Globalizzazione e glocalizzazione. Saggi scelti
 9788866771944

Table of contents :
Indice......Page 487
Frontespizio......Page 3
Prefazione......Page 4
Ringraziamenti......Page 8
1. Introduzione di Peter Beilharz: approccio a Zygmunt Bauman......Page 11
2. L’intervista di «Telos»......Page 36
3.1 La collocazione storica del socialismo (1976)......Page 54
3.2 Tempi moderni, marxismo moderno (1968)......Page 67
3.3 Autopsia del comunismo (1992)......Page 84
4.1 Classi: prima e dopo (1982)......Page 106
4.2 Guardacaccia trasformati in giardinieri (1987)......Page 155
4.3 L’ascesa dell’interprete (1987)......Page 167
5.1 La sfida dell’ermeneutica (1978)......Page 183
5.2 Teoria critica (1991)......Page 201
5.3 Modernità (1993)......Page 234
6.1 Una teoria sociologica della postmodernità (1991)......Page 247
6.2 Il re-incantamento del mondo (Re-Enchantment), o come si può raccontare la postmodernità (1992)......Page 268
7.1 Rendere e non rendere estranei (1993)......Page 284
7.2 Parvenu e paria: eroi e vittime della modernità (1997)......Page 309
8.1 La sociologia dopo l’Olocausto (1989)......Page 326
8.2 Dittatura sui bisogni (1984)......Page 364
8.3 Un secolo di campi di concentramento? (1995)......Page 374
9.1 La ricerca di ordine (1991)......Page 395
9.2 La costruzione sociale dell’ambivalenza (1991)......Page 405
10.1 Sulla glocalizzazione: o globalizzazione per alcuni, localizzazione per altri (1998)......Page 418
10.2 Dall’etica del lavoro all’estetica del consumismo (1998)......Page 436
11. Il viaggio non finisce mai: Zygmunt Bauman parla con Peter Beilharz......Page 469

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Modernità e società Collana diretta da Roberto Cipriani Zygmunt Bauman

Globalizzazione e glocalizzazione Saggi scelti A cura di Peter Beilharz

PREFAZIONE Zygmunt Bauman è pressoché onnipresente nella teoria sociale contemporanea, spesso ai margini per quanto riguarda i testi, ma sostanzialmente al centro nelle tendenze e controversie che animano la discussione sulla modernità. Il contenuto della sua opera è nello stesso tempo reattivo e innovativo. La sua forma è varia; Bauman non sempre abbonda in facilitazioni per i lettori, perché il punto essenziale della sua opera è che ciascuno di noi deve imparare a pensare da solo, anche se disponiamo già di un ricco patrimonio che può aiutarci lungo la strada nelle tradizioni nelle quali ci troviamo inseriti. Ed allora, da dove cominciare a leggere Bauman? Lo scopo di quest’antologia di scritti è quello di offrire un possibile approccio al contributo da lui dato e di fornirne nello stesso tempo un’analisi. Zygmunt Bauman ebbe a dirmi, quando misi mano a questa impresa, che il mio compito era quello di mettere ordine nel caos. Non penso che la sua opera sia caotica, anche se talvolta presenta elementi imprevedibili; altre volte egli ritorna su problemi più antichi, perché, come egli dice, noi non risolviamo mai effettivamente i problemi, ma solo ci stanchiamo di essi. Se l’opera di Bauman è non tanto caotica quanto non-sistematica, allora il mio compito in questo libro è non tanto quello di mettervi ordine, quanto di tracciarne un profilo. Ridurre l’opera di Bauman in bocconi significherebbe far violenza alle sue intenzioni, perché egli stesso si guarda bene dal mordere, ma si limita a dare degli stimoli. Conseguentemente, sono state due le preoccupazioni principali che hanno guidato la scelta degli scritti qui proposti. Ho cercato d’inserire brani scelti che fossero indicativi del pensiero di Bauman in tutta la sua ampiezza, scegliendo nello stesso tempo specialmente quelli che proponessero i rispettivi argomenti nella migliore forma espressiva. Ho escluso la sua prima produzione in polacco e quella iniziale in inglese, come Between Class and Elite, Towards a Critical Sociology e Culture as Praxis , quest’ultima opera appena ristampata come seconda edizione dalla casa editrice Sage. Ho anche omesso opere di natura più monografica o con intenti specifici, come Freedom e Thinking

Sociologically , ed anche recenti opere importanti, ma d’approccio più difficile e complicato, come Postmodern Ethics e Mortality , Immortality and Other Life-Strategies . I lettori che fossero spinti dalla loro curiosità a prenderne visione, possono accedere anche a questi titoli, dei quali propongo una discussione nel mio manuale Zygmunt Bauman Dialectic of Modernity , pubblicato contemporaneamente a questo volume nelle edizioni Sage. Gli scritti qui scelti sono concentrati, quindi, attorno alla straordinaria produzione di Bauman contestuale e successiva a Legislators and Interpreters , del 1987; ma il volume cerca anche di dare uno sguardo retrospettivo ai più importanti contributi di Bauman prima di questo momento. Gli scritti raccolti in quest’antologia vengono raggruppati tematicamente nel modo seguente. Il volume si apre e si chiude con brani d’intento introduttivo, che comprendono due interviste a Bauman, la prima pubblicata originariamente in inglese da «Telos» nel 1992, la seconda condotta da me appositamente per questo volume. L’intervista di «Telos» è preceduta da un’analisi editoriale preliminare dell’opera di Bauman. La struttura tematica per le letture che seguono dal capitolo 3 al capitolo 10 è derivata dallo stesso processo d’interpretazione. Il capitolo 3 include brani dal grande studio di Bauman sull’utopia, del 1976, come anche un saggio sul marxismo del 1968 e la sua “autopsia” del comunismo, che indica anch’essa simbolicamente, a suo modo, la fine della modernità nella sua accezione marxista. Il capitolo 4 comprende un quadro sintetico di Memories of Class , che per molti aspetti presagisce la svolta nel postmarxismo e nel postmoderno, e include anche alcune delle affermazioni più importanti di Legislators and Interpreters . Il capitolo 5, su Ermeneutica e Teoria critica, comprende l’introduzione di Bauman a Hermeneutics and Social Science e due voci di dizionario efficacemente sintetizzate, rispettivamente sulla teoria critica e sulla modernità. Il capitolo 6 offre le più importanti affermazioni di Bauman sulla sociologia post-moderna o sulla sociologia della postmodernità; vi è compresa anche la chiara introduzione, efficacemente scritta, a Intimations of Postmodernity , un brano che rasenta il valore, così come era possibile a Bauman, di un manifesto sul

postmoderno. Il capitolo 7, “Figure della modernità”, mette insieme ritratti di persone alienate, parvenu e paria, che illustrano la preoccupazione di Bauman, mutuata da Weber e più in particolare da Simmel, circa il problema del tipo di personalità prodotte dalla modernità (o postmodernità). Il capitolo 8, “Il secolo dei campi di concentramento”, comprende alcuni elementi fondamentali che introducono a Modernity and the Holocaust , come anche la sua analisi critica di Dictatorship Over Needs (“Dittatura sui bisogni”) e le sue riflessioni sul Gulag e la modernità. Il capitolo 9 traccia a grandi linee gli argomenti fondamentali di Modernity and Ambivalence ed anticipa la natura della preoccupazione sociologica riguardo all’etica postmoderna. I brani finali, nel capitolo 10, riguardano la globalizzazione e le sue particolari conseguenze sulle classi. La struttura dei brani scelti è quindi circolare, ma anche con riferimenti incrociati, nel senso che, per esempio, il socialismo s’incontra nei capitoli 3 e 8, o gli individui estraniati s’incontrano nei capitoli 7 e 9; come afferma Bauman, i problemi in se stessi non se ne vanno via; siamo noi che, come interpreti, ci stanchiamo di essi e li mettiamo da parte. Si spera, quindi, che i suoi lettori potranno attingervi in ogni punto, ritornarvi, o visitare per la prima volta il pensiero del più significativo sociologo che oggi scrive in inglese. I miei ringraziamenti vanno innanzitutto a Zygmunt e Janina Bauman, ai quali esprimo il mio apprezzamento per la loro amicizia e i loro suggerimenti; a Jill Landeryou, Susan Rabinowitz e Ken Provencher, della casa editrice Blackwell, e ai loro lettori, per l’entusiasmo e la pazienza che hanno saputo mostrarmi; ad Anthony Grahame, per il meticoloso contributo nella preparazione del manoscritto per la pubblicazione; ai partecipanti al mio corso di laurea in sociologia tenuto nel 1997 a La Trobe sull’opera di Bauman, per i loro chiarimenti; a Fuyuki Kurasawa, per le sue osservazioni e l’attento aiuto editoriale nella compilazione del volume; e a Bron, Merle ed Elaine, per aver trasformato la mia illegibile scrittura in parole. Poiché, inoltre, questo è un cammino personale, una specie di esilio volontario, come Bauman definisce lo scrivere, ringrazio Dor, Nik e Rhea, sempre pronti a soccorrermi quando cado.

Peter Beilharz Harvard Dicembre 1999

RINGRAZIAMENTI Gli editori e il curatore esprimono il loro ringraziamento per l’autorizzazione ricevuta a ripubblicare in questo libro i seguenti contributi soggetti a copyright: Z. BAUMAN, Modernity, Postmodernity and Ethics An Interview with Zygmunt Bauman , da «Telos» 93 (1992); Z. BAUMAN, The Historical Location of Socialism , da Socialism: The Active Utopia , Allen & Unwin, 1976, ristampato per gentile concessione di Routledge; Z. BAUMAN, Modern Times, Modern Marxism , da «Social Research» 34, 3 (1967); Z. BAUMAN, Communism, A Postmortem , da From Intimations of Postmodernity , Routledge, London 1992; Z. BAUMAN, Class: Before and After , da Memories of Class: The Pre-History and After-Life of Class , Routledge and Kegan Paul, London 1982. Z. BAUMAN, Gamekeepers Turned Gardeners , da Legislators and Interpreters: On Modernity, Post-Modernity and Intellectuals , Polity Press, Cambridge 1987, e Cornell University Press, Copyright Clearance Center; Z. BAUMAN, The Rise of the Interpreter , da Legislators and Interpreters: On Modernity, Post-Modernity and Intellectuals , Polity Press, Cambridge 1987, e Cornell University Press, Copyright Clearance Center; Z. BAUMAN, The Challenge of Hermeneutics , da Hermeneutics and Social Science: Approaches to Understanding , Hutchinson, London 1978; Z. BAUMAN, Critical Theory , da HENRY ETZKOWITS RONALD M. GLASSMAN (a cura di), The Renascence of Sociological Theory: Classical and Contemporary , F. E. Peacock, Itaca, II, 1991; Z. BAUMAN, Modernity , da JOEL KRIEGER (a cura di), The

Oxford Companion to Politics of the World , Oxford University Press, Oxford-New York 1993. Copyright © 1993 by Oxford University Press, Inc. Per concessione della Oxford University Press, Inc.; Z. BAUMAN, A Sociological Theory of Postmodernity , da «Thesis Eleven» 29 (1991); Z. BAUMAN, The Re-Enchantment of the World, or, How Can One Narrate Postmodernity , da Intimations of Postmodernity , Routledge and Kegan Paul, London 1992; Z. BAUMAN, Making and Unmaking of Strangers , da «Thesis Eleven» 43 (1995); Z. BAUMAN, Parvenu and Pariah: The Heroes and Victims of Modernity , da Postmodernity and Its Discontents , Polity Press, Cambridge 1987; Z. BAUMAN, Sociology After the Holocaust , da Modernity and the Holocaust , Polity Press, Cambridge 1989, e Cornell University Press, Copyright Clearance Center; Z. BAUMAN, Modernity, Racism, Extermination , da Modernity and the Holocaust , Polity Press, Cambridge 1989, e Cornell University Press, Copyright Clearance Center; Z. BAUMAN, Dictatorship Over Needs , da «Telos» 60 (1984), ristampato per concessione della Telos Press Limited; Z. BAUMAN, A Century of Camps? , da Life in Fragments: Essays in Postmodern Morality , Blackwell Publishers, Oxford 1995; Z. BAUMAN, The Quest for Order , da Modernity and Ambivalence , Polity Press, Cambridge 1991, e Cornell University Press, Copyright Clearance Center; Z. BAUMAN, The Social Construction of Ambivalence , da Modernity and Ambivalence , Polity Press, Cambridge 1991, e Cornell University Press, Copyright Clearance Center; Z. BAUMAN, On Glocalization: Or Globalization for Some, Localization for Some Others , da «Thesis Eleven» 54 (1998); Z. BAUMAN, From the Work Ethic to the Aesthetic of Consumption , da Consumerism and the New Poor , Open University Press, Buckingham 1998.

PER I CASI IN CUI NON È STATO POSSIBILE OTTENERE IL PERMESSO DI RIPRODUZIONE, A CAUSA DELLE DIFFICOLTÀ DI RINTRACCIARE CHI POTESSE DARLO, L’EDITORE DICHIARA LA PROPRIA DISPONIBILITÀ A REGOLARIZZARE EVENTUALI NON VOLUTE OMISSIONI O ERRORI DI ATTRIBUZIONE

1. INTRODUZIONE DI PETER BEILHARZ: APPROCCIO A ZYGMUNT BAUMAN Chi è Zygmunt Bauman? Il più grande sociologo che oggi scrive in lingua inglese vive a Leeds e guarda la televisione polacca via satellite. Viaggia in lungo e in largo e scrive a ritmi vertiginosi. Le sue opere si trovano citate nelle note in calce di ogni specialista, tanto per usare un’espressione caratteristica; il suo pensiero non si afferra con sicurezza, ed è tanto difficile da cogliere quanto è potente, enigmatico, stimolante. Come risultato, un personaggio noto come Tony Giddens può definire Bauman come il teorico più importante del postmoderno; eppure, non è molto ciò che si è scritto sull’opera di Bauman in termini di commenti o illustrazioni. Infatti, privilegiando un’evidente strategia della provocazione, la sociologia di Bauman evita impostazioni sistematiche; preferisce il frammentario e si astiene da esposizioni organiche, dall’elaborare una propria teoria da offrire agli altri, secondo una mentalità che risulta determinante per chi voglia pubblicare e conseguire successi accademici. Sono tanti i lettori e gli scrittori che conoscono Bauman, ma prevale il silenzio su di lui, l’incapacità di parlarne. Ian Varcoe e Richard Kilminister ne hanno proposto un’idea stimolante nel volume di saggi in suo onore, Culture, Modernity and Revolution, Essays in Honour of Zygmunt Bauman (Routledge, London 1996); ma, con il dovuto rispetto, i saggi contenuti in questo volume tendono a informarci più sugli interpreti che sull’interpretato; si tratta di una raccolta che non mette a fuoco punti critici, ma si limita ad offrire un panorama esteso degli argomenti trattati da Bauman, come anche lo scenario su cui egli lavora. Shaun Best, nel frattempo, ne ha interpretato l’opera come una frode postmoderna, presentando Bauman come un lupo modernista sotto le vesti d’agnello del post-modernismo, ciò che rappresenta senz’altro

un’acquisizione, ma il critico lo fa in maniera sbagliata in tutte e due le rilevazioni (Best, 1998). L’opera di Bauman è stata tradotta in un numero incredibile di lingue; la sua influenza è evidente in opere che vi fanno riferimento, come in quella di Brian Cheyette sugli Ebrei (Cheyette, 1998) e in quella di Bülent Diken sui Turchi in Danimarca (Diken, 1998). Si è cominciato a vedere un riconoscimento della sua opera anche dall’altra parte dell’Atlantico, dove Bauman rimane anche di più ai margini dell’attenzione, come si può constatare nel libro di Steven Seidman, Contested Knowledge (Seidman, 1995). La presenza inglese si vede chiaramente, in particolare, anche in certe reazioni locali come la risposta di Scott Lash alla critica di Bauman ai principi comunisti (Lash, 1996), o come quella espressa nel saggio di David Torevell sul razionalismo in New Blackfriars (Torevell, 1995), mentre Hans Jonas e Dennis Smith hanno espresso entrambi apprezzamenti sull’opera di Bauman in Theory, Culture and Society . Dennis Smith sta lavorando ad un saggio su una sociologia intellettuale di Bauman, che susciterà sicuramente molto interesse. Quanto a me, ho portato a termine uno studio intitolato Zygmunt Bauman: Dialectic of Modernity (Beilharz, 1998a, 1998b). Ed anche la presente antologia fa parte di un programma in via di realizzazione per rendere conosciuta e riconosciuta l’opera di Bauman.

Alla ricerca di elementi utili per un’indagine Allora, perché preoccuparsene? Qual è il problema? Per chi scommette in genere sulla teoria sociale, sono forse due gli elementi fondamentali che, secondo la mia opinione, mettono in risalto il contributo di Bauman. Il primo è rappresentato da Modernity and the Holocaust (1989; trad. it. Modernità e olocausto , Il Mulino, Bologna 1992), un libro di Bauman che ha rotto il silenzio, sia pure con difficoltà, perché il messaggio in esso contenuto è, inter alia , che l’importanza dell’Olocausto risulta centrale per la sociologia, un messaggio che non molti sociologi vorrebbero ascoltare. Il secondo, a mio avviso, va individuato nell’opera di Bauman sul postmoderno.

Infatti, è opinione molto diffusa che Bauman sia un sociologo postmoderno, anche se, come cercherò di dire qui, ciò è vero solo a metà; l’altra metà del postmoderno è il moderno, e proprio per questo ci troviamo di fronte ad un’ambivalenza, piuttosto che “al postmoderno”, e ciò rappresenta il pregio essenziale nell’opera di Bauman. L’olocausto e il postmoderno, in ogni caso, sono gli elementi ravvisabili in Bauman che la gente è pronta ad associare facilmente al suo nome. Solo una volta ammessa la centralità dell’ermeneutica per il suo modo di pensare, ciascun concetto conduce ad un altro: l’olocausto alla sociologia, alla modernità e all’etica, il postmoderno al moderno, e specialmente al marxismo e al post-marxismo, e così via di seguito, con la libertà che conduce alla dipendenza, il proletario al consumatore, il turista al vagabondo, l’interprete al legislatore, la moralità all’etica... Bauman si attiene ostinatamente all’idea familiare dell’interpretazione e della comprensione, ciò che è sicuramente un motivo per cui i suoi lettori risultano nello stesso tempo attratti e irritati, poiché egli riesce subito a colpirti e nello stesso tempo aspetta che tu lo segua fino in fondo, rimanga un po’esitante, rifletta, parli e ascolti. Lo scopo della sociologia critica, in effetti, è quello di colpire, non di accarezzare. Infatti, per fare sociologia abbiamo bisogno sia di essere abbastanza fiduciosi per quanto riguarda il nostro posto nel mondo, sia di essere abbastanza distaccati da vedere ciò che è familiare come se fosse esotico, o almeno accidentale. Non dovremmo mai far pace con il dogma, anche se per natura tendiamo continuamente a farlo, a rendere universale il particolare, a ipostatizzare, cioè a trasformare in sostanza ciò che è accidentale. Questi generi di problemi sono sia più gravi che più vivaci nella pratica della sociologia di quanto lo siano altrove, così come lo è la pretesa della nostra disciplina di riflettere su se stessa, d’includere l’esame di se stessa non meno della critica degli altri. La voce di Bauman è spesso cordiale, ma anche intransigente in ciò che richiede al lettore in quanto lettore e in quanto protagonista morale. Proprio chi agisce, infatti, è in definitiva responsabile della condizione umana. Questo tema attraversa tutta l’opera di Bauman. L’elenco delle opere prodotte da Bauman, se ne vediamo l’intero

catalogo, è più esteso di quanto potrebbe far pensare l’entusiasmo dei lettori per l’olocausto o il postmoderno. In lingua inglese, e calcolando soltanto i libri, l’elenco comprende diciannove opere: Between Class and Elite (1972); Culture as Praxis (1973; trad. it. Cultura come prassi , Il Mulino, Bologna 1976); Socialism The Active Utopia (1976a); Towards a Critical Sociology (1976b; trad. it. Critica del senso comune. Verso una nuova sociologia , Editori Riuniti, Roma 1992); Hermeneutics and Social Science (1978); Memories of Class (1982; trad. it. Memorie di classe , Einaudi, Torino 1987); Legislators and Interpreters (1987; trad. it. La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti , Bollati Boringhieri, Torino 1992); Freedom (1988; trad. it. La libertà , Città Aperta); Modernity and the Holocaust (1989; trad. it. Modernità e olocausto , Il Mulino, Bologna 1992); Thinking Sociologically (1990; trad. it. Pensare sociologicamente , Ipermedium); Modernity and Ambivalence (1991a), Mortality, Immortality and Other Life Strategies (1992a); Intimations of Postmodernity (1992b); Postmodern Ethics (1993); Life in Fragments (1995); Postmodernity and its Discontents (1997; trad. it. Il disagio della postmodernità , Bruno Mondadori, Milano). Vi sono libri più recenti su Work, Consumerism and the New Poor , su globalizzazione e glocalizzazione, e sull’analisi della politica; e vi sono inoltre, ovviamente, i saggi sparsi in molte riviste come «Telos», «Theory, Culture and Society», «Thesis Eleven», e altre. Si è in attesa di un nuovo titolo, Liquid Modernity [già apparso in trad. it., Modernità liquida , Laterza, Bari 2002, N.d.T. ] e di altri, per i quali sarà necessario un continuo aggiornamento [nel frattempo sono uscite in italiano le seguenti opere: Lineamenti di una sociologia marxista , Editori Riuniti, Roma 1971; La società dell’incertezza , Il Mulino, Bologna 1999; La solitudine del cittadino globale , Feltrinelli, Milano 2000; Dentro la globalizzazione , Laterza, Bari 2001; Voglia di comunità [Missing Community ], Laterza, Bari 2001; Le sfide dell’etica , Feltrinelli, Milano 2001; La società individualizzata , Il Mulino, Bologna 2002; Società, etica, politica , Raffaello Cortina, Milano 2002; Il teatro dell’immortalità , Il Mulino, Bologna 2002, N.d.T. ]. È chiaro che la strategia di lavoro di Bauman è quella di assorbire tutto ciò che interessa; si tratta di un

progetto sia reattivo che assertivo, tale che presto o tardi vedremo salire alla ribalta argomenti di sommo interesse quali l’eugenetica, l’arte, la sessualità, la criminologia, il capitalismo, il comunismo ed altri ancora. Ma questa varietà non attrae da sola il pensiero. Vi sono anche altri fattori che interagiscono nel modo di scrivere, tra certezza e ordine, marxismo e postmoderno, socialismo e sociologia, con tutta l’ambivalenza che c’è dietro tutti questi concetti.

L’intreccio si complica Viviamo tutti, a partire dal Ventesimo secolo, dopo Marx, ma ancora insieme a Marx. Il primo marxismo di Bauman costituiva una ricca matrice culturale, che includeva Gramsci prima della sua scoperta in lingua inglese come predecessore della “Scuola di Birmingham” dopo il 1968, ma che collegava anche Weber a Marx in quella più antica tradizione di teoria critica per la quale Weber, Lukács e Simmel esercitano tutti egualmente il loro fascino. Quest’ultimo attributo del marxismo polacco significava che la sua sostanza era tipicamente qualcosa di simile al marxismo weberiano, con una prevalente curiosità critica per l’egemonia in genere piuttosto che per la classe, da sola, in particolare. Dopo tutto, la classe dominante locale in Polonia e in tutta l’Europa centrale non era costituita da capitalisti: davvero un enigma, per i marxisti ortodossi nelle culture anglofone. La presenza critica di Marx, Weber e Simmel può scoprirsi chiaramente in uno dei primi saggi, Modern Times, Modern Marxism , pubblicato in «Social Research» nel 1968. Le tensioni critiche che questo saggio rende possibili sono stimolanti. Altrettanto può dirsi dei primi testi di Bauman in inglese, come Socialism – The Active Utopia , nei quali il socialismo appare come qualcosa di diverso dall’idea che ne fa un modello di produzione. Per Bauman il socialismo è la controcultura della modernità; egli riconosce nel marxismo una ricca combinazione di culture, e questo è uno dei motivi per cui egli non se ne allontana dopo la caduta del muro, o con il crescere degli anni; infatti, se lo lasci indietro, esso ti seguirà come un’ombra, o come uno

scocciatore. Come cercherò di mostrare più avanti, il lavoro di riconsiderazione si sposta sul piano del moderno, in modo tale che quello di Bauman si rivela come il più interessante dei postmodernismi che si presentano a noi come postmarxismi. Bauman si colloca in modo singolare tra i postmoderni, nel senso che non comincia concettualmente da una riduzione economicistica della società o della modernità. La cultura ha un ruolo primario, anche quando il marxismo rimane inevitabile. Tuttavia, dalla sua analisi non scompaiono mai né l’economia né una sua visione sofferta. L’opera di Bauman, così, evita il rischio endemico in altri approcci allo spartiacque moderno/postmoderno, dove né l’economia né la cultura vengono concettualmente gonfiate a spese l’una dell’altra. Alcuni dei primi scritti di Bauman in inglese sembrano ora allontanarsi ulteriormente dagli altri; il suo stile è più compatto, e alcuni degli autori che hanno stimolato il suo impegno sono scomparsi nella polvere delle biblioteche. Due chiari elementi caratteristici della sua prima opera sono il socialismo e la cultura; solo più tardi diviene più chiaro in che modo questi due elementi debbano essere conciliati, in una prospettiva dove la cultura introduce nella discussione del postmoderno ed il socialismo viene storicamente ricollocato come un momento culturale nel contesto della modernità, di cui esso divenne, in un certo senso, il più aggressivo fautore prima che il nazismo ci mostrasse un aspetto segreto della modernità con il quale facciamo ancora fatica a confrontarci (a meno che non scegliamo perversamente di celebrare l’Olocausto come la verità della modernità, cosa che non ci lascia assolutamente nulla che possa essere oggetto delle nostre speranze o delle nostre aspirazioni). Il momento della svolta nell’opera di Bauman va individuato qui, a mio parere, nel 1987, quando egli pubblica Legislators and Interpreters [La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti ], anche se possiamo vederne un anticipo in Memories of Class [Memorie di classe ], del 1982. Già il sottotitolo di quest’opera ne specifica gli interessi e i temi fondamentali: The Pre-History and the After-Life of Class [Preistoria e sopravvivenza di un concetto ]. In questo libro Bauman estende i suoi primi interessi per gli aspetti della vita e del lavoro in Gran Bretagna

nel periodo della Rivoluzione Industriale, interessi che si trovavano sviluppati in Between Class and Elite . Memorie di classe lavora su tutte e due le linee, illustrando in che modo il discorso sulla classe venga proiettato indietro dal marxismo su lotte costruttive, reattive, e in avanti, nel periodo post-bellico, quando sono i non inquadrati, piuttosto che i proletari, a soffrire l’esclusione dall’economia politica corporativista della democrazia sociale keynesiana. La sostanza della critica di Bauman riguarda qui l’economizzazione del mondo, la rivalutazione di ogni valore nella forma di prodotto e l’inserimento di ogni cosa nel processo di consumo. La memoria, in ogni caso, come l’utopia, è rivolta altrove. Il socialismo, in tale contesto, è più una forza romantica che di propulsione e di modernizzazione; esso ricorda modi diversi e valori differenti (Bauman, 1982; Beilharz, 1992). Memorie di classe rievoca l’opera di Edward Thompson [di questo storico di formazione marxista vale la pena ricordare, qui, almeno Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra , del 1963, N.d.T. ] e il risveglio della storia sociale degli anni Settanta, ma ad attirare l’attenzione, qui, è non tanto la figura del dimenticato calzettaio, quanto invece l’ombra allungata di Michel Foucault. Bauman allinea la sociologia storica di Foucault, così come si ricava dall’opera Discipline and Punish [trad. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione , Einaudi, Torino 1976], all’opera di Thompson e di altri per richiamare l’attenzione sul regime corporeo dell’industrialismo. La critica della tecnologia offerta da Heidegger è ai margini di questo libro, così come lo è nella grande opera di Foucault. Bentham, Marx, Foucault e Thompson sono qui uniti in una discussione sull’economia politica del capitalismo, che è un nuovo regime corporeo e nello stesso tempo mentale. Le lotte dei lavoratori si organizzarono all’inizio contro, piuttosto che dentro, questo regime. Solo con il Ventesimo secolo il lavoro celebrò il suo arrivo come protagonista del sistema, pronto a interloquire e a contrattare sui profitti; e questo, a sua volta, implica la lenta trasformazione di un sistema di produzione in un sistema di consumo. Emerge qui anche la sociologia degli intellettuali, anticipando lo sviluppo della più fondamentale critica che si esprime in La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti . Chi fu a

costruire questa idea di resistenza al capitalismo come postcapitalismo incipiente? Chi fu a far scendere in campo il proletariato come milizia celeste, e nell’interesse di chi? Il marxismo dell’Europa orientale aveva aperto la strada alla critica degli intellettuali come nuova classe, Milovan Djilas accanto a Bruno Rizzi e James Burnham, ed essi ne diedero una nuova rappresentazione, attraverso la successiva opera di Konrad e Szelenyi su The Intellectuals on the Road to Class Power (1979). Gli intellettuali avevano preteso fin dal tempo di Saint-Simon di guidare lo sviluppo sociale; il rafforzarsi della tecnocrazia e del corporativismo nel periodo postbellico non rappresentò, in tal senso, alcunché di nuovo. Il marxismo era parte del problema, come anche della presunta soluzione. Il “problema”, a sua volta, appariva differente, piuttosto che qualcosa in più della stessa diagnosi offerta dal marxismo ortodosso. Bauman, tuttavia, accentrò qui la sua attenzione sulla nascita della fabbrica, sulla cultura moderna o industriale, piuttosto che sulla clinica o sulla scuola, e sul rispettivo declino nel Ventesimo secolo come luogo importante di lotta sociale o di economia morale. Tutto questo era coerente con una sensibilità marxista weberiana, secondo cui era l’industrialismo, più che il capitalismo in senso stretto, a costituire il problema; solo più tardi doveva ulteriormente svilupparsi l’argomento secondo cui consumo e desiderio avrebbero soppiantato produzione ed etica del lavoro come nuove dinamiche sociali prevalenti.

I soliti sospetti Anche se non citata da Bauman, l’importante opera d’argomento analogo di Jeremy Seabrook, Landscapes of Poverty [“Scenari della povertà”], uscita soltanto nel 1985, ebbe vasti riecheggiamenti, che dovevano emergere in maniera più completa in La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti . La pauperizzazione, in tale prospettiva, costituisce un elemento moderno costante, ma viene rappresentata storicamente in modo nuovo, con una nuova collocazione di borghesia e proletariato da parte di competenti e

incompetenti, a mano a mano che la classe lavoratrice diveniva parte del sistema. Esclusione e predominio, così, rimangono le preoccupazioni etiche che sorreggono la sociologia di Bauman, accanto a sfruttamento e consumismo e, più tardi, insieme a repressione e corruzione. In La decadenza degli intellettuali l’accento di Bauman si sposta sulla critica all’Illuminismo, e più esplicitamente agli Illuministi; infatti, il tracciare la storia come una contrapposizione tra borghesia e proletariato trascura in ogni caso parte dell’azione, e parte del problema della modernità. La modernità è un progetto del ceto medio, par excellence . E sono proprio gli intellettuali, o illuministi, quelli che riescono a rimanere in un certo senso invisibili nello svolgersi di un tale processo, impegnati come sono nel rappresentare la storia della modernità come una battaglia populista tra lavoratori e padroni, tra imprenditori e subordinati. La modernità è un progetto, e non solo un periodo, ed è, o è stata, un progetto di controllo, un tentativo di dominio razionale sulla natura, di pianificazione, di programmazione e di effettuazione, che hanno condotto alla mania di progettazione (planomania ) e alla tecnocrazia (e, in una successiva fase dell’opera di Bauman, all’Olocausto). Gli intellettuali diventano legislatori, ma nel processo essi abbandonano quella parte della loro attività che è più specificamente critica. Lo Stato visto come un mezzo è il campo in cui si esercita una tale pretesa ed il luogo in cui si colloca la sua ambizione. Se, tuttavia, la modernità è la ricerca di un particolare regime di ordine, allora la postmodernità implica una pluralizzazione. Gli intellettuali moderni aspirano al potere, come legislatori; gli intellettuali postmoderni cercano di vivere al di fuori di esso o di tornare (?) ai loro ruoli ermeneutici, come interpreti o traduttori attraverso ambiti o esperienze di vita. I sospetti sono quasi a portata di mano. Il problema, allora, caro lettore, siamo noi. Ma inoltre i due modi si mescolano, e necessariamente, perché noi siamo da sempre animali di tradizione. Così, la modernità diventa una tradizione, tanto che lo stesso modernismo, il desiderio di cambiare il mondo, diventa un abito, o almeno un dovere da compiere. Se ne trovano echi, qui, tra l’altro, nel pragmatismo di Richard Rorty [di cui è utile ricordare

almeno Conseguenze del pragmatismo , del 1982, e Contingenza, ironia, solidarietà , del 1989, N.d.T. ], ma senza il compiacimento talvolta implicito nelle sue prese di posizione. Tuttavia, la critica della modernità che qui emerge rimane più strettamente collegata con Michel Foucault [forse da ricordare in questo contesto soprattutto per L’archeologia del sapere , del 1969, N.d.T. ] e con il problema della sindrome potere/sapere, e Bauman estende il caso attingendo all’opera di Ernest Gellner [da ricordare qui almeno per i Santi dell’Atlante , del 1965, classico dell’etnografia, e per Relativismo e scienze sociali , del 1985, N.d.T. ], poiché noi siamo, in questa prospettiva, dei guardacaccia (gamekeepers ) trasformati in giardinieri (gardeners ), avidi coltivatori dell’intelletto e del mondo, che cercano di sviluppare ogni cosa. Qui la connessione è con Freud, e con Elias, dove la civilizzazione rappresenta un guadagno ottenuto solo attraverso la repressione; la civilizzazione è anche una perdita [si allude qui, evidentemente, al Processo di civilizzazione , pubblicato da Norbert Elias nel 1939, N.d.T. ]. Viene sottoposto ad esame, qui, anche Jürgen Habermas [da ricordare, di questo filosofo e sociologo tedesco, almeno La crisi della razionalità nel capitalismo maturo , del 1973, e Teoria dell’agire comunicativo , del 1981, N.d.T. ], la cui presenza diminuisce dai primi scritti a quelli successivi, a mano a mano che la sua opera passa dalla critica alla costruzione, per divenire a sua volta parte del problema, quando l’ermeneutica della comunicazione non distorta dà luogo, nella sua opera, a idee politiche circa la costruzione del sistema, cosicché la teoria critica di seconda generazione non rappresenta che una voce nell’opera di Bauman. In realtà si ha qui un’eco malinconica di Adorno, o della Dialettica dell’illuminismo [pubblicata da Adorno nel 1947 con Horkheimer, N.d.T. ], oltre che del Foucault del periodo medio, dove gran parte di ciò che risulta stimolante appare pericolosa, perché vi predomina la tecnologia, o ragione strumentale, e vi regnano sovrani i suoi sostenitori intellettuali. Tuttavia, Bauman pone termine qui alla sua discussione con una conclusione intitolata Two Nations, Mark Two: The Repressed , passando attraverso il pensiero di Disraeli [ovvia l’importanza che quest’uomo politico britannico riveste per il suo noto programma di “conservatorismo rinnovato”, N.d.T. ] e di

Seabrook, e finisce con due conclusioni, ciascuna delle quali moderna e postmoderna, per ribadire che noi siamo l’una e l’altra cosa, ed in tutte e due le dimensioni sia effettivamente che potenzialmente. La decadenza degli intellettuali è il testo chiave che segna il momento di passaggio nel progetto di transizione che rappresenta la sociologia di Bauman. Questo progetto, tuttavia, ebbe il suo approdo nella maniera più visibile in Modernità e olocausto , senza dubbio l’opera più autorevole di Bauman e sintomatico indizio della misura in cui questo teorico postmoderno soffra in profondità delle crisi d’identità del moderno. Modernità e olocausto testimonia l’ispirazione fornita da Janina Bauman a suo marito, una storia narrata con grande forza e bellezza nella prosa dei libri da lei scritti, Winter in the Morning (1986) [che racconta la vita di una ragazza nel ghetto di Varsavia, N.d.T. ], e A Dream of Belonging (1988). La loro opera è simbiotica, come illustrano i due saggi pubblicati insieme in «Thesis Eleven» (1998). L’intento di Zygmunt Bauman in Modernità e olocausto è quello di mettere i sociologi, orgogliosi sostenitori del progetto moderno, di fronte al fatto dell’ocolausto come conseguenza della modernità, non il suo errato funzionamento, ma il suo terribile risultato. Bauman spiega qui in che modo, dopo aver visto egli stesso l’olocausto come rappresentazione di una particolare tragedia, sia ora arrivato a vederlo come la cornice di una visione del mondo. La conseguenza analitica è profonda, perché ciò che si deduce da questa visione è che l’Olocausto esprime il cammino particolare della modernità tedesca, proprio nel modo in cui Fehér, Heller e Markus hanno sostenuto in Dictatorship Over Needs (“Dittatura sui bisogni”, 1982) che lo stalinismo non fu una regressione o un “residuo”, ma un risultato del progetto di un’alternativa, la modernità sovietica. In altre parole, la modernità è prodotta dall’Olocausto, e non il contrario.

Altri esponenti della modernità L’analisi dell’Olocausto proposta da Bauman è quanto mai persuasiva, se non altro perché allude al successivo percorso che

conduce alla Postmodern Ethics ; infatti, si proclama fortemente, qui, la sostituzione della moralità (compresa quella nazista) all’autonomia etica, che si accompagna alla sostituzione della variazione e molteplicità alla contiguità con l’altro, o con gli altri. L’affermazione più generale è che l’Olocausto non è soltanto un problema ebraico né un evento della storia ebraica; l’Olocausto è nato ed è stato compiuto nella nostra società razionale, moderna, ed è quindi un problema della modernità in se stessa. «L’Olocausto è stato un fenomeno tipicamente moderno, che non può essere compreso fuori del contesto delle tendenze culturali e dei progressi tecnici della modernità» (1989; xiii), anche se il fascismo in se stesso è un fatto politico e accidentale. La differenza, per esempio, con una diffusa opinione controversa come quella espressa da Daniel Goldhagen in Hitler’s Willing Executioners , è evidente; Bauman, tanto per semplificare, vede il nazismo come un evento moderno, più che “tedesco”, che ci si doveva aspettare. Per Bauman, la preoccupazione etica è in e per tutti noi, non solo tedeschi o ebrei. Noi siamo tutti capaci di questo tipo di mostruosità, e in misura crescente, grazie alle meraviglie della tecnologia e ai suoi entusiasti servitori. Anche la sociologia, a sua volta, vi si trova compromessa in modo imbarazzante, perché essa condivide lo zelo per l’ingegneria sociale ed altre iniziative scientifiche o socio-scientifiche. Ovviamente, la modernità non è fascista, o totalitaria, ma l’Olocausto rimane un’eventualità insita in essa. Qui, tuttavia, la discussione procede nuovamente parallela a Dictatorship Over Needs (“Dittatura sui bisogni”), perché il totalitarismo viene visto più come un imperativo politicamente preferito che come una logica o necessità economica. Prima della “soluzione finale” ci fu Madagascar. Tuttavia, la politica di violenza fa affidamento su mezzi moderni di distruzione, che a sua volta dipendono da complicati equilibri che sembrano privare i processi decisionali del loro potere. L’invisibilità o la morte sociale degli ebrei diventano allora il preludio all’eliminazione, poiché il modello nazista della modernità poté, nello stesso tempo, inseguire lo sviluppo tecnologico e presentare l’eliminazione degli ebrei come sinonimo del rifiuto ideale del modernismo. Infine, i nazisti videro se stessi come “giardinieri”; i loro sogni furono alimentati da fantasie

tradizionalistiche di purezza monoculturale, in modo tale che la modernità o un certo modernismo divennero il principale strumento di un’innovazione reazionaria. L’obiettivo politico di Bauman, in ogni caso, è quello di superare la visione, propria di un Adorno (o di un Goldhagen), di un mondo diviso tra protonazisti appena nati e le loro vittime. Come Castoriadis, di cui condivide l’impegno per l’autonomia, Bauman è interessato alla dinamica che agisce tra coloro che ricevono e coloro che danno ordine, e alle differenze tra gli uni e gli altri. In che modo si esprime il genocidio, tra coloro che subiscono e coloro che perpetrano la violenza, in migliaia di atti meno percepiti d’acquiescenza attraverso la divisione del lavoro? In che modo così tanta gente ha potuto partecipare al male? Qui Bauman apre una questione vitale, che poi accompagna tutto il percorso di Postmodern Ethics . Perché, e in che modo, singoli protagonisti si adeguano al terrore? Bauman si occupa, di passaggio, della concezione esageratamente socializzata dell’individuo che viene associata alla sociologia con Durkheim. Questa parte della sua critica è particolarmente devastante, dato che la sociologia continua ad eludere il problema dell’individuo e della responsabilità individuale. Secondo Bauman, lo spontaneo ricorrere della sociologia all’ambiente significa che il problema del comportamento individuale viene sempre messo in relazione con altri fattori: con l’educazione, con la classe, con il sesso, con la cultura, o con qualsiasi altra cosa. L’idea che gli individui possano scegliere, e che conseguentemente il male sia una scelta, piuttosto che una “follia”, non è alla loro, alla nostra portata. Noi non abbiamo un’etica, ma solo un senso morale, non la capacità di autoregolarci, ma solo regole pratiche alle quali poter fare riferimento. Proprio su questo tema Bauman introduce nella sua opera la presenza di Emmanuel Levinas [autore d’origine lituana noto per temi della tradizione ebraica, come in Totalità e infinito (1961) e Altrimenti che essere (1974), N.d.T. ] e l’idea di riconoscere il volto dell’altro. Non saprei dire quale peso si debba dare a questa presenza nell’opera di Bauman, specialmente ora che Levinas è divenuto l’ultimo rifugio della redenzione teoretica vista altrove. Si potrebbe certamente

osservare che nell’opera di Bauman è sempre presente, per esempio, l’etica di Hans Jonas [per l’ovvia importanza del suo tentativo di elaborare un’etica per la società tecnologica; si pensi soprattutto al suo Il principio di responsabilità (1979), N.d.T. ] e che in generale Bauman sembra ricorrere ad altri pensatori come fonti di stimolo, piuttosto che di dipendenza. La presenza di Heidegger può certamente percepirsi nelle discussioni riguardanti lo strutturalismo o la critica della tecnologia, anche se il suo nome appare forse meno frequentemente di quello, per esempio, di Jacques Derrida [tra i principali esponenti di un movimento di pensiero tra strutturalismo e fenomenologia; autore di La scrittura e la differenz a (1967), N.d.T. ]; ma il progetto di Bauman non è neppure derridiano, perché nella sua opera si nota una varietà di riecheggiamenti e simpatie, come anche d’interessi e ambivalenze. Bauman ricorre a Kafka e Cioran, a John Carroll e Baudrillard, a Richard Sennett e Mary Douglas, a Rorty e Gellner, come anche a Canetti, Attali, Bakhtin, Blanchot, Borges, de Certeau, Eco, Schopenhauer e Steiner, dovunque ne trovi l’occasione. Potremmo arricchire l’elenco, ma senza chiarire il problema. Talvolta Bauman mostra una profonda affinità con le idee ddi Hannah Arendt [di questa pensatrice tedesca possono ricordarsi, qui, almeno Le origini del totalitarismo (1951), Vita activa (1958), e il postumo Teoria del giudizio politico (1982), N.d.T. ], sia sull’elisione del sociale e del politico che sulla natura natura etica o i presupposti del totalitarismo. Si potrebbe accennare anche alla presenza, per riecheggiamenti e saggi specifici, dell’opera di Agnes Heller [la filosofa ungherese, allieva di Lukács, autrice tra l’altro di La teoria dei bisogni in Marx (1974), N.d.T. ], come anche di Gillian Rose, Robert Musil, Sartre, oltre che di LéviStrauss, di cui Bauman si serve più per la sua antropologia culturale che per quella strutturale. Pensatori come Castoriadis e Edgar Morin diventano dei salvagente in momenti particolari. Bauman fa ricorso a idee di altri e alla sua propria esperienza di vita, a idee mutuate da Janina e dall’esperienza di sua figlia Irena, architetto, nel trattare lo spazio, e a idee su arte o estetica, provenienti dai confini recentemente riaperti della Polonia. Quando una volta, in una conversazione, gli posi l’inevitabile e noiosa domanda accademica su che cosa stesse

lavorando, egli mi rispose che non lo sapeva: «ultimamente non ho letto alcunché d’interessante». Il percorso dell’opera di Bauman è quindi più difficile da seguire, perché è meno sistematico rispetto a certi altri sociologi critici, certamente meno prevedibile di quanto lo siano un Luhmann [autore di Sociologia del diritto (1972), Struttura della società e semantica (1980-81), Amore come passione (1982), N.d.T. ] o un Habermas. Cosa verrà appresso? Non lo sappiamo, perché anche questi sono tempi postmoderni, nei quali il desiderio di controllare la creazione intellettuale è meno controllabile, o significativa, di quanto lo fosse prima. Regna l’imprevedibilità, e soltanto questa può rendere possibile la creatività, come anche la minaccia. Possiamo dire, allora, che Bauman fa virtù dell’imprevedibilità, del caos, del selvaggio, dell’alternativa dionisiaca alla ragione? Questa potrebbe essere per noi una possibile conclusione logica, se ci fossero soltanto due possibili prese di posizione, con la ragione o con il romanticismo. La logica della sfida di Bauman alla modernità, e alla sociologia, è comunque, precisamente, sfidare queste scelte e questi termini arbitrari, ciò che è in sé, ovviamente, del tutto ragionevole; dopo tutto, i più grandi romantici che conosciamo, da Rousseau a Schiller e a Marx, furono anche sostenitori della ragione. Con lo scrittore satirico viennese Karl Kraus, Zygmunt Bauman insisterebbe nel dire che se fosse costretto ad essere razionalista o romantico, allora non sarebbe né l’una né l’altra cosa. Come Kraus, infatti, Bauman è pronto a prenderci in giro, a burlarsi di noi, a deriderci, ma non solo per scherzo, o in una certa ostentazione più prevedibile di petulanza intellettuale; egli vuole anche ricordarci che queste sono parole prodotte da noi stessi per controllare il nostro modo di percepire la tradizione, che queste parole sono non meno arbitrarie ed esotiche di quanto lo siano certe categorie binarie che ci potrebbe capitare d’incontrare, costruite da certi nostri predecessori muniti di caschi coloniali, nell’antropologia coloniale o in qualsiasi museo modernista.

Alles in Ordnung (Tutto in ordine)

L’ambivalenza, come ho accennato prima, sembra essere uno dei temi chiave nella sociologia di Bauman. Modernity and Ambivalence [“Modernità e ambivalenza”, che non risulta ancora tradotto in italiano, N.d.T. ] è uno dei libri più difficili di Bauman, così come Modernità e olocausto è forse il più triste. L’impulso critico è una nota costante; ma Modernity and Ambivalence attacca il suo obiettivo in modo duro e diretto. Il problema centrale della modernità viene individuato nella sua ricerca ossessiva di ordine, di pulito, di nitido, di accurato: A è A e non B, con attribuzione di autorità divina su di noi ad ogni anomalia forzatamente inserita in egemonici sistemi di classificazione. Ma quando tutto è in ordine, Alles in Ordnung , tutto l’inferno sta per scatenarsi: ci si deve aspettare il disordine. L’ambivalenza, che ci rende ciò che siamo, è la prima vittima di questo desiderio maniacale di controllo. Il punto diretto di connessione con i temi di La decadenza degli intellettuali è la logica della classificazione, la pretesa razionalistica del progetto illuministico. L’ambivalenza, o anomalia, è effettivamente impedita dalla classificazione, perché l’ambivalenza è la possibilità di dar nome a qualcosa di molteplice, di assegnare un oggetto o un evento a più di una categoria. L’ambivalenza, per questo motivo, è normale, anche se la modernità (o il modernismo) la costruisce come anormale. L’oggetto critico di Bauman è ciò che Adorno chiamava pensiero d’identità (identitythinking ). Il sistema dominante di classificazione implica una violenza simbolica, poiché è basato su schemi d’inclusione o esclusione obbligatoria. La modernità, in se stessa, è proprio un referente linguistico di questo genere. Il motivo di preoccupazione di Bauman su questo tipo di ordine è la sua brutalità. «Il diverso da un ordine non è un altro ordine: il caos è la sua unica alternativa» (1991a: p. 7). La modernità è un sistema caratterizzato da tradizionalismo o stasi; perché, altrimenti, concetti o atteggiamenti alternativi di ordine dovrebbero risultare non accessibili? Il risultato, in ogni caso, è che proprio l’intolleranza, più che la tolleranza, diventa la norma del moderno (e, come aggiunge Bauman, se è vero che la tolleranza è un atteggiamento migliore di quello opposto, rimane però un valore più debole che forte, poiché conduce all’assimilazione più che al

riconoscimento della differenza). Il tradizionalismo della modernità significa che essa non riesce a vivere secondo le sue radicali pretese. La forza dell’argomentazione di Bauman è nel suo percepire che l’ambivalenza è qualcosa che si spreme dalla modernità; essa è “lo sperpero della modernità ” (1991a: p. 15). Solo, potremmo aggiungere, essa è anche la sostanza della modernità, perché l’ambivalenza continua a prodursi ogni giorno della nostra vita: la modernità, anzi, è forse una lotta tra l’ordine e l’ambivalenza. Il culmine dell’attacco moderno all’ambivalenza viene testimoniato, di nuovo nell’Olocausto, non tanto tedesco quanto moderno, nel suo basarsi sulle ambizioni coltivatrici-generatrici-chirurgiche dell’ingegneria sociale. La forza d’immaginazione dell’ingegneria sociale poggia sulla sua pretesa di compimento, o di stasi (1991a: p. 39); questo perché, tanto per ricollegarci con Socialism: The Active Utopia [“Socialismo: l’utopia attiva”, non ancora in traduzione italiana, N.d.T. ], l’utopia è qualcosa che non trova espressione nei fatti, più che una condizione di cose da realizzare effettivamente. Le pretese di stasi o compimento sanno di morte, ed in entrambi i casi, sia nello stalinismo che nel nazismo, postulano una vittima in quanto impedimento: una classe, i gulag, nel primo caso, una razza, gli ebrei, nel secondo. Modernity and Ambivalence segue questa idea in direzione diversa, discriminando ormai la sociologia dello straniero come una violazione di ordine. Gli stranieri, infatti, sfuggono a classificazioni. Essi violano sia il senso di luogo che quello di tempo o origine. La preoccupazione centrale dell’attacco di Bauman alla “coltivazione” (gardening ) è chiaramente nella sua critica a questo tipo di ordinamento organico; e questo è uno dei motivi per cui l’opera di Bauman non può essere assimilata al romanticismo e rifiutata come tale. La modernità, secondo lui, è in se stessa ambivalente, in quanto è anche una ribellione proprio contro questa fissità, contro il destino e la destinazione. La modernità, in tal modo, rimane fondamentalmente contraddittoria (1991a: p. 69); di qui la successiva, più esplicita percezione secondo cui la postmodernità è la modernità senza illusioni (1993: p. 32). Gli entusiasmi di Bauman fluttuano tra una postmodernità più debole ed una più forte: più debole, in questo senso di mutamento di mentalità in seno alla

modernità; più forte, nel senso che il postmoderno diviene pluralistico, aperto, innovatore (sebbene questi attributi siano anch’essi modernistici). La postmodernità implica un risvegliarsi dal sogno moderno, o modernistico. Le argomentazioni riguardanti qui l’ambivalenza conducono poi ad altre sui limiti dell’assimilazione, che in Postmodernity and its Discontents [trad. in ital. con il titolo Il disagio della postmodernità ] si collegano con l’idea secondo cui le società ingeriscono o espellono ciò che è estraneo (1997: p. 18). Ma Bauman è anche incline a sostenere che l’idea stessa di estraneo cambia, a seconda del suo contesto; tutti, infatti, siamo ormai stranieri. Si ricorre poi a Luhmann, ed ora anche a Maffesoli, per ampliare queste asserzioni su ciò che viene dopo i concetti di appartenenza, differenziazione, identità molteplici e neotribalismo, nella disperata ricerca di una comunità immaginata. Tuttavia, in tutto questo l’equilibrio critico non vacilla mai; Bauman non si lascia sedurre dalla facile conclusione che anche noi, tutti, siamo dei senza tetto; perché alcuni lo sono più di altri. Modernity and Ambivalence si chiude con l’emergere dei nuovi poveri, e con la nostra indifferenza nei loro confronti. «È solo fin troppo facile per la tolleranza postmoderna degenerare nell’egoismo dei ricchi e degli abbienti» (1991: p. 259). Quindi, questa così devastante critica della modernità finisce con una riconsiderazione del socialismo come «ultima posizione della modernità», sua controcultura, e con una prudente difesa della pratica dell’ingegneria sociale; può, questa, agire sempre in modo peggiore dei problemi che dichiara di voler risolvere? Tutte le posizioni politiche, infatti, hanno dei loro costi, e l’astenersi dall’ingegneria sociale non avviene gratuitamente. La modernità – almeno su questo punto Bauman mostra affinità con Habermas – è tuttora un progetto, non realizzato, ma ancora tale, perché irrealizzabile (Beilharz, 1994, 1997).

Sociologia e Weltverbesserung (riforma/miglioramento del mondo)

La sociologia, per estensione, è il progetto irrealizzabile della modernità; e così, proprio in tale contesto Bauman affronta il problema di una separazione tra sociologia e postmoderno. Affrontiamo ormai, in sociologia, una scelta tra sociologia postmoderna ed una sociologia del postmoderno? (Bauman, in Beilharz, Robinson, Rundell, 1992). Una sociologia postmoderna comprenderebbe il momento postmoderno, una sociologia della postmodernità, invece, considererebbe questo fenomeno come ciò che ha bisogno di essere spiegato, non come la spiegazione. Ma in un senso più ampio, ovviamente, anche la sociologia – modernità è esattamente ciò che ha bisogno di essere spiegato, o interpretato, e gli aspetti del postmoderno non ripeteranno semplicemente i problemi della modernità o del modernismo. L’unica posizione che possiamo realisticamente assumere, allora, è la stessa ambivalenza, sia verso il postmoderno, sia specialmente verso la modernità e, in questa estensione, verso la sociologia. Bauman, infatti, postmodernizza, ma non rigetta, il socialismo o la sociologia, anche se deludono così cocentemente le nostre speranze o, peggio ancora, diventano parte dello stesso moloch cui si sacrifica. Ci troviamo di fronte ad una scelta non semplice, contraria all’opzione, battagliera e alla moda, tra modernità e postmodernità. Anche la stessa sociologia è animata dall’ambivalenza. La sociologia si muove storicamente tra il tentativo di spiegare e quello di cambiare il mondo; la sociologia non s’identifica certamente con il marxismo, e neppure con il socialismo, ma entrambi tendono a correre in tandem ed emtrambi sono caratterizzati, inoltre, da una profonda ambivalenza nei confronti dello Stato. La sociologia, in particolare, non sa decidere in definitiva se sia meglio lavorare per lo stato nella causa della riforma, o mantenere una distanza critica da chi è impegnato a sostenerla. Parte di questo programma è così, ovviamente, al di fuori del nostro controllo. Vi sono momenti nei quali la spinta alla riforma impegna le nostre energie, ed altri nei quali la sociologia diviene parte del problema, e dobbiamo parlare contro l’eventualità che entri nelle strategie direttive di controllo. Conseguentemente ci troviamo costretti ad essere ambivalenti per

quanto riguarda anche la sociologia, e non solo la modernità e la postmodernità. La situazione non è differente per quanto riguarda il marxismo rispetto al postmarxismo. La stranezza, qui, è che gli slittamenti semantici sono stati enormi, specialmente quelli che identificano modernità, strutturalismo e marxismo, contrapponendoli rispettivamente ai fantasmi rappresentati da postmodernità, poststrutturalismo e postmarxismo. Il marxismo, infatti, può essere stato una fonte dell’aspetto aggressivo del modernismo (come anche del romanticismo), ma in effetti è Weber, piuttosto che Marx, il sociologo della modernità nell’individuazione di sfere differenti di valore. La teoria marxiana della modernità è premoderna, nel senso che essa è singolare nella sua logica: la società è economia. Per Bauman questo è un limite fondamentale, e non solo perché in tal modo questa teoria è monologica, ma anche perché essa innalza l’economia politica al di sopra della società civile. Identificare il marxismo con la modernità, o col modernismo, significa equivocare fra tutti e tre questi concetti. Infatti, il marxismo critica la modernità in quanto economia, ma esso è anche più complesso di quanto lo sia il modernismo (cioè il romanticismo, ecc.), e a loro volta i modernismi succedutisi nel ventesimo secolo sono certamente più complessi di quanto lo sia stato il marxismo. E con questo non diciamo nulla dello strutturalismo o di teorie successive, che però, rigorosamente parlando, non sono né economia né cultura, quanto invece tendenze intellettuali che soltanto gli intellettuali hanno potuto scambiare per storia. Ma gli esseri umani vivono d’illusioni, anche se, come spera Bauman, l’atteggiamento postmoderno potrebbe essere una modernità senza illusioni; forse soltanto con illusioni meno dannose, postfaustiane. Le idee sviluppate successivamente, in Postmodern Ethics [“Etica postmoderna”] sono tanto non-moderne quanto postmoderne. La modernità sostituisce i concetti di stato o “società” con quello di socievole, i concetti di moralità e in definitiva di legge con quello di etica. Per Bauman, comunqe, i punti di riferimento sono Jonas, Levinas e Løgstrup, piuttosto che Aristotele o Kant. Ciò che qui si rende più evidente, per esempio in Life in Fragments , è un arco

esistenziale che nelle prime opere di Bauman riecheggia Sartre e Camus, e procede parallelamente forse più con Agnes Heller che con Castoriadis. La differenza tra Bauman e Levinas è nel fatto che in Bauman il sociale è basato sulla diade, ma non è riducibile ad essa; c’è sempre un terzo elemento, il lavoro sociale e individuale nello stesso tempo, come anche la libertà o la dipendenza, e in modo tale che Life in Fragments ripercorre tutti quegli altri temi (lo straniero, gli intellettuali, il razzismo, la crudeltà, le tribù, ecc.), finché finalmente (almeno per il momento) il tono di un’opera come Il disagio della postmodernità diviene più chiaramente postmoderno, tanto da celebrare gli sviluppi postmoderni nell’arte nello stesso tempo in cui stigmatizza la grettezza dell’indifferenza politica postmoderna al fatto dell’esclusione sociale. Dopo Il disagio della postmodernità , il postmoderno appare ancora una volta come parte del problema. Se il tono di quest’ultimo libro è in qualche modo differente, ciò può riflettere il ritorno di Bauman al suo punto di partenza, alla legittimità in Varsavia; i suoi punti di riferimento sono altrettanto spesso polacchi quanto non polacchi, specialmente quando si arriva alle arti, e qui le arti in particolare sembrano assumere l’aspetto sia critico che creativo. Dire “no” all’arte postmoderna significa dire no a noi stessi; senza che questo abbia mai fermato qualcuno. Sulla strada, in ogni caso, esse continuano a soffrire. La globalizzazione uniforme è un’illusione, più o meno come il concetto postmodernistico d’emancipazione.

Appendice: scendendo per le scale... Se, in quanto uomini, noi viviamo d’illusioni, lo facciamo tuttavia con nous , cioè con la comune intelligenza. Ed anche questo costituisce una tendenza occulta negli scritti di Bauman. I “riformatori del mondo” (Weltverbesserer ), queste stirpi perenni di benefattori che vogliono migliorare la nostra vita per noi, che ci piaccia o no, diventano preoccupanti quando pretendono di darci leggi politiche o, in mancanza di queste, leggi economiche attraverso il loro controllo

delle risorse della vita quotidiana. In mezzo a tutte le costrizioni della nostra vita, tuttavia, noi continuiamo a badare ai fatti nostri. Bauman coglie sia il tono che il contenuto di questa nostra percezione nel penultimo capitolo del suo brillante manuale introduttivo, Thinking Sociologically (1990: trad. it. Pensare sociologicamente ). Il tono, in questo libro, è nuovamente colloquiale, ricollegabile con opere passate attraverso lo stile ermeneutico, come anche attraverso le lezioni negative della storia della modernità in Legislators and Interpreters (1987: trad. it. La decadenza degli intellettuali ) e le implicazioni positive di Hermeneutics and Social Science (1978: non ancora tradotto in italiano). Il capitolo in questione è intitolato «Going About the Business of Life» (“Badare ai fatti della vita”), e vi si raccontano le difficoltà della comune autonomia, in questo caso il tentativo di fissare un ribelle interruttore elettrico nella propria casa. Ci troviamo tutti a dover affrontare il problema della specializzazione. «E questo accade alla stessa maniera con qualsiasi altra cosa: spazzare il pavimento, falciare il prato, tagliare le siepi, cuocere un pasto o lavare i piatti. In tutte queste funzioni l’efficacia racchiusa in attrezzi e utensili tecnologici ha preso il sopravvento sulle capacità che una volta erano possedute da tutti, le ha affinate e acuite» (Bauman, 1990: p. 199). Siamo tutti sempre più consapevoli di essere sempre meno capaci, nella sociologia come nelle nostre abilità individuali; l’eccessiva specializzazione non solo diminuisce l’affinità tra gli uomini, ma fa di tutti noi degli idioti, assegnandoci una seconda natura che ormai diamo anche per scontata. Come ospite della famiglia Bauman a Leeds, mi capitò una mattina, scendendo le scale, di sorprendere il sociologo mentre stava spazzando. Egli mi guardò intenzionalmente e mi disse che quella era una situazione simile alla nostra: ogni giorno noi spazziamo, ogni giorno lo sporco ritorna e noi dobbiamo ripetere il rituale, ma ormai, in tempi postmoderni, senza illusioni. Se, come ho accennato sopra, c’è un indizio esistenziale nell’opera di Bauman, accanto a tutti gli altri, scopro allora che c’è anche un indizio antropologico, una percezione che tiene in gran conto la vita quotidiana e le sue abitudini, così come ne riconosce le difficoltà. Questo mi sembra mostrare la

sociologia nel suo aspetto migliore, quello più profondo e più prosaico nello stesso tempo. Perché il messaggio di Bauman, a tale riguardo, è semplice. Esso implica che noi dobbiamo non tanto accettare il caos, quanto invece formarci un nostro proprio ordine, crearci un’etica valorizzando le comuni occasioni della vita che ci si presentano. Noi mostriamo la nostra umanità non in pretese al sublime o al perfetto, ma nell’attenzione che mettiamo nelle abitudini della vita quotidiana e che ci prestiamo reciprocamente. In tal modo, nutriamo ancora la prospettiva di esercitare la solidarietà, o almeno di comportarci come se fosse possibile. Gli indizi sono davanti a noi; ma questo è un viaggio senza fine. La stranezza e il fascino immancabile dell’opera di Bauman consiste forse nel fatto che Bauman può dirci tante cose terribili e continuare ad aspettare che noi ci comportiamo meglio. Dobbiamo scrutare nell’abisso della modernità, sia come olocausto che come mortalità, per poter percepire la misura della nostra difficile situazione, per poter scorgere ciò di cui siamo capaci, a titolo di esempio o di esempio contrario. La sociologia, nell’opera di Bauman, ci collega come soggetti, ma lo fa attraverso la ricerca del più piccolo dettaglio personale, come anche dei più gravi o più impellenti problemi sociali. Tutto ciò che nello stesso tempo sembra così opprimente nella sua linearità burocratica, così come si rivela nella sociologia di Bauman, viene dimostrato che esiste perché noi lo rendiamo tale. Proprio questa combinazione del cosmico e dell’individuale e tutto ciò che vi risulta frapposto suscitano la profonda sensazione d’ambivalenza che c’è in noi moderni, non solo circa le dimensioni del passato da noi condivise, ma anche circa quelle future. Per Bauman, proprio l’ambivalenza tiene insieme tutto questo; e noi siamo tutti ambivalenti, anche se le nostre situazioni sociali debbono ancora diventare adeguate a noi, o noi dobbiamo adeguarci ad esse. Quella che sembra la stabilità delle nostre istituzioni sociali rimane fragile; la nostra capacità di creare una solidarietà sociale e d’ideare una società buona rimane aperta. Le nostre responsabilità sono di fronte a noi, come sociologi e come cittadini, così come lo sono le nostre possibilità di pensare e d’agire.

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2. L’INTERVISTA DI «TELOS» Nato nel 1925 in Polonia, Zygmunt Bauman ha insegnato sociologia in paesi come Israele, Stati Uniti, Regno Unito e Canada. Oggi è professore emerito dopo vent’anni di servizio all’Università di Leeds. La sua produzione data dagli anni Cinquanta e tratta, tra le altre cose, questioni quali le classi, il socialismo e l’ermeneutica. Se già queste opere hanno suscitato notevole interesse, non possono essere messe a confronto, però, con l’influenza che gli scritti di Bauman hanno esercitato dalla fine degli anni Ottanta, quando egli cominciò ad analizzare modernità e postmodernità. In Legislators and Interpreters [La decadenza degli intellettuali ], del 1987, Bauman analizza il ruolo degli intellettuali nello stato moderno. Egli mette in risalto che, data la loro nozione elitaria di cultura, gli intellettuali sono stati gli architetti del senso moderno di cittadinanza. Essi hanno anche contribuito a legittimare gli sforzi dello stato moderno per controllare e «civilizzare» i suoi cittadini. Nelle condizioni postmoderne, tuttavia, il ruolo degli intellettuali muta in quello di «interpreti», mediatori tra differenti culture. In Freedom [La libertà ], del 1988, Bauman ci offre un circostanziato resoconto storico del concetto occidentale di libertà ed un’interpretazione sociologica della sua funzione. Egli sostiene che la libertà dei consumi è divenuta decisiva sia per l’integrazione sociale che per l’identità individuale. Questo nuovo meccanismo d’integrazione è uno dei fenomeni che Bauman definisce come postmoderno nell’intervista di questo capitolo. Modernity and the Holocaust [Modernità e olocausto ], del 1989, che vinse il Premio Europeo Amalfi per la sociologia e la teoria sociale, è l’opera più famosa di Bauman. Essa ha avuto un ampio influsso al di là della sociologia. In essa Bauman cerca di capire ciò che l’Olocausto può insegnarci sulla modernità. Una delle sue principali conclusioni è che il genocidio non fu semplicemente un’esplosione irrazionale d’animalità o un fallimento della civiltà. Al contrario, questo

assassinio di massa avvenne in «condizioni civili», con l’appoggio di un’organizzazione burocratica e con efficace razionalità. Il punto essenziale dell’argomentazione di Bauman è nel ritenere che l’identificare la modernità con la civiltà, intesa come progresso morale, costituisca un modo moderno d’ingannare se stessi. Egli sostiene che la sociologia risulta in gran parte irretita in questo mito moderno di autolegittimazione, poiché intende la moralità come prodotto esclusivo delle istituzioni sociali. E indica in Durkheim e Freud le due figure principali che sostengono la nozione di popolo come esseri che sono a priori amorali e quindi hanno bisogno d’istituzioni (Durkheim) o di cultura (Freud) per poter diventare sociali (morali). Traendo ispirazione dalla filosofia di Emmanuel Levinas, Bauman tende ad interpretare la moralità non come qualcosa che le istituzioni sociali creano, ma come qualcosa che esse manipolano [corsivo del traduttore]. In Modernity and Ambivalence (1992) Bauman esamina in che modo la politica, la scienza, la filosofia e la cultura dell’epoca moderna siano state ossessionate dall’idea di ordine. Il problema, in fatto di ordine, è che esso incoraggia l’intolleranza, perché i tentativi di stabilire un ordine ben definito partono dal presupposto che l’oscuro, l’ambiguo, sia qualcosa d’indesiderabile. Stabilire un ordine presuppone un’esclusione e una delegittimazione dell’altro, cioè dell’ambiguo che non sia conforme alle categorie di un dato ordinamento. Di fronte a questo problema, Bauman non suggerisce una vuota celebrazione del caotico. Egli considera, piuttosto, in quale misura la postmodernità sia un’epoca in cui la lotta contro l’ambiguità sia meno intensa, in cui gli uomini possano accettare l’ambivalenza ed essere, in tal modo, più tolleranti. Intimations of Postmodernity [«Segni della postmodernità»; non risulta una trad. it., N.d.T. ], del 1992, è una raccolta di saggi che si conclude con la formulazione di una teoria circa la natura contingente della vita sociale postmoderna. Di fondamentale importanza è, qui, il tentativo di Bauman di formulare un vocabolario sociologico per l’esperienza postmoderna. Un tale sforzo richiede la liberazione da concetti sociologici convenzionali, come quelli di «società», «gruppo

normativo», «socializzazione», ecc. Nel contesto di altre interpretazioni sociologiche, le analisi di Bauman sono particolarmente originali quando trattano moralità ed etica. Mentre la maggior parte delle considerazioni sulla postmodernità mettono in risalto l’estetica, Bauman sostiene che la postmodernità implica una riconsiderazione dell’etica. L’intervista che segue ebbe luogo a Leeds (Inghilterra) nel giugno 1992. Con tale intervista si è cercato di ottenere da Bauman chiarimenti sul suo modo d’intendere modernità, postmodernità e problemi connessi.

Modernità/Postmodernità Cantell & Pedersen : Quali sono le sue idee che Lei considera centrali sul rapporto tra modernità e postmodernità? Zygmunt Bauman : Oggi direi che la postmodernità è la modernità für sich [per se stessa], la modernità che va oltre la sua falsa consapevolezza ed arriva ad interpretare ciò che effettivamente è venuta producendo dall’inizio, cioè ambivalenza e pluralismo, e che inoltre si rassegna al fatto che gli intenti stabiliti in origine, cioè l’ordine razionale e la verità assoluta, non verranno mai raggiunti. Alcuni esponenti della teoria sociale suggeriscono che dovremmo parlare di «tarda modernità» (late modernity ), mentre io preferisco il termine «postmodernità», che fornisce un maggiore coraggio intellettuale: non si è vincolati a certe formulazioni tipiche dei tempi moderni. Si può cercare di mettersi in disparte e guardare dall’esterno ciò che sta accadendo, e presentarsi con nuovi concetti, nuove formulazioni e nuovi modelli. Ritengo semplicemente vantaggiosa la decisione di parlare di postmodernità, anziché di ultima modernità, senza necessariamente accettare ogni sciocchezza che venga scritta nel nome della teoria postmoderna. A parte ciò, non c’è molto in questa discussione terminologica, perché lo stesso termine «postmodernità» è un riconoscimento del fatto che noi siamo legati alla modernità. Il «post» del termine fa riferimento non a qualsiasi cosa, ma solo a questo particolare tipo di società.

C&P : Perché è importante la discussione sulla postmodernità? ZB : Perché essa rappresenta uno stadio autocosciente nello sviluppo della modernità: noi siamo maledettamente sicuri di ciò che facciamo. Sappiamo, così, che ambivalenza e contingenza sono qui per rimanervi. Il compito, quindi, è quello d’imparare a convivere con esse. C&P : Per poter comprendere la condizione postmoderna Lei ha suggerito di rinunciare a categorie sociologiche classiche come società, gruppo normativo (classe o comunità), socializzazione e controllo, e di sostituirle con «socialità», «habitat », «auto-costituirsi» (self-constitution ) e «auto-riunirsi» (self-assembly ). Perché? ZB : Non appena siamo autocoscienti, non appena sappiamo che contingenza e ambivalenza sono qui per rimanervi, dobbiamo cessare di parlare di sistema sociale, società, e cominciare a parlare di processi come socialità, habitat , auto-costituirsi. Con queste categorie s’intende attirare l’attenzione sul flusso spaziale e temporale della vita contemporanea. Esse acquistano il loro significato dall’opposizione al vocabolario ortodosso, costituito da termini come «struttura», «sistema», «costrizioni», «determinanti», ecc., organizzato attorno all’immagine della vita come «palla da biliardo». Oggi, ciò che viene dato per «scontato» è di meno di quanto lo sia stato prima, ed ancor meno «per sempre». Le «comunità» d’appartenenza si uniscono e si disgregano, e l’atto di auto-costituirsi è praticamente sinonimo di questo processo. Entriamo in rapporti e li creiamo con l’entrarvi, usciamo da rapporti e li distruggiamo con l’uscirne. Mutevoli sono gli interessi, mutevole l’attenzione, mutevoli sono i centri d’interazione e/o d’identificazione. Si pensi a vortici trasportati dalla corrente: sono qualcosa in fase di sviluppo, che però ritengono la loro «identità» solo a condizione che non vengano trattenuti. La nostra vita è trascorsa in maniera simile per lungo tempo, ma abbiamo creduto solitamente che in qualche parte dietro l’angolo c’è un mondo ordinato, trasparente, razionale, un punto finale della storia. Ogni cosa arriverà ad un punto determinato non appena avremo raggiunto il mondo perfetto, razionalmente organizzato. La stessa prospettiva si

ha dovunque, da Marx a Weber e Durkheim, per non parlare delle ideologie politiche elaborate per sostituire il mondo caotico, disordinato, con realtà non confuse. L’ultimo grande tentativo di presentare il mondo come un sistema ordinato fu la teoria di Talcott Parsons: un tentativo d’imporre su un mondo disorganizzato un certo tipo di ordine, scegliendo alcuni aspetti come normali ed accantonandone altri come anormali, devianti, trasgressivi, ecc. Ma ogni tentativo di parlare di «società» e di presentare un modello coerente è necessariamente destinato ad essere selettivo, a proclamare arbitrariamente certi modi di vita sociale come la «norma» e a classificare di conseguenza tutti gli altri fenomeni come anormali: o il residuo di un passato retrogrado, che finirà con l’eludere i suoi scopi e scomparire, o qualche ingerenza estranea da eliminare o emarginare. C&P : Cos’è che caratterizza le forme postmoderne di comunità? ZB : Potrei rispondere molto sinteticamente che la forma più caratteristica di questo tipo di comunità è la fluidità, la flessibilità, la mutabilità. Ciò che ho sostenuto in Modernity and Ambivalence , ma anche in Intimations of Postmodernity , è che le comunità postmoderne somigliano più alle comunità estetiche di Immanuel Kant che alle Gemeinschaften di Ferdinand Tönnies, che precedono e determinano le scelte dei membri. Esse non hanno altra solida base che l’impegno dei membri a perseverare, in modo tale che le comunità vivono fino a quando l’attenzione dei membri rimane viva e l’impegno emotivo è forte. Altrimenti, finiscono semplicemente con lo scomparire. C&P : Il postmoderno viene spesso associato all’estetica. Così, Featherstone (1991) parla di estetizzazione della vita quotidiana, e Harvey (1989) vede il postmoderno come l’egemonia dell’estetica sull’etica. Sebbene anche Lei parli di estetica, la sua attenzione centrale è rivolta all’etica. La postmodernità è l’epoca in cui la moralità è vista di più in coloro ai quali essa giustamente appartiene, cioè ai singoli protagonisti. Secondo Lei una tale opinione è contraria alle teorie della postmodernità che danno risalto all’estetica? ZB : Io sono incline a dare risalto all’aspetto etico della

postmodernità. Sono d’accordo con quanti scrivono d’estetizzazione; ho appena detto che le comunità postmoderne ricordano le comunità estetiche. Ma le questioni etiche sono più centrali per la postmodernità perché il modo moderno di trattare la regolamentazione etica dei rapporti umani sta arrivando ad una conclusione. Questo modo moderno è stato duplice: da una parte esso è stato un tentativo di sostituire la responsabilità morale degli individui con quella di istituzioni, di organizzazioni come lo Stato o la Chiesa; dall’altro esso è consistito in ciò che io ho chiamato «adiaforizzazione»; nel Medio Evo i concili della Chiesa furono soliti decidere che certe questioni erano «adiaforiche», cioè indifferenti dal punto di vista della fede, cosicché la Chiesa non prese posizione nei loro confronti; esse non implicavano né il peccato né la virtù. Io uso il termine «adiaforizzazione» come un’allegoria: oggi è accaduto che un certo numero d’importanti azioni umane sono state dichiarate moralmente adiaforiche, cioè indifferenti dal punto di vista morale. La maggior parte delle attività regolamentate da organizzazioni sono soggette all’adiaforizzazione: si compie il proprio dovere senza assumersi una responsabilità morale per esso. Tutte e due le forme di regolamentazione morale sono ormai in crisi: non ci affidiamo più a grandi istituzioni perché ci dicano cosa dobbiamo fare. L’autorità di Chiese, partititi politici, istituzioni accademiche ecc. sono chiaramente in declino. La responsabilità sottratta agli individui sta tornando: tu e io siamo lasciati pressoché soli con le nostre decisioni. Non abbiamo un codice morale che sia assoluto e universale in tutta la sua visibilità. Ci troviamo nuovamente di fronte a problemi morali come se la modernità non sia un fatto accaduto: siamo spinti indietro sulla responsabilità individuale. Proprio per questo ritengo necessaria una revisione delle teorie sociologiche della moralità che vedono la società come artefice e custode della moralità. Mi sembra che questo sia un elemento di fondamentale importanza in qualsiasi tentativo di capire la condizione postmoderna. C&P : Vede delle somiglianze tra tempi premoderni e postmoderni? ZB : Talvolta noi chiamiamo le società premoderne «tradizionali».

Quella che noi chiamiamo la regola della «tradizione» è in effetti il semplice riflettersi di una condizione in cui viviamo una situazione riassumibile nella formula «io-guardo-te-tu-guardi-me», in cui ciascuno è sotto controllo, tenuto a freno in un certo livello di abitudini e consuetudini comuni a tutti. Questa, tutto considerato, è stata la situazione premoderna. Essa è stata sostituita dall’anonimità della vita moderna. Diversamente dai tempi premoderni, nei tempi moderni viviamo per lo più tra estranei che non si conoscono reciprocamente. Il problema, quindi, si riduce a questo: in che modo è possibile assicurare una certa prevedibilità e un certo ordine nel comportamento umano, in assenza di un controllo visivo dei vicini, di pressioni esercitate dal vicinato o dalla comunità locale? Nella modernità ciò è stato fatto stabilendo codici morali obbligatori basati sull’oppressione, che ci ha tenuti effettivamente in riga, e rendendo gran parte del comportamento umano moralmente indifferente. Ai nostri giorni continuiamo a vivere in compagnia di estranei, e da questo punto di vista nulla è cambiato: non siamo tornati alla comunità locali di Tönnies. Tuttavia, il potere del «grande codice» non esercita più il controllo di una volta, e così, per la prima volta, siamo costretti a negoziare i nostri rapporti con il nostro partner sessuale, il nostro coniuge, i nostri figli, i nostri genitori, pur portando il peso della responsabilità delle conseguenze. C&P : Molti si sentono a disagio nei confronti della postmodernità, che accusano di relativismo nichilistico. Ma la categoria del nichilismo è di scarso valore descrittivo ed è maggiormente una categoria polemica che ha come bersaglio non chi è privo di valori, ma possiede valori diversi. Perché quest’accusa è così comune? ZB : Bene, posso darvi solo la risposta implicita nella vostra domana, che rientra nel senso comune. Sogniamo tutti un terreno saldo su cui camminare. Ma la postmodernità, la quale non implica che «tutto va e procede secondo i tuoi desideri», significa semplicemente che non ci sono norme rigide per separare il modo corretto da quello errato di procedere, la cultura giusta da quella erronea, ecc. E questo ci riconduce alla questione della scelta e

responsabilità morale: essa ti rende responsabile, ma a molti non piace. I decostruzionisti mostrano che ogni opinione, definizione e affermazione anche risoluta è solo l’intersecarsi di molte interpretazioni differenti ed arbitrarie. E di qui si può andare solo ad un’altra interpretazione. Non dall’errore alla verità, ma da un’interpretazione ad un’altra, e proprio questo è ciò che preoccupa, proprio questo è il motivo delle obiezioni a questo moderno scetticismo. C&P : «La postmodernità è una possibilità di modernità. La tolleranza è una possibilità di postmodernità. La solidarietà è una possibilità di tolleranza»: è quanto Lei scrive in Modernity and Ambivalence . Come arriviamo dalla tolleranza alla solidarietà? ZB : Questa è la domanda più difficile. La mia risposta è semplice: non lo so. Penso che nel mondo postmoderno ci troviamo continuamente di fronte a delle scelte, e così non saremo mai sicuri che quella effettuata sia la giusta; e vi sono sempre due tipi di tolleranza: una conduce all’indifferenza o addirittura ad una specie di eterofobia che attualmente sta guadagnando forza in tutta l’Europa; l’altra possibilità teoretica è, ovviamente, la solidarietà, ma io non saprei dire come ci si possa arrivare. Non sono dedito a profezie. La scienze sociali non hanno credenziali per fare dichiarazioni profetiche. I cultori di scienze sociali che usano la loro autorità per fare previsioni sono falsi profeti. Tutto ciò che possiamo fare è riflettere su varie possibilità. C&P : Suggerirebbe di accettare ciò che è contingente come un modo per coltivare un atteggiamento solidale? ZB : Sì, ma stiamo parlando di tolleranza verso la diversità, e questo è un problema estremamente complesso. Non è facile dire in quale misura l’inquietudine che si prova in presenza dell’altro, dello sconosciuto, dello straniero, sia più forte di qualsiasi tipo di assetto sociale. Ciò che sta accadendo ora in Europa è un aumento estremamente rapido del fenomeno migratorio. E insieme alla crescente unità dell’Europa crescerà sempre di più anche la migrazione; si può quindi supporre che le popolazioni diverrano sempre più eterogenee e che la presenza dell’altro, dello straniero,

diventerà un fenomeno normale. Una tale situazione non causa alcuna perturbazione sociale in tempi di prosperità, quando ci si sente economicamente sicuri. L’attuale esplosione d’eterofobia, di nazionalismo e di astio nei confronti degli immigrati, ecc., è legata all’attuale crisi economica e alla disoccupazione. Quanto durerà questo fenomeno è difficile dirlo. C&P : Lei sta prospettando una condizione postmoderna caratterizzata dalla varietà, dal pluralismo, dall’ambivalenza e dalla contingenza. Quali ne sono, secondo Lei, le dimostrazioni più evidenti? ZB : Questa è una domanda di fondamentale importanza. Vorrei addurre qualche esempio di questo diffondersi dell’ambivalenza e del pluralismo. Ricordate il concetto di catarsi espresso da Aristotele, la sua teoria della tragedia? Il compito di una rappresentazione teatrale era quello di offrire agli spettatori una catarsi, e catarsi significava «purificazione». La rappresentazione teatrale mostrava persone che in un certo senso si erano perdute. Esse si trovavano in una situazione anormale che creava loro molta sofferenza. Al termine della rappresentazione l’anormalità era vinta e si tornava al normale: la norma morale era stata ripristinata. L’arte contemporanea non svolge il ruolo di catarsi per la semplicissima ragione che gli artisti contemporanei non ritengono vi sia un «normale» in quanto differente da una condizione umana anormale; secondo loro esiste una certa legge morale o un comandamento generale, cui è possibile tornare dall’aberrazione. Ciò che sperimentiamo come una situazione difficile, un’incertezza, non è un’anormalità, ma una condizione umana permanente. Tutto è incerto, non c’è una soluzione accettabile con sicurezza alla fine di una rappresentazione teatrale, di un romanzo, di un film dei tempi moderni. Ci viene detto, anzi, che se fossimo alla ricerca della certezza e di risposte assolutamente sicure, questa ricerca sarebbe vana. Nell’arte contemporanea il mondo non viene presentato come diviso in buoni e cattivi. I film gialli di spionaggio, per esempio, sono tipicamente ambivalenti, con eroi che commettono crimini orribili per la difesa del loro paese. Michail Bachtin elaborò il concetto di

cultura «carnevalesca» in rapporto al Gargantua e Pantagruel di Rabelais. La cultura «carnevalesca» era il rovesciamento temporale della vita ordinaria, con lo scopo, secondo Bachtin, di mettere in rilievo la norma così come questa dovrebbe essere nella vita quotidiana, e renderla più sopportabile. Nella cultura contemporanea la cultura «carnevalesca» si è spostata dai margini al centro. In Gran Bretagna il ciclo annuale è costituito da due parti. Una è quella della gente che risparmia denaro per le vacanze estive, quando si reca in qualche mini-Disneyland, in aree speciali riservate alle vacanze; l’altra è la loro preparazione alle festività natalizie. Gli elementi del carnevale dominano nell’anno, dando significato alla vita normale. Per Bachtin il carnevale era una volta appena una breve eccezione per meglio sottolineare l’austerità della vita normale. Oggi i ruoli sono stati rovesciati. Peggio ancora: l’essere «mostrati alla TV» è il certificato della realtà. L’essere un gioco è la condizione dell’essere reale, e proprio per questo, in occasione di eventi familiari, per rendersi sicuri che essi siano reali, questi eventi vengono messi sul video. L’essere visti su uno schermo è la definizione contemporanea dell’essere «effettivamente reali». Ciò che si era soliti ritenere un riflesso della realtà è divenuto la norma della realtà. Un altro esempio della diffusione dell’ambivalenza e della contingenza è il fatto che la suspense della diffidenza non è più un fenomeno temporaneo, ma una condizione permanente. La differenza tra simulazione e dissimulazione è stata erosa, e per questo Baudrillard parla di simulacro: né simulazione né dissimulazione. Noi non pensiamo più che la distinzione tra parvenza e realtà sia così terribilmente importante.

Libertà e repressione C&P : In Freedom [La libertà ] Lei ha sostenuto che la società contemporanea trova la sua integrazione attraverso la libertà (libertà del consumatore), non attraverso l’oppressione della libertà. Più recentemente, in Modernity and Ambivalence , Lei analizza in che

modo noi diveniamo liberamente costruiti come «entità intrinsecamente non-autosufficienti» nella nostra dipendenza privatizzata dalla capacità. Sembrano esserci due differenti affermazioni sulla libertà nella sua opera. Una è che le scienze sociali hanno sottovalutato la relativa autonomia degli esseri umani. L’altra è che nella postmodernità la libertà acquista un ruolo storicamente eccezionale. È d’accordo con questa lettura? ZB : Sì, ma la questione non è riducibile semplicemente al fatto che la condizione postmoderna conceda più libertà agli individui rispetto alla modernità. Effettivamente, non saprei misurarla. Penso che ogni libertà sia una relazione sociale: quanta più libertà ho io, tanta di meno ne ha qualcun altro. Libertà significa capacità di agire a proprio piacimento, e se si è in grado di possederla a proprio modo , ciò significa che qualcun altro deve giungere ad un compromesso e arrendersi. Essa non ha a che fare con la libertà verso la natura, come, in particolare, la libertà dello scultore che scolpisce la pietra e ne muta la forma: nel suo caso, quante più abilità egli possiede, tanto più egli è libero di realizzare i suoi ideali artistici a spese di nessuno, se non della pietra. Ma per quanto riguarda la libertà nella società, quanto meglio si è capaci di realizzare i propri desideri, tanto peggio qualcun altro può realizzare i suoi. Per questo motivo non saprei come misurare la «quantità totale di libertà nella società». Ciò che è accaduto nella postmodernità è che la libertà è stata accettata come il nostro destino. Sappiamo di essere «condannati ad essere liberi» e che questa è una situazione di grosso rischio. Nel suo libro più recente Galbraith afferma che per la prima volta nella storia della modernità la maggioranza della gente trova le opportunità offerte dalla libertà superiori ai rischi. Nel corso della modernità c’è sempre stata una minoranza di gente privilegiata, di membri dell’élite che hanno desiderato meno interferenza da parte della società, ma la maggioranza della popolazione, quando ha potuto, li ha respinti, preferendo la ridistribuzione del reddito da parte dello stato. Essi si sono resi conto che la libertà ha agito contro di loro. Solo ora abbiamo nei paesi ricchi una maggioranza di gente che è in condizioni migliori con tutti i rischi che comporta l’essere liberi e

indipendenti; in condizioni migliori non pagando tasse e perdendo la sicurezza garantita dallo stato. Galbraith conclude che quanti hanno poca voglia di libertà come consumatori saranno sistematicamente respinti. I poveri di oggi sono – culturalmente, per definizione sociale o data da loro stessi – dei «consumatori incompiuti», piuttosto che dei «produttori sfruttati». Essi non sono i «portatori d’emancipazione», né Parsifal né Prometeo, non gli annunciatori di un futuro alternativo, non politicamente «sexy». Essi sono semplicemente gente che non può fare ciò che facciamo noi, ma sarebbe terribilmente felice di farlo se lo potesse. Con la scelta di mercato che si sposta nello stesso tempo al centro dell’autocostituirsi, dell’integrazione sociale e della riproduzione sistematica, i modelli di mercato tendono a dominare o a sostituire le responsabilità morali, ed una delle conseguenze è il dissolversi della responsabilità per l’estraneo lontano , che si tratti dei poveri contemporanei o delle future generazioni. La preoccupazione dello stato per la giustizia distribuitiva è sempre più difficile da legittimare: un rimedio per sconfitte elettorali. I modelli di mercato hanno fatto presa anche sull’immaginazione dei poveri; le rivendicazioni riguardano tutte il potere d’acquisto del consumatore. C&P : Ritiene possibile, per la libertà politica e della comunità, controbilanciare una libertà di orientamento consumistico? ZB : Il tipo di conflitti di fronte ai quali si è trovata la maggioranza della popolazione nel diciannovesimo secolo ha condotto alla creazione di partiti politici di massa, di sindacati di massa, ecc., perché gli interessi non potevano essere soddisfatti individualmente; essi richiedevano uno sforzo collettivo. Ma il modo in cui gli interessi individuali vengono soddisfatti oggi non promuove una collettivizzazione d’interessi. Al contrario, l’Europa occidentale si trova attualmente di fronte alla privatizzazione del dissenso. È ciò che ho cercato di spiegare in Intimations of Postmodernity [«Segni della postmodernità»]. Conseguentemente, non penso vi sia molta possibilità di libertà politica, cioè di libertà nell’antico significato greco della polis , del riunirsi nell’agora e di prendere decisioni. C&P : Cosa dire di un problema come quello dell’ambiente:

potrebbe essere un problema di collettivizzazione d’interessi? ZB : Si tratta di problemi particolari; ma i problemi particolari non costituiscono la materia su cui si fa politica. I problemi particolari – sollevati da gruppi che esercitano pressioni sul governo – costituiscono probabilmente una tendenza del futuro. I partiti politici tradizionali erano basati su una situazione in cui c’era un importante conflitto che divideva la società in due parti. Oggi, invece, non c’è un tale conflitto particolare che prevalga su tutti gli altri. Vi sono molti conflitti differenti e ciascuno divide la società in modi diversi. Come mettere insieme questi conflitti: è questo il problema. C&P : Quale tipo di meccanismi repressivi opera nella società contemporanea? ZB : In breve: la dipendenza ottenuta attraverso la seduzione. Offerte allettanti di consigli da parte di esperti, offerte di strumenti che risolveranno ogni tipo di problemi da parte di commercianti. Le proposte allettanti vengono accolte volentieri dai consumatori, ma una volta che sono state accettate, si diventa dipendenti da esperti e dal mercato. Comincia con l’affidarti a consulenti matrimoniali e diventerai sempre più dipendente da consigli di esperti sul modo di far sopravvivere il tuo matrimonio. Si tratta di una «dipendenza di velluto», una dipendenza che si cerca attivamente e si sceglie spontaneamente. La libertà offre molte cose meravigliose, ma non offre una cosa d’importanza fondamentale per il benessere individuale, cioè la certezza, l’essere sicuri che quanto si sta facendo è giusto, che quanto si è deciso di fare non è stato uno sbaglio. Per raggiungere questa certezza si ha bisogno di essere rassicurati da un’autorità più forte della fiducia nelle proprie capacità. Il cercare una tale certezza conduce a sprofondare sempre di più nella dipendenza. C&P : Ma è questa la repressione? ZB : È una «repressione di velluto». Attenzione: io parlo sempre di liberi consumatori, non di individui del benessere che risultano oppressi in modo molto tradizionale, di individui costantemente dipendenti, 24 ore su 24, dalle istituzioni, che diano o non diano loro

del denaro, che controllino ciò che essi fanno, che possano penetrare nelle loro case in ogni momento. Ma oggi il potere assoluto di Foucault si applica ad una minoranza. Per la maggioranza si tratta di una specie di dipendenza «fai-da-te»; gli individui entrano lietamente, spontaneamente, gioiosamente nella relazione di dipendenza con aziende commerciali, con esperti, tecnici o scientifici, psicologi, psichiatri, ecc. C&P : Ma questo non è troppo a senso unico? Non si potrebbe vedere l’uso della competenza come una specie di autenticazione personale nel modo espresso da Giddens (1991)? ZB : Moltissimi di coloro che ricorrono al servizio di esperti non apprendono le abilità. Anzi, essi definiscono settori sempre più vasti della loro esistenza come oggetti appropriati per esperti. Si guardi allo sviluppo della psichiatria. Essa consisteva nel definire un numero crescente di aspetti della vita ordinaria come casi psichiatrici, fino a quando praticamente tutti erano divenuti oggetto potenziale di trattamento psichiatrico. Non credo che ciò sia tale da «rendere capaci»; lo può essere solo in un senso negativo. Non possediamo qualsiasi altra capacità che non implichi servizi di specialisti. Siamo sempre più dipendenti dalla tecnologia e dalle prescrizioni tecnologicamente strutturate per il comportamento, che riceviamo da consiglieri. È una repressione «di velluto», perché non si percepisce come oppressione. Al contrario, la risposta è, di solito: «ora sono più saggio, ora sono un padrone migliore del mio destino». Ma è egualmente una restrizione della libertà. Si seguono le ricette date da qualcun altro, non si combatte più con i problemi, ma si consente semplicemente che essi vengano rimossi da altri. Non dico che ciò sia buono o cattivo. Cerco semplicemente di capire in che modo la liberta del consumatore venga posta all’interno della vita individuale e sociale in modo tale da non essere più contrapposta alla dipendenza. La libertà non è l’opposto della dipendenza. La libertà è intricata nella dipendenza: si diviene più liberi acquistando più servizi dagli esperti e diventando più dipendenti da essi. La libertà, così, è qualcosa che accresce la dipendenza.

La sociologia oggi C&P : Come vede l’attuale stato della sociologia? ZB : Particolarmente nella sua dominante forma americana, la sociologia si è sviluppata dalla falsa promessa che poteva aiutare i dirigenti della vita pubblica, economica e politica. Le due grandi burocrazie in America – quella della guerra e quella del benessere – erano dietro lo spettacolare sviluppo della sociologia empirica. Si trattava di una sociologia empirica con scopi pratici, che prometteva di risolvere i conflitti sociali, d’impedire scioperi, rivolte e sommosse, aiutando cioè individui o istituzioni a realizzare i propri scopi. A causa della fine della Guerra Fredda, del cambiamento in una società individualistica di libero mercato e del crollo dello stato assistenziale, entrambe le burocrazie sono ora in profonda crisi. Quindi, la base tradizionale della sociologia si sta lentamente erodendo o sta addirittura scomparendo. Oggi, tra i sociologi che vivono in America c’è una terribile ansia, perché alcuni dipartimenti di sociologia sono stati già smantellati. Io non sono preoccupato, perché la mia interpretazione della sociologia è continentale nella tradizione della sociologia tedesca e francese, piuttosto che americana. Non ho mai creduto che la sociologia potesse risolvere qualsiasi problema: noi non risolviamo i problemi, ma semplicemente ce ne stanchiamo. Tuttavia, la sociologia svolge un ruolo importante, anche se differente, che arriva ad un pieno risultato precisamente nell’epoca della postmodernità. La sociologia offre un commento informato, saggio, illuminato sull’esperienza attuale, un commento che interagisce con questa esperienza e la rende quindi più ricca, ampliandone gli orizzonti. Il compito della sociologia oggi è quello di scalzare le certezze, perché ogni certezza infiacchisce le scelte. Sono d’accordo con Walter Benjamin che la storia è la tomba delle possibilità. Ogni sviluppo storico significa che diverse possibilità sono state uccise, e la sociologia si preoccupa di tenere le possibilità vive. Essa mostra che le ragioni di ogni soluzione, di ogni convinzione, non sono assolute o universali, e che ogni cosa è aperta alla discussione e dovrebbe essere negoziata. Così,

da questo punto di vista, non dovremmo preoccuparci dello smantellamento dei dipartimenti americani di sociologia, perché essi hanno fatto qualcosa di completamente diverso. C&P : Il ruolo dei fondatori della sociologia è stato tradizionalmente forte. Se la svolta postmoderna ne sminuisce l’importanza, cosa rimane loro da fare? ZB : In un certo senso stiamo tornando ai classici. Non nel senso che stiamo ripetendo ciò che i classici hanno detto, ma nel senso che stiamo facendo nuovamente lo stesso tipo di sociologia. Ciò che distingueva i sociologi classici era il fatto che essi si occupavano dei grandi problemi del loro tempo. Fu questa la tradizione di Durkheim, Weber e Simmel, che cercarono semplicemente di capire la condizione di uomini e donne sbattuti in una società urbana. E questo è ciò che i sociologi, qualunque cosa ne rimanga, faranno nuovamente. Vi è così una continuità, ma anche una discontinuità. Mentre la maggior parte dei sociologi classici riteneva che noi ci stiamo muovendo verso una società razionalmente organizzata, noi non lo crediamo più. Mentre essi ritenevano che la storia abbia un obiettivo cui tendere, che vi sia un progresso, noi non crediamo più né l’una né l’altra cosa. Crediamo semplicemente che la storia sia una successione di eventi senza alcuna direzione prestabilita.

Il problema della globalizzazione C&P : Come vede il futuro dell’Europa e la globalizzazione? ZB : Innanzitutto, non sono sicuro che la postmodernità sia adatta per la globalizzazione. La postmodernità è una cultura della parte privilegiata del mondo e dipende dall’alto grado di consumo e abbondanza che è tipico di questa parte del mondo. Essa non può semplicemente trasformarsi nel modo di vivere di ciascuno. Normalmente, gli impulsi si spostano senza la base economica e sociale su cui si sono sviluppati, acquistano una specie d’indipendenza, diventano impulsi altrove, senza che siano state soddisfatte le condizioni per il loro sviluppo. Ma quando gli impulsi

si spostano da soli, senza la base sociale-economica, il loro risultato si manifesta in conseguenze imprevedibili. Ho sostenuto che il colpo fatale al comunismo è stato inferto dalla postmodernità. Il comunismo poteva vivere felicemente per sempre con il mondo moderno che stava aumentando dovunque la produzione (più acciaio, più carbone), costruendo sistemi d’irrigazione, ecc. Ma non poteva vivere con il mondo basato sul godimento, sulla libertà, sul gioco, sull’allegria, sulla varietà, ecc. Queste cose i comunisti non potevano produrle. Ma questo significa che in Russia, in Ucraina o in Bulgaria si avrà una società postmoderna? Non lo penso. L’impulso c’è stato e ha già provocato le sue conseguenze. Il risultato sarà qualcosa di misto che è molto difficile prevedere. Il fenomeno più importante, nell’Europa d’oggi, è il lento affievolirsi del concetto di Stato-nazione. Lo stato-nazione ha rappresentato un’istituzione straordinaria nella storia, che ha unito gestione economica, autorità politica ed egemonia culturale. Oggi, la gestione economica si sta spostando dallo stato-nazione a causa della globalizzazione dell’economia. Lo stato-nazione non è più un sistema economico, autonomo o autosufficiente. Per quanto riguarda l’egemonia culturale, essa si sta muovendo verso il basso dallo stato. Il movimento non è verso l’alto come l’economia, ma verso il basso, verso movimenti sociali, comunità, gruppi etnici, ecc. Ciò che rimane dello stato-nazione è soltanto una pura autorità politica non sostenuta da gestione economica ed egemonia culturale. Possiamo chiederci quanto a lungo questa finzione potrà sopravvivere senza i suoi due altri pilastri. In ogni caso, stiamo arrivando probabilmente alla fine dello stato-nazione. Con quali risultati, è difficile dirlo. Stiamo assistendo nello stesso tempo ad una globalizzazione economica e ad una tribalizzazione culturale che conducono in direzioni opposte. È qualcosa di nuovo che non sappiamo come gestire, poiché tutta la sociologia ha avuto a che fare solitamente con una situazione che racchiudeva tutti e tre gli aspetti. Improvvisamente, ciascun aspetto ha il suo proprio spazio e si deve ancora stabilire in che modo essi interagiscano.

Riferimenti bibliografici Bauman, Z. (1987), Legislators and Interpreters: On Modernity, Postmodernity and Intellectuals , Polity, Cambridge. –, (1988), Freedom , Open University Press, Milton Keynes. –, (1989), Modernity and the Holocaust , Polity, Cambridge. –, (1991), Modernity and Ambivalence , Polity, Cambridge. –, (1992), Intimations of Postmodernity , Routledge, London. Featherstone, M. (1991), Consumer Culture and Postmodernity , Sage, London. Giddens, A. (1991), Modernity and Self-Identity , Polity, Oxford. Harvey, D. (1989), The Condition of Postmodernity , Blackwell, Oxford.

3. SOCIALISMO

3.1 La collocazione storica del socialismo [Titolo originale: The Historical Location of Socialism, 1976] La modernità è, per comune ammissione, un fenomeno dalle molte sfaccettature che sfugge decisamente a precise definizioni. Si è ampiamente riconosciuto che il fenomeno è intimamente legato alla «rivoluzione tecnologica», al drastico ispessimento della sfera intermedia che si estende tra Uomo e Natura, e che esso si esprime spesso come un drammatico rafforzarsi del predominio umano sulla natura. Nello stesso tempo, tuttavia, si è d’accordo nel ritenere che il fenomeno non sia riducibile all’esplosione tecnologica. La modernità è anche un fenomeno sociale e psicologico; il suo avvento significa importanti mutamenti nel sistema sociale come anche nell’insieme delle condizioni nelle quali si esplica l’azione umana. Si può soltanto ritenere che, al di là del modo in cui l’avvento della modernità possa incidere nelle dimensioni e nei contenuti di desideri e utopie, la sua influenza risulta mediata da questi ultimi fenomeni più che da qualsiasi altra cosa. Come sfondo e fonte d’ispirazione per gli ideali umani, la modernità significa, soprattutto, una rete moderna di relazioni umane. In quello che è forse il migliore esempio recente di applicazione del tipo ideale di metodo weberiano, Reinhard Bendix è arrivato dopo molti tentativi a fornire una sua spiegazione delle caratteristiche più importanti di questa rete. Sono due, secondo Bendix, i processi che hanno contribuito più di ogni altra cosa alla forma finale assunta dalla

società moderna: il primo è stato la crescente preminenza dell’«impersonalismo» come principio supremo che ha regolato il modo in cui gli individui sono stati impigliati nella rete di ruoli socialmente definiti e di modelli comportamentali; il secondo è stato l’avvento del «plebiscitarismo», in quanto norma pratica del potere e, nello stesso tempo, nota fondamentale della sua legittimazione (Bendix, 1964). L’«impersonalismo» arriva a sostituire il rapporto paternalistico tra patrono e cliente. Per usare il linguaggio parsoniano, quest’ultima dimensione può essere descritta come soggetta ai modelli di universalismo e di specificità, in contrapposizione al particolarismo e alla diffusione della prima. I modelli non-moderni dei rapporti umani sono interamente particolareggiati e ampiamente differenti da una coppia d’individui ad un’altra; essi sono inoltre diffusi, tendenti ad abbracciare la totalità dei processi vitali nei quali entrambi gli individui risultano impigliati. Queste due caratteristiche scompaiono con l’avvento della modernità, per essere sostituite da quelle opposte. La modernità comincia, afferma Bendix, con la codificazione di diritti e doveri di un «cittadino», di un individuo qua homo politicus , cioè come membro della «polis», della società politicamente organizzata. D’altra parte, questo «individuo» entra nella società, o è di un qualche interesse per la società, soltanto sulla base delle caratteristiche che sono state sottoposte a tale processo di «codificazione», standardizzate e soggette ad un insieme di norme uniformi. L’individuo, in quanto definito e modellato dalla moderna rete di rapporti, è conseguentemente sotto il peso di un irriducibile paradosso: la sua «individualità» è stata raggiunta a spese di tutte le caratteristiche idiosincratiche, puramente personali e davvero uniche, che lo costituiscono come essere separato, insostituibile e irripetibile. Questa peculiare individualità è anonima e senza volto, essenzialmente ridotta a pura universalità, completamente sgombrata di tutto ciò che è specificamente proprio e distintivo, di ogni facoltà personale che possa impedirle di raffigurarsi completamente in un altro «individuo». Questo non equivale a dire, ovviamente, che gli esseri umani dell’era moderna siano realmente così, ma che essi vengono accettati nella

modernità solo in questa loro qualità. Si è d’accordo nel ritenere che la società moderna non ha più bisogno di caratteristiche umane non standardizzate; queste, classificate come appartenenti al campo del soggettivo, vengono dichiarate socialmente irrilevanti nella misura in cui non ostacolano il campo codificato. Nello stesso tempo, esse delimitano la sfera della libertà individuale; la non-interferenza della società è in definitiva basata sulla sua indifferenza programmatica a tutto ciò che eluda l’ordinamento sovra-individuale, o ne sia stato deliberatamente esentato. Il principio dell’impersonalismo non solo delimita l’essenza sociale dell’individuo, ma risulta anche efficace nel creare uno spazio vitale congeniale e consono a individui così delimitati. La dimensione in cui viene a trovarsi l’esistenza sociale dell’individuo è anch’essa costituita da individui resi uniformi, senza volto e quindi quantificabili. Tale dimensione può essere effettivamente trattata, verificata e valutata, in termini puramente numerici; grazie alla precedente riduzione qualitativa di coloro che ne fanno parte, essa è in effetti quantificabile e quindi tale da rientrare in una gestione governata dall’economia della razionalità. Di nuovo, questo non significa che il processo della vita umana nell’ambiente moderno si riduca ad una serie di calcoli e scelte razionali, ma che soltanto questa serie viene riconosciuta come socialmente importante, e quindi socialmente protetta e degna d’attenzione. Tutto il resto, per quanto immenso e soggettivamente importante possa essere, viene lasciato in quella che, da un punto di vista sociale, potrebbe anche rimanere per sempre la penombra del «privato». Vaste aree della vita umana – ed anzi le sue aree più intime, vissute in maniera più passionale e più impregnate di emotività – sono state dichiarate off limits , di accesso vietato, a causa della regolarità, e quindi della certezza e prevedibilità, del nucleo sottoposto a processo sociale. È opportuna, qui, un’osservazione piuttosto importante. Almeno a partire dalla famosa distinzione proposta da Sir Henry Maine nel diciannovesimo secolo, la dicotomia impersonalismo-particolarismo tende ad essere analizzata in termini «o-oppure», dove lo studio di Bendix non costituisce un’eccezione. Questo approccio risulta

interamente garantito nella misura in cui noi siamo interessati unicamente al tessuto della struttura sociale, alla rete delle dipendenze interumane, che aprono, limitano e condizionano l’accesso dell’individuo ai beni socialmente apprezzati. Ma la struttura sociale in questo senso non è tale da accaparrarsi la totalità del mondo vitale (life-world ) dell’individuo. Mi chiedo se non sarebbe meglio parlare di «travestimento» (topping ) del tradizionale mondo vitale, nei tempi moderni, con una struttura impersonale della società complessa (greater society ), piuttosto che del sostituirsi di questa struttura a quella antica, particolareggiata. Il mondo vitale rimane in grandissima parte ancora fortemente «particolareggiato», densamente affollato di molteplici relazioni personali ed aperto, a quanto pare, ad iniziative che ne patteggiano il significato; esso è ancora «libero» in quest’ultimo senso, dato che la sua libertà ha ricevuto una nuova, più profonda dimensione ed è stata resa particolarmente vistosa a confronto con il nuovo campo delle relazioni prefigurate, completamente standardizzate. La «libertà» che prevale in questa parte del mondo vitale dovrebbe essere intesa solo in questi termini di confronto. Altrimenti essa diviene un’illusione, poiché il settore del mondo vitale ora in discussione, dopo essere stato abbandonato dal controllo «impersonale» della società complessa, viene ancora tenuto sotto stretto controllo dalla comunità (definita come gruppo capace di tenere i suoi membri sotto un controllo diretto, immediato e personale). L’iniziativa di patteggiamento del significato non parte mai da un punto zero; in ciascun caso le carte sono state già distribuite e non sono eguali, mentre le stesse regole del gioco si prestano difficilmente al negoziato da parte degli effettivi giocatori. L’ultimo decennio ha mostrato quali possano essere le conseguenze di questa prospettiva distorta; la cosiddetta «protesta giovanile» ha cercato in effetti di scrollarsi di dosso le costrizioni imposte al livello di comunità, pur essendo convinta di combattere la «società impersonale». Il suo successo nello sconfiggere il potere di controllo della comunità è stato ovviamente proporzionato all’allargamento della sfera della regolamentazione e ingerenza impersonale (attraverso nuove leggi che hanno introdotto la «società complessa» in aree dove

essa era stata tradizionalmente indifferente). Il plebiscitarismo, il secondo dei due parametri della modernità di cui parla Bendix, consiste nell’inclusione delle masse nel processo politico. Esse diventano ormai masse di «cittadini» dello stato, anziché di sudditi di un principe. La loro volontà collettiva diventa ora la sede della sovranità e la sua suprema legittimazione. La quantità sostituisce la qualità, la forza numerica la saggezza, l’interesse i diritti inalienabili, la prestazione la proprietà. Ma tale sostituzione, a dire il vero, viene percepita troppo spesso come un progresso rispetto a definizioni pratiche di valori antichi ed immutabili, e non come un valore che prende il posto di un altro. Così, la quantità viene considerata come la misura migliore della qualità, il numero dei sostenitori come il vero indice della saggezza di una decisione, la ricerca dell’interesse come il meno alienabile dei diritti umani. Dal punto di vista dei vantaggi del loro contenuto sociologico, tuttavia, il cambiamento nei valori è enorme e radicale. La novità principale è il concetto puro e semplice di massa come «carne» dello stato. Il passaggio dal sovrano ereditario al potere delle masse non deve essere visto semplicemente come un ampliamento del gruppo dominante, come un sostituirsi dei molti ai pochi. Le masse trasformate in cittadini non assumono la facoltà che avevano i precedenti governanti di entrare nel campo della politica come persone socialmente identificabili. Solo quando si sono sottoposti al processo di spersonalizzazione e l’hanno condotto a termine, i sudditi di un sovrano ereditario possono vantarsi di dar luogo alle masse che si stanno profilando nel linguaggio moderno dell’autorità. Le masse non sono un’accolta di persone specifiche, qualitativamente distinte, fornite di qualità, esigenze e interessi molteplici. Esse sono descrivibili e intelligibili solo in termini quantitativi, ciò che è possibile soltanto sul presupposto della loro completa paragonabilità e scambiabilità nel loro ruolo di cittadini. Proprio grazie a questa trasformazione verificatasi nel concetto moderno di cittadino, l’opinione pubblica può orizzontarsi nel calcolo di distribuzioni statistiche e la democrazia può essere misurata con il metro rigorosamente aritmetico di maggioranze numeriche. I cittadini sono eguali nella misura in cui sono indistinguibili; qualunque cosa li

renda differenti gli uni dagli altri viene semplicemente lasciato al di fuori del campo della politica e degli interessi dello stato. Vediamo così, nel linguaggio moderno, che impersonalismo e plebiscitarismo non sono semplicemente dei processi paralleli che per caso si verificano simultaneamente; essi si completano, si convalidano e si sostengono reciprocamente, e possono essere visti, così, come i due lati della stessa moneta. L’eguaglianza impersonale degli individui in quanto cittadini può generare, o regolare, solo un tipo plebiscitario di stato; ed il plebiscitarismo non può assicurare, né giustificare, se non un tipo impersonale di eguaglianza, cioè l’eguaglianza contenuta nel ruolo di cittadino. Ma questo non è tutto. Il plebiscitarismo non solo non tiene in alcun conto la differenziazione dei cittadini al di fuori della loro dimensione di cittadini propriamente detti, ma nella sua azione parte anche dal presupposto che la disuguaglianza non-politica non incida nel ruolo del cittadino, e che i cittadini si scrollino di dosso in qualche modo, sulla soglia dello Stato, i loro legami non-politici. Dopo aver teoreticamente separato la dimensione di cittadini dalla totalità della condizione dell’individuo, la legittimazione plebiscitaria concepisce il suo compito concettuale come un’operazione sulla realtà sociale; essa si basa, effettivamente, sulla convinzione che un individuo possa godere di suoi diritti politici eguali, pur rimanendo disuguale in sfere diverse da quella politica. È vero che le radici dell’ineguaglianza, nella società moderna gradualmente emersa dalle vittorie durature e dalle avversità provvisorie della Rivoluzione Francese, non erano politiche, ma affondavano nella rete di dipendenze economiche e nel tessuto di relazioni che costituivano la società civile dell’epoca. Ma è anche vero che, lasciate intatte queste basi di un’ineguaglianza auto-perpetuante, l’eguaglianza politica del plebiscitarismo deve essere rimasta una categoria legale puramente formale. Proprio in questa forma l’ideale dell’eguaglianza era stato adottato dalla dominante cultura liberale del marchio capitalista della società moderna. E proprio in questa forma l’ideale di un’eguaglianza puramente politica era stato messo in discussione e rifiutato dalla sua contro-cultura socialista. Il rifiuto

enfatico di accettare il concetto di eguaglianza come limitato alla sola sfera politica, l’insistenza sull’importanza dei numerosi legami con altre sfere che rendono l’eguaglianza politica priva di significato se altre ineguaglianze vengono lasciate intatte, e il desiderio risoluto di estendere l’ideale dell’eguaglianza oltre il campo dell’homo politicus dovevano rimanere i soli postulati culturali condivisi da tutte le sfumature della contro-cultura socialista. In tal senso, la contro-cultura socialista fu una continuazione della cultura liberal-capitalista, oltre che il suo rifiuto. Già nel 1890, Bebel riconobbe pubblicamente il debito del socialismo: nessuno aveva fatto di più dei liberali per risvegliare il desiderio d’eguaglianza tra gli uomini. Il concetto liberale di democrazia politica fu la prima forma in cui la visione ed il fatto reale dell’eguaglianza erano stati portati all’attenzione dell’uomo comune e ne avevano acceso la fantasia. «Sopportato pazientemente fino a quando è sembrato irreparabile – ebbe a scrivere de Tocqueville –, un disagio arriva ad apparire intollerabile non appena la possibilità di rimuoverlo viene in mente agli uomini» (Tocqueville, 1955, p. 176). D’un sol colpo la rivoluzione culturale capitalista si sbarazzò dei due pilastri del sistema premoderno di convinzioni: che l’ineguaglianza umana è fuori da ogni dubbio e discussione; e che essa è prestabilita, e quindi non può essere cambiata dagli uomini. In questa sua azione demitizzante, la cultura liberal-capitalista raggiunse subito il punto di non ritorno; da questo momento si ebbe l’indiscutibile convinzione che l’ineguaglianza sia ingiusta, artificiale, e quindi soggetta all’azione dell’uomo. Ciò che rimaneva da fare da parte della contro-cultura socialista era trarre conclusioni che l’ideologia liberale non poteva e non voleva trarre: che quanto era stato fatto in politica poteva e doveva essere ripetuto nelle altre sfere del bisogno umano. Secondo le parole espresse da uno dei delegati del Partito Popolare Tedesco Meridionale in una conferenza del 1868, «la democrazia deve diventare democrazia sociale, se vuole essere sinceramente democrazia» (citato in Roth, 1963, p. 50). Il socialismo può essere visto, per così dire, come un’estensione radicale, ma logica, del liberalismo capitalista. Esso non fu, tuttavia, soltanto un’estensione dell’aspetto critico del liberalismo; implicava,

nello stesso tempo, un enfatico rifiuto del suo lato positivo. Il liberalismo vedeva l’eguaglianza nel diritto di essere cittadini come il fondamento e la garanzia della libertà dell’individuo, cioè della sua libertà di essere disuguale in altre sfere diverse da quella politica. Il socialismo, invece, considerava l’instaurazione dell’eguaglianza politica come un mezzo ed un primo passo per l’incorporazione della totalità della vita individuale in una comunità di uomini eguali. In altre parole, il liberalismo vedeva la comunità come un grave ostacolo sulla strada verso la libertà individuale e intendeva lo Stato come l’unica forma desiderabile dell’integrazione sovra-individuale al nuovo livello di società, con la condizione di cittadino che costituiva l’unico vincolo d’integrazione, mentre il socialismo tendeva alla ricostruzione di un’integrazione di tipo comunitario al livello di società. Nel corso dei due secoli di pensiero socialista troviamo i due orientamenti – la versione radicale del liberalismo critico ed il rifiuto del liberalismo positivo – strettamente congiunti. Le parole che Jean Jacques Rousseau fa pronunciare a Plinio nei confronti di Traiano, «se abbiamo un principe, è perché egli ci impedisca di avere un padrone», dovevano rimanere il leitmotiv del concetto socialista di Stato, ma spinte ben oltre i limiti dell’interpretazione liberale. Questi limiti furono tracciati dall’idea che i padroni nascono, come notava Morelly già nel 1755, non dall’usurpazione del potere, ma dalle risorse precedenti ad ogni idea politica e la cui usurpazione soltanto può rendere gli uomini assetati di potere. I legislatori, come Morelly si premurava di chiarire, sostengono i padroni più di quanto li creino; lo fanno consentendo l’usurpazione delle risorse e difendendo la situazione che ne risulta. Il disastro più grave si verificò nel momento in cui le risorse, che dovrebbero appartenere in comune a tutta l’umanità, erano state usurpate; il disastro consisteva nello spezzare il vincolo primario della convivenza sociale. Così, distruzione della comunità ed ineguaglianza divennero una sola cosa; e nuovamente una sola cosa divengono la rinascita della comunità e l’instaurazione di un’eguaglianza più che giusta. Toccò a Gracchus Babeuf mettere i puntini sulle «i». Nella storia

del socialismo il ruolo di Babeuf è unico e forse decisivo. Proprio lui, infine, mise insieme e fuse due tradizioni che precedentemente si erano sviluppate indipendentemente l’una dall’altra: la tradizione del socialismo come principio morale astratto, come verdetto della ragione, eredità di Platone, More e Campanella, e la tradizione plebea della ribellione contro l’ingiustizia, che risaliva nell’antichità fino ai fratelli dai quali Babeuf mutuò il suo nome fittizio. In un certo senso, il ruolo di Babeuf per il socialismo può essere paragonato a quello di Galileo per la scienza; fu Galileo a coniugare la tradizione filosofica razionalistica della verità logica con la tradizione plebea dell’empirismo e della techne degli artigiani. Babeuf formulò, come sistema distinto e coerente d’idee, l’utopia dei sanculotti che cercavano, nel corso della Rivoluzione Francese, di tagliare il cordone ombelicale legandolo all’egualitarismo individualista borghese. Mentre l’iniziale cultura capitalistica cercava nell’eguaglianza politica un baluardo per proteggere un individualismo non qualificato e non controllato, i sanculotti guardavano allo stato come ad un potere attivo da usare per tenere a freno e controllare l’individuo nel nome della comunità. Entrambe le correnti poterono procedere insieme in un unico alveo fin quando il fiume arrivò al punto dell’eguaglianza dei diritti politici. Oltre questo punto, invece, una biforcazione fu inevitabile. Nella dichiarazione d’importanza epocale formulata da Babeuf nel Manifesto degli eguali (1796) la percezione di questa inevitabilità si rese per la prima volta esplicita. La Rivoluzione Francese era soltanto un preludio ad un’altra rivoluzione. La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino era un passo nella direzione giusta, ma non certamente la conclusione del processo; ne rappresentava, in effetti, soltanto l’inizio. L’eguaglianza proclamata dalla Dichiarazione, e che «deve essere in mezzo a noi, sotto il tetto delle nostre case», come possiamo realizzarla? Mettendo all’ordine del giorno un nuovo obiettivo rivoluzionario, sul quale la Dichiarazione è muta, e che, in effetti, sfida apertamente l’interpretazione dell’eguaglianza ritenuta ovvia dalla Dichiarazione: l’obiettivo di eliminare i terribili conflitti tra ricchi e poveri, padroni e servi. Fino a quando questo obiettivo non sarà raggiunto,

l’eguaglianza non rimarrà altro che una sottile e sterile finzione della legge. Babeuf avrebbe ulteriormente elaborato queste idee un anno dopo, al momento di difendersi durante il processo di Vendôme. Proprio qui il concetto di «benessere degli uomini» venne portato per la prima volta alla ribalta, fino a costituire, come lo stesso Babeuf fu pronto a sottolineare, «una nuova idea in Europa». Quello che seguì fu già un passo gigantesco, che oltrepassava anche le più generose promesse dell’eguaglianza borghese: l’esistenza di un uomo sfortunato o povero nello stato non deve essere più sopportata. «Gli sfortunati costituiscono le forze della terra; essi hanno il diritto di parlare come padroni ai governi che li trascurano». Il punto essenziale è che uno stato il quale, nel nome di diritti inalienabili, rifiuti d’intervenire nella distribuzione della ricchezza e della proprietà, è di conseguenza uno Stato che trascura i poveri. Ciò di cui i poveri hanno bisogno è uno stato determinato a invadere il terreno che l’utopia liberale lascerebbe volentieri alla discrezione dell’individuo; in altre parole, uno stato che sia pronto ad oltrepassare l’homo politicus . Babeuf, in effetti, sintetizzò praticamente l’intero contenuto della propaganda socialista del secolo seguente. «È necessario legare insieme la sorte di tutti; rendere la sorte di ciascun membro della società indipendente dal caso, e da circostanze fortunate o sfavorevoli; assicurare a ciascun uomo ed alla sua posterità, non importa quanto numerosa possa essere, tutto ciò di cui essi hanno bisogno, ma non più di quanto abbiano bisogno». L’unico mezzo che forse può condurre ad una tale situazione è un’amministrazione comune: lo stato politico governato dal demos . Ciò di cui Babeuf desiderava sbarazzarsi era precisamente la solitudine dell’individuo isolato, elogiata e dichiarata sacra dall’utopia borghese. Anziché difendere il loro ambiguo «diritto a combattersi reciprocamente in termini di parità», lo Stato dovrebbe prendersi cura del benessere personale e comune di tutti gli individui, in modo tale da liberarli una volta per tutte dalla straziante incertezza e paura del futuro che inevitabilmente comporta la competizione. Soltanto un simile Stato «porrà termine al verme corrosivo di una perpetua inquietudine, sia nell’intera società nel suo insieme che singolarmente

in ciascuno di noi, su ciò che ci porterà il domani, o almeno il prossimo anno, per la nostra vecchiaia, per i nostri figli e per i figli dei nostri figli». Quello di Babeuf fu un appello per uno Stato assistenziale, da lui gridato a favore di quanti nel gioco privo di prospettive della competizione possono solo aspettarsi di essere perdenti. Un’altra idea, nell’utopia di Babeuf, doveva risultare un leitmotiv del pensiero socialista: la comunità dovrebbe garantire a tutti «tutto ciò di cui essi hanno bisogno, ma non più di quanto abbiano bisogno». L’idea viene talvolta abbandonata come un residuo dello scetticismo pre-industriale nei confronti del potenziale produttivo dell’umanità, come una pura ripetizione dell’«eguaglianza della povertà» in senso difensivo, nello stile di More e Campanella. In realtà, c’è qualcosa di più; niente meno che un’intera filosofia della natura umana e della sua perversione. La sua origine può trovarsi nell’austero scetticismo di Seneca, ma per Babeuf e i suoi discendenti essa era stata probabilmente rimessa a nuovo da Rousseau. I bisogni «naturali» dell’uomo sono limitati e si possono soddisfare completamente senza oltrepassare i confini della moderazione. Non i loro bisogni inducono gli uomini ad indulgere al lusso e ad abbandonarsi al piacere eccessivo, ma la perniciosa influenza di una condizione umana artificialmente creata. «L’ambizione divorante, la brama d’innalzare la propria relativa fortuna – scriveva Rousseau nel suo Discorso sull’origine e fondamento dell’ineguaglianza tra gli uomini (1755) –, sono dovute non tanto ad un bisogno autentico, quanto invece a un desiderio di emergere al di sopra degli altri». I bisogni sono «naturali», le relazioni umane sono artificiali; in quanto tali, esse possono essere «cambiate», e se verranno cambiate nel modo appropriato esse rimuoveranno l’unico motivo per la ricerca umana della ricchezza e restituiranno quindi l’uomo allo stato «naturale» di felicità, basata sulla soddisfazione dei suoi bisogni autentici. Il guaio, con l’emergere di un mondo di dilagante individualismo, fu che non si riusciva più a trarre appagamento dal semplice soddisfacimento di bisogni equilibrati, non degenerati, pur con la propensione a resistere agli splendori dell’opulenza. Un uomo, felice

ieri, diventa povero e quindi indigente oggi; egli diventa povero «senza perdere nulla. Infatti, mentre tutto è cambiato attorno a lui, egli stesso non è cambiato affatto». Per la felicità di questi uomini discreti, modesti, bisogna mettere dei freni al cambiamento. Non necessariamente nel senso di escludere ogni ulteriore aumento della produzione di beni (anche se, ciò che non suscita sorpresa, una simile interpretazione ricorre molto spesso nella letteratura socialista), ma nel senso di apportare una certa costanza e stabilità nella rete delle relazioni umane. Ricorrendo a una terminologia piuttosto modernizzata, si potrebbe dire che una condizione resa sicura libererebbe l’uomo sia dall’ansia prodotta dagli sforzi per mantenerla che dal desiderio di accrescerla. Qui c’imbattiamo in un ulteriore e fatale allontanamento dell’utopia socialista da quella liberal-borghese. Ciò fu reso chiaramente manifesto da Saint-Amand Bazard, uno dei più ardenti sansimoniani, nella sua prima conferenza sulla dottrina del suo maestro (pronunciata il 17 dicembre 1828): ciò di cui l’uomo ha bisogno più di ogni altra cosa per la sua felicità è un «ordine sociale regolare», ma un tale ordine si è verificato solo due volte nella storia umana: nei tempi antichi e nel medioevo. Un terzo ritorno dell’«ordine regolare» è ancora nel futuro. Ovviamente, esso non sarà identico ai primi due; ma «presenterà sorprendenti analogie con essi, per quanto riguarda ordine ed unità»: ordine, cioè la certezza che può essere fornita solo dalla stabilità della struttura sociale; unità, che significa libertà dalla necessità di competere e di mettere a repentaglio il proprio status . Dodici anni prima, Robert Owen, rivolgendosi agli abitanti della sua colonia socialista modello, sottolineava che la stabilità è la caratteristica distintiva di quella felicità che ci si aspetta possa essere offerta dalla comunità umana saggiamente organizzata. Si è d’accordo nel ritenere che Bazard e Owen furono entrambi dei progettatori astratti, sognatori di schemi sociali prêt-à-porter disegnati nell’atelier della Ragione; ma la loro preoccupazione fu dichiaratamente di tipo onnicomprensivo. Louis Auguste Blanqui, collocabile senza alcuna esitazione all’altra estremità dell’ottica socialista, più come professionista della lotta rivoluzionaria che come

consigliere autonominatosi di equità e di potere, vedeva proprio la «costante incertezza del domani» come la ragione suprema per una rivoluzione sociale. Per riepilogare: l’utopia socialista, nei suoi punti di partenza e nei suoi leitmotiv , può essere giustamente definita come «la controcultura del capitalismo». Il concetto di «controcultura» unisce in sé, in un’unità dialettica e dominata dal conflitto, elementi di continuità e di rifiuto. Per essere una controcultura, un sistema di convinzioni e di postulati deve impegnarsi in una significativa polemica con la cultura dominante, deve metterla in discussione, per così dire, con le sue stesse parole, e per far questo deve parlare essenzialmente lo stesso linguaggio, allo scopo di rendere il dialogo compensibile. Queste condizioni furono pienamente soddisfatte dall’utopia socialista in relazione con l’utopia liberal-borghese dominante. Essa accettò in pieno gli ideali borghesi del regno della giustizia e della legge, che si ritennero salvaguardati dall’instaurazione dell’eguaglianza politica; ma negò in modo energico la possibilità di far corrispondere questo postulato ad un’economia di libero scambio, all’abbandono dell’individuo alla propria solitudine e ad uno stato che fosse indifferente alle anzie dell’individuo abbandonato a se stesso. «Se vuoi godere di eguaglianza politica, abolisci la proprietà», scriveva Proudhon nel primo capitolo del suo iconoclastico Che cos’è la proprietà? , pubblicato nel 1840; otto anni dopo, Louis Blanc scriveva nella sua opera, L’organizzazione del lavoro : «La libertà consiste non solo nei diritti che sono stati concessi, ma anche nel potere dato agli uomini di sviluppare ed esercitare le loro facoltà... Siamo a favore di uno Stato che intervenga?... Sicurissimo... Perché? Perché vogliamo la libertà». Alla società ideale prevista dall’utopia borghese dominante il socialismo offrì una vera alternativa; ma tale che, anziché accantonare le virtù affermate dalla prima, ne spinsero le idee guida ben oltre le intenzioni dei loro predicatori originari. Sembra che le famose circonvoluzioni della storia politica del socialismo fossero già contenute in grande misura in questa ambigua relazione dialettica tra le utopie borghesi e quelle socialiste. L’utopia socialista poteva presentarsi come un vero e proprio surrogato del

modo borghese di trattare i problemi della modernità, o come un’ulteriore fase in cui quelle precedenti si fondevano gradatamente e impercettibilmente.

Riferimenti bibliografici Bendix, R. (1964), Nationalbuilding and Citizenship , John Wiley & Sons, Chicester. Roth, G. (1963), The Social Democrats in Imperial Germany , Bedminster Press, Totowa. Tocqueville, A. de (1955), The Old Regime and the French Revolution , Doubleday, New York.

3.2 Tempi moderni, marxismo moderno [Titolo originale: Modern Times, Modern Marxism, 1968] Ho preferito parlare di «marxismo», anziché di «sociologia marxista». In realtà, lo stesso tentativo di differenziare metodologia marxista e Weltanschauung marxista in campi distinti nell’ambito delle suddivisioni accademiche riconosciute rientra difficilmente tra le iniziative marxiste. Se c’è qualcosa di specifico e peculiare nell’approccio marxista allo studio dell’uomo, ciò è il suo sforzo ostinato di mettere insieme in un tutt’uno le svariate e divergenti immagini dell’uomo in quanto visto da differenti punti d’osservazione. Possiamo dire, ricorrendo alla terminologia tecnica moderna, che la scienza sociale marxista tende ad un «ologramma» dell’uomo, anziché ad una serie di fotografie. La premessa metodologica fondamentale, e nello stesso tempo il carattere

distintivo, dell’approccio marxista alla scienza sociale, è il fatto che «uomo economico», «uomo sociale», «uomo culturale», «uomo politico» ed altre formulazioni simili prodotte dalla divisione scientifica del lavoro non sono altro che espressioni, creazioni modello di un lungo processo d’astrazione che matura in ambienti micro-sociali istituzionalmente distinti. L’unica realtà autentica da cui questi modelli derivano e cui fanno riferimento è l’uomo in quanto tale, che procede nel corso della vita attraverso e tramite il suo ambiente sociale e culturale. Se noi percepiamo questo processo come un aggregato di funzioni relativamente separate, poste in contesti pienamente autonomi di riferimento, ciò può spiegarsi unicamente come un effetto feed-back d’astrazione cognitivamente feconda, ma anche fuorviante. Per capire l’uomo dobbiamo mettere insieme tutto ciò che abbiamo scoperto, cercando di capire in profondità, nello stesso tempo, i differenti aspetti del suo processo vitale unificato («unificato» non è la parola appropriata in questo contesto; la parola implica qualcosa che è stato messo insieme dopo essere stato diviso; ciò che abbiamo in mente, invece, è il tipo di unità esistente prima che abbia avuto luogo qualsiasi divisione). Uno dei più grossi equivoci tra le attuali interpretazioni della teoria sociale marxista è il tentativo di ridurla a una specie di «determinismo economico». Non solo non c’è alcunché di particolarmente marxista in tentativi di spiegazioni genetiche semplificate, monofattoriali, dei fenomeni sociali, ma vi risulta implicata un’abitudine metodologica quanto mai estranea ai postulati di base proposti da Marx. Ciò che Marx intese includendo la struttura economica di riferimento nell’analisi dei fenomeni sociali fu qualcosa di completamente differente dal determinismo economico e, per questa ragione, da qualsiasi tipo d’analisi monofattoriale; egli postulava che, per poter capire gli aspetti sociali, culturali o ideologici del comportamento umano, è necessario guardare ad esso come ad una parte integrante di un tutto, di una struttura totale che abbraccia sia la dimensione economica del processo vitale che altre dimensioni. Il risaputo interesse marxista per la sfera economica della vita sociale dovrebbe intendersi non sul piano genetico, ma su quello

strutturalistico. Ciò che è in gioco è l’esigenza del tutto moderna di capire-attraverso-l’assegnazione-ad-una-struttura, non la tradizionale ricerca della causa efficiente. Questi rilievi possono sembrare non incoraggianti per quanto riguarda le prospettive attuali del pensiero marxista. Le ambizioni totalizzanti del marxismo appaiono davvero «poco scientifiche» in tempi nei quali il regno della scienza è dominato da una tendenza a «conoscere tutto sul nulla», cioè ad una ripartizione sempre più dettagliata d’interessi e di competenze. Sembra quasi che il tipo marxiano di ragionamento sull’uomo e sulla società sia passato di moda a causa dei recenti sviluppi verificatisi nelle scienze umane. Sembra effettivamente fuori moda perseguire un’immagine totale della società in tempi nei quali la precisione e la misura sono i valori scientifici preferiti, anche se raggiunti scegliendo una semplice coppia di variabili dal lazarsfeldiano «universo di voci» (universum of items ) [allusione alle teorie di Paul Felix Lazarsfeld, sociologo statunitense di origine austriaca, che cercò di applicare modelli matematici alle scienze sociali e studiò specifiche tecniche di analisi, N.d.T. ]. Il programma marxista di ricerca si contrappone chiaramente alla tendenza dominante dello sviluppo scientifico. In effetti, le norme della subcultura scientifica sono in se stesse valori troppo importanti per poterne disporre a cuor leggero per un programma che può trovare una sua convalida solo facendo riferimento ad una tradizione secolare. Ma il programma marxiano ha qualcos’altro da offrire oltre alla sua conformità ad una tradizione onorata dal tempo. Prima di specificare questo «qualcos’altro» dobbiamo formulare, tuttavia, alcune osservazioni sui fattori sociali che sono, almeno in parte, responsabili dell’attuale posizione delle scienze umane. Quelli di noi che si occupano della storia attuale delle scienze umane considerano generalmente nel loro valore nominale le affermazioni fatte dai sostenitori della sociologia «moderna» e «scientifica» sulle premesse motivazionali della strategia da loro scelta. A giudicare da queste affermazioni, l’attuale tendenza positivistica nelle scienze umane sarebbe un risultato di un influsso psicologico del successo raggiunto da scienze più antiche e più venerande quali la

fisica e la chimica. Quantificazione, atomizzazione, limitazione delle ipotesi al tipo immediatamente e sperimentalmente verificabile, vengono generalmente indicate come i percorsi principali che conducono sia al successo cognitivo che all’apprezzamento e alla rispettabilità sociale degli studiosi. Tutto il resto segue automaticamente, una volta accettata la premessa di base. Ebbene, ciò che gli individui pensano delle proprie motivazioni non è qualcosa da trascurare. Si tratta effettivamente di un fattore molto importante al quale si deve se questi individui sono disposti a fare volentieri ciò che fanno. Tuttavia, c’è un altro insieme di fattori che ci aiuta a capire perché questi individui fanno quello che fanno, perché coloro che vogliono farlo vengono scelti per occupare le posizioni di più alta influenza istituzionale. In termini d’istituzioni d’integrazione nella società, la nostra epoca è caratterizzata da organizzazioni su larga scala. Il problema principale di fronte al quale si trovano queste organizzazioni è la possibilità di disporre degli individui che ne fanno parte, per es. le persone che svolgono i ruoli loro assegnati a causa delle loro posizioni nella struttura dell’organizzazione. I principali valori strumentali preferiti da queste organizzazioni sono rappresentati dall’insieme di stimoli controllabili che assicurino la più alta probabilità di ottenere la risposta prevista. Il tipo di valore determina i limiti delle variabili che possono contribuire ad eseguire con successo questo compito. In altre parole, ogni organizzazione su larga scala è interessata unicamente a quei fattori che siano controllabili (le risorse necessarie dovrebbero essere a disposizione del centro di potere dell’organizzazione ed essere soggette unicamente alle sue decisioni) e suscitino nello stesso tempo risposte più o meno uniformi, ripetitive, e quindi prevedibili. L’organizzazione in se stessa è un tentativo di limitazione dell’enorme varietà di opportunità; un tentativo di strutturazione di un universo informe, omogeneo. L’organizzazione è interessata a ciò che è limitato, «realistico», relativamente stabile. I fattori che vengono a trovarsi al di fuori di questo campo d’interesse e di valore pragmatico vengono percepiti nella migliore delle ipotesi come il «rumore» incontrollabile nei canali di comunicazione. Le organizzazioni sono profondamente interessate a

leggi di «causa ed effetto», deterministiche o almeno con alto grado di probabilità. Questo interesse, strutturalmente e funzionalmente determinato, dà forma a sua volta all’immagine del mondo umano, in cui ha particolare importanza l’aspetto dell’organizzazione. L’interesse ed il significato degli esseri umani si riducono in sostanza all’interesse e al significato che essi vedono in scopi direttivi. I dirigenti cercano la funzione correlativa che leghi gli indici di produzione (output indices ) delle unità dell’organizzazione ai loro rispettivi indicatori di energia immessa (input indicators ). Proprio per questo le unità umane sono effettivamente dei meccanismi con indici di produzione (output ) che sono prevedibili sulla base dell’energia immessa (input ). L’unica cosa che rimane da fare, dato che questa esigenza-immagine ha creato il clima intellettuale del mondo manageriale, è stabilire come si possa organizzare un modello di stimoli controllabili in modo tale da suscitare la distribuzione desiderabile delle risposte comportamentali. Il pensiero manageriale è un pensiero tecnico. Il tipo di scienza umana che i manager stimolano intellettualmente e sponsorizzano finanziariamente è quello di una scienza tecnica. Tale scienza, grazie alla sua funzione socio-culturale, è un’ingegneria sociale «per manipolazione». Essa insegna a manipolare il comportamento umano regolando il modello di situazioni esterne, «oggettive», restringendo la possibile gamma di «libere» scelte, rendendo i vincoli ferrei della necessità abbastanza stretti da assicurare un alto grado di prevedibilità e controllabilità del comportamento umano. Questa è, sommariamente, la situazione socio-culturale che alimenta e nutre il tipo di scienza umana che assume la quantificazione, un equilibrato realismo, ecc. come princìpi euristici. All’interno del campo caratterizzato da segnalazioni di questo tipo l’esigenza d’incrementare il settorialismo appare giusta. Essa non è altro che il riflesso della ripartizione già compiuta delle sfere d’interesse dell’organizzazione, e dell’aver sostituito insiemi di ruoli a personalità «totali». Una scienza che sia effettivamente utile a scopi manageriali non può essere differente. Essa è come dovrebbe essere, e nessuno può negarne l’adeguatezza al ruolo che è stata chiamata a svolgere.

La richiesta manageriale è l’unica richiesta organizzata ed articolata, e quella che unisce una chiara formulazione d’obiettivi a risorse materiali adeguate. La richiesta alternativa è, invece, così disorganica e disarticolata che può essere facilmente accantonata e trascurata. Si può addirittura dubitare, come accade così spesso, che esista davvero. La sua base sociale è incomparabilmente più vasta; tuttavia, non è il semplice numero a contare nella società, ma il livello d’organizzazione. E la base sociale di questo secondo tipo di richiesta è disorganica e atomizzata. Essa è costituita da membri della società nel loro ruolo di operatori-privi-di-ruolo, da personalità non ancora distribuite in ruoli, da semplici uomini e donne ai quali il proprio destino appare come un insieme unico e indistinto, non suddiviso in settori governati da insiemi specifici di variabili. Il problema di fronte al quale si trova un uomo in quanto puro e semplice essere umano è differente dal tipo di problemi di fronte ai quali si trovano uomini impegnati in una loro funzione manageriale. A seconda dei requisiti funzionali del suo ruolo, ci si aspetta che il manager affronti e risolva il problema di adeguare il comportamento di un essere umano alle richieste strutturali del suo ambiente istituzionale. Non importa cosa siano esattamente queste richieste e questo ambiente. Come ha detto Abraham Maslow, purché «tu abbia raggiunto una buona stabilizzazione di forze e ti sia adeguato», non importa se, forse, «stabilizzazione e adeguamento, pur rappresentando qualcosa di buono perché ti fanno diminuire la sofferenza, sono anche qualcosa di negativo perché cessa il tuo slancio verso un ideale più alto». È semplicemente naturale che il folklore intellettuale, alimentato come sempre con le briciole cadute dai banchetti della cultura dei padroni (un processo che risulta quanto mai intensificato grazie ai mass-media e alla produzione di massa di beni culturali), mostri attualmente una inequivocabile tendenza a porre i problemi personali in termini manageriali. Come adattare me stesso alle difficili richieste della vita? Come diventare una persona così come la gente vorrebbe che io fossi? Come adattare i miei sogni e i miei desideri all’ambiente, che io non posso cambiare e neppure influenzare? Questi e simili sono i temi dominanti dell’ideologia popolare, di questa mistura diluita della

prospettiva manageriale del mondo e del suo rovescio, cioè il suo marchio caricaturale. È questa la forma moderna della «falsa coscienza» (secondo la terminologia di Marx) riportata in vita dall’epoca della biotecnica pragmatistica che sostituisce la Weltanschauung e i sistemi morali nel loro ruolo di guide dell’esistenza. Per essere più precisi, ciò che è originariamente il prodotto della prospettiva manageriale, pragmatistica del mondo, diventa, se applicato all’esperienza personale, un insieme di preoccupazioni e prescrizioni puramente pragmatiche. È difficile immaginare un successo più completo dell’ideologia dominante. La condizione ideale in cui «si vuole fare ciò che si deve» (Erich Fromm) risulta quasi raggiunta. Tuttavia, sebbene l’individuo sia stordito e ridotto al silenzio, c’è un altro «requisito funzionale» dell’uomo nel suo contesto antropologico di riferimento, precedente ad ogni richiesta della società, che considera la stessa società come un mezzo migliore o peggiore per adattare l’ambiente naturale e culturale alle esigenze umane. Tenendo conto di questo requisito alternativo, i termini «deviazione» e «disadattamento» si riferiscono non alla personalità, ma alla società. Se numerosi individui sperimentano il «disadattamento» come un loro problema personale, ciò che è realmente disadattato è la società. Dal momento in cui assumiamo il punto di vista antropologico, ogni caratteristica empirica «realistica» dell’attuale organizzazione della società non può più essere presa per certa. Il tacito presupposto che «un individuo particolare, produttore di un’azione sociale particolare», non può essere sostituito da «un individuo sviluppatosi in molteplici aspetti, per il quale le varie funzioni sociali costituiscono i mezzi alternativi dell’attività esistenziale che si succedono l’uno all’altro» (Karl Marx), dovrebbe essere dimostrato, prima di essere accettato. Ciò che è di primaria importanza è in che modo adattare la società alle esigenze individuali, non il contrario; in che modo ampliare la sfera di libertà delle scelte individuali; in che modo fornire spazio sufficiente all’iniziativa e all’anticonformismo dell’individuo. Per affrontare questi problemi si ha bisogno di una consapevolezza di tipo diverso rispetto a quella cui si fa ricorso per risolvere i compiti affrontati dai manager. Ciò di cui si

ha bisogno è un tipo di consapevolezza che mostri in che modo «manipolare l’ambiente umano ampliando la sfera delle informazioni nella mente umana», anziché in che modo «manipolare il comportamento umano modificando il modello di pressioni situazionali esterne». Ebbene, questo tipo di consapevolezza rende il comportamento umano meno, non più prevedibile. Esso funziona in modo esattamente opposto alla consapevolezza prodotta per un adeguamento al mondo manageriale. La scienza umana marxista è adeguata alle esigenze di questa funzione «antropologica», così come, si consenta di dire, l’analisi multiforme del comportamento umano in termini di stimolo e risposta è adatta alla funzione manageriale. Questa non è un’affermazione valutativa, in quanto entrambe le funzioni siano saldamente radicate nella rete strutturale-funzionale della società moderna. È semplicemente un’asserzione teorica che implica l’atto di scelta di categorie analitiche per trattare le scienze umane moderne, anche se è del tutto ovvio che le due funzioni, come anche i tipi di sforzi cognitivi da esse suscitati, non sono neutrali né sul piano filosofico né su quello morale. Quanto abbiamo detto sopra sul marxismo può considerarsi anche come un’affermazione con valore di definizione. L’insieme di conoscenze al quale si richiama la proposta marxista è lungi dall’essere omogeneo. Esso risulta differenziato sia nei suoi contenuti, sia nelle funzioni che svolge. La forma di una scienza umana dipende, dal punto di vista della nostra struttura analitica, dal tipo di esigenza funzionale al quale deve far fronte. Proprio per questo è così difficile immaginare il pensiero marxiano fatto su misura per il tipo manageriale dei problemi sociali. Ritengo che questa contraddizione tra le funzioni «antropologiche» e quelle «manageriali» della scienza sociale ci aiuti a capire più in profondità il complesso destino del marxismo nell’arco di tempo delle ultime due generazioni. Sono necessarie alcune osservazioni supplementari per evitare fraintendimenti e per rendere la nostra distinzione sufficientemente chiara. Innanzitutto, la suddivisione funzionale da noi proposta non è un

tentativo di classificare tipi di fatti analizzati o di metodi applicati. Per quanto riguarda i metodi di ricerca, i loro pregi e difetti possono essere ragionevolemente valutati unicamente alla luce della quantità e della pertinenza delle informazioni alle quali conducono. La scelta dei metodi cognitivi è, o dovrebbe essere, sempre secondaria alla scelta dei problemi che si pensano abbastanza importanti da essere oggetto d’indagine. Per quanto riguarda questi problemi, tutti i tipi di fatti accertati possono essere usati a vantaggio di entrambe le funzioni. Non c’è alcunché «all’interno» dei fatti, intrinseco alla loro stessa natura, che li renda «manageriali» o «antropologici». Soltanto l’uso umano dei fatti li rende soggetti all’una o all’altra funzione. Sono piuttosto incline a ritenere che fatti di un certo tipo siano «per loro natura» non funzionali a scopi manageriali. Certi tipi di fatti sono, a dire il vero, inutili per scopi diversi da quelli manageriali, poiché la loro applicazione richiede risorse alle quali hanno accesso soltanto i manager. Ma altri fatti tra quelli usati per raggiungere obiettivi manageriali aumentano, se ampiamente propagati, la quantità d’informazioni «diffuse», e così agiscono contro le restrizioni alle quali tende l’attività manageriale. Questo spiega la costante pressione manageriale tesa a mantenere la segretezza nelle ricerche scientifiche e indica nello stesso tempo limiti significativi, forse di natura utopistica, nell’ideale manageriale di una società perfettamente controllabile. Proprio questo, forse, intendeva Friedrich Engels quando parlava della verità come di qualcosa che è sempre a beneficio della parte oppressa dell’umanità. Dal punto di vista «antropologico», la verità è in se stessa un valore. Contrariamente alla prospettiva manageriale, il punto di vista «antropologico» rifiuta il criterio di dividere i fatti in funzionali sul piano «antropologico» e su quello «manageriale». Quanto più i fatti sono accertati e resi disponibili al pubblico, tanto più forte è la pretesa «antropologica». La vera differenziazione del compito funzionale comincia molto al di sopra del livello dei dati empirici primari. Ciò che realmente conta è il tipo di generalizzazione cui si desidera arrivare, il modo di classificare i dati e di renderli comprensibili. (Siamo consapevoli, ovviamente, dell’influenza sia dell’obiettivo cognitivo

che della struttura teoretica adottata sul tipo di fatti prodotti; ci rendiamo conto, così, che fatti differenti si adattano ad una funzione o ad un’altra in proporzione diversa. Tuttavia, il compito di rendere le nostre categorie analitiche operative al livello dei dati formali incontra difficoltà pressoché insormontabili). Ciò che abbiamo detto sopra riguardo alla scienza umana che sostiene un punto di vista «antropologico» fa riferimento in maniera più precisa alla sua tipica espressione marxiana. Fatti «non-marxisti» semplicemente non esistono. Cioè, solo il modo di classificare i fatti, di passare dal «sensoriale» all’«intelligibile», è «marxista» o «nonmarxista». Soltanto il livello della teoria globale della società e il livello della concezione del mondo determinano il campo al quale sono applicabili i termini «marxista» e «non-marxista». A questo livello, la peculiarità e unicità del pensiero marxista è tanto chiara e – ciò che è più importante – tanto feconda e vitale quanto lo fu cento anni fa. È vitale perché, sia pure in piccolissima parte, i problemi affrontati da Marx un secolo fa risultano finora risolti. È vitale perché finora non sono stati compiuti passi più importanti verso il nuovo tipo di «personalità espressiva», tanto per usare le parole di Kolakowski. Poiché quasi nulla si è fatto per impedire la frammentazione dell’azione umana e della personalità umana, per impedire la restrizione della libertà dell’individuo alla sfera di scelte consumistiche, per impedire la limitazione delle sue possibilità d’espressione alla scelta di beni offerti dal mercato, il pensiero marxista è di profonda importanza contemporanea. Non accade molto spesso che ci si accosti al livello di «teoria globale» per poter risolvere problemi di tipo manageriale; il tipo di generalizzazioni ricercato dai manager comprende piuttosto le teorie di «medio raggio», che collegano certe variabili presumibilmente manipolabili con variabili «dipendenti» del comportamento umano. Ma talvolta ciò accade, come nel caso di TalcottParsons, che nei suoi tentativi prevalentemente teoretici, come ha rilevato C. Wright Mills, è indotto a chiedersi semplicemente come sia possibile questa società. In effetti, nella sua teoria della società Parsons non ha fatto altro che ricavare un’immagine globale del mondo dai problemi quotidiani, così

come sono visti da coloro che sono impegnati in un ruolo manageriale, promovendo così gli sforzi umani di quanti si trovano in posizione manageriale al grado di un principio strutturale dell’organizzazione sociale. Ebbene, Marx ha fatto la stessa cosa con l’esperienza quotidiana di coloro che vengono messi, con la loro assegnazione strutturale, nella condizione di cose manipolabili. La teoria marxista della società è un tentativo d’interpretare la sofferenza «individuale», «privata», «singola» come un funzionamento multiforme della società globale, cioè un tentativo di analizzare il fatto non in termini di adattamento personale, ma classificandolo in categorie di trasformazione della società. Proprio per questa ragione la teoria marxiana è così attenta ai problemi della struttura sociale, vista come qualcosa di esterno, restrittivo, estraneo e quanto mai distante dall’immagine di una «struttura» costruita con il consenso universale su norme e valori reciprocamente complementari. Quest’ultimo punto sposta la nostra attenzione su un’altra questione controversa nella sociologia moderna. Importanti affermazioni metodologiche nello stile di un Thomas e di uno Znaniecki sono ormai fuori di moda, ma le predisposizioni che esse stimolano possono determinare, consciamente o inconsciamente, il modo di considerare la realtà umana. Come risultato, il tema dibattuto da molti sociologi non è la condizione umana in quanto tale, indipendentemente da ciò che se ne pensa o addirittura dall’eventualità che sia oggetto di discussione, ma il modo in cui si vede e si valuta la propria situazione. A questa scelta, o pratica istintiva, metodologica si deve il sostanziale impoverimento dell’orizzonte cognitivo. Il conflitto diviene una controversia tra opinioni inconciliabili e dati conoscitivi discordanti; la struttura sociale diviene l’intreccio di norme cognitive, valutative e consolidate (cathexic ) riconosciute; la stessa situazione comportamentale diviene il modello di obiettivi e valori di chi agisce. Certi problemi fondamentali che per molti secoli fornirono l’unica ragione per cui si ebbe interesse a studiare la propria realtà umana – per es. la coscienza «falsa» o «autentica», oppure l’«adeguatezza» o la «discordanza» tra ciò che la cultura impone e ciò che la società consente di fare – in questa

struttura mentale sembrano privi di significato e semplicemente crollati. Ormai non siamo filosofi, ma non è necessario essere filosofi per aderire all’identificazione hegeliana tra «reale» e «ragionevole»; occorre addirittura meno filosofia per agire come se tutto ciò che non è «reale» hic et nunc fosse per sempre anche «irragionevole» o almeno «non scientifico». Le idee alla moda delle scienze naturali si trasmettono molto rapidamente, nella maggior parte dei casi, nel campo contiguo delle scienze sociali. Resta da scoprire, per i sociologi della conoscenza, per quale motivo questa regola generale non sia altrettanto valida per la premessa fondamentale della fisica moderna, cioè che il nostro mondo è uno dei tanti mondi possibili. In effetti, se si giudicasse secondo la maggior parte degli scritti sociologici, si dovrebbe ritenere che il nostro mondo è l’unico mondo possibile, ma anche che il dovuto riconoscimento di essere «reale», almeno nel senso di essere il campo appropriato della ricerca scientifica, va al prodotto finale del processo controverso di socializzazione, e non alla struttura oggettiva della società che ne determina la forma. Anche se questa tacita premessa prevale nella sociologia moderna, l’approccio marxista allo studio delle faccende umane conserva la sua caratteristica identità. Siamo così arrivati alla seconda dimensione, in cui è possibile rispondere alla domanda su ciò che nei tempi moderni sia e non sia scienza umana non marxista. Ma si possono facilmente individuare molte altre dimensioni. Per esempio, tutta la serie di differenze tra l’approccio olistico e l’approccio pluralistico. Il primo si preoccupa di un sistema in quanto modello caratteristico di parti connesse e indipendenti tra di loro, secondo il famoso detto di Koehler, cioè che «singoli polmoni hanno molto più in comune con il cuore e il fegato confinanti che con altri polmoni». Un tale approccio considera il sistema come una struttura, cioè come un modo di ordinare l’insieme dei fatti, con limite particolare imposto alla gamma illimitata di possibilità astratte rendendo alcuni fatti più probabili ed altri meno rispetto ad altre eventualità. D’altro canto, il contenuto semantico di un fatto particolare è accertabile solo se si guarda al suo rapporto con la struttura totale, composta di coppie di opposizioni binarie. Il

concetto di una classe particolare è privo di significato se non viene messo in relazione con un’altra classe contrapposta alla prima; proprio la relazione binaria, l’opposizione, ha un senso ed è precedente sia logicamente che socialmente ai fenomeni socialmente caratteristici che «si consolidano» ai suoi poli, che si tratti di norme culturali, comportamentali, oppure di ruoli o classi sociali. La scienza umana marxista condivide questo approccio metodologico, come anche l’altro, con certe altre correnti presenti nella scienza moderna dell’uomo, quali, per esempio, l’antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss o la psicologia di Jean Piaget. Nello stesso tempo, essa si contrappone al tipo di sociologia rappresentato dal «comportamentismo pluralistico» (tanto per usare il termine preciso di Don Martindale), che non conosce altra struttura se non la distribuzione statistica e postula la riduzione complessiva dei rapporti su insiemi a rapporti statistici su unità. Per il comportamentismo pluralistico scoprire il «significato» di un fatto o fenomeno vuol dire risalire alle sue probabili cause accertando le variabili statisticamente correlate. Dal punto di vista olistico-strutturalistico scoprire il significato vuol dire stabilire la posizione occupata da un fatto o fenomeno particolare in una struttura di livello superiore di cui esso è parte. Le altre caratteristiche che distinguono l’approccio marxista alla scienza umana, strettamente connesse con le precedenti, possono essere brevemente elencate nel modo seguente: 1. Forte preoccupazione della struttura del processo cognitivo; profonda attenzione dedicata alla ricerca continua di «condizioni per raggiungere la verità» nelle indagini sociali (nel senso attribuito a questo problema dall’approccio basato sulla «sociologia della conoscenza»); importanza attribuita alla verificabilità delle affermazioni sociologiche e ai suoi presupposti. 2. Significato legato alle relazioni tra scienza e ideologia, scienza sociale e struttura sociale; alle somiglianze e differenze tra scienze sociali e naturali; al ruolo dei valori; ai preconcetti teoretici e ai pregiudizi culturali nel processo cognitivo.

3. Il grado veramente eccezionale di sensibilità all’auto-designazione professionale; ricerca incessante di una chiara e inequivocabile definizione del ruolo del sociologo nella società, di valori e preconcetti non solo deliberatamente introdotti da pressioni esterne, ma anche latenti nella ricerca individuale e nelle formulazioni teoretiche del sociologo; analisi attenta degli effetti sociali della ricerca e delle attività educative del sociologo. 4. Continui tentativi di ordinare il campo eterogeneo della sociologia moderna, di individuare e classificare la nota moltitudine di scuole e correnti sociologiche, di vagliarne, valutarne e confrontarne i rispettivi meriti e difetti, di costruire un corpo aggiornato, ma sempre complessivo, unificato, globale, di conoscenze tese a capire le dimensioni sia diacroniche che sincroniche della struttura e della cultura sociale; profondo interesse per la natura complessa dei fatti sociali e delle «teorie di medio raggio» offerte da rappresentanti di varie scuole e ottenute applicando metodi differenti, con la confrontabilità di misurazioni effettuate con criteri diversi e sorrette da teorie diverse; profondo interesse per il ruolo svolto dalla personalità e dall’ambiente socio-culturale dello studioso nel modellare l’immagine intellettuale del mondo umano. 5. Predominio dei problemi e delle questioni macro-sociali su temi di ricerca parziali, unilaterali e di orizzonte limitato; una percentuale notevolmente alta di ricerche dedicate ai problemi generali della struttura sociale, alla cultura, alle tendenze generali di mobilità sociale e culturale, alla multi-dimensionalità della stratificazione sociale, ai fattori di aggregazione e disgregazione nel sistema della società, ecc. 6. Rilievo dato ai legami che connettono il «campo di ricerca» empirico alla teoria, e la teoria ai dati empirici; fluttuazione cronica tra la Scilla di «teorie generali» astratte ricavate da dati empirici e la Cariddi di raccolte e valutazioni superficiali e teoreticamente insignificanti di fatti irrilevanti per la teoria. Non ci vuole molto per constatare che ogni tesi proposta dai

marxisti moderni, almeno in Polonia, come caratteristica propria della loro opera non costituisce qualcosa d’esclusivo per loro. Molte di queste tesi sono condivise da rappresentanti di correnti di pensiero che a malapena riconoscono la loro denominazione marxista; altre fanno semplicemente parte del folclore scientifico dei nostri giorni: se non modellano il comportamento dello scienziato, costituiscono tuttavia l’oggetto «obbligatorio» di un impegno quotidiano esibito solo a parole. È difficile astenersi dal chiedere cosa sia particolarmente marxista nel precedente elenco di princìpi euristici e di opzioni di ricerca. Vi è effettivamente una sola risposta possibile: ciò che è marxista in tutti i postulati sopra elencati è la loro integrazione, in modo tale che costituiscano in comune con i presupposti teoretici precedentemente menzionati un corpo unificato di conoscenze, unico nella sua totalità e interezza. La scienza umana marxista può essere adeguatamente compresa, almeno secondo la mia opinione, come un polo su molte scale differenti. Grazie alla sua collocazione su ogni singola scala, la scienza umana marxista ha una stretta somiglianza con molte altre correnti nelle scienze sociali che non sono e non pretendono di essere marxiste. Ma su ciascuna scala essa si avvale di affinità diverse e fa parte di compagnie differenti. L’approccio caratteristicamente marxista è, potremmo dire, limitato al settore comune di una moltitudine di correnti differenziate su tutte le scale sopra elencate. Essa rimane tuttavia distinta e nello stesso tempo strettamente connessa con il corpo principale della scienza umana moderna in tutti i suoi attributi vitali. Proprio per questo la stessa natura della teoria marxista la rende un sistema aperto ed in via di sviluppo, che esiste solo nel dialogo costante con i più moderni tra i cultori contemporanei di scienze. Il modo in cui Cannon o Piaget intendono l’omeostasi definisce correttamente il tipo di equilibrio dialettico, attivo e dinamico, che caratterizza il modo di essere della corrente marxista nella scienza umana. Abbiamo finora parlato di marxismo come se, distinto com’è dalle correnti non-marxiste nel pensiero sociale, fosse in se stesso una corrente unificata e indivisibile. Ciò, ovviamente, non è vero, almeno nella misura in cui accettiamo come indicatore che definisce la teoria

marxista l’auto-designazione marxista da parte dell’autore. Non ho in mente la famigerata differenziazione delle ideologie politiche, ciascuna delle quali pretende, in qualche misura giustamente, di essere marxista, talvolta «l’unica» ideologia politica marxista. La dimensione della divisione all’interno del marxismo, per quanto politicamente importante, non è rilevante per la presente considerazione. Pur introducendo qui il problema dell’eterogeneità del marxismo moderno, ho in mente soltanto il suo aspetto scientifico: il marxismo come una tendenza all’interno del’ambito universalmente accettato come campo delle scienze umane. Tuttavia, anche in questo campo il pensiero marxista moderno è lungi dall’essere omogeneo. Ciò vale non solo per le immagini del marxismo al quale aderiscono i marxisti che si definiscono come tali, ma anche a quelle immagini sostenute dai critici di Marx e dei marxisti. Per quanto riguarda i critici, la maggior parte di essi ritiene che il «determinismo economico» sia l’«essenza» del marxismo. Alcuni di essi usano addirittura questa espressione per indicare la dottrina da essi sottoposta a critica. Non si può rimproverare loro di non essere d’accordo con i fatti, anche se ci si potrebbe ragionevolmente aspettare da scienziati che sappiano distinguere tra una parte e il tutto. È vero che per un tempo piuttosto prolungato la varietà in voga del marxismo, particolarmente l’indirizzo sviluppatosi all’interno del movimento di massa, fu dominata dal «determinismo economico», che sottolineava in modo ossessivo l’aspetto causale dell’interpretazione storica e ne trascurava quasi del tutto la natura attivistica. Questa varietà si sviluppò storicamente in una scuola autorevole che ebbe in Plekhanov, Kautsky e Bukharin i suoi più famosi rappresentanti e portavoce. Non c’è spazio per un’analisi elaborata delle circostanze storiche che alimentarono questa linea di sviluppo, ma penso che essa si possa far risalire ai presupposti funzionali di un movimento sociale di massa: la necessità di rendere la dottrina filosofica ispiratrice più vicina all’assetto cognitivo naturale della massa che vi aderiva, renderla più digeribile per quanti sono «spontaneamente deterministici» e spontaneamente convinti dell’«oggettività materiale» dell’universo. L’altra corrente in seno al marxismo moderno è

rappresentata dalla sua interpretazione attivistica, che trovò la sua piena espressione e la sua più sofisticata elaborazione negli scritti di Antonio Gramsci e Georg Lukács, con Rosa Luxemburg e Lenin (se lasciamo da parte il suo Materialismo ed empiriocriticismo ) come suoi aderenti più vicini. Questa seconda corrente all’interno della scienza umana marxista è lontana, al di là di qualsiasi immaginazione possibile, da ogni tipo di «determinismo economico». Con l’azione storica umana come sua categoria fondamentale, questa corrente pone in primo piano il ruolo attivo e stimolante della strutturalizzazione mentale del mondo umano. Anziché l’azione individuale, così come è stata vista da Znaniecki e Parsons, abbiamo qui la nozione di «blocco storico», che compare ogni qualvolta l’insieme di opportunità «oggettivamente» implicate in una situazione storica trova l’ideologia adeguata, che a sua volta è abbastanza rilevante per l’esperienza privata delle masse da ottenerne il sostegno e stimolarne l’azione. Secondo questa interpretazione del pensiero marxista, le idee svolgono il ruolo di una forza storicamente attiva. Esse non hanno alcunché in comune con la famosa «immagine speculare» che continua ad essere presente in molti manuali in voga di stampo positivistico. La verità viene intesa qui come un processo, dato che la stessa affermazione di un’idea si rivela un fattore efficace nel renderne vero il contenuto attraverso la prassi cui dà l’avvio. Non ha senso chiedersi se Marx abbia previsto in modo preciso l’«impoverimento assoluto» del proletariato, o se non sia riuscito a prevedere il corso effettivo dei fatti storici; in realtà, Marx ha causato il fallimento della sua asserzione predittiva e l’ha trasformata in una «profezia auto-distruttiva» nel momento stesso in cui mobilitava forze sociali in grado di contrastarne la realizzazione. È egualmente privo di senso chiedersi se Marx abbia potuto «prevedere» il trionfo della rivoluzione marxista nella Russia zarista, poiché egli ne fu una delle cause principali, una parte del «blocco storico» che rese lo sconvolgimento socialista inevitabile proprio in questi termini di «tipo pratico». Questa è, in effetti, l’unica maniera possibile di far previsioni nel campo delle scienze sociali; a meno che non si preferisca tenerle segrete, si «procede attraverso» previsioni, rendendole così parte nuova e significativa di una

situazione storica in cui esseri umani consapevoli sono i soli protagonisti. Forse a questo convincimento si deve principalmente il fatto che il pensiero marxista sia per sua stessa natura così ostinatamente contrario a conformarsi a norme di rispettabilità accademica. Esso non può assolutamente cessare di essere una forza rivoluzionaria, un’ideologia di non-conformisti, senza cessare di essere marxista.

3.3 Autopsia del comunismo [Titolo originale: Communism: A Postmortem, 1992] I fatti accaduti nel 1989 nella fascia di regimi comunisti satelliti stabilitisi nell’Europa centro-orientale hanno rappresentato il finale più appropriato per il ventesimo secolo, destinato ad essere registrato nella storia come l’epoca delle rivoluzioni. Essi hanno cambiato la mappa politica del globo, con effetti che hanno riguardato anche parti apparentemente distanti dalla scena dello sconvolgimento in modi che sono ancora lontani dall’essere compresi pienamente. È anche certo che essi debbono essere analizzati per l’aggiornamento che offrono alle nostre opinioni sul modo in cui le rivoluzioni accadono e vengono condotte in un nuovo contesto socioculturale. Tra le rivoluzioni politiche che hanno riempito l’era moderna quelle autenticamente sistemiche sono state relativamente rare. Tutte le rivoluzioni politiche hanno implicato un cambiamento nel modo in cui lo stile di governo politico ha inciso nei sistemi sociali politicamente amministrati. Le rivoluzioni sistemiche, inoltre, hanno comportato una trasformazione dello stesso sistema: un cambiamento voluto della struttura socio-economica, gestito o almeno avviato dal governo, che è decollato nel momento in cui la rivoluzione politica è

stata portata a termine. I due concetti sono, ovviamente, contigui: due estremità opposte di un continuum lungo il quale possono essere segnate le rivoluzioni da noi conosciute, che sono tutte o quasi tutte dei casi «misti». Sul piano ideale-tipico, la rivoluzione è «semplicemente politica» (o, piuttosto, non sistemica), in quanto «si scrolla di dosso» un regime politico ritenuto inefficiente in rapporto ad un sistema socioeconomico considerato perfetto. La rivoluzione politica «emancipa» il sistema dalle sue costrizioni politiche. Appartengono più o meno a questa categoria le recenti rivoluzioni avvenute in Portogallo, Spagna o Grecia. Esse hanno spazzato via regimi dittatoriali oppressivi, ritenuti eccessivi dal punto di vista di società borghesi pienamente sviluppate, capaci di riprodursi in maniera autonoma, già pienamente formate ed in grado di sostenere un ordine democratico. Anche se normalmente è necessaria una minoranza organizzata, addirittura cospiratrice, per superare il governo coercitivo del momento, una tale minoranza può essere giustamente considerata nel modo tradizionale: come un gruppo d’azione che agisce a favore di certi interessi collettivi efficacemente enunciati, come un’avanguardia attiva e consapevole di forze relativamente integrate (economicamente e socialmente potenti, anche se politicamente disarmate). Possiamo dire che le rivoluzioni politiche di questo tipo rimuovono semplicemente un ostacolo sulla strada già presa; o che esse adeguano la dimensione politica del sistema alle altre dimensioni: economica e sociale. È stata questa, in effetti, la prospettiva originaria della rivoluzione: dopo essere maturata, come una farfalla dentro il bozzolo di una crisalide, la società deve infrangere le costrizioni oppressive e ingiustificate che ne fermano lo sviluppo. Una tale immagine è stata un riflesso fedele delle rivoluzioni che hanno accompagnato il progredire dell’ordine capitalistico: queste rivoluzioni sono state, per così dire, gli esempi di bürgerliche Gesellschaften che si sono scrollate di dosso le strutture già obsolete di stati assolutisti e dispotici in seno ai quali esse erano in gestazione. Le recenti rivoluzioni anti-comuniste vengono a trovarsi quasi all’altra estremità del continuum. Sotto questo aspetto,

paradossalmente, esse somigliano più alla rivoluzione bolscevica del 1917 che alle rivoluzioni capitalistiche classiche che hanno indotto Stati eccessivamente arcaici ad adeguarsi alle esigenze delle peculiarità socio-economiche del sistema. Le recenti rivoluzioni anti-comuniste sono state rivoluzioni sistemiche : esse hanno affrontato il compito di smantellare il sistema ancora esistente e di costruirne uno che lo sostituisca. Effettivamente, esse hanno rovesciato vecchi regimi politici dittatoriali o dispotici, come hanno fatto le altre rivoluzioni; ma le somiglianze finiscono qui. Una società che sia in grado di mantenersi e riprodursi senza il perpetuo e onnipresente controllo e potere di governatori politici (proprio questo è il significato di bürgerliche Gesellschaft ) deve essere ancora costruita; e la fase politica della rivoluzione è solo l’atto che rimuove situazioni precedenti e crea le condizioni per la costruzione del sistema: un progetto che dovrà essere realizzato sotto una rigida sorveglianza politica e attraverso l’iniziativa dello Stato. Un corollario di tutto questo è rappresentato da una contraddizione che deve ancora rivelare tutta la misura della sua influenza sull’ulteriore storia politica dell’Europa postcomunista: le forze sociali che hanno condotto alla caduta del potere comunista (e quindi al successo della fase politica della rivoluzione) non sono quelle che alla fine beneficeranno della costruzione del nuovo sistema. Nel processo di costruzione di tale nuovo sistema si darà necessariamente vita a forze con interessi che trarranno vantaggio dalla sua elaborazione. Uno dei motivi per cui anche gli studenti più perspicaci dei regimi comunisti sono rimasti perplessi e sorpresi di fronte alla tendenza nettamente anticomunista del cambiamento sollecitato dal dissenso sociale che si andava accumulando è stato il fatto che prima dell’inizio della serie di rivoluzioni vi erano pochi indizi, o non ve ne erano affatto, di forze sociali organizzate con interessi che guardassero oltre i confini del regime comunista (fino al momento della famosa «Tavola Rotonda» organizzata in Polonia non vi fu alcuna discussione sullo smantellamento dell’economia pianificata o sulla completa privatizzazione della proprietà; e nessuno dei partecipanti più

importanti accennò alla possibilità di mettere un simile argomento all’ordine del giorno, qualora le circostanze fossero state più favorevoli). Effettivamente, come ebbe ad osservare il sociologo polacco Jadwiga Staniszkis, non c’erano interessi «trasformativi» tra le grandi classi della società polacca: nessuno dei gruppi organizzati sollevò il problema della proprietà privata o si oppose al principio dell’economia controllata [command economy ] (Staniszkis, 1988). Nel breve compendio della situazione tracciato da Aleksander Smolar appena un anno prima della fine del potere comunista, «il problema fondamentale di una riforma radicale è l’assenza di un effettivo sostegno sociale» (Smolar, 1988, p. 22). Né i lavoratori che nelle grandi industrie costituirono il nucleo centrale del movimento di Solidarność , né i singoli agricoltori protetti dallo Stato, né i pochi imprenditori privati che prosperavano sulle insensatezze di una maldestra pianificazione centrale, desideravano un cambiamento che andasse significativamente oltre un’azione essenzialmente ridistributiva (Bauman, 1989). Questo era, si consenta di sottolinearlo, un quadro normale per lo stato delle forze sociali che precedono una rivoluzione sistemica . Il dissenso contro il vecchio sistema non poteva che generare una tendenza a superare la capacità di adeguamento del sistema e spinse così la crisi al punto di rottura; ma questo effetto fu precisamente il risultato di esigenze formulate nel linguaggio del sistema ancora esistente (nel caso dei regimi comunisti: più pianificazione, più distribuzione centralizzata, il rimescolamento di risorse nell’ambito della giustizia amministrata, ecc.), mettendo così il sistema di fronte a postulati di produzione che esso era incapace di gestire. Una costante delle rivoluzioni sistemiche, ed anzi la loro caratteristica specifica, è il fatto che le forze che distruggono l’ancien régime non sono coscientemente interessate al tipo di cambiamento che alla fine seguirà la distruzione; prima dell’eliminazione degli antichi poteri, il progetto di un nuovo sistema esiste al massimo come un’idea posseduta da un’élite selezionata e ristretta, non come piattaforma di un combattivo movimento di massa. Per dirlo in altre parole: la rivoluzione sistemica non è il risultato

della mobilitazione di massa a sostegno di un progetto di sistema alternativo. La prima fase della rivoluzione sistemica, cioè il rovesciamento del vecchio regime su cui si reggeva il precedente ordine della società, presenta tutti i segni della «crisi sistemica» (cioè del sistema che non è riuscito a produrre le risorse, fisiche e morali, necessarie per la sua riproduzione), ma non determina, in se stessa, l’alternativa al sistema fallito. Il nesso tra il fallimento del vecchio sistema e le caratteristiche richieste da quello nuovo si costruisce in una lotta politica tra teorie concorrenti, concepite e predicate da specifiche scuole d’intellettuali. La natura delle forze sociali che hanno provocato il crollo del vecchio regime non è un fattore decisivo nella scelta tra queste teorie. Né l’ostilità manifestata dalle forze concorrenti nei confronti del vecchio regime garantisce il proprio sostegno a quello nuovo che infine verrà scelto. Il rovesciamento dei vecchi governanti non fa apparire gli «interessi trasformativi» che mancavano nel vecchio regime. A causa di questo duplice non sequitur , la sopravvivenza dell’alleanza rivoluzionaria costituisce il problema principale di fronte al quale ogni rivoluzione sistemica ha probabilità di trovarsi «all’indomani» della sua vittoria politica. L’alleanza rivoluzionaria originaria, quella che vince la resistenza degli amministratori dell’ancien régime , non è normalmente un riflesso dell’unità d’interessi tra le forze del dissenso. A dire il vero, i motivi di lagnanza che inducono i gruppi più svariati ad entrare in un’alleanza politica unita dalla sua opposizione al governo del giorno, sono generalmente altamente differenziati e, piuttosto spesso, reciprocamente incompatibili. Fu la persistente crisi del vecchio regime, giova ripeterlo, a far confluire i diffusi motivi di lagnanza in una forza rivoluzionaria unita. Questa confluenza (e l’unanimità nell’incolpare lo Stato per qualsiasi inconveniente o ingiustizia gli si possa rimproverare) può essere motivata dall’emergere di un grave problema che sembra ostacolare un qualsiasi tipo d’esigenza (come il problema di continuare la guerra in Russia nel 1917). In un sistema totalitario come quello comunista, la tendenza a far confluire il diffuso dissenso in un assalto frontale e integrale contro lo Stato è permanente. Poiché

tende a controllare tutti gli aspetti dell’attività sociale ed economica, lo Stato assume, volente o nolente, un’esplicita reponsabilità per qualsiasi insuccesso e disagio. Tutti i motivi di lagnanza vengono interpretati in maniera autoritaria come cattivo funzionamento dello Stato ed automaticamente politicizzati. Ma l’unità delle forze d’opposizione è in grado di sopravvivere alla caduta dello Stato comunista? E tali forze potrebbero ricevere energia in modo simile dalle incerte attrattive del futuro regime? Non potrebbero piuttosto opporsi ad un cambiamento che potrebbe invalidare la forma d’azione e gli obiettivi politici che esse hanno imparato a perseguire?

Possibilità di democrazia nelle rivoluzioni sistemiche Le rivoluzioni sistemiche devono ancora creare le forze sociali nel nome delle quali esse intraprendono la completa trasformazione del sistema. In questo, vogliamo sottolinearlo ancora una volta, possiamo vedere il loro più profondo paradosso, come anche i pericoli per la democrazia che esse intendono instaurare. Come ebbe ad osservare nell’aprile 1990 Jerzy Szacki, un eminente sociologo polacco, la base per la vittoria del liberalismo occidentale fu lo sviluppo spontaneo di relazioni economiche. L’odierno liberalismo polacco rimane ancora una dottrina con cui s’intende suscitare in primo luogo un tale sviluppo, una dottrina per la quale la principale ispirazione è stata il desiderio di uscire dal comunismo. In effetti, l’odierno liberalismo polacco risulta fortemente inficiato da un «costruttivismo» contro il quale ha energicamente combattuto il pensiero liberale classico (Szacki, 1990, p. 491).

Diversamente dalle rivoluzioni puramente politiche, quelle sistemiche non finiscono con il cacciar via i vecchi governanti. Lo Stato post-rivoluzionario si trova di fronte ai terribili problemi offerti da un’ingegneria sociale su vasta scala, dal dover promuovere la formazione di una nuova struttura sociale che, al di là dei vantaggi che essa «alla lunga» può promettere per gli interessi di tutti, distruggerà certamente la distribuzione esistente di rispettivi privilegi e privazioni. È probabile, quindi, che esso provochi particolari malumori ed un nuovo raggrupparsi di passate alleanze politiche. È improbabile,

d’altro canto, che esso si assicuri fin dall’inizio una maggioranza a sostegno del cambiamento voluto. Poiché esso rimane, comunque, uno «stato attivo» in misura non drasticamente diversa da quella del suo predecessore, lo Stato post-rivoluzionario non può contare su quel frazionamento e auto-disperdersi del dissenso sociale al quale si arriva così facilmente nelle democrazie costituite, basate sul mercato. Al contrario, esso può quasi certamente rivolgere contro se stesso il malumore inevitabilmente suscitato dalla sua azione. Per un tempo ancora del tutto considerevole, esso continuerà ad agire come fattore di «aggregazione del dissenso», e quindi troverà difficile portare avanti la trasformazione sistemica, anche se si lascerà guidare, per le sue azioni, da un sostegno democraticamente procurato. Le conseguenze per i vari regimi post-comunisti differiscono. Ciò che li differenzia è il momento in cui un determinato paese si è associato alla serie di rivoluzioni anti-comuniste, e l’insieme di caratteristiche politiche e sociali al momento in cui si è associato. Il crollo del comunismo nell’Europa Orientale-Centrale è stato in effetti un processo seriale, e la «situazione della partita fino a questo momento» ha modificato in maniera significativa le condizioni nelle quali si è fatta la mossa successiva ed il suo significato sociologico. Jean Baudrillard ha scritto recentemente di «un pouvoir s’effondrant presque sans violence, comme convaincu de son inexistence par le simple miroir des foules et de la rue» (Baudrillard, 1990, p. 69). Questa immagine efficace di un potere ritenuto invincibile che crolla improvvisamente alla semplice vista delle folle che rifiutano di abbandonare la pubblica piazza – «come convinto della propria inesistenza» – rappresenta le conclusioni dei vari stati comunisti con precisione variabile. Certamente, per la Cecoslovacchia, l’Ungheria e la Germania Orientale l’immagine è più corretta di quanto lo sia per la Polonia, che diede il via alla serie. Per le poche migliaia di persone radunate nella baraonda di Vatzlavske Namesti (Piazza San Venceslao) o delle piazze di Lipsia e Dresda per conquistare un così rapido e completo successo (per le pubbliche piazze di Budapest non vi fu neppure bisogno di essere fisicamente occupate), la «non-esistenza» del potere comunista doveva essere già convincentemente dimostrata al termine del lungo e

tortuoso processo della permanente insurrezione polacca. La gente che riempì Piazza San Venceslao, non diversamente da coloro che vennero con i fucili a disperderla, già sapeva ciò che i polacchi avevano faticosamente scoperto a proprie spese e con molta sofferenza. Molti fattori, messi insieme, fecero sì che la Polonia fosse la prima nel processo di smantellamento del comunismo; sembra, tuttavia, che il principale di questi fattori fosse il protratto processo di autoapprendimento nell’autogestione della società che culminò nella relativamente precoce «polonizzazione» del conflitto stato-nazione nei postumi del coup d’état militare del 1981. Il processo e i fatti destinati a porvi fine misero il rapporto tra lo stato e la società, il ruolo dello stato nazionale nella perpetuazione del regime oppressivo, come anche la misura di un cambiamento conseguibile nella cornice dello stato nazionale, in una prospettiva completamente nuova e suscitarono ambizioni che altrove sembravano piuttosto delle vane utopie. La decisione di Gorbaciov di abbandonare i satelliti europei alle loro risorse e al loro destino trovò la Polonia in una situazione sociologicamente molto differente da quella dei paesi che non avevano accumulato una simile esperienza: soprattutto, ciò che costituisce il fattore più importante, la Polonia aveva una forza politica alternativa, pienamente sviluppata, articolata e in grado di autosostenersi nella forma di una potente unione sindacale politicamente matura. Thorstein Veblen ebbe a scrivere una volta dello «scotto da pagare per essere al comando»; in effetti, il movimento operaio in lotta, così ben radicato, sicuro di sé e politicamente esperto, diede alla Polonia il comando di cui poté giovarsi nello scalzare e, infine, nello smantellare il potere comunista nell’Europa orientale. E tuttavia, le stesse prerogative che assicurano generalmente un simile vantaggio possono mutarsi in un handicap quando si arriva alla costruzione di un regime liberal-democratico stabile (e questo oltre al misero stato dell’economia polacca e di altri stati europei orientali, particolarmente quando si uscì dal riparo del reciproco aiuto economico del COMECON e si fu costretti a misurarsi con i criteri competitivi del

mercato mondiale). Gli intellettuali dissidenti dell’Ungheria e della Cecoslovacchia, servendosi degli studenti e della contestazione giovanile nelle città, si scrollarono di dosso i rispettivi governanti comunisti senza una mobilitazione politica a livello nazionale e ricorrendo in misura minima a proprie forze politiche di massa, approfittando dei colpi assestati alla fiducia ed alla volontà di resistere dei loro governanti locali dal «voto per procura» («by proxy» ), grazie alle rivelazioni fatte nel corso delle lotte polacche. Una volta al potere, essi possono ormai procedere ad ulteriori fasi della rivoluzione, chiaramente meno popolari e meno entusiasmanti, senza che il loro agire sia sottoposto ad un attento controllo da parte di un movimento di massa spavaldamente indipendente, potente e politicamente vigile. Essi possono contare, a dire il vero, sull’apatia e sulla mancanza di esperienza politica della popolazione in genere per poter superare i primi e più difficili ostacoli della trasformazione economica e politica, in modo tale che non vi sia bisogno di alcuna violazione della democrazia per spianare la strada verso una stabile democrazia liberale del futuro. Questa possibilità sembra essere negata alla Polonia. Dopo tutto, i lavoratori delle maggiori imprese industriali, di quei dinosauri quanto mai obsoleti della fallita industrializzazione comunista, minimamente in grado d’entrare nel sogno dell’Europa e destinati all’estinzione, sono stati esattamente la forza che ha fatto cadere il comunismo (e sono divenuti una tale forza per essere stati mossi allora, come continuano ad esserlo ancora oggi, essenzialmente dagli interessi «non-trasformativi» di migliori salari, di migliori condizioni di lavoro e di vita, e di migliori mezzi per difendere tali salari e tali condizioni nel futuro); ma essi sono ora costretti ad essere i primi a dover sopportare le più dure difficoltà della trasformazione economica: intensificazione della fatica, esasperazione della disciplina lavorativa, perdita della sicurezza del lavoro, disoccupazione e tutto il resto.

La tenuta dello Stato-patronato (Patronage State)

Il carattere distintivo delle rivoluzioni sistemiche che in questo momento stanno avendo luogo nell’Europa Centrale-Orientale è che il sistema che esse debbono smantellare è quello di un patronato gestito dallo Stato: cioè quello scambio di concessioni che risulta coercitivamente imposto tra libertà e sicurezza. Sotto il controllo dello Stato-patronato, la libertà di scelta individuale in tutte le sue dimensioni doveva essere permanentemente e severamente limitata, ma in cambio si poteva fare a meno degli aspetti meno attraenti della libertà, come la responsabilità individuale per la sopravvivenza personale, per il successo ed il fallimento. A coloro che si sentono forti, intraprendenti e determinati lo Stato-patronato appare come la più sinistra interpretazione della «gabbia di ferro» weberiana; ma a molti che si sentono deboli, timorosi e privi di volontà esso può anche apparire come un rifugio. Se la fine del controllo oppressivo da parte degli organismi statali e il dischiudersi di nuove prospettive per l’iniziativa privata rappresentano un cambiamento suscettibile di essere salutato con entusiasmo da tutti, l’eliminazione della rete di sicurezza e il caricare l’individuo di responsabiltà precedentemente avocate dallo Stato possono suscitare senz’altro sentimenti misti; possono anche indurre settori residui dello Stato-patronato a sintonizzare le proprie antenne su promesse populiste di sicurezza collettiva e a farle captare da volenterosi seguaci di un aspirante leader disposto a fare tali promesse e a prestare la propria autorità a diffusi sospetti circa i pericoli di un liberalismo incontrollato. I tempi dello smantellamento dello Stato-patronato sono maturi per recriminazioni, in stile Carlyle, contro i «legami di cassa» (cash nexus ) che sostituiscono le relazioni, molto più confidenziali e solidali, tra padroni e sudditi. Il patronato di cui Carlyle deplorava la scomparsa era tuttavia, diversamente da quello dello stato comunista, di tipo comune e non politico; il patronato radicato nel costume e nel pensiero dal regime comunista risulta centrato sullo stato e completamente politico. Esso si oppone all’individuo che ha fiducia in se stesso e all’ordine della democrazia liberale, tagliato su misura di un simile individuo. Questo è il motivo per cui gli individui inclini ad una vita fiduciosa in se stessa si oppongono al patronato. In Occidente,

essi hanno mostrato la tendenza ad «acquistarsi» i servizi dello Stato assistenziale (welfare State ) (dichiaratamente una versione notevolmente mitigata e certamente solo unilaterale dello Statopatronato nel pieno stile comunista) individualmente, fino a quando il campo delle risorse ha raggiunto la misura critica che li ha messi in grado di prendere posizione, collettivamente, contro il peso che la permanente esistenza delle istituzioni assistenziali addossa su di loro tutti. Nell’Est post-comunista, con i suoi ceti medi mortalmente feriti e nell’improbabilità di recuperare forza senza l’attivo patronato dello Stato, le prospettive di un simile «acquisto di azioni» (buy-out ) sono piuttosto remote. Il guardare allo Stato per garanzie di sicurezza (sia nella vita privata che in quella degli affari) potrebbe essere una consuetudine che la ricostruzione post-comunista ha più possibilità di rafforzare che di sradicare. Le formule politiche elaborate dagli intellettuali anti-comunisti nell’Est differiscono tra di loro nel modo in cui esse stabiliscono l’equilibrio tra libertà individuale e giustizia distributiva amministrata dallo Stato. Si può spiegare tale suddivisione facendo riferimento alle controverse prospettive dell’eredità lasciata dallo Stato-patronato. Ma un altro fattore sembra interferire, radicato non tanto nel passato comunista, quanto invece nel presente della «società professionale» in cui, secondo molti commentatori contemporanei a partire da Daniel Bell, si sta trasformando la società capitalista nella sua fase moderna. Harold Perkin conclude il suo approfondito studio sulla meccanica del tipo occidentale contemporaneo di società professionale affermando che «la lotta tra le professioni del settore pubblico e privato è il principale conflitto della società professionale» e che «i partiti politici apparentemente basati sulle classi» sono «in realtà ampie coalizioni di diversi interessi professionali». Secondo Perkin, la rivalità tra due gruppi di professionisti (tra due categorie di classi basate sul sapere) ha il suo motivo nel divario tra interessi autenticamente incompatibili. La rivalità è sulle risorse, o piuttosto sul principio della loro distribuzione. Ciascuna delle due categorie preferisce ovviamente princìpi che meglio si adattino al tipo di abilità che essa possiede. Così, la

ideologia del libero mercato piace ai manager professionisti di grandi corporazioni ed ai loro alleati perché li protegge dall’accusa temuta dalla maggior parte di essi, cioè di costituire essi stessi la più grave minaccia alla competizione e alla libertà dei cittadini.

Presentandosi come i prodi cavalieri della libertà espressa nella competizione del mercato, essi tengono celato il fatto che ogni competizione scaccia i concorrenti e tende al monopolio; e sperano così di passare agli occhi del pubblico come i garanti della libertà di scelta e persino della libertà politica. I professionisti del settore pubblico, invece, preferiscono argomentare in termini di giustizia sociale per ogni cittadino, piuttosto che in termini egoistici per ciascuna professione; [quando questo argomento viene accettato] una volta che un servizio diventa professionalizzato sotto pubblici auspici, i professionisti scoprono ulteriori esigenze da affrontare e problemi da risolvere e una gran quantità di motivi per estendere le loro attività. Di qui l’espansione autogenerante dello Stato in tutti i paesi avanzati (Perkin, 1989, p. 37).

Dal vantaggioso punto di vista di Perkin, il sistema comunista potrebbe essere visto come il dominio dei «professionisti del settore pubblico» spinto all’estremo e reso sicuro grazie ai mezzi coercitivi dello Stato. Il crollo del sistema comunista porta le società postcomuniste più vicino alle condizioni prevalenti nelle società professionali dell’occidente. Il processo di smantellamento dello Stato-patronato dovrà compiersi sotto queste condizioni. Esso non sarà guidato, quindi, soltanto da una sua propria logica. Le mosse spiegabili con riferimento agli elementi residui dello Stato-patronato (o con riferimento all’opposizione da essi suscitata) s’intrecceranno con sviluppi politici che possono capirsi solo nei termini della moderna competizione per le risorse tra il settore pubblico e quello privato dei professionisti. Lo Stato-patronato offriva scarsi servizi, ma riduceva guadagni e perdite che potevano essere il frutto di decisioni private. Il risultato generale era la diminuzione del rischio (se si eccettua l’area in cui l’iniziativa era rigidamente vietata, cioè lo spazio dichiarato dallo Stato come appartenente alla politica, al suo campo monopolistico) e lo sviluppo di capacità e attitudini economiche che fornivano uno scarso sostegno in situazioni di contigenza, dove le probabilità sono mediocri

e gli esiti delle decisioni incerti. Un comportamento adeguato a condizioni di mercato senza alcun freno non è stato appreso neppure tra imprenditori e agricoltori privati, fino a quando essi hanno operato nelle condizioni di un’economia pianificata. Il clima della competizione di mercato può essere percepito come troppo inclemente per le loro preferenze. Non c’è una necessaria connessione tra affari privati ed entusiasmo per uno stile laissez-faire dell’ambiente economico; un’assenza che dimostrano abbondantemente le accuse ripetutamente sollevate dal Partito Contadino Polacco (e da vari esponenti politici che si contendono i voti degli uomini d’affari delle città) contro il governo «che è privo di una linea politica economica».

Il crollo del comunismo e l’avvento della postmodernità Il comunismo fu creato a misura di speranze e promesse moderne. Fratello minore, testa calda e impaziente, del socialismo, esso condivise totalmente la fede della famiglia nelle meravigliose promesse e prospettive della modernità, si mostrò atterrito dalle incredibili previsioni di una società che si stava sbarazzando di necessità storiche e naturali, e dall’idea della definitiva subordinazione della natura ai bisogni e desideri umani. Ma diversamente dal fratello maggiore, esso non ebbe fiducia nella storia per trovare la via verso il millennio. Né fu disposto ad aspettare che la storia dimostrasse errata questa sfiducia. Il suo grido di battaglia fu: «Regno della Ragione: ora!» Come il socialismo (e tutti gli altri movimenti che credevano ardentemente nei valori moderni del progresso tecnologico, nella trasformazione della natura e in una società dell’opulenza), il comunismo fu del tutto moderno nella sua appassionata convinzione che una società buona può essere soltanto una società accuratamente progettata, razionalmente amministrata e interamente industrializzata. Proprio in nome di questi condivisi valori moderni il socialismo accusò gli amministratori capitalisti del progresso moderno di cattiva amministrazione, inefficienza e inutili sprechi. Il comunismo accusò il socialismo di non riuscire a trarre conclusioni dalle accuse, di fermarsi

alla critica, alla denuncia, alla sollecitazione, mentre sarebbe stata opportuna un’immediata destituzione degli amministratori inetti e corrotti. La ridefinizione di Lenin della rivoluzione socialista come sostituzione alla , anziché continuazione della rivoluzione borghese fu l’atto di fondazione del comunismo. Secondo il nuovo credo, il capitalismo era un’escrescenza cancerosa sul corpo sano del progresso moderno; non più una tappa necessaria sulla strada verso una società che avrebbe dovuto incarnare il sogno moderno. Ai capitalisti non si poteva affidare (ciò che avevano fatto in passato i fondatori del socialismo moderno, Marx ed Engels) neppure il lavoro preliminare di sgombero: «fondendo le sostanze solide e profanando il sacro». A dire il vero, lo sgombero in se stesso non era né una necessità né un lavoro abbastanza utile da giustificare lo sciupìo di tempo necessario per eseguirlo. Una volta conosciuti e comunemente riconosciuti i princìpi di una buona società razionalmente organizzata (più fabbriche, più macchine, più controllo sulla natura), si poteva procedere direttamente a trasformare una società (e particolarmente una società senza fabbriche, senza macchine, senza i capitalisti smaniosi di costruirle, senza i lavoratori oppressi e sfruttati nel processo di costruzione) in uno stato progettato sulla base di quei princìpi. Non c’era alcuna utilità nell’aspettare che la buona società arrivasse attraverso l’azione dei lavoratori, alimentata dalle sofferenze causate dalla cattiva amministrazione capitalista del progresso. Una volta saputo a cosa doveva somigliare una buona società, il ritardarne o anche il solo rallentarne la costruzione era un delitto imperdonabile. La buona società poteva, doveva essere costruita immediatamente, prima che i capitalisti avessero una possibilità di amministrare male ed i lavoratori di sperimentare le conseguenze della loro cattiva amministrazione; o, piuttosto, gli ideatori di una tale società dovevano assumerne immediatamente l’amministrazione, senza aspettare che le conseguenze di una cattiva amministrazione si facessero vedere. Il capitalismo era una deviazione non necessaria dalla strada della Ragione. Il comunismo era una strada diretta al suo Regno. Il comunismo, avrebbe detto Lenin, è il potere dei Soviet insieme

all’«elettrificazione dell’intero paese»: cioè, la tecnologia moderna e l’industria moderna sotto un potere consapevole dei suoi obiettivi in anticipo e non lasciando alcunché al caso. Il comunismo era la modernità nella sua propensione più determinata e nella sua posizione più decisa; la modernità resa più efficiente, purificata dell’ultimo briciolo del caotico, dell’irrazionale, dello spontaneo, dell’imprevedibile. Per rendere giustizia a Lenin e ad altri sognatori comunisti, dovremmo ricordare che la buona società degli economisti e dei politici del diciannovesimo secolo, discepoli di Smith, Ricardo, James e John Stuart Mill, non era una società di crescita (per quanto difficile oggi sia comprenderlo), ma una società di stabilità ed equilibrio ; una società di stabile, ben equilibrata economia, che provvedesse a tutti i bisogni della popolazione, non di un’economia che ne aumentasse e ne spingesse verso nuovi limiti i bisogni e le capacità di consumo. La bontà della società doveva misurarsi sulla base del suo rendimento produttivo, del grado di gratificazione dei bisogni (determinati, «oggettivi», finiti), non sulla base di una crescente ricchezza e della spettacolarità della sua ostentazione di consumi. Ci si consenta anche di ricordare che per i teorici e per gli esperti politici di quel secolo, discepoli di Hegel, Comte o Bentham, la buona società era quella in cui la coscienza individuale era ben avviata verso il «comune interesse», quella in cui lo Stato agiva come suprema incarnazione, e portavoce, degli interessi di tutti, mentre i membri dei suoi organismi erano guidati da consapevolezza e lealtà nei confronti dei bisogni sociali. Le aspirazioni e la coscienza degli individui avevano importanza per lo Stato e per la società come un insieme. Il benessere della società dipendeva dall’accettazione universale dei suoi valori centrali; per essere efficiente, lo Stato doveva legittimare se stesso in termini di quei valori comuni (e questo significava che i valori comuni dovevano essere quelli difesi e perseguiti dai leader della società e dagli organi da loro presieduti). Ci si consenta inoltre di ricordare che molto dopo l’inizio dell’avventura comunista le memorie di una tale visione del diciannovesimo secolo trovarono la loro monumentale codificazione

nel sistema teoretico di Talcott Parsons, e che persino in una data così tarda tale visione fu accettata al momento, su entrambi i versanti dello spartiacque capitalista-comunista, come il coronamento della sociologia moderna, il culmine del discernimento socio-scientifico, la cornice universale da lungo aspettata per l’analisi e la comprensione delle realtà sociali, economiche e politiche. Questo sistema teoretico considerava la società dal vantaggioso punto di vista del compito manageriale (cioè, riteneva la società innanzitutto e soprattutto come un problema manageriale). Esso indicava nell’equilibrio la condizione e tendenza suprema di un sistema sociale, nell’accettazione universale di gruppi di valori il mezzo supremo per il compimento di tale funzione, nella coordinazione dei bisogni individuali e collettivi il criterio di valutazione più rilevante di una società ben equilibrata, e nei bisogni in se stessi (in consonanza con praticamente tutte le teorie psicologiche e l’insieme della saggezza umanistica ereditata) gli spiacevoli stati di tensione ed ansia che generalmente cessano d’esistere quando i bisogni vengono soddisfatti. Infine, ci si consenta di ricordare che, fin negli stadi più avanzati dell’esperimento comunista, il mondo capitalista ne osservava il progresso con il fiato sospeso, avendo pochi dubbi che, per quanto manchevole il sistema emergente potesse essere stato in altri aspetti, esso rappresentava un successo manageriale ed economico. Ciò che contava per questa aperta o tacita ammirazione era il fatto che la capacità produttiva di quella società aveva rapidamente accorciato la distanza che la separava dalle più antiche e più ricche economie dell’occidente. Le gigantesche acciaierie (quanto più gigantesche tanto più efficienti) e i grandiosi sistemi d’irrigazione (quanto più vasti tanto più efficaci) si ritenevano ancora come un indizio credibile di una società ben amministrata sulla via della realizzazione del suo compito: la soddisfazione dei bisogni dei suoi membri. Lo stato comunista, alla sua maniera dichiaratamente poco attraente, sembrava servire gli stessi ideali dell’era moderna che persino i capitalisti, suoi detrattori, furono pronti a riconoscere come propri. In quei tempi, che sembrano ormai incredibilmente lontani, l’audace progetto comunista sembrava avere molto significato e venne

preso molto sul serio sia da sostenitori che da avversari. Il comunismo prometteva (o minacciava, a seconda del punto di vista) di fare ciò che chiunque altro stava facendo, ma solo più rapidamente (si ricordi il fascino accattivante suscitato dalle teorie della convergenza). I dubbi reali apparvero quando gli altri cessarono dal farlo, mentre il comunismo proseguì nel dare la caccia ad obiettivi ormai abbandonati; in parte per inerzia, ma per lo più per il fatto che, essendo comunismo in azione, non poteva fare qualcosa di diverso. Nella sua realizzazione pratica, il comunismo fu un sistema unilateralmente adattato al compito di mobilitare risorse sociali e naturali nel nome della modernizzazione: l’ideale dell’opulenza moderna individuato nel diciannovesimo secolo nel vapore e nel ferro. Esso poteva, almeno secondo la propria convinzione, competere con i capitalisti, ma unicamente con i capitalisti impegnati nelle stesse ricerche. Ciò che esso non poteva fare, né s’impegnò con tutte le sue forze per farlo, fu l’adeguarsi ai risultati della società capitalista, centrata sul mercato, una volta che quella società abbandonò le sue acciaierie e le sue miniere di carbone ed entrò nell’era postmoderna (cioè una volta che essa, secondo l’appropriato aforisma di Jean Baudrillard, passò dalla metallurgia alla semiurgia ; fermatosi alla sua fase metallurgica, il comunismo sovietico spese tutte le sue energie, come se dovesse cacciare i diavoli, nel combattere pantaloni larghi e capelli lunghi, musica rock e qualsiasi altra manifestazione dell’iniziativa semiurgica). Heller, Feher e Markus definirono la società comunista come dittatura sui bisogni ; e proprio per questo avvenne, anche se soltanto nella successiva fase «postmoderna», che l’imposizione dei bisogni divenisse un’abominazione per se , al di là della misura in cui si era provveduto ai bisogni sperimentati attraverso i loro oggetti. Ciò avvenne perché la società che nel corso di tutto il suo sviluppo moderno vide se stessa come un ordinamento sociale teso ad una produzione capace di soddisfare determinati bisogni, nella sua versione capitalista si dedicò consciamente, esplicitamente e gioiosamente alla produzione di nuovi bisogni. Non appena furono visti come uno stato di sofferenza che reclamava un sollievo, i bisogni divennero ormai

qualcosa da celebrare e di cui gioire. La felicità umana era stata ridefinita come l’espansione della propria capacità di consumare e la coltivazione di nuovi bisogni, più estesi e sempre più raffinati. Per il sistema sociale, ciò significava che l’economia equilibrata non andava più e che in suo luogo si aveva bisogno di una crescita costante. Per l’individuo, ciò significava la scelta come criterio più importante per una vita felice e il successo personale: scelta del tipo di persona che si vorrebbe diventare (si pensi ai sempre nuovi oggetti per mettere a punto la propria personalità che vengono offerti nei negozi), scelta di piaceri dei quali si vorrebbe godere, scelta degli stessi bisogni che si vorrebbe cercare e far propri, dai quali poter trarre la propria gratificazione. La scelta si trasformò così in un valore per diritto proprio, anzi il valore supremo. Ciò che ora interessava era che si consentisse e si effettuasse una scelta, non le cose o le situazioni che vengono scelte. E proprio la scelta fu ciò che il comunismo, la dittatura sui bisogni, non poteva e non avrebbe mai potuto offrire, anche se poteva provvedere ai bisogni che esso stesso imponeva (e che in ogni caso, più spesso che no, non riuscì in modo vistoso a soddisfare). I giovani professionisti ben pasciuti e ben vestiti, istruiti e vezzeggiati, della Germania Orientale, nel fuggire disordinatamente verso l’Occidente non asserivano di voler scappare da una filosofia politica sgradita; incalzati dai giornalisti, essi confessavano che ciò che cercavano (e che non potevano procurarsi nel paese che abbandonavano) era un più ampio assortimento di beni nei negozi ed una più ampia scelta di vacanze. In una mia recente visita in Svezia mi fu detto da parecchi intellettuali anche meglio pasciuti, vestiti e forniti di altre cose, che, per quanto sommamente efficiente possa vantarsi di essere, la burocrazia dello stato social-democratico diventa sempre più difficile per potervi convivere; e questo è dovuto ai limiti che essa pone alla scelta individuale. Chiesi ai miei interlocutori se, concessa una scelta, essi avrebbero abbandonato il medico attualmente assegnato dal «servizio sanitario nazionale» o se avrebbero cercato un’altra scuola per i loro figli. «No», fu la risposta: il dottore è eccellente, e così anche la scuola che frequentano i nostri figli; perché mai dovremmo rivolgerci altrove? Ma, mi dissero successivamente, io

non avevo afferrato il punto della questione. Era del tutto ovvio che il punto della questione non era la qualità del dottore o della scuola, ma la sensazione gratificante che deriva dal far valere i propri diritti, ciò che si esprime nell’atto di scelta del consumatore. E proprio questo era ciò che nessun provvedimento burocratico, sia pure generosissimo, poteva offrire. Anche se il comunismo potesse sperare (erroneamente, come si è dimostrato alla fine) di superare nella modernizzazione (out-modernize ) i modernizzatori, si è reso evidente che esso non può seriamente aspettarsi di far fronte alla sfida del mondo postmoderno: il mondo in cui la scelta del consumatore è nello stesso tempo il requisito sistemico essenziale, il principale fattore dell’integrazione sociale ed il canale attraverso il quale trovano il loro sbocco gli interessi vitali dell’individuo e i suoi problemi vengono risolti; mentre lo Stato, basando la sua aspettativa di disciplina sulla seduzione di cittadini consumatori piuttosto che sull’indottrinamento e sull’oppressione di cittadini sudditi, potrebbe (e dovrebbe) lavarsi le mani di tutto ciò che ha importanza sul piano ideologico e rendere così la coscienza un affare privato.

Costruzione di una società capitalista in un mondo postmoderno Si è d’accordo nel ritenere che il passaggio da un’economia amministrata dallo Stato ad un’economia di mercato basata sull’iniziativa commerciale richiede l’accumulazione di capitale privato non meno della presenza di motivazioni commerciali. Quali siano queste motivazioni lo sappiamo dall’analisi di Weber dei motivi strumentali nella crescita del sistema capitalista. Avidità e ricerca del profitto, insisteva Weber, hanno poco a che fare con il capitalismo; a meno che non siano frenate da calcolo razionale, esse difficilmente possono condurre alla trasformazione capitalista, e difficilmente hanno condotto in passato a tale trasformazione, anche se sono state presenti dovunque in tutte le società conosciute e hanno raggiunto le

vette più alte dell’efferatezza e dell’intensità molto prima dell’avvento della modernità. Invece, la caratteristica ideologicamente indotta dell’ascetismo di questo mondo ha avuto molto a che fare con l’emergere dell’ordine capitalista. Proprio questa caratteristica rese l’accumulazione capitalista ed il passaggio agli affari razionalmente calcolati sia possibili che effettivamente inevitabili (l’accumulazione originaria di capitale fu, secondo Weber, una conseguenza imprevista della rinuncia religiosamente indotta unita alla ricerca di abilità lavorativa come riflesso mondano della grazia divina). L’ascetismo di questo mondo significa innanzitutto e soprattutto la dilazione della gratificazione ; una soppressione, piuttosto che un dare libero sfogo alla tendenza naturale a guadagnare in fretta e all’immediato godimento, all’indulgenza verso se stessi e ad un ostentato consumismo. Rimangono pochi puritani nel mondo al momento in cui le società postcomuniste intraprendono l’«accumulazione originaria capitalista». In effetti, ciò che irritò i ribelli contro l’economia controllata (command economy ) comunista e che fece cadere infine il comunismo non fu l’invidioso confronto con il successo produttivo dei vicini capitalisti, ma lo spettacolo allettante e seducente dei generosi consumi dei quali si poteva godere sotto gli auspici capitalisti. Fu la cultura postmoderna, narcisistica, dell’auto-promozione, dell’autosoddisfazione, della gratificazione immediata e della vita definita in termini di stili di consumo a smascherare la natura obsoleta della filosofia di una «spada per tutti» (steel-per-head ) tenacemente predicata e praticata sotto il comunismo. Proprio questa cultura sferrò l’ultimo colpo alle vane speranze comuniste di una competizione con il rivale capitalista. E fu la brama travolgente di condividere (e di condividere immediatamente) le delizie del mondo postmoderno, non il desiderio d’incamminarsi ancora una volta sulla tortuosa strada, intrapresa nel diciannovesimo secolo, dell’industrializzazione e della modernizzazione, a mobilitare il massiccio dissenso contro l’oppressione e l’inefficienza comunista. La sfida postmoderna si dimostrò altamente efficace nell’accelerare il crollo del comunismo e nell’assicurare il trionfo della rivoluzione anticomunista nella sua fase politica sommamente importante, ma

ancora preliminare. Questo vantaggio può tuttavia trasformarsi in un serio handicap nella fase di trasformazione sistemica, e per due motivi: primo, la relativa scarsità di atteggiamenti puritani, a quanto si dice indispensabili nella fase di accumulazione originaria del capitale; secondo, la possibilità che le grandi speranze sulle quali è stata basata la fiducia accordata in anticipo ai governi post-comunisti risulteranno frustrate, con effetti avversi sulle istituzioni ancora appena radicate della giovane democrazia. La frustrazione può ripercuotersi nelle sue abituali sublimazioni, tra le quali la ricerca di capri espiatori, la caccia alle streghe e l’intolleranza totalitaria risultano le più notevoli e le più spiacevoli. Il clima socio-psicologico che ne risulta può dimostrarsi fertile per la crescita di formazioni politiche ibride, scarsamente somiglianti alle speranze liberal-democratiche dei leader intellettuali della rivoluzione. Le società dell’Europa Centro-Orientale hanno portato vittoriosamente a termine la loro rivoluzione di Febbraio. I pericoli di quella d’Ottobre sono, finora, lungi dall’essere esclusi. Il processo rivoluzionario è iniziato, ma il suo punto d’arrivo e l’indirizzo che esso prenderà nel prevedibile futuro sono tutt’altro che certi. Viene in mente l’opinione di Winston Churchill sulle prospettive della guerra dopo la battaglia di El Alamein: «Questa non è la fine. Questo non è neppure l’inizio della fine. Questa è solo la fine dell’inizio».

Riferimenti bibliografici Baudrillard, J. (1990), L’hystérésie du millenium , in «Le Débat», 60. Bauman, Z. (1989), Poland: On is Own , in «Telos», 79. Perkin, H. (1989), The Rise of Professional Society: England since 1880 , Routledge, London. Smolar, A. (1988), Perspektywy Europy Środkowo-Wschodniej , in «Aneks», 50. Staniszkis, J. (1988), Stabilizacja bez uprawomocnienia , in Richard, A-Sulek A. (a cura di), Legitimacja, Klasyczne Teorie i Polskie Doswiadczenia , PTS Warszawa, Warszawa.

Szacki, J. (1990), A Revival of Liberalism in Poland? , in «Social Reserach», 57.

4. CLASSI E POTERE

4.1 Classi: prima e dopo [Titolo originale: Class: Before and After, 1982] La memoria è la «vita dopo la morte» della storia. Proprio attraverso la memoria la storia continua a vivere nelle speranze, nelle finalità e nelle aspettative di uomini e donne quando cercano di dare un senso alla vicenda della vita, di trovare un modello esemplare nel caos, di escogitare soluzioni ordinarie a preoccupazioni straordinarie. La storia come oggetto della memoria rappresenta la materia di cui sono fatte queste speranze, finalità e intuizioni; a loro volta, queste ultime sono come un rifugio dove le immagini del passato vengono salvate dall’oblio. La memoria è storia-in-azione. La storia come oggetto della memoria è l’elemento logico che nell’agire s’introduce nella propria azione e cui si ricorre per conferire credibilità alle proprie speranze. Nella sua vita dopo la morte, la storia si reincarna come un’Utopia che guida, e ne viene guidata, le lotte del presente. La storia come oggetto della memoria raramente concorda con la storia degli storici. Questo non significa che gli storici, grandi o piccoli, sfuggano alla pratica collettiva che dà forma alla memoria storica; e neppure significa che il lavoro degli storici non eserciti alcuna influenza sul modo in cui la memoria del gruppo sceglie e trasforma i suoi oggetti. Complessivamente, tuttavia, la storia oggetto della memoria e la storia (o le storie?) degli storici seguono dei percorsi propri. Esse sono spinte da esigenze diverse, guidate da una logica differente, e soggette a differenti criteri di valore. Non c’è molta utilità, quindi, nel chiedersi se le convinzioni nelle quali la storia come oggetto di memoria può essere verbalizzata siano vere o false, stando a

norme stabilite dalla ricerca storica professionistica. La «materialità» della storia oggetto di memoria, la sua sostanza effettiva, ed anzi il suo stesso potenziale storico, non si basano sulla sua verità così intesa. Per un sociologo che cerchi di capire cos’è che spinge la pratica collettiva della ricerca storica, la storia oggetto della memoria (o memoria storica) non è un resoconto concorrenziale di qualcosa che può essere presentato da un altro racconto, forse in modo migliore; essa non è un oggetto di critica, un testo al quale si chieda di dare le proprie credenziali e che venga respinto qualora non lo faccia. La sociologia non è né un rivale né un giudice della memoria storica. Se quest’ultima non riesce a superare la prova professionale della verità, non ha quindi alcuna rilevanza per il problema della sua importanza sociologica. Il fenomeno della memoria storica presenta, tuttavia, problemi più complessi di questo della scelta tra la posizione della critica e quella che si assume nella descrizione e della illustrazione dei fatti. Prima che venga fatta una tale scelta, la storia oggetto della memoria deve essere innanzitutto «costruita». Diversamente dalla storia degli storici, la storia oggetto della memoria non può essere «definita in base a riferimenti», indicando un così grande numero di libri dove il suo contenuto sia stato debitamente e completamente registrato. Peggio ancora, essa non può essere sempre valutata estendendo l’indagine ad un nuovo tipo di prova potenzialmente oggettiva, come potrebbe essere, per esempio, la consistenza delle vendite o la richiesta in biblioteca di alcuni piuttosto che di altri libri storici, oppure l’intensità dell’interesse contemporaneo o della noncuranza per vari tipi di letteratura storica, ecc. Quest’ultimo metodo, anche se efficace, è naturalmente limitato alla «memoria storica» della persona colta, del letterato, di chi ha le idee chiare. Ma non tutti gli operatori storici appartengono a questa categoria. Nel caso di quelli che non lo sono (che né scrivono né leggono libri), si cercherebbero invano formulazioni chiare, dirette o indirette, della storia così come essi ne hanno fatto «oggetto di memoria». Anche i metodi recentemente sviluppatisi di «storia orale» sono destinati a gettare solo una luce obliqua sulla questione; il problema riguardante la «storia oggetto

della memoria» di praticamente tutti i gruppi, eccettuata l’élite colta, non è semplicemente che essa non è stata registrata per iscritto, ma che raramente, se mai ciò accade, emerge al livello della comunicazione verbale, scritta o orale che sia. La memoria storica di un gruppo che sia stato inserito a forza nelle sue azioni collettive, che trovi la sua espressione nelle tendenze del gruppo verso alcune piuttosto che verso altre risposte comportamentali, non viene necessariamente riconosciuta dal gruppo come un particolare concetto del passato. L’autorità del passato, e il conseguente bisogno di possedere alcune chiare conoscenze del passato per poter scegliere giusti modelli del comportamento presente, è un problema di filosofi, attribuito ad azioni collettive da parte degli interpreti, e non un fattore organico dell’azione in se stessa. Lo stile esistenziale della memoria storica non è diverso da quello della grammatica. Per l’interprete, il comportamento osservato è incomprensibile, a meno che la sua presenza non venga data per scontata, e rimane senza spiegazioni fino a quando le regole che lo guidano rimangono non formulate. Ma i protagonisti in se stessi non hanno bisogno di avere la consapevolezza delle regole per poterle seguire nella dovuta maniera; e non sono essi quelli che l’interprete vorrebbe interrogare nella sua ricerca di una coerente formulazione delle regole. Proprio in tal senso la storia oggetto della memoria deve essere «costruita». La ricostruzione è, essenzialmente, compito dell’interprete, un compito che è indispensabile per la comprensione dell’azione collettiva, anche se non per il suo compimento. Nel processo di costruzione, le opinioni registrate dei protagonisti non vengono considerate dall’interprete come resoconti, completi o parziali, della storia vivente, che ha semplicemente bisogno di essere messa insieme in una totalità coerente attraverso la formulazione di ipotesi circa le possibili forme dei nessi mancanti e ricorrendo all’analogia per supporre affinità: queste opinioni non vengono trattate come teorie incomplete o imperfette della tradizione da perfezionare e a volte correggere. Tali opinioni, insieme alle azioni non registrate, vengono viste piuttosto come elementi di un comportamento che va compreso nella sua totalità, con riferimento

alle precedenti esperienze del gruppo e alla sfida che la sua nuova situazione presenta se percepita nel suo contesto. L’opinione dell’interprete sulla storia oggetto di memoria, o vivente, si fa strada nel corso del suo sforzo di capire le reazioni collettive alle mutevoli circostanze della vita. Il procedimento può essere considerato legittimo solo se si formulano tacitamente alcune premesse. La prima è che, complessivamente, si preferiscono modelli ripetitivi di comportamento, quelli che sono più economici e meno scoraggianti di quanto lo sia il progettare una risposta ad hoc , senza essere in grado di calcolare in anticipo la possibilità di successo. La seconda è che, per questa ragione, modelli efficaci praticati nel passato tendono ad essere rafforzati; quanto più essi vengono resi abituali, per così dire, tanto più sono economici. La terza è che, proprio per questa inclinazione ad apprendere, un rapido cambiamento delle circostanze viene percepito come una minaccia; si prova risentimento per l’invalidazione della saggezza di vita in cui una volta si aveva fiducia. La quarta è che, di fronte ad un tale cambiamento, si è generalmente inclini o a rifiutare la legittimità del nuovo, o a cercare d’inserirlo nei modelli familiari; il più delle volte si cercherà di fare entrambe le cose nello stesso tempo. Proiettate sul nostro tema, queste premesse generano il concetto di storia oggetto della memoria come un residuo d’apprendimento storico, che «dà un senso» alle reazioni del gruppo al cambiamento nelle circostanze nelle quali la loro vicenda di vita viene condotta. Ciò che viene implicato nel concetto è il fatto che queste reazioni risultano meglio comprese se viste guardando indietro. Anche se formulate in un vocabolario di stati futuri, non ancora raggiunti, e per quanto profonda possa essere l’alterazione delle realtà sociali che esse producono come conseguenza, le azioni collettive traggono il loro significato dalla tradizione. L’azione storica, cioè l’esistenza umana in quanto tale, per così dire, è, facendo nostra l’espressione di Heidegger, una costante ricapitolazione della tradizione: in altre parole, essa è un processo di costante negoziato tra inclinazioni apprese e nuove dipendenze, caratterizzate dalla resistenza del linguaggio tradizionale ad abbandonare la propria autorità sulla percezione della realtà e sulla

regolamentazione normativa del comportamento collettivo. Questa spiegazione del ruolo della memoria storica nell’azione storica non implica necessariamente che si crei un pregiudizio conservatore nell’interpretazione storica. Ciò che essa implica inevitabilmente è la necessità, per l’interprete, di districare la sottile interazione dialettica tra il futuro orientamento e la passata determinazione, tra Utopia e tradizione, tra l’emergere di nuove strutture d’azione ed il linguaggio che aveva dato forma alle antiche, dalle quali a sua volta era stato plasmato. Per dirla in parole diverse, il concetto di memoria storica non implica l’idea di visioni precise, consapevolmente appropriate e prese in considerazione, della tradizione, elastiche al cambiamento e tali da suggerire, proprio per questa elasticità, una «preferenza naturale» per il tradizionalismo. Ancor meno il concetto implica una versione della «storiosofia» del «plus ça change, plus c’est la même chose» («più cambia, più è la stessa cosa»). Il concetto si riferisce semplicemente al fatto che alla base di ogni trasformazione storica c’è la crescente inadeguatezza del modello appreso di aspettativa e di comportamento alle circostanze nelle quali la vicenda della vita viene condotta. La probabile reazione a tale inadeguatezza è inizialmente un tentativo di riportare le circostanze ad un accordo con il modello del comportamento appreso. Se questo non riesce (ciò che normalmente si verifica), segue una situazione di crisi, che è caratterizzata da un alto grado di disorganizzazione e si riflette, da una parte, nelle profezie di un’imminente rovina e, dall’altra, nella proliferazione di Utopie rivoluzionarie. Un’apatia associata ad una crescente inefficienza delle istituzioni sociali, oppure una sostanziale energia che conduce a riallineamenti politici, sociali e culturali, sono entrambi dei possibili risultati. Nessuno dei due risultati è predeterminato dalla semplice configurazione dell’inadeguatezza e garantito in anticipo. La scelta tra i possibili risultati non può essere prevista; il suo meccanismo può essere solo retrospettivamente descritto.

Le due ipotesi analizzate [in questo libro] riguardano le origini e la

successiva crisi di una società articolata come configurazione di classi sociali caratterizzate da opposti interessi e preoccupate di rendere la distribuzione del prodotto sociale tale da tornare a proprio vantaggio. Secondo la prima ipotesi, l’articolazione della società classista fu un processo durato per circa un secolo, che ebbe il suo culmine nella prima parte del diciannovesimo secolo. Si trattò di un effetto sostanzialmente non voluto e non previsto di una lotta per ripristinare istituzioni sociali che garantissero status di gruppo e sicurezza individuale in una configurazione storica alla quale queste istituzioni non potevano essere di effettiva utilità: il suo prodotto maturo istituzionalizzò la memoria di questa lotta, come anche le divisioni e le alleanze che ne cristallizzarono il corso. Secondo l’altra ipotesi, l’attuale crisi così variegata della società classista (crisi economica: diminuzione della crescita, diminuzione del tasso di profitto, crescente disoccupazione; crisi politica: stato corporativista «bloccato» e una schizofrenica mescolanza di eccessive aspettative nei confronti del governo, con disapprovazione pressoché universale dell’espansione delle sue attività; crisi culturale: la sempre più evidente inefficacia dell’etica del «lavoro-e-realizzazione» e la graduale sostituzione del «potere di disgregazione» al «contributo al benessere comune» nella retorica della lotta per la distribuzione) è un sintomo dell’incapacità delle istituzioni della società classista di garantire lo status di gruppo e la sicurezza individuale in un’organizzazione sociale sostanzialmente trasformata. Sia lo status di gruppo che la sicurezza individuale possono guadagnare poco, ammesso che ne possano trarre un guadagno, dalla strategia di una guerra tra classi per la distribuzione. Tuttavia, proprio le strategie memorizzate delle classi forniscono i modelli cognitivi e normativi per affrontare la crisi. In tal senso, il presente periodo sta riadattando la situazione degli inizi del diciannovesimo secolo: la retorica della restituzione, la restaurazione, la difesa di antichi diritti e processi intentati secondo l’antico senso della giustizia, con effetti che non possono essere dedotti dalle loro consapevoli articolazioni, per quanto fortemente ne possano dipendere.

L’argomentazione che sorregge la prima ipotesi può essere delineata in più punti: 1. Il fattore principalmente responsabile della crisi (un’interruzione nel graduale cambiamento di crescita quando le istituzioni esistenti fanno proprie nuove condizioni, con modifiche nel processo in maniera non abbastanza improvvisa da essere percepita come rivoluzionaria) nell’Europa occidentale, crisi che doveva condurre infine all’articolazione della società classista, fu l’esplosione demografica del diciottesimo secolo. Una crescita rapida nella popolazione è in se stessa semplicemente un fenomeno statistico. Il suo significato sociologico ed il suo ruolo come fattore di cambiamento storico non si possono dedurre dai numeri (anche se molte interpretazioni, tralasciando l’intera area di mediazioni socioculturali, cercano di fare proprio questo, da Malthus in poi); certe conseguenze possono derivare, invece, dall’incapacità delle istituzioni esistenti di assimilare la quantità crescente degli individui e di far fronte alle esigenze del loro status e della loro sicurezza mantenendo determinati livelli. Nessuna popolazione, per quanto grande possa essere, è soprannumeraria o eccessiva a causa del semplice numero dei suoi abitanti; l’«eccessività» in se stessa è un concetto che non può sensatamente definirsi senza riferimento a concreti modelli socioculturali. Il problema, per quanto riguarda l’esplosione demografica del diciottesimo secolo, fu che essa superava la capacità d’assorbimento delle istituzioni sociali allora a disposizione. Come ebbe a dire sinteticamente Barrington Moore, «essa fu un sovrappiù per quel particolare ordine sociale e quel particolare livello dello sviluppo tecnico in quella specifica fase dello sviluppo storico. Più tardi, nel diciannovesimo secolo, ci fu un incremento molto maggiore della popolazione senza serie tensioni sociali» (Moore, 1978, p. 125). Per la stragrande maggiorana della popolazione pre-moderna, i compiti di definizione e di mantenimento dello status , come anche quello di provvedere alla sicurezza della vita, venivano eseguiti a livello locale ed erano ancorati a istituzioni locali: parrocchie, consigli di villaggi e città, corporazioni di arti e mestieri. La parrocchia e la

corporazione non erano organizzazioni specializzate, con attribuzione di compiti chiaramente definiti; per la maggior parte della gente esse rappresentavano l’universo intero, in cui s’inserivano naturalmente l’attesa di un lavoro e l’assicurazione contro la povertà: tutto sommato, la garanzia del posto nella società. Non è che la parrocchia e la corporazione eseguissero il compito meglio di istituzioni alternative e che per questa ragione fossero preferite; semplicemente, non c’erano istituzioni alternative adatte per questo compito. Se la parrocchia o la corporazione non riuscivano a provvedere secondo le aspettative sanzionate dal tempo, veniva a crollare il fondamento dell’intero modo di vivere. Vale la pena sottolineare che l’Inghilterra, dove la moderna società classista, come anche il nuovo sistema industriale che era alla sua base, ebbero un’articolazione teoretica e istituzionale prima che altrove in Europa, aveva avuto un’intricata rete d’assistenza sociale, insieme al concomitante concetto di responsabilità dello Stato per la sussistenza di tutti i suoi sudditi, ben radicato per diversi secoli prima del drammatico decollo della fine del diciottesimo secolo. Nelle parole di Harold Perkin, ciò che rese la storia inglese così diversa da quella dell’Europa continentale fu la «sconfitta dei contadini e la loro trasformazione in grossi agricoltori affittuari da una parte, e un più vasto corpo di lavoratori privi di terra dall’altra», ciò che spiegava, tra le altre cose, «il singolare sistema inglese d’assistenza ai poveri... di cui non si aveva bisogno nelle società contadine, dove la proprietà terriera sostiene tutti, o dove, in caso di carestia, tutti insieme sono ridotti alla fame» (Perkin, 1981, p. 360). In un suo scritto del 1764 Richard Burn elencava circa venticinque differenti atti legislativi che spiegavano per filo e per segno i doveri di città, villaggi, parrocchie nel provvedere alla sopravvivenza dei «poveri privi di forze» (impotent poor ) e all’impiego dei sani e robusti (able-bodied ). L’altrettanto abbondante legislazione che concettualizzava il fenomeno dell’accattonaggio e invitava ad un trattamento eccezionalmente duro per mendicanti e vagabondi «non autorizzati», legava i poveri in modo anche più rigido alle loro parrocchie native, rafforzando così il vincolo dei doveri e diritti localmente sanciti. I secoli di una simile struttura legalmente

rafforzata hanno influito pesantemente sul tipo di memoria storica che ha dimostrato di essere così efficace nell’articolazione della società classista. 2. L’incremento demografico della fine del diciottesimo secolo, se da una parte fornì l’incentivo per il decollo industriale, dall’altra forzò le istituzioni di sicurezza sociale localmente basate fino al punto di rottura. L’antico sistema tardò a riconoscere il suo imminente fallimento, come è testimoniato dal vano tentativo del sistema Speenhamland [nome di una località vicino a Newbury, Berkshire, dove i magistrati locali emanarono nel 1795 un provvedimento per l’assistenza ai poveri, N.d.T. ] di conservare i vecchi princìpi di fronte a nuove circostanze. Ma esso doveva dichiarare la sua condizione d’insolvenza sotto la duplice pressione delle crescenti quantità di famiglie e d’individui nullatenenti e delle fabbriche desiderose di sciogliere i vincoli locali che limitavano sia la mobilità che la flessibilità dei potenziali lavoratori. Quando la rete locale di assegnazione di contributi per lo status e la sicurezza cedette, cominciò il cruciale «secondo periodo» nella storia dei servizi sociali, «breve sul Continente, ma più prolungata in Inghilterra», quando lo Stato, nelle parole di Ernest Barker, dovette assumersi una certa responsabilità per la «massa di lavoratori sradicati delle campagne impiegati nelle fabbriche delle città o in centri minerari» (Barker, 1944, p. 69). Con il beneficio del senno di poi, questi tempi, caratterizzati dalla disperazione, dalla sofferenza, talvolta dalla violenza degli «sradicati», appaiono come una fase intermedia tra due successivi sistemi attraverso i quali la società provvide all’assegnazione di uno status e al bisogno di sicurezza.; ed anche come un periodo di «sgombero» per la costruzione della nuova rete, ragionevolmente più estesa ed universale, di istituzioni. Ovviamente, questo non era il modo in cui i contemporanei potevano percepire i loro tempi turbulenti, quando il vecchio centro non teneva più, mentre il nuovo poteva essere pensato, nella migliore delle ipotesi, come una nobile visione di sognatori sociali. La scarsità di preveggenza non era l’unico motivo d’allarme. A parte i limiti naturali dell’immaginazione storica, le istituzioni del

tempo erano davvero insufficienti, mentre il dissolversi di leggi e di antichi costumi lasciava un vuoto dove prima (come indicava la memoria storica) si stendeva il terreno solido di un’esistenza sicura. Nessun giudizio retrospettivo, tuttavia, può giustificare il rigetto di diagnosi ed esigenze dell’epoca come errori di giudizio storico o come prodotto di scarsa immaginazione; ancor meno è possibile disfarsene come idee retrograde, rivolte all’indietro, tali da rallentare il passo del progresso. Se la storia successiva invalidò la maggior parte delle diagnosi e sottovalutò la maggior parte delle esigenze, lo fece precisamente grazie all’aspetto di queste diagnosi ed esigenze, modellate come erano dalla memoria storica. Lungi dall’essere un bastone tra le ruote della storia, queste diagnosi ed esigenze, e la «storia vivente» che diede loro forma e vigore, misero il cambiamento storico in moto e diedero al veicolo della società una spinta qualitativamente nuova per il suo equilibrio. 3. Ciò che rese il periodo in questione un’era di aspri conflitti, di alleanze mutevoli, di consolidamenti e nuove divisioni e, complessivamente, di mutamento sociale sempre più rapido, fu in definitiva (tanto per far nostra la convincente espressione di Barrington Moore) il senso di «giustizia oltraggiata» provato da coloro che giustamente percepivano il loro status indietreggiato e le basi della loro sicurezza minate. Paradossalmente, la più profonda riarticolazione della società nella storia umana derivò il suo impulso dall’ostilità al cambiamento che stimolò chi si sentiva indebolito e minacciato ad un’azione difensiva (cioè, soggettivamente conservativa). L’intensità della militanza non rifletteva il livello assoluto d’indigenza, ma la distanza tra aspettative e realtà. La povertà non aveva che un debole nesso con la protesta sociale. I ribelli erano talvolta poveri, ma, più spesso che no, essi agivano per tenere lontano lo spettro dell’indigenza; inviariabilmente essi si mettevano sul sentiero di guerra quando il piolo della scala sociale sul quale si trovavano cominciava a sentirsi sdrucciolevole. L’abrogazione di diritti abituali portava a compiere ciò che una privazione resa ormai abituale non avrebbe mai fatto.

Nella sua recente indagine autorevolmente condotta su mezzo secolo di storia europea, Olwen H. Hufton ha analizzato le conseguenze del rapido incremento della popolazione per l’insicurezza dei modi e mezzi abituali d’esistenza. L’effetto dell’esplosione demografica negli anni Sessanta del diciottesimo secolo fu, in ogni parte dell’occidente, «un grave squilibrio tra popolazione e produttività economica. Persino negli anni di normali raccolti il numero di coloro che non erano in grado di farsi bastare le proprie risorse senza ricorrere all’elemosina cresceva rapidamente». Il risultato sorprendente della diffusa insicurezza fu, come Hufton documentò paese per paese, che «i poveri in se stessi non erano contestatori, ma la stessa cosa non poteva dirsi per coloro che combattevano per rimanere sul lato giusto della linea divisoria tra abbondanza e indigenza» (Hufton, 1980, p. 348). L’insicurezza in quanto tale produceva una condizione misera; ma fu la cessazione della sicurezza ad accendere il fuoco della protesta sociale. La rapida erosione delle istituzione protettive fu una causa immediata importante (forse la più importante) del malcontento. Il graduale sgretolamento del fondamento legale del paternalismo imposto dallo Stato fu sentito in modo particolarmente doloroso da parte dei gruppi che si erano abituati alla permanenza dei loro, per quanto umili, privilegi di status . A partire da Brentano, gli storici hanno mostrato la tendenza a sottolineare il ruolo cruciale di certi atti parlamentari, quale l’abrogazione nel 1814 dell’articolo riguardante l’apprendistato che figurava nello «Statuto degli Artigiani e Apprendisti» (Statute of Artificers and Apprentices ) del 1513 (5 Elizabeth ), come pietre miliari nel riallineamento delle forze sociali e politiche, come, effettivamente, fattori cruciali nel costituirsi dei lavoratori in una classe operaia. Nella sua autorevole opera The making of the English working Class , E.P. Thompson [trad. it. Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra ] documentò abbondantemente il ruolo della «memoria popolare profondamente radicata», che si esprimeva non solo nella naturale aspirazione a basi stabili della sicurezza individuale, ma anche, più specificamente, nella nostalgia per modelli tradizionali di lavoro e tempo libero. La conclusione di Thompson era che «questi

anni sembrano talvolta mostrare non una sfida rivoluzionaria, ma un movimento di resistenza in cui sia i romantici che i lavoratori radicali si sono schierati contro l’annuncio dell’uomo desideroso di acquisire (Acquisitive Man )» (Thompson, 1963, pp. 357, 830). L’abolizione del 5 Elizabeth significava non solo l’arretramento di status per lavoratori abituati ad aspettarsi, con ragione, l’avanzamento prescritto dall’uso nella loro posizione occupazionale, ma cambiava anche, e cambiava al di là di ogni riconoscimento, lo stesso carattere dell’apprendistato come iniziazione ad un’esistenza totalmente modellata nell’ambito di una comunità lavorativa strettamente unita. L’abrogazione dell’accesso limitato all’apprendistato significava in pratica il divieto d’accesso a questa comunità: la resistenza degli artigiani contro l’abolizione della protezione legale all’apprendistato (il primo movimento di protesta di destituiti da privilegi come produttori, piuttosto che come consumatori), fu una lotta per il ripristino di una tale comunità. Secondo la sintetica formulazione di John Rule, «la protesta dei poveri manifatturieri fu di natura conservatrice nel loro richiamo alla consuetudine, alla legislazione paternalistica e nel loro cercare di rafforzare l’uso tradizionale» (Rule, 1981, p. 212). 4. Il dissolversi di istituzioni paternalistiche a base locale che cedettero sotto la schiacciante pressione dell’esplosione demografica si tradusse in una massiccia produzione di poveri e mendicanti. Fu questo l’aspetto del cambiamento più facilmente riconosciuto sia da riformatori intellettuali che da governi preoccupati della prevista minaccia per l’ordine pubblico; la fine del diciottesimo secolo segna il momento di una frenetica attività legislativa, talvolta presa dal panico, tesa al contenimento e all’imprigionamento di accattoni e vagabondi e a spazzar via da tutte le strade i mendicanti. È, secondo l’appropriata espressione sintetica di Michel Foucault, l’«età della prigione»: il tempo in cui corpi legislativi, fabbricanti, medici e psichiatri cooperarono nell’usare la reclusione come principale metodo per separare l’ordine dal disordine, il pronunciabile dall’impronunciabile, l’osservabile dal non osservabile. E tuttavia, come conclude Barrington Moore nella scia di una scrupolosa ricerca comparativa

sulle origini della rivolta moderna contro l’ingiustizia, «coloro che sono esclusi nel peggiore dei modi sono gli ultimi ad organizzarsi e a far sentire la propria voce». La voce della protesta raggiunge i suoi toni più alti appena al di sopra della linea di povertà e si affievolisce fino a cessare una volta che questa linea sia stata attraversata. Furono i capi delle corporazioni delle improvvisamente sovraffollate città tedesche agli inizi del diciannovesimo secolo coloro che tennero duro: essi volevano «un potere molto più grande nello Stato, provvedimenti per conservare il loro ruolo sociale e morale, come anche quello economico – un ritorno alla situazione pre-capitalista con una certa dose di vetrina idealizzata – e provvedimenti per limitare il numero degli apprendisti e per chiudere l’accesso alle corporazioni» (Moore, 1978, pp. 143, 147). Lo spettro del pauperismo aggiungeva innegabilmente un senso d’urgenza all’azione difensiva, e subconsci timori al suo ardore. Ma gli obiettivi della lotta erano fissati dalla memoria storica, e questa non era l’esperienza della povertà e la mancanza di sussistenza. Il «ritorno» fu al ricordo del proprio mestiere come proprietà dell’artigiano, in senso contrario alla nuova e strana idea, e pratica, del lavoro (e, a tutti gli effetti, dello stesso lavoratore) come merce. Karl Polanyi, nella sua opera coraggiosamente sintetica Great Transformation [La grande trasformazione , 1944], indugia a lungo sulla lotta inconcludente e in definitiva fallita del sistema di mercato in espansione (expanding market system ) per assorbire lavoro e dissolverlo nella massa uniforme di prodotti che dipendono, per il loro prezzo, dal libero gioco di offerta e domanda, e dall’intrinseca indivisibile unità tra aspetti economici e sociali del lavoro come barriera naturale tra la realtà della società capitalista e la sua proiezione idealizzata nella forma del mercato perfetto. Questa barriera non potrebbe essere né abbattuta né saltata, per quanto forti fossero le pressioni di mercato legalmente sostenute. Diversamente da altri prodotti, il lavoro non potrebbe essere separato dal suo precedente possessore dopo l’atto d’acquisto; il modo in cui questo venisse usato o se ne abusasse si ripercuoterebbe sul benessere del possessore, presente in maniera inestirpabile all’atto del suo consumo. Il consumo del lavoro come prodotto sarebbe in pratica

indistinguibile dalla gestione della condizione del lavoratore come essere sociale (guardando dal lato commerciale [market side ] della medaglia, Ricardo fu forse il primo a formulare questa sottoclassificazione della categoria sociale dei lavoratori sotto la categoria economica del lavoro). La riduzione delle relazioni di lavoro ad una transazione di semplice prodotto, la separazione del contratto da ogni e qualsiasi «nesso sociale» senza alcun rapporto con il consumo dello sforzo come valore astratto, non si potrebbero sperimentare se non dall’altro lato della medaglia come un attacco alla posizione sociale del lavoratore, come un tentativo di trasformare lo stesso lavoratore in una merce. È possibile interpretare in retrospettiva la resistenza dei lavoratori contro il libero gioco di mercato come, soprattutto, la difesa del lavoro in quanto proprietà di coloro che lavorano; più in generale e forse più astrattamente di quanto vorrebbe la coscienza contemporanea: come la difesa dell’attività di lavoro in quanto parte integrante e parcella di legami sociali, contro la sua riduzione ad una transazione puramente economica. Questa interpretazione si avvicina in certo senso alla spiegazione della notevole fedeltà ai privilegi consuetudinari del lavoro nel suo insieme, e all’accettazione della gerarchia di potere all’interno del lavoro, che per quasi tutta l’epoca della grande trasformazione ha unito capimastri e loro apprendisti contro gli interessi dei padroni, i commercianti di granaglie, i finanziatori, gli imprenditori ed i governi che hanno prestato il loro sostegno alle loro pratiche distruttive. L’autodifesa dei lavoratori che ha lasciato un duraturo sedimento nella forma dei sindacati raramente fu diretta in origine contro i padroni; quando ciò avvenne, l’intento fu quello di riportare i padroni in linea con l’aspettativa legata alla consuetudine di «equità». Secondo l’intuizione di John Rule all’interno di un lavoro le spaccature orizzontali si formavano perché i livelli che lo componevano non vivevano secondo le reciproche aspettative. Così, certi padroni potevano essere visti come se agissero in maniera difforme da quella dei padroni , o in certi momenti i padroni in generale potevano dimenticare i loro obblighi tanto da agire unicamente nel loro proprio interesse. Questo produceva solitamente un conflitto temporaneo lungo linee orizzontali che implicava la percezione di una separazione d’interessi (Rule, 1981, p. 269).

Per qualche tempo, tuttavia, il conflitto doveva rimanere temporaneo. La tendenza dominante fu la difesa dell’unità essenziale del lavoro: più in generale, la difesa del principio del lavoro in quanto inscritto nel contesto di relazioni sociali inviolabili e quindi esente dalla maldestra, rozza e insensibile «giustizia» del mercato. Fu infine il fallimento di questa strategia di difesa a condurre a quel fatale riallineamento di solidarietà e antagonismi che è conosciuto come nascita della società classista. 5. La ribellione conservatrice può essere vista anche in altro modo: come gli ultimi sussulti del lungo terremoto che scosse le fondamenta dell’antico potere sociale, sgombrando così il terreno per il nuovo. Il processo impiegò diversi secoli per compiersi, ma le sue ultime fasi offrirono uno spettacolo particolarmente drammatico, quando esso risultò condensato ed accelerato con l’avvento del sistema della fabbrica. Il passaggio dall’antico al nuovo potere fu un corollario dell’iniziale cambiamento nella gestione del prodotto surplus . Fino agli inizi della società industriale, questo prodotto veniva estratto dai produttori soprattutto come un elemento di ridistribuzione: come un tributo, una decima, un canone d’affitto che il produttore doveva dedurre dalla sua produzione al completamento del suo ciclo produttivo. Con la diffusione del lavoro mercenario, ed in particolare con la nascita del sistema della fabbrica, il prodotto surplus venne estratto «alla radice»; esso costituiva ormai il diritto del produttore ad una quota della produzione che era divenuta un risultato della ridistribuzione. I due modi distinti nei quali il prodotto surplus veniva amministrato e diviso potevano essere controllati solo da due tipi completamente differenti di potere sociale. Il primo era un potere che interveniva nella vita del produttore solo occasionalmente; la sua unica funzione era quella di assicurare il trasferimento periodico del prodotto del lavoro, non l’amministrazione del lavoro in se stesso. Questo potere poteva quindi manifestare il suo lato esterno e far intervenire, come sue risorse più importanti, i due motivi gemelli di terrore: la punizione fisica e la dannazione spirituale; ma esso non

aveva a che fare con l’amministrazione della persona del produttore, che veniva lasciata per lo più alla logica della natura e della consuetudine. Il secondo tipo di potere, invece, doveva scendere al livello di cui il precedente tipo non aveva bisogno di preoccuparsi. Il suo compito era quello di organizzare il processo produttivo in se stesso. Esso rimaneva all’esterno solo nel senso che lo sforzo produttivo in se stesso arrivava ad essere esterno alla logica «naturale» della vita del produttore. Altrimenti esso s’inseriva in azioni e funzioni lasciate prima alla discrezione del produttore. Quest’ultimo doveva essere costretto, ormai, a sottoporsi ad un ritmo quotidiano e ininterrotto che non aveva evidente relazione con l’ordine logico della sua vita. Il nuovo potere non poteva, quindi, limitare la sua apparizione alla raccolta annuale di tasse e alle sollecitazioni ufficiali che ricordavano la sua indiscutibile potenza e le sue sovrumane sanzioni. Doveva essere un potere esercitato ogni giorno e ogni ora, che permeasse l’intera vita del produttore e mostrasse un costante controllo e «guarnigioni nelle città conquistate» (metafora di Freud per i sedimenti lasciati dalla repressione nella coscienza) come sua arma suprema. Non i prodotti del lavoro, ma il produttore stesso, il suo corpo e il suo pensiero, dovevano ormai diventare gli oggetti del potere. Se non per l’antico potere, il prodotto surplus non sarebbe stato diviso per mantenere un’élite improduttiva; se non per il nuovo potere, il surplus non sarebbe stato prodotto affatto. Il nuovo potere era quindi diretto alle persone dei produttori, aspirava a plasmare l’intero processo della loro vita, e mostrava un volume senza precedenti di repressione. Larghi settori del normale comportamento furono messi da parte come dominati dalla passione (in opposizione a quelli classificati come razionali), destinati ad essere limitati e, meglio ancora, ad essere soppressi del tutto. Il nuovo potere era per lo più una forza d’intento disciplinare. Veniva stabilito per rimodellare il comportamento dei produttori secondo un modello che, quasi per definizione, essi non avrebbero scelto se la faccenda fosse stata lasciata alla loro discrezione. Poiché ne risultava implicato l’intero modello di vita, la faccenda non poteva essere risolta dalla semplice costrizione o da un’occasionale dimostrazione di forza

superiore. Il nuovo potere doveva essere costante ed onnipresente. Attraverso le sue numerose istituzioni esso doveva ricoprire l’intero territorio della vita. E doveva entrare in diretto e permanente contatto con la persona del produttore. Fu nel sistema della fabbrica che gli interessi e le ambizioni del nuovo tipo di potere raggiungero la loro più completa e più vivace manifestazione. Per ovvie ragioni, le fabbriche furono sin dall’inizio la prima linea della lotta per il potere. Il lavoro comprato dai proprietari della fabbrica poteva essere portato alle macchine solo insieme ai lavoratori; e non poteva essere valorizzato se non costringendo i lavoratori ad usare la loro forza ed abilità, continuamente e secondo il ritmo stabilito dal macchinario in movimento. Per disporre liberamente del loro lavoro, i lavoratori dovevano essere privati, quindi, della loro libertà. E. P. Thompson documentò in un brillante saggio il tortuoso processo per addestrare i lavoratori della fabbrica ad obbedire ventiquattro ore su ventiquattro (Thompson, 1974). Il processo fu ripetuto dovunque, ed ogni volta degli individui allevati in uno stile pre-industriale di vita dovevano essere trasformati in operai di fabbrica. L’ordine della fabbrica, qualunque fosse la sua influenza sul livello di vita misurato dalla quantità di prodotti comprati e consumati, doveva apparire ai produttori come una sovrapposizione di un ordine coercitivo, controllato da altri, su quella che sembrava invece un’esistenza autoregolata ed autonoma. Proprio per questo motivo il sistema doveva suscitare risentimento, particolarmente tra gli artigiani o i piccoli produttori domestici di ieri. Messa di fronte al nuovo ordine, la memoria storica dipingeva il quadro di beatitudine e tranquillità distrutto dai «satanici opifici». All’impersonale e coatta individualità di un operaio di fabbrica essa giustapponeva l’immagine della socievolezza e della reciproca stima di produttori indipendenti. Agli operai di fabbrica il nuovo ordine si rivelava innanzitutto e soprattutto come perdità di libertà; il suo impatto repressivo derivava principalmente dal fatto di creare individui eterodiretti. Quest’ordine si presentava come sostenuto da nuda forza, ma senza alcun significato. Nelle parole di Weber:

I Puritani volevano lavorare per vocazione; noi siamo costretti a farlo... Secondo l’opinione di Baxter, la preoccupazione per i beni esteriori dovrebbe stare sulle spalle del «santo [solo] come una cappa leggera, che è possibile levarsi di dosso in ogni momento». Ma il fato decretò che la cappa divenisse una gabbia di ferro (Weber, 1976, p. 181).

Gli operai di fabbrica furono i primi a sperimentare questa ironia del fato. Per essi, l’ordine che fissava «con forza irresistibile in questo meccanismo la vita di tutti gli individui che sono nati, e non solo di quelli direttamente interessati all’acquisizione economica», fu una gabbia di ferro fin dall’inizio. E, per lungo tempo ancora, le sue sbarre di ferro non sarebbero state nascoste dietro i magnifici premi dei supermarket. 6. Nell’ordine pre-industriale, il produttore era costretto a condividere il suo prodotto con i suoi superiori sociali. Ma fino al momento in cui si raccoglieva il tributo, il prodotto era suo. Il produttore era nel controllo di attrezzi e materiali che, qualora fossero soggetti al processo del lavoro, andavano a finire nel prodotto finale. Attrezzi, lavoro e diritti al prodotto del lavoro appartenevano «naturalmente» tutti insieme al produttore. La società industriale, invece, «richiede che la ricchezza sia direttamente nelle mani non dei suoi possessori, ma di coloro il cui lavoro, utilizzando quella ricchezza per lavorare, consente che se ne ricavi un profitto» (Foucault, 1980, p. 41). L’avvento della società industriale portò, quindi, una situazione ambigua, a mala pena articolata secondo precedenti storici. Esso rese la ri-definizione di diritti e doveri inevitabile, oggetto di aperta competizione e di lotta per il potere. Mai, dal crollo delle società schiaviste, una ricchezza così formidabile era stata affidata alla responsabilità di individui che non avevano alcun interesse per la sua integrità. Dal punto di vista dei possessori, questa situazione significava il prospettarsi di enormi rischi e richiedeva una costante vigilanza; il «Panopticon» di Bentham racchiudeva il sogno dell’acutissimo sguardo investigatore di una sorveglianza non coartata dalle pareti della privacy e tale da penetrare nelle nicchie più nascoste dell’autonomia individuale. La pratica che il «Panopticon» idealizzava era quella della mescolanza di esercitazione

fisica e predicazione morale, tese al rovesciamento del tradizionale rapporto tra cose e loro utenti. Attraverso la disciplina e la punizione l’unità di capitale, lavoro e prodotto doveva essere «snaturata» e smembrata. Questo si poteva ottenere solo attraverso un’intransigente soppressione dell’autonomia dei produttori, trasformando i soggetti di diritti di ieri in oggetti di controllo. Dal punto di vista dei produttori, tuttavia, la nuova situazione presentava un quadro completamente diverso. Essa era vista come un nefasto allontanamento dal principio naturale del controllo del produttore sull’interezza della sua opera, compresi i risultati tangibili del lavoro. Molto prima che gli economisti facessero la loro scoperta del lavoro come fonte di ricchezza, l’intimo nesso tra lavoro e suo prodotto era abbastanza evidente per il produttore da invitare alla riflessione. Sembra strano, quindi, che la maggior parte delle interpretazioni delle origini del conflitto industriale veda l’apparire della domanda dell’«intero prodotto del lavoro» come il risultato della lettura socialista della visione economica di Ricardo. È stato accettato quasi senza sollevare ulteriori dubbi che l’idea del diritto all’intero prodotto venne iniettata in rudimentali associazioni di lavoratori dai loro consiglieri e predicatori intellettuali, dopo essere stata distillata dall’astratta analisi della struttura dell’economia di mercato. Questa idea viene comunemente vista, in altre parole, come il risultato dello spingere la logica dell’economia di mercato fino alle sue conclusioni radicali; o, in alternativa, come la conseguenza di un giudizio di valore applicato alla struttura dell’economia capitalista. In entrambi i casi, la domanda dei produttori per l’intero prodotto del loro lavoro viene interpretata come un fenomeno partorito dal carattere distintivo della società capitalista; talvolta, particolarmente nell’ambito della tradizione marxista, essa viene presentata come un passo fatale oltre («in avanti») l’organizzazione capitalista del processo produttivo. Moltissimi autori sono d’accordo nel dire che il «diritto all’intero prodotto del lavoro» può e deve essere fatto risalire ai socialisti ricardiani, che ebbero il coraggio e l’immaginazione di guardare oltre i confini dell’egoismo borghese che offuscava la visione di Ricardo, ma che fecero la loro osservazione tenendo saldamente entrambi i piedi

sul territorio della società borghese, così come era stata delineata dalla teoria di Ricardo. Contrariamente all’opinione dominante, il «diritto all’intero prodotto del lavoro» sembra essere molto più di casa nella memoria storica del singolo produttore che non nelle avanzate Utopie dei critici d’avanguardia dell’amministrazione capitalista del valore surplus . La teoria economica fu a malapena necessaria per i produttori per guardare al nesso «naturale» da loro ricordato tra lavoro e suo prodotto e per resistere, nel nome di questa memoria dell’ordine «naturale», agli sforzi concentrati dei nuovi poteri industriali per infrangerlo. Quella che era stata formulata come richiesta del diritto all’intero prodotto era, in verità, un invito a restaurare l’antico ordine. Non che nella storia passata i produttori avessero posseduto e consumato la totalità del loro prodotto senza condividerlo con i gruppi dominanti e con quelli inattivi, o deboli e impoveriti, ma l’antico ordine, messo a confronto con il sistema della fabbrica, sembrava collocare il produttore in una posizione di controllo sulla totalità del suo prodotto e sulla sua successiva destinazione. In pratica, quindi, la domanda per l’intero prodotto del lavoro faceva parte della lotta per il potere cui aveva dato il via l’attacco lanciato dal sistema della fabbrica contro l’autogestione del produttore. Le immagini ed il vocabolario che suggeriva la «memoria storica» consentivano di formulare la difesa dei produttori contro il nuovo «potere della disciplina». Questa interpretazione richiede una precisazione. Essa mira a far proprio il significato dato alla domanda da parte dei lavoratori delle fabbriche nelle prime lotte di potere del nuovo sistema. Essa venne, almeno obliquamente, confermata dal fatto che per molti decenni, praticamente fino all’introduzione dell’«efficiente» tecnologia avanzata nella seconda parte del diciannovesimo secoli, i proprietari di fabbriche non riuscirono ad estendere il modello unificato della disciplina di fabbrica sul lavoro qualificato. Per quasi tutto il diciannovesimo secolo i lavoratori qualificati, organizzati per la loro autodifesa nei sindacati, conservarono una notevole autonomia in seno alla fabbrica ed in larga misura controllavano la loro propria parte nel processo di produzione; solo al lavoro debole e non

organizzato, pricipalmente quello di donne e bambini, si applicarono pienamente la disciplina e la sorveglianza del nuovo potere (fu proprio la stessa incapacità di questi gruppi, privi di una memoria storica cui ricorrere, a resistere all’usurpazione del nuovo potere che li rendeva oggetti naturali della legislazione difensiva da parte dello Stato). Ma nel dibattito intellettuale dell’epoca, e particolarmente nel suo settore socialista «il diritto all’intero prodotto del lavoro» ebbe la tendenza ad acquisire una interpretazione economica piuttosto chiara. Qui, esso venne tradotto nel linguaggio del discorso di mercato e decifrato come domanda del rimborso del pieno valore del lavoro speso. Nella versione classica, più tardi compendiata da Anton Menger, questa interpretazione del diritto all’intero prodotto del lavoro lo basò sull’egoismo (Menger, 1899, p. 28). L’analisi di Menger, tuttavia, rimase in se stessa nell’ambito del discorso di mercato, in cui erano incluse altre interpretazioni analizzate. Un’opinione espressa in termini più ampi, che abbraccia il contesto storico dell’epoca in cui fu avviato il dibattito intellettuale sul diritto all’intero prodotto, rivela un significato alquanto differente delle interpretazioni economiche del «diritto». Piuttosto che fare riferimento all’egoismo individuale o di gruppo, il concetto del «diritto all’intero prodotto» sembra far parte del discorso di potere a livello globale della società; esso rappresenta un concetto alternativo dell’amministrazione del surplus socialmente prodotto. Contrariamente a quanto suggeriva Menger («sotto un tale sistema ciascuno lavora soltanto per sé, mentre sotto le condizioni presenti egli lavora in parte per sé e in parte per un reddito non guadagnato di un altro»), le interpretazioni intellettuali del «diritto» non implicarono mai l’abolizione di una ridistribuzione del surplus ; quasi mai, neppure nel caso di soluzioni più radicalmente sindacaliste, esse accennarono ad una possibilità che del prodotto si appropriasse (senza bisogno di dire che lo consumasse) nella sua interezza il suo immediato produttore. L’accento posto nelle interpretazioni economiche del diritto fu sempre di valore negativo; in certo senso, esse attaccavano ciò che il concetto di tale diritto espresso dai lavoratori difendeva: vale a dire, l’associare il diritto di disporre del prodotto finale

all’investimento di fattori che conducevano alla sua creazione. Nelle circostanze concrete dell’industria capitalista, queste interpretazioni puntarono alla dissociazione dell’amministrazione del surplus dalla proprietà del capitale, consentendo in tal modo un campo comune relativamente limitato sul quale le due interpretazioni (sociale ed economica) del diritto all’intero prodotto potevano incontrarsi e persino essere ritenute erroneamente come identiche. Esse s’incontrarono nella misura in cui presero di mira, per quel tempo, lo stesso avversario. La loro alleanza tattica non poteva, comunque, sopravvivere al conseguimento del diritto nell’una o nell’altra delle due versioni. La realizzazione di una delle due versioni era destinata a rivelare la loro inveterata discordanza. La versione economica non implicava necessariamente la concessione del diritto richiesta da quella sociale. I problemi formulati nella versione sociale potevano mantenere senz’altro tutta la loro specificità anche con i postulati di quella economica accolti in pieno. D’altro canto, se le domande della versione sociale fossero state soddisfatte, ciò non avrebbe reso più possibile la ridistribuzione del potere implicata dalla versione economica. 7. La versione sociale del «diritto all’intero prodotto del lavoro» derivava il suo impulso iniziale dal risentimento dei produttori per il potere disciplinare rappresentato dal sistema della fabbrica: risentimento cui dava forma il «passato memorizzato» del laboratorio dell’artigiano. Esso fece parte, in questa fase, della lotta di potere per il controllo sul processo di lavoro, e manifestò il senso di una sfida da parte di un ordine inteso come estraneo, imposto dall’esterno, che tendeva ad un pieno controllo sulla sostanza e sulla forma delle azioni dei produttori. Questa lotta di potere doveva essere persa dai lavoratori. Il potere della disciplina risultò, infine, vittorioso; la sua base si estese ben oltre le pareti della fabbrica, ed il terreno della fabbrica non fu un campo di battaglia sul quale si potesse intraprendere una guerra vittoriosa contro il nuovo tipo di potere. Con l’avanzamento fatto dal nuovo ordine, la versione dei lavoratori del «diritto all’intero prodotto» fu soggetta ad un graduale, ma

importante cambiamento di significato. Essa si avvicinò all’interpretazione di Menger. Come Offe e Wiesenthal hanno recentemente osservato: i lavoratori non possono nè pienamente sottomettersi alla logica del mercato (innanzitutto, perché ciò che essi «vendono» sul mercato non è un prodotto «vero e proprio»), né possono sottrarsi al mercato (perché essi sono costretti a parteciparvi, per la loro sussistenza) (Offe-Wiesenthal, 1980, p. 104).

Quando l’azione difensiva e ritardante non riuscì a fermare l’avanzamento del nuovo potere, accadde che il secondo aspetto della situazione dei lavoratori, divenuto una necessità a tutti gli effetti, comiciò ad esercitare una costante pressione, spingendo il lavoro al modello di «prodotto» mai pienamente ottenibile. Senza una drastica modificazione del modello di «potere della disciplina», l’unico modo per badare alla propria situazione a disposizione dei lavoratori fu quello di comportarsi come se il lavoro fosse un prodotto, valorizzando nello stesso tempo il fatto che esso non è, e non può essere, un prodotto tout court («il capitalista non può comprare il lavoro in se stesso, una certa quantità di attività, per così dire. Invece, egli deve ricorrere ad incentivi, alla forza, ecc. nei confronti dei portatori di forza-lavoro, cioè dei lavoratori, per indurli a lavorare e farli continuare a lavorare») (Offe-Wiesenthal, 1980, p. 73). Il concetto limite dell’«intero prodotto del lavoro» si trasforma, quindi, in una formula che legittima la contrattazione nel nome d’incentivi aumentati. Il nesso tra la pratica della contrattazione e la logica della sua originaria legittimazione tende a divenire, tuttavia, sempre più tenue. Rimane poco delle ambizioni economiche o sociali una volta implicate dalla formula. Contrariamente a ciò che vorrebbe farci aspettare la visione economica del lavoro-prodotto, i limiti del potere di contrattazione sono debolmente correlati al valore dell’«intero prodotto». Essi dipendono invece dal «valore negativo» della distorsione nel modello di potere che una particolare categoria di lavoratori può creare con il suo rifiuto a spendere la sua forza-lavoro. Ciò che effettivamente conta nella distribuzione dell’«intero prodotto» non è «quanto contribuiamo alla creazione del prodotto», ma «quanto danno possiamo causare rifiutando di contribuire».

Questa pratica crea la visibilità di un comportamento tipicamente orientato dal mercato, ma solo se s’ignorano tutte le sue determinanti contestuali altamente specifiche e i suoi complessi stimoli interiori. Così, l’«egoismo» di Menger, che a quanto si dice è alla base della domanda dell’«intero prodotto del lavoro», in nessuna fase sembra rendere giustizia alla complessità del comportamento dei lavoratori. Ad esso si potrebbe ricorrere per costruire modelli operativi di un simile comportamento solo in una fase più tarda; al momento in cui la rivendicazione del «diritto all’intero prodotto», che secondo Menger dovrebbe esserne la giustificazione, si sia già collocata in un contesto da evocare, semmai, per rare occasioni rituali. In questa fase più tarda le possibilità delle varie categorie di lavoro dipendono dalla loro capacità d’interrompere la produzione del valore surplus , direttamente o indirettamente (cioè togliendo valore ad alcune della «metacondizioni» di tale produzione). Questo significa che le possibilità sono disuguali. Accade allora che la difesa del rispettivo status di certi settori di lavoro impiegato diventi in linea di massima dissociata dalla lotta di potere, tesa ad assicurare l’esistenza dei non-possessori-di-capitale in genere. Il concetto generale della lotta «lavoro contro capitale» si conserva ancora nella memoria collettiva delle origini, ma copre ormai una ricerca essenzialmente frammentata di guadagni. Il destino dei due obiettivi è guidato da due insiemi largamente autonomi di fattori. Diviene possibile, quindi, che un successo in una direzione possa avere un effetto avverso sull’altra.

È tempo di riepilogare l’argomentazione. Il conflitto tra lavoratori e possessori di capitale non è simile al conflitto immediatamente precedente tra produttori di surplus e i suoi consumatori non-produttori (dato che la produzione di surplus nella società industriale non è simile alla sua produzione nel passato). Esso nacque dalla lotta per il controllo sulla produzione di surplus e non semplicemente sulla sua distribuzione. L’avvento della società industriale significò che l’amministrazione esterna del surplus ,

precedentemente limitata alla sua distribuzione, si estese alla sua stessa produzione. Questa tendenza veniva a significare non il semplice privare il produttore di una parte del prodotto del suo lavoro, ma un controllo totale sulla sua persona, corpo e anima, cioè un’eliminazione del suo diritto a gestire l’applicazione della sua capacità lavorativa. Il conflitto tra i lavoratori e i possessori di fabbriche nacque come resistenza dei soggetti di un simile controllo contro un nuovo sistema di potere che lo implicava. L’organizzazione dei lavoratori in una classe ostile al dominio dei possessori di capitale fu un risultato di questa resistenza. Le probabilità in questa lotta difensiva furono, e rimangono, decisamente contro i lavoratori. Un ovvio svantaggio derivava dal sostegno che l’altra parte riceveva dalla liquidità del «lavoro morto» (il loro possesso di attrezzi, immobili, materiali grezzi) rispetto all’irrimediabile «non-liquidità» di quello «vivo»; diversamente dai capitalisti, i lavoratori dipendono per il loro sostentamento dalla disponibilità dell’altra parte a farne uso; non potendo immagazzinare la loro forza-lavoro o riservarla per occasioni più propizie, essi sono costretti a perderla qualora abbiano deciso di sottrarsi alla sottomissione fisica che implica il venderla. Un altro svantaggio (come Offe e Wiesenthal hanno recentemente indicato, svantaggio spesso non avvertito da scienziati politici che «eguagliano il diseguale» e dissolvono l’unicità della situazione dei lavoratori nel concetto indefinito di «gruppi d’interesse» [Offe-Wiesenthal, 1980, pp. 71, 79]) deriva dal fatto che il potere di ogni e ciascun capitalista è assicurato automaticamente dai suoi diritti di proprietà legalmente garantiti; in definitiva, il diritto di proprietà significa il diritto a controllarne l’uso (e ad impedirne l’«abuso», intendendo come tale l’uso non conforme all’intenzione del possessore), che, nel caso in discussione, equivale al controllo sull’azione, su corpo e anima degli individui impiegati per compiere questo «uso». Un singolo lavoratore, invece, se si eccettua l’improbabile caso che egli possieda capacità uniche ed insostituibili, indispensabili per l’uso che voglia farne un capitalista per le sue proprietà (la standardizzazione delle macchine rende tali casi sempre più improbabili), non ha disponibilità finanziarie con le quali poter

contrastare e limitare il controllo del capitalista; da solo egli non costituisce una «fonte d’incertezza» che possa confondere i calcoli del capitalista, e per questa ragione egli è inequivocabilmente un oggetto di potere, e non una parte nel gioco di potere. Per poter raggiungere ciò che il capitalista raggiunge come individuo, senza rinunciare virtualmente a nulla della sua autonomia personale, il lavoratore deve associarsi con altri: con altri lavoratori impiegati dallo stesso capitalista, per rendere la sostituzione delle sue abilità in qualche misura più costosa; e, preferibilmente, con tutti i lavoratori che possiedano le stesse abilità o siano potenzialmente impiegabili dalla stessa industria, per poter eliminare completamente lo svantaggio di potere che potrebbe nascere dalla sostituibilità. In altre parole, proprio questa resistenza al tentativo del nuovo potere di arrivare ad un controllo totale su corpo e anima del produttore costringe i lavoratori ad agire all’unisono, a formare associazioni, a rinunciare all’individualità per la logica dell’azione di gruppo: in breve, a formare una classe piuttosto che un indefinito aggregato di individui d’esistenza per lo più statistica. Al di là delle loro convinzioni politiche, moltissimi economisti e cultori di scienze sociali sono d’accordo nel dire che la tendenza dei lavoratori ad organizzarsi si può spiegare nel migliore dei modi in termini di ricerca razionale del guadagno. La scienza dell’economia, con relativamente poche eccezioni, concepisce il lavoratore (come, sotto questo aspetto, qualsiasi altro individuo nell’orbita del mercato) soprattutto come un’entità «che possa rendere al massimo»; proprio questa intrinseca propensione a rendere al massimo conferisce razionalità all’unione delle forze. Sociologi marxisti ed esperti di scienze politiche mettono da parte più ampie prospettive ed aggiungono valutazioni, ma sono d’accordo con la sostanza di questa affermazione: i lavoratori si uniscono per riconquistare il possesso del valore surplus espropriato dal capitalista. In entrambi i casi gli interpreti vedono le organizzazioni di classe dei lavoratori come una forma di adeguamento alla logica dello scambio di mercato, e particolarmente alla situazione in cui il lavoro in se stesso viene trasformato in prodotto commerciabile.

Proprio contro questa interpretazione sono rivolti i nostri argomenti. La tesi svolta in questo libro è che la classe dei lavoratori industriali è venuta in esistenza nel corso della resistenza dei produttori contro il nuovo sistema di potere; si è trattato di una lotta per il controllo su corpo ed anima del produttore, e non per la divisione del valore surplus , molto meno per il diritto ad amministrare il surplus . Non è stata una nuova forma d’amministrazione del surplus , in quanto tale, ma il suo influsso sull’autonomia del produttore a generare il senso di giustizia oltraggiata e a spingere i produttori a cercare il ripristino dell’equilibrio di potere attraverso l’unificazione delle loro forze. L’obiettivo del far proprio il surplus in se stesso non è stato mai un fattore nel costituirsi dei lavoratori in una classe (anche se, come si vedrà più tardi, esso fu attribuito successivamente alla costituitasi classe lavoratrice da settori che parteciparono ad un’altra lotta di potere). Un’altra tesi di questo libro è che la battaglia per il controllo, che fece e continua a far sedimentare forme organizzate di resistenza tra i suoi soggetti (si consideri la diffusione dell’«azione industriale» tra gli ambienti di lavoro dove non viene prodotto surplus , e quindi la divisione del surplus non può essere oggetto di discussione), se non fu proprio persa, non fu neppure vinta dai produttori. Essa ha condotto invece ad una situazione di stallo in cui entrambi le parti hanno mezzi e volontà per tracciare e ritracciare i limiti alle prerogative o all’autonomia della parte avversa. Proprio nel contesto di questo precario equilibrio di controllo, generatore e alimentatore di tensioni, può meglio comprendersi la battaglia salariale condotta dai sindacati. Questa battaglia non è semplicemente una manifestazione dell’asserita «tendenza a rendere il massimo» degli individui orientati dal mercato. Ancor meno è un atto di guerra contro l’attuale sistema di gestione del surplus . È piuttosto uno dei pochi mezzi a disposizione con i quali i controllati possono dichiarare e manifestare la loro non-ancoracompletamente-infelice autonomia. Non sono tanto i finali effetti monetari della battaglia a contare, quanto invece la dimostrazione di forza che ha condotto al loro conseguimento. È questa, forse, la ragione più profonda del risentimento dei sindacati contro tutte le

forme di controllo salariale, e del loro attaccamento al principio della libera contrattazione collettiva. È improbabile che un tale atteggiamento cambi, anche se si è dimostrato che la «libera contrattazione» non protegge i salari reali meglio di una politica ben gestita ed equilibrata dei redditi. È improbabile che cambi proprio perché l’efficacia delle due forme di determinazione dei salari è misurata non dai loro effetti che portano a «rendere il massimo», ma dalla loro influenza sulle relazioni di potere incorporate nella situazione di lavoro. Se la società industriale sta soprattutto estendendo il controllo dove altri sistemi di potere non lo hanno esteso e non hanno avuto bisogno di estenderlo, allora il significato più ampio e sottinteso della battaglia salariale, come anche delle altre forme di rivendicazione dell’autonomia dei produttori, è il loro continuo risentimento nei confronti della società industriale; non è, contrariamente a quanto viene spesso insinuato, un risentimento contro la forma specificamente capitalista di distribuzione del valore surplus in linea con i diritti di proprietà (non è, in altre parole, la lotta per il «diritto all’intero prodotto del lavoro» nel senso economico). Questo più ampio significato è attribuibile all’amministrazione in quanto tale, piuttosto che ad un’amministrazione che legittimi le sue prerogative con riferimento alla proprietà legale. Certi impiegati d’istituzioni nazionalizzate, non possedute privatamente, si fanno in quattro per stabilire gli stessi princìpi di contrattazione salariale come nell’industria privata, quasi a voler manifestare l’irrilevanza dell’argomento dell’«intero prodotto» e l’importanza suprema del problema del controllo. Se, in conseguenza della pressione esercitata sui salari, vengono toccati anche i diritti di proprieta capitalista e viene limitato il loro esercizio, ciò accade per il fatto che questi diritti, nella loro forma capitalista, non possono essere fatti valere senza un concomitante assalto all’autonomia personale dei produttori. Per formulare il problema in termini più precisi, il costituirsi dei lavoratori in una classe fu una risposta all’avvento della società industriale; solo obliquamente, a causa delle circostanze di tempo e di luogo, il costituirsi di questa classe può essere rappresentato come reazione alla

forma capitalista della società industriale. I lavoratori manuali furono i primi ad essere soggetti alla nuova disciplina di lavoro della società industriale; soprattutto, essi furono i primi ad essere condannati ad una tale disciplina per tutta la vita, i primi per i quali il regime di lavoro doveva diventare la forma totale di vita. Altri settori della popolazione dovevano godere ancora per qualche tempo dello status d’indipendenza economica. Essi rimanevano legati al resto della società, compresi i gruppi dominanti, attraverso il tradizionale vincolo della distribuzione, mantenendo nello stesso tempo l’autocontrollo nella sfera della produzione. Per il momento, quindi, essi vennero a trovarsi tra i beneficiari della società industriale. Ma tale situazione era destinata ben presto a cessare. Ormai, la trasformazione ben documentata dei «ceti medi» da individui che lavoravano in proprio e si autogestivano in un esercito d’impiegati ridusse i lavoratori manuali ad un settore, in costante diminuzione, di quanti venivano a trovarsi di fronte alla stessa minaccia che i lavoratori manuali avevano dovuto affrontare fin dal sorgere della società industriale. Lo svolgersi del processo, tuttavia, lasciò soli i lavoratori manuali per quasi un secolo sul campo di battaglia. Questo fatto rese in certo senso più facile rappresentarne la battaglia come connessa al problema reso così evidentemente specifico dalla forma della loro attività produttiva: come connessa, in altre parole, al controllo sul prodotto finito, tangibile, del lavoro, piuttosto che sulla persona, corpo e anima, dei suoi produttori. Il lasso di tempo tra la fase iniziale e quella finale dell’allargamento del controllo rese una tale interpretazione plausibile. Ma difficilmente essa può esserne vista come la spiegazione causale. La causa più probabile dell’interpretazione fu la naturale tendenza degli interpreti a considerare i visibili antagonismi della società come manifestazioni del conflitto in cui essi stessi erano impegnati. Quest’altro conflitto era, a dire il vero, per il controllo sul surplus socialmente prodotto. Tale conflitto non venne risolto dall’ascesa degli industriali. Le molte fosche raffigurazioni intellettuali della nuova società, che rappresentano il capitalista nell’unico e pieno controllo del surplus , non sono riscontrabili nella realtà della società

industriale in alcuna fase della sua storia. Essi fecero proprie le tendenze reali dello sviluppo nella misura in cui mostrarono, consciamente o inavvertitamente, gli interessi e le ambizioni degli interpreti, e rappresentarono, più spesso che no, il campanello d’allarme e la dichiarazione di guerra continua per il controllo sul surplus . In altre parole, essi possono intendersi nel modo migliore come documento della costante lotta per il potere. Molti seguaci e lettori di Marx sono rimasti imbarazzati o perplessi di fronte all’evidente inadeguatezza del suo elenco di contendenti storici nella perenne lotta di classe. Ovviamente, i proprietari terrieri e i borghesi furono impegnati in un tipo di guerra differente da quello tra schiavi e schiavisti, o capitalisi e proletari. L’errore grossolano di paragonare ciò che non è paragonabile, errore commesso da menti per altro straordinariamente logiche, è un po’ meno sconcertante quando venga visto sullo sfondo della tendenza generale a far rientrare, anzi ad identificare, i due diversi fili conduttori del conflitto intrecciati nella dinamica della società industriale. Una volta che i due fili conduttori siano stati intrecciati in un solo filo continuo di guerra di classe, la lotta dei lavoratori per conservare il controllo sul loro lavoro potrebbe essere presentata come un’ulteriore fase della lotta borghese per acquisire il controllo sul surplus ; se i lavoratori fossero riluttanti a conformarsi alla logica di quest’ultima lotta, essi potrebbero essere sempre accusati del peccato, o della debolezza, di falsa coscienza o di opportunismo. Nella sua critica della società capitalista Marx si premurò di distinguere il fenomeno del crescente surplus del lavoro, aumentato dalla forma capitalista di acquisizione, dalla trasformazione del surplus del lavoro in profitto capitalista. Il primo incrementava il potenziale produttivo dell’umanità; la divisione moderna del lavoro, con la sua accurata pianificazione di compiti particolari, con la sua meticolosa amministrazione e supervisione delle funzioni produttive, doveva essere vista a lungo andare come un pericoloso allontamamento dal regno della necessità naturale. Come Adam Smith nel suo famoso elogio della fabbrica di spilli, Marx fu profondamente impressionato dalla possibilità di pressoché illimitato incremento del prodotto

surplus creato dal sistema della fabbrica. In larga misura Marx condivise un’ammirazione quasi estetica per lo sforzo pianificato, ritmico e coordinato, prodotto dalla tecnologia industriale. Implicitamente egli lo rivelò nella metafora dell’orchestra sinfonica e del suo direttore che fonde suoni diversi in una gradevole armonia. Il punto essenziale sottolineato ripetutamente da Marx nel corso dei tre volumi del Capitale fu che la qualità dell’esecuzione orchestrale non dipendeva dall’eventualità che il direttore fosse il possessore degli strumenti. In effetti, tutti i mali della società capitalista furono individuati da Marx in quest’ultima circostanza. Non c’era alcunché di sbagliato nell’incremento senza precedenti del prodotto surplus ottenuto attraverso la nuova organizzazione del processo produttivo; tutto, invece, era sbagliato nell’acquisizione di questo prodotto surplus come profitto di chi possedeva il capitale. I mali della forma capitalista di gestione del prodotto surplus condannati da Marx (ed altri critici sia radicali che non-così-radicali) erano di duplice natura. Innanzitutto, l’unione personale tra gestione del processo produttivo e realizzazione del profitto aveva come conseguenza la tendenza ad uno spietato sfruttamento della forzalavoro. La razionalità della tecnologia cedeva alla logica del profitto. Di qui la turpitudine morale della fabbrica gestita dal capitalista, cui si poteva porre rimedio solo infrangendo la scellerata (e casuale) alleanza tra l’amministrazione del processo produttivo ed il possesso dei mezzi di produzione. In secondo luogo, quello che appariva ai lavoratori come un sistema intenzionale, pianificato e rigidamente organizzato, era nelle sue sfere più alte una vera e propria anarchia. La fusione di controllo e possesso metteva la confusione della competizione universale su un trono su cui doveva regnare l’uso pianificato delle risorse, facendo così affogare il potenziale della produzione organizzata nel mare di una massiccia irrazionalità. Entrambi i mali del sistema capitalista richiedevano, quindi, la stessa medicina. Si doveva salvare la nuova forma di produzione, cui aveva dato il via il capitalismo, dal sistema capitalista di acquisizione e gestione del prodotto surplus . Il prodotto surplus doveva essere distribuito con la stessa razionalità con cui era stato prodotto.

Marx non fu certamente il solo a far risalire l’abominio morale del regime industriale all’anarchia nella distribuzione del prodotto sociale. I due temi della critica e l’intimo legame tra di loro rimasero un’importante caratteristica del dibattito intellettuale fin dall’insorgere del nuovo potere. La tendenza generale di questo dibattito fu la presentazione del problema della repressione come supplementare alla questione della gestione del surplus . Il bisogno di disciplina, gestione e controllo organizzato sul processo produttivo (cioè, sui produttori) non fu messo in discussione da alcuno, se non dalle frange anarco-sidacaliste rifiutate dall’opinione dominante, che fosse conservatrice, liberale o socialista, come utopistiche o retrograde. Ciò che sollecitava una condanna ampiamente condivisa fu l’«eccesso di repressione», non richiesto dalla logica della produzione e causato unicamente dalla pressione competitiva di un mercato non regolato. Grazie a questo ragionamento, coloro che soffrivano di più del regime repressivo della fabbrica erano naturalmente interessati al cambiamento di regole secondo le quali il surplus doveva essere destinato e diviso; di qui la tendenza a presentare tale cambiamento di regole (raffigurato, con vari gradi di radicalismo, come intervento dello Stato, nazionalizzazione, o abolizione della proprietà privata) come l’orizzonte ultimo degli interessi della classe lavoratrice e l’essenza della sua coscienza di classe. Quest’ultima convinzione fu molto pronunciata, ovviamente, tra i partecipanti radicali al dibattito. Il nuovo orizzonte apparve per lo più come un auspicabile surrogato per le leve mancanti, o inaccessibili, di un’efficace azione politica all’interno dell’esistente struttura di potere. Altri partecipanti al dibattito, abbastanza vicini ai centri di potere, avevano un minore bisogno di un surrogato messianico. Essi, invece, potevano proporre un prezzo realistico per una decisiva influenza sugli esistenti agenti amministrativi. Tutti i partecipanti, comunque, con qualche rara eccezione di minore importanza, erano comunemente d’accordo sulla condanna della non ricuperabile irrazionalità dell’anarchia di mercato. Essi chiedevano che la «mano invisibile» fosse guidata dal cosciente consiglio della ragione. J.S. Mill rese il

carattere distintivo dei due temi esplicito: la produzione di beni è soggetta a leggi oggettive che dovrebbero essere apprese e rispettate; la distribuzione, invece, è una faccenda di condotta politica, dipendente da leggi fatte dall’uomo, e dovrebbe essere oggetto di consapevole preoccupazione e di scelta ben informata. Sembra, in altre parole, che la critica intellettuale del mercato capitalista non possa essere interpretata come un riflesso dello stesso conflitto che – come ho accennato precedentemente – condusse al formarsi del lavoro in fabbrica nella classe operaia. Nella critica intellettuale, il centro focale degli interessi e dei malumori dei lavoratori era stato chiaramente spostato, come se si muovesse sotto la forza di gravità di un altro serio conflitto. Per quanto riguarda la natura di questo ulteriore conflitto, il dibattito intellettuale in se stesso si mantenne notevolmente calmo, rivelando la sua presenza solo obliquamente, attraverso i suoi persistenti interessi e il continuo spostarsi di enfasi. La litania marxiana di «classi storiche», in cui il conflitto tra capitalisti e proletari veniva dopo il conflitto tra padroni feudali e i borghesi, non suscita più alcuna perplessità una volta che sia stata accettata la realtà dell’altro conflitto. Come la lotta intrapresa dai borghesi contro i diritti della proprietà terriera, questo nuovo conflitto è principalmente per l’amministrazione del prodotto surplus , vale a dire per il fondamento ultimo del potere politico. La domanda è chi, in quest’altro conflitto, rappresenti il vero avversario del capitalista, o, più in generale, del diritto all’intero prodotto legato al possesso del capitale. La domanda non è affatto nuova. Essa è stata sollevata molte volte in precedenza, e sono già disponibili diverse risposte, alcune appoggiate da una tradizione abbastanza lunga da renderne la paternità dimenticata o discutibile. Alcune delle risposte sono relativamente ben note e ricevono già la loro dose di popolarità e di confutazione. La risposta che suscitò forse il più ampio, e probabilmente il più duraturo scalpore fu quella associata al nome di James Burnham (sebbene l’originalità di Burnham sia stata seriamente messa in

discussione da Daniel Bell, che rivendicò i diritti di proprietà delle idee espresse da Burnham a scrittori che pubblicarono le loro opere prima dello spettacolare successo del bestseller rappresentato dall’opera di Burnham, Managerial Revolution [trad. in ital. con il titolo La rivoluzione dei managers , 1941, N.d.T. ]; tra questi scrittori sono da menzionare Rizzi, Trotsky, o anche Emil Lederer, che intuì l’ascesa degli impiegati privati [Privatangestellten ] fin dal 1912 [Bell, 1973]). La risposta riconosce la preminenza di manager d’imprese privatamente e pubblicamente possedute come prossima «classe dominante», desiderosa d’impadronirsi del controllo sul surplus sottraendolo ai possessori titolari. Secondo Burnham, la separazione del controllo dalla proprietà era già in fase d’attuazione nell’insieme del mondo industrializzato, e una virtuale «rivoluzione dei managers» era già in atto o era imminente, in forma violenta (sovietica o tedesca) o in forma pacifica e appena percettibile (americana). Furono pochi gli autori che adottarono l’asserzione «storiosofica» di Burnham nella sua scioccante versione radicale, ma la sua versione più moderata – di una crescente separazione del controllo dalla proprietà – aveva acquisito entusiastici sostenitori in settori che Burnham forse non si aspettava d’ispirare. La tesi del potere effettivo che si trasferisce lentamente ma costantemente negli strati superiori di manager assunti in servizio acquistò nei decenni post-bellici un’ampia popolarità tra economisti ed esperti di scienze politiche inclini a smentire la persistenza delle caratteristiche capitaliste della società attuale e, in tal modo, a dimostrare che le accuse una volta mosse da critici irritati dall’immoralità dello sfruttamento capitalista, avevano perso quasi del tutto la loro forza. La momentanea popolarità della tesi attenuata di Burnham fu ben utilizzata per il breve, ma esuberante periodo di ottimismo manageriale, quando sembrò a molti che l’entusiasmo dei «razionalizzatori» dell’economia di mercato non avrebbe subìto un altolà da parte di poteri radicati ostili alla società «scientificamente modellata». La popolarità svanì insieme alla speranza. L’episodio legato al nome di Burnham fu sia preceduto che seguito da un altro teorema che non raggiunse mai le altezze dell’effimero successo di Burnham, ma che è destinato probabilmente a

sopravvivere al ricordo di quest’ultimo grazie alla sua sorprendente capacità di sopravvivenza-e-risurrezione finora dimostrata. Secondo questo secondo teorema, la società dominata dalla competizione e dall’appropriazione privata deve essere sostituita da una società dominata e governata da uomini di cultura: variamente definiti come intellettuali, scienziati e tecnologi. La prima formulazione di quest’idea è talvolta attribuita ad un comunista dissidente polacco, Machajski (pseudonimo di A. Wolski), che accusò gli intellettuali di strumentalizzare la lotta dei lavoratori per spianare la strada al loro proprio dominio e all’ancor più dura repressione del proletariato. Anche se Machajski non riuscì a creare un movimento proletario alternativo, «libero da intellettuali», il suo atto d’accusa doveva rimanere appena al di sotto del livello di consapevolezza di tutti i movimenti di sinistra che vantavano credenziali proletarie, e tornò a galla ripetutamente malgrado tutti gli esorcismi e gli sforzi concentrati di repressione. In tempi del tutto recenti, l’idea è riapparsa, in modo eccessivo e straordinario, questa volta ad una certa distanza dall’agone politico, nella corrente principale del discorso sociologico. Essa ha immediatamente catturato l’«immaginazione sociologica», grazie, almeno in parte, al modo brusco, deliberatamente provocatorio, in cui è stata portata alla pubblica attenzione da parte dei suoi più importanti sostenitori. Se non vado errato, il primo principale contributo alla sua recente rinascita venne dall’allora decano della scienza politica americana, Harold D. Lasswell (1965, pp. 86-87, 92). Con diretto riferimento a Machajski, Lasswell analizzò le tendenze di sviluppo della società industriale matura solo per scoprire che esse possono essere logicamente descritte come una «rivoluzione permanente degli intellettuali della modernizzazione». Per lo più, proprio gli stessi intellettuali, ebbe a scrivere Lasswell, non riuscirono ad avvertire che si stavano movendo costantemente verso le posizioni strategiche del potere; un curioso caso di «momentanea “falsa coscienza” da parte degli intellettuali, che serviva tuttavia gli interessi di potere dell’emergente classe intellettuale. Ingannando se stessi, essi furono più in grado d’ingannare altri». Come la maggior parte delle classi

dominanti, gli intellettuali si preoccupano di liti che risultano dannose fino a trascurare un’unità di classe che sta alla base di ogni argomentazione e divisione. Essi costituiscono, infatti, un’entità distinta, e tale che già domina il mondo industriale. I fatti decideranno la forma del mondo che verrà: Nel caratterizzare i risultati e gli effetti di un mondo intellettualmente governato, è possibile almeno una generalizzazione più importante: la tendenza di una linea di condotta esprimerà un equilibrio di potere favorevole ad un’attività intellettuale sempre maggiore, sorretta da un’utilizzazione sempre maggiore di risorse sociali.

Al momento in cui usciva lo studio di Lasswell, gli intellettuali erano così chiaramente inseriti nei meccanismi del potere in tutte e due le parti del mondo industriale da aver bisogno di un esercizio di autocoscienza. Il colpo di Lasswell venne sferrato prima che le schiere dei contendenti pensassero ad una battaglia. Di qui, due libri che non si scostavano in maniera significativa dalla tesi principale di Lasswell, ma che apparvero poco più di un decennio più tardi, sembrano aver avuto fin dall’inizio un’influenza molto più forte. Il primo dei due libri, di George Konrad e Ivan Szelenyi (1979, pp. 14, 53, 224), ebbe apertamente un intento di smascheramento. La «falsa coscienza» di Lasswell doveva essere sostituita da una spietata ricerca d’interessi di gruppo: è stata la comune aspirazione degli intellettuali di ogni epoca rappresentare i loro particolari interessi in ciascun contesto come gli interessi generali dell’umanità. La definizione di sapere universale, eterno, supremo (e quindi immutabile) mostra una notevole variabilità attraverso le epoche, ma in ogni epoca gli intellettuali definiscono come tale qualsiasi sapere che serva i particolari interessi connessi con il loro ruolo sociale.

Dove Lasswell parlava dell’ultima società industriale, Konrad e Szelenyi parlano di «ogni epoca». Dove Lasswell considerava il dominio degli intellettuali come il risultato della trasformazione tecnologica nella società moderna, Konrad e Szelenyi rovesciano praticamente l’ordine causale delle cose: è stata la spinta perenne degli intellettuali verso il potere di classe a condurre infine a qualsiasi trasformazione tecnologica, o qualsiasi altra, si stia attualmente verificando. L’attuale ideale di classe degli intellettuali, che (se

realizzato) li collocorebbe finalmente al timone, è quello di una «razionale ridistribuzione». Finora, l’ideale si è avvicinato di più alla sua realizzazione negli stati comunisti, dove «è la razionalità del processo di pianificazione, non le decisioni dei possessori di capitale, a ridistribuire il prodotto surplus ritenuto, la cui misura non può essere efficacemente regolata dal mercato». «In una razionale ridistribuzione è soprattutto il sapere tecnico, il sapere intellettuale, a legittimare il diritto a disporre del prodotto surplus . Proprio questo giustifica la posizione superiore dei ridistributori e fornisce la base ideologica per il formarsi dell’intellighenzia in una classe». Quasi contemporaneamente alla traduzione inglese di quanto avevano affermato Konrad e Szelenyi, apparve il libro di Alvin Gouldner, che fin dalle prime parole proclamava che in tutti i paesi che nel ventesimo secolo sono venuti a far parte dell’emergente ordine socio-economico mondiale, una Nuova Classe composta d’intellettuali e d’intellighenzia tecnica, che non sono la stessa cosa, entrano in competizione con i gruppi che si trovano già nel controllo dell’economia della società, che si tratti di uomini d’affari o di leader di partiti.

Si rende subito chiaro che nella visione di Gouldner la Nuova Classe s’intende nel modo migliore come successivo anello nella catena storica delle classi dominanti; il suo comportamento collettivo va interpretato in termini di una tendenza, e di un’aspirazione, al dominio di classe nel senso storicamente stabilito della parola: quello del controllo sul prodotto surplus , esercitato nell’interesse particolare dei controllori: La Nuova Classe è elitaria ed egoista e usa il suo particolare sapere per far avanzare i propri interessi ed il proprio potere, e per controllare la sua propria situazione di lavoro. Tuttavia, la Nuova Classe può anche essere la carta migliore che oggi la storia ci abbia data da giocare. Il potere della Nuova Classe è crescente. Esso è notevolmente più forte e indipendente di quanto indichi Chomsky, mentre è ancora molto meno forte di quanto sia stato detto da Galbraith, che sembra associare la realtà presente a future possibilità. Il potere di questa Nuova Classe moralmente ambigua è in ascesa e pone un’ipoteca su almeno un futuro storico (Gouldner, 1979, pp. 1-8).

Gouldner usa in modo esplicito il termine «classe» nella sua accezione marxista, costituita dall’idea di una «certa collettività» che

unisce i membri di un dato gruppo, particolarmente con riguardo allo «stesso rapporto con i mezzi di produzione». Anche il tipo di mezzi di produzione cui fa riferimento la Nuova Classe è analogo al tipo controllato dalla precedente ed attualmente rivale classe dominante: è capitale, anche se una distinta forma di esso, fatto su misura del potere di classe in ascesa, capitale «culturale» o «umano». Proprio quest’ultimo capitale diventa decisivo per l’effettivo possesso del modo di produzione, in quanto distinto dal suo possesso legale. La terza risposta alla nostra domanda appartiene ad una categoria alquanto diversa. Essa è divenuta, per così dire, un elemento folcloristico del comune pensiero nel mondo concettualizzato come un incontro di lotta tra contrastanti interessi di classe. C’è una costante azione retroattiva, di feedback , tra questo diffuso elemento folcloristico e l’opinione formulata, comune o accademica che sia; grazie, comunque, alla sua vasta base folcloristica, la terza risposta non richiede un’elaborazione teoretica sistematica come le altre due. Più spesso che no, essa viene offerta alla stregua dei «fatti di vita», come un elemento statistico che ritenga ovvio il suo significato, come un comunicato di stampa che faccia riferimento a significati collettivamente stabiliti, come affermazioni accademiche che cominciano con il loro rituale «come sappiamo»: questa magica formula sacramentale di consenso paradigmatico troppo universale per aver bisogno di una legittimazione. Ovviamente, una convinzione che si appelli al folclore come sua suprema autorità deve mancare di precisione. La terza risposta suppone, in effetti, numerose verbalizzazioni che non sempre è facile correlare. Leggiamo così «il governo», «i politici», «i burocrati», con riferimento a vari gruppi con relazioni reciproche piuttosto ambigue, ma sempre «avidi di potere» e che tentano, con varie possibilità di successo, di strappare il potere, il controllo e l’iniziativa all’«industria privata». L’immagine mentale che si nasconde dietro queste verbalizzazioni, raramente articolata coerentemente con un modello teoretico, è quella di due gruppi integrati e potenti, contrapposti in una continua lotta per il controllo sull’economia. L’immagine è quella di un gioco in cui vincite e perdite cumulative si equivalgono (zero-sum

game ); qualsiasi cosa i «politici» o «burocrati» riescano a trarre dai profitti fatti dall’«industria privata», lo detrae dai beni, e dal potere, di quest’ultima; quanta più libertà l’«industria privata» conserva nel controllo del suo prodotto, tanto più deboli diventano «i burocrati». A tutti gli effetti, questa è un’immagine della lotta di classe, di una battaglia continua tra due gruppi in grado di difendersi, guidati per lo più dai rispettivi interessi, ciascuno con l’aspirazione a soverchiare e dominare l’altro. Le tre risposte, apparentemente diverse, hanno un importante attributo in comune. Esse sono determinate tutte e tre da una tacita accettazione del modello interpretativo ancora esistente, che identifica il compito di spiegare i processi socio-politici con la necessità d’individuare un gruppo che ne tragga beneficio e presuppone che a un tale gruppo si attribuisca una tendenza, ed a lungo andare anche uno sforzo deliberato, a promuovere i detti processi proprio per questa ragione. Tutte e tre le risposte, quindi, derivano la loro sostanziale autorità dal senso comune: quest’immagine universale che proietta sul grande schermo della società le consuetudini interpretative quotidianamente rafforzate dall’esperienza individuale micro-sociale. In armonia con la predisposizione al senso comune, queste risposte prevedono un fattore intenzionale dietro ogni fatto, l’egoismo dietro ogni cambiamento o la sua prevenzione, un colpevole singolo o collettivo dietro ogni colpa. Ma a questa tendenza universale del senso comune, determinata dalla stessa struttura del mondo vivente, è stata data la forma attualmente specifica dalla memoria storica. Proprio in questa forma, mediata dalla «storia vivente», il senso comune ispira le tre risposte in discussione. Alla costante ricerca, ispirata dal senso comune, di un fattore caratterizzato dal proprio interesse, la memoria storica ha fornito la convinzione che il punto attorno al quale si cristallizzano e integrano gli interessi collettivi è il controllo sull’«intero prodotto del lavoro», variamente denominato: «controllo dell’economia», «possesso dei mezzi di produzione», o «diritto al profitto», a seconda dell’adesione ad una teoria o della denominazione politica. In altre parole, la memoria storica che ispira e determina tutte e tre le risposte

è quella del conflitto di classe, ma di un conflitto di classe interpretato nel corso del diciannovesimo secolo, in termini suggeriti dall’idealizzazione del mercato capitalista, cioè di un conflitto per la gestione del prodotto, piuttosto che per l’irreggimentazione della persona, corpo e anima, del suo produttore. Proprio questa interpretazione teoretica, resa plausibile e costantemente rafforzata dalla crescente mercificazione delle condizioni di vita, è sedimentata come memoria storica dei nostri tempi. In questa funzione, essa fornisce i ceselli per scolpire l’autoritratto dell’epoca. Il modo in cui i problemi vengono verbalizzati determina la gamma delle possibili soluzioni. Tutte e tre le risposte sono contenute dentro lo stesso insieme di supposizioni. Esse nascono tutte dalla ricerca della «successiva classe dominante». Non sorprende che tutte ne trovino una. Qualunque classe venga trovata, essa viene definita alla stessa maniera: quella suggerita dalla memoria storica di una specifica forma storica del dominio di classe. Essa viene così definita come un gruppo di persone situate nella rete delle dipendenze sociali in modo tale che debbono, e spesso desiderano, ricercare un controllo totale sul prodotto sociale e particolarmente sulla sua distribuzione. Ciascuna risposta individua la scoperta in una diversa parte della società; ma ciascuna proclama la scoperta della stessa cosa. Tutto sommato, le tre risposte, insieme alla persistente visione marxista ortodossa secondo cui le cose non sono cambiate dal Manifesto comunista e la lotta tra lavoro e capitale rimane il principale conflitto di classe, vengono a trovarsi sul lato della essenziale immutabilità delle cause del cambiamento storico. Tutte e tre, infine, sono d’accordo sul fatto che ora, non meno che al tempo della rivoluzione borghese, la forza motrice della storia è l’impulso dato da una nuova classe per assumere l’amministrazione del surplus sociale che i precedenti governanti non sono capaci d’amministrare nel modo dovuto. E in gran parte nello spirito della propaganda borghese contro la retrograda proprietà terriera, esse descrivono l’offerta e le possibilità della parte sfidante in termini d’efficienza ed efficacia dell’amministrazione che essa è capace di fornire. La seconda delle due principali ipotesi [di questo libro] sostiene

che tutte le risposte finora discusse non dispongono che di una scarsa memoria storica che ne giustifichi le istanze; mentre la memoria storica, questo pool di metafore ed analogie necessario per dare senso al presente, fallisce nel suo compito una volta che le nuove realtà rifiutano di sottoporsi a forzature o restrizioni che cerchino di renderle conformi ai modelli della tradizione storica. Se ciò accade, la memoria storica può anche impedire di scorgere in profondità le leve autentiche della dinamica sociale. La tesi [di questo libro] è che la memoria storica della classe e la lotta di classe svolgono attualmente un simile ruolo di «impedimento». Questa seconda tesi viene discussa lungo le linee seguenti: 1. La più recente società industriale è tenuta insieme, nella sua fase attuale, da dipendenze sistemiche, piuttosto che sociali (così, non è né la società «segmentale» né quella «classista» nella divisione in due parti di cui parla Durkheim). Per tale motivo, i fenomeni che si tende a identificare come i «problemi» di questa società, o la scarsità delle soluzioni disponibili per questi problemi, identificata come sua «crisi», nascono dalle endemiche inadeguatezze e contraddizioni strutturali del sistema, piuttosto che dalla collocazione strutturale e dalle conseguenti linee di condotta di una particolare classe di persone che occupano una posizione di dominio all’interno della società. Anche se le conseguenze di ciascun problema vengono distribuite tra i vari gruppi in maniera disuguale, esse affliggono in ultima analisi il sistema nel suo insieme e tendono ad accumularsi ed a rafforzarsi reciprocamente, approfondendo così il divario tra il volume dei conflitti ed il numero delle soluzioni disponibili. 2. L’amministrazione del prodotto surplus (della sua produzione come anche della sua allocazione) è ormai una funzione del sistema; nessun singolo gruppo, identificato attraverso uno status specifico di proprietà legale o l’accesso a speciali fonti d’autorità, o attraverso qualche altra proprietà straordinaria, può farlo o aspirare a farlo da solo. Nessun gruppo è libero sulla base di una tendenza, tipica dell’«homo-oeconomicus», all’acquisizione del surplus ; nessuna condizione di gruppo può essere migliorata in modo duraturo

seguendo il modello economico della «massimizzazione degli obiettivi». Il «diritto all’intero prodotto», dichiaratamente il punto focale di cristallizzazione del tipico conflitto tra classi, non è, quindi, in questione. In un certo senso, il soddisfacimento degli interessi di un gruppo dipende dal freno sistemico imposto alle tendenze alla massimizzazione, nella misura in cui queste continuano ad essere sollecitate dal consumismo mediato dal mercato. 3. Per questo motivo, nessun singolo gruppo può essere identificato come la «classe storica» della più recente società industriale; cioè come una classe i cui «interessi di gruppo» s’identifichino con gli «interessi della società nel suo insieme», e che per questa ragione non possa servire i propri interessi senza promuovere nello stesso tempo gli interessi sociali in generale; oppure (secondo la visione ispirata di Marx) come una classe oppressa in modo tale che l’eliminazione della sua particolare oppressione possa significare la fine dell’oppressione sociale in genere. Fu convinzione totale della visione di classe, e causa principale della sua attrattiva, che il passaggio alla successiva, migliorata forma della società fosse quindi assicurato, e a lungo andare inevitabile, grazie a questa identità strutturale tra il particolare e l’universale. Se questa concretizzazione sociologica della hegeliana legge dialettica della ragione si sia mai avvicinata alle realtà della società industriale, non è certamente un’eventualità che possa applicarsi alla sua ultima versione. La rete intricata delle interdipendenze sistemiche preclude la possibilità di ridurre la dinamica dell’intero sistema a questo che è soltanto uno dei suoi settori. Gli interessi non riducibili a quelli di un singolo gruppo, per quanto attentamente vagliati e articolati in maniera veridica, possono essere visti come quelli che rappresentano gli interessi del «sistema nel suo insieme». 4. L’altro aspetto della stessa questione è che nessuna pressione di gruppo, o nessun programma di gruppo che legittimi questa pressione, ha probabilità di fornire una soluzione ai problemi del sistema. Aspettative o promesse, al contrario, sono in ultima analisi basate sulla presupposizione che il sistema «si possa far funzionare», ciò che è contro i fatti. Sembra piuttosto che le difficoltà del sistema

nel far fronte a richieste contrastanti siano endemiche, e che nessuna promozione di alcuno degli interessi contraddittori sia in grado di rimuoverle, o anche visibilmente alleviarle. La natura endemica del problema del sistema è stata fatta risalire da Jürgen Habermas all’impossibilità di ricreare relazioni con i beni (commodity relations ) senza indebolire nello stesso tempo i motivi e le predisposizioni (come l’etica del lavoro o la vita privata della famiglia), che sono indispensabili per la loro efficacia (Habermas, 1976); da James O’Connor all’inestirpabile tendenza dei prodotti sistemici a sorpassare (outrace ) le sostanze immesse e, peggio ancora, ad esaurirne le fonti (O’Connor, 1973); da Claus Offe all’intrinseca propensione dello Stato a trascurare le parti deboli o disarticolate del sistema, e quindi a permettere la gestazione di problemi oltre la capacità di un controllo sistemico (Offe, 1972). Ciò che si ricava da tutte queste analisi è che, lungi dal comportare la promessa di una soluzione alla crisi sistemica, tutti gli interessi, richieste e pressioni di gruppo contribuiscono al suo aggravarsi. La crisi non è riconducibile agli interessi di linee di condotta di un gruppo in particolare, ma piuttosto al modo in cui questi interessi e queste linee di condotta sono in rapporto reciproco e influenzano reciprocamente le rispettive possibilità. In effetti, i risultati di azioni a quanto pare intenzionali, intenzionalmente razionali, hanno tutti l’aspetto di «catastrofi naturali». Gli errori di condotta o l’atteggiamento negativo dei gruppi possono forse spiegare la forma particolare che assumono tali catastrofi, ma non certamente la loro apparizione e persistenza. 5. Un carattere centrale del sistema, che la visione classista nel suo insieme relegò ad un ruolo accessorio, è la funzione svolta nella produzione e distribuzione del surplus sociale da parte dello Stato. In effetti, il ruolo dello Stato fu sin dagli inizi della società industriale molto più ampio di quanto gli esperti di scienze politiche o gli economisti del tempo fossero disposti ad ammettere. Se il significato economico della difesa dei mercati interni e della conquista di quelli esterni da parte dello Stato, della protezione dei diritti di proprietà, e del fornire servizi che gli interessi di mercato erano restii a sostenere

è stato universalmente riconosciuto, solo in rare occasioni è stato rilevato un potente fattore nella continua espansione dello Stato, particolarmente nel suo primo periodo, e cioé quella funzione dello Stato che consiste nel «legiferare su problemi morali» (Lasswell, 1965, p. 80), nel salvaguardare l’etica sessuale, nell’educare al risparmio, nel tutelare le buone maniere, nel combattere il manifestarsi della passione in tutte le forme possibili, nel separare la sfera pubblica da quella privata. Per quanto vigilanti nei confronti di uno Stato in espansione e costoso, i borghesi non si opposero alla sua tendenza a ridefinire una sempre più ampia sfera di comportamento moralmente controverso come attività criminale, tale da richiedere interventi da parte di organi statali. Il sostegno alle nuove forme di controllo sulla persona, corpo e anima, fu probabilmente l’unico importantissimo fattore di crescita nella prima fase d’espansione dello Stato. Compiti più direttamente economici si aggiunsero più tardi, quando si rese evidente la tendenza del mercato a generare crisi che esso era insufficientemente preparato a risolvere da solo, e quando i costi crescenti derivanti dal riprodurre la manodopera e dal controllarne i vettori resero sempre meno possibile per i capitalisti il fronteggiarli per intero detraendoli dal prodotto surplus che essi amministravano direttamente grazie ai loro diritti di proprietà. L’effetto combinato di tutte queste esigenze (e di molte altre) è uno Stato che rappresenta il principale «materiale grezzo in processo di lavorazione» (throughput ) del sistema e che si può comprendere nel modo migliore se non viene considerato né come un «parassita» che si alimenti del prodotto della produzione sociale, né come una fonte di controllo autoritario, ma come un anello nella rete di comunicazione, senza il quale non è più possibile un’esistenza integrata del sistema. 6. La singolare collocazione dello Stato nella totalità del sistema lo rende, tuttavia, più socialmente visibile di quanto lo possano essere altre unità. Questa circostanza alimenta l’illusione della centralità e del ruolo causale della politica che queste ultime non possiedono. Un’altra illusione è il carattere consapevole del processo politico, ed in particolare un nesso causale tra i motivi o le finalità dei politici e

gli effetti ecoomici e sociali del sistema. Forse l’illusione più terribile nelle sue conseguenze è quella dell’ampio potenziale di potere dello Stato. La forma in cui la politica si presenta alla pubblica opinione fa pensare ad una natura razionale dei processi economici e sociali; tale che possa essere subordinata, con la dovuta attenzione, alle regole della discussione e alla prova della verità. Quindi, i cattivi funzionamenti del sistema appaiono come difetti nella razionalità delle decisioni dello Stato, che possono essere corretti attraverso la sostituzione di migliori linee di condotta. Proprio per questo motivo richieste e rivendicazioni di un gruppo assumono per lo più una forma politica e tendono ad essere formulate come istanze di cambiamento nelle linee di condotta dello Stato, mentre le radici sistemiche dei problemi tendono a sfuggire all’attenzione. Come risultato, lo Stato viene cronicamente sovraccaricato di richieste, mentre serve nello stesso tempo da parafulmine che assorbe le tensioni derivanti da enti di potere e di controllo diffusi nel sistema. 7. In queste circostanze, lo Stato si sposta costantemente al centro delle divisioni ed alleanze dei gruppi. La società, se vista come un aggregato di sudditi dello Stato, è un pool di potenziali tensioni che si articolano in determinate forze in risposta all’azione (o alla mancanza d’azione) da parte dello Stato. I gruppi s’integrano, entrano in alleanze, mettono a punto programmi in relazione allo Stato. La loro dimensione, la loro capacità d’assorbimento e la loro possibile gamma d’espansione sono determinate non tanto dagli atttributi posseduti individualmente o congiuntamente dai membri del gruppo, quanto invece dal potenziale d’azione comune definito dal problema originato dallo Stato. I confini dei gruppi sono, quindi, «ad hoc» e mutevoli. Cambiamenti nelle linee di condotta portano a successivi riallineamenti di divisioni. Dovute in parte al variante grado d’istituzionalizzazione, alcune divisioni sono più durature in confronto ad altre; si potrebbero tracciare graficamente i raggruppamenti su un diagramma, partendo da così come essi vengono definiti da organizzazioni più o meno permanenti che determinano la scelta di problemi e atteggiamenti, fino alla dimensione di movimenti interessati ad un solo problema, con

atteggiamenti di tipo propagandistico, liberamente integrati e di breve vita. Ma nessuna divisione sembra occupare una posizione «eccessivamente determinante» in relazione ad altre; tale che si potrebbe fare riferimento a tutte le altre come a sue manifestazioni o modificazioni. Quindi, come ebbe ad affermare ripetutamente Alain Touraine in una serie di opere recenti (Touraine, 1973, 1978), l’azione politica diviene un fattore sempre più importante, ed onnipotente, delle divisioni tra i gruppi. L’azione viene erroneamente intesa, se interpretata come un riflesso degli interessi economici che sono alla sua base; essa è, piuttosto, l’azione politicamente sollecitata che tende ad esprimere l’identità del gruppo secondo il lessico più in uso, nell’ambito economico, di guadagni o perdite. 8. Se è vero che gruppi e movimenti si costituiscono attorno a richieste rivolte allo Stato, l’influenza delle linee di condotta dello Stato non solo crea differenziazioni tra i gruppi, ma ha anche un effetto ambiguo sugli interessi individuali, complicando ulteriormente il diagramma del campo delle forze sociali. La sfera sempre più ampia dell’attività dello Stato come agente principale di transfer economico e la crescente percentuale di surplus sociale direttamente amministrato dallo Stato favoriscono alcuni e danneggiano altri aspetti degli interessi individuali, provocando atteggiamenti davvero schizofrenici verso il ruolo dello Stato. Anche se la misura in cui l’allargamento delle spese sociali dello Stato, o, in alternativa, il restringimento delle sue pretese fiscali si considera come «parte integrante degli interessi del gruppo», essa varia da una parte della popolazione ad un’altra; una percentuale di entrambi gli atteggiamenti è presente in ciascuna categoria. Inoltre, l’equilibrio tra le due categorie si sposta in modo quasi ciclico, producendo il famigerato moto «altalenante» dell’umore pubblico. Si potrebbe concludere che il ruolo di «materiale grezzo in processo di lavorazione» (throughput ) svolto dallo Stato nel sistema sociale non spacca la società in classi contrapposte; esso non rappresenta attualmente un oggetto di contesa tra le classi. Ciò che è anche più importante, l’attuale collocazione dello Stato all’interno del sistema ha oltrepassato la soglia oltre la quale esso acquista una capacità

auto-perpetuante, e forse anche auto-rafforzante. In queste condizioni, anche le domande e pressioni coscientemente contrarie allo Stato conducono nelle loro conseguenze pratiche all’ulteriore aumento della sua efficacia strategica ed incrementano la dipendenza del sistema dall’attività statale. Un buon esempio recente è la singolare vicenda monetaria. Fornendo, per così dire, un esempio da manuale di «falsa coscienza», essa ha condotto lo Stato a raggiungere posizioni di controllo finora mai raggiunte per quanto riguarda l’economia, la vita sociale e culturale, pur predicando le virtù dell’iniziativa privata e la necessità di liberare l’individuo dal controllo burocratico. Non è compito [di questi saggi] fare congetture sui possibili scenari del futuro. Ancor meno essi pretendono formulare consigli espliciti di condotta politica. Lo scopo molto più modesto che io mi propongo è quello d’incoraggiare un dibattito con obiettivi tesi unicamente a «sgombrare il terreno». Questi saggi rappresentano, in definitiva, un ulteriore contributo al tentativo costante di mettere da parte le categorie che non sono più d’aiuto per comprendere la crisi attuale, e di costruire una struttura concettuale che sia più adeguata per una sua interpretazione. Uno dei suggerimenti proposti è che una tale struttura interpretativa dovrebbe contenere, come una delle pietre più importanti per la sua costruzione, il concetto appropriato di potere sociale capace di sostituire il potere della disciplina, che in passato fu alla base dello spettacolare successo della società industriale, ma ora sta attraversando una crisi simile a quella sperimentata dal potere sovrano un paio di secoli fa, dato che la società industriale si sta avvicinando al suo vicolo cieco, dopo essere riuscita a tradurre quasi completamente i suoi conflitti di controllo in conflitti per la partecipazione alla divisione del surplus . L’economizzazione dei conflitti sociali, che per molti decenni è riuscita a disinnescare le tensioni derivanti dagli sforzi messi in atto per controllare i produttori, ha condotto infine all’eccesso endemico di richieste di natura distributiva per quanto riguarda il potenziale produttivo, e sta

diventando, quindi, sempre più inadeguata come soluzione di ripiego per il problema dell’integrazione sociale, e, attraverso questa, della riproduzione della società. L’attuale crisi, quindi, difficilmente può essere risolta da un ulteriore rimpasto tra quelli che sono tradizionalmente gli attori principali, o da una nuova, ingegnosa maniera di eseguire il vecchio compito di ri-dividere il surplus a favore del contendente che grida di più ed è potenzialmente più pericoloso. Tutti i futuri tentativi per una sua soluzione potranno vantare la loro adeguatezza nei confronti del problema solo nella misura in cui cominceranno ad affrontare seriamente il fondamentale problema legato al «potere della disciplina», che funge da fonte e stimolo costante di pressioni per la distribuzione. Essi difficilmente potranno sperare in un successo, se cercheranno l’impresa impossibile di far fronte agli obiettivi sempre più alti di una soddisfazione del consumatore che l’eliminazione del problema del controllo dall’ordine del giorno è destinata a rendere sempre meno gestibile. In altre parole, uno dei pricipali argomenti [di questo libro] è che il meccanismo della riproduzione sociale che per un certo tempo ha assicurato il prosperare della società industriale è ormai vicino all’esaurimento del suo potenziale storico, e che la crisi che stiamo sperimentando non riguarda «più gli stessi» problemi, ma investe una fase qualitativamente nuova nella storia che può essere superata solo con un cambiamento nel tipo di potere sociale che sia foriero di successivi sviluppi non meno di quanto lo fu quello che ebbe luogo nei tempi che precedettero l’avvento del sistema industriale.

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4.2 Guardacaccia trasformati in giardinieri [Titolo originale: Gamekeepers Turned Gardeners, 1987] «Le colture selvagge – afferma Ernest Gellner – si riproducono di generazione in generazione senza che vi sia intenzionalmente un progetto, un controllo, una sorveglianza o una speciale alimentazione». Le colture «coltivate» o da «giardino», invece, possono essere mantenute solo da un personale colto e specializzato (Gellner, 1983, p. 56). Per riprodursi, esse hanno bisogno di un progetto e di un controllo; senza questi, le colture da giardino sarebbero sopraffatte dal deserto. C’è un senso di precaria artificiosità in ogni giardino; esso ha bisogno della costante attenzione del giardiniere, poiché anche una momentanea negligenza o trascuratezza potrebbe farlo tornare alla situazione in cui si trovava prima (e che esso ha dovuto sconfiggere, espugnare o conquistare per risultare vincitore). Anche se ben ideata, la progettazione di un giardino non può mai contare sul principio dell’autoriproduzione; non si può fare affidamento sulla possibilità che il giardino si riproduca con le sue proprie forze. Le erbacce, le piante non volute, non previste, che s’impongono da sole, sono lì a sottolineare la fragilità dell’ordine imposto; esse mettono in guardia il giardiniere perché non smetta mai di vigilare e sorvegliare.

Il sorgere della modernità può essere paragonato ad un simile processo di trasformazione di colture selvagge in colture da giardino. O, piuttosto, ad un processo nel corso del quale la creazione delle colture da giardino rivalutava quelle passate, mentre le aree che si estendevano oltre i recinti di nuova costruzione, e quelle restie incontrate dal giardiniere all’interno del proprio appezzamento di terreno coltivato, divennero il «deserto». Il diciassettesimo secolo fu il tempo in cui il processo acquistò impulso; all’inizio del diciannovesimo secolo esso era stato più o meno portato a termine nell’estremità occidentale della penisola europea. Grazie al suo successo qui registrato, esso divenne anche il modello che doveva essere desiderato dal resto del mondo, o essergli imposto. Il passaggio da una coltura selvaggia ad una da giardino non è solo un’operazione eseguita su un appezzamento di terreno; è anche, e forse in maniera anche più suscettibile di futuri sviluppi, un emergere di un nuovo ruolo che punta ad obiettivi precedentemente sconosciuti e richiede abilità prima inesistenti: il ruolo del giardiniere. Il giardiniere occupa ora il posto che era stato del guardacaccia. I guardacaccia non alimentano la vegetazione e gli animali che vivono sul territorio affidato alle loro cure; né hanno alcuna intenzione di trasformare lo stato del territorio per renderlo più simile a quello di un artificioso «stato ideale». Piuttosto, essi cercano di assicurare che le piante e gli animali si riproducano indisturbati; i guardacaccia hanno fiducia nelle capacità dei loro amministratori. Essi sono privi, invece, di quel tipo di sicurezza di se stessi che è necessario per interferire nelle abitudini inveterate degli amministratori; essi non sentono il bisogno, quindi, che uno stato di cose differente da quello che si regge su tali abitudini possa prevedersi come una realistica alternativa. Ciò che cercano i guardacaccia è qualcosa di molto più semplice: assicurarsi una quota della quantità di beni prodotti da tali inveterate abitudini, accertarsi che la quota sia raccolta, ed impedire ai guardacaccia impostori (i bracconieri, tanto per usare il termine con il quale vengono bollati i guardacaccia illegali) di arraffare la loro parte di bottino. Il potere che presiede la modernità (il potere pastorale dello Stato)

è modellato sul ruolo del giardiniere. La classe dominante premoderna fu, in un certo senso, un guardacaccia come nome «collettivo». Il passaggio alla modernità fu il processo nel corso del quale il primo [il giardiniere] finì con l’emergere e il secondo [il guardacaccia] venne meno e finì con l’essere sostituito. Questo processo non fu un risultato dell’invenzione del giardinaggio; esso era stato avviato dalla crescente incapacità della coltura selvaggia di mantenere il proprio equilibrio ed il ciclo riproduttivo annuale, dal nocivo squilibrio tra la quantità delle richieste dei guardacaccia e la capacità produttiva dei loro amministratori, nel caso che questi ultimi si facessero guidare dalle loro «abitudini inveterate», ed infine dall’incapacità dei guardacaccia d’assicurarsi il reddito desiderato limitandosi ai loro tradizionali passatempi. I guardacaccia non sono dei grandi credenti nella capacità umana (o loro propria) di amministrare la propria vita. Essi sono naturalmente, per così dire, persone religiose. Non avendo esercitato la pratica di «modellare», «plasmare», «foggiare» la coltura selvaggia sottoposta al loro controllo, essi non hanno l’esperienza grazie alla quale è possibile formarsi un’idea dell’origine umana del mondo umano, dell’autosufficienza dell’uomo, della malleabilità della condizione umana, ecc. Il loro mancato intervento nel funzionamento spontaneo della coltura selvaggia, che ha costituito la virtuale «intoccabilità» di quest’ultima, si riflette nella loro filosofia (ammesso che abbiano bisogno di averne una) del carattere sovrumano dell’ordine universale. La coltura selvaggia in se stessa non può essere percepita come una cultura , cioè un ordine imposto dagli uomini, intenzionalmente o per mancato intervento (by design or by default ). Se vi si riflette anche minimamente, essa appare come qualcosa di molto più forte di quanto un accordo umano, esplicito o tacito, sia in grado di chiamare alla vita e di mantenere. Essa viene vista come Natura, creazione di Dio, come un progetto sostenuto da sanzioni sovrumane e perpetuato da una sovrumana protezione. Dal punto di vista intellettuale, la ridefinizione dell’ordine sociale come prodotto della convenzione umana, come qualcosa di non «assoluto» e al di là del controllo umano, è stata finora la più importante pietra miliare sulla

strada verso la modernità. Ma perché avvenisse una tale ridefinizione, fu necessario che si verificasse una rivoluzione nel modo di riprodurre l’ordine sociale. Il ruolo di guardacaccia assunto dalla classe dominante deve aver rivelato la sua inefficacia e prodotto preoccupazioni che essa non era preparata a fronteggiare. Il brusco rigetto, da parte di Hobbes, dello «stato naturale» dell’umanità come condizione in cui la vita umana è «spiacevole, rozza e breve», è senz’altro la più citata e la meglio conosciuta fra tutte le idee trasmesse alla posterità dai pensatori del diciassettesimo secolo. Essa ha riscosso molta attenzione ed è stata ampiamente accettata come il punto di partenza della filosofia sociale, della scienza politica e della sociologia moderna. Talcott Parson ritenne possibile vedere tutta la storia della scienza sociale come la lotta, lunga e non ancora conclusa, con il problema posto all’ordine del giorno dalla metafora hobbesiana: questo problema ha fornito l’«enigma» attorno al quale poté organizzarsi il paradigma della scienza sociale. Non si può negare l’importanza dell’asserzione di Hobbes per gli ultimi tre secoli della storia intellettuale europea. Ciò su cui i diffusi commenti all’idea di Hobbes hanno complessivamente taciuto costituisce un altro enigma: da dove prese Hobbes la sua immagine dello «stato naturale»? La evocò semplicemente con la pura forza della sua fantasia? Fu completamente una creazione intellettuale ab nihilo ? O, come la maggior parte delle idee, fu piuttosto una reazione, forse esagerata ed insolitamente possente, ma sempre una reazione, a qualche nuova esperienza che stimolò l’immaginazione di Hobbes nella direzione che la sua mente aveva già presa? A meno che non si dimostri il contrario, una plausibile ipotesi è che si trattò proprio di quest’ultimo caso. Se è così, allora la domanda è questa: Cosa ci fu, nel mondo dei contemporanei di Hobbes, che poté ispirare la spaventosa immagine dello «stato di natura»? Sembra che Hobbes fosse vittima, per così dire, di un’illusione ottica: ciò che egli scambiò per reliquie viventi dello stato di natura erano i prodotti dell’avanzata decomposizione di un rigido sistema di controllo sociale creato dall’uomo. Semmai, i preoccupanti corpi estranei che infestavano il mondo in cui egli viveva erano indicatori

rivolti verso il futuro, un’avanguardia della società futura, i pochi sparsi campioni di quello che doveva diventare lo «stato normale»: una società composta d’individui che si muovono liberamente, attratti dal guadagno, non condizionati dalla sorveglianza di una comunità ormai in fallimento. In una vera coltura selvaggia questi individui erano tenuti al sicuro nelle poche nicchie protette con lo scopo di fronteggiare gli inevitabili fallimenti del controllo sociale e le loro conseguenze; il loro numero era stabile, il loro status certo, il loro comportamento sicuramente stereotipato e quindi percepito come prevedibile e gestibile. Ora, per le ragioni discusse nel precedente capitolo, tutti questi fattori neutralizzanti stavano quasi per scomparire. È possibile che nelle crepe del sistema di autoriproduzione della coltura selvaggia Hobbes abbia pensato di scorgere lo stato di natura nella sua purezza originaria. Il più significativo degli effetti sorprendenti del ripiegamento della comunità fu, tuttavia, il rivelarsi della sostanziale fragilità dei princìpi sui quali si basavavano i rapporti umani quotidiani. A dire il vero, la stessa esistenza di tali princìpi (per non parlare della loro indispensabilità), fu in se stessa una formidabile scoperta. Tali princìpi potevano a malapena essere ipotizzati, o ideati, in rapporto ad una società che si riproduceva «senza un progetto consapevole» e, si consenta di aggiungere, senza prevedibili effetti collaterali di dimensione troppo grande perché il sistema politico fosse in grado di affrontarli. Ora, quando i princìpi arrivarono ad essere violati troppo spesso perché funzionassero nel modo dovuto, essi divennero visibili. O, piuttosto, una volta che una società «senza progetto» cominciò a produrre su vasta scala fenomeni che essa non fu in grado di prevedere e che non poteva controllare, fu possibile chiedersi quali fossero i princìpi reali o ideali che erano stati violati, e quale rimedio proposto per i deplorevoli effetti di una tale violazione dovesse essere nella natura di un progetto consapevole . Un «contratto sociale» e la presenza di un legislatore o di un despota che elaborasse un progetto erano le uniche strutture entro le quali si poteva prendere in esame il problema dell’ordine sociale, una volta che esso fosse divenuto un problema, piuttosto che una manifestazione di ciò che è insito nella

natura delle cose. La nuova percezione del rapporto tra ordine sociale (creato dall’uomo) e natura, compresa la natura dell’uomo, trovò la sua espressione nella famigerata opposizione tra ragione e passioni. Queste ultime furono viste sempre di più come il «bagaglio naturale» degli uomini, qualcosa che essi acquistano con la loro nascita, senza alcuno sforzo da parte loro e senza alcun aiuto da parte di altri uomini. La prima, la ragione, arriva con la conoscenza, «mediata» da altre persone che conoscono la differenza tra bene e male, verità e falsità. Così la differenza tra ragione e passione fu sin dall’inizio qualcosa di più che un semplice contrasto morale; essa conteneva, implicitamente ma intrinsecamente, una teoria della società, che articolava il contrasto tra le radici «naturali», e quindi individuali, dei fenomeni anti-sociali, ed il meccanismo sociale, organizzato, gerarchizzato, dell’ordine sociale. Essa veniva a significare l’indispensabilità del potere sopra-individuale (dello Stato) nell’assicurare e nel perpetuare una relazione ordinata tra gli uomini; ed i patologici e disastrosi effetti di un allentarsi della stretta del potere, o di un affidarsi alle «predisposizioni naturali» dei propri simili. Per i filosofi che pensavano in questi termini, l’evidente contraddizione contenuta nell’accostare individui dominati dalla passione e la promozione della ragione da parte dello Stato deve essere stata motivo di turbamento, come ebbe a notare Albert O. Hirschman (Hirschman, 1977). In effetti, come potevano i precetti della ragione influenzare nei limiti del possibile il comportamento di uomini guidati solo dalle passioni? Poiché il concetto di «passioni» equivaleva a tutto ciò che vi è di «naturale» nell’uomo, a tutto ciò che vi è di «selvaggio» e non ha la sua origine (artificiale, progettata) nella legge creata dall’uomo, come poteva la ragione rivolgersi all’«uomo delle passioni» e ottenerne l’ascolto e, cosa più importante, l’obbedienza? Ciò che Hirschman mancava di rilevare nel suo studio, per il resto altamente istruttivo, era il carattere pratico, non semplicemente logico, della questione. La risposta doveva essere cercata nella pratica politica, non nella teoria morale; i pensatori citati da Hirschman erano occupati nell’elaborare una teoria ed una prassi del potere sociale (statale), non

proprio in un dibattito sulla «natura dell’uomo». Le inquietudini ampiamente condivise dai partecipanti al dibattito furono concisamente riassunte da Spinoza: «Nessun affetto può essere represso dalla vera conoscenza del bene e del male nella misura in cui è vero, ma solo nella misura in cui viene considerato come un affetto» (Spinoza, 1927, parte 4, prop. 14). Il messaggio, se scandito in termini di prassi dell’ordine sociale, la principale preoccupazione del tempo, è relativamente chiaro: le emozioni, l’impulso anti-sociale che non conosce distinzioni tra il giusto e l’ingiusto, non possono essere trattate con la voce della ragione, con la conoscenza in quanto motivo e diffusione della verità; o, piuttosto, possono essere trattate in questo modo solo nei casi nei quali la conoscenza stessa diventa un «affetto». Si potrebbe concludere che quest’ultimo caso può avere solo un’applicazione limitata. Si potrebbe applicare solo a quei pochi individui per i quali la conoscenza stessa è una passione: ai filosofi, e forse anche a quei pochi eletti nei quali i filosofi suscitano una simile dedizione. Per quanto riguarda gli altri, il problema non è tanto il modo d’incanalarne gli affetti nella giusta direzione, quanto invece il modo di reprimerne o neutralizzarne le brame. Nella visione di Spinoza, la fedeltà a Dio, l’aspirazione alla santità e la fede nell’efficacia della strada verso la salvezza, così come viene suggerito dalla religione, potrebbero condurre al necessario risultato. Hirschman vide nell’interesse una passione che il colto dibattito dell’epoca trattò con crescente simpatia e speranza. Sarebbe facile trovare una spiegazione per questa scelta vedendovi un «sintomo precorritore» (prodromal symptom ) del futuro capitalista, assegnando in tal modo ai filosofi del diciassettesimo secolo il ruolo di profeti o almeno araldi di un sistema che impiegò un altro secolo e mezzo per materializzarsi. Ciò significherebbe, però, attribuire ai filosofi un comportamento che essi raramente misero in atto prima o dopo. È più sensato ritenere che essi, incoraggiando l’interesse come una buona passione atta a reprimere tutte le altre passioni patologiche, ponderarono le realtà del proprio tempo e si proposero di trattare i problemi contemporanei usando mezzi contemporanei (compresa quella «contemporaneità» che era stata costruita con l’aiuto della

memoria storica). In effetti, solo con un certo sforzo il lettore attuale può far rientrare l’idea d’interesse come risulta esplicata nel diciassettesimo secolo nel concetto ormai familiare di «tendenza al profitto» (profit-orientation ). Il tipo d’interessi invocato dai pensatori del diciassettesimo secolo come rimedio contro le passioni anti-sociali copriva un’area molto più ampia. Secondo le Massime (1664) di François de La Rochefoucault, i più frequenti erano gli interessi per l’onore e la gloria; l’interesse per il benessere e la ricchezza era soltanto uno dei molti, e non era in alcun modo sinonimo d’interesse in quanto tale. Si potrebbe dire, piuttosto, che con l’idea d’interesse venivano intesi più i motivi sociali che gli impulsi naturali; era qualcosa di artificialmente aggiunto alle predisposizioni naturali, qualcosa di socialmente indotto, piuttosto che derivante dalla natura umana. Il vero contrasto tra interessi e passioni era, di nuovo, la differenza tra un ordine socialmente progettato e la condizione grezza, selvaggia, naturale dell’uomo. L’essenza dell’interesse interessava meno della sua dimensione artificiale, sinonimo del suo orientamento sociale. C’era anche un’altra dimensione per il contrasto tra interessi e passioni (di nuovo non rilevata da Hirschman): era la dimensione di classe, quella tra due tipi di uomini, piuttosto che tra due lati della natura di un individuo, o tra due tipi di comportamento al quale potrebbe indulgere uno stesso individuo. Un homme intéressé potrebbe essere il nome dato ad una fase particolare nella vita di un individuo; ma l’espressione potrebbe anche valere, e ciò è avvenuto, per una particolare classe d’individui, quelli motivati, quelli che perseguono fini socialmente orientati, anziché essere spinti e trascinati dai loro istinti naturali. Ricorrendo ad una più tarda distinzione, si potrebbe dire che ciò che separò questa classe di «uomini interessati» dal resto fu il ruolo dominante svolto nel loro comportamento da motivi riassumibili nella formula «allo scopo di», in cui si compendia un comportamento strumentale-razionale. Il dibattito sull’interesse non fu che una delle tante prospettive concettuali nelle quali, all’epoca della disintegrazione dell’antico ordine, si cercò di teorizzare le basi delle classi del nuovo ordine sociale. Quanto più il comportamento interessato veniva esaltato come

socialmente benefico, tanto più dannoso e condannabile appariva il comportamento egoistico, stimolato dalla passione, degli individui rozzi e selvatici. Proponendo la loro azione orientata verso un obiettivo come un modello di vita socialmente utile e lodevole, i partecipanti al dibattito definirono i contorni delle nuove divisioni tra le classi ed i «termini di riferimento» per il nuovo meccanismo di riproduzione sociale. Per quanto differenti potessero essere l’aspetto concettuale ed il contesto semantico del dibattito, la sua funzione sociale non si scostava in maniera significativa da quella perspicacemente descritta da Nietzsche con riferimento alle categorie essenziali del discorso morale: erano gli stessi «buoni», cioè i nobili, i potenti, gli altolocati e i nobili di sentimenti a definire se stessi e i loro atti come buoni, cioè appartenenti al rango più alto, in contrapposizione a tutto ciò che era vile, basso e plebeo. Soltanto questo pathos della distanza li autorizzava a creare valori e a dare loro un nome... Alla base c’è sempre il concetto di nobile , nel senso gerarchico, di classe, e da questo si è sviluppato, per necessità storica, il concetto di buono , che comprende la nobiltà di spirito, la distinzione spirituale. Questo sviluppo è strettamente parallelo a quell’altro che ha finito col trasformare i concetti di comune , plebeo , vile , nel concetto di cattivo (Nietzsche, 1956, pp. 160-2).

Questa spiegazione dell’origine della moralità è ovviamente mitologica, nello stile prevalente delle considerazioni naturgeschichtliche di moda nel suo tempo, ma la forza dell’intuizione sociologica, con cui il meccanismo che lega segni positivi alle caratteristiche comportamentali associate al dominio sociale è stata svelata da Nietzsche, è notevole. Il conferire autorità suprema all’interesse non era un’eccezione rispetto alla norma generale; né lo era lo svilimento delle passioni, che gradualmente arrivarono a significare, innanzitutto e soprattutto, il contrario spregevole del comportamento «interessato», degno di lode, dell’«uomo migliore», lo stile di vita che divenne fondamentale per la società ordinata. Il più importante effetto perlocutorio (perlocutionary ) [secondo la terminologia di John Langshaw Austin, sono atti locutori quelli nei quali si pronunciano enunciati dotati di senso, atti illocutori quelli che si compiono eseguendo un atto locutorio, per es. dichiarare, ordinare, domandare, e atti perlocutori quelli che si riesce a compiere per mezzo

di atti illocutori, N.d.T. ] del discorso che contrapponeva ragione e passioni fu una riconsiderazione dei poveri ed umili come classi pericolose, che dovevano essere guidate e istruite per impedire loro di distruggere l’ordine sociale; ed una riconsiderazione del modo di vivere dei poveri ed umili come prodotto della natura animale dell’uomo, inferiore alla vita della ragione ed in guerra con essa. Ne risultarono la delegittimazione della cultura selvaggia e la trasformazione di coloro che ne erano i veicoli in oggetti legittimi (e passivi) per giardinieri culturali . [...] Le dimensioni e l’intensità della repressione politica che spazzò l’Europa del diciassettesimo secolo, mascherandosi da crociata culturale, furono davvero senza precedenti. Per le masse popolari, i regni di Luigi XIII e Luigi XIV furono, secondo la definizione di Robert Muchembled, «un siècle de fer» . «Corpi messi ai ceppi e anime assoggettate» erano ormai i nuovi meccanismi del potere. Non che in tempi più lontani, uno o due secoli prima, la gente comune «fosse relativamente libera di usare il proprio corpo a proprio piacimento; che non dovesse trattenersi continuamente dall’esprimere i propri impulsi sessuali ed emozionali». Ma ormai tutto era cambiato. Sotto il dominio della monarchia assoluta, la conformità sociale subì una completa trasformazione: Non era più questione, ormai, di rispettare le norme del gruppo d’appartenenza, ma di sottomettersi ad un modello generale, valido dovunque e per ciascuno. Ciò implicava una repressione culturale. La società cortese, gli uomini di lettere, la nobiltà, i ceti ricchi delle città, in altre parole le minoranze privilegiate elaborarono tra di loro un nuovo modello culturale: quello dell’honnêt homme del diciassettesimo secolo, o dell’homme éclairé [illuminato] del diciottesimo secolo. Un modello ovviamente inaccessibile alle masse popolari; ma che esse erano chiamate ad imitare (Muchembled, 1978, pp. 226, 229, 230).

È ragionevole supporre un intimo nesso tra il crescente attaccamento sentito dai governanti per l’uniforme ed universalmente vincolante modello culturale, ed il nuovo atteggiamento della politica, statistico-demografico, in rapporto alle tecniche del potere assolutistico. Sudditi, cittadini, persone legali, erano tutti delle unità essenzialmente identiche dello Stato; la loro esenzione dalle costrizioni locali (e quindi il loro assoggettamento al potere sovra-

locale dello Stato) richiedeva che le loro particolari tonalità di colore fossero cancellate e coperte con la vernice universale della condizione di cittadini. Questo intento politico si rifletteva bene nell’idea di una universalità del modello comportamentale che non conoscesse limiti per l’emulazione. Questo modello poteva tollerare delle alternative, che rivendicavano una legittimità invocando tradizioni localizzate, non più di quanto la monarchia assoluta potesse tollerare consuetudini locali invocando antiche leggi, scritte o non scritte, a loro sostegno. Ma questo significava livellare l’intera intricata struttura delle culture locali con la stessa determiazione e con non minore brutalità di quella usata nel radere al suolo le torri solitarie delle autonomie e dei privilegi comunali. L’unificazione politica fu accompagnata da una crociata culturale ed ebbe la postulata universalità di valori culturali come suo riflesso e concomitante legittimazione intellettuale. Si consenta di ricorrere ancora a Muchembled per la sintesi del risultato: La cultura popolare, tanto quella rurale che quella urbana, subì un collasso quasi totale sotto il regno del Re Sole. La sua coesione interna svanì definitivamente. Essa non poteva servire più come sistema di sopravvivenza, o filosofia d’esistenza. La Francia della Ragione, e più tardi la Francia de les lumières [dei Lumi], aveva spazio solo per una concezione del mondo e della vita: quello della corte e delle élite urbane, depositarie della cultura intellettuale. L’immenso sforzo per ridurre la diversità ad una unità costituì la stessa base della «conquista civilizzatrice» in Francia, come risulta testimoniato dall’impulso ad assoggettare spiriti e corpi, e dalla spietata repressione delle rivolte popolari, della condotta deviante, delle convinzioni eterodosse e della stregoneria... Verso la metà del diciassettesimo secolo, erano state messe insieme le condizioni per la nascita della cultura di «massa» (Muchembled, 1978, pp. 341-42).

[...] Eileen e Stephen Yeo riescono a cogliere chiaramente il senso dei fatti analizzati negli studi raccolti nel loro libro: «Oltre a riguardare la loro specifica materia, le lotte rappresentate nel libro riguardavano anche il controllo sul tempo e sul territorio. Esse riguardavano l’iniziativa sociale, e chi l’avrebbe avuta». Il contributo particolare dato dagli Yeo è lo studio sugli inizi dello sport competitivo moderno per dilettanti in Gran Bretagna. Essi citano la «Sporting Gazette» del 1872: «Gli sport nominalmente aperti ad aristocratici dilettanti debbono essere limitati a coloro che hanno effettivo diritto a questo titolo, e agli uomini di classe considerevolmente inferiore si deve far capire che

il fatto di comportarsi bene e civilmente e quello di non aver mai corso per denaro non sono sufficienti a rendere un uomo né un aristocratico né un dilettante». E in The Times del 1880 si poteva leggere: «Gli estranei (outsiders ), gli artigiani, i meccanici ed altre persone importune di questo genere, non possono avere un posto a loro riservato. Il tenerli fuori è in ogni caso una cosa desiderabile». La ridistribuzione del potere segnalata da queste citazioni gettò i semi del futuro modello: «amministratori, insegnanti e scienziati “sociali” che davano alla gente ciò di cui aveva bisogno, allo stesso modo in cui imprenditori al pari di responsabili di spettacoli per club... davano alla gente ciò che voleva» (Yeo, 1982, pp. 125, 134, 136). Questa fu in effetti la più decisiva delle conseguenze del passaggio dalla cultura selvaggia dei tempi pre-moderni alla cultura da giardino della modernità; della protratta crociata culturale, sempre feroce, spesso degenerata; della ridistribuzione del potere sociale nel senso del diritto all’iniziativa ed al controllo su tempo e spazio; del graduale stabilirsi di una nuova struttura di dominio: l’egemonia dei bene informati ed il sapere come forza dominante. La cultura tradizionale, che si gestiva e si riproduceva da sola, finì in rovina. Privata di autorità, espropriata dei suoi beni territoriali e istituzionali, senza più i suoi esperti ed amministratori, ormai sfrattati o degradati, essa rese i poveri e gli umili incapaci di autoconservarsi e dipendenti dalle iniziative amministrative di professionisti preparati. La distruzione della cultura popolare pre-moderna fu il fattore principale della domanda di esperti «amministratori, insegnanti e scienziati “sociali”», specialisti nel trasformare e nel coltivare anime e corpi degli uomini. Erano state create le condizioni perché la cultura divenisse consapevole di se stessa ed oggetto della sua propria azione.

Riferimenti bibliografici Gellner, E. (1983), Nations and Nationalism , Blackwell, Oxford. Hirschman, A. O. (1977), The Passions and the Interests , Princeton University Press, Princeton.

Muchembled, R. (1978), Culture populaire et culture des élites dans la France moderne (XVe-XVIIIe siècles) , Flammarion, Paris. Nietzsche, F. W. (1956), The Genealogy of Morals , trad. ingl. di F. Gotfrey, Dobleday, New York [titolo italiano dell’opera: Genealogia della morale , 1887]. Spinoza, B. (1927), Ethics , trad. ingl. di N. H. White, Oxford University Press, Oxford [titolo originale dell’opera: Ethica more geometrico demonstrata , 1662, pubbl. 1677]. Yeo, E.–Yeo, S. (1982), Ways of Seeing: Control and Leisure versus Class and Struggle , in Waites, B.–Bennet, T.–Martin, J. (a cura di), Popular Culture: Past and Present , Croom Helm, London.

4.3 L’ascesa dell’interprete [Titolo originale: The Rise of the Interpreter, 1987] Il pluralismo non è un’esperienza recente. In se stesso, esso non può essere utilizzato come motivo sufficiente per l’improvviso manifestarsi del clima intellettuale post-modernista, in cui il pluralismo di esperienze, valori e criteri della verità rifiuta decisamente di essere considerato come una caratteristica transitoria della realtà ancora incompleta, una caratteristica destinata ad essere eliminata nel processo di maturazione. «La pluralizzazione di mondi divergenti del discorso – ha osservato Jürgen Habermas – appartiene ad un’esperienza specificamente moderna... Ormai non possiamo far finta che questa esperienza non esista; possiamo solo negarla» (Habermas, 1985, p. 192). A dire il vero, Habermas mette qui insieme due tipi distinti di pluralismo: uno, derivante per così dire dalla divisione del lavoro, dalla reciproca separazione di discorsi riguardanti verità, giudizio e gusto, ciò che Habermas considera come il carattere fondamentale della modernità in quanto tale, come qualcosa con cui il

filosofo e il sociologo hanno convissuto per almeno un paio di secoli; l’altro, costituito da una pluralizzazione di discorsi intessuti di elementi comuni e tradizionali, che richiede quell’individuazione di verità, giudizio e gusto che la modernità ha negato e ha cercato di sopraffare nella pratica. Il secondo tipo di pluralismo non è neppure uno sviluppo recente; ciò che è (o sembra esserlo) recente è il riconoscimento del secondo tipo di pluralismo come non meno permanente ed irrevocabile del primo. Proprio questo riconoscimento è difficile da conciliare con lo spirito e la pratica della modernità. Mettendo insieme i due tipi di pluralismo, Habermas preclude, per così dire, la possibilità di considerare la presente situazione dell’intellettuale occidentale come sostanzialmente nuova, e sollecita cambiamenti piuttosto importanti nel modo in cui i servizi intellettuali sono stati tradizionalmente dispensati. Habermas, invece, riesce a percepire i recenti mutamenti verificatisi nella concezione intellettuale del mondo solo come una specie di aberrazione; come un increscioso irrigidimento di atteggiamenti che nella loro forma più benigna hanno convissuto con noi molto, molto a lungo; come un evento determinato da un’insufficiente comprensione o da errori teoretici; come una patologia da curare con una migliore comprensione e con una teoria adeguata. Ciò che in effetti è accaduto, secondo Habermas, è l’acuirsi dell’antica controversia tra storicismo (un atteggiamento che ammette il pluralismo storico delle verità, ma aspetta che la scienza fornisca sia la sostanza che la legittimità di una conoscenza consensuale) e trascendentalismo (che tende a distillare la caratteristica di ogni azione razionale che deve essere presupposta), in una secca polarizzazione tra relativismo (che nega la possibilità di un accordo tra verità) e assolutismo (che cerca una ragione universale al di fuori della pratica razionale e indipendentemente da essa). Le ultime due strategie sono tutte e due sbagliate; ciò che infatti è il loro aspetto più sbagliato è il fatto che il divario da esse creato tra strategie filosofiche alternative è così ampio che non ci si può più aspettare che le strategie polarizzate attenuino reciprocamente i loro rispettivi estremismi. Non si può negare che relativismo ed assolutismo coesistano come

tendenze ben distinte nel discorso contemporaneo, con la seconda che è costretta dai grandi passi compiuti dalla prima a confermarne indirettamente i presupposti (l’assoluto non può più essere cercato nella pratica: né come generalizzazione empirica, né come risultato di premesse logiche). Se le due versioni inasprite dell’antica controversia sono davvero interdipendenti, sembra che il ruolo attivo nel loro intrico dialettico appartenga alla concezione secondo cui ogni ulteriore ricerca di motivi al di sopra di quelli comuni per quanto riguarda verità, giudizio o gusto è vana (se non è stata vana fin dall’inizio). Una simile concezione, definita come relativistica, è stata espressa negli anni recenti con una forza senza precedenti per almeno due secoli. Il modo in cui Lonnie D. Kliever ha formulato la novità della concezione contemporanea del pluralismo mostra una straordinaria acutezza, del tipo che tutti possono riscontrare in scritti recenti: La dispersione del potere politico e la libertà di riunione religiosa all’interno delle società non-gerarchiche rappresentano differenze e discordanze all’interno di un comune impegno nei confronti di un’unica nazione e di un unico Dio. Il pluralismo, invece, non presuppone una simile unità o lealtà al di sopra delle parti. Il pluralismo è l’esistenza di molteplici strutture di riferimento, ciascuna con un proprio schema d’interpretazione e con propri criteri di razionalità. Il pluralismo è la coesistenza di posizioni confrontabili e contrastanti che non necessariamente sono da conciliare. Il pluralismo è il riconoscimento che persone differenti e gruppi differenti abitano più o meno letteralmente in mondi irriducibilmente differenti (Kliever, 1982, p. 81).

Kliever procede con il sottolineare che in un mondo pluralistico non vi sono «sistemi indiscussi di definizione della realtà». Essendo falliti in pratica tutti i tentativi teoretici per negoziare una soluzione concordata per la discussione, dobbiamo ammettere, insiste Kliever, «che le forme di vita sono logicamente e psicologicamente autolegittimanti». Si può vivere bene con tale ammissione, pensa Kliever, purché, però, questa ammissione sia non meno universale del precedente accordo sulla plausibilità del progetto di verità universale. Ciò che teme Kliever è la continuazione, in un mondo pluralistico, delle strategie e del conseguente comportamento che trassero il loro significato dal presupposto di basi universali della verità. Ciò che può prevenire il pericolo è una specie di moderazione auto-imposta,

adottata e praticata da tutte le «forme di vita» che coesistono nel mondo pluralistico. Senza una tale moderazione, senza rassegnarsi all’«eguaglianza di limiti» tra forme di vita, si riaffermerebbero subito antiche consuetudini autoritarie ed il mondo pluralistico si trasformerebbe in un «molteplice assolutismo». Proprio contro questa nuova minaccia, specifica per la situazione del pluralismo che si sta stabilendo nella scia del protratto dominio di una concezione del mondo monistica ed autoritaria, Kliever desidera mobilitare gli intellettuali. Il nuovo compito degli intellettuali, secondo lui, è quello di combattere contro gli assolutismi parziali, locali, con la stessa energia con cui i loro predecessori combatterono per quello «imparziale», universale. Il relativismo, lungi dall’essere un problema, è per Kliever una soluzione per il problema del mondo pluralistico; inoltre, la sua promozione è, per così dire, un dovere morale degli intellettuali contemporanei. Si può discutere se il pluralismo diagnosticato da Kliever rappresenti una svolta nella struttura del mondo o nella percezione che del mondo hanno gli intellettuali. Vi sono argomenti validi a sostegno di entrambe le possibilità. Noi abbiamo brevemente analizzato alcuni degli argomenti a favore della prima possibilità. Per quanto riguarda l’altra possibilità, il graduale abbandono della ricerca di un giudizio definitivo da parte di intellettuali sopraffatti dall’incurabile pluralità delle forme di vita, il campo dell’arte fornisce un esempio quanto mai lampante dei processi implicati. Un’immagine precisa e convincente dello stato delle arti nell’epoca della post-modernità è stata dipinta da Matei Calinescu: Generalmente, il ritmo crescente imposto al cambiamento tende a diminuire l’importanza di uno in particolare. Il nuovo non è più nuovo. Se la modernità ha presieduto il formarsi di un’«estetica della sorpresa», questo sembra essere il momento del suo fallimento totale. Oggi, i prodotti artistici più diversi (che coprono l’intera gamma da quelli sofisticati di natura esoterica al kitsch vero e proprio), aspettano uno accanto all’altro nel «supermarket culturale»... i loro consumatori. Estetiche che si escludono reciprocamente coesistono in una specie di situazione di stallo, dato che nessuna è in grado di svolgere un ruolo effettivo di guida. La maggior parte degli analisti dell’arte contemporanea è d’accordo nel dire che il nostro è un mondo pluralistico in cui ogni cosa viene consentita per principio. La vecchia avanguardia, distruttiva com’era, talvolta illudeva se stessa inducendosi a credere che c’erano effettivamente nuovi percorsi da aprire, nuove realtà da scoprire, nuove prospettive da

esplorare. Ma oggi, quando l’«avanguardia storica» ha avuto tanto successo da diventare la «condizione cronica» dell’arte, sia la retorica della distruzione che quella della novità hanno perduto ogni traccia d’attrattiva eroica. Potremmo dire che la nuova avanguardia postmodernista riflette al suo proprio livello la struttura sempre più «modulare» del nostro mondo mentale, in cui la crisi delle ideologie (che si manifestano attraverso una strana, cancerosa proliferazione di micro-ideologie, mentre le grandi ideologie della modernità stanno perdendo la loro coerenza) rende sempre più difficile stabilire convincenti gerarchie di valori (Calinescu, 1977, pp. 1, 146-47).

È come se l’arte post-moderna abbia seguito i consigli offerti nel 1921 da Francis Picabia: «se vuoi idee pulite, cambiale come camicie» (Picabia, 1971, p. 161). O, piuttosto, ha fatto meglio del precetto dadaista: se non hai idee, esse sicuramente non si sporcheranno mai. L’arte post-moderna si segnala per la sua assenza di stile come categoria di prodotto artistico; per il suo carattere intenzionalmente eclettico, una strategia che ha le sue migliori definizioni nelle parole «collage» e «pastiche» (Jameson, 1983), con tutte e due queste strategie che intendono sfidare la stessa idea di stile, scuola, norma, purezza di genere, cioè tutte quelle cose che sono state alla base del giudizio critico all’epoca dell’arte modernista. L’assenza di norme del gioco chiaramente definite rende ogni innovazione impossibile. Non c’è più uno sviluppo nell’arte, forse solo un cambiamento indiretto, un succedersi di mode, senza una forma che rivendichi credibilmente la sua superiorità su quelle che l’hanno preceduta, che si trasformino, analogamente, in quelle a lei contemporanee. Ne segue una specie di irrequietezza perpetuamente presente, che ricorda più un caotico movimento browniano [evidente riferimento all’avanguardia artistica di cui fece parte il compositore statunitense Earle Brown, di cui furono caratteristiche certe tecniche aleatorie e forme aperte o mobili, N.d.T. ] che un ordinato cambiamento consequenziale, per non parlare di uno sviluppo progressivo. Si tratta di una condizione che Meyer chiamò «stasi», di una condizione in cui ogni cosa è in movimento, ma nessuna cosa si muove verso qualche luogo in particolare. Nelle parole di Peter Bürger: Attraverso i movimenti d’avanguardia, il succedersi storico di tecniche e stili ha ceduto il passo ad una simultaneità di ciò che è radicalmente diverso. La conseguenza è che nessuno movimento nelle arti, oggi, può legittimamente pretendere di essere storicamente più avanzato, come arte , di qualsiasi altro... I movimenti storici

d’avanguardia non riuscirono a distruggere l’arte come istituzione; ma essi distrussero la possibilità che una data scuola possa presentarsi con la pretesa di validità universale.

Questo significa, di fatto, «la distruzione della possibilità di postulare norme estetiche come valide» (Bürger, 1984, pp. 63,87). L’arte post-moderna (che decollò veramente, secondo la maggior parte degli analisti, solo negli anni Settanta) ha fatto ormai una lunga strada dal gesto iconoclastico di Marcel Duchamp, che inviò ad una mostra d’arte un orinatoio con il titolo «Fontana» e firmato «Richard Mutt», insieme alla spiegazione che «se Mr Mutt abbia fatto o no la fontana con le sue mani non ha importanza. Egli l’ha scelta . Ha preso un comune oggetto di vita e l’ha collocato in modo tale che un significato pratico scomparisse sotto il nuovo titolo e punto di vista; egli ha creato una nuova idea per l’oggetto» (Picabia, 1971, p. 43). In retrospettiva, il gesto scandaloso di Marcel Duchamp, che in quel tempo venne visto come se sfidasse apertamente tutto ciò che, praticamente, rappresentava l’estetica occidentale, appare sorprendentemente moderno, piuttosto che postmoderno; ciò che fece Marcel Duchamp fu il presentare una nuova definizione dell’arte (qualcosa scelto dall’artista), una nuova teoria del prodotto artistico (estrapolando un oggetto dal suo contesto ordinario e vedendolo da un insolito punto di vista; facendo di fatto ciò che i romantici avevano fatto un secolo prima nel rendere l’ordinario straordinario), un nuovo metodo di produzione artistica (creando una nuova idea per un oggetto). Secondo gli odierni punti di riferimento, il gesto di Duchamp non fu affatto iconoclastico. Ed invece, potrebbe essere considerato come tale solo perché in quel tempo definizioni, teorie e metodi ancora contavano e si percepivano come condizioni necessarie e criteri supremi del giudizio artistico. C’erano definizioni, teorie e metodi prevalenti, che godevano del comune consenso e di un’accettazione universale, ma che potevano suscitare la radicale opposizione e la sfida di Duchamp. In tempi recenti i gesti di Duchamp sono arrivati ad essere ripetuti e raddoppiati in misura crescente e con evidente radicalismo: Robert Rauschenberg utilizzava addirittura oggetti di uso comune (ready-made ) e preferiva, anziché presentare un’opera d’arte, l’atto di cancellare un disegno; Yves Klein

arrivò ad invitare tremila raffinati appartenenti al pubblico amante dell’arte ad una visione privata di una galleria vuota; Walter de Maria riempì una galleria di New York con 220.000 libbre di terra, e scavò nei pressi di Kassel una profonda buca, chiudendola più tardi ermeticamente con un coperchio, in modo che non si potesse vedere (Gablik, 1984). Il problema è, comunque, che il risultato complessivo degli sforzi collettivi della nuova avanguardia per eliminare gli ultimi limiti immaginabili e inimmaginabili del prodotto artistico è il radicalismo rapidamente decrescente di qualsiasi nuovo gesto, presente o futuro; e la capacità altrettanto rapidamente crescente del mondo artistico di assimilare, adattare, legalizzare, commercializzare, e rendere oggetto di profitto, qualsiasi cosa, per quanto orrida e senza precedenti possa essere. Si è fatta propria, di fatto, ogni possibilità di usare la forma artistica come protesta, sia contro chi detiene il potere nel mondo artistico, sia, più ambiziosamente, contro la società che ha isolato il prodotto artistico da ogni relazione con altre sfere della vita sociale. Per citare di nuovo Bürger: «se un artista oggi firma il tubo di una stufa e lo espone in una mostra, l’artista certamente non denuncia il mercato dell’arte, ma lo adatta all’oggetto... Dato che ormai la protesta dell’avanguardia storica contro l’arte come istituzione viene accettata come arte, il gesto di protesta della neo-avanguardia diviene non autentico» (Bürger, 1984, pp. 52-53). Si tratta, in effetti, di una nuova situazione alla quale i filosofi, gli storici dell’arte ed i critici d’arte nel corso di tre secoli dell’estetica occidentale non erano sufficientemente preparati. L’arte postmoderna è senza dubbio radicalmente differente dal modernismo. Nella prospettiva di questa differenza, solo ora, risalendo di uno o due decenni, la natura ordinata dell’arte modernista e la sua stretta affinità con un’epoca che ha creduto nella scienza, nel progresso, nella verità oggettiva, nel sempre crescente controllo sulla tecnologia e, attraverso la tecnologia, sulla natura, sono divenute pienamente visibili. Grazie al radicale cambiamento post-modernista, possiamo ormai vedere chiaramente il significato della modernità, nascosto com’era, in quel tempo, sotto la panoplia di scuole e stili rapidamente mutevoli, spesso in aperta guerra reciproca. Questa nuova percezione ha trovato una

convincente espressione nel famoso saggio scritto da Kim Lewin nel 1979: Per coloro che hanno camminato al di fuori del modernismo, i successivi stili dell’epoca moderna, che in quel tempo sembravano così radicalmente differenti l’uno dall’altro, stanno cominciando a fondersi insieme con comuni caratteristiche: caratteristiche che ora sembrano pittorescamente naïf ... L’arte moderna era scientifica. Essa era basata sulla fede nel futuro tecnologico, sulla fede nel progresso e nella verità oggettiva. Ed era sperimentale: la creazione di nuove forme era il suo compito. Fin da quando l’impressionismo si avventurò nell’ottica, condivise metodo e logica della scienza. C’erano le relatività einsteiniane e la geometria cubista, le visioni tecnologiche di costruttivismo e futurismo, de Stijl e Bauhaus , il macchinario diagrammatico dei dadaisti. Persino le visioni surrealiste dei mondi onirici freudiani e le leggi astratto-espressioniste dei processi psicoanalitici furono dei tentativi di utilizzare l’irrazionale con tecniche razionali. Sebbene l’epoca modernista credesse nell’oggettività scientifica, nell’invenzione scientifica, la sua arte ebbe la logica della struttura, la logica dei sogni, la logica del gesto o della materia. Essa aspirava alla perfezione ed esigeva purezza, chiarezza, ordine. E negava qualsiasi altra cosa, specialmente il passato; idealista, ideologico, ed ottimistico, il modernismo era basato sul futuro glorioso, sul nuovo e sul perfezionato.

Questa somiglianza genealogica tra le scuole contendenti dell’era modernista è stata messa in risalto e resa quasi evidente dalla pratica radicalmente differente dell’arte post-modernista, che, in netto contrasto, è «basata non su ragione e logica scientifica e sulla pretesa d’oggettività, ma sull’aspetto, sull’esperienza soggettiva, sul comportamento, su un tipo ultraterreno di rivelazione terapeutica che non è necessario credere o capire: basta che funzioni» (Lewin, 1985, pp. 2-7). Rosalind E. Kraus ha visto nella «griglia» (grid ), un motivo ossessivamente ripetuto di pittura moderna, particolarmente nella sua ultima fase, un fenomeno che coglie nella maniera più piena le caratteristiche essenziali del modernismo nell’arte; Kraus ha sostenuto la rappresentatività della griglia, rilevando la sua assenza di fatto nella pittura pre-moderna (una rottura con il passato) e nella vita reale (una rottura con la società, un manifesto dell’autonomia dell’arte) (Kraus, 1985, p. 22). Se si può non obiettare contro la prima osservazione, la seconda sembra basata su un equivoco. In effetti, la griglia nella pittura moderna può essere interpretata come il tentativo più radicale e coerente di cogliere ed esprimere, attraverso l’arte, l’essenza della

realtà socialmente prodotta; essa può essere vista come un prodotto dell’accurata analisi delle caratteristiche essenziali del mondo sociale nell’era moderna. Levi-Strauss decifrò gli ornamenti Nambiquara come espressioni subconscie della vera forma della loro struttura autoritaria, altrimenti invisibile dietro la cortina fumogena della mitologia. Nella pittura moderna, come risultato dimostrabile di un’analisi pienamente consapevole e scientifica, la griglia decifra l’azione dell’autorità moderna che si manifesta nel dividere, classificare, categorizzare, schedare, ordinare e rapportare. Anche se gelosa della sua autonomia, e pur coscientemente concentrata sui propri mezzi e sulle proprie tecniche come materia fondamentale (o unica) della sua azione e come area della sua responsabilità, l’arte moderna raramente ha rotto con lo spirito del tempo (Zeitgeist ) proprio dell’era moderna; essa ha partecipato pienamente e incondizionatamente alla sua ricerca della verità e ne ha condiviso sia i metodi scientifici d’analisi, sia la convinzione che la realtà può, e deve essere, soggetta al controllo della Ragione. Gli artisti modernisti trasmettono sulla stessa lunghezza d’onda su cui trasmettono i loro analisti e critici intellettuali. Essi hanno messo i loro analisti e critici di fronte a compiti che essi potevano bene eseguire e che erano già abituati ad eseguire grazie alla loro formazione professionale e ad una dottrina estetica ereditata ed ormai istituzionalizzata. Gli analisti e i critici potevano trovare più di uno sviluppo nell’arte modernista come un enigma, ma essi sapevano che questo enigma aveva una soluzione e che essi avevano i mezzi per trovarla. L’enigma presentato dall’arte post-modernista, d’altra parte, lascia davvero perplessi i suoi analisti. Il senso di stupore e la sensazione di perdersi nel labirinto di nuovi sviluppi derivano dall’assenza della confortante convinzione che il nuovo è più o meno la stessa cosa, una forma inconsueta di ciò che è comune, che è solo questione di tempo perché esso perda la sua stranezza e sia intellettualmente addomesticato, che gli strumenti sufficienti per il lavoro sono a disposizione e si sa come adoprarli. In altre parole, il disagio deriva dall’incapacità degli analisti di eseguire la loro funzione tradizionale; lo stesso fondamento del loro ruolo sociale sembra ormai minacciato.

Ciò che è stato finora questo ruolo sociale lo formula Howard S. Becker con brevità e precisione: «Gli esperti di estetica non mirano soltanto a classificare le cose in utili categorie..., ma piuttosto a separare le meritevoli dalle non meritevoli, e a fare questo definitivamente... La logica dell’impresa, cioè il conferimento di titoli onorifici, richiede che essi escludano alcune cose, perché non c’è un onore speciale in un titolo al quale abbia diritto ogni oggetto o attività immaginabile» (Becker, 1982, p. 137). Questo è in effetti il nocciolo della questione. Per tutta l’era moderna, compreso il periodo modernista, i cultori di estetica sono rimasti saldamente nel controllo dell’area del gusto e del giudizio artistico (o così sembra ora, in retrospettiva, confrontando la situazione messa in essere dagli sviluppi postmodernisti). Essere nel controllo significava far funzionare, senza molte discussioni, i meccanismi che trasformano l’incertezza in certezza; prendere decisioni, pronunciare sentenze autorevoli, separare e classificare, imporre definizioni vincolanti alla realtà. Significava, in altre parole, esercitare il potere sul campo dell’arte. Nel caso dell’estetica il potere degli intellettuali sembra particolarmente incontestato, praticamente monopolistico. Nell’Occidente, almeno, nessun’altra sfera di potere tentò d’interferire nei verdetti pronunciati da quelli che sono «addentro alle segrete cose». È vero che il potere dell’élite colta, ricercata, elevata, raffinata di proferire giudizi estetici vincolanti, di separare ciò che merita da ciò che non-merita, o dalla non-arte, fu sempre espresso in atti di militanza tesi a giudizi, o pratiche, la cui autorità era messa in discussione. Non poteva essere diversamente; l’autorità della gente colta (e, indirettamente ma nella misura più importante, la capacità di acquisire una cultura che conferisca autorità) non poteva essere asserita in altro modo se non attraverso la costruzione del suo opposto: la presunzione senza fondamento, il gusto senza possibilità di giustificarlo, la scelta senza averne il diritto. L’élite dominante nel regno dell’arte aveva sempre avuto il suo avversario contro il quale si esercitava l’autorità e la cui presenza forniva la necessaria legittimazione dell’autorità: il volgare. Nelle parole di Gombrich:

nella rigida società gerarchica dei secoli sedicesimo e diciassettesimo [preferiremmo dire: nelle condizioni della disintegrazione della vecchia gerarchia in questi secoli, Z.B. ] il contrasto tra il «volgare» ed il «nobile» diviene una delle principali preoccupazioni dei critici... La loro convinzione era che certe forme o mode sono «effettivamente» volgari, perché piacciono alla gente volgare, mentre altre sono intrinsecamente nobili, perché solo un gusto sviluppato può apprezzarle (Gombrich, 1963, pp. 17-18).

In quel tempo ormai remoto, il punto in questione era la necessità di ridefinire la vecchia gerarchia, che stava per perdere le sue tradizionali basi politiche ed economiche, in termini più confacenti all’emergente struttura dell’autorità; ma la distinzione tra il «nobile» e il «volgare» poteva ancora riferirsi a divisioni relativamente ovvie e indiscusse. La questione si complicò più tardi, quando la contrapposizione binaria, intellettualmente accettabile, fu resa confusa dall’apparire di una classe media in espansione, in crescente forza numerica e potere d’acquisto. Non rozza né del tutto raffinata, non ignorante né colta secondo i modelli vantati dall’élite , non tale da abbandonare l’arte nelle mani delle classi superiori, ma incapace di formulare suoi giudizi in fatti artistici, la classe media si trasformò immediatamente in quel «limaccioso» elemento che minacciò la stessa esistenza della gerarchia di giudizio e, con essa, l’autorità dell’élite in possesso di una formazione estetica. Non sorprende che su di essa si concentrassero tutte le frecce più velenose di quest’ultima. «Volgare» rimase il termine dell’insulto, ma cambiò la sua connotazione; esso si riferiva ormai al piccolo borghese, al filisteo, alla classe media che osava manifestare giudizi estetici nella pratica, scegliendo tra offerte culturali, ma senza riconoscere, tuttavia, l’autorità degli esperti d’estetica. La classe media poneva accanto al potere dell’intelletto il potere del denaro; lasciata alla sua libertà d’azione, si poteva pensare che rendesse il potere dell’intelletto vano e inefficace, senza nemmeno disturbarsi di sfidarlo sul suo proprio territorio: il giudizio teoretico del gusto. Proprio questa introduzione di criteri alternativi per scelte culturali pratiche venne percepita dall’élite intellettuale come una minaccia al suo potere. Nelle parole di Bourdieu: ciò che produce il rapporto del piccolo borghese con la cultura e la sua capacità di rendere «banale» tutto ciò con cui viene in contatto, proprio come lo sguardo fisso e

attento «evita» tutto ciò in cui esso s’imbatte, non è la sua «natura», ma la stessa posizione del piccolo borghese nello spazio sociale... È, molto semplicemente, il fatto che la cultura legittima non è fatta per lui.... così come egli non è fatto per essa; e che essa cessa di essere ciò che è non appena egli se ne appropria... (Bourdieu, 1984, p. 327).

E questo fino a quando il consumatore culturale fa le sue scelte (proprio per questo motivo gli vengono affibbiati gli epiteti «volgare», «filisteo», o, in realtà, «piccolo borghese»). E proprio l’autonomia del giudizio artistico, autonomia rispetto al giudizio dell’élite , suscita rabbia e condanna. Per quasi tutta l’era moderna, tuttavia, questa rabbia e questa condanna sono state efficaci; esse hanno difeso la superiorità del giudizio elitario davanti a incursioni reali o viste come tali. Esse sono state efficaci perché interiorizzate, in definitiva, dalle vittime degli attacchi elitari. Come coscienza freudiana, il timore di «volgarità» ed il timore d’incompetenza estetica sono divenuti per così dire «guarnigioni in città conquistate», cioè nell’«io artistico» della classe media, e le più affidabili salvaguardie dell’autorità elitaria. Questo processo d’interiorizzazione è stato mirabilmente colto da Wylie Sypher: Il diciannovesimo secolo produsse una folla di parvenu che furono costretti a ridimensionare i precedenti rituali e che rappresentarono una classe culturalmente insoddisfatta come quella dei nostri gagliardi «lavoratori». Il malessere culturale che accompagnò l’ascesa di questi bottegai, come li chiamò senza mezzi termini Macaulay [il termine ingiurioso di Macaulay, ci si consenta di aggiungere, appare blando ed innocuo al confronto della «selvaggia e rozza presunzione» che «ha liberato gli imbecilli e gli ignoranti dal loro senso di nullità», espressioni usate da Hippolite Taine, o dello «spirito banale», che, pur «riconoscendosi banale, ha l’impudenza di proclamare i diritti del banale e d’imporli dovunque voglia», espressioni, queste, di Ortega y Gasset, Z.B. ], si rivela nel concetto così confuso di volgarità, che diviene una categoria nei valori della classe medio-alta. Il timore dell’epoca vittoriana di essere volgari... è lo scotto da pagare per conseguire il successo. Gli uomini di successo debbono essere «raffinati» (Sypher, 1960, p. 104).

Il disdegno e il disprezzo dell’élite per il volgare parvenu rimasero costanti e gli standard per misurare la «raffinatezza» furono posti a livelli sempre più alti, cosicché il parvenu di ieri avrebbe trovato sempre più difficile sospirare con sollievo: «sono arrivato». Ma la struttura generale della società moderna, con il suo culto incorporato

dell’educazione, della verità, della scienza e della ragione (e del rispetto per l’autorità di coloro che hanno incarnato questi valori) garantì un meccanismo attraverso il quale le potenziali minacce al giudizio elitario potessero essere assorbite e quindi neutralizzate. A tutti gli effetti, la superiorità del raffinato giudizio estetico non fu mai messa veramente in discussione, anche se si nutrì spesso nei suoi confronti risentimento o indifferenza. Quando insisteva nel dire che «tutto ciò che è bello e nobile è il risultato della ragione e del pensiero» e che «il bene è sempre il prodotto di un’arte», Baudelaire, giustamente dichiarato un profondissimo pensatore della modernità, rifletteva sull’autorità saldamente stabilita dell’estetica e dei suoi sacerdoti intellettuali (Baudelaire, 1964, p. 104). È precisamente questa autorità ad essere ora in discussione; essa è stata messa al centro della teoria come un problema, non come una convinzione ritenuta certa, proprio perché è stata resa inefficace nella pratica. Si è reso improvvisamente chiaro che la validità di un giudizio estetico dipende dal «sito» dal quale esso è stato emesso e dall’autorità attribuita a tale sito; che l’autorità in questione non è un bene inalienabile, «naturale» del sito, ma qualcosa che fluttua con il mutare della collocazione del sito entro una struttura più ampia; e che l’autorità del sito tradizionalmente riservato agli studiosi di estetica, esperti intellettuali d’arte, non deve prendersi più per scontata. Nella percezione degli esperti d’arte, l’evidente incapacità del giudizio estetico formulato nel modo tradizionale (cioè, con riferimento alla massa stabilita di conoscenze e a determinate procedure, entrambe espresse nel discorso autoriproduttivo e nei suoi membri privilegiati) di funzionare alla stregua di definizioni che dimostrano da sole la propria verità, si riflette come uno stato di caos. Il caos, dopo tutto, è uno stato di cose che non possiamo prevedere, cambiare e controllare. Nelle parole di Hassan, mentre il modernismo «creò una propria forma d’Autorità» (nel senso che i professionisti dell’estetica si mantennero saldamente nel proprio ufficio), il postmodernismo «ha mostrato una tendenza all’Anarchia, con il dissolvimento di una più profonda complicità con le cose» (Calinescu, 1977, p. 142). Potrebbe essere che gli usi correnti del termine post-

modernità abbiano mantenuto certi legami di parentela con l’uso originale del concetto, espresso da Toynbee, come sinonimo di irrazionalità, anarchia e minacciosa indeterminatezza. Ciò che appare ai filosofi dell’arte come uno stato di anarchia è soprattutto l’intrinseca «impurità» dei fattori che partecipano alla produzione di un’«opera d’arte» X o Y; e la conseguente impossibilità di separare l’arte dalla non-arte, o la buona arte dalla cattiva arte, con il formulare dichiarazioni che si riferiscono solo a fenomeni pienamente e indivisibilmente sotto il controllo degli stessi filosofi. L’impurità risulta, soprattutto, dal «consumo culturale» in rapida espansione, che viene accolto dai filosofi con profondo sospetto, come la creazione della «cultura di massa» una cultura degradata, inferiore, dove il volgare ed il filisteo hanno preso il controllo ed il suo inevitabile seguito, cioè il mercato dell’arte, che impone i propri criteri di giudizio pratico e genera i propri siti d’autorità. I filosofi naturalmente desiderano ardentemente una valida «teoria della reputazione», cioè una teoria che si sottoponga e tenda ad una omologazione di se stessa, che secondo Howard S. Becker dovrebbe correre lungo le seguenti linee: «(1) individui particolarmente dotati (2) creano opere d’eccezionale bellezza e profondità che (3) esprimono profonde emozioni umane e valori culturali. (4) Le straordinarie qualità dell’opera testimoniano gli straordinari talenti del suo creatore, ed i già noti talenti del creatore testimoniano le straordinarie qualità dell’opera». Questo schema ruota, ovviamente, attorno ai concetti di «bellezza», «profondità», «valori», ecc., che presuppongono tutti la competenza monopolistica dei teorici; questo tipo di teoria della reputazione riafferma e riproduce l’autorità di questi ultimi. Il guaio è che nessuna teoria della reputazione costruita lungo queste linee oggi potrebbe resistere nella pratica. Infatti, osserva Becker, «la reputazione dell’artista, dell’opera e del resto risulta dall’attività collettiva degli ambienti artistici». È stato così da sempre, si potrebbe obiettare. Ma anche se fosse così, il ruolo dell’«attività degli ambienti artistici» potrebbe rimanere invisibile ai teorici fino a quando il mondo dell’arte che ha attribuito le reputazioni fosse limitato, più o meno rigidamente, agli stessi teorici. Il ruolo non può rimanere

invisibile, una volta che la perdita del controllo abbia «oggettivato», «alienato» i prodotti dell’attività dei teorici e li abbia trasformati in un Vorhanden [oggetto a disposizione], in un oggetto da analizzare e su cui riflettere. [...] Ho indugiato così a lungo sulla situazione nelle arti non solo perché proprio al ramo «estetico» degli intellettuali dobbiamo soprattutto la nostra sensazione di entrare nell’era post-moderna. Un’altra ragione per la lunga digressione è il fatto che (non per la prima volta) proprio nel campo dell’arte e della critica d’arte sembra avviarsi un più ampio riassetto del mondo intellettuale e della sua azione. Ci si consenta di ripetere che in nessun’altra sfera della vita sociale la non-interferenza delle autorità non-intellettuali è stata così tradizionalmente bassa, e, per conseguenza, l’autorità degli intellettuali così completa e indubitabile. Anziché essere il ventre molle del campo intellettuale, il mondo dell’alta cultura ne ha rappresentato la linea più interna e meno vulnerabile di fortificazione: davvero un fulgido esempio, anche se inimitabile, per tutti noi, impegnati come siamo con aree di pratica sociale che vengono sotto il controllo di altri poteri terrestri. Lo shock della condizione postmoderna è stato perciò sentito più in profondità dove essa ha prodotto il cambiamento più drastico e ha demolito i miti più saldamente radicati. Questo, quindi, ci consente di vedere più chiaramente i meccanismi che si stanno diffondendo in tutto il mondo intellettuale con una diffusa sensazione di disagio e con un impulso a rinegoziare la strategia tradizionale dell’azione intellettuale, fatta propria (o, piuttosto, nascosta) dall’idea della crisi post-moderna.

Riferimenti bibliografici Baudelaire, Ch. (1964), Baudelaire as a Literary Critic: Selected Essays , trad. ingl. di L. B. Hylsop – F. E. Hylsop, Pennsylvania State University Press, University Park. Becker, H. S. (1982), Art Worlds , University of California Press, Berkeley.

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5. ERMENEUTICA E TEORIA CRITICA

5.1 La sfida dell’ermeneutica [Titolo originale: The Challenge of Hermeneutics, 1978] [...] L’ermeneutica (dal greco hermêneutikós , «relativo all’interpretazione»; l’«interpretare» viene inteso qui nel senso di «chiarire», di rendere comprensibile ciò che è oscuro, chiaro ciò che non è chiaro) fu per molti secoli una disciplina ausiliaria della filologia. Poiché la maggior parte dei testi considerati essenziali nel mondo cristiano erano disponibili in versioni contrastanti, che recavano tracce di trasandatezza e sbadataggine in una catena senza fine di copisti anonimi, la questione dell’autenticità, della vera versione rispetto a quelle distorte, non poteva non diventare un’importante preoccupazione degli studiosi. L’ermeneutica fu sviluppata in origine per rispondere a tale questione. Ricorrendo per lo più a metodi filologici, l’ermeneutica si occupava dell’analisi critica di testi discordanti, con la riappropriazione della versione autentica, cioè del vero significato del documento, come suo obiettivo ultimo. In quello stadio, il recupero del vero significato venne visto come coincidente con la dimostrazione dell’autenticità del testo. Per ovvie ragioni, la storiografia fu il cliente più appassionato e più grato dell’ermeneutica. Fu nel sedicesimo secolo che l’ermeneutica emerse da una relativa oscurità e si spostò rapidamente proprio al centro della discussione

filologica. Essa doveva questa sua improvvisa preminenza al dibattito cattolico-protestante sul testo autentico della Bibbia e su ciò che veniva inteso essenzialmente come lo stesso problema, cioè il vero significato del suo messaggio. L’evidente urgenza della questione, che aveva acquisito molto di più che un significato puramente tecnico, spostò gli ermeneuti in una posizione centrale nelle discipline umanistiche. La «critica filologica» attrasse i più brillanti e più creativi storici e filosofi. Il suo prestigio fu portato alle stelle da un’impressionante serie di risultati indiscutibili (risalendo fino a Lorenzo Valla) nello smascherare la falsità di documenti la cui autenticità non era stata messa in dubbio per secoli. L’ermeneutica innalzò la critica delle fonti storiche al rango di scienza sistematica. In questa sua funzione essa divenne, e rimase anche quando le sue motivazioni iniziali persero molta della loro urgenza, un ramo indispensabile della storiografia. Per differenti, ma ovvie, ragioni, la sua sottigliezza tecnica ha ricevuto impulso anche dalla preoccupazione dei giuristi per la loro interpretazione della legge. Non in questa funzione, tuttavia, gli ermeneuti divennero una sfida alle scienze sociali in generale, alla sociologia in particolare. Fino a quando il compito di «chiarificazione» che l’ermeneutica si addossò venne visto, soprattutto, come una ricerca del messaggio originale, non distorto, di fonti scritte, essa fu giustamente considerata semplicemente come uno strumento, per quanto efficace e indispensabile. Uno strumento aiuta a risolvere problemi; non li crea. Verso la fine del diciottesimo secolo, tuttavia, si verificò un fatale mutamento. La riflessione filosofica sull’attività e sui risultati dell’ermeneutica andò oltre la semplice critica testuale e cominciò a porre domande difficili sulla natura e sugli obiettivi della conoscenza storica in quanto tale; anzi, della conoscenza storica in generale. Lentamente, ed all’inizio impercettibilmente, il senso attribuito al significato ricercato dall’analisi ermeneutica cominciò a cambiare. I testi dei quali si occupò la prima ermeneutica erano, più spesso che no, anonimi; essi, anche se era stato legato loro il nome di un autore, acquistarono in se stessi tanta importanza nel corso dei secoli da rendersi largamente autonomi dai loro creatori. Le notizie a

disposizione circa la vita degli autori, veri o presunti, erano nell’insieme ancor meno attendibili dei testi esistenti in se stessi; e difficilmente potevano contribuire alla loro chiarificazione. Una concentrazione pressoché totale sul testo in se stesso, come unica guida per arrivare al suo significato, costituì la risposta più ovvia. La filologia, più che la psicologia, fu la cornice naturale per la ricerca dell’autenticità. Forse ancora più importante fu la sostanziale armonia del compito così definito con la predisposizione cognitiva dell’epoca. La percezione dell’autore come legittimo «proprietario» delle sue idee fu solo l’inizio per catturare l’immaginazione. Gli artisti erano ancora considerati come artigiani guidati dalle anonime regole della corporazione, piuttosto che da sentimenti e modi di vedere del tutto individuali e «privati». La metà del diciottesimo secolo vide un’autentica rinascita dell’estetica classica – con la sua enfasi sull’opera d’arte in se stessa, sulla sua forma e struttura, sulla sua armonia, sulla sua intrinseca logica – ed un’assoluta mancanza d’interesse per le intenzioni dell’autore. Per Winckelmann, di gran lunga il più autorevole teorico del tempo, la bellezza – il significato più profondo dell’opera d’arte – era una questione che riguardava le proporzioni all’interno del prodotto artistico; il prodotto non poteva comunicare informazioni oltre a quelle contenute nella sua forma finita. Questa estetica non lasciava spazi per la personalità dell’autore; essa considerava brutta ogni arte che recasse troppo visibile un’impronta dell’individualità del suo autore. La teoria winckelmanniana dell’arte, ed in realtà l’opinione illuminata del suo tempo, era pienamente d’accordo con l’ingenua ed eccessivamente fiduciosa opinione pre-kantiana della conoscenza in generale: come un rigoroso ma sostanzialmente non problematico riflesso del mondo «così come è». La scoperta kantiana del ruolo fondamentale del soggetto nel processo di ogni percezione (che a sua volta arrivò nella scia del costituirsi socio-politico dell’individuo come unico possessore legittimo di qualsiasi cosa attenesse alla sua identità sociale) fu subito seguita dalla scoperta dell’artista dietro ogni opera d’arte, di una

personalità razionale e sensibile dietro ogni creazione. Per trovare il significato di un’opera d’arte, scrisse W. H. Wackenroder nel 1797, dobbiamo contemplare l’artista piuttosto che i suoi prodotti, al punto da «abbracciare tutta la sua individualità caratteristica». Non molto più tardi, Novalis parlò con sicurezza dell’«universo interiore» dell’artista, cui appartiene la rappresentazione dell’opera d’arte. Nelle parole di Shelley, l’artista si trasforma nel «legislatore del mondo». Con la libertà personale che stava diventando rapidamente il canone inviolabile della nuova estetica (come, anzi, della dominante concezione del mondo della nuova era), non c’era molta utilità nel cercare il significato nel testo, trascurando nello stesso tempo l’autore. Con gli autori che si riappropriavano dei loro testi, ai lettori veniva negata l’autorità del proprio giudizio. La nuova immagine dell’artista e della sua opera (come, anzi, di tutta la creazione umana) venne registrata nella storia intellettuale del mondo occidentale sotto il nome di Romanticismo. Anche se le teorie artistiche del Romanticismo sopravvissero a mala pena negli intensi movimenti poetici e di arti visive ai quali furono associate, esse lasciarono effetti duraturi sui successivi sviluppi delle scienze sociali. In particolare, esse furono di valido aiuto nella fatale trasformazione della disciplina e strategia dell’ermeneutica. Fu una scoperta del Romanticismo che l’opera d’arte (come la creazione umana in generale) fosse, soprattutto, un sistema intenzionale. Il testo, la pittura, la scultura arrivarono a vedersi come incarnazioni visibili di idee che, anche se rappresentate nel risultato, non si esaurivano qui. Esse si trovavano pienamente a casa propria solo nell’esperienza dell’artista, e proprio qui potevano essere scoperte, ammesso che davvero si potessero scoprire. L’opera d’arte sembrò improvvisamente meno importante come riflesso della realtà «lì fuori» che come riflesso di un progetto dell’autore, dei suoi pensieri e delle sue emozioni. Si rese evidente che il significato autentico del testo non poteva essere trovato attraverso un’analisi immanente. Si doveva andare oltre il testo. Perché il vero significato del testo non gli sfuggisse, il lettore doveva scandagliare l’impenetrabile profondità dell’esperienza spirituale dell’autore. In questo tentativo il lettore non

poteva essere guidato da regole precise e vincolanti. Vi sono poche leggi d’uniformità nell’atto della creazione; l’opera d’arte acquista il suo valore dall’individualità, unicità, irregolarità dell’esperienza da cui nasce. Se il lettore non è in grado di cogliere una simile esperienza, il significato dell’arte gli rimarrà per sempre come un libro chiuso. Per afferrare il significato, il lettore deve ricorrere alla sua immaginazione, ed essere sicuro che la sua immaginazione è abbastanza ricca e flessibile da essere commisurata a quella dell’artista, Per rimanere all’altezza del suo compito, l’ermeneutica doveva ormai estendere i suoi interessi oltre la fedele descrizione e l’analisi strutturale del testo. Doveva interpretare, avanzare ipotesi riguardo al significato nascosto del testo. Il testo in se stesso poteva dare al lettore soltanto delle indicazioni sulla plausibilità della sua interpretazione; non poteva offrirgli prove decisive che la sua scelta era stata giusta. In effetti, era possibile stabilire se certe descrizioni fossero vere o false; ma nella migliore delle ipotesi si poteva parlare della «plausibilità» o «mancanza di plausibilità» delle interpretazioni. I metodi della filologia, così utili nell’esame dell’autenticità, non potevano bastare quando si percepiva che il vero significato doveva essere individuato in qualche punto «al di sotto» del testo vero e proprio, di natura completamente differente dallo stesso testo. La critica filologica rimase parte integrante dell’ermeneutica, anche se in una dimensione di disciplina ausiliaria. L’attenzione principale dell’ermeneutica si spostò verso quella che era veramente la zona di «frontiera», cioè l’interpretazione del significato. Qui sorsero questioni metodologiche che presentarono difficoltà mai affrontate in precedenza, e che minacciarono di scalzare gli stessi fondamenti della scienza sociale. La scienza sociale si sviluppò, durante il diciannovesimo secolo e fin nel ventesimo secolo inoltrato, «all’ombra dei trionfi della scienza naturale» (Giddens, 1976, p. 12). Questi trionfi furono spettacolari e convincenti. Nell’abbagliante splendore delle realizzazioni tecnologiche, per le quali la scienza sociale rivendicava giustamente i suoi meriti e dalle quali traeva materia sempre nuova per alimentare la sua fiducia, si potevano scorgere a malapena zone d’ombra del dubbio. I predicatori della nuova scienza sociale, fatta su misura per la nuova

era così fiduciosa in se stessa, sognavano di emulare, nelle conoscenze sociali, «lo stesso tipo di sensazionale illuminazione e di forza esplicativa già offerte dalle scienze della natura» (Giddens, 1976, p. 13). I risultati visibili della scienza naturale erano troppo persistenti e inebrianti perché i loro fanatici sostenitori perdessero il tempo nel muovere critiche o, addirittura, nel riflettere sull’adeguatezza dell’approccio usato dai cultori delle scienze naturali per lo studio della vita sociale. Né il tempo era propizio (almeno inizialmente) per meditare sull’esatta natura e sui limiti intrinseci del «metodo scientifico» in quanto tale; i filosofi della scienza non si avvicinarono in alcun punto al livello di sottigliezza e di autoconsapevolezza raggiunto molto più tardi da filosofi della scienza come Bachelard o Popper. Questa era un’epoca d’esuberanza, e l’ottimistica immagine di se stessa propria di una tale epoca non ammetteva ostacoli al dominio dell’uomo sul mondo diversi da quelli temporaneamente innalzati dalla colpevole inerzia dell’inventività e ingegnosità umana. Una caratteristica svelata anche dallo sguardo più superficiale al racconto del successo della scienza naturale fu la spettacolare assenza nei resoconti scientifici della categoria del «fine». La scienza naturale sviluppò gradualmente un linguaggio in cui si potevano fornire resoconti esaurienti senza alcun riferimento a termini come «volontà», «fine», «intento». Questa nuova qualità del linguaggio scientifico era stata espressa da Comte come il succedere (supercession ) dello stadio «positivo» a quello «teologico» o «metafisico»; i molti che fossero ignari della terminologia di Comte parlerebbero del trionfo della sobrietà secolare sull’illusione religiosa. Non che il cultore della scienza naturale dovesse essere un agnostico per poter produrre risultati scientifici; ma i suoi risultati erano scientifici nella misura in cui parlavano di «ciò che dovrebbe accadere» e non lasciavano spazio ad un «fine divino» sostanzialmente volontaristico che, in teoria, poteva privare i fenomeni della loro regolarità osservata e registrata. La scienza naturale potrebbe essere definita dall’assenza di miracoli, ed anzi di tutto ciò che è bizzarro e straordinario, che faccia pensare ad un soggetto consapevole, capace di deliberare, progettare e volere. In questo approccio, la «comprensione» (understanding ) [questo termine

viene usato nel testo inglese con una sua accezione resa specifica dall’uso contemporaneo anche del termine «interpretazione» (interpretation ), pur rimanendo in un’ovvia interazione concettuale, N.d.T. ] dei fenomeni venne a coincidere con la loro «spiegazione». Senza «significato» nel senso di fine, la «comprensione», cioè l’afferrare la logica dei fenomeni, fu tutt’uno con la loro «spiegazione», cioè con la dimostrazione delle regole generali e delle condizioni specifiche che resero il verificarsi di determinati fenomeni inevitabile. Soltanto questo tipo di «comprensione» sembrava compatibile con una scienza della società che mirasse ad emulare le magnifiche realizzazioni della scienza della natura. A questo emergente concetto di una «scienza naturale del sociale», l’ermeneutica, ispirata dalla visione romantica della creazione, lanciò una seria sfida. In effetti, essa mise in dubbio la nostra stessa possibilità di purificare la nostra conoscenza del sociale eliminando la considerazione del fine. A dire il vero, dovremmo cessare la vana ricerca del «progetto» e dell’«obiettivo» in natura; se ci fossero un tale progetto ed un tale obiettivo, essi non sarebbero nostri, di noi uomini, in primo luogo; e così sarebbe vano sperare di poter mai essere capaci di comprenderli. Questo, tuttavia, non vale per le faccende umane. Qui, la presenza di un progetto e di obiettivi è fuori discussione. Uomini e donne fanno ciò che fanno con un fine. I fenomeni sociali, dato che in ultima analisi sono atti di uomini e donne, chiedono di essere compresi in un modo differente da quello della semplice spiegazione. Il comprenderli deve contenere un elemento che manca alla spiegazione dei fenomeni naturali: il recupero del fine, dell’intento, della singolare configurazione di pensieri e sentimenti che hanno preceduto un fenomeno sociale e hanno trovato la loro unica manifestazione, imperfetta ed incompleta, nelle conseguenze osservabili dell’azione. Comprendere un atto umano, quindi, equivaleva ad afferrare il significato conferitogli dall’intenzione dell’attore; un compito, come si poteva facilmente vedere, essenzialmente differente da quello della scienza naturale. Quanti accettarono queste idee dell’ermeneutica si trovarono subito di fronte a numerose e fondamentali difficoltà. La più ossessiva

fu il dubbio legittimo che lo studio del sociale potesse mai salire al livello di precisione ed esattezza, di «forza esplicativa», che aveva finito con l’essere associata alla scienza. L’immagine romantica dell’opera d’arte serviva come esempio per il modello dell’azione sociale in generale; gli atti dello scrivere e del leggere, del recitare e dell’interpretare l’azione, sembravano appartenere alla stessa famiglia ed avevano una forte rassomiglianza familiare. Comprendere l’opera d’arte equivaleva a recuperare il progetto dell’artista, un compito anch’esso artistico; intrepretare un atto umano equivaleva a ricreare la rete di motivi ed intenti dell’attore. Entrambi i casi richiedevano soprattutto che si forgiasse un’affinità nell’esperienza comune, una specie di solidale auto-identificazione con un altro essere umano. Come l’atto sostanzialmente volontaristico rivolto a realizzare un progetto, che doveva essere compreso, la sensibilità immaginativa che doveva produrre una tale comprensione non poteva essere ridotta ad una serie di regole che eliminassero il ruolo svolto da un fine soggettivo e da decisioni subordinate a tale fine. Questa comprensione era un’arte, piuttosto che una scienza. La natura più artistica che scientifica della comprensione costituì un ostacolo naturale all’unanimità delle interpretazioni, un primo passo fondamentale nella costruzione di un’attività comune chiamata scienza. Anche durante i periodi di dissidio e dissenso dei quali è costellata la storia di ogni scienza, i suoi professionisti possono trarre conforto e fiducia dalla convinzione che vi sono, o possono trovarsi, alcune regole specifiche di comportamento che imporranno un comune accordo e quindi assicureranno un comune consenso per il risultato. Il concetto di tali regole non quadra bene con l’immagine della creazione artistica. Di fronte alla necessità di scegliere tra diverse interpretazioni contrastanti, non era facile per i professionisti dell’ermeneutica fare riferimento a norme impersonali che potessero regolare completamente un atto personale di visione solidale e di auto-identificazione. L’indole stessa dell’unanimità d’interpretazione sembrò presentare complicazioni senza precedenti nella scienza della natura. Questa difficoltà, considerevole in se stessa, fu un elemento di

disturbo relativamente minore, se confrontato con la complessità della questione della verità. L’idea di scienza del diciannovesimo secolo andava oltre lo scopo di raggiungere un’unanimità sul fatto che specifici risultati fossero validi «oltre ogni ragionevole dubbio». Era parte integrante dell’idea, ed un’importante ragione per il prestigio di cui godeva la scienza naturale, che la validità dei risultati avesse un fondamento più solido e duraturo dell’unanimità dei professionisti contemporanei della scienza; che, in altre parole, le norme che trovavano un’unanimità hic et nunc potessero anche sorreggere una ragionevole speranza che i risultati fossero conclusivi, finali. I risultati della scienza naturale erano visti, in teoria, non solo come universalmente accettati, ma come veri, cioè tali da poter essere accettati per sempre. Questa convinzione era basata sull’impersonalità tenacemente osservata delle operazioni che conducevano, in modo controllabile da tutti, alla formulazione dei risultati. Per quanto importanti potessero essere il genio, l’intuizione, il caso fortunato o il balenare dell’ispirazione di un individuo nel formulare la nuova idea, doveva esserci un insieme di norme universali (non dipendenti da fattori singoli, personali) usate nel convalidare la pretesa dell’idea di assurgere allo status di verità. La scienza veniva vista come un’attività assolutamente legale-razionale, quindi impersonale e democratica. La scoperta era una questione di genio o di talento, ma la convalidazione era basata su norme che potessero essere applicate da chiunque fosse in possesso di abilità comunemente accessibili, e che quindi eludessero le differenze risultanti dalle personalità degli scienziati. La convalidazione era, quindi, completamente impersonale; poiché non intervenivano fattori personali nel suo processo, non c’erano ragioni evidenti per dubitare che qualsiasi cosa fosse stata convalidata sarebbe rimasta valida per le successive generazioni di scienziati. Fu evidente, invece, che la convalidazione delle interpretazioni del significato non poteva essere innalzata al livello dell’impersonalità, o, addirittura, della sperata a-temporalità raggiunta dalle scoperte delle scienze naturali. L’ermeneutica vide la «comprensione» come residente in una specie di «unificazione spirituale» tra scrittore e lettore, tra attore e suo interprete. L’unificazione, realizzabile o no, era destinata a

partire da una specifica posizione storica e biografica, sempre, in certa misura, straordinaria. Anche se gli interpreti potessero trovare il modo di neutralizzare le differenze personali tra di loro, rimarrebbero ancora «storicamente limitati» dalla portata e dal tipo di esperienza resa loro accessibile dalla tradizione. L’unanimità, quindi, non garantirebbe la verità. I mezzi usati nel convalidare le loro interpretazioni potrebbero, nella migliore delle ipotesi, essere impersonali solo entro una determinata fase della storia. L’impersonalità non sarebbe, in tal caso, equivalente ad una temporalità. Al contrario, l’impersonalità dell’atto d’interpretazione (e, conseguentemente, la possibilità di una unanimità tra gli interpreti) potrebbe solo pensarsi come basata sulla partecipazione comune degli interpreti alla stessa tradizione storica; sulla loro possibilità di attingere i mezzi allo stesso fondo di una comune esperienza storica. Sembrò che l’unanimità potesse essere solo temporanea, legata alla tradizione, e quindi organicamente incapace di far fronte ai requisiti della verità. La stessa base del suo raggiungimento e della sua convalidazione, in quanto unanimità, escludeva che potesse considerarsi come a-temporale e conclusiva. In altre parole, la sfida dell’ermeneutica all’idea che le scienze sociali potessero essere all’altezza dei livelli di validità e autorità delle scienze naturali era costituita da due problemi: quello dell’unanimità e quello della verità. Conseguentemente, la scienza sociale, nell’affermare il suo status scientifico, era costretta a provare che le sue norme di unanimità ed i suoi requisiti di verità per l’interpretazione del significato potevano raggiungere una validità paragonabile a quella raggiunta nello studio della natura. [Questo libro] è dedicato ad una discussione dei tentativi più rilevanti di offrire una tale prova. A dire il vero, gli sforzi continui per evitare la sfida dell’ermeneutica non sono limitati alla storia della sociologia. Una forte corrente nell’ambito della scienza sociale (dominante nel diciannovesimo secolo, ma non certamente marginale nel ventesimo) o è ignara della sfida o ne sminuisce pervicacemente la serietà. Questa corrente trae la sua fiducia dalla convinzione che non esista una differenza significativa tra le situazioni nelle quali operano la scienza

naturale e quella sociale. La convinzione viene difesa sulla base di uno di questi due motivi: che i «significati soggettivi», gli intenti, i motivi e simili esperienze «interiori» non sono accessibili all’osservazione e quindi dovrebbero lasciarsi al di fuori della ricerca scientifica, il cui unico oggetto legittimo è il comportamento osservabile; o che i fattori soggettivi non presentano un loro problema metodologico, poiché possono essere ridotti completamente a fenomeni esterni, che rientrano nel normale trattamento scientifico. Il diritto di rifiutare la sfida dell’ermeneutica è giustificato dall’opinione secondo cui l’aspetto soggettivo della vita sociale o non presenta un problema specifico alla ricerca scientifica, o – nella misura in cui lo presenta – dovrebbe essere lasciato nel campo d’appartenenza, cioè della poesia o della filosofia. Non è compito di questo libro occuparsi della scuola di sociologia che deriva da questo atteggiamento. Sono stati scelti per l’analisi solo certi punti di vista i quali ammettono che l’aspetto soggettivo dei fenomeni sociali, in quanto distinti da quelli naturali, presenta un problema d’insolita complessità, ma per il quale, tuttavia, si spera di trovare una soluzione suscettibile o di neutralizzare l’impatto della scienza sociale o di farla rassegnare al suo inevitabile destino: la necessità di rimanere legata alla tradizione e di formulare affermazioni di valore dichiaratamente relativo e temporale. Questi punti di vista considerano la relatività della conoscenza come un problema particolarmente profondo nello studio del sociale. L’effetto non voluto di questi miei criteri di scelta è che [questo libro] favorisce idee sviluppatesi nella tradizione intellettuale prevalentemente tedesca, prestando un’attenzione relativamente minore a quella francese. I padri francesi della scienza sociale moderna hanno prestato scarsa attenzione alla peculiarità della realtà sociale in quanto condizionata dal carattere soggettivo dell’azione sociale, e per lo più non si sono interessati alla risultante complessità delle strategie di ricerca. Essi sono rimasti sorprendentemente impassibili di fronte alle penetranti analisi dell’ermeneutica filosofica; in effetti, si può constatare come lo sviluppo della sociologia francese, da Saint-Simon a Durkheim, Halbwachs o anche Mauss, ignori la presenza, oltre il Reno, d’interessi che i cultori della scienza sociale furono costretti

dalla tradizione ermeneutica a considerare come propri. Né Comte né Durkheim, e neppure il più notevole tra i loro eredi, si preoccuparono seriamente del pericolo della relatività nello studio del sociale; ancor meno furono inclini a sospettare che la relatività potesse essere un malanno cronico resistente ad ogni medicina conosciuta. Ritenendo che i fatti sociali siano «cose» come tutte le altre, cioè esistenti per proprio diritto come entità reali «esterne», al di fuori del campo dell’esperienza individuale, essi conclusero naturalmente, innanzitutto, che si possono studiare le realtà sociali senza guardare necessariamente ai processi della loro produzione sociale, e, in secondo luogo, che chiunque compia questo studio con un metodo appropriato e la dovuta diligenza arriverà certamente agli stessi risultati. È questo, dopo tutto, il modo in cui venne vista l’attività delle scienze naturali nel dicianovesimo secolo. Fedeli all’ininterrotta tradizione razionalista francese, esse considerarono la vera conoscenza come, soprattutto (se non esclusivamente), una questione di metodo e della sua sistematica applicazione. La ragione cognitiva e l’oggetto del suo attento esame non erano della stessa sostanza né obbedienti alle stesse leggi. Autonoma ed attenta solo alle regole della logica, la ragione (compresa la sua caratteristica sociologica) era ritenuta complessivamente immune dalle costrizioni storiche o di altro tipo (in effetti, dalla concretezza storica) tipiche del suo oggetto. La ragione, in altre parole, non faceva parte della realtà sociale che essa era propensa a studiare. Era precisamente questa la convinzione messa in discussione dalla tradizione intellettuale tedesca, in cui svolgevano un ruolo dominante riflessioni sull’attività e sui problemi dell’ermeneutica. Qui, l’interpretazione della realtà sociale giunse a rivelarsi come un discorso tra un’epoca storica ed un’altra, o tra una tradizione di basi comuni ed un’altra; anche uno studio «all’interno», immanente, della propria realtà sociale era considerato come un caso particolare dell’attività d’interpretazione legata alla tradizione. Per chiunque fosse interessato a raggiungere una conoscenza oggettivamente valida del sociale, il relativismo costituiva un pericolo reale, che non poteva essere schivato con il semplice abbandono di metodi errati o

assumendo un atteggiamento scettico nei confronti di ipotesi e «dimostrazioni» non controllate. Entrambi gli interlocutori del discorso chiamato «comprensione» o «intepretazione» erano storicamente specifici e legati alla tradizione, e lo studio del sociale poteva essere visto come un processo senza fine di rivalutazione e di ricapitolazione, piuttosto che un coraggioso passo dall’ignoranza alla verità. In una eccellente descrizione offerta da Isaiah Berlin, la Germania, durante l’epoca romantica, sosteneva che le forme umane di vita «potevano essere percepite, o intuite, o comprese da una specie di conoscenza diretta; esse non potevano essere smontate e poi riassemblate, neanche nel pensiero, come un meccanismo composto di parti separabili, obbedienti a leggi causali universali e immutabili». Grazie ad eventi particolari della loro storia, che risalivano almeno fino alla Riforma, i pensatori tedeschi dell’epoca «erano profondamente consapevoli delle differenze tra il loro mondo e l’universalismo e il razionalismo scientifico profondamente radicati nelle concezioni delle civiltà ad ovest del Reno» (Berlin, 1972, pp. ix-x). Si può dimostrare che alla disciplina finora tecnica dell’ermeneutica era stata data la sua nuova profondità filosofica e la sua importanza teoretica soprattutto dalla potente visione della filosofia di Hegel. Nessun sistema filosofico prima di Hegel era riuscito quasi a condensare la ragione ed il suo oggetto, la conoscenza e la storia, in un’unità monolitica; e a presentare la loro separazione ed opposizione come semplicemente un momento di sviluppo, destinato ad essere superato quando la storia fa il suo corso. Nella filosofia di Hegel, la coscienza di ogni epoca storica è uno stadio nel progresso della ragione che arriva a conoscersi ed a scoprirsi gradualmente come l’unica «essenza» dell’essere: «L’intero processo della Storia... è rivolto a rendere cosciente questo impulso inconscio». Attraverso le attività storiche dei popoli, la Ragione «si completa in una totalità che si autocomprende». Lo sforzo diretto all’auto-comprensione è, nello stesso tempo, il compimento della Ragione (Hegel, 1956, pp. 25, 78, 456-67). La storia e la sua comprensione diventano essenzialmente lo stesso processo; la comprensione del passato, lo sforzo di penetrare e cogliere il significato dei fatti umani è in se stesso storia. Agendo come un

protagonista di questa comprensione, lo storico è soggetto alla logica della storia. Egli non ha una base trascendente da cui contemplare il processo di cui è inevitabilmente una parte. Egli può vedere tutto ciò che è possibile vedere dalla sua posizione nel processo. Questa percezione ha avuto il suo riflesso nell’ermeneutica filosofica nel concetto di «circolo ermeneutico» [secondo il quale, come è noto, si devono capire le parti in base al tutto e il tutto partendo dalle singole parti, N.d.T. ]. Comprendere significa entrare in circoli di questo genere: più che in un avanzare su un’unica linea verso una conoscenza migliore e meno vulnerabile, esso consiste in una ricapitolazione e rivalutazione senza fine di memorie collettive, anche più ampie, ma sempre selettive. È difficile vedere in che modo una delle successive ricapitolazioni possa pretendere di essere finale e conclusiva; ancor più difficile sarebbe dare un fondamento ad una tale pretesa. Tale difficile situazione arrivò ad essere vista come specifica per lo studio del sociale, che prospetta per le scienze della «comprensione» problemi sconosciuti alla scienza che tende alla sola «spiegazione». Lo sviluppo delle idee ermeneutiche attraverso il diciannovesimo secolo raggiunse il culmine nell’opera di Wilhelm Dilthey, dove esse trovarono la loro più profonda e, in un certo senso, estrema espressione. Brillante filosofo ed eccellente storico, Dilthey si addentrò nella maniera più profonda possibile, a quanto sembrò, nel concetto della natura storica e legata alla tradizione della comprensione. Quando la sua profondissima analisi dell’attività della comprensione condusse Dilthey ad abbandonare le sue iniziali speranze di fornire alla storia un determinato insieme di rigide regole metodologiche capaci di generare la verità, l’intrinseca «inconcludenza» della comprensione sembrò essere conclusivamente dimostrata. Si doveva far fronte a questa sfida, oppure anche la scienza sociale avrebbe dovuto abbandonare la sua pretesa di arrivare a risultati scientifici. [Questo libro] rivolge il suo interesse alle principali strategie messe in atto da quanti hanno ammesso che la questione di una valida conoscenza del sociale non può essere risolta senza affrontare gli interrogativi sollevati dalla riflessione ermeneutica.

Partiremo dalla discussione delle strategie sviluppate da Marx, Weber e Mannheim. Malgrado tutte le notevoli differenze tra di loro, i tre grandi sociologi hanno in comune un’importante caratteristica: tutti e tre si sono mossi, complessivamente, nell’ambito del tema hegeliano della «storia che arriva a comprendere se stessa»; o, più semplicemente, della storia che porta a superare le condizioni nelle quali non una semplice interpretazione delle sue diverse manifestazioni, ma la vera interpretazione diventa possibile, o inevitabile. Tutti e tre hanno convenuto che queste condizioni non esistevano nel passato; ma tutti e tre hanno guardato con speranza al presente, o all’immediato futuro, per una situazione cognitiva qualitativamente differente, e nettamente migliore rispetto a tutte le passate posizioni vantaggiose dell’interpretazione. Tutti e tre sono arrivati alla convinzione che una vera conoscenza del sociale sia accessibile, nelle trasformazioni già avvenute, o in quelle imminenti, nel tessuto della società: essi hanno visto nella fusione tra comprensione e scienza un obiettivo verso il quale debbono muoversi sia la cognizione che il suo oggetto. Karl Marx tradusse la teoria hegeliana della storia e della conoscenza dal linguaggio filosofico in quello della sociologia. Questo era stato fatto già prima che Dilthey traesse complete conclusioni metodologiche dalla teoria hegeliana racchiusa solo nel discorso filosofico. Pur precedendo Dilthey cronologicamente, Marx fu quindi in anticipo rispetto a lui anche nel rendersi conto che il problema della vera comprensione di una storia che sia in se stessa storica può risolversi, semmai, come un problema sociologico: in quanto tale, proprio una trasformazione della comunità umana la rende suscettibile, e capace, di una comprensione oggettiva. Max Weber, diversamente da Karl Marx, si trovò di fronte all’opera di Dilthey, in cui la storicità della comprensione era stata completamente analizzata e presentata, di fatto, come il predicamento perpetuo degli studi umanistici. Weber dovette quindi affrontare direttamente la questione della natura scientifica della ricerca sociale come dipendente dalla plausibilità di una comprensione oggettiva di una realtà essenzialmente soggettiva. Pur trovandosi di fronte ad un

avversario relativamente nuovo e ad un nuovo compito, Weber poté tuttavia attingere alle scoperte di Marx e alla sua «traduzione sociologica». Fu proprio Weber a portare la teoria sociologica di Marx, sotto forma di discussione con lo storicismo hegeliano, in diretta pertinenza con il dibattito ermeneutico. Un importante principio saldamente fissato da Dilthey nella metodologia degli studi umanistici fu che una sostanziale «commensurabilità» delle due tradizioni che s’incontrano nell’atto di comprensione è una condizione necessaria per la validità dell’interpretazione. Conseguentemente, il compito di Weber fu quello di dimostrare che la nostra società (nella sua tendenza, se non ancora nella sua realtà) rende l’adempimento di questa condizione altamente plausibile. Per la prima volta nella storia il soggetto e l’oggetto della comprensione s’incontrano sul terreno della razionalità, questa importantissima caratteristica dell’attività di ricerca della verità che noi chiamiamo scienza. La conoscenza oggettiva è conoscenza razionale; è possibile, quindi, comprendere oggettivamente le azioni umane come esse sono, e, nella misura in cui esse sono osservabili, come azioni razionali. Ma l’azione razionale sta diventando la modalità dominante del comportamento nella società moderna. Quest’ultima affermazione, tuttavia, è stata rifiutata da Karl Mannheim. Nella sua analisi delle condizioni strutturali della conoscenza nella società moderna, la razionalità non è risultata come un modo di pensare che sia sul punto di dominare e di diventare universale. Al contrario, dopo aver individuato l’origine della divergenza tra significati nella sua fonte – cioè nello stesso fatto della struttura sociale, nella differenziazione delle posizioni nella società – Mannheim ha concluso che la parzialità, la distorsione e la contesa sono e rimarranno una caratteristica universale della consapevolezza sociale e contribuiranno al modo di comprendersi tra vari gruppi della società. La storia ha affrettato la possibilità di un consenso basato sulla verità non perché il comportamento in generale stia diventando più razionale, ma perché in seno alla struttura della società si è data vita ad un gruppo straordinario, quello degli intellettuali, che è determinato

per la sua collocazione strutturale a pensare ed agire razionalmente. Proprio questo gruppo può (o, piuttosto, è tenuto a) far confluire la comprensione nella scienza. Gli intellettuali debbono agire come una specie di messia collettivo, che porti la verità nella comprensione umana. Lo stesso ruolo, benché senza alcun riferimento ad una struttura sociale mutevole o, anzi, alla storia, è stato assegnato da Edmund Husserl all’attività dell’analisi filosofica. Husserl cercò di risolvere il problema della vera comprensione nel contesto della conoscenza umana in quanto tale, piuttosto che come una questione peculiare alla conoscenza del sociale. Husserl ebbe di mira l’inclusione della scienza nell’attività universale della comprensione, piuttosto che il contrario. Anziché mostrare in che modo la comprensione dell’azione umana possa raggiungere la precisione di una conoscenza scientifica, egli dimostrò che ogni conoscenza, compresa la scienza, è in ultima analisi fondata sull’attività della comprensione, dove è, o dovrebbe essere, basata la sua validità. In Husserl, il discorso ermeneutico incorpora il retaggio francesecartesiano del razionalismo. L’incontro ha conseguenze di grande portata: la speranza che i significati possano essere adeguatamente afferrati si vede risiedere ora nella possibilità di liberare il significato dal suo contesto legato alla tradizione, anziché incontrarlo qui, nel suo habitat «naturale». Una tradizione storicamente e strutturalmente determinata può produrre solo una comprensione intrinsecamente proteiforme e contingente. I significati possono essere afferrati nella loro verità apodittica, assoluta, solo al di fuori di quella tradizione, dove possono attecchire in un terreno sul quale la storia e le divisioni strutturali non hanno alcuna influenza. Husserl ipotizza un simile terreno nella «soggettività trascendentale», una specie di «comunità di significati» al di fuori della storia, che genera e mantiene i fenomeni nell’unico modo pertinente all’esistenza, cioè nel modo di «esser conosciuti». I veri significati possono essere intravisti solo se si ottiene l’accesso a questa «soggettività trascendentale», come svelati dall’esperienza di fenomeni spogliati della loro sembianza storicostrutturale.

[...] La sociologia di Talcott Parsons è un tentativo, applicando i precetti di Husserl, di raggiungere una comprensione dell’azione umana che sarà largamente independente dai contesti storicostrutturali del significato. Partendo dal fenomeno dell’azione sociale nel suo determinato stato di «essere conosciuta», Parsons procede con lo svelare le caratteristiche trascendentali, predicate in modo apodittico, dell’azione, tra le quali la presenza della società e di un sistema culturale. Con tutto il suo intrinseco significato pienamente svelato e formulato, l’azione sociale acquista una struttura «immanente» in cui il suo significato ha la sua base e può essere oggettivamente afferrato. Ammettendo che l’azione umana è un’entità significativa che deve essere compresa, si può ora procedere a studiarla oggettivamente, così come essa è, piuttosto che come le capita di essere in questo o quel contesto legato alla tradizione. Alcuni dei più importanti princìpi di Husserl, tuttavia, sono stati oggetto di obiezioni e di revisione da parte di Heidegger. Soprattutto, è stato messo in dubbio il presupposto fondamentale che significati, comprensione e interpretazione possano trovarsi in un universo differente dal «mondo vitale», dal mondo dell’esistenza. I significati si creano, e la comprensione si sollecita e realizza, non nell’atto di una pura contemplazione a-storica, che è sempre un’attività nell’ambito di una tradizione, ed un’attività che consiste nel ricapitolare questa tradizione. La verità, anche se non certamente dissolta in un semplice consenso comune, diventa ora una caratteristica di un’esistenzachesvela-se-stessa, piuttosto che una relazione tra l’esistenza e qualcosa (come una proposizione prodotta da un’attività separata della ragione) che si trovi al di fuori dell’esistenza. Il demone del relativismo è privato di gran parte del terrore che esso suscita, mostrando che il concetto di verità non può essere razionalmente basato al di fuori del contesto legato alla tradizione; quindi, il non riuscire a basarlo in questo modo non dovrebbe più tormentare la coscienza degli uomini di scienza. Schutz [Alfred, sociologo austriaco discepolo di Husserl, N.d.T. ] e l’etnometodologia sono oggetto di discussione [in questo libro] come esempi di una sociologia consapevole sul piano ermeneutico, che

opera all’interno della struttura heideggeriana del mondo vitale come fondamento ultimo, ed unico habitat , dei significati e dell’attività della comprensione. Qui la comunità di membri interagenti viene mostrata come un universo abbastanza valido, ed anzi l’unico universo che ne sia capace, da determinare, mantenere in vita e garantire l’interpretazione dei significati. In un certo senso, la ricerca di una risposta adeguata alla sfida dell’ermeneutica è arrivata al punto di partenza; l’etnometodologia ci fa tornare all’inizio, a renderci conto che ogni significato e comprensione sta essenzialmente «all’interno». La ricerca non si è fermata con l’avvento dell’etnometodologia ed è improbabile che voglia fermarsi. Il nostro resoconto non è risolutivo, poiché nessuna soluzione al problema suscitato dall’ermeneutica è finora riuscita a produrre un consenso, né è sfuggita a critiche mosse ai suoi particolari limiti.

Riferimenti bibliografici Berlin, I. (1972), “Foreword”, in Meinecke, F., Historicism , Routledge & Kegan Paul, London. Giddens, A. (1976), New Rules of Sociological Method , Hutchinson, London. Hegel, G. W. F. (1956), The Philosophy of History , trad. ingl. di J. Sibree, Dover, New York.

5.2 Teoria critica [Titolo originale: Critical Theory, 1991] Il progetto

La teoria critica non è, a rigore di termini, una teoria sociologica alternativa. È, piuttosto, un modo di teorizzare. La teoria critica non è costituita dalla sua opposizione a qualche altro insieme di affermazioni teoretiche, al quale, per amore di brevità, possa darsi un nome collettivo di teoria tradizionale , normale , o semplicemente non-critica . Essa è costituita, invece, dalla collocazione della teoria al centro dell’analisi, rifiutando di accettarne l’autorità senza alcuna prova, esigendo che le ragioni sulla base delle quali questa autorità viene proclamata vengano svelate, e, infine, ponendo in discussione queste ragioni. La teoria critica è una locuzione che indica l’attività attraverso la quale viene sgombrato un cantiere, e non una particolare costruzione. Si potrebbe (e dovrebbe) considerare importante la ricerca di teorie sociologiche alternative solo nella misura in cui, una volta portato a termine questo compito, si possa costruire una teoria sociologica autosufficiente, consapevole dei suoi princìpi e che basi la fiducia in se stessa sulla sua costante disponibilità a verificarli. La locuzione teoria critica equivale ad un’attività, piuttosto che ad un insieme di conoscenze. Per tale motivo essa è potenzialmente fuorviante, poiché potrebbe far pensare che la teoria critica sia qualcosa che non è, e non potrebbe cercare di essere senza violare la sua stessa identità e tradire i suoi stessi princìpi: un modello del mondo che neghi altri modelli e, per lo stesso motivo, ne condivida i sostanziali interessi. La teoria critica non è in opposizione ad una teoria del mondo in particolare; essa è in opposizione al rifiuto, da parte di una teoria autonoma, di verificare i propri princìpi. Per tale motivo essa si oppone, indirettamente, ad ogni teoria che renda la pretesa della propria validità dipendente dall’occultamento delle proprie ragioni. Vi sono molti inespressi presupposti della conoscenza che la teoria critica costringe a venire allo scoperto e formula come argomenti d’analisi, sospendendo l’accettazione di qualsiasi teoria sia basata su di essi fino a quando questi presupposti siano messi chiaramente in luce. Innanzitutto e soprattutto, la critica è un insieme di supposizioni che fanno riferimento allo status della teoria in generale, ed al suo rapporto con il suo oggetto in particolare. Più precisamente, la critica

getta i raggi della sua luce sulla stessa separazione tra la teoria ed il suo oggetto. Si suppone che la conoscenza sia conoscenza di fatti; che, in altre parole, vi sia una sfera di fatti ostinati, irriducibili, nei quali la teoria cerca di penetrare per afferrarli, farli propri, trattarli, conoscerne la forma, il colore, l’odore, e per ricostituirli più tardi in un resoconto verbale. «Mettiamo innanzitutto i fatti in chiaro». La teoria è uno straniero, un visitatore nel mondo dei fatti: un osservatore la cui prudenza consiste nel rispettare le consuetudini locali, nel far scomparire i suoi tratti distintivi, nell’aggiustare tutto ciò che è fuori di luogo nel suo comportamento. La teoria adempierà alla sua vocazione solo se rispetta i fatti. Essa ha, dopo tutto, poca scelta: nell’incontro tra la ragione teorizzante ed i fatti, solo la prima è impressionabile, vulnerabile, e quindi flessibile. Per quanto riguarda i fatti, essi sono difficilmente toccati dalla visita dello straniero; ancor meno probabile è che essi vengano impressionati dal giudizio che il visitatore potrebbe desiderare di pronunciare. In tale prospettiva, la costruzione della conoscenza si verifica nell’incontro tra ragione inquisitiva e fatti ignari della sua presenza. I fatti si occupano delle loro faccende quotidiane ignari della curiosità di un qualsiasi guardone. Attenta a non disturbarne il comportamento naturale, la ragione spende le sue forze nel tenere i suoi energici impulsi sotto controllo. L’attività specifica della ragione consiste nella sua raggiunta passività; la misura del suo successo è la fedeltà con cui registra i fatti così come sono per poterli successivamente riflettere, emulare e riprodurre nella teoria. L’ingenuità di quest’idea della mente come una superficie coperta di una materia soffice in cui gli oggetti lasciano la loro esatta impronta in modo tale che più tardi se ne possano trarre repliche verbali, fu illustrata per la prima volta due secoli fa. Immanuel Kant, filosofo tedesco della fine del diciottesimo secolo spesso definito come il primo teorico della critica, rappresentò la conoscenza come opera creativa della ragione. Nell’incontro tra ragione e realtà, i fatti non vengono trovati o scoperti, ma prodotti. Più precisamente, ciò che viene prodotto sono i fatti della conoscenza, in quanto distinti dai fatti della realtà. Questi ultimi possono essere solo congetturati. A tutti gli

effetti, la loro presenza è semplicemente ipotizzata; noi non ci accosteremo mai ad essi direttamente, e così non ci convinceremo mai pienamente della loro esistenza. Ciò di cui possiamo essere sicuri è ciò che conosciamo; ma ciò che conosciamo è la nostra conoscenza. Ciò che è per noi evidente in modo assolutamente certo è ciò che è stato già elaborato dall’attività della conoscenza: cioè i fatti della conoscenza. Ne segue che nel sorgere della conoscenza il ruolo della mente è lungi dall’essere passivo. Esso è, al contrario, attivo e fondamentale. Qualunque cosa la realtà possa essere in se stessa, in quanto oggetto di teoria è costituita dall’opera della ragione. La nostra conoscenza è quindi un prodotto combinato dell’oggetto e del soggetto, della realtà esterna (world ) e della ragione, di cose al di fuori e dell’attività organizzatrice, ordinatrice, interpretativa della mente. La critica di Kant all’ingenuo modello della ragione passiva, di cui abbiamo presentato sopra solo un’essenziale raffigurazione concettuale, diede origine ad una lunga catena di ricerche sul ruolo della ragione nella produzione della conoscenza. La raffigurazione concettuale di Kant determinò il tema e stabilì i confini della ricerca. Questa è stata rivolta a scoprire l’esatta natura ed il grado d’influenza esercitata dalla ragione sul processo e sui risultati della conoscenza. È stato accettato che i fatti non esistono in se stessi; se esistono, o nella misura in cui esistono, non sono accessibili alla conoscenza; i fatti che sono così accessibili non sono stabiliti all’inizio della ricerca, realizzati in anticipo; essi sono prodotti, non i materiali grezzi della teoria. Nel modello post-kantiano della conoscenza, i fatti sono stati mutati da input («immissione») ad output («risultato») della conoscenza stessa. L’attenzione della ricerca filosofica è stata accentrata, conseguentemente, sul through-put («materiale di lavorazione»), su ciò che viene fatto alla porzione di realtà, soggetta al processo cognitivo, da parte della mente che prende conoscenza. L’epistemologia, la teoria della conoscenza, è stata separata dall’ontologia, la teoria dell’essere in quanto tale. Essa è divenuta ormai, principalmente, un’esplorazione dell’attività del soggetto. Vari aspetti di questa attività sono stati individuati come decisivi per la forma della conoscenza. Si è rilevato che gli interessi cognitivi del soggetto sono selettivi, che ogni sforzo

cognitivo consiste in una differenziale assegnazione di pertinenza a vari elementi della realtà studiata, nel rendere più netta la percezione di alcuni elementi, impedendo nello stesso tempo all’osservatore di scorgerne altri. È stato rilevato che l’esercizio previo del soggetto ha come risultato una struttura cognitiva che predispone i dati dell’esperienza; la loro disposizione, quindi, non è ricavabile dagli stessi dati, ma senza una struttura non sarebbe possibile una qualsiasi disposizione (e, quindi, neppure una cognizione che abbia come risultato la conoscenza). È stato rilevato, più in generale, che, a meno che non sia messa in relazione dalla teoria con altri dati, e legata ad essi in una totalità ordinata, l’esperienza non ha alcun significato, un modo alternativo di dire che nessun ordine può essere percepito nei dati dell’esperienza a meno che non siano forniti dalla teoria. Anche quando, per rimanere fedeli a Kant, il ruolo intermedio del soggetto venne concepito come indispensabile ed inamovibile, esso fu percepito, in maniera più implicita che aperta, come irritante. Il persistente disagio trovò la sua espressione più spettacolare in quelle varianti della sociologia della conoscenza che vedevano nella struttura cognitiva l’influsso dannoso, travisante, del pregiudizio, del preconcetto, o dell’ideologia, e si accingevano ad esaminare le condizioni per una loro eliminazione. Nella filosofia vera e propria il sogno di ritrovare la strada verso le cose in se stesse sopravvisse a tutte le successive raffinatezze della critica kantiana. Poiché un ritorno all’ingenuo sensualismo pre-kantiano non era più un’opzione realistica, la speranza, come nella fenomenologia di Edmund Husserl, venne ora riposta nell’altro lato della critica : forse le cose in se stesse possono essere recuperate dall’interno del soggetto, se solo si allontana ogni preoccupazione sulla realtà al di fuori della coscienza e si prendono le cose per quello che esse realisticamente sono: significati intenzionali prodotti dall’attività del soggetto trascendentale . I non convinti giustamente rilevavano che Husserl eludeva il problema, anziché risolverlo. Che il ruolo della teoria venga visto come neutrale, tecnico, oppure di parte ed effettivo, la critica post-kantiana condivide, insieme all’ingenua immagine della realtà impressa nel soffice tessuto

della mente, la raffigurazione della conoscenza come un processo in cui il soggetto cattura il suo oggetto; e la concezione secondo cui il problema di perfezionare la conoscenza sia limitato ad una strategia tesa a rendere la comprensione (grasp ) sicura e ciò che viene compreso (grasped ) attendibile. In questo senso la teoria critica va oltre la critica kantiana della ragione. La teoria critica non discorda, essenzialmente, da ciò che dice la critica post-kantiana della conoscenza; le sue riserve sono dirette a ciò che la critica della conoscenza non dice, a ciò che essa non riesce a notare, a ciò che essa dichiara espressamente al di fuori della sua preoccupazione. La critica postkantiana era preoccupata esclusivamente di una tale distorsione, o azione formativa, così come può essere, o deve essere, compiuta all’interno dell’atto della conoscenza da parte del soggetto conoscente, mosso soltanto dal suo forte desiderio di comprendere l’oggetto che egli concepisce come completo in se stesso, come qualcosa che ha acquisito la propria identità prima (before ) che venga al centro della sua conoscenza. Ma la critica post-kantiana ha ritenuto, tutto sommato, che l’epistemologia, la teoria della conoscenza, non debba occuparsi di questa nel tempo prima (before ); che qualunque cosa possa essere accaduto durante questo «prima» non ha importanza per qualsiasi cosa l’epistemologia voglia proporre; che, in altre parole, il problema della relazione tra la ragione e la realtà esterna può tradursi nel problema della relazione soggetto-oggetto nell’atto della conoscenza. Conseguentemente, il grado di adeguatezza, razionalità, verità, ecc., della conoscenza può essere completamente misurato dall’analisi dell’atto cognitivo. Proprio a questo auto-limitarsi, al ridursi dell’idea di produzione-dellaconoscenza al processo cognitivo, si oppone la teoria critica. In modo grossolanamente approssimativo potremmo dire che se la teoria critica è schierata con la critica post-kantiana nel sottolineare il ruolo attivo del soggetto conoscente nel produrre i fatti della conoscenza nel corso del suo incontro con la realtà, essa insiste anche che la realtà stessa, ritenuta completa sin dall’inizio della conoscenza, è venuta in essere con l’attiva partecipazione della ragione. Quindi, l’analisi della relazione teoria-oggetto dovrebbe andare oltre l’atto in

cui la teoria cerca di recuperare la realtà alla cui produzione essa ha preso parte. Adeguatezza, razionalità, verità, ecc., della teoria dipenderebbero non soltanto dal successo dello sforzo di recuperare; dipenderanno anche, e forse in misura maggiore, dal modo in cui gli oggetti recuperati sono stati innanzitutto costruiti. Una teoria che afferri o rifletta adeguatamente una realtà insufficientemente costruita rimarrà una teoria insufficiente. Qualunque cosa sia accaduta prima dell’atto della conoscenza non è, dunque, un argomento diverso per quanto riguarda l’epistemologia. Deve esserne, invece, parte e porzione. Ciò appartiene organicamente ed ineluttabilmente ad un’analisi che tenda a scoprire le condizioni e le regole che presiedono alla produzione di una conoscenza adeguata. Il problema della relazione tra la ragione e la realtà è, conseguentemente, trasformato dalla teoria critica non in una questione che riguardi la conoscenza di soggetto e oggetto, ma in una questione di teoria e pratica . Teoria e pratica s’incontrano nell’atto della conoscenza, quando la teoria cerca di spiegare e d’interpretare la pratica, di chiarirne il senso; ma esse s’incontrano anche nel processo produttivo, quando la pratica, avvicinandosi al soggetto conoscente, viene messa in essere e trasformata in un oggetto potenziale della conoscenza. In altre parole, la teoria non solo produce, ma anche riproduce (intellettualmente) la pratica. Prima che la teoria possa errare nell’atto di riproduzione, essa potrebbe essere stata già accusata di una colpa anche più grave: quella di produrre una pratica errata. In tal caso, nessuno strumento cognitivo, sia pure eccellente, potrà porre rimedio alle conseguenze. La teoria critica sposta l’accento epistemologico dall’atto cognitivo alla produzione sociale della realtà conosciuta. Essa ammette l’eventualità che la stessa realtà, non solo il suo riflesso nella teoria, possa essere non vera. Ciò può accadere quando una teoria errata viene applicata alla sua costruzione. Una teoria la quale sostenga che la sua verifica deve essere limitata alla struttura della conoscenza può quindi, contro le sue intenzioni, perpetuare ed aggravare l’errore. Essa può farlo semplicemente innalzando la realtà così come allo status di autorità suprema alla quale ogni conoscenza deve sottomettersi, e che

la teoria non ha strumenti per valutare. La realtà, come la natura, non sarebbe allora né vera né falsa, né giusta né errata, né buona né cattiva. Se la realtà che la teoria cerca di recuperare viene riconosciuta, comunque, come pratica, diventa facilmente dimostrabile l’insostenibilità dell’ultima posizione, e si riapre la strada alla critica teoretica di tale realtà. Si può vedere, allora, che ogni forma assunta dalla pratica-realtà nella sua storia reca un’impronta cumulativa di precedenti pratiche guidate da passate teorie. Queste pratiche e teorie, come tutte le pratiche e teorie, sono state selettive; esse hanno realizzato alcune possibilità, trascurandone, e spesso reprimendone, altre. Esse hanno prodotto come risultato una realtà unilaterale, mutilata, in cui non sono facilmente visibili opzioni alternative. È una realtà che nasconde non meno di quanto rivela. È un monumento vivente ad una pratica storica limitata, che ha ereditato in pieno tutti i suoi errori. Essa ha già forgiato il potenziale umano. Considerarla come criterio ultimo di verità equivarrebbe ad accettare monete false come moneta corrente. Diversamente da altre teorie, la teoria critica non si accontenterà, quindi, di una riproduzione fedele, sia pure in maniera ottimale, della realtà «così com’è». Essa tornerà a chiedere: «Come è avvenuta questa realtà?». E chiederà che la sua storia sia oggetto di ricerca, e che nel corso di questa ricerca storica si recuperino speranze dimenticate e possibilità perdute del passato. [...]

Concetti fondamentali La teoria critica si segnala per la sua tendenza a conferire valore culturale all’interpretazione del mondo umano. Essa considera importante il non dare per scontata l’autorità della natura. Parafrasando il famoso principio giuridico, per la teoria critica un aspetto dell’esistenza umana è culturale a meno che non si dimostri naturale. La teoria culturale accetta come sua costante ipotesi operativa che persino le necessità più ostinate possano essere senz’altro dei prodotti di scelte culturali storicamente fatte, che è

possibile mettere in discussione. Se l’ipotesi è vera, allora la spiegazione dell’essenza culturale degli aspetti apparentemente naturali della difficile situazione umana è un compito importante ed urgente, poiché l’imposizione del modo naturale può essere in se stessa un fattore cruciale nel celare e sopprimere le possibilità di una società migliore. In effetti, tra il modo naturale della conoscenza e la situazione sociale di apparenza naturale c’è un’interazione dialettica di aspetto circolare. L’applicazione del modo naturale è indolore e non viene messa in discussione fino a quando il comportamento del suo oggetto manifesta ripetitività e regolarità. Nel caso degli oggetti umani, una tale regolarità può essere raggiunta solo attraverso un’efficace repressione di un gran numero di alternative. Questa repressione, a sua volta, più spesso che no, include il ricorso alla coercizione, fisica o mentale. Comporta molta sofferenza il soffocare l’inclinazione intrinsecamente ostinata dell’attività umana. Come si è espresso con notevole forza Barrington Moore: La convinzione dell’inerzia, cioè che la continuità culturale e quella sociale non hanno bisogno di spiegazione, dimentica il fatto che entrambe debbono essere ricreate di nuovo in ogni generazione, spesso con grande dolore e sofferenza. Per mantenere e trasmettere un sistema di valori, gli esseri umani vengono picchiati, tiranneggiati, mandati in prigione, gettati in campi di concentramento, blanditi, corrotti, trasformati in eroi, incoraggiati a leggere i giornali, messi al muro e fucilati, e talvolta si arriva persino ad insegnare loro sociologia...

Come regola basata sull’esperienza pratica, possiamo dire che con la crescita del volume o dell’efficacia della coercizione cresce anche la plausibilità del modo naturale. La consueta monotonia di comportamento viene sempre imposta. Essa richiede una energica e continua repressione delle risposte alternative a situazioni ambientali ripetitive. Fino a quando la repressione rimane efficace, il comportamento dei suoi oggetti è davvero sorprendentemente regolare e, in quanto tale, può essere calcolato e previsto con trascurabili margini d’errore. Esso è straordinariamente simile al comportamento della natura non umana. La sua interpretazione modo naturae conserva, quindi, la sua credibilità. Abbiamo pochi motivi di dubitare, per esempio, che gli schiavi efficacemente addomesticati

siano più animali che umani, spinti come sono da pressioni esterne, alle quali reagiscono in maniera noiosamente prevedibile. Crediamo facilmente che gli indigenti relegati negli ospizi per poveri siano mossi unicamente da leggi di natura, e così potrebbero – e dovrebbero – essere spinti nel giusto comportamento attraverso la semplice manipolazione delle condizioni esteriori. Possiamo credere, almeno per un momento, che gli spaventati, disorientati lavoratori emigranti che si aggrappano in maniera convulsa alla loro fragile possibilità di sopravvivenza siano del tutto creature della natura, che reagiscono in maniera non intelligente e come automi agli impulsi visivi ed acustici abilmente azionati da coloro che li comandano. Possiamo credere, fino a quando le donne acconsentono docilmente alla loro relegazione nel confortevole piccolo mondo della cucina e della camera da letto, che esse siano in qualche modo più vicine alla natura e meno artificiali, che il loro io naturale si avvicini di più all’apparenza e sia più difficile da addomesticare o nascondere. La credibilità delle interpretazioni secondo il modo della natura è, quindi, un risultato di una riuscita oppressione. Ma una volta stabilita e fatta propria l’immaginazione umana, queste interpretazioni si trasformano in potenti fattori di riproduzione e perpetuazione dell’oppressione che le ha rese possibili. Più precisamente, esse diventano un importante ostacolo che impedisce di smascherare la regolarità empiricamente osservata come oppressione. Fino a quando queste interpretazioni rimangono in vigore, la semplice ripetitività del comportamento degli oggetti oppressi nasconde efficacemente le determinanti oppressive della realtà, anziché indicarne la presenza. La validità delle interpretazioni secondo il modo della natura deve, quindi, essere sfidata ed invitata a provare le proprie ragioni nei confronti dell’umanità dei suoi oggetti prima che l’oppressione, che ne è nello stesso tempo causa ed effetto, possa essere scalzata. Essa deve essere sfidata, conseguentemente, prima che le sorgenti empiriche della sua legittimazione si prosciughino. La sfida riuscita all’interpretazione secondo il modo della natura è una condizione necessaria del successo nella lotta contro l’oppressione che si trova alle sue fondamenta. Il rivelarsi pratico del

potenziale umano represso dipende, quindi, dal riscatto intellettuale delle radici culturali della condizione umana. La teoria, quindi, è una faccenda seria. Essa rivela proprio come sia seria una volta che rifiuti di seguire servilmente il prodotto pietrificato della sua attività passata; qualora rivendichi, cioè, la sua priorità sulla pratica, la sua capacità di dissolvere l’ossatura apparentemente dura e indomabile che ha stabilito i limiti della libertà pratica. La teoria diventa un solvente così efficace delle costrizioni d’aspetto naturale quando costruisce la sua strategia sul presupposto che, a meno che non si dimostri falsa, l’ipotesi che la condizione umana sia culturalmente fatta e possa essere culturalmente disfatta deve essere ritenuta per vera. La validità di un tale modo culturale d’interpretazione può essere confermata solo se si dimostra che la parte di realtà umana che ne è l’oggetto deve la sua materialità , il suo carattere apparentemente necessario, all’energica soppressione della sfida raziocinativa. In pratica, essa può essere confermata solo negativamente, cioè se viene avviato il discorso sui fondamenti normativi della realtà e se esso riesce infine a cambiare l’aspetto della realtà. Ogni realtà, quali che ne siano i fondamenti, viene percepita come realtà nella misura in cui viene sperimentata come costrizione. Viene chiamata realtà qualsiasi cosa si riveli come un ostacolo alla propria volontà. La scoperta della realtà è impensabile se prima non si stabiliscono i fini della propria azione e poi si agisce per raggiungerli, come ebbe a rilevare il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer un secolo e mezzo fa: definendosi come Io desidero , gli esseri umani scoprono la realtà oggettiva : un’espressione che essi coniano per indicare una resistenza alla loro volontà. Se prima non c’è il desiderare, l’impatto costrittivo della realtà può anche passare inosservato e riuscire a sottrarsi alla sfida. Se il desiderare viene soppresso, la realtà diventa invisibile. Il richiamare al realismo – invitare a mirare in basso, a non combattere battaglie difficili o incerte, a non sognare luoghi immaginari (e quindi lontani) – è nelle sue conseguenze pratiche, anche se non nelle sue intenzioni, una difesa dalle attuali costrizioni deproblematizzandole e impedendo loro di trasformarsi in argomenti di discussione. L’influenza della realtà è inversamente rapportata alla sua visibilità. Quanto meno visibili sono

queste costrizioni, tanto più esse diventano potenti, durature, immutabili ed effettive. Per allentare la morsa delle costrizioni è necessaria, quindi, una duplice strategia. Innanzitutto, le speranze una volta messe in dubbio dal fallimento, e conseguentemente lasciate cadere nel disprezzo come utopie, debbono essere riscattate e ricevere per lo meno un credito provvisorio. Se vengono alimentate nelle pratiche umane, esse portano chi agisce a confrontarsi con la resistenza della realtà e a smascherarne l’esatta natura come costrizione. In secondo luogo, qualora ciò accada, la persistente resistenza della realtà non deve essere interpretata come una prova definitiva che il suo stato presente non possa essere trasformato. Rimane ancora il compito di verificare se il fallimento nel superare le costrizioni derivi da caratteristiche invariabili dell’azione umana che non si offrano ad una rinegoziazione raziocinativa, o se esso sia stato temporaneamente causato dalle persistenti relazioni di potere e dominio che si nascondono dietro le forme non ancora problematizzate dell’oppressione. Il fallimento è, quindi, un invito ad ulteriori verifiche e ad estendere l’analisi in aree rimaste finora coperte. Questa è, a grandi linee, la posizione assunta dalla teoria critica. La sua strategia viene spesso condensata nel postulato dell’autoriflessione . In effetti, l’auto-riflessione è un fattore indispensabile e cruciale nella rivelazione di strutture che debbono la loro forza all’occultamento della loro presenza, e nella risultante polverizzazione di realtà a quanto si dice solide. Quando è ridotta all’auto-riflessione, tuttavia, la teoria critica risulta insufficientemente formulata. Essa è allora indistinguibile da un gran numero di teorie per lo più filosofiche che puntano egualmente sull’auto-riflessione come efficace solvente delle realtà asserite. In particolare, la teoria critica deve essere distinta dalle correnti fenomenologiche ed esistenzialiste presenti nella filosofia moderna, delle quali essa condivide una quantità di enunciati e strategie e con le quali, per questa ragione, viene spesso confusa. La fenomenologia vede nell’auto-riflessione la strada maestra per arrivare alla purificazione della verità dalle sedimentazioni di pratiche mistificanti.

Essa sostiene una catena di riduzioni trascendentali , che consistono nel mettere tra parentesi o sospendere presupposti di senso comune sull’esistenza di cose, di qualunque cosa che sia storicamente e culturalmente contingente, e di tutti gli altri elementi estrinseci che contaminano la realtà soggettiva di una persona reale, empirica. La fenomenologia spera che, così facendo, la persona empirica possa scavare fin nel regno solitamente nascosto della soggettività trascendentale : soggettività che non è di alcuno in particolare, ma è davvero universale ed immune dalle stranezze della storia o da capricci culturali. La versione fenomenologica dell’auto-riflessione è, quindi, un programma di auto-trascendenza raggiungibile attraverso l’analisi filosofica. In quest’ultima versione, essa rappresenta una ricetta per la meditazione individuale. Essa non include accordi per qualsiasi altra attività, se non per l’attività del pensiero. Ed invece invita ad un deciso sganciamento dalla realtà. L’emancipazione che essa offre è una liberazione dalla realtà, piuttosto che un liberarsi di essa. La teoria critica dubita che i due compiti possano essere separati; che uno possa essere portato a termine trascurando l’altro. Per quanto profondamente gli esseri umani possano scendere nel loro sforzo di raggiungere le pure essenze sospese nel vuoto asettico della soggettività trascendentale, essi troveranno sempre, alla fine, il loro «io» socialmente prodotto. Al di là del sociale, c’è solo l’inesistenza; con il sociale pensato in disparte (thought away ), non c’è pensiero. Il tentativo d’emancipazione deve, quindi, impegnare l’essenza sociale dell’esistenza umana, e questo significa venire alle prese con la rete dell’interazione umana in cui verità e falsità vengono prodotte e riprodotte in modo comunicativo. Recuperare la verità significa indebolire i fondamenti sociali della repressione del potenziale umano, e questo richiede sia la teoria che la pratica, l’opera rivolta a ristrutturare la condizione della comunicazione interumana. La strada che conduce alla verità non passa attraverso un’ulteriore soppressione, ma attraverso il dissolvimento di un interesse attivo al proprio mondo vitale. Il progetto d’emancipazione offerto dalla filosofia esistenzialista va forse ancora più lontano, verso una formulazione della libertà come

questione di auto-riscatto individuale. Esso si riduce, complessivamente, alla trasformazione dell’in se stessa (un’esistenza oggettivata, definita per me dall’esterno, un’esistenza in cui io sono stato gettato, in cui io sono uno sul quale si agisce, al quale si guarda, al quale si dice cosa fare, e che viene giudicato) nel per se stessa (la soggettività ripristinata, la mia vita nuovamente controllata da me, subordinata al progetto che io ho ponderato e scelto). Negli scritti dei più eminenti rappresentanti della corrente esistenzialista nella filosofia, Martin Heidegger e Jean Paul Sartre, questa trasformazione viene presentata come un’operazione che si compie da soli. In effetti, essa può essere compiuta soltanto da soli o non si compie affatto. Difficilmente si potrebbe pensare a condizioni esterne, sociali, particolarmente propizie al compito. In realtà, il successo dell’autoriscatto viene misurato dalla misura in cui qualsiasi condizione esterna, sociale, sia stata resa irrilevante. Poiché il successo non dipende dalla struttura della realtà esterna, non importa quale sia il contenuto del progetto d’emancipazione. Ogni progetto andrà bene, purché sia liberamente scelto e vi si aderisca senza compromessi. Il lato critico dell’esistenzialismo è rivolta verso l’interno; il suo messaggio morale si riduce all’intensa preoccupazione della propria autonomia, associata alla mancanza di fiducia nella possibilità di progettare una realtà che offra condizioni più congeniali per persone autonome. L’esistenzialismo, come ultima risorsa, cede la realtà lì fuori al modo naturale, limitando il modo culturale ad un’operazione intellettuale in cui, nel mezzo di una realtà essenzialmente estranea, l’io dovrebbe impegnarsi. Di nuovo, la teoria critica mette in dubbio l’applicabilità del programma esistenzialista e ne rifiuta la ritirata disfattista nel proprio io. La teoria critica fa rilevare che è questione delle condizioni socio-culturalmente prodotte se l’autonomia individuale sia da identificarsi come oggetto d’emancipazione; ed è questione di tali condizioni se l’emancipazione, comunque si definisca, sia più facile o più difficile da raggiungere. Ci aspetteremmo che l’ideale del viver bene (good life ) che fornisce un programma per il miglioramento tenesse raramente conto della totalità delle possibilità umane. Più spesso che no, questa immagine viene imposta come,

simultaneamente, il risultato ed un fattore della dominazione e repressione. Il modello di miglioramento può crescere oltre la sua forma normalmente menomata, mutilata, solo se si trascende la situazione repressiva. Ciò, a sua volta, come ricordiamo, dipende dal progresso fatto dal riscatto raziocinativo dell’aspetto represso della potenzialità umana: un processo sociale, interattivo, per definizione. Il carattere sociale del processo assicura il carattere sostanziale del modello d’emancipazione che finirà con l’emergere. Proprio il trascurare la forza corroborante dell’interazione non ha lasciato all’esistenzialismo altra scelta che quella di un’ingiunzione morale puramente formale. L’auto-riflessione della teoria critica differisce, quindi, da concetti simili sviluppati dalla fenomenologia e dall’esistenzialismo nel fatto che essa indica una pratica collettiva, interattiva e comunicativa. Essa basa la sua speranza nell’efficacia dell’auto-riflessione, non sulla bravura intellettuale dell’individuo, ma sulla capacità produttiva della realtà di una pratica collettiva cosciente di sé. Tale capacità si trasforma in una forza morale una volta che questa pratica raggiunge il grado di autoconsapevolezza che le dà una completa padronanza sulla situazione, sulle possibilità che questa contiene, e sulle decisioni prese sulla base del loro esame. La teoria critica vede se stessa come un importante elemento costitutivo di tale autoconsapevolezza della pratica d’emancipazione. Come ebbe a dichiarare uno dei fondatori della teoria critica, Max Horkheimer, nel suo famoso confronto tra la teoria tradizionale e quella critica, «l’oggetto di cui si occupa lo scienziato specialista non è toccato affatto dalla sua propria teoria. Soggetto ed oggetto sono tenuti rigorosamente separati... Un atteggiamento consapevolmente critico, tuttavia, è parte dello sviluppo della società». L’atteggiamento critico è una tale parte poiché penetra in aree normalmente difese dalla barriera protettiva del silenzio. Esso mette in discussione le ragioni dell’abituale riconoscimento di necessità ed impossibilità e, trasformando premesse solitamente tacite e non controllate nel tema del discorso, apre nuove alternative, precedentemente non considerate. Questo moltiplicarsi di possibilità ha un significato liberatorio. Il suo effetto è l’accrescimento

della libertà. Il più pieno chiarimento del significato autentico della tradizione, il rinascere delle sue speranze, ed il mantenere vive le sue promesse, sono altrettanti fattori che rendono il futuro forse meno certo, ma più disponibile per la libertà. La rivelazione dei rapporti di dominio che si nascondono dietro la naturalità della realtà sociale e l’elogio per l’adattamento al necessario rappresentano in se stessi un forte passo in avanti verso la realizzazione di una storia cosciente di sé. La teoria critica non è semplicemente un’altra accusa morale contro una realtà oppressiva. Dopo tutto, la notevole capacità di recupero di una realtà sociale non è basata su un’auto-glorificazione morale. Gli uomini si assoggettano ad una dominazione perché innanzitutto credono nel potere incontrollabile e inattaccabile dei fatti e perché cercano di essere razionali e tendono a obiettivi realistici , non perché accettino necessariamente la superiorità e le più alte virtù intellettuali o morali dei loro superiori. Ciò è stato particolarmente vero durante il lungo periodo del capitalismo di mercato, in cui i risultati del lavoro umano si sono solidificati in una rete di necessità economiche apparentemente naturali , capaci d’imporre il necessario modello di comportamento senza ricorrere ad una legittimazione ideologica, con la semplice pressione di una realtà che offriva sopravvivenza solo in cambio di sottomissione alle regole del gioco. In queste condizioni, l’emancipazione non è una questione di battaglia morale o di lotta tra ideologie. È, piuttosto, una questione di studio accurato del processo normalmente esente da analisi: il processo attraverso il quale la realtà che pretende rispetto viene prodotta e riprodotta. Per lo stesso motivo, il processo altrimenti inconscio diventa un oggetto potenziale di cosciente controllo. La teoria critica, per citare nuovamente Horkheimer, «ritiene che la struttura generale che è condizionata dalla cieca interazione tra attività individuali... sia una finzione che ha origine nell’azione umana e quindi sia un possibile oggetto di scelta intenzionale e determinazione razionale di obiettivi». La teoria critica non è un sistema etico, un’ideologia, una filosofia della natura umana, o una piattaforma per un’azione politica. È, invece, un programma di serio studio della società. Non intende offrire consigli per quanto riguarda la sostanza di decisioni che i

protagonisti della storia dovrebbero prendere, a parte la sua convinzione che uno studio approfondito non ostacolato delle ragioni della situazione in cui si svolge l’azione storica può rendere tutte le decisioni storiche più consapevoli che in passato. Un chiarimento delle ragioni intellettuali e situazionali dell’azione storica, che renda queste ragioni un tema di studio e dibattito, anziché prenderle per scontate o ridurle al silenzio, è una condizione necessaria della storia cosciente di sé.

Questa non ne è, tuttavia, una condizione sufficiente. Possiamo ragionevolmente aspettarci che la semplice disponibilità di un tale chiarimento accrescerà il controllo degli uomini sulla loro storia? Che li farà avanzare sulla strada verso ciò che essi decidono sia simile alla propria idea di vita buona? Possiamo sperare, seguendo i filosofi illuministi del diciottesimo secolo, che il potere della ragione e della discussione si dimostrerà più forte dei poteri radicati basati sul controllo dei mezzi di sopravvivenza e di appagamento della vita? Una volta poste, queste domande rivelano subito i punti vulnerabili del progetto della teoria critica. Domande di questo genere possono essere rivolte ad ogni teoria che offra un’interpretazione della condizione umana; ma mentre altre teorie possono ignorarle e continuare imperturbate nelle proprie faccende, la teoria critica deve prenderle seriamente, perché essa non conosce altro criterio della propria validità se non la trasformazione pratica del processo storico. Moltissimi scrittori nell’orbita della teoria critica hanno percepito, e l’hanno reso esplicito, che l’oppressione fisica e quella economica non sono le sole forze potenti che ostacolino la via dell’emancipazione. Forse ancor più spiacevole è la probabilità che quanti sono destinati a guadagnare di più dall’avanzamento della teoria critica saranno riluttanti ad accettarne le conclusioni. La teoria critica relativizza, per così dire, ciò che sembra essere assoluto, polverizza i solidi contorni della realtà, trasforma le certezze in un puro gioco del caso, priva le pressioni esterne della loro autorità e le mette alla portata del controllo umano. Ciò ha tre conseguenze, ciascuna con probabilità di causare risentimento e nessuna sperimentata come psicologicamente piacevole e soddisfacente. Innanzitutto, come Theodor W. Adorno e Max Horkheimer hanno segnalato nel loro

studio sulla Dialettica dell’illuminismo , la tradizione culturale dell’Europa occidentale che guadagnò autorità nel diciottesimo secolo instillò nell’indole psichica degli uomini occidentali una paura costante dell’ignoto: Adorno e Horkheimer hanno definito l’Illuminismo come «paura mitica diventata radicale», poiché questa paura emana dalla «semplice idea di esteriorità (outsidedness )». Proprio come i miti pre-illuministi mirarono a comporre l’inanimato con l’animato, l’Illuminismo tentò, con successo, il contrario. Il risultato fu una cultura del tabù universale , in cui tutto ciò che resiste alla naturalizzazione , che non può essere facilmente trasformato in routine , schematizzato e modellato come un meccanismo, viene represso nella pratica e bandito nella teoria. La sua possibilità non viene ammessa. Le manifestazioni ostinate della sua presenza, come sempre nel caso di fenomeni considerati tabù, hanno un effetto terrificante. L’horror vacui rappresenta la difesa psicologica del progetto illuministico. Poiché paura e panico avevano costituito le reazioni degli uomini colti al fallimento del progetto, moltissimi percepivano nella realtà meccanizzata uno scudo protettivo non meno che un’oppressione. Lungi dal risentirsene, ci si sarebbe precipitati alla sua difesa; la sua sconfitta sarebbe stata percepita come un disastro personale. In secondo luogo, il processo vitale nel mondo che noi conosciamo consiste in un incessante, spesso difficile, talvolta eroico sforzo di adattamento: di escogitare un sopportabile, possibilmente gratificante modus vivendi . Si ama generalmente ciò che si è conquistato in una difficile e ardua battaglia; si arriva a prediligerlo e non si sarebbe felici di perderlo. Ciò che generalmente offende più di qualsiasi altra cosa è il deprezzamento delle proprie realizzazioni nella vita, delle quali si è fieri e dalle quali si trae il proprio senso di dignità. Venire a sapere che l’impresa scelta personalmente, l’impresa alla quale si è dedicata la propria vita e attraverso la quale si è misurato il successo della propria esistenza, è derivata da un proprio autoinganno, e quindi rivolta in una direzione sbagliata, sarebbe davvero un prezzo troppo alto da pagare per l’offerta di liberazione. Ci aspetteremmo, quindi, dagli aspiranti beneficiari della teoria critica, la coltivazione d’interessi acquisiti nel perpetuare la finzione di una realtà estrinseca,

automatizzata, d’aspetto naturale, composta d’indiscutibili necessità e di fatti irrefutabili. Terzo, lo smascheramento di una natura artificiale, essenzialmente flessibile, della realtà, e l’ampliamento della possibilità percepita di scelta umana rende la vita una responsabilità morale. È meno facile, allora, dare la colpa della nostra azione a indomabili necessità esterne. La scusa dell’auto-assoluzione, «Ho dovuto farlo», non serve, e se vi si fa ricorso, suona vuota. La storia della vita viene ridefinita come una serie di scelte personali, e le sole costrizioni dichiaratamente insopprimibili che limitano la scelta successiva sono conseguenze di scelte precedenti. Questa visione della vita addossa la responsabilità completamente e direttamente sulle spalle di chi agisce. Essa richiede una vigilanza ininterrotta, un continuo esame di se stessi, uno sforzo sempre teso di autocorrezione, uno stimolo costante a trascendere gli orizzonti già raggiunti ed a sfidare le frontiere ultime sempre nuove di ieri. Un’intensa visione etica, non diminuita dal tranquillante della volontà divina, della legge naturale o dell’inevitabilità storica, rende la vita un’impresa eroica. Di nuovo, è improbabile che la richiesta di questo tipo di vita sia massiccia ed entusiastica. Diversamente dai filosofi del diciottesimo secolo, i seguaci della teoria critica non credono, quindi, che le intuizioni della ragione saranno abbracciate e seguite automaticamente. Neppure credono che la storia, con la sua implacabile logica, conquisterà il mondo al governo della ragione. Essi sono scettici sulla speranza di Marx che la posizione singolare del proletariato, cioè della classe dei nullatenenti, delle vittime universali che sperimentano nella maniera più penosa le incongruenze di un mondo oppressivo, lo renderà desideroso di accettare la verità e di sfidare la realtà falsificata. Essi mettono in dubbio la saggezza dell’aspettativa di Max Weber di un mondo sempre più razionale, mettendo in guardia dal confondere la razionalizzazione del potere e del dominio con la razionale auto-progettazione della vita. Con il potere economico e politico ben trincerato dietro le barriere protettive dell’inerzia fisica, le prospettive d’emancipazione sono squallide. L’invito alla libertà può cadere nel deserto. La possibilità d’emancipazione può essere vista come una minaccia. I critici possono

essere respinti nella migliore delle ipotesi come sobillatori, nella peggiore come pazzi. Riflettendo sui critici radicali del passato, Adorno e Horkheimer osservarono che essi potrebbero aver detto la verità, ma che «non erano al passo con il corso della vita sociale», ed a causa di questo erano costretti nel ruolo di folli. Ciò si doveva in parte alla loro intenzione originaria di mantenere le proprie idee pure e non disposte al compromesso, in parte all’esilio dalla società ordinata, che essi desideravano, o dovevano desiderare, per rompere ogni legame con la vita normale. I più radicali tra loro, come S. Giovanni Battista, o i cinici tra i filosofi greci, rifiutavano di sposarsi, di avere figli, e una loro proprietà, poiché tutto questo richiedeva un coinvolgimento nel mondo e, quindi, implicava un seme di futuro compromesso e di resa. Ciò rendeva le loro idee davvero pure, ma anche impotenti. I loro successori (S. Paolo, il fondatore della Chiesa, ed i filosofi stoici, i fondatori dell’Accademia) cercarono di ottenere per le loro idee un successo mondano. Essi sapevano che «il prezzo della sopravvivenza è un coinvolgimento pratico, la trasformazione delle idee in dominio». Ma allora, le idee che hanno conquistato il mondo e raggiunto il dominio sognato sono le stesse idee che sfidarono una volta la vecchia realtà? È probabile che esse siano state compromesse e mutilate nel corso del processo. Mentre il criticismo si trasformò in azione amministrativa, la critica si trasformò in religione, dottrina, o dogma. Da arma di cambiamento liberatorio, le idee divennero strumenti di una stabilità oppressiva. Questa riflessione rese alcuni dei più eminenti rappresentanti della teoria critica sospettosi di ogni attività apostolica, di proselitismo. Ogni tentativo di trasformare l’analisi critica in pratica comune avrebbe necessariamente impoverito il messaggio, ne avrebbe sminuito la capacità d’incidere, sarebbe stato, in altre parole, controproducente. Una tale conclusione ha avuto due significative conseguenze. Da una parte, la compassione per la deplorevole condizione degli oppressi si è ormai mescolata allo sdegno per la loro pusillanime diffidenza a partecipare ai pietosi conforti della vita oppressa. Quanti sono riluttanti ad alzare i propri occhi al di sopra del

livello di un’esistenza forse non gratificante, ma sperimentata e sicura, vengono definiti come gregge ; essi sono vittime della barbarie culturale , ma sono arrivati a godere della loro carcerazione e sono disposti sul serio a difenderla. Dall’altra, alcuni teorici hanno criticato tutte le classi e le loro particolari forme d’egoismo e di cupidigia, e hanno sperato nella conservazione del pensiero critico con gruppi «nei quali un certo maquillage psichico non svolga il ruolo decisivo e nei quali la conoscenza in se stessa sia divenuta una forza vitale». (Questa opinione fu espressa da Max Horkheimer in Autorità e famiglia [1936]). L’azione del criticismo arrivò ad essere vista, in altre parole, come un compito inevitabilmente riservato ad un’élite altamente selettiva. Questa élite non dovrebbe mai diminuire il proprio sforzo di ridurre la tensione tra le sue intuizioni critiche e l’umanità oppressa alla quale si suppone debbano servire queste intuizioni, ma dovrebbe essere consapevole nello stesso tempo che la tensione non scomparirà mai completamente. La teoria critica è, per così dire, l’unica pratica in cui essa può sperare. La pratica critica, per così dire, è stata fatta franare nella teoria. Essa è stata completamente limitata alla riflessione, all’analisi distaccata, ed allo spirito critico. Una tale conclusione ha, a sua volta, due conseguenze davvero devastanti per la teoria critica. Innanzitutto, essa annulla l’originaria legittimazione del progetto. Se la denaturalizzazione della realtà si riduce ad un’operazione compiuta sull’intelletto dei pensatori dotati di spirito critico, se non cambia una cosa nello stato della realtà, se lascia la realtà contraffatta come era prima, allora l’affermazione della teoria critica che non vi sia nulla di necessario per quanto riguarda la naturalità della realtà e che essa possa essere restituita al suo carattere culturale, risulta smentita. Se, per esempio, ci si limita alla scoperta che l’ineguaglianza nelle possibilità della vita umana e nelle quote delle quali l’individuo può fruire nei beni socialmente disponibili dipende da istituzioni giuridiche ed economiche fatte dall’uomo, piuttosto che da caratteristiche inviolabili dell’esistenza sociale, queste istituzioni continueranno imperturbate ad agire insieme all’indomabile potere delle forze naturali, e l’ipotesi della loro natura artificiale rimane in dubbio.

Non rimane più niente per distinguere le considerazioni critiche

dai progetti egocentrici della salvezza personale offerti, per esempio, dall’esistenzialismo e a quanto pare avversati dalla teoria critica. Non vi è nulla che la teoria critica possa offrire alla sociologia. Essa diventa invece una variante di filosofia personale. In secondo luogo, ciò che è anche più importante, la conclusione di cui sopra rende le intuizioni della teoria critica non verificabili. Non più ancorata nell’attività storica, la teoria critica viene ridotta ad un insieme d’idee più o meno ingenue, inventive, o attraenti, che tuttavia non possono essere né provate né confutate. La loro pretesa di verità deve rimanere per sempre vana; la loro autorità, un orizzonte mai raggiungibile. Questo, ovviamente, rende la teoria critica un insieme d’idee che la scienza (che, in una prospettiva della teoria critica, si basa proprio sui presupposti che questa teoria si dispone a scalzare) non ha né il dovere né l’obbligo di trattare seriamente. Una sociologia che volesse seguire l’ispirazione della teoria critica si limiterebbe alla produzione di ipotesi in linea di massima non verificabili e, quindi, si dovrebbe accontentare dello status di arte o di filosofia. A causa di queste due conseguenze, la conclusione che offre l’autogratificazione intellettuale come l’unica ragione per accettare la teoria critica deve essere vista da più di un lettore delle sue analisi come non soddisfacente. È probabile che venga rifiutata non solo perché manca di coerenza logica con le particolari ambizioni e finalità di coloro che la rifiutano, ma perché è intrinsecamente inadatta a fornire una base per qualsiasi pratica comune. Quali che siano i suoi meriti, essa non appartiene alla tradizione culturale storicamente affermatasi, caratterizzata dal suo costante invito ad una comune partecipazione e dalla sua determinazione di rendere le sue asserzioni, almeno in linea di massima, aperte alla verifica. La seconda generazione di seguaci della teoria critica (tra i quali i nomi di Jürgen Habermas e di Karl Otto Apel sono i più eminenti) si è preoccupata del compito di ricostruire il ponte che unisce la teoria critica a questa tradizione, un ponte eliminato dalla disincantata generazione precedente in maniera fin troppo sconsiderata. I due piloni sui quali il ponte può essere costruito sono, innanzitutto, un motivo per cui le proposte di liberazione potrebbero e dovrebbero

trovare il modo di tradursi da considerazioni intellettuali in pratica storica, e, in secondo luogo, un metodo per verificare la verità di tali proposte. Per cominciare con il primo pilone, il legame fra teoria critica e pratica critica può essere illustrato analizzando il rapporto generale tra conoscenza ed interessi umani. Questo tema è stato trascurato dalla scienza ordinaria. La scienza è un tentativo di dimostrare qualcosa sul proprio oggetto; né intende né è in grado di dimostrare qualcosa su se stessa. È un luogo comune che la scienza, che dà a intendere di essere una codificazione del pensiero razionale e dell’azione razionale, non può dimostrare razionalmente perché dovrebbe essere scelta come un approccio affidabile al mondo preferibile ad altri atteggiamenti. La scelta della scienza al di sopra di altri tipi di conoscenza è in ultima analisi un giudizio di valore, e come tale si sottrae ai rigidi criteri di scelta elaborati dalla stessa scienza per le sue proprie affermazioni. Affermazioni sulle virtù della scienza non sono in se stesse affermazioni scientifiche. Questa circostanza non toglie alcunché alla coerenza e coesione della scienza, poiché la coesione teoretica e l’utilità pratica delle sue proposizioni possono essere stabilite senza alcun riferimento alla ragione che giustifichi gli interessi rivolti alla loro ricerca. L’insieme delle proposizioni scientifiche è completo e capace di sostenersi da solo senza che le proposizioni formulino le ragioni della loro produzione. Questa mancanza d’interesse della scienza nei confronti delle proprie ragioni pragmatiche deriva, per così dire, dalla natura delle sue regole, che non possono essere applicate a questioni di preferenza tra fini ultimi. Questa mancanza d’interesse, tuttavia, suscita un risentimento minore, o non lo suscita affatto, poiché, malgrado la presa di posizione sospettosa e vigile che la scienza assume nei confronti di convinzioni di senso comune, la sua struttura normativa non è separata dai taciti ed onnipresenti interessi di senso comune. Al contrario, c’è una notevole continuità tra struttura della scienza ed interessi di senso comune, con la scienza che persegue in modo sistematico e cosciente di sé gli interessi che vengono già seguiti al livello del senso comune, anche se in una maniera piuttosto ampia e solitamente spontanea. La scienza può permettersi di trascurare le

proprie basi normative proprio perché è così costantemente e sicuramente radicata nella vita ordinaria. Come asserisce Horkheimer: Dopo tutto, essa aiuta ad eseguire in modo migliore, più efficace, ed a costi inferiori, ciò che in ogni caso si deve fare nella propria vita quotidiana. Essa fornisce gli strumenti conoscitivi necessari per poter rendere le proprie dimore più calde, per arrivare dovunque se ne abbia bisogno in maniera più rapida, per costruire ponti più affidabili tra le due rive di un fiume; ed una conoscenza più generale che aiuti a portare a termine questi compiti. Dicendoci perché le cose accadano nel modo in cui accadono (questa funzione la rende esplicativa), essa ci dice anche in che modo prevedere, o addirittura stabilirne i nessi reciproci, il loro manifestarsi (ciò la rende predittiva). D’altro canto, la scienza ci offre i mezzi per facilitarci il modo di comunicare e di prendere accordi reciprocamente, chiarendoci il significato di segni linguistici e di altro genere che consentano il giusto orientamento comportamentale, e rendendo chiaro il messaggio contenuto in singolari conoscenze culturali della nostra tradizione storica.

Proprio nella vita quotidiana noi incontriamo innanzitutto i due compiti pratici che richiedono una conoscenza già inclusa nella vita di routine di ogni giorno, ma più tardi innalzata ad un più alto livello di raffinatezza e di precisione dalla scienza organizzata. I due compiti sono quelli richiesti da padronanza e cooperazione. La padronanza si applica agli elementi dell’esperienza che sono costituiti da oggetti mobili: corpi che, ricorrendo ad un’azione corretta, possono essere messi nel movimento richiesto o spostati nei luoghi desiderabili. Ciò che abbiamo bisogno di conoscere su questi corpi è «ciò che li fa muovere»; una volta che ne siamo a conoscenza, possiamo maneggiarli, o almeno sapere a quale tipo di forza dobbiamo appellarci per farlo. Il tipo di conoscenza che risulta utile per la padronanza è costituito, quindi, da proposizioni esplicative/predittive: proposizioni che ci informano sia sulle forze esterne responsabili dei movimenti verificatisi, sia sui movimenti che una determinata forza esterna potrebbe senza alcun dubbio suscitare. La cooperazione, invece, si applica a quegli elementi dell’esperienza che non in ogni circostanza possono essere compresi semplicemente come oggetti mobili: oggetti che non possono essere visti come messi in movimento con il semplice ricorso ad una forza esterna; oggetti che, in altre parole, sono costituiti da entità che si attivano da sole, come sorgenti, piuttosto che come oggetti, dell’azione. Questi elementi dell’esperienza sono entità individuali che agiscono e parlano. Sono elementi che «agiscono», non

elementi che «si muovono», dato che, per poter capire il senso del loro comportamento, abbiamo bisogno di visualizzare i motivi che essi si stabiliscono da soli, piuttosto che le pressioni esercitate su di loro da altri agenti. L’informazione su questi motivi, e quindi l’indispensabile nesso nella nostra attività tesa a «capire il senso», è contenuta nelle espressioni che essi producono, e non può essere ricavata semplicemente dalle osservazioni non verbalizzate. L’adattamento alla loro presenza nella nostra esperienza richiede cooperazione, un reciproco adattamento dei motivi, conseguibile nel corso della comunicazione, che consiste nello scambio di espressioni. La conoscenza richiesta a questo scopo non è, come nel caso della padronanza, esplicativa/predittiva. È invece una conoscenza interpretativa, che è costituita dalle regole «ermeneutiche» (che hanno attinenza con la comprensione) del passaggio dai simboli ai significati, dalle espressioni collettivamente disponibili al mondo autonomo dei motivi. Per riassumere, l’interesse per la padronanza richiede un’azione strumentale compiuta da una conoscenza esplicativa/predittiva; l’interesse per la cooperazione richiede un’interazione, resa possibile dalla conoscenza ermeneutica (interpretativa). Senza questi due tipi di conoscenza, non è possibile una vita quotidiana. Per questo motivo Jürgen Habermas definì gli interessi che sono alla base delle due categorie di conoscenza come trascendenti-la-specie (speciestranscendental ). Sono trascendenti, poiché senza di essi non è possibile una vita sociale; essi sono, per così dire, condizioni previe di tutte le forme d’esistenza umana. Sono, però, trascendenti la specie , poiché la loro ubiquità può essere fatta risalire alla forma caratteristica che la specie umana raggiunse nel corso dell’evoluzione; mano e lingua, lavoro e linguaggio, si sono sviluppati tutti come gli strumenti principali di questa sopravvivenza e perfettibilità della specie. Essendo presenti dovunque nel modo specificamente umano di vita, gli interessi per la padronanza (interesse tecnico) e per la cooperazione (interesse pratico) determinano il modo in cui l’esperienza umana viene collettivamente percepita, categorizzata, e tipizzata. Gli aspetti dell’esperienza sono scelti secondo la loro

attinenza ai due interessi fondamentali. Questo è ciò che tutti noi, come singoli individui e come comunità, facciamo continuamente. Recenti ricerche etnometodologiche hanno mostrato quanto siano elaborate e sofisticate le regole del senso comune che guidano questa attività. Pur con tutto il suo atteggiamento revisionista nei confronti del senso comune, la scienza è davvero un’estensione di questa attività. Essa si basa in definitiva sugli stessi presupposti tacitamente accettati come senso comune. E trae la sua legittimazione dagli stessi interessi che sostengono l’attività della vita quotidiana. Questo è il motivo per cui si può mettere in dubbio la sua saggezza, ma mai il suo scopo. La scienza deve dimostrare di badare giustamente a conseguire il suo scopo. Non ha avuto bisogno di legittimarlo. Essendo stata dispensata da questo gravoso bisogno, essa può concentrarsi pienamente sul compito strumentale di mettere a punto i suoi strumenti cognitivi. Essa può, quindi, legittimamente vantare razionalità senza essere indebitamente preoccupata delle ragioni ultime della sua azione. Lo status della conoscenza emancipatrice è una faccenda diversa. Gli interessi per l’emancipazione non sono una condizione trascendentale della sopravvivenza umana. La vita umana è inconcepibile senza la ricerca d’interessi tecnici e pratici, ma è pienamente immaginabile e logicamente non contraddittoria senza un interesse per l’emancipazione. L’esperienza di soggetti capaci di linguaggio ed azione non può essere «oggettivizzata»; ad essa non si può reagire, far fronte, a meno che non si siano sviluppate adeguate abilità strumentali ed ermeneutiche. Ma essa può, in linea di massima, essere adeguatamente trattata, fino ai livelli richiesti dalla continuazione della vita della specie, senza la conoscenza emancipatrice. Questo, per lo meno, può essere il caso per lunghi tratti della storia umana. Possiamo concludere che se gli interessi tecnici e pratici sono metastorici (suprahistorical ) (spiegano la storia, piuttosto che richiedere una spiegazione storica), l’interesse per l’emancipazione ha le sue origini storiche. Se in ogni tempo si è asserito che esso è non meno inevitabilmente necessario degli altri due interessi, ciò deve essere giustificato con riferimento a specifiche circostanze storiche. La

necessità d’emancipazione non può essere che storica; essa appare in condizioni particolari, non universali per la specie. Essendo priva di radici prescientifiche, anzi precognitive, la conoscenza cognitiva non può lasciare il suo interesse attivante/legittimante al di fuori del suo centro d’attenzione. Quindi, non può limitarsi al regno dei fatti, dimenticando i valori. Nessuna conoscenza, come abbiamo visto, è veramente disinteressata; ma la conoscenza emancipatrice è l’unica che non può pretendere di essere tale. Essa deve coscientemente ed apertamente formulare non solo il suo procedimento strumentale, ma anche i suoi fini; e deve assumersi la responsabilità della legittimazione di entrambi, senza alcun diritto ad appellarsi al sostegno del senso comune. La strategia generale della legittimazione storica consiste nel dimostrare che, in condizioni specifiche, la conoscenza emancipatrice e la corrispondente pratica diventano i requisiti essenziali della sopravvivenza; che l’interesse per l’emancipazione diventa una necessità impellente (cioè, se esso non viene seguito, non è possibile una continuazione della vita sociale). La necessità d’emancipazione è, come abbiamo visto, un risultato di una situazione storicamente specifica. L’acquisizione, da parte dell’interesse per l’emancipazione, di un potere di pressione sufficiente per il suo appagamento non è, quindi precognitivamente assicurata. La necessità di un’azione emancipatrice deve essere sostenuta per via d’argomentazioni. Così, questo interesse deve essere coscientemente incorporato nella sostanza della teoria emancipatrice. Senza una tale incorporazione, questa teoria è incompleta e inconcludente. Cercare di costruire argomentazioni per la desiderabilità d’interessi tecnici o pratici equivarrebbe ad un tentativo di sfondare una porta permanentemente aperta; che la sopravvivenza possa richiedere di oltrepassare gli orizzonti tracciati da interessi sia tecnici che pratici è, comunque, una difficile questione d’argomentazione teoretica. La conoscenza emancipatrice è in effetti caratterizzata da una duplice funzione in rapporto con la pratica di cui è a servizio. Come altri tipi di conoscenza, essa è capace di strumentalizzare , razionalizzare , agevolare e facilitare l’azione che ne risulta. Ma, inoltre,

crea le condizioni perché l’azione venga intrapresa spontaneamente. Senza di essa, l’azione non solo sarebbe meno efficace, ma sarebbe difficilmente tentata. Gli interessi tecnici e pratici possono essere soddisfatti anche se non si è consapevoli dei loro imperativi. A questa eventualità sfugge l’interesse per l’emancipazione. Esso può esistere solo nella forma consapevole; e diventa realtà una volta che sia stato individuato, riconosciuto ed accettato. In tal senso può dirsi che la conoscenza emancipatrice produce non solo asserzioni sulla realtà, ma la stessa realtà di cui sono composte le asserzioni; la teoria emancipatrice è in se stessa un elemento d’emancipazione, poiché relativizza la realtà che gli altri due interessi potrebbero solo rendere ulteriormente solida nella sua oggettività. Habermas ha scelto la teoria di Marx della società capitalista e la teoria di Freud della personalità civilizzata come esempi di teorie emancipatrici. Marx mostrò che la realtà sociale in quanto determinata dalle pratiche capitaliste crea un bisogno assoluto della sua propria trascendenza; che l’emancipazione dalle realtà a quanto pare costrittive oggettivate dalle pratiche capitaliste è divenuta una condizione indispensabile della continuazione di una vita sociale in grado di superare i criteri stabiliti dalla storia della civilizzazione. L’alternativa all’emancipazione, come più tardi ebbe a dire in sintesi Rosa Luxemburg, sarebbe (con gli stessi criteri) la barbarie. Proprio il riconoscimento di questa alternativa fu necessario, secondo Marx, perché l’interesse per l’emancipazione si traducesse nella pratica. La realtà dell’interesse fu, quindi, mediata dalla teoria. La situazione storica precedette la riflessione teoretica; ma la riflessione teoretica, a sua volta, venne prima della realtà dell’interesse e dell’azione storica che un tale interesse, una volta divenuto realtà storica, avrebbe avuto probabilità di provocare. Una simile strategia fu seguita da Freud nel dare fondamento alle pretese della sua teoria metapsicologica. La realtà dell’esistenza civilizzata, a meno che non sia chiarita dall’interesse per l’emancipazione, conduce spesso al disturbo psicologico. La cattiva salute è causata dalla repressione dei bisogni, impedendo a importanti elementi costitutivi della personalità di divenire consapevoli. Quasi per definizione, senza l’intervento di una

teoria munita di un ideale consapevolmente presupposto di sana esistenza, la cattiva salute può essere sperimentata solo vagamente come disagio, ma non può essere individuata come un caso di distorsione normativa. Le definizioni prodotte nell’ambito di una realtà già distorta servono a nascondere, non a formulare, il disturbo. Quindi, i bisogni latenti debbono essere prima fatti emergere alla superficie della coscienza perché riacquistino la loro capacità di motivare l’azione. Non solo il comportamento liberato, ma lo stesso riconoscimento dell’interesse per l’emancipazione dipendono, quindi, dalla disponibilità di una teoria che fiacchi il potere apparentemente schiacciante della realtà distorta. Per riassumere, la peculiare difficoltà incontrata dalla teoria critica nello stabilire il suo legame con l’azione pratica si può far risalire al carattere storico, piuttosto che trascendentale, dell’interesse per l’emancipazione. La conseguenza pratica di questo carattere storico è il bisogno della teoria critica di eseguire compiti che altre teorie sono insufficientemente preparate ad eseguire, ma che possono farne a meno. Oltre ai normali compiti solitamente eseguiti da altre scienze, la teoria critica deve innanzitutto compiere il lavoro che per altre scienze viene normalmente eseguito dal senso comune: essa deve giustificare la propria validità, dimostrare che il suo compito è significativo e che le sue possibili conseguenze sono attinenti alla sopravvivenza sociale. La teoria critica è l’unico discorso che attualizza le sue proprie ragioni. Questo ci porta al secondo dei due piloni: può la teoria critica sottoporsi ad una verifica della verità? In caso affermativo, in quale maniera? Ovviamente non in una maniera legittimata dalla lunga pratica delle altre scienze. Le altre scienze si trovano di fronte a fenomeni già oggettivati, ridotti in «cose», dall’incessante, tacita azione delle pratiche del senso comune. Esse, quindi, possono in linea di massima misurare le proprie asserzioni con oggetti lì fuori . Esse possono accettare senza ulteriori discussioni che gli oggetti siano indipendenti, e non condizionati, da affermazioni formulate sul loro conto. Questa, però, non è la situazione della teoria critica. Come abbiamo già visto, la teoria critica costruisce il proprio oggetto e non può né intende nascondere il suo ruolo attivo nella produzione della

realtà. Nel caso della teoria critica, questa produzione è un elemento organico della stessa teoria. Essa deve spiegare il suo proprio sviluppo come un processo d’interazione tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza. Rifiutando energicamente l’autorità di una realtà sociale stabilita sulla base del senso comune, la teoria critica sposta il suo terreno di verifica nel futuro non ancora compiuto, questo territorio di libertà e, nello stesso tempo, d’incertezza. Inoltre, la teoria critica è in se stessa un fattore nel far procedere oltre questo ipotizzato futuro. La posizione singolare della teoria critica non consiste semplicemente nel rinvio di una verifica. Essa non è semplicemente in relazione con l’impossibilità di verificare le sue ipotesi hic et nunc (qui ed ora), valutandole sullo sfondo di un’esistenza già accessibile. Se così fosse, la differenza tra la teoria critica e le teorie tradizionali si ridurebbe solo ad una questione di ritardo. Diversamente dalle teorie tradizionali, la teoria critica dovrebbe aspettare e vedere se le sue ipotesi diventano vere, più o meno come nelle quotidiane previsioni del tempo. Ma non è così. L’essenza della teoria critica è, come abbiamo visto, la culturalizzazione della natura , la scoperta di contingenze e possibilità storiche dietro le necessità apparentemente naturali. Nella visione della teoria critica, l’illusione della necessità è stata portata a termine soprattutto dalla repressione di alternative culturali. Il carattere illusorio delle necessità naturali può essere dimostrato solo se si vince la repressione e si recuperano le alternative represse. Questo non accadrebbe se le alternative non fossero innanzitutto teoreticamente presupposte e se si compissero sforzi per realizzarle nella pratica. La teoria critica, quindi, non solo produce una teoria da verificare, ma partecipa anche alla produzione delle condizioni della verifica.

Applicazioni sociologiche È stato detto che la verità della teoria critica è una «verità in formazione». La formulazione di ipotesi è un elemento cruciale nella produzione della realtà sociale che corrisponde alla previsione

ipotetica. Possiamo esprimere un simile punto di vista in modo differente: le ipotesi della teoria critica non sono soggette a verifica di verità (truth-tested ), ma realizzate. Esse possono trovare la loro conferma solo nelle mutate condizioni sociali che esse stesse aiutano a produrre. La questione della verifica di verità nel caso della teoria critica si trasforma, quindi, nel problema di produrre le condizioni della sua realizzazione. Questo problema, a sua volta, si scinde in due. Primo, dobbiamo chiederci quali caratteristiche debba possedere una condizione per consentire di ritenere che possa offrire un adeguato terreno di prova per la teoria sociale. Secondo, dobbiamo analizzare il meccanismo con il quale un simile terreno di prova possa essere creato e ne abbia la probabilità. Per cominciare con la prima questione, dobbiamo ricordare che l’autorità della verità è in ogni caso in relazione con la razionalità del discorso in cui la verità è stata discussa e affermata. Un discorso razionale è, ovviamente, un ideale raramente raggiunto in circostanze pratiche. La maggior parte delle discussioni si stacca dall’ideale. Ma grazie ad una comune opinione su ciò cui dovrebbero somigliare le condizioni ideali, i partecipanti a discussioni empiriche possono criticare i risultati raggiunti come inconcludenti (perché raggiunti in condizioni imperfette), e cercare di migliorarli. Nella precisa descrizione di Jürgen Habermas, una discussione autenticamente razionale dovrebbe significare che: le pretese di validità di asserzioni, raccomandazioni o ammonimenti sono l’oggetto esclusivo della discussione; che partecipanti, temi e collaborazioni sono senza limiti, tranne il riferimento all’obiettivo di verificare le pretese di validità in questione; che non viene esercitata alcuna influenza, tranne quella della migliore argomentazione; e che, come risultato, sono escluse tutte le motivazioni, tranne quella della ricerca in cooperazione per la verità.

L’idea di discorso razionale come unica base dell’opinione credibile e attendibile si è affermata da lungo tempo nella tradizione europea. Nel suo libro Sulla libertà (1859) John Stuart Mill già faceva appello al consenso generale, quando concludeva che «le convinzioni per le quali abbiamo la massima garanzia non hanno una sicurezza su cui basarsi, ma un costante invito al mondo intero a dimostrarle come

infondate». L’ideale del discorso razionale, o l’autorità che viene concessa, non è un’invenzione della teoria critica. Il contributo della teoria critica all’inveterata tradizione intellettuale è una più acuta comprensione delle condizioni socialmente prodotte nelle quali l’ideale del discorso razionale non può essere realizzato, nelle quali, inoltre, esso tende ad essere sistematicamente e continuamente distorto. La teoria critica mostra che un «costante invito al mondo intero» non è una garanzia sufficiente che il mondo intero voglia davvero dimostrare le convinzioni affermatesi come infondate. È sufficiente spiegare per filo e per segno i requisiti che si debbono soddisfare per poter consentire al mondo intero di compiere un tale sforzo, per constatare in quale misura la società reale si discosti dall’ideale: Poiché tutti gli interessati hanno, in linea di massima, almeno la possibilità di partecipare alla discussione pratica, la «razionalità» della volontà discorsivamente formata consiste nel fatto che le reciproche aspettative comportamentali innalzate ad uno status normativo accordino validità ad un interesse comune accertato senza inganno . L’interesse è comune perché il consenso immune da costrizioni permette solo ciò che tutti possono volere; è immune da inganni perché anche le interpretazioni dei bisogni nelle quali ciascun individuo deve essere in grado di riconoscere ciò che egli vuole diventano l’oggetto della formazione discorsiva della volontà. La volontà discorsivamente formata può essere detta «razionale» perché le proprietà formali del discorso e della situazione della discussione garantiscono abbastanza che un consenso può nascere solo attraverso interessi generalizzabili , appropriatamente interpretati, per i quali io intendo i bisogni che possono essere comunicativamente condivisi .

In queste parole di Jürgen Habermas, l’universalità, l’eguaglianza dei partecipanti, la mancanza di proibizioni o altre restrizioni imposte sulla scelta di argomenti del discorso, e la mancanza d’inganno vengono descritte come condizioni nelle quali un discorso possa essere definito come razionale. Nessuna di queste condizioni viene soddisfatta nella realtà effettiva. Quindi, al consenso raggiunto in questa condizione imperfetta non si può attribuire autorità, che può essere concessa solo dal discorso razionale. Una sentenza di senso comune dell’utopia o irrealtà di situazioni alternative non può essere accettata come conclusiva per la stessa ragione. Ma la teoria critica non solo si rifiuta di aderire alla sentenza; essa spiega anche perché l’autorità della sentenza non possa essere accettata. E lo fa

sviluppando una sociologia della comunicazione. In particolare, essa studia le strutture sociali del potere che sono responsabili della sistematica distorsione della comunicazione pubblica. Lo studio mostra che gran parte della società è praticamente esclusa dal discorso pubblico in cui si giunge a decisioni che riguardano il proprio destino; che elementi vitali delle stesse decisioni, e delle loro vere ragioni, sono sistematicamente esclusi dal discorso pubblico; che l’occultamento d’informazioni vitali, la struttura della segretezza, e la formalizzazione delle procedure generano un inganno sistematico; e che il risultato complessivo di tutti queste deviazioni dall’ideale del discorso razionale è la situazione in cui è impossibile arrivare a patti sull’eguaglianza dei partecipanti. Si spera che mettendo questi fatti in risalto, facendo appello all’impegno universale, radicato nella tradizione, verso i princìpi del discorso razionale, la teoria critica riesca sia a invalidare la realtà, a quanto si dichiara empiricamente confermata, delle istituzioni dell’autorità pubblica, sia a svelare la repressione che ne risulta coinvolta. La teoria critica può mostrare con speranza che le forze capaci di distruggere l’esistente rete delle repressioni sono organicamente presenti e perpetuate nella struttura dello stesso potere; che, in altre parole, questa struttura genera le condizioni del proprio subentrare (supercession ) e, per così dire, non riesce a giovarle. Possiamo ora tornare al punto dal quale la nostra analisi della teoria critica è partita. Abbiamo detto all’inizio che la teoria critica non è, strettamente parlando, una sociologia alternativa; che essa è, piuttosto, un modo di teorizzare. Ora possiamo compendiare le conclusioni alle quali l’analisi partita da questi presupposti ci ha portati. La conseguenza del modo di teorizzare praticato dalla teoria critica è la richiesta di ampliare il regno della sociologia fino ad includervi aree normalmente cedute allo studio filosofico. Il modo di teorizzare praticato dalla teoria critica ci porta a concludere che la questione del fondamento della verità, della validità delle convinzioni, non è una questione che possa indurre l’epistemologia – una teoria filosofica della conoscenza – a decidere per le scienze empiriche in generale, e per la sociologia in particolare. L’epistemologia dovrebbe

essere ri-sociologizzata , poiché il problema della verità si riduce in ultima analisi alla questione sociologica delle condizioni storicamente determinate nelle quali trovano le loro basi le convinzioni normative. La teoria critica non è, quindi, una sociologia alternativa. Ma essa può essere intrinsecamente coerente solo se dà un fondamento ad una drastica espansione del progetto sociologico.

5.3 Modernità [Titolo originale: Modernity, 1993] La parola moderno entrò al centro del dibattito intellettuale dell’Europa occidentale nel diciassettesimo secolo (anche se era stata sporadicamente usata fin dal quindicesimo); a quanto pare, il suo significato non andava oltre a quello di «corrente» o «di origine recente». E tuttavia, il contesto della sua apparizione e della sua popolarità rapidamente crescente fa pensare ad un significato più profondo di quello semplicemente tecnico: la qualità dell’«essere di origine recente», dell’essere creato recentemente, era subito divenuta un fatto di vivo interesse, acquistando a quanto pare un significato completamente nuovo. Questo significato derivava da valori che stavano cambiando, che ora, diversamente dai secoli precedenti, prediligevano il nuovo sul vecchio, negavano autorità al passato, ed approvavano l’irriverenza nei confronti della tradizione e la disponibilità ad innovare, ad «andare dove nessuno osava andare prima». Dal momento del suo trionfale ingresso nel discorso pubblico, l’idea del moderno ebbe la tendenza a rimaneggiare il vecchio come antiquato, obsoleto, sorpassato, sul punto di essere (meritatamente) sprofondato nell’oblio e sostituito. L’idea del moderno riapparve nel diciassettesimo secolo come un concetto militante, al centro della controversia tra antichi e moderni, la cosiddetta «querelle des anciens et des modernes» , che durò in Francia

ed Inghilterra per quasi un secolo. Arti e letteratura servirono come iniziale campo di battaglia: dopo le spettacolari conquiste di scienziati come Newton e Descartes, con la Royal Society in Inghilterra e le più diffuse ma non meno autorevoli societés de pensée in Francia che promuovevano coraggiosamente il primato senza precedenti della nuova scienza e filosofia, prima o dopo doveva nascere la questione se questa ascesa fosse nel destino soltanto della scienza o di tutte le imprese umane, in particolare di creazioni come la pittura e la poesia. Gli «antichi» (come Nicolas Boileau e Jean de La Fontaine in Francia, Sir William Temple e Jonathan Swift in Gran Bretagna) difesero la convinzione d’antica data che il vertice delle conquiste umane fosse stato raggiunto nell’antichità greca e romana e che i prodotti inevitabilmente inferiori delle successive generazioni non potevano fare altro che tentare invano d’avvicinarsi alla perfezione di quelli antichi. Precedentemente, queste affermazioni venivano formulate in modo ordinario, viste come banalmente vere, e non suscitavano alcun dissenso. Ora, invece, ispirate dalle sorprendenti scoperte della nuova scienza, concezioni opposte cominciarono a diffondersi ed a guadagnare popolarità. I sostenitori delle concezioni tradizionali furono soprannominati «antichi», un concetto, per i «moderni», permeato di disprezzo e derisione. Charles Perrault e Bernard de Fontenelle furono tra i più battaglieri e strepitanti sostenitori del moderno, atteggiamento audace che traeva la sicurezza di sé dalla convinzione che, come nella scienza, così anche in tutti gli altri campi della creazione spirituale il nuovo potesse essere migliore (più vero, più utile, più giusto, più bello) del vecchio; che la forza della ragione e capacità umana è illimitata; e che quindi la storia umana è stata e rimarrà per sempre un procedere inesorabile in avanti e verso l’alto. La querelle non fu mai risolta in modo conclusivo, con soddisfazione di tutti (un secolo più tardi il movimento romantico risuscitò le idee che i moderni cercavano di seppellire una volta per tutte); essa si concluse con un nulla di fatto quando la rigidezza filosofica della questione venne attutita dal rapido ritmo del cambiamento culturale nella vita pratica. Guardando indietro, tuttavia, la querelle può essere meglio valutata come espressione

condensata di una rivoluzione che si stava verificando nella mentalità europea; del nuovo senso di fiducia in se stessi e di sicurezza di sé, di disponibilità a cercare e tentare soluzioni non ortodosse per ogni preoccupazione e inquietudine attuale, di fede nella tendenza della storia umana a salire, di crescente fiducia nella capacità della ragione umana. Nel diciannovesimo secolo, la stessa mentalità emergente arrivo ad esser vista come uno dei sintomi cruciali della nuova era della modernità. La modernità può essere definita nel modo migliore come l’era caratterizzata da un continuo cambiamento, ma un’era consapevole di essere così caratterizzata; un’era che considera le sue formule giuridiche, le sue creazioni materiali e spirituali, le sue conoscenze e convinzioni come temporanee, da conservarsi «fino a nuovo avviso», ed infine dequalificate e sostituite da altre nuove e migliori. Le istituzioni umane vengono considerate come createsi da sole e suscettibili di miglioramento; esse possono essere mantenute solo se giustificano se stesse di fronte alle impellenti domande della ragione, e se non superano la prova, sono destinate ad essere smantellate. La sostituzione di antichi progetti con altri nuovi sarà un’azione progressiva, un nuovo passo verso la inea ascendente dello sviluppo umano. Il progresso è, essenzialmente, una realizzazione umana. Esso consiste nell’applicare la ragione umana (razionalizzante) al compito di rendere il mondo meglio organizzato per far fronte ai bisogni umani. A tutto ciò che viene visto come bisogno umano, come condizione di vita adeguata, viene data priorità incondizionata su ogni altra considerazione: la parte non umana del mondo (la natura) è in se stessa priva di significato, e qualsiasi significato le venga attribuito può derivare solo dagli usi umani per i quali viene impiegata. Progettare un ordine artificiale, razionale, dell’habitat umano non è una scelta arbitraria; è una necessità, una condizione umana inevitabile, perché, per essere abitabile, il mondo deve essere reso adatto al soddisfacimento dei bisogni umani attraverso una tecnologia aiutata dalla scienza. La scienza e le sue applicazioni tecnologiche rappresentano quindi le principali fonti e gli strumenti del progresso

politico, sociale, culturale e morale. Esse sono sia espressione che veicolo del dominio umano sulla natura. Per l’Europa moderna, consapevole della propria storicità, gli stili di vita e le istituzioni differenti da quelli che essa ha attualmente approvato, furono dei semplici passi che dovevano condurre alla sua superiore condizione: sopravvivenze del suo passato. Le altre culture furono viste come forme termporaneamente impedite nel loro sviluppo, e ritardate in questo stato «congelato». Una tale convinzione diede all’Europa moderna la sua caratteristica fiducia in se stessa come veicolo di un destino storico, come missionario collettivo con il compito di diffondere il vangelo della ragione e di convertire il resto del mondo alla sua propria fede e forma di vita. In caso di resistenza, gli oggetti di un’eventuale conversione potevano essere considerati solo come primitivi, come vittime della superstizione e dell’ignoranza, la cui autorità (e particolarmente la capacità di decidere cosa fosse meglio per loro) fu negata dalla ragione in anticipo. Il periodo moderno nella storia europea (e la storia dei paesi che si sono precocemente sottoposti al processo d’europeizzazione) fu quindi un’epoca di proselitismo, caratterizzata dalla colonizzazione del mondo non europeo e da ripetute crociate culturali rivolte alle tradizioni regionali, etniche, o legate alle classi, nell’ambito delle stesse società europee. Lo Stato moderno fu investito di funzioni mai contemplate dai governanti premoderni. Esso doveva imporre un ordine unificato su vasti territori finora regolati da una varietà di tradizioni locali; per lo stesso motivo, esso doveva rendere la creazione ed il mantenimento dell’ordine sociale una materia di dibattito, di progetto consapevole, di controllo e di amministrazione quotidiana, anziché limitarsi all’osservanza di tradizionali consuetudini e privilegi. (Esso doveva, si potrebbe dire, assumere la posizione di giardiniere, piuttosto che quella di guardacaccia, nei confronti della società). I nuovi compiti implicarono la standardizzazione delle istituzioni legali e giuridiche sparse nello Stato; l’unificazione, e spesso l’amministrazione diretta, del processo educativo dei cittadini; e l’impegno di assicurare la priorità della disciplina giuridica unificata su tutte le altre

particolaristiche forme di lealtà. Proprio per questa ragione gli stati moderni s’impegnarono nel processo di costruzione della nazione, avendo assunto la forma di stati-nazione, piuttosto che quella di regni dinastici. Essi promossero l’unità nazionale al di sopra della differenziazione etnica, misero in campo il nazionalismo al servizio dell’autorità dello Stato, ed adottarono la promozione degli interessi nazionali come criterio e obiettivo delle loro linee di condotta. Per la stessa ragione lo Stato moderno rifiuta e svaluta i tradizionali titoli per governare (come la longevità dei diritti) ed il governo carismatico (che è basato sulle peculiari – e superiori – qualità personali di un dato governante), richiedendo disciplina nei confronti dei propri ordini unicamente su basi formali, giuridiche: cioè, facendo riferimento al fatto che gli ordini sono stati emessi da titolari di uffici debitamente nominati, autorizzati a prendere decisioni relative ad una determinata area. Al confronto di tutti i modelli storici, la modernità (cui spesso si fa riferimento con l’espressione «civiltà moderna», per individuarla come tipo distinto d’organizzazione e cultura sociale tra altre civiltà: antica, medievale, o contemporanea) è stata un successo notevole. Essa si è avvicinata più di qualsiasi altra civiltà conosciuta allo status di autentica universalità; e sembra sul punto di diventare la prima civiltà globale nella storia. Gli stati del mondo moderno possono essere politicamente e ideologicamente divisi, e persino bloccati in reciproci conflitti, ma tutti sono d’accordo sulla superiorità del sistema moderno di condurre le faccende umane e di usare metodi e strumenti moderni per affermare se stessi e perseguire i propri fini. La forma moderna di vita non sembra aver lasciato serie competitrici tra le forme da essa sostituite; essa è riuscita, inoltre, a far fronte alle proprie difficoltà e ai «problemi di sviluppo» in un modo che rafforza l’influenza della concezione del mondo e la posizione pragmatica che sono i suoi tratti più caratteristici. Così, la modernità è solitamente definita come la forma definitiva dello sviluppo storico. Intrinsecamente dinamica, la civiltà moderna conserva tuttavia la propria identità. Essa è capace di una continua creatività, anziché, come altre civiltà, ossificare e perdere la capacità di aggiustamento

creativo a nuove sfide. Con il suo arrivo, il mondo si è spaccato tra una parte moderna ed il resto, alle prese con la sfida della modernizzazione. La maggior parte dei modelli della modernità sceglie il dinamismo interiore e la capacità di cambiare e di migliorarsi come caratteristiche centrali e cause ultime dell’influenza e attrattiva universale della modernità. Essi sono anche d’accordo nel ritenere che spiegare questo dinamismo sia il compito – e il dovere – più importante di qualsiasi teoria della modernità. A partire dagli inizi del diciannovesimo secolo, moltissimi analisti cercarono il segreto del dinamismo moderno nell’emancipazione dell’azione umana dai ceppi della consuetudine, della tradizione e degli obblighi comuni, e nel suo sottomettersi unicamente ai criteri di un’efficace esecuzione dei compiti. Nella pittoresca espressione di Karl Marx, «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, tutto ciò che è sacro viene profanato»: una volta che l’autorità della tradizione sia stata fiaccata e negata, nulla può impedire al coraggio umano di proporsi compiti sempre più ambiziosi e di progettare modi sempre più efficaci di eseguirli. È la corrispondenza tra mezzi e fini a decidere ora quale linea di condotta si debba scegliere nell’azione. Come ebbe ad esprimersi il sociologo statunitense Talcott Parsons (sviluppando le idee formulate nel diciannovesimo secolo dal sociologo tedesco Ferdinand Tönnies), nei tempi moderni i modi tradizionali di valutare chi agisce e la sua azione sono stati rovesciati. L’azione viene ora giudicata «fuori del contesto», indipendentemente dall’ambiente socioculturale in cui essa ha luogo e dalla posizione sociale dei suoi oggetti umani, ma unicamente secondo le norme universali dell’adeguatezza e dell’efficacia. Chi agisce, invece, viene giudicato sulla base delle sue specifiche prestazioni che abbiano immediata attinenza con un determinato compito, non sulla base delle sue qualità generali. Ciò che veramente conta è ciò che viene fatto e in che modo, non da chi e perché. La scelta dell’azione è affrancata da tutti i criteri – da adesioni personali, da impegni politici e norme morali, per esempio – che non abbiano attinenza con il determinato compito da eseguire. Divisione e separazione sono in effetti temi costanti nel discorso

teoretico della modernità. Il sociologo tedesco Max Weber vide nella separazione tra attività economica e famiglia l’atto costitutivo dell’economia moderna. Grazie a questa separazione le decisioni dell’attività economica venivano liberate dalla pressione degli obblighi morali e degli impegni personali che guidano la vita della famiglia. In termini anche più generali, il significato della separazione venne sviluppato da Immanuel Kant. Con riferimento alla sua divisione tra ragione pura, ragione pratica e giudizio, molti teorici della modernità (particolarmente Jürgen Habermas in Germania ed Ernest Gellner in Gran Bretagna) considerano la separazione e la reciproca autonomia dei discorsi riguardanti verità, norme morali e giudizio estetico (mettendo da parte le sfere della scienza, dell’etica e delle arti) come la caratteristica più distintiva e decisiva della mentalità e della pratica moderna. A partire da Adam Smith, nella divisione del lavoro e nel frazionamento di funzioni complesse in compiti più piccoli e più maneggevoli si è visto il fattore più notevole dell’efficienza e produttività moderna. Emile Durkheim, sociologo francese degli inizi del ventesimo secolo, vide nella progressiva, sempre più dettagliata divisione del lavoro l’essenza e la forza motrice di tutti gli aspetti dello sviluppo storico. Quanto più complessa è la divisione del lavoro, tanto più semplici e più chiare sono le funzioni separate; quindi, esse possono essere meglio padroneggiate e più efficacemente eseguite dagli specialisti, che possono ormai concentrarsi completamente sui mezzi efficaci per la «soluzione del problema». La competenza diventa allo stesso modo, nella vita moderna, un marchio sia dell’economia che della scienza, sia dell’arte che della politica. Tutti i campi della vita moderna, come ribadì Weber, tendono a diventare progressivamente razionalizzati. L’azione è razionale (nel senso strumentale) nella misura in cui è orientata verso uno scopo chiaramente concepito e ben definito, e quindi basato sul calcolo della relativa efficacia di mezzi alternativi per raggiungerlo. L’azione razionale viene guidata da motivi e fini, riconducibili in linea di massima ad una consapevole analisi e correzione, e non determinati da forze delle quali colui che agisce è ignaro o sulle quali non ha alcun

controllo. L’azione razionale scinde il contesto di un’azione in fini e mezzi, ed è guidata unicamente dallo sforzo di adeguare i secondi ai primi. L’azione è razionale (di nuovo, nel senso strumentale) nella misura in cui consiste in questa possibilità di prendere decisioni e di scegliere, anche se una specifica scelta fatta da un determinato agente hic et nunc non è la migliore pensabile o è addirittura del tutto sbagliata. In effetti, moltissime scelte si fermano al di sotto dell’ideale. I mezzi possono essere calcolati male a causa di una conoscenza inadeguata o erronea. Inoltre, un’attività rivolta ad eseguire un compito raramente è libera da interferenze da parte di fattori «impuri», irrazionali nella misura in cui non hanno pertinenza con il compito in questione; tra questi fattori sono da includere abitudini incontrollate e adesioni tradizionali, affetti che risultano d’intralcio, o l’aderire a valori che interferiscono nell’efficace esecuzione del determinato compito. La razionalità è quindi una tendenza, piuttosto che la realtà compiuta della modernità; una continua, anche se complessivamente inconcludente tendenza che si può percepire in tutti i campi della vita sociale. Per esempio, secondo Weber, un’organizzazione che operi in modo impersonale, e sia governata da precise regole, subordinata a determinati compiti, soggetta ad una dettagliata divisione di funzioni, ad una rigida gerarchia di controllo, e ad una scrupolosa preoccupazione di far corrispondere le capacità personali di chi occupa un determinato posto alle oggettive esigenze dell’ufficio, è la forma razionale, specificamente moderna, di governo. L’altro lato del razionalismo è, ovviamente, l’addomesticamento o la soppressione di tutto ciò che è irrazionale, di qualsiasi cosa interferisca nell’attività della ragione e diminuisca l’efficacia pratica dell’azione. Questo elemento irrazionale nel comportamento umano viene chiamato passione, che è stata interpretata come l’ostacolo principale sulla strada verso il governo della ragione. La civiltà moderna si segnala tanto per la sua soppressione delle passioni quanto per la sua promozione della razionalità del comportamento umano. Più che in qualsiasi altra sfera, l’organizzazione razionale della società consiste nel controllare, disinnescare, privare della loro forza, o incanalare, gli impulsi istintivi e le inclinazioni dell’uomo. Una

completa analisi di quest’altro drammatico aspetto della modernità è associata innanzitutto e soprattutto all’opera di Sigmund Freud. Secondo Freud, la civiltà moderna sostituisce il «principio della realtà» con il «principio del piacere», dove il primo è la condizione necessaria di una coesistenza pacifica, sicura, ed il secondo un’inclinazione naturale degli esseri umani che si scontra con il primo. In termini pratici, questa sostituzione significa costrizione: la ricerca della felicità viene circoscritta e limitata dalla considerazione di ciò che è possibile raggiungere senza pagare costi troppo alti, tali da essere indotti a riflettere se ne valga la pena. Una parziale sicurezza viene ottenuta in cambio di almeno parte della libertà dell’individuo. Un comportamento adeguatamente incivilito è caratterizzato dall’autocostrizione (self-constraint ): la società, per così dire, «lascia un presidio nella città conquistata» nella forma della coscienza individuale socialmente educata, che induce l’individuo a sopprimere passioni tali che possono cadere in conflitto con le norme socialmente approvate. Nel suo studio sulla condizione moderna, intitolato Il disagio della civiltà [1930], Freud teorizza che la civiltà moderna genera inevitabilmente disagio e resistenza, e che la sua perpetuazione implica così un elemento di coercizione mentale o fisica. Il quadro della modernità che risulta dall’analisi di Freud è lungi dall’essere tranquillo e benevolo. Il governo della ragione ha conseguenze psicologicamente traumatiche. Dal punto di vista dell’individuo, esso non può essere un chiaro dono del cielo, poiché lascia una parte del tutto notevole dei bisogni umani declassati, trascurati o gravemente insoddisfatti. Per questo motivo contro il governo della ragione si nutre continuo risentimento; esso non potrà mai essere completo e continuerà a provocare ribellione. Molto spesso la gente, spinta ad attenersi alle regole rigide e fredde del calcolo di costi e beni, si radunerà invece a difesa di sentimenti repressi, di passioni naturali e dell’immediatezza del contatto umano. Un’altra interpretazione dell’intima contraddizione e dell’ambigua influenza della civiltà (e della civiltà moderna in particolare) può trovarsi nel concetto di Friedrich Nietzsche di una ribellione «dionisiaca» spontanea e istintiva come minaccia costante, solo a

malapena domata, sempre di nuovo alimentata dallo sforzo «apollineo» di costruire un ordine universale logico, razionale ed armonioso. Questo tema, nella sua interpretazione freudiananietzschiana, è direttamente o implicitamente presente in praticamente tutte le numerose critiche della modernità come un ambizioso, ma per molti aspetti fallito, progetto teso ad una totale razionalizzazione dell’organizzazione sociale e del comportamento umano individuale. Si segnalano particolarmente due tipi di critica. Uno (nel quale risultano impegnati i teorici della «politica di massa» ispirati, in modi alquanto differenti, dalla teoria dell’«élite» di Vilfredo Pareto, dal concetto della «rivolta delle masse» divulgato da José Ortega y Gasset, e dalla «legge ferrea dell’oligarchia» formulata da Robert Michels) rileva che, contrarie alla retorica razionalistica, le condizioni moderne promuovono una politica di massa manifestamente irrazionale, eccessivamente estetizzata, che impedisce, anziché promuovere, una scelta razionale. L’altro (associato principalmente con la tradizione della teoria critica della Scuola di Francoforte, enunciata dall’opera di Theodor Adorno e Max Horkheimer, ma risalente per molte delle sue idee al sociologo tedesco Georg Simmel, degli inizi del ventesimo secolo) scopre l’insanabile conflitto tra l’impulso a razionalizzare le strutture istituzionali sovra-individuali e la promessa di rendere le decisioni individuali riconducibili ad una libera scelta razionale. Tutto considerato, la resistenza alla razionalizzazione è stata una caratteristica della modernità non meno importante di quanto lo sia stata la stessa razionalizzazione. La storia della modernità è costellata di critiche mosse ai suoi eccessi o anche alla vanità o malvagità delle sue motivazioni e ambizioni storiche. Per ogni espressione intellettuale dell’entusiasmo per le eccitanti prospettive aperte dalla scienza, dalla competenza tecnologica e dall’opportunità politica della modernità, c’è stata una protesta contro l’«inaridimento» dell’individualità e dell’affettività autenticamente umana. Contro la promessa moderna di una specie umana messa in grado, nella sua lotta, di rendere il mondo più ospitale, i critici si sono affrettati ad osservare che, anche se la specie nel suo insieme guadagna in libertà, ciò non può dirsi per i suoi singoli membri; ad essi viene negata una

libera scelta, essendo stati «funzionalizzati» e trasformati in «rotelle dell’ingranaggio». Contro l’utilità del problem solving («soluzione dei problemi») sotto la guida della ragione, i critici hanno difeso i valori dell’individualità, del tutto indivisibile, del diritto fin-troppo-umano di essere differenti, ineguali, e completamente irrazionali. Partendo dalla poetica romantica degli inizi del diciannovesimo secolo, e passando attraverso il decadentismo, l’avanguardia combattivamente «modernistica» degli inizi del ventesimo secolo, il dadaismo, il surrealismo, fino alla cultura postmoderna dei nostri giorni (che proclama l’assenza di norme come l’unica norma culturale e invita alla resistenza contro ogni autorità, rifiutando persino di fornire un fondamento per la sua propria pratica), l’iniziativa della razionalizzazione moderna è stata accompagnata da una cultura di energica opposizione decisa a difendere la libertà individuale e l’esperienza emozionale. La ribellione culturale contro la realtà della società, un antagonismo praticamente costante tra pratiche sociali e politiche ed un’avanzata creatività culturale, sia nella filosofia che nell’arte e nella letteratura, hanno costituito finora un caratteristica quanto mai sorprendente, e a quanto pare permanente, della modernità. Una spiegazione di questo paradosso viene cercata nella struttura specificamente moderna della vita quotidiana e dell’esperienza individuale. La qualità più notevole di quest’ultima è la sua frammentarietà; gettato nell’ambiente urbano così densamente stipato e costretto a trascorrere la maggior parte della propria esistenza tra persone estranee, l’individuo trova difficile, forse impossibile, integrare l’esperienza in un insieme significativo. Entro l’orizzonte tracciato dall’esperienza individuale, il tempo sembra frammentarsi in eventi non collegati e lo spazio in punti non collegati. Se c’è un legame di reciproca dipendenza che li unisce in una totalità coerente, questo legame sfugge all’osservatore individuale, che si trova di fronte solo ad episodi del dramma di breve durata e limitati nello spazio. L’esperienza moderna, come fu rilevato per la prima volta dal poeta e critico francese Charles Baudelaire, è la visione di un momento fuggente. Per essere in sintonia con l’esperienza moderna, l’arte dovrebbe

rappresentare il mondo come frammentario e transitorio, come una raccolta di «momenti fuggenti». Come ebbe a osservare Georg Simmel, la caratteristica distintiva dell’esperienza moderna è la mancanza di coordinazione e comunicazione tra la civiltà come prodotto culturale totale e i frammenti della realizzazione culturale che gli individui sono capaci di assimilare ed usare come materiale da costruzione nel costruire le proprie identità. La quantità totale dei prodotti culturali supera di gran lunga la capacità individuale d’assorbimento. Questo fatto, da una parte, libera la creazione culturale dai suoi legami con la vita quotidiana e permette quindi una specializzazione infinita ed un’infinita espansione entro ciascun campo specializzato (di qui l’accelerazione logaritmica nella crescita della scienza, della tecnologia e delle arti, che esaspera ulteriormente il conflitto originario); dall’altra, tuttavia, lascia agli individui il terribile compito di rabberciare alla meglio «vite che abbiano un significato», mettendo insieme frammenti soggettivamente privi di significato di altre totalità sconosciute o invisibili. Nell’eseguire questo compito, gli individui debbono essere capaci di confrontare il non confrontabile e di mettere insieme elementi che a quanto pare non hanno una comune appartenenza; per questo motivo, essi hanno bisogno di una strategia che, per così dire, «impone» la confrontabilità tra esperienze selvaggiamente discrepanti, e che consente loro, così, di effettuare scelte trascurando le differenze qualitative tra gli oggetti da scegliere. Quindi, intelletto (capacità di pensiero astratto, formale) e denaro sono inevitabilmente, nello stesso tempo, prodotti e strumenti indispensabili dell’esistenza nelle condizioni moderne. Entrambi si rivolgono esclusivamente agli aspetti quantitativi dei fenomeni sperimentati, e ne minimizzano le caratteristiche qualitative. Queste ed altre caratteristiche affini dell’habitat umano sono state persistentemente presenti in tutta l’epoca moderna, acquistando costantemente forza. Esse continuano a caratterizzare le società occidentali e occidentalizzate dei nostri giorni e continuano a diffondersi in aree del globo considerate fino a tempi recenti come «tradizionali» o «premoderne». Tuttavia, alcuni osservatori rilevano

che la modernità nella sua forma classica ha fatto il suo corso ed è stata sostituita, o sta per essere sostituita, da un’altra formazione socioculturale, che essi chiamano postmodernità. Le definizioni di questa nuova, a quanto si dice, formazione (intesa a dimostrare la sua novità e la sua distinzione qualitativa dalla modernità) non differiscono nell’insieme dalla definizione già menzionata della condizione moderna. C’è, tuttavia, una differenza significativa su cui le asserzioni circa la «fine della modernità» e l’avvento della postmodernità tendono a basare la propria credibilità: se nel corso di tutta l’epoca moderna, la «confusione», l’ambivalenza, la spontaneità e l’incertezza inerenti alla vita sociale e individuale sono state viste come elementi temporanei di disturbo, destinati ad essere superati infine dalla tendenza razionalizzante, esse sono viste ormai come inevitabili e inestirpabili, e non necessariamente come elementi di disturbo. Viene ormai accettato che i processi storici non hanno una fine o direzione specifica; che il pluralismo dei valori e delle forme di vita sta qui per rimanervi; e che i centri del potere politico, e nella misura più notevole i governi degli stati, non hanno più né i mezzi né le ambizioni che caratterizzano la «posizione di giardinieri». I progetti totalizzanti della «società razionale» ed i programmi globali d’ingegneria sociale, e le crociate culturali che li sostenevano, sembrano essere caduti in discredito e sono stati quasi abbandonati. Il recente crollo delle economie sotto il controllo comunista e degli stati totalitari ha fornito la manifestazione più spettacolare di questa tendenza.

6. SOCIOLOGIA E POSTMODERNO

6.1 Una teoria sociologica della postmodernità [Titolo originale: A Sociological Theory of Postmodernity, 1991] L’idea proposta in questo saggio è che: 1. Il termine postmodernità rende esattamente i tratti che definiscono la condizione sociale che emerse dovunque nei paesi opulenti d’Europa e di discendenza europea nel corso del ventesimo secolo, e che prese la sua forma presente nella seconda metà di questo secolo. Il termine è esatto perché richiama l’attenzione sulla continuità e discontinuità come due facce dell’intricato rapporto tra la presente condizione sociale e la formazione che la precedette e tenne in gestazione. Esso pone in risalto l’intimo legame genetico che lega la nuova condizione sociale postmoderna alla modernità , cioè la formazione sociale che emerse nella stessa parte del mondo nel corso del diciottesimo secolo e prese la sua forma finale, che più tardi doveva sedimentarsi nei modelli sociologici della società moderna (o modelli della società creati dalla sociologia moderna), durante il diciannovesimo secolo; e indica nello stesso tempo la scomparsa di una certa caratteristica cruciale, in mancanza della quale non è più possibile definire adeguatamente la condizione sociale come moderna nel senso dato al concetto dalla teoria sociale (moderna) ortodossa.

2. La postmodernità può essere interpretata come la modernità pienamente sviluppata; come modernità che riconobbe gli effetti che stava producendo in tutto il corso della sua storia, ma producendoli inavvertitamente, più per inadempienza che di proposito, come conseguenze impreviste , sottoprodotti spesso percepiti come sperpero; come modernità consapevole della sua vera natura: modernità in se stessa . Le caratteristiche più notevoli della condizione postmoderna (pluralismo istituzionalizzato, varietà, contingenza e ambivalenza) sono state tutte prodotte dalla società moderna in quantità sempre crescenti; ma esse sono state prodotte, per così dire, «strada facendo», in un momento in cui le istituzioni della modernità, fedelmente replicate dalla mentalità moderna, lottavano per princìpi di universalità , omogeneità , monotonia e chiarezza . La condizione moderna può quindi essere definita, da una parte, come modernità emancipata da una falsa coscienza, e, dall’altra, come un nuovo tipo di condizione sociale caratterizzato dall’aperta istituzionalizzazione delle caratteristiche che la modernità nei suoi progetti e nelle sue pratiche manageriali si accingeva ad eliminare e, non riuscendo in questo, tentava di occultare. 3. Le due differenze che distinguono la condizione postmoderna dalla società moderna sono profonde ed abbastanza influenti da giustificare (anzi, da sollecitare) una distinta teoria sociologica della postmodernità che dovrebbe rompere decisamente con i concetti e le metafore dei modelli della modernità ed innalzarsi dalla struttura mentale in cui tali modelli erano stati concepiti. Questo bisogno nasce dal fatto che (malgrado le loro note divergenze) i modelli ancora esistenti della modernità hanno formulato una visione comune della storia moderna come movimento con una direzione , differenziandosi unicamente nella scelta della meta ultima o del principio organizzativo del processo, che si tratti di universalizzazione, razionalizzazione, o sistematizzazione. Nessuno di questi princìpi può essere sostenuto (almeno non nella forma radicale tipica della teoria sociale ortodossa) alla luce dell’esperienza postmoderna. E neppure può essere sostenuta la stessa metafora principale che è alla loro base: quella del processo con un pointer che

ne indichi la direzione. 4. La postmodernità non è una variante deteriorata della modernità; e non è neppure uno stato morboso della modernità, una malattia passeggera da guarire, un caso di «modernità in crisi». È, invece, una condizione sociale essenzialmente vitale, pragmaticamente capace di mantenersi da sé e logicamente autosufficiente, definita da proprie caratteristiche distintive . Una teoria della postmodernità non può essere, quindi, una teoria modificata della modernità, una teoria della modernità con un insieme di caratteristiche negative. Un’adeguata teoria della postmodernità può essere costruita solo in uno spazio cognitivo organizzato da un differente insieme d’ipotesi ed ha bisogno di un proprio vocabolario. Il grado d’emancipazione dai concetti e problemi prolificati dal discorso della modernità sarà la misura della sua adeguatezza.

Condizioni dell’emancipazione teoretica Ciò che la teoria della postmodernità deve innanzitutto eliminare è l’ipotesi di un carattere sistemico della condizione sociale che essa pretende di modellare: la visione di un sistema (a) con un certo grado di coesione e compattezza, (b) equilibrato o caratterizzato da una prevalente tendenza all’equilibrio, (c) che definisce i suoi elementi sulla base della funzione che essi svolgono in questo processo d’equilibrazione o di riproduzione dello stato equilibrato. Essa deve ipotizzare, invece, che la condizione sociale che essa intende modellare è essenzialmente e costantemente non equilibrata : composta di elementi con un grado di autonomia abbastanza alto da giustificare la visione della totalità come un risultato caleidoscopico, temporaneo e contingente, dell’interazione. La natura ordinata, strutturata, della totalità non può ritenersi scontata; né può ritenersi la sua costruzione pseudo-rappresentativa come lo scopo dell’attività teoretica. La casualità del risultato globale di attività non coordinate non può essere considerata come un allontanamento dal modello che la totalità cerca di mantenere; ogni modello che possa risultare

temporaneamente dai movimenti casuali di agenti autonomi è non meno casuale e immotivato di quello che potrebbe risultare al suo posto o di quello destinato a sostituirlo, anche se soltanto per un certo momento. Ogni ordine eventualmente reperibile è un fenomeno locale, in via di realizzazione e transitorio; la sua natura può essere rappresentata metaforicamente, nel modo migliore, da un mulinello che si produca nella corrente di un fiume, che mantiene la sua forma solo per un tempo relativamente breve e solo a spese di un incessante metabolismo e di un continuo rinnovamento di contenuto. La teoria della postmodernità deve essere sgombra delle ultime tracce della metafora del progresso che ha ispirato tutte le contrastanti teorie della società moderna. Con la totalità frammentata in una serie di isole che vengono su a caso, mutevoli ed evanescenti, la sua registrazione nel tempo non può essere rappresentata in modo lineare. Le continue trasformazioni locali non possono assommarsi in modo tale da far vedere (né tanto meno da assicurare) in effetti un’accresciuta omogeneità, razionalità o sistematicità organica del tutto. La condizione postmoderna è una dimensione di costante mobilità e cambiamento, ma senza una chiara direzione di sviluppo. L’immagine del movimento browniano offre una metafora appropriata per questo aspetto della modernità: ogni situazione temporanea non è né un effetto necessario di quella precedente né una causa sufficiente di quella successiva. La condizione postmoderna è sia indeterminata che indeterminante . Essa «scioglie dai legami» del tempo; indebolisce l’influenza costrittiva del passato ed impedisce la colonizzazione del futuro. In modo analogo, la teoria della postmodernità funzionerebbe bene se disponesse di concetti come quello di sistema (o, per tale materia, di società ), che alludono ad una totalità sovrana che si propone la prosperità o la perpetuazione di tutte le più piccole (e, per definizione, subordinate) unità; una totalità, quindi, autorizzata a definire, ed in grado di definire, i significati delle singole azioni e operazioni che la compongono. Una sociologia che possa far fronte alle condizioni della postmodernità dovrebbe sostituire il concetto di società con quello di socialità , un concetto che cerca di trasmettere la

modalità procedurale della realtà sociale, il gioco dialettico tra casualità e modello da seguire (o, dal punto di vista di chi agisce, tra libertà e dipendenza); ed un concetto che rifiuta di dare per scontato il carattere strutturato del processo, che tratta invece tutte le strutture nelle quali s’imbatte come elementi ancora in via di realizzazione. Con il loro campo visivo organizzato attorno al punto focale di una totalità somigliante ad un sistema, ricca di risorse e tale da dare un significato alle cose, le teorie sociologiche della modernità (che hanno ritenuto di essere teorie sociologiche tout court ) si sono concentrate sui mezzi adatti a trasmettere l’omogenizzazione e la risoluzione di conflitti in un’incessante ricerca di una soluzione per il «problema hobbesiano». Questa prospettiva cognitiva (in comune con l’unico referente realistico del concetto di «società»: lo stato nazionale, l’unica totalità nella storia in grado di nutrire seriamente l’aspirazione ad una uniformità e omogeneità congetturata e artificialmente mantenuta e gestita) ha escluso a priori ogni azione «non omologata»; la spontaneità priva di modelli e regole di chi agisce in maniera autonoma è stata predefinita come un fattore destabilizzante, ed anzi anti-sociale, destinato ad essere addomesticato o eliminato nella lotta incessante per la sopravvivenza della società. Analogamente, è stata attribuita primaria importanza ai meccanismi e congegni destinati alla promozione dell’ordine ed al mantenimento di modelli – lo Stato e la legittimazione della sua autorità, del suo potere, della sua forza di socializzazione, della sua cultura, della sua ideologia, ecc. – tutti scelti per il ruolo da loro svolto nella promozione di modelli, di uniformità, di prevedibilità e quindi anche di controllabilità di comportamenti. La teoria sociologica della postmodernità è destinata a rovesciare la struttura del campo cognitivo. L’attenzione è concentrata ora sull’azione; più correttamente, sull’habitat in cui l’azione si svolge e che essa produce nel corso dell’operazione. Poiché esso fornisce l’insieme delle risorse per ogni possibile azione, come anche il campo entro il quale si possono indicare le relazioni che orientano l’azione e che vengono orientate dall’azione, l’habitat è il territorio nel quale si stabiliscono (ed in effetti vengono percepite come tali) sia la libertà che la dipendenza dell’azione. Diversamente dalle totalità d’aspetto

sistematico della teoria sociale moderna, l’habitat non determina il comportamento di chi agisce, né definisce il suo significato; esso non è altro (niente di più e niente di meno) che lo scenario in cui sono possibili sia l’azione che l’attribuzione di significato. La sua identità è non meno indeterminata e instabile, non meno apparente e transitoria, di quanto lo siano le identità delle azioni e dei rispettivi significati che lo formano. C’è un’area cruciale, tuttavia, in cui l’habitat svolge un ruolo determinante (sistematizzante, modellante): è l’area in cui si stabilisce il programma per l’«impresa della vita», fornendo l’elenco dei fini e l’insieme convenzionale dei mezzi. Il modo in cui vengono forniti i fini ed i mezzi determina anche il significato dell’«impresa della vita»: la natura dei compiti che tutte le azioni debbono affrontare ed assumersi in una forma o nell’altra. Nella misura in cui i fini vengono presentati come potenzialmente allettanti, piuttosto che costrittivi, e fanno affidamento per la loro scelta sulla loro propria capacità di sedurre, piuttosto che su un potere coercitivo posto alla loro base, l’«impresa della vita» si scinde in una serie di scelte. La serie non è prestrutturata, o è pre-strutturata solo debolmente e soprattutto in maniera non risolutiva. Per questa ragione, le scelte attraverso le quali si costruisce e si mantiene la vita di chi agisce vengono considerate nel modo migliore (così come tende a considerarle proprio chi agisce) come qualcosa che si aggiunge al processo dell’auto-costituirsi (selfconstitution ). Per sottolineare la natura graduale e in definitiva non conclusiva del processo, l’auto-costituirsi viene visto, nel modo migliore, come un auto-assemblaggio (self-assembly ). A mio parere, i concetti di socialità, habitat , auto-costituirsi e autoassemblaggio dovrebbero occupare nella teoria sociologica della postmodernità il posto centrale che l’ortodossia della teoria sociale moderna aveva riservato ai concetti di società, gruppo normativo (per es. classe o comunità), socializzazione e controllo.

Princìpi fondamentali della teoria della postmodernità

1. Nella condizione postmoderna, l’habitat è un sistema complesso . Secondo la matematica contemporanea, i sistemi complessi differiscono dai sistemi meccanici (quelli adottati dalla teoria moderna ortodossa della società) in due aspetti cruciali. Innanzitutto, essi sono imprevedibili; in secondo luogo, essi non sono controllati da fattori statisticamente significativi (la circostanza dimostrata dalla prova matematica del famoso «effetto farfalla» [butterfly effect ]). Le conseguenze di queste particolari caratteristiche dei sistemi complessi sono effettivamente rivoluzionarie in rapporto ai princìpi teorici accettati della sociologia. La «sistematicità» dell’habitat postmoderno non si presta neanch’essa alla metafora organicistica, e questo significa che le agenzie [nel senso sociologico di organizzazioni sociali o di gruppi sia istituzionalizzati che non istituzionalizzati, N.d.T. ] che operano all’interno dell’habitat non possono essere valutate in termini di funzionalità o disfunzionalità. Gli stati successivi dell’habitat appaiono privi di motivazioni ed esenti da costrizioni di logica deterministica. E la più formidabile strategia di ricerca sviluppata dalla sociologia moderna, quella dell’analisi statistica, non è di alcuna utilità nell’esplorare la dinamica dei fenomeni sociali e nel valutare le probabilità del loro futuro sviluppo. Significato e numeri hanno preso due strade diverse. Fenomeni statisticamente insignificanti possono dimostrarsi decisivi, ed il loro ruolo decisivo non può essere compreso in anticipo. 2. L’habitat postmoderno è un sistema complesso (non meccanico) per due ragioni strettamente connesse. Innanzitutto, non esiste un’agenzia che abbia il compito di «fissare obiettivi», con capacità o ambizioni globali di gestione e coordinamento: un’agenzia la cui presenza fornirebbe un vantaggioso punto di vista dal quale l’insieme di fattori efficaci potrebbe apparire come una «totalità» dotata di una determinata struttura di pertinenze; una totalità che potrebbe essere ritenuta come un’organizzazione . In secondo luogo, l’habitat è affollato da un gran numero di agenzie, la maggior parte delle quali con un unico scopo, alcune delle quali piccole, altre grandi, ma nessuna abbastanza grande da poter comprendere in sé, o

determinare in altra maniera, il comportamento delle altre. L’accentrarsi su un unico scopo aumenta considerevolmente l’efficacia di ciascuna agenzia nel campo della sua propria azione, ma impedisce a ogni area dell’habitat di essere controllata da un’unica fonte, poiché il campo d’azione di un’agenzia non copre mai interamente l’intera area d’azione cui si riferisce. Poiché operano in campi differenti, ma con effetto zero in aree comuni, le agenzie sono in parte reciprocamente dipendenti, ma le linee di dipendenza non possono essere fissate, e così le loro azioni (e conseguenze) rimangono senza dubbio scarsamente determinate, cioè autonome. 3. L’autonomia significa che le agenzie risultano solo parzialmente costrette, ammesso che lo siano, nella loro ricerca di qualsiasi cosa esse abbiano istituzionalizzato come loro scopo. In larga misura, esse sono libere di perseguire lo scopo utilizzando nel modo migliore le risorse e la capacità d’amministrarle. Esse sono libere di (e tendono a) considerare il resto dell’habitat che condividono con altre agenzie come un insieme di opportunità e di «problemi» da risolvere o rimuovere. Per opportunità s’intende ciò che consente di aumentare i risultati nel conseguimento dello scopo; per problema s’intende ciò che minaccia di diminuire o di fermare la produzione. In circostanze ideali (massimizzazione delle opportunità e minimizzazione dei problemi) ciascuna agenzia tende generalmente a procedere nel perseguimento dello scopo nella misura in cui lo consentono le risorse; la disponibilità di risorse è l’unica ragione per l’azione di cui esse hanno bisogno, e quindi la garanzia sufficiente della ragionevolezza dell’azione. La possibile influenza sulle opportunità di altre agenzie non risulta automaticamente rimodellata entro i limiti dei risultati propri di chi agisce. I molti prodotti di attività tendenti ad uno scopo di numerose agenzie in parte interdipendenti, ma relativamente autonome, debbono ancora trovare, ex post facto , la loro importanza, utilità e attrattiva che ne garantiscano la domanda. I prodotti sono destinati ad essere creati in quantità che superano la preesistente domanda motivata da problemi già chiaramente formulati. Essi debbono ancora cercare un proprio posto e significato, non meno dei problemi che essi, a quanto pare,

pretendono di poter risolvere. 4. Per ogni agenzia, l’habitat in cui s’inserisce la sua azione appare quindi sorprendentemente differente dallo spazio limitato delle sue proprie ricerche automatiche, che essa subordina ad uno scopo determinato. Esso appare come uno spazio caotico e caratterizzato da una cronica indeterminatezza , un territorio soggetto a richieste contrastanti e contraddittorie, e quindi perpetuamente ambivalenti . Tutti gli stati dell’habitat possono presumere di apparire egualmente contingenti (nel senso che non hanno ragioni evidenti per essere ciò che sono, e potrebbero essere differenti se una qualsiasi delle agenzie partecipanti si comportasse in modo diverso). L’euristica di «mosse successive» pragmaticamente utili sostituisce quindi la ricerca di una conoscenza certa, algoritmica, di catene deterministiche. Il succedersi di stati assunti dalle aree importanti dell’habitat non può essere spiegato da alcuna agenzia senza che essa includa nella spiegazione le sue proprie azioni; le agenzie non possono analizzare in modo significativo la situazione «oggettivamente», cioè in modi tali da consentire di eliminare, o di accantonare, la loro propria attività. 5. La modalità esistenziale degli agenti è quindi caratterizzata da insufficiente determinazione, inconcludenza, instabilità e assenza di radici. L’identità dell’agente non è né data né stabilita da un’autorità. Essa deve essere costruita, ma non c’è progetto per la costruzione che possa ritenersi obbligatorio o sicuro. Essa è priva di segni di riferimento (benchmark ) che possano consentire di misurarne il progresso, e quindi non può essere significativamente definita «in progresso». È dunque l’incessante (e non-lineare) attività dell’auto-costituirsi a creare l’identità dell’agente. In altre parole, l’auto-organizzazione degli agenti in termini di un «progetto di vita» (un concetto che acquista una stabilità a lungo termine; un’identità duratura dell’habitat , nel senso che superi la longevità della vita umana, o almeno le sia commisurata) è sostituita dal processo dell’auto-costituirsi. Diversamente dal «progetto di vita», l’autocostituirsi non ha un punto d’arrivo in riferimento al quale

possa essere valutato e controllato. Esso non ha un fine visibile; e neppure una direzione costante. Esso viene condotto all’interno di una mutevole (e, come abbiamo visto prima, imprevedibile) costellazione di punti di riferimento reciprocamente autonomi, e quindi gli scopi che guidano l’auto-costituirsi in una fase possono subito perdere la loro validità attuale stabilita da un’autorità. Quindi, l’auto-assemblaggio dell’agenzia non è non processo cumulativo; l’auto-costituirsi comporta un’azione di smontaggio insieme a quella di montaggio, l’adozione di nuovi elementi non meno dell’abbandono di altri, un apprendere insieme al dimenticare. L’identità dell’agenzia, sebbene rimanga in uno stato di permanente cambiamento, non può essere quindi definita «in via di sviluppo». Nell’auto-costituirsi delle agenzie, la natura spaziale dell’habitat , di tipo che richiama il «movimento browniano», è proiettata sull’asse temporale. 6. L’unica visibilità della continuità e degli effetti cumulativi degli sforzi dell’auto-costituirsi viene offerta dal corpo umano, visto come l’unico fattore costante tra le identità mutevoli e instabili. Di qui la centralità della cura del corpo (body-cultivation ) tra le preoccupazioni dell’auto-costituirsi, e la profonda attenzione prestata a tutto ciò che si «riceve all’interno» (cibo, aria, farmaci, ecc.), e a tutto ciò che viene a contatto con la pelle: l’interfaccia tra l’agente ed il resto dell’habitat e la frontiera fortemente contesa dell’identità autonomamente gestita degli agenti. Nell’habitat postmoderno, le operazioni DIY [abbreviazione di do it yourself , «fatelo da soli», N.d.T. ] (praticare il footing , mettersi a dieta, sottoporsi a cure dimagranti, ecc.) rimpiazzano e in larga misura subentrano all’esercizio fisico che prima fornivano in modo esauriente la fabbrica, la scuola o la caserma dei tempi moderni. Diversamente da quelle precedenti, tuttavia, le operazioni postmoderne non vengono percepite come obblighi imposti dall’esterno, fastidiosi e tali da risentirsene, ma come programmi che manifestano la libertà dell’agente. La loro eteronomia, una volta palese attraverso la coercizione, ora si nasconde dietro la seduzione. 7. Il processo dell’auto-costituirsi è privo del progetto in anticipo e

provoca così una forte domanda di ciò che possa sostituirlo: punti di riferimento che possano orientare le mosse successive. Proprio le altre agenzie (reali o immaginarie) dell’habitat fungono da tali punti di riferimento. La loro influenza sul processo dell’auto-costituirsi differisce da quella esercitata dai gruppi normativi per il fatto che complessivamente esse non controllano né regolano coscientemente gli atteggiamenti di fedeltà e le azioni che ne derivano. Dal vantaggioso punto di vista degli agenti che si auto-costituiscono, gli altri agenti possono essere metaforicamente visualizzati come un insieme casualmente sparso di pali totemici liberamente eretti e incustoditi, ai quali ci si può avvicinare o dai quali ci si può allontanare senza chiederne il permesso. La fedeltà auto-proclamata all’agente scelto (l’atto di scelta in se stesso) viene realizzata con l’adozione di segni simbolici d’appartenenza, e la libertà di scelta è limitata unicamente dalla disponibilità e accessibilità di tali segni. 8. La disponibilità dei segni per un possibile auto-costituirsi dipende dalla loro visibilità , non meno di quanto dipenda dalla loro presenza materiale. La visibilità, a sua volta, dipende dalla percezione dell’utilità dei segni simbolici per l’esito soddisfacente dell’autocostituirsi; cioè, dalla loro capacità di rassicurare l’agente che i risultati effettivi dell’autocostituirsi sono davvero soddisfacenti. Questa rassicurazione è ciò che subentra alla mancanza di certezza, così come i punti di riferimento, insieme ai segni simbolici, sostituiscono i modelli pre-determinati dei progetti di vita. La capacità rassicurante dei segni simbolici è basata su un’autorità presa in prestito (ceduta): quella della competenza , o del consenso di massa . I segni simbolici vengono attivamente ricercati e adottati se la loro importanza è garantita dall’autorità degna di fiducia dell’esperto, o dalla loro precedente o coesistente appropriazione da parte di un gran numero di altri agenti. Queste due varianti dell’autorità sono a loro volta alimentate dall’insaziabile desiderio di rassicurazione presente negli agenti che si auto-costituiscono. Libertà di scelta e dipendenza da agenti esterni, quindi, si rafforzano reciprocamente, e sorgono e crescono insieme come prodotti dello stesso processo di auto-costituzione e della costante domanda di punti di riferimento

degni di fiducia, inevitabilmente provocata dal processo in se stesso. 9. L’accessibilità dei segni per l’auto-costituirsi varia da agente ad agente, poiché dipende per lo più dalle risorse delle quali un dato agente dispone. Sempre di più il ruolo più strategico tra le risorse viene svolto dalla conoscenza; la crescita di conoscenza individualmente appropriata amplia la gamma dei modelli d’assemblaggio che possano essere realisticamente scelti. La libertà dell’agente, misurata dalla gamma delle scelte realistiche, si trasforma nella condizione postmoderna nella più importante dimensione dell’ineguaglianza e diventa così la principale posta in gioco del tipo ri-distribuzionale di conflitto che tende a sorgere dalla dicotomia tra privilegio e privazione; analogamente, l’accesso alla conoscenza si trasforma, dato che è la chiave per una libertà estesa, nel principale indice di posizione sociale. Questa circostanza innalza l’attrattiva dell’informazione tra i segni simbolici ricercati per il loro rassicurante potenziale. Essa aumenta inoltre l’autorità degli esperti, ritenuti fiduciosamente come i depositari e le fonti di una valida conoscenza. L’informazione diventa un’importante risorsa, e gli esperti diventano i mediatori fondamentali di ogni autoavanzamento.

La politica postmoderna La teoria sociale moderna poté permettersi di separare la teoria dalla pratica politica. In effetti, essa valorizzò quella possibilità storicamente circoscritta. Il mantenere questa separazione come inconfutabile si è trasformato nella caratteristica più distintiva della teoria moderna della società. Una teoria della postmodernità non può seguire un simile modello. Una volta riconosciuta la sostanziale contingenza e l’assenza di fondamenti della socialità che sono al di sopra degli agenti o li precedono, come anche l’assenza di forme strutturate che essa sedimenta, diventa chiaro che la politica degli agenti viene a trovarsi al centro dell’esistenza dell’habitat ; anzi, è possibile affermare che essa ne è la modalità esistenziale. Ogni

definizione dell’habitat postmoderno deve includere la politica fin dall’inizio. La politica non può essere tenuta al di fuori del modello teoretico fondamentale come un epifenomeno, un riflesso sovrastrutturale o un derivato formatosi in ritardo ed intellettualmente elaborato. Si potrebbe argomentare (anche se l’argomentazione non può essere formulata qui) che la separazione fra teoria e pratica politica nella teoria moderna poté sostenersi fino a quando ci fu, indiscussa o efficacemente immunizzata contro il dubbio, una divisione effettiva tra pratica teoretica e politica. Quest’ultima separazione ebbe il suo fondamento nell’attività dello Stato nazionale moderno, per il quale si può sostenere che sia l’unica formazione sociale nella storia con pretese ed ambizioni d’amministrazione di un ordine globale, e di un monopolio totale; e si rese necessario rendere il modo di procedere alla sua formulazione separato e indipendente da quello che legittimava una teoria accettabile, e più in generale, l’attività intellettuale modellata secondo quest’ultimo modo di procedere. La graduale, ma ineluttabile erosione del monopolio dello stato nazionale (indebolito simultaneamente dall’alto e dal basso, da agenzie transnazionali e sub-nazionali, e fiaccato dai contrasti verificatisi nel connubio storico tra nazionalismo e Stato, poiché nella loro forma matura l’uno non aveva un bisogno molto forte dell’altro) pose fine alla possibilità di una separazione teoretica. Con il ridursi dell’intraprendenza e delle ambizioni dello Stato, la responsabilità (effettiva o soltanto affermata) della politica si sposta dallo Stato o viene attivamente declinata da esso di propria iniziativa. Essa, tuttavia, non viene assunta da un altro agente, ma si disperde, si frantuma in una pletora di politiche circoscritte o parziali perseguite da agenzie circoscritte o parziali (per lo più alle prese di un solo problema). Con questo, si affievolisce la tendenza dello Stato moderno a far cadere e ad attirare su se stesso quasi ogni protesta sociale che possa nascere da domande ed aspettative non soddisfatte di ridistribuzione: una prerogativa che ha ulteriormente accresciuto il ruolo esclusivo dello Stato tra le agenzie della società, rendendolo nello stesso tempo vulnerabile ed esposto a frequenti crisi politiche

(determinate da conflitti rapidamente trasformatisi in proteste politiche). Nella condizione postmoderna, i motivi di lagnanza che in passato si accumulavano di solito in un processo politico collettivo e venivano indirizzati allo Stato, rimangono sparsi e si traducono in un’auto-riflessione degli agenti, provocando un’ulteriore frammentazione di condotte politiche e l’autonomia delle agenzie postmoderne (se queste si riuniscono per un certo tempo nella forma di un gruppo di pressione su un determinato problema, mettono insieme agenti che sono troppo eterogenei in altri aspetti per poter impedire il dissolversi della formazione una volta ottenuto il desiderato progresso nel problema in questione; ed anche prima di questo risultato finale, la formazione è incapace di superare la diversità d’interessi dei suoi sostenitori, e quindi esse proclamano ed assicurano la loro totale lealtà e identificazione). Si può parlare, allegoricamente, della «funzionalità dell’insoddisfazione» in un habitat postmoderno. Non tutta la politica nella postmodernità è inequivocabilmente postmoderna. In tutta l’era moderna, la politica dell’ineguaglianza e quindi della ridistribuzione , è stata di gran lunga il tipo prevalente di conflitto politico e di gestione del conflitto. Con l’avvento della postmodernità essa ha perduto il suo ruolo dominante, ma rimane (e con ogni probabilità rimarrà) una caratteristica costante dell’habitat postmoderno. Tuttavia, anche un tale tipo eminentemente moderno di politica acquista in molti casi una sfumatura postmoderna. Le rivendicazioni del nostro tempo per una ridistribuzione tendono molto spesso alla conquista dei diritti umani (un’espressione codificata per l’autonomia dell’agente, per quella libertà di scelta che dà vita all’agenzia nell’habitat postmoderno) in categorie di popolazione alle quali finora questi diritti venivano negati (è questo il caso dei movimenti d’emancipazione di minoranze etniche oppresse, del movimento dei Neri, di un importante aspetto del movimento femminista), piuttosto che all’esplicita ridistribuzione di ricchezze, redditi ed altri beni di consumo nella società in genere. Accanto a sopravvivenze di forme moderne della politica, tuttavia, appaiono forme specificamente postmoderne, che gradualmente

colonizzano il campo centrale del processo politico postmoderno. Alcune di esse sono nuove; altre debbono la loro nuova qualità, chiaramente postmoderna, alla loro recente diffusione e alla loro influenza notevolmente accresciuta. Le seguenti forme sono le più notevoli (quelle nominate non necessariamente si escludono a vicenda; ed alcune operano con scopi trasversali): 1. Politica tribale . È un’espressione generica per indicare pratiche che tendono alla collettivizzazione (conformazione sovra-agenziale [supra-agentic ]) dei tentativi di auto-costruirsi degli agenti. La politica tribale comporta la creazione di tribù come comunità immaginarie . Diversamente dalle comunità pre-moderne che le potenze moderne si proposero di sradicare, le tribù postmoderne non esistono in altra forma che in quella dell’impegno dei loro membri simbolicamente manifestato. Esse non possono contare né su poteri esecutivi in grado di costringere i loro elettori a sottomettersi alle regole tribali (raramente essi hanno codificato con chiarezza regole alle quali si poteva chiedere di sottomettersi), né sulla forza di legami d’amicizia o sull’intensità di un reciproco scambio (le tribù sono in massima parte de-territorializzate, e la comunicazione tra i loro membri è a malapena, in qualsiasi momento, più intensa del rapporto tra membri e non-membri della tribù). Le tribù postmoderne sono, quindi, costantemente in statu nascendi , piuttosto che essendi , fatte rinascere continuamente da ripetitivi rituali simbolici dei membri, ma destinate a sopravvivere non più a lungo della forza d’attrazione di questi rituali (in tal senso esse sono simili alle comunità estetiche di Kant o alle comunioni di Schmalenbach). La fedeltà è costituita dal sostegno ritualmente manifestato a simboli tribali positivi o dall’animosità anch’essa simbolicamente dimostrata nei confronti di simboli negativi (antitribali). Poiché la durata delle tribù fa affidamento unicamente sul manifestarsi della fedeltà affettiva, ci potremmo aspettare un addensarsi ed un intensificarsi di comportamento emotivo senza precedenti ed una tendenza a rendere i rituali quanto più possibile spettacolari, principalmente gonfiandone la capacità di sorprendere.

I rituali tribali, per così dire, si contendono la limitata risorsa della pubblica attenzione come principale (forse unico) mezzo di sopravvivenza. 2. Politica del desiderio . Questa politica comporta azioni tese a dimostrare l’importanza di certi tipi di comportamento (simboli tribali) per l’auto-costituirsi degli agenti. Se questa importanza viene dimostrata, il comportamento incoraggiato cresce in attrattiva, i suoi scopi dichiarati acquistano forza seduttiva , ed aumenta la probabilità della loro scelta e di una loro attiva ricerca: gli scopi incoraggiati si trasformano in bisogni degli agenti. Nel campo della politica del desiderio, le agenzie si contendono la limitata risorsa dei sogni individuali e collettivi di una vita felice. L’effetto complessivo della politica del desiderio è l’eteronomia della scelta che viene avvalorata dall’autonomia degli agenti che scelgono, autonomia che a sua volta viene avvalorata proprio dall’eteronomia. 3. Politica della paura . Questa è, in un certo senso, un supplemento (complemento e contrappeso nello stesso tempo) della politica del desiderio, tesa a tracciare i confini dell’eteronomia ed ad impedirne gli effetti potenzialmente dannosi. Se le tipiche paure moderne erano connesse alla minaccia di un totalitarismo perpetuamente nascosto nel progetto di una società razionalizzata e gestita dallo Stato (lo «stivale che calpesta incessantemente una faccia umana» di cui parla Orwell, il «dente di ruota nella macchina» e la «gabbia di ferro» di cui parla Weber, ecc.), le paure postmoderne nascono dall’incertezza per quanto riguarda la validità e l’attendibilità dei consigli offerti dalla politica del desiderio. Molto spesso le paure diffuse si cristallizzano nella forma di un sospetto secondo cui le agenzie che incoraggiano il desiderio dimenticano (a causa dell’egoismo) o non calcolano gli effetti dannosi delle loro proposte. In considerazione della centralità della cura del corpo nell’attività dell’autocostituirsi, il danno più temuto è quello che può tradursi nell’avvelenamento o nel ferimento del corpo attraverso la penetrazione o il contatto con la pelle (i più diffusi motivi di panico si sono accentrati recentemente su incidenti come il morbo della mucca pazza, la listeria [batterio che provoca la malattia infettiva

della listeriosi, N.d.T. ] presente nelle uova, i gamberetti nutriti di alghe velenose, lo scarico di rifiuti tossici; con l’intensità della paura correlata all’importanza del corpo tra le preoccupazioni dell’autocostituirsi, piuttosto che al significato statistico dell’evento ed alle proporzioni del danno). La politica della paura rafforza la posizione degli esperti nei processi dell’auto-costituirsi, pur mettendone apparentemente in dubbio la competenza. Ogni successivo caso di sospensione della fiducia porta a presentare una nuova area dell’habitat come problematica e, quindi, a sollecitare un maggior numero di esperti ed una maggiore competenza. 4. Politica della certezza . Questa comporta la sollecita ricerca di una conferma sociale della scelta, davanti all’inevitabile pluralismo dei modelli in offerta e all’acuta consapevolezza che ciascuna formula dell’auto-costituirsi, per quanto attentamente scelta e risolutamente abbracciata, è in definitiva una delle tante, e sempre «fino ad ulteriore avviso». La produzione e la distribuzione della certezza costituiscono la funzione determinante e la fonte dell’autorità degli esperti. Poiché le dichiarazioni degli esperti raramente possono essere sottoposte ad una verifica da parte dei destinatari dei loro servizi, per la maggior parte degli agenti la certezza circa la validità delle loro scelte può essere nutrita in modo plausibile solo nella forma della fiducia . La politica della certezza consiste, quindi, principalmente nella produzione e manipolazione della fiducia; al contrario, il «mentire», il «deludere», il tradire la fiducia, il fare cattivo uso d’informazioni privilegiate, appaiono come la minaccia più grave alla già precaria e vulnerabile identità che gli agenti postmoderni attribuiscono a se stessi. Attendibilità, credibilità e sincerità percepita come tale diventano i più importanti criteri attraverso i quali i mercanti di certezza – esperti, politici, venditori di kit reclamizzati per l’auto-assemblaggio della propria identità – vengono giudicati, approvati o rifiutati.

L’etica postmoderna

Analogamente alla politica, l’etica è una parte indispensabile di una teoria sociologica della postmodernità che aspiri ad un qualsiasi grado di completezza. La definizione della società moderna potrebbe lasciare da parte i problemi etici o assegnare loro solo un posto marginale, in considerazione del fatto che la regolazione morale del comportamento venne compresa in larga misura nell’attività legislativa e di applicazione della legge di istituzioni globali della società, mentre tutto ciò che rimase non regolamentato in questa maniera fu «privatizzato» o percepito (e trattato) come un residuo e destinato ad estinguersi nel corso di una completa modernizzazione. Questa situazione non regge più, il discorso etico non è istituzionalmente precluso, e quindi il modo di condurlo e di risolverlo (o non risolverlo) deve costituire una parte organica di qualsiasi modello teoretico della postmodernità. Di nuovo, non tutte le questioni etiche nelle quali possiamo imbatterci in un habitat postmoderno sono nuove. Ciò che è massimamente importante, le questioni forse estemporanee dell’etica ortodossa – le regole che vincolano a breve distanza, il rapporto faccia a faccia tra agenti morali in condizioni di prossimità fisica e morale – rimangono attualmente non meno vive e pungenti di quanto lo siano sempre state in passato. In nessun modo esse sono postmoderne; in effetti, esse non sono neppure moderne. (Complessivamente, la modernità ha contribuito in scarsa misura, semmai, all’arricchimento delle problematiche morali. Il suo ruolo si è ridotto alla sostituzione di una regolamentazione giuridica a quella morale e all’esenzione di vasti e crescenti settori delle azioni umane da una valutazione morale). La problematica etica specificamente postmoderna sorge principalmente da due caratteristiche fondamentali della condizione postmoderna: il pluralismo dell’autorità e la centralità della scelta nell’auto-costituirsi degli agenti postmoderni. 1. Il pluralismo dell’autorità, o piuttosto l’assenza di un’autorità con ambizioni globalizzanti, ha un duplice effetto. Innanzitutto, esso esclude l’imposizione di norme costrittive alle quali ogni agenzia debba (o ci si potrebbe ragionevolmente aspettare che debba)

obbedire. Le agenzie possono essere guidate dai loro propri scopi, prestando in linea di massima non più attenzione ad altri fattori (quindi agli interessi di altre agenzie) di quanta se ne possono permettere in considerazione delle loro risorse e del loro grado d’indipendenza. «Basi non-contrattuali di contratto», prive del sostegno di un potere istituzionale, risultano quindi notevolmente indebolite. Se non motivata dai limiti delle risorse proprie dell’agenzia, ogni costrizione esercitata sull’azione dell’agenzia deve essere negoziata di nuovo. Le regole appaiono per lo più come reazioni a vertenze e come conseguenze dei negoziati che ne seguono; tuttavia, le regole già negoziate rimangono complessivamente precarie e insufficientemente determinate, mentre i bisogni di nuove regole, per regolare questioni controverse precedentemente impreviste, continuano a proliferare. Per questo motivo il problema delle regole si colloca al centro dell’ordine del giorno nazionale ed è improbabile che venga risolto in modo conclusivo. In assenza di un «coordinamento di princìpi giuridici», il negoziato di regole assume un carattere specificamente etico : in gioco sono i princìpi di auto-costrizione non-utilitaristica di agenzie autonome, e sia la non-utilità che l’autonomia definiscono l’azione morale come separata da un comportamento egoistico o legalmente prescritto. In secondo luogo, il pluralismo delle autorità favorisce la riassunzione, da parte degli agenti, di una responsabilità morale che tendeva ad essere neutralizzata, rescissa o abbandonata fino a quando le agenzie rimasero subordinate ad un’autorità legislativa unificata, quasi monopolistica. Da una parte, gli agenti si trovano ormai improvvisamente di fronte alle conseguenze delle loro azioni. Dall’altra, si trovano di fronte all’evidente ambiguità e contraddittorietà degli scopi ai quali dovevano servire le azioni, e quindi di fronte alla necessità di giustificare argomentativamente i valori che informano la loro attività. Gli scopi non possono essere più dimostrati ricorrendo alla forma del monologo ; essendo divenuti necessariamente soggetti di un dialogo , essi debbono fare ormai riferimento a princìpi abbastanza vasti da acquisire un’autorità del tipo che appartiene unicamente ai valori etici.

2. Anche l’aumentata autonomia dell’agente ha una duplice conseguenza etica. Innanzitutto, nella misura in cui il centro di gravità si sposta decisamente dal controllo eteronomo all’autodeterminazione, e l’autonomia si trasforma nella caratteristica distintiva degli agenti postmoderni, l’auto-controllo, l’autoriflessione e l’auto-valutazione diventano le principali attività degli agenti, anzi i meccanismi sinonimi del loro auto-costituirsi. In assenza di un modello universale di auto-miglioramento, o di una gerarchia ben definita di modelli, le scelte più atroci di fronte alle quali vengono a trovarsi gli agenti sono tra obiettivi di vita e valori, non tra i mezzi per arrivare a fini indiscussi, già stabiliti. I criteri sovra-individuali di proprietà nella forma di precetti tecnici di razionalità strumentale non bastano. Anche questa circostanza favorisce l’affinarsi della propria coscienza morale; solo dei princìpi etici possono offrire tali criteri per valutare e scegliere i valori, poiché essi sono nello stesso tempo sovra-individuali (basati su un’autorità riconosciuta superiore a quella dell’auto-conservazione individuale) e adatti per essere usati senza rinunciare all’autonomia dell’agente. Di qui l’accresciuto interesse tipicamente postmoderno per il dibattito etico e l’aumentata attrattiva delle agenzie che vantano competenza nei valori morali (per es. il risveglio di movimenti religiosi e quasi-religiosi). In secondo luogo, con l’autonomia di ogni e ciascun agente riconosciuta come un principio ed istituzionalizzata nel procedere dell’esistenza costituito da una serie incessante di scelte, i limiti dell’agente di cui si deve rispettare e preservare l’autonomia si trasformano in una frontiera attentamente sorvegliata ed oggetto di accese contese. Lungo questo confine nascono nuove questioni che possono essere appianate solo attraverso un dibattito etico. Lo svolgimento e l’esito dell’autocostituirsi vanno esaminati prima che venga confermato il diritto dell’agente all’autonomia? Se è così, secondo quali parametri vanno giudicati il successo o il fallimento (cosa dire dell’autonomia di ragazzi e di bambini anche più piccoli, dei poveri, dei genitori che allevano i loro figli in modi insoliti, delle persone che scelgono stili di vita stravaganti, delle persone che si coinvolgono in attività

sessuali idiosincratiche, degli individui definiti mentalmente handicappati)? E, fin dove si estendono le possibilità autonome dell’agente, ed in quale punto se ne debbono tracciare i limiti (si ricordi la controversia notoriamente inconcludente tra princìpi di «vita» e di «scelta» nel dibattito sull’aborto)? Tutto sommato, nel contesto postmoderno gli agenti si trovano costantemente di fronte a questioni morali e si vedono costretti a scegliere tra norme etiche che hanno eguale fondatezza (o eguale infondatezza). La scelta significa sempre l’assunzione di responsabilità, e per questa ragione ha in sé il carattere di un atto morale. Nella condizione postmoderna, l’agente è necessariamente non soltanto un individuo che agisce e prende decisioni, ma un soggetto morale . L’adempimento di funzioni vitali richiede quindi che l’agente sia un soggetto moralmente competente .

La sociologia nel contesto postmoderno Le strategie di uno studio sistematico debbono necessariamente riecheggiare le concezioni del proprio oggetto. La sociologia ortodossa riecheggiava il modello teoretico della società moderna. Proprio per questo motivo un’adeguata spiegazione delle propensioni autoriflessive degli attori umani si dimostrò così straordinariamente difficile. Deliberatamente, o contro la propria volontà dichiarata, la sociologia fu incline a trattare indirettamente l’auto-riflessività, o a cercarne una spiegazione presentandola come obbediente a determinate regole, come esecutrice di funzioni o, nella migliore delle ipotesi, come sedimentazione di un apprendimento istituzionalizzato; in ogni caso, come un epifenomeno della totalità sociale, interpretata in ultima analisi come «autorità legittima», in grado di «coordinare principalmente» lo spazio sociale. Fin quando l’auto-riflessività degli attori rimase limitata alla percezione soggettiva di un’obbedienza a regole impersonali, non ebbe bisogno di essere trattata seriamente; raramente arrivò ad essere esaminata come una variabile

indipendente, tanto meno come una condizione principale di ogni socialità e delle rispettive sedimentazioni istituzionalizzate. Mai priva di difetti, questa strategia diventa singolarmente inadeguata nella condizione postmoderna. L’habitat postmoderno è in effetti un flusso incessante di riflessività; la consapevolezza sociale responsabile di tutte le sue forme strutturate anche se fugaci, della loro interazione e del loro succedersi, è un’attività discorsiva, un’attività di interpretazione e re-interpretazione, d’interpretazione che si avvale di una «retroazione» (feedback ) con la condizione interpretata solo per generare ulteriori sforzi interpretativi. Per essere presente in modo efficace e consequenziale in un habitat postmoderno, la sociologia deve considerare se stessa come partecipe (forse meglio informata, più sistematica, più consapevole delle regole, ma comunque partecipe) di questo incessante processo auto-riflessivo di re-interpretazione, ed escogitare di conseguenza la sua strategia. In pratica, questo significherà molto probabilmente, per il sociologo, la sostituzione dell’ambizione ad essere giudice di «convinzioni comuni», guaritore di pregiudizi ed arbitro della verità con quella di chiarire norme interpretative e facilitare la comunicazione; ciò equivarrà alla sostituzione del sogno del legislatore con la pratica di un interprete.

6.2 Il re-incantamento del mondo (ReEnchantment), o come si può raccontare la postmodernità [Titolo originale: The Re-Enchantment of the World, or, How Can One Narrate Postmodernity?, 1992] «Postmodernità» significa molte cose diverse per molte persone

diverse. Può significare un edificio che ostenta superbamente gli «ordini» che stabiliscono ciò che è adatto e ciò che si dovrebbe tenere rigorosamente al di fuori per preservare la logica funzionale di acciaio, vetro e cemento. Significa un’opera della fantasia che sfida la differenza tra pittura e scultura, tra stili e generi, tra galleria e strada, tra arte e qualsiasi altra cosa. Significa una vita che somiglia in modo ambiguo ad un serial televisivo, e un docudrama [prodotto filmico tra documentario e fiction ] che ignora la tua preoccupazione di separare la fantasia da ciò che «è realmente accaduto». Significa licenza di fare qualsiasi cosa si possa desiderare, e consiglio a non prendere troppo seriamente tutto ciò che si fa da parte tua o degli altri. Significa la rapidità con cui le cose cambiano e la velocità con cui si susseguono stati d’animo e umori in modo tale da non avere il tempo di solidificarsi in cose. Significa l’attenzione attirata contemporaneamente in tutte le direzioni, in modo tale che essa non può indugiare a lungo su alcuna cosa e nulla diventa oggetto di uno sguardo attento. Significa un centro commerciale (shopping mall ) che straripa di merci la cui utilità più importante è la gioia di acquistarle; ed un’esistenza che somiglia ad una prigionia che dura per tutta la vita nel centro commerciale. Significa la libertà esilarante di essere alla ricerca di qualsiasi cosa e l’incertezza frastornante che induce a chiedersi cos’è che valga la pena cercare ed in nome di che cosa si dovrebbe cercare. Postmodernità è tutte queste cose e molte altre. Ma essa è anche – forse più di qualsiasi altra cosa – uno stato d’animo . Più precisamente, uno stato d’animo di coloro che hanno la consuetudine (o l’obbligo?) di riflettere su se stessi, di cercare gli argomenti delle loro riflessioni e di riferire su quanto hanno trovato: lo stato d’animo di filosofi, pensatori sociali, artisti, di tutti quegli individui sui quali noi facciamo affidamento quando ci troviamo in uno stato d’animo pensoso, o quando semplicemente ci fermiamo un momento per scoprire da dove ci muoviamo o siamo mossi. Si tratta di uno stato d’animo caratterizzato soprattutto dal suo atteggiamento distruttivo quanto mai irridente, caustico, disfattista. Sembra talvolta che l’animo umano postmoderno sia come un critico

colto nel momento del suo ultimo trionfo: un critico che trova sempre più difficile procedere con l’essere critico per il semplice fatto che ha già distrutto tutto ciò su cui ha avuto la consuetudine di esercitare la sua critica; insieme a lui è venuta meno la stessa urgenza di essere critico. Non rimane più alcuna cosa cui opporsi. Il mondo e il modo di vivere nel mondo sono diventati anch’essi null’altro che una inarrestabile ed ossessiva autocritica, o almeno così sembra. Proprio come l’arte modernista, incline a censurare la realtà moderna, finì col demolire lo stesso oggetto della sua critica (la pittura andò a finire in una tela pulita, la scrittura in una pagina vuota, la musica nel silenzio: nel disperato tentativo di purificare l’opera dell’artista, Walter de Maria scavò una profonda buca vicino a Kassel, Yves Klein invitò gli esperti d’arte ad una visione privata delle pareti bianche di una galleria, Robert Barry trasmise le sue idee artistiche telepaticamente per schivare l’influenza inquinante di parola e vernice, e Rauschenberg offrì in vendita disegni cancellati di suoi amici artisti), così la teoria critica si trova di fronte ad un oggetto che sembra non offrire più alcuna resistenza; un oggetto che si è ammorbidito, fuso, liquefatto, al punto che il taglio affilato della critica l’attraversa senza che nulla possa fermarlo. Le tragedie del passato irridono se stesse in un grottesco che non suscita il sorriso. Quanto ridicolo appare il tentativo di cambiare la direzione della storia, quando nessun potere fornisce indizi di voler dare alla storia una direzione! Quanto vano appare lo sforzo di dimostrare che quel che passa per verità è falso, quando nessuna realtà ha l’ardire e l’energia di dichiarare se stessa verità per tutti e per sempre! Quanto farsesco appare il lottare per un’arte autentica, quando non si può più far cadere qualcosa incidentalmente senza che l’oggetto caduto venga proclamato arte! Quanto donchisciottesco il voler smascherare la distorsione nella rappresentazione della realtà, quando nessuna realtà pretende di essere più reale della sua rappresentazione! Quanto inutile appare l’esortare la gente ad andare in un posto anziché in un qualsiasi altro, in un mondo in cui tutto è in continuo movimento. Lo stato d’animo postmoderno è la vittoria radicale (anche se certamente inaspettata e molto probabilmente indesiderata) della

cultura moderna (cioè intrinsecamente critica, infaticabile, insoddisfatta, insaziabile) sulla società moderna che essa ha avuto l’intenzione di migliorare facendole scorgere tutto il suo potenziale. Molte piccole battaglie vittoriose si sommano in una guerra vittoriosa. Una dopo l’altra, sono state abbattute frontiere, superate barriere, vinte resistenze nell’incessante e tenace sforzo d’emancipazione. Ogni volta si è combattuto contro una specifica costrizione, contro una proibizione particolarmente penosa. Ed alla fine si è avuto come risultato uno smantellamento universale delle strutture sostenute dal potere . Da sotto le macerie del vecchio e indesiderato ordine, tuttavia, non ne è emerso uno nuovo e migliore. La postmodernità (ed in questo essa differisce dalla cultura modernista, di cui è legittima progenie e beneficiaria) non cerca di sostituire una verità ad un’altra, un modello di bellezza ad un altro, una vita ideale ad un’altra. Frammenta, invece, la verità, i modelli e l’ideale, in ciò che è già in stato o in fase di destrutturazione. Nega in anticipo il diritto di ogni e ciascuna rivelazione d’insinuarsi nel posto reso vacante da regole cancellate/discreditate. Si batte decisamente per una vita senza verità, modelli e ideali. Viene spesso biasimata per non essere abbastanza positiva, o per non esserlo affatto, per non desiderare di essere positiva e per il fatto di farsi beffe della positività in quanto tale, di scorgere un pugnale liberticida sotto ogni mantello di santa rettitudine o semplicemente di tranquilla fiducia in se stessi. L’animo postmoderno sembra condannare ogni cosa e non proporre nulla. La demolizione è l’unica occupazione per la quale l’animo postmoderno sembra adatto. La distruzione è l’unica costruzione che esso riconosce. La demolizione di costrizioni coercitive e di resistenze mentali è per esso il fine ultimo e lo scopo dello sforzo d’emancipazione; verità e bontà, afferma Rorty, si prenderanno cura di se stesse non appena noi ci saremo presa la dovuta cura della libertà. Quando ciò avviene in una struttura mentale filosofica, capace di riflettere su se stessa, l’animo postmoderno è solito far notare, contro i suoi critici, che malgrado le apparenze in contrario non si tratta di una «distruzione distruttiva», ma di una costruttiva , in cui esso si è impegnato fin dall’inizio. Mentre rifiuta ciò che semplicemente passa

per verità, smantellandone le presunte, solidificate versioni passate, presenti e future, esso scopre la verità nella sua forma originaria che le pretese moderne avevano mutilato e distorto al di là della pubblica ammissione. Anche di più: la demolizione scopre la verità della verità , la verità in quanto residente in se stessa e non negli atti violenti commessi su di essa; la verità che è stata mascherata sotto il dominio della ragione legislativa. La verità, quella reale, è già lì, prima che abbia avuto inizio la sua laboriosa costruzione; essa si ri-postula proprio nel terreno su cui si sono erette le artificiose invenzioni: apparentemente per mostrarla, in effetti per nasconderla e soffocarla. Di questa demolizione di false pretese l’animo postmoderno rivendica di essere l’esecutore; la «seconda rivoluzione copernicana» di Heidegger viene spesso considerata come l’archetipo e il modello che ne stabilisce la tendenza. Come spiega Paul Ricoeur, fin dalla pubblicazione di Essere e tempo del filosofo tedesco, avvenuta nel 1927, il comprendere cominciò ad essere riconosciuto come il «modo di essere prima di definire il modo di conoscere. Esso consiste essenzialmente nella capacità dell’Esistere (Dasein ) di proiettare le sue proprie possibilità all’interno della situazione fondamentale di essere nel mondo». L’intuizione embrionale di Heidegger è stata ripresa e utilizzata in modi molteplici dai suoi seguaci, per esempio da Gadamer, che si assunse il compito di riesaminare la dibattuta questione di Dilthey attraverso occhiali heideggeriani. Tale questione è stata sottoposta a verifica in tre aree: quella delle arti, in cui la nostra comprensione della realtà estetica precede il giudizio distanziato del gusto; quella della storia, dove la consapevolezza di essere esposti ai faticosi compiti della storia precede le oggettivizzazioni della storiografia documentaria; quella del linguaggio, dove il carattere universalmente linguistico dell’esperienza umana precede ogni metodologia linguistica, semiotica e semantica (Ricoeur, 1990, pp. 173-74).

Tutto sommato, la postmodernità può essere considerata come quella che restituisce al mondo ciò che la modernità, presuntuosamente, le aveva tolto; come un re-incantamento del mondo che la modernità cercò strenuamente di dis-incantare . È proprio l’artificio moderno ad essere stato smantellato; ed è proprio il concetto

moderno di una ragione legislatrice di significato ad essere stato denunciato, condannato ed esposto al biasimo. È proprio quell’artificio e quella ragione, la ragione dell’artificio, ad essere sotto accusa nel tribunale della postmodernità. La guerra contro mistero e magia fu per la modernità la guerra di liberazione che doveva condurre alla dichiarazione d’indipendenza della ragione. Fu la dichiarazione delle ostilità a trasformare in nemico, senza sottoporlo ad alcun processo, l’antico mondo. Come accade con ogni genocidio, il mondo della natura (in quanto distinto dalla casa della cultura che la modernità si accingeva a costruire) doveva essere decapitato e quindi privato di un’autonoma volontà e capacità di resistenza. In gioco, nella guerra, era il diritto all’iniziativa e alla paternità dell’azione, il diritto a pronunciarsi sui significati, a costruire racconti. Per vincere le poste in gioco, per vincerle tutte e vincerle una volta per tutte, il mondo doveva essere de-spiritualizzato , «dis-animato» (de-animated ): espropriato della sua funzione di soggetto. Il dis-incantamento del mondo fu l’ideologia della sua subordinazione; nello stesso tempo una dichiarazione d’intento di rendere il mondo docile a coloro che avrebbero conquistato il diritto a volere, ed una legittimazione di pratiche ispirate unicamente da questa volontà come modello indiscusso di proprietà. In questa ideologia e nella pratica che essa rifletteva e legittimava, lo spirito era tutto da una parte e la materia tutta dall’altra. Il mondo era un oggetto di azione voluta: un materiale grezzo nel lavoro che era ispirato e riceveva forma da progetti umani. Significati e progetti divennero una sola cosa. Abbandonato a se stesso, il mondo non aveva alcun significato. Soltanto il progetto umano gli iniettava un senso ed uno scopo. Così, la terra divenne una miniera di minerali grezzi e di altre «risorse naturali», la foresta si trasformò in legname e l’acqua – a seconda delle circostanze – in fonte energetica, corso reso navigabile o solvente di rifiuti. Il legame che si poteva individuare fra terra, foresta ed acqua era difficile da percepire in mezzo ai materiali grezzi, al legname ed ai rifiuti a disposizione; nelle loro nuove incarnazioni, questi elementi furono spartiti fra distinte e distanti funzioni e finalità, e tutti i loro antichi legami, una volta reciproci, furono ormai assoggettati

unicamente alla logica delle ultime funzioni e finalità. E quando la natura divenne progressivamente «dis-animata», gli esseri umani divennero sempre più «naturalizzati», in modo tale che la loro soggettività, la «dote ricevuta» (giveness ) ai primordi della loro esistenza poteva essere negata ed essi stessi potevano essere resi suscettibili di ricevere significati strumentali; essi arrivarono ad assomigliare a legname e corsi d’acqua resi navigabili piuttosto che a foreste e laghi. Il loro dis-incantamento, come quello del mondo nel suo insieme, ebbe origine dall’incontro tra l’atteggiamento di chi progettava e la strategia di una razionalità strumentale. Il risultato di tale incontro fu il mondo spaccato tra soggetto dotato di volontà e oggetto che ne era privo; tra l’agente privilegiato la cui volontà contava ed il resto del mondo la cui volontà non contava, essendogli stata negata o trascurata. Proprio contro questo mondo disincantato si rivolge il re-incantamento postmoderno.

La modernità, o una struttura in disperata ricerca Il tipo di società che, retrospettivamente, si arrivò a chiamare moderna, risultò dalla scoperta che l’ordine umano è vulnerabile, contingente e privo di basi affidabili. Questa scoperta fu shoccante. La reazione allo shock fu un sogno ed uno sforzo di rendere l’ordine solido, obbligatorio e con basi affidabili. Una tale reazione problematizzò la contingenza come un nemico da combattere e l’ordine come un compito da eseguire. Essa sollecitò un incessante impulso ad eliminare ciò che è casuale e ad annientare ciò che è spontaneo. In realtà, proprio l’ordine ricercato costruì in anticipo tutto ciò per cui non aveva né spazio né tempo in quanto contingente, e quindi privo di basi. Il sogno di ordine e l’esercizio di ordinamento costituiscono il mondo, loro oggetto, come caos. E, naturalmente, come una sfida, come un motivo che costringe ad agire. La scoperta della contingenza non fu un’impresa della ragione. Non si vede ciò che si trova a portata di mano, né tanto meno vi si pensa, fino a quando fallisce e delude. Non si pensa alla regolarità fino

a quando non si rimane colpiti dall’imprevisto, non si avverte la monotonia fino a quando il modo in cui le cose si sono comportate ieri cessa di essere una norma affidabile per il loro comportamento domani. La contingenza venne scoperta insieme all’accorgersi che è impossibile volere cose ed eventi regolari, ripetibili e prevedibili, senza far qualcosa perché lo siano; non lo saranno certamente per conto proprio. La consapevolezza della contingenza del mondo e l’idea di ordine come obiettivo e risultato dell’esercizio di ordinamento sono nate insieme, come gemelle; forse addirittura come gemelle siamesi. Il dissolversi di una consuetudine socialmente controllata (teorizzato come l’ordine preordinato dell’essere) potrebbe essere stato una piacevole esperienza. Ma esso ha anche suscitato un timore finora sconosciuto. L’indebolirsi della consuetudine ha costituito la benedizione della libertà per i forti e coraggiosi, ma anche la maledizione dell’insicurezza per i deboli e diffidenti. Il matrimonio tra libertà e insicurezza fu predisposto e consumato per la notte di nozze; tutti i successivi tentativi di separazione si sono dimostrati vani, e da allora il matrimonio è rimasto in vigore. Il Rinascimento celebrò il crollo dell’ordine preordinato (e quindi visibile solo nel suo crollo) come una liberazione. L’allontanarsi di Dio significò un ingresso trionfante dell’Uomo. Nell’interpretazione di Pico della Mirandola, il Creatore divino disse ad Adamo: «Tu devi essere il plasmatore ed il vincitore di te stesso; tu puoi degenerare in animale, ed attraverso te stesso rinascere ad un’esistenza simile a quella divina... Tu soltanto hai il potere di svilupparti e di crescere secondo il libero arbitrio» (citato in Rank, 1932, p. 24). Questo tipo di libertà, sia pure minimamente contemplato, fu precedentemente pensato come un attributo divino. Ora esso era umano; ma poiché era umano per ordine divino (l’unica istruzione data da Dio all’uomo), era anche un dovere dell’uomo. La libertà era una possibilità gravata da un obbligo. L’uomo era ormai in grado di «rinascere ad un’esistenza simile a quella divina». Questo era un compito che sarebbe durato per tutta la vita, cui non si dava alcuna speranza di un momento di tregua. Nulla era soddisfacente se non raggiungeva il massimo, ed il massimo era nientemeno che la perfezione , definita da Leon Battista Alberti

come un’armonia di tutte le parti reciprocamente adattate in modo tale che nulla si poteva aggiungere, diminuire o alterare, se non per il peggio. Libertà di creazione ed auto-creazione umana significavano che nessuna imperfezione, bruttezza o sofferenza poteva ormai reclamare il diritto di esistere, tanto meno una legittimazione. Era la contingenza dell’imperfetto a suscitare l’ansia circa la possibilità di raggiungere la perfezione. E la perfezione poteva essere raggiunta solo attraverso l’azione: essa era il risultato del laborioso «adattarsi reciproco». Una volta materia di provvidenza e rivelazione, la vita si era trasformata in oggetto di techne . Il forte desiderio di ri-fare il mondo si radicò in un’esperienza fondamentale di liberazione. Esso venne fatto crescere a forza dalla paura del caos che avrebbe sommerso il mondo qualora la ricerca di perfezione fosse stata abbandonata o anche semplicemente ridotta in un momento di disattenzione. Una celebrazione pura e serena fu quindi breve; soltanto un breve interludio tra l’ordine divino e quello creato dall’uomo, tra l’essere ciò che si era e il rendersi ciò che si doveva essere . Da Erasmo, Mirandola, Rabelais o Montaigne a Cartesio o Hobbes non ci fu che la distanza di una generazione. E la celebrazione fu limitata a quei pochi fortunati che poterono concentrarsi sul «plasmare se stessi» grazie al concentrarsi di ampie risorse, non ancora messe in dubbio come un diritto, e quindi fruibili senza essere accompagnate dalla preoccupazione circa le loro basi. (Le celebrazioni non durarono a lungo, tuttavia, e non poterono essere universali, poiché le basi erano destinate a dimostrarsi deboli o del tutto assenti, le risorse ad esaurirsi, e così il tentativo di assicurarne il flusso senza ostacoli finì con il cozzare con il diritto a godere della propria contingenza). Proprio in questo breve interludio, e tra coloro che poterono assaporare i dolci frutti dell’improvviso crollo delle certezze sostenute dal potere, tale diversità venne non soltanto accettata come destino umano, ma sollecitamente accolta e salutata come segno e condizione di vera umanità. L’apertura, la disponibilità a trattenersi dal condannare l’altro e a discutere, anziché combattere, con l’avversario, il riserbo di ambito cognitivo e volitivo, l’accettare ciò che è credibile anziché inseguire l’assoluto: sono altrettante caratteristiche salienti di

quella cultura umanistica (che più tardi, dai vertici delle ambizioni moderne, doveva essere ribattezzata «crisi pirroniana», un momento di debolezza prima del ravvivarsi della forza) che ben presto, per tutti gli scopi e intenti pratici, doveva essere racchiusa in polverose biblioteche per i secoli futuri. Le dure realtà della politica tra le conseguenze delle guerre di religione e il crollo finale dell’ordine feudale resero la diversità delle vite e la relatività delle verità molto meno attraenti, e certamente niente affatto apprezzabili. Sovrani illuminati e non così illuminati si accinsero a costruire di nuovo, intenzionalmente e di proposito, l’ordine di cose che i monarchi consacrati del passato avevano stupidamente consentito che si frantumasse. Visti dalle torri di guardia dei nuovi ambiziosi poteri, il diverso somigliava piuttosto al caos, lo scetticismo all’inettitudine, lo spirito di tolleranza alla sovversione. Certezza, regolarità, omogeneità divennero gli ordini del giorno. Quella che seguì fu una lunga (circa tre secoli) epoca di Cosmopolis (tanto per prendere in prestito l’appropriato termine recentemente coniato da Stephen Toulmin [1990]). Nella Cosmopolis , la visione di utopisti si congiunse con la pratica di gente esperta: il modello intellettuale di un universo ordinato si mescolò con la frenetica attività ordinatrice dei politici. La visione era quella di un’armonia gerarchica che si rifletteva, come in uno specchio, nelle asserzioni indiscusse e indiscutibili della ragione. La pratica si esercitò sul modo di formulare le asserzioni, adornate di simboli della ragione, indiscusse e indiscutibili. Come la Città dell’Uomo di S. Agostino rifletteva la gloria della Città di Dio , così lo Stato moderno, ossessionato dai suoi compiti di legiferare, definire, strutturare, separare, classificare, registrare e universalizzare, rifletteva lo splendore di modelli universali e assoluti della verità. Chiunque mettesse in dubbio il connubio tra il mondano ed il divino poteva parlare solo nel nome del male e del diavolo; chiunque mettesse in dubbio il connubio moderno tra verità assoluta e potere assoluto poteva parlare solo nel nome dell’irrazionalità e del caos. Il dissenso era stato discreditato e delegittimato già prima che venisse espresso: proprio dall’assolutezza della sindrome dominante, dall’universalismo delle sue ambizioni

dichiarate e dalla completezza del suo dominio. La nuova certezza aveva definito lo scetticismo come ignoranza o avversione ostile, e la differenza come arretratezza fossilizzata, o come un residuo di passata ignominia che avesse i giorni contati. Secondo un’appropriata espressione di Harry Redner, «proprio come nel linguaggio di fede Dio non può essere negato e neanche seriamente messo in dubbio, così anche nei linguaggi del Progresso è il Progresso stesso ad avere un simile status » (Redner, 1982, p. 30). I diversi, gli idiosincratici e gli indolenti, furono conseguentemente scartati con disonore dall’esercito dell’ordine e del progresso (o, secondo l’espressione di Comte, del progresso ordinato e dell’ordine progressivo). La degradazione fu inequivocabile, completa ed irrevocabile. Non c’era in effetti una buona ragione per tollerare l’Altro che, per definizione, si ribellava contro la verità. Come giustamente osservò Spinoza: se io conosco la verità e tu sei ignorante, farti cambiare il modo di pensare e di agire è un mio dovere morale; il trattenermi dal fare così sarebbe crudele ed egoistico. «La modernità non fu semplicemente l’assalto dell’Uomo Occidentale al potere; fu anche la sua missione , prova di rettitudine morale e motivo d’orgoglio». Dal punto di vista dell’ordine umano basato sulla ragione, la tolleranza è sconveniente e immorale. Il nuovo ordine moderno decollò come una disperata ricerca di struttura in un mondo improvvisamente privato di strutture. Le utopie che servirono da fuochi di segnalazione per guidare il lungo cammino che il governo della ragione avrebbe dovuto compiere visualizzarono un mondo senza confini, senza elementi in disparte, estranei: senza dissidenti e ribelli; un mondo in cui, come nel mondo appena lasciato dietro, ciascuno avesse un compito da svolgere e ciascuno fosse pronto a svolgerlo: in cui l’io voglio e l’io debbo si fondessero. Il mondo visualizzato differiva da quello perduto nell’assegnare compiti dove una volta regnava il cieco fato. I compiti da svolgere venivano ormai messi insieme da un piano generale, tracciati dai portavoce della ragione; nel mondo che doveva venire il progetto avrebbe preceduto l’ordine. Gli uomini non dovevano nascere per rimanere nei rispettivi posti: dovevano essere educati,

addestrati o spronati a trovare il posto che più convenisse loro e al quale fossero più adatti. Non sorprende che le utopie scegliessero l’architettura e la pianificazione urbana sia come veicolo che come metafora principale del mondo perfetto che non avrebbe conosciuto il disadattamento e quindi il disordine; in qualsiasi misura queste utopie differissero nel dettaglio, esse si premuravano di descrivere dettagliatamente i quartieri urbani accuratamente suddivisi e strettamente funzionali, la simmetrica e incontaminata geometria di strade e pubbliche piazze, la gerarchia di spazi e di edifici che, nei loro prescritti volumi e nella sobrietà degli ornamenti, rispecchiassero la maestosa sovranità dell’ordine sociale. Nella città della ragione non c’erano strade tortuose, non c’erano strade senza uscita e non c’erano luoghi imprevisti abbandonati al caso; e quindi non c’erano vagabondi, girovaghi o nomadi. In questa città disegnata dalla ragione, senza settori poveri, luoghi al buio e zone barricate per impedirvi l’accesso, doveva crearsi un ordine; non doveva esserci un ordine diverso . Di qui il senso frenetico d’urgenza: nel mondo ci sarebbe stato ordine nella misura in cui ci saremmo adoperati per crearvelo. La prassi derivante dalla convinzione che l’ordine possa essere creato soltanto dall’uomo, che esso sia destinato a rimanere un’imposizione artificiale sul non disciplinato stato naturale di uomini e cose, che per questa ragione esso rimarrà per sempre vulnerabile e bisognoso di una costante sorveglianza e protezione, è il principale (e, in effetti, unico) segno distintivo della modernità. D’ora in avanti, non ci sarebbe stato un momento di respiro, né un allentamento della vigilanza. L’impulso all’ordine sarebbe stato continuamente alimentato da una paura del caos destinata a non dissiparsi mai. Il coperchio dell’ordine non sarebbe sembrato mai sufficientemente ermetico e pesante. La fuga dal deserto, una volta intrapresa, non sarebbe finita mai. In un recente studio, Stephen L. Collins punta il riflettore sul «problema hobbesiano» come epitome di questo spirito moderno: Hobbes comprese che un mondo in continuo mutamento era naturale e che si doveva creare un ordine per frenare ciò che era naturale... La società non è più un riflesso transcendentalmente espresso di qualcosa di predefinito, esterno, e al di fuori di se stessa, che ordini l’esistenza in modo gerarchico. Essa è ormai un’entità nominale

ordinata dallo stato sovrano, che è il suo proprio esplicito rappresentante... [Quarant’anni dopo la morte di Elisabetta] l’ordine stava per essere compreso non come naturale, ma come artificiale, creato dall’uomo, e manifestamente politico e sociale... L’ordine doveva essere ideato per frenare ciò che sembrava diffondersi dappertutto (cioè il continuo mutamento)... L’ordine divenne una questione di potere, ed il potere una questione di volontà, forza e calcolo...Fondamentale per l’intera riconcettualizzazione dell’idea di società fu la convinzione che il bene comune (commonwealth ), poiché era ordine, fosse una creazione umana (Collins, 1989, pp. 2829).

Creare ordine non significa né coltivare né estirpare le differenze. Significa autorizzarle . E ciò significa un’autorità che ne abbia il potere. Corrispondentemente, significa anche il de-legalizzare le differenze non autorizzate. L’ordine può essere soltanto una categoria globale. Deve rimanere altresì, per sempre, un accampamento belligerante, circondato da nemici ed in guerra su tutti i fronti. La differenza non autorizzata è il nemico principale: essa è anche un nemico che infine dovrà essere vinto, un nemico temporaneo, una testimonianza dell’inadeguatezza dello zelo e/o della capacità dell’ordine combattente (per i primi pensatori moderni – si potrebbe ripetere dopo Peter de Bolla – «le esperienze eterogenee del reale indicano una quantità di differenze che debbono essere portate alla somiglianza, che debbono essere omogeneizzate in un soggetto unitario attraverso il confronto e l’accostamento» [de Bolla, 1989, p. 285]). Il potere sovversivo della differenza non autorizzata risiede precisamente nella sua spontaneità , cioè nella sua indeterminatezza vis-à-vis dell’ordine decretato, cioè nella sua imprevedibilità, cioè nella sua incontrollabilità. Nelle sembianze della differenza non autorizzata, la modernità ha combattuto il suo vero nemico: l’area grigia dell’ambivalenza, dell’indeterminatezza e dell’irresolutezza. Difficilmente si potrebbe immaginare un gruppo sociale più rigorosamente differenziato, segregato e gerarchico della popolazione del «Panopticon» : la grande metafora proposta da Jeremy Bentham di una società ordinata e guidata dalla ragione. Eppure, tutti i residenti del «Panopticon» (dal Sovrintendente ai supervisori e ai coabitanti più in basso) sono felici . Sono felici perché vivono in un ambiente attentamente controllato, e così sanno esattamente cosa fare. Non ci sono per loro le sofferenze della frustrazione e il dispiacere del

fallimento. Il divario tra desiderio e dovere è stato colmato (Bauman, 1988). Il compito di colmare questo divario costituì in effetti il fulcro, il focus imaginarius , della battaglia moderna per un ordine razionalmente concepito. Al genio di Bentham rimase il merito di percepire che nessun’altra disposizione servì allo scopo e ne assicurò il conseguimento meglio della prigione. O, piuttosto, che il compito principale all’ordine del giorno è stato quello di superare e ridurre le distinzioni «puramente funzionali» tra prigioni, case di detenzione, case di correzione, riformatori, ospizi per poveri, ospedali, manicomi, scuole, caserme, dormitori e fabbriche. La modernità è stata una lunga marcia verso la prigione. Non vi è mai arrivata (anche se in alcuni luoghi, come la Russia di Stalin, la Germania di Hitler o la Cina di Mao, vi si è molto avvicinata), sebbene non siano mancati i tentativi.

La postmodernità, o il cercare un rifugio dalla paura Siamo stati allevati all’ombra del sinistro monito di Dostoevskij: se non c’è Dio, tutto è permissibile. Se ci capita di essere sociologi di professione, siamo stati anche preparati a condividere il non meno sinistro presagio di Durkheim: se s’indebolisce la presa normativa della società, l’ordine morale è destinato a crollare. Per una qualsiasi ragione, tendiamo a credere che uomini e donne possono essere soltanto spronati o indotti, per forza superiore o per superiore retorica, ad una pacifica coesistenza. Così, siamo naturalmente inclini a considerare con orrore la prospettiva di un livellamento delle gerarchie: soltanto uno storpiamento universale può seguire la scomparsa di verità che dichiarano la loro universalità. (È questo, probabilmente, il motivo principale per cui molti filosofi e politici, e quella parte di ciascuno di noi in cui si annida un filosofo o un politico, combattono la contingenza di fronte alla quale ci si trova come un fato ineluttabile; tanto meno l’accolgono come un destino bene accetto). A mio parere, proprio in questo orrore ed in questo risentimento sta in agguato il più pericoloso potenziale della condizione postmoderna.

Le minacce messe in relazione con la postmodernità sono del tutto comuni: esse sono, si potrebbe dire, completamente moderne nella loro natura. Ora come prima, esse derivano da quell’horror vacui che la modernità trasformò nel principio dell’organizzazione sociale e della formazione della personalità. La modernità fu un tentativo continuo e senza compromessi di riempire o colmare il vuoto; la mentalità moderna sostenne la solida convinzione che il compito potesse essere eseguito: se non oggi, domani. Il peccato della postmodernità è quello di abbandonare questo tentativo e di rifiutare una tale convinzione: questo duplice atteggiamento sembra davvero un peccato, se si ricorda che l’abbandonare un tentativo ed il rifiutare una convinzione non neutralizzano, per se stessi, la terribile forza propellente della paura del vuoto ; e la postmodernità non ha fatto quasi nulla per sostenere il suo disprezzo per la passata pretesa con un nuovo pratico antidoto contro l’antico veleno. E così, uomini e donne sono stati lasciati soli con le loro paure; ad essi è stato detto dai filosofi che il vuoto è qui per rimanervi, e dai politici che l’affrontarlo è un loro compito ed una loro preoccupazione. La postmodernità non ha dissipato le paure che la modernità ha inoculato nell’umanità dopo averla abbandonata alle sue proprie risorse; la postmodernità ha solo privatizzato queste paure. E questa può essere una buona notizia: dopo tutto, nella sua forma collettivizzata la battaglia contro il vuoto è finita fin troppo spesso nelle missioni di classi, nazioni o razze: un grido proveniente da lontano, dal sogno dei filosofi di una pace eterna prodotta dall’universalità della ragione umana. La privatizzazione delle paure non può portare la pace dell’anima, ma può appena allontanare alcune delle ragioni per le guerre tra classi, nazioni o razze. E comunque la notizia non è inequivocabilmente buona. Con le paure privatizzate, la tentazione di correre a cercare un rifugio rimane più che mai forte. Ma non rimane alcuna speranza che la ragione umana, ed i suoi agenti terreni, renderanno la corsa un tour guidato, certo di finire in un sicuro e gradevole rifugio.

Riferimenti bibliografici Bauman, Z. (1988), Freedom , Open University Press, Milton Keynes. Collins, S. (1989), From Divine Cosmos to Sovereign State: An Intellectual History of Consciousness and the Idea of Order in Renaissance England , Oxford University Press, Oxford. De Bolla, P. (1989), The Discourse of the Sublime: Readings in History, Aesthetics and the Subject , Blackwell, Oxford. Rank, O. (1932), Art and Artist: Creative Urge and Personality Development , trad. ingl. di Ch. F. Atkinson, Knopf, New York. Redner, H. (1982), In the Beginning was the Deed: Reflections on the Passage of Faus t, University of California Press, Berkeley. Ricoeur, P. (1990), Au jardin des malentendus , a cura di J. Leenhardt e R. Picht, Actes Sud, Paris. Toulmin, S. (1990), Cosmopolis: The Hidden Agenda of Modernity , Free Press, New York.

7. FIGURE DELLA MODERNITÀ

7.1 Rendere e non rendere estranei [Titolo originale: Making and Unmaking of Strangers, 1993] Tutte le società producono estranei [si preferisce tradurre così la parola inglese stranger , usata da Bauman in tutto il saggio, dove però s’incontra ad un certo punto anche la parola foreigner , nella sua accezione più specifica di «straniero»; in effetti, la parola «estranei» è più comprensiva, rispetto a «stranieri», poiché include tutte quelle caratteristiche di «estraneità», «differenziazione», «diversità», «emarginazione», o anche «parassitismo», sulle quali il sociologo conduce la sua analisi, N.d.T. ] ; ma ogni tipo di società produce il proprio tipo di estranei, e li produce alla sua propria e inimitabile maniera. Se gli estranei sono individui non conformi alla mappa cognitiva, morale o estetica del mondo, ad una di queste mappe, a due o a tutte e tre; se essi, quindi, con la loro semplice presenza, rendono oscuro ciò che dovrebbe essere chiaro, confusa quella che dovrebbe essere una semplice ricetta per l’azione, e/o impediscono alla soddisfazione di essere pienamente soddisfacente, contaminano la gioia con l’ansia nel rendere attraente il frutto proibito; se, in altre parole, essi annebbiano ed eclissano le linee di frontiera che dovrebbero essere viste chiaramente; se, avendo fatto tutto questo, essi generano incertezza, che a sua volta genera il disagio dovuto ad una sensibilità scomparsa, allora ogni società produce simili estranei quando traccia i propri confini e disegna la sua mappa cognitiva, estetica e morale. Essa non può che generare individui che

nascondono linee di demarcazione ritenute fondamentali per la sua vita ordinata e/o significativa, e vengono quindi accusati di provocare il disagio sperimentato come il più doloroso e meno sopportabile. Il più opprimente degli incubi che ha ossessionato il nostro secolo, noto per le paure, gli eventi sanguinosi e i cupi presagi che l’hanno caratterizzato, è stato percepito nel modo migliore da George Orwell, con la sua memorabile immagine di uno stivale che calpesta il volto umano. Nessun volto era sicuro, poiché tutti erano sul punto di essere accusati del crimine di violazione o trasgressione. E poiché l’umanità difficilmente sopporta qualsiasi limitazione, mentre coloro che oltrepassano le frontiere vengono trasformati in estranei, tutti avevano motivo di temere lo stivale creato per calpestare gli estranei nella polvere, per tirar fuori ciò che è estraneo dall’uomo e per evitare a coloro che non-sono-ancora-calpestati-ma-sul-punto-di-esserlo il torto d’ignorare il limite. Gli stivali fanno parte delle uniformi. Elias Canetti scrisse di «uniformi assassine». In un certo momento, nel nostro secolo, divenne comune consapevolezza che gli uomini in uniforme fossero quelli da temere di più. Le uniformi erano simboli distintivi dei servi dello Stato, la fonte di ogni potere, e, soprattutto, di potere coercitivo. Indossando le uniformi, gli uomini diventano questo potere in azione; portando gli stivali, essi calpestano, e calpestano per ordine ed in nome dello Stato. Lo Stato che rivestiva gli uomini di uniformi in modo tale che avessero il permesso e l’ordine di calpestare era anche lo Stato che vedeva se stesso come la fonte, il custode e l’unica garanzia di una vita ordinata, un argine che proteggeva l’ordine dal caos. Era lo Stato che sapeva a cosa dovesse somigliare l’ordine, e che aveva abbastanza forza e arroganza da consentirsi non soltanto di definire disordine e caos tutte le altre situazioni, ma anche di costringerle a vivere in una simile condizione. Era, in altre parole, lo Stato moderno: quello che per legge mise in esistenza l’ordine e lo definì come la trasparenza di divisioni, classificazioni, assegnazioni e limiti vincolanti. I tipici estranei moderni sono stati oggetto di rifiuto da parte della premura ordinatrice dello Stato. Ciò cui gli estranei moderni non

erano adatti era la visione dell’ordine. Quando si tracciano linee divisorie e si separa ciò che ne risulta diviso, tutto ciò che rende confuse le linee e attraversa le divisioni toglie forza al lavoro compiuto e ne danneggia il prodotto. La definizione semantica, per eccesso e/o per difetto, degli estranei ha alterato le divisioni precise e manomesso i segnali indicatori. La loro semplice presenza da ogni parte è stata d’ostacolo al lavoro che lo Stato affermava di voler compiere e ne ha reso vani i tentativi di portarlo a termine. Gli estranei diffondevano incertezza dove avrebbero dovuto regnare certezza e chiarezza. Nell’armonioso ordine razionale che stava per essere costruito non c’era spazio, non poteva esserci spazio, per l’una o per l’altra cosa, per lo stare a cavalcioni, per il cognitivamente ambivalente. La costruzione dell’ordine fu una guerra di logoramento intrapresa contro gli estranei e l’estraneità. In questa guerra (tanto per prendere in prestito due concetti di LeviStrauss) si fece ricorso in modo intermittente a due strategie alternative, anche se complementari. Una fu antropofagica : eliminare gli estranei divorandoli e poi trasformandoli metabolicamente in un tessuto non distinguibile da quello proprio. Questa fu la strategia dell’assimilazione, cioè del rendere simile il differente: il soffocamento delle differenze culturali o linguistiche, la proibizione di tutte le tradizioni e fedeltà, tranne quelle con le quali s’intendeva alimentare la conformità del nuovo ordine complessivo, incoraggiando e rafforzando un solo ed unico criterio di conformità. L’altra strategia fu antropoemetica : vomitare gli estranei, bandendoli dai confini del mondo ordinato e impedendo loro ogni comunicazione con quelli che vi si trovavano dentro. Questa fu la strategia dell’esclusione, cioè del relegare gli estranei entro le mura visibili dei ghetti o dietro le invisibili, ma non meno tangibili, proibizioni della commensalità , del connubium e del commercium , ciò che comportava l’espulsione degli estranei oltre le frontiere del territorio amministrato o amministrabile; o, quando nessuno di questi due provvedimenti era fattibile, il ricorso alla distruzione fisica degli estranei. L’espressione più comune delle due strategie fu il noto scontro tra la versione liberale e quella nazionalista/razzista del progetto

moderno. Gli uomini sono diversi, faceva notare il progetto liberale, ma sono diversi a causa della diversità di tradizioni particolaristiche, locali, nelle quali sono cresciuti e maturati. Essi sono prodotti di un’educazione, creature di una cultura, e quindi flessibili e suscettibili di un rimodellamento. La progressiva universalizzazione della condizione umana, la quale non significa altro che l’estirpazione di ogni provincialismo e delle forze inclini a conservarlo, e conseguentemente il rendere lo sviluppo umano libero dall’invalidante influenza della casualità della nascita, portò a ritenere che la diversità pre-determinata, più-forte-dellascelta-umana, sarebbe svanita. Non è così, obiettava il progetto nazionalista/razzista. Il rimodellamento culturale ha dei limiti che nessuno sforzo umano potrà superare. Certi individui non saranno mai trasformati in qualcosa di diverso da ciò che sono. Essi sono, per così dire, irrimediabilmente imperfetti. Non è possibile liberarli delle loro imperfezioni; ci si può soltanto liberare di essi, insieme alle loro stranezze ed ai loro mali. L’annientamento culturale e/o fisico degli estranei e di ciò che è estraneo fu quindi, nella società moderna e sotto l’egida dello Stato moderno, una distruzione creativa ; un demolire, ma costruire nello stesso tempo; un mutilare, ma anche un raddrizzare. Esso fu parte integrante del costante sforzo di costruire l’ordine, la sua indispensabile condizione e conseguenza. E corrispondentemente, ogni qualvolta si progetta di proposito la costruzione di un ordine, certi abitanti del territorio da rendere ordinato in modo nuovo si trasformano in estranei da eliminare. Sotto la pressione della spinta moderna alla costruzione di un ordine, gli estranei vissero, per così dire, in uno stato di differita estinzione. Gli estranei furono, per definizione, un’anomalia da correggere. La loro presenza fu definita a priori temporanea, anche se come fase corrente nella preistoria dell’ordine che doveva ancora venire. Una coesistenza permanente con gli estranei e con ciò che è estraneo, e la prassi di vivere con estranei, non ebbero bisogno di essere affrontate di punto in bianco come una prospettiva seria. E non ci sarebbe stato tale bisogno fino a quando la vita moderna rimase una vita-verso-un-progetto, fino a

quando questo progetto rimase collettivizzato in una visione di un nuovo ordine globale, e fino a quando la costruzione di un tale ordine rimase nelle mani di uno Stato abbastanza ambizioso e intraprendente da perseguire il compito. Nessuna di queste condizioni, tuttavia, sembra perdurare oggi: un tempo che Anthony Giddens chiama «tarda modernità» (late modernity ), Ulrich Beck «modernità riflessiva» (reflexive modernity ), George Balandier «sovramodernità» (surmodernity ), e che io, insieme a molti altri, abbiamo scelto di chiamare postmoderno: il tempo in cui noi viviamo ora, nella nostra parte del mondo.

Dal disincagliare al rimettere a galla Nel suo tentativo di costruire un ordine, lo Stato moderno si accinse a screditare, sconfessare e scalzare i poteri intermedi di comunità e tradizioni. Se portata a termine, questa impresa avrebbe «disincagliato» (disembed , Giddens) o «sgombrato» (disencumber , MacIntyre) gli individui, avrebbe dato loro il vantaggio di un inizio incondizionato, li avrebbe resi liberi di scegliersi il tipo di vita in cui desiderassero vivere e di regolare e gestire il proprio modo di vivere nel contesto di norme legali formulate dai soli poteri legislativi legittimi, quelli dello Stato. Il progetto moderno prometteva di liberare l’individuo da un’identità ereditata. Ma non prendeva una posizione contro l’identità in quanto tale, contro l’avere un’identità, contro l’avere un’identità salda, resistente ed immutabile. Semplicemente la trasformava da un oggetto di attribuzione ad uno di conquista, rendendola così un compito dell’individuo e una sua responsabilità. In misura più o meno simile all’ordine globale che assicurava gli sforzi vitali dell’individuo, l’identità ordinata (globale, compatta, coerente e continua) dell’individuo veniva plasmata come un progetto , il progetto dell’esistenza (come la formulò Jean-Paul Sartre, con un giudizio già retrospettivo). L’identità doveva essere costruita sistematicamente, piano su piano, mattone su mattone, secondo un

progetto completato prima dell’inizio dei lavori. La costruzione richiedeva una chiara visione della forma finale, un attento calcolo dei passi da compiere per raggiungerla, una pianificazione a lungo termine ed un rendersi conto delle conseguenze di ogni mossa. C’era quindi un legame stretto e irrevocabile tra l’ordine sociale come progetto e la vita dell’individuo egualmente come progetto; quest’ultimo era impensabile senza il primo. Senza gli sforzi collettivi per assicurare alle azioni e scelte dell’individuo un contesto affidabile, sarebbe stato del tutto impossibile costruire un’identità duratura e stabile e vivere la propria vita con lo scopo di conquistare una tale identità. I contesti appaiono affidabili (1) se la loro aspettativa di vita è complessivamente commisurata alla durata del processo di costruzione dell’identità dell’individuo; e (2) se il loro aspetto si presenta immune dalle stravaganze di manie e debolezze incoraggiate singolarmente o collettivamente (nel linguaggio specializzato sociologico: se il «macro-livello» è relativamente indipendente da ciò che avviene al «micro-livello»), in modo tale che i progetti individuali possano essere appropriatamente inseriti in una struttura fidata e non certamente effimera. Ciò si è verificato, complessivamente, per quasi tutta la storia moderna, malgrado la nota accelerazione moderna del cambiamento. Le «strutture» (dagli aspetti fisici dei quartieri ai sistemi valutari) sono apparse abbastanza stabili e solide da resistere a tutte le incursioni delle iniziative individuali e sopravvivere ad ogni scelta individuale, in modo tale che l’individuo ha potuto misurare se stesso a confronto con il difficile e limitato insieme di opportunità, convinto che le scelte possono essere, in linea di massima, razionalmente calcolate ed oggettivamente valutate. Messe a confronto con l’arco biologicamente limitato della vita individuale, le istituzioni che incarnano la vita collettiva (e innanzitutto lo Stato-nazione) sono apparse davvero immortali. Professioni, occupazioni e rispettive abilità non sono invecchiate più rapidamente di coloro che le hanno esercitate. E neppure sono invecchiati i princìpi del successo; il rinviare le gratificazioni è risultato a lungo andare pagante, e i libretti di risparmio hanno sintetizzato la razionalità di una pianificazione a lungo termine. Nella società moderna, che ha impegnato i suoi

membri principalmente nel ruolo di produttori/soldati (Bauman, 1995), l’adeguamento e l’adattamento hanno indicato una sola strada: proprio la volubile scelta individuale aveva bisogno di fare l’inventario, come anche di prendere nota, dei requisiti essenziali «funzionali» del tutto, che in più di un senso, per usare l’appropriata frase di Durkheim, era «più grande di se stesso». Se sono davvero queste le condizioni dell’affidabilità dei contesti, o dell’aspetto dei contesti come affidabile, il contesto della vita postmoderna non supera l’esame. I progetti di vita individuale non trovano un fondo solido dove gettare l’ancora, e gli sforzi per costruire un’identità individuale non riescono a correggere le conseguenze del «disincagliamento» ed a fermare l’io galleggiante e alla deriva. Alcuni autori (particolarmente Giddens) dirigono l’attenzione sugli sforzi ampiamente alla moda di «re-incagliare»; essendo tuttavia presunti, piuttosto che pre-determinati, e sostenuti unicamente dalle risorse notoriamente imprevedibili dell’energia emozionale, i siti del ricercato «re-incagliamento» sono afflitti dalla stessa instabilità e stravaganza che spinge l’io «disincagliato» a ricercarli in primo luogo. L’immagine del mondo generata dalle preoccupazioni della vita è ormai priva di quella solidità e continuità, autentiche o ritenute tali, che furono solitamente il segno distintivo delle strutture moderne. Il sentimento dominante è il senso d’incertezza: per quanto riguarda il futuro aspetto del mondo, il modo corretto di vivervi, ed i criteri con i quali giudicare ragioni e torti del modo di vivere. L’incertezza non è esattamente una nuova arrivata in un mondo caratterizzato da un passato moderno. Ciò che è nuovo, tuttavia, è che essa non è più vista come un semplice disagio temporaneo, che con il dovuto sforzo possa essere o lenito o del tutto superato. Il mondo postmoderno si accinge a vivere in una condizione d’incertezza che è permanente e irriducibile.

Dimensioni dell’incertezza presente Molte caratteristiche del modo contemporaneo di vivere contribuiscono all’opprimente senso d’incertezza: a vedere il futuro

come essenzialmente indecidibile, incontrollabile e quindi tale da fare spavento, ad alimentare il dubbio tormentoso se le attuali costanti contestuali dell’azione dureranno abbastanza a lungo da consentire un ragionevole calcolo dei suoi effetti. Oggi viviamo, per prendere in prestito l’appropriata espressione coniata da Marcus Doel e David Clarke, nell’atmosfera di una paura ambientale . Si consenta di elencarne almeno alcuni dei fattori responsabili. 1. Il disordine del nuovo mondo. Dopo mezzo secolo di divisioni ben definite, di ovvie poste in gioco e di evidenti obiettivi politici e relative strategie, è arrivato un nuovo mondo privo di una struttura visibile e di una qualsiasi, per quanto sinistra, logica. La politica dei blocchi di potere dominò un mondo atterrito dall’entità terrificante delle sue possibilità; e qualunque cosa arrivò a sostituirla fu temuta per la mancanza di una sua coerenza e direzione, e quindi per la indeterminatezza delle possibilità che ne venivano annunciate. Hans Magnus Enzensberger esprime l’angoscia suscitata da un’epoca dominata dalla Guerra Civile (egli ha contato circa quaranta di queste guerre, che vengono combattute ancora oggi: dalla Bosnia all’Afghanistan e Bougainville). In Francia, Alain Minc scrive dell’avvento di Nuovi Secoli Bui, come nel Medio Evo. In Gran Bretagna, Norman Stone si chiede se non siamo tornati al mondo medievale di mendicanti, pesti, conflagrazioni e superstizioni. Se questa sia o no la tendenza del nostro tempo rimane, ovviamente, una questione aperta, cui soltanto il futuro potrà rispondere; ma ciò che ora veramente interessa è che presagi come questi possano essere fatti pubblicamente dai più prestigiosi siti della vita intellettuale contemporanea, ascoltati, valutati e dibattuti. Il «Secondo Mondo» non c’è più; i suoi ex-paesi membri, secondo la felice espressione di Claus Offe, si sono resi conto «del tunnel dopo aver rivisto la luce». Ma con il decesso del Secondo Mondo, il «Terzo Mondo», costituitosi in opposizione ai blocchi di potere come terza forza nell’era di Bandung, e dimostrando di essere una tale forza provocando le paure e le reazioni insensate dei due imperi mondiali avidi di potere, ha abbandonato la scena politica del mondo. Oggi,

all’incirca venti paesi, ricchi ma ansiosi e non sicuri di sé, sono di fronte al resto del mondo, che non è più incline a riconoscere le loro definizioni di progresso e di felicità, ma tuttavia cresce ogni giorno di più dipendente da essi nel preservare qualsiasi felicità o «barbarizzazione secondaria» riassuma nel modo migliore l’influenza globale della metropoli moderna sulla periferia del mondo. 2. La de-regolazione universale, l’indiscutibile e incondizionata priorità concessa all’irrazionalità ed alla cecità morale del mercato competitivo, la libertà illimitata accordata a capitale e finanza a spese di tutte le altre libertà, la lacerazione delle reti di sicurezza socialmente intessute e mantenute nella società, e il disconoscimento di tutte le ragioni tranne quelle economiche hanno dato una nuova spinta all’implacabile processo di polarizzazione, una volta tenuto a freno dalle strutture dello Stato assistenziale, dai diritti contrattuali del sindacato, dalla legislazione del lavoro, e – su scala globale, anche se in questo caso in misura meno convincente – dagli effetti iniziali delle agenzie mondiali incaricate della ridistribuzione del capitale. L’ineguaglianza, tra continenti, tra Stati, e all’interno delle società (al di là del livello del PIL vantato o lamentato dal particolare paese) raggiunge ancora una volta proporzioni che il mondo, una volta fiducioso nella sua capacità di auto-regolarsi ed auto-correggersi, sembrava essersi lasciate dietro una volta per tutte. Da cauti e in ogni caso prudenti calcoli risulta che la ricca Europa conta tra i suoi cittadini circa tre milioni di senza tetto, venti milioni di esclusi dal mercato del lavoro, trenta milioni di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà. Il passaggio dal progetto di comunità, come custode del diritto universale ad una vita decorosa e dignitosa, alla promozione del mercato, come sufficiente garanzia della possibilità universale di auto-miglioramento, accresce ulteriormente la sofferenza dei nuovi poveri, mascherandone la povertà con l’umiliazione e con la negazione della libertà di consumi, ormai identificata con l’umanità. Gli effetti psicologici, tuttavia, giungono ben al di là delle crescenti schiere degli spossessati e di coloro che si trovano nella sovrabbondanza. Soltanto i pochi che sono abbastanza potenti da

costringere gli altri potenti all’obbligo di una cospicua pensione possono essere sicuri che la loro casa, per quanto sontuosa e imponente possa sembrare oggi, non è ossessionata dallo spettro di un crollo domani. Nessun lavoro è garantito, nessuna posizione è assolutamente sicura, non ci sono abilità di utilità duratura, esperienza e capacità pratiche si trasformano in tendenze, non appena diventano disponibilità finanziarie, carriere allettanti si dimostrano fin troppo spesso percorsi suicidi. Nella loro attuale interpretazione, i diritti umani non comportano l’acquisizione del diritto a determinate professioni, per quanto bene esercitate, o, più in generale, il diritto ad attenzione e considerazione per meriti passati. Mezzi di sostentamento, posizione sociale, riconoscimento della propria utilità e diritto alla propria dignità possono svanire tutti insieme dall’oggi al domani, senza preavviso. 3. Le altre reti di sicurezza, che si tessono e mantengono da sole, seconde linee di difesa una volta offerte dal proprio ambiente sociale o familiare, dove ci si poteva ritirare per riaversi dai colpi ricevuti nel contatto con il pubblico, se non proprio cadute in pezzi, oggi risultano almeno notevolmente indebolite. Le mutevoli prassi delle relazioni interpersonali (il nuovo stile di «politica esistenziale» [life politics ] descritto con grande convinzione da Giddens) sono ormai profondamente penetrate dallo spirito dominante del consumismo, e così assegnano all’altro il ruolo di eventuale fonte di un’esperienza piacevole, ed in parte da biasimare: qualsiasi altra cosa quest’altro sia capace di fare, non può generare legami duraturi, non certamente i legami che si presumono duraturi e vengono trattati come tali. I legami generati dall’altro hanno incorporate formule come «fino-ad-ulterioreavviso» e «revocabili-a-piacimento»; essi non promettono né la concessione né l’acquisizione di diritti e obblighi. La lenta ma incessante dispersione e dimenticanza indotta delle abilità sociali ha in sé un’altra parte del biasimo. Ciò che solitamente si metteva e manteneva insieme con le abilità personali e utilizzando le proprie risorse, tende ormai ad essere ottenuto attraverso strumenti tecnologicamente prodotti ed acquistabili sul mercato. Quando tali

strumenti risultano di primaria importanza, la loro mancanza provoca il disgregarsi di società e gruppi. Non solo il soddisfacimento dei bisogni individuali, ma anche la presenza e la permanenza delle comunità diventano mercato-dipendenti, e così riflettono nel modo dovuto la natura capricciosa e l’imprevedibilità del mercato. 4. Come David Bennett ha recentemente osservato, «l’incertezza radicale sul mondo materiale e su quello sociale in cui abitiamo e sul modo di condurre in essi la nostra azione politica... è ciò che ci offre l’industria dell’immagine» (Bennett, 1994, p. 30). In effetti, il messaggio trasmesso oggi con grande forza di persuasione dai mass-media culturali che risultano dovunque più efficaci (e, ci si consenta di aggiungere, facilmente letti da coloro che li ricevono sulla base della loro esperienza, assistita e favorita dalla logica della libertà di consumo) è un messaggio di sostanziale indeterminatezza e malleabilità del mondo: in questo mondo, tutto può accadere e tutto può farsi, una volta per tutte, e qualunque cosa accada, arriva e se ne va senza preavviso. In questo mondo, i legami si dissolvono in successivi incontri, le identità in maschere che si logorano una dopo l’altra, la storia della propria vita in una serie di episodi la cui unica importanza duratura è la loro memoria egualmente effimera. Niente può conoscersi per sicuro, e qualsiasi cosa si conosca può conoscersi in maniera diversa, dato che un modo di conoscere è buono, o cattivo (e certamente altrettanto mutevole e precario) come qualsiasi altro. Lo scommettere è ormai la norma dove una volta si cercava la certezza e l’affrontare rischi sostituisce il tenace perseguimento di obiettivi. Nel mondo, così, non è molto ciò che si potrebbe considerare solido ed affidabile, e nulla ricorda una tela resistente su cui si potrebbe tessere l’itinerario della propria vita. Come qualsiasi altra cosa, l’immagine di se stessi si scompone in una serie d’istantanee, ciascuna delle quali deve evocare, avere ed esprimere un suo proprio significato, molto spesso senza alcun riferimento alle altre istantanee. Anziché costruire la propria identità gradualmente e pazientemente, come si costruisce una casa attraverso la lenta aggiunta di piani, stanze, corridoi, incontriamo una serie di «nuovi inizi», che sperimentano

strutturazioni istantaneamente assemblate ma facilmente smantellate, verniciate una sopra l’altra; l’identità di un palinsesto . È questo il tipo d’identità che s’adatta al mondo in cui l’arte di dimenticare è un pregio non meno importante, se non di più, del memorizzare, in cui il dimenticare, piuttosto che l’apprendere, è la condizione di un continuo adattamento, in cui cose e persone sempre nuove entrano ed escono dal campo visivo dell’immobile telecamera dell’attenzione senza capo né coda, e dove la stessa memoria è come un video-tape , sempre pronto ad essere cancellato per accogliere nuove immagini, e che vanta una garanzia che dura tutta la vita grazie alla meravigliosa capacità di auto-cancellarsi senza fine. Queste sono alcune, certamente non tutte, delle dimensioni dell’incertezza postmoderna. Vivere in condizioni di opprimente incertezza che si autoperpetua è un’esperienza del tutto differente dalla vita subordinata al compito di costruirsi un’identità e vissuta in un mondo propenso alla costruzione di un ordine. I contrasti, sui quali in quell’altra esperienza si basava e appoggiava il significato del mondo e della vita in esso vissuta, perdono molto del loro significato e la maggior parte della loro efficacia euristica e pragmatica nella nuova esperienza. Baudrillard ha scritto diffusamente su questa implosione dei contrasti che danno un senso. Ma insieme alla fine del contrasto tra la realtà e la sua simulazione, tra la verità e la sua rappresentazione, si hanno l’offuscamento e l’attenuazione della differenza tra il normale e l’abnorme, tra il previsto e l’imprevisto, tra l’ordinario ed il bizzarro, tra l’addomesticato ed il selvaggio: tra ciò che è comune e ciò che è strano, tra noi e l’estraneo. Gli estranei non sono più pre-selezionati, definiti e separati in modo autoritario come lo furono solitamente al tempo dei programmi coerenti e duraturi, gestiti dallo Stato, per costruire un ordine. Essi sono ormai variabili e mutevoli come la propria identità; tanto scarsamente stabili quanto irregolari e volubili. L’ipséité [latinismo francese equivalente a «ipseità», termine filosofico che indica la qualità di essere se stessi, N.d.T. ], quella differenza che distingue l’io dal nonio, e «noi» da «loro», non viene più data né dalla forma pre-ordinata del mondo né da un comando dall’alto. Essa ha

bisogno di essere costruita e ri-costruita, costruita di nuovo e ricostruita di nuovo, sull’uno e sull’altro elemento [dell’identità] nello stesso tempo, dato che nessuno dei due elementi vanta una maggiore durata, o semplicemente «disponibilità» (giveness ), dell’altro. Gli estranei di oggi sono dei sottoprodotti, ma anche i mezzi di produzione, nell’incessante, mai conclusivo, processo di costruzione dell’identità.

Libertà, incertezza, e libertà dall’incertezza Ciò che rende certe persone «estranee», e quindi irritanti, snervanti, imbarazzanti e comunque un «problema», è la loro capacità di rendere confuse e di eclissare le linee di demarcazione che dovrebbero essere viste chiaramente. In tempi differenti e in situazioni sociali differenti, i confini differenti dovrebbero essere visti più chiaramente di altri. Nei nostri tempi postmoderni, per le ragioni esposte sopra, i confini che generalmente vengono più fortemente desiderati e dei quali, nello stesso tempo, si soffre più acutamente la mancanza, sono quelli dell’identità : di una posizione legittima e sicura nella società, di uno spazio incontestabilmente proprio, dove si possa progettare la propria vita con il minimo d’interferenze, svolgere il proprio ruolo in un gioco in cui le regole non cambiano dall’oggi al domani e senza preavviso, agire ragionevolmente e sperare per il meglio. Come abbiamo visto, la caratteristica di uomini e donne che oggi vivono nella nostra società è quella di vivere costantemente con il «problema dell’identità» irrisolto. Essi soffrono, si potrebbe dire, della cronica assenza di mezzi con i quali potrebbero costruirsi un’identità davvero solida e duratura, ancorarla ed impedirle di andare alla deriva. Oppure si potrebbe andare anche oltre e additare una caratteristica della loro situazione esistenziale che li rende anche più incapaci, un vero e proprio ostacolo, di natura ambigua, che rende vani gli sforzi più intensi per rendere la propria identità ben definita e affidabile: se il darsi un’identità è un bisogno fortemente sentito ed un impegno significativamente incoraggiato da tutti i più autorevoli mass-media

culturali, l’avere un’identità solidamente basata e resistente alle onde agitate, averla «per tutta la vita», si rivela per molti che non controllano sufficientemente le circostanze della loro vita, più uno svantaggio che un pregio; un carico che impedisce il movimento, una zavorra di cui si debbono sbarazzare per poter rimanere a galla. Questa, possiamo affermare, è una caratteristica universale del nostro tempo. Di qui l’ansia relativa ai problemi d’identità, e la tendenza a preoccuparsi di tutto ciò che di «estraneo» possa essere oggetto dell’ansia perché, in tal modo, vi si trovi un senso, è potenzialmente universale. Ma la gravità specifica di tale caratteristica non è la stessa per tutti; la caratteristica riguarda i vari individui in varia misura e comporta conseguenze che hanno importanza variabile per il conseguimento dei loro obiettivi di vita. Nel suo splendido saggio Purezza e pericolo [titolo completo: Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù ], Mary Douglas ci ha insegnato che quanto percepiamo come impuro o sporco e ci tiene occupati nello strofinare e pulire energicamente è quella anomalia o ambiguità «che non deve essere accolta se il modello deve essere conservato» (Douglas, 1970, p. 53). Essa aggiunse una prospettiva sociologica alla brillante e memorabile analisi del visqueux , del «vischioso», di cui Paul Sartre parla nel suo L’essere e il nulla . Il vischioso, afferma Sartre, è cedevole, o sembra esserlo. Solo nel momento stesso in cui credo di possederlo, ecco che esso, per un curioso rovesciamento, possiede me... Se un oggetto che io tengo nelle mani è solido, posso lasciarlo andare quando mi piace; la sua inerzia simboleggia per me il mio totale potere... Ma è il vischioso quello che rovescia la situazione: [il mio io] è improvvisamente compromesso , apro le mie mani, voglio liberarmi del vischioso ed esso mi si appiccica, mi tira, mi succhia... Non sono più io il padrone... La vischiosità è come un liquido visto in un incubo, dove tutte le sue proprietà sono animate da una sorta di vita e si rivoltano contro di me... Se io mi tuffo nell’acqua, se m’immergo in essa, se mi lascio sprofondare in essa, non sperimento alcun disagio, perché non ho alcuna paura di un qualcosa in cui possa dissolvermi, rimango solido nella sua liquidità. Se sprofondo nel vischioso, sento che sto per perdermi in esso... Toccare il vischioso è rischiare di dissolversi nella vischiosità (Sartre, 1969, pp. 608-10).

Il sentire la differenza dell’acqua in cui nuoto (se so nuotare, cioè, e se la corrente non è troppo forte per le mie capacità e i miei muscoli) è qualcosa che non solo è immune dalla paura, ma è anche piacevole. La

gioia ottenuta da una non comune o rara esperienza inebriante non è offuscata dal timore che possa risultarne qualcosa d’importante per me e più duraturo del piacere. Semmai, immergermi nel lago o nel mare riafferma la mia capacità di mantenere intatta la mia figura, il mio controllo sul mio corpo, la mia libertà e padronanza di me stesso: in ogni momento posso tornare, se lo voglio, ad asciugarmi, non temendo nemmeno per un istante di compromettere, di pregiudicare il mio essere me stesso, l’essere ciò che io penso/voglio che sia il mio essere me stesso. Ma s’immagini di prendere un bagno in una botte piena di resina, catrame, miele o melassa. Diversamente dall’acqua, la sostanza si appiccica, aderisce alla mia pelle, non permette che me ne liberi. Anziché invadere impunemente un elemento insolito, estraneo, mi sento invaso e afferrato da un elemento dal quale non c’è scampo. Non sono più nel controllo, non più il padrone di me stesso. Ho perduto la mia libertà. Così, la vischiosità equivale alla perdita di libertà, o alla paura che la libertà sia minacciata e possa essere perduta. Ma, si consenta d’osservarlo, la libertà è una relazione , una relazione di potere. Io sono libero se posso agire secondo la mia volontà e raggiungere i risultati che intendo raggiungere; questo significa, tuttavia, che certi altri individui risulteranno inevitabilmente limitati nelle loro scelte dalle azioni da me intraprese, e che essi non riusciranno a raggiungere i risultati da loro desiderati. In effetti, io non posso misurare la mia propria libertà in termini assoluti, posso misurarla solo relativamente , confrontandola con la capacità altrui di ottenerla. Così, in definitiva, la libertà dipende da chi è più forte: dalla distribuzione delle capacità e delle risorse materiali che richiede l’azione effettiva. La conseguenza è che la «vischiosità» (l’appiccicosità, la pervicacia, la flessuosità, il trasformare il possesso nell’essere posseduti, il dominio in dipendenza) di un’altra sostanza (e questa include, più di ogni altra cosa, gli altri individui) è una funzione delle mie proprie capacità e risorse. Ciò che sembra vischioso ad alcuni può essere puro, gradevole, dilettevole per altri. E la più pura delle acque può agire in «stile vischioso» nei confronti di una persona che non conosce l’arte di nuotare, come anche di una persona troppo debole per sfidare la forza

di un elemento, per opporre resistenza ad un torrente, per procedere in modo sicuro attraverso le rapide, per rimanere in rotta in mezzo ai vortici ed al gonfiarsi delle onde. Si è tentati di dire che, mentre la bellezza è negli occhi di chi la guarda, la vischiosità di ciò che è vischioso è nella forza (o nel portafoglio) di chi agisce. L’estraneo è non meno sgradito e temuto del vischioso, e per le stesse ragioni (non dovunque, ovviamente, e non sempre). Come ha osservato in maniera ironica Max Frisch nel suo saggio Foreignization [«Estraniazione»], dedicato ai nostri sentimenti nei confronti degli stranieri che vengono a stare nelle nostre città: «ve ne sono semplicemente troppi, e non nei cantieri di lavoro edilizio e non nelle fabbriche e non nelle scuderie e non in cucina, ma durante i pomeriggi. Specialmente di domenica, ve ne sono improvvisamente troppi». Se è così, allora lo stesso principio di relatività che regola il formarsi della vischiosità regola il formarsi di estranei per i quali si prova risentimento, di estranei come individui per i quali ci si deve risentire: l’acutezza del senso di estraneità ed il risentimento che se ne prova crescono con il relativo senso d’impotenza e diminuiscono con la crescita di una relativa libertà. Ci si può aspettare che quanto meno gli individui controllano e possono controllare la loro vita e la loro identità su cui si basa la loro esistenza, tanto più essi verranno percepiti da altri come vischiosi, e tanto più freneticamente cercheranno di districarsi e distaccarsi dagli estranei che essi sperimentano come una sostanza informe che li avvolge, soffoca, inghiotte. Nella città postmoderna, gli estranei significano una cosa diversa per coloro per i quali l’indicazione di «zone barricate per impedirvi l’accesso» (i «settori poveri», i «quartieri difficili») significa «non entrare», e per coloro per i quali esso significa «non uscire». Per alcuni residenti della città moderna, sicuri nelle loro case a prova di ladro nei viali alberati delle periferie, negli uffici fortificati nei centri d’affari intensamente presidiati da forze di polizia, e nelle automobili inzeppate di dispositivi di sicurezza per fare la spola tra casa e ufficio, lo «straniero» è qualcosa di non meno piacevole del surfing , e niente affatto «vischioso». Gli stranieri gestiscono ristoranti che promettono un’esperienza insolita ed eccitante per le papille

gustative, vendono oggetti curiosi e misteriosi che si prestano ad essere oggetto di conversazione nel prossimo party , offrono servizi che altri non si abbasserebbero a fare né si degnerebbero di offrire, fanno balenare scintille di saggezza che costituiscono interessanti novità nella noiosa routine dell’esistenza. Gli stranieri sono persone che si pagano per ciò che offrono e per il diritto di porre fine ai loro servizi una volta che non procurano più alcun piacere. In nessun caso gli stranieri compromettono la libertà del consumatore dei loro servizi. Come il turista, l’acquirente abituale e il cliente, il consumatore di servizi ha sempre ragione: chiede, stabilisce le regole, e soprattutto decide quando l’incontro inizia e quando finisce. Inequivocabilmente, gli stranieri sono fornitori di piaceri. La loro presenza costituisce un’interruzione della noia. Si dovrebbe ringraziare Dio che essi sono qui. Ed allora, perché tutto questo chiasso e frastuono? Il chiasso ed il frastuono provengono, ne possiamo essere certi, da altre aree della città che i consumatori in cerca di piacere non visitano mai, e tanto meno vi vivono. Quelle aree sono abitate da gente che non è in grado di scegliere chi voglia incontrare e per quanto tempo, e che paghi per far rispettare le proprie scelte; gente impotente, che sperimenta il mondo come una trappola, non come un parco giochi, prigioniera in un territorio dal quale non può uscire, ma in cui altri possono entrare quando vogliono. Poiché le sole monete per assicurare la libertà di scelta che abbiano corso legale nella società dei consumi scarseggiano o sono del tutto negate, la gente deve ricorrere ai soli mezzi che possiede in quantità sufficiente da produrre impressione; difende il territorio sotto assedio, per usare la significativa definizione di Dick Hebdidge in Hiding in the Light [«Nascondersi nella luce»], attraverso «rituali, vestendosi in maniera strana, assumendo pose bizzarre, infrangendo regole, rompendo bottiglie, vetri, teste, dichiarando sfide retoriche alla legge» (Hebdidge, 1988, p. 18). Questa gente reagisce in modo selvaggio, rabbioso, disordinato e agitato, così come si reagisce alla forza trascinante/dissolvente, col suo effetto inabilitante, di ciò che è vischioso. La vischiosità degli estranei, si consenta di ripeterlo, è il riflesso della loro impotenza. Proprio la loro mancanza di forza si

cristallizza nei loro occhi come forza terribile. Il debole s’incontra e si confronta con il debole; ma entrambi si sentono come Davide che combatte Golia. Essi sono entrambi «vischiosi» l’uno per l’altro, ma ciascuno combatte la vischiosità dell’altro nel nome della propria purezza. Le idee, come anche le parole che le trasmettono, cambiano il loro significato quanto più viaggiano, ed il viaggio tra le case dei consumatori soddisfatti e le dimore degli impotenti compie un lungo tragitto. Se i soddisfatti e sicuri si esprimono liricamente sulla bellezza della loro condizione di cittadini della Nuova Gerusalemme, glorificano l’eredità e la dignità della tradizione, gli insicuri e i perseguitati lamentano la contaminazione e l’umiliazione della razza. Se i primi si rallegrano per il gran numero di ospiti e si gloriano delle loro menti e porte aperte, i secondi digrignano i denti al pensiero della perduta purezza.. Il benevolo patriottismo dei primi si diffonde come il razzismo dei secondi. Niente stimola all’azione in maniera così frenetica, sfrenata e disordinata come la paura del dissolversi dell’ordine, concretizzato nella figura del vischioso. Ma c’è molta energia che bolle in questo caos; con un certo grado di abilità e astuzia essa può essere raccolta e re-impiegata per dare alla sregolatezza una direzione. La paura del vischioso, accelerata dall’impotenza, è sempre un’arma allettante da aggiungere all’armamento degli avidi di potere. Alcuni di questi ultimi provengono dai ranghi degli impauriti. Essi possono tentare di usare la paura e la rabbia accumulata per evadere dal ghetto assediato; o, secondo la spiritosa espressione di Erving Goffman, per trasformare la stampella in un bastone da golf. Essi possono tentare di condensare il diffuso risentimento dei deboli in un assalto contro estranei egualmente deboli, impastandolo così nelle stesse fondamenta del loro potere, tirannico e intollerante come può esserlo il potere, pur proclamando nello stesso tempo di difendere i deboli contro i loro oppressori. Ma ne risultano attirati molti altri individui che bramano il potere. Basta prendere un autobus, dopo tutto, per riempire il serbatoio vuoto del nazionalismo di carburante razzista. Non c’è bisogno di molta perizia nell’arte della navigazione per far gonfiare le

vele nazionaliste al vento che soffia dall’odio razzista; per arruolare, di conseguenza, gli impotenti al servizio dergli avidi di potere. Si ha solo bisogno di ricordarsi della vischiosità degli estranei.

Teorizzare la differenza: o la strada tortuosa verso un’umanità partecipata La differenza sostanziale tra la modalità socialmente prodotta degli estranei moderni e quella degli estranei postmoderni è che mentre gli estranei moderni erano marchiati per essere destinati all’annientamento e servivano come segnali per indicare la frontiera avanzante dell’ordine-in-costruzione, quelli postmoderni sono destinati, per comune consenso o rassegnazione, gioiosamente o con riluttanza, ad essere qui per rimanervi. Tanto per parafrasare l’osservazione di Voltaire su Dio: se non esistessero, dovrebbero essere inventati. Ed essi vengono davvero inventati, sollecitamente e fervidamente, raffazzonati insieme e indicati con segni distintivi ben visibili o minuscoli e discreti. Essi sono utili proprio nella loro qualità di estranei; la loro estraneità deve essere protetta e premurosamente conservata. Costituiscono dei segnali stradali indispensabili nel percorso di una vita che non ha né un piano né una direzione. E debbono essere in numero non minore e d’aspetto non meno mutevole delle successive e parallele incarnazioni dell’identità nella ricerca senza fine di se stessi. Sotto un importante aspetto, e con importanti ragioni, la nostra è un’epoca caratterizzata dall’eterofillìa [il fenomeno per cui le foglie di una pianta si presentano lungo il fusto con due o più forme diverse, N.d.T. ]. Per i raccoglitori di sensazioni o collezionisti di esperienze diverse quali noi siamo, preoccupati (o costretti a preoccuparsi) di flessibilità e apertura, piuttosto che di fissità e chiusura in se stessi, le differenze procedono alla pari. C’è una risonanza ed un’armonia tra la maniera con cui noi ci occupiamo dei problemi della nostra identità e la pluralità e differenziazione del mondo in cui i problemi dell’identità vengono trattati, o che noi evochiamo mentre ce ne occupiamo. Non è

proprio il fatto che noi abbiamo bisogno di essere circondati da estranei perché, grazie al modo in cui siamo culturalmente conformati, perderemmo, in un mondo uniforme, monotono ed omogeneo, dei preziosi valori necessari per migliorare la vita; c’è di più: un tale mondo senza differenze non potrebbe, senza uno sforzo d’immaginazione, evolversi dal modo in cui le nostre vite sono conformate e condotte. Nella nostra parte postmoderna del mondo l’epoca delle strategie antropofagiche o antropoemetiche è finita. La questione non è più in che modo liberarsi degli estranei e di ciò che è estraneo, ma in che modo convivervi quotidianamente e per sempre. Qualunque realistica strategia si possa immaginare per affrontare ciò che è oscuro, incerto e disorientante deve cominciare dal riconoscere questo fatto. Ed in effetti, tutte le strategie intellettualmente escogitate ancora in competizione oggi sembrano accettare un tale fatto. Si potrebbe dire che sta emergendo un nuovo consenso teoretico/ideologico per sostituirne un altro che risale ad oltre un secolo fa. Se la sinistra e la destra, i progressisti ed i reazionari dell’epoca moderna furono d’accordo nel ritenere che l’estraneità è qualcosa di abnorme e di deplorevole, e che il superiore (perché omogeneo) ordine del futuro non avrebbe avuto spazio per gli estranei, i tempi postmoderni sono caratterizzati da un’unanimità pressoché universale nel ritenere che la differenza è non semplicemente inevitabile, ma buona, preziosa, e tale da doverla salvaguardare e coltivare. Secondo le parole di quell’eminente figura della destra intellettuale postmoderna che è Alain de Benoist, «vediamo motivi di speranza solo nell’affermazione di singolarità collettive, nella riappropriazione spirituale di eredità, nella chiara consapevolezza di radici e di culture specifiche» (1977, p. 9). La guida spirituale del movimento italiano neofascista, Giulio Evola, è anche più brusco: «I razzisti riconoscono la differenza e vogliono la differenza» (1985, p. 98). Pierre-André Taguieff compendia il processo della ri-articolazione postmoderna del discorso razzista coniando l’espressione «razzismo differenzialista». Si noti che queste professioni di fede dichiaratamente di destra, addirittura fasciste, non affermano più, come quelle che le

precedettero, che le differenze tra individui siano esenti da un’interferenza culturale, e che non rientri nelle capacità umane trasformare uno in qualcun altro. Sì, dicono, le differenze – le nostre differenze non meno delle differenze degli altri – sono tutte prodotti umani, culturalmente generati. Ma, dicono anche, differenti culture producono i loro membri in forme e colori differenti, e questo è bene . Non metterai insieme ciò che la cultura, nella sua saggezza, ha tenuto separato. Aiutiamo piuttosto la cultura, qualsiasi cultura, a procedere nel suo proprio modo separato e, meglio ancora, inimitabile. Il mondo sarà così, allora, molto più ricco. La cosa sorprendente, ovviamente, è che un lettore il quale ignorasse che l’autore della prima citazione era Benoist, potrebbe essere perdonato se la scambiasse per un’affermazione programmatica di sinistra; e che la frase di Evola non perderebbe alcunché della sua convinzione se la parola «razzista» fosse sostituita da «progressista», «liberale» o, per quanto riguarda questa faccenda, «socialista». Oggi, non siamo forse tutti, bona fide , differenzialisti? Multiculturalisti? Pluralisti? Accade così che oggi tanto la destra che la sinistra convengono nel dire che il modo preferibile di vivere con gli stranieri è il tenerli in disparte. Tuttavia, forse per ragioni differenti, entrambe si risentono, e ne fanno oggetto di pubblica denigrazione, per le ambizioni universaliste/imperialiste/assimilazioniste dello Stato moderno, ormai smascherato come proto-totalitario per tendenza innata. Provando delusione o repulsione all’idea di un’uniformità imposta per legge, la sinistra, che – essendo tale – non può vivere senza speranza, rivolge oggi i suoi occhi alla «comunità», salutata ed elogiata come la dimora, a lungo perduta ed ora riscoperta, dell’umanità. Mutarsi nuovamente in sostenitori della comunità viene ampiamente considerato, oggi, come un segno di presa di posizione critica, collocabile a sinistra e progressista. Torna pure, comunità, dall’esilio in cui ti ha confinato lo Stato moderno; tutto è perdonato e dimenticato: l’oppressività della ristrettezza di vedute, la propensione genocida del narcisismo collettivo, la tirannia delle comuni pressioni e la combattività e il despotismo della comune disciplina. È un motivo di disagio, ovviamente, trovare individui sgraditi e completamente repellenti con

i quali condividere la stessa attività [si ritiene opportuno rendere così la suggestiva frase idiomatica del testo inglese: bedfellows , «compagni di letto» nello stesso bed , «letto», N.d.T. ]; in che modo riservare l’attività a se stessi e dimostrare che i compagni sgraditi non hanno alcun diritto a parteciparvi: sembra essere questa la questione. A mio parere, gli individui razzisti che partecipano all’attività della comunità sono forse un motivo di disagio per i nuovi occupanti della scena, ma questa non è affatto una sorpresa. Essi si trovavano lì da prima, e questo è un loro diritto di nascita. Entrambi gli occupanti, i vecchi ed i nuovi, sono stati attirati in tale attività dalla stessa promessa e dallo stesso desiderio: di ri-disporre (re-embedding ) l’attività che è stata tolta (disembedded ), di essere liberati dal terribile compito di costruirsi da soli, e dalla opprimente responsabilità individuale per i suoi risultati. Il vecchio razzismo voltò le spalle alla possibilità d’emancipazione inclusa nel progetto moderno. A mio parere, esso, fedele alla sua natura, volta ora le spalle alla possibilità d’emancipazione che reca in sé il mutato contesto postmoderno della vita. Solo che ora, a causa di curiosa amnesia o miopia, non è il solo ad agire così. Esso canta in coro con le voci liriche di un numero crescente di esperti di scienze sociali e di filosofia morale che esaltano il calore delle case comuni e lamentano le sofferenze e tribolazioni dell’io individuale lasciato libero, ma senza casa. Si tratta di un tipo di critica contro il fallimento dello sforzo di emancipazione compiuto dalla modernità che non contiene a sua volta alcuna speranza d’emancipazione: è una critica male indirizzata e, direi, retrograda contro il progetto moderno, come se esso proponesse solamente di spostare il sito dell’inabilitazione e subordinazione dallo Stato universalista alla tribù particolaristica. Esso ha solamente sostituito un «essenzialismo» già discreditato con un altro, non ancora pienamente smascherato in tutto il suo potenziale di dis-abilitazione. A dire il vero, l’auto-determinazione della comunità può agevolare le fasi iniziali del lungo processo di ri-abilitazione degli individui umani, la loro determinazione a resistere alla pressione disciplinare presentemente sperimentata come la più spiacevole ed opprimente.

Ma c’è un punto pericoloso, e spesso trascurato. Ed è quello in cui la ri-abilitazione si trasforma in una nuova dis-abilitazione e l’emancipazione in una nuova oppressione. Una volta che ci si è messi su questa strada, è difficile percepire dove fermarsi, e, normalmente, è troppo tardi fermarsi quando il punto è stato riconosciuto dopo il fatto. Sarebbe opportuno per tutti noi prestare attenzione al recente monito rivolto da Richard Stevers in The Culture of Cynicism: American Morality in Decline [«La cultura del cinismo: la moralità americana in declino»]: Martin Luther King Jr comprese perfettamente che le relazioni razziali ed etniche si sarebbero notevolmente deteriorare se il valore culturale dell’integrazione avesse subìto un declino. In effetti, proprio questo è accaduto negli Stati Uniti. I vari gruppi differenti per diversità di sesso, razza ed appartenenza etnica sono quasi arrivati ad occupare spazi sociali che si escludono reciprocamente... La lotta per l’eguaglianza diventa una lotta per il potere, ma il potere lasciato a se stesso non riconosce l’eguaglianza (Stevers, 1994, p. 119).

Ma esiste una possibilità autentica d’emancipazione nella postmodernità, la possibilità di deporre le armi, di rimuovere le pattuglie di frontiera incaricate di tener lontani gli stranieri, di abbattere il mini-muro di Berlino eretto quotidianamente per tenere a distanza e per separare. Questa possibilità si trova non solo nell’esaltazione di un’etnicità che muti le proprie convinzioni ed in una tradizione tribale autentica o inventata, ma nel portare alla sua conclusione il lavoro di «disincagliamento» (disembedding ) della modernità, con il mettere a nudo l’intricato processo d’autoformazione del soggetto, con il rivelare le condizioni della libertà individuale che (piuttosto che il diritto della gratificazione del consumatore) costituisce l’essenza dell’essere cittadini, che a sua volta trascende i limiti sia nazionali che tribali con l’accentrare l’attenzione sul diritto di scegliere la propria identità come l’unica universalità del cittadino/uomo, sulla fondamentale, inalienabile responsabilità individuale per la scelta, e con il mettere a nudo i complessi meccanismi statali, o tribali, tesi a privare l’individuo di tale libertà di scelta e di tale responsabilità. La possibilità dello spirito di solidarietà tra gli uomini dipende dai diritti dell’estraneo e non dalla risposta alla

domanda su chi sia autorizzato lo Stato o la tribù – a decidere chi siano gli estranei. Jacques Derrida, intervistato da Robert Maggiori per Liberation (24 novembre 1994), invitò ad un ripensamento, piuttosto che all’abbandono, dell’idea moderna di umanesimo. Il «diritto umano», come cominciamo a vederlo oggi, ma soprattutto come possiamo e dobbiamo vederlo, non è il prodotto di una legislazione, ma precisamente l’opposto: proprio esso stabilisce il limite «alla forza, alle leggi dichiarate, ai discorsi politici», e i diritti «fondati» (a prescindere da chi abbia, o chieda, o usurpi la prerogativa di «fondarli» in modo autoritario). «L’essere umano» della filosofia umanistica tradizionale, compreso il soggetto kantiano, è, secondo Derrida, «ancora troppo “fraterno” e, nel proprio subconscio, maschio, legato alla propria famiglia, etnia, nazione, ecc.». Ne consegue, a mio avviso, che la teorizzazione moderna dell’essenza umana e dei diritti umani ha sbagliato per eccesso, lasciando troppo, piuttosto che troppo poco, dell’elemento «impresso» o «conficcato» («encumbered» or «embedded» ) nella sua idea di essere umano; e proprio per questo difetto, piuttosto che per il fatto di appoggiare in maniera troppo acritica le ambizioni omogeneizzanti dello Stato moderno, e di collocare quindi dalla parte sbagliata l’autorità cui si deve l’azione d’«imprimere» o «conficcare» (the «encumbering» or «embedding» authority ), la teorizzazione moderna dovrebbe essere sottoposta ad analisi e ri-valutazione critica. Questa ri-valutazione è un compito filosofico. Ma impedire che la possibilità d’emancipazione fallisca costituisce un compito, oltre che filosofico, anche politico. Abbiamo notato che l’odiosa «vischiosità» dell’estraneo progredisce a mano a mano che diminuisce la libertà degli individui di fronte al compito di auto-affermarsi. Abbiamo anche notato che l’ambiente postmoderno arriva non tanto ad aumentare il volume totale della libertà individuale, quanto invece a ri-distribuirla in una forma sempre più polarizzata: la intensifica tra coloro che si sono lasciati sedurre gioiosamente e di buon grado, mentre la riduce quasi fin oltre il limite della sopravvivenza tra coloro che sono svantaggiati e sotto un completo controllo; con questa polarizzazione non tenuta a freno, ci si può aspettare che il presente

dualismo dello status di estranei socialmente prodotto continuerà implacabile. Su un polo, l’estraneità (e la diversità in generale) continuerà ad essere costruita come fonte di piacevole esperienza e di soddisfazione estetica; sull’altro, come la spaventosa incarnazione di una vischiosità della condizione umana che sta crescendo in maniera innarrestabile, come l’immagine di ogni futuro fuoco rituale per la distruzione dei suoi orrori. E la politica di potere offrirà la sua abituale quota di opportunità per provocare un corto circuito tra i poli: per proteggere la propria emancipazione-attraverso-la-seduzione, quelli vicini al primo polo cercheranno il dominio-attraverso-la-paura su quelli vicini al secondo polo, e così contribuiranno e daranno un sostegno alle loro industrie artigianali di orrori. La vischiosità degli estranei e la politica d’esclusione hanno origine dalla logica della polarizzazione: dalla crescente condizione indicata con le espressioni Two Nations e Mark Two nel mio libro Legislators and Interpreters , ed è così perché la polarizzazione arresta il processo d’individualizzazione, o di autentico e radicale «disincagliamento» per l’«altra nazione», per gli oppressi ai quali sono stati negati i mezzi per costruirsi un’identità, e quindi anche gli strumenti per divenire cittadini. Si tratta non semplicemente di reddito e di ricchezze, di aspettativa e di condizioni di vita, ma anche, e forse nella fase più progettuale, del diritto ad una individualità che si sta polarizzando in misura crescente. E fino a quando rimarrà una tale situazione, ci sarà scarsa possibilità di liberare gli estranei dalla vischiosità in cui si trovano.

Riferimenti bibliografici Bauman, Z. (1995), A Catalogue of Postmodern Fears , in Life in Fragments: Essays in Postmodern Morality , Blackwell, Oxford. Bennett, D. (1994), Hollywood’s Indeterminacy , in «Arena», 3. De Benoist, A. (1977), Dix ans de combat culturel pour une Renaissance , Greece, Paris. Douglas, M. (1970), Purity and Danger, Penguin, Harmondsworth [trad. it. Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e

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7.2 Parvenu e paria: eroi e vittime della modernità [Titolo originale: Parvenu and Pariah: The Heroes and Victims of Modernity, 1997] Sul piano sociale, la modernità riguarda modelli, speranze e colpe. Modelli: invitare, allettare, o stimolare; ma sempre trascinando, stando sempre un passo o due davanti a coloro che cercano di seguirli, sempre procedendo in avanti un po’ più velocemente di coloro che li inseguono. E sempre promettendo che il domani sarà migliore dell’oggi. E sempre mantenendo la promessa come nuova e inalterata, dato che il domani sarà per sempre un giorno dopo. E sempre mescolando la speranza di raggiungere la terra promessa con il senso di colpa di non camminare abbastanza velocemente. Il senso di colpa difende la speranza dalla frustrazione; la speranza bada a che il senso di colpa non si esaurisca mai. «L’homme è coupable – osservava Camus, quel corrispondente straordinariamente perspicace dalla terra della modernità –, mai il l’est de n’avoir su tirer de lui-même» [«L’uomo è colpevole, ma lo è di non aver saputo scuotersi da se stesso» (Camus, 1964, p. 111).

Sul piano psichico, la modernità riguarda l’identità: la verità di un’esistenza che non-c’è-ancora, che è un compito, una missione, una responsabilità. Come il resto dei modelli, l’identità è sempre ostinatamente avanti: si deve correre per raggiungerla. E così si corre, attirati dalla speranza e spinti dal senso di colpa, anche se il correre, per quanto veloce, somiglia stranamente ad uno strisciare. Avanzare verso un’identità perennemente allettante e mai raggiunta somiglia illogicamente all’indietreggiare di fronte alla realtà alterata e illegittima del presente. Sul piano sia sociale che psichico, la modernità è inguaribilmente portata a criticare se stessa: un esercizio continuo e in definitiva privo di prospettive, teso ad annullare e ad invalidare se stessa. Veramente moderna è non la prontezza a rinviare la gratificazione, ma l’impossibilità di essere gratificati. Ogni conseguimento non è che una copia scialba del modello di perfezione. L’«oggi» non è che un iniziale presentimento del domani; o, piuttosto, un suo mediocre, imperfetto riflesso. Ciò che è viene cancellato in anticipo da ciò che deve venire . Ma esso trae la sua importanza ed il suo significato – il suo unico significato – da questa cancellazione. In altre parole, la modernità è l’impossibilità di stare fermi. Essere moderni significa essere in movimento. Non necessariamente si sceglie di essere in movimento, come non si sceglie di essere moderni. Si è messi in movimento con l’essere gettati in un tipo di mondo che è dibattuto tra la bellezza dell’immaginazione e la bruttezza della realtà, una realtà che è stata resa brutta dalla bellezza dell’immaginazione. In un simile mondo, tutti i suoi abitanti sono nomadi; ma nomadi che vagano per stabilirsi in qualche luogo. Dietro l’angolo c’è, dovrebbe esserci, deve esserci, una terra ospitale in cui stabilirsi; ma dietro ogni angolo appaiono nuovi angoli, con nuove frustrazioni e nuove, ma non infrante speranze. L’habitat dei nomadi è il deserto: quel luogo-non-luogo di cui Edmond Jabès ebbe a scrivere che in esso «non ci sono viali, alberati o non alberati, né vicoli ciechi, né strade. Soltanto, qua e là, impronte frammentarie di passi, rapidamente cancellate ed annullate» (Jabès, 1989, p. 34). Il cancellarsi delle orme di ieri è tutto ciò che vi è per

l’illusoria intimità domestica di una sosta per il pernottamento; esso fa sentire confortevolmente l’arrivo nel luogo di pernottamento come un essere a casa, cioè fino a quando anch’esso si trasforma in un’orma destinata ad essere cancellata ed annullata. La vista delle tende piantate ieri sul luogo della sosta di pernottamento è rassicurante: è come se si separasse in un recinto un tratto del deserto, in modo tale che esso possa essere percepito come un’oasi e dare un senso di fine al vagare di ieri. Queste tende piantate ieri, pur non essendo che tende, inducono tuttavia all’inganno di un’auto-congratulazione. Esse provano, se ci fosse bisogno di una prova, l’auto-inganno di un’esistenza che vuole dimenticare il suo passato nomade; tale inganno mostra che la casa non è che un punto d’arrivo, di un arrivo che è pregnante di una nuova partenza. Dovunque essi arrivino e desiderino ardentemente di fermarsi, i nomadi scoprono di essere dei «parvenu» . «Parvenu» , arrivista ; qualcuno che è già nel , ma non del tutto del luogo; un aspirante residente senza permesso di residenza; qualcuno che fa ricordare agli inquilini più vecchi il passato che essi vogliono dimenticare ed il futuro che essi preferirebbero far finta non esistesse; qualcuno che induce gli inquilini più vecchi a ricorrere, per ottenere protezione, ad uffici eretti in fretta per il rilascio di permessi. Al parvenu viene detto di mettersi un’etichetta con su scritto «appena arrivato», in modo che tutti gli altri possano sperare che le loro tende siano costruite in pietra. Il soggiorno del parvenu deve essere dichiarato temporaneo, in modo che quello di tutti gli altri possa sentirsi eterno. Gli inquilini più vecchi odiano i parvenu perché risvegliano i ricordi ed i presentimenti che essi fanno fatica a mettere a dormire. Ma essi difficilmente possono fare a meno dei parvenu , di alcuni di loro che siano marchiati come parvenu , accantonati, accusati di portare il bacillo dell’irrequietezza nei loro corpi; proprio grazie a questa parte così marchiata, e ad essa soltanto, tutti gli altri possono pensare che i brutti sogni ed i presentimenti morbosi sono favole che riguardano altre persone, non certamente loro. Il parvenu ha bisogno di un parvenu per non sentirsi un parvenu . E così i nomadi combattono altri nomadi per il diritto a lasciarsi reciprocamente permessi di residenza.

Questo è l’unico modo possibile per far sentire sicura la propria residenza. L’unico modo in cui essi possono fermare il tempo che rifiuta di fermarsi è quello di contrassegnare lo spazio e d’impedire che i segni siano cancellati o spostati. È questa, almeno, la loro disperata speranza. Secondo l’acuta definizione di Robert Musil, il treno degli eventi è un treno che srotola le sue rotaie avanti a se stesso. Il fiume del tempo è un fiume che trascina via i suoi argini con sé (Musil, 1965, p. 174). Proprio la moderna «liquefazione dei solidi e profanazione delle cose sacre» ha creato tali treni e tali fiumi. I treni premoderni correvano prevedibilmente e noiosamente in circoli, in modo abbastanza simile ai treni con i quali giocano i bambini. E i fiumi premoderni stavano nei loro letti per un tempo abbastanza lungo da sentirsi immemorabile. Come ebbe ad osservare Wylie Sypher, «in qualsiasi società dove la struttura delle classi è così chiusa che ciascuno ha il suo posto, lo conosce e lo mantiene», non c’è posto per un parvenu , né c’è uno scopo al quale un parvenu potrebbe plausibilmente servire: «ma il diciannovesimo secolo produsse un’orda di parvenu » (Sypher, 1960, p. 104). Non furono tali individui, in numero esorbitante, a cominciare a mettere in dubbio le loro definizioni legate a distinzioni di classe o di altro tipo e a rifiutarre di rispettare il proprio posto, ma gli stessi contorni dei posti erano stati cancellati, dato che gli argini dei fiumi erano stati spazzati via con gli stessi fiumi, e l’incertezza era stata chiamata il nuovo , o il meglio , o progresso , essendo divenuta l’unica destinazione ufficiale dei treni. I posti e i loro nomi dovevano ormai essere creati (e, inevitabilmente, ri-creati) «a seconda dell’evenienza». Secondo la memorabile frase di Hannah Arendt, l’autonomia dell’uomo si trasformava nella tirannia delle possibilità . La copia in caratteri ridotti del grande moderno Atto d’Emancipazione conteneva un’ingiunzione contro la stabilità della certezza. Le definizioni vengono subìte ; le identità vengono create . Le definizioni ti dicono chi sei, le identità ti blandiscono con ciò che tu non sei ancora, ma puoi accingerti ad essere. I parvenu erano individui nella ricerca frenetica d’identità. Essi ricercavano un’identità perché, in partenza, erano state negate loro delle definizioni. Era fin troppo

facile concludere che proprio la loro irrequietezza si prestava a definizioni e li faceva accusare dell’atto criminale d’infrangere i divieti di varcare le frontiere. Una volta lanciatisi nell’ampia distesa di possibilità illimitate, i parvenu erano una facile preda: non c’erano luoghi fortificati nei quali nascondersi, non c’erano definizioni sicure da indossare come un’armatura. Da tutti i posti ancora protetti dai vecchi baluardi, e da tutti i luoghi dove si cercava di costruirne dei nuovi, piovevano frecce avvelenate. Fin dai primi anni della sua vita, Wilhelm Meister di Goethe scoprì che solo i giovani aristocratici possono fare assegnamento sulla possibilità di essere presi per ciò che sono , mentre tutti gli altri vengono valutati o condannati per ciò che fanno . Wilhelm Meister trasse l’unica conclusione logica che si poteva trarre: scelse il teatro. Sulla scena, egli assumeva e deponeva delle parti . Era questo ciò che, in ogni caso, egli era condannato a fare nella vita; ma almeno sulla scena, e solo sulla scena, tutti si aspettavano che le parti non fossero che delle parti, e che venissero svolte, e abbandonate, e sostituite da altre parti. Nella vita, da lui si sarebbe aspettato che facesse il contrario o almeno si sarebbe preteso che lo facesse: si sarebbe aspettato che egli fosse ciò che era , anche se proprio di questo gli veniva negato il diritto. La maggior parte dei parvenu non può seguire la scelta di Meister. La vita è la loro scena, e nella vita, diversamente che nel teatro, l’agire con abilità viene definito insincerità, non un pregio; proprio per il fatto di farlo sgorgare dal quotidiano e dal normale, il recitare ritenuto un’attività onorevole è stato confinato entro le pareti del teatro. Nella vita, alle parti si deve negare di essere parti e si deve pretendere che siano identità, anche se le identità non sono disponibili in altra forma che in quella di determinate parti. Nessuno apprende questa verità meglio dei parvenu , vivendo, come essi fanno, sotto la costante, implacabile pressione (per citare Hannah Arendt) di «dover adattare i loro gusti, le loro vite, i loro desideri»; e vedendosi «negato il diritto di essere se stessi in ogni e ciascun momento» (Arendt, 1986, p. 247). L’aver appreso le regole del gioco non significa, tuttavia, essere più saggi. Ancor meno significa avere successo. È poco ciò che i parvenu possono fare per cambiare la loro condizione, per quanto fortemente

lo desiderino. «Non si può modificare la propria immagine: né l’intenzione, né la libertà, l’illusione, la nausea o il disgusto possono aiutare a uscire dalla propria pelle» (Arendt, 1986, p. 31). Eppure, proprio l’uscire dalla propria pelle è ciò che ci si aspetta di fare. Ai parvenu , guidati, controllati e valutati da altri, si chiede di provare la legalità della loro presenza con il sapersi guidare, controllare e valutare da soli, e con l’essere visti come tali. Wilhelm Meister scelse prudentemente di essere attore; i suoi successori moderni sono costretti ad essere attori, anche se rischiano la condanna e lo scherno qualora acconsentano al loro destino. Un vero e proprio circolo vizioso, se mai ce n’è stato uno. E, quasi a sfregare la ferita con il sale, si è avvolti da un profondo silenzio, da un’indifferenza opprimente, da un distacco sconcertante: il gesto di «lavarsi le mani» del Ponzio Pilato che siede in tribunale. Come scrisse Kafka nel romanzo Il processo , «La corte non vuole nulla da te. Ti riceve quando entri e ti congeda quando te ne vai». Il silenzio della corte trasforma l’imputato nel suo proprio giudice: o piuttosto sembra che sia così. Con il pubblico ministero che si astiene dal pronunciare accuse, e con nessun giudice che dà istruzioni alla giuria, sono gli imputati ad essere impegnati nel provare la loro innocenza. Ma innocenza da che cosa? La loro colpa, tutto sommato, non è altro che lo stesso fatto di essere stati accusati, di trovarsi in giudizio. E questa è una colpa che essi non possono negare, per quanto vivacemente possano sostenere la loro innocenza, e per quanto ampie possano essere le prove raccolte a sostegno delle loro ragioni. Per una bizzarra decisione della legislazione francese, i negri di Martinica e Guadalupa sono stati dichiarati francesi, diversamente dai negri del Senegal o della Costa d’Avorio o dagli arabi del Marocco. Qualsiasi cosa venga detta o scritta sui diritti dei frances si estende anche a loro; non c’è nulla da provare, e così non è stato spiccato alcun mandato di comparizione da parte di un tribunale, o non se ne è sentito il bisogno. Ma l’assenza di un tribunale non significa innocenza; significa soltanto che non verrà mai pronunciata una sentenza definitiva e che l’innocenza non sarà mai certificata. Il silenzio della Legge significa l’interminabilità del processo. I negri di

Martinica e Guadalupa debbono provare che il loro status di francesi non richiede prove... Non diversamente dai calvinisti di Weber, essi debbono vivere una vita di virtù (una virtù che, nel loro caso, si chiama «status di francesi») senza sperare che la virtù verrà premiata e malgrado l’angoscioso sospetto che, se anche lo fosse, essi non verrebbero in ogni caso a saperlo. Tutt’intorno si riconosce che essi assolvono il loro compito in modo ammirevole. Eccellono nelle scuole. Sono i più leali e solerti impiegati statali. Anche più fortemente dei loro concittadini con il colore della pelle più chiaro, essi chiedono che le frontiere francesi siano chiuse a quei negri stranieri del Ciad o del Camerun «che non hanno alcun diritto a stare qui». Aderiscono addirittura al Fronte Nazionale di Le Pen per promuovere la purificazione de La Patrie dalle orde dei parvenu destinati a diluire la stessa «francesità» (Frenchhood ) che desiderano abbracciare. Secondo la più esigente tra le norme che si segnalano per la loro pignoleria, i negri di Martinica e Guadalupa sono francesi esemplari. Per i francesi più esemplari proprio questo è precisamente ciò che essi sono: negri di Martinica e Guadalupa che passano per francesi esemplari. Ebbene, proprio questo sforzo quanto mai serio di essere francesi esemplari fa sì che essi siano i negri di Martinica o Guadalupa... Quanto più essi s’adoprano per trasformarsi in qualcosa di diverso da ciò che sono, tanto più essi sono ciò che essi sono stati chiamati a non essere. Ma davvero sono stati chiamati? Alle molte interpretazioni della risposta di Abramo alla chiamata di Dio, fatta oggetto di riflessione da parte di Kierkegaard, Kafka, il grande potavoce dei parvenu di questo mondo, aggiunse quella sua propria : si tratta di un altro Abramo, «che effettivamente desidera compiere il sacrificio nel modo dovuto..., ma non riesce a credere che sia lui ad essere stato scelto, un vecchio ripugnante ed il suo sudicio figlio». «Sebbene temesse di essere schernito, e temesse anche di più di partecipare allo scherno, il suo timore più grande era che, se fosse stato schernito, sarebbe sembrato anche più vecchio e più ripugnante, e suo figlio anche più sudicio. Un Abramo che diventa non chiamato!» Per i parvenu si tratta di un gioco nel quale non si può vincere, almeno fino a quando esso continua ad essere svolto secondo le regole

stabilite, mentre l’uscire dal gioco significa ribellione contro le regole; anzi, un annullamento delle regole. Anche se, come ebbe ad esprimersi Max Frisch, sempre e per ciascuno , nel nostro inquieto mondo della modernità, «identità significa rifiutare di essere ciò che altri vogliono che tu sia», ti viene rifiutato il diritto di rifiutare; non hai un tale diritto, non in questo gioco, non fino a quando gli arbitri agiscono come vogliono. E così, l’impegno reso vano si trasforma in ammutinamento. Il mito dell’appartenenza esplode e la luce abbagliante dell’esplosione tira fuori dalle tenebre del suo esilio la verità dell’incompiutezza, dell’aspettare-ulteriori-indicazioni dell’esistenza di chi procede senza meta. Essere nel mondo sentendosi (o immaginando di sentirsi, o desiderando di sentirsi) a proprio agio, è qualcosa che potrebbe realizzarsi unicamente in un altro mondo, un mondo raggiungibile solo attraverso l’atto di una redenzione . Per parvenu come Lukács e Benjamin, osservò Ferenc Feher, «il modo naturale d’appartenenza, il cui desiderio non abbandonò mai né l’uno né l’altro, fu reso impossibile...; né l’uno né l’altro poteva diventare assimilato o un nazionalista». Il desiderio d’appartenenza poteva solo mirare al futuro, oltre la limitatezza soffocante dell’hic et nunc (qui e ora). Non c’era altra appartenenza in vista se non sull’altro lato della redenzione. E la redenzione non può «arrivare né nella forma del Giudizio Universale, dove c’è un’unica pietra di paragone con cui misurarsi, e con l’Autorità Suprema che siede in tribunale, né nella forma di un atto conciliatorio di redenzione per tutti coloro che sono stati partecipi collettivamente di una sofferenza umana senza fine» (HellerFeher, 1991, p. 303). Si potrebbe combattere per una nuova certezza per risolvere le importune pretese di quella presente; cercare l’autorità finora-nonmessa-in-dubbio da cui si spera che proclami e faccia rispettare nuovi canoni e nuove norme. Oppure si potrebbero prendere strade diverse per quanto riguarda certezze antiche, nuove e ancora future, e seguire l’ingiunzione di Adorno, secondo cui gli esperimenti sono legittimi solo quando non vi sono più certezze. Sono state accolte e provate tutte e due le alternative. Il parvenu Lukács spese la sua vita nella ricerca di un’autorità abbastanza audace e potente da respingere i giudizi di oggi e

proclamare il suo proprio giudizio come se fosse l’Ultimo, che questo fosse la forma esteticamente perfetta o la vaga alleanza tra le sofferenze proletarie e la verità universale. In questo egli seguì una lunga serie di altri parvenu : da Karl Marx, che annunciò l’universalità dell’appartenenza come imminente, una volta che l’uomo universale fosse stato spogliato delle umilianti e degradanti livree del campanilismo, passando per Karl Mannheim, che lottò per trasformare la condizione precaria del sofista itinerante, con il conferirgli l’autorità di un giudizio superiore a tutte le opinioni consolidate, fino a Husserl, che rese trascendentale la soggettività portatrice di verità, autorizzandola quindi a liberarsi delle pretese dichiaratamente false delle soggettività di questo mondo. Il mondo di Benjamin, d’altra parte, fu una serie di momenti storici densi di presagi ancora ingombri dei cadaveri di speranze fallite; un momento, per questa ragione, non è particolarmente differente da un altro. I due pericoli contro i quali cercò di combattere essenzialmente l’azione di Benjamin sono, secondo le parole di Pierre V. Zima, «la différence absolue et la disjonction idéologique (la position d’un des deux termes) [“la differenza assoluta e la disgiunzione ideologica (la posizione di uno dei due termini)”]» e «le dépassement (hégelien, marxien) vers l’affirmation, vers la position d’un troisième terme sur un plan plus élevé [“il superamento (hegeliano, marxiano) verso l’affermazione, verso la posizione di un terzo termine su un piano più elevato”]» (Zima, 1981, p. 137). Nella penna di Benjamin, l’ambivalenza si trasforma nella gabbia di vedetta da dove può essere avvistato l’arcipelago delle possibilità soffocate; anziché una malattia da curare, l’ambivalenza è ora il valore da prediligere e proteggere. Gli angeli osservò Benjamin nel suo Agesilaus Santander (anagramma decifrato da Scholem come Der Angelus Satànus , «l’angelo satana») – «nuovi in ogni momento in innumerevoli schiere, vengono creati in modo tale che, dopo aver cantato il loro inno davanti a Dio, cessano di esistere e trapassano nel nulla». E Adorno ebbe a commentare: Benjamin fu uno dei primi ad osservare che «l’individuo che pensa diviene problematico nel suo intimo, ma senza l’esistenza di qualcosa di sovraindividuale in cui il soggetto isolato potrebbe ottenere una

trascendenza spirituale senza essere oppresso; proprio questo egli espresse nel definire se stesso come uno che abbandonò la sua classe senza, tuttavia, appartenere ad un’altra» (Adorno, 1988, p. 14). Ebbene, come Lukács, Benjamin non fu solo sulla strada da lui scelta. Simmel, con la sua straordinaria predisposizione a decomporre una qualsiasi struttura, per quanto potente, in un fascio di emozioni e pensieri umani, fin troppo umani, fu il primo a mettersi su questa strada; e sarebbero seguiti molti altri, dei quali ci limitiamo a menzionare LéviStrauss, che arrivò ad additare nella storia progressiva un mito più tribale, Foucault, con i discorsi che producono essi stessi tutti i limiti destinati a ridurne e incanalarne la formazione, o Derrida, con le realtà nascoste nei testi che si includono gli uni negli altri nella quadriglia senza fine delle interpretazioni. Come in così tanti simili casi, la rivoluzione moderna finì in un parricidio, poeticamente intuito da Freud nel suo disperato tentativo di penetrare il mistero della cultura. I figli più brillanti e più fedeli della modernità non riuscirono ad esprimere la loro lealtà filiale se non trasformandosi in coloro che le scavarono la fossa. Quanto più essi furono impegnati nella costruzione dell’artefatto che la modernità si accingeva a edificare, dopo aver prima detronizzato e legalmente inabilitato la natura, tanto più scalzarono le fondamenta dell’edificio. La modernità, si potrebbe dire, portava in grembo fin dall’inizio la sua propria Aufhebung [«soppressione/eliminazione»]. I suoi figli furono geneticamente determinati ad essere i suoi detrattori e, in definitiva, la squadra pronta a demolirla. Quelli che ebbero la parte di parvenu (quelli-che-erano-arrivati), ma rifiutarono il conforto dell’arrivo, furono costretti prima o poi a denunciare la sicurezza di qualsiasi porto sicuro; alla fine furono costretti a mettere in discussione lo stesso arrivo come un fine plausibile o desiderabile del viaggio. Di qui il sorprendente caso di una cultura scritta a caratteri cubitali in una lotta condotta con i denti e con le unghie contro la realtà sociale che essa, come del resto tutte le culture, si supponeva dovesse riflettere e servire. In questa disarticolazione e nella conseguente ostilità tra la cultura e l’esistenza che vi s’identifica la modernità viene a trovarsi forse sola fra tutti gli assetti conosciuti della società. Si

potrebbe sicuramente definire la modernità come una forma di vita caratterizzata da una tale disarticolazione: come una condizione sociale in cui la cultura non può servire la realtà se non scalzandola alle radici . Ma di qui anche il carattere straordinariamente tragico – o è schizofrenico? – della cultura moderna, di una cultura che si sente veramente a proprio agio solo nel suo disagio. In questa cultura, il desiderio è contaminato dalla paura, mentre l’orrore presenta attrazioni alle quali è difficile resistere. Questa cultura sogna un’appartenenza, ma teme chiusure e finestre sbarrate; essa ha paura della solitudine chiamata libertà, ma anche di più di qualsiasi altra cosa si risente delle promesse solenni di fedeltà. In qualsiasi direzione si rivolga, questa cultura – come i topi affamati del labirinto di Miller e Dollard – si trova sospesa al punto dell’ambivalenza dove s’incrociano le linee di un’attrazione in declino e di una repulsione in aumento. Walter Benjamin rimproverò Gershon Scholem, suo amico nella condizione d’intrappolamento e avversario nella ricerca di una via d’uscita: «Penso quasi che tu desideri questo stato intermedio, ma dovresti accettare qualsiasi mezzo possa porvi fine». Gli rispose Scholem: «Tu sei compromesso più dalla tua propensione per la comunità... che dall’orrore della solitudine che si rivela da così tanti dei tuoi scritti» (Scholem, 1982, pp. 229, 234). Nel sistema indiano delle caste, il paria era un membro della casta più bassa, o di quella che non era una casta . In un ordine intoccabile d’appartenenza, chi poteva essere più intoccabile di coloro che non appartenevano ad alcuna condizione? La modernità proclamò che nessun ordine fosse intoccabile, dato che tutti gli ordini intoccabili dovevano essere sostituiti da un nuovo ordine artificiale, dove vengono costruite strade che conducono dal basso in alto, e così nessuno rimane privo per sempre di un’appartenenza. La modernità costituì così la speranza del paria. Ma il paria poteva cessare di essere un paria solo diventando, e lottando per diventare, un parvenu . Ed il parvenu , non avendo mai lavato via la macchia della sua origine, procedeva faticosamente sotto una costante minaccia di essere nuovamente deportato nel paese dal quale aveva cercato di fuggire; deportazione nel caso che fallisse; deportazione nel caso che avesse

successo in misura troppo spettacolare per il gradimento di coloro che lo circondavano. Neppure per un momento l’eroe cessò di essere una potenziale vittima. Eroe oggi, vittima domani: il muro divisorio tra le due condizioni era sottile come un foglio di carta. E il non appartenere ad alcuno stato significava il non poter contare sulla protezione di alcuno: anzi, la quintessenza dell’esistenza del paria era quella di non poter contare su alcuna protezione. Quanto più velocemente si corre, tanto più velocemente si torna ad esser fermi. Quanto più grande è la frenesia con cui si lotta per tagliarsi fuori dalla casta dei paria, tanto più grande è il proprio esporsi come paria privo di qualsiasi appartenenza. Fu l’allettante immagine di un maestoso artefatto che splendeva alla fine del tunnel a far decidere il paria a mettersi in viaggio e a trasformarlo in parvenu . Fu la sofferenza di un viaggio senza fine a offuscare lo splendore di quell’artefatto e ad intaccarne l’attrazione: guardando indietro alla strada percorsa, i ricercatori di dimore nelle quali potersi stabilire avrebbero abbandonato le loro passate speranze come un miraggio, ed avrebbero chiamato la loro nuova delusa parsimonia la fine dell’utopia, la fine dell’ideologia, la fine della modernità, o l’avvento dell’epoca postmoderna. E così avrebbero detto: le patrie artificiali sono allucinazioni nel migliore dei casi, delusioni crudeli in quello peggiore. Non più rivoluzioni per porre fine a tutte le rivoluzioni. Non più il protendersi verso un futuro dolce che diventa amaro nel momento in cui diviene presente. Non più re filosofi. Non più salvezza da parte della società. Non più sogni su identità inesistenti, sogni che rovinano la gioia delle definizioni di cui si dispone. Il viaggio non ha portato alcuna redenzione al parvenu . Forse, una volta che non c’è un luogo dove arrivare, la dolorosa situazione dell’arrivista può essere cancellata insieme al viaggio? Con il tramonto del sole universale, scrisse lo studente Karl Marx, le farfalle notturne si radunano attorno alla luce della lampada domestica. Con il prosciugarsi del lago artificiale ad alta tecnologia dell’universalità, le putrescenti paludi del provincialismo di ieri brillano in maniera invitante come i porti naturali per chiunque abbia

bisogno di nuotare con sicurezza. Non più salvezza da parte della società; ma forse la comunità renderà la salvezza non necessaria? «Non dovremmo cercare appigli celesti, ma solo normali punti d’appoggio», è questo il modo in cui Richard Rorty riassume lo stato d’animo di chi è privo di speranza, e procede con l’esaltare l’etnocentrismo e con il consigliarci di dedicarci, anzichè perdere tempo nella vana ricerca di oggettività e di punti di vista universali, a problemi come i seguenti: «Con quali comunità dovremmo identificarci?», «Cosa dovrei farne della mia solitudine?» (Rorty, 1991, pp. 13-14). Isaiah Berlin, d’altra parte, dichiara ai suoi intervistatori che c’è un nazionalismo avido, intollerante, crudele e cattivo in molti altri modi, ma c’è anche un nazionalismo cordiale, confortevole, in pace con la natura e con se stesso e quindi anche, si spera, con i suoi vicini: «le doux nationalism» [«il nazionalismo gradevole»], come lo chiamano i francesi coscienziosi che sono sconcertati dai successi spettacolari di Le Pen e cercano disperatamente di guadagnare terreno sul sinistro avversario. Lo stanco nomade condannato alla vita di sofferenza di un parvenu desidera ancora un’appartenenza. Ma egli ha rinunciato alla speranza che l’appartenenza possa essere conseguita attraverso l’universalità. Egli non crede più in lunghe vie traverse. Egli sogna ora delle scorciatoie. O, meglio ancora, di arrivare senza mettersi in viaggio; di arrivare a casa senza effettivamente muoversi mai. Qualsiasi cosa in passato fu una virtù si è trasformata in vizio. E i vizi di un tempo sono stati (e, si spera, non in maniera postuma) riabilitati. La sentenza è stata annullata, quelli che la proferirono sono stati condannati o licenziati come giudici incompetenti. Ciò che la modernità si accinse a distruggere, ha il suo giorno di dolce vendetta. Comunità, tradizione, la gioia di essere chez soi [«a casa propria»], l’amore dei propri cari, l’essere attaccati alla propria razza, l’orgoglio di esserlo, le radici, il sangue, il suolo, la nazionalità: sono altrettanti valori che non vengono più condannati; al contrario, sono i loro critici e detrattori, i profeti di un’umanità universale, coloro che vengono ora sfidati a provare le proprie ragioni, con il dubbio che potranno riuscirci. Forse viviamo in un’epoca postmoderna, forse no. Ma certamente

viviamo in un’epoca di tribù e di tribalismo. Proprio un tribalismo miracolosamente rinato inietta linfa e vigore nell’elogio della comunità, nella acclamazione dell’appartenenza, nella ricerca appassionata della tradizione. Almeno in questo senso il lungo andirivieni della modernità ci ha portati nel punto da dove partirono i nostri antenati. O almeno così può sembrare. La fine della modernità? Non necessariamente. Sotto un altro aspetto, dopo tutto, la modernità è in larghissima misura con noi. È con noi nella forma del più specifico dei suoi tratti specifici: quello della speranza, la speranza di rendere le cose migliori di quanto lo siano, dato che esse sono, finora, non abbastanza buone. Sia comuni predicatori di un semplice tribalismo che eleganti filosofi di forme di vita basate sul valore della comunità ci dicono ciò che essi fanno nel nome di un cambiamento delle cose per il meglio. Qualsiasi cosa di buono abbiano prodotto le idee di «oggettività» e di «trascendenza» per la nostra cultura, può essere ottenuto altrettanto bene dall’idea di «comunità», afferma Rorty, e proprio questo è ciò che rende quest’ultima idea attraente per i ricercatori di ieri delle strade universali verso un mondo in cui gli uomini possano abitare in modo conveniente. I progetti razionali di perfezione artificiale, e le rivoluzioni miranti a imprimere in essi una forma del mondo, hanno tutti fallito miseramente nel dare ciò che ci si aspettava dalle loro promesse. Forse le comunità, calde e ospitali, riusciranno a dare ciò che esse, le fredde astrazioni, non sono riuscite a dare. Noi desideriamo ancora che il lavoro sia portato a termine; semplicemente lasciamo cadere gli strumenti che si sono dimostrati inutili e cerchiamo di prenderne altri – quali, chi lo sa? – con i quali si possa ancora portare a termine il lavoro. Si potrebbe dire che siamo ancora d’accordo sul fatto che la felicità maritale sia una buona cosa; solo che non appoggeremmo più l’opinione di Tolstoj secondo cui tutti i matrimoni felici sono felici alla stessa maniera. Sappiamo abbastanza bene perché non ci piacciono più gli strumenti che abbiamo voluto abbandonare. Per circa due secoli gli uomini che meritavano o chiedevano di essere ascoltati con attenzione e rispetto hanno raccontato la vicenda di un habitat umano che

curiosamente coincideva con quella dello stato politico e del regno dei suoi poteri legislativi e delle sue ambizioni. Il mondo umano era, secondo la memorabile interpretazione di Parsons, lo spazio «coordinato secondo determinati princìpi», il regno sostenuto o sul punto di essere sostenuto da princìpi uniformi affermati dagli sforzi congiunti dei legislatori e dagli esecutori armati o senza armi della loro volontà. Proprio un tale spazio artificiale venne rappresentato come un habitat che risulta «naturalmente adatto» ai bisogni umani e, ciò che è la cosa più importante, si adatta al bisogno di gratificare i bisogni. La società «coordinata su determinati princìpi», possibilmente razionalmente progettata e controllata, doveva essere quella società buona che la modernità si accingeva a costruire. Due secoli sono un lungo periodo, abbastanza lungo da permettere a tutti noi di comprendere ciò che grandi menti isolate come quella, per esempio, di Jeremy Bentham, intuirono fin dall’inizio: cioè che un «coordinamento su determinati princìpi» razionalmente progettato si adatta egualmente bene ad una scuola e ad un ospedale come ad una prigione e ad un riformatorio. Quel periodo ci ha anche mostrato che il muro che separa il marchio «benigno» dell’ingegneria razionale dalla sua variante maligna, tendente al genocidio, è così traballante, instabile e permeabile che – parafrasando Bertrand Russell – non si sa quando si debba cominciare a piangere... Quanto alle comunità – quegli organismi che secondo quanto si dice non sono inventati, ma si sviluppano naturalmente, normali punti d’appoggio, anziché appigli celesti – non sappiamo ancora tutte quelle cose che sappiamo solo fin troppo bene sul Grande Artefatto che la modernità promise di costruire. Ma possiamo congetturare. Sappiamo che il gusto moderno per la perfezione progettata si concentrò sulla per altro diffusa eterofobia, e la incanalò ripetutamente, in stile staliniano o hitleriano, verso gli sbocchi del genocidio. Possiamo soltanto supporre che il confuso tribalismo, diffidente nei confronti di soluzioni universali, avrebbe scelto per l’eterofobia più la soluzione dell’esilio che quella del genocidio. Separazione, piuttosto che assoggettamento, prigionia o annientamento. Come ebbe a dire Le Pen, «Io adoro i nordafricani, ma

il loro posto è nel Maghreb». Sappiamo altrettanto bene che il più importante conflitto della situazione moderna si sviluppò dall’intrinseca ambivalenza delle pressioni tendenti all’assimilazione, che incitarono all’eliminazione delle differenze nel nome di un modello umano universale, pur indietreggiando nello stesso tempo di fronte al successo dell’operazione; ma possiamo solo ipotizzare che un’ambivalenza egualmente pregna di conflitto si rivelerà nell’ammissione postmoderna della differenza, che muta direzione tra gli estremi egualmente sgradevoli e non sostenibili del «liberalismo antiproibizionista», che rinuncia umilmente al diritto di confrontare e valutare gli altri, e del dilagante tribalismo, che nega agli altri il diritto di confrontare e valutare. Non vi è alcuna certezza, e neppure un’alta probabilità, che nell’universo popolato da comunità non rimarrà spazio per i paria. Ciò che sembra più plausibile, tuttavia, è che la via di fuga del parvenu dalla condizione di paria risulterà chiusa. La propensione per l’eterogeneità (mixophilia ) può essere sostituita dalla fobia per l’eterogeneità (mixophobia ); la tolleranza della differenza può senz’altro appaiarsi al piatto rifiuto della solidarietà; il discorso monologico, piuttosto che cedere il passo a quello dialogico, si frammenterà in una serie di soliloqui, a patto che chi parla non insisti più sull’essere ascoltato, ma rifiuti di ascoltare. Si tratta di prospettive reali, abbastanza reali da concedere una pausa al gioioso coro dei sociologi che accolgono volentieri il nuovo sensibile mondo delle comunità. La sociologia registra un lungo e famoso primato di sicofantìa. Fin dalla sua nascita, essa s’impose come il principale poeta di corte della società centrata sullo Stato e da esso coordinata, dello Stato incline a proibire qualsiasi cosa che non sia stata prima resa obbligatoria. Con lo Stato non più interessato all’uniformità, che perde interesse per una cultura che è ormai una pratica di routine, e lascia volentieri il compito dell’integrazione sociale a forze di mercato amanti della varietà, la sociologia cerca disperatamente nuove corti dove si possa ricorrere alle abilità e all’esperienza di cortigiani in pensione. Per molti, le mini-corti endemicamente fissipare [che si riproducono per

scissione, N.d.T. ] di comunità immaginarie, le ideologie domestiche e le tradizioni inventate a livello tribale appaiono proprio come ciò di cui hanno bisogno. Ancora una volta, sebbene in modo notevolmente diverso da prima, si può abbellire la pratica con fondamenti teoretici, tracciando eleganti diagrammi di una realtà confusa. Ancora una volta si può annunciare una nuova ambivalenza come una soluzione logica, ed un miglioramento definitivo di quella vecchia. Le abitudini dei cortigiani sono dure a morire.

Riferimenti bibliografici Adorno, Th. W. (1988), Introduction to Benjamin’s Schriften (1955), in G. Smith (a cura di), On Walter Benjamin: Critical Essays and Recollections , MIT Press, Cambridge, MA. Arendt, H. (1986), Rahel Varnhagen: la vie d’une Juive allemande à l’époque du Romantisme , trad. franc. di H. Plard, Tierce, Paris. Camus, A. (1964), Carnets, janvier 1942-mars 1951 , Gallimard, Paris. Heller, A. – Feher, F. (1991), The Grandeur and Twilight of Radical Universalism , Transaction, New Brunswick, NJ. Jabès, E. (1989), Un étranger avec, sous le bras, un livre de petit format , Gallimard, Paris. Musil, R. (1965), The Man without Qualities , vol. 2, trad. ingl. di E. Wilkins – E. Kaiser, Capricorn, New York [trad. it. L’uomo senza qualità , Einaudi, Torino 19805]. Rorty, R. (1991), Objectivity, Relativity and Truth: Philosophical Papers , vol. 1, Cambridge University Press, Cambridge. Scholem, G. (1982), Walter Benjamin: The Story of a Friendship , Faber & Faber, London. Sypher, Wylie (1960), Rococo to Cubism in Art and Literature , Vintage, New York. Zima, P. V. (1981), L’ambivalence dialectique: entre Benjamin et Bakhtine , in «Revue d’esthétique» 1.

8. IL SECOLO DEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO

8.1 La sociologia dopo l’Olocausto [Titolo originale: Sociology After the Holocaust, 1989] Civilization now includes death camps and Muselmänner among its material and spiritual products [«La civiltà comprende ormai campi di concentramento di morte e Muselmänner (“musulmani”) tra i suoi prodotti materiali e spirituali»] Richard Rubenstein – John Roth, Approaches to Auschwitz .

Vi sono due modi di minimizzare, giudicare erroneamente, o snobbare il significato dell’Olocausto per la sociologia come teoria della civiltà, della modernità, della civiltà moderna. Uno è quello di presentare l’Olocausto come qualcosa che è accaduto agli Ebrei: come un evento della storia giudaica . Ciò rende l’Olocausto un fatto unico, tale da essere tranquillamente considerato non indicativo e privo di conseguenze sul piano sociologico. L’esempio più comune di un tale modo di vedere è la presentazione dell’Olocausto come il punto culminante dell’antisemitismo europeocristiano: un fenomeno in se stesso straordinario, che sfugge a qualsiasi confronto nel contesto dell’ampio e folto inventario di pregiudizi e aggressioni di natura etnica o religiosa. In mezzo a tutti gli altri casi di antagonismi collettivi, l’antisemitismo si colloca da solo per la sua sistematicità senza precedenti, per la sua intensità ideologica, per la sua diffusione sovra-nazionale e sovra-territoriale, per la sua eccezionale mescolanza di sorgenti e affluenti di dimensione

sia locale che ecumenica. Nella misura in cui esso viene definito, per così dire, come il perpetuarsi dell’antisemitismo attraverso mezzi diversi, l’Olocausto appare come «uno dei tanti prodotti», un prodotto episodico, che forse getta un po’ di luce sulla patologia della società in cui si è verificato, ma che difficilmente aggiunge qualcosa alla nostra interpretazione dello stato normale di questa società. Ancor meno esso provoca una qualsiasi revisione significativa dell’interpretazione ortodossa della tendenza storica della modernità, del processo di civilizzazione, dei temi che costituiscono la ricerca sociologica. Un altro modo – apparentemente in direzione opposta, ma che conduce in pratica allo stesso punto d’arrivo – è quello di presentare l’Olocausto come un caso estremo di un’ampia e comune categoria di fenomeni sociali: una categoria certamente odiosa e repellente, ma con la quale si può (e si deve) convivere. Dobbiamo convivere con essa a causa della sua elasticità e ubiquità, ma soprattutto perché la società moderna è stata fin dall’inizio, è e rimarrà, un’organizzazione destinata a farla regredire, e forse anche a soffocarla del tutto. Così, l’Olocausto viene classificato come un’altra voce (per quanto notevole) nell’ampia classe che comprende molti casi «simili» di conflitto, di pregiudizio, o d’aggressione. Nella peggiore delle ipotesi, si fa riferimento all’Olocausto come ad una predisposizione «naturale», primordiale e culturalmente inestinguibile, della specie umana: l’aggressività istintiva di cui parla Lorenz (1977), o l’incapacità della parte corticale del neo-encefalo (neo-cortex ) di cui parla Arthur Koestler (1978), di controllare quella parte primordiale del cervello che risulta dominata dall’emotività. In quanto pre-sociali ed immuni da manipolazione culturale, i fattori responsabili dell’Olocausto vengono effettivamente rimossi dall’area dell’interesse sociologico. Nella migliore delle ipotesi, l’Olocausto viene inserito nella categoria più terrificante e sinistra, eppure ancora teoreticamente assimilabile, del genocidio; o anche semplicemente confuso nell’ampia classe, fin-troppo-comune, dell’oppressione e persecuzione etnica, culturale o razziale. Che si prenda in considerazione l’una o l’altra delle due ipotesi, gli effetti sono però in grandissima parte gli stessi. L’Olocausto viene incluso nel comune flusso della storia:

Considerato in questa maniera, ed accompagnato dall’opportuna citazione di altri orrori storici (le crociate religiose, il massacro degli eretici albigesi, la decimazione turca degli armeni, e persino l’invenzione inglese dei campi di concentramento durante la Guerra dei Boeri), diventa fin troppo comodo vedere l’Olocausto come qualcosa di «unico»: eppure, dopo tutto, normale (Kren – Rappoport, 1980, p. 2).

Oppure le origini dell’Olocausto vengono rintracciate nella documentazione solo-fin-troppo-familiare delle centinaia di anni di ghetti, di discriminazioni legali, di massacri organizzati e di persecuzioni degli ebrei nell’Europa cristiana; e viene così dimostrato come una conseguenza straordinariamente orripilante, ma del tutto logica, dell’odio etnico e religioso. Nell’una o nell’altra maniera, la bomba viene disinnescata; non c’è alcun effettivo bisogno d’importanti revisioni della nostra teoria sociale; il nostro modo di vedere la modernità, il suo potenziale nascosto ma fin-troppopresente, la sua tendenza storica, non richiede alcun’altra profonda analisi, poiché i metodi e i concetti messi insieme dalla sociologia sono del tutto adeguati ad affrontare questa sfida: a «spiegarla», a «trarne un significato», a comprenderla. Il risultato complessivo è un compiacimento teoretico. Niente, in effetti, è accaduto da giustificare una diversa critica del modello di società moderna che sia stata altrettanto utile quanto la struttura teoretica e la legittimazione pragmatica della pratica sociologica. Finora, un dissenso significativo nei confronti di questo atteggiamento compiaciuto e soddisfatto di sé è stato espresso per lo più da storici e teologi. Scarsa attenzione è stata prestata a queste voci da parte dei sociologi. Messi a confronto con l’enorme mole di opere prodotte dagli storici, e con la quantità di studi profondi nei quali si sono impegnati teologi sia cristiani che ebrei, i saggi dedicati dai sociologi di professione all’Olocausto appaiono marginali e trascurabili. Questi studi sociologici, nel modo in cui sono stati finora portati a termine, mostrano oltre ogni ragionevole dubbio che quanto l’Olocausto ha da dire sullo stato della sociologia è più di quanto la sociologia nella sua forma presente sia in grado di aggiungere alle nostre conoscenze dell’Olocausto . Questo fatto allarmante non è stato ancora affrontato dai sociologi (tanto meno ha ricevuto una loro risposta). Il modo in cui la professione sociologica percepisce il suo compito

riguardo all’evento chiamato «l’Olocausto» è stato espresso forse nella maniera più pertinente da uno dei più eminenti rappresentanti di tale professione, Everett C. Hughes: Il Governo Nazional Socialista della Germania effettuò sugli Ebrei il più colossale esempio di «lavoro sporco» nella storia. I problemi cruciali riguardanti un simile fatto sono i seguenti: (1) chi sono gli individui che effettivamente eseguono un simile lavoro; e (2) quali sono le circostanze nelle quali altri individui «buoni» consentono loro di farlo? Ciò di cui abbiamo bisogno è una migliore comprensione dei sintomi di una loro ascesa al potere e un modo migliore per tenerli lontani dal potere (Hughes, 1962, pp. 310).

Fedele ai princìpi consolidati della pratica sociologica, Hughes definisce il problema attribuendogli i seguenti compiti: quello di scoprire la particolare combinazione di fattori psico-sociali che potrebbero essere appropriatamente connessi (come elemento determinante) con le peculiari tendenze comportamentali messe in mostra dagli esecutori del «lavoro sporco»; quello di elencare un altro insieme di fattori che diminuiscono la resistenza (prevedibile, anche se non imminente) a tali tendenze da parte di altri individui; e quello di acquisire come risultato una certa quantità di conoscenze esplicativepredittive che, in questo nostro mondo razionalmente organizzato, governato com’è da leggi causali e probabilità statistiche, consentiranno a quelli che ne verranno in possesso d’impedire alle tendenze «sporche» di manifestarsi, di esprimersi in un comportamento effettivo e di arrivare alle loro deleterie, «sporche» conseguenze. Quest’ultimo compito verrà probabilmente portato a termine applicando lo stesso modello d’azione che ha reso il nostro mondo razionalmente organizzato manipolabile e «controllabile». Ciò di cui abbiamo bisogno è una migliore tecnologia per la vecchia, ma non certamente screditata, attività d’ingegneria sociale. In quello che è stato finora il più notevole tra i contributi chiaramente sociologici allo studio dell’Olocausto, Helen Fein (1979) ha fedelmente seguito i consigli di Hughes. Essa si è assunto il compito di spiegare un certo numero di variabili psicologiche, ideologiche e strutturali che appaiono fortemente correlate con le percentuali di Ebrei vittime o sopravvissuti all’interno delle varie realtà nazionali dell’Europa dominata dai nazisti. Sulla base di tutti i parametri

ortodossi, la Fein ha prodotto un esempio quanto mai impressionante di ricerca. Le caratteristiche delle comunità nazionali, l’intensità dell’antisemitismo locale, i livelli d’acculturazione e assimilazione ebraica, la risultante solidarietà trasversale all’interno delle comunità, sono altrettanti elementi attentamente e correttamente analizzati, in modo tale che le correlazioni possano essere appropriatamente valutate e controllate per la loro rilevanza. Certe connessioni ipotetiche vengono mostrate come non esistenti, o almeno come non valide ai fini statistici; altre caratteristiche che ricorrono regolarmente vengono statisticamente confermate (come la correlazione tra l’assenza di solidarietà e la probabilità di «diventare insensibili a costrizioni morali»). Proprio a causa delle indiscutibili capacità sociologiche dell’autrice, e alla competenza con cui esse vengono messe in atto, nel libro della Fein risulta inconsciamente smascherata la debolezza della sociologia ortodossa. Se non si rivedono alcuni dei presupposti essenziali, anche se taciti, del discorso sociologico, non è possibile fare qualcosa di diverso da ciò che ha fatto la Fein: concepire l’Olocausto come un prodotto straordinario, ma del tutto specifico, di una particolare concatenazione di fattori sociali e psicologici, che condussero ad una sospensione temporanea del controllo sotto il quale viene tenuto normalmente il comportamento umano. In tale prospettiva (implicitamente, se non esplicitamente) una cosa che emerge intatta e illesa dall’esperienza dell’Olocausto è l’influsso umanizzante e/o razionalizzante (i due concetti vengono usati con valore sinonimo) dell’organizzazione sociale sugli impulsi disumani che governano il comportamento d’individui preo anti-sociali. Qualunque impulso morale debba trovarsi nel comportamento umano è socialmente prodotto. Esso scompare quando la società non funziona nella maniera dovuta. «In una condizione anomica libera da controllo sociale si può reagire senza considerare la possibilità di offendere gli altri» (Fein, 1979, p. 34). Implicitamente, la presenza di un efficace controllo sociale rende una tale mancanza di considerazione improbabile. L’impulso del controllo sociale – e quindi della civiltà moderna, notevole com’è per lo spingere la pretesa di regolamentare fino a limiti mai prima ascoltati – consiste nell’imposizione di

costrizioni morali sull’egoismo altrimenti aggressivo e sugli istinti selvaggi dell’animale che è nell’uomo. Dopo aver sottoposto i fatti dell’Olocausto al vaglio di quella metodologia che la definisce come scienza, la sociologia ortodossa può solo trasmettere un messaggio determinato più dai suoi presupposti che dai «fatti in questione»: il messaggio che l’Olocausto è stato un fallimento, non un prodotto, della modernità. In un altro notevole saggio sull’Olocausto, Nechama Tec ha cercato di analizzare quanti hanno svolto la loro azione sociale dalla parte opposta: i «soccorritori», cioè coloro che hanno cercato d’impedire di portare a termine il «lavoro sporco», che hanno dedicato la propria vita a coloro che soffrivano in un mondo d’egoismo universale; in altre parole, agli individui rimasti morali in condizioni immorali . Fedele ai princìpi della scienza sociologica, la Tec ha cercato in profondità le determinanti sociali di quello che, secondo tutti i parametri di giudizio del tempo, era un comportamento anomalo. Una dietro l’altra, essa ha sottoposto a verifica tutte le ipotesi che ogni sociologo esperto e degno di questo nome includerebbe certamente nel suo progetto di ricerca; ha vagliato le correlazioni tra predisposizione a soccorrere, da una parte, ed i vari fattori di classe, educazione, denominazione o appartenenza politica, dall’altra, solo per scoprire che non ve ne era alcuna. A dispetto delle sue stesse aspettative, e di quelle dei suoi lettori sociologicamente preparati, la Tec non ha potuto trarre che un’unica conclusione possibile: «Questi soccorritori hanno agito nel modo che era per loro naturale: sono stati spontaneamente capaci di muoversi contro gli orrori del loro tempo» (Tec, 1986, p. 193). In altre parole, i soccorritori erano desiderosi di soccorrere perché questa era la loro natura. Essi provenivano da tutti gli angoli e settori della «struttura sociale», rivelando in tal modo l’illusione di una presenza di «determinanti sociali» del comportamento morale; semmai, il contributo di tali determinanti si è espresso nel fatto che esse non sono riuscite a spegnere il desiderio dei soccorritori di aiutare chi si trovava nella sofferenza. La Tec si è avvicinata più della maggior parte dei sociologi alla scoperta che il vero punto in questione non è «Cos’è che noi, i sociologi, possiamo

dire sull’Olocausto?», ma, piuttosto, «Cos’è che l’Olocausto ha da dire su di noi, i sociologi, e sulla nostra pratica?» Se è vero che la necessità di porsi una simile domanda sembra essere un elemento urgentissimo, anche se trascurato nella maniera più ignominiosa, del retaggio lasciatoci dall’Olocausto, se ne debbono considerare attentamente le conseguenze. È semplicemente fin troppo facile reagire esageratamente all’evidente fallimento delle comuni intuizioni della sociologia. Una volta infranta la speranza di contenere l’esperienza dell’Olocausto nella cornice teoretica di un cattivo funzionamento (la modernità incapace di sopprimere i fattori essenzialmente estranei dell’irrazionalità, le pressioni della civiltà che non riescono ad assoggettare impulsi emotivi e violenti, una socializzazione che diventa inetta, e quindi incapace di produrre il volume necessario di motivazioni morali), si può essere facilmente tentati di cercare l’ovvia uscita dall’impasse teoretico, di proclamare l’Olocausto un «paradigma» della civiltà moderna, il suo prodotto «naturale», «normale» (anzi, forse anche comune ), cioè la sua «tendenza storica». In questa versione, l’Olocausto verrebbe promosso allo status di verità della modernità, anziché essere riconosciuto come una possibilità contenuta dalla modernità: la verità solo superficialmente nascosta dalla formula ideologica imposta da coloro che traggono vantaggio dalla «grossa menzogna». In modo perverso, una tale opinione (ne tratteremo più dettagliatamente nel quarto paragrafo), dopo aver dichiaratamente innalzato il significato storico e teoretico dell’Olocausto, potrà solo sminuirne l’importanza, quando gli orrori del genocidio saranno divenuti praticamente non distinguibili da altre sofferenze che la società moderna genera indubbiamente, e abbondantemente, ogni giorno.

L’Olocausto come prova della modernità Qualche anno fa un giornalista di Le Monde intervistò alcune persone che erano state vittime di dirottamenti aerei. Una delle cose più interessanti da lui scoperte fu un’incidenza eccezionalmente alta di

divorzi tra le coppie che erano passate congiuntamente attraverso l’angosciosa esperienza di ostaggi. Incuriosito, egli cercò di appurare le ragioni che avevano indotto i divorziati alla loro decisione. La maggior parte degli intervistati gli dichiarò che essi non avevano mai preso in considerazione un divorzio prima del dirottamento. Ma, durante l’orribile episodio, «si erano loro aperti gli occhi», ed «essi avevano visto i loro partner sotto una nuova luce». Mariti generalmente gentili «si erano dimostrati» creature egoiste, preoccupate esclusivamente del proprio stomaco; coraggiosi uomini d’affari avevano mostrato una disgustosa codardia; intraprendenti «uomini di mondo» erano crollati e non avevano fatto altro che lamentare la loro imminente rovina. Il giornalista si pose una domanda: quale delle due incarnazioni delle quali ciascuno di questi Giano Bifronte era chiaramente capace era la vera faccia, e quale era la maschera? Egli concluse che la domanda era posta in modo sbagliato. Nessuna delle due facce era «più vera» dell’altra. Entrambe erano possibilità da sempre possedute dal carattere delle vittime, ma che erano venute alla superficie in tempi e circostanze differenti. La faccia «buona» sembrava normale solo perché condizioni normali l’avevano favorita rispetto all’altra. Ma l’altra era sempre presente, anche se normalmente invisibile. L’aspetto più affascinante di questa scoperta fu, tuttavia, che se non fosse stato per l’avventura del dirottamento, l’«altra faccia» sarebbe rimasta probabilmente nascosta per sempre. I partner avrebbero continuato a godere del loro matrimonio, inconsapevoli delle qualità poco attraenti che circostanze inaspettate e straordinarie potevano tuttavia svelare in persone che essi ritenevano di conoscere, apprezzando ciò che conoscevano. Il brano del saggio di Nechama Tec da noi precedentemente citato termina con questa osservazione: «se non fosse stato per l’Olocausto, la maggior parte di questi soccorritori avrebbe forse continuato ad andare per la propria strada, alcuni nella ricerca di azioni caritatevoli da compiere, altri conducendo una vita semplice e riservata. Essi erano eroi in letargo, spesso non distinguibili da coloro che li circondavano». Una delle conclusioni più efficacemente (e convincentemente) sostenute del saggio dichiarava l’impossibilità di «individuare in

anticipo» i segni, o sintomi, o indicatori, della predisposizione individuale al sacrificio, o della codardia di fronte all’avversità; cioè, di decidere, fuori del contesto che fa nascere o semplicemente «risveglia» queste due eventualità, la probabilità del loro successivo manifestarsi. John R. Roth pone la stessa alternativa «potenzialità-realtà» (con la prima che è un modo non-ancora-manifestato della seconda, e la seconda un modo già-manifestato, e quindi empiricamente accessibile, della prima) a diretto contatto con il nostro problema: Se fosse prevalso il dominio nazista, il potere di stabilire ciò che si doveva fare avrebbe ritenuto che nell’Olocausto non era stata infranta alcuna legge naturale e non era stato commesso alcun crimine contro Dio e l’umanità. Si sarebbe chiesto, tuttavia, se i lavori forzati dovessero continuare, espandersi, o cessare. Queste decisioni sarebbero state prese su basi razionali (Roth, 1980, p. 70).

Il timore inespresso di cui è permeata la nostra memoria collettiva dell’Olocausto (e collegato in modo più che accidentale al desiderio soverchiante di non guardare questa memoria in faccia) è il sospetto lancinante che l’Olocausto potrebbe essere qualcosa di più che un’aberrazione, di più che una deviazione dalla strada altrimenti diretta del progresso, di più che un’escrescenza cancerosa sul corpo altrimenti sano della società civilizzata; che, in altre parole, l’Olocausto non fu un’antitesi della civiltà moderna e di tutto ciò (o così ci piace pensare) che essa rappresenta. Noi sospettiamo (anche se ci rifiutiamo di ammetterlo) che l’Olocausto potrebbe aver semplicemente scoperto un’altra faccia della stessa società moderna di cui ammiriamo così tanto l’altra faccia, a noi più familiare; e che le due facce siano congiunte in modo perfettamente naturale allo stesso corpo. Ciò che forse temiamo di più è che ciascuna delle due facce non possa esistere senza l’altra più di quanto non possano esistere l’uno senza l’altro i due lati di una medaglia. Spesso noi ci fermiamo proprio sulla soglia della terribile verità. E così Henry Feingold insiste nel dire che l’episodio dell’Olocausto rappresentò in effetti un nuovo sviluppo nella lunga, e complessivamente priva di colpe, storia della società moderna; uno sviluppo che non avevamo alcun modo di aspettarci e prevedere, come un insorgere di un nuovo tipo maligno di virus che si riteneva

debellato: La Soluzione Finale caratterizzò il momento in cui il sistema industriale europeo fallì; anziché innalzare la vita, ciò che era la speranza originaria dell’Illuminismo, esso cominciò a logorarsi. Proprio per effetto di questo sistema industriale e delle norme di vita ad esso connesse l’Europa era riuscita a dominare il mondo.

Come se le capacità necessarie impiegate per conseguire il dominio del mondo fossero qualitativamente differenti da quelle che assicurarono l’efficacia della Soluzione Finale. E tuttavia Feingold guarda la verità in faccia: [Auschwitz] fu anche una normale estensione del sistema moderno di fabbrica. Non si producevano beni di consumo, ma il materiale grezzo era rappresentato da esseri umani ed il prodotto finale era la morte, con così tante unità diligentemente annotate ogni giorno sui registri amministrativi della produzione. Dalle ciminiere, simbolo stesso del sistema moderno di fabbrica, usciva fuori l’acre fumo prodotto da carne umana bruciata. La rete ferroviaria brillantemente organizzata dell’Europa moderna trasportava un nuovo tipo di materiale grezzo alle fabbriche. E lo faceva in modo non diverso da quello usato per altre merci. Nelle camere a gas le vittime inalavano gas tossico generato da pillole di acido prussico prodotte dall’avanzata industria chimica della Germania. A ingegneri si doveva il progetto dei crematori, agli amministratori si doveva l’invenzione di un sistema burocratico che funzionava con tale raffinatezza ed efficienza da suscitare l’invidia della nazioni più retrograde. Anche il piano generale in se stesso era il riflesso di uno spirito scientifico moderno ormai scomparso. Ciò cui abbiamo assistito non era altro che un imponente programma d’ingegneria sociale... (Feingold, 1983, p. 398).

La verità è che ogni «ingrediente» dell’Olocausto – tutte quelle cose che lo resero possibile – era normale; «normale» non nel senso di comune, di un esempio in più in un’ampia classe di fenomeni già da lungo tempo dettagliatamente descritti, spiegati e accettati (al contrario, l’esperienza dell’Olocausto era nuova e non comune), ma nel senso di essere pienamente in armonia con tutto ciò che conosciamo della nostra civiltà, con lo spirito che la guida, con le sue priorità, con la sua visione immanente del mondo, e con i modi più opportuni di cercare la felicità umana insieme ad una società perfetta. Nelle parole di Sillman e Pfaff, C’è qualcosa di più che una connessione del tutto fortuita tra la tecnologia applicata della produzione a catena di massa, con la sua visione di abbondanza di materiali per tutti, e la tecnologia applicata del campo di concentramento, con la sua

visione di una profusione di morte. Vorremmo forse negare la connessione, ma Buchenwald fece parte del nostro Occidente non meno del River Rouge di Detroit...; non potremmo rifiutare Buchenwald come una casuale aberrazione di un mondo occidentale essenzialmente sano (Stillman – Pfaff, 1964, pp. 30-31).

Si consenta di ricordare anche la conclusione raggiunta da Raul Hilberg alla fine del suo insuperato e autorevole saggio sul compimento dell’Olocausto: «Il meccanismo della distruzione, allora, non fu strutturalmente distinto dalla società tedesca organizzata nel suo insieme. Il macchinismo della distruzione fu la comunità organizzata in uno dei suoi ruoli speciali» (Hilberg, 1983, p. 994). Richard L. Rubenstein ha delineato quella che a me sembra la lezione fondamentale dell’Olocausto. «Esso testimonia – ha scritto – il progresso della civiltà » (Rubenstein, 1978, p. 195). Esso fu un progresso, si consenta di aggiungere, in un duplice senso. Nella Soluzione Finale il potenziale industriale e la capacità ed esperienza tecnologica, vanto della nostra civiltà, hanno scalato nuove vette nell’affrontare con successo un compito d’importanza senza precedenti. E nella stessa Soluzione Finale la nostra società ci ha svelato la sua capacità finora insospettata. Poiché ci è stato insegnato a rispettare ed ammirare l’efficienza tecnica e la validità dei progetti, non possiamo se non ammettere che, nell’esaltare il progresso materiale apportato dalla nostra civiltà, ne abbiamo purtroppo sottovalutato il vero potenziale. Il mondo dei campi di morte e della società che li genera rivela l’altra faccia che va sempre più rafforzandosi della civiltà giudeo-cristiana. Civiltà significa schiavitù, guerre, sfruttamento, e campi di morte. Significa anche igiene medica, idee religiose elevate, arte bella, e musica eccellente. È un errore immaginare che civiltà e crudeltà selvaggia siano antitetiche... Nei nostri tempi le forme di crudeltà, come moltissime altre facce del mondo in cui viviamo, risultano distribuite con efficacia di gran lunga maggiore di quanto sia mai accaduto prima. Esse non sono cessate e non cesserano di esistere. Sia la creazione che la distruzione sono aspetti inseparabili di ciò che chiamiamo civiltà (Rubenstein, 1978, p. 195).

Hilberg è uno storico, Rubenstein un teologo. Ho esaminato profondamente le opere di sociologi alla ricerca di affermazioni che esprimano una simile consapevolezza dell’urgenza del compito posto dall’Olocausto, come anche di una prova che l’Olocausto presenta, tra le altre cose, una sfida alla sociologia in quanto professione e in

quanto insieme di conoscenze accademiche. Messa a confronto con l’opera compiuta da storici o teologi, la maggior parte della sociologia accademica somiglia di più ad un esercizio collettivo teso a dimenticare e a chiudere gli occhi. Complessivamente, le lezioni dell’Olocausto non hanno lasciato molta traccia sul senso comune sociologico, che include tra molti altri certi articoli di fede come i benefici del dominio della ragione sulle emozioni, la superiorità della razionalità sull’azione irrazionale (e cos’altro ancora?), o l’endemico contrasto tra le esigenze d’efficacia e le tendenze morali delle quali sono inguaribilmente permeate le «relazioni personali». Per quanto forti e pungenti, le voci della protesta contro questa fede non sono ancora penetrate attraverso le pareti dell’edificio sociologico. Non conosco molte occasioni nelle quali i sociologi, qua sociologi, si sono pubblicamente confrontati con le prove dell’Olocausto. Una di queste occasioni (anche se su piccola scala) venne offerta dal simposio su La società occidentale dopo l’Olocausto , organizzato dall’Istituto per lo Studio dei Problemi Sociali Contemporanei (Legters, 1983). Durante il simposio, Richard L. Rubenstein propose un tentativo originale, anche se forse eccessivamente emotivo, di rileggere, alla luce dell’esperienza dell’Olocausto, alcune delle più famose diagnosi di Weber delle tendenze della società moderna. L’intento di Rubenstein era quello di scoprire se le cose che noi conosciamo, ma che Weber ovviamente ignorava, avrebbero potuto essere previste (dallo stesso Weber e dai suoi lettori), almeno come possibilità, da ciò che Weber conosceva, percepiva o teorizzava. Egli ritenne di aver trovato una risposta positiva a questa domanda, o almeno lo diede ad intendere in questi termini: che nella rappresentazione offerta da Weber della burocrazia moderna, dello spirito razionale, del principio d’efficienza, della mentalità scientifica, della relegazione dei valori nel campo della soggettività, ecc., non si registrava alcun meccanismo che fosse capace di escludere la possibilità degli eccessi nazisti; che, inoltre, non c’era nulla nei tipi ideali di Weber che costringesse a definire le azioni dello Stato nazista come eccessi . Per esempio, «nessuno degli orrori perpetrati dalla professione medica tedesca o dai tecnocrati tedeschi fu in

contraddizione con l’opinione secondo cui i valori sono intrinsecamente soggettivi e la scienza è intrinsecamente strumentale ed esente da valori». Guenther Roth, eminente studioso weberiano e sociologo di alta e meritata reputazione, non cercò di nascondere il suo disappunto: «Il mio dissenso nei confronti del professor Rubenstein è totale. Non c’è neppure una frase nella sua rappresentazione che io possa accettare». Probabilmente irritato per il possibile danno che ne poteva ricevere la memoria di Weber (un danno nascosto, per così dire, nella stessa idea di «previsione»), Guenther Roth ricordò all’assemblea che Weber era un liberale, amava la costituzione ed approvava i diritti della classe lavoratrice nel prendere decisioni (e quindi, ragionevolmente, non se ne poteva collegare il nome con un fatto così abominevole come l’Olocausto). Egli si astenne, comunque, dal confrontarsi con la sostanza di quanto affermava Rubenstein. Analogamente, si privò della possibilità di considerare seriamente le «conseguenze impreviste» del crescente dominio della ragione che Weber identificava come l’attributo centrale della modernità e alla cui analisi egli diede un contributo di fondamentale importanza. Egli non colse l’occasione di fronteggiare risolutamente l’«altra faccia» delle visioni percettive trasmesse dai classici della tradizione sociologica; e neppure l’opportunità di ponderare se le nostre tristi conoscenze, delle quali i classici non disponevano, possano consentirci di scoprire nelle loro intuizioni cose delle cui complete conseguenze essi stessi non potevano essere consapevoli, se non in modo oscuro. Con ogni probabilità, Guenther Roth non è l’unico sociologo che si schiererebbe a difesa delle verità ritenute sacre dalla nostra comune tradizione malgrado prove contrarie; è giusto che moltissimi altri sociologi non siano stati costretti a farlo in maniera così aperta. Nel complesso, non dobbiamo preoccuparci della sfida costituita dall’Olocausto nella nostra pratica professionale quotidiana. Professionalmente, siamo riusciti in tutto tranne che nel dimenticarlo, o nel confinarlo nell’area d’«interessi specialistici», da cui esso non fornisce alcuna possibilità di arrivare alla corrente principale della disciplina. Qualora venga anche minimamente discusso nei testi

sociologici, l’Olocausto viene presentato nella migliore delle ipotesi come un triste esempio di ciò che una selvaggia aggressività umana innata possa fare, e viene usato allora come un pretesto per sollecitare le capacità di domarla attraverso un’aumentata urgenza del processo di civilizzazione ed un ulteriore ricorso all’abilità di risolvere i problemi (problem-solving ). Nella peggiore delle ipotesi, esso viene ricordato come un’esperienza privata degli Ebrei, come una questione tra Ebrei e coloro che li odiano (una «privatizzazione» alla quale molti portavoce dello Stato d’Israele, ispirati da preoccupazioni diverse da quelle escatologiche, hanno contribuito in misura tutt’altro che secondaria). Questo stato di cose preoccupa non solo, e non certamente in primo luogo, per ragioni di natura professionale, per quanto pregiudizievole esso possa essere per il potenziale conoscitivo e la rilevanza della sociologia nella società. Ciò che rende una tale situazione molto più inquietante è la consapevolezza che se «essa si è potuta verificare in scala così massiccia altrove, può allora verificarsi dovunque; essa rientra del tutto nella gamma delle possibilità umane, e, piaccia o no, Auschwitz espande l’universo della coscienza non meno dell’atterraggio sulla luna» (Kren – Rappoport, 1980, pp. 126, 143). La preoccupazione difficilmente può diminuire, considerato il fatto che nessuna delle condizioni della società che resero possibile Auschwitz è realmente scomparsa, e non si è presa alcuna misura efficace per impedire a possibilità e princìpi di questo genere di provocare catastrofi come quella di Auschwitz; come ha recentemente rilevato Leo Kuper, «lo stato territoriale sovrano rivendica, come parte integrante della sua sovranità, il diritto a compiere genocidi, o ad impegnarsi nello sterminio di massa contro popolazioni che si trovano sotto il suo dominio, e... le Nazioni Unite, per tutti gli scopi pratici, difende questo diritto» (Kuper, 1981, p. 161). Un servizio postumo che può essere reso dall’Olocausto è quello di consentire di analizzare in profondità «altri aspetti», che altrimenti rimarrebbero inavvertiti, dei princìpi sociali insiti nella storia moderna. A mio parere, si dovrebbe guardare all’esperienza dell’Olocausto, ormai oggetto di dettagliata e approfondita ricerca da parte degli storici, come, per così dire, ad un «laboratorio» sociologico.

L’Olocausto ha svelato e verificato certe caratteristiche della nostra società che non si rivelano, e quindi non sono empiricamente accessibili, in condizioni di «non-laboratorio». In altre parole, proporrei di considerare l’Olocausto come un test eccezionale, ma significativo ed attendibile, delle possibilità nascoste della società moderna .

Il significato del processo di civilizzazione Il mito eziologico profondamente radicato nell’autocoscienza della nostra società occidentale è il racconto moralmente edificante di un’umanità che emerge dalla barbarie pre-sociale. Questo mito suscitò e rese popolare, e a sua volta ne ricevette un sapiente e prezioso sostegno, un numero limitato di autorevoli teorie sociologiche e resoconti storici: un nesso illustrato nei tempi più recenti dall’esplosione dell’importanza e del successo che dall’oggi al domani ha riscosso la presentazione del «processo di civilizzazione» da parte di Elias. Opinioni contrarie di sociologi contemporanei (vedi, per esempio, le dettagliate analisi di svariati processi di civilizzazione: quelle storiche e comparative di Michael Mann, quelle sintetiche e teoretiche di Anthony Giddens), che hanno messo in risalto la crescita della violenza militare e l’uso sfrenato della coercizione come caratteristiche più salienti del nascere e del rafforzarsi delle grandi civiltà, hanno un lungo cammino da percorrere prima di riuscire a rimuovere il mito eziologico dalla coscienza comune, o anche soltanto dal diffuso folclore della professione. Complessivamente, l’opinione comune reagisce ad ogni sfida al mito. La sua resistenza è sostenuta, inoltre, da un’ampia coalizione di rispettabili opinioni erudite, tra le quali alcune così autorevoli come quella rappresentata dalla «visione Whig» [liberale] della storia, secondo cui la ragione vince la sua battaglia contro la superstizione; o come quella rappresentata dalla visione weberiana della razionalizzazione come movimento teso ad ottenere di più con minore sforzo; o come quella rappresentata dalla promessa psicoanalitica di smascherare, scoprire e addomesticare l’animale che è nell’uomo; o come quella rappresentata dalla grande

profezia di Marx della vita e della storia che arriveranno a stare sotto il pieno controllo della specie umana solo quando questa sarà stata liberata dagli attuali debilitanti particolarismi; o come quella rappresentata dalla raffigurazione, proposta da Elias, della storia recente tesa ad eliminare la violenza dalla vita quotidiana; o come quella, soprattutto, rappresentata dal coro di esperti i quali ci assicurano che i problemi umani sono oggetto di linee di condotta politica sbagliate, mentre quelle giuste dovrebbero significare l’eliminazione dei problemi. Dietro questa coalizione sta saldo lo Stato moderno in funzione di «giardiniere», che considera la società da esso governata come oggetto di progettazione, di coltivazione, d’intossicazione prodotta dalle erbe cattive. Nella prospettiva di questo mito, ossificatosi da lungo tempo nel senso comune della nostra era, l’Olocausto può essere interpretato solo come l’incapacità della civiltà (cioè dell’azione umana diretta ad uno scopo e guidata dalla ragione) di frenare le istintive predilezioni morbose per tutto ciò che della natura è rimasto nell’uomo. È ovvio che il mondo hobbesiano non è stato incatenato del tutto, che il problema hobbesiano non è stato pienamente risolto. In altre parole, non abbiamo finora abbastanza civiltà. Il processo incompiuto di civilizzazione deve essere ancora portato a conclusione. Se davvero la lezione dell’assassinio di massa c’insegna qualcosa, ciò è che la prevenzione di simili scoppi convulsi di barbarie richiede chiaramente ulteriori sforzi di civilizzazione. Non c’è nulla in questa lezione che lasci cadere il dubbio sulla futura efficacia di tali sforzi e dei loro risultati finali. Ci stiamo certamente muovendo nella direzione giusta; forse non ci muoviamo abbastanza rapidamente. A mano a mano che il suo quadro completo emerge dalla ricerca storica, emerge anche un’interpretazione alternativa, e forse più credibile, dell’Olocausto come evento che ha svelato la debolezza e fragilità della natura umana (della ripugnanza per l’assassinio, dell’avversione nei confronti della violenza, dei timori di una coscienza colpevole e della responsabilità per comportamenti immorali) quando viene messo a confronto con l’efficacia pratica dei più graditi tra i prodotti della civiltà, con la sua tecnologia, i suoi

criteri razionali di scelta, la sua tendenza a subordinare pensiero ed azione alla pragmatica dell’economia e dell’efficienza. Il mondo hobbesiano dell’Olocausto non è emerso dalla sua fossa scavata troppo in superficie, risuscitato dal tumulto di emozioni irrazionali. Esso è arrivato (in una forma orribile che Hobbes avrebbe certamente rinnegato) in un veicolo fabbricato, maneggiando armi che solo la scienza più avanzata poteva fornire, e seguendo un itinerario tracciato da un’organizzazione scientificamente gestita. La civiltà moderna non fu la condizione sufficiente dell’Olocausto; ma ne fu, con la più assoluta certezza, la condizione necessaria . Senza di essa, l’Olocausto sarebbe impensabile. Proprio il mondo razionale della civiltà moderna rese l’Olocausto pensabile. «L’assassinio di massa del popolo ebraico perpetrato dai nazisti fu non solo il risultato tecnologico di una società industriale, ma anche il risultato dell’organizzazione di una società burocratica» (Browning, 1983, p. 148). Si pensi semplicemente a ciò che fu necessario per rendere l’Olocausto unico tra i molti assassinii di massa che hanno caratterizzato il progresso storico della specie umana. La pubblica amministrazione trasfuse nelle altre gerarchie la sua solida pianificazione e la sua accuratezza burocratica. Dall’esercito i meccanismi di distruzione acquisirono la loro precisione, disciplina e insensibilità militare. L’influsso dell’industria si fece sentire nel grande risalto dato alla contabilità, al risparmio ed al recupero monetario, come anche nell’efficienza tipica di una fabbrica dei centri di sterminio. Infine, il partito diede all’intero apparato il contributo di un «idealismo», di un senso di «missione», e del concetto di fare la storia... Si trattò davvero della società organizzata in uno dei suoi ruoli particolari. Anche se impegnato in un assassinio di massa su scala gigantesca, questo apparato burocratico mostrò preoccupazione per una corretta procedura burocratica, per le sottili sfumature di una definizione precisa, per le minuzie della regolamentazione burocratica, e la conformità alla legge (Kuper, 1981, p. 121).

Il dipartimento che nei quartieri generali delle SS era incaricato della distruzione degli Ebrei europei era ufficialmente designata come Sezione d’Amministrazione ed Economia. Si trattava solo in parte di una menzogna, che solo in parte può essere spiegata con riferimento alle famigerate «norme linguistiche», destinate a fuorviare sia gli osservatori casuali che i meno risoluti tra gli esecutori. In misura troppo alta per poterne ricavare un vantaggio, la designazione rifletteva fedelmente il significato che l’attività aveva per

l’organizzazione. Se si esclude la ripugnanza morale del suo scopo (o, per essere precisi, la misura gigantesca dell’odio morale), l’attività non differiva in qualsiasi senso formale (l’unico senso che può essere espresso nel linguaggio della burocrazia) da tutte le altre attività organizzate designate, controllate e sorvegliate dalle sezioni amministrative ed economiche «ordinarie». Come tutte le altre attività riconducibili alla razionalizzazione burocratica, essa corrisponde bene alla sobria definizione dell’amministrazione moderna offerta da Max Weber: Precisione, rapidità, chiarezza, esperienza archivistica, continuità, discernimento, unità, rigida subordinazione, riduzione di contrasti e di costi per materiali e personale: sono questi gli elementi per i quali si cerca di raggiungere il punto ottimale nell’amministrazione strettamente burocratica... La burocratizzazione offre soprattutto la possibilità ottimale per superare il principio di funzioni amministrative specifiche secondo considerazioni puramente oggettive... Il disbrigo «oggettivo» degli affari significa innanzitutto un disbrigo degli affari secondo norme calcolabili e «senza alcun riguardo per determinate persone» (Weber, 1970, pp. 214-15).

Non vi è nulla in questa descrizione che autorizzi il mettere in dubbio la definizione burocratica dell’Olocausto come un semplice travisamento della verità o una manifestazione di una forma particolarmente mostruosa di cinismo. Eppure, l’Olocausto è così fondamentale per la nostra comprensione del modo burocratico moderno di razionalizzazione non solo, e non innanzitutto, perché esso ci ricorda (come se avessimo bisogno di un tale promemoria) proprio quanto sia formale ed eticamente cieca la ricerca burocratica d’efficienza. Il suo significato non risulta pienamente espresso neppure quando constatiamo in quale misura l’omicidio di massa su scala senza precedenti dipendesse dalla disponibilità di quelle abilità e attitudini ben sviluppate e saldamente rafforzate che si esprimono in un’accurata e precisa divisione del lavoro, nel mantenimento di un flusso scorrevole di controlli e d’informazioni, o in un coordinamento impersonale, ben sincronizzato, di azioni autonome ma complementari: in altre parole, dalla disponibilità di quelle abilità e attitudini che crescono e prosperano nel modo migliore nell’atmosfera dell’ufficio. La luce gettata dall’Olocausto sulla nostra conoscenza della razionalità

burocratica raggiunge la sua intensità più abbagliante quando constatiamo in quale misura la stessa idea della Endlösung [soluzione finale] fu un risultato della cultura burocratica . Dobbiamo a Karl Schleuner (1970) il concetto della strada tortuosa che condusse allo sterminio fisico della popolazione ebraica europea: una strada che non fu né concepita in una visione individuale di un folle mostro, né una scelta ponderata fatta all’inizio del «processo di soluzione del problema (problem-solving )» da parte di leader ideologicamente motivati. Essa apparve invece per gradi, puntando in ogni stadio ad una differente destinazione, cambiando direzione in risposta a crisi sempre-nuove, e spinta in avanti all’insegna di una filosofia condensata in un «attraverseremo quel ponte quando vi saremo arrivati». Il concetto di Schleuner compendia nel modo migliore le conclusioni della scuola «funzionalista» nella storiografia dell’Olocausto (che in anni recenti guadagna rapidamente forza a spese degli «intenzionalisti», che a loro volta trovano sempre più difficile difendere quella spiegazione una volta dominante dell’Olocausto, che lo fa risalire ad una sola causa: una visione che attribuisce al genocidio una logica motivazionale ed una coerenza che esso non ha mai posseduto). Secondo le conclusioni dei funzionalisti, «Hitler fissò l’obiettivo del nazismo: “liberarsi degli Ebrei, e soprattutto rendere il territorio del Reich judenfrei , cioè sgombrato degli Ebrei”, ma senza specificare in che modo tale obiettivo doveva essere raggiunto» (Marrus, 1987, p. 41). Una volta fissato l’obiettivo, tutto accadde esattamente come Weber, con la sua abituale chiarezza, espose per filo e per segno: «Il “capo politico” si trova nella posizione del “dilettante” rispetto all’“esperto”, di fronte al funzionario competente che si trova coinvolto nella gestione dell’amministrazione» (Weber, 1970, p. 232). L’obiettivo doveva essere raggiunto; in che modo dovesse realizzarsi dipendeva dalle circostanze, sempre valutate dagli «esperti» dal punto di vista della fattibilità e dei costi delle opportunità alternative d’azione. E così l’emigrazione degli Ebrei tedeschi fu scelta inizialmente come la soluzione pratica dell’obiettivo di Hitler; ne sarebbe risultata una Germania judenfrei , se altri paesi fossero stati più

ospitali nei confronti dei rifugiati ebrei. Quando venne annessa l’Austria, Eichmann si guadagnò il suo primo encomio con l’accelerare e il rendere più efficiente l’evacuazione in massa della popolazione ebraica austriaca. Ma poi il territorio sotto il dominio nazista cominciò a dilatarsi. Inizialmente la burocrazia nazista vide la conquista e l’appropriazione di territori quasi-coloniali come l’opportunità desiderata di eseguire pienamente gli ordini del Führer : il Generalgouvernment sembrò fornire la zona di scarico rifiuti di cui si era alla ricerca per la popolazione ebraica che abitava ancora nei territori della Germania vera e propria, destinata alla purezza razziale. Una riserva separata per il futuro «principato ebraico» venne designata attorno a Nisko, in quella che era, prima della conquista, la Polonia centrale. Ma a questo si oppose la burocrazia tedesca, oberata dal gravoso compito d’amministrare gli ex-territori polacchi; essa aveva già abbastanza fastidi con il doversi occupare della propria popolazione ebraica locale. E così Eichmann spese un anno intero all’elaborazione del progetto Madagascar: con la Francia sconfitta, la sua lontana colonia poteva essere trasformata nel principato ebraico che non si era riusciti a realizzare in Europa. Ma il progetto Madagascar si dimostrò egualmente sfortunato, a causa dell’enorme distanza, della consistenza del necessario spazio navale, e della presenza della marina britannica in mare aperto. Nel frattempo l’estensione del territorio conquistato, e quindi anche il numero di Ebrei sotto la giurisdizione tedesca, continuarono a crescere. Un’Europa dominata dai nazisti (piuttosto che semplicemente il «Reich riunito») apparve come una prospettiva sempre più tangibile. Gradualmente ma implacabilmente, il Reich millenario assunse sempre più distintamente l’aspetto di un’Europa sotto il dominio tedesco. In queste circostanze, l’obiettivo di una Germania judenfrei non poteva che seguire un tale processo. Quasi impercettibilmente, passo dopo passo, l’obiettivo si allargò in quello di un’Europa judenfrei . Ambizioni su scala così vasta non potevano essere soddisfatte da un Madagascar, per quanto accessibile potesse essere (anche se, secondo Eberhard Jäckel, non mancano prove che ancora nel luglio 1941, quando Hitler prevedeva la sconfitta dell’URSS nello

spazio di poche settimane, le ampie distese della Russia oltre la linea Arcangelo-Astrakan erano viste come la definitiva zona di scarico rifiuti per tutti gli Ebrei che abitavano nell’Europa unificata sotto il dominio tedesco). Con la caduta della Russia che stentava a realizzarsi, e con le soluzioni alternative che non riuscivano a tenere il passo con la rapida crescita del problema, Himmler ordinò il primo ottobre 1941 lo stop finale ad ogni ulteriore emigrazione ebraica. Per il compito di «liberarsi degli Ebrei» era stato scoperto un altro, più efficace mezzo d’esecuzione: lo sterminio fisico venne scelto come il mezzo più praticabile e più efficace per raggiungere lo scopo originario, e recentemente ampliato. Il resto era materia di collaborazione tra i vari dipartimenti della burocrazia statale, di accurata pianificazione e progettazione di un’appropriata tecnologia e di attrezzature tecniche, di bilanci preventivi, calcoli e mobilitazioni delle risorse necessarie: materia, in realtà, di una monotona routine burocratica. La più dirompente delle lezioni derivanti dall’analisi della «strada tortuosa verso Auschwitz» è che, in ultima analisi, la scelta dello sterminio fisico come il mezzo giusto per il compito di Entfernung [eliminazione] fu un prodotto di normali procedure burocratiche : calcoli di mezzi-fini, bilanci finanziari, applicazione di regole generali. Per rendere questo argomento anche più incisivo, va chiarito che tale scelta fu un effetto del serio tentativo di trovare soluzioni razionali a successivi «problemi», a mano a mano che questi sorgevano nelle mutevoli circostanze. La scelta fu anche determinata dalla tendenza ampiamente descritta a sostituire obiettivi: una preoccupazione non meno normale in tutte le burocrazie di quanto lo siano le loro pratiche di routine. La stessa presenza di funzionari incaricati di compiti specifici condusse ad ulteriori iniziative e ad un continuo ampliamento degli obiettivi originari. Ancora una volta, l’esperienza dimostrò la sua capacità di auto-propulsione, la sua tendenza ad ampliare ed arricchire l’obiettivo che forniva la sua raison d’être . La semplice esistenza di un corpus di esperti Ebrei creò un certo impulso burocratico dietro la politica nazista nei loro confronti. Anche quando deportazioni e assassinio di massa erano già in fase d’effettuazione, apparvero nel 1942 decreti che proibivano agli Ebrei tedeschi di possedere animali domestici, di farsi tagliare i capelli da barbieri ariani, o di ricevere riconoscimenti sportivi del Reich! Non c’era bisogno di

ordini dall’alto, bastava l’esistenza dell’occupazione in se stessa, per assicurare che gli esperti Ebrei subissero la marea di misure discriminanti (Browning, 1983, p. 147).

In nessun momento della sua lunga e tortuosa esecuzione l’Olocausto entrò in conflitto con i princìpi della razionalità. La «Soluzione Finale» non fu in contrasto in alcuna fase con la ricerca razionale di un conseguimento efficace ed ottimale dell’obiettivo. Al contrario, essa risultò come il frutto di una preoccupazione autenticamente razionale, e fu prodotta da una burocrazia fedele alle sue forme e al suo scopo . Noi conosciamo massacri, pogrom, assassini di massa, in realtà esempi non molto lontani dal genocidio, che sono stati perpetrati senza la burocrazia moderna, senza le capacità e tecnologie da essa controllate, senza i princìpi scientifici della sua gestione interna. Ma l’Olocausto fu chiaramente impensabile senza una tale burocrazia. L’Olocausto non fu un’emanazione dei residui non-ancorapienamente-sradicati della barbarie pre-moderna. Esso fu un legittimo inquilino nella casa della modernità; anzi, uno che non avrebbe potuto avere il suo domicilio in alcun’altra casa. Con questo non si vuol dire che l’incidenza dell’Olocausto fu determinata dalla burocrazia moderna o dalla cultura della razionalità strumentale in essa compendiata; e ancor meno che la burocrazia moderna deve avere come risultato fenomeni di stile-Olocausto. Si vuole soltanto dire, invece, che le regole della razionalità strumentale sono particolarmente incapaci di prevenire tali fenomeni; e che nulla, in queste regole, squalifica i metodi stile-Olocausto d’«ingegneria sociale» come impropri o, addirittura, le azioni per le quali si ricorre ad essi come irrazionali. S’intende dire, inoltre, che la cultura burocratica che ci spinge a vedere la società come un oggetto d’amministrazione, come un insieme di così tanti «problemi» da risolvere, come «natura» che è necessario «controllare», «dominare» e «migliorare» o «rifare», come un legittimo bersaglio d’«ingegneria sociale», e in generale come un giardino da progettare e mantenere nella forma voluta con azione efficace (le operazioni di giardinaggio dividono la vegetazione in «piante coltivate» delle quali doversi prendere cura e in erbacce da eliminare), costituì la stessa atmosfera in cui l’idea dell’Olocausto poté essere concepita, lentamente ma coerentemente sviluppata, e portata

alla sua conclusione. E si vuol dire, infine, che proprio lo spirito della razionalità strumentale, e la sua forma moderna, burocratica, d’istituzionalizzazione, resero le soluzioni stile-Olocausto non solo possibili, ma altamente «ragionevoli», ed aumentarono la probabilità della loro scelta. Questo aumento di probabilità è in rapporto più che fortuito con la capacità della burocrazia moderna di coordinare l’azione di moltissimi individui moralmente rigidi nel perseguimento di qualsiasi scopo, anche immorale.

Produzione sociale e indifferenza morale Il Dott. Servatius, avvocato di Eichmann a Gerusalemme, sintetizzò acutamente la sua linea di difesa in questo modo: Eichmann commise azioni per le quali si viene decorati se si vince, e si va alla forca se si perde. L’ovvio messaggio di questa affermazione – certamente una delle più caustiche in un secolo che fu tutt’altro che avaro d’idee sorprendenti – è chiaro: è la forza a dare ragione. Ma c’è un altro messaggio, non così chiaro, anche se non meno cinico e molto più inquietante: Eichmann non fece nulla di sostanzialmente diverso dalle cose fatte da coloro che si trovarono dalla parte dei vincitori. Le azioni non hanno un valore morale intrinseco. E neppure sono immanentemente immorali. La valutazione morale è qualcosa d’esterno all’azione in se stessa, decisa sulla base di criteri diversi da quelli che guidano l’azione stessa e ne determinano l’aspetto. Ciò che è così inquietante nel messaggio del Dott. Servatius è che esso, disgiunto dalle circostanze nelle quali fu espresso, e considerato in termini universali spersonalizzati, non differisce significativamente da ciò che la sociologia ha detto già prima; o in realtà dal senso comune, raramente messo in dubbio, ed ancor meno frequentemente attaccato, della nostra moderna società razionale. L’affermazione del Dott. Servatius è motivo di turbamento proprio per questa ragione. Essa ci convince di una verità che tutto considerato preferiremmo lasciare inespressa: cioè che fino a quando la verità di senso comune in questione viene accettata come evidente, non c’è modo

sociologicamente legittimo di escludere il caso di Eichmann dalla sua applicazione. Sappiamo ormai tutti che i tentativi iniziali d’interpretare l’Olocausto come una violenza commessa da veri e propri criminali, sadici, pazzi, furfanti sociali o individui per altri versi moralmente manchevoli non riuscirono a trovare una qualsiasi conferma nei fatti del caso. La loro confutazione da parte della ricerca storica è oggi tutt’altro che definitiva. L’attuale tendenza del pensiero storico è stata adeguatamente sintetizzata da Kren e Rappoport: Secondo criteri clinici convenzionali, non più del 10 per cento delle SS si poteva considerare «anormale». Questa osservazione corrisponde alla tendenza generale della testimonianza offerta da sopravvissuti, secondo cui nella maggior parte dei campi di concentramento soltanto uno o al massimo alcuni delle SS erano noti per le loro violente esplosioni di crudeltà sadica. Gli altri non sempre erano persone accettabili, ma il loro comportamento veniva considerato almeno comprensibile da parte dei prigionieri... Noi riteniamo che la stragrande maggioranza delle SS, comprendendovi sia i capi che i soldati semplici, avrebbe potuto superare facilmente tutti i test psichiatrici ai quali si sottopongono ordinariamente le reclute dell’esercito americano o i poliziotti di Kansas City (Kren – Rappoport, 1980, p. 70).

Il fatto che la maggior parte di coloro che perpetrarono il genocidio fosse costituita da gente normale, che sarebbe passata indenne attraverso qualsiasi esame psichiatrico conosciuto, per quanto serrato, è moralmente inquietante. Ed è anche teoreticamente sconcertante, soprattutto se visto congiuntamente con la «normalità» di quelle strutture organizzative che coordinarono le azioni di cosiffatti individui normali in un’impresa come quella del genocidio. Sappiamo già che le istituzioni responsabili dell’Olocausto, anche se riconosciute criminali, non erano in alcun senso sociologico patologiche o anormali. Constatiamo ora che gli individui dei quali esse istituzionalizzarono le azioni non deviarono neppure dai modelli convenzionali della normalità. Non rimane altra scelta, quindi, che guardare di nuovo, con occhi resi più penetranti dalle nostre nuove conoscenze, ai modelli normali, che si ritengono pienamente compresi, dell’azione razionale moderna. Proprio in questi modelli possiamo sperare di scoprire la possibilità così drammaticamente rivelata all’epoca dell’Olocausto.

Nella famosa frase di Hannah Arendt, il problema più difficile incontrato da coloro che iniziarono l’Endlösung [la «Soluzione Finale»] (e risolto con sorprendente successo, per così dire) fu «come superare... la pietà innata che tutti gli uomini normali provano di fronte alla sofferenza fisica» (Arendt, 1964, p. 106). Sappiamo che gli individui arruolati nelle organizzazioni più direttamente coinvolte nell’impresa dell’assassinio di massa non erano né eccezionalmente sadici né eccezionalmente fanatici. Possiamo ritenere che essi condividessero l’avversione umana quasi istintiva al dolore della sofferenza fisica, ed anche di più il divieto di uccidere. Sappiamo anche che quando, per esempio, si reclutavano membri degli Einsatzgruppen [«gruppi d’azione»] ed altre unità egualmente contigue alla scena delle effettive uccisioni, si badava in modo tutto speciale a scartare – escludere o dimettere – tutti gli individui che fossero particolarmente fanatici, emotivamente caricati, presi da eccessivo zelo ideologico. Sappiamo che le iniziative individuali venivano scoraggiate, e che si faceva ogni sforzo per mantenere l’intera faccenda in un contesto che somigliasse a quello di un qualsiasi compito e che fosse strettamente impersonale. Vantaggi personali, e motivi personali in generale, venivano censurati e penalizzati. Uccisioni che si provocavano per capriccio o divertimento, diversamente da quelle eseguite dietro ordini espliciti e perpetrate in forma organizzata, potevano condurre (almeno in linea di principio) a processi e condanne, come un comune assassinio o omicidio colposo. In più di un’occasione Himmler espresse una profonda e molto verosimilmente autentica preoccupazione per la difesa della salute mentale e la salvaguardia delle norme morali dei suoi molti subordinati impegnati ogni giorno in un’attività disumana; egli espresse anche orgoglio per il fatto che, secondo la sua opinione, sia la salute che la moralità uscivano illese dalla prova. Tanto per citare nuovamente Arendt, «con la loro “oggettività” (Sachlichkeit ), le SS si dissociavano da certi tipi “emotivi” come Streicher, quel “folle fuori della realtà”, ed anche da certi “pezzi grossi del Partito Teutonico-Germanico che si comportavano come se fossero rivestiti di corna e pellicce (clad in horns and pelts )”» (Arendt, 1964, p. 69). I capi delle SS contavano

(giustamente, a quanto pare) sulla routine dell’organizzazione, non sullo zelo individuale; sulla disciplina, non sulla dedizione ideologica. La fedeltà verso un compito così cruento doveva essere – e lo fu davvero – un derivato della fedeltà nei confronti dell’organizzazione. Il «superamento della pietà innata» non poteva essere cercato e raggiunto dando briglia sciolta ad altri istinti innati ignobili; questi ultimi sarebbero stati con ogni probabilità non funzionali per quanto riguarda la capacità d’agire dell’organizzazione; una moltitudine d’individui vendicativi e omicidi sarebbe stata in contrasto con l’efficienza di una piccola, ma disciplinata e rigidamente coordinata burocrazia. Ed allora non è affatto chiaro se si sia potuto fare assegnamento sull’emergere degli istinti omicidi in tutte quelle migliaia di comuni impiegati e professionisti, che, per la stessa scala dell’impresa, debbono essere stati coinvolti nelle varie fasi dell’operazione. Nelle parole di Hilberg, L’esecutore tedesco non era un tipo speciale di tedesco... Sappiamo che la stessa natura della pianificazione amministrativa, della struttura giurisdizionale e del sistema finanziario faceva escludere una selezione speciale ed una particolare formazione del personale. Ogni membro della polizia ordinaria poteva essere una guardia nel ghetto o su un treno. Si presumeva che ogni esperto di legge nell’Ufficio Centrale di Sicurezza del Reich fosse adatto a presiedere le unità mobili d’assassinio; ogni esperto di finanza per l’Ufficio Centrale Economico-Amministrativo veniva considerato una scelta ovvia per il servizio in un campo di morte. In altre parole, tutte le operazioni necessarie venivano eseguite con qualsiasi personale fosse a disposizione (Hilberg, 1983, p. 1011).

E così, in che modo questi comuni tedeschi furono trasformati in esecutori tedeschi di un crimine di massa? Secondo l’opinione di Herbert C. Kelman (1973), i divieti morali contro atrocità violente tendono a scalfirsi in presenza di tre condizioni, singolarmente o insieme: quando la violenza è autorizzata (da ordini ufficiali che provengono da settori che ne hanno titolo legale), quando le azioni diventano di routine (grazie a pratiche governate da norme e ad una precisa specificazione di ruoli), e quando le vittime della violenza vengono disumanizzate (da definizioni e indottrinamenti di natura ideologica). Della terza condizione tratteremo separatamente. Le prime due, invece, appaiono come notevolmente familiari. Esse sono state ripetutamente formulate in quei princìpi d’azione razionale che

hanno avuto applicazione universale dalla maggior parte delle istituzioni rappresentative della società moderna. Il primo principio, importante nella maniera più ovvia per la nostra domanda, è quello della disciplina dell’organizzazione; più precisamente, la richiesta di obbedire ai comandi dei superiori, escludendo qualsiasi altro stimolo all’azione, di porre la propria dedizione al bene dell’organizzazione, così come viene definito nei comandi dei superiori, al di sopra di tutte le altre forme di dedizione e d’impegno. Tra queste altre forme «esterne» d’influenza, che ostacolano lo spirito di dedizione e sono quindi destinate alla soppressione ed all’estinzione, le opinioni e preferenze personali sono le più notevoli. L’ideale della disciplina punta all’identificazione totale con l’organizzazione, identificazione che, a sua volta, non può significare altro che la disponibilità ad annullare la propria distinta identità ed il sacrificio dei propri interessi (per definizione, interessi che non si sovrappongano al compito dell’organizzazione). Nell’ideologia dell’organizzazione, la disponibilità ad un tale tipo estremo di sacrificio di se stessi viene formulata come una virtù morale; anzi, come la virtù morale destinata a soddisfare tutte le altre esigenze morali. L’osservanza disinteressata di questa virtù morale viene allora rappresentata, nelle famose parole di Weber, come l’onore dell’impiegato statale: «L’onore dell’impiegato statale viene assegnato alla sua capacità di eseguire coscienziosamente l’ordine delle autorità superiori, proprio come se l’ordine coincidesse con la sua propria convinzione. Ciò vale anche se l’ordine gli sembra sbagliato e se, malgrado le rimostranze dell’impiegato statale, l’autorità insiste sull’ordine». Questo tipo di condotta significa, per un impiegato statale, «disciplina morale e abnegazione nel senso più alto della parola» (Weber, 1970, p. 95). Grazie all’onore, la disciplina viene sostituita alla responsabilità morale. La delegittimazione di tutte le regole, tranne quelle interne all’organizzazione, come fonte e garanzia di correttezza, e quindi il rinnegamento dell’autorità della propria coscienza, diventano ormai la più alta virtù morale. Il disagio che la pratica di tali virtù può talvolta causare è controbilanciato dal ribadire, da parte del superiore, che su di lui e soltanto su di lui grava la

responsabilità delle azioni dei subordinati (fino a quando, ovviamente, essi si conformano al suo comando). Weber completò la sua descrizione dell’onore dell’impiegato statale ponendo in forte risalto la «responsabilità personale esclusiva» del capo, «una responsabilità che egli non può e non deve rifiutare o trasferire». Sollecitato a spiegare, durante il processo di Norimberga, perché egli non si dimise dal comando dell’Einsatzgruppe di cui, come persona, disapprovava le azioni, Ohlendorf si appellò proprio a questo senso di responsabilità: se avesse denunciato le azioni della sua unità per ottenere di essere liberato dai compiti per i quali dichiarava di provare avversione, egli avrebbe permesso che i suoi uomini venissero «ingiustamente accusati». Evidentemente, Ohlendorf si aspettava che la stessa responsabilità paternalistica da lui esercitata nei confronti dei «suoi uomini» sarebbe stata esercitata dai suoi superiori nei suoi confronti; ciò lo esimeva dal preoccuparsi della valutazione morale delle sue azioni: una preoccupazione che egli poteva lasciare sicuramente a coloro che gli comandavano di agire. «Non penso di essere in una posizione tale da poter giudicare se i suoi provvedimenti... fossero morali o immorali... Io rimetto la mia coscienza morale al fatto che ero un soldato, e quindi un dente dell’ingranaggio in una posizione relativamente bassa di una grande macchina» (citato in Wolfe, 1980, p. 64). Se il tocco di Mida trasformava ogni cosa in oro, l’amministrazione SS trasformava ogni cosa che fosse entrata nella sua orbita, comprese le sue vittime, in una parte integrante della catena di comando, un’area soggetta a regole rigidamente disciplinari ed immune da valutazioni morali. Il genocidio fu un processo composito; come ebbe ad osservare Hilberg, esso comprese cose fatte dai tedeschi, e cose fatte, dietro ordini tedeschi, ma spesso con una sottomissione che rasentava il lasciarsi andare, dalle loro vittime ebree. È questa la superiorità tecnica di un assassinio di massa intenzionalmente progettato e razionalmente organizzato su esplosioni improvvise della frenesia d’uccidere. La collaborazione delle vittime con gli esecutori di un pogrom è impensabile. La cooperazione delle vittime con i burocrati delle SS fece parte del progetto: anzi, fu una condizione

cruciale del suo successo. «Una larga componente dell’intero processo dipese dalla partecipazione degli Ebrei: sia i semplici atti d’individui, sia l’attività organizzata nei consigli... I sovrintendenti tedeschi si rivolgevano ai consigli per informazioni, denaro, lavoro, o personale di polizia, ed i consigli fornivano loro tutto questo ogni giorno della settimana». Questo sorprendente risultato di una riuscita estensione delle regole della condotta burocratica, cui si aggiungeva la delegittimazione di forme alternative di fedeltà e di motivazioni morali in generale allo scopo di coinvolgere le vittime designate della burocrazia, che in tal modo impegnavano le loro capacità ed il loro lavoro nell’attuazione del compito della loro distruzione, venne raggiunto (in gran parte come nell’ordinaria attività di ogni altra burocrazia, cattiva o benigna che sia) in un duplice modo. Innanzitutto, lo scenario esterno della vita del ghetto venne ideato in modo tale che tutte le azioni dei suoi capi e dei suoi abitanti non potessero che rimanere oggettivamente «funzionali» agli obiettivi tedeschi. «Ogni cosa ideata per mantenere la sua [del ghetto] possibilità di sopravvivenza favoriva nello stesso tempo un obiettivo tedesco... L’efficienza ebraica nella distribuzione dello spazio o nell’assegnazione delle razioni fu un’estensione dell’efficienza tedesca. Il rigore ebraico nel sistema di tassazione o nell’utilizzazione del lavoro rappresentò un rafforzamento dell’inflessibilità tedesca, ed anche l’incorruttibilità ebraica poté essere uno strumento dell’amministrazione tedesca». In secondo luogo, si ebbe una particolare preoccupazione perché in ogni stadio della strada da percorrere le vittime fossero poste in una situazione di scelta, alla quale si applicassero criteri di azione razionale, e nella quale la decisione razionale concordasse invariabilmente con il «progetto dell’amministrazione». «I tedeschi riuscirono con notevole successo a praticare le deportazioni per gradi, perché coloro che rimanevano indietro ne deducessero che era necessario sacrificare i pochi per essere utili ai molti» (Hilberg, 1983, pp. 1036, 1038, 1042). A dire il vero, anche a quelli già deportati veniva lasciata la possibilità di ricorrere alla loro razionalità sino alla stessa fine. Le camere a gas, chiamate in modo allettante «stanze da bagno», presentavano un aspetto gradito,

dopo giorni e giorni trascorsi in sudici carri bestiame sovraffollati. Coloro che già conoscevano la verità e non nutrivano alcuna illusione avevano ancora una scelta tra una morte «rapida e indolore» e una preceduta da ulteriori sofferenze riservate all’insubordinato. Quindi, non solo le articolazioni esterne dello scenario del ghetto, su cui le vittime non avevano alcun controllo, venivano manipolate in modo tale da trasformarlo nel suo insieme in un’estensione della macchina destinata ad uccidere, ma anche le facoltà razionali dei «funzionari» di quell’estensione venivano impiegate per causare un comportamento motivato da lealtà e cooperazione con scopi burocraticamente definiti.

Produzione sociale e invisibilità morale Abbiamo cercato finora di ricostruire il meccanismo sociale del «superamento della pietà innata»: una produzione sociale di condotta contraria alle inibizioni morali innate, capace di trasformare individui non «moralmente degenerati» in alcuno dei sensi «normali» in assassini o collaboratori consapevoli nel processo d’assassinio. L’esperienza dell’Olocausto mette in risalto, tuttavia, un altro meccanismo sociale: quello di un potenziale molto più sinistro di coinvolgimento, nel perpetrare il genocidio, di un numero molto più ampio d’individui che mai, nel processo, si trovano consapevolmente di fronte a difficili scelte morali o al bisogno di reprimere un’intima resistenza della propria coscienza. Il conflitto su questioni morali non ha mai luogo, poiché gli aspetti morali delle azioni non risultano immediatamente evidenti o se ne impediscono deliberatamente la scoperta e la discussione. In altre parole, il carattere morale dell’azione o è invisibile o è tenuto intenzionalmente nascosto. Per citare nuovamente Hilberg, «Va ricordato che la maggior parte dei partecipanti [al genocidio] non sparò un solo colpo di fucile contro bambini ebrei né immise gas nelle camere a gas... La maggior parte dei burocrati era impegnata nello scrivere appunti, nel formulare programmi, nel parlare al telefono, e partecipava a riunioni. Essi potevano distruggere un’intera popolazione seduti alla loro scrivania»

(Hilberg, 1983, p. 1024). Se erano consapevoli del prodotto finale della loro frenetica attività apparentemente innocua, una tale consapevolezza rimaneva, nella migliore delle ipotesi, negli angoli più nascosti della loro mente. Connessioni causali tra le loro azioni e l’assassinio di massa erano difficili da individuare. Un certo turbamento morale era attaccato alla naturale tendenza umana ad evitare di preoccuparsi più del necessario, e quindi ad astenersi dall’esaminare tutta l’estensione della catena causale fino ai suoi anelli più lontani. Per poter capire come fosse possibile una tale sorprendente cecità morale, è utile pensare ai lavoratori di una fabbrica d’armi, i quali si rallegrano dello «stato di produzione» della loro fabbrica grazie a nuove grosse richieste di fornitura di merce, pur deplorando nello stesso tempo i massacri con i quali si colpiscono reciprocamente Etiopi ed Eritrei; oppure pensare a come sia possibile che la «caduta nei prezzi delle merci» possa essere universalmente salutata come una buona notizia mentre viene egualmente e sinceramente lamentato da tutti «il fatto che i bambini africani muoiano di fame». Qualche anno fa John Lachs individuò nella mediazione dell’azione (il fenomeno di un’azione che viene eseguita per qualcuno da qualcun altro, attraverso una persona intermedia che «si trova tra me e la mia azione, rendendomi impossibile sperimentarla direttamente») una delle più notevoli e feconde caratteristiche della società moderna. C’è una grande distanza tra intenzioni ed esecuzioni pratiche, con lo spazio tra i due momenti riempito da una moltitudine di piccole azioni eseguite da persone di secondaria importanza. La «persona intermedia» tiene lontane le conseguenze dell’azione dalla vista di chi la compie. Il risultato è che vi sono molte azioni che nessuno attribuisce consapevolmente a se stesso. Per l’individuo in cui nome esse vengono compiute, esse esistono solo a parole o nell’immaginazione; egli non le dichiarerà come proprie, poiché non è mai passato attraverso di esse. L’individuo che le ha effettivamente compiute, d’altro canto, le vedrà sempre come appartenenti a qualcun altro e vedrà se stesso solo come strumento incolpevole di una volontà altrui... Senza una conoscenza diretta delle proprie azioni, anche il migliore degli uomini si muove in un vuoto morale: il riconoscimento astratto del male non è né una guida affidabile né una motivazione adeguata... Non dovremmo sorprenderci dell’immensa e non intenzionale crudeltà degli uomini di buona volontà...

La cosa notevole è che noi non siamo incapaci di riconoscere azioni sbagliate o grosse ingiustizie quando le vediamo. Ciò che ci sorprende è come esse possano essere accadute, dal momento che ciascuno di noi non ha compiuto che azioni innocue... È difficile ammettere che spesso non vi sia persona o gruppo che abbia potuto progettare o causare tutto questo. Ed è ancora più difficile vedere in che modo le nostre proprie azioni, attraverso le loro remote conseguenze, abbiano contribuito a causare l’infelicità (Lachs, 1981, pp. 12-13, 58).

L’aumento nella distanza fisica e/o psichica tra l’azione e le sue conseguenze produce qualcosa di più che la semplice sospensione dell’inibizione morale; esso annulla il significato morale dell’azione e quindi impedisce ogni conflitto tra i modelli personali di decoro morale e l’immoralità delle conseguenze sociali dell’azione. Con la maggior parte delle azioni socialmente significative mediate da una lunga catena di complesse subordinazioni causali e funzionali, i dilemmi morali si allontanano dalla vista, mentre le occasioni per un ulteriore esame ed una più consapevole scelta morale diventano sempre più rare. Un effetto simile (su scala anche più impressionante) viene raggiunto anche con il rendere le stesse vittime psicologicamente invisibili. Questo è stato certamente uno dei più decisivi tra i fattori responsabili del progressivo aumento dei costi umani nella guerra umana. Come ha osservato Philip Caputo, il costume bellico «sembra essere una questione di distanza e tecnologia. Non sarebbe mai possibile compiere un’azione immorale uccidendo persone a grande distanza con armi sofisticate» (Caputo, 1977, p. 229). Con l’uccisione «a distanza», il nesso tra strage e atti del tutto innocenti – come il premere un grilletto, o il mettere in funzione la corrente elettrica, o il premere un tasto su una tastiera di computer – è destinato probabilmente a rimanere un concetto puramente teoretico (tendenza enormemente favorita dalla semplice discrepanza di scala tra il risultato e la sua causa immediata: un’incommensurabilità che sfugge facilmente ad una comprensione fondata su esperienze di senso comune). È quindi possibile essere un pilota che sganci la bomba su Hiroshima o su Dresda, eccellere nei compiti assegnati in una base missilistica, progettare tipi sempre più devastanti di testate esplosive nucleari: e tutto questo senza scalfire affatto la propria integrità morale e senza

rasentare in alcun modo il disastro morale (l’invisibilità delle vittime fu, si potrebbe sostenere, un importante fattore anche negli scellerati esperimenti di Milgram). Con questo effetto dell’invisibilità delle vittime in mente, è forse più facile capire i successivi miglioramenti nella tecnologia dell’Olocausto. Nella fase degli Einsatzgruppen , le vittime radunate insieme venivano portate di fronte a mitragliatrici ed uccise a distanza. Sebbene si tentasse di tenere le armi ad una distanza che fosse la più lunga possibile dalle fosse nelle quali gli uccisi dovevano cadere, era estremamente difficile per i tiratori non vedere il nesso tra lo sparare e l’uccidere. Proprio per questo i responsabili del genocidio trovarono il metodo primitivo ed inefficace, ed anche dannoso per il morale degli esecutori. Si cercarono quindi altre tecniche omicide, tali da tenere visivamente separati gli uccisori dalle loro vittime. La ricerca ebbe successo, e condusse all’invenzione delle camere a gas, inizialmente mobili e poi fisse; quest’ultime, le più perfette che i nazisti ebbero il tempo d’inventare – ridussero il ruolo dell’uccisore a quello di un «ufficiale sanitario» cui si chiedeva di svuotare il contenuto di un sacco di «sostanze chimiche disinfettanti» attraverso un’apertura nel tetto di un edificio il cui interno egli non era indotto a visitare. Il successo tecnico-amministrativo dell’Olocausto fu dovuto in parte all’abile utilizzazione di «sonniferi morali» resi disponibili dalla burocrazia moderna e dalla moderna tecnologia. La semplice invisibilità di connessioni causali in un complesso sistema d’interazione, ed il «tenere a distanza» i risultati sgradevolmente o moralmente repellenti dell’azione fino al punto da renderli invisibili a coloro che la eseguivano, furono i più notevoli tra questi sonniferi. Ma i nazisti si distinsero particolarmente in un terzo metodo, che essi neppure inventarono, ma resero perfetto in una misura che non aveva precedenti. Questo metodo consisteva nel rendere invisibile la stessa umanità delle vittime. Il concetto proposto da Helen Fein di universo dell’obbligo («la cerchia di persone con obblighi reciproci tesi a proteggersi reciprocamente, i cui legami nascono dal loro rapporto con una divinità o con una fonte sacra d’autorità» [Fein, 1979, p. 4]) risulta molto utile per illustrare i fattori socio-psicologici che si

trovano dietro l’enorme efficacia di questo metodo. L’«universo dell’obbligo» indica i limiti esterni del territorio sociale all’interno del quale sia possibile sollevare questioni morali che abbiano anche minimamente un senso. Dall’altra parte del confine, i precetti morali non sono vincolanti, e le valutazioni morali sono prive di significato. Per rendere l’umanità delle vittime invisibile, si ha soltanto bisogno di bandirle dall’universo dell’obbligo. Nella visione nazista del mondo, in quanto determinata da un valore superiore e indiscusso dei diritti di germanità, per escludere gli Ebrei dall’universo dell’obbligo fu solo necessario privarli dell’appartenenza alla nazione e comunità statale germanica. Secondo un’altra acuta frase di Hilberg, «Quando, nei primi giorni del 1933, il primo impiegato statale scrisse la prima definizione di “non-ariano” in un decreto della pubblica amministrazione, il destino della popolazione ebraica europa era segnato» (Hilberg, 1983, p. 1044). Per provocare la cooperazione (o soltanto l’inerzia o l’indifferenza) degli europei non tedeschi, c’era bisogno di qualcosa in più. Il privare gli Ebrei della loro germanità, misura sufficiente per le SS tedesche, non era chiaramente abbastanza per nazioni che, se anche gradivano le nuove idee promosse dai nuovi dominatori dell’Europa, avevano motivi per aver paura e per risentirsi delle loro pretese al monopolio della virtù umana. Una volta che l’obiettivo di una Germania judenfrei («liberata degli Ebrei») si trasformò nell’obiettivo di un’Europa judenfrei , l’espulsione degli Ebrei dalla nazione germanica doveva essere sostituita dalla loro totale disumanizzazione. Di qui l’abbinamento favorito di Frank di «Ebrei e pidocchi», il mutamento avvenuto nella retorica che si espresse nel trasferire la «questione ebraica» dal contesto di auto-difesa razziale nell’universo linguistico dell’«auto-pulizia» e dell’«igiene politica», i manifesti che mettevano in guardia contro il tifo sui muri dei ghetti, ed infine la decisione di commissionare sostanze chimiche per l’ultimo atto alla Deutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpung , cioè la «Compagnia Tedesca per la Fumigazione».

Conseguenze morali del processo di civilizzazione Anche se sono disponibili altre immagini sociologiche del processo di civilizzazione, la più comune (e più ampiamente diffusa) è quella che implica, come suoi due punti centrali, la soppressione d’impulsi irrazionali ed essenzialmente antisociali, e la graduale ma implacabile eliminazione della violenza dalla vita sociale (più esattamente: la concentrazione della violenza sotto il controllo dello Stato, dove essa viene usata per difendere i perimetri della comunità nazionale e le condizioni dell’ordine sociale). Ciò che fonde i due punti centrali in uno solo è la visione della società civilizzata, almeno nella nostra forma occidentale e moderna, come una forza innanzitutto e soprattutto morale, come un sistema d’istituzioni che collaborano e si completano reciprocamente nell’imposizione di un ordine normativo e dell’autorità della legge, che a loro volta salvaguardano le condizioni della pace sociale e della sicurezza individuale scarsamente difesa nelle società pre-civilizzate. Questa visione non è necessariamente fuorviante. Alla luce dell’Olocausto, tuttavia, essa appare certamente unilaterale. Mentre fa scoprire importanti tendenze della storia recente che sono meritevoli d’esame, preclude però la discussione di tendenze non meno cruciali. Accentrando l’attenzione su un solo aspetto del processo storico, essa traccia una linea divisoria arbitraria tra norma e anormalità. Delegittimando alcuni degli aspetti accidentali della civiltà, essa ne indica falsamente la natura fortuita e transitoria, nascondendo nello stesso tempo l’impressionante risonanza tra i loro più importanti attributi e le pretese normative della modernità. In altre parole, essa distoglie l’attenzione dalla permanenza del potenziale distruttivo, alternativo, del processo di civilizzazione, ed in pratica riduce al silenzio ed emargina i critici che insistono sulla bilateralità dell’ordinamento sociale moderno. A mio parere, la lezione più importante dell’Olocausto va vista nella necessità di trattare seriamente la critica e di allargare il modello teoretico del processo di civilizzazione in modo tale da includervi la tendenza di quest’ultimo a mettere in secondo piano, a invalidare e a

delegittimare le motivazioni etiche dell’azione sociale. Dobbiamo registrare le prove dalle quali risulta che il processo di civilizzazione è, tra le altre cose, un processo che consiste nello spogliare l’uso e l’impiego della violenza di un calcolo morale, e nel liberare le istanze della razionalità dall’interferenza di norme etiche o inibizioni morali . Poiché la promozione della razionalità, ad esclusione dei criteri alternativi d’azione, ed in particolare la tendenza a subordinare l’uso della violenza al calcolo razionale, è stata riconosciuta da molto tempo come una caratteristica distintiva della civiltà moderna, i fenomeni stile-Olocausto debbono essere riconosciuti come risultati legittimi della tendenza a civilizzare, ed un suo costante potenziale. Letta di nuovo, con il vantaggio del senno di poi, l’illustrazione weberiana delle condizioni e del meccanismo della razionalizzazione rivela queste importanti, anche se finora sottovalutate, connessioni. Vediamo più chiaramente che le condizioni del modo razionale di condurre gli affari – come la nota distinzione tra economia domestica e quella d’impresa, o tra reddito privato e tesoro dello Stato – funzionano nello stesso tempo come fattori efficaci nell’isolare l’azione razionale, finalizzata ad uno scopo, dallo scambio con processi governati da norme diverse (per definizione irrazionali), rendendo così tale azione razionale immune dall’influenza costrittiva dei postulati di mutua assistenza, solidarietà, rispetto reciproco, ecc., che vengono mantenuti nelle pratiche di formazioni a carattere non commerciale. Questa realizzazione generale della tendenza razionalizzante è stata codificata ed istituzionalizzata, non inaspettatamente, nella burocrazia moderna. Sottoposta alla stessa ri-lettura retrospettiva, essa rivela la riduzione al silenzio della moralità come sua principale preoccupazione; come, anzi, la condizione fondamentale del suo successo in quanto strumento della coordinazione razionale dell’azione. E rivela anche la sua capacità di produrre la soluzione in termini che richiamano l’Olocausto proseguendo, in modo impeccabilmente razionale, la sua attività quotidiana tesa a risolvere i problemi. Una riformulazione della teoria del processo di civilizzazione secondo le linee indicate implicherebbe necessariamente un

cambiamento nella stessa sociologia. La natura e lo stile della sociologia sono stati pienamente accordati con la stessa società moderna che ne ha fatto oggetto di teoria ed esame; la sociologia è stata impegnata fin dalla sua nascita in un rapporto mimetico con il suo oggetto, o, piuttosto, con l’aspetto immaginoso di tale oggetto da essa costruito ed accettato come cornice per il suo proprio discorso. E così la sociologia ha promosso, come suoi criteri di proprietà, gli stessi princìpi d’azione razionale da essa visualizzati come elemento costitutivo del suo oggetto. Essa ha anche promosso, come norma vincolante del suo proprio discorso, l’inammissibilità di problematiche etiche in forme diverse da quella di un’ideologia comunemente sostenuta, e quindi eterogenee rispetto al discorso sociologico (scientifico, razionale). Frasi come «la santità della vita umana» o «dovere morale» suonano non meno estranee in un seminario di sociologia di quanto lo siano nelle stanze sanitizzate, con divieto di fumo, di un ufficio burocratico . Nell’osservare questi princìpi nella sua pratica professionale, la sociologia non ha fatto niente di più che partecipare alla cultura scientifica. Come parte ed elemento del processo di razionalizzazione, questa cultura non può sfuggire ad un ulteriore sguardo. Il silenzio morale che la scienza ha imposto a se stessa ha rivelato, dopo tutto, alcuni dei suoi aspetti meno avvertiti quando il problema della produzione e disponibilità di cadaveri ad Auschwitz è stato formulato come «problema medico». Non è facile rifiutare i moniti di Franklin M. Littell riguardanti la crisi di credibilità dell’università moderna: «Quale tipo di scuola medica formò Mengele ed i suoi associati? Quali dipartimenti d’antropologia prepararono il personale dell’“Istituto d’Eredititarietà Ancestrale” dell’Università di Strasburgo?» (Littell, 1980, p. 213). Per non chiedersi per chi suoni questa particolare campana, per evitare la tentazione di disinteressarsi di queste domande in quanto di significato puramente storico, non è necessario che s’indaghi oltre l’analisi, condotta da Colin Gray, dell’impulso che c’è dietro la corsa contemporanea alle armi nucleari: «Necessariamente, gli scienziati ed i tecnologi di ciascuna parte stanno “correndo” per diminuire la loro propria ignoranza (il nemico non è la

tecnologia sovietica; sono le incognite fisiche ad attirare l’attenzione scientifica)... Gruppi altamente motivati, tecnologicamente competenti ed adeguatamente finanziati di ricercatori produrranno inevitabilmente una serie infinita d’idee di armi nuove di zecca (o raffinate)» (Gray, 1976, pp. 39-40).

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8.2 Dittatura sui bisogni [Titolo originale: Dictatorship Over Needs, 1984] C’è un messaggio centrale sulla cui importanza Feher, Heller e Markus insistono con costante pazienza e ostinata tenacia: il sistema sovietico tende al controllo, un controllo in continua crescita,

idealmente totale. Controllo sui corpi, controllo sulle anime. Controllo sul modo in cui uomini e donne soddisfano i propri bisogni. E controllo su ciò che essi ritengono sia da soddisfare in primo luogo. E proprio con l’impulso ad esercitare un tale controllo Feher, Heller e Markus spiegano l’origine del sistema sovietico. Proprio con il desiderio di mantenere, estendere o difendere un tale controllo essi spiegano la dinamica, o il ristagno, del sistema sovietico. Proprio con il presupposto funzionale di un tale controllo essi definiscono la logica o l’incongruità del sistema sovietico. E per poter far arrivare il loro messaggio, Feher, Heller e Markus si fanno instancabilmente strada attraverso una selva di speranze nostalgiche, immagini inerti e storicismi legati a determinate culture che avviluppano in modo intricato il fenomeno che stiamo studiando, impedendo di vederne l’unicità. Tra gli elementi del groviglio così dipanato vi sono: a) convinzioni che stentano a dileguarsi, secondo le quali il sistema sovietico rappresenta una deviazione inevitabile o fortuita dallo sviluppo di orientamento essenzialmente socialista – una distorsione che in linea di massima può essere rettificata – insieme ad un’intera famiglia di convinzioni affini, che presuppongono tutte il carattere transitorio, incompleto, non-ancora-definito del fenomeno sovietico, e legittimano tutte l’uso del modello socialista come diagramma di riferimento su cui poter tracciare le «convergenze» e le «divergenze» della storia sovietica; b) teorie moltiplicate dalla tendenza a sussumere il nuovo sotto il vecchio, il bizzarro sotto il familiare; le molte raffigurazioni del sistema sovietico come una variazione di un motivo altrimenti fin-troppo-noto, che si tratti d’industrializzazione, di modernizzazione o di capitalismo; c) teorie che ammettono l’unicità «orizzontale» del sistema sovietico a spese, però, della sua singolarità «verticale»: in effetti, un’altra varietà della sindrome del «nulla-dinuovo-sotto-il-sole», che dissolve le peculiarità sovietiche nella perpetuità di un destino storico, anziché dell’universalità di tendenze moderne. Al di là dei suoi molti aspetti concettuali, il fenomeno sovietico appare come un sistema sui generis . Un sistema che non è una versione di qualcosa di diverso da se stesso: né un socialismo imperfetto, né un

capitalismo modificato, né un’emanazione dell’eterno mistero orientale. Un sistema che, rimanendo parte ed elemento del mondo moderno, si pone dei compiti che nessun altro sistema si è mai posti. Proprio per questi compiti non ortodossi un tale sistema ha sviluppato i suoi metodi egualmente non ortodossi. È un punto di vista del tutto accettabile e desiderabile. Potenzialmente, esso pone fine a così tante linee di ricerca, sterili e accademiche, che hanno contribuito a mantenere in perenne crisi la teoria del sistema sovietico: in quale misura è possibile che una società si allontani da princìpi di eguaglianza, libertà, o di eguaglianza e libertà, ed essere ancora «essenzialmente» socialista? In quale misura una società può accettare princìpi irrazionali nell’economia e rimanere ancora «essenzialmente» industriale? In quale misura il caos può andare d’accordo con una società «essenzialmente» basata sulla pianificazione? Qual è la classe che governa la società sovietica? E come ha mascherato ciò che essa possiede (certamente per esercitare il dominio su ciò che si ha bisogno di possedere)? Si tratta di vantaggi, che però non sono i soli. Proprio per l’abitudine di cercare connessioni storiche e sistematiche dove non si potevano trovare, le radici autentiche del sistema sovietico, che affondano così in profondità nella storia europea, sono sfuggite all’occhio dell’analista. Smascherare i miti del sistema sovietico come un surrogato o un’alternativa del capitalismo, o come un germoglio anomalo localmente limitato del dispotismo orientale è la condizione preliminare per affrontare seriamente il problematico quesito di una continuità tra le evidenti idiosincrasie del sistema sovietico ed alcune tendenze sociali e culturali piuttosto importanti dell’Europa moderna. Il socialismo nacque come contro-cultura del capitalismo, nel senso che si schierò a difesa dei valori dichiarati legittimi e predicati dal capitalismo, contro quei valori che il capitalismo praticava in maniera illegittima; esso sosteneva che si dovessero favorire più generosamente i primi e si eliminassero i secondi. Così, il socialismo prendeva seriamente il capitalismo nella sua promessa d’eguaglianza, ed obiettava quindi contro le ineguaglianze rese inevitabili dalla trasformazione della proprietà in principio di distribuzione. Il

socialismo prendeva seriamente il capitalismo nella sua promessa di libertà, e rifiutava quindi di accettare la dipendenza del lavoro da coloro che controllano le condizioni del suo impiego. Il socialismo prendeva seriamente il capitalismo nella sua promessa di fraternità, e condannava quindi la grave separazione tra capitale e lavoro perché causava, invece, sfruttamento, crudeltà e spaccature. Il socialismo fu, inizialmente, l’utopia della rivoluzione borghese sviluppatasi fino ad assumere aspetti radicali estremi e trasformatasi in una critica della realtà borghese. O, piuttosto, il socialismo fu un tentativo d’ispirazione borghese di far valere e risuscitare il progetto storico che la rivoluzione borghese non era riuscita a realizzare. In tal senso, il socialismo fu prole legittima della rivoluzione borghese, desiderosa di continuare l’opera che quest’ultima aveva iniziato, ma che non era riuscita a portare a termine. La sua critica morale del capitalismo venne condotta nel nome dei valori promossi da questa rivoluzione, e la critica morale del capitalismo fu l’unico modo per tenere questi valori in vita. Fin da Condorcet, l’utopia della rivoluzione borghese è stata congiunta al mito dell’Età della Ragione. In effetti, questa utopia e questo mito si fusero in un’unica dimensione fino al punto che, nella consapevolezza che il capitalismo liberale ebbe di se stesso, divennero non distinguibili. L’utopia morale della rivoluzione arrivò ad esser vista come inestricabilmente legata al programma dell’Illuminismo: libertà , eguaglianza , fraternità come naturalmente appartenenti al razionalismo, ciascuna in un reciproco rapporto complementare, ciascuna capace di sopravvivere solo in compagnia delle altre, ciascuna con il suo significato derivante da tale compagnia. La continuità storica tra Illuminismo e Rivoluzione non badò al problema della loro compatibilità logica . Queste incoerenze logiche, così come possono apparire all’analista, non rivelano un difetto fondamentale nel progetto; semmai, esse costituiscono una sfida. Esse sono in grado di dimostrare la legittimità di un matrimonio che è stato già consumato e la cui realtà non può essere messa in discussione. Così, fin dai suoi turbolenti inizi, il capitalismo ereditò non una, ma due utopie; o, piuttosto, un’utopia composta di due parti che, anche se

prive di una perfetta conformità reciproca, si era ritenuto che appartenessero l’una all’altra, per il meglio o per il peggio. L’utopia socialista, difendendo la promessa borghese contro la pratica capitalista, non poteva che incorporare l’assioma dell’unità tra ragione e giustizia. Essa intendeva risolvere le contraddizioni (illusorie per definizione) del loro connubio dove il capitalismo non riusciva a farlo. Il socialismo, che orgogliosamente adottò il titolo di «scientifico», dichiarava proprio questa intenzione. Esso faceva propria l’utopia della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità. E vi aggiungeva l’utopia dell’Illuminismo: quella di una società razionale. L’utopia di una società razionale concepisce, ovviamente, una società costruita ed amministrata secondo i precetti della ragione. Ma cosa significa questo? Innanzitutto e soprattutto la sostituzione dell’ordine al caos. Del progetto alla spontaneità. Del programma all’anarchia. In altre parole: il controllo. Controllo sulla natura e controllo sulle inclinazioni naturali di uomini e donne. Questa spinta centrale dell’utopia razionalistica si manifestò in molte maniere. Alcune di queste vengono classificate da Feher, Heller e Markus in quella che essi chiamano, con atteggiamento eccessivamente prevenuto, «utopia negativa dell’industrializzazione capitalista»: una tendenza all’amministrazione centrale degli affari sociali; un’insistenza per un controllo totale del lavoro e per una subordinazione del lavoro ad un programma dettagliato di produzione sociale; ed un impulso verso un’economia universalistica, intollerante di qualsiasi «irrazionalità» identificata con l’autonomia personale o di gruppo. Tutto questo è vero. L’utopia capitalista fondeva i precetti morali nella visione di un ordine sociale globale. In questa utopia, l’ordine si trasformava in un valore morale, e la perfezione morale in un’immagine di società pianificata. Ma questa non è, tuttavia, l’intera verità. Forse, neppure la parte più importante della verità. Il progetto di una società razionale, di una società regolata, di una società ordinata , significava, più di qualsiasi altra cosa, che l’onnipotenza dell’«uomo in quanto specie» può e deve essere portata a realizzarsi nella prospettiva dell’impotenza di uomini e donne come individui; che questa impotenza di singoli uomini e donne nel trovare da soli la via

della ragione è l’ostacolo maggiore sulla strada per una società razionale; che i singoli uomini e donne non sanno quale sia «il loro interesse migliore» e, se questo viene loro mostrato, non necessariamente essi lo seguono; che i singoli uomini e donne debbono, quindi, essere modellati e addestrati perché soddisfino le esigenze di una società razionale; che questo lavoro di modellamento e addestramento deve essere compiuto da persone che conoscono i comandi della ragione e sono quindi capaci di valutare cosa vi sia nell’«interesse migliore» dei singoli uomini e donne. Il progetto di una società razionale è, in altre parole, un’idea di dominio che si pone obiettivi mai prima pensati da un potere secolare. Nessun potere secolare del passato vide la propria attività come una crociata morale; nessuno ebbe l’intenzione d’interferire, o di assumersene la responsabilità, nel modo in cui i sudditi conducono la loro vita quotidiana. Soltanto lo Stato legittimato dall’utopia di una società razionale percepisce il suo compito come quello di un «potere pastorale» (Foucault): un potere teso a coltivare le virtù morali e a identificare la condotta moralmente virtuosa come comportamento conforme all’ordine razionale della società. La critica socialista accusò il capitalismo di fallimento nel realizzare entrambi i lati della composita utopia morale-razionale. Come i due lati dell’utopia, i due temi della critica socialista si fusero in uno solo fino a diventare praticamente indistinguibili. Dal punto di vista della critica socialista, la realtà capitalista era nello stesso tempo moralmente manchevole ed irrazionale: la forza di questa duplice accusa derivava nella sua interezza dall’utopia morale-razionale che il capitalismo proclamava ed alimentava. Così, l’utopia morale di una società d’individui liberi ed eguali era stata resa vana dalla proprietà privata dei mezzi di produzione e dalla rete di subordinazione che essa determinava, mentre l’utopia di una società razionale veniva vanificata dal mercato, dalla competizione e da tutti quei pouvoirs intermediaires [poteri intermedi] che contrapponevano gli interessi particolaristici agli interessi della società nel suo insieme. Le due accuse si fusero in una sola; e altrettanto accadde per il loro oggetto: il capitalismo come fenomeno

totale, comprendente proprietà privata, mercato, liberalismo. Il socialismo si propose come erede legittimo e leale dell’utopia borghese, impegnato in una battaglia all’ultimo sangue con il suo mutante capitalista. Il socialismo non inventò nuovi valori; non creò una nuova utopia sociale. Su entrambi i piani, il socialismo è stato e continua a rimanere in debito con la rivoluzione borghese. Tutti i temi del programma socialista erano stati introdotti nella cultura europea e resi oggetto d’analisi molto prima che il socialismo s’identificasse come movimento separato e si contrapponesse alla realtà di cui questa cultura era stata portatrice. La diagnosi socialista degli ostacoli alla realizzazione delle speranze originarie suscitate dall’Illuminismo per una società giusta e razionale non può essere scartata come un semplice errore di valutazione. In effetti, mercato, liberalismo, proprietà, articolazione autonoma della società, sono elementi costitutivi di una società centralmente pianificata, di una completa statalizzazione del «potere pastorale», o di una subordinazione incondizionata di motivi ed azioni individuali ai bisogni del sistema (al di là di qualsiasi definizione se ne possa dare). Se la pratica capitalista dimostra ciò che accade ad un’utopia illuministica quando la sua realizzazione viene frenata e circoscritta da «forze intermedie» impreviste che la Rivoluzione Francese voleva eliminare, ma senza riuscirvi, la pratica socialista mostra ciò che accade quando le forze frenanti vengono rimosse o neutralizzate. La «dittatura sui bisogni», lo Stato onnipotente nel pieno e costante controllo del corpo e dello spirito dei suoi sudditi, rappresenta l’ambizione e la tendenza del potere pastorale. Lo Stato sovietico è questa tendenza nella sua libera espressione e questa ambizione che si avvicina più che in qualsiasi altro luogo alla sua realizzazione. Quest’ultima situazione si verifica quando il potere pastorale viene sciolto dal suo spiegamento «capillare» (tipico di altre società moderne) e viene sottoposto alla statalizzazione. Per ricapitolare: il sistema sovietico, senza essere un seguito del capitalismo o una forma alternativa della società industriale, non rappresenta tuttavia un fatto anomalo o insolito nella storia europea.

Le sue pretese che si richiamano all’eredità dell’Illuminismo o alle promesse non realizzate della rivoluzione borghese non sono né presuntuose né grottesche. E così esso contiene importanti lezioni per il resto del mondo. Innanzitutto, se restituito al suo proprio contesto storico, il sistema sovietico può essere considerato come un test pratico dei limiti dell’utopia illuministica. Questa utopia riteneva la razionalità sociale come risultante dalla soppressione delle irrazionalità individuali ; la norma della ragione e del comune interesse come il risultato dell’eliminazione delle passioni individuali e degli interessi particolari. La storia dello Stato sovietico può essere considerata come uno sforzo coerente di agire secondo questo presupposto: sgombrare la strada alla razionalità sociale di uno sviluppo pianificato attraverso la distruzione di una società civile autonoma, paralizzando il mercato, impedendo l’espressione d’interessi di gruppo. Questo sforzo non ha ottenuto un completo successo (come dimostrano abbondantemente Feher, Heller e Markus), ma è riuscito ad andare ben oltre i limiti registrati da qualsiasi altra società. L’esperienza sovietica offre, quindi, importanti informazioni sui limiti della tendenza che valgono certamente non per il solo territorio dello Stato sovietico. Una società che risulti dalla soppressione dell’autonomia individuale e degli interessi di gruppo è non solo tetra, triste e oppressiva, ma è anche dispendiosa e stagnante. In altre parole, il risultato della soppressione dell’«irrazionalità» al livello individuale e di gruppo è l’irrazionalità al livello della società. L’esperienza sovietica ha risolto il dibattito a favore di George Orwell e di Aldous Huxley. In secondo luogo, proprio perché il richiamarsi del sistema sovietico alla legittimità socialista ha notevole credibilità, questo sistema si è trasformato nell’argomento principale, forse decisivo, contro la credibilità della stessa utopia socialista. Una volta che il significato dell’esperienza sovietica sia stato interpretato nel suo vero contesto, non è più possibile nutrire seriamente la speranza che vi sia ancora qualche pietra miliare nascosta da scoprire nella pianificazione centrale, nella distruzione del mercato o nella centralizzazione del potere pastorale. Come dimostrano Feher, Heller e Markus,

l’esperienza sovietica non può più essere respinta come non risolutiva. Il sistema sovietico attuale non è uno stato che stia andando verso qualcosa di radicalmente diverso: è un sistema completo, a modo suo ragionevolmente equilibrato e funzionale, e certamente capace di una perpetua auto-riproduzione. Questa realizzazione segna la fine di un’era. La tradizionale utopia socialista, nata come contro-cultura del capitalismo e rivendicazione delle promesse della rivoluzione borghese, ha seguito il suo corso come «coscienza» della società occidentale, sua auto-critica e forza trainante nei suoi tentativi di auto-miglioramento. In terzo luogo, una valutazione completa dell’esperienza sovietica lascia pochi dubbi su dove non si dovevano riporre le speranze e gli sforzi tesi a correggere i difetti principali della società industriale. Sul lato positivo, essa indica la necessità d’impedire le tendenze che l’originaria utopia razionalista riteneva fossero le condizioni di una «buona società». Interpretata nel modo giusto, l’esperienza sovietica fornisce un argomento efficace non solo contro la contro-cultura socialista, ma anche (e forse soprattutto) contro la cultura molto più ampia e molto meglio radicata del razionalismo da cui ebbe la sua derivazione. La forma finale del sistema sovietico ripropone nel suo programma, come punti da discutere di nuovo, alcuni dei presupposti e valori fondamentali della razionalizzazione e della società industriale in generale, finora accettati su entrambi i lati del grande spartiacque politico. In quarto luogo, almeno sotto un aspetto la lezione sovietica sembra essere del tutto specifica. Essa richiama l’attenzione, approvandole, sulle teorie di Touraine, Foucault o dell’ultimo (e riformato: vedi il suo City and the Grassroots ) Castells, come anche sulla pratica della Solidarietà polacca, in quanto pongono l’accento sui problemi centrali attorno ai quali si concentreranno in misura crescente le nuove battaglie per l’aspetto del futuro. Si tratta di problemi che riguardano il potere e l’autonomia dello Stato e della base politica, la capacità dei movimenti sociali di generare nuovi soggetti storici, la possibilità di rendere ascoltabile la voce di gruppi discordi entro l’ordinamento corporativista, il ripiegarsi del potere

pastorale e delle prerogative di controllo dello Stato, e, infine, il problema di una tecnologia che rende tecnicamente impossibile la soluzione di tutti questi problemi (e, anzi, l’esercizio continuo dei vecchi controlli e bilanci liberal-democratici). L’opera di Victor Zaslavsky The Neo-Stalinist State può essere vista innanzitutto e soprattutto come quella che riempie soltanto uno, anche se fondamentale, dei settori dell’analisi teoretica condotta da Feher, Heller e Markus, di un contenuto prezioso, nuovo e accuratamente esaminato. Il libro di Zaslavsky verte interamente su un argomento: le istituzioni che agiscono nell’auto-riproduzione del sistema sovietico in generale e nella perpetuazione del controllo dello Stato sugli individui in particolare. Se Feher, Heller e Markus presentano la continuità e la stabilità del sistema sovietico come un fatto compiuto, per quanto enigmatico e misterioso, Zaslavsky risolve il mistero. La sua soluzione è originale (quasi tutti i fatti sui quali si basa risultano sconosciuti al comune analista sovietico), ma presenta tutti i caratteri che la fanno ritenere definitiva. Punto per punto, Zaslavsky dimostra in che modo aspetti apparentemente a sé stanti del sistema sovietico abbiano in comune la funzione di «gestione della tensione» e di «preservazione del modello», nel senso che evitano l’articolarsi d’interessi contrastanti e rafforzano il controllo dello Stato sui suoi sudditi. Tra le varie questioni che hanno ricevuto un trattamento particolarmente nuovo e rivelatore vanno ricordate le seguenti: l’uso del patriottismo sovietico e la presentazione dei rapporti internazionali sia all’interno che all’esterno del blocco socialista, il ruolo socializzante dell’esercito, il ruolo delle «imprese chiuse» e la funzione delle restrizioni imposte alla residenza ed alla mobilità geografica, il ruolo dell’alcoolismo, e l’ingegnosa soluzione data alla «questione nazionale». Una lettura di questo libro di Zaslavsky chiarisce un punto che altrove non era stato sufficientemente chiarito. Zaslavsky ha descritto le istituzioni originarie, indigene, dell’Unione Sovietica, che in moltissimi casi sono esclusive di quest’unico Stato, talvolta non trapiantabili per definizione. Esse non sono, chiaramente, le istituzioni di altri «stati socialisti». Ci si chiede in quale misura la maturità del

sistema, cioè uno stato che si realizza quando il sistema è capace di riprodursi con i suoi propri meccanismi interni, e quindi il fatto che il sistema sia suscettibile di un’«analisi sistematica», sia stata raggiunta soltanto nell’Unione Sovietica; ed in quale misura sia legittimo impegnarsi in uno «studio comparativo» degli stati di tipo sovietico trattando ciascun membro del blocco socialista come un esempio della stessa categoria ed usando cumulativamente le informazioni tratte in senso lato da tutti i paesi del blocco. Dopo tutto, lo sviluppo dello Stato sovietico come un processo auto-avvolgente, non escogitato dall’esterno, ebbe luogo nell’Unione Sovietica, e nell’Unione Sovietica soltanto. In qualsiasi altro luogo esso venne imposto senza alcun riguardo per le istituzioni e le esigenze locali, e mantenuto in larga misura ricorrendo ad una forza esterna o ad una sua minaccia. È ragionevole affermare, quindi, che il maturarsi dell’utopia socialista nella sua forma sovietica non era stato messo in moto né era stato modellato unicamente dalla logica della dottrina. È vero che le caratteristiche generali del sistema sovietico maturo erano già state convalidate prima dall’utopia socialista della giustizia-attraverso-larazionalità. Ma solo in congiunzione con una circostanza storica del tutto speciale una simile utopia poté materializzarsi in un sistema sociale completo. Questo significa ricordare a noi stessi, qualora ve ne sia bisogno, che in fin dei conti non le dottrine, ma gli uomini fanno la storia.

Riferimenti bibliografici Feher, F. – Heller, A. – Markus, G. (1983), Dictatorship Over Needs , Blackwell Publishers, Oxford.

8.3 Un secolo di campi di concentramento?

[Titolo originale: A Century of Camps?, 1995] Per unanime consenso, il secolo diciassettesimo figura nei libri di storia sotto il nome di Età della Ragione. Quello che gli successe immediatamente viene definito, in modo prevedibile, come l’Età del «linguaggio della ragione», dell’Illuminismo. Molto spesso si sente definire il diciannovesimo secolo come l’Età delle Rivoluzioni, indicando in tal modo la parola che diviene carne. Siamo ora nell’ultimo decennio del ventesimo secolo, e nell’atmosfera fin-desiècle prevalgono e s’impongono le tentazioni di stabilire dei limiti e di effettuare bilanci. (Proprio per questo Jean Baudrillard, scherzando solo a metà, ci ha consigliato di saltare l’ultimo decennio, destinato ad essere sciupato nello scrivere necrologi, e di andare direttamente al secolo successivo). In che modo il nostro secolo passerà alla storia? Passerà sotto il nome di «Età dei campi di concentramento», o della carne soggetta a diventare cancerosa? Questo, ovviamente, non spetta a noi deciderlo: le future generazioni non sono legate dalle nostre opinioni, proprio come noi ci sentiamo liberi di capovolgere le opinioni che i nostri padri ebbero di se stessi. «Li riconoscerai dai loro frutti», e noi non sappiamo, e non possiamo sapere, cosa mostrerà di essere il duraturo retaggio delle nostre prove e tribolazioni, ed in che modo i nostri figli ed i figli dei nostri figli distingueranno il normale dall’anomalo, il durevole dall’episodico, il memorabile dal dimenticabile, in quel periodo di tempo che risulterà riempito e costituito dalle nostre biografie. Difficilmente possiamo prevedere, per non dire assicurarci, il loro verdetto; dopo tutto, i contemporanei dell’Inquisizione, delle cacce alle streghe, delle cruente ribellioni dei contadini e della paura del vagabondaggio potrebbero essere scusati per non avere avuto la più vaga idea che molto tempo dopo la loro morte la loro epoca sarebbe stata chiamata l’Età della Ragione. Difficilmente, tuttavia, potremmo trattenerci dal formulare il nostro proprio pensiero; non possiamo trascurare il nostro umano, fin troppo umano bisogno di riflettere, di «capire», di scorgere una forma nell’informe, l’ordine divino nel caos, di supporre un metodo in ciò

che altrimenti si percepirebbe come pura follia. Pur nella consapevolezza che tutte le opinioni sono destinate a durare solo finoa-nuovo-avviso, che il nostro presente è il passato del futuro e che il futuro è destinato a rimescolare e riordinare il suo passato molte volte, tuttavia non possiamo fare a meno di fare le nostre considerazioni e di esprimere le nostre proprie opinioni. E quando lo facciamo nell’ultimo decennio del ventesimo secolo, le ombre gettate da Auschwitz e dal Gulag sono assolutamente le più lunghe e tali da dominare probabilmente qualsiasi quadro possiamo dipingere. Sono molti i fatti accaduti in questo nostro secolo, e tutti i fatti significativi e importanti tendono ad accadere senza che vengano annunciati, senza un avvertimento ed un avviso che possa essere ascoltato. Tuttavia, nessuno dei fatti accaduti in questo secolo fu più inaspettato di Auschwitz e del Gulag, e nessuno poteva essere più sbalorditivo, terribile e traumatico per individui abituati, come lo siamo stati tutti, a vedere il loro passato come l’avanzamento implacabile e inebriante delle età della ragione, dell’illuminismo e delle rivoluzioni emancipatrici e liberatrici. Non è solo il nome del nostro secolo ad essere in gioco. Come dobbiamo vedere l’avanzamento che ci ha portati qui, quando noi siamo già qui e sappiamo a cosa somigli questo «qui» e di che cosa sia capace? Venendo dopo tale avanzamento, come suo culmine ed esito legittimo, il nostro secolo – se deve essere registrato come l’«Età dei campi di concentramento» – deve essere anche, non può che essere, l’età della rivalutazione : rivalutazione del passato, della sua intrinseca tendenza e del suo potenziale nascosto, del significato degli ultimi secoli della nostra storia comune, della «modernità» che tale storia ha copiosamente generato e lasciato nella sua scia. Ciò che abbiamo imparato in questo secolo è che la modernità non è soltanto un produrre di più ed un viaggiare più velocemente, un diventare più ricchi ed un muoversi attorno più liberamente. Essa è anche – è stata – un uccidere rapido ed efficace, un genocidio scientificamente progettato ed eseguito . Man mano che la storia umana procede, la crudeltà e l’assassinio di massa non rappresentano precisamente una notizia, e la modernità

potrebbe essere prosciolta per non essere riuscita del tutto, nel breve spazio di tempo di appena trecento anni, a sradicare l’odio e l’aggressività che hanno radici vecchie di migliaia-di-anni e a reprimere le passioni sedimentate dai milioni di anni dell’evoluzione della specie. Alcuni di noi, a dire il vero, potrebbero consolarsi proprio in questo modo: noi, i moderni ed i civilizzati, non abbiamo fatto abbastanza , ma ciò che abbiamo fatto era la cosa giusta da fare; non siamo arrivati abbastanza lontano, ma ci siamo mossi sempre nella giusta direzione. Ciò di cui abbiamo bisogno è più o meno la stessa cosa, fatta con più vigore e determinazione. Non c’è nulla di sbagliato nella nostra civiltà; il suo fallimento solo temporaneo è nel fatto che la repressione dell’animale nell’uomo, del barbaro nell’uomo civilizzato, ciò che la civiltà aveva promesso e fatto del tutto per conseguirlo, ha richiesto più tempo del previsto. Si tratta certamente di un pensiero piacevole e confortante. Se soltanto fosse anche credibile! Il problema, invece, è che esso non è affatto così credibile. Neppure un massiccio esplodere d’istinti malvagi, che rappresenta sempre un fatto improvviso e di breve durata, avrebbe potuto mantenere l’istituzione a lungo termine dei campi di concentramento e tutta quell’enorme rete d’attività coordinate che furono necessarie per il loro funzionamento. Tre giorni dopo la Kristallnacht [«Notte dei Cristalli»], la più spettacolare delle esplosioni di violenza attizzate dal regime nazista in Germania, Hermann Göring radunò un centinaio dei più prominenti membri dell’élite tedesca per proclamare: «Meine Herren, diese Demonstrationen habe ich satt… [“Signori miei, di queste dimostrazioni ne ho abbastanza...”]. Il problema, in poche parole, è inequivocabilmente di natura economica». Esplosioni sporadiche di odio spontaneo o indotto generalmente non bastano; solo una ragione strumentale del tutto moderna, fredda e non emotiva, che renda la tattica dell’operazione indipendente dai sentimenti e dagli ideali di coloro che la eseguono, è in grado di farcela. I campi di concentramento non furono semplicemente la vecchia crudeltà umana che sfuggiva dalla prigione sotterranea in cui era stata confinata o che ritornava dall’esilio dove si pensava dovesse rimanere fino alla fine dei tempi. I campi di concentramento sono

un’invenzione moderna; un’invenzione possibile solo grazie alle realizzazioni delle quali la modernità è orgogliosa più di qualsiasi altra cosa, con la razionalità, la tecnologia e la scienza che ne sono le creature predilette e favorite; un’invenzione che deriva il suo bisogno e la sua utilità e funzionalità dalle dichiarate ambizioni della società moderna, una società che considera l’avere tali ambizioni come il segno più importante della sua superiorità. A mio parere, la più sbalorditiva, ed anzi terrificante, lezione del tipo di genocidio così tipico del ventesimo secolo è che non è possibile supporre o ipotizzare (tanto meno prevedere con un qualsiasi grado di sicurezza) il decadimento massiccio del senso d’umanità misurando l’intensità degli accessi di malvagità in singoli personaggi, la percentuale d’individui con inclinazioni sociopatiche, o la frequenza di convinzioni eterofobiche. Anche l’analisi più scrupolosa del senso d’urbanità nel comportamento umano non può essere che di scarso aiuto. La stampa più prestigiosa e più degna di rispetto del mondo civilizzato, la voce riconosciuta dell’opinione illuminata, era piena di lodi e d’ammirazione quando riferiva sulla vita quotidiana della Germania sotto il regime nazista; sia “The Times” che il “New York Times” e “Le Figaro” diventavano lirici quando ne scrivevano: strade che brillavano di pulizia, di legalità e di ordine; niente scioperi, niente dimostrazioni di massa, niente marce di protesta, niente atti terroristi; solo gente pacifica, ospitale, ben nutrita e sorridente. Ed un famoso sociologo americano «dimostrò scientificamente», al di là di ogni ragionevole dubbio e con ampio assenso dell’opinione pubblica, che sotto il regime sovietico la gioventù aveva una maggiore predisposizione sociale e si comportava meglio che in occidente, era meglio protetta contro la famigerata patologia che tormentava gli adolescenti occidentali, ed era meno incline ai vizi ed alla delinquenza. Ma proprio questi uomini rispettosi delle leggi, pacifici, questi lavoratori disciplinati, questi mariti e padri di famiglia esemplari, stavano per commettere congiuntamente, o consentire che si commettesse, un crimine senza eguali nella storia umana. E proprio quei giovani disciplinati e che si comportavano così bene stavano per essere di guardia sulle torrette di sorveglianza dell’Arcipelago Gulag.

A mio parere, chiunque si chieda come fossero possibili i campi di concentramento deve guardare non alle statistiche dei sadici, degli psicopatici e dei pervertiti, palesi o nascosti che siano, ma altrove: a quel singolare e terrificante marchingegno moderno socialmente inventato che permette la separazione tra azione ed etica, tra ciò che si fa e ciò che si pensa o si ritiene di fare, tra la natura del fatto collettivo e le motivazioni dei singoli individui che agiscono.

Una crudeltà modernizzante Tali condizioni – condizioni senza le quali non ci sarebbero né campi di concentramento né genocidi, condizioni che hanno trasformato l’inimmaginabile in realtà – sono realizzazioni della nostra civiltà moderna, ed in particolare di tre caratteristiche che mettono in risalto, nello stesso tempo, la sua gloria e la sua miseria: la capacità di agire a distanza, la neutralizzazione delle costrizioni morali dell’azione , ed il suo ruolo legato al lavoro di «giardinaggio» (gardening ), cioè la ricerca di un ordine artificiale, razionalmente progettato . Che oggi si possa uccidere senza mai guardare la vittima in faccia è un’osservazione banale. Certi metodi di una volta, come l’affondare un coltello nella carne, o lo strangolare, o lo sparare a distanza ravvicinata, sono stati sostituiti dallo spostamento di cursori sullo schermo di un computer, proprio come si fa nei giochi delle sale di divertimento o sullo schermo di un Nintendo portatile; l’uccisore non ha bisogno di essere senza pietà; egli non ha l’occasione di sentire pietà. Questo è, in ogni caso, l’aspetto più ovvio e banale, anche se il più drammatico, dell’«azione a distanza». Le manifestazioni meno drammatiche e spettacolari delle nostre nuove e moderne capacità d’azione a distanza sono ancora più consequenziali, tanto più per il fatto di non essere così evidenti. Esse consistono nel creare quella che si può chiamare una distanza sociale e psicologica , piuttosto che semplicemente fisica ed ottica , tra coloro che agiscono e gli obiettivi delle loro azioni. Questa distanza sociale/psicologica viene prodotta e riprodotta ogni giorno, e dovunque, e su scala massiccia, dalla maniera

moderna di condurre l’azione, caratterizzata da tre differenti, anche se complementari, aspetti. Innanzitutto, in un’organizzazione moderna ogni azione personalmente eseguita è un’azione mediata, ed ogni attore risulta calato in quella che Stanley Milgram ha chiamato «condizione dell’attore»: quasi nessun attore ha mai una possibilità di sviluppare l’atteggiamento di «paternità» per quanto riguarda l’esito finale dell’operazione, poiché ogni attore non è che un esecutore di un comando, che a sua volta ne dà un altro; non è uno scrittore, ma un traduttore delle intenzioni di qualcun altro. Tra l’idea che genera l’operazione ed il suo ultimo effetto c’è una lunga catena d’esecutori, nessuno dei quali può essere indicato con certezza come un anello sufficiente, decisivo, tra il progetto ed il suo risultato. In secondo luogo, c’è la suddivisione orizzontale, funzionale, del compito complessivo: ciascun attore non ha che uno specifico e autonomo lavoro da compiere e produce un oggetto che non ha né una sua destinazione precisa né informazioni sulle sue future utilizzazioni; nessun contributo sembra «determinare» il prodotto finale dell’operazione, e la maggior parte di essi non ha che un tenue legame logico con il risultato definitivo: un legame la cui visibilità può essere coscientemente rivendicata dai partecipanti solo in retrospettiva. In terzo luogo, i «destinatari» dell’operazione, persone che di proposito o per esclusione ne risultano coinvolte, quasi mai appaiono agli agenti come «esseri umani completi», oggetti di responsabilità morale e soggetti etici in se stessi. Come Michael Schluter e David Lee hanno osservato in modo arguto ma appropriato, «per poter essere visti ai livelli superiori è necessario essere ridotti in frantumi ed essere scartati quasi totalmente» (1993, pp. 22-23). E di nuovo, in merito alla tendenza alla Gleichschaltung [«livellamento»] che segue inevitabilmente una tale frammentazione: «le istituzioni della megacomunità sono disposte a tenere in considerazione più le capacità nelle quali gli individui si equivalgono che quelle nelle quali ciascuno di essi si segnala per caratteristiche singolari ed uniche». Come risultato, la maggior parte degli agenti che operano nelle

organizzazioni si preoccupano non di esseri umani, ma di aspetti, caratteri, tratti statisticamente rappresentati; mentre soltanto persone umane complete possono essere potatrici di significato morale. L’impatto complessivo di tutti questi aspetti dell’organizzazione moderna si traduce in quella che io ho chiamato (mutuando il termine dal vocabolario della Chiesa medievale) l’adiaforizzazione morale dell’azione [a dire il vero, con il termine greco adiafora (=«cose indifferenti») già nella filosofia cinica e stoica si volle indicare tutto ciò che, non essendo né bene né male, lascia indifferente il saggio, N.d.T. ]; per tutti gli scopi pratici, il significato morale dell’effetto finale e congiunto delle azioni individuali viene escluso dai criteri attraverso i quali le azioni individuali vengono misurate, e così queste ultime vengono percepite e sperimentate come moralmente neutre (più esattamente, ma con lo stesso risultato, il significato morale viene spostato dall’impatto che l’azione ha sui suoi obiettivi a motivazioni quali la lealtà verso l’organizzazione, la solidarietà collegiale, il benessere dei subordinati, o la disciplina procedurale). La frammentazione degli oggetti dell’azione viene replicata dalla frammentazione degli agenti. La suddivisione verticale ed orizzontale dell’operazione complessiva in compiti parziali rende ogni attore un individuo che esegue una parte . Diversamente dalla «persona», chi esegue una parte è un incaricato del tutto sostituibile e scambiabile in un determinato luogo nella complessa rete di compiti: c’è sempre una certa impersonalità, una distanza, un rapporto meno autorevole tra colui che esegue una parte e la parte eseguita. In nessuna delle parti colui che le esegue è una persona completa, poiché l’esecuzione di ciascuna parte non impegna che una selezione delle capacità e delle caratteristiche personali dell’attore, ed in linea di massima non dovrebbe né impegnare le restanti parti né soverchiare e interessare il resto della personalità dell’attore. Anche questo rende l’esecuzione di una parte eticamente adiaforica: solo persone complete , solo persone uniche («uniche» nel senso di essere insostituibili, cioè nel senso che l’azione rimarrebbe non compiuta senza di loro) possono essere dei soggetti morali, portatori di responsabilità morale; ma l’organizzazione moderna deriva la sua forza dalla sua misteriosa capacità di

suddivisione e frammentazione, mentre, d’altro canto, il fornire ai frammenti l’occasione di riunirsi nuovamente non è mai stato il forte dell’organizzazione. L’organizzazione moderna è la regola di nessuno . Essa è, potremmo dire, un marchingegno per far tenere a galla la responsabilità : nel modo più vistoso, la responsabilità morale. Grazie a tutte queste invenzioni, spesso discusse sotto il nome di «gestione scientifica», l’azione moderna è stata liberata dalle limitazioni imposte da sentimenti etici. Il modo moderno di fare le cose non richiede la mobilitazione di sentimenti e convinzioni . Al contrario, il ridurre al silenzio ed il raffreddare i sentimenti costituiscono il requisito essenziale e la condizione suprema della sua sorprendente efficienza. Impulsi e costrizioni morali sono stati non tanto estinti, quanto invece neutralizzati e resi irrilevanti . A uomini e donne è stata data l’occasione di compiere azioni disumane senza che essi si siano sentiti minimamente disumani. Soltanto quando (per citare nuovamente Hannah Arendt) «la vecchia istintiva bestialità cedette il passo ad una distruzione assolutamente fredda e sistematica dei corpi umani», «il tedesco medio che i nazisti, malgrado anni di violentissima propaganda non riuscirono a indurre ad uccidere un Ebreo per proprio conto (neppure quando resero del tutto chiaro che un tale assassinio sarebbe rimasto impunito)», si pose al servizio della «macchina di distruzione senza opporsi» (Arendt, 1962). La modernità non rese gli individui umani più crudeli, ma solo inventò un modo in cui cose crudeli potevano essere commesse da individui umani non-crudeli . Sotto il segno della modernità, il male non ha più bisogno di individui malvagi. Individui razionali, uomini e donne ben inseriti nella rete impersonale, adiaforizzata dell’organizzazione moderna, potranno farcela perfettamente. Diversamente da così tanti altri episodi di crudeltà umana che segnano la storia umana, i campi di concentramento furono crudeltà con uno scopo preciso . Un mezzo per un fine. Dell’olocausto ebraico Cynthia Ozik ebbe a scrivere che esso fu il gesto di un artista teso a rimuovere una macchia da un quadro altrimenti perfetto. Capitò che questa macchia fosse rappresentata da certi individui che non si adattavano al modello di un universo perfetto. La loro distruzione fu

una distruzione creativa , così come la distruzione d’erbacce è un atto creativo nella ricerca della bellezza nel progetto di un giardino. Nel caso di Hitler, il progetto era una società di-razza-pura. Nel caso di Lenin, il progetto era una società di-classe-pura. In entrambi i casi, era in gioco un universo omogeneo, esteticamente soddisfacente e puro, libero da incertezze conflittuali, da elementi ambivalenti e contingenti, e, quindi, da portatori di valori inferiori, da ritardati mentali, da ciò che non è né educabile né toccabile. Ma non era proprio questo il tipo d’universo sognato e promesso dai filosofi dell’Illuminismo, da realizzare da parte dei despoti che essi cercavano d’illuminare. Un regno della ragione, l’esercizio ultimo nel dominio dell’uomo sulla natura, la dimostrazione ultima dell’infinito potenziale umano... Come hanno mostrato Götz Aly e Susanne Heim nel loro dettagliatissimo e profondo studio, la strage di Ebrei europei può essere pienamente compresa solo come parte integrante di un tentativo globale di creare una Nuova Europa, meglio strutturata e meglio organizzata di quanto lo fosse prima; questa visione richiedeva un trasferimento massiccio della popolazione alla quale era sempre capitato di stabilirsi dove non avrebbe dovuto e dove era unerwünscht [«indesiderata»], dato che non se ne vedeva alcuna utilità... Si trattò, come sottolineano con molto risalto gli autori, di un tentativo di completa modernizzazione , poiché il suo fine ultimo era quello «di distruggere la diversità pre-moderna e d’introdurre il “nuovo ordine”»: un compito che richiedeva in egual misura Umsiedlung , Homogenisierung e Mobilisierung [«trasferimento», «omogeneizzazione» e «mobilitazione». È facile, anche se imperdonabile, dimenticare che la famigerata riunione IVD4 presieduta da Eichmann venne stabilita nel dicembre 1939 per trattare l’«Umsiedlung» non solo degli Ebrei, ma anche di Polacchi, Francesi, Lussemburghesi, Serbi, Croati e Sloveni. Il sogno dello spirito moderno è quello di una società perfetta, di una società purificata dei punti deboli umani ancora esistenti; e tra questi punti deboli vi sono soprattutto gli esseri umani deboli, quelli non all’altezza della situazione se valutati secondo il livello di potenziale umano rivelato e formulato dalla Ragione e dai suoi portavoce. (La distruzione di massa di Ebrei e zingari seguì una

strategia scientificamente ideata, elaborata da quella che Aly e Heim definiscono «espertocrazia», che includeva innanzitutto e soprattutto le élite della scienza, e che fece le sue prime prove su malati di mente ed altri «disadattati» nella famigerata campagna per l’«eutanasia» [Gnadentodt ]. E l’ambizione è quella di realizzare questo sogno attraverso lo sforzo continuo, determinato e radicale, di «soluzione dei problemi» (problem-solving ), attraverso la rimozione, uno dopo l’altro, degli ostacoli che si frappongono sulla strada verso il sogno, compresi uomini e donne che creano problemi, che sono il problema. Lo spirito moderno considera l’habitat umano come un giardino, la cui forma ideale deve essere predeterminata attraverso un progetto accuratamente ideato e meticolosamente seguito, e realizzato favorendo la crescita di arbusti e fiori previsti nel progetto, e trattando con diserbanti o sradicando tutto il resto, ciò che non si desidera e non rientra nel progetto, le erbacce. L’Europa Orientale, dicono Aly e Heim, è apparsa ai costruttori del «Nuovo Ordine» come «un grande terreno incolto, in attesa di essere sistemato per un nuovo cantiere». I casi estremi e meglio documentati d’«ingegneria sociale» nella storia moderna (quelli presieduti da Hitler e Stalin), malgrado tutte le atrocità che li accompagnarono, non furono né esplosioni di barbarie pre-moderna non ancora completamente estinta dal nuovo ordine civilizzato, razionale, né il prezzo pagato per utopie estranee allo spirito della modernità; e neppure furono, contrariamente ad opinioni frequentemente espresse, un ulteriore capitolo nella lunga e tutt’altro che finita storia dell’«eterofobia», quel risentimento istintivo ed irrazionale per qualunque cosa appaia strano, alieno, poco familiare, e quindi tale da incutere spavento. Al contrario, essi furono prole legittima dello spirito moderno, di quel forte desiderio di aiutare ed accelerare il progresso dell’umanità verso la perfezione che è stato il segno distintivo più notevole dell’età moderna; della visione ottimistica secondo cui il progresso scientifico ed industriale elimina in teoria ogni restrizione sulle possibili istanze di pianificazione, educazione e riforma sociale nella vita quotidiana; e di quella fiducia che tutti i problemi sociali possano essere finalmente risolti e che il mondo possa essere rimodellato secondo i criteri della ragione umana.

I promotori nazisti e comunisti di una società ordinata, immune da digressioni e deviazioni, ritennero di essere gli araldi e cavalieri della scienza moderna ed i veri soldati del progresso; le loro strabilianti visioni traevano la loro legittimità (e, non dobbiamo dimenticarlo, una simpatia intellettuale di proporzioni davvero imbarazzanti tra i più eminenti membri delle «classi illuminate» d’Europa) da tali opinioni e convinzioni già saldamente radicate nello spirito umano nel periodo storico di un secolo e mezzo di post-Illuminismo, quando s’imponevano in abbondanza la propaganda scientistica e l’ostentazione dei poteri meravigliosi della tecnologia moderna. Per citare nuovamente Aly e Heim, «nella loro astrazione questi modelli di pensiero erano in stridente contrasto con la rabbia di un sergente». Essi avevano bisogno di una «teoria scrupolosamente elaborata, la quale richiedeva che intere classi, minoranze e popolazioni fossero spostate e decimate» (Aly – Heim, 1991, pp. 10, 14-15). Né la visione nazista né quella comunista discordavano dall’audace sicurezza di sé e dall’orgoglio della modernità; tali visioni semplicemente si proponevano di far meglio, e in modo più deciso (ma più rapido nel suo risultato), ciò che altre forze moderne avevano sognato, forse anche tentato di realizzare, ma fallendo o senza avere il coraggio di portare a termine: Ciò che non va dimenticato è che il razzismo fascista fornì un modello per un nuovo ordine nella società, un nuovo allineamento al suo interno. La sua base fu l’eliminazione razzista di tutti gli elementi che deviavano dalla norma: giovani irriducibili, «sfaccendati», «asociali», prostitute, omosessuali, disabili, persone che si rivelavano incompetenti o che fallivano nel loro lavoro. L’eugenetica nazista – cioè la classificazione e selezione degli individui sulla base di presunti valori «genetici» – non si limitò soltanto alla sterilizzazione e all’eutanasia per chi «era privo di tali valori» e all’incoraggiamento della fertilità per chi «li possedeva»; essa stabilì anche i criteri di valutazione, le categorie di classificazione e le norme d’efficienza che fossero applicabili alla popolazione nel suo insieme (Peukert, 1987, p. 208).

In effetti, si deve essere d’accordo non solo con questa osservazione di Detlev Peukert, ma anche con la sua conclusione: che il Nazional Socialismo semplicemente «spinse la fede utopistica in globali soluzioni finali “scientifiche” dei problemi sociali fino all’ultimo estremo logico». La determinazione e l’autodecisione di

andare «fino in fondo» e di raggiungere il massimo furono caratteristiche sia di Hitler che di Stalin, ma la loro logica fu costruita, legittimata e fornita dallo spirito e dalla pratica della modernità. I crimini più atroci e ripugnanti del nostro secolo sono stati commessi nel nome della supremazia umana sulla natura, e così anche sulla natura umana , sui bisogni, sulle aspirazioni e sui sogni dell’uomo. Quando all’esercizio della supremazia viene data priorità indiscussa su ogni altra considerazione, gli stessi esseri umani diventano superflui, e gli stati totalitari che diedero a questo esercizio una tale priorità fecero del tutto per rendere gli esseri umani superflui. In tale contesto, i campi di concentramento – privi di senso sotto ogni altro aspetto – ebbero la loro propria, sinistra razionalità . I campi di concentramento furono gli strumenti in questo esercizio, i mezzi esatti per un fine sbagliato, destinati ad eseguire tre compiti vitali. Essi furono laboratori nei quali le nuove inaudite capacità di dominio e controllo furono attentamente esaminate e verificate. Furono scuole nelle quali fu oggetto d’esercizio la prontezza a commettere crudeltà in esseri umani che prima erano gente ordinaria. E furono spade sospese sul capo di quelli che rimanevano dall’altra parte del recinto di filo spinato, perché imparassero che non solo il loro dissenso non sarebbe stato tollerato, ma anche che il loro consenso non era richiesto, e che abbastanza poco dipendeva dalla loro scelta tra protesta ed acclamazione. I campi di concentramento furono distillazioni di un’essenza diluita altrove, condensazioni di un dominio totalitario e del suo corollario, la superfluità dell’uomo, in una forma pura difficile o impossibile da raggiungere altrove. I campi di concentramento rappresentarono modelli e progetti per la società totalitaria, per quel sogno moderno di ordine totale, di dominio e di potere tornato allo stato naturale, purificato delle ultime vestigia di quella libertà, istintività ed imprevedibilità umana capricciosa e irragionevole da cui era impedito. I campi di concentramento furono un terreno di prova per società condotte, appunto, come campi di concentramento. Ecco in qual modo Ryszard Kapuscinski, il più infaticabile e attento tra i corrispondenti di guerra dai contemporanei campi di battaglia dove sono in gioco oppressione e libertà, ha descritto nel suo

ultimo libro, Imperium (Varsavia, 1993), la sua esperienza che l’ha portato a vedere l’Unione Sovietica attraverso la «transiberiana»: Filo spinato. Filo spinato: questo è ciò che si vede prima di tutto... A prima vista, questa barriera spinata, onnipresente, sembra priva di senso e surreale; chi cercasse di attraversarla, con il deserto di neve che si estende fin dove arriva lo sguardo, senza che si veda un’orma, una persona, con la neve alta due metri, non riuscirebbe a fare un passo...; eppure questo filo spinato vuole dirti qualcosa, darti un messaggio. Esso dice: attenzione, stai attraversando la frontiera con un altro mondo. Di qui, tu non potrai fuggire. Questo è un mondo di estrema serietà, di comando ed obbedienza. Impara ad ascoltare, impara l’umiltà, impara ad occupare il minimo spazio possibile. Meglio di tutto, fa quello che devi fare. Meglio di tutto, mantieniti calmo. Meglio di tutto, non fare domande.

Questo particolare filo spinato di cui scrisse Kapuscinski è stato ormai smantellato, così come lo è stato il regime totalitario che lo costruì. Ma esso parla ancora, continua ad inviare un messaggio a tutti coloro che vogliono ascoltare. Ed il messaggio è questo: non esiste una società ordinata senza paura ed umiliazione, non esiste un dominio umano sul mondo che non calpesti la dignità umana e non uccida la libertà umana, non esiste lotta contro l’inquieta accidentalità della condizione umana che non finisca con il rendere gli esseri umani superflui. Nei campi di concentramento non fu soltanto la sopportabilità umana ad essere messa alla prova. Alla prova venne sottoposta anche l’attuabilità del grande progetto moderno di un definitivo ordine umano, che però dimostrò di essere, inevitabilmente, un ordine disumano . Nei campi di concentramento quel progetto trovò la sua reductio ad absurdum , ma anche il suo experimentum crucis . A dire il vero, un mondo trasparente, ordinato e controllato, purificato di ciò che è imprevisto e accidentale, non era che uno dei sogni moderni. Un altro era il sogno della libertà umana: non la libertà della specie umana, che permette di farsi beffe della natura con le sue costrizioni e dei singoli esseri umani con i loro bisogni, ma la libertà di uomini e donne così come essi sono e desiderano essere e diverrebbero, se ne fosse data loro la possibilità. Ciò che molti hanno sospettato da sempre, ma che la maggior parte di noi conosce ora, è che non c’è modo di far sì che entrambi i sogni si realizzino insieme. Ed

oggi non vi sono in giro molti individui entusiasti, impressionati dal sogno di un ordine controllato, amministrato dallo Stato. A quanto pare, ci siamo riconciliati con l’incurabile disordine del mondo; o siamo troppo occupati nel correr dietro le seducenti lusinghe della società consumistica, e così non abbiamo il tempo di ponderarne i pericoli; oppure non avremmo il coraggio o l’energia per combatterlo, qualora fossimo desiderosi o capaci di prestarvi attenzione. Questo non significa necessariamente che l’età dei campi di concentramento e del genocidio sia completamente finita. Nel 1975 l’esercito indonesiano occupò il vicino territorio di Timor Est. Da allora, «un terzo della popolazione è stato trucidato. Interi villaggi sono stati massacrati da bande armate abbandonatesi indiscriminatamente a stupri, torture e mutilazioni». La risposta del mondo occidentale, civilizzato? La nostra risposta? Gli Stati Uniti hanno perdonato l’invasione, chiedendo soltanto che si doveva aspettare fino a dopo la visita ufficiale del presidente Ford; l’Australia ha firmato accordi commerciali con il regime di Giacarta per sfruttare i giacimenti petroliferi di Timor Est; e la Gran Bretagna ha fornito alla dittatura militare dell’Indonesia grandi quantità di armi, compresi gli aeroplani necessari per bombardare comunità civili. A chi lo interrogava sulla posizione britannica, l’ex-ministro alla Difesa, Alan Clark, ha risposto: «A dire il vero, non penso molto a ciò che un gruppo di stranieri fa ad un altro».

È quanto possiamo leggere in “The Guardian” del 22 febbraio 1994, vent’anni dopo l’inizio del genocidio della popolazione di Timor Est. Non sappiamo se le bande armate che torturarono e mutilarono e uccisero fecero ciò che fecero per un profondo odio che sentivano per la popolazione conquistata, o solo perché proprio questo rientrava nell’ordine dei comandanti e nel ruolo dei soldati. Ciò che sappiamo è che il ministro del paese che vendette ai militari gli aeroplani per compiere lo sterminio non provò emozioni di alcun tipo, se non forse la soddisfazione per un accordo d’affari ben riuscito. E poiché il ministro in questione apparteneva ad un partito al quale gli elettori britannici diedero la maggioranza dei voti per tre volte dal momento in cui gli aeroplani erano stati consegnati ed usati, possiamo supporre che i votanti, proprio come il ministro per il quale votarono, non pensarono molto a ciò che un gruppo di stranieri faceva ad un altro.

Possiamo anche scommettere con sicurezza sulla verità che gli abitanti di Timor Est furono sterminati perché il mondo che i governanti dell’Indonesia intendevano costruire non aveva spazio per loro, e così poteva essere creato solo se gli abitanti di Timor Est venivano eliminati; possiamo dire che l’eliminazione degli abitanti di Timor Est fu, per i governanti indonesiani, un atto di creazione. «Tra il 1960 e il 1979», afferma Helen Fein nel suo esauriente studio sul genocidio contemporaneo, «ci furono probabilmente almeno una dozzina di genocidi e di stermini di massa, tra i quali quelli dei Curdi in Iraq, degli abitanti del sud nel Sudan, dei Tutsi nel Ruanda, degli Hutu nel Burundi, dei Cinesi... in Indonesia, degli Indù e di altre etnie del Bengala nel Pakistan orientale, degli Ache nel Paraguay, di molte popolazioni in Uganda...» (Fein, 1993, p. 6). Se qualcuno di noi ha sentito parlare di alcuni di questi genocidi, altri non ne hanno sentito mai parlare; ma pochi hanno fatto qualcosa per farli cessare o per portare in tribunale i loro esecutori. Ciò di cui tutti possiamo essere abbastanza sicuri, se vi poniamo mente, è che i nostri governi, nel nostro interesse – per tenere aperte le nostre fabbriche e per salvare il nostro lavoro – hanno fornito i fucili e le pallottole e i gas tossici per consentire agli assassini di eseguire il loro lavoro . In ogni genocidio, le vittime vengono uccise non per ciò che hanno fatto, ma per ciò che sono; più precisamente ancora, per ciò che esse, essendo ciò che sono, possono ancora diventare; o per ciò che esse, essendo ciò che sono, possono non diventare. Nulla di ciò che le vittime designate potrebbero o non potrebbero fare, condizionerebbe la sentenza di morte; ed in ciò va compresa la loro scelta tra la remissività o la combattività, tra la resa o la resistenza. Chi sia la vittima e ciò che le vittime rappresentino è una questione che soltanto i loro carnefici decidono. In una concisa definizione di Chalk e Jonassohn (1990, p. 23), «genocidio è una forma di uccisione unilaterale di massa, in cui uno Stato o altra autorità intende distruggere un gruppo, così come tale gruppo o l’appartenere ad esso vengono definiti dagli esecutori». Prima che gli esecutori del genocidio acquisiscano il potere sulla vita delle loro vittime, debbono aver acquisito il potere sulla loro definizione . Proprio questo primo,

fondamentale potere rende a priori irrilevante qualsiasi cosa le vittime già definite come non degne di vivere possano fare o trattenersi dal fare. Il genocidio comincia con una classificazione e si compie come un’uccisione di categoria . Diversamente dai nemici in guerra, le vittime del genocidio non hanno un proprio io, e quindi sono il tipo d’individui che non possono essere giudicati per le loro azioni. Esse non hanno un io personale neppure nel senso di avere in sé una colpa o un peccato. Il loro unico, e sufficiente, crimine è l’essere state classificate in una categoria definita come criminale o malata senza alcuna speranza. In ultima analisi, esse sono colpevoli di essere accusate. Questo carattere decisamente monologico del genocidio, questa risoluta esclusione pregiudiziale di ogni dialogo, questa asimmetria prefabbricata del rapporto, questa unilateralità sia dell’autorità giudicante che della condizione dei processati, costituiscono, a mio parere, il carattere costitutivo decisivo di ogni genocidio. E, viceversa, il genocidio non può essere concepito, tanto meno se ne può decidere l’attuazione, se si evita che la struttura del rapporto sia in un modo o nell’altro monologica. Tuttavia, anche nella nostra relativamente piccola parte postmoderna del globo, dove certi Stati hanno del tutto improvvisamente rinunciato alle loro passate concezioni totalitarie e hanno abbandonato o sono stati costretti ad abbandonare le speranze di ricorrere ancora una volta a prese di posizione monologiche, dove i tentativi di costruzione e di mantenimento dell’ordine, insieme alla coercizione che li accompagna (una volta concentrati e monopolizzati nelle mani dello Stato sovrano e dei suoi agenti appositamente scelti) vengono sempre più liberati da determinate regole, privatizzati, compiuti in modo sparso, come «soluzioni totalitarie» su scala ridotta, tali Stati – così avverte Hannah Arendt – «possono ben sopravvivere alla caduta dei regimi totalitari nella forma di forti tentazioni che sorgeranno ogni qualvolta sembrerà impossibile alleviare le difficoltà politiche, sociali o economiche in modo degno dell’uomo». E di queste difficoltà ve ne sono in abbondanza attorno, e sono destinate a crescere in un mondo sempre più sovrappopolato e inquinato dove

scarseggiano le risorse e la domanda di capacità manuali e intellettuali di uomini e donne come produttori. Almeno un adulto su dieci in tutta la parte opulenta del mondo (ma, come affermano alcuni osservatori, un adulto su tre; noi già viviamo, dicono, in una «società di due terzi», e, dato l’attuale modello di cambiamento, fra circa una trentina d’anni raggiungeremo una «società di un terzo») è attualmente un individuo superfluo, nel senso che non è in grado né di offrire un lavoro potenzialmente utile né di essere un potenziale cliente dei centri commerciali. Se il classico Stato-nazione usò polarizzare la società in membri di pieno diritto di una comunità politica/nazionale e in stranieri privati dei diritti di cittadinanza, il mercato che si assume il compito d’integrazione polarizza la società in consumatori di pieno diritto, succubi del suo potere di seduzione, ed in consumatori imperfetti, o non-consumatori, incapaci di rispondere alle lusinghe, e così, dal punto di vista del mercato, totalmente inutili e superflui. In termini bruschi, i derelitti di ieri erano i nonproduttori, i derelitti di oggi sono i non-consumatori. La sotto-classe che ha sostituito l’«esercito di riserva dal lavoro», i disoccupati ed i poveri di ieri, viene emarginata non per la sua posizione svantaggiata tra i produttori, ma per il suo esilio dalla categoria dei consumatori. Incapaci di rispondere alle sollecitazioni del mercato nel modo in cui si vuole che queste sollecitazioni agiscano, questi individui non possono essere tenuti a bada con i metodi impiegati dalle forze di mercato. A tali individui vengono applicati i vecchi e già sperimentati metodi di controllo coercitivo e di criminalizzazione da parte dello Stato, nella sua incessante capacità di custode di «legge e ordine». Sarebbe sciocco e irresponsabile minimizzare, in tali circostanze, le tentazioni di «soluzioni totalitarie», sempre forti quando certi esseri umani vengono dichiarati superflui o costretti a forza in una condizione superflua, anche se con ogni probabilità le soluzioni di stile totalitario si nasconderanno attualmente sotto altri nomi, più piacevoli. E sarebbe ingenuo supporre che il governo democratico della maggioranza fornisca, per se stesso, una sufficiente garanzia che la tentazione di soluzioni totalitarie verrà respinta. In tempi nei quali larghe maggioranze di uomini e donne dei paesi

opulenti vengono integrate attraverso la seduzione, la pratica delle pubbliche relazioni e la pubblicità, piuttosto che attraverso norme imposte, il controllo e l’addestramento, la repressione degli emarginati che sfuggono alla rete degli allettamenti o non sono capaci d’arrampicarsi e d’inserirsi in essa, diventa un inevitabile complemento della seduzione: cioè come il modo provato di trattare coloro che non si riesce a trattare con la seduzione, e come un monito severo, a quanti si fanno dissuadere dai capricci del gioco consumistico, che il prezzo da pagare per non pagare il prezzo delle angustie del mercato è la capitolazione della libertà personale. In un recente studio con il significativo sottotitolo Towards Gulags, Western Style? [«Verso i Gulag, in stile occidentale?»] (1993), il criminologo norvegese Nils Christie ha dimostrato in modo persuasivo «la capacità della società industriale moderna d’istituzionalizzare larghi settori della popolazione», capacità che si manifesta, tra altri modi, nella continua crescita della popolazione delle prigioni. Negli USA, nel 1986, il 26 per cento degli individui negri di sesso maschile che avevano abbandonato la scuola si trovava in prigione; da allora il numero è cresciuto e continua a crescere rapidamente. Ovviamente, le prigioni delle società liberaldemocratiche non sono i campi di concentramento degli stati totalitari. Ma la tendenza a criminalizzare qualunque cosa rientri nelle definizioni di «disordine sociale» o di «patologia sociale», con conseguente segregazione, incarcerazione, dichiarazione d’incapacità politica e sociale e privazione dei diritti civili dei veri o presunti portatori di patologie, è in larga misura una «soluzione totalitaria senza uno stato totalitario»; e lo stile di «soluzione dei problemi» che essa promuove ha a che fare più di quanto vorremmo ammettere con la «propensione totalitaria», o con le tentazioni totalitarie a quanto pare endemiche nella modernità. Ma si consenta di ripetere che sarebbe prematuro scrivere necrologi dei campi di concentramento «classici», quelli di stile hitleriano e staliniano. Quei campi di concentramento furono un’invenzione moderna, anche quando furono usati a servizio di movimenti anti-moderni. I campi di concentramento, insieme alle

armi telecomandate elettronicamente, alle automobili avide di benzina, alle videocamere ed ai registratori, rimarranno con ogni probabilità tra gli annessi e connessi più chiassosamente richiesti e più avidamente ambiti da società esposte alle pressioni della modernizzazione, per quanto alcune tra esse siano in guerra contro altre invenzioni moderne, come l’habeas corpus , la libertà di parola, o il governo parlamentare, e denigrano le libertà individuali e la tolleranza della diversità come sintomi di empietà e degenerazione. Malgrado tutta la nostra saggezza retrospettiva postmoderna, noi viviamo e vivremo ancora per qualche tempo in un mondo essenzialmente moderno e modernizzante, le cui terribili e spesso sinistre capacità sono forse divenute più visibili e meglio comprese, ma non per questo sono scomparse. I campi di concentramento fanno parte di questo mondo moderno. Rimane ancora da provare che essi non ne siano parte integrante e inamovibile. Il nostro secolo deve quindi essere marchiato dagli storici come l’«Età dei campi di concentramento»? Il tempo dirà quale sarà la conseguenza più duratura di Auschwitz e del Gulag. Sarà forse la tentazione di ricorrere alla loro esperienza ogni qualvolta sarà impossibile alleviare l’accumularsi dell’infelicità umana, oppure ogni qualvolta il quadro della futura felicità sarà così allettante che il disprezzo per coloro che vivono nel presente apparirà un prezzo ragionevole da pagare? O, al contrario, sarà il ruolo che tale esperienza ha svolto nel nostro rinsavimento rispetto al lato oscuro del progresso moderno, nella nostra scoperta del malessere congenito dello spirito moderno, nella nostra nuova disponibilità a riflettere sui costi umani del miglioramento sociale? Se prevale la prima possibilità, allora davvero l’età dei campi di concentramento sarà la vera e legittima erede delle età della Ragione, dell’Illuminismo e delle Rivoluzioni. Se invece riesce ad imporsi la seconda possibilità, il nostro secolo può ancora passare alla storia come l’Età del Risveglio. Non possiamo essere sicuri che la scelta appartenga a noi. Ma non potremo dire che non sapevamo ci fosse una scelta.

Riferimenti bibliografici Aly, G. – Heim, S. (1991), Vordenker der Vernichtung: Auschwitz und die deutschen Pläne für eine neue europäische Ordnung , Hiffman & Campe, Hamburg. Arendt, H. (1962), The Origins of Totalitarianism , Allen & Unwin, London. Chalk, F.-Jonassohn, K. (1990), The History and Sociology of Genocide. Analysis and Case Studies , Yale University Press, New Haven. Christie, N. (1993), Crime Control as Industry: Towards Gulags, Western Style? , Routledge, London. Fein, H. (1993), Genocide: A Sociological Perspective , Sage, London. Peukert, D. K. (1987), Inside Nazi Germany , trad. ingl. di R. Deveson, Yale University Press, New Haven. Schluter, M.-Lee, D. (1993), The R Factor , Hodder & Stoughton, London.

9. AMBIVALENZA E ORDINE

9.1 La ricerca di ordine [Titolo originale: The Quest of Order, 1991] L’ambivalenza, la possibilità di classificare un oggetto o un evento in più di una categoria, è un disordine specifico del linguaggio: un insuccesso della funzione d’indicare (isolare) qualcosa con un nome, che il linguaggio è destinato a compiere. Il sintomo principale di questo disordine è il profondo disagio che sentiamo quando siamo incapaci di capire la situazione nel modo dovuto e di scegliere tra azioni alternative. Proprio a causa dell’ansia che l’accompagna e dell’indecisione che la segue noi sperimentiamo l’ambivalenza come un disordine, ed allora ce la prendiamo o con il linguaggio per la sua mancanza di precisione, o con noi stessi per un uso linguistico errato. E tuttavia l’ambivalenza non è il prodotto della patologia del linguaggio o del modo d’esprimersi. Essa è, anzi, un aspetto normale della pratica linguistica. Essa sorge da una delle principali funzioni del linguaggio: quella di dare un nome e di classificare. La sua capacità cresce dipendentemente dall’efficacia con cui tale funzione viene eseguita. L’ambivalenza è quindi l’alter ego del linguaggio, e la sua fedele compagna; ne è, anzi, la condizione normale. Classificare significa assegnare un posto, separare. Significa innanzitutto ipotizzare che il mondo sia costituito da entità separate e distinte; e poi che ciascuna entità abbia un gruppo di entità simili o contigue al quale appartiene, e con il quale – insieme – si oppone a certe altre entità; e quindi rendere ciò che si è ipotizzato effettivo associando distinti modelli d’azione a differenti classi d’entità (dove

l’evocazione di uno specifico modello comportamentale diviene la definizione operativa della classe). Classificare, in altre parole, significa conferire al mondo una struttura : manipolarne le probabilità; rendere alcuni eventi più probabili di altri; comportarsi come se gli eventi non fossero casuali, ossia limitare o eliminare la casualità degli eventi. Grazie alla sua funzione di dare un nome/classificare, il linguaggio si colloca tra un mondo saldamente basato, ordinato, adatto per l’abitazione umana, ed un mondo contingente di casualità, in cui le armi per la sopravvivenza umana – la memoria, la capacità d’apprendimento – sarebbero inutili, se non addirittura suicide. Il linguaggio cerca di mantenere l’ordine e di rifiutare o eliminare la casualità e la contingenza. Un mondo ordinato è un mondo in cui «si sa come procedere» (o, ciò che equivale alla stessa cosa, si sa come scoprire – e scoprire di sicuro – come procedere), in cui si sa come calcolare la probabilità di un evento e come far aumentare o diminuire tale probabilità; un mondo in cui i nessi tra certe situazioni e l’efficacia di certe azioni rimangono più o meno costanti, in modo tale che si possa fare affidamento sui passati successi come guide per quelli futuri. Grazie alla nostra capacità di apprendere/memorizzare, abbiamo degli interessi acquisiti nel mantenere l’ordine del mondo. Per la stessa ragione, sperimentiamo l’ambivalenza come un disagio ed una minaccia. L’ambivalenza rende confuso il calcolo degli eventi e poco chiara la pertinenza dei modelli memorizzati dell’azione. La situazione diventa ambivalente se gli strumenti linguistici dello strutturalismo si dimostrano inadeguati; o la situazione non appartiene ad alcuna delle classi linguisticamente distinte, o viene a collocarsi in diverse classi nello stesso tempo. In una situazione ambivalente nessuno dei modelli appresi potrebbe trovare un posto adeguato, oppure potrebbe essere adattato più di uno dei modelli appresi; in ogni caso, il risultato è un senso d’indecisione, d’incertezza, e quindi una mancanza di controllo. Le conseguenze dell’azione sono imprevedibili, mentre la casualità, che si diceva eliminata dal tentativo di strutturazione, sembra tornare alla ribalta non richiesta. A quanto pare, la funzione di dare un nome/classificare del

linguaggio ha come suo scopo quello d’impedire l’ambivalenza. Il conseguimento di tale scopo viene misurato sulla base della chiarezza delle divisioni tra classi, della precisione dei confini che le definiscono, e dell’inequivocabilità con cui gli oggetti possono essere assegnati alle classi. Eppure, l’applicazione di tali criteri, e la stessa attività il cui progresso essi debbono controllare, sono le fonti fondamentali dell’ambivalenza e le ragioni per le quali è improbabile che essa possa essere mai veramente eliminata, quali che siano la consistenza e l’intensità dello sforzo di strutturazione/ordinamento. L’ideale che la funzione di dare un nome/classificare cerca di raggiungere è una specie di ampio schedario in cui siano contenute tutte le schede contenenti tutte le voci che contiene il mondo, ma che racchiuda ciascuna scheda e ciascuna voce in un suo proprio spazio separato (risolvendo i dubbi che restano con un indice di rimando). Proprio l’impossibilità di realizzare un simile schedario rende l’ambivalenza inevitabile. E proprio la costanza con cui si cerca di costruire un simile schedario produce quantità sempre nuove d’ambivalenza. Il lavoro di classificazione è costituito da atti d’inclusione e d’esclusione. Ciascun atto d’assegnazione di un nome spacca il mondo in due: entità che rispondono al nome, e tutto il resto che non vi risponde. Certe entità possono essere incluse in una classe – rese una classe – solo nella misura in cui altre entità vengono escluse , lasciate al di fuori. Invariabilmente, una tale operazione d’inclusione/esclusione è un atto di violenza perpetrato sul mondo, e richiede il sostegno di una certa dose di coercizione. Essa può continuare fino a quando la dose di coercizione rimane adeguata al compito di superare la misura della discrepanza creata. L’insufficienza della coercizione si mostra nella manifesta riluttanza delle entità ipotizzate dall’atto di classificazione ad adattarsi alle classi assegnate, e nella comparsa di entità corrispondenti in misura scarsa o eccessiva alla definizione, con scarso o eccessivo significato, che invia segnali non chiari per l’azione, o invia segnali che confondono coloro che li ricevono per essere reciprocamente contraddittori. L’ambivalenza è un prodotto collaterale dell’attività di

classificazione; e richiede uno sforzo di ulteriore classificazione. Anche se nata dalla volontà istintiva di dare un nome/classificare, l’ambivalenza può essere combattuta solo dando un nome che sia anche più esatto, e con classi che siano anche più precisamente definite: cioè con operazioni tali che stabiliscano esigenze anche più rigide (contrastanti con la realtà) sulla separazione e sulla chiarezza del mondo, offrendo così un’occasione anche maggiore d’ambiguità. La lotta contro l’ambivalenza, quindi, è nello stesso tempo autodistruttiva ed auto-propellente. Essa procede con forza incessante, perché si crea i propri problemi proprio mentre li risolve. La sua intensità, tuttavia, varia con il tempo, a seconda della disponibilità di forza adeguata al compito di controllare la quantità ancora esistente d’ambivalenza, e quindi della presenza o assenza di consapevolezza che la riduzione dell’ambivalenza è un problema di scoperta e di applicazione di tecnologia appropriata: un problema manageriale . Entrambi i fattori si sono associati per rendere i tempi moderni un’era di lotta particolarmente aspra e implacabile contro l’ambivalenza. Quanto è vecchia la modernità? È una questione controversa. Non c’è accordo su ciò che deve essere datato. Ed una volta che il tentativo di datare comincia sul serio, l’oggetto stesso comincia a scomparire. La modernità, come tutte le altre quasi-totalità che vogliamo secernere dal continuo flusso dell’essere, diventa sfuggente: scopriamo che il concetto è pieno d’ambiguità, mentre la realtà cui si riferisce è oscura nella parte centrale e sfilacciata nei bordi. È improbabile, quindi, che la controversia possa essere risolta. La caratteristica che definisce la modernità e che sta alla base [di questi saggi] fa parte della controversia. Tra i molteplici compiti impossibili che la modernità si è proposta e che l’hanno trasformata in ciò che è, il compito dell’ordine (più precisamente e nella maniera più importante, dell’ordine in quanto compito ) si distingue come il meno possibile tra gli impossibili ed il meno disponibile tra gli indispensabili; anzi, come l’archetipo di tutti gli altri compiti, quello che rende tutti gli altri compiti semplici metafore di se stesso. L’ordine è ciò che non è caos; il caos è ciò che non è ordinato.

Ordine e caos sono gemelli moderni . Essi sono stati concepiti nel mezzo della catastrofe e della rovina del mondo divinamente ordinato, che non conobbe né necessità né caso; quello che semplicemente era , senza mai pensare come fare per essere. Questo mondo privo di pensiero e di preoccupazione che precedette la biforcazione tra ordine e caos lo troviamo difficile da descrivere nei suoi termini. Noi cerchiamo di capirlo soprattutto ricorrendo a negazioni: diciamo a noi stessi ciò che il mondo non era, ciò che esso non conteneva, ciò che esso non conosceva, ciò di cui esso era inconsapevole. Questo mondo difficilmente avrebbe riconosciuto se stesso nelle nostre descrizioni. Non avrebbe capito ciò di cui noi stiamo parlando. Non sarebbe sopravvissuto ad una tale comprensione. Il momento della comprensione sarebbe stato il segno del suo avvicinarsi alla morte. E proprio questo fu. Storicamente, questa comprensione fu l’ultimo respiro del mondo che finiva; ed il primo vagito della neonata modernità. Possiamo pensare alla modernità come a un tempo in cui l’ordine – del mondo, dell’habitat umano, dell’io umano, e della connessione tra queste tre cose – è in se stesso oggetto di riflessione ; una questione di pensiero, di preoccupazione, di una pratica che è consapevole di se stessa, conscia di essere una pratica consapevole e attenta al vuoto che lascerebbe se cessasse o semplicemente si attenuasse. Per motivo di convenienza (la determinazione di una data esatta di nascita, si consenta di ripetere, è destinata a rimanere controversa: l’idea di determinare una data non è che uno dei punti focali immaginari che, come farfalle, non sopravvivono al momento in cui uno uno spillo viene fatto passare attraverso il loro corpo per fissarle da qualche parte), possiamo essere d’accordo con Stephen L. Collins, che in un suo recente studio ha scelto l’intuizione hobbesiana come segno distintivo della coscienza di un ordine, cioè – secondo la nostra interpretazione – della coscienza moderna, cioè della modernità. («La coscienza – afferma Collins – appare come la prerogativa di percepire un ordine nelle cose»). Hobbes comprese che un mondo in continuo mutamento era un fatto naturale e che si dovesse creare un ordine per frenare ciò che era naturale... La società non è più

un riflesso trascendentalmente espresso di qualcosa di predefinito, esterno, e al dà di se stesso, che ordini l’esistenza gerarchicamente. Essa è ormai un’entità convenzionale ordinata dallo Stato sovrano che è il suo dichiarato rappresentante... [Quarant’anni dopo la morte di Elisabetta] l’ordine cominciava ad essere inteso non come naturale, ma come artificiale, creato dall’uomo, e manifestamente politico e sociale... Era necessario ideare un ordine per frenare ciò che appariva onnipresente [cioè, in continuo movimento]... L’ordine divenne una questione di potere, ed il potere una questione di volontà, forza e calcolo... Fondamentale per l’intera riconcettualizzazione dell’idea di società fu la convinzione che il bene comune, qual era l’ordine, fosse una creazione umana (Collins, 1989, pp. 4-7, 28-32).

Collins è uno storico scrupoloso, attento ai pericoli del progettismo e del presenzialismo, ma difficilmente riesce ad evitare d’attribuire al mondo prehobbesiano molte caratteristiche connaturali al nostro mondo post-hobbesiano, anche se soltanto per segnalarne l’assenza; a dire il vero, senza una tale strategia di descrizione il mondo pre-hobbesiano rimarrebbe per noi freddo e privo di significato. Per far sì che quel mondo ci parli, dobbiamo, per così dire, renderne ascoltabili i silenzi: spiegare per filo e per segno ciò di cui quel mondo era inconsapevole. Dobbiamo compiere un atto di violenza: costringere quel mondo a prendere una posizione su problemi dei quali esso rimase dimentico, ed in tal modo rimuovere o aggirare questa negligenza che rese tale quel mondo, un mondo così differente e così distante dal nostro. Il provare a comunicare con esso ne sfiderà gli obiettivi. In questo processo di conversione forzata, renderemo la speranza di comunicazione anche più remota. In ultima analisi, anziché ricostruire quel «mondo diverso», non faremo altro che costruire «il diverso» del nostro proprio mondo. Se è vero che noi sappiamo che l’ordine delle cose non è naturale, questo non significa che quell’altro, il mondo pre-hobbesiano, pensasse all’ordine come all’opera della natura: esso semplicemente non pensava affatto all’ordine, non in una forma che noi penseremmo come «oggetto di pensiero», non nel senso in cui noi lo pensiamo ora. La scoperta che l’ordine era non naturale fu una scoperta dell’ordine in quanto tale . Il concetto di ordine apparve nella coscienza solo simultaneamente al problema di ordine, di ordine in quanto faccenda di progetto e di azione , ordine come idea ossessiva. Per dirlo in termini anche più bruschi, ordine come un problema emerso nella scia della

frenesia di organizzare, come un riflesso su pratiche organizzative. La dichiarazione della «non-naturalità dell’ordine» era a favore di un ordine che stava già uscendo dal nascondiglio, dalla non-esistenza, dal silenzio. La «natura», dopo tutto, non significa altro che il silenzio dell’uomo. Se è vero che noi, i moderni, pensiamo all’ordine come ad una faccenda di progetto, ciò non significa che prima della modernità il mondo si sentisse già appagato, soddisfatto circa un’idea di progetto ed aspettasse che l’ordine venisse e rimanesse da solo e senza alcun aiuto. Quel mondo viveva senza una simile alternativa; non sarebbe stato affatto un tale mondo, se si fosse dato pensiero di questa possibilità. Se è vero che il nostro mondo è plasmato dal sospetto della fragilità e instabilità delle isole artificiali di ordine, progettate e costruite dall’uomo, nel mare del caos, non ne segue che prima della modernità il mondo ritenesse che l’ordine si estendesse allo stesso modo sul mare e sull’arcipelago umano; era, piuttosto, ignaro della distinzione fra terra e acqua. Possiamo dire che l’esistenza è moderna nella misura in cui si biforca in ordine e caos. L’esistenza è moderna nella misura in cui contiene l’alternativa tra ordine e caos. Anzi: ordine e caos , punto (full stop )! Se si pensa minimamente ad esso (cioè, nella misura in cui viene pensato), l’ordine non è qualcosa cui si pensa come ad un surrogato per un ordine alternativo. La lotta per l’ordine non è una lotta tra una definizione ed un’altra, tra un modo d’esprimere la realtà ed una proposta concorrenziale. È una lotta tra determinazione e ambiguità, tra precisione semantica ed ambivalenza, tra trasparenza e oscurità, tra chiarezza e confusione. L’ordine in quanto concetto, in quanto visione, in quanto fine, non può essere pensato se non per penetrare in profondità nella totale ambivalenza, nella casualità del caos. L’ordine è continuamente impegnato nella lotta per la sopravvivenza. Il diverso dall’ordine non è un altro ordine: il caos è la sua unica alternativa. Il diverso dall’ordine è il miasma dell’indeterminato e dell’imprevedibile. Il diverso è l’incertezza, quella fonte, quell’archetipo di ogni paura. Le metafore del «diverso dall’ordine» sono: indefinibilità, incoerenza, incongruità,

incompatibilità, illogicità, irrazionalità, ambiguità, confusione, irresolutezza, ambivalenza. Il caos, «il diverso dall’ordine», è pura negatività. È una negazione di tutto ciò che l’ordine cerca di essere. Proprio contro questa negatività la positività dell’ordine costituisce se stessa. Ma la negatività del caos è un prodotto di questo auto-costituirsi dell’ordine: il suo effetto secondario, il suo sperpero, e tuttavia la condizione sine qua non della sua possibilità (di riflesso). Senza la negatività del caos, non c’è positività dell’ordine; senza il caos, non c’è ordine. Possiamo dire che l’esistenza è moderna nella misura in cui è permeata dalla percezione «senza di noi, il diluvio». L’esistenza è moderna nella misura in cui è mossa dal forte desiderio di progettare ciò che altrimenti non ci sarebbe: la progettazione di se stessa . L’esistenza grezza, l’esistenza senza alcun intervento, l’esistenza non ordinata , o la frangia estrema di un’esistenza ordinata , diventa ormai natura : qualcosa di particolarmente inadatto per l’habitat umano, qualcosa su cui non poter fare alcun affidamento e che non deve essere abbandonato ai suoi propri espedienti, qualcosa che deve essere dominato , subordinato , rifatto in modo tale da essere riadattato ai bisogni umani. Qualcosa che deve essere tenuto sotto controllo, represso e frenato, innalzato dallo stato di cosa informe per ricevere una forma, con ogni sforzo e ricorrendo anche alla forza. Anche se la forma è stata preordinata dalla stessa natura, non si produrrà senza aiuto e non sopravviverà senza una difesa. Il vivere secondo natura ha bisogno in grande misura di una progettazione, di sforzi organizzati e di un vigilante controllo. Niente è più artificiale della naturalezza; niente è meno naturale del gettarsi in balìa delle leggi di natura. Forza, repressione ed azione decisa vengono a trovarsi tra la natura e quell’ordine socialmente prodotto in cui l’artificialità è naturale. Possiamo dire che l’esistenza è moderna nella misura in cui viene realizzata e mantenuta ricorrendo a mezzi quali la progettazione , la manipolazione , l’amministrazione , l’ingegneria . L’esistenza è moderna nella misura in cui viene governata da agenzie sovrane ricche di risorse (cioè in possesso di conoscenze, capacità e tecnologia). Le agenzie

sono sovrane nella misura in cui rivendicano e difendono con successo il diritto di amministrare e governare l’esistenza: il diritto di definire l’ordine e, per conseguenza, di mettere da parte il caos, in quanto parte residua che sfugge alla definizione. La pratica tipicamente moderna, la sostanza della politica moderna, dell’intelligenza moderna, della vita moderna, è il tentativo di eliminare l’ambivalenza: un tentativo di dare definizioni precise, e di sopprimere o eliminare qualsiasi cosa non dovesse essere suscettibile di una precisa definizione. La pratica moderna non è rivolta alla conquista di terre straniere, ma al riempimento degli spazi vuoti della mappa mundi nella sua interezza . È la pratica moderna, non la natura, quella che veramente non soffre il vuoto. L’intolleranza è, quindi, l’inclinazione naturale della pratica moderna. La costruzione dell’ordine stabilisce i limiti all’incorporazione e all’ammissione. Essa esige la negazione dei diritti, e delle ragioni, di qualsiasi cosa non possa essere assimilata, la delegittimazione del diverso. Fino a quando il forte desiderio di determinare l’ambivalenza guiderà l’azione collettiva e individuale, si avrà come conseguenza l’intolleranza, anche se questa si nasconderà per vergogna sotto la maschera della tolleranza (che spesso significa: tu sei abominevole, ma io, poiché sono generoso, ti lascerò vivere). Il diverso dallo Stato moderno è la terra di nessuno o contesa: la definizione per difetto o per eccesso, il dèmone dell’ambiguità. Poiché la sovranità dello Stato moderno coincide con il potere di definire e di fare attecchire le definizioni, qualunque cosa si auto-definisca o si sottragga alla definizione sostenuta dal potere è sovversiva. Il diverso da questa sovranità è rappresentato da zone barricate per impedirvi l’accesso, da turbolenza e disobbedienza, dal crollo di ciò che è legge e ordine, Il diverso dall’intelligenza moderna è rappresentato dalla polisemia, dalla discordanza cognitiva, da definizioni polivalenti, dalla contingenza; dal sovrapporre significati nel mondo di inequivocabili classificazioni e schedari. Poiché la sovranità dell’intelligenza moderna coincide con il potere di definire e di fare attecchire le definizioni, qualunque cosa si sottragga ad un’assegnazione inequivocabile di

significato è un’anomalia ed una sfida. Il diverso da questa sovranità è la violazione della legge del non ammettere vie di mezzo. In entrambi i casi, la resistenza alla definizione pone un limite alla sovranità, al potere, alla trasparenza del mondo, al suo controllo, all’ordine. Questa resistenza è l’elemento ostinato e caparbio che induce a ricordare il mutamento continuo che l’ordine voleva frenare, ma invano; i limiti all’ordine; e la necessità di stabilire un ordine. Sia lo Stato moderno che l’intelligenza moderna hanno bisogno del caos, anche se solo per continuare a creare ordine. Entrambi prosperano sulla vanità dei loro sforzi. L’esistenza moderna è sia ossessivamente spinta che stimolata ad un’azione incessante dalla coscienza moderna; e la coscienza moderna è il sospetto o la consapevolezza dell’inutilità dell’ordine esistente; è una coscienza sollecitata e mossa dalla sensazione d’inadeguatezza, anzi d’inattuabilità del progetto teso a stabilire un ordine e ad eliminare l’ambivalenza, dalla sensazione di casualità del mondo e di contingenza delle identità che lo costituiscono. La coscienza è moderna nella misura in cui rivela sempre nuovi strati di caos sotto la copertura dell’ordine assistito dal potere. La coscienza moderna critica, ammonisce e mette in guardia. Essa rende l’azione inarrestabile smascherandone sempre di nuovo l’inefficacia. E perpetua la pratica di creare ordine squalificandone i risultati e svelandone le sconfitte. C’è quindi una relazione di odio-amore tra l’esistenza moderna e la cultura moderna (nella forma più avanzata di autocoscienza), una simbiosi irta di guerre civili. Nell’era moderna, la cultura è quella turbolenta e vigile Sua Maestà Opposizione che rende il governo possibile. Non si perde l’amore, l’armonia, né una somiglianza di tipo speculare tra opposizione e governo; c’è solo bisogno reciproco e reciproca dipendenza: quella complementarità che risulta da un’opposizione che sia opposizione. Per quanto la modernità possa risentirsi della sua critica, essa non sopravviverebbe all’armistizio. Sarebbe vano decidere se la cultura moderna indebolisca l’esistenza moderna o sia al suo servizio. Essa fa entrambe le cose. Essa può fare ciascuna delle due cose solo insieme all’altra. La negazione costrittiva rappresenta la positività della cultura moderna. La

disfunzionalità della cultura moderna è la sua funzionalità. La lotta tra i poteri moderni per un ordine artificiale ha bisogno di una cultura che esplori i limiti e le limitazioni del potere dell’artificio. La lotta per l’ordine dà forma a tale esplorazione e, a sua volta, riceve forma dai suoi risultati. Nel mentre, la lotta lascia cadere il suo orgoglio iniziale: la combattività generata da ingenuità e ignoranza. Essa impara, in compenso, a vivere con la sua propria permanenza, inconcludenza, e assenza di prospettive. Si spera che sappia apprendere, alla fine, le difficili capacità di moderazione e di tolleranza.

Riferimenti bibliografici Collins, S. I. (1989), From Divine Cosmos to Sovereign State: An Intellectual History of Consciousness and the Idea of Order in Renaissance England , Oxford University Press, Oxford.

9.2 La costruzione sociale dell’ambivalenza [Titolo originale: The Social Construction of Ambivalence, 1991] Ci sono amici e nemici. E ci sono stranieri . Amici e nemici sono contrapposti gli uni agli altri. I primi sono ciò che non sono i secondi, e viceversa. Questo, tuttavia, non attesta il loro status eguale. Come la maggior parte delle altre opposizioni che regolano contemporaneamente il mondo in cui viviamo e la nostra vita nel mondo, questa è una variazione della fondamentale opposizione tra l’interno e l’esterno . L’esterno è negatività rispetto alla positività dell’interno. L’esterno è ciò che non è interno. I nemici sono la negatività rispetto alla positività degli amici. I nemici sono ciò che

non sono gli amici. I nemici sono amici differenziati da difetti; essi sono la terra deserta che viola la terra abitata degli amici, l’assenza che è una negazione della presenza di amici. Il duro e terribile «fuori di qui» dei nemici è, come direbbe Derrida, un’integrazione : sia un’aggiunta che una sostituzione rispetto al comodo e confortevole «entri pure» degli amici. Solo cristallizzando e solidificando ciò che essi non sono (o ciò che essi non desiderano essere, o ciò che essi non direbbero di essere) nella controfigura dei nemici, gli amici possono asserire ciò che sono, ciò che desiderano essere e ciò che vogliono si pensi che essi siano. A quanto pare, c’è una simmetria: non ci sarebbero nemici se non ci fossero amici, e non ci sarebbero amici se non per l’abisso dell’inimicizia che si spalanca all’esterno. La simmetria, tuttavia, è un’illusione. Sono gli amici quelli che definiscono i nemici, e l’apparenza di simmetria è in se stessa una testimonianza a favore del loro diritto asimmetrico di definire. Sono gli amici quelli che controllano la classificazione e l’assegnazione . L’opposizione è un risultato ed un far valere i propri diritti degli amici. È il prodotto e la condizione del dominio degli amici su ciò che raccontano, del racconto degli amici come dominio . Nella misura in cui essi hanno il dominio sul racconto, ne stabiliscono il vocabolario e lo riempiono di significato, gli amici si trovano davvero a casa propria, tra amici, a proprio agio. La spaccatura tra amici e nemici trasforma la vita contemplativa e la vita attiva in riflessi speculari reciproci. Ciò che è più importante, ne assicura la coordinazione. Soggette allo stesso principio di strutturazione, conoscenza ed azione interloquiscono, in modo tale che la conoscenza può informare l’azione e l’azione può confermare la verità della conoscenza. L’antitesi amici/nemici separa la verità dalla falsità, il bene dal male, la bellezza dalla bruttezza. Essa stabilisce anche la differenza tra proprio e improprio, giusto e ingiusto, decente e indecente. Rende il mondo leggibile e quindi istruttivo. Dissipa il dubbio. Consente a chi sa il fatto suo di andare avanti. Assicura che si vada dove si deve. Fa sembrare la scelta rivelatrice del bisogno creato dalla natura, in modo tale che il bisogno creato dall’uomo possa essere immune dai capricci

della scelta. Gli amici vengono posti in essere dalla pratica della collaborazione. Gli amici sono plasmati di responsabilità e dovere morale. Gli amici sono coloro per il bene dei quali io sono responsabile prima che essi ricambino, senza badare al loro contraccambio; solo a questa condizione la collaborazione, evidentemente un legame contrattuale, bi-direzionale, può essere realizzata. La responsabilità deve essere un dono, se mai essa diventerà uno scambio. I nemici, invece, sono posti in essere dalla pratica della lotta. I nemici sono fatti di rifiuto di responsabilità e dovere morale. I nemici sono coloro che rifiutano la responsabilità per il mio benessere prima che io rinunci alla mia responsabilità per quello loro, e senza badare alla mia rinuncia; solo a questa condizione la lotta, evidentemente un’inimicizia bi-laterale ed un’azione reciprocamente ostile, può essere realizzata. Mentre la previsione dell’amicizia non è necessaria perche si creino degli amici, la previsione dell’inimicizia è indispensabile perché si creino dei nemici. Così, l’antitesi tra amici e nemici è quella tra fare e subire , tra essere un soggetto ed essere un oggetto dell’azione. È un’antitesi tra il protendersi e l’indietreggiare, tra l’iniziativa e la precauzione, tra il decidere e l’essere oggetto di decisioni, tra l’agire ed il rispondere. Malgrado tutta questa antitesi, o, piuttosto, a causa di essa, ciascuna delle modalità che si contrappongono favorisce le relazioni. Seguendo Simmel, possiamo dire che amicizia ed inimicizia, e soltanto esse, sono forme di associamento ; anzi, esse sono le forme archetipiche di ogni associamento, ed insieme ne costituiscono la matrice bifronte. Esse creano la struttura in cui l’associamento è possibile; ed esauriscono la possibilità di «essere con altri». Essere un amico ed essere un nemico sono le due modalità nelle quali l’Altro può essere riconosciuto come un altro soggetto interpretato come un «soggetto simile al proprio io», ammesso nel mondo vitale del proprio io, essere contato, divenire e rimanere importante. Se non fosse per l’antitesi tra amico e nemico, nessuna di queste modalità sarebbe possibile. Senza la possibilità di spezzare il vincolo della responsabilità, nessuna

responsabilità si caratterizzerebbe come dovere. Se non fosse per i nemici, non vi sarebbero amici. Senza la possibilità di una differenza, afferma Derrida, «il desiderio di presenza in quanto tale non troverebbe un attimo di respiro. Ciò significa di conseguenza che il desiderio porta in se stesso il destino della sua insoddisfazione. La differenza produce ciò che essa proibisce, rendendo possibile la stessa cosa che essa rende impossibile» (Derrida, 1974, p. 143). Contro questo compiacente antagonismo, questa intesa conflittuale tra amici e nemici, lo straniero si ribella. La minaccia da lui portata è più spaventosa di quella che si può temere dal nemico. Lo straniero minaccia l’associamento in se stesso, la stessa possibilità d’associamento. Egli scopre il «bluff» dell’antitesi tra amici e nemici come la mappa mundi nella sua interezza , come la differenza che esaurisce tutte le differenze e quindi non lascia alcunché al di fuori di se stessa. Poiché quest’antitesi è la base su cui poggiano tutta la vita sociale e tutte le differenze che l’aggiustano e la tengono insieme, lo straniero mina alla base la stessa vita sociale. E tutto questo perché lo straniero non è né amico né nemico; e perché potrebbe essere l’uno e l’altro. E perché noi non sappiamo, e non abbiamo alcun modo di sapere, quale sia il caso. Lo straniero è uno (forse il principale, quello archetipico) dei membri della famiglia di indecidibili : di quelle unità variabili ma onnipresenti che, di nuovo secondo le parole di Derrida, «non possono essere più inseriti in una opposizione filosofica (binaria), che respingono e intralciano, senza mai costituire un terzo termine, senza mai lasciare spazio per una soluzione nella forma di una dialettica speculativa». Si propongono qui alcuni esempi di «indecidibili» discussi da Derrida: Il termine pharmakon : la parola generica greca che comprende sia le medicine che i veleni (il termine usato nel Fedro di Platone come una similitudine per lo scrivere, e per questa ragione – secondo l’opinione di Derrida – indirettamente responsabile, grazie a traduzioni che miravano ad evitarne l’intrinseca ambiguità, della direzione presa dalla metafisica occidentale post-platonica). Il termine pharmakon , per così dire, è «la regolare, ordinata polisemia che,

attraverso spostamenti di significato, indeterminatezze, o determinatezze eccessive, ma senza traduzioni scorrette, ha permesso di rendere la stessa parola con “medicina”, “ricetta”, “veleno”, “droga”, “filtro”, ecc.». Per la sua capacità, il termine pharmakon è, innanzitutto e soprattutto, efficace perché ambivalente ed ambivalente perché efficace: «Esso partecipa sia del bene che del male, del gradevole e dello sgradevole» (Derrida, 1981a, pp. 71, 99). Pharmakon , dopo tutto, «non è né medicina né veleno, né bene né male, né all’interno né all’esterno». Il termine pharmakon estingue e supera l’antitesi, la stessa possibilità di antitesi. Il termine hymen : una parola anch’essa greca che sta sia per «membrana», sia per «matrimonio», e che per questa ragione significa nello stesso tempo «verginità» – la non compromessa e non compromettente differenza tra «interno» ed «esterno» – e la sua violazione attraverso la fusione del sè e dell’altro. Nel risultato, hymen «non è né confusione né distinzione, né identità né differenza, né consumazione né verginità, né il velo né lo svelare, né l’interno né l’esterno, ecc.». Il termine integrazione : in francese questa parola sta sia per aggiunta che per sostituzione. Essa è, quindi, l’altro che «si aggiunge», l’esterno che entra nell’interno, la differenza che si trasforma in identità. Nel risultato, integrazione «non è né un più né un meno, né un esterno né il completamento di un interno, né accidente né sostanza, ecc.» (Derrida, 1981b, pp. 42-43). Gli indecidibili sono tutti né/né ; e questo equivale a dire che essi si oppongono alla coppia alternativa o/o ; la loro indeterminatezza è la loro potenza: poiché non sono nulla, possono essere tutto. Essi regolano la capacità normativa dell’antitesi, e quindi la capacità normativa di coloro che la enunciano. Le antitesi danno forza alla conoscenza e all’azione; gli indecidibili le paralizzano. Gli indecidibili smascherano brutalmente l’artificio, la fragilità, la mistificazione della più vitale delle separazioni. Essi introducono l’esterno nell’interno, ed avvelenano il conforto dell’ordine con il sospetto del caos. Proprio questo è ciò che fanno gli stranieri.

L’orrore dell’indeterminatezza La chiarezza cognitiva (classificatrice) è un riflesso, un equivalente intellettuale della certezza comportamentale. Entrambi arrivano e partono insieme. Quanto strettamente siano congiunti l’impariamo in un baleno quando atterriamo in un paese straniero, ascoltiamo una lingua straniera, osserviamo il modo straniero di comportarsi. I problemi ermeneutici di fronte ai quali veniamo allora a trovarci offrono una prima fugace visione della terrificante paralisi che segue il non riuscire a classificare. Il capire, come diceva Wittgenstein, significa sapere come procedere. Questo è il motivo per cui i problemi ermeneutici (che sorgono quando il significato non è evidente senza riflettervi, quando diventiamo consapevoli che parole e significato non sono la stessa cosa, che c’è un problema di significato) vengono percepiti come spiacevoli. Problemi ermeneutici irrisolti significano incertezza sul modo in cui debba essere letta la situazione e su quale risposta abbia la probabilità di portare i risultati desiderati. Nella migliore delle ipotesi, l’incertezza è fonte di perplessità e viene percepita come imbarazzante. Nella peggiore delle ipotesi, essa comporta una sensazione di pericolo. Gran parte dell’organizzazione sociale può essere interpretata come sedimentazione dello sforzo sistematico di ridurre la frequenza con cui s’incontrano problemi ermeneutici e di mitigare il disagio che tali problemi provocano quando vengono affrontati. Probabilmente il metodo più comune per conseguire tali obiettivi è quello della separazione territoriale e funzionale. Se questo metodo fosse applicato in pieno e con il massimo effetto, i problemi ermeneutici diminuirebbero con il restringersi della distanza fisica e con il crescere della portata e frequenza dell’interazione. La possibilità di malintesi non si materializzerebbe, o non causerebbe che un disturbo marginale qualora si verificasse, se il principio di separazione, il coerente «restringersi dell’interazione a settori di presunta comune interpretazione e di reciproco interesse» (Barth, 1969, p. 15) fosse scrupolosamente osservato. Il metodo della separazione territoriale e funzionale viene

impiegato sia all’esterno che all’interno. Le persone che debbono passare all’interno di un territorio dove sono destinate a causare e ad incontrare problemi ermeneutici, cercano zone riservate contraddistinte per l’uso dei visitatori ed i servizi di mediatori funzionali. I paesi turistici, che aspettano una costante affluenza di grandi quantità di visitatori «insufficientemente preparati sul piano culturale», eliminano queste zone riservate e prevedono la formazione di questi mediatori. La separazione territoriale e funzionale è un riflesso degli esistenti problemi ermeneutici; essa è, tuttavia, anche un potentissimo fattore nella loro perpetuazione e riproduzione. Fino a quando la segregazione rimane continua e sotto stretto controllo, vi è scarsa possibilità che la probabilità di malintesi (o almeno la previsione di tali malintesi) potrà mai diminuire. La persistenza e la costante possibilità di problemi ermeneutici possono essere viste, quindi, come il motivo e nello stesso tempo il prodotto dei tentativi di tracciare i confini. Come tali, essi hanno incorporata in se stessi una tendenza all’auto-perpetuazione. Poiché il tracciare i confini non sempre è un’operazione semplicissima e qualche attraversamento di confine è difficile da evitare, i problemi ermeneutici hanno probabilità di persistere come una permanente «area grigia» che circonda il mondo comune della vita quotidiana. L’area grigia è abitata da estranei ; dai non-ancora classificati, o, piuttosto, classificati secondo criteri simili ai nostri, ma finora a noi sconosciuti. Gli «estranei» arrivano in una grande varietà di tipi, con diversità di conseguenze. Uno degli antipodi di questa varietà è occupato da coloro che risiedono in terre praticamente remote (cioè raramente visitate), e sono quindi costretti nel loro ruolo al rispetto dei limiti del territorio comune (l’ubi leones annotato come avviso di pericolo nei confini esterni delle mappe romane). Lo scambio con questi estranei (ammesso che abbia luogo) viene escluso dalla routine quotidiana e dalla normale rete d’interazione, come una funzione di una categoria speciale di persone (per esempio, viaggiatori commerciali, diplomatici o etnografi), o come un’occasione speciale per il resto. Entrambi gli espedienti (territoriale e funzionale) della separazione istituzionale

proteggono facilmente, ed anzi rafforzano, l’estraneità degli estranei, insieme alla loro quotidiana irrilevanza. Essi tutelano anche, sia pure indirettamente, la sicurezza del sentirsi a casa propria nel proprio territorio. Contrariamente ad un’opinione diffusa, l’avvento della televisione, questo immenso e facilmente accessibile spioncino attraverso il quale è possibile gettare lo sguardo in modo abituale anche su ciò che è insolito ed estraneo, non ha né eliminato la separazione istituzionale né diminuito la sua realtà effettiva. Si può dire che il «villaggio globale» di McLuhan non è riuscito a materializzarsi. La struttura di uno schermo cinematografico o televisivo allontana il pericolo che qualcosa possa propagarsi anche più efficacemente di alberghi turistici e camping recintati; l’unilateralità della comunicazione tiene saldamente bloccati gli estranei sullo schermo, sostanzialmente come in una segregazione. La recentissima invenzione di centri commerciali «tematici», con villaggi caraibici, riserve indiane e santuari polinesiani stipati insieme sotto un solo tetto, ha portato la vecchia tecnica della separazione istituzionale al livello di perfezione raggiunto in passato solo dallo zoo. Il fenomeno della estraneità non può ridursi, tuttavia, al generarsi di problemi ermeneutici, per quanto fastidiosi possano essere. L’inidoneità della classificazione appresa è abbastanza sconvolgente, ma percepita come qualcosa che non è proprio un disastro fino a quando può essere attribuita a mancanza di conoscenza. Se soltanto io ho appreso quel linguaggio; se soltanto io ho infranto il mistero di quegli strani costumi... In se stessi, i problemi ermeneutici non indeboliscono la fiducia nella conoscenza e nella raggiungibilità di una certezza comportamentale. Semmai, le rafforzano entrambe. Il modo in cui essi precisano il rimedio come apprendimento di un altro metodo di classificazione , di un altro insieme di contrapposizioni, dei significati di un altro insieme di sintomi, non fa che corroborare la fede in un sostanziale ordine del mondo e particolarmente nella capacità ordinatrice della conoscenza. Una ragionevole dose di perplessità risulta piacevole proprio perché si risolve nel conforto di una rassicurazione (questo, come sa ogni turista, costituisce una parte importante dell’attrazione che esercitano i viaggi all’estero, quanto più

esotici tanto più attraenti). La differenza è qualcosa con cui poter vivere, fino a quando si crede che il mondo diverso è, come il nostro, un «mondo con una chiave d’interpretazione», un mondo ordinato come il nostro; proprio un altro mondo ordinato abitato o da amici o da nemici, senza ibridi che possano alterare il quadro e rendere perplessa l’azione, e con regole e suddivisioni che possono non conoscersi ancora, ma che si possono apprendere se necessario. Certi stranieri, tuttavia, non sono gli ancora-indecisi ; essi sono, in linea di massima, indecidibili . Essi costituiscono l’indizio di quel «terzo elemento» che non dovrebbe esistere. Sono questi i veri ibridi, i mostri: non semplicemente non classificati , ma non classificabili . Essi non mettono in dubbio questa precisa antitesi hic et nunc [qui ed ora]; essi mettono in dubbio le antitesi in quanto tali, lo stesso principio dell’antitesi, la plausibilità della dicotomia che essa indica e la possibilità della separazione che essa richiede. Essi smascherano l’instabile artificialità della divisione. Distruggono il mondo. Spingono l’inconveniente del «non sapere come proseguire» fino ad una paralisi finale. Essi debbono essere trasformati in tabù, disarmati, soppressi, esiliati fisicamente o mentalmente, oppure il mondo potrebbe perire. La separazione territoriale e funzionale non è più sufficiente una volta che il semplice estraneo diventa lo straniero vero e proprio, appropriatamente descritto da Simmel come «l’uomo che arriva oggi e rimane domani» (Simmel, 1971, p. 143). Lo straniero è, in effetti, qualcuno che si rifiuta di rimanerere confinato in un paese «lontano» o se ne va via dal nostro, e quindi sfida il facile espediente della segregazione spaziale o temporale. Lo straniero arriva nel «mondo soggettivamente vissuto» [life-world nel testo inglese, espressione che riproduce il tedesco Lebenswelt , di problematica traduzione; si tratta di un’espressione usata in fenomenologia e che viene così descritta dalla Encyclopaedia Britannica : «il mondo come viene immediatamente o direttamente sperimentato nella soggettività della vita quotidiana, in quanto nettamente distinto dai “mondi” oggettivi delle scienze...; il life-world include esperienze individuali, sociali, percettive, e pratiche», N.d.T. ] e vi si stabilisce, e così, differentemente dal caso del

semplice «estraneo», egli diviene rilevante , indipendentemente dal fatto che sia un amico o un nemico. Egli è venuto nel «mondo soggettivamente vissuto» senza esservi stato invitato , e quindi assegnandomi la parte di accogliente di sua iniziativa, trasformandomi nell’oggetto dell’azione di cui egli è il soggetto; tutto questo, come ricordiamo, è un famigerato segno distintivo del nemico . Ma, diversamente da altri nemici «diretti», egli non è tenuto a distanza di sicurezza, e neppure dall’altra parte della linea di battaglia. Peggio ancora, egli reclama il diritto, tra altri, ad essere un oggetto di responsabilità : il ben noto attributo dell’amico . Se noi insistessimo nell’applicargli l’antitesi amico/nemico, egli ne risulterebbe definito contemporaneamente per difetto e per eccesso. E così, indirettamente, egli smaschererebbe l’insufficienza dell’antitesi in se stessa. Egli rappresenta la continua minaccia all’ordine del mondo. E non solo per questa ragione, tuttavia. Vi è di più. Per esempio, l’incancellabile e quindi imperdonabile peccato originale del suo tardivo ingresso: il fatto di essere entrato nel regno del «mondo soggettivamente vissuto» in un momento che può essere esattamente indicato. Egli non appartenne al «mondo vitale» «inizialmente», «fin dall’origine», «fin dai primi inizi», «da tempo immemorabile», e quindi ne mette in dubbio la «realtà atemporale» (extemporality ) e mette in risalto la «pura realtà storica» (historicality ) dell’esistenza. La memoria dell’evento della sua venuta fa della sua stessa presenza un evento della storia, piuttosto che un fatto di natura. Il suo passaggio dalla prima alla seconda violerebbe un importante confine sulla mappa dell’esistenza, e così deve essere risolutamente contrastato; un tale passaggio equivarrebbe, dopo tutto, ad ammettere che la natura sia in se stessa un evento nella storia e che, quindi, gli appelli all’ordine naturale o ai diritti naturali non meritano un trattamento preferenziale. Per il fatto di essere un evento nella storia, di avere un inizio, la presenza dello straniero porta sempre in sé la possibilità di una fine. Lo straniero ha sempre la libertà di andarsene. Egli può essere anche costretto ad andarsene; o, almeno, il costringerlo ad andarsene può essere preso in considerazione senza violare l’ordine delle cose. Per quanto possa essere prolungata, la permanenza dello straniero è temporanea:

un’altra violazione per quanto riguarda la divisione che dovrebbe essere tenuta intatta e mantenuta in nome di un’esistenza sicura, ordinata. Anche qui, tuttavia, l’infida contraddittorietà dello straniero non finisce. Lo straniero scalza alla base l’ordinamento spaziale del mondo: il travagliato coordinamento tra continguità morale e topografica, tra lo stare-insieme di amici e il tenere-a-distanza i nemici. Lo straniero disturba la risonanza tra distanza fisica e distanza psichica: egli è fisicamente vicino mentre rimane spiritualmente distante . Egli introduce nel cerchio interiore della prossimità il tipo di differenza e la diversità che si prevedono e tollerano solo a distanza: dove si possono o mettere da parte come irrilevanti o respingere come ostili. Lo straniero rappresenta una sconveniente e quindi irritante «sintesi di vicinanza e lontananza» (Simmel, 1971, p. 145). La sua presenza è una sfida alla credibilità dei punti di riferimento ortodossi e degli strumenti universali per creare ordine. La sua vicinanza (come ogni vicinanza, secondo Levinas) fa pensare ad una relazione morale, mentre la sua distanza (come ogni distanza, secondo Erasmo) ne consente solo una contrattuale: un’altra importante antitesi compromessa. Come sempre, l’incongruità pratica segue quella concettuale. Lo straniero che rifiuta d’andarsene trasforma gradualmente la sua residenza temporanera in un territorio domestico, tanto più quanto più l’altra sua «dimora» originaria è ormai confinata nel passato e forse si dissolve del tutto. D’altra parte, tuttavia, egli mantiene (anche se soltanto in teoria) la sua libertà d’andarsene, e così può guardare alle condizioni locali con una equanimità che i residenti nativi difficilmente possono permettersi. Di qui un’altra incongrua sintesi questa volta tra coinvolgimento e indifferenza, partigianeria e neutralità, distacco e partecipazione. L’impegno che lo straniero dichiara, la lealtà che egli promette, la dedizione che egli dimostra non possono dare affidamento: recano in sé una valvola di sicurezza per una facile fuga che la maggior parte dei nativi spesso invidia, ma raramente possiede. L’irredimibile peccato dello straniero è, quindi, l’incompatibilità tra la sua presenza ed altre presenze, fondamentali per l’ordine del

mondo; il suo simultaneo assalto a diverse cruciali opposizioni, che si rivelano efficaci nell’incessante sforzo di mettere ordine. Proprio questo peccato si trasmette in tutta la storia moderna nel costituirsi dello straniero come portatore e incarnazione d’incongruità ; anzi, lo straniero è una persona afflitta dalla malattia incurabile rappresentata da una molteplice incongruità . Lo straniero è, per questa ragione, la causa della rovina della modernità. Egli può davvero servire da esempio archetipico del visqueux [«vischioso»] di Sartre o dello slimy [«limaccioso», «vischioso»] di Mary Douglas: un’entità ambivalente in modo inestirpabile, a cavalcioni su una barricata fortificata (o, piuttosto, una sostanza liquida versata sulla sua sommità in modo tale da renderne scivolosi entrambi i lati), che rende indistinta una linea di confine vitale per la costruzione di un particolare ordine sociale o di un particolare «mondo soggettivamente vissuto» (life-world ). Nessuna classificazione binaria impiegata nella costruzione dell’ordine può pienamente coincidere con l’esperienza essenzialmente ininterrotta, continua, della realtà. L’antitesi, nata dall’orrore dell’ambiguità, diventa la fonte principale dell’ambivalenza. L’applicazione di ogni classificazione significa inevitabilmente il prodursi di anomalie (cioè di fenomeni che vengono percepiti come «anomali» solo nella misura in cui comprendono le categorie che solo rimanendo separate e distinte consentono di vedere il significato di ordine). Così, «ogni data cultura deve far fronte ad eventi che sembrano sfidarne le convinzioni. Essa non può ignorare le anomalie prodotte dal suo sistema, se non a rischio di perdere la sicurezza di sé» (Douglas, 1966, p. 33). Difficilmente c’è un’anomalia più anomala dello straniero. Egli sta tra amico e nemico, ordine e caos, l’interno e l’esterno. Egli rappresenta la falsità degli amici, l’astuto travestimento dei nemici, la fallibilità dell’ordine, la vulnerabilità dell’interno.

Riferimenti bibliografici Barth, F. (1969), Ethnic Groups and Boundaries: The Social

Organization of Cultural Difference , Universitet Ferlaget, Bergen. Derrida, J. (1974), Of Grammatology , trad. ingl. di G. Chakravorty Spivak, John Hopkins University Press, Baltimore. Derrida, J. (1981a), Disseminations , trad. ingl. di B. Johnson, Athlone, London. Derrida, J. (1981b), Positions , trad. ingl. di A. Bass, University of Chicago Press, Chicago. Douglas, M. (1966), Purity and Danger , Routledge & Kegan Paul, London. Simmel, G. (1971), The Stranger , in On Individuality and Social Forms , University of Chicago Press, Chicago.

10. GLOBALIZZAZIONE E NUOVI POVERI

10.1 Sulla glocalizzazione: o globalizzazione per alcuni, localizzazione per altri [Titolo originale: On Glocalization: Or Globalization for Some, Localization for Some Others, 1998] «L’ordine ha la massima importanza quando viene perduto o sta per essere perduto», così si esprime James Der Derian, che spiega perché esso abbia oggi tanta importanza citando quanto ebbe a dichiarare il presidente americano George Bush dopo il crollo dell’impero sovietico, cioè che il nuovo nemico è l’incertezza, l’imprevedibilità e l’instabilità (Der Derian, 1991). Possiamo aggiungere che nel nostro tempo l’ordine è stato ormai identificato, per ogni intento e scopo pratico, con il controllo e l’amministrazione, che a loro volta significano ormai un codice convenzionale di uso comune e la capacità d’imporne l’osservanza. In altre parole, l’idea di ordine fa riferimento non tanto alle cose come esse sono, quanto invece al modo di trattarle; alla capacità di ordinare , piuttosto che a qualsiasi capacità intrinseca delle cose così come esse sono per caso ed in un determinato momento. Ciò cui George Bush deve aver pensato non è tanto il dissiparsi dell’«ordine delle cose», quanto invece la scomparsa dei mezzi e della capacità pratica di cui si ha bisogno per mettere le cose in ordine e per mantenervele.

Il recente New world disorder [«Il nuovo disordine del mondo»] (l’appropriato e ben scelto titolo del libro di Kenneth Jowitt) non fa riferimento, quindi, allo stato del mondo dopo la fine del Grande Scisma ed il crollo della routine politica dei blocchi di potere. Si riferisce, piuttosto, alla nostra improvvisa presa di coscienza della natura essenzialmente elementare e contingente delle cose, che prima non era tanto inesistente, quanto invece esclusa dalla vista dalla riproduzione così divoratrice di energia, giorno dopo giorno, dell’equilibrio tra le potenze del mondo. Dividendo il mondo, la politica del pugno di ferro evocava l’immagine della totalità. Quel mondo fu reso un’unica entità assegnando ad ogni angolo del globo il suo significato nell’«ordine globale delle cose», cioè nel conflitto e nell’equilibrio tra i due schieramenti di potere. Il mondo fu una totalità nella misura in cui non c’era nulla in quel mondo che potesse sfuggire a tale significato e così nulla potesse essere indifferente dal punto di vista dell’equilibrio tra le due potenze che si erano appropriate di una considerevole parte del mondo e gettato il resto nell’ombra di tale appropriazione. Ogni cosa nel mondo aveva un significato, e questo significato emanava da un cerchio diviso a metà, ma unico, cioè dai due enormi blocchi di potere avvinghiati, concentrati e appiccicati l’uno all’altro in una lotta totale. Con il Grande Scisma di proporzioni così eccezionali, il mondo non appare più come una totalità; esso sembra piuttosto come un campo di forze sparse e disparate, che sedimentano in luoghi difficili da prevedere ed acquistano una velocità impossibile da arrestare. In poche parole: nessuno sembra ormai sotto controllo . Peggio ancora, non è chiaro a cosa potrebbe somigliare, in queste circostanze, l’«essere sotto controllo». Come prima, ogni tentativo di porre ordine è locale e determinato da qualche problema, ma non vi è luogo che possa pronunciarsi per l’umanità nel suo insieme, né un problema che possa affrontarsi per la totalità degli affari del globo. Proprio questa nuova e spiacevole percezione è stata espressa (con scarso beneficio per la chiarezza intellettuale) nel concetto attualmente alla moda di globalizzazione . Il significato più profondo trasmesso dall’idea di globalizzazione è quello del carattere indeterminato, privo di regole e

dotato di autopropulsione degli affari del mondo: l’assenza di un centro, di una stanza dei bottoni, di un comitato di direttori, di un ufficio amministrativo. La globalizzazione è il nuovo disordine del mondo di cui parla Jowitt sotto un altro nome. In questo, il termine «globalizzazione» differisce radicalmente da un altro termine, quello di «universalizzazione», una volta costitutivo del discorso moderno sugli affari globali, ma ormai caduto in disuso e più o meno dimenticato. Insieme a certi concetti come «civiltà», «sviluppo», «convergenza», «consenso» e molti altri termini usati nel dibattito appena iniziato e classico-moderno, l’universalizzazione trasmetteva la speranza, l’intenzione la determinazione di creare ordine. Quei concetti furono coniati sull’onda crescente dei poteri moderni e delle ambizioni dell’intelletto moderno. Essi dichiaravano la volontà di rendere il mondo differente da quello che era e migliore di quanto era, e di estendere il cambiamento ed il miglioramento a dimensioni globali che comprendessero tutte le specie. Essi dichiaravano anche l’intenzione di rendere le condizioni di vita di ciascuno in ogni luogo, e quindi le possibilità di vita di tutti, eguali. Nulla di tutto questo è rimasto nel significato di globalizzazione, così come è stato sviluppato dal discorso attuale. Il nuovo termine fa riferimento innanzitutto a «effetti globali», manifestamente non voluti e imprevisti, piuttosto che a «imprese globali». Sì, afferma il nuovo termine, le nostre azioni possono avere, e spesso hanno effettivamente, conseguenze globali; ma no, noi non abbiamo né abbiamo probabilità di ottenere i mezzi per programmare ed eseguire azioni su un piano globale. La globalizzazione non riguarda ciò che tutti noi, o almeno i più industriosi e intraprendenti di noi, desideriamo o speriamo di fare . Essa riguarda ciò che sta accadendo a tutti noi . Essa si riferisce esplicitamente alla nebbiosa e fangosa «terra di nessuno» che si estende oltre la portata del progetto e della capacità d’azione di ciascuno in particolare. In che modo questa estensione del deserto creato dall’uomo (non il deserto «naturale» che la modernità si è accinta a conquistare e addomesticare; ma il deserto successivo all’addomesticamento che è emerso dopo la conquista e al di fuori di essa) è balzato agli occhi con

quella formidabile forza d’ostinazione che si considera come il segno distintivo della «dura realtà»? Una spiegazione plausibile è la crescente esperienza di debolezza, anzi d’impotenza, delle consuete agenzie preposte all’ordine, che si ritenevano per certe. Tra quest’ultime, la posizione più elevata in tutta l’era moderna spettava allo Stato (si è tentati di dire lo Stato territoriale, ma l’idea dello Stato e la «sovranità territoriale» sono divenute, nella pratica e teoria moderna, due termini sinonimi, e quindi la locuzione «Stato territoriale» è divenuta pleonastica). Il significato dell’espressione «lo Stato» è stato precisamente quello di un’agenzia che rivendicava e legittimava il diritto e i mezzi per stabilire e rafforzare le regole e le norme destinate a fissare lo svolgimento dei compiti su un determinato territorio; le norme e le regole sperate ed aspettate per trasformare la contingenza in determinazione, l’ambivalenza in Eindeutigkeit [«chiarezza univoca»], la casualità in prevedibilità: in altre parole, il caos in ordine. Ordinare una certa parte del mondo significava stabilire uno Stato dotato della sovranità per fare proprio questo. E l’ambizione di rafforzare un certo modello di ordine preferito a spese di altri modelli competitivi poteva realizzarsi unicamente attraverso l’acquisizione del veicolo dello Stato o occupando il posto di guida di quello esistente. Max Weber definì lo Stato come l’agenzia che rivendica il monopolio dei mezzi di coercizione e del loro uso. La creazione dell’ordine esige un enorme e continuo sforzo, che a sua volta richiede notevoli mezzi. La sovranità legislativa ed esecutiva dello Stato risultò appoggiata, conseguentemente, sul «tripode della sovranità», con i suoi tre sostegni: militare, economico e culturale. Un’effettiva possibilità di creare ordine era impensabile se non sorretta: dalla capacità di difendere efficacemente il territorio contro le sfide di altri modelli d’ordine, sia dall’esterno che dall’interno del territorio governato; dalla capacità di tenere in equilibrio i registri della Nazionalökonomie [«economia nazionale»]; e dalla capacità di controllare le risorse culturali in modo tale da mantenere l’identità ed il carattere distintivo dello Stato. Solo alcune delle popolazioni che aspiravano ad una propria sovranità dello Stato furono abbastanza ampie e ricche di mezzi da superare una prova così esigente. Le

occasioni nelle quali il compito di creare ordine venne intrapreso ed eseguito innanzitutto, forse unicamente, attraverso l’azione di Stati sovrani, furono per questa ragione occasioni che videro coinvolti Stati in numero relativamente scarso; ed il costituirsi di uno Stato sovrano richiedeva di regola la repressione delle ambizioni di formare uno Stato nutrite da collettività minori: scalzando alla base qualsiasi cosa esse potessero possedere di rudimentale capacità militare, di autosufficienza economica e di carattere culturalmente distintivo. In tali circostanze, la «scena globale» fu il teatro di una politica interstatale, che attraverso conflitti armati o trattative mirava innanzitutto e soprattutto a tracciare e mantenere («con garanzie di livello internazionale») i confini che separavano e racchiudevano il territorio della sovranità legislativa ed esecutiva di ciascuno Stato. La «politica globale» si preoccupò soprattutto di mantenere il principio della piena e incontrastata sovranità di ciascuno Stato sul proprio territorio, con la cancellazione dei pochi «punti vuoti» che rimanevano sulla mappa del mondo, e contrastando il pericolo d’ambivalenza che nasceva dal sovrapporsi di sovranità. Il significato dell’«ordine globale», conseguentemente, si ridusse al sommarsi di una quantità di ordini locali, ciascuno efficacemente mantenuto ed efficientemente tutelato da uno, ed uno soltanto, Stato territoriale. A questo mondo diviso in Stati sovrani si sovrapposero per circa mezzo secolo e fino a tempi recenti due blocchi di potere, ciascuno dei quali favoriva un certo grado di coordinamento tra gli ordinamenti amministrati dallo Stato nell’ambito dei territori della loro rispettiva «meta-sovranità», insieme al presupposto dell’insufficienza militare, economica e culturale di ciascuno Stato. In modo graduale ma inesorabile venne promosso – più rapidamente nella pratica che nella teoria politica – un nuovo principio d’integrazione sovra-statale, con la «scena globale» vista sempre più come il teatro della coesistenza e competizione tra blocchi di Stati, piuttosto che tra gli stessi Stati. L’iniziativa di Bandung d’istituire l’incongruo «blocco dei nonblocchi», insieme ai ricorrenti tentativi di allineare gli Stati nonallineati, fu un riconoscimento indiretto di questo nuovo principio. Essa fu, tuttavia, coerentemente ed efficacemente svigorita dai due

super-blocchi, che trattarono il resto del mondo come l’equivalente, nel ventesimo secolo, dei «punti vuoti» della corsa verificatasi nel diciannovesimo secolo per la costruzione e delimitazione degli Stati. Il non-allineamento, cioè il rifiuto di unirsi all’uno o all’altro dei superblocchi e il restare fedeli al principio antiquato e sempre più obsoleto della sovranità suprema da riconoscere allo Stato, fu l’equivalente di quell’ambivalenza della «terra di nessuno» contro cui combatterono con le unghie e con i denti, in reciproca contesa ma all’unisono, gli Stati moderni nella loro fase di formazione. La sovrastruttura politica dell’era del Grande Scisma impedì di vedere le trasformazioni più profonde e – così come oggi è dato di constatare – più radicali e durature verificatesi nel meccanismo che doveva creare ordine. Il cambiamento riguardò soprattutto il ruolo dello Stato. Tutti e tre i sostegni del «tripode della sovranità» sono stati ridotti in frantumi senza alcuna possibilità di essere riparati. L’autosufficienza, anzi l’autosostenibilità militare, economica e culturale dello Stato – di qualsiasi Stato – ha cessato di essere una prospettiva praticabile. Per poter mantenere la loro capacità di garantire legge-eordine, gli Stati hanno dovuto cercare alleanze e rinunciare volontariamente a fette sempre più grandi della loro sovranità. Quando il sipario venne finalmente strappato, apparve una scena inconsueta, affollata di strani personaggi: Stati che, lungi dall’essere costretti a rinunciare ai loro diritti sovrani, cercavano attivamente e intensamente di arrendersi e rumoreggiavano perché la loro sovranità fosse eliminata e dissolta in formazioni sovranazionali; altri deceduti da lungo tempo ma rinati, o «etnie» delle quali non si era mai sentito parlare ma ora inventate al momento opportuno, troppo piccole e non in grado di superare uno qualsiasi dei test tradizionali di sovranità, ma che ora reclamavano un loro proprio Stato e il diritto di legiferare e di garantire ordine sul proprio territorio; antiche nazioni che scappavano dalle gabbie federaliste nelle quali erano state incarcerate contro il loro volere, ma solo per usare la loro libertà decisionale recentemente acquisita per proseguire la dissoluzione della loro indipendenza politica, economica e militare nel Mercato Europeo e nell’alleanza NATO1. La nuova possibilità, scoperta nell’ignorare le

rigide ed esigenti condizioni del diritto di essere Stato (statehood ), aveva trovato il suo riconoscimento nella dozzina di «nuove nazioni» affrettatesi ad aggiungere nuovi seggi nel già sovraffollato edificio delle Nazioni Unite, non progettato per ospitare un tale numero di «eguali». Paradossalmente, proprio la fine della sovranità dello Stato rese l’idea del diritto di essere Stato così straordinariamente popolare. Nel caustico giudizio di Eric Hobsbawn, una volta che le Seychelles possono avere all’O.N.U. un voto altrettanto valido come quello del Giappone, «la maggioranza dei membri dell’O.N.U. ha probabilità di essere ben presto costituita, sul finire del ventesimo secolo, dagli equivalenti (repubblicani) di certe realtà politiche come quelle di Sassonia-CoburgoGotha e di Schwarzburg-Sonderhausen» (Hobsbawm, 1977). Recentemente sono apparsi in Francia due libri che fanno risalire la chiarissima impressione di «caos globale» al principio di territorialità : quello che è servito per tutta la durata dell’era moderna come la principale norma direttiva nella persistente lotta per la legge e l’ordine, ma che – come avvertono i loro autori, Thual e Badie – si è dimostrata come una delle fonti principali del disordine del mondo contemporaneo (Badie, 1995; Thual, 1995). Gli autori richiamano l’attenzione sulla presente impotenza pratica degli Stati, che, tuttavia, rimangono finora le uniche sedi ed agenzie per la formulazione e l’applicazione delle leggi; privi di ogni effettivo potere esecutivo, non più auto-sufficienti, in realtà insostenibili militarmente, economicamente e culturalmente, questi «Stati deboli», «quasi-Stati», spesso «Stati importati» (nelle espressioni di Badie) continuano tuttavia a rivendicare una sovranità territoriale, usando a proprio vantaggio guerre d’identità ed evocando, o piuttosto risvegliando, istinti tribali assopiti. È facile vedere che il tipo di sovranità che fa affidamento soltanto su sentimenti tribali è un nemico naturale della tolleranza e delle norme civili di coesistenza. Ma la frammentazione territoriale del potere legislativo ed esecutivo con il quale esso è intimamente connesso è anche, secondo l’opinione di Thual e Badie, un importante ostacolo al controllo effettivo sulle forze che davvero contano, ma che sono tutte o quasi tutte globali, extraterritoriali, nel

loro carattere. Le argomentazioni di Thual e Badie sono abbastanza convincenti, ma la loro analisi sembra fermarsi all’improvviso, senza svelare la totale complessità dell’attuale situazione. Contrariamente alle affermazioni degli autori, il principio territoriale dell’organizzazione politica non deriva soltanto (né preminentemente) dagli istinti tribali naturali o acquisiti, ed il suo rapporto con i processi descritti sotto il nome della globalizzazione economica e culturale non è proprio del tipo definibile come «bastone tra le ruote». In effetti, sembrano esserci un’intima affinità, un reciproco condizionamento e rafforzamento tra «globalizzazione» ed il rinnovato risalto dato al «principio territoriale». Gli aspetti globali della finanza, del commercio e dell’industria dell’informazione dipendono per la loro libertà di movimento e per la loro piena possibilità di perseguire i propri scopi dalla frammentazione politica, dal morcellement [«frazionamento»] della scena mondiale. Essi hanno tutti sviluppato, si potrebbe dire, interessi investiti in «Stati deboli», cioè in quegli Stati che per quanto deboli rimangono tuttavia Stati . Deliberatamente o subconsciamente, queste istituzioni interstatali, così come ve ne sono, esercitano pressioni coordinate su ogni Stato membro o dipendente per distruggere sistematicamente tutto ciò che potrebbe bloccare o rallentare il libero movimento del capitale e limitare la libertà di mercato. Il tenere spalancate le porte e l’abbandonare ogni pensiero di politica economica autonoma sono le condizioni preliminari e docilmente adeguate per poter accedere all’assistenza finanziaria da parte delle banche mondiali e dei fondi monetari. Gli Stati deboli sono precisamente ciò di cui il nuovo ordine del mondo, fin troppo spesso scambiato per disordine del mondo, ha bisogno per mantenersi e riprodursi. I «quasi-Stati» possono essere facilmente ridotti all’(utile) ruolo di distretti di polizia locale, che assicurano il minimo di ordine richiesto per la conduzione degli affari, ma non debbono essere temuti come freni sulla libertà globale delle compagnie. Come ebbe ad osservare Michel Crozier molti anni fa, il dominio consiste sempre nell’assicurarsi nella maggior misura possibile spazio e libertà di manovra, imponendo nello stesso tempo alla parte dominata la limitazione più rigida possibile del suo diritto

decisionale; l’azione del governare, diceva Crozier, deve limitarsi a ciò che è «fonte d’incertezza». Questa strategia fu applicata con successo in passato dai poteri dello Stato, che ora debbono subirla al limite della sopportazione; ormai sono il capitale e il denaro su scala mondiale il centro focale e la fonte dell’incertezza. Non è difficile vedere come la sostituzione degli «Stati deboli» territoriali con un certo tipo di poteri legislativi ed esecutivi globali possa risultare dannosa per gli interessi delle compagnie extraterritoriali. E così è facile pensare che, lungi dall’agire con fini contrastanti e dall’essere in guerra reciproca, la «tribalizzazione» e la «globalizzazione» economica sono strette alleate e cospirano insieme. Integrazione e frammentazione, globalizzazione e territorializzazione sono processi reciprocamente complementari; per essere anche più precisi, due lati dello stesso processo: quello della ridistribuzione su scala mondiale della sovranità, del potere, e della libertà di agire. Proprio per questo motivo è consigliabile, seguendo il suggerimento di Roland Robertson, parlare di glocalizzazione piuttosto che di globalizzazione, di un processo all’interno del quale il coincidere e l’intrecciarsi di sintesi e di dispersione, d’integrazione e di scomposizione, sono qualsiasi cosa tranne che accidentali, ed ancor meno modificabili. L’intima connessione tra la disponibilità chiaramente universale di simboli culturali e gli usi sempre più diversificati e territoriali che se ne fanno è diventata ormai uno degli argomenti principali dello studio e del discorso socioscientifico dei nostri giorni. Gli analisti della scena contemporanea sono concordi nel ritenere che «globalizzazione» non significa unificazione culturale; la produzione di massa di «materiale culturale» non conduce al prodursi di qualcosa che possa sembrare «cultura globale». La scena globale deve essere vista piuttosto come una matrice di possibilità, dalla quale possono prodursi, e sono effettivamente prodotte, selezioni e combinazioni altamente variate; attraverso la selezione e combinazione dalla trama globale dei simboli culturali vengono tessute identità separate e distinte; in effetti, l’industria locale dell’auto-differenziazione si trasforma in una caratteristica globalmente determinata del mondo postmoderno o

tardo moderno della fine del ventesimo secolo. I mercati globali di prodotti e informazioni commerciali rendono la selettività dell’impegno inevitabile, mentre il modo in cui vengono effettuate le selezioni tende ad essere scelto localmente, o collettivamente, per fornire nuovi segni distintivi simbolici per le identità estinte o risuscitate, recentemente inventate o ancora solo ipotizzate. La comunità, riscoperta dai rinati ammiratori romantici della Gemeinschaft (che essi vedono ora minacciata ancora una volta dalle forze insensibili, sovvertitrici e spersonalizzanti, ma questa volta radicate nella Gesellschaft universale, globale ), non è un antidoto per la globalizzazione, ma uno dei suoi indisensabili corollari: prodotti e condizioni nello stesso tempo. Ma la contrapposizione/connessione Gemeinschaft-Gesellschaft non è l’unica dimensione dell’interazione tra tendenze globalizzanti e localizzanti. Non è neppure la più importante e feconda delle dimensioni, anche se i rilievi comuni nella corrente principale della letteratura sulla «globalizzazione», che abitualmente la presentano come la principale linea di confronto lungo la quale si combattono le battaglie più importanti, farebbero pensare proprio a questo. La glocalizzazione è innanzitutto e soprattutto una ridistribuzione di privilegi e privazioni, di ricchezza e povertà, di capacità e incapacità, di potere e impotenza, di libertà e costrizione. Essa è, si potrebbe dire, un processo di ristratificazione universale, nel corso del quale viene messa insieme su scala mondiale una nuova gerarchia socio/culturale che si auto-riproduce. Una tale differenza e identità comune, che la globalizzazione dei mercati e delle informazioni promuove e rende «necessaria», non è una diversità tra partner eguali. Ciò che è libera scelta per alcuni è destino crudele per altri. E poiché questi altri tendono a crescere irrefrenabilmente nel numero e a sprofondare sempre di più nella disperazione che nasce da un’esistenza priva di prospettive, si avrà diritto a percepire la glocalizzazione come il concentrarsi del capitale, della finanza e di tutte le altre possibilità di scelta e d’azione effettiva, ma anche, ed in primo luogo, come un concentrarsi della libertà d’agire. Commentando i dati dell’ultimo Rapporto sullo Sviluppo Umano

delle Nazioni Unite, secondo cui la ricchezza totale dei primi 358 «miliardari globali» equivale a tutti i redditi messi insieme dei due miliardi e mezzo dei più poveri (il 45% della popolazione del mondo), Victor Keegan, del giornale The Guardian , chiamò l’attuale rimaneggiamento delle risorse del mondo «una nuova forma di rapina su autostrada» (22 luglio 1996). In effetti, solo il 22 per cento della ricchezza globale appartiene ai cosiddetti «paesi in via di sviluppo», che rappresentano circa l’80 per cento della popolazione mondiale. Questa non è affatto la fine della storia, poiché la quota di reddito attuale ricevuto dai poveri è ancora più piccola: nel 1991, l’85 per cento della popolazione del mondo ricevette solo il 15 per cento del suo reddito. Non sorprende che negli ultimi 30 anni il già così spropositatamente scarso 2,3 per cento della ricchezza globale posseduto dal 20 per cento dei paesi più poveri sia ulteriormente sceso all’1,4 per cento. La rete globale delle comunicazioni, acclamata come la porta d’accesso ad una nuova e straordinaria libertà, viene usata in modo chiaramente molto selettivo; è appena uno stretto pertugio nel muro massiccio, piuttosto che una porta. Poche (e sempre di meno) sono le persone che ottengono il lasciapassare che consente loro di passarvi. «Tutto ciò che i computer fanno oggi per il Terzo Mondo è fare la cronaca del loro declino in maniera più efficace», così afferma Keegan. E conclude: «Se (come ha osservato un critico americano) i 358 decidessero di tenere per sé più o meno 5 milioni di dollari ciascuno, di farseli bastare e di rinunciare a tutto il resto, potrebbero virtualmente raddoppiare il reddito annuale di circa la metà della popolazione sulla Terra. Ed i porci volerebbero!». Secondo le parole di John Kavanagh, del Washington Institute of Policy Research , riferite nell’«Independent on Sunday», il 21 luglio 1996: La globalizzazione ha dato più opportunità a coloro che sono estremamente ricchi di far denaro più rapidamente. Questi individui hanno utilizzato la più recente tecnologia per muovere grandi somme di denaro in tutto il mondo con estrema rapidità e per speculare in modo sempre più efficiente. Purtroppo, la tecnologia non ha alcuna influenza sulla vita dei poveri nel mondo. In realtà, la globalizzazione è un paradosso; mentre risulta molto vantaggiosa a pochissimi individui, trascura ed emargina due terzi della popolazione mondiale.

Come il folclore della generazione delle «classi illuminate», tenute in gestazione nel nuovo, splendido e monetaristico mondo di Reagan e della Thatcher, questo aprirsi delle chiuse, questo far saltare con la dinamite ogni diga, renderà il mondo un luogo libero per tutti. La libertà (di commercio e di mobilità del capitale, innanzitutto e soprattutto) è la serra in cui la ricchezza possa prosperare più rapidamente di quanto sia mai accaduto prima; ed una volta che la ricchezza si sarà moltiplicata, ce ne sarà di più per tutti. I poveri del mondo, vecchi e nuovi, quelli ereditari e quelli prodotti dal computer, difficilmente potranno riconoscere la loro situazione in questo folclore. I media sono il messaggio, ed i media attraverso i quali viene instaurato il sistema del mercato a livello mondiale sono tali da rendere impossibile il promesso effetto trickle-down [cioè del graduale espandersi della ricchezza dai ricchi ai poveri, N.d.T. ]. Le nuove ricchezze crescono nella realtà effettiva, ermeticamente isolata dalle vecchie realtà approssimative dei poveri. La creazione della ricchezza è sul punto di emanciparsi finalmente dalle vecchie, costrittive e seccanti connessioni con il produrre cose, il trattare materiali, il creare posti di lavoro e il dirigere persone. I vecchi ricchi avevano bisogno di poveri che li rendessero e mantenessero ricchi. Essi non hanno più alcun bisogno dei poveri. Finalmente, la beatitudine della libertà definitiva è vicina. Da tempo immemorabile, il conflitto tra ricchi e poveri significava essere bloccati per tutta la vita in una reciproca dipendenza; e la dipedenza significava il bisogno di parlare e di cercare compromessi e accordi. Le cose stanno sempre di meno in questi termini. Non è abbastanza chiaro di che cosa i nuovi ricchi «globalizzati» ed i nuovi poveri «globalizzati» dovrebbero parlare, per quale motivo dovrebbero sentire il bisogno di arrivare a compromessi e quale tipo di modus coexistendi concordato dovrebbero essere inclini a cercare. Le tendenze globalizzanti e localizzanti sono reciprocamente rafforzanti ed inseparabili, ma i loro rispettivi prodotti sono sempre di più separati e la distanza tra di loro continua a crescere, mentre la reciproca comunicazione è arrivata ad un punto morto. I mondi che si sono sedimentati ai due poli, al vertice e al fondo

della gerarchia emergente, differiscono nettamente e stanno diventano sempre più senza contatti reciproci, allo stesso modo in cui le «zone con divieto d’accesso» delle città contemporanee vengono accuratamente sbarrate e aggirate dalle linee di traffico usate per la mobilità dei fortunati residenti. Se per il primo mondo, il mondo dei ricchi e dei benestanti, lo spazio ha perso il suo carattere restrittivo e viene facilmente attraversato nelle sue interpretazioni sia «reali» che «virtuali», per il secondo mondo, il mondo dei poveri, lo spazio reale, «strutturalmente superfluo», è quasi sbarrato: la privazione resa ancora più dolorosa dall’importuno sfoggio di conquista di spazio da parte dei media e dall’«accessibilità virtuale » di distanze irraggiungibili nella realtà non-virtuale. La limitazione dello spazio abolisce il flusso del tempo; gli abitanti del primo mondo vivono in un perpetuo presente, che passa attraverso un susseguirsi di episodi igienicamente isolati sia dal loro passato che dal loro futuro; questi individui sono costantemente occupati e perpetuamente «a corto di tempo», dato che ogni momento di tempo è insufficiente: un’esperienza identica a quella del tempo pieno sino all’orlo. Gli individui abbandonati nel deserto del mondo opposto risultano fiaccati e schiacciati sotto il peso di un tempo sovrabbondante, eccessivo e inutile, che essi non sanno con che cosa riempire. Nel loro tempo, «non accade mai nulla». Essi non «controllano» il tempo, ma neppure ne sono «controllati», diversamente dai loro padri che timbravano il cartellino per registrare l’ora d’entrata e l’ora di uscita, soggetti al ritmo anonimo del tempo di una fabbrica. Essi possono solo uccidere il tempo, così come ne vengono lentamente uccisi. I residenti del primo mondo vivono nel tempo ; lo spazio non ha per loro alcuna importanza, dato che l’attraversamento di ogni distanza è istantaneo. Proprio questa esperienza viene incapsulata da Jean Baudrillard nella sua immagine d’«iperrealtà», dove il reale ed il virtuale non sono più separabili, poiché entrambi sono partecipi e mancanti nella stessa misura di quella «oggettività», «esteriorità» e «forza estenuante» (punishing power ) che Emile Durkheim elencò come i sintomi della «realtà». I residenti del secondo mondo vivono nello spazio – opprimente, flessibile, non toccabile – che lega il tempo e lo

tiene al di fuori del controllo dei residenti. Il loro tempo è vuoto; nel loro tempo, «non accade mai nulla». Soltanto il tempo virtuale, televisivo, ha una struttura, un «orario». L’altro tempo scorre in modo monotono come il tic tac di un orologio, arriva e se ne va, senza accampare pretese e non lasciando apparentemente alcuna traccia. I suoi sedimenti appaiono tutto ad un tratto, senza annuncio e senza invito. Immateriale, il tempo non ha alcun potere al di sopra di quel fin-troppo-reale spazio nel quale sono relegati i residenti del secondo mondo. La glocalizzazione, per riepilogare, polarizza la mobilità: quella capacità di usare il tempo per annullare la limitazione dello spazio. Questa capacità o incapacità divide il mondo nel globalizzato e nel localizzato. «Globalizzazione» e «localizzazione» possono essere i lati inseparabili della tessa moneta, ma le due parti della popolazione del mondo sembrano vivere su lati differenti, di fronte ad un lato soltanto, più o meno come gli abitanti della Terra vedono e scrutano soltanto un emisfero della luna. Alcuni abitano il globo; altri sono tenuti legati ad un luogo. Agnes Heller ricorda di aver incontrato, in uno dei suoi voli a lunga distanza, una donna di mezza età che era impiegata di un’impresa commerciale internazionale, parlava cinque lingue e possedeva tre appartamenti in tre luoghi diversi. ... essa si sposta continuamente, e tra molti luoghi, e sempre avanti e indietro. Essa fa questo da sola, non come membro di una comunità, anche se molte persone agiscono come lei... Il tipo di cultura di cui essa è partecipe non è una cultura di un certo luogo; è la cultura di un tempo. È una cultura del presente assoluto . Tentiamo di accompagnarla nei suoi continui viaggi da Singapore a Hong Kong, Londra, Stoccolma, New Hampshire, Tokyo, Praga, ecc. Essa si ferma nello stesso hotel Hilton, mangia lo stesso sandwich al tonno per il pranzo, o, se lo desidera, mangia cibo cinese a Parigi e cibo francese a Hong Kong. Usa lo stesso tipo di fax, di telefoni, di computer, guarda gli stessi film, e discute lo stesso tipo di problemi con lo stesso tipo di gente (Heller, 1995).

Heller trova facile creare un’empatia con l’esperienza della compagna di viaggio. Ed aggiunge, pro domo sua : Neanche le università straniere sono straniere. Dopo avervi tenuto una conferenza, ci si può aspettare la stessa domanda a Singapore, Tokyo, Parigi o Manchester. Esse non sono nè luoghi stranieri, né luoghi dove sentirsi a casa propria (Heller, 1995).

Jeremy Seabrook ricorda Michelle, una ragazza di un vicino quartiere residenziale comunale: A quindici anni, i suoi capelli un giorno erano rossi, il giorno successivo biondi, poi neri corvini, poi acconciati in ricci all’africana, poi in forma di code di topi, poi con trecce, e poi tagliati corti in modo tale da luccicare in modo radente al cranio... Le labbra erano scarlatte, poi color porpora, poi nere... La sua faccia era di color bianco spettrale e poi color pesca, poi color bronzo come se fosse fusa in metallo. Perseguitata da sogni di fuga, essa abbandonò la famiglia a sedici anni per mettersi con il suo boyfriend , che ne aveva ventisei... A diciotto anni tornò dalla madre, con due figli... Si mise a sedere nella camera da letto da dove era scappata tre anni prima; le foto sbiadite delle popstars di ieri la fissavano ancora dalle pareti. Disse che si sentiva vecchia di cent’anni. Era stanca. Aveva provato tutto ciò che la vita poteva offrire. Non restava altro (Seabrook, 1985, p. 59).

La compagna di viaggio di Heller vive in una casa immaginaria di cui non ha bisogno, e così non bada al fatto che sia immaginaria. La ragazza conosciuta da Seabrook compie fughe immaginarie dalla casa contro cui prova risentimento per il fatto che è reale in modo contraddittorio. La virtualità è a servizio di entrambe, ma a ciascuna offre servizi diversi con risultati nettamente differenti. Per la compagna di viaggio di Heller, essa aiuta a dissolvere qualsiasi costrizione possa imporre una casa reale: a smaterializzare lo spazio. Per la vicina di Seabrook, essa mette in risalto il terribile e detestabile potere di una casa trasformata in prigione: decompone il tempo. La prima esperienza viene completamente vissuta come libertà postmoderna; la seconda, come la versione postmoderna della schiavitù. La prima esperienza è, paradigmaticamente, quella del turista (e non importa che lo scopo del turismo sia rappresentato dagli affari o dal piacere). I turisti diventano dei migranti e considerano i sogni della nostalgia di casa superiori alle realtà della casa, perché è questo che vogliono, perché considerano questa come la più ragionevole strategia di vita «in determinate circostanze», o perché sono stati sedotti dai piaceri veri o immaginari della vita di chi va a caccia di sensazioni. Ma non tutti i migranti si muovono perché preferiscono il muoversi allo stare fermi. Molti forse rifiuterebbero d’intraprendere una vita di migrazione se fosse loro richiesto; ma non è questo che ad essi era stato inizialmente richiesto. Se essi si muovono, è perché lo stare fermi

in casa in un mondo fatto a misura di turista è un’umiliazione ed un peso. Essi si muovono perché sono stati spinti da dietro, dopo essere stati spiritualmente sradicati da un luogo privo di promesse da una forza di seduzione troppo potente, e spesso troppo misteriosa, per potervi resistere. Essi vedono la propria situazione come tutto tranne che una manifestazione di libertà. Quelle dei migranti sono come lune buie erranti che riflettono lo splendore dei soli luminosi rappresentati dai turisti; essi sono i mutanti dell’evoluzione postmoderna, i reietti non idonei della splendida nuova specie. I migranti sono il rifiuto di un mondo che si è dedicato a servizi turistici. I turisti si fermano o si muovono a proprio piacimento. Essi abbandonano il sito dove si trovano quando nuove e non ancora sperimentate opportunità li attraggono altrove. I migranti, invece, sanno che non si fermeranno a lungo, per quanto fortemente possano desiderarlo, poiché in nessun luogo dove si fermano sono bene accolti. I turisti si muovono perché trovano il mondo dove riescono ad arrivare irresistibilmente attraente ; i migranti si muovono perché trovano il mondo dove riescono ad arrivare insopportabilmente inospitale . I turisti viaggiano perché lo vogliono ; i migranti perché non hanno altra scelta possibile . I migranti sono, si potrebbe dire, turisti involontari, ma il concetto di «turista involontario» è una contraddizione in termini. Per quanto la strategia del turista possa essere una necessità in un mondo caratterizzato da pareti mobili e strade di scorrimento, la libertà di scelta è l’essenza stessa del turista. Si elimini questa libertà, e l’attrazione, la poesia e, anzi, la vivibilità della vita del turista sono quasi morte. La globalizzazione viene adattata ai sogni e desideri dei turisti. Il suo secondo effetto, il suo effetto secondario , è la trasformazione di molti altri in migranti. Il primo effetto alimenta e gonfia il secondo, in modo indomabile e irrefrenabile. Il secondo è il prezzo del primo. Il problema è come far scendere questo prezzo. Giova ripeterlo: una volta emancipato dallo spazio, il capitale non ha più bisogno di un lavoro itinerante (mentre la sua avanguardia più emancipata a malapena ha bisogno di un qualsiasi lavoro, mobile o fisso che sia). E così la pressione per abbattere le ultime barriere che si

frappongono al libero movimento del denaro e delle merci e informazioni che producono denaro va di pari passo con la pressione per scavare nuovi fossati ed erigere nuovi muri (variamente chiamati leggi per l’«immigrazione» o per la «nazionalità») che impediscono il movimento di coloro che vengono sradicati, spiritualmente o fisicamente, nel risultato2. Luce verde per i turisti, luce rossa per i migranti. La localizzazione forzata tutela la selettività naturale degli effetti globalizzanti. La polarizzazione ampiamente rilevata e sempre più preoccupante del mondo e della sua popolazione non è qualcosa di estraneo e d’importuno che influisca nel processo di globalizzazione: ne è l’effetto. I poveri saranno sempre con noi, e così lo saranno i ricchi, secondo l’antica saggezza popolare, ora dissotterrata dall’abisso dell’oblio in cui fu tenuta durante il breve idillio con lo «Stato assistenziale» (welfare state ) ed il processo di «sviluppo» garantito o assistito. La spaccatura ricchi/poveri non è né una novità né qualcosa di temporaneamente spiacevole che, con il dovuto sforzo, cesserà domani o un po’ più tardi. Il punto è, comunque, che quasi mai prima questa spaccatura fu così chiaramente, inequivocabilmente, una spaccatura : una divisione non lenita e non alleviata da servizi reciproci o da reciproca dipendenza; una divisione con alla base un’unità non maggiore di quella che può esserci tra un accurato dattiloscritto ed un cestino per la carta straccia. I ricchi, ai quali capita di essere nello stesso tempo i più intraprendenti e più potenti tra gli attori della scena politica, non hanno bisogno dei poveri né per la salvezza della propria anima (che essi non credono d’avere e che, in ogni caso, non considerebbero degna di cura) né per rimanere ricchi o per diventare più ricchi (ciò che secondo loro sarebbe più facile se non si chiedesse loro di condividere alcune delle ricchezze con i poveri). I poveri non sono figli di Dio sui quali praticare la redenzione della carità. Essi non sono le «truppe di riserva del lavoro» che hanno bisogno di essere addestrate nuovamente alla produzione della ricchezza. Non sono i consumatori che debbono essere tentati e blanditi nel «dare il via alla ripresa». In qualunque modo si guardi ad essi, i poveri non sono di alcuna utilità; i migranti non sono che brutte caricature dei turisti, e chi si rallegrerebbe alla

vista delle proprie distorsioni? Questa è una vera novità nel mondo soggetto ad una profonda trasformazione che, talvolta per un errore ottico, talvolta per placare la propria coscienza, viene chiamato «globalizzazione». L’unità/dipendenza che è stata alla base della maggior parte delle forme storiche della divisione ricchi/poveri è stata generalmente, in ogni tempo, la condizione necessaria di quella solidarietà, per quanto residua, nei confronti dei poveri, che ha ispirato gli sforzi, sia pure poco convinti ed incompleti, di sollevarne la situazione. Non sorprende che gli esperti in sondaggi di opinione di entrambi i campi contendenti informino i loro rispettivi candidati alla presidenza degli Stati Uniti che gli elettori vogliono un taglio dei provvedimenti a favore dei poveri insieme a quello delle tasse dei ricchi. Non sorprende che entrambi i contendenti facciano del loro meglio per superarsi reciprocamente nelle loro proposte di portare tagli ai provvedimenti dello Stato assistenziale e di prodigare i fondi così risparmiati nella costruzione di nuove prigioni e nel potenziamento delle forze di polizia. Come ebbe a sintetizzare in “The Guardian” del 28 luglio 1996 il pastore John Steinbruck, ministro del culto nella chiesa commemorativa eretta in Luther Place a Washington: «Questa nazione ha come suo simbolo la Statua della Libertà, con il messaggio inciso alla sua base, “Datemi i vostri poveri, i vostri senza tetto, le vostre masse affollate”. Ma eccoci ora in questo esecrabile paese, il più ricco nella storia, ed abbiamo dimenticato tutto questo».

Note 1

Come ci si poteva aspettare, proprio le minoranze etniche o, più in generale, i gruppi etnici piccoli e deboli, incapaci di organizzare uno Stato in modo indipendente secondo le norme proprie dell’era del «mondo degli Stati», sono di regola entusiasti nella maniera più inequivocabile di acquistare il potere delle formazioni sovranazionali. Di qui l’incongruenza di rivendicazioni

del diritto di essere Stato (statehood ), rivendicazioni sostenute in termini di fedeltà alle istituzioni il cui compito dichiarato, ed anche più spesso messo in dubbio, è quello di limitare tale diritto e, in ultima analisi, di annullarlo del tutto. Torna 2 Il salvare la parte ricca dell’Europa dall’inondazione di rifugiati di guerra fu, per ammissione del Segretario di Stato, l’argomento decisivo a favore del coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra bosniaca. Torna

Riferimenti bibliografici Badie, B. (1995), La fin des territories , Fayard, Paris. Der Derian, J. (1991), S/N: International Theory, Balkanisation and the New World Order , in «Millennium» 20, 3. Heller, A. (1995), Where Are We at Home? , in «Thesis Eleven» 41. Hobsbawm, E. (1977), Some Reflections on the Breakup of Britain , in «New Left Review» 105. Seabrook, J. (1985), Landscapes of Poverty , Blackwell, Oxford. Thual, F. (1995), Les conflits identitaires , Fayard, Paris.

10.2 Dall’etica del lavoro all’estetica del consumismo [Titolo originale: From the Work Ethic to the Aesthetic of Consumption, 1998] La nostra è una società dei consumi.

Sappiamo tutti, più o meno, cosa significhi essere un «consumatore». Un consumatore è una persona che consuma, e consumare significa usare cose: per mangiarle, per indossarle, per giocarvi e perché soddisfino in altra maniera i propri bisogni o desideri. Poiché nella nostra parte del mondo è il denaro lo strumento che nella maggior parte dei casi «fa da mediatore» tra il desiderio e la sua soddisfazione, essere un consumatore significa anche, e normalmente lo significa, appropriarsi della maggior parte delle cose destinate ad essere consumate: comprandole, pagando per esse e rendendole così di proprio esclusivo possesso, impedendo a chiunque altro di usarle senza il proprio permesso. Consumare significa anche distruggere. Nel processo di consumo, le cose consumate cessano di esistere, letteralmente o spiritualmente. O vengono «consumate» fisicamente, fino al completo annullamento, come quando le cose vengono mangiate o logorate, o vengono spogliate del loro fascino, non suscitano né attraggono più il desiderio, e perdono la loro capacità di soddisfare i propri bisogni e desideri (per esempio, un giocattolo o un disco ormai sciupato dall’uso) e così diventano inadatte al consumo. Questo è ciò che significa essere un consumatore, ma cosa intendiamo quando parliamo di una società dei consumi? C’è qualcosa di particolare nell’essere un consumatore in una società dei consumi? Ed inoltre, non è ogni società che si conosca una società di consumatori, in maggiore o minore misura? Tutte le caratteristiche elencate nel precedente paragrafo, tranne forse la necessità di spendere denaro per cose destinate ad essere consumate, sono certamente presenti in ogni tipo di società. Ovviamente, quale tipo d’oggetti noi vediamo come potenziale materia di consumo, ed il modo di consumarli, possono differire da un tempo all’altro e da un luogo all’altro, ma nessun essere umano in ogni luogo o in ogni tempo può rimanere in vita senza consumare. E così, quando diciamo che la nostra è una «società di consumatori», dobbiamo avere in mente qualcosa di più del semplice fatto banale, comune e non particolarmente illuminante che tutti i membri di tale società consumino. La nostra è una «società di

consumatori» in un senso profondo e fondamentale simile a quello in cui la società dei nostri predecessori (la società moderna nella sua fase industriale descritta nel precedente capitolo) meritò solitamente il nome di «società di produttori», malgrado il fatto che gli uomini abbiano prodotto fin dall’inizio della specie umana e continueranno a produrre fino alla scomparsa della specie. La ragione per chiamare quel più vecchio tipo di società moderna una «società di produttori» fu il fatto che essa impegnava i suoi membri primariamente come produttori; il modo in cui quella società modellava i suoi membri era dettato dal bisogno di svolgere questo ruolo e la norma che la società imponeva ai suoi membri era l’abilità e la disponibilità a svolgerlo. Nel suo attuale stadio tardo-moderno, successivo-al-moderno o postmoderno, la società impegna i suoi membri - di nuovo primariamente nella loro capacità di consumatori. Il modo in cui la società dei nostri giorni modella i suoi membri è dettato innanzitutto e soprattutto dal bisogno di svolgere il ruolo di consumatore, e la norma che la nostra società impone ai suoi membri è quella dell’abilità e della disponibilità a svolgerlo. La differenza tra allora e adesso non è così radicale da prevedere l’abbandono di un ruolo per sostituirlo con un altro. Nessuna delle due società potrebbe ritenersi sufficiente senza almeno alcuni dei suoi membri incaricati di produrre cose da consumare, e senza tutti i membri di entrambe le società nel ruolo, ovviamente, di consumatori. La differenza si riduce ad una questione d’importanza, ma lo spostamento d’importanza produce un’enorme differenza a praticamente ogni aspetto della società, della cultura e della vita individuale. Le differenze sono così profonde e onnipresenti da giustificare pienamente il parlare della nostra società come di una società di tipo singolare e distinto: una società di consumatori. Il passaggio da una società di produttori ad una di consumatori ha comportato molti profondi cambiamenti; si può sostenere, tuttavia, che il più decisivo tra essi sia il modo in cui gli individui vengono educati e preparati a far fronte alle esigenze delle loro identità sociali (cioè, il modo in cui uomini e donne vengono «integrati» nell’ordine sociale e si vedono assegnare un posto in esso). Le istituzioni di

prospettiva totalizzante (panoptical ), una volta di fondamentale importanza sotto questo aspetto, sono progressivamente cadute in disuso. Con l’occupazione industriale di massa che si sta rapidamente restringendo, e con il servizio militare universale sostituito da piccoli eserciti volontari e professionistici, è improbabile che la massa della popolazione venga mai a trovarsi sotto la loro diretta influenza. Il progresso tecnologico ha raggiunto il punto in cui la produttività cresce insieme all’assottigliarsi dell’occupazione; il personale delle fabbriche diminuisce e si riduce sempre di più; il «ridimensionamento» (downsizing ) è il nuovo principio della modernizzazione. Secondo i calcoli del direttore del “Financial Time”, Martin Wolf, tra il 1970 e il 1994 la percentuale di occupati nell’industria scese dal 30 al 20 per cento nell’Unione Europea e dal 28 al 16 per cento negli USA, mentre la produttività industriale aumentò in media, annualmente, del 2,5 per cento (Wolf, 1997, p. 5). Il tipo di educazione in cui eccellevano le istituzioni di prospettiva totalizzante è difficilmente adatto per l’educazione dei consumatori. Quelle istituzioni educavano validamente ad un comportamento uniforme e monotono, e raggiungevano questo effetto limitando o eliminando completamente la possibilità di scelta; ma proprio l’assenza di uniformità e lo stato di costante scelta sono le qualità (anzi, i «requisiti essenziali del ruolo») di un consumatore. E così, oltre a risultare molto ridotto nel mondo post-industriale e postcoscrizione, l’educazione impartita dalle istituzioni di prospettiva totalizzante è anche inconciliabile con le esigenze di una società dei consumi. Le qualità del carattere e gli atteggiamenti di vita che l’educazione impartita dalle istituzioni di prospettiva totalizzante riusciva in maniera eccellente a coltivare sono contro-producenti nella produzione di consumatori ideali. Idealmente, gli abiti acquisiti dovrebbero stare sulle spalle dei consumatori proprio come le passioni professionali e tese ad acquisire, d’ispirazione religiosa/etica, vennero a trovarsi, come ebbe a ripetere Max Weber dopo Baxter, sulle spalle del santo protestante: «come un leggero mantello, pronto ad essere lasciato cadere ad ogni momento» (Weber, 1976, p. 181). E gli abiti sono in effetti lasciati cadere

continuamente, ogni giorno, alla prima opportunità, senza ricevere mai la possibilità di solidificarsi nelle sbarre di ferro di una gabbia. Idealmente, nulla dovrebbe essere abbracciato da un consumatore saldamente, nulla dovrebbe impegnare per sempre, nessun bisogno dovrebbe mai essere visto come pienamente soddisfatto, nessun desiderio considerato come l’ultimo. Dovrebbe esserci una clausola «fino a nuovo avviso» annessa ad ogni giuramento di fedeltà e ad ogni impegno. Proprio la volubilità, la temporaneità incorporata in ogni impegno è l’elemento che conta; ed esso conta più dell’impegno stesso, che non dovrebbe sopravvivere al tempo necessario per consumare l’oggetto del desiderio (o perché diminuisca la desiderabilità di quell’oggetto). Che ogni consumo richieda tempo è in effetti la rovina di una società di consumatori ed una grave preoccupazione dei commercianti di beni di consumo. Idealmente, la soddisfazione del consumatore dovrebbe essere immediata, e questo in un duplice senso. I beni consumati dovrebbero procurare una soddisfazione immediatamente, senza doverla rinviare, senza che vi sia bisogno di un apprendimento prolungato di abilità e senza doverne ricercare a lungo una motivazione fondamentale; ma la soddisfazione dovrebbe terminare nel momento in cui finisce il tempo necessario per il loro consumo, e questo tempo dovrebbe essere ridotto al minimo. Questa riduzione si ottiene nel modo migliore se i consumatori non riescono a prolungare la loro attenzione né ad accentrare a lungo il loro desiderio su qualsiasi oggetto; se essi sono impazienti, impulsivi e irrequieti, e soprattutto facilmente eccitabili ed egualmente suscettibili di perdere interesse. Se l’attesa viene svuotata del desiderio, e il desiderio viene svuotato dell’attesa, la capacità di consumo dei consumatori può estendersi molto al di là dei limiti stabiliti da qualsiasi bisogno naturale o acquisito, o determinati dalla possibilità fisica di durare degli oggetti del desiderio. Il tradizionale rapporto tra bisogni e loro soddisfazione risulterà allora rovesciato: la promessa e la speranza di soddisfazione precederanno il bisogno e saranno sempre maggiori del bisogno ancora esistente, ma non abbastanza grandi da precludere il desiderio di beni implicati in tale promessa. In realtà, la promessa è

tanto più attraente quanto meno il bisogno in questione rientra tra quelli comuni; si trova molto divertente vivere fino in fondo un’esperienza che neppure si sapeva esistesse e fosse disponibile. L’eccitazione suscitata da una sensazione nuova e senza precedenti è l’essenza del gioco in cui è impegnato il consumatore. Nei termini con i quali si esprimono Mark C. Taylor ed Esa Saarinen, «il desiderio non desidera soddisfazione. Al contrario, il desiderio desidera desiderio» (Taylor – Saarinen, 1994, p. 11), in ogni caso il desiderio di un consumatore ideale . La prospettiva del desiderio che si affievolisce, si dissipa, con nessuna possibilità di riaccendersi, o la prospettiva del mondo in cui non rimanga nulla da desiderare, deve essere il più sinistro degli orrori che possa provare il consumatore ideale. Per aumentarne la capacità di consumo, ai consumatori non si deve dare tregua. Essi debbono essere costantemente esposti a nuove tentazioni per essere tenuti in uno stato di eccitazione costantemente in fermento, che mai s’infiacchisca, e addirittura in uno stato d’incertezza e di scontentezza. Le lusinghe che li inducono a spostare l’attenzione debbono rafforzare tale incertezza, offrendo loro nello stesso tempo un modo di uscire dalla scontentezza. «Ritieni di aver visto tutto? Non hai ancora visto niente!». Si dice spesso che il mercato dei consumi seduce i suoi clienti. Ma per fare questo esso ha bisogno di clienti che siano pronti e disposti ad essere sedotti (proprio come il padrone di una fabbrica, per poter comandare ai suoi operai, aveva bisogno di un personale con attitudini saldamente radicate alla disciplina e alla docilità nel seguire gli ordini). In una società dei consumi che funzioni nel modo dovuto i consumatori cercano attivamente di essere sedotti. Essi vivono passando da un’attrazione all’altra, da una tentazione all’altra, dall’inghiottire un’esca al pescarne un’altra, dato che ciascuna nuova attrazione, tentazione ed esca è abbastanza differente e forse più forte di quelle precedenti; proprio come i loro padri, i produttori, vivevano passando da una catena di montaggio ad un’altra identica. Agire in questo modo è, per il consumatore maturo ed esperto, un obbligo, una cosa che si deve fare; ma questo «dovere», questa pressione interiorizzata, questa impossibilità di vivere la propria vita in

qualsiasi altra maniera, gli si rivela nella forma di un libero esercizio di volontà. Il mercato potrebbe già aver acquisito e plasmato i consumatori in quanto consumatori, ed averli quindi privati della loro libertà d’ignorarne le tentazioni, ma in ogni successiva visita al mercato i consumatori hanno ogni ragione per sentirsi in una posizione di comando. Sono essi i giudici, i critici, quelli che scelgono. Essi possono, dopo tutto, rifiutare la loro fedeltà a ciascuna delle scelte in mostra, tranne proprio la scelta di scegliere tra loro. Le strade che conducono all’auto-identità, ad un posto nella società, ad una vita vissuta in una forma riconoscibile come quella di vivere in modo significativo, richiedono tutte delle visite quotidiane al mercato. Nella fase industriale della modernità c’era un fatto fuori di ogni dubbio: che ciascuno dovesse essere innanzitutto produttore, prima di essere qualsiasi altra cosa. Nella «modernità numero due», la modernità dei consumatori, il fatto indubitabile e brutale è che si deve essere innanzitutto consumatori, prima di poter pensare di diventare qualsiasi cosa in particolare.

Come si crea un consumatore Negli ultimi anni abbiamo sentito politici di ogni colore politico parlare all’unisono, in termini lusinghieri e allettanti, di «ripresa influenzata dal consumatore» (consumer-led recovery ). La produzione in declino, i registri per richieste di fornitura di merce che rimangono vuoti e la scarsa attività commerciale sulle vie principali sono altrettanti fatti dei quali si attribuisce la colpa alla mancanza d’interesse del consumatore o alla sua mancanza di «fiducia» (il che significa che il desiderio del consumatore di comprare a credito è abbastanza forte da risultare più importante del loro timore d’insolvenza). Le speranze che tutte queste preoccupazioni possano essere rimosse, che gli affari comincino a rimettersi in moto, sono riposte nella prospettiva che i consumatori facciano nuovamente il loro dovere: desiderando ancora una volta di comprare, di comprare molto, e di comprare sempre di più. La «crescita economica», il

principale metro moderno di valutazione per poter dire che le cose sono normali ed in ordine, il principale indizio di una società che funziona come deve, viene vista nella società dei consumi come dipendente non tanto dalla «forza produttiva della nazione» (forzalavoro valida e abbondante, casse piene e coraggioso spirito imprenditoriale di chi possiede e amministra capitali), quanto invece dal vivo interesse e vigore dei suoi consumatori. Il ruolo svolto in passato dall’attività tesa a collegare motivazioni individuali, integrazione sociale e riproduzione sistematica, è stato ora assegnato all’attività del consumatore. Avendo smantellato i tradizionali meccanismi «pre-moderni» che assegnavano la collocazione sociale, lasciando a uomini e donne solo il compito relativamente semplice di «rimanere fedeli alla propria condizione» e di vivere secondo le norme (ma non al di sopra di esse) fissate per la «categoria sociale» in cui erano nati, la modernità gravò l’individuo del compito di «auto-costruzione»: costruire la propria identità sociale se non del tutto da zero, almeno dalle sue basi. La responsabilità dell’individuo, una volta limitata ad osservare le regole che definivano in termini non incerti ciò che significava essere un nobile, un commerciante, un soldato mercenario, un artigiano, un fittavolo o un bracciante, ormai risultava estesa fino ad includere la scelta della stessa definizione sociale, e dopo averla socialmente riconosciuta ed approvata. Inizialmente, il lavoro venne offerto come il primo strumento per poter affrontare questo nuovo compito moderno. L’identità sociale ricercata e diligentemente costruita ritenne le abilità lavorative, la dimensione dell’impiego ed il profilo professionale come i suoi elementi più importanti. L’identità, una volta scelta, doveva essere costruita una volta per tutte, per la vita, e tale fu almeno in linea di massima l’impiego, la professione, il lavoro che doveva durare per tutta la vita. La costruzione dell’identità doveva essere costante e coerente, tale da procedere attraverso una serie di fasi chiaramente definite (non sorprende che la metafora della «costruzione» fosse scelta per indicare il tipo di «lavoro d’identità» da compiere), e tale fu il lavoro che doveva durare per tutta la vita. L’itinerario fissato per un

lavoro che doveva durare per tutta la vita e le condizioni fondamentali per la costruzione di un’identità che doveva egualmente durare per tutta la vita coincidono perfettamente. Un lavoro per tutta la vita, stabile, duraturo e continuo, logicamente coerente e saldamente strutturato, non è più, tuttavia, una scelta ampiamente disponibile. Soltanto in casi relativamente rari un’identità permanente può essere definita, tanto meno assicurata, attraverso il lavoro eseguito. Lavori fissi, ben tutelati ed assicurati, sono ormai una rarità. I lavori di vecchio tipo che duravano per tutta la vita, talvolta persino ereditari, risultano limitati a poche antiche industrie e professioni e il loro numero sta rapidamente diminuendo. Nuovi posti disponibili tendono ad essere a termine fisso, fino ad ulteriore avviso, e part-time . Spesso sono associati ad altre occupazioni e privi di qualsiasi garanzia di continuità, tanto meno di permanenza. Lo slogan è la flessibilità, e questo concetto sempre più alla moda rappresenta un gioco d’assunzione e licenziamento (hire and fire ) con pochissime regole da seguire e con il potere di cambiarle unilateralmente mentre il gioco è ancora in fase di svolgimento. Niente di veramente stabile si può ragionevolmente sperare che venga costruito su questo tipo di sabbie mobili. Molto semplicemente, la prospettiva di costruire un’identità che duri per tutta la vita sulla base di un lavoro è, per la grande maggioranza degli individui (eccettuati, almeno per ora, gli esperti di poche professioni altamente qualificate e privilegiate), morta e sepolta. Tuttavia, l’importante innovazione rappresentata dalla flessibilità non è stata sperimentata come un grave terremoto o una minaccia esistenziale. E questo perché la natura delle comuni preoccupazioni circa le identità è anch’essa cambiata in modo tale da rendere i vecchi lavori destinati a durare per tutta la vita assolutamente inadatti ed anzi disgiunti dal tipo di compiti e preoccupazioni che comporta il nuovo tipo d’identità desiderata. Nel mondo in cui, secondo l’aforisma così carico di significato di George Steiner, tutti i prodotti culturali vengono valutati per «il massimo impatto e l’immediata obsolescenza», una costruzione destinata a durare per tutta la vita di un’identità progettata a priori significherebbe un vero guaio. Secondo le parole di

Ricardo Petrella, le attuali tendenze globali orientano «le economie verso la produzione dell’effimero e del volubile – attraverso la massiccia riduzione della durata di prodotti e servizi – e del precario (lavori temporanei, flessibili e part-time)» (Petrella, 1997, p. 17). Qualsiasi identità si possa pensare e desiderare deve possedere, proprio come l’attuale mercato del lavoro, l’attributo della flessibilità. Essa deve essere suscettibile di cambiamento quasi senza preavviso o senza alcun preavviso ed essere guidata dal principio di tenere aperte tutte le opzioni, o almeno quante ne sono possibili. Il futuro è destinato ad essere pieno di sorprese, e così il procedere in maniera diversa equivarrebbe ad un’auto-privazione: a voler rinunciare ai vantaggi non ancora conosciuti, solo vagamente intuiti, che potranno dare i futuri meandri del destino, come anche le offerte senza precedenti e impreviste della vita. Le mode culturali entrano in modo dinamico nella pubblica fiera delle vanità, ma diventano anche obsolete e si rendono ridicolmente antiquate in modo anche più rapido di quanto sia necessario per attirare la pubblica attenzione. È meglio, quindi, ritenere ciascuna identità attuale come temporanea, abbracciarla delicatamente, essere certi che essa si dileguerà non appena le braccia si apriranno per abbracciarne in cambio una nuova, più luminosa, o semplicemente non messa alla prova. Forse sarebbe più pertinente parlare di propria identità al plurale: il percorso della vita di moltissimi individui è probabilmente cosparso di identità abbandonate e perdute. Ogni successiva identità ha probabilità di rimanere incompleta e condizionata, e così la difficoltà imprevista è nel modo di tenere lontano il pericolo di una sua ossificazione. Forse anche lo stesso termine «identità» ha perso la sua utilità, poiché esso nasconde più di quanto riveli della più comune esperienza di vita: sempre più spesso le preoccupazioni per una collocazione sociale sono alimentate dalla paura di un’identificazione troppo rigorosa e rigida per poter essere revocata qualora ve ne sia bisogno. Il desiderio d’identità e la paura di soddisfare questo desiderio, l’attrazione e la ripugnanza che il pensiero dell’identità suscita, si fondono e si mescolano fino a produrre un composto di duratura ambivalenza e confusione.

Preoccupazioni di questo tipo vengono molto meglio servite dal volubile, infinitamente fantasioso ed imprevedibile mercato dei beni di consumo. Che vengano previsti per un consumo duraturo o per uno momentaneo, i beni di consumo non sono destinati, per definizione, a durare per sempre: non c’è alcuna somiglianza, qui, con «il lavoro destinato a durare per tutta la vita», o con «professioni a vita». I beni di consumo sono destinati ad essere usati e a scomparire; l’idea della temporaneità e transitorietà è intrinseca nella loro stessa denominazione come oggetti di consumo; i beni di consumo hanno il memento mori scritto su di essi, anche se con un inchiostro invisibile. E così c’è una specie d’armonia o risonanza prestabilita tra queste qualità dei beni di consumo e l’ambivalenza caratteristica delle preoccupazioni legate all’identità del momento. Le identità, proprio come i beni di consumo, debbono essere fatte proprie e possedute, ma solo per poter essere consumate, e così scomparire di nuovo. Come nel caso dei beni di consumo comprati al mercato, il consumo di un’identità non dovrebbe – non deve – estinguere il desiderio di altre identità nuove e migliorate, né precludere la possibilità di assimilarle. Essendo questo il loro requisito essenziale, non c’è molta utilità nel cercare quanto serve al di fuori del mercato. Le «identità componibili» (aggregate identities ), messe liberamente insieme con gli elementi acquistabili, di durata non eccessiva, facilmente separabili e totalmente sostituibili, attualmente disponibili nei negozi, sembrano essere esattamente ciò di cui si ha bisogno per far fronte alle sfide del vivere contemporaneo. Se questo è ciò su cui viene utilizzata l’energia sprigionata dai problemi d’identità, allora non sono necessari specifici meccanismi sociali di «regolamentazione normativa» o di «mantenimento strutturale»; essi non sembrano neppure desiderabili. I tradizionali ed esaurienti metodi di esercizio pratico risulterebbero chiaramente incompatibili con i compiti del consumatore e si rivelerebbero disastrosi per la società organizzata attorno al desiderio e alla scelta. Ma potrebbe andare un po’ meglio qualsiasi altro metodo alternativo di regolamentazione normativa? Non è forse la stessa idea di regolamentazione normativa, almeno su scala globale che interessa

tutta la società, una cosa del passato? Il «far lavorare la gente», una volta così fondamentale in una società di lavoratori, non è qualcosa che è sopravvissuto alla sua utilità nella società di consumatori? L’unico scopo di qualsiasi norma è quello di usare l’azione umana di libera scelta per limitare o eliminare del tutto la libertà di scelta; per escludere decisamente o cancellare completamente ogni possibilità, tranne una: quella promossa dalla norma. Ma l’effetto secondario dell’uccidere la possibilità di scelta, e particolarmente della scelta più abominevole dal punto di vista della regolamentazione normativa, instauratrice di ordine – una scelta volubile, capricciosa e facilmente revocabile – equivarrebbe all’uccidere il consumatore nell’essere umano; il più spaventoso disastro che possa capitare ad una società accentrata sul mercato. La regolamentazione normativa è in tal modo «non funzionale» e quindi indesiderabile per la perpetuazione, il facile funzionamento e la prosperità di un mercato dei consumi, ma appare anche spiacevole ai suoi clienti. Gli interessi dei consumatori e degli operatori di mercato vengono qui a coincidere; in una forma curiosa ed imprevista si avvera il messaggio trasmesso dal vecchio adagio: «ciò che è buono per la General Motors è buono per gli Stati Uniti» (con una clausola limitativa: gli Stati Uniti non sono altro che un aggregato dei suoi cittadini). Lo «spirito del consumatore», proprio come le compagnie commerciali che prosperano su di esso, si ribella a qualsiasi regolamentazione. Una società di consumatori prova risentimento contro ogni restrizione legale imposta sulla libertà di scelta, contro ogni messa al bando di potenziali oggetti di consumo, e manifesta questo suo risentimento con un diffuso sostegno offerto ai provvedimenti che mirano soprattutto ad abrogare regole (deregulatory measures ). Un analogo risentimento viene mostrato nei confronti dell’approvazione finora inaudita data negli Stati Uniti ed altrove alla riduzione dei servizi sociali – prestazioni amministrate e garantite dall’autorità centrale dello Stato destinate a provvedere ai bisogni della collettività – sempre che la riduzione vada di pari passo con l’abbassamento delle tasse. Lo slogan «più denaro nelle tasche dei

contribuenti», così popolare negli schieramenti politici di sinistra e di destra da non essere più oggetto di seri contrasti, fa appello al dovere dei consumatori di esercitare la possibilità di scelta, un dovere già interiorizzato e rimodellato nella prospettiva professionale dell’esistenza. La promessa di più denaro lasciato nelle tasche dopo aver pagato le tasse risulta attraente per l’elettorato non tanto per la promessa di maggiori consumi, quanto invece per la prospettiva di maggiori possibilità di scelta di ciò che deve essere consumato, di un maggiore desiderio di fare acquisti e di scegliere; proprio a questa promessa di una possibilità di scelta più frequentemente esercitata si deve, a quanto si ritiene, la sua straordinaria forza di seduzione. Per ogni intento e scopo pratico, ciò che conta sono i mezzi, non il fine. Soddisfare la tendenza del consumatore significa una maggior possibilità di scelta, al di là del fatto che questa abbia come risultato un maggiore consumo. Accettare la caratteristica propria del consumatore significa innanzitutto e soprattutto innamorarsi della possibilità di scelta; solo in secondo, e niente affatto indispensabile, luogo, questo significa consumare di più.

Il lavoro così come viene giudicato dall’estetica I produttori possono soddisfare la loro tendenza solo collettivamente; la produzione è un’impresa collettiva, presuppone la divisione di compiti, la cooperazione degli operatori ed il coordinamento delle loro attività. Certe azioni parziali possono essere eseguite talvolta singolarmente ed in solitudine, ma anche il farle collimare con altre azioni che convergono sulla creazione del prodotto finale rimane la parte fondamentale del compito e costituisce il pensiero sovrastante di chi le esegue. I produttori stanno insieme anche quando agiscono separatamente. Il lavoro di ciascuno può trarre guadagno solo da una maggiore comunicazione, armonia e integrazione inter-individuale. I consumatori sono semplicemente l’opposto. Il consumo è un’attività completamente individuale, solitaria, ed in ultima analisi

isolata; un’attività che viene realizzata spegnendo e suscitando, placando e stimolando un desiderio che è sempre una sensazione privata e non facilmente comunicabile. Non esiste qualcosa che possa dirsi «consumo collettivo». È vero che i consumatori possono trovarsi insieme nel corso del consumo, ma anche allora il consumo effettivo rimane un’esperienza completamente isolata, individualmente vissuta. Il trovarsi insieme non fa che sottolineare la natura privata dell’atto di consumare e ne accresce il piacere. Lo scegliere è più gratificante se viene eseguito in compagnia di altri individui che scelgono, preferibilmente all’interno di un tempio dedicato al culto dello scegliere e gremito di adoratori della possibilità di scegliere; sta qui uno dei principali piaceri dell’andare a cena in un ristorante molto frequentato, del girarsi attorno in un affollato centro commerciale o in un parco di divertimenti, dell’amore di gruppo. Ma ciò che viene congiuntamente esaltato in tutte queste e simili scelte è l’individualità della scelta e del consumo. L’individualità di ciascuna scelta viene riaffermata e riconfermata dal fatto di essere replicata dalle azioni scimmiottate della folla di coloro che scelgono. Se non fosse così, il consumatore non avrebbe nulla da guadagnarci dal consumare in compagnia. L’azione del consumare è un nemico naturale di ogni coordinamento e integrazione. È anche immune dalla loro influenza, dato che rende tutti i tentativi di aggregazione inefficaci nel superare la solitudine endemica dell’atto di consumare. I consumatori sono soli anche quando agiscono insieme. La libertà di scegliere determina la scala di stratificazioni della società dei consumi, e quindi anche la struttura in cui i suoi membri, i consumatori, inseriscono le aspirazioni della propria vita: una struttura che stabilisce la direzione degli sforzi tesi al miglioramento di se stessi e racchiude l’immagine del «viver bene». Quanta più libertà di scelta si possiede, e soprattutto quanta più possibilità di scelta si esercita liberamente, tanto più in alto si viene collocati nella gerarchia sociale, tanto più vicini si arriva all’ideale del «viver bene». Contano, ovviamente, la ricchezza e il reddito; senza di loro, la possibilità di scelta è limitata o del tutto negata. Ma il ruolo della ricchezza e del reddito come capitale , cioè il denaro che serve innanzitutto e

soprattutto a trasformarsi in più denaro, retrocede in una posizione secondaria ed inferiore se non scompare completamente dalla vista (e dall’insieme delle motivazioni). Il significato principale della ricchezza e del reddito è nell’estendersi della gamma delle possibilità di scelta del consumatore. Ammassare, risparmiare o investire avrebbero senso unicamente per la loro promessa di un futuro ampliamento delle possibilità di scelta del consumatore. Ma non sono queste le opzioni previste per la gran massa dei comuni consumatori, e se esse fossero abbracciate da una maggioranza di consumatori, verrebbero a significare un disastro. L’aumento dei risparmi e la riduzione degli acquisti a credito sono cattive notizie; l’aumento del credito dei consumatori è accolto come il segno sicuro che «le cose si muovono nella giusta direzione». Una società dei consumi non prenderebbe alla leggera un invito a ritardare la gratificazione. Una società dei consumi è una società di carte di credito, non di libretti di risparmio. Essa è una società «adesso». Una società «che vuole», non una società «che aspetta» [la traduzione italiana non rende con la stessa efficacia la contrapposizione «wanting»-«waiting» del testo inglese, N.d.T. ]. Di nuovo, non c’è bisogno di una «regolamentazione normativa» con la sua funzione disciplinatrice e l’onnipresente azione di controllo che l’accompagnano, per rendere sicuri che le necessità umane vengono sfruttate a beneficio degli operatori di mercato, né alcun bisogno di riplasmare le «esigenze dell’economia», l’economia dei benidi-consumo, per adeguarsi ai desideri dei consumatori. Saranno sufficienti la seduzione, l’ostentazione di miracoli non provati, la promessa di sensazioni non ancora sperimentate ma che rimpiccoliscono e mettono in ombra tutto ciò che è stato provato prima. Purché, ovviamente, il messaggio arrivi ad orecchie ricettive e gli occhi si accentrino su cose che facciano presagire emozioni nell’esaminare i segnali. Il consumo, il consumo sempre più vario e ricco, deve apparire ai consumatori come un diritto di cui godere, non un compito da eseguire. I consumatori debbono essere guidati da interessi estetici, non da norme etiche. All’estetica, non all’etica, si ricorre per integrare la società dei

consumatori, per tenerla in corsa, e per salvarla continuamente da crisi. Se l’etica attribuisce supremo valore ad un compito ben eseguito, l’estetica incoraggia un’esperienza sublime. L’esecuzione di un compito ha una sua logica interna, che si estende nel tempo, e così struttura il tempo, gli dà una direzione, dà un senso a certe nozioni come accumulazione graduale o ritardo della realizzazione. La ricerca di un’esperienza, invece, non ha un buon motivo per essere rinviata, poiché dal ritardo non deriverebbe se non «un’occasione sciupata». L’occasione di un’esperienza non esige né giustifica una motivazione, poiché essa arriva inaspettata e svanisce se non viene immediatamente afferrata (svanendo, per la verità, subito dopo essere stata afferrata). L’occasione di un’esperienza è qualcosa da prendere al volo. Non c’è uno speciale momento particolarmente adatto per farlo. Un momento non differisce, sotto questo aspetto, da un altro; ciascun momento è egualmente buono – «maturo» – a questo scopo. Inoltre, la scelta del momento è l’unica scelta non disponibile per coloro che hanno scelto di fare scelte come loro modo di vita. Non spetta al consumatore decidere quando possa nascere l’occasione di un’esperienza emozionante, e così egli deve essere sempre pronto ad aprire la porta e ad accoglierla. Egli deve essere costantemente in allerta, continuamente in grado di apprezzare la possibilità di scelta quando essa viene e di fare tutto ciò che è necessario per valorizzarla nel modo migliore. Se la società del produttore è essenzialmente platonica, in una ricerca di regole infrangibili e di modelli definitivi delle cose, la società del consumatore è aristotelica: pragmatica, flessibile, sempre fedele al principio di non preoccuparsi di attraversare il ponte prima (ma neppure dopo) di esservi giunto. L’unica iniziativa lasciata ad un consumatore assennato è quella di essere sul posto dove si sa che le occasioni sono frequenti ed esservi nel momento in cui si sa che sono particolarmente numerose. Una tale iniziativa è possibile solo con una saggezza che somigli alla prudenza (phronesis ), fatta di regole basate sull’esperienza pratica, e non di ricette garantite e calcoli algoritmici. Essa esige quindi molta fiducia, e soprattutto ha bisogno di porti sicuri dove la fiducia possa essere sicuramente ancorata. Non meraviglia che

una società dei consumi sia anche un paradiso di consigli e di pubblicità, come anche un terreno fertile per profeti, indovini, venditori ambulanti di pozioni magiche e distillatori di pietre filosofali. In breve, oggi domina l’estetica del consumo, mentre in passato dominava l’etica del lavoro. Per il discente che frequenta con successo la scuola del consumismo, il mondo è un’immensa matrice di possibilità, di intense e sempre più intense sensazioni, di profonde e ancora più profonde esperienze (nel senso trasmesso dal concetto tedesco di Erlebnis , in quanto distinto da Erfahrung ; entrambi i termini tradotti in inglese con la parola experience [«esperienza»]. Parlando approssimativamente, Erlebnis è «ciò attraverso cui io passo», mentre Erfahrung è «ciò che mi accade»). Il mondo e tutti gli elementi di cui è composto vengono giudicati per la loro capacità di provocare sensazioni ed Erlebnisse : la capacità di suscitare il desiderio, la fase più piacevole delle ricerche nelle quali è impegnata la vita del consumatore, più gratificante della soddisfazione in se stessa. Proprio secondo la quantità variabile di tale capacità vengono indicati oggetti, eventi e individui sulla carta topografica; la carta topografica del mondo è, nel suo uso più frequente, più estetica che cognitiva e morale. Lo status occupato dal lavoro, o più precisamente dalla professione esercitata, non potrebbe essere che profondamente influenzato dall’attuale rilevanza dei criteri estetici. Come abbiamo già visto, il lavoro ha perduto la sua posizione privilegiata: quella di un asse attorno al quale ruotano tutti gli altri sforzi per plasmare se stessi e per costruire la propria identità. Ma il lavoro ha anche cessato di essere il centro focale di un’attenzione etica particolarmente intensa, nel senso di essere una strada preferita per arrivare al miglioramento, al pentimento e alla redenzione morale. Come altre attività della vita, il lavoro è ormai sottoposto, innanzitutto e soprattutto, ad un esame estetico. Il suo valore viene giudicato secondo la sua capacità di generare un’esperienza piacevole. Il lavoro privo di tale capacità – che non offre una «gratificazione intrinseca» – è anche un lavoro privo di valore. Altri criteri (anche il suo influsso che si suppone moralmente

nobilitante) non possono reggere al confronto e non sono abbastanza efficaci da salvare il lavoro dalla condanna in quanto inutile o addirittura umiliante per il collezionista esteticamente guidato di sensazioni.

Professione come privilegio Non vi è nulla di particolarmente nuovo per quanto riguarda occupazioni largamente differenti nella loro capacità di causare gratificazione. Alcune occupazioni sono state sempre ricercate in quanto pienamente gratificanti e «realizzanti», mentre molte altre sono state sofferte come un lavoro lungo e ingrato. Certe occupazioni erano «piene di significato» e si prestavano più facilmente di altri tipi di lavoro ad essere considerate come una professione, fonte d’orgoglio e di autostima. Comunque, l’importante era che dal punto di vista etico non c’era occupazione per la quale si potesse seriamente sostenere che fosse priva di valore e umiliante; ogni lavoro accresceva la dignità umana ed ogni lavoro serviva in egual misura la causa della correttezza morale e del riscatto spirituale. Dal punto di vista dell’etica del lavoro, ogni lavoro – lavoro in quanto tale – «rendeva umani», al di là delle soddisfazioni immediate (o della loro assenza) esso potesse avere in serbo per chi lo esercitava. In termini etici, la sensazione di un dovere compiuto era la soddisfazione più diretta, decisiva e in definitiva sufficiente, che il lavoro potesse arrecare, e sotto questo aspetto tutti i tipi di lavoro erano eguali. Anche la sensazione avvincente e inebriante di autorealizzazione sperimentata dai pochi fortunati che potevano vivere il loro mestiere o la loro professione come una vera vocazione, come una missione secolare, per così dire, veniva generalmente attribuita alla stessa consapevolezza del «dovere ben compiuto» che era in linea di massima comune a chi eseguiva qualsiasi lavoro, anche il più umile e meno impegnativo. L’etica del lavoro trasmetteva un messaggio d’eguaglianza; essa minimizzava le differenze altrimenti ovvie tra occupazioni, le loro potenzialità di gratificazione, le loro capacità di conferire dignità di status e prestigio,

come anche i benefici materiali che offrivano. Non così l’analisi valutativa estetica del lavoro. Questa mette in risalto la distinzione, esagera le differenze ed innalza certe professioni al rango di oggetti avvincenti e raffinati dell’esperienza estetica, anzi artistica, mentre nega del tutto ad altri tipi di occupazioni remunerate che assicurano il sostentamento qualsiasi valore. Le professioni «elevate» richiedono le stesse qualità che sono richieste per la valutazione dell’arte: buon gusto, raffinatezza, discernimento, dedizione disinteressata e molta preparazione. Gli altri tipi di lavoro sono considerati come così uniformemente spregevoli e privi di valore che neppure con uno sforzo d’immaginazione essi possono diventare oggetto di scelta volontaria e spontanea. Si possono probabilmente eseguire lavori di questo genere solo per necessità e solo se viene negato l’accesso a qualsiasi altro mezzo di sopravvivenza. Le occupazioni appartenenti alla prima categoria sono «interessanti»; le occupazioni appartenenti alla seconda categoria sono «noiose». Queste due concise sentenze contengono in sé complessi criteri estetici che contribuiscono alla loro solidità. Il loro tono reciso che rende «non necessaria una difesa» e «non consente ricorsi» contiene una testimonianza indiretta al potere del principio estetico che si sta ormai diffondendo in tutto il mondo del lavoro, che in passato era territorio dell’etica. Come qualsiasi altra cosa che possa ragionevolmente sperare di diventare obiettivo di desiderio ed oggetto di libera scelta da parte del consumatore, le occupazioni debbono essere «interessanti»: non monotone, eccitanti, che tengano conto dello spirito d’avventura, contengano certe (anche se non eccessive) dosi di rischio e forniscano occasione a sensazioni sempre nuove. Le occupazioni che sono monotone, ripetitive, di routine , prive di spirito d’avventura, che non consentono slanci d’iniziativa, non promettono sfide alla capacità d’intuito né una possibilità di auto-verifica e di auto-affermazione, sono «noiose». Nessun consumatore esperto acconsentirebbe coscientemente ad intraprenderle di propria volontà, a meno che non venga a trovarsi in una situazione di non scelta (cioè, a meno che la propria identità in quanto consumatore, in quanto individuo libero di scegliere, gli sia stata già tolta, strappata o negata in

altro modo). Simili occupazioni sono prive di valore estetico, e per questa ragione hanno scarsa possibilità di diventare professioni in una società di collezionisti d’esperienze. L’importante è, tuttavia, che nel mondo dove regnano sovrani i criteri estetici le occupazioni in questione non abbiano neppure conservato il presunto valore etico che avevano in passato. Esse verrebbero scelte spontaneamente solo da individui ancora non integrati nella società dei consumi e non convertiti al consumismo, e quindi soddisfatti di vendere il proprio lavoro in cambio della semplice sopravvivenza (è possibile affermare che rientrano in questa categoria la prima generazione d’immigrati e di «lavoratori forestieri» da paesi poveri, o i cittadini di paesi poveri attirati in fabbriche messe su con capitale straniero che si sposta alla ricerca di lavoro a buon mercato). Altri individui debbono essere costretti ad accettare occupazioni che non offrono una gratificazione estetica. La rude coercizione che una volta si nascondeva sotto l’apparenza ingannevole dell’etica del lavoro ora appare senza maschera e apertamente. La seduzione e la stimolazione dei desideri, veicoli per altro infallibilmente efficaci d’integrazione/motivazione di una società dei consumi, non hanno in tal caso alcuna rilevanza e incisività. Per poter riempire i posti di occupazioni che non superano l’esame estetico con individui già convertiti al consumismo, si deve ri-creare una situazione di non scelta, di costrizione e di lotta per la semplice sopravvivenza. Questa volta, tuttavia, senza la grazia salvifica di una nobilitazione morale. Come la libertà di scelta e la mobilità, il valore estetico del lavoro si è trasformato in un efficace fattore di stratificazione nella società dei consumi. Lo stratagemma non è più quello di limitare il tempo lavorativo al minimo essenziale, lasciando così più spazio al tempo libero, ma, al contrario, quello di cancellare completamente la linea divisoria tra «professione» e «occupazione secondaria» [il senso di questa contrapposizione viene reso in modo più brillante dai termini inglesi usati dall’autore: vocation per «professione» e avocation per «occupazione secondaria», N.d.T. ], tra occupazione e hobby , tra lavoro e ricreazione; è lo stratagemma d’innalzare il lavoro stesso al rango di

divertimento supremo e più gratificante. Un’occupazione che risulti divertente è un privilegio intensamente desiderato. E coloro che ne risultano privilegiati si gettano a capofitto nelle opportunità di forti sensazioni e di esperienze eccitanti che tali occupazioni offrono. I «maniaci del lavoro» senza ore fisse, preoccupati che si mettano in discussione le loro occupazioni ventiquattro ore al giorno e sette giorni a settimana, possono essere trovati oggi non tra gli schiavi, ma in mezzo all’élite dei fortunati e di coloro che hanno successo. Il lavoro che sia ricco di esperienze gratificanti, il lavoro come auto-realizzazione, il lavoro come significato di vita, il lavoro come il centro o l’asse attorno al quale gira tutto ciò che conta, come fonte di orgoglio, di auto-stima, onore e deferenza o notorietà, in breve, il lavoro come professione , è divenuto il privilegio di pochi, un segno distintivo dell’élite , un modo di vivere che gli altri possono guardare con soggezione, ammirare e contemplare a distanza, ma sperimentare solo indirettamente attraverso scadenti prodotti della fantasia (pulp fiction ) e la realtà virtuale di un docu-drama televisivo [film di soggetto documentario con elementi di fiction , N.d.T. ]. A questi altri non viene data alcuna possibilità di vivere completamente il loro lavoro nel modo in cui vengono vissute le professioni. Il «mercato del lavoro flessibile» non offre né permette impegno e dedizione ad alcuna delle occupazioni attualmente esercitate. Attaccarsi al lavoro in cui si è impegnati, innamorarsi di ciò che il lavoro richiede a chi lo esercita di fare, identificare il proprio posto nel mondo con il lavoro eseguito o con le capacità che vi vengono dispiegate, significa diventare ostaggi del destino; ciò non è né probabile né raccomandabile, data la natura di breve durata di ogni impiego e la clausola «fino ad ulteriore avviso» contenuta in ogni contratto. Per la maggioranza degli individui diversi dai pochi privilegiati, nel mercato del lavoro flessibile dei nostri giorni, abbracciare il proprio lavoro come una professione comporta dei rischi e costituisce qualcosa che si presta ad un disastro psicologico ed emotivo. In queste circostanze, le esortazioni alla diligenza e alla dedizione suonano insincere e vuote, e gli individui ragionevoli farebbero bene a

percepirle come tali: a rendersi conto delle insidie di un’apparente professione nella partita che giocano i loro padroni. I padroni, a dire il vero, non si aspettano che i loro dipendenti credano di capire ciò che essi dicono; essi desiderano soltanto che entrambe le parti fingano di credere che la partita si svolga sul serio, e si comportino conseguentemente. Dal punto di vista dei padroni, l’indurre i dipendenti a considerare seriamente la finzione di un modello professionale per il loro impiego significa instillare una preoccupazione che si manifesterà ogni qualvolta si verificherà il successivo esercizio di «ridimensionamento» o un altro accesso di «razionalizzazione». Un successo a breve termine di discorsi moraleggianti si dimostrerebbe in ogni caso, a lungo andare, controproducente, poiché distoglierebbe l’attenzione degli individui da quella che dovrebbe essere la loro vera professione, cioè la loro ricerca di consumatori. Tutto questo complesso intrecciarsi di ciò che «si deve» e «non si deve fare», di sogni e dei loro costi, di inviti ad arrendersi e di ammonimenti a non cadere in simili trappole, viene offerto al pubblico affamato di professionalità come uno spettacolo. Vediamo grandi personaggi dello sport o altre star che raggiungono il vertice della loro capacità professionale, ma si arrampicano a tali altezze di successo e di fama a costo di vuotare la propria vita di qualsiasi cosa ostacoli la via di tale successo. Essi si negano tutti i piaceri che la gente comune tiene in gran conto. Il loro successo ha tutti i sintomi di essere reale. Difficilmente vi è un’arena meno controversa e più convincente, in cui la «qualità reale» viene sottoposta a verifica, della pista d’atletica o del campo da tennis. E chi metterebbe in dubbio la bravura di un cantante che si riflette nel delirio tumultuante di teatri gremiti? In questo pubblico spettacolo, sembra non esserci spazio per finzioni, truffe, simulazioni, intrighi dietro-le-quinte. Tutto questo avviene sul serio, perché chiunque possa vederlo e giudicarlo. La rappresentazione teatrale della professione viene recitata dal principio alla fine all’aperto, di fronte a folle fedeli. (O almeno così sembra. La verità, l’attendibilità della rappresentazione, richiede in realtà che si dia molto spazio alla stesura di un copione e all’allestimento).

I santi del culto della celebrità debbono essere, come tutti i santi, ammirati e considerati come un esempio, ma non emulati. Essi incarnano, nello stesso tempo, l’ideale di vita e la sua irraggiungibilità. Le stelle dello stadio e della scena sono tutte eccessivamente ricche. Ovviamente, la loro dedizione e abnegazione portano i frutti dei quali il lavoro-vissuto-come-una-professione ha fama di essere fecondo; le somme sbalorditive che, a quanto viene raccontato, vengono date in premio ai vincitori dei campionati di tennis, di golf, di biliardo o di scacchi, o per gli ingaggi dei calciatori, fanno parte essenziale del culto, così come il racconto di miracoli compiuti o le storie di martirio subìto lo furono nel culto dei santi della fede e della pietà. Ciò cui i santi del culto della celebrità rinunciano in cambio è, comunque, tanto agghiacciante quanto i guadagni sono sbalorditivi. Uno dei costi è la fugacità della loro gloria. Le stelle spuntano su in cielo dal nulla e a questo nulla sono destinate; in esso svaniranno. Non meraviglia che proprio gli uomini e le donne dello sport vengano ritenuti i migliori attori di quella rappresentazione teatrale chiamata «moralità» (morality plays ) qual è la professione; è proprio nella natura del loro successo che esso debba essere effimero, un episodio tanto breve e fuggevole quanto la giovinezza in se stessa. Così come viene esibito da donne e uomini dello sport, il lavoro-vissuto-come-unaprofessione è autodistruttivo, una vita verso una rapida fine. La professione può essere molte cose, ma ciò che non è nella maniera più enfatica – comunque non in questa interpretazione – è una proposta per il progetto di vita, o una strategia per l’intera esistenza. Così come viene mostrata dalle stelle, la professione è, come qualsiasi altra esperienza nella vita dei collezionisti di sensazioni dell’epoca postmoderna, un episodio . I «santi puritani» di Weber, che vivevano la loro vita di lavoro come impegno profondamente etico, come adempimento dei comandamenti divini, non potevano vedere il lavoro degli altri – qualsiasi lavoro – se non come qualcosa connesso essenzialmente con la moralità. L’élite di oggi tende altrettanto naturalmente a vedere ogni lavoro come qualcosa connesso principalmente con la gratificazione estetica. Per quanto riguarda la realtà della parte più in basso della

gerarchia sociale, questa concezione, proprio come quella che la precedette, rappresenta un grossolano travisamento. Tuttavia, consente di credere che la «flessibilità» volontaria della condizione lavorativa liberamente ed entusiasticamente scelta da coloro che si trovano in alto, e, una volta scelta, mantenuta con cura e diligentemente protetta, debba essere un beneficio molto modesto per chiunque altro, compresi coloro per i quali la «flessibilità» significa non tanto libertà di scelta, autonomia e diritto all’autoaffermazione, quanto invece mancanza di sicurezza, sradicamento forzato ed un futuro incerto.

Essere poveri in una società dei consumi Nei suoi giorni tranquilli, nella società dei produttori, l’etica del lavoro arrivava ben oltre lo spazio riservato alla fabbrica e le pareti degli ospizi per i poveri. I suoi precetti ispirarono la visione di una società giusta e adeguata ancora da realizzare, e fino a quel momento servirono come l’orizzonte in rapporto al quale, in quell’epoca, si orientavano i movimenti e si valutava criticamente lo stato delle cose. La visione della condizione definitiva da raggiungere fu quella di una piena occupazione, di una società formata unicamente da lavoratori. La «piena occupazione» venne a trovarsi nella posizione abbastanza ambigua di essere nello stesso tempo un diritto e un dovere. Dipendentemente da quale parte del «contratto d’assunzione del lavoro» fosse invocato il principio, veniva alla ribalta una o l’altra delle sue due modalità; ma, come accade per tutte le norme, entrambi gli aspetti dovevano essere presenti per assicurare il controllo completo di entrambi gli aspetti. L’idea della piena occupazione come caratteristica indispensabile di una «società normale» implicava sia un dovere universalmente e spontaneamente accettato che una volontà comunemente condivisa innalzata al rango di diritto universale. Il definire la norma definisce anche l’anormale. L’etica del lavoro incluse l’anormalità nel fenomeno della disoccupazione: «anormale» era il non lavorare. Come ci si poteva aspettare, la persistente presenza

dei poveri venne generalmente spiegata alternativamente con la scarsità del lavoro o con la scarsa volontà di lavorare. I messaggi come quelli di Charles Booth o Seebohm Rountree – che si può rimanere poveri anche con una piena occupazione, e che quindi il fenomeno della povertà non può essere spiegato con l’insufficiente diffusione dell’etica del lavoro – suscitarono nell’opinione illuminata britannica una forte impressione. Lo stesso concetto di «lavoratori poveri» aveva tutte le caratteristiche di un’evidente contradictio in terminis , certamente fino a quando l’accettazione universale dell’etica del lavoro figurò nella maniera più notevole nel pubblico pensiero sui problemi sociali e continuò ad essere considerata come il toccasana per tutti i mali sociali. A mano a mano che il lavoro si spostò gradualmente dalla sua posizione centrale del punto d’incontro tra le motivazioni individuali, l’integrazione sociale e la riproduzione sistematica, l’etica del lavoro – come abbiamo già notato – venne lentamente retrocessa di grado dalla sua funzione di supremo principio regolatore. Ormai essa si era tirata indietro o era stata estromessa da molte aree della vita sociale e individuale che in precedenza disciplinava direttamente o indirettamente. La parte non-lavoratrice della popolazione rimase forse il suo ultimo rifugio, o piuttosto la sua ultima possibilità di sopravvivenza. Dare la colpa della miseria dei poveri alla loro mancanza di volontà di lavorare, e quindi l’accusarli di depravazione morale e presentare la povertà come la punizione per il peccato, fu l’ultimo servizio che l’etica del lavoro prestò nella nuova società dei consumi. Per la maggior parte della storia umana lo stato di povertà ha significato un rischio diretto per la sopravvivenza fisica: la minaccia di morte per fame, per malattie prive di assistenza medica o per mancanza di un qualsiasi riparo. Essa continua a significare tutti questi pericoli in molte parti del globo. Anche quando la condizione dei poveri viene innalzata al di sopra del livello di pura sopravvivenza, la povertà significa sempre malnutrizione, inadeguata protezione contro i capricci del clima, e l’essere senza tetto: tutti elementi definiti in rapporto a ciò che una data società percepisce come norme adeguate

per quanto riguarda nutrizione, vestiario e alloggio. Il fenomeno della povertà non si riduce, tuttavia, alla privazione materiale e alla sofferenza fisica. La povertà è anche una condizione sociale e psicologica: poiché la proprietà dell’esistenza umana viene misurata sulla base dei livelli di vita decorosa praticati da una determinata società, l’incapacità di mantenere questi livelli è in se stessa una causa di sofferenza, di angoscia e di umiliazione di se stessi. La povertà significa essere esclusi da qualsiasi cosa passi per «vita normale». Significa «non essere all’altezza». Ciò ha come risultato una diminuzione dell’auto-stima, sensi di vergogna e sensi di colpa. La povertà significa anche essere tagliati fuori dalle possibilità di qualsiasi cosa in una determinata società passi per «vita felice», non prendere «ciò che la vita offre». Ciò ha come risultato il risentimento e l’irritazione, che traboccano nella forma di atti violenti, di autobiasimo, o di entrambi. In una società dei consumi, una «vita normale» è la vita di consumatori, preoccupati di fare le loro scelte tra le mille possibilità pubblicamente messe in mostra di sensazioni piacevoli e d’intense esperienze. Una «vita felice» viene definita dal cogliere al volo molte opportunità e dal non lasciarsene sfuggire se non poche o nessuna affatto, dal cogliere al volo le opportunità delle quali più si parla e che risultano le più desiderate, e coglierle al volo non più tardi di altri, e preferibilmente prima. Come in tutti gli altri tipi di società, i poveri di una società dei consumi sono individui senza possibilità d’accesso ad una vita normale, tanto meno ad una vita felice. In una società dei consumi, tuttavia, il non avere accesso ad una vita felice o semplicemente normale significa essere consumatori manquées [mancati] o consumatori imperfetti. E così i poveri di una società dei consumi vengono socialmente definiti, e si autodefiniscono, innanzitutto e soprattutto come consumatori insufficienti, imperfetti, difettosi e manchevoli, cioè, in altre parole, inadeguati. In una società dei consumi, è soprattutto l’inadeguatezza dell’individuo come consumatore a portare al degrado sociale e all’«esilio interiore». Proprio questa inadeguatezza, questa incapacità di assolvere il compito di consumatore, si trasforma in amarezza per

essere lasciato indietro, diseredato o degradato, chiuso fuori o escluso dalla festa sociale alla quale altri hanno ottenuto l’ingresso. Il superare questa inadeguatezza del consumatore deve essere vista forse come l’unico rimedio, l’unica via d’uscita da una condizione umiliante. Come hanno scoperto Peter Kelvin e Joanna E. Jarrett nel loro studio pionieristico sugli effetti socio-psicologici della disoccupazione in una società dei consumi, un aspetto della situazione è particolarmente penoso per gli individui senza un lavoro: una «quantità apparentemente senza fine di tempo libero», associata alla loro «incapacità di farne uso». «Gran parte della propria vita quotidiana risulta non strutturata», ma i disoccupati non hanno mezzi per strutturarla in un qualsiasi modo che, per comune riconoscimento, abbia un senso, sia gratificante, o tale da valerne la pena: Sentirsi segregati in casa è una delle più frequenti lamentele dei disoccupati...; il disoccupato non solo si vede come annoiato e frustrato, [ma] il vedersi così (come anche l’esserlo effettivamente) lo rende anche irritabile. L’irritabilità diventa una caratteristica normale dell’esistenza quotidiana del disoccupato (Kelvin-Jarrett, 1985, pp. 67-69).

Dai giovani disoccupati (uomini e donne) da lui interpellati Stephen Hutchens ottenne i seguenti resoconti circa le loro sensazioni sul tipo di vita che conducevano: «Ero annoiato, mi sentivo facilmente depresso; quasi tutto il tempo me ne stavo semplicemente seduto in casa e guardavo il giornale». «Non ho denaro o non ne ho abbastanza. Finisco davvero con l’annoiarmi». «Metto molto da parte, se non vada a vedere gli amici per andare in qualche pub quando abbiamo denaro..., non tanto da vantarcene». Hutchens riepiloga i risultati della sua inchiesta con questa conclusione: «Certamente la parola più comune per descrivere l’esperienza di essere disoccupati è “annoiato”... La noia ed i problemi con il tempo; il non avere “niente da fare”» (Hutchens, 1994, pp. 58, 122). La noia è un motivo di lagnanza per il quale il mondo dei consumi non ha spazio e che la cultura del consumi si è accinta a sradicare. Una vita felice, così come viene definita dalla cultura del consumi, è una vita assicurata contro la noia, una vita in cui costantemente «accade

qualcosa», qualcosa di nuovo, di eccitante, ed eccitante perché nuovo. Il mercato dei consumi, fedele compagno e indispensabile complemento della cultura dei consumi, assicura contro il tedio (spleen ), la noia (ennui ), l’eccessiva saturazione, la malinconia, la svogliatezza (accidia ), il non poterne più (fed up ) o l’essere stanco (blasé ): altrettante afflizioni che una volta ossessionavano la vita dell’opulenza e del benessere. Il mercato dei consumi rende sicuri che nessuno mai può disperare o sentirsi sconsolato per «averlo provato tutto» ed aver così dato fondo a tutti i piaceri che la vita aveva da offrire. Come fece notare Freud prima che cominciasse l’era dei consumi, non esiste una cosa che possa definirsi stato di felicità; noi siamo felici solo per un breve momento quando soddisfiamo un bisogno assillante, ma subito dopo s’insinua la noia. L’oggetto del desiderio perde il suo fascino una volta che la ragione di desiderare sia scomparsa. Il mercato dei consumi, tuttavia, dimostrò di essere più inventivo di quanto Freud fosse immaginativo. Esso fece apparire come per incanto la felicità che Freud considerava irraggiungibile. E lo fece badando a che i desideri fossero suscitati più rapidamente del tempo che ci voleva per placarli, e badando a che gli oggetti del desiderio fossero sostituiti più velocemente del tempo che ci voleva per annoiarsi e stancarsi del loro possesso. Non annoiarsi – mai – è la norma della vita dei consumatori, ed una norma realistica, un obiettivo a portata di mano, in modo tale che coloro che non riescono a colpirlo debbono biasimare solo se stessi, mentre sono nello stesso tempo un facile bersaglio del disprezzo e della condanna degli altri. Per alleviare la noia c’è bisogno di denaro: molto denaro, se si desidera tenere lontano lo spettro della noia una volta per tutte, raggiungere lo «stato di felicità». Il desiderare diventa libero, ma desiderare realisticamente, e così sperimentare il desiderio come uno stato piacevole, richiede dei mezzi. Medicine contro la noia non sono disponibili su prescrizioni del National Health Service (NHS: «Servizio Sanitario Nazionale»). Il denaro consente l’ingresso in luoghi dove i rimedi contro la noia vengono venduti al minuto (come i centri commerciali, i parchi di divertimento o i centri di salute e fitness ); in

luoghi dove la presenza in se stessa rappresenta la più efficace delle pozioni profilattiche per evitare l’insorgere della malattia; in luoghi destinati principalmente a mantenere i desideri accesi, non estinti e inestinguibili, ma profondamente piacevoli grazie alla prevista soddisfazione. E così la noia è il corollario psicologico di altri fattori che si stratificano, specifici per la società dei consumi: libertà ed ampiezza di scelta, libertà di mobilità, capacità di cancellare lo spazio e di strutturare il tempo. Essendo la dimensione psicologica della stratificazione, la noia è probabilmente la sensazione che viene percepita nel modo più penoso e respinta nel modo più adirato da coloro che hanno motivazioni più scarse. Il desiderio disperato di sfuggire alla noia o di mitigarla è probabilmente anche il motivo principale della loro azione. Vi sono scarsissime probabilità, comunque, che la loro azione raggiunga il suo obiettivo. I comuni rimedi contro la noia non sono accessibili a coloro che si trovano in povertà, mentre tutte le contromisure insolite, non regolari o innovative, sono destinate ad essere classificate come illegittime ed attirano su coloro che vi ricorrono i poteri punitivi dei difensori della legge e dell’ordine. Paradossalmente, o non così paradossalmente dopo tutto, il tentare il destino sfidando le forze della legge e dell’ordine può trasformarsi esso stesso, per il povero, nel sostituto favorito delle iniziative ben misurate del ricco consumatore contro la noia, nelle quali la quantità dei rischi desiderati e consentibili fa registrare un prudente equilibrio. Se il carattere costitutivo della condizione del povero è quello di essere un consumatore imperfetto, non è molto ciò che gli abitanti di un quartiere depresso possono fare collettivamente per escogitare modi alternativi di strutturare il proprio tempo, particolarmente in una maniera che, per comune riconoscimento, abbia un senso e sia gratificante. L’accusa di pigrizia, sempre pericolosamente pendente sopra l’abitazione del disoccupato, potrebbe essere smentita (e lo fu specialmente durante la Grande Depressione degli anni Trenta) con l’esagerato, appariscente ed in ultima analisi ritualistico affaccendarsi attorno alla casa: spazzando diligentemente pavimenti, pulendo pareti

e finestre, lavando tendine, gonne e pantaloni dei figli, prendendosi cura dell’orticello dietro la casa. Non vi è nulla, tuttavia, che si possa fare per respingere il marchio e la vergogna di essere un consumatore inadeguato, persino all’interno del ghetto di consumatori altrettanto manchevoli. Lo stare al passo dei modelli esibiti dalla gente circostante non sarà sufficiente, poiché i modelli di proprietà vengono stabiliti, e costantemente innalzati, molto lontano dall’area sotto lo sguardo del vicinato, dai giornali quotidiani e dalla scintillante pubblicità commerciale che appare alla televisione ventiquattro-ore-suventiquattro per la beatitudine del consumatore. Nessuno dei surrogati che l’ingenuità del locale vicinato potrebbe inventare ha probabilità di opporsi alla concorrenza, di garantire l’autogratificazione e di lenire la sofferenza di un’evidente inferiorità. La valutazione della propria adeguatezza come consumatore è controllata da lontano ed il verdetto non può essere impugnato nel tribunale dell’opinione domestica. Come Jeremy Seabrook (1988) ricorda ai suoi lettori, il segreto della società dei nostri giorni è nello «sviluppo di un senso artificialmente creato e soggettivo d’insufficienza», poiché «nulla potrebbe essere più minaccioso» per i suoi princìpi fondamentali del fatto «che la gente dovrebbe dichiararsi soddisfatta di ciò che ha». Ciò che la gente ha viene così minimizzato, denigrato, fatto sembrare piccolo da inopportune ostentazioni fin troppo visibili di consumo smodato da parte dei più ricchi: «I ricchi diventano oggetto di adorazione universale». Si consenta di ricordare che i ricchi che venivano messi in mostra come eroi personali per l’adorazione universale erano generalmente «uomini venuti su dal nulla» (self-made men ), le vite dei quali compendiavano gli effetti benefici dell’etica del lavoro cui si aderiva rigidamente e tenacemente. Questo non è più il caso. L’oggetto d’adorazione ora è la ricchezza in se stessa: la ricchezza come garanzia per uno stile di vita che sia il più fantastico e splendido possibile. Ciò che importa è ciò che si può fare, non ciò che si deve fare o ciò che si è fatto. Universalmente adorata, nelle persone dei ricchi, è la loro meravigliosa capacità di discernere e scegliere il contenuto della loro

vita – i luoghi dove vivere, i partner con i quali vivere – e di cambiare queste cose a proprio piacimento e senza alcuno sforzo. Essi non sembrano mai arrivare a punti di non ritorno; qui non sembra esserci un termine visibile per le loro reincarnazioni; il loro futuro è per sempre più ricco nel contenuto e più allettante del loro passato. Per ultima cosa, ma non la meno importante, ciò che sembra il loro unico interesse è l’ampiezza delle prospettive che la loro ricchezza sembra spalancare. Questi individui sembrano guidati, in effetti, dall’estetica del consumismo; proprio la loro padronanza di questa estetica, non l’obbedienza all’etica del lavoro, non il loro successo finanziario, ma la loro prerogativa d’intenditori, è al centro della loro grandezza e del loro diritto all’ammirazione universale. «I poveri non vivono in una cultura separata da quella dei ricchi», fa notare Seabrook. «Essi debbono vivere nello stesso mondo che è stato ideato a beneficio di coloro che possiedono denaro. E la loro povertà è aggravata dalla crescita economica, proprio così come è intensificata dalla recessione e dalla mancata crescita». Essa è «aggravata dalla crescita economica», si consenta di aggiungere, in un duplice senso. Innanzitutto, qualunque cosa cui si faccia riferimento con il concetto di «crescita economica» nella sua fase attuale, va di pari passo con la sostituzione delle occupazioni fisse con il «lavoro flessibile» e della sicurezza dell’occupazione con «contratti stagionali», incarichi a tempo determinato e assunzioni casuali; con il ridimensionamento, la ristrutturazione e la «razionalizzazione», cose che si riducono tutte ad un taglio del volume dell’occupazione. Niente manifesta tale connessione in modo più spettacolare del fatto che un paese come la Gran Bretagna post-Thatcher, il paese pioniere e che ha difeso nel modo più zelante tutti questi «fattori di crescita», ed il più universalmente acclamato come protagonista del più sorprendente «successo economico» nel mondo occidentale, è stato riconosciuto anche come il luogo della povertà più misera tra i paesi ricchi del globo. L’ultimo «Rapporto sullo Sviluppo Umano», redatto nel contesto del «Programma di Sviluppo» delle Nazioni Unite, trova i poveri della Gran Bretagna più poveri di quelli di qualsiasi altro paese

occidentale o occidentalizzato. Circa un quarto della popolazione anziana in Gran Bretagna vive in povertà, cioè cinque volte di più rispetto ad un paese «economicamente travagliato» come l’Italia, e tre volte di più rispetto ad un paese «che rimane indietro» come l’Irlanda. Un quinto dei bambini britannici vive in povertà, cioè il doppio di quanto si ha in Taiwan o in Italia, e sei volte di più rispetto alla Finlandia. Complessivamente, «la percentuale di poveri con “povertà di reddito” è salita di circa il 60 per cento sotto il governo [della signora Thatcher]» (citato in Lean – Gunnell, 1997). In secondo luogo, mentre i poveri diventano più poveri, i molto ricchi questi modelli di perfezione delle virtù del consumatore – diventano ancora più ricchi. Mentre il quinto più povero in Gran Bretagna, il paese del più recente «miracolo economico», è in grado di comprare meno rispetto ai suoi equivalenti in qualsiasi altro paese importante occidentale, il quinto più ricco risulta tra i più ricchi d’Europa, disponendo di un potere d’acquisto eguale a quello della leggendaria élite ricca giapponese. Quanto più poveri sono i poveri, tanto più alti e tanto più fantasiosi sono i modelli di vita posti di fronte ai loro occhi, da adorare, bramare e desiderare di emulare. E così, il «senso soggettivo d’insufficienza», con tutta la sofferenza dell’ignominia e dell’umiliazione che accompagna tale sentimento, è aggravato da una duplice pressione esercitata dai decrescenti livelli di vita e dalla crescente rispettiva povertà (risultante dal confronto), entrambi rafforzati, più che mitigati, dalla crescita economica nella sua forma attuale, priva di regole, del laissez-faire . Il cielo che è il limite dei sogni del consumatore sale sempre più in alto, mentre le meravigliose macchine volanti sotto controllo pubblico, una volta progettate per innalzare chi si trovava in basso fino al cielo, prima esauriscono la benzina e poi vengono vendute sottocosto nei cantieri di demolizione di linee di condotta «in graduale disuso» o riciclate in macchine della polizia.

Riferimenti bibliografici

Hutchens, S. (1994), Living a Predicament: Young People Surviving Unemployment , Avebury, Aldershot. Kelvin, P. – Jarrett, J. E. (1997), Unemployment: Its Social Psychological Effects , Cambridge University Press, Cambridge. Lean, G. – Gunnell, B. (1997), Uk poverty in worst in the West , in «Independent on Sunday» (15 June). Petrella, R. (1997), Une machine infernale , in «Le Monde diplomatique» (June). Seabrook, J. (1988), The Race for Riches: The Human Cost of Wealth , Marshall Pickering, Basingstoke. Taylor, M. C. – Saarinen, E. (1994), Imagologies: Media Philosophy , Routledge, London. Weber, M. (1976), The Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism , trad. ingl. di T. Parsons, Allen & Unwin, London [trad. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo , Sansoni, Firenze 19834 ]. Wolf, M. (1997), Mais pourquoi cette haine des marchés? , in «Le Monde diplomatique» (June).

11. IL VIAGGIO NON FINISCE MAI: ZYGMUNT BAUMAN PARLA CON PETER BEILHARZ PB : Zygmunt Bauman, la Sua opera mette insieme molte influenze e sollecitazioni...; non c’è una sola indicazione, ma ci troviamo di fronte a diverse presenze. In passato, prima d’incontrarla, pensavo che un posto particolare spettasse forse a Simmel e Gramsci, ma ora mi chiedo se questo posto particolare non spetti ad una triade: Simmel, Gramsci, e Sua moglie, Janina. ZB : Prima di provare a rispondere alla Sua domanda, che – come temo – mi stimolerà ad un’auto-analisi e ad un’autovalutazione, mi consenta di preavvertirla (e di salvarmi l’anima, per il momento): io non credo che gli autori (e questo include me stesso nel ruolo «di autore») siano i migliori, o anche particolarmente affidabili, giudici della «logica dello sviluppo» individuabile nell’opera di cui essi sono autori. È terribilmente difficile separare se stessi dalla propria opera, starsene da parte, guardarla in modo disinteressato e descriverla oggettivamente. Gli autori non sanno mai se le tracce scritte dei loro pensieri corrispondano alle intenzioni originali, e non possono essere sicuri che le intenzioni, anche se la nostra memoria notoriamente selettiva ha fatto del tutto per conservarle nella loro forma originale, apparirebbero plausibili ai lettori del testo (ed anche all’autore in quanto lettore del testo). I pensieri, una volta che si siano cristallizzati in un testo ed abbiano acquisito una forma comunicabile, sembrano spesso «di essersi pensati da soli», d’incamminarsi per la propria strada, piuttosto che essere guidati per mano verso una meta che l’autore aveva scelta e indicata sulla carta prima che il viaggio avesse inizio. In poche parole: il modo in cui il pensiero viene esposto o interpretato è altrettanto buono (se non migliore) di quello mio. Non si deve confondere il concetto di

«autore» (authorial ) con quello di «autorevole» (authoritative ), si deve trattare l’esposizione dell’autore come deve essere trattata: cioè come un’interpretazione che aspetta di essere interpretata ed anche criticamente analizzata e discussa... Dopo aver detto questo e liberato la mia coscienza, debbo ammettere che i risultati della Sua opera investigativa mi appaiono convincenti. Sì, Gramsci, Simmel, e Janina: Gramsci mi ha detto che cosa , Simmel come , Janina per che cosa . Gramsci mi ha immunizzato una volta per tutte contro quei bacilli che causano la paralisi cerebrale quali sono i sistemi, le strutture, le funzioni, i modelli a palla di bigliardo di chi agisce ed i modelli speculari della mente del soggetto, ha determinato il passato e preordinato il futuro. Simmel mi ha tolto (raramente le espropriazioni sono una tale benedizione) la giovanile speranzapresunzione che, una volta rimosse le inadeguatezze e contraddizioni «in superficie», avrei trovato i meccanismi a orologeria funzionanti esattamente al secondo; egli mi ha anche insegnato che per la matita di ogni tendenza vi è una gomma da cancellare di un’altra tendenza, e che desiderare di smantellare l’ambivalenza per vedere meglio come funzioni la società è come desiderare di scostare le pareti per vedere meglio cosa sostenga il soffitto (il mio grazie a Harold Garfinkel per questa allegoria). E da Janina ho imparato che la Wertfreiheit [«libertà dei valori»] per quanto riguarda i silenzi umani non è soltanto una vana speranza, ma anche un’illusione estremamente inumana; che il sociologizzare ha un senso solo nella misura in cui aiuta l’umanità a vivere, che in ultima analisi sono le scelte umane a fare la differenza tra il vivere umano e il vivere disumano, e che la società è un ingegnoso marchingegno per ridurre, forse per eliminare completamente, queste scelte. Ma poiché Lei mi ha posto una domanda circa «influenze» e «sollecitazioni», mi sento obbligato anche ad ampliare il Suo elenco di nomi. La «grande triade» mi ha aiutato a trovare risposte alle grosse questioni esistenziali di che cosa, come, e per che cosa; ma vi sono anche certi altri autori che mi hanno dato la possibilità di integrare e di rielaborare il mio programma di «rilevazioni attuali» e mi hanno fornito gli strumenti analitici che mi ritrovo ad usare sempre di nuovo. Debbo

menzionare, per esempio, Mary Douglas per il suo Purity and Danger : la sua idea d’interazione tra costruzione e distruzione, di ordine come operazione di pulizia, di ambivalenza come nemica dell’ordine (idea integrata da quella di Fredrik Barth, secondo cui la linea di confine è precedente alle differenze); oppure Michel Crozier per il suo Bureaucratic Phenomenon , con la sua intuizione rivelatrice secondo cui la gara per il predominio è innanzitutto e soprattutto la gara tra incertezze e determinazione; oppure Claude Lévy-Strauss, con la sua scoperta fondamentale che non esiste una struttura, ma il processo senza fine di strutturazione, che cultura significa essenzialmente stabilire delle differenze e far fronte alle contraddittorietà che derivano da tale sforzo... L’elenco è lungo; mi sento pesantemente in debito. Percorrere l’intero elenco sarebbe una fatica vana, mentre l’affermare che l’elenco finisca qui sarebbe sleale o ingenuo; ma prima di lasciare l’argomento debbono essere menzionati almeno due nomi: Adorno, con la sua visione di un Illuminismo bifronte come Giano e (ahimè, una mia scoperta del tutto recente) Castoriadis, con la sua insistenza sul legame tra autonomia dell’individuo e autonomia della società, un legame che è, nella buona e nella cattiva sorte, inscindibile. PB : Ancora sulle influenze. Marx è ovvio – non si può vivere con lui, non si può vivere senza di lui –, ma è solo una mia sensazione che Lei forse lo rimproveri in qualche modo, in parte, per il modernismo? Vi è una più profonda affinità nel Suo pensiero con la critica romantica della civiltà, con l’ansia di Tönnies sulla Gemeinschaft , con l’ostilità di Rousseau nei confronti della civiltà al di sopra della cultura, o anche con Spengler? La modernità è forse più una perdita che un guadagno? ZB : Di nuovo Lei colpisce nel segno: «non si può vivere con lui né senza di lui». E come potrei io, dato che Marx è il mio proprio, personale punto d’incontro tra storia e biografia... Io non potrei rimproverare Marx per la modernità più di quanto potrei rimproverare il martin pescatore per le gelate invernali o lodare la rondine per la luce del sole primaverile. E non faccio eccezione per il modernismo di Marx: tutt’altro! È stato semmai il segno del suo

genio vedere (negli anni ‘40 dell’Ottocento!) fino in fondo le conseguenze dell’incombente modernità e lasciar intravvedere l’imminenza, l’irreversibilità, del suo arrivo. Sì, quando si arrivò alla modernità Marx assunse la presa di posizione che «qualunque cosa si faccia potrebbe essere fatta meglio», e non pensò che si potesse fare, invece, qualcosa di completamente diverso: sì, Marx concepì la «buona società» come un’alternativa alla modernità capitalista, non alla modernità in quanto tale. Ma fu colpa di Marx il non riuscire a vedere oltre la modernità, o piuttosto il vedere l’«oltre» nelle sembianze dell’immediato futuro, come una sua versione in qualche modo «nuova e migliorata», quasi una «modernità Mark II»? Dovremmo accusare questo profeta di non essere abbastanza profetico? O per non conoscere ciò che conosciamo noi? Con tutto questo, la percezione che Marx ebbe della storia fu infinitamente superiore alla presa di posizione di Rousseau, «forse vorremmo piuttosto che ciò non fosse accaduto», o al lamento di Tönnies, «che cosa orribile che ciò sia accaduto». Le nuove forme di vita sono destinate a integrarsi con i loro propri flagelli che rendono facile dimenticare e perdonare quelli del passato. Marx era del tutto convinto che i vecchi mali fornissero uno scarso rimedio per nuovi malanni: la verità cui si sottrassero Rousseau e Tönnies nella stessa misura in cui vi si sottraggono i membri delle comunità dei nostri giorni. Marx era in anticipo sui propri tempi (e in un certo senso in anticipo sui nostri) nell’accettare che i peccati ed i vizi della modernità debbano affrontarsi, per così dire, sul loro proprio terreno, con l’aiuto della creatività ed inventività umana piuttosto che con la memoria umana; che le pecche della modernità dovrebbero combattersi con mezzi moderni, e che il vedere con chiarezza un futuro più sano debba cominciare dall’inventario delle presenti patologie: Hic Rhodos, hic salta . Quanto è nuova e attuale la riluttanza di Marx a gettare il bambino insieme all’acqua sporca.: l’autonomia individuale e l’autoaffermazione sono un guadagno, non una perdita, e ciò che si deve fare è impedire alla modernità di renderla, così spesso e per così tanti, tutto tranne che impossibile da praticare e apprezzare. Ogni Gemeinschaft del futuro non può essere

che una comunità costruita, e costruita su queste fondamenta. Non parlerei a nome della «nostra» critica della civiltà, perché, per quanto riguarda la mia critica, essa parte dal presupposto con il quale Marx ammonì che dovesse cominciare. PB : Non sappiamo molto sulla Sua preistoria polacca; c’è stato qualcosa di particolare che Lei ha appreso da Hochfeld e Ossowski? Noi possiamo percepire la presenza di Leeds in Memories of Class ; cosa può dirci dell’influenza di Londra, della LSE? E della riapertura delle frontiere polacche dopo il 1989? ZB : Lei mi ha portato qui... Ora Lei vuole non solo che io menzioni i miei maestri, ma che sappia districare l’influenza di ciascuno da quella degli altri, mentre gli elementi forniti da ciascuno di essi sono stati preziosi proprio per il loro reciproco adattarsi, per il consentire a se stessi di fondersi insieme. Cercherò di fare ciò che Lei desidera, ma dubito dei risultati. Hochfeld e Ossowski erano persone molto differenti; dal punto di vista politico e per temperamento, in termini di storia passata e della loro «rete di rapporti» corrente, i loro rapporti non erano tra i più amichevoli, in talune occasioni essi erano del tutto ostili l’uno nei confronti dell’altro, ed in moltissime occasioni reciprocamente diffidenti e non disposti alla collaborazione. Eppure, mi capitò di percepire ed assorbire i loro messaggi come convergenti piuttosto che contraddittori. Ciò che appresi da loro sedimentò in me nel corso degli anni come un patrimonio armonioso e indivisibile... Entrambi m’impedirono di cadere nella trappola di quel tipo di sociologia completamente quantificante, giudicante, calcolatore, che dominava allora negli Stati Uniti e che si andava diffondendo come l’incendio di una foresta su tutta l’Europa. Essi mi vaccinarono efficacemente contro le inanità della diffusa tendenza a teorizzare alla maniera di Parsons, che a quel tempo costituiva il gioco più alla moda e snobistico che ci fosse in giro, e mi convinsero una volta per tutte che qualsiasi altra cosa la «scienza della società» potesse fare, doveva farsi per il bene della società e non per l’applauso e l’autoesaltazione di altri «scienziati della società», e che il suo successo o il suo insuccesso sarebbe dipeso dal fatto di essere o di non essere condotta tenendo in

mente questo precetto. Ciò che io debbo a Hochfeld e Ossowski insieme è non tanto questo o quell’altro elemento di effettiva conoscenza, quanto invece la comprensione di ciò che significa essere un sociologo. Per me, essi furono dei maestri. Non ne rimangono molti di questo genere nelle fabbriche di titoli accademici del nostro tempo. Londra? LSE? Ciò fu, innanzitutto e soprattutto, la sorprendente biblioteca – qualcosa di diverso da qualsiasi altra cosa avessi conosciuta prima (la mia prima biblioteca con l’accesso diretto agli scaffali; non semplicemente più grande di altre raccolte da me finora incontrate, ma un modo completamente nuovo di stare con i libri) – e Robert MacKenzie, mio consigliere mentre lavoravo su Between Class and Elite . Bob mi fece vedere la politica come non l’avevo mai vista prima nei libri; ogni settimana egli portava al seminario un altro «politico di professione» per (sempre con rispetto ma sempre spietatamente) stuzzicare, provocare, dare fastidio. Non ricordo di aver appreso molto sul loro modo di fare politica, ma ho un ricordo vivo dell’emozione nel vedere e nell’osservare gli attori dietro le azioni, la politica fatta scendere sulla terra, la storia tagliata a fette in biografie, conflitti grandiosi trasformati in meschine manifestazioni di lealtà e animosità di orizzonte scolastico, visioni globali dissolte in ambizioni personali talvolta nobili, ma il più spesso di poca importanza. Ritengo che a partire da allora non fui mai più preoccupato dal «problema» di una macro-sociologia rispetto ad una micro-sociologia: a partire da quel momento il divario da colmare era soltanto negli occhi dello spettatore... PB : Marx s’intravvede nella Sua opera, forse specialmente lo spirito del giovane Marx. La presenza di Weber è più opaca, più vicina alla Sociologia Americana che alla Teoria Critica. Potrebbe dirci qualcosa sul Suo Weber? ZB : Lascio da parte il Max Weber vestito da Levis e che parla americano, ma se Hegel avesse dovuto fantasticare sulle abitudini della civetta di Minerva un secolo più tardi di quando lo fece, egli avrebbe preso probabilmente il germanofono Weber per l’epitome dello Spirito del Mondo in azione e per l’ultima incarnazione della civetta. Weber descrisse la «tendenza storica» della modernità

proprio quando stava per fare il suo corso. Spesso torno alla sua sociologia della religione, ed ogni volta la trovo sorprendentemente dotta, ma spiacevolmente fuorviata e fuorviante, in quanto concepita per rispondere a quesiti che appaiono ormai anacronistici, organizzati attorno ai nomi Wirtschaft und Gesellschaft [«economia e società»], ed ogni volta la trovo più datata, poiché descrive una realtà che in molti punti fondamentali è opposta alla nostra. Sotto questo aspetto, la differenza tra Simmel e Weber diventa sempre più profonda da un anno all’altro: il primo è ancora un nostro contemporaneo, il secondo sempre più un venerabile antenato; ne appendi il ritratto alla parete, ma non necessariamente si può fare assegnamento di ricavarne molte indicazioni sulle capacità richieste da un’attività commerciale o ci si può aspettare da lui che faccia luce sui problemi contro i quali si combatte oggi. Mi sembra talvolta che l’interesse per Weber venga attualmente mostrato soprattutto da gente non particolarmente desiderosa di capire e affrontare la società contemporanea, o che cerca un’isola sicura nel mare turbolento di autorità non provate e discusse; percepisco in questi «viaggi del tempo» dei movimenti simili al sogno di Platone della Grande Fuga: dalla caverna e particolarmente da coloro che vi abitano... Debbo ammettere di avere un debole per L’etica protestante di Weber. È una bella storia, una fiaba raccontata in maniera eccitante, un mito eziologico ingegnosamente inventato, e nello stesso tempo un discorso d’incitamento squisitamente efficace. Ed è un discorso carico di notevoli intuizioni e d’immagini creative di piuttosto ampia applicazione, come quella dei processi che accrescono il loro proprio impulso e hanno bisogno delle idee che li hanno guidati fino al punto in cui ora si trovano, non più di quanto i satelliti hanno bisogno dei missili spaziali che li mettono in orbita. Ma dopo Elias, Foucault (e le correzioni di Muchembled), questo discorso difficilmente somiglia ad una spiegazione di wie es ist eigentlich gewesen [«come sia effettivamente stato»], e di più all’egualmente bello ed egualmente fantastico racconto di Freud dell’assassinio di Mosè o al racconto di René Girard della nascita della comunità umana.

PB : Legislators and Interpreters [La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti ] rappresenta nella Sua opera una specie di svolta decisiva nel postmoderno. Come spiegherebbe un simile fatto e l’importanza che vi hanno un Foucault e più marginalmente (più significativamente?) un Rorty? ZB : Difficile dirlo ora... L’auto-analisi, il bisogno di esaminare e comprendere il tipo di lavoro al quale tutti noi, i «narratori» professionisti della categoria umana, partecipiamo consapevolmente o inconsapevolmente, è stata, direi, l’eredità di Hochfeld e Ossowski, che io porto sempre con me: mi trovo a ripensare un tale fatto praticamente in ogni studio. Legislators and Interpreters è stato un tentativo di affrontare il problema di punto in bianco, con una speranza (ingenua) di risolverlo una volta per tutte e con mia duratura soddisfazione; ciò che ho particolarmente sperato di ottenere è stato il districare il «duplice intrico» (potere e «popolo» o «masse») in cui la complicata storia degli intellettuali è rimasta impigliata fin dall’inizio, e di riuscire a formulare il senso sociologico della Wertfreiheit [«libertà dei valori»] di Weber e della «politica scientifica» di Mannheim. La lettura di Foucault e di Rorty è stata ovviamente l’indispensabile requisito preliminare dell’intera impresa. Ma se ricordo esattamente la successione dei miei pensieri in quel momento, il declino del ruolo e delle ambizioni dell’attività legislativa mi apparve durante la ricerca come una scoperta, ed un ripensamento. Almeno il titolo del libro ed il suo sottotitolo, insieme al concetto di «postmodernità», mi vennero in mente in una fase abbastanza avanzata della stesura. PB : Il postmoderno, come il socialismo, non è allora che una fase? ZB : Mi sentivo a disagio con gli usi comuni dell’idea di «postmoderno». Feci del tutto – e, ammetto, con esiti diversi – per mantenere una certa distanza dalle dichiarazioni di «fine della modernità», e ancor di più tentai di oppormi alla mania celebrativa dei predicatori e degli entusiasti della «beatitudine postmoderna». Pensai e scrissi del «postmoderno» come di una prospettiva, di una specie di «punto d’appoggio d’Archimede» che si potesse usare per

sollevare la modernità e portarla ad una visione che altrimenti sarebbe rimasta inosservata; esso fu per me non un concetto storico o sistematico, ma una scorciatoia dal «punto esterno d’osservazione», di cui le interpretazioni disponibili della modernità erano del tutto prive, ma reso ormai possibile dalla mutata collocazione sociale, e dalla pratica mutevole, degli intellettuali. Come Lei ricorderà, definii la postmodernità come la «modernità privata delle sue illusioni»: la modernità che viene a patti con la sua mancata realizzazione e la sua irrealizzabilità. Usai il termine «postmodernità» innanzitutto per connotare questo «secondo disancantamento». Per rendere quest’uso più trasparente, avrei forse dovuto aggiungere a tale definizione, fin dall’inizio, che la modernizzazione non è una strada che conduca alla modernità, ma un modo d’essere della modernità; che la modernità è il modo d’essere di una incessante, coercitiva e ossessiva modernizzazione (e quindi di una costante distruzione e produzione creativa d’ambivalenza e di sollecitazione di ordinamento e di dissoluzione di strutture e della mania di strutturare), e che la «postmodernità» è una condizione in cui arriviamo a capirla e a modificare conseguentemente le nostre strategie di vita. Avrei dovuto dire che l’idea del «progetto incompiuto della modernità» è un pleonasmo, dato che la modernità può essere soltanto un progetto, e certamente incompiuto. Nel momento in cui parliamo, mi sento sempre più incline a dissociarmi dal «discorso postmoderno», a staccarmi da ogni ulteriore associazione con l’idea di «fine della modernità». Io non sono entusiasta né del concetto di «tarda modernità» (come possiamo sapere che è «tarda»?) né di «modernità riflessiva» (la modernità non è stata «riflessiva» fin dall’inizio? Come possiamo sapere che essa sia ora più riflessiva di quanto lo fosse ai tempi di Comte o di Marx? Siamo davvero più, o anche solo diversamente, informati nel condurre le faccende della nostra vita rispetto a quanto lo fossero generalmente i nostri padri? E le conoscenze che ora possediamo sono il veicolo di un maggiore potere, e soprattutto di una maggiore autonomia?) Al momento, sono incline a definire il nostro tipo di condizione sociale come una modernità «leggera», e meglio ancora «liquida», o «liquefatta», in

quanto distinta dalla modernità «pesante», e meglio ancora «solida», o «solidificata», di una volta: la nostra non è il tipo «costruito», amministrato e controllato di modernità, ma un tipo diffuso, di cui ogni cosa risulta permeata, penetrata e riempita. La deregolamentazione, la privatizzazione di tutte le funzioni destinate ad essere eseguite collettivamente, l’ordine non gestito da un’autorità centrale, il potere senza un incarico e un indirizzo preciso, in altre parole gli elementi che definiscono la modernità, si fondono e si riversano dappertutto, mentre le sedi dove dovrebbero essere depositati risultano «eliminate». O forse sarebbe più efficace parlare della modernità «software» che sostituisce la versione «hardware» [cioè, in termini informatici, l’insieme dei programmi che sostituisce la struttura fisica del computer , N.d.T. ]. Come prima, stiamo percorrendo un labirinto, ma questo labirinto non è intagliato nella roccia né costruito in calcestruzzo, bensì costituito da informazioni elettronicamente trasmesse. Sono queste tutte le intuizioni preliminari; ci vorrà del tempo per considerarle a fondo, e non meno tempo per vederne completamente le conseguenze. PB : Si percepisce comunemente che Levinas, forse Derrida, siano per Lei dei pensatori centrali, specialmente dopo Postmodern Ethics . Mi chiedo, qui, se non si tratti dell’ombra romantica della critica della modernità formulata da Heidegger, che attraverso la critica della tecnologia arriva all’etica della responsabilità. ZB : Non credo che la modernità scompaia quando si fa finta che non esista; rispetto i filosofi e ne condivido i sentimenti quando si preoccupano di come vadano le cose, ma non credo che essi le mettano a posto mettendo in ordine i loro pensieri. Proprio per questo nutro poca speranza che le risposte alle mie domande possano essere trovate in una nostalgia neo-romantica, o, per questa faccenda, in Heidegger (qualsiasi altra cosa possa io pensare della filosofia del Sein [Essere ] che costituisce la sua caratteristica, e della storiosofia, e sono tutt’altro che entusiasta dell’una e dell’altra; non credo davvero che l’episodio di Friburgo sia un infortunio, un inciampare accidentale; credo invece che il sasso sul quale inciampò il Signor Rettore fu la sua propria Weltanschauung ). Derrida? Salutai

volentieri il suo coraggio di chiamare l’indecidibile indecidibile; accolsi cordialmente anche il suo messaggio che il più importante risultato dell’interpretazione è il consentire che il lavoro d’interpretazione continui. Vi sono altre gemme preziose nella sua opera concepita sotto il segno della sfida. Ma la maggior parte di quest’opera è troppo eterea per i miei scopi, troppo lontana dalle mie preoccupazioni. Derrida mi aiutò molto a comprendere le possibilità ed i limiti dei miei – nostri – strumenti. Ma, dopo tutto, abbiamo bisogno degli strumenti per compiere un lavoro; e, per professione e per temperamento, sono propenso al lavoro. Il lavoro del sociologo è quello d’interpretare l’esperienza della condizione umana. Ringrazio Derrida per avermi detto ciò di cui debbo essere consapevole e sollecito quando attendo a questo lavoro. Il lavoro in se stesso rimane da compiere. Levinas (e Løgstrup; nella mia mente le due grandi ispirazioni etiche fuse in una sola) rappresenta un caso diverso, più di sostanza che di metodo. Ero alla disperata ricerca di un modo di formulare i problemi etici, e più in generale dei modi di parlare di moralità, dopo essere arrivato alla conclusione che incertezza, indecidibilità e ambivalenza sono qui per rimanervi; dopo tutto, la maggior parte della filosofia etica (o tutta?), come Lei sa, è stata condotta sulla base delle due ipotesi che tutti questi aspetti del mondo siano la rovina dell’essere morale, che però, fortunatamente, non sono altro che draghi destinati in breve tempo ad essere strangolati dagli sforzi congiunti dei filosofi e dei legislatori. È possibile rifiutare queste ipotesi e continuare a parlare seriamente di moralità, ed anche a tenere quest’altro drago quello del nichilismo morale ben chiuso nella sua gabbia? Penso di aver trovato la risposta positiva che cercavo e che speravo potesse trovarsi in Levinas e Løgstgrup. Ciò che ho appreso da loro è che, lungi dall’essere un territorio ostile o un terreno fatale, l’incertezza e l’ambivalenza sono il naturale terreno familiare dell’essere morale e possono addirittura trasformarsi nel terreno fertilizzato della moralità. Se si guarda a ciò in questo modo, penso allora che il sospetto d’affinità con il risentimento di Heidegger contro la modernità, la tecnologia e tutto il resto non sorgerebbe, ogni somiglianza apparirebbe accidentale...

PB : Modernity and the Holocaust (Modernità e olocausto ) si considera spesso come nient’altro che un rifiuto della tecnologia. Io vedo in questo libro un pessimismo storico associato ad un ottimismo antropologico. È questo, in ogni caso, a caratterizzare la Sua presa di posizione in generale? ZB : Secondo la mia opinione (tuttavia, questa non è che la mia opinione...), non si tratta di questo, almeno non del tutto, anche se la Sua interpretazione mi sembra infinitamente più plausibile di quella alla quale Lei allude con il Suo «si considera spesso». La mia intenzione fu quella di capire (spiegare?) la modernità, non l’olocausto. Ed una volta vista alla luce dei roghi di Auschwitz, fu la situazione di «giardinaggio» (gardening ) [cioè la ricerca di un ordine artificiale, razionalmente progettato, N.d.T. ], non la tecnologia ad emergere, come «il cattivo dei drammi». Che non si potessero costruire i crematori senza aver prima creato l’industria moderna, era un luogo comune quando scrissi Modernità ed olocausto . Ciò che era molto meno ovvio e quasi banale era la consapevolezza che fu il sogno della purezza definitiva e del definitivo ordine, insieme alla fiducia che «possiamo farlo», a condurre dagli impianti di trattori o fertilizzanti all’Umsiedlung [«trasferimento», «deportazione»], al Konzlager [«campo di concentramento»] e alla Endlösung [«soluzione finale»]... ma prima di questo al progetto di un giardino della società liberato delle erbacce e degli insetti nocivi. Ne traggo la conclusione che qui pessimismo e ottimismo fossero mescolati. Anche se forse in differenti percentuali, nella visione offerta della storia e nell’«antropologia nascosta». Dopo tutto, solo attraverso la storia ciò che è, antropologicamente, un orripilante potenziale, viene reso effettivo; e la storia è in grado di chiarire quella che è, antropologicamente, una speranza, e talvolta un’equa possibilità... Sono un pessimista storico? Certamente, la storia è un cimitero di occasioni mancate ed una cronaca di scelte sbagliate, ma la storia è anche l’unica dimensione dove si possano cogliere le occasioni e fare le scelte giuste. La fiducia nel progresso non fu che una forma, storicamente prodotta e storicamente limitata, di ottimismo storico, e non quella da essere deplorata, quando fu, di volta in volta, male

intesa, pericolosa o tale da chiudere-gli-occhi-che-dovevano-esseretenuti aperti. PB : Dopo tutto questo, alla fine del secolo del modernismo, la sociologia è ancora meritevole di essere difesa? ZB : La sociologia ne è più meritevole che mai. Anche se, francamente, non penso che abbia molto bisogno di difesa. Quasi mai la «domanda sociale» di sociologia fu così forte come ai nostri giorni, quando il mondo in cui viviamo diventa da un momento all’altro più pressante e più inaccessibile nello stesso tempo. La sociologia venne ideata nel vuoto tra ciò che si vede entro gli orizzonti tracciati dalle faccende della vita e ciò che è pertinente al modo di condurre le faccende della vita; e fin da allora il suo compito è stato quello di colmare il vuoto, di rendere il pertinente visibile e ciò che viene visto pertinente (se tale compito sia stato portato a termine in ogni tempo e da tutte le varietà della sociologia, tuttavia, è un’altra questione). Tale compito è improbabile che invecchi, tanto meno che diventi obsoleto. Tutto al contrario. Se le faccende della nostra vita vengono postulate come dovere e responsabilità dell’individuo, se le visioni globali (panopticons ) vengono eliminate e sostituite con le procedure del DIY [do it yourself : «fai da te»], allora l’esame minuzioso del pertinente diviene un ingrediente indispensabile della capacità pratica dell’individuo: per quanto riguarda l’autonomia, l’autoaffermazione e la libertà dell’agente umano, tale esame diviene, letteralmente, una questione di vita e di morte. Questa situazione assegna al compito della sociologia un’importanza che essa quasi mai ha posseduto (anche se sempre rivendicato). La sociologia ha sempre promesso di essere a servizio della «gente comune», ma per lungo tempo, nel corso di tutta l’era della modernità dell’«hardware» e del potere della visione globale, è stata al suo servizio per lo più «per procura», non tanto offrendo progresso culturale, quanto aiutando a costruire un mondo in cui il progresso culturale diventerebbe superfluo. Ora vi è un’opportunità di arrivare al compito effettivo del progresso culturale sociologico: di tirar fuori dall’oscurità i parametri nascosti della condizione umana, di tracciare sulla carta le complesse reti delle dipendenze umane, di

prendere posizione nella perenne battaglia tra autonomia ed eteronomia, di demistificare e de-demonizzare la differenza, la varietà, l’ambivalenza; in altre parole, di aiutare gli uomini e le donne del nostro tempo a fare uso della libertà di cui dispongono e ad acquisire la libertà che ad essi viene detto di avere, ma che non hanno. Il tracciare la rete delle dipendenze può contribuire ad un altro compito non meno urgente: quello di rendere manifesta la solidarietà del destino e di aiutare così a riplasmarla in solidarietà d’azione; restituire dall’esilio ha a che fare con il bene comune e con il ricordare che nessuno può essere autonomo in una società eteronoma. Bene, tutto questo non è che un’occasione (direi un’occasione «storica», se non avessi timore d’apparire enfatico...). Come tutte le occasioni, essa può essere colta o lasciata sfuggire. Se viene lasciata sfuggire, i sociologi non dovranno rimproverare che se stessi per la delusione provocata nella gente, come essi hanno già fatto qualche volta nel passato. PB : Lei considera la sociologia americana come un problema più pericoloso del caso britannico; è forse l’aspetto continentale a spiegare la differenza? Forse l’americanismo è qui il problema centrale? Faremmo meglio ad interpretare la globalizzazione come americanizzazione? ZB : L’America è un grande paese, e generalizzare su di essa è un’impresa rischiosa. Nel pensiero sociale, essa ha dato i natali a non poche menti e opere vigorose, davvero profetiche, che costituiscono un’autentica pietra miliare o un vero e proprio spartiacque. Il pensiero sociale sarebbe molto più povero senza Thorstein Veblen, Lewis Mumford o C. Wright Mills. Personalmente, ho imparato molto da Peter Berger, Erving Goffman, Harold Garfinkel e Daniel Bell; Richard Sennett è uno dei pochissimi autori contemporanei che abbia qualcosa di veramente originale e autenticamente importante da dire in ciascun libro successivo. I miei rilievi negativi e spiacevoli hanno fatto riferimento al tipo corrente, ordinario, della comune sociologia americana, incorsa, per così dire, in un serio infortunio; essa è rimasta vittima del suo successo iniziale. Nata al volgere del secolo dalle preoccupazioni di riformatori sociali

eticamente sensibili, spaventati dallo stato di depravazione e di miseria degli agglomerati urbani che si andavano rapidamente estendendo negli stati medio-occidentali della confederazione americana (Mid-West ), essa acquisì quella tendenza al «dobbiamo fare qualcosa» e «possiamo farlo», che negli anni successivi la rese cara alle crescenti burocrazie sia dello Stato assistenziale (wellfare ) che dell’industria bellica (warfare ). La dimensione di «riforma sociale» ben presto scomparve o venne abbandonata, e l’unica dote che i partner in situazioni di connubio desideravano accettare e che fosse investita per ricavarne degli utili era la promessa dei sociologi di fornire le ricette su come porre un freno all’irrefrenabile e su come governare l’ingovernabile: su come «risolvere conflitti», su come «amministrare le risorse umane» in modo tale, complessivamente, da «far fare qualcosa». La promessa, come ci si poteva aspettare, si è rivelata molto al di là della capacità dei sociologi di mantenerla, e la loro sicurezza di sé si è dimostrata ingiustificata. D’altra parte, anche le burocrazie una volta piene d’intraprendenza e di vigore dello Stato assistenziale e dell’industria bellica hanno perso molta della loro fiducia, e negli ultimi decenni la domanda del tipo di servizi che la comune sociologia americana si era preparata a fornire (o almeno a sembrare o a far sperare di fornire) è diminuita ed è in pericolo di finire del tutto, insieme alla fornitura di fondi che la conduzione di quella specie di «sociologia manageriale» o di «sociologia per manager» richiedeva in così grosse quantità. Di qui l’attuale crisi di finalità, la sensazione di perdere contatto con il «programma pubblico delle cose da fare». Penso, tuttavia, che a lungo andare la crisi si dimostrerà salutare. Liberatasi della responsabilità di false aspettative, la sociologia americana potrebbe forse riscoprire le arti che i suoi principali professionisti, diversamente dalle sue personalità più notevoli, ma marginali, hanno dimenticato o non hanno mai avuto occasione d’apprendere, ma che danno significato alla professione sociologica. PB : Lei mi ha detto che vi sono solo due coordinate nella Sua opera: i due temi della cultura e del socialismo. Come Le piacerebbe che il Suo progetto fosse ricordato?

ZB : Sì, l’ho affermato allora e lo ripeto adesso, anche se la formula, così concisa, ha forse bisogno di una certa elaborazione. La «cultura» rappresenta la natura «fatta umana» del mondo umano; la convinzione che questo mondo è fatto proprio dagli stessi esseri umani che sono fatti da essa, anche se essi immaginano che questo mondo sia stato messo insieme e sia governato da esseri sovrumani, da leggi di natura o dalla storia, da eroi o santi. E ciò che viene fatto da esseri umani può anche essere disfatto o rifatto da esseri umani... Mentre il «socialismo» rappresenta la percezione che questa capacità di «fare il mondo» tende ad essere conferita in modo molto ineguale, che alcuni si trovano più nel ruolo di «fare» che di «essere fatti», mentre i più si trovano per la maggior parte del tempo nel ruolo di «essere fatti» e molto raramente di «fare»; e che questo stato di cose è ingiusto e richiede una rettifica. La cultura ed il socialismo, nella misura in cui ispirano il mio pensiero, sono quindi da vedersi meglio come due fili intrecciati in un unico filo compatto (ed una volta intrecciati, inseparabili), piuttosto che come «co-ordinate» di una teoria. Mi piacerebbbe pensare che la tenace presenza della «cultura» e del «socialismo» così intesi nella mia «struttura cognitiva», ed in qualunque modo mi sia messo a scriverne, sia stata causata da un certo «attivismo etico»: il nostro compito, il compito dei pensatori sociali e degli studenti di cose umane, è quello di gridare «al lupo», non di correre insieme ad esso. Il nostro scopo è quello di calcolare i costi umani, di richiamare l’attenzione di altri su di essi, di svegliare le coscienze perchè li rifiutino e pensino ad altre maniere alternative, meno costose, di vivere insieme; e forse sottraendosi ad una specie di «assolutismo etico»: difficilmente vi è una felicità che valga la pena pagare con la moneta della sofferenza umana. Non è vero che il fine giustifica i mezzi, né che il far soffrire gli uomini sia il mezzo per raggiungere l’obiettivo della felicità. Come mi aspetto che il mio «progetto» sia ricordato? Come qualcosa che sia stato perseguito da qualcuno che vi abbia sperato contro ogni speranza. Ma allora sperare contro ogni speranza non è un buon motivo perché il progetto venga ricordato. E così non mi aspetto molto. PB : Dobbiamo ritenere questa come la parola dell’autore? Come

Le piacerebbe che la Sua opera fosse cambiata e interpretata? ZB : Lei potrebbe, ma poi non ne avrebbe il permesso. Vorrei assicurarla che la speranza di essere ricordato è la meno importante (certamente la meno produttiva) tra le mie speranze, e che la preoccupazione di rendermi degno di memoria è la meno importante (e certamente la più controproducente) tra le mie preoccupazioni; ma allora tendiamo tutti a sospettare gli individui che dicono tali come cose capaci di doppiezza o, nella migliore delle ipotesi, di autoingannarsi; chi sono io da pretendere di essere un’eccezione? Inoltre, uno degli autori con maggiore tiratura di libri ha lamentato che la durata d’immagazzinamento dei libri è ormai collocabile in qualche modo tra la durata del latte e quella dello yogurt. Se è così, allora ciò di cui dovremmo preoccuparci è che ciò che mettiamo sugli scaffali sia consumato prima della data di «scadenza»; e che – aggiungerei – il contenuto si dimostra nutriente se ingerito, e che di esso dovrebbero essere molto desiderosi coloro che più hanno bisogno di nutrirsi. PB : Grazie. La ricorderemo. Leeds, Regno Unito – Melbourne, Australia Febbraio-Marzo 1999

Armando Editore | Modernità e società Collana diretta da Roberto Cipriani

Globalizzazione e glocalizzazione. Saggi scelti Zygmunt Bauman a cura di Peter Beilharz

Titolo Originale The Bauman Reader © Zygmunt Bauman 2001; © Peter Beilharz 2001, Blackwell Publisher Inc., USA; Blackwell Publisher Ltd Oxford, UK Traduzione di Edmondo Coccia Prima edizione elettronica: settembre 2012 ISBN 978-88-6677-194-4 © 2005-2012 Armando Armando s.r.l. Viale Trastevere, 236 - 00153 Roma Direzione - Ufficio Stampa : 06 5894525 Direzione editoriale e Redazione : 06 5817245 Amministrazione - Ufficio Abbonamenti : 06/5806420 Fax 06/5818564 e-mail: [email protected]; [email protected] Web: www.armando.it

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Frontespizio Prefazione Ringraziamenti 1. Introduzione di Peter Beilharz: approccio a Zygmunt Bauman 2. L’intervista di «Telos» 3. Socialismo 3.1 La collocazione storica del socialismo (1976) 3.2 Tempi moderni, marxismo moderno (1968) 3.3 Autopsia del comunismo (1992) 4. Classi e potere 4.1 Classi: prima e dopo (1982) 4.2 Guardacaccia trasformati in giardinieri (1987) 4.3 L’ascesa dell’interprete (1987) 5. Ermeneutica e teoria critica 5.1 La sfida dell’ermeneutica (1978) 5.2 Teoria critica (1991) 5.3 Modernità (1993) 6. Sociologia e postmoderno 6.1 Una teoria sociologica della postmodernità (1991) 6.2 Il re-incantamento del mondo (Re-Enchantment), o come si può raccontare la postmodernità (1992) 7. Figure della modernità 7.1 Rendere e non rendere estranei (1993) 7.2 Parvenu e paria: eroi e vittime della modernità (1997) 8. Il secolo dei campi di concentramento 8.1 La sociologia dopo l’Olocausto (1989) 8.2 Dittatura sui bisogni (1984) 8.3 Un secolo di campi di concentramento? (1995) 9. Ambivalenza e ordine 9.1 La ricerca di ordine (1991) 9.2 La costruzione sociale dell’ambivalenza (1991) 10. Globalizzazione e Nuovi Poveri 10.1 Sulla glocalizzazione: o globalizzazione per alcuni, localizzazione per altri (1998) 10.2 Dall’etica del lavoro all’estetica del consumismo (1998) 11. Il viaggio non finisce mai: Zygmunt Bauman parla con Peter Beilharz

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