Hegel in Italia. Itinerari: Dalla storia alla logica. Tra logica e fenomenologia 9788885716407, 9788885716414

Tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento la filosofia di Hegel ha suscitato in Italia, insieme con

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Hegel in Italia. Itinerari: Dalla storia alla logica. Tra logica e fenomenologia
 9788885716407, 9788885716414

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Hegel in Italia
Prefazione alla II edizione
Introduzione
Indice

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Vincenzo Vitiello

Hegel in Italia Itinerari I - Dalla storia alla logica II - Tra Logica e Fenomenologia

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Zeugma

Collana diretta da:

Massimo Adinolfi e Massimo Donà

Comitato scientifico: Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani-Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco Lozano, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

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Zeugma | Lineamenti di Filosofia italiana 6 - Classici

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Vincenzo Vitiello

Hegel in Italia Itinerari I - Dalla storia alla logica II - Tra Logica e Fenomenologia (Seconda edizione riveduta e ampliata)

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Pubblicazioni del Centro di ricerca di Metafisica e Filosofia delle Arti dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano DIAPOREIN

Prima edizione: 2003, Guerini e Associati, Milano. Seconda edizione riveduta e ampliata © 2018, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa sociale, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Zeugma ISSN: 2421-1729 n. 6 - ottobre 2018 ISBN – Edizione cartacea: 9788885716407 ISBN – E-book: 9788885716414 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: spiral staircase © fottoo – stock.adobe.com

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Prefazione alla II edizione

Nel ripubblicare questo libro da tempo esaurito, l’ho integrato, seguendo il consiglio di cari e autorevoli Amici, con una serie di saggi, scritti successivamente, incentrati per lo più su Bertrando Spaventa, al quale già nella I edizione avevo attribuito un ruolo di assoluto rilievo negli studi, non solo italiani, su Hegel. Nel corso degli anni sono tornato più volte sul filosofo abruzzese, sia volgendomi ‘indietro’ ad Augusto Vera, assente nella precedente edizione, ma importante per meglio comprendere il senso e la profondità della lettura spaventiana, sia tornando sul dibattito aperto dalle obiezioni mosse da Adolf Trendelenburg e Giovanni Gentile alla esposizione hegeliana delle prime categorie della Logica. Momento non secondario di questo ‘ritorno’ è il saggio “Ut pictura in tabula”, che presenta qualche novità rispetto alle precedenti mie interpretazioni dell’attualismo1 e pur alla critica al Trendelenburg, ribadita, ma non senza qualche ‘necessaria’ precisazione. Novità che è alla base dell’ultimo scritto su Spaventa, 1. Mi riferisco non soltanto ai saggi della I Parte, sì anche ai contributi pubblicati altrove, massime a quello raccolto in V. Vitiello, GP, P. II, cap. II, “Dall’io-penso all’io-sento”, pp. 33-52.

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più critico dei precedenti miei saggi riguardo alla sua interpretazione delle prime categorie della Logica hegeliana e quindi al rapporto con Trendelenburg e Werder, ma non riguardo alla Fenomenologia, e al legame tra lo spaventiano “essere prima dell’essere” e la hegeliana “potenza che ha in orrore la luce”, su cui mi ero già soffermato nella I edizione. Ho collocato per ultimo, quantunque scritto anni prima degli altri, il saggio “Enzo Paci: tra due Fenomenologie”, per la significativa prossimità della conclusione dell’originale percorso paciano tra Hegel e Husserl all’esito dell’interpretazione spaventiana di Hegel, nonostante la distanza dei loro punti di partenza e la divergenza delle loro esplicite intenzioni. Chiaro segno, questo, dell’inaggirabile problema che è al ‘fondo’ – non Grund, ma Ab-grund – del pensiero di Hegel, e non solo di Hegel, a cui il filosofo tedesco, leggendo l’Edipo re di Sofocle, seppe dare la più pregnante definizione, quella poco sopra ricordata: die lichtscheue Macht. Un ‘tema’, questo, nel quale da anni sempre di nuovo mi accade di imbattermi, anche in studi di diverso argomento, e che in questo libro appare essere la ‘cifra’ più originale del contributo italiano alla ‘lettura’ di Hegel, filosofo dell’Assoluto e della mediazione sempre in lotta col limite e con l’immediato – mai vinto, certo; ma anche mai vincitore. Di qui la costante ‘ripresa’ (Wiederholung) di questo tema in forme e contesti problematici anche molti diversi. Seguono due brevi ex-cursus: il primo su un argomento già ‘toccato’ nella I parte: il saggio La Grazia e il libero arbitrio di Croce, oggetto di un “improbabile confronto” con Karl Barth; il secondo su Andrea Emo, interprete raffinato del pensiero di Giovanni Gentile. Chiudo, rinnovando le espressioni di gratitudine all’Avv. Gerardo Marotta, recentemente scomparso, e

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al Prof. Antonio Gargano, contenute nella prima Introduzione2.

2. I saggi della I Parte sono stati rivisti solo nella forma, aggiungendo i necessari riferimenti alla II Parte e ad altri studi nel frattempo usciti; le note sono state ridotte nel numero, avendo riportato direttamente nel testo i riferimenti alle pagine o ai paragrafi delle Opere siglate. La Nota bibliografica della I edizione – collocata alla fine col titolo “Fonti” – è stata integrata con le indicazioni relative ai saggi della II Parte.

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Introduzione

Entre une histoire de la philosophie “objective”, qui mutilerait les grands philosophes de ce qu’ils ont donné à penser aux autres, et une méditation déguisée en dialogue, où nous ferions les questions et les réponses, il doit y avoir un milieu, où le philosophe dont on parle et celui qui parle sont ensemble présents, bien qu’il soit, même en droit, impossible de départager à chaque instant ce qui est à chacun. (M. Merleau-Ponty, S, pp. 201-202)

Che in filosofia non ci sia un criterio di giudizio da tutti condiviso, è forse l’unico giudizio che la maggioranza dei filosofi sarebbe disposta a condividere. Questo fatto, peraltro, è connaturato all’essenza stessa della filosofia, che, diversamente da altre forme di sapere (pensiamo in particolare alle scienze), non ha un suo linguaggio universale, un sistema di principi da tutti i filosofi riconosciuto, in quanto ogni filosofia si definisce, anzitutto, per il criterio di valutazione che essa propone e argomenta, ovvero per il linguaggio che essa si crea. Se ciò sia bene o male, non è tema di questa introduzione. Al più possiamo esprimere l’opinione che la pluralità dei linguaggi, e cioè dei criteri di valutazione e di giudizio, favorisce la criticità del pensiero, che si trova costretto a tornare di continuo sui propri principi. Naturalmente questa pluralità di valori può

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favorire, ed ha favorito, l’affermarsi dello scetticismo, come l’esperienza storica insegna. Ma la medesima esperienza storica attesta, insieme con la pluralità delle prospettive filosofiche, l’esistenza di tradizioni di pensiero che si sono formate intorno ad un insieme di principi e valori condivisi, se non in tutto, in parte almeno. Da una medesima fonte – che non s’identifica sempre e soltanto con un filosofo ed una filosofia, potendo la fonte essere un medesimo topos culturale ed etico – possono scaturire, e sono scaturite molteplici esperienze di pensiero, che, pur nella loro diversità e talora anche nel contrasto più vivo, riconoscono, con la comunanza delle origini, le loro affinità, relazioni, e reciproche influenze. Peraltro le “influenze” agiscono, anche quando, se non specialmente quando, restano nascoste o sono, addirittura, disconosciute. La pluralità dei linguaggi e delle prospettive filosofiche rende certo difficile individuare una misura, un criterio comune per valutare la forza di un pensiero. Anche grandi filosofi, i sommi, quelli che la communis opinio giudica tali, che son poi quelli a cui la tribù dei filosofi costantemente si richiama – dico: Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso, Spinoza e Leibniz, e Kant… – sono stati diversamente giudicati dai loro successori. E tuttavia, per quanto diversamente giudicati, e talora addirittura da alcuni esaltati e da altri respinti e condannati, questi filosofi son grandi perché la loro influenza, quale che sia il giudizio, positivo o negativo, che su di essi si esprime, si è esercitata a lungo nella storia del pensiero, ed ancora continua ad esercitarsi. La grandezza di un pensatore va dunque misurata in base all’influenza che ha esercitato ed esercita sui filosofi a lui contemporanei e su quelli che sono venuti dopo di lui? Ma come dimenticare che pensatori anche grandi – è il caso di Baruch Spinoza – sono rimasti a lungo ai margini della storia? V’è un elemento di contingenza nella storia della filosofia che non può essere sottovalutato. Spesso pensatori mediocri hanno dominato – e dominano – la ribalta non solo del

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presente, del loro presente, ma anche del futuro, oscurando pensieri ben più profondi e significativi. Invero la storia a cui pensiamo, nel cercare un empirico criterio di giudizio, non è quella – che si pretende oggettiva, perché riconosciuta dai più – del “successo”, ossia: della maggiore o minore permanenza di un pensiero o di un pensatore sul proscenio del teatro della storia. È altra storia: è la storia radicalmente “soggettiva” che ciascun filosofo ricostruisce all’interno della propria prospettiva filosofica. È questa storia che rivela la grandezza di una filosofia. Perché il modo in cui un pensatore ricostruisce il “suo” passato è la migliore testimonianza dell’ampiezza e della profondità dei suoi pensieri. Ora se apriamo le pagine nelle quali Hegel, in forma diretta o indiretta, esplicita o anche solo per cenni, tratta dei filosofi che l’hanno preceduto – e mi riferisco non solo alle Lezioni sulla storia della filosofia, o alle grandi opere della maturità: la Scienza della Logica e l’Enciclopedia, la Fenomenologia dello spirito e la Filosofia del diritto, sì anche ai primi scritti, alla Differenz e a Glauben und Wissen, ma, per quanto riguarda l’interpretazione della religione, possiamo risalire anche alle Jugendschriften – non si può non ammirare la profondità e la novità delle sue interpretazioni. E questo anche quando tratta di filosofi cui si rivolge con spirito fortemente critico. Hegel non respinge nessuno, la sua critica è in senso originario distinzione, definizione del limite: sin qui e non oltre (cf. WL, II, pp. 249-250; it., II, pp. 655-656). Forse un solo pensatore si muove, quanto alla capacità di scrutare nel fondo del passato filosofico, alla sua altezza: Heidegger. Forse – la dubitativa è d’obbligo se si considerano non tanto le violenze ermeneutiche, confessate, peraltro, e certo minori di quanto di solito si dica, di Heidegger, quanto le sue idiosincrasie, e i suoi silenzi su figure anche fondamentali della storia del pensiero. Certo, questo criterio qui rapidamente indicato è puramente empirico, e pertanto va preso con molta cautela. Per fare un

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solo esempio che parla contro quanto s’è appena detto: Kant non ebbe pari interesse per la storia della filosofia, e quindi pari capacità d’interpretazione; e tuttavia la sua grandezza non è certo inferiore a quella degli autori or nominati. Ma la grandezza di Kant si misura con altro criterio, empirico pur esso, e che non meno del precedente si riferisce alla “storia”. Ma non a quella passata, bensì alla storia avvenire. Anche questa storia va valutata non “oggettivamente”, ma “soggettivamente” (mi si passino queste barbare espressioni usate per ragioni di brevità). Non si tratta, anche qui, del fatto che un pensiero, una filosofia, resti a lungo alla ribalta della storia. Ma del modo in cui vi resta. La potenza di una filosofia si misura in base alle reazioni che suscita, alla forza di produrre altro pensiero. Lasciato a lungo ai margini della storia, una volta riscoperto da Jacobi, Spinoza ha continuato ad operare nelle filosofie di Schelling e di Hegel, entrambi non meno critici che estimatori del suo pensiero. Misurato con questa misura, Kant si mostra davvero il più grande dei moderni, la fonte di tutto il pensiero successivo, anche quando si tentò, come fecero Hegel e Schelling, di superarlo… retrocedendo, e cioè ritornando, in buona sostanza, sulle posizioni di quell’Intellektualphilosoph che Kant aveva criticato nell’“Anfibolia dei concetti di riflessione”1. Ma dopo Kant è certamente Hegel il filosofo che ha suscitato, anzitutto per reazione, più pensiero, più filosofia, e non solo in Germania. Da Feuerbach a Marx, a Kierkegaard, per ricordare i suoi critici più noti dell’800, a Dilthey e alle diverse “riforme” e “rinascite” del 900, sino nostri giorni, ancora. Molte volte, dalla sua morte improvvisa, è accaduto all’umanità storica di credere di esserselo finalmente lasciato alle spalle, per poi accorgersi, in una di quelle svolte con cui la storia non cessa di sorprenderci, che lo avevamo ancora davanti. 1. Cf. I. Kant, KrV, A 267, B 323; sul tema: infra, Parte I, Sez. I, cap. I, § 5.

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Hegel in Italia è la ricostruzione, da una ben precisa prospettiva filosofica – dichiarata già nel sottotitolo: “dalla storia alla logica” –, di un momento per molti versi significativo non della storia dell’hegelismo europeo, ma della Wirkungsgeschichte hegeliana. Tra fine 800 e prima metà del 900, il pensiero di Hegel, in Italia in misura anche maggiore che in altri paesi, ha suscitato non solo nuovi commenti e nuove interpretazioni, ma nuove filosofie che, pur riconoscendo la loro derivazione, o quanto meno ispirazione, hegeliana, si sono formate in alternativa al sistema di Hegel. La nostra ricostruzione – divisa in tre sezioni: Relazione, Identità, Al di là dell’essere – non segue il tempo estrinseco della cronologia ma quello intrinseco del concetto. Usiamo di proposito il linguaggio hegeliano, per indicare sin da subito, l’intento che ci ha guidato in questo lavoro: valutare sin dove la filosofia italiana d’ispirazione hegeliana è riuscita a portarsi all’altezza del suo Autore di riferimento. Pertanto in ogni sezione si è messo a confronto il pensiero di alcuni filosofi italiani – Croce e Paci nella prima, Gentile, Spirito, Calogero e Severino nella seconda, Bertrando Spaventa nella terza – con quello di Hegel, secondo quel concetto, indicato nel titolo della sezione, che meglio serve a quest’opera di confronto. È bene dire subito che non il pensiero hegeliano, bensì il problema affrontato da Hegel funge da criterio di giudizio. Criterio, quindi, che vale per giudicare lo stesso pensiero hegeliano, e non solo riguardo alla sua rispondenza al problema, sì anche riguardo alla sua formulazione ed impostazione. Per essere più chiari, entriamo brevemente in qualche dettaglio. La prima sezione si apre con il dibattito tra Croce e Paci, svoltosi tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta del secolo appena trascorso. Croce è stato il meno hegeliano dei filosofi qui esaminati e discussi. Il suo incontro con Hegel

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avvenne dopo che egli aveva definito i tratti fondamentali del proprio sistema dei distinti, nel quale inserì, ab extra, la dialettica degli opposti. Perché, allora, iniziare con Croce? Perché il suo storicismo dimostra e contrario la necessità della fondazione della storia sulla logica (che è il primo aspetto del passaggio annunciato nel sottotitolo di questo libro). La teoria crociana del giudizio storico, infatti, riposa sull’identità delle “categorie come predicati di giudizio” con le “categorie come potenze del fare”. Ma questa identità resta un puro “presupposto”, finché non la si dimostri. Il che Croce non solo non fece – e come avrebbe potuto, una volta che s’era sbarazzato, nella Logica con poche e superficialissime battute, della teoria hegeliana del sillogismo? –, ma neppure avvertì l’esigenza di farlo. Di qui il titolo del capitolo che gli è dedicato: “il sillogismo nascosto”. Ma non è solo per questo aspetto, in fondo “negativo”, che ci siamo fermati su Croce. Dal suo dialogo con Paci – che seppe porgli obiezioni che egli apprezzò2 – si possono ricavare ancor oggi utili insegnamenti, sempreché si preferisca la domanda che inquieta alla risposta che consola. Nell’oscillazione tra Kant e Hegel, che peraltro contraddistinse molto più il pensiero di Paci che non quello di Croce, s’avvertono già i primi germi di quella critica del “sillogismo”, che nella conclusione del capitolo successivo vengono in piena evidenza. In questo secondo capitolo, infatti, dedicato interamente a Hegel, dopo aver tracciato un quadro completo della teoria hegeliana del sillogismo ed averne definito il significato e l’importanza non solo per la Logica ma per l’intero sistema hegeliano, poniamo la questione di fondo di questo nostro studio: la definizione del “limite” del pensiero hegeliano. Ma tale questione è posta 2. Non così alcuni ferventi crociani. Si vedano le poche, infelicissime righe dedicate da Fausto Nicolini ad Ingens sylva di Ezio (sic!) Paci nella breve Bibliografia della sua Antologia vichiana, p. XLIII.

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seriamente solo se ci interroghiamo sull’immagine che di Hegel ci ha trasmesso la storia della filosofia. Detto in breve: la “figura storica” di Hegel è tutto Hegel? o non ci sono, nel pensiero hegeliano, problemi, riflessioni, intenzioni e intuizioni che eccedono ciò che di lui ci ha tramandato la critica storica (seguaci e critici)? Non vogliamo negare lo sforzo di Hegel di presentare la sua filosofia in un ordine sistematico perfetto e coerente; né ci fermiamo a dire che non v’è riuscito – è stato già detto tante volte, e non costa fatica riconoscerlo, basta aprire i suoi testi –; quello che intendiamo sostenere è che nella filosofia hegeliana è presente e viva, quantunque da Hegel stesso conculcata e come nascosta, una forza di pensiero contraria, una tensione e intenzione volte a mantenere la contraddizione come tale, senza toglierla (aufheben), o, peggio, cancellarla (tilgen) in una sintesi che tutto concilia. Invero solo quel pensiero che evita con cura gli abissi della ragione e della coscienza, riesce ad essere perfettamente coerente. Ma un pensiero, come quello di Hegel, che ha osato spingere lo sguardo nell’abisso dell’essere e della coscienza, dell’essere della coscienza (in tedesco i due termini son fusi in uno: Bewußtsein) non può non recare in sé i segni della lotta che ha dovuto incessantemente sostenere col suo nemico più interno, con quella lichtscheue Macht, quella potenza che ha in orrore la luce, che è il risvolto negativo dell’autocoscienza: ungeheure Macht, enorme potenza, pericolo costante e, pure, unico vero alimento, ed elemento, del filosofare. La seconda sezione, dedicata all’Identità, intende mostrare come questa lichtscheue Macht si imponga – a Hegel, e con lui, a Giovanni Gentile. In tema è il rapporto intelletto/ragione, e cioè il modo in cui Hegel cerca di sottrarre il concetto del “divenire” alle maglie d’acciaio del principio di non contraddizione. Pensare il divenire significa immettersi in esso, non “oggettivarlo”, non porlo innanzi al pensiero

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come “oggetto”, come qualcosa di stabile e de-finito. Pensare il divenire è… divenire! Questo comporta un nuovo concetto di infinito, per nulla affatto coincidente con quello di totalità, anzi di questo l’esatto contrario. In-finito dice: non-finito, e cioè non terminato, non compiuto, ma sempre in via di compimento. L’infinito hegeliano è l’enérgheia atelés di Aristotele, l’atto incompiuto che è il nome più appropriato della kínesis, del movimento, del divenire. E Hegel pensa questo atto incompiuto sino in fondo. Sino alla negazione della “realtà” delle cose, degli oggetti, e cioè: sino alla negazione dell’ente kath’autó, dell’ente inteso come un “per sé (stante)”. L’ente è ciò che è solo all’interno delle infinite relazioni in cui è inserito. Non ha, pertanto, una “figura”, e neppure mille “figure”, o infinite. Perché non è mai in una “figura”. In ciò la sua “infinità”. La celebre affermazione hegeliana che la verità del finito è l’infinito, dice questo e solo questo: che il divenire colto nella sua effettività è l’incessante de-formazione di ogni forma, l’interminabile s-figurazione di ogni figura3. Detto più brevemente: la ragione è la perenne negazione dell’intelletto. Jean-Luc Nancy ha trovato una formula felice per dire tutto questo: “inquietudine del negativo”4. Solo che non ci si può fermare qui. Questa è solo la soglia del pensiero hegeliano, e dalla soglia il problema, il problema reale di Hegel – e nostro – neppure lo si intravvede. Già, perché, per quanto ci si immetta nel divenire e nel movimento per sottrarsi alla costrizione dell’identità, questa alla fine si impone. Se han torto quanti sostengono che la molteplicità hegeliana non è vera e reale molteplicità, perché scaturendo da un unico e semplice prin-

3. Non è possibile identificare tout simplement “infinito” e “totalità” – come disinvoltamente ha fatto Lucio Colletti in MeH, p. 178 (ma si legga l’intero cap. “Hegel e la dialettica della materia”). 4. Cf. HIN.

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cipio a questo resta comunque legata ed alla fine ritorna5 – hanno torto, perché la tematica dell’inizio o cominciamento in Hegel è proprio la dimostrazione, contra Schelling, che non v’è inizio o cominciamento, e cioè che il “principio” non è se non nei “principiati”, che l’uno è sempre e solo nei molti, come relazione del molteplice –; è pur vero, però, che l’infinito che Hegel pensa “è” infinito. La copula “è” inchioda anche l’infinito all’identità con sé. Tutto diviene – tutto, appunto, resta divenire. Ma esprimiamo questa “critica” del divenire con le parole stesse di Hegel, di un passaggio divenuto celebre: «L’apparire (die Erscheinung) è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l’effettualità e il movimento della vita e della verità. Talché il vero è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ogni membro nel mentre si isola altrettanto immediatamente si risolve – il trionfo è altrettanto la quiete trasparente e semplice» (PhäG, Vorrede, p. 39: it., I, pp. 37-38). Ora questo problema, che è stato molto dibattuto nell’ambito della scuola gentiliana (cf. il cap. II di questa sezione), impegnò seriamente Gentile che nel Sistema di logica come teoria del conoscere tentò una soluzione affatto diversa da quella hegeliana, ponendo l’intelletto, ovvero la logica dell’identità e della non-contraddizione, non come l’antecedente che la ragione realizzandosi nega, ma come l’astratto che il concreto stesso, o ragione, pone come sua determinazione necessaria. Vale a dire: il finito, il de-terminato, l’oggetto, il “per sé stante”, l’identico, la “forma” o “figura” delle cose non è soltanto ciò che l’infinito eternamente nega, è insieme ciò che l’infinito stesso pone per realizzarsi. Insomma l’infinito ha bisogno della forma per realizzarsi, attuarsi – per essere. Gentile ribaltava così il principio della critica al divenire: l’infinito non può esse-

5. Cf. L. Althusser, M, spec. pp. 82-85, e G. Deleuze, DR, pp. 69 ss. e passim.

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re inchiodato all’identità di sé con sé, perché l’identità stessa deriva e dipende dall’infinito. È un’esigenza dell’infinito darsi forma e figura, ma non da queste si può interpretare l’infinito, ma all’inverso dall’infinito le sue figure e forme particolari. La forma è solo una pausa del movimento. Pausa necessaria, ma mai definitiva. Pertanto, quando si dice che l’infinito “è” infinito, ha questa figura, la figura dell’infinito e non altra, si dice certo il vero, ma non tutto il vero, perché l’infinito è anche “altro” dalla “forma” che ha assunto – quell’altro che dicendolo traduciamo in forma, e cioè de-finiamo, finitizziamo, ma che proprio perciò rinvia ad “altro” ancora. Il rapporto concreto-astratto era per Gentile il modo per uscire dalla logica identitaria, perché riconosceva sì ad essa la sua validità, ma subordinata alla opposta logica del divenire, dell’in-finito. L’operazione non riuscì. Perché nel momento in cui si trattava di mostrare l’identità non questa appariva, ma il suo contrario. La logica dell’astratto non godeva dell’autonomia necessaria alla sua funzione. Di qui la “svolta” di Gentile che nel 1931, a distanza di dieci anni dal Sistema di logica, pubblica la Filosofia dell’arte, nella quale all’originario Io penso quale unità di logo concreto e logo astratto è anteposto l’Io-sentimento, un’Identità che il pensiero non può cogliere, perché nell’atto stesso che la coglie, essa muore come sentire e nasce come pensiero, come non-Identità, come divenire. Grande intuizione, questa, che peraltro Gentile aveva avuto sin negli anni lontani della prima formulazione della “filosofia dell’atto”, il 1909, quando aveva pubblicato il saggio sulle “Forme assolute dello spirito”. Grande intuizione, cui Gentile, però, non si mantenne fedele neanche dopo la Filosofia dell’arte, se nell’opera sua pubblicata postuma, Genesi e struttura della società, tornerà sulle posizioni del Sistema di logica. Un “ritorno” necessario, peraltro, dato che l’Identità posta “prima” del divenire era ancora pensata positivamente, vale a dire come un’Identità determinata, come origine che muore sì nell’origi-

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nare, ma che appunto è e resta origine. Al pensiero di Gentile non si affaccia neppure per un attimo l’idea che quella Identità immemoriale, quell’Identità che si sottrae ad ogni pensiero, possa essere insieme origine e abisso del pensiero, alimento di vita e principio di perdizione, di morte6. Il capitolo successivo, “Dall’attualismo alla filosofia dell’identità”, muovendo dall’analisi del rapporto tra Logica e Gnoseologia, si sofferma in particolare sulla critica di Guido Calogero alla filosofia del conoscere e sulla critica del divenire svolta da Emanuele Severino. Il carattere indeterminante dell’identità, cui mette capo l’analisi di questo capitolo, rappresenta la migliore introduzione alla problematica della “proposizione speculativa” (cap. III). Nelle pagine della Fenomenologia dello spirito dedicate a questo tema si rivela quell’“altro” Hegel cui si faceva cenno presentando la conclusione della I sezione di questo libro. Lo Hegel per il quale non l’Antigone può essere la rappresentazione più alta del tragico, ma l’Edipo re. Lo Hegel per il quale oltre l’identità dell’intelletto e la contraddizione della ragione si profila un’Identità ulteriore, l’Identità che è la più alta contraddizione, perché contradictio contradictionis. Quell’“altro” Hegel che anzitutto Hegel volle contrastare e respingere. In ciò la “verità” – per quanto parziale – della Wirkungsgeschichte hegeliana. Il primo capitolo della terza sezione, che tratta del rapporto tra l’inizio della dottrina dell’essere e l’inizio della dottrina dell’essenza, ha anche una funzione di raccordo tra le precedenti due sezioni e quest’ultima, che si conclude con l’esame di un filosofo, Bertrando Spaventa, che è stato il maggiore interprete non soltanto italiano ma europeo di Hegel, e dico 6. Esemplare, da questo punto di vista, il capitolo XIII di GSS: “La Società trascendentale, la morte e l’immortalità”.

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questo con riferimento non solo all’Ottocento, sì anche al Novecento. Purtroppo egli è rimasto ai margini della storia “oggettiva”, e quello stesso filosofo che l’ha rimesso in circolazione in Italia, Giovanni Gentile che a lui si richiamava come al suo vero Maestro, se gli ha dato un momento di notorietà, ha anche contribuito a oscurarne il pensiero, dacché lo mutilava fortemente riducendolo a suo precursore. Ma la filosofia di Bertrando Spaventa non è un’“anticipazione” dell’attualismo. Il filosofo abruzzese, che leggeva Hegel alla luce della tradizione neo-platonica ben viva nell’Italia dell’Ottocento attraverso Rosmini e Gioberti, nonché ridurre l’essere al pensiero, avvertì chiaramente l’esigenza di riconoscere un’alterità irriducibile al pensiero, al fine di evitare la chiusura della dialettica hegeliana in se stessa. Con l’atteggiamento anche umile dell’interprete che si tiene stretto ai testi che legge senza vantare originalità di pensiero, Bertrando Spaventa, scrutando nel fondo del pensiero hegeliano, vide chiaramente il punto debole della fondazione aristotelica della logica identitaria, su cui peraltro si è retta e si regge l’episteme dell’Occidente. Quello che Aristotele presenta come l’evidenza prima, il próteron enérgheia dynámeos, l’antecedenza dell’atto sulla potenza, del reale del possibile, è l’indimostrabile, l’“enigma della vita”. Certo nelle pagine di Bertrando Spaventa non sono pochi i passaggi in cui l’interprete ritiene che Hegel abbia trovato la soluzione del problema del conoscere – e per lui «risolvere il problema del conoscere» significava «provare la creazione» (Op, II, p. 644) –, ma nelle sue riflessioni più autonome e profonde è possibile individuare le prime tracce di quella logica del possibile cui il miglior Hegel si avvicinò a tratti, e – bisogna ribadirlo – contro se stesso, se tutte le volte che l’Essere gli si presentava o come puro “in sé”, o come Vita, o addirittura come “il pozzo notturno” in cui tutte le immagini del mondo si fondono, sempre tornava a ripetere che l’“in sé” è solo in vista del “per sé”, che la Vita accenna a qualcos’altro

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oltre se stessa, all’autocoscienza, che il pozzo notturno come è il luogo in cui le immagini del mondo si fondono, così è il luogo della loro custodia, e della loro rinascita7. Bertrando Spaventa, l’“hegeliano” Spaventa seppe con Hegel andare oltre Hegel. Cosa che non riuscì a Gentile, e tanto meno a Croce. Chiudiamo questa introduzione con le parole che Spaventa scrisse riferendosi in particolare a Hegel, ma non solo a Hegel; riteniamo possano ben riferirsi anche a lui: «Nei filosofi, ne’ veri filosofi, ci è sempre qualcosa sotto, che è più di loro medesimi, e di cui essi non hanno coscienza; e questo è il germe di una nuova vita» (Op, II, p. 643). Molti dei temi trattati in questo libro sono stati oggetto di relazioni che ho tenuto in Convegni internazionali su Hegel (cf. Nota bibliografica) e in cicli di lezioni seminariali, organizzati dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici o in collaborazione con esso. Esprimo qui il mio vivo ringraziamento al Presidente dell’Istituto, Avvocato Gerardo Marotta, ed al Segretario Generale, Professore Antonio Gargano, per l’opportunità offertami di pubblicare nella prestigiosa Collana “Hegeliana” questo mio volume.

7. In merito cf. V. Vitiello “Da Hegel a Vico. Logica – Storia – Natura. Ovvero: la difficile memoria del Sacro”, in: S. Otto – V. Vitiello, V–H, pp. 75-157, spec. 139-149.

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Fonti

Nella composizione di questo libro ho utilizzato miei precedenti lavori, pubblicati come saggi autonomi. Nel fornirne l’elenco, avverto che il lavoro di rielaborazione, revisione ed integrazione è stato, particolarmente per i testi più vecchi, radicale. Parte I: 1) “Il dibattito Croce-Paci, ovvero il sillogismo nascosto” in AA. VV. Vita e Verità. Interpretazione di Enzo Paci, a c. di Stefano Zecchi, Bompiani, Milano 1991. (Sez. I, cap. I). 2) “La critica di Hegel a Fichte e la dottrina del sillogismo”, in Atti del Convegno internazionale “L’esordio pubblico di Hegel. Per il bicentenario della Differenzschrift” – organizzato dal Dipartimento di Epistemologia ed Ermeneutica della formazione dell’Università Milano-Bicocca in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici ed il Goethe Institut di Milano: 26-28 novembre 2001 – a c. di M. Cingoli, Guerini e associati, Milano 2004. (Sez. I, cap. II).

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3) “Spekulativer Satz und setzende Reflexion”, relazione tenuta al XXIII Hegel-Kongreß della Internationale Hegel-­ Gesellschaft: “Hegels Phänomenologie des Geistes”, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi filosofici, Zagreb 30/08 - 02/09/2000. (Sez. II, cap. III). 4) “Hegel e la possibilità dell’inizio”,“Il Pensiero”, 1997/2. (Sez. III, cap. I). 5) “Bertrando Spaventa ed il problema del cominciamento”, nella Collana “Interventi” dell’Istituto Universitario “Suor Orsola Benincasa”, Guida, Napoli 1990. (Sez. III, cap. II). 6) “La prassi tra struttura e storia: Croce e Gentile interpreti e critici di Marx”, “Hermeneutica”, 1989 (Appendice I). 7) “Barock und Dekadenz in Benedetto Croces Interpretation der Neuzeit”, conferenza tenuta l’11 gennaio 1996 all’Interdisziplinäres Institut für Kulturgeschichte der Frühen Neuzeit dell’Università di Osnabrück per il Seminario del semestre invernale 1995/96: “Europäische Kulturwissenschaftler des 20. Jahrhunderts und die Erforschung der Frühen Neuzeit” (Appendice II). 8) Phôs phôs állo horâ. Plotino e Gentile”, “Il Pensiero”, 1999/1 (Appendice III).

Parte II: 1 – “Sillabare Hegel. Rileggendo Bertrando Spaventa interprete di Hegel”, Postfazione a: Bertrando Spaventa, Opere, a c. di F. Valagussa, Bompiani, Milano 2008 (cap. I). 2. – “Due divergenti letture della Fenomenologia dello spirito: Augusto Vera e Bertrando Spaventa” (cap. II), relazione

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al Convegno su “Augusto Vera a duecento anni dalla nascita” (Amelia, 7/12/2013). 3 – “Ut pictura in tabula. Concreto e astratto nella Logica di Giovanni Gentile”, in: La logica non è tutto, a c. di F. Croci, InSchibboleth, Roma 2016 (cap. III) 4 – “I due ‘cominciamenti’: Fenomenologia dello spirito e Scienza della logica secondo Bertrando Spaventa”, relazione al Convegno “Bertrando Spaventa. Tra coscienza nazionale e filosofia europea” (Università di Chieti, 23-24/2/2017). 5 – “Enzo Paci: tra due fenomenologie”, in Atti del Convegno “In ricordo di un Maestro. Enzo Paci a trent’anni dalla morte” (Napoli-Salerno 18-19/12/2006), a c. di G. Cacciatore e A. Di Miele, ScriptaWeb, Napoli 2009. 6 – “La Grazia e il libero arbitrio. Un “improbabile” confronto: Barth e Croce”, in: Benedetto Croce. Riflessioni a 150 dalla nascita, a c. di C. Tuozzolo, Aracne, Roma 2016 (Ex-cursus I). 7 – “Emo, o della negazione”, in A. Emo, Quaderni di Metafisica 1927-1982, a c. di M. Donà e R. Gasparotti, Bompiani, Milano 2006 (Ex-cursus II).

Parte I Dalla storia alla logica

I Relazione Slegare ogni cosa da ogni altra è il più completo annullamento di ogni discorso; il nostro discorso nasce infatti dal reciproco collegamento delle forme. (Platone, Sofista 259e) La vita (è) la connessione della connessione e della non-connessione. (G. W. F. Hegel, Systemfragment, W, I, p. 422)

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I La storia tra eternità e tempo. Il sillogismo nascosto

A rileggere, oggi, il dibattito che, negli anni Quaranta e all’inizio dei Cinquanta del secolo da poco terminato, si accese tra Croce e Paci su alcuni temi di fondo della “filosofia dello spirito” – tutti ruotanti intorno al problema dell’“economico”, o “vitale” – la prima impressione che si ricava è che dal punto di vista propriamente filosofico la distanza che ci separa da Croce è ben maggiore del mezzo secolo trascorso dalla sua morte. La riflessione propriamente filosofica sulla storia – svolta da Croce non solo nella Filosofia della Pratica e nella Teoria e storia della storiografia, bensì anche nelle opere della maturità e della tarda vecchiaia, quali La storia come pensiero e come azione, Il carattere della filosofia moderna, i Discorsi di varia filosofia, o le sin troppo celebrate Indagini su Hegel –, ci appare dettata più da ragioni “ideologiche”1, la difesa del vecchio ordine europeo dall’inquietante ospite evocato da Nietzsche2, che non dalla volontà di comprendere le motivazioni profonde

1. Più complesso, ma non diverso nella sostanza, il giudizio sull’opera storiografica di Croce: sul tema cf. infra, Appendice II. 2. Cf. F. Nietzsche, WzM, Vorrede e Der Europäische Nihilismus. Zum Plan, risp. pp. 3 e 7.

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del nichilismo avanzante. Difficile trovare nella sua rappresentazione del corso storico, dominata dall’idea del progresso, qualcosa di paragonabile non dico all’idea vichiana del conflitto sempre aperto tra storia e natura, “provvedenza divina” ed ingens sylva, ma neppure al sentimento tragico che pervade le pagine anche le più schematiche e meno condivisibili della hegeliana filosofia della storia3, se alla fine del “dialogo”, intrattenuto col filosofo tedesco nell’arco dell’intera vita, la conclusione è che la grande scoperta hegeliana, la dialettica, rientra propriamente nei domini dell’Etica e non della Logica, avendo Hegel scoperto… la funzione positiva del male quale strumento di bene4. Forse, non bisognava attendere Hegel; qualcosa al riguardo l’aveva già detta Agostino… Ma questa è solo la prima impressione. Perché se poi ci accade di aprire Filosofia e storiografia, leggiamo saggi con questi titoli: “La fine della civiltà”, “L’Anticristo che è in noi” (FS, pp. 303-312 e 313-319). In essi la civiltà umana è paragonata al «fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire». Certo sono ancora presenti, in queste meditazioni scritte negli anni terribili del secondo dopoguerra, la fede nella «forza eterna ed immortale dello spirito» ed il convincimento della «coincidenza dello spettacolo della storia con la verità dell’etica» (ib., pp. 311-312), ma è innegabile

3. Su Vico cf. E. Paci, IS, spec. capp. VI e VIII; su Vico e Hegel: V. Vitiello, “Da Hegel a Vico. Logica Storia Natura, ovvero: la difficile memoria del Sacro”, in S. Otto – V. Vitiello, V – H. 4. «A chi mi domanda che cosa abbia fatto Hegel, io rispondo che ha redento il mondo dal male perché ha giustificato questo nel suo ufficio di elemento vitale»: B. Croce, IH, pp. 36-37. Invero la “redenzione” hegeliana è ben più radicale di quel che Croce non sospetti, anche in queste pagine dedicate a spiegare l’“origine della dialettica” e persino il “peccato originale” (ib., pp. 137-139) con il concetto di “vitale”: Hegel intendeva redimere non il mondo dal male, ma il male stesso qua talis. Che questo tentativo gli sia riuscito o non, è altro discorso. Sul tema cf. V. Vitiello, DP, spec. pp. 99-102.

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che in esse emerge un sentimento tragico della storia che non si può attribuire esclusivamente alla temperie storica in cui queste pagine furono vergate. E sarebbe far torto a Croce ed alla filosofia tout court legare il pensiero in modo così cogente alla situazione storica. A non dire che Filosofia e storiografia raccoglie testi dello stesso periodo, nei quali il linguaggio crociano torna ad essere quello sereno e conciliatorio che gli era più consueto5. Sorge allora la domanda, se quella prima impressione non sia sin troppo immediata, troppo legata alla lettera del testo. Ci si chiede se la pagina crociana non esiga uno sforzo ermeneutico maggiore, perché si possa penetrare, sotto la translucida superficie della sua scrittura, una più intensamente sofferta esperienza di pensiero. Enzo Paci non si sottrasse a questo sforzo. È tempo per riprenderlo, con nuovi strumenti, forse; con altri intenti, certamente. 1. A un tale lavoro ermeneutico si presta bene un saggio di Croce del 1929, La Grazia e il libero arbitrio: poche pagine, ma intense, tra le più alte e libere – anche dai propri presupposti, se non pregiudizi – scritte da Croce6. L’inizio è solenne: «Guardo me stesso come in ispettacolo, la mia vita passata, l’opera mia. Che cosa mi appartiene di quest’opera e di questa vita? che cosa posso, con piena coscienza, dir mio?» Nulla, afferma il filosofo, perché se considero, nella loro genesi storica, le verità che mi sono balenate alla mente, esse, nonché 5. Si vedano in particolare i saggi raccolti nelle sezz. III: Problemi d’istorica, e IV: Storicismo. 6. Cf. B. Croce, US, pp. 290‑295. Si tratta, purtroppo, di un testo poco conosciuto, ed anche tra gli studiosi di “ispirazione” crociana scarsamente compreso nella sua “novità”: cf. C. Antoni, RDN, pp. 57-59; G. Sasso, BC, pp. 781-785. Lo stesso Paci in ES vi dedica soltanto un fugace cenno a p. 308.

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esser mie, si rivelano risultato del lavoro di tutti coloro che nel corso dei secoli passati hanno contribuito a prepararle e formularle, compresi gli oppositori che con le loro obiezioni e pretese confutazioni le hanno rafforzate per le risposte che suscitavano. E lo stesso vale per gli errori che mi è accaduto di pronunciare e propugnare, e per le buone azioni compiute ed i torti commessi. Verità ed errori, azioni virtuose e malvage «appartengono non a me ma all’autore stesso del male e del bene, allo Spirito che così si svolge e cresce»: La Grazia è discesa in me in certi momenti, e in altri momenti la Provvidenza non ha voluto che quella scendesse, ma che io errassi e peccassi per preparare materia e condizioni al mio (che è il suo) nuovo operare. (US, p. 291).

Con tale concezione della vita – che ancor qui Croce definisce “dialettica” – non è compatibile il libero arbitrio, né la responsabilità individuale. «Il concetto stesso dell’individuo come entità e realtà» si dissolve, e ad esso va sostituito l’altro «dell’individualità dell’opera operata», il concetto cioè dell’universale concreto, dell’universale «che individualizza e disindividualizza per passare a nuove individuazioni». Eppure, continua Croce, non appena «io cesso dal contemplarmi in ispettacolo e rientro e mi immergo nella mia vita attiva e pratica, ecco che tutte quelle cose che si erano disciolte, colpite di nullità, si ricompongono e risorgono energiche ed imponenti come per l’innanzi; e io mi ritrovo individuo, e fornito di libero arbitrio, e responsabile, e capace di meriti, e condannabile per demeriti» (ib., p. 292) È, quest’alterna vicenda del succedersi della prassi alla teoresi e della teoresi alla prassi, non una contraddizione, ma la vita stessa dello spirito, che, agendo, crea la storia che, pensando, contempla. Ma queste due categorie dello spirito e della realtà vanno tenute distinte e non confuse: «verità è solo nel pensiero; l’azione non è verità e non afferma verità». Scambia-

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re le condizioni e gli strumenti dell’agire – il libero arbitrio e la responsabilità del singolo, i meriti e i demeriti, le lodi ed i biasimi – con la verità è come attribuire realtà alle «immaginazioni che gli innamorati tessono sulle loro donne e le donne sui loro amanti». Parimenti dannoso è portare nel pratico l’atteggiamento contemplativo del pensiero, ché questo condurrebbe all’inerzia e all’irresponsabilità morale. Nell’operare, l’individuo deve far come se egli fosse grazia e provvidenza a se stesso, sforzare l’una e l’altra, o, per adoperare formule meno paradossali, rendersi degno dell’una e dell’altra coi propri atti e sforzi. (Ib., p. 294).

In che la “novità” di questo saggio? Croce non sembra affatto aver cambiato l’impianto della sua filosofia, ha soltanto reso più netta la distinzione già esposta ed argomentata nella Filosofia della pratica tra “accadimento” e “azione”. Lì Croce aveva sostenuto che se si possono e debbono giudicare le azioni degli individui – e “secondo verità”, perché secondo le categorie predicati di giudizio (i “concetti puri”) –, non ha però senso alcuno giudicare l’accadimento, ovvero l’opera del Tutto. Quindi, citato Hegel currenti calamo, aveva spiegato che l’unico giudizio adeguato alla storia del mondo è «quello della necessità e della realtà. Ciò che è stato doveva essere; e ciò che è veramente reale, è veramente razionale»7. Invero Croce, ed è qui la differenza tra l’opera del 1908 ed il saggio del ’29, non ha “soltanto” reso “più netta” la distinzione tra l’operare del Tutto e le azioni dei singoli, l’ha approfondita tanto da trasformarla in reale divisione. Nella Filosofia della pratica teoria e prassi erano perfettamente pari dal punto di vista ontologico: all’origine, se, com’è

7. B. Croce, FP, p. 64. A segnare l’enorme distanza da Hegel basta il rilievo che Hegel non solo pone il “razionale” prima del “reale” (cf. Hegel, GPhR, p. 14; tr. it., p. 15), ma mai e poi mai avrebbe scritto “veramente razionale”!

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detto, «in principio non era né il Verbo né l’Atto; ma il Verbo dell’Atto e l’Atto del Verbo» (FP, p. 205), e non meno nel corso della storia, se l’alternarsi dei due “momenti” fondamentali della vita, ovvero la loro distinzione, comporta che «quando lo spirito si considera in una delle sue forme ossia è esplicito in essa, le altre forme sono egualmente in lui, benché implicite o, come si suol anche dire, concomitanti» (FP, p. 23). Per contro ne La Grazia e il libero arbitrio tra teoria e prassi si è aperto un abisso ontologico. Gli strumenti e le condizioni della prassi non sono verità, e cioè: non hanno contenuto reale, al pari delle immaginazioni degli amanti! Non sono realtà, ma finzioni, finzioni pratiche: responsabilità, individuo, libero arbitrio. Reale è solo l’opera in cui s’attua di volta in volta la Provvidenza della storia. Ma se diciamo “reale” la storia della Grazia e della Provvidenza, la storia “contemplata”, la storia oggetto della teoresi, quale statuto ontologico dobbiamo riconoscere alla storia della práxis (seppure può dirsi storia l’operare degli uomini tra bene e male, lodi e biasimi, responsabilità e redenzione)? Se la prima è essere, la seconda è… non‑essere? Non certamente ouk ón, bensì mè ón. Come dire: non il puro, vuoto nihil, ma un essere affetto da negatività, un essere che porta in sé la sua negazione: qualcosa che tramezza essere e nulla, partecipando dell’uno e dell’altro. “Esistenza”, possiamo definirlo, prim’ancora che con Paci, con Vico, che nella prima “Risposta al Giornale dei Letterati”, richiamandosi ai “latini scrittori”, dottamente spiegava: «existere non altro suona che “esserci”, “esser sorto” […]. Ciò che è sorto, da alcuna altra cosa è sorto; onde l’esser sorto non è proprietà de’ principi. […] Per contrario, l’essere è proprietà de’ principi, perché l’essere non può nascere dal nulla»8.

8. G. Vico, prima Risposta al “Giornale de’ letterati d’Italia”, OF, p. 143. Questo passo vichiano richiamò l’attenzione di Paci: cf. IS, p. 66.

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Essere e apparenza, o meglio: parvenza – a questa divisione il saggio del ’29 riporta la distinzione tra la storia del mondo (l’accadimento) e le azioni dei singoli individui, liberi e responsabili. E se ora dai latini, cui Vico s’appellava, torniamo ai greci, da cui quelli derivarono il loro linguaggio filosofico, possiamo determinare, insieme con la diversità di contenuto “ontologico” delle due sfere dello spirito, i diversi saperi che ad esse si confanno. A «ciò che è in maniera perfetta» ed è «perfettamente conoscibile» appartiene il sapere che non muta e non può mutare: l’epistéme; a quello, invece, che è «tale da essere e non essere allo stesso tempo», che è «intermedio tra ciò che assolutamente è e ciò che non è in nessun modo», è propria la dóxa, che sta tra l’ágnoia e l’epistéme, il non sapere ed il sapere (Platone, Repubblica., V, 477a-b). La determinazione delle due diverse forme di sapere rende ancor più evidente lo squilibrio tra la teoresi e la prassi. Infatti, se l’episteme conosce se stessa ed il suo altro, il contenuto della doxa e la doxa stessa (se così non fosse, a chi apparterrebbe la conoscenza della distinzione tra storia vera e storia apparente?); la doxa, per contro, resta chiusa nell’ambito della parvenza e nulla sa della storia vera dell’essere, dei principi, della “sostanza”. Questa maggiore estensione dell’epistéme mette in crisi il principio stesso della filosofia crociana: la distinzione. La prassi da momento distinto, si è mutata in “parte” del contenuto dell’episteme9.

9. Che Croce non riesca a circoscrivere l’ambito del conoscere, a farne un distinto tra gli altri risulta evidente anche ad una prima lettura dei capitoli della LCP su “La logica e la dottrina delle categorie” (pp. 149-156) e “La filosofia” (pp. 168-179). L’esempio del lago in cui si specchia il paesaggio e che fa parte del paesaggio (ib., p. 170), sarà pure una bella immagine, ma non spiega proprio quello che andrebbe spiegato. Per una articolata trattazione del tema rinvio a V. Vitiello, VR, cap. II, “Il sillogismo nascosto: sulla teoria crociana del giudizio”, pp. 47-76.

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Ma come la teoresi, la prassi: anche questa comprende – a suo modo – l’altro da sé in sé. È prassi, infatti, non soltanto l’agire economico ed etico, bensì altrettanto il fare artistico e filosofico‑­storico. Nella «vita attiva e pratica» rientrano non solo le azioni ma anche i pensieri. Scrive Croce: «quando m’immergo nella mia vita attiva e pratica» non soltanto di quanto «ho operato di bene», sì anche «di quel che ho pensato di vero… non mi spossesso più, non lo separo da me… e, se alcuno me ne vuole strappare il merito, lo difendo e respingo l’ingiustizia e, perfino, sumo superbiam» (US, p. 293). Certo il modo in cui l’episteme comprende la dóxa (la práxis) è ben diverso dal modo in cui questa comprende quella. L’epistéme comprende la dóxa come una “parte” del suo contenuto – e cioè la comprende quando è esplicita. Quando è implicita non la comprende affatto. La teoresi avviene sempre post factum: questo è un dato costante della meditazione crociana. Voluntas fertur in incognitum – affermava nella Filosofia della pratica, e nel saggio del ’29 ribadisce che è «moralmente pernicioso» portare nell’agire l’atteggiamento del contemplare. Verrebbe meno infatti l’impulso all’azione. Ma non è dato capire il ruolo che svolge la teoresi quando è implicita nella prassi. Croce afferma che l’agire dotato di senso, l’azione razionale, si basa sempre sulla conoscenza storica, perché in tanto è possibile operare in modo efficace in quanto si conosce la situazione in cui ci si muove. Ma questa conoscenza “storica” che l’agire esige per essere razionalmente efficace, non può attribuirsi all’epistéme che toglie senso e valore all’individuo, alla libertà, alla responsabilità, ossia a tutte quelle “parvenze” che sole rendono possibile l’azione. Né avrebbe senso opporre che la conoscenza epistemica della storia toglie quelle fictiones solo riguardo al passato; non si capirebbe infatti in che modo l’agire possa basarsi su una conoscenza della propria situazione storica che è di principio in contrasto con le “condizioni” e gli “strumenti” dell’agire stesso. La conoscenza storica

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richiesta dall’agire non può essere che quella confacente alla prassi – e cioè: la dóxa. La teoresi quindi o è esplicita o non è. O si deve intendere che quando è implicita non è in atto ma in potenza? Ma come poi da «potenza» passa all’atto?10 Diversamente la práxis, che è sempre in atto. E quando è esplicita: nell’agire propriamente economico o etico; e quando è implicita: nell’operare poetico o del pensiero11. Non v’è atto spirituale che non sia insieme pratico, che non sia “compreso” nella praxis. È nella prassi la “storia contemplata”. È nel mè ón dell’ek‑sistenza l’essere. È nella doxa l’episteme. Ed ora è questo essere‑nella‑dóxa ciò che dobbiamo indagare. Sulle orme di Paci che proprio questo aspetto dell’“idealismo” ha posto a tema delle sue analisi. Dell’idealismo – si è detto; e cioè non soltanto del pensiero di Croce, sì anche dell’attualismo di Gentile12. Chiediamoci dunque che cosa significa che la teoresi – la storia contemplata “come in ispettacolo” – è nella prassi; che cosa significa che l’episteme è nella doxa. 10. Se si assume che la teoresi “in potenza” è la prassi (cos’altro, se non questa?), quale forza mai spinge il «libero arbitrio» ad oltrepassarsi nella verità della «Grazia»? Non altra che la Grazia stessa. Ma se è così, l’immanenza della verità (della Grazia) nella prassi non mette in forse la distinzione tra le forme – che non è empirica e “quantitativa” ma di grado, “qualitativa”? Come poi il ritorno della prassi e delle sue fictiones, l’oblìo della verità della Grazia? Vero è che il vicendevole alternarsi di teoria e prassi è un “presupposto” non un “posto” della filosofia dei distinti; un enunciato rimasto sempre privo della necessaria Rechtfertigung. 11. Talora Croce distingue il poieîn, il fare che caratterizza ogni attività spirituale, dal práttein, proprio del solo agire economico ed etico (cf. SPA, pp. 28‑30, e FS, pp. 3‑13). In tal modo, però, i problemi posti nel saggio La Grazia e il libero arbitrio vengono non risolti ma accantonati: si riproporranno, infatti, più tardi nella definizione del rapporto tra il vitale e le (altre) forme dello spirito (su ciò cf. infra). 12. Il termine “idealismo” viene qui usato nel significato che ad esso dettero Croce e Gentile.

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Questo anzitutto: che nel dire, nel linguaggio, nel pensare v’è una irriducibile alterità. Il dire non dice di sé, ma d’altro. Il pensiero pensa – pensando sé – “altro”. Questa alterità fa problema. 2. Considerata in tale prospettiva, la distinzione crociana teoria‑prassi è riportata alla distinzione gentiliana atto‑fatto. La teoresi è volta al fatto, al contenuto del dire: al passato eterno dell’eterno presente. La prassi invece è l’atto, il dire (o guardare: theoreîn). È il presente eterno dell’eterno passato. Rileggiamo adesso le prime parole del saggio La Grazia e il libero arbitrio: «guardo me stesso come in ispettacolo, la mia vita passata». Guardo (e dico) ora il me stesso già-stato, passato, ge‑wesen: ge‑Wesen, la mia raccolta “essenza” (Vico!). Ma nell’interpretazione di Paci la stessa distinzione gentiliana è portata ad un livello che solo il miglior Gentile conosce. E infatti l’atto che viene contrapposto al fatto non è il soggetto che si contrappone all’oggetto come il divenire autocosciente all’essere che è soltanto conosciuto – mero prodotto o divenuto13. L’atto è nella lettura di Paci, il non‑conosciuto e non‑conoscibile che si contrappone al conosciuto ed al conoscibile – è il limite del sapere. Paci rende rigoroso il pensiero di Gentile: ha di mira non l’atto ma l’attualità dell’atto. Se l’atto si realizza nella luce del conoscere, allora l’attualità dell’atto è ciò che è “prima” (ontologicamente non temporalmente “prima”) del conoscere. È l’assoluto al di là del conoscere. Al di là; meglio: al di qua del conoscere. In Pensiero Esistenza Valore Paci paragona l’attualità dell’atto all’Umgreifendes jaspersiano. Esso è l’orizzonte di ogni orizzonte: ciò che già da sempre ci include e non

13. Ma sul tema cf. infra, Sez. II, capp. I e II.

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può essere incluso nel nostro pensiero, perché per includerlo bisogna presupporre altro e più ampio orizzonte, oltre quello “pensato”: il pensiero pensante, appunto. Così, con ammirevole ampiezza di sguardo, collegando il pensiero di Gentile a momenti cruciali della storia della filosofia antica e moderna: Il problema dell’atto, il problema dell’Umgreifende, il problema del terzo uomo, il problema della logica della logica e della filosofia della filosofia, così fondamentale per Emilio Lask, il problema dell’Io penso kantiano in tutta la sua profonda antinomicità, si muove nell’intimo di tutta la filosofia di Gentile, come determina il movimento di ogni filosofia che sia davvero filosofia. (PEV, p. 13).

Emerge da queste riflessioni di Paci un significativo capovolgimento di posizione. L’attualità dell’atto è ciò che il pensiero trova come il già‑dato. Il Vor‑gegebenes, l’assoluto Vor‑­ gegebenes. È il vero, autentico “fatto”. Non nel significato gentiliano di caput mortuum del pensiero, ma nell’altro più vicino al concetto heideggeriano di Faktizität. Questa attualità infatti è un puro «che c’è». È il vero prôton ti, l’ousía “prima” del poión. Il pre‑categoriale. Appunto il Dass es ist, la ­quoddità prima del Wie es ist, prima della quiddità. O, per dirla col Paci del saggio Mito ed esistenza, «esso è l’“altro”, il non posto e non ponibile dal pensiero, qualcosa che il pensiero deve dire che non è, se vuol essere pensiero e rimanere fedele al proprio principio interno e cioè al principio d’identità» (NPU, p. 113). Se questo è vero, dobbiamo allora dire che Paci non riporta la distinzione crociana teoria‑prassi (epistéme‑dóxa) alla distinzione gentiliana atto‑fatto; ma all’inverso la distinzione gentiliana a quella crociana. Ma anche qui v’è un’inversione di posizione: la sostanza, ciò che sta sotto e regge il tutto non è la storia “contemplata”, bensì l’attività pratica. Ed è questo poi che emerge se non dal dettato del saggio La Grazia e il libero arbitrio, certo dal suo orientamento di fondo.

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Ora la maggior vicinanza di Paci a Croce che non a Gentile, è determinata proprio da questo riconoscimento che il Prius è la prassi, la dóxa, la Faktizität. Il fatto non l’atto. La natura non lo spirito. Questo è esplicito nel libro più bello del primo Paci – e forse di tutto Paci: il libro su Vico, Ingens sylva. Il criticismo vichiano – scrive – è ben più chiaro di quanto non creda lo stesso Gentile, il quale non può perdonare a Vico il suo ‘scetticismo’, e cioè il fatto che Vico neghi l’autocoscienza affermando che la mente umana, non avendo fatto se stessa, non può conoscersi, così come lo stesso Gentile non può non riconoscere valido il principio vichiano della non conoscibilità della natura, principio che annuncia così chiaramente il limite critico kantiano della cosa in sé. Ora proprio il principio vichiano per cui la coscienza non si conosce come tale non è che il presentimento, anche se oscuro, del paralogismo di Kant: è la critica anticipata dunque della risoluzione della legge del pensiero o della legge trascendentale (Dio che pensa in noi) nel principio dell’autocoscienza… È, infine, la critica ante litteram dell’atto gentiliano, se inteso nel suo carattere in fondo psicologico e dommatico, e non nel suo senso possibile di pura problematicità. (IS, pp. 88‑89).

Di qui il costante richiamo di Paci alla tesi hegeliana espressa nella Prefazione della Fenomenologia dello spirito, secondo cui l’Assoluto (Paci scrive: l’idea) è risultato (PhäG, p. 21; it., I, p. 15). È risultato in quanto “prima” dell’assoluto – e cioè del conoscere, del cogito – è la natura, l’esistenza pura: l’ek‑­ sistere. L’essere – il saldo, fermo essere dei principi – poggia esso medesimo sul mè ón. La vita – l’inquieto divenire cui solo l’imperfetto conoscere della dóxa si confà – è la sorgente, pur dell’epistéme. L’eterno nasce dal tempo, nel tempo. A questo livello – al livello alto cui Paci porta la discussione su Croce e su Gentile – diviene evidente la necessità dell’itinerario di pensiero di Gentile dal Sistema di logica come teoria del conoscere alla Filosofia dell’arte, e cioè: dall’affermazione

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della priorità assoluta dell’autocoscienza all’altra della dialettica antecedenza del sentimento al pensiero puro. Il nostro soggetto o sentimento non è autocoscienza o unità trascendentale della coscienza, ma il principio donde essa trae origine nel suo dialettico processo. L’io è pensiero: l’Io trascendentale è pensiero puro o trascendentale; ma il sentimento, il soggetto non è pensiero bensì condizione dello stesso pensiero trascendentale.14

Il sentimento che è in senso eminente dialettico, perché l’esser suo nel porsi si toglie come l’inattuale, il passato eterno dell’eterno presente del pensiero autocosciente; il sentimento che è non essendo, e pertanto è in senso eminente doxastico; il sentimento, il mè ón, è l’Atlante «che regge il mondo in cui si vive»; di più: che regge l’eterno presente del pensare. Qui si mostra la vera affinità tra le due filosofie dell’idealismo italiano del ’900. Che il sentimento della Filosofia dell’arte nomini quel medesimo che, anni più tardi, Croce definirà “vitale” – la forza «cruda e verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore», che «offre la “materia” alle categorie successive» e con la materia la possibilità, la potenza per esprimersi ed «il piacere o il dolore, comune manifestazione in cui culmina ogni vita» (IH, pp. 35‑6) –, questo appare evidente. Che la “vitalità” trovi nel saggio La Grazia e il libero arbitrio il suo autonomo antecedente – e cioè la práxis come mè ón e quindi come dóxa – anche questo dopo quanto si è detto, risulta chiaro. Non resta che trarre la conclusione, a nostro avviso ben significativa, per comprendere il luogo reale ove va posta la discussione tra Croce e Paci, perché essa sia ancor oggi produttiva, teoreticamente produttiva. La conclusione è

14. G. Gentile, FA, p. 161. Molto significativo il riferimento all’“Ich denke” kantiano: in merito cf. infra, Sez. II, cap. I, §§ 9-10 e Appendice III; e per un più ampio svolgimento del tema V. Vitiello, GP, pp. 33-52.

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che tanto Croce quanto Gentile avvertirono la necessità di interrogarsi su ciò che è altro dal pensiero, sull’ek‑sistenza, sulla natura, sulla Faktizität, sulla dóxa come luogo dell’epistéme. La necessità, quindi, di oltrepassare i presupposti idealistici che erano, ove con maggiore ove con minore coerenza, alla base dei loro sistemi filosofici. Vi riuscirono? Riuscì lo stesso Paci a conseguire una posizione non‑idealistica? Voglio dire: a porre il problema dell’altro del pensiero in modo tale da non negare, nel porla, l’alterità dell’altro? Il dibattito su “esistenzialismo e storicismo” è tutto qui. Tutto qui il problema teorico. 3. Quello che per Gentile e in parte per Croce era il punto d’arrivo del loro itinerario filosofico – e cioè: il sentimento o vitalità, l’ek‑sistenza, il mè ón, la dóxa – per Paci rappresentava invece l’inizio del suo interrogare. Nel diverso modo di porre il problema è già la differenza tra esistenzialismo e idealismo. Ma bisogna subito aggiungere questo: sotto la differenza si cela un’identità di fondo che è nostro compito mettere in luce. Un’identità che segna il limite del progetto filosofico di Paci. Cerchiamo di gettare uno primo sguardo su questo limite. Un saggio su Kierkegaard, Ironia demoniaco ed Eros15, si presta molto bene al caso nostro. In esso Paci mette in rilievo il carattere antinomico del pensiero di Kierkegaard diviso tra finito ed infinito, apertura al possibile ed esperienza dell’impossibilità, domanda filosofica ed esperienza religiosa. Diviso, ma insieme ambiguamente partecipe di entrambi. La cifra di Kierkegaard fu appunto l’ambiguità:

15. Pubblicato nell’Archivio di Filosofia”, 2 (1953), pp. 71‑103, ripreso in RS/II.

49 Nella relazione tra infinito e finito l’ambiguità nasce dalla reciprocità dei termini. L’infinito si rivela finito, l’infinito scopre in sé l’impossibilità di determinarsi. Non sa nulla di sé, può essere tutto, la pagina bianca che resta aperta dopo la maieutica nichilistica che Kierkegaard attribuisce a Socrate. Sulla pagina bianca può essere scritto tutto, ma non si sa cosa scrivere. È la disponibilità assoluta, la possibilità pura, la vertigine della libertà, l’infinito della libertà. Nella relazione fra finito e infinito o ci sono infinite vie o c’è una sola via. Ma infinite vie e una sola si equivalgono. (RS/II, pp. 18‑9).

L’estremo dell’ambiguità è dato da Eros: l’infinito della passione, il desiderio puro nel suo selvatico ardore, come tale non rappresentabile. Eros, o l’immediatezza dei vivere sensibile, è «la non filosofia, ciò che è al di fuori del pensiero». Se una “rappresentazione” gli si confà, è quella della musica, perché «la musica ha in sé l’immediatezza del tempo senza esprimere ciò che nel tempo è storico» (ib., p. 29). Paci, che qui commenta lo scritto kierkegaardiano sul Don Giovanni di Mozart, sa bene che ciò cui tende il filosofo danese nell’ascoltare l’ouverture mozartiana, l’irraggiungibile Eros, il puro immediato che è al di là della musica stessa, è un “mito” spesso risorgente nella cultura europea. Mito, perché «non sembra possibile fare della filosofia combattendo la filosofia» (ib., p. 37). Mito, perché «qualsiasi cosa ne dica Kierkegaard il saggio su Don Giovanni non è musica, ma è parola». «E vita ma è anche un tentativo di interpretare e valutare un’esperienza della vita» (ib., p. 36). Qui Paci mostra piena consapevolezza del complesso rapporto in cui sono immediato e mediato, vita e filosofia, dóxa ed epistéme. E cioè che non è dato saltar fuori dell’epistéme per introdursi immediatamente nella dóxa. La vita sfugge proprio quando la si vuole mirare direttamente in viso. Ma, nonostante questa lucida consapevolezza, Paci intende uscir fuori dall’ambiguità. Il fatto che Kierkegaard sia attratto da ciò che lo respinge, e respinga ciò che lo attrae, è per lui segno di una mancanza, di un difetto, prima e più anco-

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ra che del pensiero, della vita, dell’esistenza di Kierkegaard. Il giudizio sul Diario di un seduttore è per questo aspetto di enorme interesse. Paci lo considera un’opera non riuscita: le «varie parti – scrive – sono tutt’altro che armonicamente fuse». Com’è chiaro, per noi ora è in questione non l’opera di Kierkegaard ma il giudizio di Paci e le sue motivazioni. Se Don Giovanni rappresenta l’immediatezza della vita erotica, il seduttore è al contrario una figura affatto “intellettuale”: non ama, né cerca amore, vuole potere. Agisce non con l’immediatezza della passione d’amore, ma per calcolo, adeguando costantemente i mezzi allo scopo che persegue, soggiogare l’altro al suo volere. Pertanto, osserva Paci, l’affermazione che Kierkegaard gli mette in bocca: «Non voglio sapere troppe storie: l’immediato mi basta», non appare coerente col personaggio. Eppure nel Diario non una volta soltanto Giovanni, il seduttore, si esprime ed agisce da “innamorato”. Paci imputa a Kierkegaard le “contraddizioni” del seduttore, dacché non ha inteso che essere innamorato è per il seduttore condizione necessaria alla sua opera di seduzione. Senza l’incantesimo dell’amore, che da Cordelia si riflette sul suo seduttore, non vi sarebbe seduzione. L’amore è per Giovanni il suo inganno. Inganno riflesso. Autoinganno. Come non vi è immediatezza pura, così non vi è pura mediazione; se non vi è eros puro, nemmeno vi è puro disegno intellettuale, puro calcolo strumentale. L’amore di Giovanni è la sua malafede. E malafede necessaria. La figura del seduttore ha attratto Kierkegaard proprio per le sue contraddizioni; proprio perché ogni tentativo di distinguere tenendo fermi i termini distinti fallisce quando si imbatte in tale personaggio. Ma il seduttore non è che la configurazione umana della paradoxía del rapporto infinito‑finito, della contraddizione eterno‑tempo, dell’ambiguità di Eros, che è immediatezza e mediazione, incanto e seduzione, sentimento

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e pensiero. Nell’in‑stante di Eros essere e mè ón, epistéme e dóxa, tutto e nulla si scambiano continuamente posto e ruolo – e «l’ironia si trasforma in angoscia». Da questa ambiguità e paradoxía Paci mira ad uscire. Mira ad uscire dall’equivalenza di finito ed infinito: Per evitare l’equivalenza la relazione dovrebbe essere tale da far sì che i termini nei quali si costituisce non siano reciproci. Ora, a nostro parere, la sola relazione nella quale ciò avvenga è una relazione temporale che va da un momento ad un altro momento. Qui i termini non sono più reciproci perché la temporalità è irreversibile. (Ib., p. 19).

L’irreversibilità del tempo è la “legge non ambigua” che – implicitamente o esplicitamente – governa l’intero itinerario filosofico di Paci, dal periodo esistenzialistico a quello relazionistico, sino alla fase ultima del ripensamento della fenomenologia husserliana. Ora questa legge non ambigua definisce il tempo storico. Ciò che è passato è passato, non si ripete. Il futuro non può non dipendere dal passato e quindi non è infinito, ma limitato entro un campo di possibilità. Non ci sono né una sola via né infinite vie, ma c’è un campo. Bisogna scegliere in questo campo, scegliere in rapporto al passato al quale non si può tornare e che deve essere trasformato in futuro. La relazione è un processo, una trasformazione in un campo, un passaggio. Il primo termine è sempre un problema da risolvere, una contraddizione da superare, un errore da togliere, un peccato, direbbe Kierkegaard, da redimere. (Ib.).

Invero qui s’avverte molto più la presenza del pragmatismo “storicizzante” di Dewey che l’abissalità del pensiero religioso di Kierkegaard: c’è molto più il problema da risolvere che non il peccato da redimere. Questo anche per dire – o ribadire – che Esistenzialismo e storicismo segnava un punto di incontro e di conciliazione – non certo un’opposizione. Ma allora l’analisi del dibattito intervenuto tra Croce e Paci serve anche, o

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soprattutto, a chiarire e mettere in evidenza i presupposti su cui quell’incontro e quella conciliazione si basavano. 4. Come si è detto, il punto da cui muoveva l’interrogazione di Paci era l’ek‑sistenza, il vitale. In Croce, scrive, […] l’arte, proprio in quanto forma aurorale dello spirito, rimanda a qualcosa che è prima dell’aurora spirituale, rimanda dunque a qualcosa che non è spirituale. Questo qualcosa è la forma utilitaria che Croce considera come forma spirituale, ma che in realtà, nella sua filosofia, esercita la funzione di contrario dialettico dello spirito. (ES, p. 34).

In questa critica Croce si vedeva risospinto verso posizioni teoriche che aveva abbandonato già agli inizi del ’900. Anch’egli – nella cd. I Estetica16 – aveva posto a base dell’intuizione artistica un elemento pre‑spirituale, naturale: l’impressione sensibile. In seguito, anche per influsso di Gentile, aveva recuperato all’ambito dello spirito pur la “materia” dell’intuizione. Questa materia gli si era rivelata forma essa medesima – la prima forma della prassi: l’utile o economico. L’assunzione della natura come volontà era una determinazione metafisica che legava il pensiero crociano alla tendenza dominante della filosofia moderna. Croce, che ne era pienamente consapevole, paventava che quel legame fosse troppo stretto. Le sue critiche, diverse nel tono e nell’ampiezza dell’argomentazione, a Schopenhauer come a Schelling, a Nietzsche come a Bergson e a Marx17, la sua dura requisitoria contro l‘”irrazionalismo” 16. Del 1901, poi riveduta alla luce dei risultati conseguiti nella Logica e nella Filosofia della pratica, cf. Avvertenza alla III ed. (1907) dell’Estetica, p. V. Ma cf. anche infra, Sez. II, cap. I, § 5. 17. Su Schopenhauer, Schelling e Nietzsche cf. i saggi raccolti in: B. Croce, SH, pp. 354‑68, 334‑43, 411‑15; su Bergson cf. Cc/1, pp. 75‑78; su Marx cf. in particolare la cronistoria “Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia (1895‑1900)” in appendice a MSEM: in merito infra, Appendice I.

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della cultura, non solo filosofica, contemporanea (SI, cap. X), sono tentativi di allentare quel legame, di porre confini netti tra la sua filosofia e la tradizione volontaristica‑vitalistica del pensiero moderno. In sede strettamente filosofica questo significava definire in modo rigido i limiti dell’agire pratico‑utilitario, i limiti della volontà‑natura. E quindi assumere la stessa natura‑volontà come forma. La “formalizzazione” dell’utile era un modo per esorcizzare la próte hýle – la materia prima, quella pura potenza che già ad Aristotele era apparsa come il non‑essere (Met, IV, 1007b 25‑30). Attribuire all’utile un’autonoma forma significava attribuire l’essere – l’essere epistemico – al non essere (mè ón) della doxa. L’operazione, però, non gli era riuscita. La natura‑volontà era incontenibile nello spazio circoscritto di una forma. Debordava d’ogni lato: si presentava nell’arte come brutto, nel pensiero logico come errore, nell’etica come male. Esso solo aveva una sua propria opposizione interna: l’opposizione vitale, sentimentale, erotica tra piacere e dolore. Opposizione peraltro difficile a cogliersi, perché, se il brutto, l’errore e il male conservano comunque – e cioè anche là dove non sono brutto errore e male, perché non superati e vinti dal loro opposto “positivo” – la propria “realtà” di atti volitivi, il dolore, o più in generale il “negativo” della volizione utilitaria, non ha una sua propria “realtà”. Il vero per realizzarsi lotta con l’utile, con un “distinto” reale. E la volizione utilitaria? Qual è l’opposto “reale” del volere? Altro volere? Fosse così, il criterio di distinzione tra positivo e negativo sarebbe solo il “successo”. Positiva la volontà che vince, negativa quella che perde. Vero, bello e bene sono criteri di valore “oggettivi” – si realizzino o non. Il criterio per valutare l’utile e distinguerlo dal disutile è invece il “fatto”. Così nell’esperienza masochistica il dolore è il “posi-

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tivo”, negativo il piacere18. E che dire del cupio dissolvi, del desiderio di morte, del legame profondo, sotterraneo che lega Eros a Thanatos? Invero la natura, anche assunta nella forma più bassa dello spirito, mantiene la sua irriducibile ambiguità. D’altronde lo stesso svolgimento del pensiero crociano attesta questa irriducibilità. Ne La storia come pensiero e come azione, l’opus maius della tarda maturità, Croce è come costretto ad ammettere accanto ed oltre lo schema circolare delle forme distinte uno schema dualistico fondato sull’opposizione sempre aperta di forza e violenza. Da un lato la forza che sorregge la vita dello spirito, l’etica che mantiene ciascuna forma nei confini che le sono propri, dall’altro la violenza che sovverte ogni ordine ed è costante minaccia dell’armonica vita dello spirito (cf. SPA, pp. 44-47 e 241-247). Forza e violenza, ovvero: spirito e natura. L’utile risulta diviso in due: in quanto forza che crea è spirito, è, in senso ampio, morale (al pari del vero e del bello); in quanto violenza, e disordine, e male, è respinto fuori dallo spirito, nella natura, nella materia. Così l’ambiguità sembra tolta. Ma sembra soltanto. Perché lo stesso potere di ethos non altrove trae alimento che dalla “natura”, dalla vitalità cruda e verde, che è materia e potenza. La forza stessa, la forza etica, deriva da questa selvatica potenza – per cui il filosofo, in uno dei suoi ultimi scritti, traendo le conclusioni ultime di queste meditazioni “etiche”, scriverà che su di essa «conviene usare impero ma non tirannide, perché, domata e umiliata che fosse, c’è rischio che, resa incapace di male, sarebbe inetta anche al bene» (IH, p. 138). C’è allora da chiedersi donde l’etica tragga la sua forza per opporsi al vitale, per esercitare su di esso “impero”. La natura non cessa

18. Si veda l’esemplificazione fornita in FP, p. 136, ove peraltro Croce ritiene di poter equiparare la dialettica positivo‑negativo degli altri distinti a quella dell’utile, così perdendo di vista la specificità dell’economico che è l’unica “forma” dotata di autonoma polarità dialettica.

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di preparare sempre nuove insidie al ragionamento del filosofo. La natura è e resta ambigua, perciò l’unico sapere che le si confà sembra essere quello doxastico. Ma l’ambiguità che s’esprime nella dóxa s’estende all’epistéme, all’essere, all’eterno, dacché – come sappiamo dal saggio La Grazia e il libero arbitrio – l’epistéme, l’essere, l’eterno non sono se non nella dóxa, nel mè ón, nel tempo. È, questo, il tema kierkegaardiano della dialettica “ironica” di Eros. Tuttavia qui finito ed infinito non si equivalgono. L’ambiguità è in qualche modo frenata: i termini sono già distinti come natura e spirito. E quantunque la natura abbia in sé forza e violenza, la distinzione dello spirito è, in certa misura, già penetrata in essa. La potenza non è pura potenza – la materia è già signata. 5. Le obiezioni che Paci muove a Croce possono ricondursi tutte a quest’unica, che l’utile o vitale – l’esistenza, come amava dire Paci – è materia non forma. Che l’esistenza è doppia in quanto può sia destinarsi al valore, morendo come esistenza bruta, come mera natura o ingens sylva, sia chiudersi in sé, convertendosi da contrario che implica il valore in contraddittorio che esclude da sé ogni determinazione assiologica. Paci approfondiva il dislivello tra natura e spirito, dóxa ed epistéme e poneva Croce davanti a questa alternativa: o seguire la via di «dedurre dal concetto stesso dello spirito le forme spirituali come momenti dialettici dello spirito stesso», così tornando alla concezione hegeliana della filosofia come “sistema”, ovvero prendere l’altra via «non verso la dialettica dello spirito, ma verso l’oscurità dell’esistenza» (ES, p. 46). I rilievi di Paci – ove si prescinda da alcuni aspetti particolari, legati più all’accidentalità della cultura del tempo che non alla necessità del discorso logico – erano giusti, anche filologicamente corretti. Che «la filosofia crociana viva di un inconfessato dramma tra pensiero e azione, tra vita teoretica e vita

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pratica, tra Geist e Leben, nonostante e proprio per la serenità con cui tale dramma sembra sempre risolto e sempre di nuovo riaffiora» (ib., p. 47) – non può negarsi, se non si vuole ripercorrere a ritroso il cammino speculativo di Croce: da La Grazia e il libero arbitrio alla Filosofia dello spirito. E tuttavia fu proprio questo l’atteggiamento di Croce in risposta alle obiezioni del suo giovane interlocutore. Riaffermando la tesi che non si dà materia senza forma, ribadendo la circolarità dei gradi dello spirito, secondo cui ciascuna forma funge da materia per la successiva, ma nessuna è materia di per sé – Croce rispondeva arretrando. Negava proprio la parte migliore di sé: il dramma tra Geist e ­Leben, l’opposizione sempre aperta tra natura e spirito, violenza e forza. E tuttavia, nel respingere le conclusioni che Paci traeva dal suo pensiero – ed invero con molta finezza, spesso mettendo da parte sé e facendo parlare Croce, ovvero parlando con le parole stesse di Croce –, nel rifiutare tali conclusioni, Croce aveva ragione. E più di quanto non riuscisse a dire. Aveva ragione non solo riguardo al proprio pensiero, al proprio sistema dei distinti, sì anche riguardo a Paci, al pensiero di Paci. Per comprendere le ragioni di Croce, dobbiamo fare un passo indietro, risalendo a quel capitolo della Logica, nel quale si tratta del “predicato di esistenza” (LCP, pp. 103-113). In questo capitolo Croce dimostra: l) che l’esistenza è predicato, 2) che existentia involvit essentiam. Quanto al primo punto l’argomentazione crociana si riduce all’osservazione che se «per l’uomo intuitivo, pel poeta, per l’artista» la distinzione tra esistente ed inesistente, tra realtà e fantasia è indifferente, giacché il poeta «non esce in quanto tale dalla cerchia rappresentativa», per l’«uomo logico» invece tale distinzione è fondamentale. L’atto logico, infatti, sorge proprio distinguendo. Distinguendo il pensiero dall’azione, e quindi il «reale» dal puramente «fantasticato» o «immaginato», e l’azione dai desideri, il concreto dall’astratto. L’esistente dall’inesistente.

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E queste distinzioni sono, nell’atto logico, categorie‑predicati. L’esistenza è dunque predicato. Con ciò siamo già introdotti nell’argomentazione relativa al secondo punto. Il predicato di esistenza si identifica col predicato di essenza – perché l’esistenza, in quanto predicato, è sempre in questo o quel modo qualificata. È sempre azione o pensiero, azione utilitaria o morale, pensiero intuitivo o logico. Croce, tra l’altro, mette sull’avviso il lettore a non confondere l’atto logico del giudizio in cui soggetto e predicato sono sintetizzati o unificati, col fatto grammaticale del giudizio, nel quale i termini restano separati. Pure una qualche distinzione‑separazione tra soggetto e predicato del giudizio logico Croce deve mantenere. Perché se è vero che il soggetto è «compenetrato di logicità», è non meno vero che in quanto individuale esso pareggia l’universale predicato solo all’infinito – ossia: non lo pareggia mai. Facendo leva su questa disequazione, Paci mette in luce il carattere assiologico del giudizio, ribadendo la tesi del conflitto tra Geist e Leben, ethos e vitalità, ragione e esistenza. «Un giudizio teoretico puro» – scrive – e cioè «l’identità assoluta di soggetto e predicato renderebbe impossibile in fondo il giudizio». La categoria – il valore – è solo il punto limite irraggiungibile del giudicare. Pretendere un giudizio puro, un’assoluta verità è pretesa vana, come sarebbe vano pretendere un pensiero assolutamente vero e identico a se stesso, e, tuttavia, se il giudizio è possibile, è proprio perché tende all’assoluta verità, al valore che, realizzato, lo renderebbe impossibile. (ES, p. 159).

Se il soggetto non si adegua mai al predicato, cui pur tende, è perché in esso v’è qualcosa che lo sottrae al predicato. Il soggetto – l’esistenza – non è mai tutta compenetrata di logicità. Cosa nel soggetto resiste, rilutta al concetto? Quale materia

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oscura, impenetrabile, irriducibile alla trasparenza della categoria domina l’esistenza? Non altro che la práxis: Se l’esistenza è immediatezza o fare, e quindi práxis, e la verità assoluta è teoresi, la possibilità del giudizio esige l’idea della risoluzione completa della práxis nella teoresi, ma, finché il giudizio è possibile, práxis e teoresi, esistenza e valore, sono in rapporto dialettico; il che vuol dire che, nel giudicare, la práxis non si risolve mai nella teoresi e cioè che il giudizio, nella misura in cui è possibile, non è mai solo puro fare o puro conoscere, ma insieme conoscere e fare. (Ib., p. 160).

La tesi di Paci richiama e ribadisce quella crociana del saggio La Grazia e il libero arbitrio: la dóxa è il luogo in cui si realizza l’epistéme. Ma con qualche differenza: la realizzazione non è mai completa, compiuta. L’epistéme è l’irraggiungibile fine della dóxa – l’essere è il télos infinito del mè ón. L’inconseguibilità del fine apre lo spazio della libertà all’ek‑sistenza, all’individuo. L’individuo è libero perché l’espistéme non è – non è mai – realizzata. Lo spazio dell’ente è dato dall’assenza dell’essere. Il rapporto tra ente ed essere, dóxa ed epistéme è “dialettico” – ma si tratta di una dialettica i cui termini non sono reversibili. Finito ed infinito, ente (mè ón) ed essere, dóxa (práxis) ed epistéme hanno posizioni ben distinte e definite, come potenza ed atto. La kínesis, il movimento dall’una all’altro è il tempo irreversibile: vero atto imperfetto, incompiuto, enérgheia atelés. Incompiutezza‑imperfezione propria della potenza che ha in sé i contrari. Ma nella potenza, che sempre accompagna l’enérgheia atelés del tempo, è la libertà dell’esistenza. L’identità pura o la verità pura sarebbe l’eterno. Il giudizio, per essere possibile, è direzione della temporalità verso l’eterno. La sua possibilità esige la direzione della temporalità verso l’eterno. L’esistenza manca dell’eterno e perciò deve negarsi per l’eterno: il temporale è, in questo senso, non ripetizione, ma direzione verso l’eternità. Essendo la libertà a

59 fondamento delle possibilità del giudizio, l’esistenza può non dirigersi verso l’eterno. Nella misura in cui attua l’eterno è coerenza, nella misura in cui si pone contro l’eterno e presenta il temporale come l’eterno è contraddittorietà. La coerenza è dirigersi il più possibile verso l’eterno. Essendo l’eterno irraggiungibile si presenta come possibilità di apertura verso il futuro. (Ib., p. 167).

Scorgendo nella struttura dell’atto logico tempo e valore, Paci sembrava discostarsi parecchio dall’impostazione crociana. In verità traeva dal discorso di Croce conclusioni nuove e diverse, ma non in contrasto sostanziale con le tesi crociane (altri avrebbe più tardi, con minore originalità ed autonomia di pensiero, ripreso questi temi di Paci19). Questo si dice, per ribadire la profonda affinità – meglio: la sostanziale identità – delle premesse di Paci con quelle di Croce. Entrambi erano e restavano profondamente, essenzialmente “hegeliani” (e nel significato più tradizionale dell’espressione) nell’impostazione e nella soluzione del loro problema – anche, o proprio quando a Hegel intendevano opporsi. 6. Nella Logica come scienza del concetto puro Croce respinge la distinzione tra giudizio e sillogismo. Ogni atto logico è giudizio e sillogismo insieme, perché pensare un concetto significa pensarlo in connessione con gli altri: Un concetto, pensato fuori delle sue relazioni, è indistinto, cioè nient’affatto pensato, e per questa ragione non si può concepire la connessione dei concetti, ossia il sillogizzare, come un nuovo e più complesso atto logico. (LCP, p. 78).

19. Cf. C. Antoni, CC, pp. 111‑30; RDN, pp. 45‑51.

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La critica crociana attesta soltanto la profonda incomprensione della dottrina hegeliana del sillogismo20. Perché il problema che Hegel affronta nel sillogismo non è semplicemente quello di connettere vari concetti tra di loro, bensì l’altro, ben più rilevante, di mediare – attraverso la connessione dei “concetti” – pensiero e realtà, universale e individuale, Geist e Leben, epistéme e dóxa, essere e mè ón. Questo è già esplicito nel 1802, quando, in Glauben und Wissen, contro Kant Hegel rileva che l’identità degli eterogenei (predicato e soggetto, concetto e reale, universale e individuale) non è “posta” ma solo “presupposta” nel giudizio: […] l’identità assoluta non si presenta come termine medio nel giudizio, bensì nel sillogismo; nel giudizio essa è soltanto la copula “è”, un non‑cosciente e il giudizio stesso è solo la manifestazione predominante della differenza. (GW, p. 307; it., p. 142).

Ma è nella Scienza della logica che Hegel, attraverso la successione delle varie figure del sillogismo, dimostra la struttura relazionale dell’intero, e cioè la razionalità del reale. Nelle prime figure del sillogismo – ed in particolare nella seconda, il sillogismo della riflessione, e nella terza, il sillogismo della necessità (WL, II, pp. 380-401; it., II, pp. 780-800) – Hegel, seguendo un metodo che ricorda da vicino quello katà tàs diairéseis di Aristotele (Met., I, 7,12) mette in luce la necessità dell’universale genere di particolarizzarsi nelle specie sino alla determinazione individuale ultima, all’âtomon eîdos, all’individuum omnimode determinatum. Con questa dimostrazione Hegel prova solo la prima parte della sua proposizione filosofica fondamentale, secondo cui «was vernünftig ist, das ist wirklich»; la seconda parte – la realtà del razionale: «und was

20. Tale incomprensione s’aggrava nella lettura della Logica hegeliana dell’Antoni: cf. “La dialettica di Hegel”, CHM, pp. 1-20.

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wirklich ist, das ist vernünftig» (GPhR, p. 14) – trova la sua dimostrazione nella sezione dedicata all’“Oggettività”, la quale può ben essere definita la quarta figura del sillogismo21. Quivi Hegel, movendo dall’individualità immediata, mostra come la struttura dell’intero è il fine, il télos di ogni ente; mostra cioè la teleologia della ragione, ossia: il farsi dell’individualità in quanto libertà. Il sillogismo in Hegel è la di‑mostrazione della vera circolarità dello spirito, che da essenza, Wesen, necessità dell’individuo si traduce nell’operare dell’individuo in teleologia e libertà. Detto in termini crociani, il sillogismo è la mediazione tra la storia come pensiero e la storia come azione. Ma Croce né nella Logica né nella Storia avvertì l’esigenza di questa mediazione, ragion per cui le categorie come predicati di giudizi stanno semplicemente accanto alle categorie come potenze del fare, e la loro identità resta un mero enunciato privo di qualsiasi legittimazione (cf. LCP, Parte I, Sez. III, cap. III, e SPA, pp. 38‑9). Nella filosofia crociana il sillogismo che ne legittima la validità resta nascosto. Resta nascosto ciò che spiega il passaggio dal pensiero all’azione, ciò che spiega la razionalità dell’azione, la sua pensabilità, la sua struttura epistemica di fondo. Resta nascosto ciò in base a cui Croce può parlare della natura «come storia senza storia da noi scritta» (SPA, pp. 298-304). Ciò in forza del quale il vitale – anche preso come forza «selvatica ed intatta da ogni educazione ulteriore» – è da definire «forma». Resta nascosto a Croce la ragione per cui non poteva, egli, accettare la riduzione di Paci dell’esistenza a «materia». Pur quando si rifiuta al suo fine immanente, pur quando da forza si converte in violenza, l’esistenza individuale è per essenza, phýsei, razionale. Existentiam involvit essentiam: il reale è katà phýsin, anche se non sempre katà télos, razionale.

21. Sull’argomento cf. infra, il cap. II di questa Sez.

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Ma ora questo è da mettere in rilievo: ciò che si è detto non vale per Croce più di quanto non valga per Paci, per il pensiero di Paci. La cosa è del tutto chiara nel libro su Vico, Ingens sylva. 7. Si è già parlato della critica “hegeliana” che Paci muove a Gentile lettore di Vico: il Prius non è il cogito ma l’esistenza. L’assoluto, il pensiero è risultato, l’inizio è la natura. Ma come si caratterizza, in questa interpretazione, la natura? La natura – dico – dei Giganti, la selvatica natura dei nati da Gea, da Madre Terra, la natura bruta. Certo essa è anche male, peccato: «la natura è sempre circondata per Vico da un alone di pessimismo». Ora Dio, in quanto «omnium motuum, sive corporum sive animorum, primus Auctor», è anche la causa come dell’esistenza naturale, dell’uomo‑bestia, così del male? Paci accenna ad una “possibile” anticipazione vichiana dell’ultimo Schelling; accenna anche ad una inclinazione vichiana al manicheismo: «non stenterei a credere ‑ osserva ‑ che proprio scrivendo il De antiquissima il Vico sentisse a poco a poco tornare la disperazione di Vatolla». Come uscire da questa disperazione – dalla disperazione cui induce la natura‑male, la natura causa del peccato e nemica della storia e della libertà, nemica dello spirito? Bisognava necessariamente pensare che la natura mossa da Dio come motore immobile, e poi misteriosamente corrotta, avesse la possibilità di ritornare a Dio, e cioè di redimersi attraverso l’idea. Si fa avanti dunque l’idea di un circolo nel quale la natura provenga da Dio e poi, attraverso la storia intesa come redenzione dell’uomo caduto, diventando timore di Dio, sapienza poetica, civiltà umana, ritorni a Dio. (IS, p. 67).

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È ben evidente il carattere neoplatonico di questo schema circolare. (Ma neoplatonico, è bene dirlo subito, è anche il circolo delle figure del sillogismo in Hegel; ancorché si tratti di un neoplatonismo mondanamente reinterpretato). Paci, dal canto suo, mette in rilievo che questo schema circolare – «questo provenire da Dio come barbarie e ritornare a Dio come civiltà» – configura la storia ideale eterna con i suoi corsi e ricorsi, cui presiede «la Provvidenza che trasforma l’uomo‑bestia in uomo civile». La Provvidenza funge qui da medio tra il Dio causa e motore della natura e il Dio legge morale e storica. La Provvidenza è il valore, 1’«ideale trascendentale», la ragione che opera segretamente sin nella barbarie: «il timor di Dio non è che la prima e vaga attività operante della ragione». Ma questo “medio” non è dimostrato, ma solo enunciato – per dirla con Hegel: è “presupposto” non “posto”. Come solo enunciata, presupposta è l’identità tra la categoria‑predicato e la categoria‑potenza del fare in Croce. Si legga questo passaggio in Ingens sylva: […] il Dio di Vico non è soltanto legge di comprensione della storia, ideale di conoscenza […] è anche principio attivo della natura che, elevandosi alla razionalità, fa la storia: è anche categoria operante (ib., pp. 68-69).

Qui l’adesione di Paci al suo Autore è completa, totale. Come è completa, totale, la sua adesione alla tesi crociana della eternità delle categorie. Delle categorie‑funzioni come delle categorie‑predicati. E infatti, discutendo del libro di Ernesto de Martino sul Mondo magico, fa valere contro il tentativo di questi di aprire il sistema crociano, e più in generale la filosofia tradizionale a categorie storiche “altre”, diverse da quelle sorte e sviluppatesi entro l’orizzonte dell’umanesimo occidentale, la necessità logica di mantenere le categorie che ci servono per capire il mondo moderno anche per la comprensione del mondo magico (NPU, p. 123). Se togliamo «il mondo magico dal nostro mondo storico… non si capisce perché ne

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parliamo» – scriveva, così rovesciando la prospettiva demartiniana, opponendo ad un tentativo di apertura del quadro storico una rigida chiusura. Non senza filosofica “ingenuità”, dacché restava non discusso, anzi non avvertito, il problema che solo era, dal punto di vista filosofico, necessario discutere: il problema dell’identità delle categorie potenze del fare con le categorie predicati di giudizi. Identità che in Croce stesso sembra spezzarsi, e comunque si fa problematica, là dove si oppone all’eternità non storica delle categorie l’affermazione decisa, peraltro inevitabile, della storicità del concetto delle categorie (cf. SPA, pp. 25-26). Anche qui la riflessione sul sillogismo hegeliano, sulla distinzione tra la razionalità del reale secondo natura (katà phýsin) e la razionalità del reale secondo finalità (katà télos) – distinzione peraltro presente nel libro su Vico, come s’è visto; distinzione che Paci più agevolmente che non Croce avrebbe potuto approfondire, proprio per la sua maggiore attenzione al carattere di valore, di télos della categoria‑predicato –; anche qui la riflessione sul sillogismo hegeliano sarebbe stata particolarmente utile e teoreticamente proficua. Ma il sillogismo, come in Croce così in Paci, rimase nascosto. Vediamone ora le conseguenze nel pensiero di Paci. 8. Leggiamo in Esistenzialismo e storicismo: Posso io conoscere soltanto? Sarebbe non giudicare più. Io conosco solo in quanto ammetto il non conosciuto, l’esistenza, la cosa in sé. Conosco in quanto riconosco anche di non conoscere e riconoscendo il limite pongo anche, insieme al conoscere, il sentire; e il sentire che vuol armonizzarsi con il conoscere, e tuttavia interamente non può, e tale armonia pone come coerenza e dovere. Così, proprio in quanto io conosco, faccio anche un atto che non risolve mai la mia singolarità nell’universale, e perciò sento, pur cercando di risolvere il sentire in conoscenza e l’esistenza in verità. (ES, p. 257).

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La materia oscura, riluttante al concetto, non mai tutta compenetrata di logicità, che prima si era rivelata a noi come prassi; l’ek‑sistenza, il mè ón, la natura «misteriosamente corrotta» si mostra ora in altro e più antico sembiante: essa è sentire, puro sentire. Se ci movessimo nella prospettiva di Hegel, secondo la quale il vero è il sillogismo, potremmo dire che qui Paci non si rende conto che «l’in sé della coscienza empirica è la ragione stessa e che l’immaginazione produttiva (Einbildungskraft), tanto quando intuisce che quando esperisce, non costituisce facoltà particolari separate dalla ragione» (GW, p. 308; it., 143) – o, per dirla più semplicemente: che la sensazione è già ragione; che in tanto può tendere all’universalità del conoscere, in quanto per essenza, phýsei, è già ragione, razionalità: già da sempre. O, in termini vichiani: che Dio è già all’opera nel bruto sentire. Potremmo dire. E si direbbe il vero. Ma non tutto il vero. Perché Paci non è solo “hegeliano”, ma oscilla tra Hegel e Kant. Di proposito si è testé richiamata la pagina di Glauben und Wissen che reinterpreta criticamente Kant riconducendo l’Einbildungskraft, la facoltà che produce immagini, alla ragione. Di proposito, per aprirci a questa domanda: è possibile per Paci questa riduzione dell’immaginazione alla ragione? Quale ruolo abbia giuocato l’immagine nel pensiero di Paci è anche superfluo ricordarlo, basta scorrere i titoli dei suoi libri e dei capitoli dei suoi libri22. Per non staccarci dall’interpretazione di Vico, andiamo a leggerci la pagina da lui dedicata al tema in questione in Ingens sylva. L’immagine – sia essa parola o visione, mito o arte – funge da medio tra la naturalità del senso e l’astrattezza del pensiero. È per l’immagine che è possibile pensare la verità come assoluta e relativa insieme:

22. “Esistenza e immagine” è titolo sia del volume del 1947, i cui saggi sono poi rifluiti in RS/II e RS/III, che del cap. IV di IS.

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«nel mito la verità è eterna ed insieme diveniente, è fuori della storia ed insieme nella storia, fuori del tempo ed insieme nel tempo». Senza il mito, senza immagine, la verità sarebbe inconoscibile – perché perfetta ed eterna, estranea al senso, alla natura. Il mito media epistéme e dóxa, essere ed esistenza (mè ón). L’immagine svolge in Paci la medesima funzione che in Kant lo schema trascendentale (ed il nome di Kant è quello che ricorre più spesso in Ingens sylva). Ma lo schema come terzo termine, come medius terminus additus alla sensibilità e all’intelletto – non come (possibile) radice dei due tronchi dell’umana conoscenza. Il mito, cioè, interviene ad unire ciò che è originariamente diviso. La fine del mito sarebbe la fine di ciò che è umano perché l’uomo […] non è né mera immanenza né mera trascendenza, ma è il concreto attuarsi del trascendentale: è quindi medietà. Quando Vico immagina dunque una ragione tutta spiegata, se tale ragione fosse possibile raggiungerla, egli si troverebbe nel nulla: l’assoluta identificazione della trascendenza con l’immanenza coinciderebbe con la loro assoluta estraneità. (IS, p. 113).

La distanza da Hegel è ben evidente. Si vuol dire qui: la distanza dall’interpretazione inconsciamente, inintenzionalmente “hegeliana” (tramite Croce, nel senso che si è chiarito) della Provvidenza come medio tra il Dio‑motore e il Dio‑legge trascendentale – medio che opera in latenza sin nella natura bruta e che esprime l’identità essenziale e profonda del Dio causa e del Dio valore. Kant/Hegel – dunque. L’oscillazione di Paci non indica soltanto un’indecisione, un difetto di coerenza, una mancanza di rigore. Indica anche qualcosa di positivo: l’urgenza di un problema non dominato, eppure avvertito. Di questa oscillazione il polo o côté hegeliano appiattisce la posizione di Paci su quella crociana; l’altro, il polo o côté kantiano, rivela una tendenza diversa, aperta ad esiti altri – un diverso pensiero che

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parla a noi ancor oggi, perché in esso è presente un problema eterno della filosofia, il problema; pensiero purtroppo non sviluppato, non approfondito, anzi via via lasciato cadere. Sino al completo oblio. 9. Fermiamoci dapprima sul côté hegeliano. Paci rivendica all’ek-sistere, alla natura, alla vitalità, il carattere di materia pura non ancora formata. Ma questa esistenza sensibile, naturale, vitale è materia solo nel senso bruniano, è materia in quanto madre di tutte le forme. Madre e matrigna, se essa come le fa sorgere così le spegne, le annulla. Materia, o meglio: forma formarum. O ancora: la Vita stessa – die einfache Substanz des Lebens, la semplice sostanza della vita, come suona la definizione hegeliana. Quella semplice sostanza che si divide in figure differenti e insieme le dissolve; quella Vita che «accenna a qualcos’altro da ciò che essa è, vale a dire alla coscienza» (PhäG, pp. 137‑38; it., pp. 148‑49. Come Vita e Natura, questa esistenza non ha in sé nulla della demoniaca ambiguità dell’Eros kierkegaardiano. An sich, in sé, essa è già etica23. Ha solo bisogno di svilupparsi a coscienza morale für sich selbst. L’irreversibilità della dialettica temporale non toglie certo alla potenza i suoi contrari, non toglie all’ek‑sistenza la possibilità negativa di chiudersi in sé contraddicendo il valore; indica, tuttavia, la destinazione normale (ex lege) della libertà. Più volte, parlando della natura in Vico, Paci usa l’espressione kantiana “cosa in sé”. Invero in questo orizzonte ermeneutico – definito dal “sillogismo nascosto”, dalla Provvidenza che funge da medio tra il Dio-causa e il Dio‑valore – non c’è posto per Kant. Chi domina è Hegel – e solo Hegel. Oltre, ben oltre l’intentio filosofica di Paci. La presenza di Hegel si farà sempre più determinante nel corso degli anni, sino all’interpretazione 23. Sul tema rinvio a V. Vitiello, EE.

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della Krisis der europäischen Wissenschaften, ove si esplicita nell’accostamento di Husserl a Marx (cf. FSSU, P. III, pp. 303-466). Scriverà in Fenomenologia e dialettica: Proprio nell’era in cui l’uomo cerca di allontanarsi dalla Terra, cosa che non vuol dire pacificare la Terra, Husserl parla della centralità umana del nostro pianeta. Proprio nell’epoca nella quale la scienza e la tecnica ci permettono di poter conquistare qualcosa di più della natura umana, Husserl difende la natura umana. Husserl non è in questa sua posizione un retrogrado o un esaltatore dell’epoca nella quale la Terra e l’uomo si sentivano al centro del mondo. Ma egli difende l’uomo e il suo sviluppo storico diretto verso un fine infinito. La storia dell’umanità ha un télos e deve raggiungere questo télos nel pianeta Terra e in tutta la storia di questo pianeta a partire dalla sua origine, ciò che è il compito della fenomenologia genetica. (FD, pp. 10-11).

Di qui l’illusione – e la presunzione – del filosofo funzionario dell’umanità. Questo Paci appartiene irrimediabilmente al passato. 10. Il côté kantiano rivela invece altri aspetti – ben presenti e vivi – del pensiero di Paci. Certo più nascosti. È il caso di portarli alla luce. Torniamo dunque al medius terminus dell’immagine. Se questa, che è il luogo dell’umano, unisce ciò che è originariamente diviso, allora gli estremi sono fuori della portata dell’uomo, delle possibilità conoscitive dell’uomo. Né la bruta immanenza né la pura trascendenza sono conoscibili: né la caotica ingens sylva del molteplice sensibile né la perfezione onninclusiva del Semplice, dell’Uno, del Valore. Conoscibile è solo lo Hén pánta, l’Uno‑molti. Non l’Eterno, ma l’eterno figurato nel tempo. Vediamo ora quali questioni apre tale concezione del tempo icona dell’eterno. Scrive Paci:

69 Il problema del tempo si pone come determinazione dell’inizio dei tempi. Si pensi, per comprendere l’argomentare vichiano, a un tempo caotico e oscuro nel quale passato presente e futuro si confondano. Ebbene non c’è storicità, e non c’è operare dell’uomo nella storia se non si fissa un inizio. Tale inizio è certo mitologico, almeno per il momento, perché ogni concetto e ogni principio cominciano col mito. (IS, p. 138).

È palese l’andamento cauto, guardingo di Paci in questo passaggio. Egli sente d’esser vicino a qualcosa che è altro dall’esistenza‑vita, dall’esistenza‑natura madre delle forme. Ciò che qui è caratterizzato come tempo pre-storico, nel quale le dimensioni stesse del tempo – il prima e il poi, il passato il presente il futuro – si confondono, può esser detto “tempo” sol perché si vuol nominare il senza-nome, l’innominabile. Che l’inizio dei tempi sia mitologico vuol dire solo che dell’inizio nulla sappiamo – che nulla sappiamo sul come sia sorto il tempo scandito dal prima e dal poi, l’aritmòs kinéseos katà tò próteron kaì hýsteron. E meno ancor sappiamo di ciò che è “prima” (ma è possibile, ha senso usare qui questo avverbio?), di ciò che è prima dell’inizio e che solo con una metafora, o, meglio, con un ossimoro si è definito “tempo caotico”. Questo tempo caotico non è la Vita pura di Hegel, in cui identità e differenze, processo e forme, si pongono e si presuppongono, e si tolgono (sich aufheben) vicendevolmente. Questa caoticità originaria ricorda piuttosto l’ambiguità kierkegaardiana della relazione finito‑infinito, prima che l’irreversibilità del tempo venga a dirimere i due termini, a togliere l’equivalenza tra essere e nulla, possibilità e impossibilità. Anche perché sfugge a qualsiasi conoscenza, pure a quella mitica dell’immagine. Questa caoticità è pre‑storica e pre-mitica. È il Prius assoluto. Non è neppure la fonte, l’origine di tutte le forme, la natura naturans. È “prima” di questa. Questa, la natura madre delle forme, Ghê Méter, è già mito. Non è un caso, quindi, che Paci, quando più si avvicina a questo Prius assoluto, a questo

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assoluto “al di qua”, sposta l’origine delle forme dal senso al mito, alla fantasia. È dal mito che nascono i concetti, il valore, il pensiero. Il mito ha assorbito in sé la natura: la natura ­naturans. Nel contempo l’ideale della ragione tutta dispiegata si allontana in un futuro irrealizzabile, in un futuro eterno, che resta sempre futuro: un éschaton che è soltanto un’idea limite. Commentando la “spiegazione” vichiana della “dipintura allegorica” anteposta alla Scienza nuova, Paci rileva che «la Scienza nuova è fondata sulla sintesi tra l’oscurità della materia storica [“le tenebre nel fondo della dipintura”] e le categorie» (ib., p. 136): «tra i due termini della sintesi, la materia e la forma, si pone tutto il mondo della Scienza nuova. Tra la materia e la forma c’è il mito» (ib., p. 138). “L’essenza della storicità”, l’“eterna contemporaneità della storia” è allora il “mito”? E come si caratterizza questo eterno presente del mito, una volta confinati l’eterno passato dell’informe spazio e del caotico tempo della gran selva (miticamente raffigurata nel leone nemeo ucciso da Ercole) e l’eterno futuro della pura ragione nell’indeterminato‑indeterminabile? Come lo spazio della libertà – proprio perché è il luogo della storia. Della storia umana. Della storia che è in senso eminente mitica, perché sintesi figurata (synthesis speciosa) di ragione e senso. Di fede e di dubbio. Ho bisogno della fede nella realtà della natura – scrive Paci – proprio perché posso sempre dubitare di tale realtà […] proprio perché posso dubitare del mito, del simbolo, della rivelazione. (Ib., p. 107).

Fede e dubbio. Contro l’astrazione del cogito, dell’epistéme che pretende ergersi oltre il dubbio e la dóxa, Paci, leggendo Vico, insiste sul tema che è suo: il luogo dell’epistéme è la dóxa, il dubbio non abbandona mai il cogito. Fede e verità si presentano come i due limiti estremi dell’esperienza umana:

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eterno passato l’una – come la natura nei suoi molteplici significati –, eterno futuro l’altra – come Dio, universale legge e fine dell’uomo –. 11. Talora Paci sembra essere attratto dalla dimensione‑limite dell’esperienza umana. Sembra avvertire il fascino della riflessione che abbandona il centro per muoversi sul margine, sui margini estremi di questa esperienza. Di qui la sua attenzione a Kierkegaard; di qui il suo interesse per l’esperienza religiosa. Non è certo un caso che l’ultimo saggio di Esistenzialismo e storicismo tratti del problema religioso: «La religione non è qualcosa che l’uomo può avere o non avere, è il fondamento stesso della sua vita» (ES, p. 281). La verità è al di là della nostra singolarità; per ritrovarci come uomini dobbiamo prima identificarci col tutto, col divino, con il Tao, e cominciare quindi con il perderci (ib., p. 280).

Ove, tra l’altro, può anche avvertirsi come un presentimento – ma solo un presentimento – dell’unità dell’eterno futuro della verità con l’eterno passato della fede, e cioè dell’unità di Dio e della natura ben oltre la Provvidenza, ben oltre il medio del sillogismo nascosto. In questo orizzonte si colloca anche la lettura di Nietzsche. E basti, ad indicare il senso problematico dell’interpretazione di Paci, quest’unica citazione: Nietzsche è il profeta dell’assurdo: colui che annuncia il moltiplicarsi dell’Uno. L’uomo è un ponte sull’assurdo, l’enigma che vive la molteplicità dell’Uno. (Na, Introduzione, p. 7).

Qui lo spazio mitico della libertà è il luogo dell’assurdo – dell’inconcepibile enigma del moltiplicarsi dell’Uno. La doxa non rappresenta un difetto dell’umana conoscenza, una mancanza psicologica; corrisponde anzi alla struttura ontologica dell’essere. L’inconcepibile, l’inseparabile – ciò che non

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puoi tradurre in concetti, in pensieri definiti – non è tale per l’inopia della mente, ma per la sua hyperoché d’essere che lo sottrae alla finitezza. L’essere in quanto omnitudo realitatis non è toccato da negazione alcuna; non è affètto da nulla, da ni‑ente. Pertanto non è de‑finibile. È tutto in tutto. È l’Uno; ma non l’Uno‑che‑è; bensì l’Uno‑che‑è‑Uno, L’Uno‑Uno, l’Impredicabile della I ipotesi del Parmenide platonico. 12. Da questi “abissi della ragione”, Paci presto si allontana. Dal luogo dell’assurdo e dell’enigma, la libertà si trasforma in luogo di scelta e di azione, si identifica con l’operare teleologico dell’uomo. Esistenzialismo e storicismo come anche Ingens sylva si iscrivono nell’orizzonte dell’umanesimo. Così alla dialettica “ironica” di Kierkegaard si pone riparo col tempo irreversibile che impedisce l’equivalenza di finito ed infinito, possibilità ed impossibilità, essere e nulla; e la religione si umanizza, diventando «lo sforzo di trasformare il negativo in positivo, il nulla nell’essere» (ES, p. 282). È il trionfo del “sillogismo”: della teleologia della ragione che funge in latenza nella storia, e pur nella natura madre delle forme. Se sotto questa unità‑coincidenza di natura e ragione, altra e più inquietante identità si celi, Paci – che pur altrove ne aveva avvertito il presentimento – non si chiede. Gli basta, per salvare la libertà d’azione dell’uomo proiettare nell’infinito la rivelazione piena della “ragione”24. Ma pur proiettato nell’infinito, il fine rimane quello di Hegel: die Offenbarung der Tiefe, la manifestazione del profondo (PhäG, p. 564; it., II, p. 305). Chiedersi cosa si nasconda sotto la “metafisica” (neoplatonica, e prima ancora: aristotelica) unità-coincidenza di natura e ragione, Dio-causa e Dio-télos, potenza ed atto,

24. Cf. TVH, FSSU, IEF; infra, P. II, cap. V.

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avrebbe significato approfondire Kant nella direzione segnata dalla dialettica trascendentale, e Schelling, l’ultimo Schelling, pur richiamato in un rapidissimo cenno nel libro vichiano: […] da Dio provengono all’uomo la natura, il corpo, il male, il peccato. Qui la meditazione non chiara e non confessata di Vico preannuncia l’ultimo Schelling, confermando ancora una volta che nel pensiero vichiano si muovono i germi che si apriranno alla luce nel romanticismo. (IS, p. 67).

13. Resta a noi una domanda: perché mai Paci non si è mosso in questa direzione? Perché dalla libertà come luogo dell’enigmatico incontro‑contraddizione dell’Uno col molteplice si è allontanato per volgersi alla libertà come scelta, come de‑cisione, alla libertà per la ragione, alla libertà della teleologia nascosta della ragione? Il perché è da ricercarsi nel primo lavoro di Paci, nell’interpretazione del Parmenide. Più precisamente nella sua lettura della III ipotesi. Là dove Platone parla dell’exaíphnes, dell’istantaneo, dell’in‑stante. Di ciò che «giace tra la quiete e il moto, al di fuori di ogni tempo». L’in‑stante è il medio che tiene in sé, con‑tiene, trattiene quiete e moto – non essendo né quiete né moto, perché «non è né non‑è, né viene all’essere né perisce». Non è né Uno né molti, né simile, né dissimile. L’in‑stante tiene in sé la quiete “prima” che divenga quiete, il movimento “prima” che sia movimento (Parmenide, 156d‑157). È il luogo della riflessione pura: der absolute Gegenstoß in sich selbst (WL, II, p. 27), l’assoluto contraccolpo in se stesso. Ora, come legge, Paci, la III ipotesi del Parmenide? Egli si volge all’instante non come luogo della contraddizione assoluta di uno e molteplice, quiete e movimento, eterno e tempo, infinito e finito, ma come punto di incontro e di conciliazione degli opposti, ove l’eterno si temporalizza e il tempo si fa immagine, icona dell’eterno. A questo istante mira Paci: all’i-

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stante della creazione del mondo, dell’uscita del cosmo naturale e storico dal caos, dall’ingens sylva. Platone svilupperà questo concetto della centralità come mediazione tra gli opposti. La stessa teoria dell’amore assume tutto il suo valore proprio da questo punto di vista, dove l’amore crea nel bello conducendo il non essere all’esistenza […] Si ricordi che il mondo empirico o il mondo reale verso cui ora ci portano le ipotesi del Parmenide trova logicamente posto dopo questa terza ipotesi, dopo cioè che i due opposti idea e phýsis, spirito e materia, pensiero ed estensione, si sono fusi nella legge che li media e li unifica nella sua istantaneità, nella sua trascendenza all’eternità e al divenire del tempo, per cui veramente si può dire che il pensiero è il creatore del mondo. (SPFP, p. 106).

L’instante come luogo di “transizione” e non di “sospensione” di quiete e moto – è ciò che desta l’interesse di Paci. La sua indagine resta sempre fermamente ancorata alla “realtà”, pur quando egli si interroga sulla “possibilità” del reale. Così l’enigma del mondo, 1’“assurdo moltiplicarsi dell’Uno”, si scioglie nelle “immagini” della natura e della storia. È qui la radice dell’hegelismo e dell’umanesimo di Paci. Qui l’origine della concezione della natura madre delle forme, della natura in cui opera in latenza la teleologia della ragione, che è compito del filosofo, “funzionario dell’umanità”, portare alla luce della coscienza, al cogito. 14. Negli ultimi anni Paci espresse il bisogno di tornare alle origini. Scriveva in un breve saggio del 1974, “Sulla fenomenologia del negativo”: Sta avvenendo in me una lenta evoluzione filosofica. In un certo senso si tratta di un ritorno alle origini del mio pensiero: alla ripresa del problema del negativo e della struttura del negativo così come mi si presentava nelle ipotesi del Parmenide platonico.

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E quantunque questo ritorno continui a muoversi nell’orizzonte dell’origine – l’orizzonte della storia umana del mondo – si avverte tuttavia qualcosa di nuovo, l’urgenza di riproporre in forma diversa il problema della III ipotesi legandola al tema del negativo: […] la filosofia, in un modo nuovo, è costretta a riproporsi il tema della dialettica e il problema del senso della negatività, di una negatività che non sia superficialmente soltanto una funzione di un bene retorico. Il male nel quale l’uomo si radica suscita uno stupore incoercibile.25

Pollà tà deinà koudèn anthrópou deinóteron pélei26.

25. Ora in SP, pp. 291‑95. Sul tema cf. C. Sini, IP. 26. Sofocle, Antigone, vv. 332-333: «molte le cose mirabili e tremende, nessuna più mirabile e tremenda dell’uomo».

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II Del Giudizio e del Sillogismo

1. Essere e giudizio Il nesso tra la critica della filosofia di Fichte e la dottrina del sillogismo è ben chiara a Hegel sin da quando entra nell’agone filosofico-letterario di Jena1. La confutazione dell’“idealismo” fichtiano, svolta nel primo scritto da lui pubblicato sulla Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, può ben essere sintetizzata con le parole che nel saggio successivo, Fede e sapere, riassumono la critica della teoria kantiana del giudizio: il termine medio che unisce soggetto e predicato, la copula “è”, resta nel giudizio ein Bewußtloses, un noncosciente, che solo nel sillogismo viene conosciuto (cf. GW, p. 307; it., p. 142). Vale a dire: soltanto il sillogismo di-mostra l’“oggettività” della sintesi “soggetto-oggetto”, in Fichte ancora solo “soggettiva”. Già da queste prime anticipazioni s’intende che non è eccessivo affermare che l’intera filosofia hegeliana ruota intorno al 1. Il riferimento è ai “clamori lettarari di Jena”, di cui parla Hegel nella lettera a Schelling del 2 novembre 1800 (cf. L, p. 43). Sulla “situazione letteraria a Jena” al tempo dell’arrivo di Hegel cf. la descrizione di Karl Rosenkranz, HL, pp. 165-166.

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problema della “copula” (id est: della mediazione). Problema complesso, perché quella “paroletta di relazione” (Verhältniswörtchen: Kant, KrV, B 141) copre due e diverse relazioni, che sono però – secondo Hegel – lati di una e medesima relazione (id est: due e diverse mediazioni, che Hegel si sforza di pensare come una e medesima2). Per immetterci subito nel problema, ricorriamo a un frammento di Hölderlin conosciuto col titolo Urteil und Sein (Giudizio e essere): in esso è segnata con estrema precisione la differenza tra due differenti identità – non però la loro relazione. Giudizio è nel senso più alto e rigoroso l’originaria separazione dell’oggetto e del soggetto unificati nell’intuizione intellettuale, quella separazione mediante la quale soltanto diventa possibile oggetto e soggetto, la originaria partizione (Ur-Theilung). Nel concetto di partizione è già contenuto il concetto di rapporto reciproco di oggetto e di soggetto l’uno all’altro, e il necessario presupposto di un intero di cui oggetto e soggetto sono parti. “Io sono Io” è l’esempio più pertinente di questo concetto di originaria partizione, in quanto partizione teoretica, poiché nella originaria partizione pratica esso [l’io] si oppone al Non-io, non a se stesso. […] Essere – esprime il legame di soggetto e oggetto. Laddove soggetto e oggetto sono unificati assolutamente, e non solo in parte, e con ciò unificati in modo tale che non può essere intrapresa una partizione senza violare l’essenza di ciò che dev’essere separato, qui e in nessun altro luogo si può parlare di un essere in assoluto, come accade nel caso dell’intuizione intellettuale. Ma questo essere non deve essere scambiato con l’identità. Quando dico: “Io sono Io”, il soggetto (io) e l’oggetto (io) non sono unificati in modo tale che non possa essere intrapresa alcuna separazione senza violare l’essenza di ciò che

2. Sul tema cf. M. Donà, SaV.

79 deve essere separato; al contrario, l’io è possibile solo attraverso questa separazione dell’io dall’io. Come posso dire “io” senza autocoscienza? Ma come è possibile l’autocoscienza? Per il fatto che io mi oppongo a me stesso, separo me da me stesso, ma, malgrado questa separazione, mi riconosco come lo stesso nell’opposto. Ma in che misura come lo stesso? Io posso, io debbo (muss) porre tale domanda; infatti sotto un altro aspetto esso è opposto a sé. L’identità non è quindi una unificazione di oggetto e soggetto, che assolutamente abbia luogo; l’identità non è quindi = all’assoluto essere. (SWB, I, pp. 840-841; tr. it. in T, pp. 51-52).

Alla domanda “come è possibile l’autocoscienza?” Hölderlin risponde indicando un “fatto”: che e come la separazione accade. Ma la domanda è più profonda della risposta. La domanda verte sullo stesso accadere del fatto, sulla sua “possibilità”. E cioè: come può accadere che l’unità compatta dell’essere si scinda nella uni-dualità della coscienza di sé? Il problema è ben antico: è il problema della nascita da Hén di Noûs. Nascita che in Plotino resta avvolta nella più fitta oscurità, talora sembrando Noûs essere una generazione di Hén, ma in tal caso sarebbe terzo e non secondo, ché prima di lui verrebbe appunto la generazione, talaltra invece un’autoposizione, e in tal caso non si capisce per quale motivo è secondo e non primo come Hén. A non dire che per spiegare la presenza di Noûs, e del molteplice che da Noûs deriva, Plotino si trova costretto a portare la Diade nel cuore stesso dell’Uno3. Come appare evidente il problema hegeliano dell’unità della doppia relazione riguarda, non soltanto il rapporto io-mondo; riguarda insieme, o, meglio, in prima istanza la relazione tra l’unità compatta dell’Essere e l’unità relazionale degli opposti (Giudizio). Non si tratta di unificare i separati, ma di unificare unità e separazione. Per dirla con Hegel, lo Hegel prossimo a 3. Cf. Plotino, En, spec. V, 1 e 2. In merito v. V. Vitiello, TM, pp. 136-141.

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partire da Francoforte per Jena, il problema è: die Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung (W, 1, p. 422).

2. La critica di Hegel a Fichte Criticare una proposizione filosofica non significa, per Hegel, respingerla come non vera; al contrario: significa comprendere il livello di verità da essa raggiunto: fin qui e non oltre4. L’opposizione rigida “verità”/“errore”, nega la stessa verità, mostrandola incapace di spiegare, e quindi di comprendere in sé, l’opposto. Ma se la rigida, insuperabile, contrapposizione, attesta solo l’impossibilità della mediazione, allora il primo compito che Hegel deve prefiggersi è di “spiegare” il ruolo positivo della scissione. Sopra abbiamo evidenziato l’aspetto onto-logico del problema della mediazione, ora dobbiamo sottolinearne quello propriamente “politico” o “storico-politico”. Ma non sono che due aspetti del medesimo problema. Pertanto non s’intende la spiegazione hegeliana del ruolo positivo della scissione se non si ha chiaro che per Hegel compito della filosofia è stato sempre – e cioè ben prima che egli stesso così lo definisse (cf. GPhR, p. 16; it., 16) – quello di comprendere il proprio tempo in pensieri. E si consideri questo, ora, che il tempo di Hegel è anche, è ancora il nostro tempo. La scissione tra io e mondo, singolo e comunità, passato e presente, divino e umano, che non solo Hegel, ma l’intera cultura romantica, nell’opporsi all’intellettualismo illuministico, condannava, lungi dall’essere colmata, superata, si è, nell’età nostra, esasperata – come atte-

4. Cf. quanto Hegel dice riguardo a Spinoza in WL, II, pp. 249-251; it., II, pp. 654-656.

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sta il nichilismo contemporaneo. Di qui l’“attualità” di Hegel, che al problema diede una risposta importante ancora oggi, e non soltanto dal punto di vista storiografico. In contrasto con i “romantici” Hegel non respinse l’intelletto per il sentimento, non volle immergere l’uomo nella natura, e il finito nell’infinito; intraprese, anzi, un cammino per molti versi opposto, prendendo le difese anche dell’intelletto, al fine di giungere ad una più alta forma di pensiero5. “Dopo” Nietzsche, dopo la secca opposizione Kultur/Zivilisation6, che ha tanto influito sulla cultura tedesca (e non solo tedesca) del Novecento7, tornare a Hegel, al pensiero della mediazione può risultare utile non certo per risolvere il problema, ma per riproporlo con maggiore consapevolezza della sua complessità e profondità. Che il bisogno della filosofia si radichi nella scissione, comporta che già nella scissione opera la “mediazione”. In modo latente, certo; ma latenza non è assenza. La mediazione è all’opera già prima d’essere attuata; il problema della filosofia non è produrre la mediazione, ma portarla ad evidenza. E portarla ad evidenza è realizzarla. In breve, la storia non è un 5. Cf. la critica dell’“irrazionalismo romantico” svolta da Hegel in PhäG, Vorrede, pp. 13-19; it., I, pp. 5-13. 6. Variante della nietzschiana opposizione “mito”/”astrazione”: cf. F. Nietzsche, GT, I, § 23. 7. Da Bachofen a Spengler, da Stefan George al Thomas Mann di Gedanken im Kriege e di Friedrich und die grosse Koalition (tr. it. in Id., SSP, pp. 33-52 e 53-112) a Ernst Jünger – per citare i primi nomi che vengono in mente. Altro il discorso su Heidegger, che se criticò la “mediazione” hegeliana (anche seguendo suggestioni hölderliniane, cf. EHD, pp. 61-62; it., pp. 75-76), non lo fece certo per respingere il rigore dell’epistéme filosofica, al contrario, perché mirava ad una più originaria e più “rigorosa” forma di pensiero. La sua stessa lettura di Nietzsche è ispirata a tale criterio, se rivendicava al pensiero nietzschiano lo stesso rigore di quello di Aristotele (cf. Hw, p. 230; it., p. 229), definendo nel contempo grossolana (allzu grob) l’interpretazione che Spengler aveva dato di Nietzsche (ib., p. 301; it. 304).

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passaggio dal non-essere all’essere, ma dal nascosto all’apparente. Ma facciamo parlare Hegel direttamente: L’assoluto è già presente (vorhanden), altrimenti come potrebbe essere cercato? La ragione lo produce solo in quanto libera la coscienza dalle limitazioni; questo togliere (Aufheben) le limitazioni è condizionato dalla presupposta illimitatezza. (DFS, p. 24; it., p. 17).

La filosofia di Fichte è la migliore illustrazione di tutto ciò. Nel suo sistema c’è la scissione e il bisogno del suo superamento – in questo la sua “verità” –; ma non c’è la realizzazione del bisogno, il superamento della scissione. Di quale scissione? Non quella, o, meglio, non quelle del mondo storico-sociale, che riguardano i singoli individui e/o le singole comunità storiche, empiricamente considerate: i conflitti di interessi, le differenze religiose e culturali, il sentimento di estraneità dell’io al mondo e così via. Nei confronti di queste scissioni Fichte ha elaborato una strategia che dimostra la piena consapevolezza della crisi del suo tempo. La scissione che Fichte non supera è quella che lui stesso produce nell’intento di superare le scissioni del mondo storico-sociale. E, infatti, in che modo l’io può difendersi dalla scissione, non essere travolto dal mondo in cui vive? Solo chiudendosi in sé, affermando la propria alterità rispetto al mondo sociale. Si sfalda il mondo, e l’io si ritira in sé (cf. PhäG, pp. 175-182; it., I, pp. 193-201). Qui anche l’origine dell’essere puro di cui parla Hölderlin. L’origine dell’identità immune da ogni separazione. Dell’identità più identica della stessa identità dell’autocoscienza. A questa identità, che non è l’io, ma la radice dell’io, Fichte giunge attraverso una radicale liberazione dell’io dal mondo, dall’empirico. Hegel parla di questa radicale purificazione come dell’“atto assoluto” che è condizione della filosofia. Ma proprio là, dove c’è salvezza, s’annida il pericolo. L’identità dell’essere, concepita come l’assoluto Prius, è, in verità, solo un “effetto” della scissione del mondo storico. La separazione dal mondo empirico esalta,

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non toglie, la scissione. Hegel vede in questa separazione sì la condizione, ma non la realizzazione della filosofia. Perché quell’atto assoluto, il gesto primario del pensare, divenga sapere filosofico, è necessario che alla separazione dal mondo segua l’unificazione. Per dirla con il linguaggio di Hölderlin, è necessario che l’Essere si faccia Giudizio. Ovvero: che la radice germogli, e nasca il soggetto reale, mondano, corporeo. Dall’io puro deve nascere la natura, il corpo del mondo. Hegel mostra come Fichte realizzi tutto questo. A differenza di Kant, che lasciava essere “accanto” all’io il mondo – pur affermando che l’identità sintetica dell’io era condizione di pensabilità dell’identità analitica dell’io (cf. KrV, B 133-134; e infra, § 6) –, Fichte concepisce l’io come posizione di sé e dell’altro da sé, e del suo opposto, del mondo. La deduzione del Non-Io dall’Io, ovvero del molteplice dall’uno, della natura dallo spirito, che è il compito che Fichte assegna alla sua filosofia, di-mostra che il “vero” Io è la sintesi di Io e Non-io. Ma proprio là, dove Hegel esprime il massimo apprezzamento della filosofia fichtiana, matura la sua critica: la sintesi – afferma – non è mai compiuta. Il soggetto-oggetto di Fichte è solo soggettivo. Il mondo, l’empirico, il Non-io, non rientra nell’identità assoluta dell’io, non è la sua manifestazione, ma il suo limite. L’attività teoretica, infatti, resta nell’opposizione soggetto-oggetto. Né il fatto che l’oggetto sia prodotto dell’attività inconscia dell’io, dell’Einbildungskraft, toglie la separazione, anzi l’introduce nel cuore stesso dell’io: l’inconscio resta un “dato” opposto all’attività consapevole dell’io, un’“oggettività” irrisolta, non toglibile. «L’essenza dell’io e il suo porre non coincidono» (DFS, p. 56; it. 44). Ma il Giudizio resta diviso dall’Essere anche, se non ancor più, nell’attività pratica. Perché, quando nella Dottrina morale, Fichte, al fine di superare l’opposizione immediata dell’io teoretico, definisce l’oggetto come la realizzazione del soggetto, questa oggettivazione dell’io pensa sempre come caduta, alienazione.

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L’Io non si riconosce mai nei suoi prodotti, e solo per questo non-riconoscimento il suo processo di autogenerazione non s’arresta. Ma in tal modo l’io mai non si possiede, il suo impulso a creare se stesso apre un processo all’infinito che è solo schlechte Unendlichkeit8. Chiaro che come nell’empirico e nel molteplice, nel sensibile e naturale, l’io puro non ritrova se stesso, così nella comunità l’io non riconosce la manifestazione della sua libertà, anzi vede in essa solo il limite dell’esserlibero. Ich wird sich nicht objektiv: L’io non diviene a se stesso oggettivo. Il compito di mostrare l’oggettività del soggetto-oggetto, in Fichte ancora solo soggettivo, è affidato alla Fenomenologia dello spirito.

3. Il compito della Fenomenologia La Dottrina dell’essere della Scienza della logica si apre con questa domanda: «Con che deve cominciare la scienza?» (WL, I, pp. 65 ss; it. I, 51 ss.) – che riguarda il fondamento stesso del sapere. Infatti, come già Platone ed Aristotele insegnano, il sapere è scienza e non mera opinione, se è in grado di dare ragione di quanto afferma. E lo è, se non dipende da altro, se è all’origine di sé. L’inizio della scienza deve essere “interno” alla scienza. Ma cosa è più interno al sapere dell’io che sa? Hegel non può non affrontare il Grund-satz, la proposizione fondamentale, della filosofia moderna: l’“io penso”. Ma a quale “io” – subito si chiede – può essere riconosciuta questa 8. Cf. DFS, p. 69; it. 54-55; e WL, II, pp. 541-548; it., II, pp. 929-934. La critica di Hegel è stata variamente contestata dagli studiosi di Fichte. Sul tema rinvio all’ampia, equilibrata Introduzione di G. Di Tommaso alla sua traduzione italiana delle Eigene Meditationen über Elementar Philosophie: MF.

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“posizione”? Non certo all’“io” empirico, mondano, cosa tra cose, che dipende non da sé ma dalla natura che è dentro di sé e fuori di sé, dall’ambiente in cui è nato e maturato, quindi dalla storia e dalla cultura in cui si è formato. Non all’“io empirico”; bensì all’“Io trascendentale”, all’Io “puro”. E cioè: all’Io purificato, liberato da tutti i vincoli che lo legano al mondo, al passato, agli altri, da tutti i presupposti che lo condizionano. Ma, attribuendo all’“Io puro” l’“atto assoluto” (der absolute Akt: l’espressione è la stessa di quella usata nella Differenz, cf. WL, I, p. 76, e DFS, p. 54) che libera l’Io da tutti i condizionamenti e presupposti che lo vincolano al mondo, non ci si avvolge in circolo? Non si fa dipendere la condizione dal condizionato? No, se l’Io in quanto condizione è “altro” dall’Io condizionato. Il problema dell’inizio del sapere si muta allora nel problema della differenza tra l’Io che è condizione della purificazione dall’empirico e l’Io che è il risultato di tale liberazione. La Fenomenologia dello spirito mostra questa “differenza”. E nel modo più oggettivo: narrando l’itinerario attraverso cui la coscienza – l’io – si libera dall’empirico (da tutto ciò che condizionandolo lo rende dipendente da altro) e si eleva a puro sapere, a sapere capace di dimostrare se stesso, il proprio fondamento, il proprio inizio, a sapere compiutamente autonomo, ovvero padrone di sé. S’è detto: nel modo più oggettivo – perché la narrazione fenomenologica non interviene nel processo della coscienza: è ein reines Zusehen, un puro stare a vedere9. La narrazione fenomenologica permette di superare la posizione ancora solo soggettiva del soggetto-oggetto fichtiano, perché non deduce l’oggettività dal soggetto, bensì mostra nell’oggettività del mondo e naturale e storico l’operante, 9. Cf. G. F. W. Hegel, PhäG, Einleitung, p. 72; it. I, 75. Sul tema cf. L. Lugarini in: HSF, cap. V: “Fondazione fenomenologica della filosofia speculativa”, spec. pp. 134-139.

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ancorché latente, presenza del “soggetto”10. Né la latenza del soggetto nell’oggettività mondana e naturale va confusa con l’inconscio dell’Einbildungskraft fichtiana, perché dal puro stare a vedere della narrazione fenomenologica risulta che proprio dall’oggettività del mondo, nella quale la soggettività è dapprima immersa, emerge l’operare consapevole del soggetto, l’auto-coscienza, il sapere di sé. Das Ziel ist die Offenbarung der Tiefe: la mèta dell’itinerario fenomenologico è la rivelazione del profondo (PhäG, p. 564; it., II, p. 305). Diversamente da Fichte in Hegel l’Essere, l’Identità assoluta di hölderliniana memoria, si fa giudizio, compiutamente giudizio. Il trascendentale e l’empirico, l’unità e la distinzione si unificano. In questa unificazione il profondo emerge alla superficie, di più: si fa superficie. Qui Hegel differenziandosi da Fichte si distac10. Sul tema restano fondamentali le analisi di Bertrando Spaventa: cf. Schizzo d una storia della logica, in Op, II, pp. 611-678, spec. pp. 628-644. Cf., altresì, Logica e metafisica, Op, III, pp. 9-429, che è un’analisi puntuale della Wissenschaft der Logik. Purtroppo gli studi hegeliani di B. Spaventa sono poco e mal conosciuti, quando non del tutto ignorati, fuor d’Italia: O. Pöggeler, passando in rassegna le principali interpretazioni della Fenomenologia dello spirito (in “Zur Deutung der Phänomenologie des Geistes”, “Hegel-Studien”, 1961, pp. 255-294, poi in HIPhäG) neppure lo cita; così H. F. Fulda, che pur tratta di un argomento particolarmente caro a Spaventa in PEWL; e parimenti J. Heinrichs, in LPhäG. Fa eccezione Dieter Henrich, che in HK, alle pp. 82-83, dedica una nota allo studio di Spaventa sulle “Prime categorie della logica di Hegel” (in “Atti della R. Accademia delle Scienze Morali e Politiche” di Napoli, 1864, ora in Op, I, pp. 367-437). Purtroppo è l’unico testo del filosofo italiano che ha letto (su segnalazione di J. van der Meulen, che aveva citato questo studio, senza però discuterlo, nel suo HGM) e pertanto, non comprendendone le motivazioni, esprime un giudizio duro quanto ingeneroso: Spaventa, secondo Henrich, non ha dato alcun contributo all’interpretazione dell’inizio della Logica hegeliana. Invero, in quello studio Spaventa non s’era posto il problema di “interpretare” Hegel, cosa che aveva fatto in altri lavori, ma di riproblematizzare, dopo e oltre Hegel, il classico rapporto essere/pensiero, affermazione/negazione, uno/molteplice. Ma su ciò infra, Sez. III, cap. II, e Parte II, Tra fenomenologia e logica, capp. I, II, IV.

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ca insieme da Schelling. Nel farsi distinzione, molteplicità, mondo, l’Uno, il Profondo, l’Io puro non lascia dietro di sé nessun residuo, nessuna eccedenza. Nessuna Indifferenza11. Come dirà nelle prime categorie della Seinslehre, l’essere non passa nel nulla, ma è passato (nicht übergeht, sondern übergangen ist: WL, I, p. 83; it. I, p. 71; cf. infra, Sez. III, capp. I 11. Anche nei primi anni di Jena, quando Hegel si sentiva maggiormente vicino alle posizioni di Schelling, non mancava di segnalare la sua ‘differenza’ dall’amico. E basti questa doppia citazione: 1) Schelling: «La gravitazione svanisce nella notte eterna, e l’identità assoluta stessa non infrange completamente il sigillo sotto il quale giace chiusa, benché essa sia costretta a uscire fuori e a venire in certo qual modo alla luce sotto la potenza di A e B, ma tuttavia come l’uno identico» (DmS [1801], SW, p. 1163; it., p. 86). Hegel: «L’assoluto è la notte, e la luce è più giovane della notte; la loro distinzione, così come l’emergere della luce dalla notte, è un’assoluta differenza – il nulla è il primo, dal quale è emerso ogni essere ed ogni molteplicità del finito. Ma in ciò consiste il compito della filosofia: nell’unificare questi presupposti, porre l’essere nel non-essere – come divenire, la scissione nell’assoluto – come manifestazione di esso, il finito nell’infinito – come vita» (DFS, pp. 24-25; it., p. 17). La divaricazione tra le posizioni dei due filosofi s’approfondì nel corso degli anni, e venne resa pubblica da Hegel con l’aspra critica dell’“assoluto” schellinghiano svolta nella Vorrede della Fenomenologia dello spirito. Ma il punto di maggior distanza tra i due filosofi è segnato dalla II edizione della Dottrina dell’essere (1832), nella quale la Logica oggettiva non è più Logica dell’“essere” bensì del “concetto come essere”. Questo mutamento risale, chiaramente, al 1816, alla elaborazione della III parte della Scienza della logica, la Dottrina del concetto, che è all’origine della ridefinizione della posizione della Fenomenologia rispetto al Sistema, e quindi del suo ruolo riguardo alla Logica, come attesta la I edizione (1817) dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche. Per un’analisi dettagliata di questo intricatissimo plesso problematico è fondamentale il testo di Leo Lugarini: OH, pp. 121-133. C’è da chiedersi a questo punto se, una volta «svincolata (la Logica) dal suo originario sottofondo fenomenologico» (ib., p. 132), regge ancora la critica a Fichte. – Sui rapporti tra Schelling e Hegel nell’intero arco della loro esistenza cf. Félix Duque, HFM, Parte III; ed ancora sul concetto di libertà in Schelling LS. Sulla differenza tra Hegel e Schelling riguardo al problema dell’Uni-trinità del Dio cristiano, cf. M. Cacciari, I, libro I, capp. II e III, e libro III; e V. Vitiello, DiS, “Due divergenti interpretazioni del Deus Trinitas: Hegel e Schelling”, pp. 19-38.

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e II), e così il nulla nell’essere. Come dire: l’Uno è da sempre molteplice. L’itinerario della Fenomenologia è un itinerario anamnestico, un itinerario nel passato profondo dell’oggettività, naturale e storica, della coscienza. Passato già da sempre portato nella luce del presente, della parousía dell’assoluto, che è l’assoluto sapere12. La Fenomenologia è dunque lo snodo fondamentale del filosofare hegeliano che ci permette di comprenderne compiutamente l’intento, che possiamo esprimere con le parole del primo scritto di Jena: rendere l’io oggettivo a se stesso. Ed è chiaro che l’io in tanto può rendersi a se medesimo oggettivo, in quanto è nell’oggettivo che sin dall’inizio si ritrova (e questo segna la differenza da Fichte); e che nel farsi oggettivo, e cioè: empiria, storia, mondo, si risolve completamente in essi (e questo segna la differenza da Schelling). Pertanto le due relazioni – l’orizzontale: dall’io al non-io, e la verticale: dal profondo alla superficie – sono in Hegel una ed una sola relazione. O meglio: un solo “movimento”. L’io uscendo dalla propria radice si fa mondo, sapere e azione del mondo. Il che significa: la libertà degli altri non è limite alla mia libertà, bensì realizzazione, compimento. Il fare – die Sache selbst: l’operare che coincide con l’operato, l’operare che en télei échei, che si possiede nel fine – è il fare di tutti e di ciascuno (PhäG, pp. 300-301 e 314; it. I, 347-348 e II, 2-3). Ma il circolo qui tracciato – dall’oggettività inconsciamente soggettiva dell’inizio alla oggettivantesi soggettività della mèta – non è senza rotture; basti ricordare quella rilevantissima che si presenta nel passaggio dalla Fenomenologia alla Logica, e cioè dal sapere assoluto, che è mediazione pienamente conse12. Sul tema cf. M. Heidegger, “Hegels Begriff der Erfahrung”, in Hw, pp. 105-192, spec. 119-120; it. 103-190, spec. 118-119.

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guita, all’essere puro, che è mera immediatezza. Il ponte tra l’uno e l’altro è costituito dalla “risoluzione” (Entschluß), che – è Hegel a dirlo (WL, I, p. 68; it. I, p. 55) – può essere anche considerata arbitraria, di prendere l’assoluto sapere come puro essere, nella sua immediatezza, ove lo stesso carattere dell’immediato di essere una determinazione di riflessione viene messo da parte. Il “medio” tra il sapere della Fenomenologia e l’essere della Logica è allora un atto di volontà. All’inizio della Logica e della Scienza non troviamo né il sapere assoluto, né l’essere, troviamo il volere. C’è da chiedersi quali siano le conseguenze per il sistema hegeliano; ma non è di questo che ora possiamo occuparci; dobbiamo prima mostrare che il movimento in circolo che regge, o dovrebbe reggere, l’intero sistema, opera anche all’interno della Fenomenologia. In breve: non è una struttura, ma un “metodo” – un cammino, una hodós – che si attua, sviluppandosi ed approfondendosi, in ogni fase o momento del sistema assumendo le forme e i modi specifici di ciascuna fase o momento. Così nella Fenomenologia il movimento in circolo si caratterizza come passaggio dalla certezza della verità alla verità della certezza, quindi dalle figure della coscienza alle figure del mondo (cf. PhäG, p. 315; it. II, 4). In questi passaggi, nei quali la co-appartenenza di io e mondo, soggettività ed oggettività sempre meglio si esprime e si approfondisce, si fa palese l’intento di Hegel di mostrare che l’oggettivazione dell’io è il medesimo che l’emergere del profondo alla superficie. Ne è testimonianza l’esplicito riferimento di Hegel alle categorie dell’essere e dell’essenza nella spiegazione della differenza tra le figure della coscienza e le figure del mondo (cf. ib., pp. 318 ss.; it. II, 7 ss.; WL, II, 24-25; it. II, p. 444). In quelle l’opposizione dell’oggettivo e del soggettivo è l’opposizione “estrinseca” tipica della logica dell’essere tra termini esterni l’un l’altro ed estranei; in queste, nelle Gestalten der Welt, che sono non “astrazioni” della coscienza, ma eigentliche Wirklichkeiten, potenze ­dotate

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di autentica efficacia, l’opposizione è quella propria della logica dell’essenza, è l’opposizione più difficile a dirimere, perché “intrinseca” ad ogni opposto che non ha in altro, ma in se medesimo il suo contrario, il suo enantíon: come attestano le figure tragiche di Edipo ed Antigone13. Ora, il medesimo movimento in circolo – dall’oggettività che ha in sé latente la soggettività alla soggettività che si oggettiva – che opera come nell’intero sistema così all’interno della Fenomenologia, troveremo all’opera anche nella Logica.

4. Il ruolo della Scienza della logica Se la Fenomenologia dello spirito dimostra mostrando, la Scienza della logica mostra dimostrando. È che la Fenomenologia è prevalentemente un’Erinnerung, un viaggio della coscienza entro se medesima, alla ricerca del profondo Sé, che è io e mondo, mondo e io; mentre la Logica è essenzialmente es-posizione, costruzione es-plicativa dell’io e del mondo, del mondo e dell’io, a partire dal profondo. Anche superfluo precisare che i due “movimenti” si coimplicano, e che quindi l’Erinnerung fenomenologica è anche costruzione esplicativa, e che l’es-posizione logica è insieme Erinnerung. Resta, tuttavia, la diversa intenzionalità delle due opere. Che si riverbera nel metodo seguito. E viene in primo piano in particolare nella Dottrina del concetto. Qui Hegel subito contesta la concezione kantiana, secondo la quale gli antecedenti del concetto sono le intuizioni e le 13. Cf. PhäG, pp. 335-337; it., II, pp. 27-30. Sull’interpretazione hegeliana dell’Antigone sofoclea la letteratura critica è sterminata, ci limitiamo quindi a segnalare solo alcuni studi, apparsi nell’arco degli ultimi trent’anni: G. Severino, AFS; G. Steiner, A, pp. 30-53; P. Vinci, AH.

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rappresentazioni. Questo modo di concepire il concetto è per Hegel ancora soggettivistico e psicologico. Veri antecedenti del concetto sono essere e essenza (cf. WL, II, pp. 256 ss.; it. II, 661 ss.). E questo significa che il contenuto del concetto non è “fuori” del concetto, ma in esso. Il conseguito superamento dell’opposizione soggetto-oggetto nel sapere assoluto comporta la riconduzione del rapporto soggetto-oggetto al rapporto uno-molteplice. Uno è il concetto che ha in sé il molteplice. Io e mondo, nella loro polarità, sono, entrambi ed allo stesso titolo, contenuto del concetto. E se ancora vogliamo chiamare “Io” il concetto, allora questo “Io” è l’Io sintesi di Fichte, non l’Io, cioè, che ha opposto (gegen: di contro) a sé il Non-io, bensì l’Io che ha in sé l’opposizione di Io e Non-Io. Ma questo Io-sintesi non è terzo, senza essere insieme primo. È il Prius assoluto, l’Identità che Hölderlin chiamava Essere – e questa identità come l’identità stessa dell’autocoscienza, come l’identità doppia dell’io=io. L’Essere come Giudizio. Insieme, però, il Giudizio come Essere14. a) Il concetto. Hegel riprende la tradizionale partizione del concetto in universale particolare e individuale, ma la dialettizza (cf. WL, II, pp. 273-274; it. II, 678-679). Il concetto è universale in quanto non ha in sé differenza alcuna. Il concetto di colore non è né bianco, né rosso, né giallo; non potrebbe altrimenti essere l’universale concetto che contiene (= tiene insieme e in sé) il bianco, il rosso ed il giallo. Ma nel suo negare le differenze, esso si rapporta di necessità ad esse. La sua negazione delle differenze è insieme la loro inclusione; la negazione si 14. O, in termini più appropriati, è l’“intuizione intellettuale” risolta in “dialettica speculativa”: sul tema cf. il confronto Kant/Hegel svolto da K. Düsing in IVSD.

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piega su di sé: è insieme la negazione della negazione. Questo significa che nel suo essere universale il concetto è particolare. È colore in quanto è rosso, verde, giallo. E soltanto così è colore e non altro, è cioè individuale. È importante comprendere il senso di questa operazione “logica” compiuta da Hegel: nel mostrare che l’universale in quanto tale è particolare ed individuale, Hegel rivela l’incongruenza della separazione di Plotino tra Hén e Noûs. Non si ricaverà mai da Hén Noûs, dall’uno il molteplice, se non mediante “rappresentazioni e immagini”15; logicamente Hén è come tale Noûs, Uno è, in quanto uno, molti. Uno non è Uno-che-è-Uno senza essere insieme Uno-che-è. Il passaggio dalla prima ipotesi del Parmenide alla seconda, quindi alla koinonía tôn lógon del Sofista, è un passaggio necessario; un passaggio non passaggio: un passaggio che immediatamente si toglie. L’es-posizione è sì costruzione, ma es-plicativa. Il “posto” è già da sempre: è presupposto. La posizione è solo dis-velativa. Si mostra quello che già da sempre era, anche se non appariva. Ma perché questa differenza tra essere ed apparire si giustifichi, è necessario che, dopo aver mostrato che l’universale del concetto è già da sempre particolare ed individuale, si mostri la differenza della particolarità del concetto rispetto all’universalità dello stesso. E la differenza sta in ciò, che la particolarità coglie il concetto non dal lato della negazione delle differenze, ma dal lato della negazione 15. Cf. G. W. F. Hegel, VGPh, it. III, pp. 44-46; esplicito l’accostamento polemico dell’“intellettualismo plotiniano” ai romantici e a Schelling: «Quello che dunque vi [= nella filosofia di Plotino] manca è in primo luogo il concetto. Sdoppiarsi, emanare, defluire, ovvero sorgere, farsi avanti, cader fuori son termini molto adoperati anche nei tempi moderni, e che vorrebbero dir molto, mentre non dicono nulla» (ivi, p. 64). In merito cf: V. Verra, DFP, spec. cap. IV, “Motivi della critica hegeliana”. Per un più ampio inquadramento storico del rapporto di Schelling con Plotino e Hegel con Proclo cf. W. Beierwaltes, PI, spec. capp. II e III.

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che si piega su di sé, della negazione ad opera delle differenze dell’universalità astratta. Il particolare non è altra cosa dall’universale, è questo medesimo, ma osservato dalla prospettiva della negazione della negazione. Se si considera bene la cosa, Hegel sta rifacendo in ambito logico il cammino che Agostino ha compiuto in ambito teologico. Dopo aver affermato contro l’unità astratta del Dio-Uno la Tri-Unità di Dio, mostra come questa Tri-unità si espone, intera, nel nome dello Spirito16. La differenza tra universalità e particolarità del concetto consente dunque di affermare insieme l’analiticità e la sinteticità del concetto, che è analitico perché gia da sempre unomolti, e sintetico perché si disvela molti nel suo essere uno (cf. WL, II, pp. 557 ss.; it. II, 942 ss.). L’andare innanzi è un retrocedere nel fondamento: disvelarlo. Erinnerung e costruzione insieme – come si diceva. Ma nella Logica prevale l’aspetto costruttivo-disvelativo. L’individuale, infatti, che è come tale già nell’universale e pur nel particolare, assume, in sé e per sé considerato, un aspetto diverso, pur restando identico a ciò che da sempre è. L’aspetto della differenza e della molteplicità opposta all’identità e all’uno. Perché l’individuale si pone non solo come la negazione che negandosi torna in sé – come il colore in generale che si rivela colore nell’essere insieme e giallo e verde e bianco –, ma insieme come quella determinatezza che non è altra determinatezza. Il giallo che non è il verde. Qui il verde e il giallo sono certamente compresi nel colore, ma si pongono come colori diversi. Nell’individualità in sé e per sé prevale l’elemento di differenza e pur di contrasto, e non solo tra i molti colori, sì anche tra il molteplice e

16. Agostino, T, I, 5.8: «Sed in ea nonnulli perturbantur cum audiunt Deum Patrem et Deum Filium et Deum Spiritum Sanctum, et tamen hanc Trinitatem non tres deos, sed unum Deum»; e V, 11.12: «Ergo Spiritus Sanctus ineffabilis est quaedam Patris Filiique communio, et ideo fortasse sic appellatur, quia Patri et Filio potest eadem appellatio convenire».

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l’uno, tra i colori individuali, presi nelle loro reciproche differenze, e il colore in generale. Conclude Hegel: il concetto si è scisso nel giudizio, nell’opposizione individuale-universale. Ora il compito di Hegel si fa più arduo e insieme più interessante. Nel giudizio deve mostrare l’unità, la coappartenenza di io-mondo, e solo in questa si può manifestare l’essere del profondo come superficie. E cioè che il concetto è insieme soggetto e oggetto, io e mondo; che la libertà di ciascuno è la libertà di tutti, che il plurale non limita, bensì amplia la libertà. b) Il giudizio. Se nel concetto si è cominciato dall’uno, nel giudizio si comincia dal molteplice. Né è solo una questione di continuità discorsiva, in quanto una volta giunti, seguendo il movimento logico del concetto, all’individuale, è necessario muovere poi da questo per ricostruire il movimento del giudizio. Come vedremo, Hegel prepara il terreno ad un nuovo capovolgimento, cui ne seguirà un terzo. In tutto ciò v’è una precisa strategia: Hegel deve dimostrare che nell’individuale come tale opera, l’universale; che quest’ultimo è l’essenza, Wesen, ciò che fa essere l’individuale, che opera in lui. In questo discorso sarà coinvolto anche il sillogismo, che rappresenta un ulteriore grado del processo. La prima forma di giudizio è quella dell’immediato esserci. Il singolo come tale viene definito per questo o quel carattere, come, ad esempio, nel giudizio: “il tavolo è quadrato”. Un giudizio positivo, che ha la sua verità nel giudizio negativo, in quanto la copula che identifica “tavolo” e “quadrato” dice il falso, se non viene subito corretta dall’opposta che nega questa identità. Tavolo non è quadrato. Tavolo è tavolo e quadrato è quadrato. Così la scissione del giudizio si estremizza, e non è

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più possibile fare altra affermazione che quella tautologica per cui una cosa è uguale solo a se medesima. Ma invero l’esito di questa forma di giudizio non è solo negativo, perché mostra esservi in ogni singolo qualcosa che sorpassa la singolarità, per essere appunto di tutti e di ciascuno: l’identità di sé con sé. Questa identità è ora il vero soggetto del giudizio, che giustamente viene definito “giudizio di riflessione”. Ed è “soggetto” in un duplice senso: ontologico, perché è ciò che fa da supporto all’esserci d’ogni singolo, ed insieme logico, perché tutto ciò che si può dire (predicare) di un individuo si riferisce in ultima analisi a questa identità che lo costituisce. Il giudizio di riflessione comporta dunque il capovolgimento del rapporto soggetto-predicato: in esso è l’universale – l’identità, l’uno – che funge da soggetto, e l’individuale – il diverso, i molti – da predicato. Si è così di nuovo nello Standpunkt del concetto, nella posizione, cioè, della deduzione del molteplice dall’uno. Ma questa “posizione” non è, però, nel giudizio di riflessione, a pieno guadagnata, perché la copula dice sì che uno “è” molti – esemplificando, che colore “è” rosso, giallo, verde… – ma il legame è solo accidentale. Manca la derivazione dall’uno (dal colore) del molteplice (rosso, verde, giallo…). Questa mancanza tuttavia è segno di un “progresso”, perché nel giudizio la stessa scissione pone l’esigenza di riempire quella mancanza; esigenza che nel concetto neppure era avvertita. Nel concetto prevale l’esposizione sull’argomentazione. Il “che”, l’hóti, è già “perché”, dióti, nel concetto. Al compito della deduzione assolve il giudizio di necessità. Che ricava dall’uno come genere le sue specie molteplici. Il genere non è un puro uno, ma un uno determinato, che è tale, determinato, per interiore necessità: il colore è tale perché verde, rosso, giallo…… La necessità del genere è l’essenza del genere. Se adesso mettiamo a confronto concetto e giudizio, rileviamo facilmente che il giudizio di riflessione corrisponde al momento dell’universalità del concetto, e il giudizio di necessità al momento della

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particolarità. Manca ancora il momento dell’individualità. Non quella, chiaramente, soltanto accidentale del Daseinsurteil, bensì l’individualità, pur essa determinata, del concetto. E cioè: quello che ancora manca nella terza forma di giudizio che procede dall’uno al molteplice, è la prova inversa. La cui esigenza già il giudizio di necessità fa avvertire, perché, infatti, se il genere è necessario per le specie (perché colore è verde e giallo e rosso, verde giallo rosso sono colori), queste non sono meno necessarie per il genere (perché e verde e giallo e rosso sono colore, colore è verde e giallo e rosso…). Ma, per non fare di questa necessitante circolarità una mera petizione di principio, è necessario che la prova ora parta dal basso, dall’individuale e molteplice. È il giudizio del concetto, che fornisce questa prova. Così al precedente ribaltamento di ruoli tra individuale e universale, operato dal giudizio di riflessione, ne segue un altro, inverso, ché il giudizio del concetto ha di nuovo il singolare come base, come soggetto. Ma il soggetto di questo nuovo giudizio, essendo un’individualità non accidentale ma determinata, si rapporta al predicato universale non più accidentalmente, bensì secondo necessità. Non esterna, ma interna: una necessità, quindi, finalistica, nella quale si esprime la natura stessa dell’individualità omnimode determinata. Com’è palese qui Hegel ripropone il circolo aristotelico phýsis-télos. L’individuo, in tanto è destinato dalla sua natura al fine, in quanto il fine determina la natura: phaneròn hóti próteron enérgheia dynámeós estin17. Cosa resta in tutto ciò ancora non provato, non dedotto? Proprio la copula. Ciò che unisce universale e individuale, uno e molti è riguardato ora dalla parte dell’universale (come nel giudizio di riflessione e di necessità) ora da quella dell’indivi-

17. Met., IX, 1049b 5; e XII, 1072a 9. In merito cf. A. Ferrarin, HA, pp. 131-132, e passim.

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duale (come nel giudizio del concetto), ma mai dalla parte di ciò che li tiene insieme. La successione delle quattro forme del giudizio mostra certamente l’approfondirsi della mediazione, il suo internarsi nei termini stessi della relazione predicativa, soggetto e predicato, manca però la mediazione del medio, la mediazione della copula. Questa sembra essere assorbita ora nell’universale (giudizi di riflessione e di necessità), ora nell’individuale (giudizi del concetto). Ciò che costituisce il giudizio, la copula, è una forma vuota. Una presenza assente. Un legame senza determinazione alcuna, sostituibile da un puro segno di =. Se avesse un suo contenuto determinato dividerebbe anziché unire. E tuttavia questa forma vuota, questa presenza assente, è ciò che opera nel giudizio. È ciò che costituisce i due termini della relazione predicativa. Senza la copula i termini non sarebbero due, ma uno. La copula come lega, divide – deve dividere. Come conciliare questa opposizione? Di più: cosa sta dietro questa opposizione? A queste domande risponde la dottrina hegeliana del sillogismo. Il compito è tra i più ardui, perché la copula non è parte del giudizio, è il giudicare stesso. Col sillogismo, quindi, Hegel intende portare nel giudizio il giudicare, nel detto il dire, nell’operato l’operare. Il programma resta quello delineato nella Differenz: «comprendere l’essere-divenuto (das Gewordensein) del mondo intellettuale e reale come un divenire (ein Werden), il suo (= del mondo) essere in quanto prodotto (Produkte) come un produrre (ein Produzieren)» (DFS, p. 22; it., 15). c) Il sillogismo. Il carattere della copula, s’è detto, è tale che essa non deve avere un sua propria consistenza o determinatezza, altrimenti divide e non unifica. Il sillogismo, però, proprio l’esigenza di determinare la copula deve soddisfare – se vuole assolvere al

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compito di portare il “medio” a conoscenza di sé, a giudizio. Il sillogismo questo fa: dà alla copula la determinatezza di un giudizio. Ma, questa copula (il “medio” del sillogismo), se ha la determinatezza (il “contenuto”) di un giudizio, in che modo mai potrà unificare gli estremi (gli altri due giudizi)? Non li dividerà, anziché unirli? No, se la sua determinatezza, sarà tale da comprendere in in sé la determinatezza degli estremi. In breve: nel sillogismo il medio deve fungere insieme da medio e da estremo; e cioè: esso deve, in quanto medio, con-tenere (tenere insieme, ed in sé) gli estremi18. A tal fine Hegel modifica radicalmente la logica del sillogismo, trasformando il tradizionale rapporto statico di implicazione tipico della mediazione sillogistica – secondo lo schema formale: I(ndividuale) > P(articolare) > U(niversale) –, in un movimento dialettico, nel quale le tre forme di sillogismo19, analizzate nella sezione della Soggettività, si succedono secondo la loro specifica modalità. In tale successione i giudizi che formano i sillogismi mutano continuamente di ruolo, e da estremi divengono medio, e da medio estremi20. Medio è quindi volta a volta I, P ed U. E tuttavia non può dirsi a pieno soddisfatta l’esigenza di determinare la “copula” (il medio) – senza peraltro che la determinazione le impedisca di unificare gli estremi. Nella successione dei sillogismi, infatti, il medio quando è I non è però P né U, e viceversa. È dunque necessario un sillogismo nel quale il medio sia insieme (simul, hama) I, P 18. Sul tema cf. L. Lugarini, OH, pp. 451-454. 19. Dell’esserci immediato, della riflessione e della necessità: WL, II, pp. 351-401; it. II, 753-800. 20. Hegel si libera delle obiezioni che sono state giustamente mosse alla logica sillogistica, facendole proprie e ribaltandole. Prendendo l’esempio che J. S. Mill farà nel 1843, è certamente vero che l’affermazione che tutti gli uomini sono mortali si basa sul fatto che anche il Duca di Wellington è uomo e mortale (SL, p. 182, ma cf. i capp. II e III del Libro II sul “Ragionamento”); ma non è men vero che solo la conoscenza di uomo e mortale, permette di dire che il Duca di Wellington è uomo e mortale.

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ed U. Questo sillogismo non è più formato da giudizi, ma da sillogismi: è un sillogismo di sillogismi21 – la forma logica di cui Hegel si avvale per presentare, al termine dell’Enciclopedia, il suo sistema filosofico. Passiamo allora ai tre sillogismi finali dell’Enciclopedia22. Il primo ripete lo schema generale dell’opera: Logica, Natura, Spirito. La logica si fa natura e questa spirito. Nel divenire l’estremo iniziale passa nel medio, e da questo all’altro estremo. I termini non restano separati, fluiscono l’uno nell’altro. Questo sillogismo è il più povero, perché se porta ad evidenza che tutt’e tre i termini sono “idea”, e quindi simul medi ed estremi, tuttavia «la [loro] mediazione ha la forma estrinseca del passar oltre (hat die äußerliche Form des Übergehens)» (§ 575). Che l’Übergehen sia il vero medio – che però resta fuori del sillogismo, che pur realizza –, significa che l’essere tutti e tre i termini – Logica, Natura, Spirito – “idea” è solo un presupposto di questo sillogismo, non ciò che il sillogismo pone. Ossia: è perché sono “idea” che essi possono passar oltre l’uno nell’altro. Il secondo sillogismo si presenta nella forma Natura Spirito Logica. Lo Spirito come medio di-mostra la comune essenza 21. Nel quale, tra l’altro, viene in piena luce il carattere più proprio del Concetto, come dapprima si mostra nel suo momento “particolare”: quello di essere le negazioni che nega, concreto, ed effettuale, wirklich, solo in esse: «L’universale in quanto (è) il concetto è se stesso e il suo opposto, che, di nuovo, è se stesso in quanto è la sua determinatezza posta; esso si estende oltre lo stesso particolare ed è in questo presso di sé. Così esso è la totalità ed il principio della sua diversità, la quale è determinata solo da lui stesso» (WL, II, p. 281; it. II, 686). 22. Cf. G. W. F. Hegel, Enz, III, §§ 575-577, pp. 393-394; it., pp. 528-529. È stato giustamente detto che «Die Aufschlüsselung dieser Lehre ist eine der schwierigsten Aufgaben der Hegel-Interpretation. Sie ist aber auch eine der wichtigsten Aufgaben, denn von einem Verständnis dieser Paragrafen hängt die Interpretation des ganzen Hegelschen Denkens in entscheidender Weise ab» (B. Puntel, DMS, p. 45).

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ideale di Logica e Natura. In quanto sono Spirito, in quanto sono tenute insieme, contenute nel medio del sapere (Spirito è sapere, assoluto sapere), Logica e Natura sono “idea”, e pertanto sono insieme estremi e medio. Questo sillogismo, se toglie (aufhebt) il “presupposto” del primo ponendolo, dimostrandolo, è tuttavia ancora soggettivo: è la conoscenza che, assimilando a sé gli estremi, consente loro d’essere termini “medi”. Il limite di questo sillogismo è quello stesso del sistema fichtiano: il soggetto-oggetto (il rapporto Logica-Natura) resta solo soggettivo (meramente spirituale, conoscitivo)23. Gli estremi non sono ancora in sé e per sé medi. Lo sono per il conoscere (lo spirito) – l’unico vero medio. Il terzo sillogismo ha la forma Spirito Logica Natura. Che significa che la Logica è ora il medio? Significa che ora la ragione conosce se stessa – nella sua oggettività – sia nell’estremo soggettivo del conoscere (dello spirito), che nell’estremo oggettivo della natura. La ragione – il medio – dualizzandosi in natura e spirito, nel suo auto-giudizio, fa dei due primi sillogismi la sua manifestazione. Talché il terzo sillogismo racchiude in sé i primi due, è un sillogismo di sillogismi24. Questo illumina il senso più profondo dell’affermazione finale della Scienza della logica secondo cui la scienza è un circolo di circoli. Ed anche spiega il senso della mediazione come mediazione della mediazione.

23. Questo secondo sillogismo, dunque, non definisce affatto la ‘posizione’ della Fenomenologia in rapporto all’oggettività, come afferma J. van der Meulen (cf. HGM, pp. 340-341); al contrario: è la forma sillogistica di quella posizione del pensiero rispetto all’oggettività che la Fenomenologia contribuisce a superare. 24. In merito cf. H. F. Fulda che molto opportunamente connette questo paragrafo dell’Enciclopedia alla trattazione del sillogismo della Scienza della logica: PEWL, pp. 293-294.

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Ma ciò che è più importante di questi paragrafi finali dell’Enciclopedia è la manifestazione piena della Logica – del Logos – come attività. La ragione si mostra, si dice, operando. Il suo manifestarsi è nella forma dei due sillogismi, uniti nel terzo che dicendosi si fa. L’Idea nel terzo sillogismo si rivela prassi. E questo Hegel dice non soltanto nel terzo sillogismo, sì anche con quell’appendice all’Enciclopedia che è la citazione di quel passo della Metafisica, ove Aristotele afferma, tra l’altro, che «il pensiero pensa se stesso con l’accogliere (katà metálepsin) il pensato: toccando e pensando (thiggánon kaì noôn), diviene infatti pensato, cosicché pensiero e pensato sono identici» (XII, 7, 1072b 19-21)25. Qui davvero il pensiero porta se stesso a evidenza piena: la “copula”, il “medio”, è pensata come pensante. Il “legame”, ciò che con-tiene (= che tiene insieme e in sé), con-tiene perché opera. È il vero universale, la ragione (Vernunft), che nel dirsi non decade a mero “contenuto”, non cessa di farsi, anzi il suo farsi è proprio il dirsi: pensando, e solo pensando, è pensato. Nel sillogismo la ragione riesce a farsi contenuto di se stessa, conservando insieme il proprio statuto d’essere quale forma pura (il “con-tenente”: ciò che tiene insieme e in sé). La comprensione dell’essenza del sillogismo ci permette di tornare sulla Scienza della logica e sciogliere un nodo che è particolarmente importante per la comprensione non solo dell’opera e della sua interna coerenza, ma della filosofia di Hegel nel suo insieme. Solo se giungiamo a quell’altezza potremo riprendere la questione affrontata con la citazione del frammento di Hölderlin.

25. Hegel cita e commenta il passo aristotelico nelle VGPh; it., II, pp. 307-309.

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4. L’oggettività Il nodo è questo: le forme del giudizio sono quattro, tre invece quelle del sillogismo, che termina con la forma della necessità. A questa segue la sezione dedicata all’Oggettività. Si capisce bene l’importanza che questa sezione ha per il nostro discorso. Per alcuni interpreti l’introduzione di questa sezione, non sufficientemente motivata da Hegel, rompe la continuità dell’ordine secondo cui si succedono le categorie della Logica26. Invero c’è piena corrispondenza tra l’andamento del giudizio e quello del sillogismo. E solo perché non si vede nell’Oggettività la quarta forma del sillogismo (il sillogismo del concetto – per usare la stessa terminologia che Hegel impiega nel distinguere le forme del giudizio), si può ritenere immotivata la sua introduzione in questo luogo della Logica. Hegel dopo aver operato il rovesciamento del rapporto soggetto-predicato e nel giudizio e nel sillogismo della riflessione, opera una seconda inversione come nel giudizio del concetto così nel corrispondente sillogismo. La conclusione del sillogismo della necessità è la dimostrazione che l’uno come tale non solo è molteplice, ma è quel

26. Cf. John McTaggart Ellis McTaggart, CHL, pp. 242-243; Klaus Düsing, PSHL, p. 290. Mi sembra significativo che entrambi gli interpreti considerino non motivato l’inserimento del giudizio del concetto: J. M. E. McTaggart, CHL, pp. 220-221; K. Düsing PSHL, p. 263. Sull’importanza del ruolo dell’Oggettività insiste giustamente – ma seguendo un percorso argomentativo diverso dal nostro – J. van der Meulen, HGM, pp. 94-135. È qui opportuno ricordare una giusta osservazione di Dieter Henrich: «Eine Interpretation der Logik muss vor allem eine Interpretation ihrer Vermittlungsweisen sein. Die letzte und schwierigste Aufgabe ist es, den Zusammenhang dieser Vermittlungsweisen untereinander verständlich zu machen» (HK, p. 94, nota 25). Sul tema sono tornato recentemente in ETN, Sez. I, cap. I, “Logica e mondo in Hegel. La quarta forma del sillogismo”, pp. 23-49.

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determinato molteplice27. Nel sillogismo disgiuntivo – nel sillogismo in cui domina la forma della negazione – si rende evidente che l’universale proprio perché è quella determinata determinatezza e non altra, e non le altre, comprende in sé tutte le altre. La negazione si piega su se stessa, ma nega insieme la sua negazione. Il fiore (universale) è rosa (individuale) e non viola né margherita, perché è sempre un determinato fiore e non altro; ma proprio perché esclude, essendo rosa, di essere viola e/o margherita, esso, in quanto fiore (universale), è rosa e viola e margherita. Ne consegue che senza la determinazione individuale, la determinata determinatezza dell’individuo, non si coglie l’universalità. Ma questo comporta che al processo dall’alto, dall’uno ai molti, dall’universale agli individuali (da fiore a rosa, margherita, violetta), segua il processo dal basso: dai molti all’uno. Ma i molti da cui dev’essere ricavato l’universale non possono essere, sin da principio, una determinata molteplicità (come rosa, margherita e viola), ché altrimenti sarebbero già determinati nel loro essere, nella loro universalità, e la deduzione dell’universale dall’individuale sarebbe solo un giuoco illusionistico; debbono essere, i molti, indeterminati, e cioè mera molteplicità, irrelata. Hegel riapre il processo proprio dall’individuale colto nella sua più accidentale accidentalità, quella per cui ogni relazione gli è affatto estrinseca. La relazione meccanica è questa estrinsecità. Esemplificando, che una pietra stia su un prato, ai bordi di un strada o in cima ad un monte, non dipende dal suo esser pietra, ma da altro, da un terzo, che per essa è affatto accidentale. Ma questa estraneità, ove si considera la pietra non isolatamente, ma nel tutto, si riduce. Hegel fa l’esempio della forza di gravità. Il centro d’attrazione è certo fuor della pietra, 27. Volendoci esprimere con un paradosso, possiamo dire così: il sillogismo disgiuntivo prova che è possibile dedurre anche la penna del signor Krug; se non lo si fa, e perché c’è qualcosa di più importante ed interessante cui dedicarsi!

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tuttavia qualcosa v’è della pietra che permette alla forza esterna di agire su di essa. Anche la pietra, dunque, entra in relazione con altro a partire da sé. La relazione tra le cose s’interna maggiormente, quando si considerano le sostanze nei loro elementi costitutivi, che si tengono insieme o si disgregano, entrando in rapporto con altre sostanze, in base all’affinità della loro natura e composizione. Hegel definisce questo rapporto “chimico”, non perché si riferisca ad una scienza in particolare, ma perché definisce, come peraltro il meccanismo, un modo di rapportarsi degli enti tra loro (cf. WL, II, pp. 409-410 e 429; it. II, 808 e 826). Insomma la distinzione tra relazione meccanica e chimica è fatta quoad formam e non quoad materiam. Lo stesso dicasi per la teleologica, che adesso andiamo ad esaminare. a) Il sillogismo del concetto: la teleologia Nel giudizio del concetto la successione delle forme del giudizio – assertorio, problematico, apodittico – serve a di-mostrare in che modo il fine, dapprima esterno all’individuale soggetto del giudizio, da ultimo coincide con la natura stessa dell’individuo. Il processo di “interiorizzazione” del fine è però opera di un terzo, e cioè del pensiero che ha a suo oggetto il giudizio teleologico. E questo ben si spiega: l’interiorizzazione del fine al soggetto non può essere opera del giudizio stesso, perché in esso la copula – e cioè il termine medio che opera nel giudizio – resta non tematizzata, epperò non appare: resta, per usare il linguaggio di Glauben und Wissen, ein Bewußtloses. La scena cambia nella trattazione del sillogismo. Qui, come si è detto, pensante e pensato, noesi e noema, sono tutt’uno. E sono tutt’uno perché il noema è la noesi stessa nel suo farsi. Come fare e nel suo farsi il pensiero si dice: dice sé. Sono il medesimo il dirsi e il farsi. La mediazione è, come tale, mediazione della mediazione.

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Ma seguiamo da vicino, anche se a rapidi tratti, questo movimento. Per dimostrare in che modo nel sillogismo del concetto il fine si interiorizza ad opera del fine stesso, che è il medio operante del sillogismo, Hegel muove nuovamente dal molteplice irrelato ed accidentale. L’individuale di questo sillogismo è un puro oggetto, preso insieme con altri al fine di realizzare qualcosa. Ma il loro “essere-insieme” è ad essi estraneo. Sabbia, calce, ferro, e quant’altro è necessario alla costruzione di un edificio, sono tra loro in rapporto solo per lo scopo di chi costruisce. Certo, essi vengono presi in base alle loro caratteristiche e meccaniche e chimiche, ma queste valgono non per se stesse, bensì per il disegno di colui che intende costruire l’edificio. In breve, calce e ferro non si uniscono da soli, sono mescolati dalla mano dell’uomo. Sicché le loro caratteristiche meccaniche e fisiche valgono non per sé, ma in relazione allo scopo che volta a volta si intende conseguire. E lo scopo, ripetiamo, è estraneo agli oggetti, è puramente soggettivo. È vera questa maniera di considerare le cose? Cioè, è realistica? Invero proprio la partizione iniziale tra il soggettivo e l’oggettivo è solo un’astrazione. Di fatto non ci sono meri oggetti irrelati, di fatto c’è sempre un “insieme” di cose, tra loro in relazione per la realizzazione di qualcosa. L’ambiente in cui l’uomo vive è questo “insieme”. Il fine solo soggettivo non esiste che per la considerazione astratta che divide ciò che è originariamente unito. Il fine è sempre già incorporato nelle cose, negli oggetti. Che non sono mai meri “oggetti”, ma sempre mezzi per qualcosa. Anche la pietra o il bastone che scorgo al margine della strada e che prendo per scacciare il cane che mi si avventa contro, è nel momento stesso che cade sotto i miei occhi uno strumento per…… Sin dall’inizio il mio sguardo – lo sguardo di chi si sente minacciato, non lo sguardo di un presunto spettatore disinteressato! – rende strumento

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l’oggetto che vede. Ma anche questo esempio descrive solo parzialmente la “realtà”. Descrive il caso particolare, eccezionale di un’improvviso pericolo. Nella comune vita quotidiana gli oggetti sono tutti già predisposti al fine: sono “strumenti”. Vale a dire: non lo sguardo soggettivo li rende “mezzi” per un fine, ma il loro “esser-mezzo” condiziona lo sguardo. Se per fissare un chiodo al muro si impiega, in mancanza del martello, il tacco della scarpa, è perché si usa la scarpa come martello. Insomma nel nostro mondo non incontriamo mai puri oggetti, bensì sempre strumenti per qualcosa, “mezzi”. E se usiamo questi “mezzi” per fini impropri (come nell’esempio del tacco della scarpa), ciò non toglie che il fine incorporato nel mezzo abbia maggiore stabilità dello “scopo soggettivo” (id est: “accidentale”). «Lo strumento – scrive Hegel – si conserva mentre i godimenti immediati passano e vengono dimenticati» (WL, II, p. 453; it. II, 848-849). Il mondo oggettivo, dunque, non è costituito da oggetti isolati che vengono messi insieme da una volontà esteriore; il mondo oggettivo è una totalità coordinata di mezzi, nella quale gli “oggetti” sono volta a volta mezzi e scopi. Ciò che è mezzo per qualcosa, è fine per qualcos’altro. Non solo: il mezzo, proprio in quanto serve a realizzare uno scopo, è esso stesso scopo per il fine, che senza il mezzo non potrebbe essere realizzato. È questa teleologia oggettiva, incorporata cioè negli oggetti, che fa dire a Hegel che la verità del meccanismo e del chimismo è la teleologia (WL, II, p. 444; it. II, 840). E qui davvero trova la sua perfetta conclusione la confutazione hegeliana del “soggetto-oggetto” fichtiano: il fine, il “soggettivo”, non sopravviene all’oggetto, appartiene sin dall’inizio ad esso. Ritrovare nel mondo oggettivo la presenza del soggetto è ciò che davvero garantisce l’oggettività dell’operare soggettivo. La riflessione filosofica non fa che mostrare, che portare ad evidenza la connessione strutturale del mondo che è insieme soggetto ed oggetto, fine e strumento, ideale e reale. Ma

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questo “mostrare” non è solo analitico, è analitico e sintetico insieme. Il mostrare è di-mostrare perché quello che trae dal profondo lo es-plica, lo dis-piega, lo sviluppa. Per tornare alla terminologia del frammento di Hölderlin citato all’inizio, il portare l’Essere a Giudizio, l’es-plicare l’Identità assoluta nell’identità plurale io-mondo, realizza l’Essere, lo attua. L’essere puro senza distinzione alcuna è mera potenza, che solo nell’atto si rivela. Ma diciamolo con le parole di Hegel: La forza dello spirito è grande solo quanto la sua estrinsecazione (ihre Äusserung), la sua profondità profonda solo quanto, nel suo dispiegarsi (in seiner Auslegung), esso osa espandersi e perdersi. (PhäG, p. 15; it. I, 8).

b) La Vita. Il mostrare che è di-mostrare, l’analisi che è insieme sintesi, conferma il carattere specifico della Logica hegeliana che è insieme Erinnerung e costruzione, come anche si è detto. Pertanto il passaggio successivo, esposto nella Scienza della logica, dall’Oggettività alla Vita è del tutto legittimo, ed anzi persino ovvio. La Vita precede e insieme segue l’Oggettività secondo il “metodo” (hodós: la “via”) indicato da Hegel sin nella Introduzione, per cui l’andare innanzi è un retrocedere nel fondamento, all’originario e al vero. La Vita è la manifestazione piena della teleologia realizzata, perché ogni suo momento particolare e individuale è in funzione della totalità del vivente, e viceversa28. Eppure un dubbio qui si insinua. Il dubbio che questo “metodo”, che conduce dalla superficie al fondo e poi di nuovo dal fondo alla superficie – metodo che caratterizza non solo la Logica, ma del pari la Fenomenologia –, celi un inconsapevole inganno. È possibile – alme-

28. Cf. L. Illetterati, VCH.

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no possibile – che nel retrocedere dalla superficie al fondo si attribuisca a questo quel che si trova in superficie. Togliendo, semmai, al fondo qualche carattere particolare che si ascrive in esclusiva alla superficie, e ciò perché non vada perduta per l’analisi la “sintesi”, per l’Erinnerung la costruzione. Il dubbio, anzi il sospetto che quanto denunziato accada, sorge più volte durante la lettura delle pagine di Hegel, e in particolare delle più note e discusse, come, ma è solo un esempio tra gli altri, quelle della Fenomenologia dello spirito che “narrano” la nascita dell’autocoscienza spirituale dalla vita. Dopo la descrizione della Vita, o mondo organico, come di un flusso incessante di figure che nel loro stesso nascere si dissolvono, e dissolvendosi risorgono, senza che le differenze riescano mai a stabilizzarsi, il sorgere dell’autocoscienza – e cioè di una stabile universalità, o genere – si spiega solo sulla base di un postulato, e cioè che la vita accenna a qualcos’altro rispetto a ciò ch’essa stessa è, all’autocoscienza (cf. PhäG, pp. 135-140; it. I, 145-152). Qui il demonstrandum è assunto come base della dimostrazione. Non è un passaggio, questo, ma un vero e proprio salto. E non è l’unico. Nella Scienza della logica, proprio nelle pagine in cui dà ragione del “metodo” circolare della sua dialettica, Hegel dice che non c’è poi da stupirsi se nell’universalità astratta e semplice dell’inizio è già contenuta la totalità, perché come già la Dottrina del concetto dimostra, l’astratto contiene in sé quella negazione (dell’altro da sé, del concreto) che lo determina, legandolo a quello stesso che nega. Il che non è vero, ma verissimo – ma soltanto perché l’universale (l’astratto), come s’è visto precedentemente, è considerato dalla prospettiva del particolare (dell’altro negato, del concreto). Il semplice, che non è lo stesso che l’astratto (l’astratto è il semplice considerato nell’ottica del molteplice e concreto), contiene – tieneinsieme, indistinto – in sé il tutto molteplice, ma non è il tutto

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molteplice. Perché dal Semplice (dallo hén della I ipotesi del Parmenide, 137c ss.) si passi alla totalità dispiegata dei molti (allo hèn hó esti della seconda ipotesi, 142b ss.) è necessario che vi sia nel Semplice «l’impulso (Trieb) a portarsi avanti» (WL, II, p. 555; it., II, p. 941). Non si ripete ora quanto ­poc’anzi s’è detto, e cioè che l’“impulso” del Semplice a passare nel molteplice composto rispecchia una posizione tipica del molteplice stesso; non lo si ripete, perché se nel Semplice è tutto, è anche l’impulso a «sich weiterzuführen». Ma, se non si vuol ridurre il Semplice-Uno all’Uno-Molteplice, insieme con l’“impulso” bisogna affermare la presenza del suo contrario. In breve, non si nega l’impulso, si nega la necessità della sua es-plicazione. L’atto di volontà che abbiamo incontrato all’inizio della Logica, necessario a colmare il “salto” tra il sapere assoluto e l’essere vuoto, l’essere privo di determinazione alcuna, risulta “arbitrario” – e cioè: non spiegato e non spiegabile – come all’inizio della Logica, così alla fine. Ma, se la risoluzione dell’Essere in Giudizio, se die Verbindung der Verbindung und der Nichtverbindung, non è una necessità, ma una possibilità, allora non si può negare che il fondo mantenga un “in sé”, un resto, un residuo irrisolubile nel “per sé”, una dimensione che non si può portare alla luce; mai definitivamente, almeno. La relazione io-mondo, dunque, non esaurisce l’Identità dell’io. È a questo livello che va ripreso il confronto di Hegel non con Fichte, ma con Kant. Ne vedremo la ragione.

5. Il giudizio dopo il sillogismo Come sopra si è ricordato, nell’introduzione alla Dottrina del concetto Hegel riprende la critica a Kant già svolta in Glauben und Wissen. Solo perché la filosofia trascendentale kantiana

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è ancora affètta da soggettivismo e psicologismo antepone al concetto l’intuizione e la rappresentazione, e cioè pone la “materia” del concetto come estranea ed estrinseca alla sua “forma”. La critica hegeliana può avere, forse, un qualche appiglio in questo o quel paragrafo dell’Analitica dei concetti, ove sembra che l’oggetto del conoscere sia opposto al soggetto come un ente che stia di contro al altro ente (cf. ad es. KrV, § 14; ma contra §17). Non ne ha però nell’Analitica dei principi (Grundsätze), ed in particolare nelle Anticipazioni della percezione e nelle Analogie dell’esperienza. Da queste “proposizioni fondamentali” di tutti i giudizi sintetici a priori, ovvero dal quadro generale dei “principi” su cui Kant intese fondare la scienza (fisica), si ricava che l’oggetto non è di fronte, di contro (gegenüber) ad un supposto soggetto, ma all’interno di un “Io = X” (KrV, A 346, B 404), che non è un ente tra enti, ma l’orizzonte di apparenza di ogni ente, ovvero: del fenomeno in quanto tale, di ogni fenomeno naturale. Le intuizioni e le rappresentazioni non sono meno “interne” al concetto, di quanto non siano l’essere e l’essenza in Hegel. La vera, reale differenza tra Hegel e Kant sta in questo: che per Hegel l’essere si risolve nell’essenza e l’essenza (rectius: l’“essere essenziale”) nel concetto, laddove in Kant la materia resta “altra” dalla sua forma, altra ed irriducibile. E non si tratta solo dell’alterità relativa tra concetti e intuizioni, ma sovrattutto dell’alterità assoluta tra la sensazione e la sua materia (die transzendentale Materie, die Sachheit). Il concetto di noumeno, in quanto Grenzbegriff, limita anzitutto le pretese della sensibilità (KrV, A 255, B 310-311). La “cosa in sé”, che con sprezzante giudizio Hegel definì il caput mortuum del pensiero kantiano (cf. Enz, § 44), è invero la più alta forma di consapevolezza che il pensiero ha della propria finitezza, in quanto capace di riconoscere il suo limite dall’interno di se medesimo, e cioè senza varcarlo. Kant con l’affermazione

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della “cosa in sé” spezza, con Platone, il vincolo necessario tra il tí e il poión, il quod e il quid, il soggetto e il predicato, non si nasconde – non nasconde a se stesso e agli altri – il mistero del passaggio da Hén a Noûs, al contrario lo dichiara, e dichiarandolo lo custodisce come tale, come mistero. Così il pensiero si mantiene nella propria finitezza finita, non eleva, cioè, come Hegel, il finito a momento dell’infinito. La copula resta ein Bewußtloses. Il medio media altro, ma non sé. Il grande tentativo hegeliano di mediare la mediazione naufraga nell’impossibilità dell’autocoscienza di dare ragione di sé, della sua nascita29, e conseguentemente della scienza di dar ragione del suo inizio. Il circolo e, a maggior ragione, il circolo dei circoli non sfugge al sospetto, sopra denunziato, di interpretare il fondo a partire dalla superficie, l’Uno a partire dai molti, l’origine dall’originato. Ma bisogna dire dell’altro ancora. E cioè che il sillogismo hegeliano, con la sua pretesa di togliere ogni materia assorbendola senza residuo alcuno nella forma, condanna la storia ad una pura retrospezione. La Vita si spegne nella forma: il pensiero pensante, tutto posseduto nel pensato, riduce il suo stesso farsi, il suo essere in atto, o atto in atto, ad infinità solo presente30. Un presente che si scopre in divenire solo nell’Erinnerung. In ciò il calvario (Schädelstätte) dello spirito: nel non aver più storia? O nel doversi comunque, pur nella felice quiete del suo presente attuale, rimirare nel passato, essere sempre Erinnerung del divenire?

29. Kant avverte che l’Io non può essere conosciuto con le sue proprie categorie, «perché per pensarle, deve porre a fondamento la sua autocoscienza pura, che pur doveva essere spiegata» (KrV, B 422). 30. Questa conseguenza verrà tratta con estrema coerenza da G. Gentile sin nella TGS, cap. III, § 13 e passim. Su Gentile: infra, Parte I, Sez. II, capp. I e II, Parte II, cap. III.

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Quale che sia la risposta a questa domanda, certo è che dal sapere assoluto in cui ogni materia è risolta, mai non si esce. Il che peraltro accade anche all’orizzonte meramente formale che è l’Io penso kantiano, dacché anche per Kant non è possibile esperienza di cose (di enti, di fenomeni) se non nell’orizzonte trascendentale definito appunto dell’esperienza possibile. Nell’orizzonte kantiano, però, è almeno possibile vedere nuovi fenomeni, materialiter nuovi, quantunque sempre eguali quanto alla loro forma. Vero è che sia il sapere assoluto sia l’Io penso negano il tempo: l’uno “cancellandolo”31; l’altro inchiodandolo in un’immutabile fissità: die Zeit bleibt und wechselt nicht (KrV, B 225; e A 183, B 226). Forse ha ragione Schelling, quando afferma che «il tempo apparente» (die scheinbare Zeit), «il tempo che sempre si ripete» (die immer sich wierholende Zeit), il tempo che è proprio di questo mondo è solo un tempo tra i tanti, e che «il vero tempo non è quello che si ripete». Che poi die wahre Zeit sia pensabile come eine Folge der Zeiten, una successione di tempi (PhO, pp. 1062-1063), non è certo questione che possiamo affrontare qui. Saremmo, però, unilaterali, se, concludendo, omettessimo di dire che anche questo pensiero dell’irriducibilità della materia alla forma, del tí al poión, in breve dell’immediatezza alla mediazione, non è del tutto estraneo a Hegel, quantunque Hegel abbia lottato l’intera vita per contrastarlo e “negarlo”. Avvertiva la minaccia del Profondo che non si esplica nella superficie del mondo, ma resta eíso en báthei, chiuso nella sua profondità (Plotino, En, VI, 8,18); avvertiva la minaccia dell’Uno che nega il molteplice. L’avvertì tanto che la vide nella Vita

31. “Tilgen”, non “aufheben”: cf. PhäG, p. 558; it. II, p. 298.

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stessa, nell’esperienza vivente dell’autocoscienza spirituale. E scrisse la pagina più tesa ed intensa dell’intera Fenomenologia, la pagina in cui ‘commentando’ l’Edipo sofocleo, osservava che l’Altro della coscienza, la potenza che ha in orrore la luce (die lichtscheue Macht), la potenza che la coscienza viola e si rende nemica, non è che la coscienza stessa, il suo inconscio (cf. PhäG, pp. 335-336; it., II, p. 28). Possiamo ora comprendere in tutta la sua profondità il brano del giovane Hölderlin citato all’inizio. Nella sua concisione esso afferma il limite insormontabile del pensiero, l’Essere, che nella sua compatta, indivisa identità è “altro” dal Giudizio. Resta da chiedersi se il termine “essere” sia adeguato a nominare la suprema, indivisa e indivisibile Identità, e, quindi, se il giudizio, per poter riconoscere ed esprimere l’“alterità” di questa Identità altra anche rispetto a se medesima, non debba rinunziare all’“ésti, all’“è”, che – Aristotele docet – impone anche al “non-essere” la legge dell’essere: “per cui diciamo anche del non-essente che è non-essente” (diò kaì tò mè òn eînai tò mè ón phamen: Met, IV, 1003b 10).

II Identità […] l’identità è la riflessione in se stessa, che è questo solo come un respingere interno, e questo respingere è solo come riflessione in sé, un respingere che immediatamente si riprende in sé. Essa è pertanto identità come differenza identica a sé. La differenza è però identica con sé, solo in quanto è non l’identità, ma un’assoluta non-identità. La nonidentità però è assoluta, in quanto non contiene nulla del suo altro, ma solo se stessa, vale a dire in quanto è assoluta identità con sé. L’identità è dunque in lei stessa assoluta non-identità. (Hegel, WL, II, pp. 40-41; it., II, p. 459)

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I In-finito. Intelletto/ragione – concreto/astratto

Dio, in quanto Dio vivente e ancor più in quanto spirito assoluto, lo si conosce solo nel suo operare. Presto l’uomo venne educato a conoscerlo nelle sue opere; soltanto da queste possono risultare quelle determinazioni che si chiamano le sue proprietà, e come in esse è contenuto il suo essere. (WL, II, p. 404; it., II, p. 803).

Questo brano, che si legge nell’Introduzione alla sezione sull’Oggettività della Dottrina del concetto, riassume (wiederholt) l’intero percorso della Scienza della logica dai primi paragrafi sull’essere, il non essere e il divenire sino al sillogismo disgiuntivo. Riassume in particolare il movimento dell’essenza: l’andare a fondo del fondamento nell’emergere della cosa, l’apparire dell’essenza, e cioè il suo passaggio all’esistenza, ed infine il processo dell’assoluto, ovvero l’es-porsi della sostanza. La stessa terminologia – il nome di Dio, in particolare – rinvia a Spinoza e Leibniz, i due filosofi che dominano la scena disegnata nell’ultima sezione della Dottrina dell’essenza. Né deve meravigliare che questa ripetizione (Wiederholung) della Wesenslehre avvenga all’inizio della seconda sezione della Dottrina del concetto, se si considera che con il sillogismo disgiuntivo, che chiude la sezione della Soggettività, Hegel ci ha portato solo alla soglia dell’“idea assoluta” o “spirito”, ovve-

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ro dell’unità mediata, epperò assoluta, del soggettivo e dell’oggettivo. Alla soglia: perché sino al sillogismo disgiuntivo non si ha che un unico movimento: dall’assoluto, o, se si vuole, dall’universale, alle sue determinazioni (al singolare); l’altro movimento, dal singolo all’universale, che piega in circolo l’intero processo, il movimento teleologico, cui alludono le espressioni “Dio vivente” e “spirito assoluto” – forse non pienamente appropriate a questo livello analitico1 –, è stato solo mostrato nella quarta forma del giudizio, il giudizio del concetto, e non dimostrato, data l’inadeguatezza della “forma-giudizio” ad esprimere il vero filosofico o speculativo2. Ma quello che ora preme mettere in luce è che nell’affermazione, che Dio (l’essenza) viene conosciuto solo nelle sue opere (esistenza, fenomeno, realtà), è espresso il medesimo che vien detto sin dall’inizio della Logica, e cioè che l’essere non passa nel nulla, né il nulla nell’essere, bensì che l’essere è passato (übergangen ist) nel nulla e viceversa (WL, I, p. 83; it., I, p. 71)3. È passato – vale a dire: non c’è mai un momento, un istante, in cui il pensiero dell’essere non sia già pensiero del nulla, ed il pensiero del nulla già pensiero dell’essere. I due non sono isolabili. Sin nell’essere si pensa il nulla, perciò non v’è che una ed una sola categoria, il divenire. Che è terza solo perché muovendo dall’astrazione dell’essere in sé e del non-essere in sé si mostra in concreto il loro passare. E il medesimo ripete Hegel nel capitolo della Dottrina dell’essenza che inizia con la celeberrima proposizione: Das Wesen muß erscheinen, l’essenza deve apparire. 1. La dubitativa è d’obbligo, perché se è vero che “vita” e “spirito assoluto” sono determinazioni che nell’ordine categoriale della Logica vengono dopo la “teleologia”, tuttavia in ogni momento del processo logico è tutto il processo, quantunque nella prospettiva ch’è ad esso propria. Su ciò cf. infra, § 3. 2. In merito: retro, Sez. I, cap. I, e infra, Sez. II, cap. III. 3. In merito: infra, P. I, Sez. III, capp. I e II.

119 L’essenza è passata nell’esistenza, in quanto l’essenza come fondamento non si distingue più da sé come dal fondato, ossia in quanto quel fondamento si è tolto. (WL, II, p. 128; it., II, p. 541).

“È passata”: anche qui un tempo aoristico, come l’ên dell’aristotelico “tò tí ên eînai”. L’universale non è se non nei singoli – come appunto dimostra il sillogismo disgiuntivo. O, per dire il medesimo con un esempio dello stesso Hegel, noi non mangiamo mai frutta, ma pere, mele, susine…… Così dicendo, però, ci si potrebbe confermare nell’errato convincimento che ci siano mele, pere, susine……, e cioè “oggetti” (Gegenstände), fissi e stabili, di fronte a noi; laddove proprio questo convincimento, tipico dell’intelletto astraente (Verstand), Hegel intende confutare. Di fatto non ci sono “oggetti”, Gegenstände. Ma per intendere questa affermazione che a tutta prima suona paradossale, dobbiamo fare un passo innanzi, passando a trattare della teleologia. Ad essa Hegel dedica il capitolo più importante della sezione sull’Oggettività, nel quale dimostra essere la relazione finale la verità della causalità meccanica (e chimica). Hegel non dimostra qui che meccanismo e chimismo sono subordinati ad un fine – naturale o extranaturale che sia –; così ragionando, non si discosterebbe affatto da quella finalità esterna che egli aspramente critica in Kant. Hegel dimostra, per contro, che sin dall’inizio, e cioè nel loro fondo nascosto, meccanismo e chimismo sono nel loro essere in sé determinati finalisticamente. Il fine perciò è detto intrinseco, perché è l’unico vero “fattore” dell’intero processo, e non si avvale di mezzi meccanici a lui subordinati, dal momento che questi medesimi mezzi sono an sich “fini”, sono, cioè, il suo stesso operare4.

4. Cf. retro, Sez. I, cap. II, § 4.

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“La verità del meccanismo è la teleologia” non fa che ripetere la tesi generale esposta sin nell’Introduzione della Logica, secondo cui l’andare innanzi è invero un retrocedere nel fondamento, al vero, e poi ripresa ed ulteriormente specificata all’ingresso della Dottrina del concetto, ove si rileva che il «il suo [sc.: della sostanza] divenire ha, come dappertutto il divenire, il significato di essere la riflessione di quello che passa nel suo fondamento, e che quello che innanzitutto sembra un altro, nel quale il primo è passato, ne definisca la verità» (WL, II, p. 246; it., II, p. 652). Opera qui, palesemente, la distinzione aristotelica tra il próteron pròs hemâs ed il próteron tê phýsei; ma Hegel la riformula in termini dialettici, e questo significa: il “prima” ha la sua verità nel “poi”. È la caratteristica temporalità hegeliana che qui si impone, e che possiamo rappresentare in immagine mediante la figura di una scala retrattile. Con ciò si vuol significare non soltanto che il passato non resta alle spalle del presente, sì anche, ed è l’essenziale, che esso non ha un’esistenza a sé, indipendente dal presente, e cioè dal suo futuro. La verità è sempre oltre, di là. La verità è sempre futuro. L’idea stessa del circolo, per cui l’Ultimo si congiunge col Primo, non dice affatto che il processo torna al Primo, esso torna bensì “sul” Primo, rivelando ciò che esso davvero è. Come dire che il Primo è solo nell’Ultimo. Prima della sua rivelazione nell’Ultimo, esso propriamente non è; al più era parvenza, ma parvenza che si toglie. Nella verità della teleologia il meccanismo scompare, viene meno. Ora è tutto nel fine, è esso medesimo, nel suo vero essere, nella sua essenza dapprima latente, il fine. Ed è qui la differenza che separa Hegel da Schelling. In Schelling l’inizio resta altro e differente da ciò che da esso “si” inizia (riflessivo); è “passato”, ma non in quanto “momentum”, movimento che trascorre in altro; è passato eterno, non storico. Fondamento possibile del presente, e non origine. Possibile, perché è il presente, l’eterno presente, che si rela-

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ziona al passato, che può trovare nel già-stato il suo appoggio ed il suo punto di partenza per aprirsi al futuro, anch’esso eterno, al futuro d’ogni futuro. In Schelling il tempo resta disteso, non si contrae. E solo per questa distensione si dà il tempo storico, il tempo che sorge e tramonta, il tempo che passa5. L’opposto esatto di Hegel, che nello svolgimento del suo pensiero si è sempre più allontanato da Schelling. Leo Lugarini ha sottolineato la differenza tra la prima edizione e la seconda della Dottrina dell’essere della Scienza della logica. Nel testo del 1812 l’inizio era rappresentato dall’essere puro, in quello del 1832 è invece il “concetto come essere” (OH, p. 125). Vale a dire: nel 1832 la distinzione tra logica oggettiva e logica soggettiva si riduce alla distinzione tra “il concetto che è”, “il concetto della realtà o dell’essere”, ed il concetto in quanto tale, in quanto concetto, il concetto del concetto. L’intero processo si svolge quindi nel libero territorio del concetto: l’oggettività, la sostanza, è solo il grado inconscio del soggetto, da cui il soggetto eternamente si libera. Si libera, o si è liberato? È il passato l’ombra che il presente proietta dietro di sé, prodotto quindi dello stesso presente, o è un peso, un vincolo che trattiene il soggetto, che ne ostacola il libero movimento? 2. La “revisione” della Dottrina dell’essere sembra non lasciare spazio alcuno al dubbio: è la prima ipotesi quella che Hegel segue con sempre maggiore coerenza. Ed è alla luce di questa che vanno lette anche le pagine che paiono muoversi in senso opposto. Come quella che si legge verso la fine del paragrafo sul “sorgere della cosa nell’esistenza”. Qui vien detto: Quando tutte le condizioni di una cosa sono presenti, allora essa entra nell’esistenza. La cosa è, prima che esista; e cioè è in primo luogo come essenza, o come incondizionato; secon5. Cf. Schelling, WA, pp. 2652-2653 (it., pp. 547-553), e passim.

122 dariamente ha un esserci, ossia è determinata (WL, II, p. 122; it., II, p. 534).

A ben riflettere il passo conferma proprio quanto si è detto sin qui sulla contrazione del passato nel presente e di questo nel futuro. L’essere la cosa in primo luogo come essenza e secondariamente come esistenza, dice che l’“è” della cosa – la sua “essenza” – non è che l’insieme delle sue condizioni, e cioè di altre esistenze determinate, che però hanno significato e valore solo in relazione a ciò per cui sono disposte o destinate. L’essenza è sempre già nell’esistenza. E questa, l’esistenza, è determinata – “è” – per (in vista di, e quindi in virtù di) ciò cui è destinata. È la destinazione che le rende le condizioni qual sono, non un loro presunto essere-in-sé. In termini aristotelici: próteron enérgeia dynámeos. In termini temporali (peraltro impliciti nella definizione aristotelica): il presente – e con esso il passato – è per il futuro, in vista di questo. Ma non è che ci sono dapprima le cose e poi queste come condizioni d’altro – di altre cose. Le cose esistenti sono simul risultato del passato e condizioni del futuro. Simul, háma, e cioè: non prima risultato e poi condizioni. Il presente non si coglie se non in questa simultaneità. Ricorriamo ancora una volta ad un esempio – di Hegel – al fine di mostrare quanta concretezza v’è nelle sue analisi, pur in quelle che parlano di Dio, dell’essenza e dell’esistenza in generale. L’esempio è tratto dal capitolo sulla teleologia, quello stesso da cui s’è cominciato. Scrive dunque Hegel, criticando lo scopo meramente soggettivo: […] il mezzo è qualcosa di superiore agli scopi finiti della finalità esterna; – l’aratro è più nobile di quanto immediatamente non siano i godimenti ch’esso procura e che costituiscono gli scopi. Lo strumento si conserva, mentre i godimenti immediati passano e vengono dimenticati. (WL, II, p. 453; it., II, pp. 848-849).

Ancor qui dobbiamo saper leggere. Hegel non afferma il valore della stabilità della cosa-“oggetto” (Gegen-Stand) contro la

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fugacità o evanescenza degli scopi meramente soggettivi. La “stabilità” che rivendica è la stabilità di un processo: del processo nel quale soltanto è ed esiste la cosa. Che non è “oggetto”, bensì “mezzo”. Mezzo: qualcosa che serve a…, e il cui essere è tutto in questo servire a…, in questo esser destinata a… Mezzo: qualcosa il cui essere “per sé” si risolve tutto nell’essere “per altro”. Ora, ciò che si dice dell’aratro, vale per ogni cosa, quindi anche per i materiali di cui esso è composto e dell’opera umana necessaria a produrlo. Il mezzo ci permette di conoscere l’unità uomo-mondo, o, per dirla col linguaggio della Logica hegeliana, esso rappresenta il “medio” del sillogismo compiuto, del “sillogismo del concetto” o “teleologico”, nel quale gli estremi – il soggettivo e l’oggettivo: l’uomo e il mondo – fungono di volta in volta essi medesimi da “medio”: il fine (lo scopo che s’intende realizzare col “mezzo”), essendo ciò per cui la “cosa-strumento” (mezzo) è fatta, è il mezzo del mezzo (cf. in particolare WL, II, p. 458-461; it., II, pp. 852-856). L’oggettività dello strumento, del mezzo è quindi la stabilità di un processo, nel quale la cosa, ogni cosa, si risolve. L’identità hegeliana è quindi l’identità del non-identico, o, più semplicemente, la permanenza dell’in-finito, il costante svanire di ogni figura determinata, l’eterno passare in altro – passare come esser-passato, e cioè passare non da una determinatezza ad altra, e neppure dal determinato all’indeterminato, bensì sempre e solo dall’indeterminato all’indeterminato: questo dice la proposizione fondamentale, non solo della Logica, ma di tutto il pensiero hegeliano, che la verità del finito è l’infinito. E questo ribadisce l’affermazione che l’essenza non “ha” esistenza, ma «è passata nell’esistenza; questa è la sua assoluta estrinsecazione, al di là della quale l’essenza non è rimasta» (WL, II, p. 128; it., II, p. 541). E qui Hegel incontra Kant, il Kant critico di Leibniz, per il quale non v’è nulla della cosa che non sia esterno, la cosa, il

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“fenomeno”, l’Erscheinung, essendo solo quello che è nella e per la relazione che ha con tutte le altre cose, con tutti gli altri fenomeni (cf. KrV, A 284-286, B 340-342). La cosa è tutta (nel)le sue “proprietà”. E (nel)le sue funzioni – come dimostra l’esempio dell’aratro. Solo che in Kant resta un residuo oltre la cosa-fenomeno, quello che Hegel definì, con sprezzo, il caput mortuum del pensiero: il noumenon. Hegel invece risolve interamente il profondo nella superficie, Dio nelle opere, nel mondo. Il peso dell’essenza, la gravità del passato, nella leggerezza dell’esistenza, del presente. Così sembra, almeno6. 3. Ma perché l’esistenza in divenire sia realmente liberata dal peso dell’essenza e del passato, è necessario che il movimento dialettico non venga vincolato ad un sistema di categorie la cui successione è stabilita a priori. E invece la Scienza della logica sembra essere proprio l’attuazione perfetta di un sistema rigido costruito – o forse meglio: “dedotto” – sin nei minimi dettagli secondo “necessità”. Invero, se ci siamo soffermati tanto sull’esempio dell’“aratro”, è stato anche per contrastare l’unilateralità di questa interpretazione, purtroppo molto diffusa, del “sistema” hegeliano7. Che, beninteso, trova non pochi appigli nell’esposizione hegeliana del sistema; ma che va contrastata per la superficialità delle analisi cui mette capo, perché impedisce di cogliere il problema vero che inquieta il sistema di Hegel, e la sua aporia di fondo. Un problema che è di Hegel solo perché è del pensare, della logica. Torniamo dunque all’esempio dell’aratro. Esso dimostra che il processo dialettico – ossia: l’in-finito che è la verità del finito

6. Ma nella leggerezza stessa s’annida la pesantezza del “passato”, del “presupposto”: cf. infra, Sez. II, cap. III. 7. Cui soggiace, alla fin fine, anche un pensatore acuto come Luigi Scaravelli: cf. CdC, cap. III, pp. 109-115 e passim.

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in quanto ne è la negazione, il non-finito che de-forma d’ogni forma, s-figura ogni figura –, non lo si contempla da fuori, come un “oggetto”, perché così facendo lo si riduce, pur esso, a forma, a figura. Osservandolo dall’esterno si tra-duce l’infinito in totalità, lo si nega. Per cogliere il movimento in quanto movimento, bisogna collocarsi all’interno di esso, seguendolo nel suo farsi. Pensare il movimento è… muoversi! E non si dice nulla di strano: conosce l’aratro chi l’adopera, e l’aratro “diviene” quello che è, uno strumento di lavoro, non in generale per il contadino, ma in particolare nell’operare effettivo di chi coltiva il campo. Allo stesso modo le condizioni che hanno portato ad esso, che hanno consentito di fabbricarlo, sono tali, condizioni, quando, e solo quando, sono state messe in atto. Quando l’aratro è stato costruito. Prima non erano “condizioni”, ma altre esistenze concrete e determinate che erano solo “potenze” rispetto alla effettiva realtà dell’aratro. Ora, se il processo dialettico va osservato e colto dall’interno, questo comporta che le categorie della Scienza della logica vanno studiate ed esaminate ciascuna nella sua specificità. Lo sguardo d’assieme resta estrinseco ed astratto fin quando non si riesce a trovare l’universale nel singolo – e nella forma della sua singolarità. Il sistema resta sistema e non si disarticola in un mero aggregato, perché in ogni categoria è il medesimo processo che si attua, ma secondo la specificità della categoria che volta a volta si esamina. Pertanto è ben possibile, trattando dell’uno e dei molti all’inizio della sezione dedicata alla quantità, impiegare termini quali “attrazione” e “repulsione”, che appartengono ad un momento molto più avanzato del “sistema”, ma solo perché li si adoperano nel significato che ad essi è proprio in relazione all’uno e ai molti8. Insomma: non si nega

8. Sul tema cf. V. Verra, “«Eins und Vieles» nel pensiero di Hegel”, in Id., LH, pp. 147-161.

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affatto, al contrario si ribadisce l’esigenza di una lettura contestualizzata delle molteplici categorie della Logica (e del sistema tutto di Hegel), ma la contestualizzazione va fatta all’interno d’ogni momento categoriale, e non muovendo dall’esterno, con un colpo d’occhio sull’insieme. Ogni momento categoriale riflette in sé l’intero sistema, come la “monade” l’intero universo – dalla sua prospettiva, naturalmente9. Tutto ciò è chiaramente esposto e ragionato da Hegel, e sin dall’inizio, mediante la distinzione tra Verstand e Vernunft, tra l’intelletto in senso proprio “finito” in quanto astrae e fissa, “finitizza”, definisce, de-limita, e la ragione che unisce il separato, in-determina il determinato, infinitizza il finito. È necessario al punto in cui siamo dire che la ragione non segue l’intelletto se non pròs hemâs, ma che katà phýsin viene “prima” – prima dell’intelletto? 4. La riforma della dialettica hegeliana di Giovanni Gentile è incentrata proprio su questo punto, sulla distinzione tra intelletto e ragione, o nei termini di Gentile tra “pensante” e “pensato”. L’autore della Riforma sostiene, però, che Hegel ha avuto un’“intuizione vaga del divenire”, senza possederne “il concetto”, che egli ha analizzato anziché realizzare. La “lettura” che Gentile fa delle prime categorie della Logica hegeliana è dettata più dalla volontà di distinguersi da Hegel che non di comprenderlo. Sostenere, infatti, che «la differenza [tra essere e niente] non entra nell’attualità del processo logico del divenire» in quanto appartiene all’“opinione” (Meinung) che è altra dall’«attualità del processo», essendo quella medesima “riflessione esterna” che proprio Hegel criti9. Con questa differenza, che in Hegel nessuna “categoria” è chiusa in sé, “finita”, “compiuta”, ma ognuna è aperta all’altro, in-finita, in-determinata.

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ca (RDH, p. 21), significa non aver inteso che la differenza tra essere e niente che Hegel rimette all’“opinione” è la differenza intellettualistica (verständige) di essere e niente presi come concepibili in sé e per sé, come due determinati che la ragione non può non negare. La vera differenza, la vernünftige Differenz, la differenza che la ragione pensa, fa tutt’uno con la medesimezza di essere e non-essere, quale si mostra sin nella prima categoria, nell’essere. Questo, infatti, pur quando ci si propone di coglierlo nella sua immediatezza – e cioè come «solo eguale a sé e non ineguale rispetto ad altro (nur sich selbst gleich und auch nicht ungleich gegen Anderes)» – si presenta come mediato, in quanto posto in relazione con altro. Perché non è dato pensare un eguaglianza a sé se non come ineguaglianza rispetto ad altro, o più semplicemente: non si dà un “sé” (Selbst) che non sia insieme relazione ad “altro”. Ma per apprendere questo non bisogna attendere la Logica di Hegel, lo avevano già detto ed argomentato Platone e Aristotele. Né è pensabile che Hegel, quando scriveva dell’essere, del non-essere e del divenire, non si ricordasse della koinonía tôn genôn del Sofista. Aggiungiamo subito, ad evitare che altri equivoci si addensino sulle prime categorie della Logica hegeliana, che altro è la relazione nella quale i relazionati sono l’uno fuori dell’altro, altro la relazione per la quale ogni termine (rectius: “momento”) ha in sé l’altro; ma una volta operata questa distinzione bisogna pur riconoscere che la prima relazione non è senza la seconda. Prendiamo, per esemplificare, due termini della platonica comunanza dei generi, l’identico e il diverso: è ben evidente che l’identico in tanto si coglie come tale, come identico, in quanto è diverso dal diverso, e pertanto ha la diversità non solo “fuor” di sé, ma anche “in” sé, e come sé. Le due relazioni vengono trattate nella loro distinzione nella Dottrina dell’essere, la prima, nella Dottrina dell’essenza, la seconda. L’unità delle due è tema, invece, nella Dottrina del concetto. Ora, nelle prime ­categorie,

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essere-nulla-­divenire, proprio perché esse sono solo l’inizio della Logica, i diversi aspetti della relazione identico-diverso, tautón-tháteron, sono come contratti in uno, sono cioè ancora “an sich”, impliciti, indistinti – di qui la difficoltà di comprendere il dettato hegeliano, e quindi i vari fraintendimenti e le ingiuste critiche, tra cui quelli e quelle di Gentile. Ma, una volta rilevate le incomprensioni e le critiche ingiuste, non si può mancare di notare che Gentile poneva un problema estremamente serio riguardo alla dialettica hegeliana. E cioè: come e perché la duplice considerazione del divenire, interna ed esterna, razionale ed intellettualistica? Il filosofo non può certo limitarsi a esibire la duplice possibile considerazione, ed a rifiutare come manchevole quella dell’intelletto – è necessario che ne dia ragione, o, per dirla con Hegel, che tale duplicità venga dedotta. E dedotta in modo da spiegare anche perché l’intelletto “risorga” eternamente “dopo” la ragione, dopo che la ragione l’ha “negato” – anche se risorge ad altro ed ulteriore livello. È questo il problema che espressamente Gentile affronta nel Sistema di logica come teoria del conoscere. E desta meraviglia che proprio chi aveva posto a Gentile la questione della deduzione dell’intelletto – ovvero, nei termini della filosofia dell’atto, della deduzione del pensato –, e cioè Benedetto Croce, non se ne avvide affatto. 5. Ma facciamo un passo indietro, al 1913, alla discussione tra i due filosofi avvenuta sulle pagine della “Voce”10: una polemica

10. La Rivista fondata da Giuseppe Prezzolini, e da lui diretta sino al 28 marzo 1912. Cito dall’antologia a c. di A. Romanò, «La Voce» (1908-1914), in: La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. III, Einaudi, Torino 1960. Per il primo intervento di Croce cf. pp. 595-605; per la replica di di Gentile: pp. 608-625; la contro-replica di Croce: pp. 630-638; nelle citazioni indicherò la pagina direttamente nel testo.

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non priva di asprezze, anche se coperta da reciproche professioni di amicizia e stima, che, invero, dice molto sul carattere dei due filosofi, ma sulla loro filosofia nulla di nuovo rispetto a quanto già avevano esposto nei loro scritti. Croce apriva il dibattito presentandosi, pur senza dirlo apertamente, come il vero iniziatore del nuovo idealismo italiano, il cui programma vedeva con delusione e preoccupazione in gran parte tradito proprio dall’indirizzo di pensiero del suo primo collaboratore, che, per troppo amore dell’unità, aveva negato il valore primario e fondamentale del distinguere in filosofia. Gli esiti di questo idealismo “attuale” erano il misticismo ed il relativismo, pericolosi non solo sul piano conoscitivo, perché rendevano incerto il lavoro della ricerca storica sottraendo ogni stabile fondamento alla diversità dei contenuti e dei metodi di indagine, altro essendo il giudizio su un’opera d’arte, altro quello su un pensiero filosofico, sull’attività economica, sull’agire morale, ma sovrattutto sul piano etico, dacché negare la distinzione significa eguagliare con l’errore alla verità il male al bene. Tuttavia, la distinzione, negata a parole, si affermava nei fatti: Gentile per spiegare il dialettismo dell’atto era ricorso all’opposizione dello spirito alla natura, dell’atto al fatto, del pensiero pensante al pensiero pensato. Aveva cioè dovuto distinguere. Ma – obiettava Croce – come sorge questa opposizione dalla proclamata unità dell’atto spirituale? Se non è il tempo che la spiega (come la terminologia impiegata lascerebbe pensare), perché per l’attualismo «la forma del tempo non è il quadro in cui si muove lo spirito, ma lo spirito è il suo quadro» (p. 596) – che cosa, allora? Coerenza vorrebbe, che non ci si richiamasse, come invece fanno Gentile e i suoi allievi e seguaci, ad un non precisato “senso logico” dell’opposizione atto-fatto, pensante-pensato – perché in tal modo essi riconoscono proprio quello che all’inizio respingono, e cioè non soltanto la logica necessità di distinguere in filosofia, ma sovrattutto il valore fondamentale e primario della distinzione,

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«laddove l’unità mi è parsa quasi come un sottinteso, un qualcosa che va da sé» (p. 598). A Gentile la figura del “secondo”, dell’intelligente “collaboratore” non andava a genio. Piccato, replicò rivendicando la sua primogenitura: sulla via dell’idealismo Croce s’era incamminato dopo di lui, e non senza il suo aiuto. Ricordava, in particolare, i residui “naturalistici” – kantiani – della prima Estetica crociana, da cui l’“amico filosofo” s’era liberato solo quando aveva riconosciuto il carattere lirico dell’arte, che lui, Gentile, aveva proclamato e difeso anni prima11. Riguardo poi all’errore e al male ebbe facile giuoco nel mostrare che proprio la riduzione crociana di entrambi all’utile rappresentava la più chiara smentita della loro “negatività” (pp. 622 ss.). Quindi, mirando al cuore della filosofia crociana, mostrava che proprio Croce non distingueva ciò che massimamente andava distinto, e cioè la conoscenza come termine correlato alla volontà, distinto tra distinti, dalla conoscenza che è tutt’uno con la relazione stessa dei distinti, con la conoscenza che è tutta la filosofia: quella era la conoscenza “conosciuta”, questa la conoscenza “conoscente”, l’unica che a lui interessava, perché l’unica che si poteva a giusto titolo definire “conoscenza”. Come si vede i due “filosofi amici” difendevano ciascuno la propria posizione, senza andar oltre. Nessuno dei due si apriva alle “ragioni” dell’altro, alle “questioni” poste dall’amico filosofo. Croce non si fermava neppure un attimo a considerare il problema della possibilità di definire i limiti del conoscere senza varcarli12; Gentile non prendeva affatto sul serio la domanda sulla “deduzione” del “pensato” dal “pensante”, del “passato” dal “presente”, dell’“oggetto” dal “soggetto”, dell’“astratto” dal 11. Gentile si riferisce (p. 620) alla conferenza di Croce tenuta al Convegno di Filosofia di Heidelberg nel 1908, su “L’intuizione pura e il carattere lirico dell’arte” (in PE pp. 1-30). In merito cf. retro, Sez. I, cap. I, § 4. 12. Cf. retro, Sez. I, cap. I nota 10.

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“concreto”, che è il vero problema dell’attualismo. Replicare, infatti, che «il conoscere come attuale conoscere è conosciuto, non […] come conosciuto, ma come conoscere», significa negare la necessità stessa del “pensato”, dell’astratto. Se il conoscere può ben conoscersi senza abbassarsi da soggetto ad oggetto (a “conosciuto”), se addirittura «questa intimità del conoscere a se stesso è l’attualità dell’Io» (p. 615), perché allora l’oggetto, il “conosciuto”? Non si può dire che senza il “pensato” il pensante non avrebbe che cosa pensare: ha da pensare se medesimo! E se medesimo non come “pensato”, ma come “pensante”! V’è un’ambiguità di fondo in Gentile. Talora l’“oggetto” (il “pensato”, l’“astratto”) viene presentato come l’opposto del “soggetto” (del “pensiero pensante”, del “concreto”), come la “natura” che lo spirito eternamente dissolve e nega, talaltra come ciò in cui il soggetto si realizza, la sua attuazione o “oggettivazione”. Negativo il primo, positivo il secondo. Né manca il tentativo di tenere assieme i due concetti di “oggetto”: l’oggettivarsi stesso del soggetto è definito come l’ostacolo che il soggetto ha da superare per il suo successivo attuarsi13. Così però si sottomette il pensiero, lo spirito, il soggetto al tempo, al “prima” e “poi”. E non vale dire – questo Croce l’aveva lucidamente rilevato e criticato – che il “prima” e il “poi”, che il “passato” cui s’oppone l’atto presente dello spirito è “passato” non in senso temporale ma logico. Perché qui manca proprio la possibilità di intendere il senso “logico” – e non temporale – di questo “passato”, di questo “oggetto” che da oggettivazione del soggetto si muta in ostacolo all’attività del soggetto. Questa ambiguità è presente in particolare nella Teoria generale dello spirito come atto puro (cf. spec. pp. 239

13. Sembra che Gentile non abbia mai letto la critica di Hegel a Fichte! Sul tema cf. retro, Sez. I, cap. II.

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e 242), e forse Gentile, nell’accennare alla sua insoddisfazione per questa sua opera, definita nella prefazione alla II edizione «semplice introduzione a quel pieno concetto dell’atto spirituale, in cui consiste, a mio modo di vedere, il nucleo vivo della filosofia» (p. VI), ha in mente proprio questo insoluto problema della “deduzione” dell’astratto. Ne è indizio il fatto che Gentile, nel dichiararsi «non del tutto soddisfatto» della sua opera, rinviava il lettore al Sistema di logica come teoria del conoscere, il cui primo volume, contenente nella II parte la logica dell’astratto, aveva pubblicato proprio nel medesimo anno della II edizione della Teoria. 6. Il problema teorico, intorno a cui ruota il Sistema di logica, è appunto l’unità-distinzione della logica del concreto con la logica dell’astratto. Gentile è pienamente consapevole che il nodo nel quale si raccolgono tutte le questioni del pensiero è rappresentato dall’esigenza di conciliare la logica dei moderni con quella degli antichi, le ragioni della dialettica e della contraddizione con le ragioni dell’identità. Nel recensire l’opera Croce non pare accorgersi della novità, dello sforzo di Gentile di rispondere al problema che lui stesso nel ’13 gli aveva posto, quello della deduzione dell’astratto. Ora, molto più che negli anni addietro, la polemica fa premio sul ragionare. Non importa – scrive – se la logica del concreto sia superiore a quella dell’astratto, che la crei e la subordini a sé; quel che importa è che Gentile non esce dal dualismo, se non svalutando alla fine una delle due logiche da lui poste, quella dell’astratto. In questa polemica non manca l’asprezza, e neppure l’irrisione14. Manca, purtroppo, la comprensio-

14. La recensione è raccolta in B. Croce, Cc/IV, pp. 297-304. Senza darne ragione, Croce riconduce la distinzione tra la logica del concreto e la logica dell’astratto alla «divisione di pensiero divino e di pensiero umano», per poi

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ne del problema15. Invero la difficoltà che Gentile affronta è notevole. Resa ancora maggiore dall’inadeguatezza della sua interpretazione hegeliana. Avesse inteso il senso profondo della dialettica di Hegel, ed il rapporto intelletto-ragione, e la critica a Fichte e la funzione della Fenomenologia dello spirito, non si sarebbe tanto affaticato a dimostrare l’oggetto come oggettivazione del soggetto; altro ed ulteriore era il problema: la deduzione dell’astratto comportava l’individuazione di una sua autonoma funzione altra rispetto a quella del concreto, ma non meno imprescindibile. L’astratto non poteva essere “tolto”, “superato”, e in questo superamento conservato; non poteva, cioè, esser “tolto” come astratto e “conservato” come concreto – andava bensì mantenuto nella sua specifica funzione positiva all’interno dell’oggettivazione del soggetto. Ora Gentile riuscirà a di-mostrare l’esigenza dell’astratto per il concreto stesso, ma non a mantenere l’astratto distinto dal concreto. Non, dunque, la divisione dell’unica logica in due minacciava il Sistema gentiliano – come pretendeva Croce – ma esattamente il contrario. Ma torniamo al problema dal quale siamo partiti, perché è per risolvere questo problema che ci siamo vòlti allo studio del pensiero di Gentile.

citare «le parole del buon vecchio hegeliano professor Maturi: “Volete, caro amico, ragionare con la logica divina o con la logica umana? Se con questa, non c’intendiamo; se con l’altra, ragioniamo; o meglio, non è più il caso di ragionare: abbracciamoci!” Io ammetto solo la logica con la quale si concepisce e si ragiona, e non l’altra alla quale basta l’abbraccio» (p. 298). 15. Croce aveva semplicemente messo insieme – come noci su un tavolo, per ripetere una sua battuta polemica contro il programma politico di “Giustizia e libertà” ed il suo principale ispiratore, Guido Calogero (cf. B. Croce, DVF, I, p. 261) – dialettismo e identità, opposti e distinti. Dalla deduzione dei concetti, che esigeva dagli altri, lui si sentiva esentato.

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7. Riformuliamolo, dunque, il nostro problema: una volta dimostrato che non si dà il finito se non nella sua in-finitizzazione, che non si dà quiete se non nel movimento, perché ancora la quiete, il finito, il limite? Non si può rispondere che senza la quiete non c’è il movimento, che è tale, movimento, in quanto nega la quiete; ovvero che l’in-finito, il non-finito, non è che la perenne negazione del finito e del limite. Non si può rispondere così, perché la quiete di cui qui si dice, non è la quiete negata, la quiete che è “nel” movimento, bensì quella che comprende essa il movimento in sé. E lo stesso dicasi riguardo al finito. Esso sembra uscire vincitore nella lotta con l’in-finito, in quanto ha forza tale da de-finire ciò che lo nega. L’identità del finito, la quiete del limite, subordinano a sé anche l’in-finito, il movimento. Che per realizzarsi ha bisogno comunque di un “ordine”, foss’anche soltanto l’ordine minimale del “prima” e del “dopo”. Senza futuro non c’è cambiamento. Per quanto si voglia vivere dall’interno la vicenda del mutamento, è necessario avere una prospettiva sul “dopo”. E solo questa prospettiva sul “dopo” permette di vivere il cambiamento nel suo farsi, dall’interno e non dall’esterno. Il che dimostra che senza la stabilità di un ordine, dell’ordine del cambiamento, non c’è cambiamento. Se tutto cambia, il cambiamento permane. E, posto pure che esso venga meno, può venir meno solo cambiando. Domani potrà non esserci più domani; ma questo domani del “senza più domani” è necessario perché non ci sia più cambiamento. L’ordine, la quiete, la totalità a sé identica del sistema si impongono al movimento. Per dirla con Hegel, lo Hegel della Scienza della logica, per quanto il circolo dei circoli dell’assoluto sapere è sempre in un circolo singolo e singolare, da esso mai non si esce. L’identità è invincibile e inaggirabile; e se essa è l’astratto concetto, puramente universale, che subordina a sé ogni concreto atto di conoscenza di singoli, singolari e mutevoli eventi, allora invincibile e inaggirabile è l’astratto.

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Gentile muove dal riconoscimento della “necessità” dell’astratto, della sua ineludibilità. Ma non intende subordinare il dialettismo del pensiero alla legge dell’identità, al potere dell’astratto16. Anzi intende fare l’opposto. Riconoscere sì i diritti dell’astratto, ma senza rinunziare al “primato” del concreto. Bisognava riportare l’identità e la sua legge sotto il potere del concreto. Di qui la sua insoddisfazione per l’esito della Teoria generale dello spirito, alla cui impostazione di fondo egli però si sentiva ancora legato. Nella Teoria il primato del soggetto gli aveva impedito di cogliere l’autonoma funzione positiva dell’oggetto, e tuttavia quel primato non andava abbandonato. Il Sistema di logica rispondeva ad entrambe le esigenze: il logo concreto non nega il logo astratto, nega il concetto astratto del logo astratto (= l’astratto separato dal concreto, l’astratto in sé nullo) come nega il concetto astratto del concreto (= il concreto separato dall’astratto, il concreto in sé nullo). Il concetto concreto del logo concreto nega due nullità – non l’astratto. Che pure resta l’opposto del concreto. L’opposto permanente e necessario. Ma necessario non perché senza di esso il soggetto (il logo concreto) non avrebbe che cosa pensare. Il pensiero pensa se stesso – e non come oggetto (come logo astratto), bensì come soggetto. Cogito dice: cogito me cogitare cogitata. Ma, allora, di nuovo: se il cogito pensa se stesso come soggetto e non come oggetto, perché l’oggetto? Perché l’oggetto opposto al soggetto, l’oggetto che è quiete e identità e non movimento, e non contraddizione? A questa domanda Gentile non può rispondere con il semplice rinvio al “fatto” già rilevato che senza il permanente non si dà mutamento. Egli deve dare ragione di questo fatto. E se questo fatto è già ragione, come è ragione: è il fatto della ragione che

16. Come aveva fatto Croce, che aveva piegato l’opposizione e la dialettica all’identità: qui la radice del dissenso di Gentile, della sua critica al sistema dei distinti.

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non sa spiegare il movimento senza ricondurlo ad un ordine fisso e stabile – allora Gentile deve dare ragione del fatto della ragione. Lo esige la sua stessa impostazione filosofica, il rifiuto di ogni e qualsiasi presupposto. La ragione non può presupporre neppure sé a se medesima: per essere davvero autoctisi, principio di se stessa, deve dare ragione dello stesso dare ragione! Solo così toglie ogni “fatto”, ogni presupposto, solo così dimostra di essere all’origine di se medesima. 8. L’argomento di Gentile per dimostrare la necessità dell’“oggetto” – dell’oggetto che vive della vita stessa del soggetto ma che non s’identifica con esso –, non appare subito, anzi resta a lungo nascosto nelle pieghe di riflessioni e considerazioni storico-critiche sulla differenza tra la logica degli antichi e quella dei moderni. Vero è che questa necessità appare non all’esame del pensiero come tale, ma di un suo carattere immanente ed essenziale: la libertà – la quale appartiene certamente al pensiero, ma appunto non come suo termine, ma come carattere. Ora il concetto di libertà comprende in sé come suo opposto positivo quello di legame, di obbligo. Senza questo non vi sarebbe libertà, ma soltanto arbitrio. Libertà è riconoscimento e rispetto della legge. È questa, la legge, ciò che sostiene la libertà, il vincolo che la fa essere. Che la determina. Se il pensiero non ha bisogno di un oggetto ad esso opposto per pensare, potendo essere oggetto a se stesso – cogito me cogitare –, la libertà invece non è concepibile senza relazione all’opposto. Che poi la libertà faccia sua la legge, renda il suo fare identico al comando, ciò non toglie la differenza, anzi la convalida. È il rispetto della legge che rende l’agire da semplicemente non necessitato libero. Gentile, coerentemente con l’impostazione data al rapporto concreto-astratto, riporta la legge sotto il dominio della libertà, fa della libertà il soggetto attivo della legge. Il soggetto è libero

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non in quanto rispetta la legge facendola sua, ma in quanto pone egli la legge. Il richiamo a Kant e all’autonomia del volere morale viene spontaneo. Ma in Kant la legge si identifica con il volere morale nel senso che essa, la legge, lo costituisce, ne è la base e il fondamento, l’essenza. La legge è per Kant lo stesso volere razionale puro. Gentile inverte i termini: non la legge è il volere, ma il volere la legge. L’inversione muta alla radice il valore dei termini del rapporto. La legge, base e fondamento del volere, definisce l’essere del volere come affatto indipendente dal volere; il volere non può essere diversamente da quello che per essenza è17. Per converso, la legge posta dal volere rende il volere dipendente unicamente da sé. L’autoctisi libera il volere da qualsiasi base e condizione. La necessità della legge, incondizionata condizione in Kant, è condizione condizionata in Gentile, per il quale la libertà è il Prius. E se questa, la libertà, ha bisogno della legge per realizzarsi, tuttavia è essa che decide quale legge seguire. Nessuna volontà definita una volta per tutte; nessuna prestabilita identità. La permanenza del cambiamento è quella che volta a volta l’atto riesce a costituirsi. Non l’atto, quindi, dipende dal sistema, ma il sistema dall’atto. E come il sistema, così l’ordine del tempo. Domani è solo quello che l’atto si prefigura. Domani, il futuro, come il passato. Il presente della coscienza, come aveva detto già nella Teoria generale dello spirito, ha raggio infinito. Ora, nella Logica come teoria del conoscere, quell’affermazione acquista tutta la sua verità. Nella Logica Gentile ha davvero appreso a distinguere: mantiene l’oggetto come oggettivazione del soggetto e come opposto distinto dal soggetto. Mantiene l’identità e la non-contraddizione, ma dentro il dialettismo dell’atto, come suo momento necessario,

17. Sul tema, qui appena sfiorato, mi sia consentito rinviare a quanto ho scritto in CM.

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ma solo come momento. A giusta ragione Gentile, nel licenziare il II volume del Sistema di logica, poteva dichiararsi soddisfatto del suo “tentativo”, «il quale – scriveva – potrà anche essere tutto sbagliato, ma segna (ho questa presunzione) un punto pel quale bisognerà passare» (p. VII). 9. L’originalità del tentativo è fuori discussione; muovendo dalla distinzione intelletto/ragione di Hegel, Gentile approdava ad una soluzione ben lontana da Hegel. Soluzione che non può definirsi semplicemente kantiana. Trascendentale, sì, ma di quel trascendentalismo che ha in Europa il suo maggior esponente in Husserl. Si potrebbe dire che Gentile aveva tentato nove anni prima l’operazione teorica che Husserl realizzerà con Logica formale e trascendentale18. Riconosciuto il merito, bisogna poi analizzare l’esito dell’operazione. Cominciamo dalla logica dell’astratto e dal giudizio. L’identità – osserva Gentile – non può essere quella di Parmenide, l’identità dell’uno che non conosce differenza. Questa identità non è pensiero e vita, ma morte. “A”, il semplice, e solo “A”, neppure è identico a sé, finché non si sdoppia in “A = A”, nel giudizio che l’afferma. E per quanto il secondo “A” sia pari al primo, non è esso il primo. Se fosse il primo “A”, non ci sarebbe sdoppiamento. Pensare è quindi giudicare, e più ampia-

18. L’accostamento del SL di Gentile a FTL di Husserl rischia di celare la radicale differenza tra le due opere, che riguarda ben prima che la diversità dell’orizzonte problematico – inconfrontabilmente più ampio e complesso quello di Husserl – l’intenzione filosofica che motiva le due opere: Gentile tentava di chiudere in un “Sistema” le due logiche – del concreto e dell’astratto –, laddove Husserl intendeva costruire una storia logica della Logica come propedeutica necessaria alla “genealogia della Logica” che aveva in mente da anni e “per lumi sparsi” realizzato in saggi, note e appunti, poi ordinati, non senza la sua supervisione, da Ludwig Landgrebe, e pubblicati in EU, dal significativo ‘sottotitolo’: Ricerche sulla genealogia della Logica.

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mente sillogizzare. L’identità di “A = A” prende senso e valore in quanto s’oppone ad “A = non-A”, in quanto cioè s’afferma come negazione della contraddizione: “A = A” dice: “A non= non-A”; e dice ancora che tra i due giudizi tertium non datur. L’ultimo momento della logica dell’astratto, quello dell’esclusione del terzo, non è invero l’ultimo, ma il primo. Vale a dire: sin dal principio “A” è eguale ad “A” perché non eguale a “non-A”, e perché non è pensabile un terzo tra l’identità di “A” con sé e la sua non identità col contrario che lo contraddice. Non contraddizione e terzo escluso sono la dimostrazione dell’identità, la quale non è “prima” della sua dimostrazione. La logica dell’astratto non è meno circolare della logica del concreto. La logica dell’astratto non è meno dialettica della logica del concreto. Ma se anche l’immoto si muove, se anche l’identità differisce – come può più l’astratto svolgere la sua funzione di «colonna adamantina del vero» (SL, II, p. 26)? La dimostrazione di Gentile dimostra troppo. Si badi: non stiamo dicendo che l’astratto è coinvolto nel movimento del concreto, questo è quanto Gentile s’è proposto di dimostrare. Stiamo dicendo tutt’altro, e cioè che l’astratto stesso, in sé e per sé considerato, non è affatto quella stabilità, quell’identità richiesta per spiegare lo stesso movimento dialettico del concreto; l’astratto ha lo stesso movimento del concreto, lo stesso dialettismo. Insomma Gentile non riesce a mantenersi fedele alla distinzione da lui stesso posta come condizione della nuova logica. E tutti i tentativi da lui fatti, per mantenere la distinzione tra la logica del concreto e la logica dell’astratto, naufragano. Infatti, quando osserva che “Io = Io” non è riducibile ad “A = A”, perché l’“Io”, ponendo se stesso, è piuttosto “= non-Io”, è facile replicare che lo stesso si può ripetere, pari pari, per “A = A”. Come s’è detto, l’eguaglianza dei due “A” non toglie la loro differenza; se la togliesse non ci sarebbe più giudizio. Pertanto “A = A” è propriamente “A = non-A”. E solo questa

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eguaglianza di “A” con “non-A”, consente di opporre “A = A” ad “A = non-A”. Questo secondo giudizio è negato perché pone la contraddizione fuori di “A” e non la riconosce in “A” stesso. Come dire l’Identico è tale, identico a sé, in quanto differente dal diverso; ma se si scioglie il legame intrinseco all’Identico tra identità e differenza, abbiamo un diverso altro dall’identico, un “non-A” che non essendo A” non può essergli attribuito, predicato19. Ma Gentile dice ancora: se “A = A” dice il medesimo di “A = non-A” (nel senso che s’è precisato), “Io = Io” non va soltanto sviluppato in “Io = non-Io”, sì anche in “non-Io = Io”, volendo con ciò significare che laddove il pensato è posto dal pensante, il pensante pone se medesimo. Insomma altro il cogito, altro il cogitatum. Questo argomento regge ancor meno del precedente. Infatti, in che consiste l’atto del pensare, in che l’Io penso? Nel pensiero, nel pensiero determinato, nel pensare questo o quello. Quando penso il teorema di Pitagora sono, in quanto pensiero, il teorema di Pitagora. Sono, in senso forte (o eminente, come si diceva un tempo), e cioè: il mio pensare non si distingue dal processo argomentativo che è la dimostrazione del teorema di Pitagora, che è nulla al di fuori della sua dimostrazione. E se il cogito ex sese oritur, allora il teorema di Pitagora, ogni qualvolta viene pensato, ex sese oritur. Insomma: o si riesce a dimostrare la differenza tra pensante e pensato, logo concreto e logo astratto, o è bene rinunziare a parlare della loro distinzione ed unità, della loro relazione, ecc. E non si dica che l’Io che pensa il teorema di Pitagora, il pensiero del teorema di Pitagora, è l’Io che, pensando, gioisce

19. In merito cf. quanto detto al § 4 sulla differenza tra la Dottrina dell’essere, quella dell’essenza e l’altra del concetto nella hegeliana Wissenschaft der Logik.

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e patisce, sente e brama, vive e muore, e può morire, mentre tutto questo non è pensabile del teorema di Pitagora, rectius: del pensiero del teorema di Pitagora. Non si dica – non perché sia errato dirlo, ma perché pone la questione dell’Io su un altro terreno, quello del sentire, del “sentimento”. Che Gentile affronterà tematicamente dieci anni dopo, nella Filosofia dell’arte; ma il problema emerge sin nella Logica. 10. Nel secondo volume del Sistema di logica come teoria del conoscere, nel capitolo sul “dialettismo”, proprio trattando della differenza tra l’“Io = Io” ed “A = A” Gentile precisa in nota: Per maggior chiarezza si può avvertire che l’Io può prendersi in due significati: o come l’unità degli opposti Io e non-Io; e allora il non-Io è contenuto nell’Io come suo momento; o come uno degli opposti in cui l’Io si dualizza, cioè come l’antitesi del non-Io, quel termine originario da cui il pensiero si aliena per pensare. (SL, II, pp. 65-66).

Pur all’interno dell’Io-sintesi, della relazione logo concretologo astratto, l’Io-antitesi-del-non-Io (il soggetto opposto all’oggetto) mantiene, come s’è detto, un ruolo preminente, dominante. È lui che pone il non-Io. Ma basta questo per definirlo “termine originario”? Non dovrebbe essere l’Io-relazione, l’Io-unità degli opposti, l’“originario”? Se è l’Io-antitesidel-non-Io l’“originario”, allora l’Io-unità è derivato e la sintesi è “a posteriori”. E questo è in duro contrasto con la tesi di fondo della Logica, con l’affermazione della co-originarietà di concreto e astratto20. Non aveva Gentile già nel 1909, nel saggio sulle “Forme assolute dello spirito”21, rivendicato l’apriorità

20. E, direi, persino con le pagine più meditate di TGS. 21. Ora raccolto in G. Gentile, R, pp. 259-275.

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dell’Io-sintesi? Ma rileggiamo il passo di questo scritto in cui Gentile afferma con forza il “primato” della sintesi: […] lo spirito non è sintesi di due opposti nati come tali; anzi di due opposti che rampollano dall’unità fondamentale dello stesso soggetto o Io. Ma l’Io, che è radice di questa dualità di Io e Non-io, non è l’Io che è opposto al Non-io; questo è l’altro Io che rampolla dal primo, non è il primo. Il quale è realmente l’unità ancora indistinta dei due termini, ossia il Tutto, di cui ognuno di noi sente nel ritmo della propria coscienza il palpito universale. (R, p. 260).

Originaria la sintesi, l’unità-relazione di Io e Non-io; ma più originaria ancora è l’unità “ancora indistinta” dei due opposti, unità che non è l’Io, ma la radice dell’Io come del Non-io, la radice della sintesi. Immediatamente dopo il passo citato, Gentile, ad evitare che si possa pensare che esista un momento, anche un solo momento, in cui la sintesi (la relazione degli opposti) manchi, in cui la radice non abbia ancora germinato, scrive: Prima che sorge la luce della coscienza con l’atto distinguente uniente di soggetto e oggetto, lo spirito non c’è. Ma è evidente che un istante, in cui tale luce non sia, non c’è nemmeno. Perché l’essere è appunto il mondo della coscienza. E di là dalla coscienza non vi può essere, e non v’è, se non la proiezione immaginaria dello stesso contenuto della coscienza. (Ib.).

La radice è solo nella pianta che da essa germoglia. Ma in questa uno dei suoi rami ha un pregio particolare: la coscienza, il soggetto, l’Io antitesi del Non-io, conserva la memoria dell’immemoriale, la memoria della radice “prima” del suo germinare. La coscienza ha certo in sé immanente l’autocoscienza, cioè la differenza di sé dall’altro da sé, e cioè non è mai solo coscienza; e tuttavia ancora è dato distinguerla dalla autocoscienza, se in essa, e solo in essa, si conserva memoria dell’“immaginaria” radice, della fonte immemoriale. Ma questa

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coscienza-memoria non può essere pensiero, perché pensiero è solo nella dualità unificata del concreto e dell’astratto, del soggetto e dell’oggetto, pensiero è solo nella relazione, nella sintesi soggetto-oggetto. Il “primato” dell’Io sta dunque in ciò, ch’esso sente la radice immemoriale dello spirito, la radice mai presente “in sé”, ma sempre e solo “in altro” e come “altro”, in quello che da essa promana. Il pensiero, la sintesi di Io e Nonio, rinvia dunque al sentire, al sentimento: eterno passato che nell’atto stesso di nascere muore, perché muore come sentire, sentimento, e nasce come pensiero; muore come passato e nasce come presente. Nel cogito, nell’autocoscienza pensante, nell’Io-antitesi del Non-io, si conserva la traccia, e solo la traccia, del passato eterno dello spirito, dell’immediato che è solo nella mediazione, che è solo nella negazione. La negazione del sentire ad opera del pensiero è l’unico modo in cui il sentire può essere presente. La Filosofia dell’arte rappresenta il tentativo di Gentile di recuperare nel passato intemporale dello spirito l’“identità”, che il logo astratto non meno del concreto nega nella differenza del giudizio. Dopo che il tentativo del Sistema di Logica di tener ferma l’identità come posizione dell’Io (= come logo astratto) s’è rivelato vano, perché anche il logo astratto è dialettico, è mediazione e differenza e non identità, Gentile tenta la via opposta, cerca l’identità nell’immediatezza che è “prima” della mediazione, nel “sentimento” che è “prima” del pensiero, dell’autocoscienza, della sintesi. Troppo accorto dialettico per cadere nell’illusione di poter cogliere l’immediato “in sé”, Gentile non nega la mediazione per l’immediato, la posizione per la presupposizione, al contrario ribadisce che il presupposto è solo per il porre, la natura solo per lo spirito. Ma a questo “per” conferisce ora un significato ulteriore: essere-per il porre dice certo esser-“posto”, ma insieme esser“ri-conosciuto”. Il presupposto è negato come essere-in-sé, affermato in quanto riconosciuto. Certamente prima del rico-

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noscimento non è neppure “presupposto”; esso è presupposto solo in quanto riconosciuto come tale. Ma questo non nega l’alterità sua rispetto al pensiero che lo riconosce. Ma è sufficiente il “ri-conoscimento” per affermare l’alterità dell’Identico rispetto al movimento, alla differenza del pensiero? La risposta non può essere che negativa. L’Identità del sentimento immediato della Filosofia dell’arte non è affatto diversa dall’Io-radice che abbiamo conosciuto nello scritto sulle “Forme assolute dello spirito”. Come quell’Io era radice perché destinato a germinare, così l’Io-sentimento è destinato all’Io-penso. È per questo, in funzione di questo. È sin dall’inizio coinvolto nel dialettismo del pensiero, nel suo movimento. Fa parte dell’identità del Sistema che chiude in sé il movimento. Che eternizza il movimento, epperò lo nega come tale. Perché si esca dall’identità immobile del movimento che sempre è e non cambia, è necessario che l’Identità sia non soltanto l’opposto del movimento, ma l’“altro”. E di un’alterità che sempre si sottrae, e sottraendosi può sì favorire il cambiamento, ma insieme negarlo. Solo la possibilità della fine salvaguarda il cambiamento dal suo stesso essere. Ma questa possibilità non appartiene al futuro, più che al passato. Non appartiene al tempo. Perciò la possibilità della morte concerne non il tempo, ma l’esistenza. Il mutamento – in totalità. Il pensiero è davvero pensiero in atto, pensiero capace di osservare se stesso dall’interno, pensiero in-finito, pensiero che non s’arresta in nessun istante in una figura determinata, de-finita, solo se sa riconoscere il suo limite, non storico, essenziale. Come dire, e l’ossimoro è solo nell’espressione, che solo il pensiero mortale è davvero in-finito.

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II Dall’attualismo alla filosofia dell’identità

1. È possibile tener distinte logica e gnoseologia, verità e conoscenza? Le filosofie moderne del soggetto tendono a ridurre la prima alla seconda in base all’argomento che la verità si dà nel conoscere, che non ha senso parlare della verità se non riguardo alla conoscenza. Certo, vero e falso sono attributi del conoscere. Tuttavia, la distinzione della conoscenza in vera e non vera è fatta in base a principi, regole, metodi che non dipendono dal loro esser conosciuti, dacché, anche se e quando non conosciuti, dividono il vero conoscere dal falso, o, forse, meglio: la conoscenza dalla non-conoscenza. Principi, regole, metodi che sono alla base anche della conoscenza di se medesimi. La distinzione, dunque, appare innegabile e ineludibile. Ma se non è possibile ridurre la logica a gnoseologia, o più semplicemente il vero alla sua conoscenza, appare però possibile fare il cammino inverso, mostrando come i modi del conoscere – esemplificando: il giudizio, il sillogismo, o all’opposto l’intuizione, la visione immediata – sono le forme stesse del darsi della verità. Ed è quello che ha fatto Hegel nella Fenomenologia dello spirito, mostrando come nell’elevarsi della certezza a verità, della conoscenza a sapere, è il vero sapere

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che opera, ancorché in latenza sin da principio. E quindi nelle diverse figure che la coscienza assume è sempre una forma del sapere che si espone, ovvero: ogni modalità di conoscenza è una figura del vero. Questa, però – e cioè la verità che nel processo fenomenologico della coscienza è il sapere che si manifesta grado a grado –, è la verità che si consegue alla fine dell’itinerario fenomenologico: è la verità della fine, che si piega sull’intero cammino percorso, e così lo legittima. Ma che la fine coincida coll’inizio è possibile dirlo solo alla fine, non all’inizio. Hegel stesso ammette che l’inizio può anche esser ritenuto arbitrario, sebbene sostenga poi che il movimento in circolo è tale da togliere l’iniziale arbitrio. Invero nessun circolo ha tale potere, perché la retrocessione al vero e al fondamento (ossia: il circolo) è essa condizionata dall’inizio, e non lo condiziona. Un inizio erroneo – e fin quando non è provato, resta nella possibilità dell’errore – comporta l’erroneità dell’intero processo, rettilineo o circolare che lo si pensi, e quindi della fine. La riduzione della gnoseologia a logica non è riuscita. Verità e conoscenza non sono pari. La logica sovrasta e subordina a sé la gnoseologia. L’Identità nega la dialettica, la quiete il movimento. Abbiamo cominciato chiedendoci: è possibile distinguere logica da gnoseologia? Dovevamo chiederci piuttosto: è possibile unire logica e gnoseologia, verità e conoscenza? 2. Il panorama filosofico-culturale, nel quale sorge l’attualismo, è quello dell’Europa tra la fine del secolo XIX e i primi anni del XX, formatosi sulle ceneri del positivismo. Più in particolare, gli orientamenti che in Italia ebbero più vasta eco furono: il pragmatismo di James (Peirce rimase pressoché ignoto, invero non soltanto in Italia), l’intuizionismo di Bergson, la nuova epistemologia di Mach, Avenarius, Poincaré, il revisionismo marxista, che svolse un ruolo notevole anche nel dibattito sullo

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statuto epistemologico delle scienze storico-sociali, la rinascita dell’idealismo, che, pur innestandosi su un’autonoma tradizione di pensiero (Rosmini, Gioberti), s’ispirava essenzialmente a Hegel. Il tema ricorrente in quasi tutti gli indirizzi filosofici ora ricordati era quello della concretezza ed individualità della vita e del divenire storico che sfuggono alle astrazioni ed agli schemi generalizzanti delle scienze. Ma, dove le filosofie dell’intuizione e dell’immediatezza vitale miravano ad una conoscenza pre- o post-categoriale capace di immettere direttamente nel mondo vario della storia e della vita, respingendo così parimenti l’astrazione ed il pensiero concettuale, Gentile invece, pur animato dalla medesima ansia di concretezza e di vita, non si affidava all’esoterismo di un’intuizione immediata ed incomunicabile, arazionale se non irrazionale, ma cercava ancora nel pensiero – nel pensiero universale, perché di tutti e di ciascuno, nel pensiero filosofico, argomentante e dimostrativo – la via per giungere alla vita, colta statu nascenti, e cioè nel suo movimento originario. Il che spiega il riferimento a Hegel ed insieme la critica. Il progetto hegeliano di cogliere col pensiero, col “concetto”, il divenire andava condiviso e ripreso, ma rivedendolo, riformandolo. Perché Hegel, pur muovendo dall’identità di pensiero ed essere, dall’identità del concetto col processo della cosa stessa, non era stato conseguente con le sue stesse premesse. Aveva osservato, contemplato, il divenire dall’esterno, l’aveva oggettivato. Bisognava invece “realizzare” e non “analizzare”; bisognava immettersi nel processo stesso della vita: fare. Gentile citava Vico: verum ipsum factum, per subito aggiungere: quatenus fit. Questo il senso del suo tentativo di ridurre la logica a gnoseologia, come dice chiaramente sin nel titolo del suo opus magnum: Sistema di logica come teoria del conoscere. Che l’operazione non gli sia riuscita, lo si è visto: ri(con)dotta alla gnoseologia, la logica è negata. Il processo conoscitivo non è in grado di spiegare la stabilità del vero: la pretesa identità

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del logo astratto non è meno differenza, divenire – così come nel logo concreto. Ma l’identità si vendica. Negata entro il processo, s’impone, da fuori, al processo stesso. Tutto diviene, tutto – non il divenire. Che è, che resta, come l’assoluto permanente. Incapace di fare della logica (del logo astratto) un suo “prodotto”, la gnoseologia (il logo concreto) si trova subordinata alla logica. Il tentativo di Gentile di “osservare” il movimento, la dialettica, dall’interno, nel suo farsi, è fallito. Alla fine la logica assoluta della verità che non conosce movimento e dialettica si impone. Il movimento resta incatenato a se stesso, alla propria insuperabile, quieta identità. L’aristotelica bebaiotáte arché la vince su ogni processo. Tautà aeí – queste le prime ed ultime parole della filosofia? 3. Tra quanti in Italia affrontarono il problema del rapporto Verità-conoscenza, si distinse per irruenza, anche polemica, un allievo di Gentile, Ugo Spirito. Suo merito, se merito fu, la semplificazione estrema della questione. La filosofia, sosteneva, doveva sciogliersi nelle singole scienze, l’universale vero nei saperi particolari. Soltanto così l’attualismo avrebbe evitato il pericolo di chiudersi nell’ennesima teoria universale e definitiva del conoscere, della vita, della storia. Alla retorica di un attualismo solo formale Spirito opponeva l’attualismo come vita, ricerca, prassi. Invero opponeva alla retorica del pensiero assoluto la retorica del pensiero che è vita, dell’atto in atto1. Mancava in lui la consapevolezza del problema, e cioè che l’identità, il vero, la teoria (il “logo astratto”!) non si potevano semplicemente accantonare. Il tentativo di Gentile, nonché esser proseguito, non era neppure compreso. Né è necessario paragonare la proposta di Spirito – la risoluzione

1. Cf. U. Spirito, SF e VR

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dell’universale filosofia nelle scienze particolari – al dibattito che negli stessi anni si svolgeva in Germania intorno alla “crisi delle scienze europee”2, per evidenziare tutta la modestia culturale della sua tesi; basta confrontarla con la critica lukacciana della scienza svolta in Storia e coscienza di classe3. Vero è che il rapporto intelletto-ragione – fondamentale per la comprensione e l’es-plicazione della dialettica – non sembra costituire problema per Spirito. Anche quando, anzi maggiormente quando l’attualismo della vita come ricerca si muta in problematicismo4. Un problematicismo molto poco, o nient’affatto problematico, è il caso di sottolineare, se proprio la condizione della sua problematicità, e cioè della possibilità che in futuro il problema venga eliminato (cancellato: getilgt; non “tolto”: aufgehoben) nella sua definitiva soluzione, per aver la ricerca incontrato l’Assoluto e il Vero – se proprio tale condizione: il tempo, mai non viene posto in questione. E se l’Assoluto fosse già presente? Se lo stesso problema fosse – l’Assoluto? Questa prospettiva si affacciò alla mente di Spirito, nell’ultimo periodo della sua produzione letteraria, quello che chiamò “onnicentrismo”5. Ovviamente anche questa “nuova” prospettiva egli presentò nell’unico modo possibile per lui, incapace della scholé del dubbio e della domanda. E cioè: come soluzione. Era, questo onnicentrismo, un attualismo “plurale”. Un nuovo attualismo? Un attualismo rinnovato? Niente di tutto questo. Già Gentile per spiegare il “suo” cattolicesimo, diverso da quello della Chiesa di Roma, s’era appellato alla “poli-

2. Cf. E. Husserl, Krisis e M. Heidegger, EM e FD. 3. Cf. G. Lukács, SCC. 4. Cf. U Spirito, P. Sul tema v. anche. E. Severino “Attualismo e problematicismo” in OL, pp. 99-118. 5. Cf. U Spirito, INE, pp. 229-255 e 257-287; MS, pp. 81-156.

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gonia del cristianesimo” di Gioberti6. Ante litteram Gentile aveva fatto professione di “onnicentrismo”! 4. Affatto diversa, sia per ampiezza di prospettiva storica che per radicalità filosofica, dalla critica di Spirito, l’emendatio dell’attualismo compiuta da Guido Calogero ne La conclusione della filosofia del conoscere. Va detto, anzitutto, che per Calogero il circolo filosofia-storia della filosofia era un’esperienza effettiva, vissuta e non soltanto una retorica dichiarazione di principio – come per molti degli allievi e seguaci di Gentile –; egli era perciò ben consapevole di ciò che era in gioco nella dialettica logo concreto/logo astratto, che pure nettamente criticava e respingeva. Sin nel suo primo libro, I fondamenti della logica aristotelica, rielaborazione della tesi di laurea discussa con Gentile, aveva preso una netta posizione riguardo al problema, in quegli anni molto dibattuto in Germania, in particolare da Husserl e da Heidegger, del rapporto tra logica noetica e logica dianoetica. Nel libro nono della Metafisica, al capitolo decimo, vera crux philosophorum7, Aristotele distingue due tipi di conoscenza: quella per la quale vale l’opposizione vero/falso, e l’altra, il cui opposto non è il falso, l’errore, ma l’assenza del conoscere, l’ágnoia. La prima si esprime nella forma del dire qualcosa intorno a qualcosa: phásis tí katà tinós, katáphasis; la seconda nella forma del semplice dire qualcosa: phásis tí. Criterio di questa distinzione è l’“oggetto” del conoscere, che, se è un ente composto, rientra nel primo tipo di conoscenza, in quanto è possibile scomporlo in una relazione predicativa (ad

6. Cf. G. Gentile, “La mia religione” (1943), in R, pp. 403-426. 7. Cf. in particolare M. Heidegger, WMF pp. 73-112: importante anche per la confutazione della «interpretazione tradizionale dell’“esser-vero” (Wahrsein) come problema logico e gnoseologico (Schwengler, Jaeger e Ross)».

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esempio: il gesso è bianco), che sarà vera se corrispondente all’oggetto, falsa se non corrispondente; se, invece, l’ente è semplice, può essere soltanto appreso o non appreso, detto o non detto. Aristotele paragona questa conoscenza immediata al “toccare” (thigeîn: cf. Met. 1051b 17-33). La distinzione tra le due forme di conoscenza, la noetica e la dianoetica, ricorre in più luoghi aristotelici, in particolare nel terzo libro del De anima, là dove si dice che l’intelletto, quando conosce l’essente nel suo essere, la sua “essenza”, tò tí ên eînai, non afferma né nega tí katà tinós, qualcosa di qualcosa (430b); e in ciò è simile all’aísthesis, che è sempre vera riguardo a ciò che sente (427b). Questa distinzione è di gran conforto per la tesi husserliana del primato dell’“evidenza” sul giudizio apofantico. Perché si possa predicare qualcosa di qualcosa – il bianco del gesso – è necessario si conosca anzitutto e il bianco e il gesso. Anche superfluo precisare che l’evidenza fenomenologica non è nulla di meramente soggettivo. Essa indica la presenza dell’ente com’esso è in sé, il suo darsi (Selbstgegebenheit) al soggetto percipiente. Si tratta di un’evidenza che pertiene all’ente in quanto tale. L’affermazione del primato dell’evidenza non toglie valore però al giudizio predicativo che su quella evidenza si fonda. Di più: Husserl nel corso dell’analisi dà sempre più spazio al giudizio. Quando deve spiegare come dal flusso di sensazioni e stimoli dell’esperienza sensibile si giunge alla determinazione dell’“oggetto”, di un ente, cioè, che sta stabilmente di fronte a noi che lo percepiamo (Gegenstand), non trova altra soluzione che ricorrere al giudizio. Non all’apofansi – aggiunge – ma ad un giudizio più originario (cf. EU, §§ 1-14). Lo stesso percorso compie Heidegger, ancorché più a ridosso del testo aristotelico. In ogni caso, quando anch’egli si richiama all’esperienza originaria dell’ente, alla sua verità come

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alétheia, dis-velamento, questa esperienza definisce in termini di giudizio. La conoscenza dell’ente “in quanto” (als) ente è comunque una predicazione8. E che il giudizio predicativo si riduca alla mera attribuzione di una qualità, o proprietà (= “accidente”, nel senso ampio e complesso del symbebekós aristotelico), questo è tutto da dimostrare; anzi non è punto dimostrabile, perché v’è anche il giudizio di identità che predica di A non un “accidente” ma il suo stesso esser-A. Questo per dire della difficoltà di uscire dalla logica del giudizio9. Ma è proprio quanto Calogero intende fare. Calogero separa nettamente il principio noetico o di determinazione dal principio dianoetico o di contraddizione. Questo regola la relazione tra più noemi, la loro congruenza o non congruenza; quello invece mira al singolo noema e ne determina il significato unitario. Che questo secondo principio sia sovraordinato al primo è evidente. Se non si conosce dapprima il significato dei singoli noemi, non è possibile congiungerli in relazione predicativa. Ma Aristotele non sempre si è attenuto alla distinzione dei due principi dai lui stesso stabilita. E i Fondamenti della logica aristotelica sono in gran parte una caccia agli errori di Aristotele, e della successiva storia della logica, massime la medievale, dovuti alla confusione delle due logiche10. Ma la distinzione tra noesi e dianoia, già presente in Platone, può essere ridotta ad una separazione così netta? E se sì, è questa separazione interna alla “logica”, o non eccede l’ambito logico? Con queste domande entriamo a discutere 8. Cf. in particolare M. Heidegger, LFW, §§ 11-14; GPhä §§ 16-18; GbM, §§ 64-76. 9. Sul tema cf. V. Vitiello, VG. 10. Cf. G. Calogero, FLA, P. I, “Logica noetica e logica dianoetica”, pp. 3-145, ed altresì CFC, in particolare i saggi raccolti nella Parte II: “Introduzione alla storia della logica antica” (1931), “Logica antica e dialettica hegeliana (1932), “Lineamenti di storia della logica” (1932), “Storia ed eternità della logica classica” (1934).

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della proposta filosofica di Calogero, consegnata alle pagine della Conclusione della filosofia del conoscere. 5. La tesi di fondo è che l’attualismo, coerentemente pensato, segna la fine della storia della logica e della gnoseologia. Perché non ha senso una filosofia che pretenda definire quali siano le condizioni di possibilità, e cioè i limiti, del pensare, in quanto proprio il pensiero che quei limiti vorrebbe definire, nel fissarli li sorpassa. Così il vero Io, di cui parlano Fichte e Gentile, non è quello che s’oppone al Non-io, bensì l’altro e superiore che ha in sé entrambi gli opposti: l’Io infinito. E qui infinito dice totalità, per cui l’affermazione hegeliana che l’infinito è la verità del finito sta ad indicare che soltanto nel tutto il finito ha la sua figura determinata: questa e non altra. Quanto, invece, al significato “negativo” di infinito11, all’infinito come negatività interna al finito, come indeterminazione di ogni determinatezza, in queste pagine non si fa parola. Ma l’equiparazione dell’infinito col tutto porta alla più rigida identità. Ad un’identità che è prima ed oltre ogni mediazione. Prima ed oltre la stessa identificazione. L’io penso o pensiero pensante, il concetto come conceptus, non ha bisogno di dirsi eguale a sé, per esser tale. L’Io è prima ed oltre l’“Io = Io”. L’autonoesi non è dianoetica: la conoscenza di sé non è giudizio. Di più: la conoscenza come tale non è giudizio. La conclusione della filosofia del conoscere discende direttamente da I fondamenti della logica aristotelica. Questo comporta che la dialettica gentiliana dell’astratto – la quale, per confutare l’Uno parmenideo, assume esser l’identico (A) tale solo nella duplicazione predicativa (in A = A), perché fuor del giudizio sarebbe inconoscibile immediatezza (cf. SL, I, P. II, cap. I) – porta nel cuore stesso della logica la kantiana cosa in sé (cf. 11. Cf. cap. precedente.

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CFC, p. 34). Ma, osserva Calogero, A non ha bisogno di sdoppiarsi in A = A, per essere conosciuto, né (A = A) in [(A = A) = (A = A)], e così via – come attesta il semplice fatto che proprio la conoscenza della reduplicazione si sottrae alla regola dello sdoppiamento che la logica dell’astratto vorrebbe imporre. La critica di Calogero investe non soltanto la logica dell’astratto, ma l’intero impianto del Sistema di logica come teoria del conoscere, ed in particolar modo la concezione dell’autoctisi dell’Io. L’intero frasario “creazionistico” dell’attualismo è respinto tra le anticaglie della vecchia filosofia teologizzante: l’Io non pone, non “crea” l’oggetto, perché è tutt’uno con esso; né è causa sui ipsius, dacché non è pensabile relazione causale se non tra due termini (cf. CFC, pp. 14-15 e passim). Se la sfera dell’Io ha raggio infinito (cf. Gentile, TGS, p. 32), nulla avendo “fuori” di sé, né tempo né spazio, né divenire né essere, nulla ha da creare. Esso è, e soltanto è. Il conoscere, coincidendo con se stesso, coincide con l’universo intero. Talché, sbarazzato il campo dalle teorie logiche e gnoseologiche, liberato il pensiero dall’obbligo di pensare se stesso, il filosofo può dedicarsi al suo vero compito, che non è quello di far filosofia sulla filosofia, ma di illuminare il mondo degli uomini: la storia, il diritto, l’etica, la religione, l’arte, e cioè le molteplici forme del fare umano. Portata a termine l’emendatio philosophiae, Calogero passa a trattare della filosofia della volontà, nella quale recupera tutto quanto aveva ritenuto di dover respingere dalla compatta, inscindibile identità della filosofia del conoscere: tempo, divenire, differenza, in breve quella concezione dell’infinito come mancanza, come negazione del de-terminato, come perenne de-formazione della forma finita, della figura (cf. CFC, pp. 16-23).

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6. Ma si tratta di un passaggio brusco, di un passaggio senza mediazione12. Come nei Fondamenti della logica aristotelica Calogero non spiega perché l’ente determinato (in base al principio noetico) debba esprimersi nella forma del giudizio d’identità, nel quale il medesimo si sdoppia in soggetto e predicato, ma si limita a rilevare questa “esigenza verbalistica” che subito respinge come conseguenza dell’oscillazione aristotelica tra le due logiche13, così nella Conclusione della filosofia del conoscere non spiega perché l’Io si presenti col volto di Giano: eterno e immutevole in quanto pensiero, o conoscenza, e mutevole e nel tempo in quanto volontà. E non basta dire che come conoscere non può non essere eterno e immutevole, infinito, e come volontà non può esser pensato altrimenti che finito, mutevole, condizionato dal passato ed aperto al futuro (CFC, pp. 41-42). Questa non è una risposta alla domanda sul “perché” (dióti); è, tutt’al più, una costatazione del “che” (hóti). La domanda riguarda la convenienza al medesimo di predicati opposti. La logica noetica sarà pure diversa dalla dianoetica, ma se ne è il fondamento, dovrà pure rispettare il principio ch’essa fonda: il principio di contraddizione. Altrimenti che “fondazione” sarebbe? Ed infatti Calogero non si sottrae al principio. Anzi ci tiene a mostrare che lo rispetta in pieno. Scrive: ci sarebbe contraddizione tra l’infinità dell’io conoscente e la temporalità dell’io volente, se l’infinità del conoscere fosse da prendere come «assurda infinità attuale»; ma così non è: l’infinità dell’Io penso è «un’infinità potenziale, nel suo atto sempre concretamente definita» (ib., p. 137). E qui – appare evidente – Calogero cade in quel quaternione 12. Come notava E. Garin, CFI, pp. 468-469 13. FLA, p. 29. Cf. altresì p. 60, ove si denuncia ma non si “dà ragione” «dell’esteriore rivestimento di logica del giudizio che ricopre, e spesso altera, questa sostanziale trattazione di logica dell’intuizione intellettuale». Cf. la critica dell’interpretazione calogeriana della Logica aristotelica in E. Severino, FC, pp. 143-173.

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di termini che così sagacemente, e spesso con spirito, critica (anche per mostrare che lo si vince col principio noetico di determinazione e non con la dianoetica archè tês antipháseos). Non stiamo parlando, infatti, del contenuto del conoscere, bensì della sua Forma. E questa è identica a se medesima sempre. Ora, la si intenda come lo spazio infinito dell’universo in cui tutto è (è già, da sempre), o come l’atmosfera che sempre avvolge il processo del conoscere, resta la domanda: in che modo questa identità eterna, non-temporale sta insieme con il tempo del volere? O Calogero intende dire che anche la Forma-conoscere è nel tempo, muta, diviene? E avrebbe anche più di una ragione per dirlo: infatti dopo la Conclusione della filosofia del conoscere il pensiero almeno questo sa più di prima: che non deve più occuparsi di se stesso, ma del mondo dell’umano operare. E Calogero lo ha ammesso, quando si è difeso dalla critica crociana di misologia, e non a mal volere, quasi riconoscendo una sua aporia. La Conclusione della filosofia del conoscere è sì una gnoseologia, una filosofia della filosofia, ma l’ultima, quella che dà congedo ad ogni teoria del conoscere e ad ogni logica. Ma se questo è vero – com’è possibile affermare che «l’assoluta attualità dell’io esclude la possibilità della sua concezione come una serie di gradi. Onde ciò che gli rimane inizialmente estraneo possa venir giustificato in uno stadio ulteriore del suo sviluppo» (ib., p. 9)? Ancora: si può esser certi che la definizione dell’identità non predicativa della Forma-conoscere sia l’ultima parola che possa dirsi riguardo al conoscere? Se il futuro è “ignoto” per il volere, perché non può esserlo altrettanto per il conoscere, posto che l’infinità del conoscere non è un’assurda infinità attuale, ma una reale infinità potenziale? Infine: che significa che il futuro è “ignoto”? Ignoto nel suo “che”, o solo nel suo “come”? E se solo nel suo “come”, c’è allora un’altra identità, l’identità del tempo che kantianamente permane e non cambia, accanto ed oltre l’identità della Forma-conoscere? Ma è possibile pensa-

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re il fluire dei fenomeni nell’identità del tempo? È possibile pensare identità e divenire, quiete e movimento, l’una accanto all’altro? O non è a partire dall’identità che il divenire risulta pensabile? Ma, in che modo? Tentiamo di rispondere a queste ultime domande interrogando il pensiero di Emanuele Severino. 7. Anche Severino ha un’ascendenza gentiliana, quantunque non diretta. Anche nella formazione di Severino lo studio di Aristotele è stato determinante. Ma, diversamente da Calogero, egli non ha abbandonato l’identità per seguire le opinioni del mondo. Per comprendere il mondo, e pur le sue false opinioni, ha fatto dell’identità il principio unico ed assoluto della sua filosofia, l’unico principio in grado di spiegare l’ente nella sua determinata determinatezza, respingendo il divenire come l’errore e la follia dell’Occidente. Non è un fatto, il divenire, che si imponga alla libera osservazione, ma soltanto un’interpretazione derivante dall’isolamento che caratterizza il destino della terra del tramonto. Un’interpretazione destinata a tramontare. Ma non hanno, tutte queste parole – tramonto, e nascita, destino e storia –, alla loro base quell’unico significato che il termine “divenire” esprime? No, perché non c’è parola del tradizionale linguaggio filosofico che mantenga inalterato il suo significato nell’uso che ne fa Severino. Destino è ciò che sta, ciò che mai non muta. L’assoluto Immutabile. E il tramonto, come la nascita, sono già nel destino14. Ma è bene fare esperienza del linguaggio di Severino, attraversandone il pensiero. Eviteremo, così, di dover fare troppe “premesse” ed anticipazioni.

14. Cf. in particolare DN.

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L’analisi che segue ha come suo principale testo di riferimento Tautótes, il libro nel quale Severino, più che in altri suoi scritti, si è misurato con la filosofia di Hegel, la filosofia del divenire kat’exochén. Il concetto di divenire – leggiamo ad apertura di libro – esprime la diversificazione dell’identico da sé e, quindi, la sua identificazione all’altro (cf. T, p. 14). Esemplificando: la legna, bruciando, diviene cenere, altro da sé. Cosa si cela in questo concetto? Quello che, diceva Platone, né in sogno né nella follia si può pensare, e cioè che l’altro sia altro da sé. Il divenire copre questa inconcepibile identificazione del qualcosa ad altro da sé, distanziando l’inizio dal risultato del processo. Che qualcosa sia altro da sé, che la legna sia cenere, nessuno che pensi, lo affermerebbe mai; ma che la legna divenga cenere, questo l’ammettono tutti come un fatto d’esperienza, un’ovvietà. Ma – osserva Severino – dire che la legna diviene cenere non è affatto diverso dal dire che la legna è cenere: diventata cenere, la legna è cenere. Ma, viene spontaneo opporre, “diventata” non è diventare: il processo ha un inizio e una fine, non lo si può identificare con la fine, col risultato. Ma, replica Severino, in che modo il processo ha inizio e fine? Non c erto come separati: non c’è all’inizio la legna e alla fine la cenere – fosse così non ci sarebbe quell’identificazione del diverso e diversificazione dell’identico che caratterizza il divenire, ci sarebbero soltanto due identità opposte. In ogni momento del divenire, dunque, l’inizio coincide con la fine, col risultato: in ogni momento della combustione (una parte del)la legna è diventata cenere. Ma anche nel risultato ultimo del processo non c’è solo la cenere, c’è bensì la cenere come trasformazione della legna. Se nel risultato non c’è l’inizio – così come se nell’inizio non c’è il risultato – neppure c’è il divenire. In breve: la distanza che si pone tra inizio e risultato, la distanza che fa apparire ovvio il divenire, è proprio ciò che impedisce il concetto di divenire. Concludendo: la proposizione “la

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legna diviene cenere” non dice altro che “la legna è cenere”. E questo è l’assurdo, l’impensabile. La critica di Severino non si arresta qui. La legna, diventata cenere, ha cessato d’esser legna. Se non cessasse d’esser legna non potrebbe essere cenere, e non vi sarebbe divenire. Dunque, la legna è diventata niente, è niente. La legna è niente: l’ente è non-ente, ciò che è non è. Sicché il divenire contiene in sé due assurdità, che sono poi una e medesima: che l’ente è altro da sé e che non è (cf. T, pp. 17-19). Il contenuto semantico di queste affermazioni si toglie nell’atto stesso in cui esse vengono pronunciate. Resta l’emissione di voce, o il testo scritto, ma non il significato – che non c’è, non c’è mai stato. Nella proposizione “l’ente è non-ente” non si pensa nulla, perché il predicato nega il soggetto. Ed è questo che caratterizza il discorso contraddittorio, il fatto che esso nega se stesso. Di qui la potenza del principio di contraddizione, il vincolo di necessità con cui esso incatena l’ente al suo essere, a sé stesso, alla sua identità: qualcosa, un ente in generale, là si (di-)mostra necessario, dove la sua negazione è auto-negazione15. Il divenire non attende la dimostrazione che lo neghi; si nega da sé; la negazione del divenire è intrinseca al divenire. 8. La critica di Severino a Hegel è tutt’altro che avara di riconoscimenti. Hegel – dice – non è solo il filosofo della contraddizione e del divenire, è anche il filosofo del superamento della contraddizione, il filosofo dell’identità. Se il finito è contraddittorio, lo è perché isolato dall’infinito; ma l’infinito – afferma Hegel – è la verità del finito, e questo comporta che la contraddizione dev’esser tolta e viene tolta. Certo, l’in-

15. Cf. E. Severino, SO, spec. capp. I e IV, e EN, passim.

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finito stesso si mostra in Hegel come processo, nel quale la contraddizione, tolta ad un certo livello, si ripresenta nel superiore. Ma Hegel non cade nella cattiva infinità. Al termine del processo è il sapere assoluto, ove ogni opposizione termina. Nella rivelazione del profondo – la mèta della Fenomenologia – tutte le contraddizioni sono conciliate, e l’identità riconquistata. E tuttavia Hegel – sostiene Severino – appartiene alla storia del nichilismo. Perché pone l’identità solo alla fine del processo? No, non per questo. A tale critica si potrebbe facilmente obiettare che in Hegel la fine, il sapere assoluto, è già dall’inizio, che tutto il processo fenomenologico della coscienza si muove all’interno del sapere assoluto. Hegel appartiene al nichilismo per aver conservato nell’identità del sapere assoluto, nell’identità del circolo dei circoli, il divenire16. Il sapere assoluto in tanto è Erinnerung e Schädelstätte, memoria e calvario dello spirito, in quanto è insieme la mèta (das Ziel) dell’itinerario fenomenologico e il luogo in cui esso si attua (cf. PhäG, p. 564). Hegel non toglie il divenire, se non conservandolo, se non eternizzandolo. Severino respinge ogni tentativo di conciliazione, o peggio di compromesso tra identità e divenire. Quiete e movimento non possono stare insieme, perché o l’una nega l’altro o l’altro l’uno. Ben al di là di Calogero, la critica di Severino colpisce in primo luogo la concezione kantiana del tempo. Non si può affermare che il tempo permane e non scorre in quanto sono i fenomeni che scorrono nel tempo (cf. KrV, A 144, B 183, e B 225; e T, p. 88). Non si può, perché lo scorrere dei fenomeni entro il tempo muta l’ordine interno del tempo. Il tempo permane e non muta, solo se anche i fenomeni non mutano, non scorrono, non divengono. L’identità non ammette altro accanto a sé, né dentro di sé.

16. Cf. T, capp. VI-X. Sul tema cf. E. Severino – V. Vitiello, EP, pp. 81-156.

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9. Hegel ha visto giusto, quando ha affermato che il finito si contraddice perché isolato dall’infinito. Ma non ne ha tratto la necessaria conseguenza. Anziché togliere l’isolamento del finito alla radice, l’ha tolto alla fine. E quando ha concepito la fine come inizio, ha dovuto conservare in questo l’intero processo, per spiegare come era giunto alla verità che la fine è l’inizio. L’errore di Hegel è stato quindi d’aver prima anteposto l’intelletto (l’astratto: l’astrazione dell’isolamento) alla ragione (al concreto: alla relazione originaria tra gli essenti) e poi d’averlo conservato nella ragione. In questa critica è la spiegazione della genesi del(l’errore del) divenire. Separato il soggetto A dal predicato B – nell’esempio più noto di Severino: il soggetto “lampada” dal predicato “accesa” – per dar ragione dell’identificazione dei due concetti diversi si è fatto ricorso al divenire. La lampada da nonaccesa diviene accesa: cessa d’essere spenta per essere accesa. Questa, però, è un’“interpretazione” non un dato “fenomenologico”. Ciò che noi in realtà osserviamo è l’apparire della lampada accesa e il non più apparire della lampada spenta. Ma dal fatto che la lampada spenta non appare non è lecito dedurre che essa non è più. Che l’ente “lampada” è diventato niente – ovvero: è niente. Il fatto (il non apparire della lampada spenta) è reale, l’interpretazione (la lampada spenta non è più) contraddittoria, e pertanto auto-negantesi. Si elimina l’errore che è alla base del “divenire”, e cioè l’isolamento del soggetto dal predicato, quando s’intende che il giudizio “la lampada è accesa” è mal formulato, o formulato in modo manchevole. Non la lampada è accesa, ma la lampada accesa è accesa. Solo così si evita la contraddizione di attribuire al medesimo il diverso. All’esplicazione hegeliana del giudizio, che Gentile ripete in entrambe le logiche (del concreto e dell’astratto), secondo cui A = B dice: A diviene B, Severino sostituisce l’inversa B = A, intendendosi con questa inversione

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che B è già da sempre = A17. La lampada non diviene accesa – è già da sempre accesa, quantunque appaia soltanto ora accesa. Dietro l’isolamento nel giudizio del soggetto dal predicato si cela altro isolamento: quello dell’ente dagli altri enti (T, spec. capp. XI e XIII). La lampada accesa è tale, può esser tale, perché è in un contesto di enti, in una koinonía che la costituisce come tale. La lampada è in una stanza, su un tavolo, collegata alla corrente elettrica, in una determinata ora, quando il sole è alto a mezzogiorno, o basso al tramonto…, ed è solo per le relazioni che ha con gli altri enti che è quella lampada che è, e quella lampada che è accesa. Come già Kant esplicava, nelle Analogie dell’esperienza, i predicati delle cose sono per le relazioni che esse hanno tra loro. Ma queste relazioni sono possibili perché e solo perché ciascuna cosa è determinata, cioè è se stessa e non altra: la lampada non è il tavolo su cui poggia. La determinatezza di entrambi gli oggetti è nel loro essere identici a sé e diversi l’uno dall’altro. X è X in quanto non è Y, in quanto non è non-X. L’identità nega la sua negazione. Beninteso non nega Y (la lampada non nega il tavolo su cui poggia), nega la negazione della sua identità, nega l’identificazione di X con Y (di lampada e tavolo). Sono, dunque, due e diverse le negazioni che definiscono l’identità; esse si coappartengono, ma nella differenza, perché sono differenti. In quanto X non è Y, è determinato come X e non come Y; ed in quanto così determinato quella sua negazione che lo identifica all’altro è auto-negazione.

17. Per un ‘confronto’ tra le opposte concezioni del divenire di Gentile e di Severino non limitato all’analisi delle premesse ‘logiche’ dei due ‘sistemi’, ma esteso alle conseguenze storico-politiche ed etiche: cf. B. de Giovanni, GS, in particolare capp. VI e VIII-XII.

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Questa doppia negazione riprende la distinzione hegeliana tra la negazione che caratterizza la dottrina dell’essere, la negazione che ha fuor di sé, come altro positivo, il negato (X = X in quanto non-Y: la lampada è la lampada in quanto non è il tavolo; e viceversa: Y = Y in quanto non-X: il tavolo è tavolo in quanto non è la lampada) – e la negazione propria della dottrina dell’essenza, la negazione che ha in sé il negato, come altro negativo, come altro che non può stare accanto al negante (A nega l’alterità di B, perché è B: la lampada è accesa). Ma anche qui con una variante che ne muta radicitus il senso: la seconda negazione (la negazione dell’essenza) si caratterizza in Hegel come divenire: il negante si fa esso il negato (il soggetto diviene predicato): la lampada si nega come lampada divenendo lampada accesa; in Severino, per contro, è il negato assorbito nel negante, e cioè l’altro è negato come altro, e riconosciuto come l’identico stesso (l’essere accesa della lampada non è altro dalla lampada, già da sempre accesa). In formula: all’hegeliano A > B, Severino oppone B > A. Ma se la lampada è da sempre accesa, e questo suo essere accesa è per il rapporto che la lampada ha con le altre cose tutte, allora la lampada è già da sempre in rapporto con tutti gli enti. L’infinito è qui lo spazio che tutto contiene: non universo, ma multi-verso. Infinito di infiniti. Perché X non è solo in relazione con Y, W, Z, ecc., è anche in relazione con le relazioni che Y, W, Z, ecc., hanno tra loro e con X. X è la relazione con Y ed insieme con la relazione che Y ha con X. E quello che si è detto relativamente a Y va ripetuto per tutti gli altri “termini” relazionali. Si presti attenzione: non si è detto che il predicato di X (la B di A) è la relazione con Y; si è detto che X (e cioè il soggetto: il soggetto A del predicato B) è questa relazione con Y. Infatti non soltanto – per tornare all’esempio – l’esser-accesa della lampada è per la relazione della lampada con gli altri

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enti tutti dell’infinito multiverso, sì anche l’esser lampada della lampada. A = A non è diverso da A = B, se ben s’intende che A = B è invero AB = AB. Ed AB = AB è già in A, è-già A. La distinzione di A = A da A = B serve solo a sottolineare la diversità tra le due negazioni: la negazione dell’enantíon che è auto-negazione (il giudizio: A = non-A, il tavolo è non-tavolo, toglie se stesso), dalla negazione dell’éteron, dalla negazione che nega l’isolamento del soggetto “lampada” (A) dal predicato “essere-accesa” (B). Ma questa distinzione è astratta e non reale, perché A non è mai “solo” A, ma sempre AB (e/o AC, AD, AE…): la lampada è sempre in certo modo: accesa o spenta, sul tavolo o su una consolle, di porcellana o di bronzo… L’identità di A = A con A = B (o meglio: di A con AB, AC, AD…) avvicina nuovamente Severino a Kant: al Kant critico di Leibniz, al Kant che afferma che le cose tutte sono costituite interamente di relazioni, e non v’è nulla di interno, nessuna sostanza oltre il loro apparire (cf. KrV, A 285, B 341). 10. La tesi che l’ente si risolve totalmente nelle relazioni con gli altri enti, tesi che è fatta per togliere l’ente dal suo isolamento, produce effetti opposti a quelli voluti. Togliere l’ente dal suo isolamento doveva significare determinarlo, e determinarlo a priori. Se X è tale perché in rapporto a Y, W, Z ecc., la sua determinazione non gli sopravviene, ma è sin dall’inizio costitutiva del suo “in sé”, della sua essenza. L’essenza di una cosa – dichiara Severino – è l’insieme delle sue relazioni. Come già si è rilevato X per essere in sé l’insieme di tutte le relazioni è non soltanto la relazione con Y, W, Z, ecc., bensì anche l’insieme delle relazioni con tutte le relazioni di Y, W, Z…, ché anch’essi sono le loro relazioni. Talché nel multi-verso spaziale, nell’infinito di infiniti concepito da Severino il singolo ente nella sua singolarità sarà insieme eguale e non eguale al Tutto. Perché infinito di infiniti non è solo lo spazio che tutto abbraccia, è ogni punto di questo spazio. Che tuttavia resta punto del tutto,

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parte e non tutto. Il medesimo predicato identifica ed insieme non identifica il medesimo. Particolarmente se si tiene conto di ciò, che come il tutto contiene la lampada accesa e la lampada spenta (gli opposti), così la lampada, che, se è apriori “accesa”, è parimenti apriori “spenta”18. La sottrazione della cosa dal suo isolamento, anziché determinare la cosa, la in-determina. Astratta è l’identità, la differenza dalla differenza, concreta la identità di identico e diverso. Torna l’Infinito come indeterminazione. Ma ora l’indeterminazione non è l’indeterminazione del divenire, il farsi la cosa incessantemente altra da quella che è, anzi l’indeterminazione è il proprio dell’identità. È l’Identità l’indeterminato, l’indeterminato indeterminante. Già perché solo se separata da questa Identità che tutto abbraccia in sé, che tutto con-tiene e fonde in sé, è possibile conseguire la determinatezza della singola cosa. Non la sottrazione dell’ente al suo isolamento, al contrario l’isolamento dell’ente dall’Identità onniabbracciante ed onnipervasiva, dall’in-determinante Identità, salva l’ente nella sua singolarità. Appare qui, nuovamente, la necessità della logica dell’astratto. 11. Ma nella prospettiva di Severino astratto non è l’Identico, bensì il Diverso. Non la quiete, ma il movimento, non l’essere, il divenire. Non si indica qui col termine “divenire” il passare dell’ente dal nulla all’essere e dall’essere al nulla, bensì – secondo l’interpretazione di Severino – l’entrare e l’uscire dell’ente-che-sempre-è dal cerchio finito dell’apparire del Tutto, e cioè dell’infinito multiverso di infiniti. Il multiverso infinito di infiniti non appare in un cerchio infinito. Perché non c’è un cerchio infinito d’apparenza. Non ci può essere. 18. Cf. E. Severino, G, spec. capp. X-XII. Per una più ampia discussione di quest’opera rinvio a V. Vitiello, DP, pp. 51-56.

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Come può apparire mai ciò che non ha figura determinata, ciò che non ha eîdos, in quanto è tutto ed il suo contrario? Come può apparire A che è insieme (hama, simul) B e C, D, E…… e non-B, non-C, non-D, non-E…? Solo se si astrae dalla compatta identità di questa Unità assoluta che tutto contiene in sé, da questo Infinito di infiniti, in cui la parte è il tutto ed insieme non lo è, da questo multiverso che è ma non appare – solo se si isola una parte di questo tutto, si può determinare qualcosa come qualcosa: questo e non altro. Il divenire – nel senso chiarito dell’entrare ed uscire dal cerchio dell’apparenza – è l’astrazione che produce, de-termina, ed esibisce insieme, la cosa singola, determinata. L’ente nella sua determinatezza, il qualcosa come qualcosa è solo astrazione. Come avviene questa astrazione – e perché avviene? Perché il Tutto infinito di infiniti è “destinato” ad apparire nei cerchi finiti dell’apparire? Perché l’indeterminata Identità si deve determinare? Perché il finito e non soltanto l’Infinito? Perché il soggetto A che è già-da-sempre AB e AC e AD… e Anon-B, Anon-C, Anon-D…, appare “solo” come AB, o AC, o AD… o, all’opposto, “solo” come Anon-B, o Anon-C, o Anon-D…? Se non si risponde a queste domande, il determinarsi dell’Identità resta solo “possibile”. Radicalmente possibile; vale a dire: di essa non si dà ragione. 12. Non è un limite della filosofia di Severino, è un limite del pensiero. Che Kant ebbe il grande merito di riconoscere: «non chiedete: perché la ragione non si è determinata altrimenti? ma soltanto: perché la ragione non ha diversamente determinato i fenomeni mediante la causalità?» (KrV, A 556 B 584). Ma, se non è in potere della ragione dar ragione del suo determinarsi in un modo o in un altro, allora neppure è

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lecito, nell’analisi della ragione, affermare la determinazione come principio assoluto. Non vogliamo negare, così dicendo, i diritti dell’Analitica, dell’intelletto, del logo astratto. Neppure vogliamo limitarci a ribadire quanto s’è visto in queste pagine, e cioè la difficoltà di restar fedeli al principio di determinazione. Nostro intento è mostrare che per pensare il divenire, non è lecito partire dal determinato. Per ripetere lo Hegel dell’inizio della Logica: l’essere non passa nel nulla, né il nulla nell’essere, ma entrambi sono passati, sono già da sempre passati. Non c’è mai, per un solo istante, “essere”, né mai “nulla”, c’è sempre e solo il passare. Non c’è mai, neppure per un solo istante, “legna”, né mai “cenere”, c’è sempre e solo la combustione in cui la legna è cenere, la cenere legna, in cui pensando la legna si pensa la cenere, e pensando la cenere si pensa la legna. Muovere da legna e cenere, separate, è presupporre non l’identità – che nel suo fondo è principio di indeterminazione – ma quell’astrazione dell’identità, quell’isolamento dell’identità, che è la determinatezza dell’ente in quanto tale. È chiaro che non è possibile fermarsi a porre l’esigenza di un tale pensiero, o a rivendicarne semplicemente la possibilità. Bisogna esibire di questo pensiero non soggetto al principio di determinazione e di contraddizione, l’esperienza effettiva. A tal fine torniamo nuovamente a Hegel.

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III La proposizione speculativa: il linguaggio della filosofia

1. Le pagine della Fenomenologia dello spirito che trattano della “proposizione speculativa” (PhäG, pp. 48-55; it., I, pp. 48-55) sono tra le più dense di Hegel; è perciò necessario, per confrontarsi seriamente con esse, seguire il consiglio di HansGeorg Gadamer, che invita a buchstabieren Hegel prima di tentare più complesse e difficili, se non improbabili, interpretazioni globali. Comincerò a “sillabare” Hegel, citando una sua celeberrima proposizione – quasi il manifesto della sua filosofia – che si legge qualche pagina avanti a quelle indicate. Es kommt nach meiner Einsicht […] alles darauf an, das Wahre nicht als Substanz, sondern eben so sehr als Subjekt aufzufassen und auszudrücken.1

La proposizione letta è dal punto di vista sintattico palesemente anomala. Alla negazione assoluta – «nicht als Substanz» –

1. PhäG, p. 19. «Tutto sta, a mio modo di vedere […] nel concepire ed esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto come soggetto» (it., I, p. 13). Significativa l’integrazione di A. Kojève nella sua traduzione del passo: «D’après mon avis […] tout dépend de ce qu’on exprime et comprenne le Vrai non pas [seulement] comme substance, mais tout autant comme sujet» (ILH, p. 529). In merito cf. L. Illetterati, OELH, pp. 22-23.

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segue un’affermazione che la relativizza: «sondern ebenso sehr als Subjekt». Questa citazione ci immette immediatamente nel cuore stesso del tema che dobbiamo affrontare: l’inadeguatezza della forma proposizionale al contenuto filosofico. Su questa inadeguatezza Hegel torna più volte. Perché sia chiaro che non si tratta di un’inadeguatezza che concerne soltanto la filosofia hegeliana, faccio seguire alla citazione da Hegel una citazione da Platone, ove si nota la medesima “anomalia”. Dalla VII Lettera: il soggetto della proposizione è tò prágma, la “cosa” (Hegel: die Sache) della filosofia. Di esso Platone dice: […] rhetòn gár oudamôs estin hos álla mathémata (341c).2

Platone non scrive: «rhetòn ouk estin» (non dicibile), ma: «rhetòn oudamôs estin» (per nulla affatto dicibile); alla negazione assoluta segue, poi, come nel testo di Hegel, la comparazione che la relativizza: «hos álla mathémata». Dopo questo riferimento a Platone, torniamo a Hegel, e propriamente alle pagine sopra indicate. 2. Hegel esordisce affermando che quello che nella scienza è decisivo è die Anstrengung des Begriffs: la fatica, lo sforzo, del concetto. Chiara la polemica anti-romantica. La critica dell’intuizione, del sentimento, in generale dell’immediato, elevati ad organo del sapere scientifico3. Ma se è scienza, la filosofia è, però, una scienza particolare. Il suo concetto non è il comune concetto, o ciò che si intende comunemente con concetto, in quanto non va confuso con le rappresentazioni generali di contenuti immediati. Neppure, però, va identificato con 2. «[…] non è assolutamente dicibile, come le altre conoscenze» 3. Il riferimento immediato è a F. W. J. Schelling, STI, Sez. VI, §§ 1-3, pp. 1025-1036; it., pp. 285-302.

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la forma vuota dell’astratto raziocinare (räsonnieren) che, da tutto astraendosi, si compiace d’esser sempre oltre ogni contenuto determinato. Il concetto della filosofia assume la negatività tipica del räsonnieren soltanto come momento iniziale del suo procedere. Una volta conquistata la forma del sapere, attraverso l’astrazione, la filosofia deve tornare al contenuto. Il riferimento critico a Fichte – e, attraverso Fichte, a Kant e, risalendo più indietro ancora, a Descartes – è palese. Ma nel confrontarsi con la filosofia della riflessione Hegel non è mosso soltanto da un intento critico. Il confronto gli è utile per mostrare il vero modo di procedere della riflessione in filosofia. Per questa ragione prende in esame la “proposizione”: perché nel rapporto soggetto-predicato forma e contenuto sono congiunti. E cioè: nella proposizione, o giudizio, la forma non si presenta nella pura astrazione dell’Io=Io, ma come il Sé del predicato reso concreto, determinato dal soggetto del giudizio. In breve: Hegel collega l’analisi del “cogito” all’analisi della “proposizione”. Di qui la novità, e pur la difficoltà di queste densissime pagine, che già anticipano alcune analisi della Wissenschaft der Logik. Ma ciò che in questa viene accuratamente distinto (come, ad esempio, la “proposizione” e il “giudizio”) e trattato in sezioni diverse, seguendo una complessa architettura sistematica, articolata in differenti livelli ontologici, è nella Vorrede della Phänomenologie ancora unito o indistinto. Nella logica tradizionale il soggetto del giudizio è qualcosa di stabile cui ineriscono accidentalmente vari predicati. La rosa – per riprendere l’esempio hegeliano (cf. WL, II, pp. 313 s.; it. II, 716) – è rossa, ma potrebbe essere anche bianca. I predicati sono vari e mutevoli, stabile invece è il soggetto. Ma questo, non appena si approfondisca l’analisi, si rivela non essere altro che l’insieme dei predicati che volta a volta lo costituiscono. La rosa è rossa o bianca, fresca o appassita, in ogni caso è ciò che il predicato dice che è. La mutevolezza del predicato

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coinvolge il soggetto. Il soggetto scompare nel predicato, che ora esprime l’essenza, il Wesen, del soggetto. Rileva Hegel: il giudizio dell’esserci immediato (Daseinsurteil) trova la sua verità nel giudizio della riflessione (Reflexionsurteil); ovvero: il giudizio di inerenza (dell’accidentale predicato al soggetto) si muta in giudizio di sussunzione (del soggetto sotto il predicato che ne rivela l’essenza). Ora è il predicato la base, il sostegno o hypokeímenon, la “sostanza” del giudizio (cf. ib, II, pp. 328 ss.; it. II, 730). Nella Prefazione della Fenomenologia, però, l’indagine è resa più complessa dall’intreccio di livelli analitici diversi. Perché qui “soggetto” non indica più solo uno dei termini della relazione predicativa, sì anche l’Io, o meglio, come Hegel lo nomina, il Selbst, il Sé, il pensare. E cioè: nello svanire del soggetto del giudizio nel predicato, e nel conseguente tradursi del predicato in vero “soggetto” – sostegno, hypokeímenon, substantia – della relazione apofantica, viene in primo piano il Sé, l’Io che sa, das wissende Ich; viene in primo piano l’intimo legame tra la logica tradizionale, o formale, e la logica trascendentale. Cos’altro è, infatti, l’Ich denke, se non l’insieme dei predicati che costituiscono il soggetto? Il chiaro riferimento al kantiano «Vehikel aller Begriffe überhaupt» (KrV, A 341, B 399) non deve però spingerci ad identificare il Selbst con esso. Perché il Sé del pensiero concettuale, se è movimento, è però sempre legato ad un contenuto determinato; se «non è un quieto soggetto che, immoto, sostenga gli accidenti», è però «il concetto che muovendosi riprende in sé le proprie determinazioni» (PhäG, p. 49; it., I, p. 50). Siamo prossimi a comprendere quella proposizione, sintatticamente anomala, con cui abbiamo iniziato: «tutto sta nel concepire ed esprimere il vero non come sostanza, ma altrettanto come soggetto». Se non è “sostanza” – id est: se non è l’immoto soggetto del giudizio del pensare rappresentativo, della logica formale –, il vero neppure è solo “soggetto” – il vuoto Io del pensare razio-

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cinante, che è sempre di là di ogni contenuto determinato –. Vero è il movimento dal soggetto al predicato: dalla “sostanza” al “soggetto” –; vero è il concetto che si fa da soggetto predicato, riprendendo “in sé le proprie determinazioni”. Vero non è sostanza – è anche sostanza. Ed è “soggetto”, Selbst, Sé, solo essendo anche sostanza. Chiaro che qui il termine “sostanza” assume un significato affatto diverso da quello che ha nel pensare rappresentativo e raziocinante (vorstellendes und räsonnierendes Denken). Siamo qui al punto più profondo dell’analisi hegeliana della proposizione speculativa. 3. Che il vero sia anche sostanza e non solo soggetto, non dice però solo che vero è il movimento dalla sostanza al soggetto – nei termini della Logica apofantica: dal soggetto al predicato. Dice dell’altro ancora, e cioè che il pensare concettuale, diversamente da quello rappresentativo-raziocinante (i due sono più vicini di quanto non si pensi), subisce un impedimento, o più ancora un contraccolpo nel passare dal soggetto al predicato. Perché, se il predicato esprime ora l’essenza del soggetto, se è esso ora il vero soggetto, il pensiero concettuale si trova risospinto indietro dal predicato al soggetto, dacché ritrova nel predicato quella medesima fissità che dapprima sembrava caratterizzare il soggetto. Scrive Hegel: […] poiché quello che sembra essere il predicato è divenuto una massa totale e autonoma, il pensiero non può liberamente errare qua e là, ma è trattenuto da questa pesantezza (durch diese Schwere). (PhäG, p. 50; it., I, p. 51).

Di quale pesantezza si parla qui? La massa totale e autonoma del predicato non è proprio il libero movimento dei predicati in cui si risolve la fissità del soggetto? Non è il colore e il profumo, e la freschezza, della rosa? non è l’insostanziale leggerezza dei molteplici predicati, degli indefiniti accidenti?

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Eppure proprio questa massa totale e autonoma del predicato è “schwer”. Perché questa massa che comprende la totalità dei predicati, che è lo stesso movimento degli accidenti, la loro “leggerezza”, è ora essa il “soggetto”, la “sostanza”: quella Schwere, quella pesantezza che impedisce al pensare concettuale di muoversi liberamente. Siamo qui di fronte ad un radicale capovolgimento del rapporto soggetto-predicato. Hegel stesso parla di “contraccolpo”, Gegenstoß. Ed invero lo stesso significato del termine “soggetto” appare profondamente mutato. Quel soggetto iniziale – il soggetto del Daseinsurteil – che era stato presentato «come un sé oggettivo e fisso (als das gegenständliche und fixe Selbst)», a cui i predicati vengono riferiti accidentalmente, senza alcun vincolo di necessità, è ora definito come il soggetto «che entra nelle sue determinazioni e ne è l’anima»; laddove il soggetto, das wissende Ich, «vincolo dei predicati e soggetto che li sostiene (das Verknüpfen der Prädikate und das sie haltende Subjekt)», «invece di poter essere ciò che opera (das Tuende) […] il movimento dei predicati ha piuttosto ancora a che fare con il sé del contenuto, non deve essere per sé (für sich) ma insieme con il contenuto» (ib., pp. 50-51; it., I, p. 51). Come si spiega questo radicale mutamento o capovolgimento? Un inciso di Hegel risulta illuminante per l’intero discorso. Esso si riferisce a «ciò che opera il movimento dei predicati» e lo definisce «come pensiero raziocinante (als Räsonnieren)» in quanto «attribuisce questo o quel predicato» al soggetto del giudizio. Da qui si ricava chiaramente che per il pensiero concettuale – o speculativo – “vero” (quel “vero” che è non sostanza, ma altrettanto soggetto) non è neppure il movimento dalla sostanza al soggetto – come poco sopra, in una fase ancora provvisoria dell’indagine, si è detto –, ma è solo quel movimento che subisce il contraccolpo. Hegel, per spiegare la cosa, adduce ad esempio il ritmo che è fatto di metro ed accento. Non c’è ritmo senza l’interruzione dell’accento, senza che il

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movimento metrico sia frenato, fratto, dalla pausa dell’accento. L’armonia nasce solo dal contrasto tra la continuità metrica e la frattura dell’accento. Il paragone è felice. Ma lo si può apprezzare solo se si è compresa la “cosa” del pensiero, ciò che qui è veramente in questione. E cioè: la Hemmung, l’impedimento, del pensiero, il contraccolpo che rigetta il concetto dal libero predicato sull’immoto soggetto del giudizio, ovvero dal sé automoventesi sulla “sostanza”. Più semplicemente: cos’è la “pesantezza”, la Schwere, del predicato, la pesantezza di ciò che è, per definizione, leggero, perché di per sé mobile? 4. L’intero movimento che caratterizza la proposizione speculativa, il passaggio cioè dal soggetto del giudizio al predicato (o: dalla “sostanza” al “soggetto”) ed il conseguente contraccolpo che ripiega il movimento su se stesso, riportando il pensiero dal predicato al soggetto (o dal “soggetto” alla “sostanza”) – l’intero movimento della proposizione speculativa è palesemente un movimento ri-flessivo. Precisiamo: la ri-flessione, cui qui si fa riferimento, è la “riflessione ponentepresupponente”. Quella riflessione, cioè, di cui parla Hegel nella Scienza della logica all’inizio della Dottrina dell’essenza, subito dopo il paragrafo sullo Schein, sulla “parvenza” (WL, II, pp. 25-28; it., II, pp. 445-447). Questa riflessione è caratterizzata dal fatto che essa muove da un dato, da ciò che immediatamente appare, e ne rivela l’essere essenziale: quello che veramente è. Di questa rosa, ad esempio, che essa è un fiore sintetico, e cioè che non è pianta, ma minerale. La riflessione, come si vede, ha la struttura di un giudizio, o proposizione. Ma di un giudizio tale che il predicato toglie il soggetto. Nega cioè la parvenza del soggetto. Nell’esempio fatto: l’esser pianta, laddove è un minerale. Ma non solo dove la parvenza è inganno, la riflessione toglie

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nel predicato il soggetto, sì anche là dove la parvenza viene confermata. Se il predicato dice che questa rosa è pianta e cioè un organismo vivente e non un minerale, anche in questo caso il soggetto è tolto, perché non è più rosa, ma pianta, rosa come pianta, e non più solo rosa. In breve: non è più un dato, ma qualcosa di posto dalla riflessione. Da quanto si è detto risulta che la riflessione toglie il dato, il presupposto, per far di esso un posto. Toglie l’immediato nel mediato. Ma in tanto può togliere l’immediato, il dato, in quanto lo presuppone. Senza l’immediato la riflessione neppure potrebbe iniziare. La riflessione riflette su qualcosa che le è dato. Talché il presupposto com’è negato, così è affermato. La sua negazione coincide con la sua posizione. Posizione – si è detto. Il presupposto, come tale, è solo nella riflessione e per la riflessione, vale a dire: è posto come presupposto, dacché prima della riflessione non può essere il “presupposto” di questa. Ma porre il presupposto è toglierlo. Insieme, simul, hama, il porre è per il presupposto, per ciò che esso pone come presupposto, ma che è prima del suo porre. Un “prima” che è per il “poi”. Il circolo è evidente. Ma non è un circolo “virtuoso”, un circolo cioè che faccia progredire la riflessione, al contrario l’arresta. È der absolute Gegenstoß in sich selbst, l’assoluto contraccolpo in se stesso (WL, II, p. 27, it., II, p. 447). L’estrema irrequietezza della riflessione, il suo “trionfo bacchico” (der bacchantische Taumel: PhäG, p. 39; it., I, p. 38), precipita in un’assoluta quiete. È questa la Schwere, la pesantezza, della proposizione speculativa. E va detto che in essa lo speculativo si presenta proprio come questa pesantezza. Scrive Hegel: Als Satz ist das Spekulative nur die innerliche Hemmung und die nichtdaseiende Rückkehr des Wesen in sich.4

4. PhäG, p. 53. «Come proposizione lo speculativo è solo l’interno impedimento ed il non-immediatamente-esistente ritorno dell’essenza in sé» (it., I, p. 54).

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Ma questa pesantezza – l’impedimento o ostacolo, il “contraccolpo” – accenna ad altro ancora. 5. Hegel definisce la «pura assoluta riflessione» (die reine absolute Reflexion) come «il movimento dal nulla al nulla» (die Bewegung von Nichts zu Nichts: WL, II, p. 24-25; it., II, p. 444). Nulla è l’apparenza, il soggetto o dato, poi che è tolto dal predicato. Nulla è il predicato che è tolto nel suo ritorno (Rückkehr) al soggetto. Positivo è solo il movimento del porre e del presupporre, del presupporre e del porre. Ma anche il movimento, questo movimento ri-flessivo, si piega su di sé e si nega. Anche il movimento della riflessione è il “non” di se stesso, la sua negazione, non-movimento. Positivo, quindi, è solo il negativo che nega se medesimo e la sua negazione. Hegel sta qui realizzando quanto nella prima delle sue Habilitazionsthesen (1801) aveva sostenuto, e cioè che «contradictio est regula veri, non contradictio falsi» (W, 2, p. 533). Ma la realizzazione si rivela estremamente complicata. Dacché bisogna dire quanto al dire stesso sfugge. Diciamo infatti il movimento ed il non-movimento, ed anche il movimento come non-movimento, ma appunto li diciamo separatamente, prima l’uno poi l’altro. Il discorso è costruito secondo il principio di non contraddizione. La proposizione nomina prima il soggetto poi il predicato. E quando anche si perviene alla comprensione che il soggetto si scioglie nel predicato, questo diciamo nel tempo, seguendo la logica del tempo: prima il soggetto poi il predicato. Laddove il soggetto è già da sempre sciolto in predicato, ed il predicato già da sempre respinto sul soggetto. Ciò che nel dire non viene in luce è proprio la co-attualità del dire e del contra-dire. Questa co-attualità la diciamo sì, ma sempre post factum, in una proposizione che ha come contenuto la contraddizione, non come forma. Diciamo sempre la contraddizione di una precedente proposizione o giudizio. Ed

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invece bisogna dire la contraddizione del giudizio che adesso esprimiamo, la contraddizione del presente atto giudicante. Per farlo dobbiamo dire disdicendo. Il che peraltro sempre facciamo, e non altrove ed altrimenti che nei nostri comuni giudizi, come quando ad esempio, diciamo “questo è pane”, ove il questo non è questo, ma pane, e pane non è pane ma questo. Solo che tale ri-flessione resta inavvertita, perché prendiamo “questo” e “pane” come dei già sussistenti in sé e per sé, perché non badiamo all’atto del dire (disdicente), ma al suo contenuto. È insomma la prassi, o atto, del dire, che non appare; non appare – preciso ancora – nell’atto del dire, non nella successiva proposizione: ovvero, per ripetere Hegel, resta interiore. Resta interiore pur dopo che l’abbiamo esplicitata, esposta, esteriorizzata. 6. Torniamo a Platone, alla “cosa”, tò prágma, della filosofia, cui ci siamo riferiti all’inizio. Questa “cosa”, sappiamo, non è assolutamente dicibile. Essa è il “vero” che è oltre la verità dell’epistéme, dell’intelligenza e della dóxa. Platone lo definisce il “quinto” – dopo il nome, la definizione, l’immagine e la conoscenza. Ad esso non si accede direttamente, ma passando continuamente per i “quattro”, dal nome alla conoscenza e viceversa, finché per improvvisa illuminazione interiore non si riveli «la buona natura a chi ha buona natura» (eu pephykótos eu pephykóti: VII Lettera, 341c-d, 343e). Resta dunque il “quinto” – tò haplòs on, il semplicemente essente, il soggetto che non ha predicati, il puro semplicissimo “ti” – indicibile nell’interiorità dell’anima. Così Platone – che, peraltro, pur lo nomina, lo definisce: eu pephykótos, ciò che ha buona natura, il Bene. Diversamente Hegel, che, pur riconoscendo che lo speculativo è nella proposizione l’“interiore”,

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respinge esplicitamente l’intuizione (la platonica illuminazione interiore). Spesso […] noi ci vediamo rinviati dalle esposizioni filosofiche a questo interiore intuire (an dieses innre Anschauen), che così si risparmiano l’esposizione, da noi richiesta, del movimento dialettico della proposizione. (PhäG, p. 53; it., I, p. 54).

Hegel riconosce i diritti della “proposizione”, e quindi del parlare comune, quantunque sappia e dica che nel comune uso della proposizione e nel comune modo di concepirla, lo speculativo resta nascosto, inavvertito. La proposizione deve esprimere ciò che il vero è, ma esso è essenzialmente soggetto; in quanto tale è solo il movimento dialettico, questo andare (Gang) che produce se stesso, e procedendo oltre in se stesso ritorna. (Ib.).

È qui chiarito il senso ultimo di queste pagine, non proprio in linea con l’immagine più corrente – e codificata – di Hegel. La proposizione – vien qui detto – deve esprimere ciò che il vero è: la contraddizione pura dell’andar oltre che ritorna in sé; il movimento del dire che lotta col silenzio per portarlo a parola, e nel portarlo a parola ad esso si rimette; il “soggetto”, la prassi del dire che disdice, e disdicendo dice. Rileggiamo adesso la celebre, e da noi già più volte citata, tesi di Hegel, esposta sempre nella Vorrede della Fenomenologia, alcune pagine innanzi a quelle indicate in apertura: La forza dello spirito è grande tanto quanto la sua estrinsecazione, la sua profondità profonda per quanto esso osa nell’esporsi diffondersi e perdersi. (Ib., p. 15; it., I., p. 8).

Alla luce di quanto si è detto appare chiaro che non fuori ma nella forza stessa dello spirito che si espande è la pesantezza, l’impedimento che la trattiene, il contraccolpo che la ripiega su di sé, l’altro che la nega. Che non è l’op-posto, ciò che sta

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di contro, dal quale non sarebbe poi tanto difficile guardarsi. L’altro è l’interno, l’intimo – l’Ansichsein che resta tale pur nel Fürsichsein: quel duro nocciolo sostanziale che mai non si scioglie, che nell’esplicarsi non si esplica, e disdice il detto e pur il disdetto del dire che disdice. L’identità che è “prima” ed “altra” rispetto ad ogni sua determinazione5. Sempre nella Fenomenologia, ma in altre pagine non meno celebri e discusse, Hegel dette un nome a questo altro che si cela nel medesimo e si confonde con esso; in pagine che trattano di un mito antico e insieme moderno, contemporaneo: il mito di Edipo. Il nome che appare il più appropriato a questo altro: die lichtscheue Macht, la potenza che ha in orrore la luce (ib., p. 335; I, it., II, p. 28). Ogni pesantezza, ogni impedimento, ogni contraccolpo deriva da questa potenza oscura che – come la phýsis di Eraclito – krýptesthai phileî, ama nascondersi.

5. “La passion du concept”, nel senso che all’espressione dà J.-F. Kervégan in PC, spec. pp. 40-44.

III Al di là dell’essere […] Però non sarà neppure diverso da altro da sé, finché sarà uno; non è proprio infatti dell’uno essere diverso da qualche cosa, ciò è proprio soltanto del diverso che è tale rispetto ad altro diverso, non è proprio di nient’altro. […] Quindi in quanto è uno non sarà affatto anche diverso […] da nulla. […] Né sarà identico a se stesso […] la natura dell’uno non è certamente anche quella dell’identico. […] Perché non in quanto qualcosa viene ad essere identico a qualche cosa viene ad essere uno. […] Se si identifica ai molti di necessità viene ad essere molti e non uno. […] Ma se invece non c’è diversità alcuna tra l’uno e l’identico, allora quando qualcosa venisse ad essere identico, sempre verrebbe ad essere uno, e quando uno, identico. […] Così l’uno non potrà essere diverso né identico rispetto a se stesso né ad altro. (Platone, Parmenide, 139c-e) […] è in verità ineffabile: infatti qualsiasi cosa tu dica, tu dici sempre qualcosa. Ma “al di là di tutte le cose e al di là del sommo intelletto” è tra tutte la sola espressione vera non essendo nome di esso […]. (Plotino, En V, 3, 13)

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I Dall’essere all’essenza

1. Il compito della filosofia Secondo Platone (Critone, 46b 5-6) ed Aristotele (Met, I, 1, 981a 25 – 981b 13) compito della filosofia è lógon didónai: dare ragione. Chiaramente la filosofia deve dare anzitutto ragione di sé: della ragione di dare ragione, e della possibilità di farlo. E perché nulla che possa condizionare la ragione sfugga alla ragione, la filosofia è chiamata a dar ragione pur del suo inizio. Per rispondere a tale esigenza, essa ha posto se stessa, la ragione filosofica, l’io pensante, quale incondizionata condizione d’ogni cosa, come inizio assoluto, da tutto ab-­solutus. Così Fichte (come più tardi Husserl). Ma Hegel respinse tale inizio. Il cogito – obiettava – preso nell’immediatezza della vita quotidiana, presuppone l’insieme dei concetti, delle rappresentazioni e dei sentimenti di cui tale vita è intessuta; concepito invece come autocoscienza pura, presuppone l’opera di purificazione dell’“io trascendentale” dall’“io empirico” (cf. WL, I, pp. 76 ss.; it. 62 ss.; retro, Sez. I, cap. II). Vero inizio è quindi solo quel concetto che, essendo il più povero ed astratto, nulla presuppone, ed è il presupposto di tutto: il concetto di “essere” (cf. Enz., I, § 86). Ma si dà questo concetto? La domanda non è nostra, è di Hegel, il quale, sin nelle prime battute dell’Introduzione alla

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Dottrina dell’essere, afferma che l’inizio della scienza non può essere né immediato né mediato: perché, se immediato, è fuori del territorio della scienza, per non essere ancora concetto, e, se mediato, è sì nella scienza, ma nonché essere inizio e condizione, è solo un derivato, un condizionato. Orbene, se in nessun luogo, né in terra, né nello spirito, né altrove si dà immediatezza senza mediazione, o mediazione senza immediatezza (cf. WL, I, pp. 66-67; it. 52-53), come l’inizio? L’essere, il concetto più povero ed astratto, non presuppone forse al modo stesso dell’“io puro” il cammino di liberazione dall’empirico e dall’immediato? Non c’è l’intero cammino della Fenomenologia alle sue spalle? Invero c’è dell’altro ancora alle spalle del concetto più povero ed astratto: v’è quella «risoluzione» (Entschluß), che può esser considerata anche arbitraria (eine Wullkür), di prendere l’assoluta automediazione del sapere, cui mette capo l’iter fenomenologico, come una pura immediatezza, come qualcosa che ci sta semplicemente davanti (was vorhanden ist)1. Ripetiamo dunque la domanda: si dà questo “primo” concetto, questa assoluta semplicità, che è l’“essere” dell’inizio della Logica? Si dà in Hegel, per Hegel? Muovendo da questa domanda rileggiamo le prime categorie della Scienza della logica.

2. Essere, Nulla, Divenire Essere, puro essere, – senza nessun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad altro; non ha

1. Cf. WL, I, pp. 67 ss.; it., 53 ss.; in merito: V. Vitiello, VR, cap. I.

187 alcuna diversità né dentro di sé, né all’esterno. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso in lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l’essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto. – Nell’essere non v’è nulla da intuire, se qui si può parlare di intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l’essere non è, anche qui, che questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminato Immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla. Nulla, il puro nulla. È semplice somiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. – Per quanto si può parlare qui di un intuire o di un pensare, si considera come differente, che s’intuisca o si pensi qualcosa oppur nulla. Intuire o pensar nulla, ha dunque un significato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire o pensare, quel medesimo vuoto intuire e pensare che era il puro essere. – Il nulla è così la stessa determinazione, o meglio assenza di determinazione, epperò in generale lo stesso, che il puro essere. Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso. Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere non passa, ma è passato nel nulla, e il nulla nell’essere. In pari tempo però il vero non è la loro indifferenza, la loro indistinzione, ma è anzi che essi non son lo stesso, che essi sono assolutamente diversi, ma insieme anche inseparati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari tempo immediatamente risoluta. (WL, I, pp. 82-83; it., 70-71).

Nel 1840 il kantiano ed aristotelico Adolf Trendelenburg pubblica le Logische Untersuchungen, un’opera che avrà successo. Nel III capitolo della I Parte vi è contenuta u ­ n’aspra

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critica del metodo hegeliano. La pretesa di iniziare dal pensiero puro gli rammenta il postulato della geometria euclidea: «traccia una linea retta». Anche la logica dialettica muove infatti dal «semplice». Il suo postulato è: «pensa». Ma – obietta il critico – il pensiero puro non conosce opposizione: essere e nulla nella e per la loro astrattezza sono sì identici ma non differenti. Pertanto Hegel, per passare dalle morte astrazioni dell’essere e del nulla alla realtà viva del divenire, ha dovuto far ricorso all’intuizione sensibile – da cui pur assumeva essere il pensiero puro affatto indipendente –, introducendo, ma senza dirlo (stillschweigend), il movimento (spaziale) tra le categorie della pretesa Logica pura. Come prova ulteriore della validità della sua critica Trendelenburg cita i concetti di grandezza continua e discreta, intensiva e estensiva, di cui tratta la II sezione della Dottrina hegeliana dell’essere, dedicata alla Quantità, ed osserva: Chi ritiene di pensare questi concetti in modo puramente logico, non considera le intuizioni che li sorreggono. Le tracce del movimento, dello spazio e del tempo sono in questi concetti solo in piccolissima parte cancellate. E senza di esse non hanno chiarezza alcuna. (LU, p. 40).

Nella critica di Trendelenburg sono strettamente connessi due diversi motivi, l’uno, di derivazione kantiana, chiama in causa la distinzione tra intuizioni e concetti, sensibilità e pensiero; l’altro, invece, affatto immanente al discorso hegeliano, concerne la differenza tra i concetti di essere e nulla. È evidente che il primo motivo critico è alla base del secondo: proprio perché isola i concetti dalle intuizioni sensibili, Hegel non riesce a spiegare il sorgere del divenire. Chiaramente noi non possiamo non invertire l’ordine del discorso: solo se è vero il fatto – l’assenza della differenza tra essere e nulla – potremo interrogarci sulla validità della sua spiegazione. Ma è vero il “fatto”? Karl Werder (Logik, p. 41 e passim) e Kuno Fischer (SLM, pp. 137-164 e 194-204) l’hanno vivace-

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mente contestato, rilevando che il nulla non è solo identico all’essere, sì anche differente, perché ne esplicita il senso. E a questi due autori si richiama Bertrando Spaventa, il maggior interprete italiano di Hegel, nel proporre la sua originalissima lettura delle prime categorie della Scienza della logica2. Per contro Giovanni Gentile – proprio richiamandosi a Spaventa, del quale si voleva discepolo e continuatore – tornò a dare, di fatto, ragione al Trendelenburg, inasprendone addirittura la critica. Sostenne infatti che nella sua interpretazione ­Spaventa era andato oltre il pensiero di Hegel, il quale ebbe solo «l’intuizione vaga del divenire, non… il concetto», perché l’aveva «analizzato» anziché «realizzarlo» (RDH, p. 22). Vale a dire: Hegel, col presupporre l’analisi alla sintesi, aveva potuto cogliere i termini astratti del divenire – l’essere e il nulla nella loro mera identità o nella loro pura differenza in quanto “oggetti pensati” –, ma non la realtà del divenire quale pensiero pensante, quale identità-differenza di essere e nulla (TGS, pp. 54-57). E qui bisogna fare una pausa di riflessione. Gli equivoci che si sono addensati sulla pagina hegeliana sono invero troppi, per cui è necessario tornare a leggere con mente sgombra i testi. Ci si accorgerà che il Gentile critico di Hegel non fa che ripetere Hegel3. E lo Hegel che si legge “a libro aperto”: lo Hegel dell’«essenza che deve apparire», della «manifestazione del profondo». In breve: lo Hegel essoterico della Wirkungsgeschichte. Dell’aspetto nascosto ed inquietante del pensiero hegeliano Gentile non ebbe alcun sospetto, come invece Bertrando Spaventa, il Maestro mai veramente incontrato.

2. Di cui si dirà nel capitolo seguente e nella II Parte, in particolare nel cap. IV. 3. Ma, per una valutazione complessiva del pensiero gentiliano rispetto a Hegel, cf. retro, Sez. II, cap. I, e infra, P. II, cap. III.

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3. Il primo è il terzo. Negazione dell’inizio Né sospetto alcuno ebbe Croce, il quale anzi non mancò di esercitare la sua ironia su una pagina “teologica” di Spaventa particolarmente profonda, su cui ci fermeremo nella conclusione. Va detto tuttavia che neppure alle obiezioni à la Trendelenburg Croce riservò miglior trattamento. Tutt’altro. Questo «cavallo di battaglia» – scrisse – «tante volte inforcato dagli avversari» della dottrina hegeliana degli opposti è «un Brigliadoro o un Baiardo assai vecchio e sfiancato, sul quale non so come alcuno riesca a tenere ancora in sella». E senza neppure spendervi troppe parole, metteva in chiaro che il primo concetto della Logica è il divenire: «non già concetto aggiunto o derivato dai primi due separatamente presi, ma unico concetto, che ha, oltre di sé, due astrazioni, due spettri irreali, l’essere e il nulla separati, e, in quanto tali, accomunati… dalla loro comune vacuità» (SH, p. 19). Fu indubbiamente un colpo d’ala, se paragonato alle discussioni del tempo (fatta, ovviamente, eccezione per Spaventa), reso anche possibile dal fatto che una mente tutta versata nei problemi concreti della vita e della storia, come quella crociana, tanto poco incline alla meditazione metafisica e teologica, era e si sentiva naturalmente estranea al problema dell’“inizio”. Ed infatti nel circolo dei distinti, secondo il cui schema volle caratterizzare e denominare la sua filosofia, non v’è un primo ed un ultimo, ma ogni grado è volta a volta ultimo o primo, a seconda della prospettiva da cui ci si colloca o della attività che ci si trova a svolgere. Un colpo d’ala, certo, ma effimero. Non indugiando sul problema, Croce ricadde nell’errore che pur aveva subito visto e criticato: facendo dell’utile – un distinto in sé e per sé reale – l’opposto del bello e del vero e del bene (cf. LCP, P. III, cap. I), presuppose anch’egli l’analisi alla sintesi, l’astratto al concreto. Né si toglie l’astrazione nominalisticamente, col denominare, cioè, concreto l’astratto e, per giustificare quest’operazione, attribuendo al distinto che serve da opposto

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agli altri una sua propria interna opposizione (cf. FP, P. I, Sez. II, e P. III, Sez. I; retro, Sez. I, cap. I). Così non si fa altro che mettere confusione in casa propria, dopo averne decantato l’ordine e l’armonia. Ma torniamo a Hegel ed al problema dell’inizio. Il divenire è dunque il primo concetto. Non a caso Hegel dice che l’essere non passa (nicht übergeht) nel nulla, ma è passato (übergangen ist), e parimenti il nulla nell’essere. È passato – già da sempre. Mai non v’è stato essere, e non mai nulla: in nessun tempo, né storico, né ideale. Ne discende che non nel nulla bisogna trovare il differente dall’essere, bensì già nell’essere stesso. Vale a dire: per rispondere all’obiezione di Trendelenburg bisogna andar oltre l’interpretazione di Werder e Fischer, radicalizzandola. Perché, ove si trovasse nel nulla una differenza dall’essere non ancora presente nell’essere, e nell’essere un’identità non più presente nel nulla, questo comporterebbe che l’essere ed il nulla sono pensabili in sé e per sé prima e fuori del divenire. Proprio ciò che Hegel intende negare. Il compito che egli si prefigge nel trattare dell’inizio è di negare che un inizio si dia. Il “primo” concetto è il “terzo”. Proposizione, questa, non rovesciabile: non si può dire che il “terzo” è il “primo”, perché non c’è propriamente nessun “primo”. E questo Hegel dice e dimostra ampiamente già nella Fenomenologia dello spirito, e non solo là dove, nella Vorrede, afferma che il vero è risultato, sì anche là dove, trattando della “certezza sensibile” mostra che essa propriamente non è. Essa è percezione, intelletto, coscienza, autocoscienza, spirito infine, e mai sola “certezza sensibile”. D’altronde la prima figura reale, la prima “figura di mondo” che appare sulla scena della storia narrata dalla Fenomenologia è quella raffigurata nell’epos greco. Invero questa figura di mondo è pur essa astratta, irreale, perché non ancora “macchiata da scissione alcuna” (PhäG, p. 330; it., II, p. 21). Il mondo vero, reale appare solo con la tragedia. Ma torniamo alla Logica.

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Il vero, o assoluto, è risultato solo perché «l’inizio è fine» (ib., p. 22; it., 17). A ragione Emanuele Severino afferma che «quando qualcosa giunge ad essere altro, qualcosa è altro da sé», che il divenire va inteso non solo come diversificazione ma altrettanto bene come identificazione. Ma che qualcosa sia altro da sé, che l’identico sia differente non è però «per il pensiero occidentale, l’impensabile, l’assurdo»4. Platone stesso, cui Severino si richiama, mostra nel Sofista che l’identico, in quanto tale, partecipa del diverso, è cioè diverso dal diverso (cf. spec. 259a-b). Senza questa diversità dal diverso neppure sarebbe identico. Nonché essere impensabile, perché impossibile ed assurda, la medesimezza di identico e diverso è la condizione stessa della pensabilità dell’identico. Con ciò, beninteso, non si vuol dire, e non si sta dicendo, che il divenire comporti quella medesima identificazione del diverso, o diversificazione dell’identico che è teorizzata da Platone nel Sofista. Chiaramente si tratta di tutt’altro, come Hegel sapeva bene, e ben esprimeva, già quando presentava le sue tesi di abilitazione all’insegnamento universitario, la cui prima recita: contradictio est regula veri, non contradictio falsi (W, 1, p. 533). Fermiamoci dunque su questa contradictio e vediamo qual è il luogo suo proprio, che è poi il luogo vero del divenire, ovvero: della eliminazione dell’inizio, della possibilità stessa dell’inizio.

4. E. Severino, T, p. 14; in merito cf. retro, Sez. II, cap, II, §§ 7-12.

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4. Il luogo del divenire: l’essenza Nella logica dell’essere non si ha propriamente divenire. O, a dir bene: il divenire appare nel movimento delle prime tre categorie, per poi subito scomparire: L’essere e il nulla stanno nel divenire solo come dileguantesi; ma il divenire, come tale, non è che in forza della loro diversità. Il loro dileguarsi è quindi il dileguarsi del divenire, o il dileguarsi del dileguarsi stesso. Il divenire è una sfrenata inquietudine, che precipita in un risultato calmo. (WL, I, p. 113; it., I, p. 99).

La ragione sta in ciò che nella logica dell’essere la negazione non è ancora pensata secondo verità. Il negativo è posto come esterno al positivo. Gli opposti sono due identità che si fronteggiano (cf. WL, II, p. 24; it., 444). L’identità di identico e diverso è pensata ancora al modo della partecipazione del Sofista platonico. Se per un lato, o riguardo, l’identico è il (= partecipa del) diverso, per un altro non-è il (non partecipa del) diverso. L’identità dei due è monca, incompiuta. Perciò l’essere non è la verità di sé. La verità dell’essere è l’essenza. L’essere è l’immediato. In quanto il sapere vuol conoscere il vero, quello che l’essere è in sé e per sé, esso non rimane all’immediato e alle sue determinazioni, ma penetra attraverso quello, nella supposizione che dietro a quell’essere vi sia ancora qualcos’altro che non l’essere stesso, e che questo fondo costituisca la verità dell’essere. Questa conoscenza è un sapere mediato, poiché non si trova immediatamente presso l’essenza e nell’essenza, ma comincia da un altro, dall’essere, e ha da percorrere antecedentemente una via, la via dell’uscir fuori dell’essere o piuttosto dell’entrarvi. Solo in quanto il sapere, movendo dall’immediato essere, s’interna, trova per via di questa mediazione l’essenza. (WL, II, p. 13; it., 433).

Questo passo è la migliore dimostrazione dell’impossibilità dell’inizio, dell’impossibilità dell’immediato. Insieme dell’im-

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possibilità della mediazione, del risultato. È la migliore dimostrazione che non v’è in alcun luogo, né in terra né nello spirito mediazione senza immediatezza, e viceversa. L’essere, in quanto immediato, non è il vero – perché non è (non dà) ragione di sé. Viene qui ripresa la distinzione aristotelica tra hóti e dióti, “che” e “perché”. Il “perché” di un fatto, di un “che”, non è il fatto; pure non si può non partire dal fatto per darne-trovarne la ragione. La ragione non muove da sé – altrimenti sarebbe essa l’immediato. E come immediato si presenta dapprima, quando viene pensata come “qualcosa” che stia dietro l’essere, quasi l’essenza, che è ragione dell’essere, verità dell’essere, fosse altro essere di contro al primo. Ma l’essenza non è l’essere. Ne è la verità. La verità, che si mostra qui, anzitutto, come negativa. La verità è il “non” dell’essere. La verità non-è essere. L’essenza in quanto verità nega l’essere di cui è verità. Nella sua verità l’essere è la negazione di sé. Qui l’“altro” dall’essere, il “non” dell’essere non sta di contro all’essere, è bensì in esso, è esso medesimo. Siamo qui dinanzi ad un’identità di medesimo ed altro che è tutt’altra da quella del Sofista platonico, da quell’identità di identico e diverso che abbiamo visto caratterizzare l’essere in quanto tale. C’è da dire allora che per giungere al “divenire” bisogna attraversare l’intera Dottrina dell’essere, e oltrepassarla. Solo l’essenza, in quanto negatività immanente all’essere, è il luogo del divenire. Perché il luogo della negazione dell’inizio. Torniamo al brano citato: «Questa conoscenza è un sapere mediato, poiché non si trova immediatamente presso l’essenza e nell’essenza». Fermiamoci qui: se l’essenza è la verità dell’essere, il sapere di questa verità non appartiene però alla verità stessa, ma è altro – è un terzo. Sapere e verità sono due. E giacché la verità non è l’essere, i termini sono tre: essere, verità, sapere. Ma non stiamo ragionando secondo la logica dell’essere? non stiamo enumerando? Forse, però, questo

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“tre” è diverso dal tre della Quantità. Diverso come? Continuiamo a leggere. Questa conoscenza, la conoscenza dell’essenza, «comincia da altro, dall’essere, e ha da percorrere antecedentemente una via, la via dell’uscir fuori dall’essere o piuttosto dell’entrarvi». Al sapere se non è estranea l’essenza, neppure è estraneo l’essere. Dal quale deve sì uscir fuori, ma solo per penetrare in esso. È un uscir dalla superficie per entrare nel profondo. Palesemente le immagini spaziali del linguaggio sono affatto inadeguate. Se l’uscir fuori è un entrar dentro, ciò sta a significare che l’essenza non è altro dall’essere, ne è bensì – come si è detto – la verità: ciò che l’essere da sempre era. Hegel, sempre attento al carattere filosofico del linguaggio, e del tedesco in particolare5, rileva qui, in questo brano d’apertura della Wesenslehre, che la lingua tedesca «ha conservato l’essenza (Wesen) nel tempo passato (gewesen) del verbo essere (Sein); in quanto l’essenza è l’essere passato (das vergangene Sein), ma passato senza tempo» (WL., p. 13; it., 433). Das vergangene Sein ripete chiaramente l’aristotelico tò tí ên eînai, quod quid erat esse, ciò che l’essere era, da sempre. Ma dice dell’altro ancora. Dice che l’essenza è l’oltrepassamento dell’essere: è sì essere ma in quanto passato, e cioè superato, aufgehoben, conservato solo nel suo oltrepassamento. In questo senso “passato” non è l’essenza, passato è l’essere. Nell’essenza, che ora è presente – il presente attuale, wirklich, dell’essere – l’essere è solo “passato”. E passato non soltanto in quanto oltrepassato, ma in quanto essendo in potenza la sua essenza, l’essere è sempre, è già da sempre, il passato dell’essenza. L’essenza è il presente, l’atto dell’essere, che ha già da sempre oltrepassato l’essere. I tempi dell’essere

5. Cf. la Prefazione alla II edizione della WL: I, pp. 20-21, it., I, pp. 10-11; e l’importante Anmerkung al § 459 di Enz.

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e dell’essenza si intrecciano, si invertono, e si con-fondono. I tempi e i ruoli. Se l’essenza è il presente, l’atto dell’essere, allora è essa il fatto, il fatto vero, l’esistenza che sempre ci sta dinanzi. L’esistenza essenziale. Che però è tale – essenziale – solo poi che ha attraversato il lungo cammino (della Dottrina) dell’essere. Ora è l’essere, l’attraversamento dell’essere, che media l’essenza. Ma cos’è mai questo attraversamento dell’essere, nelle sue fondamentali scansioni della Qualità, della Quantità, della Misura, se non appunto il porsi dell’essenza? L’essenza è l’essere stesso, il movimento dell’essere, fuor del quale semplicemente non è. Ora si mostra chiarissimamente che il non-essere dell’essere, l’essenza, è l’essere stesso dell’essere. L’assurdo, l’impossibile, l’impensabile di Severino – è qui pensato! Essere è Non-essere. Il divenire è questo. Questa contraddizione, in cui il positivo è il negativo, ed il negativo è il positivo. E lo è, non nel senso che prima non lo era e poi lo è. Lo è già da sempre. Un sempre, però che lo si scopre solo ora. Che appare – e qui il termine ha una valenza semantica molto ampia, comprendendo insieme il significato hegeliano e quello proprio di Severino – solo ora. Ma questo apparire che appare solo ora è pur esso già da sempre, non essendo essenza quella che non appare: Das Wesen muß erscheinen (WL, II, p. 124). L’apparire dell’essenza essendo determinazione essenziale dell’essenza non può mancare. L’essenza che ora appare, è già da sempre apparsa. L’“ora” non è ora, è sempre. Di nuovo la determinazione essenziale si flette su di sé, e si nega. Negativa non è solo l’essenza rispetto all’essere, sì anche l’essere rispetto all’essenza. «Il divenire nell’essenza, il suo movimento riflessivo, è quindi il movimento dal nulla al nulla, e perciò il movimento di ritorno a se stesso» (ib., p. 24; it., II, p. 444). Fuor di questo movimento negativo di ritorno in se stesso, il divenire non lo si intende. Perché non c’è, semplicemente non c’è. Il movimento negativo di ritorno in se stesso è la contra/

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dizione pura, ove il termine pensato è pensato solo come negazione di sé, e questa solo come negazione della negazione. Pertanto l’esempio che Severino fa del divenire: “la legna diventa cenere”, non è affatto un esempio di divenire, è solo una rappresentazione di stati successivi: come l’immobile freccia di Zenone. Ma allora cos’è propriamente divenire?

5. Della possibilità possibile Torniamo al brano citato all’inizio del § 4. Il sapere, il “terzo”, s’interna nell’essere e “trova” (findet) l’essenza. Ma questa, l’essenza, in quanto verità, non è altro che il sapere di sé. Non è verità quella che non conosce sé. Una verità inconscia non è verità. Al più è una verità in potenza. Ma la verità in potenza è riconosciuta come tale, come verità, solo quando la verità sa se stessa, sol quando è passata in atto. Quando è negata come potenza. Talché il sapere, il “terzo”, è, è-presente, quale “terzo”, solo quando la verità non ancora è – non ancora è in atto. Il sapere si distingue dalla verità solo in assenza della verità. Ma che sapere è quel sapere che in assenza di verità non sa e non può sapere? È propriamente un non-sapere. Un sapere pur esso in potenza, un voler sapere, un ricercare. Ma questo sapere che ricerca, questo sapere solo in potenza, perché non possiede il vero, non è che il movimento dell’essere. Ovunque si guardi, il “terzo”, il sapere, non c’è. Non c’è come terzo, perché è o l’essenza o l’essere. È “terzo” solo quando essere ed essenza si prendono come termini separati. Ma quando sono davvero pensati, pensati come la negazione che nega se stessa, come divenire, il terzo scompare come terzo. È l’essere o l’essenza. Invero è entrambe, ma non come due, bensì come uno. Ma uno che è insieme due e tre, perché l’essere

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è solo nella sua riflessione negativa nell’essenza, e l’essenza nella sua negazione riflessiva nell’essere. Il sapere, il “terzo”, è solo questo giuoco riflessivo dell’essere che si nega nell’essenza e dell’essenza che si nega nell’essere, ove ciascun termine si pensa solo come negazione in altro, e questa, la negazione in altro, come il termine stesso da cui si è iniziato, ovvero come la negazione della negazione. Questo giuoco riflessivo, questa contraddizione, è ciò che Hegel definisce der absolute Gegenstoß in sich selbst, l’assoluto contraccolpo in se stesso (ib, II, p. 27; it., p. 447). Questo “contraccolpo” è il giudizio. Il giudizio dell’essenza, ovvero della verità; non il giudizio dell’essere prima e fuori della sua verità, dell’essere astrattamente, cioè intellettualisticamente, pensato e posto. Non il giudizio: “la legna è (diviene) cenere”, ove si pretende che due realtà distinte si identifichino, che due stati siano (in) movimento – per il quale giudizio vale l’antica sentenza: rem de re predicare monstrum dicunt –; ma il giudizio: “il possibile è reale”, ove sono due modalità opposte che si identificano. Ora qual è il senso di questo giudizio contraddittorio: “il possibile è reale”? Come fa il possibile ad essere reale? Vero è che noi pensiamo il possibile a partire dal reale, e cioè – Aristotele docet – come potenza. Che in quanto tale contiene i contrari, essere e non essere. La potenza, infatti, può realizzarsi o non realizzarsi. Ma, pensato come “potenza”, il possibile non è possibile in rapporto a sé, ma in rapporto ad altro: in rapporto al reale che da esso può derivare. In rapporto a sé il possibile è necessario, ovvero è necessariamente possibile. Esso ha una struttura, quella appunto del possibile, cui non può sottrarsi. Se invece si pensa il possibile nel suo esser possibile anche in rapporto a sé, allora esso non è solo possibilità di realizzarsi o di non realizzarsi, sì anche impossibilità di realizzarsi o di non realizzarsi. Ma questo significa che il possibile non è, ma

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è-possibile. Vale a dire: esso non ha struttura. Si comprende qui il senso del “tre” essenziale di cui sopra si parlava. Esso è un numero non numerico, perché non definisce stati, ma descrive una particolare forma di rinvio, quella sopra caratterizzata come “assoluto contraccolpo in se medesimo”. Per cui non ha senso dire che la possibilità possibile, la possibilità che è tale anche in rapporto a sé non è la possibilità-potenza, la possibilità possibile solo in relazione ad altro. Non avendo struttura, essendo possibilità anche della propria impossibilità, il possibile non è negazione d’altro più di quanto non lo sia di sé, perciò è solo possibile possibilità. Ora il giudizio “il possibile è reale” non solo dice la negazione del possibile nel reale, sì anche la negazione del reale nel possibile. Il divenire è questo: una irrequietezza che non cade mai in un risultato quieto. Nulla è mai divenuto. Tutto diviene. E diviene il divenire stesso, in quanto sempre nella possibilità della sua negazione. La negazione del divenire è ciò che salva il divenire, ciò che lo sottrae ad esser esso medesimo un “divenuto” – ciò che lo salva dall’essere. Ciò che lo mantiene nella possibilità possibile. “Il possibile è reale”. Il mistero del possibile è tutto in quella paroletta (Wörtchen: Kant), nella copula, che è solo nonessendo, che è solo nella negazione di sé. Ma, appunto: nella negazione di sé – è; non essendo – è. La copula dice certamente che il “possibile è reale”, ma non al modo dei giudizi: “il reale è reale”, “il possibile è possibile”. L’“è” del giudizio: “il possibile è reale” identifica ed insieme (hama, simul) separa; e cioè: de-possibilita il possibile e de-realizza il reale. Il “terzo”, il “sapere”, la copula del giudizio, mette in luce il carattere di rinvio della possibilità del possibile, che non è mai, ma solo è-possibile. Ed in quanto tale, in quanto è-possibile, è anche. Ma si intenda bene: l’“è-possibile” non è un cerchio più ampio in cui v’è, ad esso concentrico, il cerchio dell’“è”. Così pensando-dicendo, contrapporremmo ancora una struttura ad un’al-

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tra. Vero è che il cerchio della possibile possibilità non è né più ampio né più stretto del cerchio dell’“è”. Semplicemente non vi è cerchio del possibile. Il possibile è-possibile. Se scindiamo l’“è” di “è-possibile” da “possibile”, non abbiamo più la possibilità possibile. Ma se la possibilità è possibilità di sé e del suo contrario, dell’impossibile, come dal possibile al reale? Se nel giudizio “il possibile è reale” il reale resta sempre possibile, quale compito avrà mai ancora la filosofia? C’è ancora spazio per il lógon didónai, o non resta altro che il silenzio mistico nella fiduciosa attesa di interiori illuminazioni? La contemplazione da logica si muta in estatica? Niente di tutto questo. La consapevolezza che la domanda è senza risposta non toglie l’esigenza di lógon didónai. Anzi, il compito di dare ragione si rivela più arduo proprio là, dove si mostra la necessità di dare ragione del limite del dare ragione. Questo lógon didónai, infatti, non giunge mai a compimento, la domanda rimbalzando su se stessa: perché il perché? Ed è già sottrarsi alla domanda credere che i due “perché” siano uno e medesimo.

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II Prima dell’Essere (Quod esse praecedit)

Bertrando Spaventa non è certo l’unico filosofo, nella storia, la cui fortuna postuma ha superato di gran lunga quella che gli toccò in vita. E forse non è neppure l’unico caso in cui la maggior fortuna non ha coinciso con una migliore e più profonda comprensione del problema che fu suo. Suo – perché ad esso dedicò le sue maggiori e migliori energie – ma che aveva ereditato, attraverso Hegel, dall’intera tradizione filosofica occidentale, che da questo problema è segnata sin dalle sue lontane origini: … tò gàr autò noeîn estín te kaì eînai.1

Problema che nella formulazione spa­ventiana assunse il carattere di un compito, di un progetto: «provare l’identità»2. Ora, non è difficile mostrare che anche presso quegli stessi cui si deve, anche se per ragioni diverse, la presenza di Spaventa nella cultura italiana del Novecento – e cioè Gentile e Croce3 – la consapevolezza del problema non solo non fu maggiore, 1. Parmenide, Fr. 3, TF, pp. 130-131. 2. B. Spaventa, Schizzo di una storia della logica, Op, II, p. 644. 3. Cf. E. Garin, CFI, pp. 19‑20. Per un’analisi dettagliata e all’altezza dei problemi affrontati cf. R. Morani, DR.

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ma neppure eguagliò quella di Spaventa. Croce in particolare confessava scarsa simpatia per gli scritti spaventiani ed era incline a respingere il problema della relazione del pensiero con l’essere tra le anticaglie della filosofia teologizzante o «metafisica»4, ritenendo risolto il problema con l’affermazione della spiritualità delle categorie5. E invece il problema gli si presentava innanzi più spinoso che mai nella forma della distinzione (che celava una reale, dura opposizione) tra ­theoreîn e poieîn (poieîn, dico, non práttein), che egli cercò in qualche modo di dominare proprio col postulato dell’“identità” tra le categorie predicati di giudizi e le categorie potenze del fare6. Ma anche Gentile, rifiutando la distinzione hegeliana tra Fenomenologia e Logica, riduceva immediatamente l’essere al pensiero, sottraendosi così all’onere della prova7. Per comprendere l’importanza, che il problema del cominciamento riveste nella meditazione di Spaventa bisogna allora partire da qui: dal problema dell’identità.

4. Cf. B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, in EP, pp. 409‑410. L’atteggiamento critico‑polemico nei confronti di B. Spaventa è rimasto costante in Croce: cf., ad esempio, lo scritto del 1913, “Intorno all’idealismo attuale”, raccolto in Cc/II, pp. 71‑72, e gli altri due del 1949, “Le cosiddette Riforme della filosofia e in particolare di quella hegeliana”, e del 1951, “Hegel e l’origine della Dialettica”, raccolti in IH, pp. 56‑58 e 31‑32. 5. Cf. B. Croce, LCP, cit., Parte I, Sez. III, cap. III, “La logica e la dottrina delle categorie”, pp. 146‑156. 6. Cf. B. Croce, SPA, cit., pp. 38 ss.; sull’opposizione tra il theoreîn ed il poieîn cf. il saggio “La grazia e il libero arbitrio”, cit.; sulla distinzione del poieîn dal práttein cf. “Il primato del fare”, in FS, cit., p. 5 nota. Su questi temi cf. retro, P. I, Sez. I, cap. I, e infra, P. II, Ex-cursus I. 7. Cf. G. Gentile “Il metodo dell’immanenza”, RDH, cit., pp. 227‑229.

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I - L’Identità come relazione 1. Sguardo retrospettivo Spaventa eredita il problema dell’identità nella forma in cui la filosofia moderna l’ha elaborato. E cioè nella forma del soggetto8. Come dire: dei due termini della relazione – pensiero ed essere – egli privilegia il primo. E la ragione sta in ciò che, muovendo dal secondo termine, dall’essere, non v’è necessità alcuna di trascorrere all’altro. E quando la conoscenza viene assunta come un “ente” accanto ad altri enti nella totalità dell’essere – per cui come c’è la natura, così c’è l’uomo che pensa e conosce la natura – allora non v’è nessuna dimostrazione della relazione tra i due. La relazione è solo un “presupposto”. Così Spaventa, trattando della logica aristotelica: Quel che manca in Aristotele, è la soluzione del problema della relazione tra le categorie, senza di cui niente s’intende, e l’atto o la forma del pensare: tra la materia e la forma logica: in altri termini, tra la metafisica e la logica .(Op, II, p. 620)

E, pur riconoscendo che il concetto aristotelico di sostanza ha insieme valore logico e ontologico, tuttavia rileva che in Aristotele non è determinata la relazione tra i due: «Dice che son uno; ma non traendoli dall’uno, non li distingue, né li fa uno davvero» (ib., II, p. 621). Ciò che è importante in questa critica è che Spaventa, pur privilegiando il soggetto, non dimentica però mai che l’elemento fondamentale è, e resta, la relazione. Questo è il suo hegelismo di fondo – la prospettiva a partire da cui giudica le soluzioni che al problema hanno dato i filosofi moderni.

8. Cf. G. W. F. Hegel, VGPh, III/2, pp. 66 ss.; M. Heidegger, N, II, pp. 141 ss.; it., p. 651 ss.

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Anzitutto Kant, al quale riconosce il merito d’aver per primo compreso che il conoscere non è un fatto che si possa assumere come dato naturale ed analizzarlo, essendo al contrario quell’attività riguardo alla quale si pone anzitutto il problema: se e come e possibile. In Hume la filosofia moderna nega se stessa come filosofia naturale; e in Kant afferma se stessa come filosofia del conoscere, come filosofia critica, cioè come filosofia della possibilità di conoscere. (Ib., II, p. 626).

Conoscenza è dunque anzitutto conoscenza di sé – conoscenza ri‑flessa. Questa ri‑flessione esprime il primato del pensiero, che non ha nulla dietro di sé se non se medesimo, che nulla presuppone che sia altro da sé. Che dunque non è un fatto, un dato che si trovi, ma un’attività: l’attività che pone se medesima. Ri‑flessione è autoposizione. Qui l’unità di logica e metafisica, che però è solo in potenza nel criticismo kantiano. Infatti, più che l’unità delle due, nella filosofia kantiana si trova la riduzione della metafisica a logica. L’Io penso da unità sintetica originaria degli opposti – io‑mondo, soggetto-oggetto, pensiero‑essere – si riduce a pura forma soggettiva del pensare che ha fuori di sé il reale, das Ding an sich9. Talché da incondizionato e privo di presupposti che doveva essere, il conoscere decade a condizionato; da assoluto fare a fatto – ad ente tra enti. Kant retrocede alla posizione del naturalismo antico. Nel che è implicito che o il primo termine della relazione – il pensare – riesce a porsi come la totalità della relazione, ovvero si ricade nel dualismo, e cioè nell’impossibilità di spiegare la relazione e con la relazione il conoscere, e con il conoscere l’essere medesimo. O la trasparenza totale della logica che è

9. Cf. la critica di Hegel a Kant in GW, pp. 310‑311; it., pp. 144‑145.

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metafisica, o la totale oscurezza del naturalismo, ossia di una metafisica che non sa “giustificare”, rechtfertigen, se stessa. Di questa ineludibile alternativa fu pienamente cosciente Fichte, che concepì il conoscere come conoscenza di sé che è insieme, uno actu, conoscenza dell’altro. Nulla più resta, così, fuori dell’Io. Nulla è più dato o fatto, tutto si dà, si fa: il soggetto ponendo se stesso e il suo altro non è più solo soggetto, ma soggetto‑oggetto. Il porre, in quanto assoluto porre, è la totalità della relazione. Ma che tipo di totalità? Una totalità ancor tutta soggettiva – dice Spaventa, seguendo da vicino Hegel critico di Fichte10. Ma che significa qui totalità soggettiva? Il soggetto, ponendosi come relazione di sé con sé e con l’altro da sé, non ha superato la propria “iniziale” soggettività? L’avrebbe, se l’un termine non fosse dominante rispetto all’altro – se cioè anche nell’altro termine della relazione si riconoscesse la totalità della relazione. Il che non accade in Fichte, ma in Schelling. Osserva Spaventa: per Fichte «l’Io come Se stesso dev’essere se stesso e l’altro»; per Schelling «perché il conoscere sia reale, l’Io dev’essere nel non‑io, cioè il non‑io dev’essere non‑io ed Io» (Op, II, p. 636). Con Schelling viene in primo piano l’identità degli opposti, la vera, reale e non formale, unità sintetica originaria. Ma, se la natura è spirito e lo spirito è natura, è allora necessario un organo che abbia dell’una e dell’altro e che sia insieme oltre l’una e l’altro, perché possa conoscere la loro identità. Quest’organo è l’intuizione intellettuale – che coglie l’identità oltre la differenza. Questa intuizione intellettuale è il medio, la relazione pensiero‑essere: la realtà di pensiero ed essere. Spostando l’attenzione da uno dei termini del rapporto al rapporto medesimo, Schelling rende reale quella totalità che in Fichte è soltanto possibile. Che l’io per conoscersi abbia 10. Cf. retro, P. I, Sez. I, cap. I.

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da porre insieme con la relazione a sé la relazione all’altro, non testimonia punto della realtà dell’altro e quindi della realtà del sé. Se la filosofia antica ha dimostrato l’indeducibilità del pensare dall’essere, la filosofia moderna prova l’indeducibilità del reale dal possibile. L’identità fichtiana – rileva Spaventa – è un se: una relazione necessaria, ma solo possibile. Schelling ha oggettivato questa relazione coll’intuito; ed ecco la natura: il reale. (Ib., II, 638).

Ma in tanto l’identità ha forza, potenza (Kraft) “realizzatrice”, in quanto si mostra come da essa derivano gli opposti. La relazione – l’identità, l’autó ‑ deve fare quanto né il pensiero né l’essere possono fare: deve porre i suoi termini. Ma questo è proprio quanto l’intuizione intellettuale non è capace di fare, non può fare, perché – dice Spaventa – è un atto immediato: «una logica, che non è logica» (ib., II, 640). L’intuizione intellettuale non spiega l’identità – semplicemente la presuppone11. Solo la logica discorsiva può spiegare (es-plicare) l’identità, mostrando come da essa derivino pensiero ed essere, coscienza ed inconscio, io e non‑io, spirito e natura; e questo significa dimostrare, provare l’identità. L’identità si prova dimostrando la sua potenza realizzatrice, la sua capacità (Kraft) produttiva. Fin quando resta un presupposto non va oltre la natura di Spinoza, oltre il parallelismo tra ordo rerum e ordo idearum.

2. La distinzione tra Fenomenologia e Logica Spaventa sa bene di muoversi tra opposte esigenze: per un verso si è dovuto allontanare dal puro pensiero (noeîn) verso il 11. È, questo, il perno della critica di Hegel a Schelling: dal noto paragone dell’“immediato inizio dall’assoluto” con un “colpo di pistola” (PhäG, p. 26; it., p. 22) alla presentazione della sua filosofia in VGPh, III/2, pp. 375-409.

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centro della relazione – l’identità, tò autò – per dare “realtà” al conoscere meramente “possibile” di Fichte; per un altro deve tenere il centro ben legato al polo soggettivo, se non vuole rinunciare a spiegare l’identità. Il primato del conoscere non è facilmente accantonabile. Come, allora, dar ragione a Fichte senza smentire Schelling? In questa domanda è racchiuso il senso della filosofia moderna – la sua capacità di dare ragione di sé e della filosofia antica, la sua capacità di porsi oltre le opposte unilateralità dell’ontologismo e dello psicologismo. E la grandezza di Spaventa, dell’opzione hegeliana di Spaventa sta appunto nell’aver capito questo – anche meglio di quelli che lo seguiranno12. Dunque: come portare l’identità alla logica – al pensiero – senza negarne la “realtà”? Come provare logicamente l’identità, senza perciò stesso renderla meramente “possibile”? Scrive Spaventa: Provare l’identità come mentalità è provare la creazione, giacché l’identità come mentalità è appunto l’attività creativa; dunque risolvere il problema del conoscere è provare la creazione. (Ib., II, 644).

L’identità come mentalità è la relazione riportata al pensiero – è il riconoscimento del primato del pensiero. Provare l’iden12. A. Plebe, in Sat e SaN, ha sollevato forti riserve sull’“hegelismo” del filosofo abruzzese, valutando la sua posizione più vicina a Kant e a Fichte che non a Hegel. La critica di Plebe, che ha suscitato l’aspra reazione di F. Alderisio (cf. RS, pp. 75‑146), non tiene in debito conto il ruolo che la Fenomenologia dello spirito giuoca nell’interpretazione spaventiana di Hegel, pertanto neppure è in grado di misurare l’effettiva distanza che separa Spaventa dall’attualismo (senza voler qui nulla anticipare di quanto si dirà nella seconda parte di questo capitolo riguardo al limite ontologico del pensiero, la cui definizione segna il reale superamento di Hegel da parte di Spaventa; ma su ciò, cf. P. II, cap. IV). Sulla ‘controversa’ eredità spaventiana si veda l’equilibrata conclusione di I. Cubeddu in BS, cap. IV “la metafisica perplessa”, spec. pp. 298-301.

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tità come mentalità significa allora di‑mostrare la realtà del pensiero. Ma questo può esser fatto seguendo due diverse, ed anzi opposte, vie argomentative: la prima che muovendo dal pensiero mostra la “genesi” dell’essere; l’altra che muovendo dall’essere, dal reale, mostra la “genesi” del pensiero. Spaventa, con Hegel, percorre entrambe queste vie. Di più: mette in luce la necessità di seguire la via che muove dall’essere, dal reale, prima di quella che muove dal pensiero. E infatti, se l’identità in sé è muta – il discorso è solo del molteplice – non c’è altro modo di provarla che muovendo dall’uno o dall’altro dei suoi estremi. Solo scorrendo la relazione, la si prova, la si di‑mostra. Esplicare la relazione – ovvero: provare la creazione – significa allora non: procedere dal silenzio dell’Uno all’effabilità dei molti, ma: dire l’unità dei molti, l’unità nei molti. Che è poi il programma antischellinghiano da Hegel esposto nella Vorrede della Fenomenologia dello spirito: La forza dello spirito è grande quando la sua estrinsecazione, la sua profondità profonda nella misura in cui, esplicandosi, ardisca di espandersi e di perdersi. (PhäG, p. 15; it., I, p. 8).

Nella rivendicazione del discorso logico contro das prophetische Reden, contro das begriffslose Wissen, contro il sapere aconcettuale del parlare profetico, Hegel affermava il suo immanentismo, la sua esclusiva attenzione al mondo, alla determinatezza determinata delle opere. Dio – dirà – si conosce solo nelle opere (WL, II, p. 404; it., II, p. 803). Spaventa lo segue con rigorosa coerenza. A respingere la tesi crociana che la riflessione di Spaventa era mossa più da intenti teologici che non filosofici, basterebbe ricordare l’insistenza di questi sulla priorità della Fenomenologia rispetto alla Logica. Muovere dalla Fenomenologia significa per Spaventa muovere dal reale, dal fatto, per ritrovare in questo il pensiero, l’attività. Solo così l’“oggettività” della scienza non sarebbe rimasta

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chiusa nell’ambito del pensare. Ritrovare il pensiero nell’essere era il primo compito che il programma «provare l’identità» dettava. Gentile proprio questo non intese. La critica che mosse a Hegel riguardo alla distinzione tra Fenomenologia e Logica, rappresenta un effettivo arretramento rispetto alla posizione di Spaventa. Gentile vide in quella distinzione la separazione del pensiero dalla verità: Il processo dialettico della Fenomenologia […] non è un processo dentro la verità, ma un processo alla verità: la quale non è concepita perciò come identica al pensiero: ma soprannuotante ad esso, come le idee platoniche all’anima infiammata da Eros, e come l’intelletto attivo all’intelletto passivo di Aristotele. (RDH, p. 227).

E invece quella distinzione aveva il compito di assicurare la realtà al pensiero, la realtà del pensiero – e cioè l’immanenza reale e non soltanto possibile (alla maniera fichtiana) della verità al pensiero. La cosa – die Sache, la questione – è del tutto esplicita in Spaventa. Egli sa bene che due sono i processi che hanno corso nel medesimo iter fenomenologico: quello della coscienza naturale o del sapere apparente (erscheinendes Wissen) e quello della «libera scienza muoventesi nella sua figura peculiare»13. Ora solo dal punto di vista del sapere apparente l’itinerario fenomenologico è il cammino dal pensiero «non vero» (in termini hegeliani: del «concetto del sapere, ossia del sapere non reale»14) alla verità, e cioè il processo negativo della coscienza naturale che la realizzazione del sapere toglie.

13. PhäG, p. 67; it., I, p. 69. Sul tema cf. M. Heidegger, Hegels Begriff der Erfahrung, Hw, spec. pp. 130‑132; it., pp. 128‑130. 14. «Das natürliche Bewußtsein wird sich erweisen, nur Begriff des Wissens oder nicht reales Wissen zu sein» (PhäG, p. 67; it., p. 69).

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Dal punto di vista del sapere assoluto (e cioè del vero sapere) la verità non è estranea al processo, anzi ne è la base, il fondamento; meglio: è l’orizzonte entro il quale l’itinerario fenomenologico si compie. Con tutta chiarezza Spaventa osserva: Non è la certezza sensibile, che prova l’assoluto conoscere, ma questo, che provando se stesso, prova quella. (Op, II, 665).

Ma Gentile non è neppure entrato nel problema di Hegel – che è poi il problema della filosofia occidentale, il problema dell’autó, del medesimo che tiene insieme, che con‑tiene pensiero (noeîn) ed essere (eînai) – dal momento che, vedendo solo il processo negativo della coscienza naturale e non l’altro sotteso a questo del sapere assoluto (della libera scienza), neppure può rendersi conto della necessità del primo. Che è la necessità di provare la presenza del sapere nel non sapere, della scienza nella coscienza, del pensiero nell’essere, o, nei termini di Gentile, della verità nel pensiero. Proprio quando al termine del viaggio fenomenologico l’assoluto sapere (la verità) si mostra presente nella coscienza sensibile (cf. PhäG, p. 563; it., II, pp. 303-304), appare chiaro che l’oggettività del pensiero non è un’oggettività solo possibile, ma reale: che il soggetto‑oggetto hegeliano non è meramente soggettivo. Che l’identità non è solo dei termini della relazione, ma scorre in tutta la relazione, da un estremo all’altro: dall’oggettivo al soggettivo. Gentile resta chiuso nella posizione fichtiana, perché nell’itinerario fenomenologico vede soltanto un’«eco del naturalismo schellinghiano» – ovvero: la persistente presupposizione del fatto all’atto, del certo al vero, della natura allo spirito. A Gentile sfugge l’essenziale del rapporto Fenomenologia-­ Logica: il circolo tra Primo e Ultimo, che Spaventa lucidamente spiega: Forse che la certezza sensibile, da cui io ho cominciato, sia davvero il primo, e l’assoluto conoscere a cui sono arrivato, sia

211 davvero l’ultimo, che quella abbia prodotto questo, e non al contrario? Così pare; ma in verità non è così. Io devo concludere che l’assoluto conoscere ha prodotto la certezza sensibile, l’ultimo il primo, e che perciò quel che appariva primo è un falso primo. Tutto quel processo, che pare produzione di un altro, di un secondo o ultimo da un primo, è il vero primo come produzione di se stesso. (Op, II, 665).

Completamente estraneo a questi problemi rimase Croce, per il quale la distinzione tra Fenomenologia e Logica «ha origine in concetti didascalici, come sarebbero quelli di corso introduttivo e corso sistematico e altrettali» (SH, p. 174). E qui veramente il significato stesso delle parole è travisato, che non vengono prese nell’accezione hegeliana ma secondo quella comune e corrente che Hegel respingeva. Il carattere propedeutico della Fenomenologia ha ben altro senso che quello didascalico: esso indica l’iter negativo della coscienza naturale che introduce nel movimento che s’attua contemporaneamente nel profondo, e che è il movimento, come si è detto, del sapere ab-solutus, sciolto, libero dalle opposizioni della coscienza (anzitutto da quella tra pensiero ed essere). È ben evidente che, se si muove dalla posizione della coscienza naturale, il «primo fenomeno» – come giustamente osserva Spaventa – «si ammette, non si prova», perché non è sapere. Se si provasse, non sarebbe più fatto ma sapere. E invece non è sapere, e non deve essere sapere, quando viene preso come primo fenomeno. Altrimenti non sarebbe possibile mostrare nel fatto l’atto, nel non‑sapere il sapere, nel­l’eînai il noeîn. Non sarebbe possibile «provare l’identità». Attaccandosi alle parole, senza penetrarne il significato, Croce all’affermazione di Spaventa che il «primo» della Fenomenologia «non ha bi­sogno di prova», obietta: «quasi che ci sia qualcosa nel mondo del pensiero che non abbia bisogno di prova, cioè di essere pensato» (ib., p. 176). E qui non c’è altro da replicare se non dicendo che Croce ha ragione: certo nel mondo del pensiero tutto

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dev’essere provato; particolarmente dev’essere provato come pensiero ciò che al suo primo apparire sembra non‑pensiero. Ed è ciò che intende Spaventa con Hegel, seguendo Hegel. Del resto Croce era più vicino alla posizione che criticava di quanto egli stesso non immaginasse. Contro Spaventa, ed appoggiandosi a Hegel, negava che in filosofia potesse darsi un «primo»: In filosofia il primo è anche l’ultimo. E questo è il genuino pensiero dell’Hegel, che la scuola ha falsato. […] Il cominciamento, dunque, non può essere se non apparente o convenzionale, e, in questo senso, variabile secondo i tempi e gli individui. (Ib., p. 179).

Un fatto, quindi, e cioè: un non ancora pensato. Solo che il circolo hegeliano, a cui Croce esplicitamente si richiamava, è tutt’altra cosa da quello che qui è detto. Il “cominciamento” non varia secondo i tempi e gli individui e non è nulla di convenzionale. Come primo fenomenologico non può che essere un fatto, il primo “dato” reale della coscienza; come primo logico o scientifico non può che essere l’Essere: l’Essere, il puro essere – senza nessun altra determinazione. Perché?

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II - L’Identità oltre la relazione 3. Il Primo logico Perché, se per provare l’identità, si è dovuto cercare nell’essere il pensiero, nel fatto l’attività, è chiaro che, passando all’altro estremo della relazione, e necessario trovare in esso il suo opposto: nel pensiero l’essere. Ne consegue che il vero, reale problema di Spaventa non fu tanto quello di mostrare sin nelle prime categorie della Logica hegeliana – essere, non‑essere, divenire – l’attività del pensiero, come avevano già fatto Karl Werder e Kuno Fischer, quanto l’altro ed ulteriore di rivelare la presenza dell’essere al pensiero, e ciò proprio continuando ed approfondendo in modo originale l’interpretazione di Werder e Fischer. Si è già detto dei due processi che avvengono lungo il medesimo itinerario della Fenomenologia: quello negativo della coscienza naturale e l’altro del sapere assoluto che attua se stesso nelle varie figure del sapere apparente; e come il primo funga da introduzione al secondo. Il carattere propedeutico della Fenomenologia eccede però l’ambito fenomenologico. Una volta che il sapere assoluto si è mostrato come la verità della certezza sensibile, una volta cioè che il pensiero si è mostrato nel fatto, nell’essere, dall’uno estremo della relazione – o identità, tò autó – si è passati all’altro: dal­l’eînai al noeîn. La Fenomenologia introduce nella Logica. Il circolo Primo‑Ultimo, comprendendo in sé entrambe le scienze, fa sì che il risultato della prima sia l’inizio della seconda. Il che toglie la contraddizione che sembra insita nella stessa dizione: «primo scientifico» – che per essere «scientifico» dev’essere provato, e per essere «primo» non deve avere nessuna prova. E infatti la prova di questo primo scientifico – o primo logico – cade fuori della Logica, nella Fenomenologia appunto. E qui si mostra anche la differenza essenziale che corre tra la

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Fenomenologia e la Logica: il primo fenomenologico non può essere provato, non deve (se non alla fine – ossia quando è tolto, aufgehoben, come primo); il primo logico, al contrario, deve essere provato. Che qui Spaventa segua fedelmente Hegel, è del tutto evidente. Il problema affrontato, però, se è hegeliano, non è solo hegeliano. È il problema dell’intera nostra tradizione ­filosofica. Si impone anche a chi tenta di respingerlo. Come nel caso di Croce. In uno dei suoi ultimi scritti, dedicati alla Dialettica ed alla sua origine, Croce, riprendendo negli stessi termini dei primi anni del secolo la polemica antispaventiana, osserva: […] non ho mai compreso la giustificazione della ricerca, che è piaciuta a filosofi anche grandi, del primo concetto che la mente pensa e sul quale si fonderebbero tutti i concetti susseguenti. È mio convincimento, e sarà forse mia limitatezza, credere fermamente che l’uomo ad ogni istante pensa il tutto, non essendo possibile pensare un concetto senza metterlo in relazione con gli altri via via occorrenti, e che di volta in volta appaiono come un tutto. Perciò, fin dall’inizio, scansai la metafisica e delineai una semplice Filosofia dello spirito, fondata su una tetrade di concetti supremi, nella quale ciascuno di essi si dimostrava d’infinita fecondità nell’ordine dei problemi a cui presiedeva. (IH, p. 29).

I «concetti supremi» non sono altro che i «primi» concetti su cui si fondano le scienze (estetica, logica, economica, etica – nella non-metafisica filosofia dello spirito). Sono il cominciamento. Il fatto che essi debbano esser pensati insieme, conferma il carattere unitario del cominciamento. Il problema, allora, è di provare perché si debba iniziare da essi e non da altri – e ancora: se la prova (= dimostrazione, mediazione) che si debba iniziare da essi o da altri o da altro, sia in loro stessi ovvero in altro. E questo non è un problema di scolastica hegeliana, se è già problema per Aristotele. E problema più che non soluzione: perché del supremo principio di non contrad-

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dizione Aristotele per un verso nega la possibilità di dimostrarlo, reggendo esso ogni dimostrazione, per un altro pur ammette una dimostrazione indiretta, l’elenktikôs apodeîxai, che, facendo cadere la petizione di principio (l’aiteîsthai tò en archê) sull’avversario della suprema legge del pensare, ne prova l’innegabilità (cf. Met, IV, 1006a 5‑18). Senza la dimostrazione per via di confutazione il principio di non contraddizione non si mostra necessario – non si mostra principio. E tuttavia questo mostrarsi vale solo per noi, non per sé, non per il principio. Il principio è necessario katà phýsin anche prima di mostrarsi tale. Ma questa necessità di natura può essere affermata solo dopo: dopo che il principio si è mostrato. Il circolo è evidente15. Ma prim’ancora che per Aristotele fu problema per Platone – il quale se riconosceva alla dialettica il 15. Secondo E. Berti (“Il principio di non contraddizione come criterio supremo di significanza nella metafisica aristotelica”, SA, pp. 61‑88) il rapporto circolare tra il p.n.c. e la sua dimostrazione rivela il carattere «processuale, discorsivo, noetico e dianoetico insieme, cioè dialettico» (p. 79) del principio stesso. La suggestione hegeliana (cf. WL, I, pp. 70‑71, II, p. 570; it., I, pp. 56-57, II, 954) è palese. Ora, però, se è giusto dire che «il principio di non contraddizione è inclusivo della stessa argomentazione con cui viene giustificato» (p. 78) in quanto la dimostrazione confutatoria è retta dallo stesso p.n.c., non sembra possibile affermare – come esigerebbe la dialettica del circolo – che l’argomentazione sia inclusiva del principio, in quanto il p.n.c. non dipende dalla dimostrazione («tì alethès eînai chorìs apodeíxeos»: Met., IV, 4, 1006a 27-28). Se vi dipendesse, allora dopo l’argomentazione che lo giustifica dovrebbe essere diverso da prima: più saldo, almeno. Si riprodurrebbe, cioè, il rapporto tra l’an sich ed il für sich di Hegel, con tutte le sue aporie. Anzitutto: come parlare del p.n.c. an sich (= prima dell’argomentazione che lo giustifica), se dirlo, mostrarlo è dimostrarlo, in linguaggio hegeliano: «porlo», renderlo «für sich»? Si potrebbe dire, distanziandosi dalla posizione hegeliana, che la dimostrazione per via di confutazione esplica il principio com’esso è katà phýsin, indipendentemente dalla dimostrazione stessa. E, cioè, che l’esplicazione del p.n.c. non ha alcuna influenza su di esso: concerne noi – i parlanti – e non la cosa stessa – il Principio –. Solo che qui i parlanti sono la cosa stessa: il p.n.c. è il principio del discorso. Se non si può negare l’influenza dell’argomentazione che

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potere di volgere «in alto l’occhio dell’anima», sì da dimostrare insieme le conclusioni e i principi – eliminando le ipotesi – pur anteponeva al pensiero noetico il dianoetico, il pensiero discorsivo che muove da ciò che non è provato, che non è ancora provato (Repubblica, VI, 533 b-e). Dunque, come si accennava, il problema hegeliano del rapporto Fenomenologia-Logica si ricollega, per questo aspetto, ad una tradizione che ha origini antiche. Spaventa lo riprende nella piena consapevolezza della sua storicità. Vale a dire: è consapevole che il problema del cominciamento logico è il problema della filosofia – del primo gesto della filosofia che, se abbandona la dóxa per l’epistéme, l’opinione vagante per la conoscenza stabile, deve anzitutto rendere stabile il proprio inizio. Stabile – e cioè: logicamente necessario. Logicamente – e non soltanto fenomenologicamente. Il problema si riapre là dove sembrava chiuso. E infatti, una volta che dal polo della Fenomenologia si passa al polo della Logica, la dimostrazione (la prova) del “primo” dev’essere corrispondente alla natura di questa. In altri termini: il pensiero che si è mostrato nel fatto, nell’essere, deve ora provare se stesso nel proprio elemento iuxta propria principia. Il circolo Primo‑Ultimo torna in movimento – ora nel più ristretto ambito della Logica, ché solo come Ultimo il Primo può essere provato. Questo implica, anzitutto, il ritorno all’immediato. Come dire: il primo logico dev’essere il concetto più povero – quello che si è spogliato di ogni mediazione precedentemente ottenuta a livello fenomenologico. Ora, il risultato della Fenomenologia è il sapere assoluto, il sapere liberato dall’opposizione soggetto‑oggetto, e cioè: l’essere in tutta la ricchezza delle sue determinazioni in quanto pensiero. La logica, quindi,

giustifica il principio sui parlanti, non la si può negare neppure sul principio. ‑ Come si vede il circolo non scioglie il problema – lo evidenzia.

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al suo inizio ha da prendere questo pensiero nella sola forma della semplice relazione a sé, separandolo dal suo contenuto determinato e, quindi, dal cammino percorso. Sottrarre al pensiero la ricchezza delle sue determinazioni e separarlo dall’iter fenomenologico sono un solo atto. Quale la natura di questo atto? Scrive Hegel all’inizio della Wissenschaft der Logik: Non si ha altro […] salvo la risoluzione (Entschluss), che si può ritenere arbitraria, di voler considerare il pensare come tale. Cosi il cominciamento dev’essere un cominciamento assoluto o, ciò che in questo caso significa lo stesso, un cominciamento astratto. Non può così presupporre nulla, non deve essere mediato da nulla, né avere alcun fondamento (Grund); anzi dev’essere esso il fondamento di tutta la scienza. Dev’essere quindi semplicemente un immediato, o, meglio, soltanto l’immediato stesso. Come non può avere una determinazione di fronte ad altro, così non può nemmeno avere alcuna determinazione in sé, non può racchiudere alcun contenuto, perché una tal determinazione o contenuto sarebbe una distinzione e un riferirsi di diversi l’uno all’altro, epperò una mediazione. Il cominciamento è dunque il puro essere. (WL, I, pp. 68-69; it., I, p. 55).

È, questo, un passo fondamentale: solo muovendo di qui è possibile intendere il senso delle prime categorie della Logica. Viene anzitutto in primo piano che l’atto della separazione del sapere dal suo contenuto è un atto di volontà – Hegel lo definisce qui arbitrario. Esso non separa solo l’inizio della Logica dal risultato della Fenomenologia, ma nel “presente” stesso della Logica la pura forma – la semplice relazione a sé – dal contenuto. Il cominciamento logico è in ogni senso immediato, anzi l’immediato stesso, perché non solo è tolta la mediazione del “passato” fenomenologico, la mediazione da altro, ma anche la mediazione che caratterizza il “presente logico”, la mediazione di sé con sé, l’auto‑mediazione.

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All’inizio della Logica, dunque, c’è un atto di volontà – che è atto di separazione, di astrazione. Si astrae dal contenuto concreto del pensiero la pura forma, la semplice relazione a sé: l’essere, il puro essere – senza nessun’altra determinazione. Spaventa coglie benissimo questo passaggio: Pensare, semplicemente pensare, pensare l’Ente, il pensare logico è essenzialmente risoluzione, deliberazione (volere) […] Io mi risolvo a cominciare, cominciare a pensare, ad astrarre da ogni determinazione del pensare: ad astrarre assolutamente. – Questo risolvermi assoluto è la vera radice, il motore del pensare (Op, I, 384).

La volontà, dunque, all’origine del pensare. Se si considera che qui siamo al pensiero dell’origine, al pensiero originario, la volontà va allora definita come l’origine dell’origine. Wollen ist Urseyn – potrebbe Spaventa ripetere con Schelling16. Ma quello che qui interessa non è una caratterizzazione storica: l’appartenenza della meditazione di Spaventa alla metafisica della volontà che rappresenta il compimento della filosofia moderna della soggettività; è piuttosto il significato che assume la volontà che è all’origine del pensiero logico all’interno del problema‑programma «provare l’identità».

4. Essere, puro essere – senza nessun’altra determinazione Dunque l’essere, il puro essere – ohne alle weitere Bestimmung – è il Primo, il cominciamento. Che esso non abbia presupposti, non abbia nulla alle spalle, lo sappiamo: la volontà ha tagliato i ponti con la Fenomenologia; ma ora la domanda è altra: questo essere, questo puro essere è adeguato allo

16. Cf. F. W. J. Schelling, PhUWmF, p. 2382; it., p. 40.

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scopo di fungere da Grund, da fondamento dell’intera scienza? Vale a dire: è possibile “dedurre” dalla pura relazione a sé del pensare, dal semplicissimo astratto essere, il contenuto del pensare, l’essere nelle sue determinate determinatezze, l’infinita ricchezza e varietà degli enti? È una domanda fondamentale – solo una risposta positiva a tale domanda consente il superamento del “formalismo” kantiano, della separazione del pensiero dall’essere. Consente, cioè, di provare l’identità: l’identità tra l’andamento del pensiero e quello della cosa stessa (cf. WL, I, pp. 35‑56; it., pp. 23‑42). Ben si comprende allora l’impegno degli interpreti di Hegel per rispondere all’obiezione di Trendelenburg, secondo il quale tra Essere e Nulla v’è identità ma non differenza, essendo entrambi indeterminati, anzi l’Indeterminato stesso; e se non v’è differenza, neppure v’è passaggio dall’uno all’altro, neppure v’è divenire. Il puro essere […] è l’essere vuoto, il nulla, e l’essere vuoto è il puro essere. L’uno è ciò che è l’altro. Entrambi sono identici [e in] questa identità della riflessione [non c’è] traccia di un’unità viva, in cui il nulla nell’essere e l’essere nel nulla assumano una reale figurazione.

Hegel pertanto non spiega il divenire, ma ve lo aggiunge dal di fuori, portando surrettiziamente nella logica l’intuizione esterna, «l’immagine del movimento reale». Così operando, non si mantiene fedele al «metodo dialettico del puro pensare» che non presuppone nulla, tutto dovendo dedurre da sé17.

17. F. A. Trendelenburg, LF, pp. 16 e 12. Aveva già scritto nelle LU: «Dal puro essere, confessata astrazione, e dal nulla, parimenti confessata astrazione, non può nascere improvvisamente il divenire, quest’intuizione concreta che domina vita e morte» (p. 39). Per Trendelenburg nel sistema hegeliano «la forza dell’unità sulle estreme opposizioni poggia, sull’identità di una composizione priva di forza. La sintesi reale è introdotta dall’esterno» (LF, p. 16).

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Karl Werder, pur senza fare esplicito riferimento alle Logische Untersuchungen di Trendelenburg, replicava che l’indeterminatezza dell’essere non designa un «oggetto vuoto», ma l’assenza di determinazione che è propria della forma pura del pensare che, nella sua infinita determinabilità, lascia cadere anche la determinazione della soggettività, in quanto ancora limitata. L’indeterminatezza e quindi l’infinita potenza di autodeterminazione del pensiero, la cui negatività è espressa dal nulla, che pertanto non dice meno ma più di “essere”: Quando dico Nulla so di più che quando dico Essere – perché quello è di più, è ciò che si rivela, squarciando il proprio velo; perché è il nudo Essere, lo spirito dell’Essere, l’Essere nell’Essere. Nel Nulla l’Essere rompe il silenzio in sé di se stesso. Il Nulla è la riflessione (Besinnung – Spaventa tradurrà con «accorgimento») dell’Essere, l’aprirsi in lui del suo senso; il suo sguardo in sé, il punto in cui sorge la sua originarietà. Nel Nulla si svela la sacrosanta duplicità di senso della vuotezza dell’Essere. Che esso nient’altro è che l’Essere‑stesso, l’Essere mediante se stesso, pieno unicamente di se medesimo – questo dice la sua vuotezza, questo dice il Nulla. Il Nulla è cosi il sapere dell’Essere riguardo alla sua pienezza, al suo compimento a partire da sé, riguardo al suo libero agire, alla sua auto‑creazione; – e nell’attualità (in der Energie = nell’enérgheia) di questo sapere che si muove in se medesimo Essere non dice più Essere, ma Divenire. (Logik, cit., p. 41).

Kuno Fischer muove anch’egli dalla constatazione che l’Essere con cui inizia la Logica è l’essere del pensiero: «come in generale sarebbe possibile, se non fosse concetto, se non fosse oggetto di pensiero?» L’Essere – la prima e più semplice categoria – esprime l’«unità indifferenziata» della copula che nei giudizi unisce immediatamente soggetto e predicato. Non rappresenta quindi nulla di determinato, neppure quella minima determinazione che è propria dell’«oggetto indipendente dal pensiero». E, infatti, in quanto indifferenziato,

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l’Essere non ha caratteri che lo distinguano dal pensiero. E tuttavia «si distingue pensiero e essere»: l’uno come soggetto pensante, l’altro come oggetto pensato. Ma, ancora, lo stesso pensare in quanto si conosce, in quanto oggetto di conoscenza o pensato, cade nell’ambito dell’essere. L’essere, che come concetto dell’Indifferenziato «esclude da sé ogni distinzione», «include l’attività pensante che è attività distinguente e senza di questa chiaramente sarebbe impossibile come concetto». Talché l’Essere afferma e nega il pensiero. In quanto concetto è atto del pensiero; in quanto Indistinto nega anche la distinzione pensante/pensato che e propria del pensare. Similmente il pensiero, che in quanto pura indeterminata possibilità di concetti si identifica col mero essere, e in quanto attività concepente si distingue da esso. Pensare ed essere sono identici. Pensare ed essere sono non identici. L’Identità è spiegata nel concetto dell’Essere; la non‑Identità nel concetto di non‑Essere.18

Questa la contraddizione intrinseca all’Essere – al concetto di Essere; contraddizione con cui Fischer spiega il divenire, senza uscire dal pensiero puro. La riflessione di Spaventa si riallaccia direttamente ed esplicitamente a quelle di Werder e di Fischer. «Perché l’Essere è il Primo?» – si chiede; e risponde: Tutte le altre determinazioni del pensare […] presuppongono l’Essere; io non posso pensare e dire nulla, se non penso e dico l’Essere; e l’Essere dal canto suo non presuppone veruna determinazione del pensare: nessun’altra categoria (Op, I, p. 370).

18. K. Fischer, SLM, pp. 194‑198. Sulle tesi di Trendelenburg cf. pp. 137‑164 e 199‑204. Su Werder e Fischer cf. V. Verra, SFTO.

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L’essere è la possibilità stessa del pensare. In esso sono entrambi i lati del pensiero: il noetico ed il noematico. Il noetico, in quanto l’essere è il pensiero stesso, il pensiero pensante (= astraente), ma questo, in quanto fa astrazione da sé, in quanto non considera sé, è solo pensato: il noema, l’astratto in cui l’astrarre si oblia, o si estingue. Si estingue senza estinguersi – perché l’essere, la suprema astrazione, è per l’astrarre, è l’astrarre medesimo. Qui la distinzione che non è opposizione tra essere e pensiero, ma è l’identità‑differenza che spiega il divenire: L’essere si contraddice, perché in quanto Essere si mostra Non Essere (in quanto astratto si mostra astrazione; in quanto Essere si mostra Pensare); in quanto è l’Essere che è il Non essere. Non sono due esseri: l’Essere che è l’Essere, e l’Essere che è il Non essere; ma è l’Essere che è il Non Essere; è Non Essere, in quanto Essere. Se fossero due Esseri, non ci sarebbe contraddizione. La contraddizione è che sono uno Essere, lo stesso Essere. – Sono Uno; e nondimeno distinti, differenti. Identità e differenza: questa è la contraddizione. La contraddizione, ripeto, è l’Essere che è il Non Essere. – È una contraddizione immanente nell’Essere. (Ib., I, pp. 380‑81).

Sin qui nulla di nuovo rispetto a Werder e Fischer – almeno nell’essenziale. Pure del nuovo c’è, ma giace più in fondo. A scoprirlo ci aiuta, per contrasto, Gentile. Nella Riforma della dialettica hegeliana, criticando insieme Spaventa e Fischer, Gentile osserva che l’essere, in quanto risultato dell’astrazione, è posto come la «negazione assoluta del pensare», come l’assoluto altro dal pensiero, in cui il pensiero una volta estintosi non può più risorgere, come invece Spaventa (sulle orme di Werder) assumeva. Perché il pensare possa risorgere, è necessario che esso si estingua non in altro ma in sé. «Bisognerebbe cioè, che non solo il non essere, ma lo stesso essere fosse pensare» (RDH, p. 28). Ad una prima lettura il

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testo di Gentile riesce incomprensibile. Non ha sempre detto Spaventa che l’essere è pensare – l’essere, già l’essere, e non solo il non‑essere? Del resto questa è la tesi di Hegel stesso, innanzitutto di Hegel, per il quale l’Indifferenziato (das Unterschiedslose) del cominciamento logico, se non è più «sapere», resta pur sempre «pensare»: il pensare come tale (cf. WL, I, p. 68; it., I, p. 55). – Nell’astrarre, dunque, il pensiero non cessa di essere pensiero – nell’obliarsi resta quello che è. La Besinnung, l’«accorgi­mento» successivo, che è il proprio del non‑essere (= del pensiero), in tanto non è una riflessione esterna, in quanto è già in sé (an sich – sebbene noch nicht gesetzt o für sich) immanente nell’essere. La diffe­renza è nell’identità. Pure Gentile afferma che l’essere come pensare e sì la mèta tanto di Fischer quanto di Spaventa – «ma non è ancora raggiunta». E a conferma cita il § 77 del System der Logik und Metaphy­sik di Fischer, rilevando che pur essendo definito «concetto», tuttavia l’essere «una volta è oggetto e una volta atto del pensiero. E dovrebbe essere atto in quanto ogget­to» (RDH, p. 29). Qui si chiarisce il senso dell’obiezio­ne di Gentile. L’essere – l’astratto, l’ogget­to – resta per lui ancora “altro”, ed “irrimediabilmente altro” dal pensiero, finché non è posto da quel pensiero che nel porlo è cosciente di sé, e non si oblia, non si estingue nell’oggetto, nell’astratto. E cioè: per Gentile il pensiero che pone la negatività nell’essere, che dice No al Sì, va anticipato all’essere – è prima, non dopo. Questa critica è affatto coerente col rifiuto della distinzione della Fenomenologia dalla Logica: una volta negato (perché, invero, non compreso) il cammino attraverso cui il pensiero si riconosce nel fatto, nell’essere, è ben evidente che si debba poi criticare come ancora affètta da naturalismo la posizione di chi afferma l’antecedenza del fatto all’atto. Il limite di quel rifiuto lo si è già rilevato. Ora, però, ci interessa mostrare ciò che Gentile, se non vide, intravvide. E cioè che l’Essere dell’inizio della Logica, per quanto sia l’essere del pensiero non è

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tutto riconducibile al pensiero. Vale a dire: l’essere stesso del pensiero non è pensiero. Questo già si avverte in Hegel: ché il «pensare come tale», la semplice relazione a sé del pensare, ossia il pensare non nella sua distinta determinatezza ma nella sua nuda presenza, nel suo puro essere senza nessun’altra determinazione, è “oltre” il “sapere”, di là da ogni possibile contenuto di pensiero, anche di quel “particolare”’ contenuto che è il pensiero in quanto noesi, in quanto pensante. Ora questo «al di là» dell’essere rispetto al pensare tanto più si affermava, tanto più si imponeva, quanto più gli interpreti di Hegel si industriavano a provare l’attività del pensiero sin nelle prime categorie: essere nulla e divenire. Di ciò Gentile in qualche modo s’avvide. Certo contrastò tale tendenza. Vedeva, tra l’altro, Spaventa più innanzi degli altri interpreti di Hegel nel cammino che conduceva alla totale riduzione dell’eînai al noeîn. Ed è vero esattamente il contrario. Lo attesta un passo di Spaventa ­quello stesso che Gentile citava a sostegno della sua tesi. Leggiamolo: Adunque, perché il No? Il Non essere, la negazione? e dopo, e nonostante il Sì, l’essere, l’affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, nella sua massima semplicità logica. Quel che sappiamo è che senza il Pensare non sarebbe il No, il Non essere; e chi nega, quegli che vince l’invincibile e fende l’indivisibile, cioè l’Essere; che distingue e contrappone nell’Essere medesimo in quanto medesimo ciò che è e ciò che non è: la generazione o geminazione dell’Essere; quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. Se non fosse altro che l’Essere, non sarebbe il No. E, quando si va a vedere, l’Essere stesso, solo l’Essere, non dice Essere, non dice È, non dice punto. L’È – la stessa affermazione – è pensare; è distinguere, è concentrar l’Essere; è semplificarlo, ridurlo a un punto, e perciò geminarlo. (Op, I, p. 399).

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Gentile vide in questo passo l’affermazione del pensare «come l’atto immanente dell’essere che non è». E ad ulteriore conferma citava il seguito: Si noti, il pensare fa ciò, distingue, divide, nega, non perché lo trovi, dirò cosi, già fatto e ripeta, copi, contempli, veda, nell’essere; ma lo fa egli per primo: questo fatto è il fatto suo e solo suo; la negazione è la sua originalità stessa (scintilla che scoppia da se stessa).19

Questo brano – che peraltro non è il solo – va in direzione opposta a quella indicata da Gentile. Il pensiero nega, divi­de, concentra l’essere – lo genera; ma questo essere che il pensiero genera, questo essere cui è immanente l’atto del pen­sare, questo essere del pensiero (genitivo soggettivo) non è però l’Essere. Di contro all’essere pensato, al noema, di contro all’essere pensante, alla noesi, s’erge l’Es­sere che è prima e fuori del pensiero: l’ingenito, l’indivisibile, l’invincibile – che è e resta tale pur dopo la generazione, la divisione, la vittoria del pensiero, essendo sempre oltre, di là, o meglio: di qua, prima. Gentile, nell’intento di portare a sé Spaventa, pubblica un frammento inedito di questi, ove tra l’altro è detto che «il pensare è l’essere stesso dell’essere» e non «una funzione

19. G. Gentile, RDH, pp. 31‑32. Chiara la risonanza nel brano di Spaventa citato nel testo del celebre passaggio della Vorrede della PhäG: «L’attività del separare è la forza e il lavoro dell’intelletto, della potenza più mirabile e più grande, o meglio della potenza assoluta» (p. 29; it., I, p. 25). È bene precisare subito che il giudizio (Urteil), la scissione del gran prevaricatore è davvero Ur‑teil, scissione originaria: è la separazione del pensare dall’Essere, dall’Identità che è oltre la relazione. Questo ‘giudizio’, questa separazione, avviene ‘prima’ di ogni sillogismo) di ogni unificazione; e da nessun sillogismo può esser tolto (aufgehoben). Qui il distacco di Spaventa da Hegel. Ritorno a Kant? Certo. Ma è un Kant ‘dopo’ Hegel. Come dire che il ‘giudizio originario’, che Spaventa, interpretando Hegel, scopre, rappresenta una posizione (Standpunkt) ulteriore rispetto a quella del sillogismo (cf. retro, Sez. I, cap. II).

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meramente soggettiva»20. Affermazione, questa, nient’affatto nuova in Spaventa; la si ritrova già in scritti precedenti – e con non minore, anzi maggiore chiarezza, se, nel momento stesso in cui prova che è il pensare che dice dell’essere, non manca di avvertire che l’essere è al di qua del dire, anche del più semplice dire. Non appartiene all’essere nemmeno la tautologia «è perché è». «Questo È perché è, non lo dice l’Essere; lo dice il Pensare» (Op, I, p. 400). L’Essere sfugge, si sottrae nell’atto stesso in cui sembra che lo si sia colto: L’Essere stesso – questo primo pensabile e presupposto assoluto d’ogni pensabile – io non lo penso, se non in quanto lo distinguo (lo astraggo) da tutto quel che non è lui semplicemente; se non in quanto annullo in lui ogni determinazione e distinzione, e perciò ogni pensiero, e tuttavia, anzi appunto perciò, se non annullo in lui quella stessa distinzione, quella stessa attività, mediante la quale io arrivo e mi profondo sino a lui. Questa contraddizione – l’Impensabile in quanto pensato e perciò pensabile, l’Indeterminato e Indistinto in quanto determinato e distinto e perciò determinabile e distinguibile – questa è la contraddizione dell’Essere: è il non-Essere. (Ib., I, p. 397).

Passo fondamentale, di rara profondità e lucidità. L’essere è anche oltre la determi­nazione della sua indeterminatezza: questa è già distinzione, è già pensiero, perché appunto distinta da altro, dal determinato. Nella contraddizione dell’essere è già più che l’Essere – e già il pensiero. L’indeterminatezza dell’Essere che è prima, che è fuori del pensiero, e anche prima e fuori della determinazione dell’indeterminatezza. Se si vuole è una contraddizione più alta di quella che il pensiero,

20. G. Gentile, RDH, pp. 40‑65 (il passo cit. si trova a p. 63); cf. anche B. Spaventa, Op, III, pp. 431‑462 (per la citazione vedi p. 461). L’espressione «essere dell’essere» riferito al pensare ricorda quelle di Werder: «der Geist des Seins» e «das Sein im Sein» riferite a Nichts (Logik, p. 41).

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che la con­traddizione del pensiero può raggiungere. – Molti anni più tardi, nello sviluppo della sua personale riflessione, indipendente­mente da ogni riferimento a Hegel e a Spaventa, Gentile si incontrerà e scontrerà con questo Essere che si sottrae e si nega nell’atto stesso di darsi al pensiero21. Ma questa nostra interpretazione, che oppone tanto recisamente l’Essere al pensiero, non è in contrasto proprio con la tesi fondamentale di Spaventa? Sembra difficile, infatti, se non impossibile conciliare la nostra lettura con affermazioni come queste: «l’Essere non è così fatto che il pensare sia qui e l’essere sia lì, in modo che muovendosi il pensare, l’essere resti lì e non si muova», al contrario «il pensare porta seco […] l’essere; se si muove, si muove l’essere». E ancora: «Il movimento del pensare è lo stesso movimento dell’essere», per cui «se il pensare dice non essere, ciò dice anche l’Essere; è uno e medesimo detto» (ib., I, p. 409). La cosa sta proprio in questi termini: il rapporto di identità‑differenza che lega essere e non‑essere, essere e pensare, è tale che il non‑essere (il pensare) non è estraneo all’essere, non è una riflessione esterna, ma interna, immanente all’essere. Questo dice Spaventa; questo avevano già detto Werder e Fischer, interpretando Hegel. Tutto ciò è innegabile. Solo che Spaventa non si ferma qui. Afferma infatti che oltre l’essere che è pensiero, oltre l’essere del pensiero, v’è dell’altro ancora, al quale non è lecito attribuire quel che si predica dell’“essere pensato”: «di certo l’Essere in quanto non pensato – cioè in quanto non più l’Essere [forse meglio sarebbe dire: non ancora Essere] – rimane lì, non si muove» (ib., I, p. 410). L’Essere in quanto non pensato, l’Essere “altro” dal pensiero – è l’Indeterminato originario, quello che è prima anche della

21. Cf. retro, Sez. II, cap. I, e Appendice III.

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sua determinazione come indeterminato; quello che è prima di essere detto. «Cos’è l’Essere?» ‑ si chiede Spaventa all’inizio dello scritto sulle Prime categorie della logica di Hegel, e risponde: Ciò è facile, e non facile a dire; appunto perché niente si può dire senza l’Essere, e ogni detto e pensiero lo presuppone. […] E d’altra parte, quando si dice cos’è davvero l’Essere, esso non è già più semplicemente l’Essere: non è più ciò che era prima che fosse detto. (Ib., I, p. 371).

Qui la condizione di possibilità del pensiero non è più solo l’Intelligibile‑Intelligente; è di più, o di meno; infinitamente di più, o infinitamente di meno. Dice bene Spaventa: l’Essere in quanto non pensato – cioè: in quanto non più essere. Anche nominarlo “essere” è troppo – anche nominarlo Indeterminato è troppo: in tal modo lo si de‑termina. Lo si rende “termine” del pensiero, insieme con altri “termini”: Indeterminato/determinato; Ingenito/genito; Indiviso/diviso… Tutto ciò è estraneo all’Essere. Spaventa avrebbe potuto ripetere per l’Essere quello che Schelling aveva detto riguardo a Dio, e cioè che «non è, come molti credono, il trascendente, è il trascendente fatto immanente (ciò che è contenuto dalla ragione)» (PhO, p. 4172; it., p. 283). L’essere del pensiero, l’essere che è pensato, non è il Prius: come il Dio di Schelling «è solo aposteriori» (ib., p. 4147; it., p. 211). Siamo qui sul crinale che segna la linea di confine tra il pensiero e il non-pensiero. Linea difficilissima a seguire, se ogni parola che pronunciamo, anche la più semplice: “Essere”, è già troppo. L’unico metodo possibile è quello che procede per affermazioni e immediate negazioni – dicendo e contra-­ dicendo. Rendendo il detto sempre più “sottile”. Come la linea che s’intende seguire. Spaventa ce ne dà l’esempio – con una scrittura di estrema concentrazione:

229 […] non distinto in sé, né opposto ad altro; senza relazione né verso sé né verso altro, che sia o si possa pensare prima di esso: l’assolutamente irrelativo. Questo è l’Essere, il puro, semplice essere. Ho detto il primo pensabile, il primo intelligibile. Ora, in verità dovrei dire l’inintelligibile. Intelligibilità importa essenzialmente relazione (ragione). (Op, I, p. 375).

5. Identità / Contraddizione Scorrendo la relazione – l’identità, tò autó – dall’estremo dell’essere, in cui si è mostrato il pensiero, all’estremo del pen­siero, il pensiero medesimo trova nel suo elemento, e seguendo la propria legge, l’essere. Non l’essere che conferisce oggettività alla scienza, non l’essere che è pensiero oggettivo, universale – bensì oltre questo, prima di questo, l’Essere che è di là dal pensiero e che al pensiero sempre si sottrae. Ciò che qui diciamo Essere – e che è già troppo nominare Essere – è ciò che il pensiero ha sempre dietro sé. L’altro da sé che è altro solo per il pensiero che pensando, cioè essendo, distingue. L’alterità non affètta l’altro – ma solo il pensiero che dice “altro”. Anche questo s’intende parlando dell’immediatezza dell’Essere. Della sua vuotezza o nullità. Che non va diminuita, ridotta, o, peggio, cancellata, se non si vuol togliere senso al limite del pensiero22. Dacché questo Essere, o Immediato,

22. La difficoltà di questa posizione è testimoniata anche da Werder, quando, in palese opposizione a Hegel, scrive: «Se si potesse tener fermo l’essere nella sua indeterminatezza, se tale indeterminatezza fosse più di una semplice opinione, allora l’essere non sarebbe affatto» (Logik, p. 44). Ora è proprio questa identità di Essere e Nulla – che è ben oltre la contraddizione del divenire – il limite ontologico del pensiero. Ontologico, non ontico: riguarda l’essere non l’ente; meglio: riguarda l’essere indipendentemen-

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è il fondo senza fondo, l’Ab‑Grund del pensiero – il quale è in quanto media, distingue, separa; in quanto dice No al Sì; in quanto divide l’Indivisibile e genera l’Ingenito. Il pensiero ha bisogno dell’Altro per pensare. Perciò l’Essere appare sin all’inizio della logica: presenza ineludibile ed irriducibile al pensare, per quanto il pensiero si sforzi di ricondurre tutto a sé. La trascendenza dell’Essere al pensare è la trascendenza del principio alla dimostrazione. «È ignoranza – dice Aristotele – non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali invece non si debba ricercare» (Met., IV, 1006a 6-8). E tuttavia – come s’è visto – cerca la dimostrazione attraverso la confutazione. Il pensiero non pensa se non cercando di impadronirsi del suo «altro» – e solo così fa esperienza del limite. Per spiegare la conoscenza dei principi, Platone si richiama all’antica sapienza poetica, a Pindaro, e al ciclo delle successive reincarnazioni dell’anima. Conoscere è ricordare: tò zeteîn kai tò manthánein anámnesis ólon estín (Menone, 81d). L’essere, l’intelligibile è il passato dell’anima: gli eíde già visti, i pensieri per primi pensati, e poi obliati. Ma il circolo di nascite e morti poggia su qualcosa che non è nel circolo: sull’anima, che attraversa nascite e morti, senza nascere né morire. V’è un principio, dunque, che è oltre il passato ricordato: il principio di ogni passato, passato esso medesimo, il passato immemoriale dell’anima. Questo principio interrompe la circolarità

te dall’ente, l’essere nella sua assoluta indeterminatezza. Questo limite è violato (e cioè: dimenticato) ogni qualvolta si concepisce l’essere – das reine Sein, ohne alle weitere Bestimmung – in rapporto all’ente: come accade a Spaventa stesso in EM (Torino 1888) quando parla della cosa in sé come della possibilità trascendentale del fenomeno (pp. 135 ss.). Questo per dire che l’individuazione del limite ontologico del pensare è tutt’altra cosa che l’«esigenza realistica» dell’idealismo di B. Spaventa, su cui si è soffermato l’Alderisio (cf. RA pp. 176‑206).

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del pensiero con l’essere, dell’essere col pensiero. Pertanto, se dalla Fenomenologia alla Logica non v’è continui­tà, questo accade perché all’inizio della Logica si apre l’abisso del Principio di tutti i principi, l’Identità che è oltre la relazione che con‑tiene pensiero ed essere. Identità che non si prova, dunque, scorrendo la relazione da un capo all’altro – dal fatto al fare, dall’oggetto al soggetto, e viceversa –; che non si di‑mostra nel molteplice: perché non è l’uno che è, lo Hén kaì pánta, ma l’Uno(-che-è-)Uno. Per provare questa identità, per di‑mostrarla si dovrebbe allora dedurre dall’Uno il molteplice, dalla Forma il contenuto. Provare questa identità significherebbe davvero «provare la creazione». Spaventa sa bene questa prova non si dà – non è possibile. Sa bene che l’ultima mèta raggiungibile è la volontà, «la vera radice, il motore del pensare». La volontà, che all’ingresso della Logica appare all’ori­gine del pensiero, fissa il limite del pensare – il limite del No opposto al Sì, all’Essere, al puro essere, ohne alle weitere Bestim­mung. Giunti alla radice del pensiero logi­co, alla volontà, non resta che riconoscere l’insoluto‑insolubile problema del mon­do l’«enigma della vita»: l’inspiegabile ge­nesi del No dopo e nonostante il Si. Non resta che riconoscere il puro, nudo fatto del pensare: «quel che sappiamo è che senza il pensare non sarebbe il No, il Nonessere». Che è come dire: sappiamo che senza il pensare non v’è il pensare, senza il No non c’è il No. La tautologia sta a significare che l’enigma resta enigma. La stabilità del pensiero è ohne warum, come la rosa del mistico: sie blühet, weil sie blühet23.

23. Angelus Silesius, PC, Libro I, p. 289.

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Croce vide in ciò solo l’astrattezza di un pensare che si è sciolto dai problemi concreti della vita e della storia24. Gentile volle invece criticare la logica interna del discorso spaventiano. È un errore – scrisse – porre prima l’essere, e cercare poi la contraddizione che lo faccia muovere. La contraddizione suppone l’identità; e questa categoria non c’è più nella dialettica trascendentale. L’essere per contraddirsi dovrebbe sussistere. Ed esso sussiste come divenire; cioè non sussiste. Cercare la contraddizione è fissare l’essere, cioè falsificarlo (uscire dalla logica attualità mentale). (RDH, p. 39).

Gentile, non distinguendo l’essere in quanto pensato (l’identità interna alla contraddizione, posta dalla contraddizione) dall’Essere che è oltre il pensare (l’identità che è «prima» della contraddizione, e per la quale è la contraddizione), si precluse la strada alla comprensione della vera, reale dialettica del pensare. Egli infatti non spiega il divenire, solo lo assume. Per non «analizzarlo», mai ne espone «le determinazioni (categorie)»25. Mai non va oltre l’affermazione che il pensiero è non‑essendo e non‑è essendo26. Certamente il divenire è il primo concetto concreto. Questo Spaventa lo sa bene, come lo sapeva bene Hegel. Ma il fatto che essere e nulla siano i momenti astratti del divenire, non toglie che essi debbano essere spiegati, es‑plicati nella loro identità‑differenza. Diversa­mente si abbandona il discorso per l’intui­zione. Ora, proprio nell’es‑plicare le deter­minazioni del divenire Spaventa dà il me­glio di sé – mostrando che ciò che è in gioco sin 24. Cf. il saggio già cit. “Delle categorie dello Spirito e della Dialettica”, in IH, partic. pp. 32‑33; per contro G. Vacca in PFBS sottolinea il carattere storicistico ed antropologico della meditazione spaventiana. Invero il pensiero di Spaventa è ben al di là di tale alternativa: storicismo/antistoricismo. 25. Secondo la giusta esigenza che Spaventa faceva valere nella critica a Trendelenburg (cf. Op, I, 436‑437). 26. Cf. G. Gentile, TGS, p. 56; SL, I, p. 100. Allo stesso modo Croce più che affrontare il problema, se ne libera: cf. SH, pp. 16‑19.

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nell’inizio della Logica è ben oltre le categorie esposte da Hegel nella Lehre vom Sein: L’Essere come momento è Essere che diviene: il cominciare, il nascere (il distinguersi); il Non Essere come momento è il Non Essere che diviene: il cessare, il perire (l’estinguersi). Così il divenire stesso è il cominciare che cessa, è il cessare che comincia; il nascere che perisce, e il perire che nasce (il distinguersi che si estingue, e l’estinguersi che si distingue). Eterno perire, eterno nascere. Questo eterno perire che è eterno nascere, questo eterno nascere che è eterno perire, è il Pensare. – Penso, cioè nasco come pensare; ma non posso afferrar me stesso come pensare, ma solo come pensato, e perciò perisco come pensare. Perendo come pensare, penso; e perciò nasco come pensare. E così sempre. (Op, I, p. 382).

Questo passaggio illumina l’intero discorso di Spaventa. Il pensare viene qui colto nella sua contra/dizione originaria, ove affermazione e negazione sono coeve e coestensive. E «divenire» non indica ora il movimento da una determinatezza ad altra, esterna alla prima; designa piuttosto un “passare” da sé a sé, da sé alla propria negazione: negazione che è l’essere stesso del sé. È da rilevare che nel primo capoverso essere e non‑essere si presentano con ruoli invertiti: non è il non‑essere, il No, il pensiero che divide e distingue, che negando fa nascere il determinato – ma l’essere, che è eterna generazione o «geminazione»; il non-essere è ora non l’astrarre, ma l’astratto, non il distinguere ma l’estinguere: non il cominciare, ma il perire. La cosa non può essere spiegata, dicendo che ora essere e non‑essere sono momenti del divenire – ché sempre lo sono, o non sono affatto; né che Spaventa ha sotto gli occhi il testo hegeliano che fedelmente segue – perché non sarebbe una spiegazione, ma tutt’al più una giustificazione. Tanto meno dicendo che si tratta di un’incoerenza. Qui Spaventa è sommamente coerente: coerente al pensare ri‑flessivo che,

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ove vede sorgere una determinazione, ne mostra nello stesso luogo e nello stesso tempo l’opposta. Questa ri‑flessione coinvolge il divenire medesimo, che è un cominciare che cessa ed un cessare che comincia: un movimento, cioè, che non è movimento, un passare che non passa; insieme un non-movimento che è movimento, uno stare che è passare. Interpretando le prime categorie della Logica dell’essere, Spaventa si innalza inavvertitamente alla Logica della «verità dell’essere»: alla Logica dell’essenza27. Dell’essenza in quanto ri‑flessione. Ne è conferma questo brano di Hegel: L’essenza è riflessione, il movimento del divenire e del passare, che rimane in se stesso, dove il diverso è determinato assolutamente solo come l’in sé negativo, come parvenza. – Nel divenire dell’essere la determinatezza ha per base l’essere, ed è relazione ad altro. Il movimento riflessivo all’incontro è l’altro come la negazione in sé che ha un essere solo come negazione che si riferisce a sé. […] Il divenire dell’essenza, il suo movimento riflessivo, è quindi il movimento dal nulla al nulla, e cosi il movimento di ritorno a se stesso. Il passare o divenire si toglie via nel passare; l’altro che sorge in questo passare, non è il non essere di un essere, ma è il nulla di un nulla, e questo, di essere la negazione di un nulla, e ciò che costituisce l’essere. (WL, II, pp. 24-25; it., II, p. 444).

Il «movimento» dal nulla al nulla è il movimento del pensare che coglie se stesso solo come pensato, come non‑pensare nell’atto stesso che pensa. Non v’è, qui, solo la dialettica soggetto‑oggetto, atto‑fatto (criticata pur da Gentile, che peraltro la riprenderà28); v’è di più: è adombrata una dialettica che eccede l’ambito del pensiero, ma che è possibile descrivere

27. Com’è noto la Dottrina dell’essenza si apre con questa lapidaria definizione: «Die Wahrheit des Seins ist das Wesen» (WL, II, p. 13). 28. Per la critica cf. G. Gentile, RDH, p. 31; per la ‘ripresa’ cf. in particolare TGS, passim, e SL, I, passim.

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soltanto dall’interno del pensiero. Il pensato, in cui il pensare si estingue senza estinguersi, è come un riverbero (e un richiamo?) di quell’Essere, di quell’Identità che è fuori e prima, che è di qua, sempre di qua dal pensiero. La morte? l’estinguersi che non conosce distinzione? È questo la morte: «la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere»? La morte è, quindi, anche prima della vita? La domanda non è di Spaventa. È nostra. Ma dobbiamo a Spaventa il cammino che ci ha portato in quel luogo, ove è possibile che la domanda sorga: il luogo della ri‑flessione. Là dove l’analisi del divenire toglie la retorica del divenire. La retorica dell’affermazione che supera la negazione, della certezza che supera il dubbio. La retorica della filosofia che si vuole concreta e vera solo se si occupa di problemi “storici”, della vita, della “realtà”. La retorica, infine, di un pensiero che, incapace di interrogarsi su se medesimo, si volge all’esterno, scambiando così ciò che è derivato con l’originario. Contro questa retorica della cieca immanenza, che ammette il problema solo ove è la soluzione, parla la filosofia di Bertrando Spaventa, che non nega, per una falsa concretezza, l’«enigma della vita», ma fa del limite del pensiero il suo problema. Il problema del cominciamento. Qui davvero il Primo è l’Ultimo, l’Ultimo il Primo.

Appendici

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I La prassi tra struttura e storia

1. Cosa ci spinge, oggi, a tornare sulle pagine di Croce e Gentile interpreti e critici del marxismo? Un interesse storico antiquario, o una motivazione storico‑critica – o, di più ancora, una ragione teorica? Rispondere a questa domanda implica anzitutto interrogarsi sul significato e sulla portata di quella duplice “lettura” di Marx. Che essa abbia rappresentato un momento di gran rilievo per la cultura italiana della fine del secolo scorso, è anche superfluo ricordarlo. È noto: gli studi marxiani sono all’origine del pensiero di Croce e Gentile, di quel pensiero che ha fatto storia – nel senso più ampio dell’espressione – in Italia nella prima metà del 900. C’è da chiedersi, però, se il rilievo di quell’episodio sia limitato allo spazio della cultura italiana e al tempo di un passato che per essere recente non è meno “passato” – o non abbia invece una più ampia estensione e sovrattutto una ancora vivente, attuale, presenza. Ad una lettura «a libro aperto» – per riprendere l’espressione di Althusser – non pare si possa rispondere in senso favorevole alla seconda ipotesi. Si prenda l’interpretazione crociana. Appare estremamente riduttiva. Ne riassumo schematica-

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mente i punti salienti: 1) l’eguaglianza valore‑lavoro non è una legge economica, o almeno non dà il concetto generale del valore (cf. MSEM, pp. 60 e 73); 2) l’economia marxista, conseguentemente, non è la scienza economica generale, ed infatti accanto o, meglio, al di sopra di essa va posta l’economia pura fondata sul concetto dell’utile (o ofelimo) (ib., p. 78); 3) la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, esposta nel Libro III, Sez. III del Capitale, è radicalmente erronea (ib., pp. 149‑161); 4) non tutta la storia è storia di lotta di classe (ib., p. 87); 5) il materialismo storico non è una filosofia della storia (e questo in Croce suona ad elogio), né un nuovo metodo storico – è semplicemente un canone empirico di interpretazione storica, un ammonimento rivolto agli storici a prestare attenzione alle motivazioni economiche dell’agire umano (ib., p. 80 e passim). Né filosofo, né economista puro, Marx, secondo Croce, fu più uomo d’azione che di pensiero: «provava una sorta di fastidio per le ricerche d’interesse puramente teorico» (ib., pp. 81‑82). Di qui la definizione di Marx «Machiavelli del proletariato» (ib., p. 112). Ora tale riduzione di Marx a uomo pratico e rivoluzionario «impaziente delle ricerche che non avessero stretto legame con gli interessi della vita storica e attuale» (ib., p. 60), sembra non provar altro che la completa incomprensione del concetto marxiano di prassi. D’altronde non poggia forse su di una molto convenzionale ed acritica distinzione del conoscere dall’agire, tipica del senso comune? Alla luce di questa interpretazione riesce difficile comprendere come Croce abbia potuto in seguito (nella Prefazione del ’17 alla III edizione di Materialismo storico ed economia marxistica) affermare che attraverso Marx aveva sentito «il fascino della grande filosofia storica del periodo romantico» e scoperto «un hegelismo assai più concreto e vivo di quello che era solito incontrare presso scolari ed espositori, che riducevano Hegel ad una sorta di teologo o di metafisico platonizzante» (ib., p. XII). Questo giudizio non corrisponde al fatto. A

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parte la considerazione che nei saggi in questione Croce aveva attribuito scarso peso all’attività filosofica di Marx e quindi al suo rapporto con il pensiero hegeliano – riteneva quell’esperienza limitata agli anni giovanili –, c’è da dire che la scoperta crociana di Hegel avvenne sotto lo stimolo del suo più giovane compagno di studi, Giovanni Gentile, e non certo in seguito agli studi marxiani. Passiamo ora a Gentile. La prima osservazione da fare riguarda l’estrema limitatezza delle sue conoscenze marxiane. Laddove Croce si muove agevolmente non solo tra gli scritti di Marx ed Engels, ma anche nella Sekundärliteratur, Gentile, particolarmente nel primo lavoro, peraltro composto quand’era giovanissimo, nel 1897, ha di Marx una conoscenza per lo più di seconda mano: lo cita attraverso Labriola (cf. FM, p. 163, nota 1). Né migliora di molto nel saggio pubblicato due anni dopo, “La filosofia della prassi”. Pure una “novità” c’è, e merita d’essere rilevata. Gentile presenta un testo allora inedito in italiano: le Tesi su Feuerbach di Marx, pubblicate postume da Engels. La scelta è significativa. Gentile mira dritto al nodo della questione: il concetto di prassi. Concetto nuovo per il materialismo – dice – ma «nell’idealismo vecchio quanto l’idealismo medesimo» (ib., p. 210). In questa proposizione già si rivela il progetto ermeneutico gentiliano: ricondurre la prassi al sapere, a «soggettiva costruzione» della verità. Verum et factum convertuntur – ripete con Vico. E poi precisa: «Cotesto principio vuole Marx dall’astratto idealismo trasportare al concreto materialismo. Del quale giudica esser stato fino a lui difetto gravissimo, anzi principale, averlo trascurato» (ib., p. 214). Di qui la sua difesa della filosofia di Marx – contro Croce: «Marx non fu un rivoluzionario, che fece ricorso alla filosofia, solo per giustificare filosoficamente le proprie teorie rivoluzionarie; ma fu anche un vero e proprio filosofo, che per particolari studi e per le condizioni dei tempi diventò rivoluzionario» (ib., p. 257). In particolare Gentile difende la filo-

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sofia della storia di Marx – non solo contro Croce, sì anche al di là della tesi di Labriola. I materialisti storici, afferma, non possono fare a meno della teleologia – come gli idealisti. E al pari di costoro sono ottimisti: «Ciò che è dev’essere; la realtà è razionale… Nella storia c’è quindi una finalità; dacché ogni passo è volto ad una mèta; e questa finalità è essenzialmente ottima» (ib., p. 293). Né la «previsione» filosofico-storica del marxismo conduce al fatalismo, perché «la necessità in Marx si concilia, come in Hegel, con la libertà; in quanto proviene dallo sviluppo spontaneo dell’attività originaria, secondo la propria natura» (FM, p. 256). Gentile critica Croce e Labriola dalla prospettiva di Hegel. Croce e Labriola soltanto? No, critica Marx dalla prospettiva di Hegel. Tutto quanto c’è di vero in Marx, lo si trova già in Hegel. Tutto ciò che invece è proprio di Marx è errore. Il primo saggio si chiude con questa affermazione: «il materialismo storico… considerato dall’aspetto filosofico (è) uno dei più sciagurati deviamenti del pensiero hegeliano» (ib., p. 196). E tale sciagura consiste nell’aver Marx voluto attribuire alla materia, al relativo, all’empirico, le categorie dell’assoluto – nell’aver voluto far oggetto di previsione filosofico‑storica un fatto. Ma – e qui Gentile s’incontra con Croce – «il fatto non si prevede, perché non è oggetto di speculazione, ma di esperienza; e non appartiene perciò alla filosofia della storia, ma alla storia pura (diciamo storia o storiografia) la quale non si occupa, lo sanno tutti, se non del già accaduto» (ib., p. 195). Non diversa, nella sostanza, la critica svolta nell’ultimo capitolo del II saggio, incentrata sull’intima contraddizione tra il concetto di prassi e quello di materia. Il materialismo si fonda, avverte Gentile, sulla sostituzione del corpo allo spirito, del senso alla ragione. Ma il senso conosce solo le affezioni che la materia produce in lui, non la materia stessa che trascende, come la causa l’effetto, i dati sensibili. La materia è conoscibile soltanto mediante la ragione – la quale produce la realtà,

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tutta la realtà, anche quella materiale. Gentile ricorda Galilei: «tutta la natura è scritta in caratteri matematici». E questo è idealismo. Com’è idealismo la concezione secondo cui la società e non l’individuo, l’organismo e non le parti – è l’originario. Perché l’organismo, la società è «vincolo etico, è mente, razionalità». La materia, inoltre, è ciò che nei mutamenti non muta, restando sempre identica a sé ed a cui quindi non può attribuirsi movimento, dialettica, divenire. E se si afferma che nella materia «è immanente una forza» che la muove e trasforma dandole un fine – questa forza allora è «una forza razionale: è ragione, è spirito». La verità di Marx è dunque Hegel. Marx è filosofo sin dove ripete Hegel, quando se ne allontana, cade in insanabili contraddizioni. Ma quale è lo Hegel di Gentile? Lo Hegel filtrato attraverso Donato Jaia e Bertrando Spaventa, letto per lo più nelle traduzioni di Vera. Uno Hegel fortemente “soggettivista” – affatto diverso da quello dell’interpretazione spaventiana, nella quale s’avverte un’ascendenza neoplatonica, che Gentile invece respinge1. In che consiste questo “soggettivismo”? Nel fatto che Gentile, per quanto affermi che nell’assoluto (spirito o ragione) è compreso il relativo (la materia, l’empirico), tiene comunque divisi forma e contenuto, apriori e aposteriori, essenza e fenomeno. Opponendo Marx a Hegel, Labriola aveva definito il materialismo storico la «filosofia immanente alle cose», l’«autocritica che è nelle cose stesse». Gentile obietta che non nella storia esterna v’è significato e legge, ma in noi che facciamo e pensiamo la storia (FM, p. 176). Certo il Noi che fa – ovvero: la prassi in quanto soggetto – è prassi proprio in quanto si oggettiva. Ma, appunto, è sempre il soggetto che si oggettiva. Dei due poli della relazione, il soggetto e l’oggetto, il primo è il dominante 1. Cf. infra, Appendice III.

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ed il secondo resta subordinato – per riprendere la critica di Hegel a Fichte (cf. DFS, pp. 72-75; it., pp. 57-60) che qui pienamente s’attaglia. Tale rapporto di subordinazione non muta, neppure quando la prassi si rovescia e l’oggetto diventa principio ed il soggetto termine (FM, p. 223), dal momento che l’oggetto è principio solo dopo che è stato termine, dopo cioè che è stato “posto” dal soggetto. Gentile, cioè, non giunge – per dirla ancora con Hegel – all’esperienza dell’autonomia dell’oggetto (PhäG, p. 135; it., 146). Significativo, in questo contesto, il suo chiarimento dell’espressione marxiana gegenständliche Thätigkeit: attività che fa, pone, crea l’oggetto sensibile (FM, p. 207, nota). Il soggettivismo di questa lettura di Hegel si rivela con ancora maggiore evidenza là dove Gentile oppone al falso, contraddittorio realismo di Engels e Labriola, il vero realismo di Hegel che certo Marx, «buon conoscitore dell’hegelismo», non poteva ignorare: il realismo dell’essenza e non del fenomeno. Scrive: Anche Marx […] si riferiva ad una realtà essenziale, a una realtà che è al di là dei fenomeni; e le cose, di cui diceva d’aver trovato la dialettica, non eran già tutte le cose, necessarie o accidentali, di cui la storia ci schiera innanzi l’infinita schiera fenomenica, ma eran le cose nella loro intima e, dicasi pure, metafisica sostanza, determinata materialisticamente nella vita economica. Certo sfugge dalla rete a grandi maglie di questa realtà metafisica, tanta e tanta parte della fenomenica; ma questa che sfugge non è razionale, e non è quindi vera realtà, avrebbe detto Hegel; essa non è economica, e quindi non è reale realtà, osserverebbe Marx. (Ib., p. 268).

Ma, questa rete a grandi maglie da cui sfugge tanta e tanta parte della realtà fenomenica non è una forma vuota? A questo punto non è tanto importante rilevare l’oscillazione di Gentile tra questa posizione che separa essenza da fenomeno, e l’altra, presente nel medesimo testo, secondo la quale

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ogni proposizione empirica è elevata al rango di proposizione apriori quando venga intesa nella sua correlazione universale, e cioè nel sistema del Tutto (ib., pp. 241 e 281‑83); più importante è immaginare l’ironico sorriso di Croce innanzi a questa difesa della filosofia della storia, che lascia fuor di sé tanta e tanta parte della storia perché non razionale, o – il che dice lo stesso – non economica. L’ironico sorriso di chi proprio a questa storia “non razionale”, “non economica” è interessato. 2. Se ci dovessimo affidare a questa lettura a libro aperto, solo un interesse storico antiquario potrebbe spiegare il motivo per cui torniamo sulle pagine di Croce e Gentile interpreti e critici di Marx. Avvertiamo, tuttavia, che tale lettura non coglie nei testi studiati il loro vero significato. Le stesse oscillazioni di giudizio e contraddizioni dei due Autori ci spingono a una diversa lettura. Ma è possibile tentarla solo se prima ne definiamo l’orizzonte problematico. Cominciamo allora, come si dice, ab ovo. E cioè, in questo caso, da Marx. Prendiamo un testo che né Croce né Gentile potevano conoscere negli anni in cui si occupavano del materialismo storico: l’Introduzione del ’57 a Per la critica dell’economia politica – edita solo nel 19032. Ci fermeremo soltanto sul § III di questo marxiano Discours de la méthode, là dove si fa esplicita l’opposizione a Hegel. Cosa imputa Marx a Hegel? Non un errore di metodo scientifico, bensì lo scambio dell’oggetto (o risultato) del procedimento del pensiero con l’oggetto reale. È, questo, il nodo centrale della controversia idealismo/materialismo. La nostra preferenza cade su queste pagine dell’Introduzione del ’57 piuttosto che su altre, perché in esse il problema è trattato

2. Cf. KpÖ, Einleitung, pp. 3-31; it., pp. 1-40.

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non in astratto, ma sul concreto terreno dell’analisi del metodo scientifico dell’economia politica. Marx inizia presentando due possibili metodi d’indagine: il primo che muove dal reale e concreto, per es.: dalla popolazione, o dallo Stato, o dalle relazioni internazionali, per giungere alle determinazioni più semplici, quali la divisione del lavoro, il danaro, il valore; il secondo segue invece il cammino inverso: dagli elementi semplici – bisogno, valore d’uso e di scambio, moneta… – alla realtà complessa dell’organizzazione sociale, del mercato mondiale, ecc. Questi due metodi non sono pure ipotesi; sono i metodi realmente seguiti in due mo­menti successivi della scienza economica moderna. Al suo sorgere, nel sec. XVII, l’economia politica seguì il primo; in seguito, una volta che i concetti “semplici” di lavoro, denaro, valore, ecc., furono fissati, gli economisti inver­tirono il loro procedimento. Da questo rapidissimo sguardo retrospettivo si apprende che il secondo metodo non poteva sorgere che dopo il primo. Questo è la base storica e concettuale di quello. Ma Marx dice a chiare lette­re che il primo metodo «ad un attento esame […] si rivela falso» (KpÖ, p. 21; it., p. 26). Perché? Perché se si comincia con la popolazione, senza considerare le classi che la compongono e gli elementi semplici su cui queste si fondano – lavoro, capitale, ecc. –, si ha soltanto «una rappresentazione caotica dell’insieme». La vera conoscenza scientifica muove dagli elementi semplici e con questi spiega il tutto complesso, il reale concreto. Talché la verità raggiunta – il metodo scientifico vero – condanna e nega come non vera la via percorsa per rag­giungerla – il primo metodo –. Scrive Marx: seguendo il primo procedimento «la rappresentazione piena (della realtà concreta) viene volatilizzata ad astrat­ ta determinazione»; seguendo il secondo «le determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero» (ib., p. 22; it., p. 27). Ma ciò che è verità nella scienza, è non vero nella realtà. Perché nella realtà il Prius è

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proprio il complesso, non il semplice: la famiglia non il possesso. Pertanto ha ragione Hegel a cominciare, nella Filosofia del diritto, con il possesso; ma ha torto nel ritenere la categoria più semplice come il primo reale. Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero, che si riassume e si approfondisce in se stesso, muovendosi a partire da sé, mentre il metodo di risalire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria del concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. (Ib.).

Tuttavia sotto l’opposizione tra metodo scientifico e realtà non è difficile scorgere una “speculare” corrispondenza – fondata su un’identità di fondo: la struttura relazionale dell’oggetto, dell’oggetto della conoscenza come dell’oggetto reale. Per cui, se ragione e logo significano originariamente relazione, è necessario dire che come la conoscenza così la realtà è razionale, logica. È, questa, la verità di Hegel che permane in Marx, esprimibile con un ossimoro: idealismo materiale, o, se si preferisce, materialismo ideale. Finora, però, abbiamo considerato non la realtà, ma, per dir così, la fotografia della realtà: la realtà in un determinato momento. Ma se consideriamo il reale non staticamente, bensì com’esso è, in fieri – allora altre domande si pongono. Le «categorie semplici – si chiede Marx – non hanno anche una esistenza storica o naturale indipendente, prima delle categorie più concrete?» Certo, può accadere: il denaro, ad es., esisteva anche prima delle banche, del lavoro salariato, del capitale… In questo caso vi sarebbe una perfetta, non solo “speculare”, corrispondenza tra metodo scientifico e processo storico reale. Tuttavia le categorie semplici si realizzano compiutamente solo nelle società più evolute. Marx fa l’esempio del lavoro, «categoria del tutto semplice», presente come tale sia in mente che in re sin dall’antichità. Ciononostante

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il lavoro sans phrase, il lavoro in generale, la pura astrazione del lavoro indifferenziato, «diviene praticamente vero» solo nell’economia moderna: L’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde ad una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro ed in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. (Ib., p. 25; it., p. 31).

In tal modo Marx ribadisce che il metodo scientifico veramente valido è quello che procede in senso inverso all’ordine storico reale. La società più evoluta – quella in cui sono meglio determinati, specificati, più «semplificati» i suoi organi, le sue funzioni e «categorie» – ci consente di capire meglio le società più antiche, meno progredite. Come «l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia», così «l’economia borghese fornisce la chiave per l’economia antica» (ib., p. 26; it., p. 333). E qui necessaria una pausa di riflessione. Nel breve giro di pochissime pagine Marx ha mutato completamente lo scenario. I due procedimenti – dal complesso al semplice, l’uno, dal semplice al complesso, l’altro – che all’inizio sembravano occupare esclusivamente il campo del sapere, rimanendo la realtà «salda nella sua indipendenza fuori della mente» (ib., p. 22; it., p. 28), sconfinano ora nell’ambito del reale. Il primo, in particolare, non è più limitabile entro la sfera del pensiero; esso è il movimento stesso della storia che va dal complesso al semplice. Pertanto neppure può dirsi «falso», se non si vuole condannare la storia, le res gestae, come «falsa». E se non è falso il processo storico, tanto meno falso è il metodo che ce lo fa conoscere così com’esso si è realmente svolto. Vero è che Marx afferma che, per conoscerlo davvero, bisogna prima seguire il metodo inverso – dal semplice al complesso –, dacché si può conoscere l’anatomia della scimmia solo dopo

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aver conosciuto quella dell’uomo. Ma, così ragionando, Marx opera un’altra inversione: non il primo metodo è il presupposto (la base concettuale) del secondo, ma il secondo del primo. Il presente ci fa capire il passato: il tempo della scienza capovolge il tempo reale. E solo per questa Umkehrung è possibile comprendere il tempo reale (e qui, sia detto tra parentesi, la prossimità di Marx a Hegel, contrariamente a quanto Marx stesso non intendesse, è tale che non è dato scorgere la linea di confine che li separa3). Ma, chiediamoci, che è il “presente” della scienza? Il momentum che tramezza passato e futuro – o non piuttosto il luogo temporale che con‑tiene, tiene insieme e comprende in sé, passato e futuro, ed il presente che li tramezza? C’è un passo di Marx che dobbiamo leggere, non per rispondere alla nostra domanda, ma per capirne la radicale problematicità: L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide – proprio a causa della loro natura astratta – per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che v’è di determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni. (Ib., p. 25; it., p. 32).

Marx fa riferimento al lavoro, cioè alla categoria “semplice” che anche come rappresentazione “semplice” si trova sin nell’età antica, per mostrare la storicità delle determinazioni su cui lavora la scienza. Ma questa stessa storicità rinvia a quella struttura relazionale permanente che è il presupposto di ogni storia. Ora questa struttura costituisce il vero oggetto del sapere scientifico, se soltanto a partire da essa possiamo 3. Sul tema cf. B. de Giovanni, HTS: “Inversione della successione e tempo” pp. 129-153; ed altresì, sempre dello stesso autore, TPC, spec. P. III, “Il tempo del Capitale”, pp. 141-256.

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dire che il presente storico (l’anatomia dell’uomo, l’economia moderna) è la chiave di comprensione del passato (l’anatomia della scimmia, l’economia antica). Tale oggetto vero, eterno, acronico può rivelarsi in un presente storico, o la storicità del luogo in cui si dovrebbe rivelare è d’impedimento alla rivelazione della sua astoricità? Come distinguere entro la “veduta storica” ciò che è storico da ciò che non lo è? Non è storica anche la definizione del non‑storico? Esige allora l’oggetto eterno un presente epistemico eterno, un luogo di rivelazione ad esso adeguato? 3. Il contrasto tra la acronica struttura relazionale che definisce lo “spazio di comprensione” dei fenomeni storici, e la storia stessa immersa nel tempo sembra possa dirimersi seguendo due vie alternative: quella dell’unificazione di struttura e storia o l’altra, opposta, della loro rigida separazione. La prima via tentò, con estrema lucidità Antonio Labriola, il primo vero filosofo marxista italiano (se non l’unico). Il suo programma filosofico può sintetizzarsi in questa formula: storicizzare la struttura. Semplice a dirsi, difficile, difficilissimo a volerlo realizzare. Anzitutto è necessario ridurre al minimo il valore dell’astrazione, del concetto, delle leggi generali. Materialismo è questo: muovere dai bisogni determinati dell’uomo e dalle condizioni specifiche, particolari in cui egli si trova, per spiegare la storia, e per farla. Se è possibile una previsione, questa è storica se ed in quanto fa riferimento non a leggi generali, a un disegno universale e a mète prestabilite – come in Agostino e in Hegel (CMS, p. 166) – ma alle condizioni presenti del vivere sociale, alla situazione attuale del conflitto di classe, alle circostanze economiche del presente. Il presente è centro della storia, luogo d’osservazione del passato e del futuro, solo perché «per lo sviluppo finora avveratosi, noi siamo in grado di valutare il

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passato, e di prevedere, ossia d’intravvedere, in un certo senso e in una certa misura, l’avvenire» (ib., p. 156; e p.  182). La stessa nozione di progresso è empirica, determinata, circostanziata. Il concetto, l’astrazione generalizzante, ha valore fin tanto che può essere riportata al concreto, al particolare determinato – alle cose stesse, donde è sorto. Il movimento reale va «dalla vita al pensiero, e non già dal pensiero alla vita» (DSF, p. 58). Pertanto materialismo significa: naturalizzazione della storia, in quanto non si ferma «alla prima evidenza delle volontà operanti a disegno», ma di queste cerca i moventi e le cause, «per trovar poi la coordinazione di tali cause e moventi nei processi elementari della produzione dei mezzi immediati della vita» (CMS, p. 147). La struttura è questa coordinazione, cercata e individuata volta a volta nelle condizioni specifiche delle singole, determinate società storiche. Di qui la polemica labrioliana contro l’accostamento di materialismo ed evoluzionismo. Il materialismo storico è diviso da un abisso dal darwinismo: l’abisso che separa lo storicismo dalla metafisica. Labriola insiste sul fatto che la storia dell’uomo è un terreno artificiale, il prodotto della cultura dell’uomo e non un dato immediatamente “naturale”, animale. Questa insistenza sulla separazione dell’attività dell’uomo, della storia umana dalla vita animale non è in contrasto con la naturalizzazione della storia, che – come poc’anzi si è detto – è la caratteristica della concezione materialistica della storia; ne è, anzi, la conferma, in quanto l’interpretazione della storia come prodotto della cultura materiale dell’uomo, sorta appunto dai bisogni naturali dell’uomo, storicizza la storia stessa, la libera da ogni metafisica entificazione, da ogni universale legge astratta, che ancora si ritrova nel darwinismo. Conseguentemente Labriola critica anche la teoria dei fattori storici: diritto, morale, stato, religione sono non fattori ma fatti. Fatti storici, sorti nel tempo e destinati a tramontare nel tempo (ib., pp. 204 ss.).

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Labriola spinge il suo storicismo materialistico sin sulla sponda dell’empirismo storico, negando, ad es., che possa farsi storia dell’«ente Cristianesimo». Non c’è altra storia che quella delle singole associazioni cristiane, comunità e chiese, diversi nei singoli paesi e nelle diverse epoche. Lo stesso corpo dottrinale si frantuma ai suoi occhi in molteplici storie, secondo i luoghi e le età. Ma le «credenze», i «dogmi», i «simboli» e le «liturgie» debbono passare in seconda linea, «come è proprio di ogni altra soprastruzione ideologica» (ib., pp. 120 ss.). Tuttavia, sotto questa estrema varietà di storie particolari si cela un rigido monismo. «L’uomo non percorre più storie in uno e medesimo tempo; ma tutte le pretese varie storie (arte, religione, etc.) ne fanno una sola» (ib., p. 237). ­Semplificata all’estremo, ridotta nelle sue articolazioni essenziali ad un unico elemento portante, la base economica, ricondotta pur questa entro il processo storico – la struttura acronica della storia si impone lo stesso: come la pura forma del tempo. La forma del tempo‑successione, che nessun empirismo riuscirà mai a storicizzare, essendo essa il presupposto di ogni storicismo empirico. C’è da chiedersi però se questa forma pura del tempo‑successione non sia già un’interpretazione del tempo. 4. Per dirimere il contrasto tra struttura e storia Louis Althusser ha seguito la via opposta a quella dello storicismo. Anziché unificare i due termini, riportando la struttura a storia, ha tentato di tenerli distinti e divisi. «La conoscenza storica – ha scritto – non è più storica di quanto non sia zuccherata la conoscenza dello zucchero» (LC, p. 113). Ma vediamo come è giunto a tale affermazione. Althusser muove da una serrata critica dell’empirismo e dell’hegelismo. Entrambi concepiscono il conoscere come appartenente «alla struttura reale dell’oggetto reale» (ib.,  p.  40).

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Hegel facendo del conoscere la rivelazione dell’Essenza ideale, intesa come la realtà assoluta; l’empirismo concependo il sapere come astrazione dall’oggetto reale della sua essenza reale (cf. ib., p. 36). Ma il pensiero – obietta Althusser – non procede dalla realtà, né dal singolo esistente, né dall’universale Idea. Il pensiero inizia da sé: da un concetto generale, già dato, quindi «ideologico», non scientifico, che mediante il lavoro critico porta a scienza, ad oggetto epistemico concreto (cf., M, pp. 64 ss.). A quale esigenza risponde questa tanto netta separazione del pensiero dalla realtà? All’esigenza di mantenere l’oggetto reale nella sua piena indipendenza «fuori del pensiero», come dice Marx in un passo dell’Introduzione del ’57 che Althusser cita come suo vessillo. Ma in Marx la distinzione tra ordo rerum e ordo idearum, come si è visto, non esclude una loro più profonda unità – anzi la presuppone. Althusser invece, anche oltre Marx, intende mantenere salda la separazione delle due sfere, ritenendo idealistica ogni confusione tra il «concreto‑di‑pensiero» ed il «concreto‑realtà». Ora non si nega certo che tra i compiti di un’epistemologia materialistica vi sia quello di determinare i limiti del pensiero, ma che la via percorsa da Althusser sia quella giusta, è difficile concedere (cf., ad es., M, p. 221). Ma seguiamo, intanto, il nostro Autore nel suo cammino. La critica dell’empirismo – e cioè: la chiara denuncia dell’idealismo implicito nell’empirismo – non può non coinvolgere anche la concezione empiristica del tempo lineare, inteso come dato reale immediatamente presente alla rappresentazione. Il tempo storico – obietta Althusser – non è un dato intuitivo, una rappresentazione «reale». Al contrario, esso è accessibile solo attraverso il concetto – ed ogni concetto «deve essere prodotto, costruito» (LC, p. 108). La scienza – la pratica teorica – è appunto la produzione di concetti mediante i quali

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noi ci appropriamo dell’oggetto reale. In che modo avviene questa appropriazione? La riflessione sul tempo ce lo mostra. Rileva Althusser: il tempo della produzione capitalistica non è un tempo unico ed omogeneo, è anzi un «tempo complesso», un «tempo di tempi»: «il tempo della produzione e il tempo del lavoro, la differenza dei diversi cicli di produzione (rotazione del capitale fisso, del capitale circolante, del capitale variabile, rotazione monetaria, rotazione del capitale commerciale e del capitale finanziario, ecc.)» (ib., p. 108). A non dire di altri tempi: della vita biologica, come della vita politica, della pratica teorica, dell’arte… Beninteso, tutti questi tempi differenti, pur nella loro relativa autonomia, sono tra loro collegati in una totalità gerarchicamente strutturata. Questa totalità complessa, strutturalmente articolata a vari livelli, costituisce il luogo di comprensione della società capitalistica e della sua storia. Della sua storia, si è detto – e non della storia tout court. Perché la storia di altri tipi di organizzazione sociale richiede altro concetto di tempo, un differente spazio di “lettura”, una diversa totalità complessa. Ora ciascuna struttura complessa, per avere in sé il tempo, o, meglio, i vari livelli di tempo, non è essa stessa nel tempo. Ecco perché «la conoscenza della storia non è storica più di quanto non sia zuccherata la conoscenza dello zucchero». È evidente: lo spazio di giuoco del tempo non è nel tempo. Solo che non c’è un unico spazio – ve ne sono molteplici. Diverse sono infatti le forme di produzione, diverse le strutture sociali che si sono succedute nel tempo. V’è allora un tempo che contiene in sé tutti i tempi, uno spazio di tutti gli spazi, un orizzonte di tutti gli orizzonti? Althusser rilutta ad una tale conclusione: «come non esiste la produzione in generale – scrive – così anche non esiste la storia in generale, ma solo delle strutture specifiche di storicità fondate, in ultima istanza, sulle strutture specifiche dei differenti modi di produzione» (ib.,

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p. 116). Ma il rifiuto della storia generale, del tempo universale, può a questo punto significare soltanto che non ne abbiamo il concetto, il concetto determinato (e come potremmo averlo, se esso è appunto generale?) – non certo che realiter non vi sia questa storia, questo tempo “universale”. La stessa pluralità dei diversi spazi temporali presuppone un unico spazio di comprensione. Anche la conoscenza storica, quindi, cade nella storia, è storica – anche se di una storia senza concetto! Sicché neppure la netta e rigida separazione di pensiero e realtà riesce ad eliminare il contrasto tra struttura e storia, episteme e realtà. La realtà, la storia è più ampia del concetto che dovrebbe comprenderla. Ma è poi veramente extra mentem la storia che comprende il concetto di storia? O non è, questa storia reale, la pura successione lineare del tempo “ideologico”? Questo va detto non tanto per mostrare che alla fine il sapere ideologico non cede a quello epistemico, ma anzi lo sorpassa, quanto per rendere evidente che la stessa distinzione tra pensiero e realtà, posta inizialmente in modo così netto, non regge. Pensiero e realtà si scambiano di continuo i ruoli – e dove credi di trovar l’uno, ti imbatti nell’altra, e viceversa. 5. Dopo questo lungo giro possiamo tornare a Croce e Gentile, e ai loro studi marxiani. L’orizzonte ermeneutico per una più problematica lettura è stato tracciato. Cominciamo con Gentile. L’oscillazione, a suo tempo rilevata, tra la tesi che ogni proposizione empirica è elevata a proposizione necessaria, a priori, quando dalla sfera dell’esperienza, donde viene appresa, la si riporta a quella della conoscenza sistematica del reale, e l’altra che dalla rete a grandi maglie dell’essenza metafisica – razionale per Hegel, economica per Marx – sfugge tanta e tanta parte della realtà fenomenica; questa oscillazione esprime a suo modo quella medesima contraddizione tra episteme

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e storia, pensiero e realtà, che abbiamo ritrovato in Althusser, in Labriola e, prima ancora, in Marx. Che non è una contraddizione di pensatori poco coerenti. È la contraddizione insita nella cosa stessa. La contraddizione che caratterizza il tempo. Il pensiero del tempo. Che per un verso esige un orizzonte di comprensione che contenga la totalità del divenire, del tempo, per un altro riconduce questo medesimo orizzonte entro il tempo che esso dovrebbe contenere in sé, comprendere. Tutta la filosofia di Gentile è dominata da questa contraddizione, che emerge sin negli scritti marxiani del periodo giovanile. E pertanto quando si parla di Gentile come del filosofo del divenire – del divenire, non del concetto del divenire4 –, si dice solo una mezza verità. Gentile cerca in tutti i modi di pensare il divenire, di pensare la prassi, quel concetto che nuovo per il materialismo, accompagna l’idealismo sin dalla nascita; ma per la radicalità stessa del suo pensare, che tende a conciliare comunque la contraddizione, conclude nell’esatto opposto dell’assunto originario. Se la prassi va pensata senza materia o, per dirla con Hegel, se la sostanza dev’essere portata a soggetto compiutamente, perfettamente, allora il divenire non deve aver più nulla alle sue spalle, ogni presupposto dev’essere consumato, bruciato nel fuoco eracliteo del suo porre. Nulla alle sue spalle – ma anche nulla avanti a sé, foss’anche la nuda distesa, la vuota possibilità di un tempo futuro da “riempire”. Tutto il divenire, l’intero tempo storico si raduna e raccoglie nell’atto presente del pensiero. Il pensiero in atto occupa tutt’intero lo spazio della verità, tò pedíon tês aletheías, da cui mai non esce – come il Noûs plotiniano (En, VI, 7, 13). L’affermazione assoluta della prassi – della prassi senza presupposto o materia, della prassi idealistica – si traduce così nella negazione assoluta della prassi. Gentile cercherà di sottrarsi a questa conclusione facendo spazio nel logo concreto, nell’e4. Del Noce, SR, pp. 121‑98.

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terno presente, al logo astratto: al finito e particolare, al prima e al poi, al tempo della successione, al presente storico che tramezza passato e futuro. Ma questo tempo è vero solo nella totalità del presente eterno: è lo spazio già da sempre disteso di questo presente. È divenire ut pictura in tabula, per dirla con le parole di Gentile critico di Hegel. Certo più feconda, più problematicamente feconda, la distinzione giovanile tra essenza e fenomeno: tra le larghe maglie delle forme essenziali passava la realtà “inessenziale”, non razionale, non economica della vita, del divenire, del tempo. Il divenire, il tempo, la vita è allora l’altro, il radicalmente altro dal pensiero? 6. Questo contrasto tra la Vita e le Forme, tra la storia e il pensiero, il divenire e l’essere – è il luogo, il topos filosofico di Croce. La ragione della sua negazione della filosofia della storia è appunto nel convincimento che sia impossibile «una riduzione concettuale del corso della storia». È certo possibile cogliere col pensiero singoli elementi o aspetti della realtà, «fare una filosofia della morale o del diritto, della scienza o dell’arte, e insieme una filosofia delle loro relazioni», non è dato però «elaborare concettualmente il complesso individuato di questi elementi, ossia il fatto concreto, che è il corso storico» (MSEM, p. 3). Si osservi: il fatto concreto, il corso storico è di là pur delle relazioni tra i vari elementi che lo compongono. Labriola aveva detto: dalla vita al pensiero – presupponendo che il pensiero vero con e nelle sue astrazioni riuscisse a rendere la vita, la ragione e la realtà della vita, la filosofia immanente nelle cose; Croce, il letterato, erudito Croce, nei suoi studi marxiani non mostra la stessa fede del Maestro. Per lui le leggi scientifiche sono solo degli schemi con cui noi possiamo orientarci nella realtà – ma non sono la realtà stessa, la realtà vivente della storia. «Tutte le leggi

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scientifiche – afferma – sono leggi astratte; e fra l’astratto e il concreto non c’è ponte di passaggio» (ib., p. 101). In questa prospettiva s’intende bene l’importanza della questione posta da Croce riguardo allo statuto epistemologico del Capitale – se dovesse, cioè, esser considerato una ricerca storica o scientifica –, connessa alla querelle sulla teoria dell’eguaglianza valore‑lavoro. Labriola aveva definito questa eguaglianza la «premessa tipica» dell’intera analisi marxiana, distinguendola dalle «premesse di fatto», le condizioni storiche particolari della società capitalistica (DSF, pp. 21 ss.). Croce fa sua questa definizione: «il valore‑lavoro di Marx – scrive – non è solo una logica generalità, ma è anche un concetto pensato e assunto come tipo, ossia qualcosa di più e di diverso da un mero concetto logico» (ib., p. 63). Nel ridurre la portata logica della teoria marxiana, Croce ne mette in luce nel contempo un altro aspetto, per lui anche più importante: la sua maggiore vicinanza alla storia, al concreto. Il Marx nell’assumere a tipo l’eguaglianza del valore col lavoro e nell’applicarlo alla società capitalistica, istituiva paragone della società capitalistica con una parte di se stessa, astratta ed innalzata ad esistenza indipendente: ossia, paragone tra la società capitalistica e la società economica in se stessa (ma solo in quanto società lavoratrice). In altri termini, egli studiava il problema sociale del lavoro, e mostrava, col paragone implicito da lui stabilito, il modo particolare in cui questo problema viene risoluto nella società capitalistica.5

La definizione del marxismo come canone empirico di interpretazione della storia non è allora un giudizio riduttivo soltanto. Se non è lecito respingere le astrazioni e le ipotesi delle scienze, neppure è lecito sopravvalutarle – afferma ora

5. Ib., p. 70. In merito v. l’importante saggio di C. Tuozzolo, WC, sul rapporto del giovane Croce con Weber.

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Croce – «quasi che (nella scienza) consista non si sa quale aristocrazia dello spirito umano». Invero «dalle reti a grandi maglie delle astrazioni e delle ipotesi scivola, inafferrabile, la realtà concreta, ossia il mondo stesso in cui noi viviamo e ci muoviamo, e che c’importa conoscere» (ib., p. 112). La realtà concreta – inafferrabile non solo con gli schemi e con le astrazioni della scienza, ma anche con le astrazioni degli ideali morali o politici, quali che essi siano, liberisti o comunisti. Oltre l’intelletto, oltre le leggi e i programmi, oltre il giudizio sul passato e le previsioni dell’avvenire – vi è la forza che agisce, la prassi. È a questo livello che l’eguaglianza valore‑lavoro rivela tutt’intero il suo significato. Ma facciamo parlare direttamente Croce: quella eguaglianza non è né un ideale morale né una legge scientifica, ma un fatto – «un fatto che vive tra altri fatti, ossia un fatto che empiricamente ci appare contrastato, sminuito, svisato da altri fatti, quasi una forza tra le forze» (ib., p. 68; corsivo mio). Marx Machiavelli del proletariato, Marx uomo pratico e rivoluzionario più che teorico – ora queste definizioni non hanno più niente di riduttivo e di paradossale. Esprimono anzi un giudizio largamente positivo, pienamente coerente con l’asserita divaricazione di pensiero ed essere, episteme e storia. Il canone empirico è il medium per avvicinarsi alla storia viva, al mondo che la scienza è incapace di afferrare. A quel mondo di fatti che sono forze tra forze – come l’idea‑forza, fatto anch’essa, dell’eguaglianza del valore col lavoro. Prassismo radicale? affermazione della volontà contro il pensiero? vitalismo, irrazionalismo? Croce avvertì fortemente la seduzione di questi motivi – che peraltro andavano affermandosi in Europa e presto sarebbero dilagati anche oltre l’ambito pur sempre ristretto della cultura. Ma, scorgendovi subito l’implicito nihilismo, volle come imbrigliarli, incatenarli ad una legge, ad una forma.

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Logicamente prassismo, vitalismo, irrazionalismo non sono sostenibili. Essi pretendono di far filosofia fuor della filosofia – perché non si fermano al gesto irrazionale, vitale, pratico. Lo esibiscono in un discorso, lo portano al linguaggio. Vogliono cioè legittimarlo. Ma la parola che dice la prassi, che nomina il “gesto” vitale – il logo dell’irrazionale non è prassi, vitalità, irrazionalità. È ap­punto logo, discorso, ragione. C’è da chiedersi allora cosa si celi in questa esigenza di legittimazione che nasce dalla prassi stessa – ed è questa la do­manda‑guida di Croce. Evidentemente nella prassi v’è una “logica”, una “ra­gione” che vuol essere riconosciuta facendosi parola, discorso. Una logica, una ragione che non è la logica e la ragione del pensiero e che pertanto esige d’essere riconosciuta iuxta propria principia: nel pensiero come l’altro, lo héte­ron e non l’enantíon del pensiero. E ciò vale anche, anzi vale soprattutto per quella prassi che sembra esser sciolta da qualsiasi principio che non sia la forza. Anche la forza vitale è razionale. Ha la razionalità dell’ofelimo, dell’uti­le immediato – di quell’utilità che non guarda al fine ma solo alla congruenza dei mezzi rispetto allo scopo, quale che esso sia. Nella sua semplicità estre­ma è questa la legge economica universale che sta non accanto ma sopra la legge – o meglio: il tipo – dell’eguaglianza del valore col lavoro, che tutt’al più descrive un elemento caratteristico di una società storica. L’Economia definisce lo “spazio di comprensione”, il luogo epistemico ideale eterno, dei fenomeni più semplici, se si vuole, dei dati immediati dell’esistenza storica. Labriola capì subito dove portava la via intrapresa da Croce. In una breve lettera del Natale 1896 (da Croce definita «assai spiritosa» – ma che è molto più che spiritosa), così scriveva al suo più giovane amico: «Colgo questa occasione per dirti che tu ti sei avventurato troppo ad affermare l’esistenza, sia pure ipotetica, dell’economia pura. E perché non il diritto puro, l’estetica pura, la bugia pura? E la storia dove se ne va?»

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(CMS, p. 296). Labriola però non s’avvide che Croce faceva esplodere una contraddizione nella quale era lui stesso: la contraddizione tra il presente epistemico e il presente storico. E non bisogna commettere l’ingiustizia di ritenere che Croce non fosse consapevole del contrasto in cui era. È ben vero il contrario: la sua filosofia, ripeto, vive di questo contrasto. Già, vive. Perché Croce tenta diverse vie per risolverlo, ma non si ferma a nessuna d’esse. Apre il problema là dove sembra averlo chiuso. Ma proviamo a definire meglio il problema, così come si prospetta in Croce e a Croce. Dunque: se non si determina lo spazio di comprensione della storia, questa non potrà esser conosciuta – ma se lo si definisce, la storia viene incatenata ad una presenza eterna, immobile. Croce rompe questo spazio in varie forme: dal loro sempre vario articolarsi sorge la storia reale, vivente. L’eterno stesso è storia, perché internamente molteplice e vario. La storia cioè non s’attua entro lo spazio fisso del presente epistemico, non è mero fenomeno di un’eterna essenza. La storia è il movimento di questa medesima essenza: il passare eterno e temporale dell’arte nella filosofia, della teoresi nella prassi, dell’utile nella morale, e da questa ancora nell’arte e così ad infinitum. Nel farsi espressione il sentimento, e giudizio l’espressione, ed azione il giudizio, verum et factum convertuntur: la storia ideale eterna si converte nella storia reale, nella storia che accade nel tempo. Il circolo dell’eterno ritorno segna l’avvento dell’ineguale, del sempre diverso. Almeno così pare. Ma, che ne è della filosofia che definisce questo circolo? Non resta essa immutabile nell’eterno variare del tutto? Se il circolo delle forme è la storia vivente: l’unità di eterno e tempo, struttura e storia, permanente e mutevole, identico e diverso, quiete e movimento – ove nella definizione del circolo, dell’identico‑diverso, il diverso? In che muta tale definizione? Con

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che fa circolo? Non si tratta qui della «questione formale» che la definizione non può passare in altro – arte o prassi – ché già le contiene in sé. La questione formale è specchio di una questione, come dire?, di sostanza. La definizione, la definizione filosofica del circolo non è qui da prendere come altra cosa dal circolo – la sua immagine pensata, o rappresentazione, o concetto –; la definizione è qui la riflessione del circolo su se stesso: il concetto del concetto – come dice bene Croce – ma non nel senso ch’esso è parte di un tutto – come pensa male Croce –, bensì nell’altro secondo cui esso, il concetto del concetto, è il tutto medesimo: il circolo delle forme nella sua trasparenza di sé a sé. Il circolo nella sua immanente rivelazione. Il circolo in quanto sapere di sé nelle sue articolate forme distinte. Per cui torna la domanda: con che fa circolo il circolo? Una forma passa nell’altra – ma il passare non passa. Il circolo non ha altro circolo in cui divenire. E allora? Croce tentò di rispondere chiamando in causa la “vieta”, “banale” distinzione del senso comune: la distinzione tra teoria e prassi. E fu il suo colpo d’ala. Quella distinzione investita di tanto peso problematico gli si trasformava tra le mani. Non era più la distinzione tra due diverse e alternantesi facoltà o disposizioni spirituali: del contemplare e dell’agire, del conoscere il mondo e del mutarlo. Era la distinzione dei diversi piani ontologici della storia. Ad esprimere questa distinzione non bastavano più le comuni, usuali denominazioni. Più antiche parole occorrevano. Croce le mutuò dalla teologia: Grazia e libero arbitrio6. Ogni vita storica è insieme opera della Grazia e prodotto del fare umano. Insieme, si è detto – eppure quando è opera della Grazia non è prodotto dell’uomo. Vediamo come.

6. Cf. US, pp. 290‑95, su cui v. retro, P. I, Sez. I, cap. I, e infra, P. II, Ex-cursus I.

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Ogni vita storica – sia essa azione politica ed economica o atto di pensiero, realizzazione etica o contemplazione estetica – ove la si consideri quand’è compiuta, appare non il risultato del volere umano, la sintesi progettata degli sforzi di tutti e di ciascuno, piuttosto come l’accadimento cui tutti hanno cooperato non come agenti, ma come strumenti. I singoli scopi e le azioni per conseguirli, le avversità, i contrasti, il bene compiuto ed il male, le verità scoperte e difese, ma non meno gli errori – tutto ha contribuito all’opera del Tutto, che ne sa più di noi. La Grazia talora ci ha illuminato, talaltra no, secondo la sua propria logica. In questa prospettiva come non c’è bene né male, perché tutto quanto è accaduto era necessario al compimento dell’opera, così non c’è colpa né merito, perché non v’è responsabilità, né individualità. L’accadimento della Grazia è sotto il segno della necessità: quanto è accaduto doveva accadere, quanto accade deve accadere, quanto accadrà dovrà accadere. Invero qui il tempo è fuori luogo. La necessità della Grazia non conosce il futuro, né il presente teso all’avvenire. Se essa si rivela all’uomo soltanto nella comprensione storica, ciò è perché la logica della Grazia è la logica del passato. Ma di un passato che copre l’intero spazio della storia. È la logica del passato in quanto essenza: tò tì ên eînai, quod quid erat esse. Ma se si muta prospettiva e si considera l’opera nel suo farsi, allora quel medesimo atto di vita storica che sembrava consegnato alla più rigida necessità – quella del già da sempre accaduto – si mostra frutto d’azione e di decisione, di volontà o pensiero responsabile, meritevole o colpevole, degno di lode o di biasimo e condanna. Si mostra libero. E non importa se accaduto mill’anni fa o ancora da compiersi. La storia come pensiero è la storia della Grazia, della necessità. È la storia sub specie aeternitatis. La storia nell’Eterno Presente di Dio. La storia come azione è la storia degli uomini, della libertà, dell’agire responsabile. La storia nel tempo.

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Croce tenta di conciliare le due storie richiamandosi all’alterno succedersi di teoria e prassi. Ma l’argomento non regge: l’alternarsi di teo­ria e prassi può spiegare tutt’al più come si conciliano in mente le due prospettive, ma non in re, nella cosa stessa. La Grazia non viene prima o dopo l’azione libera e responsabile – è coattuale a questa. Come si diceva: ogni atto di vita è insieme opera della Grazia e prodotto del fare umano. Eppure non v’è maggior contrasto che quello tra la Grazia e il libero arbitrio. Croce è tentato a spegnere il contrasto riducendo il valore ontologico della prassi. Afferma infatti che i concetti di colpa e merito, responsabilità e individualità sono come le «illusioni degli amanti». Ma poi precisa: anche le illusioni degli amanti sono reali. Una diversa conclusione avrebbe portato alla negazione pura e semplice della prassi. Vero è che la prassi cede alla teoresi, il libero arbitrio alla Grazia soltanto nella prospettiva della Grazia, della teoresi. Ma nella realtà del fare – del fare pratico come del fare teoretico – l’intera scena della storia è occupata proprio dalle illusioni della responsabilità, dell’individualità, della colpa e del merito. Qui è la teoresi che cede alla prassi. Questa contraddizione tra teoria e prassi, episteme e storia, non è un limite del pensiero di Croce. Al contrario testimonia del legame profondo di questo rapsodico pensatore con le inquietudini del suo tempo. Inquietudini, che egli patì in vario modo: da storico, cercando di allontanarle da sé e dal suo mondo con un verdetto di condanna, da “alessandrino”, costruendo un “sistema” filosofico in grado di imbrigliarle, e tuttavia, nei momenti di più raccolta meditazione, costretto dalla cogenza del pensare a riconoscerne la profondità, più profonda di tutte le difese apprestate contro di esse, più profonda di tutte le formule concilianti della sua filosofia.

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II La carne e lo spirito

1. Nel 1932, nel saggio Die Literarisierung des Lebens in Lope’s Dorotea, Leo Spitzer osservava che la sovrabbondanza delle immagini di culto, e dei concetti, e dei preziosismi espressivi, che caratterizza l’arte barocca, non dipende, come riteneva Croce, dal desiderio dell’artista di essere ad ogni costo originale, e quindi di sorprendere e stupire, e tanto meno dal non sapere esprimersi che in forma manierata ed ampollosa; derivava, bensì, dalla «consapevolezza di esprimersi in un modo che non poteva corrispondere a ciò che pure si doveva dire (dem Auszusagenden)». Croce replicava contestando «le troppe e gravi cose che i recenti critici e storici letterari tedeschi ritrovano nel barocco, che essi considerano come una forma di spiritualità etica o, per lo meno, un caso di spirituale drammaticità»; ribadiva alla fine il suo giudizio con un lapidario: «il barocco è “non-stile”»1.

1. Continuava, precisando «o si può chiamare stile solo a quel modo in cui si parla di “stile brutto”, “stile falso”, “stile retorico”, ecc., nelle quali denominazioni l’aggettivo nega o ironizza il sostantivo»: B. Croce, Cc/V, pp. 131 (per la cit. di Leo Spitzer cf. p. 129, nota 2).

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Se iniziamo a parlare dell’interpretazione che Croce dette del Barocco con la critica mossagli da Leo Spitzer, è perché egli privilegiava sulle altre la storiografia tedesca. Nel 1929, dedicando a Karl Vossler la Storia dell’età barocca in Italia, ricordava quanto aveva detto nel pubblicare Teoria e storia della storiografia (apparsa in tedesco nel 1915, e solo l’anno dopo in italiano), e cioè che i problemi di storia e di metodologia storica che aveva dovuto affrontare erano sorti in Germania, anche se poi rivendicava all’Italia (ovvero: a se stesso) il merito di aver dato ad essi soluzione2. S’aggiunga che il forte legame di Croce con la storiografia di lingua tedesca, che risale sin ai suoi primi studi3, ha, riguardo al nostro tema, ragioni affatto particolari. Gli storici italiani dell’800, spiega Croce, avendo partecipato agli eventi del Risorgimento nazionale, presi da passione di parte, videro nell’età rinascimentale con la fine dell’indipendenza nazionale l’inizio della decadenza italiana; preferirono pertanto dedicarsi allo studio dell’età medievale e delle lotte dei comuni contro l’Impero. Quindi, per approfondire la conoscenza del Rinascimento e della Riforma, dei movimenti storici, cioè, che sono all’origine dell’età moderna, è necessario volgersi alla storiografia degli altri popoli dell’Europa colta, e segnatamente a quella tedesca, educata da una «migliore filosofia» a riconoscere «gli effettivi valori della storia della civiltà e ad accoglierli obiettivamente, da qualunque parte venissero» (SBI, p. 4). Croce menziona in particolare la Civiltà del Rinascimento di Burckhardt e I papi dei secoli XVI e XVII di Ranke, ma cita ancora Troeltsch e Burdach, Gothein e Vossler. In questi autori, afferma, s’avverte l’esigenza mora-

2. Cf. B. Croce, SBI, p. VIII. La replica a Spitzer è contenuta nella recensione molto favorevole della monografia su Lope de Vega del Vossler: cf. retro, n. 1. 3. Cf. il saggio giovanile “La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte” (1893), in B. Croce, PS.

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le di volgersi alla comprensione del passato per far luce sui problemi del presente e sulle possibili scelte da compiere per l’avvenire. Sin dalle prime pagine della Storia dell’età barocca in Italia emerge chiaramente il circolo pensiero-azione, che è il tratto caratterizzante la metodologia della storia di Croce; ed emerge nel suo duplice risvolto: negativo riguardo alla storiografia di parte, incapace di dominare la passione politica che la motiva; positivo riguardo alla storiografia etico-politica, che subordina alla verità la passione da cui sorge. 2. La Storia dell’età barocca in Italia si apre con un’introduzione storico-filosofica divisa in tre capitoli: “Controriforma”, “Barocco”, “Decadenza”. Il titolo del primo capitolo è in verità riduttivo, perché in esso Croce si sofferma anzitutto sulle interpretazioni che del Rinascimento e della Riforma hanno dato gli storici tedeschi, e soltanto in relazione a queste la sua interpretazione della Controriforma si spiega. Croce ricorda i tre principali indirizzi della storiografia tedesca: quello tradizionale, che scorge nella Riforma l’origine dell’età moderna; l’altro, più recente che si ispira al pensiero di Nietzsche, per il quale è nel Rinascimento che sono stati formulati per la prima volta i principi ed i valori della modernità, essendo invece la Riforma un contromovimento reazionario che intralciò lo sviluppo dei principi rinascimentali e contribuì potentemente a far sorgere l’opposta reazione della Chiesa di Roma: la Controriforma; il terzo, che scorge in entrambi i movimenti l’operare del medesimo principioguida dell’età moderna, quello dell’“individualità” che si afferma tanto nella sfera mondana dell’arte e della politica, quanto nella sfera religiosa dei rapporti dell’uomo con il trascendente. Croce prende partito a favore di questa terza tesi, ma con la riserva che la questione non può essere risolta con meri dati di fatto, essendo non storica, ma teorica, filosofica. Rinascimento

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e Riforma sono le manifestazioni storiche dei due momenti dialettici sempre presenti nello spirito umano: l’individuale e l’universale, la Terra e il Cielo, l’Uomo e Dio. Ciò che caratterizza l’età moderna, il suo vero principio direttivo, che pur tra mille difficoltà si va imponendo, è l’«armonia delle due forze che per tal via si vengono convertendo entrambe in immanenti». Conclude Croce – ed è, questo, un punto capitale –: «l’attuazione sempre più piena di tale armonia nelle idee e nel costume generale è, si può dire, il tema della nuova storia dell’umanità» (ib., p. 7). La chiara impronta hegeliana di questo passo non ha bisogno d’essere sottolineata. Va rimarcato invece il fatto che nel periodo in cui compone la Storia dell’età barocca – che è quello dell’affermarsi in Italia della dittatura fascista e del maturare dell’opposizione liberale del filosofo – Croce, ripensando ed approfondendo la sua concezione politica, va scoprendo oltre il principio da lui attribuito a Machiavelli dell’autonomia del politico (autonomia difesa nella sua purezza negli anni della prima formulazione del sistema), il vincolo che unisce la politica all’etica4. Vedremo tra breve quale sarà l’incidenza di questa riflessione sull’interpretazione dell’età barocca. Ma ora torniamo al nostro tema specifico. Se Riforma e Rinascimento rappresentano per Croce le manifestazioni storiche di due momenti ideali dell’animo umano, ed in quanto tali le forze nuove e rinnovatrici che portarono all’età moderna, la Controriforma fu invece solo una forza di conservazione sorta a difesa del potere religioso, culturale e politico della Chiesa di Roma. La distinzione è concettuale prima che storica: mentre Rinascimento e Riforma sono anche più della loro contingente storicità, la Controriforma è tutta immersa nel tempo storico. Croce non nega che la 4. Cf. in partic. i saggi raccolti in EP.

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Controriforma svolse anche un’azione positiva – “benefica”, dice – difendendo un’istituzione di antica tradizione e civiltà, né nega la migliore e più raffinata cultura della Chiesa cattolica rispetto a quella luterana, e non solo sul piano letterario e filosofico, sì anche su quello ben più impegnativo della sfera religiosa, dell’interpretazione delle Scritture e dei Padri della Chiesa; tuttavia, per lodi che si voglian fare a quest’opera di difesa e conservazione di un’antica e nobile istituzione, bisogna pur dire che la Controriforma non risalì «come avevan fatto Rinascimento e Riforma, alle eterne fonti dell’umanità per creare nuovi pensieri e nuovi atteggiamenti spirituali e morali» (ib., p. 16). La Controriforma attinse ovunque poté: dalla cultura classica degli umanisti, come dai politici del Rinascimento, e dalla stessa Riforma quanto alla disciplina ecclesiastica ed alla correzione dei costumi, ma non creò nulla di veramente nuovo. E se “morale” è la forza che apre al futuro, e meramente “politica” la difesa e la conservazione dello status quo ante, allora la sua opera fu in senso eminente “politica”. In ciò la decadenza dell’Italia, e pur della Spagna – i paesi in cui maggiormente la difesa dell’istituzione cattolica si impose. Concentrando il suo sguardo storico sull’Italia, Croce osserva che nel Seicento venne meno non solo la grande filosofia, e la grande letteratura, e l’impegno civile; venne meno la cosa più importante: l’«entusiasmo morale». Certo non del tutto, altrimenti: «L’Italia sarebbe morta, ed ella non morì» (ib., p. 45). Questa “caduta” in senso proprio “morale” segnò la decadenza italiana nell’età barocca. 3. Per la filosofia crociana la “decadenza” costituì un problema di non facile soluzione. Perché si scontravano in Croce due opposte tendenze: da un lato certo ottimismo di stampo ottocentesco, per il quale nel cammino dell’umanità, nonostante le guerre, le rivoluzioni cruente, le sofferenze imposte dalla

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dura realtà della storia, è pur sempre possibile scorgere un progresso, un avanzamento; dall’altro il suo realismo storico, che gli impediva di coprire l’effettualità dell’accadere sotto la coltre dell’ideologia (e di qualsiasi ideologia, anche la propria). La prima tendenza – favorita da certo schematismo dialettico tipico del suo sistema filosofico5 e dalla volontà di reagire al nichilismo che egli ben per tempo aveva visto profilarsi minaccioso nel cielo d’Europa6, nonché da una certa “lettura”, non proprio fedele, di Hegel7 – lo spinse ad affermare che la storia si svolge non dal male al bene, bensì dal bene al meglio (TSS, p. 75). Ed in questa prospettiva parlare di “decadenza” era semplicemente un non-senso. Ma allora come intendere la crisi italiana – e non solo italiana – del Seicento? Croce ritenne di poter sciogliere il nodo richiamandosi alla distinzione dell’utile (o economico) dall’etico, che era uno dei capisaldi del suo “sistema”. Se è vero – spiegava – che ogni forma dell’agire umano è “bene”, e cioè non solo l’operare morale nelle sue diverse sfere d’esplicazione, sì anche l’agire volto alla soddisfazione del proprio interesse personale, del proprio “particulare” (Guicciardini), “male” essendo, in senso stretto, soltanto il non-fare, tuttavia altro è la dedizione alle opere di verità e di bellezza, il sacrificio di sé per l’universale, altro la realizzazione del proprio esclusivo interesse. Pertanto il termine “decadenza” appare adeguato a designare quel modo di vita storica che si mantiene al livello più basso dell’operare umano. Chiaro che, in tanto può legittimamente definirsi “decadenza” la vita storica orientata prevalentemente alla ricerca del 5. Sul tema cf. V. Vitiello, VR, Parte I, cap. II. 6. Cf. oltre ai saggi raccolti in MSEM, e SI, cap. X, “Rigoglio di cultura e irrequietezza spirituale (1901-1914)”. In merito cf. retro, Appendice I. 7. Cf. Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, SH; cf. retro, P. I, Sez. I, cap. I.

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proprio utile, in quanto si assume come principio direttivo della vita dell’uomo la “ragione” morale8. Il prevalere dell’etica, però, scompagina la presunta armonia del sistema crociano: le quattro categorie in cui si articola: arte, filosofia, economica ed etica, non sono di pari grado. L’utile, o economico, rappresenta, come si è detto, il livello inferior dell’operare umano. Il concetto di “decadenza” connota, quindi, la stagnazione della vita in questa condizione di inferiorità, che si spiega appunto con la caduta dell’“entusiasmo morale”. Talché, a questo concetto che a tutta prima sembrava contrastare con il principio stesso del suo pensiero, Croce attribuiva invece una valenza filosofica prim’ancora che storica. Ma c’è da dire di più: se il permanere al livello più basso del vivere spirituale dipende da una carenza di moralità, tuttavia anche tale permanere è possibile, solo perché, l’impulso morale non è venuto del tutto meno. Anche la vita “inferiore” della prassi meramente utilitaria è possibile solo per l’operare della morale. La filosofia crociana tende al panmoralismo: l’etica regge tutto l’agire umano (cf. SPA, pp. 44-47). Al tempo in cui lavorava alla Storia dell’età barocca in Italia, Croce definiva la storiografia etico-politica come la più alta forma di storia9, cui spetta il compito di valutare la maggiore o minore intensità della forma etica, il maggiore o minor grado di entusiasmo morale presente nella vita storica. In ciò consiste la valenza storico-filosofica del concetto di “decadenza”. 4. Cerchiamo ora di intendere cosa significa in concreto che l’entusiasmo morale non venne meno del tutto, ma si smorzò;

8. Dico “ragione” e non “prassi”, perché morale è anche la ricerca del vero e l’operare artistico. 9. Cf. il saggio: “Storia economico-politica e storia etico-politica”, in EP, pp. 279-290.

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che venne meno la grande filosofia, e non la filosofia, la grande arte, e non l’arte. Cominciamo dalla filosofia. Nell’Italia del Seicento la speculazione abbandonò i grandi temi metafisici, per dedicarsi alla metodologia delle scienze fisiche e matematiche, ove fece indubbi progressi, segnatamente con Galilei; quanto alla filosofia pratica, anche qui nessun progresso vi fu nello studio dei temi propriamente morali, registrandosi invece un notevole fervore di ricerca riguardo ai problemi “politici”, quali la “ragion di stato”, la “prudenza”, la “dissimulazione honesta”, ecc., per usare la terminologia allora in voga. Croce passa in rassegna vari autori, sottraendo molti ad un ingiusto oblio; non è nostro intento qui ricordarli, né tutti, né qualcuno in particolare. Ciò che qui ci interessa è mettere in rilievo il senso generale dell’analisi storica di Croce, che sta nel mostrare che anche dal punto di vista tematico il pensiero italiano del Seicento si assesta al livello più basso. Cos’è infatti la natura, di cui si ricercano le leggi, e cosa «la pura politica o ragion di stato considerata come l’indifferente radice e del bene e del male morale» (SBI, p. 99), se non il primo e più basso grado della vita dello spirito? Invero non tutto torna in questa analisi storica. Proprio il filosofo che Croce chiama in causa per indicare il progresso teorico rispetto alla teoria politica di Machiavelli, al cui livello si erano fermati, a suo dire, i politologi e gli storiografi italiani del Seicento, e cioè Tommaso Campanella, che contro l’unilaterale affermazione della politica oppose la superiorità della coscienza morale, rientra a pieno titolo nell’età che Croce studia. Se citiamo questo caso è per denunziare un certo ondeggiamento di Croce tra concetti e dati empirici – o, se si vuole: tra filosofia e cronologia. Quello che si è detto per la filosofia vale non meno per l’arte. O meglio: per la sola poesia, perché Croce non considera

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affatto le altre arti, come ad esempio la pittura (per la quale sarebbe certo difficile parlare di “decadenza”). Il giudizio crociano sulla poesia italiana del Seicento è molto duro. Dopo Tasso la voce della grande poesia tace in Italia. Con la sola eccezione del Campanella la cui opera poetica, però, «rimase nascosta agli occhi dei contemporanei, stampata in Germania in un libricciuolo che pochi videro e forse nessuno lesse in Italia, e certamente non svegliò alcun eco» (SBI, p. 252). Le altre composizioni più che poesia sono “pseudopoesia”, “simulazione di poesia”, per lo stile gonfio e artificioso, per l’assenza di reale sentire, per la ricerca esclusiva del sorprendente e stupefacente. I maggiori strali colpiscono Giambattista Marino; ma anche là dove pare intenerirsi, concedendo qualche parco riconoscimento, questo appare più duro della stessa critica: «E nemmeno si vorrà considerare grande poesia quella del Metastasio, che pur fu poesia, la poesia di quell’animula che era Pietro Metastasio» (ib., p. 253). Un autentico sentimento poetico Croce ritrova in quelle composizioni, ove comiche, ove sensuali o affettuose, in cui l’animo si libera scherzosamente del barocco. E allargando l’orizzonte dall’Italia alla Spagna, alla poesia popolare – che così definisce, parlando di Lope de Vega: «arte sorgente sopra una particolare condizione dello spirito, dommatica e non critica, di certezza e non di dubbio o di perplessità, di fede ricevuta e tradizionale, e non di travagliosa ricerca verso una fede non ancora raggiunta o solo con molto sforzo conquistata e con pari sforzo approfondita e difesa» (PAM, p. 277). Cosa concludere? Che anche nell’analisi della poesia, là dove è disposto a riconoscerla, Croce ribadisce il suo giudizio complessivo riguardo a questa età di “decadenza”: l’assestarsi al livello di vita spirituale più basso, dacché anche la poesia popolare per la sua mancanza d’inquietudine e di travaglio, per il suo riposare su una fede ricevuta e non discussa, accet-

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tata e non interrogata, rappresenta un livello di vita inferior, quantunque Croce precisi che «in poesia, la qualificazione [di poesia popolare] non designa una deficienza, e neppure un’inferiorità» (ib.). “In poesia”, ma non certo dal punto di vista di quell’entusiasmo morale cui più volte ci siamo richiamati di sopra. Fermiamoci ora sulla definizione crociana del barocco. 5. Cominciamo con l’etimologia. Croce riprende quella che connette Barocco al quarto modo della seconda figura sillogistica, denominata appunto Baroco. Non che questa figura fosse più artificiosa di altre – avverte –, ma certo colpì, probabilmente per la vicinanza all’altra, detta Barbara, maggiormente l’immaginazione dei letterati del tempo. E Croce cita, per corroborare la sua tesi, un brano dell’Apologia del Caro, ed alcuni versi dalle Rime burlesche di Giovanfrancesco Ferrari e dal Viaggio in Colonia di Antonio Abbondanti, nonché altre più tardive testimonianze. Cita ancora un passo dell’Encyclopédie, tratto da Renaissance und Barock del Wölfflin, ove si parla del Barocco come “nuance de bizarre”, “abus”, “ridicule poussé à l’excès”. Respinge invece come improbabile la derivazione del termine dalla parola spagnola “barrueco” o “berrueco”, che indica una perla di forma irregolare. E conclude affermando che quale che sia l’etimologia, il fatto certo è che nella coscienza dei contemporanei il termine “barocco” designava «la forma di cattivo gusto artistico che fu propria di gran parte dell’architettura, e altresì della scultura e della pittura», oltreché della poesia e della prosa predominante nel Seicento. E nelle polemiche con i suoi critici – ad esempio con Leo Spitzer, ricordato all’inizio – Croce non ha mai mancato di appellarsi alla coscienza critica degli stessi Secentisti. Ma vediamo più da vicino in che consiste per Croce il “brutto estetico” che va sotto il titolo di barocco. Citando Giovanbat-

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tista Marino, per il quale il “fine” del poeta è di meravigliare, stupire, sorprendere, Croce valuta tale atteggiamento contrario alla verità e all’incanto della poesia. Il barocco non segue la legge dell’arte, ma quella «del libito, del comodo, del capriccio», la legge del piacere, ovvero: dell’utile. È, questa, la definizione universale che del “negativo” dà Croce – del negativo in generale, in tutte le sue manifestazioni: del brutto estetico come dell’errore logico e del male morale (cf. LCP, P. III). E non è un caso che da questa definizione discenda la costatazione che il barocco in quanto peccato estetico «si ritrova in ogni luogo e tempo», essendo «universale e perpetuo come ogni peccato umano» (SBI, p. 33). Non è questa la sede per interrogarci sulla coerenza del discorso crociano quanto alla determinazione filosofica del “negativo”10. Ciò che qui interessa rilevare è che questa definizione appare perfettamente in linea con quanto sopra si è detto sulla “decadenza” dell’età barocca. Anche il peccato estetico – anzi, sovrattutto questo – testimonia che l’uomo del Seicento vive al livello più basso di vita spirituale. La definizione generale contribuisce, dunque, in questo caso ad illuminare la situazione storica particolare. Accostiamoci, allora, maggiormente a questa per comprendere la specificità storica del peccato estetico che va sotto il nome di “barocco”. Scrive Croce: Poiché gli torna impossibile attingere l’immagine poetica che è, insieme, spirito e corpo, sentimento e figura, idealità e sensibilità, al barocco, che non vuol fare poesia ma destare stupore, non rimane che o spaziare nelle antitesi e negli altri rapporti dei vuoti concetti, quasi a dar prova di spiritualità e idealità, o notare e riprodurre i segni delle cose nella loro materialità ed esteriorità, quasi a mostrare la sua straordinaria forza plastica e il suo coraggio realistico. (Ib., p. 30).

10. Su cui cf. retro, Sez. I. cap. I.

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Passaggio illuminante, perché rivela che l’opposizione di Croce al barocco è prim’ancora che estetica etica. Ma non nel senso che Croce opponga la più alta coscienza morale che si realizza nella verità dell’arte, all’inferiore grado dell’utile o piacere. L’opposizione è tra due concezioni morali! E si ricordi quanto si è detto di sopra riguardo al panmoralismo crociano, al fatto cioè che anche l’inferiore vita “economica” o “utilitaria” esige, per attuarsi, una qualche forza morale, ancorché meno intensa o robusta. L’inferiore grado morale è chiaramente quello che è incapace di realizzare la classica armonia di anima e corpo, Cielo e Terra, universale e individuale, quello che vive nell’antitesi dei due eterni momenti della vita dello spirito. Il conflitto che qui viene in luce è tra l’etica dell’immanenza – di derivazione hegeliana, anche se non proprio, e non solo hegeliana – e la morale della trascendenza. E questo conflitto morale trova poi la sua traduzione nel campo dell’arte tra due opposte concezioni, l’una fondata sulla immedesimazione di forma e contenuto, espressione e sentimento, secondo l’ideale classico, al quale Croce riconduceva anche l’arte romantica, respingendo, non a caso, ogni rapporto tra barocco e romantico, l’altra sulla separazione di ideale e reale, di forma e materia. Questa opposizione etica viene in piena luce nel capitolo finale della Storia dell’età barocca in Italia, dedicato appunto alla “Vita morale”. Scrive dunque Croce, ed è un passaggio di grandissimo rilievo: Il crudo avvicinamento e avvicendamento, che ci mostrano le figurazioni artistiche di quel tempo, di carnalità sensuale e lasciva e di timor di Dio e paura dell’inferno, sono soltanto un aspetto di quella morale eteronoma, incapace di accettare, spiritualizzandola ed elevandola, la realtà naturale. Ma quel che più importa è ribadire il già detto circa la sua incapacità a farsi principio di vita attiva, quale la società moderna richiedeva: vita attiva che non poteva restringersi nella cerchia del

277 saper vivere e degli accomodamenti e degli agi, e neppure delle pratiche del culto e delle cure della beneficenza, ma doveva ampliarsi a vita etica, politica e culturale, e dimostrare in tutte queste parti la sua forza produttrice. (Ib., pp. 493-494).

Il giudizio di condanna estetica del barocco non è che un aspetto del giudizio complessivamente negativo pronunciato sulla Controriforma. E più generalmente sulla morale trascendente. La questione qui toccata esige ulteriori chiarimenti. Iniziamo con l’interpretazione che Croce ha dato di Góngora in Poesia antica e moderna. 6. Il filosofo considera alcune traduzioni francesi da Góngora. Sebbene valuti positivamente il lavoro del traduttore – il critico L. P. Thomas –, ne contesta però l’interpretazione di fondo. In particolare non gli appare convincente quella della canzone Que de envidiosos montes levantados: ove il Thomas vi scorge «un mélange singulier de platonisme et d’antiplatonisme» (PAM, p. 288), Croce vi legge un canto nuziale che celebra insieme con la bellezza della donna e la felicità dello sposo, la triste e desolata vita di chi è escluso da tali gioie. Né debbono destare stupore le forti espressioni sensuali dell’epitalamio, perché nella tradizione e italiana e spagnola del tempo non erano affatto insolite in questo tipo di composizioni poetiche. Insomma, Croce spiega, contro un’interpretazione a suo avviso troppo intellettualistica, il valore dell’opera poetica di Góngora con «la simpatica risonanza che hanno in lui le forze e gli aspetti più vari della natura e dello spirito fatto natura, e la sapienza con cui ne rende le impressioni dando loro risalto ed energia nelle immagini che per loro scopre, tenendo in ciò sempre un modo virile e robusto» (ib., p. 292; corsivo mio). È evidente che ciò che Croce condanna in generale non è la vita volta alla sana soddisfazione del piacere sensibile, che è pur

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sempre testimonianza di una forza spirituale, quantunque non elevata. Egli condanna la vita che oscilla tra piacere e dovere: “il singolare miscuglio di platonismo e di antiplatonismo”, e cioè la debolezza dello spirito, che abbassa il piacere a malattia dei sensi ed il dovere a passiva contemplazione della morte colta nelle sue più tremende immagini. Ne troviamo conferma in una recensione che Croce dedicò al libro di Émile Mâle su L’art religieux après le Concile de Trente (Clin, Paris 1932), ove si legge che «la continua figurazione della morte in forma di teschi e di scheletri» va interpretata non al modo del Mâle «come spiritualità che si volge all’eterno», bensì come «una materialistica idea dell’uomo e della vita umana fatta consistere nella carne e perciò dimostrata nulla nell’ossame dispogliato di carne» (Cc/V, pp. 21-22). Ma vi è un’altra osservazione di Croce riguardo alla traduzione del Thomas delle poesie di Góngora, che è interessante rilevare. Nelle «fini versioni» del «critico ed ammiratore francese», scrive, si avverte una «fisionomia» diversa da quella dell’originale, dovuta all’influsso di Mallarmé. Se ora leggiamo le pagine di Croce su Paul Claudel, che risalgono a molti anni prima della recensione del libro di Mâle (cf. IPG, pp. 195-208), troviamo quasi le stesse espressioni impiegate per condannare la spiritualità barocca. Un medesimo principio è quindi alla base del giudizio negativo sul Barocco e della condanna della poesia contemporanea: l’ideale classico della vita, l’unione di Cielo e terra, spirito e natura. Questo per dire che i giudizi dettati da Croce su questo o quell’autore – Marino o Góngora, Mallarmé o Valéry, Rimbaud o Claudel – segnano non solo, e non tanto, i limiti di un gusto e di un’estetica, quanto e sovrattutto i limiti di una concezione etica della vita e della storia umana.

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7. Può essere utile, ora, far seguire alla lettura crociana del Barocco quella di Walter Benjamin. Utile, per confrontare sul terreno dello stesso fenomeno storico due opposte etiche, e due diverse ermeneutiche: da un lato il cristianesimo secolarizzato11, l’etica dell’immanenza di chiara impronta hegeliana del filosofo italiano, dall’altro la morale ebraica della trascendenza assoluta del tedesco. Si tratta, beninteso, di un confronto indiretto perché al tempo della stesura della Storia dell’età barocca in Italia – tra il 1924 ed il 1925, ma apparsa in volume nel ’29 – Croce non poteva conoscere l’Ursprung des deutschen Trauerspiels, pubblicato solo nel ’28, né Benjamin conosceva i saggi di Croce apparsi sulla Critica, prima che in volume. Ma neppure in seguito i due autori mostrarono un qualche interesse reciproco12. Erano troppo distanti. Del primo s’è detto, fermiamoci ora sul secondo. Alla serietà etica della storia – tipica dello storicismo hegeliano13 – Benjamin oppone la storia del Trauerspiel, del giuoco luttuoso, dello spettacolo in cui si rappresenta, si recita la morte. Storia-giuoco, storia-spettacolo, perché, per quanto si rappresenti la morte e il lutto, «la storia si trasferisce realmente sulla scena» (UdT, p. 353). Perciò prevale l’ostentazione, la “pompa”: nel Trauerspiel la vita di corte rappresenta «l’eterno e naturale scenario del corso della storia» (ib., p. 271). Nel saeculum senza religio la separazione tra il dramma ed il comico scompare. Ne consegue che dietro la maschera del buffone intravvedi sempre la smorfia del diavolo. La “pompa”, l’osten11. Cf. il saggio “Perché non possiamo non dirci cristiani”, in: B. Croce, DVF, I, pp. 11-23. 12. Nella “Premessa gnoseologica” dell’Ursprung Benjamin cita di Croce il Breviario di Estetica (del 1912, raccolto nel 1919 nella I ed. dei NSE, pp. 3-87); nella recensione al Lope de Vega di Vossler (cf. retro, nota 1) Croce ricorda Benjamin citato da Spitzer. 13. Cf. V. Vitiello, “Dalla Tragödie al Trauerspiel: Walter Benjamin e il linguaggio della modernità”, in VR, Parte I, cap. III.

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tazione teatrale non toglie né serietà né gravità alla storia. Ma si tratta di una gravità tutta psicologica, chiusa in un sapere meramente soggettivo: «il barocco esplora le biblioteche», laddove il Rinascimento indagava l’universo (ib., p. 319). Scissa dall’eterno, la storia teatrale, la storia-spettacolo, è il luogo del caduco, dell’effimero, del platonico mè ón, di ciò che è e insieme non è. Storia di intrighi e di azioni malvage, storia di tiranni: storia votata al fallimento. E non per una colpa compiuta, come nella tragedia, ma per «la condizione stessa dell’uomo creatura» (ib., p. 268). «Mentre il Medioevo esibisce la precarietà della storia del mondo e la transitorietà della creatura come stazioni lungo la via della salvezza, il Trauerspiel tedesco si sprofonda completamente nella disperata desolazione della costituzione terrena» (ib., p. 260). Separato dall’eterno, da ciò che sempre è, il tempo si spazializza, la storia decade a natura. Il linguaggio si frantuma nella scrittura. Pure in questa estrema deiezione e abbandono, storia e linguaggio appaiono redenti: «Il linguaggio frantumato cessava in quei drammi di servire alla mera comunicazione e poneva, oggetto rinato, la sua dignità accanto a quella degli dèi, dei fiumi, delle virtù, e di analoghe forme naturali trasfigurate in allegorie» (ib., p. 382). Tocchiamo qui l’aspetto più profondo ed originale dell’ermeneutica benjaminiana del barocco: le allegorie che nel linguaggio corrispondono alle rovine della storia, proprio in quanto misurano l’estrema distanza tra Cielo e terra, Universale e individuale, Infinità della Parola creatrice e miseria della creatura; proprio in quanto sono il contrario del vincolo simbolico che unisce Dio al mondo, fanno risplendere nel temponatura, nella storia spazializzata, nel linguaggio frantumato, l’eterno, il senso, l’idea – nella loro oltranza. «Il culto barocco della rovina» (ib., p. 354) non è inteso, al modo del Croce, come «una materialistica idea dell’uomo e della vita umana,

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fatta consistere nella carne e perciò dimostrata nulla nell’ossame dispogliato di carne», al contrario come segno, quantunque negativo, del divino, e, proprio perché tale, negativo, dell’oltranza del divino. Qui, nella sua negatività, caducità e bruttezza, nella sua kenosi assoluta, la creatura trova «seine platonische Rettung» (ib., p. 227). La Gerusalemme terrena, proprio nella sua radicale opposizione alla Gerusalemme celeste, è di questa segno e testimonianza. L’anti-hegelismo di Benjamin mostra d’essere, alla fine, un hegelismo rovesciato. Ed è questo l’elemento comune – nella radicale opposizione delle loro interpretazioni e dei loro Standpunkte – a Croce e a Benjamin: il rapporto tra eterno e tempo, religio e saeculum, dall’uno esaltato nella positività della storia, dall’altro mestamente ricercato nel giuoco luttuoso, nel Trauerspiel dell’uomo storico14. 8. E se nel barocco, nelle profondità dell’anima barocca, si desse dell’altro ancora, qualcosa di più antico ed insieme di più moderno, che ha dovuto però attendere un secolo ancora prima di trovare adeguata espressione? Che cosa? Quella strana forma d’esser-nel-mondo che consiste nell’impartecipe partecipazione all’accadere storico, cui s’accompagna, secondo Kant, un sentimento di autosoddisfazione (Selbstzufriedenheit) che è però solo ein negatives Wohlgefallen an seiner Existenz, solo un compiacimento negativo riguardo alla propria esistenza (KpV, pp. 117 ss). Forse ciò che

14. Questa critica non va estesa a tutto Benjamin, in particolare non a PW e. BG. In merito cf. V. Vitiello, ETN, Sez. III, II, “«Prendere a servizio la teologia». Messianesimo e nichilismo in W. Benjamin”, pp. 147-161.

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ci riscatta dalla schiavitù del male del mondo e della storia non è un esser-di-più, ma un esser-di-meno. Meno del male stesso. È questo “meno” ciò che l’“anima barocca” voleva far sentire attraverso il “più”, l’“eccesso”, la sovrabbondanza delle sue immagini, e concetti, e preziosismi linguistici?

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III Dell’Uno e del Pensiero

1. Hén e Noûs Da Enneadi, V, 2, 1: L’uno [è] tutti gli enti e nessuno: in quanto principio di tutti gli enti non [è] tutti, pur [essendoli] tutti: perché ognuno colà ritorna: o piuttosto ognuno non è, ma sarà come l’uno. – In che modo allora dal semplice uno [derivano] gli enti tutti, non manifestandosi in esso diversità alcuna, né doppiezza d’alcun genere? Ora poiché nessun ente era in esso, tutti da lui [discendono], e poiché esso non [è] essere, [è] allora il genitore (ghennetés) dell’essere, [che è] come la sua prima genitura (próte ghénnesis); essendo infatti perfetto [téleion: perfectum, compiuto, avendo il fine in sé], ad esso [non pertiene] né il cercare, né il possedere, né l’abbisognare, ma in quanto tale sovrabbonda e la sua sovrabbondanza produce altro: ma il generato (tò ghenómenon) si volge ad esso ed è riempito e diviene, guardando ad esso [pròs autó; oppure: a sé: pròs hautó], pensiero (noûs). Così il suo esser volto a quello produce l’essere, e la visione di esso (pròs autó) [oppure: di sé: pròs hautó] il pensiero. Poiché dunque è volto verso di quello [e verso di sé: qui le due versioni stanno bene insieme] diviene nel contempo pensiero ed essere.

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La lectio di questo passo è controversa: potendosi leggere l’“autó” delle ultime righe (9-12) con lo spirito dolce (autó) o con lo spirito aspro (hautó). Beierwaltes, dopo aver ricordato che per Henry e Schwyzer – editori di Plotino – la questione è indecidibile sul piano paleografico, osserva che entrambe le “letture” (Auslegungen) vanno accolte, dacché Noûs nel volgersi a Hén, alla sua origine, simul si volge a sé, si ri-flette (EZ Beierwaltes, p. 15, nota 15). L’osservazione di Beierwaltes è più che giusta, resta però da chiedersi se nella struttura della ri-flessione il riferimento all’altro da sé sia necessario. Perché è certo evidente che nel volgersi ad altro il pensiero non può non volgersi a sé (l’“altro” è tale in relazione al sé); ma non è del pari evidente che il pensiero per piegarsi, ri-flettere su di sé, debba pensare l’altro. Ed è bene precisare subito: l’altro da sé, e non sé come altro, ché in questione non è lo sdoppiamento del sé – senza cui non v’è ri-flessione –, ma è la necessità dell’“altro” che è prima e fuori della riflessione. Il problema or posto, se non è, come ben s’intende, un problema meramente storiografico, neppure è un problema puramente “teorico”. È un problema storico: in esso ne va dell’interpretazione che è al fondo della tradizione del pensiero occidentale, epperò delle scelte fondamentali del nostro esserci storico. Di questa tradizione Plotino più che una filosofia è un topos. Perciò il confronto con il suo pensiero si rivela essenziale per comprendere la “collocazione” di Gentile – e, vedremo, non solo di Gentile – in questa tradizione.

2. Della generazione Torniamo sul rapporto tra hén e noûs. Come si è letto, tò hén è il ghennetés, il genitore, di noûs come di ón. Una genitura

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non voluta, ma che accade (presente aoristico!) per sovrabbondanza. Essere è detto da Plotino próte ghénnesis, ed anche tò ghenómenon. Ghénnesis, tradotto con “genitura”, significa però, o può significare, anche “generazione”, il movimento cioè del generare. Il participio ghenómenon non dà invece luogo a dubbi, nomina inequivocabilmente il risultato del movimento generativo, il “generato”. Ma, se noûs fosse tò ghenómenon, allora non sarebbe secondo, ma terzo. Rileva Plotino: Ciò che nasce di là, nasce senza che l’uno si muova. Poiché, se qualcosa nascesse in seguito al movimento di quello, il generato nascerebbe da quello come terzo, dopo il movimento, e non già secondo. (En, V, 1, 6).

Senza che l’Uno si muova – il movimento è proprio del generato, dell’ón, che ri-flettendosi, volgendosi insieme pròs heautó, verso di sé, e pròs autó, verso l’Uno, l’origine, diviene noûs. In certo modo noûs genera se stesso. Ma se genera se stesso in che modo può dirsi potenza seconda? Chiaro che qui non c’entra il tempo. Qui bisogna capire in che senso hén è condizione di noûs, e quindi noûs segua, succeda (come il condizionato alla condizione) a hén. Se consideriamo noûs non come ghenómenon ma come ­ghénnesis – come il movimento stesso della generazione –, allora tutto appare chiaro e semplice. Noûs è il traboccare stesso di hén, che appunto per la sua hyperplêres, per il suo sovrabbondare, hypererrýe, scorre oltre di sé, tracima. Così leggendo, però, si corre il rischio di ridurre noûs a hén. Il che accade appunto a Bréhier, che, proprio per spiegare la generazione di noûs da hén scrive: «C’est parce que l’Un est tourné vers lui-même qu’il voit; et cette vision est Intelligence» (En V Bréhier, Notice, p. 11). Ma l’Uno non si volge a sé, non si riflette su di sé. La ri-flessione è altro dall’Uno.

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È l’altro dell’Uno: il noûs, appunto. E questo significa che il traboccare dell’Uno non è Uno. Plotino stesso, d’altronde, distingue due “atti” – due enérgheiai – dell’Uno: quello che è proprio dell’Uno (in generale dell’essere) e quello che dall’Uno (dall’essere) promana e che è altro dall’Uno: Ma come nasce un atto, se quello resta in sé? V’è l’atto dell’essere (ousía) e l’atto di ciò che è dall’essere: l’atto dell’essere che è lo stesso essere in atto, e l’atto dall’essere che di necessità segue quello ed è altro essere da quello. (En, V, 4,2).

Talché l’Uno stesso è in sé diviso, com’è diviso, secondo il paragone di Plotino, il calore del fuoco: dacché altro è il calore che resta nel fuoco, altro il calore che dal fuoco si espande e penetra nell’aria, il calore dell’aria. Dunque noûs è Uno e non è Uno – perché l’Uno stesso è se stesso e non lo è. È così evitato il pericolo di assorbire noûs in hén. Ma v’è il pericolo opposto. E cioè che noûs neghi hén. Appare infatti superfluo il “primo” atto – la prima enérgheia –, quella per cui l’Uno resta chiuso eíso en báthei, nella sua profondità. Donde la necessità logica dell’alterità di hén rispetto a noûs? Non può hén esser solo nel suo, o meglio: il suo traboccare? Non si tratta di sottrarre a noûs la sua potenza sorgiva. Tutt’altro. Si tratta di attribuire questa potenza immediatamente a noûs. Perché non si vede per quale ragione si debba postulare l’esistenza di una potenza chiusa in sé, di una potenza che non s’espande, di una potenza impotente. Perché – si faccia attenzione a questo – non in virtù del “primo atto” è il “secondo”: il traboccare è atto a sé. Il pensiero della superfluità della próte enérgheia si è ben presto fatto valere.

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3. Autoctisi divina Agostino legge nella Lettera ai Galati dell’Apostolo Paolo: «Ubi venit plenitudo temporis, misit Deus filium suum» (4.4), ed osserva: per mandarlo il Padre dovette far uso della Parola, ma giacché «Verbum Patris est ipse Filius», «ergo a Patre et Filio missus est idem Filius» (De Trinitate, II, 59). La co-eternità del Figlio al Padre dice che il “secondo atto” è già nel “primo”; che il primo atto è già il secondo. L’Uni-Trinità è incompatibile col pensiero di un Dio chiuso in se stesso: l’abisso di Dio è la sua manifestazione1. È all’interno di questa tradizione di pensiero cristiano – che ha in Paolo il suo fondatore e in Agostino il primo grande interprete – che si spiega l’affermazione di Hegel che si legge nella Prefazione della Fenomenologia dello spirito, e che è come il manifesto della filosofia hegeliana: La forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazione (Äusserung), la sua profondità profonda per quanto nella sua esplicazione (Auslegung) riesce a diffondersi e a perdersi (sich zu verlieren). (PhäG, p. 15).

Sich zu verlieren: nel perdersi nel mondo il Figlio concilia Dio con la storia umana, redime l’uomo dal peccato e il divino dalla beatitudine oziosa degli dèi pagani. La kenosi è in quanto tale, in quanto annichilamento della forma separata del divino, “positiva”. È questa, esposta con estrema concisione, la “secolarizzazione” hegeliana del cristianesimo2.

1. Questa interpretazione della Uni-Trinità ha segnato l’intera tradizione del Cristianesimo storico. Scriverà Karl Barth: «Non dobbiamo metterci alla ricerca di un altro Dio. In nessuna profondità del divino incontreremo altri che Lui. Non c’è alcuna divinità in sé. La divinità è quella del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (KD/II-2, p. 123; tr. it. di A. Moda, p. 340). 2. Sul tema cf. il Colloquio di J. Derrida, M. Ferraris, G. Vattimo, V. Vitiello: CS.

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4. La lettura gentiliana del Pater noster. A questa interpretazione della dottrina cristiana va collegato il pensiero di Gentile. Il Cristianesimo – sostiene – ha fatto valere contro la separazione intellettualistica di eînai e noeîn, tipica della filosofia greca, il primato del pensiero-volontà, del pensiero che non presuppone il vero, ma lo pone, ponendo sé come principio di tutto. La missio divina – spiega – non è mai un “aver mandato”, bensì un “mandare”, un perenne mandare. Mandare Sé nel mondo. Farsi mondo. Gentile legge Matteo, 6.10: Fiat voluntas tua – ghenethéto tò thélemà sou –, e commenta: [con] la nuova preghiera […] comincia a vedersi che questa volontà non è già fatta [… ma] deve farsi, e farsi in terra come in cielo: farsi nella volontà umana. Il mondo pertanto non è più quello che c’è, ma quello che ci deve essere; non quello che troviamo, ma quello che lasceremo: quello che nasce in quanto con l’energia del nostro spirito lo facciamo nascere. […] Alla conoscenza intellettualistica contemplativa, che era ad Aristotele la cima più alta dell’ascensione spirituale, sottentra una conoscenza nuova, attiva, operosa, creatrice del suo oggetto, cioè di se medesima nel suo spirituale valore. (SL, I, pp. 33-34).

La negazione di ogni presupposto in quanto limite dell’assolutezza del volere volente, del pensiero pensante, sopprime come il passato così il futuro. Nulla è fuori dell’atto del pensare-volere che si compie ora. Ora – non nell’istante che fugge, che mentre sorge tramonta, nel nunc, nel nŷn, ma nella hôra che mai non tramonta, nell’eterno presente della verità che si pensa, che pensa sé. Del pensiero in atto, del pensiero pensante di Gentile possiamo-dobbiamo dire il medesimo che Plotino dice di noûs: mía phýsis e tà ónta pánta: una natura che è tutti gli enti. Hén kaì pollá: Uno e tutto. Theòs mégas: dio grande, perché rende

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buone tutte le cose (En., V, 5, 3). Ed ancora: in esso – nel noûs come nel pensiero in atto – non v’è sillogizzare, passaggio da premesse a conclusioni. Non perché non vi sia molteplicità, ma perché la molteplicità è tutta raccolta in uno. Esso è atto perfetto: atto in atto, compiuto in se medesimo: entelécheia, ciò che en télei échei, che si possiede nel fine. Il suo movimento coincide con la quiete. Perché è ovunque. Occupa l’intero suo spazio: tò pedíon tês aletheías, oû ouk ekbaínei, la pianura della verità, donde non mai esce (ib., VI, 7, 13). Il noûs alethinós si muove quindi entro se stesso: erra nel cuore degli enti, e questi partecipano del suo quieto peregrinare, del suo immoto movimento in se stesso.

5. Memoria del futuro Quieto peregrinare, immoto movimento – è ben evidente che movimento e quiete qui non sono pari. Il movimento non è dell’atto, ma nell’atto. La negazione di ogni presupposto – del passato, ma non meno del futuro, come s’è detto, perché anche il futuro in quanto destino dell’atto sarebbe un presupposto che ne limiterebbe l’assolutezza –; la negazione di ogni presupposto apre sì all’infinito l’orizzonte della coscienza, ma questa apertura senza limiti somiglia al deserto di un celebre conte philosophique di Borges: un labirinto senza muri e senza vicoli ciechi, ma dal quale è più difficile uscire che non da un labirinto costruito da Dedalo, non essendoci in esso un “fuori” che non sia già “dentro”3. Il paragone è suggerito dallo stesso Gentile: La coscienza – scrive, infatti – non si pone se non come una sfera il cui raggio è infinito; e qualunque sforzo si faccia per

3. J. L. Borges, I due re e i due labirinti, in: L’Aleph, TO, I, pp. 873-874.

290 pensare o immaginare altre cose o coscienze al di là della nostra coscienza, quelle cose e coscienze rimangono dentro di essa, per ciò appunto che sono poste da noi, sia pure come esterne a noi. Questo fuori è sempre dentro. Designa cioè un rapporto tra due termini, che, esterni l’uno all’altro, sono tuttavia interni entrambi alla coscienza. (TGS, p. 32).

Gentile s’avvede che una tale conclusione è esiziale per la sua dottrina che afferma l’identità di filosofia e storia, e cerca di porvi riparo. I suoi tentativi, però, riescono tutt’al più a coprire il problema, non a risolverlo. Un esempio cospicuo di ciò viene dato nel secondo volume del Sistema di logica. Nel capitolo dedicato alla storia, a dimostrazione del fatto che non ci sono res gestae presupposte alla historia rerum gestarum, adduce la differenza tra le storie di Roma di Livio e del Mommsen; poi spiega questa differenza tra l’una e l’altra historia col trascorrere dei secoli (cf. SL, II, p. 286)! Resta avvolta nel mistero la ragione per cui sono un “presupposto” da negare le guerre tra Mario e Silla, la ribellione di Spartaco o le riforme dei Gracchi, e non invece il racconto di Livio che pur precede quello di Mommsen. Il prevalere della quiete sul movimento – che comporta la negazione della stessa attualità dell’atto, che si scopre inchiodato ad un passato che occupa l’intero spazio della storia – è esplicitamente dichiarato da Gentile, che nel saggio del 1936, intitolato significativamente: “Il superamento del tempo nella storia”, riporta questi versi del Manzoni: e degli anni ancor non nati Daniel si ricordò.4

4. A. Manzoni, Resurrezione, vv. 55-56. Il saggio di Gentile, già raccolto in MI, pp. 303-321 (la cit. manzoniana è a p. 313), è stato ristampato in FETS II, pp. 3-20.

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Diversamente dal noûs plotiniano – theòs deúteros, dio secondo (En., V, 5, 3) – che oltre al movimento interno, coincidente con la quiete, conosceva anche il movimento a sé esterno, il movimento della sua ambigua generazione da hén – il pensiero in atto di Gentile, per aver assorbito in sé la propria origine, resta imprigionato nella sferica assolutezza della propria autoidentità. Ma così dicendo, non trascuriamo il concetto cristiano kat’exochén, il concetto dell’Uni-Trinità, della Monotriade, che svolge un ruolo fondamentale nel pensiero di Gentile?

6. La monotriade Altro la storia nel tempo, tutta interna all’atto, all’eterno presente dell’atto, altro la storia ideale eterna dell’atto. Se non è possibile distinguere le res gestae dalla historia rerum gestarum, è però ben distinguibile la forma dal contenuto. A questo appartengono Mario e Silla, Spartaco e i Gracchi, i documenti e i monumenti della storia, i fatti; a quella – alla forma – il pensiero, l’interpretazione dei fatti e dei documenti, dei segni e delle tracce del passato. Ma vi sono “fatti” fuori del pensiero che li interpreta? I Gracchi di Mommsen non sono certo gli stessi Gracchi di Rostovtzeff. È la forma che pone il contenuto, che lo crea. E, creando, genera se stessa. Passa dal nulla all’essere. Si muove. Ma si muove con un movimento che non lascia nulla dietro di sé, e nulla davanti a sé. Ciò da cui proviene è tale, origine, solo per l’originato; parimenti ciò verso cui tende, l’ad-venire. Finché si dice che lo spirito è svolgimento, unità di realtà e idea, di essere e non-essere, di soggetto e oggetto, si ha quell’unità attuale, quell’autoctisi in cui l’autocoscienza è, dentro la sua stessa energica unità, distinta tra sé e sé; e ­quello

292 che l’analisi distingue come tre, è sempre uno, e, come tale, distinzione; e quella stessa logica che dispiega l’unità attraverso i tre momenti, stringe questi tre momenti e li fonde in una realtà unica. (SL, I, p. 129).

Palesemente qui Gentile opera con le categorie della riflessione. L’origine – il passato dell’atto (non nell’atto) – è tale perché posto dal presente, ma posto appunto come suo presupposto o condizione, come ciò senza di cui il porre non sarebbe possibile. Porre e presupporre si richiamano a vicenda, dove peraltro è sempre il porre il Prius. La condizione vera è e resta il condizionato. Anche nella dialettica dell’atto, anche nella “forma”, è il presente che prevale. Nel cristianesimo di Gentile il Figlio assorbe in sé tutto lo spazio della Trinità: il Padre e lo Spirito sono solo figure del Figlio, interne al Figlio. C’è da chiedersi se con questo concetto della monotriade si pensi davvero l’Uni-Trinità. O, in termini esclusivamente logici, se questa teoria della riflessione, che mai non esce da sé, sia capace di dar ragione di sé.

7. Luce vede luce Torniamo nuovamente a Plotino. Noûs, dice, intende se stesso, come luce che vede luce: phôs phôs állo horâ; lo stesso vede dunque lo stesso: autò ára autò horâ (En., V, 3,8). Ma nello “stesso”, nell’autò, di Plotino v’è più che noûs. Phôs (luce) designa non solo noûs, sì anche hén, anzi primariamente questo. Hén è la luce pura, non riflessa, la luce semplice: phôs aploûn. Rispetto a questa luce noûs non è luce ma sole: un ente illuminato sin nella radice del suo essere da quella luce pura, phôs aploûn, che è hén. Il sole illumina, può illuminare, perché la potenza che luce gli è stata donata. Pertanto il suo stesso volgersi ad hén, procede non da sé, ma da hén. Dando

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luce a noûs, hén richiama a sé la luce che da sé promana. Ma perché dalla luce pura di hén alla luce imperfetta di noûs? Si risponde a questa domanda considerando ciò che accade quando noûs, si volge alla sua origine, a hén: moltiplica l’Uno, fa dell’Uno molti, pollà epoíese tèn mían (En., VI, 7, 15). La luce purissima viene resa impura dai mille colori che il sole fa brillare, e così diviene visibile. L’ombra è necessaria alla luce. Un profondo pensiero di Hegel, che si legge nella seconda nota alle prime categorie della Scienza della logica, dice: […] nella assoluta chiarità si vede tanto poco quanto nella assoluta oscurità […] La pura luce come la pura oscurità sono due vuoti, che sono lo stesso. Solo nella luce determinata – e la luce è determinata dall’oscurità –, quindi solo nella luce intorbidata, così come solo nell’oscurità determinata – e l’oscurità è determinata dalla luce –, quindi solo nell’oscurità rischiarata si può distinguere qualcosa. (WL, I, p. 96).

Nella differenza estrema di noûs da hén non viene meno la loro identità. In quanto potenza di tutto, l’Uno contiene in certo modo – al modo che è suo, nell’unità – tutte le cose. In certo senso l’Uno trabocca, hypererrýe scorre fuori di sé, in se stesso. Questo esser-fuori-di-sé-restando-in-sé caratterizza il DeusTrinitas, che come Padre è “prima” del Figlio ed è insieme nel Figlio, che è “dopo” il Padre e nel Padre – come già sopra si è detto –, ed entrambi sono “prima” dello Spirito e nello Spirito, che è anche nel Padre e nel Figlio: Agostino nota che Spirito è il nome della Divinità tutta, in quanto ne esprime l’Unità5. La secolarizzazione hegeliana del divino trasponendo nel mondo umano questo rapporto di esclusione-inclusione, ribalta l’ordine del rapporto: ora è l’inferiore che contiene in

5. Agostino, T, V, 11.12. Sul tema rinvio a V. Vitiello, CsR, Parte I, cap. III.

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sé il superiore. In Plotino è noûs che accoglie in sé psyché, l’Anima, che è anche Vita; in Hegel è la Vita che contiene in sé l’autocoscienza – dynámei, in potenza, ovviamente, e non energhéia, in atto: «la vita – si legge nella Fenomenologia dello spirito – rinvia ad altro da ciò che è, vale a dire alla coscienza» (PhäG, p. 138; it., I, 149). Questa insistenza dell’autocoscienza nella Vita spiega l’infinita generazione del pensiero, che eternamente si alimenta tornando alla Vita (cf. WL, II, pp. 548-549, it., II, 935). Fedele alla tradizione plotiniana e agostiniana, Hegel riconosce che la radice del pensiero non è il pensiero, la fonte del concetto non è il concetto, anche se solo nel pensiero concettuale essa può rivelarsi. La ri-­flessione, quindi, è tale solo perché spinge il suo sguardo fuor di sé. Il presupposto è certo posto dalla ri-flessione, ma appunto come presupposto. Il Padre è tale per il Figlio e solo per il Figlio: ma non il Figlio genera il Padre, bensì il Padre il Figlio. Il “porre” è tale solo se non nega il presupporre, ma lo riconosce come sua condizionante condizione. Dalla Riforma della dialettica hegeliana alla Teoria generale dello spirito come atto puro e al Sistema di logica come teoria del conoscere, Gentile è invece dominato dal pensiero opposto. L’“atto” è tale, atto in atto, se ed in quanto nega qualsiasi presupposto che lo condizioni. La dialettica della riflessione risulta così monca del termine che l’alimenta e la spiega. Perché l’atto del pensare deve porre il suo “negativo”, il presupposto che nega nel porlo, col porlo? Perché questo mirarsi allo specchio, al fine di negare l’immagine riflessa6? questa vana ri-flessione che nulla riflette? L’aporia in cui Gentile si imbatte sin dall’inizio consiste nell’impossibilità di dar ragione del “presupposto” una volta chiarito ch’esso è solo un “posto”. Questa aporia appare in tutta eviden6. Sul tema cf. V. Vitiello, NDSN, pp. 49-56.

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za nell’opera sua maggiore: il Sistema di logica come teoria del conoscere. Intento del filosofo è dimostrare la “necessità” della logica dell’astratto come momento non dileguante della logica del concreto. Ma il risultato non è quello voluto. La dialettica dell’astratto, che serve a spiegare il giudizio apofantico e i principi che lo sorreggono, infatti, non si distingue in nulla dalla dialettica del concreto. La loro distinzione è solo nominale, essendo la logica dell’astratto logica del concetto, del giudizio e del sillogismo e la logica del concreto logica dell’auto-concetto, dell’auto-giudizio e dell’auto-sillogismo. Pertanto non v’è che una sola logica che non è del concretoastratto, come Gentile vorrebbe, ma solo del concreto – e se il concreto, isolatamente preso, è astratto, come Gentile afferma, allora non resta che l’astratto7! Ma, a parte ciò, il circolo dell’argomentazione è evidente: si dà ragione della distinzione tra le due logiche – quella del concetto e l’altra dell’autoconcetto – proprio con ciò di cui si dovrebbe dar ragione: con la ri-flessione.

8. Dalla monotriade all’Io prima dell’Io Ma Gentile non si ferma alla Sistema di logica. Pubblica nel 1931 la Filosofia dell’arte, che rappresenta la vera “svolta” del suo pensiero. In quest’opera Gentile, approfondendo la dialettica interna all’atto, individua nell’arte o sentimento il puro inattuale, ciò che, negandosi nel suo stesso porsi, costantemente si sottrae al pensiero. V’è qui il riconoscimento di un presupposto che il pensiero non può “negare”, di un limite invalicabile, del quale

7. Sul tema cf. retro, P. I, Sez. II, capp. I e II.

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il pensiero in atto fa esperienza proprio riflettendo su se stesso, sull’inattuale che lo condiziona. Si apre qui tra il “cogito” ed il suo stesso “esse” una profonda frattura. Non essendo all’origine di sé, il “cogito” neppure può dare ragione di ciò che esso è, è già – ovvero: del suo stesso dare ragione. Se l’autoctisi risulta impossibile – Gentile non lo dice, ma il riconoscimento dell’“inattuale” rende questa conclusione ineludibile –, allora il “sum” è solo un’immagine che il “cogito” riesce a farsi di sé, del proprio “esse”. Nulla di più. Talché è proprio la ri-flessione su di sé che porta il pensiero al riconoscimento dell’altro da sé. E da questo riconoscimento consegue che il pensiero in tanto si piega su di sé in quanto, venendo da “altro”, questo “altro” vuole riportare a sé. Facendolo suo, certo lo nega. Ma questa negazione nega l’alterità dell’altro nel pensiero, non l’altro che è prima del pensiero. Anzi, la negazione dell’alterità nel pensiero ha senso solo per il riconoscimento dell’“altro” che è fuori e prima dell’atto del pensare. La ri-flessione coglie il limite del pensare dall’interno del pensare stesso. Gentile è qui estremamente vicino a Plotino. Tuttavia pur nella vicinanza un abisso li separa. La vicinanza è data dal ri-conoscimento che la ri-flessione è per – e cioè: in virtù e in vista di – altro: ci si volge a sé perché ci si volge ad altro. Come afferma Plotino: «se qualcosa nasce dopo di lui (met’autó) è nato volgendosi necessariamente verso di lui (pròs autó)» (En., V, 1, 6). L’abisso che li separa è dovuto a ciò, che mentre tò hén non conosce movimento, l’Io-sentimento, l’inattuale del pensiero, è il movimento stesso del suo negarsi. Così come in Hegel l’autocoscienza nasce dalla Vita, dal movimento della Vita.

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9. Ritrattazione Gentile, come Hegel, supera il limite del pensiero nell’atto stesso di porlo. Nell’ultima opera, Genesi e struttura della società, pubblicata postuma, Gentile tornando sui suoi passi, si domanda: «Che c’era dunque prima dell’atto del pensiero, nella cui dialettica è la radice del viver sociale?» E risponde: Se ci si vuol provare con l’immaginazione a preporre alla sintesi un universo naturale, questo universo non è immaginabile altrimenti che come un virtuale essere amorfo, il quale deve entrare in crisi e riscuotersi e svegliarsi come senso di sé. Il gran dormiente finché non si svegli, non solo s’ignora, ma non esiste. Per esistere deve svegliarsi; e svegliato che sia, si comincia a domandare: – Ma dunque prima c’ero, e dormivo? – Così è portato a chiedersi e a credere. Ma in realtà il tutto viene ad essere appunto in quell’istante in cui si sveglia ed è quello che soltanto può essere: senso di sé, autocoscienza creatrice. (GSS, p. 74; corsivo mio).

Su questa ritrattazione non ci si può esprimere solo in termini negativi; essa rivela che la “svolta” compiuta nella Filosofia dell’arte era insufficiente. L’altro non è riconosciuto nella sua alterità fin quando non ci si libera della pretesa di determinarlo, di definirlo. Non si può dire del sentimento dell’arte, dell’Io prima dell’Io, che esso è l’Atlante che regge il mondo, l’io puro “la cui segreta presenza rende possibile ogni esperienza e sviluppo della vita dello spirito”8 – perché in tal modo si definisce ciò che in precedenza si è detto indefinibile. Si rende manifesto il Deus absconditus. L’osservazione colpisce Gentile, e con lui Hegel. La Vita non è meno definita dell’io-sentimento. Vero è che entrambi temono l’“amorfo”. Possono al più ammetterlo come l’origine di

8. G. Gentile, Arte, p. 633, cit. in E. Paci, ES, p. 51; cf. retro, P. I, Sez. I, cap. I, Sez. II, cap. I.

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tutte le forme. Ma così ragionando non lo si subordina comunque alla Forma?

10. Próte hýle La domanda concerne l’intera tradizione del pensiero occidentale, a partire da Aristotele, per il quale: morphè mállon tês hýles (Phys., II, 193b 7). Se si accetta questo principio risulta poi impossibile fissare un limite al pensiero. Ché l’“altro” dalla Forma – da quello cioè che è proprio del pensiero –, risulta già predeterminato da essa, perché ad essa predestinato. La próte hýle è già seconda se la si pensa come base di tutte le Forme. E questo niente lo mostra meglio dell’itinerario di pensiero di Giovanni Gentile, con la sua significativa svolta e la non meno significativa ritrattazione. Ma come è possibile pensare la “materia” indipendentemente dalla “forma”, e cioè: il “presupposto” indipendentemente dal “porre”, ovvero dal pensiero che lo riconosce? Solo pensando la materia come la possibilità pura, possibile anche in rapporto a sé, e cioè possibilmente e non necessariamente possibile, tale quindi da essere non meno impossibilità che possibilità. Questa materia, che è simul origine e negazione delle forme, e che pertanto nessuna forma mai riuscirà ad assoggettare a sé, è il vero altro dal pensiero, ciò innanzi a cui il pensiero è costretto a riflettersi, a ripiegarsi su di sé, a porre la domanda fondamentale: perché e come l’ente? Ma non l’ente in generale, bensì quell’ente che io stesso sono: perché e come l’ego cogitans, l’ego sum, l’ego sum cogitans? La risposta a questa domanda può venire solo dall’io. Epperò solo dopo che si è costituito. Troppo tardi.

Parte II Tra Logica e Fenomenologia

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I Sillabare Hegel. Rileggendo Bertrando Spaventa interprete di Hegel

1. Tornando sulla vexata quaestio delle prime categorie delle Logica hegeliana – migliaia di pagine di divergenti interpretazioni, che hanno dato luogo a polemiche celebri –, Dieter Henrich ha giustamente osservato che non si può affrontare l’argomento senza aver presente l’intera struttura della Scienza della logica1. Non era solo un invito alla probità ermeneutica – sulla linea dello Hegel buchstabieren zu lernen di Hans-Georg Gadamer2 –, era già un’interpretazione, come attesta la sua restrizione del campo di analisi alla relazione tra le determinazioni dell’essere e quelle dell’essenza. Incontestabile la rilevanza della Dottrina dell’Essenza nell’ambito della Logica hegeliana, e non solo per la comprensione delle prime categorie; ma non basta. Per comprendere l’inizio della Logica è necessario spingere lo sguardo oltre la Logica (il libro, s’intenda, non la disciplina), ed anche oltre Hegel. Comincio col rilevare che non si può respingere la critica di Trendelenburg che in Hegel manca la differenza tra essere e nulla, da cui dovrebbe scaturire il divenire3, obiettando che 1. D. Henrich, Anfang und Methode der Logik, HiK, pp. 73-94. 2. Cf. H.-G. Gadamer, HDHS, Vorwort, p. 6. 3. Sul tema v. retro, P. I, Sez. III, capp. I e II.

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nella “indeterminata immediatezza”, comune ad entrambi, va comunque distinto il significato positivo – espresso da: essere – dal significato negativo – espresso da: nulla – (HiK, p. 79): questo equivale a dire che l’essere è essere e il nulla nulla! Ma Henrich non può andar oltre questa obiezione, dal momento che ritiene che ogni definizione dell’essere e del nulla oltre quella d’essere entrambi “indeterminate immediatezze eguali solo a sé”, eleverebbe le prime determinazioni della dottrina dell’essere a determinazioni della riflessione (ib., pp. 85-86). Senza interrogarsi sul ‘senso’ che in quel luogo preciso della Logica ha l’enunciato hegeliano della “pura eguaglianza a sé, senza relazione ad altro” che caratterizza l’“indeterminata immediatezza” di essere e non-essere, Henrich conclude che l’intento di Hegel all’inizio della Logica è «di rendere evidente una connessione di pensieri, che si sottrae ad ogni costruzione, anche se di natura speculativa» (ib., p. 89)4. E sul fondamento di questa evidenza5 – invero molto poco evidente, dacché non chiarisce la differenza di essere e nulla, limitandosi a proclamarla – critica non solo i critici di Hegel, sì anche i seguaci che, corrispondendo a un’«esigenza sempre di nuovo espressa da Hegel» hanno tentato di «penetrare nel fondamento della logica, senza peraltro metterla da parte». Dopo aver dichiarato il fallimento dei loro tentativi, Henrich concede che «dalle ragioni di questo fallimento abbiamo anche noi ancora da apprendere» (ib., p. 94).

4. Che questa conclusione non sia ‘soddisfacente’, è lo stesso Henrich ad ammetterlo, quantunque l’attribuisca alla Logica di Hegel: «Se la natura dell’“essere puro” può essere portata ad evidenza solo via negationis, allora l’inizio della Logica non può essere sufficientemente (zureichend) compreso a partire da sé» (HiK, p. 86). 5. «Non c’è alcuna possibilità di sostituire l’accenno all’evidenza che essere e nulla sono pensabili e tuttavia indistinguibili con un altro argomento nella Logica, che si richiami ad una fondazione che non sia via negationis» (HiK, p. 93).

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C’è da chiedersi se il fallimento di questi tentativi sia da attribuire all’impostazione hegeliana dell’inizio della Logica, o non piuttosto ad una imperfetta comprensione – da parte dei critici come dei seguaci e degli interpreti di Hegel, tra i quali, ovviamente, Dieter Henrich – degli argomenti del filosofo, la cui intelligenza è possibile solo ampliando l’analisi ad altri testi hegeliani, ed in particolare ad un ‘luogo‘ della Fenomenologia dello spirito, stranamente trascurato anche da interpreti emunctae naris, oltreché ad opere di altri pensatori, che il filosofo aveva certissimamente presente, quantunque non ne facesse il nome – come già quel riferimento di Henrich all’“indeterminata immediatezza” di essere e nulla “eguale solo a se stessa e non ineguale rispetto ad altro”, chiaramente richiama. Ma è bene procedere a piccoli passi. 2. La scure di Henrich è caduta anche sul saggio di Bertrando Spaventa Le prime categorie della logica di Hegel. Pressoché ignoto fuor dei confini d’Italia, Spaventa è rarissimamente citato negli studi tedeschi su Hegel, e, forse, Henrich è l’unico a discuterlo6. Purtroppo la sua conoscenza di Spaventa, già condizionata dalla presenza di Gentile editore e prefatore degli Scritti spaventiani, è fondamentalmente limitata al saggio che s’è citato, il che spiega la critica, per un certo verso anche generosa, secondo la quale le tesi di Spaventa «rappresentano il primo di una lunga serie di tentativi di concepire la Fenomenologia dello spirito come il nucleo del sistema» hegeliano (ib., p. 83). Henrich richiama in particolare quel brano del testo or citato di Spaventa, in cui l’autore per spiegare il ‘passaggio’ dall’essere al nulla, chiama in causa il pensare, definendolo, chiara eco di un passaggio famoso della Fenomenolo-

6. Cf. retro, Parte I, Sez. I, cap. II, nota 10.

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gia, “gran prevaricatore”7. Si tratta di un brano fondamentale, su cui dovremo tornare, anche per sottrarlo ai tanti fraintendimenti che ha dato luogo, a partire dalla ‘lettura’ di Gentile. Prima, però, è d’obbligo precisare il senso dell’interpretazione spaventiana della Fenomenologia dello spirito, mostrando da un lato che la penetrazione dell’opera complessiva di Hegel da lui conseguita, notevole non soltanto nel suo tempo ma ancor oggi, gli impediva di considerare l’opera del 1807 come der Kern des Systems, e dall’altro che la dura critica mossagli da Henrich – Spaventa «non ha dato alcun contributo all’interpretazione dell’inizio della Logica» –, se va respinta, ha tuttavia una sua ragione. 3. Diversamente da Croce e Gentile, che rimasero, entrambi, estranei al problema affrontato da Hegel nella Fenomenologia dello spirito8, Bertrando Spaventa intese il senso profondo, ed imprescindibile, di quest’opera per il sistema hegeliano – il sistema e non solo la logica. Resterebbe astratto il sistema, e cioè senza alcun fondamento reale, senza la Fenomenologia (cf. Op, II, p. 656). Ciò che divide la Dottrina della scienza di Fiche dal Sistema e, quindi, dalla Logica di Hegel, è proprio la Fenomenologia. Perché se la Dottrina della scienza giunge a ‘dedurre’ il reale dal pensiero, non assicura però alla realtà posta dal pensiero altro statuto ontologico che quello di “contenuto” del pensare. Per dirla con Hegel: il soggettooggetto di Fichte è ancora solo soggettivo9; e con Spaventa: 7. Cf. B. Spaventa, Op, I, p. 399. Per il riferimento hegeliano, cf. PhäG, p. 29: «Die Tätigkeit des Scheidens ist die Kraft und Arbeit des Verstandes, der verwundersamsten und größten, oder vielmehr der absoluten Macht […] die ungeheure Macht des Negativen; es ist die Energie des Denkens, des reinen Ichs» (per la tr. it., cf. I, pp. 25-26). 8. Cf. retro, P. I, Sez. III, cap, II, § 1.2. 9. «Weil Ich subjektives Subjekt-Objekt ist, so bleibt ihm eine Seite, von welcher ihm ein Objekt absolut entgegengesetzt ist, von welcher er durch

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«Fichte prova la possibilità del conoscere, non la realtà» (ib., II, p. 637). D’altra parte Schelling, muovendo dall’assoluto come identità di realtà e pensiero, pensiero e realtà, ‘oggetto’ di pura intuizione, non spiega in qual modo da questa identità sorga la differenza di pensiero e realtà: i molti vengon fuori dall’uno senza ragione alcuna, come un colpo di pistola10. Il problema di Hegel è allora quello di “provare l’identità” – dice Spaventa, con bella asciuttezza11: l’identità di pensiero e realtà, che non si conquista se non provando insieme la realtà del pensiero e il pensiero della realtà, senza voler ridurre l’un termine all’altro. All’esigenza di provare la realtà del pensiero risponde la Fenomenologia. Il tentativo di Hegel – tanto originale quanto problematico – consiste nel provare la realtà della coscienza dall’interno stesso della coscienza. A tal fine egli mostra come, nello sviluppo della coscienza, questa in ogni momento o grado del suo processo penetra nell’antecedente disvelandone la natura, il suo “essere in sé” – esemplificando: nella percezione si rivela l’“in sé” della sensazione, nell’autocoscienza l’“in sé” della coscienza, nello spirito l’“in sé” dell’autocoscienza. Spaventa coglie l’immanenza del vero nel processo fenomenologico: questo, scrive, «è detto così, perché le diverse forme della coscienza sono come tanti fenomeni, nei quali la verità si produce e si manifesta» (Logica e metafisica, Op, III, p. 40); non scorge, però, l’intima problematicità di questo processo. Il sapere fenomenologico è un sapere retro-flesso: è cosciente del suo esser-reale sempre dopo, quando la sua realtà è altra da quella ‘pensata’. Chiaramente è possibile ‘provare’ questo processo solo all’interno di un sapere nel quale realtà dasselbe bedingt ist…»: G. W. F. Hegel, DFS, p. 72; it., p. 57. 10. L’espressione, com’è noto, è di Hegel (cf. PhäG, p. 26; it. I, p. 22); Spaventa la riprende nello Schizzo di una storia della logica, Op, II, p. 640. 11. Per subito aggiungere: «Ora, provare l’identità è provare la creazione», Op, II, p. 644.

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e coscienza della realtà sono unum et idem, e cioè: all’interno di un sapere non piegato sul passato, ma tutto presente a se stesso. Sapere che, diversamente da ogni grado o momento del conoscere fenomenologico, non muta, conoscendo, né il suo oggetto, né il proprio essere reale; sapere che non cade nel tempo, perché ha il tempo dentro di sé; sapere eterno, assoluto, da tutto sciolto, anche dal processo fenomenologico, ché l’intero itinerario della coscienza, dell’autocoscienza, della ragione e dello spirito, scorre dentro di esso, come nella storia ideale eterna di Vico corron in tempo le storie delle singole nazioni. Questo sapere assoluto, che ‘sovrasta’ la Fenomenologia, Hegel nomina das reine Zusehen, il puro stare a vedere (PhäG, p. 72; it., I, p. 75). Talché nella Fenomenologia – questo il suo esito problematico, problematicissimo – il sapere è duplice: altro il sapere che si svolge e sviluppa, consapevole del suo essere reale solo dopo che è tramontato, ossia nella figura ulteriore, altro il sapere che coincide con la realtà tutta, il sapere la cui figura (la cui ‘rappresentazione’: il suo esser pensato) coincide col suo essere reale. Ed il primo è possibile solo per il secondo12. Come dire: la Fenomenologia è possibile solo per la Logica. Ma se la Logica presuppone la Fenomenologia, non è men vero che la Fenomenologia presuppone la Logica. Il loro rapporto è circolare. Il che spiega perché Hegel, dopo la Fenomenologia, inizia – e può iniziare – il Sistema con la Logica, includendo la Fenomenologia entro il Sistema come sua parte13. Solo che per non rendere la Logica, e con la Logi-

12. Sul tema rinvio a. V. Vitiello, RC, Parte I, cap. III: “Il cristianesimo filosofico di Hegel”, pp. 95-117. 13. Il sistema dell’Enzyklopädie inizia con la Logica, e precisamente con la presentazione delle “tre posizioni del pensiero rispetto all’oggettività”: cf. Enz, I, §§ 19-83; la Fenomenologia occupa la sezione B (§§ 413-439), la più smilza, tra l’Antropologia (Sez. A, §§ 388-412) e la Psicologia (Sez. C,

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ca l’intero Sistema, mera conseguenza della Fenomenologia – per dirla con Henrich: perché la Fenomenologia non assurga a Kern del Sistema del reale – la Logica deve provare, a partire da sé, il modo e le forme del suo realizzarsi, del suo svilupparsi dalle prime sue categorie, o ‘concetti’, sino al pensiero puro, al pensiero del pensiero, al concetto che sa se medesimo come concetto, puro vedere, das reine Sehen, semplicissima auto-trasparenza, Idea Assoluta (cf. WL, II, pp. 548 ss.; it., II, pp. 935 ss.). Qui Hegel ‘ripete’ (wiederholt) Aristotele14: una volta giunti dal prôton kath’hemâs al prôton katà phýsin, bisogna fare il cammino inverso: dal prôton katà phýsin al prôton kath’hemâs. Solo così das reine Zusehen, che regge l’intero iter fenomenologico, riceve la sua ‘prova’. Ma Spaventa, non avendo colto l’intrinseca doppiezza del sapere fenomenologico, non ha potuto intendere la ‘necessità’ hegeliana di provare logicamente lo Standpunkt a partire dal quale è ‘costruita’ la Fenomenologia. Né certo l’aiutava l’insistita contrapposizione di scuola tra pensiero antico e pensiero moderno, l’uno che muove dall’essere per giungere a dimostrare il pensare, l’altro dal pensiero per provare l’essere15. Inizia pertanto l’esplicazione delle prime categorie della Scienza della logica – svolta con l’intento di confutare le obiezioni di Trendelenburg a Hegel – con la dialettica Pensiero-essere. E per quanto verso la fine del saggio non manchi di precisare che il pensiero che regge l’iniziale dialettica della logica non è l’Io penso, ma il pensare, l’Es denkt16, ciò non toglie che la

§§ 440-487) della I parte della Filosofia dello spirito, dedicata allo “spirito soggettivo”. 14. Esplicitamente richiamato al termine della presentazione del “Concetto in generale”: WL, II, p. 269; it., II, p. 673. 15. Cf. Schizzo di una storia della logica, Op, II, pp. 618 ss. 16. «L’Io, la prima persona, è la terza nel pensiero logico» (Op, I, p. 421) – affermazione alquanto sbrigativa, va pur detto.

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sua analisi delle prime categorie della Logica sia fondamentalmente in contrasto con la stessa impostazione della hegeliana Scienza della logica. Perché non si può iniziare l’analisi della Logica di Hegel col pensiero pensante, col concetto inteso come conceptus, concipere, questo inizio non è un inizio. Il pensante – preciso: non l’Ich denke, ma l’Es denkt – appare nella Logica molto più tardi, nella Logica soggettiva, nella Dottrina del concetto, questo sì conceptus e non conceptum. Nei primi gradi della Logica, nella Logica oggettiva dell’Essere e dell’Essenza, la dialettica non è del concipere, ma tra concepta. All’inizio della Logica i termini non sono pensiero e essere, pensante e pensato, bensì essere e non-essere. Qui si colgono insieme la ‘ragione’ della critica di Henrich a Spaventa ed il limite della proposta interpretativa del critico. Essere e non-essere non sono dei puri immediati, la cui differenza è coglibile solo negativamente, ovvero solo immediatamente, dacché ogni mediazione innalzerebbe l’essere al grado dell’essenza. La ‘lettura’ di Henrich è ancor più lontana da Hegel che non quella di Spaventa. È sufficiente ricordare qui l’affermazione che si legge all’inizio della Scienza della logica, secondo cui non v’è né in cielo né in terra né in altro luogo mai un puro immediato o un puro mediato, ché reale è solo l’immediato-mediato, ovvero la mediazione dell’immediatezza (cf. WL, I, p. 66; it., I, p. 52). Rinviando di poco l’esplicazione di questo concetto, va ora detto che non si dà pura immediatezza di essere e non essere, essendo pensabili solo via negationis (a parte il fatto che anche la via negationis è una mediazione, quantunque soggettiva, ovvero del ‘pensante’), talché essere ed essenza non si distinguono come immediato e mediazione, ma come mediazioni diverse. L’essere essendo la mediazione che lascia i mediati l’uno fuori dell’altro, l’essenza la mediazione che porta i mediati l’uno dentro l’altro, che immedesima i mediati, il concetto, infine, la mediazione delle due mediazioni dianzi dette. E questo non è una nostra

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‘interpretazione’, è semplicemente quello che Hegel dice in più punti della sua opera (cf. in part. sulla “Riflessione”: WL, II, pp. 24 ss: it., II, pp. 443 ss.). Nostra è solo l’aggiunta, che tale struttura è costruita avendo presente la successione delle mediazioni come si presentano nella koinonía tôn ghenôn del Sofista platonico. Tutto ciò è solo la premessa del discorso, ché dobbiamo interrogarci su cosa significhi che non c’è in nessun luogo dell’universo qualcosa di puramente immediato o puramente mediato. Anticipando diciamo: significa che la trattazione hegeliana dell’inizio – del ‘cominciamento’, per dirla con Spaventa – ha questo fine: l’eliminazione dell’inizio. Per essere chiari sino in fondo: non toglimento dell’inizio, Aufhebung; bensì cancellazione, tilgen, dell’inizio, del problema dell’inizio. La dialettica hegeliana è questo – o non è niente. 4. Stralciamo alcuni passi, tra i più citati, dall’esposizione hegeliana delle prime categorie: Essere, puro essere, – senza nessun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è uguale soltanto a se stesso, ed anche non diseguale rispetto ad altro […] Nulla, il puro nulla; è semplice uguaglianza con sé stesso, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. […] Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso. Ciò che è vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere non passa, ma è passato nel nulla, e il nulla nell’essere. Parimenti però vero non è la loro indistinzione, ma che essi non sono lo stesso, che essi sono assolutamente diversi, ma insieme inseparati e inseparabili, e che immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla sono differenti, ma di una differenza, che si è in pari

312 tempo immediatamente risolta (aufgelöst). (WL, I, pp. 82-83; it., I, pp. 70-71).

Basta leggere con attenzione questi brani, per rendersi conto che tanto la critica di Trendelenburg, quanto le repliche dei seguaci e difensori di Hegel, a partire da Werder e Fischer, sono estranee al testo hegeliano. L’“indeterminata immediatezza eguale solo a sé”, inizialmente attribuita al puro essere e al puro nulla, è solo l’inizio di una definizione, dacché non v’è un “sé” che non sia “relazione ad altro”: difficile credere che Hegel, nel riflettere sul ‘cominciamento’, non avesse presente quel luogo del Sofista, poco sopra citato, ove si mostra la necessaria relazione di identico e diverso. E non è proprio a questa relazione necessaria che fa riferimento quando dice che «Il vero non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere non passa, ma è passato nel nulla, e il nulla nell’essere»? Ma, se divenire è questo “esser-passato”, allora “nulla” non dice ‘più’ di quanto non dica “essere” – come sostennero Werder17 e Fischer18, e Spaventa con loro, aggiungendovi che la negazione del nulla è il carattere proprio di quel gran prevaricatore ch’è il pensie17. «Quando dico Nulla so di più che quando dico Essere – perché quello è di più, è ciò che si rivela, squarciando il proprio velo; perché è il nudo Essere, lo spirito dell’Essere, l’Essere nell’Essere. // Nel Nulla l’Essere rompe il silenzio in sé di se stesso. Il Nulla è la riflessione (Besinnung – Spaventa tradurrà con «accorgimento») dell’Essere, l’aprirsi in lui del suo senso; il suo sguardo in sé, il punto in cui sorge la sua originarietà. Nel Nulla si svela la sacrosanta duplicità di senso della vuotezza dell’Essere. Che esso nient’altro è che l’Essere‑stesso, l’Essere mediante se stesso, pieno unicamente di se medesimo – questo dice la sua vuotezza, questo dice il Nulla. Il Nulla è cosi il sapere dell’Essere riguardo alla sua pienezza, al suo compimento a partire da sé, riguardo al suo libero agire, alla sua auto‑creazione; – e nell’attualità (in der Energie = nell’energheía) di questo sapere che si muove in se medesimo Essere non dice più Essere, ma Divenire» (K. Werder, Logik, p. 41). 18. «Pensare ed essere sono identici. Pensare ed essere sono non identici. L’Identità è spiegata nel concetto dell’Essere; la non‑Identità nel concetto di non‑Essere» (K. Fischer, SLM, p. 194). Su Werder e Fischer cf. V. Verra, SFTO.

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ro19. E pertanto, se tutto quanto v’è nel nulla, è già nell’essere, se cioè la relazione all’altro è già nel sé, ché il sé è tale per la sua relazione all’altro, allora il primo, il vero primo non è l’“essere”, né il “nulla”: il vero, unico primo è il divenire – la relazione. L’esposizione delle prime categorie della Logica ha questo significato, che per quanto si spogli l’essente d’ogni determinazione sino a tradurlo in puro vuoto, anche in questo indeterminato, nella misura in cui si pensa qualcosa, è presente la relazione tra “sé” ed “altro”. Detto diversamente: “essere e nulla, come puro essere e puro nulla, in quanto indeterminate immediatezze eguali solo a sé”, sono impensabili, come tali neppure due; pensabile, e pensato, è solo il divenire, ovvero la relazione che non è tra un puro, isolato “sé” e un puro, isolato “altro”, ma tra il “sé” (un qualsiasi sé) correlato all’“altro” (un qualsiasi altro), e l’“altro” correlato al “sé”. La trattazione hegeliana dell’inizio è quindi l’eliminazione del problema dell’inizio. In termini ‘logici’: il divenire è già tutto nell’essere, ché mai si coglie essere fuori del divenire; in termini “teologici”: Dio è Dio perché crea, ed è tutto nella sua creazione. Dio muore sorgendo come mondo. Muore, presente aoristico: Dio è già da sempre morto per vivere nella sua creatura. Questo procedimento, messo in opera nell’esposizione delle prime categorie della Logica, è enunciato da Hegel con estrema stringatezza già nel preambolo dell’opera, dove si chiede “con che deve cominciare la scienza”: «l’andare innanzi – scrive – è un tornare addietro nel fondamento, all’originario e al vero, dal quale quello con cui si era cominciato, dipende, ed è, infatti, prodotto» (WL, I, p. 70; it., p. 56). Perché questa affermazione non resti principio indimostrato, facciamo seguire la dimostrazione che Hegel ne ha fornito in un luogo fondamentale della sua opera, compreso nella Fenomenologia dello

19. In merito cf. infra, § 7.

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spirito, ma scritto dopo averla terminata, e cioè nella Vorrede, ove tratta della “proposizione speculativa”. 5. Volendo dare ragione delle difficoltà che la comprensione dei concetti filosofici presenta anche per lettori esperti, Hegel chiama in causa i limiti del linguaggio comune, ‘rappresentativo’, intellettualistico (verständig), di cui s’avvale la filosofia, inadatto ad esprimere pensieri e concetti speculativi. D’altronde, se è proprio della verità filosofica parteciparsi, rendersi pubblica20, allora al filosofo non resta che accettare la sfida del linguaggio. Il linguaggio comune, rappresentativo, si esprime in proposizioni (o giudizi), secondo cui qualcosa si dice di qualcos’altro, tì katà tinós: il predicato di un soggetto. Invero i predicati sono molti, e solo perché v’è un unico e stabile soggetto, che funge da riferimento comune, i molti predicati possono nella loro varietà essere tra loro in relazione e così definire l’unico soggetto: ciò che è, l’ente, nella molteplicità dei suoi aspetti. Logica apofantica e ontologia della sostanza nascono ad un parto. Ma, osserva Hegel, altro è ciò che la proposizione ‘realmente’ dice, altro quanto l’interpretazione ontologico-sostanziale le fa dire. Questa attribuisce al soggetto ‘logico’ (al soggetto della proposizione) la ‘pesantezza’ della sostanza che sta e non muta, laddove la proposizione dicendo i predicati del soggetto mostra il suo continuo divenire, il farsi del soggetto logico “A” quel che i predicati, “b”, “c”, “d”, … “n”, volta a volta dicono. Il medesimo fiore è rosso, vellutato, ricco di spine, profumato… La proposizione dice che il soggetto è i suoi predicati, e senza 20. «[…] uscendo dalla variopinta parvenza dell’al di qua sensibile e dalla vuota notte dell’al di là ultrasensibile nel giorno spirituale del presente»: PhäG p. 140; it., I, p. 152.

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questi cade nel nulla. La proposizione risolve la ‘pesantezza’ del soggetto nella ‘leggerezza’ dei suoi predicati, nella loro mobilità. Hegel annota che il “Sé” dell’ente – il soggetto-sostanza, il “Sé oggettivo e fisso” (das gegenstänliche fixe Ich) – si risolve nell’Io che pensa l’ente, nell’“Io-che-sa” (das wissende Ich), che è l’unità di tutti i predicati ed il loro sostegno21. Genialmente, unendo logica formale e logica trascendentale, Hegel mostra il ‘passaggio’ dalla logica apofantica dell’inerenza alla logica apofantica della sussunzione22. Ora in questo ‘passaggio’ è il pericolo sommo del pensare, quello di ridursi a puro räsonnieren, a mero salterellare da un predicato all’altro, che toglie al sapere ogni consistenza e serietà. Questo mero raziocinare intellettualistico trova però in sé medesimo un “contraccolpo” (Gegenstoß) – qui Hegel critica, palesemente, la prospettiva del soggettivismo trascendentale: l’“io che sa” «invece di poter essere l’elemento operante nel muovere il predicato (elemento operante in quanto raziocinante intorno all’attribuzione di questo o di quel predicato al primo soggetto) ha piuttosto ancora a che fare con il Sé del contenuto, né deve essere per sé, ma insieme il contenuto medesimo» (PhäG, pp. 50-51; it., I, p. 51). Ed è qui che si vede l’operare effettivo della ragione, Vernunft, del pensare propriamente filosofico che, mettendo la forma rigida della proposizione – la separazione soggettopredicato – in contrasto col suo contenuto, che come soggetto si toglie nel predicato – nell’“io che sa” –, e come predicato torna al soggetto, al Sé di prima, che ora trova come un estraneo, tiene insieme distinzione ed unità. Un tale conflitto della forma di una proposizione in genere e dell’unità del concetto che distrugge quella forma, è simile a ciò che nel ritmo ha luogo tra il metro e l’accento; il ritmo 21. PhäG, p. 50; it. I, p. 51. In merito cf. retro, Parte I, Sez. III, cap. I. 22. Sulla distinzione cf. I. Kant, KrV, Die Analytik der Begriffe, spec. §§ 20 ss., B 143 ss.; G. W. F. Hegel, WL, II, Das Urteil der Reflexion, pp. 326-335; it., II, p. 729-737.

316 risulta dalla librantesi medietà e unificazione del metro e dell’accento. Similmente anche nella proposizione filosofica l’identità di soggetto e predicato non deve annientare la loro differenza espressa nella forma della proposizione; anzi la loro unità deve risultare come armonia. (Ib., p. 51; it., I, pp. 51-52).

Se ora torniamo a leggere l’esposizione del divenire, l’unità di essere e nulla nella loro differenza risulta affatto chiara: «Il vero non è né l’indifferenza di essere e nulla, perché essi sono assolutamente diversi, ma immediatamente ciascuno di essi sparisce nel suo opposto». E cioè, nell’atto stesso che si afferma la loro differenza, la si nega, come attesta la definizione dell’essere che, nel dirla “pura immediatezza eguale solo a sé”, aggiunge “e non diseguale rispetto ad altro”, così togliendo la semplice eguaglianza a sé, l’identità, nella relazione ad altro, nella differenza. La critica di Trendelenburg a Hegel cade fuori dell’ambito del pensiero hegeliano, per il dichiarato intento di cogliere la differenza di essere e nulla, prima del loro fluire l’uno nell’altro, l’altro nell’uno, prima del divenire, prima del primo. Peraltro il largo successo che ha arriso a tale critica è dovuto proprio al modo in cui si attua il pensiero dialettico, che è unità (armonia) di accento e metro, fissità e divenire, intelletto e ragione. Il pensiero dialettico non si limita a negare semplicemente la “è”, l’identità, ma la accoglie, risolvendola, nel predicato, nella relazione predicativa. In che la “è”, l’“identità”, dell’essere? Nella sua mera eguaglianza a sé non diseguale rispetto ad altro. In che la sua negazione nel diverso? Nella sua relazione ad altro, implicita nella contemporanea dichiarazione della non-disuguaglianza ad altro23. 23. S’intende ora il senso di quella Meinung, di quell’“opinare” che tiene separati essere e nulla, di cui parla Hegel nella seconda nota alle prime categorie della Logica: «Quelli che vogliono star fermi (beharren wollen)

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6. È innegabile che Spaventa abbia compreso il senso profondo del metodo hegeliano; ne è chiara testimonianza questa citazione: Per muovermi […] io ho bisogno di un punto da cui muovermi. Ora qual è questo punto qui? Non altro che il mio pensiero dell’Essere; io non ho altro, non sono altro che questo pensiero; solo da questo posso muovermi. Ebbene da questi punto io non posso staccarmi: giacché lasciar lì l’Essere è lasciare il punto che solo mi sostiene, è lasciar quello che mi fa ciò che sono, cioè pensiero: è lasciar di pensare. (Op, I, p. 405).

Quello, però, che ha ingenerato equivoci, e gravi, è l’aver egli anticipato la dialettica del pensiero pensante ai pensieri pensati, il concipere ai concepta, stravolgendo in tal modo – come s’è rilevato poco sopra – il senso della struttura hegeliana della Logica, costruita in modo tale da di-mostrare come e perché dalla relazione tra concepta sia emersa la dialettica del concipere, dal concetto-sostanza di Aristotele il concettofunzione di Kant. Nel passo or citato è palese che Spaventa è pienamente consapevole che l’Essere da cui muove il pensiero non è ‘posto’ dal pensiero più di quanto non sia ‘presupposto’. Egli, cioè, è pienamente consapevole che l’Essere è il presupposto ‘interno’ del pensiero: presupposto del pensiero solo nell’atto in cui è riconosciuto dal pensiero, e cioè solo nell’atto in cui il pensiero si pone, pone sé e, ponendo sé, fa dell’Essere, del “punto da cui muove”, il suo presupposto, che non sarebbe tale, presupposto, senza il suo por-si, che non sarebbe alla differenza dell’essere e del nulla – scrive –, si provino a dire in che consiste» (WL, I, p. 95; it., I, p. 81). Quell’opinare appartiene all’intelletto astratto dalla ragione, puro accento senza metro, epperò assoluta, ineffabile disarmonia, ché presume di poter ‘fermare’ il dire l’essere alla pura “eguaglianza con sé” senza dover passare, nell’atto stesso di pronunciare quella eguaglianza, alla sua disuguaglianza con altro, alla relazione con altro. Ma è proprio del dire il movimento, del logo il divenire. La logica è di necessità portata a superare la semplice, isolata “è”.

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tale: il punto da cui muove, senza il suo movimento. Ma la traduzione, ad opera del movimento, del “punto” in “punto di partenza”, dell’antecedente in presupposto del pensiero, non fa del presupposto un semplice ‘posto’. Il pensiero pone il presupposto in quanto presupposto: lo riconosce. Il padre è certamente padre solo con la nascita del figlio, ma questo non significa che il figlio generi il padre. Generante è e resta il padre, che è prima d’esser-padre, e può esser padre solo perché è prima d’esser-padre. Gentile, presumendo di rendere più rigoroso il pensiero di Spaventa, fa dell’essere, presupposto interno al pensiero, una ‘pura’ posizione del pensiero, ribaltando, in tal modo, la connessione hegeliana “essere-divenire”. Per Gentile è il divenire che ‘pone’ l’essere, il concreto che pone l’astratto, il concipere il conceptum. Così impostato il problema, egli non solo accetta la critica di Trendlenburg a Hegel, ma la rincara: Hegel – scrive – non ‘realizza’ il divenire, ma lo ‘analizza’24. E proprio perché lo analizza dà ragione alla critica di Trendelenburg, che esige sia detta, mostrata la differenza tra essere e nulla. L’operazione di Gentile è sottile, in quanto con un unico gesto fa sua la critica di Trendelenburg a Hegel e insieme respinge la richiesta del critico di dire in che consista la differenza. La differenza di essere e nulla – afferma Gentile – è il divenire, che è l’essere che si nega nel nulla. Quindi, là dove Hegel si è fatto carico di dire-mostrare la differenza tra essere e nulla, mostrando nel dire – come rileva la proposizione speculativa – l’essere e il suo scomparire, e cioè ‘producendo’, ovvero: ‘esibendo’ e ‘realizzando’, il divenire quale armonia di accento e metro, Gentile si limita a dichiarare la differenza, senza mostrarla – senza mostrarla nel suo negarsi, beninteso, come si è ripetutamente detto. Hegel mostra nel divenire

24. Cf. RDH, Parte I, cap. V. Riguardo a Spaventa e a K. Fischer, cf. p. 28.

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la differenza e la sua negazione, e così ‘produce’ il divenire, Gentile l’enuncia soltanto. Potremmo dire che la differenza tra Hegel e Gentile, quanto alla ‘definizione’ del divenire, sta in ciò che quella di Gentile è una definizione ‘nominale’, enuncia cioè un carattere del divenire, quella di Hegel una definizione ‘reale’, perché costruisce la cosa stessa nell’atto di definirla. La retrocessione di Gentile da Hegel a Fichte consiste appunto in ciò. È che al fondo della tesi, secondo cui all’interno stesso del pensiero è il presupposto del pensiero – tesi che caratterizza la Logica hegeliana –, sta la dimostrazione della realtà del sapere conseguita nella Fenomenologia, il cui senso Gentile ignora affatto. Ma la critica di Hegel a Fichte non perché ignorata cade. Se Fichte non riesce a mostrare la ‘realtà’ dell’oggetto del pensare, Gentile non riesce a dimostrare la distinzione tra concreto e astratto. Posto pure che al pensiero sia necessaria una “colonna adamantina” a cui reggersi, perché il movimento non divaghi qua e là ma abbia una direzione, bisogna pure che la colonna cui s’appoggia sia salda: ma se l’astratto che dovrebbe legare il concreto, l’obbligo che dovrebbe tenere a freno la libertà perché non scada ad arbitrio, non è meno mobile del concreto, allora la ‘deduzione’ dell’astratto resta una pura, insoddisfatta, esigenza25. 7. Ma la distanza che separa Gentile da Spaventa è ben maggiore di quanto sinora non si è detto. Ché l’Essere a cui fa riferimento Spaventa nello scritto sulle Prime categorie della logica, e in particolare nel passo citato da Henrich nella sua critica, dice tutt’altro da quanto Gentile non gli abbia fatto dire. È opportuno citare per esteso il brano in questione per la sua notevole rilevanza non solo per la comprensione del pensiero di Spaventa, sì anche per l’interpretazione della filo25. Cf. retro, Parte I, Sez. II, cap. I.

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sofia hegeliana, meno ‘compatta’ di quanto non appaia in altre ‘letture’, che paiono più fedeli solo perché più tradizionali. Adunque, perché il No? Il Non essere, la negazione? e dopo, e nonostante il Sì, l’essere, l’affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, nella sua massima semplicità logica. Quel che sappiamo è che senza il Pensare non sarebbe il No, il Non essere; e chi nega, quegli che vince l’invincibile e fende l’indivisibile, cioè l’Essere; che distingue e contrappone nell’Essere medesimo in quanto medesimo ciò che è e ciò che non è: la generazione o geminazione dell’Essere; quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. Se non fosse altro che l’Essere, non sarebbe il No. E, quando si va a vedere, l’Essere stesso, solo l’Essere, non dice Essere, non dice È, non dice punto. L’È – la stessa affermazione – è pensare; è distinguere, è concentrar l’Essere; è semplificarlo, ridurlo a un punto, e perciò geminarlo.26

Chiaramente qui Spaventa distingue dall’Essere che sopra s’è detto “presupposto interno al pensiero”, dall’Essere ‘posto’, nel senso di ‘riconosciuto’, dal pensiero, l’Essere che è ‘prima’ del riconoscimento, l’“Essere solo Essere che, se si va a vedere, non dice Essere, non dice È, non dice punto”, dacché l’“è” che determina l’essere, che lo distingue, lo concentra, lo pensa, lo genera, questo “è” è pensiero e solo pensiero. Qui il momento più originale dell’interpretazione spaventiana di Hegel, che Gentile nella Riforma della dialettica hegeliana criticò come residuo realistico del pensiero del suo Maestro. E si trattava invece della radice neoplatonica di questo pensiero, una radice ineludibile del pensiero, di ogni pensiero critico, come lo 26. Op, I, p. 399. Questo brano – per l’importanza che ha per l’interpretazione del pensiero di Spaventa – è variamente ripreso nella I come nella II Parte di questo libro.

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stesso Gentile dovrà scoprire molti anni più tardi, attraverso un autonomo percorso, nella Filosofia dell’arte. Ma di ciò mi sono già occupato altrove, e non è il caso di ripetermi27. Va qui, piuttosto, rilevato che Spaventa, seguendo l’inclinazione più profonda del suo pensiero, riesce a dire qualcosa di gran rilievo anzitutto riguardo a Hegel, ma non solo riguardo a Hegel. Torniamo sulla proposizione speculativa, a quella pagina della Vorrede della Fenomenologia in cui Hegel parla del “contraccolpo” che il pensiero subisce poi che s’è liberato dalla fissità del ‘soggetto-subjectum’ del giudizio nella leggerezza dei molti, e vari e mutevoli, predicati. Questo contraccolpo è un vero impedimento (Hemmung) all’errare di qua e di là del pensiero raziocinante, è un peso, Schwere, che trattiene il ‘soggetto che sa’, das wissende Ich, legandolo ad un contenuto estraneo. C’è da chiedersi se in questa pagina v’è solo la critica del formalismo della filosofia trascendentale, della vuotezza dell’Ich denke kantiano uguale a X, che ha il suo contenuto non dentro di sé, ma fuori – o non dice questa critica qualcosa di più, anzi molto di più, e proprio riguardo alla concezione hegeliana del pensiero, il gran prevaricatore, die ungeheure Macht des Negativen. Questo gran prevaricatore che oppone la negazione all’affermazione, il no al sì, il nulla all’essere, è, certo, il pensiero, non però il concetto che si sa come concetto, non l’autocoscienza autrotrasparente, ma il lato notturno della coscienza e del pensiero: die lichtscheue Macht, la potenza che ha in orrore la luce, quale emerge nella interpretazione hegeliana dell’Edipo di Sofocle (cf. PhäG, pp. 335-336; it., II, pp. 27-28). Una conferma, questa, del privilegio accordato alla Fenomenologia nell’interpretazione della Logica e del Sistema hegelia27. Cf. retro, P. I Appendice III, ed altresì V. Vitiello, “Dall’Io penso all’io sento. Giovanni Gentile”, GP, P. I, cap. II.

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no? Per nulla affatto: “lichtscheue”, in forma sostantivata: das Lichtscheue, ricorre anche nelle pagine della Logica dell’essenza, là dove Hegel scorge nella pura accidentalità (Zufälligkeit) di ciò che «è soltanto perché è» – nella rosa di Silesius, nel suo fiorire ohne warum? – l’assoluta, “cieca” (blind) necessità di ciò che non ha nessuna condizione né ragion d’essere (keine Bedingung noch Grund): il degradarsi dell’essenza all’“immediata semplicità” (unmittelbare Einfachheit) dell’essere (cf. WL, II, p. 215-216; it., II, p. 623-624). Senza pretesa di dividere “ciò che è morto da ciò che è vivo” in Hegel e di Hegel, senza proclamare riforme della dialettica, Bertrando Spaventa, ‘sillabando’ Hegel nel suo personalissimo modo, giunse dove altri non seppero: a intravvedere l’Essere che è prima dell’Essere e prima del Nulla, prima del passare e dell’essere-passato, prima del prima e del poi, prima della “creazione”. Ad intravvedere das Lichtscheue. Come Hegel si allontanò da questo abisso della ragione. Come Hegel volle redimere il mondo, la creazione, da questo Dio negativo. Come Hegel si affidò al theòs deúteros, a Noûs, il pensiero. Scrisse: «provare la identità come mentalità è provare la creazione, giacché la identità come mentalità è l’attività creativa; risolvere il problema del conoscere è provare la creazione» (Op, II, p. 644). Ma come, se proprio in Noûs, nel suo fondo notturno, in seinem nächtlichen Schacht (Enz, III, § 453, Anmerkung), si cela la maggiore pesantezza, Schwere, il più duro impedimento, Hemmung, a redimere il mondo dalla cecità del caso…?

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II Due divergenti letture della Fenomenologia dello spirito: Augusto Vera e Bertrando Spaventa

tò gàr autò noeîn estín te kaì eînai1 ti aletès eînai chorìs apodeíxeos2 apodeíxeos gàr archè ouk apódeixís estin3

In limine Mettere a confronto le interpretazioni della Fenomenologia dello spirito dei due maggiori hegelisti italiani dell’Ottocento è utile come ad approfondire la conoscenza storico-critica delle radici dell’idealismo italiano otto-novecentesco, così alla migliore comprensione dei problemi che il testo di Hegel solleva. Cosa che non si può certo fare con i più noti hegeliani del Novecento, Croce e Gentile, avendo il primo mostrato sempre totale indifferenza per la Fenomenologia hegeliana – le poche osservazioni che ha riservato a quest’opera, tra le più alte espressioni della filosofia e pur della letteratura

1. Parmenide, TF, Fr. 3. 2. Aristotele, Met., IV, 4, 1006a 27-28. 3. Ib., 1011a 13.

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occidentale, non vanno al di là di mots d’ésprit sans ésprit4 –, ed il secondo avendole dedicato poche pagine di un saggio, “Il metodo dell’immanenza”, nel quale rivela soltanto la sua radicale incomprensione del problema e quindi del procedimento della Fenomenologia5 – tema, peraltro, esposto sin nel sottotitolo dell’opera: Scienza dell’esperienza della coscienza. Strano per un filosofo che nell’intero suo Denkweg si travagliò sul problema del rapporto tra pensiero pensante e pensiero pensato. Ma, invero, la lettura delle pagine di Croce e di Gentile su Hegel, le occasionali e pur quelle specificamente dedicate al filosofo tedesco, desta stupore, e più ancora che per la lacunosa conoscenza dei testi, per l’assenza di un autentico rapporto ‘speculativo’ con l’Autore, al quale pure si richiamavano come al loro Altvater. Basti qui richiamare le pagine sul sillogismo della Logica crociana, persino irritanti per la

4. Di Croce, oltre alle cit. “Noterelle di critica hegeliana” (retro, P. I, Sez. III, cap. II, § 1.2, nota 15), si veda quanto dice in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel: «è nota la disputa sul posto che la Fenomenologia ha nel sistema: disputa priva di senso» (cap. V, su “La metamorfosi degli errori in concetti particolari e gradi della verità”, SH, p. 74). Né miglior giudizio riserva alla WL: «Chi prenda tra mano la Logica di Hegel col proposito d’intenderne il nesso, e, anzitutto, la ragione del cominciamento, dovrà, dopo un po’, deporre quel libro, disperato d’intendere, o persuaso che si trova innanzi a un ammasso di astrattezze senza significato. Ma chi, come il cane di Rabelais, ‘bestia filosofa’, invece di lasciare stare l’osso, lo addenti or di qua or di là, lo stritoli, lo sminuzzi e lo succhi, si ciberà alfine del sostanziale midollo» (SH, p. 78). 5. In merito cf. RDH, p. 227, retro, P. I, Sez. III, cap. II, § 1.2. Senza voler qui richiamare la ben più profonda ed articolata lettura della Fenomenologia dello spirito data da Heidegger nel cit. saggio “Hegels Begriff der Erfahrung”, va pur detto che già Karl Rosenkranz, nel suo Hegels Leben, edito nel 1844, aveva ben chiaro che il percorso fenomenologico è «una libera esposizione dell’Assoluto (id est: della Verità) nella sua unità con l’autocoscienza» (pp. 488-489).

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superficialità con cui il problema viene liquidato6, e l’assenza in Gentile di qualsiasi riferimento alla Wesenslehre, e in particolare alla “riflessione” – e si tratta di temi fondamentali della filosofia, e non solo di quella hegeliana7. Talora vien fatto di chiedersi se Gentile sia mai andato al di là della lettura delle prime categorie della Scienza della logica! Più modesti, ed insieme più interessati ad entrare in un rapporto autentico con questo grande pensiero che in qualche modo riassume in sé l’intera tradizione filosofica occidentale, Vera e Spaventa non esitarono a Hegel buchstabieren – per usare la felice espressione di Gadamer8. Dalle loro interpretazioni, certo tra loro distanti per sensibilità storico-critica e per orientamento teoretico, possiamo ancora apprendere qualcosa su Hegel e non solo su Hegel.

I 1. Cominciamo con Augusto Vera. Al centro della sua analisi, e non solo del pensiero hegeliano, è il concetto di Sistema,

6. Cf. B. Croce, LCP, Sez. II, cap. II, spec. pp. 77-94. Riuscì a far peggio Carlo Antoni (“La dialettica di Hegel”, in Id., CHM, pp. 1-20), portando ad esempio dell’astrattezza intellettualistica della logica hegeliana proprio la teoria del sillogismo, nella quale Hegel rovescia come un guanto il formalismo logico: non a caso alla quarta forma del sillogismo (il sillogismo teleologico) è riservata un’intera Sezione della Begriffslehre: “La Oggettività”. Sul tema cf. retro, Parte I, Sez. I, cap. 2, § 5, ed altresì V. Vitiello, ETN, Sez. I, cap. I, “Logica e mondo in Hegel. La quarta forma del sillogismo”, pp. 23-49. 7. Cf. sul tema C. Sini, Teoria e pratica del foglio-mondo, in Id., O, vol. III/ II, Il foglio-mondo, pp. 67-142. 8. Cf. H.-G. Gadamer, HDHS, p. 6.; retro, P. II/I.

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secondo il quale non si dà verità se non nell’ordine unitario del Tutto. Chiaro che questa verità è ontologica e non meramente gnoseologica, dacché in essa si manifesta l’essere stesso del Tutto nei suoi molteplici livelli o stadi. Di qui la critica a Kant, reo d’aver diviso quant’è originariamente unito: il pensiero dall’essere, e cioè la categoria dal fatto, l’intelletto dai sensi, infine la ragione dall’intelletto. La critica di Vera ripete, nell’essenziale, la critica che Hegel muove a Kant all’inizio dell’Introduzione della Fenomenologia dello spirito; ma la mira dell’interprete è mossa da altro e più ampio intento che non quello della sola interpretazione di Hegel: in Kant egli critica il teorico del pensiero scientifico moderno, ovvero del positivismo. L’esito scettico della filosofia kantiana della conoscenza e pur della morale, si presenta come la prova provata che non si dà verità nelle scienze particolari, che muovono dal presupposto della scissione del pensare dall’essere (PA, capp. XIX-XXI). Si dà conoscenza vera soltanto nell’ordine sistematico del Tutto ove essere e pensiero, pensiero ed essere sono unum et idem. Non a caso l’opera che per Vera rappresenta l’apogeo della filosofia hegeliana è l’Enciclopedia (ib., cap. XXII, nota 15, p. 62). Ma che significa che pensiero ed essere sono uno e medesimo? Che cosa dice il parmenideo tò gàr autò noeîn estín te kaì eînai, che s’è citato in esergo? Che l’autó uni-fica, e cioè rende uno, pensiero ed essere, o non piuttosto che è il terzo nel quale e per il quale i due si relazionano? Detto più semplicemente: nell’unità dell’autó la differenza tra pensiero ed essere è negata o conservata? Vera respinge l’alternativa: nel sistema di Hegel – osserva – la differenza è negata e insieme conservata. Non è la semplice ripetizione dell’Aufhebung hegeliana. V’è dell’altro che va messo in giusto rilievo. Scrive Vera: «l’assoluto è nel mondo fenomenale, ma vi è ponendolo e negandolo ad un tempo. […]

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Ed in siffatta guisa è immanente al mondo». Quindi esemplifica: «Dio non è immanente nelle cose, in esse, a dir così, disperdendosi e seco loro immedesimandosi, ma in esse manifestandosi e ad un tempo negandole» (ib., p. 74, corsivo mio). Il lettore della Vorrede della Phänomenologie non può non ricordare l’opposta affermazione hegeliana sulla forza (Kraft) e la profondità (Tiefe) dello spirito che è tanto più grande e profonda quanto maggiormente osa dispiegarsi (aus-legen) e pur perdersi (sich verlieren) nel mondo (PhäG, p. 15; it., I, p. 8). Vera ha qui toccato il punto forse più problematico del concetto di Sistema – di Hegel, ma non solo di Hegel. Negazione e conservazione si dispongono a diversi livelli. Pensiero è essere: l’essere si manifesta nel pensiero – e vale anche la reciproca: il pensiero si manifesta nell’essere, essendo –; ma il principio dell’unità non si manifesta nella manifestazione, è altro e superiore. Facile dire che non c’è né in natura né in cielo né nello spirito o in qualsiasi altro luogo si voglia immaginare, mediazione senza immediatezza e immediatezza senza mediazione (Hegel, WL, I, p. 66; it., I, p. 52), resta il fatto che nella correlazione universale del sistema, e cioè nell’eteromediazione di ciascun termine con gli altri, l’atto del mediare è immediato, non avendo altro, a sé esterno, con cui mediarsi. E ove si affermi – come Hegel afferma – che l’atto del mediare non abbisogna d’altro, dacché, nel mediare l’altro da sé, si media con sé medesimo, essendo l’automediazione co-attuale ad ogni eteromediazione, non può non sorgere la domanda: come dar ragione di questa differenza di mediazioni – l’etero-­ mediazione, o mediazione per altro, e l’auto-mediazione, o mediazione per sé? Che Hegel si sia scontrato con questo problema, non esige dimostrazione; è sufficiente richiamare alla memoria i tre sillogismi finali dell’Enciclopedia (Enz, III, §§ 574-577), ove Hegel compie il massimo sforzo per ricondurre la pratica del pensiero al pensiero, giungendo a rivoluzionare lo stesso ordine del Sistema. Ma il terzo sillo-

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gismo – il sillogismo dei sillogismi, nel quale ciascun termine funge volta a volta da estremo maggiore, medio ed estremo minore – nonché fornire la soluzione del problema reduplica l’aporia. Infatti, se il Sistema – ora rappresentato dal circolo dei sillogismi – contiene in sé la sua dimostrazione come la ruotante totalità dei sillogismi, allora la dimostrazione, identificandosi col Sistema, è pura immediatezza, quiete perfecta, già da sempre compiuta, quale che sia la sua forma volta a volta cangiante: intuizione, quindi, e non dimostrazione; se, per contro, la dimostrazione è sempre solo uno dei sillogismi in cui prende figura il circolo dei sillogismi, allora essa è parte del Sistema e non la totalità di esso – e pertanto non la dimostrazione fonda il Sistema, ma questo quella, com’è proprio del tutto rispetto alla parte. In breve: apodeíxeos gàr archè ouk apódeixís estin – il principio della dimostrazione non è dimostrazione. Si deve allora concludere che, come per Aristotele così per Hegel, tì alethès eînai chorìs apodeíxeos – che c’è verità anche separatamente dalla dimostrazione? Una tale posizione non avvicina sin troppo Hegel a Schelling, annullando il duro, continuo lavoro del concetto (Anstrengung des Begriffs: PhäG, p. 48; it., I, p. 48) nell’immediatezza di una intuizione rivelatrice che sopraggiunge come “un colpo di pistola”? (ib., p. 26; it., I, p. 22). 2. Vera cerca di limitare i danni con l’attribuire alla sola Fenomenologia il limite di non avere in sé il principio di se medesima, della sua hodós. «La Fenomenologia – scrive – è […] essenzialmente un sistema, però subordinato, un sistema, cioè, che non rinchiude in sé la ragione del suo essere, e che quindi non può dimostrare se stesso» (PA, p. 75). Ragione che è invece compresa nel Sistema compiuto dell’Enciclopedia. Già si è detto ch’egli considerava quest’opera la vetta della filosofia hegeliana; aggiungiamo adesso che questa vetta

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è raggiunta prima della pianura. Il Sistema compiuto era già presente prima dell’elaborazione della Fenomenlogia, perciò questa non si spiega senza quello. Va detto che Vera aveva anche più ragione di quanto non potesse sapere. Conosceva, certo, i primi scritti di Hegel pubblicati a Jena nel “Giornale critico della filosofia”, la Differenz e Glauben und Wissen; ed altresì i corsi jenensi di Logica e Metafisica – almeno attraverso la mediazione di Rosenkranz. Non poteva però conoscere quel ‘frammento’ scoperto tra le carte hegeliane nel 1913 e solo nel 1917 edito da Friedrich Rosenzweig col titolo “Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus”, risalente al 1796 o 1797, di cui ancora si disputa sull’attribuzione – se a Hegel o a Schelling, o non piuttosto al lavoro collettivo di Hegel, Schelling e Hölderlin9 –; ma mi è difficile pensare a Hegel, ancorché giovanissimo, nel ruolo di amanuense, ché sulla scrittura del ‘frammento’ non v’ha dubbio alcuno: è di pugno hegeliano. Qui mi fermo, per non addentrarmi in un tema che mi porterebbe troppo lontano; ma basta il titolo di quel giovanile scritto, per dar ragione alla tesi di Vera che l’“idea” di Sistema è alla base di tutta l’opera di Hegel, sin dall’inizio. A non voler poi citare gli studi novecenteschi sulla “struttura logica” della Fenomenologia”, che mostrano l’operare già nel libro del 1807 delle categorie che verranno solo in seguito elaborate nella Scienza della logica10. Vera ha ragioni da vendere nel non abbassare il tempo della filosofia a quello cronologico; c’è però da spiegare – mettendo ora da parte il chalepón sopra rilevato nell’idea stessa di Sistema – come e perché la Fenomenologia ‘entro’ il Sistema, che significa anche: perché e come la Fenomenologia ‘dopo’ il Sistema: e qui ovviamente si fa riferimento non a quel ‘troncone’ dello

9. Cf. i diversi contributi di F. Rosenzweig, O. Pöggeler, D. Henrich, a. Gethmann-Sifert raccolti in MV. 10. Cf. l’analitico studio di J. Heinrichs, LPhäG.

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Spirito soggettivo che nell’Enciclopedia segue all’Antropologia e precede la Psicologia, bensì all’opera pubblicata nel 1807. Dunque: perché e come? La prima risposta di Vera è data dal concetto stesso di Sistema. Se in Hegel il Sistema è l’ordine relazionale del Tutto, è ben evidente che nulla può esser fuori di esso. Ne discende che nel Sistema – che, in quanto Tutto, è e non può non essere eterno – il dato empirico, il contingente, soggetto al sorgere e tramontare propri del tempo, e cioè: il fenomeno, non può non essere nell’eterno. Se così non fosse, il Sistema riprodurrebbe le aporie del fenomenismo kantiano. Ma come è nell’eterno il ‘fenomeno’? Come sua manifestazione – s’è già detto. Eterno e tempo non sono divisi, son uno. L’eterno hegeliano non è quiete ma attività, movimento incessante sempre in possesso di sé; nel linguaggio di Aristotele: enérgheia, essere in opera (en érgo), entelécheia, ciò che si possiede nel fine (en télei échei); nel linguaggio di Hegel, che a quello di Aristotele si rifà: l’eterno è movimento che si raccoglie nel risultato, ovvero: Ultimo che è Primo, il vero Primo. Ma così dicendo non si rischia di ridurre l’eterno al tempo? Il Kreis von Kreisen, il circolo dei circoli raffigurante l’Idea assoluta (WL, II, pp. 571 ss.; it., II, p. 955), la cui trattazione chiude la Scienza della logica, garantisce la saldezza del Sistema, o non finisce, piuttosto, col metterla in crisi? Hegel oscilla palesemente tra posizioni opposte. Nella Fenomenologia doppio è lo Standpunkt, quello interno al processo della coscienza che s’innalza al sapere assoluto, e l’altro esterno, prospettato sin nella Einleitung dell’opera: das reine Zusehen, il “puro stare a vedere”, che osserva la hodós della coscienza, dell’autocoscienza, della ragione nelle sue diverse modalità ed attività, dello spirito etico e religioso, ed infine

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“assoluto” – senza ad essa parteciparvi, per non falsarla11. Puro sguardo senza occhio, senza prospettiva, perché dice, meglio: è, quello che accade così come accade, senza apportarvi variazione alcuna. Sguardo puro che peraltro si conquista solo alla fine dell’itinerario, della hodós. Nella Fenomenologia il fiume che conduce nell’oceano dello spirito assoluto, si rivela alla fine essere solo una corrente dell’oceano. Vera coglie questo aspetto della Fenomenologia, là dove si chiede: «perché Hegel ha intitolato il tutto Fenomenologia dello spirito […] se lo spirito forma solo una parte» dell’opera? E risponde: Perché un nome bisognava darglielo, e come lo spirito costituisce la più alta sfera della Fenomenologia egli ha designato il tutto col nome di quella sfera rispetto a cui le altre non sono che momenti subordinati. Il che si fonda appunto sul concetto di sistema. Perocché nell’ente sistematico ciò che forma la natura speciale non solo del tutto, ma eziandio delle parti è il suo principio, il principio che ne costituisce la finalità e l’unità. E questo principio dà, e, a dir così, ha il diritto di dare, meglio di ogni altro, il nome alla cosa. (PA, p. 98 nota 48).

Ovviamente non è questione di nome, come peraltro egli sa bene. È che per dare ragione della presenza della Fenomenologia all’interno del Sistema, Vera ha da spiegare perché, se il Sistema è il Tutto, vi debba essere una via di accesso al Sistema. Se nel Sistema – id est: nella Verità – si è già da sempre, quale il senso della via alla verità? E ancora: in che modo la via che conduce al Sistema può essere inclusa nel Sistema? È ben nota la soluzione che tradizionalmente viene data al problema, distinguendo tra il prôton kath’hemâs e il prôton katà phýsin, il primo per noi ed il primo per natura. Ma questa soluzione, che poteva andar bene per Aristotele, per il quale

11. PhäG, Einleitung, p. 72; it., I, p. 75; cf. altresì Vorrede, p. 45; it., I, p. 44: «Il conoscere scientifico esige […] che ci si abbandoni alla vita dell’oggetto».

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essere e pensiero erano divisi, Vera non può farla propria, perché il concetto di Sistema, da cui egli parte, implica, come sappiamo, l’unità-identità di pensiero ed essere. Come è possibile un fenomeno – ossia una manifestazione del Sistema – in cui non sia manifesta la correlazione universale che è propria del Sistema? Vera tenta una risposta distinguendo tra varie manifestazioni del Sistema: la più alta, che è propria dello spirito che nell’estraniarsi da sé torna a sé, e l’inferiore, della natura e pur della coscienza fenomenale, che ha la ragione di sé in altro. Risposta esiziale per il suo concetto di Sistema, perché introduce surrettiziamente la distinzione tra essere e pensiero, essere e sue manifestazioni: vi sono infatti fenomeni in cui l’essere eccede il pensiero ch’essi hanno dell’essere ch’essi stessi sono. L’osservazione di Vera: non si può pretendere che il soldato abbia la stessa visione strategica del generale (p. 40 nota 9) – è più che valida; ma, per attenerci all’esempio, proprio la differenza tra la veduta del generale e la veduta del soldato il Sistema non spiega. Se tutto ciò che vediamo, compreso il nostro stesso vedere, lo vediamo nella visione di Dio – come Vera si compiace di dire citando Malebranche (p. 95 nota 46) –, allora il soldato e il generale hanno esattamente la stessa visione: la visione di Dio12. Cosa concludere? 1) Che il Sistema non dà ragione di sé; e 2) che neppure riesce a dar ragione della Fenomenologia dello spirito. La critica a Vera coinvolge Hegel. Totalmente?

12. È che la Fenomenologia – come vedremo – muove proprio dalla scissione del pensiero dall’essere. Nella Einleitung è detto a chiare lettere che la coscienza non sa come accade la successione delle varie figure della coscienza e del mondo: “per noi”, cioè per chi ha conquistato la posizione del “puro stare a vedere”, quell’accadere necessario accade dietro le spalle della coscienza (hinter seinem Rücken): PhäG, p. 74; it. I, 77-78.

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II 1. Non è mia intenzione inscenare un dramma ‘familiare’, contrapponendo due dramatis personae, progenie entrambe del pensiero di Hegel13. Intendo mostrare il diverso approccio dello Spaventa alla Fenomenologia di Hegel, motivato anzitutto da un diverso rapporto con la storia del pensiero filosofico, e le conseguenze che ne derivano riguardo sia alla filosofia hegeliana nel suo complesso che alla nostra ‘posizione’ nei confronti di questa filosofia. Nel trattare di Hegel Spaventa non ha come riferimento principale Kant, bensì Fichte e Schelling. È una differenza importante, questa, perché ci permette di evidenziare che ‘nel fare storia’ Spaventa, più vicino in questo al dettato hegeliano, procede non per contrapposizioni, ma per continuità. Se la verità è l’habitat naturale del pensiero, allora i filosofi si distinguono per il grado di verità che ciascuno d’essi ha raggiunto. L’ordine di successione delle filosofie è dunque ‘necessario’. Il Sistema si è esteso alla storia. In Spaventa non meno che in Vera il concetto di Sistema è ‘centrale’. Ma con qualche difficoltà in più, ché Spaventa ha da dimostrare perché il Sistema ha bisogno della storia, perché, cioè, non può manifestarsi totalmente uno actu. Ma è una difficoltà che agevola – almeno così sembra all’inizio – la soluzione, in quanto immette il Sistema nella storia. Cito, per esemplificare, lo schema che Spaventa ha delineato nel suo Schizzo di una storia della logica (e… absit injuria rebus): Socrate, che forma i concetti; Platone che li ordina in un mondo ideale; Aristotele che ne scopre la forma (il sillogismo, la prova: la sostanza, l’individuo); Kant che identifica la

13. Sull’aspro giudizio di Spaventa su Vera, cf. G. Vacca, PFS, p. 235.

334 categoria con la funzione del pensare; Fichte che concepisce la mentalità, e scopre il ritmo logico; Schelling che concepisce l’identità come mentalità o ragione. La nostra logica – in quanto identità che prova se stessa, in quanto la ragione conscia di sé – abbraccia tutti questi momenti anteriori. (Op, II, p. 650).

Mi limito per ora a porre due domande che riguardano Fichte e Schelling, ed una terza, che riguarda “la nostra logica” – senza però tralasciare di sottolineare l’importante cenno a Kant: la categoria come funzione logica, ben altra valutazione che quella di Vera. Mi chiedo dunque: 1) cosa intende Spaventa con “mentalità” riferita a Fichte? E 2) cosa con “identità come mentalità o ragione” riferita a Schelling? Ed infine: 3) nella “nostra logica” (quella di Hegel, fatta propria da Spaventa) la comprensione (l’abbraccio) di tutti i momenti anteriori avviene nel tempo, o è già da sempre avvenuta? Mentalità – è termine polivalente, col quale talora si designa la filosofia qua talis (la “nostra logica”, ovvero: la filosofia hegeliana che tutti i momenti anteriori abbraccia: cf. ib., II, p. 652), talaltra, e cioè quando viene espressamente attribuita a Fichte, ha il significato di “pensiero autocosciente”; l’identità (attribuita a Schelling) definisce invece l’esser-uno di “natura e spirito” (ib., II, p. 653). In qual senso la “nostra logica” compie la filosofia dell’identità? Nel senso che ciò che Schelling semplicemente presuppone14 – l’anzidetta identità di natura e spirito – Hegel invece pone, e cioè prova, dimostra. Qui Spaventa, pur richiamandosi ad uno schema interpretativo già molto diffuso in ambiente hegeliano, affronta con grande acume un punto cruciale dell’evoluzione del pensiero

14. «Con ispirata fiducia Schelling aveva aggiunto all’idealismo soggettivo l’idealismo oggettivo, ma l’unità del soggetto e dell’oggetto rimaneva per lui solo un presupposto»: K. Rosenkranz, HL, pp. 486-487.

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di Hegel: il momento di crisi del ‘sistema’15. Quella crisi da cui Hegel uscì con la Fenomenologia. Mi soffermo sulle linee essenziali del problema e della sua storia. Già nella Differenz Hegel aveva criticato Fichte in quanto nella sua filosofia il rapporto necessario Soggetto-Oggetto è ancora tutto squilibrato sulla posizione del Soggetto. È l’Io che pone il Non-Io. Pur necessario all’Io, il Non-Io dipende totalmente dall’Io. E se l’Io è il pensiero e il Non-Io è l’essere, in che modo la libertà dell’Io può garantire l’essere dell’essere? Certo del suo essere, ossia: dell’essere del pensiero, l’Io non abbisogna d’altra prova che quella di pensare: pensando il pensiero prova se stesso, la sua realtà effettiva, la sua Wirklichkeit. Prova se stesso ma non il mondo, non l’essere che è oltre l’essere dell’Io, l’essere del Non-Io. L’autó di noeîn ed eînai marca una differenza che non può essere superata dal solo noeîn. È possibile costruire il Sistema di pensiero più coerente, logicamente inattaccabile, ma questo non prova che il suo ‘oggetto’ sia reale, wirklich. È necessario che il pensiero provi la sua realtà, provi cioè la sua identità col reale (il mondo, la natura), non muovendo da sé, ma dal reale stesso: questo il problema di Hegel che Spaventa vede con estrema chiarezza in tutta la sua complessità. È necessario, cioè, mostrare che il reale è già in sé (an sich) pensiero e che nel pensiero manifesto, esplicito, trova il suo compimento, la sua realizzazione perfetta, il suo esserein sé-e-per sé (sein an-und-für-sich-seiendes). Ma come può essere chiamato il pensiero a tal compito? Può forse il pensiero uscire da sé, per provare realmente la realtà del mondo, la realtà dell’altro da sé?

15. Cf. K. Rosenkranz HL, pp. 482-513. In merito cf. L. Lugarini, HSF, P. II, cap. IV, § 2 sulla “Gestazione della Fenomenologia dello spirito”, pp. 117-118 ss.

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Criticando il soggettivismo del “Soggetto-Oggetto” fichtiano, Hegel s’imbatteva in quello che Kant aveva definito lo scandalo della filosofia: il fatto che non ancora si è dimostrata la realtà delle cose fuori di noi. Che questo sia il problema da cui ha origine la Fenomenologia è molto significativo, perché Hegel scrive quest’opera anni dopo Glauben und Wissen, dove aveva criticato il giudizio kantiano, perché in esso la copula “è” resta un Bewußtloses, un inconscio, perché non provato (W, 2, pp. 307 ss.; it., pp. 141-142). È il residuo non logico del giudizio. Ma cos’è la copula, la “è”, del giudizio? Das Verhältniswörtchen, la paroletta di relazione, come la definì Kant (KrV, B 141), e cioè la paroletta che esprime la relazione originaria – e in questo senso ‘oggettiva’, ossia: essente in sé e per sé (WL, II, pp. 407-408; it., II, pp. 806-807) – dell’io con le cose del mondo, relazione che, secondo Hegel, solo nel sillogismo giunge a coscienza di sé. Il sillogismo, dunque, ha nella filosofia di Hegel – e sin da Glauben un Wissen, ancorché la più compiuta dimostrazione si trovi nella II Sezione, dedicata all’“Oggettività”, della Begriffslehre della Scienza della logica – il medesimo ruolo che in Sein und Zeit ha la Cura, die Sorge: quello di mostrare l’apriorità dell’In-der-Welt-sein, della relazione io-mondo, rispetto ad ogni soggettivismo e ad ogni oggettivismo. Ora l’esigenza della Fenomenologia, e cioè di una “Scienza dell’esperienza della coscienza” è la testimonianza più significativa dell’insoddisfazione di Hegel per una deduzione puramente logica della realtà – persino della realtà del pensiero. Messa in questione la realtà dell’essere fuori del pensiero, diviene problematico anche il sum del cogito, l’essere del pensiero, la Wirklichkeit del pensiero. Il Deus cogitat in me di Malebranche, ma non solo di Malebranche, può essere letto alla rovescia: può togliere al pensiero ogni certezza di sé, dipendendo esso da altro. Riassumo quanto detto con le parole di Spaventa:

337 Senza la fenomenologia la spiegazione – che è tutta la filosofia, il cui fondamento, la spiegazione fondamentale, è la logica – non ha un valore reale; è sempre un’ipotesi, non una realtà. Chi vi assicura, infatti, che questa spiegazione, che è pensare, dialettica del pensare, funzione del pensare, sia anche la realtà della cosa? (Op, II, p. 656; spaziato nel testo)

2. Ma non nello Schizzo di una storia della logica, bensì in quel testo più ampio ed organico, cui è stato dato (dal Gentile, che insieme col Maturi ne allestì l’edizione definitiva, prendendo ampiamente dalle Lezioni napoletane dello Spaventa: cf. Op, III, pp. 3-7) il titolo di Logica e metafisica, troviamo l’esplicazione del modo in cui la Fenomenologia dimostra la ‘realtà’ del pensiero, o per dirla con le parole di Hegel, del modo in cui la coscienza dell’esperienza accoglie in sé compiutamente l’esperienza della coscienza, o all’inverso: del modo in cui l’esperienza della coscienza si realizza pienamente nella coscienza dell’esperienza. L’opera, composta di due parti, tratta nella prima della Fenomenologia, della Logica nella seconda. Non è necessario sottolineare la piena corrispondenza con la ‘successione’, non solo temporale, delle due maggiori opere in Hegel – ma di questo diremo in seguito. Ora dobbiamo esporre i tratti essenziali dell’‘esplicazione’ spaventiana del metodo fenomenologico. Prendiamo come riferimento privilegiato il rapporto tra coscienza sensibile e percezione: privilegiato, perché la coscienza sensibile è la prima e più semplice e più povera manifestazione della coscienza, in essa le categorie della mente sembra che non svolgano ruolo alcuno. Hegel, trattando della coscienza sensibile, mette in atto la stessa operazione d’astrazione attuata da Kant nella prima sezione della Critica della ragion pura, l’Estetica trascendentale. Alla pura coscienza sensibile, infatti – e pensiamo qui alla sensibilità puramente corporea, animale – non altro si dà che l’immediata immediatezza del

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“questo”, del “qui” e dell’“adesso”. “Questo” non è il cibo, né “qui” il luogo determinato della soddisfazione dell’impulso, né l’“adesso” il momento del tempo in cui insorge o è soddisfatto l’impulso. “Questo”, “qui”, e “adesso” sono i nomi – nomi nostri, nomi dell’intelletto, ché i sensi non hanno linguaggio nominale – del puro accadere come della fame, così del sesso, della fuga per un rumore improvviso, o di quant’altro si voglia immaginare. Nella loro determinata determinatezza sono indeterminati. “Questo”, “qui”, e “adesso” si determinano solo nella percezione – ed è significativo che il termine tedesco sia Wahrnehmung, apprensione del vero. Nella percezione che dice ciò che la coscienza sensibile veramente esperisce nel “questo”, “qui”, e “adesso”, il cibo, il sesso, il pericolo, in determinato luogo e in un preciso momento… Nella percezione che dà nome alle cose – quei nomi che dicono l’essere delle cose stesse, così come state esperite sin nella coscienza animale, corporea, inintenzionale. Nella “figura”, o forma d’esperienza che segue – e questo vale per tutta la hodós fenomenologica – la precedente “figura” trova la sua verità: la sua essenza, il suo vero essere. Il presente è la verità del passato. La Fenomenologia nel suo andare innanzi (Vorwärtsgehen) è di fatto una retrocessione (Rückgang) al fondamento e al vero – secondo che dirà Hegel nella Scienza della logica, definendo la dialettica del sapere (WL, I, p. 70; it., I, p. 56; cf. altresì, WL, II, p. 246; it., II, p. 652). Spaventa coglie acutamente questo aspetto, là dove mostra che la ‘critica’ che la percezione fa della coscienza sensibile – critica come riflessione che procede dalla superficie al fondo, dall’essere che primo appare alla sua essenza, o verità – non è ‘soggettiva’, e cioè non cade da fuori sulla coscienza criticata, ma appartiene a questa medesima. Il passo che ora citiamo, pur descrivendo – e con un linguaggio che risente dei limiti della spiegazione scolastica – la sola esperienza della coscien-

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za sensibile, definisce il carattere proprio dell’intero itinerario fenomenologico: Tutta questa critica non è un’attività puramente mia, soggettiva; una mia riflessione estrinseca alla coscienza stessa, che io osservo e critico. Invece è l’esperienza che la coscienza fa di se stessa, la sua propria storia, la storia di questa sua esperienza: la critica è possibile, in quanto essa stessa la coscienza (sensibile, qui) non è altro che questa sua critica di sé medesima. infatti non sono io semplicemente, come osservazione e riflessione, ma è essa stessa, che dice in ciascuna delle sue posizioni già discusse: Questo, e non questo, e quindi questo universale. questo movimento è il suo proprio movimento. Se non lo dicesse lei, non potrei dirlo io, mai; se non lo dicesse lei, la coscienza non arriverebbe mai a dire qualcosa di universale (non arriverebbe a dire, a parlare). (Op, III, pp. 61-62).

Passo fondamentale che dà ragione del passaggio dalla Fenomenologia al Sistema: dal prôton kath’hemâs al prôton tê phýsei. Se è per una carenza dell’intelletto, che divide se stesso dalla sensibilità e dalla ragione, e in generale il ‘soggetto’ dall’‘oggetto’, che va percorso l’itinerario di ‘purificazione’ della Fenomenologia, questa carenza affètta lo stesso Sistema. E ciò che la Fenomenologia mostra è che la ragione, interna all’intelletto, interior intimo suo, purifica l’intelletto non dall’esterno, ma dall’interno. La ragione non vive accanto all’intelletto, ma in questo e come questo: pertanto l’intelletto si purifica per quella forza che ha dentro se stesso, per quel se stesso profondo che si chiama ragione. Perciò non è possibile partire dal Sistema, dal Tutto e dall’ordine del Tutto. Il Sistema va conquistato. Solo poi che s’è resa palese la realtà del conoscere – vale a dire: l’identità di noeîn ed eînai – è dato muovere dal Sistema. Ma i conti non tornano – non tornano con Hegel.

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3. Che il Sistema inizi con la Logica, e la Logica con il concetto di “essere” appare affatto necessario: la Logica deve iniziare dove la Fenomenologia ha terminato, dall’essere, una volta che s’è dimostrato che pensare è essere. La medesimezza dei due – l’autó di noeîn ed eînai – va ora provata a parte objecti, dall’essere; vale a dire va provato in che modo l’“essere, il puro essere senza determinazione alcuna” si elevi all’idea assoluta, ossia si riveli pensiero. Ma cos’è questo ‘puro essere’? Tutto di esso possiamo dire, tranne che sia il termine ultimo della Fenomenologia. Hegel lo dice esplicitamente. Il superamento della divisione Soggetto-Oggetto conseguita nello spirito assoluto che segna la rivelazione del profondo della chiusa della Fenomenologia, e cioè: l’identità raggiunta al termine della Fenomenologia, all’inizio della Logica è accolta (aufgenommen) come un mero vorhanden, un mero esser-qui-innanzi (WL, I, pp. 68-69; it., I, pp. 54-55). È accolta: all’inizio della Logica v’è un atto pratico. Hegel concede: questa risoluzione (Entschluß) potrebbe anche essere considerata un arbitrio, eine Willkür (ib.), ma la cosa non sta così, come alla fine apparirà chiaramente. Tanto chiaramente, da fargli dire che non c’è poi da far tanto rumore (nicht viel Aufhebens zu machen) nello scoprire che l’inizio non è puro vuoto, immediatezza semplice, ma immediata potenza che ha “in sé”, an sich, tutto lo svolgimento ulteriore (WL, II, p. 554-556; it., II, pp. 940-941). Lo svolgimento consisterà solo nell’esplicare – nel portar fuori – ciò che è implicito nell’inizio. Nessun atto di pensiero è solo tautologico o solo eterologico. Il pensiero è sempre tautoeterologico, analitico e sintetico insieme (ib., II, p. 653, pp. 556-558; it., II, pp. 942-943). Invero come in Aristotele non meno in Hegel il tautón prevale sullo héteron, al quale è assegnata la funzione ancillare di es-plicarlo, manifestarlo. V’è infatti piena corrispondenza tra la archôn arché della filosofia aristotelica – tautà aeí,

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eíper próteron enérgheia dynámeos (Met., XII, 1072a 8-9) – e questo celeberrimo passaggio della Fenomenologia: L’apparenza è un sorgere e un passare che né sorge né passa, ma che è in sé e costituisce l’effettualità e il movimento della vita della verità. Per tal modo il vero è il trionfo bacchico dove non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ogni membro nel mentre si isola altrettanto immediatamente si risolve – il trionfo bacchico è altrettanto la trasparente e semplice quiete. (PhäG, p. 39; it. 37-38).

È la palese ammissione che il giuoco è sin dall’inizio condotto dal prôton tê phýsei. La conclusione cui pervengono Vera come Spaventa è la stessa, perché è la conclusione di Hegel: il primato del Sistema. Basti ricordare che nel 1817 l’Enciclopedia, nella sua prima redazione, iniziava con la Logica, e la Fenomenologia, molto ridotta, era solo un piccola sezione dello Spirito soggettivo. Nella seconda edizione del 1827 la Fenomenologia che era rimasta fuori della Enciclopedia è sostituita da un’Introduzione generale dal titolo: Le tre posizioni del pensiero rispetto all’Oggettività. Ove più la differenza dalla fichtiana Dottrina della scienza? Dopo aver a lungo oscillato tra Fichte e Schelling, il pendolo della filosofia hegeliana si fermò sulla postazione del primo. 4. Vera si attestò sulla posizione dello Hegel sistematico, logico – del quale pur vide le aporie che intese sciogliere; Spaventa tentò altra via, non fuori di Hegel, ma dentro Hegel medesimo, privilegiando la Fenomenologia sulle altre opere, anche se alla Logica dedicò il suo maggior impegno, come testimoniano i diversi corsi ad essa dedicati, ed in particolare quell’espressione che ho avuto modo di sottolineare: “la nostra logica” – così tanto si era compenetrato in Hegel. Ma pur nella ‘fedeltà’ a Hegel, la sua interpretazione in un punto se ne distacca, ed è un punto fondamentale: quello della medesimezza di pensiero

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ed essere, noeîn ed eînai. Così, riflettendo sulle Prime categorie della logica di Hegel, scrive: Cos’è l’Essere? Ciò è facile, e non facile a dire; appunto perché ninte si può dire senza l’Essere, e ogni detto e pensiero lo presuppone. […] E d’altra parte, quando si dice cos’è davvero l’Essere, esso non è già più semplicemente Essere: non è più ciò che era prima che fosse detto. (Op, I, 371).

Muovendo dal pensiero, Spaventa ne scorge il limite – dall’interno. E limite insuperabile. Nel discutere le obiezioni di Trendelenburg a Hegel – obiezioni a cui dà anche troppo spazio, ma è recriminazione, questa, che va estesa a molti commentatori e critici di Hegel –, Spaventa giunge ad affermare: «Ci è un vizio nella posizione hegeliana, e questo è il concetto dell’Indeterminato». Aveva toccato il punto critico. Quello stesso, in fondo che anche Vera aveva sfiorato nell’affrontare il tema dell’apodeíxeos arché. Ma vado subito alla conclusione di Spaventa: «Quanto all’Essere […] non posso dire né cos’è, né perché è. È perché è: ecco tutto». Poi, come dopo una pausa di riflessione, aggiunge: Adunque, perché il No? il Non essere, la negazione? e dopo, e non ostante il Sì, l’essere, l’affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, nella sua massima semplicità logica. Quel che sappiamo è che senza il Pensare non sarebbe il No, il Non essere; e chi nega, quegli che vince l’invincibile e fende l’indivisibile, cioè l’Essere; che distingue e contrappone nell’Essere medesimo in quanto medesimo ciò che è e ciò che non è: la generazione o geminazione dell’Essere; quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare.16

16. Il passo continua così: «Se non fosse altro che l’Essere, non sarebbe il No. E, quando si va a vedere, l’Essere stesso, solo l’Essere, non dice ­Essere,

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Anche superfluo segnalare la derivazione diretta del “gran prevaricatore” dalla hegeliana “ungeheure Macht des Negativen” (PhäG, p. 29; it., I, p. 26). Necessario invece sottolineare che il gran prevaricatore non è primo, ma secondo: theòs deúteros, come il Noûs di Plotino, pur esso “scintilla che scoppia da se stessa”, dacché trova non certo l’essere da lui stesso posto, e posto in quanto distinto, determinato, opposto al non essere, al No, ma l’essere indeterminato, indistinto, l’Essere che già nominare essere è troppo. E tale Indeterminato e Indistinto, oscuro sonno dell’assoluto e ingenito, è il necessario presupposto senza del quale il gran prevaricatore non avrebbe cosa su cui prevaricare. Al termine della riflessione spaventiana su Hegel si riaffaccia il noumenon, quel Grenzbegriff che tutto è, tutto può essere, tranne che il caput mortuum della filosofia, se è esso che stimola alla prevaricazione del pensiero. Ma questa conclusione, se è contro la lettera, non è certo contro lo spirito della filosofia di Hegel, che tutta la vita lottò per tenere a freno quella lichtscheue Macht, da lui evocata in una pagina della Fenomenologia dello spirito – insuperata interpretazione dell’Edipo re di Sofocle –, nella quale il filosofo mostra che è nella coscienza che noeîn e eînai sono divisi (ib., pp. 335-336; it., II, pp. 27-28). Senza mai tralasciare l’esercizio di ‘sillabare Hegel’, Bertrando Spaventa seppe riconoscere – anche contra Hegel17 – la diffenon dice È, non dice punto. L’È – la stessa affermazione – è pensare, è distinguere, è concentrar l’Essere; è semplificarlo, ridurlo a un punto, e perciò geminarlo» (I, 399). Mi sembra chiaro – e persino strano doverlo sottolineare – che l’essere “pensato”, “distinto”, “concentrato”, non è l’Essere che «non dice È, non dice punto». Spaventa prova qui tutta la difficoltà del dire filosofico, quando il pensiero tocca il suo limite. 17. Che all’Edipo re anteponeva l’Antigone, perché «la coscienza etica è più completa, la sua colpa è più pura, quando conosca in precedenza la legge e

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renza intrinseca al medesimo, all’autó, frenando la pretesa del pensiero di ridurre nel suo cerchio di luce pur quel tenebroso lato della coscienza che segna l’interno limite del pensare.

il potere cui si contrappone» (PhäG, p. 336; it., II, p. 29), quando, cioè, il conflitto si svolge nella luce della autocoscienza. Sull’autonomia di pensiero, rivendicata da Spaventa anche nei confronti di Hegel, insiste G. Vacca, in PFS, pp. 235 ss.

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III Ut pictura in tabula. Concreto e astratto nella Logica di Giovanni Gentile

1. Il panorama filosofico-culturale, nel quale Giovanni Gentile si formò, era quello tipico dell’Europa della fine del secolo XIX e dei primi anni del XX, sorto sulle ceneri del “vecchio” positivismo. Tema ricorrente in quasi tutti gli indirizzi filosofici del tempo – darwinismo, pragmatismo, intuizionismo, irrazionalismo, nichilismo… – era quello della concretezza ed individualità della vita e del divenire storico che sfuggono alle astrazioni ed agli schemi generalizzanti delle scienze. Ma, dove le filosofie dell’intuizione e dell’immediatezza vitale miravano ad una conoscenza pre- o post-categoriale capace di immettere direttamente nel mondo vario della storia e della vita, respingendo così parimenti l’astrazione ed il pensiero concettuale, Gentile per contro, pur animato dalla medesima ansia di concretezza e di vita, non si affidava all’esoterismo dell’intuizione immediata ed incomunicabile, arazionale quando non irrazionale, ma cercava ancora nel pensiero – nel pensiero universale, perché di tutti e di ciascuno, e capace di lógon didónai – la via per giungere a cogliere la vita statu nascenti, nel suo movimento originario. In questa prospettiva il riferimento a Hegel, ed in particolare alla Scienza della logica, rappresentava un passaggio obbligato. Hegel infatti aveva elaborato una nuova

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logica, fondata sulla contraddizione e non sulla astratta identità, proprio al fine di cogliere il divenire storico nel suo farsi. Tuttavia, secondo Gentile, Hegel non era stato all’altezza del compito, in quanto aveva fatto del divenire un “oggetto” di analisi, anziché pensarlo come concetto vivente, come lo stesso pensiero pensante. Contemplato dall’esterno, posto dinanzi al pensiero come qualcosa “che è”, puro “oggetto” fissato nella sua autoidentità, il divenire non è più divenire: è un divenuto, il precipitato di un processo non più in atto (RDH, Parte I, spec. pp. 15-22). Alla categoria-“oggetto” di Hegel, al concetto pensato, Gentile oppone la categoria-“soggetto” o categoria-­ funzione di Kant: il concetto pensante che ha il mondo, l’universo intero, ad oggetto. Ma non come “oggetto presupposto”, “materia” pre-esistente, bensì in quanto “oggetto” posto, “materia” creata dalla forma stessa. L’idealismo gentiliano è un formalismo assoluto: il pensiero – conceptus, non conceptum! – pone se stesso e l’altro da sé, e questo uno actu. Da Hegel a Kant, quindi, e da Kant a Fichte, per schematizzare un itinerario di pensiero che ha nella Teoria generale dello spirito come atto puro, la sua prima sistemazione teorica. 2. Il libro si apre con una citazione da Berkeley: esse est ­percipi: di nessun oggetto è possibile affermare l’essere, se non in relazione al pensiero che lo pensa. Ma Berkeley ha concepito il pensiero come cosa accanto ad altre cose, e cioè dall’esterno, laddove il pensiero, per il quale vale l’esse est percipi, non è “cosa”, è bensì l’interiore principio universale che dà vita e senso a tutti gli enti. Il pensiero pensante, che Gentile descrive nella Teoria generale dello spirito, non osserva il mondo dall’alto, da “fuori”, perché è il mondo stesso, colto nella sua originante origine. È pensiero in quanto vita. Vita pensante che crea se stessa, autoctisi, ponendo insieme l’altro da sé. Quale altro – se il pensiero è tutto? Il mondo stesso, il pensie-

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ro, la vita, il volere – ma in quanto divenuti “oggetto”, in quanto posti innanzi al pensiero come puri pensati. La multiforme dialettica hegeliana, che non attraversa mai una sfera dell’essere e della coscienza – sia essa la natura o la storia, il mondo dell’arte o della religione, o quello del pensiero puro – senza assimilarsi all’oggetto che volta a volta indaga e realizza, è in Gentile ripresa nel suo vertice sommo: nell’actus purus, nella enérgheia teleía, del pensiero che pensa sé stesso, noéseos nóesis. È un’enorme semplificazione concettuale, che certo impoverisce la dialettica dell’universo hegeliano, ma anche la essenzializza. Fermiamoci ora sulle categorie fondamentali di questo pensiero. Anzitutto quella di “individuo”. Che questa categoria giuochi un ruolo centrale è abbastanza ovvio, basti ricordare qual è il problema intorno a cui ruota il dibattito filosofico tra la fine dell’800 e l’inizio del 900: quello della vita e della storia. Gentile vi dedica vari capitoli della Teoria, affrontando il tema dalle sue radici storiche: a partire da Platone e Aristotele, per poi passare alla disputa medievale sugli universali. L’esito di questa analisi è che fin quando universale ed individuale vengono presi come “oggetti” del pensiero, ogni tentativo di determinarli risulta vano. Un universale “oggetto” è una contradictio in adjecto, dal momento che fuor d’esso resta proprio il pensiero che lo pensa. D’altra parte il singolo non potrà mai esser colto in quanto “oggetto”, dissolvendosi esso in una rete infinita di relazioni che non consentono al pensiero di uscire mai dall’astratto e generale. Vero è che il pensiero filosofico solo con Descartes toccherà la terra stabile e sicura su cui potersi fondare. Nel cogito, infatti, la totalità delle relazioni costitutive dell’individualità dell’individuo si raccoglie in un punto che è insieme il centro dal quale quelle si irradiano. Il cogito, trascendentalmente pensato, realizza così la sintesi concreta della individualità reale e della vera universalità, ché in esso è presente e viva l’intera ricchezza del mondo, ma colta,

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per così dire, alla fonte, là donde tutto nasce e tutto si dispiega. E qui Gentile si rifà a Vico: l’individualità del cogito, del pensiero pensante non è l’individualità statica di una sostanza, è l’individualità universale di un processo, di un fieri. Verum ipsum factum – aveva detto Vico; Gentile precisa: quatenus fit. Non sostanza, ma processo: Vico contra Descartes, contro, cioè, l’interpretazione sostanzialistica del cogito, e più in generale dell’attività spirituale. Epperò Vico contra Leibniz. Già, perché non si tratta di criticare solo la riduzione dell’attività pensante a res, ma anche la sua moltiplicazione in infiniti centri, in infinite monadi, l’una esterna all’altra. Per quanto ciascuna monade rifletta in sé l’universo intero delle altre monadi tutte, queste restano pur sempre l’una esterna all’altra, ciascuna “oggetto” e “limite” delle altre, e pertanto nessuna veramente libera. Se il pensiero è qualcosa – dice Gentile – deve essere libero, e se è libero non può essere condizionato da nulla. Pertanto il pensiero o è tutto, o semplicemente non è. La critica a Leibniz, è chiaro, colpisce parimenti la “filosofia dei distinti” di Croce, che si difese attaccando. L’attualismo – sostenne – negando ogni distinzione nell’unità del pensiero conclude di necessità nel misticismo e nell’irrazionalismo. La controreplica gentiliana – la filosofia dell’atto non respinge alcuna distinzione, al contrario le accetta tutte, ma come empiriche e non trascendentali – è ineccepibile, ma solo all’apparenza. Perché il problema non si risolve affermando semplicemente l’unità dell’uno e dei molti. Non l’unità è in questione, ma il modo di concepirla. E in Gentile due ed opposte concezioni si alternano. Per un verso l’unità è data dal pensiero pensante inteso come la verità che si fa, che si svolge nel tempo, come la filosofia che coincide di tutto punto con la storia della filosofia; per l’altro l’unità dell’uno e del molteplice è concepita come l’eterna attualità del pensiero pensante in cui tutti i pensieri di tutte le età si raccolgono, come la philo-

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sophia perennis che è “storia ideal eterna” in quanto ha in sé l’intera storia che si svolge nel tempo. Pensiero pensante e pensiero pensato entrano in conflitto. Ché il pensiero pensante, se si pensa come storia, come la storia che “corre in tempo”, da infinito decade a finito, si temporalizza, e partecipando delle vicende della storia e del mondo è, come tutte le cose, come tutti gli enti, distinto e distinguibile, definito e definibile – ma così cancella ogni e qualsiasi differenza tra sé ed il pensiero pensato; se invece si pone come l’eterno presente che ha in sé come il tempo e lo spazio così la storia, ma non è né storia, né tempo, né spazio, allora da nessuna distinzione potrà essere affètto, né definito, appartenendo tutte le distinzioni al pensiero pensato, all’“oggetto”, al “fatto” – epperò in quanto pensiero pensante, in quanto “atto in atto”, risulterà impensabile ed ineffabile. La Teoria generale dello spirito era in aporia. Nella presentazione della seconda edizione del libro, Gentile, annunciando l’apparizione del primo volume della sua Sistema di logica, scrive: «Chi legge […] questa Teoria e non ne rimane del tutto soddisfatto, sa già che non se ne appaga né anche l’autore, e che bisognerà leggere il seguito» (p. VI). Prima di leggere il ‘seguito’ è necessario tornare sulla critica di Gentile a Hegel, e proprio al fine di capire il “seguito”. 3. Da quanto s’è detto poco sopra sulla Riforma della dialettica hegeliana appare in tutta evidenza la fondamentale estraneità di Gentile al pensiero di Hegel, ma va subito aggiunto che proprio questa ‘estraneità’ – qui la rilevanza filosofica dell’interpretazione di Gentile – fa emergere il problema che inquieta la filosofia fin dalla sua origine. Quale problema? Quello della relazione tra gli enti, della symploké, senza la quale, come avvertiva Platone (cf. Sofista., 259e 4-6), non si dà lógos, ma che, tuttavia, è quanto il lógos sembra incapace

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di ‘cogliere’, come Platone stesso ha per primo “mostrato”. Ma procediamo con ordine, perché diversi sono i nodi da sciogliere e non tutti di eguale valore. Anzitutto appare affatto incongrua l’obiezione gentiliana, secondo cui Hegel avrebbe “analizzato” e non “realizzato” il divenire (RDH, p. 22). Obiezione valida solo all’interno della posizione del critico, che distingue e oppone pensante e pensato, ovvero soggetto a oggetto, ma che alla luce della Fenomenologia dello spirito, il cui compito era di portare l’“esperienza della coscienza” – in termini gentiliani: il pensiero pensante – a “coscienza dell’esperienza”, ovvero a concetto, ad oggetto pensato, senza che in questo si perdesse il movimento del pensare (il pensiero pensante). Lo spirito assoluto, con cui termina l’opera hegeliana è appunto questa identità, conquistata attraverso un lungo cammino, ove il “pensante”, il soggetto, è operante sin dall’inizio, ma in latenza, per rivelarsi alla fine come l’“assoluto” che, in quanto concetto che conosce se stesso come concetto, ha “tolto” l’opposizione soggetto/oggetto nella Verità di entrambi1. Con ciò non si vuol dire affatto che Hegel sia riuscito nell’intento: il problema di ‘pareggiare’ esperienza della coscienza e coscienza dell’esperienza (nella terminologia di Gentile: pensante e pensato, concreto e astratto) ha tormentato Hegel dalla Fenomenologia (cf. Vorrede, pp. 48-55; it., pp. 48-56) alla Scienza della logica (cf. II, spec. pp. 562-566; it., pp. 947-950), sino all’ultima edizione dell’Enciclopedia (cf. III, §§ 574-577). Ma la ‘diffi-

1. Cf. G. W. F. Hegel, PhäG, VIII, “Das absolute Wissen”, pp. 548-564. Peraltro l’esigenza di ‘togliere’ (aufheben) l’opposizione soggetto/oggetto è già presente in DFS, il primo scritto pubblicato Hegel nel 1801, ove già allora il “Soggetto-Oggetto” fichtiano veniva criticato come ancora “soggettivo”: cf. retro, P. I, cap. II, ed altresì V. Vitiello, “Logica e mondo in Hegel. La quarta forma del sillogismo”, ETN, P. I, cap. I.

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coltà’ dell’impresa, e le aporie in cui lo stesso Hegel cadde, non consentono di mettere da parte il problema. Torniamo dunque alla Riforma e a quell’affermazione già citata e criticata: Hegel ha analizzato, non realizzato il divenire. Critica prossima all’obiezione di Trendelenburg alla dialettica hegeliana, secondo la quale l’identità di essere e non-essere, affermata nell’“analisi” delle prime categorie della Logica, negava all’origine la possibilità stessa della dialettica. Mancando la “contraddizione” tra i due primi termini, Hegel, per dare origine al movimento dialettico che doveva portare al divenire, aveva fatto ricorso ad un concetto, che appartiene non al pensiero puro, come Hegel pretendeva, ma alla sfera dell’estetica, alla sensibilità: il movimento, appunto. Trendeleburg aveva scoperto il ‘trucco’ della dialettica hegeliana. Non ritengo necessario in questa sede ripetere quanto ho detto altrove ampiamente, discutendo anche delle repliche di Karl Werder e Kuno Fischer alle critiche di Trendelenburg e la controreplica di quest’ultimo. Mi limito a ricordare l’obiezione principale che muovevo a Trendelenburg, e che colpivano insieme i suoi due oppositori2. Se si legge con maggiore attenzione il testo hegeliano – dicevo – ci si accorge che non c’è in Hegel ‘passaggio’ da essere e nulla al divenire. Essere e nulla non sono ‘opposti’ prima del divenire, ma nel divenire e solo nel divenire. E infatti Hegel dice che l’essere non passa nel nulla, né il nulla nell’essere, ma entrambi sono “passati” (übergangen) l’uno nell’altro e l’altro nell’uno. “Prima” del divenire, essere e nulla sono separati solo nella Meinung, nell’intenzione. Sono, cioè, separati solo per l’intelletto astratto, Verstand. Nella ragione e per la ragione essere e non-essere sono sempre distinti-uniti nel divenire. Esemplificavo, poi, citando

2. Cf. retro, P. I, Sez. III, capp. I e II. Sul tema v. in particolare R. Morani, DR.

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la koinonía tôn ghenôn del Sofista: come l’identico è identico in quanto diverso dal diverso, e questo, il diverso, è diverso perché identico a sé, così l’essere e il nulla della prima triade della Logica sono essere e nulla solo nella relazione del divenire. Che è quanto Hegel esprime dicendo che il Terzo – il divenire – è il vero Primo: il concetto a partire dal quale essere e non-essere sono pensabili nella loro verità e realtà, ossia: nella relazione che li costituisce. Concludevo richiamandomi ai paragrafi 80-82 dell’Enciclopedia, nei quali Hegel spiegava la relazione intelletto-ragione, Verstand-Vernunft, ove non a caso il Verstand è posto ‘prima’ della Vernunft, volendo indicare non una successione temporale, ma logica, o meglio ancora: “topologica”: il “prima” dice cioè che l’intelletto è momento della ragione. Estendevo queste critiche a Gentile, confortato dal fatto che il rapporto Intelletto/Ragione era da Gentile letteralmente capovolto nel rapporto pensiero pensante/pensiero pensato, ovvero: concreto/astratto. La vita anziché contenere in sé l’astrazione, era essa a porre l’astratto. Anzi: se stessa come ‘astratto’. L’astrazione che Gentile voleva espungere dalla vita, come il ‘negativo’ da negare, aveva proprio nella vita – nella vita della ragione – la sua radice. Come spiegare questa aporia? l’aporia della vita che nega se stessa nel porsi, e per porsi? E ciò in una filosofia che vuole celebrare la ‘positiva’ identità di pensiero e vita. Non stiamo qui davanti alla contraddizione sopra rilevata tra due opposte posizioni: l’atto come coscienza dal raggio infinito che ha in sé l’intero cammino della storia, il futuro non meno del passato, e l’atto che è nella storia tra passato e futuro. No, qui stiamo davanti ad un’aporia ben più grave: il pensiero in quanto positivo porre se stesso, pone sé come negazione di sé. E non vale dire che si pone come negazione di sé, per porsi in ulteriore posizione, perché anche questa, come tutte le successi-

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ve posizioni sono negative. E non si dica neppure che tutte queste posizioni sono nella loro successione negativa il vero ed unico positivo. Perché proprio il positivo manca. È un incessante cadere, e neppure sempre più in basso, che sarebbe comunque un diverso porsi nella negativa autoposizione; no, è sempre e solo la stessa negatività che si ripete. Il concreto mai si coglie come vita pensante, ma sempre solo nel e come “oggetto pensato”. Resta da ultimo una sola domanda: come la distinzione pensante/pensato, concreto/astratto, soggetto/ oggetto? L’enormità dell’aporia impone all’interprete di ritornare sui propri passi. Forse la critica di Gentile a Hegel non è assimilabile a quella del Tendelenburg. Gentile – l’abbiamo ricordato – nella Riforma paragona il divenire di Hegel ad un fuoco dipinto, che né riscalda né si muove. Ma cosa è più immobile del “pensato”? Cosa del pensiero pensante resta come vita e divenire nella pictura del pensiero pensato? Non è ammissibile che Gentile non sia reso conto di questa interna aporia del suo pensiero. La sua insoddisfazione per i risultati conseguiti nella Teoria prova il contrario. Ma perché tornare sull’interpretazione di Hegel e non passare direttamente al Sistema di logica, a cui Gentile fa esplicito riferimento, quando dichiara la sua insoddisfazione per la Teoria? Alla luce di quanto detto sulla Riforma della dialettica hegeliana c’è poco da sperare che si possano trovare proprio in essa lumi per intendere meglio il Sistema. Ma forse quella luce era troppo fioca. Perché se si è giudicata ‘estranea’ allo spirito dell’hegelismo la posizione gentiliana, non è poi meno estranea allo Standpunkt della filosofia dell’atto la critica mossa all’interpretazione gentiliana di Hegel. La Riforma non va valutata solo per la sua congruenza alla filosofia che intendeva riformare; va considerata anche come opera a sé. Che la critica di Gentile sia ‘esterna’ all’autore criticato non è dubbio, ma qual era il ‘fine’ di quella critica? Di che era in cerca Gentile?

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4. Di un pensiero capace di dare ragione di sé come vita, ove la ragione di sé è la vita stessa. E la logica di Hegel non risponde a tal fine, in quanto muove dalla separazione della logica dalla vita. E non vale obiettare che in Hegel v’è una logica “naturale o inconscia” che intesse «tutte le rappresentazioni, tutti gli scopi, tutti gli interessi e tutte le azioni» (WL, I, p. 26; it., I, p. 15), della quale la teoria logica, ovvero: la logica cosciente di sé, è ragionata es-plicazione. Non vale, perché proprio questa scissione tra logica inconscia e teoria logica è, dal punto di vista di Gentile, la negazione dell’unità-identità di pensiero e vita, vita e pensiero. La logica inconscia è un “presupposto”, come la natura, il mondo, Dio stesso, che il pensiero pensante deve respingere, perché limita la sua libertà. La vita o è il pensiero stesso, o non è vita, vita vivente, così come il pensiero o è la vita stessa, o non è pensiero, pensiero pensante, pensiero “in atto”, en érgo3. Solo questa assoluta identità di vita e pensiero permette di superare l’irrazionalismo che si cela in ogni intuizionismo, vitalismo, prammatismo, esistenzialismo, in ogni filosofia che presupponga qualcosa al pensiero. Fosse pure il pensiero stesso, come in Hegel la logica naturale e inconscia. Il pensiero-vita di Gentile – questo è un punto al quale bisogna dedicare massima attenzione – non è dunque mera “coscienza di sé”: è ragione di sé. Qui l’estrema distanza da Hegel, che spiega l’affermazione che si è sopra citata e criticata, secondo cui Hegel “analizza” e “non realizza il divenire”. Alla quale ora non si può obiettare, come sopra s’è fatto, che Gentile non comprende che proprio analizzando il divenire Hegel lo realizza. Perché in Hegel tra l’analisi e la realizzazione del divenire v’è un salto. L’analisi ci dice che essere e non-essere sono identici, la realizzazione che né l’essere “passa” nel nulla, né il nulla nell’essere, ma che entrambi “sono passati” l’uno

3. Sul tema cf. B. de Giovanni, “GG”.

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nell’altro. Sono passati – solo questo dice Hegel. Un’affermazione, una narrazione. L’esposizione di un fatto, di un semplice fatto: manca la “ragione”, il lógon didónai. E qui dobbiamo uscire da Gentile e pur da Hegel, perché il problema è ben più antico di entrambi – come pur si è accennato – e solo se l’affrontiamo come s’è originariamente presentato possiamo intenderlo in tutta la sua abissale problematicità. Torniamo alla koinonía tôn ghenôn ed all’esempio sopra fatto dei due generi sommi, identico e diverso. S’è detto che l’identico “è” tale, perché diverso dal diverso, così come il diverso “è” tale, perché identico a sé. Abbiamo messo la è tra virgolette, per sottolineare che l’identico non diviene identico per la relazione al diverso, né il diverso diviene diverso per la relazione all’identico, ma, perché è identico, l’identico è diverso dal diverso, e perché è diverso, il diverso è identico a sé. L’identità dell’identico è il “per sé” (kath’hautó) dell’identico, ciò per cui l’identico è in relazione al diverso, e lo stesso va detto per il diverso. E cioè: la relazione tra essenti non implica affatto il “divenire”. Il divenire è un tipo di relazione ‘differente’ da quella che lega identico e diverso. La koinonía tôn ghenôn è una comunanza di eterni, in cui ciascuno rapportandosi agli altri resta quello che “è”. La relazione non lo muta; anzi lo fissa – non ora, ma da sempre – nel suo essere. Pertanto non basta affermare la relazionalità di essere e non-essere (prescindo qui totalmente dalla vexata quaestio del nulla) per dire che l’uno non passa ma è passato nell’altro e l’altro nell’uno. Il divenire è certo relazione, ma non ogni relazione è divenire. Pertanto la spiegazione hegeliana del Werden non dà ragione di ciò che ‘racconta’. Ma non possiamo fermarci a questo rilievo. Dobbiamo anche dire perché non dà ragione di quanto semplicemente narra. Perché il divenire è quella ‘relazione’ di cui non si può dare ragione. È di questo che ora si deve ragionare.

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5. La ‘ragione’ di questa impossibilità di ‘dare ragione’ è esposta in forma di dialogo nel Parmenide platonico. Il vecchio sophós, non senza sottile e profonda ironia mutato da Platone in philó-sophos, ha già esaminato, le prime due ipotesi, quella dell’“Uno (che è) Uno”, dell’Uno senza rapporto alcuno al molteplice, e l’altra dell’“Uno che è”, dell’Uno in rapporto al molteplice, giungendo alla conclusione che del primo Uno nulla si può dire, né pensare, né sentire, mentre del secondo si può dire-pensare tutto ed il contrario di tutto (ib., 137c 4 – 155e 3). È il momento di affrontare la terza ipotesi (tò tríton: ib., 155e 4), strettamente legata alla seconda, ma non riducibile a sua appendice, perché se il tema – la relazione Uno-molti – è lo stesso, diversa è però la prospettiva da cui è condotta l’analisi. Non ai termini della relazione Parmenide volge ora la sua “ricerca”, ma alla relazione stessa, ed ai suoi termini solo in quanto in essa compresi. Prendendo ad esempio due “idee” opposte, Quiete e Movimento, tra loro legate da un rapporto più complesso che non quello tra identico e diverso, Parmenide chiede se il passaggio della quiete in movimento e del movimento in quiete sia un mutamento di stato. Il suo giovanissimo interlocutore non può che rispondere assentendo. Ma qui il chalepón: se il passaggio della quiete a movimento è un mutamento di stato, allora la quiete muta di stato prima di mutare di stato! Come dire: la quiete si muove “prima” di muoversi! Quanto al passaggio inverso dal movimento alla quiete, essendo il movimento di per sé un continuo mutamento di stato, nel passare alla quiete il movimento “resta” movimento. In breve, il termine medio tra i due estremi della relazione, e cioè la relazione tra i due estremi non si riesce a cogliere, perché in entrambi i “passaggi” non c’è: la quiete non passa in movimento ma è già passata; il movimento passa in quiete restando movimento. Il chalepón, però, non riguarda solo la relazione del divenire, il passaggio dalla quiete al movimento e dal movimento

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alla quiete; riguarda anche la relazione tra identità e diversità. Almeno così pare. Infatti l’identico è tale, perché diverso dal diverso, e il diverso è diverso perché identico a sé, pertanto nel primo caso il termine medio che costituisce la relazione è il “diverso”, nel secondo l’“identico”. Giusto: sempre nella relazione identico/diverso è uno dei termini che funge da medio: il diverso, quando si tratta dell’identità dell’identico, l’identico quando si tratta della diversità del diverso. Non per questo, però, la relazione viene meno. Come invece accade col divenire. Nella relazione identico/diverso non ha nessun ruolo il tempo, il “prima” e il “dopo” del tempo, e pertanto la diversità dal diverso dell’identico, e l’identità con sé del diverso, non sottraggono all’identico l’identità e al diverso la diversità; per contro nella relazione che è propria del divenire l’esser la quiete già movimento nel passare a movimento, e il persistere del movimento in sé nel passare in quiete, tolgono proprio il ‘medio’ – la differenza tra il “prima” e il “dopo” – che costituisce il divenire, e cioè: il passaggio, il mutamento di stato. Pareggiare la relazione Quiete/Movimento alla relazione Identità/Diversità significa affermare che da sempre la Quiete è Movimento e il Movimento Quiete. Terribile appare ora l’affermazione di Hegel che l’esser non passa nel nulla, il nulla non passa nell’essere, ma entrambi sono passati l’uno nell’altro, l’altro nell’uno. Passati già da sempre: “tautà aeí”, per ripetere Aristotele (Met, XII, 6, 1072a 8). Le stesse cose – sempre. Ma Platone non dice affatto questo. Non nega affatto il divenire, il “mutamento di stato”. Afferma, invece, l’incapacità del pensiero di darne ragione. In qual tempo la quiete passa in movimento e il movimento in quiete? In qual tempo accade il “mutamento di stato”? En chróno oudení. In nessun tempo accade. Accade nell’exaíphnes, nel non-tempo dell’istante, del repentino, dell’improvviso, nell’atopico frammezzo (átopon

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metaxý), di un inafferrabile ‘medio’4, che nomini solo togliendogli il nome, che dici solo disdicendo il detto. Pura contraddizione. Assurdo pretendere di “leggere” nell’affermazione di Gentile “Hegel analizza e non realizza il divenire” quanto ora si è detto. Non assurdo, ma poco “comprensiva” è però quell’ermeneutica che, fermandosi al testo, non s’interroga sull’orizzonte problematico al quale il “testo” appartiene. Ed è quanto s’è cercato di fare risalendo da Gentile a Hegel, e quindi all’origine del pensiero filosofico, a Platone. Chiaro che in questa ‘estensione’ dell’orizzonte storico-problematico in questione è insieme con Gentile la “crisi della ragione” che si è espressa in forme e modi diversi già alla fine del XIX secolo e poi nel XX, a cui s’è fatto cenno nel presentare il clima culturale e filosofico in cui si è formato Gentile. Crisi della ragione, nella quale Gentile s’immerse totalmente, con rigore estremo, per poter contrastarla dall’interno. Era convinto che non è sufficiente al filosofo mettersi a camminare per dimostrare il movimento (SL, p. 102). Era necessaria la Logica. 6. Il Sistema di logica come teoria del conoscere non mancò di disorientare gli “allievi” di Gentile. Ma come, dopo tanto parlare dei limiti della ragione sistematica – del pensiero pensato, del concetto logico che si astrae dalla vita – si torna alla logica come teoria? e come teoria del conoscere, di ciò che non è “oggetto”, ma “soggetto” della teoria, della conoscenza? Non si chiude in tal modo nella gabbia del pensato la libertà del pensante?

4. Parmenide, 156c 7 – 157b 5e 6. «Kaì tò hèn […] hóte metabállei, en ­oudenì chróno àn eíe, oudè kinoît’ hàn tóte, oud’àn staíe» (156e 3-7).

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Questi ‘allievi’ di Gentile – ch’erano poi le intelligenze più vivaci dell’attualismo5 – non temettero di porsi contro il Maestro. Gentile si sentì solo. E lo era. Il suo problema non era stato compreso da quegli stessi che gli erano stati più vicino. Il suo problema: la necessità dell’astratto, del concetto, della teoria – del pensiero pensato –, privato del quale il pensiero pensante viene meno, neppure è pensiero, ma solo cieca immediatezza. Gentile qui lotta contro la conclusione scettica e nichilistica del Parmenide, conseguenza “necessaria” dell’átopon metaxý della terza ipotesi (cf. 166c 2-5). Il suo primo compito è allora quello di mostrare la non estraneità del pensato al pensante, dell’astratto al concreto, ma ciò non a partire dal concreto, dal pensante, ma dall’astratto, dal pensato. La necessità del loro rapporto si mostra se si riesce a provare che nella logica del pensato opera il pensante, che nell’astratto è già il concreto. L’argomentazione di Gentile si muove coerentemente entro la logica dell’astratto, del contenuto, dell’“oggetto” del conoscere. Le scienze particolari sono tali perché ciascuna ha il suo campo d’indagine determinato. È quella che è, non essendo le altre. Il “non”, l’esclusione dal proprio campo, è insieme la relazione che ciascuna ha con le altre. Il sapere filosofico, che non ha un campo predeterminato, non soltanto deve porsi in rapporto con le altre, per definire il proprio, essendo così una ‘scienza’ tra molte; deve al contempo sapere di sé che, distinguendo le varie scienze, e da esse distinguendosi, si pone come il Tutto delle singole parti. Se non sapesse di sé come Tutto, non potrebbe esser Tutto, non potrebbe distinguersi dalle altre. Il pensante è nel pensato, opera nel pensato. Chiaro che il “sé” della filosofia – la conoscenza del Tutto che contiene (tiene insieme e dentro di sé) le parti – non è soltanto della filosofia: è di ogni forma di conoscenza – di ogni scienza 5. Mi riferisco in particolare a G. Calogero e U. Spirito. Per entrambi cf. retro, P. I, Sez. II, cap. II.

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– che in tanto può definire il suo campo d’azione, in quanto, come s’è detto, esclude da sé gli altri campi, e così, nel rapportarsi ad essi, è il Tutto. Non diversamente dalla filosofia. Muovendo dal pensato, Gentile ha mostrato la presenza del pensiero pensante in esso. Ma non come il ‘negativo’ che nega la sua stessa opera nel realizzarla. Anzi come il positivo che riconosce se stesso nella sua realizzazione. All’opposizione semplice pensiero pensante/pensiero pensato della Teoria generale dello spirito si sostituisce così la ben più complessa correlazione tra concreto e astratto del Sistema di logica. Astratto non è il pensato, ma il pensato preso separatamente dal pensante; concreto non è il pensante, ma il pensante preso unitamente al pensato. Ma è possibile l’“astratto”? L’immanenza del pensante nel pensato non toglie la loro distinzione? Perché e come l’astratto? Questa la risposta di Gentile: Il pensiero vive abbracciandosi alla colonna adamantina del vero: e ha bisogno di essa come di sostegno affatto indispensabile. Eterno inquieto, non turbina nel suo astratto movimento (che non sarebbe tale, anzi l’opposto), ma fluisce e s’incorpora in una quiete eterna. Eterno insoddisfatto, vagheggia sempre la sua creatura che è perfezione intera e interamente appagante. (SL, II, p. 26).

L’astratto mèta mai raggiunta del concreto. La grande illusione è dunque questa? Il pensiero pensato? 7. La logica dell’astratto è la “ripetizione” (Wiederholung), dal punto di vista della filosofia dell’atto, della logica antica, classica, “aristotelica”6. In questa ripetizione i “tre” principi: di identità, di non contraddizione, del terzo escluso, si configu6. SL, I, P. II, pp. 167-273. Sull’importanza che Gentile attribuiva al suo “concetto della logica classica” cf. la Prefazione alla I ed. del II volume, p. VII.

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rano come ‘momenti’ di un unico principio. “A è A” comporta infatti con la negazione dell’opposto, “A non è non-A”, la loro reciproca esclusione, “A o è A, o è non-A”. Ma la successione logica non è quella che immediatamente appare: dall’identità alla non contraddizione all’esclusione del terzo; è l’inversa: il terzo principio esplica il secondo e il primo. “L’andare innanzi è un retrocedere nel fondamento” (WL, I, p. 70; it., I, p. 56). La citazione hegeliana serve ad indicare che pur nella logica dell’astratto v’è movimento, sviluppo, divenire. La colonna adamantina del vero, l’eterno, trema. E non per l’intervento del pensante che da dentro s’agita e l’agita. No, trema di suo tremore, si muove di suo movimento. E questo appare ancor più nell’analisi della forme logiche. Limitiamoci qui a considerare il Giudizio. Prendiamo la formula più semplice, quella del giudizio d’identità: A è A. La copula afferma l’identità di due, ossia di differenti. Questo significa che prima della relazione predicativa non v’è identità, ovvero: il singolo “A” non è identico a sé, non è “A”. Il singolo “A” è un non-pensato, non un ente, bensì un ni-ente, un non-ente. “A”, l’essere di “A” nasce col giudizio, la prima cellula del pensiero, prima della quale non c’è pensiero, né essente. Ex nihilo cogitatio (SL, P. II, I, cap. IV, § 6, p. 219). Sin nel giudizio dunque s’esprime il movimento dal nulla all’essere. Ma cos’altro è la dialettica del pensiero pensante se non il movimento dal nulla all’essere? Certo il giudizio in quanto forma del pensiero pensato non può essere senza movimento, posto che in esso è immanente il pensiero pensante; ma il movimento che ora abbiamo visto nel giudizio è proprio del giudizio e non del sapere di sé (di sé come coscienza del Tutto in cui sono le parti) che è immanente nel giudizio. È il movimento della parte, non del tutto. E cioè: nel giudizio “A è A” viene considerato solo l’ente “A” nella sua identità con sé (nel suo essere “A = A”), e non il contesto (la totalità) in cui “A” è posto; ed appartiene a questo giudizio

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particolare il movimento, la dialettica, di cui ora si discute. D’altronde, se si nega la dialettica propria del pensato, come si può poi distinguere la logica gentiliana dell’astratto da quella “aristotelica”? Ma se esistono due dialettiche, quella del concreto e l’altra dell’astratto, in che la loro distinzione7? In che l’“Io = Io” si differenzia dall’“A = A”? Ove si rispondesse che l’identità dell’Io (l’“Io = Io”) meglio si esprime con la formula oppositiva: “Io = non-Io”, non si potrebbe non replicare che anche “A = A” può esprimersi con la forma dell’opposizione, “non-A = A”, dal momento che “A” prima di “A = A” non è “A”. Invero, a voler fermarsi alle formule, si deve osservare che il “non-Io” del giudizio: “Io = non-Io”, è sol esso il vero “Io”, che certo non è prima di porsi – ragion per cui la formula “non-A = A”, che esprime l’identità di “A”, s’attaglia non meno bene all’“Io” che all’“A”, e certo è da preferirsi all’altra che dicendo “Io = non-Io” sembra anteporre la realtà dell’Io al movimento dialettico dell’autoposizione (autoctisi). Talora Gentile, per differenziare le due dialettiche, sostiene che la logica dell’astratto giunge sì ad affermare l’identità dei differenti (dei due “A” di “A = A”), ma non a spiegare dove e come sorga la loro differenza; a ciò giunge invece il pensiero pensante, la cui dialettica mostra in atto il sorgere della dualità dall’unità del pensiero8. L’argomento non convince: da quanto abbiamo appreso dalla logica dell’astratto, il giudizio sorge ex nihilo, epperò è esso, il Giudizio, e non altro a porre con l’identità la differenza dei termini. Come dire: nel giudizio, nella dialettica del giudizio, è già tutto il pensiero pensante. Di ciò sembra esser convinto Gentile stesso se alla

7. L’aporia del Sistema non è, come polemicamente affermava Croce, la presenza di due “logiche ma giusto l’opposto: l’impossibilità di distinguerle: cf. retro, P. I, Sez. II, cap. I, § 6. 8. Cf. SL, II, P. III, cap. V, pp. 56-73, ma v. anche capp. VI, “L’autosintesi”, VII, “Le categorie e la categoria”, VIII, “L’autoconcetto”.

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fine l’unica distinzione tra pensante e pensato è data da un prefisso: “auto”, con cui accompagna ogni determinazione del pensiero pensante. Per cui se si nomina “giudizio” la forma logica dell’astratto, “auto-giudizio” sarà il nome di quella del concreto; e se è sintesi il pensiero pensato, auto-sintesi è il pensiero pensante, se noema l’uno, auto-noema l’altro. Cosa concludere? Che tutt’al più la logica del concreto o del pensiero pensante è un grado ulteriore di esplicitazione del contenuto di pensiero già presente nel pensato, al modo stesso in cui il principio di non-contraddizione è un’ulteriore esplicitazione del principio di identità, e quello del terzo escluso del principio di non-contraddizione. Ma la dialettica è la stessa. È la dialettica del divenire che si guarda allo specchio, e dapprima non si riconosce. Poi dice: son Io! Io = Io, come A = A. E non c’è altro Io. 8. L’astratto ha prevalso sul concreto. Nonché mèta sempre vagheggiata, l’eterna quiete, “perfezione intera e interamente appagante”, è il luogo stesso del divenire, che, muovendosi, permane se stesso, e, per continuare a divenire, è. Più rispettoso della logica dell’essere, Aristotele aveva usato l’imperfetto: tò tí ên eînai. Ma presente o imperfetto che si usi, l’essenziale da comprendere è che si tratta in entrambi i casi di un “aoristo”. Un tempo senza tempo, átopon metaxý. Giovanni Gentile, negli anni successivi alla pubblicazione del II volume tornò sui suoi passi. Spinse lo sguardo verso quel nihil dal quale emerge il cogito. E non vide che l’ombra, che il cogito proietta dietro di sé. Non vide che il “non-A”, e il “non-Io” che il pensiero nel Giudizio porta ad A, e ad Io. Non vide altro: sentì “altro”. L’“altro” che nel Giudizio muore. L’ombra che la luce cancella – non produce. Sentì altro: sentì il proprio limite nell’esperienza del pensiero, nell’atto stesso del ­giudizio.

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Ma questa è altra “storia”9. Era d’obbligo accennarvi, ad evitare che il Sistema di Logica come teoria del conoscere – già il titolo è estremamente problematico – venga ancora considerato il “luogo” in cui si conclude, non nel tempo, ovviamente, ma nella storia, il cammino di pensiero di Gentile. La vera “svolta” di questo cammino accade “dopo” il Sistema. Ma questa, ripeto, è altra storia, al più ‘presentita’ nel Sistema10.

9. L’ho “narrata” qualche anno fa in GP, P. I, cap. II, “Dall’Io penso all’Io sento. Giovanni Gentile”, pp. 33-52. Cf. anche retro, P. I, Appendice III. 10. «io non soltanto sono A come identico a non-A – scrive Gentile in SL, II, p. 62 – ma so di essere» – cosa significhi questo “sapere di essere”, che come puro pensiero sarebbe difficile negare al pensiero “A = non-A”, Gentile lo spiega nella pagina successiva: «egli [l’Io] pensando sente di essere». Meriterebbe più di una riflessione questo disinvolto ‘passaggio’ dalla prima alla terza persona, che forse sarebbe più adeguata ad “A = non-A” che non a “Io = non-Io”; aggiungo, infine, che in questo contesto più che “pensando” meriterebbe d’essere evidenziata dal corsivo la parola “sente”. Sul tema cf. GFA di M. Donà, tra i maggiori contributi teoretici sul pensiero di Gentile di questi ultimi anni; va letto insieme al suo più recente saggio, SaV, sul rapporto “mediazione/immediatezza” in Hegel.

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IV I due ‘cominciamenti’ nell’interpretazione spaventiana di Hegel

Womit muß der Anfang der Wissenschaft gemacht werden?1

In limine La fama di Bertrando Spaventa – dovuta principalmente all’interesse di Giovanni Gentile per il suo pensiero e in particolare per i suoi scritti su Hegel, a cui volle legare la propria riforma della dialettica hegeliana2 – non ha varcato i confini nazionali: in Germania – per citare l’esempio più significativo – i suoi studi su Hegel sono, salvo rarissime eccezioni, ignorati3. Eppure il contributo ch’egli ha dato alla comprensione del problematico rapporto tra la Fenomenologia dello spirito e la Scienza della logica è ancora oggi fondamentale, aprendo, tra l’altro, la strada ad una più profonda ’intelligenza’ di Hegel, pensatore più inquieto – ed inquietante – di quanto il suo stesso Sistema non lasci intendere. Purtroppo il maggio-

1. G. F. W. Hegel, WL, I, p. 65; it. I, p. 51. 2. Cf. G. Gentile, RDH, pp. 27-65. Gentile curò, oltre a singoli saggi, l’edizione completa delle Opere di Bertrando Spaventa, premettendovi un ampio studio introduttivo: cf. Op., I, pp. 3-170. 3. In merito, cf. retro, Parte I, cap. II, § 3, nota 10, e Parte I, cap. I, “Sillabare Hegel”.

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re ostacolo alla diffusione oltralpe del pensiero di Spaventa è stato proprio il curatore delle sue Opere, Giovanni Gentile, che trascurando affatto la Fenomenologia, concentrò l’attenzione sulla parte più debole degli studi spaventiani su Hegel – quelli dedicati alla prime categorie della Logica –, peraltro strettamente dipendenti da polemiche hegeliane sorte in terra germanica.

I Tò gàr autò noeîn estín te kaì eînai4

1. Per dare un adeguato orizzonte d’interpretazione del primo argomento della lettura spaventiana del cominciamento – quello dedicato a “essere, nulla, divenire” – è opportuno ricordare anzitutto la critica che il kantiano e aristotelico Adolf Trendelenburg mosse all’esposizione hegeliana del “cominciamento” logico, alla quale Bertrando Spaventa volle replicare. Nelle Ricerche logiche, che pubblicò a Berlino nel 1840, Trendelenburg accusò Hegel di aver introdotto il concetto del divenire nel puro pensiero prendendolo stillschweigend dal mondo sensibile. Nel puro pensare non v’è infatti, come Hegel stesso sostiene, differenza alcuna tra essere e nulla5. Gentile riprese la critica di Trendelenburg che in Hegel manca la ‘deduzione’ del divenire, ma di questo ‘deficit’ dialettico diede altra spiegazione. Essendomi fermato più volte su questo tema, mi limito qui a citare la conclusione della critica di Gentile:

4. Parmenide, TF, fr. 3. 5. Cf. retro, Parte I, Sez. III, cap. I, § 2; cap. 2, § 2.2.

367 Hegel […] ha l’intuizione vaga del divenire, non ne ha il concetto. E non si mette in condizione di possederlo, perché analizza questo concetto, invece di realizzarlo come avrebbe dovuto, per pensarlo dialetticamente e conforme al principio dell’identità di essere e pensiero. (RDH, p. 22).

Che dire davanti a queste critiche? Che, forse, entrambi i critici hanno peccato di… pigrizia. Ché, se non si fossero fermati alle prime due categorie – Sein und Nichts – e si fossero spinti sino all’enunciato della terza, al Werden, avrebbero appreso che essere e nulla non passano l’uno nell’altro e l’altro nell’uno, ma sono passati (übergangen: WL, I, p. 83; it. I, p. 71). Come dire: essere e nulla, divisi, non sono; sono soltanto, in uno, nel divenire, che è infatti non la terza, ma la prima categoria. Il che significa: per Hegel non c’è cominciamento affatto6. Se poi Trendelenburg e Gentile – ma purtroppo non solo loro – si fossero spinti un po’ più innanzi nella ‘lettura’ del I volume della Scienza della logica, avrebbero appreso che la distinzione tra essere e nulla è solo una Meinung (WL, I, p. 95; it., I, pp. 81-82): non un’“opinione”, come pur s’è tradotto, ma un’intenzione: quella propria del Verstand che ‘tende’ a mantenere divisi i termini che pur mette in relazione. E, per essere cattivi sino in fondo, possiamo anche dire che la fatica di leggere il testo hegeliano oltre le prime due categorie, avrebbero potuto anche risparmiarsela, se avessero prestato attenzione al primo periodo dell’enunciato della prima categoria, che qui cito nella lingua del suo Autore: «Sein, reines Sein, – ohne alle weitere Bestimmung. In seiner unbestimmten Unmittelbarkeit ist es nur sich selbst gleich und auch nicht ungleich gegen anderes, hat keine Verschiedenheit innerhalb seiner noch nach außen» (WL, I, p. 82; it., I, p. 71). 6. Qui la radice del dissenso da Schelling reso pubblico da Hegel con notevole asprezza nella Vorrede della PhäG in part. pp. 2-26; it. I, pp. 22-24). La posizione di Hegel su questo punto può essere riassunta in pochissime parole: «Das Sein ist absolut vermittelt» (PhäG, p. 32; it., I, p. 29).

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Non credo di presumere troppo, affermando che Hegel conosceva il Sofista platonico ed era quindi consapevole che non è possibile pensare l’identico se non in rapporto al diverso e viceversa. Quindi, già solo il primo enunciato, nel modo in cui è formulato, mette l’interprete nella condizione di capire che tanto l‘essere quanto il nulla, isolati, sono, alla lettera, impensabili. Eppure l’obiezione del Trendelenburg ebbe inspiegabile seguito. A cominciare da Karl Werder e Kuno Fischer che presero le difese di Hegel, accogliendo la premessa del ragionamento trendelenburghiano, e cioè l’iniziale separazione di Sein e Nichts nella Scienza della logica. Mettendosi da soli nella gabbia argomentativa costruita dall’avversario, non potevano che uscirne malconci. Ma di ciò tra breve, e solo limitatamente a Werder, quando, parlando della ‘prima’ lettura hegeliana di Spaventa, saremo necessitati a dire qualcosa anche di lui. Ma, per non commettere ingiustizia nei confronti di Gentile e pur di Trendeleburg, due precisazioni van fatte. Quanto a Gentile: se la sua critica ‘trendelenburghiana’ a Hegel non regge, la sua distinzione-opposizione tra “pensante” e “pensato” ha valide motivazioni, ma in tutt’altro contesto problematico, quello della “differenza” tra il pensiero come prassi e il pensiero come “contenuto”; o meglio, per restare nel linguaggio di Hegel, tra la coscienza dell’esperienza e l’esperienza della coscienza – differenza che già nell’affermarla la si nega col farne ‘contenuto’ di riflessione, e nel negarla la si pone come atto di riflessione altro dal contenuto riflesso. Motivazioni che peraltro Gentile non seppe far valere nel suo Sistema di logica come teoria del conoscere, dove proprio quello che voleva e doveva distinguere, la logica dell’astratto da quella del concreto, non risulta affatto distinta e distinguibile. Qui il discorso si apre (per immediatamente chiudersi, altrimenti cambierebbe l’argomento di questa mia riflessione) al tema del rapporto tra il sentimento e il pensiero riflesso – tema della

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sua opera filosofica più alta: la Filosofia dell’arte, che segna la vera svolta del suo pensiero; più alta e, aggiungo, “ultima”, ché dopo fu solo stanca ripetizione di cose già dette ‘prima’7. Quanto a Trendelenburg rilevo che egli da esperto studioso di Aristotele sapeva bene che il “movimento” è indeducibile da altro; quel che gli si imputa è che quanto riconosceva allo Stagirita non volle riconoscere a Hegel8. Non sottolineo questo per ribadire una critica, già più volte fatta, ma per entrare nel vivo della discussione con Spaventa, anch’egli inquietato dalle critiche del Trendelenburg, a cui, appoggiandosi al Werder, come s’è detto, rispose, dandogli in qualche punto anche ragione, ingolfandosi in ragionamenti che neppure sono ragionamenti; al più sono ‘narrazioni’, che possono anche apparire, per la loro astratta conseguenzialità, convincenti – come apparvero a Gentile –, ma che in filosofia, se vale in questa il principio aristotelico del lógon didónai, non hanno valore. Espongo, restringendomi al minimo indispensabile, queste narrazioni, per subito passare a quel che dell’interpretazione hegeliana di Spaventa è davvero importante, e originale. 2. «C’è un vizio nella posizione hegeliana, e questo è il concetto dell’Indeterminato: equivalente comune di Essere e Nulla» (Op, I, p. 396) – così Spaventa nel replicare all’obiezione di Trendelenburg. E per ‘togliere’ questo vizio così argomenta: l’indeterminato e indistinto in tanto è pensato come tale in quanto è distinto dal determinato e determinato come indistinto, per quindi concludere trionfalmente: «questa è la contraddizione dell’Essere: è il Non Essere». Pura, stringata ripetizione di quanto detto da Werder con maggior fervore: «Nichts ist die Besinnung des Seyns, das Aufgehn seines 7. In merito cf. retro, P. I, Sez. II, cap. I, e P. II, cap. III. 8. Cf. LU, I, p. 25 ss., cit. da B. Spaventa, Op, I, pp. 392-393. Cf. infra, nota 22.

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Sinnes in ihm; sein Blick in sich; der springende Punkt seiner Ursprünglichkeit»9. Fervore che assume un tono come ‘religioso’, quando c’è da spiegare l’ulteriore passaggio da Nichts a Werden: «Das Nichts ist die Erklärung, das Werden die Verklärung des Seyns» (Logik, p. 49). Dall’“esplicazione” alla “trasfigurazione” – un po’ troppo, direi, visto che siamo appena all’inizio della Dottrina dell’essere! Ma a Spaventa, che cita onestamente la sua ‘fonte’, fa giuoco questa lettura delle prime categorie della Logica. La sua attenzione è richiamata in particolare da un termine usato da Werder: “Besinnung”, che subito adotta, perché gli permette di introdurre in un luogo affatto improprio – l’inizio della Dottrina dell’essere – il pensiero10. Prima di fermarci su questo “fuori luogo”, alcune considerazioni si rendono necessarie. La prima, che riguarda Weder anzitutto, e poi Spaventa che lo ripete: cercare prima del Divenire, nel Non-essere, la differenza dall’Essere, comporta tener distinti i due termini, Essere e Non-essere, prima del divenire, e cioè negare il divenire, dando ad esso un cominciamento che non ha, che non può avere. Significa cioè dare ragione a Trendelenburg, che, come s’è già detto poco sopra, da buon lettore di Aristotele sapeva bene che non c’è origine del movimento, dacché porre un inizio al movimento significa

9. Logik, p. 41. Non so spiegare questa ‘interpretazione’, se non con una distorta lettura di un qualche passo hegeliano, staccato dal contesto. Avanzo un’ipotesi, solo un’ipotesi.: «Nulla è ancora, e qualcosa deve divenire. Il cominciamento non è il puro nulla, ma un nulla da cui deve uscire qualcosa. Dunque anche nel cominciamento è già contenuto l’essere. Il cominciamento contiene dunque l’uno e l’altro, l’essere e il nulla; è l’unità dell’essere col nulla; – ossia è un non essere, che è in pari tempo essere, e un non essere che è in pari tempo non essere» (WL, I, p. 73; tr. it., I, p. 59). 10. Ma la traduzione spaventiana di “Besinnung” con “accorgimento” non fu felice; “riflessione” non solo è più corretta, ma anche più conforme alla sua interpretazione.

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presupporre al movimento il movimento (ma questo lo si legge già nel Parmenide di Platone!)11. Quanto poi all’affermazione che “Anfang heißt Fortgang” (ib., p. 47), questa non è una esplicazione di Hegel, è solo la sua ripetizione, guadagnata ‘in ritardo’, dopo aver distinto l’indistinguibile fuori del suo territorio: il divenire. Riguardo poi al rilievo spaventiano del “vizio dell’Indeterminato” presente nella posizione hegeliana, non altro c’è da osservare che questo rilievo appare ben strano, se non strambo, avendo proprio Hegel più volte ribadito ciò che Spaventa ritiene di dover affermare contro di lui, e cioè che l’indeterminato è determinato proprio dalla sua indeterminatezza e, parimenti, in quanto Indistinto è distinto dal distinto. Invero c’era da attendersi da Spaventa giusto l’osservazione contraria – e al termine di questa relazione se ne capirà il motivo –: e cioè che l’obiezione hegeliana, che l’indeterminato, pensato come opposto al determinato, è perciò stesso un determinato, aveva già avuto secoli addietro la risposta. Vero, concedeva Plotino, che l’Indeterminto è ‘determinato’ come indeterminato, ma ciò proprio in quanto è pensato, essendo compito di noûs proprio tèn mían pollà poieîn12. Per il pensiero che moltiplica e distingue, l’Indeterminato è pensato come determinato, e cioè distinto dal determinato; ma non “per sé”, non kath’hautó. Fatte queste precisazioni, torniamo ora su quel “fuori luogo”, meglio: su quell’“intruso”, di cui si diceva poco sopra: il pensiero. Cominciamo col dire che in esso Spaventa scorge la ‘salvezza’ della Logica hegeliana, e dell’intero sistema. Leggiamo:

11. Cf. Aristotele, in part, Phys., Z, 1, sul rapporto “continuo-tempo-movimento”; in merito v. W. Wieland, APh, spec. cap. III, § 17, pp. 278-316; it., pp. 351-399. Quanto al Parmenide, cf. spec. 156a-157b. 12. Cf. Plotino, En, V, III, 14 e VI, 7, 15.

372 Tale è dunque per me il vero significato del Non essere: tale è la riforma che bisogna fare del concetto del Nulla, come si trova nella Logica di Hegel. Se non la si fa, Trendelenburg ha ragione; e, quel che è di più, all’hegelismo come sistema della Spiritualità assoluta – giacché ei non è altro che questo – contradicono le prime categorie della sua Logica stessa: la base a tutto l’edificio. (Op, I, p. 400).

Vediamo ora in che consiste quest’opera soteriologica del pensare. L’inizio – seguo i passaggi essenziali, molto citando per fedeltà al testo – è la ‘deduzione’ della necessaria co-appartenenza di essere e pensiero: L’Essere non è così fatto che il pensare sia qui e l’essere sia lì […] il pensare porta seco […] l’essere; se si muove, si muove l’essere; giacché l’Essere è l’Essere del pensare, e quindi il movimento del pensare è lo stesso movimento dell’essere; se il pensare dice non essere, ciò dice anche l’Essere; è uno e medesimo detto. (Ib., p. 409).

Nonché ‘deduzione’, questa è tautologia. E non sembra avere l’aspetto della dea Verità che non ha bisogno d’altro che di se stessa, se consente questo domandare e questo rispondere, che chiama in causa un “io penso”, molto, molto empirico: Ma il pensare si muove? Sì che si muove; il pensare è lo stesso movimento; la prima radice e il fine ultimo di ogni movimento, appunto perché è l’attività che sola unisce e distingue, e l’una cosa fa, in quanto fa l’altra. Infatti io penso l’Essere, l’Uno, l’Immobile; pensando così l’Essere, fissando così l’Uno, l’Immobile, io sono l’Essere, l’Uno; io mi estinguo in esso, non vado innanzi. Ma questo estinguermi è solo apparenza. Mi estinguo, ma penso l’Essere; estinguermi è pensar l’essere; e dunque estinguermi (nell’Essere), che è distinguermi (dall’Essere), giacché pensando l’Essere, io mi distinguo dall’Essere. La distinzione nasce qui, dunque, dalla estinzione, il mobile dall’immobile, il muoversi dal non muoversi, il negar l’Essere dal fissar l’Essere. È dunque l’Essere stesso

373 che si muove, l’Essere in quanto l’Essere del pensare. (Ib., pp. 409-410).

Non credo abbia a che fare con la dialettica del pensiero questo ‘narrare’ che dice e disdice, per poi tornare a dire quello che aveva disdetto. E, tuttavia, questa continua pistilli versatio termina con un vero coup-de-théâtre: Di certo l’essere, in quanto non pensato – cioè in quanto non più l’Essere – rimane lì, non si muove. Ma in quanto pensato, in quanto l’Essere, si muove, non può non muoversi, non può non dire: Non essere. (Ib, p. 410).

Incredibile: la lunga sequela di enunciati alógoi (se con lógos in filosofia si intende il discorso che argomenta), nei quali Spaventa ‘ripete’ Werder, termina con un’affermazione che riapre tutti i giuochi, non ponendo, ma imponendo la domanda, la vera unica domanda che è all’origine del problema dell’An-fang: c’è qualcosa che “rimane lì, né mosso, né ­mobile”? Il ‘pensiero’ di Bertrando Spaventa interprete di Hegel, inizia qui. A noi, interpreti dell’interprete di Hegel, spetta il compito di ‘capire’ come è giunto a quella domanda. Il pensiero raramente procede seguendo un’unica via. Il tempo del pensiero non è mai rettilineo13.

13. Anticipo in nota, quanto sarà tema delle pagine che seguiranno (§ 6): Spaventa, sempre in questo saggio sulle “prime categorie della Logica di Hegel” aveva in precedenza affermato «quando si va a vedere, l’Essere stesso, solo l’Essere, non dice: Essere, non dice È, non dice punto» (Op, I, p. 399).

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II Die lichtscheue Macht14

3. Con che va fatta incominciare la scienza? Spaventa riprese questa domanda di Hegel nello “Schizzo di una storia della Logica” posta in appendice al corso di lezioni sulla “Filosofia italiana dal secolo XVI al nostro tempo”, tenuto all’Università di Napoli nell’anno accademico 1861-6215. Mi fermerò soltanto sulle pagine dedicate al tema or richiamato, e non solo per brevità di esposizione. Davvero la perla gnostica si cela sotto uno spesso manto di sabbia e cenere. Ma a noi quel che interessa è la ‘perla’. E solo la perla. Dunque: donde l’inizio della scienza e con che? Spaventa è ben consapevole che l’inizio non è l’Essere, che cioè l’inizio della Logica non è l’inizio. Chiaramente – e questo ogni lettore di Hegel lo sa, o almeno dovrebbe – neppure è l’“Io penso”. Spaventa va oltre: l’inizio della scienza non può essere neppure nella scienza. Fare iniziare la scienza con la scienza è dommatismo puro, è rinuncia alla criticità del pensiero. La critica stessa non può iniziare da sé. E non vale a questo livello la tesi della riflessività del pensiero critico. La critica che si piega, riflette, su di sé, sul suo ‘metodo’, la critica che critica se medesima, non esce dalla gabbia d’acciaio che s’è costruita. La domanda hegeliana sull’inizio, mette in crisi la domanda stessa. E questo Spaventa l’ha compreso benissimo. Ha cioè

14. PhäG, p. 335; it., II, p. 28. 15. Op, II, pp. 613-678. Il pregio di questo schizzo, molto schematico, è tutto nella ‘ripresa’ (Wiederholung) del problema del rapporto Fenomenologia-­ Logica.

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compreso benissimo che la risposta di Aristotele a Isocrate16, secondo la quale mettere in questione la filosofia è già filosofare, è già essere nella filosofia, è solo una petitio principi. Perciò l’inizio della scienza non può essere scientifico. Lo dico al modo in cui Hegel lo disse, non a caso criticando Fichte: Ich wird sich nicht objektiv, o, più distesamente: il SoggettoOggetto fichtiano è ancora soggettivo17. Spiega Spaventa: in Fichte l’identità di pensiero ed essere è solo pensata. L’Io, dunque, come autocoscienza, come produttiva autocoscienza, come attività logica, non è veramente assoluto, perché è assoluto solo come forma. (Op, II, p. 634).

Di qui la necessità di un inizio della scienza – e della filosofia qua scientia – che non sia ‘scientifico’, che non sia ‘filosofico’. E qui anche il compito della Fenomenologia: introdurre nella scienza. Con le parole di Hegel: portare l’“esperienza della coscienza” a “coscienza dell’esperienza”; con parole antiche: mostrare l’autó di noeîn ed eînai, senza peraltro pretendere di fare un balzo oltre noeîn, oltre il pensare, il pensare logico. Senza cioè richiamarsi – come farà Schelling – ad alcuna “intuizione intellettuale”, o, come dirà più tardi, “estasi della ragione”. Scrive Spaventa, con felice concisione: «Spiegare il conoscere (e quindi la realtà, tutta la realtà) è dunque, posto Schelling, spiegare la identità come mentalità»; ma Schelling non spiega la sua identità, «la presuppone; la pone immediate, nell’intuizione intellettuale» (ib., II, p. 639). Ma è possibile non presupporre nulla? È la sfida di Hegel, che all’inizio della Fenomenologia ‘ripete’ il cammino di Platone nel Teeteto, cominciando la ricerca del sapere con l’interrogare ciò che per primo si dà a noi: la sensazione (151e ss.). E

16. Aristotele, Protreptico, § 2. 17. «Das Subjektive ist wohl Subjekt = Objekt, aber das Objekte nicht, und als nicht Subjekt gleich Objekt»: DFS, pp. 7-138, p. 63; it., p. 50.

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come l’antico filosofo, così il moderno mostra che nei sensi v’è più di quanto il sensibile non sappia. La hodós della Fenomenologia non si svolge in superficie, ma tende al fondo: sua mèta è die Offenbarung der Tiefe, la manifestazione del profondo. In questo cammino verso il fondo ogni passo innanzi rivela ciò che il precedente effettivamente è, la sua essenza. La verità della Fenomenologia è quindi retroflessa, ogni nuova ‘scoperta’ è rivelazione del passato, per cui il punto d’arrivo è già tutto nel punto di partenza, in quel reines Zusehen (PhäG, Einleitung, p. 72; it., I, p. 75), in quel puro sguardo, nel quale accade l’intero processo. L’arbitrarietà dell’inizio è tolto nel sapere della fine che rechtfertigt, rende giusto, l’inizio. Lo giustifica perché rivela ciò che è: non l’inafferrabile istante che passa, l’adesso (Jetzt) che è già trascorso, scomparso nell’inarrestabile sorgere e tramontare (Entstehen und Vergehen) di tutti i fenomeni, ma l’adesso che passando resta nel quadrante dell’orologio cosmico; non il mezzogiorno che non è più mezzogiorno dopo un istante, ma il mezzogiorno che tale permane nei secoli dei secoli, perché tale progressione possa darsi. Nella fine, in quell’Assoluto del tempo che è in ogni istante, in ogni ripê toû ophtalmoû, in ogni Augenblick, l’esperienza della coscienza si possiede nella coscienza dell’esperienza. Scrive Spaventa: Forse che la certezza sensibile, da cui io ho cominciato, sia davvero il primo, e l’assoluto conoscere a cui sono arrivato, sia davvero l’ultimo, che quella abbia prodotto questo e non il contrario? Così pare; ma in verità non è così. Io devo conchiudere, che l’assoluto conoscere ha prodotto la certezza sensibile, l’ultimo il primo, e che perciò quello che appariva primo è un falso primo. Tutto quel processo, che pare produzione di un altro, di un secondo o ultimo da un primo, è il vero primo come produzione di se stesso. Non è la certezza sensibile, che prova l’assoluto conoscere, ma questo che, provando se stesso, prova quella. (Op, II, p. 665).

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Der bacchantische Taumel del sorgere e tramontare delle cose, il dionisiaco accadere della storia non si placa nella durchsichtige und einfache Ruhe (PhäG, p. 39; it., I, p. 37) del “concetto che si sa come concetto” (PhäG, p. 558; it., II, p. 298) – in quella “quiete semplice e trasparente” è già da sempre placato. Stupefacente risultato: il sapere possiede se stesso, non il suo contenuto, ciò che sa, ma il suo stesso operare, se stesso come operare, quando… quando non opera più, ma solo osserva con sguardo puro. Delicata, la perla gnostica si polverizza tra le nostre mani. Ma è la fragilità della perla, o non piuttosto il tremore delle nostre mani che non trattengono il delicato gioiello? Forse l’Assoluto non trova nel nostro pensiero, nel pensiero umano, il vaso adeguato a ‘contenerlo’. 4. La Fenomenologia ha fatto quanto le era richiesto di fare e poteva fare: ha introdotto il sapere umano nel sapere assoluto. Nel sapere del mondo, dell’essere del mondo – ché questo e non altro significa “assoluto”. Detto da altra prospettiva, quella che dobbiamo ancora guadagnare, possiamo dire: la Fenomenologia ha mostrato l’operare dell’Assoluto nella coscienza, ha cioè mostrato nell’esperienza della coscienza l’operare del mondo. Ma non tutto l’Assoluto, non tutto il Mondo è nell’esperienza della coscienza. L’operare del mondo eccede questa esperienza, eccede l’operare della coscienza. Ma poi che lo sguardo della coscienza si è elevato alla visione del mondo, è necessario seguire il cammino del mondo, nel quale è anche l’esperienza della coscienza che s’eleva a coscienza dell’esperienza. Il passaggio dalla Fenomenologia al Sistema dell’Enciclopedia, che contiene in sé la Fenomenologia come sezione dello Spirito oggettivo, non è affatto la negazione della Fenomenologia come introduzione al sapere assoluto, ab-solutus, sciolto da ogni legame col mondo, perché è il mondo stesso.

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Ne è, al contrario, la continuazione e il completamento. Su questo punto Spaventa non ha incertezza alcuna, la sua argomentazione ha la secchezza di una sequela di definizioni: […] la fenomenologia prova la identità: pensare è essere, essere è pensare. La logica prova il pensare come mondo, come mentalità, sistema del pensare, pura creazione. Dunque, essere, creare, è questo mondo, mentalità, sistema, sistema del pensare. Dunque, il sistema del mondo io l‘ho pensando, pensando il pensare, il sistema del pensare. (Op, II, p. 659).

L’insistenza sul “semplice e puro pensare” sta ad indicare che ora siamo totalmente nell’ambito dell’“oggettività del conoscere” (ib., p. 660), della scienza, ove è legittimo, e quindi doveroso, chiedere e dare ragione, lógon didónai, di tutto e dall’inizio. L’inizio stesso – il primo – va ora provato, perché ora è un inizio non fuori la scienza, ma nella scienza. Ma cosa, ora nella Logica, nella Scienza della logica, va provato, va messo alla prova? Non l’identità di pensiero ed essere, già “mostrata” nella hodós fenomenologica, ma l’operare di questa identità. Chiarisce Spaventa: Ciò vuol dire, che la prova, la mediazione, non è più andare da sé a un altro (effetto o causa), ma da sé a sé: è andare che è riandare. (Ib., p. 664).

Viene spontaneo a questo punto citare la definizione hegeliana del modo di procedere della scienza, il suo andare innanzi, Vorwärtsgehen, che è un retrocedere, Rückgang, nel fondamento, in den Grund, all’originario e al vero, zu dem Ursprünglichen und Wahrhaften (WL, I, p. 70; it., I, p. 56). Spontaneo e necessario, dacché testimonia che Logica segue lo stesso ‘metodo’ della Fenomenologia, l’Erinnerung: non l’andar fuori

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di sé, ma l’entrare in sé, nel proprio fondo18. Ove il “sé” ed il “proprio” non indicano punto l’anima, ma il mondo. Il mondo, nel quale l’uomo è, non è fuori dell’uomo, ancorché non sia soltanto mondo degli uomini. È natura, il mondo, prima che umanità. E la natura ha in sé il mondo umano prim’ancora che come “spazio” (chôra, non tópos) che tutto comprende, come la “vita” (psyché) che lo ‘anima’, lo fa essere19. La Logica di Hegel è certo “pensiero”, ma è «quell’attività di pensiero che c’intesse tutte le rappresentazioni, tutti gli scopi, tutti gli interessi e tutte le azioni [e che] opera […] inconsciamente (è la logica naturale)»20. È ben evidente che l’Erinnerung hegeliana è molto più legata alla distinzione aristotelica tra próton pròs hemâs e próton tê phýsei, che non alla “memoria” delle Confessiones (cf. Libro X, §§ 8.12 ss.). 5. Sempre in “Womit muß der Anfang der Wissenschaft gemacht werden?” Hegel, fermandosi sulla presupposizione della Fenomenologia alla Logica, necessaria perché la Logica, che è la “scienza pura”, possa muoversi liberamente nell’ambito suo proprio, quello del “puro concetto” libero affatto da ogni presupposto, scrive: Acché ora, movendo da questa determinazione del puro sapere, il cominciamento (Anfang) resti immanente alla scienza di esso, non v’è da far altro che considerare, o meglio mettere

18. Sul tema cf. l’utile rassegna storico-critica di V. Verra, “Storia e memoria in Hegel”, in AA. VV., Incidenza di Hegel, a c. di F. Tessitore, Morano, Napoli 1970, pp. 339-365. 19. Sull’unità-identità di psyché e phýsis nel pensiero filosofico greco cf. in particolare Plotino, En, III, 8. 20. WL, Vorrede zur zweiten Ausgabe, p. 26; it. I, p. 15 (corsivo mio). Sulla logica naturale-inconscia di Hegel, in cui la “materia” (sensazione, sentimento, intuizione) è ‘interna” alla ‘forma’, cf., altresì, Enz, III, §§ 447-449 in particolare i Zusätze; tr. it. di A. Bosi, UTET, Torino 2000.

380 da parte (ist nichts zu tun, als das zu betrachten oder vielmehr mit Beiseitsetzung) tutte le riflessioni, tutte le opinioni (Meinungen), che altrimenti si hanno, e soltanto accogliere ciò che ci sta dinanzi (was vorhanden ist). (WL, I, p. 68; it., I, p. 54).

Il testo mette a dura prova il traduttore. Come rendere quel “was vorhanden ist”? “Ciò che ci sta dinanzi” è lo spirito assoluto, il “concetto che si sa come concetto”, l’identità pensiero-essere della conclusione della Fenomenologia. Che ci stia dinanzi, o, adottando altra traduzione, che sia una “semplice presenza”, un neutro “che c’è” – è difficile da accettare. Dire che Hegel è in imbarazzo non mi sembra irriguardoso. Del resto poche righe dopo egli stesso ammette che “prendere immediatamente il cominciamento” – vale a dire prendere lo spirito assoluto, il concetto liberato dall’opposizione all’oggetto, ovvero l’Anundfürsichseiendes (WL, II, p. 408; it., II, pp. 806-807) come “immediato” (altro termine per dire vorhanden) – può anche essere considerato una decisione arbitraria21. Può? No, deve essere considerata arbitraria, posto che non v’è né in cielo né in terra, né in altro luogo immediatezza separata da mediazione (WL, I, p. 66; it., I, p. 52). Ma poi come entra la “decisione”, la volontà nella Scienza della logica? No, non è rücksichtlos dire che Hegel è in imbarazzo. Ciò che lo imbarazza è l’ammissione che la Logica presuppone la Fenomenologia. Ma è un presupposto che non dovrebbe affatto imbarazzarlo: perché è un presupposto ‘posto’ dalla Logica stessa. Posto, gesetzt, significa qui aufgehoben, “tolto”: tolto come presupposto, ed elevato a posizione dello stesso Logico (das Logische), come dimostra tutto l’andamento della Scienza, della Scienza della logica: il Vorwärtsgehen, che è Rückgang

21. «der Entschluß, den man auch für eine Willkür ansehen kann…»: WL, I, p. 68; it., I, p. 55.

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in den Grund, zu dem Ursprünglichen und Wahrhaften. Ma diciamolo con Spaventa, col suo linguaggio assertorio: Adunque […] il primo scientifico non è una contraddizione. La propedeutica [sc.: la Fenomenologia] che prova il primo, è scienza prima rispetto a noi solamente (kath’hemâs próton), e quindi il primo è l’ultimo; ma in sé (katà phýsin) l‘ultimo è primo. (Op, II, p. 668).

Paradossale! Vogliamo sorreggere Hegel con Spaventa, Hegel con l’interprete di Hegel – un po’ troppo, se quel che Spaventa dice è il medesimo che dice Hegel! E qui possiamo aggiungere dell’altro ancora: il fastidio espresso da Hegel, nelle pagine finali della Scienza della logica, sul gran chiasso che si fa riguardo alla vuotezza della prima categoria della Logica, l’essere, e non s’intende che quella ‘vuotezza’ ha in sé tutta la ricchezza del concetto, ancorché in potenza22. Ma è solo per questa potenza che il concetto si svolge, si sviluppa, passa in atto, come la pianta dal seme. Era allora quell’imbarazzo sopra denunciato solo frutto della nostra presuntuosa ermeneutica? 6. No, l’imbarazzo di cui si diceva, l’imbarazzo per la ‘presupposizione’ della Fenomenologia alla Logica – presupposizione che l’Erinnerung toglie (e perciò sopra si è evidenziata la medesimezza del metodo della Logica con quello della Fenomenologia) – tradisce altro e ben più profondo imbarazzo. L’imbarazzo che al pensiero critico non può non sorgere davanti al circolo próton kath’hemâs - próton katà phýsin. Da dove è posta questa circolare distinzione? Dalla prospettiva del kath’hemâs, del “per noi”. E cosa mai può garantire che

22. Nella sua mancanza (la stéresis aristotelica) è l’impulso (Trieb) di procedere oltre (sich weiterzuführen): WL, II, p. 554-555; it., II, pp. 940-941.

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questa iniziale prospettiva non condizioni l’intero processo, e quindi anche il “toglimento” del ‘falso’ primo fenomenologico e, in seconda battuta, del ‘falso’ primo logico? Non è solo un dubbio, né solo un’ipotesi. È una domanda che ha inquietato Hegel e che al suo interprete si è rivelata nel luogo ove meno si poteva immaginare che comparisse. In quella ‘deduzione narrativa’ – pura tautologia – dell’identità di noeîn ed eînai, pensiero ed essere, ove alla fine compare l’essere non pensato, l’Essere non più Essere, che rimane lì, non si muove. Cos’è mai questo Essere non più Essere che resta lì e non si muove? Cos’è mai questa Quiete più semplice di quella in cui ‘precipita’ il Dioniso della vita, e certo per nulla affatto durchsichtig, trasparente? Lasciamo parlare prima l’interprete: Quanto all’Essere […] io non posso dire né che cos’è, né perché è. È perché è: ecco tutto. –Adunque, perché il No? il Non essere, la negazione? e dopo, e non ostante il Sì, l’essere, l’affermazione? Perché non è solo il Sì? Perché tutto non è Essere? Questo è lo stesso problema del mondo, lo stesso enigma della vita, nella sua massima semplicità logica. (Ib., I, p. 399).

Il lettore si chiede: di chi parla ora Spaventa? Di Hegel, o non piuttosto di Plotino? Di entrambi direi, ché la domanda coinvolge i due parimenti. Nessuno dei due, infatti, dà ragione dell’enigma della vita, della separazione che rende molti l’uno, e che è presupposta a se stessa23. Continuiamo a leggere: Quel che sappiamo è, che senza il Pensare non sarebbe il No, il Non essere; e chi nega, quegli che vince l’invincibile e

23. Sul tema rinvio a V. Vitiello, DiS, IV, “Oltre l’apofatismo. Per una diversa coniugazione del pensare”, pp. 83-119.

383 fende l’indivisibile, cioè l’Essere; che distingue e contrappone nell’Essere medesimo in quanto medesimo ciò che è e ciò che non è: la generazione o geminazione dell’Essere; quegli che turba la tranquilla immobilità, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, questa infinita potenza, questo gran prevaricatore è il Pensare. (Ibidem).

Quale cammino! Da Werder a… Hegel. Chiara la figura che il “gran prevaricatore” richiama: die ungeheure Macht des Negativen. Ma questa figura non compare sola, le sta di fronte l’“ingenito essere”, l’essere prima di essere pensato, l’Essere prima dell’Essere, l’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto – con le parole di Hegel: die lichtscheue Macht, la “potenza che ha in orrore la luce”, secondo la bella traduzione di de Negri24.

24. Ricompare qui – in Spaventa, perché già in Hegel – lo “spettro” (altro che “caput mortuum”!) del noumenon kantiano: in merito cf. S. Achella, SlH, pp. 104-105. Riflettendo su questo nodo problematico, che lega Spaventa a Kant, F. Valagussa osserva che questo legame non mina il rapporto con Hegel: «nel riconoscere l’inseparabilità di pensabile e pensare, non si elimina l’Essere come quell’indistinto che nega ogni distinguere e quindi ogni pensare e ogni pensato, questa è l’eterna alterità del Pensare, che il Pensare non è mai in grado di eliminare, perché eliminarla è pensarla. La somma potenza del Pensare, la sua intranscendibilità, coincide qui con la massima debolezza»: IBS, pp. 25. Ma dietro questa debolezza del pensare che non esce da sé – già evidenziata da Plotino: «ek tôn hýsteron perì autoû légomen» (En, V, 3, 14, 7-8) – v’è ben altra ‘debolezza’: l’incapacità del pensiero di pensare sé, il proprio fare, quatenus fit, e quindi di pensare la ‘possibilità’ del suo ‘non-essere’, della sua ‘impossibilità’, nel suo stesso essere, nel mentre si fa. A questa impossibilità allude, da ultimo, Spaventa, certo ancora legato a Hegel (e al miglior Hegel, allo Hegel contra Hegel), con la domanda sull’oscuro impenetrabile sonno dell’assoluto e ingenito essere, ché il “prevaricare” del gran prevaricatore, questo, certo lo conosciamo: lo ‘narriamo’. Quel che manca, e continua a mancare, è il “perché”. Ed è questa ‘mancanza’ che mette in forse tutto: lo stesso prevaricare. Questo, non altro l’enigma della vita, nella sua massima semplicità logica. Quanto a Kant cf. KrV, A 288-289, B 344-345 (su cui rinvio a V. Vitiello, CsR, pp. 28-33). Sul rapporto di Hegel con Kant cf. l’equilibrato giudizio critico di A. Ferrarin, PHK, spec. cap. 5, “Ragione kantiana e ragione hegeliana, pp. 171-233.

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Nella Fenomenologia incontriamo presto l’immane potenza del negativo, sin nelle pagine iniziali della Vorrede, e ad essa Hegel assegna la funzione positiva dell’intelletto che separa e separando crea vita, e solo perciò anche morte. Senza scissione vi sarebbe solo la quiete dell’immobile, che neppure è morte, essendo prima della vita e della stessa morte (PhäG, p. 29; it., I, p. 26). Il primo incontro con la lichtscheue Macht avviene molto più tardi, nel capitolo VI dedicato allo Spirito, der Geist, nel pieno del mondo degli uomini, del mondo, dico, e non della coscienza. Capitolo che segna la ‘svolta’ fondamentale dell’itinerario fenomenologico, il passaggio dalla certezza alla verità. L’attacco è solenne: La ragione è spirito, dacché la certezza d’essere tutta la realtà si è elevata a verità, ed essa, la ragione, è consapevole di se stessa come del suo mondo, e del mondo come di se stessa.25

In questo mondo, che l’epica narra come “non macchiato da scissione alcuna”, il cui movimento è un quieto divenire (PhäG, p. 330; it., II, p. 21), la tragedia rivela la scissione che divide nel profondo il Sé, l’autó, dell’autocoscienza, il Selbst del Selbstbewußtsein: l’opposizione tra Bewußt e Seyn, pensiero ed essere, come tra luce ed ombra, Giorno e Notte, ma che, divisi ed opposti, son lo stesso. Così scrive Hegel in questa insuperata descrizione della tragedia che Aristotele stimava la più alta, la tragedia di Edipo26 – il brano è lungo, ma in nessuna parte può essere tagliato:

25. «Die Vernunft ist Geist, indem die Gewißheit, alle Realität zu sein, zur Wahrheit erhoben, und sie sich ihrer selbst als ihrer Welt, und der Welt als ihrer selbst bewußt ist»: PhäG, p. 313; it. II, p. 1. 26. «kallistè dè anagnórisis, hótan háma perpateía ghénetai, oíon échei he en tô Oidípodi»: Aristotele, Poetica, 52a 32-33.

385 All’agire è palese solo un lato della decisione in generale; ma la decisione è in sé il negativo; e il negativo contrappone a lei, che è il sapere, un Altro, un estraneo. L’effettualità tien dunque nascosto entro sé l’altro lato, quello estraneo al sapere, e non si mostra alla coscienza qual è in sé e per sé – non mostra al figlio il padre nell’offensore che egli percuote, non la madre nella regina ch’egli prende in moglie. In agguato contro la coscienza etica si pone così una potenza che ha in orrore la luce, potenza che poi, quando il fatto è accaduto, erompe e coglie l’autocoscienza in flagrante; ché il fatto compiuto è l’opposizione tolta del Sé che sa e dell’effettualità a lui contrapposta. L’elemento agente non può negare il delitto e la sua colpa: il fatto consiste nel muovere l’immoto e nel produrre ciò che da prima è soltanto racchiuso nella possibilità, collegando quindi l’inconscio col conscio, il non essente con l’essere. In questa verità vien dunque alla luce del sole il fatto; viene alla luce del sole come qualcosa in cui il conscio è congiunto all’inconscio, il proprio all’estraneo; come l’essenza scissa di cui la coscienza esperimenta l’altro lato, sperimentandolo anche come il lato proprio; e tuttavia come una potenza che essa ha violato e si è resa nemica. (PhäG, p. 335-336; it., II, p. 28).

Dietro le pagine tortuose e ripetitive dello Spaventa che, in lotta con Trendelenburg, e più ancora con se stesso, s’affanna a spiegare le prime categorie della Scienza della logica, appoggiandosi a Werder, di cui s’appropria, ed appropriandosene scorge un Essere che non è Essere e che resta lì, immoto, di contro al movimento del pensiero che genera l’Essere, palese è la memoria, anche nel linguaggio, di questa pagina hegeliana che l’interprete traspone dalla Fenomenologia alla Logica – arditamente, certo, ma non senza fondamento, ché il richiamo mnestico, ancor più significativo se inconscio, è a quel livello dell’iter fenomenologico, nel quale non agiscono più le figure della coscienza (Gestalten des Bewußtseins), ma operano spiriti reali (reale Geister), effettuali figure di un mondo (wirkliche Gestalten einer Welt: PhäG, pp. 314-315; it., II, pp. 3-4).

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Superfluo a questo punto citare i vari luoghi, in cui nella Scienza della logica e anche altrove compare questa “potenza che ha in orrore la luce”. Utile, al contrario, chiudere ribadendo l’importanza dell’interpretazione che Bertrando Spaventa ha dato del rapporto Fenomenologia-Logica, aiutandoci a capire che il pensiero di Hegel è molto più ricco e ‘mosso’ non solo di quanto non appaia nelle sistemazioni che di esso hanno dato i suoi critici e pur i suoi allievi ed ‘interpreti’, e quanti ancora a vario titolo si sono richiamati alla sua filosofia; è più inquieto, e con se stesso in contrasto27, come sempre i pensieri profondi, di quanto non appaia nel suo stesso Sistema. Basti qui, in conclusione, ricordare il contrasto tra il sommovimento dell’ordine sistematico prodotto dalla ‘successione’ dei tre sillogismi finali dell’Enzyklopädie28 – non a caso presenti nella prima edizione, tolti nella seconda, e riproposti nella terza ed ultima – e la irenica citazione di Aristotele: Met L, 7, 1072b 18-30 che Hegel volle apporre a conclusione dell’opera. 7. Ha scritto una volta Bertrando Spaventa, riferendosi a Hegel: «Nei filosofi, ne’ veri filosofi, ci è sempre qualcosa sotto,

27. In contrasto con quel se stesso che scriveva a Pfaff: «al di fuori del mio pensiero non c’è nulla nella cosa; e i miei pensieri al di fuori della cosa non sono nulla» (cit. da R. Bodei in CT, p. 149 e nota 88). Die lichtscheue Macht è proprio ciò che non è ‘nella luce’ del pensiero quando ‘opera’, e tutto ciò che di essa, poi che ha operato, il pensiero dice e pensa – tutto ciò che di essa viene alla luce del pensiero –, non è, non può essere: lichtscheu. Lo stesso va detto riguardo al rapporto tra la logica ‘pensata’ e la “logica naturale e inconscia”. Rapporto affermato, ma non dimostrato, né dimostrabile, giacché lo si può dimostrare solo dal pensiero riflesso, di sé consapevole, dal “concetto che si sa come concetto”, cioè da uno, ed uno solo, dei termini del rapporto. Purtroppo il pensiero ha questo limite: non può portare altro ‘testimone’ a suo favore che se stesso. 28. Cf. R. Bodei, CT, p. 351-361

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che è più di loro medesimi, e di cui essi non hanno coscienza; e questo è il germe di una nuova vita» (Op, II, p. 643). Forse questo vale anche per gli interpreti – i veri, die denkenden Ausleger, quelli che sanno riscattare la condanna, cui i grandi uomini li destinano29: la condanna ad interpretarli, con l’esplicarne il pensiero oltre la consapevolezza dell’interpretato ed oltre la loro stessa consapevolezza d’interpreti.

29. «Der großer Mann verdammt die Menschen dazu, ihn expliciren»: K. Rosenkranz, AB, p. 555; it., p. 34 [18].

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V Enzo Paci tra due fenomenologie

Le due fenomenologie, cui si fa qui riferimento non sono l’eidetica e la trascendentale, o, come anche le si nominano, la statica e la dinamica, o genetica1; sono bensì la fenomenologia di Hegel e la fenomenologia di Husserl. Perché allora questo “tra” e non invece un più determinato “da… a…”? Non è forse, la “fenomenologia” maggiormente coltivata da Paci, quella husserliana? Se, per cogliere il tratto essenziale del suo itinerario filosofico, è indispensabile il riferimento agli studi che ha dedicato alla Fenomenologia dello spirito, va pur detto che quell’esperienza ha segnato più un transito, per quanto importante, che non un punto d’arrivo – come invece la fenomenologia husserliana, e bastano i titoli dei suoi libri a darne testimonianza. Invero il “tra” indica una precisa scelta ermeneutica. Ritengo che Paci si sia sempre mosso tra Hegel e Husserl: il primo ha contato nella formazione e nello sviluppo del suo pensiero non meno del secondo, nonostante ciò che dicono i “titoli” dei suoi libri e dei suoi saggi – i titoli, non il contenuto. Ché, se la

1. Cf. E. Paci, TVH, cap. IV, § 12.

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lettura di Husserl ha influenzato l’interpretazione hegeliana di Paci, la lettura di Hegel ha giuocato un ruolo non meno fondamentale nella lunga riflessione di Paci sulla fenomenologia husserliana. Il “tra” del titolo accenna a questo giuoco di rimbalzo tra le due ‘letture’ – l’hegeliana e l’husserliana –, che ha caratterizzato la fenomenologia di Enzo Paci2.

I 1. Inizio con le pagine dedicate a Hegel in Idee per una enciclopedia fenomenologica. I saggi hegeliani qui raccolti sono tutti degli anni Settanta. Il che spiega la determinante presenza di Husserl, per Paci un modello anche per comprendere la Fenomenologia dello spirito, le sue motivazioni e i suoi esiti più profondi. L’esordio, più che una critica, è una contestazione, aspra: al rapporto tra verità ed assoluto, presentato da Hegel sin nella Einleitung della Fenomenologia come ineludibile esito della ragione consapevole di sé, e cioè: all’identità di verità ed essere, che Paci non esita a definire «idolatria nel senso in cui è idolatria il vitello d’oro», viene opposto il concetto di verità come idea-limite, come ideale. Paci, sebbene riconosca che cade su di lui l’onere di provare che «la verità è tale pur non coincidendo con la realtà e l’assoluto» (IEF, p. 117), parte affermando che la verità «non si riduce all’“è”, si pone, piuttosto, nella sfera del significato» (ib., p. 118). E vien subito

2. Per un’interpretazione complessiva del pensiero di Paci e della sua influenza sulla cultura italiana nel secondo dopoguerra sino alla metà dei Settanta, cf. EP di C. Sini.

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da chiedersi se la sfera del significato non coincida – almeno a partire da Aristotele – con il parlare in “terza persona”, con l’orizzonte dell’essere. Certo la distinzione tra l’“è” ed il “significato” non può essere gettata lì, e lasciata come qualcosa di dato. C’è il rischio, così facendo, di sottrarre all’esercizio fenomenologico la sua specificità: la critica dell’ovvietà naturale. Alla contestazione segue subito un alto riconoscimento. L’itinerario della coscienza che Hegel traccia è der Weg des Zweifels und der Verzweiflung, la via del dubbio e della disperazione (PhäG, p. 67; it., I, p. 70). «Il dubbio – commenta Paci – è quasi il riconoscimento della non verità del sapere, conquistato e dogmatico, della verità. Soprattutto appare qui la non verità del sapere apparente. […] il sapere apparente è non realtà» (IEF, p. 119). Lo scetticismo iniziale di Hegel gli rammenta l’epoché di Husserl, per quell’aspetto in particolare che tale scetticismo non riguarda la coscienza singola, l’arbitrario opporre la propria opinione all’autorità della tradizione, o comunque d’altri (PhäG, pp. 67-68; it., I, pp. 70-71); concerne, bensì, l’itinerario della coscienza naturale che nel suo “errare” deve superare se stessa, divenire sapere reale. Tutto sta ad intendere il senso di questo “deve”, se è un “soll”, un dover-essere, o un “muss”, una necessità. Paci rileva che Hegel, sebbene ritenga che solo l’assoluto consente un sapere rigoroso, scientifico, ammette tuttavia che «l’assoluto dev’essere prima raggiunto» (IEF, p. 120). La Fenomenologia hegeliana descrive dunque un cammino, epperò una tensione. Ma in questa tensione, che non è possesso, in questo itinerario che presuppone una distanza dalla mèta, è il vero sapere – e non l’apparente soltanto –; è la coscienza ‘filosofica’ – e non la coscienza naturale soltanto. È la coscienza filosofica che opera in latenza nella coscienza naturale. L’itinerario della Fenomenologia dello spirito, per come lo mostra la Darstellung des erscheinenden Wissens, la descrizione del sapere apparente, non può essere definito né dal “soll”, né dal “muss”, essendo

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insieme l’uno e l’altro: tensione, dover-essere, in quanto sapere apparente, o coscienza naturale; ed essere, ed essere necessario, in quanto movimento inconscio del sapere reale, o della coscienza filosofica, che nella Darstellung dell’itinerario fenomenologico ‘giunge’ a conoscenza piena, perfetta, compiuta, in quanto «concetto che si sa come concetto» (PhäG, p. 558; it., II, p. 298). Paci insiste sulla duplicità dei motivi e dei piani di discorso della fenomenologia hegeliana, richiamando l’attenzione sulla funzione fondamentale che l’“accidentale” svolge in essa, dacché rinvia sempre oltre il possesso della verità; ma non può certo ignorare che la necessità della Darstellung è il presupposto del dover-essere dell’itinerario della coscienza naturale. La ‘doppiezza’ hegeliana sta in ciò, che per quanto il sapere assoluto è mèta della coscienza, dell’autocoscienza e della ragione, tuttavia esso, l’assoluto in quanto sapere, non è soltanto l’inconscio operare – necessario – del Vero nella coscienza naturale, è anche il luogo (lo Standpunkt) a partire dal quale è ricostruito e conosciuto l’itinerario della coscienza. La necessità domina non solo nel sottofondo della coscienza naturale, domina anche alla luce del sole, nel giorno della presenza della Darstellung des erscheinenden Wissens, che, in quanto vera rappresentazione, è sapere esplicitamente reale del sapere implicitamente reale operante nel sapere apparente. Quale allora lo spazio del “soll”? Quello di un dubbio solo apparente – di una parvenza di dubbio. Der Weg des Zweifels und der Verzweiflung scompare agli occhi stessi di chi la descrive. Il “soll” non fa a tempo di manifestarsi che già è ricompreso nel “muss”. Questa necessità – vedremo – estende il suo potere dalla Darstellung hegeliana dell’itinerario della coscienza alla coscienza husserliana. È il rimbalzo da Hegel a Husserl, di cui si diceva ad apertura di discorso.

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2. Paci si sofferma sulla descrizione hegeliana della certezza sensibile. Inutile ricordare come la singolarità del sensibile, l’“ora” ed il “questo”, svaniscano nella indeterminatezza del generico, per ricevere vera, reale concretezza solo nell’insieme delle relazioni percettive, prima, e intellettive, dopo – sono analisi a tutte note. Utile, invece, menzionare l’osservazione di Paci: proprio in questo svanire è l’esperienza della coscienza sensibile, che diviene consapevole della propria astrattezza e irrealtà, superandosi. Il superamento del sensibile è la “realtà” della coscienza sensibile. È un’anticipazione – questa che Paci rileva in Hegel – dell’esperienza della cosa, delle cose, tipica della fenomenologia husserliana (cf. infra, § 5). Qui nuovamente Husserl funge da modello per la ‘lettura’ di Hegel. Ma v’è di più: la concretezza del sensibile si esperisce per davvero solo quando si passa dalla descrizione della coscienza teoretica all’analisi della coscienza pratica. La coscienza sensibile è concreta e reale, perché è innanzitutto Begierde, desiderio, bisogno, appetito. Fame. La sensibilità non lascia il suo oggetto ‘teoreticamente’ dinanzi a sé, di fronte, ma se ne nutre, lo divora3. La sensibilità è concreta perché è vita. Anzitutto vita animale, vita del corpo. Non insisto sull’influsso di Husserl, sulla distinzione tra Leib e Körper – sono cose troppo note perché ci si soffermi ancora su di esse. Diamole per conosciute. Importante, invece, il capovolgimento di Hegel che qui Paci opera. Trattando della vita, della vita nella sua einfache Gattung, nella sua semplicità di Genere, e cioè della vita universale, Hegel aveva osservato: «in der Bewegung 3. Non faceva difetto l’ironia a Hegel: nel criticare «la verità e certezza della realtà degli oggetti sensibili», rinviava i loro sostenitori «alla saggezza degli animali [che] non restano fermi dinanzi alle cose sensibili come in sé essenti, ma disperando di quella realtà e ben certi della loro nullità, le raggiungano senz’altro e se ne cibano; e la natura intera celebra com’essi questi aperti misteri che insegnano qual sia la verità delle cose sensibili» (PhäG, pp. 87-88; it., I, pp. 90-91).

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des Lebens […] verweist das Leben auf ein Anderes, als es ist, nämlich auf das Bewußtsein» (PhäG, p. 138; it., I, p. 149). Nel suo movimento la vita rinvia ad altro da quello che è, alla coscienza. Come dire: l’essenza della vita è l’autocoscienza. Paci interpreta alla rovescia: «l’autocoscienza trova alla sua base la vita nel suo dispiegamento. L’essenza dell’autocoscienza è la vita» (IEF, p. 124). L’essenza è il profondo, la verità che tutto sostiene, la sostanza come soggetto – soggetto che ‘pone’ quello che ad esso accade, soggetto attivo degli ‘accidenti’, perché dell’accadere, del divenire. Per Hegel questo soggetto è il pensiero. Per Paci, invece, la vita. Il capovolgimento ora segnalato, il primato della vita sul pensiero, sarà alla base – vedremo – dell’interpretazione di Husserl, ancor più che di Hegel. Ed è l’apporto proprio di Paci all’interpretazione di entrambi Autori, di entrambe le fenomenologie tra cui si muove. Da dove derivava Paci questo pensiero? Non ho dubbi sull’indicazione, che tuttavia in questa sede posso solo enunciare (provarla esigerebbe un discorso a parte): da Vico, a cui Paci dedicò un testo fondamentale, dal significativo titolo: Ingens sylva4. Ma torniamo a Hegel. L’inversione del rapporto pensiero-vita nell’opposto vitapensiero, se poneva Paci davanti a grosse difficoltà d’interpretazione, e non solo riguardo al testo di Hegel, gli forniva al contempo la possibilità di ‘leggere’ in modo nuovo un argomento tra i più studiati della Fenomenologia dello spirito: la dottrina dell’intersoggettività. Cominciamo col dire di quest’ultima, lasciando che le difficoltà si manifestino da sé, per forza propria, o, meglio, in forza della cogenza del d ­ iscorso.

4. Cf. P. I, Sez. I, cap. I.

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3. Paci sa bene che non la “certezza sensibile” è l’inizio del cammino fenomenologico, bensì il “sapere assoluto”, il luogo dal quale è possibile vedere con lo sguardo puro dello spettatore che non influisce sull’accadere che osserva – lo Standpunkt del reines Zusehen (PhäG, p. 72; it., I, p. 75) che caratterizza la Darstellung des erscheinenden Wissens. È assoluto, questo sapere, perché non incide sull’oggetto, non lo muta. L’assolutezza di questo sguardo non è sinonimo di incondizionatezza, ma di purità: Reinheit. Per Paci – chiaramente – che, infatti, nell’atto stesso che afferma la primalità di questo sguardo, non manca di mostrare ch’è il risultato di un processo: del processo fenomenologico, dell’itinerario della coscienza. In breve, la primalità dello sguardo fenomenologico è solo della ‘seconda’ lettura della fenomenologia; nella ‘prima’ lettura l’inizio è della “certezza sensibile”. E se la “seconda” lettura vanta un primato sulla “prima” è solo perché… – dico la cosa prima con le parole di Hegel: perché: das Vorwärtsgehen ist ein Rückgang in den Grund, zu dem Ursprünglichen und Wahrhaften («l’andare innanzi è una retrocessione nel fondamento, all’originario e al vero»: WL I, p. 70; it., I, p. 56); poi con quelle di Paci: perché «si è sempre nel punto di arrivo dal quale si parte, o, come dice Hegel stesso, nell’aurora della presenza» (IEF, p. 138). Che significa “si è sempre nel punto d’arrivo dal quale si parte”? In Hegel significa che la Darstellung des erscheinenden Wissens è un processo di Erinnerung, di rimemorante interiorizzazione dello spirito umano nel proprio passato. E in Paci? Qualcosa di molto vicino quanto al ‘contenuto’ – alla riacquisizione del passato – ed insieme lontano – quanto alla ‘forma’ del rapporto col passato. L’aurora della presenza è per Paci il risultato dell’opera dello scetticismo, l’esito della via del dubbio. Il rilievo che egli attribuisce allo scetticismo nell’opera di Hegel – la liberazione del presente dalle incrostazioni del passato, dai pregiudizi della

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storia, dal chiudersi delle “figure di mondo”5 in sé stesse – è una conseguenza dell’influsso husserliano sulla sua lettura di Hegel. Lo scetticismo è la forma che la Weltvernichtung fenomenologico-trascendentale – l’epoché – assume nella hegeliana Fenomenologia dello spirito. Eppure Paci nega che Hegel abbia compiuto «una vera e propria epoché, anche se questa preme su di lui come l’esperienza dello scetticismo negatore del mondo» (ib., p. 140). Perché Paci restituisce con la sinistra – come di mala voglia – ciò che precedentemente ha tolto con la destra? Perché teme che l’‘eccessiva vicinanza’ di Hegel a Husserl renda “assoluta” anche la coscienza husserliana? Una tale ‘ingenuità’ non la si può certo attribuire a Paci. Che la “forma”-coscienza sia assoluta in Husserl come in Hegel è affermazione di Husserl medesimo: solo per la coscienza può dirsi che “nulla re indiget ad existendum” (Ideen, I, § 49). Né si può sensatamente attribuire a Hegel il convincimento che anche il contenuto della coscienza è “assoluto” – e non solo la forma. Certo questo Paci non l’avrebbe mai detto. Di più: nell’accostare la ‘presenza’ di Hegel al ‘presente’ di Husserl Paci sottolinea altre due convergenze: 1) che l’entrata della coscienza hegeliana nel «giorno spirituale della presenza» – lasciandosi alle spalle come la «policroma parvenza dell’aldiquà sensibile» così la «vuota notte dell’al di là sovrasensibile» – segna la nascita dell’intersoggettività, ovvero l’autorivelazione coscienziale dell’“Io che è Noi e del Noi che è Io” (PhäG, p. 140; it., I, p. 152), come accade in Husserl, nel ‘passaggio’ dall’Io ridotto – l’astratto Io dell’iniziale epoché – alla concreta vita dell’Io-monade intersoggettivamente strutturato (CM, V); 2) che per Hegel come 5. Diversamente dalle “figure della coscienza”, Gestalten des Bewußtseins, le “figure di un mondo”, Gestalten einer Welt, sono spiriti reali, die realen Geister, realtà veramente operanti, eigentliche Wirklichkeiten: PhäG, pp. 313-316; it., II, pp. 1-5.

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per Husserl – e qui Paci chiama in causa anche Marx – «l’epoché non avviene solo nel pensiero, ma avviene nella realtà» (IEF, p. 140). E allora perché Paci non appena rileva un’affinità tra i due suoi “auttori”, subito sottolinea la loro differenza, e nell’atto stesso di accostarli, li allontana? La ragione va trovata proprio nel punto indicato per ultimo: l’intersoggettività. Hegel la teorizza, ne fa un momento fondamentale della sua analisi, un Wendungspunkt (PhäG, p. 140; it., p. 152), un punto di svolta. Tuttavia in Hegel l’intersoggettività è sempre solo “oggetto” di coscienza, mai “soggetto”. Ci si intenda: per Hegel la coscienza stessa, l’Io, è intersoggettiva, è Noi; ma questa coscienza intersoggettiva è, e resta, solo tema di discorso, del discorso solipsistico della ragione che si pretende comunitaria. È il soggetto-Hegel che dice dell’intersoggettività della coscienza, e si dica pure della coscienzaHegel. E non vale opporre che quella coscienza che parla è intrisa di intersoggettività, che proprio quell’Io che teorizza è Noi, perché questa è ancora tutta un’affermazione della coscienza-Hegel che dice d’esser intersoggettiva, non Io ma Noi, o, rectius: Io che è Noi, Noi che è Io. In altri termini, la critica di Paci s’appunta proprio contro la “forma”-coscienza: finché si resta in essa, l’intersoggettività è affermata ma non realizzata, non praticata, non vissuta. La “forma”-coscienza è incapace di intersoggettività. Non s’intende la novità dell’interpretazione paciana della fenomenologia di Husserl, se non si parte di qui: dalla critica della “forma”-coscienza. A questo punto è necessario fare un passo indietro: a Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, del 1961 – l’unico testo di Paci, che può reggere il confronto con Ingens sylva, pubblicato undici anni innanzi. 4. Già il titolo indica una scelta teorica precisa: l’antecedenza accordata alla parola “tempo” dice che la verità non è mai

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‘pura’, ab-soluta, sciolta dai condizionamenti del tempo, dai pregiudizi della tradizione e della storia. La verità assoluta è un ‘idea-limite’: non una semplice astrazione dell’intelletto, una vuota idea, beninteso; bensì uno stimolo a liberare la mente prim’ancora che dagli errori, dalle ovvietà del quotidiano che sono la causa prima degli errori, perché abituano la mente alla passività dell’atteggiamento naturale. La verità come idea-limite è all’origine dell’epoché, della sospensione del giudizio; è sprone alla critica. Ma perché resti tale, stimolo e sprone, bisogna evitare il feticcio della sua realizzazione. Questo perché la liberazione dal pregiudizio, dall’ovvio, dalle pretese verità acquisite, non è opera che possa terminare, che possa compiersi una volta per tutte. La liberazione dall’ovvio è un esercizio continuo e costante. Chiaro che questo concetto di verità porta con sé un diverso concetto di coscienza. La coscienza, pur essa, non è mai pura. Criticando l’assolutezza del vero, Paci critica insieme l’assolutezza della coscienza. Ma, si badi, la critica dell’assolutezza della coscienza non può significare rifiuto dell’assolutezza della forma-coscienza. La stessa affermazione che la coscienza non è mai pura, che la verità absoluta è solo un’“idea-limite” – è assoluta. Se l’affermazione della non-assolutezza della coscienza non fosse assoluta, allora – la conclusione è ineludibile – la coscienza potrebbe essere assoluta. Il medesimo vale per la verità: anche la tesi della condizionatezza storico-temporale, ovvero: mondana, della verità, è una tesi incondizionatamente valida. Cosa significa allora affermare che la coscienza, come la verità, non è assoluta? Significa che la “forma”-coscienza – questa e questa sola assoluta (come la “forma”-verità, questa e questa soltanto incondizionata) – è inadeguata a dire della coscienza; significa che la coscienza non è solo forma, e che la sua separazione dal “contenuto” trasforma l’“idea-limite” – positiva – in un’astrazione negativa, in un feticcio della mente.

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Niente che non sia stato già detto e ripetuto, sentito e risentito – si dirà. Ed è vero, se ci limita all’enunciazione della tesi. Ma Paci non si ferma ad enunciare la tesi. L’interessante è quel che ne trae. Interessante perché sposta radicalmente l’asse della fenomenologia trascendentale. Non più l’ego e la coscienza – questi restano il punto di partenza necessario: il fenomenologo, e più in generale il filosofo, ripete Paci, non può che partire da sé, dal se stesso che pensa, e pensando vive nel mondo. Ma è dall’essere immerso nel mondo che il fenomenologo si libera. Non certo per trascendere il mondo, estraniarsi da esso, anzi per immettersi in esso, ma non nell’immagine falsa del mondo e delle cose, bensì nel mondo “vero”. E qui mondo vero non altro dice che “mondo reale”, il mondo in cui siamo e operiamo, il mondo che viviamo e che vive in noi. L’esercizio dell’epoché è una liberazione dalle false immagini del mondo e delle cose. È un’immissione nel mondo-dellavita, non ‘oggetto’ della coscienza, ma ‘soggetto’. E ‘soggetto’ – perché è ‘prima’ della coscienza. Il Noi non attende l’autocoscienza per essere e manifestarsi, non attende il giorno della presenza. Il Noi è già da prima, già da sempre, e nel presente della coscienza si manifesta solo in parte. Il presente della coscienza è solo la punta dell’iceberg, la determinazione finita dell’infinito tempo. Il presente della coscienza – non il punto, l’istante o attimo, ma il presente esteso con tutte le sue ritenzioni e protenzioni, il presente dell’intersoggettività saputa, conosciuta, ‘oggetto’ di conoscenza –, questo presente reale è solo una piccolissima parte dell’infinito che mai giungerà tutto alla luce del giorno, perché mai il giorno della presenza si lascerà alle spalle la policromia dell’aldiqua sensibile, elevandola a puro pensiero. Mai sarà coscienza pura. La fenomenologia di Paci toglie il privilegio della coscienza. Quel che opera, che opera all’interno della coscienza e della stessa “forma”-coscienza, è la vita, il mondo vivo nel suo complesso,

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l’infinito che è in noi. L’attività della coscienza è mutuataria del suo stesso operare alla Lebenswelt. Scrive Paci: Il principio non è il dato empirico atomico né la forma; il principio è la vita dell’Erlebnisstrom, l’infinito che vive nel mio Ego che attende di esprimersi, di trascendersi nei cogitata, nei noemi finiti che costituiscono la storia concreta. Alla fine i cogitata costitiscono il succedersi infinito della storia come conseguenza dell’esprimersi, in noi, in ogni Ego, dell’infinito, che, nell’espressione, intenziona la serie del succedersi temporale. Nell’Ego vive la verticalità dell’infinito che si esprime intenzionando il succedersi storico orizzontale. (TVH, p. 87).

Il cambiamento non riguarda solo “noi”, e la coscienza. Riguarda insieme, simul, le cose. Perché l’infinità della Lebenswelt è la correlazione dinamica di ogni cosa con ogni cosa. Come l’ego (il noi tematico oggetto di coscienza) è solo un’isola dell’infinito mare della vita (del Noi inconscio, del Noi non ancora articolato in una distinta pluralità di Io) che palpita tutto in esso, ancorché solo in parte vi si esprima, così le cose, le singole cose che non sono mai solo quel che immediatamente, e cioè nell’ovvietà dell’“atteggiamento naturale”, appaiono essere. Le cose sono sempre oltre se stesse. Perché non sono mai “fatte”, ma sempre da fare, da compiersi. Verum et factum convertuntur, certamente, ma solo se ed in quanto cogliamo il factum quatenus fit. «La cosa, proprio la cosa che credo già fatta che nell’atteggiamento naturale è chiusa, compiuta, finita, diventa un indice, una proposta» (ib., p. 91). Paci ‘legge’ – cogliendo la più intima intentio husserliana – la stessa fenomenologia eidetica nell’orizzonte della fenomenologia della vita. Le essenze, gli eide, sono essi medesimi infiniti, indici delle cose, intuizioni che vanno sempre di nuovo riempite. Le cose del tempo cosmico, anteriore all’epochizzazione, sono considerate già fatte; le cose “ridotte” al tempo fenomenologico debbono essere costituite secondo un’essenza,

401 secondo l’idea-limite della verità. Ma ciò significa, infine, che l’oggettività stessa non è mai compiuta: il problema dell’oggettività diventa il problema del senso della storia e la crisi del mondo moderno è l’oblio, la feticizzazione delle cose, l’alienazione dell’uomo nelle cose considerate già compiute, e possiamo aggiungere, la negazione del lavoro umano e del valore del lavoro umano come realizzazione della verità nella storia. Tutto questo è esplicito nello storicismo teleologicotrascendentale della Krisis. Ma è anche implicito nella considerazione husserliana delle cose come un costituirsi infinito secondo un’idea regolativa che ci appare in una visione essenziale, e cioè nella teoria della regione-cosa come filo conduttore (Leitfaden) trascendentale. (TVH, pp. 91-92).

Prima di definire criticamente i limiti dell’interpretazione che Paci ha dato della fenomenologia di Husserl, è bene segnalarne e sottolinearne la novità – anche rispetto a tesi a tutt’oggi in vigore. 5. Non bisogna attendere Heidegger, e sulla sua scia Marcuse e Löwith e Kojève, talora in contrasto col loro Maestro nel ri-leggere Hegel, perché contro il logicismo si affermino il diritto ed il valore dell’esistenza concreta, del Dasein fattuale e storico6. No, proprio no; questa è una visione distorta della cultura filosofica del Novecento. Imputabile anzitutto alla ingiusta critica di logicismo e di indifferenza alla storia mossa da Heidegger a Husserl. Vero è che nella fenomenologia husserliana – e sin nelle sottili distinzioni logico-formali delle Logische Untersuchungen – è già presente la problematica della temporalità storica. Che poi prenderà il sopravvento nelle analisi sul processo di formazione della scienza moderna esposte nella Krisis, la cui teleologia della storia si distingue da quella hegeliana solo per la minore consapevolezza della 6. Sul tema cf. in particolare: M. Vegetti, HOF.

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“necessità” che la visione teleologica immette nella considerazione della storia. Ora il riferimento paciano alla Krisis nell’ultimo brano sopra citato di Tempo e verità, testimonia della preferenza dell’interprete per questa opera, che rafforza la sua lettura di Husserl piegata su Hegel – come si diceva all’inizio. Torniamo al punto centrale della questione: l’intersoggettività. Paci – anche questo s’è rilevato – esce dal solipsismo della ragione che si pretende comunitaria spostando l’asse della riflessione fenomenologica dalla coscienza alla vita (o, più esattamente: dal ‘contenuto’ della coscienza, dai “significati”, alla vita della coscienza): «L’Ego profondo, antepredicativo, prefenomenologico – scrive –, è vita che, restando vita, si rivela nella coscienza come Zeitform des Erlebnisstromes» (ib., p. 114). E come il flusso vitale si articola nella coscienza in passato-presente-futuro – «l’infinito diventa forma del tempo» –, così l’“Ur-Ego” si distingue «tra sé e il mondo […] tra sé e altro, tra l’Io e il Tu» (ib., p. 115). Ma l’intersoggettività attiva, l’intersoggettività soggetto di discorso è quella che si vive, quella che, pur esprimendosi nella coscienza solipsistica del discorso filosofico, non si esaurisce affatto in questa, anzi in questa trova solo una limitata, finita, incompleta manifestazione-realizzazione. Il riconoscimento nella Lebenswelt della radice ‘attiva’ dell’intersoggettività consente a Paci di sottrarre questa al prepotere della “forma”-coscienza. La vera, ‘reale’ intersoggettività – si è detto – non è quella ‘oggetto’ di discorso, ma l’altra che è ‘soggetto’ di discorso, e che è ‘dietro’ il discorso sull’intersoggettività, e ne è base e sostegno. Il problema che ora ci si para innanzi è: quale rapporto sussiste tra le due intersoggettività, quella che è soggetto del discorso e quella che ne è oggetto? O, nei termini di Paci: si dà una scienza del mondo della vita?

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Paci neppure pone l’interrogativo, che già vi ha risposto. Il cogito – afferma – attraverso l’epoché neutralizza il mondo dell’atteggiamento naturale, l’universo statico, irrigidito, del già-fatto, delle cose compiute, finite, perfectae, il mondo dei saperi consolidati, per giungere alla Lebenswelt, alla correlazione dinamica universale che costituisce l’essere come degli uomini così delle cose a cui gli uomini si rapportano. E giungendo al mondo della vita, ne studia le strutture, le forme, i modi di manifestarsi e di celarsi, ecc. ecc. Questa è la scienza del mondo della vita. Che è scienza in quanto rispecchia la vita e non pretende dedurla logicamente; in quanto non ‘oggettivizza’ la Lebenswelt, non le si sovrappone, ma la descrive, mostrandola per quel che è. La scienza della Lebenswelt realizza l’ideale vichiano della ‘Scienza nuova’, fondandola sulla visione diretta, sull’intuizione che ci mette in presenza della cosa stessa leibhaft, ‘in carne ed ossa’. Di fronte ad essa il mondo delle scienze oggettive […] ha perso la sua autonomia. L’intuizione non è più qualcosa di trascurabile di fronte alla logica che si suppone possedere la verità. L’intuizione è la corporeità vivente pre-data della Lebenswelt, rispetto alla quale ogni scienza non è autonoma ma eteronoma. Ciò vale anche per la logica, anzi vale soprattutto per la logica. // Per capire la scienza e per fondarla, per rinnovare i suoi stessi metodi, è necessario ritornare alla Lebenswelt e questo ritorno esige, per prima cosa, l’epoché della scienza obiettiva. Questa epoché deve aprirci alla scienza della Lebenswelt, non fondata sull’a priori logico della scienza obiettiva, ma sull’a priori materiale del mondo della vita. Questo è doxa e relatività. Come relatività ha però una sua struttura generale. Tale struttura, nella quale vive tutto ciò che è relativo, non è a sua volta relativa. (Ib., p. 195).

V’è entusiasmo, indubbiamente, in queste pagine – entusiasmo teorico, beninteso. S’avverte la gioiosa soddisfazione di chi ha scoperto un mondo nuovo, meglio ancora: di chi ha scoperto la strada per incamminarsi verso mondi sempre

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nuovi. Gli tornano alla memoria parole antiche, per esprimere questa ‘scoperta’: «il fenomenologo deve vivere nel mondo senza perdersi nel mondo, senza appartenere al mondo» (ib., p. 234). Ma l’entusiasmo tradisce l’intentio: perché dovere del fenomenologo non è quello di non perdersi nel mondo, ma di non perdersi in un mondo. Al mondo – non a questo o quel mondo, ma al mondo qua talis, al mondo che è in tutti i mondi e nessuno in particolare – il fenomenologo appartiene totalmente, senza residui. Al punto che anche l’infinito sottostante l’apparenza – il mare infinito che circonda e pervade l’isola del cogito, che, per quanto esteso nel tempo articolato in passatopresente-futuro e nello spazio del comune, del cum, del syn, resta sempre un’isola, finita, limitata – al punto, dicevo, che anche l’infinito è totalmente piegato all’apparenza, destinato com’è alla superficie, alla finitezza: alla storia e al mondo. Nulla meglio s’addice a questa visione delle cose e del mondo, che le parole dettate da Hegel nella Vorrede della Fenomenologia: «la forza dello spirito è grande quanto la sua estrinsecazione, la sua profondità profonda tanto quanto ardisce, nel suo esporsi, diffondersi e perdersi» (PhäG, p. 15; it., I, p. 8). In questa visione – ove talora l’entusiasmo teoretico trascolora in retorica: «è questo inizio, questa ripresa, questo iniziare di un nuovo periodo, di un nuovo stile, di una nuova epoca, l’impressione originaria, il risuonare della prima nota…» (TVH, p. 235) –; in questa visione domina Hegel. Domina su Husserl. Il rimbalzo da questo a quegli inverte la precedente inversione del rapporto vita-autocoscienza. Ora è l’autocoscienza l’essenza della vita; è la struttura della coscienza – quella che precedentemente si è nominata “forma”-coscienza – che è padrona della scena: la «struttura, nella quale vive tutto ciò che è relativo», ma che «non è a sua volta relativa». Strano, il Paci che critica Brentano per aver «proiettato il categoriale sul precatecagoriale che deve fondare il categoriale» e che «perciò ha oscurato il problema dell’origine del tempo»

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(ib., p. 215), non ha il minimo sospetto d’aver potuto anch’egli, nel fondare la scienza sulla vita, subordinare questa a quella. Strano – s’è detto; ma, a ben pensarci, affatto naturale. Vero è che Paci non si è mai posto con la radicalità di Husserl il problema dell’epoché. Glielo ha impedito l’eredità hegeliana. Glielo ha impedito il suo amore per il mondo. 6. Das reduzierte Ich ist kein Stück der Welt. L’io ridotto non è un pezzo del mondo. Che significa? La domanda non verte sul ‘significato’ logico-teoretico che la proposizione ha nel testo di Husserl da cui l’abbiamo tratta: le Cartesianische Meditationen (§ 11). Questo significato ci è sufficientemente chiaro (anche per merito dell’analisi che Heidegger ha dedicato all’intenzionalità – e la cosa può apparire, ed è, strana, ove si consideri la critica heideggeriana del cartesianismo presente in Husserl7). La domanda verte sul significato storico-teoretico della proposizione. Per comprenderlo, ci facciamo aiutare da un grande analista del mondo storico, del mondo moderno in particolare: Hans Blumenberg. Comparando la crisi che segnò la fine del mondo antico, con quella che pose termine al mondo medievale – mi si perdoni l’estrema sinteticità dell’epitome, ma qui ci interessa dare solo il nocciolo essenziale della questione –, Blumenberg osserva che se alla prima, che fu crisi della ragione umana dubitante di sé e degli dèi che essa aveva immaginato, poté porre rimedio la religione, venuta da Oriente, annunciante il Dio d’amore che crea e sostiene il mondo, alla seconda crisi, causata dalla riflessione teologica, nata all’interno di questa medesima religione, che per affermare l’incondizionata potenza divina aveva subordinato ad essa pur l’Amore che muove il mondo e

7. Cf. M. Heidegger, PGZ. In merito rinvio a V. Vitiello, HH.

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le altre stelle, sostenendo che Dio, il Dio di Cristo, come può creare così può distruggere – tesi che nei testi della tradizione giudaico-cristiana trovava saldo appoggio nelle pagine ove si parla dell’orghé toû theoû –, a questa seconda crisi non poteva porre riparo che il ritorno alla ragione, ma ad una ragione, umana e mondana, capace di legittimare se stessa e il suo mondo8. Questa ragione – esemplifico all’estremo – fu trovata da Descartes; era la ragione dell’Ego cogito, capace di sconfiggere lo scetticismo sul suo stesso terreno: se dubito, penso, e se penso, sono. Nessun genio maligno mi può ingannare su questo. È Cartesio, questo? Certo è Cartesio. Il Cartesio che ha fatto storia. Il Cartesio della Wirkungsgeschichte. Ma è un Cartesio letto in superficie – come, peraltro, lui stesso si lesse per primo. È il Cartesio che pareggia “sum” al “cogito”. Ma non è tutto Cartesio, se proprio lui, dopo aver affermato je pense, donc j’existe, distingue l’esistenza – se si vuole: il sum – dal pensare, dal cogito, facendo di questo un attributo di quello (o quella: l’esistenza)9. Attributo, certo, necessariamente legato al suo “soggetto”, ma pur sempre attributo, quindi distinto dal suo soggetto. Il cogito sum, il sum cogitans si spezza. I due non son

8. Cf. H. Blumenberg, LN, Teil 1/2, Säkularisierung und Selbstbehauptung, 2. Teil III: “Die Epochenkrisen von Antike und Mittelalter im Systemvergleich”, pp. 167-211; tr. it., pp. 151-190. 9. «[…] je trouve ici que la pensée est un attribut qui m’appartient: elle seule ne peut être détachée de moi. Je suis, j’existe: cela est certain; mais combien de temps? A savoir, autant de temps que je pense; car peut-être se pourrait-il faire, si je cessais de penser, que je cesserais en même temps d’être ou d’exister»: R. Descartes, Œuvres, p. 277. Il testo originale latino diverge alquanto: non c’è il corrispondente della parola “attribut”; resta però la differenza tra il “cogito” e il “sum” o l’“existo”; «Ego sum, ego existo, certum est. Quandiu autem? Nempe quandiu cogito; nam forte etiam fieri posset, si cessarem ab omni cogitatione, ut illico totus esse desinerem»: Meditationes, p. 716 (corsivo mio).

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lo stesso. Il “sum” – “j’existe” – precipita nell’abisso dell’altro dal “cogito”, dell’oltre: magis, o minus, quam cogitari possit. Ed allora anche dire “sum”, dire “je” è troppo. Io penso? “Io”, o non, invece, “Er, Es (das Ding)? Das Ding welches denkt”10. Non bisogna attendere Nietzsche per la critica del soggetto11; né Valéry, per sapere che «Je pense, donc je ne suis pas»12. Questo ce l’ha detto – spesso smentendosi, volendo smentirsi – Cartesio; ce l’ha insegnato, senza incertezze e confusioni, Kant – che l’ha anche argomentato: ove si volesse conoscere l’io, dovremmo piegare su di esso le categorie di cui esso s’avvale per conoscere il mondo, dovremmo fondare il fondamento del mondo sul mondo! Questo significa «das reduzierte Ich ist kein Stück der Welt»: la spoliazione del mondo e col mondo dell’io d’ogni determinatezza, la spoliazione del lógos d’ogni significato. L’eguaglianza cui giunge Kant nella critica della psicologia razionale, l’equazione Io = X è ineludibile, se vogliamo non solo comprendere ma vivere sino in fondo la tragedia della crisi del mondo medievale. Se non vogliamo abbandonarci alle ‘retoriche celebrazioni’ della centralità – dignitas – dell’uomo. L’epoché non consente nessun amore per il mondo, nessuna hegeliana nostalgia del mondo. Epoché è Weltvernichtung, e in questa cade anche l’“io” – il presuntuosissimo io che vuol porsi come fondamento del mondo –, l’io che è pezzo di mondo: pezzo, pur quando lo si ingrandisce, e più lo si ingrandisce più lo si radica nel mondo che con esso si vorrebbe salvare.

10. Cf. I. Kant, KrV, A 346, B 404. 11. «[…] il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo» F. Nietzsche, NF85-87, p. 315, 7 [60]. 12. Il brano continua: «je me distingue de tout ce qui est, je suis autre que ce qui est, et il n’y a pas d’être à me comparer»: P. Valéry, C, II, p. 1398.

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Ma, questa la domanda che subito si pone, se l’epoché è questo, chi o che cosa opera l’epoché? Certo non l’io mondano – come Paci sostiene in Tempo e verità, e poi in Funzione delle scienze e significato dell’uomo. Invero non si comprende come possa l’io mondano liberarsi del mondo, se non in forza di una X, di un vuoto, di una mancanza, di una ferita che non trova rimedio nel mondo, se da esso ci separa – una ferita mortale che agisce nell’uomo che pratica l’epoché. Ma evitiamo – dopo aver parlato dell’epoché del cogito come Destruktion di ogni significato, dell’epoché dell’Io come svuotamento, kenosi della significatività del lógos – di cadere anche noi nell’illusione di poter dare significato all’Io, di riempire il vuoto, di determinare la X. La radicalità dell’epoché impone che ci si porti ‘alle ­spalle’ del cogito, che si salti la sfera del “significato”; impone si faccia filosofia ‘prima’ della filosofia13. Che Paci abbia avvertito questo imperativo, lo testimonia un suo breve saggio, scritto due anni prima della morte, dal quale stralciamo poche righe, ma fondamentali, per capire cos’è in gioco, oggi, con la filosofia, con la dialettica, col negativo: Forse si aprono nuovi orizzonti – ma sono orizzonti che implicano un estremo pericolo. Il limite dialettico della situazione attuale mette in giuoco il destino di ogni uomo come soggetto, dell’intersoggettività, della collettività: infine non solo della sopravvivenza, ma del senso dell’uomo così come è stato nel mondo da quando è apparso. […] Per questo la filosofia, in un modo nuovo, è costretta a riproporsi il tema della dialettica e il problema del senso della negatività, di una negatività che non sia superficialmente soltanto una funzione

13. Per una prima, iniziale riflessione sul tema rinvio a V. Vitiello, GP, Parte I, cap. III, pp. 53-74.

409 di un bene retorico. Il male nel quale l’uomo si radica suscita uno stupore incoercibile.14

Citavo queste parole a chiusura del primo capitolo della Parte I, ‘commentandole’ con i due versi iniziali del celebre Coro dell’Antigone sofoclea – che Hegel, in ciò dissentendo da Aristotele, stimava più dell’Edipo re –: «Pollà tà deinà houdèn an- / thrópou deinóteron pélei». Chiudo quest’ultimo capitolo della Parte II, riprendendo un brano già più volte citato della Fenomenologia dello spirito: quella ineguagliata riflessione sull’Edipo re, dettata pur essa da quell’“incoercibile stupore” che si prova davanti al “male”, nel quale l’uomo è radicato: la potenza che ha in orrore la luce: All’agire è palese soltanto l’un lato della decisione in generale; ma la decisione è in sé il negativo; e il negativo contrappone a lei, che è il sapere, un altro, un estraneo. L’effettualità (die Wirklichkeit) tien dunque nascosto entro sé l’altro lato, quello estraneo al sapere […] In agguato contro l’autocoscienza etica si pone così una potenza che ha in orrore la luce (eine lichtscheue Macht), potenza che poi, quando il fatto è accaduto, erompe e coglie l’autocoscienza in flagrante […] In questa verità viene alla luce del sole […] che il conscio è legato all’inconscio, il proprio all’estraneo, che la coscienza, come essenza divisa, fa esperienza (erfährt) dell’altro lato anche come il suo proprio, e tuttavia come una potenza ch’essa ha violato e si è resa nemica. (PhäG, pp. 335-336; it., II, p. 28).

14. E. Paci, “Sulla fenomenologia del negativo”, SP, pp. 291, e 294-295.

Ex-cursus

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I La Grazia e il libero arbitrio. Un “improbabile” confronto: Barth e Croce

1. Eternità e tempo in Barth: dall’opposizione alla conciliazione Se si scorrono le migliaia di pagine delle recensioni crociane, dedicate non infrequentemente a libri ed autori di cui oggi è arduo rintracciare nella memoria titoli e nomi, quello di Karl Barth ricorre una sola volta, e, direi, tangenzialmente, all’interno di una breve nota aspramente critica del Discorso di Rettorato tenuto da Heidegger all’Università di Freiburg i. B. nel 19331. Eppure, nonostante questo disinteresse crociano, in generale per la “teologia”, è possibile scorgere una significati-

1. «Il Barth – così conclude la nota – degnamente tutela l’indipendenza della teologia, mentre il professor Heidegger si è affrettato a far getto di quella della filosofia»: B. Croce, Cc/V, pp. 362‑363. Il testo di Barth cui Croce si riferisce è: “Theologische Existenz heute!” (München 1933). A parte ogni considerazione in merito al rapporto del nazismo e dell’antigiudaismo di Heidegger con la sua filosofia (su cui mi sono espresso più volte di recente, cf. in particolare ETN, III/IV, “Le «due storie» di Heidegger”. I Quaderni neri”, pp. 183-206), va detto che Croce, col contrapporre Barth a Heidegger toccava davvero, non so quanto consapevolmente, un punto critico. Sulla considerazione che Heidegger aveva di Barth, e della teologia dialettica, cf. SH31-38, p. 51; it., p. 68.; e SH38-39, pp. 395-396; it., p. 519.

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va affinità tra la concezione barthiana del rapporto Dio‑uomo e la teoria crociana della relazione teoria‑prassi2. II concetto‑base del Römerbrief è quello della “infinita differenza qualitativa” che sussiste tra il Creatore e la creatura. Questo radicale chorismós condanna come hýbris, errore e peccato insieme, ogni pretesa dell’uomo di elevarsi con le sue sole forze a Dio3. Il giusto vivrà per fede (ek písteos), dice che l’iniziativa è di Dio, che soltanto la Parola di Dio è salvifica – non essendo la fede opera dell’uomo. L’attacco di Barth all’umanesimo della teologia liberale (Schleiermacher) è ‘frontale’4. La stessa religione, la Chiesa medesima è peccato e lontananza da Dio in quanto opera umana. Tutto nella prospettiva dell’uomo è male e peccato; tutto, nella luce divina, è redento. Quello stesso che, come storia e mondo dell’uomo, è peccato, come ‘storia’ della Grazia è bene. Il tempo si redime nell’eterno. Ma l’eterno è il non del tempo. Dio è la ‘negazione’ del mondo, perché il mondo è la ‘negazione’ di Dio. Il mondo si riscatta, si redime nell’essere negato in Dio. Il No di Dio è il più alto Sì. Ma il Sì che benedice, che salva, è il più deciso No pronunciato contro il mondo5.

2. La prima ‘suggestione’ di questo ‘improbabile’ confronto mi viene da lontano: dalla giovanile lettura del saggio di Croce, “Il marchese di Vico Galeazzo Caracciolo (in VAFP, pp. 187-291), in particolare § II, “Ginevra e il calvinismo”, pp. 211-222) – saggio che Federico Chabod stimava tra le prove più alte della storiografia crociana. 3. Cf. K. Barth, RB, pp. 34 ss.; it., pp. 32 ss. – e passim. 4. Cf. anche il saggio su Schleiermacher in: K. Barth, PTh. Sul ‘rapporto’ Schleiermacher-Barth cf. V. Vitiello, CsR, P. I, cap. II, “Sentire Dio – Dire Dio”, pp. 35-52. 5. «Dio non è Dio, se il principio di Dio non è la fine dell’uomo» (RB, p. 181; it., p. 166). «Il Messia è la fine dell’uomo. Anche in questo, proprio in questo Dio è fedele. Il nuovo giorno della giustizia di Dio sorge col giorno della negazione dell’uomo» (RB, p. 79; it., p. 72).

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Sorge la domanda: ma non parla anche Barth parole umane, mondane, legate al tempo e alla storia, e quindi al peccato? Peccato è, dunque, il suo Commento all’Epistola paolina. Peccato è anche l’Epistola di Paolo (RB, pp. 531 ss.; it., pp.  484 ss.). Ma, così ragionando, cade nell’errore anche la dottrina dell’infinita differenza qualitativa. Cade nel peccato anche la dottrina del peccato. Il peccato è un vortice che nega se stesso. Talora sembra che Barth voglia assegnare alla (sua) parola teologica una posizione intermedia tra la Grazia e il peccato6, costretto da una duplice necessità, quella di non attribuire al discorso teologico dell’uomo la potenza che è solo della Parola divina, da un lato, e dall’altro quella di non condannare al nullificante errore del peccato, che è proprio della condizione umana, anche la (sua) dottrina che quell’errore denuncia. V’è dunque una parola umana che pur essendo tale, che pur vivendo nel peccato, è segno d’altro, di ciò che la trascende e la nega? Ma questo esser segno d’altro, dell’Altro, è opera di chi: dell’Altro o della parola? Inutile cercare una risposta a questa domanda nel Römerbrief, ove tutt’al più si può scorgere una non sempre chiara coscienza del problema. In seguito, nella Kirchliche Dogmatik, Barth rimetterà, hegelianamente, la stessa conoscenza umana di Dio all’iniziativa divina. Dio si rivela prima a sé, poi all’uomo. L’autorivelazione – la rivelazione interna a Dio stesso – costituisce l’oggettività primaria; la rivelazione esterna, il manifestarsi di Dio all’uomo, determina l’oggettività secon6. Mi riferisco alle pagine conclusive del RB (in partic. pp. 557-561; it., pp.  509‑512), ove Barth, attribuisce all’Epistola paolina (e, conseguentemente, al proprio Commento) non il significato di verità (Sinn), ma solo quello di “immagine” o metafora (Gleichnis) della verità (p. 558; it., p. 510), come se non fosse necessario conoscere anche la “verità”, per affermare di qualcosa che è la sua ‘immagine’.

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daria, ovvero lo spazio creaturale ove si dà la conoscenza, la possibilità della conoscenza umana di Dio. Chiaramente la verità seconda, esterna, è connessa alla prima, e ne dipende7. E questo comporta che anche la seconda rivelazione è rivelazione di Dio, in senso soggettivo ed oggettivo. La differenza tra le due rivelazioni, tra le due verità, sta nella forma. Rivelandosi alla creatura, Dio «si disvela per quello che è, velandosi in una forma, che egli non è». Ma, Offenbarung heisst Zeichengebung: “rivelazione è donazione di segni”8. Quindi anche la forma che non è Dio, è di Dio. Il segno sacramentale non costituisce termine medio tra Dio e l’uomo, perché non è meno divino della rivelazione primaria. La kenosi divina non raggiunge l’uomo. Dio non riesce a limitarsi. Il divino occupa tutto lo spazio della creazione. L’“esteriorità” di Dio è ancora Dio. Se nel Römerbrief Barth non riusciva a dare ragione della comprensione umana della Parola divina, nella Kirchliche Dogmatik non giunge a spiegare l’autonomia della conoscenza umana di Dio e quindi della possibilità del peccato e dell’errore. O tutto nel tempo, nell’illusoria storia dell’uomo, o tutto nell’eterno, nella unicamente reale storia della Grazia. Aut aut. Tra tempo ed eternità non c’è mediazione. E tuttavia, se nell’eterno si nega il tempo e nel tempo l’eterno, il tempo rinvia all’eterno, l’eterno al tempo. Ogni termine della relazione contiene in sé l’altro che lo nega. Ma non è proprio questo la mediazione: l’assoluto contraccolpo d’ogni termine in se stesso? Assoluto, ab‑solutus, sciolto da altro – perché ogni termi-

7. Cf. K. Barth, KD, II/1, pp. 51 ss. In merito cf. E. Jüngel, ED, pp. 113‑128. 8. K. Barth, KD, II/1, p. 56. Il passo continua così: «Man darf ruhig sagen: Offenbarung heisst Sakrament, d.h. Selbstbezeugung Gottes, Darstellung seiner Wahrheit und also auch der Wahrheit, in der er sich selbst erkennt, in der Gestalt geschöpflicher Gegenständlichkeit und damit in der Angemessenheit unserer geschöpflichen Erkenntnis».

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ne, l’eterno come il tempo, trova il suo altro e la sua negazione in se stesso. Questa ‘mediazione senza termine medio’ eccede, ovviamente, l’esperienza del cristianesimo storico9.

2. L’ambiguo rapporto teoria-prassi in Croce Il termine “prassi” designa, in Croce, un concetto molto ambiguo, perché per un verso indica una delle due forme fondamentali dello spirito, per un altro caratterizza lo spirito tutto, la generale (e generica) attività spirituale che si distingue in teoresi e prassi, e, più partitamente, in arte e logica la prima, in economica ed etica la seconda. Croce ha negato questa ambiguità, attribuendo ai suoi critici la confusione tra il poieîn, che è proprio dello spirito in quanto tale, ed il práttein che definisce una ed una sola forma del fare10. Ma proprio Croce non si attiene a questa distinzione. E non per difetto di rigore logico. Al contrario: è propria la coerenza dell’argomentare che impedisce di rispettare la ‘distinzione’. Richiamo il tema di maggior rilievo trattato ne La Filosofia della pratica: la distinzione tra accadimento e azione, quello opera del Tutto, o di Dio, come anche s’esprime Croce, questa del singolo. Ora, la ‘vera’ conoscenza, che, in quanto giudizio storico, ha a tema non l’agire isolato di un singolo individuo, bensì la trama complessiva delle molteplici e varie azioni – l’accadimento, l’hegeliano «operare di tutti e di ciascuno» («das Tun aller und Jeder»: PhäG, p. 314; it., I, p. 347). –, né biasima né loda: si può lodare o biasimare Giulio Cesare, ma non la

9. Sul tema rinvio a V. Vitiello, RC. 10. Cf. B. Croce, SPA, pp. 28‑30;e FS, pp. 3‑13. V. anche la “reazione” di Gentile alla cit. pagina de La storia: «La distinzione crociana di pensiero e azione», ora in: Id., IF, pp. 271‑277.

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storia di Roma! L’accadimento si giudica secondo “necessità e realtà”: «Ciò che è stato, doveva essere; e ciò che è veramente reale, è veramente razionale» (FP, p. 64). Significativa variante del celeberrimo apoftegma hegeliano. Ma – a parte l’inversione della sequenza dei termini “razionale” e “reale”11; a parte quel “veramente” che stride non poco accanto a “razionale” – quale il senso di quel “doveva essere”? Dovere nel senso di Sollen? Certamente no. Non può riferirsi all’accadimento, al Tutto, qualcosa come il dovere in senso morale, l’obbligatorietà a fare questo piuttosto che quello. La “razionalità” dell’accadere è data dal “fatto” che è “accaduto”. Se, anziché ciò che è accaduto, si fosse realizzato il suo contrario, di questo si direbbe parimenti: «ciò che è stato, doveva essere». Qui il dover‑essere indica una necessità più necessaria della stessa legge di natura, perché è la necessità del fatto, del già stato, che vincola anche la potenza divina12. Perciò Croce scrive: il giudizio (pratico) sulle azioni «innanzi all’avvenimento tace; e ogni storia è come un fiume impetuoso, che sboccando nel mare s’adegua alla calma dell’azzurra distesa. L’impeto delle azioni e delle loro vicende di vittorie e di sconfitte, di saggezza e di stoltezza, di vita e di morte, si ricompone nella pace solenne dell’“avvenimento storico”» (ib., p. 65). L’immagine è bella; ma non è solo un’immagine. Esprime il modo in cui Croce pensa la distinzione tra pensiero e azione, tra la storia che si conosce e la storia che si fa: tra la storia come necessità e la storia come libertà. La conoscenza è del 11. «Was vernünftig ist, das ist wirklich; und was wirklich ist, das ist vernünftig» (Hegel, GPhR, p. 14; it., p. 15). L’antecedenza di “razionale” a “reale” è proprio ciò che impedisce l’appiattimento della ragione storica sull’accaduto, sul “fatto”. Croce cerca di recuperare la “differenza” tra “ragione” e “fatto” introducendo l’avverbio “veramente” – ma il suo discorso, come si mostra nel testo, va in direzione esattamente opposta. 12. Aristotele cita Agatone: «di una sola cosa anche Dio stesso è privato, di rendere non fatto ciò ch’è stato fatto” (EN, Z, 1139b 10‑11),

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passato, l’azione del presente che fertur in incognitum (ib., p. 54), nell’incognitum del futuro. Strano presente e strano passato. Perché non sono il passato e il presente della catena del tempo, l’uno che succede all’altro. O, meglio, sono anche questo, ma non solo questo. La loro temporalità vera è una temporalità più profonda ed essenziale, perché è prima, logicamente prima, della successione. Già la descrizione della “pace solenne dell’avvenimento storico” ci fa comprendere che non si tratta di un passato che è tale perché non più vivo, o vivo soltanto nella memoria e nella vita presente e per quel tanto che vive in queste. La vita di questo passato è più vita di quella vita che scorre nel tempo – se nella sua pace solenne sono non solo vittorie e sconfitte, saggezza e stoltezza, ma pur vita e morte. L’“avvenimento storico” è allora propriamente quell’accadere che è oltre l’agire – oltre le azioni dei singoli –, quell’accadere che è “passato” solo perché già da sempre accaduto: passato ontologico, passato eterno. Ed infatti non occupa soltanto uno spazio limitato del tempo storico, ma si estende a tutto il tempo. In esso il tempo ha la sua verità. Il “passato” dell’accadimento storico è il luogo della “verità” dell’intera storia: della storia già avvenuta, come della presente e di quella avvenire. Invero il tempo‑successione con le sue scansioni – passato presente futuro – appartiene alla non‑verità dell’azione, alla non‑verità della prassi. Peraltro la “verità” dell’accadimento storico è essa medesima opera della prassi: della prassi “teorica”. Uso di proposito il termine “prassi” e non l’altro “poieîn”, perché come Croce medesimo spiega ne La Grazia e il libero arbitrio13 (qual tema più barthiano di questo?), la verità del giudizio storico – s’intenda: del giudizio sull’accadimento – è conquista, è

13. Il saggio crociano, forse più rilevante dal punto di vista speculativo, è raccolto in US, pp. 290-295. In merito cf. retro, P. I, Sez. I, cap. I, §§ 1-2.

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lotta contro l’errore, e questa lotta chiama in causa il singolo e la sua libertà, il singolo e la sua responsabilità. Teoria e prassi non sono due semicircoli che congiunti costituiscono il circolo completo della vita spirituale. Né, quindi, si alternano, o succedono, se non nell’empirica, accidentale esperienza di questo o quell’uomo. Nel loro essere reale, effettivo, sono coattuali e coincidenti. E come la teoresi ha una sua peculiare modalità d’agire – l’agire come esser agito, la pace solenne dell’avvenimento storico che accade passando oltre bene e male, saggezza e stoltezza, vita e morte –, così la prassi ha una sua peculiare verità e una sua specifica tensione alla verità: la verità come valore che si conquista nella lotta contro il disvalore, la verità come merito, come responsabilità, come impegno dell’individuo. E qui verità dice non solo logicità, ma anche bellezza contro bruttezza, utilità contro disutilità, bene morale contro il male e il peccato. Ma ora questo va rimarcato con forza: le due modalità d’essere della vita dello spirito – la teoretico-contemplativa e la pratico-attiva – sono in perenne contrasto. Perché quello stesso che nella prospettiva dell’azione è tensione al valore e lotta contro il disvalore, e quindi è individualità, libero arbitrio, responsabilità, nella prospettiva dell’accadimento è necessità, fatum ed amor fati, accettazione del Tutto e annullamento di sé nel Tutto. Eterno e tempo si contrastano in ogni punto, e dove è l’uno, là è anche l’altro, e viceversa. Non solo non v’è conciliazione ma all’interno di ciascun momento, di ciascun termine della contraddizione vi è tutt’intera la contraddizione. La prospettiva dell’eterno rinvia al tempo, questo al suo opposto, in una contradictio contradictionis che ricorda Barth. Anche nel suo esito: nonché ‘sostare’ nella contraddizione, come segno del limite dell’umano conoscere, Croce tentò di ‘superarla’. Ne La storia come pensiero e come azione, identificando le cate-

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gorie potenze del fare con i predicati dei giudizi storici, pose l’accadere sotto la ferrea legge della Necessità. Lo salvò – se lo salvò – la sua ‘incoerenza’: dopo aver identificato teoria (le categorie predicati dei giudizi) e prassi (le categorie potenze del fare), continuò a dire che la storia, che si pensa secondo necessità, si fa secondo libertà14.

14. Cf., oltre SPA, i saggi raccolti in CFM, in partic. nella Sez. VIII: “Paralipomeni al libro sulla Storia”.

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II Emo, o della negazione

1. La negazione è principio e tema fondamentale della filosofia hegeliana. E principio in quanto tema, e tema in quanto principio. È ambizione di Hegel, infatti, non ammettere nulla in filosofia che non sia il pensiero stesso a porre. Di qui il paradossale, ma necessario, inizio della Logica: la negazione di ogni possibile inizio. Perché, se si concede che l’inizio del pensiero è prima e fuori del pensiero, allora è necessario riconoscere che il pensiero non ha possibilità alcuna di controllo su se stesso, epperò nessuna certezza che possa provare, nessun fondamento che possa di-mostrare, dacché dipende da altro. Se, per contro, l’inizio è posto dallo stesso pensiero, allora l’inizio del pensiero coincide col suo movimento: allora non c’è affatto inizio. Ed è appunto questa la tesi che Hegel espone sin nelle prime categorie della Logica: essere, nulla, divenire. Il “primo” non è l’essere, né il nulla; primo è il “terzo”, la sintesi dei due, il Werden, che non consiste nel passare dell’essere nel nulla, né del nulla nell’essere, ma nell’esser-passati entrambi già da sempre l’uno nell’altro, e l’altro nell’uno. Vale a dire: non v’è mai essere che non sia già nulla e mai nulla che non sia già essere. I due si negano reciprocamente, piegandosi, ri-flettendosi ciascuno nell’altro. Se Hegel critica le filosofie

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della riflessione non è perché respinga la riflessione, al contrario perché intende portarla a compimento, piegando la riflessione stessa su di sé, elevandola a riflessione della riflessione. Ma questo non nel senso che vi sia prima la riflessione e poi la riflessione della riflessione, bensì nel senso esattamente opposto. Ancora un paradosso, ma necessario: il pensiero è come un raggio di luce che nasce riflesso: prim’ancora di uscire dalla sua sorgente, su di essa si piega. Non l’originato è per l’origine, quindi, ma l’origine per l’originato. L’origine è la traccia, il segno che l’originato lascia dietro di sé. Per spiegare questo paradosso Hegel distingue tre forme di identità-diversità: la prima è quella già illustrata da Platone nel Sofista con l’idea della comunanza dei generi, per cui l’identico è tale in quanto diverso dal diverso, e questo, il diverso, è tale in quanto identico a sé. In questa identità-diversità identico e diverso come si partecipano l’un l’altro, così si respingono: nel suo essere diverso dal diverso l’identico lascia fuor di sé il diverso, e parimenti questo che, proprio in quanto è identico a sé, esclude da sé l’identico. La seconda identità-diversità è quella per la quale l’identico differenziandosi dal diverso si fa esso medesimo diverso, e il diverso, identificandosi con sé, si fa esso medesimo identico: questa “seconda” identità-diversità di identico e diverso è senza residui, non lascia nessuna identità e nessuna diversità “fuori” dell’identico-diverso. Terza è l’identità-diversità che contiene la prima e la seconda: che mostra cioè come solo nel rapporto di estraneità tra identico e diverso è possibile all’identico non soltanto di essere diverso, ma di farsi tale, e al diverso non di essere identico, ma di divenire identico. La vera, reale identità-diversità è solo questa terza, che è la verità del rapporto non statico ma dinamico della partecipazione e della esclusione (della identità e della diversità) di identità e diversità. In questa triplice distinzione si riassume la partizione fondamentale della hegeliana Scienza della logica: Essere – Essenza – Concetto.

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2. Ponendo come prima l’identità-diversità che compare come terza (l’identità-diversità del concetto), Hegel ritiene di aver dissolto ogni possibile obiezione riguardo alla subordinazione della logica dell’essere a quella del divenire. L’essere – l’identità-­diversità che lascia fuor di sé sia l’identico che il diverso – è solo una posizione transeunte del divenire stesso. È l’essere che il divenire stesso pone nel suo “farsi”. E deve porre, altrimenti neppure s’intenderebbe perché nella logica tradizionale sempre l’essere si è imposto sul divenire. Solo che la soluzione di Hegel non è una vera soluzione. Per quanto il divenire non sia, ma divenga, per quanto Hegel si impegni costantemente a mostrare il divenire nel suo farsi, per così dire, dal di dentro, resta comunque che il pensiero proprio per l’esigenza di non lasciare nulla fuor di sé si impone come una totalità chiusa. Chiusa, anche se Hegel la definisce come un circolo di circoli. Infatti per quanto il circolo del pensiero si ampli in circoli di circoli, sempre ripete se stesso. È e resta quello che è: un circolo, appunto. Detto altrimenti: la negazione negando se stessa resta quello che è: negazione! L’identità con sé del pensiero che nega, chiude il movimento del negare nell’identità della negazione. Sensibile come pochi a questa “aporia” del pensiero hegeliano, Giovanni Gentile tentò di uscirne in due modi. Il primo fu di dare all’identità maggiore autonomia, riconoscendole una vita non effimera, e cioè concependola non come una posizione transeunte del pensiero, bensì come necessaria, e tuttavia solo “parziale”. L’identità (logo astratto) non viene mai meno, non è mai “superata” dal pensiero dialettico autodifferenziantesi (logo concreto), perché questo nella sua concretezza è l’unità di sé e del suo opposto. Quindi nessuna meraviglia che il divenire sia concepito come essere, che cioè anche del divenire si dica, e si dica legittimamente, che “è”: il logo astratto sempre accompagna il logo concreto. Pensare il divenire senza l’essere, questa è davvero l’astrazione somma, l’impossibile! Solo

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che l’“è” che si dice del divenire, l’essere o identità del divenire, è sempre e solo una “figura” del divenire, una giusta, ma limitata visione del divenire. Il logo astratto, com’è necessario, così è limitato. Ma Gentile non riesce a differenziare il logo astratto dal logo concreto. Perché l’identità con sé del divenire è pur essa movimento e dialettica. Anche il solo dire: “il divenire è divenire” comporta una differenza tra soggetto e predicato che fa dell’identità con sé del divenire (= dell’essere del divenire) un movimento ed una dialettica. Questo però non significa che per questa via si è giunti al pensiero del divenire qua divenire. Giusto il contrario: per questa via si è giunti a provare che quando il pensiero mira al divenire pensa l’essere, e quando mira all’essere pensa il divenire. Un esito doppiamente paradossale: ché il pensiero fa esperienza dell’impossibilità di pensare come il divenire così l’essere, o, più precisamente, come il divenire dell’essere così l’essere del divenire. 3. Il pensiero di Andrea Emo è tutto raccolto in questa duplice aporia. Ma il suo intento – ed è questo che caratterizza la sua instancabile, persino ossessiva, ricerca – non fu di superarla, ma di stare in essa. Divenire per lui è questa aporia del divenire e dell’essere. O, nella terminologia gentiliana mai da lui abbandonata, dell’attualità e dell’origine, dell’attualità e del tempo, dell’attualità e del nulla, dell’attualità e della trascendenza. L’origine – scrive – non è nel lontano passato, anzi nel presente dell’atto, che pone passato e futuro. La storia è tutta raccolta nella puntualità dell’istante. Ma questo, l’istante, è tale in quanto si nega. Pertanto se l’atto è negazione dell’origine è simul negazione della negazione: se l’atto è il nulla del tempo e della trascendenza, è insieme il nulla di sé, nulla di nulla, che è insieme nulla del nulla di sé. Divenire è questa insta-

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bile oscillazione tra attualità e trascendenza, attualità e nulla. Ma anche questa instabile oscillazione non deve “essere”, non deve riposare su di sé (SM, p. 125). Ma oscillando anche l’oscillazione, essendo instabile anche l’instabilità, non diviene perciò stesso stabile l’instabilità in quanto tale? Vogliamo dir questo: che la negazione davvero si nega, soltanto se non si nega! Infatti, la negazione, negandosi, non è più negazione, ma affermazione e solo affermazione. E non perché la negazione del negativo dia luogo al positivo (more mathemathico, secondo il quale il segno “−” preposto al segno “−” dà il segno “+”), bensì perché sin dall’inizio e poi sempre la negazione “è” negazione. Kaì tò mè òn eînai tò mè ón phamen (Aristotele, Met, IV, 1003b 10): diciamo anche del non-essere che è non-essere. 4. Per pensare il divenire – l’aporia del divenire, dacché il divenire o è aporetico o non è – è necessario pensare che la contraddizione (= la reciproca negazione) di attualità e origine, sia a sua volta contraddetta (negata) da una contraddizione (negazione) che non sia contraddizione, ma non-contraddizione, anzi di più: contraddizione (negazione) di ogni contraddizione (negazione), la contradictio contradictionis (negatio negationis): l’assoluto Identico prima d’ogni identità e di ogni contraddizione. “Prima” – perché se il toglimento della contraddizione segue la contraddizione come sua negazione (o contraddizione della contraddizione), allora il toglimento resta nella contraddizione, non la toglie: ripete e rafforza l’identità che intendeva negare, l’identità della contraddizione (o negazione). Ma questo “prima” non va inteso nel senso di Gentile che anteponeva all’Io penso, in quanto relazione soggetto-oggetto, l’Io-sentimento quale indistinta radice di questa relazione (era questo l’altro modo di Gentile per uscire dall’aporia del divenire, cf. § 2), perché in tal modo la nega-

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zione della contraddizione che è “prima” della contraddizione, è non solo contraddizione e negazione pur essa, in quanto contraddizione della contraddizione e negazione della negazione, ma – addirittura – origine della contraddizione e della negazione! Il nostro “prima” è atemporale – né prima né dopo. Neppure è riconducibile al “prima” logico, al prima della “premessa” e del “presupposto”. Il nostro “prima” è estraneo come alla connessione temporale così alla relazione logica (premessa-conseguenza). In breve: in tanto la negazione della negazione, la contraddizione della contraddizione non cade, o meglio: non permane, nell’auto-identità della negazione e della contraddizione, in quanto non è “reale”, e tanto meno “necessaria”, ma solo “possibile”. La contraddizione e la negazione sono davvero contraddette e negate, senza che la loro negazione e contraddizione sia negazione e contraddizione, se queste sono possibili e non reali. Con ciò non si vuol punto dire che contraddizione e negazione domani potranno essere negate e contraddette, o ieri sono già state contraddette e negate; vuol significare che “ora” sono negate e contraddette, e cioè che…… non sono affatto contraddizione e negazione, che “ora” quel che si esperisce come negazione e contraddizione non è contraddizione e negazione. La contraddizione della contraddizione e la negazione della negazione in tanto non sono contraddizione e negazione, in quanto la contraddizione e la negazione ch’esse negano e contraddicono non sono contraddizione e negazione. Ma quale esperienza, quale esercizio di pensiero è quello che nel pensare la contraddizione, la negazione, l’oscillazione pensa la contraddizione, la negazione, l’oscillazione come non-contraddizione, non-negazione, non-oscillazione, perché l’oscillazione oscilli, la contraddizione sia contraddetta e la negazione negata?

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Quell’esperienza che, pur vivendo completamente immersa nella contraddizione, alla contraddizione continuamente cerca di sottrarsi, quell’esercizio che, pur esplicandosi totalmente, compiutamente nella contraddizione, questa riduce, diminuisce, corrode. In che modo? 5. Torniamo a Emo, e leggiamo un suo brano ove più tesa è la contraddizione: Poiché l’attualità non è che negarsi, essa non può conoscersi; non può affermarsi, non può essere che trascendenza. La trascendenza del negarsi. Non possiamo pensare il nulla come originario e trascendente se non pensandolo come attualità, anzi come l’attualità, la soggettività del nostro pensarlo. La trascendenza dell’attualità (due termini che sembrano escludersi) contiene il nulla, perché è il suo pensarsi, il suo essere attualità come nulla. (SM, p. 125).

Emo coglie qualcosa di essenziale. L’attualità non può conoscersi – dice – perché si nega nella trascendenza. E viceversa. Qui la negazione del negativo non dà luogo ad un positivo, non dà luogo propriamente a nulla: non aggiunge, toglie. Ma non nel senso della hegeliana Aufhebung, perché qui nulla si conserva superando. O meglio, se qualcosa si conserva, e si conserva, ciò è solo perché il toglimento non riesce ad essere radicale, compiuto e completo. Il toglimento resta sempre ancora da compiere. Questo è l’esercizio mai completo della contraddizione-negazione, che togliendo, sottraendo mai tutto toglie, mai tutto cancella. La cancellazione, per essere una mèta che non si consegue, porta la contraddizione a piegarsi su se medesima: non riuscendo, nega se stessa, è negazione ed auto-negazione uno actu. Ma in questa negazione su di sé riflessa, in questa negazione auto-negantesi, non resta solo l’identità con sé della negazione auto-negantesi: doppia

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negazione e quindi identità di sé con sé; si anticipa, bensì, nell’esser-sé della negazione che non riesce ad essere se stessa in quanto negazione, la “possibilità” fondamentale che giace al fondo di se stessa: la possibilità di non essere negazionecontraddizione. Attenzione: “possibilità” si è detto; perché se fosse “realtà”, sarebbe già negazione della negazione, e con ciò identità con sé del negarsi, identità con sé del contraddirsi. Da questa identità con sé del contraddirsi mai non si esce nell’esercizio della contraddizione-negazione; ma quella contraddizione-negazione che piegandosi su di sé anticipa la possibilità della identità che è contradictio contradictionis, con-tiene – e cioè: tiene in sé e tiene-insieme – quella contraddizione-noncontraddizione che, essendo possibilità della contraddizione e della non-contraddizione, si sottrae alla logica come dell’identità, così della contraddizione. Ed è questo ciò che “non può conoscersi”. Perché si sottrae ad ogni determinazione fissa. 6. Emo, tuttavia, nel punto stesso in cui s’approssima a questo pensiero che è negativo perché sottrattivo, riduttivo, da esso si allontana. L’attualità non può conoscersi, perché non può affermarsi come tale, in quanto è trascendenza, e questa, a sua volta, è attualità. Entrambe, poi, sono la soggettività del pensiero. Emo non riesce a sottrarsi alla logica della “copula”, dell’“è”, della terza persona, alla logica che inchioda anche il non-essere ad essere non-essere; e, perciò, proprio là dove è più vicino a concepire la negazione non come luogo di nascita del positivo, bensì come tensione al possibile – a ciò che davvero non si conosce, perché ad esso si giunge col togliere il pensiero, una via negationis mai conclusa, perché il termine ultimo, il possibile è insieme maius e minus quam cogitari potest –, ripete la logica hegeliana della negazione determinante, della negazione che dà luogo al positum, all’unico vero positivo che è il divenire: “la trascendenza dell’attualità (due

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termini che sembrano escludersi)”. Con Hegel Emo intende di-mostrare che l’esclusione non è esclusione, anzi è inclusiva del suo altro, e perciò è contraddizione, la contraddizione positiva del divenire. 7. Ora è del tutto evidente che dal positum non si esce, perché in tanto è possibile sottrarre, in tanto è possibile un esercizio di riduzione, in quanto c’è qualcosa da ridurre. Si pensa, se ed in quanto c’è una figura del pensiero. Ma si pensa metafisicamente, o meglio: kata-fisicamente, se si riesce nell’esercizio della riduzione-sottrazione. La figura – o “idea”, in senso originario, il lógos, o parola, in quanto “significato” – deve comunque restare perché l’esercizio della riduzione-sottrazione possa esplicarsi, ma non ciò che resta è importante, ma quello che si è tolto, e quello che va ancora tolto. L’esercizio del pensiero negante si volge quindi a ciò che è oltre l’iconologia della mente (oltre l’“idea”, il “significato”). E non si tratta di un esercizio occasionale e gratuito, anzi necessario. Perché la stessa iconologia della mente porta a guardare fuori, ad uscire dal linguaggio-significato. L’essenziale del pensiero di Emo sta qui: mostrando che nessuna posizione del pensiero si tiene in sé, e che proprio la suprema necessità del pensiero – quella di porsi come assoluto – non si giustifica, dà ragione dell’impossibilità di dare ragione. Pertanto, se la parola-significato non si regge su se medesima, è giocoforza uscire da essa: Dobbiamo stabilirci subito nell’assoluto; senza poter giustificare questo arbitrio iniziale. D’altra parte come pervenire all’inizio? Ma, come si giustifica, come si spiega questo assoluto che siamo già? Forse non potremmo né essere né pensare se fossimo un assoluto solo. Ma siamo sempre una contraddizione, cioè due

432 contrari. Siamo, per esempio, attualità e divenire, attualità e negazione. E perché non possiamo stabilirci in una posizione senza negarla. Siamo installati nell’attualità, siamo soltanto attualità; ma l’attualità continuamente ci abbandona, si fugge e ci sfugge: e noi stessi fuggiamo. Il desiderare l’istante futuro è perciò stesso una fuga. L’attualità, appunto perché tale, si muta continuamente in divenire, e noi siamo continuamente infedeli al nostro principio, siamo infedeli al tutto. (DN, p. 26).

Il tempo stesso è qui considerato come una fuga. Una fuga dall’attualità, da quello che sempre siamo. Il futuro viene così esperito non come un positivo, anzi come un negativo. È il risultato del sottrarsi dell’attualità. Ma in quanto tale, esso medesimo, il futuro, è attualità. Il risultato della sottrazione è una presenza, un’attualità – un positum – che ancora fugge e ci sfugge, da cui noi stessi fuggiamo. Il risultato della sottrazione è un’ulteriore sottrazione. Un’identità, che però non è salda in sé, perché ha in sé la possibilità della sua nullità. Attuale è solo l’esperienza della possibilità che questa esperienza sia nulla. Come dire: facciamo esperienza del tempo solo nella rovina del tempo. Nel venir meno del tempo. Ma pur sempre nel tempo. 8. La riduzione-sottrazione a cui qui si fa riferimento non consiste nella negazione del giudizio apofantico nell’identità del soggetto che ha già in sé il predicato (come avviene nella critica di Severino a Hegel) – non consiste, cioè, nella riduzione del giudizio sintetico all’analitico. La “riduzione sottrattiva” non si risolve nella tesi del predicatum inest subjecto. Perché ha di mira non il “soggetto” del giudizio quale termine primo della predicazione, bensì ciò che è prima del significato, ciò che è prima dell’immagine o figura del pensiero, quindi dello stesso soggetto. Il problema del pensiero sottrattivo è anzi-

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tutto genealogico, è il problema di spiegare in che modo si è costituito il “significato”, l’“idea” (eîdos), che è il soggetto del giudizio. Ed è una genealogia che, procedendo dal gesto inaugurale del corpo animale dell’uomo e dal “respiro”, o “suono” che l’accompagna, narra il sorgere della memoria che custodisce nel “suono” la traccia del gesto, mutando il suono del respiro in voce significante, in parola. Questa narrazione non è narrazione di fatti, ma di eventi, di possibilità. Perché narra ciò che è “prima” e “fuori” del significato, dice nelle forme dell’iconologia della mente, ciò che è prima dell’iconologia. Perciò il suo dire è sottrattivo, è un dire allusivo, simbolico, allegorico. Un dire cui è inadeguata la forma copulativa della terza persona, e pur quella della prima. Un dire che si esprime nella forma della seconda persona: tu sei. Perché tutto quello che dice è sì riferito all’altro, a quello che intenziona, ma resta sempre nel cerchio del parlante. Ne consegue che quel che il parlante dice dell’altro “può” appartenere come non appartenere all’altro, dice ciò che può essere dell’altro, dice della possibilità dell’altro, non della necessità. Il “possibile” è dunque l’unico legame che resta tra il dire e il détto, il parlante ed il suo altro. Un legame che lega tanto poco da essere solo possibile. 9. Sarebbe vano cercare in Emo una genealogia del genere. Quando varca il muro del significato, le colonne d’Ercole dell’iconologia della mente, Emo si accosta all’origine al modo stesso di Giovanni Gentile che pretendeva oltrepassare la soglia dell’Io penso col pensiero, definendo ciò che è oltre l’Io, come Io: Io immediato, Io-senso o Io-sentimento, ma pur sempre Io, originante origine. Ne è testimonianza questo brano, tratto dal Quaderno 359 del 1973: Ci chiediamo come sia possibile che una potenza oscura, cioè inconsapevole, abbia creato, insieme all’universo come un

434 tutto, anche la chiarezza incomparabile del nostro intelletto e della nostra coscienza, la sovranità della nostra anima. Il nucleo oscuro, l’atto unico e assoluto della creazione, conteneva nella sua chiusa oscurità originaria tutta la luce? (SM, pp. 147-148)

La domanda, chiaramente, contiene già in sé la risposta. E tuttavia Emo non placava la sua inquietudine con questa risposta. Già anni prima, chiedendosi se “la Parola della Salvezza è il silenzio”, si rispondeva “in realtà la parola come il suono in sé, come la vista e la luce, come il tatto, è la differenza in sé dell’attualità del nulla” (VM, p. 43). Questa espressione – attualità del nulla – non ha un unico e definito significato. Se spesso, anzi: il più spesso, indica la sintesi hegeliana e gentiliana del divenire, non mancano, tuttavia, tracce di un pensiero più radicale, che intende il nulla come quel minus quam cogitari potest, di cui si è parlato sopra. Minus che può – può – anche essere maius: L’interno della cattedrale è il vuoto; l’anima della cattedrale è il vuoto, che deve essere affermato e insieme difeso con la durezza della pietra. […] Vi è un presagio della sacralità del vuoto nel tempio greco? L’interiorità dell’anima e l’interiorità della cattedrale: questa è la luminosa attualità nella sua infinita varietà fiorita dall’interno (e intimo vuoto) che lo crea. Il vuoto è stato prima della sua forma. Tutte le religioni sono il tempio del nulla. Perciò la divinità che è il sacro nulla, appunto perché è l’attualità, ha sempre bisogno di un tempio, di una Chiesa. (VM, pp. 43-44, a. 1966).

L’anima della cattedrale ha bisogno della durezza della pietra per essere difesa, perché, inafferrabile come il vuoto, insostanziale come il nulla, non svanisca? o non, piuttosto, perché non faccia svanire noi, mortali? La recinzione del Sacro è custodia del Sacro da noi, o non piuttosto di noi, mortali, dal Sacro? Gli dèi, il Dio, le divine immagini del Sacro che i mortali si creano sono forse gli schermi necessari ai mortali per proteg-

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gersi dall’impossibile possibilità del Sacro, indistinta comunione di Terra e Cielo, pietà e sdegno, indifferenza e ripulsa? È questo il senso ultimo della contraddizione e della negazione? La difesa dalla insecura insecuritas del Sacro? Dalla possibile implosione del Divino e Celeste nell’aoristica inestensione del Sacro? Strana difesa, che riduce se stessa, smangiando la pietra del tempio. Vero è che il tempio vive solo nelle e delle sue rovine, dove le colonne, cadute, sembrano anelare alla terra, all’ingens sylva da cui la mano dell’uomo l’ha tratte. Forse il mortale ha bisogno della morte, per non dimenticare l’origine. La morte custodisce il mistero dell’origine. La possibilità noumenica del non-tempo che giace al fondo del tempo che si ritiene reale. La negazione della contraddizione (genitivo soggettivo) è allora solo un rinvio, una metafora, un’allegoria? […] l’attualità, come Don Chisciotte, come noi, vive in quanto può credersi differente da ciò che è. (SM, p. 118).

Al punto da dimenticare che può essere esattamente quello che è. La negazione della contraddizione (genitivo soggettivo) è dunque un esercizio di memoria? C’è altro modo, per il mortale, di accostarsi alla noumenica possibilità dell’eterno fuor della memoria?

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Bibliografia e Sigle

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Vinci P.: AH = “L’Antigone di Hegel. Alle origini tragiche della soggettività”, in Antigone e la filosofia, a c. di P. Montani, Donzelli, Roma 2001, pp. 31-46. Vitiello V.: EE = Ethos ed Eros in Hegel e Kant, ESI, Napoli 1984. GH = “Dialettica e ripetizione: Gentile e Heidegger”, “Archivio di Filosofia”, Cedam, Padova 1989, pp. 51-72. TM = Topologia del moderno, Marietti, Genova 1992. VG = “Verità e Giudizio”, in AA. VV., Confini della filosofia. Verità e conoscenza nella filosofia contemporanea, Ibis, Como-Pavia 1994, pp. 66-88. VR = La voce riflessa. Logica ed etica della contraddizione, Lanfranchi, Milano 1994. CsR = Cristianesimo senza redenzione, Laterza, Bari 1995. NDSN = Non dividere il sì dal no. Tra filosofia e letteratura, Laterza, Roma-Bari 1996. CM = “Città e morale: Agostino e Kant”, nel vol. coll. La Città di Dio nel tempo. «homo viator», Città Nuova, Roma 1997, pp. 77-97. DP = Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, Città Nuova, Roma 2002. DiS = Dire Dio in segreto, Città Nuova, Roma 2005. HH = “Alla radice dell’intenzionalità: Husserl e Heidegger”, in AA. VV., Heidegger a Marburg (1923-1928), il melangolo, Genova 2006, pp. 127-154. RC = Ripensare il cristianesimo. De Europa, Ananke, Torino 2008.

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GP = Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, ETS, Pisa 2009. ETN = Europa. Topologia di un naufragio, Mimesis, Milano 2017. Werder K.: Logik = Logik. Als Commentar und Ergänzung zu Hegels Wissenschaft der Logik, Berlin 1841, rist. anast., Gerstenberg, Hildesheim 1977. Wieland W.: APh = Die aristotelische Physik, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19702, tr. it. di C. Gentili, Il Mulino, Bologna 1993. Per i Frammenti dei Presocratici si rinvia all’ed. it., con testo greco a fonte, curata da G. Reale, della classica raccolta di H. Diels e W. Kranz, Bompiani, Milano 2006; per le opere di Platone, all’edizione J. Burnet, voll. 4, Oxford 1979-1984, e per la tr. it. a Id., Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 20085; per i tragici greci a: Eschilo, Sofocle, Euripide, Tutte le tragedie, tr. it., con testo greco a fronte, a cura di A. Tonelli, Bompiani, Milano 2011; per i Vangeli e le Lettere di Paolo al Nuovo Testamento. Greco Latino Italiano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1998.

Indice

Prefazione alla II edizione

p. 9

Introduzione

p. 13

Fonti

p. 27 Parte I: Dalla storia alla logica

Sezione I: Relazione

p. 33

I - La storia tra eternità e tempo. Il sillogismo nascosto

p. 35

II - Del Giudizio e del Sillogismo

p. 77

Sezione II: Identità I - In-finito. Intelletto/ragione – concreto/­astratto

p. 117

II - Dall’attualismo alla filosofia dell’identità

p. 145

III - La proposizione speculativa: il linguaggio della filosofia

p. 169

Sezione III: Al di là dell’essere I - Dall’essere all’essenza

p. 185

II - Prima dell’Essere (Quod esse praecedit)

p. 201

Appendici I - La prassi tra struttura e storia

p. 239

II - La carne e lo spirito

p. 265

III - Dell’Uno e del Pensiero

p. 283

Parte II: Tra Logica e Fenomenologia I - Sillabare Hegel. Rileggendo Bertrando Spaventa interprete di Hegel

p. 303

II - Due divergenti letture della Fenomenologia dello spirito: Augusto Vera e Bertrando Spaventa

p. 323

III - Ut pictura in tabula. Concreto e astratto nella Logica di Giovanni Gentile

p. 345

IV - I due ‘cominciamenti’ nell’interpretazione spaventiana di Hegel

p. 365

V - Enzo Paci tra due fenomenologie

p. 389

Ex-cursus I - La Grazia e il libero arbitrio. Un “improbabile” confronto: Barth e Croce

p. 413

II - Emo, o della negazione

p. 423

Bibliografia e Sigle

p. 437

Zeugma | Lineamenti di filosofia italiana 6 - Classici

Collana diretta da: Massimo Adinolfi e Massimo Donà Comitato scientifico:

Andrea Bellantone, Donatella Di Cesare, Ernesto Forcellino, Luca Illetterati, Enrica Lisciani Petrini, Carmelo Meazza, Gaetano Rametta, Valerio Rocco, Rocco Ronchi, Marco Sgarbi, Davide Tarizzo, Vincenzo Vitiello.

ISBN E-book 9788885716414

Seconda edizione riveduta e ampliata. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento la filosofia di Hegel ha suscitato in Italia, insieme con originali interpretazioni, nuovi indirizzi di pensiero che, pur richiamandosi al filosofo tedesco, si sono presentati come ‘alternativi’ ad esso. Hegel in Italia è la ricostruzione di questo periodo per molti versi significativo della storia della cultura filosofica non solo italiana, ma europea. Il libro, diviso in due parti, tratta, nella prima (edita nel 2003 e da tempo esaurita) del ‘passaggio’ dalla riflessione sulla storia – nella quale la ‘lezione’ di Marx ha giuocato un ruolo fondamentale – alla costruzione di una ‘nuova’ Logica, e nella seconda, aggiunta in questa edizione, del complesso, problematico rapporto tra “Fenomenologia” e “Logica”. Se al centro della I Parte sono Croce e Gentile, nella II la scena è dominata da Bertrando Spaventa, l’interprete italiano insieme più fedele e più originale di Hegel. L’ultimo capitolo del libro è dedicato a Enzo Paci, figura eminente della filosofia italiana. Vincenzo Vitiello insegna attualmente Teologia politica all’Università “San Raffaele” di Milano. Ha tenuto conferenze, seminari e cicli di lezioni in Università e Istituti di Cultura europei ed extraeuropei. Suoi scritti sono tradotti in tedesco, spagnolo, francese, inglese, polacco. Pubblicazioni recenti: L’immagine infranta. Linguaggio e mondo da Vico a Pollock (Bompiani, Milano 2014); Europa. Topologia di un nufragio (Bompiani, Milano 2017); Per lumi sparsi. Narrazioni d’arte e di filosofia (Moretti&Vitali, Bergamo 2018) e Dell’Essere e del Possibile (insieme con Emanuele Severino, Mimesis, Milano 2018).

€ 15,00