecnica della natura, cioè il legame dei fini nella natura, se il nostro intelletto non fosse fatto in modo che deve andare dall’universale al particolare, e il Giudizio per conseguenza non può riconoscere alcuna finalità circa il particolare, e non può pronunziare giudizii determinanti, senza avere una legge universale cui poter sussumere il particolare stesso. Ma, poiché il particolare, come tale, rispetto all’universale contiene qualcosa di contingente, e tuttavia la ragione nel legame delle leggi particolari della natura esige anche l’unità, e quindi una conformità a leggi (che, applicata al contingente, si chiama finalità) giacché pure è impossibile derivare a priori, con la determinazione del concetto dell’oggetto, le leggi particolari dalle universali, relativamente a ciò che le prime contengono di contingente; il concetto della finalità della natura nei suoi prodotti è un concetto necessario al Giudizio umano relativamente alla natura, ma che non riguarda la determinazione degli oggetti stessi, ed è perciò un principio soggettivo della

ragione pel Giudizio, e che, in quanto regolativo (non costitutivo), è necessario pel nostro G i u d i z i o u m a n o come se fosse un principio oggettivo.

§ 77. Della proprietà dell’intelletto umano per cui il concetto d’un fine della natura è possibile per noi. [405] Nella nota precedente abbiamo indicato le proprietà della nostra facoltà di conoscere (anche della facoltà superiore), che noi siamo inclinati a trasportare nelle cose stesse come predicati oggettivi; ma esse concernono idee cui non si può dare nell’esperienza alcun oggetto adeguato, e che quindi potrebbero servire soltanto come principii regolativi nelle ricerche empiriche. Del concetto di un fine naturale è come di ciò che concerne la causa della possibilità di un tal predicato, che può stare solo nell’idea: ma l’effetto conforme a quest’idea (il prodotto stesso) è dato in natura, e il concetto d’una causalità della natura, considerata come un essere che agisce secondo fini, sembra fare dell’idea di un fine naturale un principio costitutivo di questo; e in ciò tale idea ha qualcosa per cui si distingue da tutte le altre. Questa differenza sta in ciò, che essa non è un principio razionale per l’intelletto, ma pel Giudizio, e quindi è unicamente l’applicazione di un intelletto in generale a possibili oggetti d’esperienza; e proprio dove il giudizio non può essere determinante, ma semplicemente riflettente, e dove, perciò, l’oggetto è dato nell’esperienza, ma su di esso, conformemente all’idea, non si può g i u d i c a r e d e t e r m i n a t a m e n t e (ben lungi dal giudicare in modo pienamente adeguato), e si può solo riflettere. Si tratta dunque d’una proprietà del n o s t r o (umano) intelletto, relativa al Giudizio nella sua riflessione sulle cose della natura. Ma, se è così, bisogna che qui vi sia come fondamento un’idea di un altro intelletto possibile diverso dal nostro (allo stesso modo che nella critica della ragion pura dovemmo pensare un’altra possibile intuizione, quando dovemmo considerare la nostra come una specie particolare d’intuizione, vale a dire come un’intuizione per la quale gli oggetti valgono soltanto come fenomeni), affinché si possa dire che, secondo la particolare natura del nostro intelletto, certi prodotti naturali, per ciò che riguarda la loro possibilità, d e v o n o e s s e r c o n s i d e r a t i d a n o i come prodotti intenzionali e come fini, senza però [406] esigere che vi

sia realmente una causa particolare determinata dalla rappresentazione di uno scopo, e quindi senza negare che un altro intelletto, diverso dall’intelletto umano, (più elevato), possa trovare il principio della possibilità di tali prodotti anche nel meccanismo della natura, cioè in un legame causale di cui non si cerca esclusivamente la causa in un intelletto. Sicché qui si tratta del rapporto del n o s t r o intelletto col Giudizio, e precisamente noi cerchiamo di mettere in luce una certa contingenza della costituzione del nostro intelletto, per distinguerlo, con questa sua caratteristica, da altri intelletti possibili. Questa contingenza si trova del tutto naturalmente nel p a r t i c o l a r e che il Giudizio deve ricondurre all’u n i v e r s a l e dei concetti dell’intelletto; perché coll’universale del nostro (umano) intelletto il particolare non è determinato; e son contingenti i vari modi in cui cose diverse, che però si accordano in un carattere comune, possono presentarsi alla nostra percezione. Il nostro intelletto è una facoltà di concetti, cioè un intelletto discorsivo, per il quale devono esser contingenti la specie e le differenze del particolare che gli è dato nella natura e che può esser ricondotto ai suoi concetti. Ma, poiché alla conoscenza appartiene anche l’intuizione, e una facoltà d’ i n t u i z i o n e p e r fe t t a m e n t e s p o n t a n e a sarebbe una facoltà di conoscere distinta e del tutto indipendente dalla sensibilità, cioè un intelletto nel senso più largo della parola, si può anche concepire un intelletto i n t u i t i v o (negativamente, cioè, soltanto come non discorsivo), che non vada dall’universale al particolare e quindi al singolare (mediante concetti), e pel quale non esista quella contingenza nell’accordo della natura, nei suoi prodotti determinati secondo leggi p a r t i c o l a r i , con l’intelletto, la quale rende così difficile all’intelletto nostro il ricondurre all’unità della conoscenza la varietà della natura; un còmpito, che il nostro intelletto può effettuare soltanto mediante l’accordo, assai contingente, dei caratteri della natura con la nostra facoltà dei concetti, e di cui un intelletto intuitivo non ha punto bisogno. Il nostro intelletto, dunque, ha questo di particolare rispetto al Giudizio, che nella conoscenza che esso fornisce, il particolare non è determinato mediante l’universale, e quindi il primo non può esser derivato dal secondo soltanto: sebbene però questo particolare, che è nella varietà della natura, debba accordarsi [407] coll’universale (per via di concetti e di leggi), affinché vi si possa sussumere; ma tale accordo, in queste circostanze, deve essere del tutto accidentale e senza alcun principio determinato pel Giudizio.

Ora, per poter almeno pensare la possibilità di tale accordo delle cose naturali col Giudizio (che noi ci rappresentiamo come contingente, e quindi possibile soltanto mediante uno scopo a ciò diretto), dobbiamo pensare nel tempo stesso un altro intelletto, rispetto al quale, prima di attribuirgli qualche fine, possiamo rappresentarci come n e c e s s a r i o quell’accordo delle leggi della natura col nostro Giudizio, che dall’intelletto nostro è pensabile solo mediante il legame dei fini. Il nostro intelletto, cioè, ha la proprietà, che nella sua conoscenza, per esempio della causa d’un prodotto, deve andare dall’u n i v e r s a l e a n a l i t i c o (dei concetti) al particolare (dell’intuizione empirica data); per cui, relativamente alla varietà del particolare, non determina niente, ma deve aspettare questa determinazione, che serve al Giudizio, dalla sussunzione dell’intuizione empirica (quando l’oggetto è un prodotto naturale) al concetto. Ma noi possiamo concepire anche un intelletto che, non essendo discorsivo come il nostro, ma intuitivo, vada dall’u n i v e r s a l e s i n t e t i c o (dell’intuizione d’un tutto come tale) al particolare, vale a dire dal tutto alle parti; il quale perciò, e con esso la sua rappresentazione del tutto, non contenga la c o n t i n g e n z a del legame delle parti per rendere possibile una forma determinata del tutto, di cui ha bisogno il nostro intelletto, che deve procedere dalle parti, come principii universalmente pensati, alle diverse forme possibili che si debbono sussumere, come conseguenze. Invece, secondo la costituzione del nostro intelletto, un tutto reale della natura deve essere considerato solo come l’effetto delle forze motrici concorrenti delle parti. Sicché se vogliamo rappresentarci, non la possibilità del tutto come dipendente dalle parti, come sarebbe conforme al nostro intelletto discorsivo, ma, secondo il modello dell’intelletto intuitivo (archetipo), la possibilità delle parti (secondo la loro natura e il loro legame) come dipendente da tutto; ciò non potrà avvenire, appunto per la stessa proprietà del nostro intelletto, in modo che il tutto sia il principio della possibilità del legame delle parti (il che sarebbe contradittorio in una conoscenza [408] di tipo discorsivo), ma solo in modo che la r a p p r e s e n t a z i o n e di un tutto contenga il principio della possibilità della sua forma e del relativo legame delle parti. Ma, poiché allora il tutto sarebbe un effetto (un p r o d o t t o ), la cui r a p p r e s e n t a z i o n e è considerata come la c a u s a della sua possibilità, e poiché si chiama scopo il prodotto d’una causa la cui ragione determinante è semplicemente la rappresentazione dell’effetto, ne segue che dipende dalla particolare

costituzione del nostro intelletto il fatto per cui ci rappresentiamo come possibili certi prodotti della natura secondo un’altra specie di causalità, diversa da quella delle leggi naturali della materia, cioè secondo la causalità dei fini e delle cause finali; e che questo principio non concerne la possibilità stessa di tali cose (anche considerate come fenomeni) secondo questo modo di produzione, ma solo la possibilità del giudizio del nostro intelletto sulle cose stesse. Da ciò vediamo ancora perché nella scienza della natura noi siamo ben lungi dall’essere soddisfatti di una spiegazione dei prodotti naturali mediante la causalità secondo fini: è perché in questa spiegazione non pretendiamo di giudicar la produzione della natura se non conformemente alla nostra facoltà di giudicarla, vale a dire al Giudizio riflettente, e non di giudicar le cose stesse pel Giudizio determinante. Qui non è neppure necessario dimostrare la possibilità di un tale intellectus archetypus, ma basta provare che dal confronto del nostro intelletto discorsivo, che ha bisogno d’immagini (intellectus ectypus), con la contingenza di questa sua natura, siamo condotti per via di paragone a quell’idea (di un intellectus archetypus), e che questa non contiene alcuna contradizione. Ora, se noi consideriamo, nella sua forma, un tutto materiale, come un prodotto delle parti, delle loro forze e delle loro proprietà di congiungersi spontaneamente (e di aggregarsi altre materie), ci rappresentiamo un modo meccanico di produzione. Ma questo modo di produzione non dà luogo ad alcun concetto di un tutto come scopo, di un tutto la cui possibilità interna suppone assolutamente l’idea del tutto stesso, da cui dipendono la natura e il modo d’agire delle parti, in quel modo che dobbiamo rappresentarci un corpo organizzato. Da questo però non segue, come è stato dimostrato, che la produzione meccanica di questo corpo è impossibile; perché sarebbe come dire che è impossibile (cioè contradittorio) p e r o g n i i n t e l l e t t o rappresentarsi tale unità nell’unione del molteplice, senza considerare la sua idea come sua causa produttrice, vale a dire senza ammettere [409] una produzione intenzionale. Il che avverrebbe realmente se fossimo autorizzati a considerar gli esseri materiali come cose in sé. Perché allora l’unità, che costituisce il fondamento della possibilità delle formazioni naturali, sarebbe unicamente l’unità dello spazio, il quale però non è un fondamento reale delle produzioni, ma soltanto la loro condizione formale, sebbene abbia qualche affinità col fondamento reale che cerchiamo, perché in esso nessuna parte può

essere determinata senza riferimento al tutto (di cui perciò la rappresentazione è il fondamento della possibilità delle parti). Ma, giacché è almeno possibile considerare il mondo materiale come semplice fenomeno, e pensare come sostrato qualche cosa in sé (che non è fenomeno), per la quale però si suppone una intuizione intellettuale corrispondente (che pure non è la nostra); potrebbe sussistere un fondamento reale soprasensibile, sebbene per noi inconoscibile, della natura di cui noi stessi facciamo parte, e nella quale quindi considereremmo secondo leggi meccaniche tutto ciò che è necessario in essa come oggetto dei sensi; ma la concordanza e l’unità delle leggi particolari e delle forme ad esse corrispondenti, che noi dobbiamo giudicare contingenti rispetto alle leggi meccaniche, le considereremmo nello stesso tempo secondo leggi teleologiche, nella natura come oggetto della ragione (anzi la totalità della natura come sistema); la natura verrebbe quindi giudicata secondo due diversi principii, senza che la spiegazione teleologica escluda quella meccanica, come se fossero tra loro contradittorie. Da ciò si può anche vedere ciò che si poteva presumere facilmente, ma difficilmente poteva essere affermato e dimostrato con certezza, che cioè il principio d’una derivazione meccanica dei prodotti finali della natura può sussistere accanto al principio teleologico, ma che questo non si potrebbe rendere inutile: vale a dire, che in una cosa, che dobbiamo giudicar come un fine naturale (un essere organizzato), possiamo cercare tutte le leggi conosciute e ancora da scoprire della produzione meccanica, ed anche sperare di riuscire per questa via, ma non possiamo mai dispensarci, per spiegare la possibilità di un tale prodotto, dall’invocare un principio di produzione interamente diverso, cioè quello della causalità mediante fini; e assolutamente non v’è nessuna ragione umana (ed anche nessuna ragione finita molto superiore alla nostra per grado, ma simile per la qualità), che possa sperare di comprendere semplicemente secondo causa meccaniche la produzione sia pure di un filetto d’erba. Perché, difatti, se pel Giudizio è inevitabile il legame teleologico [410] di cause ed effetti, per spiegare la possibilità di un tale oggetto, od anche per studiarlo soltanto col filo conduttore dell’esperienza; se per gli oggetti esterni, in quanto fenomeni, non si può trovare un principio relativo a fini, che sia sufficente, ed invece questo principio, che sta anche nella natura, deve essere cercato soltanto nel sostrato soprasensibile, che però non possiamo per nulla comprendere: ci è assolutamente impossibile spiegare i legami finali mediante principii

derivanti dalla natura stessa, e, data la costituzione della facoltà conoscitiva umana, è necessario cercare il principio supremo in un intelletto originario, concepito come causa del mondo.

§ 78. Dell’unione del principio del meccanismo universale della materia col principio teleologico nella tecnica della natura. È della massima importanza per la ragione non perdere di vista il meccanismo nei prodotti naturali, e non trascurarlo nella spiegazione di questi; perché senza di esso non si può affatto giungere a comprendere la natura delle cose. Se anche ci si concedesse che un supremo architetto ha creato immediatamente le forme della natura, quali esistono da tempo immemorabile, o ha predeterminate quelle che nel corso della natura si realizzano continuamente secondo lo stesso modello, la nostra conoscenza della natura non se ne avvantaggerebbe menomamente; perché noi non conosciamo affatto la maniera di agire di quell’essere, e le sue idee che debbono contenere i principii della possibilità delle cose naturali, né possiamo spiegare con esso la natura dall’alto in basso (a priori). Ma se, partendo dalle forme degli oggetti d’esperienza, e procedendo quindi dal basso in alto (a posteriori), vogliamo appellarci a una causa operante secondo fini per spiegare la finalità che crediamo di scorgere nelle forme stesse, daremo una spiegazione del tutto tautologica, ed inganneremo la ragione con parole, per non confessare che, quando con questa specie di spiegazione ci smarriamo nel trascendente, dove la conoscenza della natura non ci può seguire, la ragione è indotta a fantasticare poeticamente, vale a dire è indotta a ciò che è suo massimo dovere di evitare. [411] D’altra parte, è una massima egualmente necessaria della ragione di non trascurare il principio dei fini nei prodotti della natura, poiché, se esso non ci fa meglio comprendere il modo di formarsi di questi prodotti, è però un principio euristico per ricercare le leggi particolari della natura; posto anche che non si voglia farne uso per spiegare in tal modo la natura stessa, continuando sempre ad adoperare l’espressione fini della natura, sebbene questa mostri apertamente un’unità di fini intenzionali, vale a dire non cercando al di là della natura il principio della possibilità di essi. Ma, poiché,

infine, bisogna arrivare alla questione di questa possibilità, a spiegarla è necessario pensare una specie particolare di causalità che non si trova nella natura, proprio come la meccanica delle cause naturali ha la sua, perché la recettività che mostra la materia per parecchie altre forme oltre quelle di cui è capace secondo il meccanismo, suppone la spontaneità di una causa (che quindi non può esser materia), senza la quale di quelle forme non può esser data alcuna ragione. La ragione, è vero, prima di far questo passo deve procedere cautamente, e non deve cercare di spiegare teleologicamente ogni tecnica della natura, cioè quella sua facoltà produttiva di figure che mostrano finalità alla semplice apprensione (come i corpi regolari); deve riguardarla sempre, finché può, come possibile solo meccanicamente; ma, al di là di questo, volere escludere interamente il principio teleologico, e pretender di seguire sempre il semplice meccanismo dove la finalità, alla ricerca che fa la ragione della possibilità delle forme naturali, mostra incontestabilmente di riferirsi con le sue cause ad un’altra specie di causalità, significherebbe abbandonare la ragione a divagazioni sopra le impenetrabili potenze della natura, divagazioni fantastiche e chimeriche non meno di quelle cui potrebbe esser trascinata da un’esplicazione puramente teleologica, che non facesse alcun conto del meccanismo naturale. In una stessa cosa della natura non si possono congiungere entrambi i principii, in modo che si possa spiegare l’uno con l’altro (o dedurre l’uno dall’altro); vale a dire, non si possono unire come principii dommatici e costitutivi della conoscenza della natura pel Giudizio determinante. Se per esempio ammetto che un verme si debba considerare come un prodotto del semplice meccanismo della materia (della conformazione nuova che si produce da sé quando gli elementi della materia son messi in libertà dalla putrefazione), non potrò derivare lo stesso prodotto [412] dalla stessa materia come una causalità che opera secondo fini. Reciprocamente, se considero lo stesso prodotto come un fine naturale, non potrò contare su di una sua origine meccanica, e ammetterla come principio costitutivo del giudizio sulla possibilità del prodotto, unendo così i due principii. Giacché una spiegazione esclude l’altra; anche ammesso che oggettivamente i due fondamenti della possibilità di tale prodotto riposino sopra un fondamento unico, al quale noi non pensiamo. Il principio, che deve rendere possibile l’unione di entrambi, nel giudizio della natura secondo i principii stessi, d e v e esser messo in qualcosa che è fuori di loro (e per conseguenza anche fuori della possibile

rappresentazione empirica della natura), ma che contenga il fondamento di entrambi, vale a dire nel soprasensibile, e i due modi di spiegazione debbono essergli riferiti. Ora, poiché del soprasensibile non possiamo avere altro concetto che quello, indeterminato, d’un fondamento che rende possibile il giudizio della natura secondo leggi empiriche, e non può essere determinato ulteriormente con alcun predicato, l’unione dei due principii non può riposare sopra un principio dell’e s p l i c a z i o n e della possibilità d’un prodotto secondo leggi date per il Giudizio d e t e r m i n a n t e , ma soltanto di un principio dell’e s p o s i z i o n e della possibilità stessa per il Giudizio r i f l e t t e n t e . – Infatti, spiegare significa derivare da un principio, che perciò deve potersi conoscere e mostrare chiaramente. Ora il principio del meccanismo della natura e quello della sua causalità tecnica debbono, è vero, in uno stesso prodotto naturale riunirsi in un unico principio superiore, e derivare entrambi da esso, perché altrimenti nella considerazione della natura non potrebbero sussistere l’uno accanto all’altro. Ma, se questo principio, che è oggettivamente comune ad entrambi, e che quindi giustifica la conciliazione delle massime che ne derivano per l’investigazione della natura; se questo principio è tale che può essere indicato, ma non mai può esser conosciuto determinatamente e mostrato con chiarezza per essere usato nei casi che si presentano, da esso non si può trarre alcuna spiegazione, vale a dire nessuna chiara e determinata derivazione della possibilità d’un prodotto naturale, che è possibile secondo quei due principii eterogenei. Ora il principio comune della derivazione meccanica da una parte, e della derivazione teleologica dall’altra, è il s o p r a s e n s i b i l e , che, dobbiamo porre alla base della natura in quanto fenomeno. Ma di questo, dal punto di vista teoretico, non possiamo farci il minimo concetto affermativamente [413] determinato. Non si può quindi spiegare col soprasensibile come principio, come la natura (nelle sue leggi particolari) costituisca per noi un sistema che si può riconoscere come possibile tanto secondo il principio della produzione delle cause fisiche che secondo quello delle cause finali; ma soltanto quando si presentano oggetti della natura, di cui, senza appoggiarci su principii teleologici, non possiamo pensare la possibilità secondo il principio del meccanismo (che avanza sempre il suo dritto su una cosa della natura), ammettiamo che si possano studiare fiduciosamente le leggi naturali secondo i due principii (dopo che l’intelletto ha riconosciuto la possibilità del loro prodotto mediante l’uno o l’altro principio), senza lasciarsi arrestare dall’apparente contradizione tra i

principii del giudizio; perché è certa almeno la possibilità che entrambi si possano unire anche oggettivamente in un sol principio (giacché si applicano a fenomeni, che suppongono un fondamento soprasensibile). Sebbene, dunque, il meccanismo e la tecnica teleologica (intenzionale) della natura, relativamente ad un medesimo prodotto e alla sua possibilità, possano stare sotto un principio superiore comune della natura considerata secondo leggi particolari, tuttavia, poiché questo principio è t r a s c e n d e n t e , data la limitazione del nostro intelletto, non possiamo riunire i due principii nella s p i e g a z i o n e dello stesso prodotto naturale, anche quando la possibilità interna di questo non è c o m p r e n s i b i l e se non mediante una causalità secondo fini (come avviene per la materia organizzata). Sicché resta sempre la massima enunciata dalla teleologia, che cioè, secondo la costituzione dell’intelletto umano, per la possibilità degli esseri organizzati nella natura non si può ammettere se non una causa operante intenzionalmente, e che il semplice meccanismo naturale non può esser sufficiente a spiegare tali prodotti; senza pretendere peraltro di decidere, con questa massima, della possibilità stessa di queste cose. Ma, poiché questa è una massima solo del Giudizio riflettente, non del Giudizio determinante, ed ha quindi soltanto un valore soggettivo per noi, non un valore oggettivo per la possibilità stessa di questa specie di cose (in cui i due modi di produzione potrebbero ben accordarsi in un unico principio); e poiché, inoltre, se a questo modo di produzione, che si concepisce come teleologico, non si potesse aggiungere il concetto d’un meccanismo della natura, che vi si deve anche trovare, una [414] simile produzione non potrebbe essere giudicata come appartenente alla natura: la massima precedente implica la necessità di un’unione dei due principii nel giudizio delle cose in quanto fini della natura, non però allo scopo di sostituire interamente, o in alcune parti, l’uno all’altro. Perché al posto di ciò che (almeno da noi) è pensato come possibile soltanto secondo un fine, non si può mettere alcun meccanismo, né al posto di ciò che secondo il meccanismo è conosciuto come necessario, una contingenza che avrebbe bisogno d’uno scopo come fondamento determinante: si può solo subordinare l’uno (il meccanismo) all’altro (la tecnica intenzionale), il che può ben avvenire secondo il principio trascendentale della finalità della natura. Difatti, dove si pensano dei fini come principii della possibilità di certe cose, si debbono anche ammettere dei mezzi la cui legge d’azione per sé non

abbisogni di nulla che presupponga uno scopo, e che quindi possa esser meccanica, pur essendo una causa subordinata ad effetti intenzionali. È perciò che anche nei prodotti organici della natura, specialmente quando, per la loro infinita quantità, ammettiamo l’elemento intenzionale nel legame delle cause naturali operanti secondo leggi particolari, e ne facciamo (almeno come ipotesi permessa) il p r i n c i p i o u n i v e r s a l e del Giudizio riflettente per la totalità della natura (il mondo), si può pensare una connessione grande ed anche universale delle leggi meccaniche con quelle teleologiche nelle produzioni naturali, senza confondere i principii del giudizio e mettere l’uno al posto dell’altro; perché, in un giudizio teleologico, anche quando la forma che prende la materia è giudicata possibile soltanto secondo un fine, questa materia, considerata nella sua natura e conformemente alle leggi meccaniche, può esser subordinata come mezzo rispetto al fine proposto: sebbene, poiché il fondamento di questa unione sta in qualche cosa che non è né l’uno né l’altro (né il meccanismo, né il legame finale), ma è il sostrato soprasensibile della natura di cui non possiamo conoscere niente, la nostra (umana) ragione non debba fondere i due modi di rappresentarsi la possibilità di tali oggetti, e non possiamo giudicarli fondati in un intelletto supremo se non mediante il legame delle cause finali, in modo perciò che non vien tolto nulla all’esplicazione teleologica. Ora, poiché è interamente indeterminato, e per sempre indeterminabile per nostra ragione, fin dove il meccanismo della [415] natura operi come mezzo in ogni fine naturale, e poiché, per l’enunciato principio intelligibile della possibilità d’una natura in generale, si può ammettere che questa è interamente possibile secondo un accordo universale delle due specie di leggi (le leggi fisiche e quelle delle cause finali), sebbene non possiamo scorgere il modo di tale accordo; noi non sappiamo nemmeno fin dove si estende il modo di spiegazione meccanica possibile per noi, e solo questo è certo, che, per quanto lontano possiamo arrivare per questa via, essa sarà sempre insufficiente per le cose che abbiamo riconosciute una volta come fini naturali, e quindi, secondo la natura del nostro intelletto, quei principii dobbiamo subordinarli tutti ad un principio teleologico. Su ciò si fonda il diritto, e, data l’importanza che ha lo studio della natura secondo il principio del meccanismo per l’uso teoretico della nostra ragione, anche il dovere di spiegare meccanicamente, per quanto è in nostro potere (di cui in questo punto non possiamo determinare i limiti), tutti i prodotti e gli

avvenimenti della natura, anche quelli che rivelano la più grande finalità; senza però perdere mai di vista che quelle cose che possiamo sottoporre all’investigazione della ragione soltanto sotto il concetto di scopo, infine, conformemente alla natura essenziale della nostra ragione, malgrado le cause meccaniche, debbono esser subordinate alla causalità secondo fini. 90

Da questo si vede che nella maggior parte delle cose speculative della ragion pura, in quanto ad affermazioni dommatiche, le scuole filosofiche d’ordinario hanno cercato per ogni quistione tutte le soluzioni possibili. Così per spiegare la finalità della natura si è ricorso ora ad una m a t e r i a i n a n i m a t a , ora ad un D i o i n a n i m a t o , ora ad una m a t e r i a v i v e n t e , ora ad un D i o v i v e n t e . A noi non resta, se è necessario, altro che abbandonare tutte queste a f f e r m a z i o n i oggettive, ed esaminare criticamente il nostro giudizio solo in rapporto con le nostre facoltà conoscitive, per dare al principio di queste, se non un valore dommatico, almeno il valore di una massima sufficiente ad un uso sicuro della ragione.

Appendice Metodologia del giudizio teleologico

§ 79. Se la teleologia debba esser trattata come appartenente alla scienza della natura. [416] Ogni scienza deve avere il suo posto determinato nell’enciclopedia di tutte le scienze. Se si tratta di una scienza filosofica, deve avere il suo posto nella parte teoretica o nella parte pratica della filosofia, e, nel primo caso, dev’essere assegnata o alla scienza della natura, in quanto questa studia ciò che può essere oggetto d’esperienza (per conseguenza o alla fisica o alla psicologia, o alla cosmologia generale) oppure alla teologia (in quanto scienza del fondamento originario del mondo, considerato come insieme di tutti gli oggetti d’esperienza). Ora si domanda: qual posto spetta alla teleologia? Appartiene essa alla scienza della natura (propriamente detta) o alla teologia? Non può appartenere se non all’una o all’altra; nessuna scienza appartiene al passaggio dall’una all’altra, perché questo passaggio indica solo l’articolazione o l’organizzazione del sistema, e non un posto nel sistema stesso. È evidente che non può formare parte della teologia, sebbene questa possa farne un uso importantissimo. Giacché essa ha per oggetto le produzioni della natura e la causa di tali produzioni; e, sebbene tenda ad un principio che è fuori e al disopra della natura (a un creatore divino), non fa questo pel Giudizio determinante, ma semplicemente pel Giudizio riflettente rivolto alla considerazione della natura (soltanto per dirigere il giudizio delle cose del mondo con questa idea come principio regolativo, adeguatamente all’intelletto umano). [417] Non pare che possa appartenere meglio alla scienza della natura, la quale abbisogna di principii determinanti e non puramente riflettenti per mostrare ragioni oggettive degli effetti della natura. In realtà, la teoria della

natura, o la spiegazione meccanica dei suoi fenomeni mediante le loro cause efficienti, non guadagna nulla, quando questi si considerano secondo la relazione dei fini. L’esposizione dei fini della natura nei suoi prodotti, in quanto costituiscono un sistema secondo concetti teleologici, non appartiene propriamente se non alla descrizione della natura composta con una norma speciale; in che la ragione compie un ufficio nobile, istruttivo e praticamente utile sotto molti rispetti, ma non ci dà alcuna spiegazione sull’origine e la possibilità interna di queste forme, che è poi il còmpito proprio della scienza teoretica della natura. La teleologia, come scienza, non appartiene dunque ad alcuna dottrina, ma solo alla critica, e alla critica di una particolare facoltà di conoscere, cioè alla critica del Giudizio. Ma, in quanto contiene principii a priori, può e deve fornire il metodo con cui si deve giudicare della natura secondo il principio delle cause finali: e così la sua metodologia ha almeno un’influenza negativa sulla condotta della scienza teoretica della natura, ed anche sul rapporto che questa può avere nella metafisica con la teologia, come propedeutica di quest’ultima.

§ 80. Della subordinazione necessaria del principio del meccanismo al principio teleologico nell’esplicazione di una cosa come fine della natura. Il d r i t t o d i m i r a r e ad una spiegazione puramente meccanica in tutti i prodotti naturali è in se stesso illimitato; ma il p o t e r e di giungere, con questa spiegazione soltanto, a risultati soddisfacenti è non solo molto limitato, ma anche delimitato con molta chiarezza dalla natura del nostro intelletto, in quanto si occupa delle cose come fini naturali; secondo un principio del Giudizio infatti il primo procedimento per sé solo non può fornire affatto l’esplicazione di tali cose, e perciò dobbiamo sempre subordinare ad un principio teleologico il giudizio di questi prodotti. [418] È perciò ragionevole, ed anche meritorio, seguire il meccanismo naturale per spiegare i prodotti naturali, finché si può fare con verosimiglianza, e non abbandonare questa ricerca perché sia d i p e r s é impossibile incontrare per questa via la finalità della natura, ma soltanto perché è impossibile p e r n o i in quanto uomini: giacché a ciò sarebbe

necessaria un’intuizione diversa dall’intuizione sensibile ed una conoscenza determinata del sostrato intelligibile della natura, sulla cui base si potesse dar ragione perfino del meccanismo dei fenomeni secondo le loro leggi particolari, ciò che supera affatto ogni nostra facoltà. Affinché dunque l’osservatore della natura non lavori in pura perdita, bisogna che egli, nel giudizio delle cose di cui il concetto è indubbiamente fondato su fini della natura (gli esseri organizzati), si basi sempre su qualche organizzazione originaria, che si vale di quel meccanismo per la produzione di altre forme organizzate, o per sviluppare la propria in nuove forme (che derivano però sempre da quello scopo e gli sono conformi). È bello percorrere, con l’anatomia comparata, la grande creazione degli esseri organizzati per vedere se non si trovi una specie di sistema, proprio secondo il principio genetico, in modo da non esser obbligati ad attenerci al semplice principio del giudizio (che non chiarisce punto la produzione di questi esseri) e a rinunziare scoraggiati ad ogni pretesa di c o m p r e n d e r e l a n a t u r a in questo campo. L’accordo di tante specie animali in un certo schema comune, che sembra aver presieduto non soltanto alla struttura del loro scheletro, ma anche alla disposizione delle altre parti, e in cui una meravigliosa semplicità di disegno, col raccorciamento di una parte e l’allungamento di un’altra, con l’inviluppare questa e sviluppare quella, ha potuto produrre una varietà così grande di specie, lascia cader nell’anima un raggio, sia pur debole, di speranza, di poter conseguire qualche cosa col principio del meccanismo della natura, senza del quale una scienza della natura non è possibile. Questa analogia delle forme, che con tutta la loro diversità sembrano esser state prodotte conformemente ad un tipo comune, fortifica l’ipotesi di una loro reale parentela nella genesi da una madre comune, col mostrarci l’avvicinamento graduale di una [419] specie ad un’altra, da quella in cui il principio dei fini sembra attuato al massimo grado cioè l’uomo, fino al polipo, e da questo ai muschi e alle alghe, e finalmente al più basso grado che possiamo conoscere della natura, la materia bruta, da cui, e dalle cui forze, secondo leggi meccaniche (simili a quelle con cui essa opera nella cristallizzazione), sembra derivare tutta la tecnica della natura, la quale è così incomprensibile per noi negli esseri organizzati, che ci crediamo obbligati a pensarne un altro principio. Qui l’a r c h e o l o g o della natura è libero di derivare, mediante il meccanismo che gli è noto o che ha più ragione di supporre, dalle tracce che

hanno lasciato i più antichi cataclismi naturali, tutta quella famiglia di creature (perché così bisogna rappresentarsela, se deve avere un fondamento questa generale parentela). Dal grembo della terra, la quale uscì anch’essa dal suo stato caotico (quasi come un grande animale), egli può far nascere in principio delle creature la cui forma ha un grado minimo di finalità, e da queste altre che si conformano in modo più appropriato al loro luogo di nascita e ai loro rapporti reciproci: finché questa matrice stessa, irrigidita, ossificata, non limita i suoi parti a specie definite che non dovranno più degenerare, e lascia così quella varietà che ha prodotto, come se fosse giunta al termine dell’operazione di quella feconda forza formatrice. – Ma, infine, egli dovrà pure attribuire a questa madre universale un’organizzazione che abbia per iscopo tutte queste creature; altrimenti, non si potrebbe pensare la possibilità della forma finale nei prodotti del regno animale e vegetale91. [420] Ed allora egli non avrebbe fatto altro che differirne la spiegazione, e non potrebbe pretendere di aver resa indipendente la produzione dei due regni dalla condizione delle cause finali. I cambiamenti stessi, che subiscono accidentalmente certi individui delle specie organizzate, dei quali il carattere così modificato diventa ereditario ed è adottato dalla forza generatrice, non possono esser meglio considerati che come lo sviluppo occasionale di una disposizione finalistica esistente originariamente nella specie e destinata alla sua conservazione; perché, nella finalità interna generale di un essere organizzato, la generazione di esseri della stessa specie è strettamente legata alla condizione che non si deve ammettere nulla nella forza generatrice che non appartenga anche, in un tale sistema di fini, a una delle disposizioni originarie non ancora sviluppate. Difatti, quando si prescinde da questo principio, non si può sapere con certezza se parecchie parti, della forma ora rinvenibile in una specie, abbiano un’origine accidentale e senza scopo; e il principio della teleologia, per cui in un essere organizzato nulla di ciò che si conserva nella propagazione deve essere giudicato inutile, diventerebbe così molto incerto nella sua applicazione, e sarebbe valido solo pel ceppo originario (che però non conosciamo più). H u m e , a quelli che per tutti questi fini naturali trovano necessario ammettere un principio teleologico del giudizio, vale a dire un intelletto architettonico, obietta che con egual diritto si potrebbe domandar loro com’è possibile un intelletto simile; vale a dire, come si possono trovar riunite così

opportunamente in un essere le diverse facoltà e proprietà, che costituiscono la possibilità di un intelletto che possiede anche la potenza di eseguire ciò che concepisce. Ma questa obiezione non vale. Perché, difatti, tutta la difficoltà della questione circa la prima produzione d’una cosa che contiene in sé dei fini ed è concepibile solo per via di questi, riposa sulla questione di sapere qual è in questo prodotto l’unità del principio del legame dei molteplici elementi e s t e r n i l ’ u n o a l l ’ a l t r o ; giacché, se questo principio [421] si pone nell’intelletto d’una causa produttrice come sostanza semplice, la questione, dal punto di vista teleologico, è sufficientemente risoluta; ma, se invece la causa si ricerca soltanto nella materia, in quanto aggregato di molte sostanze esterne l’una all’altra, viene a mancare interamente l’unità del principio per la forma finale interna della sua formazione; e l’a u t o c r a z i a della materia, nei prodotti che dal nostro intelletto possono esser concepiti solo come fini, è una parola priva di senso. Perciò coloro i quali cercano un principio supremo della possibilità delle forme oggettivamente finali della materia, senza concedere ad esso una intelligenza, fanno dell’universo o una sostanza unica che comprende tutto (panteismo), oppure (ciò che è soltanto una spiegazione più determinata del sistema precedente) un insieme di molte determinazioni inerenti ad un’unica s o s t a n z a s e m p l i c e (spinozismo), non per altro che per ricavare quella condizione di ogni finalità, che è l ’ u n i t à del principio; con che soddisfano, è vero, ad u n a condizione del problema, spiegando cioè l’unità nel legame dei fini mediante il concetto puramente ontologico di una sostanza semplice, ma trascurano l’a l t r a condizione, il rapporto di questa sostanza al suo effetto come fine, con cui quel fondamento ontologico deve avere una determinazione più precisa, e quindi non rispondono a t u t t a la questione. La quale (per la nostra ragione) resta assolutamente insolubile, se non ci rappresentiamo quel fondamento originario delle cose come una s o s t a n z a semplice, e l’attributo di questa, su cui si fonda la qualità specifica delle forme della natura, cioè l’unità dei fini, come l’attributo di una sostanza intelligente; e il rapporto di quelle forme a questa sostanza (a causa della contingenza che troviamo in tutto ciò che concepiamo come possibile solo in quanto scopo) come il rapporto d’una c a u s a l i t à .

§ 81. Dell’associazione del meccanismo col principio

teleologico nella spiegazione d’un fine della natura, considerato come prodotto naturale. Come abbiamo visto nel paragrafo precedente che il meccanismo della natura non può bastare a farci pensare la possibilità [422] d’un essere organizzato, ma (almeno secondo la natura della nostra facoltà conoscitiva) deve essere subordinato originariamente a una causa intenzionale, così il fondamento puramente teleologico di questo essere non basta a farcelo considerare e giudicare anche come un prodotto naturale, se non vi si associa il meccanismo della natura, come lo strumento d’una causa intenzionale, ai cui fini la natura è subordinata nelle sue leggi meccaniche. La nostra ragione non comprende la possibilità di questa unione di due specie interamente diverse di causalità, della causalità della natura nella sua conformità alle sue leggi universali, con un’idea che le limita ad una forma particolare, di cui per se stesse non contengono il fondamento; questa possibilità risiede nel sostrato soprasensibile della natura di cui non possiamo determinare altro affermativamente, se non che esso è la cosa in sé di cui conosciamo soltanto l’apparenza. Ma questo principio, che cioè tutto quello che consideriamo come appartenente a questa natura (phaenomenon) e come suo prodotto, deve esser anche pensato come legato ad essa secondo leggi meccaniche, non perde punto della sua forza, perché, senza questa specie di causalità, gli esseri organizzati, in quanto fini della natura, non sarebbero prodotti naturali. Ora, quando si ammette il principio teleologico per la produzione di questi esseri (come non potrebbe essere altrimenti), si può porre a fondamento della causa della loro forma finale interna o l’o c c a s i o n a l i s m o o il p r e s t a b i l i s m o . Nel primo caso, la causa suprema del mondo, conformemente alla sua idea, e all’occasione di ogni accoppiamento, darebbe immediatamente alla materia che vi si mescola la conformazione organica; nel secondo, essa avrebbe posto nei primi prodotti di questa sua saggezza soltanto quella disposizione, per cui un essere organico produce il suo simile, e la specie si conserva sempre, mentre la natura continuamente ripara la perdita degli individui, lavorando nel tempo stesso alla loro distruzione. Quando si ammette l’occasionalismo per la produzione degli esseri organizzati, ogni natura va interamente perduta, e con essa ogni uso della ragione nel giudizio sulla possibilità di tali prodotti;

perciò si può supporre che questo sistema non sarà ammesso da alcuno, che dia qualche importanza alla filosofia. Il p r e s t a b i l i s m o , a sua volta, può procedere in due modi. Esso considera cioè ogni essere organico generato dal suo simile [423] o per e d u z i o n e o p r o d u z i o n e . Il sistema, che considera la generazione come una semplice eduzione, si chiama sistema della preformazione individuale, o anche t e o r i a d e l l ’ e v o l u z i o n e ; quello della generazione come produzione è detto sistema dell’epigenesi; o anche della p r e f o r m a z i o n e g e n e r i c a , perché la potenza produttrice degli esseri che generano, e quindi la forma specifica, sarebbe preformata virtualiter, secondo le disposizioni finali interne, assegnate originariamente alla specie stessa. Conformemente a ciò, la teoria opposta della preformazione individuale si potrebbe chiamar meglio t e o r i a d e l l ’ i n v o l u z i o n e . I fautori della teoria d e l l ’ e v o l u z i o n e , che sottraggono tutti gli individui alla potenza formatrice della natura per farli uscire immediatamente dalle mani del creatore, non osano spiegare ciò con l’ipotesi dell’occasionalismo, in modo che l’accoppiamento sarebbe una semplice formalità, con la quale una causa suprema intelligente del mondo avrebbe deciso di formare essa stessa immediatamente un feto, lasciandone alla madre soltanto lo sviluppo e la nutrizione. Essi si son dichiarati per la preformazione, come se non fosse proprio lo stesso, quando queste forme si spiegano in modo sopranaturale, farle nascere al principio o nel corso del mondo; mentre la creazione occasionale risparmierebbe una grande quantità di disposizioni sopranaturali, che sarebbero necessarie per salvare dalle forze distruttrici della natura, e conservare intatto, per tutto il tempo fino al suo sviluppo, l’embrione formato al principio del mondo; e parimenti un numero enorme di esseri così preformati, infinitamente più grande di quello degli esseri destinati un giorno a svilupparsi, ed altrettante creazioni insieme, diventerebbero inutili e senza scopo. Ma essi vollero lasciare qualche cosa almeno alla natura, per non cadere nella completa iperfisica, che può prescindere da ogni spiegazione naturale. Si tennero, è vero, sempre attaccati alla loro iperfisica, trovando perfino nei mostri (che tuttavia è impossibile riguardare come fini naturali) una ammirevole finalità, anche non dovesse avere altro scopo che quello di urtare qualche volta l’anatomico con una finalità in apparenza senza scopo, ed ispirargli un triste stupore. Ma non riuscirono assolutamente a conciliare col sistema della preformazione la

produzione dei bastardi, e [424] dovettero attribuire al seme delle creature mascoline, cui peraltro non avevano accordato se non la proprietà meccanica di fornire il primo alimento all’embrione, una virtù formatrice finale, la quale però, relativamente al prodotto della generazione di due creature della stessa specie, non volevano concedere né all’una né all’altra. E invece, se anche non si riconoscesse al fautore dell’epigenesi il grande vantaggio che ha sui partigiani della teoria precedente, relativamente alla facoltà di servirsi dell’esperienza come prova della sua teoria, la ragione sarebbe già pregiudizialmente orientata a guardare con maggior favore la sua esplicazione, perché questa considera la natura, rispetto a quelle cose di cui non possiamo rappresentarci la possibilità originaria se non mediante la causalità dei fini, come produttrice per sé, almeno per ciò che concerne la propagazione, e non come semplicemente capace di sviluppare; e in tal modo, servendosi quanto meno è possibile del sopranaturale, lascia alla natura tutto ciò che segue al primo incominciamento (ma senza determinare nulla di questo, nel quale la fisica deve naufragare, qualunque sia la catena di cause con cui voglia tentare di giungervi). Nessuno più di J . F. B l u m e n b a c h92 si è adoperato per questa teoria dell’epigenesi, sia per dimostrarla, sia per stabilire i veri principii della sua applicazione ed anche moderarne l’abuso. Egli comincia ogni spiegazione fisica delle formazioni di cui ci occupiamo dalla materia organizzata. Perché giustamente egli riguarda come assurdo che la materia bruta si sia originariamente data forma da sé secondo leggi meccaniche, che la vita sia sorta dalla natura inanimata, e che la materia abbia potuto assumere spontaneamente la forma d’una finalità che si conserva da sé; ma nel tempo stesso, subordinatamente al p r i n c i p i o per noi impenetrabile di una o r g a n i z z a z i o n e originaria, egli lascia al meccanismo della natura una parte che non si può determinare, ma che non si può neanche disconoscere; onde la potenza della materia in un corpo organizzato (a differenza della f o r z a f o r m a t r i c e puramente meccanica che la materia possiede in generale), vien chiamata da lui una t e n d e n z a a l l a f o r m a z i o n e (la quale anche sta sotto l’alta direzione e guida di quella).

§ 82. Del sistema teleologico nei rapporti esterni degli esseri organizzati.

[425] Per finalità esterna intendo quella per cui una cosa della natura sta ad un’altra come mezzo a fine. Ora, le cose che non hanno una finalità interna, o di cui la possibilità non ne suppone alcuna, per esempio la terra, l’aria, l’acqua, etc. possono avere una grande finalità esterna, vale a dire relativamente ad altri esseri; ma questi ultimi debbono esser sempre esseri organizzati, cioè fini della natura, perché altrimenti i primi non potrebbero essere giudicati come mezzi. Così l’acqua, l’aria e la terra non possono esser considerate come mezzi relativamente all’ammassamento delle montagne, perché queste non implicano nulla che esiga un principio della loro possibilità secondo fini, e quindi la loro causa non possiamo mai rappresentarcela sotto il predicato di un mezzo (utile a quei fini). La finalità esterna è un concetto del tutto diverso da quello della finalità interna, la quale è congiunta con la possibilità di un oggetto, a prescindere dalla considerazione se l’esistenza stessa dell’oggetto è o no un fine. Di un essere organizzato si può domandare perché esiste, ma non è facile fare la stessa domanda per le cose in cui si riconosce semplicemente l’effetto del meccanismo della natura. Perché negli esseri organizzati noi ci rappresentiamo già una causalità secondo fini per spiegare la loro possibilità interna, un intelletto creatore, e riferiamo questa potenza attiva alla sua causa determinante, allo scopo. Non v’è che un’unica finalità esterna che sia connessa con la finalità interna dell’organizzazione, e che stia nel rapporto esterno di mezzo a fine, senza che sia necessario domandare a quale scopo debba esistere un essere così organizzato. È l’organizzazione dei due sessi nel rapporto reciproco per la propagazione della loro specie; perché qui, proprio come per un individuo, si potrebbe sempre domandare perché dovrebbe esistere tale coppia. La risposta è che questa costituisce un tutto o r g a n i z z a n t e , sebbene non un tutto organizzato in un corpo solo. Ora, quando si domanda perché una cosa esiste, la risposta è, o che la sua esistenza e la sua produzione non hanno alcun rapporto con una causa che agisce secondo fini, e allora si riporta [426] sempre la sua origine al meccanismo della natura, oppure che vi è un principio intenzionale della sua esistenza (in quanto essere naturale contingente), e questo pensiero difficilmente si può separare dal concetto d’una cosa organizzata; perché, siccome noi dobbiamo ammettere per la sua possibilità interna una causalità di cause finali ed un’idea che sia il fondamento di questa, non possiamo pensare l’esistenza di questo prodotto altrimenti che come fine. Difatti, si

chiama s c o p o l’effetto rappresentato, la cui rappresentazione è nel tempo stesso il principio che determina la causa intelligente ed efficiente a produrlo. In questo caso perciò si può dire, o che lo scopo dell’esistenza di tale essere naturale è in lui stesso, vale a dire che esso non è semplicemente scopo, ma anche s c o p o f i n a l e , oppure che lo scopo finale sta fuori in altri esseri naturali, cioè l’oggetto ha un’esistenza conforme al fine, non come scopo finale, ma come mezzo necessario. Ma, se noi percorriamo tutta la natura, non troveremo in essa, in quanto natura, alcun essere che possa pretendere al privilegio di essere lo scopo finale della creazione; e si può dimostrare anche a priori che ciò che in qualche modo potrebbe essere uno s c o p o u l t i m o della natura, con tutte le determinazioni e le proprietà di cui si potrebbe corredarlo, non può esser mai, come cosa della natura, uno s c o p o f i n a l e . Quando si considera il regno vegetale, per l’immensa fecondità con cui si espande quasi su ogni suolo, si potrebbe essere indotti da principio a riguardarlo come un semplice prodotto di quel meccanismo della natura, che questa rivela nelle formazioni del regno minerale. Ma una conoscenza più approfondita dell’inesprimibile saggezza dell’organizzazione di questo regno non ci permette di fermarci a questo pensiero, e suscita invece la domanda: perché esistono queste creature? Se si risponde che esistono pel regno animale, che se ne nutre, e perciò ha potuto espandersi sulla terra in specie tanto diverse, risorge la domanda: perché esistono questi animali che si cibano di piante? La risposta potrebbe essere che esistono dei carnivori, che si possono nutrire soltanto di ciò che è vivo. Infine si presenta la questione: a che servono questi animali con tutti i precedenti regni della natura? Per l’uomo, pei diversi usi che la sua intelligenza gli insegna a fare di tutte quelle creature; e qui sulla terra egli è lo scopo ultimo della creazione, perché è l’unico essere, tra quelli [427] che qui si trovano, il quale possa farsi un concetto di scopo, e di un aggregato di cose formate secondo un fine possa fare con la sua ragione un sistema di fini. Si potrebbe anche, col cavalier Linneo, seguire la via in apparenza opposta, e dire che gli animali erbivori esistono per moderare la vegetazione lussureggiante del regno vegetale, da cui parecchie specie sarebbero state soffocate, che i carnivori esistono per porre un freno alla voracità dei primi; e finalmente l’uomo, perché, perseguitando questi ultimi e scemandoli di numero, stabilisca un certo equilibrio tra le forze produttrici e distruttrici

della natura. E così l’uomo, per quanto sotto un certo rispetto sia degno di esser considerato come un fine, non avrebbe, sotto altro rispetto, se non il grado di un mezzo. Se si assume come principio una finalità oggettiva nella varietà delle specie delle creature terrestri e nel rapporto esterno di queste specie tra loro, in quanto esseri costruiti secondo fini, è conforme alla ragione concepire anche una certa organizzazione in questo rapporto, ed un sistema di tutti i regni della natura secondo cause finali. Ma l’esperienza qui sembra contradire apertamente alla massima della ragione, specialmente per ciò che concerne uno scopo ultimo della natura, il quale tuttavia è necessario per la possibilità di tale sistema, e noi non possiamo riporlo altrove che nell’uomo: perché anzi rispetto a quest’ultimo, considerato come una delle molte specie animali, la natura non ha fatto la minima eccezione circa le forze distruttrici e produttrici, per sottoporre tutto al suo meccanismo, senza alcuno scopo. La prima cosa che dovrebbe essere stabilita espressamente sulla terra, in un ordinamento diretto a formare un insieme finalistico degli esseri naturali, sarebbe certo il loro domicilio, il suolo e l’elemento su cui e in cui dovrebbero avere il loro sviluppo. Ma una conoscenza più esatta del modo come è costituita questa condizione essenziale di tutti i prodotti organici, non mostra se non cause che agiscono del tutto ciecamente, e piuttosto distruttrici che favorevoli alla produzione, all’ordine e ai fini. La terra e il mare non contengono soltanto le testimonianze delle antiche e potenti devastazioni, da cui furono colpiti insieme con tutte le creature che vi si trovavano, ma tutta la loro struttura, gli strati della terra e i limiti del mare hanno perfettamente l’apparenza di essere stati prodotti da forze selvagge ed [428] onnipotenti della natura operante in uno stato caotico. Per quanto ora sembrino ben appropriate la figura, la struttura e la pendenza delle terre a ricevere le acque del cielo, le sorgenti che scorrono tra strati di diverse specie (destinati a diversi prodotti), e il corso dei torrenti, nondimeno un esame più approfondito di tali cose dimostra che esse sono state prodotte semplicemente, in parte da eruzioni vulcaniche, in parte da inondazioni o da sollevazioni dell’oceano; e così si spiegano e la prima formazione di questa figura, e specialmente la sua trasformazione successiva, come, nel tempo stesso, la sparizione delle prime produzioni organiche93. Ora, se il domicilio di tutte queste creature, se il suolo della terra e il grembo del mare non ci mostrano se non un meccanismo interamente cieco, come e con qual diritto

possiamo domandare e affermare un’altra origine delle creature stesse? Sebbene l’uomo, come (secondo Camper) sembra dimostrarlo l’esame più approfondito dei resti di quelle devastazioni della natura, non sia stato compreso in tali rivoluzioni, tuttavia egli è così dipendente dalle altre creature della terra, che, ammettendo per queste un meccanismo generale della natura, bisognerebbe includervelo: sebbene la sua intelligenza (in gran parte almeno) abbia potuto salvarlo da quelle devastazioni. Questo argomento pare che oltrepassi lo scopo proposto, provando cioè non soltanto che l’uomo non possa essere lo scopo ultimo della natura, e che, per la stessa ragione, l’insieme delle cose organizzate naturali non possa essere un sistema di fini; ma anche che quelle produzioni, che prima si consideravano come fini naturali, non possano avere altra origine che il meccanismo della natura. [429] Ma, nella soluzione data avanti dell’antinomia dei principii del modo meccanico e del modo teleologico di produzione degli esseri organizzati, abbiamo visto che questi principii relativamente alla natura formatrice secondo le sue leggi particolari (di cui non possiamo penetrare la connessione sistematica), non sono altro che principii del Giudizio riflettente, e che cioè non determinano in sé l’origine di questi esseri, ma significano solo che, data la costituzione del nostro intelletto e della nostra ragione, non possiamo pensarla altrimenti che secondo cause finali; il massimo sforzo, e perfino l’ardimento, nei tentativi per spiegarla meccanicamente, ci sono non soltanto permessi, ma sollecitati dalla ragione, sebbene sappiamo che non potremo mai riuscirvi per la natura particolare e la limitazione del nostro intelletto (e non perché il meccanismo della produzione contradica in sé all’origine secondo fini); e, finalmente, l’unione di questi due modi di rappresentarsi la possibilità della natura può stare nel principio soprasensibile della natura (così fuori di noi come in noi), perché l’esplicazione secondo cause finali non è se non una condizione soggettiva dell’uso della nostra ragione, quando essa non vuol giudicare degli oggetti in quanto semplici fenomeni, ma vuol riferirli, insieme coi loro principii, al sostrato soprasensibile, per spiegare la possibilità di certe leggi della loro unità, che non può rappresentarsi se non mediante fini (e la ragione stessa ne contiene tali, che sono soprasensibili).

§ 83. Dello scopo ultimo della natura in quanto sistema teleologico. Abbiamo dimostrato precedentemente che, secondo i principii della ragione, vi sono motivi sufficienti, non pel Giudizio determinante, è vero, ma pel Giudizio riflettente, per considerare l’uomo non soltanto come un fine della natura, come tutti gli esseri organizzati, ma come lo s c o p o u l t i m o di essa sulla terra, in modo che rispetto a lui tutte le altre cose naturali costituiscono un sistema di fini. Ora, se si deve trovare nell’uomo stesso ciò che deve esser elevato a fine mediante il suo legame [430] con la natura, questo fine o sarà tale che possa esser soddisfatto dalla beneficienza della natura, oppure consisterà nell’attitudine e l’abilità rispetto ad ogni specie di fini, con cui l’uomo possa usar della natura (esternamente ed internamente). Il primo scopo della natura sarebbe la f e l i c i t à , il secondo la c o l t u r a dell’uomo. Il concetto della felicità non è tale che l’uomo lo tragga dai suoi istinti, e lo derivi così da ciò che in lui è animalità; è la semplice idea di uno stato che egli vuol rendere adeguato agli istinti sotto condizioni puramente empiriche (il che è impossibile). Egli se la forma da sé, e in tante maniere diverse, mediante il suo intelletto impigliato nell’immaginazione e nei sensi, e la cambia così spesso che, se la natura fosse sottomessa interamente al suo arbitrio, per accordarsi con questo concetto oscillante e quindi con lo scopo che ciascuno arbitrariamente si pone, non potrebbe assolutamente accogliere alcuna legge determinata, universale e fissa. Ma, anche se noi volessimo o abbassare questo concetto ai veri bisogni della nostra natura, nei quali la nostra specie si mostra interamente d’accordo con se stessa, oppure elevare la nostra capacità di realizzare tutti gli scopi immaginati, l’uomo non raggiungerebbe mai quello che intende per felicità, e che è in realtà il suo fine ultimo naturale (non fine della libertà); perché la sua natura non è tale da fermarsi e contentarsi nel possesso e nel godimento. D’altra parte, la natura è tanto lungi dall’averlo adottato come il suo particolare favorito, e d’avergli concesso il benessere a preferenza di tutti gli altri animali, che essa, nei suoi effetti rovinosi, la peste, la fame, l’inondazione, e il freddo, l’ostilità di altri animali grandi e piccoli, e simili, non lo risparmia più di qualunque altro animale: e per di più le contradizioni delle sue d i s p o s i z i o n i n a t u r a l i lo

gettano in pene immaginarie, mentre altre tribolazioni proprie della sua specie, con lo spirito di dominazione, la barbarie della guerra, etc., lo riducono in tale miseria, ed egli stesso, per quanto è in lui, si adopera tanto per la rovina della propria specie, che se anche il fine della più benefica natura esterna fosse riposto nella felicità della nostra specie, questa sulla terra non raggiungerebbe un sistema di felicità, perché la sua natura non ne è capace. L’uomo perciò è sempre soltanto un anello nella catena dei [431] fini naturali: è principio bensì relativamente a certi fini a cui la natura, nella sua disposizione, sembra averlo destinato, in quanto egli stesso si pone come fine; ma è anche mezzo per la conservazione della finalità nel meccanismo degli altri membri. Come l’unico essere che sulla terra abbia un’intelligenza, e quindi una facoltà di porsi volontariamente degli scopi, egli è, in verità, il ben titolato signore della natura; e, se questa si considera come un sistema teleologico, egli ne è, per la sua destinazione, lo scopo ultimo; ma sempre condizionatamente, cioè a condizione che sappia e voglia dare alla natura e a se stesso una finalità sufficiente per se stessa e indipendente dalla natura, e che quindi possa essere uno scopo finale, il quale però non deve esser cercato nella natura. Ma per trovare dove bisogna riporre questo s c o p o u l t i m o della natura, relativamente all’uomo almeno, dobbiamo cercare quello che la natura può fare per prepararlo a ciò che egli stesso deve fare per essere uno scopo, e dobbiamo separarlo da tutti i fini di cui la possibilità riposa su cose che si possono aspettare soltanto dalla natura. Tale sarebbe la felicità sulla terra, con che s’intende l’insieme di tutti i fini dell’uomo, possibili per mezzo della natura esterna ed interna a lui; cioè la materia di tutti i suoi fini sulla terra, che, se egli ne fa l’unico suo scopo, lo rende incapace a dare alla sua esistenza uno scopo finale e ad accordarsi con esso. Sicché di tutti i suoi fini nella natura non resta se non la condizione formale, soggettiva, vale a dire la facoltà di porsi dei fini in generale, e (indipendentemente, nella determinazione dei suoi fini, dalla natura) di servirsi della natura come mezzo conformemente alle massime dei suoi liberi scopi in generale: il che la natura può fare relativamente allo scopo finale che è fuori di essa, e che può esser riguardato perciò come il suo scopo ultimo. La produzione, in un essere ragionevole, della capacità di proporsi fini arbitrarii in generale (e quindi nella sua libertà), è la c o l t u r a . Sicché la coltura soltanto può essere lo scopo ultimo che la natura abbia ragione di porre relativamente alla specie

umana (non la sua felicità sulla terra, o semplicemente il privilegio di essere il principale istrumento dell’ordine e dell’armonia nella natura esterna priva di ragione). Ma non ogni coltura è sufficiente per questo scopo ultimo della natura. La coltura dell’a b i l i t à è senza dubbio la condizione soggettiva principale della capacità di promuovere dei fini [432] in generale; ma non è sufficiente a promuovere la v o l o n t à 94 nella determinazione e nella scelta dei suoi fini, che tuttavia fa parte essenziale della nostra facoltà di proporci degli scopi. L’ultima condizione di questa capacità, che si potrebbe chiamare coltura dell’educazione (della disciplina), è negativa; e consiste nella liberazione della volontà dal despotismo degli appetiti, per cui, stando attaccati a certe cose della natura, diventiamo incapaci perfino di scegliere, perché cangiamo in catene gli stimoli che la natura ci ha dato soltanto per avvertirci di non trascurare o di non ledere la destinazione dell’animalità che è in noi, mentre pur siamo liberi abbastanza di ritenerli o rilasciarli, di estenderli o diminuirli, secondo ciò che esigono i fini della ragione. L’abilità non può essere bene sviluppata nella specie umana che per mezzo dell’ineguaglianza tra gli uomini; perché il più gran numero di essi cura le necessità della vita quasi meccanicamente, senza aver bisogno d’un’arte particolare, e pel comodo e il divertimento degli altri, i quali lavorano per gli elementi meno necessarii della coltura, la scienza e l’arte, tenendo i primi in uno stato di oppressione, nel quale lavorano duramente e godono poco, mentre però a poco a poco si propaga tra essi parte della coltura della classe superiore. I mali però crescono egualmente da ambo le parti col progresso di questa coltura (che si chiama lusso quando il bisogno del superfluo comincia già a nuocere al necessario), nell’una per l’oppressione altrui, nell’altra per l’intima insoddisfazione; ma la miseria dorata si trova tuttavia congiunta con lo sviluppo delle disposizioni naturali nella specie umana, e il fine della natura stessa, se non il fine nostro, è raggiunto in questa maniera. La condizione formale sotto cui soltanto la natura può raggiungere questo suo scopo finale, è quella costituzione nei rapporti degli uomini tra loro, che in un tutto che si chiama s o c i e t à c i v i l e , oppone un potere legittimo alle infrazioni reciproche della libertà; perché solo in tale costituzione si può effettuare il massimo sviluppo delle disposizioni naturali. Ma, se anche gli uomini fossero tanto accorti da trovarla, e saggi abbastanza per sottoporsi di buon grado alla sua costrizione, sarebbe ancora necessario

un tutto c o s m o p o l i t a , vale a dire un sistema di tutti gli stati, che sono esposti al pericolo di danneggiarsi reciprocamente. In mancanza di questo [433] sistema, e per gli ostacoli che l’ambizione, il desiderio di dominare e la cupidità, specialmente presso quelli che hanno in mano il potere, oppongono anche alla possibilità di un tal disegno, è inevitabile la g u e r r a (in cui o degli stati si dividono e risolvono in stati minori, oppure uno stato se ne aggrega altri più piccoli, tendendo a formare un tutto più grande); la guerra che però, se è un’impresa sconsiderata degli uomini (suscitata dalle loro passioni sfrenate), forse nasconde profondamente qualche disegno della saggezza suprema, almeno per preparare, se non per stabilire, la conciliazione della legalità con la libertà negli stati, e quindi l’unione di questi in un sistema moralmente fondato; e, malgrado le calamità terribili con cui essa opprime il genere umano, e i mali forse maggiori che derivano dalla sua costante preparazione in tempo di pace, è uno stimolo di più a sviluppare fino al più alto grado tutti i talenti che servono alla coltura (in quanto viene sempre più allontanata la speranza della calma nella felicità pubblica). Per ciò che concerne la disciplina delle inclinazioni, – alle quali risponde pienamente, riguardo alla nostra destinazione in quanto siamo una specie animale, la disposizione naturale, ma che rendono molto difficile lo sviluppo dell’umanità, – anche in questa seconda esigenza della coltura si mostra una tendenza finalistica della natura ad uno sviluppo che ci rende atti a scopi più alti di quelli che la natura stessa può fornire. Non si può contrastare al predominio dei mali che, suscitando una quantità di inclinazioni insaziabili, spandono su noi il raffinamento del gusto spinto fino alla sua idealizzazione, ed anche il lusso nelle scienze, in quanto alimento della vanità: ma non si può neanche disconoscere il fine della natura, diretto a vincere sempre più la rozzezza e la violenza di quelle inclinazioni (al godimento) che più appartengono alla nostra animalità e più si oppongono alla coltura della nostra destinazione più alta, e a far posto allo sviluppo dell’umanità. Le belle arti e le scienze, che col loro piacere comunicabile universalmente, e con l’urbanità e il raffinamento che portano nella società, se non fanno l’uomo moralmente migliore, lo rendono costumato, sottraggono molto alla tirannia delle tendenze fisiche e preparano perciò l’uomo alla signoria assoluta della ragione, mentre i mali di cui ci affligge in parte la natura, in parte l’intollerabile egoismo degli uomini, [434] chiamano a raccolta le forze dell’anima, le elevano, le temprano, perché non soggiacciano a quelli; e ci

fanno sentire così un’attitudine per fini più alti, la quale si trova nascosta in noi95.

§ 84. Dello scopo finale dell’esistenza d’un mondo, vale a dire della creazione stessa. S c o p o f i n a l e è quello che non ne richiede alcun altro come condizione della sua possibilità. Se per spiegare la finalità della natura non si ammette altro principio che il suo semplice meccanismo, non si può domandare per qual fine le cose esistono nel mondo; perché allora, in questo sistema idealistico, non si tratta che della possibilità fisica delle cose (che sarebbe insensato e vano pensare come fini): si potrebbe spiegare questa forma delle cose col caso, o con la cieca necessità, ma in tutti i due modi quella domanda sarebbe vana. Ma, se ammettiamo il legame finalistico nel mondo come reale, e con esso una specie particolare di causalità, cioè quella d’una c a u s a c h e a g i s c e i n t e n z i o n a l m e n t e , non possiamo fermarci alla questione di sapere per qual fine le cose del mondo (gli esseri organizzati) hanno questa o quella forma, sono state messe tra loro in questo o quel rapporto dalla natura; quando si è pensato una volta un intelletto, che deve esser considerato come la causa della possibilità di tali forme, quali si trovano [435] effettivamente nelle cose, si deve anche domandare quale principio oggettivo abbia potuto determinare questa intelligenza produttrice ad un effetto di questa specie; principio che è poi lo scopo finale per cui queste cose esistono. Ho detto avanti che lo scopo finale non è tale che la natura sia sufficiente ad effettuarlo e a produrlo conformemente alla sua idea, perché è incondizionato. Perché difatti non v’è nulla in natura (in quanto essere sensibile) di cui il principio determinante, che si trova nella natura stessa, non sia a sua volta condizionato; e questo vale non soltanto per la natura esterna (materiale), ma anche per la natura interna (pensante), in quanto, s’intende, considero in me soltanto ciò che è natura. Ma una cosa che deve esistere necessariamente, in virtù della sua natura oggettiva, come lo scopo finale d’una causa intelligente, dev’esser tale che, nell’ordine dei fini, non dipenda da nessun’altra condizione che non sia semplicemente la sua idea. Ora noi non abbiamo nel mondo se non un’unica specie di esseri, la cui

causalità sia teleologica, cioè diretta a scopi, e tali tuttavia che si rappresentino la legge secondo cui debbono determinare i propri fini, come posta incondizionatamente da loro stessi e indipendentemente dalle condizioni della natura, eppure come in se stessa necessaria. L’essere di questa specie è l’uomo, ma considerato come noumeno; è l’unico essere della natura in cui possiamo riconoscere, come suo carattere proprio, una facoltà soprasensibile (la l i b e r t à ) ed anche la legge della causalità e l’oggetto di questa che egli si può proporre come fine supremo (il sommo bene nel mondo). Ora, dell’uomo (e così di ogni essere ragionevole del mondo), in quanto essere morale, non si può domandare ancora per qual fine (quem in finem) esiste. La sua esistenza ha in se stessa lo scopo supremo, al quale, per quanto è in sua facoltà, egli può sottomettere l’intera natura, o, almeno, rispetto al quale non c’è alcuna influenza contraria della natura, a cui l’uomo debba ritenersi soggetto. – Ora, se le cose del mondo, in quanto esseri condizionati relativamente alla loro esistenza, abbisognano di una causa suprema che agisca secondo fini, l’uomo sarà lo scopo finale della creazione: perché senza di esso la catena dei fini subordinati l’uno all’altro non avrebbe un vero principio, e solamente nell’uomo, ma nell’uomo in quanto soggetto della moralità, si può trovare questa legislazione incondizionata relativamente [436] ai fini, che rende lui solo capace di essere uno scopo finale, cui la natura sia teleologicamente subordinata96.

§ 85. Della fisico-teologia. La f i s i c o - t e o l o g i a è il tentativo, che fa la ragione, di concludere dai fini della natura (i quali possono esser conosciuti solo empiricamente) alla causa suprema della natura, e alle proprietà di tale causa. Una t e o l o g i a m o r a l e (etico-teologia) sarebbe il tentativo della ragione di concludere dal fine morale (che può esser conosciuto a priori) degli esseri naturali ragionevoli, alla causa medesima e alle sue proprietà. La prima precede naturalmente la seconda. Perché, quando vogliamo concludere t e l e o l o g i c a m e n t e dalle cose del mondo [437] a una causa di esso, debbono prima esserci dati degli scopi della natura, pei quali dopo abbiamo da cercare uno scopo finale, e quindi il principio della causalità di questa causa suprema.

Secondo il principio teleologico, possono e debbono darsi molte investigazioni della natura, senza che si abbia ragione di curarsi del fondamento della possibilità di quell’agire finalistico, che troviamo in diversi prodotti naturali. Ma, se anche di ciò si vuole avere un concetto, non abbiamo un punto di vista più esteso di quello che è fornito dalla massima del Giudizio riflettente: che, cioè, se ci fosse dato anche un sol prodotto organico della natura, non potremmo, data la costituzione della nostra facoltà conoscitiva, pensare di esso altro fondamento che quello di una causa della natura stessa (di tutta la natura, o anche soltanto di questa sua parte), che ne contenga la causalità in quanto intelligenza; un principio di giudizio col quale veramente non procediamo affatto nella spiegazione delle cose naturali e della loro origine, ma che tuttavia ci apre sulla natura un punto di vista, col quale forse possiamo determinar più addentro il concetto, altrimenti così sterile, d’un essere originario. Ora io dico che la fisico-teologia, per quanto sia spinta lontano, non ci può rivelare nulla di uno s c o p o f i n a l e della natura; perché essa non arriva neanche a porre tale questione. Di modo che essa può bensì giustificare il concetto d’una causa intelligente del mondo, in quanto è un concetto soggettivo – valido unicamente per la costituzione della nostra facoltà di conoscere – della possibilità delle cose che possiamo spiegarci secondo scopi; ma non può ulteriormente determinare il concetto stesso, né dal punto di vista teoretico né dal punto di vista pratico; il suo tentativo non raggiunge lo scopo di fondare una teologia, ma essa resta sempre non altro che una teleologia fisica: perché in essa la relazione dei fini è, e dev’essere, sempre considerata come condizionata dalla natura, e quindi non può sorgere la questione dello scopo per cui la natura stessa esiste (il cui principio deve essere cercato fuori della natura), mentre dall’idea determinata di tale scopo dipende il concetto determinato di quella causa superiore e intelligente del mondo, e quindi la possibilità di una teologia. Qual è l’utilità reciproca delle cose del mondo; come il molteplice di una cosa è utile alla cosa stessa; come perfino si abbia ragione di ammettere che nulla è vano nel mondo, e tutto invece n e l l a n a t u r a serve a qualche cosa data la condizione che certe cose (come fini) debbono esistere, – una questione, cioè, [438] in cui la ragione non può offrire al Giudizio nessun altro principio della possibilità dell’oggetto del suo inevitabile giudizio teleologico, oltre quello di subordinare il meccanismo della natura

all’architettonica di un creatore intelligente del mondo: tutto ciò è fornito eccellentemente e con grande nostra ammirazione dalla considerazione teleologica del mondo. Ma, poiché i dati, e quindi i principii, che servono a d e t e r m i n a r e quel concetto di una causa intelligente del mondo (come artista supremo), sono empirici, non lasciano concludere alcuna proprietà di là da ciò che scopre l’esperienza negli effetti della causa stessa; e poiché l’esperienza non può mai abbracciare l’intera natura in quanto sistema, essa deve spesso urtare (secondo l’apparenza) contro quel concetto e contro argomenti reciprocamente contradittorii; e, anche se fossimo capaci di cogliere empiricamente l’intero sistema, per ciò che concerne la sola natura, l’esperienza non ci potrebbe mai elevare al disopra della natura medesima, fino allo scopo dell’esistenza di questa, e quindi fino al concetto determinato di quell’intelligenza superiore. Se si riducono i termini della questione, di cui si cerca la soluzione in una fisico-teologia, la soluzione stessa appare facile. Se si sciupa cioè il concetto di una d i v i n i t à per indicare un qualunque essere intelligente che possiamo pensare, di cui può esservene uno o più, che ha molti e grandissimi attributi, ma non proprio tutti quelli che son necessarii in generale a costituire una natura che si accordi col più grande scopo possibile; oppure si crede qualcosa d’indifferente il supplire con aggiunte arbitrarie, in una teoria, alla mancanza di ciò che dev’esser fornito dalle dimostrazioni, e, dove si ha ragione di riconoscere molta perfezione (e che cosa è molto per noi?), ci si crede autorizzati a supporre t u t t a la perfezione p o s s i b i l e : allora la teleologia fisica ha forti pretese alla gloria di fondare una teologia. Ma, se ci si domanda di mostrare ciò che ci spinge e, soprattutto, ciò che ci autorizza a fare simili aggiunte, noi cercheremo invano il fondamento della nostra giustificazione nei principii dell’uso teoretico della ragione, il quale esige in modo assoluto che nel definire un oggetto dell’esperienza non si attribuiscano ad esso più proprietà di quanti siano i dati empirici che si possono rinvenire per fondarne la possibilità. Un esame più approfondito ci mostrerebbe che vi è a priori in noi un’idea di un essere supremo, che riposa su di un uso del tutto diverso della ragione (il pratico), il quale ci spinge a completare e ad elevare la manchevole rappresentazione che una teleologia fisica dà del fondamento [4309] originario degli scopi della natura, fino al concetto di una divinità; e non immagineremmo erroneamente di aver prodotto tale idea, e con essa una teologia, mediante l’uso teoretico della ragione applicato alla conoscenza

fisica del mondo, e ancora meno di averne dimostrato la realtà. Non si possono biasimare troppo gli antichi né d’aver pensato tante divinità, e diverse per le loro facoltà, i loro scopi e i loro propositi, né di averle tutte costrette alla condizione umana, non escluso perfino il loro capo. Perché, di fatti, quando essi osservano la disposizione e il processo delle cose nella natura, si trovavano bensì sufficientemente autorizzati ad ammetterne come causa qualcosa di più d’un meccanismo, e a supporre dietro la macchina di questo mondo i disegni di certe cause superiori, che non si potevano pensare se non come cause sovrumane. Ma, poiché essi trovavano che nel mondo, almeno dal nostro punto di vista, il male è mescolato col bene, la finalità con il suo opposto, e non potevano permettersi di ammettere, in favore dell’idea arbitraria di un creatore perfettissimo, che alla loro base fossero tuttavia nascosti fini saggi e benefici, di cui però non vedevano le prove: il loro giudizio della causa suprema del mondo difficilmente poteva esser diverso, in quanto essi, cioè, procedevano con perfetta conseguenza secondo le massime dell’uso puramente teoretico della ragione. Altri, che in quanto fisici pretendevano d’essere anche teologi, pensarono di trovare la soddisfazione della ragione, cercando per l’assoluta unità del principio delle cose naturali, che essa esige, l’idea di un essere al quale, come sostanza unica, sarebbero inerenti come determinazioni tutte le cose della natura: questa sostanza non sarebbe la causa del mondo per via dell’intelligenza, ma tutta l’intelligenza degli esseri del mondo starebbe in essa, come soggetto; non sarebbe quindi un essere che produce qualcosa secondo fini, ma in cui tutte le cose debbono, anche senza scopo né disegno, necessariamente accordarsi tra loro, in virtù dell’unità del soggetto, di cui sono semplici determinazioni. Così introdussero l’idealismo delle cause finali, sostituendo all’unità, così difficile a spiegare, di una quantità di sostanze legate tra loro secondo fini e dipendenti dalla causalità d’una sostanza l’inerenza in u n a sostanza; e questo sistema, che in seguito, considerato dal lato degli esseri del mondo inerenti, fu il p a n t e i s m o , e dal lato dell’unico soggetto per se stante come prima causa, fu (più tardi) [440] lo s p i n o z i s m o , annullava, più che non risolvesse la questione del fondamento primo della finalità della natura, in quanto, togliendo a quest’ultimo concetto tutta la sua realtà, lo riduceva semplicemente ad una falsa interpretazione del concetto ontologico universale di una cosa in generale. In base ai principii puramente teoretici dell’uso della ragione (sul quale

soltanto si fonda la fisico-teologia), non si può dunque mai desumere il concetto di una divinità, che basti al nostro giudizio teleologico della natura. Perché, difatti, o noi consideriamo ogni teleologia come una semplice illusione della facoltà del giudizio, nel giudicare il legame causale delle cose, e ci rifugiamo nel solo principio di un semplice meccanismo della natura, la quale, in virtù dell’unità della sostanza, di cui essa non è che il molteplice delle determinazioni, ci dà una semplice apparenza di finalità universale; oppure, se, lasciando questo idealismo delle cause finali, vogliamo attenerci al principio fondamentale del realismo di questa specie particolare di causalità, possiamo ammettere come base dei fini della natura, molti esseri originarii intelligenti, o anche uno solo: finché per fondare il concetto di questo essere non possederemo altro che i principii dell’esperienza, derivati dalla finalità reale che è nel mondo, non potremo da una parte, trovare alcun rimedio contro il disordine che in molti esempii la natura presenta riguardo all’unità degli scopi, e, d’altra parte, non potremo mai derivare da quei principii il concetto di un’unica causa intelligente, così come lo desumiamo sull’autorità della semplice esperienza, e che sia sufficientemente determinato per una teologia utile, di qualunque specie essa sia (teoretica o pratica). La teleologia fisica ci spinge, è vero, a cercare una teologia, ma non può produrne alcuna, per quanto profondamente investighiamo la natura per via dell’esperienza, e per quanto possiamo suffragare il legame finale che vi scopriamo, per mezzo di idee della ragione (le quali nelle questioni fisiche debbono essere teoretiche). A che giova – si domanderà con ragione – porre come fondamento di tutte queste disposizioni una grande, e per noi incommensurabile intelligenza che ordina questo mondo secondo fini, se la natura non ci dice, né può dirci niente dello scopo finale, senza il quale non possiamo riferire tutti questi fini naturali ad un punto comune, e formarci un principio teleologico sufficiente, sia per conoscere tutti questi fini in un sistema, sia per farci dell’intelligenza suprema, in quanto causa di tale natura, [441] un concetto che possa servir di misura al nostro Giudizio che riflette teleologicamente sulla natura stessa? Si avrebbe allora è vero, un i n t e l l e t t o a r t e f i c e per fini isolati; non si avrebbe la s a p i e n z a per uno scopo finale, il quale propriamente è quello che deve contenere il fondamento determinante di quella intelligenza. Ma, mancando uno scopo finale, che solo la ragion pura può fornire a priori (poiché tutti i fini nel mondo sono condizionati empiricamente, e non possono contener nulla che

sia assolutamente buono, ma soltanto ciò che è buono rispetto a questo o a quello scopo contingente), e che solo mi insegnerebbe quali proprietà, quale grado e quale rapporto della causa suprema della natura debbo pensare per giudicare la natura come un sistema teleologico; come e con quale diritto posso ampliare a piacere e completare, fino a giungere all’idea di un essere infinito onnisciente, il mio limitatissimo concetto di quell’intelletto originario (che io posso fondare solo sulla mia ristretta conoscenza del mondo), o ancora della potenza di questo essere nel realizzare le sue idee, della sua volontà di farlo, etc.? Affinché ciò fosse teoreticamente possibile, bisognerebbe presupporre in me stesso l’onniscienza, in modo che potessi vedere gli scopi della natura nella loro connessione totale, e potessi inoltre pensare tutti gli altri possibili disegni rispetto ai quali il disegno attuale dovrebbe essere giudicato con ragione come il migliore. Perché, senza questa completa conoscenza dell’effetto, non posso arrivare ad un concetto determinato della causa suprema, il quale non si può trovare se non in quello d’una intelligenza infinita sotto tutti i rispetti, cioè nel concetto di una divinità, e non posso dare un fondamento alla teologia. Sicché, per quanto ampliamo la teleologia fisica, secondo il principio esposto avanti, possiamo bene affermare che, data la costituzione e i principii della nostra facoltà di conoscere, noi non possiamo pensare la natura, in quei suoi ordinamenti finali che ci sono noti, se non come il prodotto di un’intelligenza cui essa è subordinata. Ma, se questa intelligenza ha avuto anche uno scopo finale nel produrre l’insieme della natura (uno scopo che non risiederebbe più nella natura del mondo sensibile), non potrà mai rivelarcelo l’investigazione teoretica della natura; qualunque sia la conoscenza che deriva da questa, resta sempre indeciso se quella causa suprema ha prodotto dappertutto secondo uno scopo finale, o se non piuttosto mediante una intelligenza determinata alla produzione di certe forme dalla sola [442] necessità della sua natura (analogamente a ciò che negli animali chiamiamo istinto artefice), senza che perciò sia necessario attribuirle la sapienza, e, ancor meno, una sapienza suprema e connessa con tutte le altre proprietà necessarie alla perfezione della sua opera. La fisico-teologia è dunque una teleologia fisica malintesa, utile alla teologia soltanto come preparazione (propedeutica), e non è sufficiente a tale scopo se non con l’aiuto di un principio estraneo, al quale si appoggia, ma non per se stessa, come il suo nome vorrebbe mostrare.

§ 86. Dell’etico-teologia. Anche la più comune intelligenza, quando riflette sull’esistenza delle cose del mondo, e del mondo stesso, non può evitare questo giudizio: che, cioè, tutte le diverse creature, per quanto sia grande l’arte con cui sono disposte, e per quanto sia varia la loro connessione e correlazione finale reciproca ed anche la totalità di tanti loro sistemi, che impropriamente diciamo mondi, esisterebbero invano, se non vi fossero tra le creature stesse degli uomini (degli esseri ragionevoli in generale); vale a dire che, senza uomini, tutta la creazione sarebbe un semplice deserto97, vano e senza scopo finale. Ma non è in relazione alla facoltà di conoscere (la ragion teoretica) che l’esistenza di tutte le altre cose del mondo riceve il suo valore, come perché vi sia qualcuno che possa c o n t e m p l a r e il mondo. Giacché, difatti, se questa contemplazione del mondo non gli rappresenta altro che cose senza uno scopo finale, la loro esistenza pel solo fatto che esse sono conosciute, non acquista alcun valore; e si deve prima supporre in esse uno scopo finale, rispetto a cui la contemplazione stessa del mondo abbia un valore. Non è neppure il sentimento di piacere e della somma di piaceri, relativamente al quale pensiamo come dato uno scopo finale della creazione, vale a dire non è il benessere, il godimento (sia corporale o spirituale), la felicità in una parola, il criterio con cui stabiliamo quell’assoluto valore. Perché dal fatto che l’uomo, esistendo, fa della felicità il suo scopo finale, non risulta alcun concetto del fine per cui egli esista in generale e che valore egli abbia, per meritare che gli si renda piacevole la propria esistenza. Bisogna [443] dunque che egli sia già presupposto come scopo finale della creazione, perché si abbia un fondamento razionale per ritenere che la natura debba accordarsi con la sua felicità, quando la si consideri secondo i principii dei fini come un tutto assoluto. – Sicché soltanto la facoltà di desiderare, non quella che rende l’uomo dipendente dalla natura (mediante impulsi sensibili), e rispetto a cui il valore della sua esistenza riposa su ciò che egli subisce e gode, ma il valore che solo egli può dare a se stesso, e che consiste in ciò che egli fa, nel modo e nei principii delle sue azioni, non in quanto membro della natura, ma nella l i b e r t à della sua facoltà di desiderare: una buona volontà, ecco dunque la sola cosa che può dare alla sua esistenza un valore assoluto, e rispetto alla quale l’esistenza del mondo può avere uno s c o p o f i n a l e .

Anche il giudizio più comune degli uomini di buon senso per poco che sia richiamato su tale questione e sia lasciato a riflettervi, si accorda perfettamente nel ritenere che l’uomo può essere uno scopo finale della creazione solo in quanto essere morale. A che giova – si dirà – che quest’uomo abbia tanto talento, e sia pure tanto attivo con esso, eserciti perciò un utile influsso sulla comunità, ed abbia un grande valore rispetto ai proprii interessi e all’utile degli altri, se egli non possiede una buona volontà? È un oggetto degno di disprezzo, se lo si considera nel suo interno; e, a meno che la creazione non sia assolutamente senza uno scopo finale, bisogna che egli, che in quanto uomo appartiene alla creazione, e che in quanto uomo cattivo sta tuttavia in un mondo sottoposto a leggi morali, in conformità di queste fallisca il suo scopo soggettivo (la felicità), come l’unica condizione sotto cui la sua esistenza può concordare con lo scopo finale. Ora, quando noi scopriamo nel mondo un ordine di fini, e, come la ragione esige inevitabilmente, subordiniamo i fini soltanto condizionati ad uno scopo ultimo incondizionato, cioè ad uno scopo finale, è evidente in primo luogo che non si tratta allora di uno scopo (interno) della natura, in quanto essa esiste, ma dello scopo della sua esistenza con tutte le sue disposizioni, e quindi dello s c o p o ultimo della c r e a z i o n e , e, in questo, propriamente della condizione suprema sotto cui soltanto può darsi uno scopo finale (vale a dire il motivo che determina un’intelligenza suprema a produrre gli esseri del mondo). [444] Ora, poiché riconosciamo l’uomo come scopo della creazione, solo in quanto essere morale, abbiamo in primo luogo un motivo, o almeno la condizione principale per considerare il mondo come una totalità finalisticamente connessa e come un s i s t e m a di cause finali; ma abbiamo soprattutto, relativamente al rapporto, per noi necessario in virtù della costituzione della nostra ragione, dei fini della natura con una causa intelligente del mondo, un p r i n c i p i o , il quale ci permette di pensare la natura e le proprietà di questa causa prima come il supremo principio nel regno dei fini, e così di determinare il concetto; ciò che non poteva fare la teleologia fisica la quale non poteva produrre se non concetti indeterminati, e, appunto perciò, inutili tanto per l’uso teoretico che pel pratico. In base a questo principio così determinato della causalità dell’essere originario, dovremo pensarlo non soltanto come intelligenza e legislatore per la natura, ma anche come il capo legislatore in un regno morale dei fini.

Relativamente al s o m m o b e n e , possibile sotto il suo impero, cioè riguardo all’esistenza di esseri ragionevoli sotto leggi morali, penseremo questo essere originario come o n n i s c i e n t e , perché in tal modo non gli sia nascosto l’intimo delle intenzioni (che costituisce il vero valore morale delle azioni degli esseri ragionevoli); lo penseremo come o n n i p o t e n t e , perché possa adeguare tutta la natura a questo scopo supremo; come a s s o l u t a m e n t e b u o n o e nel tempo stesso g i u s t o , perché questi due attributi (che insieme danno la s a g g e z z a ) costituiscono le condizioni della causalità d’una causa suprema del mondo, in quanto sommo bene sotto il dominio delle leggi morali; e così in essi dobbiamo anche pensare gli altri attributi trascendentali, come l’e t e r n i t à , l’o n n i p r e s e n z a , etc. (poiché la bontà e la giustizia sono attributi morali)98, che debbono essere presupposti relativamente a tale scopo finale. In tal modo la teleologia m o r a l e colma le lacune della teleologia f i s i c a e viene a fondare una t e o l o g i a ; perché, se la teleologia fisica non prendesse in prestito qualcosa inavvertitamente dalla teleologia morale, e dovesse procedere con coerenza, da sola non potrebbe fondare se non una demonologia, la quale è incapace di ogni concetto determinato. Ma, data la finalità morale di certi esseri del mondo, il principio del rapporto del mondo a una causa suprema, in quanto divinità, non fonda soltanto una teologia, perché completa la prova fisico-teleologica e quindi l’assume necessariamente come fondamento; ma è sufficiente a ciò per s e s t e s s o ; dirige l’attenzione [445] ai fini della natura, e promuove lo studio di quella grande e incomprensibile arte che si nasconde dietro le forme naturali, per trovare nei fini della natura una conferma accessoria delle idee, che son fornite dalla ragion pura pratica. Perché il concetto di esseri del mondo sottoposti a leggi morali, è un principio a priori, secondo il quale l’uomo deve necessariamente giudicare. Che, inoltre, se vi è dovunque una causa del mondo la quale agisce con intenzione ed è diretta ad uno scopo, quel rapporto morale deve essere la condizione della possibilità di una creazione, tanto necessariamente quanto quello che si fonda su leggi fisiche (se cioè quella causa intelligente ha anche uno scopo finale), – è riconosciuto anche a priori dalla ragione, come un principio che le è necessario per giudicare teleologicamente dell’esistenza delle cose. Ora si tratta soltanto di questo, cioè di sapere se noi abbiamo un principio sufficiente per la ragione (sia speculativa, sia pratica), per attribuire uno s c o p o f i n a l e alla causa

suprema che agisce secondo fini. Perché, difatti, che questo scopo, secondo la costituzione soggettiva della nostra ragione, e secondo anche ciò che possiamo pensare della ragione di altri esseri, non possa essere altro che l’u o m o s o t t o p o s t o a l e g g i m o r a l i, possiamo tenerlo come certo a priori; mentre invece è impossibile conoscere a priori i fini della natura nell’ordine fisico, e specialmente non si può comprendere in alcun modo come una natura non possa esistere senza di essi. NOTA Considerate un uomo nel momento che il suo animo è disposto al sentimento morale. Se, circondato da una bella natura, egli si sente in un godimento calmo e sereno della propria esistenza, sentirà anche in sé un bisogno di esserne riconoscente a qualcuno. Oppure, un’altra volta, egli si trova nella stessa disposizione d’animo, costretto da doveri che non può e non vuole compiere se non mediante un sacrificio volontario: allora sente in sé un bisogno e con ciò di aver eseguito come un ordine e di aver obbedito ad un signore supremo. Oppure egli ha agito senza riflessione contro il suo dovere, senza però giungere a doverne rispondere davanti agli uomini; e nondimeno i rigorosi rimproveri interni levano in lui una voce, che pare quella di un [446] giudice al quale egli ne debba render ragione. In una parola, egli ha bisogno di un’Intelligenza morale, perché, per lo scopo della sua esistenza ci sia un essere, che, conformemente allo scopo medesimo, sia la causa di lui e del mondo. È inutile architettare motivi dietro tali sentimenti; perché essi sono legati immediatamente con le più pure intenzioni morali, giacché la r i c o n o s c e n z a , l ’ o b b e d i e n z a e l ’ u m i l t à (la sottomissione ad un castigo meritato) sono particolari disposizioni dell’animo al dovere, e l’animo, che è inclinato ad estendere la sua disposizione morale, qui non fa altro che pensare volontariamente un oggetto, che non esiste nel mondo, per compiere il suo dovere anche verso di esso, quando sia possibile. È dunque almeno una cosa possibile, e di cui il principio si trova nel nostro carattere morale, il rappresentarsi un puro bisogno morale dell’esistenza di un essere, pel quale la nostra moralità o acquista maggior forza, o anche (almeno secondo la nostra rappresentazione) maggiore estensione, cioè guadagna un nuovo oggetto per la sua attività; vale a dire, l’ammettere un essere moralmente legislatore, fuori del mondo, senza pensare a prove teoretiche, e ancor meno al nostro interesse personale, in virtù d’un motivo puramente morale e libero da ogni influsso estraneo (ma puramente soggettivo), per la

semplice raccomandazione di una ragione pratica pura, che è legislatrice per se sola. E, sebbene tale stato d’animo si produca raramente e non duri a lungo, sia fugace e senza effetto durevole, e passi senza che ci applichiamo a riflettere sull’oggetto rappresentato in quella specie d’ombra, sforzandoci di ridurlo sotto concetti chiari, esso ha tuttavia un fondamento inconfondibile, e cioè la disposizione morale che è in noi, come principio soggettivo, a non contentarci della finalità per via di cause naturali, nella contemplazione del mondo, ma di porle a fondamento una causa suprema che domini la natura secondo principii morali. – A questo si aggiunga che dalla legge morale noi ci sentiamo obbligati a tendere ad un supremo fine universale, mentre poi sentiamo che, come tutta la natura, siamo insufficienti a raggiungerlo; e che, soltanto in quanto tendiamo ad esso, possiamo giudicare di conformarci allo scopo finale di una causa intelligente del mondo (se tale causa esiste); e in tal modo è dato alla ragion pratica un fondamento puramente morale per ammettere questa causa (perché ciò può avvenire senza contradizione), sicché non corriamo più il pericolo di considerare come del tutto vani gli effetti del nostro sforzo99 e di lasciarlo perciò illanguidirsi. [447] Da tutto ciò qui non si può concludere se non questo: se da principio, certo, il t i m o r e ha potuto produrre gli d e i (i demonii), è stata però la r a g i o n e che prima, mediante i suoi principii morali, ha prodotto il concetto di D i o (anche quando si era molto ignoranti, come d’ordinario, nella teleologia della natura, o molto incerti per la difficoltà di spiegare con un principio sufficientemente provato i fenomeni contradittorii che la natura presenta); e l’intima finalità m o r a l e della nostra esistenza compensa ciò che manca alla conoscenza della natura, prescrivendoci cioè di pensare, per lo scopo finale dell’esistenza di tutte le cose, il cui principio non può soddisfare la ragione se non in quanto è e t i c o , la causa suprema con gli attributi che la rendono capace di sottomettere tutta la natura a quell’unico scopo (di cui questa non è che lo strumento), vale a dire come una d i v i n i t à .

§ 87. Della prova morale dell’esistenza di Dio. Vi è una t e l e o l o g i a 100 f i s i c a che fornisce al nostro Giudizio teoretico riflettente una prova sufficiente per ammettere l’esistenza di una causa intelligente del mondo. Ma noi troviamo in noi stessi, e ancor più nel concetto in generale di un essere ragionevole dotato di libertà (della sua

causalità), anche una t e l e o l o g i a m o r a l e, la quale però, poiché la relazione finale insieme con le sue leggi in noi stessi può essere determinata a priori, e quindi riconosciuta come necessaria, non ha bisogno, per stabilire questa finalità interna, di una causa intelligente fuori di noi: proprio come, quando troviamo qualcosa di finale (per ogni possibile applicazione nell’arte) nelle proprietà geometriche delle figure, non abbiamo bisogno di ricorrere ad un’intelligenza suprema, che l’abbia loro assegnato. Ma questa teleologia morale ci riguarda in quanto siamo esseri del mondo, e quindi esseri legati con le altre cose del mondo: e le stesse leggi morali c’impongono di giudicare queste cose o come fini o come oggetti rispetto ai quali noi stessi siamo scopo finale. Ora da questa teleologia morale, che riguarda il rapporto della nostra propria causalità con dei fini ed anche con uno scopo finale, cui noi dobbiamo mirare nel mondo, e parimenti il rapporto reciproco [448] del mondo con quello scopo morale e la possibilità esterna della sua realizzazione (di cui una teleologia fisica non ci può dir nulla ); – da questa teleologia nasce necessariamente la questione, se cioè essa obblighi il nostro giudizio razionale a trascendere il mondo e a cercare, per quel rapporto della natura con la nostra moralità, un principio supremo intelligente, per rappresentarci la natura come finale anche relativamente alla legislazione morale interna e alla possibile esecuzione di questa. Per conseguenza, vi è certamente una teleologia morale; ed è legata con la n o m o t e t i c a della libertà da una parte, e con quella della natura dall’altra, tanto necessariamente quanto la legislazione civile è legata con la questione di sapere dove si debba cercare il potere esecutivo; e in generale è connessa con tutto ciò in cui la ragione deve fornire il principio della realtà di un certo ordine legale delle cose, possibile solo secondo idee. – Vogliamo mostrare anzitutto il passaggio della ragione, da questa teleologia morale e dal suo rapporto con la teleologia fisica, alla t e o l o g i a ; e dopo faremo alcune considerazioni sulla possibilità e la validità di questa maniera di ragionare. Quando si considera contingente l’esistenza di certe cose (o anche soltanto di certe forme delle cose), e quindi possibile soltanto mediante qualcos’altro, in quanto causa, si può cercare il fondamento supremo di questa causalità, e quindi il fondamento incondizionato del condizionato, o nell’ordine fisico o nell’ordine teleologico (secondo il nexus effectivus o il nexus finalis). Vale a dire, si può domandare, o qual è la causa produttrice suprema di queste cose, o qual è il loro fine supremo (assolutamente

incondizionato), cioè lo scopo finale che ha determinato quella causa a produrre questi o, in generale, tutti i suoi prodotti. Nel quale caso evidentemente questa causa deve essere pensata come capace della rappresentazione dei fini, e quindi come un essere intelligente, o almeno, per noi, come agente secondo le leggi di un tale essere. Ora, se si considera l’ordine teleologico, è u n p r i n c i p i o al quale anche la ragione più ordinaria deve immediatamente aderire, che, se vi è in generale uno s c o p o f i n a l e, che la ragione può fornire a priori, esso non può essere altro che l’u o m o (o qualunque essere ragionevole del mondo), s o t t o p o s t o a l l e l e g g i m o r a l i101. Perché (così giudica ognuno), se il mondo [449] si componesse di esseri inanimati, o anche in parte di esseri animati, ma privi di ragione, la sua esistenza non avrebbe alcun valore, perché in esso non esisterebbe alcun essere che avesse il minimo concetto d’un valore. Se invece vi fossero anche esseri ragionevoli, ma la loro ragione ponesse il valore dell’esistenza delle cose soltanto nella relazione della natura ad essi (al loro benessere), e non sapesse crearsi da sé originalmente un valore (nella libertà); vi sarebbero, è vero, dei fini (relativi) nel mondo, ma non vi sarebbe uno scopo finale (assoluto); giacché l’esistenza di tali esseri ragionevoli sarebbe sempre senza scopo. Ma è nella natura propria delle leggi morali il prescrivere alla ragione qualcosa come scopo incondizionatamente e per conseguenza proprio come è richiesto dal concetto di uno scopo finale; e l’esistenza di una tale ragione che, nell’ordine dei fini, può essere a se stessa la legge suprema, in altri termini, l’esistenza di esseri ragionevoli sottoposti a leggi morali, è ciò che soltanto può [450] essere pensato come lo scopo finale dell’esistenza di un mondo. Se non fosse così, o l’esistenza del mondo non avrebbe uno scopo per sua causa, o avrebbe per fondamento dei fini senza uno scopo finale. La legge morale, come condizione razionale formale dell’uso della nostra libertà, ci obbliga per sé sola, senza dipendere da qualche scopo in quanto condizione materiale; ma essa ci determina anche, e a priori, uno scopo finale, al quale c’impone di tendere, e che è il s o m m o b e n e possibile nel m o n d o mediante la libertà. La condizione soggettiva per cui, sotto la legge morale, l’uomo (e, secondo tutti i nostri concetti, anche ogni essere ragionevole finito) può porsi uno scopo finale, è la felicità. Per conseguenza, il sommo bene fisico possibile nel mondo, e che deve essere perseguito come scopo finale, per

quanto è in noi, è la f e l i c i t à : sotto la condizione oggettiva, che l’uomo si accordi con la legge della moralità, come con quella che lo rende degno d’esser felice. Ma queste due esigenze dello scopo finale che ci è assegnato dalla legge morale, non possiamo, con tutte le facoltà della nostra ragione, rappresentarcele come r i u n i t e mediante semplici cause naturali, e conformi all’idea di questo scopo finale. Sicché il concetto della n e c e s s i t à p r a t i c a di tale scopo mediante l’applicazione delle nostre forze, non si accorda col concetto teoretico della p o s s i b i l i t à f i s i c a della sua realizzazione, se non uniamo alla nostra libertà alcun’altra causalità (intermediaria), oltre quella della natura. Dobbiamo dunque ammettere una causa morale del mondo (un autore del mondo), per proporci uno scopo finale, conformemente alla legge morale; e per quanto questo scopo è necessario, altrettanto (vale a dire allo stesso grado e per la stessa ragione) è necessario ammettere quella causa: cioè che vi è un Dio102. Questa prova, cui si può adattare facilmente la forma della precisione logica, non vuol dire che è tanto necessario l’ammettere [451] l’esistenza di Dio quanto il riconoscere la validità della legge morale; in modo che colui, che non si convince della prima, possa giudicarsi libero dall’obbligazione della seconda. No! Soltanto che allora si dovrebbe rinunziare a tendere allo scopo finale da attuare nel mondo con l’osservanza della legge morale (all’accordo di quest’ultima con la felicità degli esseri ragionevoli, in quanto sommo bene nel mondo). Ogni essere ragionevole dovrebbe ancor sempre giudicarsi strettamente obbligato al precetto della moralità; perché le leggi di questa sono formali e comandano incondizionatamente, senza riguardo a scopi (come la materia della volontà). Ma la sola esigenza dello scopo finale, quale la ragion pratica lo prescrive agli esseri del mondo, è uno scopo che è loro imposto irresistibilmente dalla loro natura (di esseri finiti), e che la ragione vuol sottoporre solo alla legge morale in quanto c o n d i z i o n e inviolabile, o vuol vederlo derivare universalmente da tale legge, ponendo in tal modo come scopo finale il conseguimento della felicità d’accordo con la moralità. Il tendere a tale scopo, per quanto è in nostro potere, ci è imposto dalla legge morale; qualunque sia il risultato di questo sforzo. Il compimento del dovere consiste nella forma del serio volere, non nei mezzi della riuscita. Poniamo dunque che un uomo, sia per la debolezza dei tanto lodati

argomenti speculativi, sia per le diverse irregolarità che ha trovato nella natura e nel mondo morale, si convinca che non esiste un Dio; egli sarebbe però ai propri occhi un essere miserabile, se in conseguenza di ciò volesse tenere per puramente immaginarie, senza valore e senza virtù di obbligare, le leggi del dovere, e volesse decidersi arditamente a violarle. Se quest’uomo in seguito potesse convincersi di ciò di cui aveva dubitato in principio, resterebbe pur sempre, con quel modo di pensare, un miserabile, qualora compisse tanto puntualmente il suo dovere quanto si può desiderare, circa gli effetti esterni, ma per timore, [452] o per la speranza d’una ricompensa, senza alcuna intenzione di rispetto pel dovere stesso. Se viceversa, in quanto credente, egli compie secondo coscienza il suo dovere sinceramente e disinteressatamente, e nondimeno, ogni volta che pensa al caso che un giorno potrebbe convincersi che Dio non esiste, crede che allora sarebbe libero da ogni obbligazione morale; la cosa dovrebbe andar male per ciò che riguarda la sua disposizione morale interna. Possiamo dunque supporre un uomo onesto (come per esempio Spinoza)103il quale sia fermamente convinto che Dio non esiste, né esiste una vita futura (perché circa l’oggetto della moralità la conseguenza è identica); come giudicherà egli la sua destinazione interna a un fine mediante la legge morale, che egli operosamente onora? Dall’osservanza di essa egli non desidera per sé alcun vantaggio, né in questo mondo né in altro; vuole anzi effettuare disinteressatamente soltanto quel bene, cui quella santa legge indirizza tutte le sue forze. Ma il suo sforzo è limitato; e se dalla natura può aspettarsi un concorso accidentale, non può mai sperare un concorso legale e regolarmente costante (come sono, e debbono essere, le sue massime interne) a vantaggio dello scopo che egli si sente obbligato e spinto ad attuare. La frode, la violenza, l’invidia dominano sempre intorno a lui, sebbene egli sia onesto, pacifico e benevolente; e gli onesti, che ancora gli è dato d’incontrare, malgrado tutto il loro diritto d’esser felici, sono sottoposti dalla natura, che non fa tali considerazioni, a tutti i mali della miseria, delle malattie e d’una morte prematura, come gli altri animali della terra e lo rimangono finché un vasto sepolcro li inghiottisce tutti insieme (onesti e disonesti, non importa), e li rigetta, essi che potrebbero credersi lo scopo finale della creazione, nell’abisso del cieco caos della materia, da cui erano usciti. – Sicché quest’uomo di buoni sentimenti dovrebbe abbandonare assolutamente come impossibile quello scopo che, seguendo la legge morale, aveva, e doveva

avere, davanti agli occhi; o, se vuol restar fedele ancora alla voce della sua destinazione morale interna: e se non vuole indebolire il rispetto ispiratogli dalla legge morale nello spronarlo immediatamente all’obbedienza, ritenendo vano l’unico scopo ideale adeguato alla sua alta esigenza (ciò che non può avvenire senza scapito del [453] sentimento morale), allora egli dovrà ammettere – e questo è possibile, perché almeno non è contradittorio – dal punto di vista pratico, cioè per farsi almeno un concetto della possibilità dello scopo finale che gli è moralmente prescritto, l’esistenza di un autore m o r a l e del mondo, cioè di Dio.

§ 88. Limitazione della validità della prova morale. La ragion pura, in quanto facoltà pratica, cioè in quanto facoltà di determinare il libero uso della nostra causalità per mezzo di idee (concetti razionali puri), comprende non soltanto nella legge morale un principio regolativo delle nostre azioni, ma dà anche in questo modo un principio soggettivamente costitutivo nel concetto di un oggetto, che solo la ragione può pensare, e che secondo quella legge dev’essere realizzato nel mondo mediante le nostre azioni. L’idea d’uno scopo finale nell’uso della libertà secondo leggi morali, ha dunque una realtà soggettivamente p r a t i c a . Noi siamo determinati a priori dalla ragione a promuovere con tutte le nostre forze il sommo bene del mondo, il quale consiste nell’unione del massimo bene fisico possibile negli esseri ragionevoli del mondo, con la suprema condizione del bene morale, vale a dire dell’universale felicità con la più rigorosa moralità. In questo scopo finale la possibilità d’una parte, cioè della felicità, è condizionata empiricamente, cioè dipende dalla costituzione della natura (secondo che questa si accorda o no con lo scopo stesso), ed è quindi problematica dal punto di vista teoretico; mentre la possibilità dell’altra parte, cioè della moralità, rispetto a cui siamo indipendenti dall’azione della natura, sussiste a priori ed è dommaticamente certa. La realtà oggettiva teoretica del concetto dello scopo finale degli esseri ragionevoli del mondo esige dunque, non solo che noi abbiamo uno scopo finale prescritto a priori, ma anche la creazione, vale a dire il mondo stesso, abbia uno scopo finale rispetto alla sua esistenza, che, se potesse esser dimostrato a priori, aggiungerebbe la realtà oggettiva a quella soggettiva dello scopo finale. Poiché se la creazione ha dappertutto uno scopo finale, noi non possiamo pensarlo altrimenti che come

necessariamente d’accordo con la moralità (la quale sola rende possibile il concetto [454] d’uno scopo). Ora certamente noi troviamo dei fini nel mondo: e la teleologia fisica ce ne scopre tanti che, giudicando secondo ragione, infine abbiamo motivo di ammettere come principio dell’investigazione della natura, che in essa niente è senza scopo; ma invano cerchiamo lo scopo finale della natura nella natura stessa. Perciò questo, anche dal punto di vista della sua possibilità oggettiva, in quanto la sua idea sta soltanto nella ragione, può e deve essere cercato soltanto negli esseri ragionevoli. Ma la ragion pratica di questi esseri non dà solamente questo scopo finale: ne determina anche il concetto circa le condizioni, sotto le quali soltanto da noi può esser pensato uno scopo finale della creazione. Ora la questione è di sapere se la realtà oggettiva del concetto di uno scopo finale della creazione possa essere dimostrata anche in modo da soddisfare sufficientemente le esigenze teoretiche della ragion pura, e, se non apoditticamente pel Giudizio determinante, almeno a sufficienza per le massime del Giudizio teoretico riflettente. È questo il minimo che si può chiedere alla filosofia speculativa, la quale s’impegna di congiungere lo scopo morale coi fini della natura mediante l’idea d’un unico scopo; ma anche questo poco è molto più di quanto essa possa fornire. Secondo il principio del Giudizio teoretico riflettente, diremmo questo: se pei prodotti finali della natura abbiamo ragione di ammettere una causa suprema della natura stessa, la cui causalità, circa la realtà di quest’ultima (della creazione), deve esser pensata come d’una specie diversa da quella che è richiesta dal meccanismo della natura, cioè come la causalità d’una intelligenza, abbiamo anche sufficiente ragione di pensare in questo essere originario non soltanto dei fini per tutto ciò che esiste nella natura, ma anche uno scopo finale, e se non per dimostrare l’esistenza di tale essere almeno (come si è visto nella teleologia fisica) per convincersi che non possiamo spiegarci la possibilità di un tal mondo soltanto mediante fini, ma unicamente supponendo alla base della sua esistenza uno scopo finale. Ma lo scopo finale non è se non un concetto della nostra ragion pratica, e non può essere desunto da alcun dato dell’esperienza che serve al giudizio teoretico della natura, né essere applicato alla conoscenza di questa. Non è possibile alcun uso di [455] questo concetto, oltre quello della ragion pratica secondo le leggi morali; e scopo finale della creazione è quella costituzione del mondo che si accorda con ciò che noi possiamo determinare solo

mediante leggi, cioè con lo scopo finale della nostra ragion pura pratica, e in quanto dev’essere pratica. – Ora, dalla legge morale, che ci assegna questo scopo, noi siamo autorizzati dal punto di vista pratico, cioè per applicare le nostre forze all’attuazione di esso, ad ammetterne la possibilità (l’attuabilità) e quindi anche una natura delle cose che vi si accordi (perché, senza il concorso della natura in una condizione di questa attuabilità che non è in nostro potere, la realizzazione dello scopo sarebbe impossibile). Sicché abbiamo una ragione morale per pensare che nel mondo ci sia anche uno scopo finale della creazione. Questa non è ancora l’inferenza dalla teleologia morale ad una teologia, vale a dire all’esistenza di un autore morale del mondo, ma soltanto ad uno scopo finale della creazione, determinato in tal modo. Che poi per questa creazione, cioè per l’esistenza delle cose conformemente ad uno scopo f i n a l e , si debba ammettere un essere intelligente, e non solo intelligente (quale era necessario a spiegare la possibilità delle cose naturali, che eravamo obbligati a giudicare come f i n i ), ma nel tempo stesso morale, come autore del mondo, e quindi un D i o ; è questa una seconda inferenza, che è così costituita, che si vede esser tratta semplicemente pel Giudizio secondo concetti della ragion pratica, e, come tale, non già pel Giudizio determinante, ma pel riflettente. Perché, difatti, noi non possiamo pretendere di comprendere che sebbene i principii della ragion moralmente pratica siano in noi essenzialmente diversi da quelli della ragione tecnicamente pratica, lo stesso debba essere nella causa suprema del mondo, quando sia ammessa come una intelligenza, e, che una particolare specie di causalità, diversa da quella che serve semplicemente pei fini della natura, sia ad essa necessaria per lo scopo finale; e che, per conseguenza, nel nostro scopo finale non abbiamo solo una r a g i o n e m o r a l e per ammettere uno scopo finale della creazione (in quanto effetto), ma per ammettere anche un e s s e r e m o r a l e come fondamento originario della creazione. Ma possiamo ben dire che, s e c o n d o l a n a t u r a d e l l a n o s t r a r a g i o n e , ci è impossibile concepire la possibilità d’una tale finalità relativa alla l e g g e m o r a l e ed al suo oggetto, quale si trova in questo scopo finale, senza un autore e sovrano del mondo che sia nel tempo stesso un legislatore morale. [456] La realtà di un supremo autore e legislatore morale del mondo è dunque dimostrata a sufficienza soltanto per l’u s o p r a t i c o della nostra ragione, senza che qualcosa sia determinato teoreticamente circa la sua

esistenza. Difatti la ragione, per la possibilità del suo scopo, che anche senza ciò ci è assegnato dalla sua propria legislazione, ha bisogno di una idea con cui sia tolto (in modo sufficiente pel Giudizio riflettente) l’ostacolo, che consiste nell’impossibilità di conseguire lo scopo medesimo secondo il concetto puramente naturale del mondo; e questa idea raggiunge così una realtà pratica, se pure alla conoscenza speculativa manchino del tutto i mezzi per darle una realtà dal punto di vista teoretico, per la spiegazione della natura e la determinazione della causa suprema. La teleologia fisica ha provato a sufficienza pel Giudizio riflettente teoretico, fondandosi sui fini della natura, una causa intelligente del mondo; la teleologia morale fa lo stesso pel Giudizio riflettente pratico, mediante il concetto d’uno scopo finale, che essa dal punto di vista pratico è obbligata ad attribuire alla creazione. La realtà oggettiva dell’idea di Dio, in quanto autore morale del mondo, non può, veramente, essere dimostrata s o l o per mezzo di scopi fisici; ma, se la conoscenza di tali scopi è congiunta con quella dello scopo finale morale, gli scopi medesimi, in virtù della massima della ragion pura, di perseguire cioè per quanto è possibile l’unità dei principii, sono di una grande importanza per suffragare la realtà pratica di quell’idea mediante quella che la ragione dal punto di vista teoretico fornisce al Giudizio. Qui ora, ad evitare un facile malinteso, è assolutamente necessario notare che, in primo luogo, noi possiamo p e n s a r e queste proprietà dell’essere supremo solo per analogia. Perché, come vorremmo penetrare la sua natura, se l’esperienza non ci può mostrare niente di simile? In secondo luogo, mediante quegli attributi lo possiamo soltanto pensare, ma non c o n o s c e r e , e non glieli possiamo riferire teoreticamente; perché questo spetterebbe al Giudizio determinante, dal punto di vista speculativo della nostra ragione, allo scopo di comprendere che cosa è i n s é la causa suprema del mondo. Ma qui si tratta solo di sapere quale concetto dobbiamo farci di questo essere, secondo la natura delle nostre facoltà conoscitive, e se dobbiamo ammettere la sua esistenza per potere attribuire non altro che una realtà pratica ad uno scopo che la ragion pura pratica, senza tale presupposizione, ci dà a priori affinché lo attuiamo con tutte le nostre forze, vale a dire per poter solo pensare come possibile un effetto voluto. Quel concetto sarà trascendente per la ragione [457] speculativa; le proprietà che attribuiamo a questo essere pensato in tal modo, usate oggettivamente, nasconderanno un antropomorfismo; ma lo scopo del loro uso non è di determinare la sua

natura, per noi irraggiungibile, sibbene noi stessi e la nostra volontà. Allo stesso modo che noi designamo una causa secondo il concetto che abbiamo del suo effetto (ma solo circa la sua relazione con questo), senza perciò voler determinare intimamente la costituzione di essa mediante quelle proprietà che nelle cause di questa specie sono le uniche che possono essere conosciute, e debbono esser date dall’esperienza; – allo stesso modo che, per esempio, attribuiamo all’anima, tra le altre proprietà, una vis locomotiva, perché si producono effettivamente dei movimenti del corpo, la cui causa sta nelle sue rappresentazioni, senza perciò pretendere di attribuirle l’unico modo col quale conosciamo le forze in movimento (cioè mediante l’attrazione, la pressione, l’urto, e quindi il movimento che presuppongono sempre un essere esteso): – così dobbiamo ammettere q u a l c h e c o s a , che contenga il fondamento della possibilità e della realtà pratica, cioè dell’attuabilità, di uno scopo finale moralmente necessario. Ma noi possiamo pensare questo qualche cosa, secondo la natura dell’effetto che ne aspettiamo, come un essere saggio e che governa il mondo secondo leggi morali, e, conformemente alla costituzione delle nostre facoltà conoscitive, dobbiamo pensarlo come una causa delle cose distinta dalla natura, soltanto per esprimere il r a p p o r t o di questo essere, che trascende tutte le nostre facoltà di conoscere, all’oggetto della n o s t r a ragion pratica: senza pretendere però di attribuirgli teoreticamente l’unica causalità di questa specie che conosciamo, cioè un’intelligenza ed una volontà, e nemmeno di distinguere oggettivamente, in questo essere stesso, la causalità che pensiamo in lui relativamente a ciò che è scopo finale p e r n o i , da quella che è relativa alla natura (e alla sua finalità in generale), mentre possiamo ammettere tale distinzione solo come soggettivamente necessaria, per la costituzione della nostra facoltà di conoscere, e come valida pel Giudizio riflettente, non pel Giudizio oggettivamente determinante. Ma, quando si tratta del punto di vista pratico, un principio r e g o l a t i v o (per la prudenza o la saggezza), come questo, – considerare, cioè, come scopo ciò che, secondo la natura delle nostre facoltà conoscitive, può esser pensato da noi come possibile soltanto in una certa maniera, – è nel tempo stesso c o s t i t u t i v o , vale a dire praticamente determinante; mentre il principio stesso, in quanto principio del Giudizio della possibilità oggettiva delle cose, non è in alcun modo teoreticamente determinante (non determina [458] cioè se anche all’oggetto convenga quell’unico modo di possibilità che conviene alla nostra facoltà di

pensare), ma è un principio semplicemente r e g o l a t i v o pel Giudizio riflettente. NOTA Questa prova morale non è cosa trovata adesso, ma soltanto un argomento nuovamente discusso, perché essa era nella ragione umana anteriormente al suo primo sviluppo, e si è sviluppata sempre più con la progressiva coltura della ragione medesima. Non appena gli uomini cominciarono a riflettere sul giusto e sull’ingiusto, in un tempo in cui, indifferenti, non facevano ancor caso alla finalità della natura, e se ne servivano senza figurarsi altro che in corso ordinario della natura medesima, dovette inevitabilmente intervenire questo giudizio, che cioè infine non possa mai essere indifferente che un uomo si sia condotto rettamente o falsamente, che sia stato giusto o prepotente, quantunque fino alla fine della sua vita egli non abbia ricevuto, almeno visibilmente, alcuna felicità per le sue virtù o alcun castigo per i suoi misfatti. Era come se avessero inteso in se stessi una voce che diceva loro che non doveva esser così; e quindi dovette anche nascondersi in loro, sebbene oscura, la rappresentazione di qualche cosa cui si sentivano obbligati di tendere, e con la quale non si poteva accordare tale risultato, o non sapevano congiungere quella disposizione interna del loro animo ad un fine, quando riguardavano il corso del mondo come l’unico ordine delle cose. Potevano rappresentarsi in varii modi ancor grossolani la soluzione di tale irregolarità (contro cui l’animo umano deve ribellarsi, assai più che contro il cieco caso, che si voleva porre come principio del giudizio della natura); ma non potevano mai escogitare altro principio della possibilità dell’unione della natura con la loro legge morale intima, che non fosse una causa suprema dominante il mondo secondo leggi morali; perché sono contradittorii nell’uomo uno scopo finale interno prescritto come dovere, e fuori di lui una natura senza scopo finale, in cui però quello scopo deve essere effettuato. Sull’intima natura di quella causa del mondo potevano immaginare molte assurdità; rimase però sempre lo stesso quel rapporto morale del governo del mondo, che è comprensibile universalmente anche dalla ragione meno coltivata, in quanto si considera come pratica, [459] e col quale invece la ragione speculativa non può affatto procedere di pari passo. – Inoltre, secondo ogni verosimiglianza, questo interesse morale attirò l’attenzione sulla bellezza e i fini della natura, che servirono allora eccellentemente a rinforzare quell’idea, senza che tuttavia la potessero fondare, ma ancor meno

che potessero prescindere da quell’aiuto, perché l’investigazione dei fini della natura solo in rapporto con lo scopo morale raggiunge quell’interesse immediato, che si dimostra così altamente nell’ammirazione per la natura stessa, senza riguardo a qualche vantaggio che se ne può ricavare.

§ 89. Dell’utilità dell’argomento morale. La limitazione della ragione, circa tutte le idee del soprasensibile, alle condizioni del suo uso pratico, ha, per ciò che riguarda l’idea di Dio, questa utilità indiscutibile: impedisce che la t e o l o g i a si elevi alla t e o s o f i a (a concetti trascendenti in cui la ragione si smarrisce), o cada nella d e m o n o l o g i a (in una rappresentazione antropomorfica dell’essere supremo); che la r e l i g i o n e si converta in t e u r g i a (quella illusione fantastica per cui si crede di poter avere un sentimento di altri esseri soprasensibili ed un influsso su di essi), o in i d o l a t r i a (quell’illusione superstiziosa per cui si crede di poter riuscire graditi all’essere supremo per via di altri mezzi, anziché con l’intenzione morale)104. Perché, difatti, se alla vanità o alla temerità del sofisticare su ciò che supera il mondo sensibile si concede la facoltà di determinare teoreticamente anche la minima cosa (e in modo che estenda la conoscenza); se si permette che si vanti della sua conoscenza dell’esistenza e della costituzione della natura divina dell’intelletto e della volontà di questi, delle leggi di questi due attributi e delle proprietà che ne derivano nel mondo: io vorrei [460] ben saper dove e in qual punto si vorranno arrestare le pretese della ragione; giacché, quando siano ammesse tali conoscenze, se ne possono aspettare ancora parecchie altre (sol che, come si crede, vi si costringa la riflessione). La limitazione di tali pretese dovrebbe però esser data da un principio certo, non dalla semplice ragione che finora tutte le ricerche in questo senso sono fallite; perché ciò non dimostra niente contro la possibilità di un miglior risultato. Ma qui non v’è altro principio possibile oltre l’ammettere, o che relativamente al soprasensibile non possa esser determinato assolutamente niente dal punto di vista teoretico (se non in modo puramente negativo), oppure che la nostra ragione contenga una miniera, non ancora utilizzata, di chi sa quali grandi conoscenza estensive riservate per noi e la nostra posterità. Ma per ciò che riguarda la religione, cioè a dire la morale in rapporto con Dio in quanto legislatore, se la conoscenza teoretica di Dio dovesse precedere, la

morale dovrebbe regolarsi sulla teologia; e non soltanto ad una legislazione interna necessaria della ragione verrebbe a sostituirsi quella esterna ed arbitraria di un essere supremo: ma tutto ciò che v’è di difettoso nella nostra conoscenza di questo essere, si estenderebbe al precetto morale, rendendo così immorale e pervertendo la religione. Riguardo alla speranza d’una vita futura, se, invece dello scopo finale che dobbiamo realizzare secondo il precetto della legge morale, noi domandiamo alla nostra facoltà della conoscenza teoretica la norma del giudizio razionale sulla nostra destinazione (che quindi è considerato come necessario, o ammissibile, solo nel rapporto pratico), la scienza dell’anima, come prima la teologia, non ci dà altro che un concetto negativo del nostro essere pensante: ci dice cioè che nessuna delle sue azioni o delle manifestazioni del suo senso interno può essere spiegata materialisticamente; che quindi sulla sua natura separata, sul durare o perire della sua personalità dopo la morte, non è assolutamente possibile per noi alcun giudizio determinante ed estensivo fondato su principii speculativi, anche se impieghiamo tutta la nostra facoltà teoretica di conoscere. Poiché qui dunque tutto resta affidato al giudizio teleologico, che considera la nostra esistenza da un punto di vista pratico e necessario, ed ammette la nostra sopravvivenza come la condizione richiesta dallo scopo finale che ci è assegnato assolutamente dalla ragione, si vede nel tempo stesso questa utilità (che a prima vista ci sembrava un danno), che, cioè, allo stesso modo che la teologia non poteva [461] diventar mai per noi teosofia, la psicologia razionale non può mai diventar p n e u m a t o l o g i a come scienza estensiva, mentre d’altra parte è sicura di non cadere nel m a t e r i a l i s m o ; che essa è piuttosto una semplice antropologia del senso interno, vale a dire una conoscenza del nostro io pensante d u r a n t e l a v i t a , e, come conoscenza teoretica resta anche puramente empirica; che invece la psicologia razionale, per ciò che concerne la questione della nostra esistenza eterna, non è punto una scienza teoretica, ma riposa su di un’unica conclusione della teleologia morale, per cui tutto il suo uso non è necessario che a quest’ultima, cioè per la nostra destinazione pratica.

§ 90. Della qualità dell’adesione ad una prova teleologica dell’esistenza di Dio.

In primo luogo, ogni prova o sia fornita dall’immediata esibizione empirica di ciò che deve esser dimostrato (come nel caso d’una prova mediante l’osservazione dell’oggetto o l’esperimento), o sia data a priori dalla ragione per via di principii, deve non soltanto p e r s u a d e r e , ma c o n v i n c e r e , o almeno tendere alla convinzione; vale a dire il principio o la conclusione, non dev’essere un motivo puramente soggettivo (estetico) dell’assenso (una semplice apparenza), ma deve avere una validità oggettiva ed essere un fondamento logico della conoscenza: perché altrimenti l’intelletto sarebbe abbindolato, ma non convinto. A tale specie di prova illusoria appartiene quella che, forse a fin di bene, ma per nascondere premeditatamente la sua debolezza, si adopera nella teologia naturale, quando s’invoca la grande quantità di argomenti che stanno in favore di una causa delle cose naturali secondo il principio d’uno scopo, e si utilizza quel principio puramente soggettivo della ragione umana, cioè quella tendenza che le è propria, la quale la spinge ad ammettere un solo principio invece di parecchi, sempre che non vi sia contradizione, e, quando in questo principio si trovano già alcune o anche molte delle condizioni richieste per la determinazione d’un concetto, – la spinge ad aggiungervi le rimanenti, e a completare arbitrariamente il concetto della cosa. E difatti, in verità, quando incontriamo nella natura tanti prodotti, che sono segni per noi di una causa intelligente, perché, invece di molte di tali cause, non ne dobbiamo pensare una sola e perché in [462] questa non dobbiamo pensare invece di un’intelligenza, una potenza, etc., semplicemente grandi, l’onniscienza, e pensarla, in una parola come principio sufficiente di tutte le cose possibili, mediante tali attributi? E, inoltre, perché non attribuiremmo a questo essere unico ed onnipotente, non soltanto l’intelligenza per le leggi e i prodotti della natura, ma anche, in quanto causa morale del mondo, la suprema ragione moralmente pratica? Giacché, completato in tal modo questo concetto, si avrebbe un principio sufficiente per la comprensione della natura e insieme per la saggezza morale, e nessun rimprovero in qualche modo fondato potrebbe più esser rivolto contro tale idea. Se nello stesso tempo sono sollecitati gli impulsi morali dell’animo, e vien loro aggiunto un vivace interesse con la forza dell’eloquenza (di cui sono ben degni), deriverà da tutto ciò una persuasione della sufficienza oggettiva della prova, ed anche (nella maggior parte dei casi in cui questa viene usata) un’illusione salutare, che si dispensa interamente da ogni esame della forza logica di essa, rigettandolo

anzi con orrore e ripugnanza, come fondamento su di un dubbio temerario. – Ora contro ciò non v’è nulla da dire, se si guarda propriamente all’utilità popolare. Ma, poiché non bisogna, e non si può, dimenticare che questa prova contiene due parti differenti, quella che appartiene alla teleologia fisica e quella che appartiene alla teleologia morale, e la confusione di esse non permette di conoscere dov’è la vera forza della dimostrazione, in quale parte e come dovrebbe essere elaborata, per poterne sostenere la validità contro l’esame più rigoroso (anche se in una parte si fosse obbligati a riconoscere la debolezza della nostra ragione); è un dovere pel filosofo (posto pure che egli non tenga in conto l’esigenza della sincerità) il rivelare l’illusione, per quanto salutare, che può nascere da tale confusione, e il separare ciò che appartiene alla persuasione da ciò che conduce alla convinzione (che sono due determinazioni dell’assenso, diverse non soltanto nel grado, ma nella qualità), allo scopo di mostrare in tutta la sua chiarezza lo stato dell’animo in questa prova, e di sottoporre francamente questa al più severo esame. Ma una prova diretta alla convinzione può essere a sua volta di due specie, perché o deve determinare che cosa l’oggetto è i n s é, o ciò che è p e r n o i (per gli uomini in generale), [463] secondo i principii razionali del suo giudizio per noi necessarii (una prova ϰατʾ ἀλήθειαν o ϰατʾ ἄνθρωπον, quest’ultima espressione intesa nel suo universale significato per gli uomini in generale). Nel primo caso essa è fondata su principii sufficienti pel Giudizio determinante, nel secondo su principii che bastano soltanto pel Giudizio riflettente. E in quest’ultimo caso, riposando su principii puramente teoretici, non può mai influire sulla convinzione; ma se ha a fondamento un principio razionale pratico (che vale quindi universalmente e necessariamente), può ben pretendere ad una convinzione sufficiente dal punto di vista pratico puro, cioè ad una convinzione morale. Una prova può i n f l u i r e s u l l a c o n v i n z i o n e senza tuttavia convincere, quando è posta su questa via, vale a dire quando contiene solo principii oggettivi che, sebbene non ancora sufficienti per la certezza, non servono semplicemente alla persuasione, come principii soggettivi del giudizio. Tutte le prove teoretiche si riducono o 1) alla prova mediante un r a g i o n a m e n t o logicamente rigoroso; o, dove questo manchi, 2) al r a g i o n a m e n t o p e r a n a l o g i a; o ancora, se anche questo non ha luogo, 3) all’o p i n i o n e v e r o s i m i l e; o finalmente, che è il minimo che si possa avere, 4) all’ammissione di un principio esplicativo semplicemente possibile,

come i p o t e s i . – Ora io dico che tutte le prove in generale, che tendono alla convinzione teoretica, non possono produrre alcuna adesione105 di questa specie, dal primo all’ultimo grado di essa, quando si debba dimostrare la proposizione dell’esistenza di un essere originario, in quanto Dio, nel senso adeguato a tutto il contenuto di questo concetto, cioè in quanto creatore m o r a l e del mondo, e quindi tale che con esso è dato nello stesso tempo lo scopo finale della creazione. 1) Per ciò che riguarda la prova l o g i c a m e n t e r i g o r o s a, che va dall’universale al particolare, è stato sufficientemente dimostrato nella critica, che, poiché al concetto di un essere che va cercato al di là della natura, non corrisponde alcuna possibile intuizione, e il concetto stesso per conseguenza, in quanto dev’esser determinato teoreticamente mediante predicati sintetici, resta per noi sempre problematico, non può esservi assolutamente alcuna conoscenza di esso (che estenda anche minimamente il nostro sapere teoretico), e non si può sussumere il particolare concetto di un essere soprasensibile ai principii universali [464] della natura delle cose, per concludere da questi a quello; perché quei principii valgono unicamente per la natura come oggetti dei sensi. 2) Di due cose eterogenee, proprio in ciò che costituisce la loro eterogeneità, si può p e n s a r e l’una secondo una a n a l o g i a 106 con l’altra; ma, in base a ciò che costituisce la loro eterogeneità, non si può c o n c l u d e r e dall’una all’altra per analogia: vale a dire, non si può trasferire dall’una all’altra questo segno della differenza specifica. Così, posso anche pensare la comunità dei membri d’una repubblica istituita secondo le regole del dritto, per analogia con la legge dell’equilibrio dell’azione e della reazione [465] nella scambievole attrazione e repulsione dei corpi; ma non posso trasferire quelle determinazioni specifiche (l’attrazione e la repulsione materiale) in questo campo, ed attribuirle ai cittadini, per costituire un sistema che si chiama Stato. – Proprio allo stesso modo possiamo pensare la causalità dell’essere originario rispetto alle cose del mondo in quanto fini della natura, per analogia con un’intelligenza in quanto principio delle forme di certi prodotti, che chiamiamo opere d’arte (perché ciò si fa solo a vantaggio dell’uso teoretico o pratico della nostra facoltà conoscitiva che dobbiamo fare di questo concetto, relativamente alle cose naturali nel mondo, secondo un certo principio); ma dal fatto, che tra gli esseri del mondo si deve attribuire l’intelligenza alla causa d’un effetto che è

giudicato come un’opera d’arte, non possiamo concludere punto per analogia, che anche a quell’essere, che è interamente distinto dalla natura convenga, rispetto alla natura stessa, proprio quella causalità che troviamo nell’uomo; perché ciò riguarda proprio quello che costituisce l’eterogeneità che noi pensiamo tra una causa sensibilmente determinata, relativamente ai suoi effetti, e l’essere soprasensibile nel concetto stesso che ne abbiamo, e quindi quella causalità non può essere trasferita a quest’ultimo. – Appunto nel fatto che io debbo pensare la causalità divina soltanto per analogia con un intelletto (facoltà che non conosciamo in nessun altro essere fuorché nell’uomo, che è sensibilmente determinato), sta il divieto di attribuire all’essere supremo questa intelligenza in senso proprio107. 3) L’o p i n i o n e non trova luogo nei giudizi a priori, perché con questi o si conosce qualcosa come interamente certa, o non si conosce nulla. Ma anche quando le prove date, dalle quali muoviamo (come qui i fini del mondo), sono empiriche, con l’aiuto di esse non si può opinare niente su ciò che è al di là del mondo sensibile, ed accordare a tali giudizii arrischiati il minimo dritto alla verosimiglianza. Poiché, difatti, la verosimiglianza è una parte di una certezza possibile in una certa serie di ragioni (le ragioni in essa stanno alla ragione sufficiente come le [466] parti ad un tutto), dalle quali deve poter essere completata quella ragione insufficiente. Ma se esse, come ragioni determinanti la certezza di uno stesso giudizio, debbono essere omogenee, altrimenti nel loro insieme non costituirebbero una grandezza (e la certezza è tale), non è possibile che una parte di esse stia nei limiti dell’esperienza possibile ed un’altra fuori di ogni possibile esperienza. Quindi, poiché le prove puramente empiriche non conducono a niente di soprasensibile, e ciò che manca nella loro serie non può essere supplito da niente, col tentativo che si fa con esse per raggiungere il soprasensibile e una conoscenza del soprasensibile, non si arriva alla minima approssimazione, e per conseguenza non può esservi nemmeno verosimiglianza in un giudizio sui soprasensibile fondato sopra argomenti tratti dall’esperienza. 4) Di ciò che deve servire come i p o t e s i per spiegare la possibilità di un dato fenomeno bisogna che sia almeno interamente certa la possibilità. È sufficiente che circa un’ipotesi io rinunzii alla conoscenza della realtà (che è sempre affermata in un’opinione presentata come probabile): non posso sacrificare più di questo; la possibilità di ciò che metto a fondamento di una spiegazione dev’essere almeno sottratta ad ogni dubbio, perché altrimenti non

vi sarebbe un termine per le vuote fantasie. Ma sarebbe una supposizione interamente infondata l’ammettere la possibilità di un essere soprasensibile determinato secondo certi concetti; poiché in tal caso non è data nessuna delle condizioni richieste da una conoscenza per ciò che in essa riposa sull’intuizione, e quindi non resta altro criterio della possibilità che il principio di contradizione (il quale può dimostrare solo la possibilità del pensiero, ma non quella dell’oggetto pensato stesso). Il risultato di tutto ciò è, che per la ragione umana, relativamente all’esistenza di un essere originario in quanto Dio, e all’anima in quanto spirito immortale, non è possibile assolutamente alcuna prova dal punto di vista teoretico, sia pure per produrre il minimo grado di adesione; e ciò per la ragione evidentissima, che non abbiamo alcuna materia per la determinazione delle idee del soprasensibile, e dovremmo trarla dalle cose del mondo sensibile, in modo che poi non riuscirebbe adeguata all’oggetto che si vuole applicare; e che, per conseguenza, tolta ogni determinazione, non resta altro che il concetto di qualcosa di non sensibile, che contiene il fondamento ultimo del mondo sensibile, ma non costituisce alcuna conoscenza (in quanto estensione del concetto) della sua interna costituzione.

§ 91. Della qualità dell’adesione per mezzo di una fede pratica. [467] Quando noi guardiamo semplicemente al modo col quale qualche cosa può essere un oggetto di conoscenza (res cognoscibilis) per noi (secondo la natura soggettiva delle nostre facoltà rappresentative), i concetti non sono messi a riscontro degli oggetti, ma soltanto delle nostre facoltà conoscitive e dell’uso che queste possono fare della rappresentazione data (dal punto di vista teoretico o pratico); e la questione di sapere se qualcosa è o no un essere conoscibile, non concerne la possibilità della cosa stessa, ma la possibilità della nostra conoscenza di essa. Ora le cose c o n o s c i b i l i sono di tre specie: c o s e d ’ o p i n i o n e (opinabile), c o s e d i f a t t o (scibile) e c o s e d i f e d e (mere credibile). 1) Gli oggetti delle pure idee della ragione, i quali non possono essere esibiti alla conoscenza teoretica in qualche esperienza possibile, non sono, in quanto tali, neppure cose c o n o s c i b i l i , e quindi riguardo ad essi non può

esservi un’o p i n i o n e ; poiché l’opinare a priori è già in se stesso un assurdo ed apre la via a vere e proprie fantasime. La nostra proposizione a priori, quindi, o è certa, o non contiene nulla per l’adesione. Così le c o s e d ’ o p i n i o n e sono sempre oggetti di una conoscenza d’esperienza almeno in se stessa possibile (o g g e t t i d e l m o n d o s e n s i b i l e), ma impossibile p e r n o i solo relativamente al grado in cui possediamo questa facoltà. Per esempio, l’etere dei fisici moderni, fluido elastico che penetra tutte le altre materie (è loro intimamente mescolato), non è se non una c o s a d ’ o p i n i o n e , in modo però, che, se i sensi esterni fossero resi acuti in grado supremo, potrebbe essere percepito, sebbene nessuna osservazione od esperienza possa esibirlo. L’ammettere abitatori ragionevoli negli altri pianeti, è una cosa d’opinione; perché, se potessimo avvicinarci di più ad essi, il che è possibile in sé, decideremmo con l’esperienza se vi sono o no; ma non ci avvicineremo mai tanto, e così la cosa resta nell’opinione. Ma l’opinare che vi siano nell’universo materiale spiriti pensanti puri, senza corpo (se cioè, come è giusto, si rifiutano certe loro pretese apparizioni), questo si chiamerebbe fantasticare, [468] e non sarebbe cosa d’opinione, ma una semplice idea, quella che resta quando da un essere pensante si astrae tutto ciò che è materiale e gli si lascia tuttavia il pensiero. Noi però allora non possiamo decidere se il pensiero sussiste (giacché il pensiero lo conosciamo solo nell’uomo, cioè congiunto con un corpo). Una tale cosa è un e s s e r e s o f i s t i c a t o (ens rationis ratiocinantis), non un e s s e r e r a z i o n a l e (ens rationis ratiocinatae); e del concetto di quest’ultimo è possibile dimostrare sufficientemente la realtà oggettiva, almeno rispetto all’uso pratico della ragione, perché quest’uso, che ha i suoi principii a priori particolari e apoditticamente certi, esige (postula) il concetto medesimo. 2) Gli oggetti dei concetti, di cui può esser provata la realtà oggettiva (sia mediante la ragione, sia mediante l’esperienza, e, nel primo caso, secondo dati teoretici o pratici, ma in ogni caso per mezzo di un’intuizione loro corrispondente), sono c o s e d i f a t t o (res facti)108. Tali sono le proprietà matematiche delle grandezze (nella geometria), perché sono suscettibili di una e s i b i z i o n e a priori per l’uso teoretico della ragione. Son tali anche le cose, o le qualità di esse, che possono essere provate mediante l’esperienza (la propria, o l’altrui mediante una testimonianza). – Ma ciò che è molto notevole è, che tra le cose di fatto si trovi anche un’idea della ragione (che in sé non è capace di alcuna esibizione nell’intuizione, e quindi di nessuna

dimostrazione teoretica della sua possibilità); ed è questa l’idea della l i b e r t à , la cui realtà, come una specie particolare di causalità (il cui concetto sarebbe trascendente dal punto di vista teoretico), si può dimostrare mediante le leggi pratiche della ragion pura, e, conformemente a queste, nelle azioni reali, e quindi nell’esperienza. – Tra tutte le idee della ragion pura è l’unica di cui l’oggetto sia una cosa di fatto, e debba esser messa tra gli scibilia. [469] 3) Gli oggetti che, relativamente all’uso conforme al dovere, della ragion pratica pura (sia come conseguenze, sia come principii), debbono essere pensati a priori, ma sono trascendenti per l’uso teoretico di questa facoltà, sono semplici c o s e d i f e d e. Tale è il s o m m o b e n e da attuarsi nel mondo mediante la libertà; la realtà oggettiva del concetto del sommo bene non può esser dimostrata in nessuna esperienza per noi possibile, e quindi sufficientemente per l’uso teoretico della ragione; ma la ragion pratica pura ce ne comanda l’uso per la miglior realizzazione possibile di quello scopo, e quindi deve essere ammessa come possibile. Questo effetto comandato, ed insieme le sole c o n d i z i o n i d e l l a s u a p o s s i b i l i t à c h e p o s s i a m o p e n s a r e, cioè l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, sono c o s e d i f e d e (res fidei), e, tra tutti gli oggetti, gli unici che si possano chiamar in tal modo109. Perché, difatti, sebbene anche ciò che possiamo apprendere solo dall’esperienza altrui per mezzo di una t e s t i m o n i a n z a , deve essere creduto, non è perciò stesso una cosa di fede; per u n o di quei testimoni quella cosa fu oggetto d’esperienza propria e cosa di fatto, o si suppone che sia stata tale. Inoltre, per questa via (della fede storica) dev’esser possibile raggiungere la scienza; e gli oggetti della storia e della geografia, come tutto ciò in generale che è almeno possibile di sapere secondo natura delle nostre facoltà conoscitive, non appartengono alle cose di fede, ma alle cose di fatto. Solo gli oggetti della ragion pura possono essere oggetti di fede, ma non in quanto oggetti semplicemente della ragione speculativa pura; perché allora è impossibile classificarli con sicurezza tra le cose, cioè tra gli oggetti di quella conoscenza possibile per noi. Sono idee, vale a dire concetti di cui non si può garantire teoreticamente la realtà oggettiva. Invece lo scopo finale supremo che dobbiamo realizzare, e che solo può renderci degni di essere noi stessi lo scopo finale d’una creazione, è un’idea che, dal punto di vista pratico, ha per noi una realtà oggettiva, ed è una cosa; ma, poiché non possiamo trovare per questo concetto [470] la

stessa realtà dal punto di vista teoretico, esso è una cosa di fede per la ragion pura, e son cose di fede con esso Dio e l’immortalità, come le condizioni sotto cui solo possiamo pensare, secondo la natura della nostra ragione (umana) la possibilità di quell’effetto dell’uso legittimo della nostra libertà. Ma l’adesione nelle cose di fede è un’adesione dal punto di vista puramente pratico, vale a dire una fede morale, la quale non prova qualcosa per la conoscenza della ragion pura teoretica, ma semplicemente per la ragion pura pratica in vista del compimento dei suoi doveri, e non estende punto la speculazione o le regole pratiche della prudenza secondo il principio dell’amore di sé110. Se il principio supremo di tutte le leggi morali è un postulato, si trova postulata perciò la possibilità del loro oggetto supremo, e quindi anche la condizione sotto cui possiamo pensare questa possibilità. Ora la conoscenza di quest’ultima non ci dà né sapere né opinione dell’esistenza e della natura di tali condizioni, in quanto conoscenza teoretica, ma è una semplice supposizione da un punto di vista pratico ed obbligatorio per l’uso morale della nostra ragione. Se anche potessimo fondare apparentemente sui fini della natura, che ci fornisce in tanta copia la teleologia fisica, un concetto d e t e r m i n a t o di una causa intelligente del mondo, l’esistenza di questo essere non sarebbe però una cosa di fede. Perché, non essendo ammesso a vantaggio del compimento del mio dovere, ma solo per spiegare la natura, sarebbe semplicemente l’opinione o l’ipotesi più adatta alla nostra ragione. Ora quella teleologia non conduce appunto ad un concetto determinato di Dio, che invece si trova soltanto in quello d’un creatore morale, perché solo questo dà lo scopo finale, al quale non possiamo ammettere di appartenere noi stessi, se non in quanto ci conduciamo conformemente a ciò che ci prescrive e quindi ci impone la legge morale come scopo finale. Per conseguenza, il concetto di Dio soltanto in virtù del rapporto con l’oggetto del nostro dovere, in quanto condizione della possibilità di raggiungere lo scopo finale del dovere stesso, ha il privilegio di valere nella nostra adesione come cosa di fede; mentre lo stesso concetto non può dare al suo oggetto il valore di una cosa di fatto: perché, sebbene [471] la necessità del dovere sia ben chiara per la ragion pratica, tuttavia il conseguimento dello scopo finale di questo, in quanto non è interamente in nostro potere, è ammesso solo a vantaggio dell’uso pratico della ragione, e quindi non è praticamente necessario come il dovere stesso111. La f e d e (come habitus, non come actus) è il modo di pensare morale

della ragione nell’adesione a ciò che è irraggiungibile dalla conoscenza teoretica. È dunque principio costante dell’animo di tener per vero ciò che è necessario supporre come condizione del supremo scopo finale morale, a ragione dell’obbligo stesso che ci lega a questo112, sebbene di quella condizione [472] non si possa da noi vedere né la possibilità né l’impossibilità. La fede (semplicemente detta) è la fiducia che abbiamo nel raggiungimento d’uno scopo, cui tendere è dovere, ma di cui non possiamo s c o r g e r e la possibilità (e per conseguenza nemmeno la possibilità delle sole condizioni per noi pensabili). La fede, quindi, che si riferisce ad oggetti particolari, che non sono oggetti di possibile scienza od opinione (in quest’ultimo caso, specialmente nel campo della storia, dovrebbe chiamarsi credulità e non fede), è interamente morale. È una libera adesione, non a ciò di cui si trovano prove dommatiche pel Giudizio teoreticamente determinante, né a ciò cui ci teniamo obbligati, ma a ciò che ammettiamo a vantaggio d’uno scopo che è secondo le leggi della libertà; e che ammettiamo non come un’opinione, senza ragione sufficiente, ma come fondato nella ragione (sebbene soltanto circa il suo uso pratico) in modo s u f f i c i e n t e p e r l o s c o p o d i q u e s t a f a c o l t à; perché senza ciò il pensiero morale, mancando di rispondere alle esigenze della ragion teoretica che vuol le prove (della possibilità degli oggetti della moralità), non ha niente di fisso e di costante ed oscilla tra gli imperativi pratici e i dubbii teoretici. Essere i n c r e d u l o significa attenersi alla massima di non credere in generale alle testimonianze; n o n h a f e d e, invece, colui che nega ogni valore a quelle idee della ragione, perché manca loro la realtà t e o r e t i c a m e n t e fondata. Egli così giudica dommaticamente. Ma un’a s s e n z a dommatica di f e d e non può coesistere con un modo di pensare dominato dalle massime morali (perché la ragione non può comandare di tendere ad uno scopo, che è riconosciuto come vano e chimerico); può coesistere invece una f e d e d u b b i a , cui è solo di ostacolo la mancanza della convinzione per via di principii della ragione speculativa, ma alla quale una conoscenza critica dei limiti di quest’ultima può togliere [473] ogni influsso sulla condotta, e compensarla con un’adesione pratica preponderante. Quando nella filosofia al posto di certi tentativi falliti si vuol addurre un altro principio e dargli influenza, perché si abbia la più grande soddisfazione basta vedere come e perché quelli dovevano fallire. D i o , l a l i b e r t à e l ’ i m m o r t a l i t à d e l l ’ a n i m a sono quei

problemi alla cui soluzione tendono, come al loro ultimo ed unico scopo, tutti gli apparecchi della metafisica. Ora si credeva cha la dottrina della libertà fosse necessaria alla filosofia pratica soltanto come condizione negativa, e che invece quella di Dio e della natura dell’anima, come appartenenti alla filosofia teoretica, dovessero essere dimostrate per sé e separatamente, per essere poi riunite con ciò che esige la legge morale (che è possibile solamente sotto la condizione della libertà), e produrre così una religione. Ma si può veder presto che questi tentativi dovevano fallire. Perché da semplice concetti ontologici di cose in generale, o dell’esistenza di un essere necessario, non si può derivare assolutamente un concetto di un essere originario determinato mediante predicati che possano trovarsi nell’esperienza e servire così alla conoscenza della finalità fisica; ma, a sua volta, il concetto fondato sull’esperienza della finalità fisica della natura non poteva dare alcuna prova sufficiente per la morale, e quindi per la conoscenza di Dio. Proprio allo stesso modo la conoscenza che abbiamo dell’anima mediante l’esperienza (che non va al di là di questa vita), non poteva dare un concetto della sua natura spirituale ed immortale, e perciò sufficiente per la morale. La t e o l o g i a e la p n e u m a t o l o g i a , come indagini a servigio delle scienze di una ragione speculativa, non possono risultare da dati e predicati empirici, perché il loro concetto è trascendente per ogni nostra facoltà conoscitiva. – La determinazione di questi due concetti, così di Dio come dell’anima (circa la sua immortalità), non può avvenire se non mediante predicati, i quali, sebbene siano possibili solo per un principio soprasensibile, debbono tuttavia dimostrare la loro realtà nell’esperienza; perché solo così essi possono render possibile la conoscenza di esseri interamente soprasensibili. – Ora l’unico concetto di questa specie che sia nella ragione umana è [474] il concetto della libertà dell’uomo sottoposto alle leggi morali, insieme con lo scopo finale, che la ragione gli prescrive mediante le leggi stesse; le leggi morali possono farci attribuire al creatore della natura, e lo scopo finale all’uomo, quelle proprietà che contengono la condizione necessaria della possibilità di entrambi, in modo che da questa idea si può inferire l’esistenza e la natura di questi due esseri altrimenti nascosti interamente per noi. Sicché la ragione per cui sono falliti i tentativi per provare in via semplicemente teoretica Dio e l’immortalità, sta nel fatto che per tale via (dei concetti della natura) non è possibile alcuna conoscenza del soprasensibile. Se invece essi riescono per la via morale (del concetto della libertà), la

ragione è questa: qui il soprasensibile che fa da fondamento (la libertà) non fornisce soltanto, per mezzo di una legge determinata della causalità che deriva da esso, la materia per la conoscenza dell’altro soprasensibile (dello scopo finale morale e delle condizioni della sua attuabilità), ma, in quanto cosa di fatto, dimostra anche la sua realtà nelle azioni, sebbene appunto perciò non possa fornire se non una prova valida solo dal punto di vista pratico (che è anche l’unico di cui abbia bisogno la religione). Resta sempre molto notevole questo, che fra le tre idee pure della ragione, D i o , la l i b e r t à e l’i m m o r t a l i t à , quello della libertà è l’unico concetto del soprasensibile che dimostri la sua realtà oggettiva nella natura (per mezzo della causalità che vi è pensata) mediante gli effetti che può avere in essa, e appunto perciò rende possibile il legame delle altre due con la natura e di tutte e tre in una religione; che quindi abbiamo in noi un principio capace di determinare l’idea del soprasensibile in noi, e perciò anche quella del soprasensibile fuori di noi, in modo da darne una conoscenza, sebbene possibile solo dal punto di vista pratico, e di cui doveva dubitare la filosofia puramente speculativa (che anche della libertà non poteva dare se non un concetto puramente negativo): per conseguenza, il concetto della libertà (in quanto concetto fondamentale di ogni legge incondizionatamente pratica) può estendere la ragione al di là di quei limiti nei quali ogni concetto (teoretico) della natura dovrebbe restare rinchiuso senza speranza. 91

Un’ipotesi di questa specie si può chiamare un’ardita avventura della ragione: e a pochi naturalisti, anche dei più penetranti, non sarà passata per capo qualche volta. Perché essa non è propriamente assurda come quella generatio aequivoca, con la quale la produzione d’un essere organizzato si spiega con la meccanica della materia bruta inorganica. Sarebbe sempre una generatio univoca, nel senso più ampio della parola, in quanto ammette che qualcosa di organico può esser solo prodotto da un’altra cosa organica, sebbene il prodotto sia specificamente diverso; che, per esempio, certi animali acquatici si trasformano a poco a poco in animali palustri, e questi, dopo alcune generazioni, in animali terrestri. A priori, nel giudizio della ragione, in ciò non v’è niente di contradittorio. Ma l’esperienza non ne dà alcun esempio; e invece la produzione che noi conosciamo è generatio homonyma, non semplicemente univoca, in opposizione alla produzione dalla materia inorganica; non solo, ma essa dà anche un prodotto della stessa specie del produttore anche nell’organizzazione e, per quanto si estenda la nostra conoscenza sperimentale della natura, non si trova mai la generatio heteronyma. 92 Blumenbach (1752-1840), distinto fisiologo ed anatomico di Gottinga [N.d.T.]. 93 Se la denominazione accettata di s t o r i a n a t u r a l e deve restare a designare la descrizione della natura, si può chiamare a r c h e o l o g i a d e l l a n a t u r a , in opposizione con quella dell’arte, ciò che mostra la storia naturale, presa alla lettera, vale a dire una rappresentazione dell’a n t i c o stato della terra, fondato sopra congetture, le quali a ragione si possono avanzare, sebbene non si abbia alcuna speranza di certezza. All’archeologia della natura apparterrebbero le

pietrificazioni, come a quella dell’arte appartengono le pietre intagliate, etc. Perché, siccome in realtà si lavora costantemente a costruire questa scienza (sotto il nome di t e o r i a d e l l a t e r r a ) , sebbene il lavoro, com’è giusto, sia lungo, non si darebbe tal nome ad un’investigazione della natura puramente immaginaria, ma si dà ad uno studio cui la natura stessa c’invita e ci esorta. 94 1ª ed. la l i b e r t à [N.d.T.]. 95 Quale valore abbia la vita per noi è facile vederlo quando si assume come misura c i ò c h e s i g o d e (il fine naturale dell’insieme di tutte le nostre inclinazioni, la felicità). Esso è al disotto di zero; perché chi vorrebbe ricominciar da capo la sua vita sotto le stesse condizioni, o anche secondo un nuovo piano disegnato da lui stesso (conforme però al corso della natura), che non avesse altro scopo che il godimento? Abbiamo mostrato precedentemente quale valore abbia la vita per ciò che essa contiene quando sia condotta conformemente allo scopo che la natura ripone in noi, e che consiste in ciò che s i f a (non in ciò che si gode semplicemente), e in cui non siamo se non mezzi per uno scopo finale indeterminato. Non resta dunque altro che il valore che diamo noi stessi alla nostra vita mediante ciò che facciamo non solo, ma che facciamo in vista d’un fine così indipendentemente dalla natura, che anche l’esistenza della natura non può essere un fine che sotto questa condizione. 96 Sarebbe possibile che la felicità degli esseri ragionevoli nel mondo fosse un fine della natura, e allora sarebbe anche il suo s c o p o u l t i m o . Per lo meno non si può vedere a priori perché la natura non dovrebbe essere indirizzata a questo fine, se questo è possibile mediante il suo meccanismo, almeno per quanto noi ne sappiamo. Ma la moralità, ed una causalità secondo fini ad essa subordinata, è assolutamente impossibile per via di cause naturali; perché il principio della sua determinazione ad agire è soprasensibile, ed è quindi nell’ordine dei fini l’unico, che sia assolutamente incondizionato relativamente alla natura, e che dia perciò al suo soggetto la qualità di s c o p o f i n a l e della creazione, cui l’intera natura sia subordinata. – La f e l i c i t à invece, come con la testimonianza dell’esperienza è stato dimostrato nel paragrafo precedente, non è punto u n f i n e d e l l a n a t u r a relativamente all’uomo, a preferenza delle altre creature: ben lungi dall’essere uno s c o p o f i n a l e d e l l a c r e a z i o n e . Gli uomini possono sempre farsi di essa il loro scopo ultimo soggettivo. Ma quando, ricercando lo scopo finale della creazione, io domando per qual fine han dovuto esistere degli uomini, si tratta di un fine supremo oggettivo, quale l’esigerebbe la ragione suprema per la sua creazione. Se si risponde che esistono perché vi siano degli esseri cui quella causa suprema possa far del bene, si contradice alla condizione cui la ragione stessa dell’uomo sottomette il suo più intimo desiderio di felicità (cioè l’accordo con la propria legislazione morale interna). Il che dimostra che la felicità non può essere se non uno scopo condizionato, e che quindi l’uomo, solo in quanto essere morale, può essere scopo finale della creazione; ma che, per ciò che riguarda il suo stato, la felicità non è congiunta con la moralità se non come una conseguenza, in proporzione dell’accordo con quel fine, in quanto fine della sua esistenza. 97 «un semplice deserto» manca nella 1ª ed. [N.d.T.]. 98 Le parole in parentesi mancano nella 1ª ed. [N.d.T.]. 99 Nella 1ª ed.: «del tutto vano il nostro sforzo» [N.d.T.]. 100 Nella 1ª ed.: «teologia» [N.d.T.]. 101 Dico di proposito: s o t t o p o s t o alle leggi morali. Non l’uomo che vive s e c o n d o le leggi morali, cioè tale che agisce conformemente ad esse, è lo scopo finale della creazione. Perché, esprimendoci in tal modo, diremmo più di quello che sappiamo, cioè che stia in potere di un autore del mondo di far sì che l’uomo si conduca sempre conformemente alle leggi morali, il che presuppone un concetto della libertà e della natura (per la quale ultima non si può pensare che un

autore esterno), concetto che dovrebbe implicare una cognizione del sostrato soprasensibile della natura e della sua identità con ciò che è reso possibile nel mondo dalla causalità libera; e ciò supera di molto la portata della nostra ragione. Solo dell’uomo s o t t o p o s t o a l l e l e g g i m o r a l i possiamo dire, senza oltrepassare i limiti della nostra conoscenza, che la sua esistenza costituisce lo scopo finale del mondo. Ciò si accorda anche perfettamente col giudizio della ragione umana, che riflette moralmente sull’andamento del mondo. Noi crediamo di scorgere, anche nel male, le tracce di una saggia finalità, quando vediamo che lo scellerato non muore prima di aver ricevuto il meritato castigo dei suoi misfatti. Secondo i nostri concetti della libera causalità, la condotta buona o cattiva dipende da noi; ma la somma saggezza nel governo del mondo la poniamo nel fatto, che la condotta buona abbia la sua causa, e tanto essa quanto la cattiva abbiano il risultato, in conformità delle leggi morali. In ciò consiste propriamente la gloria di Dio, che perciò i teologi non a torto hanno chiamata lo scopo ultimo della creazione. – Bisogna notare ancora che, quando ci serviamo della parola creazione, non intendiamo altro che ciò che qui è stato detto, cioè la causa dell’e s i s t e n z a di un mondo, o delle cose che si trovano in questo (delle sostanze); come vuole il concetto proprio di questa parola (actuatio substantiae est creatio): il che, per conseguenza, non implica ancora la supposizione di una causa che agisca liberamente, e quindi intelligente (di cui vogliamo provar l’esistenza). 102 Questo argomento morale non deve fornire alcuna prova o g g e t t i v a m e n t e valida dell’esistenza di Dio, e dimostrare allo scettico che un Dio esiste; lo o b b l i g a però ad a m m e t t e r e questa proposizione tra le massime della sua ragion pratica, se vuol pensare moralmente con coerenza. – Tale argomento perciò non vuol dire nemmeno che per la m o r a l i t à sia necessario ammettere la felicità di tutti gli esseri ragionevoli del mondo conformemente alla loro buona condotta; ma che ciò è necessariamente richiesto d a l l a m o r a l i t à . È quindi un argomento s o g g e t t i v o , sufficiente per gli esseri morali [Questa nota manca nella 1ª ed. (N.d.T.)].. 103 Le parole in parentesi mancano nella 1ª ed. [N.d.T.]. 104 Idolatria nel senso pratico è ancor sempre quella religione che concepisce l’essere supremo con attributi tali, che, secondo essi, potrebbe esservi qualche altra cosa che non sia la moralità, come condizione dell’accordo con la volontà dell’essere supremo, in ciò che l’uomo può fare. Perché, per quanto quel concetto, dal punto di vista teoretico, sia concepito puro e indipendente da immagini sensibili, dal punto di vista pratico è rappresentato sempre come un idolo, vale a dire, relativamente alla natura della sua volontà, antropomorficamente. 105 «Fürwahrhalten», tener per vero, consentirvi, aderirvi, termine che traduciamo con quello di «adesione» [N.d.T.]. 106 L ’ a n a l o g i a (in senso qualitativo) è l’identità del rapporto tra principii e conseguenze (tra cause ed effetti), in quanto ha luogo malgrado la differenza specifica delle cose, o delle qualità in sé (vale a dire, considerate fuori di quel rapporto), che contengono il principio di conseguenze simili. Così, confrontando le azioni industriose degli animali con quelle dell’uomo, pensiamo il fondamento delle prime, che non conosciamo, mediante il fondamento di azioni simili nell’uomo (la ragione), che conosciamo, come qualcosa di analogo alla ragione; e con ciò vogliamo mostrare nel tempo stesso che il fondamento dell’industria animale, che va sotto il nome di istinto, è in realtà specificamente diverso dalla ragione, ma ha un rapporto simile col suo effetto (come si vede comparando le costituzioni del castoro con quelle dell’uomo). – Ma dal fatto che l’uomo per le sue costruzioni si serve della r a g i o n e , non posso concludere che anche il castoro debba avere una facoltà simile, e chiamar questa una c o n c l u s i o n e per analogia. Comparando però le azioni degli animali (di cui non possiamo percepire immediatamente il principio) con quelle simili dell’uomo (di cui siamo coscienti immediatamente), possiamo s e c o n d o l ’ a n a l o g i a

concludere con tutta esattezza che anche gli animali operano secondo r a p p r e s e n t a z i o n i (non sono macchine, come vuole Cartesio), e, malgrado la differenza specifica, sono identici all’uomo riguardo al genere (in quanto esseri viventi). La legittimità di tale conclusione sta nell’identità del principio per cui si considerano dello stesso genere gli animali, relativamente a questa specie di determinazioni, e gli uomini in quanto uomini, quando si confrontano esternamente gli uni e gli altri secondo le loro azioni: par ratio. Allo stesso modo, comparando i prodotti finalistici della causa suprema del mondo nel mondo medesimo, con le opere d’arte dell’uomo, posso concepire la causalità di questa causa secondo l’analogia con un intelletto, ma non posso concludere in quella le proprietà di questo, per analogia; perché qui manca interamente il principio della possibilità di tale conclusione, cioè la paritas rationis, per riportare ad un unico genere l’essere supremo e l’uomo (relativamente alla loro rispettiva causalità). La causalità degli esseri del mondo, che è sempre sensibilmente condizionata (la causalità mediante l’intelletto è così), non può essere trasferita ad un essere che non ha in comune con essi altro concetto di genere, oltre quello di essere pensato come una cosa in generale. 107 Con ciò non si lascia a desiderare la minima cosa nella rappresentazione di rapporti di questo essere col mondo, tanto relativamente alle conseguenze teoretiche, quanto relativamente alle conseguenze pratiche, che derivano da questo concetto. Volere indagare che cosa sia in sé stesso è un eccesso di curiosità inutile quanto vano. 108 Io do qui con ragione, a quel che mi sembra, un significato più esteso dell’ordinario al concetto espresso dalle parole: cosa di fatto. Perché non è necessario, né possibile, limitare quest’espressione soltanto all’esperienza reale, quando si tratta del rapporto delle cose alle nostre facoltà conoscitive, giacché un’esperienza puramente possibile è già sufficiente perché si possa parlar delle cose come di oggetti di una specie determinata di conoscenza. 109 Ma le cose di fede non sono a r t i c o l i d i f e d e, quando con questi s’intendano quelle cose di fede di cui possa essere imposta la c o n f e s s i o n e (interna od esterna): la teologia naturale non contiene niente di simile. Perché, non potendo queste cose, in quanto cose di fede, fondarsi su prove teoretiche (come le cose di fatto), l’adesione è libera; e anche solo a questa condizione può accordarsi con la moralità del soggetto. 110 Nella 1ª ed. manca «o le regole pratiche della prudenza secondo il principio dell’amore di sé» [N.d.T.]. 111 Lo scopo finale, che la legge morale ci dà da seguire, non è il principio del dovere, perché questo principio risiede nella legge morale, la quale, in quanto principio pratico formale, ci dirige categoricamente, indipendentemente dagli oggetti della facoltà di desiderare (dalla materia della volontà), e quindi indipendentemente da ogni scopo. Questa qualità formale delle mie azioni (la subordinazione di esse al principio della validità universale), in cui unicamente consiste il loro valore morale interno, è interamente in mio potere; ed io posso ben astrarre dalla possibilità, o dall’inattuabilità, dei fini che sono obbligato a seguire secondo quella legge (poiché nell’una e nell’altra sta solo il valore esterno delle mie azioni), come da qualche cosa che non è mai interamente in mio potere, per guardare unicamente a ciò che dipende dalla mia azione. Ma appunto la legge del dovere ci prescrive di perseguire lo scopo finale di ogni essere ragionevole (la felicità in quanto è possibile d’accordo col dovere). La ragione speculativa però non ne vede la possibilità (né dalla parte del nostro proprio potere fisico, né nella cooperazione della natura), e piuttosto, per quanto possiamo giudicare razionalmente, deve ritenere come un’attesa infondata e vana, se anche ispirata da buona intenzione, l’ammettere che da tali cause derivi, pel semplice effetto della natura (in noi e fuori di noi), e senza Dio e l’immortalità, un simile risultato della nostra buona condotta; e, se di questo giudizio potesse essere interamente certa, considererebbe la legge morale stessa come una semplice illusione della nostra ragione dal punto di vista pratico. Ma,

poiché la ragione speculativa è convinta che ciò non può mai avvenire, e che invece quelle idee, il cui oggetto sta al di là della natura, possono essere pensate senza contradizione, le riconoscerà come reali per la propria legge pratica e pel còmpito che ne deriva, e quindi da un punto di vista morale, per non cadere in contradizione con se medesima. 112 È una fiducia nella promessa della legge morale; non come tale che sia contenuta in questa, ma che io introduco come un motivo moralmente sufficiente [«Non come tale, etc.» è aggiunta della 2ª e 3ª ed. (N.d.T.)]. Perché nessuno scopo finale può essere comandato da una legge della ragione, se questa nel tempo stesso non ne prometta la raggiungibilità, sia pure in una maniera incerta, e quindi giustifichi anche l’adesione alle sole condizioni sotto cui la nostra ragione può concepirla. È ciò che già esprime la parola fides; ma può parer pericoloso che s’introducano nella filosofia morale quest’espressione e quest’idea particolare, che furono introdotte dal Cristianesimo, e l’ammetterle potrebbe sembrare forse solo una lusinghevole imitazione del suo linguaggio. Non è questo però l’unico caso in cui questa meravigliosa religione, con la suprema semplicità del suo discorso, abbia arrichita la filosofia di concetti della moralità più definiti e più puri di quelli che la filosofia stessa avesse forniti, e che, una volta nati, sono l i b e r a m e n t e approvati dalla ragione ed ammessi come tali che essa stessa avrebbe potuto o dovuto trovarli ed introdurli.

Nota generale alla teleologia

[475] Se si domanda quale posto spetti tra gli altri, nella filosofia, all’argomento morale, il quale dimostra l’esistenza di Dio soltanto come cosa di fede per la ragion pura pratica, si può misurare facilmente tutto il possesso della filosofia: donde risulta, che qui non v’è da scegliere, ma la portata teoretica della filosofia stessa, davanti ad una critica imparziale, deve abbandonare da sé le proprie pretese. Essa deve fondare ogni adesione in primo luogo sopra cose di fatto, se non vuol essere interamente destituita di fondamento; e quindi l’unica differenza che può esservi nella prova è se su queste cose di fatto possa essere fondata un’adesione alla conseguenza che ne deriva, o in quanto s c i e n z a , per la conoscenza teoretica, o semplicemente in quanto f e d e per la conoscenza pratica. Tutte le cose di fatto appartengono o al c o n c e t t o d e l l a n a t u r a, che prova la sua realtà negli oggetti dei sensi dati (o che possono esser dati) avanti a tutti i concetti della natura; oppure al c o n c e t t o d e l l a l i b e r t à, che dimostra sufficientemente la sua realtà mediante la causalità della ragione, relativamente a certi effetti che questa può produrre nel mondo sensibile e che essa postula in modo inoppugnabile nella legge morale. Ora il concetto della natura (che appartiene semplicemente alla conoscenza teoretica) o è metafisico, e interamente a priori; o è fisico, vale a dire a posteriori, e non può esser pensato se non necessariamente mediante un’esperienza determinata. Il concetto metafisico della natura (che non suppone alcun’esperienza determinata) è, dunque, ontologico. La prova o n t o l o g i c a dell’esistenza di Dio mediante il concetto di un essere originario o è quella che da predicati ontologici, che soli fanno pensare questo essere come completamente determinato, conclude all’esistenza assolutamente necessaria, o è quella che conclude ai predicati dell’essere originario dall’assoluta necessità dell’esistenza di qualche cosa, qualunque essa sia: perché, difatti, al concetto di un essere originario appartiene

(affinché non sia derivato) la necessità incondizionata della sua esistenza, e (affinché questa ce la possiamo rappresentare) la determinazione completa dell’essere stesso per mezzo del suo concetto. Entrambe le condizioni si credette di trovarle nel concetto dell’idea ontologica di un essere r e a l e i n g r a d o s u p r e m o: e così sorsero due prove metafisiche. La prova fondata su di un concetto della natura puramente metafisico (la prova o n t o l o g i c a propriamente detta) conclude [476] dal concetto dell’essere reale in grado supremo alla sua esistenza assolutamente necessaria; perché (si dice) se esso non esistesse, gli mancherebbe una realtà, cioè l’esistenza. – L’altra (che è detta pure prova metafisicoc o s m o l o g i c a ) conclude dalla necessità dell’esistenza di qualche cosa (il che si deve ammettere, poiché nella coscienza di noi stessi ci è data una esistenza) alla determinazione completa di quell’essere, in quanto reale in grado supremo: perché tutto ciò che esiste dev’essere completamente determinato, ma ciò che è assolutamente necessario (vale a dire ciò che dobbiamo riconoscere come tale, e quindi a priori) deve essere determinato completamente m e d i a n t e i l p r o p r i o c o n c e t t o: il che si può trovare soltanto nel concetto di una cosa reale in grado supremo. Qui non è necessario scoprire il carattere sofistico delle due conclusioni, cosa che abbiamo fatto altrove; ma è necessario soltanto notare che, se tali prove si possono difendere con ogni sorta di sottigliezze dialettiche, esse non potrebbero mai passare dalla scuola al pubblico, e avere il minimo influsso sul semplice senso comune. La prova, che riposa su di un concetto della natura il quale non può essere se non empirico, ma che intanto deve condurre al di là dei limiti della natura in quanto insieme degli oggetti sensibili, non può essere altra che quella dei f i n i della natura: il concetto di tali fini non può essere dato a priori, ma solo per via dell’esperienza, e tuttavia promette un concetto della causa prima della natura tale che esso solo, fra tutti quelli che possiamo pensare, conviene al soprasensibile, cioè il concetto di una intelligenza suprema come causa del mondo; e mantiene effettivamente la promessa, secondo i principii del Giudizio riflettente, cioè secondo la costituzione della nostra (umana) facoltà di conoscere. – Ma, se questa prova abbia facoltà di ricavare dagli stessi dati questo concetto di un essere s u p r e m o , cioè indipendente e intelligente, anche come Dio, vale a dire come creatore di un mondo sottoposto a leggi morali, e quindi sufficientemente determinato per l’idea di uno scopo finale

dell’esistenza del mondo: è questa una questione cui si riduce tutto, sia che desideriamo un concetto dell’essere originario teoreticamente sufficiente circa l’uso di tutta la conoscenza della natura, sia che ne vogliamo un concetto pratico per la religione. Quest’argomento dedotto dalla teleologia fisica è degno di rispetto. Nel riguardo della convinzione, esso produce lo stesso effetto sull’intelligenza ordinaria e sul pensatore più sottile; e R e i m a r u s , nella sua opera non anche superata, ha acquistato [477] un merito immortale dove espone largamente questa prova con la solidità e la chiarezza che gli son proprie. – Ma donde quest’argomento trae un influsso così potente sull’animo, specialmente quando si giudica mediante la fredda ragione (giacché si potrebbe considerare l’emozione e l’elevazione in forza delle meraviglie della natura come appartenenti piuttosto alla persuasione che non alla convinzione), e su di un consenso calmo e fondato interamente sulla ragione stessa? Non dai fini fisici, che rinviano tutti ad un’intelligenza impenetrabile nella causa del mondo; essi sono insufficienti a ciò, perché non soddisfano l’esigenza della ragione e non rispondono ai suoi interrogativi. Difatti (domanda questa), a che scopo tutte queste cose naturali fatte con arte; a che scopo l’uomo stesso, al quale ci dobbiamo arrestare come allo scopo ultimo della natura per noi pensabile; perché tutta la natura, e qual è lo scopo finale di un’arte così grande e così varia? La ragione non può contentarsi di sentire che tutto ciò è fatto pel godimento, o per essere intuito, osservato ed ammirato (l’ammirazione, quando vi s’indugi, non è altro che una specie particolare di godimento), e che è questo lo scopo finale per cui esiste il mondo e l’uomo stesso perché la ragione suppone un valore personale che solo l’uomo può darsi, come condizione sotto cui soltanto l’uomo stesso e la sua esistenza può essere uno scopo finale. Mancando tale valore (che solo è capace di un concetto definito), i fini della natura non bastano all’esigenza della ragione, specialmente perché non possono fornire un concetto d e t e r m i n a t o dell’essere supremo in quanto essere sufficiente a tutto (e appunto perciò unico, e che meriti d’esser chiamato s u p r e m o ), e delle leggi secondo cui un’intelligenza è causa del mondo. Se dunque la prova fisico-teleologica convince come se fosse nel tempo stesso una prova teologica, non è per il fatto che le idee dei fini naturali facciano l’ufficio di tante prove empiriche di un’intelligenza s u p r e m a , ma perché la prova morale, che è in ogni uomo e lo muove così intimamente, si

mescola inavvertitamente alla conclusione con la quale egli attribuisce uno scopo finale, e quindi la saggezza, a quell’essere che si manifesta con un’arte così impenetrabile nei fini della natura (sebbene a ciò non sia autorizzato dalla percezione di essi), e così riempie arbitrariamente le lacune, che ancora restano in quella prova. Effettivamente solo la prova morale produce la convinzione, e soltanto dal punto di vista morale, al quale ognuno intimamente [478] aderisce; la prova fisico-teleologica non ha che il merito d’indirizzare l’animo, nella contemplazione del mondo, sulla via dei fini, e perciò verso un creatore i n t e l l i g e n t e del mondo; perché allora il rapporto morale ai fini e l’idea di un tale legislatore e creatore del mondo, in quanto concetto teologico113, pur essendo una pura addizione, sembrano sorgere spontaneamente da quella prova. Nel discorso ordinario si può anche non chiedere altro. Perché all’intelletto comune e sano riesce d’ordinario difficile, quando la separazione richiede molta riflessione, distinguere come eterogenei i diversi principii che esso confonde, e di cui segue in realtà legittimamente uno solo. Ma la prova morale dell’esistenza di Dio non è già che c o m p l e t i semplicemente la prova fisico-teleologica per renderla perfetta; è essa stessa una prova particolare, che s u p p l i s c e al difetto di convinzione che è nell’altra: giacché questa in realtà non può far altro che volgere la ragione, nel suo giudizio sul fondamento della natura, e sull’ordine contingente, ma ammirevole, della natura stessa, che solo per via dell’esperienza possiamo conoscere, alla causalità di una causa che contiene il principio della natura secondo fini (una causa che noi, secondo la costituzione della nostra facoltà di conoscere, dobbiamo concepire come intelligente), e, richiamandovi l’attenzione, renderla più suscettiva della prova morale. Difatti, ciò che è richiesto da quest’ultima prova114 è così essenzialmente diverso da tutto ciò che contengono e possono insegnare i concetti della natura, che son necessarii un argomento e una dimostrazione particolari, indipendenti del tutto dai precedenti, per dare ad una teologia un concetto sufficiente dell’essere originario, e concludere alla sua esistenza. – La prova morale (che dimostra, è vero, l’esistenza di Dio solo dal punto di vista pratico della ragione, ma in maniera imprescindibile) conserverebbe perciò sempre la sua forza, anche se nel mondo non trovassimo affatto, o trovassimo in modo dubbio la materia per la teleologia fisica. Si può pensare che gli esseri ragionevoli si vedano circondati da una natura che non offre alcuna traccia

evidente di organizzazione, ma soltanto gli effetti di un semplice meccanismo della materia bruta, e che perciò, e per la mutevolezza di alcune forme e rapporti finali solo contingenti, pare che non dia alcuna ragione per concludere ad un creatore intelligente; [479] nella quale per conseguenza non vi sarebbe alcuno spunto per la teleologia fisica: e nondimeno la ragione, che in tal caso non riceve alcun indirizzo da concetti della natura, troverebbe nel concetto della libertà e, nelle idee morali che vi si fondano, un principio praticamente sufficiente, per postulare il concetto dell’essere originario conformemente a tali idee, vale a dire come una divinità, e la natura (anche la nostra propria esistenza) come uno scopo finale e conforme a tale essere e alle sue leggi; e precisamente per postularlo in rapporto all’imprescindibile comando della ragion pratica. – Ma il fatto che nel mondo reale v’è per gli esseri ragionevoli una ricca materia per la teleologia fisica (il che non sarebbe punto necessario), serve alla desiderata conferma dell’argomento morale, per quanto la natura può presentare qualcosa di analogo alle idee (morali) della ragione. Difatti, il concetto di una causa suprema che sia intelligente (la qual cosa è ben lungi però dal bastare ad una teologia), riceve in tal modo una realtà sufficiente pel Giudizio riflettente; ma non è necessario per fondare la prova morale: né questa serve a completare, fino a farne una prova, quel concetto stesso, che per sé solo non rinvia alla moralità, sviluppandolo con continuato ragionamento secondo un unico principio. Due principii così eterogenei come la natura e la libertà non possono dare se non due specie diverse di prove, per cui il tentativo di derivare il secondo dal primo risulta insufficiente per ciò che deve essere provato. Sarebbe molto soddisfacente per la ragione speculativa se l’argomento fisico-teleologico bastasse alla prova cercata; perché si avrebbe la speranza di fondare una teosofia (si dovrebbe chiamar così la conoscenza teoretica della natura divina e della sua esistenza, sufficiente a spiegare la costituzione del mondo, e nel tempo stesso a determinare le leggi morali). Allo stesso modo, se la psicologia fosse sufficiente a raggiungere la conoscenza dell’immortalità dell’anima, renderebbe possibile una pneumatologia, che sarebbe egualmente gradita alla ragione speculativa. Ma entrambe, per quanto anche ciò possa esser grato alla presunzione del nostro desiderio di sapere, non soddisfano il desiderio che ha la ragione di una teoria, che dovrebbe esser fondata sulla conoscenza della natura delle cose. È poi un’altra questione, che qui non è necessario esaminare oltre, se cioè la prima, in

quanto teologia, e la seconda in quanto antropologia, risponderebbero meglio al loro ultimo scopo oggettivo, se si fondassero sul principio morale, cioè della libertà, e procedessero quindi conformemente all’uso pratico della ragione. [480] Ma la prova fisico-teleologica non basta alla teologia perché non dà, né può dare, a tal uopo un concetto sufficientemente determinato dell’essere originario, e questo dev’essere derivato da tutt’altra parte; oppure alle deficienze di tale prova bisogna supplire con un’addizione arbitraria. Voi, dalla grande finalità delle forme naturali e delle loro relazioni concludete ad una causa intelligente del mondo; ma qual grado avrà questa intelligenza? Senza dubbio, non potete lusingarvi di arrivare alla suprema intelligenza possibile; perché ciò richiederebbe che voi riteneste impensabile una intelligenza più grande di quella di cui percepite le prove del mondo: il che significherebbe attribuire a voi stessi l’onniscienza. Allo stesso modo voi concludete dalla grandezza del mondo ad una potenza molto grande del suo creatore; ma dovrete convenire che ciò ha un senso relativamente alla vostra facoltà di comprendere, e, poiché non conoscete tutto il possibile per confrontarlo con la grandezza del mondo quale la conoscete, non potete desumere da una misura così piccola l’onnipotenza del creatore; e così di seguito. Perciò in tal modo non raggiungete un concetto determinato, e sufficiente per la teologia, d’un essere originario; giacché questo concetto si può trovare soltanto in quello della totalità delle perfezioni compatibili con un’intelligenza, e a questo riguardo i dati puramente e m p i r i c i non vi possono aiutare affatto; e senza un concetto così determinato non potete nemmeno concludere ad una causa intelligente u n i c a , ma ammetterla solamente (per qualunque uso si voglia). – Certo vi si può ben concedere (poiché la ragione non ha niente di fondato in contrario) di aggiungere arbitrariamente che, quando si trova tanta perfezione, si possano ammettere tutte le perfezioni riunite in una causa unica del mondo; perché la ragione, teoreticamente e praticamente, viene meglio a capo del suo còmpito con un principio così determinato. Ma non potete tuttavia far valere questo concetto dell’essere primo come dimostrato da voi, perché lo avete ammesso solo a vantaggio di un migliore uso della ragione. Sicché ogni lamento ed ogni collera impotente contro la pretesa temerità di mettere in dubbio il rigore dei vostri ragionamenti, è una vana iattanza, che potrebbe far credere che si riguarda come un dubbio sulla santa verità quello che si esprime liberamente

contro il vostro argomento, soltanto per dissimulare l’importanza di questo. [481] La teleologia morale invece, che non è fondata meno solidamente della teleologia fisica, e gode anzi il privilegio di riposare a priori su principii inseparabili dalla nostra ragione, conduce a ciò che è richiesto dalla possibilità di una teologia, cioè ad un c o n c e t t o determinato della causa suprema, come causa del mondo secondo leggi morali, e quindi tale che basta al nostro scopo finale morale: a che si richiedono non meno che l’onniscienza, l’onnipotenza, l’onnipresenza, etc., come attributi inerenti alla sua natura, i quali debbono essere pensati come congiunti con lo scopo finale morale, che è infinito, e quindi adeguati ad esso; e così da sola la teleologia morale può fornire il concetto di un u n i c o creatore del mondo, che è adatto per una teologia. In tal modo una teologia conduce anche immediatamente alla r e l i g i o n e , vale a dire alla c o n o s c e n z a d e i n o s t r i d o v e r i i n q u a n t o o r d i n i d i v i n i; perché la conoscenza del nostro dovere, e dello scopo finale che con questo la ragione ci assegna, poté in principio produrre determinatamente il concetto di Dio, che così già alla sua origine è inseparabile dall’obbligazione verso questo essere; mentre invece, se anche il concetto dell’essere primo potesse essere trovato determinatamente per via puramente teoretica (vale a dire come semplice causa della natura), dopo sarebbe molto difficile, e forse addirittura impossibile, attribuirgli con una prova fondata una causalità secondo leggi morali, senza esser costretti a farvi qualche aggiunta arbitraria; e tuttavia, senza quella causalità, quel preteso concetto teologico non può costituire un fondamento per la religione. Anche se una religione potesse essere fondata con questo metodo teoretico, per ciò che riguarda il sentimento (che costituisce il suo elemento essenziale) essa sarebbe veramente diversa da quella in cui il concetto di Dio e la convinzione (pratica) della sua esistenza derivano da idee fondamentali della moralità. Perché, difatti, se dovessimo supporre l’onnipotenza, l’onniscienza, etc., di un creatore, come concetti datici in qualche altro modo, per applicar poi semplicemente i nostri concetti dei doveri al nostro rapporto con lui, questi concetti stessi presenterebbero molto fortemente l’aspetto della costrizione e della sottomissione forzata; mentre se la legge morale, con la stima che ci ispira e conformemente al precetto della nostra propria ragione, ci rappresenta lo scopo finale della nostra destinazione, noi ammettiamo tra le nostre vedute morali una causa che si accorda con questo scopo e con la sua

attuabilità, e ci sottomettiamo [482] volontariamente ad essa con quella venerazione, che è del tutto diversa dal timore patologico115. Se si domanda perché c’importi di avere una teologia in generale, si vede chiaramente che essa non è necessaria all’estensione o alla rettificazione della nostra conoscenza della natura, e in generale a qualche teoria, ma unicamente alla religione, vale a dire all’uso pratico, cioè morale della ragione, dal punto di vista soggettivo. Ora, quando si trova che l’unico argomento che conduce ad un concetto determinato della teologia, è l’argomento morale, non bisogna meravigliarsene; non solo, ma non si chiederà altro circa la sufficienza dell’adesione che produce questa prova rispetto allo scopo della teologia, quando si ammetta che tale argomento dimostra sufficientemente l’esistenza di Dio soltanto per la nostra destinazione morale, cioè dal punto di vista pratico, e la speculazione non entra punto in esso, né allarga i confini del suo dominio. Anche la meraviglia, o la pretesa contradizione tra la possibilità qui affermata di una teologia, e ciò che diceva delle categorie la critica della ragione speculativa, che cioè queste possono produrre una conoscenza soltanto quando siano applicate agli oggetti dei sensi, ma non quando sono applicate al soprasensibile, spariscono, se si considera che qui le categorie sono usate per una conoscenza di Dio, ma non dal punto di vista teoretico (per sapere che cosa è in se stessa la sua natura per noi impenetrabile), ma unicamente dal punto di vista pratico. – A questo proposito, per metter fine alla falsa interpretazione di quella dottrina della critica che è così necessaria, e che, anche a dispetto dei dommatici ciechi, riconduce la ragione nei suoi limiti, aggiungerò il seguente chiarimento. Quando io attribuisco ad un corpo la f o r z a m o t r i c e, e [483] quindi lo penso mediante la categoria della c a u s a l i t à , perciò stesso lo c o n o s c o , vale a dire determino il suo concetto, in quanto oggetto in generale, con ciò che gli conviene per sé (come condizione della possibilità di quella relazione), in quanto oggetto dei sensi. Poiché, difatti, la forza motrice che gli attribuisco è una forza di repulsione, a questo corpo bisogna un luogo nello spazio (se anche non gli pongo accanto un altro corpo su cui esercitarla), ed anche un’estensione, cioè uno spazio in lui stesso, e riempito dalla forza repulsiva delle parti; inoltre gli serve la legge con la quale deve riempirlo (che cioè la forza repulsiva delle parti deve decrescere nella stessa proporzione in cui cresce l’estensione del corpo e lo spazio che esso riempie con le parti stesse mediante questa forza). – Invece, quando penso un essere

soprasensibile come p r i m o m o t o r e, e quindi mediante la categoria della causalità rispetto alla stessa determinazione del mondo (il movimento della materia), non debbo pensarlo in qualche luogo dello spazio, e tanto meno come esteso, e neppure posso pensarlo come esistente nel tempo e coesistente con altri esseri. Sicché non ho alcuna delle determinazioni che potrebbero farmi intendere la condizione della possibilità del movimento per mezzo di questo essere come causa. Per conseguenza, col predicato della causa (come primo motore) non lo conosco menomamente in se stesso; ma ho soltanto la rappresentazione di qualche cosa, che contiene il principio dei movimenti del mondo; e la relazione di questi movimenti a quell’essere, come alla loro causa, poiché non mi fornisce altrimenti niente che appartenga alla natura della cosa che è causa, lascia il concetto di questa interamente vuoto. E la ragione sta in questo, che, coi predicati che trovano il loro oggetto soltanto nel mondo sensibile, io posso arrivare all’esistenza di qualche cosa che deve contenere il fondamento di questo mondo, ma non alla determinazione del suo concetto in quanto essere soprasensibile, al quale ripugnano tutti quei predicati. Sicché con la categoria della causalità, quando la determino mediante il concetto d’un p r i m o m o t o r e, non conosco menomamente che cosa è Dio; ma forse mi riuscirà meglio se prendo occasione dall’ordine del mondo non soltanto per p e n s a r e la sua causalità come quella d’una i n t e l l i g e n z a suprema, ma per c o n o s c e r l o anche mediante questa determinazione del concetto in questione: perché allora cade la pesante condizione dello spazio e dell’estensione. – Certamente la grande connessione di fini che troviamo nel mondo ci obbliga a pensare una causa suprema di esso, [484] e la sua causalità come quella d’una intelligenza; ma non perciò siamo autorizzati ad a t t r i b u i r l e tale intelligenza (come, per esempio, a pensare l’esistenza di Dio in ogni tempo, perché altrimenti non potremmo farci alcun concetto della semplice esistenza in quanto grandezza, vale a dire in quanto durata; oppure a pensare l’onnipresenza divina come esistenza in tutti i luoghi, per concepire la presenza immediata per cose che sono esterne l’una all’altra, senza tuttavia poter attribuire una di queste determinazioni a Dio, come qualcosa che di lui ci sia conosciuta). Quando io determino la causalità dell’uomo, relativamente a certi prodotti che si possono spiegare solo con una finalità intenzionale, pensandola come la sua intelligenza, non ho bisogno di arrestarmi a questo punto, ma gli posso attribuire questo predicato come una sua proprietà ben conosciuta, e quindi

conoscerlo. Perché io so che all’uomo sono date le intuizioni dei sensi, e queste sono sottoposte dal suo intelletto ad un concetto, e perciò ad una regola; che questo concetto contiene solo il carattere comune (tralasciando il particolare), ed è quindi discorsivo; che le regole, per sottoporre ad una coscienza in generale le rappresentazioni date, sono date da quell’intelletto prima delle intuizioni; e via discorrendo. Sicché io attribuisco all’uomo questa facoltà come tale che per suo mezzo l o c o n o s c o. Ma se ora voglio p e n s a r e un essere soprasensibile (Dio) come intelligenza, ciò non soltanto mi è permesso, da un certo punto di vista dell’uso della mia ragione, ma è anche inevitabile; quello che non mi è permesso è attribuirgli l’intelligenza e il lusingarmi di poterlo perciò c o n o s c e r e mediante questa sua proprietà; perché allora debbo abbandonare tutte quelle condizioni sotto le quali soltanto conosco un intelletto, e quindi quel predicato, che serve solo alla determinazione dell’uomo, non può essere punto riferito ad un essere soprasensibile, e non si può conoscere, per mezzo di una causalità così determinata, che cosa è Dio. Ed è lo stesso di tutte le categorie, che non possono avere alcun significato per la conoscenza, dal punto di vista teoretico, se non sono applicate ad oggetti di una possibile esperienza. – Ma, per analogia con un intelletto, posso, anzi debbo pensare, sotto un altro punto di vista, un essere soprasensibile, senza pretendere tuttavia di conoscerlo perciò teoreticamente; quando cioè questa determinazione della sua causalità concerne un effetto nel mondo, il quale contenga uno scopo moralmente necessario, ma irraggiungibile dagli esseri sensibili; perché allora è possibile una conoscenza di Dio e della sua esistenza (una [485] teologia), mediante proprietà e determinazioni della sua causalità pensate in lui soltanto per analogia; una conoscenza che, nel rapporto pratico, ma s o l t a n t o d a q u e s t o p u n t o d i v i s t a morale, ha tutta la realtà necessaria. – È dunque ben possibile un’etico-teologia; giacché la morale può bensì sussistere con la sua regola, ma non lo scopo finale che viene imposto da questa regola, senza la teologia; salvo che non si rinunzii ad ogni applicazione della ragione in questo campo. Ma un’etica teologica (della ragion pura) è impossibile; perché leggi che non sono date originariamente dalla ragione, e di cui essa non effettua l’esecuzione in quanto facoltà pratica pura, non possono essere morali. Allo stesso modo una fisica teologica sarebbe un assurdo, perché non esporrebbe leggi naturali, ma gli ordinamenti di una volontà suprema; mentre una teologia fisica (propriamente fisico-teleologica) può almeno servir di

propedeutica ad una vera teologia, dando luogo, con la considerazione dei fini della natura di cui offre una ricca materia, all’idea di uno scopo finale, che la natura non può stabilire; e quindi può far sentire il bisogno di una teologia, che determini sufficientemente il concetto di Dio per l’uso pratico supremo della ragione, sebbene non possa produrla e fondarla in modo sufficiente sulle sue prove. 113

La 2ª ed. ha «teoretico» invece di «teologico» [N.d.T.]. La correzione è di Erdmann; Kant ha «concetto» invece di «prova» [N.d.T.]. 115 L’ammirazione della bellezza, come pure quell’emozione che un animo meditativo è capace di sentire dai fini così molteplici della natura, antecedentemente alla conoscenza chiara di un creatore intelligente del mondo, hanno qualcosa che somiglia al sentimento r e l i g i o s o . Tali cose perciò sembra che prima abbiano un effetto sul sentimento morale, per mezzo di una specie di giudizio analogo al giudizio morale (producendo la riconoscenza e il rispetto per la causa sconosciuta), e poi sull’animo, suscitandovi le idee morali, quando ispirano quell’ammirazione che è legata con un interesse ben diverso da quello che può produrre la contemplazione semplicemente teoretica. 114

Glossario

Sigle ANTR

=

Antropologia pragmatica (trad. it., Laterza, Bari 1969)

ARG

=

L’unico argomento ecc.

CONFL

=

Il conflitto delle Facoltà

COST

=

Metafisica dei costumi

DIST

=

Su un tono di distinzione assunto recentemente in filosofia

FOND

=

Fondazione della metafisica dei costumi

IDEA

=

Idea di una storia universale ecc.

ILL

=

Che cos’è l’illuminismo?

INTR

=

Prima introduzione alla Critica del Giudizio (trad. it., Laterza, Roma-Bari ediz. «UL» 1984)

LOG

=

Logica

OP

=

Opus Postumum

OR

=

Che significa orientarsi nel pensiero?

OSS

=

Osservazione sul sentimento del bello e del sublime

PRAT

=

Critica della ragion pratica (trad. it. con Glossario, Laterza, Roma-Bari ediz. «BUL» 1991)

PRINC

=

Princìpi metafisici della scienza della natura

PROL

=

Prolegomeni ad ogni futura metafisica ecc.

PURA

=

Critica della ragion pura (trad. it. con Glossario, Laterza, Roma-Bari ediz. «BUL» 1991)

REL

=

La religione nei limiti della semplice ragione

USO

=

L’uso di princìpi teleologici in filosofia

(Affekt): a differenza della passione (v.), l’a. si riferisce solo al sentimento, è impetuoso ed irriflesso, «cieco o nella scelta dello scopo, o, quand’anche questo sia dato dalla ragione, nella sua realizzazione; perché un movimento dell’animo che ci rende incapaci della libera riflessione sui principii secondo i quali ci dobbiamo determinare». Mentre «ogni a. del genere valoroso, vale a dire che eccita la coscienza delle nostre forze a superare ogni resistenza, è esteticamente sublime, l’a. del genere languido, che fa oggetto di pena lo sforzo del resistere, non ha in sé niente di nobile». Per il rapporto tra a. e diletto v. § 54. ANTR: «il sentimento di un piacere o di un dolore attuale, che non lascia sorgere nel soggetto la riflessione (cioè l’idea se ci si debba ad esso lasciar andare o no) è l’a.». ANTR: «l’a. è un predominio delle sensazioni tale che ne viene soppressa la padronanza dell’animo (animus sui compos). Esso è dunque precipitoso, cioè cresce rapidamente a un tal grado di sentimento che rende AFFETTO

impossibile la riflessione (è inconsulto)»; «L’a. agisce come un fiotto che rompe la diga; la passione come una corrente che si scava sempre più profondo il suo letto. Dove c’è molto a., c’è comunemente poca passione. Gli a. sono leali e aperti, le passioni invece subdole e nascoste. L’a. è come una ubriacatura che si smaltisce, la passione invece come una follia che aderisce a un’idea, la quale si insinua sempre più a fondo». ANTR: «gli a. sono in genere stati morbosi e possono dividersi in stenici, o di forza, e astenici, o di debolezza. I primi sono di natura eccitante, ma spesso anche debilitante, gli altri di natura depressiva della forza vitale, ma anche spesso restitutiva di essa». AMMIRAZIONE (Bewunderung): è una meraviglia che non cessa con il venir meno della novità; «l’a. è uno stupore (v.) che si rinnova sempre, anche quando scompare il dubbio se l’animo abbia ben visto o giudicato. Per conseguenza l’a. è un effetto del tutto naturale di quella finalità che osserviamo nell’essenza delle cose (in quanto fenomeni) e non può essere biasimato: perché non soltanto è inesplicabile per noi come l’unione di quella forma dell’intuizione sensibile (che si chiama lo spazio) con la facoltà dei concetti (l’intelletto) sia proprio quella e non altra; ma l’unione stessa estende l’animo e gli fa quasi presentire qualcosa che sta al di là di quelle rappresentazioni sensibili e in cui si può trovare l’ultimo principio, sebbene a noi sconosciuto, di quell’accordo»; «l’a. della bellezza, come pure quell’emozione che un animo meditativo è capace di sentire dai fini così molteplici della natura, antecedentemente alla conoscenza chiara di un creatore intelligente, hanno qualcosa che assomiglia al sentimento religioso». ANALOGIA (Analogie): «l’a. (in senso qualitativo) è l’identità del rapporto tra principii e conseguenze (tra cause ed effetti), in quanto ha luogo malgrado la differenza specifica delle cose, o delle qualità in sé (vale a dire, considerate fuori di quel rapporto), che contengono il principio di conseguenze simili». PURA: in matematica l’a. «è l’eguaglianza di due rapporti quantitativi» (cioè la proporzione: a:b = c:d); «Nella filosofia, invece, l’a. è l’eguaglianza di due rapporti qualitativi, in cui, dati tre membri, può essere conosciuto e dato a priori solo il rapporto a un quarto, ma non questo quarto membro stesso». ANALOGIA DELLE FORME (Analogie der Formen): è «l’accordo di tante specie animali in un certo schema comune che sembra aver presieduto non soltanto alla struttura del loro scheletro ma anche alla disposizione delle altre parti», per cui le «forme» pur con tutta la loro diversità «sembrano essere state prodotte conformemente ad un tipo comune» e rafforzare quindi «l’ipotesi di una loro reale parentela nella genesi da una madre comune». ANIMA (Geist): «nel significato estetico è il principio vivificante dell’animo» consiste nella «facoltà di esibizione (v.) delle idee estetiche (v.)»; è il talento di trovare la espressione giusta per comunicare ad altri lo stato d’animo che si accompagna al concetto; «per esprimere ciò che è inesprimibile nello stato d’animo in cui ci mette una certa rappresentazione e per renderlo comunicabile universalmente – sia l’espressione verbale, pittorica o plastica – è necessaria una facoltà che colga a volo il rapido giuoco dell’immaginazione e lo unisca ad un concetto che si possa comunicare senza la costrizione delle regole», ed è a questo talento che si dà propriamente il nome di a. ANIMA BELLA (schöne Seele): è l’uomo che pur possedendo «gusto sufficiente per giudicare dei prodotti delle belle arti con la massima giustezza e finezza», lascia da parte le bellezze artistiche «che sodisfano la vanità e alimentano i piaceri sociali», e si rivolge invece al bello naturale «per trovarvi quasi una voluttà per il suo spirito su una via di pensiero di cui egli non potrà mai raggiungere il termine». ANTINOMIA DEL GIUDIZIO (Antinomie der Urteilskraft): siccome il Giudizio riflettente, a differenza di quello determinante, deve fare da principio a se stesso, nell’uso delle facoltà conoscitive, ha necessariamente delle massime «dirette alla conoscenza delle leggi naturali nell’esperienza, e a raggiungere, per mezzo di tali leggi, dei concetti che possono essere anche concetti della ragione. Ora tra queste massime necessarie del Giudizio riflettente può esserci una contraddizione, e quindi un’a., su cui si fonda una dialettica che, se ciascuna delle due massime contraddittorie ha il suo fondamento nella natura delle facoltà conoscitive, può esser chiamata una dialettica naturale e un’illusione inevitabile»;

in realtà però l’a. vera e propria nasce soltanto quando si convertono le due massime (tesi: «ogni produzione di cose materiali e delle loro forme deve essere giudicata possibile secondo leggi puramente meccaniche»; antitesi: «alcuni prodotti della natura materiale non possono esser giudicati possibili secondo leggi puramente meccaniche»), che sono principii regolativi, in principii costitutivi ed oggettivi per il Giudizio determinante (tesi: «ogni produzione di cose materiali è possibile secondo leggi puramente meccaniche»; antitesi: «la produzione di alcune cose materiali non è possibile secondo leggi puramente meccaniche»); pertanto «tutta l’apparenza di un’a. tra la massima dell’esplicazione propriamente fisica (meccanica) e quella dell’esplicazione teleologica (tecnica), riposa su questo, che si converte un principio del Giudizio riflettente in un principio del Giudizio determinante, e l’autonomia (v.) del primo (che vale solo soggettivamente per l’uso della nostra ragione relativamente alle leggi particolari dell’esperienza) si cambia con l’eteronomia (v.) dell’altro (che deve regolarsi sulle leggi universali o particolari) date dall’intelletto». ANTINOMIA DEL GUSTO (Antinomie des Geschmacks); va distinta dal semplice contrasto tra giudizi di gusto o peggio tra giudizi estetici sensibili, in quanto sussiste solo riguardo ai principii della critica del gusto; l’a. riguardo al principio di gusto è così formulata: «1. Tesi. Il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti. 2. Antitesi. Il giudizio di gusto si fonda sopra concetti». La contraddizione tra questi principii impliciti in ogni giudizio di gusto può essere eliminata soltanto mostrando «che il concetto al quale si riferisce l’oggetto di questa specie di giudizii, non è preso nello stesso significato nelle due massime del Giudizio estetico; e che questo doppio significato, o punto di vista, nel giudicare, è necessario al nostro Giudizio trascendentale; ma che è anche inevitabile, come illusione naturale, l’apparenza, che deriva dalla confusione dell’uno con l’altro»; «Nella tesi perciò si dovrebbe dire: il giudizio di gusto non si fonda sopra concetti determinati; ed invece nell’antitesi: il giudizio di gusto si fonda sopra un concetto, sebbene indeterminato (cioè quello del sostrato soprasensibile dei fenomeni); e allora tra l’una e l’altra non vi sarebbe più alcuna contraddizione». ANTROPOLOGIA (Anthropologie): l’a. «empirica» utilizza come materiale le osservazioni psicologiche, le analisi dei fenomeni del nostro animo; l’a. del senso interno è «una conoscenza del nostro io pensante durante la vita», destinata a rimanere sempre empirica come conoscenza teoretica e coincide con la psicologia razionale (v.). ANTROPOFOBIA (Anthropophobie): è «il fuggire gli uomini perché si considerano come nemici (paura degli uomini)» ed «è cosa odiosa e disprezzabile insieme». APPARENZA (Schein) si ha l’a. quando, in una prova, il principio o la conclusione è costituito da un motivo puramente soggettivo (estetico) dell’assenso, privo di validità oggettiva e non costituente un fondamento logico. Si ha allora una prova illusoria (Scheinbeweis), del tipo di quella della teologia naturale, quando si utilizza il principio puramente soggettivo della natura umana che spinge a cercare un solo principio invece di molti, per completare arbitrariamente una argomentazione, e inferirne l’esistenza di un essere onnipotente, onnisciente, come causa morale del mondo. Compito della filosofia in tal caso è mettere a nudo l’a., per quanto benefica, di questo tipo di argomentazione, che nasce dalla confusione tra teleologia (v.) fisica e teleologia morale. APPRENSIONE (Apprehension, Auffassung): come la comprensione (v.), una delle due operazioni necessarie all’immaginazione per «adottare intuitivamente una quantità da potersene servire come misura od unità nella valutazione delle grandezze mediante numeri». A differenza della comprensione, l’a. può procedere all’infinito, perché, nel suo procedere, la perdita delle prime rappresentazioni parziali viene compensata dall’acquisto di nuove. Più in generale: PURA: l’a. è l’acquisizione, da parte del soggetto, del molteplice sensibile, nella percezione. PURAJ; B; «per sintesi dell’a. intendo la composizione del molteplice in una intuizione empirica, per cui diviene possibile la percezione». ARCHEOLOGIA DELLA NATURA (Archäologie der Natur): è «una rappresentazione dell’antico stato della Terra, fondato sopra congetture, le quali a ragione si possono avanzare, sebbene non si abbia alcuna speranza di certezza»; di questo tipo di congetture è lo sforzo «di derivare mediante il meccanismo,

dalle tracce che hanno lasciato i più antichi cataclismi naturali» le creature, partendo da quelle la cui forma ha un minimo di finalità per giungere ad altre che «si conformano nel modo più appropriato al loro luogo di nascita e ai loro rapporti reciproci». ANTR: «per l’a.d.n. si può ammettere con Linneo l’ipotesi che dal mare universale, il quale copriva tutta la Terra, dapprima sia emersa, come un monte, un’isola sotto l’equatore, sulla quale sorsero a poco a poco tutti i gradi climatici del caldo, dal torrido della spiaggia fino al freddo artico della cima, e con essi le piante e gli animali corrispondenti; ecc.». ARCHITETTURA (Baukunst): come la scultura (v.) è una sottospecie della plastica (v.) ed è «l’arte di esibire concetti di cose che sono possibili solo nell’arte e la cui forma non ha il suo principio determinante nella natura, ma in un fine dell’arbitrio – nel perseguire il quale l’arte deve però raggiungere una finalità estetica». Mentre nella scultura lo scopo principale è la pura espressione di idee estetiche (v.), nell’a. «il fine principale è un certo uso dell’oggetto artistico che, come condizione, pone un limite alle idee estetiche». ARTE (Kunst): «L’a. si distingue dalla natura come il fare (facere) dall’agire o dall’operare in generale (agere), e il prodotto o risultato dell’a. si distingue da quello della natura come l’opera (opus) dall’effetto (effectus). A rigore non si dovrebbe dare il nome di a. se non alla produzione mediante libertà, cioè per mezzo di una volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azioni. L’a. in quanto abilità dell’uomo è distinta anche dalla scienza (come potere da sapere), come la facoltà pratica dalla teoretica, come la tecnica dalla teoria (l’agrimensura dalla geometria)»; «L’a. si distingue anche dal mestiere (v.): la prima si chiama liberale, il secondo può essere chiamato mercenario», perché «si riguarda la prima come se potesse aver esito (riuscita) conforme al fine, soltanto come giuoco, cioè come un’occupazione piacevole per se stessa»; l’a. è meccanica quando, adeguatamente alla conoscenza di un oggetto possibile, compie soltanto le operazioni necessarie per realizzarlo, è estetica se invece ha per scopo immediato il sentimento di piacere. L’a. estetica è a. piacevole quando il suo scopo è di far accompagnare il piacere alle rappresentazioni in quanto semplici sensazioni (v.), ed è a. bella quando ha per iscopo di accoppiare il piacere alle rappresentazioni come modi di conoscenza. «Le a. piacevoli sono quelle dirette unicamente al godimento, l’a. bella invece è una specie di rappresentazione che ha il suo scopo in se stessa, e nondimeno, pur non avendo altro fine, favorisce la coltura delle facoltà dell’animo sotto il riguardo della socievolezza»; le a. belle si dividono in a. della parola, a. figurative, e a. delle sensazioni (come impressioni sensibili esterne). ARTICOLAZIONE (Artikulation): insieme alla gesticolazione (v.) e alla modulazione (v.) è una delle tre forme di espressione che rendono possibile agli uomini comunicarsi non solo i concetti, ma anche le sensazioni, e corrisponde alla parola. ARTICOLO DI FEDE (Glaubensartikel): è cosa (v.) di fede di cui si ritiene «possa essere imposta la confessione (esterna o interna)» e in questo senso si distingue dalle cose di fede vere e proprie, le quali non potendo fondarsi su prove teoretiche (come le cose di fatto), richiedono una libera adesione (v.). ATTRATTIVA (Reiz): l’a. non deve essere scambiata con la bellezza, l’una essendo connessa con la materia del piacere, l’altra con la forma, e perciò puro giudizio (v.) di gusto è quello su cui non ha nessuna influenza l’a.; le a. possono essere aggiunte alla bellezza «per interessare l’animo, anche mediante la rappresentazione dell’oggetto, indipendentemente dal puro piacere, e per favorire il gusto e la sua coltura, raccomandandogli la bellezza, specialmente quando esso è ancora rozzo ed incolto. Ma le a. effettivamente turbano il giudizio di gusto, se attirano su di sé l’attenzione, come se fossero esse i motivi del giudizio sulla bellezza»; anche quando si ammette che il prendere un interesse immediato per la bellezza della natura è segno di animo buono e mostra una disposizione favorevole al sentimento morale, occorre però ricordare che questo vale in tanto in quanto ci si riferisce alle belle forme della natura e si escludono le a. «che la natura vi unisce con tanta profusione, perché l’interesse in tal caso è anche immediato, ma nello stesso tempo empirico»; «le a. della bella natura, che si trovano spesso come confuse con le belle forme, appartengono o alle modificazioni della luce (colorito v.) o alle modificazioni del rumore (nei suoni)»; l’a. della musica riposa su questo: «ogni espressione del

linguaggio ha, nel contesto, un tono appropriato al suo significato» e «siccome la modulazione (v.) è quasi una lingua universale delle sensazioni comprensibile da ogni uomo, la musica l’usa per sé sola e in tutta la sua energia, cioè come linguaggio degli affetti, e così, secondo le leggi dell’associazione, comunica universalmente le idee estetiche che vi sono naturalmente congiunte». ATTRIBUTO (Attribut): si dicono a. estetici «di un oggetto il cui concetto, in quanto idea della ragione, non può essere esibito adeguatamente», «quelle forme che non costituiscono da sé l’esibizione (v.) di un concetto dato, ma, in quanto rappresentazioni secondarie dell’immaginazione, esprimono soltanto le conseguenze che vi si legano e l’affinità di quel concetto con altri concetti»; perciò gli a. estetici si distinguono da quelli logici perché non rappresentano ciò che è insito nel concetto, ma qualcos’altro, stimolando così l’immaginazione a estendersi verso rappresentazioni affini. In questo senso gli a. estetici danno un’idea estetica (v.). AUTOCRAZIA DELLA MATERIA (Autokratie der Materie): rispetto ai prodotti della natura che il nostro intelletto può concepire solo come fini è semplicemente «una parola priva di senso»; se infatti si cerca la causa di tali prodotti «soltanto nella materia, in quanto aggregato di molte sostanze esterne l’una all’altra, viene a mancare interamente l’unità del principio per la forma finale interna della sua formazione». AUTONOMIA (Autonomie): l’a. del gusto consiste nel fatto che, nel giudizio di gusto, «il soggetto stesso giudichi da sé, senza andare a tentoni tra i giudizi degli altri, per conoscere prima il loro piacere o dispiacere riguardo all’oggetto dato; e quindi si vuole che il giudizio sia pronunciato a priori, e non per imitazione, cioè perché la cosa piace a tutti»; l’a. del giudizio di gusto contrasta con l’eteronomia (v.) e non invece con il riconoscimento del valore esemplare di certe opere classiche; l’a. del Giudizio riflettente consiste nel valere solo soggettivamente per l’uso della nostra ragione relativamente alle leggi particolari dell’esperienza. INTR: il Giudizio, in quanto «riguardo alle condizioni della riflessione è legislativo a priori, rivela a.; questa a. però non è valida oggettivamente (come quella dell’intelletto riguardo alle leggi teoretiche della natura, o quella della ragione riguardo alle leggi pratiche della libertà), ossia mediante concetti di cose o possibili operazioni, ma vale soltanto soggettivamente per il giudizio derivante dal sentimento, il quale, dal momento in cui può aspirare a validità universale, dimostra la sua origine fondata su principii a priori. Questa legislazione dovrebbe propriamente chiamarsi eautonomia (v.), perché il Giudizio non fornisce la legge né alla natura, né alla libertà, ma solo a se stesso, e perché esso non è una facoltà per produrre concetti di oggetti, ma soltanto una facoltà per comparare i casi che ogni volta si presentano con concetti che gli sono dati per altra via, e per prescrivere a priori le condizioni soggettive della possibilità di questa connessione». BELLEZZA (Schönheit): «mentre il piacevole (v.) vale anche per gli animali irragionevoli, la b. vale solo per gli uomini nella loro qualità di esseri animali, ma ragionevoli, e non soltanto in quanto essi sono semplicemente ragionevoli (come sono, per esempio gli spiriti), ma in quanto sono nello stesso tempo animali; il buono (v.) invece ha valore per ogni essere ragionevole in generale»; la b. (che dovrebbe riguardare propriamente solo forma) deve essere distinta dall’attrattiva (v.), perché in tal caso la materia del piacere viene scambiata con la forma; «è un errore comune e molto nocivo alla purezza, integrità e solidità del gusto, il credere che la b., la quale consiste nella forma, possa essere aumentata dall’attrattiva; sebbene si possano aggiungere attrattive alla b., per interessare l’animo anche mediante la rappresentazione dell’oggetto e per favorire il gusto e la sua coltura, raccomandandogli la b. specialmente quando esso è ancora rozzo e incolto»; la b. si distingue in libera (pulchritudo vaga) e aderente (pulchritudo adhaerens). «La prima non presuppone alcun concetto di ciò che l’oggetto deve essere; la seconda presuppone questo concetto e la perfezione (v.) dell’oggetto alla stregua di esso. La prima si dice b. (per sé stante) di questa o quella cosa; l’altra, essendo aderente ad un concetto (b. condizionata), è attribuita ad oggetti i quali stanno sotto il concetto di uno scopo particolare»; «nel giudizio d’una b. libera (secondo la semplice forma) il giudizio di gusto è puro», mentre nel giudizio della b. aderente il giudizio di gusto è applicato; la b. per la quale si deve cercare un ideale (v.) «non

può essere una b. vaga, ma una b. fissata, mediante un concetto di finalità oggettiva, e per conseguenza non può appartenere all’oggetto di un giudizio di gusto in parte intellettuale. In altri termini, quella specie di principii del giudizio, in cui deve sussistere un ideale, deve avere a fondamento un’idea della ragione secondo concetti determinanti, che determini a priori lo scopo su cui riposa la possibilità interna dell’oggetto... l’uomo dunque, tra tutti gli oggetti del mondo, è il solo capace dell’ideale della b., così come l’umanità nella sua persona, in quanto intelligenza, è essa sola capace dell’ideale della perfezione»; la b. non può affatto essere concepita come una «perfezione pensata confusamente» perché la differenza tra il concetto di bello e di buono non è solo di forma logica, quasi avessero identico contenuto e identica origine, ma il primo fosse confuso e il secondo chiaro, mentre invece è una differenza specifica, in quanto il giudizio estetico è specificamente distinto da quello logico, e non dà assolutamente nessuna conoscenza nemmeno confusa; «in generale la b. (della natura o dell’arte) è l’espressione di idee estetiche (v.)»; mentre però nell’arte bella «quest’idea può essere occasionata da un concetto dell’oggetto, nella bella natura è sufficiente la semplice riflessione su di una intuizione data, senza il concetto di ciò che l’oggetto deve essere, per suscitare e comunicare l’idea di cui l’oggetto è considerato come l’espressione»; la b. è simbolo della moralità, in quanto, pretendendo il bello al consenso universale, «l’animo si sente come nobilitato ed elevato sulle semplici capacità di provar piacere dalle impressioni dei sensi, ed apprezza il valore degli altri secondo una massima simile del loro Giudizio». Così «il Giudizio non si vede, come quando è empirico, sottoposto all’eteronomia delle leggi dell’esperienza, ma legato a qualche cosa che è nel soggetto stesso e fuori di esso, che non è natura né libertà, ma è congiunto col principio di quest’ultima, vale a dire col soprasensibile, nel quale la facoltà teoretica e la pratica si congiungono in una maniera comune, ma sconosciuta»; parlare di b. delle figure geometriche o dei numeri «per una certa finalità a priori rispetto ad usi diversi della conoscenza, che non si aspettava dalla semplicità della loro costruzione» o anche di b. intellettuale è improprio, perché il giudizio in questo caso non è affatto estetico, ma intellettuale, per cui si dovrebbe piuttosto parlare di perfezione relativa. (Cfr. in generale Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime.) BELLEZZA NATURALE (Naturschönheit): la b.n. può essere considerata come «l’esibizione (v.) del concetto della finalità formale (puramente soggettiva)» e pertanto deve essere giudicata esteticamente, per mezzo del sentimento di piacere, a differenza della finalità (v.) della natura che deve invece essere giudicata con l’intelletto e con la ragione. In questo senso alla b.n. corrisponde la critica del Giudizio estetico; la b.n. si distingue dal sublime (v.), perché «include una finalità nella sua forma, per cui l’oggetto sembra come predisposto per il nostro Giudizio, e perciò la b.n. costituisce essa stessa un oggetto di piacere, mentre ciò che produce in noi il sentimento del sublime, può apparire, riguardo alla forma, contrario alla finalità per il nostro Giudizio»; «la b.n. per sé stante ci rivela una tecnica (v.) della natura, che ce la rappresenta come un sistema secondo leggi di cui non sappiamo trovare il principio nella nostra facoltà intellettiva; cioè secondo un principio che è quello di una finalità relativa all’uso del Giudizio applicato ai fenomeni, in modo che questi possono essere considerati come appartenenti non soltanto alla natura del suo meccanismo senza scopo, ma anche alla natura come analogo dell’arte»; «la b.n. ha il vantaggio sulla bellezza artistica, di destare essa sola un interesse immediato, sebbene possa essere superata dall’altra per ciò che riguarda la forma», e tale vantaggio «si accorda col carattere raffinato e solido di tutti gli uomini che hanno coltivato il proprio sentimento morale»; e questo non perché si associ alla b.n. un’idea morale, ma perché la b.n. in se stessa, intrinsecamente, manifesta un’attitudine a tale associazione; «la b. della natura, che è attribuita agli oggetti solo relativamente alla riflessione sulla intuizione esterna di essi, e quindi soltanto per la forma della loro superficie, può essere detta con ragione un analogo dell’arte», a differenza della perfezione interna della natura; la b.n. «come accordo della natura con il libero giuoco delle nostre facoltà conoscitive nell’apprensione e nel giudizio dei suoi fenomeni, può essere considerata come una finalità oggettiva della natura, in quanto questa nel suo insieme può essere un sistema di cui l’uomo è membro, dappoiché il giudizio teleologico

della natura stessa mediante quei fini che ci forniscono gli esseri organizzati, ci ha autorizzati all’idea di un grande sistema dei fini naturali». BELLO (das Schöne): «b. è ciò che piace senz’altro», e in tal modo si distingue tanto dal piacevole (v.) quanto dal buono (v.), perché è un piacere libero e disinteressato, e l’approvazione in esso non è imposta da alcun interesse, né dai sensi né dalla ragione. Perciò, secondo la qualità, il b. va definito come l’oggetto di un piacere senza alcun interesse. Secondo la quantità, invece, il b. va definito come «ciò che è rappresentato, senza concetti, come l’oggetto di un piacere universale»; («è b. ciò che piace universalmente senza concetto»). Secondo la relazione b. è ciò in cui si percepisce «una finalità che, per quanto possiamo giudicarne, non si riferisce ad alcun scopo». Secondo la modalità, infine, «il b. è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario»; il b. concorda con il sublime (v.) per il fatto «che entrambi piacciono per se stessi e non presuppongono un giudizio dei sensi, né un giudizio determinante dell’intelletto, ma un giudizio di riflessione». Mentre però «il b. della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione, il sublime invece si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza, pensata per di più nella sua totalità; sicché pare che il b. debba essere considerato come l’esibizione (v.) d’un concetto indeterminato dell’intelletto, e il sublime come l’esibizione d’un concetto indeterminato della ragione». Nel caso del b. quindi il piacere è legato alla rappresentazione della qualità, mentre nel sublime è legato con quella della quantità. Il b. inoltre «implica direttamente un sentimento di agevolazione e intensificazione della vita e perciò si può conciliare con le attrattive e con il giuoco della immaginazione» mentre il sentimento del sublime sorge solo indirettamente, e non può essere unito ad attrattive (v.). Infine: mentre il b. comporta un accordo della forma con la finalità del Giudizio, il sublime come sentimento può apparire in contrasto con la finalità per il Giudizio; il b. richiede «la rappresentazione di una certa qualità dell’oggetto, che si può anche rendere intelligibile e riportare a concetti (sebbene ciò non si faccia nel giudizio estetico): coltiva l’animo, richiamando l’attenzione sulla finalità del sentimento di piacere». «B. è ciò che piace nel semplice giudizio (e quindi non per mezzo della sensazione dei sensi, secondo un concetto dell’intelletto)». OSS, II, 208-56 in generale; e specialmente «c’è un sentimento di specie più fine, che viene così chiamato o perché lo si può godere più a lungo senza provarne sazietà e stanchezza, oppure perché presuppone, per così dire, una sensibilità dell’anima, che la rende insieme atta a sentimenti virtuosi, o perché indica la presenza di talenti e doti intellettuali, mentre invece gli altri sentimenti inferiori possono aver luogo senz’alcun bisogno di riflessione»; questo sentimento «più fine» si distingue in b. e sublime (v.). Mentre però il sublime commuove, il b. stimola. Mentre il sublime deve essere sempre grande, il b. può essere anche piccolo; mentre il sublime deve essere semplice, il b. può essere adornato; l’emozione provocata dal b. è meno forte di quella provocata dal sublime; mentre al sublime corrisponde la tragedia, al b. corrisponde la commedia; nulla è più opposto al b. del disgusto (v.). BENE (buono; das Gute, gut): il b. è ciò che mediante la ragione piace puramente per il suo concetto; pertanto il b. in sé, che piace per se stesso, va distinto da b. che piace soltanto come mezzo, cioè dall’utile (v.). In entrambi i casi è però contenuto il concetto di uno scopo, e quindi «un piacere legato all’esistenza di un oggetto o di un’azione, vale a dire un interesse». Mentre per giudicare b. un oggetto occorre sapere che specie di cosa è, e cioè averne un concetto, questo non è necessario per giudicarlo bello. Invece il piacevole e il b. hanno tra loro in comune l’interesse (v.) per il loro oggetto e si riferiscono entrambi alla facoltà di desiderare; il b. morale è lo scopo ultimo dell’umanità. PRAT: il b. è «un oggetto necessario della facoltà di desiderare, secondo un principio della ragione». In questo senso si distingue dall’utile che è invece l’essere «b. a qualche cosa», e quindi è sempre connesso a un b. che dovrebbe essere fuori della volontà, nella sensazione. Propriamente quindi b. non può essere una cosa, ma soltanto «il modo di agire, la massima della volontà, e quindi la persona stessa agente come uomo buono o cattivo». B. assolutamente pertanto è «una volontà la cui massima è sempre conforme alla legge morale, ed è la condizione di ogni b.».

(das höchste Gut): s.b. nel mondo è l’oggetto della legge della casualità dell’uomo come dotato della libertà; il s.b. possibile sotto l’impero di un essere originario legislatore della natura e di un regno morale dei fini è «l’esistenza di esseri ragionevoli sotto leggi morali»; il s.b. possibile nel mondo mediante la libertà è lo scopo finale a cui la legge morale ci impone a priori di tendere; «la realtà oggettiva del concetto di s.b. non può esser dimostrata in nessuna esperienza per noi possibile, e quindi sufficientemente per l’uso teoretico della ragione; ma la ragion pratica pura ce ne raccomanda l’uso per la miglior realizzazione possibile di quello scopo, e quindi deve essere ammesso come possibile». PURA, e specialmente: «io dico ideale del s.b. l’idea di una tale intelligenza, in cui il volere moralmente più perfetto, unito alla più alta beatitudine è causa di ogni felicità del mondo, in quanto essa sta in esatto rapporto con la moralità (con il merito di esser felice). La ragion pura, dunque, non può trovare se non nell’ideale del s.b. originario il fondamento della connessione praticamente necessaria dei due elementi del s.b. derivato, di un mondo intelligibile, ossia morale». PRAT: s.b. è l’incondizionato, cercato dalla ragion pratica per il condizionato, «e, invero, non come principio determinante della volontà, ma quando anche questo venga dato (nella legge morale), quale totalità incondizionata dell’oggetto della ragion pratica». PRAT: «il s.b. può essere sempre l’intero oggetto di una ragion pura pratica, cioè di una volontà pura; tuttavia non perciò esso è da ritenersi il motivo determinante di questa volontà, e soltanto la legge morale dev’essere considerata come il motivo [che la spinge] a farsi un oggetto di quel bene, e della sua effettuazione o promovimento». CAMPO (Feld): «i concetti hanno un loro c., in quanto sono riferiti ad oggetti, a prescindere dalla possibilità della conoscenza degli oggetti stessi; e questo campo è determinato unicamente dal rapporto del loro oggetto con la nostra facoltà di conoscere in generale». CARATTERISMA (Charakterism): è una designazione di concetti per mezzo «di segni sensibili concomitanti, che non contengono nulla che appartenga all’intuizione dell’oggetto, ma servono soltanto come mezzo di riproduzione secondo la legge dell’associazione immaginativa, e quindi per uno scopo soggettivo»; in questo senso sono c. le parole, come semplici espressioni dei concetti, oppure i segni algebrici e mimici. CARATTERISTICO (das Charakteristiche): è ciò che manifesta più il carattere proprio di una persona che non l’idea della specie. Quanto viene esagerato, si ha la caricatura (v.). Per questo senso di carattere cfr. soprattutto la II parte dell’Antropologia pragmatica (La caratteristica antropologica della maniera di conoscere dall’esterno l’interno dell’uomo, ANTR). CARICATURA (Karikatur): «si chiama c. il caratteristico, quando sia esagerato, cioè pregiudichi l’idea normale (v.) stessa (la finalità della specie)». CATEGORIA (Kategorie): concetto universale della natura; «concetto a priori della unità sintetica del molteplice dell’intuizione, il quale permette di pensare il molteplice come determinazione dell’oggetto»; «la c. può produrre una conoscenza soltanto quando sia applicata agli oggetti dei sensi, ma non al soprasensibile»; ciò non toglie che nella teologia morale (v.) le c. possano essere usate per una conoscenza di Dio, «ma non dal punto di vista teoretico (per sapere che cosa è in sé stessa la sua natura per noi impenetrabile) ma unicamente dal punto di vista pratico». PURA: una delle 12 funzioni secondo cui l’intelletto svolge il proprio lavoro di unificazione del materiale sensibile. La sua forma si manifesta in una delle 12 forme dei giudizi; «Le c. sono concetti di un oggetto in generale, onde l’intuizione è determinata rispetto a una delle funzioni logiche del giudicare». CAUSA (Ursache): «ogni cangiamento ha la sua c., è una legge universale della natura»; «la parola c., usata a proposito del soprasensibile, indica soltanto il motivo che determina la causalità delle cose naturali a produrre un effetto in conformità alle proprie leggi, ma insieme anche in accordo con il principio formale delle leggi della ragione»; c. reale è quella che corrisponde al nexus effectivus ossia a un rapporto di cose che in quanto effetti ne presuppongono altre come c., ma non possono essere nello stesso tempo c. di queste. Questo legame causale si chiama legame delle c. efficienti. C. ideale è quella che corrisponde al nexus finalis, ossia a un rapporto di dipendenza insieme ascendente e discendente, BENE SOMMO

«in modo che la cosa che una volta è designata come effetto, risalendo, meriti il nome di c. di quell’altra cosa di cui è effetto», come spesso avviene nella pratica e nell’arte. Questo legame causale si chiama legame delle c. finali (v.). PURA: «Il concetto di c. significa una particolare maniera di sintesi in cui a qualcosa (A) viene associata, secondo una regola, qualche altra cosa affatto diversa (B)». PURA: «il concetto di c. contiene così manifestamente il concetto di una necessità del legame con un effetto, che andrebbe interamente perduto se lo si volesse derivare, come fece Hume, dal frequente associarsi di ciò che accade con ciò che precede». CAUSA FINALE (Endursache): mentre nelle cause efficienti il legame causale è pensato soltanto dall’intelletto e costituisce un legame univoco («le cose che in quanto effetti ne presuppongono altre come cause, non possono essere nello stesso tempo cause di queste»), nelle c.f. il legame causale è pensato «secondo un concetto della ragione (di fini)», e costituisce «una dipendenza ascendente e discendente, in modo che la cosa che una volta è designata come effetto, risalendo, meriti il nome di causa di quell’altra cosa di cui è effetto»; «l’esplicazione secondo c.f. non è se non una condizione soggettiva dell’uso della nostra ragione, quando essa non vuol giudicare degli oggetti in quanto semplici fenomeni, ma vuol riferirli al sostrato soprasensibile, per spiegare la possibilità di certe leggi della loro unità, che non può rappresentarsi se non mediante fini». USO, VIII: «giustamente la ragione in ogni indagine sulla natura si richiama prima alla teoria, e poi soltanto più tardi alla determinazione di fini. La mancanza della teoria non può essere sostituita da nessuna teleologia né finalità pratica. Noi rimaniamo sempre ignoranti rispetto alle cause efficienti, anche se possiamo mostrare nel modo più persuasivo ed evidente la validità del nostro presupposto delle c.f.». CLASSICO (Klassisch): sono c. i modelli delle belle arti formulati in lingue antiche ed ora conservate soltanto come lingue dotte. COLORITO (Farbenkunst): insieme alla musica (v.) costituisce una sottospecie dell’arte del bel giuoco delle sensazioni prodotte dal di fuori; «un semplice colore, per esempio il verde di un prato, un semplice suono, come quello di un violino, in generale sono dichiarati belli per sé stessi; sebbene entrambi mostrino di aver a fondamento la semplice materia della rappresentazione, cioè unicamente la sensazione, e perciò meritano di essere chiamate soltanto piacevoli. Ma le sensazioni del colore, come quelle del suono, non possono essere giustamente ritenute belle, se non in quanto sono pure; ed è questa una determinazione che già riguarda la forma, ed è anche l’unica in queste rappresentazioni che si possa con certezza universalmente comunicare; perché la qualità delle sensazioni non si può ammettere come concordante in tutti i soggetti, e la superiorità, riguardo al piacevole, di un colore sull’altro, difficilmente si può ammettere che sia giudicata da ognuno allo stesso modo». Se si ammette con Eulero che i colori «siano un seguito di vibrazioni isocrone dell’etere» e che l’animo possa percepire con la riflessione anche il giuoco regolare delle impressioni, e quindi la forma nell’unione delle diverse rappresentazioni, allora «colore e suono, anziché semplici sensazioni, sarebbero già una determinazione formale dell’unità di un molteplice, e perciò potrebbero essere considerati per se stessi come bellezze». COLOSSALE (Kolossal): «si chiama c. la semplice esibizione (v.) di un concetto che è press’a poco troppo grande per ogni esibizione»; il c. confina con il mostruoso (v.) relativo. COLTURA (Kultur): «è la produzione, in un essere ragionevole, della capacità di proporsi fini arbitrarii in generale (e quindi nella sua libertà). Sicché la c. soltanto può essere lo scopo ultimo che la natura abbia ragione di porre relativamente alla specie umana (non la sua felicità sulla terra e semplicemente il privilegio di essere il principale istrumento dell’ordine e dell’armonia nella natura esterna priva di ragione)». Non ogni c. è però sufficiente per questo scopo ultimo della natura; se infatti la c. dell’abilità è «la condizione soggettiva principale della capacità di promuovere la volontà nella determinazione e nella scelta dei suoi fini, l’ultima condizione di questa capacità, che si potrebbe chiamare c. dell’educazione (della disciplina) è negativa, e consiste nella liberazione della volontà dal despotismo degli appetiti»; «la condizione formale sotto cui soltanto la natura può raggiungere questo suo scopo finale è quella costituzione nei rapporti degli uomini fra loro che in un tutto, che si chiama società

civile, oppone un potere legittimo alle infrazioni reciproche della libertà». IDEA, VIII: «la c. consiste nel valore sociale dell’uomo» e nel passaggio dalla inciviltà alla c. «vengono a poco a poco sviluppati tutti i talenti, formato il gusto, e, mediante un prolungato processo di rischiaramento, vengono poste le basi per un modo di pensare che può trasformare, con il tempo, in principi pratici determinati, le rozze disposizioni naturali a distinguere moralmente e, quindi, a trasformare un accordo patologicamente estorto in una società, ed infine in una totalità morale». IDEA, VIII: «ogni c. ed arte, di cui l’uomo si pregia, lo stesso ordine sociale migliore, sono frutti della insocievolezza umana, che è costretta a disciplinarsi e così a dare pieno sviluppo ai germi della natura attraverso un’arte forzosa». ANTR: rispetto alla semplice «disposizione tecnica», costituisce una disposizione più alta «la disposizione pragmatica alla civiltà per mezzo della c., principalmente per mezzo delle qualità sociali e della tendenza naturale, propria della specie, a uscire nella vita associata fuori dalla rozzezza del puro egoismo e a diventare essere accostumato (se non ancora morale) atto a vivere con gli altri». ANTR: «l’uomo è determinato dalla sua ragione a vivere in società con uomini e in essa a coltivarsi con l’arte e con le scienze». Cfr. pure: Metafisica dei costumi, II, § 19. COMPOSIZIONE (Komposition): costituisce l’oggetto proprio del puro giudizio di gusto nella musica. COMPRENSIONE (Zusammenfassung): insieme all’apprensione (v.) costituisce una delle due operazioni necessarie all’immaginazione «per adottare intuitivamente una quantità da potersene servire come misura od unità nella valutazione delle grandezze mediante numeri». A differenza dell’apprensione non può procedere all’infinito e «diventa sempre più difficile a misura che procede l’apprensione»; perciò raggiunge presto un massimo oltre il quale non si può andare, «cioè la più grande misura estetica nella valutazione delle grandezze»; la c. estetica, mediante un’intuizione dell’immaginazione va però distinta dalla c. logica in un concetto di numero; l’impossibilità di una c. estetica dell’infinità della natura porta il concetto di natura ad un sostrato soprasensibile che supera ogni misura dei sensi, e costituisce così un momento essenziale del sentimento del sublime (v.); l’impossibilità soggettiva di c. della totalità assoluta, va distinta nettamente dall’impossibilità oggettiva di pensare l’infinito come semplicemente dato (valutazione logica delle grandezze), in quanto nella valutazione estetica vale come unità di misura adeguata non il numero, ma la c. dell’immaginazione. COMUNICABILITÀ (Mitteilbarkeit): non si può pensare una c. universale della sensazione, perché questo presupporrebbe che ciascuno abbia lo stesso senso che abbiamo noi; neppure si può pensare una c. universale del sentimento morale, se non mediante concetti pratici della ragione ben determinati. Anche il piacere per il sublime richiede una partecipazione universale, ma a sua volta presuppone il sentimento della nostra destinazione soprasensibile, e quindi la legge morale, a sua volta fondata sopra concetti della ragione. Soltanto per il piacere del bello, in quanto «non è né un piacere del godimento, né di un’attività conforme a leggi, né della contemplazione ragionante secondo idee, ma un piacere della semplice riflessione», si può esigere a priori una universale c., senza l’intervento di concetti. CONCETTO (Begriff): i c. a priori hanno un campo «in quanto sono riferiti ad oggetti, a prescindere dalla possibilità della conoscenza degli oggetti in sé stessi; la parte di questo campo in cui è possibile la conoscenza si chiama territorio di questi c., e la parte del territorio in cui sono legislativi si chiama dominio; perciò i c. dell’esperienza hanno il loro territorio nella natura, ma non vi hanno nessun dominio, perché sono formati secondo loro ma non sono legislativi»; un concetto può essere trascendente, quando è una idea della ragione, ossia un c. in cui si ha un riferimento oggettivo, senza però poter fornire una conoscenza dell’oggetto, oppure immanente, quando è un c. dell’intelletto e gli si può sempre «sottoporre una esperienza corrispondente adeguata». PURA: le intuizioni «vengono pensate dall’intelletto, e da esso derivano i c.». CONFL, conclusione (VII, 113): «Il c. è unità della coscienza di diverse rappresentazioni». CONTINGENZA (Zufälligkeit): c. della natura vuol dire che «quando si guarda al semplice nexus effectivus della natura, e non si ricorre ancora ad una specie particolare di causalità, cioè a quella dei fini (nexus finalis)» la struttura teleologica di un organismo risulta del tutto contingente, e cioè «che la

natura, considerata come semplice meccanismo, avrebbe potuto configurarsi in mille altri modi, senza che le capitasse di giungere proprio all’unità secondo tale principio (la finalità oggettiva) e che quindi non si può sperare di trovarne neppure la menoma ragione nel concetto di natura, ma solo fuori di esso»; la c. di una forma di una cosa, che non è spiegabile solo mediante il meccanismo, in tutte le leggi empiriche relativamente alla ragione «è per se stessa un argomento per considerare la sua causalità come possibile soltanto mediante la ragione»; la c. della forma d’un prodotto naturale (relativamente alle semplici leggi della natura) dimostra che il concetto di fine naturale «non è costitutivo per il Giudizio determinante, ma semplicemente regolativo del Giudizio riflettente»; nella costituzione del nostro intelletto c’è una certa c. che attesta la sua differenza da altri intelletti possibili (v. INTELLETTO, INTELLETTO DISCORSIVO, INTELLETTO INTUITIVO) e «questa c. si trova del tutto naturalmente nel particolare che il Giudizio deve ricondurre all’universale dei concetti dell’intelletto; perché con l’universale del nostro (umano) intelletto il particolare non è determinato; e sono contingenti i vari modi in cui cose diverse, che però si accordano in un carattere comune, possono presentarsi alla nostra percezione. Il nostro intelletto è una facoltà di concetti, cioè un intelletto discorsivo, per il quale devono esser contingenti la specie e le differenze del particolare che gli è dato nella natura e che può esser ricondotto ai suoi concetti»; in quanto le cose naturali che troviamo possibili solo come fini implicano la c. di queste cose rispetto alle leggi della natura, esse «costituiscono la migliore prova della c. dell’universo e sono l’unica prova della dipendenza e dell’origine dell’universo da un essere che è fuori del mondo e intelligente, per cui la teleologia non trova la perfetta conclusione delle sue investigazioni che in una teologia». CONTINUITÀ, LEGGE DELLA (lex continui): «la natura non fa alcun salto, né nella serie dei suoi cambiamenti, né nella giustapposizione delle sue forme specificamente diverse». PURA: «la proprietà delle grandezze per cui in esse non c’è parte che sia la più piccola possibile dicesi c.». – La «legge della c. delle forme (formarum logicarum)», presuppone la «lex continui in natura» ed è «una semplice idea, alla quale non si può additare un congruo oggetto nell’esperienza». CONTRADIZIONE, PRINCIPIO DI (Satz des Widerspruchs): può dimostrare solo la possibilità del pensiero e non dell’oggetto pensato. PURA: la non contradizione «è la conditio sine qua non, però solo negativa, di ogni verità». PURA: «il principio di c., in quanto semplicemente logico, non deve assolutamente limitare le sue enunciazioni ai rapporti di tempo». CONVENIENZA (Zuträglichkeit): come l’utilità (v.), la c. è una specie di finalità esterna, e pertanto semplicemente relativa; ma a differenza dall’utilità, nella c. la finalità di un effetto naturale come mezzo per l’impiego finale di altre cause è considerata non rispetto agli uomini soltanto, ma rispetto ad ogni altra natura (come per es. il terreno sabbioso rispetto alla crescita di una pineta). Pertanto la c. (finalità esterna) «non può essere considerata come uno scopo esterno della natura, se non alla condizione che l’esistenza della cosa cui essa, da vicino o da lontano, si riferisce, sia per se stessa uno scopo della natura». COSE DI FEDE (Glaubenssachen): per c.d.f. (res fidei) si intendono «gli oggetti che relativamente all’uso, conforme al dovere, della ragion pratica pura (sia come conseguenze, sia come principii) debbono essere pensati a priori, ma sono trascendenti per l’uso teoretico di questa facoltà». Pertanto gli unici argomenti che meritano il nome di c.d.f. sono il sommo bene, l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, come oggetti della ragion pura. CREAZIONE (Schöpfung): «quando ci serviamo della parola c. non intendiamo altro che la causa dell’esistenza di un mondo o delle cose che si trovano in questo (delle sostanze); come vuole il concetto proprio di questa parola (actuatio substantiae est creatio): il che, per conseguenza, non implica ancora la supposizione di una causa che agisca liberamente, e quindi intelligente (di cui vogliamo provare l’esistenza)». PURA: «Se l’origine dal nulla è considerata come effetto di una causa esterna, si chiama c.; questa non può essere ammessa come un avvenimento tra i fenomeni». CRESCITA (Wachstum): si ha quando un prodotto naturale produce sé come individuo. «Questa specie

di effetto noi veramente lo chiamiamo semplicemente c.; ma questa c. bisogna intenderla nel senso che è interamente diversa da ogni altro accrescimento secondo leggi meccaniche, e, sebbene sotto un altro nome va considerata come una produzione» (generazione). CRITICA (Kritik): c. della ragion pura è «l’esame della sua possibilità e dei suoi limiti in generale»; «intesa così la c. della ragion pura riguarda solo l’esame della nostra facoltà di conoscere qualcosa a priori; si occupa quindi solo della facoltà di conoscere, prescindendo dal sentimento di piacere e di dispiacere e della facoltà di desiderare, e nella facoltà di conoscere essa non considera se non l’intelletto, secondo i suoi principii a priori, prescindendo dal Giudizio e dalla ragione»; la c. del Giudizio si occupa del problema «se il Giudizio, che nell’ordine delle nostre facoltà di conoscere fa come da termine medio tra l’intelletto e la ragione, abbia anche per se stesso principii a priori; se questi principii siano costitutivi o semplicemente regolativi; e se il Giudizio dia a priori la regola al sentimento di piacere o di dispiacere, come al termine medio tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare». In questo senso la c. del Giudizio integra la c. della ragion pura che altrimenti rimarrebbe incompleta; «la c. delle facoltà di conoscere, considerate in ciò che esse possono fornire a priori, non ha propriamente alcun dominio (v.) per riguardo agli oggetti; perché essa non è una dottrina, ma ha solo da ricercare se e come, secondo le condizioni delle nostre facoltà, queste possano fornire una dottrina. Il suo campo (v.) si estende a tutte le loro pretese, per chiuderle nei limiti della loro legittimità»; la c. del Giudizio estetico si distingue da quella del Giudizio teleologico, perché la prima «comprende la facoltà di giudicare la finalità formale (detta anche altrimenti soggettiva) per via del sentimento di piacere o dispiacere, e la seconda la facoltà di giudicare della finalità reale (oggettiva) della natura, mediante l’intelletto e la ragione»; la c. del Giudizio rientra nella filosofia trascendentale in quanto i giudizi di gusto sono sintetici, e quindi si pone il problema di come sono possibili i giudizi sintetici a priori. PURA; A XI-XII: «un tribunale che garantisca la ragione nelle sue pretese legittime e condanni quelle che non hanno fondamento non può essere se non la c. della ragion pura». DANZA (Tanz): è il risultato dell’unione delle sensazioni musicali con il giuoco delle figure. DEDUZIONE DEI GIUDIZI ESTETICI (Deduktion der reinen ästhetischen Urteile): è «la legittimazione della pretesa di un giudizio estetico alla validità universale per ogni soggetto in quanto questo giudizio deve fondarsi su qualche principio a priori»; l’obbligo di tale legittimazione sussiste solo per i giudizi che pretendono alla necessità, e tale è il caso dei g.e. in quanto esigono l’universalità soggettiva, pur non essendo giudizi di conoscenza; tale d. consiste nell’accertare che il giudizio di gusto possieda due qualità logiche: la validità universale a priori, pur essendo l’universalità di un giudizio singolare, è una necessità che non dipende da alcuna prova a priori. PURA: «i giuristi distinguono quello che è di diritto (quid juris) da ciò che si attiene al fatto (quid facti) e chiamano la dimostrazione del diritto o della pretesa, d.». DEMONOLOGIA (Dämonologie): «rappresentazione antropomorfica dell’essere supremo». DIALETTICA (Dialektik): la d. consiste nell’opposizione di giudizi a priori che pretendono all’universalità; «Perciò la contraddizione tra giudizi estetici sensibili (sul piacevole e lo spiacevole) non è dialettica». Propriamente quindi non è possibile una d. dei giudizi di gusto, «quando ciascuno fa appello semplicemente al gusto proprio», ma «della critica del gusto considerata nei suoi principii». Vi sarà dunque una d. del Giudizio estetico, «soltanto se si trovi tra i principii di questa facoltà un’antinomia che ne faccia dubbia la legittimità, e per conseguenza l’intima possibilità»; la d. del Giudizio riflettente si fonda sull’antinomia tra le massime (v.) necessarie del Giudizio riflettente e si dice d. naturale «se ciascuna delle due massime contraddittorie ha il suo fondamento nella natura delle facoltà conoscitive». DILETTO (Vergnügen): si distingue essenzialmente dal piacere che si prova semplicemente nel giudizio, perché è ciò che piace nella sensazione, e pertanto non si può pretenderlo da ognuno. Anche quando la sua causa sta nelle idee il d. consiste «nel sentimento dello svolgimento più facile di tutta la vita dell’uomo».

(demonstrieren): se per d. si intende l’esibire, ossia il presentare nell’intuizione (pura o empirica) l’oggetto corrispondente a un concetto, i concetti dell’intelletto debbono essere sempre dimostrabili, mentre l’idea della ragione è un concetto indimostrabile, in quanto non può mai essere data un’intuizione adeguata a tale concetto. DIO (Gott): è la causa morale del mondo (autore del mondo) che dobbiamo ammettere per proporci uno scopo finale conformemente alla legge morale e in quanto tale scopo è necessario; D. non è soltanto un essere intelligente (quale è necessario per spiegare la possibilità delle cose naturali, che siamo obbligati a giudicare come fini) ma nel tempo stesso un essere morale, quale è postulato dalla ragion pratica, ossia mediante la teleologia morale (v. ETICO-TEOLOGIA). PURA: «Essere originario, supremo, essere degli esseri», «uno, semplice, onnipotente, eterno». Ivi: «se noi seguiamo più oltre questa nostra idea di cui facciamo un’ipostasi, potremmo determinare l’Essere originario mediante il concetto di realtà suprema... per mezzo di tutti i predicati». – Dal punto di vista pratico D. è un postulato, come colui che adegua la felicità al merito; ed è l’idea del promulgatore della legge morale. OP, XXI: «Per D. s’intende una persona che ha potere giuridico su tutti gli esseri razionali»; OP, XXXII: «D. non è una sostanza, ma l’idea personificata del diritto e della benevolenza». DISEGNO (Zeichnung): «nella pittura, nella scultura, e in tutte le arti figurative, nella architettura, nel giardinaggio, in quanto sono arti belle l’essenziale è il d., in cui ogni affermazione del gusto non riposa su ciò che diletta nella sensazione, ma su ciò che piace semplicemente per la sua forma»; «il d. è l’oggetto proprio del puro giudizio di gusto nelle figure». DISGUSTO (Ekel): è «una singolare sensazione, che riposa soltanto sull’immaginazione e nella quale l’oggetto è rappresentato come se si imponesse al nostro piacere e noi però lo respingiamo con forza»; perciò la rappresentazione di un tale oggetto non può essere considerata bella e pertanto il d. è l’unico limite posto alla capacità dell’arte di rendere belle quelle cose che in natura sono brutte. ANTR: «siccome c’è un nutrimento spirituale, che consiste nella comunicazione dei pensieri, e l’animo può sentirsi contrariato, quando tal nutrimento ci è imposto e non è per noi salutare (per esempio, la ripetizione di motti, che dovrebbero essere sempre allo stesso modo spiritosi o piacevoli, ci può essere, per questa stessa uniformità, insopportabile), così l’istinto naturale a liberarsene viene chiamato ugualmente d. (nausea), sebbene esso appartenga al senso interno», per analogia a quanto avviene in campo fisiologico. DISPIACERE (Unlust) v. PIACERE. DIVISIONE (Einteilung): ogni d. a priori o sarà analitica, secondo il principio di contraddizione, e allora in tal caso sarà sempre dicotomica, oppure sarà sintetica, e allora dovendo essere derivata da concetti a priori e non, come nella matematica, dall’intuizione corrispondente a priori al concetto, sarà tricotomica, implicando: 1) la condizione, 2) il condizionato, 3) il concetto che nasce dall’unione della condizione con il condizionato. LOG, IX: «ogni concetto contiene un molteplice sotto di sé, in quanto tale molteplice concorda, ma anche in quanto è diverso. La determinazione di un concetto rispetto a tutto il possibile che è contenuto sotto di quel concetto, in quanto è reciprocamente contrapposto, e cioè reciprocamente distinto, si chiama d. logica del concetto. Il concetto superiore si chiama concetto diviso (divisum), mentre i concetti inferiori si chiamano membri della d. (membra dividentia)». DOMINIO (Gebiet): d. di certi concetti e della facoltà di conoscere ad essi corrispondente è quel territorio (v.) della conoscenza dove questi concetti sono legislativi. I d. della nostra facoltà di conoscere sono perciò due: «quello dei concetti della natura e quello del concetto di libertà; perché mediante entrambi essa è legislatrice a priori». D. della filosofia può essere soltanto «l’insieme degli oggetti di ogni esperienza possibile, in quanto essi non sono considerati se non come semplici fenomeni»; la critica delle facoltà di conoscere, considerate in ciò che esse possono fornire a priori, non ha propriamente alcun d. per riguardo agli oggetti, perché essa non è una dottrina, ma ha solo da ricercare se e come, secondo le condizioni delle nostre facoltà, queste possano fornire una dottrina». DOVERE (das Sollen): nel giudizio di gusto indica «la necessità oggettiva dell’accordo del sentimento DIMOSTRARE

di ognuno» in modo da stabilire un’unanimità, in base all’idea di senso comune (v.); in senso morale è «la legge pratica che determina ciò che per opera nostra è possibile». Cfr. pure Critica della ragion pratica. DURATA (Dauer): concetto dell’esistenza in quanto grandezza. PURA: «solo per mezzo del permanente l’esistenza acquista nella serie temporale una grandezza che si chiama d. Giacché nella pura e semplice successione l’esistenza scompare e ricompare sempre, e non ha mai nemmeno la più piccola quantità». EAUTONOMIA (Heautonomie): è la proprietà per cui il Giudizio ha in sé anche un principio a priori della possibilità della natura, ma soltanto dal punto di vista soggettivo con il quale prescrive a se stesso una legge per la riflessione della natura che si potrebbe chiamare legge della specificazione (v.) della natura. INTR: la legislazione a priori del Giudizio «dovrebbe propriamente chiamarsi e., perché il Giudizio non fornisce la legge né alla natura né alla libertà, ma solo a se stesso, e perché esso non è una facoltà per produrre concetti di oggetti, ma soltanto una facoltà per comparare i casi che ogni volta si presentano con concetti che gli sono dati per altra via, e per prescrivere a priori le condizioni soggettive della possibilità di questa connessione». EDUZIONE (Edukt): è quella forma di prestabilismo (v.) che considera ogni essere organico generato dal suo simile, mediante però una preformazione individuale. ELOQUENZA (Beredsamkeit): come la poesia (v.) è una sottospecie delle arti della parola, e consiste «nel trattare un compito dell’intelletto come se fosse un libero giuoco dell’immaginazione»; in questo senso «l’oratore promette qualcosa di serio, e l’esegue come se fosse un semplice giuoco di idee per divertire gli spettatori»: l’e., intesa non come semplice arte del dire, ma come arte di persuadere con la bella apparenza «è una dialettica che non prende in prestito dalla poesia se non quanto è necessario per guadagnare gli animi all’oratore e togliere loro la libertà; sicché non si può consigliare né per il tribunale né per la cattedra»: «l’e. e l’arte del dire (insieme retorica) appartengono alle arti belle; ma l’arte oratoria (ars oratoria), in quanto arte di servirsi della debolezza umana ai propri fini (siano supposti o siano realmente buoni quanto si voglia), non merita alcuna stima». EMOZIONE (Rührung): è «quella sensazione in cui il piacere non è prodotto che da un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione della forza vitale». Perciò l’e. non appartiene alla bellezza né può essere mai causa del puro giudizio di gusto. L’e. è invece collegata al sublime (v.): «le e., che possono crescere fino a diventare affetti (v.), sono molto differenti. Vi sono e. forti e vi sono e. tenere. Queste ultime, quando si elevano ad essere affetti, non valgono niente». EMPIRISMO (Empirism): e. della critica del gusto è la dottrina secondo cui «il gusto giudica sempre in base a motivi determinanti empirici e quindi dati soltanto a posteriori mediante i sensi»; secondo l’e. della critica del gusto «l’oggetto del nostro piacere non sarebbe distinto dal piacevole» (v.). ENTUSIASMO (Enthusiasm): è l’idea di bene congiunta con un affetto. In quanto l’e. è un affetto (v.) ed ogni affetto è cieco, non può meritare la benevolenza della ragione; «tuttavia, considerato esteticamente, l’e. è sublime, perché è una tensione delle forze prodotta da idee, le quali danno all’animo uno slancio di gran lunga più potente e durevole dell’impulso che deriva da rappresentazioni sensibili». OSS, II: l’e. deve essere distinto dal fanatismo (v.), perché mentre il fanatismo «crede di provare una comunione immediata e straordinaria con una natura superiore», «l’e. indica uno stato d’animo, in cui l’animo è stato eccitato oltre il limite da un qualche principio, sia esso la massima della virtù patriottica, o dell’amicizia, o della religione, senza però che vi abbia nulla a che fare la fantasticheria di una comunione con qualcosa di soprannaturale». EPIGENESI (Epigenesis): è una delle sottospecie della dottrina chiamata prestabilismo (v.), e consiste nel considerare la generazione di ogni essere organico dal suo simile come una vera e propria produzione; in questo senso l’e. si può chiamare anche «preformazione generica, perché la potenza produttrice degli esseri che generano, e quindi la forma specifica sarebbe preformata virtualiter, secondo le disposizioni finali interne, assegnate originariamente alla specie stessa».

(Darstellung): l’e. «consiste nel porre accanto al concetto un’intuizione corrispondente»; esibire qualcosa nell’intuizione secondo la regola del Giudizio significa rappresentare esteticamente. V. pure IPOTIPOSI. ESPLICAZIONE (Erklärung): è un procedimento del Giudizio determinante, e consiste nel «derivare qualcosa da un principio che deve potersi conoscere e mostrare chiaramente». ESPORRE (Exponieren): e. significa riportare una rappresentazione dell’immaginazione ai concetti, e, in questo senso, «l’idea estetica si può chiamare una rappresentazione inesponibile dell’immaginazione», perché è «una intuizione (dell’immaginazione) alla quale non si può mai trovare un concetto adeguato». ESSERE ORIGINARIO (Urwesen): Spinoza ha fondato il suo idealismo (v.) della fatalità su un concetto di e.o. che non può essere compreso. Da tale e.o. il mondo deriverebbe secondo necessità e in modo inintenzionale. I fini della natura vengono considerati non come prodotti, ma come accidenti inerenti all’e.o. e a questo e.o. viene attribuita, rispetto alle cose naturali, non la causalità, ma la semplice sostanzialità; la proposizione: vi è un e.o. intelligente, non può essere dimostrata «oggettivamente», ma solo ammessa «soggettivamente per l’uso del nostro Giudizio nella sua riflessione su quei fini della natura, i quali non possono esser pensati secondo un altro principio che non sia quello di una causalità intenzionale d’una causa suprema». ETERONOMIA (Heteronomie): l’e. del giudizio di gusto consiste nel «fare dei giudizi altrui il motivo dei proprii»; l’e. del Giudizio determinante consiste nel suo doversi «regolare su leggi universali o particolari date dall’intelletto». ETICOTEOLOGIA (Ethikotheologie) o teologia morale (moraltheologie): è «il tentativo della ragione di concludere dal fine morale (che può essere conosciuto a priori) degli esseri naturali ragionevoli, alla causa medesima e alle sue proprietà». Ravvisando nella libertà l’unico scopo finale dell’esistenza del mondo, l’e., come teleologia morale «colma le lacune della teleologia fisica e viene a fondare una teologia»; un’e.t. è possibile «perché la regola della morale può bensì sussistere, ma non può sussistere lo scopo finale che viene imposto da quella regola, senza la teologia; salvo che non si rinunzii ad ogni applicazione della ragione in questo campo». EVOLUZIONE (Evolution): è una delle sottospecie della dottrina chiamata prestabilismo (v.) e consiste nel considerare la generazione di ogni essere organico dal suo simile come una semplice eduzione, e si può anche chiamare preformazione individuale, in quanto, secondo questa dottrina tutti gli individui escono immediatamente dalle mani del creatore fin dall’inizio del mondo. In tal modo il processo di generazione viene sottratto alla potenza formatrice della natura pur senza cadere nell’occasionalismo (v.), ma viene a scontrarsi però con numerosi fatti dell’esperienza. FACOLTÀ DI CONOSCERE (Erkenntnisvermögen): insieme alla facoltà di desiderare e al sentimento di piacere e di dispiacere, è una delle tre facoltà dell’anima, ed obbedisce all’intelletto come legislatore, mediante il quale soltanto ci è possibile dare leggi alla natura con concetti a priori. FACOLTÀ DI DESIDERARE (Begehrungsvermögen): «facoltà di essere, mercé le proprie rappresentazioni, la causa della realtà degli oggetti in tali rappresentazioni». FANATISMO, v. FANTASTICARE. FANTASTICARE (fanatismo, Schwärmerei): «consiste nell’illusione di voler vedere qualche cosa al di là dei limiti della sensibilità, cioè nel sognare secondo principii (vaneggiare con la ragione)». OSS, II: «il f. è per così dire una devota presunzione e trae lo spunto da una certa superbia e una fiducia eccessiva in se stessi, mirante ad avvicinarsi alle nature celesti e innalzarsi con un colpo d’ala meraviglioso al di sopra dell’ordine abituale e prescritto. Lo Schwärmer non parla d’altro che di ispirazione immediata e di vita contemplativa». PRAT: «se il f. nel senso più generale è una trasgressione, intrapresa secondo principii, dei limiti della ragione umana, il f. morale è questo passare i limiti che la ragion pura pratica pone all’umanità, per cui essa vieta di porre il motivo determinante soggettivo delle azioni conformi al dovere, cioè il movente morale di esse, in qualche cosa che non sia ESIBIZIONE

la legge stessa». REL, VI: « la persuasione di poter distinguere gli effetti della grazia da quelli della natura (della virtù), o perfino di poterli produrre in sé, si chiama f.». FATALISMO (Fatalismus), v. IDEALISMO DELLA FINALITÀ. FATTO (Tatsache): «cose di f. sono gli oggetti dei concetti, di cui può essere provata la realtà oggettiva (sia mediante la ragione, sia mediante l’esperienza, e, nel primo caso, secondo dati teoretici o pratici, ma in ogni caso per mezzo di un’intuizione loro corrispondente)». Di questo genere sono le proprietà matematiche delle grandezze, le cose che possono essere provate mediante l’esperienza, ed anche l’idea di libertà (v.), che è l’unica tra le idee della ragion pura di cui l’oggetto sia una cosa di f. FEDE (Glaube): la f. semplicemente detta «è la fiducia che abbiamo nel raggiungimento di uno scopo, cui tendere è dovere, ma di cui non possiamo scorgere la possibilità. È una libera adesione non a ciò di cui si trovano prove dommatiche per Giudizio teoreticamente determinante, né a ciò a cui ci teniamo obbligati, ma a ciò che ammettiamo a vantaggio d’uno scopo che è secondo le leggi della libertà e che ammettiamo non come un’opinione, senza ragione sufficiente, ma come fondato nella ragione (sebbene soltanto circa il suo uso pratico) in modo sufficiente per lo scopo di questa facoltà». In questo senso «un’assenza dommatica di fede non può coesistere con un modo di pensare dominato dalle massime morali (perché la ragione non può comandare di tendere a uno scopo che è riconosciuto come vano e chimerico); può coesistere invece una f. dubbia, cui è solo di ostacolo la mancanza della convinzione per via di principii della ragione speculativa». La f. (come habitus, non come actus) «è il modo di pensare morale della ragione nell’adesione a ciò che è irraggiungibile dalla conoscenza teoretica». Essa consiste dunque «nel principio costante dell’animo di tener per vero ciò che è necessario supporre come condizione del supremo scopo finale morale a ragione dell’obbligo stesso che ci lega a questo, sebbene di quella condizione non si possa da noi vedere né la possibilità né l’impossibilità»; per f. storica si intende ciò che possiamo apprendere soltanto per mezzo di una testimonianza altrui; ma in questo caso non si dovrebbe propriamente parlare di f., perché la cosa in questione è stata oggetto di esperienza o si suppone che lo sia stata, e quindi deve essere possibile raggiungerne la scienza; la f. morale «non prova qualcosa per la conoscenza della ragion pura teoretica, ma semplicemente per la ragion pura pratica in vista del compimento dei suoi doveri». PURA: «la credenza sufficiente solo soggettivamente e ritenuta insufficiente oggettivamente, dicesi f.»; «F. morale» o «razionale» è la certezza dell’esistenza di Dio e di una vita futura, che si ha «perché altrimenti sarebbero rovesciati i principii morali». Cfr. pure la Critica della ragion pratica e La religione nei limiti della semplice ragione. FELICITÀ (Glückseligkeit): «il concetto di f. non è tale che l’uomo lo tragga dai suoi istinti, e lo derivi così da ciò che in lui è animalità; è la semplice idea di uno stato che egli vuole rendere adeguato agli istinti sotto condizioni puramente empiriche (il che è impossibile)». È un concetto estremamente vario ed oscillante nei diversi tempi e nei diversi uomini, e per di più irrealizzabile perché «la natura dell’uomo non è tale da fermarsi e contentarsi nel possesso e nel godimento». La f. sulla terra pertanto non può essere lo scopo ultimo che la natura abbia ragione di porre alla specie umana, perché tale scopo ultimo può essere solo la coltura (v.), «come produzione, in un essere ragionevole, della capacità di proporsi fini arbitrarii in generale e quindi nella sua libertà»; «la condizione soggettiva per cui, sotto la legge morale, l’uomo (e, secondo tutti i nostri concetti, anche ogni essere ragionevole finito) può porsi uno scopo finale, è la f. Per conseguenza, il sommo bene fisico possibile nel mondo, per quanto è in noi, è la f.: sotto la condizione oggettiva, che l’uomo si accordi con la legge della moralità, come quella che lo rende degno di essere felice»; La possibilità della f. è condizionata empiricamente, e cioè dipende dalla costituzione della natura, mentre la possibilità della moralità, rispetto a cui siamo indipendenti dalla natura, sussiste a priori ed è dogmaticamente certa. PURA: «la f. è l’appagamento di tutte le nostre tendenze (tanto extensive, nella molteplicità loro, quanto intensive, rispetto al grado, e anche protensive rispetto alla durata). Cfr. pure Fondazione della metafisica dei costumi, Critica della ragion pratica e Metafisica dei costumi.

(Erscheinung): è l’oggetto di ogni esperienza possibile in quanto può essere sottoposta alla legislazione dell’intelletto; è l’oggetto dell’intuizione, ma non come cosa in sé. PURA: «L’oggetto indeterminato di una intuizione empirica si dice f.». PURA, A: «Le cose che appaiono, in quanto siano pensate come oggetti secondo l’unità delle categorie si chiamano phaenomena». PURA: «Se sopprimessimo il nostro soggetto, o anche sola la natura subiettiva dei sensi in generale, tutta la natura, tutti i rapporti degli oggetti, nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il tempo sparirebbero: come f., non possono esistere in sé ma solo in noi». – «F. del f.» (Erscheinung der, o einer, Erscheinung) è detto, nell’OP, il «f. indiretto», costruito da noi, in vista dell’unificazione dell’esperienza (e quindi della sua possibilità), ma non direttamente sensibile (es.: un campo di forza). OP, XXII: «La composizione delle percezioni nel soggetto in favore dell’esperienza è, di nuovo, f. del soggetto... ed è di secondo rango, f. del f. delle percezioni della coscienza; pertanto indiretto per la possibilità dell’esperienza (che è una)». FILOSOFIA (Philosophie): la f. si divide in teoretica e pratica, in quanto contiene i principi della conoscenza razionale delle cose, e in questo modo si divide anche in f. della natura e f. morale (v.); «il territorio su cui la f. fonda il suo dominio e su cui esercita la sua legislazione, è sempre soltanto l’insieme degli oggetti di ogni esperienza possibile, in quanto essi non sono considerati se non come semplici fenomeni»; anche la f. pura ha proposizioni mediatamente certe (dimostrabili) e immediatamente certe (indimostrabili), «ma la f., in quanto f., mediante principii a priori può provare bensì, non dimostrare, a meno che non si voglia interamente prescindere dal senso della parola, per il quale dimostrare (ostendere, exhibire) significa esibire il proprio concetto nell’intuizione (o con prove o anche in una semplice definizione); in una intuizione, che se resta a priori, si chiama la costruzione del concetto, ma se è anche empirica, costituisce la presentazione dell’oggetto, con la quale al concetto viene assicurata la realtà oggettiva»; f. speculativa è quella che «si impegna di congiungere lo scopo morale coi fini della natura mediante l’idea di un unico scopo»; ora il minimo che si può chiedere alla f. speculativa è «se la realtà oggettiva del concetto di uno scopo finale della creazione possa essere dimostrata anche in modo da soddisfare sufficientemente le esigenze teoretiche della ragion pura, se non apoditticamente per il Giudizio determinante, almeno a sufficienza per le massime del Giudizio teoretico riflettente»; «ma anche questo poco è molto di più di quanto la f. speculativa possa fornire». INTR: la f. in quanto «sistema della conoscenza razionale mediante concetti», si distingue dalla critica (v.); tale sistema si divide in una parte formale (la logica), «che comprende solo la forma del pensare in un sistema di regole» e in una parte reale che «considera in maniera sistematica gli oggetti cui è rivolto il pensiero, in quanto è possibile una loro conoscenza razionale per concetti». «A sua volta questo sistema reale della f. può essere suddiviso in f. teoretica e f. pratica, proprio in base alla distinzione originaria dei suoi oggetti e a quella fondamentale diversità, conseguente a tale distinzione, tra i principi d’una scienza contenuti in essa; di modo che una parte dev’essere la f. della natura, l’altra la f. dei costumi». FILOSOFIA DELLA NATURA (Naturphilosophie): insieme alla morale (v.) costituisce una delle due parti della filosofia, e precisamente la parte teoretica. FILOSOFIA PRATICA, v. MORALE. FINALITÀ (Zweckmässigkeit): è «l’accordo di una cosa con quella disposizione delle cose che è possibile soltanto secondo scopi (v.)»; più esattamente questo accordo è la f. della forma di tale cosa; «la f. (forma finalis) è la causalità di un concetto rispetto al suo oggetto»; «un oggetto, uno stato d’animo o anche un’azione è detto finalistico anche se la sua possibilità non presuppone necessariamente la rappresentazione di uno scopo, e per il semplice fatto che la sua possibilità non può essere spiegata e concepita da noi, se non ammettendo come principio di essa una causalità secondo fini, cioè una volontà che l’abbia così ordinata secondo la rappresentazione di una certa regola. La f. dunque può essere senza scopo, quando non possiamo porre in una volontà la causa di quella forma, e tuttavia non possiamo concepire la spiegazione della sua possibilità se non derivandola da una FENOMENO

volontà». Siccome non dobbiamo necessariamente riguardare sempre mediante la ragione ciò che è oggetto della nostra osservazione (riguardarlo cioè secondo la sua possibilità), «possiamo almeno osservare una f. secondo la forma, senza porre a fondamento di essa uno scopo (come materia del nexus finalis), e scorgerla negli oggetti, sebbene non altrimenti che con la riflessione (v.)»; «quando il piacere è legato con la semplice apprensione (v.) della forma di un oggetto nell’intuizione, senza riferimento di essa ad un concetto in vista di una conoscenza determinata, il piacere non può esprimere altro che l’accordo dell’oggetto con le facoltà conoscitive che sono in giuoco nel Giudizio riflettente, e in quanto esse sono in giuoco, e quindi soltanto una f. soggettiva formale dell’oggetto»; «la f. oggettiva può essere riconosciuta solamente per mezzo del rapporto del molteplice con uno scopo determinato, cioè per mezzo di un concetto»; «la f. oggettiva o è esterna, utilità (v.), o interna, perfezione (v.) dell’oggetto. Per giudicare della f. oggettiva abbiamo bisogno sempre del concetto di uno scopo e, – se una tale f. non deve essere esterna (utilità), ma interna – del concetto di uno scopo interno, che contenga il principio della possibilità interna dell’oggetto». INTR: «ogni f., sia soggettiva che oggettiva, si può dividere in interna e relativa, a partire dal fatto che la prima è basata sulla rappresentazione dell’oggetto in sé, la seconda solo sul proprio uso contingente». V. pure: FINALITÀ DELLA NATURA; FINALITÀ ESTETICA; FINE DELLA NATURA. FINALITÀ DELLA NATURA (Zweckmässigkeit der Natur): il concetto di f.d.n. consiste nel rappresentare la natura «come se ci sia un intelletto che contenga il principio che dia unità al molteplice delle leggi empiriche di essa»; «la f.d.n. è, dunque, un particolare concetto a priori che ha la sua origine unicamente nel Giudizio riflettente. Perché ai prodotti della natura non si può attribuire qualcosa come un rapporto della natura a scopi, ma si può soltanto adoperare quel concetto per riflettere su di essa in vista del legame dei fenomeni, che è dato da leggi empiriche. Questo concetto è anche del tutto diverso dalla f. pratica (dell’arte umana o anche della morale) sebbene sia pensato secondo un’analogia con questa finalità». «Il principio della f.d.n. è un principio (v.) trascendentale, perché il concetto degli oggetti in quanto sono pensati come sottoposti ad esso, non è che il concetto puro di oggetti della possibile conoscenza d’esperienza in genere, e non contiene nulla di empirico»; «Questo concetto trascendentale di una f.d.n. non è né un concetto della natura né un concetto della libertà, perché esso non attribuisce niente all’oggetto (della natura), ma rappresenta soltanto l’unico modo che noi dobbiamo seguire nella riflessione sugli oggetti della natura allo scopo di ottenerne un’esperienza coerente in tutto nel suo complesso; per conseguenza esso è un principio soggettivo (una massima) del Giudizio»; «per f. esterna intendo quella per cui una cosa della natura sta ad un’altra come mezzo a fine... la f. esterna è un concetto del tutto diverso da quella della f. interna, la quale è congiunta con la possibilità di un oggetto, a prescindere dalla considerazione se l’esistenza stessa dell’oggetto è o no un fine». INTR: «per f. assoluta delle forme della natura intendo quella configurazione esterna, od anche interna di tali forme, che sono costituite in modo che una loro idea debba essere posta nel nostro Giudizio a fondamento della loro possibilità». INTR: «si può considerare ogni f.d.n. o come naturale (forma finalis naturae spontanea) o come intenzionale (intentionalis). Solo l’esperienza autorizza il primo tipo di rappresentazione; il secondo è un tipo di spiegazione ipotetica che s’aggiunge a questo concetto delle cose come scopi della natura. Il primo concetto delle cose come scopi della natura appartiene originariamente al Giudizio riflettente (sebbene riflettente non esteticamente, ma logicamente), il secondo appartiene al Giudizio determinante. Certo, per il primo si richiede anche la ragione, ma solo in vista di una esperienza che debba disporsi secondo principii (dunque nel suo uso immanente); per il secondo concetto, invece, basta una ragione che si smarrisce ascendendo al soprannaturale (nell’uso trascendente)». Cfr. in generale: L’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, 1763, parte II, e in particolare: ARG, II: «quando si scopre nella natura un ordinamento che sembra fatto per uno scopo particolare, in quanto sarebbe stato possibile soltanto secondo le proprietà generali della materia, consideriamo questo ordinamento come contingente e come la conseguenza di una scelta. Quando si mostrano nuove concordanze, nuove forme

di ordine e di utilità, le giudichiamo nello stesso modo; questa connessione è del tutto estranea alla natura delle cose, ed esse si trovano legate da una tale armonia, soltanto perché a qualcuno è piaciuto che così fosse». ARG, II: «Che ci siano cose che hanno tra loro un così bel rapporto, dipende dalla sapiente scelta di colui che le ha prodotte in vista di questa armonia; ma che ciascuna di queste cose contenesse una così ampia disponibilità ad adattarsi in concordanze molteplici e diverse, e potesse così esser realizzata una meravigliosa unità nel tutto, dipende dalla possibilità delle cose stesse, e siccome qui la contingenza, che deve essere presupposta in ogni scelta, scompare, il fondamento di questa unità deve esser cercato in un essere sapiente, ma non mediante la sua sapienza». PURA: «la suprema unità formale, che riposa solo su concetti della ragione, è l’unità delle cose conforme a fini, e l’interesse speculativo della ragione ci obbliga a considerare ogni ordine nel mondo, come se esso fosse germogliato dallo scopo di una ragione sovrana. Un tale principio apre infatti alla nostra ragione, applicata al campo delle esperienze, prospettive affatto nuove per collegare secondo leggi teleologiche le cose nel mondo, e quindi pervenire alla loro massima unità sistematica»; anche se questo principio deve essere usato in modo esclusivamente regolativo. FINALITÀ ESTERNA (äussere Zweckmässigkeit) v.: FINALITÀ DELLA NATURA. FINALITÀ ESTETICA (ästhetische Zweckmässigkeit): «la f. di un oggetto, in quanto rappresentata nella percezione, non è una proprietà dell’oggetto stesso (perché tale proprietà non può essere percepita), sebbene possa essere desunta dalla conoscenza degli oggetti. Sicché la f., che precede la conoscenza di un oggetto, e che, anche quando non si voglia usare la rappresentazione in vista di una conoscenza, è immediatamente legata con la rappresentazione stessa, è l’elemento soggettivo di essa, ciò che non può mai divenire elemento di una conoscenza. Si dice perciò che l’oggetto è conforme al fine, solo perché la sua rappresentazione è legata immediatamente col sentimento di piacere; e questa rappresentazione stessa è una rappresentazione estetica della f.»; il bello ha a fondamento una f. puramente formale, cioè una f. senza scopo; «la bellezza è f. soggettiva formale»; la f. del giudizio di gusto è pensata come estetica, in quanto il giudizio di gusto «si riferisce, nel soggetto, all’accordo della rappresentazione nell’immaginazione con i principii essenziali della facoltà del giudizio in generale»; la f.e. è soggettiva, in quanto il giudizio estetico è un giudizio senza concetto ed è connesso al libero giuoco delle nostre facoltà di conoscere; la f. soggettiva riposa nel giudizio estetico sul libero giuoco dell’immaginazione, e l’idealismo (v.) della f. nel giudizio estetico è l’unico modo di spiegarne l’universalità. FINALITÀ INTERNA (innere Zweckmässigkeit) v.: FINALITÀ DELLA NATURA. FINE, v. SCOPO. FINE DELLA NATURA (Naturzweck): «una cosa esiste come f.d.n. quando è la causa e l’effetto di se stessa (sebbene in doppio significato); perché vi è qui una causalità che non può essere congiunta col semplice concetto d’una natura senza attribuire a questa uno scopo e che però, se può essere pensata senza contradizione, non può essere concepita»; «in una cosa in quanto f.d.n. si richiede in primo luogo che le parti (relativamente alla loro esistenza e alla loro forma) siano possibili soltanto mediante la loro relazione col tutto. In secondo luogo che le parti si leghino a formare l’unità del tutto in modo da essere reciprocamente causa ed effetto della loro forma. In un simile prodotto della natura ogni parte deve essere pensata come un organo che produce le altre parti (ed è reciprocamente prodotto da esse) mentre nessun strumento dell’arte può essere così, ma solo quello della natura che fornisce tutta la materia agli strumenti (anche a quelli dell’arte); solo allora e solo per questo un tale prodotto, in quanto essere organizzato e che si organizza da sé, può essere chiamato un f.d.n.»; «il concetto di una cosa, come f.d.n. in sé, non è un concetto costitutivo dell’intelletto o della ragione, ma può essere un concetto regolativo per il Giudizio riflettente, dirigendo la ricerca sugli oggetti di questa specie e permettendo la riflessione sul loro principio supremo, per via di lontana analogia con la nostra causalità secondo fini in generale»; «Giudicare una cosa come f.d.n. a causa della sua forma interna, è tutt’altro che considerare come f.d.n. la esistenza di questa cosa. In quest’ultimo caso abbiamo bisogno non soltanto del concetto di uno scopo possibile, ma della conoscenza dello scopo (v.) finale della natura, il quale implica un

rapporto della natura a qualcosa di soprasensibile, che trascende di molto tutta la conoscenza teleologica della natura». OSS, II: «nessun uomo può comprendere a priori che nella natura ci debbano necessariamente essere dei f.». FISICA (Physik): la f. come scienza della natura «per tenersi strettamente nei suoi limiti, prescinde totalmente dalla questione se i fini della natura siano o no intenzionali, perché questo significherebbe impacciarsi d’un compito estraneo (cioè quello della metafisica)»; «una f. teologica sarebbe un assurdo, perché non esporrebbe leggi naturali, ma gli ordinamenti di una volontà suprema». INTR: «in una scienza della natura che si basi su principii empirici, cioè nella f. vera e propria, i procedimenti pratici per scoprire le leggi nascoste della natura, che vanno sotto il nome di f. sperimentale, non possono in alcun modo aspirare alla qualità di f. pratica (la quale è un non senso), come parte della filosofia naturale». PURA: «La metafisica della natura corporea si dice f., e, se si limita ai principi della sua conoscenza, f. razionale». Ivi: «ciò che si dice comunemente physica generalis è più matematica che filosofia della natura». OP, XXII: «Gli oggetti della f. sono di due specie: 1) tali che possono essere dati nell’esperienza; 2) tali che non si potrebbero neppure ammettere come possibili se l’esperienza non ne mostrasse la realtà (ad es. i corpi organici)». FISICOTEOLOGIA (Physikotheologie): «è il tentativo della ragione di concludere dai fini della natura (i quali possono essere conosciuti solo empiricamente) alla causa suprema della natura e alle proprietà di tale causa». «La f.t. per quanto sia spinta lontano, non ci può rivelare nulla di uno scopo finale della natura; perché essa non arriva a porre tale questione. Di modo che essa può bensì giustificare il concetto d’una causa intelligente del mondo, in quanto è un concetto soggettivo della possibilità delle cose che possiamo spiegarci secondo scopi; ma non può ulteriormente determinare il concetto stesso, né dal punto di vista teoretico né dal punto di vista pratico; il suo tentativo non raggiunge lo scopo di fondare una teologia, ma resta sempre non altro che una teologia fisica: perché in essa la relazione dei fini è, e dev’essere, sempre considerata come condizionata dalla natura, e quindi non può sorgere la questione dello scopo per cui la natura stessa esiste (il cui principio deve essere cercato fuori della natura), mentre dall’idea determinata di tale scopo dipende il concetto determinato di quella causa superiore e intelligente del mondo, e quindi la possibilità di una teologia». – Una ampia discussione della f.t., dei suoi metodi e delle possibilità di migliorare tali metodi si trovava già nell’Unico argomento per una dimostrazione dell’esistenza di Dio, 1764, sez. II, cons. 5-6, II, 116-137. Successivamente la questione veniva discussa in PURA, in forma di «prova fisicoteologica», per la quale si intende il tentativo di vedere (394) «se una esperienza determinata, quindi quella delle cose del mondo presente, la sua natura, il suo ordine, non ci dia un argomento, che possa con sicurezza provare la convinzione dell’esistenza suprema»; in realtà però «alla base della prova fisico-teologica, c’è quella cosmologica, ma a base di questa la prova ontologica dell’Esistenza di un Essere originario come Essere supremo». FORMAZIONE LIBERA (freie Bildung): «F.l. della natura è quella per cui evaporando o sparendo una parte di un fluido in riposo (talvolta il semplice calorico), ciò che resta prende nel solidificarsi una determinata figura o struttura, che è diversa secondo le specifiche differenze delle materie, ma è costante per la stessa materia. Questo però nella supposizione che si tratti di vera fluidità, che la materia cioè vi sia completamente disciolta, e non si abbia un semplice miscuglio di parti in sospensione. La formazione avviene allora per precipitato, vale a dire con una solidificazione istantanea, non con un passaggio progressivo dallo stato liquido allo stato solido, ma come d’un colpo». FORZA (Kraft): f. motrice è quella propria dei corpi retti soltanto da rapporti meccanici, mentre f. formatrice è quella propria dei corpi organici; la f. formatrice non può essere spiegata con la sola facoltà del movimento (meccanismo). PURA: le f. motrici sono «leggi secondo le quali è determinato il cangiamento di luogo» della materia; e sono «semplici rapporti»; Per sapere come qualcosa possa cambiare «si richiede la conoscenza di f. reali, che può esserci data solo empiricamente: per es. dalle f. motrici». OP, XXII: «Si possono pensare due specie di f. motrici: o tali che il movimento della materia

deve precederle, e la f. ne è l’effetto, o tali che la f. è posta a fondamento, e il movimento ne è derivato». FREGIO (Zierat): i f. (o parerga) sono «quelle cose che non appartengono intimamente, come parte costitutiva, alla rappresentazione totale dell’oggetto, ma soltanto come accessorii esteriori», e «aumentando il piacere del gusto, non compiono tale ufficio se non per via della loro forma: così le cornici dei quadri, i panneggiamenti delle statue, i peristilii degli edifizii». GENERAZIONE (generatio): l’ipotesi di una g. aequivoca «con la quale la produzione di un essere organizzato si spiega con la meccanica della materia bruta inorganica» è assurda. Invece a priori non contraddice il giudizio della pura ragione, anche se l’esperienza non ne dà alcuna esperienza, l’ipotesi di una g. univoca che consiste nell’«ammettere che qualcosa di organico può essere solo prodotto da un’altra cosa organica sebbene il prodotto sia specificamente diverso; che, per esempio, certi animali acquatici si trasformano a poco a poco in animali palustri, e questi, dopo alcune generazioni, in animali terrestri». L’esperienza parla invece a favore della g. homonyma, non semplicemente univoca; l’unica produzione che conosciamo infatti «dà anche un prodotto della stessa specie del produttore anche nell’organizzazione, e, per quanto si estenda la nostra conoscenza sperimentale della natura, non si trova mai la g. heteronyma». GENERE (Gattung): «nella natura c’è una subordinazione di g. e specie che noi possiamo trovare; i g. si approssimano sempre di più a un principio comune, in modo che è possibile il passaggio dall’uno all’altro, e quindi ad uno più elevato». INTR: g. è una classe più alta, rispetto alla quale altre classi, ciascuna delle quali sta sotto un principio determinato, vengono sussunte, «fino a giungere al concetto che contiene in sé il principio di tutta la classificazione e che costituisce il g. supremo». «Il g., considerato logicamente, è come la materia o il sostrato grezzo che la natura elabora con una maggiore determinazione in particolari specie e sottospecie». PURA: «che tutte le molteplicità delle singole cose non escludano l’identità della specie; che le varie specie non si debbano considerare se non come determinazioni diverse di pochi g. e questi poi di classi ancora più alte; che si debba quindi cercare una certa unità sistematica di tutti i concetti empirici possibili, in quanto possono essere ricavati da concetti superiori e più generali: questa è una regola della scuola o principio logico, senza il quale non c’è uso di ragione»; ma «il principio logico dei g. presuppone un principio trascendentale, se deve essere applicato alla natura (per la quale intendo qui soltanto gli oggetti che ci sono dati). Secondo cotesto principio, nel molteplice di una esperienza possibile è necessariamente presupposta una omogeneità (benché a priori non ne possiamo determinare il grado), perché senza di essa non sarebbero possibili concetti empirici, né quindi una esperienza; al principio logico dei g., che postula un’identità, è contrapposto un altro principio, quello cioè delle specie, che richiede una molteplicità e differenze tra le cose malgrado il loro accordo in uno stesso genere». V. SPECIFICAZIONE. Cfr. pure lo scritto: Von den verschiedenen Rassen der Menschen, 1775, (II, 427 seg.). GENIO (Genie): «il g. è il talento (dono naturale) che dà la regola all’arte. Poiché il talento, come facoltà produttrice innata dell’artista, appartiene anche alla natura, si può anche dire: il g. è la disposizione innata dell’animo (ingenium) per mezzo della quale la natura dà la regola all’arte». Il g. pertanto richiede originalità (v.) in quanto è il talento di produrre ciò di cui non si può dare una regola; i suoi prodotti devono essere esemplari, in quanto pur non essendo nati da imitazione (v.), devono valere come misura e regola del giudizio; il suo modo di produrre non può essere mostrato scientificamente, ma opera come natura; mediante il g. la natura dà la regola non alla scienza, ma all’arte, e solo all’arte in quanto deve essere bella; il g. concerne pertanto non la bellezza naturale (v.), ma l’arte bella, e cioè la rappresentazione bella di una cosa; le facoltà che costituiscono il g. sono l’intelletto e la immaginazione, che in tal caso però non opera sotto la costrizione dell’intelletto, come nella conoscenza, ma liberamente, «ed oltre all’accordarsi con il concetto, fornisce spontaneamente all’intelletto una materia ricca e non definita, che esso non conteneva nel concetto; sicché il g. consiste nella felice disposizione – che nessuna scienza può insegnare e nessun esercizio può raggiungere – per

la quale si trovano idee per un concetto dato e d’altra parte si trova per esse l’espressione giusta con cui si può comunicare ad altri lo stato d’animo che ne risulta, in quanto accompagnamento del concetto medesimo». Così, se il g. «presuppone un concetto determinato del prodotto come scopo», però «si rivela meno nel conseguire lo scopo prefisso, nell’esibizione (v.) d’un concetto determinato che nella rappresentazione o espressione di idee estetiche (v.), le quali contengono una ricca materia per quello scopo». In conclusione: «il genio è l’originalità esemplare del talento di un soggetto nel libero uso delle sue facoltà di conoscere». ANTR: «L’originalità (cioè la produzione non imitata) della immaginazione, quando sbocca in concetti, si dice g.». ANTR: «Inventare qualcosa è del tutto diverso dallo scoprire. Infatti la cosa che si scopre, si ammette come già preesistente, solo che non era ancora conosciuta. Ora il talento di inventare si chiama g. Ma si dà sempre questo nome soltanto ad un artista, cioè a colui che sa fare qualcosa, non a colui che soltanto conosce e sa molto; però non lo si dà a un artista che soltanto imita, bensì a uno che è atto a produrre in modo originale l’opera sua; e finalmente glielo si dà soltanto quando il suo prodotto è esemplare, cioè quando esso merita, come esempio, di essere imitato... Il campo proprio del g. è quello della immaginazione: siccome questa è creatrice ed è sottoposta al dominio delle regole meno di altre facoltà, e perciò tanto più capace di originalità. Il meccanismo dell’istruzione, costringendo sempre lo scolaro all’imitazione, è invero sempre nocivo al g. per quanto riguarda l’originalità». GESTICOLAZIONE (Gestikulation): insieme alla articolazione (v.) e alla modulazione (v.) è una delle tre forme di espressione che rendono possibile agli uomini di comunicarsi non solo i concetti, ma anche le sensazioni, e corrisponde al gesto. GIARDINAGGIO (Lustgärtnerei): è una sottospecie della pittura (v.) come arte figurativa che rappresenta l’apparenza sensibile, e si distingue dalla pittura propriamente detta, perché «dà l’estensione corporea nella sua realtà, ma presenta solo l’apparenza di una utilità e di un uso per altri scopi, oltre il semplice giuoco dell’immaginazione, per mezzo della contemplazione delle forme. Il g. non è altro che l’abbellimento del suolo per mezzo di quella stessa varietà che la natura offre all’intuizione (prati, fiori, cespugli ed alberi, ed anche le acque, le colline e le valli) ma combinata diversamente e conformemente a certe idee». Il g. «si accorda con la pittura semplicemente estetica, che non ha alcun tema determinato», in quanto esso rappresenta sì le sue forme materialmente, ma «le trae realmente dalla natura e non è un’arte come la plastica, e non è condizionato nella sua composizione (come l’architettura) da alcun concetto dell’oggetto e del suo scopo, ma soltanto dal libero giuoco dell’immaginazione nella contemplazione». GIUDIZIO DETERMINANTE, v. GIUDIZIO, FACOLTÀ DEL. GIUDIZIO DI GUSTO (Geschmacksurteil): il g.d.g. non è un giudizio logico, ma estetico, perché non riferisce la rappresentazione all’oggetto mediante l’intelletto per la conoscenza, ma mediante l’immaginazione al soggetto e al suo sentimento (v.) di piacere e di dispiacere; perciò il g.d.g. è soggettivo; il puro g.d.g. esclude ogni interesse (v.); il g.d.g. è puramente contemplativo, in quanto indifferente all’esistenza dell’oggetto, ma questa contemplazione non è diretta a concetti, perché il g.d.g. né è fondato sopra concetti (e quindi non è teorico), né se ne propone (e quindi non è pratico); in quanto il g.d.g. comporta la coscienza del disinteresse, di un piacere non fondato su un’inclinazione del soggetto, al g.d.g. «deve unirsi l’esigenza della validità per ognuno, sebbene tale validità non si tenga connessa agli oggetti; in altri termini il g.d.g. deve pretendere all’universalità soggettiva»; solo questa esigenza di universalità del g.d.g. consente di distinguere il bello (v.) dal piacevole (v.); questa universalità «non è logica, ma estetica», poiché non include «una quantità oggettiva del giudizio, ma soltanto una quantità soggettiva» che può essere detta «validità comune»; rispetto alla quantità logica il g.d.g. è singolare, mentre è universale rispetto alla quantità estetica; il g.d.g. precede il sentimento di piacere e non lo segue e nasce dal libero giuoco delle facoltà conoscitive, di cui abbiamo una coscienza estetica e non intellettuale; sul g.d.g. non devono influire né attrattive, né emozioni, perché il suo fondamento deve essere unicamente a priori e consistere nella finalità della forma; essendo il g.d.g.

estetico e non logico, deve essere del tutto indipendente dal concetto di perfezione (v.), che implica una finalità oggettiva; in quanto i g.d.g. hanno un principio possono pretendere all’universalità, ma non essendo tale principio oggettivo, ma soggettivo, tale universalità non è incondizionata, ma condizionata dall’idea di un senso comune (v.); la deduzione (legittimazione) dei g.d.g. riguarda solo i giudizi sulla bellezza degli oggetti naturali, e non il sublime, (v.), che solo impropriamente può essere attribuito alla natura. Tale deduzione rientra nel problema generale della filosofia trascendentale (come sono possibili i giudizi sintetici a priori), in quanto anche i g.d.g. sono sintetici a priori, e viene data quando si mostra che si può ammettere a priori come valido universalmente l’accordo di una rappresentazione con le condizioni soggettive dell’uso del Giudizio in generale; il g.d.g. si distingue dal giudizio teleologico (v.) perché considera solo la forma delle bellezze naturali, e non il loro scopo. GIUDIZIO ESTETICO (ästhetisches Urteil): g.e. sono quelli «che riguardano il bello e il sublime della natura o dell’arte»; il g.e. è quello che considera «la finalità dell’oggetto e non si fonda sopra alcun concetto dato dall’intelletto né ne fornisce alcuno. Si giudica cioè la forma dell’oggetto (non l’elemento materiale della sua rappresentazione, come sensazione), nella semplice riflessione su di essa – senza alcuna mira ad un concetto che se ne potrebbe ricavare – come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di tale oggetto: e questo piacere viene pure considerato connesso con tale rappresentazione in modo necessario, e quindi non solo per il soggetto che apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante in generale. L’oggetto allora si chiama bello, e la facoltà di giudicare mediante tale piacere (e, per conseguenza universalmente) si chiama gusto (v.); i g.e. corrispondono alla facoltà del giudizio estetico (G.e.) che è «la facoltà di giudicare la finalità formale (detta anche altrimenti soggettiva) per via del sentimento di piacere o dispiacere». Compito del G.e. è quello di decidere «nel gusto la corrispondenza di un prodotto (della sua forma) con le nostre facoltà di conoscere (giacché il G.e. non decide mediante l’accordo con concetti, ma per mezzo del sentimento di piacere)». Il G.e. è dunque una particolare facoltà di giudicare delle cose secondo una regola, ma non secondo concetti, e perciò a differenza del G. teleologico, «non porta alcun contributo alla conoscenza dei suoi oggetti, e deve essere perciò riportato soltanto alla critica del soggetto giudicante e delle sue facoltà conoscitive, in quanto queste facoltà sono capaci di principii a priori qualunque possa essere il loro uso (teoretico o pratico)»; il g.e. ha un fondamento soltanto soggettivo, e nasce dal riferire la rappresentazione mediante l’immaginazione al soggetto e al suo sentimento di piacere e dispiacere; il g.e. esige legittimamente il consenso universale, anche se si tratta di una universalità (v.) soggettiva «che non ha fondamento in alcun concetto»; il g.e. «precede il piacere per l’oggetto, ed è il fondamento del piacere per l’armonia delle facoltà di conoscere»; il g.e. «riposa su principii soggettivi e sua causa determinante non può essere un concetto, e quindi nemmeno quello di uno scopo determinato». «Il g. si chiama e. appunto perché la sua causa determinante non è un concetto, ma il sentimento (del senso interno) di quell’accordo nel giuoco delle facoltà dell’animo in quanto può essere soltanto sentito»; «siccome un g.e. non è un giudizio oggettivo conoscitivo, la sua necessità non può essere derivata da concetti determinati e quindi non è apodittica. Ancora meno può essere inferita dall’universalità dell’esperienza». INTR: «allorché la forma d’un oggetto nell’intuizione empirica è di tal natura che l’apprensione del molteplice di esso nell’immaginazione concorda con l’esibizione d’un concetto dell’intelletto (senza precisare di che concetto si tratti), intelletto e immaginazione s’accordano reciprocamente solo nella riflessione per l’esecuzione del loro compito, e l’oggetto è allora percepito come conforme al fine solo dal Giudizio, cioè la stessa finalità è considerata come meramente soggettiva; come infatti a tal fine non è richiesto nessun concetto determinato dell’oggetto, così nemmeno ne è prodotto alcuno, e lo stesso Giudizio non è un giudizio di conoscenza. Un tale giudizio si chiama g.e. di riflessione». INTR: «g.e., in termini generali, può essere definito come quel giudizio il cui predicato non può mai essere conoscenza (concetto d’un oggetto), sebbene possa contenere le condizioni soggettive per una conoscenza in generale. In un tale giudizio il principio di determinazione è la sensazione. Ma non vi è che un’unica cosiddetta sensazione, che non può mai essere il concetto di

un oggetto, e questa sensazione è il sentimento di piacere e dispiacere. Questo è solo soggettivo, mentre ogni altra sensazione può essere usata per la conoscenza». INTR: «il g.e. del senso contiene una finalità materiale, il g.e. di riflessione solo una finalità formale. Ma poiché il primo non si riferisce affatto alla facoltà della conoscenza, bensì immediatamente, attraverso il senso, al sentimento di piacere, bisogna considerare solo il secondo come fondato su principii propri del Giudizio». INTR: «i g.e. della riflessione pretendono necessità, e perciò non si limitano alla constatazione che ognuno giudica in quel determinato modo, il che si presenterebbe come un problema esplicativo per la psicologia empirica, bensì dicono che ognuno deve giudicare in quel modo: e ciò vuol significare che essi hanno per se stessi un principio a priori». GIUDIZIO, FACOLTÀ DEL (Urteilskraft): «il G. nell’ordine delle nostre facoltà di conoscere fa come da termine medio tra l’intelletto e la ragione»; «in quanto facoltà di conoscenza, anche il G. pretende di giudicare secondo principii a priori, sebbene i principii del G. non possano costituire in un sistema della filosofia pura, una parte speciale tra la parte teoretica e la parte pratica, e si possano invece includere occasionalmente in caso di necessità, nell’una o nell’altra». «Il retto uso del G. è tanto necessario e tanto generalmente richiesto che sotto il nome di sano intelletto non s’intende altro se non per l’appunto tale facoltà». «Il G. deve fornire da sé un concetto con il quale veramente nessuna cosa sia conosciuta, ma che serva di regola soltanto ad esso G. medesimo: non però come regola oggettiva, alla quale essa facoltà possa adattare il suo giudizio, perché allora sarebbe necessaria un’altra facoltà di giudizio, per decidere se sia o no il caso in cui la regola si applica»; «per il G. non vi sarà una sezione speciale nella parte dottrinale, perché in esso la critica (v.) tien luogo di teoria»; «del G. si ha ragione di presumere, per analogia con l’intelletto e la ragione, che contenga anch’esso, se non una sua propria legislazione (v.), almeno un principio proprio di ricercare secondo le leggi, e che in caso sarebbe un principio a priori puramente soggettivo; un principio che, se anche non avrà dominio (v.) su verun campo di oggetti, potrà tuttavia avere un qualche territorio (v.) così costituito che in esso soltanto quel principio sia valido»; ad ammettere il G. come facoltà intermedia si è pure portati dal sentimento di piacere (v.) e di dispiacere che si trova appunto in una posizione intermedia tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare; «il G. in generale è la facoltà di pensare il particolare come contenuto nell’universale. Se è dato l’universale (la regola, il principio, la legge), il G. che opera la sussunzione del particolare (anche se esso in quanto G. trascendentale, fornisce a priori le condizioni secondo le quali soltanto può avvenire la sussunzione a quell’universale) è determinante. Se è dato invece soltanto il particolare, e il Giudizio deve trovare l’universale, esso è semplicemente riflettente»; «il Giudizio riflettente, che è obbligato a risalire dal particolare della natura all’universale, ha bisogno di un principio che esso non può ricavare dall’esperienza perché è un principio che deve fondare appunto l’unità di tutti i principii empirici sotto principii parimenti empirici ma superiori, e quindi la possibilità della subordinazione sistematica di tali principii. Ora questo principio non può essere altro che il seguente: poiché le leggi universali della natura hanno il loro fondamento nel nostro intelletto, le leggi particolari empiriche, rispetto a ciò che dalle prime vi è stato lasciato indeterminato, debbono essere considerate secondo un’unità quale avrebbe potuto stabilire un intelletto (quand’anche non il nostro) a vantaggio della nostra facoltà di conoscere, per render possibile un sistema dell’esperienza secondo particolari leggi della natura. Ora poiché il concetto di un oggetto, in quanto contiene anche il principio della realtà di questo oggetto, si chiama scopo, e l’accordo di una cosa con quella disposizione delle cose, che è possibile soltanto secondo scopi, si chiama la finalità della forma di queste cose; il principio del G., riguardo alla forma delle cose della natura sottoposte a leggi empiriche in generale, è la finalità della natura nella sua molteplicità»; «Il G. ha in sé, dunque, anche un principio a priori della possibilità della natura, ma soltanto dal punto di vista soggettivo, con il quale prescrive, non già alla natura (in quanto autonomia), ma a se stesso (in quanto eautonomia) una legge per la riflessione sulla natura, che si potrebbe chiamare la legge della specificazione (v.) della natura relativamente alle sue leggi empiriche»; il G. si distingue in estetico (v.) o teleologico (v.); «Il G. determinante non ha per se stesso

principii che fondino concetti d’oggetti. Non è autonomo; perché sussume soltanto a leggi date o a concetti, presi come principii. Appunto perciò non è esposto al pericolo di un’antinomia (v.) propria e a una contradizione dei suoi principii. Ma il G. riflettente deve sussumere sotto una legge che non è ancora data e quindi in realtà non è se non un principio della riflessione su oggetti per i quali oggettivamente ci manca affatto una legge, o un concetto dell’oggetto che possa essere principio sufficiente per i casi che si presentano». Perciò il G. riflettente si vale di massime (v.) necessarie tra le quali può esserci una contraddizione e quindi un’antinomia, su cui si fonda una dialettica (v.). INTR: «il G. riflettente non opera schematicamente con i fenomeni dati per portarli sotto concetti empirici di determinate cose della natura, ma tecnicamente, quindi non solo meccanicamente come uno strumento, sotto la direzione dell’intelletto e dei sensi, ma artisticamente, secondo l’universale e pur indeterminato principio di un ordinamento finale della natura in un sistema, in modo vantaggioso per il nostro G., nella conformità delle sue leggi particolari (sulle quali l’intelletto non dice nulla) alla possibilità dell’esperienza come sistema». «Così lo stesso G. si dà a priori la tecnica (v.) della natura come principio della sua riflessione, sebbene non possa definirla o determinarla più da presso, non avendo a questo scopo un principio oggettivo di determinazione dei concetti generali (tratto da una conoscenza delle cose in sé)». PURA: «G. è la facoltà di sussumere sotto regole, cioè di distinguere se qualcosa stia o no sotto una regola». GIUDIZIO RIFLETTENTE, v. GIUDIZIO, FACOLTÀ DEL, e RIFLESSIONE. GIUDIZIO TELEOLOGICO (theleologisches Urteil): i g.t. corrispondono alla facoltà del giudizio teleologico (G. teleologico) che è «la facoltà di giudicare la finalità reale (oggettiva) della natura mediante l’intelletto e la ragione». Il G.t. cioè determina le condizioni sotto le quali qualche cosa (per esempio un corpo organizzato) sia da giudicarsi secondo l’idea di uno scopo della natura; ma esso non può trarre dal concetto della natura, in quanto oggetto d’esperienza, alcun principio che ci autorizzi ad attribuirle a priori una relazione con scopi o anche soltanto a ammetterne in modo indeterminato, basandosi sull’esperienza reale di tali prodotti». A differenza del G. estetico il G.t. non è quindi una vera e propria facoltà, ma semplicemente il G. riflettente in generale, in quanto procede non soltanto secondo concetti, come in generale nella conoscenza teoretica, ma, riguardo a certi oggetti naturali, secondo principii particolari, vale a dire come G. puramente riflettente che non determina oggetti; sicché, considerato nella sua applicazione, esso appartiene alla parte teoretica della filosofia, e in virtù dei suoi principii particolari, che non sono determinanti, come dovrebbero essere in una dottrina, deve costituire anche una parte speciale della critica»; il g.t. si distingue dal g. estetico (v.) perché «comprende concetti di perfezione in quanto finalità oggettiva»; il g.t. mediante il concetto dei legami e delle forme della natura secondo fini introduce «almeno un principio di più per ricondurre a regole il fenomeno della natura, dove non bastano le leggi della causalità puramente meccanica. Perché, difatti noi introduciamo un principio t. quando attribuiamo al concetto di un oggetto una causalità rispetto all’oggetto stesso, come se il concetto si trovasse nella natura (non in noi), o meglio quando ci rappresentiamo la possibilità dell’oggetto, per analogia con una simile causalità (che troviamo in noi) e quindi pensiamo la natura come tecnica per virtù propria»; gli esseri organizzati della natura sono i soli che «forniscono alla scienza della natura un fondamento per una teleologia (v.), cioè un modo di considerare gli oggetti della natura secondo un principio particolare che altrimenti non si sarebbe assolutamente autorizzati a introdurvi»; il g.t. degli oggetti della natura va accuratamente distinto dalla considerazione di Dio e quindi da una deduzione teologica, in quanto non si deve confondere l’espressione «fine dalla natura» con l’espressione «scopo divino della natura». INTR: «se si trovano concetti empirici già costituiti e anche leggi conformi al meccanismo della natura, e il Giudizio può comparare un tale concetto dell’intelletto con la ragione e col suo principio della possibilità d’un sistema, in questo caso, qualora si incontri questa forma nell’oggetto, la finalità è giudicata oggettivamente, e la cosa si chiama scopo della natura, mentre le cose prima erano giudicate solo come forme della natura indeterminatamente finalistiche. In tal caso il giudizio sulla finalità obiettiva della

natura si chiama g.t.». INTR: «il giudizio sulla finalità nelle cose della natura, finalità che è considerata come il fondamento della loro possibilità (in quanto scopi della natura), si chiama g.t.». INTR: «si deve ammettere che il g.t. è fondato su un principio a priori senza di cui esso sarebbe impossibile, sebbene noi rinveniamo gli scopi della natura in simili giudizi solo mediante l’esperienza, senza la quale, infine, non potremmo nemmeno sapere che cose di questo genere sono solo possibili. Pertanto il g.t., sebbene colleghi un determinato concetto di un fine che esso pone a fondamento della possibilità di determinati prodotti della natura, con la rappresentazione dell’oggetto (il che non avviene nel giudizio estetico), è tuttavia, come il precedente, soltanto un giudizio di riflessione. Esso non presume affatto di affermare che in questa finalità obiettiva la natura (o un altro ente mediante essa) procede di fatto intenzionalmente, cioè che il concetto di un fine determini la causalità di essa o della sua causa, quanto piuttosto che noi, solo secondo questa analogia (relazione di cause ed effetti), dovremmo utilizzare le leggi meccaniche della natura per conoscere la possibilità di tali oggetti e pervenire ad un concetto di essi che possa procurarci la loro connessione in una esperienza condotta sistematicamente. Un g.t. fa una comparazione tra quel che il concetto di un prodotto della natura è e ciò che esso deve essere». Cfr. pure L’uso di principii teleologici in filosofia, 1788, VIII, 157-184. GIUOCO (Spiel): il libero g. della fantasia (che dà l’unione del molteplice dell’intuizione) e dell’intelletto (che dà l’unità del concetto che unisce le rappresentazioni) in una rappresentazione con cui è dato un oggetto «deve poter essere universalmente comunicato; perché la conoscenza, come determinazione dell’oggetto, con cui date rappresentazioni (in qualunque soggetto) debbono accordarsi, è l’unica specie di rappresentazione che valga per ognuno»; anche il sublime (v.) nasce dal g. soggettivo delle facoltà dell’animo (immaginazione e ragione) come armonico nel loro stesso contrasto; «Ogni g. variato e libero delle sensazioni (che non abbiano a fondamento uno scopo) diletta, perché favorisce il sentimento della salute, vi sia o no nel nostro giudizio razionale un piacere per l’oggetto e il diletto stesso; e tale diletto può elevarsi fino a diventare un affetto, sebbene non abbiamo alcun interesse per l’oggetto, o almeno nessun interesse proporzionato al grado dell’affetto. Questi g. possiamo dividerli in g. di fortuna, g. musicale e g. di pensieri. Il primo esige un interesse, sia della vanità, sia dell’utilità; il secondo non suppone che la variazione delle sensazioni, ciascuna delle quali si riferisce ad un affetto, senza avere il grado dell’affetto, e suscita delle idee estetiche; il terzo nasce semplicemente dal variare delle rappresentazioni nel Giudizio». ANTR: i g., tanto dei fanciulli che degli adulti «sono tutti insieme inconsapevolmente suggeriti dalla più saggia natura come mezzi per cimentare le proprie forze nella gara con altre, propriamente perché la forza vitale si preservi in genere dall’infiacchimento e venga tenuta desta». GRANDEZZA (Grösse): la g. come quantitas si distingue dal semplice esser grande come magnitudo; «Che qualcosa sia una g. (quantum) lo si vede dalla cosa stessa; senza comparazione con altre; quando cioè una molteplicità di elementi omogenei compone un’unità. E poiché per giudicare della g. non si deve considerare soltanto la molteplicità (il numero), ma anche la g. dell’unità (della misura), e la g. di quest’ultima ha sempre bisogno di nuovo di qualcos’altro come misura, cui possa essere paragonata, vediamo che ogni misurazione della g. dei fenomeni non può fornire affatto un concetto assoluto di g., ma sempre soltanto un concetto comparativo». Il termine Grösse è spesso tradotto anche con «quantità»; ad es. PURA: «Tutte le intuizioni sono quantità estensive... La coscienza del molteplice omogeneo nella intuizione in generale... è il concetto di una quantità». GUSTO (Geschmack): è la facoltà di giudicare un oggetto mediante un piacere fondato soltanto nella forma dell’oggetto (non nell’elemento materiale della sua rappresentazione) e considerato necessario, e quindi non connesso alla rappresentazione di tale oggetto solo per il soggetto che apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante; il g. «è la facoltà di giudicare del bello»; «il g. è la facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere o un dispiacere, senza alcun interesse»; il g. come sensus communis aestheticus (v. SENSO COMUNE) si può anche definire come «la facoltà di giudicare ciò che rende universalmente comunicabile il nostro sentimento rispetto a una data

rappresentazione, senza la mediazione di un concetto»; a differenza del genio (v.) «il g. non è una facoltà produttiva e ciò che è adeguato ad esso non è solo per questo un’opera d’arte bella; può essere un prodotto dell’arte utile o meccanica o anche della scienza, che sia l’effetto di regole determinate, le quali possono essere apprese e debbono essere rigorosamente seguite»; al g. non può essere data «alcuna regola oggettiva che determini per mezzo di concetti che cosa sia bello»; cercare un principio del g. come criterio universale del bello è pertanto «fatica vana», ed anzi impresa in sé contradittoria; il prototipo del g. è una semplice idea che ognuno deve produrre in se stesso e secondo la quale deve giudicare tutto ciò che è oggetto del g. che è esempio del giudizio di g., ed anche il g. di ciascuno. Più esattamente tale prototipo si dovrebbe chiamare ideale (v.) del bello, ideale che però «sarà semplicemente un’ideale dell’immaginazione, appunto perché non riposa sopra concetti, ma sulla esibizione (v.) e la facoltà dell’esibizione è l’immaginazione». ANTR: a differenza del g. empirico, c’è anche «un gusto apprezzativo la cui regola deve essere fondata a priori, perché essa rivela una necessità, e quindi anche una validità per ognuno circa il modo come la rappresentazione di un oggetto deve essere giudicata per rapporto al sentimento di piacere o di dispiacere... nel g. apprezzativo, cioè nel Giudizio estetico, non la sensazione (cioè l’elemento materiale della rappresentazione dell’oggetto), ma il modo il cui l’immaginazione libera (produttiva) inventivamente lo compone, cioè la forma, e ciò che produce il piacere, poiché solo la forma può pretendere di dare una regola universale per il sentimento di piacere». IDEA (Idee): i. nel senso più generale è «una rappresentazione riferita ad un oggetto secondo un certo principio (soggettivo o oggettivo) in quanto essa però non può mai divenire una conoscenza dell’oggetto stesso». Se un’i. è riferita ad un’intuizione secondo un principio puramente soggettivo dell’accordo delle facoltà conoscitive (l’immaginazione e l’intelletto) si dice i. estetica (v.); se è riferita ad un concetto secondo un principio oggettivo, senza poter fornire però una conoscenza dell’oggetto si dice i. della ragione. PURA: «un concetto derivante da nozioni, che sorpassi la possibilità dell’esperienza, è l’i., o concetto razionale». IDEA ESTETICA (ästhetische Idee): «per i.e. intendo quelle rappresentazioni dell’immaginazione, che danno occasione a pensare molto, senza che però un qualunque pensiero o un concetto possa esser loro adeguato, e per conseguenza, nessuna lingua possa perfettamente esprimerle e farle comprensibili»; le i.e. sono il corrispondente delle idee della ragione «le quali sono invece concetti cui nessuna intuizione può essere adeguata»; «l’i.e. tien luogo dell’esibizione logica di un’idea razionale, ma propriamente per vivificare l’animo, aprendogli una vista su di un campo smisurato di rappresentazioni affini»; «in una parola, l’i.e. è una rappresentazione dell’immaginazione associata ad un concetto dato, la quale, nel libero uso dell’immaginazione, è legata con tale quantità di rappresentazioni parziali, che non si potrebbe trovare per essa nessuna espressione che designi un concetto determinato; e quindi una rappresentazione che dà luogo a pensare in un concetto molte cose inesprimibili, di cui il sentimento vivifica le facoltà conoscitive e dà lo spirito alla parola in quanto semplice lettera»; si dicono i.e. le idee «che sono riferite ad una intuizione secondo un principio puramente soggettivo dell’accordo delle facoltà conoscitive (l’immaginazione e l’intelletto)»; le i.e. si distinguono così dalle idee della ragione che «sono riferite ad un concetto secondo un principio oggettivo». IDEA NORMALE (Normalidee): l’i.n. estetica è «un’intuizione singola (dell’immaginazione), la quale rappresenta la regola del suo giudizio come una cosa appartenente a una determinata specie animale». L’i.n. è «per l’intera specie l’immagine fluttuante tra tutte le intuizioni particolari e in varii modi diverse degli individui e che la natura pose come prototipo nei prodotti della specie medesima, senza, a quel che pare, raggiungerla pienamente in nessuna specie. Essa non è il prototipo perfetto della bellezza, in quella specie, ma solamente quella forma che costituisce la condizione imprescindibile di ogni bellezza, e quindi non altro che l’esattezza nella rappresentazione della specie». IDEALE (Ideal): non potendosi avere una regola oggettiva del gusto, si considerano alcuni prodotti del gusto come esemplari; ciò non significa che il gusto possa acquistarsi con l’imitazione, dovendo

essere sempre una facoltà originale, e per questo «il modello supremo, il prototipo del gusto, è una semplice idea che ognuno deve produrre in se stesso, e secondo la quale deve giudicare tutto ciò che è oggetto del gusto, che è esempio del giudizio di gusto, ed anche il gusto di ciascuno». Più che di idea (concetto della ragione), in tal caso si deve parlare di i. (rappresentazione di un essere singolo in quanto è adeguata a un’idea). Per quanto si tratti di un i. dell’immaginazione non potrà però essere una bellezza vaga, ma una bellezza fissata, in quanto «quella specie di principii del giudizio, in cui deve sussistere un i., deve avere a fondamento un’idea della ragione secondo concetti determinati, che determini a priori lo scopo su cui riposa la possibilità interna dell’oggetto»; tra tutti gli oggetti del mondo solo l’uomo, in quanto ha in sé lo scopo della propria esistenza ed è capace dell’ideale della perfezione in quanto persona, in quanto intelligenza, potrà dunque costituire l’i. della bellezza. Solo nella figura umana pertanto si può trovare l’i. della bellezza e precisamente «nell’espressione della moralità, senza la quale l’oggetto non piacerebbe universalmente, e quindi positivamente (non soltanto negativamente in una rappresentazione corretta)»; proprio per quest’ultimo aspetto l’i. si distingue dall’ideale normale (v.). IDEALISMO DELLA FINALITÀ (Idealismus der Zweckmässigkeit): rispetto alla finalità soggettiva l’i.d.f. è una sottospecie del razionalismo (v.) del principio del gusto e consiste nel considerare la finalità soggettiva del giudizio di gusto come «un accordo finalistico senza scopo, che si produce da sé e casualmente, accordo che risponde all’esigenza del Giudizio rispetto alla natura e alle sue forme prodotte secondo leggi particolari». Rispetto alla finalità oggettiva, l’i.d.f. è quel sistema relativo alla tecnica (v.) della natura che considera ogni finalità della natura inintenzionale; si distingue in i. della casualità (Democrito, Epicuro) se considera il rapporto della materia alla causa fisica della sua forma, e in i. della fatalità (Spinoza) se considera il rapporto della materia alla causa iperfisica della materia e di tutta la natura. IDOLATRIA (Idololatrie): «illusione superstiziosa per cui si crede di poter riuscire graditi all’essere supremo per via di altri mezzi, anziché con l’intenzione morale». REL, VI: «in base alla pura rivelazione, senza che sia posto prima a suo fondamento il concetto ideale di Dio nella sua purezza, come pietra di paragone, non ci può essere religione, ed ogni culto sarebbe i.». ILLUMINISMO (Aufklärung): è «la liberazione dalla superstizione; perché, sebbene questo nome convenga anche alla liberazione dai pregiudizi in generale, la superstizione merita di esser chiamata il pregiudizio per eccellenza (in sensu eminenti) considerata la cecità in cui ci trascina e che impone quasi come un obbligo, mettendo nella migliore evidenza il bisogno di essere guidati dagli altri, e quindi lo stato di una ragione passiva». «L’i. è una cosa facile in tesi, ma difficile e lunga da ottenersi in ipotesi; perché il non essere passivo con la propria ragione, facendola esser sempre legislatrice di se stessa, è qualcosa di molto facile per un uomo che vuole restar fedele al suo scopo essenziale e non desidera sapere ciò che è al di sopra della sua intelligenza; ma poiché la tendenza a sapere al di là si può appena impedire, e non mancherà mai chi promette con molta sicurezza di potere appagare questo desiderio di sapere, sarà molto difficile mantenere o stabilire la semplice negativa che costituisce il vero i.». ILL, VIII: «i. è l’uscir dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Stato di minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri. Questo stato di minorità è colpevole, se la causa di esso non è una mancanza di intelletto, ma di decisione e di coraggio, di servirsi del proprio intelletto senza la guida di altri. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo proprio intelletto! Questo è il motto dell’i.». ILOZOISMO (Hylozoismus): è una sottospecie della dottrina del realismo (v.) della finalità della natura e consiste nel fondare «i fini della natura sull’analogo di una facoltà che agisce con intenzione, cioè sulla vita della materia (che è nella materia stessa, oppure è prodotto da un principio animatore interno, un’anima del mondo)»; l’i. non mantiene ciò che promette perché «la possibilità di una materia vivente non si può neppure pensarla; quella di una materia animata e di tutta la natura come un animale, potrebbe essere usata tutt’al più se l’esperienza ce la rendesse manifesta nell’organizzazione della

natura, in piccolo, ma non se ne potrebbe scorgere affatto la possibilità. La spiegazione si aggirerà dunque in un circolo, quando si vuol derivare la finalità dalla natura negli esseri organizzati dalla vita della materia, e questa vita a sua volta non si conosce che negli esseri organizzati, e per conseguenza, senza una simile esperienza non è possibile farsi un concetto della loro possibilità». IMITAZIONE (Nachahmung): è l’opposto del genio (v.) e coincide con l’apprendere. Perciò l’i. è possibile nella scienza, dove anzi si distingue solo per grado dall’invenzione, mentre non ha senso nell’arte bella, dove il genio si distingue specificamente dall’i. Perciò le opere d’arte (belle) sono modelli «non già da copiare, ma da seguire», anche se è molto difficile spiegare questo processo per cui «le idee dell’artista suscitano idee analoghe nell’allievo, se questi è stato dotato dalla natura di una analoga proporzione delle facoltà dell’animo»; «l’i. diventa contraffazione, quando lo scolaro imita tutto, finanche quei punti difettosi che il genio ha dovuto lasciar nell’opera soltanto perché, senz’essi, l’idea ne sarebbe rimasta indebolita». IMMAGINAZIONE (Einbildungskraft): come facoltà delle intuizioni a priori è insieme all’intelletto, come facoltà dei concetti, la condizione del Giudizio riflettente, che nasce appunto dall’accordo spontaneo tra i. e intelletto e considera come finalistico rispetto a se stesso l’oggetto corrispondente a questo accordo spontaneo; l’i. ha pure una funzione riproduttiva essenziale per il sorgere dell’idea normale (v.). PURA: «Facoltà di rappresentare un oggetto anche senza la sua presenza, nell’intuizione». L’i., è produttiva (ivi) se è «soltanto spontaneità», come «effetto dell’intelletto sulla sensibilità e sua prima applicazione a oggetti dell’intuizione possibile»; come quando, ad es., si immagina un cerchio, nell’intuizione, ma secondo una regola dell’intelletto; riproduttiva se è «sottoposta alle leggi empiriche dell’associazione». ANTR in generale; spec. ANTR: «L’i. (facultas imaginandi), come facoltà delle intuizioni anche senza la presenza dell’oggetto, è o produttiva, cioè facoltà di presentazione originaria dell’oggetto (exhibitio originaria), ed è precedente all’esperienza, o riproduttiva, cioè facoltà di presentazione derivata, e allora riconduce nell’animo un’intuizione empirica prima avuta... L’i. produttiva non è per questo creatrice, cioè non può creare una rappresentazione sensibile, che non sia mai stata data precedentemente alla nostra facoltà di sentire, poiché si può sempre indicare quanto le è servito di materia». IMMANENTE (Immanent), v. CONCETTO. IMMORTALITÀ (Unsterblichkeit): riguardo a questo problema la scienza dell’anima e la teologia non ci possono dare altro che un «concetto negativo», ossia escludere che si possano spiegare materialisticamente le azioni e le manifestazioni del senso interno del nostro essere pensante e «che quindi sul durare o perire della personalità dell’essere pensante dopo la morte, non è assolutamente possibile per noi alcun giudizio determinante o estensivo fondato su principii speculativi, anche se impieghiamo tutta la nostra facoltà teoretica di conoscere». Per questo problema si è quindi del tutto affidati al giudizio teleologico e ogni conclusione in merito ha senso soltanto in rapporto alla teleologia morale ed è necessario soltanto per quanto riguarda la nostra destinazione pratica; l’i. è pertanto cosa di fede (v.); «la ragione per cui sono falliti tutti i tentativi per provare in via semplicemente teoretica Dio e l’i. sta nel fatto che per tale via (dei concetti della natura) non è possibile alcuna conoscenza del soprasensibile. Se invece essi riescono per la via morale (del concetto della libertà), la ragione è questa; qui il soprasensibile che fa da fondamento (la libertà) non fornisce soltanto, per mezzo di una legge determinata della causalità che deriva da esso, la materia per la conoscenza dell’altro soprasensibile (dello scopo finale morale e delle condizioni della sua attuabilità), ma, in quanto cosa di fatto (v.) dimostra anche la sua realtà nelle azioni, sebbene appunto perciò non possa fornire se non una prova valida solo dal punto di vista pratico». Cfr. la «confutazione dell’argomento di Mendelssohn» (PURA); PRATICA: nella misura in cui l’attuazione del sommo bene è richiesta come praticamente necessaria e può esser trovata soltanto in un progresso che va all’infinito, e nelle misure in cui «questo progresso infinito è possibile solo supponendo un’esistenza che continui all’infinito, e una personalità dello stesso essere razionale (la quale si chiama i. dell’anima), ... l’i. dell’anima è legata inseparabilmente con la

legge morale, è un postulato della ragion pratica». IMPERO (Gewalt): i. si dice una potenza che è superiore anche alla resistenza di ciò che è una potenza. La natura nel giudizio estetico è considerata come una potenza che non ha nessun i. su di noi e perciò è dinamicamente sublime (v.). INDIFFERENZA (Affektlosigkeit): l’i. affettiva (apatheia, phlegma in significatu bono) come rigorosa obbedienza dell’animo ai suoi principii immutabili è sublime e per di più merita anche la benevolenza della ragione, a differenza dell’entusiasmo (v.). Questo stato d’animo è l’unico che si può chiamare nobile. COST, VI: l’i. morale si ha quando «i sentimenti derivanti dalle impressioni sensibili perdono il loro influsso sulla moralità, solo perché la stima per la legge diventa più forte di essi». ANTR: «il principio dell’i., che cioè il saggio non deve mai subire gli affetti, neppure quello della compassione per i mali del suo migliore amico, è un principio morale giusto e sublime della scuola stoica, perché l’affetto rende (più o meno) ciechi». INFINITO (das Unendliche): «l’i. è grande assolutamente (non per semplice comparazione). Paragonata con esso ogni altra grandezza (della stessa specie) è piccola. Ma il poterlo anche solo pensare come un tutto dimostra una facoltà dell’animo che trascende ogni misura dei sensi. Perché a ciò sarebbe necessaria una comprensione (v.) che fornisce come unità una misura la quale avesse con l’i. un rapporto determinato, esprimibile in numeri: il che è impossibile». Solo mediante una facoltà che sia essa stessa soprasensibile e mediante la sua idea di un noumeno «l’i. del mondo sensibile è compreso interamente sotto un concetto, nella valutazione puramente intellettuale delle grandezze, sebbene esso, nella valutazione matematica mediante concetti numerici, non possa mai essere pensato interamente»; «nella valutazione logica delle grandezze, l’impossibilità di arrivare all’assoluta totalità mediante la misurazione progressiva delle cose del mondo sensibile nel tempo e nello spazio è riconosciuta come oggettiva, cioè come un’impossibilità di pensare l’infinito come semplicemente dato, e non come puramente soggettiva, cioè come impossibilità di comprenderlo». INGENUITÀ (Naivetät): è «lo sfogo dell’originaria sincerità naturale dell’umanità contro l’arte di fingere, diventata una seconda natura». Nell’i. si trova qualcosa del sentimento morale e qualcosa del gusto. «Un’arte di essere ingenuo è una contradizione in termini; ma è possibile rappresentare l’i. in una persona immaginaria; e, sebbene rara, questa è arte bella. Con l’i. non deve essere scambiata quella franca semplicità, la quale non dissimila la natura soltanto perché non comprende che cosa sia l’arte del vivere in società». OSS, II: l’i., come nobile e bella semplicità, porta su di sé il sigillo della natura e non dell’arte. INTELLETTO (Verstand): «nessuna altra facoltà di conoscere, oltre l’i. può fornire principii di conoscenza costitutivi a priori». L’i. avanza pericolose pretese, raffrenate dalla critica, di racchiudere nei limiti della possibilità delle cose che esso può conoscere «anche la possibilità di ogni cosa in generale». «L’i. prescrive le leggi a priori alla facoltà di conoscere»; l’i. è legislatore soltanto nel territorio dell’esperienza ed, a differenza della ragione (v.) esercita tale legislazione mediante il concetto di natura. Infatti «i concetti della natura, contenenti il fondamento di ogni conoscenza teorica a priori, riposano sulla legislazione dell’i.»; «l’i. è legislatore a priori per la natura come oggetto dei sensi, in vista di una conoscenza teoretica di essa in una esperienza possibile»; «la facoltà dei concetti, chiari o confusi che siano è l’i.», e come tale, entra anche nel giudizio di gusto (v.), ma non come facoltà della conoscenza di un oggetto, bensì «come facoltà della determinazione del giudizio e della rappresentazione (senza concetto) secondo il rapporto di questa al soggetto e al suo sentimento interno, e precisamente in quanto questo giudizio è possibile secondo una regola universale»; l’i. umano, essendo discorsivo (v.) e non intuitivo (v.), non può fare a meno di distinguere la possibilità dalla realtà, in quanto la nostra facoltà di conoscere richiede due elementi del tutto eterogenei: l’i. per i concetti e l’intuizione (v.) sensibile. «Ora tutta la distinzione del semplicemente possibile dal reale riposa su questo, che il primo significa soltanto la posizione della rappresentazione d’una cosa relativamente al nostro concetto, e in generale, alla facoltà di pensare, mentre il secondo significa la posizione della cosa

in se stessa, al di fuori di questo concetto. Sicché la distinzione tra le cose possibili e le reale è tale che vale solo soggettivamente per l’i. umano». PURA: «l’i. in generale può essere rappresentato come una facoltà di giudicare: esso infatti è una facoltà di pensare». PURA: l’i. è una «facoltà di produrre da sé rappresentazioni, ovvero la spontaneità della conoscenza». INTELLETTO DISCORSIVO (diskursiver Verstand): è l’intelletto umano in quanto facoltà di concetti, e cioè intelletto «per il quale devono essere contingenti la specie e le differenze del particolare che gli è dato nella natura e che può essere ricondotto ai suoi concetti». Così nella conoscenza della causa di un prodotto «deve andare dall’universale analitico (dei concetti) al particolare (dell’intuizione empirica data)» e in generale deve considerare «la possibilità del tutto come dipendente dalle parti», distinguendosi così come intellectus ectypus dall’intellectus archetypus o intelletto intuitivo (v.). PURA: l’i. è una «facoltà di conoscere non sensitiva, ... ma per concetti, discorsiva». INTELLETTO INTUITIVO (intuitiver Verstand): per ammetter il principio della finalità della natura come principio del Giudizio riflettente del nostro i. occorre fondarsi sull’«idea di un altro intelletto possibile diverso dal nostro», proprio come nella critica della ragion pura, per considerare la nostra intuizione come una specie particolare dell’intuizione, occorreva pensare un altro tipo di intuizione. Si tratta cioè di pensare «un i.i. (negativamente, cioè soltanto come non discorsivo), che non vada dall’universale al particolare e quindi al singolare (mediante concetti) e pel quale non esista quella contingenza nell’accordo della natura, nei suoi prodotti determinati secondo leggi particolari, con l’intelletto, la quale rende così difficile all’intelletto nostro il ricondurre all’unità della conoscenza la varietà della natura». L’i.i., a differenza del nostro non andrebbe dall’universale analitico (dei concetti) al particolare (dell’intuizione empirica data), ma dall’universale sintetico (dell’intuizione di un tutto come tale), al particolare, vale a dire dal tutto alle parti, in modo che «la rappresentazione del tutto non contenga la contingenza del legame delle parti per rendere possibile una forma determinata del tutto, di cui ha bisogno il nostro intelletto che deve procedere dalle parti». «Qui non è neppure necessario dimostrare la possibilità di un tale intellectus archetypus, ma basta provare che dal confronto del nostro intelletto discorsivo, che ha bisogno di immagini (intellectus ectypus), con la contingenza di questa sua natura, siamo condotti per via di paragone a quell’idea (di un intellectus archetypus) e che questa non contiene alcuna contradizione». PURA: «un i. nel quale ogni molteplicità fosse data immediatamente dall’autocoscienza, intuirebbe». INTELLETTO SANO (gesunder Verstand) v. INTELLIGENZA COMUNE. INTELLIGENZA COMUNE (gemeiner Menschenverstand): «l’i.c., che in quanto semplice sano intelletto (non peranco coltivato), si riguarda come il minimo che si possa sempre aspettare da chi aspiri al nome di uomo, ha anche perciò il non lusinghiero onore di ricevere il nome di senso comune (sensus communis) (v.), e per modo che con la parola comune s’intende il vulgare, ciò che si trova dovunque, e che non è affatto né un merito né un privilegio possedere». INTERESSE (Interesse): i. è «il piacere che noi congiungiamo con la rappresentazione dell’esistenza di un oggetto». C’è dunque un interesse per il piacevole, per il buono, mentre il bello viene giudicato tale dal gusto (v.) senza nessun interesse. Questo non esclude che ci sia un i. empirico e un i. intellettuale per il bello. L’i. empirico si spiega con la tendenza dell’uomo alla società, ma è pur sempre un i. indiretto che non deve incidere sul giudizio di gusto in quanto tale. L’i. intellettuale per il bello di natura è invece strettamente collegato con l’interesse morale, perché deriva dalla constatazione che nella natura qualcosa manifesta un possibile accordo regolare dei suoi prodotti con il nostro piacere indipendente da ogni interesse. FOND, IV: «la dipendenza di una volontà determinabile in modo contingente dai principii della ragione si chiama i. Ma questo può avere luogo soltanto in una volontà dipendente, che non è sempre conforme alla ragione; nella volontà divina non è pensabile un i. Ma anche la volontà umana può prendere i. a qualcosa, senza agire per i. Il primo è l’i. pratico all’azione, il secondo l’i. patologico all’oggetto dell’azione». INTUIZIONE (Anschauung): è ciò che prova la realtà dei concetti, e si chiama esempio se si tratta di

concetti empirici, schema (v.) se si tratta di concetti puri dell’intelletto. L’i. può essere interna (p. 139) o esterna (p. 197); l’impossibilità dell’intelletto umano di giungere mediante una spiegazione puramente meccanica a comprendere la finalità della natura fa pensare a un i. «diversa dall’intuizione sensibile» che consenta pure «una conoscenza determinata del sostrato intelligibile della natura». V. pure INTELLETTO INTUITIVO. PURA: «È la conoscenza che si riferisce immediatamente agli oggetti». Ivi: «Gli oggetti ci sono dati dalla sensibilità ed essa sola ci fornisce i.». PURA: «Le i. senza concetti sono cieche»; però «l’i. non ha in nessun modo bisogno delle funzioni del pensiero» [nel senso che è immediata]. PURA; e passim: «Ogni nostra possibile i. è sensibile» cioè recettiva. Tuttavia non ogni i. è empirica, perché le forme pure dell’i. (spazio e tempo) costituiscono esse stesse il materiale di una i. pura. PURA: «Questa forma pura della sensibilità si chiamerà essa stessa i. pura». IPOTIPOSI (Hypotypose): come esibizione (v.) sensibile è duplice: «schematica, quando l’intuizione corrispondente ad un concetto dell’intelletto è data a priori; simbolica, quando ad un concetto che può esser pensato solo dalla ragione, e a cui non può esser adeguata alcuna intuizione sensibile viene sottoposta un’intuizione nei cui confronti il procedimento del Giudizio è soltanto analogo a quello dello schematismo». LEGGE (Gesetz): l. universale è quella che costituisce un fondamento necessario della possibilità dell’esperienza (possibilità di pensare la natura in generale). Tali l. «riposano sulle categorie applicate, alle condizioni formali di ogni nostra intuizione possibile in quanto è data ugualmente a priori. Nella natura dobbiamo però pensare anche delle l. empiriche infinitamente varie, di cui non scorgiamo la necessità (data la natura e i limiti delle nostre facoltà conoscitive) e secondo le quali giudichiamo come contingente l’unità della natura nelle sue l. empiriche e la possibilità dell’unità dell’esperienza (in quanto sistema di leggi empiriche)». L’intelletto cioè ha bisogno di regole «senza le quali non potrebbe esservi passaggio dall’analogia generale di un’esperienza possibile in generale all’intelletto particolare»; e l’intelletto deve pensare queste regole come l. (ossia come necessarie), pur senza mai conoscere né poter conoscere la loro necessità. PURA: «le l. esistono nei fenomeni solo relativamente al soggetto al quale i fenomeni ineriscono». PROL, IV: «l’intelletto non trae le sue l. dalla natura, ma le prescrive ad essa». PURA: «l’intelletto non giunge a prescrivere ai fenomeni più l. di quelle su cui riposa una natura in generale». LEGGE MORALE (Sittengesetz) : «la l. m., come condizione razionale formale dell’uso della nostra libertà, ci obbliga per sé sola, senza dipendere da qualche scopo in quanto condizione materiale: ma essa ci determina anche» e «a priori uno scopo finale, al quale ci impone di tendere, e che è il sommo bene possibile nel mondo mediante la libertà»; «lo scopo finale che la l.m. ci dà da seguire, non è il principio del dovere, perché questo principio risiede nella l.m., la quale, in quanto principio pratico formale, ci dirige categoricamente, indipendentemente dagli oggetti della facoltà di desiderare (dalla materia della volontà) e quindi indipendentemente da ogni scopo»; «il principio supremo di tutte le leggi morali è un postulato». Cfr. pure: Fondazione della metafisica dei costumi, Critica della ragion pratica e Metafisica dei costumi. LEGISLAZIONE (Gesetzgebung): l’intelletto e la ragione hanno due l. differenti (l’uno teoretica, mediante concetti naturali, l’altra pratica, mediante il concetto di libertà) e le esercitano su un medesimo territorio (v.) dell’esperienza senza che l’una l. possa pregiudicare l’altra. Questo perché il concetto della natura può rappresentare i suoi oggetti nell’intuizione ma non come cose in sé, bensì come fenomeni, mentre il concetto della libertà può rappresentare il suo oggetto come cosa in sé, ma non nell’intuizione.; pur rimanendo queste due l. rigorosamente separate, è però possibile ammettere che il soprasensibile determini il sensibile secondo il concetto di una causalità della libertà, ed è precisamente il Giudizio, mediante il concetto di una finalità della natura a fornire il concetto intermediario tra quello della natura e quello della libertà, e quindi a rendere pensabile un legame a priori tra la l. dell’intelletto e quella della ragione. LEMMA (Lehnsatz): quando le scienze sono fondate su concetti che possono trovare posto soltanto

fuori di esse, pongono alla base delle loro dottrine dei l., ossia «prendono in prestito da un’altra scienza un concetto, e con questo un principio per il loro ordinamento». LEX PARSIMONIAE: «la natura prende il più breve cammino». LIBERTÀ (Freiheit): la l. della immaginazione consiste «nello schematizzare senza concetto»; «nel giudizio del bello la l. dell’immaginazione è rappresentata come in accordo con l’intelletto, mentre nel giudizio morale la l. del volere è concepita come accordo della volontà con se stessa secondo le leggi universali della ragione»; la l. «non contiene nel suo stesso concetto che un principio negativo rispetto alla conoscenza teoretica, mentre stabilisce per la determinazione della volontà principii estensivi, che perciò si chiamano pratici»; perciò tale principio è il principio della filosofia morale, proprio come i concetti della natura sono principii della filosofia della natura; tra le idee della ragion pura l’idea di l. «è l’unica di cui l’oggetto sia una cosa di fatto, e debba esser messa tra gli scibilia»; questo perché «la realtà dell’idea di l., come una specie particolare di causalità, il cui concetto sarebbe trascendente dal punto di vista teoretico, si può dimostrare mediante le leggi pratiche della ragion pura, e, conformemente a queste, nelle azioni reali, e quindi nell’esperienza». PURA: «che la natura non contradica alla causalità per la l., era la sola cosa che potevamo mostrare, e anche la sola che per noi fosse importante». LOGICA (Logik): «la l. contiene i principii della forma del pensiero in generale senza distinguerne gli oggetti». PURA: si distingue in l. generale e speciale e in pura e applicata. PURA: «è da ritenersi chiusa e completa». PURA: l. trascendentale è «una scienza che determini l’origine, l’estensione e la validità oggettiva delle conoscenze intellettuali». Essa «riguarda le leggi dell’intelletto e della ragione, ma solo in quanto si riferisce a oggetti a priori, non, come la l. generale, a conoscenze tanto pure quanto empiriche senza distinzione». LUNATICO (launisch); v. UMORE. LUSSO (Luxus): è il punto più alto della coltura (v.), quando l’inclinazione al superfluo sopravanza quella all’indispensabile. ANTR: «il l. è l’eccesso del benessere sociale unito al gusto e diffuso nella vita comune (esso è dunque contrario alla prosperità pubblica). L’eccesso medesimo, ma senza gusto, è la pubblica dissolutezza (luxuries). – Se si prendono in considerazione i due effetti sul benessere, allora il l. è una spesa superflua, che rende poveri, la dissolutezza invece, una spesa, che rende ammalati. Il primo è tuttavia ancora conciliabile con la coltura progressiva del popolo (nell’arte e nella scienza); il secondo invece soverchia col godimento e produce infine disgusto... Il l. può essere biasimato non nella vita privata, ma soltanto in quella pubblica... il l. produce infatti il bene di avvivare le arti e così restituisce alla collettività la spesa che un tal spreco potrebbe averle cagionato». MACCHINA (Maschine): è un essere che ha soltanto una forza motrice, e può essere spiegata con la sola facoltà del movimento. MANIERA (Manier, modus aestheticus): «la m. è una specie di contraffazione che consiste nell’imitazione dell’originalità in generale, per allontanarsi per quanto possibile dagli imitatori, senza però possedere il talento di essere per se stesso esemplare». La m., come modus aestheticus si distingue dal metodo (modus logicus), in quanto la m. ha come misura soltanto il sentimento dell’unità nell’esibizione (v.), mentre il metodo invece segue principii determinati. Un’opera d’arte si dice manierata quando «l’esposizione dell’idea che vi è contenuta mira alla singolarità e non è adeguata all’idea stessa». MASSIMA DEL GIUDIZIO (Maxime): m. del Giudizio è quella «che è posta a priori a fondamento dell’investigazione della natura, e che tuttavia non riguarda se non la possibilità dell’esperienza, e, per conseguenza, della conoscenza della natura, ma non semplicemente come natura in generale, sibbene come natura particolarmente determinata»; m. del Giudizio è un principio soggettivo che indica il modo che «dobbiamo seguire nella riflessione sugli oggetti della natura allo scopo di ottenere un’esperienza coerente in tutto il suo complesso». PURA: «chiamo m. della ragione tutti i principii soggettivi che non sono ricavati dalla costituzione dell’oggetto, ma dall’interesse per la ragione rispetto a una certa

perfezione possibile della conoscenza di questo oggetto. Così ci sono m. della ragion speculativa, che si fondano unicamente sull’interesse speculativo della medesima, quantunque possa sembrare che esse siano principii oggettivi». Mentre quando i principii regolativi vengono considerati come costitutivi possono essere contradittorii, quando sono considerati semplicemente come m. possono contrastare senza che ci sia vera contradizione, perché come m. corrispondono a un unico interesse della ragione, e il loro contrasto «non è se non una differenza e limitazione reciproca dei metodi di dar soddisfazione a questo interesse». MATEMATICA (Mathematik): nella pura m. «non si tratta dell’esistenza, ma soltanto della possibilità delle cose, cioè di un’intuizione corrispondente al loro concetto»; la m. «non ha la benché minima parte nell’attrattiva e nella commozione dell’anima prodotta dalla musica; è soltanto la condizione indispensabile di quella proporzione delle impressioni, nella loro unione e vicenda, che permette di abbracciarle tutte insieme, impedendo che si distruggano reciprocamente, e che rende possibile il loro accordarsi per produrre, per via di consoni affetti, una continua commozione ed eccitazione dell’animo, e quindi un piacevole godimento seco stesso». PUR: è una scienza «per costruzione di concetti». MATERIA (Materie): la m. bruta è il grado più basso della natura che noi possiamo conoscere ed opera secondo leggi meccaniche; per spiegare la finalità della natura si è ricorso ora a una m. inanimata, ora a una m. animata, vivente, ma in entrambi i casi si tratta di affermazioni dogmatiche nella loro pretesa di essere oggettive; il concetto di m. vivente «implica una contradizione, perché l’assenza di vita, inertia, costituisce il carattere essenziale della m.» «Appunto perciò l’ilozoismo (v.) non può mantenere quello che promette; così pure è assurda l’idea di una autocrazia (v.) della m. PURA: fisicamente «la m. è substantia phaenomenon» ciò che permane attraverso i mutamenti; essa (ivi) «non ha in sé nulla che non sia solo relativamente interno». MECCANICA (Mechanik): determinazione delle cause dei prodotti naturali secondo le leggi del movimento. INTR «la m. della natura consiste nella causalità della natura posta mediante la connessione del molteplice, senza alcun concetto che stia a fondamento del modo della sua unificazione» e per questo si distingue dalla tecnica (v.) della natura. Cfr. Principii metafisici della scienza della natura, 1786, sez. III dedicata alla m. MECCANISMO (Mechanism): è quel tipo di rapporto che può essere spiegato con la sola facoltà del movimento (v. pure p. 211); il m. deve essere posto a fondamento della ricerca, perché altrimenti non si può avere una vera conoscenza della natura; «senza il m. non si può affatto giungere a comprendere la natura delle cose»; «il semplice m. naturale non può essere sufficiente a spiegare la possibilità di esseri organizzati della natura»; «come il m. della natura non può bastare a farci pensare la possibilità di un essere organizzato, ma (almeno secondo la natura della nostra facoltà conoscitiva) deve essere subordinato originariamente a una causa intenzionale, così il fondamento puramente teleologico di questo essere non basta a farcelo considerare e giudicare anche come un prodotto naturale, se non vi si associa il m. della natura, come lo strumento d’una causa intenzionale, ai cui fini la natura è subordinata nelle sue leggi meccaniche». PRINC, IV: «la spiegazione della differenza specifica delle materie mediante la struttura e la composizione delle loro parti più piccole, come macchine, è la filosofia meccanica della natura». PRAT: «ogni necessità degli eventi nel tempo secondo la legge naturale della causalità si può anche chiamare il m. della natura, benché con ciò non si intenda che le cose che gli sono soggette debbano essere vere macchine materiali... Qui si guarda soltanto alla necessità della connessione degli eventi in una serie temporale, come questa si svolge secondo la legge naturale: ed il soggetto in cui avviene questo flusso si può chiamare automaton materiale, quando l’essere meccanico è mosso mediante la materia, o con Leibniz, spirituale, quando è mosso mediante rappresentazioni». MESTIERE (Handwerk): si distingue dall’arte (v.) in quanto l’arte si chiama liberale, e il m. mercenario. L’arte infatti può aver esito conforme al fine soltanto come giuoco, cioè come un’occupazione piacevole per se stessa, mentre il m. è un lavoro, ossia un’occupazione che per se stessa

è spiacevole (penosa) ed attrae soltanto per il risultato (per esempio, la ricompensa) che promette, e che quindi può essere imposta con la costrizione. METAFISICA (Metaphysik): la m. si divide in m. della natura e m. dei costumi; «Dio, la libertà e l’immortalità sono quei problemi alla cui soluzione tendono, come al loro ultimo ed unico scopo, tutti gli apparecchi della m.» PURA: è «la filosofia derivante dalla ragion pura, nella sua connessione sistematica» e si divide in «m. della natura» e «m. dei costumi». MISANTROPIA (Misanthropie): è «il fuggire gli uomini perché si odiano», ed «è cosa odiosa e disprezzabile insieme. Vi è nondimeno una specie di m. (detta così molto impropriamente), di cui la disposizione si trova con l’invecchiare in uomini molto assennati; è uno stato d’animo che non lascia a desiderare riguardo alla benevolenza (v.), perché è abbastanza filantropico, ma che è ben lungi dal trovare piacere nella compagnia degli uomini, per effetto di una lunga e triste esperienza» (v. TRISTEZZA). MISURA DELLE GRANDEZZE (Grössenschätzung): la m.d.g. si dice matematica se è compiuta mediante concetti di numeri o dei loro segni algebrici, oppure estetica se è compiuta mediante la semplice intuizione, a occhio. In ultima analisi ogni m.d.g. è estetica (cioè determinata soggettivamente, non oggettivamente), perché la m.d.g. della misura fondamentale non può essere mai soltanto matematica, ma «deve consistere semplicemente in ciò, che essa possa essere colta immediatamente in un’intuizione e si possa adoperarla, mediante l’immaginazione, nell’esibizione dei concetti numerici». Per la m. matematica d.g. non vi è un massimo (poiché il potere dei numeri va all’infinito), mentre la m. estetica della g. ha sempre un massimo ed implica l’idea del sublime (v.); «nella m. matematica d.g. l’immaginazione è atta a dare ad ogni oggetto una misura sufficiente, perché i concetti numerici dell’intelletto possono adattare per via di progressione ogni misura ad ogni grandezza. È dunque nella m. estetica d.g. che sentiamo la tendenza a una comprensione superiore ad ogni capacità dell’immaginazione di comprendere l’apprensione progressiva in una totalità che, per la natura come fenomeno, è un’infinità di cui sia stata raggiunta la comprensione». MISURAZIONE (Messung): la m. di uno spazio (in quanto apprensione, v.) «è nel tempo medesimo una descrizione di esso, quindi un movimento soggettivo dell’immaginazione e un progresso». MODELLO (Muster): è il prodotto del genio in quanto è esemplare, ossia per quanto tale prodotto «non sia nato da imitazione, deve tuttavia servire per gli altri a ciò, vale a dire come misura e regola del giudizio». MODULAZIONE (Modulation): insieme alla articolazione (v.) e alla gesticolazione (v.) è una delle tre forme di espressione che rendono possibile agli uomini di comunicarsi non solo i concetti, ma anche le sensazioni e corrisponde al suono. MONDO (Welt): soltanto riconoscendo l’uomo come scopo della creazione unicamente in quanto essere morale si ha motivo, o almeno la condizione principale per «considerare il m. come una totalità finalisticamente connessa e come un sistema di cause finali». MORALE (Moralphilosophie): è una delle due parti in cui si divide la filosofia ed indica precisamente la f. pratica, ossia «la legislazione pratica della ragione secondo il concetto della libertà», in tal modo viene superata ogni possibile confusione tra ciò che è semplicemente pratico secondo i concetti della natura e ciò che invece è pratico secondo il concetto di libertà, riservando a questo soltanto il nome di m.; se la m. dovesse regolarsi sulla teologia «non soltanto ad una legislazione interna necessaria della ragione verrebbe a sostituirsi quella esterna ed arbitraria di un essere supremo, ma tutto ciò che v’è di difettoso nella nostra conoscenza di questo essere si estenderebbe al precetto morale». INTR: «regna un grave malinteso, anche per il modo di trattare la scienza, su ciò che debba intendersi per pratico, in un’accezione che possa riferirsi ad una f. pratica. Si è creduto di poter includere nella f. pratica la politica e l’economia politica, le regole dell’economia domestica, comprese quelle del galateo, i precetti per il benessere e la dietetica, sia dell’anima che del corpo (perché non, allora, ogni arte e mestiere?); e questo perché tutte queste discipline contengono un complesso di proposizioni pratiche (v.). Ma le

proposizioni pratiche sono sì distinte per il tipo di rappresentazione dalle proposizioni teoretiche, che contengono la possibilità delle cose e le loro determinazioni, ma non ne sono distinte per il contenuto, ad eccezione di quelle che considerano la libertà sotto leggi». MORALITÀ (Moralität, Sittlichkeit): l’idea della m. non ha affatto bisogno del soccorso di immagini ed apparati puerili, analoghi a quelli di cui i governi hanno concesso alle religioni di provvedersi, perché al contrario suscita lo slancio di un’immaginazione illimitata; «la m. è una seconda natura (soprasensibile) di cui conosciamo solo le leggi, senza poter raggiungere con l’intuizione quella facoltà soprasensibile che, in noi stessi, contiene il principio di questa legislazione». MOSTRUOSO (Ungeheur): «un oggetto è m. quando con la sua grandezza annulla lo scopo che è nel suo stesso concetto». MUSICA (Musik): insieme al colorito (v.) costituisce una sottospecie dell’arte del bel giuoco delle sensazioni prodotte dal di fuori. La m. può essere considerata come arte bella, e non semplicemente come arte piacevole soltanto se la si definisce come un’arte connessa a un giudizio della forma nel giuoco delle molte sensazioni, e non con la semplice impressione sensibile; «le sensazioni del colore come quelle del suono non possono esser giustamente ritenute belle, se non in quanto sono pure; ed è questa una determinazione che già riguarda la forma, ed è anche l’unica in queste rappresentazioni che si possa con certezza universalmente comunicare; perché la qualità delle sensazioni non si può ammettere come concordante in tutti i soggetti e la superiorità riguardo al piacevole del suono di uno strumento musicale su quello di un altro difficilmente si può ammettere che sia giudicata da ognuno allo stesso modo». V. ATTRATTIVA; «La m. e le cose che suscitano riso sono due specie del giuoco con idee estetiche, od anche con rappresentazioni intellettuali, con le quali in fondo non si pensa niente, ma che possono dilettare soltanto per il loro variare, e nondimeno vivacemente; con che esse ci danno a conoscere abbastanza chiaramente che l’animazione nei due casi è semplicemente corporea, sebbene sia prodotta da idee dell’animo, e che tutto il diletto d’una allegra riunione, ritenuto tanto fine e spirituale, è costituito dal sentimento della salute, prodotto da un movimento di visceri dei suoni o delle arguzie. Non è il giudizio dell’armonia dei suoni o delle arguzie, che con la sua bellezza serve soltanto da veicolo necessario; ma è lo svolgimento più facile della vita corporea, l’affetto che mette in moto i visceri e il diaframma, è, in una parola, il senso della salute che costituisce il diletto che vi si trova, in modo che si può giungere al corpo anche attraverso l’anima. Nella m. questo giuoco va dalla sensazione del corpo alle idee estetiche (degli oggetti che suscitano le affezioni) e da queste con la forza acquistata, ritorna al corpo». ANTR «il senso vitale viene in modo indicibilmente vivace e vario non solo eccitato, ma anche rafforzato dalla m., come giuoco regolare di sensazioni uditive, ond’essa è un linguaggio di semplici sensazioni (senza concetti)». MUSICA DA TAVOLA (Tafelmusik): «una cosa meravigliosa, la quale soltanto con un gradevole rumore deve mantenere negli animi la disposizione allegra, e, senza che nessuno presti la minima attenzione alla sua composizione, favorisca la conversazione libera tra l’uno e l’altro vicino». NATURA (Natur): «complesso di fenomeni (di cui la forma anche è data a priori)»; la n. in generale (come oggetto dei sensi), può essere pensata solo ammettendo nei fondamenti della possibilità dell’esperienza qualcosa di necessario, e cioè «leggi universali, che riposano sulle categorie, applicate alle condizioni formali di ogni nostra intuizione possibile, in quanto è data egualmente a priori». Ma siccome «n. specificamente differenti, a prescindere da ciò che hanno di comune, in quanto appartengono alla n. in generale, possono essere cause in una infinità di maniere diverse; ...dobbiamo pensare che nella n., considerandola nelle sue leggi puramente empiriche, siano possibili leggi empiriche infinitamente varie, che, tuttavia, sono contingenti per noi (non possono essere conosciute a priori) e secondo le quali giudichiamo come contingente la unità della n. nelle sue leggi empiriche e la possibilità dell’unità dell’esperienza (in quanto sistema di leggi empiriche)»; «l’accordo pensato della n., nella varietà delle sue leggi particolari, col nostro bisogno di trovare per essa principii universali, deve esser giudicato come contingente, per quanto ne possiamo sapere, ma nello stesso tempo come

inevitabile per bisogno del nostro intelletto, e quindi come una finalità per la quale la n. si accorda col nostro intento, ma soltanto in quanto questo mira alla conoscenza»; «che le cose della n. servano l’una all’altra come mezzi a fini, e che la loro possibilità stessa sia sufficientemente intelligibile solo per via di tale specie di causalità, sono affermazioni di cui non troviamo alcuna ragione nell’idea universale della n. come insieme degli oggetti dei sensi»; «le qualità della n., che si possono dimostrare a priori e di cui perciò la possibilità si può scorgere per via di principii universali senza il concorso dell’esperienza, non possono essere riferite alla teleologia della n., in quanto è un metodo di risolvere le questioni appartenenti alla fisica (v.), perché sebbene esse implichino una finalità tecnica, sono però assolutamente necessarie»; «la bellezza naturale per sé stante ci rivela una tecnica della n., che ce la rappresenta come un sistema secondo leggi il principio nella nostra facoltà di cui non sappiamo trovare il principio nella nostra facoltà intellettiva; cioè secondo un principio che è quello di una finalità relativa all’uso del Giudizio applicato ai fenomeni, in modo che questi possano essere considerati come appartenenti non soltanto alla natura nel suo meccanismo senza scopo, ma anche alla n. come analogo dell’arte»; «Si dice assai poco della n. e delle facoltà che essa dimostra nei prodotti organizzati, quando questa si chiama un analogo dell’arte; perché allora si pensa l’artista (un essere ragionevole) fuori di essa. La n. invece si organizza da sé, e, in ogni specie dei suoi prodotti organizzati, secondo uno stesso esemplare; ma anche con quelle opportune deviazioni, che esige la conservazione di se stessa, secondo le circostanze. Forse ci si avvicina di più a questa proprietà impenetrabile, quando la si chiama un analogo della vita», ma «rigorosamente parlando, l’organizzazione della n. non ha alcuna analogia con qualche causalità che noi conosciamo»; «la n. mostra dovunque nelle sue libere formazioni (v.) una tendenza meccanica alla produzione di forme, le quali sembrano bensì fatte per l’uso estetico del nostro Giudizio, senza però darci la menoma ragione di supporre che sia perciò necessaria qualche cosa oltre il suo meccanismo in quanto semplice natura, in modo che le forme stesse, senz’alcuna idea che loro serva di fondamento, possono essere finali rispetto al nostro giudizio». INTR «la n. si regola nelle sue leggi puramente formali (per cui essa è oggetto dell’esperienza in generale) secondo il nostro intelletto, mentre riguardo alle leggi particolari, alla loro molteplicità e diversità, essa è libera da tutte le restrizioni della nostra facoltà legislativa della conoscenza; ed è solo un presupposto del Giudizio, in vista del proprio uso, che si ascenda dall’elemento empirico in particolare a quello che è pur sempre empirico, ma più generale, e ciò al fine d’ottenere quell’unificazione delle leggi empiriche che è fondata da tale principio. Né si può addebitare in alcun modo alla esperienza un tale principio, perché solo presupponendolo è possibile disporre le esperienze in modo sistematico». INTR: «poiché la n. specifica se stessa nelle sue leggi empiriche nel modo che è richiesto per un’esperienza possibile che sia intesa come un sistema di conoscenza empirica, questa forma della n. contiene una finalità logica, ossia un accordo con le condizioni soggettive del Giudizio riguardo alla possibile connessione di concetti empirici nell’insieme di un’esperienza. Tuttavia da ciò non si trae la conclusione della sua attitudine ad una finalità reale nei suoi prodotti ossia a produrre singole cose in forma di sistemi: infatti per l’intuizione queste cose potrebbero essere, in ogni caso, meri aggregati». INTR: «la n., nella specificazione (v.) delle leggi trascendentali dell’intelletto (principii della sua possibilità come natura in generale), ossia nella molteplicità delle sue leggi empiriche, procede secondo l’idea d’un sistema della loro divisione, in vista della possibilità dell’esperienza come sistema empirico»; questo è pure il principio trascendentale peculiare del Giudizio: PURA: «con la espressione ‘n.’ intendiamo la connessione dei fenomeni, per la loro esistenza, secondo regole necessarie o leggi». NATURA, CONCETTO DELLA (Naturbegriff): il c. di n. è quello che «prova la sua realtà negli oggetti dei sensi dati (o che possono essere dati) avanti a tutti i concetti della natura. Ora il c.d.n. (che appartiene semplicemente alla conoscenza teoretica) o è metafisico, e interamente a priori, oppure è fisico; vale a dire a posteriori, e non può essere pensato se non necessariamente mediante un’esperienza determinata. Il c. metafisico d.n. (che non suppone alcuna esperienza determinata) è, dunque, ontologico». NECESSITÀ (Nothwendigkeit): la n. pensata nel giudizio estetico, per cui si afferma una relazione

necessaria del bello con il piacere, è diversa tanto dalla n. teoretica, quanto da quella pratica ed è soltanto «esemplare», ossia è «la n. dell’accordo di tutti in un giudizio considerato come esempio di una regola universale che però non si può addurre». Non trattandosi di un giudizio conoscitivo, e non derivando da concetti determinati, tale n. non può essere «apodittica» e neppure «può essere inferita dall’universalità della esperienza (di un accordo completo dei giudizi sulla bellezza di un certo oggetto)»; la condizione di tale n. è l’idea di un senso comune (v.). OCCASIONALISMO (Okkasionalism): è quella dottrina che spiega la forma finale interna degli esseri organizzati in quanto fini della natura ammettendo che «la causa suprema del mondo, conformemente alla sua idea e all’occasione di ogni accoppiamento, darebbe immediatamente alla materia che vi si mescola, la conformazione organica»; ammettere l’o. significa perdere del tutto la natura e, con essa, la possibilità di ogni giudizio della ragione sulla possibilità della produzione di esseri organizzati. OPINIONE (Meinung): «cose d’o. sono sempre oggetti di una conoscenza d’esperienza almeno in se stessa possibile (oggetti del mondo sensibile), ma impossibile per noi solo relativamente al grado in cui possediamo questa facoltà». PURA: «o. e giudizi verosimili di ciò che s’appartiene alle cose, possono aversi soltanto come principii di spiegazione di quello che è effettivamente dato, o come conseguenze, secondo leggi empiriche di quello che sta effettivamente a fondamento, e però solamente nella serie degli oggetti dell’esperienza». PURA: l’o. è uno dei tre gradi della «credenza e validità soggettiva del giudizio in rapporto con la convinzione (che vale insieme oggettivamente)»: l’o. «è una credenza insufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente, accompagnata dalla coscienza». LOG, IX: «l’opinare o la convinzione basata su un fondamento conoscitivo che non è sufficiente né soggettivamente né oggettivamente, può essere considerato come un giudizio provvisorio (sub conditione suspensiva ad interim), di cui non si può fare a meno»; l’o. è la fase iniziale della conoscenza, ma non può aver luogo nelle scienze che contengono principii a priori (matematica, metafisica e morale) ma solo nelle scienze empiriche». ORATORIA (Rednerkunst), v. ELOQUENZA. ORGANIZZAZIONE, ORGANISMO (Organization): «rigorosamente parlando l’o. della natura non ha nessuna analogia con qualche causalità che noi conosciamo»; «l’o., come fine interno della natura, supera infinitamente ogni facoltà di produrre un’esibizione (v.) simile per mezzo dell’arte: e per ciò che riguarda quelle disposizioni esterne della natura che sono tenute come finali (per esempio i venti, la pioggia ecc.), la fisica ne considera bensì il meccanismo, ma non può mostrare la loro relazione a fini, in quanto questi debbono essere una condizione inerente necessariamente alla causa, perché questa necessità di legame riguarda i nostri concetti e non la natura delle cose». USO, VIII: «il concetto di un essere organizzato implica già che sia una materia, in cui tutto sta reciprocamente in rapporto con ogni sua parte come fine e mezzo, e questo può essere soltanto pensato come sistema di cause finali, e quindi può essere spiegato dalla ragione umana soltanto in modo teleologico e non assolutamente fisicomeccanico... per conto mio derivo ogni o. da esseri organici (mediante generazione) e le forme successive (cose naturali di questa specie) da disposizioni originarie che si potevano trovare nell’o. del loro ceppo, secondo leggi di sviluppo graduale. Come poi sia sorto questo ceppo è questione che si trova del tutto al di là dei limiti di ogni fisica possibile all’uomo». ORGANO (Organ): è ogni parte di un prodotto della natura (avente i caratteri di fine della natura), in quanto tale parte «è pensata come esistente solo per mezzo delle altre e per le altre e per il tutto, vale a dire come strumento (o.)». A differenza degli strumenti dell’arte, l’o. è uno strumento che produce le altre parti del prodotto ed è reciprocamente prodotto da esse. ORIGINALITÀ (Originalität, Eigenthümlichkeit): «l’o. del talento costituisce un elemento essenziale (ma non il solo) del carattere del genio (v.)»; appunto perciò «alcuni spiriti superficiali credono di non poter mostrare meglio di essere genii brillanti, che sbarazzandosi della costrizione scolastica di ogni regola». ORNAMENTO (Schmuck): è quel tipo di fregio (v.) «che non consiste esso stesso nella bella forma, ed è

adoperato, come le cornici dorate, soltanto per raccomandare il quadro all’ammirazione mediante l’attrattiva (v.)», e pertanto «nuoce alla pura bellezza». OSSERVAZIONE (Beobachtung): «esperienza istituita metodicamente». ANTR: «l’attenzione (animadvertere) non è ancora una o. (observare) di se stesso. Quest’ultima è un raccoglimento metodico delle osservazioni fatte su noi stessi». PANTEISMO (Pantheismus): è la dottrina di coloro «i quali cercano un principio supremo delle forme oggettivamente finali della materia, senza concedere ad esso un’intelligenza,» e «fanno dell’universo una sostanza unica che comprende tutto per ricavare quella condizione di ogni finalità che è l’unità del principio». PASSIONE (Leidenschaft): a differenza dell’affetto (v.), la p. appartiene alla facoltà di desiderare ed è un’inclinazione che rende «difficile o impossibile ogni determinazione della volontà per mezzo di principii». La p. è durevole e riflessa, e «non può essere chiamata sublime mai e in nessuna relazione; perché se nell’affetto la libertà spirituale è impedita, nella p. è addirittura soppressa». ANTR: «l’inclinazione poco o punto governabile per mezzo della ragione del soggetto è p.». ANTR: a differenza dell’affetto «la p. prende tempo ed è riflessiva. L’affetto agisce come un fiotto che rompe la diga; la p. come una corrente che si scava sempre più profondo il suo letto. Dove c’è molto affetto, c’è comunemente poca p. Gli affetti sono leali e aperti, le p. invece subdole e nascoste. L’affetto è come una ubriacatura che si smaltisce; la p. come una follia che aderisce a un’idea, la quale si insinua sempre più a fondo». ANTR: «le p. sono cancri per la ragion pura pratica e generalmente inguaribili... le p. non sono soltanto, come gli affetti, delle disposizioni infauste dell’anima, che sono gravide di molti mali, ma sono senza eccezione cattive. L’affetto reca una momentanea offesa alla libertà e al dominio di se stesso. La p. vi rinuncia, e trova il suo piacere e la propria soddisfazione nella schiavitù. Le p. si dividono in derivanti da inclinazioni naturali (innate) e derivanti da inclinazioni proprie della civiltà dell’uomo (acquisite). Le p. della prima specie sono quelle dell’inclinazione alla libertà e dell’inclinazione sessuale, ambedue connesse con l’affetto. Quelle della seconda specie sono: l’ambizione, la sete di potere e l’avarizia, che son connesse, non con la violenza di un affetto, ma con la tenacia di una massima rivolta al conseguimento di certi scopi. Le prime si possono chiamare p. ardenti, le seconde fredde». PERFEZIONE (Vollkommenheit): è la finalità oggettiva (v.) interna; perciò è stata spesso avvicinata alla bellezza, anzi identificata con essa quando la p. viene pensata confusamente. Per giudicare la p. c’è sempre bisogno «del concetto di uno scopo interno, che contenga il principio della possibilità interna dell’oggetto». Ora siccome lo scopo è il concetto di ciò che una cosa deve essere, si dice p. qualitativa «l’accordo del molteplice di una cosa con questo concetto (che dà la regola dell’unione del molteplice)». P. quantitativa invece «è la completezza di una cosa qualunque nella sua specie», ed indica un semplice concetto di grandezza (totalità) «in cui ciò che la cosa deve essere è pensato come determinato anteriormente, e si cerca soltanto se in essa è tutto quello che vi si deve trovare». Invece la semplice forma di una p., ossia una finalità formale oggettiva senza scopo è una vera contraddizione; siccome il prodotto dell’arte presuppone sempre uno scopo nella sua causa e nella causalità di questa, per giudicarlo bello bisogna prima conoscere ciò che la cosa dev’essere, e in questo senso «nel giudizio della bellezza d’arte deve anche esser presa in considerazione la p. della cosa che invece non c’entra affatto nel giudizio d’una bellezza naturale (come tale)»; se si ponesse la ragione determinante del gusto nella p., e se ne derivasse la corrispondente definizione del gusto, l’antinomia del gusto (v.) diventerebbe veramente insolubile; p. relativa si potrebbe chiamare propriamente quella che di solito è detta impropriamente la bellezza delle figure geometriche, dei numeri «per una certa loro finalità a priori rispetto ad usi diversi della conoscenza, che non si aspettava dalla semplicità della loro costruzione»; in realtà si tratta qui di un «giudizio intellettuale secondo concetti, il quale ci fa conoscere chiaramente una finalità oggettiva, vale a dire la adeguatezza a scopi di ogni genere (infinitamente diversi)»; «la p. interna della natura, quale la posseggono quelle cose che sono possibili solo come fini

della natura, e si chiamano perciò esseri organizzati, non si può pensare e spiegare con alcuna analogia con qualche facoltà fisica o naturale che conosciamo, e, sebbene noi stessi, nel senso più largo, apparteniamo alla natura, neppure con una stretta analogia con l’arte umana». INTR: «la p., come mera completezza del molteplice che costituisce un’unità, è un concetto ontologico identico a quello della totalità di un composto (mediante coordinazione del molteplice in un aggregato, come anche mediante subordinazione di principii e conseguenze in una serie) e non ha niente a che fare con il sentimento di piacere e di dispiacere». Perciò non si può identificare il concetto della p. con quello di finalità della natura né intendere il sentimento di piacere come «intuizione sensibile di una p.». INTR: se per un verso la definizione del piacere come «rappresentazione sensibile della perfezione di un oggetto», comporterebbe che «un giudizio estetico del senso o della riflessione sarebbe un giudizio di conoscenza dell’oggetto, perché la p. è una determinazione che presuppone un concetto dell’oggetto», dall’altra però «la rappresentazione sensibile della p. è un contrasto manifesto, e, se l’accordo del molteplice con l’unità deve chiamarsi p. allora occorre rappresentarlo mediante un concetto, perché altrimenti non può competergli il nome di perfezione». PIACERE (Lust): il sentimento di piacere o di dispiacere (Unlust) costituisce il termine medio tra la facoltà di conoscere e la facoltà di desiderare; «il conseguimento di qualunque scopo è accompagnato dal sentimento di piacere; e se la condizione dello scopo è una rappresentazione a priori, come un principio per il Giudizio riflettente in generale, il sentimento di p. è anch’esso determinato mediante un principio a priori e valido per ognuno; e, precisamente, è determinato soltanto mediante la relazione dell’oggetto con la facoltà di conoscere, senza che il concetto della finalità riguardi menomamente la facoltà di desiderare, distinguendosi così interamente da ogni finalità pratica della natura». Mentre la concordanza delle percezioni con le leggi fondate sui concetti universali della natura (le categorie) non produce il minimo effetto sul sentimento di p., invece «la scoperta dell’unione di due o di parecchie leggi empiriche eterogenee della natura sotto uno stesso principio è fonte di notevolissimo p.». Tale p. pertanto è connesso alla scoperta della finalità della natura rispetto al nostro intelletto, in quanto è possibile ricondurre leggi eterogenee a leggi più alte, sebbene sempre empiriche; il p. o il dispiacere non possono mai essere elemento di conoscenza, in quanto non servono a far conoscere niente dell’oggetto rappresentato, ma solo la sua finalità, ossia il suo accordo con le facoltà conoscitive che sono in giuoco nel Giudizio riflettente. La facoltà di giudicare mediante tale p. necessario è il gusto (v.) in quanto il p. si fonda unicamente nella forma dell’oggetto rispetto alla riflessione in generale; «Il p. nel giudizio di gusto (v.) dipende è vero, da una rappresentazione empirica, e non può essere legato a priori con un concetto; ma il p. è fondamento di tale giudizio solo perché si ha coscienza che esso riposa unicamente sulla riflessione e sulle condizioni universali, sebbene soltanto soggettive dell’accordo della riflessione stessa con la conoscenza degli oggetti in generale»; rispetto alla finalità (v.) in generale il p. è «la coscienza della causalità che ha una rappresentazione rispetto allo stato del soggetto per conservarlo in questo stato»; nel giudizio estetico il p. è puramente contemplativo, e senza alcun interesse per l’oggetto, e «non è in nessun modo pratico, né come quello del piacevole, che ha un fondamento patologico, né come quello che ha a fondamento intellettuale la rappresentazione del bene. Esso però ha una causalità in se stesso, che consiste nel conservare senza uno scopo ulteriore, lo stato della rappresentazione stessa e l’attività delle facoltà conoscitive»; p. negativo è quello del sublime (v.), in quanto l’animo non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto e tale p. contiene piuttosto meraviglia, ammirazione (v.) e stima (v.) (cfr. pure p. 97); in altri termini il p. per il sublime non è possibile se non mediante un dispiacere; il p. proprio del sentimento morale si distingue dal p. del gusto, perché presuppone «il concetto determinato di una legge», nentre il secondo «deve legarsi immediatamente con il semplice giudizio, anteriormente ad ogni concetto». PIACEVOLE (das Angenehme): «è ciò che piace ai sensi nella sensazione»; «il giudizio con cui dichiaro p. un oggetto, esprime un interesse nei suoi riguardi, perché il giudizio stesso, mediante la sensazione, suscita il desiderio di oggetti simili; perciò del p. non si dice semplicemente che piace, ma

che diletta. Non è una semplice approvazione, che io ad esso concedo, ma in me si produce un’inclinazione»; se si ponesse la ragione determinante del gusto nel p., e se ne derivassero la corrispondente definizione del gusto, l’antinomia del gusto diventerebbe veramente insolubile. FOND, IV: «p. è ciò che ha influenza sulla volontà soltanto per mezzo della sensazione e per cause puramente soggettive, che valgono soltanto per questo o quel senso, e non come principio della ragione, che vale per tutti», e, in questo senso il p. si distingue dal buono. PITTURA (Malerei): è una sottospecie delle arti figurative, ossia di quelle arti «che esprimono delle idee per mezzo dell’intuizione sensibile (non mediante le rappresentazioni della semplice immaginazione che vengono suscitate dalla parola)» e si distingue dalla plastica (v.) in quanto rappresenta non la verità, ma l’apparenza sensibile. La p. si distingue a sua volta in arte di «ritrarre bellamente la natura (pittura propriamente detta)» e «arte di comporre bellamente i prodotti della natura (giardinaggio)». La prima dà solo l’apparenza dell’estensione corporea, la seconda invece questa estensione nella sua realtà; nella p., come nella scultura e in tutte le arti figurative, «l’essenziale è il disegno, in cui ogni affermazione del gusto non riposa su ciò che diletta nella sensazione, ma su ciò che piace, semplicemente per la sua forma. I colori che avvivano il disegno, appartengono all’attrattiva; possono bensì ravvivare l’oggetto per la sensazione, ma non farlo degno dell’intuizione e bello; sono, invece, quasi sempre molto limitati da ciò che esige la bella forma ed anche dove si può fare una parte all’attrattiva, è sempre la forma che li nobilita». PLASTICA (Plastik): è una sottospecie delle arti figurative, ossia di quelle arti che esprimono delle idee per mezzo dell’intuizione sensibile (non mediante le rappresentazioni della semplice immaginazione che vengono suscitate dalla parola), e si distingue dalla pittura (v.) in quanto rappresenta non l’apparenza, ma la verità sensibile. La p. a sua volta si suddivide in architettura (v.) e in scultura (v.). PNEUMATOLOGIA (Pneumatologie): è lo studio dell’anima (circa la sua immortalità) in funzione della ragione speculativa. Non può risultare da «dati e predicati empirici, perché il suo concetto è trascendente per ogni nostra facoltà conoscitiva»; d’altra parte sarebbe possibile soltanto mediante predicati «i quali sebbene siano possibili solo per un principio soprasensibile, debbono tuttavia dimostrar la loro realtà nell’esperienza»; pertanto è destinata a fallire come tentativo di dimostrazione puramente teoretica, perché «non è possibile alcuna conoscenza del soprasensibile». Perciò la psicologia razionale non può mai diventare una p. come scienza estensiva (v.). Cfr. pure p. 293. POESIA (Dichtkunst): come l’eloquenza (v.) è una sottospecie delle arti della parola e consiste nel «dare a un libero giuoco dell’immaginazione il carattere di un compito dell’intelletto»; in questo senso «il poeta annunzia semplicemente un piacevole giuoco di idee, ed ha tuttavia tanta efficacia sull’intelletto come se non avesse avuto altro intento che di occuparsi di esso»; la p. è l’attività in cui «la facoltà delle idee estetiche può mostrarsi in tutto il suo potere», in quanto «il poeta osa rendere sensibili idee razionali di esseri invisibili, o anche trasporta ciò di cui trova i modelli nell’esperienza al di là dei limiti dell’esperienza con una immaginazione che gareggia con la ragione nel conseguimento di un massimo, rappresentando tutto ciò ai sensi con una perfezione di cui la natura non dà nessun esempio». ANTR: «un prodotto concepito con spirito e con gusto può esser chiamato in genere p., ed è un’opera d’arte bella. Essa può per mezzo degli occhi o degli orecchi essere immediatamente accostata ai sensi, e viene chiamata anche arte poetica (poetica in sensu lato), sia essa pittura, giardinaggio, architettura, musica o versi (poetica in sensu stricto). La p. poi, in opposizione all’oratoria, differisce da questa solo per la subordinazione reciproca dell’intelletto e della sensibilità, perché la prima è un gioco della sensibilità ordinato all’intelletto, la seconda invece è un’occupazione dell’intelletto ravvivato dalla sensibilità». «La novità nell’espressione di un concetto è un’esigenza fondamentale dell’arte nel poeta, quand’anche il concetto stesso non debba esser nuovo». «La p. è superiore all’eloquenza, perché, pur mirando ai medesimi scopi, è a un tempo musica (cantabile) e ha un tono, ed ha una sonorità gradevole per sé sola, come non accade con la semplice parola... ma la p. è superiore non solo

all’eloquenza, bensì anche ad ogni altra arte bella... una bella p. è il mezzo più potente per commuovere l’animo». POSSIBILITÀ (Möglichkeit): p. fisica è quella «di un effetto, la cui causa non è determinata secondo concetti (ma, come nella materia inanimata, dal meccanismo, e negli animali, dall’istinto)»; p. pratica è quello di tutto ciò che viene rappresentato possibile mediante una volontà; per l’intelletto umano è indispensabile «distinguere la p. e la realtà delle cose», mentre per un intelletto intuitivo (v.) non ci sarebbe altro oggetto che il reale. Questo perché la conoscenza umana abbisogna di due elementi eterogenei, l’intelletto per i concetti e l’intuizione sensibile per gli oggetti che corrispondono a quei concetti. «Ora tutta la nostra distinzione del semplicemente possibile dal reale riposa su questo, che il primo significa soltanto la posizione della rappresentazione di una cosa relativamente al nostro concetto, e in generale, alla facoltà di pensare, mentre il secondo significa la posizione della cosa in se stessa, al di fuori di questo concetto». Perciò non si può mai concludere dalla semplice p. alla realtà, anche se tale differenza non si trova nelle cose stesse; criterio della semplice p. del pensiero, e non dell’oggetto pensato è il principio di contradizione. ARG, II: «La p. interna di una cosa presuppone qualcosa di esistente». PURA: «possibile è ciò che si accorda con le condizioni formali dell’esperienza (per l’intuizione e per i concetti)». PURA: «il concetto è possibile tutte le volte che non si contraddice... cionondimeno può essere un concetto vuoto... questo è un ammonimento a non concludere senz’altro dalla p. dei concetti (logica) alla p. delle cose (reale). PURA: «L’aggiunta da farsi al possibile [per ottenere il reale] non la conosco: sarebbe infatti impossibile». POTENZA (die Macht): «potere superiore a grandi ostacoli». La p. della natura si può chiamare, sia pur impropriamente, sublime (v.). PRECETTO (Vorschrift): i p. si distinguono dalle leggi (come quelle fisiche), in quanto indicano le regole (v.) pratiche, e ciò «perché la volontà non sta solamente sotto il concetto della natura, ma anche sotto quello della libertà». PREGIUDIZIO (Vorurteil): è «la tendenza alla ragione passiva, e quindi all’eteronomia della ragione; il p. più grande di tutti consiste nel rappresentarsi la natura come non sottoposta a quelle regole che l’intelletto le dà a fondamento in virtù della propria legge essenziale – ed è la superstizione (v.)». Cfr. LOG, IX: «i p. sono giudizi provvisori in quanto vengono assunti come principii. Ogni p. deve essere considerato come un principio di giudizi errati, e dai p. non scaturiscono p., ma giudizi errati». LOG: «le fonti principali del p. sono l’imitazione, l’abitudine e l’inclinazione» e tra i p. derivanti dall’imitazione c’è anche «la tendenza all’uso passivo della ragione, o al meccanismo della ragione invece della sua spontaneità sotto leggi». PRESTABILISMO (Prästabilism): è quella dottrina che spiega la forma finale interna degli esseri organizzati, in quanto fini della natura, ammettendo che «la causa suprema del mondo avrebbe posto nei primi prodotti della sua saggezza soltanto quella disposizione per cui un essere organico produce il suo simile, e la specie si conserva sempre; il p. si suddivide a sua volta in teoria dell’evoluzione (v.) o dell’epigenesi (v.) a seconda che spieghi la generazione di ogni essere organico per eduzione o produzione. PRINCIPIO (Prinzip, Grundsatz): «è un p. trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. Invece un p. si chiama metafisico, quando esso rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori»; p. oggettivo per il Giudizio determinante è quello che afferma qualcosa dell’oggetto e comporta la dimostrazione della realtà oggettiva del concetto ammesso; p. soggettivo per il Giudizio riflettente è quello che vale soltanto a determinare l’uso delle nostre facoltà conoscitive, conformemente alla loro natura e alle loro condizioni essenziali della loro portata e dei loro limiti; «un p. del gusto significherebbe un p. alla cui condizione si potrebbe sussumere il concetto d’un oggetto, derivandone con un’argomentazione che l’oggetto stesso è bello; ma ciò è assolutamente

impossibile. Perché io debbo sentire immediatamente piacere per la rappresentazione dell’oggetto, e il piacere non mi può essere inculcato da argomenti»; «il p. soggettivo del giudizio del bello è rappresentato come universale, e cioè valido per ognuno, ma non conoscibile mediante alcun concetto universale», mentre «il p. oggettivo della moralità è rappresentato anch’esso come universale, cioè valido per tutti i soggetti e nello stesso tempo per tutte le azioni di ogni soggetto, ma anche come conoscibile mediante un concetto universale»; «il p. del Giudizio riflettente, non essendo oggettivo, e non potendo fondare una conoscenza dell’oggetto sufficiente allo scopo, deve servire soltanto, come p. puramente soggettivo, all’uso finale delle facoltà soggettive, cioè per riflettere sopra una certa specie di oggetti»; un p. è tecnico-pratico «se il concetto che determina la causalità è un concetto della natura», e in tal caso appartiene alla filosofia teoretica in quanto dottrina della natura; un p. invece è etico-pratico «se il concetto che determina la causalità è un concetto della libertà», e in tal caso appartiene alla filosofia pratica, in quanto dottrina dei costumi; «i p. di una scienza o sono interni ad essa, e si dicono nativi (principia domestica); o sono fondati sopra concetti che possono trovar posto soltanto fuori di essa, e sono p. stranieri (peregrina)». LOG, IX: i p. «sono giudizi a priori immediatamente certi, da cui se ne ricavano altri, mentre essi stessi non sono subordinati a nessun altro». PRODOTTO DELL’ARTE (Produkt der Kunst): a differenza del prodotto naturale (v.) è quell’effetto che può essere considerato come un fine, ma non come un fine naturale, ossia un effetto la cui causalità non può essere contenuta in nessuna causa del semplice meccanismo della natura, ma solo nel concetto dell’oggetto, in quanto concetto che solo la ragione può dare e cui può confrontare l’oggetto. INTR: «solo nel caso dei p.d.a. possiamo essere consapevoli delle causalità della ragione nei confronti di oggetti che per tal motivo si definiscono finalistici o anche fini, e riguardo ad essi, definire la ragione tecnica è rispondente all’esperienza della causalità della nostra propria facoltà». PRODOTTO DELLA NATURA (Naturprodukt): «il concetto di p.d.n. implica nella stessa cosa, considerata come fine, la necessità della natura, e, nel tempo stesso, la contingenza della forma dell’oggetto (relativamente alle semplici leggi della natura)»; «Sebbene il meccanismo e la tecnica teleologica (intenzionale) della natura, relativamente a un medesimo p. e alla sua possibilità, possano stare sotto un principio superiore comune della natura considerata secondo leggi particolari, tuttavia, poiché questo principio è trascendente, data la limitazione del nostro intelletto, non possiamo riunire i due principii nella spiegazione dello stesso p.n., anche quando la possibilità interna di questo non è comprensibile se non mediante una causalità secondo fini, come avviene per la materia organizzata». INTR: «pensare che un p.d.n. deve essere qualcosa di preciso e poi giudicare se anche realmente esso è così, implica già il presupposto di un principio che non può essere tratto dall’esperienza (la quale, infatti, c’insegna solo ciò che le cose realmente sono)». PRODUZIONE (Erzeugung): modo di p. meccanico è quello per cui «consideriamo, nella sua forma, un tutto materiale, come un prodotto delle parti, delle loro forze e delle loro proprietà di congiungersi spontaneamente e di aggregarsi altre materie. Ma questo modo di p. non dà luogo ad alcun concetto di un tutto come scopo, di un tutto la cui possibilità interna suppone assolutamente l’idea del tutto stesso, da cui dipendono la natura e il modo d’agire delle parti, in quel modo che dobbiamo rappresentarci un corpo organizzato»; «in una cosa che dobbiamo giudicare come un fine naturale (un essere organizzato), possiamo cercare tutte le leggi conosciute e ancora da scoprire della p. meccanica, ed anche sperare di riuscire per questa via, ma non possiamo mai dispensarci, per spiegare la possibilità di un tale prodotto, dall’invocare un principio di p. interamente diverso, cioè quello della causalità mediante fini; e assolutamente non v’è nessuna ragione umana che possa sperare di comprendere semplicemente mediante cause meccaniche, la p. sia pure di un filetto d’erba»; quando si ammette il principio teleologico per la p. degli esseri organizzati «si può porre a fondamento della causa della loro forma finale interna o l’occasionalismo (v.) o il prestabilismo (v.)»; «il meccanismo della p. non contradice in sé all’origine secondo fini». PROPEDEUTICA (Propedeutik): la critica del soggetto giudicante e delle sue facoltà conoscitive, in

quanto queste facoltà sono capaci di principii a priori qualunque possa essere il loro uso (teoretico o pratico) è la p. di ogni filosofia; «la p. di tutte le arti belle, in quanto mira al grado supremo della loro perfezione, sembra che non consista nei loro precetti, ma nella coltura della facoltà dell’animo per via di quelle conoscenze preliminari che si chiamano humaniora. Ma poiché in fondo il gusto è una facoltà di giudicare dalla rappresentazione sensibile delle idee morali e poiché ancora da questa facoltà e da una maggiore capacità di avvertire il sentimento risultante dalle idee morali deriva quel piacere che il gusto proclama valido per l’umanità in generale, e non per il sentimento particolare di ciascuno, si vede chiaramente che la vera p. per fondare il gusto è lo sviluppo delle idee morali e la coltura del sentimento morale»; la teleologia (v.) non costituisce d’ordinario una parte speciale della scienza teoretica della natura, ma è riferita alla teologia come una p. «per mantenere fermo lo studio della natura nel suo meccanismo, a ciò che possiamo sottoporre alla nostra osservazione e ai nostri esperimenti in modo che possiamo produrlo noi stessi come la natura, o almeno con analogia con le sue leggi»; la teleologia (v.) pur non appartenendo ad alcuna dottrina, in quanto contiene principii a priori può e deve fornire il metodo con cui si deve giudicare della natura secondo il principio delle cause finali, e pertanto «la sua metodologia ha almeno un’influenza negativa sulla condotta della scienza teoretica della natura, ed anche sul rapporto che questa può avere nella metafisica con la teologia, come p. di quest’ultima». PROPOSIZIONE (Satz): nella logica si parla comunemente di p. dimostrabili e indimostrabili, mentre sarebbe più esatto parlare di p. mediatamente certe e immediatamente certe «perché la filosofia pura ha anch’essa delle p. di queste due specie, se con ciò si intendono delle p. vere, suscettibili o no di dimostrazione». INTR: le p. pratiche che per il contenuto riguardano solo la possibilità di un oggetto rappresentato (mediante un’azione arbitraria) non sono che applicazioni d’una conoscenza teoretica compiuta, e non possono costituire la parte speciale di una scienza». Soltanto le p. pratiche che «considerano la libertà sotto leggi» si distinguono veramente per contenuto dalle proposizioni teoretiche e fondano una particolare filosofia pratica (v.). INTR: «in generale le p. pratiche (siano pure a priori o empiriche) se enunciano immediatamente la possibilità di un oggetto mediante il nostro arbitrio, appartengono sempre alla conoscenza della natura e alla parte teoretica della filosofia. Solo le p. che espongono direttamente come necessaria la determinazione di un’azione mediante la rappresentazione della sua forma (secondo leggi in generale) senza tener conto dei mezzi per conseguire l’oggetto prescritto, possono e devono aver i propri principii nell’idea della libertà. Solo queste p. appartengono ad una parte speciale di un sistema della conoscenza razionale, che va sotto il nome di filosofia pratica (v.)». «Per evitare una certa ambiguità, tutte le rimanenti p. che si riferiscono all’applicazione, a qualsiasi scienza siano annesse, invece di pratiche, possono chiamarsi tecniche». PROVA (Beweis): ogni p. «o sia fornita dell’immediata esibizione empirica di ciò che deve essere dimostrato o sia data a priori dalla ragione, per via di principii, deve non soltanto persuadere, ma convincere; vale a dire il principio o la conclusione non dev’essere un motivo puramente soggettivo (estetico) dell’assenso (una semplice apparenza) ma deve avere una validità oggettiva ed essere un fondamento logico della conoscenza». P. puramente illusoria è quella che utilizza un principio puramente soggettivo della ragione umana; «la p. ontologica dell’esistenza di Dio mediante il concetto di essere originario o è quella che da predicati ontologici, che soli fanno pensare questo essere come completamente determinato, conclude all’esistenza assolutamente necessaria, o è quella che conclude ai predicati dell’essere originario dall’assoluta necessità dell’esistenza di qualche cosa, qualunque essa sia; perché difatti al concetto di essere originario appartiene la necessità incondizionata della sua esistenza e la determinazione completa dell’essere stesso per mezzo del suo concetto. Entrambe le condizioni si credette di trovarle nel concetto dell’idea ontologica di un essere reale in grado supremo e così sorsero due prove metafisiche». Si chiama p. ontologica propriamente detta quella che «conclude dal concetto dell’essere reale in grado supremo alla sua esistenza assolutamente necessaria» e p. metafisico-cosmologica, quella che «conclude dalla necessità dell’esistenza di qualche cosa alla

determinazione completa di quell’essere, in quanto reale in grado supremo»; p. fisico-teleologica è quella che conclude a un’intelligenza suprema come causa del mondo muovendo dai fini naturali, e convince «non per il fatto che le idee dei fini naturali facciano l’ufficio di tante prove empiriche di un’intelligenza suprema», ma perché vi si mescola inavvertitamente la p. morale, la quale soltanto ha il potere di produrre la convinzione, e soltanto «dal punto di vista morale, al quale ognuno intimamente aderisce»; la p. morale invece conserverebbe intatta la sua forza anche se nel mondo non trovassimo nulla che offra materia alla teleologia fisica, in quanto è fondata nel concetto di libertà e nelle idee morali. Cfr. inoltre il cap. L’ideale della ragion pura, in PURA. LOG, IX: «le p. su cui si fonda ogni certezza mediata o mediabile di una conoscenza, sono o dirette o indirette, cioè apagogiche. Quando io provo una verità dai suoi fondamenti, ne adduco una p. diretta, e quando concludo dalla falsità dell’opposto alla verità di una proposizione, ne adduco una p. apagogica. Ma se questa p. deve avere validità le due proposizioni devono essere tra loro contraddittorie o diametralmente opposte. Perché due proposizioni soltanto opposte come contrari (contrarie opposita) possono essere entrambe false. Una p. che è il fondamento di una certezza matematica si chiama dimostrazione, e una prova che è il fondamento della certezza filosofica, è una p. acroamatica. Gli elementi essenziali di una p. in generale sono la materia e la forma, ossia il fondamento e la conseguenza». PSICOLOGIA EMPIRICA (empirische Psychologie): è lo studio dei sentimenti, a posteriori. PSICOLOGIA RAZIONALE (rationale Psychologie): rispetto al problema dell’immortalità dell’anima la p.r. non può mai trasformarsi in pneumatologia (v.) né scadere nel materialismo, perché in realtà essa è piuttosto «una semplice antropologia del senso interno, vale a dire una conoscenza del nostro io pensante durante la vita, e, come conoscenza teoretica, resta anche puramente empirica»; per ciò che concerne «la questione della nostra esistenza eterna», la p.r. «non è punto una scienza teoretica, ma riposa su di un’unica conclusione della teleologia morale, per cui tutto il suo uso non è necessario che a quest’ultima, cioè per la nostra destinazione pratica». PURA: la p.r. è «una pretesa scienza edificata sull’unica proposizione “Io penso”». QUALITÀ ESTETICA (ästhetische Beschaffenheit: è «ciò che è puramente soggettivo nella rappresentazione di un oggetto, vale a dire ciò che costituisce il suo rapporto con il soggetto, non con l’oggetto». QUANTITÀ (Quantität): «riguardo alla q. logica ogni giudizio di gusto è singolare», mentre si distingue dal giudizio dei sensi, perché «implica la q. estetica dell’universalità, e cioè la validità per ognuno, che nel giudizio del piacevole non si può trovare». RAGIONE (Vernunft): «r. pura è la facoltà della conoscenza mediante principii a priori»;: «la r. è una facoltà dei principii e la sua ultima esigenza è l’incondizionato. Senza i concetti dell’intelletto (v.), cui deve essere data una realtà oggettiva, la r. non può punto giudicare oggettivamente (sinteticamente); e, in quanto teoretica, per se stessa non contiene assolutamente alcun principio costitutivo, ma principii soltanto regolativi». Quando l’i. non può seguirla, la r. diventa «trascendente e si manifesta con idee che hanno sì un fondamento (in quanto principii regolativi) ma non con concetti validi oggettivamente»; «allo stesso modo che la r. nella considerazione teoretica della natura, deve ammettere l’idea di una necessità incondizionata d’un fondamento originario, essa presuppone anche dal punto di vista pratico una propria incondizionata causalità (relativamente alla natura), vale a dire la libertà per il fatto stesso che ha coscienza del suo imperativo morale»; il pensare da sé è la massima di una r. che non è mai passiva, mentre la tendenza alla r. passiva, e quindi alla sua eteronomia, è il pregiudizio (v.). PURA: in generale la r. «è la facoltà dei principii»; PURA: «la r. non si riferisce mai direttamente a un oggetto, ma unicamente all’intelletto, e per suo mezzo al suo proprio uso empirico, non crea quindi concetti (di oggetti), sì solamente li ordina e dà loro quell’unità, che essi possono avere nella loro più grande estensione possibile, ossia in relazione con la totalità della serie; con quella totalità, alla quale non guarda mai l’intelletto, che mira soltanto a quella connessione onde dapertutto si formano serie di condizioni secondo concetti».

(Vorstellung): «tutte le nostre r. siano esse oggettivamente soltanto sensibili, o interamente intellettuali, possono essere soggettivamente congiunte col piacere o col dolore, per quanto l’uno e l’altro siano inavvertiti»; «la bellezza d’arte è una r. bella di una cosa». PURA: termine generico che abbraccia tutto ciò che sia comunque presente alla mente (intuizioni e concetti). PURA: «La r. è il genere» [di cui le varie conoscenze sono le specie]. RAZIONALISMO (Rationalismus): il r. della critica del gusto consiste nell’ammettere che il gusto giudica in base a un fondamento a priori, ed è pertanto l’opposto dell’empirismo (v.) della critica del gusto. In quanto il r. della critica del gusto ammette che il giudizio riposa «sopra concetti determinati», l’oggetto del piacere estetico viene a coincidere con il buono e il termine bellezza (v.) viene a perdere ogni significato proprio. In realtà, però, vi sono anche fondamenti a priori del piacere che possono accordarsi con il principio del r. pur non potendo essere ricondotti a concetti determinati; il r. del principio del gusto consiste invece o nell’idealismo (v.) o nel realismo (v.) della finalità. REALE (das Reale): è l’elemento materiale delle rappresentazioni delle cose fuori di noi, ciò con cui è dato qualcosa di esistente; il rapporto oggettivo delle rappresentazioni, ed anche delle sensazioni, indica «ciò che è r. in una rappresentazione empirica». REALISMO DELLA FINALITÀ (Realismus der Zweckmässigkeit): rispetto alla finalità soggettiva, il r.d.f. è una sottospecie del razionalismo (v.) del principio del gusto e consiste nel considerare la finalità soggettiva del giudizio di gusto come «uno scopo reale (intenzionale) della natura (o dell’arte) per accordarsi con il nostro Giudizio». Rispetto alla finalità oggettiva, il r.d.f. è quel sistema relativo alla tecnica (v.) della natura che considera una parte della finalità della natura (e cioè quella che riguarda gli esseri organizzati) intenzionale; si distingue in r. fisico, se fonda i fini della natura sulla vita della materia, e si chiama allora ilozoismo (v.), e in r. iperfisico, se deriva i fini della natura dalla causa originaria dell’universo intesa come essere intelligente e che produce con intenzione, e si chiama allora teismo (v.). REALTÀ (Realität): la r. oggettiva di un concetto consiste nel fatto che un oggetto è possibile conformemente ad esso. REGOLA (Regel): «tutte le r. tecnico-pratiche (cioè quelle dell’arte e dell’abilità in generale, ed anche della prudenza, in quanto attitudine ad avere influenza sugli uomini e sulla loro volontà), in quanto i loro principii riposano su concetti, debbono essere annoverate soltanto tra i corollari della filosofia teoretica»; le infinite maniere secondo cui nature specificamente differenti possono essere causa devono avere una r. «che sia legge, e che per conseguenza abbia il carattere della necessità, sebbene noi, per la natura e i limiti delle nostre facoltà conoscitive, non scorgiamo punto questa necessità»; «l’intelletto è in possesso a priori di leggi universali della natura, senza di cui non potrebbe esservi alcun oggetto di esperienza; ma esso ha bisogno, inoltre, di un certo ordine della natura nelle leggi particolari, che esso può conoscere solo empiricamente e che rispetto ad esso son contingenti», ossia di «r., senza le quali non potrebbe esservi passaggio dall’analogia generale di una esperienza possibile in generale all’analogia particolare»; l’intelletto deve pensare tali r. come necessarie, ossia come leggi «perché altrimenti esse non costituirebbero un ordine della natura; e ciò, malgrado che l’intelletto non conosca la loro necessità né possa mai conoscerla». REGOLARITÀ (Regelmässigkeit): la r. «che conduce al concetto di un oggetto» è la condizione per percepire l’oggetto «in un’unica rappresentazione e determinare il molteplice nella sua forma», e, in questo senso, è sempre legata a un piacere, perché attesta la soluzione di un quesito, l’attuazione di uno scopo. In tal caso però il piacere non è connesso a un libero giuoco delle facoltà rappresentative, e perciò «tutto ciò che è rigidamente regolare (che si avvicina alla regola matematica) ha in sé qualcosa che ripugna al gusto». RELIGIONE (Religion: è «la morale in rapporto con Dio in quanto legislatore»; è «la conoscenza dei nostri doveri in quanto ordini divini», «perché la conoscenza del nostro dovere e dello scopo finale che con questo la ragione ci assegna, poté in principio produrre determinatamente il concetto di Dio, che RAPPRESENTAZIONE

così, già alla sua origine, è inseparabile dall’obbligazione verso questo essere»; anche se una r. potesse essere fondata in modo teoretico «per ciò che riguarda il sentimento (che costituisce il suo elemento essenziale) essa sarebbe veramente diversa da quella in cui il concetto di Dio e la convinzione (pratica) della sua esistenza derivano da idee fondamentali della moralità»; solo l’uomo cosciente delle sue rette intenzioni, e non quello che ha coscienza di peccare con le sue cattive intenzioni, è in uno stato d’animo che può essere legato con l’idea della sublimità della r. e del suo oggetto. «Solo così la r. si distingue intimamente dalla superstizione (v.); questa non induce nell’animo il rispetto per il sublime (v.), ma la paura e l’angoscia davanti all’essere onnipotente, alla cui volontà l’uomo spaventato si vede sottomesso, senza però rispettarlo; da che non possono nascere, invece di una r. della condotta buona, se non pratiche propiziatrici ed adulatorie». Cfr. in generale: La religione nei limiti della semplice ragione. RETORICA (Rhetorik), v. ELOQUENZA. RICETTIVITÀ (Rezeptivität): «la r. che mostra la materia per parecchie altre forme oltre quelle di cui è capace secondo il meccanismo, suppone la spontaneità di una causa (che quindi non può essere materia), senza la quale di quelle forme non può essere data alcuna ragione». RIFLESSIONE, v. GIUDIZIO RIFLETTENTE. INTR,: «riflettere (reflektieren) significa comparare e congiungere rappresentazioni date o con altre o con la propria facoltà della conoscenza, in relazione ad un concetto reso possibile da questa. Il riflettere (che si rinviene anche negli animali, sebbene solo come riflettere istintivo, cioè non in relazione ad un concetto che si potrebbe ottenere per suo tramite, ma in rapporto ad un’inclinazione che esso determina istintivamente) ha bisogno da parte nostra d’un principio così come lo ha il determinare, nel quale il concetto posto a fondamento dell’oggetto prescrive la regola al Giudizio e fa così le veci del principio». INTR: «nella semplice r. sopra una percezione, si tratta di riflettere non su un concetto determinato, ma, in generale, solo sulla regola d’una percezione, in vista dell’intelletto quale facoltà dei concetti». PURA: la r. «non mira agli oggetti stessi per acquistarne i concetti, ma è la coscienza della relazione tra rappresentazioni date e le nostre varie fonti di conoscenza». RISO (das Lachen): «il r. è un’affezione che deriva da un’aspettazione tesa, la quale d’un tratto si risolve in nulla». ANTR: «il r. accompagnato da affetto è una gioia convulsiva... il r. e il pianto tendono a ristabilire la calma nell’animo; poiché essi sono modi di liberare da impedimenti la forza vitale, per mezzo di sfoghi (si può cioè ridere fino alle lagrime, quando si ride fino all’esaurimento)». Il r., a differenza del pianto, è virile. SCETTICISMO (Skeptizismus): è la dottrina secondo cui le conoscenze e i giudizi, con la convinzione che li accompagna, «sarebbero tutti un giuoco puramente soggettivo delle facoltà rappresentative» e «non si accorderebbero per nulla con l’oggetto». SCHEMA (Schema): è ogni intuizione sottoposta a concetti a priori che dà una esibizione (ipotiposi, v.) diretta del concetto. Gli s., a differenza dei simboli (v.), procedono dimostrativamente, dando a priori l’intuizione corrispondente ad un concetto dell’intelletto; nel sentimento del sublime (v.) l’immaginazione si sforza di considerare la natura come s. per le idee nella poesia la natura viene usata come s. del soprasensibile. PURA: lo s. si distingue dall’immagine essendo «una condizione formale pura della sensibilità, alla quale si restringe il concetto dell’intelletto nel suo uso». PURA: lo s. trascendentale è «un terzo termine omogeneo con le categorie da un lato e col fenomeno dall’altro, che rende possibile l’applicazione di quelle a questo». SCHEMATISMO (Schematism); cfr. PURA. Attività per cui l’intelletto fornisce schemi ai concetti regolando l’immaginazione produttiva. SCIENZA (Wissenschaft): «ogni s. è per se stessa un sistema, ed in essa non è sufficiente costruire secondo principii, e quindi procedere tecnicamente; ma è necessario trattarla architettonicamente come un edificio a sé stante, non come una dipendenza o una parte di un altro edificio, ma come un tutto; sebbene, dopo, si possa costruire un passaggio da essa a un’altra scienza, o viceversa». Le s. possono

avere principii interni ad esse, oppure soltanto esterni, e in questo secondo caso pongono al loro fondamento dei lemmi (v.), ossia prendono a prestito da un’altra scienza un concetto e con questo un principio per il loro ordinamento; «ogni s. deve avere il suo posto nell’enciclopedia di tutte le s.». In quanto s. filosofica, ogni s. rientra nella parte teoretica o in quella pratica della filosofia. Nel primo caso rientrerà o nella scienza della natura o nella teologia; la s. si distingue dall’altra come il sapere dal potere, la facoltà teoretica da quella pratica, la teoria dalla tecnica; «non vi è una s. del bello, ma solamente la critica di esso, e non vi sono belle s., ma soltanto belle arti. Se vi fosse una s. del bello in essa si dovrebbe decidere scientificamente se una cosa deve essere tenuta per bella o no; così il giudizio sulla bellezza, appartenendo alla scienza, non sarebbe punto un giudizio di gusto (v.). Per ciò che riguarda le belle s., è un non senso una s. che, come tale, deve essere bella». L’equivoco per cui si è parlato spesso di «belle s.» è derivato dal fatto che «le s. storiche costituiscono la necessaria preparazione e il fondamento dell’arte bella». PURA: s. è «la credenza sufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente». PURA: «L’unità sistematica è ciò che prima di tutto fa di una conoscenza comune una s., cioè di un semplice aggregato d’essa, un sistema». SCIENZA DELLA NATURA (Naturwissenschaft): si distingue dalla teleologia (v.) perché ha bisogno «di principi determinanti e non puramente riflettenti per mostrare ragioni oggettive degli effetti della natura». PURA: «la s.d.n. (physica) comprende in sé, come principii, giudizi sintetici a priori». PRINC: «la s.d.n. in senso proprio sarebbe quella che tratta il suo oggetto interamente secondo principi a priori, e in senso improprio, quella che tratta il suo oggetto secondo leggi sperimentali... ogni s.d.n. in senso proprio abbisogna di una parte pura, su cui poter fondare la certezza apodittica che la ragione vi cerca... una s.d.n. che si possa propriamente chiamare tale presuppone anzitutto la metafisica della natura; infatti le leggi, ossia i principi della necessità di ciò che appartiene all’esistenza di una cosa, concernono concetti che non possono essere costruiti, perché l’esistenza non può essere esibita in nessuna intuizione a priori... in ogni particolare dottrina della natura si trova s. in senso proprio nella misura in cui vi si trova matematica». SCOPO (Zweck): è «il concetto di un oggetto, in quanto contiene anche il principio della realtà di questo oggetto»; «se si vuol definire che cosa sia uno s. secondo le sue determinazioni trascendentali (senza presupporre niente di empirico come sarebbe il sentimento di piacere) esso è l’oggetto di un concetto, in quanto questo è considerato come la causa di quello (il fondamento reale della sua possibilità)». «Così quando non si pensa semplicemente la conoscenza d’un oggetto, ma l’oggetto stesso (la sua forma o la sua esistenza) come un effetto, possibile solo mediante un concetto dell’effetto medesimo, allora si pensa uno s.»; per comprendere che una cosa non è possibile se non come uno s. (un fine), e cioè non soltanto mediante il meccanismo della natura, «è necessario che la sua forma non sia possibile secondo semplici leggi naturali, cioè tali che possono essere conosciute da noi col solo intelletto applicato agli oggetti dei sensi, ma che la sua conoscenza empirica stessa, circa la causa e l’effetto, presupponga concetti della ragione»; lo s. può essere interno o esterno a seconda che contenga o meno il principio della possibilità interna dell’oggetto; s. (fine) oggettivo della natura è ciò che è possibile soltanto come suo s. 52: s. oggettivo è «la possibilità dell’oggetto secondo i principii della relazione con un fine», e in questo senso il bene (v.) è uno s. oggettivo. Per il rapporto del concetto di s. con la morale cfr. Fondazione della metafisica dei costumi, 1785, IV; FOND, IV: «s. è ciò che serve al volere come fondamento oggettivo della sua autodeterminazione». SCOPO FINALE (Endzweck): «s.f. è quello che non ne richiede alcun altro come condizione della sua possibilità»; lo s.f. non può essere prodotto dalla natura perché è incondizionato, e nella natura, come essere sensibile, non vi è nulla di incondizionato. S.f. può dunque essere soltanto un essere «che non dipende da nessun’altra condizione che non sia semplicemente la sua idea». Nel mondo esiste una sola specie di tali esseri, e cioè la specie dell’uomo «considerato come noumeno». In questo senso l’uomo in quanto soggetto della moralità può essere l’unico s.f. della creazione. PRAT: «se si cerca il fine ultimo di Dio nella creazione del mondo, non si deve nominare la felicità degli esseri razionali in questo mondo,

ma il sommo bene, che a quel desiderio di questi esseri aggiunge ancora una condizione, ossia quella di essere degni della felicità, cioè la moralità degli stessi esseri razionali». SCULTURA (Bildhauerkunst): come l’architettura (v.) è una sottospecie della plastica (v.), ed è arte di esibire «materialmente concetti di cose come potrebbero esistere in natura, però come arte bella, con riguardo alla finalità estetica». Mentre nell’architettura il fine principale è un certo uso dell’oggetto artistico, nella s. «lo scopo principale è la pura espressione di idee estetiche». SCUOLA (Schule): l’esempio del genio (v.) «produce per gli uomini ben dotati una s., ovvero un insegnamento metodico secondo le regole che si possono trarre dalle opere vive del genio e dalla loro originalità (v.)». SDOLCINATEZZA (Empfindelei): è la tendenza alle emozioni (v.) tenere, elevate ad affetti (v.). Tra le forme di s. incompatibili con la bellezza e con la sublimità, Kant annovera «romanzi, drammi lacrimosi, insipidi precetti morali, i quali giuocano con quelli che si dicono (a torto) sentimenti nobili», «prediche religiose che ci raccomandano pratiche basse e vili», «la falsa umiltà, che del disprezzo di se stesso, d’un pentimento lamentoso ed ipocrita, d’una disposizione d’animo puramente passiva, fa i mezzi unici per riuscire grati all’essere supremo». SENSAZIONE (Empfindung): la parola s. può indicare una determinazione del sentimento di piacere o di dispiacere, oppure la rappresentazione di una cosa mediante i sensi, in quanto ricettività inerente alla facoltà di conoscere. Nel primo caso la rappresentazione è riferita unicamente al soggetto e non serve a nessuna conoscenza, neanche a quella con cui il soggetto conosce se stesso; nel secondo caso la rappresentazione è riferita all’oggetto. Perciò è opportuno, per evitare fraintendimenti, chiamare s. «una rappresentazione oggettiva dei sensi», distinguendola così dal sentimento (v.) come «ciò che deve restare sempre puramente soggettivo e non può assolutamente costituire una rappresentazione di un oggetto». PURA: s. «è l’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa». PURA: «ogni s. ha un grado, o quantità, con la quale può riempire più o meno lo stesso tempo». ANTR, la s. organica (sensus fixus) si distingue dalla s. vitale (sensus vagus). «Una rappresentazione sensibile, che si avverte come tale, si dice in particolare s., quando l’impressione richiama ad un tempo l’attenzione sullo stato del soggetto». SENSO COMUNE (Gemeinsinn): l’idea di un s.c. è «la condizione della necessità che presenta un giudizio di gusto». Non avendo i giudizi di gusto un principio oggettivo, non potrebbero pretendere ad alcuna necessità se non ci fosse un loro «principio soggettivo, che solo mediante il sentimento e non mediante concetti, ma universalmente, determini ciò che piace e ciò che dispiace». Questo principio è il s.c. che si distingue essenzialmente dall’intelligenza comune, anche se talvolta questa viene chiamata s.c. (sensus communis), perché l’intelligenza comune giudica «non secondo il sentimento, ma sempre secondo concetti, sebbene ordinariamente questi concetti siano principii oscuramente rappresentati». Il s.c. non è poi da intendersi come un senso esterno, ma solo come «l’effetto del libero giuoco delle nostre facoltà conoscitive». Il s.c. non può essere fondato sull’esperienza, ma è una norma ideale a cui si attribuisce validità esemplare, potendo essa valere come una regola universale di un giudizio che si accordi con essa; il s.c. è «una facoltà di giudicare che nella sua riflessione tien conto a priori del modo di rappresentare di tutti gli altri, per mantenere in un certo modo il proprio giudizio nei limiti della ragione umana nel suo complesso, e per evitare così la facile illusione di ritenere come oggettive delle condizioni particolari e soggettive»; questo è possibile «rigettando dal nostro stato rappresentativo tutto ciò che è materia, cioè sensazione, e portando unicamente l’attenzione sulle proprietà formali della nostra rappresentazione o del nostro stato rappresentativo». Pertanto il gusto può con ragione esser chiamato sensus communis, anche più del sano intelletto, in quanto «il gusto è ciò che rende universalmente comunicabile il nostro sentimento rispetto a una data rappresentazione, senza la mediazione di un concetto». SENTIMENTO (Gefühl): il s. si distingue dalla sensazione (v.) come rappresentazione oggettiva dei sensi, in quanto indica «ciò che deve restare sempre puramente soggettivo e non può assolutamente costituire una rappresentazione di un oggetto»; il s. del bello si distingue specificamente dal s. morale,

che comporta un interesse immediato per la realtà oggettiva delle idee della ragione; in quanto «il gusto è una facoltà di giudicare la rappresentazione sensibile di idee morali (mediante una certa analogia della riflessione sull’una e sulle altre)», «la vera propedeutica per fondare il gusto è lo sviluppo delle idee morali e la coltura del s. morale; perché solamente quando la sensibilità è d’accordo con questo s., il vero gusto può ricevere una forma determinata ed immutabile». OSS, II: «le diverse sensazioni di piacere o di dispiacere non riposano tanto sulla qualità delle cose esterne, che le provocano, quanto sul s. proprio ad ogni uomo, di esserne commosso con piacere o dispiacere». PRAT,: «la legge morale, poiché esclude da ogni partecipazione alla suprema legislazione le inclinazioni e la tendenza a fare di esse la condizione pratica suprema, cioè l’amor proprio, può esercitare sul s. un effetto che, da una parte, è semplicemente negativo e dall’altra, relativamente al principio limitativo della ragion pura pratica, è positivo; perciò non si può affatto ammettere col nome di s. pratico o morale una specie particolare di s. che precede la legge morale e che le sia di base... ma, come effetto della coscienza della legge morale... questo s. di un soggetto razionale affetto da inclinazioni si chiama bensì umiliazione (disistima intellettuale), ma in relazione al principio positivo di questa umiliazione, alla legge si chiama anche stima (v.) per la legge. Per la quale legge non v’è s. alcuno; ma nel giudizio della ragione, quando la legge toglie di mezzo l’ostacolo, il togliere un impedimento vien tenuto in ugual conto di un’azione positiva della causalità. Perciò questo s. si può anche chiamare un s. di stima per la legge morale; e per tutt’e due queste ragioni un s. morale... questo s. è dunque prodotto soltanto dalla ragione. Esso non serve al giudizio delle azioni, né a fondare la legge morale oggettiva, ma semplicemente come movente a fare in sé di questa legge una massima». SIMBOLO (Symbol): una ipotiposi (v.) è simbolica «quando ad un concetto che può essere pensato solo dalla ragione, e a cui non può essere adeguata alcuna intuizione sensibile, vien sottoposta un’intuizione, nei confronti della quale il procedimento del Giudizio è soltanto analogo a quello dello schematismo (v.); vale a dire che si accorda con questo soltanto secondo la regola del procedimento, non secondo l’intuizione stessa, e quindi soltanto secondo la forma della riflessione, non secondo il contenuto». È stato perciò un errore dei logici moderni chiamare simbolico tutto ciò che è intuitivo, perché in realtà le intuizioni che sono sottoposte a concetti a priori si suddividono in schemi (v.) e s. I s. «procedono per mezzo di una analogia in cui il Giudizio compie un doppio ufficio, in primo luogo di applicare il concetto all’oggetto d’una intuizione sensibile, e poi, in secondo luogo di applicare la semplice regola della riflessione su quella intuizione ad un oggetto del tutto diverso, di cui il primo è il s.» (come per es. quando si rappresenta uno stato come un corpo animato o come una macchina, a seconda del modo in cui è governato). SOCIEVOLEZZA (Geselligkeit): tendenza naturale per cui si prova piacere nel comunicare il proprio stato d’animo anche solo riguardo alla facoltà di conoscere; s. è «l’attitudine e l’inclinazione alla vita sociale, come una qualità inerente ai bisogni dell’uomo, in quanto creatura destinata alla società, e quindi inerente all’umanità (v.)»; la s., come insieme del sentimento universale della simpatia e della facoltà di poter comunicare intimamente ed universalmente, distingue la vita umana dalla limitatezza di quella animale. SOGNO (Traum): può essere considerato come «una disposizione finalistica della natura, in quanto serve, nel rilassamento di tutte le forze motrici del corpo, a muovere intimamente gli organi vitali per mezzo dell’immaginazione e della sua grande attività (che in tal stato arriva spesso fino all’affetto)». ANTR: il s. «è il giuoco della fantasia con l’uomo nel sonno, ed esso ha luogo anche in condizioni di sanità; invece rivela uno stato di malattia, quando accade nella veglia. Il sognare è una saggia istituzione della natura per eccitare la potenza vitale con emozioni riferentisi a circostanze involontariamente immaginate, mentre i movimenti del corpo, cioè dei muscoli, che dipendono dalla volontà, restano sospesi». SOPRASENSIBILE (das Uebersinnliche): vi sono tre idee del s.: 1) «l’idea del s. in generale, senz’altra determinazione, come sostrato della natura»; 2) «l’idea del s. come principio della finalità soggettiva

della natura per la nostra facoltà di conoscere»; 3) «l’idea del s., come principio dei fini della libertà e come principio dell’accordo di quei fini con la libertà nella moralità»; il s. è qualcosa che sta fuori tanto del principio del meccanismo universale della materia quanto del principio teleologico della natura, e quindi al di fuori di ogni possibile rappresentazione empirica della natura, ma rende possibile l’unione di quei due principii e ne contiene il fondamento. Siccome però del s. «non possiamo avere altro concetto che quello, indeterminato, d’un fondamento che rende possibile il giudizio della natura secondo leggi empiriche, e non può essere determinato ulteriormente», l’unione del principio meccanico e di quello teleologico non può riposare sopra «un principio dell’esplicazione della possibilità d’un prodotto secondo leggi date per il giudizio determinante, ma soltanto di un principio dell’esposizione della possibilità stessa per il Giudizio riflettente». PURA, in generale: s. è ciò che si trova al di sopra (e quindi al di fuori) di ogni possibile esperienza. PURA; B XXI «la critica nega alla ragione speculativa ogni passo nel campo del s.». DIST, VIII: «non vi è fede teoretica nel s. Ma in senso pratico (eticopratico) la fede nel s. non è solo possibile, ma indissolubilmente connessa con la moralità». SOSTANZA (Substanz): «Coloro i quali cercano un principio supremo della possibilità delle forme oggettivamente finali della materia, senza concedere ad esso un’intelligenza, fanno dell’universo o una s. unica che comprende tutto (panteismo), oppure un insieme di molte determinazioni inerenti ad un’unica s. semplice (spinozismo) non per altro che per ricavare quella condizione di ogni finalità che è l’unica del principio». Questo è «il concetto puramente ontologico di s.». PURA: «in ogni cangiamento la s. permane, solo gli accidenti mutano». PURA: «le s. in generale devono avere qualcosa d’interno, e perciò scevro da tutte le relazioni esterne». SOSTITUZIONE (Subreption): è lo scambiare la stima (v.) per l’idea dell’umanità nel nostro soggetto in stima per un oggetto della natura, ed avviene nel sentimento del sublime della natura, che mediante questa sostituzione, ci rende quasi intuibile mediante un oggetto della natura la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive, anche sul massimo potere della sensibilità. SOSTRATO (Substrat): il s. soprasensibile della natura (di cui non possiamo determinare altro, affermativamente, se non che esso è la cosa in sé di cui conosciamo soltanto l’apparenza) contiene la possibilità, non comprensibile per la nostra ragione, dell’unione di due specie interamente diverse di causalità, quella del meccanismo della natura con quella del principio teleologico (v. pure 229). SPAZIO (Raum): «lo s. esprime la semplice forma a priori della possibilità della intuizione delle cose fuori di noi»; la legge con cui deve essere riempito lo s. è «che la forza repulsiva delle parti deve decrescere nella stessa proporzione in cui cresce l’estensione del corpo e lo s. che esso riempie con le parti stesse mediante questa forza». PURA: «Non è un concetto empirico, ricavato da esperienza esterne», bensì «una rappresentazione a priori che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne». Ivi: «Non è un concetto discorsivo, ma un’intuizione pura». OP, XXII: «L’oggetto dell’intuizione pura, per mezzo del quale il soggetto si pone, è infinito: precisamente lo s. e il tempo». SPECIFICAZIONE DELLA NATURA (Spezifikation der Natur): la legge della s.d.n. relativamente alle sue leggi empiriche è una legge del Giudizio, come principio a priori della possibilità della natura soltanto dal punto di vista soggettivo (riflettente); è infatti una legge non conosciuta a priori (e quindi prescritta alla natura), né derivata (anche se confermata) dall’esperienza, ma ammessa «a fine di render comprensibile all’intelletto un ordine della natura nella ripartizione che esso fa delle sue leggi universali», «quando il Giudizio vuole subordinare alle leggi universali la molteplicità delle leggi particolari». INTR: «si può dire che la natura specifica se stessa con un principio certo (o l’idea di un sistema) in analogia col significato che questo termine ha assunto presso i giuristi, quando parlano della s. di certe materie grezze. Pertanto è chiaro che il Giudizio riflettente, per il suo carattere, non potrebbe assumersi il compito di classificare l’intera natura nelle sue differenziazioni empiriche, se non presupponesse che la natura specifica persino le sue leggi trascendentali secondo un principio. E questo principio non può essere altro che quello di adattarsi alla facoltà che ha il Giudizio di ritrovare in base a

leggi empiriche possibili, nell’infinita molteplicità delle cose, un’affinità sufficiente a portarle sotto concetti empirici (classi), e a portare questi sotto leggi più generali (generi superiori) col proposito di pervenire in tal modo ad un sistema empirico della natura». PURA: «la ragione in tutto il suo svolgimento richiede che nessuna specie venga considerata in se stessa come l’infima, in quanto che, essendo essa sempre un concetto contenente in sé soltanto ciò che è comune a diverse cose, questo non può essere interamente determinato, e però neanche può essere riferito, senz’altro, a un individuo; e, per conseguenza, deve sempre comprendere sotto di sé altri concetti o sottospecie. Questa legge della s. si potrebbe formulare così: entium varietates non temere esse minuendas... ma questa legge logica sarebbe senza senso e senza applicazione, se non avesse a fondamento una trascendentale legge della s., che di certo non importerà nelle cose, che possono diventare nostri oggetti, una infinità reale di differenze, perché ciò non è richiesto dal principio logico, che afferma unicamente l’indeterminatezza della sfera logica rispetto alla divisione possibile; ma nondimeno impone all’intelletto di cercare sotto ogni specie che ci viene innanzi, un certo numero di sottospecie, e per ogni differenza un certo numero di differenze minori». «Questa legge della s. non può esser ricavata dall’esperienza». SPONTANEITÀ (Spontaneität): c’è una s. dell’intelletto nel senso che le sue leggi universali sono tanto necessarie rispetto ad esso quanto le leggi del movimento della materia, sebbene derivino dalla s.»; una facoltà d’intuizione perfettamente spontanea sarebbe una facoltà di conoscere distinta e del tutto indipendente dalla sensibilità, e cioè un intelletto nel senso più largo della parola; «la ricettività (v.) che mostra la materia per parecchie altre forme oltre quelle di cui è capace secondo il meccanismo, suppone la s. di una causa che quindi non può essere materia». STIMA (Achtung): è «il sentimento dell’insufficienza del nostro potere a raggiungere un’idea che per noi è legge». FOND, IV «per quanto la s. sia un sentimento, però non è un sentimento ricevuto mediante un’influenza, ma autonomamente prodotto mediante un concetto della ragione e perciò specificamente distinto da tutti i sentimenti che possono essere ricondotti all’inclinazione e al timore. Ciò che io riconosco immediatamente come legge per me, lo riconosco con s., e s. indica soltanto la consapevolezza della subordinazione del mio volere sotto una legge senza la mediazione di altri influssi sul mio animo. La determinazione immediata del volere mediante la legge e la coscienza di questa determinazione si chiama s., in modo che la s. viene considerata come effetto della legge sul soggetto e non come causa». PRAT: «la s. della legge morale è un sentimento che viene prodotto mediante un principio intellettuale; e questo sentimento è il solo che noi conosciamo affatto a priori e di cui possiamo vedere la necessità». STORIA NATURALE (Naturgeschichte): se intesa come semplice descrizione della natura va distinta dalla archeologia (v.) della natura come rappresentazione dell’antico stato della terra fondato sopra congetture. PRINC: «la s.n. è una descrizione sistematica dei fatti delle cose naturali nei diversi tempi e luoghi». USO: «soltanto il rintracciare la connessione di certe qualità attuali delle cose della natura con le loro cause nei tempi più antichi secondo leggi causali che noi non ci inventiamo, ma che deduciamo dalle forze della natura, quale si offre oggi a noi, soltanto il rintracciare questa connessione, per quanto lo consente l’analogia, sarebbe una vera s.n.». STUPORE (Verwunderung): è «l’affetto prodotto dalla novità superiore all’attesa»; «lo s. nasce quando l’animo urta nell’impossibilità di conciliare una rappresentazione e la regola data da questa, coi principii che in esso sono fondamentali, in modo che gli nasce il dubbio se abbia ben visto o giudicato» e per questo si distingue dall’ammirazione (v.). Cfr. pure ANTR, § 78. SUBLIME (das Erhabene): s. «è ciò che è assolutamente grande», ossia grande al di là di ogni comparazione. «Quando diciamo qualcosa non solo grande, ma assolutamente grande, si vede subito che non intendiamo cercare una misura adeguata fuori di essa, ma soltanto in essa medesima. È una grandezza, che è eguale solo a se stessa. Da ciò segue che il s. non è da cercarsi nelle cose della natura ma solo nelle nostre idee». S. perciò non potrà mai essere un oggetto, ma soltanto la disposizione di animo, la quale risulta da una certa rappresentazione che occupa il Giudizio riflettente. Quindi «s. è ciò

che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’animo superiore ad ogni misura dei sensi»; il s. si distingue in matematico e dinamico, in quanto implica sempre un movimento dell’animo (a differenza del gusto (v.) del bello che mantiene l’animo in una contemplazione statica), che deve essere giudicato come finale soggettivamente e riferito mediante l’immaginazione alla facoltà di conoscere oppure alla facoltà di desiderare; nel primo caso la finalità della rappresentazione viene attribuita all’oggetto come disposizione matematica, nel secondo caso come disposizione dinamica dell’immaginazione; «s. è ciò che piace immediatamente per la sua opposizione all’interesse dei sensi», e in questo senso si distingue dal bello (v.) in quale ci prepara ad amare qualcosa, anche la natura senza interesse, mentre il s. ci prepara a stimarla anche contro il nostro interesse (sensibile). Pertanto il s. può anche essere definito come quell’oggetto della natura «la cui rappresentazione determina l’animo a pensare come un’esibizione (v.) di idee l’impossibilità di raggiungere la natura». OSS, II in generale, e specialmente II: «c’è un sentimento di specie più fine, che viene così chiamato o perché lo si può godere più a lungo senza provarne sazietà e stanchezza, oppure perché presuppone, per così dire, una sensibilità dell’anima, che la rende insieme atta a sentimenti virtuosi, o perché indica la presenza di talenti e doti intellettuali, mentre invece gli altri sentimenti inferiori possono aver luogo senza alcun bisogno di riflessione»; questo sentimento «più fine» si distingue in bello (v.) e s. Mentre il bello stimola, il s. commuove. Il s. si distingue in tre specie in quanto «il sentimento del s. è talvolta accompagnato da orrore o anche malinconia, in alcuni casi soltanto da una tranquilla ammirazione, e in altri ancora da una bellezza di genere più elevato. Nel primo caso io penso si debba parlare di s. tremendo, nel secondo di nobile, nel terzo di magnifico». Mentre il bello può anche essere piccolo, il s. deve sempre essere grande. Mentre il bello può essere adornato, il s. deve essere semplice; «l’emozione provocata dal s. è più forte di quella provocata dal bello, soltanto, essa, senza avvicendamento e se non è accompagnata da quella del bello, stanca e non può essere fruita altrettanto a lungo. Le sensazioni del s. tendono le forze dell’anima in modo più forte e perciò stancano prima»; mentre al bello corrisponde la commedia, al s. corrisponde la tragedia; nulla più del ridicolo scade al di sotto del s. SUPERSTIZIONE (Aberglaube, Superstition): è il più grande di tutti i pregiudizi (v.), e consiste «nel rappresentarsi la natura come non sottoposta a quelle regole, che l’intelletto le dà a fondamento in virtù della propria legge essenziale». V. pure: RELIGIONE. – CONFL, VII: «la s. è l’inclinazione a riporre maggiore fiducia in ciò che si crede non avvenga in modo naturale, più che in ciò che si può spiegare in modo naturale, sia nel mondo fisico che in quello morale». TALENTO (Talent): «il t., come facoltà produttrice innata dell’artista, appartiene anche alla natura» – ANTR: «s’intende per t. (dono di natura) quella superiorità della facoltà di conoscere che non dipende dall’insegnamento, ma dalla disposizione naturale del soggetto. I t. sono: l’ingegno produttivo (ingenium strictius, sive materialiter dictum) la sagacità e l’originalità del pensare (il genio)». TECNICA DELLA NATURA (Technik der Natur): è «il procedimento (la causalità) della natura, per quella specie di finalità che troviamo nei suoi prodotti» e si distingue in t. intenzionale, se la potenza produttiva della natura è considerata come una specie particolare di causalità, oppure il t. inintenzionale, se la potenza produttiva della natura è considerata in fondo identica con il meccanismo della natura. INTR: «il concetto derivante originariamente dal Giudizio e ad esso proprio, è quello della natura come arte, in altre parole è quello della t.d.n. riguardo alle sue leggi particolari; questo concetto non fonda una teoria, e, come la logica, non contiene una conoscenza degli oggetti e della loro costituzione, ma offre soltanto un principio per procedere secondo le leggi dell’esperienza, che rendono possibile l’indagine della natura»; costituisce cioè «un principio euristico». INTR: «il Giudizio si dà a priori la t.d.n. come principio della sua riflessione, sebbene non possa definirla o determinarla più da presso, non avendo a questo scopo un principio oggettivo di determinazione dei concetti generali della natura (tratto da una conoscenza delle cose in sé); ma esso lo fa col solo scopo di poter riflettere in base alle proprie leggi soggettive secondo il suo bisogno, e nondimeno in accordo con le leggi della natura in generale». INTR: «rispetto ai suoi prodotti come aggregati, la natura procede meccanicamente, come

mera natura; ma rispetto ai suoi prodotti come sistemi, per esempio nelle formazioni cristalline, in ogni forma dei fiori, o nella struttura interna delle piante e degli animali, essa procede tecnicamente, cioè al tempo stesso come arte». INTR: t.d.n. è «la causalità della natura dal punto di vista dei suoi prodotti come fini. Tale t. è contrapposta alla meccanica (v.) della natura, la quale consiste nella causalità della natura posta mediante la connessione del molteplice, senza alcun concetto che stia a fondamento del modo della sua unificazione». INTR: «per t. formale della natura ho inteso la finalità di essa nell’intuizione, per t. reale intendo la sua finalità secondo concetti. La prima dà al Giudizio configurazioni finalistiche, cioè la forma nella cui rappresentazione immaginazione ed intelletto si accordano spontaneamente concordemente sulla possibilità d’un concetto. La seconda esprime il concetto delle cose come scopi della natura, cioè tali che la loro interna possibilità presuppone un fine, e, di conseguenza, un concetto che, come condizione, stia a fondamento della causalità della loro produzione». INTR: t. figurata (speciosa) si può chiamare la t.d.n. riguardo alle forme della natura che vengono giudicate esteticamente, e cioè che vengono trovate «conformi al fine di certi oggetti esistenti della natura nell’apprensione soltanto empirica dell’intuizione, senza alcun concetto dell’oggetto posto a fondamento, cioè solamente in relazione con le condizioni soggettive del Giudizio. Tale modo di giudicare esteticamente non richiede concetti dell’oggetto e non ne produce alcuno; perciò esso non le definiva più in un giudizio obiettivo come scopi della natura, ma unicamente come conformi al fine, nella relazione soggettiva, con la facoltà di rappresentazione». Per t. organica si intende invece «il concetto della finalità non solo per il modo della rappresentazione, ma anche per la possibilità delle cose stesse», e tale t. corrisponde al giudizio teleologico «che presuppone un concetto dell’oggetto e giudica la possibilità di esso secondo una legge della connessione di cause ed effetti». «Tale t. della natura potrebbe perciò chiamarsi plastica, se questa parola non fosse già di moda nella sua accezione più generica per la bellezza della natura come per le intenzioni naturali». TEISMO (Theism) è una sottospecie del realismo (v.) della finalità della natura e consiste nel derivare «i fini del fondamento originario dell’universo, in quanto è un essere intelligente (originariamente vivente) e che produce con intenzione»; il t. non può stabilire meglio degli altri sistemi «la possibilità dei fini naturali come una chiave per la teleologia; sebbene tra tutti i principii esplicativi abbia il vantaggio di sottrarre nel miglior modo all’idealismo (v.) la finalità della natura, per via di un’intelligenza che attribuisce all’essere primo, e di introdurre una causalità intenzionale per la produzione della finalità». PURA: il teista a differenza del deista ammette una teologia naturale, «afferma che la ragione è in grado di poter determinare di più l’oggetto secondo l’analogia con la natura, ossia come un essere che per intelletto e libertà contenga in sé il primo principio di tutte le altre cose»; mentre il deista si rappresenta questo essere solo come causa del mondo, senza precisare se mediante la necessità o mediante la libertà, il teista lo concepisce come un creatore del mondo e crede in Dio vivente. TELEOLOGIA (Teleologie): è «un modo di considerare gli oggetti della natura secondo un principio particolare» che è il concetto di una causalità della natura secondo uno scopo. A questo concetto viene data realtà oggettiva soltanto dagli esseri organizzati, in quanto essi devono essere pensati come possibili scopi della natura «anche quando siano considerati per sé e senza rapporto ad altre cose»; la t. è un principio soltanto regolativo per il Giudizio riflettente, e non costitutivo per il Giudizio determinante, in quanto non possiamo attribuire alla natura cause che agiscono con intenzione, ma soltanto ricondurre a regole i fenomeni della natura dove non sono sufficienti le leggi della causalità puramente meccanica; «la t. fisica ci spinge a cercare una teologia, ma non può produrne alcuna per quanto profondamente investighiamo la natura per via dell’esperienza e per quanto possiamo suffragare il legame che vi scopriamo, per mezzo di idee della ragione (le quali nelle questioni fisiche debbono essere teoretiche)»; se la natura non ci dice niente circa lo «scopo finale» si arriva al più a «un intelletto artefice per fini isolati», ma non alla «sapienza per uno scopo finale», che propriamente è ciò che deve contenere il fondamento determinante di una intelligenza suprema; la t.f. di per sé sola «non può che

produrre concetti indeterminati, e, appunto perciò, inutili tanto per l’uso teoretico che pel pratico... e se non prendesse in prestito qualcosa inavvertitamente dalla teleologia morale, e dovesse procedere con coerenza, da sola non potrebbe fondare se non una demonologia, la quale è incapace di ogni concetto determinato»; oltre alla t.f. c’è anche una t. morale che «noi troviamo in noi stessi, e ancor più nel concetto in generale di un essere ragionevole dotato di libertà (della sua causalità)». Tale t.m. «è legata con la nomotetica della libertà da una parte, e con quella della natura dall’altra, tanto necessariamente quanto la legislazione civile è legata con la questione di sapere dove si debba cercare il potere esecutivo; e in generale è connessa con tutto ciò in cui la ragione deve fornire il principio della realtà di un certo ordine legale delle cose, possibile solo secondo le idee»; la t. morale quindi «non è fondata meno solidamente della t. fisica, e gode anzi il privilegio di riposare a priori su principii inseparabili dalla nostra ragione»; perciò «conduce a ciò che è richiesto dalla possibilità di una teologia, cioè a un concetto determinato della causa suprema, come causa del mondo secondo leggi morali, e quindi tale che basta al nostro scopo finale morale; e così, da sola, la t. morale può fornire il concetto di un unico creatore del mondo che è adatto per la teologia». TEOLOGIA (Teologie): è «la conoscenza di Dio e della sua esistenza, mediante proprietà e determinazioni della sua causalità pensate in lui soltanto per analogia; una conoscenza, che nel rapporto pratico, ma soltanto da questo punto di vista (morale), ha tutta la realtà necessaria» (v. ETICOTEOLOGIA); la t. non deve né elevarsi a teosofia (v.), né scadere a demonologia (v.); la t. naturale si adopera a dare una prova illusoria (v. APPARENZA), quando utilizza il «principio puramente soggettivo della ragione umana, e cioè quella tendenza che le è propria, la quale la spinge ad ammettere un solo principio invece di parecchi, sempre che non vi sia contradizione, e quando in questo principio si trovano già alcune o anche molte delle condizioni richieste per la determinazione d’un concetto», per completare arbitrariamente tale concetto, e, precisamente, affermare una sola causa intelligente ed onnipotente dei prodotti della natura, considerata pure come causa morale del mondo; la t. naturale non contiene articoli (v.) di fede, quando con questi si intendano quelle cose di fede di cui possa essere imposta la confessione (interna od esterna), perché «non potendo queste cose, in quanto cose di fede, fondarsi su prove teoretiche (come le cose di fatto), l’adesione è libera e anche solo a questa condizione può accordarsi con la moralità del soggetto»; la t. è una parte della filosofia teoretica e indaga «il fondamento originario del mondo, considerato come insieme di tutti gli oggetti d’esperienza». PURA: «se per t. intendo la conoscenza dell’Essere originario, essa è fondata o sulla pura ragione (theologia rationalis), o su una rivelazione (revelata). La prima concepisce il suo oggetto o semplicemente con la ragion pura mediante meri concetti trascendetali (ens originarium realissimum, ens entium) e dicesi t. trascendentale; ovvero mediante un concetto che essa ricava dalla natura (della nostra anima), come la suprema intelligenza, e dovrebbe dirsi t. naturale». Quando la t. trascendentale «intende dedurre l’esistenza dell’essere originario da un’esperienza in generale si dice cosmoteologia», quando «crede di conoscere la sua esistenza mediante semplici concetti, senza il soccorso della minima esperienza, vien detta ontoteologia». La t. naturale, quando sale da questo mondo all’intelligenza suprema come principio di ogni ordine e perfezione naturale si chiama t. fisica, quando sale invece all’intelligenza suprema come principio di ogni ordine e perfezione morale si chiama t. morale. TEOSOFIA (Theosophie): quando la teologia pretende di elevarsi a «concetti trascendenti in cui la ragione si smarrisce» si ha la t. 293: t. infatti sarebbe «la conoscenza teoretica della natura divina e della sua esistenza sufficiente a spiegare la costituzione del mondo e nello stesso tempo a determinare le leggi morali». TERRITORIO (Boden, Territorium): è la parte del campo (v.) dei concetti in cui è possibile per noi la conoscenza; in questo senso i concetti dell’esperienza «hanno il loro t. nella natura, che è l’insieme di tutti gli oggetti del senso». «Il t. su cui la filosofia fonda il suo dominio (v.) e su cui esercita la sua legislazione è sempre soltanto l’insieme degli oggetti di ogni esperienza possibile, in quanto essi non sono considerati se non come semplici fenomeni».

(Theurgie: «illusione fantastica per cui si crede di poter avere un sentimento di altri esseri soprasensibili ed un influsso su di essi». TIMORE (Furcht): è il sentimento che si prova di fronte a qualcosa a cui siamo portati a opporci come a un male e rispetto a cui il nostro potere non è adeguato. Non si prova però t. di fronte a tutto ciò che è temibile, perché qualcosa come Dio, può essere temibile, anche se non si può immaginare il caso di volersi opporre a lui o ai suoi ordini. Cfr. pure ANTR, § 77. TRASCENDENTALE (transzendental), v. PRINCIPIO, FILOSOFIA. TRASCENDENTE (transzendent), v. CONCETTO. TRICOTOMIA (Thricothomie), v. DIVISIONE. TRISTEZZA (Traurigkeit): la t., che deriva dal vedere i mali inflitti dal destino agli altri uomini e che è causata dalla simpatia, è bella, mentre quella che deriva dal vedere i mali che gli uomini si fanno tra di loro e che si fonda sull’antipatia nei principii, è sublime perché riposa sopra idee. Si può distinguere una t. interessante, da una t. insignificante, in quanto la prima è quella «ispirata dalla vista di una solitudine in cui gli uomini ben potrebbero ridursi per non udire e saper più nulla del mondo, ma non inospite al punto da non offrir loro che un miserrimo ricovero». Pertanto: «anche la t. può esser considerata tra gli affetti forti, quando abbia fondamento in idee morali; quando invece riposa sulla simpatia, e, come tale, è anche amabile, appartiene semplicemente agli affetti teneri»; soltanto nel primo caso lo stato d’animo è sublime. ANTR: «il sentimento che spinge il soggetto a lasciare la condizione in cui si trova, è sgradevole e si chiama t.». UMANITÀ (Humanität): è «da un lato il sentimento universale della simpatia e dall’altro la facoltà di poter comunicare intimamente ed universalmente». ANTR: è «il modo di concepire la conciliazione del benessere con la virtù nella vita sociale». UMORE (Laune): «L’u. bene inteso significa il talento di mettersi volontariamente in una certa disposizione d’animo, in cui tutte le cose sono giudicate in un modo del tutto diverso dall’ordinario (perfino al rovescio), e pure conformemente a certi principii razionali che sono nella disposizione stessa. Chi va soggetto involontariamente a questi cambiamenti si dice lunatico; ma colui che ha la facoltà di assumerli volontariamente e con uno scopo (per produrre una rappresentazione che col contrasto suscita il riso) si chiama umorista ed umoristico il suo modo di vedere». UMORISTA (launig), v. UMORE. UNIVERSALE (das Allgemeine): è la regola, il principio, la legge a cui il particolare deve essere sussunto; nel giudizio determinante l’u. è dato, mentre nel giudizio riflettente deve essere trovato; la contingenza del particolare rispetto all’universale a cui deve essere ricondotto nel Giudizio è una caratteristica propria del nostro intelletto umano che lo distingue da altri intelletti possibili e soprattutto a un intelletto intuitivo (v.). UNIVERSALITÀ ESTETICA, v. UNIVERSALITÀ SOGGETTIVA. UNIVERSALITÀ LOGICA, v. UNIVERSALITÀ SOGGETTIVA. UNIVERSALITÀ SOGGETTIVA (subjektive Allgemeinheit): è una universalità non logica (perché non si fonda su concetti, neppure empirici), ma estetica (perché si fonda sul rapporto della rappresentazione col sentimento di piacere e di dispiacere in ogni soggetto); dall’universalità estetica non si può mai passare a quella logica, perché appartiene a una sorta di giudizi che non si rapportano all’oggetto. UOMO (Mensch): l’u. soltanto può essere considerato come scopo ultimo della natura, in modo che rispetto a lui tutte le altre cose naturali costituiscono un sistema di fini; «l’u. considerato come noumeno, è l’unico essere della natura in cui possiamo riconoscere, come suo carattere proprio, una facoltà soprasensibile (la libertà) ed anche la legge della causalità e l’oggetto di questa che egli si può proporre come fine supremo (il sommo bene del mondo). Ora, dell’u., in quanto essere morale, non si può ancora domandare per qual fine esista. La sua esistenza ha in se stessa lo scopo supremo, al quale, per quanto è in sua facoltà, egli può sottomettere l’intera natura, o, almeno, rispetto al quale non c’è alcuna influenza contraria della natura, a cui l’uomo debba ritenersi soggetto»; appunto per queste TEURGIA

caratteristiche e per questa sua posizione unica nella natura solo l’u. è «capace dell’ideale (v.) della bellezza, così come l’umanità nella sua persona, in quanto intelligenza, è essa sola capace dell’ideale della perfezione». UTILE (das Nützliche): u. si dice quella cosa che piace soltanto come mezzo, e non per se stessa. «In entrambe è sempre contenuto il concetto di uno scopo, il rapporto della ragione con la volontà (almeno possibile) e per conseguenza un piacere legato all’esistenza di un oggetto o di un’azione, vale a dire un interesse (v.)». UTILITÀ (Nützlichkeit): l’u. è la finalità oggettiva esterna, e si distingue pertanto dalla perfezione (v.) come finalità oggettiva interna. «Il piacere suscitato da un oggetto che chiamiamo bello non può pertanto riposare sulla rappresentazione della sua u., perché allora non sarebbe una soddisfazione suscitata immediatamente dall’oggetto, mentre questa è la condizione essenziale della bellezza»; quando si considera effetto naturale come mezzo per l’impiego finale di altre cause, si ammette una finalità esterna semplicemente relativa che si chiama u. se, a differenza della convenienza (v.), non si riferisce ad ogni altra natura, ma esclusivamente agli uomini. VALORE LOGICO (logische Gültigkeit): è «ciò che nella rappresentazione di un oggetto serve alla determinazione dell’oggetto (alla conoscenza)». VEROSIMIGLIANZA (Wahrscheinlichkeit): è «una parte di una certezza possibile in una certa serie di ragioni (le ragioni in essa stanno alla ragione sufficiente come le parti ad un tutto) rispetto alle quali deve poter essere completata quella ragione insufficiente». LOG, IX: «per v. si deve intendere una convinzione fondata su ragioni insufficienti, che però si trovano rispetto alle ragioni sufficienti in una proporzione superiore a quella delle ragioni della tesi opposta». VOLONTÀ (Wille): «la v., in quanto facoltà di desiderare, è una delle varie cause naturali che sono nel mondo, cioè quella che opera secondo concetti»; «la v. è una facoltà di desiderare determinata dalla ragione» e «volere qualcosa ed avere piacere della sua esistenza, cioè prendervi l’interesse, sono la stessa cosa»; la v. è «la facoltà dei fini» (v. pure p. 192); «la facoltà di desiderare, in quanto può essere determinata ad agire solo mediante concetti, cioè secondo la rappresentazione di uno scopo, sarebbe la v.». FOND, IV: «ogni cosa in natura opera secondo leggi. Soltanto un essere razionale ha la facoltà di agire secondo la rappresentazione delle leggi, cioè secondo principi, e cioè ha la v. Siccome per la deduzione delle leggi è necessaria la ragione, la v. non è altro che la ragion pratica».

Indice Frontespizio Cronologia della vita e delle opere di Kant CRITICA DELLA RAGION PURA Introduzione La fondazione della metafisica L’oggetto fisico L’oggetto matematico La critica come propedeutica La teoria dell’oggettivazione I presupposti Le condizioni della ricezione sensibile I nessi pensati dall’intelletto Lo schematismo L’unità dell’esperienza L’unità della deduzione Il rovesciamento del principio di Hume Lo «schematismo» del giudizio La fine della vecchia metafisica La riprova dell’idealismo trascendentale Razionalismo in funzione della scienza La fortuna della «Critica» La «Critica» nella filosofia contemporanea Nota al testo Prefazioni alle precedenti edizioni 1909 1918 1966 Critica della ragion pura Prefazione Prefazione alla seconda edizione Introduzione I II III IV V VI VII I. Dottrina trascendentale degli elementi Parte Prima. Estetica trascendentale § 1. Sezione Prima. Dello spazio § 2. Esposizione metafisica di questo concetto § 3. Esposizione trascendentale del concetto di spazio Sezione Seconda. Del tempo § 4. Esposizione metafisica del concetto del tempo § 5. Esposizione trascendentale del concetto del tempo § 6. Corollari di questi concetti § 7. Chiarimento §8. Osservazioni generali sull’estetica trascendentale Parte Seconda. Logica trascendentale Introduzione. Idea di una logica trascendentale I. Della logica in generale II. Della logica trascendentale III. Della divisione della logica generale in analitica e dialettica IV. Divisione della logica trascendentale in Analitica e Dialettica trascendentale I. Analitica trascendentale Libro Primo. Analitica dei concetti Capitolo Primo. Del filo conduttore per la scoperta di tutti i concetti puri dell’intelletto Sezione Prima. Dell’uso logico dell’intelletto in generale Sezione seconda §9. Della funzione logica dell’intelletto nei giudizi Sezione terza § 10. Dei concetti puri dell’intelletto o categorie § 11. § 12. Capitolo Secondo. Deduzione dei concetti puri dell’intelletto Sezione prima § 13. Dei princìpi di una deduzione trascendentale in generale § 14. Passaggio alla deduzione trascendentale delle categorie Sezione Seconda. Deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto § 15. Della possibilità di una unificazione in generale § 16. Dell’unità sintetica originaria dell’appercezione § 17. Il principio dell’unità sintetica dell’appercezione è il principio supremo di ogni uso dell’intelletto § 18. Che cosa sia l’unità oggettiva della autocoscienza § 19. La forma logica di tutti i giudizi consiste nell’unità oggettiva dell’appercezione dei concetti in essi contenuti § 20. Tutte le intuizioni sensibili sottostanno alle categorie, come condizioni in cui soltanto il molteplice di quelle può raccogliersi in una coscienza § 21. Annotazione § 22. La categoria non ha altro uso alla conoscenza delle cose che di esser applicata agli oggetti dell’esperienza § 23. § 24. Dell’applicazione delle categorie agli oggetti dei sensi in generale

2 14 17 18 18 19 21 22 23 24 26 27 28 29 30 31 32 34 35 36 39 41 44 48 48 61 62 64 67 74 93 93 94 96 98 100 103 106 111 112 112 113 113 115 118 118 119 120 122 125 135 135 135 138 139 142 144 145 146 146 148 148 152 152 156 158 160 160 160 164 167 167 168 170 172 172 174 174 175 176 177

§ 25. § 26. Deduzione trascendentale dell’uso empirico possibile in generale dei concetti puri dell’intelletto § 27. Risultato di questa deduzione dei concetti dell’intelletto Libro Secondo. L’analitica dei princìpi Introduzione Del giudizio trascendentale in generale Capitolo Primo Dello schematismo dei concetti puri dell’intelletto Capitolo Secondo Sistema di tutti i princìpi dell’intelletto puro Sezione Prima. Del principio supremo di tutti i giudizi analitici Sezione Seconda. Del principio supremo di tutti i giudizi sintetici Sezione Terza. Rappresentazione sistematica di tutti i princìpi sintetici dell’intelletto puro 1. Assiomi dell’intuizione 2. Anticipazioni della percezione 3. Analogie dell’esperienza A. Prima analogia: Principio della permanenza della sostanza. B. Seconda analogia: Principio della serie temporale secondo la legge della causalità. C. Terza analogia: Principio della simultaneità secondo la legge dell’azione vicendevole o reciprocità. 4. I postulati del pensiero empirico in generale. Capitolo Terzo. Del principio della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni Appendice. Anfibolia dei concetti della riflessione per lo scambio dell’uso empirico dell’intelletto con l’uso trascendentale II. Dialettica trascendentale Introduzione I. dell’apparenza trascendentale II. della ragion pura come sede dall’apparenza trascendentale Libro Primo. Dei concetti della ragion pura Sezione Prima. Delle idee in generale Sezione Seconda. Delle idee trascendentali Sezione Terza. Sistema delle idee trascendentali Libro Secondo. Dei raziocinii dialettici della ragion pura Capitolo Primo. Dei paralogismi della ragion pura Capitolo Secondo. L’antinomia della ragion pura Sezione Prima. Sistema delle idee cosmologiche Sezione Seconda. Antitetica della ragion pura Primo conflitto delle idee trascendentali Secondo conflitto delle idee trascendentali Terzo conflitto delle idee trascendentali Quarto conflitto delle idee trascendentali Sezione Terza. Dell’interesse della ragione in questo suo conflitto Sezione Quarta. Dei problemi trascendentali della ragion pura in quanto devono assolutamente poter essere risoluti Sezione Quinta. Rappresentazione scettica delle questioni cosmologiche per tutte quattro le idee trascendentali Sezione Sesta. L’idealismo trascendentale come chiave della soluzione della dialettica cosmologica Sezione Settima. Soluzione critica del conflitto cosmologico della ragione con se stessa Sezione Ottava. Principio regolativo della ragion pura rispetto alle idee cosmologiche Sezione Nona. Dell’uso empirico del principio regolativo della ragione rispetto a tutte le idee cosmologiche I. soluzione dell’idea cosmologica della totalità della riunione dei fenomeni in un universo II. Soluzione dell’idea cosmologica della totalità della divisione d’un tutto dato in una intuizione Osservazione finale sulla soluzione delle idee matematico-trascendentali e avvertenza preliminare per la soluzione delle idee dinamico-trascendentali III. soluzione delle idee cosmologiche della totalità della derivazione degli avvenimenti cosmici dalle loro cause Possibilità della causalità per la libertà in accordo con le leggi universali della necessità naturale Spiegazione dell’idea cosmologica di libertà in rapporto con la necessità universale della natura IV. soluzione dell’idea cosmologica della totalità della dipendenza dei fenomeni, rispetto alla loro esistenza in generale Osservazione finale intorno a tutta l’antinomia della ragion pura Capitolo Terzo. L’ideale della ragion pura Sezione Prima. Dell’ideale in generale Sezione Seconda. Dell’ideale trascendentale (Prototypon trascendentale) Sezione Terza. Degli argomenti della ragion speculativa per dimostrare l’esistenza di un essere supremo Non ci sono se non tre specie possibili di prove dell’esistenza di dio per la ragion speculativa Sezione Quarta. Dell’impossibilita di una prova ontologica dell’esistenza di dio Sezione Quinta. Dell’impossibilità di una prova cosmologica dell’esistenza di dio Scoperta e illustrazione dell’apparenza dialettica in tutte le prove trascendentali dell’esistenza di un essere necessario Sezione Sesta. Dell’impossibilità della prova fisico-teologica Sezione Settima. Critica di ogni teologia fondata su princìpi speculativi della ragione Appendice alla dialettica trascendentale Dell’uso regolativo delle idee della ragion pura Dello scopo finale della dialettica naturale della ragione umana II. Dottrina trascendentale del metodo Capitolo Primo. La disciplina della ragion pura Sezione Prima. La disciplina della ragion pura nell’uso dommatico Sezione Seconda. La disciplina della ragion pura rispetto al suo uso polemico Della impossibilità di un appagamento scettico della ragione in disaccordo con se stessa Sezione Terza. La disciplina della ragion pura rispetto alle ipotesi Sezione Quarta. La disciplina della ragion pura rispetto alle sue dimostrazioni Capitolo Secondo. Il canone della ragion pura Sezione Prima. Dello scopo ultimo dell’uso della nostra ragione Sezione Seconda. Dell’ideale del sommo bene come principio determinante del fine ultimo della ragion pura Sezione Terza. Dell’opinione, della scienza e della fede Capitolo Terzo. L’architettonica della ragion pura Capitolo Quarto. La storia della ragion pura Appendice. Brani della prima edizione esclusi dalla seconda I. Deduzione dei concetti puri dell’intelletto Sezione Seconda. Dei fondamenti a priori della possibilità dell’esperienza Sezione Terza. Del rapporto dell’intellettto con gli oggetti in generale e della possibilità di conoscere questi a priori II. Paralogismi della ragion pura Primo paralogismo: della sostanzialità Secondo paralogismo: della semplicità

181 182 185 190 192 195 201 202 204 206 208 211 217 220 225 237 242 260 275 293 293 293 296 303 304 308 315 319 321 338 339 345 348 352 357 361 366 373 377 380 384 389 393 394 397 400 402 405 407 416 419 424 424 426 432 436 436 442 448 451 457 465 465 479 498 500 502 515 525 531 538 547 548 551 560 567 578 581 582 582 592 601 601 602

Glossario

Terzo paralogismo: della personalità Quarto paralogismo: della idealità (del rapporto esterno) Considerazione sulla somma della psicologia pura in conseguenza di questi paralogismi

608 610 617 631 631 655 656 676 679 683 684 695 697 698 699 699 699 701 702 702 703 705 707 708 709 710 710 711 712 713 713 714 715 716 723 731 739 747 748 753 769 788 789 792 795 796 801 803 805 811

Abbreviazioni CRITICA DELLA RAGION PRATICA Introduzione. Genesi e struttura dell’opera di Sergio Landucci Nota del traduttore Nota del revisore Critica della ragion pratica Prefazione Introduzione. Dell’idea di una critica della ragion pratica 1. Dottrina degli elementi della ragion pura pratica Libro primo. Analitica della ragion pura pratica Capitolo primo. Dei princìpi della ragion pura pratica § 1. Definizione Scolio § 2. Teorema I § 3. Teorema II Corollario Scolio I Scolio II § 4. Teorema III Scolio § 5. Problema I § 6. Problema II Scolio § 7. Legge fondamentale della ragion pura pratica Scolio Corollario Scolio § 8. Teorema IV Scolio I Scolio II I. Della deduzione dei princìpi della ragion pura pratica II. Del diritto della ragion pura, nell’uso pratico, a una estensione che non le è possibile nell’uso speculativo per sé Capitolo secondo. Del concetto di un oggetto della ragion pura pratica Tavola delle categorie della libertà, in relazione ai concetti del bene e del male Della tipica del giudizio puro pratico Capitolo terzo. Dei moventi1 della ragion pura pratica Dilucidazione critica dell’analitica della ragion pura pratica Libro secondo. Dialettica della ragion pura pratica Capitolo primo. Di una dialettica della ragion pura pratica in generale Capitolo secondo Della dialettica della ragion pura nella determinazione del concetto del sommo bene I. L’antinomia della ragion pratica II. Soluzione critica dell’antinomia della ragion pratica III. Del primato della ragion pura pratica nella sua unione con la speculativa IV. L’immortalità dell’anima come un postulato della ragion pura pratica V. L’esistenza di Dio, come postulato della ragion pura pratica VI. Sui postulati della ragion pura pratica in generale VII. Come sia concepibile un’estensione della ragion pura, nel rispetto pratico, senza che perciò nello stesso tempo sia estesa la sua conoscenza come ragione speculativa 813 VIII. Dell’adesione che deriva da un bisogno della ragion pura 821 IX. Della proporzione saggiamente conveniente delle facoltà di conoscere dell’uomo rispetto alla sua destinazione pratica824 2. Dottrina del metodo della ragion pura pratica 829 Conclusione 840 Glossario 843 Abbreviazioni 843 CRITICA DEL GIUDIZIO 855 Introduzione di Paolo D’Angelo 856 Avvertenza alla presente edizione 891 Prefazione del traduttore 892 Nota del revisore 899 Avvertenza del revisore 903 Critica del giudizio 904 Prefazione 905 Introduzione 909 I. Della divisione della filosofia. 909 II. Del dominio della filosofia in generale. 911 III. Della critica del Giudizio come mezzo per riunire in un tutto le due parti della filosofia. 914 IV. Del Giudizio come facoltà legislativa «a priori». 916 V. Il principio della finalità formale della natura è un principio trascendentale del Giudizio. 917 VI. Dell’unione del sentimento di piacere col concetto della finalità della natura. 922 VII. Della rappresentazione estetica della finalità della natura. 924 VIII. Della rappresentazione logica della finalità della natura. 928 IX. Del legame tra la legislazione dell’intelletto e quella della ragione mediante il Giudizio. 931 Parte prima. Critica del giudizio estetico 935 Sezione prima. Analitica del giudizio estetico 936 Libro primo. Analitica del bello 937 Primo momento del giudizio di gusto, secondo la qualità 937 § 1. Il giudizio di gusto è estetico. 937 § 2. Il piacere che determina il giudizio di gusto è scevro di ogni interesse. 938 § 3. Il piacere del piacevole è legato ad un interesse. 939 § 4. Il piacere che dà il buono è legato all’interesse. 940 § 5. Comparazione dei tre modi specificamente diversi del piacere. 942 Secondo momento del giudizio di gusto, secondo la quantità 944

§ 6. Il bello è ciò che è rappresentato, senza concetti, come l’oggetto di un piacere universale. 944 § 7. Comparazione del bello col piacevole e col buono mediante l’osservazione precedente. 944 § 8. L’universalità del piacere in un giudizio estetico è rappresentata solo come soggettiva. 946 § 9. Esame della questione, se nel giudizio di gusto il sentimento di piacere preceda il giudizio sull’oggetto, o viceversa. 949 Terzo momento dei giudizii di gusto, secondo la relazione con lo scopo, che in essi è presa in considerazione 952 § 10. Della finalità in generale. 952 § 11. Il giudizio di gusto non ha a fondamento se non la forma della finalità di un oggetto (o della sua rappresentazione). 953 § 12. Il giudizio di gusto riposa su fondamenti «a priori». 953 § 13. Il puro giudizio di gusto è indipendente da attrattive ed emozioni. 955 § 14. Illustrazione con esempii. 955 § 15. Il giudizio di gusto è del tutto indipendente dal concetto della perfezione. 958 § 16. Il giudizio di gusto, col quale un oggetto è dichiarato bello sotto la condizione di un determinato concetto, non è puro. 960 § 17. Dell’ideale della bellezza. 963 Quarto momento del giudizio di gusto, secondo la modalità del piacere che danno i suoi oggetti 967 § 18. Che cosa è la modalità d’un giudizio di gusto. 967 § 19. La necessità soggettiva, che attribuiamo al giudizio di gusto, è condizionata. 967 § 20. La condizione della necessità, che presenta un giudizio di gusto, è l’idea di un senso comune. 968 § 21. Se si possa presupporre con ragione un senso comune. 968 § 22. La necessità dell’accordo universale, che è pensata in un giudizio di gusto, è una necessità soggettiva, che è rappresentata come oggettiva con la presupposizione di un senso comune. 969 Nota generale alla prima sezione dell’analitica 970 Libro secondo. Analitica del sublime 975 § 23. Passaggio dalla facoltà del giudizio del bello a quella del sublime. 975 § 24. Della divisione di un’analisi del sentimento del sublime. 977 A. Del sublime matematico 978 § 25. Definizione del termine «sublime». 978 § 26. Della valutazione delle grandezze delle cose naturali, richiesta dall’idea del sublime. 981 § 27. Della qualità del piacere nel giudizio del sublime. 987 B. Del sublime dinamico della natura 990 § 28. Della natura in quanto potenza. 990 § 29. Della modalità del giudizio sul sublime della natura. 994 Nota generale sull’esposizione dei giudizii estetici riflettenti 996 Deduzione dei giudizii estetici puri 1007 § 30. La deduzione dei giudizii estetici sugli oggetti della natura non si può applicare a ciò che in questa chiamiamo sublime, ma soltanto al bello. 1008 § 31. Del metodo della deduzione dei giudizii di gusto. 1009 § 32. Prima proprietà del giudizio di gusto. 1010 § 33. Seconda proprietà del giudizio di gusto. 1012 § 34. Non può esservi alcun principio oggettivo del gusto. 1013 § 35. Il principio del gusto è il principio soggettivo del Giudizio in generale. 1014 § 36. Del problema di una deduzione dei giudizii di gusto. 1016 § 37. Che cosa si afferma propriamente «a priori» in un giudizio di gusto su di un oggetto? 1017 § 38. Deduzione dei giudizii di gusto. 1017 § 39. Della comunicabilità di una sensazione. 1019 § 40. Del gusto come una specie di «sensus communis». 1020 § 41. Dell’interesse empirico per il bello. 1023 § 42. Dell’interesse intellettuale per il bello. 1025 § 43. Dell’arte in generale. 1029 § 44. Dell’arte bella. 1031 § 45. L’arte bella è un’arte in quanto ha l’apparenza della natura. 1032 § 46. L’arte bella è arte del genio. 1033 § 47. Spiegazione e conferma della precedente definizione del genio. 1034 § 48. Del rapporto del genio col gusto. 1036 § 49. Delle facoltà dell’animo, che costituiscono il genio. 1038 § 50. Dell’unione del gusto col genio nei prodotti dell’arte bella. 1044 § 51. Della divisione delle belle arti. 1044 § 52. Dell’unione delle belle arti in un unico prodotto. 1049 § 53. Comparazione del valore estetico delle belle arti. 1050 § 54. Nota 1053 Sezione seconda. Dialettica del giudizio estetico 1061 § 55. 1061 § 56. Esposizione dell’antinomia del gusto. 1061 § 57. Soluzione dell’antinomia del gusto. 1062 § 58. Dell’idealismo della finalità tanto della natura che dell’arte, come principio unico del Giudizio estetico. 1069 § 59. Della bellezza come simbolo della moralità. 1073 Appendice 1078 § 60. Della metodologia del gusto. 1078 Parte seconda. Critica del giudizio teleologico 1080 § 61. Della finalità oggettiva della natura. 1080 Sezione prima. Analitica del giudizio teleologico 1083 § 62. Della finalità oggettiva che è semplicemente formale, a differenza di quella materiale. 1083 § 63. Della finalità relativa della natura, a differenza della finalità interna. 1087 § 64. Del carattere proprio delle cose in quanto fini della natura. 1090 § 65. Le cose, in quanto fini della natura, sono esseri organizzati. 1092 § 66. Del principio del giudizio sulla finalità interna negli esseri organizzati. 1095 § 67. Del principio del giudizio teleologico sulla natura considerata in generale come un sistema di fini. 1097 § 68. Del principio della teleologia come principio interno della scienza della natura. 1100 Sezione seconda. Dialettica del giudizio teleologico 1104 § 69. Che cos’è un’antinomia del Giudizio? 1104 § 70. Esposizione di questa antinomia. 1105 § 71. Preparazione alla soluzione della precedente antinomia. 1107 § 72. Dei diversi sistemi sulla finalità della natura. 1108 § 73. Nessuno dei precedenti sistemi mantiene ciò che promette. 1111 § 74. La causa dell’impossibilità di trattare dommaticamente il concetto d’una tecnica della natura e l’inesplicabilità

Glossario

d’uno scopo naturale. § 75. Il concetto d’una finalità oggettiva della natura è un principio critico della ragione pel Giudizio riflettente. § 76. Nota. § 77. Della proprietà dell’intelletto umano per cui il concetto d’un fine della natura è possibile per noi. § 78. Dell’unione del principio del meccanismo universale della materia col principio teleologico nella tecnica della natura. Appendice. Metodologia del giudizio teleologico § 79. Se la teleologia debba esser trattata come appartenente alla scienza della natura. § 80. Della subordinazione necessaria del principio del meccanismo al principio teleologico nell’esplicazione di una cosa come fine della natura. § 81. Dell’associazione del meccanismo col principio teleologico nella spiegazione d’un fine della natura, considerato come prodotto naturale. § 82. Del sistema teleologico nei rapporti esterni degli esseri organizzati. § 83. Dello scopo ultimo della natura in quanto sistema teleologico. § 84. Dello scopo finale dell’esistenza d’un mondo, vale a dire della creazione stessa. § 85. Della fisico-teologia. § 86. Dell’etico-teologia. § 87. Della prova morale dell’esistenza di Dio. § 88. Limitazione della validità della prova morale. § 89. Dell’utilità dell’argomento morale. § 90. Della qualità dell’adesione ad una prova teleologica dell’esistenza di Dio. § 91. Della qualità dell’adesione per mezzo di una fede pratica. Nota generale alla teleologia Sigle

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