Hitler e l’enigma del consenso

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Hitler e l’enigma del consenso

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Economica Laterza 381

Ian Kershaw

Hitler e l’enigma del consenso Traduzione di Nicola Antonacci

Editori Laterza

Titolo dell’edizione originale Hitler © 1991, 2001, Pearson Education Limited La traduzione dell’edizione riveduta e aggiornata apparsa nei «Robinson/Letture» nel 2004 è stata realizzata su concessione di Pearson Education Limited, United Kingdom. Il diritto di Ian Kershaw ad essere riconosciuto come autore di quest’opera viene affermato in accordo con il Copyright, Designs and Patents Act 1988. Nella «Economica Laterza» Prima edizione 2000 Nuova edizione, conforme all’edizione nei «Robinson/ Letture» del 2004, 2006 Terza edizione 2008 Altre edizioni: «Storia e Società» 1991 «i Robinson/Letture», nuova edizione riveduta e aggiornata, 2004

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel gennaio 2008 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-7887-6

L’Editore desidera esprimere la propria gratitudine a Peter Newark per avergli concesso il permesso di riprodurre tutte le fotografie e le illustrazioni che appaiono in questo volume. Le immagini in questione sono state fornite dalla Collezione fotografica, dalla Collezione di fotografie storiche e dalla Collezione di fotografie militari di Peter Newark.

in memoria di Martin Broszat e Tim Mason

Prefazione alla nuova edizione

Quando, verso la fine degli anni Ottanta, accettai di scrivere questo volume, facente parte della serie allora appena nata Profiles in Power, non potevo nemmeno lontanamente immaginare che, nei successivi dieci anni, la tanto odiosa figura di Adolf Hitler avrebbe occupato una porzione così grande delle mie ore di veglia (infatti, contrariamente a quanto supposto dai molti che me l’hanno chiesto, non mi è mai capitato di sognarlo!). Avevo iniziato la prima Prefazione del libro affermando di «non voler scrivere una biografia di Hitler», ma subito dopo avevo aggiunto che «senza dubbio ci sarebbe ancora posto per un nuovo studio di ampie dimensioni sulla figura del dittatore tedesco». E in effetti, mentre in un primo momento avevo declinato l’invito a scrivere una tale opera, il lavoro preparatorio per quel breve volume mi convinse a intraprendere il compito ingrato di scrivere una nuova biografia dell’uomo che più ha influito negativamente sulla storia del XX secolo. Se io avessi avuto anche il minimo presentimento della difficoltà dell’impresa, ci avrei certamente ripensato, poiché ci sono voluti tutti gli anni Novanta per compiere le ricerche inerenti a questo nuovo libro e per realizzarne la stesura. Aver scritto già uno studio sintetico come quello per la citata serie Profiles in Power, è però servito molto per mettere a punto il mio approccio concettuale alla successiva biografia in due volumi1. Sebbene il primo libro fosse volutamente non biografico e si sforzasse principalmente, come scrissi allora, di spiegare «la natura e i meccanismi, il carattere e la pratica del potere dittatoriale di Hitler», l’interpretazione che ho successivamente esposto su I. Kershaw, Hitler, 1889-1936: Hubris, London 1998; Hitler, 1936-1945: Nemesis, London 2000 (trad. it., Hitler 1936-1945, Milano 2001). 1

VII

una tela ben più ampia era già prefigurata in quel breve lavoro. Alla sua base – è spiegato nell’Introduzione – c’era la visione di Hitler come «leader carismatico», nell’accezione tecnica data a questa espressione dal sociologo tedesco Max Weber2. A tale concetto si affiancava, secondo quanto spiegato in altre pagine della stessa Introduzione, una seconda chiave interpretativa ispiratami da una frase pronunciata nel 1934 da un funzionario nazista in un discorso di routine («è compito di ognuno andare incontro al Führer»), l’idea cioè che il dinamismo del regime nazista fu in modi diversi, consapevolmente o spesso inconsapevolmente, accentuato da un numero incalcolabile di interpretazioni e «intuizioni» individuali sulle presunte intenzioni di Hitler, che così fu sollevato in molti casi dal bisogno di impartire ordini espliciti. Applicando congiuntamente i due concetti appena citati, sono riuscito a presentare Hitler come il prodotto di fatti sociali e non come figura demoniaca. Egli fu il frutto di una società che si trovava in una congiuntura del tutto peculiare, una società sconvolta da una fortissima crisi di valori ad ogni livello, dal piano culturale a quello politico, sociale ed economico. Prima del 1914 sarebbe stato impensabile che un personaggio come Hitler potesse diventare cancelliere della Germania. Anche se le idee che egli finì con l’incarnare nella sua persona erano tutte già formate e stavano guadagnando terreno nell’ambito della destra politica nel quarto di secolo precedente il primo conflitto mondiale, fu solo la bruciante esperienza della guerra, culminata nel trauma della sconfitta e della rivoluzione, a creare le circostanze che resero possibile l’affermazione di Hitler. Nei quattordici anni che seguirono il 1918, egli si impose progressivamente come il tamburino delle masse nazionaliste. Ciò che diceva non era originale, ma il suo modo di dirlo era unico. Riusciva a colpire emotivamente il suo uditorio con una forza senza precedenti, esaltandolo, eccitandolo e commuovendolo con la sua retorica della rinascita nazionale; nessun altro uomo politico 2 Si veda M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 19725 (trad. inglese, Economy and Society, Berkeley-Los Angeles 1978, spec. pp. 241-54, 26671, 1111-57; trad. it., Economia e società, Milano 1995).

VIII

poté stargli alla pari, anche quando propagava un messaggio simile al suo. Quel «signor nessuno» arrivato da Vienna si trasformò a poco a poco nel «Führer della Germania futura», il «personaggio più rappresentativo» della destra nazionalista3, capace di dar corpo ai timori, alle fobie, agli odi e ai pregiudizi, ma anche alle speranze, agli ideali e alle illusioni di settori sempre più ampi della popolazione tedesca. Nella fase di agonia di un regime democratico debole e disprezzato, Hitler seppe offrire a più di 13 milioni di tedeschi la speranza della salvezza nazionale. Nella mia ricostruzione mi sono sforzato di dare il giusto peso al ruolo svolto personalmente da Hitler nella sua ascesa al potere e nel successivo esercizio dello stesso, all’importanza decisiva delle sue ineguagliabili doti demagogiche, della sua capacità istintiva di sfruttare le debolezze degli avversari politici, della sua prontezza a rischiare una mossa audace nel momento in cui altri esitavano, della sua abilità a mettere i suoi rivali gli uni contro gli altri e, naturalmente, del suo potente e inflessibile credo ideologico. Ciò nondimeno, ho cercato anche di mettere in evidenza le forze che hanno consentito al potere hitleriano di espandersi fino al punto di diventare assoluto, cioè di mettere Hitler in grado di determinare da solo – fatto non comune ad altri dittatori – la condanna della propria nazione alla sconfitta, alla rovina e alla distruzione. In altre parole, il concetto di «potere carismatico» mi ha consentito di spiegare come divenne possibile il fenomeno Hitler, come un individuo destinato al fallimento esistenziale, per gli effetti devastanti della prima guerra mondiale sulla società tedesca e sulla sua stessa persona, giunse a esercitare un impatto così grande su uno Stato moderno e sofisticato. Se a ciò aggiungiamo la volontà di «andare incontro al Führer», capiremo perché uno Stato così evoluto (almeno per quei tempi) si piegò sempre più all’ideologia della rinascita nazionale, incarnata in quella figura di redentore laico che fu Hitler. Con queste due nozioni fra loro collegate, ho dimostrato anche come, una volta divenuto «possibile», il leader nazista riuscì a «conquistare» la Germania, come poi il suo potere divenne asJ.P. Stern, Hitler: The Führer and the People, London 1975, pp. 9-22, spec. p. 12. 3

IX

soluto, svuotando dall’interno tutte le strutture di governo ed emancipandosi da qualsiasi controllo. Sempre con gli stessi strumenti concettuali, infine, ho esposto i motivi per cui, una volta che quel potere si fece assoluto, la società che l’aveva prodotto non fu più capace di liberarsene. Quando i vincoli dell’autorità carismatica si dissolsero a causa delle continue disfatte militari, delle immense devastazioni e del moltiplicarsi delle sofferenze umane, il popolo tedesco, che pure si era legato così strettamente a Hitler, divenne superfluo agli occhi dello stesso dittatore, che preferì sprofondare nelle fiamme dell’inferno, piuttosto che trovare una qualsiasi via d’uscita politica dalla catastrofe incombente, condannando di conseguenza il suo paese alla rovina totale. Dal momento della sua pubblicazione, questo volumetto, così come la successiva biografia in due tomi, ha trovato un’accoglienza favorevole in Gran Bretagna ed è stato tradotto in molte lingue. Uno degli intenti principali che mi prefiggevo quando lo scrissi era quello di superare il dibattito, divenuto per molti aspetti sterile, che aveva diviso gli storici specialisti del nazismo tra i sostenitori dell’interpretazione «intenzionalista» e quelli dell’interpretazione «strutturalista» (o «funzionalista»), relativamente al problema delle strutture e delle agenzie del potere nazista4. È gratificante sapere che a questo fine molti hanno trovato utili i concetti da me proposti, e che, ancor più, hanno apprezzato la capacità di tali concetti di spiegare in modo esauriente la storia straordinaria di come Hitler riuscì a emergere dall’anonimato e a riscuotere così tanta popolarità all’interno della Germania, scatenare un secondo conflitto mondiale e istigare il più terribile genocidio di tutti i tempi. Gli attestati di stima per il mio lavoro mi hanno incoraggiato a pensare che il mio approccio interpretativo sia stato fruttuoso; ecco perché, mettendo mano a questa seconda edizione, ho deciso di non introdurre cambiamenti significativi nel testo originale. Tuttavia, in alcuni passaggi ho apportato delle lievi modifiche, al4 Questi termini sono spiegati nell’Introduzione e sono oggetto di un esame approfondito in I. Kershaw, The Nazi Dictatorship. Problems and Perspectives of Interpretation, London 20004, spec. capp. 4-6 (trad. it., Che cos’è il nazismo? Problemi interpretativi e prospettive di ricerca, Torino 1995).

X

lo scopo di inserirvi i risultati delle ricerche pubblicate dopo la prima edizione del libro nel ’91. Inoltre ho collocato in Appendice una breve rassegna sugli ultimi sviluppi della storiografia su Hitler e ho aggiunto una bibliografia scelta, comprendente soprattutto pubblicazioni di pregio o importanti apparse dopo il 1991. Ian Kershaw Manchester/Sheffield, giugno 2001

Cronologia degli avvenimenti essenziali *

1889 20/4

Adolf Hitler nasce a Braunau am Inn.

1907-1913 Hitler vive a Vienna.

1913 24/5

Trasferimento a Monaco di Baviera.

1914 16/8 2/12

Viene arruolato nel reggimento List (unità di riserva della fanteria tedesca). Viene decorato con la Croce di ferro di 2a classe.

1918 4/8 23/10

9/11

Viene decorato con la Croce di ferro di 1a classe. Reso temporaneamente cieco dall’esposizione a gas venefici, viene ricoverato nell’ospedale militare di Stettino, e poi in quello di Pasewalk (Pomerania), dove apprende la notizia della rivoluzione a Monaco. Proclamazione della Repubblica di Germania a Berlino e abdicazione dell’imperatore Guglielmo II.

1919 5/1

A Monaco Anton Drexler e Karl Harrer fondano il Parti-

* La presente Cronologia è basata in parte su quella, molto più dettagliata, riportata nel volume curato da M. Broszat e N. Frei, Das Dritte Reich im Überblick, München 1989, pp. 177-289.

XIII

6-7/4 5-12/6

28/6 12/9

to tedesco dei lavoratori (DAP), con un numero iniziale di 20-40 iscritti. Proclamazione della Repubblica dei Soviet a Monaco, soffocata nel sangue fra il 1° e il 2 maggio. Hitler frequenta i corsi di «formazione politica» della Reichswehr presso l’università di Monaco; subito dopo viene distaccato nella caserma di Lechfeld con l’incarico di indottrinare i soldati in attesa di smobilitazione. Firma del Trattato di Versailles. Hitler, in qualità di informatore della Reichswehr, frequenta le riunioni della DAP a Monaco; subito dopo si iscrive allo stesso partito.

1920 24/2 31/3 17/12

Proclamazione del programma della DAP, rinominata una settimana dopo NSDAP (Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori). Hitler lascia la Reichswehr. La NSDAP acquista la testata giornalistica «Münchener Beobachter», cambiandone il nome in «Völkischer Beobachter» (dall’8 febbraio 1923 quotidiano ufficiale del Partito).

1921 11/7 29/7 3/8

Hitler esce dalla NSDAP per contrasti politici con la direzione del Partito e detta, con una sorta di ultimatum, le condizioni per il suo rientro. Una conferenza straordinaria degli iscritti della NSDAP elegge Hitler presidente del Partito con poteri dittatoriali. Costituzione dei primi nuclei di quella che fra poco sarebbe diventata l’organizzazione paramilitare del Partito (SA).

1922 24-27/7 10/10

Hitler in carcere a Monaco per tumulti provocati in occasione di una manifestazione delle forze di opposizione nel settembre dell’anno precedente. Julius Streicher, esponente di punta dell’estremismo razzista e nazionalista a Norimberga, confluisce con il suo gruppo nella NSDAP e riconosce la leadership di Hitler. XIV

1923 11/1

27-29/1

1/3 26/9 8-9/11

Inizio dell’occupazione della Ruhr a opera di truppe francesi e belghe per costringere la Germania a versare le riparazioni per i danni di guerra; il governo del Reich proclama la «resistenza passiva». Si svolge a Monaco il primo raduno generale della NSDAP. Nel mese di febbraio le SA si uniscono con altre formazioni paramilitari bavaresi in vista di un sempre più probabile tentativo di putsch. Hermann Göring diventa comandante delle SA. In Baviera viene proclamato lo stato di emergenza. Putsch di Hitler: proclamazione della rivoluzione nazionale e annuncio della deposizione dei governi in carica nello Stato di Baviera e nel Reich; la marcia dei seguaci di Hitler attraverso le strade di Monaco si conclude sotto il fuoco della polizia, che uccide 16 dimostranti; Hitler viene arrestato insieme ad altri leader nazional-sciovinisti.

1924 26/2 1/4 20/12

Inizia a Monaco il processo per alto tradimento contro Hitler e altri autori del putsch. Hitler condannato a cinque anni di prigione e a una multa di 200 marchi-oro. Esce dal carcere di Landsberg am Lech.

1925 26/2 9/3

26/4 18/7

Ricostituzione della NSDAP. Le autorità bavaresi proibiscono a Hitler di tenere discorsi in pubblico; altri Länder del Reich seguono la Baviera, che revocherà il divieto il 5 marzo 1927; la Prussia farà lo stesso soltanto nel settembre del 1928. Paul von Hindenburg eletto presidente del Reich dopo la morte di Friedrich Ebert. Viene pubblicato il primo volume del Mein Kampf.

1926 14/2

Conferenza dei capi locali della NSDAP a Bamberg; Hitler mette fine alle speranze di riforma del programma del Partito nutrite da Gregor Strasser e altri. XV

3-4/7 10/12

Secondo raduno generale della NSDAP, a Weimar. Viene pubblicato il secondo volume del Mein Kampf.

1927 9/3 19-21/8

Primo comizio di Hitler a Monaco dopo la revoca del divieto del 1925. Terzo raduno generale della NSDAP, a Norimberga.

1928 28/5 16/11

Elezioni per il Reichstag: la NSDAP ottiene soltanto il 2,6% dei voti e 12 seggi. Primo comizio di Hitler a Berlino dopo la revoca del divieto impostogli dalle autorità prussiane.

1929 23/6 1-4/8 22/12

Coburg è la prima città tedesca dove la NSDAP ottiene la maggioranza alle elezioni comunali. Quarto raduno generale della NSDAP, a Norimberga. Il plebiscito contro il Piano Young (firmato il 7 giugno sulla base di un accordo con cui la Germania si obbligava a versare le riparazioni di guerra in 59 rate annuali) assegna soltanto il 13,8% dei consensi alla mozione di rifiuto proposta dalla NSDAP e da altri gruppi della destra nazional-sciovinista.

1930 23/1

30/3 16-18/7 14/9 25/9

Wilhelm Frick è il primo nazionalsocialista a rivestire la carica di ministro in uno degli Stati del Reich, in qualità di ministro dell’Interno di un governo di coalizione in Turingia. Heinrich Brüning forma un governo di minoranza dopo le dimissioni (27 marzo) della «grande coalizione» guidata dal Partito socialdemocratico. La NSDAP si unisce ad altri partiti nell’opposizione alla politica deflattiva proposta da Brüning; in conseguenza di ciò viene deciso lo scioglimento anticipato del Reichstag. Elezioni generali: la NSDAP ottiene il 18,3% e diventa il secondo partito del Reichstag con 107 seggi. Davanti alla Corte suprema di Lipsia, Hitler giura che la XVI

NSDAP non tenterà di prendere il potere con mezzi illegali.

1931 5/1 13/7 18/9 11/10

Ernst Röhm diventa capo di stato maggiore delle SA. Il crollo della Darmstädter und Nationalbank provoca un disastroso peggioramento della crisi economica. Geli Raubal, nipote di Hitler, si suicida nell’appartamento del Führer a Monaco. Raduno generale dell’«opposizione nazionale» (NSDAP, DNVP, Stahlhelm) a Bad Harzburg, nonostante le serie divisioni che travagliano quello che poi sarà chiamato il «Fronte di Harzburg».

1932 26/1 25/2

13/3

10/4 13/4 24/4 30/5 1/6 16-19/6

16/6

Hitler parla al Circolo degli industriali di Düsseldorf. Il governo a guida nazionalsocialista del Braunschweig offre a Hitler la carica formale di consigliere di Gabinetto; il giorno dopo il Führer presta giuramento di fedeltà allo Stato, e così facendo ottiene il diritto alla cittadinanza tedesca. Hitler ottiene il 30,1% dei voti alle elezioni presidenziali; si rende necessario il ballottaggio perché al primo turno Hindenburg (con il 49,6%) non riesce a conseguire la maggioranza assoluta necessaria per la rielezione. Secondo turno delle elezioni presidenziali: i consensi per Hitler salgono al 36,8%, ma Hindenburg è rieletto con il 53%. Le SA e le SS vengono messe al bando. Le elezioni in Prussia, Baviera, Württemberg, Anhalt e Amburgo conferiscono alla NSDAP il ruolo di primo partito (in Baviera di secondo) nei Parlamenti di quei Länder. Brüning rassegna le dimissioni dopo aver perso l’appoggio di Hindenburg. Viene nominato cancelliere Franz von Papen. A Losanna, in una nuova conferenza sulle riparazioni di guerra, la Germania ottiene la sospensione definitiva dei pagamenti (dopo che la moratoria Hoover del 24 luglio 1931 aveva congelato il pagamento delle riparazioni agli Stati Uniti). Revocata la messa al bando delle SA. XVII

20/7

31/7 13/8

12/9 6/11 17/11 19/11 2/12 8/12

«Colpo di Stato prussiano»: in forza di un decreto di emergenza, viene deposto il governo del Land di Prussia guidato dal socialdemocratico Otto Braun; i socialdemocratici impiegati nella pubblica amministrazione e nella polizia prussiana vengono licenziati; il cancelliere Papen assume il controllo del Land con il titolo di commissario del Reich per la Prussia. Elezioni generali: la NSDAP ottiene il 37,3% dei voti e 230 seggi, diventando il primo partito del Reichstag. In un colloquio con Hindenburg, Hitler rifiuta l’offerta della nomina a vicecancelliere di Papen, insistendo invece per ottenere la piena responsabilità come capo del governo. Hindenburg non cede. Papen scioglie nuovamente il Reichstag. Elezioni generali: i consensi per la NSDAP calano al 33,1% dei voti, ma il Partito, con i suoi 197 seggi, conserva il ruolo di prima forza del Parlamento. Papen si dimette dalla carica di cancelliere. Un gruppo di uomini d’affari, capitanati da Hjalmar Schacht, rivolge un appello a Hindenburg perché nomini Hitler cancelliere. Cancelliere diventa invece il generale Schleicher. Gregor Strasser si dimette da tutte le cariche ricoperte nella NSDAP.

1933 4/1 15/1 17-29/1

28/1 30/1

Papen e Hitler concludono un accordo di collaborazione governativa in un incontro svoltosi nella casa del banchiere di Colonia Kurt von Schröder. Le elezioni nel piccolo Stato del Lippe danno alla NSDAP il 39,5% dei voti. Una serie di manovre politiche messe in atto dall’asse formato da Hitler, Papen e l’entourage del presidente Hindenburg, portano all’isolamento di Schleicher e all’accordo per l’ascesa di Hitler al Cancellierato (con Papen suo vice), in un Gabinetto composto in prevalenza da esponenti conservatori. Schleicher si dimette. Hitler nominato cancelliere dal presidente Hindenburg. Nel nuovo «governo nazionale» entrano, oltre Hitler, soltanto due uomini della NSDAP (Frick e Göring). XVIII

27/2 28/2 5/3 5-9/3 20/3 23/3 1/4 1/5 2/5 10/5 22/6 14/7 20/7 14/10 12/11

Incendio del Reichstag; per i vertici nazionalsocialisti si tratta del segnale d’inizio di una rivolta comunista. Il Decreto per la protezione del popolo e dello Stato sospende i diritti civili. Seguono arresti in massa di militanti comunisti e di altri oppositori di sinistra. Elezioni generali: la NSDAP ottiene il 43,9% dei voti e 288 seggi al Reichstag; i suoi alleati nazionalisti l’8%. Presa del potere nei Länder non ancora sotto il controllo nazionalsocialista. Himmler annuncia la creazione del primo campo di concentramento a Dachau. Il Reichstag approva una legge per la concessione dei pieni poteri al governo, delegando a Hitler e ai suoi ministri l’intero potere legislativo. Boicottaggio nazionale dei negozi di proprietà di cittadini ebrei. Blocco delle iscrizioni alla NSDAP: l’afflusso di 1,6 milioni di nuovi iscritti a partire dal 30 gennaio 1933 aveva fatto salire il numero dei tesserati a 2,5 milioni. Scioglimento forzato delle organizzazioni sindacali. Rogo dei libri di autori «antitedeschi» nelle città universitarie. La SPD viene messa al bando; nelle settimane successive gli altri partiti decidono l’autoscioglimento. Con la legge che vieta la fondazione di nuovi partiti diversi dalla NSDAP, si introduce in Germania lo Stato monopartitico. Viene stipulato il Concordato nazionale con il Vaticano. La Germania esce dalla Società delle Nazioni e abbandona la Conferenza sul disarmo di Ginevra. Nuove «elezioni» per il Reichstag: la NSDAP ottiene il 92,2% dei voti; in un plebiscito annesso, il 95,1% degli elettori approvano l’uscita dalla Società delle Nazioni.

1934 20/1 26/1 30/1

La Legge per la disciplina del lavoro nazionale sposta l’equilibrio delle relazioni industriali a netto favore dei datori di lavoro. Patto di non aggressione tra la Germania e la Polonia La Legge per la ricostruzione del Reich abolisce la sovranità dei Länder. XIX

24/4 30/6 2/8

19/8

Creato un Tribunale della nazione competente per i reati di tradimento della patria. «Notte dei lunghi coltelli»: Ernst Röhm e altri capi delle SA vengono uccisi o imprigionati senza processo; le SA cessano di esistere come forza politica. Muore il presidente del Reich Hindenburg; la carica di presidente viene unita a quella di cancelliere; la Reichswehr presta ora un giuramento di fedeltà personale a Hitler, «Führer e cancelliere del Reich». Un plebiscito approva con l’89,9% dei voti l’unione delle cariche di presidente e cancelliere del Reich nella persona di Hitler.

1935 13/1 1/3 16/3 11-14/4 18/6 15/9

3/10

In conformità alle clausole del Trattato di Versailles, si tiene il plebiscito nella Saar: il 90,8% della popolazione si esprime a favore dell’annessione al Reich tedesco. La Saar ritorna alla Germania. Introduzione della coscrizione obbligatoria, con l’obiettivo di formare un esercito composto da 36 divisioni. Creazione del «Fronte di Stresa» fra i governi di Francia, Italia e Gran Bretagna per cercare di ottenere da Hitler il rispetto delle clausole di Versailles. Trattato navale anglo-tedesco: le dimensioni della flotta tedesca vengono fissate a un livello pari al 35% della forza navale britannica. Vengono promulgate le Leggi di Norimberga: gli ebrei non vengono riconosciuti come cittadini del Reich; vengono proibite le unioni matrimoniali e sessuali tra ebrei e non ebrei; si gettano le basi delle più ampie misure discriminatorie degli anni successivi. L’Italia invade l’Abissinia.

1936 6/1 7/3 29/3

L’Italia esce dal «Fronte di Stresa» e rinuncia al suo ruolo di garante dell’indipendenza austriaca in cambio dell’appoggio tedesco alla sua politica africana. La Germania rioccupa la zona smilitarizzata della Renania in palese violazione degli accordi di Locarno del 1925. Le «elezioni» per il Reichstag danno a Hitler il 99% dei voti. XX

17-18/7 1/8 9/9 1/11 25/11 1/12

Inizia la guerra civile in Spagna. Hitler inaugura i Giochi olimpici a Berlino. Varato il «Piano quadriennale», con l’obiettivo di indirizzare l’economia tedesca verso l’autarchia e di gettare le prime basi di un’economia di guerra. Mussolini annuncia la nascita dell’Asse Roma-Berlino. Patto anti-Comintern tra Germania e Giappone. La Hitler-Jugend, affiliata alla NSDAP, trasformata in organizzazione statale per la gioventù; alla fine dell’anno i suoi iscritti salgono a 5.437.601.

1937 30/1 14/3 1/5

24/6 15/7 25-29/9 5/11

6/11

Il Reichstag proroga per altri quattro anni la legge per la concessione dei pieni poteri al governo. Con l’enciclica Mit brennender Sorge papa Pio XI condanna la politica ecclesiastica del Terzo Reich e critica la sua politica razziale. Riapertura temporanea (ma resa permanente dal 1° maggio 1939) delle iscrizioni alla NSDAP, dopo il blocco imposto nel 1933. Il numero dei tesserati sale a 5,3 milioni nel 1939 e a 8,5 milioni nel 1945. Una direttiva segreta del ministro della Guerra Blomberg indica la Cecoslovacchia come possibile obiettivo militare. Fondazione, a Salzgitter, delle Officine nazionali Hermann Göring per la produzione dell’acciaio. Visita di Stato di Mussolini. «Conferenza di Hossbach» nella Cancelleria del Reich: Hitler fa presente ai responsabili delle forze armate e al ministro degli Esteri Neurath la necessità di risolvere con la forza «il problema dello spazio vitale» al più tardi nel 1943, prospettando come obiettivi immediati l’annessione dell’Austria e della Cecoslovacchia. L’Italia aderisce al Patto anti-Comintern di Germania e Giappone ed esce dalla Società delle Nazioni l’11 dicembre.

1938 4/2

Crisi Blomberg-Fritsch: vengono costretti alle dimissioni il ministro della Guerra Blomberg (a causa del suo matrimonio con una ex prostituta) e il capo dell’esercito Werner XXI

12/3 13/3 10/4 20/5 30/5 giugno 9/6 25/7 10/8 17/8 18/8 settembre 27/9 29-30/9 21/10 28/10 7/11 9-10/11

Fritsch (accusato ingiustamente di omosessualità con prove fasulle montate da Himmler e Göring); Hitler approfitta dell’occasione per sostituire al ministero degli Esteri il conservatore Neurath con Ribbentrop e per assumere egli stesso il Comando supremo della Wehrmacht. Dopo l’intimazione di un ultimatum e dopo le dimissioni forzate del cancelliere austriaco Schuschnigg il giorno precedente, truppe tedesche entrano in Austria. Legge per l’incorporazione dell’Austria nel Reich tedesco. Hitler ottiene più del 99% dei consensi nel plebiscito per l’Anschluß e per l’elezione del «Reichstag pangermanico». La Cecoslovacchia mobilita il suo esercito. In una direttiva diramata alla Wehrmacht, Hitler dichiara la sua intenzione di distruggere la Cecoslovacchia alla prima opportunità. Inizia la costruzione del «Vallo occidentale» lungo il confine occidentale della Germania. Demolizione della sinagoga di Monaco. Divieto dell’esercizio della professione per i medici ebrei. Demolizione della sinagoga di Norimberga. Gli ebrei vengono costretti ad aggiungere al loro nome il prenome «Israel» o «Sara». Il capo di stato maggiore Ludwig Beck rassegna le sue dimissioni perché contrario ai piani di guerra di Hitler contro la Cecoslovacchia. Crisi dei Sudeti. Divieto dell’esercizio della professione per gli avvocati ebrei. Il Patto di Monaco stabilisce che i Sudeti passeranno sotto il controllo tedesco a partire dal 1° ottobre. Hitler impartisce direttive segrete per preparare la distruzione di ciò che resta dello Stato cecoslovacco. 28.000 ebrei di cittadinanza polacca vengono trasferiti forzatamente in Polonia. Un ufficiale dell’ambasciata tedesca a Parigi, Ernst vom Rath, viene ferito a colpi di pistola da un giovane ebreo, Herschel Grynszpan, e muore due giorni dopo. «Notte dei cristalli»: pogrom antisemiti su tutto il territorio nazionale. Bilancio: 91 ebrei morti, innumerevoli maltrattati ed esposti a varie offese, 191 sinagoghe incendiaXXII

te, 7.500 negozi e altre proprietà di ebrei devastati e saccheggiati, circa 30.000 ebrei maschi arrestati e rinchiusi in campi di concentramento. Nei giorni successivi una serie di provvedimenti legislativi sancisce l’esclusione degli ebrei dalla vita economica e sociale della nazione. Dopo i 23.000 del 1937 e i 40.000 circa del 1938, quasi 80.000 ebrei lasceranno la Germania nel 1939.

1939 30/1 14-15/3

21/3 23/3 31/3 3/4 22/5 23/8 1/9 3/9 6/10 9/10 12-17/10 8/11

In un discorso pronunciato al Reichstag, Hitler «profetizza» la distruzione degli ebrei nel caso di una nuova guerra. Truppe tedesche invadono la Cecoslovacchia. Il 16 dello stesso mese viene istituito un «Protettorato del Reich per la Boemia e Moravia», mentre la Slovacchia proclama la sua indipendenza e stringe un trattato di amicizia con la Germania. Hitler rivendica la restituzione alla Germania di Danzica e del corridoio polacco. La Germania si annette il territorio di Memel in Lituania. Francia e Gran Bretagna si dichiarano garanti dell’indipendenza della Polonia, che respinge le rivendicazioni territoriali tedesche. Hitler dirama le direttive per l’attacco alla Polonia. La Germania e l’Italia stipulano un’alleanza militare (cosiddetto «Patto d’acciaio»). Germania e Unione Sovietica firmano un trattato di non aggressione (cosiddetto «Patto Hitler-Stalin»), che contiene una clausola segreta per la spartizione della Polonia. La Germania attacca la Polonia. Gran Bretagna e Francia dichiarano guerra alla Germania. I tedeschi completano la conquista della Polonia. Hitler auspica un attacco a breve scadenza contro le potenze occidentali, ma l’offensiva programmata inizialmente per il 12 novembre viene rimandata a più riprese. Prime deportazioni in Polonia di ebrei provenienti dall’Austria e dalla Cecoslovacchia. Esplode, nel Bürgerbräukeller di Monaco, una bomba collocata dal falegname svevo Georg Elser con l’intento di uccidere Hitler, ma il dittatore sfugge all’attentato. XXIII

1940 9/4 10/5 4/6 22/6

16/7 31/7 27/9 23/10 18/12

La Germania invade la Danimarca e la Norvegia. Inizia l’offensiva tedesca sul fronte occidentale. Violata la neutralità di Belgio, Olanda e Lussemburgo. Evacuazione delle truppe inglesi da Dunkerque. La Francia firma l’armistizio nella foresta di Compiègne; la cerimonia si svolge nello stesso vagone ferroviario su cui il maresciallo Foch accolse la capitolazione tedesca l’11 novembre 1918. Avviati i preparativi per l’invasione dell’Inghilterra («Operazione leone marino»), programmata per il 17 settembre, ma rimandata a tempo indefinito. Hitler notifica ai vertici militari la decisione di attaccare l’Unione Sovietica («Operazione Barbarossa»). Stipula del Patto tripartito tra Germania, Italia e Giappone. Hitler incontra Franco, ma non riesce a convincerlo a far entrare la Spagna in guerra. La direttiva di Hitler sull’«Operazione Barbarossa» fissa l’attacco alla Russia prima della conclusione della guerra con la Gran Bretagna.

1941 17-30/3

6/4 10/5

6/6

22/6 17/7 1/9

Hitler espone ai vertici delle forze armate i principi cui si dovrà uniformare la conduzione della guerra sul fronte orientale. La campagna di Russia dovrà essere una «guerra di annientamento». La Germania invade la Grecia e la Jugoslavia. Rudolf Hess, luogotenente del Führer per la NSDAP, raggiunge in aereo l’Inghilterra, dove viene imprigionato; Hitler lo dichiara infermo di mente e lo sostituisce con Martin Bormann, che ottiene il titolo di capo della Cancelleria del Partito. Il cosiddetto «Ordine sui commissari» (Kommissarbefehl) del Comando supremo della Wehrmacht dà istruzioni per la liquidazione dei commissari politici sovietici nell’esercito russo. Le truppe tedesche invadono l’Unione Sovietica. Alfred Rosenberg nominato ministro per i Territori orientali occupati. Gli ebrei tedeschi vengono obbligati a portare sugli abiti XXIV

2/10-5/12

14/10 dicembre 11/12 16/12

la stella di David gialla, dopo che un simile obbligo è stato imposto agli ebrei polacchi dal 23 novembre 1939. La battaglia per la presa di Mosca segna il fallimento della guerra-lampo tedesca sul fronte orientale e mette in crisi i vertici militari nazisti, impreparati a proseguire le ostilità nell’inverno ormai inoltrato. Diramato l’ordine per la deportazione degli ebrei dal territorio del Reich ai ghetti dell’Europa orientale. Nei primi del mese entrano in funzione a Chelmno, in Polonia, i primi «vagoni a gas» per lo sterminio in massa degli ebrei. I tedeschi dichiarano guerra agli Stati Uniti dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor (7 dicembre). Hitler si oppone a ulteriori ritirate tedesche di fronte alla controffensiva sovietica; il capo dell’esercito Walther von Brauchitsch è costretto a dimettersi (19 dicembre); Hitler assume il Comando supremo delle forze di terra.

1942 20/1

Conferenza di Wannsee a Berlino per coordinare le misure relative alla «soluzione finale della questione ebraica». 8/2 Albert Speer, noto come «l’architetto di Hitler», viene nominato ministro per le Armi e Munizioni, al posto di Fritz Todt, morto in un incidente aereo. Sotto la direzione di Speer la produzione bellica tedesca fa segnare un netto incremento. 17/3 La prima uccisione di massa di ebrei rinchiusi nei ghetti della Polonia meridionale, a Belzec, segna l’inizio della cosiddetta «Azione Reinhard», con cui Odilo Globocnik, capo delle SS e della polizia nel distretto di Lublino, organizza la strage sistematica degli ebrei polacchi nei campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka. fine marzo Prime deportazioni di ebrei dall’Europa occidentale e dalla Germania ad Auschwitz. 26/4 Il Reichstag fa di Hitler la suprema autorità giudiziaria della nazione, autorizzandolo a ignorare il rispetto formale delle leggi ogni volta che lo riterrà necessario. 27/5 Attentato a Praga contro Reinhard Heydrich, capo dell’Ufficio centrale della Sicurezza nazionale. Heydrich XXV

giugno 28/6 luglio-ag. 24/9

5/10 23/10 22/11

muore il 4 giugno, e per rappresaglia la polizia tedesca rade al suolo il villaggio di Lidice (10 giugno). Entrano in funzione le camere a gas per lo sterminio di massa degli ebrei nel campo di Auschwitz-Birkenau. Riprende l’offensiva tedesca in Unione Sovietica. L’esercito tedesco avanza verso Stalingrado. Il capo di stato maggiore dell’esercito Franz Halder viene sostituito dal generale Kurt Zeitzler dopo un’aspra serie di discussioni fra Hitler e lo stesso stato maggiore su questioni tattiche e strategiche. Himmler ordina la deportazione ad Auschwitz di tutti gli ebrei rinchiusi nei campi di concentramento del Reich. Inizia la controffensiva inglese nell’Africa settentrionale. La VI Armata tedesca, forte di circa 250.000 uomini, si ritrova accerchiata nella regione di Stalingrado.

1943 14-26/1 31/1-2/2 18/2 marzo 13/4 19/4

13/5 10/7 5-13/7

25/7

Roosevelt e Churchill chiedono da Casablanca la «resa incondizionata» della Germania. Capitolazione della VI Armata a Stalingrado. Dopo la disfatta sul fronte orientale, Goebbels intensifica gli sforzi propagandistici del Regime annunciando l’inizio della «guerra totale». Chiusura di numerosi ghetti in Europa orientale; i sopravvissuti prendono la via dei campi di sterminio, mentre inizia la deportazione degli ebrei olandesi a Sobibor. Scoperte a Katyn, presso Smolensk, fosse comuni contenenti i cadaveri di migliaia di ufficiali polacchi. Insurrezione dei 60.000 ebrei rimasti nel ghetto di Varsavia dopo la deportazione a Treblinka di 300.000 loro compagni di prigionia. Nonostante la brutale repressione attuata dalla polizia e dalle SS, la rivolta dura fino al 16 maggio. Capitolazione tedesca in Tunisia. Sbarco alleato in Sicilia. Fallisce l’offensiva tedesca denominata «Cittadella» dopo una grande battaglia di carri armati a Kursk, che spiana la strada all’avanzata sovietica verso Kiev, riconquistata il 6 novembre. Destituzione di Mussolini in Italia. XXVI

24/8

Il Reichsführer delle SS Heinrich Himmler subentra a Wilhelm Frick nel ruolo di ministro dell’Interno. 10/9 Truppe tedesche occupano l’Italia settentrionale dopo l’annuncio dell’armistizio fra il governo Badoglio e gli Alleati (8 settembre). 15/9 Reparti di paracadutisti tedeschi liberano dalla prigionia Mussolini, che il 26 settembre fonda a Salò una «Repubblica fascista» sotto il controllo militare tedesco. 28/11-1/12 Conferenza interalleata a Teheran: accordo di massima fra Roosevelt, Churchill e Stalin sulla spartizione della Germania a guerra conclusa.

1944 19/3 Occupazione tedesca dell’Ungheria. apr.-giugno Deportazioni in massa di ebrei greci e ungheresi ad Auschwitz. 6/6 Sbarco alleato sulle coste della Normandia. 10/6 Unità della divisione corazzata delle SS «Das Reich» radono al suolo il villaggio di Oradour-sur-Glane, uccidendo 600 civili (compresi donne e bambini), per rappresaglia contro l’intensificazione delle attività della Resistenza francese. 12/6 Primi missili V1 lanciati verso obiettivi inglesi. 22/6 L’inizio della grande offensiva sovietica contro il fronte centrale tedesco infligge alla Wehrmacht perdite catastrofiche. 20/7 Esplode una bomba collocata dal colonnello conte Claus Schenk von Stauffenberg nel quartier generale del Führer nella Prussia orientale. L’attentato e il conseguente colpo di Stato falliscono (Hitler viene soltanto ferito). La sera stessa vengono fucilati Stauffenberg e altri ufficiali coinvolti nel tentativo. Seguono ulteriori arresti, processi e condanne a morte ai danni di altri complici. 24/7 L’Armata Rossa libera il campo di sterminio di Majdanek. 25/7 Goebbels ottiene carta bianca per la mobilitazione di tutte le riserve disponibili ai fini della guerra totale. 31/7 Gli americani sfondano nei pressi di Avranches e si avviano a una rapida riconquista della Francia. 1/8 Insorge la Guardia nazionale polacca a Varsavia, ma è costretta alla resa (2 ottobre) per il mancato appoggio da parte di Stalin. XXVII

19/8 25/8 8/9 25/9

16/10

21/10 1/11 16/12

L’insurrezione partigiana a Parigi costringe il comandante tedesco, generale Dietrich von Choltitz, a firmare il cessate il fuoco nella regione della capitale francese. Truppe americane e francesi (al comando di De Gaulle) entrano a Parigi. Primi missili V2 lanciati su Londra e Anversa. Tutti i cittadini maschi tedeschi compresi tra i 16 e i 60 anni di età vengono arruolati nei reparti del Volkssturm, andando a formare un esercito popolare mal equipaggiato e poco addestrato. L’ammiraglio Horthy, capo del governo ungherese, è costretto a revocare l’armistizio con l’Unione Sovietica e a cedere il potere a Férencz Szálasi, leader del movimento fascista delle Croci frecciate. Aquisgrana è la prima grande città tedesca a essere occupata dagli Alleati. Himmler fa sospendere l’attività delle camere a gas ad Auschwitz e ordina di cancellare le tracce delle stragi ivi perpetrate. Hitler dà il via all’offensiva delle Ardenne, che dopo i successi iniziali si risolve rapidamente in un nuovo fallimento militare.

1945 12/1 27/1 30/1 4-11/2

7/3 19/3

11/4

Inizia la grande offensiva sovietica sul fronte orientale. L’Armata Rossa libera gli ultimi 5.000 prigionieri rimasti nel campo di concentramento di Auschwitz. Hitler pronuncia il suo ultimo discorso radiofonico. Conferenza di Yalta fra i capi alleati; deciso l’assetto geopolitico del dopoguerra; per quanto riguarda la Germania, Roosevelt, Stalin e Churchill decidono di includere la Francia tra le quattro potenze occupanti. Truppe americane attraversano il Reno a Remagen. Hitler dirama la «Direttiva Nerone», con cui dispone la distruzione di tutti gli impianti industriali tedeschi allo scopo di non farli cadere nelle mani dei nemici; nelle settimane seguenti Speer si adopera con successo per bloccare o ritardare l’esecuzione dell’ordine. I prigionieri del campo di concentramento di Buchenwald (nei pressi di Weimar) consegnano il campo agli XXVIII

13/4 15/4 16/4 25/4 28/4 29/4 30/4 2/5 7-9/5

americani dopo aver costretto alla fuga i reparti di vigilanza nazisti. L’Armata Rossa occupa Vienna. Truppe inglesi liberano il campo di concentramento di Bergen-Belsen. Inizia la battaglia di Berlino. Reparti americani e sovietici si incontrano a Torgau, sull’Elba. Mussolini catturato e fucilato dai partigiani italiani. Hitler annuncia il passaggio dei poteri all’ammiraglio Dönitz ed esorta il popolo tedesco alla «strenua resistenza» contro il «giudaismo internazionale». Hitler si suicida nel bunker della Cancelleria a Berlino. L’Armata Rossa prende Berlino. Capitolazione tedesca nel quartier generale americano a Reims e nel quartier generale sovietico a Berlino.

Sigle e abbreviazioni

BAK BVP DAP DBS DDP DNVP DVP Gestapo IMG JK KPD MK

MK Watt N&P NSDAP

Bundesarchiv Koblenz (Archivio federale di Coblenza) Bayerische Volkspartei (Partito popolare bavarese) Deutsche Arbeiterpartei (Partito tedesco dei lavoratori) Deutschland-Berichte der Sozialdemokratischen Partei Deutschlands 1934-1940, 7 voll., Frankfurt am Main 1980 Deutsche Demokratische Partei (Partito democratico tedesco) Deutschnationale Volkspartei (Partito popolare tedesco-nazionale) Deutsche Volkspartei (Partito popolare tedesco) Geheime Staatspolizei (Polizia segreta di Stato) Der Prozess gegen die Hauptkriegsverbrecher vor dem Internationalen Militärgerichtshof, 42 voll., Nürnberg 1947-49 Eberhard Jäckel e Axel Kuhn (a cura di), Hitler. Sämtliche Aufzeichnungen 1905-1924, Stuttgart 1980 Kommunistische Partei Deutschlands (Partito comunista tedesco) Adolf Hitler, Mein Kampf, 85a-94a ed., München 1934 (trad. it. ridotta, La mia battaglia, Milano 1934; un’edizione più recente è quella a cura di G. Marden, Monfalcone 1984) Adolf Hitler, Mein Kampf, London 1969, con una introduzione di D.C. Watt Jeremy Noakes e Geoffrey Pridham (a cura di), Nazism 1919-1945: A Documentary Reader, 3 voll., Exeter 1983-88 Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei (Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori) XXXI

SA SD SPD SS

Sturmabteilung (Squadre d’assalto) Sicherheitsdienst (Servizio di sicurezza) Sozialdemokratische Partei Deutschlands (Partito socialdemocratico tedesco) Schutzstaffeln (Reparti di protezione)

Hitler e l’enigma del consenso

Introduzione

Il potere di Hitler: un enigma

Fra i grandi della storia politica universale, Hitler rappresenta un caso davvero unico. Fino ai trent’anni la sua fu un’esistenza assolutamente oscura, ma a partire da allora e per tutti i ventisei anni successivi il suo destino cambiò, ed egli finì col lasciare un marchio indelebile nella storia dell’umanità, come dittatore della Germania e istigatore di una guerra di sterminio che segnò la più drammatica eclisse dei valori della civiltà mai verificatasi nei tempi moderni, e che si concluse con la distruzione del suo Paese e di gran parte dell’Europa. Nato nel 1889 da una modesta ma rispettabile famiglia piccolo-borghese nella cittadina austriaca di Braunau am Inn, posta al confine con la Germania, nella prima parte della sua vita Adolf Hitler non fece nulla che potesse anche solo lontanamente far presentire il destino di tragica grandezza che a distanza di qualche decennio lo avrebbe reso quasi padrone del mondo. Tutto, invece, lasciava prevedere un futuro di mediocrità e di grigiore. A sedici anni Hitler lasciò senza troppi rimpianti la scuola superiore. La sua esperienza scolastica era stata infelice e le sue prestazioni non si erano mai elevate al di sopra della sufficienza. Nel 1907 e nel 1908 fu respinto agli esami di ammissione all’Accademia di Arti grafiche di Vienna, fatto che ferì profondamente il suo orgoglio. Rimasto nella capitale, nei successivi cinque anni egli condusse una vita da escluso: un solitario circondato da pochissimi amici e conoscenti, un emarginato convinto del proprio talento artistico e pieno di astio verso quella società borghese che lo aveva rifiutato. Nel 1913 scappò a Monaco per sottrarsi alla chiamata di leva nell’esercito austriaco, che a ogni buon conto nel 1914 lo avrebbe dichiarato «di costituzione troppo debole» e perciò inabile al servizio1. Qualche mese dopo, come testimonia una 3

4

1. Adolf Hitler da bambino, con l’annuncio della sua nascita pubblicato su un giornale locale. 2. Hitler (in posizione centrale nell’ultima fila in alto) all’età di dieci anni, alunno della seconda classe a Leonding (1889). 5

foto divenuta famosa, il suo volto eccitato compare in mezzo alla folla esultante raccolta nella Odeonsplatz di Monaco il 2 agosto 1914, all’indomani cioè della dichiarazione di guerra tedesca alla Russia2. Di lì a poco Hitler partì per il fronte, arruolandosi come volontario nell’esercito bavarese. Inquadrato con il grado di appuntato in un reggimento di fanteria, fu decorato due volte (anche con la Croce di ferro di 1a classe) per il coraggio mostrato in combattimento, ma non venne ritenuto idoneo alla promozione, perché non in possesso delle necessarie «capacità di comando»3. I suoi commilitoni lo consideravano un tipo strano, bizzarro e introverso, sprofondato nella lettura di Schopenhauer4, mentre tutti gli altri parlavano di ragazze e della casa lontana. Pochi si accorgevano di lui, nonostante le opinioni estremistiche che già coltivava e che in qualche occasione espresse a terzi, in particolare sulla necessità di fare piazza pulita dell’«internazionalismo interno» a guerra finita5. Niente, allora, poteva far prevedere che quell’uomo era destinato a fare carriera. Tuttavia proprio la guerra, scrisse Hitler qualche anno dopo, rappresentò il periodo «più indimenticabile» e «più grande» della sua vita6. Negli anni Quaranta, rinchiuso nel suo quartier generale in Prussia orientale, i suoi giorni da appuntato dovettero tornargli prepotentemente alla memoria, a consolarlo delle frustrazioni e dei fallimenti patiti nella sua veste di condottiero. Senza alcun dubbio, la prima guerra mondiale fu un momento cruciale per la formazione di Hitler, un’esperienza che avrebbe rafforzato oltre ogni dire quall’amalgama latente di pregiudizi profondamente radicati e di brucianti ossessioni che agitava la sua debole personalità. Per uno che aveva «ritrovato se stesso» sui campi di battaglia, le notizie della sconfitta tedesca e della rivoluzione – che lo raggiunsero mentre si trovava ricoverato in un ospedale militare della Pomerania per lesioni agli occhi provocate dall’iprite – dovettero rappresentare un colpo terribile. Per qualche tempo egli ne restò sconvolto e traumatizzato: il risentimento che prima lo aveva tormentato interiormente, proruppe ora alla luce del sole con inusitata violenza. Dimesso dall’ospedale, Hitler restò al servizio dell’esercito con compiti di sorveglianza ordinaria sui gruppi estremistici attivi a Monaco, e attraverso questo lavoro entrò in contatto con il neoi6

stituito Partito tedesco dei lavoratori, una delle tante formazioni settarie di estrema destra nazional-sciovinista sorte nella Germania del tempo. Il suo ingresso in quello che di lì a poco sarebbe diventato il Partito nazionalsocialista gli spalancò le porte di quel peculiare proscenio politico che erano le grandi birrerie della capitale bavarese. Attraverso questa esperienza, egli acquisì l’autostima e la sicurezza di sé propria dell’agitatore politico, soprattutto quando coloro che lo circondavano cominciarono a riconoscergli una capacità insolita di esprimere i più volgari pregiudizi e risentimenti populistici attraverso formule demagogiche capaci di far presa immediata sugli ascoltatori. In quei mesi, tuttavia, nulla faceva ancora pensare al successo travolgente degli anni successivi. Egli non aveva alcuna esperienza politica, nessuna posizione di prestigio, nessun accesso alle stanze del potere. Eppure gli anni che visse fino alla morte lo videro, in rapida sequenza, attrarre l’attenzione delle folle come oratore da birreria; riscattare l’ignominioso fallimento del famoso putsch del 1923 con i successi propagandistici fatti segnare in occasione del relativo processo e con la riuscita ricomposizione delle fratture interne al Partito una volta uscito di prigione; emergere durante la grande crisi economica come il capo di una possente macchina da guerra politica e come serio candidato alla più alta carica dello Stato tedesco; assumere, in tempi sorprendentemente brevi, il controllo dittatoriale di un apparato di governo altamente sviluppato, elaborato e sofisticato; guidare un’opera di ricostruzione economica e militare che colse alla sprovvista tanto i suoi sostenitori quanto i suoi nemici; sconvolgere l’assetto geopolitico dell’Europa postbellica e rivoluzionare la diplomazia mondiale; diventare oggetto di adulazione sfrenata da parte della maggioranza dei suoi compatrioti e di grande ammirazione, e di ancora più grande avversione, da parte degli altri rimasti; precipitare la Germania, l’Europa e le più grandi potenze del mondo in una guerra dagli effetti distruttivi inusitati; tenere in suo potere quasi tutto il continente europeo per quattro anni; istigare il più terribile genocidio mai perpetrato nella storia dell’umanità; e, alla fine, far crollare la Germania nella più completa disfatta militare e nella perdita temporanea dell’indipendenza nazionale, suicidandosi fra le macerie del suo Paese, poco prima di cadere nelle mani del nemico più odiato. 7

Come è possibile che in così breve tempo – ma quanto dovette sembrare interminabile ai suoi avversari e alle sue vittime! – un personaggio di tal fatta arrivò a prendere in mano le sorti di una delle nazioni più economicamente sviluppate e culturalmente avanzate del mondo? Come riuscì Hitler a diventare per qualche anno l’uomo più potente d’Europa? Origini sociali, educazione, istruzione, ambiente: tutto parlava contro di lui, compreso il fatto di non essere tedesco, almeno fino a quando non gli venne concessa la cittadinanza nel 1932. Il futuro dittatore non apparteneva a una di quelle famiglie da cui in Germania uscivano solitamente i membri della classe dirigente, né la sua figura emerse dall’interno delle tradizionali élites di potere. Egli era un vero outsider: tutto ciò che ebbe da offrire per lungo tempo non fu altro che una serie di fobie ideologiche profondamente radicate e un talento demagogico fuori dall’ordinario, una capacità unica di evocare gli istinti più bassi delle masse, accoppiata a modi di fare per certi versi stravaganti. Ciò nonostante, a distanza di quindici anni dalla sua uscita dal più completo anonimato, egli sarebbe succeduto come capo dello Stato al feldmaresciallo Hindenburg, colonna portante del vecchio regime; e a distanza di due decenni dai suoi esordi politici, quell’ex appuntato dell’esercito avrebbe impartito ordini a generali tedeschi dai nobili natali nell’infuriare del secondo grande conflitto europeo, presto trasformatosi in una guerra mondiale di cui egli deve essere considerato, più di ogni altra singola persona, artefice e responsabile. La figura e il potere di Hitler sollevano una serie di problemi di difficilissima soluzione. La domanda «come è stato possibile Hitler?» assillò già gli oppositori coevi del nazismo e ha continuato a ossessionare gli storici fino ai nostri giorni. Oltre quello relativo alle modalità di ascesa al potere, altri interrogativi complessi riguardano il carattere, la portata e le forme di esercizio del dominio hitleriano. Nel 1933 sia in Germania che all’estero molti osservatori davano per certo che il successo di Hitler fosse un fenomeno destinato a una breve durata, che questi avesse tutte le carte in regola come agitatore ma non come uomo di governo, e che sarebbe stato spodestato e messo da parte dai gruppi di potere tradizionali, una volta superata la fase cruciale della crisi. Questi giudizi erano senza dubbio espressione di un fatale errore di calcolo, ma ci fanno capire quanto sia difficile spiegare il fatto che 8

Hitler, una volta divenuto cancelliere, riuscì a consolidare e ad ampliare le basi del suo dominio. Tali considerazioni suscitano ulteriori domande sui presupposti di quel potere, sulle modificazioni dei rapporti di forza all’interno dei potentati che lo sostenevano in Germania, sul modo in cui tali mutamenti incisero sulla portata e sull’esercizio del dominio hitleriano, e sugli effetti che la forma peculiare di autorità incarnata da Hitler produsse sulle esistenti strutture governative e amministrative. L’analisi di tali questioni ci permetterà di stabilire le relazioni fra il potere hitleriano e le «forze sociali» impersonali che lo forgiarono e lo condizionarono, il grado di autonomia di cui il dittatore godette nell’esercizio individuale del potere e il ruolo che questo dominio personale ebbe nel condurre la Germania nell’abisso della guerra e della sconfitta finale. Nei loro tentativi di dare risposta a tali questioni, gli storici hanno sempre dovuto fare i conti con la difficoltà a trovare il giusto equilibrio interpretativo tra il ruolo delle singole personalità e l’importanza delle strutture e delle forze oggettive come fattori determinanti dello sviluppo storico. Benché questo problema si ritrovi nell’analisi di tutti i periodi storici, nel caso della Germania nazista esso si ripropone in modo particolarmente acuto, sicché proprio l’accento posto sul ruolo delle individualità o dei «fattori impersonali» è diventato l’elemento caratterizzante e discriminante tra le diverse interpretazioni proposte dagli studiosi7. A un estremo si collocano le spiegazioni di matrice marxistaleninista maturate in seno al Comintern negli anni fra le due guerre e riprese sino ai tempi più recenti soprattutto dagli storici della ex Germania Est. Privilegiando nettamente le strutture sugli individui, gli storici marxisti hanno minimizzato l’importanza del ruolo svolto da Hitler e hanno negato l’esistenza di qualsiasi spazio per l’esercizio di un potere personale autonomo. Secondo tale interpretazione, quale che fosse stato il tipo di dominio esercitato da Hitler, esso non fu altro che l’espressione del potere dei gruppi più reazionari del capitale finanziario e imperialistico tedesco. Questi gruppi avrebbero preparato l’ascesa di Hitler al potere, utilizzandolo come portavoce e «agente» nell’opera di distruzione della classe operaia organizzata e fornendogli gli strumenti di base per risollevare l’economia capitalistica dalla più grave crisi mai conosciuta e per avviare quell’espansione che avreb9

be dovuto assicurare l’egemonia del capitalismo tedesco in Europa e, quindi, nel mondo. In tale quadro, i «veri» padroni della Germania hitleriana furono i magnati dell’industria e della finanza, che piegarono la politica nazista ai loro interessi, cioè a quelli della grande impresa capitalistica. Dopo aver fatto di Hitler un dittatore al loro servizio, essi continuarono a determinare i limiti entro i quali la sua azione avrebbe potuto svolgersi. Per i marxisti, dunque, il potere personale di Hitler è una chimera: come variabile indipendente esso non esistette, e basta. Tale spiegazione ha incontrato pochi consensi tra gli storici occidentali. Per quanto la storiografia della ex Repubblica democratica tedesca si sia sforzata di mettere in luce le complicità del grande capitale con la dittatura nazista, non convince sia la sua sopravvalutazione delle capacità di influenza degli industriali, sia la sua totale chiusura di fronte al fatto che, in circostanze particolari, una forma personale di dominio può emanciparsi dagli interessi economici, acquistando un’autonomia relativamente ampia e finendo col subordinare questi ultimi a priorità ideologiche ed extra-economiche. Nei Paesi dove invece ha dominato la storiografia liberale, l’importanza attribuita al ruolo autonomo delle singole personalità nella storia è stato di solito esaltato ben al di là di quanto potrebbe essere accettato anche dal marxismo più critico. Mentre gli storici dell’ex Germania Est non hanno scritto nemmeno una biografia di Hitler, la persona del dittatore tedesco iniziò ad affascinare gli studiosi non marxisti sin dagli anni in cui questi era ancora in vita, e da allora la serie delle ricostruzioni biografiche non si è mai interrotta, né sembra voglia farlo in futuro. Tali opere hanno scandagliato a fondo nei più minuti dettagli la vita di Hitler ed esaminato meticolosamente le componenti del suo bagaglio ideologico, spingendosi in qualche caso sul terreno di una «psicostoria» dai tratti meramente speculativi. Tuttavia, tanta abbondanza di studi non ha portato a superare alcune debolezze interpretative, in questo caso di natura opposta a quelle denunciate dalla storiografia marxista-leninista. Nei primi anni del dopoguerra, la spiegazione del nazismo e delle sue funeste conseguenze arrivò più di una volta a identificarsi così strettamente con la persona di Hitler, da ingenerare l’idea che l’influenza diabolica di quel singolo uomo fosse stata ca10

3. Hitler tra la folla esultante nella Odeonsplatz di Monaco, il giorno dopo la dichiarazione di guerra della Germania alla Russia (2 agosto 1914). 11

pace di traviare un’intera nazione, altrimenti destinata al progresso e alla felicità. L’ex ministro per le Armi e Munizioni Albert Speer, ad esempio, durante la sua detenzione a Spandau definì Hitler «una figura demoniaca», «uno di quei fenomeni storici inspiegabili che emergono a rari intervalli nel genere umano», la cui personalità «aveva determinato il destino di una nazione»8. Questa demonizzazione di Hitler ha da lungo tempo lasciato spazio a una comprensione più sofisticata del posto da lui occupato nella storia della Germania moderna. Eppure, a volte, anche le migliori biografie corrono il pericolo di elevare il potere di Hitler a un’altezza dalla quale tutta la storia della Germania fra il 1933 e il 1945 non appare altro che l’espressione della sua volontà dittatoriale. In tale prospettiva, il Terzo Reich rischia di essere interpretato come una semplice versione moderna della più vecchia tirannia personale. Il contrasto tra approccio biografico, da un lato, e approccio «impersonale» marxista-leninista, dall’altro, è stridente quanti altri mai. Mentre nella storiografia della Germania Est Hitler era considerato poco più che una cifra nella contabilità degli interessi capitalistici, la più autorevole biografia hitleriana comparsa all’Ovest9 ignora pressoché totalmente le istanze del capitale, che sono invece viste implicitamente, ma anche esplicitamente, come pienamente subordinate agli imperativi politici e ideologici del dittatore. Sulla scorta di queste interpretazioni divergenti, dunque, il potere di Hitler appare o come elemento del tutto trascurabile o come fattore cruciale che autorizza a sussumere l’intero fenomeno nazista nella categoria dell’«hitlerismo». La personalizzazione del fenomeno nazista determinata dalla sopravvalutazione dell’importanza delle intenzioni e dei moventi ideologici del dittatore tedesco rappresenta tuttora il punto focale del dibattito fra gli storici del Terzo Reich. Uno studioso marxista non dogmatico e non leninista ha ammesso candidamente che «non si ha ancora la più pallida idea di come si possa fare un’analisi marxista del potere personale del leader nazista nel periodo fra le due guerre»10. Di conseguenza, la riflessione sul ruolo di Hitler e sulla natura ed estensione del suo potere personale è stata finora dominio pressoché assoluto della storiografia non marxista. In tempi più recenti gli approcci interpretativi vengono comunemente – ma in modo non del tutto soddisfacente – classifi12

cati sotto due grandi categorie, «intenzionalista» la prima, «strutturalista» (o «funzionalista») la seconda. Le interpretazioni «intenzionaliste» danno per scontato il ruolo dominante del potere assoluto hitleriano all’interno del Terzo Reich11 e considerano la storia del nazismo al potere come la storia della realizzazione programmata e consequenziale delle visioni ideologiche del dittatore. Come ha detto un esponente di punta di questa scuola di pensiero, «ciò che in ultima analisi contò fu solo ed esclusivamente la Weltanschauung hitleriana»12. Per questi studiosi, dunque, Hitler è l’incarnazione più classica del potere in uno Stato totalitario. Sull’altro fronte, l’approccio «funzionalista» ha sottolineato come le decisioni politiche del dittatore fossero condizionate da fattori strutturali, per esempio di carattere economico, o dal «funzionamento» peculiare di alcuni meccanismi-base del sistema di potere nazista, quali la necessità, da parte di Hitler, di evitare qualsiasi azione che potesse mettere in pericolo la propria posizione e il proprio prestigio. L’ideologia hitleriana non appare più un «programma» organicamente realizzato, ma piuttosto una sorta di canovaccio per l’azione che solo per gradi si materializzò in obiettivi effettivamente praticabili. L’analisi di questo processo decisionale non lineare collocato all’interno di un sistema di potere caotico ha, quindi, portato a mettere seriamente in dubbio l’ampiezza del raggio d’azione del dittatore, la sua autonomia da condizionamenti esterni e la sua capacità di incidere realmente sulle scelte politiche. Secondo tale interpretazione, Hitler «cercava il più possibile di non prendere decisioni, si dibatteva spesso nell’incertezza, si preoccupava esclusivamente di conservare il proprio prestigio e la propria autorità ed era fortemente soggetto all’influenza di coloro che di volta in volta lo circondavano». Egli, insomma, sarebbe stato tutt’altro che un dominatore dal potere illimitato, ma fu «per certi versi un dittatore debole»13. Spesso la polarizzazione di un dibattito su due posizioni radicalmente opposte ha sortito effetti euristici positivi, mentre in altri casi è stato vero piuttosto il contrario. A ogni buon conto, sembra giunto il momento di fare un passo avanti. Possiamo cominciare col riconoscere senza ombra di equivoci il posto di assoluto rilievo occupato da Hitler nella storia tedesca negli anni 1933-45. Come si sarebbe potuto edificare uno Stato di terrore poliziesco sotto Himmler e le SS senza Hitler a capo del governo? Se fosse 13

stata soggetta a un diverso regime autoritario, alla fine degli anni Trenta la Germania si sarebbe lo stesso fatta coinvolgere in una guerra generale? Con un altro leader alla testa del Paese la discriminazione contro gli ebrei sarebbe culminata nel genocidio che conosciamo? In tutti questi casi la risposta più probabile è no. Possiamo subito dire che il ruolo di Hitler nei fatti citati fu assolutamente determinante, e tuttavia in sede di spiegazione storica ciò che conta davvero sono sia le intenzioni dei personaggi di primo piano, sia le condizioni esterne che facilitano o ostacolano tali intenzioni. I moventi, gli obiettivi e gli intenti dei principali uomini politici sono di vitale importanza, ma d’altra parte non fluttuano nel vuoto. La maggior parte delle volte essi devono operare all’interno di circostanze che sfuggono al controllo e alle possibilità di manipolazione dei singoli personaggi storici, per quanto grande sia il loro potere. I capitoli che seguono partono, quindi, dal presupposto che il potere di Hitler fu qualcosa di reale e non un semplice fantasma, e allo stesso tempo interpretano in buona misura l’ampiezza e l’esercizio di quel potere come il prodotto della collaborazione e della tolleranza, degli errori di calcolo e della debolezza di altri soggetti detentori di potere e di influenza. La trattazione da me svolta suggerisce, inoltre, che furono proprio la loro disponibilità a fare concessioni e la loro arrendevolezza le cause principali della progressiva estensione del potere di Hitler, fino al punto in cui la sua carica distruttiva cominciò a esercitarsi indiscriminatamente su tutto, rendendo impossibile la stessa sopravvivenza di un’autorità politica razionale. Le azioni di altri soggetti protagonisti e i condizionamenti che le influenzarono furono, perciò, altrettanto importanti della figura singola del dittatore. Nel 1934 un esponente di punta del regime dichiarò che nel Terzo Reich era «compito di ognuno andare incontro al Führer seguendo ogni sua indicazione e desiderio»14. I seguaci più fanatici di Hitler presero ciò alla lettera, ma anche molti altri meno coinvolti finirono, deliberatamente o no, soggettivamente o di fatto, con l’«andare incontro al Führer», favorendo quelle circostanze che consentirono al dittatore di ampliare sempre più il suo potere e di tradurre in azione di governo le sue «utopie» ideologiche. Tali osservazioni suggeriscono che l’esercizio del potere hitleriano fu fortemente condizionato dal potere simbolico che ema14

nava dalla figura del Führer. Questa disponibilità ad accettare un livello di concentrazione personale del potere, che è unico nella storia dello Stato moderno, e a «andare incontro» a colui che fu il principale beneficiario di questo processo, costituisce perciò il punto cardine della nostra interpretazione. Il «potere» può essere definito, in modo astratto, come «la possibilità di far valere la propria volontà entro una relazione sociale, anche di fronte a un’opposizione»15. Il complesso organismo dello Stato moderno si regge su tutta una serie di apparati di potere tra loro collegati, ma ognuno dotato di una relativa autonomia. Oltre alla sfera del potere politico in senso stretto (burocrazia, esecutivo, giustizia, amministrazione dello Stato), altri ambiti di potere da questo parzialmente indipendenti (per esempio l’esercito, il mondo economico, gli apparati di produzione ideologica) possono agire, ognuno separatamente o tutti insieme, a sostegno o contro la forma di dominazione politica esistente16. Il «comando», o «dominio», infatti, è «la possibilità di far seguire a un ordine di un certo tipo l’obbedienza automatica da parte di un dato gruppo di persone»17. Così come è stato appena definito, quello di potere è un concetto non più assoluto, ma relativo: l’assunzione del comando da parte di un individuo o di un gruppo avviene a spese della perdita di potere di un altro individuo o gruppo. Ciò, naturalmente, non esclude l’eventualità – o addirittura la probabilità – che due o più individui o gruppi estendano, almeno temporaneamente, il loro dominio a danno di una terza fazione. Nel caso del Terzo Reich, una tale evenienza ha trovato riscontro nel fatto che il crollo delle istituzioni democratiche andò a vantaggio non solo di Hitler e del Partito nazionalsocialista, ma anche delle tradizionali élites di potere, capaci di rinnovare in parte le basi della propria autorità grazie all’alleanza con il nazismo. Man mano che deperiscono le regole «razionali» di distribuzione del potere, il processo di concentrazione dello stesso a favore di un singolo elemento del sistema e a scapito di tutti gli altri diventa sempre più inarrestabile. Nel Terzo Reich, l’iniziale «cartello di potere» comprendente sia la componente nazista che alcuni settori della vecchia classe dirigente nazional-conservatrice fu scosso, con il passare degli anni, da lotte intestine sempre più aspre, a conclusione delle quali furono proprio le fazioni più ra15

4. Hitler (ultimo a sinistra seduto) con alcuni commilitoni del 16° Reggimento di fanteria di riserva della Baviera. 16

5. Hitler (secondo a destra nell’ultima fila) durante la sua convalescenza a Beelitz, presso Berlino, dopo aver riportato una ferita alla gamba (ottobre 1916); alla foto è allegata la sua scheda clinica. 17

dicali ad avere la meglio. Il loro successo fece solitamente aggio sulla protezione diretta del Führer, ma si può dire, all’opposto, che la stessa posizione di Hitler fu significativamente rafforzata dall’emergere, all’interno del citato «cartello di potere», delle componenti che erano a lui più legate e che si presentavano come i più decisi organi esecutivi delle politiche immediatamente ispirate alle sue direttive ideologiche. In altre parole, la nozione distributiva di potere da noi proposta può servire a spiegare in termini razionali il processo di graduale assolutizzazione del potere hitleriano a spese degli altri elementi che componevano il sistema di dominio della Germania nazista. Una chiave interpretativa utile a comprendere tale processo può essere trovata in un altro concetto di Max Weber, quello di «potere carismatico»*. Così come verrà sviluppata (e in qualche misura modificata) nei capitoli che seguono, questa nozione weberiana considera il termine «carisma» in un’accezione tecnica che poco ha in comune con l’uso che se ne fa oggi a proposito, per esempio, di uomini politici democratici o di altre figure dotate, agli occhi della pubblica opinione, di una personalità affascinante o particolarmente spiccata. Diversamente dalle forme di dominio fondate sull’«autorità tradizionale» dei capi ereditari o sull’«autorità legale» e burocratico-impersonale che caratterizza la maggior parte dei sistemi politici moderni, il «potere carismatico» si basa sulla percezione, da parte di un «seguito» di fedeli, del senso della missione e delle doti di eroismo e di grandezza in possesso di un leader riconosciuto. Mentre le prime due forme di dominio sono stabili, quella carismatica è intrinsecamente instabile: essa tende a instaurarsi nei momenti di crisi ed entra in difficoltà o quando non riesce a tenere fede alle aspettative create, o quando si «routinizza» in un sistema capace di riprodursi soltanto attraverso l’eliminazione, la subordinazione o la sussunzione dell’originaria essenza carismatica18. * L’espressione weberiana originale è charismatische Herrschaft, dove il termine Herrschaft corrisponde alla più specifica nozione di «dominio» o «comando» (e non di Macht, «potere») sopra riportata. Tuttavia si è preferito tradurre con «potere carismatico» (o, alternativamente, con «autorità carismatica», come del resto compare anche nell’originale inglese), in conformità alla scelta linguistica ormai consolidata negli studi sociologici italiani sull’argomento (N.d.T.).

18

Max Weber formulò queste idee quando Hitler non era ancora apparso sulla scena politica, ma la sua nozione di «potere carismatico» può tornare utile per comprendere sia le origini che la prassi del potere hitleriano. Essa, infatti, è applicabile all’analisi tanto del modo in cui Hitler riuscì a imporsi come dominatore all’interno del movimento nazista, quanto dell’effetto corrosivo sviluppato dal suo potere una volta sovrapposto a una diversa struttura di dominio quale era quella dell’apparato burocraticolegale dello Stato tedesco. Da parte marxista è stato obiettato che il concetto di «potere carismatico» è difficilmente compatibile con l’esistenza di un moderno Stato capitalista19. In effetti l’esercizio di una simile forma di dominio appare in contraddizione con le modalità di governo razionale e regolato necessarie alla riproduzione del capitalismo, ma le cose stanno diversamente se spostiamo la nostra attenzione sui momenti di crisi dello Stato capitalista. È, qui, infatti, che vanno individuati il terreno di coltura del potere carismatico e la natura e funzione del suo dispiegamento, ed è qui che le concezioni weberiane, benché ricavate per la maggior parte da esempi di «autorità carismatica» ben lontani dalla realtà politica del XX secolo, dimostrano la loro importanza per poter comprendere le caratteristiche peculiari delle forme di dominazione fasciste e l’instabilità delle basi di potere dei sistemi statali a esse improntati. Nel moderno Stato capitalista la base del potere politico è l’ufficio e la funzione che tale ufficio assolve. Perciò questo potere è, fondamentalmente, impersonale, e proprio l’esercizio burocratico e impersonale del potere sulla scorta di norme legali ugualmente impersonali costituisce il nucleo di quella struttura di dominio definita da Max Weber «legale-razionale». Tuttavia, in casi come quello della Germania ai primi anni Trenta – dove l’infuriare di una crisi sociale ed economica di gravissima entità, coinvolgendo un sistema politico sin dall’inizio inviso a importanti settori della società tedesca, degenerò ben presto in una crisi dello Stato stesso – il meccanismo impersonale di funzionamento del potere «legale-razionale» può essere sottoposto a un attacco frontale, soprattutto da parte di coloro i quali da quello stesso meccanismo si sentono danneggiati e minacciati. Conseguenza di tali fenomeni fu, nella crisi terminale della Repubblica di Weimar, l’emergere improvviso di un atteggiamento diffuso (anche se non 19

onnipervasivo) che portò ad accettare la creazione di un sistema di governo radicalmente diverso da quello precedente, perché basato sull’esercizio personale del potere e della responsabilità20. Il concetto di «potere carismatico» spiega, quindi, al meglio questo meccanismo d’imputazione del comando e dell’autorità. Da quanto detto appare chiaro che, in un moderno sistema statale, tale forma di dominio può instaurarsi soltanto a seguito di una crisi di proporzioni inusitate, e che allo stesso tempo non si può sostituire alle strutture burocratico-razionali, ma deve come sovrapporsi a esse. Perciò è difficile immaginare come il nuovo sistema di comando possa generare un meccanismo stabile di perpetuazione del potere personale. Tuttavia, la precarietà connaturata al suo nascere come risposta necessariamente di breve respiro a una situazione di crisi, non può nascondere il fatto che, in circostanze come quelle offerte dalla Germania dei primi anni Trenta, la soluzione «carismatica» riuscì a trasformarsi in una forza dalla potenza straordinaria e a consolidarsi come fattore dotato di un’eccezionale capacità corrosiva e distruttiva. La nozione di «potere carismatico» non specifica in se stessa il contenuto che di volta in volta fonda la rivendicazione di un ruolo di leadership e le ragioni che spingono gli altri ad accettarla. Questi elementi variano a seconda delle circostanze, del contesto e delle peculiarità della cultura politica del tempo. In tal senso, la prevalenza negli anni Venti e Trenta di modelli di leadership di tipo fascista-plebiscitario può trovare una spiegazione parziale nel senso di disagio psicologico indotto dal crollo relativamente recente della monarchia e accompagnato, in alcuni settori della società, da un desiderio quasi messianico di forme sacrali di autorità suprema, aperte ora all’influsso di nuovi accenti populistici. A rafforzare le richieste di una leadership «forte» dovettero, inoltre, contribuire l’impatto traumatico della guerra e la connessa ipertrofia di sentimenti militaristici e sciovinistici. I tratti specifici della soluzione carismatico-plebiscitaria affermatasi in Germania (tratti che la distinguono sia dal culto del Duce nell’Italia mussoliniana che dal culto della personalità nella Russia staliniana e in altri regimi comunisti diversamente strutturati) sono da riportare al fatto che la crisi generale degli anni postbellici, e in particolare dei primi anni Trenta, si innestò su una cultura politica affatto peculiare. Caratteristica dominante di que20

st’ultima era la predisposizione, diffusa prevalentemente ma non esclusivamente negli strati borghesi, a concepire un’immagine eroica della politica, portato di una storia nazionale vista spesso come la lunga preparazione di un’unità della nazione tedesca conseguita in ritardo e in modo parziale, formatasi essenzialmente attraverso guerre (vittoriose o disastrose) condotte sul «suolo» tedesco e caratterizzata da profonde discontinuità e divisioni. Non a caso, il pantheon degli eroi nazionali tedeschi, oltre che da giganti della cultura come Goethe e Beethoven, era popolato quasi esclusivamente da figure, mitiche o mitologizzate, cui andava il merito di aver riportato famose vittorie in guerre condotte per la causa dell’unità del Reich21. Inevitabilmente, poi, personaggi come Federico il Grande o Bismarck spiccavano ancora di più di fronte alle delusioni che avevano caratterizzato il regno di Guglielmo II e ai successivi traumi della guerra perduta, della rivoluzione, della conquista del potere da parte degli odiati socialisti, dell’«umiliazione nazionale» patita a Versailles, e di fronte allo spettacolo di una nazione un tempo potente sconvolta dall’inflazione e dalla depressione economica, e retta da un sistema democratico lacerato da divisioni e dalle lotte fra i partiti. Attorno agli anni Venti, prima cioè che Hitler si imponesse sulla scena, il bisogno di trovare un nuovo grande leader, che assommasse in sé le qualità del guerriero, del grande sacerdote e dell’uomo di Stato, era sentito con ardore in tutti gli ambienti della destra tedesca. Questo capo avrebbe eliminato tutte le divisioni e avrebbe riportato il Reich – termine, quest’ultimo, rivestito di per se stesso di connotazioni mistiche – all’unità e alla grandezza. Nei primi anni Trenta, l’aggravarsi della crisi diede nuova risonanza a tali idee e portò alla ribalta chi, come Hitler, poteva rivendicare a se stesso le qualità «eroiche» del capo carismatico, facendosi allo stesso tempo forte dell’appoggio di un’organizzazione dotata di tutte le caratteristiche di una «comunità carismatica». Questa comunità fu formata inizialmente dai soggetti più vicini a Hitler, i suoi fedelissimi all’interno del gruppo dirigente nazista, che divennero i primi organi di trasmissione del culto della personalità che circondava il futuro dittatore. I loro rapporti con Hitler non erano determinati dalla carica impersonale e formale che questi deteneva come capo del Partito, ma da rapporti di 21

lealtà personale di tipo arcaico e quasi feudale, fondati sul riconoscimento della «missione» di cui il capo era investito e dei successi che aveva conseguito, e contraccambiati dallo stesso Hitler, che di quella fedeltà aveva imprescindibile bisogno. Oltre al gruppo ristretto dei dirigenti nazionalsocialisti, i principali destinatari del «carisma» hitleriano furono gli attivisti del movimento, incaricati di diffondere il messaggio delle sue «grandi imprese». Altri portatori e beneficiari di questo carisma furono i funzionari delle organizzazioni, fra cui spiccavano per importanza le SS, che dovettero la loro stessa esistenza e la loro crescente influenza proprio allo stretto rapporto che le legava alla persona del Führer. Al di sotto di tutti c’era il gran numero di «devoti» di Hitler diffusi nella popolazione, che con la loro adulazione gli fornirono una base di popolarità rivelatasi essenziale per il consolidamento della sua posizione di potere. Un contributo oggettivo al rafforzamento del culto della personalità carismatica del Führer venne, infine, anche dagli ammiratori più prudenti, dai sostenitori più tiepidi che però non vedevano nessuna alternativa all’orizzonte, dagli opportunisti pronti a gridare «Heil Hitler!» più forte di tutti gli altri se questo poteva tornare utile. Per essere fruttuosa, quindi, un’analisi del potere hitleriano deve esplorare l’ascesa, il consolidamento e l’espansione del «potere carismatico», il suo duplice fondamento nella repressione e nel consenso plebiscitario, e le sue manifestazioni ed effetti una volta raggiunta l’acme dell’autonomia relativa e del dominio assoluto. Ma la nostra indagine si rivolgerà anche alle concessioni fatte a quel potere da parte di quei gruppi dirigenti non nazisti che avevano poca fiducia in esso, ma che, per ragioni proprie, erano disposti a diventarne complici o almeno a tollerarlo, fino a quando le loro ambizioni non vennero spazzate via, superate o scavalcate dalla potenza che avevano evocato. Infine, sarà nostro compito esaminare la forza disgregatrice del «potere carismatico», il modo, cioè, in cui esso corrose tutte le strutture e gli schemi razionali di governo e di amministrazione, culminando all’ultimo nel delirio distruttivo22 della «comunità carismatica» posta di fronte allo sgretolamento di quello stesso potere. Proprio l’impatto intrinsecamente corrosivo della dominazione carismatica sui fondamenti «legali-razionali» dell’autorità politica, o detto altrimenti l’influenza dissolvitrice dell’arbitrio per22

sonale sulle forme di dominio impersonali e regolate, costituirà il filo rosso sotteso alla nostra analisi dell’instaurazione, dell’espansione e della dissoluzione del potere hitleriano. Prima, però, di tentare di spiegare come mai un outsider come Hitler riuscì a conseguire un potere così grande, dobbiamo capire come si arrivò ad attribuire a Hitler le doti carismatiche di cui si è parlato in questa Introduzione. Un punto-chiave fu senza dubbio la percezione dell’adeguatezza delle sue qualità personali alle richieste del momento, la concordanza delle sue promesse di salvezza con le diffuse aspettative di soluzione della crisi tedesca. Per prima cosa, dunque, dobbiamo analizzare la natura di quelle promesse, il modo in cui Hitler concepì la propria «missione» e i motivi che portarono i tedeschi a vedere nel suo inizialmente piccolo manipolo di devoti la soluzione ai problemi della Germania.

I

Il potere dell’Idea

L’importanza della personalità di Hitler nella storia del nazionalsocialismo non deve essere troppo enfatizzata né minimizzata fino al punto di negarla. Senza dubbio la sua influenza si fece sentire maggiormente sulla cerchia dei suoi primi e spesso fanatici seguaci, che costituirono poi il manipolo ristretto dei discepoli a lui più fedeli e devoti. Questi uomini, che già prima di incontrare Hitler e il nazionalsocialismo erano alla ricerca di una causa e di un capo per cui lottare, formarono il nucleo fondamentale di quella «comunità carismatica» che fece di Hitler il proprio idolo ed eroe. Il fascino esercitato da Hitler su questo gruppo ristretto di adepti derivò dalla forza di convinzione della sua Idea, del suo credo politico, accoppiata alle straordinarie capacità demagogiche messe in mostra da Hitler stesso sin dagli esordi della sua carriera politica. In questo capitolo, perciò, cercheremo di ricostruire la formazione e l’ascesa di quel peculiare uomo politico che fu Hitler e i riflessi che le sue idee e la sua personalità esercitarono sui suoi primi seguaci, alcuni dei quali sarebbero poi entrati nel novero dei personaggi più influenti del Terzo Reich. L’aspetto fisico del futuro dittatore era tutt’altro che impressionante1. Di statura media e di altrettanto media corporatura, il suo corpo sembrava dominato per intero dalla testa. La parte superiore della fronte era nascosta da un ciuffo ritorto, sicché tutto il volto sembrava concentrato nei corti baffetti che spuntavano fra labbra e naso. I suoi vestiti non si distinguevano per eleganza, la sua dentatura era scadente, così come sarebbe diventata col passare degli anni la vista, tanto da costringerlo a usare gli occhiali da lettura (anche se non volle mai portarli in pubblico). Proprio gli occhi leggermente sporgenti e la fissità dello sguardo costituivano, però, la caratteristica più appariscente della sua persona. 24

Il suo stile di vita era ripetitivo e conservatore, ma allo stesso tempo piuttosto originale. Hitler cercava il più possibile di seguire abitudini fisse, era quasi astemio e, a partire dai primi anni Trenta, anche vegetariano, non fumava e non beveva caffè, e aveva una mania della pulizia che lo spingeva a lavarsi con una frequenza fuori della norma. Poche ore di sonno gli bastavano, leggeva molto e avidamente (ma anche senza sistematicità) e aveva una capacità straordinaria di ricordare i fatti più minuti. Su una serie non piccola di argomenti poteva tenere banco esprimendo opinioni fondate, e si riteneva particolarmente esperto di tutto ciò che concerneva la storia, l’arte e l’architettura – ma coltivava un interesse speciale anche per la medicina e la biologia. Questa fiducia nella sua preparazione culturale da autodidatta si accompagnava al disprezzo verso gli «intellettuali» dotati di un’educazione formale, ma non c’è dubbio che la sua intelligenza era pronta e acuta, benché le sue conoscenze fossero spesso di seconda mano, unilaterali e rigidamente dogmatiche. Anche se dal punto di vista umano manteneva sempre le distanze e restava inavvicinabile persino per i suoi più assidui collaboratori, Hitler sapeva mostrare grande sensibilità anche per le cose più banali, come la scelta di un regalo di compleanno per la sua segretaria. Gradiva la compagnia delle donne, che trattava sempre con gentilezza e cortesia, specialmente se erano belle, e quando era in compagnia sapeva far ridere con una freddura o con le sue mimiche spassose. Inoltre aveva un fortissimo senso di lealtà verso coloro che sin dai primi tempi si erano sottoposti a sacrifici e privazioni per aiutarlo. Queste caratteristiche personali, tuttavia, non sarebbero bastate a imporlo all’attenzione pubblica se non si fossero accompagnate alle sue idee politiche e alla sua capacità di catturare un uditorio con la forza delle parole. Spogliato della sua filosofia politica, come uomo in sé Hitler non era altro che un mediocre, ma proprio il suo credo politico e la convinzione con cui lo manifestava lo trasformarono in una personalità dotata di eccezionale dinamismo. Dopo la caduta del Terzo Reich si è pensato per lungo tempo che il messaggio hitleriano non riflettesse altro che la vuota fraseologia di un demagogo assetato di potere e che, al pari dei tiranni di una volta, l’uomo che ne era stato banditore non aveva 25

saputo sviluppare alcuna idea originale. Oggi, però, è stato riconosciuto dai più che a sostenere quell’appello vagamente messianico c’era una serie di idee – per quanto ripugnanti e irrazionali – collegate tra loro e destinate, come accadde verso la metà degli anni Venti, a cristallizzarsi in un sistema ideologico organico. Prese da sole o in se stesse, le idee fisse che Hitler avrebbe conservato nel loro nucleo essenziale fino alla sua morte, nel 1945, non bastano a spiegare né la sua presa sulle masse né lo sviluppo della NSDAP. Esse, però, rappresentarono per la personalità del futuro dittatore una potentissima fonte di energia, fornendogli quella Weltanschauung onnicomprensiva tipica delle ideologie esclusiviste, che consente di ricondurre ogni singola idea all’interno di uno schema filosofico precostituito e di escludere radicalmente ogni possibile alternativa di pensiero. Le stesse idee conferirono al loro banditore lo zelo «missionario» di colui che sembra possedere tanto la chiarezza della visione quanto la certezza che la strada intrapresa è quella giusta – o meglio, l’unica strada possibile. Anche se spesso mostrò incertezze su singole scelte politiche da adottare, Hitler non dubitò mai della giustezza delle proprie idee. La forza e la solidità di quelle convinzioni, capaci di trasformarsi in una ricetta indubitabile per un futuro di gloria ben al di là delle mediocri aspirazioni dei bigotti o delle utopie più stravaganti, furono i fattori principali che spinsero coloro che gli erano vicini e che condividevano i suoi pregiudizi ad accettare la sua supremazia personale. La semplicità della sua visione manichea di una lotta fra il bene e il male in cui ogni elemento era elevato ad assoluto, secondo la logica del tutto o niente, si accompagnava allo spietato fanatismo e alla indefettibile ostinazione con cui egli sosteneva le proprie opinioni. Questi «attributi» fecero di Hitler una figura di spicco negli ambienti della destra sciovinista attiva nei primi anni Venti, e dopo che le sue apparizioni pubbliche gli conferirono in breve tempo il ruolo di principale esponente di quegli ambienti e gli aprirono le porte dei circoli della ricca borghesia di Monaco, egli divenne sempre più indispensabile per le sorti del movimento, riuscendo anche ad assicurarsi il sostegno di altre frange della destra radicale. A costituire il nucleo essenziale della Weltanschauung hitleriana concorrevano diverse componenti: la concezione della storia come lotta tra razze, l’antisemitismo radicale, la convinzione che 26

il futuro della Germania potesse essere assicurato solo dalla conquista di «spazio vitale» (Lebensraum) a spese della Russia e, come punto di convergenza di tutti questi elementi, l’idea della necessità di uno scontro risolutivo con il marxismo e con la sua concreta incarnazione nel «bolscevismo giudeo» vittorioso nell’Unione Sovietica. Questi concetti strettamente correlati l’uno con l’altro sono d’importanza fondamentale, non solo perché Hitler vi restò fedele con straordinaria ostinazione per oltre vent’anni, ma soprattutto perché gli obiettivi ideologici da essi risultanti trovarono attuazione pratica durante la seconda guerra mondiale. Perciò, in sede di giudizio sul tema qui in discussione (il potere hitleriano), essi dovranno essere presi seriamente in considerazione, a partire dall’analisi dei loro contenuti, delle loro modalità di formazione e della loro evoluzione. Non è affatto facile stabilire esattamente quando, come e perché Hitler fece proprie quelle idee cui avrebbe fanaticamente tenuto fede per tutto il corso della sua carriera politica. Certo è che il processo di condensazione dei suoi diversi filoni di pensiero in un sistema ideologico composito giunse a pieno compimento con la stesura del Mein Kampf nel 1924, e che dopo di allora tale sistema conobbe pochissime modificazioni. Anni importanti di apprendistato furono quelli vissuti a Linz dopo l’abbandono della scuola (1905-06) e, successivamente, a Vienna (1907-13). Altra, e forse ancora più importante, fase cruciale della vita del futuro dittatore fu quella della guerra mondiale e, soprattutto, il trauma della sconfitta tedesca del 1918. Infine bisogna considerare gli anni compresi tra il 1920 e il 1924, quando, sotto la spinta di ulteriori suggestioni, fra cui specialmente quelle legate alla guerra civile in Russia, le sue idee conobbero alcune modificazioni essenziali. I primi e più odiati nemici di Hitler erano gli ebrei. Le origini e le cause del suo viscerale antisemitismo sono state discusse a lungo e approfonditamente, ma non si è ancora giunti a conclusioni certe. Alcune teorie sono decisamente infondate. Quella che fa derivare la sua paranoia antisemita da presunte tracce di sangue ebraico nella sua discendenza familiare2 è del tutto irrealistica, mentre più plausibile, anche se non suffragata da prove, è l’ipotesi che egli temesse o credesse che suo padre fosse ebreo3. Ancora più fantasioso è il tentativo di spiegare l’avversione hitleriana contro gli ebrei con il trauma isterico da lui patito in conseguenza 27

dell’avvelenamento da gas riportato alla fine della guerra, che egli avrebbe associato alla morte di sua madre nel 1907 sotto l’effetto di un gas anestetico somministratole da un medico ebreo4. A parte il fatto che Hitler aveva nutrito per quel dottore una gratitudine tale da offrirgli in dono uno dei suoi acquerelli5, questa teoria ignora le numerose attestazioni che fanno risalire le origini temporali dell’antisemitismo hitleriano al periodo viennese. Di fatto, le cause della mania antisemita di Hitler restano avvolte nell’ombra. Interpretazioni di tipo psicologico che attribuiscono alla mente del futuro dittatore fantasie morbose e complessi di persecuzione possono essere più o meno plausibili, ma si riducono in ultima analisi a mere speculazioni. Tutto ciò che si può dire con qualche certezza è che il senso di frustrazione da lui provato nel constatare la discrepanza tra l’alto concetto che egli aveva di se stesso e la sua vita di artista fallito ebbe modo di focalizzarsi su un capro espiatorio che sembrava racchiudere in sé tutti i mali e che gli forniva allo stesso tempo una spiegazione del suo fallimento personale e la prova che, in fondo, la storia era dalla sua stessa parte6. Secondo quanto racconta lo stesso Hitler nel Mein Kampf, a convertirlo all’antisemitismo sarebbe stato l’incontro con una figura in caffettano e dai capelli neri e ricci che camminava per le strade di Vienna7. Questa versione appare vieppiù romanzesca: il futuro dittatore leggeva giornali pangermanisti e antisemiti già quando abitava a Linz, ed era già a quel tempo un ammiratore del leader pangermanista e antisemita austriaco Georg von Schönerer8. Ma quali che fossero allora le sue opinioni sugli ebrei, non c’è dubbio che queste si radicalizzarono oltre misura durante la sua permanenza a Vienna. In quegli anni, infatti, Hitler rimase fortemente impressionato dal demagogo antisemita Karl Lueger, sindaco della città, che più tardi, in una delle sue rare attestazioni di stima verso terzi, avrebbe definito «il più grande sindaco tedesco di tutti i tempi»9. Benché sia probabilmente dovuta a un eccesso di drammatizzazione, non è da escludere che la storia dell’«ebreo in caffettano» rifletta qualche esperienza significativa vissuta a Vienna dal futuro dittatore, proprio mentre era immerso in quelle letture antisemite destinate a confermare e a esasperare i suoi pregiudizi ancora allo stato embrionale. Quale che sia stato realmente l’avvenimento in questione, esso sembra marcare 28

un punto decisivo di svolta dall’antisemitismo convenzionale del periodo di Linz all’antisemitismo maniacale che caratterizzò il pensiero hitleriano fino alla fine dei suoi giorni. Da allora in poi, scrive Hitler, «cominciai a vedere ebrei dovunque andassi, e più ne vedevo, più chiaramente apparivano ai miei occhi come una razza distinta dal resto dell’umanità»10. Gli anni viennesi influirono anche sullo sviluppo di altri aspetti della Weltanschauung hitleriana. Secondo le sue stesse parole – credibili nel loro senso generale, anche se molto meno nei singoli dettagli –, la sua vita da «sbandato» nei bassifondi sociali della Vienna del tempo gli fece toccare con mano le patenti ingiustizie della società borghese, spingendolo così a riflettere su quella che allora veniva chiamata la «questione sociale». L’incontro con la socialdemocrazia viennese, poi, lo portò al rifiuto totale delle dottrine classiste e «antinazionali» propagandate da quel partito, mentre l’odio per la monarchia asburgica divenne elemento integrante di quell’iper-nazionalismo tedesco di cui si era imbevuto sin dai tempi della sua adesione al movimento di Schönerer11. Una volta riconosciuti gli ebrei come colpevoli di tutti questi mali ed elevata tale convinzione a ingrediente principale della sua visione del mondo, cominciò a prendere forma il nucleo essenziale di un’ideologia basata sull’avversione più accesa nei confronti della società del tempo, accoppiata alla visione utopistica di un ordine futuro fondato sull’autorità indiscussa e senza remore di uno Stato nazionale tedesco etnicamente puro. Possiamo perciò dire che, al momento della partenza di Hitler per il fronte, la sua Weltanschauung aveva già assunto un aspetto quasi compiuto. Proprio negli anni della guerra, ma forse anche prima, un altro elemento cruciale avrebbe trovato posto in questo sistema di pensiero: la concezione della storia come lotta tra le diverse razze, destinata a risolversi a favore della razza più forte, più adatta e più spietata12. La reazione isterica di Hitler alla notizia del trionfo delle forze che odiava con tutto il suo essere dovette avere l’effetto di radicalizzare ulteriormente la sua visione dualistica del mondo – e specialmente la sua convinzione che la colpa della catastrofe che si era abbattuta su di lui e su tutto ciò in cui credeva fosse da attribuire per intero a quegli ebrei che egli vedeva disseminati in ogni angolo della società13. Sembra che nei primi tempi della guerra Hitler avesse discus29

1. Un manifesto che annuncia un discorso di Hitler con titolo «Il futuro della Germania e il nostro movimento», subito dopo la ricostituzione del Partito nazionalsocialista nel Bürgerbräukeller di Monaco di Baviera, il 27 febbraio 1925. 30

so del suo futuro con uno dei suoi commilitoni, prospettando l’alternativa di diventare architetto o di darsi alla politica14. A quanto dice egli stesso, invece, la decisione di intraprendere la carriera politica sarebbe stata presa durante la degenza nell’ospedale militare di Pasewalk15. In realtà, la decisione di impegnarsi nella politica attiva arrivò in maniera meno consapevole e quasi casuale. Ancora soldato, Hitler fece ritorno a Monaco e trovò una città ben diversa da quella che aveva lasciato nel 1914. La vita politica della capitale bavarese era nel caos. Sull’onda della rivoluzione, Kurt Eisner, un ebreo socialdemocratico di sinistra, aveva preso le redini del governo, ma poco dopo (febbraio 1919), a seguito dell’assassinio di Eisner per mano di un aristocratico nazionalista, era scoppiata una vera e propria guerra civile. Le formazioni paramilitari di destra uscirono vittoriose da una battaglia senza esclusione di colpi condotta contro la Repubblica dei Soviet degli operai e dei soldati proclamata ad aprile e durata soltanto qualche settimana. Hitler non prese parte attiva a queste lotte, ma dalla caserma in cui era distaccato poté osservare con attenzione quanto stava accadendo, mentre continuava ad attingere a piene mani da quella pubblicistica di destra che doveva dare ulteriori conferme alla sua personale interpretazione degli avvenimenti in corso. Nella tarda primavera e nell’estate del 1919 frequentò alcuni corsi di formazione ideologica organizzati dall’esercito e, grazie a essi, prese coscienza dei «maneggi» del capitale finanziario internazionale, aderendo su questo punto alle analisi di Gottfried Feder, il maître-à-penser economico del Partito nazista delle origini. Nello stesso periodo seguì letture e seminari sulla storia tedesca, sulla teoria e prassi del socialismo, sulla situazione economica della Germania e sul problema delle condizioni di pace, sulla Russia bolscevica, sulla politica dei prezzi, sulla questione bavarese e su quella più ampia dell’unità del Reich tedesco. Ben presto le sue opinioni appassionate e solidamente argomentate cominciarono a imporsi all’attenzione di quanti prendevano parte a tali discussioni. L’acquisita consapevolezza dell’effetto prodotto su questi ambienti dalla sua abilità dialettica segnò il primo passo di Hitler verso il coinvolgimento nella politica attiva. Ciò accadde dopo che le sue «doti innate di oratore popolare che con il suo fanatismo e il suo stile demagogico riusciva a far 31

presa e a convincere il suo uditorio»16 gli fecero meritare la nomina a istruttore in una delle citate unità di propaganda e formazione ideologica dell’esercito. «Di punto in bianco – ricorderà Hitler in seguito – mi fu offerta l’opportunità di parlare di fronte a un pubblico più grande. E allora ebbi la certezza di ciò che avevo sempre presentito dentro di me, senza ancora capirlo: sapevo parlare»17. Questa certezza si rafforzò soprattutto nell’autunno del 1919, quando, entrato in contatto con il neoistituito Partito tedesco dei lavoratori (Deutsche Arbeiterpartei - DAP), fece le sue prime prove positive di oratore politico, che lo convinsero ad abbracciare definitivamente la carriera di agitatore – per quanto ancora come semplice tribuno da birreria. Mentre il futuro dittatore cominciava a farsi largo nella scena politica della capitale bavarese grazie alle sue capacità dialettiche, le sue idee politiche – benché abbracciate ed espresse con inconsueto fanatismo – restavano saldamente ancorate al repertorio convenzionale dell’estrema destra. Esse non si distinguevano in nulla da quelle propagandate dai pangermanisti e dagli altri gruppuscoli sciovinisti e razzisti che brulicavano nella Monaco del tempo. Bersaglio principale dei suoi primi discorsi era, infatti, il Trattato di Versailles, mentre, come tutti i pangermanisti, Hitler chiedeva la restituzione della colonie perdute e la fusione tra Germania e Austria. In tale ottica, nemica capitale della Germania non era la Russia, ma l’alleanza franco-britannica, mentre gli ebrei erano attaccati soprattutto in quanto agenti del capitale finanziario. Hitler stesso ha voluto far credere che la sua visione del mondo si era formata nei suoi aspetti fondamentali già prima della guerra, ma è indubbio che nei primi anni Venti restavano ancora da compiere passi importanti verso il perfezionamento del suo sistema ideologico. A conoscere modificazioni rilevanti furono, negli anni compresi fra il suo ingresso in politica e la stesura del Mein Kampf, specialmente le sue opinioni sugli obiettivi futuri della politica estera tedesca, sugli ebrei e, non da ultimo, sul suo stesso ruolo all’interno del movimento nazionalsocialista. A parte le sue innumerevoli, ma anche disorganiche e unilaterali letture sui più influenti trattati socialdarwinisti e di geopolitica, a riorientare il pensiero hitleriano fu determinante, in quegli anni, l’influsso del poeta bavarese Dietrich Eckart e dei tedeschi 32

del Baltico Max Erwin von Scheubner-Richter e Alfred Rosenberg. Eckart contribuì con la sua visione filosofica della lotta senza quartiere all’«ebraismo senz’anima» come presupposto di una vera rivoluzione che, diversamente da quella «fasulla» del 1918, avrebbe generato nuovi capi e realizzato il vero socialismo. Ancora più importante fu il ruolo di Scheubner-Richter e Rosenberg, che trasmisero a Hitler le loro convinzioni sul rapporto tra ebraismo e bolscevismo. Entrambi, infatti, oltre a essere antisemiti radicali, avevano vissuto in prima persona l’esperienza della rivoluzione russa e avevano aderenze negli ambienti politici più accesamente antibolscevichi. Inizialmente l’ideologia nazionalsocialista non si era interessata particolarmente né alla Russia né al bolscevismo, ma i due tedeschi del Baltico rafforzarono le idee di Hitler sulla radice ebraica del bolscevismo, mentre soprattutto Rosenberg lo convinse dell’esistenza di una «cospirazione mondiale ebraica», come quella che si poteva evincere dai falsi «protocolli dei saggi di Sion». Con ciò il sistema ideologico hitleriano trovò finalmente la sua pietra angolare. Alla vigilia della stesura del Mein Kampf, la parola d’ordine dello sterminio del «bolscevismo giudeo» era ormai diventata sinonimo della distruzione dell’Unione Sovietica come parte integrante e necessaria della lotta della Germania per la conquista del suo «spazio vitale». L’evoluzione della Weltanschauung hitleriana fra il 1919 e il 1924 può essere ricostruita attraverso i discorsi e gli scritti di cui fu autore in quegli anni. Come accennato, sotto l’influenza di Rosenberg e Scheubner-Richter, le opinioni di Hitler relative al nesso tra antisemitismo e antimarxismo conobbero una sostanziale modificazione, nel senso che soltanto in questo periodo i due filoni di pensiero, già presenti separatamente nella sua visione del mondo (con l’antisemitismo in posizione dominante), vennero a congiungersi organicamente nel Leitmotiv della lotta alla Russia bolscevica. Prima di questo passo, le espressioni pubbliche del feroce antisemitismo hitleriano avevano preso come bersaglio soprattutto il capitalismo, come attestano le sue prime riflessioni sulla «questione ebraica» formulate in pubblico nell’agosto del 1918, quando, cioè, egli tenne su incarico dell’esercito un «seminario» sul capitalismo, nel quadro di un corso di educazione politica rivolto ai soldati «sospetti» ritornati dalla prigionia18. In tale veste, solleci33

tato dal suo ufficiale superiore, Hitler rispose a un’inchiesta sulla «questione ebraica» con una lettera che costituisce la prima testimonianza scritta delle sue idee sull’argomento. In quell’occasione egli parlò degli ebrei non come di un gruppo confessionale, ma come di una razza, e sostenne la necessità di combatterli con strumenti razionali, piuttosto che in modo soltanto emotivo. A tal fine sarebbe stato necessario abolire tutti i diritti a loro riconosciuti dalla legge e, in ultima analisi, «estirpare la razza ebraica in quanto tale»19. Il potere degli ebrei appariva allora, agli occhi del futuro dittatore, l’espressione massima del potere del capitale, del «luccichio dell’oro». Del marxismo non si faceva parola, benché Hitler vedesse negli ebrei i principali manovratori delle forze della rivoluzione e della socialdemocrazia. Allo stesso modo, il programma nazionalsocialista del febbraio 1920 non fece alcun riferimento diretto né al marxismo né al bolscevismo, mentre mise in primo piano la richiesta della revoca dei diritti civili agli ebrei. Nei primi discorsi di Hitler i duri attacchi rivolti al capitalismo finanziario ebraico erano associati strettamente all’accusa che imputava agli ebrei la responsabilità della guerra, della sconfitta e della morte di milioni di tedeschi. Questo era un punto cruciale del pensiero hitleriano, tanto che in un noto passo del Mein Kampf egli affermò che sarebbe stato possibile salvare la vita di un milione di tedeschi uccisi al fronte se solo «fossero stati sottoposti al gas venefico dodici o quindicimila di questi ebrei corruttori del popolo»20. In questa fase, dunque, bersaglio privilegiato dei discorsi hitleriani erano i finanzieri ebrei, definiti di volta in volta usurai, profittatori, incettatori e parassiti21. Come ebbe a dire Hitler stesso, il vero socialismo doveva essere antisemita o non essere affatto22, poiché egli, grazie soprattutto all’influenza di Feder, era convinto che il vero male non risiedesse nel capitale industriale, considerato essenzialmente come una parte sana dell’economia nazionale, ma, appunto, nel capitale finanziario che prosperava a vantaggio degli ebrei. Quando, poi, il suo sistema di pensiero accolse l’idea del «bolscevismo giudeo», la finanza internazionale divenne il complice malefico dell’«internazionalismo sovietico» in lotta contro gli interessi nazionali della Germania23. Di discorso in discorso gli attacchi di Hitler contro gli ebrei si fecero sempre più violenti. Benché, come scrisse nella citata lettera del settembre 1919, considerasse i pogrom antisemiti una ri34

sposta sbagliata al problema, in quanto puramente emotiva, nondimeno era convinto che i tedeschi avrebbero dovuto prepararsi a qualsiasi cosa, fosse pure a fare un patto con il diavolo, pur di schiacciare il male dell’ebraismo24. La sua visione mirava a una soluzione radicale del problema («estirpare gli ebrei dal nostro popolo»25), e già allora suggerì di prevenire la loro «azione demolitrice della nazione tedesca» rinchiudendoli in appositi campi di concentramento26, mentre il suo linguaggio, violento fino all’eccesso, si coloriva di metafore mediche che richiamavano la lotta contro le malattie infettive. Lo testimoniano queste parole pronunciate nell’agosto del 1920: Non vi illudete di poter combattere una malattia senza rimuovere la sua causa organica, cioè senza distruggere il bacillo, e non vi illudete di poter combattere la tabe razziale senza liberare prima il popolo dalla causa organica di questa tabe razziale. L’influenza del giudaismo non verrà mai meno ed essa continuerà ad avvelenare la nazione fino a che la sua causa organica, l’ebreo, non verrà rimossa dal nostro seno27.

In un discorso indirizzato alle SA nel febbraio 1922, Hitler affermò che il suo «unico, totale ed esclusivo interesse» era rivolto alla «questione ebraica», e qualche mese dopo riassunse l’intero programma del Partito nazista in un solo punto, il rifiuto, cioè, di considerare gli ebrei membri della comunità nazionale28. Nel frattempo, però, le sue esternazioni antisemite avevano conosciuto un significativo spostamento di accento: sotto l’impressione suscitata dai fatti di Russia, gli ebrei venivano ora attaccati non tanto come esponenti per eccellenza della finanza internazionale (anche se questo motivo restò sempre presente nella polemica hitleriana), ma soprattutto come ispiratori del marxismo e della manifestazione pratica di quella ideologia, la rivoluzione bolscevica. In entrambi i casi gli ebrei erano presentati da Hitler come nemici da combattere con ogni mezzo, ma mentre per l’esausta democrazia borghese egli provava solo disprezzo, l’ideologia del marxismo nella versione bolscevica, con l’energia brutale che essa aveva sprigionato, appariva ai suoi occhi una potenza formidabile, offrendo l’immagine di un futuro che solo la lotta razziale diretta dalla Germania avrebbe potuto scongiurare. Nei giorni del suo processo per alto tradimento celebrato nel35

la primavera del 1924 dopo il fallito putsch dell’8-9 novembre 1923 (quando, nel Bürgerbräukeller di Monaco, aveva proclamato una rivoluzione nazionale con l’obiettivo di far cadere il governo del Reich), Hitler dichiarò alla corte che il suo obiettivo era stato quello di sconfiggere il marxismo, asserendo che il movimento nazionalsocialista riconosceva in esso il suo unico e mortale nemico29. In questa autodifesa gli ebrei non erano più menzionati, e quando la stampa «ebraica» notò tale cambiamento di accento e ne chiese conto all’imputato, questi rispose alla sua maniera, ammettendo che in effetti aveva mutato opinione: mentre lavorava alla stesura del Mein Kampf, infatti, aveva capito che fino ad allora era stato troppo moderato, e che la «questione ebraica» non interessava solamente la nazione tedesca, ma tutte le nazioni del mondo, «poiché Giuda è un morbo mondiale»30. Perciò la vittoria non sarebbe stata possibile fino a quando il potere dell’ebraismo non fosse stato distrutto alle radici. Il cambiamento di accento nell’ideologia hitleriana fu, dunque, determinato in modo decisivo dalla connessione che si stabilì nella mente del futuro dittatore tra bolscevismo ed ebraismo. I suoi primi commenti sugli effetti catastrofici della rivoluzione bolscevica in Russia e sull’azione distruttiva perpetrata dagli ebrei ai danni di quella nazione, risalgono alla primavera e all’inizio dell’estate del 1920: nel luglio dello stesso anno il suo pensiero stava combinando ormai esplicitamente le immagini del marxismo, del bolscevismo e della Russia sovietica con l’idea del malefico strapotere degli ebrei, favorito, a suo dire, dall’egemonia socialdemocratica nella Germania postbellica31. Nei mesi seguenti il tema della Russia bolscevica focalizzò a più riprese le preoccupazioni di Hitler. Attorno al luglio del 1922 egli era giunto a preconizzare lo scontro tra due ideologie, la materialistica e l’idealistica, identificando la missione del popolo tedesco, coalizzato con le forze del bene, nella lotta contro il bolscevismo e contro la minaccia mortale dell’ebraismo. In questo contesto, lo Stato era considerato un mero strumento al servizio della conservazione della razza32. Qualche mese più tardi, l’idea hitleriana della funzione preminente del nesso antisemitismo-antibolscevismo sarebbe giunta a definitiva maturazione: da quel momento in poi essa sarebbe diventata il fine principale della sua missione politica. A ottobre, in un suo scritto il futuro dittatore parlò di una lot36

ta per la vita e per la morte tra due Weltanschauungen assolutamente inconciliabili, aggiungendo che alla fine di questo scontro non ci sarebbe stata altra possibilità che il trionfo dell’una e la totale distruzione dell’altra. L’esempio della Russia aveva dimostrato perfettamente cosa ciò volesse dire: «La vittoria del marxismo significa lo sterminio completo degli oppositori [...]. La bolscevizzazione della Germania [...] comporterebbe la distruzione completa della cultura cristiano-occidentale». Con ciò l’obiettivo del Partito nazionalsocialista era immediatamente posto: «Distruggere e sradicare la Weltanschauung marxista»33. Con la mutata consapevolezza del ruolo occupato dalla Russia bolscevica all’interno della sua filosofia razzista, Hitler sviluppò necessariamente anche una nuova visione in materia geopolitica. È significativo, infatti, che proprio nello stesso periodo – cioè attorno al 1922 – in cui prese coscienza della sua missione nella lotta all’ultimo sangue contro il «bolscevismo giudeo», l’asse della sua concezione della politica estera tedesca si spostò dalle rivendicazioni coloniali, care alla tradizione pangermanista, all’idea di un’espansione continentale a spese della Russia. A determinare questa modificazione degli obiettivi geopolitici dell’ideologia hitleriana furono, perciò, non tanto considerazioni di carattere classicamente diplomatico, ma la confluenza del motivo antisemita e antibolscevico nell’idea ossessiva della lotta contro il «bolscevismo giudeo», consolidatasi nella volontà di Hitler sotto l’impressione suscitata dal successo del bolscevismo nella guerra civile in Russia e dal profilarsi della minaccia bolscevica anche in Germania. I primi discorsi di Hitler ci dicono pochissimo su quelle che sarebbero poi diventate le sue idee in materia di politica estera. Più di una volta egli volle sottolineare i fallimenti che avevano segnato il tentativo dei politici post-bismarckiani di accordarsi con la Russia a scapito dell’alleanza con l’Austria-Ungheria, ma forte era anche l’insistenza sulla contrapposizione inevitabile fra Francia e Gran Bretagna da un lato e Germania dall’altro. Poiché l’obiettivo principale delle sue polemiche era, senza dubbio, la politica estera dei governi weimariani, fustigata aspramente ogni volta che se ne presentava l’occasione, si può, quindi, affermare che fino al 1922 il suo pensiero restò orientato in senso prevalentemente anti-occidentale, senza, tuttavia, essere accompagnato da 37

2. La squadra d’assalto «Hitler» nel 1923, anno del fallito putsch di Monaco. 3. Hitler nel dicembre del 1924, dopo il suo rilascio dal carcere di Landsberg, dove aveva scontato la pena inflittagli per avere preso parte al fallito putsch del 1923. 38

una chiara visione della politica delle alleanze che il suo Paese avrebbe dovuto seguire in futuro. Il suo atteggiamento nei confronti della Russia era allora caratterizzato tanto dall’ignoranza quanto dall’ambiguità; convinto della vitalità dello spirito nazionale del «popolo» russo contrapposto ai suoi governanti «bolscevico-giudei», egli continuò per lungo tempo a caldeggiare l’idea di un’alleanza in funzione antibritannica fra la Germania e una Russia liberata dal bolscevismo. Solo verso la fine del 1922, mentre giungeva a comprendere come in realtà gli interessi della Gran Bretagna divergessero profondamente da quelli francesi, Hitler approdò a una nuova concezione della politica tedesca nei confronti della Russia. Attorno al dicembre del 1922 gli obiettivi di politica estera destinati a essere sviluppati nel Mein Kampf e a formare il nucleo centrale del pensiero hitleriano, erano ormai perfettamente delineati. Nel corso di una discussione confidenziale condotta in quelle settimane, il futuro dittatore mostrò di aver superato il vecchio motivo della rivalità commerciale e coloniale con la Gran Bretagna e di considerare, piuttosto, necessario un riavvicinamento a questa potenza, in vista della futura espansione tedesca sul continente europeo a spese della Russia: La Germania deve adeguarsi a una politica esclusivamente continentale che leda il meno possibile gli interessi inglesi. L’obiettivo da perseguire è, infatti, la distruzione della Russia con l’aiuto dell’Inghilterra. La Russia darà alla Germania terra sufficiente per i suoi coloni e schiuderà all’industria tedesca un vasto campo di attività. E a quel punto l’Inghilterra non potrà più impedirci di fare i conti con la Francia34.

A due anni dalla stesura del Mein Kampf, dunque, Hitler aveva sviluppato la sua personale visione del mondo in tutti i suoi aspetti e obiettivi di fondo. La crociata contro il potere dell’ebraismo internazionale, la lotta per la distruzione del marxismo e la guerra contro la Russia per dare alla Germania il suo «spazio vitale» erano in realtà tre diverse espressioni di un unico sistema di pensiero pervaso intimamente, e allo stesso tempo legittimato, da una concezione della storia che, capovolgendo la teoria marxiana della centralità delle forze socio-economiche, si richiamava dogmaticamente a una visione dello sviluppo storico come susseguir39

si ininterrotto di lotte tra razze, cioè fra popoli definiti etnicamente e biologicamente. A tale proposito Hitler scrisse: Tutte le grandi culture del passato sono perite solo perché la razza sorta in origine si è estinta per aver lasciato corrompere il suo sangue [...]. L’imbastardimento del sangue e il conseguente scadimento della razza sono l’unica causa dell’estinzione delle vecchie culture [...]. Tutti gli avvenimenti della storia mondiale non sono altro che l’espressione, nel bene e nel male, dell’istinto di autoconservazione insito in ogni razza35.

Benché vedesse nella razza ebraica l’antitesi assoluta di quella che considerava la razza superiore (gli ariani), Hitler riconosceva agli ebrei un istinto di autoconservazione particolarmente sviluppato, che aveva consentito loro di prosperare «come parassiti nel corpo di altre nazioni e Stati»36: minando nell’intimo e distruggendo le altre razze «pure», essi avrebbero conseguito alla fine il dominio sul mondo. Dopo aver assunto il controllo delle democrazie liberali, il loro passo successivo era stato «l’organizzazione della massa per il tramite del marxismo», che consente di «soggiogare e governare i popoli con pugno brutale e dittatoriale»37. Ultima tappa di questo cammino erano, per Hitler, la «bestialità fanatica» e le «torture disumane» messe in atto dal «bolscevismo giudeo». «La fine non è soltanto la fine della libertà dei popoli oppressi dagli ebrei, ma anche la fine di questi parassiti che prosperano a danno delle nazioni. Dopo la morte della sua vittima, anche il vampiro è destinato, presto o tardi, a morire»38. Prima però di giungere a questo termine, ci sarebbe stata la prova di forza decisiva con la quale le rinvigorite energie razziali della nazione tedesca avrebbero distrutto l’ebraismo una volta per sempre. Il collegamento tra questo auspicato punto di svolta della storia mondiale e la politica estera tedesca è consegnato a uno degli ultimi capitoli del Mein Kampf. Nella visione di Hitler, come abbiamo detto, la Russia avrebbe fornito alla Germania la terra necessaria a sostenere le sue ambizioni da grande potenza. In quel Paese il «bolscevismo giudeo» aveva distrutto e rimpiazzato la vecchia classe dirigente formata da elementi di stirpe germanica, ma gli ebrei, agendo da «fattore di decomposizione», avevano in40

debolito l’impero russo, portandolo sull’orlo del collasso. Poiché «la fine del dominio ebraico in Russia sarà anche la fine della Russia come Stato»39, Hitler pensava che la missione del movimento nazionalsocialista fosse quella di dare al popolo tedesco la forza necessaria per assolvere tale compito. Bisognava, quindi, costruire uno «Stato germanico della nazione germanica»40, uno Stato che non fosse altro che lo strumento al servizio di quel fine41. Ciò, tuttavia, non sarebbe stato possibile senza la direzione di un «uomo di genio» dotato delle necessarie qualità. Durante le sua prigionia nella fortezza di Landsberg, dove avrebbe dovuto scontare i cinque anni di reclusione inflittigli dalla sentenza di condanna per il putsch fallito e da dove uscì dopo appena nove mesi, Hitler identificò nella sua stessa persona quel grande leader che il popolo tedesco stava aspettando. L’immagine eroica e quasi messianica di un nuovo «capo» in un Reich rinnovato era un luogo comune delle ideologie di estrema destra diffuse nella Germania dei primi anni Venti. All’inizio Hitler aveva concepito il suo ruolo come quello di un semplice propagandista, del «tamburino» che annunciava il prossimo avvento del grande leader. Il successo di Mussolini nel 1922 accese ulteriormente i suoi entusiasmi, e così nel 1922 e nel 1923 egli moltiplicò le sue affermazioni sull’importanza della personalità e del comando da parte di un capo eroico responsabile di fronte alla nazione ma capace di ottenerne l’obbedienza assoluta per realizzare la missione di cui era stato investito. Ancora nel maggio del 1923 Hitler affermò che il suo compito era solo quello di preparare il popolo alla venuta del futuro dittatore42, ma due mesi dopo, sostenendo che la salvezza poteva venire soltanto da una forte personalità, aggiunse anche che egli, in qualità di capo della NSDAP, reputava suo dovere «accettare le responsabilità»43. Nei giorni del suo processo del 1924, quando riuscì a trasformare il fallimento del colpo di Stato di Monaco in un trionfo personale, la visione hitleriana della propria funzione di uomo politico stava compiendo quella lenta metamorfosi che sarebbe culminata nell’autoinvestitura a leader carismatico della nazione tedesca all’indomani della sua scarcerazione e del suo ritorno sulla scena politica nel 1925. Verso la metà degli anni Venti, dunque, Hitler aveva sviluppato un sistema di pensiero organico da cui poteva trarre una vi41

sione completa del mondo, dei suoi mali e dei mezzi con cui sconfiggerli. La sostanza di questa filosofia sarebbe rimasta immutata fino alla sua morte, come dimostrano i lunghi monologhi «conviviali» da lui tenuti negli anni Quaranta sugli argomenti più svariati, e nei quali dominano gli stessi identici principi che furono posti alla base del suo pensiero circa venti anni prima. Nell’ultimo monologo registrato prima del suicidio, Hitler ritornò ancora una volta sull’idea della sconfitta finale del «bolscevismo giudeo» e sul concetto che «in un mondo sempre più corrotto dal morbo giudeo, alla lunga il popolo che è rimasto immune al contagio riuscirà a imporsi su tutti», sicché, «da questo punto di vista, il nazionalsocialismo può pretendere a buon diritto l’eterna gratitudine della nazione, perché ha estirpato la razza ebraica dalla Germania e dall’Europa centrale»44. E le ultime parole rivolte da Hitler al popolo tedesco, nel testamento politico scritto il giorno prima della sua morte, invitavano solennemente i suoi capi e i loro seguaci «all’osservanza scrupolosa delle leggi razziali e alla lotta spietata contro il comune avvelenatore di tutti i popoli, l’ebraismo internazionale»45. Hitler riteneva di realizzare in sé la più rara e preziosa delle combinazioni, quella fra il teorico e l’uomo politico, tra colui che pensa l’Idea e colui che la mette in atto46. Il senso ultimo di questa sintesi era, per lui, la lotta «per obiettivi che solo pochi eletti possono comprendere»47. La «dottrina», quindi, non si poneva soltanto come il risultato di una comprensione passiva del mondo, ma come forza motrice interiore da tradurre in atti concreti. Più volte Hitler, per definire il suo compito, usò la parola «missione», e col passare del tempo si convinse che dietro la sua opera ci fosse la mano della Provvidenza, che lo avrebbe aiutato, secondo i voti espressi nel Mein Kampf, nella lotta contro gli ebrei48. Egli si considerava chiamato alla preparazione di una crociata, idea, questa, che raggiunse la sua acme (e non solo per lui) quando la resa dei conti con il «bolscevismo giudeo» sembrò diventare realtà a seguito dell’invasione dell’Unione Sovietica nel giugno del 1941. La messianica dedizione all’Idea, a una fede cioè che non ammetteva alternative, lo dotava di una forza di volontà a cui pochi, al suo cospetto, erano capaci di resistere, così come il dogmatismo dell’autodidatta che sin dalla giovinezza aveva divorato libri dei 42

generi più svariati, contribuendo a rafforzare i suoi pregiudizi piuttosto che ad analizzarli criticamente, lo poneva in una posizione di naturale superiorità rispetto ai suoi interlocutori. Inoltre la sua memoria straordinaria per i particolari aveva il duplice effetto di impressionare chi lo ascoltava e di scoraggiare i tentativi di contraddizione, che risultavano ulteriormente ostacolati dalla riduzione di tutte le situazioni alla scelta tra un’ipotesi assolutamente giusta e l’altra da ridicolizzare senza remore, e dall’impatto retorico di formule grazie alle quali argomenti complessi venivano rigettati con disprezzo o banalizzati sotto forma di indiscutibili «verità fondamentali». L’incrollabile certezza delle proprie idee trascinava anche il più timido o dubbioso seguace di Hitler, mentre chi per cinismo non poteva condividerle o chi le rifiutava era destinato a restare escluso per sempre dal tempio del potere. A ogni modo, egli non si distaccò mai dai suoi «veri fedeli», da coloro che furono i suoi seguaci più leali e che egli considerava della sua stessa «tempra». Fu questa sintesi fra spirito messianico e capacità propagandistiche che sancì, nei primi anni Venti, la superiorità di Hitler rispetto a tutti i potenziali aspiranti alla guida del movimento nazionalsocialista: nessuno degli altri esponenti di punta del Partito, infatti, poteva mettere in campo contemporaneamente come faceva lui il fascino demagogico dell’oratoria, le doti di trascinatore e l’unità e la «forza esplicativa» di una visione ideologica onnicomprensiva. Le preoccupazioni ideologiche dei padri teorici del Partito, Gottfried Feder e Alfred Rosenberg, interessati più al fascino delle idee che ai loro riflessi politici e al loro potenziale organizzativo, apparivano sbiadite e limitate di fronte al talento hitleriano per la volgarizzazione semplificatrice e per il dialogo con le masse. Feder, infatti, fu emarginato nel giro di pochi anni, mentre i limiti della capacità di comando di Rosenberg emersero platealmente quando fu lasciato solo a dirigere il Partito durante la prigionia di Hitler. Altrettanto carente era il profilo personale e politico di altri esponenti di primo piano del movimento: Rudolf Hess era introverso e privo di capacità demagogiche, tanto che sin dal primo momento non si considerò né più né meno che un discepolo di Hitler; Julius Streicher non era altro che un volgare demagogo razzista 43

dall’intelligenza limitata, incapace di elevare la sua avversione ossessiva nei confronti degli ebrei a ideologia di ampio respiro; Hermann Göring era un uomo di azione piuttosto che di idee, e dopo un primo periodo di infatuazione al servizio delle SA, all’indomani del putsch fallito abbandonò del tutto la scena politica per quattro anni, restando escluso dai vertici del Partito anche negli anni successivi; Ernst Röhm era uno squadrista ben preparato dal punto di vista militare e un buon organizzatore, ma mancava sia di visione ideologica che di talento oratorio; anche Gregor Strasser aveva buone doti organizzative, ma era meno abile quando si trattava di eccitare il fervore delle masse, mentre suo fratello Otto fu un rappresentante tipico di quella nutrita schiera di capi nazionalsocialisti della prima ora che si allontanarono da Hitler cercando di staccare l’idea astratta del nazismo dalla sua incarnazione nella figura del capo del Partito; Joseph Goebbels, dal canto suo, fu piuttosto un chierico che un alto sacerdote, e agì soprattutto come «megafono» del proprio capo; Heinrich Himmler era un buon amministratore, ma aveva una personalità fredda, disumana e scontrosa, non certo fatta per guadagnargli la simpatia delle masse; infine Hans Frank, l’esperto giuridico del capo del Partito, era una persona debole, incerta, emotiva e sottomessa. L’eterogeneità delle vedute e delle ambizioni personali di queste e altre figure di punta del movimento nazionalsocialista, le loro rivalità e idiosincrasie reciproche finirono col danneggiare le possibilità di successo di ognuno di essi, consegnando la leadership del Partito all’unica persona, cioè Hitler, capace di conciliare le diverse posizioni nella visione, tanto imprecisa quanto incontrovertibile, di un futuro ideale incarnato nella figura sempre più esaltata del capo supremo. La nascita di un culto della personalità attorno a Hitler è databile già al 1922-23. A quel tempo altre figure di primo piano dell’ancora piccolo movimento nazionalsocialista parlavano pubblicamente di lui in termini adulatori ed «eroici» come del Mussolini tedesco, del capo invocato con ardore da milioni di compatrioti e dell’unico uomo in grado di restituire grandezza alla Germania. Successivamente, la sua orgogliosa assunzione di responsabilità per il putsch del novembre 1923 trasformò quest’ultimo da patetico buco nell’acqua in un trionfo propagandistico per tutta l’estrema destra, proiettando colui che ne divenne la bandiera in una posizione di chiara supremazia all’interno della galassia na44

zional-sciovinista. Anche la sua reclusione nella fortezza di Landsberg nel 1924 fu sfruttata in maniera tale da rendere un massimo effetto pubblicitario: accompagnato da circa due dozzine di sue guardie del corpo e con Rudolf Hess in funzione di segretario, il prigioniero ricevette la visita di numerosi camerati e seguaci del movimento, facendo della sua cella di Landsberg il vero e proprio sancta sanctorum del nazionalsocialismo, dove venivano anche discusse in modo approfondito e in forma quasi seminariale le idee che egli propinava ogni mattina ai suoi compagni di prigionia mentre scriveva il Mein Kampf. Negli ambienti interni al Partito, si stava ormai pienamente affermando la fama di Hitler come l’uomo capace di tradurre in un programma concreto l’Idea nazionalsocialista. Uno dei presenti a quelle riunioni in carcere, un ras locale non bavarese che si era avvicinato al futuro dittatore con un certo scetticismo, restò fortemente impressionato da un discorso in cui Hitler aveva disquisito a lungo sulla distinzione tra il leader «programmatico» e il «politico». La certezza di aver trovato un vero capo arrivò quando Hitler toccò per la prima volta grandi questioni di politica estera: È mia fermissima e incrollabile convinzione che Hitler non si sposterà di un millimetro dal suo pensiero nazionalsocialista [...]. E se nondimeno qualche volta sembra che ciò accada, è solo per poter perseguire meglio scopi più importanti. Perché egli riunisce in sé le doti dell’ideologo e del politico, e così come ha pienamente chiari i propri obiettivi, conosce anche il modo in cui conseguirli. La mia permanenza qui in carcere ha fugato i dubbi che nutrivo quando ero a Gottinga, rafforzando la mia fede nell’istinto politico di Hitler49.

Almeno da questo momento in poi, dunque, una fiducia crescente in Hitler come leader futuro della nazione tedesca, una fede secolare verso questo nuovo messia politico parve illuminare molti di quelli del suo stesso ambiente che entrarono in contatto frequente, ripetuto e prolungato con lui; e anche chi, come i fratelli Strasser, non si lasciò suggestionare minimamente da questo insorgente culto della personalità, fu comunque costretto a passare sulla difensiva. La cerchia ristretta dei seguaci del Führer si era ormai consolidata, le basi della «comunità carismatica» erano state gettate. 45

Rudolf Hess, che sin dai primi tempi fu il più fanatico e obbediente tra i fedelissimi di Hitler, parlò di un «potere della personalità» emanante «un qualcosa capace di ammaliare coloro che lo circondavano e di espandersi in cerchi sempre più ampi»50, e di cui era arrivato a comprendere pienamente «il significato possente» soltanto durante la prigionia a Landsberg51. Alfred Rosenberg, dal canto suo, nelle memorie scritte dopo la guerra nel carcere di Norimberga, ammise di aver provato ammirazione per Hitler sin dai primissimi giorni, riconoscendo in lui il «creatore» del Partito nazionalsocialista e della sua filosofia politica, nonché un capo dotato «di una solida base intellettuale e allo stesso tempo di una sempre crescente sicurezza nell’affrontare i più svariati problemi», e, ancora, di «una grande fede nel suo popolo e nella sua missione», «di energia creativa» e di una «volontà salda come l’acciaio»52. Anche Hans Frank, come ci racconta lui stesso, la prima volta che sentì parlare Hitler, nel gennaio 1920, ebbe chiara la sensazione che quello fosse l’unico uomo in grado di salvare la Germania53. Nel 1923, quando entrò nelle SA, egli era «positivamente soggiogato» dalla personalità del futuro dittatore, e quando questi, nel 1929, gli chiese personalmente di rinunciare all’idea di abbandonare la politica per abbracciare gli studi giuridici, Frank non esitò a riprendere «il nuovo, fulgidissimo cammino nel mondo di Adolf Hitler»54. Per Joseph Goebbels, invece, il colpo di fulmine arrivò attraverso il Mein Kampf, letto il quale volle sapere chi fosse l’uomo che l’aveva scritto, «mezzo plebeo e mezzo dio», e se fosse «proprio Gesù o soltanto san Giovanni». In lui, comunque, Goebbels vide subito un genio e desiderò divenirne amico, tanto da scrivere nel suo diario, alla data 19 aprile 1926, la frase «Adolf Hitler, ti amo»55. Baldur von Schirach, leader della Gioventù hitleriana negli anni Trenta, fu stregato dalla voce di Hitler sin dal primo giorno che lo sentì parlare in pubblico, nel 1925, facendosi catturare dal suo fascino e convincendosi che quell’uomo era «il futuro salvatore della Germania»56. Per Göring, che più tardi si sarebbe vantato del suo titolo di «primo paladino del Führer», la capitolazione sarebbe avvenuta soltanto nel 1928, con il suo rientro nel Partito dopo gli anni di latitanza all’estero seguìti al putsch fallito del 1923, ma da quel momento in poi la sua sottomissione a Hitler fu totale e incondizionata, tanto che negli ultimi anni cominciò quasi a provare un disagio fisico nei momenti di attesa che prece46

devano l’incontro con il capo. Questi, affermò Göring, era diventato la sua stessa coscienza, in lui si realizzava «la rara unione [...] tra il pensatore dotato di logica stringente, il filosofo profondamente speculativo e l’uomo d’azione tutto d’un pezzo»57. Tutti questi notabili del Partito nazionalsocialista incontravano Hitler in ambienti ristretti e intrattenevano con lui rapporti diretti e regolari. Tutti avevano aderito al movimento nella sua fase primitiva, ben prima che esso giungesse alle soglie del potere. Benché, come si sarebbe visto poi, non disdegnassero né la carriera né i benefici materiali, non si può dire che questi personaggi abbracciarono la causa nazionalsocialista per opportunismo politico. Cruciale fu, invece, il processo che portò a incarnare la loro fede e la loro lealtà nella persona di Hitler e che, come dimostrano le testimonianze sopra citate, era ben sviluppato già prima che si diffondesse un culto istituzionalizzato del Führer. Di fatto, quelle stesse figure furono allo stesso tempo le prime vittime e i principali propagatori del «mito di Hitler». Elemento fondante di questo nucleo centrale della «comunità carismatica» era il potere promanante dalla persona di Hitler, nella quale, a sua volta, risultava essenziale l’ostinazione dello zelota, la fede ardente del profeta autodesignato, la convinzione ideologica del missionario. Agli occhi dei componenti più intimi del suo seguito, la tanto celebrata unione nella sua persona dell’ideologo e del politico conferì a Hitler lo status inattaccabile di unico uomo capace di incarnare l’Idea e di tradurla in forme organizzative. Nelle questioni pratiche e nelle decisioni quotidiane Hitler era spesso tutt’altro che sicuro di sé, tanto più che di fronte al problema urgente della ricostruzione del Partito nella fase di blackout politico compresa fra la metà e la fine degli anni Venti, i dettagli della sua ideologia personale dovettero cedere il passo a questioni più importanti. Nei fatti, proprio la flessibilità delle singole idee all’interno del sistema generale si rivelò di grande utilità e gli consentì, quando le circostanze lo richiedevano, e persino quando aveva a che fare con i suoi adepti più fedeli, di privilegiare un aspetto del suo pensiero piuttosto che un altro. E tuttavia, il fattore decisivo restò la convinzione che il futuro apparteneva al movimento e ai suoi seguaci, che un giorno la visione di Hitler – qualunque interpretazione se ne desse – sarebbe divenuta realtà. Questo, e non altro, fu il vero potere dell’Idea di Hitler. 47

II

Alla conquista del potere

Nel ricostruire il modo in cui Hitler giunse a impadronirsi delle leve del potere dello Stato tedesco, è necessario distinguere fra tre diversi livelli di analisi. Il primo riguarda il processo che portò Hitler ad assumere il controllo indiscusso sul Partito nazionalsocialista dopo che quest’ultimo, alla fine degli anni Venti, era riuscito ad assorbire e unificare le anime prima disperse della destra sciovinista e aveva adottato come propria legge organizzativa il Führerprinzip (cioè il principio del comando assoluto del leader), riconoscendo in tal modo al suo capo il compito storico di salvatore della nazione. Un secondo filone d’indagine dovrà, invece, chiarire come Hitler riuscì a guadagnare consensi ben al di là degli ambienti estremisti della destra nazional-sciovinista, fino a ottenere i voti di oltre un terzo dell’elettorato tedesco e a legittimare le sue pretese di potere in quanto unico uomo in grado di «guidare» quelle masse. In terzo luogo, bisognerà analizzare il percorso che prima condusse a interessarsi alla persona di Hitler importanti settori non nazisti della società tedesca, molto meno influenzabili dalla propaganda «missionaria» del Partito hitleriano e allo stesso tempo ben inseriti nelle stanze del potere della Germania weimariana, e poi spinse quelle figure-chiave del sistema di potere weimariano ad accettare l’ascesa di Hitler al Cancellierato in un momento in cui egli stesso sembrava tutt’altro che certo del trionfo. In tutti e tre i processi appena richiamati il ruolo personale di Hitler fu messo ampiamente in secondo piano da questioni ed eventi che andavano al di là delle sue capacità di controllo. Molti altri prima di noi si sono chiesti perché negli anni Trenta il potere dello Stato tedesco finì proprio nelle mani di un outsider come Hitler. La domanda venne posta già al momento della sua nomina a cancelliere il 30 gennaio 1933, e da allora ha trova48

to risposte differenti. La risposta data dai nazisti fu la stessa che Hitler non si stancò mai di ripetere nelle estatiche apologie della storia del Partito con cui soleva aprire, soffermandovisi più o meno a lungo, i discorsi più importanti pronunciati dopo la fondazione del Terzo Reich. Secondo questa versione, l’ascesa del nazionalsocialismo dai suoi umili esordi alla «presa del potere» era stata unica ed esclusiva espressione del «trionfo della volontà». Una lotta incessante (e non a caso il periodo in cui essa si svolse era spesso indicato come «gli anni di lotta») contro il male, condotta con il sostegno di una schiera sempre più ampia di seguaci fanaticamente convinti della giustezza della propria causa, aveva consentito di superare tutte le avversità, di sconfiggere nemici potenti e di chiamare a raccolta la nazione per salvarla dalla minaccia di distruzione avanzata dal bolscevismo. Questa leggenda di Partito aveva un valore meramente propagandistico. Non ci fu, infatti, nulla d’inevitabile nel trionfo hitleriano del gennaio 1933. Cinque anni prima, il Partito nazionalsocialista era soltanto una piccola forza di disturbo nella politica tedesca: le elezioni del 1928 gli avevano attribuito appena il 2,6% del voto popolare e 12 seggi al Reichstag. Poco dopo, alcuni avvenimenti esterni come il Piano Young per la definizione del pagamento delle riparazioni di guerra da parte della Germania, il crollo di Wall Street e la decisione assolutamente non necessaria del cancelliere Brüning di convocare le elezioni anticipate nell’estate del 1930, assegnarono alla NSDAP un ruolo più incisivo nello scacchiere politico. Benché in quei giorni la democrazia fosse circondata da prospettive tutt’altro che rosee, una dittatura nazionalsocialista sembrava la meno probabile fra le diverse ipotesi di governo autoritario, come l’instaurazione di una dittatura militare o il ritorno a uno stile di governo bismarckiano, possibilmente sotto le insegne di una monarchia restaurata. Nel determinare il successo di Hitler, molto più di qualsiasi comportamento messo in atto dal Führer stesso furono decisivi lo svolgersi casuale di certi eventi e gli errori di calcolo delle forze conservatrici della società tedesca.

49

Il movimento Come dimostra la loro storia nel primo dopoguerra e negli anni compresi tra i due conflitti mondiali, i movimenti a sfondo autoritario erano, per la loro stessa natura, particolarmente soggetti a scissioni, frazionismi e lotte intestine per il potere. Le prime fasi di vita del Partito nazionalsocialista furono caratterizzate dalle stesse tendenze. Al pari del Partito tedesco dei lavoratori, esso nacque nel 1919 come una delle oltre settanta formazioni di estrema destra allora attive sulla scena politica tedesca. Accomunate dall’adesione a un’ideologia fondata su un nazionalismo radicale di chiara marca razzista, questi gruppuscoli si erano sviluppati nell’anno successivo alla fine della prima guerra mondiale, nutrendosi dell’atmosfera accesamente controrivoluzionaria che si respirava soprattutto in Baviera. Le divergenze fra tattica e strategia, le dispute su questioni ideologiche e le lotte personali costituirono sin dall’inizio parte integrante della storia del multiforme arcipelago della destra sciovinista. All’interno del neonato Partito nazionalsocialista fu Hitler stesso, nel 1921, a scatenare il primo serio scontro di potere, conclusosi con il rafforzamento della sua posizione statutaria di capo del Partito. Dopo il fallimento del putsch del Bürgerbräukeller nel 1923, l’unità temporanea raggiunta dal fronte sciovinista si dissolse e la stessa NSDAP si divise in una congerie di gruppuscoli in forte polemica reciproca. La lotta fra le fazioni continuò accanitamente anche dopo la rifondazione del Partito nel 1925, mettendo in discussione la stessa leadership di Hitler per un periodo di tempo che si prolungò fino agli inizi del 1926. Perfino dopo il 1930, quando la supremazia di Hitler si era ormai consolidata e il movimento nazionalsocialista si stava rafforzando a vista d’occhio, la NSDAP dovette affrontare ripetutamente le minacce di ribellione della sua ala paramilitare, le SA, e superare la crisi determinata dalla secessione di alcuni suoi esponenti di primo piano, fra cui Otto Strasser nel 1930 e, soprattutto, il fratello Gregor, secondo uomo del Partito dopo Hitler, alla fine del 1932. Oltre a ciò il corpo degli iscritti restava altamente fluttuante, in preda a un continuo processo di ricambio. La storia del Partito nazionalsocialista fino al 1933 dimostra chiaramente, 50

in definitiva, che si trattava di un movimento fortemente instabile composto da fazioni e interessi in contrasto reciproco e perciò esposto a potenti spinte centrifughe e disgregatrici. Di per se stessa, quindi, la leadership non rappresentò alcuna garanzia di unità, ma allo stesso tempo tutto fa pensare che senza l’affermazione dell’autorità suprema di Hitler sul movimento, accresciuta dal culto della personalità di cui egli divenne oggetto con un’intensità fino a quel momento sconosciuta, la lotta fra le correnti avrebbe finito col distruggere il Partito. Comunque sia, Hitler costituì la risorsa più preziosa della NSDAP, il suo magnete propagandistico e la sua calamita elettorale. Le chances di potere di gran parte dei notabili del Partito dipendevano da lui, e ciò da un lato spingeva i capicorrente ad accettare la necessità di mostrare almeno una parvenza di unità, dall’altro incoraggiava gli uomini di centro a collaborare attivamente per costruire e diffondere il culto del Führer, esaltando Hitler come figura superiore a qualsiasi critica, fonte di ortodossia ideologica e di obbedienza incondizionata. Una tale operazione fu condotta, a partire dalla metà degli anni Venti, non solo da coloro che, come Hess, ammiravano sinceramente il loro capo, ma anche da personaggi di punta come Gregor Strasser, disposti a sostenere l’uso strumentale del culto del Führer, nonostante le riserve nutrite sulla persona di Hitler. Creato alla fine degli anni Venti e rafforzato dai successi elettorali del 1930-32, questo culto prese a svilupparsi in modo relativamente autonomo, proteggendo Hitler da qualsiasi attacco interno e legando sempre più il Partito alla sua strategia di lotta per il potere basata sul principio del «tutto o niente». Cruciale per l’intero processo di formazione della base di potere hitleriana all’interno del movimento nazionalsocialista, così come per la definizione dei suoi caratteri e delle sue dinamiche organizzative fu, quindi, il culto del capo. L’autorità carismatica assurse a primo e fondamentale principio organizzativo del movimento, facendo del rapporto di Hitler con la NSDAP un caso senza eguali nelle altre organizzazioni politiche del tempo. Esso, inoltre, conferì al futuro dittatore quell’aura di grandezza in forza della quale egli riuscì ad affermare ben al di là della cerchia dei fedelissimi le sue pretese di comando assoluto giustificate dal suo ruolo di fondatore di una «nuova Germania». In tal modo Hitler poté disporre di una «comunità carismatica» sempre più ampia e otte51

nere quella legittimazione interna che gli consentì di sconfiggere l’endemica tendenza al frazionismo che caratterizzò il movimento nazionalsocialista e che, senza di lui, avrebbe finito sicuramente col trionfare. Come si è già detto, agli inizi della sua carriera Hitler si impose all’attenzione generale soprattutto per le sue doti di propagandista, di agitatore e di abile demagogo. Nel giro di soli pochi mesi, egli divenne il primo oratore del Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori, sorto nel febbraio 1920 sulle ceneri del Partito tedesco dei lavoratori. Fu proprio lui a esporre, il 21 di quello stesso mese, il programma ufficiale del Partito, dopo aver partecipato attivamente alla sua elaborazione e stesura. Sempre nel 1920 Hitler tenne più di trenta comizi al cospetto di folle composte da diverse centinaia di persone, e qualche volta anche da più di mille. Grazie al richiamo da lui esercitato, la NSDAP raggiunse alla fine di quell’anno la quota di 2.000 iscritti, saliti a 3.300 nell’agosto del 19211 – un progresso notevole rispetto al settembre 1919, quando Hitler stesso si era iscritto alla DAP con la tessera numero 552. Le sue tirate oratorie facevano effetto soprattutto sui piccoli borghesi della capitale bavarese, ma ben presto riscossero interesse anche presso alcuni ricchi e influenti personaggi dell’élite sociale e politica della città. Attraverso Ernst Röhm, futuro capo delle SA e membro della DAP sin dal 1919, Hitler stabilì contatti importanti con ufficiali dell’esercito e militanti delle formazioni paramilitari vicini alle posizioni della destra radicale. Così, il capitano Karl Mayr, ex comandante dell’unità di educazione ideologica della Reichswehr in cui aveva operato Hitler, provvide a far acquistare dall’esercito 3.000 copie di un opuscolo sul Trattato di Versailles distribuite dal Partito nel 1920, affermando in una lettera indirizzata a Wolfgang Kapp, esiliato fuori dalla Germania dopo il fallito putsch che prese il suo nome, che Hitler e il suo movimento suscitavano in lui le più grandi speranze3. Anche Dietrich Eckart, uno dei maestri «intellettuali» del futuro dittatore, svolse un ruolo prezioso come collettore di fondi e mediatore di contatti con ricchi protettori di simpatie nazional-scioviniste. Agli inizi del 1921 furono proprio le garanzie finanziarie prestate da Eckart, assieme a un contributo di 60.000 marchi prelevato da un fondo della Reichswehr grazie alle macchinazioni di Röhm e Mayr, a consentire al 52

Partito l’acquisizione di un proprio organo di stampa, il «Völkischer Beobachter». A buona ragione, quindi, è stato detto che queste tre figure (Röhm, Mayr ed Eckart) furono «le levatrici della carriera politica hitleriana»4. Nel 1921 Hitler aveva ampiamente oscurato il prestigio del primo capo e co-fondatore del Partito, Anton Drexler. Lo scontro fra i due era ormai inevitabile, e l’occasione fu data dall’avvio di una serie di contatti per la fusione con altri gruppi rivali dell’arcipelago nazional-sciovinista. Hitler respinse immediatamente questi tentativi, temendo che l’ingresso di nuove componenti avrebbe indebolito la sua presa sul Partito e il suo ruolo (così come da lui stesso concepito sulla scorta dei suoi successi oratorii) di «tamburino» propagandistico di tutta la destra nazionalista. Quando Drexler cercò di approfittare di una momentanea assenza del suo rivale per mettere in atto i suoi piani di fusione, Hitler abbandonò furente il Partito, provocando una crisi gravissima che si risolse solo grazie alla mediazione di Eckart, che negoziò il ritorno della «prima voce» della NSDAP in cambio di condizioni tali da garantirgli un’egemonia assoluta all’interno del movimento. Tutto sta a indicare che il comportamento di Hitler durante la crisi appena descritta fu dettato da una reazione irata e spontanea di fronte a circostanze poste al di fuori del suo controllo, piuttosto che da una strategia premeditata volta a piegare il Partito al suo potere dittatoriale. Ma la sua funzione indispensabile di propagandista fece sì che l’inflessibilità e il rifiuto da lui opposti a qualsiasi compromesso si trasformassero in un vantaggio destinato a rafforzare enormemente la sua posizione nel Partito. Quest’ultimo, dal canto suo, continuò a espandersi rapidamente, incontrando le maggiori adesioni nella piccola borghesia bavarese: alla fine del 1922 esso contava 20.000 iscritti, saliti a circa 55.000 al momento del putsch del 1923. A partire dal 1921 la NSDAP si dotò pure di una propria formazione paramilitare, le SA (Sturmabteilung, Squadre d’assalto), ma anche così il movimento nazionalsocialista fino al 1923 restò ancora lontano dall’obiettivo di diventare la forza più potente nello schieramento delle organizzazioni paramilitari della destra «patriottica» operanti in Baviera. La continua crescita del Partito dipendeva soprattutto dalle capacità propagandistiche di Hitler e dal suo ruolo di fustigatore del sistema politico weimariano, minacciato nei suoi fondamenti democra53

tici dall’iper-inflazione, dall’occupazione della Ruhr e dall’instabilità di governo. Su coloro che erano già predisposti ad accoglierne il messaggio, i comizi di Hitler sortivano un effetto elettrizzante. Uno dei suoi primi ammiratori, Kurt Lüdecke, ricordando le reazioni provate ascoltando un discorso di Hitler del 1922, ha descritto come egli si trovò spogliato di qualsiasi capacità critica e come cadde preda «di una malìa ipnotica per effetto della semplice forza delle sue convinzioni [...] [del]l’intensa volontà dell’uomo, [del]la passione della sua sincerità» che «sembrava trasmettersi direttamente da lui a me», dando luogo a un’esperienza paragonabile soltanto a una conversione religiosa5. Racconti di questo tenore sono tutt’altro che rari, ma ciò nonostante, nelle condizioni storiche della Baviera degli anni Venti, la demagogia hitleriana era destinata a fare proseliti soltanto negli ambienti nazional-sciovinisti. Senza appoggi esterni e senza il sostegno di ambienti più influenti, Hitler non sarebbe rimasto altro che un agitatore da birreria. Furono proprio alcuni ricchi personaggi convertiti della prima ora, come Lüdecke e Putzi Hanfstaengl, laureato a Harvard e rampollo di una prestigiosa famiglia di mercanti d’arte di Monaco, a introdurre il futuro dittatore nei salotti buoni dell’alta borghesia della capitale bavarese. Altri personaggi disposti a fare da anfitrioni nelle loro serate eleganti a un ospite improbabile come Hitler furono l’editore Julius Lehmann (simpatizzante di lunga data del Partito) e Hugo Bruckmann, il fabbricante di pianoforti Carl Bechstein, nonché il feldmaresciallo Ludendorff, la figura più prestigiosa dell’estrema destra, che adoperò la sua influenza per raccomandare il piccolo ex caporale presso ambienti che altrimenti gli sarebbero stati irrimediabilmente preclusi. Ancora più importante fu la protezione garantita a Hitler e al suo movimento dalle autorità bavaresi. Questi, infatti, seppero sfruttare a proprio vantaggio le simpatie nazionaliste dei vertici della polizia, della magistratura e dell’esercito della Baviera, Stato che si concepiva nel suo insieme come baluardo della destra patriottica contro il socialismo dilagante in Prussia, Sassonia, Turingia ecc. E quando si stabilirono più ampi legami con Ludendorff e con le altre organizzazioni paramilitari bavaresi, con Röhm a svolgere un importante ruolo di mediazione, la NSDAP poté approfittare anche dei consistenti finanziamenti messi a disposizio54

1. Hitler a un raduno del Partito nazionalsocialista nel 1930. 55

ne del movimento nazionalista per combattere il «pericolo rosso». Röhm fu importante anche come fornitore di equipaggiamento militare, come accadde nel 1923, quando, grazie alle sue possibilità di accesso alle riserve di alcune unità controrivoluzionarie della Guardia nazionale custodite dalla Reichswehr, le SA poterono disporre di armi, veicoli e altro materiale bellico. Fu, infine, lo stesso Röhm, nel settembre di quell’anno, a orchestrare l’ascesa di Hitler a capo del Deutscher Kampfbund (Fascio tedesco di combattimento), organizzazione risultante dalla fusione della NSDAP con il Bund Oberland (Fascio dell’Oberland) e la Reichsflagge (Bandiera imperiale) e diventata in breve tempo la formazione paramilitare più aggressiva ed estremista di tutta la Baviera. Difficilmente Hitler avrebbe potuto raggiungere questa posizione di preminenza all’interno della destra radicale bavarese senza l’aiuto economico, la protezione e il sostegno della borghesia di Monaco e delle autorità politiche e militari della capitale bavarese. E benché questa fase della storia del Partito fosse culminata nella disfatta del novembre 1923, il fatto che Hitler riuscì a mettere Ludendorff in secondo piano durante il processo del febbraio-marzo 1924 dimostrò che egli poteva ormai legittimamente proporsi come figura leader del movimento sciovinista – per quanto tale ruolo potesse apparire prestigioso, viste le grame prospettive che in quel momento si aprivano sul futuro di quell’area politica. Non senza peso fu, inoltre, la circostanza che l’assunzione di quel primato avvenisse grazie al suo ennesimo exploit propagandistico, ottenuto questa volta di fronte ai comprensivi giudici di Monaco di Baviera. La disgregazione del Partito nazionalsocialista durante la prigionia di Hitler confermò la funzione indispensabile della sua leadership, tanto più che tutte le frange del movimento, al di là delle diverse posizioni, condividevano un’uguale venerazione per il loro ex capo – la cui fama, peraltro, aveva raggiunto, dopo il processo, anche ambienti della destra radicale fuori dalla Baviera. Le lotte di fazione continuarono a infuriare con la massima asprezza per tutto l’anno (e anche più) successivo alla scarcerazione di Hitler e alla ricostituzione della NSDAP nel febbraio del 1925, ma la posizione del futuro dittatore all’interno dell’organizzazione risultò ora notevolmente rafforzata sia dai meriti personali da lui recentemente acquisiti, sia dallo stato di estrema debolezza in cui il 56

Partito era piombato all’indomani del putsch fallito. Così, quando attorno al febbraio 1926 la NSDAP fu scossa da una nuova crisi per contrasti sorti sulla definizione dei suoi obiettivi e della sua strategia, soprattutto grazie alla possibilità di controllare la centrale di Monaco, ganglio vitale del partito, Hitler si trovò a disporre della forza necessaria per affrontare e superare quella fase di grave difficoltà. Le cause di questa crisi vanno ricercate in alcuni conflitti personali risalenti al periodo di disgregazione interna seguìto al fallimento del putsch di novembre e nella scarsa popolarità goduta da alcuni leader dominanti nella provincia bavarese, come l’allora capo della propaganda Hermann Esser e Julius Streicher, ras di Norimberga. Ben più gravi furono, però, le critiche espresse da alcuni esponenti di punta del Partito nel Nord e nell’Ovest della Germania (in primo luogo da Gregor Strasser, che dopo lo scioglimento della NSDAP nel 1924 si era unito ad altri leader settentrionali) relativamente al programma del 1920, giudicato troppo vago, al sacrificio delle sue componenti socialisteggianti sull’altare della linea politica seguita dalla centrale di Monaco e, infine, a tutta la strategia politica adottata in generale dal Partito. Sul tappeto c’erano questioni scottanti come l’opportunità di partecipare alle elezioni, seguendo la strategia di conquista legale del potere delineata da Hitler dopo il fallimento del putsch del 1923, o di appoggiare un referendum popolare proposto dalle forze di sinistra per l’esproprio dei beni dell’ex casa regnante. Altrettanto controversa era la linea da tenere in politica estera, con il contrasto tra un’ipotesi favorevole alla collaborazione con l’Unione Sovietica contro le potenze occidentali e un’altra che individuava proprio nella Russia lo «spazio vitale» di espansione della Germania. A costringere Hitler a prendere l’iniziativa fu, però, la richiesta di adozione di un nuovo programma di Partito, cosa che avrebbe comportato non solo il riconoscimento del carattere perennemente negoziabile della sua «dottrina», ma anche, e soprattutto, l’accettazione del principio che la condotta del capo doveva essere legata al rispetto del programma stesso. In tal modo il potere di Hitler all’interno dell’organizzazione sarebbe stato scosso dalle fondamenta, poiché la legittimazione della sua leadership non derivava dall’obbedienza al programma, ma dalla capacità di fare della sua missione il veicolo di incarnazione dell’Idea. L’essenza ca57

rismatica del Partito sarebbe stata svuotata a vantaggio di un semplice pezzo di carta. Hitler rimase inattivo fino ai primi del 1926. Nei mesi precedenti la sua caratteristica noncuranza per le questioni di ordinaria amministrazione del Partito lo aveva spinto a delegarne tutta la gestione nelle mani di terzi, tanto più che in quello stesso periodo egli stava dedicandosi a tempo pieno alla stesura del secondo volume del Mein Kampf. Così Hitler si interessò poco alla crisi che covava sotto la cenere, e il «gruppo di lavoro» formato da alcuni capi regionali del Nord poté operare con la sua stessa autorizzazione, senza che le attività da esso svolte fossero percepite come una sfida al suo potere. Agli inizi del 1926, tuttavia, divenne chiaro che quella piccola crisi si stava trasformando in una minaccia in grado di scuotere le basi stesse della sua autorità di leader. Come al solito, Hitler entrò in azione solo quando si trovò costretto a farlo. Intervenendo durante una conferenza dei capi della NSDAP convocata a Bamberg il 14 febbraio 1926, Hitler sbarrò definitivamente la strada a qualsiasi prospettiva di riforma, sconfessando l’operato del gruppo di lavoro – che, a ogni buon conto, era apparso diviso al proprio interno sin dall’inizio. Il futuro dittatore ribadì che la missione del Partito era quella di distruggere il «bolscevismo giudeo» (compito, questo, non menzionato nel programma del 1920); perciò era necessario cercare l’appoggio dell’Italia e dell’Inghilterra, in quanto alleati naturali della Germania, e rigettare qualsiasi idea di riavvicinamento alla Russia. Del pari netto era il rifiuto opposto al referendum sull’espropriazione dei principi Hohenzollern6. Soprattutto, però, egli stabilì un’identità totale tra la sua persona e il programma attuale del Partito. Questo programma, dichiarò, rappresentava «le fondamenta della nostra religione, della nostra ideologia», e manometterlo in qualche punto avrebbe significato tradire «coloro che sono morti credendo nella nostra Idea»7. Insomma, era chiaro che criticare il programma significava mettere in discussione Hitler stesso, l’Idea e la memoria dei «martiri» nazionalsocialisti del putsch del 1923. Questo appello alla lealtà ebbe l’effetto sperato. L’opposizione, che non aveva mai avuto l’intenzione di mettere in discussione Hitler e tanto meno l’Idea del Partito, pur prendendo le mosse proprio dalla vaghezza di quella, svanì nel nulla. Le strutture 58

centrali dell’organizzazione vennero ulteriormente rafforzate, i capi settentrionali accettarono la sconfitta e si ritirarono in buon ordine. Goebbels, uscito dalla riunione di Bamberg nella più totale costernazione, dopo essere stato invitato a Monaco, dove ricevette un trattamento di riguardo e venne fatto oggetto delle lusinghe di Hitler, riconobbe pienamente i meriti del Führer. «Hitler è grande – scrisse nel suo diario –. Ci stringe le mani a tutti con calore. Dimentichiamo il passato, mettiamoci una pietra sopra [...]. Io mi inchino di fronte al grande uomo, a questo genio politico»8. Poco tempo dopo, nel maggio 1926, la NSDAP tenne a Weimar il suo primo congresso dopo il putsch di novembre, trasformatosi in una manifestazione pubblica di fedeltà verso la persona di Hitler. Nella stessa occasione il programma del 1920 fu dichiarato immodificabile. La crisi era superata una volta per tutte, lasciandosi alle spalle le ultime parvenze di democrazia interna all’organizzazione e portando il riconoscimento che tutto il potere di decisione in materia ideologica e organizzativa risiedeva esclusivamente nelle mani di Hitler. La NSDAP compiva così la sua definitiva trasformazione in Führerpartei, in partito carismatico sottoposto al potere assoluto del suo capo. Tutte queste vicende sembravano allora di scarsa rilevanza nel contesto generale della politica tedesca. La democrazia aveva superato la prova del fuoco della crisi postbellica: tre anni dopo l’iper-inflazione del 1923, la moneta era ritornata stabile e l’economia si stava riprendendo a grandi passi, la cultura weimariana viveva i suoi anni d’oro e il quadro politico sembrava il più stabile che mai si avesse avuto dalla fine della guerra, mentre il consenso elettorale per la destra radicale era sceso ai minimi livelli. Il futuro sembrava roseo, e probabilmente senza lo scoppio della crisi economica mondiale del 1929 sarebbe rimasto tale. Gli stessi anni che videro l’oscuramento politico della NSDAP furono, tuttavia, anche quelli in cui il Partito si dotò delle strutture organizzative che gli avrebbero consentito di sfruttare la crisi provocata dalla Grande depressione in maniera molto più efficace di quanto non fosse riuscito a fare il variegato arcipelago dell’estrema destra durante l’iper-inflazione del 1922-23. Alla fine degli anni Venti, infatti, una serie di formazioni nazional-scioviniste in via di estinzione rinunciò alla propria autonomia per confluire nel movimento nazionalsocialista, il quale in tal modo al59

2. Hitler nel 1931, mentre conversa con due importanti esponenti del movimento nazionalsocialista, Hermann Göring (a sinistra) e il capo delle SA, Ernst Röhm (al centro). 3. La «Casa bruna» a Monaco di Baviera, diventata il quartier generale nazista nel 1931. 60

lo scoppio della crisi, benché ancora elettoralmente poco consistente, si trovò a disporre di una base di attivisti notevolmente irrobustita, forte di oltre 100.000 aderenti. In questo periodo, poi, il culto della personalità tributato a Hitler venne fissato in forme istituzionalizzate all’interno dello stesso movimento nazionalsocialista, fondando così i presupposti per la sua diffusione in più ampi strati dell’elettorato nei primi anni Trenta. A dimostrazione tangibile e riconoscimento esteriore della supremazia hitleriana venne imposto l’obbligo di pronunciare il saluto «Heil Hitler!» a ogni inizio di discorso tra camerati della NSDAP, e perfino Gregor Strasser, l’esponente di punta del gruppo dei «riformatori» del 1925-26 ora convertitosi apertamente al culto del Führer, ebbe a parlare, in una pubblicazione del Partito, dell’«assoluta devozione all’Idea del Nazionalsocialismo» congiunta all’«amore profondo per la persona del nostro capo, che è il fulgido eroe dei nuovi combattenti della libertà»9. Anche Goebbels, la cui ammirazione per Hitler aveva conosciuto un breve momento di caduta nel 1926, divenne, attraverso il suo giornale «Der Angriff», uno dei principali artefici del consolidamento e della diffusione del culto del Führer. L’obiettivo inseguito da Hitler si era trasformato in realtà: il programma del Partito era ormai diventato tutt’uno con la sua persona. Tale programma, tuttavia, non si presentò come un insieme di obiettivi politici chiari fissati in modo netto in una piattaforma di partito. Né esso, nonostante la sua funzione unificatrice nei confronti di un’organizzazione per sua natura incline alla rissosità e alle divisioni interne, implicò, se non indirettamente, l’adesione consapevole a ogni singolo aspetto dell’ideologia personale di Hitler, così come era stata esposta nel Mein Kampf. Lo stesso capo della NSDAP non aveva mai pensato che la saldezza e la rigidità delle scelte programmatiche potessero bastare a garantire l’unità del movimento. Ciò che veniva richiesto era, invece, un atto di fede incondizionata in una serie di dogmi dottrinali tanto vagamente definiti quanto inflessibilmente sostenuti, e tutti incarnati nella stessa figura del Führer: il mondo come teatro della lotta eterna tra razze forti e razze deboli, la selezione del più adatto, il desiderio di riportare la Germania alla sua antica grandezza e di fare piazza pulita degli ebrei, la ricerca dello «spazio vitale» per il popolo tedesco. Gli elementi di divisione vennero mes61

si il più possibile in secondo piano e Hitler si tenne lontano dalle dispute interne ogni volta che poté, riuscendo a combinare il rispetto rigido dei dogmi basilari della sua visione ideologica con il massimo del pragmatismo nei comportamenti politici. Inoltre egli mantenne sempre le distanze dalle componenti socialmente più radicali del movimento, convinto che queste lo allontanassero piuttosto che avvicinarlo all’obiettivo che per lui rappresentava il presupposto di ogni altra cosa, cioè l’assunzione delle leve del potere statale. In parte perché convinti della grandezza di Hitler e della giustezza della sua «missione», in parte perché consapevoli che le loro ambizioni di carriera dipendevano dal capo, in parte perché disposti ad accettare la sua supremazia sulla NSDAP in quanto garanzia dell’esclusione di tutte le altre candidature al potere interno, i principali dirigenti nazisti, fortemente divisi fra loro, facevano a gara nel dimostrare la loro devozione al Führer e nel dichiarargli la loro lealtà incondizionata. Conflitti e discussioni personali su questioni di strategie erano del resto inevitabili, tanto più finché il successo politico continuava a sfuggire; ma tutti si concludevano invariabilmente con una rinnovata attestazione di fedeltà e obbedienza a Hitler. Nel 1927, per esempio, un duro scontro tra Goebbels e Gregor Strasser sfociò in una dimostrazione pubblica di unità, «sorretta dalla fede comune in un’alta e sacra missione e dal sentimento di lealtà che lega questi uomini all’idea comune e al capo di tutti loro, nella persona di Adolf Hitler». Le due premesse della «imminente vittoria nell’unità d’ideali» da parte dei membri del Partito erano individuate nell’«autorità dell’Idea e nell’autorità del Führer», che sono divenute tutt’uno nella persona di Adolf Hitler10. Al di sotto di questa unità apparente, i contrasti (e a volte persino le ribellioni) continuarono sino alla fine del 1932, ma ora la posizione di Hitler era molto più forte di quanto non lo fosse stata ai tempi delle lotte di fazione del 1925-26. Così, quando nel 1930 Otto Strasser osò sfidare la sua autorità riproponendo ancora una volta la questione del primato dell’Idea sul ruolo del leader, l’immediata espulsione del dissidente non suscitò la minima reazione all’interno del Partito, mentre altrettanto efficace si rivelò l’appello alla fedeltà verso la sua persona quando, nello stes62

so anno, le SA entrarono in fermento, fino a provocare una vera e propria rivolta nella primavera del 1931. E in occasione della più grave di tutte le crisi, quella del dicembre 1932, il secondo uomo della NSDAP, Gregor Strasser, dovette dimettersi da tutte le cariche del Partito per insanabili contrasti sorti sulla linea politica tenuta da Hitler, ma non riuscì a trascinarsi nessuno dietro di sé né a mettere in dubbio, anche per un solo momento, la leadership hitleriana, uscita da quest’ennesima prova di nuovo – ma ora definitivamente – trionfante. Dopo una riunione indetta contro Strasser, «i presenti [cioè i Gauleiter anziani – N.d.A.] suggellarono ancora una volta con una stretta di mano il loro antico legame con il capo»11. Nelle settimane seguenti Hitler fu sommerso da attestazioni di lealtà provenienti da tutta la Germania. Come si è visto, dunque, l’egemonia di Hitler all’interno della NSDAP prese forma in gran parte negli anni «oscuri» compresi fra il 1925 e il 1928, e quando, nell’autunno del 1929, cominciò l’ascesa elettorale del partito, la sua natura di Partito «carismatico-dittatoriale», caratterizzato cioè dalla totale identificazione del suo programma e della sua organizzazione nella figura del capo, era un dato ormai acquisito – tanto che esso era anche noto come «il movimento hitleriano». Stabilita l’autorità assoluta di Hitler all’interno della NSDAP, furono gettate le basi per la creazione di quella più ampia «comunità carismatica» destinata a diventare la principale cinghia di trasmissione del culto del Führer in nuovi settori dell’elettorato e della popolazione tedesca.

Le masse Il richiamo esercitato da un capo carismatico sulle masse dipende solo indirettamente dalle reali doti personali e qualità caratteriali di questo capo. Nel nostro caso, le impressioni soggettive furono molto più importanti della realtà. Solo pochi dei 13 milioni di elettori che avevano votato per il leader della NSDAP nel 1932 lo avevano conosciuto di persona: l’Hitler di cui avevano sentito parlare, di cui avevano letto nei giornali o che avevano visto in qualche comizio elettorale e in manifestazioni di massa era essenzialmente un’immagine creata e abbellita dalla propaganda. 63

La «promozione» di questa immagine rappresentò, quindi, una questione di vitale importanza, così come indispensabile fu la predisposizione del popolo ad accettare tale immagine. Verosimilmente, molti sostenitori del nazionalsocialismo si erano convertiti almeno in parte alle idee hitleriane già prima di incontrare il Führer in carne e ossa o di soccombere al suo «carisma» in qualche altro modo. Benché l’assenza di sondaggi d’opinione non ce ne possa dare la certezza, è legittimo credere che la maggioranza di coloro che votarono per la NSDAP non lo fece tanto per convinzione ideologica o per adesione spassionata alla «missione» hitleriana, ma piuttosto per prosaici motivi di bottega, per questioni locali, per calcolo razionale legato a interessi privati o per la considerazione puramente negativa che Hitler non avrebbe potuto fare peggio degli altri, e che perciò gli si poteva dare una chance, nella speranza che riuscisse a fare qualcosa di buono. Soprattutto nei villaggi e nei paesi accadde spesso che la popolazione locale si decidesse a favore del nazismo seguendo l’esempio di alcuni notabili, membri onorati e rispettabili di club e associazioni non strettamente politiche. Dopo il 1929-30, il coacervo di gruppi d’interesse attivi all’interno del movimento nazionalsocialista attraverso una rete di organizzazioni affiliate che miravano a rappresentare tutti i settori della società (dai giovani alle donne, dagli operai delle fabbriche ai contadini, dai commercianti e dagli studenti fino agli avvocati, medici, impiegati statali, insegnanti di scuola e docenti universitari) cominciò a collegare quest’idea «ecumenica» del Partito alla difesa di istanze materiali e di interessi più specifici. Hitler, dunque, non fu né l’unico né il principale fattore che spinse le masse verso il nazionalsocialismo, perché molto di più poté in tal senso la convergenza di un’intera gamma di motivazioni materiali e sociali. Nondimeno, una volta entrati nell’orbita nazionalsocialista, tutti i potenziali sostenitori del movimento soggiacevano inevitabilmente all’immagine «carismatica» di Hitler. Oltre a questa, fu proprio il culto della personalità che circondò Hitler e nel quale confluì e prese corpo l’amalgama confuso dei diversi filoni dell’Idea nazionalsocialista, ad assurgere a fattore di richiamo autonomo e di primaria importanza. Da un’indagine condotta su un campione (impressionisticamente significativo, ma non certo statisticamente rappresentativo) di militanti 64

di base della NSDAP, è risultato, per esempio, che quasi un quinto (18,1%) dei 739 soggetti presi in considerazione indicavano la loro motivazione ideologica dominante nel culto del Führer12. Come si è visto, anche nei ranghi più alti del Partito uno dei pregi maggiori dell’Idea era individuato proprio nella sua vaghezza, nella possibilità, cioè, di tributare la devozione più fanatica alla visione utopistica di un futuro lontano, piuttosto che ai punti specifici di un esplicito programma di azione. La dote principale che distingueva Hitler da coloro che condividevano la stessa prospettiva era la sua capacità di suscitare, in quanti entravano in contatto con lui ed erano in qualche modo predisposti ad accoglierne il messaggio, la visione di un futuro eroico per una Germania rigenerata e risorgente dalle ceneri prodotte dalla distruzione totale del vecchio ordine di cose. Il dittatore riuscì a infatuare i milioni di tedeschi che divennero suoi sostenitori convincendoli che lui e lui solo, con l’aiuto del suo Partito, avrebbe potuto mettere fine all’attuale stato di prostrazione della nazione tedesca e condurla a una nuova epoca di grandezza. Questa visione prometteva grandi benefici per tutti – nella misura in cui si rivelassero razzialmente «adatti» –, mentre ai nemici del popolo, colpevoli di averlo tenuto in schiavitù per così tanto tempo, era riservato non solo il bando, ma l’annientamento totale. Le diverse variazioni effettuate sul duplice tema della rigenerazione nazionale e dell’estirpazione dei nemici del popolo bastarono a dare al messaggio hitleriano la necessaria forza d’attrazione. Nei primi anni Trenta, per molti sostenitori del nazismo l’espressione «nemici del popolo» si riferiva innanzi tutto ai marxisti. Benché nella Weltanschauung hitleriana ebrei e marxisti fossero quasi sinonimi, negli anni della sua ascesa al potere la denigrazione pubblica dei secondi giocò un ruolo di primaria importanza: a quel tempo, infatti, molti membri del Partito, per non parlare degli elettori più occasionali, tendevano a definirsi in primo luogo e al di sopra di tutto come antimarxisti – anche se certamente questo atteggiamento poteva spesso sussumere dentro di sé, come era in effetti nel caso di Hitler, un violento antisemitismo, o coesistere con esso. Rispondendo alla domanda su quale fosse l’oggetto principale delle loro avversioni politiche, quasi due terzi del citato campione di militanti della NSDAP si dichiarò innanzi tutto antimarxista di una specie o dell’altra13. Per quanto ri65

guarda i fattori positivi di adesione al nazionalsocialismo, le risposte date dallo stesso campione privilegiano chiaramente vaghe aspirazioni ideali come l’auspicio della creazione di una comunità nazionale pacificata e solidaristica (31,7% delle 739 risposte) e il nazionalismo esasperato (22,5%), associato all’idea di un deciso espansionismo militare tedesco, piuttosto che l’antisemitismo (primario o indotto), risultato predominante in solo il 13,6% delle risposte14. In questi vaghi imperativi ideologici non c’era nulla di propriamente nazionalsocialista, né tanto meno di specificatamente hitleriano. Tutti erano stati patrimonio comune della destra estremistica già prima che la NSDAP riuscisse a monopolizzare il mercato del nazionalismo sciovinistico nella Germania weimariana. Ai fini della costruzione del consenso di massa, molto più determinante della formulazione di una dottrina genuinamente nazista fu lo stile di articolazione e di presentazione di quelle paure, fobìe e aspettative nebulose diffuse in ambienti ben più ampi del classico bacino di reclutamento della destra sciovinista. E quando si trattava di manipolare queste forme esteriori, Hitler non aveva avversari. Nella crisi generale dello Stato messa in moto dalla Grande depressione, con l’economia in subbuglio e l’autorità politica in pieno marasma, le doti retoriche di Hitler diedero il meglio di sé. Il futuro dittatore fu, più di ogni altro leader nazionalsocialista (persino più di Goebbels), colui che seppe dar voce alle ansie e ai pregiudizi più radicati, attraverso le argomentazioni banalizzanti e a tinte forti tipiche del suo stile oratorio. La sua forza espressiva, la semplicità delle alternative poste, la saldezza delle sue convinzioni e la grandiosa visione del futuro da lui prospettata concorsero a formare un messaggio politico capace di attrarre irresistibilmente chi era già ben disposto verso di esso. Presi in sé, i testi dei discorsi hitleriani non erano altro che un catalogo di banalità e luoghi comuni, ma calati nell’atmosfera particolare, nell’ambientazione spettacolare e nell’aura mistica di grandezza messianica che la propaganda nazista aveva costruito attorno a Hitler, riuscivano a elettrizzare le masse – accolte in un bric-à-brac scenografico più adatto alle adunate revivalistiche che ai normali comizi politici, e fatto apposta per predisporre positivamente l’emotività degli ascoltatori. Proprio alla propaganda sono dedicati alcuni passaggi-chiave 66

del Mein Kampf. Hitler dice, infatti, di aver considerato la gestione della propaganda come il compito di gran lunga più importante nel Partito nazionalsocialista dei primi anni15: essa doveva dimostrare «la progressiva diffusione dell’Idea» e tentare «di piegare l’intera nazione alla forza di una dottrina». Sull’altro versante, l’organizzazione aveva il compito di guadagnare nuovi attivisti, gli avvocati militanti della causa «senza i quali la vittoria del movimento non sarebbe semplicemente possibile»16. A suo modo di vedere, il vero leader doveva essere più un agitatore che un enunciatore di programmi teorici: raramente, egli scrisse, un grande teorico era stato anche un grande capo, «perché comandare significa essere capaci di muovere le masse»17. Quanto Hitler ritenesse poco utile ai fini dell’allargamento del consenso tra le masse la discettazione teorica su questioni strettamente dottrinarie, risulta con chiarezza categorica da un discorso privato pronunciato nel 1926 di fronte al pubblico selezionato del Circolo nazionale di Amburgo. «Prima di tutto – affermò in quell’occasione – bisogna smetterla con l’idea che le masse possano saziarsi di concetti ideologici. La comprensione è una piattaforma troppo instabile per le masse. L’unica emozione che non vacilla è l’odio». Subito dopo aggiunse che le masse sentono la forza più di ogni altra cosa e che il singolo individuo, calato nella folla «come un verme insignificante», percepisce soltanto la forza e la giustezza del movimento, «vedendo 200.000 persone unite nella lotta per un ideale che egli non può nemmeno capire, e che non deve necessariamente capire. Egli ha una fede, e questa fede è rinforzata giorno per giorno dalla visibilità del suo potere»18. Sempre allo stesso proposito, un commentatore coevo scrisse nel 1931 quanto segue: Secondo Hitler, tutta la propaganda deve adeguare il suo livello intellettuale alla capacità di comprensione del più stupido dei suoi destinatari. Meglio, allora, il banale argomento del bianco contro il nero, che i pensieri sofisticati [...]. Il tema deve avere effetto esplosivo [...]. Non c’è spazio per discorsi saggi da concilio. L’unico scopo è aizzare le ansie e le passioni e infiammare la folla fino al parossismo19.

Un convertito della prima ora, un aristocratico russo-tedesco, ha raccontato che alla fine del primo comizio hitleriano da lui 67

ascoltato (Mecklenburg, 1926), si sentì «invadere gli occhi dalle lacrime e un nodo di pianto alla gola», finché «un urlo liberatorio di puro entusiasmo sopraggiunse a scaricare quell’insopportabile tensione nel momento in cui l’uditorio si sciolse negli applausi»20. Reazioni emotive di questa sorta erano tutt’altro che rare fra quanti si trovavano già ideologicamente predisposti ad accettare l’immagine e il messaggio proposti da Hitler. Le tecniche propagandistiche hitleriane avrebbero, tuttavia, riscosso ben poco successo senza il concorso di quelle condizioni esterne che resero attraente l’alternativa nazionalsocialista sul «mercato» elettorale della Germania weimariana. Senza la depressione economica, senza il peggioramento della crisi istituzionale e senza la disintegrazione dei partiti borghesi liberal-conservatori, questo «mercato» di massa non sarebbe mai stato alla portata della NSDAP e Hitler sarebbe restato un elemento assolutamente minoritario collocato in un’area marginale e per così dire «folkloristica» del sistema politico. Persino durante la depressione economica, come abbiamo accennato sopra, le strade che condussero le masse ad appoggiare il nazionalsocialismo furono di solito molto più prosaiche di quanto non risulti dai citati racconti di conversioni mistiche in occasione di qualche comizio del Führer. In queste manifestazioni di massa, infatti, Hitler si rivolgeva in prevalenza a persone già convertite al suo messaggio in parte o interamente, e fra i simpatizzanti e i semplici curiosi che vi accorrevano l’effetto delle sue apparizioni era spesso tutt’altro che trascinante. «Che tipo d’impressione suscitava [Hitler]? Sempre quella di un tipo strambo, con il suo taglio di capelli e i suoi baffetti», ha ricordato una casalinga allora di mezza età; mentre nel 1932 un giovane di sedici anni, dopo che la curiosità lo aveva spinto in un tendone da birreria dove parlava Hitler, sentì di poter rassicurare i genitori perché nessuno avrebbe votato per lui e perché le sue «ciance esagitate» non avrebbero convinto nessuno21. La propaganda hitleriana attecchì più facilmente nelle regioni a maggioranza protestante del Nord e dell’Est della Germania che non nel Sud e nell’Ovest a maggioranza cattolica, così come nelle campagne e nei piccoli centri urbani (fatta eccezione di quelli delle regioni cattoliche) piuttosto che nelle grandi città, dove a sua volta fece breccia più nei quartieri borghesi che in quelli proleta68

ri. Altissimo era il favore goduto dalla NSDAP fra i lavoratori autonomi, i contadini, gli impiegati privati e statali, mentre, nonostante la propaganda tendente a presentare Hitler come la loro «ultima speranza», la maggior parte dei disoccupati continuò a sostenere altri partiti. Nel movimento nazionalsocialista la componente giovanile era più alta che in ogni altra formazione politica del tempo, fatta eccezione per il Partito comunista, ma sebbene molti giovani tedeschi si sentissero fortemente attratti dall’immagine di un movimento combattente composto quasi esclusivamente da maschi e fatto per uomini «duri», ma allo stesso tempo pervaso da un afflato ideale, fino al 1933 la Gioventù hitleriana restò nettamente al di sotto delle dimensioni proprie delle organizzazioni giovanili del Partito socialista, di quello cattolico e anche di quelli borghesi. Ciò che, invece, i nazionalsocialisti riuscirono a fare meglio di ogni altro gruppo politico rivale fu raccogliere consensi dai più disparati settori della società e costruirsi, così, un seguito socialmente composito, anche se questo avvenne entro limiti precisi e sulla base di modalità anche molto differenti. Innanzi tutto c’è da dire che fino al 1933 e oltre la sinistra socialista e comunista e il cattolicesimo politico restarono relativamente insensibili al richiamo hitleriano. Prima della presa del potere, circa due terzi dell’elettorato tedesco continuarono a rifiutare il proprio voto a Hitler, facendosi conquistare pienamente dalla figura del dittatore solo dopo che la NSDAP poté ridurre al silenzio le opposizioni e acquisire il controllo totale sui mezzi di comunicazione. Nondimeno bisogna riconoscere che il consenso elettorale del 30% circa raccolto da Hitler fra il 1929 e il 1932 rappresentò un’impresa organizzativa e propagandistica di portata straordinaria. Messasi in moto nell’autunno del 1929 e presa lentamente velocità nell’estate del 1930, la macchina propagandistica nazionalsocialista cominciò a funzionare a pieni giri in coincidenza del grande successo delle elezioni del settembre di quello stesso anno, dopo di che l’ondata di nuovi attivisti che si riversò sul Partito consentì una mobilitazione sempre più capillare e ulteriormente spronata e rafforzata dalle vittorie riportate in rapida successione. Prepotentemente cresciuti di numero, i seguaci del Partito potevano ora condurre un’intensissima attività di agitazione che si materializzava in una serie interminabile di comizi, raduni di 69

massa e marce, nonché in scontri armati per il controllo di strade e piazze di città e paesi. In tal modo il «movimento hitleriano» guadagnò ripetutamente gli onori della prima pagina, proiettando verso l’esterno un’immagine di vitalità e di attivismo. Con la macchina propagandistica del Partito concentrata nelle mani di Goebbels sin dall’aprile del 1930, questa immagine venne costruita con sempre maggiore abilità e capacità di direzione. Le parole d’ordine e i temi delle diverse campagne, gli oratori e i mezzi pubblicitari da usare erano dettati dal centro, ma dando dovuta attenzione alle peculiarità locali e regionali. Inoltre vennero impiegate tecniche ad alto effetto, come in occasione della campagna per il secondo turno delle elezioni presidenziali nella primavera del 1932, quando fu preso a noleggio un aereo per portare Hitler nelle diverse tappe del suo tour elettorale, accompagnato dallo slogan «il Führer sulla Germania». L’immagine che si voleva suggerire con ciò era quella di una modernità tecnologica capace, tuttavia, di rigenerare i veri valori nazionali e di metterli a capo della politica tedesca. Soprattutto, però, il messaggio della propaganda nazionalsocialista proponeva incessantemente i valori della forza, del potere, del dinamismo e della giovinezza, rappresentando un’inesorabile marcia verso il trionfo e verso un futuro che si sarebbe indubitabilmente avverato grazie alla fede nel Führer. Nell’estate del 1932 la macchina propagandistica della NSDAP sembrava essersi trasformata in un moloch inarrestabile. In quell’anno Hitler comandava un movimento forte di 800.000 militanti della NSDAP e di circa mezzo milione di squadristi delle SA, che non sempre erano anche iscritti al Partito. E sempre nel 1932, 13 milioni di elettori erano pronti in diversa misura a riporre la loro fiducia in Hitler. Con ciò vennero poste stabilmente le basi della successiva «divinizzazione» del Führer. Il potere plebiscitario a sua disposizione sarebbe assurto, negli anni del Terzo Reich, a principale fattore connettivo dello Stato nazista, ma per il momento esso fornì a Hitler la chiave per aprire le porte del potere: nessun altro leader di partito nello schieramento di destra poteva offrire alle élites conservatrici qualcosa anche lontanamente paragonabile alla sua capacità di controllo e direzione delle masse. Tuttavia il consenso popolare non sarebbe bastato, da solo, a 70

4. Un manifesto nazista durante la depressione economica del 1932: «La nostra ultima speranza: Hitler». 71

portare il capo del nazismo ai vertici dello Stato tedesco. Verso la fine del luglio 1932, dopo due campagne presidenziali, una serie di elezioni regionali e le ultime votazioni per il Reichstag, Hitler era arrivato a raccogliere il 37,3% dei voti, che rappresentava il massimo risultato raggiunto nella fase precedente alla presa del potere. In qualità di leader del partito di gran lunga più forte del Reichstag (dove contava ben 230 seggi), Hitler chiese di essere nominato cancelliere, ma nell’udienza del 13 agosto 1932 con il presidente del Reich Hindenburg dovette incassare un netto rifiuto. Conseguenza di questo scacco fu, nei mesi successivi di quell’anno, una grave crisi di fiducia all’interno del movimento nazionalsocialista. Alcuni militanti delusi decisero di lasciare il Partito, che per la prima volta dopo tanti anni subì anche un arretramento elettorale, come accadde alle nuove elezioni generali di novembre, con la perdita secca di 2 milioni di voti e di 34 seggi al Reichstag. Sin dall’aprile precedente Goebbels aveva annotato nel suo diario le seguenti parole: «Dobbiamo arrivare al potere in un futuro non troppo lontano, altrimenti tutte queste elezioni ci porteranno alla tomba»22. E in effetti, verso la fine del 1932, con le finanze al lumicino e il morale a terra per la fuoriuscita di Gregor Strasser, le prospettive della NSDAP sembravano tutt’altro che rosee. La giocata d’azzardo tentata da Hitler (o la Cancelleria o niente) pareva aver fatto un buco nell’acqua, e lo stesso Partito correva seri pericoli di disgregazione. Era chiaro che né l’egemonia esercitata da Hitler sulla NSDAP, né il consenso di massa da lui goduto potevano bastare a schiudergli le stanze del potere. Per raggiungere questo obiettivo e per risollevare le sorti ormai pericolanti del Partito era necessario un aiuto dall’esterno, come di fatto accadde.

Le «élites» Fra tutti gli esiti possibili della crisi irreversibile della democrazia weimariana, il passaggio del potere nelle mani di Hitler il 30 gennaio 1933 fu tanto il più deleterio quanto il meno scontato. Una simile conclusione rimase in sospeso sino all’ultimo giorno, anche perché, secondo la Costituzione di Weimar, il presidente del Reich non era obbligato a nominare cancelliere il capo del par72

tito vincitore delle elezioni. Il consenso elettorale, dunque, da solo non bastò a Hitler, e infatti, come si è detto, nell’agosto del 1932 Hindenburg respinse la sua candidatura a capo del governo benché il movimento nazionalsocialista si trovasse in quel momento all’apice del successo. Nove mesi dopo, invece, il presidente cambiò idea proprio mentre la NSDAP si dibatteva nella grave crisi provocata dall’arretramento elettorale del novembre 1932 e dal caso Strasser. Dal punto di vista costituzionale, il conferimento del Cancellierato a Hitler fu un passo ineccepibile, ma è anche vero che, nella Germania di quegli anni, il sentimento di fedeltà alla Costituzione si era dissolto già da tempo. Con la nomina di Brüning a capo del governo nel marzo del 1930, una forma di governo presidenziale aveva preso a scavalcare e a sostituire deliberatamente e progressivamente i vigenti istituti del governo parlamentare: il cancelliere governava sempre più in forza dei «decreti d’emergenza» controfirmati dal presidente del Reich e autorizzati dall’articolo 48 della Costituzione di Weimar. Mentre negli anni di presidenza del socialdemocratico Friedrich Ebert questa prerogativa era stata usata per difendere la democrazia dalle forze sovversive di destra e di sinistra, sotto Hindenburg essa assurse a fattore di delegittimazione della democrazia stessa. Neutralizzato politicamente un Reichstag divenuto sempre più ingovernabile dopo la vittoria elettorale di comunisti e nazionalsocialisti nel 1930, le redini della nazione erano passate decisamente nelle mani del presidente del Reich. Avvicinarsi a Hindenburg divenne, quindi, indispensabile per chiunque ambisse al potere, e così il palazzo presidenziale divenne il crocevia di tutti gli intrighi orditi da una serie di mediatori politici che, liberi da qualsiasi vincolo costituzionale, cospiravano con tutto lo zelo e l’astuzia possibile per concretizzare le loro ambizioni. Dietro questi personaggi infidi, però, si stagliava l’ombra di importanti lobbies e gruppi di élite, ansiosi di pervenire a una soluzione politica della crisi che offrisse garanzie di tutela dei propri interessi. Da queste complesse lotte di potere doveva uscire vincitore proprio Hitler, nonostante il fatto che negli ambienti non nazionalsocialisti solo pochi influenti mediatori e gruppi di pressione (nel mondo dell’industria, del commercio, della finanza, dell’agricoltura, del pubblico impiego e dell’esercito) lo considerassero il 73

loro candidato di punta. Ma attorno al gennaio del 1933, venute apparentemente meno tutte le possibili alternative, molti, e specialmente i grandi proprietari terrieri, finirono con accettare l’idea di un governo guidato dal capo della NSDAP. Se essi si fossero opposti, l’ascesa di Hitler al Cancellierato sarebbe stata impensabile, ma così come questi ebbe bisogno del loro aiuto per ottenere il potere, anche quei gruppi non poterono fare a meno di Hitler, in quanto unico esponente politico capace di garantire il consenso di massa necessario a imporre con qualche prospettiva di durata una soluzione autoritaria alla crisi del capitalismo e dello Stato tedesco. Questo è il nucleo problematico di fondo delle vicende che portarono Hitler al potere il 30 gennaio del 1933. Prima che il nazionalsocialismo acquistasse la sua base di massa e diventasse una forza elettorale con cui fare i conti, i citati settori della classe dirigente tedesca mostrarono scarsa attenzione nei suoi confronti. Certo, come si è visto nel capitolo precedente, senza l’appoggio finanziario e la protezione delle élites di Monaco, Hitler non sarebbe mai potuto diventare il «tamburino» della destra nella Baviera pre-putsch del 1923, ma, come del resto era naturale, negli «anni felici» della Repubblica di Weimar seguiti alla stabilizzazione monetaria, capitani d’industria, aristocrazia terriera e vertici militari ebbero pochi motivi per dimostrare qualcosa di più che un interesse residuale verso il Partito hitleriano, relegato ai margini estremi della scena politica del tempo. Allo stesso tempo, però, non ci può essere alcun dubbio sul notevole, e in certi casi crescente, grado di diffusione di tendenze autoritarie e posizioni antidemocratiche fra alcuni influenti gruppi di élite anche durante la breve primavera weimariana. I nazionalsocialisti cercarono incessantemente di guadagnare il loro appoggio e in più di un’occasione Hitler si rivolse a o incontrò privatamente importanti uomini d’affari, allo scopo di ottenere sostegni politici e finanziari. Qualche tentativo andò in porto, ma per il momento i successi restarono l’eccezione. A prescindere dall’imbarazzante retorica anticapitalista della NSDAP, alla maggior parte degli esponenti del mondo economico sembrava poco utile dare il proprio appoggio a un partito senza influenza e con scarsissime chances di arrivare al potere. I più, probabilmente, condividevano l’opinione esposta in un rapporto confidenziale del ministero dell’Interno redatto nel 1927, nel quale si parlava 74

della NSDAP come di «un partito che non andrà da nessuna parte», di un «gruppuscolo estremista e rivoluzionario di proporzioni insignificanti, incapace di esercitare un’influenza di sorta sulla grande massa della popolazione o sul corso degli avvenimenti politici»23. Nessuna meraviglia, perciò, che la maggioranza dei capitani d’industria e dei grandi proprietari terrieri scegliesse di appoggiare i partiti borghesi di tendenza liberale o conservatrice. Questo atteggiamento di fondo non si modificò nemmeno durante la crisi economica. La NSDAP ricevette dal mondo degli affari finanziamenti molto minori di quelli versati con generosità nelle casse dei suoi rivali elettorali della destra conservatrice, mentre continuò a reperire i fondi necessari alle sue attività attraverso i più modesti strumenti delle quote d’iscrizione, delle raccolte effettuate in occasione di manifestazioni e altre cose del genere24. Più il Partito cresceva, più questi cespiti aumentavano, ma ciò nonostante le sue finanze rimasero sempre in uno stato preoccupante. Benché la NSDAP godesse dell’aiuto di numerosi amici e sostenitori che misero a sua disposizione non poche risorse finanziarie e materiali (come, ad esempio, la concessione in usufrutto di proprietà immobiliari da adibire ad alloggi per le SA o il prestito di autoveicoli per il trasporto degli squadristi), essa continuò a restare fuori dai progetti di potere dei settori più influenti delle élites tedesche finché queste furono in grado di concepire scenari alternativi a loro più congeniali. A partire dal 1929, tuttavia, il «movimento hitleriano» cominciò a giocare un ruolo meno marginale nei loro calcoli politici, anche se i più mantennero intatte le riserve nutrite in precedenza. La campagna del 1929 per la bocciatura del Piano Young sulla revisione dei pagamenti tedeschi dei danni di guerra offrì al Partito la prima opportunità di unire le sue forze a quelle di altre organizzazioni nazionaliste e, soprattutto, di beneficiare della pubblicità concessagli dagli organi di stampa del magnate dei mass-media Alfred Hugenberg, leader della DNVP. Contemporaneamente si spianò la strada per l’accesso a importanti personaggi dell’industria e del mondo degli affari in genere. Una serie di elezioni locali svoltesi nell’autunno di quell’anno dimostrò che la NSDAP era già in forte crescita di consensi, specialmente nelle zone rurali dove più si facevano sentire gli effetti della montante crisi agricola. Dopo il crollo di Wall Street dell’ottobre 1929 e il conseguente, 75

5. Un manifesto nazista per le elezioni del 5 marzo 1933, che sottolinea la continuità fra la vecchia Germania, rappresentata da Hindenburg, e la nuova, incarnata da Hitler. Lo slogan dice: «Il Reich non sarà mai distrutto se resterete uniti e fedeli». 76

rapido aggravarsi della crisi economica nel 1930, e dopo che nel settembre di quello stesso anno si registrò il primo vero trionfo elettorale della NSDAP – le cui dimensioni colsero di sorpresa gli stessi vertici nazionalsocialisti –, il destino della Repubblica di Weimar sembrò irrimediabilmente segnato. In coincidenza con i crack bancari del 1931, la democrazia poteva dirsi ormai morta e sepolta, mentre attorno al 1932, dichiarata finalmente chiusa la questione delle riparazioni con la cancellazione dei debiti residui, venne a cadere anche la catena più pesante stretta attorno alla Germania dal Trattato di Versailles. Per tutto questo tempo, le componenti più profondamente antidemocratiche delle élites tedesche nutrirono l’idea di sostituire alla Repubblica weimariana una forma di governo autoritaria e conservatrice. Sotto Brüning furono avviati sondaggi per la restaurazione della monarchia e per il ritorno a un sistema di governo sul modello bismarckiano, e quando i grandi agrari riuscirono a convincere Hindenburg a licenziare Brüning e a nominare cancelliere Papen, loro candidato di punta ben visto anche in molti altri settori del mondo economico, il nuovo capo del governo prese persino in considerazione l’idea di impiegare la polizia e l’esercito per sopprimere i partiti politici e imporre una Costituzione autoritaria, con tutti i rischi di guerra civile che un simile passo avrebbe comportato. Un chiaro segnale delle sue intenzioni si ebbe nel luglio del 1932 con la deposizione del governo prussiano regolarmente eletto – una mossa, questa, di fortissimo impatto politico, dal momento che la Prussia, il Land più grande della Germania, pari a circa due terzi dell’intero Reich, era ancora controllato da una coalizione formata dalla Socialdemocrazia e dal Zentrum cattolico. Dopo che una serie di intrighi aveva portato al licenziamento anche di Papen, il suo successore, il generale Schleicher, cercò di poggiare il governo su una base di consenso più larga, chiamando a parteciparvi i sindacati e lo stesso movimento nazionalsocialista, con Gregor Strasser come vicecancelliere. Ma quando quest’ultimo tentativo andò a vuoto per l’opposizione di Hitler, che provocò la sconfitta delle posizioni di Strasser e la sua espulsione dalla NSDAP, anche il destino di Schleicher apparve definitivamente segnato. Nel frattempo si erano infittiti i contatti di Hitler con svariati esponenti del mondo agricolo, industriale e degli affari, senza che 77

però questi giungessero ancora a pensare che la soluzione più auspicabile fosse l’instaurazione di una dittatura nazionalsocialista. Nel 1931 il capo della NSDAP aveva rinsaldato anche i legami con Hugenberg, creando il cosiddetto «Fronte di Harzburg», dalla località della Bassa Sassonia dove si era svolta un’importante riunione delle organizzazioni nazionaliste. A quell’evento aveva presenziato un esponente del mondo economico come Hjalmar Schacht, che però non era certo una figura di primo piano, né era rappresentativo, con il suo filonazismo, delle posizioni più generali degli ambienti affaristici tedeschi. Nel gennaio del 1932 Hitler tenne un discorso nell’influente Circolo degli industriali di Düsseldorf, guadagnando l’appoggio di qualche membro del sodalizio ma lasciando molti ancora dubbiosi della sua idoneità a rappresentare in modo soddisfacente gli interessi industriali; mentre qualche successo in più fu ottenuto da Hjalmar Schacht e Wilhelm Keppler, che prima aveva lavorato nel settore chimico e ora fungeva da principale uomo di collegamento di Hitler con il mondo economico. Molto più importanti furono, invece, i legami che si stabilirono nello stesso periodo tra il movimento nazionalsocialista e i grandi proprietari terrieri della Germania orientale, che godevano di grande ascolto presso Hindenburg, sia attraverso Papen che per la comunanza di interessi che li legava al presidente, proprietario terriero egli stesso. Progressi erano stati fatti anche negli ambienti militari, benché fra gli ufficiali della Reichswehr non avesse ancora perso d’attrattiva l’idea di un riarmo massiccio associato alla fine della conflittualità politica attraverso un intervento contro le forze di sinistra che però non implicasse l’impiego dell’esercito in una possibile guerra civile. Tuttavia, come era implicito in questo stesso scenario, qualsiasi forma di governo autoritario che avesse ambizioni di durata avrebbe dovuto provvedere non solo a sconfiggere la sinistra, ma anche a crearsi quella base di massa a destra che, nel gennaio del 1933, venuto meno il tentativo di Schleicher di trovare il consenso popolare mancato a Brüning e Papen, solo Hitler sembrò e fu in grado di offrire. Nel novembre del 1932 Schacht era stato il primo firmatario di una petizione rivolta al presidente Hindenburg da un gruppo di uomini d’affari che peroravano la nomina di Hitler a cancelliere25. Anche questa volta Hindenburg oppose un rifiuto, ma intanto in quegli ambienti, soprattutto dopo che le elezioni di quel 78

mese avevano fatto segnare una crescita dei comunisti e il contemporaneo arretramento della NSDAP, si diffondeva sempre più il timore che la lotta politica interna si trasformasse in un’interminabile guerra civile. Nelle settimane successive, il tentativo intrapreso da Schleicher di varare piani per l’occupazione finanziati dallo Stato e di coinvolgere i sindacati nei suoi disegni autoritari sollevò non poche preoccupazioni nel mondo degli affari, e specialmente nell’industria pesante; mentre la sua idea di assegnare al bracciantato agricolo i latifondi in liquidazione nella Germania orientale gli alienò definitivamente le simpatie della lobby agraria. Fu in questo contesto che, nel gennaio 1933, l’ambizioso Papen riuscì ad affermarsi come principale uomo di collegamento tra i circoli economici raccolti attorno a Schacht (certamente non ancora rappresentativi di tutti gli svariati e spesso concorrenti interessi dell’industria e del commercio), i vertici nazionalsocialisti e la camarilla del palazzo presidenziale, a sua volta strettamente legata agli ambienti militari e al ceto dei proprietari terrieri prussiani. Adesso Papen era disposto ad accettare un Cancellierato di Hitler, ma in cambio chiedeva un Gabinetto a forte impronta nazional-conservatrice e composto per lo più da elementi non nazionalsocialisti, con la sola presenza di Hitler e altri due ministri provenienti dalle file della NSDAP (nelle persone di Frick, in qualità di ministro dell’Interno del Reich, e di Göring, in qualità di ministro senza portafoglio e facente funzione di ministro dell’Interno per il Land di Prussia). Sulla base di questo accordo, Papen, sfruttando il pieno favore che godeva ancora presso Hindenburg, riuscì a convincere il presidente della necessità di nominare Hitler capo del governo. L’errore fatale della destra conservatrice fu quello d’illudersi che un governo siffatto sarebbe riuscito ad «addomesticare» Hitler e a ridimensionare, così, la forza del suo partito. Quando cominciarono a diffondersi illazioni sulle vere intenzioni del capo del nazismo, personaggi come Hugenberg e lo stesso Papen gettarono acqua sul fuoco, il primo sostenendo che nulla di tutto ciò poteva succedere, poiché con gli altri stava «mettendo in gabbia Hitler», il secondo affermando laconicamente che i conservatori avevano soltanto «preso in affitto» il nuovo cancelliere26. Forti di questa sicurezza, le élites conservatrici, che avevano cospirato a lungo e con successo per demolire le basi della democrazia wei79

mariana, senza però essere capaci di guadagnare al loro progetto un consenso di massa, si convinsero a usare come proprio agente al vertice del governo nazionale un personaggio del tutto estraneo ai tradizionali circoli di potere. L’idea di fondo era di utilizzare Hitler per qualche tempo con il compito di tutelare i loro interessi, ma nessuno pensò che il capo della NSDAP potesse sfruttare l’occasione per andare ben oltre la missione assegnatagli.

III

Potere e repressione

Nelle descrizioni del regime hitleriano proposte all’attenzione del pubblico negli anni immediatamente successivi alla sua caduta, l’accento è quasi sempre caduto sul terrore e sulla repressione come caratteristiche qualificanti della dominazione nazionalsocialista. Non poche voci provenienti dall’interno della Germania hanno sostenuto che questo Stato totalitario e repressivo avrebbe reso vana qualsiasi forma di opposizione; mentre coloro che avevano patito gravi sofferenze per colpa del nazismo, o che erano riusciti a sottrarsi alla morsa del regime emigrando all’estero, si sono soffermati diffusamente sulle loro dolorose esperienze individuali, fornendo spesso resoconti dai toni vividi e commoventi. Questa immagine prevalente del nazismo come terrore trovò conferma anche in alcuni studi di impianto più scientifico prodotti sotto la suggestione della Guerra fredda e delle rivelazioni sulle atrocità commesse dal regime staliniano, non meno che da quello hitleriano. Al di là delle diverse prospettive, quindi, sembrava ai più che a spiegare la natura del potere di Hitler bastasse il richiamo alla forza coercitiva propria degli Stati totalitari di polizia. Le generazioni postbelliche che hanno avuto la fortuna di non conoscere per esperienza diretta simili barbarie devono usare molta umiltà prima di esprimere giudizi sulla legittimità di questo modo di considerare il nazismo. Senza dubbio, un’interpretazione della natura e della portata del potere hitleriano che non tenga nel dovuto conto il ruolo della coercizione e della repressione non potrebbe avanzare alcuna pretesa di completezza, e tuttavia stimiamo necessario proporre sin dall’inizio alcune puntualizzazioni, che serviranno allo stesso tempo a fissare le linee-guida della nostra analisi. L’affermazione che il potere di Hitler si fondò esclusivamente 81

sul «terrore totalitario» coglie soltanto una parte della verità – a prescindere, poi, dalle difficoltà connesse al concetto stesso di totalitarismo. Se limitiamo la nostra attenzione alla sola Germania e lasciamo per un momento da parte le immani atrocità commesse durante la guerra nei territori occupati dall’esercito tedesco (specialmente in Polonia e in Unione Sovietica), noteremo subito come il terrore e la repressione funzionarono nella pratica in modo altamente selettivo. Migliaia di operai legati ai partiti di sinistra vennero rinchiusi illegalmente nei campi di concentramento, soprattutto durante la violenta ondata repressiva seguìta all’instaurazione del regime nel 1933, mentre gli industriali, i proprietari terrieri (a parte quelli sospettati di aver preso parte all’attentato del 1944) e i banchieri non subirono alcuna violenza o limitazione di libertà. Gli ebrei, pur rappresentando una piccola minoranza della popolazione, vennero sottoposti alla più spietata persecuzione e sotto la scure dell’oppressione nazista caddero anche gli zingari, gli omosessuali, i mendicanti e altri «elementi antisociali». Invece nessun vescovo cattolico, nonostante lo scontro che a un certo punto oppose il nazismo alla Chiesa romana, conobbe mai il carcere o il campo di concentramento. La polizia compì le sue retate molto più spesso nei quartieri operai delle grandi città che non in quelli abitati dalla borghesia, così come le scorrerie naziste non toccarono mai né i contadini né i piccoli proprietari dispersi nelle campagne. Anche l’esercito fu risparmiato da purghe violente, se si eccettuano i provvedimenti presi in occasione del licenziamento di Blomberg e Fritsch nel 1938 e le vendette compiute sui militari implicati nella congiura del 1944. E la maggior parte degli intellettuali, salvo la minoranza costretta ad emigrare, si allineò al regime senza che questo dovesse ricorrere a particolari misure terroristiche. La stessa tendenza spontanea ad adeguarsi alle direttive naziste agì in numerosi settori della società, spingendo verso una rapida nazificazione di ordini professionali e corpi rappresentativi. In generale, dunque, la repressione fu diretta contro le componenti più impopolari e meno dotate di potere della società tedesca. Poco o nulla fu fatto ai danni delle «alte sfere», specialmente nei primi anni di vita del Regime, né si può dire che la repressione fu una pratica che rimase costante nel tempo. Infatti, dopo la violenta «resa dei conti» che caratterizzò i mesi immedia82

tamente successivi alla conquista del potere (quando decine di migliaia di avversari politici dovettero subire inermi le sfrenate rappresaglie delle orde naziste), per qualche anno si registrò un’attenuazione della prassi repressiva, come dimostra la diminuzione del numero degli imputati portati davanti ai neoistituiti «Tribunali speciali» (dove i processi si potevano svolgere con la massima speditezza e con il minimo pregiudizio politico) e del numero dei prigionieri nei campi di concentramento. Le cifre ripresero a salire nei due anni che precedettero lo scoppio della seconda guerra mondiale. L’inizio del conflitto coincise con un’imponente serie di persecuzioni e punizioni draconiane a danno di chiunque fosse sospettato di sabotare o minacciare le capacità di mobilitazione del Paese. All’interno della Germania la repressione colpì ora soprattutto le minoranze razziali discriminate, in particolare gli ebrei (ancor prima che cominciassero le deportazioni) e il numero crescente di «lavoratori stranieri» impiegati nell’economia di guerra. Quando le sorti della guerra cominciarono a precipitare, la repressione si inasprì fino all’inverosimile, colpendo indiscriminatamente e con brutalità tutti i comportamenti ritenuti a torto o a ragione pericolosi per il Regime, mentre fuori dalla Germania il terrore nazista si era trasformato in un’autentica tempesta sterminatrice. Come si può già evincere da queste prime osservazioni, la forza coercitiva insita nel potere hitleriano è inseparabile dal consenso con cui ampi strati della società tedesca accolsero quanto venne fatto nel nome di Hitler. Coercizione e consenso furono le due facce di una stessa medaglia, le colonne gemelle che ressero il potere del dittatore nazista. Anche in questo caso, tuttavia, è importante non perdere di vista il fatto che, a partire dal 1933, questo potere si basò innanzitutto sul controllo degli strumenti di comando e di coercizione a disposizione dell’apparato statale. In una moderna e stabile democrazia capitalista il potere dello Stato risiede essenzialmente nella sua capacità di penetrare nelle istanze intermedie della società civile e di rendere efficaci le decisioni politiche mediante questa forma mediata di cooperazione e di consenso. Quando una tale capacità si indebolisce fino al punto di non ritorno in cui le strutture del pluralismo si dissolvono e i meccanismi della democrazia collassano, lo Stato ricorre a quello che può essere chiama83

1. L’incendio del Reichstag del 27 febbraio 1933, cui seguirono arresti di massa di esponenti e militanti del Partito comunista. 84

to «potere dispotico», cioè a una modalità di esercizio della sovranità che passa non tanto attraverso la contrattazione con i gruppi intermedi della società civile, quanto attraverso l’applicazione della forza dall’alto verso il basso1. Non c’è dubbio che, attorno al 1933, la Germania si trovasse in una simile fase di crisi irreversibile. Il collasso della democrazia weimariana, provocato a partire dal 1930 dalla frammentazione prima e dalla polarizzazione poi di una società giunta al limite della guerra civile, e conseguentemente privata del ruolo di guida normalmente esercitato dal potere statale, fornì il presupposto per il successivo processo di ricostruzione del potere dello Stato tedesco su basi «dispotiche». La repressione esasperata messa in atto dal Regime nazionalsocialista fu la conseguenza quasi necessaria della conflittualità esasperata che aveva scosso la società civile nella fase immediatamente precedente l’ascesa al potere di Hitler – anche se non bisogna dimenticare il ruolo fondamentale svolto dalla propaganda nella costruzione e manipolazione di quel consenso verso lo Stato andato perduto negli anni prima del 1933. Altri studiosi hanno analizzato in maniera esauriente le strutture attraverso cui il Regime nazista organizzò il proprio apparato di dominio, esentandoci perciò dal tentare ulteriori approfondimenti d’indagine in questa direzione. Nelle pagine che seguono l’accento verrà collocato, piuttosto, sul nesso che lega i processi paralleli di dissoluzione delle opposizioni e di erosione della legalità a vantaggio delle prassi extragiuridiche di polizia da un lato, alla progressiva concentrazione del potere nelle mani di Hitler dall’altro. Questo fenomeno dipese non tanto dall’azione svolta in prima persona dal dittatore, quanto dall’atteggiamento e dalle decisioni assunte da quelle forze del movimento nazionalsocialista, dello Stato e della società tedesca che, per un motivo o per l’altro, si disposero a «lavorare per il Führer».

Dissoluzione e atomizzazione dell’opposizione Mussolini ebbe bisogno di tre anni per introdurre in Italia una dittatura in piena regola, anche se si può ben dire che mai in quel Paese il fascismo detenne un monopolio veramente assoluto del 85

potere. In Germania, invece, bastarono sei mesi per distruggere qualsiasi forma organizzata di opposizione e altrettanti per spazzare via gli ultimi residui di autonomia degli enti locali – già resi praticamente inoperanti a distanza di qualche settimana dalla nomina di Hitler a cancelliere. E nel giro di altri sei mesi ancora venne brutalmente stroncata anche la minaccia potenziale al potere hitleriano proveniente dalle file dello stesso movimento nazionalsocialista. Nel frattempo, l’unica grande realtà sociale (a parte l’esercito) non ancora «allineata» al Regime (o «nazificata» che dir si voglia), quella cioè formata dalle Chiese cristiane, era stata costretta alla difensiva, assumendo un atteggiamento passivo e raccolto nel quale il compromesso politico andò di pari passo con una strenua lotta per contrastare le intromissioni naziste in quei campi tradizionalmente occupati dalle pratiche e dalle istituzioni ecclesiastiche. Già attorno alla metà del 1934 l’organizzazione della Socialdemocrazia in esilio faceva notare acutamente, in un rapporto sulla situazione tedesca, che «la debolezza delle opposizioni è la forza del Regime». Gli avversari del nazionalsocialismo – continuava il rapporto – erano deboli sia ideologicamente che organizzativamente: «ideologicamente perché la grande massa della popolazione è soltanto scontenta e si limita a borbottare», «organizzativamente perché è proprio dell’essenza di un regime fascista impedire l’associazione in forma stabile dei suoi oppositori»2. Nel gennaio 1933 pochi avrebbero potuto prevedere che sarebbe bastato così poco tempo per annientare completamente l’opposizione politica al Regime. Questo risultato non rispose tanto a un qualche disegno concepito dai nazisti per pianificare nel tempo il processo di acquisizione e consolidamento del potere, ma fu dovuto essenzialmente alla reazione dinamica provocata dal discredito totale in cui erano cadute le forme di governo democratiche dal 1930 in poi, dalla debolezza intrinseca delle opposizioni di tutti i colori politici, nonché dalla prontezza con cui Hitler seppe sfruttare a pieno, e senza alcuno scrupolo, qualsiasi opportunità gli si presentasse. Benché solo due nazisti (Göring e Frick) sedessero a fianco di Hitler nel Gabinetto a schiacciante maggioranza conservatrice da lui presieduto, il personaggio più influente dopo Hitler stesso era senza dubbio proprio Göring, che in qualità di commissario del 86

ministero dell’Interno di Prussia controllava le forze di polizia del più grande e importante Land tedesco. Per il resto, Hitler ebbe cura di conservare sin dall’inizio nelle proprie mani il monopolio dei rapporti con i partner di governo conservatori. Obiettivo comune dell’uno e degli altri era saldare i conti con il marxismo una volta per tutte, ma nelle sole mani del capo della NSDAP risiedeva la capacità di guida e mobilitazione di quell’esercito politico di massa necessario ad assicurare il controllo delle piazze. Con le imponenti, benché potenzialmente instabili, schiere del movimento nazionalsocialista ai suoi ordini, e con il sovrappiù di prestigio personale derivante dalla sua estraneità alle «malefatte» del sistema weimariano, la posizione di Hitler al momento della presa del potere si delineò sin dall’inizio, a dispetto delle apparenze, come una delle più influenti in assoluto all’interno della coalizione nazional-nazista salita al governo. Il 30 gennaio del 1933 i diversi componenti di questa coalizione si accordarono su due priorità di fondo: primo, porre fine al regime parlamentare in Germania; secondo, farla finita con il marxismo. Diverse erano, però, le idee sul modo in cui questi obiettivi dovevano essere perseguiti. Il nuovo ministro dell’Economia, Hugenberg, chiese, ad esempio, l’immediata messa al bando del Partito comunista. Hitler obiettò che un simile provvedimento avrebbe potuto scatenare un’insurrezione comunista e coinvolgere la Reichswehr in quella guerra civile scongiurata a gran voce dai vertici militari e per prevenire la quale il ministro della Guerra appena nominato, generale Blomberg, aveva proposto di concedere ai nazisti carta bianca sul terreno politico in cambio di un massiccio programma di riarmo a favore dell’esercito. Papen suggerì come soluzione il varo di una legge per la concessione dei pieni poteri al governo, ma al momento una decisione di questo genere avrebbe costretto la coalizione a chiedere l’appoggio del partito cattolico del Zentrum. Per Hitler, invece, la priorità andava alla convocazione di nuove elezioni3, da lui considerate presupposto indispensabile per qualsiasi ulteriore decisione o azione di governo. Agli occhi dei partiti alleati, la posta in gioco in queste eventuali elezioni apparve, così, la possibilità di conseguire un mandato plebiscitario destinato a consolidare definitivamente la coalizione ora al potere, stante la promessa hitleriana che quelle sa87

rebbero state le ultime votazioni di lì a molti anni avvenire e che la composizione del Gabinetto sarebbe rimasta immutata qualsiasi risultato si fosse avuto. Queste assicurazioni bastarono a spingere i membri conservatori del governo ad approvare l’immediato scioglimento del Reichstag e l’indizione delle elezioni anticipate. Nella campagna elettorale che seguì, l’astio antimarxista dei conservatori giocò ancora una volta a tutto vantaggio di Hitler, che poté scatenare la repressione e il terrore senza doversi preoccupare di eventuali obiezioni legalitarie da parte dei suoi alleati. Nelle settimane che precedettero e seguirono le elezioni del 5 marzo 1933, questa strategia favorì un massiccio rafforzamento del movimento nazionalsocialista a svantaggio degli altri partiti non nazisti. La sconfitta violenta della sinistra su ordine non solo dei vertici nazionalsocialisti, ma anche delle élites conservatrici fu, quindi, soltanto il primo stadio del processo di disgregazione delle forze di opposizione consumatosi nel corso del 1933, fino alla dissoluzione dei partiti borghesi e alla creazione di un sistema monopartitico il 14 luglio di quello stesso anno. La normativa esistente sulla decretazione d’urgenza da parte del presidente del Reich aveva consentito a Hitler di vietare, sin dal 4 febbraio 1933, le testate giornalistiche e le riunioni contrarie al nuovo governo. Simili provvedimenti erano stati prospettati dagli ambienti della burocrazia statale già prima della nomina di Hitler a cancelliere, ma in occasione della campagna per il voto del 3 marzo trovarono piena e conseguente applicazione, soprattutto a danno dei comunisti. A metà febbraio, Göring ordinò alla polizia prussiana di appoggiare le squadre paramilitari naziste e garantì piena copertura ai gendarmi che avessero fatto ricorso alle armi da fuoco per schiacciare le «organizzazioni sovversive»4. Un passo ulteriore verso la legalizzazione delle violenze contro i comunisti e i socialisti venne fatto con l’inserimento nei corpi ausiliari della polizia prussiana di circa 50.000 miliziani facenti parte di «associazioni nazionali» come le SA, le SS e lo Stahlhelm. In risposta agli appelli lanciati dal Zentrum cattolico al presidente Hindenburg perché questi provvedesse a far cessare tale «incredibile stato di cose», Hitler e Göring chiesero ai loro sostenitori di serrare le file e di rafforzare la disciplina interna5. Durante le settimane che precedettero le elezioni Hitler cercò 88

2. La polizia arresta militanti comunisti. 3. La prima grande azione contro gli ebrei: il boicottaggio nazionale del 1° aprile 1933. Squadristi nazisti sostano davanti a un negozio ebraico reggendo cartelloni con la scritta: «Tedeschi, difendetevi! Non comprate dagli ebrei!». 89

attentamente di evitare qualsiasi mossa che potesse inficiare il suo rapporto di cooperazione con gli alleati conservatori. L’incendio del Reichstag nella notte del 27 febbraio gli diede però l’occasione per indebolire le posizioni dei suoi partner di governo e per rafforzare le proprie. Credendo che l’incendio del Parlamento – innescato da un giovane ex militante del Partito comunista olandese, Marinus van der Lubbe, come forma di protesta personale contro il sistema capitalista e il governo di «concentrazione nazionale» – fosse il segnale di partenza dell’attesa insurrezione comunista, Hitler e Göring misero in moto una reazione furibonda che, se pure non portò, come aveva proposto inizialmente Hitler, all’impiccagione immediata di tutti i deputati comunisti6, scatenò un’ondata di arresti di massa di militanti della KPD, in forza di una raffica frenetica di ordini diramati dallo stesso Göring. Alla riunione di Gabinetto del giorno seguente Hitler apparve molto più calmo. Egli spiegò che era «ormai giunto il momento psicologicamente giusto per la resa dei conti [con i comunisti]», e che bisognava imboccare questa strada senza farsi frenare da scrupoli legalitari7. Alla fine della riunione fu, quindi, votato un decreto d’emergenza redatto prontamente da Frick, con il quale, in forza dell’art. 48 della Costituzione di Weimar, venivano sospesi a tempo indeterminato tutti i diritti e le libertà personali, inclusa la libertà di parola, di stampa e di associazione8. Inoltre esso consentiva di tenere in carcere per un periodo illimitato i prigionieri politici non ancora processati: nella sola Prussia, questo destino avrebbe toccato, entro il mese di aprile, circa 25.000 detenuti in «custodia preventiva»9. Il cosiddetto «decreto per l’incendio del Reichstag» rappresentò un passaggio cruciale del processo di consolidamento del potere hitleriano, poiché inaugurò quello stato di emergenza che, in pratica, sarebbe durato quanto lo stesso regime nazionalsocialista. Nelle settimane seguenti furono compiuti i passi decisivi per l’eliminazione delle opposizioni organizzate di sinistra e per la sottomissione delle altre organizzazioni politiche non naziste. Dopo le elezioni del 3 marzo 1933 (che fruttarono alla NSDAP il 43,9% dei voti e ai suoi alleati nazionalisti un altro 8%), l’occupazione nazista del potere nei diversi Länder del Reich portò a una drastica escalation delle violenze in quegli Stati che fin a quel momento erano stati retti da governi non nazionalsocialisti. Nelle prigioni e 90

nei luoghi di detenzione messi in piedi in fretta e furia dalle SA un numero imprecisato di prigionieri politici venne sottoposto a torture e pestaggi, o direttamente eliminato. Per tranquillizzare i conservatori in Germania e all’estero, Hitler si appellò pubblicamente alle sue squadre affinché ponessero fine alle violenze personali e cessassero d’intralciare lo svolgimento delle attività economiche della nazione, ma dietro le quinte continuò a incoraggiare apertamente «lo sterminio dei marxisti», reagendo stizzito alle deboli proteste dei conservatori10. Il 20 marzo Himmler, capo della polizia di Monaco di Baviera, annunciò la creazione del primo campo di concentramento, allestito nei pressi di Dachau. Di lì a poco sorse in tutta la Germania un’intera serie di campi dello stesso tipo destinati ad accogliere i detenuti politici, in larga parte comunisti e socialdemocratici. Quando, il 23 marzo, con il voto favorevole del Zentrum cattolico e la sola, coraggiosa opposizione della SPD, il Reichstag diede sollecita approvazione a una legge sulla concessione dei pieni poteri al governo, che consentiva a quest’ultimo di varare leggi senza l’approvazione del Parlamento e senza bisogno di ricorrere a decreti presidenziali, i deputati comunisti si trovavano ormai tutti in prigione o all’estero, con tutto il Partito costretto a operare in clandestinità. Dal punto di vista formale non era stato ancora emesso alcun provvedimento di messa al bando della KPD, ma la cosa era assolutamente irrilevante. L’errore più grossolano commesso dai comunisti fu quello di avere sempre sottovalutato Hitler e il nazionalsocialismo. L’idea di sfidare apertamente il nuovo Regime proclamando uno sciopero generale cadde rapidamente nel nulla e, a onta dei preparativi fatti in vista di un possibile passaggio alla clandestinità, il Partito fu colto completamente di sorpresa dalla rapidità e dalla brutalità della repressione nazista seguìta all’incendio del Reichstag. Nonostante il coraggio e l’impegno di quanti proseguirono la resistenza, riuscendo a tenere in vita un’opposizione clandestina che nemmeno la più brutale repressione riuscì mai a sradicare del tutto, si può dire che, di fatto, tra febbraio e marzo del 1933, il Partito comunista tedesco cessò di esistere sia come forza politica organizzata che come minaccia reale al potere nazista. In quegli stessi mesi, nonostante l’ultimo ed eroico sussulto di resistenza tentato in occasione del voto parlamentare sulla legge 91

di concessione dei pieni poteri al governo, anche quello che era stato il partito più potente della democrazia weimariana, la Socialdemocrazia, dovette prendere atto della sua fine politica. Durante le prime settimane del Cancellierato di Hitler, la SPD, la sua organizzazione paramilitare di massa (Reichsbanner) e i sindacati avevano agito con la massima cautela, evitando le provocazioni e cercando di non fornire pretesti all’azione repressiva degli avversari. Tutto ciò non servì a nulla: tra marzo e aprile la Reichsbanner fu costretta a sciogliersi, e il 2 maggio la stessa sorte toccò ai sindacati, che pure a marzo si erano dichiarati disposti a recidere i loro legami con la Socialdemocrazia e a collaborare lealmente con il nuovo governo. La stessa SPD sopravvisse fino al 22 giugno 1933, quando fu messa fuori legge in forza di un provvedimento governativo. Per molti membri di quel partito, tuttavia, i giochi si erano chiusi già nei precedenti mesi di marzo e aprile, con la chiusura di molte sezioni, la fuga all’estero di importanti dirigenti, con l’arresto di numerosi attivisti e l’abbandono della lotta politica da parte di moltissimi altri. Tra le file della Socialdemocrazia dominavano ormai incontrastati la paura, la confusione, lo sconforto e la disillusione. Come nel caso dei comunisti, anche la SPD continuò a svolgere attività clandestine, più con l’obiettivo, però, di conservare e sostenere la rete di solidarietà tra i militanti, che di sfidare la supremazia del Regime nazista. Le concezioni del lavoro illegale trassero in molti casi ispirazione dall’esperienza fatta dalla SPD negli anni della legislazione antisocialista di Bismarck ma, come sottolineò nel 1935 un funzionario del Partito, a confronto di quello hitleriano il Reich bismarckiano era stato «un paradiso di libertà»11. Con la liquidazione delle organizzazioni di sinistra fu raggiunto l’obiettivo che aveva tenuto insieme nazionalsocialisti e destra conservatrice. Nel corso di questo processo, tuttavia, lungi dall’«ingabbiare Hitler», i conservatori avevano progressivamente perso posizioni a favore del trionfante movimento nazionalsocialista, che di giorno in giorno vedeva crescere massicciamente le sue file con l’afflusso di nuovi iscritti, provenienti soprattutto dalle classi medie, desiderosi di saltare sul carro dei vincitori. Per piegare i partiti borghesi, quindi, il nazismo poté adoperare mezzi relativamente più «dolci», anche se in occasione dell’«allineamen92

to» dei Länder non nazionalsocialisti la repressione non si limitò certo a colpire soltanto gli oppositori di sinistra. Tuttavia, l’effetto principale dell’ondata di terrore scatenata nei primi mesi di governo hitleriano fu quello di evidenziare l’inutilità di qualsiasi opposizione organizzata – ammesso che ciò costituisse un’evenienza auspicata dai piccoli partiti borghesi, spesso tutt’altro che in disaccordo con gli obiettivi della politica nazionalsocialista. I partiti di ispirazione liberale (la DDP-Staatspartei e la DVP) decisero l’autoscioglimento alla fine del giugno 1933, in concomitanza quasi perfetta con la fine delle organizzazioni indipendenti della destra nazionalista, costretta sempre più alla difensiva dopo le elezioni del 3 marzo. Il partito cattolico del Zentrum e il suo gemello bavarese, la BVP, resistettero fino ai primi di luglio, dopo essere stati privati del sostegno del clero a seguito delle disposizioni sull’apoliticità dei preti cattolici emesse dal Vaticano in occasione delle trattative per il Concordato con il regime nazionalsocialista, e dopo che una serie di arresti a breve termine compiuti dalla polizia alla fine di giugno scoraggiò qualsiasi ulteriore velleità di resistenza. Con lo scioglimento dei partiti cattolici, scomparvero dal panorama politico le ultime organizzazioni partitiche autonome rimaste ancora in vita: dopo una decina di giorni (14 luglio 1933) la NSDAP fu dichiarata ufficialmente l’unico partito legale del Reich tedesco. A questo punto l’autorità hitleriana poteva dirsi al sicuro da qualsiasi minaccia connessa a un’opposizione organizzata esterna al Regime stesso. Nel frattempo i più diversi gruppi d’interesse, ordini professionali, corporazioni, club e associazioni, dal più grande al più insignificante, avevano provveduto a nazificare le loro strutture e il loro personale direttivo, mentre l’amministrazione pubblica era stata epurata da tutti gli impiegati e funzionari iscritti ai soppressi partiti di sinistra, così come da tutti gli ebrei (fatta eccezione per quelli decorati per meriti di guerra), e negli enti locali erano stati rimossi tutti i sindaci e le figure di primo piano non allineate politicamente con il Regime. Fuori dalla Prussia, che era già passata sotto il controllo del governo nazionale dai tempi del «colpo di Stato» di Papen del 20 luglio 1932, il pericolo di una possibile opposizione dei Länder alle direttive del Reich era stato scongiurato nei fatti con la nazificazione forzata dei governi regionali attuata nel mese di marzo e con la nomina di go93

vernatori federali (in molti casi coincidenti con i Gauleiter locali) incaricati di assicurare il rispetto degli ordini provenienti da Berlino. La sovranità legale dei Länder venne abolita ufficialmente e definitivamente con un provvedimento del gennaio 1934 che, pur lasciando in vita le singole amministrazioni statali, le privò di qualsiasi potere indipendente. Un’altra legge dello stesso mese sanzionò la sottomissione degli operai ai proprietari delle fabbriche e fondò i presupposti legali di un nuovo sistema di relazioni industriali dominato adesso, in assenza di sindacati e di partiti politici d’ispirazione operaia, da un padronato desideroso di rivincita e forte dell’appoggio della repressione statale. Verso la metà del 1933, insomma, era stato cancellato ogni «spazio organizzativo» necessario alla sopravvivenza di un’opposizione politica efficace. A onta della «rivoluzione legale» di cui andava vantandosi la propaganda nazista, questo obiettivo era stato raggiunto attraverso una carica di violenza, di repressione e di forza coercitiva ben più massiccia e spietata di quella dispiegata da Mussolini per consolidare il potere fascista in Italia. Quelle violenze condotte con la benedizione del Führer, ma senza che questi avesse bisogno di dirigere con ordini precisi l’ondata di terrore punitivo scatenata dalle orde naziste, non erano servite solo a distruggere l’opposizione di sinistra, ma avevano contribuito a diffondere nel resto della società l’immagine di un regime intenzionato a raggiungere i propri obiettivi servendosi di qualsiasi mezzo. Così, soprattutto finché il terrore colpì prevalentemente la sinistra e minoranze inermi come gli ebrei, solo poche e flebili voci si alzarono a condannarlo. In questo contesto le Chiese cristiane riuscirono a conservare alcuni «spazi organizzativi» autonomi. Il Regime avviò alcuni tentativi volti ad «allineare» le Chiese protestanti, un arcipelago di Chiese regionali divise da differenze dottrinali e organizzative e spesso gelose della loro tradizionale autonomia, ma alla fine dovette rinunciare. Ancora più prudente fu l’atteggiamento assunto verso la Chiesa cattolica, le cui strutture organizzative vennero lasciate intatte, anche se poi i nazisti cercarono in tutti i modi di indebolire e disturbare la loro presa sulla popolazione cattolica creando una serie di organizzazioni, scuole, feste e simboli alternativi a quelli religiosi. Entrambe le Chiese scelsero la via dello scontro con il Regime solo se costrette, e in ogni caso limitarono 94

le loro manifestazioni ufficiali di opposizione alla difesa delle loro prerogative in materia dottrinale e delle loro strutture organizzative. Le forze armate furono l’unica istituzione che riuscì a conservare intatta la propria forza davanti all’invadenza del Regime. Nel 1933 i militari non dovettero difendersi da alcuna purga, attacco o interferenza, poiché Hitler si rendeva conto che essi rappresentavano una forza con cui bisognava comportarsi con il massimo della prudenza, soprattutto finché il presidente Hindenburg continuava a rappresentare un possibile punto di coagulo alternativo della loro lealtà di soldati. In tale situazione non si poteva nemmeno escludere l’evenienza di una presa del potere da parte dell’esercito e dell’instaurazione di una dittatura militare, o perfino la possibilità di una restaurazione della monarchia. Fra i diversi corpi dello Stato, dunque, Hitler aveva bisogno soprattutto delle forze armate e del loro sostegno, e così si spiega perché, quando i vertici militari cominciarono a vedere con preoccupazione la possibile subordinazione dell’esercito a una nuova e più importante milizia formata dalle SA (che nei primi del 1934 contavano 2 milioni e mezzo di effettivi), il dittatore si dimostrò pronto a colpire quell’ala del suo stesso movimento con la stessa spietata brutalità adoperata per piegare gli avversari politici esterni. Hitler aveva pensato alla necessità di una resa dei conti con i vertici delle SA già da molto tempo prima di quella notte del 30 giugno 1934 passata alla storia come la «Notte dei lunghi coltelli». Una qualche forma di scontro tra il dittatore e le sue squadre paramilitari era, infatti, pressoché inevitabile. Già prima del 1933 queste avevano più volte minacciato di sfuggirgli di mano, ma poi erano rientrate nei ranghi in considerazione della vicinanza dell’obiettivo da tutti ambito, la presa del potere. Il contributo dato da questa componente tipicamente «putschista» del movimento nazionalsocialista pre-1933, con la sua aperta predisposizione alla violenza terroristica, si era, quindi, rivelato decisivo per il rapido consolidamento del Regime hitleriano, ma la rozzezza del suo approccio politico cominciò a essere controproducente non appena l’obiettivo del governo nazista si spostò dall’abbattimento dei «nemici dello Stato» alla conquista delle colonne portanti dello stesso – l’amministrazione civile, la polizia e le forze armate. I capi delle SA non avevano da offrire una chiara alternativa al 95

disegno di Hitler, ma appena la macchina rivoluzionaria nazista cominciò ad adagiarsi nella routine, essi obiettarono che quella compiuta era stata una «mezza rivoluzione» e che la «vecchia guardia» controllava ancora le vere leve del potere, mentre ai «ragazzi» era rimasto poco lavoro da fare. Le affermazioni intemperanti di Ernst Röhm sulla necessità di una «seconda rivoluzione» e le interferenze arbitrarie dei dirigenti delle SA sulle amministrazioni locali sollevarono paura, ma anche forte avversione negli ambienti conservatori – nonché fra nazionalsocialisti della più bell’acqua –, favorevoli all’istituzione di uno Stato autoritario disciplinato e rigidamente contrari al dirompente «teppismo politico» delle SA12. Attorno al giugno del 1934 le aperte manifestazioni di scontento provenienti dai circoli conservatori e le tensioni crescenti tra l’esercito e la milizia nazionalsocialista raggiunsero un livello tale di gravità, da far temere seriamente per la stessa posizione di Hitler, soprattutto in considerazione del fatto che la prevedibile uscita di scena di Hindenburg – prossimo ormai alla morte – avrebbe privato il dittatore nazista di un alleato prezioso. Una volta che Göring e Himmler, appoggiati dai massimi vertici della NSDAP e interessati per propri motivi di potere a risolvere la questione, si dichiararono pronti a entrare in azione per rimuovere Röhm ricorrendo alle squadre delle SS, il destino dei capi delle SA fu segnato una volta per sempre. Dopo che anche Hitler si risolse ad approvare questa linea, un’azione-lampo condotta il 30 giugno unitamente dalla Gestapo e dalle SS portò all’arresto e alla fucilazione immediata di numerosi esponenti di punta delle SA, accusati pretestuosamente di ordire un colpo di Stato contro il governo. Hitler stesso si recò in Baviera per sovrintendere di persona all’arresto di Ernst Röhm e alla sua successiva esecuzione in una prigione di Monaco. Contemporaneamente il dittatore colse l’occasione per saldare i conti con alcuni suoi vecchi avversari, fra cui Gregor Strasser e il generale Schleicher. Alla fine della «Notte dei lunghi coltelli» erano rimaste sul terreno circa 85 vittime. La sanguinosa repressione condotta contro una parte del suo stesso movimento rappresentò un momento critico nel processo di consolidamento del potere hitleriano. In primo luogo, infatti, essa eliminò l’unica forza interna al Regime potenzialmente in grado di trasformarsi in una seria opposizione o, più probabilmente, 96

di fare da sponda all’opposizione di altre forze esterne (come specialmente l’esercito) intenzionate a far cadere Hitler. Dopo il 30 giugno 1934 le SA si trovarono ridotte a nulla più che a un’utile organizzazione di attivisti totalmente obbedienti al Führer, i quali si accontentarono di sfogare la loro propensione alla violenza in attacchi contro minoranze inermi – come accadde ad esempio in occasione dei pogrom del 1938 – rinunciando per sempre a qualsiasi velleità di condizionamento dei vertici dello Stato. Inoltre la perdita di potere subìta dalla milizia di massa delle SA andò a immediato vantaggio delle SS, la fedelissima guardia pretoriana di Hitler. Si può dire, perciò, che lo spostamento degli equilibri di potere interni al Regime seguìto alla notte del 30 giugno 1934 si risolse con un netto rafforzamento della posizione personale di Hitler. Il secondo effetto dell’eliminazione dei detestati e inquieti vertici delle SA fu di avvicinare maggiormente a Hitler e alla sua idea monocratica dello Stato i gruppi di potere conservatori. Rinsaldatosi in tal modo il rapporto di mutua dipendenza che legava il dittatore nazista alle élites tradizionali, il ministro della Giustizia, il conservatore Gürtner, fornì retroattivamente sanzione legale agli omicidi del 30 giugno facendoli passare per misure dettate dal supremo interesse dello Stato. E nonostante la rabbia diffusasi nel corpo degli ufficiali alla notizia dell’uccisione di due ex generali (Schleicher e Bredow) da parte delle SS, Blomberg espresse pubblicamente il ringraziamento delle forze armate per l’azione condotta dal capo del governo13. Così, quando dopo alcune settimane morì il presidente Hindenburg, tutti i militari prestarono solenne giuramento di fedeltà direttamente alla persona di Hitler, compiendo un passo la cui portata non deve essere in alcun modo sottovalutata, data l’importanza attribuita dalle forze armate tedesche al loro codice d’onore. Anche gli addetti alla pubblica amministrazione dovettero prestare un simile giuramento di fedeltà alla persona del Führer – e non, si badi bene, a Hitler in quanto capo dello Stato14. Il consenso generale e la grande popolarità guadagnati con la liquidazione politica delle odiate SA determinarono un ulteriore accrescimento del potere del capo del nazismo, sanzionato anche dai massimi vertici dello Stato con il voto personale di ringraziamento allora espressogli personalmente da Hindenburg, per aver 97

«salvato la nazione tedesca»15. Il favore popolare nei confronti del cancelliere toccò, così, vette mai raggiunte prima. Un ultimo fatto da notare – ma non per questo di minore importanza – è che l’episodio dimostrò ancora una volta a tutti i potenziali oppositori che il Regime non avrebbe esitato a ricorrere ai sistemi più brutali ogni qual volta avesse sentito minacciati i propri interessi vitali. La violenza spietata con cui Hitler piegò i suoi avversari interni nel giugno 1934 conferma una volta di più la verità del detto di Mao secondo cui «il potere nasce dalla canna del fucile». Non c’è infatti da stupirsi se, di fronte a un simile sfrenato dispiegamento della potenza coercitiva dello Stato, la maggior parte dei singoli cittadini, privati di qualsiasi forma alternativa di organizzazione politica, provò un sentimento di totale impotenza. A partire dal 1934 le uniche reali possibilità di far cadere Hitler dall’interno del Paese restarono consegnate nelle mani di coloro che avevano accesso diretto agli arsenali e agli strumenti coercitivi dello Stato nazista: i militari e le SS. Questi due corpi avevano tratto grandi benefici dalla formazione del Regime nazista già prima del colpo inferto di comune accordo contro le SA, e i loro vantaggi crebbero a dismisura per tutti gli anni Trenta. Benché attorno al 1938 alcuni alti gradi delle forze armate, preoccupati dall’accelerazione della politica di aggressione condotta dalla Germania, cominciassero a nutrire quei sentimenti embrionali di opposizione che poi sarebbero culminati nel tentato colpo di Stato del 1944, la grande maggioranza dei generali si rivelò più che disponibile a offrire piena collaborazione al Regime. Fino a che le cose andavano bene, era difficile che da questi ambienti potesse levarsi una seria minaccia al potere di Hitler, cosa che vale a maggior ragione per quella colonna portante del Regime che erano le SS, un corpo permeato profondamente dalla dottrina nazionalsocialista e assurto ad agenzia esecutiva dell’ideologia hitleriana. Al di fuori di questi due corpi armati, qualsiasi altra forza interna al Paese che avesse voluto opporsi al nazismo sarebbe risultata puramente velleitaria, anche se la resistenza dei gruppi ostili al Regime non cessò mai del tutto. Per questo motivo, infatti, migliaia di cittadini comuni della più diversa estrazione sociale af98

frontarono persecuzioni e arresti, e non di rado la morte. Il più colpito fu senza dubbio il Partito comunista, che durante il Terzo Reich vide inghiottito dalle prigioni naziste o ucciso un numero stimato di 150.000 aderenti (all’incirca metà del numero degli iscritti al tempo della presa del potere da parte di Hitler). Altri 12.000 cittadini vennero condannati tra il 1933 e il 1939 con l’accusa di alto tradimento e durante la guerra, quando il numero delle fattispecie di reato punibili con la pena capitale aumentò da 3 a 46, le corti civili tedesche pronunciarono circa 15.000 sentenze di morte16. Tuttavia questa opposizione era destinata inevitabilmente a restare disorganica, frammentata e privata di qualsiasi possibilità di guadagnare ulteriori consensi tra le masse. Certamente la portata e l’intensità della repressione nazista dopo il 1933 costituirono il fattore principale di questo stato di cose, ma è altrettanto innegabile che questa si trovò la strada in parte spianata dalle divisioni e dalla mancanza di reciproca fiducia e di obiettivi comuni che avevano caratterizzato il fronte delle opposizioni prima dell’ascesa al potere del nazismo. Un’analisi redatta nel 1939 dalla dirigenza della Socialdemocrazia in esilio e basata sui rapporti provenienti a scadenza regolare dalla resistenza clandestina interna, riassunse in modo appropriato gli effetti della repressione nazista: «Quelli che erano abituati a pensare, continuano a pensare, mentre quelli che non lo erano adesso lo fanno ancora meno. Solo che oggi i pensanti non sono più in grado di guidare i non pensanti»17. Questo giudizio ci dice con altre parole che l’imponente espansione del potere hitleriano fu resa possibile in primo luogo dalla liquidazione, dall’atomizzazione, dall’intimidazione e dalla neutralizzazione delle forze di opposizione (reali o potenziali), e che tali risultati vennero ottenuti in misura preponderante attraverso lo sviluppo, da parte dello Stato nazista, di un’azione coercitiva e terroristica senza precedenti per estensione e crudeltà. Il ricorso massiccio alla repressione degli oppositori politici è una caratteristica normale di tutti i regimi autoritari impegnati nella prima fase di assunzione e consolidamento del potere, ma di solito, dopo i primi spargimenti di sangue, tale azione repressiva perde d’intensità a favore di forme di controllo meno plateali e di carattere per lo più negativo, esercitate su quei gruppi considerati capaci di rappresentare una seria minaccia al regime in carica. 99

Uno schema del genere è applicabile perfino a governi fascisti o parafascisti come quelli di Mussolini e di Franco. Anche in Germania, dove pure il biennio di disordini del 1933-34 era stato segnato da livelli di violenza ben più alti di quelli fatti registrare altrove, si ebbe una simile fase di «ripiegamento»: mentre alla data del 31 luglio 1933 si contavano quasi 27.000 detenuti in «custodia preventiva», nell’inverno del 1936-37 il numero dei prigionieri nei campi di concentramento era sceso a circa 7.500 – il totale più basso raggiunto durante il Terzo Reich18. Ma anche allora si continuava a fare piani per la costruzione di altri campi e per l’individuazione di nuove categorie di detenuti. Come si può dedurre da quanto detto, insomma, la repressione nella Germania nazionalsocialista fu una componente non statica, bensì dinamica. La chiave di volta dell’evoluzione delle pratiche repressive va ricercata nell’inesorabile processo di erosione della legalità consumatosi sotto la pressione di uno Stato di polizia nel quale il normale carattere repressivo dell’azione poliziesca si fuse intimamente con la spinta ideologica proveniente dal corpo di élite del partito al potere, le SS. Questa organizzazione era, di fatto, la più in sintonia con gli imperativi dottrinali dettati dal Führer e si considerava l’agenzia esecutiva a disposizione dell’Idea hitleriana: per questo motivo, la crescita del potere delle SS come organo capace di riassumere in sé la forza dell’apparato repressivo statale e il dinamismo ideologico del Partito, e disposto più di ogni altro corpo del Regime a «lavorare per il Führer», rappresenta un elemento esplicativo centrale della natura e dell’espansione dello stesso potere personale di Hitler. È giunto, quindi, il momento di analizzare brevemente le modalità e gli sviluppi di tale processo.

Erosione e asservimento della legalità nello «Stato del Führer» Benché la Germania del 1933 avesse alle spalle una storia democratica tanto breve quanto movimentata, la tradizione del potere costituzionale fondato su princìpi giuridici positivi era tutt’altro che debole. Proprio questa tradizione subì, sotto lo Stato nazionalsocialista, una graduale ma inesorabile erosione. Ciò non 100

avvenne attraverso l’introduzione di un nuovo codice nazista destinato a sostituire in blocco le vecchie leggi. È vero che attorno al 1935 erano a buon punto i preparativi per la redazione di un nuovo codice penale basato sul principio della punibilità delle intenzioni di reato, ma anche questo progetto cadde nel nulla, perché comunque venne sentito dal Regime come possibile fonte di limitazioni alle sue richieste e necessità di governo. Secondo un passo del programma della NSDAP del 1920, la società tedesca doveva essere rifondata sulle basi del diritto germanico, ma tutte le speranze nutrite in tal senso dagli esperti legali del movimento nazionalsocialista, come ad esempio l’avvocato di punta del Partito, Hans Frank, si rivelarono presto illusorie. Nei fatti l’approccio del Regime al problema delle leggi fu pienamente rappresentativo delle sue caratteristiche di fondo già rilevate nelle pagine precedenti. Nel campo del diritto civile furono apportate poche modifiche, mentre maggiore importanza si attribuì al diritto penale. Qui il Regime mise in atto i suoi tipici sistemi opportunistici, predatori e assolutamente privi di scrupoli e di princìpi: le norme legali che si rivelavano adeguate agli scopi della dirigenza nazionalsocialista furono conservate, mentre quelle che ostacolavano i suoi progetti furono scavalcate, ignorate o semplicemente messe da parte. Come è stato evidenziato da una lunga tradizione interpretativa, una delle caratteristiche distintive della Germania nazista fu il conflitto che si instaurò tra le norme legali e l’azione arbitraria degli organi esecutivi di polizia. Sin dall’inizio si trattò di una lotta impari e quando, durante la guerra, cominciò a deteriorarsi anche il clima di apparente legalità conservato fino allo scoppio del conflitto, il precedente processo di erosione della legalità degenerò nell’asservimento totale degli esponenti del sistema giudiziario alle pretese delle autorità di polizia. La maggior parte dei giudici e degli avvocati era stata contraria alla Repubblica di Weimar, accusata di attentare alla loro indipendenza e di danneggiare i loro interessi economici e il loro prestigio sociale. Le loro preferenze politiche si indirizzarono preferibilmente sulle forze nazional-conservatrici piuttosto che sulla NSDAP, ma molti accolsero positivamente la nascita del governo nazionalsocialista nel 1933, condividendo le sue promesse di restaurazione di uno Stato forte che avrebbe ristabilito l’auto101

rità di coloro che erano chiamati a far rispettare la legge e l’ordine. Un primo esempio di tale atteggiamento ci viene fornito dallo stesso ministro della Giustizia del primo governo Hitler, Franz Gürtner, un conservatore non nazionalsocialista, ma favorevole a una forma di governo autoritario sostenuta da un sistema di leggi che rinnegasse il principale principio giuridico del liberalismo, cioè la protezione dell’individuo dall’ingerenza dello Stato. Gürtner accettò di buon grado di dare sanzione legale alle flagranti illegalità commesse nel biennio 1933-34, giustificandole con il richiamo all’eccezionalità delle circostanze (e, quindi, alla loro esorbitanza dalle leggi date). Così, egli approvò la condanna retroattiva alla pena capitale per l’autore dell’incendio del Reichstag, Lubbe, anche se all’epoca dei fatti il codice non prevedeva la pena di morte per il reato di incendio doloso. E dopo la strage dei capi delle SA nel giugno del 1934, motivò giuridicamente l’azione affermando che «misure di autodifesa prese per far fronte all’imminente occorrenza di delitti di tradimento devono essere considerate non solo un fatto legalmente ineccepibile, ma anche il dovere di ogni uomo di Stato»19. Agendo in tal modo Gürtner cercava di salvare l’ordinamento legale dello Stato e di mantenere separate le funzioni giurisdizionali da quelle di polizia, ma la sua filosofia e i suoi comportamenti dimostravano quanto facilmente la sua posizione finisse col soggiacere alle pressioni di quelle forze del Regime – Hitler in testa – che meno si preoccupavano del rispetto dei principi di legalità. In ultima analisi, le posizioni legalistiche alla Gürtner non avevano alcuna speranza di sopravvivenza, poiché accettavano di buon grado il carattere monocratico e illimitato del potere del Führer, e cioè di un principio che per sua natura contraddiceva in modo radicale i presupposti di un sistema di governo fondato sulla legalità. Secondo Hans Frank, capo dell’Associazione degli avvocati nazionalsocialisti, nel Terzo Reich la legge costituzionale non rappresentava nient’altro che «la formulazione legale della volontà storica del Führer»20. In tal modo veniva teorizzato ciò che, facendo ricorso alla terminologia weberiana, si potrebbe definire l’asservimento dell’autorità legale-razionale all’autorità carismatica: a fondamento della legge non c’erano più norme giuridiche 102

4. Hitler nel 1934, con in mano un pesante frustino per cani in cuoio di ippopotamo.

5. Il capo delle SS Heinrich Himmler (a sinistra) e Reinhard Heydrich, capo del Servizio di sicurezza. Verso il 1936, il loro potere si estese sull’intera polizia tedesca. 103

impersonali, ma la «volontà» legittimata dalla riuscita di «imprese eccezionali». Opinioni simili vennero espresse non solo da un esponente di punta del nazionalsocialismo come Hans Frank, ma anche dai più importanti studiosi tedeschi di filosofia del diritto, impegnati con argomentazioni capziose nel tentativo impossibile di razionalizzare in termini legali il potere hitleriano. Così, Ernst Rudolf Huber, massimo esperto di diritto costituzionale, ebbe a parlare della legge come di «null’altro che l’espressione dell’ordinamento collettivo della vita del popolo che deriva dalla volontà del Führer», sostenendo di conseguenza che era «impossibile misurare la legge del Führer sulla base di un più alto concetto di diritto, poiché ogni singola legge del Führer è diretta espressione di questa concezione comunitaria del diritto»21. Spiegando che la carica di Führer non era in origine una carica statale, essendo emersa dalle file del movimento nazionalsocialista, lo stesso giurista deduceva l’opportunità di sostituire alla corrente nozione di potere statale quella di «potere del Führer», che altro non era se non un potere personale «conferito al Führer in quanto esecutore della volontà comune della Nazione». Secondo tale concezione, il «potere del Führer» era «totale e onnicomprensivo», non soggetto ad alcun controllo, «libero e indipendente, esclusivo e illimitato»22. Interpretazioni di questo genere, per il prestigio di coloro che le formulavano, portarono un inestimabile contributo di legittimazione a una forma di dominazione che, a dispetto di qualsiasi teorizzazione mitologizzante, distruggeva le basi del potere delle leggi a vantaggio dell’esercizio arbitrario della volontà politica. E tuttavia, alla disponibilità degli uomini di legge a soddisfare anche le pretese più draconiane del Regime nella speranza di preservare la propria autorità e il proprio monopolio di dispensatori della «giustizia», la dirigenza nazionalsocialista non fece seguire alcun riconoscimento effettivo della loro azione al servizio dello Stato hitleriano. Al contrario, quanto più i giudici si mostrarono zelanti nel servire i loro padroni nazionalsocialisti, tanto più sembrarono crescere il disprezzo e gli abusi di cui essi vennero fatti oggetto da parte del Regime. Lo stesso Hitler non mancò di esprimere questi sentimenti con parole durissime: per lui, infatti, «tutti i giuristi erano minorati 104

mentali dalla nascita o destinati a diventarlo con il passare del tempo»23. Dietro questo giudizio non c’era solo disprezzo verso le persone, ma un’avversione profonda per quella «concezione artificiale del diritto»24 che considerava la legge come scopo in sé, invece che come mezzo di elaborazione degli strumenti – quali che fossero – necessari a mantenere l’ordine pubblico25. Per sua natura, la legge non poteva in alcun modo fondare quella «volontà» che per i nazisti costituiva il primo requisito dell’azione. Essa era soltanto reattiva e non, invece, attiva, elaborava categorie, regolamentava, poneva limiti inaccettabili e, per quanto severa, non poteva mai riflettere «i sani sentimenti del popolo». Soprattutto, però, essa poteva prospettare una qualche forma di limitazione, teorica o pratica, all’esercizio del «potere del Führer». Se per i nazisti la legge non era un obiettivo valido in sé, ma qualcosa da usare e sfruttare a proprio vantaggio e da ignorare nel caso che ostacolasse il conseguimento dei fini supremi dello Stato, del Movimento, dell’Idea e del Führer, appare chiaro come il conflitto tra autorità legale e autorità carismatica fosse immanente alla natura più intima del sistema di potere nazionalsocialista. I presupposti dell’eclisse della legalità che si verificò sotto il Terzo Reich vennero gettati dallo stesso Hitler, attraverso le sue continue e crescenti interferenze personali nella prassi giudiziaria e il sostegno garantito al processo di autonomizzazione degli organi esecutivi di polizia dalle istanze di controllo della magistratura ordinaria. Per quanto i giuristi si impegnassero duramente a «lavorare per il Führer», gli strumenti usati da quest’ultimo per il conseguimento dei suoi fini non potevano essere delimitati da norme legali, ma dovevano rendersi totalmente indipendenti da esse. Il corollario della perdita di autorità delle leggi convenzionali fu, perciò, la massiccia espansione del potere del binomio sempre più inscindibile polizia-SS, assurto a principale organo esecutivo del potere del Führer. Durante l’inverno 1933-34, il capo delle SS, Heinrich Himmler, spalleggiato dal suo amico Reinhard Heydrich, direttore del Servizio di spionaggio e sicurezza del Partito (SD), si era assicurato il controllo della polizia politica di tutti gli Stati tedeschi, Prussia esclusa, dove Göring, in qualità di primo ministro del governo del Land, cercò di mantenere il più a lungo possibile il comando sulla locale Gestapo. Nell’aprile del 1934 Himmler venne nomi105

nato ispettore generale della Gestapo, formalmente agli ordini di Göring, con Heydrich passato a dirigere l’Ufficio centrale della polizia segreta prussiana a Berlino, ma la sua pressione divenne sempre più insistente, specialmente dopo i meriti acquisiti con la sua partecipazione alla liquidazione dei vertici delle SA nel giugno 1934. L’epilogo di questo scontro di potere si ebbe nell’autunno di quello stesso anno, quando Göring, prendendo atto dell’impossibilità di esercitare un controllo effettivo anche minimo sulle attività della Gestapo, si rassegnò a concedere tutti i poteri di direzione su questo corpo al capo delle SS. Un settore nel quale Himmler riuscì a ritagliarsi uno spazio di assoluta autonomia rispetto al potere di controllo della magistratura ordinaria fu quello dei campi di concentramento. Verso la primavera del 1934 erano stati smantellati quasi tutti i campi di concentramento «non ufficiali» messi in piedi durante la fase di consolidamento del regime nazista, e, dopo la liquidazione delle SA, il controllo su questi istituti di detenzione passò definitivamente nelle mani delle SS, che eressero a modello generale l’organizzazione creata a Dachau. Con le norme sulla «custodia preventiva» di polizia, il decreto emanato dopo l’incendio del Reichstag del febbraio 1933 aveva fornito la cornice legale alla creazione di una sfera di potere autonoma legata al controllo dei lager che, sebbene dal punto di vista tecnico fosse di competenza della polizia di Stato, data l’egemonia conseguita da Himmler e Heydrich sugli organi di polizia, venne ben presto monopolizzata da un’organizzazione collaterale del Partito nazionalsocialista, le SS. Nonostante i numerosi tentativi compiuti dalle autorità giudiziarie e dal ministro dell’Interno Frick per ridimensionare o addirittura abolire il sistema da loro non controllato della «custodia preventiva», l’autonomia dei corpi congiunti delle SS e della Gestapo nella gestione dei campi di concentramento e della custodia di polizia aumentò invece di diminuire, non da ultimo grazie all’appoggio diretto di Hitler. Infatti, anche se nell’aprile del 1934 Frick aveva formulato proposte tendenti a ridurre la portata della «custodia preventiva» e sottoscritte dallo stesso Hitler dopo la conclusione dell’«affare Röhm», di fatto la polizia himmleriana poté contare sul sostegno del capo del governo ogni volta – e non furono certo poche – che si verificarono gravi violazioni alle regole imposte dal ministro dell’Interno. Così, quando nel 1935 il mini106

stro della Giustizia fece le sue rimostranze a Himmler per l’alto numero dei casi di morte registrati nei campi di concentramento e chiese che si autorizzasse l’assistenza di un avvocato per le persone prese sotto «custodia preventiva», il capo delle SS sottopose la questione a Hitler, tornando indietro con le risposte che aveva auspicato: «In considerazione del modo coscienzioso con cui vengono diretti i campi, non si ritiene necessario prendere provvedimenti speciali su tale materia» e «Il Führer proibisce che si chiamino gli avvocati»26. Ciò nonostante Frick continuò ancora a credere di poter esercitare qualche influenza sulla linea del governo, sicché in un lungo memorandum del 1935 elevò una vibrata protesta contro gli abusi commessi sotto la copertura della «custodia preventiva» e contro la conseguente «mancanza di sicurezza legale» per i cittadini del Reich 27. In realtà le sue speranze di avere successo sulla macchina sempre più invadente della Gestapo-SS erano oltremodo deboli, considerato anche l’appoggio offerto a quella da Hitler su tutte le questioni più delicate. Nella nuova legge prussiana sulla polizia politica del 10 febbraio 1936, Himmler fece alcune concessioni di facciata, ma l’ambiguità delle parole del testo legislativo non poté nascondere il fatto che l’autonomia operativa della Gestapo fu lasciata pressoché intatta – tanto più che agli occhi dei responsabili della polizia politica la legge apparve sancire la distinzione fra la Gestapo stessa, che agiva «secondo principi speciali», e l’amministrazione statale, che rispondeva a «regole generali e conformi alle leggi»28. Il trionfo finale di Himmler sul ministro dell’Interno si ebbe con il decreto hitleriano del 17 giugno 1936, che creò una nuova autorità centrale nella figura del capo della polizia tedesca, fondendola con la carica politico-partitica di Reichsführer delle SS. In tal modo, se in qualità di direttore nazionale della polizia Himmler rimaneva ancora formalmente subordinato a Frick, il suo ruolo di capo delle SS lo mise in condizione di rispondere solo ed esclusivamente agli ordini di Hitler. Qualche settimana dopo, la fusione della polizia politica e di quella criminale in una nuova entità, la «polizia di sicurezza», posta sotto il comando di Heydrich, perfezionò ulteriormente il processo di formazione di una sfera decisionale e di influenza in materia di polizia completamente autonoma dai consueti canali legali. In forza di questo 107

provvedimento, infatti, anche i crimini comuni vennero portati nell’ambito di competenza della polizia politica, trasformata ormai in un potentissimo apparato alle dipendenze esclusive della «volontà del Führer». Un ultimo passo in tale direzione venne compiuto nel 1939, quando la «polizia di sicurezza» incorporò il Servizio di sicurezza (SD) della NSDAP; rispetto alla portata delle novità introdotte nel 1936, si trattò, tuttavia, più di un rimpasto organizzativo che di un cambiamento di sostanza. Le alterazioni del rapporto tra legge ordinaria e azione di polizia verificatesi fra il 1933 e il 1936 (le modifiche successive non furono altro che la diretta conseguenza di quelle prime trasformazioni) esercitarono un impatto capitale sulla natura e sulla portata del potere di Hitler. In tutte le occasioni più importanti il dittatore aveva appoggiato decisamente l’espansione del potere extralegale degli organi di polizia, che nel 1936 si trovarono fusi istituzionalmente con l’organizzazione più ideologizzata del Partito nazionalsocialista, le SS. La magistratura ordinaria era ridotta alla difensiva su tutta la linea, avendo accettato che la supremazia assoluta di Hitler si affermasse tanto all’interno che al di sopra della legge e che le origini di questo potere risiedessero al di fuori dei normali organi dello Stato. Essa chiuse un occhio sulle illegalità sempre più flagranti, lasciando alla gestione esclusiva degli organi di polizia materie di importanza fondamentale come la «custodia preventiva» e i campi di concentramento. In un grottesco sussulto di spirito legalitario, verso la fine degli anni Trenta alcuni avvocati difensori si videro costretti a chiedere pene più severe del dovuto per i loro assistiti, nella speranza che così questi sarebbero stati chiamati a scontare la condanna nelle prigioni di Stato e non nei campi di concentramento; ma ciò non servì a impedire che i detenuti rimessi in libertà finissero nelle mani della polizia, né il trasferimento in «custodia preventiva» dei condannati a pene giudicate dalla polizia troppo clementi, nonché, addirittura, di coloro che erano stati assolti dal tribunale. Quando, una settimana dopo lo scoppio della guerra, il ministro della Giustizia Gürtner, sorpreso da un comunicato-stampa nel quale Himmler annunciava l’avvenuta esecuzione senza previo processo di un numero imprecisato di persone, insistette per sapere da chi era partito l’ordine in questione, la risposta che ricevette fu che le fucilazioni erano state autorizzate da Hitler in 108

persona29. Nel corso della guerra le interferenze arbitrarie del dittatore sui procedimenti giudiziari divennero più frequenti, mentre la sostituzione, nel 1942, di Gürtner con un nazista tutto d’un pezzo come Thierack, segnò la definitiva capitolazione della giustizia ordinaria di fronte allo strapotere degli organi esecutivi di polizia. Nello stesso torno di tempo, quella che sarebbe stata l’ultima riunione del Reichstag (26 aprile 1942) avrebbe ratificato formalmente la posizione di Hitler come capo supremo della giustizia sciolto da qualsiasi responsabilità verso la legge30. Non è il caso di descrivere in queste pagine la massiccia espansione della sfera di potere di cui fu protagonista la polizia, che è come dire le SS, durante gli anni del secondo conflitto mondiale. Basti sapere che parallelamente a questa espansione il potere personale di Hitler raggiunse le vette più alte, e così la possibilità di tradurre in pratica gli obiettivi ideologici che egli aveva fissato in termini generali sin dai primi anni Venti. L’erosione completa dell’ordinamento legale e la costruzione di un corpo di polizia profondamente informato ai valori dell’ideologia nazionalsocialista contribuirono in maniera essenziale a creare quel clima e a forgiare quegli strumenti necessari al pieno dispiegamento del potere hitleriano e alla realizzazione dei punti qualificanti della sua visione del mondo. Il giorno della sua nomina a capo della polizia tedesca, Himmler aveva annunciato che il suo obiettivo era «creare un corpo di polizia saldato inscindibilmente con l’ordine delle SS, come forza responsabile della difesa interna della nazione» in quella lotta contro «la potenza universalmente distruttiva del bolscevismo» che asseriva essere «una delle grandi battaglie della storia umana»31. Nello stesso anno il dottor Werner Best, il delegato di Heydrich presso l’Ufficio centrale della polizia segreta di Stato, affermò che il compito della polizia politica era quello di tutelare la «salute politica» della nazione e di estirpare da essa tutti i sintomi di malattia e i germi di disgregazione. Per svolgere tali funzioni, la polizia aveva bisogno di «una autorità che derivi solo ed esclusivamente dalla nuova concezione dello Stato e che non richieda speciali strumenti di legittimazione legale». In tal modo prese forma una nuova idea del ruolo della polizia politica come «solo corpo re109

sponsabile della difesa dello Stato, e i cui membri [...] devono considerarsi come componenti di un’unità da combattimento»32. Imbevuta di queste teorie e disponendo dell’autonomia necessaria a tradurle in pratica, la polizia politica fu in grado di espandere la sua sfera operativa proprio in quei compiti che meglio sembravano offrire un «servizio» al Führer, cioè perseguitando quelle categorie potenzialmente illimitate di cittadini comprese sotto l’etichetta di «nemici dello Stato e del popolo» e assunte come bersagli dall’ideologia personale del dittatore nazista (ebrei, comunisti e marxisti di altre tendenze, massoni, esponenti della Chiesa «politicamente impegnati», testimoni di Geova, omosessuali, zingari, soggetti «antisociali» e «criminali abituali»). La spirale della discriminazione poteva ora inasprirsi senza trovare ostacoli di sorta. La creazione di un apparato repressivo dotato di finalità ideologiche dinamiche strettamente legate alla missione «carismatica» del Führer fu, quindi, un fattore decisivo per l’esercizio del potere hitleriano, ma pure non dobbiamo dimenticare, come si è detto all’inizio di questo capitolo, che sarebbe un errore separare la repressione dal consenso e pensare a una popolazione sottomessa contro la propria volontà allo strapotere tirannico della Gestapo. Anche se nella fase finale della guerra, quando il Regime cominciò a perdere consensi, l’intensificazione senza precedenti del terrore fu determinante nell’impedire che si verificasse un crollo del fronte interno come quello del 1917-18, per la maggior parte del Terzo Reich non solo la persona di Hitler, ma anche l’apparato di polizia che costituì un baluardo così importante del suo potere, godettero del sostegno di ampi strati della popolazione e della società tedesca. Di fatto, senza questo consenso la capacità repressiva della polizia politica, che nella prima fase successiva al 1933 fu tutt’altro che massiccia per entità di forze e per possibilità effettive di sorveglianza, sarebbe stata fortemente indebolita. Ancora nel 1937, per esempio, a Düsseldorf si contavano appena 126 funzionari della Gestapo su circa mezzo milione di abitanti, 43 a Essen su una popolazione di 650.000 unità, e 22 a Würzburg, per coprire l’intera popolazione della Bassa Franconia (840.000 individui)33. Da ciò si può dedurre che la maggioranza dei casi trattati dalla Gestapo prese avvio da denunce partite da cittadini comuni. 110

La legge del 21 marzo 1933 contro le cospirazioni politiche vietò la manifestazione di opinioni offensive e sovversive all’indirizzo dello Stato e dei suoi vertici, e aprì le porte a un’ondata imponente di denunce in cui spesso le motivazioni politiche si frammischiavano ad altre personali. Vittime principali di queste delazioni fatte sul posto di lavoro, negli isolati di abitazione o nelle birrerie, furono gli «emarginati» sociali; a seguito di tali denunce, di solito l’accusato veniva preso in «custodia preventiva» o era portato davanti ai Tribunali speciali istituiti nel 1933 con la funzione di accelerare i giudizi per reati politici. Nei fascicoli sopravvissuti del Tribunale speciale di Monaco sono registrati più di 10.000 casi trattati dal 1933 al 1945, e non c’è nulla che autorizzi a pensare che il distretto giudiziario che faceva capo alla capitale bavarese costituisse un caso eccezionale rispetto agli altri in cui si trovava suddiviso il territorio del Reich. D’altra parte gli schedari ancora esistenti della Gestapo di Würzburg contano un totale di circa 19.000 casi individuali, la maggioranza dei quali soggetti a «custodia preventiva» e venuti a conoscenza della polizia politica sulla base di denunce fatte da privati cittadini34. E i fascicoli personali relativi all’ufficio della Gestapo di Düsseldorf (che si calcola costituiscano circa il 70% del materiale effettivamente prodotto) registrano la cifra sbalorditiva di 72.000 casi trattati35. Senza il contributo dei molti «spioni» e delatori ben contenti di interpretare il ruolo servile di «collaboratori del Führer» consegnando per un motivo qualunque i loro concittadini alle «amorose» cure della Gestapo, un sistema, come quello nazista, basato sulla paura e sul terrore diffuso, avrebbe avuto scarsissime possibilità di funzionamento e di successo.

IV

Potere plebiscitario

Il nazismo al potere mostrò un dinamismo che lo distinse notevolmente dagli altri regimi autoritari di destra esistenti a quel tempo, fascisti o solo in parte fascisti: l’energia incessante, l’accelerazione continua e la «radicalizzazione cumulativa»1 che caratterizzarono il regime di Hitler, infatti, non trovano il minimo paragone né nell’Italia di Mussolini, né tanto meno in Spagna, dove lo Stato autoritario di Franco possedette solo gli orpelli del fascismo. Lo Stato hitleriano, invece, non perse in nessun momento la sua forza dinamica, né si stabilizzò mai in un «semplice» autoritarismo repressivo di stampo conservatore-reazionario. Questo aspetto colse di sorpresa molti contemporanei: sia a sinistra che a destra e sia all’interno che all’esterno della Germania, la convinzione più diffusa riguardo all’ascesa di Hitler alla carica di cancelliere era che gli iniziali impulsi rivoluzionari del movimento nazionalsocialista si sarebbero placati in breve tempo e che le élites tradizionalmente dominanti avrebbero ripreso in mano le redini del potere. Il grossolano errore di calcolo che attribuiva a Hitler pochissime possibilità di consolidare e di estendere il proprio potere derivava dall’idea persistente – riassunta simbolicamente in politica estera dalla politica di appeasement condotta dalla Gran Bretagna e dalla Francia – che al di sotto della superficie, al di là della propaganda e della mobilitazione, le strutture convenzionali del potere e gli obiettivi politici tradizionali avrebbero finito col prevalere anche nella Germania nazionalsocialista. Questo giudizio mancava di comprendere fino a che punto, verso la fine degli anni Trenta, le forze alleate al potere sempre più dispotico di Hitler fossero riuscite a estromettere le élites tradizionali dai più importanti centri decisionali della politica tedesca. L’espansione del potere hitleriano e – in parte a causa, in par112

te per effetto di questo fenomeno – la progressiva radicalizzazione e la dinamica incessante del regime nazionalsocialista non possono, in ogni caso, essere attribuite semplicemente alla personalità e ai disegni ideologici di Hitler. Questo capitolo vuole mostrare come esse fossero legate inestricabilmente al consenso di cui il nazismo godette presso le masse. L’ampia varietà di aspettative sociali che si riversarono sul Regime sulla base di un’adesione generalizzata verso la politica nazionalsocialista, trovò il suo comune denominatore nella figura del Führer. Ciò, a sua volta, garantì quel consenso plebiscitario al Regime che poté essere ripetutamente sfruttato per rafforzare l’immagine sempre più divinizzata di Hitler come leader e per favorire l’ascesa dell’assolutismo del Führer e la progressiva autonomizzazione del suo potere dalle tradizionali élites dominanti, giunta a pieno compimento alla fine degli anni Trenta. In tal senso, la forza del Regime fece aggio, una volta ottenuto il potere, sulle spinte di cambiamento radicale che durante la crisi degli ultimi anni di Weimar avevano trovato espressione nelle speranze e nelle aspettative utopistiche riposte nella prospettiva di una rigenerazione nazionale. Hitler seppe incarnare questo sogno di un New Deal tedesco nutrito dai tredici milioni di elettori che lo avevano votato nel 1932 e dagli altri milioni di tedeschi che furono pronti a sostenerlo dopo il 1933. Il consenso delle masse, come si è già detto, non derivò dalla condivisione delle sue ossessioni ideologiche personali o della sua peculiare visione del mondo, ma dal fatto che egli riuscì a dar voce, più chiaramente di chiunque altro, alle speranze allora diffuse di rinascita nazionale e di vittoria finale sui nemici della Germania. Questa coincidenza soltanto parziale di motivazioni bastò, tuttavia, a garantire al potere del Führer una base plebiscitaria di legittimazione. E di fatto, in un certo senso, la consapevolezza hitleriana di quanto fosse importante favorire questo consenso plebiscitario, incoraggiare la propria popolarità e conservare il proprio prestigio, costituì un presupposto importante per l’esercizio del suo stesso potere.

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Il consenso di base Come «partito piglia-tutto di protesta»2, già prima del 1933 la NSDAP era riuscita a unificare superficialmente componenti molto disparate della società tedesca, mescolando alla propaganda dell’odio l’evocazione di una rinascita della Germania incentrata sulla creazione di una «comunità popolare» (Volksgemeinschaft). In qualche misura, il movimento nazista agì come una sorta di «super-gruppo di interesse», capace di mettere insieme domande sociali molto differenti tra loro, se non a volte addirittura incompatibili, grazie alla visione unificante della rigenerazione nazionale. Dal 1929-30 in poi, lo sviluppo delle sue strutture organizzative fece della NSDAP il partito politico più attrezzato di ogni altro a far presa sugli strati più ampi della popolazione (in particolare, anche se non soltanto, sui frammentati ceti medi), riuscendo a convogliare le loro incertezze e aspettative materiali nella convinzione psicologica e nella fede idealistica che i problemi del Paese potevano essere risolti attraverso quella rinascita nazionale che solo il nazionalsocialismo, sotto la guida di Hitler, sarebbe stato in grado di realizzare. Finché fu in vigore il sistema democratico, la NSDAP restò soltanto una tra le diverse organizzazioni politiche in gara: la classe operaia e i partiti cattolici in particolare rimasero ostili e stranamente immuni al fascino della propaganda nazionalsocialista. Persino nelle ultime elezioni pluraliste del marzo 1933, con Hitler ormai divenuto cancelliere e con gli oppositori socialisti o comunisti esposti alle più crude intimidazioni, alla violenza, se non addirittura alla persecuzione, i nazisti non riuscirono a ottenere neanche la metà dei voti dell’elettorato. Eppure, non tutti coloro che nel marzo 1933 continuarono a sostenere altri partiti politici rifiutavano in blocco ciò che i nazisti proclamavano di rappresentare, come dimostra la circostanza che negli anni immediatamente successivi molti di essi avrebbero trovato nel Terzo Reich alcuni, e non di rado molti, aspetti degni di ammirazione. La «maggioranza della maggioranza»3 che non votò per Hitler nel 1933 si convertì in qualche modo al nazismo negli anni precedenti al 1939: senza dubbio la ragione è da ricercare in parte nel fatto che coloro i quali avevano continuato a op114

porsi apertamente a Hitler non poterono più farlo dopo il 1933, essendo stati obbligati al silenzio o incarcerati. A ciò si aggiunse, naturalmente, il monopolio esclusivo imposto dai nazionalsocialisti sui mass-media dopo la presa del potere – monopolio che offrì alla loro propaganda nuove opportunità di distorcere la realtà e di manipolare l’opinione pubblica. Tuttavia persino le magie di Goebbels non potevano trasformare il bianco in nero: i successi della propaganda, invece, dipendevano principalmente dalla capacità di richiamarsi ai valori sociali o politici esistenti, e di utilizzarli e «interpretarli». I motivi sfruttati dalla politica culturale nazista si ricollegavano alle aspettative e alle delusioni della recente storia unitaria dell’impero tedesco, ma ancor più intensamente ai traumi della guerra, della sconfitta, e della rivoluzione, insieme all’antipatia viscerale nutrita verso l’esperienza di una democrazia profondamente lacerata. La Germania di Weimar era stata dilaniata da crisi e ribellioni di ogni tipo: le classi, le regioni, le fedi religiose continuarono, infatti, a essere oggetto di potenti sentimenti di lealtà che ostacolarono lo sviluppo della fedeltà a uno Stato-nazione il quale, lungi dal funzionare come centro di integrazione e di unificazione dell’identità politica, era percepito come elemento di divisione del corpo sociale. In tale situazione, un buon numero di atteggiamenti e di valori diffusi si offrì alla pronta utilizzazione da parte della propaganda nazionalsocialista – oltre, naturalmente, a quella delle contro-ideologie socialista e comunista. Tutte le tendenze di opinione che Goebbels riuscì a sfruttare, articolare e rinforzare confluirono nell’aspirazione a una rinascita nazionale della Germania. Le stesse divisioni profonde che laceravano il Paese nutrirono quel vivo desiderio di unità che trovò risonanza negli slogan nazisti a favore della «comunità popolare», mentre le beghe politiche condotte all’interno di una democrazia debole e frammentata fomentarono la fiducia nelle virtù di un governo forte, autoritario, tutto «legge e ordine». D’altra parte, la paura viscerale del marxismo largamente diffusa tra la media e l’alta borghesia tedesca e resa più concreta, dopo il 1917, dagli orrori dello Stato sovietico, garantiva un sostegno immediato a qualsiasi governo che si mostrasse capace di rimuovere queste ansie subito e per sempre. Inoltre, l’umiliazione nazionale e la rabbia – condivise anche in alcuni settori della sinistra – provate per il trat115

tamento inflitto alla Germania dalle potenze alleate vincitrici, unite alle incertezze sul futuro di una nazione circondata, come sembrava, da un anello di Paesi ostili, incoraggiarono la disponibilità immediata ad accogliere con il massimo favore una politica estera audace che affermasse i diritti della Germania a partire da una rinnovata posizione di forza militare. In simili condizioni, qualsiasi governo che volesse salvare la Germania dal baratro del collasso economico e offrire la speranza di una nuova e duratura prosperità, poté far conto su un consenso che andava oltre le tradizionali fedeltà di partito. In aggiunta a tutto ciò, i danni e i risentimenti ancora cocenti alimentati dalle tensioni sociali della guerra, dall’iper-inflazione e dalla successiva depressione, fornirono i presupposti per un ampliamento del consenso ben al di là della cerchia ristretta dei militanti nazionalsocialisti. L’ostilità nutrita verso i sindacati e verso il nuovo status e il potere contrattuale conquistati dai lavoratori organizzati nel periodo della Repubblica di Weimar (sentimento particolarmente diffuso tra le classi medie e nel mondo contadino) spesso procedette di pari passo con un anticapitalismo populista che denunciava lo sfruttamento dei «piccoli» per mano del grande capitale ma che, al contrario dell’anticapitalismo di sinistra, tendeva a santificare piuttosto che a insidiare la proprietà privata – finché essa fosse stata utile alla Volksgemeinschaft. Reazioni così viscerali confluirono in un atteggiamento sociale nettamente contrario all’ipotesi di una semplice restaurazione delle gerarchie di classe della Germania imperiale. Mentre spazzavano via l’egualitarismo della sinistra, infatti, questi sentimenti spingevano anche a mettere in discussione la legittimità dei privilegi sociali derivanti dalla nascita o dal denaro. A questi privilegi si dovevano sostituire ora i diritti di una nuova élite costituita da uomini di successo – i migliori, i più forti, i più capaci che, pur avendo ricevuto uguali opportunità, erano riusciti con grande sforzo, grazie alle loro qualità personali, ad arrivare in cima. Grande favore avrebbe, quindi, incontrato uno Stato che si fosse mostrato capace di agire con una determinazione spietata non solo nello sventare la minaccia marxista alla proprietà privata, ma anche nell’«estirpare» ed eliminare gli elementi di debolezza della società – identificati nelle figure dei cosiddetti «parassiti», «fannulloni», «individui nocivi» o «soggetti indesiderabili». Sul tron116

co di queste reazioni viscerali si innestarono facilmente l’invidia e il rancore nutriti per la posizione occupata dagli ebrei, considerati come «diversi» a dispetto (o forse proprio a causa) di tutti i loro sforzi di integrazione. Gli effetti della propaganda nazista rafforzarono potentemente l’opinione che gli ebrei non solo fossero differenti, ma che esercitassero anche un’influenza negativa sul corpo sociale, e però anche in questo caso il fanatismo antisemita poté muoversi su un terreno ampiamente preparato dall’antisemitismo latente in alcuni settori della società tedesca. Lo stesso genere di sentimenti portò anche al rifiuto delle indebite ingerenze dello Stato weimariano nella libertà economica (ad esempio, l’assistenza sociale o la protezione dei lavoratori), e a considerare invece con favore gli interventi di un regime autoritario che, promuovendo l’interesse nazionale e la distruzione delle forze «nocive» per il popolo o «estranee» alla comunità, si pensava avrebbe mirato ad accrescere le opportunità, lo status e il benessere dei più meritevoli. Se il governo democratico era stato dominato, secondo questa prospettiva, dagli interessi settoriali, e in particolare da quelli dei lavoratori e del grande capitale, il regime autoritario di rigenerazione nazionale, come si presumeva ingenuamente, sarebbe diventato lo Stato dei «piccoli», dell’uomo della strada, il cui talento e le cui capacità avrebbero finalmente trovato sostegno e riconoscimento, segnando il ritorno a una mitica «normalità» in cui chi lo meritava sarebbe stato ricompensato come dovuto. Anche se molti di coloro che nutrirono tali speranze erano destinati a restare tristemente delusi dal Terzo Reich, non si deve sottovalutare l’importanza di questa base potenziale di consenso che i nazisti furono poi capaci di far confluire nella loro idea di Volksgemeinschaft. Per quanto riguarda gli strati più alti della società tedesca, cioè quei gruppi di élite da cui era stata reclutata tradizionalmente la classe dirigente della nazione, non c’è dubbio che essi difficilmente potevano identificarsi per intero con la NSDAP o con la rozzezza della sua ideologia. Il disprezzo verso i parvenus che sgomitavano nelle stanze del potere, il disgusto per la volgarità dei politici che provenivano dalla plebaglia e le preoccupazioni nutrite verso la demagogia anticapitalistica presente nel calderone ideologico del Partito nazionalsocialista, impedivano un’accettazione convinta del movimento guidato da Hitler. Esistevano, tuttavia, alcune affi117

1. Il ministro della Propaganda, Joseph Goebbels, nel suo ufficio, sotto un ritratto di Federico il Grande. 2. Un manifesto del 1936: «Tutti i tedeschi ascoltano il Führer con la radio del popolo». La rapida diffusione di apparecchi radiofonici a basso prezzo dopo il 1933 contribuì notevolmente al successo della propaganda nazista.

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nità ideologiche di una certa importanza: la fine dell’odiato esperimento democratico, la distruzione del marxismo, la restaurazione dell’autorità di coloro che l’avevano tradizionalmente esercitata e, in politica estera, la revisione degli accordi territoriali successivi alla guerra rappresentavano proposte seducenti per tutti i settori delle élites tradizionali. Figure di prestigio dell’amministrazione pubblica, proprietari terrieri, industriali, finanzieri e vertici militari erano tutti concordi, per ragioni diverse, nell’auspicare il ritorno a un regime autoritario. Si riteneva, infatti, che un regime di questo genere avrebbe ridato importanza ai tecnici dell’amministrazione civile, avrebbe ridato centralità alle politiche di sostegno all’agricoltura, avrebbe concesso libertà d’azione a un padronato desideroso di sciogliere l’industria dai vincoli del sindacalismo e avrebbe offerto nuove prospettive alle forze armate, fortemente danneggiate dalle restrizioni imposte dal Trattato di Versailles. Anche se l’adesione di questi gruppi al nazionalsocialismo non fu mai piena, spingendosi in alcuni casi, sull’onda delle crescenti disillusioni, fino a un atteggiamento di totale rifiuto, in generale le affinità reciproche restarono abbastanza forti. Si può dire, insomma, che i rapporti tra i vertici nazisti, l’establishment sociale e i gruppi tradizionali di potere si poggiavano su un consenso ampio e stratificato che continuò a esistere, in larga misura, sino alle ultime fasi della guerra, quando la sconfitta incombente della Germania e l’irrazionalità montante del regime nazionalsocialista cominciarono a stridere in modo patente con gli interessi privati e la preservazione dei pilastri tradizionali della società tedesca. Nella trasmissione dei valori sociali un ruolo-chiave continuò a essere svolto, anche durante il Terzo Reich, dai due maggiori gruppi confessionali attivi in Germania. Nel 1933 la Chiesa protestante e quella cattolica raccoglievano, almeno nominalmente, più del 90% dei fedeli tedeschi. Nessuna delle due Chiese nascose la propria avversione per la Repubblica di Weimar, propendendo, invece, per un sistema di governo autoritario che però, nella maggior parte dei casi, non si identificava con il nazionalsocialismo. Non c’è, quindi, da stupirsi, se durante il Terzo Reich i motivi di frizione, già presenti prima del 1933, si sarebbero moltiplicati, specialmente nella Chiesa cattolica. Agli occhi della maggior parte dei responsabili della Chiesa protestante, la deposizione del Kaiser e la fine dello Stato autori120

tario tradizionale avevano spezzato i legami tra Chiesa e Stato stabiliti sin dai tempi della Riforma. In più, si addebitava alla diffusione dell’ateismo e del materialismo marxista il declino della pratica religiosa. Prima della fine della Repubblica di Weimar, gli elementi più radicali presenti in questa Chiesa divennero aperti sostenitori del nazionalismo sciovinista professato dalla NSDAP, ritenendolo lo strumento capace di produrre l’unità dei cristiani e il rilancio del revivalismo politico in Germania: «La svastica sui nostri petti e la croce nei nostri cuori», recitava non a caso lo slogan che si diffuse tra i «cristiani tedeschi», l’ala della Chiesa protestante convertitasi al nazionalsocialismo4. Le principali correnti del protestantesimo evitarono simili eccessi nei rapporti con il movimento nazista, e tuttavia, pur considerando alcuni suoi aspetti sgradevoli o preoccupanti, accolsero l’atmosfera di «rinascita nazionale» che accompagnò la presa hitleriana del potere come la premessa di un generale rinnovamento morale della nazione. L’entusiasmo per il nuovo regime era destinato a non spegnersi facilmente e, nonostante le disillusioni che sarebbero sopraggiunte nel giro di poco tempo, il terreno di convergenza ideologica tra la Chiesa protestante e il Regime nazionalsocialista restò sempre ampio. Ad accomunarli provvidero, infatti, lo sciovinismo nazionalista, il fervente antimarxismo, l’energico autoritarismo e la fiducia nel Führer, nonostante i gravi conflitti in materia di politica ecclesiastica e il distacco definitivo di alcuni capi religiosi che trovarono sempre più difficile conciliare il nazionalsocialismo con i principi teologici del cristianesimo riformato. La Chiesa cattolica condivideva con il protestantesimo tedesco l’avversione per la democrazia di Weimar – tanto che nel 1925 uno dei suoi capi più eminenti, il cardinale Faulhaber, arcivescovo di Monaco e Freising, si era persino rifiutato di far suonare le campane della sua diocesi per il funerale di Friedrich Ebert, primo presidente di una Repubblica che il prelato riteneva fondata sul tradimento e sulla ribellione. I membri della gerarchia cattolica erano per lo più un prodotto dell’epoca guglielmina; sia le origini sociali – molti di loro, infatti, provenivano da famiglie aristocratiche – sia il cattolicesimo tradizionale li spingevano a guardare con favore un ritorno all’autoritarismo, sebbene di un genere meno avverso al cattolicesimo (che durante la democrazia di Weimar era in realtà prosperato) di quanto non fossero stati i governi 121

di Bismarck e quelli dell’era di Guglielmo II. Il tipo di Stato autoritario che piaceva ai cattolici non aveva, comunque, certamente la forma del nazismo. Nel periodo precedente alla «presa del potere», i rapporti tra la Chiesa cattolica e la NSDAP erano stati tutt’altro che idilliaci. Le manifeste tendenze anticristiane della dottrina nazionalsocialista, riassunte principalmente negli scritti di Rosenberg, avevano incontrato la condanna severa della gerarchia cattolica: numerosi furono, infatti, i divieti, gli avvertimenti e i moniti pronunciati nei confronti del nazismo da parte del clero cattolico, che restò sostanzialmente sordo agli sforzi intrapresi da Hitler al fine di negare l’accusa di essere a capo di un movimento antireligioso. Benché fosse nato a Monaco, il nazionalsocialismo raccolse i suoi più ferventi sostenitori, persino nei primi anni, essenzialmente tra le schiere dei protestanti della Baviera settentrionale e della Franconia, piuttosto che nel Sud di quello Stato, dove invece la presenza dei cattolici era di gran lunga preponderante. Anche dopo il 1929, la «cultura» cattolica e il sostegno ai partiti politici cattolici (Zentrum e BVP) restarono relativamente impermeabili alla propaganda nazionalsocialista; di conseguenza, nelle regioni cattoliche il consenso elettorale alla NSDAP restò basso, mentre le sue grandi avanzate si registrarono soprattutto nelle regioni a maggioranza protestante. Tuttavia, in occasione delle elezioni del 1933 si ebbe un forte aumento del voto cattolico a favore del Partito nazionalsocialista, cosa che dovette contribuire non poco alla decisione presa dai vescovi di revocare tutti i divieti e di appoggiare lealmente il nuovo Regime5, anche sulla base delle promesse fatte da Hitler con il discorso al Reichstag il 23 marzo 1933, nel corso del quale sostenne che la legge per la concessione dei pieni poteri, di cui si stava discutendo, sarebbe servita anche a sostenere meglio i diritti della Chiesa cattolica. Nonostante tutte le grandi aspettative riposte nel Concordato con il papa, ratificato nell’estate del 1933, divenne ben presto evidente che i timori connessi alle tendenze anticlericali della politica e dell’ideologia nazionalsocialiste erano tutt’altro che infondati. E infatti, il conflitto tra lo Stato nazionalsocialista e la Chiesa cattolica, una guerra di logoramento che raggiunse l’apice negli anni 1936-37 e poi nuovamente nel 1941, avrebbe sottratto al Re122

gime buona parte del consenso di un’area culturale che i nazisti avevano sempre trovato difficile da conquistare. Sebbene la Chiesa cattolica difendesse le sue istituzioni, le sue pratiche e le sue dottrine con indomita ostinazione, anche al suo interno vi furono sempre alcuni motivi di convergenza con aspetti fondamentali della politica e dell’ideologia nazionalsocialiste attinenti materie non strettamente ecclesiastiche. Il punto che più di ogni altro riuscì a unire nazismo e Chiesa cattolica fu l’attacco al marxismo «ateo», tanto che persino i vescovi, la cui avversione al Regime hitleriano era fuori discussione, poterono vedere nell’invasione dell’Unione Sovietica del 1941 una giusta «crociata» contro il bolscevismo. Altri motivi di convergenza vennero dalla preferenza nutrita dalla Chiesa verso le forme di governo autoritario (anche se, naturalmente, non verso uno Stato che attaccasse i princìpi fondamentali del cristianesimo) e verso una politica estera temeraria che affermasse i diritti della nazione tedesca, e dalla comune volontà di separare la persona di Hitler dai difetti del Regime. Finora, dunque, abbiamo considerato gli atteggiamenti prevalenti espressi verso il nazismo dalla massa delle persone «normali», delle quali solo una piccola minoranza era organizzata in una delle strutture affiliate al movimento nazionalsocialista. Abbiamo, inoltre, parlato delle classi elevate, che per lo più auspicavano una soluzione autoritaria alla crisi di Weimar diversa da quella offerta dai nazisti, e dei capi di quelle istituzioni che, dopo la fine del sistema democratico nel 1933, conservarono una certa indipendenza e un certo influsso sull’opinione di ampi settori della popolazione, e che in modi diversi entrarono in grave conflitto con il Regime. In ogni caso, nella fase iniziale del Terzo Reich il consenso di base verso lo Stato hitleriano si nutrì di una serie disparata di elementi, e così si spiega come mai, nonostante le sempre maggiori riserve provenienti da più parti, esso rimase vivo nei suoi elementi essenziali sino alla metà della guerra. Da questo atteggiamento positivo verso il governo di Hitler vanno escluse, ovviamente, le numerose minoranze costrette alla sottomissione dal terrore poliziesco: gli ultimi fautori delle teorie collegate ai partiti dei lavoratori messi fuori legge, i gruppi etnici perseguitati, gli emarginati e tutti coloro che non potevano trovare posto nella Volksgemeinschaft. D’altra parte, come si è già sot123

tolineato, sarebbe sbagliato interpretare il consenso al Regime hitleriano come il risultato di un’adesione incondizionata al nazionalsocialismo, poiché in molti casi esso si fondò su una parziale coincidenza di interessi che non escludeva affatto importanti ambiti di dissenso. Ma il consenso di base di cui si è parlato in queste pagine rappresentò di fatto un importante presupposto di quell’ampia popolarità che circondò il Regime dopo il 1933, tanto più se consideriamo che le voci dell’opposizione erano costrette alla clandestinità e che gli strumenti di formazione dell’opinione pubblica vennero assoggettati completamente al monopolio nazionalsocialista. Prima, però, di valutarne le implicazioni sul potere di Hitler, dobbiamo prendere in considerazione, brevemente, il potenziale di mobilitazione legato a questo consenso.

Gli organi della propaganda Sin dall’inizio apparve chiaramente che il Regime avrebbe attribuito massima priorità al controllo dell’opinione pubblica; uno dei primi passi compiuti dopo le elezioni del 5 marzo 1933 fu, infatti, la creazione, a soli otto giorni di distanza, del ministero per la Propaganda e l’Educazione popolare affidato alla guida di Joseph Goebbels, responsabile sin dal 1929 della propaganda del Partito. Nel suo primo discorso tenuto ai rappresentanti della stampa, due giorni dopo essere entrato in carica, Goebbels sottolineò gli intenti ambiziosi del suo dicastero, ponendo l’accento sul ruolo dinamico e non passivo svolto dalla propaganda. A suo dire, infatti, non bastava terrorizzare coloro che non appoggiavano il Regime sino a ridurli alla sottomissione, o accontentarsi della loro tacita accettazione o della loro neutralità, ma era un dovere oggettivo «lavorare sulla gente fino a quando essa non si sia arresa a noi». Lo scopo di Goebbels e del suo ministero era, quindi, né più né meno che convertire tutti i tedeschi all’ideologia nazionalsocialista, di «unire il popolo intorno all’ideale della rivoluzione nazionale»6. Ciò implicava «il compito di mettere in atto una mobilitazione dello spirito tedesco», e a questo proposito Goebbels fece un riferimento significativo alla prima guerra mondiale, quan124

do la sconfitta della Germania fu dovuta – a suo giudizio – non a un carente impegno materiale, ma alla scarsa mobilitazione spirituale del popolo tedesco7. Già da queste affermazioni traspare chiaramente il fine ultimo della propaganda goebbelsiana: la preparazione psicologica dei tedeschi alla guerra imminente o ventura, ma comunque inevitabile, che avrebbe affermato la supremazia della Germania sulle altre nazioni. La stampa, la radio e la cinematografia allora in rapida espansione, la letteratura, la musica e le arti visive furono tutte ben presto allineate alle direttive del Regime. Nessun canale di espressione dell’opinione pubblica restò indenne dalla volontà di far aderire pienamente quest’ultima alle idee e alle politiche della dirigenza nazionalsocialista e di suscitare l’entusiastica approvazione delle sue realizzazioni. Avendo a disposizione il controllo pressoché esclusivo dei media, Goebbels non trovò molte difficoltà a far leva sulle diverse componenti che concorrevano a creare il consenso di base al Regime, con l’obiettivo di trasformarlo in vero e proprio consenso plebiscitario. A tal fine, secondo il giudizio di Goebbels, «fare della filosofia» nazionalsocialista, cosa a cui invece era incline Rosenberg, sarebbe stato controproducente, mentre il messaggio da veicolare doveva essere ridotto in termini elementari, in quel contrasto tra bianco e nero tanto caro anche a Hitler. Ciò nonostante, la dottrina nazionalsocialista fu lasciata nel vago e aperta a varie interpretazioni: così, al richiamo «positivo» all’unità nazionale e alla sottomissione di tutte le lealtà particolari (di classe, regionali, religiose o politico-partitiche) sull’altare del bene supremo della Volksgemeinschaft – che richiedeva fedeltà totale e abnegazione assoluta –, facevano da contrappunto le esortazioni alla repressione di tutti i sentimenti umanitari nei confronti dei «nemici del popolo» interni, l’incitamento allo sciovinismo nazionale e la rivendicazione della superiorità tedesca su tutti gli altri popoli. Di fatto, le grandiose ambizioni concepite dal ministero della Propaganda guidato da Goebbels non riuscirono a trovare piena attuazione; al di là dell’uniformità esteriore sbandierata trionfalisticamente dalla propaganda, infatti, molti dei precedenti antagonismi e delle divisioni esistenti all’interno della società tedesca furono semplicemente dissimulati, ma mai pienamente superati. Nonostante i molti richiami all’ideale armonico della Volksge125

3. Il culto di Hitler viene diffuso mediante la Gioventù hitleriana. Un manifesto proclama: «La gioventù al servizio del Führer. A dieci anni tutti nella HJ (Hitler-Jugend)». 126

meinschaft, atteggiamenti e modi di fare continuarono a essere fortemente influenzati dagli interessi personali o materiali. Lo sciovinismo nazista incontrò difficoltà soprattutto di fronte alle vecchie generazioni operaie, educate alla scuola della democrazia sociale e abituate a comportarsi secondo i dettami della coscienza di classe, ma anche tra gli ostinati abitatori delle campagne lo slogan che incitava ad «anteporre il bene della comunità a quello individuale» venne costantemente ignorato e si continuò a subordinare l’idealismo politico all’interesse privato. Persino agli occhi della classe media, che pure aveva fornito la base essenziale di supporto al Partito di Hitler, la linea di condotta e le politiche dei nazionalsocialisti non apparvero mai del tutto esenti da limiti e difetti. E quando toccò alle Chiese cristiane trovarsi sotto il fuoco del Regime, il risultato principale fu quello di allontanare i fedeli dal nazismo o, se non altro, di rafforzare la fede nel loro credo religioso. Ma al di là dei singoli punti di dissenso, in molti altri ambiti si registrò un’intesa sostanziale con gli obiettivi del Regime. Tali motivi trovarono incarnazione soprattutto nella figura di Hitler, e proprio essi rappresentarono il terreno di coltura dell’informazione orientata e unilaterale fornita dal ministero della Propaganda dopo il 1933. La propaganda nazionalsocialista, infatti, individuò la base su cui far leva proprio in coloro che approvavano fondamentalmente l’idea, peraltro assai diffusa e certamente precedente all’avvento del nazismo, di una leadership «forte» e autoritaria. Come si è detto in un altro capitolo, già prima di Hitler era stata convinzione del nazionalismo radicale che la salvezza della Germania sarebbe stata raggiunta solo grazie all’opera di un «grande leader». Durante la crisi di Weimar, gli «spazi di mercato» per simili concetti divennero molto più ampi, sicché, dopo il 1933, l’espansione del culto del Führer come colonna portante del nuovo Stato poté facilmente innestarsi su questa predisposizione di fondo, che non era affatto ristretta ai soli membri del movimento nazionalsocialista. Goebbels, che era allo stesso tempo un entusiastico sostenitore delle virtù della propaganda e un suo abile tecnico, seppe comprendere l’importanza cruciale di quella fede assoluta in un capo supremo, e così il culto di Hitler divenne il centro degli sforzi della sua attività propagandistica. Goebbels poté ben presto andar 127

fiero dei risultati ottenuti nella creazione del «mito del Führer», fondato essenzialmente sulla certezza e sulla fiducia cieca – dalle quali sarebbe dovuta scaturire poi un’obbedienza assoluta – che il Führer avrebbe fatto sempre quanto era giusto per il suo popolo. Corollario era che questi incarnava, se pure in modo indefinito, l’Idea stessa del nazionalsocialismo, e che i risultati da esso ottenuti erano merito del Führer. Il «fine» ultimo, peraltro mai chiaramente indicato, poteva essere raggiunto soltanto seguendo ciecamente il Führer e, in tal senso, la propaganda cercò di trasmettere il concetto che «lavorare per il Führer» era il dovere di ogni cittadino. Non c’è dubbio che i tedeschi realmente dediti a tale culto rappresentavano una minoranza e che ai benpensanti gli eccessi di una simile venerazione dovevano apparire addirittura ridicoli. Eppure, non si può negare che negli anni successivi al 1933 la popolarità di Hitler raggiunse vette imponenti, estendendo la sua influenza anche in settori della società che trovavano altrimenti molto da ridire sul nazismo. I colpi assestati al marxismo, la restaurazione dell’ordine, l’eliminazione del flagello della disoccupazione di massa, la ripresa economica, la rinnovata potenza delle forze armate tedesche e, non meno importante, la marcia trionfale di una politica estera che rovesciava i detestati accordi di Versailles e risvegliava l’orgoglio nazionale: tutto questo, come veniva proclamato a grandi squilli di fanfara dalla propaganda nazionalsocialista (e non vi erano più in Germania, d’altronde, voci che potessero contestare pubblicamente tale interpretazione), era stato reso possibile unicamente dal Führer. Come era lecito attendersi, le brutalità, l’ingiustizia, la persecuzione, la repressione e la tensione internazionale che stavano alla base di tutte queste «conquiste», non suscitarono alcuna obiezione negli acritici seguaci di Hitler, mentre nella generalità della popolazione, dove pure questi aspetti «negativi» erano quanto meno percepiti, si tendeva ad addossare ogni responsabilità non a Hitler bensì ad altri, o a considerare quegli stessi fatti come inconvenienti secondari, deplorevoli ma inevitabili, dell’altrimenti salutare rigenerazione nazionale portata avanti in nome di Hitler. Coloro, poi, che ritenevano i «successi» hitleriani poco convincenti o ripugnanti, facevano generalmente di tutto per tenere segreti tali sentimenti. Il culto del Führer permeò in un modo o nell’altro tutti gli aspet128

ti della vita pubblica del Terzo Reich. Così, ad esempio, dal luglio 1933 in poi, venne imposto agli impiegati pubblici di esprimere con un gesto visibile la loro lealtà, pronunciando come forma di saluto lo «Heil Hitler!» divenuto obbligatorio all’interno del movimento nazionalsocialista già dal 1926. Neanche l’infermità fisica esonerava da tale obbligo: se la mano destra era invalida, infatti, bisognava sollevare la sinistra!8 Con il crescere dell’influenza nazista nelle scuole, anche gli insegnanti presero a formulare il saluto al Führer prima di iniziare le ore di lezione. Inoltre un gran numero di scrittori, gente di spettacolo, artisti e intellettuali – coloro, naturalmente, che non furono perseguitati o costretti all’esilio – si affrettarono a entrare nelle grazie dei nuovi padroni della Germania dichiarando la loro ammirazione illimitata per l’operato del Führer, mentre le alte gerarchie delle due maggiori confessioni cristiane furono pronte, quanto meno in pubblico, a esonerare Hitler dalle accuse ignominiose rivolte agli esponenti più esagitati del Partito per i loro attacchi contro le istituzioni ecclesiastiche. In pratica, dunque, non ci fu alcuna forma di vita organizzata o istituzionale che rifiutò di trasformarsi in cassa di risonanza delle lodi pubbliche rivolte all’indirizzo del Führer. A tutto ciò va aggiunta la fonte illimitata di sostegno fanatico rappresentata dai gruppi affiliati al Partito e dalla Gioventù hitleriana – che a partire dal 1936 divenne l’organizzazione giovanile di Stato. Lo sviluppo numerico e organizzativo del movimento nazionalsocialista dopo il 1933 è un segno della sua crescente penetrazione in ogni più minuto ganglio della società tedesca. Con l’arrivo degli opportunisti saliti sul carro del vincitore dopo la «presa del potere», il numero degli iscritti alla NSDAP crebbe vertiginosamente: da 850.000 si passò ai circa 2,5 milioni nel 1935, fino a giungere a 5 milioni al momento dello scoppio della guerra; ulteriori aumenti avvenuti durante il conflitto portarono a un picco di 8 milioni nel 19439. Anche i militanti delle SA (che, sebbene coincidessero in certa misura con quelli del Partito, non erano del tutto sovrapponibili a essi) aumentarono velocemente da 450.000 nei primi mesi del 1933 ai quasi 3 milioni del giugno 1934 – al momento cioè della «purga di Röhm» – anche se ritornarono, dopo di allora, a soli 1,2 milioni nel 193810. E, infine, la Gioventù hitleriana si ampliò dopo il 1933 sino a contare 4 milioni di giovani tedeschi (circa la metà della gioventù della nazione) prima della fi129

4. Hitler si sporge verso la folla delle ammiratrici in adorazione. 130

ne del 1935, mentre come organizzazione giovanile di Stato raggiunse all’inizio del 1939 la vetta di 7 milioni di iscritti11. Sebbene i casi appena citati si riferiscano alle organizzazioni con il più spiccato carattere di massa, l’estensione dei gruppi affiliati al Partito, organizzati in una fitta rete di associazioni collaterali che coprivano virtualmente tutti i settori della vita sociale e professionale del tempo, dimostra come fosse praticamente impossibile sottrarsi all’influsso della propaganda nazionalsocialista. Prima del 1933 la finalità comune alle varie anime del movimento hitleriano era stata la conquista del potere, ma una volta raggiunto tale scopo i suoi compiti si allargarono a dismisura, comprendendo, oltre al controllo sociale, tutte le attività di propaganda e indottrinamento necessarie a dirigere il popolo tedesco verso le mete associate alla grande visione del Führer. In che cosa consistessero esattamente tali mete non era dato saperlo. Anche ai più devoti e fanatici seguaci di Hitler, gli obiettivi per cui «lavorare» non apparivano che con i contorni indistinti di una vaga utopia, collocata in un tempo di là da venire – un mondo nuovo di ordine e disciplina, con a capo la Germania. Nel frattempo, a motivare gli attivisti nella loro lotta per il raggiungimento di questo obiettivo, subentrò qualcosa di diverso dai semplici ideali nazionalsocialisti: per centinaia di migliaia di seguaci del nazismo, infatti, il lavoro prestato nel Partito divenne una garanzia di lavoro, di status e di benefici materiali – cosa che naturalmente faceva crescere ulteriormente la loro fedeltà al Regime. Nel 1934 Hitler definì il ruolo del Partito come quello di «rendere il popolo ricettivo alle misure volute dal governo, aiutare in generale a portare avanti i provvedimenti da esso deliberati per la nazione e appoggiarlo in ogni modo»12. Se le direttive del governo erano finalizzate all’attuazione del volere del Führer, il ruolo del Partito era per eccellenza quello di «lavorare» per lui, rendendo gradito a tutta la popolazione ciò che veniva ritenuto il suo volere. Gli iscritti alla NSDAP dovevano «sempre e dovunque considerarsi come portavoce della parola del Führer» e dimostrare visibilmente la loro subordinazione alla sua volontà13. La propaganda doveva essere portata sin negli angoli più nascosti della società, per esempio attraverso i rapporti personali intrattenuti dal cosiddetto Blockführer (capocondomino) della NSDAP con coloro che abitavano nel suo condominio. D’altra parte, la coercizione e 131

il controllo continuarono a rappresentare una componente essenziale delle tecniche di mobilitazione. La formula di saluto «Heil Hitler», un gesto visibile di appoggio al Führer, costringeva a un frequente segno di identificazione con il Regime anche coloro che erano poco convinti; rifiutarsi di salutare, infatti, specialmente in una riunione pubblica o in un raduno di massa, richiedeva una buona dose di coraggio. La propaganda di partito incluse tutti gli aspetti della vita, così come recitava una descrizione dei temi della propaganda nazionalsocialista utilizzati nell’area di Monaco di Baviera nel 1936: «Il Partito ha una risposta per tutto o un’opinione su ogni argomento: l’arte, la pace, l’uguaglianza, la religione, le passeggiate domenicali, l’agricoltura e, naturalmente, gli ebrei»14. E al fondo di tutti questi temi c’era, sempre, l’onnipresente plauso per il Führer, per le sue «conquiste» e per i suoi obiettivi futuri.

Consenso plebiscitario e dinamismo del Regime Negli anni successivi al 1933, dunque, venne messa a punto quella struttura organizzativa che servì a trasformare l’adesione di fondo al Terzo Reich in consenso plebiscitario. Anche se tale consenso non divenne mai totale, nondimeno esso garantì un’ampia e apparentemente irresistibile legittimazione plebiscitaria all’operato di Hitler. La macchina propagandistica statale determinava i contenuti «graditi» da trasmettere all’opinione pubblica, mentre il Partito e le organizzazioni affiliate fornirono quella base pressoché illimitata di fanatici e attivisti necessaria a tenere sempre deste la mobilitazione e l’agitazione. Con la loro dedizione totale al lavoro per l’Idea, divenuta ormai tutt’uno con la «volontà del Führer», e con la conseguente opera di divinizzazione di Hitler, presentato come capo dalle qualità sovrumane e incarnazione vivente di una «missione» storica, la macchina propagandistica del Regime e del movimento nazionalsocialista si rivelò un elemento fondamentale nella struttura del potere del Terzo Reich. In considerazione di quest’onnicomprensiva e indiscussa autorità carismatica attribuita al Führer, altrettanto importante divenne, nella vita pubblica della Germania nazista, il modo in cui 132

coloro che gli erano sottoposti cercarono di interpretare i suoi precetti ideologici. Non che Hitler stabilisse direttive per l’azione sotto forma di una serie di ordini impartiti dall’alto; all’atto pratico, il metodo normalmente utilizzato fu, infatti, quello di evitare il più possibile le decisioni difficili che implicassero una scelta tra opzioni proposte da due o più dei suoi seguaci fidati. Tuttavia, tale metodo non costituì un ostacolo alla trasmissione delle direttive politiche rivolte alla realizzazione della sua «visione» ideologica: il funzionamento reale del «dominio carismatico» correva solitamente lungo sentieri più obliqui. Così, ad esempio, era impossibile presentare un’argomentazione, o tanto meno proporre una politica, che fossero diametralmente opposte a quanto veniva ritenuto essere un punto centrale del pensiero hitleriano. Per far passare un’iniziativa, invece, era molto meglio porre l’enfasi sulla sua importanza ai fini della realizzazione degli obiettivi del Führer: assicurarsi l’imprimatur di Hitler per una tale iniziativa rappresentava di solito (sebbene vi fossero eccezioni) la chiave del successo. Per quel che riguarda le azioni dello stesso Hitler, la sua ossessione per le idee della conquista del Lebensraum – grazie alla quale avrebbe anche liberato la Germania dagli ebrei – e la prospettiva dello scontro risolutivo con il «bolscevismo giudeo», costituirono motivazioni sufficientemente reali, anche se l’importanza o l’enfasi attribuita a questi due aspetti variò nel tempo e a seconda delle considerazioni tattiche o strategiche. Per la massa dei suoi seguaci, invece, tali precetti ideologici servirono a trasformare i contenuti dell’azione in mete da raggiungere in un lontano futuro15. In questa maniera, si stabilì una tendenza alla selezione spontanea degli obiettivi, in base alla quale nel «lavoro per il Führer» erano messi in risalto quegli elementi ideologici più vicini ai presunti desideri di Hitler, mentre si eliminavano quelle ipotesi che si opponevano o non si accordavano con l’Idea del Führer. Sul fronte interno, un esempio lampante di questa tendenza è offerto dal processo di radicalizzazione delle diverse componenti ideologiche confluenti nella politica razziale. L’obiettivo della creazione di una Volksgemeinschaft omogenea, infatti, fu motivato sulla base della necessità di escludere dal corpo della nazione i diversi gruppi considerati «tarati» da un punto di vista sociale o 133

razziale: solo attraverso la definizione in negativo delle minoranze da escludere, l’idea nebulosa di «comunità popolare» poteva acquistare consistenza. In questa maniera, lavorare attivamente per la realizzazione del vago ideale «positivo» della Volksgemeinschaft – un ideale che esercitò senza dubbio un fascino assai grande non soltanto presso i nazisti più ferventi – implicò l’espressa discriminazione di gruppi la cui identità era tutt’altro che indefinita e che invece poteva essere determinata con un certo grado di precisione. Il collante psicologico che tenne insieme questa ipotetica «comunità popolare» comprese allora non soltanto, in positivo, il vago auspicio del ripristino della grandezza tedesca, ma anche, in negativo, il concreto tentativo di eliminare alla radice quelle evidentemente sempre più numerose e apparentemente sempre più potenti forze «estranee» alla comunità. Ma poiché l’unico mezzo adeguato per stabilire la società perfetta finale appariva un’epurazione inesorabile che mirasse all’eliminazione totale di questi gruppi dalla società tedesca, l’attuazione di tale compito scatenò un meccanismo auto-perpetuantesi di discriminazione, piuttosto che una superficiale resa dei conti con i «nemici del popolo». Con il delinearsi della figura dell’ebreo come antitesi simbolica delle virtù tedesche incorporate nella Volksgemeinschaft, l’antisemitismo offrì la possibilità di un’azione ad ampio raggio in cui i principi ideologici poterono facilmente coniugarsi con motivazioni sociali di tipo più materiale. «Lavorare per il Führer» mettendo in pratica forme di discriminazione contro gli ebrei, infatti, poteva significare disfarsi di un rivale in affari o di un vicino indesiderato, acquistare una proprietà a prezzo stracciato o semplicemente sfogare la rabbia causata dalle tante frustrazioni della vita. Data la centralità dell’odio antisemita all’interno dell’ideologia nazionalsocialista, Hitler non dovette sforzarsi più di tanto per convogliare le pressioni già esistenti in una politica di discriminazione razziale sempre più radicale: a scatenare le diverse ondate di violenze contro gli ebrei bastò sempre un suo semplice segnale o soltanto il suo tacito consenso. L’intensità di tali ondate – come quelle della primavera del 1933, dell’inizio dell’estate del 1935 o dell’estate e dell’autunno del 1938 – fu più che sufficiente per spingere la pubblica amministrazione a emanare nuovi provvedimenti o per incoraggiare la polizia a sviluppare strategie esecuti134

5. Hitler inaugura le Olimpiadi di Berlino del 1936, che vennero utilizzate dalla propaganda nazista per mostrare al mondo intero il «lato buono» del Terzo Reich. 135

ve più «razionali». Qualunque fosse la direzione presa dalle iniziative antisemite, non esisteva ormai alcuna possibilità di rovesciare la spirale della discriminazione. Un processo di radicalizzazione non molto diverso da quello appena descritto era in atto anche in altri ambiti della politica razziale. A partire dal 1933 cominciarono in vari modi a cadere le remore che prima di allora avevano fissato i limiti del consentito per i comportamenti nei confronti dei gruppi marginali sgraditi o sospetti. Non solo spietati criminali nazisti, ma anche moderni professionisti esperti in campi molto diversi poterono approfittare della situazione e giustificare le loro azioni disumane facendo ricorso al «volere», ai «disegni» e alle «finalità» del Führer, oltre che agli interessi o alle esigenze della Volksgemeinschaft e al bisogno di «igiene razziale». Così, tanto per fare un esempio, eliminare le restrizioni imposte alla sterilizzazione forzata di chi era affetto da malattie ereditarie mentali o fisiche, o di chi era considerato «indesiderabile» da un punto di vista sociale o razziale, aprì le porte a un’entusiastica collaborazione dei medici e degli psichiatri con il lavoro svolto dalla polizia o dalle autorità governative locali tramite i cosiddetti Tribunali di eugenetica (di cui caddero vittima più di 400.000 persone)16. Culmine logico dell’enfasi riposta sulla purificazione genetica, sull’igiene razziale e sulla tutela della «virilità» della nazione, fu il programma avviato nel 1939 per l’eliminazione delle «vite inutili»17. Poiché nella lotta per la rinascita nazionale la realizzazione della parte «positiva» del programma (la creazione di un’armonica Volksgemeinschaft) era un obiettivo dai contorni troppo vaghi, non deve stupire se la spinta più efficace all’azione provenne dalla parte «negativa» di quel disegno (l’eliminazione, cioè, dei soggetti «inaccettabili» o «indesiderabili»), che in quanto meta più realistica e tangibile fu capace di attrarre sempre più collaboratori e ammiratori. Le presunte volontà del Führer servirono, dunque, a legare al Regime forze frammentate e diversissime, a esortarle all’azione e a giustificare le conseguenze del loro attivismo. Così, la disponibilità a «lavorare per il Führer» divenne il principale strumento di esecuzione delle politiche nazionalsocialiste, operando in modo tale da rafforzare vicendevolmente la posizione dei responsabili di quelle politiche e da eliminare ogni possibilità di condotta contraria a quella vigente, nonostante l’assenza 136

di precise direttive provenienti dall’alto. Il consenso plebiscitario verso il Führer, in buona parte già implicito nell’adesione di fondo al Regime e attivato dagli organi propagandistici sopra descritti, contribuì, dunque, in maniera essenziale alla radicalizzazione della dinamica del Terzo Reich e alla crescente autonomizzazione del potere di Hitler. A rafforzare ulteriormente la sua posizione vennero anche i successi trionfali della politica estera nazionalsocialista tra il 1933 e la primavera del 1939, accolti con favore soprattutto presso i vertici delle forze armate e degli altri tradizionali gruppi di potere. Hitler stesso era ben consapevole dell’importanza del consenso plebiscitario derivante dalla sua immensa popolarità. Se si deve credere a Hermann Rauschning, Hitler giustificò il suo più grande affronto alle democrazie occidentali – l’uscita della Germania dalla Società delle Nazioni nell’ottobre del 1933 – principalmente in considerazione della risonanza che tale passo avrebbe avuto nel suo Paese, dove così facendo sarebbe riuscito a legare ulteriormente a sé la popolazione. Ogni successiva difficoltà con le potenze straniere, dunque, sarebbe stata ricompensata dalla fiducia conquistata tra i tedeschi grazie a quella decisione18. Rievocando quegli anni durante la guerra, lo stesso Hitler sottolineò come egli avesse sempre avuto cura di far seguire i plebisciti ai suoi colpi di maggior successo, in considerazione della loro risonanza «sia all’interno che all’esterno» della nazione19. Soltanto uno dei quattro plebisciti convocati durante il Terzo Reich – quello del 19 agosto 1934 per approvare l’assunzione della carica di capo dello Stato da parte di Hitler dopo la morte del presidente del Reich Hindenburg – non fu successivo a un trionfo in politica estera. Il ritiro dalla Società delle Nazioni nel 1933, la rioccupazione della Renania nel 1936 e la legge di annessione dell’Austria nel 1938, cioè gli eventi che precedettero gli altri tre plebisciti, riscossero enorme popolarità, nonostante la scarsa credibilità e significatività dei risultati ufficiali delle consultazioni (soprattutto per quelli del 1936 e del 1938). Tali trionfi, connessi a politiche «unificanti» della nazione piuttosto che al conseguimento di obiettivi ideologici di parte specificamente nazionalsocialista, furono utilizzati per spingere il consenso interno ai livelli più alti e per inviare il messaggio, al mondo esterno come ai tede137

schi ancora titubanti, che Hitler aveva dietro di sé la grande massa del popolo germanico. I fatti renani del 7 marzo 1936 – quando le truppe tedesche, in violazione degli accordi di Versailles e Locarno, rioccuparono la zona smilitarizzata – offrono l’esempio chiarissimo di come una mossa brillante in politica estera riuscì, almeno temporaneamente, a sviare l’attenzione dalle reali difficoltà interne del Regime e ad aiutarlo a riprendere slancio tanto dentro che fuori dalla Germania. Sebbene i successi diplomatici giocassero senza dubbio un ruolo preponderante nella strategia hitleriana, in alcuni settori del governo si pensò che la scelta del momento in cui vennero piazzati tali colpi dipendesse esclusivamente da motivazioni interne – il bisogno di incitare nuovamente le masse, di rinnovare l’entusiasmo nelle file del Partito, di riguadagnare la fiducia popolare dopo la grave crisi alimentare apertasi l’inverno precedente e di mettere in sordina i contrasti crescenti con la Chiesa cattolica20. In effetti, il plebiscito del 29 marzo riuscì veramente a riaccendere l’entusiasmo declinante degli attivisti della NSDAP, impegnandoli, nelle settimane precedenti al «voto», in un’imponente azione di propaganda. Anche grazie a tale mobilitazione, l’esito della consultazione fece segnare il migliore dei risultati possibili, con il 99% dei voti a favore del «sì»: anche mettendo in conto l’adozione di metodi di conteggio poco ortodossi o l’utilizzo di forme di coercizione indirette e non proprio sottili, l’entità del risultato fu tale da non poter essere ignorata né all’interno né all’esterno della Germania. Su quest’ultimo fronte, non solo gli Alleati occidentali avevano perso un’occasione preziosa per arrestare l’espansione tedesca, ma avevano dovuto anche prendere atto dell’enorme ondata di popolarità riversatasi su Hitler grazie a quella mossa. Quanto agli isolati gruppi clandestini che, all’interno della Germania, continuavano a portare avanti il rischioso progetto di far cadere il Regime, la passività delle potenze occidentali e il consenso di massa alle gesta di Hitler sortirono un effetto ampiamente scoraggiante, vanificando le speranze suscitate dall’emergere delle prime crepe nella popolarità di Hitler a seguito della crisi alimentare dell’inverno precedente. L’opinione espressa allora da un osservatore della Socialdemocrazia in esilio coglie acutamente il nesso ormai inscindibile tra l’esigenza di mantenere un 138

consenso plebiscitario all’operato del Führer e l’evoluzione della politica nazionalsocialista: attraverso la schiacciante approvazione delle sue azioni garantita dall’annunciato plebiscito del 29 marzo, «il Dittatore si fa costringere dalla gente a seguire la politica che lui stesso desidera», di modo che egli «non può più sottrarsi a essa»21. Quanto più il sostegno delle masse divenne essenziale al potere di Hitler, tanto più pericolosa si rivelò la prospettiva di perderlo. Egli, perciò, divenne profondamente allergico a tutto ciò che poteva sminuire la sua posizione agli occhi della gente o danneggiare il suo prestigio, ed espresse più volte il timore dei danni connessi a un eventuale calo della sua popolarità22. Consapevole di come l’«entusiasmo politico» fosse seriamente minacciato dalla «grigia routine quotidiana»23, egli fu costretto a cercare un successo dopo l’altro per mantenere viva la fiducia delle masse nella sua persona e per produrre la necessaria mobilitazione psicologica. In caso contrario, il Regime si sarebbe insterilito e sarebbero «necessariamente sorti disordini di carattere sociale»24. La legittimazione fondata sul consenso plebiscitario, insomma, poteva riprodursi solo grazie al ripetersi dei successi – secondo uno dei tratti distintivi del «potere carismatico» già messo in evidenza da Max Weber. L’impossibilità a rallentare la sua marcia travolgente era, sotto tale punto di vista, un dato intrinseco all’essenza più profonda di quel potere.

V

L’espansione del potere

Nella fase fondativa dello Stato totalitario, le forme di governo esistenti non furono spazzate via di punto in bianco e sostituite in blocco dagli organismi dal Partito nazionalsocialista. Fino a tutto il 1937, infatti, quest’ultimo occupò soltanto poche delle principali cariche di governo del Reich: i ministeri degli Esteri, della Guerra, dell’Economia, delle Finanze, del Lavoro, della Giustizia e dei Trasporti rimasero sino ad allora (e alcuni anche oltre) in mano ai nazional-conservatori1. Non a caso, tali limitazioni poste all’influenza e al controllo nazionalsocialista sull’amministrazione e sulla politica statale furono accompagnate da frequenti manifestazioni di disappunto e di frustrazione all’interno del Partito. Il periodo compreso tra la «crisi Röhm» del 1934 e la «crisi Blomberg-Fritsch» del 1938 fece sperare che le turbolenze seguite alla «presa del potere» potessero finalmente placarsi nel quadro di un autoritarismo relativamente stabile. In realtà, le forze conservatrici che si erano servite dell’«attivismo» nazionalsocialista nonostante l’avversione per certe sue manifestazioni, non riuscirono mai né ad attenuare, né tanto meno ad arrestare il radicalismo di quel movimento, anche se l’addomesticamento delle SA, la diminuzione degli arresti politici e la sostituzione, dopo il 1935, delle agitazioni antisemite dei fanatici del Partito con una discriminazione «legalizzata», e quindi apparentemente «regolata», sembrarono suggerire la possibilità di una stabilizzazione e «sistematizzazione» del governo nazionalsocialista. La calma imposta per dare una buona impressione ai visitatori stranieri accorsi in Germania durante i Giochi olimpici del 1936 contribuì a creare questa illusione; e anche in politica estera nulla lasciava supporre, in questi anni, che la linea d’azione del regime, guidata dal barone conservatore Neurath, sarebbe andata al di là del «revi140

sionismo» e della liquidazione dei Trattati di Versailles e di Locarno. Verso la metà degli anni Trenta, insomma, neanche i più attenti osservatori avrebbero potuto facilmente prevedere la drammatica radicalizzazione della politica nazionalsocialista che sarebbe seguita, su diversi fronti, a partire dal 1938. Ciò dipese dal fatto che in quella fase Hitler dovette usare molta cautela nei suoi rapporti con le élites tradizionali, mantenendo entro certi limiti le richieste e le spinte dinamiche più estremiste provenienti dal suo movimento. Il Regime comprendeva, allora, un insieme di diverse componenti – il movimento nazionalsocialista, l’amministrazione statale, le forze armate, il mondo degli affari, la polizia – con sfere di interesse diversificate ma interdipendenti, che trovavano il loro comune denominatore nell’autorità del Führer. Tuttavia, le diverse componenti di questo «cartello di potere» non rimasero immobili, ma conobbero ripetute modificazioni nei loro rapporti reciproci e rispetto all’autorità di Hitler. A sua volta, il potere esercitato dal Führer dipese dal suo ruolo di fulcro, di elemento di sutura e mediazione tra i diversi interessi, ma la sua posizione assolutamente centrale all’interno del sistema consentì un progressivo allargamento e rafforzamento del grado di autonomia della sua autorità rispetto alle altre sfere di potere. Così cambiarono le basi stesse di quel «cartello di potere», all’interno del quale chi era più vicino a Hitler poté accrescere la propria importanza a spese di coloro che ne erano più distanti. Possiamo perciò dire che tra il 1934 e il 1937, sotto l’apparente «normalizzazione» del governo nazionalsocialista, il processo di espansione del potere di Hitler progredì in modo inarrestabile. Insieme a esso, in parte come causa, in parte come risultato, anche il radicalismo nazionalsocialista che ne era alla base, lungi dallo stagnare in un autoritarismo routinario, accelerò la sua marcia travolgente. Come e perché in questi anni la posizione di comando di Hitler divenne sempre più autonoma dalle altre componenti del Regime? Abbiamo in parte già risposto a queste domande parlando della crescita dell’organizzazione delle SS e del consenso plebiscitario alla politica hitleriana. Ora dobbiamo estendere la nostra analisi ai mutamenti delle strutture di governo del Terzo Reich e al modo in cui Hitler riuscì ad approfittare della debolezza e del141

la compiacenza delle tradizionali classi dirigenti tedesche e alla acquiescenza e debolezza dei capi di governo delle democrazie occidentali.

La fine del governo collegiale Man mano che passavano gli anni, il governo del Terzo Reich divenne sempre più un tentativo di riconciliare l’inconciliabile, cioè di adeguare le strutture burocratiche dell’amministrazione governativa alla volontà di un leader la cui autorità derivava dalle sue pretese «carismatiche» e non da una legittimazione formale. Risultato fu una progressiva prevaricazione del potere arbitrario del Führer a danno delle strutture burocratiche dello Stato, con il conseguente svuotamento e la corrosione dei modelli legali di governo e di amministrazione, giunti al culmine negli anni della seconda guerra mondiale. All’inizio le pretese «carismatiche» di Hitler non esercitarono molta influenza sulle pratiche di governo. La sua autorità risiedeva essenzialmente nel suo ruolo di capo del Gabinetto, tenuto ad agire, esattamente come i precedenti cancellieri, entro il quadro di una complessa e sofisticata struttura burocratica e di governo. Ma, contrariamente ai suoi predecessori, Hitler non aveva esperienza governativa e – fatto destinato a diventare un segno distintivo del suo stile di gestione del potere – nutriva una forte avversione per le procedure burocratiche e la convenzionale routine amministrativa. D’altra parte, però, egli era sostenuto da un imponente movimento di massa e il suo incarico nel Gabinetto era stato celebrato – non soltanto dai nazionalsocialisti fanatici – come l’alba di una nuova era per la Germania, piuttosto che come un semplice ricambio amministrativo. La «giornata di Potsdam» del 21 marzo 1933, quando il presidente Hindenburg e il cancelliere Hitler – la «vecchia» e la «nuova» immagine della Germania – si strinsero la mano dinanzi alla tomba di Federico il Grande in occasione dell’apertura solenne del Reichstag appena eletto, suggellò simbolicamente una rinascita che doveva basarsi sulla più «vera» e gloriosa tradizione tedesca, dopo l’ingannevole interludio rappresentato dalla democrazia weimariana. 142

Nonostante la sua mancanza di esperienza governativa, il consenso di massa e l’atmosfera di «entusiasmo nazionale» che accolse la nascita del Cancellierato nazionalsocialista, offrirono sin dall’inizio a Hitler un vantaggio negato ad altri cancellieri. Inoltre, Hitler dimostrò subito quanto fosse poco fondato, e altrettanto poco lungimirante, l’atteggiamento di degnazione con cui alcuni politici navigati e molti rappresentanti delle classi superiori e del mondo intellettuale accolsero quel fatto «volgare» che fu la nascita del governo Hitler. Ben lungi dal rivelare quell’ingenuità e quell’incapacità che lo avrebbero reso un semplice burattino nelle mani dei tradizionali gruppi di potere e, ben presto, inutile ai fini di questi ultimi, il capo del nazionalsocialismo s’immedesimò rapidamente e con intelligenza nei meccanismi del potere governativo. Nei primi tempi Hitler, ben conscio della posizione minoritaria della delegazione nazionalsocialista all’interno dell’esecutivo, fu molto attento a evitare qualsiasi conflitto con gli altri membri della coalizione. Tuttavia la posizione del cancelliere e il ruolo dell’esecutivo e dei suoi membri nel processo legislativo mutarono rapidamente e in modo decisivo. Esclusa sin dall’inizio la pratica delle votazioni interne al Gabinetto, con l’approvazione della legge per la concessione dei pieni poteri, il 24 marzo 1933, il cancelliere acquisì la facoltà di promulgare e rendere esecutive le leggi già concordate con gli altri membri del governo. La firma del presidente del Reich non era più necessaria e, in ogni caso, Hindenburg era ormai deciso a non prendere parte al processo legislativo. In tal modo l’importante differenza tra leggi (passate al vaglio del Parlamento) e decreti dell’esecutivo fu abolita in un sol colpo2 e, grazie a questa modifica, il potere reale di Hitler all’interno del Gabinetto si accrebbe considerevolmente. Ad aprile, Goebbels poté prendere atto con soddisfazione che l’autorità del Führer all’interno del governo si era affermata in maniera definitiva3. Anche se nei primi mesi quest’ultimo continuò a riunirsi frequentemente, man mano che il Regime nazista si consolidava aumentò anche l’avversione di Hitler per le riunioni di Gabinetto, che infatti diminuirono sensibilmente: se nel 1933 il governo si riunì 72 volte, nel 1935 i ministri si incontrarono solo 12 volte, nel 1937 solo 6 e nel 1938 solo in un’ultima occasione4, senza peral143

1. Il più grande trionfo hitleriano in politica estera fino al 1936: la rioccupazione della Renania, avvenuta il 7 marzo. La folla tributa il saluto nazista alle truppe tedesche giunte a Magonza.

2. Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri dal 4 febbraio 1938. 3. L’Anschluß. Le truppe tedesche sfilano a Vienna il 13 marzo 1938. 144

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tro che Hitler presiedesse a tutti gli incontri. La fine del governo collegiale (nonostante i tentativi velleitari intrapresi all’inizio della guerra per riportarlo in vita) non poteva essere più evidente. Del resto, già nell’estate del 1933 era stata introdotta una nuova procedura per la promulgazione delle leggi che saltava la fase della discussione verbale tra i ministri. Gradualmente tale procedura ebbe il sopravvento e i ministri presero a redigere i loro disegni di legge di propria iniziativa, inviandoli poi agli altri ministri direttamente interessati e modificandoli fino a raggiungere una formulazione gradita a tutti. Solo a questo punto Hitler analizzava il progetto e, in caso di approvazione, lo firmava trasformandolo in legge: dunque egli deteneva il potere di approvare o respingere un disegno di legge, ma restava quasi del tutto estraneo alla sua elaborazione. In conseguenza di tali processi, il governo centrale si frazionò in una serie di uffici separati, ognuno impegnato a legiferare in modo quasi autonomo, senza alcun coordinamento e pronti a scontrarsi su qualsiasi oggetto di contenzioso per sostenere la propria politica e rafforzare la posizione del proprio dicastero contro quelli concorrenti. Non si potrebbe, quindi, pensare niente di più lontano da una razionalizzazione del processo decisionale. L’unico legame tra i singoli ministri e tra questi e il Führer era rappresentato dal neo-eletto capo della Cancelleria del Reich, Hans-Heinrich Lammers (che dal novembre del 1937 ricoprì anche la carica di ministro del Reich). Qualsiasi ministro desiderasse parlare con Hitler doveva rivolgersi a Lammers, così come tutte le comunicazioni inviate al cancelliere si fermavano sul suo tavolo, incluse quelle tra Hitler e ogni suo ministro (a meno che, come nel caso di Goebbels, non si trattasse di uno dei favoriti, con frequenti e stretti rapporti personali con il Führer). Il ruolo di Lammers quale intermediario tra il capo del governo e i ministri divenne di vitale importanza: scegliendo come presentare a Hitler una questione, egli poteva influire in modo determinante sul destino della stessa, così come, naturalmente, poteva decidere che il Führer era troppo occupato in importanti affari di Stato per poter considerare una certa bozza di legge o una comunicazione «urgente» di un ministro, con il risultato di lasciare quel provvedimento in sospeso, a volte per un tempo più o meno indefinito. 146

In tal modo Hitler divenne paradossalmente, allo stesso tempo, un punto di raccordo indispensabile nell’apparato governativo ma anche un elemento in gran parte distaccato o scarsamente coinvolto nella sua attività deliberativa. La sua distanza dalla routine di governo fu sia una necessità strategica per evitare di farsi coinvolgere nelle lotte tra le diverse fazioni del Partito e del Regime, mantenendo così la sua aura di superiorità e intangibilità, sia un riflesso del suo carattere personale, con la sua impazienza verso la quotidianità burocratica, la sua riluttanza a occuparsi dei piccoli dettagli, il suo «darwinismo» istintivo che lo portava a liberarsi violentemente degli oppositori prima che emergesse un vincitore, la sua fiducia nella «lealtà» di pochi favoriti, tutti «vecchi camerati» da sempre al suo fianco, piuttosto che nei ministri del governo e nei loro sottosegretari. Fino a che fu in vita il presidente Hindenburg, Hitler rispettò grosso modo un orario di lavoro regolare e uno stile di governo piuttosto convenzionale, ma una volta che il giuramento di fedeltà delle forze armate e dei funzionari statali e l’acclamazione popolare ottenuta con il plebiscito dell’agosto 1934 confermarono il suo ruolo di capo indiscusso dello Stato, la sua prassi di governo cambiò, aderendo sempre più allo stile irregolare e antiburocratico che aveva caratterizzato la sua direzione del Partito fino al 1933. All’attenta disamina dei complessi documenti governativi e delle innumerevoli questioni da discutere, il suo temperamento e la sua personale indolenza lo portavano a preferire l’idea «geniale» concepita sotto l’impulso del momento e con il premio finale dell’approvazione popolare, accontentandosi soltanto di fare salve le apparenze. Secondo quanto riferito da un suo ex assistente, Hitler «era dell’opinione che, se non ci si immischiava, molte cose si aggiustavano da sole»5. Tranne che per i ministri più fidati, parlare con Hitler divenne sempre più difficile per chiunque, e per alcuni addirittura impossibile. Nelle discussioni, inchiodarlo a una decisione chiara e ponderata, specialmente su problemi scottanti, era tutt’altro che facile: questioni importanti potevano restare accantonate per mesi, prima che egli riuscisse a prendere una decisione, e quando ciò avveniva, tali «decisioni» erano spesso arbitrarie, nascendo in qualche caso perfino da affermazioni casuali pronunciate in un contesto informale. Comunque sia, da coloro che le avevano sollecitate per soste147

nere certe iniziative politiche, esse venivano considerate solo come semplici indicazioni di massima e, quando capitava che un’iniziativa apparentemente appoggiata da Hitler venisse accolta con una tale ostilità da risultare impraticabile, non veniva revocata – cosa che sarebbe stata incompatibile con il prestigio del Führer – ma restava semplicemente lettera morta o veniva lasciata «in sospeso» a tempo indeterminato. Lo stile antiburocratico di Hitler autorizzò il disordine di tutto il sistema di governo. Sebbene egli fosse molto sensibile a qualsiasi mossa che potesse mettere in discussione la sua autorità, è assai improbabile che si trattasse di una strategia machiavellica ben ponderata, all’insegna del «divide et impera». Questa scelta era piuttosto l’applicazione pratica del principio di lasciar emergere dalla lotta i più forti e, ancora di più, l’inevitabile conseguenza della necessità hitleriana di preservare a tutti i costi il proprio prestigio e la propria immagine. La vaghezza e l’indeterminatezza dei compiti di riorganizzazione e «rieducazione» della società tedesca assegnati al governo sulla base della visione del mondo nazionalsocialista favorì il moltiplicarsi dei conflitti e degli scontri sui modi in cui tali direttive dovessero tradursi in atti politici, inasprendo oltre misura le rivalità e le inimicizie personali e facendo sprecare una grande quantità di tempo e di energia nelle lotte per la conquista dell’egemonia interna. L’autorità di Hitler come ultima istanza nei casi di contenzioso rimase indiscussa, ma era anche nota la sua scarsa propensione a schierarsi inequivocabilmente da una parte o dall’altra, qualora il problema non si fosse in effetti già risolto da sé. Ciò avvenne soprattutto per gli affari interni e nel vasto ambito delle «politiche sociali», dove il processo decisionale si scontrò spesso con le indicazioni poco chiare e coerenti risultanti dalla «volontà del Führer». Tuttavia la tendenziale astensione di Hitler dall’attività governativa rafforzò il suo potere invece di limitarlo, ponendolo al di sopra delle normali istanze di governo. Nonostante le divergenze sulle linee politiche da adottare, tutto, o quasi, poteva essere conciliato con il vago imperativo di preparare materialmente e psicologicamente la società tedesca all’avvento della grande guerra o all’utopia di una Germania rinata e felice grazie alla vittoria finale. Nelle questioni di politica estera – su cui torneremo tra breve 148

– Hitler intervenne più di frequente e più direttamente: non sembrano esserci dubbi sul fatto che fu lui in persona a prendere le decisioni cruciali che avviarono la «rivoluzione diplomatica» della metà degli anni Trenta6, a volte anche muovendosi in direzione opposta al suo stesso ministero degli Esteri. Per le politiche razziali, invece, la posizione tenuta da Hitler in quegli stessi anni fu di rimanere quanto più possibile al di sopra delle parti, per ragioni tattiche e di prestigio. L’iniziativa partì in genere da altri responsabili del Regime, ovviamente certi di «lavorare per il Führer», ma se una questione gli sembrava particolarmente importante, Hitler non mancava di intervenire in modo decisivo. Così, tanto per citare un esempio, nel 1933 egli fece passare nel Gabinetto la legge sulla sterilizzazione7, ignorando il parere contrario del vicecancelliere Papen. Per quanto riguarda la politica antisemita, in quello stesso periodo Hitler, più che fornire direttive chiare e coerenti, favorì delle situazioni che contribuirono non poche volte a rendere più confuso il quadro decisionale, intervenendo più di frequente di quanto si possa immaginare e interessandosi a volte persino di dettagli relativamente secondari8. Comunque di solito, almeno prima della guerra, i suoi interventi seguirono per lo più richieste esplicite di mediazione per risolvere un contenzioso, ma anche in questo settore le sue decisioni, quando finalmente venivano prese, si rivelarono più di una volta poco coerenti. Il modo di governare di Hitler lasciò libero corso a ogni tipo di istinto competitivo, favorendo con ciò lo sviluppo di un opportunismo rapace e arbitrario e la proliferazione di iniziative scoordinate, a tutto svantaggio di una prassi organica di governo. Ma il dato fondamentale fu che tali iniziative potevano essere prese solo entro i parametri di quelle che si pensava fossero le intenzioni ideologiche di Hitler, sicché gli «astri» in ascesa della costellazione nazista finirono con l’essere coloro che meglio seppero assecondare i suoi desideri, cogliendo il momento opportuno per «lavorare» alla loro attuazione – oltre a coloro il cui impegno, energia e spietatezza nelle lotte politiche interne si esplicarono al meglio in settori vicini agli interessi personali di Hitler. L’indebolimento del governo collegiale sotto la guida di Hitler ebbe come conseguenza il fatto che, al posto di un corpo centrale responsabile di formulare e decidere un insieme di politiche 149

coerenti, subentrò, con il beneplacito dello stesso Führer, una frammentazione e proliferazione di istituzioni rivali e spesso in conflitto reciproco, ognuna giustificata dal ricorso alla applicazione della «volontà del Führer». I rapporti di potere nel Terzo Reich sono stati paragonati a quelli di un sistema tardo-feudale, fondato sullo scambio tra lealtà personale verso il capo e libertà d’azione dei suoi seguaci all’interno dei loro feudi privati9. Così, se il collasso totale della prassi razionale di governo si palesò in tutta la sua gravità negli anni del conflitto mondiale, i germi del suo sviluppo possono essere collocati già nella prima fase del Terzo Reich. Oltre ai ministri del Reich, anche il Partito reclamò un ruolo decisivo nella formulazione delle linee da adottare nei diversi ambiti politici. Ad articolare le richieste in tal senso fu preposto a livello centrale Rudolf Hess, capo dell’amministrazione della NSDAP e titolare di un posto nel Gabinetto e del diritto di veto sull’azione legislativa. In pratica, comunque, la stessa «politica del partito» fu di rado delineata in modo netto. A livello provinciale, i rapporti tra la NSDAP e lo Stato erano poco, se non per niente, definiti, così come avveniva a livello centrale. I capi regionali della NSDAP, i Gauleiter, godevano spesso di un alto grado di autonomia dall’azione di controllo tanto dell’amministrazione centrale del Partito quanto di quella degli enti federali e regionali dell’amministrazione statale. Peraltro i tentativi del ministro dell’Interno Frick di creare una struttura governativa di tipo autoritario unificata e sistematica furono resi vani dallo stesso Hitler, incapace di concepire qualsiasi limitazione istituzionale alla sua personale libertà d’azione e, quindi, favorevole alla confusione derivante dalla sovrapposizione e dalla concorrenza tra gli organi del Partito e quelli dello Stato. Invece di collaborare sistematicamente all’azione di governo, la NSDAP tendeva piuttosto ad agire come stimolo populista sull’attività legislativa (come nel caso della legislazione antisemita della primavera del 1933 e del settembre 1935), cercando di impedire la stagnazione dell’attivismo radicale del movimento in un autoritarismo routinario. Ancora più importante dell’irrisolto dualismo tra Partito e Stato fu la creazione di nuove istituzioni, di solito a metà strada tra il partito e l’istituzione statale, ma di fatto non appartenenti a nessuno dei due, che dovevano il loro potere e la loro stessa esisten150

za al loro ruolo di organi esecutivi diretti della «volontà del Führer». Tali istituzioni furono espressione del fatto che, sin dall’inizio, la «volontà del Führer» costituì una categoria di potere separata e autonoma – teoricamente onnicomprensiva e in pratica sempre più dominante – rispetto all’apparato di governo dello Stato e della sua amministrazione. Lo Stato, che nel pensiero politico tedesco da Hegel in poi aveva ricoperto un ruolo di primo piano, nella sua qualità di apparato strutturato garante di un governo e di un’amministrazione «razionale», fu concepito, invece, da Hitler soltanto come un mezzo per arrivare a un fine: da sfruttare, se possibile, e da scavalcare quando il fine poteva essere raggiunto meglio senza di esso. Quindi, per settori che Hitler considerava di speciale importanza, furono creati nuovi strumenti esecutivi. L’organizzazione Todt, responsabile della gestione dell’edilizia pubblica e dei programmi per l’occupazione, la Gioventù hitleriana guidata da Schirach, la gigantesca struttura messa in piedi per il Piano quadriennale sotto la direzione di Göring e, soprattutto, l’impero congiunto di polizia e SS agli ordini di Heydrich e Himmler, costituirono delle immense riserve di potere collegato specificatamente alle loro funzioni e subordinato non al Partito o allo Stato, ma soltanto alla volontà del Führer. Con l’indebolimento del governo centrale, con il conseguente proliferare di istituzioni politiche e amministrative e con la creazione di nuovi e ibridi organi esecutivi, la «volontà del Führer» riuscì a espandere enormemente la propria sfera di autonomia, sciogliendosi da qualsiasi vincolo costituzionale e istituzionale. Persino le denominazioni ufficiali della carica ricoperta da Hitler lasciarono intuire i mutamenti in atto: se nel 1933 egli era indicato come «cancelliere del Reich», dopo la morte di Hindenburg il suo titolo divenne «Führer e cancelliere del Reich» e dal 1939, secondo la volontà dello stesso Hitler, semplicemente «Führer»10. Agli inizi del 1938 il distacco di Hitler dal convenzionale apparato amministrativo e di governo non si era ancora compiuto definitivamente, ma le tendenze dispiegatesi pienamente durante la guerra – quando si giunse alla completa frammentazione del governo in un coacervo di feudi di potere in conflitto tra loro – erano già arrivate a un punto avanzato. Con il graduale esautoramento dello Stato e la parallela legittimazione di ogni azione di governo sulla base esclusiva della conformità alla «volontà del Füh151

rer», diminuirono drasticamente le possibilità che considerazioni più caute e «razionali» potessero porre un freno alle iniziative più «pericolose» del Regime e contenere le sue forze più radicali. Conseguentemente, si rafforzò sempre più lo slancio di quegli impulsi scoordinati, ma dinamici, che agivano in modi diversi secondo «la volontà del Führer» e per il conseguimento dei suoi vaghi obiettivi ideologici. A sua volta, la «visione» ideologica personale di Hitler, liberata dalla necessità di controllare dall’alto tutte le decisioni, cominciò a diventare uno scopo sempre meno astratto e a dettare una serie di scelte concrete volte alla sua realizzazione.

La politica hitleriana tra gioco d’azzardo e opportunismo Come lasciano intendere queste ultime osservazioni, l’immenso – e in teoria del tutto illimitato – potere accumulato da Hitler verso la fine degli anni Trenta non fu affatto il risultato di un piano precostituito e coerentemente applicato dallo stesso dittatore nazista. L’espansione del potere hitleriano fu in buona misura il riflesso della debolezza dell’ordine nazionale e internazionale negli anni Trenta. La crisi delle istituzioni di Weimar era stata così profonda che a Hitler bastò semplicemente toccare quelle strutture fatiscenti per farle crollare definitivamente, e lo stesso si può dire dell’ordine internazionale postbellico, destinato a rompersi in mille pezzi di fronte al nuovo e determinato «revisionismo» tedesco. Il vantaggio di Hitler in questo contesto fu dovuto in misura non marginale al suo istinto da giocatore d’azzardo, alla sua eccezionale capacità di cogliere il momento giusto e di sfruttare le debolezze altrui. Queste doti di opportunismo, sebbene legate alla certezza assoluta che il futuro avrebbe portato il compimento della sua personale visione del mondo, rappresentarono il nocciolo essenziale del contributo personale dato da Hitler all’accrescimento del suo stesso potere. Tutto ciò risulta in modo particolarmente evidente nel corso intrapreso dalla politica estera tedesca dopo il 1933. In questo campo Hitler non aveva né un programma prestabi152

lito, né una precisa linea d’azione. La regola generale era di apparire conciliante, di muoversi cautamente e, allo stesso tempo, di accelerare al massimo il riarmo per essere pronto a cogliere il momento buono quando si fosse presentato. Del resto la debolezza militare tedesca e l’isolamento diplomatico della Germania non lasciavano molte alternative a una tale strategia. La prima fase della politica estera di Hitler non ebbe quasi nulla di specificatamente nazionalsocialista, restando in sostanziale sintonia con i desideri dei vertici militari, del ministero degli Esteri e delle altre forze revisioniste dominanti. Era la stessa linea, insomma, che qualsiasi governo nazionalista tedesco avrebbe probabilmente adottato in quel momento. In questi primi anni l’impronta personale di Hitler è da ricercare meno nella natura stessa della politica estera che nella sua capacità di cogliere il punto debole del fronte opposto e di spingere le relazioni diplomatiche su un terreno completamente nuovo attraverso un repentino e coraggioso balzo in avanti, come è evidente già per la situazione che si creò con il ritiro della Germania dalla Società delle Nazioni nell’ottobre del 1933 e con il Patto di non aggressione stretto con la Polonia nel gennaio del 1934. Agli inizi del 1933 la posizione tedesca sembrava poco promettente. Le manifestazioni pubbliche di violenza che avevano accompagnato la «presa del potere» non avevano aiutato molto il nuovo Regime a ricevere una buona accoglienza in campo internazionale. Ma le divisioni tra i maggiori Paesi occidentali – con la Francia già preoccupata dal rampante tono militarista del suo vicino orientale e la Gran Bretagna scontenta del rifiuto di quest’ultima a riconoscere la parità tedesca accettata in linea di principio con la Conferenza di Ginevra sul disarmo nel 1932 – offrirono a Hitler l’occasione giusta per mettere a segno il suo primo colpo di mano in politica estera e per accrescere ulteriormente il proprio prestigio interno. Il primo importante discorso hitleriano in materia di politica estera fu pronunciato il 17 maggio 1933: ed era un accorato appello alla pace e, allo stesso tempo, una protesta contro l’ingiusto trattamento riservato dagli Alleati alla Germania nella questione del disarmo11. Londra e Washington lo accolsero favorevolmente, mentre i francesi continuarono a bloccare qualsiasi riconoscimento delle richieste di parità avanzate dai tedeschi. Quando le 153

pressioni francesi riuscirono infine a persuadere gli inglesi a mantenere le limitazioni sul riarmo tedesco (ma non su quello della stessa Francia), con un colpo di mano Hitler ritirò la Germania sia dalla Conferenza sul disarmo che dalla Società delle Nazioni (14 ottobre 1933). Il contributo specifico fornito da Hitler in questo frangente consistette essenzialmente nella scelta dei tempi e nella capacità di sfruttare l’effetto propagandistico della decisione, perché gran parte del lavoro e l’adozione della linea dura furono opera del ministro degli Esteri Neurath e dei vertici militari. Intenzionato a trarre il massimo vantaggio da questa opportunità, Hitler sciolse immediatamente il Reichstag e indisse nuove «elezioni», unendole a un plebiscito in cui si invitavano i tedeschi a esprimere la loro fiducia nell’azione del cancelliere. La propaganda nazista riuscì a sfruttare brillantemente gli umori della popolazione: le tre settimane di campagna elettorale culminate nell’«elezione» del nuovo Reichstag e il plebiscito a favore di Hitler segnarono la prima grande esplosione di euforia nazionalistica nella storia del Terzo Reich. Il 95% dei voti risultò favorevole a Hitler e ciò, pur tenendo conto delle pressioni sull’elettorato, rappresentava l’espressione di un vastissimo consenso popolare verso la persona del cancelliere. L’ambasciatore inglese osservò: «Una cosa è comunque certa: la posizione di Hitler è inattaccabile, perfino nei circoli totalmente avversi al nazionalsocialismo»12. Un altro colpo fortunato seguì solo qualche mese dopo, con la firma del Patto di non aggressione con la Polonia. Anche in questo caso Hitler si confermò maestro nel cogliere le opportunità favorevoli, giacché l’iniziativa non era partita da lui, bensì dal capo dello Stato polacco, il maresciallo Pilsudski, desideroso di placare i timori polacchi sulle intenzioni della Germania all’indomani della sua uscita dalla Società delle Nazioni. Hitler rispose con l’offerta di un Patto di non aggressione che per la sua apparente generosità colse di sorpresa gli stessi polacchi, pronti a fare i conti con l’ostilità di un ministro degli Esteri tedesco notoriamente antipolacco. Hitler in tal modo seppe sfruttare al meglio la debolezza dell’alleanza polacca con la Francia, mettendo al tempo stesso in evidenza le sue doti di «uomo di Stato»: mostrando intenzioni apparentemente pacifiche e quindi migliorando le relazioni con 154

l’Inghilterra, egli riuscì ad approfondire le divisioni tra le democrazie occidentali. Dopo l’epilogo positivo della crisi interna del 1934 determinatosi con la liquidazione delle SA e l’assunzione della carica di capo dello Stato – eventi pari, per la loro portata, a una seconda «presa del potere» – nei due anni seguenti il potere di Hitler assurse a nuove vette. Non solo gli importanti trionfi in politica estera fatti segnare nel biennio 1935-36 costituirono la base per un ulteriore rafforzamento della sua posizione rispetto alle vecchie élites di potere, ma quegli stessi successi lo spinsero a immedesimarsi sempre più nell’immagine creata dall’onnipervasivo culto del Führer, fino a farsi dominare completamente da essa. Tra il 1935 e il 1936 il senso della propria superiorità e la convinzione della sua grandezza olimpica e della sua infallibilità toccarono vertici mai raggiunti. Egli divenne sempre più allergico a ogni minimo segno di critica, mentre si esasperò la sua tendenza a circondarsi di una corte di fedelissimi adulatori. La crescente certezza di poter controllare da solo gli eventi e il crescente disprezzo per i suoi critici e oppositori, fuori e dentro i confini tedeschi, si trasformarono in una vera e propria ebbrezza di potere, primo stadio di quella condizione psicologica che negli anni successivi sarebbe degenerata in delirio di grandezza e in un completo distacco dalla realtà. All’inizio del 1935, la situazione della politica estera tedesca non appariva molto rosea: l’assassinio del cancelliere austriaco Dollfuss da parte dei nazisti nel luglio 1934, pur essendo un’«iniziativa locale» non determinata da ordini provenienti da Berlino, aveva di nuovo fatto cadere sul governo tedesco la ferma disapprovazione degli altri Paesi. Ma il caso volle che la situazione si rovesciasse nuovamente a favore di Hitler. In base al Trattato di Versailles, che dal gennaio 1920 aveva separato il territorio della Saar dalla Germania, dopo quindici anni doveva tenersi un referendum per stabilire se gli abitanti della regione volessero tornare sotto la Germania, mantenere lo status quo, oppure diventare cittadini francesi. Il referendum si tenne il 13 gennaio 1935 e, sebbene la propaganda nazionalsocialista si fosse data molto da fare, le votazioni si svolsero liberamente, in una regione in gran parte cattolica, fortemente industrializzata, e dove fino al 1933 la NSDAP aveva incontrato pochi consensi. Il risultato fu una vittoria tra155

volgente, con una percentuale del 90,9% favorevole al ritorno sotto la Germania, il che rappresentò in termini di prestigio dentro e fuori la nazione tedesca un successo personale clamoroso e molto importante per Hitler. A tale successo seguì, nel mese di marzo, l’annuncio della reintroduzione del servizio di leva nella nuova Wehrmacht tedesca, decisione che aprì una nuova breccia all’interno del sistema di Versailles. Ma anche questa volta Hitler seppe puntare abilmente sulla debolezza degli Alleati occidentali – e soprattutto sulle incertezze inglesi –, dimostrandosi senza avversari nell’uso della propaganda: l’annuncio inglese dei piani di riarmo (fatto in seguito al riarmo tedesco, che ormai era impossibile nascondere) e l’annuncio francese di poco successivo sul prolungamento del servizio militare, furono dichiarati delle provocazioni che legittimavano la costituzione ufficiale di una forza aerea tedesca, di un esercito di pace forte di 550.000 uomini, ovvero 36 divisioni (come avevano richiesto i vertici militari), e la coscrizione generale obbligatoria. Tutto ciò rappresentava una flagrante violazione del Trattato di Versailles, ma la scommessa di Hitler riuscì: la risposta inglese – solo una protesta formale – si limitò alla richiesta di riconfermare la visita del ministro degli Esteri inglese, improvvisamente annullata qualche giorno prima da Hitler. L’atteggiamento accomodante della delegazione inglese durante i colloqui che seguirono indicò, ancora una volta, non solo allo stesso Hitler, ma anche ai vertici militari e al ministro degli Esteri, che l’audace politica del «fatto compiuto» era più proficua della linea cauta del negoziato. Questo fu notato anche dall’interprete di Hitler, Schmidt, che commentò l’accondiscendenza inglese alle richieste di Hitler di una piena parità militare, affermando che due anni prima «sarebbe cascato il mondo se i rappresentanti tedeschi avessero avanzato tali pretese»13. Lo stato d’animo tedesco era di totale esaltazione e per di più Hitler aveva ancora una volta confermato le sue capacità di guida agli occhi delle élites nazionaliste e conservatrici, ma non nazionalsocialiste – vertici militari in primo luogo. Nel gioco diplomatico Hitler trasse moltissimi vantaggi dalla sua totale assenza di scrupoli morali. Egli, infatti, considerava i trattati soltanto come espedienti momentanei, mezzi per raggiungere un fine, che, per lui, coincideva allora con il superamento del Trattato di Versail156

4. Terrore a Vienna. La folla assiste compiaciuta allo spettacolo di alcuni ebrei costretti a pulire le strade. 5. Il Patto di Monaco (30 settembre 1938), con il quale la Germania ottenne il controllo della regione dei Sudeti. Hitler con il primo ministro inglese, Neville Chamberlain (a sinistra), il premier francese Edouard Daladier (secondo da sinistra), e il dittatore italiano Benito Mussolini. 157

les e con i preparativi urgenti in vista di una guerra imminente e, a suo parere, inevitabile. Il futuro immediato significava per lui il riarmo totale della Germania, ma, al momento, poteva ancora spacciare la debolezza della sua posizione per generosità in attesa del rafforzamento decisivo – dopo di che, secondo uno dei pilastri del suo credo, solo la forza sarebbe stata determinante. Il patto con la Polonia era stato un primo esempio di questo atteggiamento, ribadito poi con il Trattato navale con la Gran Bretagna. L’appoggio inglese era centrale per la futura strategia tedesca, e Hitler era disposto a fare più o meno qualsiasi cosa per ottenerlo. La determinazione di Hitler nel raggiungere l’accordo con gli inglesi superò le obiezioni della marina, che riteneva troppo favorevole agli inglesi il rapporto di 35 a 100 offerto da Hitler (mentre i vertici della marina erano favorevoli a un rapporto di 50 a 100). I primi approcci in direzione del Trattato erano stati compiuti nel novembre del 1934 e una data per le negoziazioni fu decisa quando la delegazione estera inglese giunse a Berlino subito dopo la rottura del Trattato di Versailles a marzo. Hitler descrisse la firma del Trattato navale del 18 giugno 1935 come «il giorno più felice della sua vita»14: con essa, infatti, non solo la Gran Bretagna offrì il suo contributo al seppellimento definitivo del sistema di Versailles (per non parlare dello smembramento pratico del fronte di Stresa, che nell’aprile del 1935 aveva prodotto la dichiarazione congiunta, da parte di Francia, Italia e Gran Bretagna, della loro disponibilità a proteggere l’integrità dell’Austria, in risposta all’annuncio della rimilitarizzazione della Germania), ma da parte tedesca cominciarono anche a nutrirsi fondate speranze di stringere una stabile alleanza con la potenza d’Oltremanica. Quando, a metà agosto, scoppiò la crisi abissina, Hitler, esultante per questo nuovo fattore di turbamento dell’equilibrio europeo, parlò con Goebbels e altri suoi fedelissimi delle sue aspettative sui futuri sviluppi della politica estera. Egli definì «eterna» l’alleanza con la Gran Bretagna, indicò come obiettivo l’espansione a est e previde le opportunità offerte a breve dal coinvolgimento inglese nel conflitto abissino e, nel giro di qualche anno, dal coinvolgimento russo in uno scontro con il Giappone. «Allora arriverà il nostro momento storico e noi dovremo essere pronti», disse Hitler. «Una visione grandiosa. Siamo tutti profondamente commossi», gli rispose Goebbels15. 158

Nel 1936 gli eventi continuarono a giocare a favore di Hitler: sullo sfondo del progressivo disarmo diplomatico delle democrazie occidentali causato dal conflitto in Abissinia e con il pretesto della ratifica, avvenuta a Parigi il 4 marzo 1936, del Patto di mutua assistenza stipulato nel 1935 tra Francia e Unione Sovietica, Hitler mise a segno il suo colpo migliore, rioccupando la Renania e infrangendo, così, i Patti di Locarno del 1925. La decisione del 7 marzo 1936 di rioccupare la Renania seguì ad alcune settimane di travagliate incertezze: il ministro degli Esteri suggeriva prudenza, l’esercito era preoccupato per le conseguenze di quel colpo di mano e lo stesso Hitler prese in considerazione l’ipotesi di tirarsi indietro all’ultimo momento. Ma ancora una volta egli finì con l’accettare la sfida e, in base al principio del giocatore d’azzardo secondo cui «chi non rischia, non vince»16, decise di seguire la sua percezione istintiva delle divisioni e delle debolezze inglesi e francesi e di giocare il tutto per tutto. Goebbels notò la gioia incontrollata di Hitler quando apparve subito chiaro che la scommessa era stata vinta: «Il Führer è raggiante. L’Inghilterra rimane passiva, la Francia non si muove da sola, l’Italia mostra disappunto e l’America disinteresse. Abbiamo ripreso la sovranità sulla nostra terra»17. La rimilitarizzazione della Renania fu un passo importante ai fini della politica di riarmo tedesca: essa soddisfece le aspettative revisionistiche delle tradizionali élites nazional-conservatrici e riscosse enorme favore tra le masse, riportando consensi anche in quegli ambienti normalmente poco favorevoli al regime nazionalsocialista. Come misura volta al ristabilimento della sovranità tedesca su un territorio di cui nessuno avrebbe potuto negare l’appartenenza alla stessa Germania, essa avrebbe trovato posto nell’agenda di qualsiasi governo tedesco d’ispirazione nazionalista e, date le ben note differenze di approccio di Francia e Gran Bretagna nei confronti della Germania, era un’iniziativa che aveva più possibilità di successo di qualsiasi altra. Ma fu proprio il modo in cui Hitler ottenne questo grande successo a dare un ulteriore, fortissimo slancio alla sua posizione di leader. Egli aveva di nuovo dimostrato di avere ragione, contro le esitazioni del ministero degli Esteri e l’incertezza dei militari. La sua popolarità fra le masse, che furono di nuovo chiamate a raccolta dallo sciogli159

mento del Reichstag e dalla campagna per le «elezioni» del marzo del 1936, non era mai stata così alta. La politica estera fu un campo che offrì buone prospettive di successo sin dai primi anni del Terzo Reich. Il Trattato di Versailles sarebbe stato un sistema traballante anche senza Hitler, ma mentre le democrazie occidentali vacillavano e l’equilibrio postbellico crollava, con qualche accortezza tattica e un po’ di bluff da giocatore d’azzardo, Hitler riuscì a sfruttare la situazione al di là di qualsiasi previsione, minando ulteriormente l’ordine internazionale, indebolendo i suoi oppositori interni ed esterni e quindi allargando smisuratamente le basi del suo potere. La politica estera – da sempre la preoccupazione principale di Hitler, insieme alla sua passione per l’architettura – ben si prestava in quel momento, alla tecnica dell’audace salto in avanti, dell’effetto a sorpresa del colpo di mano e della politica del fatto compiuto, tipici del suo approccio strategico. Gli affari interni, e specialmente le questioni economiche e sociali, si addicevano meno a soluzioni di questo genere, e in questo campo Hitler mostrò un atteggiamento molto più esitante. Infatti, non avendo soluzioni pronte da offrire ai problemi economici di fondo della Germania, egli si tenne quanto più possibile lontano da un coinvolgimento diretto, rimanendo defilato per mesi mentre l’economia tedesca, tra il 1935 e il 1936, sprofondava in una nuova crisi causata dalla penuria di materie prime e di valuta estera, che minacciò di mandare a monte tutti i progetti di riarmo. La crisi fu temporaneamente superata con la nomina di Hjalmar Schacht a ministro dell’Economia dotato di poteri quasi assoluti, e con il «Nuovo piano» introdotto quell’estate dallo stesso Schacht, ma altre e più gravi difficoltà si addensarono sull’economia tedesca verso la fine del 1935. Alla base di tali difficoltà c’era l’assottigliamento delle riserve valutarie e il progressivo peggioramento della bilancia commerciale dei titoli, che rendeva pressoché impossibile alla Germania il finanziamento delle importazioni di generi alimentari e delle materie prime necessarie al riarmo. L’inefficienza del dipartimento del Reich per l’Alimentazione peggiorò la già difficile situazione delle forniture alimentari, degenerata nell’inverno 1935-36 in una «crisi degli approvvigionamenti» che avrebbe fatto rilevare i primi sintomi significativi di scontento sociale nella Germania hitleriana. 160

I conservatori – e primi tra loro il commissario ai Prezzi Goerdeler e il ministro dell’Economia Schacht – chiedevano adesso il ritiro dei progetti di spesa per gli armamenti, al fine di rilanciare l’economia dei consumi: una prospettiva che per l’ideologia hitleriana equivaleva a una bestemmia. Eppure, un segno di quanto fosse divenuta preoccupante la situazione fu la temporanea riduzione della spesa per il riarmo a favore di quella per l’acquisto di generi alimentari. Nella primavera del 1936 le riserve di materie prime scesero a un livello tale da far prospettare il loro esaurimento nel giro di soli due mesi. Con Hitler sempre del tutto inattivo, le possibilità si erano ormai ridotte effettivamente soltanto a due: un graduale capovolgimento della politica autarchica a favore della reintegrazione della Germania nel commercio internazionale (opzione, questa, favorita da Goerdeler), oppure una decisa accelerazione verso il conseguimento del massimo grado di autarchia nel più breve tempo possibile. Naturalmente era accettabile soltanto la seconda ipotesi, ma essa avrebbe comportato inevitabilmente uno sforzo economico sostenibile solo per un periodo limitato di tempo. Nella situazione che si verificò tra la primavera e l’estate del 1936, Hitler si trovò di fronte a un’alternativa che in realtà non lasciava scelta: conservare o perdere il potere dipendeva solo dalla possibilità di intraprendere il cammino che portava verso l’autarchia totale. Il passo successivo doveva essere compiuto. Nell’agosto del 1936 l’opposizione del ministro dell’Economia, unita a quelle delle industrie orientate all’esportazione, spinse Hitler a compiere il passo – per lui molto inusuale – di stendere un memorandum volto a giustificare il Piano quadriennale. La nota si apriva con l’immancabile premessa dell’inevitabilità di una resa dei conti finale con il bolscevismo, e si concludeva con l’affermazione che l’economia e le forze armate tedesche dovevano essere pronte ad affrontare una guerra entro quattro anni18. Segno dell’ormai indiscussa autorità di Hitler fu che su tale questione non poté levarsi alcuna voce di opposizione: nella successiva riunione di Gabinetto, un memorandum di Goerdeler che prospettava una linea diversa fu definito da Göring «assolutamente inutile»19. In questo caso, comunque, Hitler in effetti stava solo confermando un mutamento economico in corso, non solo reso inevita161

bile dalla incompatibilità tra esigenze economiche e piani di riarmo, ma anche favorito dai gruppi d’interesse che, a partire dalla primavera del 1936, avevano affermato la loro influenza assoluta sulla pianificazione economica: la potente lobby rappresentata dal gigante della chimica IG-Farben, insieme alla Luftwaffe (comandata da Göring). Di fronte all’influenza di queste fazioni – i cui interessi nella politica autarchica e nella produzione di carburante sintetico si intrecciavano saldamente con gli obiettivi ideologici del nazismo – i conservatori nell’economia capeggiati da Schacht e Goerdeler e appoggiati dai settori industriali orientati all’esportazione, non avevano molte speranze di successo. Nessuna sorpresa, quindi, se, in occasione del raduno generale del Partito nel settembre del 1936, lo stesso Göring, che nell’aprile precedente era stato di fatto incaricato dell’allocazione delle materie prime, fu nominato plenipotenziario per il nuovo Piano quadriennale. Il 1936 fu, per diversi aspetti, un anno cruciale per l’affermazione del potere personale di Hitler. All’inizio dell’anno, il Regime si trovò a fronteggiare una crisi determinata dalle insorgenti difficoltà economiche, dalle previsioni di un ulteriore aumento della disoccupazione, dal preoccupante calo di popolarità connesso alla penuria di generi alimentari, da un aumento delle attività dell’opposizione comunista clandestina, dal declino dell’entusiasmo in seno al Partito e, sul fronte della politica estera, dal relativo isolamento della Germania, che ancora non poteva contare sull’appoggio di alleati veri o di Paesi amici. A porre fine a tali inquietudini giunse la spettacolare occupazione della Renania e l’adesione finale alla linea di piena autarchia fissata nel Piano quadriennale. In politica interna, questo stesso periodo, come abbiamo visto, coincise con una nuova ondata repressiva diretta contro le forze d’opposizione interne e con il trionfo nei servizi di sicurezza interni di Himmler e Heydrich e del loro apparato composito e centralizzato costituito da Gestapo e SS. Alla fine dell’anno, dopo la costituzione dell’Asse italo-tedesco (che pose fine alla fase di raffreddamento delle relazioni bilaterali registratasi tra il 1934 e il 1936) e la firma del Patto anti-Comintern con il Giappone, dopo che la guerra civile in Spagna ebbe confermato la passività e le incertezze delle democrazie occidentali, e con l’economia tedesca impegnata a pieno ritmo nei preparativi di guerra, si delinearono chiaramente i contorni della cre162

scente tensione internazionale e della corsa al riarmo che avrebbe caratterizzato lo scorcio finale degli anni Trenta. Non solo, ma dalle varie crisi del 1936 il potere personale di Hitler era uscito rafforzato e consolidato. Dopo quell’anno, le possibilità di cambiare il corso degli eventi diminuirono drasticamente: le pressioni sull’economia legate all’accelerazione del programma di riarmo presero ad aumentare visibilmente ed era chiaro che non le si poteva più contenere a tempo indeterminato. Anche dal punto di vista militare il tempo non giocava a favore della Germania, perché le altre nazioni incominciavano a recuperare il tempo perduto, facendo prevedere che in pochi anni la Germania si sarebbe trovata di nuovo in posizione di svantaggio. Per quel che riguarda le alleanze internazionali, il distacco inglese stava portando alla rivalutazione delle vecchie linee di alleanza, per cui, sotto l’influenza di Ribbentrop, fu ora dato molto più peso all’Asse italo-tedesco e al Patto anti-Comintern. La guerra civile spagnola, inoltre, spinse Hitler a interessarsi sempre più dell’imminente scontro finale con i bolscevichi. In poche parole, le considerazioni di tipo economico, strategico e ideologico si intrecciarono sempre più strettamente fra loro e si rafforzarono reciprocamente. Dunque, la dinamica che si era messa in azione, in parte attraverso le scelte di Hitler, ma in buona misura anche per il sopraggiungere di eventi estranei al suo controllo, spinse decisamente in direzione di una continua e persino accelerata politica del «tutto per tutto». In queste circostanze, con le voci di opposizione esistenti all’interno del Regime incapaci di farsi sentire, ebbe buon gioco l’opinione di Hitler favorevole a un’ulteriore spinta in avanti, unica alternativa in grado di scongiurare la stagnazione e il definitivo declino del Regime nazionalsocialista. Questa visione fu fortemente sostenuta nel discorso tenuto da Hitler il 5 novembre 1937 ai vertici delle forze armate e annotato e riassunto dal colonnello Hossbach, aiutante di campo del Führer20. Questo incontro era stato convocato in risposta alla richiesta rivolta dall’ammiraglio Raeder a Hitler stesso, affinché questi provvedesse alla drammatica carenza di materie prime da destinare alla marina. Hitler colse questa opportunità per spiegare diffusamente a tutte le alte cariche delle forze armate e al ministro degli Esteri la sua visione strategica generale. Egli esordì affermando che l’argomento dell’incontro era troppo importante per 163

essere affrontato in una riunione di Gabinetto. Il problema tedesco dello «spazio vitale», affermò Hitler, poteva essere risolto solo con l’uso della forza. La Germania sarebbe stata pronta ad affrontare un conflitto soltanto a metà degli anni Quaranta, ma non avrebbe potuto assolutamente aspettare oltre. Tuttavia poteva presentarsi un’occasione di conquista anche prima del tempo, e questa opportunità non doveva andare perduta. Primi obiettivi – come in questo periodo ebbe a ripetere in diverse occasioni – sarebbero state l’Austria e la Cecoslovacchia. Contrariamente alle grandi aspettative nutrite dopo la firma del Trattato navale del 1935, Hitler adesso guardava con ostilità alla Gran Bretagna, ma era anche ben consapevole del fatto che questa era troppo impegnata con la crisi del suo impero per opporsi all’espansione tedesca. La serietà delle intenzioni di Hitler fu chiaramente percepita dai suoi ascoltatori, e a esse furono, perciò, fatti seguire immediatamente i fatti: poche settimane dopo l’incontro, la Wehrmacht aveva elaborato un piano strategico per un’offensiva contro la Cecoslovacchia21. Mentre un senso di urgenza s’impadroniva sempre più del dittatore tedesco (il cui cattivo stato di salute in questo momento lo spingeva a credere che non sarebbe vissuto ancora a lungo), fu proprio il precipitare degli eventi a destare le prime preoccupazioni in alcuni esponenti dei vertici militari e nello stesso ministero degli Esteri. Nell’incontro del 5 novembre, il lungo monologo di Hitler aveva sollevato un’accalorata replica del ministro della Guerra Blomberg e del capo delle forze armate Werner Fritsch. Qualche giorno dopo, quest’ultimo esternò nuovamente le sue preoccupazioni per le conseguenze di un’azione militare immediata da parte della Germania, e lo stesso fece il ministro degli Esteri Neurath22. Ma, allo stesso tempo, Hitler ricevette pareri più accomodanti da parte di Ribbentrop, che da tempo era una fonte alternativa di consigli in materia di politica estera. Così, quando nel febbraio del 1938 si presentò l’opportunità di cambiare i vertici militari e del ministero degli Esteri, Hitler non si lasciò sfuggire l’occasione. Nulla sembra suggerire che la «crisi Blomberg-Fritsch», scoppiata tra il gennaio e il febbraio del 1938, sia stata una mossa premeditata da parte di Hitler. Con il permesso del Führer, il ministro Blomberg si era sposato il 12 gennaio 1938 e Hitler e Göring 164

erano stati i testimoni di nozze. Dopo dieci giorni, trapelò la notizia che il passato della sposa di Blomberg era stato alquanto burrascoso: in effetti, il ministro aveva sposato una ex prostituta e il Führer si era prestato come testimone, restandone all’oscuro fino al suo ritorno da un soggiorno nella sua casa nelle Alpi bavaresi. Alla notizia comunicatagli da Göring, Hitler, superato il primo momento di costernazione, fu d’accordo nel sostenere che Blomberg dovesse lasciare il suo incarico: l’ex ministro della Guerra partì con la sua sposa per un lungo soggiorno all’estero, addolcito da una «buonuscita» di 50.000 marchi23. Nel frattempo la Gestapo riesumò un vecchio scandalo riguardante Werner Fritsch, comandante supremo delle forze armate: la storia dei suoi rapporti omosessuali era venuta fuori circa due anni prima, ma Hitler si era rifiutato di prendere provvedimenti. Anche questa volta, sembra che il dittatore fosse inizialmente propenso a prendere le difese di Fritsch, il cui nome era stato fatto come possibile successore di Blomberg. Ma Göring, interessato egli stesso all’incarico occupato da Blomberg (ma per il quale Hitler lo considerava del tutto inadatto), e trovando un valido alleato in Himmler, sempre pronto a mettere in difficoltà la Wehrmacht per favorire le sue speranze di militarizzazione delle SS, approfittò della delusione di Hitler nei confronti di Blomberg per sbarazzarsi anche di Fritsch. Così, sulla base del caso montato dagli accusatori di Fritsch, Hitler si lasciò convincere che anche il capo delle forze armate dovesse dimettersi – benché qualche tempo dopo una corte stabilì che Fritsch era stato vittima di uno scambio di persona. L’intrigo contro Fritsch, comunque, apparteneva già a una seconda fase dell’affare. Hitler non stava pianificando grandi cambiamenti governativi e militari, e inizialmente la sua reazione fu solo di meraviglia e disappunto24. Per dieci giorni egli restò incerto sul da farsi, tanto che Goebbels parlò di questa crisi come della peggiore dai tempi dell’affare Röhm25. Ma, in mancanza di alternative, Hitler rispose, come era suo solito, cogliendo l’opportunità e, con un tipico salto in avanti, trasformando l’iniziale imbarazzo in una purga incruenta della vecchia élite di potere nazional-conservatore. La carica di ministro della Guerra ricoperta da Blomberg venne abolita e, su suggerimento dello stesso Blomberg, fu Hitler a 165

6. «Danzica è tedesca». Una cartolina postale nazista del 1938 prepara il terreno alle pretese annessionistiche avanzate l’anno successivo da Hitler sulla città baltica, allora sotto il protettorato della Società delle Nazioni. 166

prendere il comando assoluto delle forze armate, nominando il duttile generale Wilhelm Keitel capo del nuovo Comando supremo della Wehrmacht. Il nuovo capo delle forze armate, caldeggiato da Keitel, fu il generale Walther von Brauchitsch, che si dichiarò pronto a impegnarsi per un atteggiamento dell’esercito più apertamente filonazista. Göring, invece, come premio di consolazione, fu nominato feldmaresciallo, mentre circa sessanta generali furono sostituiti o messi in pensione. Anche nel ministero degli Esteri ci furono grandi cambiamenti: Ribbentrop fu nominato ministro e Neurath «promosso» a un incarico di consulenza, mentre a Roma, Tokyo e Vienna furono mandati nuovi ambasciatori. Il ministero dell’Economia, lasciato da Schacht a novembre, passò nelle mani del malleabile Walther Funk, e ci furono altri ricambi di personale, per mettere fine una volta per tutte ai tempi in cui questo ministero aveva creato difficoltà alla dirigenza nazista. Dopo l’esito della «crisi Blomberg-Fritsch», i rapporti di Hitler con le vecchie élites cambiarono in modo decisivo. Sin dal 1933 in più di un’occasione egli aveva dimostrato a questi gruppi di essere loro indispensabile, ma intanto il suo potere nei loro confronti era cresciuto invece di diminuire. Così, proprio quando la dinamica più radicale del Regime iniziò a prendere il sopravvento sia in politica estera che in quella interna, e i conservatori invece cominciarono con qualche esitazione a segnare le distanze dall’avventurismo nazista, ancora una volta Hitler riuscì ad assumere l’iniziativa e, con i fatti del febbraio 1938, a stabilire la sua assoluta supremazia sugli avversari. Ma, soprattutto, dopo di allora le forze armate furono private di qualsiasi autonomia e l’élite di potere costituita dal corpo degli ufficiali fu ridotta a una semplice «élite funzionale»26 al servizio del Führer e dello Stato nazionalsocialista: il disprezzo di Hitler per il corpo ufficiali vecchio stile crebbe, così, come non mai. Dopo l’incendio del Reichstag e il caso Röhm, la «crisi Blomberg-Fritsch» costituì la terza pietra miliare sulla via che condusse Hitler al potere assoluto. Come è stato giustamente detto, esso equivalse praticamente a un colpo di Stato contro i resti del vecchio regime27. Così, a partire dai primi mesi del 1938 Hitler si trovò sempre più circondato da uomini della sua stessa stoffa (avventuristi, fautori della linea dura, giocatori d’azzardo e ideologi). Intanto, l’affermarsi dell’assolutismo del Führer rendeva inarre167

stabile il corso degli eventi, trascinandovi insieme lo stesso Hitler, mentre la «visione» grandiosa da lui concepita – indipendentemente dai rischi che comportava – prendeva sempre più il posto di qualsiasi pur vaga parvenza di condotta politica finalizzata a raggiungere obiettivi limitati e «razionali».

VI

Potere assoluto

Negli anni compresi tra il 1938 e il 1943 il potere di Hitler divenne assoluto, e proprio quegli anni sono stati i più tragici nella traumatica storia della Germania del Novecento. Con il colpo di mano del febbraio 1938, il dittatore aveva assunto il pieno controllo anche delle forze armate, l’unica istituzione dello Stato che potesse ancora ostacolargli il cammino. Da allora in poi il suo potere non conobbe più vincoli istituzionali: nessuna decisione di qualche importanza poté essere presa senza la sua approvazione, nessuna organizzazione fu in grado di esercitare una vera opposizione al Regime nazionalsocialista. Naturalmente l’opposizione non fu eliminata, ma essa non assunse una forma organizzata e non fu mai capace di minacciare seriamente il potere di Hitler. Le possibilità di una ribellione interna contro il dittatore erano limitate alle attività cospirative di ristretti gruppi all’interno dell’esercito (legati anche a singoli individui appartenenti ad altri settori delle élites tradizionali, sempre più preoccupati per la direzione presa dalla politica nazista, e tuttavia incapaci di agire fintanto che continuavano i «trionfi» di Hitler), oppure ad azioni isolate di individui senza collegamenti con gruppi o organizzazioni (come nel caso dell’unico vero attentato contro Hitler, quello effettuato al Bürgerbräukeller di Monaco per mano del carpentiere svevo Georg Elser). Nel presente capitolo saranno analizzati quei cinque tragici anni di potere assoluto, durante i quali lo stravolgimento delle strutture formali di potere diede a Hitler la possibilità di manipolare gli avvenimenti con un grado di autonomia inconsueto persino per un dittatore, per non parlare dei capi di Stato dei regimi democratici. L’obiettivo che ci proponiamo è di spiegare il modo in cui l’Idea nazionalsocialista, incarnatasi nella persona del Führer, si tradusse poi in decisioni e atti politici. 169

Parte della risposta a questo interrogativo risiede nel carattere assunto in quegli anni dalla leadership hitleriana e dai suoi poteri decisionali. Per Hitler la guerra non fu un normale conflitto militare, bensì il passo decisivo verso la realizzazione della sua Idea, verso il compimento della sua «missione». È stato detto giustamente che con la guerra il nazionalsocialismo tornò alla sua essenza originaria1. Il dinamismo attivista insito nel movimento hitleriano, che prima del conflitto mondiale era potuto venire alla luce solo parzialmente e con difficoltà, esplose liberamente nel clima di una guerra che i nazisti fecero assurgere a «crociata». Le manovre diplomatiche di Hitler e i suoi mutamenti di strategia negli anni Trenta, pur basandosi inizialmente su un calcolo politico razionale, spinsero sempre più verso una via di non ritorno e verso l’adozione di decisioni fondate sulle «verità» ideologiche della sua irrazionale Weltanschauung, incentrata sulle idee della supremazia tedesca, del dominio della razza e della ricerca dello «spazio vitale». Ma un’altra parte della risposta, altrettanto cruciale, risiede nell’impatto esercitato dall’ormai illimitato potere del Führer sulle strutture formali di governo. Durante la fase di febbrili preparativi che precedette la guerra, e poi di fronte alla guerra stessa, si andò accelerando drammaticamente il processo di esautoramento delle normali strutture di governo e di amministrazione a vantaggio del caotico coacervo di poteri rappresentato dai diversi organi esecutivi della «volontà del Führer». Al «governo» e all’«amministrazione» si sostituì, in tal modo, il puro dominio – un «potere» nel senso più dispotico, illimitato e arbitrario possibile, regolato soltanto in base ad alcuni inconfutabili, e allo stesso tempo generici, precetti ideologici. Di conseguenza, il governo si disintegrò in un «Behemoth»2 di feudi rivali, i cui capi, per emergere e mantenere il proprio potere, lottavano l’uno contro l’altro nella pretesa di «lavorare per il Führer», di realizzare la sua Idea. Questo sistema fu il frutto della stessa concezione hitleriana del potere e andò a formare la cornice entro cui la carica ideologica sottesa alla guerra poté concretizzarsi in precise scelte politiche sfociate nella barbarie e nel genocidio. Passiamo, dunque, a esaminare il processo di corrosione delle strutture formali di governo causato dall’affermazione del potere assoluto del Führer. 170

La disintegrazione dello Stato Quando la sera del 5 febbraio 1938 i ministri del governo si riunirono per ascoltare il lungo discorso di Hitler sulla soluzione della crisi Blomberg-Fritsch, non ci fu alcun segnale che lasciasse presagire che quella sarebbe stata l’ultima riunione del Gabinetto hitleriano. Dopo di allora, infatti, nonostante l’accumularsi delle questioni irrisolte e le pressioni esercitate nel 1938 e all’inizio del 1939 da Lammers, capo della Cancelleria del Reich e dal 1937 divenuto egli stesso membro del governo, affinché Hitler fissasse altre riunioni, il Führer cancellò ogni volta gli incontri previsti, senza nemmeno peritarsi di comunicarlo con il dovuto anticipo3. L’allargamento delle dimensioni del Gabinetto coincise, così, con un ridimensionamento dei suoi poteri effettivi: nell’assetto legislativo dello Stato concepito dal Führer, esso era diventato ormai del tutto superfluo. Ma la scarsa passione di Hitler per le riunioni di Gabinetto, manifestatasi sin dai primi anni del suo Cancellierato, non derivava soltanto da semplici considerazioni procedurali. Ciò che Hitler non poteva accettare era la stessa esistenza di un collegio di ministri investiti della loro autorità dai dettami costituzionali e quindi con capacità di controllo sui poteri del Führer. L’organizzazione della burocrazia, la cui forza risiedeva nel rispetto dei concetti astratti di legalità e costituzionalità, era incompatibile con il principio personalistico di potere che era alla base dell’autorità carismatica del Führer. Quindi, come era facilmente prevedibile, i tentativi intrapresi nel 1942 da Lammers per ristabilire la prassi degli incontri di Gabinetto risultarono tutti vani. Hitler, sempre attentissimo a cogliere il minimo segnale di minaccia alla sua libertà d’azione, si rifiutò di partecipare a qualsiasi riunione ministeriale, persino la più informale davanti a un boccale di birra4. La stessa sorte toccò ai tentativi di ripristinare una parziale collegialità di governo sotto nuove forme. Il cosiddetto «Gabinetto segreto del Reich» (Geheimes Reichskabinett) che, secondo un decreto firmato da Hitler il 4 febbraio 1938, avrebbe dovuto mettere insieme i ministri più importanti coinvolti nelle questioni di politica estera, sotto la presidenza di Neurath, non si riunì nem171

1. Hitler all’apice del potere dopo il trionfo sulla Francia, suggellato dalla sua breve visita a Parigi, il 28 giugno 1940. 172

meno una volta e servì solo a mascherare il vero significato delle nuove nomine al ministero degli Esteri. Allo scoppio della guerra, la costituzione di un Consiglio interministeriale per la difesa del Reich – presieduto da Göring e comprendente Frick (plenipotenziario per l’Amministrazione), Funk (plenipotenziario per l’Economia), Lammers (capo della Cancelleria del Reich), Keitel (capo del Comando supremo della Wehrmacht) e Hess (responsabile nazionale della NSDAP) – sembrò riportare in auge l’idea di un Gabinetto ristretto, soprattutto quando, per alleggerire gli oneri legislativi di Hitler, fu concesso a Göring di promulgare nuove leggi, apponendovi la propria firma (a meno che Hitler non intendesse farlo personalmente). Ma il Consiglio si riunì solo sei volte – di cui l’ultima il 15 novembre 1939 –, promulgando alcuni decreti in materia amministrativa ed economica. Piuttosto sorprendentemente Göring, che aveva uno stile di governo pari per arbitrarietà a quello di Hitler, non colse l’opportunità di trasformare il Consiglio interministeriale in un organo al servizio del proprio potere personale. Lo stesso Hitler, del resto, era ben contento di vedere svuotata tale istituzione prima ancora che si fosse affermata. Così, sebbene il Consiglio continuasse a promulgare decreti, questi vennero resi esecutivi facendo semplicemente circolare i disegni di legge fra i vari ministri, piuttosto che attraverso riunioni formali di Gabinetto. Altrettanto poco collegialmente lavorò il cosiddetto Dreierkollegium, il triumvirato composto da Frick, Funk e Keitel e dotato di pieni poteri legislativi nelle questioni riguardanti l’amministrazione, l’economia e la difesa civile, sulla base di una legge sulla difesa del Reich promulgata nel settembre 1938: i suoi disegni di legge, infatti, furono semplicemente discussi con gli altri due organi citati prima. Allo scoppio del conflitto mondiale, l’apparato governativo centrale, già in netto declino come entità collegiale nei primi anni del governo hitleriano, si frantumò nelle sue singole parti. La Cancelleria del Reich non aveva più un ruolo di coordinamento pratico sull’insieme dell’attività legislativa5, e lo stesso capo della Cancelleria, Hans-Heinrich Lammers, a partire dalla fine degli anni Trenta, ebbe spesso difficoltà ad avvicinare il Führer, impiegando a volte settimane prima di riuscire a incontrarlo per discu173

tere pressanti questioni di governo6. Durante i primi anni di guerra, Lammers riuscì di nuovo a incontrare Hitler più di frequente, avendo con lui brevi colloqui più o meno settimanali, ma dopo l’invasione dell’Unione Sovietica gli incontri si diradarono nuovamente, scendendo a 39 nel 1942 e addirittura a soli 18 l’anno successivo7. Da allora in poi, egli dovette presentare un breve prospetto dei punti da discutere con il Führer all’unica persona incaricata di regolare gli incontri con Hitler: Martin Bormann. L’ascesa di Bormann si svolse dietro le quinte. Egli non era né un demagogo né un agitatore, ma possedeva notevoli doti organizzative e sapeva unire il fanatismo ideologico al lavoro burocratico, il machiavellismo tattico a un’energia inesauribile e a una notevole capacità lavorativa. Bormann era poco noto nelle file del Partito, e inizialmente venne poco considerato dai leader nazionalsocialisti. Ciò nonostante, negli anni Trenta egli riuscì a gettare le basi dell’importante posizione di potere assunta negli anni finali del Terzo Reich: prima raggiungendo il controllo dell’apparato centrale del Partito con la sua ascesa, dopo il 1933, a capo dello staff dell’ufficio di Hess (il sostituto del Führer); quindi stringendo i suoi contatti personali con Hitler dal 1934 in poi, quando fu incaricato dell’amministrazione dei fondi a disposizione personale del dittatore e divenne intestatario della casa di montagna del Führer al Berghof, vicino Berchtesgaden. Una volta scoppiata la guerra, Bormann restò costantemente al fianco di Hitler nel suo quartier generale. Dopo l’insuccesso della missione aerea di Hess in Scozia, la direzione della NSDAP passò nelle mani di Bormann, che divenne titolare della nuova carica di capo della Cancelleria del Partito. In tale veste egli acquisì il diritto di controllo sull’azione legislativa del governo e sulle nomine, assumendo anche l’autorità di ministro del Reich. Lo scoppio della guerra comportò una radicalizzazione delle scelte politiche legate agli aspetti centrali dell’ideologia nazista, e il Partito poté esercitare un’influenza molto più pervasiva rispetto a quella praticata nei primi anni del Terzo Reich. È sotto questo punto di vista che la figura di Bormann divenne decisiva: egli intervenne sempre di più negli affari riguardanti il governo del Reich, arrivando a volte a scavalcare addirittura il governo nella regolamentazione legislativa dei territori annessi e 174

divenendo il maggiore responsabile del riacutizzarsi del conflitto con la Chiesa nel 1941. Comunque, a fondare la sua eccezionale posizione di potere fu soprattutto la possibilità di combinare il controllo del Partito (con il suo influsso crescente sul governo e l’amministrazione) con il ruolo inizialmente non ufficiale di segretario personale di Hitler (il titolo ufficiale di «segretario del Führer» gli venne conferito il 12 aprile 1943). In un primo momento, in base alle diverse sfere di competenza, Bormann e Lammers continuarono a condividere il controllo degli incontri da fissare con Hitler; ma l’influenza del capo della Cancelleria del Reich era destinata a tramontare, tanto che, a partire dal 1944, Lammers poté incontrare Hitler solo previo consenso del segretario del Führer. Nell’ottobre dello stesso anno Lammers dovette rinunciare al suo posto nel quartier generale del Führer, incontrando quest’ultimo solo un’altra volta per questioni ufficiali (un incontro di un quarto d’ora, il 27 marzo 1945, per ottenere la sua firma su alcuni disegni di legge)8. Il ruolo di Bormann fu, dunque, di vitale importanza ai fini dell’esercizio del potere hitleriano durante gli anni di guerra: fu, infatti, prevalentemente lui a decidere non soltanto chi poteva essere ammesso alla presenza di Hitler, ma anche quali informazioni gli dovessero arrivare. Pronto ad annotare, con penna e taccuino, ogni affermazione del suo capo che potesse essere di qualche importanza, Bormann contribuì sempre più a tradurre le manifestazioni della «volontà del Führer» in direttive d’azione, a volte interpretando come vincolanti direttive legislative osservazioni casuali fatte a tavola. Pur essendo molto potente, Bormann non poté impedire che alcuni altri leader nazionalsocialisti continuassero a incontrare Hitler, anche se con il protrarsi della guerra e il crescente isolamento fisico del dittatore la cerchia di coloro che potevano incontrarlo a loro piacimento si restrinse a poche persone: a parte lo stesso Bormann, Göring, Goebbels, Himmler, Ribbentrop, Ley, Sauckel, Speer e Keitel, e diversi capi regionali del Partito. Himmler e Ribbentrop si assicurarono la tutela dei propri interessi attraverso i loro incaricati presso il quartier generale del Führer; altri, come Goebbels e, dopo il 1942, il ministro della Giustizia Thierack, inviavano frequenti rapporti – le «Informative al Führer» – a cui Hitler, però, rispondeva soltanto sporadicamen175

te9. I percorsi interni delle informazioni destinate a Hitler, quindi, anche quando non passavano direttamente per Bormann, divennero progressivamente «autoselettivi», essendo ormai prerogativa quasi esclusiva di un ristretto clan di fanatici devoti a Hitler e alla realizzazione (attraverso vari apparati di potere) della sua Idea. Lontano dal potere centrale, nelle province e nei territori occupati, i forti legami di lealtà personale e reciproca che univano Hitler ai dirigenti regionali, i Gauleiter, fecero sì che l’ampiezza e l’arbitrarietà dei poteri loro concessi per la realizzazione della generica «volontà del Führer» si traducessero in una radicalizzazione continua delle iniziative politiche. Già negli anni di pace del Terzo Reich, il ruolo dei Gauleiter era stato decisivo per l’esercizio del potere nazista nelle province, specialmente nel caso in cui un Gauleiter svolgeva anche funzioni di governatore federale. Pur non avendo alcuna funzione precisa una volta abolita nel 1934 l’autonomia dei Länder, Hitler volle significativamente conservare la figura del governatore federale, con l’obiettivo di non alienarsi l’appoggio dei fidati Gauleiter, che anzi rafforzarono i loro legami diretti con lo stesso Hitler e continuarono, perciò, a essere un prezioso tramite del suo potere nelle diverse regioni del Reich. A parte qualche eccezione, i Gauleiter ebbero costantemente l’opportunità di entrare in contatto con Hitler, individualmente o attraverso incontri periodici che continuarono anche dopo l’esautoramento sopra analizzato delle istanze collegiali del governo nazionale. Durante la guerra, però, accadde talvolta che i Gauleiter si sottrassero alle direttive emanate in tali incontri, o alle linee guida generali fissate da Hitler, scegliendo di agire di propria iniziativa per esercitare pressioni sulla burocrazia centrale dello Stato. Inoltre, negli anni di guerra furono riversati sui Gauleiter diversi nuovi compiti di comando nella loro veste di commissari per la difesa del Reich, dotati di ampi poteri per la mobilitazione a fini bellici della popolazione e delle risorse materiali. In tal modo aumentò ulteriormente l’influenza dei fanatici e degli attivisti del Partito sulle strutture di base della società tedesca e si rafforzò ancora di più la posizione di coloro che derivavano il proprio potere direttamente dall’autorità di Hitler. 176

Nelle loro province, i Gauleiter erano quasi una sorta di viceré indipendenti, in quanto l’influenza sul loro operato da parte dell’amministrazione centrale, e persino della direzione del Partito, era estremamente limitata. I loro legami personali con il Führer furono fondamentali per il consolidamento del loro potere già entro i confini del «vecchio Reich» del 1937. Ma con l’annessione dell’Austria e della Cecoslovacchia, e poi ancora di più con la conquista della Polonia e delle regioni dell’Unione Sovietica, i poteri delegati ai Gauleiter che assunsero il controllo delle nuove province vennero ulteriormente ampliati, trasformandosi in una specie di autorizzazione «in bianco» per qualsiasi decisione avessero voluto prendere in merito ai territori annessi di loro competenza. Naturalmente all’ampio mandato d’azione proveniente dal centro fecero riscontro iniziative «sul campo» quasi sempre corrispondenti alla presunta «volontà del Führer» – iniziative che a loro volta potevano contare generalmente sull’approvazione di Berlino. Se l’amministrazione statale non riuscì a contrastare l’autorità locale dei Gauleiter – che nelle province rappresentavano un potere personale in grado di evitare, bloccare, scavalcare e usurpare le prerogative dello Stato – e dovette fare i conti con l’esistenza di vasti territori del Reich in cui la sua legge semplicemente non contava10, essa venne esautorata completamente come istanza centrale del sistema di potere a seguito della proliferazione e dell’estensione delle «autorità speciali» (Sonderbehörden) che, come abbiamo osservato in precedenza, erano diventate parte integrante del sistema di potere hitleriano già prima della guerra. Nel 1942 era diventato difficile persino per la Cancelleria del Reich esercitare una qualsiasi forma di controllo su un apparato di potere caratterizzato dalla crescita abnorme di organismi esecutivi pluri-stratificati, in sovrapposizione e spesso in competizione reciproca. La sovranità personale di Göring sul Piano quadriennale si era estesa in almeno altre 22 sfere di «autorità speciale» che includevano il controllo dei prezzi, la produzione chimica e mineraria, le strade, la navigazione fluviale e marittima, oltre che lo sfruttamento dei beni espropriati ai polacchi11. Il ministro per le Armi e Munizioni (Fritz Todt e, dopo la sua morte, Albert Speer), il commissario per gli Alloggi (Robert Ley) e il plenipotenziario per lo Sfruttamento della manodopera (Fritz Sauckel) 177

2. Hitler studia una mappa militare nel 1940, assieme al feldmaresciallo Wilhelm Keitel, capo del Comando supremo della Wehrmacht (al centro), e il generale Alfred Jodl, capo del Comando operativo (a destra). Verso la fine del luglio 1940, Hitler aveva già annunciato di voler invadere l’Unione Sovietica nella primavera successiva. 178

guidavano altri importanti centri di potere direttamente collegati a Hitler e indipendenti dalle istituzioni amministrative dello Stato. Le «autorità speciali» più importanti come veicolo dell’ideologia nazista furono la Cancelleria del Führer, diretta da Philipp Bouhler, e le forze di polizia unite alle SS, con il loro strabordante potere incarnato dal duplice ruolo di Himmler in qualità di capo dei corpi di polizia e, dall’ottobre 1939, di commissario per il Rafforzamento della razza tedesca. Nonostante il nome altisonante, la Cancelleria del Führer era rimasta fino a quel momento un ufficio di scarso rilievo. Essa era stata istituita da Hitler all’inizio del suo governo con il compito di raccogliere e vagliare le petizioni e gli appelli che riceveva in quanto capo del Partito. Ma già alla fine degli anni Trenta, Bouhler e il suo vice Brack, nella loro sete di potere, erano riusciti a sfruttare la loro vicinanza al Führer per affermare la posizione della Cancelleria all’interno della giungla del potere nazionalsocialista e per assumere un ruolo spropositato rispetto all’importanza modesta attribuita originariamente al loro ufficio. È da qui, infatti, che partirono quelle iniziative culminate nell’orchestrazione del sanguinario «programma di eutanasia»12. L’inizio di questa vicenda fu quasi casuale: una petizione rivolta alla Cancelleria del Führer da parte di un uomo per avere il permesso di «addormentare» definitivamente il proprio figlio deforme, fece partire l’autorizzazione di Hitler al suo medico personale, Karl Brandt, perché soddisfacesse tale richiesta, e successivamente l’autorizzazione data a Brandt e al capo della Cancelleria Bouhler per altri casi simili. Già da tempo Hitler si era posto ideologicamente la «questione eutanasia», ma aveva lasciato intendere che potesse essere affrontata solo nel contesto di una guerra. Dopo l’autorizzazione data all’«eutanasia» di bambini, fu sondato il terreno per prevenire obiezioni da parte della Chiesa e, in parte alla luce delle risposte ottenute, fu decisa un’«azione» riguardante anche gli adulti. Bouhler fu spinto dal suo vice Brack a ottenere un preciso incarico per organizzare il «programma», andando incontro ai desideri dello stesso Hitler, favorevole a una soluzione non burocratica e improntata alla massima segretezza, e desideroso di svolgere l’azione al di fuori del controllo delle autorità sanitarie e dell’ingombrante figura del ministro dell’Interno. Nell’ottobre 1939 la Cancelleria del Führer aveva messo a pun179

to l’organizzazione e il meccanismo dell’«azione», che ebbe quindi inizio con la pronta collaborazione di medici incaricati di fornire liste di possibili «candidati». Il risultato fu la morte di oltre 70.000 pazienti deformi e malati di mente ospitati nelle case di cura tedesche. In seguito, la Cancelleria del Führer funzionò quasi come un’agenzia di collocamento per reperire il personale addetto alla «Azione Reinhard», cioè lo sterminio degli ebrei polacchi nei campi di concentramento di Belzec, Sobibor e Treblinka. Il caso dell’eutanasia è un classico esempio di come presero forma molte delle iniziative sanguinarie del Terzo Reich. Nella realizzazione di quel «programma», infatti, confluirono diversi fattori fondamentali: la sete di potere e l’attesa di un’occasione opportuna da parte di Bouhler e Brack; la pronta compiacenza dei medici delle case di cura, ben disposti a fare la loro parte di «lavoro per il Führer» in una questione legata a temi, quali l’eugenetica e la «salute razziale», discussi già prima della nascita del Terzo Reich; l’avversione di Hitler per la burocrazia e la sua propensione a scavalcare completamente l’amministrazione statale per problemi delicati o per programmi esecutivi che richiedessero un’azione risoluta; infine, non meno importante, la volontà di perseguire un obiettivo ideologico cruciale della visione del mondo hitleriana. L’esempio del «programma di eutanasia» dimostra che non solo l’autorizzazione di Hitler fu essenziale, ma anche che, una volta scoppiata la guerra, Hitler non esitò a prendere decisioni in pieno accordo con la «missione» ideologica che si era autoassegnato, condannando a morte decine di migliaia di civili. Le sue decisioni, tuttavia, seguirono un iter sempre meno formale, riflettendo così, ancora una volta, il collasso di qualsiasi forma di potere statale organizzato (seppure autoritario) rispetto all’onnicomprensiva – nonché corrosiva – autorità personale del Führer. Nel caso dell’eutanasia, il mandato iniziale conferito a Bouhler e Brandt – ovviamente non per iscritto – incontrò difficoltà quando qualcuno mise in dubbio l’effettiva consistenza di quell’autorizzazione. Dal momento che l’unico tra i ministri a esserne stato informato era Lammers, tali dubbi erano tutt’altro che sorprendenti, data la gravità della questione. Conseguentemente, verso la fine dell’ottobre 1939, Hitler venne sollecitato a rilasciare un’autorizzazione scritta, non però in forma di decreto (cosa che si rifiutò di fare), ma con un mandato in bianco di poche ri180

ghe redatto sulla sua carta intestata e non a caso retrodatato al primo giorno di guerra13. Tanto incontestabile era diventata l’identificazione tra la legge e la persona del Führer, che persino questa autorizzazione informale venne considerata alla stregua di un atto legislativo vincolante. Convinto in ogni caso che gli aspetti formali del processo legislativo rappresentassero una questione irrilevante, durante la guerra Hitler tese sempre più a utilizzare lo strumento del decreto personale, invece delle regolari ordinanze di legge. E come se non bastasse, molti di questi decreti, inclusi alcuni dei più importanti e con le più vaste ripercussioni, non vennero neanche promulgati ufficialmente. Per questa via non ufficiale, ad esempio, il 7 ottobre 1939 Hitler nominò Himmler commissario per il Rafforzamento della razza tedesca, una carica che gli dava pieni poteri per perseguire senza scrupoli la «germanizzazione» e la «purificazione razziale» dei territori conquistati a Est14. Sulla base di questo decreto, Himmler mise in piedi un imponente apparato, posto direttamente sotto il proprio controllo, adibito alle deportazioni di massa dei gruppi etnici non germanici. Il carattere delle decisioni di Hitler diede adito necessariamente a un perenne stato di incertezza e conflittualità. A volte sorgevano difficoltà perché un decreto del Führer risultava inapplicabile, rafforzando, così, la pretesa hitleriana di essere sempre edotto, prima di legiferare, su tutti gli argomenti, pro e contro. Seri problemi di applicazione erano sollevati soprattutto dall’ampiezza e dall’indeterminatezza di alcuni decreti che assegnavano a certi uffici poteri in conflitto con altre autorità. Ad esempio, la Cancelleria del Reich incontrò alcune difficoltà (di natura ovviamente non etica, bensì puramente formale) con un decreto che Rosenberg convinse Hitler a promulgare nel marzo 1942, e in cui si conferirono al primo pieni e ampi poteri per il saccheggio dei beni culturali nei territori europei occupati. In ogni caso, il decreto entrò in vigore, pur con qualche emendamento15. L’idea di un governo basato su un’organizzazione sistematica o su astratte norme legali e costituzionali era stata, dunque, erosa dalle fondamenta a qualsiasi livello decisionale. Al suo posto era subentrato il potere esercitato dalle autorità esecutive legate a Hitler e alla realizzazione della sua visione ideologica, e le cui strutture predatorie generarono qualcosa che difficilmente può essere defi181

nito come un vero sistema statale. La legalità, che è alla base dei sistemi di governo riconoscibili come «Stati» (inclusi quelli a carattere autoritario), era stata bandita per essere sostituita dalla forza dell’arbitrio compiuto in nome del potere mistico del Führer. La sostituzione della legalità con la forza – un processo che nel 1942 si era ben affermato anche all’interno stesso della Germania – fu completa nei territori occupati. La privatizzazione del potere di coercizione statale attraverso l’elevazione del corpo di guardia di Hitler a sostituto, di fatto, della polizia di Stato16 è l’esempio più evidente della totale illegalità del Regime hitleriano: l’aggregazione per bande criminali aveva prevalso sullo Stato, dando vita, come è stato giustamente detto, a «una forma di società in cui i gruppi dirigenti controlla[va]no direttamente il resto della popolazione, senza la mediazione di quell’apparato razionale, sebbene coercitivo, fino ad allora conosciuto come Stato»17.

L’Idea diventa realtà Ancora alla fine degli anni Trenta, ai non adepti che si peritavano di leggere le esternazioni del Mein Kampf, la «visione del mondo» hitleriana poteva apparire un costrutto mentale risibile e velleitario. Ma nel 1941 l’idea di una prova di forza risolutiva contro il bolscevismo, sotto forma della duplice «crociata» per la conquista dello «spazio vitale» e lo sterminio degli ebrei, era ormai diventata una cruda realtà. Per quali vie si realizzò l’Idea di Hitler e quale fu il personale contributo del dittatore alla realizzazione dei suoi obiettivi ideologici? Come si è in parte già visto, la spinta hitleriana fece crollare quell’instabile castello di carte che era la diplomazia europea del periodo tra le due guerre. L’espansione tedesca del 1938-39 fu il risultato di un insieme di diverse cause interdipendenti: la pressione economica, ragioni logistiche militari, la forza delle ideologie e la debolezza delle democrazie occidentali. Ognuna di queste contribuì alla rapida accelerazione degli avvenimenti che prima portò l’Europa sull’orlo dell’abisso, e poi la precipitò in un conflitto aperto. Senza dubbio tutte queste precondizioni esistevano indipendentemente da Hitler. L’espansione tedesca sarebbe qua182

si certamente avvenuta anche se nel 1938 Hitler fosse stato messo da parte o assassinato; e tuttavia le modalità, il carattere e la velocità di tale espansione portano chiaramente il marchio del dittatore tedesco. Con un governo diretto da Beck e Goerdeler, ad esempio, i rischi connessi alla strategia del tutto per tutto seguìta da Hitler sarebbero stati difficilmente concepibili. Persino Göring, al profilarsi dei primi bagliori di guerra, prese le distanze dalle scelte azzardate e rischiose di Hitler, a dimostrazione ulteriore che lo stato di disintegrazione delle strutture formali di governo era arrivato al punto di attribuire a un solo uomo – spalleggiato da un ristretto manipolo di sbandati della politica e dell’esercito – un potere illimitato sui destini di un’intera nazione. I due leader nazisti che influenzarono maggiormente Hitler nelle questioni di politica estera, soprattutto dopo i rilevanti mutamenti del febbraio 1938, furono Ribbentrop e Göring, ma nessuno dei due, pur avendo opinioni non del tutto identiche a quelle di Hitler, seppe proporre alternative politiche categoriche e assolutamente inconciliabili con le sue. La visione di Ribbentrop era meno fissata sulla distruzione del «bolscevismo ebreo» ed era invece più legata alla tradizionale politica di potenza18. Per Ribbentrop l’obiettivo principale non era la Russia, ma la Gran Bretagna. Resasi visibile nel 1937 attraverso il rilancio della politica coloniale tedesca, con le sue implicazioni chiaramente anti-inglesi, l’influenza di Ribbentrop su Hitler si accrebbe alla fine degli anni Trenta parallelamente al raffreddamento delle relazioni con la Gran Bretagna, raggiungendo il suo apice con la firma del Patto di non aggressione stipulato il 23 agosto 1939 con l’Unione Sovietica. Ma tutto fa pensare che per Hitler questo Patto, ribaltando solo in apparenza ciò che aveva rappresentato fino ad allora la politica nazista, non costituì altro se non ciò che, in effetti, si rivelò poi essere, cioè un accordo strategicamente necessario ma solo temporaneo. Non appena si presentò l’opportunità di capovolgere questo accordo, l’influenza di Ribbentrop iniziò a scemare. La visione «alternativa» di Ribbentrop in politica estera si rivelò solo uno strumento usato opportunisticamente da Hitler e poi di nuovo messo da parte, e in nessun momento rappresentò un’alternativa di fondo alla concezione razzial-imperialista di Hitler, finendo con il favorire quell’obiettivo e restandone subordinata e poi schiacciata. 183

Anche Göring concepiva gli obiettivi della politica estera tedesca in modo abbastanza diverso da Hitler19, ma quanto più il Führer si liberava dagli ostacoli frapposti alla sua strategia dell’«alto rischio», tanto più diminuivano le possibilità di affermazione della più pragmatica visione di Göring. Tra il 1934 e il 1938 quest’ultimo aveva giocato un ruolo importante nella politica estera nazionalsocialista, soprattutto nel tessere relazioni con i Paesi dell’Europa sud-orientale e con l’Italia, nella decisione di intervenire nella guerra civile spagnola, nei rapporti con l’Austria e, al di sopra di tutto, nel momento critico dell’Anschluß, operazione guidata personalmente da Göring e non da Hitler. L’ossessione razzial-imperialista di Hitler non era condivisa da Göring, che invece era più interessato ad affermare il dominio economico della Germania nell’Europa centrale e sudorientale, come momento fondamentale dell’egemonia politica sul continente, da affiancare al consolidamento dell’alleanza con l’Inghilterra. Così, se la posizione anti-inglese di Ribbentrop andò incontro alla volontà manifestata da Hitler di attaccare una Gran Bretagna considerata molto indebolita, Göring, dando voce anche ai timori provenienti da quei settori del mondo degli affari, delle forze armate e della grande proprietà terriera con cui era in stretto contatto, cercò di scongiurare i rischi connessi al gioco d’azzardo hitleriano e, in particolar modo, la prospettiva di una guerra contro la Gran Bretagna. La firma degli accordi di Monaco, nel settembre del 1938, segnò l’ultima vittoria di Göring, dopo di che la sua stella cominciò a declinare. Hitler, infatti, lo accusò di averlo costretto al tavolo delle trattative, dissuadendolo dai propositi di guerra lungamente accarezzati. Colpito da una forma di depressione nervosa, nei mesi seguenti Göring non si fece quasi più vedere in compagnia di Hitler e venne praticamente tenuto fuori sia dalla decisione di occupare il resto della Cecoslovacchia, sia da quella di attaccare la Polonia alla prima occasione. Dopo la Conferenza di Monaco, l’impazienza hitleriana di accelerare l’espansione tedesca e di rischiare su obiettivi ancora più grossi cominciò a farsi insostenibile e conseguentemente Göring, favorevole a un approccio più cauto, fu messo da parte e sostituito dal «falco» Ribbentrop nelle funzioni di più stretto «confidente» del Führer per la politica estera. Alla vigilia della guerra, Göring avviò un timido tentativo di 184

trattative con gli inglesi per evitare le ostilità, come pure tentò tardivamente di dissuadere Hitler da un’avventura rischiosa che poteva far coalizzare le potenze occidentali in funzione antitedesca e concludersi disastrosamente per la Germania. Quando, il 29 agosto 1939, Göring implorò Hitler di non intraprendere una via da cui non sarebbe stato più possibile tornare indietro, la risposta di Hitler fu, come ci si può facilmente aspettare, che tutta la sua vita era stata improntata alla filosofia del tutto per tutto20. Infine, come nel caso del suo acerrimo rivale Ribbentrop, gli obiettivi «alternativi» di Göring in politica estera si dimostrarono troppo simili a quelli di Hitler per esercitare qualcosa di più che un’influenza temporanea. Inoltre la personale remissività e la dipendenza di Göring da Hitler si rivelarono ostacoli insormontabili per la definizione di una concreta alternativa di linea da parte del «secondo uomo del Reich». Se la politica estera suscitava divergenze di vedute tra i più stretti collaboratori di Hitler, è superfluo aggiungere che altrettanto diversi punti di vista esistevano tra i numerosi dirigenti del governo, dell’amministrazione, dell’esercito e del mondo degli affari, inclusi alcuni gruppi di supporto all’interno dell’organizzazione del Partito, interessati ai rapporti con l’estero. In questi ambienti, il più tradizionale colonialismo pangermanico e anti-inglese coabitava con gli interessi rivolti ad acquisizioni territoriali nell’Europa orientale e a un’egemonia commerciale nei Balcani. All’interno delle stesse forze armate, la marina – insieme alla Luftwaffe, ferma sostenitrice del regime nazionalsocialista, molto più che i vecchi vertici prussiani dell’esercito – vedeva i suoi interessi favoriti meglio dalla preparazione di un conflitto con gli inglesi, piuttosto che dall’utilizzazione delle scarse risorse disponibili per organizzare una forza di terra in vista di uno scontro con l’Unione Sovietica. Ma nonostante le diverse propensioni, il consenso di base per una politica estera espansionistica e per il consolidamento di un’egemonia tedesca nell’Europa centrale rimase molto forte – contagiando persino gli ambienti da cui uscirono quei pochi isolati tentativi di aperta opposizione al regime nazista21. La combinazione tra questo vasto consenso agli obiettivi espansionistici e la disintegrazione di qualsiasi vincolo istituzionale posto all’azione dei vertici nazisti diede a Hitler l’opportunità di compiere mos185

se sempre più rischiose che incanalarono lungo binari sempre più stretti il destino di tutta la società tedesca. D’altra parte, mentre si indebolivano i vincoli all’azione interni al Regime, paradossalmente quelli esterni andavano aumentando, sicché apparve ogni giorno più chiaro che gli sforzi economici non potevano essere sostenuti a lungo senza una politica di espansione. I problemi causati dal programma di riarmo forzato si erano fatti rilevanti già nel 1938 – andando a costituire una delle motivazioni principali per l’annessione dell’Austria e della Cecoslovacchia –, per aggravarsi ulteriormente nel corso del 1939. Ancora più importante fu il fatto che, come aveva ben capito Hitler, nella corsa al riarmo il tempo giocava a sfavore della Germania: il vantaggio guadagnato sarebbe andato perduto non appena gli altri Paesi avessero iniziato a loro volta il riarmo, togliendo l’iniziativa ai tedeschi. Per di più era improbabile che la congiuntura internazionale, e in particolare la debolezza inglese e francese, rimanesse favorevole ancora a lungo. «Non abbiamo scelta. Dobbiamo agire», disse Hitler ai suoi generali nell’agosto del 193922. Pur muovendosi all’interno dei confini delineati dai suoi immutati obiettivi a lungo termine – la lotta per il Lebensraum – e dai limiti crescenti imposti dalle considerazioni economiche e strategico-militari, le decisioni di Hitler in politica estera tra il 1938 e il 1939 restarono contrassegnate da un notevole grado di pragmatismo e opportunismo. I tratti che accomunarono la gestione delle crisi per l’Austria, per i Sudeti e per la Polonia furono la capacità di decidere rapidi – quasi impulsivi – riaggiustamenti di linea, la prontezza a ricorrere alla forza quando la sfrontatezza della diplomazia tedesca suscitava segni di resistenza, profilando quindi una minaccia al proprio prestigio, e una crescente certezza che fosse giunto il momento di agire, che il tempo lavorasse contro la Germania e che, perciò, bisognava affrontare tutti i rischi del caso. Quando, poi, in occasione della Conferenza di Monaco tenutasi alla fine del settembre 1938, la debolezza delle potenze occidentali divenne del tutto evidente, la sicurezza di Hitler crebbe fino al punto di convincerlo che quelle non sarebbero entrate in guerra per la Polonia. «I nostri nemici sono degli smidollati», disse ai suoi generali nell’agosto del 1939. «Li ho visti a Monaco»23. Nelle crisi per l’Austria, per i Sudeti e per la Polonia, le considerazioni strategiche e le urgenze economiche (soprattutto nel ca186

3. Rudolf Hess, sostituto del Führer alla guida del Partito nazionalsocialista dal 1933 al 1941.

4. Martin Bormann, capo della Cancelleria della NSDAP dopo il volo di Hess in Scozia (10 maggio 1941) e dall’aprile del 1943 «segretario del Führer». 187

so dell’Austria e della Cecoslovacchia) prevalsero chiaramente sulle motivazioni ideologiche come fattori determinanti dell’espansione tedesca. Per il resto, le singole decisioni prese da Hitler e i cambiamenti di linea furono dettati da ragioni di opportunità: così accadde che egli stabilì l’invasione e la successiva annessione dell’Austria solo in risposta alla inaspettata decisione di Schuschnigg di indire un plebiscito e alla luce dell’accoglienza delirante tributatagli dalla popolazione di Linz; o che decise di aggredire la Cecoslovacchia alla prima occasione solo quando la mobilitazione ceca nella «crisi di fine settimana» del 20 e 21 maggio 1938 rischiò di ridicolizzare la Germania; e, quindi, di attaccare la Polonia solo quando vennero respinte le sue aperture diplomatiche e dopo l’annuncio della garanzia inglese sull’indipendenza polacca. Alla base di tutto questo c’era, però, l’obiettivo coerentemente perseguito di affermare il dominio tedesco nell’Europa centrale e di lasciarsi aperta la possibilità di colpire sia a Est che a Ovest, ma sempre con il fine ultimo di sconfiggere il bolscevismo e conquistare lo «spazio vitale». Così, dopo che Ribbentrop riuscì, ancora una volta, a sfruttare le esitazioni della diplomazia occidentale di fronte al patto tedesco con l’Unione Sovietica, e dopo lo smembramento totale della Polonia, concordato segretamente con la stessa Unione Sovietica, la strada per un attacco a Occidente apparve definitivamente spianata. In realtà nessuno di questi singoli e decisivi passi della politica estera tedesca – incluso l’esito finale della guerra – era nato inizialmente sotto la spinta dell’ideologia nazionalsocialista, tanto che si era persino giunti a un’alleanza con il più acerrimo nemico ideologico del nazismo. E tuttavia, prese nel loro insieme, queste mosse favorirono in vario modo il processo di radicalizzazione ideologica sia nei territori da poco acquisiti che nella stessa Germania. Nel caso dell’Austria e dei Sudeti (e poi dell’intera Cecoslovacchia occupata), gli obiettivi da raggiungere contro i nemici politici e razziali fornirono nuovi «compiti» al Partito e alla Gestapo. Per le teste calde della NSDAP e per i burocrati della polizia di Stato si trattava di una situazione che riportava ai tempi della «presa del potere», con la differenza che adesso il Partito ottenne sin dall’inizio una posizione di forza nell’amministrazione dei nuovi territori e che l’apparato delle SS e della Gestapo era molto 188

più efficiente e privo di scrupoli rispetto alla polizia della Germania del 1933. Insomma, il clima era favorevole a una ripresa delle violenze contro la sinistra socialista e comunista e allo scatenamento delle atrocità contro gli ebrei austriaci, fatti segno di una persecuzione ancora più selvaggia di quella attuata in Germania negli stessi anni. Le nuove «opportunità organizzative» messe a disposizione per affrontare la «questione ebraica» offrirono ad Adolf Eichmann – una figura ancora insignificante della «Sezione ebrei» della SD di Berlino – la possibilità di realizzare con le SS una rapida e brutale politica di emigrazione forzata a danno degli ebrei prima a Vienna e poi, nel luglio del 1939, a Praga. All’interno della stessa Germania, l’inizio di una nuova ondata di persecuzioni antisemite era stato già delineato al congresso del Partito a Norimberga, nel settembre 1937, con un furioso attacco di Hitler al «bolscevismo ebreo» che si tradusse subito in una nuova ondata di violenze contro gli ebrei e, nel contesto delle crescenti difficoltà economiche incontrate dal Piano quadriennale, nella successiva sanzione della politica di «arianizzazione» (o esproprio forzato) dei beni di proprietà ebraica – tutti processi, questi, che ricevettero ulteriore impulso soprattutto dopo l’annessione dell’Austria e dei Sudeti. Il segnale d’attacco lanciato da Hitler con il discorso di settembre del 1937 diede nuovo slancio all’attivismo del Partito, che ebbe modo di esplicarsi già durante i mesi di tensione che caratterizzarono la primavera e l’estate del 1938 e durante i quali si verificarono rinnovate violenze contro gli ebrei e i loro beni – che risultarono ben più feroci, minacciose e diffuse di quanto non fossero state in occasione degli attacchi dell’estate 1935. L’apice di questa ondata montante di antisemitismo venne raggiunto con la famosa «Notte dei cristalli» (Reichskristallnacht), il terribile pogrom compiuto tra il 9 e il 10 novembre 1938. Ancora una volta, bastò che Hitler desse il proprio tacito consenso a Goebbels, il principale istigatore di quell’azione, perché l’odio accumulato del Partito e degli attivisti delle SA si scatenasse in un parossismo di violenza brutale: nel pogrom che infuriò su tutto il territorio nazionale vennero uccisi circa cento ebrei, bruciate sinagoghe e saccheggiate o distrutte innumerevoli proprietà ebraiche, mentre circa 30.000 ebrei maschi furono deportati nei cam189

pi di concentramento come ostaggi per favorire l’emigrazione all’estero dei loro correligionari. Conseguenza dell’operazione fu, per gli ebrei, la definitiva esclusione dalla vita economica e la loro segregazione ai margini della società: ma, soprattutto, avvenne che il controllo centralizzato della «questione ebraica» passò nelle mani delle SS e che Eichmann, forte dei suoi successi in Austria, fu incaricato di organizzare l’emigrazione ebraica sull’intero territorio del Reich. Con ciò si compì il passo decisivo dall’antisemitismo «istintivo» e dalla violenza pubblica dei pogrom – con le sue manifestazioni sgradite a molti tedeschi – agli assassini «razionalizzati» e sottratti alla conoscenza dell’opinione pubblica perpetrati nei campi di concentramento. Il ruolo diretto svolto da Hitler in questo drammatico inasprimento delle persecuzioni antisemite fu invero assai limitato. Né, del resto, c’era stato bisogno di un suo impegno maggiore: era bastato il suo tacito consenso perché i suoi sottoposti portassero a termine ciò che ritenevano suo «desiderio». Tale «desiderio» non corrispondeva soltanto alle convinzioni dei fanatici antisemiti pullulanti all’interno del movimento nazionalsocialista: collaborare alla sua realizzazione, infatti, offrì possibilità di promozione e di arricchimento personale e di autoesaltazione per molti che non erano certo paranoici nemici dell’ebraismo, ma che furono prontissimi a utilizzare a proprio vantaggio la politica antisemita del Regime. Grazie alla posizione centrale occupata dall’antisemitismo nel credo nazionalsocialista, praticamente qualsiasi azione poté essere giustificata con il pretesto che essa contribuiva a escludere gli ebrei dalla società tedesca, mentre l’«obiettivo finale» della liberazione della Germania dal «pericolo» ebraico servì a legittimare le iniziative politiche di diversi enti, ministeri e organizzazioni del Terzo Reich, in gara fra loro per realizzare quella che consideravano la volontà del Führer. In seguito, durante una delle sue «conversazioni a tavola», Hitler ammise che per molto tempo era stato costretto a lasciare in pace gli ebrei24 per non inasprire inutilmente i rapporti con la diplomazia internazionale. Questa stessa motivazione spiega come mai per tutto il 1938, quando ormai nei territori annessi al Reich il processo di radicalizzazione politica del Regime avanzava a grandi passi, il dittatore non fece quasi nessuna affermazione pubblica sulla «questione ebraica», astenendosi dal menzionare i fat190

ti della «Notte dei cristalli» persino durante un discorso confidenziale pronunciato davanti ai rappresentanti più illustri della stampa la mattina seguente al pogrom25. Nel suo discorso al Reichstag del 30 gennaio 1939, però, egli ritornò su questa materia usando un nuovo e spaventoso tono di minaccia e pronunciando la seguente profezia: «Se la finanza giudea internazionale, dentro e fuori l’Europa, riuscisse a precipitare le nazioni in un nuovo scontro mondiale, allora il risultato non sarebbe la bolscevizzazione della terra, e quindi la vittoria giudaica, ma lo sterminio totale della razza ebraica in Europa!»26. Discorsi propagandistici come questo ripetevano in tono più apocalittico la minaccia, fatta trasparire da Hitler in varie occasioni negli anni Trenta, di prendere in «ostaggio» gli ebrei nel caso in cui la Germania fosse stata costretta a un confronto armato; ma questa volta si intuiva che c’era qualcosa di più della semplice propaganda. Non a caso, Hitler e altri della sua cerchia più ristretta invocarono ripetutamente quelle precise parole in successivi discorsi (ma anche in occasioni più confidenziali) pronunciati proprio tra il 1941 e il 1942, quando cioè vennero gettate le basi della «soluzione finale». È peraltro significativo che Hitler facesse risalire quel discorso allo scoppio della guerra, al 1° settembre 1939, come se, nella sua mente, in qualche modo l’inizio del conflitto fosse sinonimo dello sterminio degli ebrei. Né lui né nessun altro sapeva ancora come questo dovesse avvenire; nessun dubbio, invece, che ciò sarebbe accaduto. Ma gli ebrei non furono le uniche vittime della crescente radicalizzazione ideologica che caratterizzò la fine degli anni Trenta. I secolari pregiudizi sociali, il desiderio della polizia di estendere la propria sfera di dominio individuando sempre nuovi «nemici del popolo» da perseguitare, e il feticcio dell’igiene e della salute sociale che spinse le autorità mediche e l’amministrazione sanitaria a soddisfare prontamente le richieste dei nuovi programmi nazisti di eugenetica e sterilizzazione, concorsero tutti insieme all’attuazione delle politiche radicali concepite dal Regime contro zingari, omosessuali, prostitute, «fannulloni», mendicanti, «emarginati», soggetti «antisociali», «renitenti al lavoro», criminali abituali e altri individui razzialmente «indesiderabili» ed «estranei alla comunità». Spinte e iniziative di innumerevoli organizzazioni o singoli individui, prese per le ragioni più disparate, fecero sì che, 191

nell’imminenza del conflitto, emergessero nuove possibilità per affrontare alcuni punti-chiave dell’ideologia nazionalsocialista – e in particolare quelli più vicini alla personale Weltanschauung hitleriana. La guerra offrì, poi, le opportunità e creò il contesto di progressivo imbarbarimento, sulla base dei quali quegli obiettivi ideologici poterono tradursi nella forma del genocidio vero e proprio. Durante l’occupazione polacca, il ricorso ai metodi più barbari venne autorizzato ancora una volta da Hitler in persona, che intimò ai vertici militari di «agire brutalmente» e senza pietà, onde assicurare con «la massima fermezza» i diritti tedeschi27. Lo scontro razziale in Polonia doveva svolgersi al di fuori di qualsiasi vincolo di legalità, tanto che dopo la vittoria Hitler confidò a Keitel che «tali metodi sarebbero incompatibili con i principi cui in altre occasioni aderiamo»28. Le obiezioni di alcuni ufficiali contro la barbarie inusitata dispiegata durante e dopo la campagna polacca furono liquidate da uno sprezzante Hitler come «infantili» lamentele di capi militari che pensavano di affrontare la guerra con «metodi da esercito della salvezza»29. Ma gran parte dei comandi militari, meno scrupolosi e coraggiosi, si adeguarono perfettamente alla severità draconiana con cui fu portata avanti la distruzione della nazione polacca e agli spietati metodi di «germanizzazione» impiegati a tal fine. Avuta carta bianca dal Führer sulle modalità di azione da tenere nei loro ambiti di potere, i capi nazisti dei territori da poco occupati scatenarono una crescente ondata di terrore. Le regioni occidentali della Polonia (insieme a una striscia di terra contigua alla Prussia orientale), ora annesse al Reich ma intenzionalmente escluse dai vincoli imposti dalle leggi penali tedesche, divennero aree di sperimentazione del «nuovo ordine» nazista. Hitler si limitò a chiedere ai suoi Gauleiter dell’Est di essere in grado di annunciare entro dieci anni la totale germanizzazione dei loro territori, lasciando completamente libera la scelta dei mezzi da utilizzare allo scopo30. I capi nazisti, per parte loro, poterono giustificare i crimini commessi appellandosi ai «compiti speciali» assegnati personalmente dal Führer, sebbene questi non fossero mai specificati nel dettaglio né tanto meno comunicati per iscritto. Il resto della Polonia – il Governatorato generale con a capo Hans Frank – divenne un luogo di raccolta delle «razze inferiori». 192

I reparti operativi speciali (Einsatzgruppen) del Servizio di sicurezza di Heydrich si misero al lavoro per annientare l’intellettualità polacca, mentre Himmler, investito del nuovo incarico di commissario del Reich per il Rafforzamento della razza tedesca, orchestrava la deportazione e il «trasferimento» di migliaia e migliaia di persone. Su ordine di Heydrich, gli ebrei furono isolati e rinchiusi nei ghetti, dove il rapido peggioramento delle condizioni di vita e l’esplosione di epidemie resero in breve tempo urgente la necessità di trovare una «soluzione finale» alla «questione ebraica», aggravatasi enormemente con la sottomissione al governo nazista di circa tre milioni di ebrei polacchi. Ma anche per i polacchi non ebrei l’occupazione nazista istituì un regno del terrore che non risparmiò quasi nessuna famiglia. Se nel Reich restava ancora in vita un nucleo di leggi formali, per quanto corrotte e distorte, in Polonia la «legge» fu fatta e disfatta a piacimento dai Gauleiter nazisti, dai capi regionali delle SS e dai vertici della polizia sotto il controllo delle stesse SS. Il mandato conferito da Hitler ai suoi sottoposti affinché agissero con la massima determinazione aveva dato il segnale d’avvio; dopo di che il lavoro sporco andò avanti senza che ci fosse bisogno di ulteriori interventi dall’alto. Determinato ad attaccare la Polonia, Hitler si era convinto che le democrazie occidentali non avrebbero dichiarato guerra per Danzica e il suo «corridoio». Tuttavia, il 3 settembre 1939 questo calcolo si rivelò errato, anche se di fatto le potenze occidentali non fecero nulla per impedire lo smembramento della Polonia (che tra l’altro, come già in altri casi, fu realizzato in modo estemporaneo, una volta portato a segno l’obiettivo della distruzione del nemico). Imbaldanzito dal rapido annientamento dell’esercito polacco e ossessionato dall’idea che il tempo giocasse a sfavore della Germania, sia militarmente che sul piano diplomatico (specialmente alla luce dei dubbi nutriti sulla durata del patto con la Russia), le insistenze di Hitler per sferrare un attacco a ovest subito dopo la conclusione della campagna polacca si fecero sempre più forti. Egli era convinto che questa mossa avrebbe portato alla distruzione finale degli oppositori occidentali della Germania, ma i suoi piani incontrarono l’opposizione dei comandi militari, preoccupati dei rischi connessi a una campagna condotta in pieno inverno. In effetti le condizioni meteorologiche sfavorevoli portarono 193

a una serie di rinvii, ma dopo i successi in Scandinavia, la fulminea campagna sul fronte occidentale colse di sorpresa il mondo intero, lasciando la Francia sconfitta, la Gran Bretagna isolata e un trionfante Hitler al culmine della popolarità e del potere. Solo cinque settimane dopo la firma dell’armistizio da parte della Francia, e mentre venivano attuate le prime misure per ridurre le dimensioni dell’esercito tedesco, in un incontro tenutosi a Berchtesgaden il 31 luglio 1940, Hitler ordinò ai suoi capi militari di preparare l’attacco contro la Russia per il maggio del 194131. L’obiettivo era la completa distruzione di quel Paese nel giro di cinque mesi: con ciò prese finalmente consistenza la prospettiva di quella resa dei conti con il bolscevismo che era rimasta sempre nelle intenzioni di Hitler, nonostante le incertezze sui mezzi da adoperare. Quando questo piano di attacco venne concepito, le considerazioni di tipo squisitamente ideologico giocarono un ruolo soltanto indiretto. La motivazione cruciale restò, invece, legata alla necessità di obbligare la Gran Bretagna a scendere a patti, in modo da lasciare la Germania padrona dell’Europa e libera di agire all’Est per la conquista del Lebensraum. Un’altra considerazione fondamentale fu la minacciosa espansione del potere sovietico nella regione baltica e, in particolare, nei Balcani, dove alcune recenti annessioni territoriali da parte russa stavano profilando una seria minaccia sui pozzi petroliferi rumeni, ritenuti essenziali per lo sforzo militare tedesco. La decisione di attaccare l’Unione Sovietica, quindi, non fu tanto una libera scelta dettata da ragioni ideologiche finalizzate a realizzare la «visione» del Mein Kampf, quanto piuttosto una necessità strategica ed economica. Ancora una volta, fu la dinamica stessa della guerra a definire i limiti entro cui si poté svolgere l’azione hitleriana. La grandiosità di una scommessa tesa a stabilire l’egemonia tedesca in Europa indirizzò lungo un percorso quasi obbligato le decisioni del dittatore, il quale non a caso, coerentemente con la sua personalità, giustificò ancora una volta le sue scelte (in questo caso l’attacco all’Unione Sovietica) enfatizzando l’impossibilità di un’azione alternativa o, per meglio dire, le conseguenze certamente negative dell’inazione32. Il fatto che ciò significava dichiarare guerra su due fronti – vecchio incubo della Germania – non sembrava suscitare nei vertici 194

nazisti particolari motivi di ansietà. La forte sottovalutazione delle capacità belliche sovietiche da parte dei comandi militari tedeschi creò un’atmosfera di crescente ottimismo, sconfinante a volte nella certezza assoluta del successo, convincendo tutti che la distruzione della Russia sarebbe stata compiuta in pochi mesi. La presunta vittoria contro l’Unione Sovietica, cui sarebbe seguìto un attacco contro le forze inglesi in Medio Oriente, avrebbe dato alla Germania, in un sol colpo, risorse economiche vitali, una Gran Bretagna completamente stremata e obbligata a capitolare o ad affrontare un’invasione, e un’America intimorita dalle nuove possibilità che la vittoria tedesca avrebbe schiuso alla penetrazione giapponese in Estremo Oriente, e perciò sempre meno incline a farsi coinvolgere nel conflitto. Sebbene le ossessioni ideologiche di Hitler, al momento di concepire l’attacco alla Russia, non avessero giocato un ruolo predominante, dopo aver preso la decisione e soprattutto dopo che il piano per l’invasione aveva iniziato a delinearsi più nei dettagli, nella primavera del 1941 l’impronta della filosofia razziale nazionalsocialista venne in piena luce. Lo stesso Hitler parlò del suo senso di liberazione psicologica non appena venne decisa la rottura del patto con l’Unione Sovietica, da lui considerato come un tradimento delle sue origini e delle sue convinzioni politiche33. Queste ultime, invece, si rivelarono a pieno di fronte alla realtà della guerra sul fronte orientale (guerra che aveva sempre saputo di dover combattere, anche se non poteva sapere in quali circostanze). Come liberato da anni di limitazioni imposte per ragioni tattiche al ricorso a quelle misure che riteneva necessarie per aver ragione dei suoi nemici, il dittatore annunciò ai suoi generali che, rispetto alla guerra sul fronte occidentale, questa sarebbe stata una guerra diversa, «di sterminio»34, e ordinò che tutti i commissari politici dell’Armata Rossa caduti prigionieri fossero fucilati senza esitazione35. L’esercito avrebbe collaborato in modo intensivo con i reparti operativi della SD, in conformità ai «compiti speciali» assegnati a Himmler36. La natura di questi compiti fu rivelata dalle istruzioni impartite da Heydrich ai capi degli Einsatzgruppen: essi prevedevano la liquidazione dei funzionari del Partito comunista sovietico, degli «ebrei al servizio del Partito o dello Stato» e di «altri elementi estremisti»37. L’assalto all’Unione Sovietica, indipendentemente dalle ragioni strategiche ed economi195

che che, in base alle considerazioni dei vertici nazisti, lo rendevano necessario, fu perciò concepito da Hitler nei termini di una crociata ideologica contro il «bolscevismo giudeo»: nella primavera del 1941, il «salto qualitativo»38 in direzione del genocidio era diventato un fatto compiuto. La decisione di cancellare ogni traccia della presenza ebraica nell’Europa occupata non era però ancora stata presa, e durante le prime vittoriose settimane della campagna di Russia, l’escalation delle violenze e delle uccisioni restò ancora compatibile con un «obiettivo finale» limitato a un’espansione territoriale «oltre gli Urali». Ma non c’è dubbio che anche questo obiettivo, qualora raggiunto, avrebbe fatto da sfondo a una forma di genocidio soltanto diversa da quella attuata in realtà. Il processo omicida era ormai irreversibile e prendeva continuamente slancio. Gli ordini di Heydrich lasciarono spazio alla libera interpretazione dei comandanti degli Einsatzgruppen, che in un primo momento uccisero per lo più soltanto maschi ebrei, ma in altri casi anche intere famiglie. Probabilmente ci si aspettava dei chiarimenti, che sembra siano giunti da parte di Himmler nell’agosto del 194139. In ogni caso, nelle settimane di fine agosto e di settembre, il rallentamento dell’avanzata militare e l’aumento dei prigionieri ebrei in mano ai tedeschi provocarono un rapido aumento delle uccisioni, che ora includevano generalmente, oltre ai maschi adulti, tutti gli ebrei, compresi donne e bambini. Persa ogni traccia di quei sentimenti umani provati ancora durante le prime atrocità commesse in Polonia, anche la Wehrmacht collaborò con gli squadroni della morte, macchiandosi essa stessa di non pochi crimini efferati40. Alla fine di luglio, Heydrich aveva cercato e ottenuto l’autorizzazione necessaria da parte di Göring (che già dal 1939 aveva ricevuto a sua volta l’incarico nominale di coordinare le misure risolutive della «questione ebraica») per preparare l’imminente «soluzione totale»41. Fino a metà settembre questa sembrò orientarsi verso un’opzione di tipo territoriale, attraverso la deportazione generale degli ebrei in una riserva a est e con la creazione di una specie di unico e gigantesco campo di concentramento. Tuttavia, sentendo a portata di mano la rapida vittoria sull’Unione Sovietica, Hitler, che pure fino a quel momento aveva vietato le deportazioni nelle zone di guerra, decise che dopo la fine della 196

5. La «soluzione finale»: il tristemente famoso «cancello della morte» all’ingresso nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. 197

campagna gli ebrei dovessero essere allontanati definitivamente dall’Europa e spinti ancora più a est, e si convinse perciò a ordinare la deportazione degli ebrei tedeschi42. Nelle circostanze del momento, l’ordine di deportazione equivaleva a un’autorizzazione allo sterminio. Dopo di ciò, i passi cruciali in direzione di una vera «soluzione finale» – ovvero la soppressione sistematica di tutti gli ebrei d’Europa – seguirono rapidamente uno dietro l’altro. A distanza di un mese incominciarono ad arrivare i primi ebrei tedeschi deportati nel ghetto di Lodz, dove le condizioni di vita erano già indescrivibili e dove già da alcuni mesi prima si era scelta come soluzione l’eliminazione graduale dei prigionieri43. In poco tempo seguì la deportazione in treno verso Riga, dove alla fine di novembre furono fucilati i primi ebrei tedeschi. Verso l’ottobre del 1941, il capo della polizia di Lublino, Odilo Globocnik, fu incaricato da Hitler di attuare quella che fu chiamata l’«Azione Reinhard», cioè lo sterminio indiscriminato degli ebrei polacchi. Poco dopo fu progettato, con il consenso di Globocnik, il campo di sterminio di Belzec, quindi quelli di Sobibor e Treblinka. Viktor Brack, vicecapo della Cancelleria del Führer e formato dall’esperienza dell’«azione eutanasia», fornì gli esperti incaricati di perfezionare l’uso del gas per le uccisioni di massa, nonché il personale, già precedentemente addestrato, necessario allo svolgimento di tutti i compiti connessi al funzionamento dei campi di sterminio. A ciò seguì la costruzione del campo di Birkenau, all’interno del complesso di Auschwitz, mentre in quegli stessi giorni un «commando speciale» di uomini di Himmler, guidati da Herbert Lange, dopo aver provveduto in Prussia orientale all’eliminazione dei malati di mente mediante l’uso di vagoni a gas, esaminata la regione della Warta per scegliere un luogo adatto all’installazione di un campo di sterminio per gli ebrei del ghetto di Lodz, si stabilì nei pressi di Chelmno, iniziando le sue macabre operazioni nei primi di dicembre del 1941. La «soluzione finale» aveva preso il via, anche se i problemi logistici a essa collegati sarebbero stati affrontati sistematicamente soltanto nella Conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942. Nell’estate del 1941, quindi, il corso inesorabile degli avvenimenti della campagna di Russia, le crescenti difficoltà pratiche risultanti dalla presenza di milioni di prigionieri ebrei, la volontà dei Gauleiter nazisti di liberarsi degli ebrei rimasti nei loro terri198

tori e le ambizioni organizzative delle SS, contribuirono tutti insieme ad accentuare le pressioni favorevoli a una «soluzione finale» della «questione ebraica». L’iniziativa partì da diversi settori, ma, dato il carattere monocratico e assolutistico dello Stato hitleriano, era impensabile che un’azione di tali dimensioni e gravità potesse essere intrapresa senza il consenso del Führer in persona. È innegabile che fu proprio Hitler, definito non a caso da Goebbels l’«inesausto protagonista e difensore di una soluzione radicale del problema ebraico»44, il vero ispiratore della «soluzione finale» – e ciò anche quando l’iniziativa diretta partì da altri. Gli «ordini» o i «desideri» del Führer vennero invocati costantemente e a ogni livello ogni volta che si trattava di far partire e portare a compimento l’eliminazione degli ebrei45, mentre per le decisioni cruciali si richiese l’assenso esplicito di Hitler. Al Führer, infatti, dovette far ricorso Himmler, verso la metà dell’agosto 1941, per dare l’ordine che estendeva a donne e bambini la pratica dell’eliminazione fisica degli ebrei sovietici46. E sempre Hitler, su sollecitazione di Goebbels e Heydrich, nell’agosto del 1941 dispose che tutti gli ebrei tedeschi portassero cucita sui vestiti la stella gialla47: un provvedimento che, fino ad allora, aveva evitato per ragioni di opportunità. Inoltre non c’è dubbio che a metà settembre fu lo stesso Hitler a prendere la decisione di deportare gli ebrei tedeschi a est, segnando così il loro destino. Anche se non ci è rimasta testimonianza scritta di una direttiva di Hitler sulla «soluzione finale» (e quasi certamente non ne fu mai data alcuna), è pressoché certo che l’ordine non scritto per l’eliminazione degli ebrei europei provenne da Hitler in persona – anche sotto la semplice forma di un mandato in bianco conferito a Himmler e Heydrich. Nella mente di Hitler la guerra e la «questione ebraica» erano state tutt’uno sin dall’inizio: egli aveva addossato agli ebrei la colpa della sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale e li aveva minacciati di estinzione totale nel caso di un nuovo conflitto. Dall’estate del 1941, la guerra e il destino degli ebrei divennero inseparabili, e ancora di più quando l’avanzata delle truppe tedesche in Russia iniziò a rallentare e quando i dubbi sulla possibilità di infliggere all’Unione Sovietica il colpo risolutivo si trasformarono nella certezza del fallimento, cedendo il posto alla prospettiva di una guerra lunga e impari, e lasciando Hitler in preda allo 199

6. La propaganda nazista, attraverso la rivista delle Forze Armate (3 marzo 1943), a distanza di un mese dalla notizia della capitolazione della VI Armata a Stalingrado, cerca di travestire con panni epici la disfatta tedesca. 200

sconforto e al pessimismo. Fu proprio in questo stato d’animo che egli autorizzò le misure necessarie per realizzare alla lettera la sua «profezia» del 1939: gli ebrei non sarebbero stati in grado di sconfiggere la Germania una seconda volta. Così, dopo che tra il settembre e l’ottobre del 1941 furono compiuti i passi decisivi in direzione dello sterminio totale degli ebrei, Hitler tornò nuovamente fiducioso e ottimista48. Ma anche se la decisione ultima del genocidio fu presa effettivamente da Hitler, la «soluzione finale» non può essere considerata una semplice questione personale tra il dittatore tedesco e gli ebrei. Si è già visto, infatti, come la radicalizzazione della politica antisemita negli anni Trenta si fosse sviluppata con un intervento diretto minimo da parte di Hitler e sotto gli occhi dell’intera società tedesca. Sebbene molti normali cittadini fossero tutt’altro che entusiasti di ciò che stava accadendo, non ci fu mai una vera opposizione a questa politica, e persino le istituzioni religiose badarono ai loro interessi e scelsero di restare silenziose, in quanto istituzioni, di fronte a tanto disumane atrocità. Obiezioni di carattere pragmatico furono sollevate dal mondo dell’industria e del commercio quando le relazioni commerciali con l’estero sembrarono messe in pericolo, ma furono presto zittite dal programma di impietoso sfruttamento e saccheggio delle proprietà ebraiche messo in atto dalle autorità naziste. Dal canto suo, l’apparato statale, dai responsabili dei principali dipartimenti governativi fino ai piccoli burocrati che organizzarono le tabelle di marcia dei treni per i deportati, lavorò con lena per trasformare la follia ideologica in regole burocratiche di discriminazione. E anche l’esercito, pur scontento di certi «eccessi» compiuti in Polonia, offrì la propria collaborazione nella guerra contro l’acerrimo nemico costituito dal «bolscevismo giudeo», mentre le SS misero a disposizione di Hitler l’organizzazione più dinamica del Terzo Reich, grazie ai suoi fondamenti etici basati sulla dottrina del dominio razziale e sulla convinzione dell’assoluta necessità di addivenire a una soluzione della «questione ebraica». Possiamo, quindi, concludere che il genocidio perpetrato nella Germania nazista fu tutt’altro che la decisione di un singolo uomo, ma piuttosto il prodotto dell’immediata disponibilità, da parte di ampi e vari settori della società tedesca, a «lavorare» per gli obiettivi visionari di un «capo carismatico» che, nel momento in cui emersero le condizioni 201

adatte all’attuazione della politica di sterminio, poté mettere a frutto la propria totale libertà da qualsiasi vincolo costituzionale o legale. Mentre nell’Est le fabbriche di morte lavoravano a pieno ritmo, la vittoria finale della Germania continuava ad allontanarsi: nel novembre del 1941, i consiglieri militari ed economici riferirono a Hitler che la guerra non poteva essere vinta, e lo stesso Hitler disse per la prima volta di non escludere che il popolo tedesco sarebbe perito nella lotta49. Ma quanto più le possibilità di vittoria diminuivano, tanto più Hitler insisteva nel suo gioco d’azzardo. La sete di potere prese sempre più il posto della strategia, l’irrazionalità ebbe la meglio sulla ragione. La frattura con i suoi generali divenne vera e propria rottura nella crisi dell’inverno 194142, e con il peggioramento della situazione, egli iniziò la caccia al capro espiatorio. Così vennero sollevati dall’incarico numerosi generali e Brauchitsch, capo delle forze armate, riuscì a far accettare le sue dimissioni, lasciando il suo posto a Hitler in persona, che conseguentemente, da quel momento in poi, dovette occuparsi anche degli aspetti più minuti dell’attività di comando. Nel pieno della crisi invernale, l’attacco del Giappone a Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, rappresentò per la Germania la migliore delle notizie possibili, visto che quest’ultima stava tentando sin dall’aprile precedente di coinvolgere il Giappone nella guerra, per poter tenere gli Stati Uniti fuori dell’arena europea50. A questo scopo, già prima di Pearl Harbor, Hitler si era dichiarato disposto a impegnare il suo Paese contro l’America in caso di aggressione giapponese, anche se non era stato firmato un accordo formale in tal senso. La mossa del Giappone offrì a Hitler ciò che aveva desiderato da mesi e, dunque, sembrava lecito aspettarsi che la Germania si astenesse da un intervento, accontentandosi di vedere le energie americane assorbite dal conflitto nel Pacifico – tanto più che, come si è detto, non esisteva un impegno formale per il coinvolgimento tedesco a fianco dei giapponesi. Tutto ciò che Hitler poteva augurarsi dal Giappone era adesso un accordo che impedisse una pace separata con l’America e invece, l’11 dicembre 1941, egli dichiarò guerra agli Stati Uniti, tentando, con uno dei suoi tipici salti in avanti, di assumere l’iniziativa in un conflitto con gli americani che a suo parere esisteva già di fatto e che da tempo era destinato a divenire palese. Questa volta, però, la 202

mossa era stata fatta da una posizione di debolezza e non di forza, ed era sicuramente la decisione strategica meno razionale di tutte quelle che si potessero prendere: dopo tanti anni di vittorie, ora Hitler cominciava chiaramente a giocare da perdente. Per un po’ di tempo, nel 1942, i successi militari tedeschi in Russia e nel Nord-Africa servirono a nascondere le difficoltà, ma già nel 1942 un’analisi interna del Comando supremo delle forze armate rivelò che, a metà di quell’anno, la Wehrmacht risultava più debole rispetto all’anno precedente51. Allo stesso tempo, l’economia di guerra tedesca si trovò sottoposta a una pressione insopportabile, ma, pur con le spalle al muro, sotto la guida di Speer seppe mostrare forti capacità di recupero tra il 1942 e il 1944, anche se non poté mai sperare di competere con la potenza economica globale degli Alleati. La svolta delle sorti tedesche era ormai prossima, e infatti essa venne dal fronte militare, con le sconfitte di El Alamein e, soprattutto, con l’enorme sacrificio di vite umane imposto alla VI Armata della Wehrmacht a Stalingrado, dove morirono quasi 250.000 soldati in una terribile battaglia durata due mesi e conclusasi il 2 febbraio 1943 con la resa finale e la cattura da parte dei russi dei 91.000 tedeschi sopravvissuti. La sconfitta di Stalingrado rappresentò, non solo vista a posteriori, l’inizio della fine del potere di Hitler: la sua responsabilità personale nella disfatta fu riconosciuta da molti e le critiche montanti contro il Regime non si arrestarono più neanche davanti alla persona del Führer. Nel Paese cominciarono a formarsi gruppi di opposizione clandestini e il potere del dittatore iniziò a vacillare. La sua resistenza restava comunque strenua: solo un colpo di Stato o una completa sconfitta militare avrebbero potuto piegarla.

VII

Delirio di potere

Nella mitologia greca, la divinità che impersonifica la hybris sfida gli dei scatenando la furia della nemesis, dea della giusta punizione e vendicatrice dell’arroganza e dei crimini più tremendi. Questa metafora può essere applicata a pennello alla fase calante del potere di Hitler. Prima del 1941 l’esaltazione di Hitler e del suo potere si era accompagnata a una sequela mozzafiato di trionfi. Divenuto padrone del mondo, egli poté scatenare tutto il suo disprezzo verso le poche e deboli forze che gli si opponevano, ma tutte le sue conquiste non riuscirono a dargli la vittoria finale. Dopo il fallimento della guerra-lampo in Unione Sovietica e l’entrata in guerra degli Stati Uniti, la sottile linea di confine che separava la vittoria dalla sconfitta inesorabile venne superata senza possibilità di ritorno: la scommessa megalomane della conquista del potere mondiale era ormai condannata al fallimento. Dopo il 1941, Hitler dovette fronteggiare soltanto avversità e calamità, con i suoi continui mutamenti d’umore che testimoniavano, da una parte, l’inestinguibile quanto sempre più irrazionale ottimismo sul trionfo finale della sua volontà e sull’aiuto della «Provvidenza», dall’altra l’incalzare del senso di depressione e rassegnazione provato di fronte all’impossibilità della vittoria o all’inevitabilità della sconfitta, e i conseguenti accessi d’ira contro tutto e tutti – tranne che, naturalmente, contro se stesso. Il potere hitleriano di questi ultimi anni appare una sorta di paradosso. Fino a che i segni della dissoluzione non si resero palesi negli ultimi mesi del suo governo, quel potere rimase pressoché intatto, nel senso che i suoi ordini sempre furono eseguiti e mai disattesi, e nel senso che egli continuò a rappresentare l’istanza legittimante di tutte le forme di autorità presenti nel Terzo Reich. 204

Ma allo stesso tempo appare chiaro che, di fronte alle avversità che continuarono ad abbattersi su di lui, Hitler aveva perso il potere di determinare il corso e il carattere degli eventi: l’iniziativa non era più nelle sue mani, ma in quelle dei suoi nemici. L’impossibilità di cambiare le sorti del conflitto trovò riflesso in un’irrazionalità sempre più selvaggia, che esercitò un impatto catastrofico sulla struttura e sulla condotta del governo, mentre l’incapacità di concludere la guerra con la vittoria o con una pace ragionevole si trasformò non solo in una pulsione autodistruttiva nei confronti della sua stessa vita, ma anche in un verdetto di distruzione e condanna per il suo popolo che, ai suoi occhi, lo aveva tradito. Tutto ciò fu il logico risultato del suo delirio di potere. Con il secondo inverno della campagna in Russia, l’incessante pressione della guerra cominciò a far sentire i suoi effetti anche sulla salute del dittatore: a partire dal 1943, infatti, egli si ammalò più volte e, nell’autunno del 1944 e di nuovo nell’aprile del 1945, anche seriamente. Hitler manifestò i primi sintomi di un acuto esaurimento nervoso alla fine del 1942 e agli inizi del 1943, durante i mesi che seguirono il duro confronto con i suoi generali a proposito della strategia da seguire nel Caucaso, catastrofe di Stalingrado compresa. In questo periodo, Hitler mangiava preferibilmente da solo e lasciava i suoi alloggi il meno possibile; inoltre dormiva male, il suo unico momento di relax era rappresentato da una breve passeggiata in compagnia del suo cane, e aveva smesso perfino di ascoltare Wagner. Il suo umore era profondamente depresso e trovava sollievo solo nei violenti scatti di rabbia incontrollata diretti soprattutto contro i generali, i suoi capri espiatori preferiti. Il distacco di Hitler dalla realtà si accentuò progressivamente negli ultimi anni di guerra. L’isolamento autoimposto nel suo remoto quartier generale della Prussia orientale (e per un breve periodo, tra il 1942 e il 1943, a Winniza, in Ucraina) ingigantì la sua tendenza a chiudere gli occhi sulle realtà più spiacevoli e a rivolgersi a un mondo illusorio in cui la sua «volontà», alla fine, trionfava. Egli non visitò più il fronte e fece la sua ultima visita in un quartier generale operativo nel settembre del 1943, dopo di che condusse la guerra esclusivamente dalla stanza del suo bunker dove erano raccolte tutte le mappe militari. Anche i suoi viaggi in Germania si fecero più rari, nel tentativo di sottrarsi a un’opinio205

ne pubblica cui, ormai, non poteva più annunciare successi. Inoltre Hitler non visitò mai una città bombardata, rimanendo più scosso dalla distruzione di edifici pubblici piuttosto che dalle sofferenze umane. Divenuto inaccessibile per chiunque, tranne che per qualche capo nazista a lui più vicino, ebbe contatti soltanto con i suoi segretari, aiutanti e medici personali, e con l’onnipresente Bormann, intrattenendosi con loro fino a tarda notte in interminabili monologhi nei quali illustrava futuri piani architettonici da realizzare in una presunta utopia postbellica o rievocava la sua vita passata e le «battaglie» dei tempi andati. Nei rapporti umani si mostrò prevalentemente freddo e distaccato, ma che non restasse indifferente dinanzi al suo crescente isolamento lo dimostra un’osservazione fatta ad Albert Speer, in cui si dichiarava convinto che presto i suoi unici amici sarebbero stati la «signorina Braun» e il suo cane1. L’impressione che ne riportò Speer fu quella di un uomo sul punto di crollare. E infatti negli ultimi anni di guerra Hitler ebbe anche un tracollo fisico: la sua pronunciata tendenza all’ipocondria fu incoraggiata ulteriormente dal suo medico ciarlatano, Morell, che dall’inizio del conflitto gli prescrisse non meno di novanta diverse medicine e iniezioni2. È assai dubbio che i ventotto diversi tipi di pillole assunte quotidianamente, insieme a ormoni e altre iniezioni, gli abbiano fatto bene, ma in ogni caso, una vita poco salutare e sottoposta a continuo stress, l’insonnia, la povertà della dieta, la mancanza di esercizio fisico e la totale assenza di riposo produssero un’inevitabile accelerazione del processo di invecchiamento. Nel 1943 Göring notò che Hitler sembrava invecchiato di quindici anni dall’inizio della guerra3, e probabilmente il tremore al braccio sinistro, le vertigini e i disturbi dell’equilibrio che lo assalivano di frequente non erano altro che i sintomi del morbo di Parkinson, anche se non ci sono prove che lo confermino con assoluta certezza. Il declino fisico si accentuò dopo l’attentato del luglio 19444. Un elettrocardiogramma fatto a settembre confermò la rapida avanzata dell’arteriosclerosi che gli era stata diagnosticata nella primavera del 1943, mentre verso la fine del mese subentrò anche un ittero. Negli stessi mesi riapparvero più forti che mai i tremori agli arti, dopo la loro scomparsa conseguente allo choc procuratogli dall’esplosione nel quartier generale della «Tana del lupo». 206

I crampi allo stomaco, gli spasmi intestinali e i mal di testa divennero cronici e il senso di vertigine e malessere poteva durare spesso per ore. Per tutta risposta, il dottor Morell considerò l’accumularsi dei problemi di salute nel settembre 1944 come una lieve forma di collasso, dovuta a una reazione ritardata all’attentato di luglio5. Negli ultimi mesi di guerra, il fisico di Hitler, che pure aveva soltanto poco più di cinquant’anni, appariva quello di un anziano: i capelli erano diventati grigi, la testa e la mani gli tremavano visibilmente, riusciva a stento a salire qualche scalino, camminava curvo e con un passo incerto, aveva gli occhi sempre arrossati e a volte perdeva saliva dalla bocca6. In quest’ultimo capitolo cercheremo di spiegare come e per quali motivi poté continuare a esercitare il suo potere quest’uomo mentalmente instabile e fisicamente decrepito che dirigeva le sorti della Germania rinchiuso nel suo quartier generale a metà strada tra un monastero e un campo di concentramento, così come lo ha descritto Jodl7. Una breve riflessione su vari aspetti della politica nazista dimostra, infatti, che la sua autorità rimase assoluta e indiscussa, e rivela allo stesso tempo la totale insensatezza e mancanza di prospettive – oltre che le capacità di distruzione – derivanti dall’esercizio sempre più arbitrario di un potere personale giunto alla fase del delirio parossistico. Dato il forte grado di frammentazione delle strutture di governo del Terzo Reich, le più alte sfere decisionali restarono collegate solo attraverso la persona di Hitler, che discuteva le diverse questioni politiche con singoli individui (ad esempio Himmler, nel caso della politica razziale nei territori occupati, oppure Bormann e Lammers per gli affari interni) o con diversi staff di esperti del settore militare e degli armamenti (riguardo alla produzione bellica e alle strategie di guerra). Si può dire, però, che già verso il periodo coincidente con la sconfitta di Stalingrado, Hitler fosse divenuto da tempo un «cancelliere part-time»8, tanto che agli inizi del 1943 Goebbels parlò in diverse occasioni di «una mancanza di direzione nella politica interna ed estera», di «una completa assenza di direzione della politica interna tedesca» e di una «crisi di comando»9; spingendosi, in privato, a lamentare perfino una vera e propria «crisi del Führer» stesso10, e chiedendosi, senza riuscire a darsi una spiegazio207

1. La bomba volante V1, la prima «arma miracolosa» sbandierata dalla propaganda nazista.

2. Un missile V2 viene preparato per il lancio sulla Gran Bretagna. 208

ne, perché Hitler avesse abbandonato il campo vitale della «politica» a favore del comando militare, da lui ritenuto invece di importanza assolutamente secondaria. Queste considerazioni di Goebbels nacquero nel contesto della sua esclusione dall’ultimo tentativo di formare un governo collegiale messo in atto dalla Cancelleria del Reich. Allora, infatti, fu creato un «Comitato dei tre», comprendente Lammers, Keitel e Bormann – ribattezzati sarcasticamente da Göring «i tre re magi»11 – che si riunì undici volte tra il gennaio e l’agosto del 1943. Göring, Goebbels, Speer e altri importanti leader rimasti esclusi passarono i mesi seguenti a tramare contro questo triumvirato: l’idea era di eliminare l’influenza di Bormann su Hitler, ristabilendo i poteri di Göring come capo del defunto Consiglio per la difesa del Reich. Ma la macchinazione fallì, in parte per lo scarso ascendente esercitato da Göring su Hitler dopo il fallimento della Luftwaffe nel contrastare i bombardamenti alleati, e in parte per le rivalità personali tra coloro che erano implicati nel complotto. Questi, però, non dovettero preoccuparsi molto del pericolo rappresentato dal nuovo organismo, dato che, com’era lecito attendersi, il caos amministrativo del Terzo Reich mise il «Comitato dei tre» in condizioni di non operare. Esso, infatti, si scontrò molto presto con gli interessi dei vari blocchi di potere e dei piccoli feudi contrari all’azione di un’amministrazione centrale, unificata e razionalizzata, oltre a doversi confrontare con gli interventi sporadici e arbitrari di Hitler, che spesso bloccò «per ragioni politiche» le misure amministrative adottate dal triumvirato – dalla chiamata obbligatoria al lavoro delle donne sopra i quarantacinque anni, alla fusione di uffici governativi locali, fino al permesso di mantenere le corse dei cavalli e i botteghini per le scommesse. La discussione sul divieto per le corse dei cavalli durante la «guerra totale» chiarisce la natura caotica dei meccanismi decisionali sulle questioni di politica interna12, ma dimostra anche come la legittimazione derivante dall’autorità di Hitler fosse ancora necessaria e quanto, allo stesso tempo, fosse limitata la sua capacità di prendere decisioni chiare e univoche. Ad accendere il contenzioso era stato Goebbels, il quale ai tempi della disfatta di Stalingrado si era fatto particolarmente sensibile ai temi della moralità pubblica e che, perciò, sollecitò da 209

Hitler una direttiva per vietare le scommesse sulle corse dei cavalli – in particolare dopo avere saputo che gli operai di una fabbrica di carri armati di Berlino avevano protestato contro le corse che si tenevano proprio accanto alla fabbrica, mentre loro di domenica dovevano lavorare. Con un telegramma al ministero della Propaganda Hitler comunicò il suo disaccordo: i divertimenti scarseggiavano e le corse erano uno tra gli svaghi preferiti dagli operai di quella fabbrica. Tuttavia, al ritorno da una visita al quartier generale del Führer, Goebbels riferì alla Cancelleria del Reich che Hitler si era schierato contro la continuazione delle corse, in piena contraddizione con il suo telegramma precedente. In seguito ad altre frenetiche consultazioni, nelle quali venne coinvolto ancora lo stesso Hitler, le corse di cavalli furono permesse, ma solo entro un certo numero, mentre i botteghini per le scommesse furono vietati. Allo stesso tempo fu dato potere ai commissari per la difesa del Reich (tutti Gauleiter della NSDAP) di bandire anche altri tipi di corse, qualora ragioni di moralità l’avessero reso necessario. Tuttavia, diversi capi regionali trovarono motivi pressanti per escludere dal divieto le località sotto il loro controllo. A Monaco, per esempio, nacque una diatriba fra il Gauleiter Paul Giesler e Christian Weber, una vecchia conoscenza di Hitler dai tempi di Monaco, un ex buttafuori di birreria, divenuto nel frattempo presidente della Federazione economica dei proprietari tedeschi di scuderie da corsa: lo scontro riguardava la possibilità di tenere gare a Riem, nella periferia di Monaco, e quando entrambi si lamentarono del fatto presso Hitler, il suo giudizio salomonico fu che le corse dovevano essere sospese a Riem in considerazione del consumo di benzina per il trasporto degli spettatori al campo di gara, e spostarsi, invece, alla Theresienwiese, nel centro della città. Subito dopo, però, Hitler, avendo letto nei giornali la pubblicità per le corse di cavalli a Berlino, riferì a Bormann che Monaco non doveva essere penalizzata rispetto alla capitale del Reich, per cui ordinò prontamente di riaprire le corse a Riem. Bormann, Lammers, Goebbels e vari Gauleiter continuarono a discutere sulle corse di cavalli nei mesi in cui si decidevano effettivamente le sorti della guerra, e infine Lammers e Bormann stabilirono, in accordo con «l’espressa volontà del Führer», che fossero autorizzate di nuovo sia le gare che le scommesse, ma che i commissari per la difesa del Reich potessero vietarle se lo avessero ritenuto opportuno. 210

Questa farsa, dunque, andò avanti per circa cinque mesi prima di concludersi, e Hitler era stato chiamato in causa diverse volte, perché tutti ritenevano indispensabile ottenere una «decisione del Führer». Ma tali «decisioni», come si è potuto constatare dall’esempio citato, furono arbitrarie, poco coerenti e fortemente influenzate dal modo in cui la questione venne presentata e da chi la presentò: la conclusione, in questo caso, fu che il governo centrale prese atto di non poter emanare norme specifiche e che il potere decisionale spettava ai Gauleiter. Il «Comitato dei tre» cercò sempre di «lavorare per il Führer» e non contemplò in alcun momento la possibilità di una decisione che avrebbe potuto discostarsi dai desideri espressi da Hitler; eppure il fallimento del Comitato fu la dimostrazione finale dell’incompatibilità del potere arbitrario e non sistematico del Führer con qualsiasi sistema di amministrazione razionale. Il culmine del processo di frammentazione e disintegrazione delle strutture di governo fu raggiunto negli ultimi due anni di vita del Terzo Reich. Sebbene nel marzo del 1945 Bormann stesse progettando di centralizzare ulteriormente il controllo di Partito (e, quindi, la sua personale base di potere), mettendosi a capo della Cancelleria del Führer e della Direzione organizzativa della NSDAP, prima sotto il comando di Ley13, questa mossa non diede alcun contributo in direzione di un maggior coordinamento delle strutture di governo, perché ormai esisteva di fatto un’enorme sproporzione tra l’insieme delle diverse direttive date da Bormann e le loro possibilità di applicazione, stanti i continui bombardamenti di palazzi, gli incendi di archivi e registri e la progressiva distruzione delle reti di comunicazione. Tuttavia Hitler difese fino alla fine il suo ruolo di ultima istanza decisionale: ad esempio, Goebbels, in qualità di plenipotenziario per la Mobilitazione bellica totale, aveva il potere di emanare direttive ma non decreti vincolanti, mentre Hitler conservò il diritto di ultima parola nei casi in cui le direttive di Goebbels avessero incontrato obiezioni14. Grazie alla sua scaltrezza, il ministro della Propaganda seppe quasi sempre come far leva sui pregiudizi di Hitler e guadagnarsi, così, la sua approvazione, ma quando si scontrava con delle critiche – spesso su questioni secondarie cadute sotto gli occhi di Hitler – cedeva senza colpo ferire15. L’autorità del Führer restò, quindi, indiscussa e il suo consen211

so continuò a rappresentare un prerequisito necessario per ogni azione. Per i capi nazisti l’insubordinazione o la slealtà erano qualcosa d’inconcepibile16, ma non c’è dubbio che mai come allora l’esercizio del potere da parte di Hitler si mostrò privo di coerenza e razionalità: esso derivava ormai da reazioni impulsive e spasmodiche, piuttosto che essere frutto di chiarezza di vedute, di coerenza e di spirito costruttivo. Tutto ciò va attribuito all’irrazionalità insita nella struttura del potere nazionalsocialista. La disintegrazione di tutte le istanze intermedie di autorità e la conservazione del diritto di decisione finale del Führer, elemento indispensabile per la tutela del suo prestigio, avevano portato a un grado smisurato di accentramento del potere e a un livello di personalizzazione dell’autorità decisionale incompatibili con qualsiasi forma razionale di governo e di amministrazione. La responsabilità finale per le più varie e anche più insignificanti decisioni politiche continuò a spettare al Führer, ma allo stesso tempo era nota la sua incapacità di prendere decisioni o di cercare un compromesso sulle questioni più complesse o delicate17. E come se non bastasse, egli divenne sempre più riluttante a delegare ad altri tali responsabilità e autorità. Fino a quando erano durati i trionfi diplomatici e militari, la sua naturale indolenza non aveva intralciato la «geniale» direzione delle grandi questioni strategiche, ma ora, in presenza di una guerra totale e con un carico di lavoro tutto volutamente concentrato nelle proprie mani e appesantito dalla routine estenuante connessa alla direzione degli affari civili e militari, le capacità di Hitler erano giunte al limite. Nessun individuo, e il dittatore nazista meno che mai, poteva disporre delle risorse intellettive, della competenza e dell’energia indispensabili per fronteggiare simili responsabilità decisionali. La mancanza di direzione negli affari interni, di cui si lamentava Goebbels, fu un’altra conseguenza del rifiuto e dell’incapacità da parte di Hitler di creare strumenti sistematici di controllo politico, di stabilire chiare priorità e di delegare parte del suo potere. Così, solo il profilarsi di una minaccia nel fronte interno – ovvero l’incubo ricorrente di un altro «1918» – riuscì a scuotere Hitler e a spingerlo a un’azione decisiva seppur ritardata, così come ci volle la caduta di Mussolini per indurlo a mettere Himmler a capo del ministero dell’Interno al posto di Frick, rimasto lì per 212

anni nonostante la sua manifesta incapacità. E ancora, solo dopo l’attentato dinamitardo del luglio 1944, egli si decise infine a concedere a Goebbels pieni poteri (anche se, come si è già visto, meno ampi di quanto il titolo di «plenipotenziario» suggerisse) per la mobilitazione bellica totale. Ma ormai l’incalzare degli eventi esterni aveva ridotto quasi a zero gli spazi di manovra sul fronte interno, sicché la «politica» nazista trovò modo di esprimersi una volta di più soltanto nella propaganda e nel terrore. L’unica cosa che contava e che restava, ora, non era altro che un surrogato della politica: mobilitare le masse per continuare a combattere e resistere, e reprimere qualsiasi forza si opponesse al conseguimento di tale obiettivo. La sfera decisionale più importante negli ultimi anni di guerra fu quella attinente la produzione di armamenti, alla quale peraltro Hitler si interessò particolarmente e più direttamente, impegnando in essa tutte le proprie energie – il che dà un’idea abbastanza chiara della natura del suo potere. In seguito alla morte improvvisa, nel gennaio del 1942, di Fritz Todt, responsabile principale dell’edilizia statale dai primi anni dello stesso Terzo Reich, Albert Speer – l’architetto «di corte» molto caro a Hitler – si trovò improvvisamente, e senza essere stato consultato, a ricoprire tutti gli incarichi svolti prima da Todt, incluso quello al ministero per le Armi e Munizioni. Quando Speer protestò la sua totale ignoranza in materia di produzione bellica, Hitler stroncò le sue obiezioni affermando che egli confidava pienamente nel suo successo e che in ogni caso non aveva nessun altro da proporre, e quindi gli conferì tutti i poteri necessari, per quanto, come sempre, vaghi e imprecisi, bloccando allo stesso tempo sul nascere il tentativo di Göring di infiltrarsi nei domìni del nuovo ministro18. La scelta di Speer si rivelò giusta: ambizioso, abile e dinamico, questi rivoluzionò l’apparato inefficiente e iperburocratizzato preposto alla produzione bellica, che nel 1941 non aveva ancora raggiunto i livelli della prima guerra mondiale19. L’entusiasmo di Hitler per il nuovo ministro fu tale che il dittatore arrivò a dirgli: «Speer, firmerò qualsiasi cosa provenga da lei»20, anche se negli anni a seguire i poteri da lui ottenuti si dimostrarono comunque meno ampi di quanto apparisse a prima vista. Nella giungla del Terzo Reich, Speer dovette usare tutte le sue capacità di movi213

mento e di manovra per riuscire a farsi strada, superando in particolare gli intralci frappostigli da Fritz Sauckel, plenipotenziario per la Mobilitazione della manodopera – i cui poteri erano in conflitto con i suoi –, nonché gli intrighi di alcuni suoi stretti collaboratori, come Xavier Dorsch, capo dell’Ufficio centrale della ex organizzazione Todt, e Karl Otto Saur, capo dell’ufficio tecnico del ministero di Speer. Questi ultimi due, che godevano della piena fiducia di Hitler, rivolgendosi più volte direttamente a lui all’insaputa di Speer, tramarono incessantemente contro il ministro fino a che questi, nel 1945, fu sostituito dall’intraprendente Saur, imparando così a sue spese quanto gli interventi arbitrari, impulsivi e dilettanteschi di Hitler potessero sabotare qualsiasi tentativo di razionalizzazione nella politica per gli armamenti. Autodidatta, come in altri campi, per ciò che riguardava gli aspetti tecnici della produzione bellica, Hitler aveva però una buona conoscenza e una straordinaria memoria per tutti i dettagli e le minuzie a essa attinenti. Egli poté, quindi, prendere parte attiva nelle consultazioni sulla produzione degli armamenti, presenziandovi con animo molto più tranquillo di quanto non accadesse in occasione delle riunioni con i generali responsabili della conduzione della guerra. Tuttavia, nonostante la sua padronanza dei dettagli, la sua comprensione della materia era tutt’altro che sofisticata o ampia: per molti aspetti, la sua concezione degli armamenti derivava dalle scoperte tecnologiche risalenti alla prima guerra mondiale e agli anni Venti, ed era perciò sostanzialmente inadeguata ad affrontare i sofisticati problemi scientifici e tecnologici connessi ai sistemi d’arma più moderni21. Hitler si occupò attivamente e regolarmente delle decisioni, quasi quotidiane, relative al settore della produzione bellica. Tra il 1942 e il 1945, i protocolli dei vertici sugli armamenti tenuti con Speer e il suo staff registrarono circa 2.500 «decisioni del Führer»22. Tali decisioni, valutate per lo più sulla base dei dati e dei pareri tecnici forniti dalle principali aziende produttrici, venivano prese normalmente durante o subito dopo i rapporti verbali di Speer e dei suoi esperti, anche se a volte conobbero modifiche nel corso di consultazioni che si potevano protrarre anche per diversi giorni. Le deliberazioni registrate durante gli incontri erano in ogni caso ricontrollate da Speer e dai suoi colleghi e trasformate, 214

quindi, in direttive – spesso e volentieri rafforzate da formule come «il Führer ha deciso...» oppure «a giudizio del Führer...»23. Speer sapeva bene come presentare i suoi suggerimenti all’approvazione di Hitler, che comunque restava imprescindibile se si voleva avere la certezza della loro esecuzione da parte delle istanze competenti. Con il consenso di Hitler, Speer poté impartire direttive ad altri ministri e alle forze armate, trasformando velocemente le sue richieste, così come la volontà del Führer, in una sequela di ordini e decreti provenienti dal ministero di sua competenza. Inizialmente Speer cercò di sfruttare i suoi stretti legami con Hitler per ottenere la rapida autorizzazione dei suoi decreti e per strappare un cenno di assenso alle proposte avanzate nelle riunioni in materia di armamenti. Appellandosi all’autorità del Führer, inoltre, egli riuscì a mobilitare alcune importanti riserve d’energia ancora presenti nel sistema24, ma via via che le sorti del conflitto precipitavano e che si intensificavano le disperate invocazioni di Hitler per un «miracolo» risolutivo, Speer dovette sempre più fare i conti con gli interventi del tutto imprevedibili, arbitrari e dogmatici del Führer, che tra l’altro, con l’aggravarsi della situazione militare tedesca, si faceva sempre più sordo a qualsiasi critica o suggerimento. La tendenza di Hitler a semplificare tutto e a ridurre le difficoltà a questioni di volontà, i suoi errori strategici, la sua propensione istintiva per i sistemi d’arma destinati all’offensiva piuttosto che alla difesa, accentuarono la sua preferenza per la produzione quantitativa piuttosto che per l’efficacia degli armamenti25, mentre i frequenti auto-inganni sullo stato reale delle cose – a volte derivanti da informazioni errate fornite da Speer, anch’egli non sempre bene informato26 – limitarono, spesso con effetti dannosi, la capacità di direzione della politica degli armamenti. Causa di gravi errori nella progettazione e nella produzione di armi furono anche le continue e maligne insinuazioni dei rivali di Speer, che seppero fare abilmente leva sui ben noti pregiudizi di Hitler, nonché l’alta considerazione che questi attribuiva alle proprie conoscenze e capacità e la sua ricorrente enfatizzazione dell’esperienza acquisita al fronte nella prima guerra mondiale. Uno degli errori più macroscopici fu la scelta di privilegiare la produzione di un tipo di carro armato pesante, lento e inadatto a 215

fronteggiare i più agili carri armati sovietici. Per scontrarsi con i T34 sovietici, Hitler ritenne maggiormente utile un’armatura più massiccia e non una maggiore velocità: la conseguenza finale fu che il Tiger tedesco passò da un peso di 50 tonnellate a ben 75, mentre il nuovo e più leggero Panther aumentò da 30 a 48 tonnellate. Cercando di sfruttare a vantaggio della propria azienda le preferenze di Hitler, anche Ferdinand Porsche – oggi sinonimo di auto leggere e veloci – si impegnò a produrre carri armati lenti e pesanti, sfornando così il Maus, un mostro del peso di 100 tonnellate, seguito da prototipi ancora più grandi che si rivelarono del tutto inutilizzabili27. Tuttavia, non furono queste folli direttive di Hitler a far perdere la guerra alla Germania; infatti la maggior parte dei carri armati prodotti rimase di peso più ridotto, come lo Hetzer, che nel 1944, con le sue sole 16 tonnellate28, si rivelò il modello più efficace a disposizione dell’esercito tedesco. Resta però il fatto che le direttive hitleriane produssero una dannosa moltiplicazione di progetti in contrasto fra loro, invece di favorire una concentrazione razionale della produzione. Danni più seri allo sforzo bellico tedesco furono apportati dalla riluttanza di Hitler a ordinare la produzione dei caccia a reazione Me26229. Questi avrebbero potuto rappresentare l’arma di difesa più efficace a disposizione dei tedeschi contro la crescente superiorità aerea degli Alleati: con una velocità che raggiungeva gli 800 km orari, i Me262 potevano superare qualsiasi altro modello esistente. La loro costruzione fu commissionata nel maggio del 1943, ma già a settembre Hitler aveva ritirato la priorità data a questo ordine, forse in considerazione delle controindicazioni riguardo agli alti consumi di carburante necessari al funzionamento del velivolo30. Improvvisamente, nel gennaio del 1944, Hitler ripristinò la priorità assoluta per questo progetto, dopo aver letto sulla stampa degli esperimenti compiuti dagli inglesi su aviogetti dello stesso tipo; ma con la sua caratteristica propensione per le armi offensive piuttosto che difensive, e sviato, almeno così sembra, dai suggerimenti del progettista, Willy Messerschmitt31, insistette per il loro utilizzo come bombardieri. Quando, nell’estate del 1944, i tentativi di fargli cambiare idea si fecero più pressanti, egli decise all’improvviso di non discutere più il problema, per poi ordinare sorprendentemente, nel marzo 1945, il riarmo dei Me262 come caccia a 216

reazione32. Ma ormai, non c’era più carburante e, in ogni caso, la guerra si era praticamente conclusa. Un altro grave errore nel campo della produzione bellica derivò dall’insistenza con cui Hitler, per ragioni propagandistiche e di prestigio, premette per la produzione e l’impiego delle bombe volanti V1 e dei missili V2, favorendo in modo totalmente errato un tipo di arma offensivo, piuttosto che i missili di difesa terraaria, che invece avrebbero potuto contrastare efficacemente i bombardamenti alleati. Dopo essere stato persuaso da Speer, nell’ottobre del 1942, delle potenzialità dei missili a lungo raggio e dopo gli esperimenti positivi condotti a Peenemünde agli inizi di quello stesso anno, Hitler, come era solito fare, ordinò impulsivamente la loro produzione su larga scala, il che, data la scarsità di carburante in Germania, si rivelò difficilmente compatibile con altre esigenze più urgenti. Come se ciò non bastasse, qualche mese dopo egli assegnò a questo progetto la stessa priorità data alla produzione dei carri armati33. Ma anche se fosse stato possibile utilizzare contro gli inglesi i 5.000 missili (ovvero il frutto di più di cinque mesi di produzione) che Hitler avrebbe voluto lanciare simultaneamente, la loro potenza esplosiva sarebbe stata comunque inferiore di oltre la metà rispetto a quella sviluppata da un bombardamento congiunto anglo-americano34. Insomma, fu impiegato uno sforzo enorme in termini energetici e di spesa – sottratta a progetti più utili – per realizzare un’arma che, utilizzata contro l’Inghilterra nel settembre 1944, non con il lancio simultaneo di 5.000 ordigni, ma solo per 25 volte distribuite lungo l’arco di dieci giorni, rappresentò soltanto un motivo marginale di fastidio per lo sforzo bellico degli Alleati. Per quanto gravi siano stati gli errori dovuti alle decisioni dilettantistiche prese da Hitler sulle priorità da assegnare nella produzione degli armamenti, la debolezza dei programmi intrapresi dai tedeschi in questo settore negli ultimi anni di guerra non può essere attribuita soltanto e neanche principalmente agli eccentrici interventi del Führer. Nel caso della V2, ad esempio, la direzione dell’artiglieria aveva lottato per anni per ottenere l’approvazione del suo programma missilistico, cercando di imporsi contro la pari ostinazione della Luftwaffe che tentava di ottenere finanziamenti per il suo sistema di missili da crociera, ovvero la 217

bomba volante V135. Le riserve personali di Hitler sul programma relativo alla V2 furono superate da Speer solo dopo qualche mese dall’approvazione entusiastica del progetto da parte dello stesso ministro per le Armi e Munizioni. Non solo Speer approvò la decisione di Hitler di concentrarsi al massimo sulla produzione di tali missili, ma considerò la V2 il suo progetto favorito36. Nel caso della V2, quindi, l’errore fu commesso sia da parte di Speer che di Hitler, anche se l’intervento di quest’ultimo fu decisivo nell’assegnazione delle priorità. Il fatto è che il dilettantismo di Hitler fu in gran parte l’espressione diretta della situazione disperata in cui si erano cacciati i vertici di comando tedeschi dopo aver perso la scommessa ottimistica della guerra-lampo e costretti ora a un vano sforzo difensivo per il quale riuscirono ad attrezzarsi solo con molto ritardo e con molte difficoltà. Sin dall’inizio del conflitto, e soprattutto dall’inizio della campagna in Russia, Hitler aveva deciso di fare della conduzione della guerra il suo principale oggetto d’interesse, e una volta assunta la guida dell’esercito e di tutte le forze armate, nella crisi dell’inverno 1941, questa divenne quasi la sua unica preoccupazione. Nella campagna del 1940 sul fronte occidentale, adottando l’audace tattica offensiva del generale Manstein, Hitler aveva perseguito una strategia offensiva contro il parere di molti dei suoi generali, ottenendo invece un notevole trionfo militare. Dopo aver spostato di sua iniziativa l’attacco da Mosca verso i fianchi di Leningrado e il saliente di Kiev, nell’inverno del 1941 Hitler aveva insistito per un arresto della ritirata da Mosca, salvandosi da un disastro militare ben peggiore. Questi successi alimentarono il suo senso di superiorità e allo stesso tempo il disprezzo verso i suoi generali, ma dopo la rottura totale con i vertici militari consumatasi nell’autunno del 1942, i limiti tattici e strategici derivanti dall’inflessibilità delle sue posizioni e dall’eccessiva fiducia riposta nella volontà come fattore militare decisivo, avrebbero concorso in modo determinante a quell’immane disastro che fu Stalingrado. La struttura di comando delineata da Hitler nella sua qualità di capo supremo dell’esercito accentrò nelle sue mani sia la direzione generale delle campagne militari che la definizione dei loro dettagli tattici. In tal modo Hitler fu costretto a occuparsi di minute questioni quotidiane, cosa che non trovò un corrispettivo 218

nell’operato di nessuno degli altri capi di Stato coinvolti nella seconda guerra mondiale e che, soprattutto, sortì effetti catastrofici sull’esercito tedesco: la concentrazione di potere da lui voluta si rivelò insensata e controproducente, e fu fonte di continui scontri con i vertici militari. Egli non superò mai la propria diffidenza verso questi ultimi. Di fronte alle crescenti avversità e alla rapida diminuzione delle possibilità di manovra e di iniziativa, Hitler non trovò di meglio che riversare la colpa su tutti, tranne che su se stesso, ricoprendo di ingiurie l’incompetenza e l’arroganza dei capi militari, verso i quali la sua sfiducia raggiunse livelli paranoici anche prima dell’attentato del 20 luglio 1944. Dopo la disfatta di Stalingrado, l’opinione di Hitler riguardo ai suoi generali fu che essi cercavano di ingannarlo ogni volta che si presentasse l’occasione e che essi erano totalmente incapaci di condurre una guerra perché erano il prodotto di un’educazione militare i cui errori si erano tramandati per intere generazioni37. Tra i generali che incapparono nelle violente critiche di Hitler ci furono persino Manstein e Guderian, che erano stati fra i suoi più convinti sostenitori nei vertici delle forze armate e che, tra l’altro, erano stati protagonisti di brillanti successi militari: anch’essi furono rimossi dal loro incarico verso la fine della guerra, quando Hitler giudicò troppo debole la loro volontà di vincere e di scongiurare la sconfitta. Naturalmente, di fronte a tali provvedimenti, nessuno osò protestare o fare il minimo gesto di disobbedienza. Il momento cruciale dell’attività di comando e della routine giornaliera nel quartier generale del Führer era rappresentato dalle due o tre ore di istruzioni impartite da Hitler a metà di ogni giornata. Queste consultazioni quotidiane erano motivo di tensione per tutti quanti, Hitler incluso. Il tentativo di conciliare le visioni strategiche d’insieme con i frequenti interventi nei dettagli tattici sortiva ogni volta effetti disastrosi: convinto che la sua esperienza di caporale nella prima guerra mondiale fosse più importante della preparazione militare teorica dei professionisti, Hitler riuscì spesso a far valere le sue conoscenze mirabilmente dettagliate, mettendo in difficoltà i suoi generali, ma anche facendo gravi errori di valutazione a causa del suo rifiuto di prestare attenzione ai consigli dei suoi comandanti sul campo e della sua insistenza nel voler condurre la guerra di persona e dalla stanza del219

le mappe nel suo quartier generale. Quanto più, poi, si trovò messo alle strette e nell’impossibilità di ovviare ai suoi stessi errori, tanto più si esasperarono la sua inflessibilità, la sua ostinazione, la sua intolleranza, la sua irascibilità e la sua continua ricerca di capri espiatori. Con ciò le speranze di condurre la guerra in modo razionale si assottigliarono progressivamente, con gli errori che si accumulavano uno dietro l’altro. Comunque sia, la guerra non fu perduta dalla Germania per gli sbagli militari di Hitler, ma perché la sua politica aveva gettato la Germania in un conflitto che era stato poi condotto in modo tale da non lasciare nessuna via d’uscita politica: Hitler aveva scambiato la politica con la guerra, e alla fine di questa l’unica logica conclusione non poté che essere la richiesta alleata di una «resa incondizionata», accolta dal dittatore tedesco nel senso più letterale del termine38. Né tanto meno si può condividere quanto hanno affermato alcuni apologeti dopo la guerra, e cioè che gli errori strategici di Hitler furono imposti dispoticamente ai riluttanti vertici delle forze armate, che altrimenti sarebbero riusciti a portare la Germania verso una vittoria finale. Le decisioni di Hitler in campo militare non furono così insensate come sono state a volte dipinte retrospettivamente39; inoltre, il suo regolare circolo di consiglieri militari si mostrò il più delle volte incline ad assecondare i suoi ben noti desideri, appoggiando i suoi suggerimenti e astenendosi dalle critiche, mentre i consigli ricevuti dai comandanti al fronte furono a volte contraddittori o basati su dati di spionaggio sbagliati, favorendo spesso le valutazioni iper-ottimistiche di Hitler sulle prospettive della Germania. L’impotenza dei generali non derivò dall’incapacità individuale di tener testa a Hitler: Halder, Jodl, Guderian e Manstein spesso lo attaccarono senza troppi peli sulla lingua, e anche altri generali ebbero scontri con il comandante in capo. Fra i pezzi grossi dell’esercito, pochi erano nazisti integrali, ma tutti insieme avevano appoggiato il Regime fino a che questo era risultato vincente. In tal modo si erano messi su una strada senza uscita: così come erano diventati potenti grazie a Hitler, adesso che il suo Regime crollava dovevano perire con lui. Lo stesso Hitler lo ribadì esplicitamente durante le conferenze organizzative nel suo quar220

tier generale: non c’era possibilità di ritirata, i generali si erano bruciati i ponti alle spalle assieme a lui40. In questo contesto vanno inquadrate le due ultime grandi offensive militari tedesche, l’«Operazione Cittadella» del luglio 1943 e l’attacco attraverso le Ardenne nel dicembre 1944, espressione tipica della preferenza hitleriana per l’azione a sorpresa. Queste due ardite mosse strategiche furono concepite e avviate dallo stesso Hitler, ma videro pienamente coinvolti gli alti gradi dell’esercito sia nella fase di ideazione che in quella di attuazione. Prese, come furono, da una posizione di inferiorità e dettate dalla disperazione, esse non ebbero, tuttavia, molte possibilità di successo, e dopo il loro scacco lo sforzo militare tedesco, assieme alla dirigenza politica, dovette dichiarare fallimento. Nel frattempo si stavano bruciando tutti i ponti anche in un altro settore fondamentale. Man mano che la vittoria militare si rivelava sempre più chiaramente una vana illusione, si cercò una sorta di compensazione nella battaglia per la distruzione dei nemici della razza tedesca. Espressione più drammatica di questo atteggiamento fu l’urgenza con cui si cercò di portare a termine la liquidazione fisica degli ebrei europei mentre la sconfitta si ergeva davanti agli occhi della Germania. A paragone del ruolo svolto da Hitler nel delineare la politica degli armamenti e la strategia militare, la sua partecipazione agli ultimi stadi della politica di sterminio nazista avvenne, però, in forme molto più discrete. Nel marzo del 1943, Hitler autorizzò Goebbels a completare l’allontanamento degli ebrei da Berlino41 e in aprile cercò – senza successo – di persuadere l’ammiraglio Horthy a deportare gli ebrei ungheresi nei campi di concentramento42. A metà giugno, dopo lunghe consultazioni con Himmler, dette il pieno appoggio alla richiesta del capo delle SS di avviare misure radicali di deportazione43, quindi, in ottobre, seguendo il suggerimento di Werner Best, suo plenipotenziario in Danimarca, ordinò la deportazione degli ebrei danesi, mentre quasi contemporaneamente, per evitare indebite provocazioni del Papato, accettò il consiglio del ministero degli Esteri di fermare l’immediata esecuzione di 8.000 ebrei romani e di mandarli «come ostaggi» nel campo di concentramento austriaco di Mauthausen44. Questi ordini in bianco furono più che sufficienti; il resto poté essere delegato alle SS e alla ferma guida organizzativa del re221

3. Albert Speer alla guida di un prototipo di carro armato. Ministro per gli Armamenti dal 1942, egli riuscì a far crescere notevolmente la produzione bellica tedesca.

4. Göring (al centro) mostra i danni causati dalla bomba piazzata il 20 luglio 1944 nella sala delle conferenze del quartier generale di Hitler dal colonnello Claus Schenz Graf von Stauffenberg (in alto a destra). Nella parte sinistra della foto compare Bormann.

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sponsabile in capo della «soluzione finale», Adolf Eichmann. Hitler vedeva Himmler diverse volte durante la settimana, in genere senza nessun altro presente e senza che venisse verbalizzato nulla. Sarebbe invero assai strano se in quelle occasioni non fosse mai stato discusso l’andamento della soluzione alla «questione ebraica». Certamente Hitler era tenuto al corrente degli sviluppi generali, ma non sembra che si interessasse troppo ai singoli dettagli. Del destino degli ebrei egli aveva parlato, anche nella cerchia dei più stretti collaboratori, solo in termini generali – crudeli nel sentimento che li ispirava, ma privi della brutale franchezza che caratterizzava le affermazioni di Himmler. Forse Hitler si accontentò semplicemente di sapere che la sua profezia del 1939 si stava realizzando – un auspicio, questo, ripetuto per l’ultima volta il 26 maggio 1944, in un discorso ai suoi generali calorosamente applaudito45. Tutto ciò dimostra che, fino alle ultime settimane di vita del Terzo Reich, gli «ordini» impartiti da Hitler – spesso solo un’espressione di capriccio, a volte contraddittori, solitamente brutali, in molti casi arbitrari o semplicemente eccentrici – continuarono a trovare esecutori compiacenti che tentarono di interpretarli e metterli in pratica. Fino agli ultimi giorni, per quanto fossero dettati ormai soltanto dalla paranoia, i suoi desideri non furono mai respinti, disobbediti o sabotati dai suoi collaboratori, né da altri settori del regime nazista. L’innegabile forza esercitata dalla personalità di Hitler, pur continuando certamente a influire su coloro che lo circondavano, non può, tuttavia, bastare a spiegare la sua ininterrotta capacità di dominio. Le ragioni vanno cercate al di fuori dello stesso Hitler: nelle strutture di comando dello Stato nazista, negli interessi consolidati che restavano indissolubilmente legati al Regime morente, nelle residue riserve di lealtà presenti nel sistema e nella popolazione, nella durezza delle pratiche repressive volte a stroncare sul nascere qualsiasi tipo di opposizione. Il potere di Hitler rimase in piedi innanzitutto per l’incapacità stessa del Regime nazista di creare un vero e proprio sistema di governo. Come abbiamo già visto, Hitler era stato estremamente sensibile a ogni possibile restrizione del proprio potere, contrario a subire limitazioni da parte di qualsiasi struttura formale o norma costituzionale e poco incline a mantenere canali trasparenti di 223

controllo. Il Senato nazista, che avrebbe in teoria dovuto eleggere il capo dello Stato successore di Hitler, non vide mai la luce, e tanto meno dopo che la deposizione di Mussolini da parte del Gran Consiglio del fascismo, nel luglio del 1943, confermò i timori di Hitler verso qualsiasi struttura istituzionale di controllo. L’inevitabile dissoluzione dello Stato come sistema di governo implicò che la posizione del Führer fosse indispensabile al funzionamento del Regime sotto qualsiasi aspetto. Il sistema di governo era, di conseguenza, estremamente frammentato, e persino in ognuna delle sue diverse componenti una decisione era presa attraverso la mediazione di Hitler con singoli gruppi o individui, e non mediante un organismo stabile e collegiale che rappresentasse l’esecutivo centrale. Da ciò derivava che il rapporto con il Führer era indispensabile per la difesa degli interessi particolaristici diffusi all’interno del Regime. Era lui la fonte del potere, la cui autorità era necessaria per arrivare al successo nella giungla competitiva del Terzo Reich; era lui che poteva legittimare la priorità di un’iniziativa politica piuttosto che di un’altra. La debolezza di ogni singola parte del «sistema» contribuiva, in tal modo, a dar forza all’autorità personale di Hitler. Le élites non espressamente nazionalsocialiste, le più influenti delle quali erano rappresentate dai vertici della Wehrmacht e dell’industria, avevano sostenuto Hitler continuando ad avvantaggiarsi dei suoi successi fino alla metà della guerra. In molti casi esse si erano lasciate coinvolgere solo in parte nel sistema nazista, e di solito mantennero intatte molte delle loro riserve. Ma questo atteggiamento di parziale adesione era stato tollerato perché la loro collaborazione era stata sempre totale, sicché, nel momento in cui compresero che Hitler li stava portando inesorabilmente verso la rovina, esse riuscirono solo in parte a «sganciarsi» dal Regime nazista. Naturalmente tale distacco fu più netto quando certi interessi consolidati si sentirono colpiti direttamente, ma fino alle ultime fasi della guerra restarono in piedi significativi punti di contatto con i vertici nazionalsocialisti. Così, negli ultimi mesi del conflitto mondiale, preso atto dell’inevitabile sconfitta, l’industria tedesca si preoccupò soprattutto di salvare ciò che poteva dalla distruzione e di pensare alla sua sopravvivenza in un futuro non più nazionalsocialista. Ciò non toglie che praticamente tutte le grandi industrie della Ger224

mania avessero dato il loro contributo alla devastazione dell’Europa, partecipando allo sforzo bellico nazista, e non a caso tra gli esponenti dei vari circoli che organizzarono l’attentato a Hitler del luglio 1944 non ci fu nemmeno un proprietario o un manager industriale di spicco. Per quanto, ormai, non pochi si sarebbero rallegrati nel vedere la fine di Hitler e del suo Regime, essi non furono assolutamente disposti a fare qualcosa di concreto perché ciò si avverasse. La rottura con il nazismo si sarebbe dovuta verificare, dal punto di vista del grande capitale, senza strappi violenti e mantenendo nelle relazioni industriali le strutture autoritarie introdotte dai nazisti. Tra i vertici delle forze armate, coloro che – per varie ragioni – accettarono il rischio di prendere parte a un complotto contro Hitler non furono altro che una minoranza, coraggiosa ma non rappresentativa. La maggior parte dei generali – inclusi persino Guderian, Manstein e Rundstedt, che a volte non esitarono a sfidare apertamente l’opinione contraria di Hitler – rimasero fedeli sino alla fine, mentre altri, come Kluge, il cui entusiasmo era tutt’altro che incondizionato, tentennarono alquanto, ma poi si astennero da un’aperta opposizione. I vertici della Luftwaffe e della marina, da sempre sostenitori più entusiasti del Regime nazionalsocialista di quanto non lo fosse l’esercito, rimasero per lo più fedeli e convinti del loro appoggio. Nel febbraio del 1944, alla richiesta di firmare una dichiarazione individuale di fedeltà a Hitler, il feldmaresciallo Weichs ritenne la conferma del suo giuramento di soldato «non conforme ai principi militari», perché la lealtà degli ufficiali doveva essere data per scontata46. Allo stesso modo, nel marzo del 1945 il feldmaresciallo Kesselring considerò suo dovere di soldato far eseguire gli ordini di Hitler senza tergiversare47, mentre si racconta che il feldmaresciallo Busch fosse arrivato ad accusare Dönitz di tradire la volontà di Hitler rifiutandosi di continuare a combattere ai primi di maggio del 1945!48 Lo stesso fervido patriottismo che spinse pochi eroi a organizzare la cospirazione del 1944, credendo che solo la morte di Hitler avrebbe potuto salvare la Germania, alimentò invece, per la maggior parte dei capi militari e dei loro uomini, quel legame speciale che li univa a Hitler e che si rafforzò ulteriormente – anche quando la disfatta apparve in tutta la sua evidenza – sotto la spinta dell’odio per il bolscevismo e dei timori delle conseguenze di 225

una sconfitta. Inoltre, il giuramento di fedeltà prestato a Hitler in persona rappresentava un vincolo solenne che pochi potevano pensare di rompere. Ma i legami fra le forze armate e Hitler andavano al di là della normale fedeltà militare al capo dello Stato. La Wehrmacht, infatti, era stata un agente attivo e volontario nella crociata contro il bolscevismo e aveva preso parte alle atrocità e alle barbarie perpetrate nei territori orientali, non negando nemmeno la sua complicità nel genocidio degli ebrei, come dimostra il plauso dei generali, nel maggio 1944, ai chiarissimi riferimenti di Hitler e Himmler alla «soluzione finale»49. Tra la Wehrmacht e i vertici nazisti, dunque, esistette una certa sintonia persino riguardo agli esiti più radicali della politica razziale. L’ammissione, da parte dei responsabili del fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944, dell’impopolarità di tale tentativo, anche nel caso fosse riuscito – cosa che ne ha fatto un caso di «resistenza senza popolo»50 –, fu la prova che sia il Regime che la persona del Führer potevano contare su una riserva ancora ampia di consenso popolare, anche in quel periodo di crescenti difficoltà. Sebbene si fosse ridimensionata di molto rispetto al tripudio plebiscitario del 1940, la popolarità di Hitler tra i tedeschi restava ancora grande, soprattutto considerata la situazione degli ultimi anni di guerra – e persino i soldati semplici catturati al fronte continuarono a manifestare la loro ammirazione per la persona del Führer fino alle ultime settimane di vita del Reich. Il consenso popolare a Hitler, insomma, non si era ancora esaurito. I più convinti assertori della sacralità del Führer furono, naturalmente, i funzionari e gli attivisti della NSDAP e delle sue molteplici filiazioni. Ci fu, poi, uno zoccolo duro di fanatici la cui fede, anche in extremis, non vacillò mai, e non solo per il vincolo affettivo che li univa al Regime, ma anche per ragioni più pratiche, come quelle che, sino alla fine, fecero restare legato a Hitler l’esercito di burocrati sviluppatosi durante la dittatura. Ciò, comunque, valeva innanzitutto per i vertici stessi del Partito nazionalsocialista. La guerra aveva enormemente accresciuto il numero di coloro che furono beneficiati materialmente dal Terzo Reich, acquistando potere e status o approfittando dei saccheggi, delle devastazioni e della corruzione del Regime. Le generose «elargizioni» di Hitler servirono a riscaldare anche i più tiepidi e indecisi, non solo fra i satrapi della NSDAP, ma anche tra 226

i generali della Wehrmacht. E infatti, per non far dimenticare a questi ultimi il giuramento di fedeltà prestatogli, nel 1940 Hitler aveva messo in conto una serie di ricompense per i capi militari, comprendenti non solo l’avanzamento ai gradi di feldmaresciallo o generale-colonnello, ma anche la concessione di premi economici esentasse51 – verso la fine della guerra, fra i maggiori beneficiari di queste donazioni si contavano Sperrle, Keitel, Guderian, Leeb e Reichenau52. Ma i vertici nazisti e quelli di importanti gruppi d’interesse esterni al nazionalsocialismo rimasero legati a Hitler anche per un altro motivo. La guerra – e specialmente la barbara guerra di sterminio nell’Est europeo – fece salire enormemente il numero di quelli che si erano bruciati i ponti alle spalle assieme al Regime nazista, rendendosi complici delle sue atrocità e delle sue politiche sterminatrici. Per loro, così come per Hitler – che continuò a dire che per ottenere grandi risultati bisognava necessariamente «giocarsi tutto»53 –, a un certo punto non ci fu più via d’uscita. Il bisogno di coinvolgere in questa scelta senza ritorno il più ampio numero di forze fu, probabilmente, il motivo per cui Himmler parlò apertamente e chiaramente dello sterminio degli ebrei ai capi delle SS e poi ai Gauleiter del Partito nei famosi discorsi di Posen dell’ottobre del 1943 (quando annotò i nomi di coloro che non avevano ascoltato il suo discorso)54. Questo stesso motivo fu presumibilmente alla base sia delle inequivocabili allusioni di Hitler alla «soluzione finale», sia delle affermazioni categoriche di Himmler riguardo al genocidio degli ebrei contenute nelle loro allocuzioni ai generali nel maggio del 1944. Naturalmente, a spingere in tale direzione tanto le élites di potere che la popolazione fu la stessa guerra – e per certi aspetti ancora di più quando questa entrò nella sua fase più disperata, piuttosto che durante i primi trionfi. Sebbene la maggior parte della gente comune desiderasse soltanto la fine del conflitto, l’idea della difesa patriottica contro gli invasori, soprattutto nelle regioni orientali dove erano diffusi forti sentimenti antibolscevichi, si mescolò facilmente alle ideologie razziali dei folli criminali che governavano la Germania. La prospettiva della distruzione e i timori delle vendette delle «orde rosse» – chiari segni del successo ottenuto in questo campo dalla propaganda nazista – crearono un legame «negativo» ancora più stretto di quello che poteva deriva227

re dall’assenza totale di alternative emersa dopo la richiesta alleata di resa incondizionata. Infine, non meno importante fu il terribile crescendo di terrore – un elemento fondamentale, dall’inizio alla fine, del potere hitleriano – seminato dagli ultimi rantoli del Regime, quando ormai i legami «positivi» tra questo e i tedeschi avevano perso molta della loro forza precedente. Negli ultimi mesi, se non ancora prima, a fondamento centrale dell’incontrastato dominio di Hitler, si pose proprio l’apparato repressivo, che gli fu fedele sino ai giorni finali del Reich, restando saldamente nelle mani dell’ala più fanatica e spietata del movimento nazionalsocialista, le SS, pronte a difendere il loro potere fino allo stremo. La rete formata dalle organizzazioni naziste e dai loro fedeli funzionari assicurò la repressione draconiana della più piccola manifestazione di disfattismo o del minimo sintomo di tradimento; e dopo che il 20 luglio 1944 l’unica organizzazione capace di rovesciare Hitler, l’esercito, fallì il suo tentativo di colpo di Stato, al primo bagno di sangue seguì un inasprimento ancora più deciso delle pratiche repressive. Così, benché ormai il destino del Regime fosse chiaramente segnato, non deve sorprendere che la maggioranza dei tedeschi si convinse che qualsiasi ulteriore sfida alla dittatura morente era un’inutile follia. Solo negli ultimi giorni di vita del Terzo Reich, con i russi alle porte di Berlino, i vertici nazionalsocialisti si decisero a mettere in dubbio l’autorità del Führer55. Di fronte a un Hitler rintanato nel suo bunker e determinato a restarci, Göring invocò non a torto il decreto del giugno 1941, che lo dichiarava successore legittimo alla guida del Reich, e rivendicò il diritto di assumerne il pieno controllo se entro poche ore non avesse ricevuto una risposta al telegramma che denunciava l’incapacità di Hitler a mantenere ulteriormente il potere. Bormann, acerrimo nemico del «maresciallo del Reich», riuscì a far passare questo passo come un atto di alto tradimento, sicché Göring fu prontamente rimosso da tutti gli incarichi e dalla stessa successione al potere. Nel frattempo anche Himmler, la cui follia non era da meno di quella di Hitler, stava meditando di porsi alla guida di un nuovo governo tedesco, una volta morto il Führer, e di stipulare un trattato con gli Alleati occidentali per continuare a combattere contro i bolscevichi, immaginando persino la nascita di un nuovo partito, chiamato Partito 228

5. Soldati tedeschi della 5ª Divisione Paracadutisti durante l’offensiva delle Ardenne (dicembre 1944). L’offensiva fu l’ultimo disperato tentativo di Hitler di capovolgere le sorti del conflitto. 229

di concentrazione nazionale (Nationale Sammlungspartei). La notizia del tradimento di Himmler rappresentò il colpo di grazia per il dittatore tedesco rinchiuso nel suo bunker, ma prima di occuparsi dei preparativi per la sua morte egli volle sfogare la sua indignazione furibonda disponendo che Himmler fosse esautorato dei suoi poteri, incarichi e diritti di successione. L’allontanamento di Göring e Himmler dai posti di comando del Reich fu debitamente registrato nel testamento di Hitler, che affidò all’ammiraglio Dönitz gli ultimi lembi di una vacillante autorità. Fino a che Hitler restò in vita, dunque, nessuno prese mai in seria considerazione la possibilità di un suo avvicendamento alla guida del Reich, sebbene il potere reale del Führer fosse in chiaro declino già prima del drammatico atto finale consumatosi nel suo bunker. La sua autorità aveva cominciato a perdere mordente almeno dal settembre del 1944. Quando Speer chiese che gli fossero concessi poteri di controllo sui Gauleiter per quel che riguardava la politica degli armamenti, Hitler, come al solito, evitò a lungo di prendere una posizione netta, prima di appoggiare pienamente il suo ministro. Tale decisione, tuttavia, non ebbe alcun effetto: i Gauleiter si limitarono a ignorarlo, continuando a intromettersi liberamente nelle questioni economiche, quando e dove volevano. L’incapacità di Hitler a schierarsi inequivocabilmente su un fronte o sull’altro – riflesso della sua dipendenza obbligata da forze contrastanti, piuttosto che di semplice debolezza caratteriale – cominciò ora a trasformarsi in un chiaro sintomo della perdita di autorità56. Poco più avanti, lo stesso Speer disobbedì apertamente all’ordine insensato, impartito da Hitler in un accesso di rabbia (ma poi revocato), di sospensione totale della produzione aeronautica57, mentre agli inizi del 1945, durante una discussione su una ritirata tattica sul fronte orientale, il capo di stato maggiore, Guderian, si scontrò in pubblico con Hitler usando toni fino a poco tempo prima semplicemente inconcepibili, riuscendo sorprendentemente a convincere il Führer. La sua autorità, sebbene ancora intatta, era manifestamente sotto pressione58. L’episodio più significativo in questo contesto fu però il sabotaggio sistematico praticato da Speer nei confronti della «Direttiva Nerone», con cui Hitler ordinò di «fare terra bruciata» davan230

ti al nemico, mediante la distruzione di tutti gli impianti industriali e di tutte le infrastrutture – ed esprimendo con ciò, nelle ultime settimane di una guerra ormai perduta, la sua sentenza di condanna verso il suo popolo, accusato di «debolezza» nella lotta con «il più forte popolo dell’Est»59. Anche dopo essere stato sollevato dal suo incarico, utilizzando vari canali Speer continuò a dare ordini per scongiurare la realizzazione delle reiterate direttive di distruzione da parte di ancora compiacenti Gauleiter e di altri fanatici funzionari della NSDAP, ma anche di chi non se la sentiva di affrontare le terribili minacce, in alcuni casi tradottesi in fatti, agitate contro chi non avesse rispettato le disposizioni hitleriane. L’operato del ministro non fu solo il segno delle sue personali convinzioni in merito alla insensatezza di tali direttive, ma interpretava anche il rifiuto dei vertici industriali di vedere distrutto, con il Regime nazionalsocialista, anche il loro capitale futuro. Quando si scontrò con Speer rinfacciandogli la sua disobbedienza, Hitler, come era prevedibile, rifiutò, per ragioni di prestigio, le sue dimissioni da ministro per le Armi e Munizioni, ma non riuscì a ottenere da questi che una blanda dichiarazione di fedeltà60. Nelle ultime settimane passate nel suo bunker berlinese, lo stato mentale di Hitler divenne più instabile che mai: il suo umore passava da momenti di euforia – come quando ebbe la notizia della morte di Roosevelt, prendendolo come un segno della «Provvidenza» che annunciava un mutamento di fortuna a favore della Germania – alla depressione più profonda davanti alla certezza dell’imminente sconfitta. Ma alla calma, distaccata e apatica rassegnazione potavano seguire improvvisi scoppi di rabbia incontrollata nell’apprendere, ad esempio, la rotta di qualche fantomatica divisione del suo esercito. I generali più fedeli del suo entourage, però, attesero ordini da lui fino all’ultimo momento61, anche se ormai Hitler non aveva più niente da dire. Fino al momento del suicidio, i suoi ordini rimasero indiscutibili per i membri della sua «corte» riunita all’interno di quel mondo irreale che era il bunker della Cancelleria. Ma per il mondo reale fuori del bunker, il potere di Hitler era già finito.

Epilogo

Hitler: potere e distruzione

Il potere di Hitler nacque, si sviluppò e finì sotto il segno della distruzione. La sua carriera politica iniziò sulle ceneri di quella Germania con cui egli stesso si era identificato fino a quel momento, «distrutta», a suo dire, dalla «rivoluzione marxista» del 1918. Ancora più completa fu, però, la distruzione della «sua» Germania dopo la disfatta e le devastazioni che posero fine, nel 1945, alla vicenda politica ed esistenziale del dittatore tedesco. I suoi dodici anni al potere avevano mandato in pezzi la «vecchia» Germania sia come entità territoriale che come realtà sociale, e assieme a essa avevano segnato la fine anche dell’ordinamento fisico e politico della «vecchia» Europa. Quest’impulso distruttivo dominò le azioni e i comportamenti di Hitler sin dai primi momenti, come dimostra il fatto che la parola «annientamento» (Vernichtung) risuonò spessissimo dalle sue labbra, a partire dai discorsi pronunciati nelle birrerie di Monaco fino alle visioni apocalittiche concepite nel quartier generale della Prussia orientale e nel bunker della Cancelleria a Berlino. Oggetto principale delle sue minacce furono gli ebrei: l’antisemitismo costituì uno dei punti centrali del suo pensiero dai tempi della sua attività al servizio della Reichswehr fino alla stesura del suo testamento politico il 29 aprile 1945. Ugualmente precoce fu l’adozione, nel suo armamentario demagogico, delle parole d’ordine della distruzione dei capitalisti «parassiti», della «decadente» democrazia liberale e del marxismo «sovversivo». Poste tali premesse, l’obiettivo dell’annientamento del «bolscevismo giudeo» divenne ben presto la pietra angolare di tutta la sua visione del mondo. Questa smania di distruzione non venne mai meno, neanche dopo il 1933, quando le circostanze lo costrinsero a indossare i 232

1. La distruzione delle città tedesche: decine di migliaia di persone morirono nelle tempeste di fuoco scatenate ad Amburgo dai bombardamenti della RAF («Operazione Gomorra», luglio 1943). 233

panni del politico conciliante e dell’uomo di Stato. Grande fu, nell’estate del 1938, il suo disappunto per non essere riuscito a distruggere i cechi, sicché esattamente un anno dopo decise che nulla avrebbe potuto indurlo a compiere lo stesso errore nei confronti dei polacchi. L’idea-guida della sua politica polacca fu, perciò, la distruzione non solo dello Stato, ma anche della popolazione di quel Paese. Come se non bastasse, poco prima Hitler aveva posto il suo sigillo personale su un programma d’azione da avviare allo scoppio della guerra e mirante a eliminare nella stessa Germania le «vite inutili» dei malati psichici e dei minorati fisici. Nel 1941 i generali tedeschi furono informati dal Führer che la resa dei conti con il bolscevismo, a differenza della lotta contro le potenze occidentali, avrebbe dovuto assumere il volto di una pura e semplice «guerra di annientamento», alla fine della quale ci sarebbe stata o la distruzione totale del nemico o quella della Germania. A queste disposizioni seguirono la strage silenziosa degli ebrei russi e il massacro sistematico dei prigionieri di guerra sovietici. Sbaglia, dunque, chi pensa che il genocidio fu una conseguenza secondaria della guerra, perché esso, invece, ne costituì la premessa logica. Posto il conflitto su tali basi, ogni compromesso venne escluso a priori. Le uniche opzioni disponibili erano la vittoria finale (sfuggita a Hitler nonostante gli eclatanti successi del 1940) o la propria distruzione; di lì a poco, cioè a partire dalla fine del 1941, la sola prospettiva a restare sul campo fu quella della sconfitta e della devastazione della Germania. La pulsione distruttiva di Hitler non risparmiò nemmeno i suoi stessi soldati. Le enormi perdite umane che si registravano al fronte lo lasciarono sempre indifferente, e l’unica volta che, a bordo del suo treno personale, incrociò accidentalmente un treno pieno di fanti tedeschi feriti, fece chiudere le tendine del suo vagone1. Quando poi, per colpa di una sua errata decisione strategica, la VI Armata della Wehrmacht si trovò accerchiata a Stalingrado, egli bocciò qualsiasi ipotesi di sortita, condannando soldati e ufficiali all’annientamento e mostrando la più sorda incomprensione di fronte alla scelta del feldmaresciallo Paulus di preferire la resa alla morte2. Ancora nel 1944, il dittatore fondò tutte le sue speranze non sull’allestimento di una flotta di aerei da caccia in grado di tenere lontani i bombardieri nemici, ma sulla distruzione delle città in234

glesi sotto i colpi dei missili della classe V. E se avesse avuto a disposizione la bomba atomica, senza dubbio non avrebbe esitato a usarla contro Londra. Comunque sia, furono proprio le città tedesche a essere ridotte in macerie, e Hitler non si preoccupò di visitarne neanche una, né di manifestare alcun segno di simpatia per le popolazioni colpite dai bombardamenti, e nemmeno mostrò qualche rimorso per le sofferenze inflitte alle famiglie tedesche3. Di fronte a questi fatti, la sua reazione si tradusse invariabilmente in esplosioni di rabbia per l’incapacità della Luftwaffe di difendere i cieli della Germania e in promesse di terribili vendette contro le città inglesi. Alla fine, in coerenza con i suoi principi, Hitler cercò di far sì che la stessa Germania non sopravvivesse alla sua morte. A tale fine erano rivolte la «Direttiva Nerone» e le operazioni «Terra bruciata» da lui disposte nel 1945. Secondo Hitler, il popolo tedesco meritava di essere annientato, poiché non era stato abbastanza forte da distruggere il suo nemico giurato, il bolscevismo4. Da questo elenco di distruzioni nulla emerge, nei dodici anni di regime hitleriano, che abbia lasciato un’eredità positiva sui tempi futuri. In campo artistico, letterario, musicale e architettonico il nazismo soffocò qualsiasi originalità e spirito d’innovazione. Ogni attività e pensiero creativo vennero banditi, e i rappresentanti della letteratura proibita e dell’arte «decadente» furono costretti a prendere la via dell’esilio. Incalcolabile fu, per la cultura tedesca, la perdita, a seguito dell’emigrazione forzata, di scrittori del calibro di Thomas e Heinrich Mann, Arnold e Stefan Zweig, Alfred Döblin e Bertolt Brecht, di pittori come Vasilij Kandinskij, Paul Klee e Oskar Kokoschka, o degli architetti Walter Gropius e Ludwig Mies van der Rohe. Altri artisti e letterati, come Emil Nolde e Gottfried Benn, che pure avevano accolto con grandi speranze l’instaurazione del Terzo Reich, caddero ben presto preda della disillusione ed entrarono in una sorta di emigrazione interna, costretti a fare i conti con il bando inflitto alle loro opere o con la perdita di qualsiasi ispirazione creativa. In campo musicale, le ultime composizioni di Richard Strauss, i Carmina Burana di Carl Orff e l’assidua attività del celebre direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler compensarono solo in parte la perdita di figure importanti come Schönberg e Hindemith e il bando decretato sulle opere di Mendelssohn e Mahler. Il nazismo si ri235

2. La distruzione delle città tedesche: decine di migliaia di persone trovarono la morte nel bombardamento di Dresda, avvenuto nel febbraio 1945. 236

velò incapace di riempire il vuoto lasciato da questa emorragia intellettuale: nei dodici anni del Terzo Reich la cultura tedesca non produsse praticamente nulla di vivo e di universalmente valido. Lo stesso si può dire per l’economia e la politica. Durante il regime hitleriano non emerse alcuna forma o sistema di governo che potesse servire da modello per il futuro: lo Stato di Hitler, infatti, fu uno Stato privo di sistema e privo di strutture, il cui carattere predominante fu la distruzione dei canali organizzati di trasmissione dell’autorità governativa piuttosto che l’istituzione di un coerente e identificabile sistema di amministrazione autoritaria. Anche l’azione del nazismo in campo economico ha lasciato ai posteri soltanto lezioni negative. Quella nazista fu un’economia essenzialmente ed eminentemente predatoria, e non in grado, perciò stesso, di erigersi a «sistema» durevole. Il suo nucleo centrale fu costituito dall’idea di una moderna schiavitù messa al servizio di un capitalismo diretto dallo Stato: la sua incarnazione più significativa fu l’imponente complesso industriale di Auschwitz, dove la manodopera schiavizzata per conto delle principali aziende produttrici tedesche fu sfruttata fino alla morte o liquidata quando veniva meno la sua capacità lavorativa. Le contraddizioni insite in questo sistema resero evidente l’incapacità del nazismo di formulare ricette efficaci per la creazione di un «nuovo ordine» economico che potesse durare nel tempo. Nessuna meraviglia, quindi, che già verso la metà della guerra negli ambienti economici si cominciarono a discutere confidenzialmente idee per un ordinamento economico più razionale e libero dalle ipoteche ideologiche naziste. L’eredità negativa lasciata dal nazismo e la sua mancanza di capacità costruttive furono soltanto una conseguenza della disfatta finale tedesca? Non è possibile credere che, in caso di vittoria, il regime hitleriano si sarebbe trasformato in un sistema di potere più solido e durevole? Certamente tutti i piani concepiti dai nazisti per il futuro della Germania si fondarono sul presupposto della sua vittoria in guerra. Così, vennero elaborati dei progetti architettonici in grande stile per la ricostruzione monumentale delle città tedesche5, secondo le indicazioni fornite da un Hitler particolarmente interessato a queste idee – tanto che con l’Armata Rossa alle porte di Berlino continuò ancora a lavorare al progetto per la ristrutturazione di Linz. A differenza di Darré e Himmler, 237

3. Soldati sovietici issano la bandiera rossa sulle rovine del Reichstag il 30 aprile 1945, giorno del suicidio di Hitler. 238

fautori di un nostalgico ritorno alla terra, il Führer coltivava la visione di una società futura altamente industrializzata e tecnologicamente sviluppata, il cui fabbisogno di materie prime e di manodopera sarebbe stato soddisfatto dalle terre conquistate e dal lavoro coatto dei popoli «inferiori». L’industria privata sarebbe stata messa in riga o sarebbe passata sotto il controllo dello Stato qualora ciò si fosse rivelato insufficiente. La classe operaia tedesca, trasformata in élite politicamente qualificata, avrebbe preso il posto dell’ormai esausta borghesia. Siamo di fronte, dunque, alla visione di una trasformazione rivoluzionaria della società tedesca6. Simili progetti erano condivisi anche da altri personaggi, come Robert Ley, responsabile del Fronte del Lavoro e dal 1941 commissario per gli Alloggi, allora alle prese con un progetto di profonda ristrutturazione del sistema di previdenza sociale (vicino per molti aspetti, e a prescindere dai suoi presupposti razzisti, al piano elaborato nello stesso periodo da Beveridge in Inghilterra) e con ambiziosi programmi edilizi7. Nessuno di questi progetti, tuttavia, si avvicinò anche minimamente alla fase di realizzazione. Le bombe alleate distrussero molti più palazzi di tutti quelli che il programma di Ley avrebbe potuto mai mettere in cantiere, così come il sistema di sicurezza sociale della Germania postbellica si ispirò più agli antecedenti imperiali e weimariani, che non al modello delineato dal Terzo Reich. Solo la vittoria in guerra avrebbe potuto trasformare in realtà le visioni naziste di una nuova società. A quanto si sa, nelle ultime settimane di vita del Terzo Reich Hitler avrebbe affermato che gli sarebbero occorsi vent’anni per formare una élite totalmente avvezza alle sue idee, «come i neonati lo sono al latte materno», e che, tuttavia, il problema della Germania era stato sempre quello di avere avuto contro il fattore tempo8. In realtà l’inganno hitleriano si rivelò come tale sin dall’inizio. Il Regime nazista non era riuscito a combattere nei tempi e nei modi a esso congeniali la guerra che aveva voluto. Una volta allargatosi il conflitto, cosa non auspicata nel 1939 ma comunque messa in conto, le uniche possibilità di arrivare a una rapida cessazione delle ostilità o a una pace limitata restarono legate alla capitolazione delle potenze occidentali. Convinti della loro superiorità continentale, i tedeschi esclusero qualsiasi ipotesi di compro239

4. Prigionieri di guerra tedeschi sfilano a Berlino dopo la resa della città alle forze sovietiche, avvenuta il 2 maggio 1945. 240

messo – e ciò tanto più man mano che la loro espansione compiva l’escalation verso la barbarie e lo sterminio. Non riuscendo a conquistare l’Inghilterra, la dinamica propria dell’espansionismo tedesco impose inevitabilmente l’attacco all’Unione Sovietica. In tal senso, cioè nel quadro di una guerra che aveva come posta l’egemonia sul continente europeo, il progetto di sottomettere la Russia nel giro di pochi mesi non fu soltanto il frutto di una scelta ideologica o del delirio razzista, ma anche e soprattutto un disperato tentativo per costringere la Gran Bretagna a sedersi al tavolo delle trattative, per scongiurare la sempre più probabile entrata in guerra degli Stati Uniti e per assicurarsi importanti fonti di approvvigionamento di materie prime. È stato detto da alcuni che, alla fine del 1941, la Germania avrebbe vinto la guerra se solo Hitler avesse consentito alle sue truppe di puntare direttamente su Mosca, invece di ordinare una loro diversione verso sud. Non ci sembra che questo argomento colga nel segno. Dal punto di vista strategico ed economico, l’obiettivo di assumere il controllo del Caucaso era probabilmente il più giusto9: la conquista di Mosca sarebbe stata un duro colpo per il prestigio delle armi e della dirigenza sovietica, ma non avrebbe affatto comportato la vittoria definitiva dei tedeschi. Il grosso del potenziale industriale sovietico, indispensabile per la prosecuzione del conflitto, sarebbe rimasto intatto, mentre l’allungamento eccessivo delle linee di comunicazione tedesche avrebbe reso queste ultime più vulnerabili a eventuali contrattacchi ai fianchi. Ancora più importante è però il fatto che difficilmente Hitler avrebbe potuto spingere il suo inganno fino al punto di convincere gli inglesi alla trattativa e gli americani a confermare la loro neutralità. E anche disponendo delle risorse della parte occidentale dell’Unione Sovietica, la Germania, stanti l’inefficienza della sua economia bellica, i difetti della sua organizzazione politica, il suo impegno su molteplici teatri di guerra e la necessità di fronteggiare vita natural durante la guerriglia partigiana fomentata direttamente dalla barbara dominazione nazista, non avrebbe avuto alcuna possibilità di competere con successo con il potenziale materiale degli Stati Uniti – che peraltro erano qualche anno più avanti anche nella progettazione della bomba atomica, mentre nella migliore delle ipotesi i tedeschi avrebbero potuto disporre di armi nucleari soltanto agli inizi del 194710. 241

5. L’eredità di Hitler: le rovine di Berlino (1945). 242

Di fatto, anche nel caso in cui Mosca fosse caduta, il Regime nazista sarebbe stato incapace di accontentarsi delle vittorie conseguite e di dedicarsi al consolidamento dei vantaggi acquisiti. Non ancora conclusa la campagna di Russia, Hitler e i suoi generali stavano già discutendo di una possibile espansione in Medio Oriente. Per sua natura, il «sistema» hitleriano era semplicemente impossibilitato a «fermarsi»: l’espansione continua e illimitata costituiva l’essenza più profonda del nazismo. Nel campo delle ipotesi contro-fattuali, dunque, la più probabile appare quella secondo cui, anche in caso di vittoria contro l’Unione Sovietica, la guerra sarebbe continuata lo stesso e avrebbe avuto il medesimo epilogo – benché dilazionato di qualche tempo. Fra tutti gli scenari possibili, il meno probabile è proprio quello di un’Europa rassegnata a una pace durevole sotto il tallone nazista e di un regime hitleriano trasformato in una forma di governo stabile e ben ordinata. Come dimostrano i casi della Polonia e della Russia, il «nuovo ordine» nazista era tutt’altro che un sistema di dominio coerente, ma riprodusse, su scala ben più ampia, lo stesso scoordinamento delle istanze di comando, le stesse rapaci ambizioni di potere e la stessa lotta incessante tra «feudi» di dominio privati che avevano caratterizzato in modo saliente lo Stato hitleriano nella Germania dell’anteguerra. Inoltre, ancora del tutto aperta restò la questione più ovvia ai fini della continuazione del Regime nazista, quella cioè della scelta del successore di Hitler e dei modi in cui tale successore sarebbe stato individuato, eletto e insediato. Man mano che la guerra andava avanti, la designazione ufficiale di Göring a tale ruolo assunse sempre più un carattere meramente formale. Hitler si oppose sempre alla creazione di quel «Gran Consiglio» del nazionalsocialismo che, nelle intenzioni dei suoi fautori, avrebbe dovuto designare l’erede del Führer, e anche se ciò fosse avvenuto, è difficile credere che le aspre rivalità esistenti tra gli altri leader nazisti avrebbero consentito a un Himmler, a un Bormann, a un Goebbels o a uno Speer di assicurarsi quella legittimazione interna al Partito necessaria per conseguire il potere e conservarlo stabilmente – così come appare poco plausibile che essi riuscissero a trasformare il nazismo in una regolata e coerente forma di governo. Tutto ciò che abbiamo detto ci induce ad affermare che alla base della forma di potere creata dal nazionalsocialismo ci fu non 243

solo un brutale impulso alla distruzione degli avversari, ma anche un’incoercibile spinta all’autodistruzione. Il nazismo riuscì a sprigionare un potenziale distruttivo su vasta scala, ma non fu in grado di edificare un sistema di dominio durevole, di perpetuare e di riprodurre, cioè, il suo Behemoth assetato di stragi e saccheggi terribili e illimitati. È vero che si dovette ricorrere alla potenza congiunta degli Stati Uniti, dell’Unione Sovietica e della Gran Bretagna per mettere in ginocchio il Terzo Reich, ma ciò non fa altro che attestare la carica di brutalità e distruzione ancora presente in un sistema messo con le spalle al muro e condannato a essere cancellato dalla storia, nonché la tenacia con cui le forze armate tedesche e la popolazione civile continuarono a combattere per una causa che appariva persa, a dir poco, sin dal Natale del 1941. Assieme all’analisi dei capitoli precedenti, le considerazioni appena svolte portano indubitabilmente alla conclusione che la forza distruttiva (e autodistruttiva) del nazismo non può essere ricondotta soltanto alle pulsioni personali di Hitler. La distruzione incarnatasi alla perfezione nella figura del dittatore tedesco non fu il prodotto dell’immaginazione, della volontà e della sfrenatezza di un solo uomo, ma una forza immanente allo stesso «sistema» di potere nazionalsocialista. Tracciare una storia psicologica di Hitler non basta certamente a spiegare perché una società complessa e moderna come quella tedesca accettò di seguirlo nell’abisso. Se in quella società non ci fosse stata un’ampia disponibilità, diffusa anche fra i più scettici e fra i più tiepidi sostenitori del nazismo, a «lavorare per il Führer» in modo diretto o indiretto, la forma peculiare di potere personale esercitata da Hitler si sarebbe trovata priva di fondamenta sia sociali che politiche. Il consenso popolare fu, perciò, indispensabile all’esercizio effettivo di quel potere. Hitler non fu un tiranno imposto alla nazione, ma in larga misura, e fino a poco tempo prima della conclusione della guerra, un leader sostenuto dall’appoggio delle masse: le dimensioni di questa popolarità determinarono le possibilità di espansione del suo potere personale. Ecco perché la dinamica distruttiva materializzatasi nella persona del Führer del nazismo non è comprensibile al di fuori delle motivazioni sociali e politiche che portarono ad accettare quella forma illimitata di potere personale. Come si è detto all’inizio di questa analisi, la chiave per spie244

gare l’eccezionalità del potere hitleriano può essere trovata nella nozione weberiana di «potere carismatico». Attraverso tale concetto si può cogliere, infatti, il nesso fondamentale tra le motivazioni sociali del consenso verso Hitler, la forma peculiare di potere personale che divenne caratteristica preminente del sistema di dominio costruito dal nazismo, e la dinamica distruttiva posta in essere da quest’ultimo. Nell’Introduzione sono stati delineati i tratti salienti di ciò che abbiamo chiamato «potere carismatico». Abbiamo usato questo concetto nella sua accezione specifica per descrivere una forma di dominio personale basata sul riconoscimento della leadership di un capo «eroico» da parte dei suoi seguaci. Una tale forma di dominio si può instaurare solo in presenza di una crisi di sistema ed è difficilmente conciliabile con l’esistenza di forme sistematizzate di governo. Essa, quindi, per sua natura è instabile e tende a distruggere ogni forma regolata di potere; infine, poiché la sua sopravvivenza dipende dal conseguimento di vittorie sempre nuove e dal rifiuto di lasciarsi imbrigliare in pratiche governative di routine, la sua stessa logica di funzionamento la porta inevitabilmente all’autodistruzione. Questo modello interpretativo ha trovato evidenti applicazioni in molte delle questioni discusse nei capitoli precedenti. Così ne abbiamo fatto uso innanzitutto per spiegare il richiamo quasi messianico esercitato da Hitler nei confronti di milioni di tedeschi anche prima del 1933, quando la totale crisi di legittimazione della Repubblica di Weimar diffuse la disponibilità ad accettare una forma di governo fondata sul potere e sulla responsabilità di una sola persona. Esso, inoltre, ha dato conto efficacemente sia della capacità di tenuta della visione «missionaria» concepita da Hitler, sia dell’incapacità di quest’ultimo di impegnarsi nella definizione razionale di obiettivi politici e di governo a medio termine o nella fissazione di priorità chiare e realistiche. Sulle stesse basi abbiamo anche spiegato il primato assoluto attribuito da Hitler alle questioni inerenti il suo prestigio personale, la sua predilezione per gli effetti teatrali e per l’impatto propagandistico delle sue uscite più importanti, il suo timore di perdere anche un solo grammo della sua popolarità, la sua riluttanza ad affrontare il popolo tedesco quando quella popolarità cominciò a tramutarsi nel sentimento contrario verso la fine della guerra. Ancora, il nostro mo245

dello chiarisce bene i motivi per cui Hitler, sia per le citate considerazioni di prestigio, sia perché la sua posizione gli imponeva di tenersi lontano dalle beghe politiche interne e di conservare la lealtà di ognuno dei suoi paladini, fu sempre incapace di prendere posizione e di assumere chiare decisioni in occasione delle lotte che divisero fra loro i Gauleiter o altri capipartito locali. Lo stesso schema interpretativo è servito a descrivere quel tipo peculiare di dominazione politica che prese forma sotto il regime nazista e nella quale fedeltà personali di sapore «neo-feudale» presero il sopravvento sulle strutture burocratiche di governo, le gerarchie formali lasciarono il posto ai titoli di merito derivanti dall’immediata vicinanza alla persona del «capo», la proprietà pubblica poté essere trasformata in patrimonio privato e lo sfruttamento economico venne concepito, in accordo con gli obiettivi visionari del leader, nei termini di una rinnovata e moderna forma di schiavitù. Da queste premesse è risultata anche la graduale erosione dell’apparato amministrativo statale e la messa in mora di qualsiasi pratica assimilabile anche lontanamente a un sistema di governo ordinato e razionale. Infine, la nostra interpretazione fondata sul concetto di potere carismatico ci ha messo in grado di comprendere la dinamica interna di una forma di dominio condannata a restare in perenne movimento e in cui la predilezione hitleriana per il gioco d’azzardo, per la strategia del «tutto o niente», non fu soltanto il frutto di una scelta personale, ma fu determinata dal bisogno strutturale di evitare la stasi e di conseguire quei successi sui quali, in definitiva, si fondava la perpetuazione del potere carismatico stesso. Gli ultimi due punti citati ci sembrano d’importanza cruciale. L’erosione delle modalità «razionali» di governo da parte di altre fondate sull’autorità personale costituì la base della crescente autonomia del «capo carismatico», dettando anche i criteri per la «selezione autonoma»11 (resa necessaria dalla mancanza di un flusso ordinato di disposizioni provenienti dall’alto) delle linee d’azione che la visione ideologica del Führer aveva fissato come obiettivi impliciti da attuare nei confronti dell’intera società. In tal modo, gli obiettivi ideologici che erano identificati più strettamente con la figura del capo finirono con l’assumere sempre maggiore centralità, senza che quest’ultimo avesse bisogno di diramare direttive esplicite per la loro realizzazione. 246

La dinamica che costituisce il nucleo vitale del potere carismatico non può in alcun modo cessare. La sua legge non gli consente di fare la minima concessione alla normalità o alla routine, né di mettere un punto fermo ai propri successi. La «visione» del capo deve rimanere tale, qualsiasi parte di essa sia stata realizzata grazie all’ultima conquista. Più a lungo il potere di Hitler fosse continuato, tanto meno probabile sarebbe stata la sua riduzione a «sistema» e tanto maggiore sarebbe stato il suo impatto distruttivo di tutte le strutture organizzate di governo. Un’eventuale vittoria hitleriana, lungi dal limitare la portata dei suoi obiettivi espansionistici, l’avrebbe ampliata a dismisura, poiché l’utopismo è parte integrante dell’essenza del potere carismatico. E tuttavia, non potendosi mai raggiungere la stabilità di un «normale» sistema di governo, l’instabilità immanente a quel modello di dominio, data la natura particolare dell’utopia concepita da Hitler, era destinata inevitabilmente a trasformarsi in forza non solo distruttiva, ma autodistruttiva. Le tendenze suicide di Hitler – emerse, per esempio, dopo il fallimento del putsch del 1923, in occasione della morte della nipote Geli Raubal nel 1931 e della polemica con Strasser del 1932, o ancora a più riprese nei momenti difficili dell’autunno 194412 – fanno, quindi, tutt’uno con l’incapacità di riprodursi e di sopravvivere manifestata dalla forma di potere autoritario da lui incarnata. Privo, come fu, di energia costruttiva e creatrice, e capace soltanto di produrre selvagge pulsioni distruttive, la conclusione più probabile della parabola del potere hitleriano fu quella che la storia ha effettivamente registrato: un colpo di pistola alla testa e la condanna del popolo tedesco a pagare il prezzo della sua disponibilità a farsi trascinare da un leader che non gli aveva proposto obiettivi politici limitati, ma gli aveva offerto una prospettiva salvifica di redenzione politica, risultata perciò seducente nonostante la sua indeterminatezza e illusorietà.

Appendice

Le ultime tendenze della ricerca storiografica su Hitler

Da quando questo libro è stato pubblicato per la prima volta (1991), non c’è nulla che possa far pensare a un calo dell’interesse attorno alla figura di Adolf Hitler e alla storia del Terzo Reich. Quasi ogni giorno vengono sfornati sull’argomento libri, saggi specialistici, articoli giornalistici, documentari televisivi ed altri prodotti dei mass-media dagli standard qualitativi estremamente vari. Qui possiamo menzionare solo una piccola parte di queste opere. Mentre per molti anni, in pratica dalla pubblicazione del libro di Karl Dietrich Bracher negli anni Sessanta1, nessuno ha più tentato di scrivere una storia generale del Terzo Reich, nell’ultimo quindicennio sono comparsi numerosi studi di questo tipo – in particolare quelli di Hans-Ulrich Thamer, Norbert Frei, Jost Dülffer, Ludolf Herbst, Klaus Fischer e, in tempi recentissimi, di Michael Burleigh – che, pur da punti di vista diversi, hanno contribuito significativamente ad approfondire le nostre conoscenze sul nazismo2. Per quanto riguarda i saggi incentrati sulla persona di Hitler, l’imponente studio parallelo su Hitler e Stalin scritto da Alan Bullock è stato seguito da due ampie biografie del dittatore tedesco comparse in Francia, la prima ad opera di Marlis Steinert (che si mantiene in linea con le acquisizioni della letteratura recente ed è poi stata tradotta in tedesco), la seconda ad opera di François Delpla (che invece si pone in contrasto con la mia biografia, in quanto afferma che Hitler coltivò un disegno di potere ben preciso e che questo restò coerente sin dal 1919)3. Un’altra ponderosa biografia del dittatore tedesco – la prima scritta da storici provenienti dalla ex Repubblica democratica tedesca, quali Manfred Weißbecker e Kurt Pätzold – ha messo un forte accento sul sostegno 249

dato a Hitler dalle élites di potere tedesche e si conclude con un monito sul possibile ritorno del fascismo in tempi avvenire4. La speculazione incessante sui problemi psicologici di Hitler, da cui soprattutto negli anni Settanta sono derivate alcune «psicostorie» assai fantasiose, ha prodotto un nuovo approccio di grande interesse – per merito dello sforzo congiunto di Paul e Peter Matussek e di Jan Marbach, di professione rispettivamente psichiatra, storico e sociologo – che studia Hitler come un «caso patologico» di schizofrenia: egli avrebbe proiettato all’esterno il suo complesso interiore di timidezza e inadeguatezza, trovando una società pronta ad accoglierlo a braccia aperte5. Sebbene gli autori abbiano fatto di tutto per evitarlo, in questi casi resta sempre forte il pericolo di attribuire gli orrori avvenuti in un periodo a qualcuno oppresso da problemi mentali e a una società delusa al punto da essere disposta a seguirlo; inoltre, la nozione di schizofrenia adoperata nello studio citato appare troppo vaga e imprecisa dal punto di vista medico, mentre se fosse stato usato nell’accezione più tecnica, il termine «schizofrenico» risulterebbe inapplicabile al caso di Hitler. Il tema del male è invece collocato al centro del tentativo di spiegazione del personaggio Hitler compiuto da Ron Rosenbaum6. Alla fine, lo stesso Rosenbaum ha dovuto ammettere quanto sia vano cercare il momento esatto in cui un bambino innocente diventa un mostro del male, e ha preferito procedere a un interessante confronto fra le diverse interpretazioni storiografiche su Hitler. La storiografia è anche alla base della rassegna di varie ipotesi esplicative compiuta da John Lukacs, che peraltro non lesina spazio al proprio punto di vista, tendente a rivalutare le qualità di statista di Hitler7. La possibilità che venga scoperto qualche nuovo documento eccezionale che faccia luce sulla figura di Hitler è molto remota. Tuttavia, da quando ho finito di scrivere questo libro nel 1990, le fonti primarie su Hitler sono aumentate in maniera considerevole. La conoscenza del periodo antecedente alla presa del potere nel 1933 è stata arricchita da edizioni critiche dei suoi primi scritti e discorsi, nonché dalla pubblicazione integrale degli atti del suo processo per alto tradimento svoltosi nel 1924 e da una nuova edizione critica del suo «secondo libro» del 1928 (non pubblicato per motivi di opportunità politica, in quanto contenente af250

fermazioni imbarazzanti sulla questione sud-tirolese)8. A mio avviso, ci sarebbe anche bisogno di un’edizione critica del Mein Kampf. Essa incontra difficoltà per l’ostruzionismo del governo bavarese, proprietario dei diritti d’autore, che teme il possibile abuso del testo da parte dei movimenti neonazisti e la forza seduttiva che l’opera hitleriana continua a esercitare sul pubblico. (Probabilmente, invece, è proprio la censura a conservare un certo alone mistico attorno a questo pamphlet razzista fortemente indigesto, anche se importante dal punto di vista storico. Poiché tutti gli scritti, i discorsi e le altre dichiarazioni pubbliche a noi conosciute fatte da Hitler tra il 1919 e il 1945 sono disponibili in edizione critica, e poiché lo stesso Mein Kampf è facilmente accessibile in traduzione a chiunque abbia voglia di leggerlo, le obiezioni contro un’edizione critica di quest’opera storicamente così rilevante non appaiono fondate, nonostante tutta la comprensione per le perplessità delle autorità tedesche, che ne impediscono ancora l’attuazione.) Per gli anni successivi, è oggi disponibile anche una pregevole edizione dei decreti emanati da Hitler durante la guerra, che va a completare la vecchia – e imperfetta – edizione dei suoi discorsi e proclami degli anni 1932-45, e altri testi classici hitleriani come i Tischgespräche (discorsi a tavola) e le Lagebesprechungen (commenti sulla situazione militare)9. Un altro sussidio importante, anche se relativo a un testo scritto non da Hitler, è la superba edizione critica, curata da Peter Witte e altri, dell’agenda di servizio di Himmler, scoperta pochi anni fa a Mosca10. Non credo di sbagliare affermando che il documento di acquisizione recente più prezioso e utile a gettare nuova luce su Hitler è il diario completo del ministro della Propaganda Joseph Goebbels, scoperto negli archivi dell’ex Unione Sovietica e ora disponibile nella bella edizione in più volumi curata da Elke Fröhlich e pubblicata dal prestigioso Institut für Zeitgeschichte (Istituto di Storia Contemporanea) di Monaco11. Grazie a questa meritoria fatica, sono state colmate lacune cruciali lasciate aperte dalle precedenti versioni incomplete dei diari goebbelsiani. Anche se la loro attendibilità è in qualche misura inficiata dal fatto che, essendo destinati a futura memoria, il ministro nazista profuse in essi smaccate adulazioni nei confronti del Führer e molti passaggi autoincensatori, i diari restano una fonte indispensabile, perché ci 251

consentono di seguire passo passo ogni pensiero e atto di Hitler dal punto di vista di un suo intimo collaboratore, illuminando efficacemente tutto il periodo precedente la guerra e spesso anche gli anni del conflitto. Una questione-chiave, cui però non si potrà mai dare una risposta certa al cento per cento, è la seguente: quando e perché Hitler divenne un antisemita patologico? Nella prima biografia del dittatore tedesco – un capolavoro per l’epoca in cui fu scritta –, Alan Bullock aveva descritto Hitler come «un opportunista privo di qualsiasi principio» e senza sincere convinzioni ideologiche, ma propenso piuttosto a far «prevalere la forza sul potere delle idee», non avendo altro obiettivo che «il dominio, nascosto sotto le vesti della dottrina razziale»; secondo tale lettura, quindi, l’antisemitismo hitleriano è ridotto in gran parte a strumento per conseguire e poi gestire il potere12. Già all’inizio degli anni Cinquanta, Hugh Trevor-Roper aveva raggiunto una conclusione diametralmente opposta, dipingendo Hitler come uomo di idee, benché ripugnanti13, e da quando è uscita la penetrante analisi del Mein Kampf condotta da Eberhard Jäckel, nessuno ha potuto più sostenere che Hitler fosse soltanto un opportunista sfrenato e senza scrupoli14; lo stesso Bullock, del resto, nel pubblicare il suo secondo lavoro su Hitler (e Stalin) nel 1991, ha abbandonato il suo precedente punto di vista15. Ma anche se adesso si accetta generalmente l’idea che Hitler fu sia un dogmatico dalle idee profondamente radicate che un brillante propagandista, senza vedere queste due caratteristiche in contraddizione l’una con l’altra16, resta ancora da chiarire in che momento e in che modo nacque l’antisemitismo paranoico di Hitler. La maggioranza degli storici hanno preso in parte per buono il racconto dello stesso Hitler, qui accennato nel capitolo I, e hanno perciò interpretato il suo antisemitismo come il frutto della sua esperienza viennese, quando egli si mise alla ricerca di capri espiatori per giustificare la sua vita da fallito, che allora aveva toccato il fondo, tanto da costringerlo a pernottare in un dormitorio pubblico. Su questa linea si è posto Joachim Fest nella sua celebre biografia hitleriana del 197317, mentre altri studiosi hanno richiamato l’attenzione sul fatto che, secondo quanto testimoniato da chi conobbe Hitler prima del 1919, fino a quella data il futuro dittatore non avrebbe mai fatto espliciti riferimenti all’antisemitismo, 252

che invece sarebbe diventato un aspetto immancabile e onnipresente della sua figura politica in tutti gli anni successivi18. Nel suo dettagliato studio su Hitler nel periodo dell’immediato dopoguerra, Anton Joachimsthaler si è schierato con coloro i quali datano l’emergere dell’antisemitismo hitleriano al periodo compreso tra la fase finale della prima guerra mondiale e i mesi di rivoluzione che la seguirono, vissuti dal futuro dittatore da quell’osservatorio privilegiato che erano gli accampamenti militari di Monaco19. Anche Brigitte Hamann, studiando con grande maestria la Vienna di Hitler, ha affermato con convinzione che l’antisemitismo hitleriano non poteva risalire al periodo viennese, perché alcuni conoscenti o addirittura amici del futuro dittatore erano ebrei20. (Qui va detto che usare la parola «amici» a proposito di Hitler appare un po’ esagerato, perché è dubbio che nella sua vita egli avesse mai stretto veri rapporti di amicizia; ma affrontare questo discorso ci porterebbe ora troppo lontano.) Nella mia biografia di Hitler ho espresso pure io il parere che l’odio fanatico di Hitler contro gli ebrei si sviluppò pienamente durante il biennio 1918-19 ma, a differenza della Hamann, ho considerato le idee maturate in quel periodo il punto di arrivo di un percorso già iniziato negli anni viennesi, se non ancora prima, e accelerato dall’impatto traumatico della guerra perduta e della rivoluzione21. A mio avviso è un vero e proprio azzardo dire che un uomo come quello, in una città come quella, in un periodo come quello, non era antisemita: anche a Linz, e dunque ben prima di trasferirsi a Vienna, Hitler era stato un sostenitore di Georg Schönerer, un violento razzista antisemita, nonché acceso pangermanista. Nella capitale austriaca, poi, egli fu un ammiratore del populista antisemita Karl Lueger, l’amatissimo sindaco della città. Il fatto che Hitler frequentasse degli ebrei non vuol dire che fosse immune dall’antisemitismo: egli aveva bisogno degli ebrei per vendere i suoi dipinti e per sbarcare il lunario, ma si trattava di semplici rapporti d’affari che prescindevano dalla sua ostilità sotterranea nei confronti degli ebrei, o forse addirittura la fomentavano. Tuttavia, il suo antisemitismo può essere considerato «normale» per quei tempi, un sentimento niente affatto speciale nel clima violentemente antisemitico nella Vienna dei primi decenni del XIX secolo. Certamente, Hitler si recò al fronte portando dentro di sé un forte risentimento verso ciò che, in una let253

tera del 1915, definiva «influenza straniera» e «internazionalismo interno»22. Sebbene in questo documento gli ebrei non siano citati espressamente, sarebbe ben strano, in considerazione dei sentimenti nutriti allora da Hitler, che egli li esentasse dagli strali della sua critica; allo stesso tempo, però, tutto ci fa credere che solo dopo le sconfitte in guerra e il trauma della rivoluzione il suo «normale» antisemitismo si trasformò in quell’antisemitismo patologico che, una volta insediatosi nel suo animo, non lo abbandonò fino al momento del suicidio nel bunker della Cancelleria. L’ignominiosa (per Hitler) capitolazione della Germania nel novembre 1918 è, con ogni probabilità, il fattore-chiave di tutta la questione. Entrato in politica l’anno successivo, tutta la sua «carriera» fu dedicata a cancellare la vergogna di quella resa. Chi erano, nella sua visione deformata e paranoica, i responsabili del misfatto? Chi, se non gli ebrei, erano i nemici internazionalisti della Germania assetati del potere mondiale, i maneggioni della City di Londra e di Wall Street, e al tempo stesso gli esponenti del bolscevismo a Mosca? Chi, se non loro, ostacolava ad ogni piè sospinto la «redenzione» della Germania, che Hitler considerava la missione sacra della sua vita? Razionalizzando in tal modo le sue antiche fobie, egli individuò nella «eliminazione di tutti gli ebrei il fine di un futuro governo nazionalista in Germania», come risulta dalla sua prima asserzione politica, risalente al settembre 191923. Sotto l’impatto della guerra perduta e della rivoluzione socialista, quella che era una semplice antipatia divenne il perno di un’ideologia patologica e potenzialmente genocida. A formare tale ideologia erano poche convinzioni profondamente radicate e correlate tra loro in modo da rafforzarsi a vicenda: fare della Germania la potenza dominante sul continente europeo, ed eventualmente sul mondo; conquistare «spazio vitale» a spese dell’Unione Sovietica per ottenere e conservare quella posizione di dominio; distruggere gli ebrei, considerati il principale nemico internazionale della Germania e la sua più temibile minaccia per il futuro. Queste poche idee fisse erano puntellate dalla crudele visione darwinista dell’esistenza umana come lotta incessante per la sopravvivenza e del diritto del più forte a prevalere sul più debole con qualsiasi mezzo. Certo Hitler non sviluppò mai una dottrina paragonabile per spessore intellettuale a quella marxista, ma si trattava comunque di un complesso di idee coe254

rente al proprio interno, anche se ripugnante moralmente e anche se fondato su premesse irrazionali. Ricerche recenti hanno rafforzato l’opinione da me espressa nel capitolo II (nonché in altri saggi e nella mia biografia hitleriana), secondo cui la Weltanschauung personale di Hitler non costituì il fattore decisivo della mobilitazione delle masse sulla strada della conquista del potere nel 193324. Milioni di tedeschi votarono per Hitler nella piena consapevolezza del carattere violentemente antisemita del suo movimento, ma, come ha sottolineato Peter Fritzsche, «la maggior parte degli elettori non sostenne Hitler perché condivideva il suo odio contro gli ebrei»25; egli, invece, pervenne al potere per aver saputo, in una società dilaniata dalla crisi e con un sistema politico totalmente in discredito, mobilitare in forme nuove le masse deluse dietro gli slogan della rinascita nazionale e dietro la promessa di una resa dei conti finale nei confronti di tutti coloro che avversavano quella rinascita. La diffusione, prima del 1933, dell’idea che i nemici politici non andavano semplicemente sconfitti, ma eliminati con la violenza, assommata al desiderio di ricostruire la società tedesca sulla base della purezza razziale, escludendo tutti i «diversi», furono i presupposti per la successiva accettazione, o addirittura approvazione, della repressione degli elementi estranei alla «comunità nazionale», così come hanno evidenziato Eric Johnson e Robert Gellately26. Dieci anni fa, nel capitolo IV di questo libro, avevo scritto che «la forza coercitiva insita nel potere hitleriano è inseparabile dal consenso con cui ampi strati della società tedesca accolsero quanto venne fatto nel nome di Hitler. Coercizione e consenso furono le due facce di una stessa medaglia, le colonne gemelle che ressero il potere del dittatore nazista». Questa opinione è stata ora rafforzata dall’ottimo studio di Pierre Ayçoberry sulle basi sociali del potere nazista, mentre un gran numero di ricerche hanno gettato luce sulle strutture e il personale della principale agenzia di repressione, la Gestapo, dimostrando anche come la coercizione non potesse funzionare senza la collaborazione dei cittadini normali27. Dove la ricerca sulla Germania nazista ha compiuto più progressi nell’ultima decade è stato nell’analisi dei processi attraverso cui si attuarono la persecuzione e lo sterminio degli ebrei. Nel primo dei due volumi previsti, Saul Friedländer ha sintetizzato 255

abilmente la gran mole di studi dedicati in passato a questo argomento e, ponendo l’accento sul ruolo cruciale dei fattori ideologici e della figura di Hitler, ha evidenziato il fatto che settori sempre più ampi del regime e della società furono complici in una serie di politiche che poi sfociarono nel genocidio28. I pregevoli saggi raccolti da David Bankier sul tema del rapporto tra società tedesca e persecuzione degli ebrei fino alla loro deportazione nel 1941, hanno dato un grande contributo alla comprensione dei meccanismi sociali e organizzativi che portarono alla radicalizzazione della politica antisemita29. E uno studio dettagliato (con annesse fonti documentarie) di Michael Wildt apre squarci significativi sulla mentalità dei membri dell’ufficio per gli ebrei del Servizio di sicurezza (SD-Sicherheitsdienst), incluso Adolf Eichmann, e su come prese forma, verso la fine degli anni Trenta, l’idea di «risolvere» definitivamente la questione ebraica30. Le ricerche sul delinearsi della soluzione finale (cioè i passi intrapresi nel 1941-42 per dare avvio al genocidio su larga scala) sono state intensificate e approfondite soprattutto da quando, a partire dall’inizio degli anni Novanta, si sono aperti gli archivi dell’Unione Sovietica e di altri paesi dell’Europa orientale. A fronte di tali acquisizioni, il best-seller di Daniel Goldhagen, intitolato I volenterosi carnefici di Hitler, appare poco più che un diversivo31. Gli esperti di questo settore di studi hanno ampiamente criticato l’immagine indifferenziata rappresentata da Goldhagen, che descrive una società tedesca composta tutta da «antisemiti eliminazionisti», bramosi sin dal XIX secolo di fare piazza pulita degli ebrei e quindi disposti ad accogliere a braccia aperte chi, come Hitler, offriva loro la possibilità di realizzare l’ambito proposito32. La tesi secondo cui gli esecutori dell’Olocausto erano «tedeschi comuni» assetati di sangue ebraico, si pone in contrasto con quella implicita nel classico studio di Christopher Browning sull’operato di una squadra speciale in Polonia nel 194233. Secondo Browning, infatti, coloro che premevano il grilletto per uccidere donne e bambini ebrei non erano individui fortemente ideologizzati o fanatici antisemiti, ma uomini comuni trascinati a compiere azioni omicide. Come accade spesso nei tentativi di spiegazione dei fatti storici, anche nel contesto estremo del genocidio, gli studiosi hanno cercato di capire come gli uomini pensano e agiscono chiamando in causa le due opposte polarità 256

della intenzione e della situazione. Nessuno, però, ha pensato a indagare empiricamente la sociologia degli esecutori sulla base di analisi statistiche, fino a quando non l’ha fatto, in tempi recenti, Michael Mann, il quale ha concluso che la maggior parte dei carnefici non furono né tedeschi antisemiti come tutti gli altri né uomini comuni, ma nazisti convinti che avevano vissuto lunghe esperienze di socializzazione all’interno di gruppi dediti alla repressione violenta degli avversari34. I progressi più importanti in tema di «Soluzione finale» sono stati compiuti da studiosi tedeschi che per la prima volta hanno esplorato sistematicamente i documenti degli archivi dell’Europa orientale divenuti accessibili negli ultimi anni. Il lavoro di Götz Aly ha svolto una funzione di battistrada, mettendo in evidenza la continuità fra i piani nazisti di reinsediamento delle popolazioni di ceppo tedesco e i passi graduali che culminarono nell’attuazione di un programma generalizzato di sterminio35. Ulrich Herbert è stato il maggiore protagonista delle ricerche incentrate sul personale (e i suoi moventi) dell’istanza che più di ogni altra fu responsabile del genocidio, l’Ufficio centrale per la sicurezza dello Stato36. Le conoscenze sul gruppo riunito attorno ad Eichmann nell’organizzare la «Soluzione finale» sono state notevolmente ampliate dallo studio dettagliatamente documentato dello storico austriaco Hans Safrian37. Studi pioneristici sullo svolgimento del genocidio in varie parti dell’Europa orientale sono quelli di Dieter Pohl, Thomas Sandkühler, Christoph Dieckmann e Christian Gerlach38. Un altro studioso tedesco (ma residente in Inghilterra), Peter Longerich, ha avuto il merito inestimabile di riunire insieme i risultati di queste ricerche, fornendo un’ottima sintesi generale sulla «politica di annientamento» perseguita dal nazismo39. Il quadro generale che emerge da tali studi, efficacemente tratteggiato da Longerich, si accorda bene con l’interpretazione proposta in questo libro sul rapporto tra genocidio e potere hitleriano. Secondo Longerich, Hitler non diede un ordine solo e precisamente individuabile per scatenare il genocidio, che invece fu lo sbocco di una escalation di atti e decisioni, culminanti, verso la primavera del 1942, in un programma radicale di sterminio. Momenti-chiave in questa evoluzione furono l’invasione dell’Unione Sovietica nel giugno 1941, accompagnata, nella fase iniziale, dall’uccisione di migliaia di ebrei maschi da parte degli Einsatz257

gruppen (e loro sottounità) del Servizio di sicurezza; l’estensione delle esecuzioni di massa alle donne e ai bambini ebrei nell’estate del 1941; la deportazione degli ebrei tedeschi, austriaci e cechi nell’autunno dello stesso anno; la conferma per i tedeschi, in contemporanea circa con la dichiarazione di guerra hitleriana agli Stati Uniti nel dicembre 1941, che gli ebrei dovevano pagare per la guerra mondiale di cui erano ritenuti responsabili; e, dopo la Conferenza di Wannsee del gennaio 1942, l’attuazione su larga scala di un piano coordinato di deportazione e sterminio in Europa occidentale verso la primavera-estate del 1942. Nonostante ciò, molti storici hanno insistito nel tentativo di collegare l’avvio della «Soluzione finale» a un ordine «fondamentale» di Hitler impartito in una data precisa. Nel suo ottimo studio su Himmler e sulla politica di genocidio, Richard Breitman ha asserito – anche se, per quanto ne so, nessuno degli esperti nel settore di studio in oggetto lo ha seguito – che Hitler diede l’ordine di sterminare gli ebrei sin dal gennaio 194140. Tobias Jersak propende, invece, per l’agosto 1941, alla vigilia immediata della Carta Atlantica, nella quale Roosevelt e Churchill esposero la loro visione del nuovo ordine mondiale da costruire dopo la sconfitta delle potenze dell’Asse; questa argomentazione, secondo me, è poco convincente, se non altro perché nessuna svolta significativa nella politica di sterminio sembra databile al periodo indicato da Jersak41. Per Christian Gerlach, infine, il momento cruciale si ebbe in coincidenza con la dichiarazione di guerra della Germania agli Stati Uniti: il giorno successivo ad essa (12 dicembre 1941), Hitler incontrò i capi del suo partito e in quell’occasione avrebbe reso nota la sua decisione «fondamentale» di procedere allo sterminio degli ebrei europei42. C’è da dire che Hitler fu molto abile a occultare l’azione contro gli ebrei dietro una cortina impenetrabile di segreto, tanto che la «Soluzione finale» restò un argomento tabù perfino fra il personale più fidato del quartier generale del Führer costituito durante la guerra. Almeno per questo motivo, il ruolo di Hitler continua a essere avvolto nell’ombra, anche se la sua impronta personale nella vicenda fu inconfondibile e i suoi interventi si rivelarono decisivi nei momenti cruciali: egli, infatti, autorizzò gli assassinii di massa previsti nel quadro dell’«Operazione Barbarossa» – e che Christopher Browning molti anni fa ha definito «il salto quan258

tistico» verso il genocidio43 –, quindi la massiccia intensificazione delle stragi dopo colloqui riservati con il capo delle SS Heinrich Himmler, nel luglio 194144; l’autorizzazione di Hitler fu necessaria a settembre anche per la deportazione degli ebrei residenti nel Reich, iniziata l’autunno seguente45; e a dicembre, il suo discorso ai capi del partito diede il via alla veloce escalation delle azioni di sterminio, che peraltro già a quel tempo avevano ampiamente assunto proporzioni da genocidio46. Ciò nondimeno, sembra altamente improbabile che Hitler, il quale evitava di parlare in termini espliciti della «Soluzione finale» persino con i suoi più stretti collaboratori, avesse annunciato una direttiva di base sullo sterminio al cospetto di circa 50 gerarchi della NSDAP. È molto più verosimile, invece, che, sentendo ripetere da Hitler – in termini inusualmente veementi persino per lui – la «profezia» del 30 gennaio 1939 sulla distruzione degli ebrei in caso di guerra mondiale, molti dei presenti avessero interpretato le sue parole come il segnale di avvio di un’azione di sterminio totale degli ebrei europei. La mia opinione, esposta in questo libro e argomentata più ampiamente nella biografia su Hitler, si accorda in larga parte con quella di Longerich: al genocidio si arrivò con un’escalation di fasi, ad ognuna delle quali la deriva sterminatrice acquisiva nuovo slancio sulla base di una combinazione fra direttive centrali e iniziative locali, sempre supportate, nei momenti cruciali, dall’espressa approvazione, autorizzazione e consapevolezza di Hitler, ma senza che questi avesse mai impartito un singolo ed esplicito ordine, anche soltanto verbale, per l’avvio della «Soluzione finale». Per illuminare gli ultimi anni di Hitler (trattati nel capitolo VII di questo libro), quando il dittatore oppose una resistenza disperata alla marea della guerra che lo stava sommergendo, si rivelano preziosi studi come quello di Gitta Sereny, che analizza in modo penetrante la relazione tra Hitler e Albert Speer, o come la biografia dello stesso Speer scritta da Joachim Fest47. Le confessioni dei capi nazisti catturati nella fase finale del conflitto, interessanti per il modo in cui esse narrano le loro azioni sotto Hitler e il loro rapporto con il Führer, sono state presentate e analizzate efficacemente da Richard Overy48. Lo stato di salute fisico e mentale di Hitler in quegli anni, che ha dato adito a un fiume di speculazioni ed equivoci, è stato in tempi recenti oggetto di disamine 259

esaustive per merito di Ernst Günther Schenk (un dottore che entrò brevemente in contatto con Hitler nell’aprile del 1945), di Ellen Gibbels (che è stata la prima a dimostrare, oltre ogni ragionevole dubbio, che il dittatore tedesco era affetto dal morbo di Parkinson) e di Fritz Redlich, un ex psichiatra, autore di uno studio sull’argomento dalle proporzioni assai notevoli49. Questo studioso conclude, secondo me con grande acume, che i problemi di salute di Hitler «non influirono in modo decisivo sulle sue azioni politiche o militari» (anche se egli ritiene che esse «accelerarono le decisioni, nel timore che non gli restasse più tempo per portare a termine i suoi progetti»), e formula sullo stato mentale di Hitler una diagnosi di «paranoia politica». E quando sua moglie gli ha chiesto se questa diagnosi significava che il dittatore tedesco era una persona malvagia, Redlich ha dato una risposta affermativa50. L’apertura degli archivi sovietici ha dato la stura a nuove illazioni anche sulla vera fine di Hitler nel bunker della Cancelleria. Ada Petrova e Peter Watson hanno passato in esame i fascicoli relativi alla morte del dittatore e ai suoi resti presunti rinvenuti nel giardino della Cancelleria dai soldati sovietici51. L’analisi più dettagliata delle prove documentarie attinenti gli ultimi giorni di Hitler, la sua morte e il destino del suo cadavere, è però opera di Anton Joachimsthaler, che non dà molta fede alla versione secondo cui i sovietici trovarono soltanto poche ossa sparse del dittatore, e smentisce molte delle storie fantasiose diffusesi nelle settimane immediatamente successive al 30 aprile 1945 e rimaste vive fino ai nostri giorni52: infatti, ci sono ancora molti che continuano a credere che Hitler (e forse anche Eva Braun) sia scappato di nascosto da Berlino alla fine della guerra, dopo aver provveduto a mettere al suo posto un sosia nel bunker della Cancelleria, una volta resosi conto che tutto era perduto. Come si può notare da queste veloci annotazioni, ora come ora non si intravede alcun segno di attenuazione dell’interesse nei confronti di Hitler e del suo regime. È ancora troppo presto per considerare il nazismo soltanto un fatto storico: le cicatrici morali che esso ha lasciato sono troppo profonde e i suoi effetti traumatici continuano a farsi sentire sulle innumerevoli vittime di Hitler e sui loro discendenti, nonché sul popolo tedesco, che ha dovuto farsi carico di questa pesantissima eredità. Nuovi studi sul 260

Terzo Reich appariranno negli anni avvenire e nuovi approcci verranno tentati, ma sempre continueremo a stupirci per la rapidità con cui una democrazia progredita poté soccombere di fronte alla politica hitleriana di rinascita nazionale e lasciare spazio alla negazione totale dei valori della civiltà e a una guerra di sterminio dalle proporzioni mai sperimentate nella storia passata.

Note

Introduzione W. Maser, Hitlers Briefe und Notizen, Düsseldorf 19882, p. 42. Ivi, p. 59. La dimostrazione di Monaco è datata erroneamente da molti al 1° agosto. Per la datazione corretta cfr. A. Joachimsthaler, Korrektur einer Biographie. Adolf Hitler 1908-1920, München 1989, p. 100. 3 F. Wiedemann, Der Mann, der Feldherr werden wollte, Velbert-Kettwig 1964, p. 26. 4 H. Frank, Im Angesicht des Galgens, München-Gräfelfing 1953, p. 46. 5 Maser, Hitlers Briefe und Notizen cit., pp. 100-1. 6 MK, p. 179. 7 Per un’eccellente rassegna della storiografia su Hitler cfr. G. Schreiber, Hitler. Interpretationen 1923-1983, Darmstadt 1984. 8 Citato in H.R. Trevor-Roper, The Last Days of Hitler, London 19623, p. 46 (trad. it., Gli ultimi giorni di Hitler, Milano 19953). 9 J. Fest, Hitler. Eine Biographie, Frankfurt a.M.-Berlin 1973 (trad. it., Hitler, Milano 1999). 10 T. Mason, Open Questions on Nazism, in R. Samuel (a cura di), People’s History and Socialist Theory, London 1981, p. 205. Dopo la caduta del Muro di Berlino, una biografia di questo genere è stata tentata da due storici della ex Repubblica democratica tedesca, K. Pätzold e M. Weißbecker, Adolf Hitler. Eine politische Biographie, Leipzig 1995. 11 N. Rich, Hitler’s War Aims, 2 voll., London 1973-74, vol. I, p. 11. 12 K.D. Bracher, The Role of Hitler: Perspectives of Interpretation, in W. Laqueur (a cura di), Fascism. A Reader’s Guide, Harmondsworth 1979, p. 201. 13 H. Mommsen, Nationalsozialismus, in C.D. Hernig (a cura di), Sowjetsystem und demokratische Gesellschaft. Eine vergleichende Enzyklopädie, 7 voll., Freiburg-Basel-Wien 1966-72, vol. IV, col. 702. 14 «Die Pflicht eines jeden, zu versuchen, im Sinne des Führers ihm entgegen zu arbeiten» (Archivio di Stato della Bassa Sassonia, fondo 131, n. 303, fasc. 131v, discorsi di Werner Willikens, sottosegretario al ministero per l’Alimentazione, 21 febbraio 1934). 15 «Macht bedeutet jede Chanche, innerhalb einer sozialen Beziehung den eigenen Willen auch gegen Widerstreben durchzusetzen [...]» (M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft, Tübingen 19725, p. 28; trad. it., Economia e società, Milano 1995, vol. I, Teoria delle categorie sociologiche, p. 51). 1 2

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Cfr. M. Mann, The Sources of Social Power, vol. I, Cambridge 1986, cap. 1. «Herrschaft soll heißen die Chanche, für einen Befehl bestimmten Inhalts bei angebbaren Personen Gehorsam zu finden» (Weber, op. cit., p. 28; trad. it. cit., vol. I, p. 52). 18 Ivi, pp. 654-87 (trad. it. cit., vol. IV, Sociologia politica, pp. 218-68). 19 Mason, Open Questions cit., p. 207. 20 Cfr. A. Gorz, Farewell to the Working Class, London 1982, pp. 58-59, 6263 (trad. it., Addio al proletariato. Oltre il socialismo, Roma 1982). 21 Cfr. N. Elias, Studien über die Deutschen, Frankfurt a.M. 1989, pp. 41252, 425 (trad. it., I tedeschi. Lotte di potere ed evoluzione dei costumi nei secoli XIX e XX, Bologna 1991). 22 L’espressione è di H. Mommsen, Hitlers Stellung im nationalsozialistischen Herrschaftssystem, in G. Hirschfeld e L. Kettenacker (a cura di), Der Führerstaat: Mythos und Realität, Stuttgart 1981, p. 70. 16 17

Capitolo primo 1 La descrizione che segue si basa sull’introduzione di P.E. Schramm (spec. pp. 29-34) a H. Picker, Hitlers Tischgespräche im Führerhauptquartier, StuttgartDegerloch 19632 (trad. it. ridotta, Conversazioni di Hitler a tavola 1941-1942, Milano 1952), e sul commento dello stesso Picker nella 3a ed. del 1976, p. 25. 2 Cfr. W. Maser, Adolf Hitler. Legende, Mythos, Wirklichkeit, München 19763, pp. 16-38, 265. 3 Cfr. J. Fest, Hitler. Eine Biographie, Frankfurt a.M.-Berlin 1973, pp. 31-32 (trad. it., Hitler, Milano 1999). 4 Cit. da R. Binion, Hitler among the Germans, New York 1976. Allo stesso proposito si veda l’efficace commento di W. Carr, Hitler. A Study in Personality and Politics, London 1978, pp. 124-25, 148 (trad. it., Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli 1985). 5 Maser, Hitler cit., p. 97. 6 Cfr. Fest, Hitler cit., p. 65. 7 MK, p. 59. 8 Maser, Hitler cit., p. 251. 9 MK, p. 59. 10 Ivi, p. 60. 11 Ivi, cap. 2. 12 Maser, Hitler cit., p. 166. 13 MK, pp. 221-25. 14 Maser, Hitler cit., p. 149. 15 MK, p. 225. 16 Cit. da Maser, Hitler cit., p. 165. 17 MK, p. 235. 18 JK, doc. 60. 19 Ivi, doc. 61. 20 MK, p. 772. 21 JK, per esempio docc. 87, 109, 138-39, p. 215, n. 184.

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Ivi, p. 200. Ivi, p. 337. 24 Ivi, pp. 119-20, e pp. 128, 184 per il rifiuto dell’«antisemitismo emotivo». 25 Ivi, p. 201. 26 Ivi, p. 238. 27 Ivi, pp. 176-77. 28 Ivi, docc. 357, 421. 29 Ivi, pp. 1210, 1226, 1232. 30 Ivi, doc. 654, p. 1242. 31 Ivi, docc. 96, 106, 121. 32 Ivi, p. 646. 33 Ivi, pp. 703-4. 34 Ivi, doc. 452. 35 MK, pp. 316, 324. 36 Ivi, p. 334. 37 Ivi, p. 357. 38 Ivi, p. 358. 39 Ivi, p. 743. 40 Ivi, p. 362. 41 Ivi, pp. 431-34. 42 JK, p. 924. 43 Ivi, p. 946. 44 F. Genoud (a cura di), The Testament of Adolf Hitler, London 1961 (trad. it., Il testamento di Hitler, Milano 1961). 45 W. Maser, Hitlers Briefe und Notizen, Düsseldorf 19882, pp. 374-75. 46 MK, pp. 229-32. 47 Ivi, p. 232. 48 Ivi, p. 70. 49 Cit. da A. Tyrell, Vom ‘Trommler’ zum ‘Führer’, München 1975, p. 170. 50 Cit. da J. Fest, The Face of the Third Reich, Harmondsworth 1972, p. 288 (trad. it., Il volto del Terzo Reich. Profilo degli uomini-chiave della Germania nazista, Milano 19922). 51 A. Tyrell (a cura di), Führer Befehl... Selbstzeugnisse aus der «Kampfzeit» der NSDAP. Dokumentation und Analyse, Düsseldorf 1969, pp. 84-85. 52 A. Rosenberg, Letzte Aufzeichnungen, Göttingen 1955, pp. 86, 316-17, 342. 53 H. Frank, Im Angesicht des Galgens, München-Gräfelfing 1953, pp. 39-42. 54 Cit. da Fest, The Face cit., p. 321. 55 H. Heiber (a cura di), Das Tagebuch von Joseph Goebbels 1925-26, Stuttgart 1960, pp. 34, 72, 74. 56 B. von Schirach, Ich glaubte an Hitler, Hamburg 1967, pp. 18-22. 57 Cit. da Fest, The Face cit., p. 118. 22 23

Capitolo secondo 1 2

A. Tyrell, Vom ‘Trommler’ zum ‘Führer’, München 1975, p. 33. Hitler fu il settimo membro del comitato esecutivo della NSDAP e non, co-

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me affermò egli stesso (MK, p. 244), del Partito in generale. Il numero della sua tessera d’iscrizione fu il 555 (ma la numerazione, per motivi di prestigio, partiva dal 501). Sull’argomento si veda W. Maser, Adolf Hitler. Legende, Mythos, Wirklichkeit, München 19763, pp. 173, 553, nota 225. 3 Cit. da D. Stegmann, Zwischen Repression und Manipulation. Konservative Machteliten und Arbeiter- und Angestelltenbewegung 1910-1918, in «Archiv für Sozialgeschichte», 12 (1972), p. 413. 4 H. Auerbach, Hitlers politische Lehrjahre und die Münchener Gesellschaft 1919-1923, in «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», 25 (1977), p. 18. Le pagine che seguono si basano in larga parte su quest’ottima ricostruzione dei primi anni di Hitler a Monaco. 5 K. Lüdecke, I Knew Hitler, London 1938, pp. 13-14. 6 H. Heiber (a cura di), Das Tagebuch von Joseph Goebbels 1925-26, Stuttgart 1960, p. 60. 7 Cit. da D. Orlow, The History of the Nazi Party, 1919-1933, Pittsburgh 1969, p. 70. 8 Heiber, Das Tagebuch cit., pp. 71-72. 9 A. Tyrell (a cura di), Führer Befehl... Selbstzeugnisse aus der «Kampfzeit» der NSDAP. Dokumentation und Analyse, Düsseldorf 1969, p. 163. 10 Ivi, pp. 187-88. 11 N&P, vol. I, p. 114. 12 P. Merkl, Political Violence under the Swastika, Princeton 1975, p. 453. 13 Ivi, p. 552. 14 Ivi, p. 453. 15 MK, p. 649. 16 Ivi, pp. 651-52. 17 Ivi, p. 650. 18 Cfr. M. Broszat, German National Socialism 1919-1945, Santa Barbara 1966, pp. 58-59. 19 Ivi, pp. 63-64. 20 Merkl, op. cit., pp. 105-6. 21 W. Kempowski, Haben Sie Hitler gesehen? Deutsche Antworten, Hamburg 1979, pp. 17-18. 22 J. Goebbels, Vom Kaiserhof zur Reichskanzlei, München 193721, p. 87. 23 Cit. da T. Childers (a cura di), The Formation of the Nazi Constituency 1919-1933, London-Sidney 1986, p. 232. 24 Cfr. H.A. Turner, German Big Business and the Rise of Hitler, Oxford 1985, pp. 111-24. 25 La menzionata petizione è stampata in E. Czichon, Wer verhalf Hitler zur Macht?, Köln 19764, pp. 69-72. 26 T. Duesterberg, Der Stahlhelm und Hitler, Wolfenbüttel-Hannover 1949, pp. 38-39; L. Graf Schwerin von Krosigk, Es geschah in Deutschland, TübingenStuttgart 1951, p. 147.

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Capitolo terzo M. Mann, The Autonomous Power of the State: its Origins, Mechanisms, and Results, in «Archives européennes de Sociologie», 25 (1984), pp. 188-90. 2 DBS, 26 giugno 1934, pp. B 22-23. 3 Akten der Reichskanzlei. Die Regierung Hitler, Teil I: 1933-34, Boppard 1983, pp. 1-10. 4 N&P, vol. I, p. 136. 5 M. Broszat, Der Staat Hitlers, München 1969, p. 95. 6 R. Diels, Lucifer ante Portas, Stuttgart 1950, p. 194; si veda anche H. Mommsen, Der Reichstagsbrand und seine politischen Folgen, in «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», 12 (1964), p. 385 e nota 143. 7 Akten der Reichskanzlei. Die Regierung Hitler cit., p. 128. 8 «Reichsgesetzblatt», 1933, parte I, p. 83. 9 H. Buchheim et al., Anatomie des SS-Staates, 2 voll., Olten-Freiburg i.B. 1965, vol. II, p. 20. 10 W. Hofer, Der Nationalsozialismus. Dokumente 1933-1945, Frankfurt a.M. 1957 (19822), pp. 56-57; Broszat, Der Staat Hitlers cit., pp. 110-11. 11 Archivio della Socialdemocrazia tedesca, Bonn, fondo «Emigration Sopade», M32, rapporto del segretario di confine della Baviera settentrionale, Hans Dill, 18 novembre 1935. 12 Usa quest’espressione R. Bessel, Political Violence and the Rise of Nazism, New Haven-London 1984, p. 12. 13 Sul comportamento di Gürtner e Blomberg cfr. N&P, vol. I, p. 182. 14 Sul giuramento dei militari e degli impiegati civili si veda ivi, pp. 185-86. 15 Ivi, p. 182. 16 Per i dati qui menzionati cfr. R. Löwenthal e P. von zur Mühlen, Widerstand und Verweigerung in Deutschland 1933 bis 1945, Berlin-Bonn 1984, p. 83; si veda anche H. Bull (a cura di), The Challenge of the Third Reich, Oxford 1986, p. 93. 17 DBS, 12 luglio 1939, pp. A 83-84. 18 Anatomie des SS-Staates cit., vol. II, pp. 25-26, 75. 19 N&P, vol. I, p. 182. 20 H. Frank, Im Angesicht des Galgens, München-Gräfelfing 1953, pp. 466-67. 21 N&P, vol. II, p. 476. 22 E.R. Huber, Verfassungsrecht des Großdeutschen Reiches, Hamburg 1939, p. 230. 23 H. Picker, Hitlers Tischgespräche im Führerhauptquartier, Stuttgart-Degerloch 19632, p. 225 (trad. it. ridotta, Conversazioni di Hitler a tavola 19411942, Milano 1952). 24 W. Jochmann (a cura di), Adolf Hitler. Monologe im Führerhauptquartier 1941-1944, Hamburg 1980, p. 59. 25 Ivi, p. 350. 26 Anatomie des SS-Staates cit., vol. II, p. 46. 27 Ivi, vol. II, p. 39. 28 Ivi, vol. II, p. 54. 1

267

29 L. Gruchmann, Rechtssystem und nationalsozialistische Justizpolitik, in M. Broszat e H. Möller (a cura di), Das Dritte Reich, München 1983, p. 84. 30 M. Domarus, Hitler. Reden und Proklamationen, 1932-1945, Wiesbaden 1973, 2 voll. in 4 parti, pp. 1865-77 (trad. it. parziale, Ultimi discorsi, Padova 1988). Si veda anche D. Rebentisch, Führerstaat und Verwaltung im Zweiten Weltkrieg, Stuttgart 1989. 31 Anatomie des SS-Staates cit., vol. I, p. 118. 32 Ivi, vol. II, p. 51. 33 R. Gellately, The Gestapo and German Society. Political Denunciation in the Gestapo Case Files, in «Journal of Modern History», 60 (1988), p. 665. 34 Ivi, p. 656. 35 R. Mann, Protest und Kontrolle im Dritten Reich, Frankfurt a.M.-New York 1987, p. 66.

Capitolo quarto 1 Per questa espressione cfr. H. Mommsen, Der Nationalsozialismus. Kumulative Radikalisierung und Selbstzerstörung des Regimes, in Meyers Enzyklopädisches Lexikon, vol. XVI, 1976, pp. 785-90. 2 La frase è di T. Childers, The Nazi Voter, Chapel Hill-London 1983, p. 268. 3 S. Haffner, Anmerkungen zu Hitler, München 1978, p. 43. 4 J.S. Conway, The Nazi Persecution of the Churches, 1933-45, London 1968, p. 45. 5 N&P, vol. I, pp. 156-57, 159. 6 P. Meier-Benneckenstein, Dokumente der deutschen Politik, vol. I, Berlin 19372, pp. 263-64. 7 H. Heiber, Goebbels Reden, vol. I, Düsseldorf 1971, p. 90. 8 BAK, R43II/1263, ff. 93, 164. 9 A.H. Unger, The Totalitarian Party, Cambridge 1974, p. 84; M. Kater, The Nazi Party. A Social Profile of Members and Leaders, 1919-1945, Oxford 1983, p. 263. 10 M. Jamin, Zwischen den Klassen. Zur Sozialstruktur der SA-Führerschaft, Wuppertal 1984, pp. 2-7; C. Fischer, Stormtroopers, London 1983, p. 32. 11 N&P, vol. II, p. 421. 12 H.-A. Jacobsen e W. Jochmann (a cura di), Ausgewählte Dokumente zur Geschichte des Nationalsozialismus 1933-1945, vol. I/C (senza pagina). 13 Unger, op. cit., pp. 87, 89. 14 D. Orlow, The History of the Nazi Party, 1933-1945, Pittsburgh 1973, p. 173. 15 Si veda su questo punto importante l’articolo di M. Broszat, Soziale Motivation und Führer-Bindung des Nationalsozialismus, in «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», 18 (1970), pp. 392-409. 16 G. Bock, Zwangssterilisation im Nazionalsozialismus, Opladen 1986, pp. 8, 238. 17 Cfr. la relativa documentazione in N&P, vol. III, pp. 997 sgg. 18 H. Rauschning, Gespräche mit Hitler, Zürich 1940, pp. 102-3 (trad. it.,

268

Hitler mi ha detto, Roma 19462); seri dubbi sull’autenticità della testimonianza di Rauschning sono stati sollevati da W. Hänel, Hermann Rauschnings «Gespräche mit Hitler» - Eine Geschichtsfälschung, Ingolstadt 1984. 19 H. Picker, Hitlers Tischgespräche im Führerhauptquartier, Stuttgart-Degerloch 19632, p. 169 (trad. it. ridotta, Conversazioni di Hitler a tavola 19411942, Milano 1952). 20 Cfr. M. Funke, 7 März 1936. Fallstudie zum außenpolitischen Führungsstil Hitlers, in W. Michalka (a cura di), Nationalsozialistische Außenpolitik, Darmstadt 1978, pp. 278-79. 21 Archivio della Socialdemocrazia tedesca, Bonn, Fondo «Emigration Sopade», M33, lettera di Hans Dill a Otto Wels, 7 marzo 1936. 22 Cfr. A. Speer, Erinnerungen, Frankfurt a.M.-Berlin 1969, pp. 173, 229 (trad. it., Memorie del III Reich, Milano 1971). 23 H. Heiber (a cura di), Hitlers Lagebesprechungen. Die Protokollfragmente seiner militärischen Konferenzen 1942-1945, Stuttgart 1962, p. 178. 24 N&P, vol. III, p. 681.

Capitolo quinto M. Broszat, Der Staat Hitlers, München 1969, p. 327. Ivi, p. 351. 3 E. Fröhlich (a cura di), Die Tagebücher von Joseph Goebbels, 4 voll., München 1987, vol. II, p. 410 (trad. it. parziale, Diario 1938, Milano 1995). 4 L. Gruchmann, Die ‘Reichsregierung’ im Führerstaat, in G. Doeker e W. Steffani (a cura di), Klassenjustiz und Pluralismus, Hamburg 1973, p. 192. 5 F. Wiedemann, Der Mann, der Feldherr werden wollte, Velbert-Kettwig 1964, p. 69. 6 Quest’espressione si trova in G.L. Weinberg, The Foreign Policy of Hitler’s Germany: Diplomatic Revolution in Europe 1933-36, Chicago-London 1970. 7 Akten der Reichskanzlei. Die Regierung Hitler, Teil I: 1933-34, Boppard 1983, pp. 664-65. 8 Si veda D. Bankier, Hitler and the Policy-Making Process on the Jewish Question, in «Holocaust and Genocide Studies», 3 (1988), pp. 1-20. 9 R. Koehl, Feudal Aspects of National Socialism, in «American Political Science Review», 54 (1960), pp. 921-33. 10 Broszat, Der Staat Hitlers cit., p. 353. 11 M. Domarus, Hitler. Reden und Proklamationen, 1932-1945, Wiesbaden 1973, pp. 273 sgg. (trad. it. parziale, Ultimi discorsi, Padova 1988). 12 Documents on British Foreign Policy, vol. 6, London 1957, p. 85. 13 P. Schmidt, Statist auf diplomatischer Bühne 1923-1945, Bonn 1953, p. 307. 14 J. von Ribbentrop, Zwischen London und Moskau. Erinnerungen und letzte Aufzeichnungen, Leoni 1953, p. 64 (trad. it., Tra Londra e Mosca, Milano 1954). 15 Fröhlich, op. cit., vol. II, p. 504. 16 Ivi, p. 577. 1 2

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Ivi, p. 582. N&P, vol. II, pp. 281-87. 19 Ivi, p. 288. 20 Ivi, vol. III, pp. 680-87. 21 Ivi, pp. 691-92. 22 Ivi, p. 688. 23 Fröhlich,op. cit., vol. III, p. 419. 24 Cfr. ivi, pp. 414-25; si veda anche H. von Kotze (a cura di), Heeresadjutant bei Hitler, 1938-1943. Aufzeichnungen des Majors Engel, Stuttgart 1974, p. 20. 25 Fröhlich, op. cit., vol. III, p. 416. 26 K.-J. Müller, Armee, Politik und Gesellschaft in Deutschland 1933-1945, Paderborn 1979, p. 44. 27 H.G. Deutsch, Das Komplott oder die Entmachtung der Generale, Eichstätt 1974, p. 231. 17 18

Capitolo sesto M. Broszat, Der Staat Hitlers, München 1969, pp. 380-81. L’immagine del mostro biblico ha dato il titolo all’insuperato studio di F. Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, London 1942 (trad. it., Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, Milano 19992). 3 D. Rebentisch, Führerstaat und Verwaltung im Zweiten Weltkrieg, Stuttgart 1989, pp. 41-42. 4 L. Gruchmann, Die ‘Reichsregierung’ im Führerstaat, in G. Doeker e W. Steffani (a cura di), Klassenjustiz und Pluralismus, Hamburg 1973, p. 202. 5 Cfr. Rebentisch, op. cit., p. 374 e nota 11. 6 Gruchmann, op. cit., pp. 196-97. 7 Rebentisch, op. cit., p. 410. 8 Gruchmann, op. cit., pp. 221, 223 e nota 115. 9 Rebentisch, op. cit., pp. 399-400. 10 Cfr. Broszat, Der Staat Hitlers cit., pp. 384-85. 11 Rebentisch, op. cit., pp. 362-63. 12 Documenti sull’«azione eutanasia» si trovano in N&P, vol. III, pp. 997 sgg. 13 Ivi, p. 1201. 14 IMG, vol. XXVI, pp. 255-57. 15 Rebentisch, op. cit., p. 381. 16 Si veda W. Benz, Partei und Staat im Dritten Reich, in M. Broszat e H. Möller (a cura di), Das Dritte Reich, München 1983, p. 78. 17 Cfr. Neumann, op. cit., p. 384. 18 Il miglior studio su Ribbentrop è quello di W. Michalka, Ribbentrop und die deutsche Weltpolitik 1933-1940, München 1980. 19 La parte che segue si basa essenzialmente su A. Kube, Pour le mérite und Hakenkreuz. Hermann Göring im Dritten Reich, München 1986, spec. pp. 299 sgg. 1 2

270

20

L.E. Hill (a cura di), Die Weizsäcker-Papiere 1933-1950, Berlin 1974, p.

162. 21 Cfr. K.-J. Müller, Nationalkonservative Eliten zwischen Kooperation und Widerstand, in J. Schmädeke e P. Steinbach (a cura di), Der Widerstand gegen den Nationalsozialismus, München-Zürich 1985, pp. 28-31. 22 IMG, vol. XXVI, p. 340. 23 Ivi, p. 343. 24 W. Jochmann (a cura di), Adolf Hitler. Monologe im Führerhauptquartier 1941-1944, Hamburg 1980, p. 108. 25 Il testo di questo discorso è riportato in M. Domarus, Hitler. Reden und Proklamationen, 1932-1945, Wiesbaden 1973, pp. 970-73 (trad. it. parziale, Ultimi discorsi, Padova 1988). 26 Ivi, p. 1058. 27 N&P, vol. III, p. 743. 28 IMG, vol. XXVI, p. 379. 29 H. von Kotze (a cura di), Heeresadjutant bei Hitler, 1938-1943. Aufzeichnungen des Majors Engel, Stuttgart 1974, p. 68. 30 Cit. da H. Krausnick e H.-H. Wilhelm, Die Truppe des Weltanschauungskrieges, Stuttgart 1981, pp. 626-27; si veda anche M. Broszat, Nationalsozialistische Polenpolitik 1939-1945, Frankfurt a.M. 1965, p. 200. 31 F. Halder, Kriegstagebuch, 3 voll., Stuttgart 1962-64, vol. II, pp. 49-50. 32 N&P, vol. III, p. 815. 33 Ivi, p. 817. 34 Halder, op. cit., vol. II, pp. 336-37. 35 H. Buchheim et al., Anatomie des SS-Staates, 2 voll., Olten-Freiburg i.B. 1965, vol. II, pp. 211, 225-26. 36 Ivi, pp. 198-205. 37 Ivi, pp. 364-65. 38 Cfr. C.R. Browning, The Final Solution and the German Foreign Office, New York 1978, p. 8. 39 Ph. Burrin, Hitler et les Juifs. Genèse d’un Génocide, Paris 1989, pp. 117-18. 40 Cfr. O. Bartov, The Eastern Front 1941-1945. German Troops and the Barbarisation of Warfare, London 1985. 41 Anatomie des SS-Staates cit., vol. II, pp. 372-73. 42 Burrin, op. cit., pp. 138-39. 43 BAK, R58/954, ff. 189-91. 44 E. Fröhlich (a cura di), Die Tagebücher von Joseph Goebbels, München 1994, parte II, vol. III, p. 561. 45 Per la presentazione delle relative prove documentarie cfr. G. Fleming, Hitler und die Endlösung. «Es ist das Führers Wunsch», Wiesbaden-München 1982. 46 Burrin, op. cit., pp. 118, 151. 47 Ivi, p. 136. 48 Cfr. P. Longerich, Politik der Vernichtung. Eine Gesamtdarstellung der nationalsozialistischen Judenverfolgung, München 1998, cap. 6; si veda anche C. Gerlach, Krieg, Ernährung, Völkermord. Forschungen zur deutschen Vernichtungspolitik im Zweiten Weltkrieg, Hamburg 1998, pp. 117 sgg. 49 J.C. Fest, Hitler. Eine Biographie, Frankfurt a.M.-Berlin 1973, p. 892 (trad. it., Hitler, Milano 1999).

271

50 Su questo punto cfr. E. Jäckel, Hitler in History, Hannover-London 1984, cap. IV. 51 Cfr. N&P, vol. III, p. 840.

Capitolo settimo 1 A. Speer, Erinnerungen, Frankfurt a.M.-Berlin 1969, p. 315 (trad. it., Memorie del III Reich, Milano 1971). 2 D. Irving, Die geheimen Tagebücher des Dr. Morell, Leibarzt Adolf Hitlers, München 1983, pp. 69, 293-303. 3 E. Fröhlich (a cura di), Die Tagebücher von Joseph Goebbels, München 1994, parte II, vol. VII, p. 454. 4 Per quanto segue cfr. Irving, op. cit., pp. 193-202. 5 Ivi, pp. 201-2. 6 P.E. Schramm (a cura di), Kriegstagebuch des Oberkommandos der Wehrmacht, 4 voll., Frankfurt a.M. 1961-65, vol. IV, t. 2, pp. 1701-2. 7 H. Heiber (a cura di), Hitlers Lagebesprechungen. Die Protokollfragmente seiner militärischen Konferenzen 1942-1945, Stuttgart 1962, p. 32. 8 Per questa frase di Helmut Heiber cfr. ivi, p. 32. 9 Fröhlich, op.cit., parte II, vol. VII, pp. 452, 454, 561; vol. VIII, p. 98. 10 Speer, op. cit., p. 271. 11 Fröhlich, op.cit., parte II, vol. VII, p. 452. 12 I passaggi seguenti si fondano essenzialmente sulla ricostruzione di D. Rebentisch, Führerstaat und Verwaltung im Zweiten Weltkrieg, Stuttgart 1989, pp. 490-92. 13 J. von Lang, Der Sekretär, Stuttgart 1977, p. 304. 14 Rebentisch, op. cit., pp. 516-17. 15 Ivi, pp. 520-21. 16 Cfr. Speer, op. cit., p. 272. 17 Cfr. ivi, pp. 221-22, 306, 360. 18 Ivi, pp. 210-17. 19 È quanto riferisce Speer, ivi, p. 228. 20 W.A. Boelcke (a cura di), Deutschlands Rüstung im Zweiten Weltkrieg. Hitlers Konferenzen mit Albert Speer 1942-1945, Frankfurt a.M. 1969, p. 27. 21 Ivi, pp. 32 sgg., 37. 22 Rebentisch, op. cit., p. 403. 23 Speer, op. cit., pp. 550-51. 24 Ivi, p. 249. 25 Deutschlands Rüstung cit., pp. 37-39. Cfr. Speer, op. cit., p. 248. 26 Per le informazioni completamente fasulle sullo stato della produzione dei caccia fornite a Hitler il 12 ottobre 1944 cfr. Deutschlands Rüstung cit., pp. 416-18. In quell’occasione o Speer ingannò deliberatamente Hitler o, come appare più probabile, egli stesso ignorava i dati reali sulla produzione. 27 Cfr. Speer, op. cit., pp. 246-48. 28 W. Schumann et al. (a cura di), Deutschland im Zweiten Weltkrieg, 6 voll., Berlin 1974-85, vol. V, pp. 477-78.

272

Cfr. Speer, op. cit., pp. 372-74. D. Irving, Führer und Reichskanzler. Adolf Hitler 1933-1945, MünchenBerlin 1989, p. 573. 31 W. Carr, Hitler. A Study in Personality and Politics, London 1978, p. 80 (trad. it., Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli 1985). 32 Speer, op. cit., p. 451. 33 Cfr. ivi, pp. 372-74. 34 Ivi, p. 572, nota 9. 35 Deutschland im Zweiten Weltkrieg cit., vol. V, pp. 486-95. 36 Speer, op. cit., p. 375. 37 Fröhlich, op.cit., parte II, vol. VII, p. 503. 38 Speer, op. cit., p. 305. 39 Cfr. Hitlers Lagebesprechungen cit., p. 31. 40 Speer, op. cit., p. 306. 41 Fröhlich, op.cit., parte II, vol. VII, p. 515. 42 P. Longerich (a cura di), Die Ermordung der europäischen Juden. Eine umfassende Dokumentation des Holocausts 1941-1945, München 1989, pp. 321-22. 43 Irving, op. cit., p. 571. 44 R. Hilberg, Die Vernichtung der europäischen Juden, Berlin 1982, pp. 392, 463 (trad. it., La distruzione degli ebrei in Europa, Torino 19952); si veda anche M. Michaelis, Mussolini and the Jews. German-Italian Relations and the Jewish Question in Italy, 1933-1945, Oxford 1978, pp. 362-69. 45 H.-H. Wilhelm, Hitlers Ansprache vor Generalen und Offizieren am 26. Mai 1944, in «Militärgeschichtliche Mitteilungen», 20 (1976), p. 156, nonché p. 168, nota 77. 46 Irving, op. cit., p. 631. 47 Speer, op. cit., p. 446. 48 Ivi, p. 495. 49 Cfr. supra, nota 45, nonché B.F. Smith e A.F. Peterson (a cura di), Heinrich Himmler. Geheimreden 1933 bis 1945 und andere Ansprachen, Frankfurt a.M. 1974, p. 203. 50 H. Mommsen, Gesellschaftsbild und Verfassungspläne des deutschen Widerstandes, in W. Schmitthenner e H. Buchheim (a cura di), Der deutsche Widerstand gegen Hitler, Köln-Berlin 1966, pp. 75-76. 51 H. von Kotze (a cura di), Heeresadjutant bei Hitler, 1938-1943. Aufzeichnungen des Majors Engel, Stuttgart 1974, pp. 85-86. 52 BAK, R43II/1087a; su Sperrle cfr. N. von Below, Als Hitlers Adjutant 1937-45, Mainz 1980, p. 341. Si veda anche Hitlers Lagebesprechungen cit., p. 618 e nota 4. 53 W. Jochmann (a cura di), Adolf Hitler. Monologe im Führerhauptquartier 1941-1944, Hamburg 1980, p. 406. 54 Irving, op. cit., pp. 603-4. 55 Su quanto segue cfr. H.R. Trevor-Roper, The Last Days of Hitler, London 19623, pp. 144-57, 182-91, 227-33 (trad. it., Gli ultimi giorni di Hitler, Milano 19953); si veda anche Speer, op. cit., pp. 485-90. 56 Speer, op. cit., pp. 405-7. 57 Ivi, pp. 415-17. 58 Ivi, pp. 428-29. 29 30

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59 Ivi, pp. 409-13, 434, 442-46, 448, 450, 452-62; cfr. anche Trevor-Roper, op. cit., pp. 92-93. 60 Speer, op. cit., pp. 457-61. 61 Trevor-Roper, op. cit., p. 135.

Epilogo 1 Cfr. A. Speer, Erinnerungen, Frankfurt a.M.-Berlin 1969, p. 259 (trad. it., Memorie del III Reich, Milano 1971). 2 Cfr. H. Heiber (a cura di), Hitlers Lagebesprechungen. Die Protokollfragmente seiner militärischen Konferenzen 1942-1945, Stuttgart 1962, pp. 125-30. 3 Cfr. Speer, op. cit., pp. 311-12, 560, nota 6, e, a proposito dell’indifferenza di Hitler verso il popolo tedesco durante gli ultimi mesi di guerra, pp. 44446. 4 Cfr. ivi, p. 446. 5 Cfr. J. Thies, Architekt der Weltherrschaft. Die ‘Endziele’ Hitlers, Düsseldorf 1979. 6 Cfr. R. Zitelmann, Hitler: Selbstverständnis eines Revolutionärs, Stuttgart 1987 (trad. it., Hitler, Roma-Bari 1991). 7 Cfr. M.-L. Recker, Nationalsozialistische Sozialpolitik im Zweiten Weltkrieg, München 1985. 8 F. Genoud (a cura di), The Testament of Adolf Hitler, London 1961, pp. 58-59 (trad. it., Il testamento di Hitler, Milano 1961). 9 Cfr. W. Carr, Hitler. A Study in Personality and Politics, London 1978, p. 95 (trad. it., Hitler. Studio sul rapporto tra personalità e politica, Napoli 1985). 10 Speer, op. cit., pp. 242-43. Si veda anche M. Walker, German National Socialism and the Quest for Nuclear Power, 1939-1949, Cambridge 1989, pp. 155 sgg. 11 Cfr. M. Broszat, Soziale Motivation und Führer-Bindung des Nationalsozialismus, in «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», 18 (1970), pp. 392-409. 12 Cfr. Carr, op. cit., pp. 109-11.

Appendice 1 K.D. Bracher, Die deutsche Diktatur. Entstehung, Struktur, Folgen des Nationalsozialismus, Köln 19936 (trad. inglese, The German Dictatorship, Harmondsworth 1973; trad. it., La dittatura tedesca. Origini, strutture e conseguenze del nazionalsocialismo in Germania, Bologna 1983). 2 H.-U. Thamer, Verführung und Gewalt. Deutschland 1933-1945, Berlin 1986 (trad. it., Il Terzo Reich. La Germania dal 1933 al 1945, Bologna 1993); N. Frei, Der Führerstaat. Nationalsozialistische Herrschaft 1933 bis 1945, München 1987, 6ª ed. riveduta e ampliata München 2001 (trad. inglese, National Socialist Rule in Germany, Oxford-Cambridge, Mass., 1993; trad. it., Lo Stato nazista, Roma-Bari 2002); J. Dülffer, Deutsche Geschichte 1933-1945. Führerglaube und

274

Vernichtungskrieg, Stuttgart-Berlin-Köln 1992; L. Herbst, Das nationalsozialistische Deutschland 1933-1945, Frankfurt a.M. 1996; K.P. Fischer, Nazi Germany. A New History, London 1995; M. Burleigh, Die Zeit des Nationalsozialismus. Eine Gesamtdarstellung, Frankfurt a.M. 2000 (trad. inglese, The Third Reich. A New History, London 2000; trad. it., Il Terzo Reich, Milano 2003). 3 A. Bullock, Hitler and Stalin. Parallel Lives, London 1991; M. Steinert, Hitler, Paris 1991; F. Delpla, Hitler, Paris 1999. 4 K. Pätzold e M. Weißbecker, Adolf Hitler. Eine politische Biographie, Leipzig 1995. 5 P. Matussek, P. Matussek e J. Marbach, Hitler. Karriere eines Wahns, München 2000. 6 R. Rosenbaum, Explaining Hitler. The Search for the Origins of his Evil, New York 1998. 7 J. Lukacs, The Hitler of History, New York 1998. Lo stesso autore ha scritto anche un resoconto acuto e originale della fase cruciale della guerra nell’estate del 1940: cfr. Id., The Duel. Hitler vs. Churchill, 10 May-31 July 1940, Oxford 1992. 8 Institut für Zeitgeschichte (a cura di), Hitler. Reden, Schriften, Anordnungen: Februar 1925 bis Januar 1933, 5 voll. in 12 tomi, München 1992-98; G.L. Weinberg (a cura di), Hitlers Zweites Buch. Ein Dokument aus dem Jahre 1928, Stuttgart 1961, nuova edizione comparsa con il titolo Außenpolitische Standortbestimmungen nach der Reichstagswahl Juni-Juli 1928, in Hitler. Reden, Schriften, Anordnungen cit., vol. II, t. a, München 1995; L. Gruchmann, R. Weber e O. Gritschneder (a cura di), Der Hitler-Prozeß 1924. Wortlaut der Hauptverhandlung vor dem Volksgericht München, 4 voll., München 1997-99. 9 M. Moll (a cura di), ‘Führer-Erlasse’ 1939-1945, Stuttgart 1997; M. Domarus (a cura di), Hitler. Reden und Proklamationen, 1932-1945, 2 voll. in 4 parti, Wiesbaden 1973; H. Picker, Hitlers Tischgespräche im Führerhauptquartier 1941-1942, a cura di P.E. Schramm, Stuttgart 1963; W. Jochmann (a cura di), Adolf Hitler. Monologe im Führerhauptquartier 1941-1944. Die Aufzeichnungen Heinrich Heims, Hamburg 1980; H. Heiber (a cura di), Hitlers Lagebesprechungen. Die Protokollfragmente seiner militärischen Konferenzen 1942-1945, Stuttgart 1962 (il testo originale tedesco dei presunti ultimi «discorsi a tavola» di Hitler, pubblicati come The Testament of Adolf Hitler. The Hitler-Bormann Documents, February-April 1945, London 1961, non è stato mai trovato. Sulla questione cfr. I. Kershaw, Hitler, 1936-1945: Nemesis, London 2000 (trad. it., Hitler 1936-1945, Milano 2001). 10 P. Witte et al. (a cura di), Der Dienstkalender Heinrich Himmlers 1941/42, Hamburg 1999. 11 Die Tagebücher von Joseph Goebbels. Teil I: Aufzeichnungen 1923-1941, 9 voll. (tuttora in corso di pubblicazione), Teil II: Diktate 1941-1945, 15 voll., a cura di E. Fröhlich, München 1993-98. Una versione abbreviata era stata in precedenza resa disponibile da R.G. Reuth, Joseph Goebbels Tagebücher 19241945, 5 voll., München-Zürich 1992. 12 A. Bullock, Hitler. A Study in Tyranny, Harmondsworth 19622 (1ª ed., Harmondsworth 1952; trad. it., Hitler. Studio sulla tirannide, Milano 1955). 13 H.R. Trevor-Roper, The Mind of Adolf Hitler, in Hitler’s Table Talk 19411944, Oxford 1953.

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14

E. Jäckel, Hitlers Weltanschauung. Entwurf einer Herrschaft, Tübingen

1969. Cfr. Rosenbaum, op. cit., p. 89. Questa è la proposta interpretativa che ho avanzato in I. Kershaw, Ideologue and Propagandist: Hitler in light of his speeches, writings and orders, 19251928, in «Yad Vashem Studies», 23 (1993), pp. 321-24. 17 J. Fest, Hitler. Eine Biographie, Frankfurt a.M.-Berlin-Wien 1973 (trad. it., Hitler, Milano 1999). 18 Cfr., in particolare, R. Binion, Hitler among the Germans, New York 1976, pp. 2-3. 19 A. Joachimsthaler, Korrektur einer Biographie. Adolf Hitler 1908-1920, München 1989, pp. 44-45 (nuova edizione ampliata, con il titolo Hitlers Weg begann in München, 1913-1923, München 2000). 20 B. Hamann, Hitlers Wien. Lehrjahre eines Diktators, München-Zürich 1996, pp. 496-503; Ead., Hitler and Vienna: the Truth about his Formative Years, in H. Mommsen (a cura di), The Third Reich between Vision and Reality. New Perspectives on German History 1918-1945, Oxford-New York 2001, pp. 23-37, spec. 33-36. 21 I. Kershaw, Hitler, 1889-1936: Hubris, London 1998, pp. 60-67, 94-95, 104-5. 22 E. Jäckel e A. Kuhn (a cura di), Hitler. Sämtliche Aufzeichnungen 19051924, Stuttgart 1980, p. 69; si veda anche Kershaw, Hitler, 1889-1936: Hubris cit., pp. 94-95. 23 Jäckel e Kuhn, op. cit., pp. 89-90. 24 Questo punto di vista è stato esposto per la prima volta nel brillante saggio di M. Broszat, Soziale Motivation und Führer-Bindung des Nationalsozialismus, in «Vierteljahreshefte für Zeitgeschichte», 18 (1970), pp. 392-409. 25 P. Fritzsche, Germans into Nazis, Cambridge (Mass.)-London 1998, p. 8 (si veda anche pp. 159-60 e 208-9). 26 E.A. Johnson, Nazi Terror. The Gestapo, Jews, and Ordinary Germans, New York 1999; R. Gellately, Backing Hitler. Consent and Coercion in Nazi German, Oxford 2001. 27 P. Ayçoberry, The Social History of the Third Reich, 1933-1945, New York 1999. Sul ruolo della Gestapo, si veda R. Gellately, The Gestapo and German Society. Enforcing Racial Policy 1933-1945, Oxford 1990, nonché G. Paul e K.-M. Mallmann (a cura di), Die Gestapo. Mythos und Realität, Darmstadt 1995. 28 S. Friedländer, Nazi Germany and the Jews. The Years of Persecution, 1933-39, London 1997 (trad. it., La Germania nazista e gli ebrei, Milano 1998). 29 D. Bankier (a cura di), Probing the Depth of German Antisemitism. German Society and the Persecution of the Jews, 1933-1941, New York-Oxford-Jerusalem 2000. 30 M. Wildt, Die Judenpolitik des SD 1935 bis 1938. Eine Dokumentation, München 1995. 31 D.J. Goldhagen, Hitler’s Willing Executioners. Ordinary Germans and the Holocaust, New York 1996 (trad. it., I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto, Milano 1997). 32 Cfr. J.H. Schoeps (a cura di), Ein Volk von Mördern? Die Dokumentation zur Goldhagen-Kontroverse um die Rolle der Deutschen im Holocaust, Hamburg 1996; E. Husson, Une culpabilité ordinaire? Hitler, les allemands et la Shoah, Pa15 16

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Indici

Indice analitico*

abissina, crisi, 158-59. Accademia di Arti grafiche di Vienna, 3. «affare Röhm», vedi Röhm, Ernst. allineamento (Gleichschaltung), 82. Alpi, 165. America, vedi USA. «(Der) Angriff», 61. Anschluß, 144, 184. antibolscevismo, 33, 36-37, 227. antimarxismo, 33, 65, 121. antisemitismo, 26-29, 33, 36, 65-66, 117, 134, 189-90, 232, 252-54. Ardenne, 221, 229. Armata Rossa, 195, 237. articolo 48 (della Costituzione di Weimar), 73, 90. Asburgo, monarchia degli, 29. Asse italo-tedesco, 162-63. Associazione degli avvocati nazionalsocialisti, 102. Auschwitz, 197, 198, 237. Austria, 3, 32, 137, 158, 164, 177, 184, 186, 188-90. Austria-Ungheria, 37. «autorità legale», 18, 102, 105. «autorità tradizionale», 18. «Azione Reinhard», 180, 198.

Bassa Sassonia, 78. bavarese, esercito, 6. Baviera, 50, 53-54, 56, 74, 96, 122, 132. Bechstein, Carl, 54. Beck, Ludwig, 183. Beethoven, Ludwig van, 21. Belzec, 180, 198. Benn, Gottfried, 235. Berchtesgaden, 174, 194. Berghof, 174. Berlino, 94, 106, 155, 158, 177, 189, 210, 221, 228, 232, 237, 240, 242; – Olimpiadi di, 135. Best, Werner, 109, 221. Birkenau, 128. Bismarck, principe Otto von, 21, 92, 122. Blomberg, Werner von, 82, 87, 97, 164-65. Blomberg-Fritsch, crisi, 140, 164, 167, 171. bolscevismo, 33-37, 39, 109, 123, 161, 182, 188, 194, 225-26, 234235, 254. «bolscevismo ebraico», 27, 33-34, 36-37, 40, 42, 58, 133, 182-83, 189, 196, 201, 232. Bormann, Martin, 174-76, 187, 206-7, 209-11, 222, 228, 243. Bouhler, Philipp, 179-80. Brack, Viktor, 179-80, 198.

Balcani, 185, 194. Bamberg/Bamberga, 58-59. Bassa Franconia, 110.

* I numeri in corsivo si riferiscono alle pagine con didascalia.

299

DDP, 93. Depressione, 21, 59, 66, 68, 71, 148, 184. Deutscher Kampfbund, 56. Dipartimento del Reich per l’Alimentazione, 160. Direzione dell’artiglieria, 217. DNVP, 75. Döblin, Alfred, 235. Dollfuss, Engelbert, 155. Dönitz, Alfred, 225, 230. Dorsch, Xavier, 214. Dreierkollegium, vedi «Triumvirato». Drexler, Anton, 53. Duce, culto del, 20. Düsseldorf, 110-11; – Associazione degli industriali di, 78. DVP, 93.

Brandt, Karl, 179-80. Brauchitsch, Walther von, 167, 202. Braun, Eva, 260. Braunau am Inn, 3. Brecht, Bertolt, 235. Bredow, Ferdinand von, 97. Bruckmann, Hugo, 54. Brüning, Heinrich, 49, 73, 77-78. Bund Oberland, 56. Bürgerbräukeller, 36, 50, 169. Busch, Ernst, 225. BVP, vedi Partito popolare bavarese. carismatico/a: – autorità, 18-19, 51; – capo, 63; – comunità, 21-22, 24, 45, 47, 51, 63; – dominio, 18, 22, 133; – potere, 18-20, 22, 139, 245-47. Carmina Burana, 235. cattolicesimo, 69, 121-23. Caucaso, 205, 241. Cecoslovacchia, 164, 177, 184, 186, 188. Chelmno, 198. Circolo nazionale di Amburgo, 67. Coalizione nazista-nazionalista, 87, 91-92. Comintern, 9. «Comitato dei tre», 209, 211. «comunità popolare» (vedi anche Volksgemeinschaft), 35, 116-17, 123, 125, 133-34, 136, 255. Concordato, 93, 122. Conferenza per il disarmo, 153-54. Congresso di Norimberga, 189. Consiglio interministeriale per la difesa del Reich, 173, 209. «corridoio» di Danzica, 193.

Ebert, Friedrich, 73, 121. ebraismo, 33, 35-36, 39-40, 190. ebrei, 14, 27-29, 32, 34-36, 40, 44, 61, 65, 82-83, 89, 93-94, 110, 117, 132-34, 157, 180, 182, 189-91, 193, 195-96, 198-99, 201, 221, 223, 226-27, 232, 234, 253-59. Eckart, Dietrich, 32-33, 52-53. Eichmann, Adolf, 189-90, 223, 256257. Eisner, Kurt, 31. El Alamein, 203. Elser, Georg, 169. Essen, 110. Esser, Hermann, 57. Europa, 3, 7-8. Faulhaber, Michael von, 121. Feder, Gottfried, 31, 34, 43. Federico il Grande, 21, 118, 142. Francia, 37, 39, 112, 153-54, 158159, 172, 194, 249. Franco, Francisco, 100, 112. Franconia, 122.

Dachau, 91, 106. Danimarca, 221. Danzica, 166, 193. Darré, Richard Walter, 237.

300

143, 146, 158-59, 165, 175, 189, 199, 207, 209-13, 221, 243, 251. Goerdeler, Carl, 161-62, 183. Goethe, Johann Wolfgang von, 21. Göring, Hermann, 44, 46-47, 60, 79, 86, 88, 90, 96, 105-6, 151, 161-62, 164-65, 167, 173, 175, 177, 183-85, 196, 206, 209, 213, 222, 228, 230, 243. Göttingen/Gottinga, 45. Gran Bretagna, 37, 39, 112, 153, 158-59, 164, 183-84, 194-95, 208, 241, 244. Gran Consiglio del Fascismo, 224. Gropius, Walter, 235. Guderian, Heinz, 219-20, 225, 227, 230. guerra civile russa, 27, 37. guerra civile spagnola, 162-63, 184. Guerra fredda, 81. guerra-lampo (Blitzkrieg), 204, 218. Guglielmo II, imperatore di Germania, 21, 122. Gürtner, Franz, 97, 102, 108-9.

Frank, Hans, 44, 46, 101-2, 104, 192. Freising/Frisinga, 121. Frick, Wilhelm, 79, 86, 90, 106-7, 150, 173, 212. Fritsch, Werner Freiherr von, 82, 164-65. Fronte di Stresa, 158. Führer (vedi anche Hitler, Adolf), 14-15, 18, 22, 45-47, 61, 64, 68, 70, 94, 97, 104-5, 107, 110-11, 113, 121, 128-29, 131-34, 136-37, 139, 141, 143, 146, 148-51, 159, 163-65, 167, 169, 171, 173-75, 177, 179-82, 184, 187, 192, 198199, 203, 207, 210-12, 214-15, 217, 219, 224, 226, 228, 230, 234, 239, 244, 246, 251, 258-59; – culto del, 51, 61-63, 65, 127-28, 155; – mito del, 128; – partito del, 56-57, 60-61; – potere del, 100, 102, 104-5, 141142, 170-71; – Stato del, 96; – volontà del, 100, 102, 104, 108, 132, 136, 148, 150-52, 170, 175177, 190. Funk, Walther, 167, 173. funzionalista, interpretazione, 13. Furtwängler, Wilhelm, 235.

Halder, Franz, 220. Hanfstaengl, Putzi, 54. Harvard, 54. Harzburg, Fronte di, 78. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 151. Hess, Rudolf, 43, 45-46, 51, 150, 173-74, 187. Hetzer, carro armato, 216. Heydrich, Reinhard, 103, 105-7, 109, 151, 162, 193, 195-96, 199. Himmler, Heinrich, 13, 44, 91, 96, 103, 105-9, 151, 162, 165, 175, 179, 181, 193, 195-96, 198-99, 207, 212, 221, 223, 226-28, 230, 237, 243, 251, 258-59. Hindemith, Paul, 235. Hindenburg, Paul von, 8, 72-73, 76, 77-79, 88, 95-97, 137, 142-43, 147, 151.

«Gabinetto segreto del Reich», 171. Germania Est, vedi Repubblica democratica tedesca. Gestapo, 96, 105-7, 110-11, 162, 165, 188. Giappone, 158, 162, 202. Giesler, Paul, 210. Ginevra, Conferenza di, 153. «Giornata di Potsdam», 142. Globocnik, Odilo, 198. Goebbels, Joseph, 44, 46, 59, 61-62, 66, 70, 72, 115, 118, 124-25, 127,

301

Hitler, Adolf: – adesione al Partito tedesco dei lavoratori, 32; – ascesa a leader della NSDAP, 5152; – aspetto fisico e caratteristiche, 24-25; – attentati alla sua vita, 169, 206-7, 213, 219, 225-26; – attività di agitatore populista a Monaco, 32, 52; – basi del consenso popolare di, 110-17, 120, 122-25; – consenso plebiscitario per, 132134, 136-39; – consolidamento come leader nella NSDAP, 56-59; – consolidamento del potere di, 8688, 90-99; – culto di, 61, 64, 126, 127-28; – declino della sua autorità, 230; – e il capovolgimento delle sorti del conflitto mondiale, 199, 201-2; – e il comando militare, 218-21, 223; – e il fallito putsch di Monaco, 7, 36, 38, 41, 44, 46, 50, 52-53, 57-59, 74, 247; – e il movimento nazista, 59, 61, 64, 167, 69-70, 112; – e la campagna sul fronte occidentale, 194-95; – e la crisi Blomberg-Fritsch, 164167; – e la deriva verso la distruzione, 227-28; – e la «Direttiva Nerone», 230, 235; – e la legalità, 100; – e la Polonia, 192-93; – e la prima guerra mondiale, 6, 8, 11, 16; – e la produzione degli armamenti, 213-18; – e la radicalizzazione della politica antisemita, 189-90, 201;

– e la «Soluzione finale», 198-99, 201, 223, 226-27; – e le élites al momento della presa del potere, 72-75, 77-80; – giovinezza, 3, 5; – immagine popolare di, 113, 148; – mito di, 47; – politica economica, 160-63; – politica estera, 152-56, 158-60, 162-64, 167, 183-86, 188; – preparativi per l’attacco all’URSS, 194-95; – prima formazione ideologica, 2628; – processo a suo carico dopo il fallito putsch di Monaco, 56; – rapporto con le masse, 63-71; – stato di salute, 205, 207; – stile di comando, 142-43, 146-51, 169-71, 173-77, 204-7; – sua visione di una società nuova, 239; – suicidio, 231, 238, 254; – suo espansionismo illimitato, 243; – suoi rapporti contrastati con il governo di Gabinetto, 142-43, 171; – sviluppo della Weltanschauung di, 29-37; – tendenze suicide, 247. Hitler-Jugend (Gioventù hitleriana), 46, 69, 126, 129, 151. Hohenzollern, dinastia degli, 58. Horthy, Miklos, 221. Hossbach, Friedrich, 163. Huber, Ernst Rudolf, 104. Hugenberg, Alfred, 75, 78-79, 87. IG-Farben, 162. Inghilterra, vedi Gran Bretagna. intenzionalista, interpretazione, 13. Italia, 58, 85, 94, 112, 158-59, 184. Jodl, Alfred, 178, 207, 220. Kandinskij, Vasilij, 235.

302

«Maus», carro armato, 216. Mauthausen, 221. Mayr, Karl, 52-53. Me262, 216. Mecklenburg/Meclemburgo, 68. Medio Oriente, 195, 243. Mein Kampf, 27-28, 32-34, 36, 3940, 42, 45-46, 58, 61, 67, 182, 194, 251-52. Mendelssohn, Felix, 235. Messerschmitt, Willy, 216. Mies van der Rohe, Ludwig, 235. Ministeri: – degli Esteri, 140, 149, 153, 159, 164, 167, 173, 221; – degli Interni, 74, 87, 212; – dei Trasporti, 140; – del Lavoro, 140; – dell’Economia, 140, 167; – dell’Educazione del popolo e della Propaganda, 124-25, 127, 210; – della Giustizia, 140; – della Guerra, 140; – delle Finanze, 140. Monaco di Baviera, 3, 6, 11, 26, 30, 31-32, 36, 38, 54, 56-57, 59, 60, 74, 91, 96, 111, 121-22, 132, 169, 184, 210, 232, 251, 253. Morell, Theo, 206-7. Mosca, 218, 241, 243, 251, 254. Mussolini, Benito, 20, 41, 44, 85, 94, 100, 112, 157, 212, 224.

Kapp, Wolfgang, 52. Keitel, Wilhelm, 167, 173, 175, 178, 192, 209, 227. Keppler, Wilhelm, 78. Kesselring, Albert, 225. Kiev, 218. Klee, Paul, 235. Kluge, Hans Günther von, 225. Kokoschka, Oskar, 235. KPD (vedi anche Partito comunista tedesco), 90-91. Lammers, Hans-Heinrich, 146, 171, 173-75, 180, 207, 209-10. Landsberg, 41, 45-46. Lange, Herbert, 198. Lebensraum (vedi anche «spazio vitale»), 27, 133, 186, 194. Leeb, Wilhelm Ritter von, 227. legge contro le cospirazioni politiche, 111. legge prussiana sulla Gestapo, 107. legge sulla concessione dei pieni poteri, 87, 91-92, 122, 143. Lehmann, Julius, 54. Leningrado, 218. Ley, Robert, 175, 177, 211, 239. Linz, 27-29, 188, 237, 253. Lodz, ghetto di, 198. Londra, 153. Lubbe, Marinus van der, 90, 102. Lublino, 198. Lüdecke, Kurt, 54. Ludendorff, Erich, 54. Lueger, Karl, 28, 253. Luftwaffe, 162, 185, 209, 217, 225, 235.

Nationale Sammlungspartei, vedi Partito di concentrazione nazionale. Nazionalsocialista/nazista, movimento, 19, 32, 36, 41, 43-44, 5053, 56, 59, 61, 64, 69, 72-73, 7778, 85-88, 92, 95, 101, 104, 112, 114, 121, 123, 127, 129, 132, 141, 190, 228. Neurath, Konstantin Freiherr von, 140, 154, 164, 167, 171. Nolde, Emil, 235. Nord Africa/Africa settentrionale, 203.

Mahler, Gustav, 235. Mann, Heinrich, 235. Mann, Thomas, 235. Manstein, Erich von, 218-20, 225. Mao Tse-tung, 98. marxismo, 10, 27, 34-37, 39-40, 87, 115, 120, 123, 128, 232. marxismo-leninismo, 9-10, 12.

303

Pomerania, 6. Porsche, Ferdinand, 216. Posen/Poznan´, 227. Praga, 189. prima guerra mondiale, 6, 27, 50, 124, 199, 213-15, 219, 253. «programma di eutanasia», 179-80, 198. «Protocolli dei saggi di Sion», 33. Prussia, 54, 77, 79, 87, 90, 93, 105. Prussia orientale, 6, 192, 198, 205, 232. putsch di Monaco o della birreria Bürgerbräukeller (vedi anche Hitler), 38, 50.

Norimberga, 46, 57. Notte dei cristalli (Reichskristallnacht), 189, 191. «Notte dei lunghi coltelli», 95-96. «Operazione Cittadella», 221. Orff, Carl, 235. Pacifico, oceano, 202. Papen, Franz von, 77-79, 87, 93, 149. Parigi, 159, 172. Partito comunista tedesco (vedi anche KPD), 69, 84, 87, 91, 99. Partito di concentrazione nazionale (Nationale Sammlungspartei), 230. Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP)/Partito nazista, 7, 15, 26, 31, 35, 37, 41, 43-54, 56-59, 61-66, 68-70, 72-75, 77-80, 87, 90, 93, 96, 101, 106, 108, 114, 117, 121-22, 129, 131, 138, 150, 155, 173-74, 187, 188, 210-11, 226, 231, 259. Partito popolare bavarese (BVP), 93, 122. Partito tedesco dei lavoratori, 7, 32, 50, 52. Pasewalk, 31. Patto anti-Comintern, 162-63. Patto di Monaco, 157. Patto di non aggressione con l’Unione Sovietica, 183. Paulus, Friedrich, 234. Pearl Harbour, 202. Peenemünde, 217. Piano Beveridge, 239. Piano quadriennale, 151, 161-62, 177, 189. Piano Young, 49, 75. Pilsudski, Jozef, 154. Polonia, 82, 153-54, 158, 177, 184, 186, 188, 192-93, 196, 201, 243, 256.

«questione ebraica», 33-36, 189-90, 193, 196, 199, 201, 223, 256. Raeder, Erich, 163. Raubal, Geli, 247. Rauschning, Hermann, 137. Reichenau, Walter von, 227. Reichsbanner, 92. Reichsflagge, 56. Reichskristallnacht, vedi Notte dei cristalli. Reichstag, 49, 72, 88, 91, 109, 122, 142, 154, 191, 238; – decreto sull’incendio del, 90, 106; – incendio del, 84, 90-91, 102, 106, 167. Reichswehr, 52, 56, 78, 87, 232. Renania, 137, 144, 159, 162. Repubblica democratica tedesca (DDR), 10. Ribbentrop, Joachim von, 144, 163164, 167, 175, 183-85, 188. Riem, 210. Riga, 198. rivoluzione russa, 33. Röhm, Ernst, 44, 52-54, 56, 60, 96, 106, 129, 140, 165, 167. Roma, 167. Roosevelt, Franklin Delano, 231, 258.

304

206, 209, 213-15, 217-18, 222, 230-31, 243, 259. Sperrle, Hugo, 227. SS, 13, 22, 88, 96-98, 100, 103, 106109, 141, 151, 162, 165, 179, 188190, 193, 199, 201, 221, 227-28, 259. Staatspartei, 93. Stahlhelm, 88. Stalin, Josif, 249, 252. Stalingrado, 200, 203, 205, 207, 209, 218-19, 234. Stalinismo, 81. Stati Uniti, vedi USA. Strasser, Gregor, 44-45, 50-51, 57, 61-63, 72, 77, 96, 247. Strasser, Otto, 45, 50, 62. Strauss, Richard, 235. Streicher, Julius, 43, 57. strutturalista, interpretazione, 13. Sturmabteilung, vedi SA. Sudeti, territorio dei, 157, 186, 188189.

Rosenberg, Alfred, 33, 43, 46, 122, 125, 181. Ruhr, occupazione della, 54. Rundstedt, Gerd von, 225. Russia, vedi URSS. SA (Sturmabteilung), 35, 44, 46, 50, 52-53, 56, 60, 63, 70, 75, 88, 91, 95-98, 102, 106, 129, 140, 155, 189. Saar, territorio della, 155. Sassonia, 54. Sauckel, Fritz, 175, 177, 214. Saur, Karl Otto, 214. Scandinavia, 194. Schacht, Hjalmar Horace Greely, 78-79, 160-62, 167. Scheubner-Richter, Max Erwin von, 33. Schirach, Baldur von, 46, 151. Schleicher, Kurt von, 77-79, 96-97. Schmidt, Paul Otto, 156. Schönberg, Arnold, 235. Schönerer, Georg von, 28-29, 253. Schopenhauer, Arthur, 6. Schuschnigg, Kurt von, 188. SD, 105, 108, 189, 195. seconda guerra mondiale, 8, 27, 83, 142, 219. VI Armata, 200, 203, 234. «Sezione ebrei» dell’SD, 189. Sobibor, 180, 188. socialdemocratici, 77, 91. socialisti, 88. Società delle Nazioni, 137, 153-54. «soluzione finale» (vedi anche «questione ebraica»), 191, 193, 197, 198-99, 201, 223, 226-27, 257-59. Spagna, 112. Spandau, 12. «spazio vitale» (vedi anche Lebensraum), 27, 33, 39, 57, 61, 164, 170, 182, 188. SPD, 91-92. Speer, Albert, 12, 175, 177, 203,

Theresienwiese, 210. Thierack, Otto, 109, 175. Todt, organizzazione, 151, 214. Todt, Fritz, 177, 213. Tokyo, 167. Trattati: – di Locarno, 138, 141, 159; – di Versailles, 32, 52, 77, 120, 141, 155-56, 158, 160. Treblinka, 180, 198. Tribunali di eugenetica, 136. «Triumvirato» (Dreierkollegium), 173. Turingia, 54. Ucraina, 205. Unione Sovietica, vedi URSS. Urali, 196. URSS, Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, 6, 11, 20, 27, 31-33, 35-37, 39-41, 57-58,

305

V1, 208, 217-18. V2, 208, 217-18. Vaticano, 93. Versailles, 21, 128, 138, 156, 158. Vienna, 3, 27-29, 144, 157, 167, 189, 253. «Völkischer Beobachter», 53. Volksgemeinschaft (vedi anche «comunità popolare»), 114.

Washington, 153. Weber, Christian, 210. Weber, Max, 18-19, 139. Wehrmacht, 156, 164-65, 167, 173, 196, 203, 224, 226-27, 234. Weichs, Maximilian Freiherr von, 225. Weimar, 59; – Repubblica di, 19, 74, 77, 101, 115-16, 120-21, 245. Weltanschauung hitleriana, 13, 26, 29, 33, 65, 170, 192, 255. Winniza, 205. Würzburg, 110-11.

Wagner, Richard, 205. Wall Street, crisi di, 49, 75. Wannsee, Conferenza di, 198, 258. Warta, 198.

Zentrum/Centro, Partito del/di, 77, 87-88, 91, 93, 122. Zweig, Arnold, 235. Zweig, Stefan, 235.

183, 193-96, 198-99, 203, 205, 218, 241, 243. USA/Stati Uniti d’America, 159, 195, 202, 204, 241, 244, 258.

Indice del volume

Prefazione alla nuova edizione Cronologia degli avvenimenti essenziali Sigle e abbreviazioni

VII XIII XXXI

Introduzione

Il potere di Hitler: un enigma

3

Capitolo primo

Il potere dell’Idea

24

Capitolo secondo

Alla conquista del potere

48

Il movimento 50 Le masse 63 Le «élites» 72 Capitolo terzo

Potere e repressione

81

Dissoluzione e atomizzazione dell’opposizione 85 Erosione e asservimento della legalità nello «Stato del Führer» 100 Capitolo quarto

Potere plebiscitario

112

Il consenso di base 114 Gli organi della propaganda 124 Consenso plebiscitario e dinamismo del Regime 132

307

Capitolo quinto

L’espansione del potere

140

La fine del governo collegiale 142 La politica hitleriana tra gioco d’azzardo e opportunismo 152 Capitolo sesto

Potere assoluto

169

La disintegrazione dello Stato 171 L’Idea diventa realtà 182 Capitolo settimo

Delirio di potere

204

Epilogo

Hitler: potere e distruzione

232

Appendice

Le ultime tendenze della ricerca storiografica su Hitler

249

Note

263

Bibliografia

279

Indice analitico

299