Gusto. L’intelligenza del palato
 9788842096030

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Universale Laterza 920

Rosalia Cavalieri

Gusto L’intelligenza del palato

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, là dove non è stato possibile rintracciarli per chiedere la debita autorizzazione. Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9603-0

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Introduzione

Il gusto nella bocca

Gli animali si sfamano, l’uomo mangia, solo l’uomo d’ingegno sa mangiare Jean Anthelme Brillat-Savarin Fisiologia del gusto

Tutti gli uomini si nutrono, ma pochi sanno distinguere i sapori Confucio [Il gusto è] un sapere che gode e un piacere che conosce Giorgio Agamben Gusto

Quanti libri sono stati dedicati al senso del gusto? Pochissimi. Se sull’alimentazione, sul cibo, sulla cucina, sulla tavola e sulla degustazione esiste una letteratura vastissima, non altrettanto può dirsi per il gusto propriamente detto, il senso che ci mette in contatto con gli alimenti, facendocene conoscere il sapore, e senza il quale non esisterebbero né le scienze gastronomiche né, più in generale, le scienze sensoriali. Vittima di uno dei luoghi comuni della riflessione filosofica degli ultimi duemilacinquecento anni – entro ­v

cui un filone maggioritario ha contrapposto i sensi all’intelletto e ha distinto i sensi corporei dai sensi cognitivi, unici delegati alla conoscenza –, il gusto è considerato, al pari dell’olfatto, un senso inferiore, il più carnale e il più viscerale, il più soggettivo e perciò il più distante dalla conoscenza. Diversamente dagli oggetti visivi, più stabili e più duraturi (e diversamente, anche, dagli oggetti sonori formalizzati in una forma scritta), i sapori e i profumi sono radicati nell’effimero. Essendo volatili ed evanescenti passano: una ragione in più per escluderli dall’indagine teoretica e dal dibattito epistemologico sulla percezione sensoriale. Sopraffatto, almeno nella cultura occidentale, dal primato dei sensi cosiddetti ‘nobili’ – la vista e l’udito – il gusto diventa oggetto d’interesse scientifico e culturale specialmente a partire dalla Physiologie du goût, ou Méditations de gastronomie transcendente di J.A. Brillat-Savarin, il saggio di ‘gastrofilosofia’ che, pubblicato nel 1825, segna la nascita della scienza gastronomica. Ancora oggi tuttavia, di contro a una sovrabbondante letteratura scientifica e filosofica sulla vista e sull’udito, questa importante facoltà della nostra cognizione collocata nella bocca rimane poco studiata. Le teorie della percezione elaborate in ambito filosofico, psicologico, fenomenologico e, in tempi recenti, nelle scienze cognitive hanno privilegiato l’occhio e l’orecchio, trascurando l’analisi delle conoscenze trasmesse dal naso e dal palato, organi dei sensi più direttamente implicati nel nostro rapporto con il cibo, quelli che esprimono maggiormente la nostra natura animale e che più spesso sono associati alla corporeità, ai piaceri frivoli, alla concupiscenza e alla sregolatezza. Non è un caso se, al di fuori di alcune trattazioni prettamente fisiologiche, non è facile trovare libri interamente consacrati a questo senso. Eppure esso è legato a quello speciale ritmo della nostra vita quotidiana entro cui necessità, piacere e conoscenza vengono a realizzare un’armonia talmente perfetta ­vi

che questo solo dato sarebbe a nostro avviso sufficiente per eleggere il gusto a oggetto d’interesse filosofico. Quando si parla di gusto è facile però incorrere in fraintendimenti semantici, se pensiamo che lingue e culture diverse usano questo termine per riferirsi tanto al gusto corporeo quanto al gusto spirituale, distinti e tuttavia somiglianti come osservava D. Hume in La regola del gusto (1757: 36). Nel suo significato letterale, la parola rinvia anzitutto al senso attraverso cui riconosciamo e valutiamo i sapori e, per estensione, alla sensazione di piacevolezza o spiacevolezza ricavata da alimenti e bevande: espressioni come gusto ‘amaro’, ‘dolce’, ‘delicato’, ‘cattivo’, ‘un gelato al gusto di cioccolato’ o ancora ‘assaporare con gusto’, ‘mangiare con gusto’ traducono alcune possibilità di questa accezione. E detti come ‘de gustibus non est disputandum’ (‘sui gusti non si deve discutere’) oppure ‘è questione di gusti’ esprimono la soggettività dei giudizi, per l’appunto attraverso l’immagine del gusto come modo assolutamente personale di percepire le cose. Nel corso dei secoli XVII e XVIII, al significato sensoriale (l’unico conosciuto nell’Antichità e nel Medioevo) si affianca un valore figurato e, nella maggior parte delle lingue europee, la nozione di gusto comincia a essere riferita anche alla facoltà del giudizio (estetico, ma anche etico), alla capacità tipicamente umana di discernere le cose belle e al sentimento che ne scaturisce: da qui formule come ‘avere gusto’, ‘educare il gusto estetico’, ‘vestire con gusto’, ‘avere il gusto della poesia’ o ‘avere il gusto del bello’ o, su un piano più propriamente morale, ‘avere buon gusto’ (cioè avere un certo equilibrio, il senso del limite e della temperanza). Questo dono di distinguere i nostri alimenti – scrive Voltaire in Il tempio del gusto (1733: 103) – ha prodotto in tutte le lingue conosciute la metafora che esprime, attraverso la parola gusto, il sentimento della bellezza e dei difetti in tutte le arti: è un discernimento immediato, come quello della lingua e del palato, e che precede, come quello, la riflessione; come quello, è sensibile

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e voluttuoso nei confronti di ciò che è buono; come quello, respinge con un conato ciò che è cattivo.

Insomma, si può gustare la bellezza di un tramonto o di un dipinto proprio come si gusta una prelibatezza gastronomica. In quest’accezione, il gusto diventa l’oggetto dell’estetica, la disciplina filosofica che si occupa del bello e dell’arte e che al gusto come senso interno, capace di emettere giudizi indipendenti dall’analisi razionale, ha consacrato un interesse ormai ampiamente consolidato lungo una tradizione che risale al Settecento, attestato dai numerosissimi saggi sull’argomento. Non altrettanto può dirsi del gusto materiale, una forma di conoscenza sensibile a lungo misconosciuta dai ‘saperi alti’ e raramente ritenuta degna di trattazioni sistematiche: persino i filosofi dell’arte, pur così attenti al parallelismo tra il gusto in senso letterale e il gusto in senso estetico, tra preparazione del cibo e creazione artistica, hanno escluso il gusto materiale dalle teorie della formazione dell’estetica del gusto. Andando un po’ contro le tendenze dominanti, in questo libro ci occuperemo solo del gusto nella sua accezione fisica. Organo comune alla funzione nutritiva e alla funzione linguistica (due funzioni filogeneticamente opposte e considerate, rispettivamente, la meno cognitiva e la più cognitiva, la più corporea e la più spirituale), la bocca conferisce al gusto quell’affascinante ambivalenza che ne fa una forma di accesso al mondo insieme corporea e cognitiva, una chiave di lettura dei fenomeni in cui la facoltà di verbalizzare le cose, di interpretarle, di discernerle, di memorizzarle, di giudicarle fa sempre tutt’uno con il ‘sapore’ delle cose stesse. Perciò, lungi dal configurarsi come un tema frivolo, banale ed estraneo al sapere astratto e, inevitabilmente, ‘disincarnato’ della filosofia, il gusto e tutte le attività che lo riguardano (mangiare, bere, degustare) promuovono, a nostro parere, un approccio filosofico innovativo e tale da smentire i tanti pregiudizi e i tanti luoghi comuni accettati senza riflettervi. Questioni ­viii

inerenti all’esperienza quotidiana – e niente è più quotidiano del gustare e dell’apprezzare un alimento o una bevanda – diventano così l’oggetto di una riflessione critica che, sconfessando antiche credenze sulla percezione umana, esplora territori di solito ritenuti privi di interesse conoscitivo, tanto dalla filosofia quanto dalla scienza, perché troppo compromessi con la sfera della corporeità e delle emozioni, con i comportamenti primari legati alla sopravvivenza, con i piaceri ‘densi’ dell’esistenza. Avvalendoci dei risultati di discipline diverse (fisiologia, neuroscienze, antropologia, filosofia, psicologia, etologia, linguistica, gastronomia, analisi sensoriale), analizzeremo il gusto da varie prospettive, con l’intento di valorizzare il modo in cui questo strumento cognitivo, intimamente connesso all’olfatto, ci assicura un accesso alla conoscenza del mondo assolutamente unico e specificamente umano, arricchendo e completando il nostro modo di interagire con l’ambiente esterno. Basti pensare che il gusto rappresenta quell’atto ‘estremo’ di conoscenza incarnata, che consente a un soggetto di assimilare totalmente l’oggetto esterno fino a farlo diventare parte di sé. Ci occuperemo poi tanto del ‘gusto di un alimento’ quanto del ‘gusto per un alimento’: il primo concerne le molteplici sensazioni fisiologiche prodotte da un cibo solido o liquido sull’apparato gustativo propriamente detto, il secondo investe le preferenze e le avversioni verso un alimento e quindi la dimensione emozionale del gustare e la sua variabilità individuale e culturale. Ma non potremo naturalmente trascurare la trasformazione del sapore materiale in un’esperienza intellettuale e in un valore sociale. Il gusto come conoscenza, come intelligenza del corpo e, nel contempo, come fonte di piacere raffinata e propriamente umana, implica infatti il problema del rapporto tra la percezione e il linguaggio, ovvero il problema del passaggio da un’esperienza di per sé soggettiva a un sapere condiviso attraverso la parola – e ciò chiama in causa il ruolo della corporeità nel linguaggio stesso. Se infatti la ­ix

sensibilità gustativa è una delle componenti più ‘carnali’ della nostra conoscenza, le parole con cui la descriviamo dovranno necessariamente trattenere le tracce di questa esperienza corporea. Solo gli animali umani, in quanto animali parlanti, hanno tramutato l’atto del gustare in un ‘sapere’ condiviso e in una valutazione sinestetica in cui tutti i sensi entrano variamente in scena. Come osservava già Brillat-Savarin, la gourmandise (nel senso positivo di ‘arte del mangiar bene’ e soprattutto del ‘saper mangiare’) è prerogativa dell’uomo, «il grande buongustaio della natura» (1825: 37). Tutte le specie animali mangiano e bevono per soddisfare un’istanza fisiologica, ma solo l’uomo ha, com’è ovvio, un atteggiamento sapiente nei confronti del cibo: è capace di cuocere i cibi, di concepire una ghiottoneria e di condividerne la consumazione, e di descrivere un vino o una vivanda. Se è vero che tutti i sensi, variamente contribuendo a farci conoscere il mondo e a farci interagire con esso, hanno pari dignità gnoseologica, dedicare un libro alla sapienza del gusto è – ci pare – un modo per restituire dignità a una porzione della nostra conoscenza sensibile e, nel contempo, per capire cosa ci distingua da tutti gli altri animali, anche nei comportamenti che non sembrano esclusivi della nostra specie. Un libro, quindi, che possa in qualche modo approfondire la conoscenza e l’uso consapevole e avvertito di un senso a lungo predominato da una mentalità iperrazionalista e prevalentemente visivo-acustica. Apprendere la grammatica del gusto, coltivarne ed esercitarne la ‘sensatezza’ – è proprio il caso di dirlo –, riconoscendogli il valore intellettuale e culturale che gli compete, non significa certo invalidare la funzione cognitiva tradizionalmente assegnata alla vista e all’udito: significa, semmai, aderire al mondo in modo più ampio, con uno slancio più umano, ma, insieme, più critico perché meglio connesso a quel tipo di conoscenza della realtà cui, pur entro un’ineliminabile ‘concertazione’ sinestetica, ogni senso, gusto incluso, sa contribuire con un accento suo proprio. ­x

Questo saggio (come peraltro quello già dedicato all’olfatto: Cavalieri 2009) mira al superamento delle gerarchie e delle dicotomie (mente vs corpo, intelletto vs sensi, ragione vs emozioni), nella convinzione che tutti i meccanismi sensoriali abbiano una funzione cognitiva certa, anche se variamente misurabile a seconda delle modalità d’uso e dei contesti applicativi. Al pari della dimensione intellettuale, la dimensione materiale non è esclusiva di nessuno dei nostri sensi, perché tutti i nostri sensi, ancorché fisiologicamente ‘materiali’, sono nello stesso tempo ‘intellettuali’, dal momento che ogni loro input viene elaborato dal cervello per il tramite della percezione – un processo cognitivo di interpretazione e di valutazione delle informazioni sensoriali. Come l’odore, come l’immagine e come il suono, anche il sapore è un’esperienza conoscitiva materializzata nella valutazione sensoriale, nella riflessione su quella modalità intima di appropriazione e di conoscenza del mondo che coincide anche con un piacere e con la sua condivisione. Un piacere del palato ma soprattutto un’avventura intellettuale che stringe la mente al corpo, la ragione alla passione, il piacere alla necessità. Il ‘menu’ che qui imbandiamo al lettore prevede cinque portate: la prima (as)saggia gli effetti del gusto nella filosofia e nella scienza, la seconda è specificamente fisiologica, la terza considera il saper gustare e la convivialità, la quarta celebra le emozioni del palato, i suoi piaceri e i suoi ‘dispiaceri’, la quinta suggella il convito con le parole del gusto e della degustazione, non senza accennare alla grammatica della degustazione. Non resta dunque che augurare a tutti i lettori buon appetito!

Gusto L’intelligenza del palato

Capitolo primo

Il gusto nella filosofia e nella scienza

1.1. Il gusto dei filosofi Quale posto occupa il gusto nella gerarchia dei sensi? La tradizione filosofica occidentale che ci riporta almeno a duemilacinquecento anni fa, e che ha fortemente condizionato il nostro modo di sentire, di percepire e anche di pensare la realtà, ha collocato il fulcro della nostra razionalità nella vista e nell’udito, i sensi ‘cognitivi’, a scapito del tatto e specialmente del gusto e dell’olfatto, relegati al rango di sensi ‘minori’. Le ragioni di questa marginalizzazione vanno ricercate anzitutto nell’atteggiamento razionalistico dominante in questa tradizione, che ha fatto del dualismo mente-corpo un suo tratto caratteristico, riprodotto in altre dicotomie ancora oggi centrali negli studi sulla conoscenza, sulla mente e sulla percezione: intelletto vs sensibilità, ragione vs passione, astratto vs concreto, attivo vs passivo, cultura vs natura, senso vs significato, computazionale vs neurale (riferita, quest’ultima, ai due contrapposti paradigmi delle attualissime scienze cognitive). Troppo impegnati a pensare e a esaltare le abilità intellettuali, i filosofi hanno finito col dimenticare di avere un corpo dotato di sensi che mediano il rapporto con la realtà. Sebbene in questo panorama non siano mancati i paladini della conoscenza sensibile, a partire da Protagora, ­3

Aristotele, Epicuro, Lucrezio, Tommaso d’Aquino, fino ai materialisti, ai sensisti e agli empiristi del Seicento, del Settecento e dell’Ottocento, la speculazione filosofica ha mantenuto un prevalente atteggiamento di ‘cecità cognitiva’ nei confronti della conoscenza sensibile e in particolare nei confronti dei sensi più compromessi con l’esperienza corporea, con il desiderio e con i bisogni primari legati alla sopravvivenza, sottovalutandone il ruolo nella conoscenza del mondo circostante. Diversamente dal vedere, dall’udire e in qualche misura anche dal toccare – comportamenti coscienti e misurabili, fonti più affidabili e necessarie di conoscenza del mondo –, gustare e annusare, le due modalità chimiche di accesso alla realtà esterna, sono comportamenti associati all’animalità, intimamente connessi con le emozioni e con gli appetiti, temuti per la loro capacità di scatenare passioni primarie talvolta incontrollabili. Se la vista e l’udito sono sempre pronti e attivi (o almeno così crediamo), il gusto agisce occasionalmente, mentre l’olfatto pur essendo l’unico senso sempre attivo perché connesso alla respirazione è un dispositivo sensoriale di cui siamo poco consapevoli, e questo contribuisce a spiegarci perché siamo meno esperti nel gustare e nell’annusare anziché nel vedere e nell’udire. Si aggiunga che la soggettività delle impressioni forniteci da questi sensi è di solito analizzata in una forma centrata sul soggetto percipiente anziché sull’oggetto, e ciò acuisce la difficoltà a trasformare le sensazioni del palato e del naso in oggetti stabili, circoscrivibili e pertanto condivisibili attraverso il linguaggio. Gustare e annusare sono esperienze per così dire ‘private’, intime (due individui distinti non possono godere dello stesso oggetto contemporaneamente e ricavarne le medesime sensazioni), variabili, con un raggio d’azione estremamente limitato rispetto ai sensi della ‘distanza’, la vista e l’udito, e per ciò stesso non sono facilmente comunicabili come i nostri sensi ‘pubblici’: ecco perché sono ritenuti inaffidabili dal punto di vista della conoscenza e conseguentemente sono ­4

poco esercitati nella cultura occidentale, che di certo non si è preoccupata dell’educazione del gusto e dell’olfatto. La ‘prossimità’ caratteristica del gusto (il suo dover entrare direttamente in contatto con gli oggetti) è peraltro tale da esporre al rischio di far confondere soggetto e oggetto percepito che, diventando addirittura un’unica entità, ostacolano l’analisi e il giudizio della cosa gustata da parte di chi la gusta. Diversamente dal gusto (e dal tatto, l’altro senso di contatto), la vista e l’udito invece agiscono a distanza dai loro oggetti, un’altra ragione della loro presunta superiorità sul piano epistemologico. La svalutazione filosofica dei nostri sensi più carnali si è spinta al punto da contaminare l’arte, in quanto forma di conoscenza affidata ai sensi. L’estromissione della sensibilità materiale dai giudizi artistici è sancita chiaramente da Hegel: «il sensibile dell’arte si riferisce solo ai due sensi teoretici della vista e dell’udito, mentre risultano esclusi dal godimento artistico olfatto, gusto e tatto. Infatti questi tre sensi hanno da fare con la materialità come tale e con le sue qualità immediatamente sensibili» (1823: 48). E se la pittura, la scultura, l’architettura, la musica, la danza, la poesia e il cinema sono annoverate storicamente tra le arti per definizione, alla culinaria e alla distillazione (preparazione di alcolici) – strettamente legate al gusto – come anche alla profumeria (creazione dei profumi) – espressione della genialità dei ‘nasi’ –, si fatica ancora a riconoscere tale statuto. Assimilando la culinaria alla retorica, già Platone le aveva negato dignità artistica, considerandola una pratica empirica finalizzata al piacere e al diletto più che una forma di conoscenza (Gorgia 462d, 522a). E d’altra parte, come osserva N. Perullo (2006: 52), «la caratteristica di scomparire, consumati, apparentemente senza tracce residue, fa dell’esperienza degli oggetti alimentari qualcosa che appare irriducibile a una dimensione puramente museale, conservativa o replicativa». Nel dominio della gastronomia fa eccezione solo il vino, che una relativa capacità di conservazione avvicina all’opera d’arte: non a ­5

caso esistono i collezionisti di vini, comparabili ai collezionisti di quadri, mentre non si danno collezionisti di pietanze, semmai di ricette o di ricordi saporiti (ivi: 60, 62). Appunto per il loro carattere viscerale e affettivo, gusto e olfatto hanno finito per rappresentare facoltà del tutto opposte all’intelletto. Ma nonostante questa svalutazione filosofica, la capacità – immanente al gusto – di giudicare gli alimenti e di apprezzarli si riflette nel linguaggio comune (come spiegheremo meglio nel terzo capitolo) in virtù dell’analogia tra il sapere e il sapore: il sapiente è colui che vuole assaporare, fiutare, arguire. E l’olfatto, poi, se da una parte è intimamente legato all’intelligenza del corpo, agli appetiti, alla sessualità, dall’altra parte, nell’immaginario sociale e in molte espressioni colloquiali dettate dal senso comune, ha un nesso privilegiato con la conoscenza, è sinonimo di buon senso, di acume intellettuale: ‘sagace’ deriva dal latino sagire, ‘fiutare’, e ancora oggi è sinonimo di prontezza cognitiva, di istinto infallibile, di quel ‘sesto senso’ o senso della conoscenza intuitiva celebrato dal più olfattivo dei filosofi, Nietzsche, che non esitava ad affermare «il mio genio è nel mio naso» (1888: 128), additando nel fiuto uno strumento sottile di conoscenza. Di una persona dotata d’intuito, in genere si dice che ‘ha naso’, capacità cioè di cogliere subito ciò che il cervello comprende più lentamente. Ma ‘avere naso’ significa anche essere capace di riconoscere ciò che altri non percepiscono. Una trattazione completa delle concezioni del gusto nella storia della filosofia occidentale esula dagli obiettivi di questo saggio: ci limiteremo perciò a proporre solo alcuni esempi significativi. Certo non si può dire che nella storia della filosofia manchino considerazioni occasionali sul senso del gusto, sul cibo, sulla cucina o sull’alimentazione, né tanto meno sul mangiare e sul bere. Studiato soprattutto come una forma di conoscenza sensibile all’interno delle dottrine gnoseologiche e fisiologiche che trattano dell’anima e delle sue facoltà, nonché del rapporto tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza, l’argomento ­6

tuttavia non è stato mai oggetto di trattazioni sistematiche: l’eccessivo coinvolgimento con il corpo, con la sfera affettiva e passionale e con i piaceri frivoli (per lunghissimo tempo rimossi nella nostra cultura anche per effetto della tradizione cristiana e della sua condanna dei piaceri del corpo), e la debole attitudine cognitiva hanno determinato l’esclusione del gusto dalla ricerca filosofica. Questa marginalizzazione ha inizio almeno con Platone, che estromette dalla riflessione filosofica tutto ciò che ha da fare con il corpo, con il piacere, con la concupiscenza, e specialmente con le intemperanze che minacciano la sovranità della ragione preposta all’esercizio della virtù: il cibo, il gusto connesso al suo consumo e la pratica culinaria rientrano pienamente in questa condanna. «Ti pare che un vero filosofo possa curarsi di piaceri come quelli del mangiare e del bere? – osserva il Socrate di Platone nel Fedone (24-27) – Niente affatto – risponde Simmia – E di quelli dell’amore? Nemmeno. [...] Credo che il vero filosofo le disprezzi tutte queste cose». Idea ribadita nel Timeo (73a), dove la golosità è considerata una nemica della filosofia e della cultura in genere. E tanto il Timeo quanto La Repubblica riflettono la medesima ‘psicologia’ in cui l’anima appetitiva e ferina – incline alla brama di cibi e di bevande, alle pulsioni più basse appartenenti all’ambito della necessità animale – deve sottomettersi all’anima razionale, e i piaceri della conoscenza devono prevalere su quelli del corpo. Per di più, Platone colloca la culinaria tra le pseudo arti, come la retorica e la ginnastica, pratiche empiriche lontane dalla conoscenza e orientate solo ad allettare i sensi. Com’è tipico del suo atteggiamento antidealistico e della sua conseguente curiosità scientifica, Aristotele giudica l’anima inseparabile dal corpo: essa è la sostanza (nel senso di forma) di un corpo (cfr. Dell’anima, d’ora in avanti DA). Pur considerando l’esperienza sensibile il movente di ogni conoscenza, egli non esitava a proporre una gerarchia dei cinque sensi come modi reciprocamente ­7

incommensurabili di percepire la realtà esterna: in questa gerarchia, il gusto è collocato tra i sensi minori. La vista e l’udito, i sensi della ‘distanza’, concorrono maggiormente allo sviluppo della ragione: la vista più di tutti gli altri ci permette di cogliere molte differenze tra le cose e ci dà più conoscenze, oltre ad essere il senso migliore ai fini della nostra conservazione; l’udito contribuisce indirettamente all’intelligenza per il suo rapporto con il linguaggio e con l’apprendimento (Metafisica, 980a; Del senso e dei sensibili, d’ora in avanti DSS, 436b-437a). Assimilato al tatto, il senso più acuto nell’uomo anche rispetto agli altri animali, il gusto è un senso della ‘vicinanza’ con cui giudichiamo la gradevolezza o sgradevolezza del cibo: senza ricorrere a mezzi percettivi estrinseci, entrambi realizzano un’adesione diretta all’oggetto (nel caso del gusto, lo spazio d’adesione è la bocca). Nonostante l’analogia tra questi due sensi, il gusto, proprio perché «è una forma di tatto» (DA, 421a) situato nella lingua, è più perspicuo dell’olfatto. Un senso, quest’ultimo, poco raffinato e «di molto inferiore a quello degli animali e alle altre nostre sensazioni» (DSS, 441a), che Aristotele colloca al confine tra i sensi della distanza e quelli della vicinanza (DSS, 445a). Dalla mescolanza di dolce e amaro derivano i sapori, distinti da Aristotele in sette classi, individuate più facilmente degli odori in virtù della maggiore acutezza del gusto: dolce-grasso, amaro, salato, aspro, pungente, agro, acido (DSS, 442a). Caratterizzati da una scarsa propensione all’astrazione e dalla mancanza di un vocabolario specifico, difficilmente identificabili per la loro evanescenza, gli odori traggono la loro identità dal genere dei sapori – un genere meno vago – e, grazie all’affinità degli oggetti percettivi, ne mutuano persino nomi e definizioni: così diciamo che «l’odore del croco o del miele è dolce, quello del timo o di altre cose del genere è pungente, e allo stesso modo per gli altri casi» (DA, 421a-b). Quanto al comportamento dell’uomo saggio nei confronti dei piaceri materiali del gusto e del tatto e dei pia­8

ceri intellettuali della vista e dell’udito, nell’Etica Eudemia (d’ora in avanti EE) Aristotele assume una posizione netta che non lascia dubbi sulla superiorità riconosciuta ai sensi intellettuali rispetto a quelli corporei: cedere ai primi, godendo per esempio degli odori o dei gusti dei cibi, è segno di debolezza morale, cedere ai secondi, emozionandosi di fronte a una melodia, alla vista di una cosa bella o all’odore di un profumo delizioso, vuol dire invece rafforzare la propria umanità, differenziarsi dagli altri animali. Non rispetto a tutti i piaceri né a tutte le cose piacevoli il moderato è moderato, bensì lo è, a quanto sembra, intorno a due tipi di sensazioni, quelle del gusto e quelle del tatto, che anzi in realtà si riducono a quella del tatto. Il temperante non è tale, infatti, rispetto al piacere che proviene dalla vista delle cose belle, in cui non ci sia desiderio erotico, né rispetto al dolore suscitato dalle cose turpi, né rispetto al piacere proveniente dall’ascolto di suoni armonici o dal dispiacere di quelli disarmonici, e neppure rispetto ai piaceri e dispiaceri dell’odorato, provenienti da buoni o cattivi odori. [...] Se dunque qualcuno o vedendo una bella statua o un cavallo o un uomo, o ascoltando un canto, non volesse più mangiare, né bere, né fare l’amore, ma volesse solo vedere quelle belle cose o ascoltare quei canti, non sarebbe intemperante, come non lo sembrano quelli che sono incantati dalle sirene. Invece l’intemperanza è relativa a quei due tipi di sensazioni, per le quali soltanto anche gli altri animali dotati di sensibilità provano piacere e dolore, cioè le sensazioni del gusto e del tatto. [...] Si deve porre, in generale, l’intemperanza in rapporto alle sensazioni tattili. [...] L’ubriachezza, la voracità, la lussuria, la golosità e tutti i vizi siffatti sono relativi alle sensazioni suddette e l’intemperanza si suddivide appunto in queste parti. Invece rispetto ai piaceri provenienti dalla vista o dall’udito o dall’olfatto nessuno è detto intemperante se eccede (EE, 1230b-1231a; cfr. anche Etica Nicomachea, 1118a-b).

La disapprovazione dei piaceri corporei e delle intemperanze legate al cibo, alle bevande, al sesso e ai due sensi più carnali, gusto e olfatto, si rafforza nell’epoca cristiana, accentuando la contrapposizione tra corpo e spirito, anche ­9

se l’esercizio della virtù diventa una questione di volontà più che di saggezza. Nei suoi scritti Agostino d’Ippona riprende la distinzione aristotelica tra sensi della distanza e sensi di contatto, i primi spirituali e i secondi materiali, riconoscendo il ruolo primario della vista, il più nobile e il più intellettuale dei sensi. La superiorità dei sensi razionali si manifesta nell’oggettività delle sensazioni fornite dalla vista e dall’udito e nella loro possibilità di essere condivise da più persone simultaneamente. Questo non accade con il naso e il palato, i sensi più ‘personali’, quelli che richiedono l’appropriazione e la trasformazione dell’oggetto da parte del soggetto percipiente: «anche il cibo, quantunque sia il medesimo e sia consumato tutto da me e da te insieme, non può tuttavia essere preso tutto da me e tutto da te al modo che io odo tutta una parola e tu la puoi udire tutta nel medesimo tempo. Così tu puoi vedere di una determinata figura tanto quanto ne veggo io. Al contrario è necessario che del cibo e della bevanda una parte passi in me e l’altra in te» (De libero arbitrio, II: 7,17, citato in Prosperi 2007: 57). La percezione dei sapori resta pertanto un’esperienza intima, non accessibile contemporaneamente a individui distinti. Quanto al piacere derivato dai sensi, Agostino non ha dubbi: come ogni forma di libidine, appetiti e desideri alimentari vanno domati nella misura in cui oltrepassano le necessità di nutrimento. «Questo piacere del mangiare, dunque, lo si deve reprimere non col mangiare, ma con l’astinenza» (Contra Iulianum, 14, 67, citato in Prosperi 2007: 67). Pur fondandosi sull’esperienza sensibile, la teoria gnoseologica di Tommaso d’Aquino mantiene la distinzione tra i sensi superiori, la vista – il più perfetto e spirituale – e l’udito, entrambi dediti alla conoscenza, e i sensi inferiori, olfatto, gusto e tatto, prevalentemente affettivi. Giacché subiscono un cambiamento fisico sia dell’organo sia dell’oggetto, tatto e gusto sono i sensi più materiali. Assimilato al tatto, il gusto si differenzia da esso per il fatto di essere limitato alla cavità orale e specialmente perché, ­10

al contrario di quello, non è necessariamente modificato dall’oggetto che gli si presenta: se a contatto con un corpo caldo la mano inevitabilmente si scalda, la lingua, a contatto con il sapore di un cibo, non ne assume le caratteristiche (Summa Theologiae, I parte, quest. 78, articoli 3 e 31, citato in Prosperi 2007: 249, 279-80). La preoccupazione di tenere separate sensorialità e spiritualità non coinvolge in alcun modo Montaigne, fautore di una visione olistica dell’essere umano, dove i piaceri spirituali non escludono quelli materiali. I sensi, benché subordinati alla ragione, sono il fondamento di ogni conoscenza ma anche fonte di godimento, e questo vale in modo speciale per il palato e per il naso. Il suo apprezzamento per i buoni odori e per i piaceri a essi connessi trova compiuta espressione nel libro I dei suoi Saggi (1580-1595), in un capitolo a carattere autobiografico (cap. LV). Incline ad apprezzare anche i piaceri della buona cucina e a descriverli in modo seducente, Montaigne si rammarica di non possedere l’arte di aromatizzare i cibi i cui segreti sono noti a «quei cuochi che sanno adattare gli odori eterogenei con il sapore delle vivande, come specialmente fu notato in casa di quel Re di Tunisi il quale, all’epoca nostra, approdò a Napoli per abboccarsi con l’imperatore Carlo. I suoi cibi erano conditi di droghe odorose, con tale abbondanza, che un pavone e due fagiani arrivavano al prezzo di cento ducati per prepararli alla loro maniera; e quando venivano tagliati, riempivano non solo la sala, ma tutte le camere del suo palazzo, e fin le case del vicinato, di un profumo assai soave che non si perdeva tanto presto» (ivi: 340). Nel Seicento, Cartesio ribadisce il primato intellettuale della vista, considerando tatto e gusto i sensi più grossolani: «ogni comportamento della nostra vita dipende dai nostri sensi e, poiché la vista tra questi è il più universale e il più nobile, non v’è alcun dubbio che le invenzioni che servono ad accrescerne la potenza siano tra le più utili che si possano dare» (1637: 185; cfr. anche 1664). Non esistono comunque sensazioni indipendenti dalla sostanza pensan­11

te e le informazioni mutevoli fornite dai sensi non servono a farci conoscere la vera essenza delle cose ma soltanto a mantenere in vita il corpo e a informarci su ciò che è utile o dannoso. Il vero va ricercato attraverso un’indagine del pensiero che oltrepassi l’apparenza dei dati sensoriali. È quanto emerge dalla nota analisi del pezzo di cera, che trasformatosi davanti al fuoco perde le sue caratteristiche sensoriali (odore, gusto, colore, forma), restando solo un pezzo di cera: che si trovava dunque in questo pezzo di cera che si conosceva tanto distintamente? Nulla certo di quelle cose che mi pervenivano attraverso i sensi [...]. La cera stessa non era cioè questo sapore dolce del miele, né la fragranza dei fiori, né questo candore, né la forma, né il suono, ma un corpo che poco fa mi appariva visibile sotto questi aspetti ed ora sotto altri. [...] Poiché mi è ora noto che i corpi stessi non sono propriamente percepiti dai sensi o dalla facoltà dell’immaginazione, ma dal solo intelletto, e che non sono percepiti perché li tocchiamo o li vediamo, ma solo perché li concepiamo, mi è assolutamente manifesto che non v’è nulla che possa conoscere con maggior facilità ed evidenza della mia mente (1641, Seconda Medit.: 677, 680).

Nel secolo dei Lumi, i filosofi sensisti, i materialisti e gli edonisti, sostenitori del valore della conoscenza sensibile, e quindi della corporeità, fonte di tutte le conoscenze razionali, operano un ribaltamento della classica gerarchia dei sensi: così il primato della vista viene trasferito al tatto, il «più filosofico» dei sensi (Diderot 1751), quello che ci dà accesso al mondo esterno. Nel Trattato delle sensazioni (1754), Condillac raffigura questo progetto di riabilitazione attraverso il noto esperimento mentale della statua (uno schema già proposto da Diderot e da lui definito un esperimento di «anatomia metafisica» [1751]): privandola dapprima di tutti i sensi e quindi di qualsiasi idea, egli immagina di animare la statua fornendole progressivamente uno per volta i cinque sensi, per dimostrare che tutte le nostre conoscenze e tutte le nostre facoltà derivano dal­12

le sensazioni. Il bisogno di nutrimento fa sì che i sapori, più necessari alla statua rispetto agli odori, la colpiscano con maggiore vivacità: «il gusto può di solito contribuire più dell’odorato alla sua felicità e alla sua infelicità». Data però l’analogia tra i due sensi, la statua talvolta potrà fare confusione tra un sapore e un odore (Condillac 1754: 389-90). Se il gusto, come gli altri sensi, contribuisce alla formazione delle conoscenze e allo sviluppo delle facoltà cognitive – con la differenza che l’impellenza di nutrimento può distogliere la statua dai piaceri degli altri sensi – è pur vero che con le sensazioni del gusto l’uomo crede di essere sapore, come con quelle della vista crede di essere colore e così via: solo l’intervento del tatto, istruendo tutti gli altri sensi, trasforma le modificazioni semplici dell’anima in qualità degli oggetti esterni e quindi in idee (ivi: 541). La riflessione nasce dunque dal tatto, l’unico senso che permette all’anima di conoscere la realtà, di distinguere l’io dagli oggetti esterni. Anche con Rousseau il tatto continua a riconquistare terreno sul piano cognitivo, divenendo complementare alla vista. Senso della lontananza, senza il quale non percepiremmo alcuno spazio, proprio per la sua estensione la vista è tra tutti i sensi il più fallace (1762: 61); esso pertanto ha bisogno della verifica del tatto che con la sua precisione, seppur limitata ai confini delle mani, ci fornisce le conoscenze più certe. Nonostante sia sempre attivo, il tatto è tra tutti i sensi quello che giudica in modo più limitato e grossolano ma più preciso, dandoci accesso diretto alle conoscenze necessarie per la nostra conservazione. L’occhio a sua volta ci permette di giudicare in modo più immediato, ancora prima che la mano raggiunga l’oggetto (ivi: 149-150, 158-159). Quanto al gusto, un senso materiale, Rousseau ne evidenzia l’intima connessione con l’odorato, che per così dire lo anticipa (ivi: 186-187), e la peculiarità affettiva: «mille cose sono indifferenti al tatto, all’udito, alla vista; ma non c’è quasi nulla di indifferente al gusto»; la sua lontananza dall’immaginazione lo differenzia tuttavia ­13

dall’olfatto, definito al contrario «il senso dell’immaginazione» (ivi: 180, 186). Riguardo alla ghiottoneria, un appetito naturale, una passione della fanciullezza preferibile alla vanità, con l’età sarà sostituita da mille sentimenti impetuosi. Quando permane negli adulti è invece un «vizio di cuori privi di qualità. L’anima del ghiottone è tutta nel suo palato; egli è fatto solo per mangiare; nella sua stupida incapacità, è al suo posto solo a tavola, non sa giudicare altro che piatti» (ivi: 181). Nella gerarchia sensoriale di Kant, il gusto, al pari dell’olfatto, la cui importanza è limitata soltanto alla tutela del nostro benessere, non gode di una posizione privilegiata. Soggettivo più che oggettivo, dedito più al godimento che alla conoscenza, questo senso di contatto è strettamente connesso all’odorato: se «l’odore dei cibi è una specie di pregustazione», la perdita dell’olfatto invece impoverisce anche il gusto (1798: 575, 578, 580). Diversamente dall’annusare, il gustare è tuttavia più incline alla socialità perché promuove la condivisione del godimento, ma come quello non può essere l’oggetto di una teoria critica. La polemica nei confronti della filosofia disincarnata, della mente privata dell’esperienza corporea e dei sensi inferiori in particolare, si accende con Feuerbach che individua nell’uomo «il superlativo vivente del sensualismo, [...] il più sensuale e il più sensibile di tutti gli esseri del mondo. Egli ha in comune i sensi con l’animale, ma soltanto in lui la sensazione da essere relativo, subordinato ai bassi scopi della sopravvivenza, diventa essere assoluto, fine in sé, godimento in se stesso»: così, solo rendendo gli uomini felici li si può migliorare, «volete farli felici, allora andate alle sorgenti di ogni felicità, di ogni gioia – ai sensi. La negazione dei sensi è la fonte di ogni pazzia, di ogni malvagità, di ogni malattia nella vita umana, il riconoscimento dei sensi è la fonte della sanità fisica, morale e teoretica» (1846: 122-123). Oltre a teorizzare l’importanza dei sensi, ragion d’essere dell’esistenza umana e fondamento dell’attività di pensiero, entro una concezione olistica dell’uomo («tutto ­14

dicono i sensi, ma per capire i loro detti bisogna collegarli. Pensare significa leggere nelle loro connessioni i vangeli dei sensi» – ivi: 127; e già nello scritto del 1843 contrapponeva alla vecchia filosofia in «continua disputa contro i sensi» la nuova filosofia che, al contrario, «è la filosofia dei sensi» – 1843: 122), Feuerbach abolisce la classica gerarchia restituendo dignità cognitiva al gusto e all’olfatto. «Anche i sensi inferiori, come l’odorato e il gusto, si elevano, nell’uomo, alla dignità di atti spirituali e scientifici», perché, diversamente dal determinismo animale, oltrepassano i vincoli che li legano ai bisogni fisiologici: libertà e universalità sono, infatti, tratti specifici dell’uomo preso nella sua totalità» (ivi: 137). La riabilitazione del gusto trova espressione nella sua difesa dello stomaco, generalmente denigrato come attributo bestiale: «lo stesso stomaco dell’uomo, per quanto noi lo guardiamo con disprezzo, non è una cosa ferina ma umana, perché è universale, cioè non è limitato a un genere particolare di alimenti. D’altronde, è per questo motivo che l’uomo non è schiavo di quella voracità con cui la bestia si butta sulla preda» (ivi: 138). Il gusto umano rintraccia il suo fondamento nella specificità del corpo umano, nella sua mancanza di restrizioni alimentari e per ciò stesso di limitazioni: la stazione eretta e la possibilità di manipolare il cibo sono le condizioni necessarie dell’onnivorità. Dal sapore decisamente materialistico, la nota affermazione di Feuerbach secondo cui «l’uomo è ciò che mangia» (1850: 144) – perché i cibi si trasformano in sangue e questo a sua volta in cervello e cuore, quindi in pensieri e sentimenti – restituisce al mangiare e al bere («gli atti più umili agli occhi della nostra pseudocultura soprannaturalistica» – ivi: 136) valore filosofico, al punto da individuare nella questione dell’alimentazione la soluzione di uno dei più complicati rompicapi filosofici, il problema mente-corpo: «ora sappiamo sulla base di motivi scientifici ciò che da tempo il popolo sapeva per esperienza, ossia che mangiare e bere mantiene congiunti anima e corpo, che quindi il le­15

game cercato è l’alimentazione» (ibidem). Ecco perché per migliorare la cultura e i sentimenti di un popolo bisogna migliorare i suoi cibi. La rivalutazione della saggezza del corpo e dei sensi, ivi inclusi quelli meno spirituali, continua con Nietzsche. Nel denunciare tra le pericolose idiosincrasie dei filosofi quella nei confronti dei sensi, Nietzsche osserva che «possediamo ogni scienza esattamente nella misura i cui ci siamo risolti ad accogliere la testimonianza dei sensi – nonché nella misura in cui li affiniamo, li armiamo e insegniamo loro a pensare fino in fondo» (1888a: 42). Nel contesto della sua critica spietata nei confronti della religione cristiana e della filosofia idealista, oltre a elogiare il naso come senso perspicace, indicando nel fiutare uno strumento di conoscenza psicologica («e quali raffinati strumenti di osservazione abbiamo nei nostri sensi! Il naso, per esempio, di cui ancora nessun filosofo ha parlato con riverenza e gratitudine, è talora il più delicato strumento che sia posto a nostra disposizione» – ivi: 41-42), Nietzsche rivela nel problema dell’alimentazione, ancor più che nelle curiosità da teologi, una questione dalla quale dipende «la salvezza dell’umanità» (1888: 33-34). E indicando nelle questioni morali, in ogni specie di passioni, insomma in tutto ciò che dà colore all’esistenza argomenti di studio meritevoli di ben altra attenzione da quella loro riservata, Nietzsche si chiede, per esempio, se si conoscono gli influssi morali degli alimenti e se «esiste una filosofia del nutrimento», rispondendo che «non esiste ancora una tale filosofia!» (1882: 59). La fenomenologia classica, invece, non sembra abbia dato peso ai sensi carnali, ed è significativo che MerleauPonty, nonostante la sua attenzione per il corpo, nella Fenomenologia della percezione (1945) – un saggio in cui la fenomenologia diventa una conoscenza interamente centrata sul corpo e sulla percezione che lo investe nella sua globalità, e dove la sinestesia è considerata un’esperienza quotidiana – non riconosca nel gusto una forma di sapere. ­16

La filosofia contemporanea mantiene la contrapposizione tra soggetto e oggetto, continuando a legittimare la subordinazione del corpo alla mente, dei sensi all’intelletto, e all’interno dei sensi continua a valorizzare le conoscenze forniteci dalla vista in virtù della loro oggettività, misurabilità e comunicabilità. Il filosofo fenomenologo H. Jonas in un saggio dal titolo emblematico, The nobility of sight (1954), argomenta e difende le ragioni della centralità di cui la vista ha sempre goduto in ambito filosofico. Nel contesto dell’attuale filosofia della mente e specialmente all’interno della riflessione sulla coscienza, la questione dello statuto ontologico dei qualia (quelle sensazioni prettamente soggettive che accompagnano gli stati percettivi come degustare un cibo o un vino, annusare il profumo euforizzante di un gelsomino o ammirare un tramonto) è assai controversa e divide quanti come D. Dennett (1988) giudicano queste qualità mere apparenze, esperienze assolutamente ‘private’, descrivibili solo dalla persona che le prove e perciò prive di interesse scientifico, e quanti invece come J. Searle (2004) ammettono la presenza di sensazioni qualitative in ogni esperienza cosciente e ritengono impossibile affrontare il problema della coscienza riducendolo agli aspetti meccanici del cervello senza spiegare anche le sensazioni soggettive. Lo psicologo americano H. Gardner, autore della teoria delle ‘intelligenze multiple’ (1983), nel descrivere e classificare il carattere multiforme dell’intelligenza, pur osservando che un uso acuto dei sistemi sensoriali ne fa dei candidati naturali per un’intelligenza umana, non sembra incline a concedere tale riconoscimento all’acutezza del gusto e dell’olfatto, tagliati fuori così dai sette macroraggruppamenti dell’intelligenza da lui ipotizzati. E nel panorama contemporaneo delle scienze cognitive, il modello computazionale della mente (intesa come sistema di manipolazione di simboli) separato dal corpo e dal mondo, adottato dagli studiosi della prima generazione eredi dell’intelligenza artificiale, continua ad avere mol­17

ti sostenitori. La teoria della mente incarnata (embodied cognition), caratteristica invece delle scienze cognitive di seconda generazione, superando il tradizionale dualismo platonico-cartesiano, ha restituito dignità cognitiva al corpo e all’esperienza sensoriale, assumendo che i vari aspetti della conoscenza (idee, pensieri, concetti, categorie) siano modellati dal corpo e dalla struttura del cervello. Ma anche entro questo nuovo approccio continua a prevalere la visione classica della gerarchia dei sensi, dove il primato della visione – attorno al quale del resto è saldamente organizzata gran parte della nostra esperienza e dei nostri schemi cognitivi e di rappresentazione della realtà – è confermato dalla quantità di studi a essa dedicati nell’ambito della ricerca psicologica, neuroscientifica, etno-antropologica, linguistica e filosofica. Per fare solo un esempio, l’attualità di questo primato viene sancita in modo esplicito dall’etologo e neuroscienziato G. Vallortigara quando afferma: «nella nostra specie la visione è il senso più importante tra le modalità sensoriali, ed è stata studiata così bene da costituire la modalità privilegiata per una comparazione dei mondi percettivi delle diverse crea­ ture» (2000: 15). Nell’ultimo ventennio, comunque, non sono mancati lavori filosofici – variamente orientati – sul tema del gusto gastronomico e del cibo, segno di un cambiamento auspicabilmente motivato da un nuovo modo di intendere e di praticare la filosofia come quell’amore per la sapienza che dovrebbe includere il nostro modo di stare nel mondo e di conoscerlo come esseri fatti di corpo e di carne e non solo di mente1.

1  Cfr. ad esempio: Onfray 1989 e 1995; Telfer 1996; Heldke, Curtin (eds.) 1992; Korsmeyer 1999; Smith (ed.) 2007; e in italiano: Rigotti 1999, 2008, e i saggi di estetica gastronomica di Perullo 2006, 2008 e 2010.

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1.2. Le scienze del gusto Lo studio scientifico del gusto ha una storia recente iniziata a cavallo tra Ottocento e Novecento, epoca in cui ai dati introspettivi si coniugano quelli provenienti dagli studi psicofisici. E.B. Titchner (allievo di W. Wundt, padre della psicologia sperimentale) ha reso popolare la teoria dei quattro gusti fondamentali, dolce, salato, acido, amaro (già formulata dal suo maestro) nella prima edizione del saggio An outline of psychology del 1893. Pochi anni più tardi, il ricercatore tedesco D.P. Hänig (1901) elaborava quella mappa dei quattro gusti fondamentali che avrebbe segnato l’orientamento degli studi scientifici sul gusto nel mondo occidentale. Gran parte delle nostre conoscenze comuni sulla fisiologia di questo senso, ancora oggi ampiamente utilizzate in molti libri di testo, fanno riferimento alla tesi di Hänig e alla sua mappa dei vari tipi di papille distribuiti sulla superficie della lingua, una tesi a suo tempo male interpretata: attraverso la misurazione delle soglie gustative dei quattro sapori fondamentali, lo scienziato tedesco si era limitato a indicare le regioni della lingua più sensibili al dolce, al salato, all’acido e all’amaro – un dato peraltro a tutt’oggi confermato – ma non aveva mai detto che i diversi gusti non fossero recepibili anche in altre zone della lingua. Questa interpretazione distorta, perpetuata nella letteratura scientifica fino ai nostri giorni, è stata smentita negli anni Settanta grazie a dei test elettrofisiologici con cui gli scienziati hanno dimostrato la sensibilità delle papille gustative distribuite sulla lingua e sul palato molle a ciascuno dei gusti fondamentali, pur confermando variazioni di sensibilità all’interno di ogni area. Ma già all’inizio degli anni Quaranta, con i primi studi neurofisiologici, la registrazione dei segnali elettrici delle fibre gustative permetteva per la prima volta di accedere direttamente alle informazioni inviate dai recettori gustativi al cervello. La ricerca contemporanea ha poi provato che, nonostante la ­19

loro maggiore sensibilità a un particolare stimolo, i singoli recettori responsabili della trasmissione dei segnali al cervello sono in grado di rispondere a tutti i gusti di base (cfr. infra, in particolare § 2.1.). E se i ricercatori di tutto il mondo occidentale hanno riconosciuto da un secolo l’esistenza delle quattro sensazioni gustative di base, solo di recente hanno accolto con un consenso crescente il quinto gusto, l’umami (cfr. infra, § 2.1.), la cui unicità è invece nota da molto tempo ai palati orientali. Lo psicologo austriaco H. Henning nel 1916 aveva elaborato un modello teorico del senso del gusto, del quale ancora oggi si tiene conto, rappresentato da un tetraedro ai cui vertici sono collocati i quattro gusti di base. Benché nelle intenzioni del suo ideatore il tetraedro rappresentasse un gradiente continuo di sensazioni gustative intermedie collocate tra i sapori fondamentali, considerati solo come descrittori semantici di riferimento, spesso è stato, e lo è ancora, eccessivamente semplificato, restringendo il gusto alle quattro sensazioni fondamentali (cfr. Marconi et al. 2007: 2). Oggi, nel nostro continente la ricerca scientifica sul gusto, sul suo funzionamento sensoriale e percettivo, sui comportamenti di consumo e sui fattori che li influenzano, sui segnali interni che informano il cervello sullo stato nutrizionale dell’organismo, sulle aree cerebrali e sui sistemi neurochimici che integrano i differenti segnali (determinando lo stato di fame o di sazietà) e sulle sue applicazioni nell’ambito dell’industria agro-alimentare, ha uno dei suoi poli d’eccellenza nel Centre Européen des Sciences du Goût fondato dal Cnrs (Centre national de la recherche scientifique), con sede a Digione. Fuori dal continente, invece, il più importante centro di ricerche sul gusto, e sulla sensorialità chimica più in generale, è il Monell Chemical Senses Center di Philadelphia, responsabile degli studi che negli ultimi quarant’anni hanno svelato, almeno parzialmente, i misteri dei ‘sensi minori’. In questo centro di ricerca interdisciplinare, scienziati di varia formazione lavorano insieme allo studio dei meccanismi e delle funzioni di base ­20

del gusto e dell’olfatto, per fornire conoscenze necessarie alla loro comprensione in rapporto al comportamento, alla salute, alla qualità della vita e all’ambiente. I settori della ricerca spaziano dall’ambito sensorialepercettivo (riconoscimento, identificazione, memoria dei sapori e degli odori; rapporti tra odori ed emozioni; influenza di fattori genetici, ambientali, culturali, dell’età e del sesso sulle differenze percettive individuali) a quello neuroscientifico e biomolecolare (trattamento cerebrale delle informazioni gustative e olfattive, e studio dei geni responsabili dei meccanismi di percezione di odori e sapori e delle differenze percettive individuali), all’influenza degli odori e dei sapori sulle preferenze e sulle avversioni alimentari a partire dalla vita prenatale, alle patologie dell’olfatto e del gusto, alle loro cause e alla prognosi per il recupero, e ai disturbi alimentari. E poi, alla funzione comunicativa dei segnali chimici (ivi inclusi i feromoni) e alla loro influenza sul comportamento sociale e sessuale animale e umano, agli effetti dell’esposizione a sostanze chimiche negli ambienti interni ed esterni (casa, lavoro) sulla salute, e altro ancora. Tra i molteplici obiettivi del Monell Center, un ruolo centrale è riconosciuto alla formazione della prossima generazione di scienziati del settore. Un altro polo d’eccellenza per gli studi sul gusto e sull’olfatto è il Taste Laboratory Science attivo presso la Cornell University di Ithaca (New York). Al di fuori delle trattazioni prettamente anatomo-fisiologiche elaborate per lo più in ambito medico e psicobiologico (cfr. infra, § 2.1.), l’espressione ‘scienza del gusto’ rinvia alla scienza gastronomica e in senso esteso alle ‘scienze gastronomiche’. Attribuirle uno statuto scientifico sembra azzardato se si pensa alla scienza solo come a un insieme rigido di procedure di analisi deduttive e di interpretazione della realtà basate su criteri oggettivi, rigorosi, misurabili e coerenti. Se invece si concepisce la scienza come un insieme complesso di conoscenze e di saperi, ivi inclusi quelli umanistici, in cui coesistono e si ­21

integrano procedimenti deduttivi e induttivi, sapere teorico e applicazioni pratiche, oggettività e soggettività, allora certamente la gastronomia vi rientra a pieno titolo. D’altro canto oggi l’etichetta ‘scienze gastronomiche’ include le scienze sensoriali2, le scienze alimentari e nutrizionali, la chimica e la fisica degli alimenti, la tecnologia alimentare, l’economia e il marketing delle imprese agroalimentari, ma anche la storia della cultura gastronomica, la semiotica dell’alimentazione, l’antropologia alimentare e la pratica del sapere gastronomico, ovvero tutti quei saperi diversi convergenti attorno al cibo come oggetto complesso non riducibile soltanto al momento del gusto e del consumo, cioè a gastronomia. A dimostrazione dell’importanza assunta in tempi recenti da questo settore disciplinare, oggi esistono corsi di laurea in Scienze gastronomiche, Master, e persino l’Università di Scienze gastronomiche. Tornando alla gastronomia, nonostante la storia del termine – etimologicamente ‘legge del ventre’, dal greco gaster, ventre, e nomos, legge, regola – ci riporti al mondo greco (testimonianze indirette fanno risalire il primo uso della parola al IV secolo a.C., ad Archestrato di Siracusa, autore di un trattato di culinaria, intitolato Gastronomia, andato perduto – cfr. Perullo 2006: 14, Vitaux 2007: 5), la sua circolazione in tempi moderni si deve alla pubblicazione del poema di J. Berchaux dal titolo La gastronomie (1801). La scienza omonima, invece, si ritaglia uno statuto autonomo nella prima metà dell’Ottocento in Francia, divenendo argomento di dissertazione per merito di Grimod de la Reynière (avvocato e giornalista gastronomico autore dell’Almanach des gourmands, pubblicato a Parigi dal 1803 al 1812, e del Manuel des anphytrions del 1808) e specialmente di Brillat-Savarin (intellettuale gastronomico 2  L’analisi sensoriale è una disciplina recente che ricorre a strumenti statistici per determinare, sulla base di alcuni parametri predefiniti, l’indice di gradevolezza o sgradevolezza di cibi e bevande, indicandone le caratteristiche sensoriali (cfr. infra, § 5.5.).

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noto per la sua Physiologie du goût del 1825; cfr. Onfray 1995: cap. 2). Con loro l’arte raffinata della gastronomia assume una forma scritta evolvendosi da pratica della cucina a teoria e divenendo così anche una scienza, cioè un insieme di conoscenze. Come scrive R. Barthes nella sua Lettura di Brillat-Savarin (1975: xxxviii), l’«enciclopedismo» con cui il gastronomo francese ha affrontato il tema del cibo e del gusto è racchiuso anche nella sua definizione di gastronomia, espressione di quell’apertura scientifica rivelatasi coerente con il carattere poliedrico della sua personalità. «Conoscenza ragionata di tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto essere che si nutre» (Brillat-Savarin 1825: 40), la gastronomia – come aveva già osservato Brillat-Savarin (ivi: 41-43) – è una disciplina trasversale che chiama a raccolta molteplici ambiti d’indagine: dalla fisiologia alla storia, alla fisica, alla sociologia, all’economia, all’antropologia, alla dietologia, alla semiotica fino – è il caso di aggiungere – alla filosofia, alla psicologia, all’etologia, alla psicanalisi, proprio perché il cibo e il gusto coinvolto nella sua ricezione sono forme complesse di sapere e di cultura costitutive della nostra modalità d’esistenza e della nostra quotidianità, da quando veniamo al mondo fino a quando esaliamo l’ultimo respiro. La definizione di ‘arte della cucina e della preparazione dei cibi’, diffusa oggi in molti dizionari, appare riduttiva perché non tiene conto che la gastronomia è anche l’arte di degustare, di descrivere e di giudicare con competenza gli alimenti. Il gastronomo, infatti, non è più il gaudente ottocentesco, «l’anfitrione che sceglieva, ordinava e offriva una tavola riccamente imbandita» (voce Gastronomia, Dizionario di Slow Food: www.slowfood.it), ma un sapiente che, attraverso un percorso umanistico e scientifico nel contempo, arriva a possedere «l’arte di conoscere bene il cibo e di consumarlo meglio», attraverso il suo apprezzamento e la ricerca della qualità dell’espressione del gusto. ­23

1.3. Educare il palato Esposti a una sovrabbondanza di stimoli visivi e uditivi verso i quali siamo culturalmente più sensibili, accogliamo solo le sensazioni necessarie all’attività del momento e restiamo indifferenti alle sollecitazioni dei sensi apparentemente meno utili. «Fin dall’infanzia la vita cittadina ci priva della ricchezza odorosa e gustativa della natura, si perde la curiosità dei gusti e degli odori e l’attitudine ad acquisirli attraverso sollecitazioni emozionali. Così non si distingue più il buono dal cattivo e ci si abitua piuttosto al mediocre» (Peynaud 1980: 29). Non v’è da stupirsi se questo è il destino dei sensi considerati superflui, e tuttavia i più coinvolti nella scelta e nella valutazione del cibo oltre che nella qualificazione del sapore dell’esistenza: se non vengono sollecitati e educati, gusto e olfatto perdono la loro acutezza e perciò la facoltà di assaporare, giudicare e valutare cibi e bevande, di scoprire sapori e aromi nuovi. Tutto così appare insipido e neutro, inclusa la nostra vita. Eppure, gusto e olfatto sono i sensi più duttili e più precoci – come si dirà a proposito del loro sviluppo prenatale e neonatale (cfr. infra, § 2.6.) –, i più soggetti a evoluzione e trasformazione: l’esperienza del resto ci insegna come il ‘buono’ sia anche frutto di apprendimento, come i gusti di una persona possano cambiare nel corso della vita e come la sensibilità ai sapori e agli odori si raffini con l’esercizio. Questo li rende educabili forse ancor più dei sensi cosiddetti ‘cognitivi’, basterebbe solo non perdere occasione per esercitarli e per acquisire consapevolezza del loro funzionamento: avremmo solo da guadagnare! Coltivare l’olfatto, orientando precocemente i bambini alla pratica degli odori, e insegnare loro a saper gustare e assaporare, a riconoscere la qualità di un prodotto e la sua identità, significa accedere a quelle conoscenze che solo i sensi più legati alla carnalità possono darci e riconoscere nel corpo una fonte di sapere. Ma significa altresì coltivare l’edonismo che essi ci rivelano, educando a un ­24

piacere sobrio, consapevole e prolungato che è cosa ben diversa dalla passione dell’ingordigia. Una dimensione difficilmente accettabile nella cultura occidentale che al gusto e all’olfatto ha riservato uno spazio veramente ridotto, o addirittura nullo, nell’educazione e nella formazione scolastica: ci insegnano a leggere e a scrivere, a riconoscere forme, colori, distanze, c’è un’educazione musicale e un’educazione alle arti grafiche, ma non ci istruiscono a riconoscere e a denominare l’odore del gelsomino, della pesca, del basilico, o a distinguere il sapore di un cioccolato artigianale, prodotto con ingredienti naturali, da quello di uno industriale contenente ingredienti chimici (aromi, conservanti, derivati di grasso chimico). Tuttavia, il fatto che le nostre primissime memorie, e anche le più tenaci, riguardino odori e sapori che ci scorteranno poi nella vita adulta influenzando le nostre attrazioni e repulsioni, simpatie e antipatie, fino a diventare veri e propri gusti, sarebbe già una ragione sufficiente a conoscere meglio e a educare in modo più sistematico anche i sensi ‘minori’. La nostra cultura industrializzata, osserva Carlo Petrini, presidente del movimento internazionale Slow Food, ha prodotto «inerzia gustativa, livellamento delle conoscenze alimentari, incapacità a confrontare, comparare, conoscere» (2004: 177). Nelle nostre scuole di base non c’è spazio neppure per l’educazione al gusto alimentare, per una formazione al riconoscimento e all’apprezzamento della qualità dei cibi che consumiamo, che continua a rimanere fuori dai programmi curriculari. Solo i programmi di scienze fanno un breve accenno all’educazione alimentare da una prospettiva nutrizionista o merceologica (descrizione della natura e della composizione dei prodotti), limitandosi a inefficaci prescrizioni su ciò che bisogna o non bisogna mangiare per il proprio sostentamento e tralasciando il principio del piacere di gustare, di scoprire nuovi sapori e di condividerli a tavola. L’educazione del gusto tuttavia è di fondamentale importanza non solo per risvegliare i sensi che ­25

hanno perso il loro valore nella vita quotidiana – marginalizzati, come s’è già detto, dallo sviluppo della civiltà, da una cultura prepotentemente visivo-acustica, e persino dal tempo ristretto e dalla velocità con cui consumiamo la nostra esistenza – ma anche per abbandonare cattivi modelli alimentari e salvaguardare il nostro benessere contro il dilagare di patologie come l’obesità, il diabete, le malattie gastrointestinali e cardiovascolari, le intolleranze, i disturbi del comportamento alimentare (anoressia, bulimia), ecc. Un progetto di educazione e formazione all’assaggio consapevole, attraverso la conoscenza e l’addestramento sensoriale, può farci scoprire i piaceri del consumo dei cibi e delle bevande di qualità al di là del semplice e istintivo atto di nutrirsi, riconoscendo l’importanza della cultura materiale e della convivialità. La formazione del gusto si rivela dunque tanto un fatto biologico quanto un fatto culturale. A Slow Food, l’associazione internazionale fondata nel 1989 da Petrini, con sedi in tutto il mondo – con l’obiettivo di contrastare il dilagare del fast food legato alla frenesia della vita moderna, di promuovere e valorizzare il piacere legato al cibo, e di studiare, difendere e divulgare le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni parte del mondo – va il merito di aver ideato già da diversi anni un progetto di educazione al gusto rivolto a bambini e ad adulti, divenuto l’obiettivo-chiave del movimento. Come recita uno dei punti cardine della filosofia del piacere sancita nel Manifesto Slow Food, la vera cultura sta «nello sviluppo del gusto e non nel suo immiserimento»: da qui la promozione di un’educazione alimentare e al gusto basata sul presupposto che il cibo non sia soltanto nutrimento ma soprattutto piacere e sapore (nel duplice senso di appagamento e anche di apprezzamento, di discernimento e di uso corretto dei sensi e dell’intelletto) coniugati a cultura e convivialità, un valore quest’ultimo che è sinonimo di dialogo, di condivisione, di ricerca di affinità e di confronto. Accreditata come agenzia di formazione nel ­26

settore dell’educazione alimentare, sensoriale e del gusto dal Ministero della Pubblica Istruzione (e dal 2008 anche dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca), dall’anno scolastico 1998/1999 Slow Food si è impegnata in modo durevole e sistematico nell’organizzazione di corsi di formazione e di aggiornamento per insegnanti delle scuole dell’obbligo e di quelle superiori in ogni parte d’Italia, con l’intento di attuare una didattica dell’alimentazione e del gusto che superi le esperienze occasionali realizzate spontaneamente in singoli distretti scolastici. Oltre agli insegnanti, i destinatari di questo progetto interdisciplinare, innovativo, complesso e trasversale, sono i bambini in età scolare, i giovani a rischio di omologazione alimentare, i genitori, i produttori alimentari, gli appassionati del cibo di qualità e del suo consumo lento e prolungato che hanno a cuore la salvaguardia di prodotti a rischio di estinzione, e tutti i consumatori. Da qui la collaborazione con le istituzioni scolastiche per la formazione dei docenti, dei bambini e dei genitori, con iniziative di varia natura. Tra queste, la creazione di una rete di Orti scolastici inaugurata in Italia nel 2003 – e realizzata in concomitanza con una riorganizzazione delle mense scolastiche – sulla base di un’iniziativa promossa da Slow Food Usa a metà degli anni Novanta, con l’obiettivo di sperimentare un nuovo metodo di educazione alimentare nelle scuole basato sull’attività pratica nell’orto e sullo studio e la trasformazione dei prodotti in cucina ad opera degli stessi bambini. E ancora la creazione di Laboratori del gusto (degustazioni speciali guidate da esperti nel settore enogastronomico affiancati da artigiani, produttori, cuochi e selezionatori) che caratterizzano tutte le manifestazioni di Slow Food (dal Salone del gusto di Torino, a Slow Fish, alle Settimane del gusto), i corsi di degustazione, e per ‘il gusto di saperne di più’ i Master of food (corsi teorico-pratici di approfondimento tematico) aperti ad appassionati, curiosi e professionisti del settore, e persino l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo e Colorno. Nata e promossa nel 2004 su ­27

iniziativa dell’associazione internazionale Slow Food, questa università, la prima in Europa, oltre a formare i futuri gastronomi, si configura come un polo di ricerca e di aggiornamento (per ulteriori approfondimenti cfr. Nistri 1998 e gli articoli rinvenibili nel sito www.slowfood.it). Anche in Francia, grazie ad un metodo ideato nella metà degli anni Settanta del secolo scorso da Jacques Puisais, sono state create le ‘classes du goût’ con l’obiettivo di educare i bambini in età scolare a scoprire nella quotidianità tutta la ricchezza e la varietà delle percezioni sensoriali generate da una degustazione. Risvegliare i sensi attraverso un apprendimento pratico e ludico che accresca la consapevolezza dell’acutezza dei propri sensi, l’interesse e la curiosità verso ciò che si mangia, permettono di affinare il senso critico e di orientarsi nelle scelte alimentari, stimolando i bambini a gustare piatti meno familiari e a verbalizzare e condividere le loro esperienze gustative. E con intenti analoghi, in Germania, il progetto EuroToques, creato dall’omonima associazione europea dei cuochi chef, mira a promuovere l’educazione del palato anche attraverso l’organizzazione di laboratori nelle scuole. 1.4. Le culture del gusto In che misura il gusto alimentare è condizionato culturalmente? I giudizi di valore transculturali sui gusti dipendono dalle loro proprietà intrinseche, da tratti universali o piuttosto da una griglia di natura culturale? Cercheremo di comprendere se e in quale misura, al di là della biologia, la cultura influisce sulla percezione umana dei sapori. Un diffuso etnocentrismo culturale ci porta a pensare che tutti i popoli del pianeta distinguano quattro gusti fondamentali: dolce, amaro, acido e salato. In realtà questa classificazione è solo una convenzione di noi occidentali, così come lo è quella dei cinque sensi. Se si prendono in considerazione i modelli di organizzazione percettiva di popolazioni extraoccidentali ci si accorge anzitutto di quanto le varie ­28

culture siano espressioni di differenti modalità percettive della realtà, che influenzano le diverse forme di organizzazione sociale, la visione di sé e del mondo, la regolazione delle emozioni, alcune pratiche culturali e non ultimi i processi di categorizzazione linguistica. A questo settore di studi è dedicata l’antropologia sensoriale, una corrente fondata negli anni Novanta dal canadese D. Howes, il primo a fornire una definizione compiuta di quest’espressione (Howes 1991: 3; cfr. anche 2003). Orientata a contrastare il luogo comune largamente diffuso nella tradizione occidentale che riconosce nella vista la fonte primaria delle conoscenze, l’antropologia dei sensi tenta, da una parte, di ridurre gli atteggiamenti provenienti dall’etnocentrismo percettivo e, dall’altra parte, di favorire la condivisione delle esperienze tra individui con diverso background culturale, rivelando altresì il carattere tanto culturale quanto naturale della percezione sensoriale e indicando nei sensi stessi un veicolo di trasmissione di valori culturali. L’antropologia e l’etnografia classiche hanno mostrato scarso interesse per la descrizione di sapori e odori. Gli studi indirizzati a rilevare il ruolo del contesto culturale sulle differenze percettive hanno privilegiato in particolar modo la visione (specialmente la percezione dei colori) e ignorato l’esistenza di percezioni e rappresentazioni del mondo dove il gusto, l’olfatto o il tatto godono di ben altra considerazione. La critica del visualismo, il tentativo di includere le varietà sensoriali nella ricerca etnologica e l’analisi delle diverse realtà culturali a partire dai sistemi percettivi dominanti al loro interno sono i punti cardine di questa nuova disciplina. Interpretare le diversità culturali abbandonando il proprio modello sensoriale, per calarsi invece in quello del contesto locale che si sta studiando, diventa per l’antropologo sensoriale una priorità: la condizione indispensabile per comprendere universi sensoriali diversi dal proprio e la loro influenza complessiva sulle rappresentazioni di una società. Non tutte le culture riconoscono l’esistenza dei cinque sensi e non per tutte la vista rappresenta ­29

la principale fonte di conoscenza. Anzi, vi sono società che attribuiscono importanza diversa all’udito, al gusto, all’olfatto – riconoscendo gerarchie sensoriali differenti – e poi ancora casi in cui la componente sinestetica è considerata fondamentale per l’interpretazione del mondo. I Giavanesi, per esempio, distinguono cinque sensi non del tutto coincidenti con i nostri: la vista, l’udito, l’olfatto, il parlare e il sentimento (il tatto è ignorato). Gli Hausa della Nigeria riconoscono invece solo due sensi, la vista e un altro senso che include tutti gli altri, compreso il ‘conoscere’. Tale distinzione si riflette a livello lessicale, dove i processi percettivi vengono designati attraverso due soli verbi: gani, che significa soltanto ‘vedere’ ed è privo delle accezioni cognitive di cui è carico in altre lingue (nel senso di ‘capire’, o ‘sapere’, come nell’inglese to see), e ji, una parola che ingloba tutti i sensi (vista compresa) e viene usata anche con il significato di ‘provare emozioni’ e di ‘conoscere’. Di contro, si danno anche culture in cui la vista oltre a non avere alcun primato nella rappresentazione del mondo è considerata addirittura un senso antisociale, collegato alla stregoneria, praticata, quest’ultima, da chi vive ai margini della società: è il caso, per esempio, dei Wolof del Senegal e dei Suya del Brasile centrale. Il risultato è che a modelli e a gerarchie sensoriali diversi corrispondono modi dissimili di organizzare e di pensare la realtà, e di parlare delle esperienze percettive (cfr. Howes 1990, 1991 [ed.]: 192 sgg.; Gusman 2004: 3-21). Influenzati da abitudini e da condizionamenti culturali, pur partendo dalla stessa dotazione sensoriale gli individui imparano per l’appunto a percepire e a giudicare la realtà in modo dissimile: cosicché soggetti appartenenti a differenti società e culture e a diverse epoche storiche non solo percepiscono in modo differente ma riconoscono gerarchie e priorità variabili ai diversi sensi. L’antropologa C. Classen (1993: 121) distingue essenzialmente due differenti paradigmi sensoriali per interpretare le diverse cosmologie: quello visuale – rappresentato dall’espres­30

sione ‘visione del mondo’ – che riflette una modalità di rappresentazione e di concettualizzazione cosmologica fondata sulla vista ed è prevalente nelle società che usano la scrittura come mezzo di diffusione culturale; e quello orale, basato essenzialmente sul suono e perciò sul primato dell’udito. Entrambi condividono un atteggiamento verbocentrico. Questa dicotomia non esclude l’esistenza di paradigmi alternativi che ‘pensano’ al mondo e se lo rappresentano prevalentemente in termini olfattivi, gustativi o termici, e quindi di ‘degustazioni’ del mondo, di ‘osmologie’ e così via. L’influenza del contesto socio-culturale sulla percezione del gusto degli alimenti e sulla sua formazione è poi l’oggetto dell’antropologia del gusto, una branca dell’antropologia dei sensi i cui contributi, sebbene ancora modesti e sporadici, possono fornire nondimeno alcune risposte agli interrogativi da cui siamo partiti. L’analisi transculturale rivela una notevole variabilità nei sistemi di categorizzazione dei gusti. Studi classici condotti da Ch.S. Myers nel primo Novecento su alcune comunità papuase (stretto di Torres) e su altre popolazioni evidenziano la frequente mancanza di un termine per ‘amaro’, la cui relativa percezione viene identificata con il nostro gusto ‘salato’. Presso numerosi popoli (Sudan, Guinea, Dakota, Nuove Ebridi) dolce e salato vengono designati con lo stesso termine ‘gustoso’. I Baganda (un gruppo etnico dell’Uganda) ricorrono a due termini, kuwoma e kawa, il primo per indicare cibi buoni, il secondo cibi cattivi, ma la prima categoria include anche lo zucchero, la carne salata e alcuni frutti acidi, mentre kawa comprende anche l’acqua salmastra e il chinino (cfr. Lanternari 1981: 742). I Sereer Ndut del Senegal dispongono di tre termini per distinguere i quattro gusti fondamentali: sen per tutti i gusti dolci, k½b per i gusti acidi, mentre il termine hay ricopre le sensazioni del salato, del piccante e dell’amaro, accomunate dalla predominanza delle sensazioni tattili su quelle gustative (cfr. Dupire 1987). ­31

Altre tradizioni extraoccidentali, per esempio i giapponesi, riconoscono da tempo l’esistenza di cinque sapori di base, i quattro occidentali più l’umami. Anche per i cinesi i gusti sono cinque: dolce, salato, amaro, acido e acre. La tradizione della medicina ayurvedica, alla quale si rifanno gli indiani, ne enumera sei: dolce, salato, acido, amaro, piccante e astringente, gli stessi riconosciuti dai birmani. I tailandesi, invece, ne distinguono otto: dolce, salato, amaro, acido, piccante, scialbo, astringente e grasso, e per di più descrivono odori che rafforzano questi gusti: così un piatto può sprigionare un ‘buon odore salato’ oppure ‘un buon odore dolce’. E per designare il sapore e l’odore ricorrono allo stesso vocabolo. Per gli indiani, la classificazione dei gusti comprende altresì i gusti postdigestivi, liberati per l’appunto alla fine della digestione (cfr. Pinard 1991). Individui appartenenti a culture diverse sviluppano pertanto una differente sensibilità gustativa connessa alle preferenze alimentari e gastronomiche proprie del contesto in cui crescono e alla loro capacità di adattarvisi: sicché gli alimenti biologicamente commestibili non è detto che siano culturalmente palatabili o consumabili. Ecco perché nessuno, afferma l’antropologo D. Le Breton (2006: 352-353), potrà mai conoscere tutti i sapori della variegatissima gastronomia mondiale, le tradizioni culinarie di tutti i popoli, mutabili peraltro nel tempo in relazione alla disponibilità della materia prima (altrettanto variabile) e alle modalità di preparazione, tutti fattori che influiscono sul gusto. In Europa, per esempio, il consumo dei gelati, del tè, del caffè e del cioccolato comincia a diffondersi a partire dal Seicento. E i vini dell’antichità erano molto diversi da quelli oggi conosciuti: erano allungati con acqua, a volte di mare, e per di più addolciti con miele o zucchero di canna e aromatizzati con spezie, fiori e resina. Venivano poi conservati in recipienti di terracotta rivestiti di pece e riposti nei piani alti delle case vicino alle canne fumarie, dove assumevano gusti e aromi resinosi e affumicati ­32

all’epoca molto graditi dai consumatori. Questi vini oggi per noi sarebbero a dir poco imbevibili. Ogni cultura è comunque convinta di avere la cucina migliore e più raffinata ed è portata ad assolutizzare il valore dei propri gusti e a disprezzare o ridicolizzare quelli delle altre culture. E anche entro la medesima cultura il concetto di ‘bontà’ varia da un palato all’altro in relazione alla storia personale. A dimostrazione che non esistono alimenti buoni in assoluto, alcuni popoli extraoccidentali (in molti paesi asiatici e africani) si cibano regolarmente di vermi, locuste, lucertole, cavallette, formiche, serpenti, roditori, cani, alimenti il cui solo pensiero disgusta noi occidentali. Ci sono anche inimmaginabili forme di endocannibalismo praticate tra gli Indi dell’Amazzonia, presso i quali il rito funebre è suggellato dall’ingestione di una bevanda in cui sono disciolte le ceneri del cadavere, un rito che esprime con intima partecipazione l’attaccamento per il defunto (cfr. Lanternari 1981: 733)3. Pensiamo anche al viaggio, il suo ‘gusto’ è anche nei cambiamenti alimentari che esso implica: mangiare cibi altri, confrontarsi con sapori e aromi autoctoni, superare pregiudizi condividendo le altrui preferenze e le altrui avversioni, accedere a nuovi valori simbolici che traducono l’identità di un luogo e di un gruppo umano. E come afferma lo storico dell’alimentazione M. Montanari (2004), il gusto e il cibo sono faccende culturali non solo perché variano nello spazio e nel tempo ma specialmente perché gli uomini oltre a produrre e a cacciare il cibo lo creano. 3  Il cannibalismo, in passato, era praticato dai popoli primitivi di tutto il mondo, di solito a scopi rituali, ma talvolta anche per sopperire alle carenze proteiche dell’alimentazione. Nell’Età del ferro, in Gran Bretagna i celti consumavano grandi quantità di carne umana e dai racconti di missionari cristiani sappiamo di alcune tribù di amerindi che torturavano e mangiavano i prigionieri. Persino nel rito dell’eucarestia della Chiesa cattolica i fedeli mangiano simbolicamente il corpo e il sangue di Cristo (cfr. Ackerman 1990: 147-150).

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La diffidenza e il disprezzo per i gusti degli altri popoli, in specie per quelli molto distanti dal nostro orizzonte culturale, possono assumere la forma di una sorta di ‘caratteriologia’. ‘L’altro’, in generale, è sempre visto negativamente, è colui che non ci piace, colui che puzza, colui che viene tenuto a distanza, e la sua cucina e il suo modo di mangiare, recando l’impronta della sua persona, suscitano disgusto. Come osserva Le Breton (2006: 385-386), non mancano di certo espressioni con cui si ridicolizzano gli ‘altri’ riferendosi per l’appunto alle loro preferenze alimentari: «inglesi e americani chiamano i francesi froggies (mangiatori di rane); i francesi replicano trattandoli da rosbifs. Per i francesi, gli italiani sono dei macaronis, mentre i belgi vengono definiti ‘mangiatori di patate fritte’. Gli americani chiamano i tedeschi krauts, ma anche gli alsaziani, per gli abitanti di altre regioni della Francia, sono ‘crauti’» (cfr. anche Fischler 2001: 68). E, presso alcuni popoli, agli individui vengono attribuite le stesse caratteristiche di ciò che mangiano, presupponendo che gli alimenti influenzino la personalità di chi li assimila: per la medicina ayurvedica, per esempio, le persone pigre e mentalmente inattive hanno una preferenza per i cibi rancidi, maleodoranti e cotti male, viceversa le persone mentalmente vivaci e operose, e caratterizzate da passioni forti, consumano di preferenza alimenti speziati, amari e aspri, alimenti cioè dotati di personalità. I più spirituali invece preferiscono cibi dal sapore dolce e gradevole che rischiarano ancora di più il loro spirito. Il gusto e la cucina hanno poi un valore identitario se pensiamo che ogni paese si riconosce in una certa pietanza, in un piatto tipico, veicolo delle tradizioni e dell’identità di un gruppo sociale. Ne è un esempio la ‘cerimonia del tè’, un rituale praticato dai giapponesi, divenuto simbolo d’identità nazionale connessa alla cultura più arcaica, e che ancora oggi sembrerebbe impregnare la vita culturale giapponese. E come gli spaghetti e la pizza identificano il gusto degli italiani nel mondo, il riso è il ‘piatto’ per defini­34

zione di cinesi, tailandesi, vietnamiti, mentre nel couscous si riconoscono tutti i popoli del Nord Africa. Le società aperte agli emigrati abbondano di ristoranti arabi, giapponesi, cinesi, turchi, spagnoli, ecc.: «gli emigranti portano con sé la propria cucina e l’alimentazione è una delle tracce sensibili della loro presenza» (Le Breton 2006: 362). Senza contare che l’apprezzamento dei sapori e delle pietanze ha varietà regionali, di classe, di età e talvolta persino di genere. Più che una percezione individuale, l’eccesso di sale, di spezie o di zucchero in un piatto «è un giudizio sociale interiorizzato dall’individuo» (ivi: 365) fin dall’infanzia. Perciò ogni gruppo etnico sviluppa le proprie preferenze per una varietà determinata di sapori e di cibi, escludendone o proibendone altrettanti. I divieti possono riguardare l’intero gruppo etnico o religioso, come nel caso di ebrei e musulmani che non mangiano carni suine, o degli Indù che non mangiano nessun tipo di carne (quella bovina in particolare), oppure certe categorie di individui in determinate situazioni: per esempio donne con il ciclo, mariti di donne gravide, donne che allattano, persone a lutto. Nelle società tradizionali, in particolar modo, l’interdizione sociale di alcuni cibi è connessa alla nozione magico-religiosa di impurità: cibarsi pertanto di alimenti ideologicamente impuri, oltre a procurare disgusto, rappresenta un pericolo (Lanternari 1981: 739-40). Per noi occidentali, condizionati da una mentalità visivo-acustica, è impensabile che le salse per condire i cibi, e quindi il gusto, possano assumere per un popolo un’importanza fondamentale nella categorizzazione sociale. È quanto accade invece ai Songhay, una popolazione africana del Niger presso la quale i tipi di salsa serviti agli ospiti durante un pasto riflettono una gerarchia sociale: ai più importanti si servono salse dense e speziate, ricche d’ingredienti, agli altri ospiti invece salse insipide e chiare. Così, anche il fatto di servire a un commensale una salsa inadatta alle circostanze esprime un preciso significato (cfr. Le Breton 2004: 61). Ma esistono anche casi di socie­35

tà che hanno sviluppato una vera e propria ‘degustazione’ del mondo, in cui il gusto cioè diventa un principio di organizzazione della realtà inserito in una cosmologia. Gli Hausa, un popolo dell’Africa occidentale, distinguono le persone sulla base dei gusti: se un bambino è ancora senza sale, un uomo adulto ha invece un sapore caldo e speziato. Ai cibi caldi e speziati gli Hausa attribui­ scono virtù afrodisiache per gli uomini, mentre le donne, classificate simbolicamente come fredde (sanyi) rispetto agli uomini che sono caldi (zafi) – ‘essi riversano il loro calore dentro la freddezza delle donne’ –, sono distinte per i diversi gradi di dolcezza in relazione allo stadio del ciclo vitale. Una giovane donna appena deflorata incarna il gusto dolce e pertanto le si offre cibo molto dolce, caldo e speziato; una donna incinta, al contrario, non deve mangiare alimenti troppo dolci, perciò le viene offerto un cibo particolare privo peraltro di spezie. I diversi gradi di dolcezza riflettono poi regole di comportamento riguardanti gli individui: lo zucchero e l’eccesso di dolcezza sono un’estensione del desiderio e pertanto sono coerenti con lo statuto della giovane sposa, la madre che allatta invece deve sottrarsi ai rapporti sessuali per evitare che il latte diventi troppo dolce causando malattie al bambino. Le qualità gustative e termiche possedute dagli Hausa corrispondono pertanto allo status e alla posizione di ciascun individuo nella vita. A dimostrazione del fatto che comunque il gusto regola diversi aspetti della vita di questo popolo, nel descrivere le loro esperienze essi ricorrono a metafore uditive, gustative (e termiche) e visive, enfatizzando maggiormente gli ambiti dell’ascolto e del gusto anziché quello della vista: così, se gli inglesi (come gli italiani) dicono ‘l’erba del vicino è sempre più verde’, gli Hausa dicono che ‘la crema d’avena desiderata è la più dolce’ (cfr. Ritchie 1991: 200-201). Esistono comunque altri casi interessanti di rappresentazione e organizzazione del mondo fondata sul gusto, o di «antropologia gastronomica della cultura», espressione usata da S. Pinard (1991: 222) per descrivere ­36

l’induismo e il ruolo in esso giocato dal gusto (sia fisico, sia morale), oltre che dalla vista, in questa cultura (cfr. Pinard 1991 e Le Breton 2006: 379-384). Gli esempi riportati sono sufficienti per farsi un’idea dell’influenza esercitata dai modelli culturali e dalle esperienze di vita sul modo di assaporare i cibi e le bevande, e sui giudizi di valore espressi su sapori e aromi. La scarsa corrispondenza tra questi giudizi da un popolo all’altro trova spiegazione nel fondamento tanto biologico quanto culturale delle nostre sensazioni: nello sviluppo delle abilità percettive interagiscono e si rafforzano reciprocamente fattori innati e fattori ambientali. Posto che il piacere di mangiare è una condizione universale, comune cioè a tutte le culture in tutti i tempi, e che tutti abbiamo la medesima dotazione biologica (il meccanismo di percezione sensoriale e lo stimolo percepito sono, in genere, uguali per tutti), è innegabile l’incidenza dell’ambiente socio-culturale sul modo in cui il cervello elabora gli stimoli e vi attribuisce significati simbolici. Analogamente all’esperienza del vedere, del sentire, dell’annusare o dell’orientarsi nello spazio, l’assaporare pezzi di mondo assume significati diversi da una cultura all’altra e prenderne consapevolezza implica uscire dai propri schemi di conoscenza aprendosi a quelli altrui.

Capitolo secondo

Fisiologia del gusto

2.1. La periferia del gusto In sinergia con l’olfatto, il gusto assolve anzitutto una funzione primaria fondamentale per la sopravvivenza e per la conservazione dell’individuo e della specie: informarci sulla commestibilità degli alimenti e delle bevande, per evitare il rischio di ingestione di sostanze tossiche, guidando i comportamenti di assunzione e di rifiuto del cibo. Il procedimento seguito dai sensi chimici per distinguere gli alimenti commestibili da quelli non commestibili è estremamente semplice: in genere consumiamo sostanze dotate di gusti e di odori che abbiamo imparato a riconoscere come buoni e respingiamo tutte le altre. Se per gli organismi geneticamente programmati per nutrirsi di un solo cibo (erbivori, insettivori, carnivori) i rischi di intossicazione o di squilibrio nutrizionale sono praticamente assenti (poiché la scelta è imposta da milioni di anni), per tutte le specie onnivore, uomo incluso, il vantaggio della possibilità di scegliere tra alimenti diversi e le delizie derivanti da tale varietà comportano tuttavia un maggiore rischio di ingestione di sostanze tossiche. La monotonia alimentare di certo non è un nostro problema, ma la varietà ha il suo prezzo. Le mucche brucano senza timori erba e cereali, «gli onnivori, invece, sono mangiatori angosciati. ­38

Devono assaggiare in continuazione nuovi cibi, per scoprire se sono gradevoli e nutrienti, correndo il rischio di avvelenarsi inavvertitamente» (Ackerman 1990: 145). La «difficoltà di essere onnivori» (Holley 2006: 165), per noi umani, rende perciò la funzione primaria di queste sentinelle del corpo ancora più essenziale. Come si vedrà più avanti, l’incidenza di fattori culturali, emotivi e psicologici sul gusto fa dello stesso, e dei comportamenti alimentari ad esso associati, un’esperienza complessa non esauribile nei suoi limiti biologici. Il gusto stricto sensu inoltre ci permette di distinguere i sapori fondamentali – informandoci sul potere nutritivo degli alimenti – grazie alle sensazioni fornite in gran parte dalla lingua, ma anche da altri organi come il palato, le guance e la cavità retronasale (faringe ed epiglottide). Non è sbagliato perciò affermare che il gusto ha sede nella bocca, un organo usato abitualmente per parlare, per baciare e anche per mangiare: da qui l’espressione figurata ‘è di palato fine’, per indicare una persona capace di individuare e di valutare con acutezza i sapori del cibo e del vino. Nella percezione globale di un alimento – una percezione complessa nota come sapore, di cui il gusto come vedremo (infra, § 3.1.) è solo una componente – il gusto è l’unico responsabile di poche distinte sensazioni che le abitudini culturali tradizionalmente ci hanno insegnato a designare come dolce, amaro, acido e salato, nonostante la gamma sterminata di molecole sapide presenti negli alimenti. Sono passati cento anni dalla sua scoperta (nel 1909, per merito di un ricercatore giapponese, Kikunae Ikeda), ma solo da poco tempo i ricercatori sembrano essere concordi sulla promozione al rango di ‘quinto gusto’ dell’umami (termine giapponese che significa ‘suadente’ o ‘saporito’), corrispondente al glutammato di sodio in uso nella cucina asiatica (additivo che esalta la sapidità), una sensazione completamente indipendente da tutte le altre, collegata a uno specifico recettore scoperto di recente. Descritto come un gusto saporito, appetitoso, l’umami in ­39

realtà fa parte dell’alimentazione umana da secoli, presente in numerosi cibi e condimenti delle cucine di tutto il mondo (sono naturalmente più o meno ricchi di glutammato, per esempio, il parmigiano, i formaggi stagionati, il pomodoro, gli asparagi, gli spinaci, le verze, il latte e poi i brodi di carne, i sughi, le carni cotte, la pizza). Le difficoltà di riconoscimento di questo gusto dipenderebbero dalla sua percettibilità non immediata: esso viene avvertito solo dopo un certo periodo di permanenza del cibo nella bocca e ancora meglio dopo la sua deglutizione. E per questo sovente viene descritto come un retrogusto (cfr. Ninomiya 2002; Yamaguchi 1998). Benché non sia semplice per chi non v’è abituato, non ci resta comunque che imparare a riconoscerlo. Ogni gusto fondamentale ha poi ha una precisa funzione: le sostanze responsabili della sensazione dolce, presenti negli zuccheri (fruttosio, glucosio, saccarosio), nei dolcificanti artificiali e in alcune proteine, sono necessarie per un corretto apporto energetico per il nostro organismo e gli studi dimostrano una certa tendenza universalmente diffusa a preferire alimenti con un’alta concentrazione di zuccheri semplici; il gusto salato, riconducibile al comune sale da cucina (cloruro di sodio), ma presente anche in altre sostanze che ci danno la stessa sensazione, va incontro alle nostre preferenze in dosi limitate e se il suo eccesso è dannoso, una giusta quantità è invece fondamentale per il metabolismo cellulare: con una dieta priva di sodio e di sali minerali non potremmo vivere a lungo; la funzione della sensazione di aspro tipica delle sostanze acide, contenute per esempio negli agrumi o nella frutta acerba, non è di facile comprensione sotto il profilo evolutivo se si pensa che un’alta concentrazione di tali sostanze può nuocere all’organismo. Tuttavia, se non gustassimo l’acido non mangeremmo il limone, né berremmo il succo d’arancia o di pompelmo, né tanto meno faremmo uso dell’aceto, piacevolmente bevuto da alcune persone in piccole quantità. L’amaro, tipico del caffè o del chinino presente in molte ­40

verdure, e più in generale attribuibile agli alcaloidi, resta probabilmente la sensazione più conosciuta e studiata, forse in virtù della sua fondamentale funzione biologica di evitamento di sostanze velenose, dotate in genere di questo gusto. Ma anche in questo caso l’istinto di avversione si può modificare fino a farci apprezzare l’amarore di certi alimenti o bevande. L’umami, infine, riconducibile al glutammato monosodico, uno dei più importanti amminoacidi costitutivi delle proteine, è una sostanza essenziale per la nostra sopravvivenza quanto il dolce e il salato, specialmente nella fase di crescita, proprio per il suo apporto proteico. Naturalmente presente nel nostro corpo, il glutammato è peraltro uno dei principali neurotrasmettitori eccitatori del cervello umano, prodotto anche dai neuroni cerebrali (cfr. Sgorbissa 2009; Marconi et al. 2007: 7-8). Per entrare in contatto con i recettori sensoriali responsabili delle impressioni gustative, tutte le sostanze sapide devono essere disciolte in acqua (o in qualunque fluido) o assumere una consistenza pastosa per effetto dell’azione della saliva. Le cellule gustative quindi vengono stimolate prevalentemente da molecole non volatili, idrofile e solubili nella saliva. Abbiamo mai pensato al fatto che introducendo un cibo solido nella bocca, senza l’azione della saliva (la cui composizione e quantità, variabile nei diversi individui per ragioni genetiche, alimentari e persino di umore, possono influenzare anche la degustazione dei vini acidi – cfr. Peynaud 1980: 79) non riusciremmo a percepire alcun gusto? In sinergia con la masticazione, la sua funzione di solvente degli alimenti, e nello stesso tempo di ripulitore della lingua dalle sostanze precedentemente ingerite, influenza tanto la concentrazione di aromi sprigionati da un cibo, quanto le loro proporzioni: «aromi appena percepibili prima di addentare un boccone diventano subito evidenti non appena l’apparato masticatore entra in azione e la lingua rimescola e stira il bolo alimentare» (Holley 2006: 28). La frantumazione dei cibi leggermente riscaldati, impregnati di saliva e di enzimi ha perciò effetti ­41

niente affatto trascurabili sulla liberazione di aromi negli alimenti e quindi sulla percezione del loro sapore, con evidenti ricadute sulla complessità delle nostre sensazioni, sulle nostre preferenze alimentari e di conseguenza sul piacere che traiamo dalla loro assunzione. Non è casuale che nel cervello il centro recettore del gusto sia vicino ai centri motori della masticazione e della deglutizione. Raggruppati in piccoli insiemi all’interno di microscopiche strutture definite calici gustativi, i recettori del gusto sono ospitati principalmente dalle papille (distinte per la forma in: fungiformi, foliate o filiformi, vallate o caliciformi), microscopici laboratori chimici presenti sotto forma di rilievi sulla superficie della lingua, ma si trovano sparsi anche sulla superficie del palato e della faringe. Ogni papilla contiene da uno ad alcune centinaia di calici gustativi e ciascun calice è formato da 50-150 cellule recettrici, oltre che dagli assoni afferenti del gusto e dalle cellule basali. Mediamente un uomo possiede 2000-5000 calici gustativi. Le varie regioni della lingua riescono diversamente sensibili ai singoli sapori fondamentali, sebbene non dobbiamo pensare a una specializzazione rigida, un’idea abbandonata dalle teorie più moderne: la punta della lingua è la zona più sensibile al gusto dolce, le aree laterali e dorsali rispondono maggiormente al gusto salato, l’acido è percepito specialmente lungo i margini della lingua e nell’area sublinguale, l’amaro è rilevato principalmente dalla parte posteriore della lingua, raggiunta dal cibo solo quando si deglutisce. Per impedire alle sostanze tossiche, in genere di sapore amaro, di scivolare nell’esofago, le papille gustative alloggiate nella parte più profonda della lingua possono provocare un conato di vomito. A riprova del fatto che siamo comunque in grado di ­42

percepire i gusti primari in tutta l’area interessata alla ricezione del sapore, perché in ogni calice gustativo sono presenti tutti i tipi di recettori, le persone a cui è stata recisa la parte anteriore della lingua continuano a percepire il dolce e il salato. E persino chi nasce senza lingua può sentire i gusti. Ciò che varia, quindi, è solo la soglia di percezione, minima per la sensazione di dolce nella punta della lingua, per il salato ai lati, per l’acido ai margini e per l’amaro nel retro. Le papille fungiformi sono dislocate essenzialmente sull’apice, sui margini laterali e sulla parte superiore della lingua, quelle caliciformi sono situate nella parte posteriore della lingua, con una disposizione a ‘V’ capovolta. Le papille filiformi, le uniche a non contenere calici gustativi, hanno prevalentemente una funzione tattile, sono sensibili cioè alla diversa consistenza dei cibi e delle bevande introdotte nel cavo orale, una funzione, come si dirà più avanti, altrettanto importante per la percezione del sapore. La differente sensibilità ai gusti riscontrabile nelle zone distinte della lingua determina anche delle differenze di velocità nella loro percezione. Se assaggiamo un liquido in cui si trovano disciolte sostanze contenenti i quattro gusti di base, questi non saranno percepiti simultaneamente: la reazione al dolce è la più immediata ma svanisce in fretta, mentre quella all’acido e al salato la segue di pochi secondi, ma è più persistente; la reazione all’amaro, invece, tarda a comparire ma aumenta e persiste nella bocca anche dopo aver rigettato il liquido (cfr. Bear et al. 2001: 258260; Purves et al. 1997: 278-279). L’idea di quattro o cinque gusti primari non sembra comunque soddisfare tutta la comunità scientifica, divisa tra i sostenitori della tesi ‘realista’, secondo cui esistono pochi gusti primari o fondamentali determinati dai vincoli biologici del sistema sensoriale, e i sostenitori della tesi ‘relativista’ che, riconoscendo l’esistenza di altri sapori come l’astringente (del tè o di alcuni frutti acerbi), il bruciante (del peperoncino), il grasso o il metallico (degli spinaci) non riconducibili a una classificazione così stretta, tendo­43

Fonte: Bear et al. 2001: 259

no ad attribuire alle categorie tradizionali un valore arbitrario dipendente dalle abitudini culturali ancor più che da vincoli biologici. Per i relativisti, l’universo dei sapori, come quello degli odori, sarebbe un continuum di sensazioni (cfr. Holley 2006: 67-68). Bisogna ammettere che se non fossimo in grado di distinguere con precisione una vasta gamma di sapori diversi, ottenuti prevalentemente dalla combinazione dei sapori di base coniugata ad altre sensazioni, non esisterebbero i degustatori professionisti di vino, di cioccolato, di caffè, di tè, di formaggio e persino di acqua. Ma a tutt’oggi non abbiamo una spiegazione chiara ed esauriente di cosa sia veramente un sapore. Come i recettori olfattivi (neuroni veri e propri, particolarmente vulnerabili per la loro eccessiva vicinanza con l’esterno perché esposti all’aggressione di agenti esterni come virus e batteri che ne accorciano enormemente il ciclo vitale, e per questo dotati del lusso, non certo superfluo, della neurogenesi permanente), anche le cellule sensoriali gustative (probabilmente per le medesime ragioni) hanno un ciclo di vita breve, di circa due settimane, e si rigenerano, pur non essendo cellule nervose, a partire dalle cellule ­44

basali dell’epitelio linguale. Acutissima nei bambini, già dal primo anno di età, la sensibilità gustativa come quella olfattiva si riduce progressivamente con l’età ed ecco perché invecchiando, per avere la stessa sensazione gustativa e il piacere che ne deriva, abbiamo bisogno di sapori più forti. Essa peraltro è caratterizzata da una forte variabilità interindividuale, un fenomeno tuttavia di natura fisiologica. Alcune circostanze patologiche invece possono determinare alterazioni del gusto, per eccesso o per difetto, fino alla sua perdita totale. Le cause delle diverse affezioni della sensibilità gustativa sono molteplici e possono essere sia congenite sia acquisite: malattie neurologiche, ormonali, psichiche (nevrosi, isteria, schizofrenia), traumi cranici, tumori, malattie del sistema nervoso. Altre modificazioni del gusto sono dovute a carenze vitaminiche, ad alterazioni del metabolismo (come quelle che si possono manifestare in gravidanza determinando un’ipogeusia per il salato e per l’acido) o indotte dall’assunzione di alcuni farmaci (antibiotici, anestetici locali, antinfiammatori, ecc.). Meno frequenti di quelle dell’olfatto, le alterazioni del gusto sono tuttavia altrettanto poco note. Nei casi di perdita totale, ovvero di completa incapacità di percepire e di distinguere le qualità gustative di base, si parla di ageusia, una patologia molto rara determinata dalla mancanza congenita di tutti i recettori del gusto, oppure da traumi che possono causare una lesione della corteccia gustativa ma che difficilmente possono distruggere tutti e tre i nervi sensoriali adibiti al trasporto delle informazioni gustative o i recettori sparsi in tutta la bocca (diversamente dai recettori olfattivi concentrati invece solo nell’epitelio olfattivo situato nella parte alta della cavità nasale e pertanto più vulnerabili). Una disfunzione per difetto, cioè una diminuzione della sensazione gustativa, prende il nome di ipogeusia, per eccesso viene denominata ipergeusia. Le alterazioni quantitative, come quelle sopra menzionate, sono distinte dalle alterazioni qualitative in cui la distorsione della percezione gustativa può assume­45

re svariate forme: parageusia (quando sopraggiunge nel corso dell’assunzione di un alimento e di una bevanda), fantageusia (quando si manifesta in assenza di uno stimolo gustativo: una sorta di allucinazione del gusto), cacogeusia (quando un gusto buono è percepito come cattivo), eterogeusia (quando un gusto, senza essere spiacevole, risulta inatteso: per esempio, un alimento dolce è percepito salato). Nonostante queste turbe non influenzino nessun parametro vitale, come le turbe olfattive (anosmie, iperosmie, iposmie), e nella stessa misura misconosciute anche per il loro scarso impatto sociale (diversamente dalle cecità e dalle sordità), meritano tuttavia attenzione per i loro effetti sulla qualità dell’esistenza delle persone, sulla sfera affettiva e sul piacere di vivere che è anche una ‘questione di gusto’ (cfr. Cowart et al. 1997: 175-193). L’assuefazione dei recettori in presenza di uno stimolo continuo, ovvero la riduzione della risposta a uno stimolo e talvolta addirittura la sua scomparsa quando questo è prolungato, è un altro fenomeno condiviso dai sensi chimici: l’esperienza, del resto, insegna a ciascuno di noi che lasciando una sostanza a lungo sulla lingua finiamo per non percepirne più il gusto, ed ecco perché per assaporare pienamente le pietanze o le bevande è opportuno variare spesso la natura degli alimenti. Per contrastare questo fenomeno fisiologico, tra una degustazione e l’altra i sommeliers professionisti si sciacquano la bocca con l’acqua per rinfrescare i loro recettori gustativi e olfattivi. Comune in una certa misura anche agli altri sensi, l’assuefazione è più pronunciata nel caso dell’olfatto: l’odore di un piatto che stiamo cucinando dopo un po’ non viene quasi più avvertito e quando si degusta un vino è buona norma annusarlo per pochi secondi, ripetendo l’operazione due o tre volte intervallata da alcuni istanti di riposo, proprio per evitare l’adattamento sensoriale. Ma il gusto gioca anche altri ‘scherzetti’: mescolando più sapori contemporaneamente si possono verificare fenomeni di potenziamento reciproco, come accade tra l’acido e l’amaro, o di attenuazione, ­46

come tra il dolce e l’amaro o l’acido, entrambi mitigati per esempio dagli zuccheri. Il sale, invece, il cui uso è diffuso nelle culture alimentari di tutto il mondo, esercita una forte influenza selettiva sui sapori: è in grado di affievolire l’intensità dell’amaro e di esaltare il dolce. A sua volta, l’aumento della temperatura riduce la sensibilità all’amaro e al salato, mentre accresce la ricettività per gli alimenti zuccherati. Un boccone di cibo poi si trasforma in gusto solo quando le molecole chimiche di cui è composto vengono tradotte in segnale elettrico, attraverso complessi meccanismi di trasduzione, e inviate ai centri cerebrali. Diversamente da tutte le altre modalità sensoriali, l’informazione gustativa non è affidata a un unico nervo. I messaggeri del gusto responsabili della trasmissione al cervello delle informazioni provenienti dalle cellule gustative (della lingua e della bocca) sono tre nervi cranici: facciale (nervo gustativo), glosso-faringeo e vago, coinvolti anche in numerose altre funzioni motorie e sensoriali. Le loro terminazioni convergono tutte verso una zona del tronco dell’encefalo denominata nucleo gustativo (nucleo del tratto solitario), per poi passare al talamo e raggiungere infine zone diverse della corteccia gustativa primaria. Gli studi sulla percezione delle qualità gustative dei cibi, sul modo cioè in cui il cervello distingue fra dolce, salato, acido, amaro e umami, dopo un lungo periodo di stasi hanno ricevuto un nuovo impulso grazie alle recenti ricerche sui recettori molecolari delle cellule gustative maturate nell’ambito della biologia molecolare. Sino a oggi la tipologia di recettori periferici identificati è superiore al numero di sapori primari e gli scienziati non escludono che se ne possano individuare altri ancora. Sembra inoltre che alcuni gusti (salato, acido) non abbiano recettori specifici. Sul problema della codifica della qualità del gusto, la comunità scientifica è divisa poi tra quanti, da una parte, sostengono la ‘teoria delle linee marcate’, per cui ogni fibra nervosa del gusto condurrebbe solo un certo tipo di ­47

informazione senza interferire sulle altre qualità gustative, e quanti, dall’altra parte, difendono la ‘teoria delle fibre trasversali’, secondo cui invece i recettori sarebbero dotati di una sensibilità multipla tale da rispondere non a uno specifico gusto, ma a una gamma più ampia. In questo caso, più che le risposte precise di poche cellule, sarebbe l’assetto complessivo dell’attività di diversi tipi di neuroni interagenti a determinare la percezione di un gusto anziché un altro. L’ipotesi di una vasta popolazione di recettori per lo più aspecifici, dotati cioè di differenti tipologie di risposta, potrebbe chiarire meglio come fa il cervello a riconoscere e a distinguere i sapori di una quantità svariata di alimenti. Entrambe le teorie, tuttavia, hanno punti forti in loro favore1. 2.2. I confini tra bocca e naso: il ruolo dell’olfatto Associato al gusto in senso stretto, l’olfatto ha un ruolo primordiale nei comportamenti alimentari e il suo apporto alle sensazioni gustative è essenziale. Di fronte a un odore di carne decomposta, agendo da sentinella l’olfatto ci avverte di non mangiarla; viceversa, il profumo di una torta al cioccolato appena sfornata ci invita all’assaggio. Tutti gli alimenti, crudi o cotti, hanno un odore, percepito in genere prima di introdurli nella bocca. Il caffè, per esempio, una bevanda gradita per il suo profumo ancor più che per il suo sapore, deve la sua essenza aromatica a circa ottocento miscele di differenti classi chimiche, senza contare che la cottura degli alimenti, la loro combinazione e l’uso di spezie amplificano notevolmente il ventaglio di aromi 1  Sugli argomenti trattati in questo paragrafo cfr. anche: Holley 2006: 65-84; Pinel 2006: 253-255; Bear et al. 2001: 257-266; Purves et al. 1997: 274-284; Marconi et al. 2007: 1-12. Per maggiori approfondimenti sugli aspetti biofisici e neurofisiologici cfr.: Holley 2006: 75-83; Bear et al. 2001: 260-269.; Smith, Shepard 1999: 771-791; Brand 1997.

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liberati da una pietanza. Una volta ingeriti, durante la masticazione la maggior parte dei cibi sprigionano molecole volatili, vapori che con l’aria inspirata vanno a stimolare aree posteriori della bocca e del naso (rinofaringe) seguendo la via retronasale. Questo vale anche per il vino e per le bevande in genere, nonostante non vengano masticati. Gli odori liberati da queste molecole volatili prendono il nome di aromi e sono pienamente avvertiti quando deglutiamo, permanendo anche a lungo dopo l’assaggio. Momento tutt’altro che trascurabile, la masticazione (la sua intensità e la sua durata), variando da persona a persona determina percezioni differenti degli aromi e dei gusti degli alimenti: quanto più a lungo si mastica un pezzo di cioccolato tanto più forte sarà l’aroma sprigionato e la sua durata nella bocca anche dopo averlo deglutito. Importantissime per apprezzare un cibo o un vino, le sensazioni retrolfattive, o aromi di bocca, coinvolgono tanto il nostro palato, quanto il nostro naso. Pensiamo, per l’appunto, alla persistenza gusto-olfattiva di un buon cioccolato, all’elevata percettibilità delle componenti organolettiche che gli conferiscono un sapore ricco e complesso, rilasciato gradualmente, tale da sovrastare in genere il sapore di un vino: ecco perché l’abbinamento vino-cioccolato è uno dei più difficili. Come si dirà meglio più avanti (infra, § 3.1.), sono soprattutto l’odore e l’aroma dei cibi a farci sentire le infinite sfaccettature dei sapori. Se il processo evolutivo ha riservato al gusto e all’olfatto un destino comune, quali sono i loro confini? Entrambi sono deputati all’individuazione delle sostanze chimiche presenti nell’ambiente, non a caso il cervello può percepire gli aromi solo utilizzando i due sensi contemporaneamente. Addirittura, nelle fasi più arcaiche dello sviluppo filogenetico, olfatto e gusto costituivano un unico senso chimico adatto alla percezione acquatica. I serpenti, per esempio, gustano con l’olfatto, collocato nella lingua, fiutando il terreno alla ricerca di tracce del passaggio di una preda o anche assaggiandolo attraverso l’organo vomeronasale, e ­49

gli squali avvertono l’odore e il gusto del sangue persino a chilometri di distanza. Con la diffusione della vita fuori dall’acqua, nuovi adattamenti biologici hanno reso necessaria la possibilità di trasmettere le informazioni attraverso l’aria. Così odorato e gusto pur conservando molte affinità si sono differenziati. L’olfatto tuttavia continua ad attivarsi solo se una molecola odorosa, necessariamente volatile e solubile, si scioglie nel muco che bagna i recettori olfattivi e il gusto entra in funzione quando le sostanze sapide si disciolgono nell’acqua o nella saliva. I nostri rivelatori chimici sono intimamente connessi con alcune necessità e funzioni fisiologiche fondamentali come la fame, la sete, l’eccitamento, il desiderio sessuale e alcune forme di memoria. Entrambi hanno un ruolo biologico e comportamentale essenziale nella nutrizione e sono inseparabili per l’apprezzamento del sapore dei cibi e delle bevande. La loro azione sinestetica è poi più evidente in quella complessa attività cognitiva che è la degustazione. E persino nel cervello, come si vedrà (infra, § 2.4.), esiste un’area, la corteccia orbitofrontale, in cui olfatto e gusto si incontrano per restituirci la sensazione del sapore. Sono poi accumunati dalla precocità ontogenetica, sono cioè i primi sensi a formarsi nell’embrione umano, e anche a livello filogenetico costituiscono le modalità sensoriali più arcaiche e le più diffuse nel mondo animale. T. Sebeok, il padre della zoosemiotica, osserva infatti che «la stragrande maggioranza degli animali è sia sorda sia cieca» (2001: 61). Tanto i recettori gustativi quanto quelli olfattivi vanno incontro a un continuo ricambio nel corso della loro esistenza, con la differenza però che mentre i primi sono cellule sensoriali, solo i recettori olfattivi sono neuroni veri e propri, e peraltro quelli più a contatto con il mondo esterno. L’odorato rappresenta, di fatto, la porzione più esteriorizzata del nostro cervello, con il vantaggio dell’accesso immediato dei segnali olfattivi e al tempo stesso il rischio di accesso al cervello di virus e tossine. Sono per di più due sensi di ‘contatto’: l’organismo cattura odori e ­50

gusti a condizione di avere un incontro ravvicinato con lo stimolo, così ravvicinato nel caso del gusto da essere addirittura ingoiato. Gusto e odore sono inoltre due esperienze soggettive e intime, ma anche due esperienze sociali: benché il più delle volte non ne abbiamo consapevolezza, l’olfatto è un grande regolatore delle relazioni sociali – non a caso G. Simmel definiva la questione sociale anche «una questione di naso» (1908: 557) – e non meno dell’odorato, il gusto culmina nel piacere della condivisione del cibo, asse portante dei nostri legami sociali, della loro creazione e del loro mantenimento. Al di là delle esperienze conviviali, la funzione collettiva dei nostri sensi chimici si manifesta pienamente nell’attività di degustazione, un’analisi effettuata sempre in un contesto sociale e tale da implicare un trapasso dalla soggettività delle sensazioni alla loro condivisione per mezzo della parola, e per di più di un lessico codificato (cfr. infra, § 5.2.). Una specificità dei due sensi non riscontrata in ugual misura nella vista, nell’udito e nel tatto, spesso indifferenti e/o passivi rispetto a ciò che percepiscono, è la loro forte caratterizzazione emotiva ed edonistica: gli stimoli olfattivi e gustativi, oltre ad avere un significato cognitivo, hanno una valenza affettiva che li caratterizza tanto quanto la loro qualità e la loro intensità, determinata in larga parte proprio dalla qualità e dall’intensità dello stimolo. Ecco perché l’atto del gustare, esattamente come la percezione di un odore, non ci lascia mai indifferenti o neutrali, ma è sempre accompagnato da una sensazione di piacere o di dispiacere, di attrazione o di rifiuto. Una peculiarità dell’olfatto e del gusto è cogliere le distinzioni, riconoscere odori e sapori, attraverso un sottile lavoro di comparazione con sensazioni consimili archiviate nelle nostre memorie sensoriali. Tanto il naso quanto il palato sono fortemente condizionati dall’appartenenza sociale e culturale e dal modo in cui ciascun individuo vi si adatta in relazione al proprio vissuto personale: a parità di dotazione biologica, negli umani la sensibilità agli odori e ai gusti si sviluppa in modi estrema­51

mente variabili. Una caratteristica comune ai due sensi è per l’appunto la grande variabilità interindividuale: come non esistono due persone con lo stesso naso, non esistono due persone con lo stesso palato. Diversamente dagli altri dispositivi sensoriali, le vie gustative come quelle olfattive hanno una rappresentazione ipsilaterale: la mappa della metà destra della lingua raggiunge l’emisfero destro e la metà sinistra comunica direttamente con l’emisfero omonimo, così come la narice destra è connessa inizialmente con l’emisfero destro e quella sinistra con l’emisfero omonimo. E poi ancora, sono due sensi molto duttili agli apprendimenti nel corso di tutta la vita, anche se l’olfatto lo è forse in misura maggiore: tale plasticità è evidente nella loro variabilità nel corso dell’esistenza di un individuo e nella loro educabilità a qualunque età. Il gusto, analogamente all’olfatto, può modificarsi a qualsiasi età: un sapore o un alimento non gradito per molto tempo può a un certo momento risultare palatabile, e persino l’avversione e la preferenza genetica rispettivamente per l’amaro e per il dolce possono modificarsi nel corso della vita. In modo non dissimile dall’olfatto, la sensibilità gustativa si riduce con l’età e di conseguenza, come s’è già detto, cresce la preferenza verso i sapori più forti. Oggi alcuni ricercatori sembrano nondimeno convenire sulla teoria secondo cui l’età ridurrebbe in special modo la sensibilità olfattiva, senza influire sul gusto. La singolarità cognitiva condivisa dai due sistemi sensoriali è infine evidente nel loro essere due ‘sensi estremi’: da una parte i più primitivi, quelli che dicono maggiormente la nostra natura animale (i più legati alla vita viscerale, alla sessualità, agli istinti, alle emozioni, ai piaceri ‘densi’), dall’altra i sensi più raffinati e sofisticati. L’olfatto è il senso dell’immaginazione – come lo hanno definito anche J.J. Rousseau (1762: 186) e G. Bachelard (1960: 148 sgg.) – l’unico che ci permette di penetrare nell’intimità delle persone, di annusarne gli stati d’animo e gli odori più indiscreti, di svelare la natura più profonda dei luoghi, delle situazioni e persino ­52

degli alimenti e delle bevande come il vino. Il gusto non è poi da meno quanto a intimità e a capacità di rivelarci raffinati dettagli per assaporare una parte di mondo e per valutarne la qualità, anzi è talmente intimo da essere l’unico senso che «esige di introdurre dentro di sé una particella di mondo [...]. La degustazione di un alimento o di una bevanda implica di immergerli dentro di sé» (Le Breton 2006: 349). Anche se per Kant «l’ingestione mediante l’olfatto (nei polmoni) è ancora più intima di quella che avviene mediante la bocca e la gola» (1798: 579). Tali analogie, tuttavia, non escludono differenze tra i due sistemi sensoriali, anatomicamente distinti, diversi nella struttura e nel funzionamento dei rispettivi chemiorecettori, nell’organizzazione cerebrale e nei relativi effetti sul comportamento. Fermo restando che esiste un’area della corteccia cerebrale entro cui convergono e vengono confrontate le informazioni derivanti da ciascun sistema previa elaborazione in parallelo (cfr. infra, § 2.4.). Di fatto, solo nel 1824, per merito del chimico francese M.E. Chevreul, la scienza stabilisce una chiara distinzione tra olfatto, gusto e sensibilità tattile. Diversamente dal gusto, il cui campo d’applicazione è comunque limitato alle conoscenze alimentari, l’olfatto ha un vastissimo raggio d’azione: gli odori influenzano i nostri comportamenti sociali, sessuali, emozionali, oltre che alimentari, agendo spesso fuori dalla sfera cosciente, e contribuiscono ad arricchire le nostre conoscenze in un modo non concesso agli altri sensi (per una minuziosa panoramica cfr. Cavalieri 2009). Il naso, molto più del palato, le cui informazioni sono piuttosto semplici e la cui sensibilità è mille volte inferiore, è in grado di avvertire uno spettro di sensazioni molto ampio, addirittura migliaia di odori qualitativamente diversi. A fronte però del numero ridotto di gusti fondamentali rispetto alla ricchezza di odori che respiriamo continuamente, la codifica della qualità del gusto è meglio nota di quella degli stimoli olfattivi, sul cui mistero influisce indubbiamente la grande varietà di molecole odoranti e di sensazioni odorose pro­53

dotte dalla loro combinazione. Ma se l’odore ha una sola dimensione, il gusto in senso stretto è multidimensionale: esso si combina con altre sensazioni, aromatiche, tattili, termiche, ma anche visive e uditive, per restituirci una sensazione complessa. E laddove le lingue occidentali lamentano la mancanza di un vocabolario olfattivo specifico per gli odori, la mancanza cioè di parole con cui denominare, descrivere con precisione e condividere pienamente le nostre esperienze olfattive, il vocabolario con cui parliamo del gusto è meno povero, disponendo almeno di un certo numero di termini specifici (cfr. infra, § 5.3.). E se l’olfatto è considerato il senso più distante dal linguaggio, il gusto invece (insieme all’udito ma per ragioni diverse) è il senso che coinvolge più la parola (cfr. infra, §§ 3.3. e 3.4.). Olfatto e gusto si differenziano poi anche rispetto al modo in cui le sensazioni acquistano valore emotivo. Nel caso degli odori, il loro carattere edonistico è frutto dell’apprendimento maturato con l’esperienza: un buon odore può risultare sgradevole a una persona perché associato a un’esperienza negativa, viceversa un odore non particolarmente gradevole se associato a un ricordo positivo viene connotato come buono. I gusti, invece, e questo vale specialmente per il dolce e per l’amaro, hanno un significato affettivo geneticamente determinato e perciò relativamente indipendente da qualsiasi forma di apprendimento, per lo meno da bambini, visto che questa semplice dinamica diventa più complessa con la crescita. Anche sulla formazione del gusto, come si dirà più avanti (cfr. infra, § 4.4.), interagiscono vincoli biologici e fattori culturali, e naturalmente le situazioni affrontate da ogni persona nel corso della propria vita. 2.3. Piaceri trigeminali Tra i rilevatori chimici che contribuiscono alla percezione del gusto degli alimenti un ruolo apprezzabile, spesso ignorato o misconosciuto, spetta altresì al nervo trigemino, ­54

un costituente del nostro sistema olfattivo e al tempo stesso del gusto in senso lato, tuttavia anatomicamente indipendente da entrambi. Gli studi sull’olfatto in genere non attribuiscono grande importanza alla funzione del sistema trigeminale, responsabile delle ‘sensazioni del viso’, e ne sottovalutano l’interazione con i recettori olfattivi nella percezione di sostanze dannose, irritanti o pungenti come il diossido di carbonio, l’alcool, l’ammoniaca, il tabacco e molte spezie (zenzero, curry, pepe, peperoncino, aglio crudo). Innervando gran parte del viso e in particolare il naso, la lingua e il palato, il nervo trigemino, un nervo a tre rami a loro volta ramificati, arricchisce il gusto con le sue diverse sensibilità, nonostante i percorsi neurali delle sue fibre si differenzino da quelli delle fibre gustative. Gli alimenti e le bevande ingeriti vanno a sollecitare, infatti, le terminazioni dei nervi trigemini disseminate nella mucosa della bocca e del naso, determinando sensazioni chimiche, termiche, tattili e di dolore, accompagnate da riflessi quali la lacrimazione, la salivazione, la vasodilatazione, la secrezione nasale. Reagendo in particolare alle sostanze irritanti, questo nervo è responsabile delle sensazioni di bruciore o di calore causate da spezie come il pepe e il peperoncino o dalla cipolla cruda, di pungente dell’alcool e dell’aceto, di freschezza della menta, di pizzicore e di formicolio delle bollicine. Se una bevanda come la Coca-Cola è diventata una delle più amate al mondo, il ‘merito’ è del suo sapore dolce combinato alla caffeina e specialmente del piacere prodotto da quel leggero pizzicore al naso e dal suo effetto rinfrescante, dovuti proprio all’eccitazione del nervo trigemino. La sua incidenza sulla funzione olfattiva nel suo complesso dipende dal fatto che alcune diramazioni di questo nervo arrivano nella mucosa olfattiva. La maggior parte delle sostanze odoranti, percepibili dal naso a concentrazioni molto basse, diventano irritanti a concentrazioni molto elevate e vanno così a stimolare il sistema trigeminale. Un danno o un cattivo funzionamento dell’apparato ­55

olfattivo, pur impedendo totalmente o parzialmente la percezione degli odori, lascia intatta la capacità di avvertire l’odore pungente dell’ammoniaca o della trementina, la sensazione di freschezza della menta o il diossido di carbonio responsabile delle bollicine dello champagne e di altre bevande frizzanti, stimoli tipicamente trigeminali. In condizioni normali per l’uomo però è difficile distinguere le sensazioni provenienti dai due diversi tipi di recettori chimici. I due sistemi inoltre a volte si inibiscono al punto che una sostanza odorosa può mascherare una sostanza irritante e viceversa. La sensibilità dell’organo olfattivo specialmente a concentrazioni molto basse di sostanze odorose lascia pensare che in presenza di uno stimolo molto intenso il trigemino subentri all’olfatto vero e proprio avvistando, come una sentinella, le sostanze aggressive responsabili delle sensazioni di dolore o di irritazione. Diversamente dall’olfatto propriamente detto e dal gusto, questo nervo tutto particolare se soggetto a stimoli prolungati non va incontro a fenomeni di assuefazione bensì di sensibilizzazione. La sensazione di irritazione e di bruciore determinata dalla capsaicina (la molecola responsabile del gusto piccante) contenuta nel peperoncino, o dalla piperina contenuta nel pepe, aumenta nel caso di una seconda somministrazione separata dalla prima da un brevissimo intervallo di tempo (un minuto); se lo stimolo invece viene somministrato a intervalli di tempo più lunghi (di almeno tre minuti) si verifica un fenomeno di desensibilizzazione, ovvero di riduzione della risposta. Gli effetti dell’interazione della sensibilità trigeminale e di quella gustativa sulla creazione del sapore si ripercuotono anche sulla sensibilità dei denti innervati dalle ramificazioni del trigemino. Quando mastichiamo il cibo, la loro attività intensifica la risposta delle cellule gustative della lingua, risposta che si riduce nelle zone in cui abbiamo subito una o più estrazioni dentarie. A quanto pare, dunque, l’unica lezione che possiamo trarre dalla funzione della sensibilità trigeminale è che noi ­56

umani siamo stati gli unici animali capaci «di sfruttare un meccanismo primitivo di protezione e di allerta per ampliare la gamma degli stimoli che contribuiscono al piacere di mangiare» (Holley 2006: 96). Non si spiegherebbe altrimenti la grande attrattiva esercitata dal peperoncino e da altre spezie piccanti come il pepe o la senape – sostanze inizialmente respinte e non gradite – su moltissime persone appartenenti a culture gastronomiche differenti. Pare che ogni giorno più di un terzo della popolazione mondiale consumi capsaicina. Evidentemente, le sensazioni vivaci provocate dai cibi contenenti questa sostanza spiegano come un’intollerabile sensazione di dolore possa trasformarsi in gradimento, modificando persino un’avversione naturale. Senza contare poi il piacere tutto trigeminale di sentire l’astringenza di un buon vino rosso o gli aromi delle spezie e delle erbe aromatiche – dal rosmarino, al timo, all’origano, alla cannella, allo zafferano, al curry – che arricchiscono e caratterizzano il sapore di un piatto2. 2.4. Il cervello che gusta La possibilità di guardare nel cervello e di osservarne l’attività mentre ascoltiamo una melodia, guardiamo un’immagine, annusiamo un fiore o gustiamo una prelibatezza, aperta negli ultimi decenni dalle tecniche di brain imaging (in particolare la fMRI, risonanza magnetica funzionale, e la PET, tomografia a emissione di positroni, due metodi che rilevano le variazioni del flusso sanguigno regionale di una o più aree del cervello sollecitate a determinate attività), ha permesso di ricostruire l’intero percorso che conduce alla sensazione del sapore di ciò che mangiamo o beviamo. In tempi più recenti, i pochissimi studi di neuro­ imaging funzionale applicati ai sapori ci restituiscono una   Cfr. Holley 2006: 85-96; Brand 2001: 45-47; Vroon et al. 1994: 50-51; Wood 1993; Engen 1982: 38, 149-151. 2

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vera e propria mappa dei distretti cerebrali attivi quando annusiamo o assaporiamo del cibo o quando ci prepariamo al suo consumo. Gli assoni dei tre nervi cranici che conducono l’informazione gustativa dalla bocca al cervello una volta arrivati al nucleo gustativo (nucleo del fascicolo solitario) si diramano per seguire percorsi diversi: alcuni di essi formano sinapsi con i neuroni di una regione del talamo (nucleo ventrale postero-mediale), per raggiungere a loro volta zone diverse della corteccia gustativa primaria situata nei lobi frontali, in particolare l’insula e la corteccia frontale dell’opercolo; altri raggiungono l’ipotalamo e l’amigdala, aree del cervello viscerale o sistema limbico, centro della nostra vita emotiva e sessuale e regolatore di alcuni bisogni primari (fame, sete, temperatura, sonno). Stimolando la lingua di una persona attraverso l’applicazione di prodotti alimentari si osserva un’attivazione in diversi punti della regione dell’insula situata tra il lobo frontale e quello temporale. Il circuito cognitivo responsabile della percezione consapevole dei sapori include quindi il nucleo gustativo, il talamo (‘porta d’ingresso’ alla corteccia di tutte le modalità sensoriali, dove vengono filtrate ed elaborate le informazioni più rilevanti da inviare alle aree sensoriali primarie della neocorteccia, ad eccezione di quelle olfattive che seguendo una sorta di scorciatoia cerebrale arrivano direttamente nella corteccia cerebrale senza passare per il talamo) e le regioni corticali dell’insula e dell’opercolo. Molto probabilmente questo circuito è coinvolto nell’identificazione della qualità e dell’intensità del gusto. Un percorso nervoso parallelo, anatomicamente indipendente ma vicino a quello cognitivo, definito per così dire ‘affettivo’, si dirama sempre dal nucleo gustativo per distribuire le sue informazioni all’ipotalamo e all’amigdala, strutture del sistema limbico coinvolte nei processi emotivi di percezione della gradevolezza o sgradevolezza dei sapori, nell’appetibilità degli alimenti e più in generale nella motivazione a nutrirsi. Osservazioni condotte su ani­58

mali da laboratorio hanno rilevato come lesioni localizzate nell’ipotalamo e nell’amigdala possano determinare totale indifferenza verso il cibo, iperalimentazione cronica o, ancora, alterazione delle preferenze alimentari. I neuroni del nucleo gustativo sono collegati inoltre con i neuroni di diverse aree corticali motorie responsabili dei processi di masticazione, di salivazione, di deglutizione e di vomito, e con altre funzioni fisiologiche come la digestione e la respirazione. La vicinanza a livello del bulbo tra la centralina del gusto (nucleo gustativo) e i nuclei viscero-motori che controllano l’ingestione e l’espulsione del cibo fa sì che il gusto governi attraverso riflessi spontanei l’accoglimento o il rifiuto degli alimenti. Gli studi di neuroimaging applicati al gusto hanno poi mostrato negli esseri umani l’attivazione di un’altra area situata un po’ più avanti rispetto alla corteccia gustativa primaria in una zona della corteccia orbitofrontale. Diversamente dalla corteccia primaria, questa regione tutta particolare è attivata anche da stimoli olfattivi e riceve inoltre input da aree corticali che elaborano sensazioni visive relative alla forma e al colore e sensazioni tattili provenienti dalle mani e dal viso, configurandosi come un’area di convergenza multisensoriale dove tutti questi dati acquistano significato. Si è poi riscontrato che singoli neuroni attivati dal gusto possono avere risposte modulate dalla consistenza del cibo e altri ancora riflettono la temperatura dei cibi nella bocca. Tale convergenza è frutto di un processo di apprendimento: i singoli neuroni della corteccia orbitofrontale imparano a rispondere all’odore e al gusto di un alimento o al gusto e alla vista solo perché li associano a un sapore particolare. La capacità di questi neuroni di reintegrare una serie di risposte connesse a sensazioni distinte riguardanti l’odore, il gusto, la vista, la consistenza degli alimenti e la loro temperatura, compresenti quando mangiamo un cibo o beviamo un vino, fa pensare che la corteccia orbitofrontale sia l’‘area del sapore’. Ma a questa regione gustativa secondaria viene ascrit­59

Fonte: Bear et al. 2001: 267

ta altresì la caratteristica, assente nella corteccia gustativa primaria, di modulare le risposte agli stimoli sensoriali del cibo in relazione alla fame o alla sazietà, oppure a una ricompensa: se un animale è stato nutrito a sazietà con della carne, i neuroni che prima rispondevano a questo cibo non reagiscono più, sebbene continuino a rispondere a una mela o a un altro alimento; se invece allo stimolo gustativo viene associato un premio, i neuroni della corteccia orbitofrontale si attivano più energicamente. Tali osservazioni valgono tanto per le scimmie quanto per gli esseri umani. La gradevolezza di un cibo, dunque, diminuisce fino a sparire quando ne mangiamo a sazietà, mentre possiamo continuare a consumare piacevolmente altri alimenti: importante ai fini evoluzionistici, la sazietà sensoriale specifica garantisce l’assunzione di cibi variegati e perciò di differenti apporti nutritivi. Questo spiega inoltre come mai quando siamo sazi di un cibo troviamo comunque appetibile una pietanza diversa e troviamo gradevole il suo odore rispetto a quello dell’alimento appena mangiato a volontà (cfr. infra, § 4.4.). Le connessioni della corteccia orbitofrontale con il sistema limbico spiegherebbero il ruo­60

lo di quest’area nella valutazione della gradevolezza degli alimenti e nel valore affettivo attribuito a sapori e odori, e perciò la sua importanza nei comportamenti di assunzione e di rifiuto del cibo (cfr. Rolls 2002; 2003; 2009). Lo studio delle basi neurofisiologiche delle emozioni, dei meccanismi grazie ai quali il cervello capta segnali di pericolo come odori e sapori nauseanti ed è capace di percepire e interpretare le emozioni altrui, ha rilevato l’attivazione di una regione del cervello deputata all’elaborazione delle sensazioni gustative in circostanze particolari come la vista di un’espressione facciale di disgusto sul volto di un’altra persona. La caratteristica mimica facciale con cui esprimiamo le nostre emozioni primarie come la gioia, la tristezza, la paura o il disgusto, assume le sembianze di una forma di comunicazione sociale, trasformandosi in un efficace linguaggio non verbale. Studi recenti condotti mediante fMRI hanno rilevato come nell’individuo che osservi sul volto altrui una reazione di disgusto (segno che l’oggetto annusato o gustato è percepito come un veicolo di possibili pericoli) si attivino empaticamente le stesse aree corticali operanti nel soggetto disgustato. Tali sono in modo particolare l’insula sinistra (area corticale primaria sia per la percezione di odori e di gusti, sia per la ricezione di segnali relativi a stati interni del corpo) e il cingolo rostrale dell’emisfero destro, mentre un’area sottocorticale come l’amigdala (attiva sia per gli odori sgradevoli sia per quelli gradevoli) non interviene nel riconoscimento delle espressioni fisiognomiche di disgusto. Le medesime aree sono coinvolte anche quando proviamo direttamente o riconosciamo negli altri un moto d’afflizione. Conferme dell’attivazione dell’insula quando proviamo una sensazione di disgusto o quando condividiamo un simile stato emotivo osservato sul viso altrui emergono anche da recenti studi clinici: pazienti con lesioni estese di quest’area sono incapaci di avere un’esperienza qualsiasi di disgusto, non mostrano alcuna reazione di fronte a cibi per chiunque altro disgustosi e non sono ­61

più in grado di riconoscere espressioni facciali di disgusto. Se provare disgusto e percepire quello altrui hanno la stessa base cerebrale, esisterebbe una sorta di meccanismo sociale che ci consente di ‘leggere’ e di rivivere interiormente le emozioni altrui, un dispositivo cerebrale ‘specchio’ (molto simile a quello dei ‘neuroni specchio’, neuroni sensori e motori nel contempo, preposti alla comprensione delle azioni e delle intenzioni altrui) che colorisce emotivamente la condivisione delle risposte viscero-motorie legate per l’appunto alle emozioni (Rizzolatti, Sinigaglia 2006: 165-183; Rizzolatti, Vozza 2008: 63-66). Un siffatto meccanismo di comprensione dei gesti e delle sensazioni altrui, fondamento della cognizione sociale, non si baserebbe su processi cognitivi di tipo inferenziale (analisi del contenuto di ciò che vediamo, annusiamo o sentiamo per dedurre logicamente il tipo di emozione provata dall’altro), ma sul rivivere quell’esperienza in prima persona attraverso l’attivazione delle medesime aree del cervello emotivo3. 2.5. L’evoluzione del gusto Essenziale per la sopravvivenza e la conservazione di tutte le specie viventi, nel corso della lunghissima storia evolutiva la funzione gustativa ha assunto forme variegate nelle diverse specie in relazione ai limiti biologici, al tipo di alimentazione (erbivora, insettivora, carnivora o onnivora), all’ecosistema entro cui ciascuna di esse vive, alla sua biodiversità variabile nello spazio e nel tempo e all’organizzazione sociale. Non è detto perciò che i sapori a noi graditi coincidano con quelli di altri animali. Ma come si è evoluto il nostro palato a partire dai primati, i nostri parenti più prossimi? Anzitutto i loro organi gustativi si sono svilup  Cfr. anche Holley 2006: 137-147; Price 2003; Bear et al. 2001: 266-299; Purves et al. 1997; Smith, Vogt 1997: 25-76. 3

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pati da quelli dei primi vertebrati acquatici. Collocati sulla pelle dei pesci prima e nella cavità buccale di batraci (rane) e di anfibi dopo, i recettori del gusto e i geni deputati alla codifica del loro funzionamento nel corso dell’evoluzione si sono modificati per rispondere ai cambiamenti della composizione degli alimenti disponibili nei differenti ambienti (Hladik, Pasquet 2004: 204). Se è vero che con alcuni primati condividiamo addirittura il 98% del patrimonio genetico, il loro gusto alimentare non dovrebbe differire molto dal nostro, almeno sotto il profilo biologico. Le ricerche sull’evoluzione del comportamento alimentare nelle scimmie mettono in evidenza una grande varietà di comportamenti e quindi di scelta di sapori. Nonostante i cibi prevalenti siano quelli vegetali (soprattutto frutta, ma anche foglie, germogli, semi), il gusto di alcune specie di scimmie si è evoluto al punto da includere alimenti carnei. Gli antenati dei gorilla, degli oranghi e degli scimpanzé vivevano sugli alberi di foreste lussureggianti, dove si nutrivano prevalentemente di frutta, di noci ma anche di uova, di uccellini di nido e di piccoli rettili, che non creavano grossi problemi all’apparato digerente piuttosto semplice di cui erano dotati. In seguito ai cambiamenti climatici che all’incirca quindici milioni di anni fa ridussero notevolmente le dimensioni delle foreste, le scimmie ancestrali furono costrette a modificare le loro abitudini alimentari e di vita: realizzatesi simultaneamente ad alcuni cambiamenti morfologici fondamentali (assunzione di una posizione più eretta e pertanto la possibilità di correre più velocemente, liberazione delle mani, crescita del volume e della complessità del cervello), tali trasformazioni ne fecero anche dei cacciatori. Da qui la costruzione e l’uso di armi artificiali, e perciò il miglioramento dei metodi di caccia e della collaborazione tra i cospecifici abituati a praticarla in gruppo, la conservazione delle prede in una base fissa e lo sviluppo di comportamenti sociali più sofisticati associati alla loro spartizione. Così, da frugivori i nostri antenati si sono trasformati in predatori, con evidenti conseguenze ­63

sull’organizzazione sociale complessiva, sullo sviluppo del cervello e delle capacità cognitive. Se i carnivori specializzati (per esempio, felini, cani selvatici, lupi), dotati di armi naturali per uccidere le prede (artigli, zanne, denti aguzzi), hanno una vista molto sensibile al minimo movimento e un udito e un olfatto acutissimi, le scimmie, tipiche raccoglitrici di frutta, sono poco uditive e soprattutto poco olfattive; tuttavia hanno sviluppato la visione tricromatica, una buona capacità di vedere i particolari statici (utile per individuare il loro cibo statico) e specialmente un gusto più raffinato, coniugati a un cervello più complesso (cfr. Morris 1967: 19-30). I carnivori hanno gusti più semplici e grossolani, strappano il cibo e spesso lo ingoiano senza masticarlo, la loro dieta specializzata è più nutriente ma anche monotona. I primati invece, veri e propri «opportunisti» del cibo, come li definisce lo zoologo D. Morris (ivi: 211), sono più sensibili alla varietà dei sapori che gustano: studi condotti su macachi giapponesi allo stato selvaggio hanno dimostrato quanto il loro palato sia sensibile ai sapori differenti di oltre cento specie di piante consumate sotto forma di semi, germogli, radici, foglie, cortecce, frutti e per di più di una grande varietà di piccole prede come ragni, formiche, farfalle, scarabei e uova. Tra le scimmie antropomorfe, quelle evolutivamente più lontane da noi come gorilla e oranghi sono rimaste vegetariane, hanno cioè un menu di soli frutti e foglie, alimenti ricchi di vitamine e di fibra ma con poche calorie, per cui sono costrette a una vita di spuntini continui. Diverse specie di primati delle foreste, tra cui macachi e cercopitechi, si nutrono anche di insetti, una fonte di proteine necessaria a compensare il debole tenore di sostanze azotate dei frutti. Gli scimpanzé invece, nostri ‘cugini’ di primo grado, sono diventati onnivori. Avendo a disposizione molti più alimenti tra cui scegliere, prevalentemente vegetali ma anche animali (la quantità di proteine che assumono è comunque inferiore alla nostra), hanno un me­64

nu più vario e più ricco di sapori. Oltre a nutrirsi di carcasse di animali morti e di prede catturate, gli scimpanzé, le scimmie antropomorfe più evolute culturalmente, hanno una predilezione per gli insetti. Sono capaci peraltro di andare a ‘pesca’ di termiti utilizzando piccoli ramoscelli privati delle foglie e introdotti nei nidi di questi insetti – i quali incontrando l’ostacolo lo mordono e restano infilzati – oppure distruggendo i nidi delle termiti con grossi bastoni per poi mangiarle. Il fatto che termiti e bruchi (e altre larve d’insetti) forniscano ancora oggi un importante apporto proteico nell’alimentazione delle popolazioni delle foreste tropicali dimostra come gli insetti abbiano sempre costituito una risorsa alimentare importante per tutti i primati della linea degli ominidi (cfr. Hladik, Picq 2001: 132-136; Hladik 2002: 430-432). Laddove i gatti, secondo studi recenti (Li et al. 2005), non sono geneticamente attrezzati ad apprezzare le sostanze dolci (le loro papille gustative sono sprovviste di recettori per discriminare il gusto dolce), tutte le specie di giovani primati mostrano, come i neonati umani, una preferenza spiccata per il gusto dolce e un’avversione per le sostanze amare e astringenti (alcaloidi e tannini) espresse attraverso le risposte positive o negative del riflesso gusto-facciale (Steiner et al. 2001, citato in Hladik 2002: 436-437). Il ‘piatto principale’ delle scimmie, ovvero i vari tipi di frutta, maturando diventa sempre più adatto al consumo e anche più dolce: ciò spiega il particolare apprezzamento di questi animali per tutti gli alimenti dal sapore zuccherino, ivi inclusi gelati, caramelle, canditi e bibite zuccherate. Ricerche effettuate negli ultimi trent’anni dal primatologo Hladik e colleghi sul regime alimentare e sulla percezione gustativa delle scimmie dimostrano come la soglia di percezione di sostanze dal gusto dolce vari in rapporto alla massa corporea della specie: le specie dalla grossa stazza sono più sensibili alle basse concentrazioni rispetto a quelle di dimensioni più ridotte. La maggiore sensibilità al gusto dolce, dovuta all’abbassamento della ­65

soglia percettiva, nei primati di grande taglia favorirebbe l’inclusione di una gamma più ampia di tipi di frutta, comprendente anche quella con pochi zuccheri, risultato di una pressione selettiva costante legata a un maggiore fabbisogno energetico. L’avversione per l’amaro e per i tannini, pur permettendo di evitare ai giovani esemplari l’ingestione di sostanze potenzialmente tossiche, negli adulti varia da una specie all’altra in funzione dell’ambiente e della tipologia di apparato digerente: ingeriti in piccole quantità, i tannini di cui sono ricche molte piante e i frutti immaturi, e in alcuni casi anche gli alcaloidi, vengono ben tollerati e possono avere persino effetti benefici contro i parassiti. Il consumo di argilla (geofagia) osservato negli scimpanzé e in altre specie di scimmie pare favorisca la neutralizzazione dei tannini assunti attraverso un consumo abbondante di foglie. Anche nel caso del gusto acido, la risposta è estremamente variabile nei diversi gruppi di primati in rapporto alla concentrazione della sostanza e agli adattamenti morfologici di ciascuna specie, fenomeno spiegabile entro complesse strategie ecologiche legate al carattere tossico di alcune sostanze acide, rifiutate proprio per la loro pericolosità: per esempio, diversamente dai langur, il cui apparato digestivo non è adatto all’assunzione di sostanze acide, macachi e gibboni consumano rispettivamente frutti poco acidi e frutti molto acidi. Nel repertorio dei sapori di base dei primati rientra anche il gusto salato: la sua percezione varia da una specie all’altra e le reazioni in termini di preferenza o di avversione osservate non sono molto nette. In tutti i casi, la scelta di alimenti più o meno acidi e di sali minerali è destinata ad assicurare un buon equilibrio alimentare. La scarsa presenza di cloruro di sodio (definito dall’uomo come il ‘gusto salato’) nella vegetazione delle foreste in cui vivono la maggior parte delle specie attuali di scimmie fa supporre che negli ultimi sessantacinque milioni di anni le scelte alimentari dei primati non siano state determinate dal gu­66

sto salato (la percentuale di cloruro di sodio dei vegetali consumati dai primati è molto più bassa della loro capacità di riconoscimento). Verosimilmente, la percezione del salato nelle scimmie non è il risultato di una co-evoluzione adattativa comparabile a quella che ha permesso loro di percepire gli zuccheri dei frutti delle angiosperme nel corso dell’Era Terziaria. Ciò non toglie tuttavia che nella loro alimentazione quotidiana i primati assumano quantità di sali minerali sufficienti alle necessità energetiche del loro organismo. Scoperto presumibilmente da una specie appartenente al genere Homo (non necessariamente Homo sapiens), il gusto del sale avrebbe migliorato il sapore dei primi alimenti cotti, con effetti notevoli sulla storia recente dell’umanità, in particolare sulle tecniche culinarie: il suo uso avrebbe trasformato radicalmente i sapori percepiti. Qualcosa di vagamente simile è accaduto in modo casuale ai macachi giapponesi che si sono abituati a immergere i loro alimenti nell’acqua di mare per insaporirli4. Esito di un processo adattativo, nonostante presenti una certa ricchezza e variabilità, il gusto dei primati non umani è più vincolato biologicamente rispetto a quello delle popolazioni umane, dove il contesto socio-culturale può in certi casi addirittura modificare radicalmente gusti e disgusti geneticamente determinati: l’eccezionale flessibilità dei comportamenti alimentari esibita dai diversi gruppi umani dipende in larga parte dalle influenze sociali esercitate dai cospecifici. Specie vegetariana divenuta carnivora, l’Homo sapiens apparterrebbe dunque al gruppo delle scimmie frugivore-onnivore, una condizione che presenta vantaggi e svantaggi. Da una parte la grande libertà di scelta e adattabilità, una peculiarità biologica di tutti i veri onnivori (che non sono poi così numerosi): basti pensare alla straordinaria molteplicità di regimi alimentari   Cfr. Hladik 2002; Hladik, Pasquet 2004; Hladik, Picq 2001; Simmen, Hladik 1993. 4

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adottati presso le diverse comunità umane in relazione alle latitudini, alle epoche storiche, alle abitudini culturali e alle norme religiose, che vanno dalla dieta esclusivamente vegetariana degli Indù a quella costituita pressoché unicamente da proteine animali (carne e pesce) degli Inuit, fino a diete più diversificate come quelle praticate dagli europei. Dall’altra parte la dipendenza biologica dalla varietà: se la sussistenza del koala dipende da un unico alimento, la foglia di una certa specie di eucaliptus australiano, necessario e sufficiente per sopravvivere, l’uomo al contrario dei mangiatori specializzati non può trarre tutto il suo nutrimento da un solo alimento, ma ha necessariamente bisogno di un minimo di varietà che lo spinge d’altra parte al cambiamento e alla sperimentazione di cibi nuovi. Questo è «il paradosso dell’onnivoro» (Fischler 2001: 62), combattuto tra la prudenza nei confronti del nuovo (neofobia) e il bisogno di novità e di varietà (neofilia), tra la sicurezza del noto e la curiosità per l’ignoto. Un doppio limite che l’animale umano sembra aver superato attraverso lo sviluppo di un cervello più grosso e più complesso (tra tutti i mammiferi, l’uomo ha, infatti, il più alto coefficiente di encefalizzazione, ovvero il cervello più grande rispetto alla massa corporea), del linguaggio e di abilità cognitive più sofisticate mediante le quali ha messo in atto pratiche, apparati culturali e sistemi simbolici: uno di questi apparati è proprio la cucina. Una delle sue funzioni essenziali, secondo il sociologo C. Fischler, è proprio «la risoluzione del paradosso dell’onnivoro». Fornendo dei criteri di riferimento utili nell’esercizio delle scelte alimentari, un sistema culinario sancisce l’accettabilità dei cibi, regolando l’ansietà umana legata all’incorporazione di un alimento (ivi: 65-66, 77-79). Pur rappresentando solo il 2% della nostra massa corporea, il cervello umano consuma il 20% dell’energia prodotta dal nostro organismo, una peculiarità che richiede un’alimentazione nutriente ed energetica: questo spiegherebbe, almeno in parte, l’acquisizione nel corso dell’evo­68

luzione di un regime alimentare basato sul consumo della carne (e delle pratiche legate al suo procacciamento) per favorire lo sviluppo del cervello, ma non escluderebbe l’ipotesi più recente che attribuisce all’uso del fuoco e della cottura un ruolo decisivo nella liberazione delle energie necessarie all’accrescimento cerebrale. Facilitando la digestione degli alimenti (raddoppia la possibilità di assimilare gli amidi e rende la carne animale più digeribile) e riducendo gli sforzi legati alla masticazione (per esempio di molti vegetali come tuberi, radici, rizomi), la cottura degli alimenti avrebbe ridotto il consumo di energia con vantaggi notevoli per lo sviluppo e il funzionamento del cervello (cfr. Wrangham et al. 1999 e Hladick, Picq 2001). Se il nostro regime alimentare non è dunque molto diverso da quello degli australopitechi, le modalità di consumo e l’invenzione della cucina in particolare hanno fatto la differenza: «il proprio dell’uomo è certamente d’aver messo nella pentola una parte degli ingredienti adattativi che egli condivide con gli scimpanzé» (Hladick, Picq 2001: 169 – la traduzione è nostra). 2.6. Un senso precoce Tendenzialmente portati a credere che il gusto, come l’olfatto, entri in funzione dopo la nascita, cioè con le prime poppate e con la respirazione aerea, rimaniamo sorpresi nello scoprire la nostra capacità di percepire sapori e odori già nella vita prenatale. Un tratto caratteristico della fisiologia dei sensi chimici, messo in evidenza dalle ricerche sulla sensorialità fetale da almeno trent’anni, è per l’appunto la loro precocità ontogenetica. I primi sensi a formarsi nell’embrione umano, secondo un ordine di comparsa analogo in tutti i mammiferi, sono proprio il gusto e l’olfatto; quasi in contemporanea si formano i primi recettori tattili e la sensibilità vestibolare, seguiti dall’udito e infine dalla vista. I recettori olfattivi, i nervi e i bulbi olfattivi appaiono differenziati tra l’8ª e l’11ª settimana e ­69

le prime papille gustative cominciano ad apparire all’8ª settimana per raggiungere una struttura definitiva intorno alla 14ª, anche se il loro numero cresce fino alla nascita. Tra la 5ª e la 13ª settimana si sviluppa dietro l’orifizio delle narici l’organo vomeronasale, un rivelatore chemiorecettivo molto importante negli animali (specializzato nell’individuazione dei feromoni, molecole odorose non volatili liberate in ambiente liquido), destinato a regredire nell’uomo alla fine della gestazione. Comprovata in altre specie, la sua attività nella vita fetale non è ancora chiara nell’uomo. Non si può escludere tuttavia che anche nel feto umano quest’organo olfattivo ‘accessorio’ sia adatto alla percezione di molecole odorose in un mezzo liquido (cfr. Schaal, Hertling 1981-2000: 359-360; Doty 1991; Relier 1993: 72-73). Sappiamo poi che il feto comincia a deglutire il liquido amniotico alla 12a settimana e le osservazioni ecografiche mostrano i bambini che si succhiano le dita delle mani e dei piedi. La complessa composizione chimica del fluido amniotico, variabile nel corso della giornata e dell’intera gravidanza in relazione alle emissioni di urina del feto e alla composizione del plasma materno, influenzata anche dall’alimentazione materna, mette a disposizione del nascituro un insieme variegato di sostanze organiche come zuccheri, acidi, sali minerali, amminoacidi, proteine. Il regime alimentare della madre condiziona altresì gli odori che circolano nel liquido amniotico: non essendo metabolizzati, essi conservano le loro caratteristiche originarie. Sembrano esserci pertanto tutte le condizioni per vivere precocemente esperienze gustative e aromatiche ricche e stimolanti. Ma cosa ci assicura che i nostri sensi chimici entrino realmente in funzione prima della nascita? Studi effettuati su bambini prematuri dimostrano che dal settimo mese di vita intrauterina i chemiorecettori sono abbastanza maturi da permettere la discriminazione dei sapori e delle sostanze profumate disciolti nel liquido amniotico, veicolati dalla circolazione sanguigna della madre. Ciò si ­70

deve ai movimenti della testa, all’intensa attività di deglutizione e alla motricità respiratoria del feto, che contribuiscono al rinnovamento del liquido amniotico a contatto con la bocca e con il naso, e specialmente alla maggiore permeabilità della placenta riscontrata nelle ultime settimane di gestazione (Mennella, Beauchamp 1997). L’ausilio di traccianti radioattivi ha permesso di rilevare la quantità di liquido amniotico ingoiato ogni ora dal feto nel terzo trimestre di gravidanza (tra i 15 e i 40 ml se la deglutizione è regolare), una quantità che in termini nutrizionali corrisponde a quaranta calorie giornaliere (Chamberlain 1998: 47), e la sua capacità di apprezzarlo. Iniettando sostanze dolci o amare nel liquido amniotico dopo la 24a settimana gestazionale si è osservata una preferenza dei feti per il dolce e un’avversione per il sapore amaro: nel primo caso raddoppiano la quantità di liquido amniotico ingoiato e manifestano espressioni di piacere, nel secondo fanno smorfie di disgusto e cessano immediatamente di bere. Esperimenti condotti su altri mammiferi placentari come i ratti hanno mostrato come l’iniezione di estratto di mela o di aglio nella tasca amniotica di un ratto provochi allo svezzamento una preferenza dei suoi piccoli per alimenti con gli stessi sapori (Le Magnen 1981-2000: 338-339; Schaal, Hertling 1981-2000: 361): un segno dell’abilità del feto a cogliere e a memorizzare le qualità gusto-olfattive dell’ambiente. E feti umani le cui madri hanno consumato anice, una sostanza che dà alla liquirizia il suo sapore, mostrano una preferenza per questa sostanza dopo la nascita, diversamente dai neonati senza esposizione fetale. Siffatti esperimenti dimostrano altresì l’abilità del bambino a discriminare singole componenti odorose in un ambiente chimico altamente composito e variabile come il liquido amniotico (Schaal et al. 2002: 431-433). Oltre a dimostrare l’attivazione precoce della sensibilità gustativa, alcune ricerche attestano inoltre come la presa di contatto con le scelte alimentari e di vita della madre (fumo, alcolici), influenzate da abitudini culturali, possa ­71

svolgere un ruolo non trascurabile nell’orientare già nella vita prenatale le preferenze e le avversioni del nascituro per gusti e odori. E rilevano nel contempo l’attitudine del feto a memorizzare le esperienze sensoriali: una forma di memoria implicita, inconsapevole, che precede il linguaggio. Alcune ricerche, in effetti, hanno stabilito una relazione tra l’aroma del liquido amniotico di alcune madri palestinesi e il consumo abbondante di cibi speziati (con curry, cumino, ecc.) prima del parto. Negli anni Ottanta, a Marsiglia, alcuni pediatri hanno osservato la reazione di un gruppo di neonati del luogo al gusto di una salsa particolarmente piccante a base di aglio (l’aïoli), tipica della regione, usata abitualmente dalle loro madri anche durante la gravidanza: mettendone una piccola dose sul capezzolo prima della poppata, i bambini vi si attaccavano voracemente dando segno di riconoscere e di gradire quel sapore forte, già esperito nel grembo materno. Neonati nati a Parigi, dove l’aïoli non viene usata, sottoposti allo stesso esperimento rifiutavano il seno impregnato di quell’aroma intenso per loro nuovo, girando la testa dall’altra parte (cfr. Bellieni 2004: 16). E al momento dello svezzamento, neonati le cui madri durante la gravidanza hanno seguito una dieta ricca di carote mostrano una preferenza per quel sapore già familiare, anche se non è stato loro riproposto nel corso dell’allattamento (Mennella et al. 2001). Benché l’evoluzione chimica del liquido amniotico, e quindi il suo aroma, siano in una certa misura determinati geneticamente, è innegabile che le preferenze e le avversioni sviluppate attraverso la continua deglutizione del liquido amniotico siano l’esito di un apprendimento e che il loro mutare con il variare delle scelte alimentari materne dia luogo a preferenze e avversioni specificamente rinforzate nel neonato (Mac Leod 1981-2000: 353). La perfetta percezione di gusti e odori alla nascita dà luogo a mimiche oro-facciali programmate geneticamente che fungono da segnali comunicativi non verbali con cui il neonato manifesta le sue predilezioni gustative. Fotogra­72

fando le risposte oro-facciali di neonati dopo aver somministrato loro sostanze dolci, acide o amare (prima della prima poppata), J.E. Steiner ha fornito una chiara dimostrazione delle loro preferenze per gusti (e odori) diversi: a una soluzione acida essi rispondono con un’increspatura delle labbra, accompagnata da arricciamento del naso e da chiusura degli occhi; uno stimolo amaro provoca un aumento della salivazione, smorfie di disgusto e movimenti che preludono il vomito; mentre in presenza di una soluzione dolce il bambino esibisce un’espressione facciale di soddisfazione e succhia con gradimento. Le reazioni del neonato sono qualitativamente diverse anche quando esposto a bastoncini di cotone impregnati di odori alimentari differenti: le espressioni sono positive in risposta all’odore del burro, della banana o della vaniglia (in quest’ultimo caso possono pure essere indifferenti), unanimemente negative nel caso dell’odore di uova marce, parzialmente negative in presenza dell’odore di pesce (Steiner 1977, 1979). Le mimiche oro-facciali del neonato possono essere interpretate pertanto come un abbozzo di comunicazione con precisi significati per chi si relaziona al bambino. Se le preferenze e le avversioni esibite dai neonati per alcuni gusti sono geneticamente determinate, presumibilmente per finalità biologiche legate alla sopravvivenza (accettazione incondizionata di sostanze dal gusto dolce – glucidi – indispensabili per il loro apporto energetico, e rifiuto di sostanze potenzialmente tossiche dal sapore amaro – per esempio, gli alcaloidi contenuti in molti vegetali), non si può escludere tuttavia che le nostre abitudini alimentari siano in ogni caso frutto di un apprendimento iniziato precocemente e perciò stesso di condizionamenti familiari e socio-culturali (cfr. Holley 1999: 162-163; Soussignan 1997). Altrettanto nota è l’attitudine del neonato a riconoscere e a farsi guidare precocissimamente dall’odore materno e da altri profumi già esperiti nel grembo (almeno a partire dal settimo mese di vita intrauterina), verso i quali mostra anche una preferenza ben definita sviluppata prima della ­73

nascita (cfr. Cavalieri 2010a e gli studi ivi citati): come s’è detto, il consumo materno di anice nelle settimane precedenti il parto determina una risposta positiva del neonato a prodotti con quell’aroma o con un altro odore già sperimentato. Il primo alimento assaggiato appena nati è il latte materno, la cui forza di attrazione è tale da sedurre anche i bambini che non sono mai stati allattati al seno (Marlier, Schaal 2005). La preferenza per il suo aroma e per il suo gusto esibita precocemente dal neonato, messo di fronte alla possibilità di scegliere tra il latte materno e quello di un’altra donna, attesta la sua capacità di riconoscimento e pertanto lo sviluppo precoce del gusto e dell’olfatto nell’epoca prenatale. Secondo alcuni studi, l’apprezzamento dei neonati per il sapore del latte materno dipenderebbe anche dalla grande quantità di glutammato monosodico in esso contenuto: l’umami sarebbe quindi uno dei primi gusti conosciuti (Steiner et al. 1987, citato in Ninomiya 2002). Recando l’impronta materna, il suo sapore e il suo profumo particolare, simili a quelli del liquido amniotico (influenzati dall’alimentazione materna), proprio perché già conosciuti sapori e odori ci nutrono anche di note affettive, ci rassicurano, ci danno calore, offrendoci altresì la prima sensazione intensa di benessere appena nati. Gusto e odorato guidano perciò le nostre prime perlustrazioni del mondo e segnano al tempo stesso l’esordio della socialità: l’odore materno, il sapore del suo seno e del suo latte ci dotano di quelle conoscenze indispensabili per l’orientamento nella nuova dimensione di vita extrauterina. E tutti i sapori e gli odori familiari, riconosciuti e apprezzati dal bambino, forniscono l’impronta attorno alla quale si organizzeranno le sue prime rappresentazioni. Come si vedrà (infra, § 4.4.), la memoria gustativa e quella olfattiva sono molto importanti nell’orientare i suoi comportamenti alimentari e le sue esperienze successive con il cibo, specialmente nel primo anno di vita con l’allattamento e con lo svezzamento. Oltre a definire le abitudini alimentari del ­74

bambino, suscettibili comunque di cambiamenti nel corso della vita, le prime sensazioni gustative influenzeranno altresì le prime esperienze di accettazione o di rifiuto della realtà, svolgendo una funzione psicologica fondamentale anche per lo sviluppo dell’adattamento. L’educazione percettiva e linguistica e l’ambiente socio-culturale in cui il bambino cresce faranno il resto.

Capitolo terzo

Sapore e conoscenza

3.1. Sinestesia del sapore: il naso che assaggia Come facciamo a percepire gli innumerevoli sapori di cibi diversi come la cioccolata, le albicocche, la parmigiana di melanzane o la zuppa di pesce? E da cosa dipende l’unicità del sapore di un vino o di una pietanza? Quello che abitualmente, e anche impropriamente, chiamiamo ‘gusto’ in senso lato, riferito a un cibo o a una bevanda, va più puntualmente definito con l’espressione ‘sapore’, una sensazione composita che non coincide con il semplice riconoscimento dei gusti fondamentali, né tanto meno con la loro combinazione. Stranamente percepiamo il sapore come una sensazione globale, unica, e siamo poco o per nulla consapevoli del suo caratteristico mélange polisensoriale entro cui convergono una molteplicità di fattori. Coinvolgendo tutti i sensi, la percezione del sapore si configura come uno dei più complessi comportamenti umani, strettamente connesso a processi di apprendimento, di memoria, di linguaggio e ai dispositivi emozionali che contribuiscono alla formazione delle preferenze e dei desideri alimentari (Shepard 2006). Per evitare confusione tra i due termini, spesso usati indifferentemente, occorre pertanto qualche precisazione. Come s’è detto, il gusto in senso stretto è una sensazione ­76

elementare attraverso cui riconosciamo soltanto le cinque qualità basilari degli alimenti. Esso è pertanto solo uno dei tasselli costitutivi del sapore attorno a cui si organizza l’estetica gastronomica: «le percezioni strettamente gustative – osserva l’antropologo A. Leroi-Gourhan (1965: 340-341) – sono chiamate a sostenere la parte di nota fondamentale; come in musica dànno il tono e forniscono una specie di basso continuo sul quale si dispongono gli altri valori». Tra questi valori un posto di primo piano spetta all’odorato, coinvolto nell’esperienza gustativa a più livelli. Pensiamo mai a quanto il naso sia importante per l’apprezzamento del sapore dei cibi o delle bevande? BrillatSavarin duecento anni fa si rammaricava dello scarso valore riconosciuto all’olfatto nell’apprezzamento dei sapori dagli autori che lo avevano preceduto (1825: 29): «dal canto mio – scrive – non solo sono convinto che senza la partecipazione dell’odorato una completa degustazione è impossibile, ma sarei addirittura propenso a credere che l’odorato e il gusto formano un unico senso». La ricchezza e la complessità delle sensazioni procurate dal cibo dipendono principalmente dalla stimolazione olfattiva. Tutte le squisitezze che deliziano il nostro palato durante un ricco banchetto in realtà più che dalla lingua sono avvertite dal naso, a cui dobbiamo in larga parte i piaceri della buona tavola. Nell’accostarci a una pietanza il naso entra in gioco nei preliminari, cioè ancora prima di assaggiarla – non a caso Kant definiva l’olfatto «una specie di gusto a distanza» (1798: 578) –, e poi dopo per completare e arricchire il lavoro del palato. L’odore di un alimento ci invita ancora prima di assaggiarlo, facendoci venire l’acquolina in bocca, fornendoci già informazioni precise sulla sua bontà e sulla sua qualità. Ma quando introduciamo un cibo nella bocca l’odorato è coinvolto specialmente nella percezione degli aromi che raggiungono l’epitelio olfattivo per via retronasale, sprigionati dagli alimenti e dalle bevande per effetto della masticazione, del calore, dell’umidità e dell’arieggiamento. L’emozione del cioccolato, per esem­77

pio, risiede soprattutto nelle sue percezioni aromatiche, nell’interminabile persistenza delle sensazioni gusto-olfattive che accompagnano il suo assaggio. Gli inglesi usano il termine flavour per esprimere quel complesso di sensazioni prodotte da olfatto, gusto e nervo trigemino, per molti versi inseparabili, quel connubio cioè di sapori e odori che ci impressiona piacevolmente quando assaggiamo un piatto ben riuscito. I francesi di recente hanno coniato un neologismo, il termine flaveur – proposto da J. Le Magnen (1985) –, per riferirsi all’insieme delle sensazioni gustative, retro-olfattive e trigeminali. In italiano invece non abbiamo un termine corrispondente1. Una prova del contributo essenziale delle sensazioni retrolfattive, o aromi di bocca, nella percezione del sapore possiamo averla quando siamo raffreddati: nonostante la lingua conservi il suo stato normale, consentendoci di avvertire il dolce, l’acido, il salato, l’amaro, perdiamo il piacere di assaporare gli alimenti. Con il naso chiuso persino il vino perde il suo fascino, conservando solo i gusti fondamentali. E se mangiamo a occhi chiusi, stringendoci le ali del naso non saremo in grado di distinguere una mela da una patata o da una pesca, la carne di maiale da quella di agnello, un succo d’arancia da un succo di limone o lo strutto dal cioccolato. In questo modo, però, riusciamo a mandar giù anche le medicine più ripugnanti. Tenendo poi in bocca un sorso di vino con il naso ben tappato possiamo fare un esperimento istruttivo: dapprima avvertiremo 1  L’International Organization for Standardization (Iso) dà questa definizione di flavour: «combinazione complessa delle sensazioni olfattive, gustative e trigeminali percepite durante l’assaggio. Il flavour può essere influenzato da effetti tattili, termici, di dolore o cinestetici» (cfr. Marconi et al. 2007: 10). Texture è un altro termine anglofono molto usato nella descrizione qualitativa degli alimenti, indicante la trama o la struttura di un cibo percepita mediante il tatto orale, influenzata da alcune sue caratteristiche come il contenuto di acqua o da altri attributi fisici percepiti attraverso la masticazione.

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solo i gusti fondamentali, se poi liberiamo il naso sentiremo subito tutte le altre sfumature rivelateci dall’olfatto. Diverse evidenze scientifiche dimostrano inoltre come il sapore del caffè e di numerose altre bevande, alimenti o spezie come la cannella, diventi irriconoscibile se ne viene bloccato l’accesso all’apparato olfattivo (cfr. Engen 1982: 145-148; Vroon et al. 1994: 32-34). Gli aromi del cibo percepiti per via retronasale hanno comunque una qualità un po’ diversa rispetto agli odori percepiti per via diretta: dopotutto l’odore di un’omelette e la combinazione di aroma e gusto quando la mangiamo non sono proprio la stessa cosa, e gli studi di brain imaging dimostrano le diversità di elaborazione cerebrale degli odori a seconda che provengano dal naso o dalla bocca. Ricerche recenti secondo cui la percezione olfattiva umana è migliore di quanto pensassimo rivalutano proprio l’importanza dell’olfatto retronasale: la sua azione sinergica con l’olfatto ortonasale avrebbe compensato la perdita di un gran numero di geni dei recettori olfattivi subita dall’uomo nel corso dell’evoluzione, con vantaggi per la discriminazione di un ricchissimo repertorio di sapori e per la varietà dei nostri regimi alimentari (Shepard 2004, 2006). Affiancando e arricchendo il lavoro della lingua, il naso perciò nobilita, completa e valorizza la capacità elementare del gusto, come ben sanno le persone che hanno perso l’olfatto in seguito a un trauma cranico o a un’affezione delle vie respiratorie. Gli anosmici non avvertono più la ricchezza sensoriale degli alimenti: costretti a vivere in un mondo inodore e insapore perdono il piacere di mangiare e di vivere, perché incapaci di assaporare quei piaceri della vita che solo il naso sa darci. Il racconto di una donna privata improvvisamente dell’olfatto, probabilmente in seguito a un’allergia, ne è un esempio. Scrivendo nella rubrica A me la parola del numero di «Newsweek» del 21 marzo 1988, la donna si lamenta di non poter più sentire l’intenso aroma del caffè o il sapore dolce delle arance, ­79

«qualcosa di così scontato che quando perdiamo questi sensi ci sembra quasi di non saper più respirare». Dopo qualche tempo, la cura antinfiammatoria cui si sottopose diede i risultati sperati: Il quarto giorno, a pranzo, mangiai un’insalata, e all’improvviso mi accorsi che sentivo di nuovo il gusto di ogni boccone. Mi parve di vivere la scena del Mago di Oz in cui il mondo, fino a quel momento in bianco e nero, diventa in technicolor. Assaporai l’insalata: un cece, un pezzetto di cavolo, un seme di girasole. Il quinto giorno scoppiai a piangere, non tanto per l’esperienza di annusare e gustare nuovamente, quanto per l’illusione che l’incubo fosse finito (citato in Ackerman 1990: 43-45).

Se l’olfatto, dunque, valuta e apprezza l’odore e il sapore di una pietanza, l’aroma di un cioccolato o di un frutto o il bouquet di un vino, possiamo affermare che cibi e bevande si gustano col naso oltre che con la bocca. Ancor più del semplice mangiare e del bere, atti finalizzati al nutrimento e alla sopravvivenza, comuni a tutto al mondo animale e anche a quello vegetale, assaporare e ancora di più degustare sono operazioni cognitivamente più complesse che richiedono un’assunzione lenta del cibo per valutarne in modo consapevole e attento ogni singolo aspetto, per riconoscerne gli ingredienti e la qualità. Una delle grandi ironie culinarie è che la degustazione di un vino, ma anche di una pietanza, dipende più dall’odorato che dal gusto: l’odorato è, infatti, il senso più coinvolto nella degustazione sia dal punto di vista cognitivo (valutazione), sia dal punto di vista affettivo-emotivo (piacevolezza degli alimenti) (cfr. infra, § 5.2.). L’apprezzamento di un alimento o di un vino, e il piacere che ne scaturisce, derivano per il 70-80% dall’olfatto. Non è poi così sorprendente, se consideriamo che le sensazioni gusto-olfattive convergenti nel sapore includono anche quelle provocate dall’azione degli alimenti e delle bevande su un’altra componente del nostro apparato olfattivo, il nervo trigemino, responsabile ­80

delle sensazioni piccanti, del bruciore, del pizzicore e della freschezza. Ma a questo ‘banchetto’ sensoriale prendono ancora parte le sensazioni tattili e quelle termiche. Spessissimo trascurata o ignorata, nell’incontro quotidiano con il cibo la funzione del tatto orale è importante per apprezzare la consistenza degli alimenti (texture). Pensiamo al piacere della rugosità di una pasta rigata o alla morbida sinuosità di una pasta ondulata, alla croccantezza del pane, di una carota cruda o di una frittura, alla cremosità di una mousse di ricotta, alla granulosità di un risotto, alla morbidezza di una purea di zucchine, alla consistenza liquida di un consommé, alla collosità dello zampone o di uno stufato, all’untuosità dell’olio, al grasso del burro, alla viscosità di un vino da dessert, all’astringenza di un vino con un buon tannino. Persino le sensazioni termiche rilevate dalla bocca con una precisione stupefacente fanno la loro parte: il sapore di un cibo o di una bevanda dipende anche dalla loro temperatura. In condizioni normali le cellule gustative sono attive a una temperatura compresa tra i 15 e i 35 ºC, mentre sopra i 50 ºC e intorno agli 0 ºC gli stimoli gustativi si annullano. Un vino bianco caldo, un piatto di spaghetti freddi, un frutto ghiacciato perdono parte del loro sapore (e in particolare delle loro qualità olfattive) e della loro appetibilità. E dulcis in fundo non si può ignorare il ruolo della vista e persino quello dell’udito nella complessa sinestesia caratteristica dell’atto di assaporare un cibo o di apprezzare un vino. Giacché anche l’occhio vuole la sua parte, la presentazione visiva di una pietanza, il suo colore, la sua forma, il suo aspetto e persino il piatto in cui essa viene servita la rendono più appetibile, ci dilettano predisponendoci positivamente al suo consumo, influendo in una certa misura sull’esperienza olfattiva e su quelle gustativa e tattile, a condizione però che anche il naso ci convinca. Un piatto esteticamente allettante non accompagnato da un profumo corrispondente ha meno probabilità di successo ­81

sul nostro palato rispetto a una pietanza meno gradevole agli occhi ma olfattivamente seducente. E come potremmo apprezzare il pane appena sfornato, i cereali, i biscotti o l’insalata senza la loro sonora croccantezza! L’aura sinestetica che circonda il gusto, la sua naturale vocazione al coinvolgimento degli altri sensi, e dell’olfatto in primo luogo, ne fa dunque un «senso impuro» (Roelens 2004: 8). Non resta che trarne le debite conclusioni: limitandoci semplicemente a consumare un alimento in fretta e distrattamente, come fanno in genere gli altri animali, ne avremo una piatta percezione d’insieme. Se viceversa acquisiamo la buona abitudine di assaporare, o meglio ancora di degustare i cibi con attenzione, alla percezione globale e anonima seguirà pian piano il piacere di discriminare le diverse sensazioni olfattive, gustative, termiche e tattili che come le lettere di un alfabeto si combinano negli infiniti sapori riconoscibili dal nostro cervello, determinando le caratteristiche organolettiche di un alimento. Se i gusti fondamentali sono solo cinque, «il numero dei sapori è infinito – scriveva Brillat-Savarin (1825: 28) –; ogni sostanza solubile possiede, infatti, un suo speciale sapore che non somiglia perfettamente a nessun altro». Se una zolletta di zucchero ha semplicemente un gusto dolce, un cannolo alla ricotta ha anch’esso un gusto dolce ma ha soprattutto un sapore unico risultato della diversa alchimia dei gusti di base, delle loro diverse proporzioni, combinate con le qualità olfattive, aromatiche, tattili e termiche. E se prestiamo la dovuta attenzione non sarà difficile cogliere nei cibi che assumiamo la successione delle diverse sfumature gustative e la loro differente quantità: scopriremo così che nella torta al cioccolato il gusto dolce si combina anche con l’amaro e persino con un pizzico di salato, e che nella salsa di pomodoro al salato si coniugano in diversa misura la dolcezza e l’acidità. E le note dolci e rotonde che ci impressionano in un vino non appena lo assaggiamo lasceranno progressivamente il posto alla freschezza acida e infine a una nota amara e astringente. Ma all’unicità del ­82

sapore di una pietanza concorrono ancora la scelta e la qualità della materia prima, le spezie, gli aromi, i condimenti e le specifiche tecniche di cottura e/o di trasformazione dei prodotti base: a tutti dovrebbe essere noto, del resto, il differente sapore delle melanzane fritte, lesse, al vapore, grigliate o al forno. La grammatica del sapore, la sua struttura combinatoria, lungi dal configurarsi come un fenomeno meramente chimico e fisiologico, è anche il frutto della mano sapiente dell’uomo, delle tecniche con cui produce le materie prime e dell’arte culinaria con cui da millenni le combina e le trasforma offrendoci un menu di sapori infiniti e sottili. Riprendendo le parole di Leroi-Gourhan, conveniamo tuttavia sul fatto che la modulazione del sapore sia specialmente una ‘questione di naso’ e che ancora più del gusto sia l’odorato a determinare la piacevolezza di un cibo: «sensibilità gustativa e tatto orale costituiscono [...] la parte profonda dell’estetica culinaria, sulla quale si basano i ricami della gastronomia olfattiva. [...] La sovrastruttura gastronomica è soprattutto olfattiva» (1965: 341). Una verità, del resto, ben nota all’industria alimentare, dove la manipolazione artificiale della sensazione del sapore, grazie al contributo della tecnologia, è divenuta un’arte. Aggiungere aromi artificiali (additivi) alle sostanze alimentari per rafforzare gli aromi naturali o per conferire sapore ad alimenti che sarebbero altrimenti poco palatabili o addirittura immangiabili, è ormai una pratica diffusissima. Altrettanto sconosciuta quanto quella dei creatori di profumi, i ‘nasi’ per antonomasia, è la professione del tecnico degli aromi, un esperto nella composizione di formule aromatiche con cui rendere i prodotti alimentari più appetibili e attraenti, o comunque coprire, aggiustare o modellare i cibi ai quali tali aromi vengono aggiunti. Diversamente dal profumiere-compositore le cui possibilità creative sono teoricamente illimitate, lo specialista degli aromi nel creare le sue formule non può allontanarsi troppo dal modello naturale: le sue composizioni aromatiche devono poter ­83

evocare nel consumatore l’immagine mentale di un odore naturale e coerente con l’alimento cui viene aggiunto (cfr. Holley 2006: 30-32). Riconoscere la presenza del parmigiano reggiano in una pasta ripiena o di una reale affumicatura in un salmone, e non soltanto delle relative componenti aromatiche ben dosate ma finte, è tuttavia un compito arduo accessibile solo a un palato (e quindi un naso) sapientemente addestrato e dedito a continue degustazioni. 3.2. La sapienza del gusto e la «gourmandise» Gustare, in genere, esercitare il senso del gusto, riceverne l’impressione, anco senza deliberato volere o senza riflessione poi. L’assaggio si fa più determinante a fin di gustare e di sapere quel che si gusta: o almeno denota che dell’impressione provata abbiamo un sentimento riflesso, un’idea, un principio d’esperienza. Quindi è che sapio, ai Latini, valeva in traslato sentir rettamente, e quindi il senso dell’italiano sapere, che da sé vale dottrina retta, e il prevalere della sapienza sopra la scienza.

Con questa definizione, N. Tommaseo nel Dizionario dei sinonimi (1830: 1107), alla voce ‘mangiare’, ci rammenta lo stretto legame tra le parole italiane ‘sapore’ e ‘sapere’, termini semanticamente imparentati al latino sapio, nel senso di percepire con giustezza, di conoscere. Anche Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae si era soffermato sull’affinità linguistica tra sapore e sapere affermando quanto segue: «È esatto dire che la stoltezza è il contrario della sapienza, poiché, come dice S. Isidoro, sapiente deriva da sapore e come il gusto serve a discernere i sapori dei cibi, così il sapiente è pronto a distinguere le cause delle cose» (SummaTheologiae, II parte, II libro, quest. 46, art. 1, citato in Prosperi 2007: 284). Sapore deriva quindi da sapere nel senso di ‘aver gusto’, ‘aver odore’. Quando nel linguaggio comune applichiamo il verbo sapere a oggetti esteriori (come nell’espressione ‘sa di buono’) rileviamo l’intimo legame tra ‘sapere’, ovvero conoscere, avere co­84

gnizioni, essere consapevole, aver chiaro nella mente, e ‘gustare’, ‘aver sapore di’, ‘assaporare’. Questo vale tanto per l’italiano sapore quanto per il francese saveur e per l’inglese taste. Derivato dall’inglese medio tasten, nel senso di sentire, di esaminare con il tatto o assaggiare, taste va ricondotto alla radice latina taxare, ovvero toccare con precisione, giudicare, termine che nel Quattrocento si arricchisce del significato metaforico di senso mentale della discriminazione, per essere esteso nel XVII secolo all’accezione estetica di senso del bello (cfr. Classen 1993: 75). L’italiano tastare ha la stessa etimologia, con il duplice significato di ‘toccare con attenzione’ e del colloquiale ‘assaggiare un cibo’. La persona sapiente, dunque, è quella che sa assaporare, fiutare, arguire. Sicché gustare e assaporare vanno oltre la semplice attitudine sensoriale, caratterizzandosi come forme di conoscenza la cui peculiarità si materializza nella capacità di giudicare e apprezzare porzioni di mondo assimilate attraverso il palato. Se, come recita il motto della filosofia empirista, ‘non vi è nulla nell’intelletto che non sia prima passato dai sensi’, allora «non vi è nulla nella sapienza che non sia passato attraverso la bocca e il gusto, attraverso la sapidità» (Serres 1985: 177). Sarebbe il gusto dunque a istituire la sapienza. E c’è chi ha considerato l’alimentazione come il principio stesso dell’esistenza e pertanto il principio della sapienza: «la prima condizione perché tu metta qualcosa nel tuo cuore e nella tua testa – osserva Feuerbach (1850: 138) – è che tu metta qualcosa nel tuo stomaco». La capacità di giudicare e di valutare ciò che è buono o cattivo, ciò che piace o non piace, di percepire e di apprezzare la qualità di un cibo e di distinguere la complessità di sensazioni convergenti nel suo sapore è quindi connaturata al gusto come sapere e specialmente al gusto umano. L’affinità tra sapore e sapere emerge ancora nel loro essere rispettivamente, ma non esclusivamente, nutrimento del corpo e nutrimento della mente. Persino dal punto di vista ontogenetico il gusto inaugura la sapienza: tra i primissimi sensi a formarsi nell’em­85

brione, come s’è già detto, il gusto è altresì la nostra prima modalità di conoscenza. Se l’olfatto attraverso il riconoscimento dell’odore materno favorisce la costituzione di quel legame affettivo che segna l’esordio della socialità, il gusto è la prima forma di esplorazione dell’ambiente esterno: il neonato inizia a conoscere il mondo assaggiandolo, portandosi in bocca tutte le cose con le quali entra in contatto, e grazie a questo comportamento comincia a distinguere gli oggetti esterni rispetto a sé. La sapienza del gusto però si costruisce nel corso della nostra storia evolutiva anche attraverso lo sviluppo di alcune pratiche specificamente umane. I cibi e le bevande che gustiamo sono il prodotto di quel lungo processo evolutivo che, al di là delle risorse naturali accessibili a tutti gli animali nei loro rispettivi ecosistemi, solo per noi umani implica la produzione della materia prima, la sua manipolazione, la sua trasformazione e per di più la sua scelta tra altri prodotti. Non deve perciò sorprenderci che i cibi esprimano non solo sapori e odori ma anche saperi e significati. Il nostro gusto alimentare è collegato anzitutto a quei mutamenti della morfologia corporea che ci hanno permesso di assumere la postura eretta e di liberare le mani, fattori decisivi per l’onnivorità e per l’elaborazione del cibo. Tramutatosi da raccoglitore in cacciatore-raccoglitore – fino al Neolitico il foraggiamento è stata l’unica fonte alimentare umana – dedito anche alla pesca, l’uomo è passato, come s’è già detto, da una dieta esclusivamente vegetale al gusto della carne, divenendo così un onnivoro. E l’introduzione di cibi carnei, oltre ad accrescere la sua forza fisica, ha favorito lo sviluppo del cervello. Altri fattori sono stati tuttavia decisivi nell’evoluzione alimentare umana e nel processo di umanizzazione del gusto: la capacità di accendere e di usare il fuoco e la produzione del cibo attraverso la coltivazione di piante e l’allevamento di animali. Il processo di incivilimento e di socializzazione – esemplificato in tempi recenti dall’ormai classica dicotomia crudo/cotto con cui l’antropologo C. Lévi-Strauss ­86

(1964) riproduce l’opposizione tra natura e cultura, individuando nel fuoco un elemento di mediazione tra uomo e natura – ha avuto nell’invenzione del fuoco medesimo e nella conseguente cottura dei cibi uno dei suoi momenti più significativi2. La capacità tutta umana di dominare la natura evolvendosi poi da predatore-raccoglitore in creatore del proprio cibo, manifestatasi all’incirca diecimila anni fa con l’invenzione dell’agricoltura e con l’addomesticamento delle bestie, oltre ad accrescere la possibilità di approvvigionamento di cibi carnei, ha arricchito il gusto umano anche dei sapori del latte e dei suoi derivati, configurandosi come un altro cambiamento decisivo nella nostra cultura. Trasformando la consistenza degli alimenti e ampliando in maniera considerevole il ventaglio di aromi sprigionati dai cibi, l’abilità di usare il fuoco e di cuocere gli alimenti ha poi modificato in misura non indifferente il nostro gusto, arricchendolo, raffinandolo e differenziandolo da quello di tutte le altre specie, aprendo per di più la strada allo sviluppo della cucina e della sapienza culinaria, ingredienti costitutivi della nostra identità culturale. Questo ‘saper fare’ caratteristico del sapere alimentare si arricchisce di valori simbolici, diventa una delle attività bio-cognitive specie-specifiche dell’animale umano attraverso alcune sue attitudini caratteristiche. «Cucinare – scrive lo storico dell’alimentazione M. Montanari – è attività umana per 2  Secondo alcune ipotesi, l’Homo sapiens avrebbe iniziato a usare il fuoco per cuocere i cibi sin dal tempo della sua divergenza dall’Homo erectus (cfr. Ulijaszek 2002). Le tracce più antiche di cottura degli alimenti risalirebbero all’incirca a 1,4 milioni d’anni fa. Tra le diverse specie di ominidi vissute in quel periodo si distingue l’Homo ergaster, per il suo apparato masticatorio più gracile rispetto a quello di altri ominidi contemporanei o più antichi e una taglia corporea più ridotta a fronte di un cervello più grosso di quello di altri ominidi. Solo più tardi, comunque, tra 600.000 e 500.000 anni fa, gli uomini domineranno il fuoco al punto da lasciare tracce più precise (cfr. Hladik, Picq 2001: 158-160).

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eccellenza, è il gesto che trasforma il prodotto ‘di natura’ in qualcosa di profondamente diverso: le modificazioni chimiche indotte dalla cottura e dalla combinazione degli ingredienti consentono di portare alla bocca un cibo, se non totalmente ‘artificiale’, sicuramente ‘costruito’» (2004: 36). E cos’è questa se non una forma di conoscenza basata sull’esercizio pratico, un saper fare in cui il palato e il naso giocano un ruolo preminente, in buona compagnia degli altri sensi e dell’intelletto? Nella cultura umana la raffinatezza e la sapienza del gusto ancor più che nella cottura degli alimenti si esprime quindi nell’invenzione della cucina, cioè nel cucinare in tutte le sue varianti e nella tecnologia alimentare, e in senso lato nella cucina come sistema di rappresentazioni e di pratiche a esse associate condivise dai membri di una cultura o da un gruppo all’interno della stessa. Ma la sapienza gustativa umana si manifesta altresì nello sviluppo della gastronomia, dell’enologia e dell’arte della distillazione. Processo di preparazione e di trasformazione degli alimenti mediante l’applicazione del calore, la cucina è quell’atto sapiente di selezione e di combinazione della materia prima con spezie e condimenti attraverso il ricorso a una vasta gamma di strumenti, metodi, tecniche. La cottura, e la cucina in particolare, con le sue tecnologie sempre più raffinate, oltre a rendere i cibi più digeribili, li fonde, ne modifica la consistenza e il colore, amplificando il ventaglio di sfumature odorose, di aromi e di sapori apprezzabili dal palato umano. Pur non curandosi molto della sua alimentazione (stando al suo biografo, qualunque cosa mangiasse per lui non faceva differenza, sebbene si nutrisse prevalentemente di fiocchi d’avena), Wittgenstein nei Pensieri diversi (1948: 127) osservava che «l’uvetta può anche essere quanto vi è di meglio in una torta; ma un cartoccio di uvette non è migliore di una torta; e chi ce ne offre un cartoccio pieno non per questo sarà in grado di cucinarci una torta – e tanto meno di fare qualcosa di meglio». ­88

Secondo alcuni studiosi lo sviluppo della cucina, i cui progressi furono legati alla possibilità di usare recipienti resistenti al fuoco, avrebbe giocato un ruolo decisivo nell’evoluzione della nostra specie. Appunto perché per tutti i primati, uomo incluso, la massimizzazione delle energie è un fattore critico nella selezione naturale, è ipotizzabile che la cucina riducendo il costo energetico del mangiare, attraverso quella trasformazione tessiturale e chimica degli alimenti che si realizza nel corso della cottura (scioglie le proteine, rende gelatinosi i farinacei e ammorbidisce alimenti molto duri commestibili) e che facilita l’assunzione del cibo e la sua digestione, abbia contribuito al nostro successo evolutivo. ‘Firma’ caratteristica del gusto umano originatasi presumibilmente con l’Homo erectus, la preparazione e la cottura degli alimenti ha poi avuto ripercussioni sulla nostra anatomia (per esempio, le nostre mascelle sono più piccole di quelle dei nostri antenati e meno adatte ad addentare cibi duri, e il nostro intestino non è programmato per elaborare i cibi crudi con la stessa efficacia con cui elabora quelli cotti) e arricchendo la nostra alimentazione ha permesso lo sviluppo di un cervello più grosso. L’impulso ad agire su una vasta area, combinato con la necessità di un regime alimentare di alta qualità, a elevato contenuto energetico, ci differenziano dalle scimmie. La grande abilità degli umani a trovare e a elaborare molte varietà di cibi probabilmente ha determinato la straordinaria diversità di diete salutari in tutto il mondo (cfr. Wrangham et al. 1999; Dell’Amore 2009). Per quanto possa sembrarci singolare, il debito della civiltà nei confronti della cultura del cotto e della culinaria è legato persino all’introduzione del sale. Nel corso del simposio su The Evolution of Human Diets tenutosi a Chigago nel 2009, a proposito delle recenti ricerche sui sistemi di percezione gustativa e sulla loro evoluzione presso tutti i primati, uomo incluso, il primatologo Hladik ha ipotizzato che l’uso del sale come primo esaltatore di sapidità risalga a un’epoca molto antica nella storia delle specie del genere ­89

Homo che ci hanno preceduto. Non essendo il sale un alimento, la scoperta delle sue proprietà organolettiche fu sicuramente vissuta dai nostri antenati come un eccezionale progresso nella preparazione dei cibi. Legato allo sviluppo della cucina, il suo uso, attestato in tutte le culture alimentari del mondo, ha influito fortemente sull’evoluzione del gusto: agendo in modo selettivo, il sale attenua l’intensità dell’amaro ed esalta il gusto dolce, e grazie poi alla sua polarità favorisce l’evaporazione degli aromi dai cibi poco solubili in un mezzo polare come l’acqua, accrescendo così la volatilità e quindi la percettibilità degli aromi stessi, che come s’è già detto sono una componente fondamentale del sapore. Secondo studi recenti, oltre a migliorare il gusto di parecchi alimenti, il sale permetterebbe di mascherare i gusti sgradevoli (cfr. anche Hladik 2002: 449-460; Hladik, Pasquet 2004; Marconi et al. 2007: 10). L’attitudine di alcune specie di primati, in particolare degli scimpanzé, a scegliere il loro cibo, a mostrare delle preferenze e in qualche caso ad abbozzarne forme rudimentali di preparazione, cioè di combinazione degli alimenti, fino a far parlare addirittura di ‘proto-cucina’ (gli scimpanzé mangiano la carne con le foglie e con la raschiatura di corteccia, ottenendo un impasto fibroso e gustoso che, richiedendo tempi di masticazione più lunghi, permetterebbe di prolungare il piacere gustativo), ha indotto alcuni scienziati a ipotizzare l’esistenza di forme di proto-cultura alimentare tra i primati, presso i quali il gusto non risponderebbe semplicemente a un’istanza fisiologica. Benché tutto ciò possa far credere che il ‘buon gusto’ sia anche delle scimmie (Hladik, Picq 2001; Hladik 2002: 433), possiamo nondimeno rivendicare ancora come tratti specie-specifici decisivi nel processo di umanizzazione del gusto la capacità di accendere e di usare un fuoco, di cuocere i cibi e specialmente di cucinarli e di crearli, di scegliere gli alimenti sulla base di criteri nutrizionali ed economici, ma anche di preferenze individuali e culturali cariche di significati, connesse a gusti sempre diversi. ­90

Altri fattori comunque marcano i confini tra animalità e umanità: gli animali divorano in fretta il cibo crudo e lo trascinano senza dividerlo con nessuno (con qualche eccezione per gli scimpanzé, presso i quali la spartizione della preda è accompagnata da forme di comunicazione multimodale: vocalizzazioni, gesti, espressioni facciali – Hladik, Picq 2001: 128, 161-162), gli uomini, al contrario, condividono i prodotti della caccia e della coltivazioneproduzione e, lungi dall’accontentarsi di consumarli velocemente, preparano con cura i loro cibi, li concepiscono, li immaginano, li gustano in compagnia, sanno apprezzarli, ne fanno oggetto di discorsi e vi fantasticano sopra, istaurando con essi un rapporto simbolico. Chi direbbe mai che gli chef, analogamente ai profumieri-compositori, nel creare un piatto procedono affidandosi all’uso cognitivo dei loro sensi chimici? Prima di realizzare una ricetta la pensano, sono capaci cioè di immaginare una forma olfattiva e gustativa, di sentirne mentalmente l’aroma e il gusto: la realizzazione pratica di un piatto perciò è preceduta dalla sua elaborazione mentale (cfr. Candau 2000: 53). Per di più, gli animali, oltre a non usare pentole e posate, non hanno il piacere della tavola, non sono dei gourmet, non ‘sanno’ gustare, né tanto meno degustare, non differenziano il consumo dei cibi in relazione alle circostanze e non fanno brindisi quando bevono. Per tutte queste ragioni coltivare il buongusto è un tratto proprio degli umani. Il piacere di mangiare è comune all’uomo e agli animali [...]. Il piacere della tavola è caratteristico della specie umana, presuppone delle cure precedenti per la preparazione del pasto, la scelta del luogo e l’assortimento degli invitati [...]. Uno dei privilegi della razza umana è quello di poter mangiare senza aver fame e bere senza aver sete; ciò effettivamente non può accadere tra le bestie, in quanto nasce dalla riflessione sui piaceri della mensa e dal desiderio di prolungarne la durata (Brillat-Savarin 1825: 128, 154).

Se siamo i soli animali soggetti alla dialettica del gusto e del disgusto, i soli a scegliere sulla base del principio ­91

del piacere, è perché, come aveva già osservato Aristotele, gli appetiti umani, ivi inclusi i desideri relativi al gusto e all’odorato, pur essendo legati al piacere materiale si differenziano da quelli degli animali perché nascono da un atto riflessivo generato da un’anima dotata di linguaggio e di ragionamento (cfr. l’inedita rilettura aristotelica di Lo Piparo 2003: 10-12). Laddove poi gli animali si dissetano con l’acqua, soltanto l’uomo ha la prerogativa di poter bere senza sete. Questo l’ha indotto a creare il vino, la birra e i distillati – e ad apprezzarne i sapori –, bevande inesistenti in natura, prodotto di conoscenze e di tecnologie complesse riconducibili pertanto all’ordine del ‘cotto’. Un particolare non sfuggito alla sagacia di Brillat-Savarin che afferma: «sarei tentato di mettere la passione per i liquori fermentati, ignota agli animali, accanto all’ansia per l’avvenire, del pari ignota alle bestie, e di vedere l’una e l’altra come attributi distintivi del capolavoro della ultima rivoluzione sublunare» (1825: 106). È pur vero però che siamo gli unici animali in natura soggetti all’alcolismo, alla cirrosi epatica, all’obesità, alla bulimia e all’anoressia. La sapienza gustativa si esprime ancora nella gourmandise, «una preferenza appassionata, ragionata e abituale per tutto ciò che è gradevole al palato» (ivi: 108). Mangiare in modo consapevole e attento, assaporare lentamente giudicando in modo profondo, è una competenza che coniuga il buon senso nell’accostarsi agli oggetti alimentari al godimento puro e crea al tempo stesso solidi legami sociali attraverso quella conversazione che condisce lo spirito conviviale. L’arte di mangiare con sensatezza e di gustare raggiunge la sua forma più compiuta nell’uomo, l’unico fine intenditore in natura ad avere un accesso esclusivo ai piaceri del palato guidati da quell’attività di giudizio propria del buongusto, piaceri che coinvolgono quindi i sensi e il sapere entro un’esperienza culturale. Natura e cultura hanno riservato all’uomo il possesso del gusto nella sua forma più perfetta: «la lingua degli animali non va oltre la portata della loro intelligenza [...]. La lingua umana, ­92

invece, per la delicatezza della sua testura e di quella delle diverse membra vicine e circostanti, annuncia degnamente le sublimi operazioni a cui è destinata. [...] Ed è proprio in conseguenza di questa perfezione che la gourmandise è appannaggio esclusivo dell’uomo» (ivi: 36-37). 3.3. «Homo convivialis» L’attitudine conviviale è un altro tratto tipicamente umano, carico di attributi simbolici e culturali. Solo nella nostra specie gli individui mangiano e bevono insieme, suggellando a tavola rapporti d’affari, d’amore e d’amicizia: «la tavola – scrive R. Barthes (1975: xxxv) – è in un certo senso il luogo geometrico di tutti gli argomenti di conversazione; è come se il piacere alimentare li vivificasse e li facesse rinascere». Tutt’altro che solitario, il piacere della tavola richiede buona compagnia e conversazioni che hanno l’effetto di rinsaldare i rapporti sociali e la coesione del gruppo. Nel contesto della convivialità, dove il gusto degli animali umani assume la sua forma più specifica, trovano espressione la dimensione sociale e relazionale, insieme a quella identitaria. Basti pensare che eventi importanti della vita individuale e di quella collettiva vengono celebrati attraverso cibi e bevande consumati per l’occasione: cerimonie religiose, festività, fidanzamenti, matrimoni, compleanni, promozioni, lauree, cene commemorative tra amici e persino funerali. Evento rituale in cui il vivere insieme coincide con il piacere di mangiare e di bere in compagnia, il con-vito o con-vivio, da cum-vivere, corrisponde al simposio greco celebrato da Platone e da Senofonte, e ancora prima ai banchetti descritti da Omero nell’Iliade e specialmente nell’Odissea, grande poema conviviale le cui avventure sono narrate e prendono forma proprio a tavola. Eletto a luogo della conversazione, della parola e del canto, il simposio (letteralmente ‘bevuta in comune’, da syn ‘insieme’ e posis ‘bevuta’) culmina nella gioia (euphrosyne) e nel piacere (hedoné), risultato e prima ancora obiettivo della ­93

pratica conviviale. Nelle diverse forme assunte dal convito greco nel corso della storia, al mangiare e al bere comune (pratica sociale) si coniugano la pratica intellettuale e filosofica delle conversazioni dotte, la danza, la poesia, la musica, i giochi, l’eros (prevalentemente nella forma omosessuale, visto che le donne, fatta eccezione per danzatrici e flautiste, non avevano accesso ai simposi). Il tutto in un clima di godimento in cui ogni senso è coinvolto in una grande festa, dove il pasto assume la dimensione di uno spettacolo che ha per protagonisti odori, sapori, profumi, suoni, visioni, con l’immancabile accompagnamento della parola (sulle diverse fasi del simposio cfr. Musti: 2001). Momento centrale e vero motore della pratica conviviale è la bevuta collettiva del vino. Essa genera quello stato emotivo di gaiezza che stimola la conversazione tra i commensali e li predispone all’ascolto. Da questo teatro del gusto, da questa palestra di sapienza, da questa atmosfera sinestetica in cui tutti i sensi vengono messi in scena (il gusto con i sapori delle pietanze e del vino; l’olfatto con gli odori e gli aromi dei cibi ma altresì con i profumi degli addobbi floreali e degli incensi che inondavano l’ambiente simposiaco; l’udito con la musica e la conversazione; la vista con la presentazione dell’intero scenario edonistico), nasce quella letteratura conviviale che annovera tra i suoi primi cultori Platone e Senofonte, entrambi autori di un Sympósion (senza dimenticare poi le Quaestiones conviviales di Plutarco, i Saturnalia di Macrobio o il Convivio di Dante). Ma al tempo stesso nasce la pratica filosofica che ha eletto il banchetto a luogo privilegiato della comunicazione e di offerta del cibo della sapienza. Modello insuperato di questo genere letterario, il Simposio di Platone è un dialogo tra filosofi in cui si discute, nel corso di un banchetto, sul tema dell’amore nelle sue diverse forme e accezioni. Una sorta di riflessione del simposio su se stesso, in particolare sul momento dell’eros, il luogo in cui si realizza l’autocoscienza del piacere di vivere e di amare. Altro esempio importante è quello se­94

nofonteo che ha in comune con il simposio platonico la presenza di Socrate e il suo rapporto con l’amore, trattato comunque dai due autori con varietà di accenti secondo prospettive diverse. Nel suo dialogo Senofonte fornisce un affresco degli usi e dei costumi del convivio greco. Nel banchetto greco-romano, alla cui base vi è sempre il vivere questa esperienza in comune, la centralità del momento della bevuta, preceduta dal pasto vero e proprio o contemporanea a esso, è seguita dal piacere della discussione sugli argomenti più svariati, che vanno dal tema del piacere stesso, alla politica, all’alimentazione, a questioni di etica, sempre in un clima di godimento collettivo. Inseparabile dal piacere della tavola in tutte le epoche della storia, oltre a mettere di buon umore, il vino abbatte le barriere sociali, rende più naturali, scioglie la lingua, rischiara le idee, potenzia l’immaginazione, e superando la limitatezza di una ragione troppo sobriamente umana, fa perdere i freni inibitori lasciando venir fuori cose che in condizioni di sobrietà difficilmente si direbbero. L’ebbrezza estatica suscitata dal vino è un’esperienza cognitiva che favorisce la ricerca della verità. In vino veritas, recita del resto uno dei detti più antichi. E a tal proposito Leopardi nello Zibaldone (1898) scriveva così del vino: Dà talvolta una straordinaria prontezza, vivacità, rapidità, facilità, fecondità di idee, di ragionare, d’immaginare, di motti, d’arguzie, sali, risposte ecc., vivacità di spirito, furberie, risorse, trovati, sottigliezze grandissime di pensiero, profondità, verità astruse, tenacità e continuità ed esattezza di ragionamento anche lunghissimo e induzioni successive moltissime, senza stancarsi, facilità di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare rapidamente dall’uno all’altro senza perdere il filo ecc.

Oltrepassando la semplice soddisfazione del bisogno di nutrimento, la commensalità è quindi un banchetto del sapore e del sapere, luogo in cui s’incontrano, si confrontano e s’intensificano l’oralità del gusto e quella della paro­95

la. Pertanto «ogni banchetto dovrebbe avere per titolo: la sapienza e la sagacia» (Serres 1985: 177). Benché, come s’è già detto, vi siano forme di spartizione e di condivisione del cibo anche tra alcune scimmie antropomorfe (scimpanzé e macachi – cfr. Hladik, Picq 2001), specialmente nel contesto genitori/prole (dove i primi tollerano tra l’altro piccoli ‘furti’ di cibo da parte della prole – cfr. Blurton-Jones 1987 citato in Fischler 2001: 140), siamo animali ‘conviviali’ per definizione, perché i soli dotati di linguaggio e capaci di unire al piacere di assaporare cibi e vino in comunione anche il gusto per la conversazione e per lo scambio di idee, in un clima di condivisione, di empatia, di reciproca comprensione e di partecipazione gioviale. Così il gusto, vero e proprio invito alla conversazione, più degli altri sensi, si materializza nel rapporto relazionale: «anche quando non si è in comunione con altri esseri umani, il rapporto con gli ‘oggetti’ alimentari costituisce una sorta di evento sociale. Bere vino significa essere in rapporto conviviale con esso» (Perullo 2008: 77). Se gli animali mangiano in solitudine e in silenzio, noi umani condividiamo i sapori attraverso gli scambi verbali e non mangiamo mai da soli, perché anche quando non siamo insieme con altri esseri umani abbiamo comunque un rapporto dialettico con il cibo. Il gusto della tavola risiede perciò anche nelle discussioni che la animano. Per gli esseri umani l’esperienza gustativa è un atto in cui il piacere di assaporare si coniuga alla parola e si rafforza attraverso il dire: parlare di ciò che stiamo mangiando e del suo sapore, tenere conto dei discorsi altrui, rievocare avventure gastronomiche passate, pregustare verbalmente esperienze future, comparare le sensazioni e condividerle con gli altri commensali sì da risvegliare sensazioni consimili. In tutti i modi, discettare sul cibo e a proposito del cibo è un’attività in cui l’oralità del gusto si fonde e si prolunga nell’oralità del linguaggio e nel piacere di pensare. «Alla tavola comune – scrive Le Breton (2006: 407) – il piacere di un sapore si accentua se qualcuno ne parla in modo da ­96

risvegliare negli altri una sensazione simile alla sua. La narrazione di un pasto lo prolunga per altre vie, ne fa risorgere i sapori nell’immaginazione». Le gioie della conversazione con una piacevole compagnia accrescono quelle della tavola, forse ancora più della qualità del cibo e del suo sapore. La commensalità è dunque una maniera di esaltare la tavola e quelle discussioni della tavola in cui si esprime il legame conviviale come pratica tipicamente umana e come espressione più completa di una socialità integrale. Il commensale «mangiando si assoggetta ad una rigorosa pratica comunitaria: la conversazione. La conversazione (fra molti) è in un certo senso la legge che garantisce il piacere culinario da ogni rischio psicotico e mantiene il buongustaio nei limiti di una ‘sana’ razionalità parlando – ragionando – mentre mangia» (Barthes 1975: xv). 3.4. Parlare e mangiare Mangiare e parlare sono attività strettamente connesse per ragioni tanto biologiche quanto culturali. Territorio di frontiera tra il dentro e il fuori, la bocca è l’organo del gusto ma anche della parola. Per parlare, non esiste oltretutto luogo migliore della tavola: mangiando si disquisisce anzitutto sul cibo, su tutto ciò che vi è connesso a vario titolo e sugli argomenti più svariati. Nonostante la sua natura intima e soggettiva, il gusto è forse il più linguistico dei sensi, quello che maggiormente e più naturalmente coinvolge e sollecita la parola, la conversazione, lo scambio di idee. La lingua ha il potere di far dialogare sapori e saperi, di legare il cibo e le parole, e l’etimologia del termine latino per ‘bocca’, os, lo dice chiaramente: «la bocca è così chiamata – osservava Isidoro di Siviglia – perché attraverso di essa, come attraverso una porta (ostium), entrano i cibi ed escono le parole» (Rigotti 1999: 98). Gli organi della bocca responsabili di quell’attività specie-specifica dell’animale umano che Aristotele chiamava dialektos, ‘voce articolata significativa’, costitutivi del tratto vocale ­97

sopralaringeo comprendente faringe, naso, palato, lingua, denti, labbra – e la cui struttura morfologica è l’esito di quel processo evolutivo che ha fatto di noi umani i soli animali parlanti (Lieberman 1975, 1991) –, sono gli stessi che utilizziamo per masticare, triturare, rimestare, succhiare, gustare, assaporare e ingoiare il cibo. La natura del resto ha voluto che mangiare e parlare risiedessero nello stesso organo: «perché pensi che Dio abbia stabilito che lo stesso organo col quale parli servisse anche a distinguere i sapori se non per farti comprendere che ogni tuo discorso deve essere condito col sale della sapienza?» (R. Grossatesta, citato in Rigotti 2008: 58). E dopotutto le parole nutrono la nostra mente e alimentano i nostri rapporti sociali, come il cibo ingerito nutre il nostro corpo, insaporisce e consolida i nostri legami interpersonali. L’affinità tra mangiare e parlare è stata evidenziata da diversi punti di vista. Anzitutto, in entrambi i casi si tratta di sistemi di significazione, di linguaggi strutturalmente autonomi, governati da regole e molto ricchi (per effetto delle variazioni personali o familiari riguardanti la preparazione – Barthes 1964: 29). Il cibo, scrive Barthes, è «un sistema di comunicazioni, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni, di comportamenti» (1961: 33): i singoli elementi stanno per le parole, mentre le relazioni per così dire ‘sintattiche’ vanno ricercate nelle tecniche, nelle abitudini, nelle modalità di consumo. «Acquistando un alimento, consumandolo o facendolo consumare [...], quest’alimento riassume e trasmette una situazione, costituisce un’informazione, è significativo [...]; esso non è semplicemente l’indice di un insieme di motivazioni più o meno coscienti, ma è un vero e proprio segno, cioè l’unità funzionale di una struttura di comunicazione» (ivi: 33-34). Il cibo ha pertanto un’innegabile dimensione semantica: il sapore di un piatto è l’esito di una serie di sapori che si amalgamano per restituire un nuovo significato fatto anche di consistenza e di aromi, capaci comunque di richiamare, in modo particolare a un interprete raffinato, i sapori delle ­98

materie d’origine. Ma già Lévi-Strauss aveva considerato l’alimentazione e la cucina alla stregua di un linguaggio, analizzandone gli elementi costitutivi, ‘gustemi’, organizzati proprio come i fonemi di una lingua in rapporti di opposizione e di correlazione che regolerebbero le concezioni sul cibo nelle diverse culture. Per l’antropologo strutturalista gli alimenti delle varie cucine sono descrivibili in termini di tratti distintivi quali autoctono/esotico, sapido/ insipido, arrosto/bollito (1958: 103-104). Il nesso tra mangiare e parlare è stato descritto anche sotto il profilo strettamente linguistico-grammaticale. Come le diverse lingue sono l’espressione sociale della facoltà del linguaggio, e pertanto variabili nello spazio e nel tempo, in modo analogo l’attività vitale del mangiare si esprime in modi diversi presso le diverse società, osservando delle convenzioni simili a quelle che regolano e danno stabilità alle lingue verbali. Questo ha fatto pensare a una sorta di struttura interna del modo di mangiare, dove ogni elemento contribuisce al significato degli altri. La ‘grammatica del cibo’, come la chiama Montanari, ha una sua struttura il cui lessico si costruisce a partire dalla combinazione di quelle unità minime significative (morfemi) che sono le materie prime, variabile pertanto in rapporto al contesto ambientale, economico, sociale. La morfologia riguarda le modalità di elaborazione dei prodotti attraverso la cottura e la cucina che permettono di trasformare la materia prima in piatti (parole), con diversi risultati e funzioni (per esempio, con le farine si può fare il pane, la pizza, la polenta, i biscotti, la pasta); la sintassi del cibo, da cui dipende il significato del lessico e delle sue varianti morfologiche, è data come in una frase, e ancora meglio in un discorso, dalla successione delle portate di un pasto, dal loro accostamento, dalla loro relazione reciproca, e il ‘piatto forte’ assume una funzione centrale nel pasto-frase, nelle sue relazioni con altri componenti. E se i contorni, gli antipasti, i sorbetti e i dessert rappresentano i ‘complementi’, mentre le salse e gli intingoli, come i morfemi liberi della lingua (preposizioni, con­99

giunzioni) sono essenziali per legare gli elementi del pasto, i condimenti, la cui scelta è variabile per ragioni economiche e rituali, svolgono la funzione di avverbi e di aggettivi, contestualizzando le pietanze nello spazio e nel tempo. E come ciliegina sulla torta non può mancare la retorica, quel compimento necessario per effetto del quale il cibo si esprime nella sua piena eloquenza rappresentato dal modo in cui il cibo-discorso viene preparato, servito e consumato (per esempio, velocemente o lentamente, o in maniera disciplinata come detta la regola seguita dai monaci), e comunque espressione di uno stile di vita (2004: 137-141). Come il linguaggio verbale è strutturalmente sequenziale, temporale, per il disporsi dei suoi elementi costitutivi (fonemi, morfemi, parole, ecc.) su un continuum lineare, allo stesso modo la sensazione gustativa è temporalizzata. La sua successione, secondo Brillat-Savarin (1825: 31), è analizzabile in termini di: (i.) sensazione immediata, quella del primo impatto del cibo sugli organi del gusto collocati nella parte anteriore della bocca; (i.i.) sensazione completa, che coniuga a quella precedente le impressioni prodotte dal passaggio del cibo nel retrobocca, dove si percepisce la complessità di aromi e sapori; (i.i.i.) sensazione riflessa, quel giudizio espresso interiormente sulla base delle impressioni ricevute. Nella nostra cultura poi, la parentela tra cibo e parola è attestata persino dal linguaggio e dalle sue metafore gustose: così abbiamo ‘sete’ di sapere, ‘fame’ di conoscenza o di informazioni, ‘digeriamo’ a fatica alcuni concetti, ‘divoriamo’ un libro, ci ‘beviamo’ una storia che ci raccontano, facciamo battute ‘acide’, sussurriamo parole ‘dolci’, raccontiamo storie ‘piccanti’, ‘assimiliamo’ certe idee, ‘mastichiamo’ un po’ di tedesco (Tagliapietra 2005/2006), e ancora, ci ‘mangiamo le parole’ o ci ‘beviamo il cervello’. Insomma, espressioni che a partire dalla similitudine tra il cibo del corpo e il cibo della mente, rimarcano il nesso tra mangiare e parlare (pensare), rispecchiando quanto nelle parole che escono dalla bocca e nei cibi sapientemente costruiti che viceversa vi entrano si rifletta la cultura umana. ­100

Capitolo quarto

I piaceri del gusto

4.1. Emozioni di gusto Gusto e olfatto sono i sensi più implicati con l’affettività, i più predisposti a generare piacere o dispiacere, attrazione o repulsione, accettazione o rifiuto, avvicinamento o allontanamento. Oltre a procurarci informazioni cognitivamente utili riguardo alla qualità, all’origine, allo stato di conservazione e alle modalità di cottura di un alimento, odori, sapori e aromi hanno il potere di coinvolgerci emotivamente orientando i nostri comportamenti e le nostre scelte alimentari, generando sensazioni di benessere, di appagamento, di nostalgia, di consolazione, ma anche di avversione e di disgusto. Con il termine ‘gusto’ si intende, infatti, anche la sensazione di godimento generata dall’assunzione di cibi e bevande, una sensazione non secondaria nei nostri comportamenti alimentari ma parte integrante della nostra affettività e della spinta motivazionale a mangiare: il piacere sensoriale è difatti uno dei motori più potenti dell’ingestione e del gusto per gli alimenti e uno dei fattori determinanti della qualità della vita. Se gusti e disgusti sono notevolmente variabili sia culturalmente, sia individualmente, il piacere di mangiare è senza dubbio un tratto universale della nostra specie. Mangiare, e specialmente assaporare e degustare, è una forma di sensualità quotidianamente rinnovata e tale da influire sulla ­101

nostra felicità, coinvolgendo tutti i sensi in un’avventura che è altresì intellettuale. Toccare un cibo, guardarlo, annusarlo, cucinarlo, introdurlo nella bocca, masticarlo, assaporarlo, ingoiarlo e infine condividerlo anche attraverso la conversazione è un’esperienza plurisensoriale capace di suscitare emozioni sia consce, sia inconsce e di scatenare fantasie, idee e ricordi di avvenimenti passati. Senso edonistico per costituzione, condannato dai filosofi anche per il suo carattere carnale, voluttuoso e concupiscente, il gusto non si esaurisce quindi in una necessità fisiologica ma è intriso di piacere, un piacere legato al soddisfacimento del desiderio di cibo e alle sensazioni di benessere procurate degli aromi e dai sapori degli alimenti che impressionano il nostro palato. Nella Fisiologia del gusto di Brillat-Savarin – il celebre elogio dell’edonismo che, come sappiamo, segna la nascita della scienza gastronomica – il piacere e il bisogno relativi al cibo vengono nettamente distinti entro una visione antropocentrica. Lasciamo la parola all’intellettuale gourmet: Il piacere di mangiare è la sensazione attuale e diretta di un bisogno soddisfatto. Il piacere della tavola è una sensazione riflessa che nasce dalle diverse circostanze legate ai fatti, ai luoghi, alle cose e alle persone che accompagnano il pasto. Il piacere di mangiare è comune all’uomo e agli animali; presuppone soltanto la fame e il necessario per soddisfarla. Il piacere della tavola è caratteristico della razza umana, presuppone delle cure precedenti per la preparazione del pasto, la scelta del luogo e l’assortimento degli invitati. Il piacere di mangiare esige, se non la fame, almeno l’appetito; il piacere della tavola in genere è indipendente dall’uno e dall’altro. [...] Il piacere della tavola [...] è contraddistinto da un privilegio particolare: predispone a tutti gli altri o almeno ci consola della loro perdita (1825: 128-129).

Solo l’uomo ha trasformato una necessità fisiologica, cioè il bisogno del cibo, in desiderio, in «quell’appetito di lusso», come lo definisce Barthes (1975: xi), e in quell’arte di nutrirsi (culinaria) che incarna il piacere di gustare e di ­102

apprezzare un piatto sapientemente costruito e di condividerlo nella convivialità mediante la parola. Gustare e degustare in compagnia, un tratto specifico del gusto umano che richiede l’affinamento intellettuale dei nostri sensi, è occasione di scambi verbali ma anche di una comunione di emozioni originata dalla condivisione di quest’esperienza con gli altri commensali. Uno dei più grandi godimenti della tavola sta proprio nel mangiare e al contempo nel discutere di ciò che si mangia, nel commentare un piatto, nel piacere di apprezzarlo, di giudicarlo e di ‘dire’ il piacere, e prima ancora nel piacere di concepirlo e di realizzarlo. Accostarsi a un cibo gradito, annusarne gli aromi, ammirarne i colori, ricercarne i sapori, gradirne la consistenza non è soltanto un’esperienza multisensoriale bensì un’autentica esperienza emotiva che si rinnova ogni giorno, da quando veniamo al mondo fino a quando esaliamo l’ultimo respiro. Odori, sapori e aromi dei cibi scortano tutti i momenti della nostra esistenza: dall’emozione del seno materno dispensatore del primo alimento – che, ricco peraltro di note affettive, ci offre la nostra la prima intensa sensazione di appagamento –, all’emozione della condivisione dei pasti in famiglia o delle cene con gli amici, al piacere di preparare e di assaporare una ricetta a noi particolarmente gradita, fino al letto di morte, dove nessuno oserebbe mai negarci l’ultima delizia del palato. Ben consapevole delle gioie procurateci dal gusto, nella misura in cui esso non scade nelle intemperanze della glouttonerie mantenendosi invece entro quella «preferenza appassionata, ragionata» e raffinata della gourmandise (1825: 108), Brillat-Savarin ne enumera le molteplici occasioni di godimento: Il gusto, così come la natura ce l’ha elargito, è ancora il senso che ci procura il maggior numero di piaceri: 1) perché il godimento del mangiare è l’unico che, preso con moderazione, non dia luogo a stanchezza; 2) perché si prova in ogni tempo, a tutte le età e in tutti i ceti; 3) perché ricorre necessariamente almeno

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una volta al giorno, e in questo intervallo di tempo può essere ripetuto senza inconvenienti due o tre volte; 4) perché può accompagnarsi a tutti gli altri o addirittura consolarci della loro assenza; 5) perché le sensazioni che provoca sono a un tempo più durevoli e più direttamente dipendenti dalla nostra volontà; 6) infine perché nel mangiare proviamo un benessere particolare e indefinibile, nascente dall’istintiva certezza che, col fatto di mangiare, compensiamo le perdite subite e prolunghiamo la nostra esistenza (ivi: 34-35).

Nella nostra esperienza quotidiana, sapori e odori vengono interpretati dal cervello che ci restituisce emozioni da gustare, da vivere, da conservare nella memoria. Come si dirà più avanti (infra, § 4.4.), il gusto è strettamente interconnesso con i vissuti individuali, con il nostro passato, e i cibi per ognuno di noi sono carichi di significati: questo spiegherebbe la relazione simbiotica tra le nostre preferenze alimentari e i ricordi personali. Se le circostanze, la compagnia, la qualità dei cibi e della cucina e il nostro stato d’animo sono variabili importanti nel determinare gli aspetti emozionali del gusto, la qualità edonica degli alimenti dipende tuttavia anche dalla fisiologia. L’intensità del piacere suscitato da un piatto o da un vino può variare in relazione allo stato energetico interno del consumatore, cioè alla sua condizione di sazietà: se siamo affamati, uno stimolo dolce o salato è percepito con molto piacere; se viceversa abbiamo appena consumato un lauto pranzo, dessert incluso, e stiamo aspettando il caffè, l’odore di una torta appena sfornata o di un battuto di cipolla che solo qualche ora prima stuzzicavano il nostro appetito possono darci fastidio o addirittura disgustarci. Definito alliestesia (Cabanac 1971), questo fenomeno, privo di riscontri nell’audizione e nella visione, dimostra quanto il piacere di gustare raggiunga la sua pienezza solo con il consumo effettivo. Associata anzitutto all’olfatto, tale mutata sensazione gustativa può ricondursi in seconda istanza alla temperatura di un alimento (sensazione termica), a fattori culturali e ad abitudini individuali che influiscono nel farci ­104

percepire con un certo disgusto alcuni stimoli alimentari in determinate ore del giorno: al mattino appena alzati, per esempio, l’odore di un ragù che gorgoglia in pentola, di trippa lessa o di frittura di pesce. Ma le emozioni di gusto possono manifestarsi altresì con il rifiuto di un cibo al quale si attribuisce un sapore, una consistenza o un odore sgradevole (non necessariamente tali), una reazione repulsiva espressa con quella particolare mimica facciale tipica del disgusto (considerata a tutti gli effetti una forma di comunicazione sociale), già classificato da Darwin come una delle emozioni fondamentali legata proprio all’atto di assaggiare un cibo (1872: 181). Alle preferenze per certi gusti, determinate da fattori biologici, culturali e individuali, corrisponde l’avversione e la repulsione per i cibi sconosciuti o per i gusti graditi dagli altri: «i gusti sono innanzitutto dei disgusti, fatti di orrore e di intolleranza viscerale (‘fa vomitare’) per gli altri gusti» (Bour­dieu 1979, citato in Lupton 1996: 61). Come le lumache, le ostriche, o i formaggi stagionati con le loro note lievemente fecali possono far inorridire gli asiatici, parimenti gli occidentali considerano ripugnante il gusto di molti popoli orientali per la carne di cani, gatti, serpenti, insetti o per la carne di scimmia consumata da alcune popolazioni amazzoniche. Il disgusto nei confronti di un cibo può dipendere, oltre che dal sapore, dall’odore o dall’aspetto, persino dalla sua consistenza troppo viscida, soffice, granulosa o collosa, cioè dalla sua non palatabilità dal punto di vista tattile. Le emozioni di gusto possono essere scatenate in senso negativo persino dalla fame prolungata e non soddisfatta, uno stato di disagio psicofisico caratterizzato da prostrazione, irritabilità, rabbia e persino dolore: i cosiddetti ‘morsi della fame’. L’emozione correlata all’atto del gustare può ancora essere distorta dalla bramosia di cibi e di bevande, dalla passione dell’ingordigia, quell’avidità cieca e smisurata che induce agli eccessi alimentari e spinge a mangiare troppo in fretta senza discernere e senza selezionare, quella che contrappone il ­105

buongustaio al ghiottone, un comportamento che determina l’annullamento del gusto e del suo valore edonico: il goloso in senso stretto è per l’appunto chi ha perso di vista il piacere di assaporare, di apprezzare, di scegliere, di godere delle sfumature e delle differenze, un piacere del corpo e insieme dello spirito. Il legame speciale esistente tra odori, sapori, emozioni e ricordi è ben noto altresì agli studiosi di marketing, che dalla fine degli anni Novanta hanno sperimentato i vantaggi del marketing ‘sensuale’, finalizzato a emozionare il pubblico stimolandone per l’appunto i sensi: si sfrutta il potere di seduzione di suoni, di immagini e specialmente di odori e di sapori fortemente evocativi, come quelli dell’infanzia, della cucina casalinga, dei sapori della tradizione, delle vacanze al mare o in campagna, capaci di suscitare emozioni positive, di confortare, di rassicurare, di eccitare, con l’intento di indurre all’acquisto di prodotti alimentari o di altri generi di consumo. Il ricorso a tali strategie di comunicazione sensibile è ispirato dal presupposto – confermato da ricerche degli ultimi decenni, secondo cui peraltro l’impulso ad acquistare dipenderebbe per il 70% dalla componente emotiva e dagli stimoli sensoriali – che la scelta di un prodotto di consumo non sia dettata solo da ragioni di utilità legate al rapporto costo-beneficio, ma specialmente da emozioni e stati d’animo evocati dal prodotto medesimo o semplicemente suscitati dall’ambiente e tali da agire in modo più profondo e diretto sulla nostra sfera emotiva (cfr. Miani et al. 2008: 29-32, 50; Cardini 2007). Da qui la necessità di ricorrere a una comunicazione stimolante per tutti i sensi e i cui effetti evocativi contribuiscano a determinare la scelta di quel prodotto o di quel punto vendita, prendendo letteralmente il consumatore ‘per il naso’, ‘per la bocca’, ‘per gli occhi’, ‘per le orecchie’. Per la sua vocazione edonica, anche il senso del gusto è collocato al centro delle politiche del marketing, relativamente ai prodotti alimentari ma anche a tutti quei beni di consumo che pur non essendo commestibili rievocano il ­106

sapore o l’odore di cibi. Così le sale d’attesa vengono pervase da profumi invitanti, le panetterie diffondono a tutte le ore aromi di pane, di lieviti, di biscotti o di pizza appena sfornati, i bar attirano i clienti spruzzando spray all’odore di croissants caldi o di brioches, nei reparti gastronomici dei supermercati si respirano odori che seducono il gusto invitando all’acquisto, le biscottiere rilasciano profumo di biscotti, i saponi o le creme emanano un irresistibile aroma di cioccolato o di vaniglia, e i profumi studiati per le teenagers odorano di zucchero filato. Coinvolgendo emotivamente il consumatore, questi odori evocativi, legati a piaceri semplici, hanno un unico obiettivo: catturarne l’attenzione e ovviamente il portafogli! 4.2. Il gusto nell’eros Il convito amoroso, come quello gastronomico, coinvolge tutti i sensi. La vista in primo luogo: attraverso l’aspetto fisico, i primi ammiccamenti, la complicità degli sguardi, la concupiscenza degli occhi e quindi dei desideri. Il tatto: decisivo annullamento delle distanze tra due corpi, tenerezza delle carezze e degli abbracci, sensazione voluttuosa del calore della pelle dell’altro. E come nei banchetti la conversazione accompagna e insaporisce il rito del bere e del mangiare insieme, nei conviti amorosi i sospiri, gli affanni, i toni lievi e insinuanti, i sussurri maliziosi e carezzevoli, i silenzi sapientemente cercati alimentano la passione e favoriscono l’abbandono. Com’è naturale, anche il gusto fa la sua parte nella sfera dell’eros. La bocca, sua sede elettiva, è del resto la porta di ogni emozione: la usiamo per mangiare, per bisbigliare parole dolci, per cantare, per accarezzare, per baciare. Anche per questa ragione, mangiare e fare l’amore vengono accomunati. In senso letterale: perché l’atto di mangiare, come l’atto sessuale, è l’atto di assimilazione e di riunificazione per eccellenza. In senso metaforico: perché il gusto favorisce un intreccio costante del lessico gastronomico con il lessico amoroso. ­107

Il desiderio di mangiare e il piacere conseguente ha delle affinità con il desiderio sessuale, con il bisogno e con il piacere di nutrirsi dell’altro: si parla per l’appunto di ‘appetito sessuale’, di desiderio ‘di mangiare l’altro’, di ‘divorare con gli occhi’, di ‘mangiare qualcuno di baci’, di ‘aver preso una cotta’, di ‘occhi a mandorla’, di ‘pelle di pesca’, di ‘labbra carnose’ o si dice di ‘essere divorati dalla gelosia’. Assaporare un cibo è una riproduzione dell’atto sessuale: in entrambi i casi si tratta di annusare, di guardare, di toccare, di leccare, di mordicchiare, di suggere. Fuori da ogni metafora, nel convito amoroso ci si ‘assaggia’ con tutto il corpo e specialmente con i baci, vero e proprio test del coinvolgimento affettivo e preambolo ai sapori dell’amore. Per non parlare del ruolo del cibo come scorta sicura della seduzione e rito preparatorio di intimi piaceri: cucinare è già un atto d’amore, cucinare e gustare le vivande preferite insieme alla persona amata, e giocare a imboccarsi, può essere il preludio per creare quell’atmosfera che prolunga il piacere del sapore dalla tavola al letto, o anche il gustoso epilogo di un incontro amoroso. Odori e sapori della buona cucina, oltre a far venire l’acquolina in bocca, procurano, proprio come l’odore e il sapore del partner, un appetito molto simile a quello erotico. E tante volte gli attacchi di fame rappresentano simbolicamente il bisogno di compensare un vuoto affettivo, sostituendo l’atto sessuale col cibo. Sin dagli albori della nostra ontogenesi, eros e cibo sono strettamente connessi: succhiare il seno, morderlo e inghiottire sono tra le prime attività connesse tanto al bisogno di nutrimento quanto a una prima forma inconscia di appagamento sessuale. Come annotò Freud, la nostra prima esperienza col piacere è orale: «lo stadio orale è geneticamente il primo stadio dell’evoluzione libidica del bambino, essenziale e fondante per il piacere e il dolore della prima inspirazione, e poi per la comparsa della voluttà del riempimento mescolata a quella della suzione» (Harrus-Révidi 1994: 22). ­108

Senso del desiderio, dell’appetito e del piacere, ma anche della vicinanza e del contatto, il gusto, in sinergia con l’olfatto, al quale è intimamente legato da un destino comune, ha perciò un ruolo decisivo nella sessualità e nell’erotismo. Dopotutto, negli incontri amorosi e negli approcci che li precedono, la prossimità e il contatto fisico stabiliti anche attraverso i sensi chimici sono fondamentali per conoscersi, per comprendere fino a che punto ci si piace e si è disposti a passare alla ‘portata’ successiva. Agenti essenziali della seduzione e dell’attrazione sessuale, gli odori, prima ancora dei sapori dell’eros, ci preannunziano istintivamente l’affinità con il partner, la possibilità di instaurare una buona intesa sessuale: l’amore perciò si scopre e si fa anche con il naso. Il gradimento dell’odore dell’altro, di quell’impronta olfattiva unica ed esclusiva di ogni persona, è l’anticamera dell’intesa sessuale. Se di una persona non apprezziamo l’odore corporeo, se il suo alito ci risulta respingente, sarà difficile farsi coinvolgere. Se il sapore del primo bacio non ci piace, non ci resta sulle labbra, è un chiaro indice di mancanza di affinità. Viceversa ci accorgiamo di essere attratti da una persona, e a maggior ragione di amarla, quando di lei accettiamo gli odori e i sapori più indiscreti, più intimi, più estremi: segno inequivocabile che la compatibilità di una coppia è specialmente il frutto di un’attrazione chimica. L’odore personale del compagno è poi anche un potente afrodisiaco e il desiderio non fa che aumentarlo e modificarlo. E d’altra parte, quando gli odori del partner non ci piacciono più, addirittura ci infastidiscono, e il sapore dei suoi baci non ci coinvolge più o ci disgusta è segno di un’intesa ormai logora. Come l’atto di assaporare un alimento e di ingerirlo infrange la frontiera tra corpo e mondo, attraverso una fusione fisica del soggetto con l’oggetto del nutrimento, allo stesso modo il bacio, una metafora del rapporto sessuale e una sua anticipazione, è l’espressione più completa dell’incontro di due corpi, del loro ‘assaggiarsi’ simultaneamente e assimilare ciascuno il sapore dell’altro. La reciproci­109

tà fisica caratteristica del gusto e dell’olfatto, sensi della prossimità, nel banchetto amoroso si esalta nell’incontro di due soggettività, nel loro mescolarsi nel bacio, un atto in cui l’oralità mobilita il gusto insieme al tatto e all’olfatto. E si traduce altresì nel respirare ciascuno l’odore dell’altro catturandone l’intimità, nel fondersi in una relazione piena in cui la sensorialità orale (e quella olfattiva) perde quel carattere di incomunicabilità che è proprio delle esperienze intime e soggettive per lasciare il posto all’eloquenza del corpo e alla gestualità della bocca. Il sapore, quella percezione complessa e polisensoriale prodotta, come s’è già detto, dalla convergenza di sensazioni olfattive, gustative e tattili con cui la bocca apprezza le prelibatezze gastronomiche, è un ingrediente fondamentale nella sessualità. Dal tatto orale, fattore non secondario della percezione del sapore collocato per l’appunto nella bocca, e nella lingua in particolare, dipendono tanto i piaceri e gli appetiti gastronomici quanto i piaceri sessuali. E come la saliva ha un ruolo importante nel determinare il sapore di un alimento, analogamente è il lubrificante naturale che conferisce ai baci dell’amato un gusto unico, contribuendo ai piaceri del tatto orale anche quando la bocca incontra gli organi sessuali. L’erotismo, ovvero le varie forme in cui, indipendentemente dalla procreazione, si manifesta l’attrazione amorosa verso qualcuno (o qualcosa), e – con esso – la gastronomia, una necessità trasformata dall’uomo nell’arte culinaria e nel conseguente piacere, ci distinguono dagli animali. Tanto nel procreare quanto nel mangiare, la distanza che separa il bisogno animale legato alla sopravvivenza dal desiderio umano che trascende l’impellenza fisiologica si palesa nella conversione dell’appetito naturale in «lusso del desiderio, amoroso o gastronomico che sia» (Barthes 1975: xi). In entrambi i casi, la bocca e la sensorialità orale sono elette a luogo del soddisfacimento delle delizie sessuali e di quelle del palato. Il Cantico dei Cantici dell’Antico Testamento, la poesia d’amore più sensuale e più profumata di ­110

tutti i tempi, un tributo alla bellezza affidato al dialogo tra due innamorati, traduce compiutamente e nella sua forma più elevata la voluttà inerente tanto al linguaggio del gusto quanto al gusto del linguaggio: Che lui mi baci | con i baci della sua bocca. | Più dolci del vino | sono le tue carezze, | più inebrianti dei tuoi profumi. | Tu stesso sei tutto un profumo [...] || Amore mio, | sei come un sacchetto di mirra, | di notte riposi tra i miei seni. [...] || Sì, un giglio tra le spine | è la mia amica tra le altre ragazze! || Un melo tra gli alberi selvatici | è il mio amore tra gli altri ragazzi! | Mi piace sedermi alla sua ombra | e gustare | le delizie dei suoi frutti. [...] || Il tuo profumo | è più gradevole di tutti gli aromi. | Le tue labbra sanno di miele, | mia sposa, | la tua lingua | ha il sapore | del miele e del latte. [...] | Le tue nascoste bellezze | sono un giardino di melograni, | di frutti squisiti, | con piante di cipro, | nardo e zafferano, | cannella e cinnamomo, | ogni specie di piante d’incenso, | mirra e aloe | e tutti i profumi più rari. [...] || La sua bocca è dolcissima; | tutto, in lui, | risveglia il mio desiderio. [...] || I tuoi seni siano per me | come grappoli d’uva; | il profumo del tuo respiro | come l’odore delle mele | e la tua bocca | come il buon vino...! (Bibbia: 933-941, Ed. Elledici Leumann, Torino 1985).

4.3. Intimità e socialità del gusto «Mangiare è l’atto più antico e più intimo che si possa immaginare: qualcosa entra dentro di noi, si trasforma e ci trasforma; tanto che si può dire che l’esperienza della nutrizione è il fondamento ontologico dell’individuo» (Argentieri 2004, citato in Platania 2008: 126). Se la vista permette di contemplare un oggetto da lontano, sicché nel vedere una casa su una collina la casa resta separata dalla nostra esperienza del vederla, il gusto di un sorso di Barolo è inseparabile dall’esperienza che ne abbiamo quando lo introduciamo nella bocca. L’innegabile carattere interno della sensazione gustativa è legato anzitutto alla sua natura prossimale: non è possibile assaporare un cibo a distanza, dobbiamo necessariamente introdurlo dentro ­111

di noi. Anche dal punto di vista fisiologico, ogni persona risponde agli stimoli sapidi in modo unico e particolare. La percezione del sapore è perciò una sensazione individuale del palato, «un privilegio del proprio foro interiore» (Le Breton 2006: 355), un giudizio intimo spesso sfuggente e in una certa misura non verbalizzabile. L’interiorità intrinseca dell’assaporare lo rende tra l’altro un atto difficilmente comparabile: i sapori percepiti da ciascuno di noi, come gli odori, sono carichi di affettività e variamente connessi a circostanze e vissuti personali, diversi da individuo a individuo. Per di più, il gusto soggettivo di chi assume un determinato alimento, la sua capacità interpretativa e il suo personale sistema di valori, comunque riconducibile entro una griglia sociale, contribuiscono a determinare la bontà di un cibo e il suo sapore almeno quanto la sua qualità, il suo costo o la sua ricercatezza. La privatezza, l’intimità e il carattere affettivo dell’esperienza gustativa, il suo essere percepita come una sensazione del ‘nostro’ corpo è tuttavia uno dei fattori che ha contribuito alla svalutazione del gusto e alla sua classificazione tra i sensi ‘inferiori’. Perpetuando un pregiudizio filosofico profondamente radicato, il senso comune attribuisce infatti all’esperienza del gustare una natura meramente soggettiva, connessa alla sensazione del piacere o del dispiacere. Il livello di coinvolgimento del corpo nella percezione sensoriale ha avuto indubbiamente il suo peso nel determinare il valore attribuito agli oggetti della conoscenza: odori, profumi, cibi e bevande in genere vengono valutati specialmente per il piacere sensoriale che procurano all’individuo, negando loro quello statuto ontologico che ne permetterebbe la conoscenza oggettiva. Nel tentativo di affrontare l’annoso problema della coscienza, i filosofi hanno fatto i conti con la privatezza e la variabilità del gustare e dell’annusare, con la questione della portata ontologica di quelle sensazioni decisamente private che accompagnano gli stati percettivi e alle quali oggi i filosofi della mente danno il nome di qualia, espressione che per ­112

l’appunto definisce le qualità soggettive delle singole esperienze coscienti (cfr. supra, § 1.1.). A prescindere tuttavia da quanto si sia disposti a riconoscere il valore scientifico di fenomeni quali le sensazioni conseguenti ad atti materiali come l’assaporare un cibo (tutt’altro poi che mere sensazioni), non dimentichiamo che alla dimensione privata del gustare si coniuga quella sociale, condivisa, intersoggettiva e in qualche maniera comunicabile: il sapore di un piatto o di un vino è una sensazione composita su cui si può discutere, confrontando giudizi, descrizioni, emozioni. Solo l’uomo, come abbiamo già detto, ha saputo trasformare l’intimità del gustare in un’esperienza cognitiva e sociale, in quella valutazione sensoriale condivisibile con gli altri commensali attraverso il linguaggio. Senza dubbio nessuno di noi può sapere esattamente cosa accade nel foro interiore di un altro individuo quando, scoperchiando una pentola viene investito dal prelibato profumo di un sugo gorgogliante, o quando, dopo aver immerso il cucchiaio nella pentola, lo porta in bocca per un assaggio. Tuttavia, interpretando i segnali verbali e non verbali, la mimica facciale e i gesti di un nostro consimile suscitati dalla squisitezza di quel sapore, saremo nondimeno in grado di farci un’idea della bontà di quel cibo e delle emozioni che esso ha suscitato. Sin dalla sua prima attivazione nell’alba della nostra ontogenesi, il gusto si caratterizza come un gesto intimo, anzi doppiamente intimo, e al contempo sociale, perché esperito in un contesto di riservata relazionalità con la madre, con la quale il bambino fa quasi un ‘corpo unico’. Il feto assapora le sostanze sapide già nel grembo, nutrendosi di una parte del corpo materno; dopo la nascita, poi, l’allattamento al seno prolunga l’intimità stabilitasi durante la gravidanza, dove l’odore e il gusto del latte materno, la cui composizione chimica è già familiare al bambino, mantengono e rafforzano quel legame simbiotico e privato instauratosi tra madre e figlio sin dal concepimento. Un legame che è altresì il nostro primo legame sociale. Gusto e ­113

olfatto, in tal senso, segnano l’esordio della nostra socialità e il primo alimento (il latte) è già un veicolo d’incontro con l’altro. Crescendo, l’esperienza del gustare, e ancora di più quella del degustare (cfr. infra, 5.2.), pur essendo individuale raramente si compie da soli, trattandosi piuttosto di un’attività realizzata all’interno di un contesto sociale, in genere in situazioni conviviali. In virtù della sua inclinazione alla condivisione, l’atto di mangiare e di gustare è perciò un atto di comunicazione interpersonale. Se «gli altri sensi si possono godere in tutta la loro bellezza anche quando si è soli; il gusto, invece, è in gran parte un senso sociale» (Ackerman 1990: 137). E non c’è azione di natura sociale, non c’è situazione, in ogni tempo e in ogni luogo, che non passi dalla tavola o che non preveda il rito del consumo comune del cibo: dagli affari, all’amicizia, all’amore, alle cospirazioni, all’esercizio del potere. L’esperienza che lo vede protagonista ha, dunque, un aspetto relazionale non disgiunto da un aspetto cognitivo e linguistico di valutazione, discriminazione e verbalizzazione, che ne fa un sapere condiviso. Lo stesso percorso di apprendimento del gusto, iniziato in famiglia, ed espressione di un gusto culturale modellato su quello della nostra comunità di appartenenza, è di per sé sociale. Modalità di conoscenza che, senza accontentarsi di essere solo un privilegio del foro interiore, diventa partecipazione, condivisione, verbalizzazione, il gusto è il cardine di un racconto di I. Calvino, intitolato Sotto il sole giaguaro (già apparso con il titolo Sapore Sapere nel 1982 e ripubblicato in un volume postumo del 1986), che vede protagonista una coppia durante un viaggio in Messico, e dove l’atto di assaporare diventa a tutti gli effetti una modalità relazionale: Si potrebbe credere che Olivia mangiando si chiudesse in se stessa immedesimandosi nel percorso interiore delle sue sensazioni; in realtà invece il desiderio che tutta la sua persona esprimeva era quello di comunicarmi ciò che sentiva: di comu­114

nicare con me attraverso i sapori, o di comunicare coi sapori attraverso un doppio corredo di papille, il suo e il mio. «Senti? Hai sentito?» mi diceva in una specie d’ansia, come se in quel preciso momento i nostri incisivi avessero triturato un boccone di composizione identica e la stessa stilla d’aroma fosse stata captata dai recettori della mia lingua e della sua. «È lo xilantro? Non senti lo xilantro?» aggiungeva, menzionando un’erba che dal nome locale non eravamo ancora riusciti a identificare con sicurezza (forse l’aneto?) e di cui bastava un filo sottile nel boccone che stavamo masticando per trasmettere alle narici una commozione dolcemente pungente, come un’impalpabile ebbrezza. Questo bisogno che Olivia aveva di coinvolgermi nelle sue emozioni m’era molto gradito, perché mi dimostrava quanto le fossi indispensabile e come per lei i piaceri dell’esistenza fossero apprezzabili solo se condivisi tra noi. È solo nell’unità della coppia – pensavo – che le nostre soggettività individuali trovano amplificazione e completezza (1986: 30-31).

L’intrinseca soggettività del gustare sembra trovare quindi il suo naturale completamento nell’intersoggettività, in quella complicità dei palati ricercata – pur entro una certa irriducibilità oggettiva, legata al diverso modo in ci si vive la medesima esperienza – tutte le volte che assaporiamo pezzi di mondo capaci di scatenare le nostre passioni e che, attraverso un’ispezione attenta e ragionata, tentiamo con ogni mezzo messo a disposizione dal linguaggio di concettualizzare e di definire con le parole: di trasformare cioè in una forma di cognizione sociale. 4.4. Gusti e disgusti Già da molti anni, di Combray, tutto ciò che non fosse il teatro o il dramma del mio andare a dormire, non esisteva più per me, quando un giorno d’inverno quando rientrai in casa, mia madre, accorgendosi che avevo freddo, mi propose di farmi bere, contro le mie abitudini, una tazza di tè. Dapprima rifiutai, poi non so perché cambiai idea. Lei mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti che vengono chiamati ‘petites madeleines’ [...]. E subito, meccanicamente, oppresso dalla giornata tetra e dalla

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prospettiva di un domani triste, portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato ammorbidire un pezzetto di madeleine. Ma nell’istante stesso in cui il sorso di tè, frammisto a briciole di dolce, toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che mi stava accadendo. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza che ne sapessi la ragione. [...] Da dove poteva venirmi questa immensa gioia? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava indefinitamente [...]. È chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. Essa l’ha risvegliata, ma non la conosce [...]. Poso la tazza e mi rivolgo verso il mio spirito [...]. E ricomincio a domandarmi di che natura potesse essere quello stato d’animo sconosciuto [...]. Vado indietro con il pensiero al momento in cui ho bevuto il primo sorso di tè. Ritrovo lo stesso stato d’animo, senza nessuna nuova chiarificazione. [...] E all’improvviso il ricordo mi è apparso. Quel gusto era quello del pezzetto di madeleine che zia Léonie la domenica mattina a Combray [...] mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio quando andavo a darle il buongiorno in camera sua. La vista della piccola madeleine non mi aveva ricordato niente prima di averla gustata; forse perché avendone spesso notato in seguito, senza mangiarne, sui banchi delle pasticcerie, la loro immagine aveva lasciato quei giorni di Combray per legarsi ad altri più recenti [...]; le forme – e anche quella della piccola conchiglia di pasticceria [...] si erano dileguate o assopite, avevano perduto la forza di espandersi che avrebbe loro permesso di raggiungere la coscienza. Ma quando di un antico passato non sussiste niente, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più intensi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore restano ancora a lungo, come anime, a ricordare, ad attendere, a sperare, sulla rovina di tutto il resto, a reggere senza piegarsi, sulla loro gocciolina quasi impalpabile, l’immenso edificio del ricordo. E dal momento in cui ebbi riconosciuto il gusto del pezzetto di madeleine inzuppato nel tiglio che mi offriva la zia [...], subito la vecchia casa grigia sulla strada, dove era la sua stanza da letto, come uno scenario di teatro venne a sovrapporsi al piccolo padiglione che dava sul giardino, [...] e con la casa, la città [...], la Piazza dove mi mandavano prima di colazione, le strade dove andavo a far commissioni [...], tutto questo che va prendendo consistenza, è uscito, città e giardini dalla mia tazza di tè (Proust 1913: 130-134 – il corsivo è nostro). ­116

Quante volte un odore o un sapore ci hanno riportato alla mente, per lo più inconsapevolmente, esperienze passate radicate nel fondo della nostra memoria? Olfatto e gusto sono i sensi più coinvolti con la memoria e con i sentimenti: odori, profumi, sapori e aromi rendono immortali emozioni e circostanze della nostra vita, spalancano le porte della memoria lasciando riemergere in un istante episodi del nostro passato. I ricordi olfattivi e gustativi dell’infanzia, specialmente quelli riconducibili al periodo compreso tra i sei e i dieci anni, in cui odori e sapori diventano veri e propri scrigni di ricordi, sono i più tenaci (cfr. Chu, Downes 2000). Dallo zucchero filato mangiato al parco dei divertimenti, alle fette di pane con olio e pomodoro o con la frittata preparate dalla mamma per le gite scolastiche, ai sughi e ai dolci dei pranzi domenicali a casa della nonna, i sapori dell’infanzia, quelli che ci uniscono indissolubilmente alla nostra terra d’origine, quelli della cucina materna e delle ricette della tradizione di famiglia, ricchi di condimenti affettivi, scolpiscono il nostro gusto rimanendo per tutta la vita dei punti di riferimento incancellabili. Anche se non li assaporiamo da molto tempo, il loro ricordo da solo è già capace di evocare episodi ed esperienze passate, e stati d’animo a essi legati, di suscitare il desiderio per un dato cibo e di farci rivivere persino a distanza di moltissimi anni atmosfere dense di particolari, cariche di significati privati. Lo sanno bene, tra gli altri, gli chef e i sommeliers: nell’esercizio del loro mestiere, questi professionisti del gusto sono condizionati dalle memorie sensoriali dell’infanzia, specialmente dagli odori, dai sapori e dalle emozioni della cucina quotidiana e delle ricette di famiglia, alle quali devono le loro preferenze e avversioni per certi piatti proposti nei loro menu o il giudizio sui profumi e sui sapori dei vini degustati (cfr. Candau 2000 e 2004). Gli odori e i sapori sanno dunque attivare la memoria episodica, quella forma di memoria a lungo termine che custodisce i ricordi autobiografici costitutivi della nostra identità, riferiti a una precisa situazione spazio-temporale. ­117

Come ciascuno di noi ha sperimentato varie volte nel corso della propria esistenza, le reminiscenze autobiografiche scatenate da eventi olfattivi e gustativi sono eccezionalmente ricche di informazioni contestuali, una peculiarità cognitiva della memoria degli odori connessa alla sua speciale codifica olistica (gli odori vengono immagazzinati come una percezione unica che include il contesto della sensazione d’origine). Noto come ‘sindrome di Proust’, tale fenomeno, comune e speciale al tempo stesso, trae appunto il nome dalla famosa pagina della Recherche sopra citata, andando però ben oltre l’artificio letterario. La sensazione emozionale ‘straordinaria’ cui fa riferimento Proust è il risultato di una stimolazione multisensoriale fortemente evocativa: gustativa, olfattiva e tattile. Dopo una ricerca consapevole delle sue cause, rivelatasi infruttuosa, una parallela indagine subconscia fa scoprire improvvisamente allo scrittore il collegamento tra quella sensazione e uno specifico avvenimento dell’infanzia fino a quel momento dimenticato, risvegliato con vivacità e ricchezza di particolari dal sapore e dall’odore di quel sorso di tè ‘frammisto a briciole di dolce’. Se fino a mezzo secolo fa esistevano al riguardo solo aneddoti e racconti letterari, oggi invece abbiamo a disposizione un certo numero di ricerche scientifiche sulla memoria degli odori (e dei gusti), che resta tuttavia una «memoria dimenticata» (Roncato, Zucco 1993: 120) entro una letteratura psicologica e neurofisiologica fin troppo concentrata sulle immagini e sui suoni (per una breve rassegna cfr. Cavalieri 2009: 160-170 e 2009a). La memoria gusto-olfattiva fa parte della memoria sensoriale, componente importante dei nostri sistemi di memoria complessivi. Sebbene ogni dispositivo sensoriale abbia la propria memoria caratteristica, tuttavia gran parte degli sforzi della ricerca si sono indirizzati allo studio di quella visiva (iconica) e di quella uditiva (ecoica). Una caratteristica delle memorie sensoriali risiede nella loro grandissima capienza cui corrisponde però la bassa permanenza, ovvero la brevissima durata: gran parte delle in­118

formazioni provenienti dai nostri organi di senso vengono, infatti, perdute entro pochissimi secondi, il tempo necessario a consentire l’orientamento del soggetto nello spazio e una panoramica globale e immediata dell’ambiente, per lasciare posto ai nuovi stimoli percepiti. Solo una percentuale ridottissima di informazioni provenienti dai nostri sensi, trattenute dalla memoria sensoriale, entra in quel contenitore provvisorio che è la memoria a breve termine (dove permane una quindicina di secondi). La possibilità di conservare e utilizzare informazioni della memoria sensoriale ne richiede la codifica in forma più durevole, attraverso processi di attenzione e di concentrazione sullo stimolo per riconoscerne alcune caratteristiche, e/o attraverso la sua ripetizione. Le diverse memorie sensoriali diventano poi ‘memorie dei sensi’ quando vengono immagazzinate nella memoria a lungo termine (comprendente quella dichiarativa o esplicita, di cui fa parte la memoria episodica, e quella implicita). Le ricerche sulla memoria degli odori e quelle ancora più esigue condotte sui sapori e sulla consistenza degli alimenti sembrano attestare la tenacia dei ricordi gusto-olfattivi, dei ricordi gradevoli e in special modo di quelli sgradevoli, mai neutri ma sempre impregnati di emozioni piacevoli o spiacevoli. Si tratterebbe di una memoria implicita e non verbale (una forma di memoria a lungo termine riguardante quegli avvenimenti memorizzati inconsapevolmente e capaci comunque di condizionare il nostro comportamento) che rievoca, come si dirà più avanti, le esperienze pregresse associate agli alimenti, giocando pertanto un ruolo fondamentale per l’apprendimento dei gusti. Dalla memoria gustativa (i cui effetti sul comportamento gustativo sono strettamente dipendenti dalla memoria olfattiva: si pensi all’importanza degli aromi di bocca nella percezione del sapore) dipende l’arricchimento della gamma di cibi commestibili sulla base dei gusti, essenziale, specialmente per noi onnivori, per formare il complesso delle preferenze e/o delle avversioni alimentari di un individuo. Come ­119

‘mangiatori non specializzati’ abbiamo una grande libertà nelle scelte alimentari, con vantaggi per la nostra sopravvivenza rispetto alle specie geneticamente costrette a una sola tipologia di cibo. La varietà ha tuttavia il suo prezzo se teniamo conto della potenziale tossicità degli alimenti sconosciuti e dei possibili squilibri nutrizionali. Gli effetti dei ricordi di esperienze precedenti, rievocate tramite il gusto e l’olfatto, sono impressi nell’appetito per alcuni cibi e intervengono a delimitare le nostre preferenze e a rammentarci la pericolosità di certi alimenti. Ma come si forma il complesso sistema individuale dei gusti e dei disgusti, cioè delle preferenze e delle avversioni alimentari? Si tratta di gusti immutabili? E in che modo possono essere orientati? L’influenza di una molteplicità di fattori tra loro variamente interconnessi, e prevalentemente inconsci, sulle nostre scelte alimentari non ha ancora permesso alla ricerca di fornire risposte esaustive e univoche a questi interrogativi. Nonostante le difficoltà di isolare con precisione i vincoli naturali del comportamento alimentare, sono stati comunque individuati i fattori principali, primo fra tutti il piacere sensoriale, unitamente a variabili contestuali e culturali. Dal momento in cui cessa l’alimentazione al seno materno e ha inizio lo svezzamento, per gli onnivori la scelta del cibo, un processo precoce d’importanza nient’affatto trascurabile, coinvolge i sensi esterni, i segnali interni all’organismo (che informano regioni specializzate del cervello, come l’ipotalamo, dei bisogni nutrizionali) e la memoria, in un processo di apprendimento in larga misura inconsapevole, in cui intervengono fattori biologici, psicologici, culturali e sociali (cfr. Ton Nu 2001). Oltre a distinguere cibi sani e nutrienti da quelli privi di tali caratteristiche o addirittura pericolosi, queste scelte includono altresì la predilezione per alcuni alimenti. Se le nostre preferenze gustative dipendono in larga parte dalle esperienze individuali, condizionate dall’ambiente culturale entro cui cresciamo, esistono tuttavia alcuni gusti geneticamente determinati e pertanto universali. ­120

La propensione innata per il sapore dolce, accompagnata in genere da una sensazione piacevole, e l’avversione per l’amaro e per i cibi molto acidi, manifesta, come s’è già detto (cfr. supra, § 2.6.), già nel grembo materno e seguita da una sensazione spiacevole, è un tratto che l’uomo condivide con numerose specie animali. Il consumo di alimenti nutritivi ricchi di energia (zuccheri e grassi), ma anche di vitamine e di sali minerali (frutta matura, ortaggi), e il rifiuto per l’amaro presente in genere in molte sostanze tossiche, e per l’acido, indice in molti casi di un cibo guasto, si spiegherebbero in termini di vantaggi evolutivi e adattativi. Esistono tuttavia sostanze dolci prive di calorie e sostanze amare o acide non tossiche. Le differenze interindividuali di sensibilità riscontrate in particolar modo relativamente al gusto amaro, e riconducibili presumibilmente a fattori genetici (cioè alla quantità di recettori), hanno indotto i ricercatori a classificare due tipologie di individui, definiti tasters e nontasters: i primi hanno una forte sensibilità per il gusto amaro, i secondi hanno una soglia gustativa elevata e quindi una bassa sensibilità. Ci sarebbe addirittura una terza categoria, i supertasters, individui che hanno percezioni gustative molto intense per l’amaro (ma anche per l’acido e per il piccante), di cui colgono anche le minime tracce negli alimenti (e per questo sono costretti a eliminare dalla loro dieta molti cibi, quali frutta e verdure, caratterizzati da questi sapori: radicchio, cavoli, cipolle, limone, ecc.). Più elevata nei bambini e specialmente nelle femmine, l’avversione per i cibi amari diminuisce con l’età in entrambi i sessi (a partire dagli otto anni), e maggiormente negli uomini, mentre la preferenza per lo zucchero in forti concentrazioni riscontrata nei bambini tende a ridursi negli adulti (cfr. Bartoshuk 2000; Marconi et al. 2007: 5-6; Holley 2006: 167, 173). Nonostante l’incidenza di fattori genetici e di sviluppo specie-specifici ci predispongano alla nascita verso certi gusti piuttosto che altri, fattori esperienziali, sociali e ambientali interagiscono con essi modificando e diversificando i nostri gusti e disgusti. La caratteristica più spiccata delle preferen­121

ze gustative dell’uomo è difatti la plasticità e la variabilità (Fischler 2001: 110). D’altra parte non si può ignorare come l’avversione per l’amaro o l’acido possa tramutarsi al punto da farci apprezzare, specialmente da adulti, il caffè senza zucchero, il cioccolato al 100% di cacao, la birra, numerosi ortaggi amari, l’aceto e i sottaceti, il succo di pompelmo, la mostarda, i vini tannici, e altri alimenti dal gusto forte – o culturalmente riconosciuti adatti al gusto ‘adulto’ – come l’aglio, la cipolla, le olive nere o i cibi piccanti che con l’età tendono a essere meno impopolari. E viceversa come l’attrazione per il gusto dolce possa diminuire fino a non essere più particolarmente gradito da molti adulti. La possibilità di orientare precocemente le preferenze gustative è attestata dalle reazioni positive dei neonati di pochi giorni verso l’odore di anice o di altre spezie aromatiche presenti in alimenti consumati dalla madre durante le ultime settimane di gravidanza, laddove tale preferenza non si riscontra in neonati le cui madri non hanno assunto alimenti aromatizzati o speziati (cfr. supra, § 2.6.). È evidente pertanto quanto siano importanti le esperienze dei primi anni di vita per imparare ad associare le caratteristiche gusto-olfattive degli alimenti con le sensazioni di piacevolezza o di spiacevolezza conseguenti alla loro ingestione. Negli esseri umani la precocità dell’imprimersi dei ricordi olfattivi e gustativi connessi alla presa alimentare (per la scoperta di nuovi gusti è particolarmente importante il periodo che va dai sei mesi ai due anni ma, più in generale, sulla formazione delle nostre predilezioni alimentari influiscono molto le esperienze chemiosensoriali dei primi quattro anni di vita) spiega come certe avversioni acquisite nel corso dell’infanzia possano durare in alcune persone più di cinquant’anni, o addirittura per tutta la vita, e dimostra altresì la possibilità di condizionamento molto precoce del rifiuto per certi alimenti. È noto come in un bambino l’assunzione orale di un antibiotico aromatizzato alla frutta possa determinare una repulsione per quel tipo di frutta che lo accompagna per tutta la vita, nonostante il soggetto non conservi più alcun ricordo cosciente di ­122

quell’esperienza. Tra i molteplici fattori, spesso oscuri, che influiscono sulle scelte alimentari, le esperienze positive e negative sembrano particolarmente incisive. Se nell’atto di accostarsi a un alimento questo non è riconosciuto come familiare, nonostante si riveli palatabile, scatta un comportamento istintivo di rifiuto noto come neofobia. Nonostante il suo valore adattativo, la neofobia, una tendenza che compare verso i tre anni e culmina tra i quattro e i sette anni, si attenua nel corso dello sviluppo, in genere durante l’adolescenza: se così non fosse non faremmo mai esperienza di cibi e di sapori nuovi e ci perderemmo chissà quante prelibatezze. In tutti i casi, l’acquisizione di un ampio repertorio alimentare durante l’infanzia favorirà in seguito la diminuzione della reticenza verso nuovi alimenti. Più in generale, comunque, la familiarizzazione con una vivanda (attraverso la sua presentazione ripetuta e un aumento del piacere per la sua assunzione) e l’interazione sociale costituiscono il migliore antidoto contro la neofobia. L’attitudine a gustare un cibo non familiare aumenta, per esempio, quando si aggiungono aromi familiari ad alimenti nuovi (cfr. Fischler 2001: 113-115; Ton Nu 2001: 163-164, Sulmont-Rossé et al. 2003: 10). Un consumo cauto e misurato di nuovi cibi garantisce la possibilità di un’alimentazione variata, frutto di un apprendimento, con rischi di intossicazione minimi. L’influsso del contesto (familiare o dei coetanei), e in particolare del contesto affettivo in cui avviene la presa alimentare, contribuisce in una certa misura a incoraggiare al consumo di cibi nuovi, ampliando la gamma di alimenti accettati: i bambini, in genere, assumono più volentieri alimenti nuovi se li vedono consumare da adulti e da altri bambini con i quali hanno confidenza. Le influenze sociali e l’imitazione possono pertanto modificare i gusti. Se l’alimento in questione è gradito e non è accompagnato da malessere digestivo, viene riconosciuto come un segnale sicuro e questo ne aumenta il suo consumo a mano a mano che diventa familiare. Viceversa, se un nuovo sapore è associato a malessere (indigestione, nausea, vomito), l’uomo, ­123

come l’animale, lo rifiuterà non appena quell’alimento gli si ripresenterà, sviluppando un’avversione per quel gusto conservata nel tempo. Ricerche ormai classiche condotte dallo psicologo americano J. Garcia e dai suoi collaboratori a partire dagli anni Sessanta (1966, 1974, citate in Holley 2006: 181) hanno evidenziato come le avversioni alimentari vengano apprese attraverso una forma di condizionamento molto particolare (differente da quello pavloviano) e un’altrettanto peculiare forma di memoria consacrata alla presa alimentare, la cui funzione è complementare alla neofobia: una sola esperienza è sufficiente per apprendere ad associare le proprietà chimiche dell’alimento con le conseguenze negative della sua assunzione, anche quando l’intervallo di tempo tra l’assunzione del cibo (stimolo condizionale) e la nausea, il vomito e/o i dolori addominali (stimolo incondizionale) è lungo. Il gusto per il cibo può essere memorizzato dopo una singola o dopo ripetute esposizione a esso, specialmente quando la sua assunzione è associata a conseguenze piacevoli o spiacevoli per l’organismo. Quest’avversione condizionata al gusto può essere anche frutto di una pura coincidenza concomitante a una malattia, per esempio un’influenza virale: sicché prendere un’influenza subito dopo aver mangiato del salmone può determinare una repulsione per il gusto di questo cibo più o meno lunga, nonostante non esista alcun nesso causale tra l’indigestione del cibo e la malattia. È dunque facile comprendere quanto sia decisiva, dal punto di vista evolutivo, questa forma di memoria, soprattutto se ne consideriamo il ruolo fisiologico negli organismi animali e specialmente negli onnivori, le cui abitudini alimentari si sottraggono al determinismo genetico: permette di conservare e di rintracciare esperienze passate associate a un alimento. Attiva quando ci apprestiamo al consumo di un cibo, questa memoria associativa (come gli altri animali, impariamo a evitare un cibo che ci ha fatto star male per un meccanismo di associazione), ne influenza la percezione sensoriale e edonica attraverso l’espressione ­124

di associazioni cognitive e la generazione di aspettative, per configurarsi come un meccanismo adattativo infallibile con cui l’organismo viene dissuaso dall’ingestione di sostanze tossiche. Una volta acquisita tale forma di memoria possiamo avere un’anticipazione del gusto di un certo cibo semplicemente guardandolo e specialmente annusandolo. La sua azione molto comune è palese anche quando facciamo indigestione di un cibo a noi familiare e gradito, magari perché abbiamo esagerato con la quantità: l’avversione per quell’alimento può persistere per molti anni e anche solo pensare al suo odore può suscitare sensazioni di disgusto. La gradevolezza di un cibo o di una categoria di cibi (per esempio, alimenti salati) può variare altresì in relazione ai nostri bisogni nutritivi contingenti: così, il consumo di un alimento gradito e il desiderio di mangiarlo diminuiscono quando ne mangiamo a volontà, al punto che, una volta raggiunta la sazietà, quel cibo risulta sgradevole persino nel breve arco di un pasto, laddove altri cibi (per esempio, dolci) possono ancora avere un valore edonico. È proprio questo il bello dei dolci, «tutta la loro raffinatezza si coglie solo quando non li mangiamo per placare la fame, solo quando l’orgia di dolcezza zuccherina non soddisfa un bisogno primario, ma ricopre il palato di tutta la benevolenza del mondo» (Barbery 2000: 22). Noto come sazietà sensoriale specifica, questo fenomeno, come s’è già detto (supra, § 2.4.), interviene nella regolazione del consumo degli alimenti, con effetti sulla loro selezione e sulla decisione di terminare il pasto stesso1. Non dimentichiamo, tuttavia, che al di là della commestibilità biologica 1  Esiste anche il fenomeno della fame specifica, provocata da una mancanza prolungata di una o più sostanze nutritive necessarie all’organismo. Si tratta di una forma di ‘saggezza’ istintiva del corpo, di un comportamento compensatorio che ci incita a cercare un certo alimento di cui ci siamo privati per un po’ di tempo, per esempio in seguito a una dieta.

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degli alimenti, i nostri gusti e disgusti, tutto ciò che riconosciamo come ‘buono’ o rifiutiamo come ‘cattivo’, sono frutto di un’impalcatura sociale e culturale alla quale ogni individuo si adatta in modi che gli sono propri. Il rifiuto per alcuni cibi e la predilezione per certi altri obbedisce a necessità naturali ma specialmente a necessità e a regole culturali indipendenti dal gusto effettivo di quell’alimento e variabili geograficamente: secondo la nota formula sancita da Lévi-Strauss (1962, citato in Fischler 2001: 73), se un cibo viene pensato come ‘non buono’ da un gruppo sociale non sarà buono neanche da mangiare. Chi ama le lumache o il fegato può provare disgusto al solo pensiero di mangiare gli occhi di pesce o i vermi, tuttavia regolarmente consumati da altri popoli senza alcun rischio di intossicazione. Prerogativa della specie umana, questo disgusto ‘ideale’, manifesto specialmente nei confronti di sostanze animali, è legato a fattori cognitivi dipendenti dalle delimitazioni del repertorio di alimenti commestibili definite culturalmente2. 2  Cfr. Holley 2006: 149-152, 164-184; 1999: 156-172; SulmontRossé et al. 2003; Nicklaus 2003; Fischler 2001: 70-79, 89-115; Chu, Downes 2000; Le Magnen 1981-2001; Garb, Stunkard 1974.

Capitolo quinto

Tra palato e parlato

5.1. Saper mangiare e saper bere Se tutti gli organismi viventi si nutrono per prolungare l’esistenza, l’uomo, come s’è già detto, è l’unico ad aver tramutato l’atto di assimilare il cibo indispensabile al sostentamento nel ‘saper mangiare’, ovvero nel gustare inteso come apprezzamento sensoriale e ricerca costante della qualità, un’esperienza in cui il piacere si incontra con la conoscenza divenendo un atto culturale che coinvolge i sensi e il sapere. Per di più, il sapere del sapore raddoppia il piacere di gustare, un piacere multisensoriale consumato in compagnia e vivificato dal linguaggio, e migliora la qualità del nostro modo di stare al mondo: la scelta ponderata e la capacità di valutare rafforzano il godimento del palato, mentre la parola lo anticipa (quando qualcuno ci parla del sapore di un piatto o dei suoi ingredienti), lo fonda e ne accompagna la narrazione nel rito della convivialità. Per gli animali parlanti mangiare è un appetito governato dal pensiero e più specificamente dal ragionamento verbale, un’attività quest’ultima così pervasiva da rendere difficile l’individuazione di aspetti del nostro vivere, del nostro ragionare e del nostro agire che non ne siano in qualche modo impressionati, anche quando le parole non sembrano operarvi in modo esplicito. Il gusto ne è un esempio: solo ­127

noi umani concepiamo i cibi che mangiamo e sappiamo apprezzarli, scegliamo consapevolmente tra una vastissima gamma di prodotti alimentari, ragioniamo sulla nostra alimentazione, discutiamo sui cibi e sui nostri gusti, siamo consapevoli di quanto ciò che ingeriamo modifichi e determini il nostro essere e fondi la nostra identità. Parlare del cibo (del suo sapore, dei suoi aromi, del suo aspetto, dei suoi ingredienti, della molteplicità di sensazioni che impressionano il nostro palato scatenando emozioni diverse, interpretandoli in rapporto a percezioni passate) è un’esperienza cognitiva in senso lato. All’uomo perciò non basta assumere alimenti per sostentarsi o per saziarsi: egli li sceglie, li pensa, li elabora con uno sforzo creativo e con il gusto di sperimentare nuove armonie di odori e di sapori, li assapora con attenzione riconoscendone il valore e li racconta attraverso il linguaggio. Saper gustare presuppone il piacere della tavola e una serie di conoscenze messe in gioco in tutto ciò che precede il momento del consumo, dall’attenzione nella scelta qualitativa dei prodotti quando si fa la spesa, ai modi di cottura più adatti per quel piatto, alla scelta della compagnia con cui condividerlo e apprezzarlo. E poi ancora, avere consapevolezza che l’avventura gustativa non coinvolge solo la bocca ma tutti i sensi, specialmente olfatto, gusto e tatto, configurandosi come un’esperienza complessa tanto del corpo quanto della mente. Saper mangiare e saper bere però non è una prerogativa esclusiva di gourmet o di professionisti della degustazione, frutto di anni di pratica sul campo, di conoscenze teoriche, dell’acquisizione di un vocabolario specifico, di frequentazione di ristoranti stellati, di cantine e di vigneti, e di viaggi eno-gastronomici. Chiunque, seppure in modi diversi, può saper gustare prescindendo da conoscenze apprese intenzionalmente, da una formazione specifica o da un’educazione al gusto, perché capace di scegliere e di selezionare, perché attento alla qualità più che alla quantità di ciò che mangia e beve, capace di apprezzarla, curioso ­128

nell’accostarsi a nuovi sapori e nello stesso tempo legato ai gusti della tradizione, del territorio e della stagionalità. Checché ne pensino quanti (razionalisti di ieri e di oggi) ritengono l’atto fisico di assaporare un cibo e la soddisfazione conseguente estranei o addirittura pregiudizievoli alla conoscenza, l’attitudine a trasformare l’atto del mangiare in quel piacere di conoscere e di riconoscere con il palato e con il naso i valori culturali degli oggetti materiali assimilati, l’equilibrio dei loro ingredienti e il modo in cui sono stati cucinati, è una raffinatezza cognitiva sviluppata empiricamente fin dall’infanzia (momento chiave per la formazione del gusto) nel contesto socio-familiare, dove trovano culla gli odori e i sapori della cucina delle mamme e delle nonne. Oppure dipende da una sensibilità personale, da una capacità di percezione e d’interpretazione specifica sviluppata da adulti, stimolata da quel desiderio per il nuovo che porta a ricercare le gratificazioni del palato in quelle sfumature non percepibili da un gusto ordinario e a cogliere l’armonia complessiva di un piatto, una competenza affinata lungo tutta la vita fino a diventare una vera e propria pratica intellettuale. Sicché, solo per chi ‘sa gustare’, il cibo si trasforma da esperienza puramente materiale in nutrimento per l’intelletto: ma nonostante questa possibilità sia propriamente umana, non tutti i ‘sapiens’ sono poi così sapiens rispetto all’atto del gustare. Pensiamo a quanti mangiano distrattamente, senza usare la ‘testa’, senza selezionare, senza assaporare gli alimenti, senza cogliere le differenze e i particolari, senza comprendere ciò che mangiano, incapaci di controllare i propri gusti. A chi assume con noncuranza o indifferenza cibi privi d’identità, spesso insapori (per esempio cibi precotti o alimenti ipercalorici), di bassa qualità, ricchi di conservanti, additivi e coloranti, tipici del fast food, come il ‘cibo spazzatura’ (junk food) costituito da hamburger, maionese, sandwich, snack, patatine fritte, ketchup, salatini, merendine e bibite sintetiche, sovente consumati in piedi e frettolosamente, complice, ­129

come spesso si suole dire, la fretta ma soprattutto la disattenzione, il disamore e la mancanza dell’interesse e del piacere di gustare. L’esperienza in cui il gusto si fa pienamente conoscenza, erudizione, cultura è senza dubbio la degustazione, un’arte, una tecnica, ma anche un mestiere in cui l’atto istintivo del bere e del mangiare si converte in un atto volontario frutto di un’expertise, e specialmente di un saper fare linguistico. Parlare del gusto del vino, per esempio, costituisce, come si vedrà, un caso eccezionale di esperienza incredibilmente ricca, coinvolgente proprio i sensi pregiudizialmente considerati meno teoretici, giacché più di qualunque altro alimento il vino esige che le persone vi si esprimano in merito, mobilitando tutte le risorse linguistiche per caratterizzarne e descriverne profumi e sapori. C’è molta differenza tra il bere e il degustare. I buoni vini, i grandi vini – precisa Peynaud (1980: 14) –, non sono bevande che si ingeriscono: si assaporano; perciò non si bevono mai come si può fare con una bevanda dissetante, a grandi sorsi, per cogliere la sola sensazione tattile del liquido che rinfresca la gola. [...] Il gesto di bere il vino e il suo significato non sono quelli del bevitore istintivo, la tecnica del bere è molto diversa: si impara. [...] Risultato di molte fatiche di scienza e di pazienza, il buon vino, il grande vino, merita impegno da parte di colui che lo vuol conoscere, affinché giunga a lui, degustatore, il messaggio di coloro che l’hanno elaborato per il piacere degli altri. La degustazione serve a decifrare questo messaggio e a codificare le sensazioni gustative. Per bere è sufficiente il piacere fisico, per degustare ci vuole anche intelligenza e competenza.

5.2. Cosa significa degustare Cominciamo con qualche definizione. Degustare significa assaggiare e gustare con attenzione un prodotto per valutarne qualità e difetti, utilizzando in modo attento tutti i sensi, specialmente olfatto e gusto, il nostro impareggiabile ‘laboratorio di analisi’ delle caratteristiche organolettiche ­130

di cibi e bevande. Per diventare esperti in materia di degustazione è necessario un addestramento e un raffinamento dei sensi, l’esercizio della memoria, capacità di concentrazione, abilità linguistiche. Acquisita progressivamente, con gli studi e con la pratica, questa competenza in un dominio specifico prende il nome di expertise: l’esperto nella degustazione, cioè chi sa riconoscere la qualità di un particolare alimento (cioccolato, caffè, olio, formaggio, ecc.) o di una bevanda (vino, grappa, tè, acqua, ecc.) e sa parlarne, in realtà gusta due volte, ricercando il piacere alimentare e governandolo con la ragione. Sapere cosa si sta degustando e cosa cercare in una degustazione, basandosi su conoscenze pregresse e su attese, influenza sia la qualità sia il piacere della degustazione. Abilità costruita con un lavoro paziente e un’esperienza quotidiana di assaggio, con la passione e la riflessione costante, la complessa e delicata arte della degustazione, oltre a essere un’ottima palestra sensoriale, un esercizio di valutazione e di buonsenso, è in senso lato un’arte di vivere e di comprendere il mondo ascoltando le proprie sensazioni, in altre parole, una filosofia dell’esistenza. Degustare – scrive P. Poupon in Nouvelles pensées d’un dégustateur (1975: 34) – è leggere un libro lentamente, frase dopo frase, per trarne tutto il succo; degustare è ascoltare un concerto nel raccoglimento più profondo; degustare è contemplare un’opera d’arte, dipinto, scultura o monumento, lasciandosi impregnare dai suoi colori o dalle sue forme; [...] degustare è essere disponibili e aperti a tutto, è essere padroni di sé come dell’universo. In breve, saper degustare è saper vivere (la traduzione è nostra).

Esperienza sinestetica tra le più totalizzanti, degustare coinvolge la vista, l’olfatto, il gusto, il tatto orale, il sistema trigeminale, in qualche misura anche l’udito, e il linguaggio, determinando tuttavia un ribaltamento della classica gerarchia dei sensi. Se l’occhio e l’orecchio sono considerati i sensi più intellettuali e anche i più artistici, ­131

permettendoci di apprezzare le arti visive, plastiche e musicali, nella degustazione l’olfatto si prende la sua rivincita e diventa la più importante fonte cognitiva ed estetica, seguito dal gusto e dal tatto orale, poi dalla vista con un ruolo secondario d’introduzione all’assaggio, e marginalmente dall’udito. Degustare è altresì un’attività sociale e linguistica, anzi «la codificazione di una piacevole attività conviviale» (Gho, Ruffa 1993: 27), inadatta agli amatori solitari: un vino non si assaggia mai da soli ma confrontandosi con altri esperti o enofili, discutendo, cercando di interpretare e di attribuire un significato alle proprie percezioni, attraverso la ricerca delle parole più adatte a esprimere le sensazioni da esso provocate, attingendo a un vocabolario ricco, preciso ma di facile comprensione. Il settore di ricerca più studiato e avanzato nell’ambito della valutazione organolettica degli alimenti è indubbiamente quello del vino: non è un caso che il lessico della degustazione si sia sviluppato proprio dal vino e nel vino abbia trovato la sua articolazione più ampia. Enologi e sommeliers sono stati, infatti, i pionieri dell’analisi sensoriale. Per tale ragione, e per il nostro personale apprezzamento di questo alimento (tale da spingerci alcuni anni fa, solo per puro edonismo, a frequentare dei corsi di sommelier per accrescere la nostra conoscenza del vino e goderne con maggiore cognizione), ci concentreremo sulla degustazione del vino, un’arte antica arricchitasi di nuove conoscenze in tempi recenti e divenuta una branca del più vasto settore della moderna analisi sensoriale. La storia della degustazione coincide anche con la storia dei tentativi per definire un vocabolario comune di riferimento, convenzionalmente stabilito, per tradurre le impressioni sensoriali, per descrivere i profumi e i sapori dei vini e favorire la convergenza dei molteplici e talvolta discordanti punti di vista dei degustatori. Una terminologia specifica per descrivere il vino esisteva già nella Roma antica, dove gli haustores (da haurio, cioè bere, assaporare) i sommeliers dell’epoca, classificavano i ­132

vini, prima che fossero messi nelle anfore a invecchiare, con una terminologia variegata (dolce, soave, nobile, prezioso, delicato, consistente, fermo, austero, duro, debole, insipido, caldo, ecc.) e li assaggiavano durante le feste (le Vinalia) (cfr. Solci, Comoli 1999). Nel Medioevo, la Scuola Salernitana avrebbe dettato norme precise per degustare, ma solo dal Settecento, grazie al contributo di agronomi, di chimici e di enologi si amplificano le conoscenze enologiche e vengono pubblicati glossari sempre più ricchi e mirati. La definizione di assaggiatore viene precisata dai lessicografi solo alla fine del Settecento, ‘colui il cui mestiere è di degustare i vini’, mentre il termine ‘degustare’ appare nei testi ufficiali solo nel 1813. Nel corso del XIX secolo, con l’avvento della qualità, legato alla maggiore conoscenza della composizione dei vini e delle loro trasformazioni, il vocabolario della degustazione si arricchisce e si precisa ulteriormente, fino a comprendere oggi un migliaio di termini (cfr. Peynaud 1980: 12, 173-175; Gho, Ruffa 1993: 33). In genere si distingue il degustatore amatoriale da quello professionale: per il primo (un consumatore non esperto ma esigente) la degustazione è semplicemente un’esperienza edonistica, una ricerca del piacere estetico non affidata tuttavia al caso e svolta comunque nelle condizioni ottimali per apprezzare l’oggetto degustato; per il secondo (un assaggiatore esperto) la degustazione è uno strumento di ricerca, di controllo, di comparazione, finalizzato al giudizio, alla conoscenza del valore e non necessariamente riconducibile a un godimento emozionale. La degustazione amatoriale, diversamente da quella professionale che non deve rispecchiare il gusto personale dell’assaggiatore (o deve farlo il meno possibile), non mira all’apprezzamento obiettivo di un vino o di un cibo bensì a trarre da esso una soddisfazione sensoriale, un piacere soggettivo che nondimeno si moltiplica condividendolo con gli altri, scambiandosi sensazioni ed emozioni. L’assaggiatore professionista (enologo, sommelier, capo cantiniere, vinificatore, enotecario, ristoratore, tecnico delle commissioni ­133

deputate al controllo della qualità, critico enologico, autore di guide di vini, ecc.) può ricorrere, secondo le finalità (individuare qualità e difetti di un vino, valutarne la qualità, controllarne l’evoluzione, assegnarvi un punteggio in un concorso, stabilirne l’abbinamento con un cibo, ecc.) e del tipo di formazione, all’analisi chimica, un esame oggettivo effettuato attraverso metodi e strumenti di laboratorio con lo scopo di ricondurre odori e gusti ai loro rispettivi composti chimici, oppure alla degustazione valutativa o tecnica, ovvero all’analisi organolettica delle qualità di un vino (acidità, alcolicità, profumi, ecc.), uno strumento investigativo incomparabile, benché fortemente condizionato da fattori soggettivi. Attività cognitiva complessa di analisi, interpretazione, confronto, riflessione, descrizione, valutazione (come dimostra anche una ricerca sulla percezione neurologica del vino: Castriota Scanderbeg et al. 2003, citato in Cavalieri 2004, 2009: 197-198), basata soltanto sull’immediatezza delle conoscenze fornite dai sensi, la degustazione ha le proprie regole, una progressione temporale, una sintassi e specialmente una semantica. Articolata in tre fasi, l’esame visivo, l’esame olfattivo e l’esame gusto-olfattivo (comprendente l’esame gustativo e quello delle sensazioni finali gusto-olfattive), segue uno schema codificato e prevede diversi momenti: l’osservazione sensoriale, la descrizione delle sensazioni, la comparazione di un vino con altri vini conosciuti in relazione alle norme apprese, e infine il giudizio motivato. Essa coinvolge tanto il ragionamento induttivo quanto quello deduttivo: dalla percezione globale bisogna risalire alle singole sensazioni, scomponendo un’impressione complessa nelle sue singole componenti, individuando la natura, l’ordine, l’intensità degli stimoli che agiscono sui nostri recettori sensoriali; e ancora, registrare anche le minime variazioni d’intensità di un colore, di un aroma, di un sapore, per poterne cogliere le differenze, ricomponendo poi questo lavoro di analisi in un giudizio finale sintetico che conservi la totalità espressiva del vino. ­134

Se la vista ci svela le prime impressioni sul vino, leggendo nel suo aspetto numerose informazioni sulla sua salute, sul suo stato evolutivo, sulla sua alcolicità, sulla sua struttura e sulla sua tipologia, l’olfatto e il gusto, in successione, scoprono e in genere confermano ciò che l’occhio ha annunciato. Il ruolo più difficile e intrigante spetta indubbiamente al naso, «l’organo principale della degustazione» (Peynaud 1980: 27, 57; cfr. anche Poupon 1975: 45), coinvolto tanto nell’identificazione degli odori di un vino quanto in quella degli aromi di bocca al momento dell’assaggio (indispensabile per individuare eventuali difetti del vino, e soprattutto per verificarne e poi apprezzarne le caratteristiche di tipicità che complessivamente determinano il ‘profumo del vino’) e infine nella descrizione della natura dei profumi e dei sapori, mentre il gusto propriamente detto ha una parte modesta limitata ai quattro sapori fondamentali e alle numerose sensazioni tattili e termiche (necessario per valutare l’eventuale presenza di sapori anomali e specialmente di alterazioni e, cosa ancora più importante, la struttura del vino e l’equilibrio dei sapori di base)1. Atto conclusivo della degustazione, in sinergia con l’olfatto, il gusto svolge nondimeno un lavoro di sintesi e di valutazione dell’equilibrio complessivo di un vino: «è durante la deglutizione che il vino si espande in tutta la sua dimensione. Se in questo istante si apre colmando bocca e retrobocca con la sua opulenza e rivelando una bella persistenza di sapori e aromi, allora potete stare certi che state gustando un grande vino» (Bernardo 2005: 107). 1  La complessità dell’esame olfattivo aumenta ulteriormente quando viene applicata alla degustazione dell’acqua, un elemento considerato in genere inodore e insapore. Diversamente dal vino, dotato di una ricchezza olfattiva più o meno pronunciata, per conoscere l’acqua il lavoro del naso è invece decisivo per individuare eventuali difetti (odori anomali) o problemi legati a un cattivo stato di conservazione, e per verificare altresì le cosiddette ‘caratteristiche positive di tipicità’ e la corrispondenza di tipologia (cfr. Oltolini 2010).

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L’infinita gamma d’impressioni sensoriali, di aromi e di sapori naturali sprigionati dal divino nettare (ricerche recenti parlano addirittura di un migliaio circa di componenti aromatiche diverse), frutto di un perfetto equilibrio fra la natura e la mano sapiente dell’uomo, ne fanno un oggetto molteplice e variegato ma durevole, perché dotato di una certa capacità di conservazione nel tempo, sebbene soggetto a trasformazione: ecco perché, per usare le parole di Enrico Bernardo (detentore del premio di miglior sommelier al mondo nel 2004), «la degustazione è una lunga partita a scacchi dalle infinite combinazioni» (2005: 19), un gioco accattivante, quotidiano, in cui non accade mai di annoiarsi, e pertanto un piacere che si rinnova senza sosta. Ogni vino racconta una sua storia particolare a chi sa mettersi in ‘ascolto’: così degustare, ovvero «leggere nel vino, compitando le sillabe» (Peynaud 1980: 31), attribuendo significato ai segni dell’alfabeto organolettico, cioè alla complessità di odori e sapori in esso racchiusi, è un’occasione sempre nuova di arricchimento delle conoscenze. Per fare ciò, una delle abilità richieste ai degustatori professionisti è la formazione di una solida memoria e intelligenza olfattive, la costruzione di un archivio di odori attraverso un esercizio costante, protratto nel tempo, ‘ficcando il naso’ dappertutto, in ogni stagione, con le narici sempre all’erta in natura (tra fiori, frutti, spezie, erbe aromatiche, piante, legni), in cucina, in profumeria, in farmacia, al mercato di orto-frutta e persino allo zoo (Moisseeff, Casamayor 2006: 11; Peynaud 1980: 192). L’obiettivo è imparare a classificare e poi a riconoscere e a identificare nel vino, in tempi più o meno brevi, una vastissima gamma di odori. La memoria olfattiva è in realtà il pilastro della degustazione: si può riconoscere e identificare solo ciò che si è già sentito e registrato in memoria (tanto più se un odore è legato ad avvenimenti affettivi o edonici), ancora meglio se associato a un nome che ne faciliti il recupero. La finissima capacità di discriminazione degli odori e dei sapori esibita dagli assaggiatori professionisti, un esercizio di alta acro­136

bazia, per il naso in particolare, richiede altresì una memoria agile, per ritrovare in pochi istanti, nel proprio archivio personale i tratti gusto-olfattivi del vino che si ha in bocca. Il criterio adottato è quello del riconoscimento per analogia con altri odori conosciuti, riconducibili a grandi famiglie (e ai relativi sottocomponenti) così classificate: floreale, fruttata (frutta fresca, secca, confettura), vegetale, speziata-aromatica, empireumatica (tostato), animale, eterea, chimica, balsamica, legnosa, sentori diversi (miele, burro, lieviti, crosta di pane, ecc.). Contestualmente è necessaria l’acquisizione di un lessico della degustazione, stabilito per convenzione, di una terminologia negoziata e regolamentata ai fini della comprensione reciproca degli esperti e della condivisione di un’esperienza sensoriale soggettiva: è facile comprendere perché gran parte degli sforzi di questa disciplina si siano indirizzati alla codifica di un linguaggio professionale. Il lungo e costante addestramento degli assaggiatori non elimina tuttavia gli scogli della degustazione. La soggettività è uno dei problemi più grossi: la percezione degli odori e dei sapori è influenzata dalla storia personale di un individuo, dalle sue esperienze, dai suoi ricordi autobiografici (‘questo mi ricorda...’, ‘questo è come...’, ‘questo sa di...’), dai suoi studi, dalle sue preferenze, e ciò determina enormi differenze interindividuali nell’interpretazione delle sensazioni prodotte dallo stesso stimolo, come nei descrittori utilizzati, e persino differenze nello stesso soggetto in contesti diversi. Si aggiunga la variabilità da un degustatore all’altro della soglia di percezione e specialmente di quella d’identificazione (intendendo con soglia la quantità minima di una sostanza necessaria affinché venga percepita e, in seguito all’addestramento, identificata con precisione, cioè denominata). Il dominio gusto-olfattivo non è quindi infallibile, questo spiega la necessità di una codifica quanto più precisa delle condizioni della degustazione: l’ora, il luogo, la forma del bicchiere, il linguaggio e il ricorso a un gruppo di assaggiatori per ridurre le ­137

variabili personali. Non potendo misurare né gli odori né i gusti, diversamente da colori e suoni, la degustazione si fonda soltanto sulle sensazioni ricevute da un individuo, comparate a quelle già archiviate in memoria, associate in genere a particolari situazioni materiali ed emozionali: sicché, ciascun professionista non può del tutto astrarsi dalle memorie idiosincratiche e personali, in particolare dal ricordo degli odori appresi nell’infanzia. Così, per esempio, una particolare nota olfattiva di stantio può rievocare l’odore del ripostiglio della nonna: ecco perché in una degustazione c’è sempre un residuo irriducibile di soggettività non condivisibile con chiunque altro. D’altro canto però le divergenze dei giudizi conducono alla discussione, al confronto, indispensabili per ridurre il più possibile gli errori di valutazione e giungere a quella condivisione di un certo sapere sul vino degustato, che è poi l’obiettivo ultimo della valutazione organolettica. È interessante notare che se un vino scadente, così come un vino memorabile, in genere mette tutti d’accordo, i giudizi divergono più frequentemente di fronte a un buon vino. Il paradosso della degustazione, osserva Peynaud (1980: 18), è la sua tendenza all’oggettività attraverso l’impiego di mezzi soggettivi. La rispettiva influenza di questi due aspetti sulla valutazione del prodotto degustato è variabile anche in funzione dei differenti scopi della degustazione: in quella edonistica prevalgono le espressioni linguistiche evocative, in quella tecnica c’è una maggiore padronanza e consapevolezza del senso del lessico utilizzato. Nondimeno, l’accesso alle qualità oggettive di un vino non viene certo compromesso dall’esperienza soggettiva della degustazione: i gusti sono proprietà reali e intrinseche di un vino, indipendenti da chi li percepisce, la degustazione è invece l’esperienza che un soggetto ha del vino e che lo rende accessibile. L’imprescindibile soggettività delle sensazioni non impedisce comunque agli assaggiatori di ricavare informazioni oggettive sui vini degustati (cfr. Smith 2007). ­138

Il momento più complesso e coinvolgente dell’esame olfattivo è la discriminazione e la descrizione delle note aromatiche percepite in un vino, distinte in profumi primari (in genere profumi molto freschi di frutta e di vegetali, provenienti dal vitigno e dalle uve, in particolare da quelle aromatiche come il Moscato, il Gewürztraminer o la Malvasia), profumi secondari (tipicamente giovanili, sprigionati durante il processo di fermentazione alcolica grazie all’azione dei lieviti: frutta fresca, lievito, burro, crosta di pane, ecc.), profumi terziari (derivati dall’evoluzione degli aromi nel corso dell’invecchiamento del vino prima in botte e poi in bottiglia: profumi speziati, eterei, animali, di frutta secca, di fiori secchi, di tostatura, ecc.), definiti bouquet per la loro complessità e tipici dei vini di classe. La gradevolezza del profumo di un vino è solitamente indice di qualità, nonostante dietro a un naso promettente possa esserci un vino corto (cioè con una debole persistenza gusto-olfattiva), mentre un vino con poco naso possa viceversa rivelare la pienezza gustativa di un vino giovane. Nella degustazione, l’odore ci permette di capire cosa c’è nel bicchiere, ci racconta da quale vitigno un vino è stato prodotto, ci dà informazioni sui componenti fisici del terreno e sulla vendemmia, ci dice se è fresco, se è giovane e fruttato, se è affinato in legno, ecc. Ecco perché è fondamentale allenare l’olfatto assaggiando quanto più vini possibili. La conoscenza del vino passa poi dalla sua espressione, legata all’acquisizione di un’expertise verbale: l’assaggiatore deve tradurre con un linguaggio chiaro e appropriato le sensazioni del naso e del palato, è tenuto a trovare le parole giuste che, senza tradirlo, traducano e trasmettano la sottigliezza aromatica del vino degustato e la sua storia, parole che abbiano lo stesso significato anche per gli altri assaggiatori. Si giustifica così la rivendicazione di un sapere formalizzato, oggettivo e condiviso. Per descrivere un odore, l’unica possibilità, come s’è già detto, è procedere per analogia con un odore conosciuto, che gli assomigli e ­139

che lo evochi. I paragoni sono tuttavia astratti, se pensiamo che quando si parla per esempio di un odore di rosa o di un odore di pesca, nonostante tutti sappiano di cosa si tratta, in realtà non si specifica di quale varietà particolare di rosa o di pesca. Eppure ciascuna di esse ha un proprio odore. Nella descrizione olfattiva è dunque inevitabile un certo margine di approssimazione, tanto più che i vini, specialmente quelli di grande qualità, non hanno odori semplici bensì profumi, cioè composti di aromi dove gli odori tendono a coprirsi reciprocamente. Come suggeriscono alcune ricerche in ambito psicologico, anche per gli esperti la difficoltà maggiore non sta tanto nell’identificare singoli odori, quanto piuttosto nell’identificare e nel descrivere gli odori di un miscuglio complesso come il vino (cfr. Jinks, Laing 2001). Se l’atto del bere non richiede alcun commento, al più di un vino si dice che ‘è buono’ o ‘è cattivo’, l’arte del degustare è invece un’attività di natura sociale e necessariamente parlante: «un gran vino ha questo di meraviglioso: stabilisce un contatto immediato tra gli uomini che lo bevono. A tavola, la sua degustazione non può essere solitaria, e non si può berlo senza dirne niente» (Peynaud 1980: 173). Tuttavia, una delle più grandi difficoltà per chi degusta sta proprio nel trovare le parole adatte a descrivere correttamente ed efficacemente le impressioni del palato e specialmente quelle del naso, un compito la cui difficoltà è legata alla mancanza di un vocabolario specifico per gli odori e alla scarsa abitudine, almeno nella cultura occidentale, a parlare delle nostre sensazioni olfattive più in generale e di quello che mangiamo e beviamo in particolare. Chi non si è sentito impotente nel dover definire i componenti così diversi e fugaci del bouquet di un grande vino? Quando si vuole parlare in modo approfondito di un vino, ci si scontra subito con la povertà dei mezzi di espressione, con la barriera dell’inesprimibile; si vorrebbe poter dire l’indicibile. Noi assag­140

giatori ci sentiamo traditi dal linguaggio, perché ci sembra impossibile descrivere un vino senza semplificarne e deformarne l’immagine. Non resta che un’abile risorsa: giocare con il valore evocatore delle parole (Peynaud 1980: 170).

I limiti espressivi del linguaggio, specialmente nei confronti di esperienze soggettive come parlare di un odore o di un sapore, sembrano sfidare quel principio dell’onniformatività delle lingue (Hjelmslev 1943: 117) secondo cui non esistono ambiti di senso inesprimibili con le parole. In realtà questo principio, almeno nella sua versione ‘forte’, è quotidianamente messo alla prova da chiare evidenze di tali limiti tutte le volte che vogliamo dar voce alle sfumature delle nostre esperienze sensoriali, emotive o estetiche. Le lingue medesime nondimeno ci mettono a disposizione le loro risorse più creative per affrontare il problema, mostrando l’operosità dell’onniformatività linguistica. Così per superare il fenomeno dell’odore ‘sulla punta del naso’ e della parola per descriverlo ‘sulla punta della lingua’ (il riconoscimento della familiarità di un odore è accompagnato dalla difficoltà a identificarlo e quindi a denominarlo – Lawless, Engen 1977, Engen 1982, citati in Cavalieri 2009: 165), e sopperire alle lacune del linguaggio letterale, tutti gli assaggiatori professionisti, e in particolare i sommeliers, autentici «nasi linguistici» (Cavalieri 2009: 181), costruiscono nuovi significati, ne ridefiniscono altri, facendo ricorso a espressioni improvvisate, ambigue e imprecise, a metafore e ad analogie, per dire e per condividere le loro opinioni su un vino altrimenti inesprimibili. Checché ne sembri ai non addetti ai lavori osservando un professionista all’opera, il linguaggio della degustazione, tutt’altro che oscuro, bizzarro o immaginifico, trasforma parole abituali in un senso figurato ed evocativo o le arricchisce di nuove accezioni, e con esse tenta di accerchiare la verità sempre sfuggente di un vino e del suo vissuto. Si tratta di un metalinguaggio tecnico codificato (descrittivo), ampio e rigoroso, ma anche poetico, metafo­141

rico e sinestetico, i cui termini devono rinviare a un significato o a un riferimento comune, per soddisfare le necessità comunicative di un settore specialistico, evitando derive semantiche. Ricerche sperimentali condotte nell’ambito della psicologia cognitiva attestano, al riguardo, la superiorità degli assaggiatori esperti rispetto ai non esperti nei compiti di discriminazione e maggiormente in quelli di descrizione dei vini. Tale superiorità potrebbe dipendere da una migliore attitudine degli esperti a utilizzare descrittori precisi, riconducibili a un lessico formalizzato da essi condiviso (cfr. Valentin et al. 2003; Chollet, Valentin 2000; Salomon 1990). Segno di civilizzazione e di cultura, saper riconoscere e apprezzare un buon vino o un buon piatto non è poi tanto diverso dal saper valutare un buon libro o un’opera d’arte (Poupon 1975: 59). In questi casi «le parole vanno usate come le stazioni di un viaggio: momenti di sosta per rifocillarsi dopo il tempo passato sulla strada a osservare il paesaggio» (Sangiorgi 2011: 88). 5.3. Parole per gustare e degustare Se la mancanza di un vocabolario specifico degli odori e la povertà del linguaggio con cui descriviamo l’esperienza olfattiva, almeno nelle lingue occidentali2, ci costringe a definirli genericamente come ‘buoni’ o ‘cattivi’, a parlarne in modo vago, opaco, impreciso, denominando la fonte (odore di rosa, di terra bagnata, di burro), ricorrendo ad analogie affannate, ad associazioni soggettive (‘mi ricorda l’odore di lavanda dei cassetti della nonna’) o a metafore sinestetiche (espressioni linguistiche che utilizzano termini riguardanti una modalità sensoriale per riferirsi a un’al2  Per alcuni esempi di lessico olfattivo specifico nelle lingue di culture extraoccidentali cfr. Cavalieri 2009: 178-181 e la letteratura etno-antropologica sull’olfatto ivi citata.

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tra, per esempio: un aroma ‘dolciastro’, una nota ‘aspra’ o ‘pungente’, un odore ‘secco’), quanto al gusto invece disponiamo di parole specifiche – seppur di numero limitato a fronte dell’infinità dei sapori – con cui esprimere almeno alcune sensazioni fondamentali del palato: parole come dolce, salato, acido, amaro, sapido, astringente, piccante, acre, aspro, grasso, saporito, scipito, rancido. La degustazione addirittura ha un lessico ricco e preciso, un linguaggio settoriale (varietà di una lingua naturale utilizzata nell’ambito di attività professionali da un gruppo ristretto di parlanti) grazie al quale il professionista può parlare degli odori, dei sapori e dell’aspetto di un vino in modo appropriato e preciso3. Ma vediamo più da vicino quali sono le parole per descrivere le diverse qualità di un vino. Si tratta prevalentemente di termini aggettivali semplici, per esempio ‘limpido’, ‘floreale’, ‘astringente’, ‘imprevedibile’, ‘leggiadro’, o composti, come ‘rosso rubino’, ‘giallo paglierino intenso’, di sostantivi come ‘tessuto’, ‘nerbo’, ‘struttura’, ‘carattere’, ‘evoluzione’ e di gruppi nominali attributivi come ‘naso povero’, ‘naso fine’ o ‘bocca rotonda’. Sotto il profilo semantico, gran parte di questi aggettivi e sostantivi sono parole di uso e di significato comune rideterminate in senso tecnico e arricchite di nuovi sensi attraverso l’assegnazione di un significato specifico, esito di artifici retorici e linguistici che generano metafore, sinestesie (accostamento di due termini appartenenti a due diverse sfere sensoriali: ‘un vino vellutato’) e similitudini (odore di rosa, sapore di miele, o espressione del tipo ‘avvolgente come un tessuto’) di grande efficacia linguistica e descrittiva: un termine come ‘leggiadro’, per esempio, si fa interprete del «diffondersi del liquido sulla lingua e nell’intero cavo orale senza   Per esempio, per un’analisi semantica dettagliata del lessico della degustazione dello champagne cfr. Normand 2002. 3

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una pressione particolare su un punto. È come se il vino riuscisse a sollevarsi» (Sangiorgi 2011: 127-128). D’altra parte, se è vero che i fenomeni sinestetici e quelli metaforici trovano campo fertile lì dove la monosensorialità perde terreno (Werner 1934, citato in Mazzeo 2005: 302), il ricorso alle metafore e alle sinestesie è assolutamente naturale quando si parla di un’esperienza polisensoriale come il gusto del vino. È inevitabile, pertanto, che il linguaggio venga impressionato dall’esperienza corporea conservandone le tracce: le metafore per descriverlo sembrano avere una connessione naturale con le qualità sensoriali e percettive dell’esperienza stessa e in taluni casi si sostituiscono alla percezione. Si pensi al termine ‘puntuto’ (che indica una spiccata acidità), capace di tradurre e di trasmettere in modo realistico una sensazione di durezza e al contempo di incisività gustativa; al termine ‘accogliente’, per dire la capacità del vino di fondersi con la lingua, di fasciarla come un morbido drappo, senza riuscire stucchevole; ai termini ‘tessuto’ e ‘trama’, riferiti al corpo del vino e alla presenza di tannini, e usati per descrivere e ‘incarnare’ la sensazione tattile del liquido all’interno della bocca; oppure a ‘ingombrante’, termine usato in un’accezione negativa per esprimere la sensazione di intralcio prodotta da «alcuni vini che arrivano in bocca e ci lasciano senza respiro» e invocano «la necessità dello sgombero» (Sangiorgi 2011: 123). I termini di base per narrare le proprietà di un vino includono parole riguardanti il colore, l’aspetto, il bouquet e l’aroma, il gusto e le sensazioni tattili, e ancora, parole per esprimere l’equilibrio gusto-olfattivo, lo stato evolutivo e la valutazione complessiva. Ci sono termini semplici e precisi per tradurre sensazioni concrete come l’acidità, la dolcezza, la sapidità, l’astringenza, l’odore di acido acetico, comprensibili a tutti, termini intuitivi come quelli riferiti alle famiglie aromatiche (‘floreale’, ‘fruttato’, ‘speziato’) ed espressioni approssimative ma convenute, e tuttavia ricche di significato, per tradurre sensazioni più ­144

sottili, per descrivere più puntualmente un odore o un sapore, o esprimere un giudizio. In quest’ultimo caso, il lessico è l’esito di trasferimenti o di estensioni del significato di una parola al fine di attribuire al vino qualità che, diversamente da tratti più ovvi, come la gradevolezza o la sgradevolezza, l’insipidità o la dolcezza, sembrano non appartenere al mondo del vino, pur essendo reali perché percepite da tutti gli esperti: parole come elegante, raffinato, seducente, ordinario, modesto, povero, decrepito, amabile, generoso, leggiadro, nervoso, vigoroso, franco, sincero, onesto, ampio. Ci sono parole che, ascrivendo al vino caratteristiche antropomorfe, alludono all’aspetto fisico di una persona, a parti del corpo, a tratti della personalità, a virtù umane, all’età, altre invece si riferiscono alla forma, alla misura, al peso o addirittura alle caratteristiche di un tessuto. Per descrivere, ad esempio, il ‘corpo’, ovvero l’architettura o la struttura generale del vino (determinato dalla presenza degli estratti, componenti non volatili che formano l’ossatura del vino: acidi fissi, zuccheri, sali minerali, glicerina, ecc.), percepito attraverso il tatto orale, si usano parole come robusto, pesante, potente, forte, grosso, pieno, duro, oleoso, viscoso, che ne definiscono la consistenza, e viceversa termini come magro, sottile, leggero, delicato, arido, vuoto, molle, liso, per riferirsi alla costituzione insufficiente o leggera; o ancora descrittori più recenti che riflettono il nostro attuale interesse per il fitness come muscoloso, carnoso, massiccio, snello, nerboruto (metafore che servono a cogliere la dimensione atletica del vino come se il suo ‘corpo’ fosse un corpo allenato), oppure importati dall’ambito degli artefatti come scolpito, ben costruito, fabbricato, levigato. Di un vino robusto si dice anche che ‘ha stoffa’, ‘trama fitta’, ‘lunga vita’ oppure che è virile. Si parla altresì di ‘vestito’ del vino riguardo al colore, di ‘grana’ delle bollicine per indicarne la dimensione (grossolana, abbastanza fine, fine), di ‘archetti’, di ‘lacrime’ o di ‘gambe’ del vino per ­145

riferirsi a quelle gocce che per effetto dell’alcol scendono lentamente lungo il vetro (formando curvature più o meno regolari) quando si fa roteare il vino nel bicchiere, e ancora, di vino velato quando è opalescente, limpido quando non presenta alcun tipo di deposito, brillante se possiede anche una particolare lucentezza. Ci sono poi parole che, pur avendo accezioni neutre nel linguaggio comune, rapportate al vino diventano negative, per esempio ‘industriale’ o ‘costruito’, oppure parole comunemente negative che attribuite al vino hanno un’accezione positiva. Si pensi al termine ‘cattivo’, da non intendere nel senso di malvagio e neppure di scadente: la ‘cattiveria’ del vino, una caratteristica, scrive S. Sangiorgi (2011: 102), che tutti i vini dovrebbero possedere in una certa misura, legata all’acidità e in parte al tannino, è sinonimo di grinta e di determinazione. L’equilibrio gustativo, frutto di una giusta proporzione tra morbidezza (zuccheri, alcoli e polialcoli come la glicerina) e durezza (acidità e tannini), tra calore e freschezza, variabili in relazione alla tipologia di vino, viene espresso con un lessico multiforme: armonico, bilanciato, rotondo, se è ben costruito, squilibrato o disarmonico quando è scarno, disossato, dissociato. In quest’ultimo caso, un vino può presentare un gusto aggressivo, spigoloso, angoloso, duro, tagliente, appuntito, arido, grezzo, rude, secco se prevalgono la componente acida e/o i tannini a scapito di alcoli e polialcoli; nervoso se è ricco in alcol e in acidità, generoso se ha un buon tenore alcolico; fresco, vivace, se ha una piacevole acidità; piatto, molle, floscio se ha una scarsa acidità, corto se è eccessiva (corto si dice anche di un vino con scarsa persistenza gusto-olfattiva). Sempre riguardo al gusto e alle sensazioni tattili, per parlare della morbidezza di un vino si dice che è vellutato, morbido, soffice (come fosse un tessuto), gentile, rotondo, scorrevole, beverino, quando si ha l’impressione che accarezzi il palato grazie a una buona presenza di zuccheri e di alcoli e a una moderata acidità, pastoso quando è ricco di glicerina. Un vino è invece dotato ­146

di slancio quando nelle sensazioni tattili finali «prima del distacco definitivo [...], riesce a dare il ‘colpo d’ala’, non lasciandoti indifferente» (Sangiorgi 2011: 143). Per descrivere i numerosi sapori tannici, cioè le sensazioni tattili di amarore e di astringenza, e le loro sfumature, si ricorre a parole come tannico, astringente o allappante, ma anche rude, ruvido, asciutto, grossolano; mentre è severo un vino ricco di tannini e di acidità: il Barolo e il Riesling, per esempio, hanno questa vocazione. Si definisce poi ‘nobile’ il tannino dei buoni vitigni, ‘morbido’ quello dei vini invecchiati e quando un vino ha un buon tannino, coniugato a una buona acidità, si dice che ‘ha un seguito’; invece se il suo gusto tannico è molto carico si ricorre a una similitudine: ‘ha sapore d’inchiostro’. Oltre ai cambiamenti di significato, nel vocabolario del vino è facile notare relazioni semantiche di vario tipo, in particolare l’uso di molti sinonimi, specialmente nell’ambito delle sensazioni gustative (per esempio: pesante, robusto, solido, massiccio, muscoloso, corpulento per i vini ‘di corpo’), di iponimi (inclusione di un termine in un altro più ampio e generico: floreale: viola, acacia, ecc.) e di antonimi (rapporti di opposizione tra termini di significato contrario o contraddittorio e graduabili: corto/lungo, pesante/leggero; carente, poco complesso, abbastanza complesso, complesso, ampio, ecc.). Quanto alla descrizione olfattiva, indubbiamente la più complicata ma anche la più appassionante, i profumi vengono denominati attraverso similitudini riconducibili a una serie di classi e di sottoclassi, per esempio: fruttato (frutti di bosco, pera, prugna, ecc.), floreale (acacia, violetta, ecc.), erbaceo (foglie, mallo di noce, tartufo, ecc.), etereo (smalto, ceralacca, pietra focaia, ecc.), tostato (cioccolato, caramello, ecc.), speziato (cannella, pepe nero, chiodo di garofano, ecc.), animale (pelliccia, pipì di gatto, selvaggina, ecc.), e così via. L’intensità, la complessità e la qualità olfattive hanno un repertorio di descrittori altrettanto ricco. Un vino, per esempio, si dice intenso quando i suoi aromi si avvertono bene o ha una buona spinta gu­147

stativa (l’intensità può riferirsi anche alla forza del colore), neutro o povero se ha un odore debole, complesso o addirittura ampio quando è ricco di profumi (ha ‘buon naso’), chiuso, timido o muto quando al naso ‘non si esprime’, ‘non dice nulla’; franco, netto, sincero, leale, quando ha un profumo pulito che non lascia dubbi sulle sue caratteristiche intrinseche; fine, elegante, eccellente, relativamente alla gradevolezza del suo aroma, comune o poco fine quando non impressiona il naso (aggettivi, questi ultimi, riferiti anche alla qualità gusto-olfattiva di un vino). Infine, in relazione allo stato evolutivo del vino, ovvero alle sue caratteristiche di ‘giovinezza’, indici della qualità in rapporto al grado di maturazione, si parla di vino precoce quando matura rapidamente, immaturo quando è troppo giovane per valutarne le qualità organolettiche, giovane è un vino pronto al rapido consumo e non destinato all’invecchiamento (il novello, per esempio, è il vino giovane per antonomasia), pronto quando è bevibile ma ancora in evoluzione, maturo o stagionato quando ha raggiunto le sue potenzialità e la sua armonia, cioè la piena evoluzione; vecchio si riferisce a un vino con evidenti cedimenti di una o più caratteristiche. Quando un vino ha concluso il suo ciclo evolutivo si dice che è esausto, decrepito o addirittura morto (cfr. Peynaud 1980: 176-201; Marzi 1995: 97-141; Leher 2007)4. 5.4. Sulle labbra di Bacco Narrare un vino (descriverne le caratteristiche sensoriali partendo dall’aspetto e dal colore, poi dall’odore e per ultimo dal sapore e della persistenza, concludendo con un giudizio finale) è un compito complesso che ogni degu4  Un vocabolario del vino segnato da una forte impronta innovativa ci offre ora il manuale di degustazione di S. Sangiorgi (2011): un modo originalissimo di raccontare le parole del vino e la loro elezione nel lemmario.

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statore svolge in modo personale, con uno stile proprio, e in forme diverse anche in relazione alle finalità dei commenti. La sbalorditiva varietà di questa bevanda contribuisce poi a conferire a ogni degustazione quel carattere di unicità che la preserva da descrizioni conformi e dalla monotonia di giudizi troppo omogenei. Il ricorso a metafore e a espressioni evocative codificate nel linguaggio dei degustatori conferisce tuttavia ai racconti di vini un’eloquenza e una chiarezza indiscutibili, affatto oscurate dallo stile soggettivo e spontaneo conservato comunque da molti assaggiatori poco inclini a osservare schemi rigidi di valutazione. Riportiamo a titolo esemplificativo alcuni commenti gustativi tratti da manuali di degustazione e da riviste del settore, descrizioni destinate in genere a presentare i vini a un pubblico di enofili (amatori o aspiranti sommeliers) o note di degustazione su vini-testimoni. Nelle schede che seguono è possibile apprezzare modi diversi di incontrare e di raccontare un vino. Docg Barolo Le Coste, Giacomo Grimaldi, 2001 Grandissimo vino ottenuto dalla bella vigna Le Coste da cui Ferruccio Grimaldi riesce a estrarre la quintessenza del nebbiolo. Il 2001, come il 1999, è stata un’annata praticamente perfetta, che ha prodotto un vino di piena struttura, ricco di colore e con un buon equilibrio tannino-acidità. Il rosso rubino con lievi riflessi granati introduce alla bellezza dell’esame visivo. Il bouquet ampio e aperto sprigiona profumi di ciliegia nera, pepe nero, viola e more selvatiche. Dopo una certa ossigenazione del vino, si percepiscono sfumature di terra bagnata e funghi freschi. La struttura intensa e di corpo è in perfetta armonia con il bouquet, i tannini morbidi ed equilibrati accarezzano il palato, la generosa morbidezza apporta equilibrio. Il finale di bocca è fresco e giovane. Sicuramente è un vino dal lungo invecchiamento, ma la sua eleganza può già essere apprezzata (Bernardo 2005: 125). Pétrus 2001 Il colore presenta una tinta rosso rubino, arricchita da lievi riflessi porpora. Il bouquet, timido e discreto, lascia presagire un’intensa ricchezza interiore. Il ventaglio di profumi si compone di

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note mature, di mirtillo e di burro. Ma si trovano anche tracce di lampone e di rosa, caratteristiche di una climatologia fresca. In bocca si dimostra un vino equilibrato con una struttura armoniosa nella quale morbidezza, leggerezza e tannicità si fondono perfettamente. Se dovessi riassumere i caratteri di questa annata con un’immagine sceglierei una sfera. Gli ingredienti che fanno la grandezza di un vino vi sono saldamente riuniti insieme. Possiamo fin d’ora dire che questo Pétrus avrà senz’altro un eccellente sviluppo nel tempo (ivi: 158). Soave Classico Superiore Calvarino 1999, Leonildo Pieropan Soa­ ve (Vr) All’aspetto si presenta brillante e luminoso, con colore giallo paglierino non troppo carico e accenni che virano su nuances verdoline. Agitandolo nel bicchiere si delineano archetti ben pronunciati che annunciano un vino di buona stoffa e decisamente grasso. Passando all’esame olfattivo si evidenzia immediatamente la freschezza del vino, cui seguono sentori fruttati abbastanza intensi, con note floreali a completare il bouquet. Pera e mela, seguiti da piacevoli note mielose di acacia, si avvertono e si distinguono nella complessità olfattiva di questo Soave, che nel finale offre leggeri e freschi sentori di lime. L’ingresso in bocca è franco e pulito, rilevando un corpo di notevole struttura e buona armonia tra le componenti organolettiche. Segue una fase centrale in cui si avverte il frutto maturo, non disgiunto da un notevole nerbo, a garanzia di una buona evoluzione gustativa. La persistenza è più che discreta, con sensazioni finali di equilibrio e di finezza (Gho, Ruffa 1993: 224-225). Brunello di Montalcino Riserva, Poggio al Vento Docg 1993, Tenuta Col D’Orcia Montalcino (Si) Il vino si presenta limpido, seppure non brillante, con un colore dove dominano le tonalità rubino e granata, senza le sfumature aranciate che si potrebbero avvertire con l’età. Sulle pareti del bicchiere si disegnano precisi e perfetti archetti, che scendono in lacrime molto marcate e regolari, a testimoniare la ricchezza della componente alcolica. Una conferma della freschezza del vino si ha già al primo impatto olfattivo: molto intenso e franco, è notevolmente fresco e netto, con un cenno di alcol in evidenza che compromette un poco l’equilibrio complessivo. I profumi comin­150

ciano a esprimersi in sensazioni terziarie, con chiare sensazioni di cuoio, caffè e goutron tipiche di questa tipologia. Una nota mentolata e balsamica ingentilisce la complessità del bouquet di questo Brunello. L’ingresso in bocca è dominato dal frutto, non ancora in armonia con le componenti organolettiche, al momento leggermente segnate dall’acidità. L’impressione immediata, comunque, è quella di un vino di grande struttura, dove i tannini si presentano dolci ed eleganti. Il finale è molto persistente, con una sensazione calorosa dovuta all’alcol e una nota astringente apportata dalla concentrazione di tannini. Nel retrogusto si avvertono note di spezie amalgamate a piacevoli sensazioni di cioccolato. Nel complesso un vino di notevole personalità, destinato a evolvere positivamente per almeno altri dieci anni (ivi: 226). Hermitage 1972 Colore scuro a riflessi bruni. Odore di resina, spezie, legno affumicato, mancante di eleganza. Molto carnoso in bocca. Tannino finale rugoso e aggressivo, accentuato dal sapore legnoso. Di bella struttura ma rustico (Peynaud 1980: 200). Trentino Traminer aromatico 2008 Maso Furli Colore paglierino oro intenso, naso intrigante, con accenni di miele, rosa, scorza d’arancia amara, una speziatura leggera. In bocca molto vivace, sapido anzi salato, con una bella articolazione e componente minerale: ha nerbo, vivacità, persistenza lunga e viva, un’acidità nervosa e grande ricchezza di sapore (in «DeVinis», 94, 2010: 34, di F. Ziliani). Graci - Etna Rosso Doc Quota 600 2007 Nel bicchiere il vino è rubino trasparente, dal sipario olfattivo variegato caratterizzato da sentori di rosa, viola, ciliegia, lampone e suadenti note speziate e selvatiche. La bocca è ricca di calore e di tannini fitti ma flessuosi spalleggiati da viva freschezza, colpisce la sua lunga chiusura di persistenza fruttato-minerale. Un anno in botte grande (ivi: 26, di L. Salvo).

Autentici racconti, infine, sono quelli narrati da Sandro Sangiorgi, un artista della degustazione e un professionista dell’educazione alla sensorialità, scrittore, fondatore e direttore della rivista di cultura enogastronomica «Porthos». ­151

Josko Rencel - Kras Malvasjia 2002 Dorato caldo con riflesso ambra. Spicca un’ossidazione prepotente, tanto da far pensare a un avanzato stato di decomposizione: invece il vino si riscatta, offrendo note di spezie dolci e di erbe medicinali, sentori di liquirizia e rabarbaro, sfumature di pepe, frutta disidratata e conchiglie, a ribadire la sua ideale vicinanza alle bianche sabbie di Jerez. È setoso e fervido, ricordi di noce e fichi accompagnano l’ingresso in bocca: l’alcol abbraccia, fodera, avvolge e brucia, colpisce al cuore la tattilità; all’inizio è difficile riconoscere la fibra del vitigno poi, passato il vortice etilico, il nerbo dell’acidità riprende il controllo delle sensazioni finali restituendo una liberatoria freschezza («Porthos», 33-34, 2009: 769). Sanguineto - Vino Nobile di Montepulciano Riserva 1997 Granato caduco. Naso attraente, narra di una raggiunta maturità e del principio di una fase di assestamento e declino, foriera di ulteriori emozioni: la frutta sotto spirito appare quasi un diversivo quando, nella stratificazione odorosa, si scoprono la ricchezza della speziatura e la consistenza minerale della terra; sentori di tartufo, sottobosco, anguria e arrosto rendono ancora più vivido l’intercalare del profumo. In bocca colpisce con la sua compattezza e con la densità matura dell’annata; l’alcol è impetuoso, il liquido non perde tensione e chiude con grande nitidezza; nei ritorni si coglie un primo aspetto ossidativo, la leggiadria di alcune sfumature è inafferrabile e fa rivivere il dissidio di una vendemmia indimenticabile per calore e siccità (ivi: 120).

5.5. L’analisi sensoriale e il problema dei descrittori Attività seria e metodica cui tutti comunque possono accedere a vari livelli con un po’ di addestramento, la degustazione è un caso particolare di analisi sensoriale, da non confondere tuttavia con essa. «In modo semplicistico si può immaginare l’analisi sensoriale come una degustazione tecnica condotta in modo ‘scientifico’, ossia con il controllo rigoroso di tutte le condizioni di valutazione, ma con l’aggiunta di tre elementi: la valutazione in gruppo o panel (numerosità delle valutazioni), l’applicazione di specifici ­152

test (modalità delle valutazioni) e l’utilizzo della statistica (controllo delle valutazioni)» (Sangiorgi 2011: 249). Insieme di tecniche, di pratiche e di metodi mirati alla misurazione e all’interpretazione sistematica delle percezioni umane, in particolare delle sensazioni evocate da alcuni prodotti, per scopi applicativi, l’analisi sensoriale si avvale degli apporti della psicofisica, della psicologia cognitiva e della pragmatica della comunicazione (cfr. Urdapilleta, Dubois 2003; Urdapilleta 2001; Sauvageot 1996, 2003). Applicata ai beni di consumo, cioè a qualsiasi cosa (prodotto o servizio) interagisca con la persona, dai tessuti, all’ambiente, ai cosmetici, alla pubblicità, ai mezzi di trasporto, la valutazione sensoriale nasce una cinquantina di anni fa (quando la società di consulenza americana Arthur D. Little propone alle industrie agro-alimentari il primo metodo formalizzato per descrivere il gusto degli alimenti) per analizzare le sensazioni prodotte da cibi e bevande, trovando nel settore alimentare il suo campo di maggiore applicazione e sviluppo. Come per la degustazione, si tratta quindi di uno strumento di conoscenza dei prodotti basato sull’espressione di soggetti che descrivono le loro sensazioni di fronte a un dato prodotto: un compito difficile ma non impossibile. Nelle attività di ogni giorno, noi tutti ricorriamo in modo spontaneo all’analisi sensoriale per scegliere e valutare alimenti, bevande, oggetti, indumenti, persone, elaborando gli stimoli provenienti del mondo esterno: altra cosa è tuttavia il suo utilizzo professionale, in particolare nel settore agroalimentare. Essa risponde a quell’esigenza di oggettività rigorosa che tenta di ridurre il gusto a una funzione misurabile e meritevole di quell’attenzione scientifica sovente non riconosciutagli, a un’esperienza traducibile in cifre, in proporzioni precise, in grafici, trasformando la soggettività della percezione individuale in qualcosa di oggettivamente valutabile, mirando a un giudizio netto e uniforme. L’industria agroalimentare vi ricorre per comparare i propri prodotti con quelli della concorrenza, per ­153

valutarne e promuoverne di nuovi, per giungere alla qualificazione della proprietà di un prodotto, per verificarne il livello di preferenza o di accettabilità da parte del consumatore, per scoprire le caratteristiche che determinano la preferenza per quel prodotto, per controllare il processo di produzione, per migliorare un alimento, per valutarne la durata e i possibili cambiamenti nel tempo, per migliorarne l’efficacia pubblicitaria o la forza commerciale, e altro ancora. La conoscenza dei prodotti e la loro descrizione verte sull’aspetto, sull’odore, sul sapore, sulla struttura (consistenza) e persino sul rumore prodotto da un cibo e mette in gioco processi cognitivi di memoria, di classificazione, d’interpretazione, di comparazione, di analisi linguisticodescrittiva, di giudizio edonico. Il profilo sensoriale richiede un’expertise percettiva precisa raggiunta attraverso la formazione di un gruppo di esperti (panel, costituito in genere da una dozzina di soggetti) impiegati per le valutazioni (addestrati a identificare, nominare e quantificare un insieme di caratteristiche sensoriali attraverso l’acquisizione pratica di conoscenze specifiche sulle percezioni connesse al consumo di una tipologia di prodotti: birra, formaggi, oli, ecc.), la scelta dei descrittori e l’elaborazione delle loro definizioni, un insieme di metodi e di tecniche di percezione e valutazione sensoriale (gascromatografo e naso elettronico) e di strumenti statistici in grado di assicurare la validità dei risultati e la loro interpretazione (Giboreau, Dacremont 2003). Ma come si possono misurare le percezioni? Tenendo conto dei tre differenti aspetti caratteristici della percezione di uno stimolo sensoriale, quantitativi, qualitativi, edonici, vengono distinti due diversi tipi di misure: la misura sensoriale e la misura edonica. La prima, tenendo conto degli aspetti quantitativi (intensità di una percezione) e di quelli qualitativi (identificazione e denominazione di un prodotto sulla base della natura dello stimolo) della percezione di uno stimolo è finalizzata alla comparazione degli ­154

stimoli per individuare eventuali differenze sensoriali tra i prodotti e classificarne diversi in relazione a una certa caratteristica. La misura edonica, invece, valuta le caratteristiche di piacevolezza e spiacevolezza che accompagnano la percezione di un alimento per determinarne la preferenza e l’accettabilità, e in certi casi per comprenderne anche le ragioni intrinseche. Ciascuna di esse pone problemi di natura differente. In questa sede accenneremo soltanto a quelli concernenti la descrizione degli aspetti qualitativi. Il principale strumento di valutazione qualitativa degli oggetti alimentari è la verbalizzazione dell’esperienza gustativa: la descrizione permette di tracciare il profilo sensoriale di un prodotto sì da differenziarlo da altri oggetti della stessa categoria. Come e ancora più del caso della degustazione, nella valutazione sensoriale la centralità assunta dal soggetto umano, dalle sue percezioni e dai giudizi che è chiamato a esprimere intorno a un prodotto (comunque entro un lavoro di squadra) pone il problema della privatezza delle sensazioni e naturalmente della soggettività della loro espressione. Le difficoltà maggiori sorgono, infatti, proprio a livello della descrizione. La necessità di ricorrere alla mediazione del linguaggio per esprimere una percezione individuale solleva diversi ordini di questioni: la difficoltà più frequente è la mancanza di consenso tra i soggetti sulle parole con cui descrivere le loro percezioni; un altro problema riguarda la povertà del linguaggio sensoriale, e specialmente di quello relativo agli odori, per tradurre una percezione individuale; il linguaggio inoltre non può fornirci un’immagine fedele della realtà ma solo una sua trasposizione; senza contare poi che uno stesso stimolo sensoriale si può verbalizzare in diversi modi ed essere percepito in maniere differenti. Al gruppo di valutazione si richiede un compito a dir poco arduo: una descrizione il più possibile unanime della percezione individuale di uno stimolo, l’uso dello stesso termine o dello stesso gruppo di parole per definire e qualificare le proprietà sensoriali di un oggetto comune. «La ­155

descrizione costituisce il passaggio da uno spazio sensoriale a uno spazio semantico e consiste nel rappresentare l’impressione percepita mediante un insieme di parole chiamate descrittori» (Chauveix, Egoroff 2003: 80). La descrizione, sia essa semplice o quantificata (rappresentazione di un prodotto solo attraverso un insieme di parole o aggiungendo a esse un numero che quantifichi il termine al quale è associato), e la scelta dei descrittori che meglio identificano e qualificano un prodotto rappresentano forse la fase più delicata dell’analisi sensoriale (il termine ‘descrittore’ è usato per denominare le qualità sensoriali di un oggetto). Per essere efficaci i descrittori devono essere pertinenti (‘dolce’, per esempio, riferendosi a un gusto, non è pertinente per la descrizione di un odore come la vaniglia), precisi (privi di ambiguità), discriminanti (in grado di differenziare un prodotto da un altro) ed esaustivi (devono descrivere tutti gli aspetti sensoriali di un prodotto), in altre parole devono essere indipendenti l’uno dall’altro e non devono contenere termini relativi a giudizi di valore. Il descrittore del resto, lungi dal riprodurre la sensazione che rappresenta, consente semmai di differenziarla e di riconoscerla da altre simili. Un momento importante nella formazione del gruppo di assaggiatori è la compilazione di una lista ristretta di descrittori e l’elaborazione della loro definizione, stabilite per consenso all’interno del gruppo. Una lista comprende in genere da dieci a trenta termini necessari a descrivere in modo esaustivo le caratteristiche organolettiche di un prodotto. I diversi criteri oggi utilizzati per l’analisi descrittiva sono una rielaborazione del cosiddetto ‘metodo per consensi’ messo a punto per la prima volta da Arthur D. Little (e in seguito descritto da altri studiosi), dove la qualificazione e la quantificazione delle percezioni diventano l’oggetto di una discussione di gruppo, sotto la guida di un animatore, preceduta da una raccolta dei descrittori prodotti spontaneamente da ciascun soggetto, con l’intento di giungere a un profilo unitario e consensuale su ­156

ogni prodotto5. Per ridurre i rischi di ambiguità, a ogni descrittore si assegnerà poi un referente, cioè un prodotto ‘fisico’ reale e possibilmente si definirà con un punteggio numerico l’intensità delle note del sapore identificate qualitativamente. Le caratteristiche organolettiche individuate e isolate con precisione in una valutazione sensoriale devono essere accessibili a tutti i membri del panel: tutti devono avere una percezione comparabile, sebbene ognuno la descriverà in modo diverso in relazione al proprio vissuto esperienziale. Un buon addestramento permette comunque di avere una buona padronanza del vocabolario descrittivo, cioè di riconoscere la sensazione corrispondente a ciascun descrittore, di individuare quelle sfumature che consentono di distinguere due prodotti della stessa tipologia, di attenuare le differenze interindividuali nell’espressione delle percezioni (più evidenti nel caso della sensibilità olfattiva e gustativa), con l’obiettivo di giungere a una condivisione dell’esperienza percettiva tra i membri del gruppo, attraverso un consenso. Se a parità di percezioni possono corrispondere modi diversi di verbalizzarla, la discussione all’interno della giuria permette comunque di appianare i disaccordi e di raggiungere un’intesa. Nell’analisi sensoriale, per di più, la ripetibilità delle valutazioni è considerata un criterio di oggettività. 5.6. Epilogo in punta di lingua In tutti i casi dunque, che si tratti di saper mangiare, di degustare o di produrre il profilo sensoriale di un alimento, le questioni di palato, e specialmente quelle concernenti gli aspetti più decisamente cognitivi, il suo apprezzamento, la 5  Per un’agile panoramica sui principali modelli di costituzione di una lista di descrittori sensoriali cfr. Chauveix, Egoroff 2003; Sauvageot 2003; Urdapilleta 2001, 2001a.

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sua valutazione e interpretazione, tendono a risolversi in questioni di parlato, in questioni cioè in cui la linguisticità s’impone come una funzione essenziale. Come gran parte delle facoltà bio-cognitive condivise con gli altri animali, anche il gusto deve perciò la sua unicità alla presenza di una mente linguistica che lo riplasma su una misura umana. Eleggere il gusto materiale a oggetto filosofico, promuovendolo tra i saperi alti attraverso il riconoscimento di quel valore teoretico e culturale per lungo tempo negatogli, significa perciò cogliere anche la vocazione linguistica dell’atto del gustare. Come abbiamo già detto, tanto nella convivialità della tavola, quanto in quella di una bevuta tra enofili o di una degustazione tra professionisti, l’esperienza interna dell’assaporare trova il suo naturale prolungamento e completamento nella parola che lo esprime, lo commenta e ne permette la condivisione. In altri termini: lo umanizza.

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Indici

Indice dei nomi

Ackerman, Diane, 33, 39, 80, 114. Agamben, Giorgio, v. Agostino d’Ippona, 10. Archestrato di Siracusa, 22. Argentieri, Simona, 111. Aristotele, 4, 7-9, 92, 97. Bachelard, Gaston, 52. Barbery, Muriel, 125. Barthes, Roland, 23, 93, 97-98, 102, 110. Bartoshuk, Linda, 121. Bear, Mark F., 43-44, 48, 60, 62. Beauchamp, Gary K., 71. Bellieni, Carlo Valerio, 72. Berchoux, Joseph, 22, 121. Bernardo, Enrico, 135-136, 149. Blurthon-Jones, Nicholas G., 96. Bourdieu, Pierre, 105. Brand, Gérard, 57. Brand, Joseph G., 48. Brillat-Savarin, Jean Anthelme, vvi, x, 22-23, 77, 82, 91-92, 100, 102-103. Cabanac, Michel, 104. Calvino, Italo, 114. Candau, Joël, 91, 117. Cardini, Ilaria, 106.

Cartesio (René Descartes), 11. Casamayor, Pierre, 136. Castriota Scanderbeg, Alessandro, 134. Cavalieri, Rosalia, xi, 53, 74, 118, 134, 141-142. Chamberlain, David, 71. Chauveix, Stéphanie, 156-157. Chevreul, Michel Eugène, 53. Chollet, Sylvie, 142. Chu, Simon, 117, 126. Classen, Constance, 30, 85. Comoli, Davide, 133. Condillac, Étienne Bonnot, 12-13 Confucio, v. Cowart, Beverly J., 46. Curtin, Deane W., 18. Dacremont, Catherine, 154. Dante, 94. Darwin, Charles, 105. Dell’Amore, Christine, 89. Dennett, Daniel, 17. Diderot, Denis, 12. Doty, Richard L., 70. Downes, John J., 117, 126. Dubois, Danièle, 153. Dupire, Marguerite, 31.

­173

Egoroff, Carine, 156-157. Engen, Trygg, 57, 79, 141. Epicuro, 4. Feuerbach, Ludwig, 14-15, 85. Fischler, Claude, 34, 68, 96, 122123, 126. Garb, Jane L., 126. Garcia, John, 124. Gardner, Howard, 17. Gho, Paola, 132-133, 150. Giboreau, Agnès, 154. Grimod de la Reynière, Alexandre B.L., 22. Grossatesta, Roberto, 98. Gusman, Alessandro, 30. Hänig, David P., 19. Harrus-Révidi, Gisèle, 108. Hegel, George Wilhelm Friedrich, 5. Heldke, Lisa M., 18. Henning, Hans, 20. Hertling, Elisabeth, 70-71. Hjelmslev, Louis, 141. Hladik, Claude Marcel, 63, 65, 67, 69, 87, 89-91, 96. Holley, André, 39, 41, 44, 48, 57, 62, 73, 84, 121, 124, 126. Howes, David, 29-30. Hume, David, vii. Isidoro di Siviglia, 97. Jinks, Anthony, 140. Jonas, Hans, 17. Kant, Immanuel, 14, 53, 77. Kikunae, Ikeda, 39. Korsmeyer, Carolyn, 18. Laing, David G., 140. Lanternari, Vittorio, 31, 33, 35. Lawless, Harry T., 141.

Le Breton, David, 32, 34-35, 37, 53, 96, 112. Le Magnen, Jacques, 71, 78, 126. Leher, Adrienne, 148. Leopardi, Giacomo, 95. Leroi-Gourhan, André, 77, 83. Lévi-Strauss, Claude, 86, 99, 126. Li, Xia, 65. Lieberman, Philip, 98. Little, Arthur D., 153, 156. Lo Piparo, Franco, 92. Lucrezio, 4. Lupton, Deborah, 105. Mac Leod, Patrick, 72. Macrobio, 94. Marconi, Mirco, 20, 41, 48, 78, 90, 121. Marlier, Luc, 74. Marzi, Fabrizio Maria, 148. Mazzeo, Marco, 144. Mennella, Julie A., 71-72. Merleau-Ponty, Maurice, 16. Miani, Alessandro, 106. Moisseeff, Michaël, 136. Montaigne, Michel de, 11. Montanari, Massimo, 33, 87, 99. Morris, Desmond, 64. Musti, Domenico, 94. Myers, Charles Samuel, 31. Nicklaus, Sophie, 126. Nietzsche, Friedrich Wilhelm, 6, 16. Ninomiya, Kumico, 40, 74. Nistri, Rossano, 28. Normand, Sylvie, 143. Oltolini, Davide, 135. Omero, 93. Onfray, Michel, 18, 23. Pasquet, Patrick, 63, 67, 90. Perullo, Nicola, 5, 18, 22, 96. Petrini, Carlo, 25-26. Peynaud, Emile, 24, 41, 130, 133,

­174

135-136, 138, 140-141, 148, 151. Picq, Pascal, 65, 67, 69, 87, 90-91, 96. Pinard, Sylvain, 32, 36-37. Pinel, John P.J., 48. Platania, Chiara, 111. Platone, 7, 93-94. Plutarco, 94. Poupon, Pierre, 131, 135. Price, Joel L., 62. Prosperi, Ilaria, 10-11, 84. Protagora, 3. Proust, Marcel, 116, 118. Puisais, Jacques, 28. Purves, Dale, 43, 48, 62. Relier, Jean Pierre, 70. Rigotti, Francesca, 18, 97-98. Ritchie, Ian, 36. Rizzolatti, Giacomo, 62. Roelens, Nathalie, 82. Rolls, Edmund T., 61. Roncato, Sergio, 118. Rousseau, Jean Jacques, 13, 52. Ruffa, Giovanni, 132-133, 150. Salomon, Gregg Eric Arn, 142. Salvo, Luigi, 151. Sangiorgi, Sandro, 142-144, 146148, 151, 153. Sauvageot, François, 153, 157. Schaal, Benoist, 70-71, 74. Searle, John, 17. Sebeok, Thomas, 50. Senofonte, 93-95. Serres, Michel, 85, 96. Sgorbissa, Federica, 41. Shepard, Gordon M., 48, 76, 79. Simmel, George, 51.

Simmen, Bruno, 67. Sinigaglia, Corrado, 62. Smith, Barry C., 18, 138. Smith, David V., 48, 62. Socrate, 95. Solci, Guglielmo, 133. Soussignan, Robert, 73. Steiner, Jacob E., 65, 73-74. Stunkard, Albert J., 126. Sulmont-Rossé, Claire, 123, 126. Tagliapietra, Andrea, 100. Telfer, Elisabeth, 18. Titchner, Edward B., 19. Tommaseo, Niccolò, 84. Tommaso d’Aquino, 4, 10, 84. Ton Nu, Christine, 120, 123. Ulijaszek, Stanley J., 87. Urdapilleta, Isabel, 153, 157. Valentin, Dominique, 142. Vallortigara, Giorgio, 18. Vitaux, Jean, 22. Vogt, Mark B., 62. Voltaire (François-Marie Arouet), vii. Vozza, Lisa, 62. Vroon, Piet, 57, 79. Werner, Heinz, 144. Wittgenstein, Ludwig, 88. Wood, John N., 57. Wrangham, Richard W., 69, 89. Wundt, Wihlelm M., 19. Yamaguchi, Shizuko, 40. Ziliani, Franco, 151. Zucco, Gerardo, 118.

Indice del volume



Introduzione. Il gusto nella bocca

v

I. Il gusto nella filosofia e nella scienza

3

1.1. Il gusto dei filosofi, p. 3 - 1.2. Le scienze del gusto, p. 19 - 1.3. Educare il palato, p. 24 - 1.4. Le culture del gusto, p. 28

II. Fisiologia del gusto

38

2.1. La periferia del gusto, p. 38 - 2.2. I confini tra bocca e naso: il ruolo dell’olfatto, p. 48 - 2.3. Piaceri trigeminali, p. 54 - 2.4. Il cervello che gusta, p. 57 - 2.5. L’evoluzione del gusto, p. 62 - 2.6. Un senso precoce, p. 69

III. Sapore e conoscenza

76

3.1. Sinestesia del sapore: il naso che assaggia, p. 76 - 3.2. La sapienza del gusto e la «gourmandise», p. 84 - 3.3. «Homo convivialis», p. 93 - 3.4. Parlare e mangiare, p. 97

IV. I piaceri del gusto

101

4.1. Emozioni di gusto, p. 101 - 4.2. Il gusto nell’eros, p. 107 - 4.3. Intimità e socialità del gusto, p. 111 - 4.4. Gusti e disgusti, p. 115

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V. Tra palato e parlato

127

5.1. Saper mangiare e saper bere, p. 127 - 5.2. Cosa significa degustare, p. 130 - 5.3. Parole per gustare e degustare, p. 142 - 5.4. Sulle labbra di Bacco, p. 148 - 5.5. L’analisi sensoriale e il problema dei descrittori, p. 152 - 5.6. Epilogo in punta di lingua, p. 157

Bibliografia

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Indice dei nomi